************ Giovanni Piana Opere complete Volume primo Elementi di una dottrina dell'esperienza 2013 4 ISBN 978-1-291-26095-3 Copyright Giovanni Piana Edizione a stampa: Il Saggiatore, Milano 1967 Edizione digitale: 1998 Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 3.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Uniform Resource Identifier Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT 5 Giovanni Piana Elementi di una dottrina dell'esperienza Saggio di filosofia fenomenologica 1967 6 Dedico questo libro alla memoria di Enzo Paci 7 Indice Premessa, p. 13 Capitolo primo, p. 23 La percezione 1. A che titolo la percezione viene di solito in questione nella filosofia - La percezione come "fonte di conoscenze" - Distinzione tra percepire e constatare. 2. Conseguenze di questa distinzione: l'autonomia del­ la tematica della percezione rispetto al problema della cono­ scenza. 3. "Esperienza" in un'accezione ristretta ed in un'acce­ zione lata. 4. Fenomeni e cose in sé - Critica del fenomenismo - Immagini e raffigurazioni. 5. Le sintesi che conducono al costituirsi all'interno dei decorsi percettivi di unità identiche di riferimento - Irri­ levanza, ai fini di questo problema, della sussistenza effettiva dell'oggetto. 6. Nel percepire non si formulano opinioni né si trag­ gono conclusioni - Accenno critico verso la tendenza logi­ cizzante nell'ambito della dottrina dell'esperienza - Le cose della percezione non sono "entità inferite". 7. Spiegazioni intorno alle sintesi percettive come sintesi passive. 8. Approfondimento della critica nei confronti del fe­ nomenismo mediante la discussione di un'argomentazione di Hume: come faccio a sapere che c'è ancora una parete alle mie spalle. 9. Sintesi percettive e considerazioni temporali: illustra­ zione del "diagramma del tempo" di Husserl. 10. Condizioni formali e fondamento contenutistico 8 delle sintesi. 11. Digressione: il richiamo alla storicità dell'esperien­za e i modi in cui può essere inteso. 12. Lo stesso problema orientato in un altro senso. 13. Tematica del fondamento contenutistico delle sintesi - L'interdipendenza delle parti negli interi percettivi. 14. Chiarimenti intorno all'idea di totalità "organica". 15. L'"associazione" e le sue regole. 16. Ripresa del tema dell'immagine nel senso di raffigu­ razione - Ciò che caratterizza l'immagine è il prodursi di un effetto raffigurativo - Immagini e contrassegni - Proposta di uno schema riassuntivo. Capitolo secondo, p. 105 Il ricordo l. Alcuni strani problemi in rapporto al ricordo - Critica di un approccio introspettivo. 2. Determinazione dell'accezione di "ricordo" qui in questione - Rievocazione e ritenzione. 3. Il riapparire del passato nel ricordo - Costruzione di un enigma - Soluzione dell'enigma attraverso l'analogia con le raffigurazioni - Critica: non vi sono "idee della memoria" ma solo cose che si ricordano - L'immediatezza del ricordo: i ricordi non sono raffigurazioni; e nemmeno documentazioni - I nostri ricordi e l'enfasi dell'interiorità. 4. La connotazione temporale del ricordo - In che senso possiamo dire che il ricordo è meramente riproduttivo. 5. La certezza dei ricordi - Distinzione tra una considera­ zione interna ed una considerazione esterna - La percezione e il ricordo in rapporto al problema della certezza - Che cosa vede, in realtà, chi vede una nave lontana. 6. L'evanescenza del ricordo - Costituzione del passato nel movimento dell'oblio - Il passato come oscurità e inerzia. 9 7. Tematica del ridestamento - I motivi interni del ricordo - Catene di ricordi. 8. Ricordi che ci appaiono immotivati - Ma il motivo po­ trebbe non essere palese - La coscienza come "flusso" di espe­ rienze - Modo erroneo di impiego di questa immagine - La nozione di catena deve poter essere applicata ad ogni processo dell'esperienza in genere - La domanda sui motivi del ricordo ha sempre senso. 9. Tematica delle sintesi inconscie. 10. La distanza del passato nel ricordo - L'urgenza del pas­ sato - Il passato come orizzonte di senso del presente. 11. Il problema delle "abitualità percettive" - Sua ricondu­ zione alla tematica delle attese passive - Avviamento alla discus­ sione sulla formazione di anticipazioni percettive contenutistica­ mente determinate. 12. Riflessioni sul movimento di una pallina - Le attese e la loro progressiva selezione - Il passato proietta nel futuro la propria immagine. 13. Sviluppo delle considerazioni precedenti in rapporto al problema della formazione di abitualità - Elaborazione di uno schema interpretativo. 14. Confutazione della tesi fondamentale dell'em­pirismo. 15. Attese passive e giudizi di previsione - Il problema di una teoria dei giudizi di probabilità fondata su principi evidenti. Capitolo terzo, p. 159 L'immaginazione 1. Primo avviamento alla tematica dell'immaginazione me­ diante la determinazione di alcune caratteristiche notevoli dei contenuti immaginativi - Nell'immaginazione non si possono commettere errori - L'immaginare non è avere impressioni in qualche modo simili alle impressioni visive. 2. Un possibile equivoco nell'impiego del termine "im­ma­ 10 ginario" - In che modo, nell'immaginazione si pone il problema dell'inesistenza dell'oggetto - La neutralizzazione delle posizio­ ni d'essere e l'eterogeneità dei contenuti immaginativi. 3. Osservazioni integrative: l'immaginare e le anticipazioni della percezione - L'immaginazione non è la "facoltà del futuro" - Immaginare e supporre. 4. L'acontestualità dell'immaginazione - Confronto con la struttura sintetica della percezione - La fantasia come essenza dell'immaginazione. 5. Acontestualità e indeterminazione temporale. 6. Il problema dell'individuazione nel campo dell'im­ma­ ginazione - Breve discussione sulle nozioni di eguaglianza e di identità - L'eguaglianza come grado estremo della somiglianza. 7. L'identità e il principio di individuazione - Gli individui immaginari non sono individui autentici. 8. Digressione: critica delle posizioni di Sartre. 9. Passaggio ad un nuovo ambito di problemi: l'imma­ ginosità dell'immaginazione - Una diversa accezione del termine "immagine" - Richiamo all'associazione delle idee - Introduzio­ ne della nozione di sintesi immaginativa. 10. Le cose della percezione in quanto sono vissute secon­ do una piega immaginativa. 11. La funzione valorizzante dell'immaginazione. 12. La nozione dell'unità e del contrasto immaginativo - Equivalenza e polivalenza di valori immaginativi - Le anticipa­ zioni dell'immaginazione. 13. Riconsiderazione della tematica delle sintesi immagina­ tive in rapporto al problema del simbolismo - Una prima acce­ zione del termine "simbolo" - La differenza rispetto ai contras­ segni ed alle raffigurazioni. 14. I valori immaginativi come "simboli" in una seconda accezione. 15. Digressione: la nozione di simbolo in Freud. 16. Confronto con Jung. 11 17. Valorizzazione immaginativa e tematica dell'e­spres­sività. 18. I pensieri che orientano l'immaginazione - Alle spalle dell'immaginazione vi debbono essere altre istanze - Discussio­ ne di un esempio: le suggestioni immaginative del punto - Kan­ dinsky e Klee. 19. Le opere dell'immaginazione ci dànno da pensare. Capitolo quarto, p. 251 Il pensiero l. Pensare e fare ragionamenti - Concatenare pensieri - Il pensiero e la proposizione - In che modo deve essere inteso il richiamo al linguaggio. 2. Tra il pensiero e l'esperienza vi sono connessioni - L'au­ tonomia del pensiero - Vari modi di intendere questa autonoma - Perché in rapporto a questo problema, qualcosa ci attrae in un atteggiamento di tipo empiristico. 3. La problematica della base esperienziale dei concetti - Un esempio tratto dalla Filosofia dell'aritmetica di Husserl: il con­ cetto di numero. 4. Numero e molteplicità - Il numero come concetto for­ male o categoria - La nozione di collegamento collettivo e la sua interpretazione psicologistica. 5. Spiegazioni intorno alla formula proposta da Husserl per indicare la nozione di molteplicità - Necessità di distinguere tra un piano pre-aritmetico e l'aritmetica "vera e propria" - Con­ seguenze di questa distinzione - Operazioni pre-aritmetiche e operazioni di calcolo. 6. Il senso della polemica contro le definizioni e la critica nei confronti di Frege. 7. L'abbandono del punto di vista psicologistico e il ripre­ sentarsi del problema dell'origine sul terreno "fenomenologico" - La proposizione come filo conduttore per un'indagine intor­ no alle operazioni del pensiero - La distinzione tra soggetto e 12 predicato - Esempi di discussioni che conducono ad un vicolo cieco - Il falso problema delle compromissioni ontologiche. 8. Che cosa una proposizione non è - Introduzione della nozione di rappresentazione strutturale - Raffigurazioni, con­ trassegni e rappresentazioni strutturali - La proposizione non è una particolare specie di rappresentazione strutturale - Perciò il fatto sorge con la proposizione. 9. Passaggio all'esposizione di alcuni temi di Esperienza e giudizio - La struttura dell'osservare in quanto in esso si effettuano constatazioni - I processi di esplicitazione e la distinzione tra so­ strato e determinazione - Ribaltamento sul terreno predicativo. 10. Risposta alla domanda se vi siano veramente le cose e le loro proprietà - Considerazioni sulle nozioni di molteplicità e di oggetto semplice. 11. Risposta alla domanda se vi siano veramente le relazio­ ni. 12. Ciò che si tenta di fare è una vera e propria "deduzione delle categorie", dall'esperienza al giudizio - La congiunzione e l'ecceterazione come esempi di "sintesi intellettuali". 13. La modificazione "attributiva" della proposizione - In­ terpretazione dei "giudizi di identità". 14. Tematica delle modalizzazioni. 13 Premessa 14 15 Il titolo e il sottotitolo di questo libro richiedono probabilmen­ te qualche parola di commento. L'uno e l'altro possono forse appa­rire sospetti ai filosofi più aggiornati. Che cosa mai ci si può attendere da un richiamo all'esperienza in genere e addirit­tura ad una dottrina di essa? Rispondiamo molto semplicemente che in questo modo si circoscrive soltanto lo spazio dei problemi di cui intendiamo occuparci, sottolineando nello stesso tempo che essi appartengono di pieno diritto al­l'a­mbito della rifles­sione filosofica. In generale non dovrebbe essere necessario dilungarsi troppo sul fatto che la filosofia non ha un campo delimitato dagli og-getti di cui essa si occupa, come accade invece nel caso delle discipli­ ne scientifiche particolari, per quante complicazioni pos­sano poi sorgere non appena si tenti qualche approfon­dimento. Tuttavia, ciò non significa affatto che essa debba divagare da questo a quello senza alcun filo conduttore sia in rapporto ai temi che ai metodi. Il termine di "esperienza", assunto in un'ac­cezione lata, delinea un orizzonte di problemi filosofici che rappresenta un punto di riferimento determinato quel tanto che basta. In un altro oriz­ zonte si situano, ad esempio, tutti quei problemi che, nei modi più vari, mettono in questione la nozione della scienza - i pro­ blemi, cioè, che si raccolgono sotto il titolo generale di episte­ mologia o anche, come noi potremmo dire in modo più arcaico, di dottrina della scienza. In nessun caso si vuole qui proporre una contrapposizione. Una dottrina dell'e­sperienza dalla quale po­ tesse dedursi l'irrilevanza filosofica dei problemi propriamente epistemologici sarebbe certamente erronea alle sue radici: cosi come, inversamente, una dottrina della scienza che pretendesse di occupare l'intero ambito della riflessione filosofica mostrereb­ 16 be ben presto di non avere le carte in regola nemmeno come una buona dottrina della scienza. Il man­­tenimento di questa diffe­ renza, pur nella consapevolezza delle molteplici intersezioni che possono sussistere tra i diversi orizzonti dei problemi filosofici, è dunque un'istanza avanzata impli­citamente nel titolo insieme all'indi­cazione dell'ele­men­­tarità, che indica un orientamento verso i pro­blemi più semplici e che proprio per questo debbono essere discussi per primi. Questa istanza è d'altronde connessa con il rimando al me­ todo fenomenologico presente nel sottotitolo. Ed è forse pro­ prio questo rimando che avrebbe bisogno di una discussione più approfondita. Questo libro è infatti stato costruito sulla base di temi e motivi tratti direttamente dalla elaborazione filosofica di Husserl e laddove va oltre di essa, come nella trattazione della tematica dell'immagina­zione, prosegue le linee di un discorso già ampiamente predisposto. Almeno fino ad un certo punto, esso avrebbe forse potuto assumere un andamento esplicitamente esegetico, appoggiato di continuo a riferimenti testuali. Del re­ sto il quarto capitolo tende ad assumere un carattere nettamente espositivo: in effetti, ci è sembrato che, per via delle oscurità e delle ambiguità di varia natura che si sono addensate sulla tema­ tica delle strutture antepredicative - che è l'argomento vero e proprio di quel capitolo - il tentativo di chiarirne i termini e la portata anzitutto entro il quadro della filosofia fenomenologica di Husserl, in un'aderenza un poco più stretta ai testi fosse un compito prioritario. In generale, invece, ci siamo attenuti a tutt'altro criterio e cioè ad una esposizione dei problemi ripensati per così dire dal­ l'inizio, assumendoci tutte le libertà che abbiamo ritenuto ne­ cessarie nella loro presentazione e nel loro sviluppo. I motivi di ciò stanno naturalmente nel risultato che è ora sottoposto al giudizio del lettore. Almeno uno di questi, tuttavia, vorrei mi fosse concesso di mettere in chiara evidenza. Si noterà, nel corso della lettura, che si è potuto fare ampiamente a meno del pesante 17 groviglio della terminologia husserliana, impostando i pro­blemi e la loro discussione in una forma libera da premesse - è proprio il caso di dire - dottrinali troppo forti. In questo aspetto di super­ ficie, si può forse cogliere qualcosa che va più a fondo. In esso infatti è implicita un'in­ter­pretazione dell'idea di una filosofia feno­ menologica che non può essere senz'altro ricondotta a Husserl per il semplice motivo che essa si arresta molto prima del punto a cui egli ritenne di poterla condurre. Che cosa sia per noi un metodo fenomenologico in rapporto alla tematica dell'esperienza lo si può dire veramente in due pa­ role: esso è un metodo di caratterizzazione degli atti di e­sperienza attraverso l'esibizione di differenze di struttura. Questo criterio trova applicazione quasi in ogni pagina di questo libro ed io penso che in esso si colga il punto realmente essenziale per ciò che riguarda il metodo filosofico di Husserl. Ma se ci si avvia coerentemente in questa direzione, si opera indubbiamente una semplificazione che non può che implicare una critica del quadro complessivo della filosofia husserliana - una critica che, prendendo le mos­ se dal discorso metodologico, deve poi necessariamente investi­ re la nozione di fenomenologia a cui esso introduce. A questo punto non possiamo evitare di dedicare almeno ora un rapido cenno a quella epoché fenomenologica di cui stranamente non abbia­ mo mai sentito il bisogno di parlare. Dal punto di vita di quella semplice definizione del criterio analitico che abbiamo messo in opera, la ripresa husserliana dell'ar­gomentazione cartesiana e la reinterpretazione che egli propone può indub­biamente essere considerata come un modo, fra altri pos­sibili, di presentare in breve l'atteggiamento di principio che si trova alla base di una ricerca fenomenologicamente orientata. Ad esempio, attraverso di essa possiamo dare risalto all'esclu­sione di un punto di vista psicolo­ gistico senza aver bisogno di impegnarci in diffuse e minuziose argomentazioni per mostrare l'impotenza di un modo di approc­ cio introspettivo; e nello stesso tempo, possiamo individuare con chiarezza il luogo esatto in cui si situano i nostri problemi. Con 18 ciò si attua tuttavia una estrema attenuazione della teoria dell'epo­ ché che non è certamente compatibile con la posizione che essa assume nello sviluppo del pensiero di Husserl. Come potremmo illuderci di spiegare, attenendoci ad una simile interpretazione, il fatto che, quanto più si estende e si approfondisce la tematica di Husserl, tanto più insistentemente egli ritorna su quella teoria, proponendone varianti e articolazioni sempre più complicate ed attribuendo ad essa un'im­portanza crescente? Sino alle ben note esasperazioni presen­ti nella Crisi delle scienze europee: in essa si parla del­l'epoché come di qualcosa che è "capace di raggiungere le mas­ sime profondità filosofiche" ed at­traverso cui sarebbe possibile "un mutamento radicale di tutta l'umanità". Altrove, nella stessa opera, si osserva che l'"at­teg­giamento fenomenologico totale e l'epoché che gli inerisce sono destinati a produrre in­nanzitutto una completa trasformazione personale che sulle prime potrebbe essere paragonata ad una conversione religiosa ma che, al di là di ciò, è la più grande evoluzione esistenziale che sia concessa all'u­ manità come tale" [1]. Affermazioni come queste che risultano a prima vista, e a dir poco, incomprensibili, dovrebbero tuttavia attirare l'atten­zio­ne sul fatto che una lettura di Husserl tendente a mettere in luce il quadro ideologico entro cui si situa la sua fi­ losofia, soprattutto nella produzione più tarda, ha il suo punto nodale proprio nella teoria dell'epoché. In generale io credo che si debbano distinguere molto più profondamente di quanto si sia soliti fare gli aspetti teoretici da quelli ideologici e che una buo­ na identificazione del quadro ideologico possa essere ottenuta soltanto attraverso un'autentica comprensione della dimen­sione propriamente teoretica. Ma credo anche che, laddove vi sia un arricchimento di senso che il nucleo teoretico del problema non può sopportare, su questo punto si innesti il momento ideologi­ co, la cui identificazione, a sua volta, è essenziale per una com­ prensione più profonda. Non vi è dubbio che questo sia il caso della ripresa dell'ar­go­mentazione cartesiana da parte di Husserl. Egli rimase colpito, certamente, dalla possibilità di una formula­ 19 zione concisa del­l'idea di fenomenologia: ma evidentemente non fu colpito sol­tanto da questo. In Cartesio l'ar­gomen­tazione dubi­ tativa assume il suo senso del­l'ob­­­biet­tivo fondazionale che sta al­ l'origine del problema. L'argo­mentazione prende l'avvio da una pretesa di fondazione assoluta del sapere. Ma se consideriamo la teoria dell'epoché in un contesto fenome­nologico e nella sua versione più debole, essa si riduce ad un ausilio espositivo in rapporto a cui il problema della certezza non ha affatto bisogno di essere preso in particolare considerazione. Husserl invece venne colpito dall'argo­menta­zione cartesiana anche e forse soprattutto, per via dell'istan­za fondazionale in essa presente. Questa istanza non potrà, come in Cartesio, risolversi nella formulazione di un principio supremo: nella reinterpretazione husserliana, infatti, l'e­­poché non può comunque fare altro che porre in generale una mol­ teplicità di compiti fenomenologico-costitutivi. L'istanza fondazio­ nale investe allora l'idea stessa di fenomenologia. Pren­de così forma, con la teoria dell'epoché, l'immagine husserliana della fenome­ nologia, i cui contorni diventano peraltro sempre più evanescen­ ti e finiscono con il sovrapporsi a quelli della filosofia in genere, come sede delle giustificazioni ultime. Ma vi è un altro lato della te­ oria dell'epoché che merita di essere rammentato. Si tratta forse del modo di presentate quella nozione che può essere considera­ to il più consueto e noto: l'epoché consisterebbe essenzialmente in un'o­perazione preliminare di liberazione dai pregiudizi sia de­ rivanti dalle opinioni del senso comune sia da teorie scientifiche e filosofiche precostituite. Mettiamo "tra parentesi" tutto ciò, cerchiamo di vedere le cose come se le vedessimo per la prima volta - ed in questo modo ci si dispone in quello stato nel quale i dati fenomenologici si presentano in tutta la loro evidenza. Non è qui il caso di insistere su quanto un simile modo di presentare le cose si presti, non dico alla critica, ma alla scanzo­ natura. Decido di liberarmi dai miei pregiudizi e perciò voglio "fare l'epoché". Lodevole proposito. Ma come faccio a farla? Come faccio a liberarmi dai pregiudizi se non so da quali pre­ 20 giudizi mi debbo liberare? E se lo so, che bisogno c'è di liberar­ mi da pregiudizi da cui, evidentemente, sono già libero? Resta purtroppo soltanto, dopo di ciò, l'idea di un "atteggiamento fe­ nomenologico" acquisito in modo misterioso e concepito come uno stato di grazia molto difficile da comunicare. Tuttavia, se si vuole fornire qualche chiarimento intorno a questo aspetto del problema senza indulgere troppo in com­ piacenze critiche che possono certamente essere salutari, ma che corrono anche il rischio della superficialità, occorre rammentare anzitutto che il tema della liberazione dai pregiudizi è presen­ te in Husserl prima della ripresa dell'argo­menta­zione cartesiana. Esso è tutto compreso nella frase famosa: alle cose stesse! frase, a sua volta, che deve essere riportata entro il contesto culturale ed entro l'ambito di interessi in cui si muove il primo Husserl. Non è necessario essere approfonditi conoscitori della letteratu­ ra psicologica dell'epoca - a cui Husserl prevalentemente guarda - per rendersi conto che l'invito a lasciar essere il fenomeno così come si presenta, evitando interpretazioni pregiudiziali, avesse una sua assai precisa ragione d'essere. Ma resta inteso che la rac­ comandazione di attenersi alle cose stesse deve potersi precisare in rapporto al tipo di cose prese in esame, identificando di volta in volta interpretazioni pregiudiziali ben determinate. Anche in rapporto a questo aspetto tendiamo dunque ad un'attenuazione che restituisce tuttavia ad esso il suo senso. Dicen­do: "torniamo alle cose stesse" formuliamo una raccoman­ dazione non molto diversa da quella che Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche, formula così: "Non pensare, ma guarda!" [2]. E non c'è dubbio che Wittgenstein non volesse dire che pensare è un male e Husserl che le teorie sono funeste. Tuttavia, quando Husserl si rende conto della possibilità di introdurre l'"atteggiamento fenomenologico" attraverso l'ar­go­ men­tazione cartesiana anche questo aspetto assume una diversa inclinazione che è coerente con quell'immagine di fenomenolo­ gia come filosofia prima, che non deve in ogni caso essere intesa 21 nel senso di una ripresa della metafisica del passato, ma come un tentativo di dare una risposta ad una condizione dell'e­si­stenza sociale che è diventata ormai "intollerabile" [3]. In questa è mo­ dificazione di senso proprio il riferimento a Cartesio diventa si­ gnificativo per Husserl per il fatto che, in Cartesio, l'apparente astrattezza dell'argomentazione è in realtà profondamente radicata in un preciso orizzonte storico e rappresenta in certo senso la tra­ svalutazione sul piano filosofico di un atteggiamento di radicale rifiuto di tutta una tradizione culturale. E si comprende allora come proprio questo radicalismo potesse avere una risonanza profonda in Husserl, che tende a interpretare la "crisi" essenzial­ mente. come una crisi indotta da un erroneo cammino del pen­ siero. Di fronte allo choc di una cultura che con­duce l'esi­stenza sulla via di un crescente disprezzo dei suoi valori più autentici, si deve riproporre quell'idea di filosofia che è del resto conforme al senso della sua origine: essa deve condurre ad un "atteggiamento critico universale verso tutti i dati tradizionali" [4]. Solo la de­ nuncia ed il ripensamento critico del passato culturale - che non si arresti nemmeno di fronte ai suoi mostri sacri - può aprire la possibilità di nuovi valori. D'al­tro lato, quell'in­ter­­pretazione della "crisi" rende conto dell'enfa­tiz­zazione dei compiti della filosofia e quindi anzitutto, per Husserl, della fenomenologia, che è desti­ nata ad assumersi l'in­tera responsabilità del suo superamento. E se siamo giunti a questo punto come potremmo parlare dell'epoché, questa via di accesso che introduce alla dimensione autenticamen­ te filosofica, in altri termini se non in quelli che prima trovavamo così sorprendenti? Come abbiamo osservato, noi ci arrestiamo molto prima di questi esiti, portando tutto il nostro interesse su motivi teo­retici che non sono affatto necessariamente connessi con un simile contesto ideologico. Ciò non significa evidentemen­ te misconoscere l'interesse e l'importanza di un'opera come la Crisi del­le scienze europee. Al contrario essa può apparirci tanto più ricca di significato quanto più viene considerata alla luce di un'inter­ preta­zione che sappia anzitutto mettere in evidenza i motivi ide­ 22 ologici che ne determinano interamente l'impianto. Ad essa, Enzo Paci ha dedicato la sua opera più im­pegnativa. E benché la via che ho ritenuto di dover seguire sia diversamente orientata, vorrei augurarmi che questo mio lavoro possa rappre­ sentare almeno un'indicazione della presenza di quella direzione di pensiero che egli ha saputo rendere così viva. Note [1] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascenden­ tale, trad. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 178 e p.166. [2] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it. di M. Trinchero, Tori­ no 1967, oss. 66, p. 46. [3] E. Husserl, op. cit., p. 356. [4] ivi, p. 346. 23 Capitolo Primo La percezione 24 25 1 A che titolo la percezione viene di solito in questione nella filosofia - La percezione come fonte di conoscenze - Distinzione di principio tra percepire e constatare. Se chiedessimo a qualcuno, appena un poco esperto nelle cose della filosofia, a che titolo i filosofi si sono tanto spesso occupati della percezione, probabilmente ci verrebbe data questa risposta: l'interesse nei confronti di questa tematica dipende dal fatto che essa occupa un luogo rilevante all'interno del più ampio "pro­ blema della conoscenza". Forse ci verrebbe anche spie­gato che la percezione può essere considerata come una delle fonti da cui noi attingiamo le nostre conoscenze e pertanto, se ci poniamo quel problema, prima o poi ci troveremo a discutere dell'apporto conoscitivo della percezione - certamente in modi molto diffe­ renti secondo la differenza dei punti di vista generali. In tutto ciò siamo colpiti soprattutto da quella espressione: la percezione come fonte di conoscenze e vorremmo cercare di ren­ dercene ragione con i nostri mezzi. Così ci chiediamo: in qua­li circostanze saremmo disposti a parlare dell'"esperienza sensibi­ le", cioè degli atti del vedere, dell'udire, del toccare, ecc., come fonti di conoscenze? Ammetteremo allora senz'al­tro che attra­ verso percezioni talora veniamo a sapere qualcosa. Ad esempio: se vogliamo sapere che cosa c'è dentro una stanza, dobbiamo apri­ re la porta e guardare in essa. Accertiamo in questo modo che nella stanza vi è un violino appeso alla parete di fronte. In luogo di accertamenti percettivi potremmo anche par­ lare di constatazioni. Una constata­zione, poiché in essa veniamo a sapere qualcosa, può indubbiamente essere indicata come una conoscenza. Prima dell'accertamento percettivo non lo sapevo: ora lo so. Ma se impostiamo il problema in questo modo ci rendiamo subito conto della necessità di distinguere tra percezione e consta- 26 tazione, perché se da un lato è vero che attraverso percezioni possiamo effettuare constatazioni, dall'al­tro sembra avere ben poco senso attribuire agli atti percettivi in genere il carattere di constatazioni. Dovremmo forse dire che ad ogni movimento degli occhi veniamo a sapere qualcosa, che il toccare la maniglia di una por­ ta, vedere un violino appeso ad una parete, udire un suono - tut­ to ciò non sarebbe altro che acquisire conoscenze? Tuttavia, se è chiaro che si deve operare quella distinzione - tra il semplice percepire e un percepire che sia anche un constata­ re - non sembra altrettanto chiaro in che cosa l'uno si contrad­ distingua. dall'altro. Ho potuto constatare che là dentro c'è un violino. Ma che cosa ho fatto di più o anche solo di diverso dal vederlo? Eppure una differenza ci deve essere. Constatando, ve­ niamo a sapere qualcosa. Ma se un tale mi mostra un bicchiere, indicandolo con un dito, e dice: ora lo sai! - in realtà non so nem­ meno che cosa dovrei sapere. Eppure il bicchiere lo vedo. Forse potremmo essere tentati di pensare che il vedere, constatando, sia un modo particolare di prestare attenzione alla cosa. Forse: un modo particolare di storcere gli occhi. Ma se arriviamo, ad esprimerci così, abbiamo subito la sensazione che qui ci sia qual­ cosa che non va. In effetti, dobbiamo chiarire anzitutto la direzione in cui va cercata la differenza. Questa non può consistere in una qualità, per così dire, tangibile dell'atto del percepire, in una qualche pe­ culiarità psicologica che sussisterebbe in un caso, mentre sareb­ be assente nell'altro. Si tratta invece del modo in cui un atto per­ cettivo è intessuto con altri atti. Per rendersi conto di ciò basterà ritornare al nostro esempio precedente: di fronte a me c'è una porta chiusa ed io voglio sapere che cosa c'è dentro quel­la stanza. In certo senso mi sono già posto una domanda, anche se ciò non significa che io abbia mormorato tra di me qualcosa. L'atto percettivo susseguente assume il carattere di una constatazione proprio per i atto che esso risponde a quella domanda. 27 Certo, si può osservare che l'esempio è già orientato nella direzione di una semplificazione. Si toglie subito ogni difficoltà se si ammette che l'interesse sia preordinato all'atto come una do­manda implicita che del resto potrebbe essere espli­citamente formulata. Voglio sapere questo, e di ciò ho i miei buoni motivi. Ma indubbiamente può accadere, ad esempio, che ciò che ieri ho soltanto visto, diventi oggi una vera e propria constatazione. Se qualcuno nega qualcosa, io posso a mia volta contraddirlo, perché ho potuto constatare ieri come stavano le cose, anche se ieri non volevo sapere proprio nulla. Il caso è certamente un poco più complesso, ma la forma della spiegazione è, in fondo, la stessa. Il contesto è mutato, ed è mutato proprio in modo tale da produrre un interesse in rapporto al quale si situa ora la "ri­ presa" della percezione. Del resto non è affatto necessario che i motivi dell'interesse stiano, per così dire, altrove rispetto alla situazione percettiva. Può accadere che il dato stesso, semplice­ mente percepito, mi colpisca per qualche sua peculiarità e che proprio per questo abbia inizio in rapporto ad esso un percepire che è propriamente un constatare. Tra tutte le cose che ci stanno intorno e che del resto continuiamo a percepire, ora prestiamo attenzione proprio a questa: ma ci imbatteremmo ancora nelle difficoltà iniziali se pretendessimo di cavare la differenza nella qualità dell'attenzione. Il fatto è che proprio nulla si aggiunge ad un atto percettivo quando esso diventa una constatazione. Ciò che importa è sempre la modificazione del contesto che propo­ ne l'atto percettivo in connessione con un interesse, qualunque siano poi i suoi motivi e i modi in cui esso sorge. 28 2 Conseguenze di questa distinzione: l'autonomia della tematica della percezione rispetto al problema della conoscenza. Anche se per molti versi la distinzione proposta può sembrare relativamente ovvia, occorre raccomandare una certa cautela pri­ ma di assentire ad essa. Spesso accade nella filosofia che piccoli problemi, minuzie che sembrano a malapena meritare qual­che attenzione, abbiano invece conseguenze di grande portata, o al­ meno di una portata che all'inizio è abbastanza difficile pre­ve­ dere. Si comincia con una distinzione assai poco appariscente, ed eventualmente su di essa si ottiene l'assenso: ma ben presto si fa avanti il nodo autentico del problema. Nel nostro caso, comunque, questo nodo era già presente ed esplicito fin dall'inizio. Abbiamo richiamato il fatto che mol­to spesso la tematica della percezione viene considerata come una tematica interna al problema più ampio della conoscenza. Ma ora proprio questa localizzazione viene messa in questione dalla distinzione tra il percepire e il constatare. Se ci disponiamo dal punto di vista del conoscere allora abbiamo a che fare, tra l'altro, anche con le constatazioni: in che modo esse do­vranno essere considerate entro quell'ambito è poi una questione ancora da decidere. È certo comunque che la nozione di co­noscenza chia­ mata in causa dalle constatazioni è, in certo senso, la più debole possibile. Attraverso constatazioni veniamo a sapere qualcosa - e niente altro. Per questo converrebbe evitare di parlare del "problema della conoscenza" come se esso comprendesse in­ differentemente sia le constatazioni che quei sistemi complessi di conoscenze che chiamiamo scienze. Per quanto possa suonare strano all'orecchio, il concetto della scien­za non è affatto conte­ nuto nel verbo scire. Del resto non solo dobbiamo distinguere le percezioni dal­le constatazioni, ma anche tra queste ultime e quelle constatazioni 29 che eventualmente riteniamo, a buon diritto, di dover riconosce­ re come appartenenti al processo della scienza. Quando constatia­ mo qualcosa, nella vita di ogni giorno, e veniamo a sapere questo e quello, il concetto della scienza non è richiamato né in positivo né in negativo. Perciò non vi è nessun motivo per indicare come prescientifiche le nostre constatazioni quotidiane. In esse soddi­ sfiamo le nostre curiosità. E ci muoviamo semplicemente in un altro orizzonte. D'altro lato, se accade che una constatazione sia in qualche modo rilevante nell'ambito della scienza, ciò non di­ pende in realtà né dal contenuto della constatazione come tale e nemmeno da qualche sua caratteristica notevole. Dipende invece anzitutto dal tipo di domanda e dalle altre domande in cui essa è integrata e che definiscono un contesto ben definito di obbiettivi conoscitivi. L'uso equivoco del termine "osservazione" è, da questo punto di vista, abbastanza istruttivo. Talvolta lo impieghiamo per indicare propriamente l'esperimento. Ma nell'esperimento for­ se ciò che meno importa è il fatto che si constati qualcosa. Ciò che qui è fonte della conoscenza, uno dei suoi metodi, è anzitutto l'esperimento, di cui fanno parte constatazioni, ma certamente non le constatazioni stesse. Tanto più l'equivoco diventa radicale se non solo si igno­ rano queste differenze, ma addirittura la differenza ancora più elementare tra il constatare e il percepire. Corriamo allora il ri­ schio di considerare la percezione stessa come un metodo del­ la scienza e nello stesso tempo di stabilire in modo falso una continuità problematica tra il piano di una dottrina della scienza e quello di una dottrina dell'esperienza. Che vi siano tra esse comples­ se e interessanti relazioni è fuori discussione. Ciò che invece si può escludere è che l'una possa essere semplicemente ed equi­ vocamente sovrapposta all'altra o che decisioni operate en­tro un ambito possano essere direttamente riportate dentro l'al­tro. Anche qualora si sia indotti, per qualche ragione, a dare partico­ lare importanza nella scienza alle constatazioni, non per questo 30 si dovrebbe essere tenuti a decidere qualcosa sulla "natura" del­ la percezione. Inversamente, qualora avessimo deciso qualcosa, in sede di dottrina dell'esperienza, sulla natura della percezione non per questo potremmo sentirci autorizzati a ritenere che or­ mai disponiamo di tutto l'essenziale per elaborare una buona epistemologia. 3 "Esperienza" in un'accezione ristretta ed in un'accezione lata. Nel proporre la distinzione tra percepire e constatare è dunque contenuta una prima e impegnativa presa di posizione: è neces­ sario liberare una considerazione filosofica della percezione dalla sua subordinazione al problema della conoscenza. Disponendo­ ci da quest'ultimo punto di vista potranno indubbiamente venire in discussione le constatazioni. Ma il constatare è anzitutto uno dei modi in cui si esplica l'esperienza percettiva. In rapporto ad essa, è piuttosto il problema della conoscenza come constatazio­ ne che assume il carattere di un problema particolare entro una tematica più ampia. L'errore comincia dunque già con l'affermazione, così spes­ so ripetuta, secondo cui attraverso la percezione conosciamo il mondo esterno. Ciò sarebbe giusto se il mondo esterno se ne stesse dietro ad una porta e noi di fronte ad essa, tutti pieni di curiosità. Inve­ ce, aprire un occhio non è affatto qualcosa di simile a guardare dal buco di una serratura. Ma come può essere formulato in positivo il tema di un'in­ dagine rivolta alla percezione, dopo che lo si è sottratto al domi­ nio del problema della conoscenza? Abbiamo detto in preceden­ za: in questione non è il conoscere ma in primo luogo l'esperienza del percepire. Tuttavia proprio su questo punto occorrono spiegazio­ ni. In che senso viene qui impiegato il termine di "esperienza"? Infatti esso viene spesso assunto in un'ac­cezione che incorpora direttamente un riferimento conoscitivo. Esso significa, certa­ 31 mente, almeno in primo luogo l'esperienza sensibile, dunque la percezione, ma con un rimando implicato a conoscenze percettiva­ mente acquisite. Per questo talvolta con "esperienza" si intende propriamente l'esperienza passata, in modo del resto affine a certi impieghi della parola nel discorso corrente. Vogliamo allora rendere più profonda e più precisa la diffe­ renza proposta notando che il constatare presuppone il percepire, in un senso che non è affatto fin dall'inizio ovvio. Affinché si possa effettuare una constatazione deve essere già per noi per­ cettivamente presente qualcosa che si propone nella sua identità di oggetto e intorno a cui verte la constatazione. Cosicché si pone subito la domanda che indica il punto da cui possono avere ini­ zio i nostri problemi: in che modo questa identità di oggetto si costituisce nell'ambito della percezione? O in termini più gene­ rali: il costituirsi percettivo di un mondo rappresenta tutt'altro problema dall'acquisizione di un patrimonio di conoscenze, sia pure considerate ancora soltanto a titolo di conoscenze quoti­ diane. Il primo problema si situa in uno strato anteriore al secon­ do, ma non è uno strato del secondo. Con "esperienza" in un'accezione ristretta intendiamo dun­ que ancora la percezione, ma esclusivamente come una funzio­ ne, come una capacità o una facoltà che ci pone alla presenza di oggetti, e proprio nei modi e nelle forme in cui essa si differen­ zia. Noi udiamo suoni, vediamo violini appesi ad una parete, siamo colpiti dal profumo dei fiori, percepiamo in generale cose, le loro proprietà e del resto anche le relazioni di vario genere che intercorrono tra esse. Questa accezione ristretta ne richiama tuttavia una più am­ pia. Se consideriamo, ad esempio, il ricordo, anche in questo caso abbiamo a che fare in primo luogo con una facoltà che, a suo modo, ci mette alla presenza di oggetti. In un'acce­zione ampia, il ricordare è appunto un'esperienza, di cui è possibile determinare i modi di operare, come del resto sono esperienze l'im­maginare, il desiderare, gli stati emotivi, e così via. 32 A ciò si può forse obiettare che, in questo modo la nozione di esperienza è diventata anche troppo ampia ed indeterminata. Tuttavia a noi non preme qui l'esatta delimitazione di un con­ cetto, ma l'indicazione di uno spazio aperto di problemi. Per questo ci interessa proprio il mostrare che, a partire da una no­ zione di esperienza circoscritta alla costituzione percettiva di un mondo per noi, si impone senz'altro un ampliamento che non ha nulla da rimetterci per il fatto di condurre ad una relativa indeterminazione. Ciò che qui chiamiamo "mondo per noi" e che po­tremmo anche chiamare mondo concretamente esperito o mon­do di esperienze non è infatti soltanto e nemmeno è an­ zitutto un mondo della percezione. Ad esso, alla ricchezza del suo senso, partecipano dinamismi soggettivi di ogni genere - e sono questi dinamismi che noi riconduciamo sotto il titolo di esperienza nella sua accezione più ampia. 4 Fenomeni e cose in sé - Critica del fenomenismo - Immagini e raffigurazioni Il primo passo che deve essere compiuto in una delineazione della struttura della percezione consiste nella proposta di una distinzione elementare e fondamentale più volte ribadita nella letteratura fenomenologica. Benché si tratti di una distinzione che si può considerare ben nota, converrà ripeterla in breve ed a modo nostro, come se fosse cosa nuova. Supponiamo di trovarci in una stanza e di volgere lo sguar­ do intorno. Al mutare della direzione dello sguardo, muta l'aspetto in cui la stanza ci si presenta. Prima avevamo di mira una certa immagine. Ora il punto di vista è mutato, e di essa abbiamo un'altra immagine. Ma la stanza, certo, non muta con il mutare delle sue immagini, che sono poi le nostre immagini di essa. Saremmo quasi tentati di esprimerci così: non dobbiamo confondere fenomeni della cosa con la cosa in sé. In effetti, con feno- 33 meno potremmo intendere l'aspetto in cui qualcosa ci si presenta, il modo in cui qualcosa ci appare: e da esso dobbiamo appun­ to distinguere la cosa stessa che appare in quel modo, secondo quell'aspetto. In se stessa, la stanza non è affatto questa o quella visione che abbiamo di essa, e nemmeno la totalità delle visioni possibili (ammesso che il parlare di una simile totalità abbia sen­ so). Se decidiamo di esprimerci così, converrà tuttavia mettere subito le mani avanti. Anche le parole della filosofia hanno la loro storia. E questa contrapposizione è entrata nella tradizione filosofica in tutt'altro senso. Con cosa in sé, infatti, si intende tal­ volta qualcosa che in generale non appare, per la quale, appun­ to, non ci sono fenomeni che la rendano manifesta. Qualunque cosa si voglia intendere con ciò, è chiaro che non possiamo af­ fatto riportare una simile nozione sulla nostra. Infatti, se ci atte­ niamo alla semplice situazione esemplificativa proposta appare chiaro che i fenomeni hanno proprio la funzione di far apparire la cosa, di manifestarla. Perciò quando diciamo che dobbiamo distinguere tra gli uni e l'altra, non vogliamo proporre un pia­ no fenomenico a cui si contrappone un piano extrafenomenico che non ha nulla a che vedere con esso e che dovrebbe essere supposto seguendo altre vie. Al contrario, determinando quella di­ stinzione, determiniamo anche un preciso rapporto. I fenomeni, le immagini sono la mediazione attraverso cui la cosa si presenta percettivamente. La nostra tesi iniziale potrebbe dunque essere formulata così: ci sono mediazioni fenomeniche nella percezione. Un altro esempio potrà servire a chiarire meglio la portata di questa tesi. Toccando la superficie di un tavolo possiamo per­ cepire la sua levigatezza. Tuttavia qualcuno potrebbe osservare: "Ciò che tu chiami levigatezza della superficie non è altro che una sensazione di una certa specie che provi sulla punta delle dita. Di che cos'altro infatti possiamo disporre se non di questi dati sensoriali?". A ciò noi risponderemmo così: "Tu confondi il modo in cui qualcosa si manifesta con la cosa che in questo modo 34 si manifesta". Dissolvi la cosa nella percezione della cosa - pro­ poni un modo di argomentare che trascura il fatto che ha ben poco senso parlare di "fenomeni" se non assumiamo che in essi appaia qualcosa che a sua volta non è fatta di fenomeni. In se stessa, una cosa non ha affatto bisogno di apparire. Una rosa è rossa anche al buio. Se chiamassimo fenomenismo una posizione che dissolve la cosa nella percezione di essa, allora è evidente che la tesi secondo cui vi sono mediazioni fenomeniche nella perce­ zione può essere intesa come una drastica esclusione di questo punto di vista. Tuttavia è necessaria una precisazione ulteriore. Parlare di mediazioni fenomeniche suggerisce l'idea che la cosa si presenti solo indirettamente nella percezione. Una simile affermazione sem­ bra soltanto dire in altro modo ciò che si dice parlando del sus­ sistere di mediazioni. Eppure il suo senso non è affatto chia­ro. Se con essa si vuol escludere che la cosa si trovi nella percezio­ ne così come una sedia in una stanza, questo lo ammetteremo senz'altro. Ci troveremmo qui di fronte allo stesso errore feno­ menistico, solo di segno opposto. La distinzione proposta all'ini­ zio non insegna soltanto che non bisogna dissolvere la cosa nei suoi fenomeni, ma anche che sarebbe altrettanto erroneo non tenere in nessun conto il sussistere di mediazioni fenomeniche nella percezione. Di questo errore potremmo dare tuttavia una versione meno estrema e più ragionevole. Potremmo concepire le imma­ gini della cosa come calchi che la cosa imprime nella nostra mente attraverso gli organi di senso, cosicché essa sarebbe presente per noi appunto solo indiret­tamente, attraverso queste sue imma­ gini. Tra la cosa ed il percepire non vi è forse una eterogeneità di principio? La cosa non è fatta di percezioni. Ma allora come è possibile che si istituisca un rapporto percettivo? E poiché di fatto un rapporto si istituisce bisogna tentare di arrivare a capire come ciò possa accadere. Raccogliamo così in poche righe un cumulo di confusioni. 35 Un conto è parlare di mediazioni fenomeniche nella percezione avendo di mira un riferimento esemplificativo concreto che de­ termina anche in che senso si possa parlare qui di immagini; ed un altro è proporre un inizio argomentativo nel quale l'intero problema assume la forma di una sorta di enigma da risolve­ re a forza di ragionamenti. Come se dicessimo: qualunque cosa accada nel percepire, ci debbono essere immagini di mediazione, altrimenti non riusciremmo a capire in che modo sia possibile l'i­ stituzione di un rapporto percettivo con una cosa qualunque. Il fatto è che qui non c'è proprio nulla da capire. Le im­ magini non ci debbono essere sulla base di un'argomenta­zio­ne falsa, ma ci sono effettivamente come possiamo decidere sulla base di una chiarificazione descrittiva della struttura degli atti percettivi. Ciò che bisogna spiegare, dunque, �� che il parlare di media­ zioni fenomeniche non solo non comporta la posizione secondo cui la cosa sarebbe presente solo indirettamente nella percezio­ ne, ma anche che questo passaggio rappresenta un vero e proprio passo falso. Esso fa leva, oltre che sull'imposta­zione argomenta­ tiva del problema, su una determinata nozione di im­magine che renderebbe possibile il superamento dell'etero­geneità attraverso la forma di un rinvio rappresentativo. Della pretesa difficoltà si viene a capo attraverso la propo­ sta più o meno espli­cita di un'analogia: non solo è necessario postulare immagini, ma questo termine deve essere impiegato all'incirca nello stesso modo in cui lo impieghiamo in rapporto a fotografie, ritratti, disegni, ecc. Vogliamo convenire di chiamare raffigurazioni le immagini nell'accezione illustrata da questi esempi. Non vi è dubbio che la distinzione elementare che deve essere fissata in rapporto al­ le raffigurazioni sia quella tra l'oggetto che viene rappresentato, l'originale, e un altro oggetto che lo rappresenta, la sua copia; e che anche in questo caso, proprio perché una cosa viene rappre­ sentata mediante un'altra, potremmo parlare di una particolare 36 specie di mediazione. In rapporto alle raffigurazioni avrebbe in­ fine un senso ben definito affermare che l'originale è solo indi­ rettamente presente attraverso una sua copia. Ciò che dovre­mo notare tuttavia è che qui parliamo di presenza indiretta, proprio avendo di mira, per opposizione, la presenza percettiva. Nel guar­dare il ritratto, vedo il volto di quella persona, ma essa non si trova effettivamente di fronte a me, in carne ed ossa, ma soltanto attra­ verso una sua immagine. Ed ora proviamoci a mutare il contesto, a impiegare un giro di frase simile a questo in rapporto all'esempio iniziale. Abbia­ mo detto: la stanza si presenta attraverso immagini. Ma sarebbe assurdo aggiungere a ciò la restrizione "soltanto". Perciò le im­ magini di cui parliamo a titolo di mediazioni fenomeniche non sono affatto calchi delle cose che si presentano in esse. Nulla ci impedisce allora di parlare della immediatezza del­la percezione, di indicare anzi come una vera e propria caratteristi­ ca degli atti percettivi il fatto che in essi le cose sono presenti "in se stesse", "direttamente", "originalmente" - "in carne ed ossa", addirittura! Ciò non si trova affatto in contrasto con la tesi del­ le mediazioni fenomeniche della percezione. Infatti il termine "immediatezza" viene qui impiegato in un senso relativo che ha di mira, per opposizione, la mediazione operata dalle raffigura­ zioni. Se con la tesi iniziale - ci sono mediazioni fenomeniche nella percezione - ci consentiamo l'uso del termine di "immagi­ ne", d'altro lato il parlare di immediatezza della percezione rap­ presenta una sorta di precisazione di quella tesi che assume la forma negativa: qui, le immagini non sono da intendere come raffigurazioni. Non perdere di vista questo impiego relativo del termine è evidentemente importante per evitare di parlare dell'imme­dia­ tezza della percezione in modo del tutto vacuo. Di qui potrebbe avere inizio la retorica di un misterioso possesso: nella perce­ zione la cosa ci sta di fronte "in carne ed ossa", come se si fosse 37 presso di essa in un modo inaudito e indicibile. Come se solo il tono della voce - quando diciamo "in carne ed ossa" - fosse in grado di insegnarci in che cosa consista questa immediatezza. Annotazione La distinzione in questione viene formulata da Husserl con particolare chiarezza già nelle "Ricerche logiche", Quinta ricerca (tr. it. a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1967). Nel caso della percezione del colore, si osserva nel § 2, "non di rado si confonde la sensazione di colore con l'obbiettivo essere colorato dell'oggetto" (p. 141). Ciò che è "vissuto" (e quindi che "appartiene alla coscienza") è la sensazione di colore, non l'oggetto colorato o il colore stesso (p. 140). La stessa distinzione può essere proposta come distinzione tra la cosa e le manifestazioni della cosa. "La manifestazione della cosa (il vissuto) non è la cosa che si manifesta ("ciò che ci sta di fronte" inteso nel suo essere in se stesso, in carne ed ossa). Noi "viviamo" le manifestazioni come appartenenti al nesso della coscienza, mentre le cose che ci si manifestano come appartenenti al mondo fenomenale. Le manifestazioni stesse non si manifestano, esse vengono vissute" (p. 142). "I predicati della manifestazione non sono al tempo stesso predicati di ciò che si manifesta in essa" (p. 142). "Io non vedo le sensazioni di colore, ma le cose colorate, non odo le sensazioni sonore, ma il canto della cantante, ecc." (p. 164). "Io vedo una cosa, ad esempio, una scatola, e non le mie sensazioni. Io continuo a vedere quest'unica e id­en­tica scatola, comunque essa venga fatta ruotare o orien­tata. Perciò ho anche sempre lo stesso "contenuto di coscienza". Ma se, in un senso ben più pertinente, designo con questa espressione i contenuti vissuti, ad ogni rotazione io ho un nuovo contenuto di coscienza. Quindi ven­gono vissuti contenuti molto diversi, e tuttavia viene percepito lo stesso oggetto. Il contenuto vissuto, in generale, non sarà dunque esso stesso l'oggetto percepito" (pp. 171-172). - "Le sensazioni e anche gli atti che le "apprendono" o "percepiscono" vengono vissute, ma non si manifestano oggettualmente, esse non vengono viste, udite, 38 percepite con un "senso" qualsiasi. Gli oggetti, d'altro lato, si manifestano, vengono percepiti, ma non sono vissuti"(p. 174). - "Il mondo non è in nessun caso il vissuto di un pensante. Vissuto è l'intendere-il-mondo, mentre il mondo stesso è l'oggetto inteso" (p. 175). Nei paragrafi da cui sono tratte queste citazioni Husserl ha indubbiamente di mira, in particolare, la posizione di Mach: "Proprio oggi si suole presentare tutto ciò come se si trattasse della stessa cosa, considerata da "interessi e punti di vista" diversi: dal punto di vista psicologico-soggettivo si tratterebbe di una sensazione, mentre dal punto di vista fisico-oggettivo si tratterebbe di una determinazione di una cosa esterna" (p. 141). - "È fenomenologicamente falso asserire che la differenza tra il contenuto cosciente nella percezione e l'oggetto esterno percepito in essa (percettivamente inteso) dipenda semplicemente da un diverso modo di considerare la cosa, secondo il quale lo stesso fenomeno verrebbe considerato ora da un punto di vista soggettivo (in rapporto ai fenomeni riferiti all'io), ora da un punto di vista obbiettivo (in rapporto alle cose stesse)" (p. 141). Inoltre, nella Appendice ai §§ 11 e 20 della Quinta ricerca, Husserl critica la "teoria delle immagini", cioè la teoria che "ritiene di aver chiarito a sufficienza il fatto della rappresentazione (che è incluso in ogni atto) dicendo: "fuori" vi è, almeno in certe circostanze, la cosa stessa; nella coscienza vi è l'immagine come sostituto della cosa" (p. 206). 5 Le sintesi che conducono al costituirsi all'interno dei decorsi percettivi di unità identiche di riferimento - Irrilevanza, ai fini di questo problema, della sussistenza effettiva dell'oggetto. Ciò che abbiamo or ora sostenuto si presta tuttavia ancora a qual­che fraintendimento. Abbiamo distinto tra i fenomeni e la cosa, ricollegandoci ad un esempio particolarmente chiaro. Chi guarda una stanza la vede sempre secondo una certa inquadra­ 39 tura. E se volgiamo lo sguardo a destra e poi a sinistro non vi sono dubbi in che senso diciamo: ora la scena è mutata. Che in questo mutamento la stanza appaia come la stessa è tuttavia una circostanza che converrà non dare troppo per scontata. In generale un decorso percettivo può essere inteso come una sequenza di scene percettive, ed allora è molto importante per cogliere con chiarezza il punto di vista dal quale ci disponiamo sottolineare che l'unit�� oggettiva di riferimento si istituisce all'interno della sequenza stessa e sulla sua base. Se il decorso percetti­ vo presenta, nel variare delle scene di cui consta, un unico ogget­ to, vi dovranno essere forme e modi di rapporto tra le scene che rendano conto di questo riferimento unitario. Non si tratta, in altre parole, di assumere senz'altro l'oggetto nella sua esistenza e nelle sue peculiarità oggettive, come se esso - essendo fatto così e così emanasse queste e queste altre immagini. Ma inversamen­ te nella misura in cui le scene percettive sono proprio queste e non altre e sono concatenate fra loro proprio in questi modi de­ terminati, allora la cosa viene posta nella sua identità oggettiva. Infatti di essa noi ne sappiamo qualcosa solo attraverso le scene percettive - l'unità che attraversa la molteplicità deve essere istitu­ ita all'interno della molteplicità stessa. Ed in quale altro modo potrebbe esserlo? Che la cosa che ora ci sta di fronte non sia fatta di percezio­ ni, lo abbiamo già detto una volta per tutte. Ma se il problema è proprio quello della percezione di essa, dei decorsi percettivi in cui essa si presenta, allora possiamo contare solo su questi de­ corsi e sulle scene di cui constano. Non disponiamo delle scene percettive e di qualche informazione in più. Per questo non possiamo dare per scontato il fatto che in un decorso percettivo si diano determinate formazioni oggetti­ ve: l'ovvietà del sussistere in sé degli oggetti non toglie affatto i problemi connessi al loro costituirsi come tali all'interno del de­corso stesso. Una fenomenologia della percezione effettivamen­te svilup­ 40 pata dovrebbe senza dubbio prendere le mosse da questo assun­ to per porsi il compito di descrivere sistematicamente le diverse strutture dei rapporti fenomenici che debbono rendere ragione di questa o quella posizione percettiva nella sua tipicità determi­ nata. Si vede subito allora che ai fini di simili descrizioni struttu­ rali l'esistenza effettiva della oggettività intesa nel decorso per­ cettivo diventa irrilevante. Pensiamo al caso delle percezioni illusorie: ora vediamo un movimento, mentre qui non ve ne è alcuno. Che non ci sia alcun movimento potrebbe essere documentato in vari modi. Un altro ci informa che le cose non stanno così e noi abbiamo buoni motivi per esserne convinti. Ma la convinzione della illusorietà non è affatto in grado di sopprimere la configurazione fenomenica che ha fornito la base della percezione illusoria. Siamo convinti che qui non vi sia alcun movimento, e tuttavia non possiamo vedere qualcos'altro da ciò che vediamo. La documentazione sconfessa il riferimento oggettivo del decorso, ma la sequenza di scene è ancora esattamente quella di prima ed in essa si presenta proprio quel riferimento oggettivo. Ciò significa del resto soltanto che la percezione illusoria di un movimento, proprio perché è illusoria, deve avere la stessa struttura di una percezione di movimento che avviene effetti­ vamente nella realtà. La differenza tra il sussistere e il non sus­ sistere del­l'oggettività percettivamente intesa non può entrare in linea di conto se abbiamo di mira le condizioni tipiche della percezione corrispondente [1]. Proprio il richiamo ai possibili errori della percezione può essere utile per mettere in risalto questi due aspetti del nostro problema: da un lato la posizione di una oggettività è compiuta all'interno del decorso percettivo stesso, dall'altro, e di conse­ guenza, se vogliamo in qualche modo rendere conto dell'errore nella percezione non possiamo far altro che rinviare alle scene percettive ed ai contenuti che esse presentano. 41 Ciò che l'errore percettivo chiama in causa non è il rapporto tra la cosa e la sua immagine, come se l'immagine fosse sbagliata e si venisse a capo dell'errore adeguando l'imma­gine alla cosa. Ecco che allora si ripresenterebbe l'equi­vo­co che abbiamo già chiarito in precedenza: se le immagini percettive, gli aspetti della cosa, fossero qualcosa di simile a raffigurazioni, allora po­ tremmo proporre il problema di un confronto. Altrimenti que­ sto problema è privo di senso. Esattamente come nel caso della percezione corretta, nell'errore percettivo si tratta unicamente di un rapporto tra le immagini. Pensiamo al modo in cui potremmo ingegnarci ad illustrare schematicamente ciò che accade nel caso del ben noto dubbio percettivo sulla partenza del mio treno, mentre parte il treno sul binario parallelo. Anzitutto vi è la scena A: A Il rettangolo esterno rappresenta il finestrino del treno sul quale mi trovo; il rettangolo interno, il finestrino del treno che si trova, anch'esso fermo, sul binario parallelo. Se si muove il secondo si presenta la scena B. Se invece si muove il primo si presenta la scena C: 42 B C Le frecce indicano la direzione del movimento, ed è proprio que­ sta che non possiamo vedere. Quindi faremo bene a cancellare queste frecce dal disegno. Allora ci rendiamo conto che il dubbio ha certamente le sue buone ragioni. Oppure chiediamoci come mai abbiamo potuto ritenere - erroneamente - entrando in una stanza di aver sbagliato stanza. Evidentemente ci si è presentata una scena inconsueta - e allora altre scene debbono essere presupposte. Siamo entrati da un'altra porta (anziché da quella solita). Concludiamo: l'aula che vedia­ mo non è affatto l'aula 515 (ed invece lo è). Inversamente potrebbe accadere, entrando in un aula, che mi si presenti la solita scena: riconosco l'aula 515, mentre in re­ altà non si tratta di essa. In un caso come nell'altro vengono in questione soltanto le scene percettive e i loro rapporti: abbiamo a che fare con modi più o meno complessi di unificazione e di non unificazione. Le scene anteriori formano una sorta di presupposto percettivo: nel primo caso la scena che mi si presenta si trova in contrasto con questo presupposto, nel secondo invece l'imma­ gine attuale si unifica con le immagini che sono percettivamente presupposte. Se poi togliamo di mezzo l'assunzione del­l'erroneità del riferimento, se assumiamo cioè che nel primo caso riteniamo giustamente di aver sbagliato stanza e nel secondo, altrettanto giustamente, di essere entrati proprio nel­l'aula 515, il nostro pro­ 43 blema non subirebbe nessun mutamento sostanziale. Il modo del­ la spiegazione è in entrambi i casi lo stesso. 6 Nel percepire non si formulano opinioni né si traggono conclusioni - Accenno critico verso la tendenza logicizzante nell'ambito della dottrina dell'esperienza - Le cose della percezione non sono "entità inferite". Prestiamo tuttavia attenzione al modo in cui or ora ci siamo espressi: abbiamo parlato di dubbio percettivo e osservato che per esso vi sono buone ragioni: data la scena che ci appare, possiamo concludere in questo modo o in quell'altro. Oppure diciamo che vi sono ragioni per ritenere giustamente o erroneamente di essere entrati nell'aula giusta o nell'aula sbagliata. Una simile termino­ logia non può essere lasciata correre senza qualche precisazione. Infatti, stando ad essa sembrerebbe che quando si percepisce non si faccia altro che formulare opinioni e trarre conclusioni come se la percezione fosse un modo peculiare di "argomenta­ re". Certo, può essere che si trovi qualche difficoltà ad esprimer­ si in altro modo in contesti come questi, e del resto ciò non è affatto necessario. È più che sufficiente infatti sottolineare che in rapporto alla tematica della percezione parole come queste debbono essere impiegate in modo libero da rimando all'ambito del "giudizio". Se vedo qualcosa, una sedia di fronte a me, non penso che di fronte a me c'è una sedia, non sono di questa opinione, ma sem­ plicemente la vedo. Così, quando parliamo di dubbio percettivo non intendiamo un atto riflessivo rivolto anche soltanto a con­ tenuti percettivi, ma proprio una esitazione interna della perce­ zione stessa che può naturalmente assumere poi la forma del dubbio esplicitamente espresso. E perciò anche non concludiamo di essere entrati in una stanza che ci è ben nota come se essa 44 dovesse ogni volta essere riconosciuta [2]. Nel richiamare l'attenzione su questo punto abbiamo del resto di mira un discorso più ampio. A seconda del modo in cui prendiamo posizione in rapporto ad esso, può derivare un'im­ postazione interamente diversa della tematica della percezione e dell'esperienza in genere. Infatti, potremmo approfittare di una simile possibilità di impiego delle parole per prospettare la te­ matica elementare della percezione dal punto di vista che esse suggeriscono. Sorge così quella che potremmo chiamare una ten­ denza logicizzante nell'ambito della dottrina dell'e­spe­rienza, ten­ denza che ha indubbiamente la sua origine nella proiezione sui processi percettivi e sui loro risultati del modello della argomen­ tazione. Quando Bertrand Russell formula il suo principio se­ condo cui la "massima suprema" della filosofia scien­tifica sarebbe: "Sostituire sin dove è possibile entità inferite con costruzioni logiche", questa massima correttamente intesa raccoglie in breve sia il programma filosofico proposto sia il suo apparentemente ovvio presuppo­ sto. Con entità inferite Russell intende anche, o forse dovremmo dire, più chiaramente, anzitutto, le cose che ci appaiono concre­ tamente nella percezione. Che qui vi sia una sedia viene inteso come una conseguenza tratta dalle impressioni sensibili o almeno dalle proposizioni che descrivono impressioni sensibili. Per que­ sto l'inferenza implicita compiuta dalla percezione può essere so­ stituita dall'assunzione che l'og­getto percettivamente costituito possa essere inteso come una co­struzione logica di cui l'analisi filosofica deve mettere in chia­ro i passi [3]. Questo modo di proporre il problema viene poi stretta­ mente connesso con la scientificità della filosofia per il solo fatto che si adotta un punto di vista logicizzante. Una ricerca che si avvale di un apparato di nozioni tratte dalla logica deve sostituire le malsicure indagini psicologicamente orientate dell'em­pirismo classico. Ma è chiaro che una sedia non è una costruzione logica tanto poco quanto è una entità inferita [4]. L'as­sun­zione che si possa considerarla da questo punto di vista non è altro che una 45 finzione sovrapposta alla realtà del problema e saranno di con­ seguenza fittizie anche le ricostruzioni che prendono l'avvio da essa. Quanto poco poi il nuovo punto di vista sia nuovo e meriti di essere chiamato scientifico lo dimostra proprio lo stretto lega­ me con le concezioni empiristiche. I materiali della costruzione restano infatti sempre quelli: i dati sensoriali, i fenomeni nell'accezione del fenomenismo. È chiaro che rispetto a questa tendenza logicizzante già le poche cose dette sino a questo punto sono orientate nel senso di un netto rifiuto, che riguarda sia il lato metodico che quello con­ tenutistico. La nozione di fenomeno che abbiamo proposta non solo non conduce ad una posizione fenomenistica, ma forma il presupposto di una critica filosofica realmente efficace di esso. Inoltre essa deriva, più che da una decisione filosofica prelimi­ nare, dalla delimitazione stessa del problema, che una tendenza logicizzante non può che presentare in modo deformato. Anche su questo punto, del resto, si fa sentire la portata della nostra distinzione apparentemente innocua tra percepire e constatare. In rapporto alle constatazioni, la terminologia del giudizio può senza dubbio cominciare con l'essere un legata in modo proprio. E la differenza tra l'uno e l'altro livello può ora essere ripresentata e ribadita come una differenza che riguarda la spontaneità della posizione dell'oggetto nella constatazione di fronte alla passività dei processi della costituzione percettiva. Il fatto che nel constatare ci limitiamo a registrare ciò che è dato percettivamente non toglie infatti quel momento soggettivo dell'interesse che appartiene alla struttura dell'atto. In effetti te­ nendo conto solo di questo rimando - e quindi prescindendo da ogni altra considerazione che potrebbe indubbiamente essere suggerita da questo termine - noi riteniamo di poter parlare di spontaneità in rapporto alle constatazioni. Ciò presuppone nello stesso tempo uno strato di costituzione passiva, uno strato cioè in cui la, posizione dei riferimenti oggettivi accade unicamente in forza dei contenuti percettivi stessi. Se parliamo dei decorsi per­ 46 cettivi come sequenze di scene, allora si impone subito - come abbiamo già notato - il tema dell'unificazione, della sintesi, come un tema che è destinato ad assumere una importanza centra­ le all'interno dei nostri sviluppi. Ma parlando di sintesi percettive non intendiamo un'"attività" dell'unificare. 7 Spiegazioni intorno alle sintesi percettive come sintesi passive. Comprendere con chiarezza la nozione di sintesi passiva, in tutta la sua portata analitica e nello stesso tempo filosofica generale, è importante per giungere direttamente ad uno dei punti nodali che caratterizza la posizione fenomenologica nella forma elabo­ rata da Husserl [5]. Evidentemente non si tratta di riproporre una concezione del rapporto percettivo come un rapporto di rispecchiamento del dato, nel quale la soggettività non farebbe altro che godersi lo spettacolo di ciò che appare. Presentare le cose in questo modo sarebbe soltanto rendersi troppo facile l'e­ sercizio della critica. In primo luogo va notato che vi è in ogni caso qualcosa che merita di essere salvato nel vecchio discorso sulla ricettività sog­ gettiva nella percezione. Infatti qualunque cosa si pensi in rap­ porto all'importanza dei fattori strutturanti di carattere soggetti­ vo, resta il fatto che, quanto a ciò che ci appare percettivamente noi non possiamo farci proprio nulla. È difficile non riconoscere in questa circostanza incontestabile una delle caratteristiche della percezione in genere. Tuttavia, parlando di passività in rapporto alle sintesi della percezione abbiamo di mira un problema abbastanza diverso. Anch'esso può essere illustrato in una forma apparentemente poco impegnativa. Abbiamo osservato che le sintesi percettive non sono attività dell'unificare. Supponiamo allora che ci ven­ gano presentati dei fotogrammi e ci venga proposto il compito di stabilire se essi siano in qualche modo organizzabili. Oppure: 47 ci vengono messi a disposizione dei pezzi di cartone di svariate forme e veniamo invitati a realizzare un'unica forma operando l'incastro dei pezzi. Questi sono appunto compiti di unificazione esplicitamente proposti e attivamente perseguiti in effettive operazioni di confronto. I fotogrammi, all'inizio, ci appariranno disparati proprio perché è stato posto il compito di organizzarli; e così i pezzi di cartone sono realmente "pezzi" solo nel momento in cui sappiamo che si tratta di un gioco ad incastro. In rapporto a queste funzioni attive di unificazione possiamo forse chiarire che cosa intendiamo dire quando parliamo della passività delle sintesi percettive. Anche nella percezione hanno luogo unificazioni, e quindi in qualche modo confronti di vario genere, ma nessun confronto attivo viene operato né in generale potrebbe esserlo. Nel percepire non raccogliamo in unità fenomeni come fotogrammi da concatenare tra loro. Naturalmente possiamo in certo modo fissare alcuni momenti di una sequenza di scene percettive, e addirittura fornire un esempio come il seguente: Potremmo commentare: qui, il risultato sintetico è una determinata superficie triangolare che effettua una rotazione. Ma il nostro commento ha bisogno di essere correttamente inteso. Di fatto, nell'esempio non possiamo fare a meno di presentare qualcosa di simile ad una sequenza di fotogrammi, suggerendo che essi non debbono essere intesi così. Nel decorso percettivo che presenta questo risultato, infatti, le scene trapassano l'una nell'altra in modo continuo e i loro contenuti si modificano secondo una determinata struttura. In questo senso, potremmo dire che il dato esibisce da se stesso la propria interpretazione. La mol­teplicità dei feno- 48 meni si auto-organizza progressivamente nel processo ed in que­ sta auto-organiz­zazione si istituisce l'unità del riferimento. Per questo, il fenomeno, nell'accezione qui intesa, non può essere astrattamente isolato dalla cosa, come se vi fossero prima i pezzi da unificare e poi il risultato unitario. L'attribuzione di un'atti­ vità sintetica anzitutto dalla parte della spontaneità soggettiva richiamerebbe, sull'altro versante, il sussistere di materiali grez­zi come materiali da costruzione. Ed è invece proprio que­­sta con­ cezione di una soggettività unificatrice, donatrice di forme, che l'idea della passività della sintesi intende mettere in questione. Se con materiali della percezione vogliamo intendere i fenomeni della mediazione percettiva, allora dobbiamo subito notare che non vi sono fenomeni che non si auto-organizzano in processi e ciò vuol dire anzitutto che le sintesi accadono interamente dalla loro parte. Rispetto ad esse la soggettività si trova appunto nella condizione di una mera ricezione. Perciò potremmo anche parlare di un'interpretazione che ine­ risce alla scena percettiva per il fatto stesso che essa si trova all'interno di uno sviluppo sintetico. In questo sviluppo si af­ ferma una norma che determina in che senso ogni scena debba essere percettivamente intesa. Nel nostro esempio, la scena che sta nel mezzo è certamen­ te interpretata se in rapporto ad essa, parliamo di un mo­do di manifestarsi, in certe circostanze, di una superficie trian­golare di una certa forma. In essa infatti non vediamo nessuna superficie triangolare. Ma questa interpretazione non risulta da un'osserva­ zione attenta del contenuto della scena da cui dovrebbe emer­ gere il suo senso sulla base di qualche indizio. L'inter­pretazione risulta invece senz'altro dall'inserimento della scena all'interno di quella sequenza. Essa viene in questo modo integrata in essa e cade dunque sotto la norma che attraversa lo sviluppo. L'inter­ pretazione oltrepassa il contenuto attualmente dato nella singola scena nella stessa misura in cui presuppone le scene trascorse e anticipa le scene successive. Che una sintesi abbia luogo attra­ 49 verso le scene significa la stessa cosa che ogni scena deve essere concepita come momento di un processo. 8 Approfondimento della critica nei confronti del fenomenismo mediante la discussione di un'argomentazione di Hume: Come faccio a sapere che c'è ancora una parete alle mie spalle? Considerazioni all'incirca analoghe potranno certamente esse­ re proposte anche in rapporto all'esempio da cui abbiamo pre­ so le mosse: volgendo lo sguardo intorno nella stanza avremo una graduale modificazione della scena. Ora vediamo gli stessi oggetti di prima, solo che è mutata, per così dire, la loro "loca­ lizzazione fenomenologica". Qualcosa che prima si trovava al centro della scena, si trova ora ai suoi margini. Altre cose saranno eventualmente cadute del tutto al di fuori di essa. Ora non vedo più una parete della stanza - essa si trova infatti alle mie spalle. Ma la parete alle mie spalle è "fuori" dalla scena attuale in tutt'al­ tro modo di un qualunque contenuto arbitrario che io potrei eventualmente immaginare. Essa infatti si è presentata all'inter­ no del decorso e questa presenza trascorsa appartiene al senso del riferimento oggettivo che si istituisce in esso. Perciò non vi possono essere dubbi sul fatto che, volgendo lo sguardo indie­ tro, mi si ripresenti proprio quella parete. Questa possibilità è infatti direttamente presupposta nella stessa posizione percettiva di un'oggettività. Così, proprio all'interno di una problematica che, insisten­ do sulla posizione della cosa come risultato sintetico, sembra ri­ prendere il problema del fenomenismo, si mostra che, al contra­ 50 rio, ad esso viene sottratto ogni spazio residuo. Come abbiamo già osservato, il fatto che siamo tanto interessati ai fenomeni non dipende da qualche assunzione pregiudiziale, ma dalla stes­ sa delimitazione della nostra problematica. Questa delimitazione potrà eventualmente essere contestata, ma per far questo sono comunque necessari buoni argomenti, e non soltanto belle pa­ role. Il punto essenziale è che una posizione fenomenistica non solo deve effettuare la risoluzione della cosa nella percezione di essa, ma anche ignorare le sintesi che attraversano le mediazioni fenomeniche. Proprio l'esempio della parete alle mie spalle ci richiama alla mente un modo di impostare il problema che mo­ stra con chiarezza esemplare la connessione tra una posizione fenomenistica coerente e la cecità di fronte al problema della struttura sintetica della percezione. In rapporto ad esso, Hume ha costruito un'argomentazione famosa. Esponiamola in breve. Io me ne sto seduto con le spalle rivolte alla parete. Per­ ciò non la vedo. Eppure so che essa continua ad esistere, anche se non la vedo. Per Hume (come, tutto sommato, anche per noi) ciò rappresenta l'indice di un problema: infatti, giustamente egli non tenta di giustificare questo sapere ricorrendo a considera­ zioni estranee alle condizioni della situazione esperienziale che è in discussione. Una risposta può essere vera e tuttavia fallire la domanda. Così Hume non dice, ad esempio, che i mattoni di cui sono fatte le pareti sono troppo consistenti per dissolversi da un momento all'altro, in punta di piedi. Egli cerca piuttosto di rendere conto di questo sapere richiamandosi unicamente alle funzioni esperienziali in gioco. Tuttavia, dati i presupposti della dottrina di Hume, la discussione finisce con il rivelarsi tanto fal­ limentare da risolvere l'esistenza della parete che, in ogni caso, come per tutti, anche per noi (e del resto perfino per Hume) poggia sui solidi mattoni di cui è fatta, in una produzione del­ l'im­ma­ginazione. In primo luogo cominceremo con l'escludere che la percezione svolga un qualche ruolo. La parete, infatti, non la vedo. 51 Qualora volgessi lo sguardo indietro accertando che la parete se ne resta ancora lí, ciò non proverebbe più di quanto prova, dal momento che ciò che si tratta di sapere è proprio se la parete continua ad esserci quando le volgo le spalle. Ma allora nemme­ no può provare qualcosa la memoria, perché questa può farsi ga­ rante solo degli atti effettivamente effettuati e ciò di cui si dubita non è il fatto che poco fa ho visto una parete. Non resta dunque che l'immaginazione, la quale, come una barca che continua ancora un poco il suo corso dopo i primi col­ pi di remo, opera l'integrazione necessaria per togliere di mezzo un dubbio francamente intollerabile. Questa integrazione dovrà ovviamente essere inconscia, altrimenti il trucco verrebbe allo scoperto e l'immaginazione fallirebbe il suo scopo. Ed ora elaboriamo il problema a modo nostro. Ecco che un tale, mentre sto conversando intorno ad interessanti argomenti, mi interrompe all'improvviso esclamando: "Comunque, tu sai bene che c'è una parete alle tue spalle!". Certo, lo so. E lo sapevo anche prima, quando non ci pen­ savo nemmeno. Ma per giustificare questo sapere sarebbe già un errore andare alla ricerca di ragioni - a meno che non si inten­ dano quelle ragioni che si trovano tutte all'interno del processo percettivo. Si ripresenta qui il problema a cui in precedenza ab­ biamo già accennato: questo sapere non è una opinione latente che solo ora viene alla luce. Così, se il nostro amico ci chiedesse di indicare il fondamento di questo sapere, non ricorreremo ad argomenti, ma cercheremo piuttosto di dare chiarimento sulla struttura di decorso della percezione. Il chiarimento principale è certamente questo: prima sono entrato nella stanza ed ho visto quella parete. E quella scena che ora è trascorsa, appartiene ancora alla sequenza e determina in­ sieme alle altre scene trascorse, il senso della scena attuale. Il ri­ cordo non viene in alcun modo in questione non solo perché non vi è qui nessuna rievocazione esplicita, ma anche perché quelle scene, in realtà, non le ho mai dimenticate. Esso non offrirebbe 52 certo, in ogni caso, alcuna garanzia; ma di una simile garanzia non c'è affatto bisogno. Di conseguenza, per rendere conto del­ l'attesa che implica la credenza nell'"esistenza continuata" della parete, non vi è nemmeno bisogno dell'imma­ginazione. Nell'argomentazione di Hume non si tiene in nessun con­ to il carattere sintetico-processuale della percezione. Perciò si propone un'ipotetica analisi della percezione secondo la qua­le è necessario congetturare l'azione, all'interno della percezione, di atti di tutt'altro tipo, quali sono il ricordo e l'immagi­nazione, di cui nella situazione descrittiva non vi è alcuna traccia. D'altra parte l'azione dell'immaginazione, che dovrebbe forzare i limiti del ricordo generando un'attesa, deve essere ricondotta ad un postulato di coerenza che non può non apparire tanto necessa­ rio quanto profondamente ingiustificato. Ogni giustificazione si trova invece tutta all'interno del processo percettivo stesso. Se ci disponiamo dal punto di vi­ sta di una considerazione dei decorsi percettivi come proces­ si attraversati da sintesi, allora tutto ciò che possiamo trarre da quel­l'argomentazione è soltanto il fatto che nella scena attuale debbono avere un peso le scene trascorse, e nello stesso tempo che, se qualcosa è attualmente dato, qualcos'altro deve essere anticipato. Tra queste anticipazioni e le scene passate deve inter­ correre un determinato rapporto. Illustrare con chiarezza questo punto ci conduce a penetrare più a fondo nelle condizioni delle funzioni sintetiche della percezione. Annotazione È forse opportuno riportare in esteso il passo di Hume a cui abbiamo fatto or ora riferimento. "Io sono seduto nella mia camera con la faccia rivolta al fuoco, e tutti gli oggetti che colpiscono i miei sensi sono contenuti in pochi metri intorno a me. La memoria, invero, mi fa presente l'esistenza di molti oggetti; ma questa sua testimonianza non si estende oltre la loro precedente esistenza, né i 53 sensi né la memoria attestano la continuità del loro essere. Mentre sono ancora seduto e rivolgo per la mente questi pensieri, sento ad un tratto un rumore, come di una porta che gira sopra i suoi cardini, e poco dopo vedo il portiere che avanza verso di me. Ciò mi dà occasione a molte riflessioni e nuovi ragionamenti. Anzitutto, io non ho mai osservato che quel rumore possa provenire da altro fuorché dal movimento di una porta, e quindi concludo che il presente fenomeno sarebbe in contraddizione con tutte le precedenti esperienze, qualora io non ammettessi che la porta, che ricordo dall'altra parte della camera, continua ad esistere. Ancora: ho sempre visto che un corpo umano possiede una qualità che io chiamo gravità, e che gli impedisce di volare, come questo portiere dovrebbe aver fatto per giungere nella mia camera se pensassi che la scala, di cui ho il ricordo, fosse stata distrutta nella mia assenza. Ma non è tutto. Io ricevo una lettera: aprendola, vedo dal carattere e dalla firma che viene da un amico che mi dice di essere distante duecento leghe. È evidente che non posso mai rendermi ragione di questo fenomeno in conformità della mia esperienza in altri casi, senza far passare nella mia mente tutto il mare e il continente che ci separano, e senza supporre gli effetti e l'esi­stenza continuata dei corrieri e dei battelli, conforme alla mia memoria e osservazione. I fenomeni, dunque, del portiere e della lettera, sotto un certo aspetto sono in contraddizione con l'esperienza comune, e possono essere giudicati come obiezioni alle massime riguardanti la connessione tra cause ed effetti. lo, infatti, sono abituato a udire un certo suono nello stesso tempo che vedo un certo oggetto in movimento; in questo caso, invece, non ho ricevuto le due percezioni insieme. Si che queste due osservazioni sono contrarie, a meno ch'io non supponga che la porta rimanga ancora, e che sia stata a­perta senza che io ne abbia avuto la percezione. E questa sup­posizione, da principio arbitraria e ipotetica, acquista forza ed evidenza per essere la sola che possa conciliare quella contraddizione. Di questi casi se ne offrono conti­nuamente nella mia vita, e mi spingono a supporre una con­tinuata esistenza degli oggetti al fine di collegare le passate con le presenti loro apparizioni, e dare loro quella reciproca unione che ho trovato per esperienza convenire alla loro par- 54 ticolare natura e alle circostanze. Io sono, così, naturalmen­­te portato a considerare il mondo come qualcosa di reale e di durevole, che mantiene la sua esistenza anche quando cessa di essere presente alla mia percezione. Ma benché questa conclusione tratta dalla coerenza delle apparizioni possa sembrare della stessa natura dei nostri ragionamenti concernente le cause e gli effetti, in quanto deriva dall'abitudine ed è regolata sulle precedenti esperienze, troveremo, esaminando bene la cosa, che ci sono notevoli differenze, perché tale conclusione deriva in via diretta dall'in­ tel­li­genza, e soltanto indirettamente dall'a­bi­tu­dine. Si dovrà, infatti, facilmente concedere che, poiché niente è realmente presente alla mente fuori delle sue proprie percezioni, non soltanto è impossibile che un'abitudine possa mai essere acquistata altrimenti che con la successione regolare di queste percezioni, ma anche che nessun'abitudine possa eccedere questo grado di regolarità. Ma un grado di regolarità delle nostre percezioni non può mai per noi essere il fondamento per arguire un grado maggiore di regolarità in oggetti che non sono percepito poiché questo supporrebbe una contraddizione, un'abitudine cioè acquistata da ciò che non è stato mai presente alla mente. Ora, è evidente che, quando inferiamo l'esistenza continuata degli oggetti del senso dalla loro coerenza e dalla frequenza della loro unione, è per dar ad essi una regolarità maggiore di quella che osserviamo nelle nostre semplici percezioni. Noi constatiamo infatti una connessione tra due specie di oggetti nel loro passato apparire ai sensi, ma non siamo in grado di constatare la perfetta costanza di quella connessione, poiché un volger di testa, un chiuder di occhi, basta per rom­perla. Che cosa noi supponiamo in questo caso, se non che questi oggetti continuino nella loro connessione usuale, nonostante l'interruzione del loro apparire, e che le apparizioni irregolari sono unite da qualcosa di cui non siamo coscienti? Ma poiché ogni ragionamento concernente materia di fatto proviene unicamente dall'abitudi­ne, e l'abitudine può essere soltanto l'effetto di ripetute percezioni, l'estendersi dell'abitudine e del ragionamento oltre le percezioni non può mai essere il diretto e naturale effetto di una costante ripetizione e connessione, ma deve nascere dalla cooperazione di 55 qualche altro principio. Ho già osservato, esaminando il fondamento della matematica, che l'immaginazione, quando si mette in un certo ordine di pensieri, è capace di continuare anche quando l'og­getto le viene a mancare, e simile ad una galea messa in movimento dai remi prosegue nel suo corso senza bisogno di nuovo impulso. Là io spiegai perché, dopo aver considerati diversi criteri approssimativi di uguaglianza, e averli corretti l'uno con l'altro, noi passiamo a immaginarne uno tanto corretto ed esatto da non essere soggetto al minimo errore o cangiamento. Lo stesso principio ci spiega facilmente l'opi­nio­ne dell'esistenza continuata dei corpi. Gli oggetti hanno una certa coerenza anche come si manifestano ai nostri sensi; ma questa coerenza è maggiore e pi�� uniforme, se supponiamo che gli oggetti abbiano un'esistenza continuata: la mente, una volta che è sulla via di osservare l'uniformità degli oggetti, continua naturalmente, finché rende questa uniformità, per quanto è possibile, completa. La semplice supposizione di una loro continuata esistenza basta a tale scopo, e ci dà la nozione di una regolarità molto maggiore di quella che gli oggetti hanno quando non spingiamo lo sguardo oltre i nostri sensi". ("Trattato sulla natura umana", I, Parte IV, sez. 2, trad. it. in Opere, I, a cura di E. Lecaldano e E. Mistretta, Laterza, Bari 1971, pp. 209-212). 9 Sintesi percettive e considerazioni temporali: illustrazione del "diagramma del tempo" di Husserl. Adottando la terminologia di Husserl, potremmo parlare di ritenzione e di protenzione per indicare il modo in cui sono percetti­ vamente implicate nella percezione attuale le scene trascorse e le scene anticipate. Delle prime diremo che sono ritenzionalmente presenti, delle seconde che esse lo sono protenzionalmente. Considerazioni di ordine temporale debbono dunque in­ tervenire a questo punto della nostra esposizione. In certo senso dobbiamo chiarirci le idee sul concetto di tempo o, più precisa­ 56 mente - e più limitatamente sul modo in cui deve essere con­ cepita la dimensione temporale del presente in quanto essa è messa in questione dai processi percettivi. Questa discussione, che anche in questo caso intendiamo riprendere nella forma più succinta possibile, può essere ampiamente semplificata se dia­ mo ad essa la forma di una discussione intorno alla costruzione di una possibile rappresentazione della struttura del presente. Il suggerimento da cui questa costruzione deve prendere le mosse, il suggerimento, cioè, contenuto nell'assunzione di una presenza effettiva che comprende tuttavia una presenza ritenzionale e una presenza protenzionale, tende a mettere in rilievo il fatto che il presente deve essere concepito in primo luogo come un presente esteso. Ciò non deve essere inteso come se non fosse affatto lecito parlare, nel nostro contesto, di un presente istantaneo: al contra­ rio, proprio al presente istantaneo riferiremo la scena attuale: ciò che mi sta di fronte proprio ora. Ma esso dovrà essere concepito, dal punto di vista temporale, come una sezione di un decorso ritenzionale-protenzionale. La rappresentazione mediante una linea sembra dunque imporsi come ovvia. Potremmo interpretare i punti di cui essa consta come istanti, e intendere questi punti-istanti come limiti. Ma si vede subito che in realtà questa rappresentazione è assai poco significativa ed in realtà fuorviante. Infatti, ciò che verreb­ be rappresentato in questo modo è, tutt'al più, un tratto temporale - e non ciò che intendiamo qui parlando di presente esteso. Di conseguenza un punto in essa rappresenterebbe certamente un istante, ma non ciò che intendiamo parlando di presente istan­ taneo. La rappresentazione di un tratto di tempo inteso come successione di istanti non può fare al caso nostro. In essa vie­ ne meno proprio la determinazione soggettiva del presente che è per, noi essenziale. Da un punto di vista oggettivo, parlare di un presente, come del resto del passato e del futuro, non ha senso alcuno. Quando entrano in questione le dimensioni tempora­ 57 li, un richiamo soggettivo è necessariamente implicito: il tempo non consta di esse, ma di puri e semplici luoghi temporali. La rappresentazione di un tratto temporale mediante una linea rap­ presenta dunque l'oggettività del tempo, nel quale ogni istante è un luogo ben determinato. Ma proprio per questo in quella rappresentazione non vi può essere alcuna traccia del presente. Il vero problema non sta affatto nella contrapposizione di istanti ad una "durata" nella quale non sarebbero distinguibili punti di tempo: ma nella chiara identificazione del rimando soggettivo in rapporto al quale soltanto ha senso parlare di un presente. E naturalmente anche di un presente istantaneo. In questo istante. Proprio ora. Potremmo allora servirci ancora di una linea, tua modifi­ cando anzitutto il modo della sua interpretazione. Anziché come una successione di punti, potremmo intenderla come l'immagi­ ne di un movimento. Il punto, cioè il presente istantaneo o, nella terminologia di Husserl, il "punto-ora", avanza e progredisce, e in questo modo genera la linea: il presente che si estende. Una rappresentazione per il presente comincia così a prendere forma. Ma si tratterebbe certamente ancora di una rappresenta­ zione incompleta. L'ora attuale passa e noi dobbiamo associare alla linea progressiva del punto-ora che avanza la linea regressiva del punto-ora che passa. In questa figura manca ancora una rappresentazione per la pre- 58 senza ritenzionale, per ogni punto-ora, dei punti-ora trascorsi. Ciò potrebbe avvenire, di conseguenza, in questo modo: F Abbiamo così sotto gli occhi il "diagramma del tempo" che Hus­ serl presenta nelle sue Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo [6]. Dopo quanto si è detto, la sua interpretazione è ovvia. Nell'istante in cui è presente la scena B, la scena A è ancora ritenzionalmente presente, e così anche tutte le scene comprese nella sequenza tra A e B: il loro luogo temporale, ben determina­ to nel tratto di tempo, si proietta tuttavia sulla linea verticale della presenza ritenzionale; e perciò, in questa proiezione, esso varia di continuo al variare del punto-ora nel movimento progressivo del presente. Qui il tempo "fluisce" e fluisce, per così dire, nelle condizioni di una sempre possibile fissazione ed obbiettivazio­ ne. Ogni punto temporale in quanto istante occupa un luogo fis­ so nel tempo oggettivo; in quanto presente istantaneo è sottoposto ad una variazione continua dei propri "valori ritenzionali". "Il tempo è rigido, e tuttavia fluisce - il tempo" [7]. E questa dialettica elementare del tempo non è affatto un grande mistero: la possiamo infatti mostrare in una figura, fornendo le spiega­ zioni necessarie. La figura, d'altro lato, ci è utile anche per mostrare - si badi bene l'astrattezza dello schema proposto. Siamo qui evi­ dentemente ben lontani da ogni tentativo di portare alla luce una qualche sensazione interiore dello scorrere del tempo, di far valere una nozione di tempo "vissuto" da contrapporre ad una 59 nozione di tempo reificata dalle forme del pensiero. È già del resto abbastanza significativo che nella rappresentazione effet­ tuiamo qualcosa di molto simile ad una costruzione geo­metrica; e di fatto Husserl, nel proporre il proprio diagramma, è guida­ to dall'immagine delle coordinate cartesiane [8]. Così, quando egli parla del punto-ora come punto-origine (Quell­punkt), è ancora quell'immagine che determina una simile scelta terminologica. Si comprende allora, in particolare, quanto sarebbe erroneo tentare di attribuire alle variazioni dei valori ritenzionali un significato psicologico che debba essere in qualche modo determinato ri­ correndo ai "dati dell'intro­spe­zione". 10 Condizioni formali e fondamento contenutistico delle sintesi. Per chiarire meglio in che modo la tematica temporale deve es­ sere richiamata in rapporto alle sintesi della percezione è tuttavia opportuno porre l'accento su un aspetto che, per quanto sem­ pre presente nelle considerazioni precedenti, merita ora di esse­ re portato al centro dell'attenzione. La posizione, attraverso le scene, di un oggetto fatto così e così, viene effettuata sulla base di ciò che vediamo in esse, quindi sulla base dei contenuti che esse presentano nel loro dispiegarsi. Questo dispiegamento assume il carattere di un effettivo sviluppo proprio in quanto vi è un trapassare di una scena nell'altra, una progressiva assimilazione tra esse. In questa coesione si istituisce una norma, che dovrà essere intesa come interamente interna al processo. Ciò significa che quando una sintesi ha luogo, deve esserci un fondamento contenutistico per essa: nessun soggetto "sintetizzatore" potrebbe far 60 sorgere legami laddove non ce n'è alcuno. Proviamoci del resto a supporre che ci si presentino varie scene fra le quali non sussiste alcun momento di coesione. L'una non ha nulla a che vedere con l'altra, la sequenza non mo­stra alcuna norma: ora vi è di fronte a me la parete della stanza - ma volgendo lo sguardo un poco a sinistra mi appare una notte stellata. ancora più a sinistra un paesaggio marino... Ed a questo punto non si tratta tanto di dubitare se alla fine ritroverò ancora la parete alle mie spalle, o del resto quella che era prima di fron­ te a me, quanto piuttosto se io non sia divenuto, mio malgrado, preda dell'immaginazione. Forse stiamo sognando [9] . Una reazione certamente ovvia ma, almeno per noi, ricca di significato. Forse stiamo sognando : cioè, per quanto possano essere vivaci le immagini che mi si presentano, può ben sorgere, in que­ ste condizioni, il dubbio che nessun esistente in realtà sia posto in esse: la "credenza" tende ad allentarsi o a venire del tutto meno. Forse si tratta soltanto di immagini. L'effet­tuazione di posizioni d'essere deve essere annoverata fra le caratteristiche interne della percezione: nello stesso tempo, questa effettuazione è stretta­ mente vincolata alla norma che si istituisce nelle sintesi. Acca­ de così che, qualora nessuna norma si manifesti nella sequenza, qualora dunque venga meno la coesione, contenutisticamente fondata, che conduce a risultati sintetici, tendiamo già per que­ sto fatto a mettere in questione l'esserci stesso di ciò che viene presentato, e dunque a dubitare che il decorso percettivo sia un decorso percettivo autentico. A partire di qui possiamo mettere in evidenza un'altra circo­ stanza interessante. Comunque ne sia dei nostri dubbi, possiamo forse ritenere che, in assenza di unificazioni contenutisticamente fondate, non vi sia in generale nessuna unificazione? Certamente le cose non stanno così. Infatti, per me le scene formano ancora un'unità, benché in senso meramente temporale. Non possiamo forse raccontare ciò che ci è accaduto? Prima abbiamo "visto" questo, poi quest'altro e quest'altro ancora. 61 Ed allora è chiaro che, considerando in generale la tematica delle sintesi percettive, dobbiamo operare una netta distinzione tra ciò che spetta alla competente contenutistica e ciò che spet­ ta invece alla componente temporale. Prescindendo da qualun­ que considerazione di ordine contenutistico può ancora darsi una unità temporale. Oppure, che è lo stesso; è sempre possi­ bile "astrarre" dai fondamenti contenutistici delle sintesi, man­ tenendo tuttavia, e in questa astrazione, l'unità temporale del­ la sequenza. Inversamente è necessario sottolineare che questa unità è necessariamente presupposta per l'effet­tuazione delle sintesi contenutistiche della percezione. Come potremmo infatti illustrare la situazione in cui non si dà alcuna unificazione temporale? Evidentemente ciò signi­ fica semplicemente che le funzioni ritenzionali non sono ope­ ranti. Quando appare una scena, la scena precedente è passata, per così dire, in senso assoluto: è sprofondata in un abisso (po­ tremmo tentare di spiegarci così). In queste condizioni nessuna unificazione potrebbe aver luogo, nemmeno nel caso della più completa prossimità contenutistica delle scene tra loro. L'unificazione temporale deve dunque valere come condizione formale delle sintesi percettive in genere. Con una espressione più concisa potremmo parlare del tempo come forma delle sintesi [10]. Questo stesso problema può essere ripresentato da un altro punto di vista che non è del tutto privo di interesse. Per spie­ garci abbiamo ipotizzato or ora la caduta dei nessi ritenzionali. Ma in luogo di ciò e con lo stesso scopo illustrativo potremmo ipotizzare che al mutare della scena muti anche l'io a cui essa si presenta: l'io diventa di continuo un altro. Una situazione simi­ le è certamente difficile da immaginare, e persino da intendere: ma ciò del resto vale anche in rapporto al caso precedente. In entrambi non si tratta in realtà di formulare un'ipotesi, ma di proporre una finzione che ha il solo scopo di mettere in chiaro i termini del problema. In rapporto ad essa diventa subito chiaro 62 che a titolo di condizione formale delle sintesi deve essere presup­ posto anche il permanere identico del soggetto che effettua l'esperien­ za. Se questa condizione non è soddisfatta non può darsi alcu­ na sintesi, così come del resto non è possibile alcuna continuità ritenzionale in rapporto alle esperienze di soggetti diversi. La frammentazione dell'identità soggettiva può assolvere la stessa funzione esplicativa della caduta dei nessi ritenzionali. Si tratta di due modi equivalenti di formulare lo stesso problema: parlare di uno sprofondamento abissale della scena anteriore equivale alla finzione di un "io variopinto", di una scissione assoluta dell'io, di una sua assoluta dispersione. Se poi diciamo, di conseguenza, che l'identità soggettiva rappresenta il presupposto di ogni percezione (e di ogni espe­ rienza) possibile, sorge l'apparenza che ci si avventuri in arri­ schiate speculazioni. Ma non è così. Dobbiamo solo ammettere che c'era qualcosa di vero nel principio kantiano: "L'io penso deve poter accompagnare tut­ te le mie rappresentazioni". Si tratta tuttavia, secondo il modo in cui lo citiamo ora e lo interpretiamo, di una verità piccola piccola, contrariamente a quanto pensava Kant. Nonostante le profonde oscurità e le complicazioni con cui egli avvolge la sua discussione vi è tuttavia una base elementare da cui egli prende le mosse ed a cui potremmo anche essere interessati. Essa diven­ ta chiara prestando attenzione ad alcuni dettagli dell'e­spo­sizione: ad esempio, quando Kant osserva che nel tracciare una linea, essa c'è per me solo se viene mantenuta l'unità di questa azione, quindi l'unità della soggettività che la effettua (Critica della ragione pura, §17). Oppure quando egli nota che qualora la molteplicità delle rappresentazioni non fosse data nell'unità pre­supposta di una coscienza, l'io stesso si dissolverebbe in questa moltepli­ cità, diventerebbe un io "variopinto", come sono variopinte le rappresentazioni (§ 16). Sarebbe tolta allora la possibilità di ogni sintesi, e nello stesso tempo di ogni posizione di oggettività attra­ verso le mie rappresentazioni (§19). Ma se nell'in­ter­pretazione di 63 quel principio approfittiamo essenzialmente di indicazioni come queste, riportandole all'interno della nostra problematica dell'i­ dentità soggettiva come condizione formale, non c'è dubbio che operiamo di essa una sorta di riduzione ai minimi termini. Kant si avventura invece in arrischiate speculazioni. Alla loro base vi è l'errore consistente nella mancata divaricazione tra il piano dell'esperienza e il piano della conoscenza. È in fondo ancora piuttosto ovvio che, se riconduciamo all'as­surdo la nozione di esperienza attraverso la finzione di un io variopinto, ne va di mezzo, insieme alla possibilità di effettuare e­spe­rienze, anche quella di effettuare conoscenze. Ma di qui a fare della costanza soggettiva "il princi­ pio supremo della conoscenza umana", ne corre. Questo errore del resto fa parte del­l'impianto di principio della Critica della ragione pura. La questione della possibilità della metafisica propone un'in­dagine orientata in direzione di una dottrina della scienza: ma i problemi che si pongono su questo piano vengono sen­z'al­­ tro trasposti in pro­blemi concernenti la struttura dell'espe­rienza. Le condizioni di possibilità dell'esperienza debbono allora es­ sere proiettate direttamente sul piano epistemologico. Invece è necessario, riprendendo i nostri temi iniziali, sottolineare che il problema del costituirsi per noi di oggettività date nell'e­spe­ rienza è di tutt'altro genere rispetto alla problematica di ciò che è posto in essere dalle funzioni propriamente conoscitive. 11 Digressione: il richiamo alla storicità dell'esperienza e i modi in cui può essere inteso. Ad alcuni potrà sembrare che ammettendo che la soggettività rappresenti una condizione formale delle sintesi si conceda trop­ po alla parte che essa svolge nella percezione. Ad altri invece che si conceda troppo poco. Ed è in realtà proprio que­st'ul­tima posizione, più che la prima, che pone dei problemi che meritano 64 di essere presi in considerazione. È chiaro infatti che parlando di condizione formale si fa una concessione minima, e se pensiamo che anch'essa debba essere tolta di mezzo, ci si deve chiedere se non sia il caso di togliere di mezzo l'intero ambito dei nostri pro­ blemi. A parte ogni altra considerazione, infatti, occorre ricono­ scere che il momento soggettivo fa parte della stes­sa nozione di esperienza, a meno che non si voglia fin dall'inizio pregiudicarla in una direzione speculativa. contro, vari dubbi, e bene argo­ mentati, potrebbero essere proposti per mostrare che da questa impostazione iniziale non sembra lecito attendersi sviluppi che sappiano rendere conto dell'intera ricchezza delle forme e dei modi dell'esperienza. Infatti si comincia qui con il sottolineare che i momenti strutturanti dell'espe­rienza percettiva stanno tutti dalla parte dei contenuti fenomenologici, mentre rispetto ad essi la soggettività si limiterebbe a svolgere il ruolo di un vuoto sup­ porto. Invece, non appena consideriamo una situazione percet­ tiva concreta, essa si presenta secondo un'orientazione che mette certamente in gioco una rete di rapporti che hanno la loro origine nella vita di esperienza complessiva della particolare soggettività che la effettua. nsiamo anche in questo caso a situazioni esemplificati­ ve molto semplici. Camminando per la via, un dolce suono mi colpisce, mi attrae, per così dire, nella sua sfera. Qui, in fondo, po­ tremmo ancora parlare di passività, dalla parte del soggetto, per­ ché esso si trova in ogni caso sotto l'azione della cosa. Ma questa azione come potrebbe essere interpretata se non mettendo in questione proprio, vorrei dire, la mia esperienza di vita? Del resto, il mio amico, qui accanto, non si è accorto di nella, in tutto que­ sto frastuono. Quel suono, a dire il vero, si ode appena: eppure ormai si trova per me al centro della scena, e tutto il resto ai suoi margini. Usiamo qui gli stessi termini di prima, tuttavia, come è chiaro, secondo uno spostamento di significato indotto da una situazione descrittiva interamente diversa. Ciò che determina la differenza tra centro e margini non è più soltanto una direzione della percezione, ma un'orientazione soggettiva del­l'in­tero cam­ 65 po percettivo. Qui la soggettività non può valere soltanto come una rarefatta condizione formale. Se ci limitiamo a mettere in rilievo solo questo aspetto, sembra che ci precludiamo in via di principio la considerazione della rete di rapporti in cui l'esperien­ za percettiva è di fatto sempre inserita e che rinvia a dinamismi complessi di natura emotiva, immaginativa, a interessi, tensioni e motivazioni di ogni genere, in tutte quelle differenze e varietà che dipendono, infine, dal­l'integrazione dei singoli soggetti in un orizzonte storico-culturale. oprio la buona fondatezza di questa osservazione esige che siano fissati con chiarezza i limiti della problematica che stiamo tentando di delineare. Ciò che occorre mettere in rilievo in primo luogo è che in quella osservazione la nozione di "dato percettivo" subisce una significativa modifica­ zione di senso, già indicata a sufficienza dal fatto che qui possia­ mo parlare di qualcosa che ci colpisce. Non vi è dubbio allora che siano operanti funzioni di integrazione che non riguardano sol­ tanto, come dicevamo in precedenza, il dispiegamento delle sce­ ne e i loro rapporti interni, ma che richiedono la considerazione delle circostanze entro cui la percezione viene effettuata. Queste circostanze, di volta in volta particolari, determinano differenze all'in­terno dell'ap­pren­sione dei materiali percettivi che non pos­ sono in alcun modo essere analizzate unicamente sulla loro base. Potremmo dire, in breve, che sono chiamate in causa le storie personali dei soggetti singoli: dunque non soltanto l'esperienza percettiva in quanto tale, intesa per di più come esperienza at­ tuale, ma l'esperienza nella sua accezione lata, considerata nelle interazioni dinamiche tra le varie modalità in cui essa si esplica e si è esplicata. Il richiamo alle storie personali è un richiamo alla vita di esperienza dei singoli ed ai modi di rapportarsi al mondo che in esse si sono costituiti e, nello stesso tempo, un richiamo alla storicità intersoggettiva di cui quelle storie sono integral­ mente partecipi. Una dottrina dell'esperienza non può certamente non tener conto di tutto ciò. Ma sarebbe sbagliato pretendere che essa co- 66 minci con il proporre senz'altro la determinatezza storica dell'e­ sperienza come il suo problema elementare. Infatti la tematica che può essere ricondotta sotto questo titolo presenta un grado di complessità che può essere concretamente affrontato solo se sono stati messi preliminarmente in chiaro alcuni presupposti che contribuiscano ad una sua precisa localizzazione. Il metodo che ci proponiamo di seguire non toglie affat­ to la possibilità di estendere in ogni direzione i propri problemi, ma richiede anzitutto l'impiego di procedure analitiche capaci di operare le restrizioni necessarie ai fini di una loro precisa messa a fuoco. Così noi prendiamo le mosse dalla "esperienza sensibi­ le" - da una restrizione all'interno della nozione di esperienza. E non abbiamo cominciato invece con l'asserire che, in concreto, qualunque esperienza percettiva si propone sempre in circostan­ ze particolari ed è inestricabilmente intrecciata con esperienze di altro tipo. Ciò è indubbiamente giusto: ma quando parliamo di questi intrecci, ad esempio con stati emotivi, con tensioni prati­ che o addirittura con l'ambito delle "opinioni implicite" che fan­ no parte di "concezioni del mondo" personali-intersog­gettive, dobbiamo in ogni caso sapere con sufficiente chia­rezza che cosa è stato intrecciato. Prima dobbiamo aver distinto qualcosa. Tuttavia sarebbe riduttivo, anche dal nostro punto di vista, limitare la questione alla vecchia norma dell'analisi che procede dal semplice al composto, dal più elementare al più complesso. In effetti nel mettere in rilievo la tematica del fondamento con­ tenutistico delle: sintesi, operando una vera e propria emargina­ zione del momento soggettivo abbiamo di mira anche un pre­ ciso obbiettivo critico: la legittima richiesta di una storicizzazione può ben presto assumere come proprio presupposto implicito la totale irrilevanza del materiale ai fini della strutturazione di un mondo di esperienza, secondo una tendenza latente in un modo di pensare empiristico. Il gesto empiristico che, con grande aper­ tura mentale, attribuisce ogni formazione di esperienza alle sue eventualità, conduce direttamente ad una storicizzazione che 67 può essere veramente radicale solo perché poggia su un assunto immaterialistico. L'emar­ginazione iniziale della soggettività, ridotta al minimo di con­dizione formale delle sintesi, vorrebbe invece essere un modo di far valere una istanza materialistico-oggettivistica nello stesso ambito di una "dottrina dell'espe­rienza" - ovvia­ mente, m un'accezione che non sia tale da cancellare la sensa­ tezza dei suoi problemi. Il riconoscimento delle sintesi interne al materiale fenomenologico come tale è d'altro lato essenziale per impostare correttamente i problemi dell'in­cidenza del fattore storico-culturale. Che si tratti appunto di un'incidenza - questo è il punto che deve essere vivacemente sottolineato. Vi deve dun­ que essere qualcosa su cui sia possibile incidere e i nodi di questa incidenza debbono poter essere chiaramente indicati. Abbiamo bisogno di stabilire, ad esempio, che vi sono regole della visio­ ne tridimensionale che dipendono da condizioni interne alla dimensione puramente fenomenologica di presentazione della cosa (e che del resto poggiano sulla "fisica" della percezione) per poter mettere in rilievo la determinatezza storica delle rego­ le della rappresentazione tridimensionale e degli stessi modi di vivere l'esperienza della spazialità come un'esperienza carica di emozioni, di immaginazioni, di opinioni e di prese di posizione, in breve come un'esperienza ricca di cultura. 12 Lo stesso problema orientato in un altro senso. L'osservazione che ha dato l'avvio al nostro chiarimento potrebbe tuttavia ripresentarsi in una forma un poco modifica­ ta e con un diverso obbiettivo critico: in luogo di aver di mira la rivendicazione dell'integrazione della percezione in altri modi di esperienza, sullo sfondo del problema della determinatezza storico-culturale dell'esperienza in genere, si potrebbe porre in 68 rilievo l'isolamento operato dalla tematica a percezione per met­ tere in dubbio lo stesso compito di una dottrina dell'espe­rienza fenomenologicamente orientata, in quanto essa non sarebbe per sua natura in grado di raggiungere la dimensione della concretezza esistenziale. Da questo punto di vista, risulterebbe allora significativo proprio il fatto che agli inizi non riusciamo a far altro che teoriz­ zare una nozione di soggettività che si presenta esplicitamente come un'astrazione vuota. Di fronte ad essa vi sono poi le no­ stre pretese scene percettive che sono esse stesse a­stra­zioni, dal momento che qualcosa di simile ad una percezione pura e sem­ plice può essere ottenuta solo astraendo dalle tonalizzazioni pra­ tico-emotive in cui ogni concreto atto percettivo è intessuto. Se non siamo consapevoli di ciò, prima o poi arriveremo a formula­ re una nozione di mondo come "mondo di cose", come mondo cioè di enti che se ne stanno li di fronte a noi per essere osservati e conosciuti, portando alla luce nelle sue conseguenze la limitatezza di principio di un punto di vista che non è stato sufficientemente radicale nel rifiuto della subordinazione della propria tematica al problema della conoscenza. Questo rifiuto dovrebbe indur­ ci ad abbandonare lo stesso obbiettivo dell'in­dagi­ne: essa deve cessare di essere soltanto un'analitica dell'espe­rienza, che richiama anche troppo da vicino la tradizionale impostazione filosofica della teoria delle facoltà, per assumere il carattere di un'analitica dell'esistenza, cioè di un'a­nalitica che si proponga di mettere in chiaro i modi concreti di essere nel mondo. Il conoscere stesso, di cui in fondo l'atteg­giamento percettivo-contemplativo rap­ presenta il modello primitivo, non potrà che essere considerato esso stesso che come un modo di essere fra gli altri, che non può godere alcun particolare privilegio. Tanto meno potrà godere un particolare privilegio una nozione della cosa proposta come un ente costituito nelle sue determinazioni oggettive, come la stessa distinzione iniziale e i nostri primi sviluppi farebbero intrave­ dere. Già nella dimensione quotidiana, che del resto è la prima 69 che dovremmo considerare assumendo questo punto di vista, abbiamo sempre a che fare con strutture di rimandi, con l'istitu­ zione di nessi di tutt'altra natura rispetto alle "sintesi percettive". Si tratta piuttosto di rimandi di adeguatezza o inadeguatezza, di conformità o difformità rispetto a scopi, che concatenano in unità di significato sempre più ampie cosa a cosa come il martel­ lo rinvia al chiodo e il chiodo al martello, e l'uno e l'altro al legno da inchiodare e questo al tavolo progettato che, del resto, sarà percepito innanzitutto e per lo più come un piano di appoggio. Rapporti dunque tra le cose che tuttavia, intesi in questo modo, non possono che essere istituite dall'unica cosa che può in gene­ rale porre funzioni e scopi: l'uomo. Il quale poi non è affatto una cosa, proprio perché può attribuire funzioni e scopi alle cose; e queste del resto, proprio perché sono poste entro funzioni e sco­ pi, nemmeno esse sono propriamente cose ma, come ben videro i greci che non chiamavano "cose" le cose, ma "pragmata", sono, nell'accezione più generale che possiamo pensare, degli utensili. Oppure: degli utilizzabili [11]. Che dire di tutto questo? In realtà, nonostante la modifica­ zione della forma e la diversità degli obbiettivo e degli sviluppi che di qui potrebbero essere tratti le nostre precisazione prece­ denti ci mettono in grado di prendere posizione anche di fronte a questa obiezione, in modo certamente altrettanto som­mario quanto è sommario il modo in cui essa è stata riferita. Naturalmente non possiamo che ribadire la necessità, che abbiamo teorizzata fin dall'inizio, di sottrarre l'indagine ad una subordinazione alla problematica epistemologica. Tuttavia, il radicalismo qui rivendicato in base al quale sarebbe necessario l'abbandono dello stesso piano di una dottrina dell'esperienza, per passare ad un punto di vista interamente diverso, ci sembra privo di fondamento. Il fatto che noi ci veniamo a trovare in prossimità della te­ matica tradizionale della teoria delle facoltà e che questa tematica sia stata per lo più presa in considerazione dal punto di vista del 70 problema della conoscenza, non può valere come un buon argo­ mento. È evidente invece che se viene proposta la sostituzione tra esperienza e esistenza, tra modi di essere e modi di esperienza, essa non può valere come una sostituzione di pure e semplici varianti terminologiche, ma alla differenza terminologica dovrebbe esse­ re sottesa una differenza concettuale ineliminabile. Eppure l'un termine, nella sua genericità, potrebbe indubbiamente valere all'incirca quanto l'altro: un modo d'es­sere, come noi potremmo essere anche disposti ad impiegare questa espressione, si costitu­ isce e non può che costituirsi sulla base di esperienze. Che cos'al­ tro può voler dire vivere, esistere, essere nel mondo o comunque ci si voglia esprimere, se non fare esperienze? Invece, la contrap­ posizione ci fa pensare che si voglia conferire una pregnanza al termine di "esistenza" che potrà essere sostenuta solo al prezzo di speculazioni troppo profonde. Del resto, la sottolineatura del "conoscere" come modo d'essere appare lontana dalle motiva­ zioni analitiche elementari sulla base delle quali abbiamo ritenuto di poter indicare l'autonomia della problematica dell'esperienza, ed anzitutto dell'esperienza sensibile, mentre appare orientata nel senso di un'accentuazione di un'analitica dell'esistenza come compito eminentemente filosofico di fronte al quale i problemi più propriamente attinenti all'ambito di una dottrina della scienza a­vreb­bero un'importanza del tutto secondaria. Quanto poi a richiamare l'attenzione sulle tonalizzazioni pratico-emotive, quindi su una nozione di soggettività che certo non potrà essere intesa come pura e semplice condizione for­ male, di ciò abbiamo già detto: evidentemente nulla ci impedisce di sottolineare la complessità da cui può essere attraversata una situazione percettiva tenendo conto della intelaiatura di circo­ stanze in cui essa è inserita. Ma proprio da questo punto di vi­ sta, l'affermazione secondo cui tutto ciò che vediamo è sempre tonalizzato in senso pratico-emotivo è assai meno ricca di senso di quanto potrebbe sembrare ad un primo sguardo. Da un lato essa non è affatto in grado di togliere effettivamente di mezzo la 71 tematica puramente percettiva della costituzione di formazioni oggettive, dall'altro dissolve in una vaga generalità la complessità determinata delle situazioni esperienziali concrete. Vogliamo raccontare a questo proposito una piccola storia - una breve sequenza di scene, dove la parola ha proprio il senso che essa ha nello sviluppo di un'azione teatrale. Il "soggetto" qui entra in scena e recita la sua parte. Non è spettatore, ma appunto attore. Egli se ne sta seduto, a notte fonda, accanto al caminetto acceso, immerso nella lettura. Ad un certo punto, è colpito da un rumore di passi che viene dall'esterno. Tende l'orec­chio. Ora si sente armeggiare alla finestra, finché si ode distintamente il ru­ more di un vetro infranto. Ed in simili circostanze è comprensi­ bile che un'inquietudine crescente si accompagni a quei rumori. Attraverso di essi si annuncia una minaccia. Si profila l'aggres­ sore. Bisogna fare qualcosa. L'attore si guarda intorno e afferra l'attizzatoio. Ecco un modo ben diverso di volgere lo sguardo intorno nella stanza! E forse qui possiamo comprendere, nell'avvi­cen­ darsi delle scene, che cosa possiamo intendere con una visione pratico-emotiva. All'inizio, l'attore è immerso nella lettura, ha di fronte agli occhi le pagine del libro e di scorcio vede anche altre cose, che del resto non guarda. E non guarda nemmeno, naturalmente, le pagine del libro, dal momento che egli legge, e non è intento ad osservare i caratteri tipografici o la grana della carta. Il rumore che lo colpisce fa regredire ai margini l'interesse per il contenuto del libro, così come per ogni altra scena visiva. Il rumore: tutto l'interesse percettivo si concentra in questa dire­ zione. Quei rumori sono coerentemente con­ca­tenati tra loro - sono rumori di passi che si avvicinano e tanto più essi diventano inquietanti quanto più la concatenazione rafforza l'inter­preta­zio­ ne affiorata. La tensione emotiva che investe le scene sonore si converte quindi nell'interesse pratico di una reazione difensiva ad un'aggressione divenuta ormai certa. E se finalmente l'attore si guarda intorno, questo sguardo è totalmente determinato da 72 questa intenzione pratica: tutto ciò che sta intorno viene risuc­ chiato in essa. L'aspetto della stanza è interamente mutato. Che cosa vorrebbe dire allora affermare in generale che ogni visione è una visione pratico-emotiva? Una simile affermazione può avere senso solo se poi riesce a specificarsi in modo deter­ minato - ma proprio la sua specificazione, come mostra la nostra piccola storia, che per il resto lascia il tempo che trova, richie­ de che si distingua tra lo strato del percepire e le tonalizzazio­ni pratico-emotive che possono inerire ad esso e che si metta in evidenza il fatto che tali tonalizzazioni sono esse stesse risultan­ ti di un complesso gioco di circostanze interne ed esterne che forniscono le loro connotazioni specifiche, determinando il senso particolare dell'utilizzabilità. Perciò dobbiamo poter parlare di una scena che prima era priva di quelle tonalizzazioni da cui poi essa è stata investita. Ma l'attizzatoio non era comunque, anche prima, un attiz­ zatoio, e quindi un utilizzabile? Naturalmente. Il fatto è che si può sempre immaginare uno scopo rispetto al quale qualcosa assuma carattere di mezzo. Tuttavia, se voglio mostrare un og­ getto nero, potrò indicare, in mancanza di meglio, un attizzatoio: ed è del tutto indifferente che qualcuno pensi tra sé: "Se ci fosse un fuoco!". Così se mostro ad un amico un disegno, può anche darsi che egli reagisca a botta calda dicendo: "Ebbene, che me ne faccio?". Ma può anche essere che egli si limiti a guardarlo. 73 13 Tematica del fondamento contenutistico delle sintesi - L'in­ter­ dipendenza delle parti negli interi percettivi. Riprendiamo ora il filo dei nostri problemi che è rimasto interrotto nel punto in cui avevamo operato la divaricazione tra il problema delle condizioni formali delle sintesi e quello del loro fondamento contenutistico. Una significativa conseguenza di questa divaricazione consiste nel fatto che in una considerazione più ravvicinata del problema del fondamento contenutistico possono senz'altro essere messe da parte considerazioni relative al momento, processuale dei decorsi percettivi. Ciò non deve far pensare che intendiamo anche solo attenuare le considerazioni precedenti sul legame tra processualità delle scene e l'istituzione del riferimento oggettivo come risultato sintetico. Tutto ciò è tanto poco in discussione che lo diamo ormai per scontato. Si tratta piuttosto di proporre una nuova angolatura dalla quale considerare le unificazioni percettive, mettendo appunto in risalto la parte che in esse svolge il materiale stesso, e dunque indipendentemente dalla forma del processo. In fin dei conti se consideriamo l'esempio a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza: indipendentemente dal suggerimento di considerare quelle figure come la rappresentazione della rotazione di una superficie triangolare, sulla carta vediamo comunque ancora qualcosa, e preci- 74 samente una successione di triangoli che segue una determinata norma, e nel mezzo, una linea che è del resto coerente con quella norma. Noi diremmo naturalmente che anche ora certe sintesi hanno luogo - il problema delle connessioni sintetiche è stato ora proiettato da un piano dinamico ad un piano statico. Ciò non significa tuttavia che ogni dinamismo sia escluso: al contrario, possiamo in questo modo mettere più chiaramente in evidenza che i dinamismi di cui ci dobbiamo occupare riguardano proprio e soltanto le cose che ora vediamo, nelle loro determinatezze contenutistiche. Si può forse aggiungere che, in certo modo, il mutamen­ to di angolatura del problema impone una modificazione corri­ spondente della nostra terminologia. Ora infatti con "scena per­ cettiva", e quindi con "fenomeno", non intendiamo più i modi di manifestazione della cosa, ma la cosa stessa che si manifesta. Che essa si presenti secondo aspetti determinati, ad e­sempio, dalle relatività del punto di osservazione, quindi secondo feno­ meni nella nostra accezione precedente, tutto ciò è ormai fuori discussione. In un passo delle Ricerche logiche, Husserl osserva che "non si insisterà mai abbastanza sulla equivocità che consente di de­ signare come fenomeno non soltanto il vissuto nel quale l'og­ getto si manifesta, ma anche l'oggetto che si manifesta come tale" [12]. Ma è anche ovvio che questa possibilità è realmente equivoca solo quando sulla sua base si fanno confusioni - come può certamente accadere. Noi invece approfittiamo di essa per dare forza alla tesi secondo cui qualunque cosa che appare, quindi ogni fenomeno, nella nuova accezione, è esso stesso un risultato sintetico: esso è dato in ciò che presenta sempre secondo modi determinati di organizzazione e di articolazione. Benché in realtà una simile affermazione sia coerente con la posizione critica nei confronti di un modo di pensare empiri­ stico che è già affiorata più di una volta, tuttavia per chiarire la natura del problema è utile ricollegarsi alla nozione di associazio- 75 ne di origine empiristica, inserendola in un contesto e secondo un'interpretazione del tutto diversa. Che cosa vi è infatti che si trovi più a portata di mano per illustrare la tematica delle sintesi percettive così come la stiamo proponendo delle classiche regole della somiglianza e della contiguità? Solo che queste regole non do­ vranno essere intese anzitutto come riferite a contenuti mentali in genere, fra i quali saranno annoverate sia le impressioni che le idee, ma come una indicazione del sussistere in generale di connessioni interne alle cose nella misura in cui esse sono date percettivamente. Pensiamo alla contiguità, con la quale possiamo intendere, ad esempio, la vicinanza spaziale di due figure su un foglio di carta. L'una si trova accanto all'altra - ma è chiaro che questa prossi­ mità nella localizzazione rappresenta per noi un buon esempio di tendenza sintetica interna alla scena. Se prendiamo tre figure A, B e C tali che B sia più vicina ad A di quanto lo sia a C potrem­ mo addirittura parlare, rispetto a B, di una tendenza sintetica orientata a sinistra, cioè verso la figura A, piuttosto che verso destra, cioè verso la figura C. Esprimendoci in questo modo risulta subito chiaro il senso del richiamo ai dinamismi interni della scena percettiva e alle sintesi che in essa hanno luogo. Così potremo ancora osservare che una tendenza sintetica può essere in vari modi rafforzata, ad esempio, per restare alle anche troppo semplici regole classiche dell'associazione, dalla somiglianza della forma tra A e B, e ulteriormente rafforzata dalla somiglianza, oltre che della forma anche del colore. Naturalmente una tendenza sintetica potrà essere indebolita in vari modi - ma ogni indeboli­ mento non dovrà essere inteso come un'attenuazione dei legami percettivi, ma come determinata dall'azione di controtendenze sintetiche, di tendenze cioè orientate in un'altra direzione. L'intera scena percettiva - ed ogni dato percettivo neces­ sariamente parte di una scena percettiva - è dunque sempre un risultato delle azioni delle tendenze e controtendenze. Questo risultato è determinato dalle qualificazioni specifiche dei conte­ 76 nuti, dalla forma delle figure, dalla loro dimensione, dalla loro disposizione spaziale reciproca, ecc. Inversamente ogni conte­ nuto si presenta come essenzialmente determinato dai nessi re­ lazionali di cui esso, insieme agli altri contenuti della scena, è il fondamento. Vi è dunque una sorta di circolarità tra la "qualità" e la "rela­ zione". Le qualità stanno anzitutto alla base di relazioni. Questo è un punto apparentemente ovvio e che tuttavia è stato tal­volta ampiamente contestato. Uno degli aspetti in cui si manifesta una tendenza logicizzante nell'ambito della dottrina del­l'esperienza consiste proprio nel tentativo di dissolvere il momento propria­ mente qualitativo nella relazione. Per varie ragioni (che peraltro non sono molto facili da comprendere) un punto di vista che riesca a mostrare la possibilità di dissolvere le determinazioni qualitative in determinazioni relazionali sembra essere più vicino ad un modo di pensare "logico-formale", e per ciò stesso prefe­ ribile ad ogni evidenza dei fatti. Di fronte a ciò non esiteremmo a parlare della possibilità di considerare i contenuti nella loro assolutezza: di questo o di quel colore così come si trova nel tu­ betto, prima del suo impiego, che ha una sua tipicità qualitativa, sia pure fluttuante, ma che può comunque essere denominata e riconosciuta. Parlare di assolutezza del contenuto significa del resto soltanto sottolineare che la qualità precede la relazione e la fonda. Qualcosa non diventa blu cobalto perché certe relazioni sono state istituite; e nemmeno può accadere che un suono as­ suma una certa altezza perché si trova nel contesto di altri suoni. Nello stesso tempo è giusto dire che i contenuti, non appe­ na entrano in una scena percettiva, sono essi stessi risultati delle sintesi di cui sono il fondamento. Una volta impiegato, il colore del tubetto partecipa ai dinamismi della percezione. La qualità si modifica sotto l'azione delle tendenze e delle controtendenze che animano il campo percettivo. Questa modificazione può essere illustrata mediante quei casi estremi in cui la situazione percettiva si trova in un contra­ 77 sto manifesto con la situazione oggettiva: segmenti che appaiono di lunghezza diversa mentre sono di eguali dimensioni, oppure segmenti in realtà rettilinei che appaiono, insieme ad una deter­ minata disposizione di altri, ricurvi. Casi come questi potrebbe­ ro essere citati proprio perché in essi non accade nulla di straordinario. Fuori dell'ordinario è soltanto l'evidenza con la quale si mostra l'incidenza del contesto relazionale sui contenuti assoluti. Il di­ vergere della situazione percettiva dalle determinazioni ogget­ tive appare realmente significativa solo se facciamo notare che questo risultato si ottiene proprio perché i segmenti sono quello che sono - hanno, ad esempio, una lunghezza ben determinata e sono disposti proprio in quel modo. Perciò non si dovrebbe tanto contrapporre la situazione percettiva alla realtà delle cose quanto piuttosto mostrare che mutando il contesto le cose non appaiono più così. La questione dell'illusorietà può passare in se­ condo piano di fronte alla chiara esibizione della circostanza che caratterizza in generale ogni complesso percettivo: la parte "di­ pende" dall'in­tero; la qualità dalla relazione; e inversamente. 14 Chiarimenti intorno all'idea di "totalità organica". Lo studio delle modificazioni dei contenuti dipendenti dai con­ testi, così come in generale dei dinamismi della percezione ap­ partiene naturalmente all'ampia tematica di una "fenomenologia della percezione" concretamente e sistematicamente elaborata. In rapporto a questa tematica vi è certamente a disposizione un materiale molto vasto. Non sempre tuttavia vi è una effettiva chiarezza sullo sfondo filosofico che è in ogni caso presupposto dalla stessa posizione di questi problemi, così come sulle chiarifi­ cazioni preliminari, di natura concettuale, che si richiedono nella loro impostazione elementare. Uno dei punti che risultano talvolta poco chiari riguarda 78 proprio la nozione di intero che le nostre osservazioni hanno chiamato in causa. il, ancora abbastanza diffusa l'opinione che la nozione di intero che deve essere impiegata in rapporto ai fatti percettivi non debba essere attinta e giustificata all'interno del­l'ambito della percezione, ma richieda di essere introdotta in esso attraverso una sorta di trasposizione analogica. La stessa frequente denominazione di intero o tutto organico illustra con chiarezza questa procedura analogica e la sua ori­ gine. Ci rendiamo conto della necessità di una considerazione sintetico-dinamica delle situazioni percettive ed argomentiamo come se si dovesse di conseguenza avvalersi di analogie tratte dalla natura animata, ricca di vita, in contrapposizione ai morti meccanismi della natura inerte. Ecco qui un mucchio di pietre: ed io posso togliere al muc­ chio questa pietra o quest'altra; posso aggiungere anche altre pie­ tre, e non accade nulla. Forse ciò che caratterizza meglio il muc­ chio come una totalità senza vita è proprio il modo in cui esso può essere accresciuto. Evidentemente siamo noi ad aggiun­gere pietra su pietra, e in questo modo facciamo un mucchio. L'una pietra poi non ha niente a che vedere con l'altra, e il mucchio non ha niente a che vedere con le pietre di cui è fatto. Ecco che cosa potrei intendere con un intero che è "mera somma" delle sue parti. Pensate invece ad una pianta - e proprio al modo in cui essa cresce, dal seme, organicamente, sviluppandosi dall'interno, in un'espansione delle parti che presuppone la reciproca compe­ netrazione tra le parti e l'in­tera­zio­ne tra esse e l'in­te­ro. Ed è questa nozione di intero a cui dobbiamo pensare quan­do prendiamo in esame i fatti della percezione. Purtroppo questa nozione di intero non è affatto chiara: e non è facile chiarirla oltrepassando la vaga analogia con cui essa viene proposta. Inoltre, se prendiamo questa via non saremo disposti, probabilmente, ad affermare, in modo del tutto generale, che qualunque molteplicità di fenomeni è una molteplicità deter­ 79 minatamente articolata e organizzata. In effetti, quando par­ liamo di articolazione e di organizzazione facendo in particolare riferimento a configurazioni percettive, pensiamo ad esempi nei quali si possano cogliere determinate forme di ordinamento, a formazioni nelle quali vi siano almeno tendenze ad una regola­ rità. E le contrapponiamo a configurazioni che descriveremmo verbalmente con espressioni come "ammasso caotico di pun­ ti", "confuso intreccio di linee", "groviglio di figure", ecc. Qui appunto non vi è nessuna articolazione, nessuna strutturazione del materiale, nessuna tendenza all'ordine: quindi nemmeno una stratificazione di piani, una differenza di livelli, una qualche dif­ ferenza tra ciò che può essere considerato centrale o margina­ le, primario o secondario, sovraordinato o subordinato, nessuna zona di o­mo­geneità e nessun punto nodale di raccordo, in breve: nessuna forma di unità. Sembrerebbe naturale allora presentare le cose come se in casi come questi fossimo in presenza di mate­ riali che non sono attraversati da alcuna sintesi. Non ci troverem­ mo di fronte a totalità "autentiche", in cui le parti interagiscono tra loro "organicamente", ma appunto ad una molteplicità disparata. Il primo nodo dell'equivoco sta indubbiamente nel riferi­ mento analogico: esso può ben essere messo del tutto da parte. Non abbiamo affatto bisogno di appigliarci alle nostre i­dee sulla natura animata per illustrare l'animazione interna del campo per­ cettivo. Questa animazione si risolve interamente nelle tensioni istituite dalle tendenze sintetiche dei contenuti che entrano in esso. E di qui noi possiamo trarre una nozione di intero che non è "mera somma" in un senso chiaramente definito: parti e intero sono interdipendenti nel senso che i contenuti del campo sono nello stesso tempo fondamenti e risultati delle sintesi. In rapporto al secondo nodo dell'equivoco, si tratta sol­ tanto di intendersi sull'impiego dei termini. In base alle nostre considerazioni, la strutturazione dei dati percettivi deve esse­ re ammessa senza eccezione dal momento che essa appartiene alla costituzione fenomenologica del campo percettivo. Prima 80 ancora che alla psicologia della percezione, questa circostanza appartiene alla sua filosofia. Ma allora dobbiamo distinguere due nozioni di articolazione e di strutturazione che sono con­ nesse da un preciso legame concettuale. Da una nozione forte che mette in questione la presenza di qualche forma di ordine dobbiamo distinguere una nozione debole che si riferisce unica­ mente all'azione delle sintesi contenutistiche. Perciò descrivere un complesso percettivo con espressioni del tipo di quelle che abbiamo citate in precedenza, come "ammasso caotico di punti", "confuso intreccio di linee", ecc. è certamente legittimo; in esse abbiamo di mira la nozione debole di articolazione di un intero. Ma la "mancanza di ordine", la "disarticolazione" è in ogni caso un risultato sintetico ed essa poggia sulle stesse regole che altrove dànno luogo a interi strutturati nell'accezione più forte. Laddove si dànno tendenze sintetiche si dànno anche con­tro­tendenze e quindi rafforzamenti e attenuazioni dipendente dai modi della composizione. Talvolta una o più tendenze sintetiche stabilisco­ no il proprio dominio, e ciò può accadere in una grande varietà di modi: tra le componenti dell'intero si stabiliscono stretti legami. Il venir meno di una parte modifica l'intero: e può essere allora che si percepisca, proprio in questo punto una lacuna. Come se il complesso fosse sotto il dominio di una necessità imperiosa. Qui si sente il bisogno di un completamento la figura deve essere continuata, e proprio in questo modo. Ma ciò non significa che essa evochi un qualche nostro istinto della forma, una disposizione psicologica che ci ordina di comportarci proprio così. Infatti, la figura si presenta, proprio in ciò che essa è, come una figura aperta che pretende di essere integrata e proprio in quel modo. Oppure si presenta come completa quel tanto che basta. Oppure infine come un complesso i cui legami sono del tutto allentati: da questo mucchio di punti, puoi togliere questo o quel punto, e aggiungerne alcuni altri e, come vedi, non accade nulla. Qui non vi è nessuna articolazione - non vi è nessuna unità. Le parti non sono interdipendenti tra loro. Ma questa non interdipendenza, è 81 essa stessa il risultato di un complesso di interdipendenze. Proprio perché si tratta di punti disposti in questo modo piuttosto che in quell'altro, essi interagiscono fra loro in modo che ne risulta questa indifferenza. Per questo possiamo infine ribadire la nostra tesi iniziale: qualunque cosa appaia nella scena percettiva essa si presenta come determinatamente articolata e organizzata. Tra i vari mo­di possibili di organizzazione e di strutturazione possiamo eventualmente distinguere modi che hanno come risultato una maggiore o minore "coesione" interna, configurazioni che sono più o meno "unitarie", del resto secondo un'accezione che di volta in volta dovrebbe poter essere specificata. E ad esse possiamo contrapporre configurazioni in cui prevale piuttosto che il momento dell'unità e della coesione quello della molteplicità e della disparatezza. Del resto, tutto ciò ha a che vedere proprio con la differenziazione percettiva tra ciò che appare come una cosa singola oppure come una molteplicità di cose. Di fronte ad una figura come questa non diremmo di vedere quattro segmenti. Evidentemente, affinché appaia una molteplicità è necessario che i segmenti non siano congiunti proprio in quel modo. Essi, invece, in questa disposizione, si fondono in una unità. È chiaro inoltre che la molteplicità può apparire e tuttavia essere a sua volta dominata da un ordine: 82 vi è ancora una "fusione", perché la disposizione istituisce precisi nessi associativi e l'intero ha ancora una ben determinata configurazione strutturale. Mentre non vi è nessuna apprensione percettiva di una molteplicità pura, certamente è possibile operare una differenziazione nel grado della fusione. Ed una diminuzione del grado può essere ottenuta soltanto attraverso l'azio­ne delle sintesi. Annotazione Si comprende meglio la teoria del "momento figurale" esposta da Husserl nella sua "Filosofia dell'aritmetica" se si tiene conto che essa deriva da una generalizzazione del problema della distinzione tra consonanza e dissonanza nella forma proposta da Carl Stumpf nella sua "Psicologia del suono" ("Tonpsychologie", Hirzel, Leipzig 1883-1890. Rist. anast. Frits A.M. Knuf e E.J. Bonset, Hilversum-Amsterdam 1965). Assumendo un punto di vista psicologico-descrittivo e met­ tendo fuori questione, ad un tempo, il problema di una spiegazione fisico-acustica così come im­plicazioni di ordine estetico, Stumpf pone la questione del­la differenza come una questione di pura e semplice discriminazione percettiva. Secondo questa impostazione, la sperimentazione dovrà concernere unicamente i giudizi enunciato da soggetti (preferibilmente "inesperti") relativi alla singolarità o alla molteplicità del dato sonoro che viene ad essi proposto in ascolto. Si parlerà allora di gradi di consonanza secondo la maggiore o minore difficoltà di discriminazione della molteplicità, cioè secondo il maggiore o minore numero di giudizi erronei di singolarità: "Se le nostre 83 considerazioni successive sono corrette, la consonanza di due suoni non poggia su armonici o su altre cause esterne ai suoni consonanti, ma su un peculiare rapporto sensibile dell'uno rispetto all'altro, in seguito al quale essi vengono meno facilmente e completamente riconosciuti come una pluralità che i suoni dissonanti" (op. cit., I, p. 101). Stumpf parla a questo proposito di fenomeno di fusione: "Noi abbiamo chiamato "fusione" quel rapporto di due contenuti, in par­ticolare contenuti sensoriali, secondo cui essi non for­mano una mera somma, ma un intero. La conseguenza di questo rapporto è che, a gradi abbastanza eleva­ti ed a parità delle altre circostanze, l'impressione complessiva si approssima sempre più a quella di una sensazione singola e viene analizzata con difficoltà crescente. Anche questa conseguenza può essere impiegata nella definizione, dicendo: la fusione è quel rapporto di due sensazioni, che ha come conseguenza il fatto che ecc. Ma sia che si adotti l'una come l'altra formulazione, la cosa è destinata a restare un con­cetto vuoto a chiunque siano estranei i fenomeni in questione, e in particolare i fenomeni sonori. Ciò che in realtà si ha di mira dicendo che le sensazioni formano un intero e si approssimano più o meno all'im­pressione di una sensazione singola, lo si può apprendere, in ultima analisi, solo sulla base di esempi" (ivi, II, p. 128). Benché Stumpf si riferisca anzitutto ad una peculiarità del campo sonoro, tuttavia, come appare del resto dalla citazione precedente, egli non esclude l'appli­cabilità di questa nozione ad altri campi. Ed è proprio questa possibilità di estensione che attrae l'atten­zione di Husserl. Dalla ricerca di Stumpf, Husserl viene stimolato in direzione di un superamento delle concezioni associazionistiche secondo una prospettiva prossima alle elaborazioni della psicologia della Gestalt ai suoi inizi. La questione da cui egli prende le mosse è, inizialmente, ancora interna alla propria tematica filosofico-aritmetica specifica: tuttavia, dalla connessione tra numero e molteplicità che si trova alla base della "Filosofia dell'arit­metica" e dalla metodologia "intuizionistica" a cui egli si attiene in quell'opera, è indotto ad una digressione relativa al problema delle condizioni della percezione di molteplicità in genere ("Philosophie der Arithmetik", Husserliana, XII, a cura di L. Eley, Nijhoff, Den Haag 84 1970, Cap. XI). Questo problema presenta il suo lato "critico" per un'impo­stazione atomistico-associazio­nisti­ca in rapporto alle molteplicità abbastanza ampie, perché in rapporto alle mol­teplicità il cui numero appare "a colpo d'occhio", indipendentemente da una procedura di conteggio, sembra ancora plausibile una concezione che riconosce la percezione della molteplicità ad una percezione complessa che risulta dalle percezioni delle parti prese ad una ad una, nella loro singolarità. In rapporto a molteplicità abbastanza ampie, invece, risulta subito chiara l'as­surdità di una concezione che sia costretta a postulare "tanti atti psichici quanti sono i contenuti presenti, unificati da un atto psichico di ordine superiore" (ivi, p. 196). Dopo una diffusa critica delle possibili varianti di una simile concezione, Husserl sottolinea che gli elementi della molteplicità si presentano percettivamente con un "carattere" che, pur essendo una risultante del loro essere insieme, non si costituisce analiticamente in modo "sommativo". L'e­spres­sione "momento figurale" impiegata da Husserl indica con sufficiente chiarezza la direzio­ne in cui egli si muove. Ad esempio, nella percezione di una fila di alberi, ciò che viene anzitutto percepito non sono i singoli alberi, ma è proprio la fila, cioè una configurazione percettiva ben determinata che può essere colta "in un unico sguardo", benché siano poi analiticamente distinguibili gli elementi che la compongono "in una riflessione successiva" (ivi, p. 204). A questo punto cade il riferimento alla nozione di fusione tratta da Stumpf: i momenti figurali "debbono essere considerati proprio come unità nelle quali, le particolarità dei contenuti o delle loro relazioni primarie si fondono l'una con l'altra. Dicendo "si fondono", voglio sottolineare che i momenti unitari sono appunto tutt'altro che mere somme" (ivi, p. 204). "L'affermazione secondo cui la rappresentazione della figura consisterebbe nella rappresentazione della somma di quelle relazioni richiederebbe il postulato, che in generale non può essere soddisfatto, secondo cui in una effettiva rappresentazione di aggregato, noi abbracceremmo tutti i sin­goli punti-oggetti nelle loro relazioni reciproche" (ivi, p. 205). "La fusione che ha qui luogo è l'esatto analogon di quella fusione che Stumpf ha scoperto in rapporto alle qualità sensoriali simulta- 85 nee" (i­vi, p. 206). Husserl si richiama dunque direttamente alla nozione di Stumpf, ma opera di essa una generalizzazione che implica un ben determinato stile di approccio alla tematica della percezione in genere. Infatti viene a cadere in primo luogo l'iniziale limitazione alle molteplicità "abbastanza ampie", poiché i momenti figurali svolgono palesemente un ruolo rilevante anche nel caso delle molteplicità "direttamente rappresentate" (ivi, p. 216). E di conseguenza lo stesso problema della percezione di molteplicità diventa un problema relativamente particolare nel quadro di una tematica della percezione che considera il campo percettivo, nella varietà delle sue formazioni possibili, come un campo di tipicità strutturali di cui debbono essere indagate e specificate le condizioni fenomenologiche. 15 L'"associazione" e le sue regole. Nel prospettare il problema delle sintesi percettive abbiamo osservato che è interessante riprendere la tematica dell'"asso­ ciazione", benché in un contesto interamente nuovo. Questo mutamento si presenta certamente anche nel diverso modo in cui si presenta la tematica delle regole dell'associazione, sia dal punto di vista della loro formulazione, sia da quello del loro sta­ tuto metodologico. Appare subito chiaro che non avrebbe mol­ to senso tentare una riduzione o una semplificazione di quel­le regole, come se l'interesse maggiore risiedesse proprio in questa operazione riduttiva. Il parlare di regole è certamente importan­ te perché rappresenta un'indicazione del sussistere di ragioni in­ terne alla situazione percettiva per il costituirsi di una certa orga­ nizzazione del materiale percettivo piuttosto che di un'altra. Così il riferimento eventuale alla somiglianza ed alla continuità è utile ai fini di un'esempli­ficazione elementare per il fatto che questi termini si prestano ad un uso molto duttile che può essere spes­ so facilmente adattato alle esigenze del caso. Ma è evidenti che 86 le regole dell'associazione sono molto varie; e che nello stesso tempo le generalizzazioni che sono indubbiamente possibili non debbono far perdere di vista le specificità e le differenze dei campi per­ cettivi considerati. Non vi è dubbio che la fenomenologia di un campo percettivo possa giovarsi della fenomenologia di un altro, ma ciò che possiamo dire in rap­porto, ad esempio, al campo visivo, non deve necessariamente essere direttamente trasposto nel campo uditivo e inversamente. Talvolta possiamo mettere in evidenza analogie: una regola può essere trasposta da un campo all'altro, e in questa trasposizione il mutamento di senso che essa in ogni caso subisce può insegnarci varie cose. Talaltra invece sono proprio le differenze che possono presentare un particola­ re interesse. Nell'azione di queste regole, la soggettività se ne sta ai mar­ gini. Tuttavia occorre sempre tener conto del fatto che il ma­ teriale su cui esse agiscono è pur sempre un materiale percettivo. In un quadrato percettivamente presente potremo perciò distin­ guere una zona che si trova in alto ed una in basso, una zona che si trova a destra ed una a sinistra, ecc. E non è affatto indiffe­ rente che in basso vi sia, ad esempio, uno "spigolo" del quadrato, piuttosto che un lato. Il quadrato allora appare in mo­do intera­ mente diverso, proprio perché è mutata la sua relazione con il contesto. L'orientamento spaziale, che fa certamente parte dei fattori strutturanti entro i quali il complesso figurale si auto-or­ ganizza, è strettamente integrato nella correlazione soggettiva della percezione. Tuttavia sarebbe probabilmente inopportuno parlare a questo proposito di un intervento organizzatore della soggettività proprio per il fatto che qui è implicata soltanto la percezione, e non invece le particolarità concrete dello spettato­ re. In certo senso, abbiamo bisogno di un soggetto "puro" - che in ogni caso non dovrà essere inteso come una soggettività ete­ rea, priva di mani e di piedi, di occhi e di orecchi - proprio per mettere in evidenza il fatto che talora i contenuti si presentano secondo un senso che non è risolubile nella strutturazione per­ 87 cettiva come tale, ma che richiede una strutturazione soggettiva, per così dire, di secondo grado. Ciò è del resto connesso con l'aspetto propriamente metodologico della tematica delle "rego­ le dell'asso­ciazione". Sé consideriamo l'impostazione originaria della teoria in Hume, non vi è dubbio che la generalità nella quale esse vengono proposte debba essere fondata essa stessa sull'"esperienza", cioè sull'osservazione: pertanto saranno ammesse eccezioni. Ciò vale per Hume addirittura per il principio fon­ damentale della corrispondenza tra idee semplici e impressioni semplici [13]; e quindi a maggior ragione per le regole dell'asso­ ciazione. Ciò potrebbe sembrare plausibile anzitutto se si tiene conto che il tema dell'associazione viene in questione in Hume anzitutto come associazione tra contenuti mentali in genere: sembra allora che l'osservazione interna ci insegni che, per lo più, nessi associativi si propongono nella nostra mente sulla base della continuità e della somiglianza. In questo modo di porte il problema l'accento viene posto sul fatto che queste regole sono regole essenzialmente soggettive, nel senso che esse non hanno altra giustificazione se non nel modo in cui è fatta la "natura umana". Si vede subito tuttavia che difficilmente questo accento potrà cadere con troppa insistenza sulla regola della somiglianza. Anche stando all'interno di questo punto di vista, si dovrebbe notare infatti che, proprio in rapporto a questo problema vi è una differenza, da Hume non notata, tra l'una e l'altra regola. Dipende infatti dal caso se un nesso si istituisce nella nostra testa per continuità, dal momento che, a quanto sembra, una cosa qualunque può essere contigua ad un'altra cosa qualunque, cosicché se si istituisce un nesso secondo questa regola, quel nesso c'è solo per noi, e non nelle cose stesse. Di questa differen­ za si rese invece conto il Kant empirico dell'An­tro­po­logia pragmatica, che qualifica come associativa solo l'imma­gina­zione per continu­ ità. Qui possiamo veramente passare di palo in frasca, come egli dice, dal momento che il contenuto non è affatto in questione e il legame è solo soggettivo. La formulazione, in realtà abba­ 88 stanza oscura, che egli dà dell'imma­gina­zione che pone legami per affinità si richiama comunque ad un legame contenutistico interno, in contrapposizione alla regola "associativa" [14]. Di fatto in una prospettiva coerentemente associazionisti­ ca questa regola della somiglianza reca un certo disturbo. Per quanto si possa accentuare il ruolo delle relatività soggettive nel­ la valutazione di somiglianze, tuttavia vi è qui un riferimento "qualitativo" difficilmente eliminabile. Assumendo un punto di vista associazionistico, si potrebbe perciò essere indotti a tenta­ re un'"analisi logica" del concetto di somiglianza che in qualche modo riesca a mostrare che essa è riducibile ad un caso partico­ lare di continuità. In realtà il problema è malamente impostato fin dall'ini­ zio. Se parliamo della continuità e della somiglianza come re­ gole dell'associazione riferendole non già a connessioni che noi operiamo sui contenuti mentali in genere, ma ai materiali che si presentano percettivamente, non solo cessa di essere in qual­ che modo plausibile il farle derivare dall'osservazione (interna o esterna che sia) attribuendo ad esse una validità puramente induttiva, ma diventa perfino difficile capire che cosa si potreb­ be, intendere con ciò. Parlando di tendenze sintetiche, del loro rafforzamento, della loro possibile compensazione, ecc., non vo­ gliamo affatto dire che noi tendiamo ad operare unificazioni in questo o quel modo - come tanto spesso abbiamo potuto con­ statare; non vogliamo affatto richiamarci ad un nostro compor­ tamento che, guarda il caso, si regola proprio in rapporto ad esse (ma potrebbe anche regolarsi altrimenti). Semplicemente non diciamo nulla sui nostri comportamenti, e dunque non formu­ liamo nessuna regola che possa essere tratta di qui. In partico­ lare la differenza di livello che prima avevamo ritenuto di poter intravedere cessa di sussistere: la continuità, intesa come prossi­ mità di un contenuto ad un altro in un complesso percettivo, è essa stessa, non meno della somiglianza, una determinazione del contenuto che fonda nessi sintetici di cui il complesso percettivo 89 è un risultato. Se diciamo che nel caso seguente le superfici si richiamano tra loro in un determinato modo, non facciamo affidamento ad una sorta di esperienza interiore della figura, analizzando la quale ci sembra di poter dire che le cose stanno proprio così. Ciò che analizziamo è proprio niente altro che la figura. L'ovvietà di una simile osservazione è solo apparente per­ ché di fatto la sua ammissione comporta che insieme a problemi di fenomenologia empirica - cioè di problemi che possono essere im­ postati e risolti solo attraverso l'osservazione e l'esperi­mento - vi sono problemi di fenomenologia pura, problemi cioè che mettono in questione l'idea di modi di strutturazione necessaria del mate­ riale percettivo e che perciò meritano di essere indicati, se deci­ diamo di impiegare la terminologia tradizionale, come a priori. E proprio questo punto potrà suscitare perplessità anche da parte di chi contesta apertamente un mo­do empiristico di approccio alla tematica della percezione. Que­ste perplessità non hanno nul­ la a che vedere con la realtà del problema, mentre rinviano ad un pregiudizio filosofico e metodologico. Nello stesso tempo, esse sono all'origi­ne dell'am­biguità in cui spesso si muo­vono le inda­ gini tendenti a individuare le "leggi" della strut­turazione percet­ tiva. In esse è spesso presente la tentazione di formulare queste leggi in termini di disposizioni psicologiche, di propensioni di comportamento che sono state di fatto accertate e le cui ragioni debbono essere ricercate in qualche dimensione più profonda. 90 Eppure l'identi­ficazione di un livello puramente fenomenologico è di fondamen­tale importanza per individuare ciò che in una situa­ zione percettiva concreta spetta invece ad una propensione, ad un dato di fatto comportamentale di cui certamente deve essere fornita una spiegazione psicologica (e non soltanto psicologi­ ca) più profonda. è probabile che questa mancanza di chiarezza nell'individuazione del problema sia dovuta al fatto che si pensa che l'ammissione di una strutturazione a priori dell'espe­rienza implichi degli obblighi sul piano del comportamento. Una simile idea è naturalmente soltanto il risultato di una confusione di piani. Se proponiamo a qualcuno il compito di co­ lorare la superficie precedente, può anche darsi che si comporti in modo da rafforzare mediante il fattore cromatico, le tendenze sintetiche presenti nella disposizione delle superfici. Ma nessuno è obbligato a comportarsi così. E inoltre se nessuno si comportasse così ciò non potrebbe farci concludere che quelle tendenze sintetiche non sussistono. Perciò se proponessimo quel compito a titolo di espe­ rimento, indubbiamente dovremmo chiarire con precisione che cosa intendiamo propriamente met­tere alla prova. 16 Ripresa del tema dell'immagine nel senso di raffigurazione - Ciò che caratterizza l'immagine è il prodursi di un effetto raffigurativo - Immagini e contrassegni - Proposta di uno schema riassuntivo. Vogliamo concludere questo nostro sommario di problemi sulla tematica della percezione, ritornando sui nostri passi per mettere meglio a fuoco la nozione di raffigurazione nella quale ci siamo imbattuti nella nostra discussione iniziale. Ad essa abbiamo fatto riferimento per chiarire la tesi del sussistere di mediazioni fenomeniche nella percezione le cose ci si presentano attraverso immagini. Ma se ci esprimiamo così, dobbiamo spiegare che il termine di immagine non è impiegato 91 nel senso di raffigurazione. Il rapporto istituito nella percezione non ha bisogno di essere illustrato attraverso un riferimento ana­ logico con le raffigurazioni, ma, al contrario, questo riferimen­ to ci può essere utile per chiarire, per contrapposizione, in che senso potremmo parlare, nonostante il sussistere di mediazioni fenomeniche, di "immediatezza" della percezione. Tuttavia non vi è dubbio che la nozione di raffigurazione ponga problemi analitici peculiari e che, per varie ragioni che riguardano i nostri sviluppi futuri, sia opportuno tentare di essa un esame un poco più approfondito. Naturalmente un'immagine è in primo luogo una cosa e in rapporto alla sua costituzione percettiva in oggetto identico varrà tutto ciò che abbiamo osservato sulle mediazioni feno­ meniche e sulle sintesi percettive in genere. Tuttavia, ciò a cui ora siamo interessati è quella peculiarità che rende questa cosa l'immagine di un'altra. Qui non abbiamo a che fare soltanto con certi contenuti percettivi, ma vi è, in più, un'ap­pren­sione anima­ trice che con­ferisce ad essi il carattere di raffigurazioni. In rapporto alle immagini come raffigurazioni appare con particolare chiarezza la necessità di un'analisi "intenzionale", di un'analisi cioè che chiarisca il carattere dell'oggetto attraverso differenze riguardanti i modi di intenderlo, implicando così in modo determinante il lato soggettivo della correlazione esperienziale. Su questo punto, tuttavia, è necessario fornire qualche spie­ gazione. Un puro e semplice rinvio ad una differenza nel modo di intendere lascia le cose, dal più al meno, al punto in cui esse si trovano. Esso può rappresentare l'inizio di una discussione, ma non certo la sua conclusione. Cominciamo dunque con il sot­ tolineare che il carattere di immagine non è inerente a qualcosa come una sua determinazione oggettiva, quasi che potessimo distinguere tra cose che sono in se stesse immagini e altre che non lo sono. Dobbiamo dire invece che certi contenuti percettivi talvolta assumono il carattere di raffigurazioni. 92 Questa figura: presenta quello che presenta [15]. Se ci venisse chiesto di dare di essa una descrizione verbale, diremmo probabilmente che si tratta di una figura rettangolare, con il lato più breve come base, attraversata da due linee oblique leggermente convergenti verso l'alto: tra l'una e l'altra vi sono piccoli tratti o macchioline che ci sembrano disposte in modo abbastanza casuale. Che la de­ scrizione debba essere proprio questa, ed espressa esattamente con queste parole, ciò è, per i nostri scopi, del tutto indifferente. Piuttosto noteremo: questa figura non è evidentemente una raf­ figurazione. Ma può diventarlo. Supponiamo infatti che io dica: in realtà ho inteso rappre­ sentare una giraffa che passa al di là della mia finestra. Allora può accadere che si verifichi, nella percezione della figura, una sorta di mutamento improvviso, può accadere cioè che l'osser­ vatore veda nella figura proprio l'immagine di una giraffa e che addirittura riesca solo con difficoltà a "ritornare" alla precedente impressione della figura che se ne stava lí del tutto muta sen­ za raffigurare nulla. Può essere, insomma, che attraverso le mie parole si sia prodotto quello che potremmo chiamare un effetto raffigurativo. In questo modo potremmo mostrare la differenza imper­ cettibile che vi è tra una figura ed una raffigurazione. Una differen­ za c'è veramente, ed è giusto anche dire che essa è impercettibile, dal momento che la figura è rimasta proprio quella che era. Non si è mossa. Solo che ora viene intesa in modo diverso. Vogliamo senz'altro ammettere che in questa modificazio­ ne deve avere una parte importante la mia dichiarazione verbale. 93 E tuttavia su una simile ammissione si può innestare un modo falso di presentare le cose. Il vero nodo del problema sta nel fat­ to che qui un effetto raffigurativo si è prodotto. Ciò significa che non sarebbe affatto lecito distinguere la figura dalla indicazione verbale, facendo della raffigurazione una sorta di formazione fluttuante fra l'una e l'altra. Sarebbe, in altri termini, erroneo affermare che la raffigurazione sia solo il risultato di una sugge­ stione. Infatti nella figura vedo ora proprio l'imma­gine di una gi­ raffa, e ho tanto poche ragioni di ritenere di essere preda di una illusione quante poche ne avrei per ritenere un'illusione il vedere in una fotografia l'im­magine di un caro amico. D'altronde può benissimo darsi che, dopo l'evocazione ver­ bale della giraffa alla finestra, il modo di intendere la figura non subisca alcuna modificazione. L'esempio ci è tuttavia altrettanto utile anche nel suo rovescio. Per chi non vede l'imma­gine di una giraffa, non si produce appunto nessun effetto raffigurativo; la semplice percezione non diventa percezione animata da un'ap­ prensione immaginativa. Quella cosa lí a me non sembra affatto una giraffa. Al più potrei dire che mi è stata chia­rita l'intenzio­ ne del disegnatore che evidentemente non poteva che essermi ignota e concludere che egli non ha raggiunto lo scopo che si prefiggeva. Che a qualcuno una figura appaia come una raffi­ gurazione e che lo stesso non accada ad un altro, questo lo am­ mettiamo senza discussione. Infatti, qualunque cosa accada in questo o quel caso particolare, noi dobbiamo essere in grado di delimitare la nozione di apprensione raffigurativa e da que­ sto punto di vista l'essen­ziale è il notare che vedere una giraffa nella figura è tutt'altra cosa che apprendere che l'intenzione del disegnatore era quella di rappresentare una giraffa. Per parlare di apprensione raffigurativa, la figura deve veramente far apparire il suo originale. Seguendo il criterio metodico che consiste nell'ope­ rare caratterizzazioni attraverso differenze, il mettere in evidenza l'effetto raffigurativo come caratteristica essenziale delle raffi­ 94 gurazioni significa contrapporre questa peculiare relazione ,di rappresentazione rispetto ad altre possibili, ed in primo luogo a quelle relazioni rappresentative al cui fondamento vi è soltanto una stipulazione. Vogliamo parlare a questo proposito di contrassegni. In effetti noi possiamo sempre convenire che una cosa stia per un'altra e, in questo senso, la rappresenti. Alla base di un contrassegno vi è soltanto la posizione di una regola di corre­ lazione e la sua accettazione. E se diciamo che è essenziale ad un'apprensione raffigurativa il sorgere di un effetto raffigurativo, è necessario cioè che qualcosa ci si pari dinanzi con il carattere direttamente intuitivo di raffigurazione, questo carattere va com­ preso in primo luogo in contrapposizione alla convenzionalità del rapporto di contrassegno. Ci si chiederà forse come mai, volendo parlare dell'ef­fetto raffigurativo abbiamo seguito la via traversa di figure che potreb­ bero essere interpretate - e del resto in vari modi - secondo le "suggestioni" del momento. Perché non ricorrere invece alle no­ stre normali fotografie? Esse si presentano sen­z'altro come raffi­ gurazioni. L'effetto raffigurativo inerisce qui più strettamente ai contenuti percettivi che, ad esempio, nel caso del disegno della giraffa. Tra la via traversa nella presentazione del problema e questa via diretta vi sono certo notevoli differenze, ma vi è an­che una precisa relazione interna. In entrambi i casi vi sono determinati contenuti percettivi e in più il riferimento ad un originale. Ciò significa che le sintesi percettive nelle quali si co­stituisce la scena vengono prospettate all'interno di un'ap­pren­sione raffigurativa che può essere intesa a sua volta come una sintesi di tipo pecu­ liare. Il primo caso tuttavia illustra forse meglio del secondo che cosa si debba intendere, in questo contesto, con contenuto puramente percettivo. Nonostante tutto, simili espressioni limitative dànno spesso adito alla formulazione di falsi problemi. Nel caso della fotografia, ad esempio, potremmo pensare che come con­ 95 tenuti puramente percettivi debbano valere i punti che vediamo, nella loro varia disposizione, se la osserviamo con una lente. Na­ turalmente, in tal caso l'effetto raffigurativo si dissolve. Lo stesso accade se osserviamo un dipinto che rappresenta un paesaggio ad una distanza troppo ravvicinata. Proprio il primo esempio, in cui si ha una modificazione improvvisa della figura nella raffigu­ razione, mostra invece che con contenuto puramente percettivo dobbiamo intendere niente altro che una configurazione per­ cettiva qualunque - e quindi non necessariamente agglomerati di macchie e di punti - sulla quale non fa presa nessuna sintesi raffigurativa. Ciò che vale come contenuto puramente percettivo nel dipinto di un paesaggio è tutto ciò che vediamo nel dipinto, meno il riferimento raffigurativo ad un paesaggio. Ma come può accadere questa sottrazione della "sintesi raf­ figurativa" se ci disponiamo nell'osservazione alla distanza giu­ sta? Questo è in realtà un altro problema che riguarda piut­tosto la questione dei vincoli più o meno stretti che connettono la copia all'originale. In certi casi, come appunto in quello delle normali fotografie, l'apprensione raffigurativa si im­pone sen­z'al­ tro. Facendo riferimento ad esse possiamo illustrare l'aspetto del problema che sarebbe invece stato difficile mettere in chiaro con­ siderando il nostro primo esempio. Benché nell'ap­pren­sione di qualcosa come una raffigurazione concorrano fattori molto vari e di diversa natura, dobbiamo ammettere che uno dei fattori che non possono mancare sia quello della somiglianza. Vale anche in questo caso particolare il principio generale secondo cui ogni modo di intendere deve avere comunque un buon fondamento nell'oggetto inteso. Il sorgere di un effetto raffigurativo è deter­ minato da una connessione di somiglianza: essa rappresenta un suo presupposto necessario. In assenza di questo presupposto non vi sarebbero certo ragioni per contraddistinguere le raffigu­ razioni dai contrassegni. Tuttavia il sussistere di una possibilità di sintesi raffigurativa, sulla base della somiglianza, non implica affatto che questo riferimento deb­ba essere in ogni caso effettua­ 96 to. Ciò era già chiaro nell'esempio della giraffa. Ma ciò vale anche per esempi per noi inequivoci e, diremmo quasi, costrittivi, di raffigurazioni, quali sono le fotografie. Noi non sappiamo affatto come reagirebbe un ipotetico abitante di un altro pianeta di fron­ te ad una fotografia (anche se basterebbe pensare ad un bambino molto piccolo o ad una persona appartenente ad un'altra cultura). Se ha occhi per vedere come i nostri, non vi sarebbe nulla di stra­ no se vedesse in esso esattamente tutto ciò che noi vi vediamo, tranne il riferimento ad un originale. Vedrebbe la figura, ma non la raffigurazione. Il riferimento alla somiglianza suggerisce infine una ulte­ riore semplificazione nella presentazione della problematica elementare della raffigurazione. Tra l'effetto raffigurativo e l'ap­pren­ sione di somiglianza può essere stabilita una sorta di rapporto di dipendenza funzionale: l'effetto raffigurativo sarà tanto più forte quanto più diminuisce la distanza tra la copia e l'originale. Se intendo raffigurare un uomo in piedi, potrebbe, forse, bastare un piccolo tratto verticale. Un grosso punto in cima alla linea migliorerebbe un poco le cose. E faremmo ancora un passo avanti se decidessimo di disegnare il solito pupazzetto. Se è ben difficile vedere senz'altro in un tratto verticale l'immagine di un uomo, di contro nel solito pupazzetto è probabilmente per noi abbastanza difficile vedere soltanto la figura, senza che essa sia sotto la presa di una sintesi raffigurativa. Eppure siamo ancora ben lontani dalla fotografia di un uomo in piedi, per non dire della riproduzione di un uomo in una statua di cera. Nel caso delle raffigurazioni sussiste infatti la possibilità, sia pure solo teorica, di ordinare le immagini in una successione di approssimazione crescente e continua all'originale. Potremmo addirittura proporre uno schema che ci aiuti a raccogliere le idee sull'argomento. Sugli estremi di un segmento porremo la figura (F) e l'oggetto (0): 97 Otteniamo così un percorso che conduce da certi contenuti per­ cettivi ad altri: la raffigurazione si muove fra essi. Nell'una oppu­ re nell'altra direzione. Procedendo verso l'originale, la distanza diminuisce sem­pre più, la presa della sintesi raffigurativa sul contenuto percettivo diventa sempre più stretta: la raffigurazione tende a diventare il­ lusionistica. Diciamo di più: la raffigurazione tende a dissolversi nell'oggetto. L'oggetto, infatti, deve giacere proprio sul­la linea di questo movimento, come un suo estremo. Ciò non significa fare dell'oggetto un caso particolare del­le sue immagini. Ci possia­ mo indubbiamente servire. di qualche astratta sche­ma­tizzazione senza per questo sentirci obbligati a rimetterci il senso dei pro­ blemi. Il presentarsi percettivo dell'oggetto non è l'oggetto che si autoraffigura, anche se esso si deve trovare proprio in quel punto sulla linea della raffigurazione. Si tratta invece di far nota­ re che una distanza rispetto all'originale è presupposta nel con­ cetto stesso della raffigurazione. In questo senso deve certamente essere reinterpretata quel­ la minore "vivacità", quella sorta di "attenuazione" e di "indebo­ limento" che talora è stato riconosciuto all'immagine se­condo una terminologia che rinvia invece a qualificazioni psicologiche inerenti al nostro modo di viverla. Proprio perché la cosa stessa si trova sulla linea dell'immagine, ma nel punto in cui essa si dis­ solve, qualora la raffigurazione sia altrettanto ricca di determinazioni quanto la cosa che essa raffigura non vi è più la raffigurazione di una cosa: c'è soltanto la cosa. Risulta così anche chiaro il con­ testo entro cui è lecito parlare delle raffigurazioni come finzioni della cosa. In generale non ha alcun senso attribuire l'irrealtà come un carattere del­l'oggetto raffigurato: l'imma­gine di Pietro non è affatto un Pietro fittizio, assente o irreale. Se, guardando il 98 suo ritratto, pen­so a Pietro che non è qui, questi sono solo affari miei. L'im­ma­gine presenta Pietro in immagine, e niente altro. Pensiamo invece alla possibilità di una rappresentazione abba­ stanza ricca di determinazioni da sopprimere quasi il rapporto raffigurativo. Il vetro che ricopre il dipinto si è infranto e un suo frammento è rimasto conficcato nella cornice. Tendo la mano per liberarlo. E allora mi accorgo che sono stato ingannato. Il vetro non c'è, è finto - è soltanto raffigurato. In questa possibilità illusionistica vi sono gli elementi contestuali perché abbia senso contrapporre la realtà della cosa alla finzione della sua rappresen­ tazione. Il vetro rappresentato è un vetro "assente", non perché è semplicemente rappresentato, ma perché è rappresentato in modo da togliere la distanza che è richiesta dalla raffigurazione. Ma la raffigurazione si dissolve anche nella direzione opposta. Ed è interessante notate che si dissolve nello stesso modo: alla fine ci troviamo di fronte ad un tratto verticale che è soltanto un tratto verticale - alla concretezza della cosa semplicemente percepita: ad un dipinto che presenta soltanto un intreccio di strisce grigie e az­ zurre (invece, poniamo, di raffigurare un paesaggio). I momen­ ti figurali tendono gradualmente a prevalere nell'attenuazione progressiva dell'ef­fetto raffigurativo. Poiché questa attenuazio­ ne è funzionalmen­te dipendente, secondo la nostra semplifica­ zione schematica, dall'apprensione di somiglianze che limitano l'arbitra­rietà soggettiva del riferimento raffigurativo, quanto più la raffigurazione si muove verso il polo della figura, tanto più essa può essere mantenuta come raffigurazione solo all'interno di un modo di intendere che deve trarre i propri motivi altrove che nel contenuto percettivo stesso. La raffigurazione risulta sempre da un'"interpretazione" dei dati percettivi. Ma solo in quel punto del percorso dell'immagine in cui essa comincia a fluttuare tra la figura e l'originale, questo momento soggettivo comincia con il diventare determinante affinché quella cosa che è il dato percet­ tivo stesso assuma il profilo di un'altra. Se sottopongo a qualcu­ no una macchia su un foglio invitandolo a dire quale immagine 99 vede in essa, l'invito pone per così dire la premessa per effetti raffigurativi. Se alla fine un'im­magine appare, ciò può forse inse­ gnarci qualcosa su colui che effettua l'appren­sione perché di essa proprio lui porta la maggiore responsabilità. 100 Note [1] Questa circostanza fornisce una delle motivazioni elementari della teoria husserliana della "epoché fenomenologica". Essa è tuttavia presente ancor prima della sua esplicita teorizzazione. Ad esempio, nelle Ricerche logiche, Quinta ricerca (trad. it. cit.) si osserva: "Queste differenze tra percezione normale e anormale, vera ed illusoria, non riguardano il carattere interno, puramente descrittivo ovvero fenomenologico, della percezione" (p. 140) [2] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it. a cura di M. Trin­ chero, Einaudi, Torino 1967, oss. 602-603, p. 206: "Se mi chie­ dessero: "Quando sei entrato nella tua camera stamattina, hai riconosciuto la tua scrivania?" - risponderei senza esitare: "Certa­ mente!". E tuttavia sarebbe ingannevole il dire che qui è avvenu­ to un riconoscimento; vedendola, non sono stato sorpreso come lo sarei stato se, al suo posto, ci fosse stata un'altra scrivania o un oggetto estraneo. - Nessuno dirà che o­gni qual volta entro nella mia camera, nell'ambiente che da lungo tempo mi è familiare, avviene un riconoscimento di tutto ciò che vedo e che ho, già visto centinaia di volte". [3] La frase di Russell (tratta da Il rapporto tra i dati sensoriali e la fisica, in Misticismo e logica, trad. it. di J. Sanders e L. Breccia, Lon­ ganesi, Roma 1969, pp. 141-170) compare in testa a La costruzione logica del mondo di Carnap che fornisce di essa, in certo senso, un'esemplificazione radicale e sistematica. [4] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, op. cit., oss. 486, p. 179: "Che lí c'è una sedia, segue dalle impressioni sensibili che io ricevo? - Ma come può una proposizione discendere da impressioni sensibili? Allora discende dalle proposizioni che descrivono le impressioni sensibili? No. - Ma non è forse dalle impressioni, dai dati sensibili che concludo che là c'è una sedia? -Non traggo nessuna conclu­ sione! Qualche volta, però, sì. Per esempio, vedo una fotografia e dico: "Dunque, là deve esserci stata una sedia", o anche: "Da quanto si vede qui, concludo che là c'è una sedia". Questa è una 101 conclusione, ma non una conclusione della logica". [5] In rapporto al nostro modo di riprendere la tematica feno­ menologica assume perciò un rilievo centrale il testo di Husserl, Analysen zur passiven Synthesis (Husserliana, XI), a cura di M. Flei­ scher, Den Haag, Nijhoff, 1966 .Trad. it. di V. Costa, a cura di P. Spinicci, Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini e Associati, Milano 1993. [6] Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (Husserliana, X), a cura di R. Boehm, Nijhoff, Den Haag 1966, trad. it. a cura di A. Marini, Angeli, Milano 1981. [7] ivi, p. 64. [8] ivi, pp. 330-331. [9] "Profondamente assorto nei miei pensieri guardavo appena dove mettevo i piedi... Dopo nemmeno duecento passi notai di essermi smarrito, perché mi trovavo in un annoso bosco di abe­ ti che nessuna accetta doveva aver violato. Feci ancora qualche passo e fui circondato da squallide rocce nevose sulle quali attec­ chivano soltanto muschi e sassifraghe. Spirava un'aria gelida e il bosco di abeti era sparito. Dopo altri pochi passi sentii intorno a me una quiete mortale, il ghiaccio si dilatava in un'esten­sione enorme e una spessa nebbia ristagnava nell'aria; il sole fiammeg­ giava sanguigno al margine estremo dell'orizzonte e faceva un freddo insopportabile... Seguendo la costa vidi ancora rocce, pa­ esi, boschi di betulle e di abeti: dopo un paio di minuti di corsa il caldo divenne insopportabile, scrutai ancora intorno e scorsi gelsi in fiore e colture di riso. Mi adagiai all'ombra e detti un'oc­ chiata all'orologio: non era passato nemmeno un quarto d'ora da quando ero uscito dal villaggio! Credetti di sognare...". Così racconta il protagonista di una storia di Chamisso: egli ha calza­ to gli stivali delle sette leghe, e fino ad ora non lo sa. ( La storia meravigliosa di Peter Schlemihl, trad. it. di L. Giugni Favia, Milano 1974, pp. 130-131). [10] Cfr. E. Husserl, Analysen zur passiven Synthesis, op. cit., § 27. [11] M. Heidegger, Essere e tempo, in particolare §§ 13-15 (trad. it. 102 a cura di A. Marini, Max Niemeyer, Tübingen, 1997). [12] op. cit., p. 14l. [13] Particolarmente significativo è il passo seguente, nel quale si presenta con chiarezza un problema che, qualora non fos­ se risolto come una eccezione che conferma la regola, metterebbe in questione lo stesso impianto di principio della filosofia hume­ ana dell'esperienza: "Esiste tuttavia un fenomeno in contrario, il quale proverebbe che non è del tutto impossibile che le idee precedano le corrispondenti impressioni. Si ammetterà, credo, facilmente che le varie e distante idee di colori che riceviamo per mezzo degli occhi, ovvero quelle dei suoni che ci sono tra­ smesse dall'udito, per quanto simili, sono in realtà differenti tra loro. Ora, se questo è vero per i diversi colori, lo dovrebbe esse­ re anche per le diverse sfumature del medesimo colore, ciascu­ na del­le quali produce un'idea distinta indipendente dalle altre. Qualora ciò si negasse, sarebbe possibile, con la gradazione con­ tinua delle sfumature, far passare insensibilmente un colore in quello che gli è più lontano; e, se non ammettete che ognuno dei colori intermedi è differente dagli altri, non potete, senza cadere nell'assurdo, negare che gli estremi sono uguali. Ciò po­ sto, facciamo l'ipotesi di una persona che abbia goduto della vi­ sta per trent'anni e conosca perfettamente ogni specie di colore, eccettuata, per esempio, una particolare sfumatura di blu, che non le è mai capitato di vedere. Ora, se gli presentano le diverse sfumature di questo colore, tranne quella particolare che non conosce, in ordine discendente dalla più cupa a quella più chia­ ra, evidentemente egli percepirà un vuoto dove manca quella sfumatura, e avvertirà che tra i colori contigui vi è in quel punto una distanza maggiore che in qualunque altro. Domando: non è possibile sup­plire con l'immaginazione a tale deficienza e darsi da sé l'idea di quella sfumatura particolare, nonostante che egli non ne abbia avuta mai la sensazione? Credo che pochi saran­ no d'opi­nione che non possa, e ciò basta a provare che le idee semplici non sempre derivano dalle impressioni corrispondenti. 103 Il caso è, tuttavia, così particolare e insolito che è appena degno d'essere osservato, e non merita che per esso la nostra massima generale venga alterata" (Trattato sulla natura umana, I, Parte I, sez. l., op. cit., pp. 17-18). [14] I. Kant, Antropologia pragmatica, trad. it. di G. Vidari, rev. di A. Guerra, Bari, Laterza, 1969, pp. 60-63. [15] Questa figura è tratta da R. Arnheim, Arte e percezione visiva, trad. it., di G. Dorfles, Feltrinelli, Milano 1971, p. 32. 104 105 Capitolo Secondo Il ricordo 106 107 1 Alcuni strani problemi in rapporto al ricordo - Critica di un approccio introspettivo. Che cosa significhi "ricordare" lo sanno tutti; e tuttavia noi po­ tremmo volerne sapere di più e andare in giro a chiedere alla gen­te che cosa accade quando si ricorda di qualcosa. Le risposte saranno, presumibilmente, molto varie. Un tale, ad esempio, ci spiega di essere in generale un povero visualizzatore, a meno che non si tratti di cose che ha visto prima dei dieci anni. E così si dilunga in spiegazioni: "Per esempio, io posso richiamare alla mente molto chiaramente immagini della casa nella quale sono vissuto da bambino; se mi si fa una domanda a proposito di qualsiasi stanza di quella casa, posso rispondere evocando prima un'immagine e poi "guardando" per vedere quale sia la risposta, proprio come guarderei in una stanza reale". Ed ancora: "Quan­ do ora incontro una persona e desidero ricordarmi il suo aspet­ to, trovo che l'unico modo sia di descriverlo in parole mentre lo vedo e di ricordarmi poi delle parole. Mi dico: "Quest'uomo ha occhi azzurri e barba marrone e naso piccolo; è basso, con la schiena curva e le spalle cadenti". Posso ricordarmi di queste parole per mesi e riconoscere un uomo per loro mezzo, a meno che due uomini aventi queste caratteristiche siano presenti nello stesso tempo" [1]. Qui succedono indubbiamente cose assai strane. A chi ci ha dato queste spiegazioni chiediamo di dirci che cosa c'era in quell'angolo della stanza della casa della sua infanzia, ed egli, lì per lì, non lo sa, ma si accinge poi, "visualizzando", a guardare dentro di essa. Oppure: ecco che la stessa persona riconosce l'uomo dalla barbetta marrone sulla base delle parole che ha bor­ bottato tra sé quando lo vide qualche tempo fa, al preciso scopo di fissarne la figura nella memoria. A meno che di fronte a lui non ci siano due uomini con la barbetta marrone - cosa che ge­ 108 nererebbe il più grande imbarazzo. Tuttavia, prima ancora del­le eventuali risposte, dovrebbe sembrarci abbastanza stra­na quel­la domanda. Che cosa ci viene propriamente richiesto? Forse, di esporre in parole una sensazione che accompagna i nostri ri­ cordi e che può anche essere molto viva, ma che è difficile da afferrare e ancor più da descrivere verbalmente, e quindi da co­ municare. Cerchiamo di cavarcela alla bell'e meglio. Talvolta ho proprio la sensazione, nel ricordarmi di questo o di quello, che nella mia testa accada qual­­cosa che si trova in stretta connessio­ ne con il senso della vista, e non ad esempio con gli altri sensi. Perciò sarei propenso a parlare del ricordo come di una sorta di visualizzazione dell'evento ricordato. Oppure: è come se den­ tro di me risuonassero certe parole che descrivono quella cosa. Attraverso quelle parole, essa mi appare: anche se non la vedo; ed anche se, in realtà, non ho udito proprio nulla. Ci rendiamo conto che un altro potrebbe rifiutarsi di comprendere queste spiegazioni, ma non sapremmo come migliorarle. Ci possiamo al più giustificare con lo scotto che deve essere pagato ogni volta che si affronta un problema che richieda una analisi introspettiva. Se vuoi sapere questo, non posso che risponderti così: il senso della risposta per me è chiaro. e se non lo è per te, non posso farci nulla. Qualcuno però potrebbe anche reagire in tut­t'altro modo, ad esempio dicendo: quando io ricordo, nella mia testa non accade proprio nulla, tranne il fatto che io ricordo. In questo modo, naturalmente, non si risponde alla domanda, ma la si ri­ fiuta, riproponendo il problema in una nuova forma. Vogliamo cominciare con il far notare che nulla di ciò che potremmo dire intorno alle sensazioni che accompagnano il ricordo è veramen­ te essenziale al rapporto istituito nel ricordo, che questo rap­ porto è in ogni caso presupposto in quelle possibili spiegazioni. Sappiamo già di che si tratta; ed allora possiamo eventualmente aggiungere: nel ricordare quella conversazione, mi sembra quasi di risentire la sua voce. Quella melodia che ho udito ieri, ora mi torna in mente, mi ronza nella testa. Sono fortemente tentato 109 di canticchiarla. Di fronte a descrizioni come queste possiamo assumere due atteggiamenti molto diversi: possiamo ritenere che esse dicano tutto quello che debbono dire, esprimendo in modo appropriato co­me stanno le cose; oppure possiamo pensare che esse siano formulazioni inadeguate per esprimere qualcosa che sarebbe, in realtà, essenzialmente inesprimibile. Ma sia che si as­ suma l'una oppure l'altra posizione, non vi è dubbio che siamo lontani dalla possibilità di pervenire, seguendo questa via, a co­ gliere le peculiarità fenomenologiche del ricordo. Si può ricordare una melodia senza per questo essere obbligati a sentire un ronzio indeterminato nella testa, o più precisamente: senza essere ob­ bligati a descrivere le cose in questo modo. Così come si può ri­ cordare che cosa c'era in un angolo di quella stanza, senza essere obbligati a "vederla" con gli occhi della mente. Ma la critica che mette da parte la via dell'intro­spe­zione assolve soltanto un com­ pito introduttivo e preliminare. Si trova all'inizio del problema e non, come talvolta si pensa, al suo termine. Abbiamo infatti parlato, in opposizione ad un'impostazione introspettiva, di pecu­ liarità fenomenologiche del ricordo: ed ora si tratta di sviluppare il problema in questa direzione. 2 Determinazione dell'accezione di "ricordo" qui in questione - Rievocazione e ritenzione. Per cominciate, vogliamo proporre un'immagine per il ricordo: ricordare è una sorta di volgere lo sguardo indietro - nel tempo. Sem­ bra che con ciò si sia ottenuto ben poco. Eppure non è difficile mostrare che, considerando i contesti a cui essa può essere ap­ plicata, quell'immagine individua in modo sufficiente ai nostri scopi una particolare accezione della parola "ricordare", fornendo una prima indicazione per introdurre le distinzioni elementari necessarie. 110 Si vede subito che essa non è affatto appropriata per in­ dicare il puro e semplice avere a disposizione in un momento qua­lunque un determinato contenuto. Potremmo dire di ricordare come è fatta una giraffa oppure la data di morte di un personaggio illustre. Cose di questo genere sono certamente state ap­pre­se nel passato, ma un conto è ricordare come e quando sono state apprese - ed in tal caso dovremo proprio volgere lo sguardo indietro nel tempo - ed un altro è poter disporre di esse come acquisizioni stabili, come conoscenze sempre a portata di mano. Per indicare il ricordo come capacità di fissare certi contenuti una volta appresi in un'acquisizione stabile, taluni parlando an­ che di ritenzione. Questa stessa parola è stata da noi impiegata in un'accezione nettamente diversa, trattando della problematica della percezione. Ora, la nostra immagine ci consente di diffe­ renziare il ricordo come rievocazione sia dalla ritenzione nel sen­so or ora accennato, che rinvia a contenuti stabilmente acquisiti e sempre disponibili, sia nel senso, illustrato a suo tempo, della ritenzione come presenza ritenzionale di con­tenuti nel decorso sintetico-processuale del presente. Quell'im­magine infatti non può essere impiegata nemmeno in rapporto alla ritenzione in quest'ultimo senso. Nel presente noi guardiamo, in senso tem­ porale, sempre in avanti: la ritenzione è un fenomeno del presen­ te in quanto appartiene alla struttura del presente il suo passare. Così i contenuti ritenzionali, "ciò che abbiamo visto poco fa", appartengono ancora al campo del pre­sente, ma noi non siamo ad essi "rivolti" né percettivamente né in un'attività rievocativa. La parete alle mie spalle si trova "alle mie spalle" sia in senso proprio e concreto sia in senso metaforico temporale. Per que­ sto motivo la differenza non può essere ridotta ad una differenza nella quantità del tempo trascorso: come se la ritenzione fosse un ricordo di esperienze appena passate e la rievocazione un ri­ cordo di esperienze remote. Della parete che ho visto poco fa, e che è dunque ancora ritenzionalmente presente, mi si potrebbe richiedere una dettagliata descrizione. In tal caso ciò che era sol­ 111 tanto ritenzionalmente presente diventa il tema esplicito di un processo rievocativo. In un caso come questo, la rievocazione è diretta proprio su contenuti ritenzionali, e questa possibilità di "ricordo nella ritenzione" mostra chiaramente che la differenza tra passato prossimo e passato remoto non ha qui alcuna rile­ vanza. 3 Il riapparire del passato nel ricordo - Costruzione di un enigma - Soluzione dell'enigma attraverso l'analogia con le raffigurazioni - Critica: non vi sono "idee della memoria". Volgiamo lo sguardo indietro, nel tempo, e il passato riappare. Riappare la figura che ci è stata mostrata qualche giorno fa, ri­ viviamo un episodio da tempo trascorso, le nostre esperienze passate. Ma naturalmente ciò non significa che nel ricordo vi sia una effettiva ripetizione dell'esperienza. Questo è ovvio. Ma allora che cosa significa qui "riapparire"? In che modo possiamo parlare di una presenza, nel ricordo, riferendoci a qualcosa che è in ogni caso assente e trascorsa? Ciò che era ovvio, ci può sem­ brare all'improvviso misterioso. Senza dubbio, alcune spiegazioni sono qui necessarie. Tut­ tavia dovremmo evitare di conferire a problemi che pongono nient'altro che compiti descrittivi, la forma di enigmi che sono, in realtà, giocati solo sulle parole. Ciò può accadere proprio a questo punto: il fatto in se stesso ovvio che la presenza del con­ tenuto memorativo non possa essere intesa come una presen­ za "autentica", potrebbe essere proposto come una difficoltà di cui è necessario in qualche modo venire a capo. Ed ancora una volta potrebbe sembrare un'idea buona quella di trarre profitto dall'analogia con le raffigurazioni. Proprio perché il riapparire del passato non può essere inteso come un'autentica ripetizione, ciò che appare non può essere altro che un'im­magine di esso. In un 112 senso certamente non letteralmente iden­tico a ciò che intendia­ mo propriamente con raffigurazione: ma questa nozione può essere esplicitamente richiamata per fornire una sorta di illustra­ zione analogica del rapporto che il ricordo istituisce con il pas­ sato. Ci potremo allora avvalere sia della struttura del riferimen­ to, sia della "povertà" essenziale della raffigurazione. Abbiamo l'impres­sione che "il ricordo sia un tipo di esperienza in certa misura secondaria in confronto a quella della realtà presente. Di­ ciamo: "Di questo possiamo avere solo un ricordo". Come se il ricordo fosse, in senso primario, un'immagine un po' pallida ed incerta di ciò che originariamente fu davanti a noi in piena chia­ rezza" [2]. Si comincia dunque con il dire: nel ricordo un evento passato si ripresenta in quanto passato. Ma se il passato è passa­ to come può essere ancora presente e per di più come passato? Come è possibile questo? Come facciamo a capire una cosa simile? L'analogia con le raffigurazioni dovrebbe indicarci la via per usci­ re dal vicolo cieco. Solo un'immagine del passato è presente, e non il passato stesso. Abbiamo così risolto un enigma che non esiste. Abbiamo ottenuto chiarezza solo facendo grandi confusioni. In­ fatti non vi è dubbio che ciò che contraddistingue la percezione dal ricordo non è certamente la questione dell'immediatezza. Il riferimento alle raffigurazioni ci deve servire per sottolineare che se parliamo di immagini, non possiamo intenderle, né nell'uno né nell'altro caso, secondo il rapporto istituito dalle sintesi raffi­ gurative. Dovremmo dire piuttosto: ciò che caratterizza questa presenza è proprio il fatto che l'evento è passato. E di ciò non è il caso di meravigliarsi. Altrimenti dovremmo meravigliarci anche del fatto che io sono qui e la sedia è là, eppure la percepisco. Inve­ ce dobbiamo meravigliarci soltanto di questo eppure e declinare ogni responsabilità della meraviglia che esso esprime. Se in luo­ go di costruire enigmi, ponendo strani problemi di intelligibilità, ci atteniamo allo statuto descrittivo dell'espe­rienza del ricordo, in essa non troviamo nessun rapporto di riferimento tra una cosa ed un'al­tra, nessun effetto raffigurativo, nessuna immagine. Non 113 vi sono idee della memoria, ma solo cose che si ricordano. L'al­bero che ora ricordo è proprio quel­l'albero che vidi l'altro giorno in giardino e che probabilmente si trova tuttora al suo posto. La melodia che ora mi torna in mente è la melodia che ieri ho udito, e se dico "ora mi torna in mente", ciò significa solo che la ricor­ do e non che essa, fra ieri e oggi, è diventata una cosa dentro la mia mente. Vi è tuttavia anche un altro lato del tema dell'im­me­dia­tezza che può essere illustrato attraverso una contrapposizione. Come diciamo che i ricordi non sono raffigurazioni e nem­ meno qualcosa di analogo ad esse, così potremmo osservare che i ricordi non sono documentazioni. Supponiamo di aver una volta com­ piuto un viaggio con un amico. Ora questi rievoca un episodio di quel viaggio che mi riguarda da vicino. Eppure io non ricordo proprio nulla, per quan­to egli si soffermi su ogni dettaglio. Tutto ciò che l'amico mi sta narrando mi appare come una sua fantasti­ cheria. Può essere allora che io chieda che il racconto venga documentato. Certo, se ho buone ragioni per fidarmi dell'amico e della sua memoria, il racconto potrebbe già rappresentare per me un elemento di documentazione. Ma ad esso possono aggiungersi altri elementi, come i ricordi concordanti di altre persone implicate in quel­l'episo­dio; o addirittura una lettera che reca la mia firma che contiene riferimenti ad esso, e così via. Può essere infine che la documentazione sia tale da convincermi: le cose sono andate proprio così. Proprio io ho fatto questo. Mi dichiaro convinto: e ciononostante non ricordo nulla, per quanto, la cosa mi possa sembrare strana. Un frammento del mio passato è stato ricostruito attraverso documentazioni, ma rimane per me in certo senso estraneo, come se fosse stato rico­ struito il frammento del passato di un altro. Tuttavia può anche accadere che, per qualche ragione mi­ steriosa, io improvvisamente ricordi. Come se ci trovassimo di fronte ad una porta chiusa: qualcuno ci descrive che cosa c'è nella stanza ed esibisce documentazioni di vario genere. Ad un 114 certo punto la porta, improvvisamente, si spalanca: an­ch'io vedo nella stanza. Ora, finalmente, ricordo. E non si tratta affatto di chiedere: che cosa è avvenuto nel­ la tua testa in quell'istante? Infatti proprio questo è irrilevante. In quell'istante, ciò che prima era appreso solo attraverso docu­ mentazioni, ora è dato direttamente nel ricordo [3]. In tutto ciò è implicito, naturalmente, che i ricordi di cui parliamo qui sono anzitutto i miei ricordi. Il passato che riappa­ re nel ricordo è il mio passato. Nella nozione di passato istituita attraverso il ricordo vi è un momento soggettivo ineliminabi­ le. Tuttavia questa privatità del ricordo non va intesa come se certi contenuti fossero circondati da una atmosfera di familiari­ tà, di vicinanza all'io, che li renderebbe riconoscibili come miei, predisponendoli ad una riappro­priazione [4]. Un simile modo di presentare il problema non sarebbe altro che una variante di una concezione che rende l'atto del ricordo come conseguente ad una caratteristica qualitativa del contenuto: l'io sta da un lato e le esperienze in genere dall'altro, come esperienze in se stesse non ancora soggettivamente appropriate. Alcune di esse tuttavia sono a me più vicine, avverto qualcosa di simile ad una segreta affinità con me stesso, e per questo mi appaiono come ricordi. Invece è evidente che proprio il tentativo di una spiegazione non può che condurci a speculazioni prive di fondamento: i conte­ nuti memorativi si propongono senz'altro come tali per il sem­ plice fatto che sono intesi nell'esperienza del ricordo. L'inerenza del­l'evento ricordato alla compagine di esperienza di colui che ricorda è un carattere strutturale del ricordo alla cui illustrazione è più che sufficiente la distinzione concettuale tra ricordi e do�� cumentazione. In coerenza con tutto ciò tenderemo anche a respingere ogni sottolineatura della privatità del ricordo che si trovi sulla li­ nea di un'enfasi della soggettività, tutta giocata su una interiorità inattingibile ad altri, e dunque incontaminata ed incontamina­ bile. L'accento posto sull'introspezione molto spesso dal piano 115 psicologico può scivolare su quello filosofico pro­spettan­do più o meno alla lontana ed anche in forme diverse, una concezione della soggettività come ultimo tabernacolo che per gli altri deve restare permanentemente chiuso. Io solo posso essere il sacer­ dote di me stesso. Questa enfasi si specializza poi in rapporto ai nostri pro­ blemi minimi. I ricordi sono miei ricordi anzitutto nel senso che essi sono provvisti di un'impronta rigorosamente unica: essi re­ cano su di sé il sigillo inimitabile di me stesso. L'imme­dia­tezza del ricordo viene così proiettata in un contesto che essa non può certamente sostenere. Infatti, qui è in questione soltanto la differenza con le do­ cumentazioni, e solo ad essa è legata l'assolutezza della pro­prie­tà soggettiva sul ricordo. I ricordi degli altri possono per me valere solo come documentazioni del loro passato ed eventualmente anche del mio. Mentre i miei ricordi non possono valere per me come documentazioni: io non vengo a sapere dal ricordo che le cose sono andate così. Il ricordo non è un'infor­mazione, tanto poco quanto lo è il fatto che vedo di fronte a me un albero o una sedia. Ma affermare che il ricordo di un altro non può essere un mio ricordo non è altro che formulare un truismo: sulla cui base non è certamente possibile escludere che io ricordi lo stesso episodio che anche un altro ricorda ed esattamente nello stesso modo. Oppure dovremmo commentare: "Certo, ricordo che le cose sono andate così come tu dici, ma poiché sono io a ricor­ darlo, allora ci deve essere qualcosa, una sfumatura, in base alla quale il mio ricordo deve essere almeno un poco diverso dal tuo"? Questo ci apparirebbe, giustamente, come un arzigogolo. 116 Annotazione Forse si dovrebbe sottolineare più di quanto accada di solito che la discussione che Wittgenstein conduce nelle sue Ricerche filosofiche sulla "privatità" delle sensazioni, e che ha dato luogo a molteplici commenti e variazioni accademiche, ha di mira in realtà non solo lo stile di approccio introspettivo, ma il suo impiego secondo un'inclinazione che rinvia a una concezione "tabernacolare" della soggettività. Basti ram­mentare questo indicativo frammento dell'osservazione 253: "Durante una discussione su questo argomento, ho visto una persona battersi il petto dicendo: "Ma un altro non può avere QUESTO dolore!" . La risposta è che accentuando enfaticamente la parola "questo" non si definisce nessun criterio di identità. Piuttosto questa enfasi ci induce a credere, erroneamente, che un tale criterio ci è familiare, ma deve esser­ci rammentato" (trad. it. cit., p. 171). L'imma­gi­ne della persona che si batte il petto, facendo nello stesso tempo cadere l'accento sul questo (il mio) indica in modo eloquente la direzione della polemica e il senso della discussione complessiva di Wittgenstein. Ci troviamo qui di fronte ad un'esasperazione intimistica che non può essere giustificata dalla "privatità" delle sensazioni, la quale del resto è una circostanza tanto incontrovertibile quanto lo è il fatto che "il solitario si gioca da soli" (oss. 248). Anche l'esemplificazione piattamente quotidiana a cui Wittgenstein ricorre (basti rammentare le varie meditazioni a cui viene sottoposta la privatità del mal di denti) è, a mio avviso, già carica di un'ironia evidentemente rivolta nella stessa direzione. 4 La connotazione temporale del ricordo - In che senso possiamo dire che il ricordo è meramente riproduttivo. La rinuncia ad imboccare la via dell'introspezione contiene dun­ que una netta presa di posizione nei confronti di ogni imposta­ zione che pretenda di far derivare dalle "qualità" del contenuto il 117 suo carattere memorativo. Diamo allora subito risalto alla connotazione temporale del ricordo, al fatto che un'esperienza ricordata è appunto niente altro che un'espe­rienza connotata temporal­ mente come riferita al mio passato. In questa direzione era già del resto orientata l'immagine che abbiamo proposto come una sorta di filo conduttore, iniziale. Dal presente, a cui è legato il percepire, volgiamo lo sguardo indietro al nostro passato. Ogni differenza deve essere istituita a partire di qui. Con ciò prendiamo una via opposta a quella che, a prima vista, sembrerebbe ovvia. Sembra, cioè, che un contenuto deb­ ba essere riconosciuto come "passato" e quindi come contenu­ to di un ricordo per via di qualche sua peculiarità intrinseca: la connotazione temporale apparirebbe allora secondaria rispetto a qualche connotazione di altro genere che avrebbe carattere pri­ mario e dalla quale il riferimento temporale dipenderebbe. Del resto, come abbiamo osservato la forza con cui si impone l'im­ piego analogico-illustrativo delle raffigurazioni risiede in que­sto: se rammento le fattezze di una persona, la forma di una figura, il colore di un vestito, quella persona, quella figura, quel colore non sono di fronte a me, come prima, "in carne ed ossa". Do­ vremmo dunque prendere atto di una non so quale evanescenza, di una sorta di fuggevolezza, di labilità che si oppone ad una salda presa su quegli oggetti. Proprio in questi caratteri dovrem­ mo riconoscere l'ambigua presenza-assenza dei contenuti me­ morativi, ad essi dovremmo richiamarci per rendere conto del riferimento temporale. Noi invece intendiamo sostenere che in questo modo di impostare il problema si ha una vera e propria inversione del­ la situazione effettiva. In realtà dobbiamo fissare il riferimen­ to temporale come carattere prioritario e trarre di qui le debite conseguenze. Ciò non significa che nel ricordo debba sen­z'altro essere proposta, con la ricomparsa dell'evento, la sua localizza­ zione nel tempo oggettivo. L'imprecisione, la vaghezza, una re­ lativa indeterminatezza del luogo temporale non può nuocere al 118 ricordo così come la esatta determinazione di quel luogo non gli aggiunge necessariamente qualcosa. Quando parliamo di conno­ tazione temporale nel caso del ricordo non possiamo intendere la pura e semplice determinazione di un luogo temporale. A tal fine sono sufficienti le documentazioni. Esse presuppongono l'oggettività del tempo ed in essa localizzano un evento. Il ricor­ do invece non ha a che fare anzitutto con il tempo oggettivo: la possibilità della determinazione del passato a cui rinvia il ricordo nel tempo oggettivo appartiene certamente al suo senso, ma il problema della realizzazione di questa possibilità può sorgere solo estrinsecamente ed essere risolto con altri mezzi. Del resto si tratta di un rilievo che abbiamo già compiuto: quando inter­ vengono le dimensioni temporali, un riferimento soggettivo è presupposto, e perciò il carattere di passato non può consistere nella "datazione" dell'evento, ma proprio nella sua assenza intesa come presenza trascorsa. Non si tratta dunque di un puro e sem­ plice non esserci, ma di un non esserci più. Questo "non più" è la formula della connotazione temporale del ricordo. Con ciò possiamo riproporre il tema della "passività", alme­ no in una delle accezioni del termine a cui ci siamo richiamati a suo tempo trattando della percezione. Anche in rapporto al ricor­ do possiamo dire: "Quanto a questo non posso farci nulla". Altrimenti il ricordo non sarebbe affatto un ricordo. Quei filosofi che hanno parlato del ricordo come di una facoltà "me­ ramente riproduttiva" avevano senza dubbio le loro buone ra­ gioni. Certo, se con ciò si volesse affermare che il ricordo non fa altro che ripresentare le cose come sono accadute, senza che intervengano modificazioni più o meno complessamente moti­ vate, si confonderebbero piani diversi e una simile affermazione non avrebbe alcun fondamento. E tuttavia non sarebbe lecito obiettare che nessun ricordo è meramente riproduttivo, se con mera riproduzione si intende il semplice fatto che ciò che si pre­ senta nel ricordo ha il senso dell'essere accaduto proprio così, nel modo in cui lo ricordo. 119 In rapporto ai ricordi possiamo tuttavia parlare di passività anche in un senso più forte. La percezione, e in generale ogni esperienza attuale, impone i propri dati così come sono, ma in un contesto di possibilità aperte. Nel presente posso sempre fare qualcosa. Fino ad ora mi sono comportato così. Ma d'ora in poi - questo deve essere ancora deciso. Nel presente posso prendere decisioni. Nel ricordo invece non solo non posso farci nulla, ma non posso farci più nulla. Ogni decisione è già stata decisa. A­vrei potuto superare quella soglia, ma non ho osato farlo. Il ricordo può così diventare il luogo del rimpianto. 5 La certezza dei ricordi - Distinzione tra una considerazione interna ed una considera­zione esterna - La percezione e il ricordo in rapporto al problema della certezza - Che cosa vede, in realtà, chi vede una nave lontana. Non dobbiamo allora tenere in nessun conto la labilità, la ten­ denziale mancanza di chiarezza e di distinzione che sembra un carattere peculiare dei nostri ricordi? Quando ricordiamo un evento, un'azione passata, una figura che ci è stata mostrata, è sempre possibile incorrere in errori: la figura era forse, in quel punto, diversa da come la ricordo. I nostri ricordi sono sempre in­certi. Della giustezza del loro riferimento alla realtà si può co­ munque dubitare. Ci è forse lecito trascurare questo aspetto in una caratterizzazione del ricordo? Al contrario, sembra proprio che questa incertezza, questa relativa indeterminatezza, contrad­ distingua un'esperienza passata, che riappare nel ricordo, rispet­ to ad un'esperienza attualmente vissuta. Alla percezione dovrà essere attribuita una chiarezza e distinzione che non può invece essere attribuita al ricordo "corrispondente". Tutto ciò sembra molto plausibile. E tuttavia in questo modo di presentare le cose si effettuano inavvertitamente pas­ 120 saggi ingiustificato. Che cosa intendiamo veramente dire quando notiamo che di ciò che ricordiamo si può comunque dubitare? In effetti, se ora riproduco una figura che ho visto ieri, sappiamo che in un punto qualunque ci potremmo sbagliare. Ma in che senso potremmo dire che ciò non poteva certo accadere ieri, quando la figura era di fronte al nostri occhi? Se ora stiamo di­ segnando la figura con l'intenzione di darne un'im­­ma­gine fedele, in un punto qualunque un amico mi può fermare la mano e dire: " Qui è possibile che ti sbagli!". Se invece ora stiamo percorren­ do con lo sguardo una figura, quella esclamazione ci lascerebbe esterrefatti. Eppure sarebbe un passaggio ingiustificato ritenere che dalla possibilità dell'errore nel ricordo si possa senz'altro con­ cludere che la chiarezza e distinzione stia tutta dalla parte della percezione, e che ai ricordi in genere debba essere riconosciuto comunque un grado di oscurità e di indistinzione. In tal caso si confonderebbe una considerazione esterna con una considera­ zione interna. A chi ci dice: "Qui è possibile che ti sbagli!" posso sempre contrapporre: "Di questo sono assolutamente certo". La possibilità dell'errore considera il ricordo dall'esterno; ma questa possibilità non toglie che possano darsi gradi diversi di chiarez­ za e distinzione all'interno del ricordo, e in particolare ricordi, provvisti del carattere interno: "Le cose sono andate effettiva­ mente così, e di ciò sono assolutamen­te certo". "Proprio su questo punto non ho il minimo dubbio". Oppure può essere che il ri­ cordo sia relativamente confuso e indistinto: "Non mi è chiaro quale piega assumesse la linea in questo punto". "Vi è una lacuna nei miei ricordi" [5]. Vi sono dunque gradi diversi di chiarezza dei ricordi: vi sono ricordi oscuri o lacunosi, e dunque anche ricordi perfetta­ mente chiari e distinti. L'osservazione precedente richiama sem­ plicemente l'attenzione sul fatto che, comunque stiano le cose con la chiarezza interna del ricordo, essa non può dare garanzie. 121 La possibilità di sbagliare e la chiarezza del ricordo si trova­ no dunque su piani diversi. L'uno non deve essere confu­samente intrecciato con altro, come accadrebbe invece se ritenessimo che l'evidenza del ricordo debba in ogni caso arrendersi di fronte all'evidenza della percezione. Se ieri mi è stata presentata una figura ed oggi mi si chiede di ricordarla, forse mi accingerò a fare un disegno. Mettiamo nero su bianco ciò che ricordiamo di essa (e non una. sua imma­ gine mentale). Può essere che procediamo speditamente senza il minimo dubbio, senza alcuna incertezza. La figura era fatta proprio così. E se mi venisse mostrato l'ori­ginale e vedessi che la figura era invece assai diversa? Potrei restare sulle mie. Potrei pen­ sare che essa è stata, nel frattempo, alterata. La figura che ora mi presenti non è affatto quella di pri­ma. Questo comportamento non sarebbe affatto irragionevole. La figura può essere effettivamente la stessa, ma perché mi appa­ ia come la stessa è necessario qualcosa di più che una semplice percezione. Qui percezione e ricordo sono in conflitto, ma solo esteriormente; e la percezione come tale, con tutta la sua eviden­ za, non è in grado di intaccare l'evidenza del ricordo. Nemme­ no la consapevolezza della possibilità dell'errore può mettere in questione la certezza del ricordo. Il ricordo deve vacillare dall'in­ terno. Certamente, può accadere che la ripresen­tazione della fi­ gura renda improvvisamente instabile quel ricordo che prima mi appariva solido e sicuro. Qui è possibile che mi sbagli: ma non come una possibilità vuota. Ora il dubbio è effettivamente pene­ trato dentro il ricordo. Ma se ciò accade, viene certamente messo in gioco un complesso meccanismo, sul quale la falsa contrappo­ sizione tra la chiarezza della percezione e l'oscurità del ricordo non può insegnarci nulla. Del resto, anche una percezione può essere oscura e indi­ stinta: "Mi sembra che si tratti di una nave lontana". Ma non ne sono certo. In altre circostanze potrei esserlo. Nella nebbia a­guz­­ ziamo lo sguardo: qui tutto ci appare labile, sfumato. Qualcuno 122 mi viene incontro. Qualcosa si muove. Ma che cosa? A ciò si potrebbe obiettare- quando parliamo di gradi di chiarezza e distinzione nel caso della percezione, non ci riferia­ mo ai dati percettivi, ma alla loro interpretazione. Infatti, nella percezione dobbiamo distinguere i dati percettivi come tali e il modo in cui essi vengono appresi o interpretati. La necessità di questa distinzione si impone con particolare forza nei casi in cui un complesso di dati percettivi viene interpretato prima in un modo e poi in un altro per ciò che concerne il loro riferimento oggettivo. Così se mi si chiede di identificare un suono indican­ done il nome, posso anche sbagliare. Ma quando mi si fa risen­ tire il suono, e mi correggo, non è certo cambiato ciò che io ho effettivamente udito. Ora odo esattamente ciò che udivo prima: solo l'"identificazione" è cambiata. Alla base di questa distinzione vi è certamente qualcosa di giusto, ma di essa si fa un uso sbagliato. Infatti, mostrando che di uno stesso complesso di dati percettivi si può dare ora l'una ora l'altra interpretazione, si suggerisce che sia possibile e addirittura necessario separare nettamente i cosiddetti dati percettivi puri e semplici dal momento della loro interpretazione, come se l'in­ terpretazione si aggiungesse ad essi estrinsecamente e potessero darsi i dati percettivi in se stessi, privi di qualunque interpreta­ zione. Dopo di ciò, è facile essere indotti a distribuire la chiarez­ za e l'oscurità rispettivamente sull'uno e sull'altro momento. Ai dati percettivi in quanto tali spetta la chiarezza; l'oscurità invece, quando è il caso, alla loro interpretazione. Ma proprio ponendo le cose in questo modo l'intera pro­ blematico diventa un groviglio difficile da districare. Se i dati percettivi sono sempre chiari, come può accadere che mi sbagli ad interpretarli o che si possa essere incerti sulla loro interpre­ tazione? Che cosa significa "chiarezza" in questo caso? In re­ altà, proprio il parlare di chiarezza e oscurità e dei loro gradi nel­l'ambito della percezione richiede che in ciò che è dato per­ cettivamente un'interpretazione sia comunque presupposta. La 123 possibilità di interpretazioni diverse non autorizza la posizione di dati anzitutto non interpretati. Che cosa vede allora chi vede una nave lontana? Qualcuno sarebbe tentato di rispondere: in realtà vede solo delle macchie. Ma perché mai i cosiddetti dati percettivi in se stessi dovrebbero essere proprio delle macchie? Noi invece diciamo che chi vede una nave lontana vede proprio una nave lontana, e chi vede delle macchie vede proprio delle macchie. E la nave lontana la può vedere - come del resto le macchie - in modo chiaro e distinto oppure in modo indistinto e oscuro. In quest'ultimo caso forse dirà: ciò che vedo mi sembra una nave lontana, ma potrebbe trat­ tarsi di nubi all'orizzonte, e ad essere sincero vedo in realtà solo delle macchie. "In realtà" ha qui tutt'altro senso di prima. Qui ci si richiama a ciò che propriamente viene visto e non a ciò che si suppone che viene propriamente visto. In effetti non abbiamo più diritto di dire che un tale che vede una nave lontana in realtà vede solo delle macchie di quanto abbiamo il diritto di dire che vede in realtà solo delle macchie colui che vede, una nave vicina. Anche in questo caso, come in quello del ricordo, è impor­ tante tener ferma la distinzione tra una considerazione interna ed una considerazione esterna al fatto percettivo stesso. Da un punto di vista interno si dànno nella percezione differenze del grado nella chiarezza e nella distinzione, differenze che si riflet­ tono in un maggiore o minore grado di certezza quanto a ciò che viene effettivamente percepito. Ed anche in questo caso, qua­ lunque sia il grado della certezza, è sempre possibile sbagliare. È possibile che si sbagli chi vede una nave vicina e chi vede una nave lontana. Ed anche chi vede solo delle macchie quando si tratta proprio di una nave lontana. 124 6 L'evanescenza del ricordo - Costituzione del passato nel movimento dell'oblio - Il passato come oscurità e inerzia. E tuttavia... "Mi veniva incontro nella nebbia come una immagi­ ne della memoria". Qualcuno si potrebbe esprimere così. E noi dovremmo forse commentare pedantescamente: poiché vi sono anche "immagini della memoria" chiare e distinte, in quella simi­ litudine si allude certamente ai ricordi oscuri? Sarebbe invece il caso di chiedersi se nel ricordo non vi sia realmente nessun motivo, nessun tratto che ci consenta di ren­ dere conto di questa associazione così consueta tra il ricordo e questo tendenziale svanire. Le nostre considerazioni preceden­ti hanno liberato il terreno da più di un equivoco, e in particolare da un'impostazione a rovescio del rapporto tra determinazioni qua­litative e connotazione temporale. La connotazione tempo­ rale che caratterizza l'evento come evento passato non dipende da caratteristiche qualitative del contenuto, e in particolare dalla labilità del ricordo. Poiché questo lato del problema è stato chia­ rito, possiamo ora cercare di riproporre il tema della labilità del ricordo come un tema che anche le nostre considerazioni sulla chiarezza del ricordo non riescono a mettere del tutto da parte. Ed in effetti non lo possono. L'evanescenza dei ricordi, la loro labilità, l'idea secondo cui i ricordi sono qualcosa di intrin­ secamente più debole delle esperienze nel momento in cui fu­ rono effettuate, benché possa condurre a falsi problemi, tuttavia non poggia soltanto sulla osservazione comune e ovvia che è possibile sbagliare nel ricordo (come tanto spesso le documen­ tazioni attestano) e nemmeno sull'attribuzione ai ricordi o­scuri di qualche particolare privilegio. Essa ha, al contrario, un'origine ben fondata nella forma temporale dei processi esperienziali. Un breve richiamo alla struttura ritenzionale-proten­zio­na­ 125 le del presente basterà ad impostare il problema nel suo giusto verso. Come abbiamo spiegato a suo tempo, a tale struttura è essenziale la continua modificazione dei valori ritenzionali, inte­ sa come un crescente allontanamento dal centro di attualità del campo temporale e come una approssimazione progressiva ai suoi margini. Proprio per questo in realtà il "diagramma del tem­ po" che abbiamo introdotto nel capitolo precedente richiedereb­ be forse di essere completato. In esso manca ancora qualcosa. L'inclinazione della linea regressiva intende certamente alludere alla forma dell'allontanamento, presentandolo tuttavia come se esso potesse continuare indefinitamente. Sarebbe dunque anco­ ra necessaria l'indicazione di una linea dell'orizzonte che determini un limite al di là del quale il contenuto cade interamente fuori del campo del presente. Regredendo i contenuti si approssimano a questa linea, in una degradazione continua della presenza ri­ tenzionale. Al di là di essa, i contenuti ritenzionali "svaniscono". Con ciò viene acquisita una nozione di passato in senso proprio, in contrapposizione al passato meramente ritenzionale che può essere detto improprio perché appartiene ancora al campo del presente. Ma è chiaro che per rendere conto di questa regressione non possiamo limitarci a dare di essa una descrizione meramen­ te temporale. I contenuti debbono essere messi in questione nel loro effettivo venir meno: la regressione di cui parliamo deve essere intesa come un concreto movimento dell'o­blio. L'analogia con il campo visivo - qualcosa si allontana a poco a poco, e poi scompare al di là dell'orizzonte - ci fornisce una guida. La cosa si presenta anzitutto nei suoi netti contorni, si distingue da ciò che sta intorno, e in questa distinzione essa può essere identificata nel suo essere e nella sua ricchezza di ar­ ticolazioni. Poi essa si allontana sempre più, e questo allontana­ mento si accompagna con una progressiva perdita di chiarezza: la cosa subisce, per così dire, una contrazione delle sue determi­ nazioni qualitative. Vi è una progressiva fusione delle sue distin­ 126 zioni interne: ora sono visibili solo i suoi contorni; ed an­ch'es­­si in una progressiva semplificazione. Poi diventa incerta anche la sua precisa delimitazione rispetto a ciò che sta intorno: diventano indeterminati i colori, si attenuano i contrasti e i tratti di demar­ cazione, si contraggono le dimensioni. Ed infine la cosa si perde lontano [6]. Anche il movimento dell'oblio potrebbe essere descritto in questo modo. La figura che poco fa mi è stata mostrata e ancora presente in tutta la sua ricchezza di articolazioni, nei dettagli della forma, nella sua disposizione in mezzo ad altre figure, nei chiari contrasti cromatici, ecc. Il parlare di regressione temporale, di crescente allontanamento dal presente avrebbe ben poco senso se non fosse inteso concretamente come un graduale oscurar­ si delle determinazioni qualitative del contenuto, come una sua "contrazione" nell'accezione ampia in cui ne parlavamo or ora. Con il passar del tempo, la figura soggiace a svariati processi di semplificazione e di schematizzazione; della ricchezza del­le sue articolazioni restano ormai soltanto alcuni tratti dominanti; la sua eventuale disposizione tra altre figure tende ad una progres­ siva indeterminatezza, intervengono fusioni, spostamenti, con­ densazioni fino ad una completa indistinzione. In generale sappiamo benissimo che con il tempo si affievoliscono i ricordi: questa frase potrebbe essere intesa come una pura e semplice affermazione di senso comune, fondata su constatazio­ ni che abbiamo potuto ripetere mille volte e del resto valida solo entro i limiti della sua esplicita genericità. Per noi invece essa è una formula della sapienza quotidiana, di una sapienza da quat­ tro soldi, nella quale tuttavia traspare l'idea della legalità necessaria della struttura temporale. È così, e non può essere altrimenti: non può darsi il caso che quanto più una cosa si allontana dal presente, tanto più essa divenga viva e chiara. L'oscurarsi delle esperienze attuali nel movimento regressivo del tempo non è una circostanza accidentale di cui ci limitiamo a prendere atto, ma rappresenta la determinazione concreta di quel movimento che 127 sta alla base della stessa formazione di un passato. Certamente, l'azione del tempo non basta per spiegare la complessa dinamica dell'oblio: richiamandoci ad essa, fissiamo piuttosto l'accezione più elementare del­l'oblio, connettendola internamente ad un'acce­ zione di passato altrettanto elementare. Tenendo conto di ciò potremmo parlare dell'oscurità del passato come una sua determinazione intrinseca. E così anche della sua inerzia. L'impostazione del problema resta qui ancora quella che è stata or ora proposta; muta soltanto il punto di vista da cui consideriamo la regressione temporale. Fin qui si tratta semplicemente della contrazione dei contenuti sino al loro dis­ solvimento. Al di là dell'orizzonte temporale del presente, essi non sono più "visibili"; approssimandosi all'oriz­zonte, diventa­ no sempre più confusi e indistinti. Ma a questa attenuazione del­ la chiarezza si accompagna una attenuazione della vivacità. Anche in questo caso non pensiamo affatto, nonostante l'im­piego di questi termini, a peculiarità qualitative dei contenuti o delle espe­ rienze in genere. Pensiamo invece alla forza viva dell'acca­dimento nell'attualità del suo accadere, a quella forza con la quale l'evento ci colpisce. In esso siamo implicati come una delle forze in gioco. Siamo soggetti ad azioni che esigono risposte. Riceviamo ogni sorta di stimoli e reagiamo ad essi. In questo consiste la vivacità del presente, la dimensione attuale dell'esperienza. Ma allora la regressione temporale potrà essere interpretata anche come un tendenziale dissolversi di questa vivacità. Come un progressivo trascorrere della capacità di colpire, come un allentamento delle tensioni che ci coimplicano e da cui siamo messi attivamente in gioco. Al limite di questo allentamento vi è appunto l'inerzia del passato costituito nell'oblio. 128 7 Tematica del ridestamento - I motivi interni del ricordo - Catene di ricordi. In tutto ciò vi è tuttavia qualcosa che non ci convince. Certa­ mente che il passato si costituisca nell'oblio, ciò può essere con­ siderato come relativamente ovvio: e così anche le determinazio­ ni che possono essere ad esso attribuite in rapporto al processo dell'oblio concepito come una graduale regressione nell'o­scu­rità e nell'inerzia. Ma ciò di cui è necessario rendere conto è proprio il fatto che ci sono ricordi. Attraverso il ricordo possiamo rischiarare il passato e riappropriarci di esso. Nel ricordo, il passato si ridesta. In che modo allora debbono essere intese la sua oscurità e la sua inerzia se esso può rivivere ancora, sia pure nella forma impalli­ dita del ricordo? Naturalmente non basta qui richiamarsi ad una latenza che può sempre essere attualizzata. Ciò a cui siamo ora interessati è infatti proprio il modo di questa attualizzazione. Cominciamo intanto con il notare che spesso accade che un evento trascorso "mi torni alla mente" in modo tale che è per me del tutto chiaro anche il motivo che lo ha suscitato : vi è un qualche aspetto dell'esperienza attuale - un gesto, un movimento, una parola - che ha agito evocativamente rispetto a quell'evento. E di questa azione evocativa siamo del tutto consapevoli: sappiamo benissimo che cosa, nel contesto della nostra esperienza attuale, ha richiamato l'esperienza trascorsa. Ma non sempre accade così. Accanto ai ricordi motivati, ci sono ricordi che non hanno alcun motivo. All'improvviso siamo assaliti da un ricordo e di ciò non sappiamo renderci ragione. Se ci limitiamo a considerare il caso dei ricordi internamen­ te motivati, ciò che attira la nostra attenzione è in primo luogo il fatto che la ripresa dall'inerzia è determinata da una peculiare struttura di rinvio: tra l'esperienza presente e l'espe­rien­za trascorsa 129 vi è un legame associativo sulla cui base la prima agisce sulla secon­ da rendendola nuovamente attuale nel ricordo. Anche il ricordo dunque, considerato in rapporto al problema del modo del suo sorgere, può essere ricondotto entro l'ampia tematica delle sin­ tesi dell'esperienza. L'azione del ridestamento può essere intesa come una vera e propria sintesi di nuovo genere: ed ancora una volta, come una specie particolare di sintesi "passiva". Quest'ultimo aspetto risulta con particolare chiarezza se teniamo conto della necessità di distinguere le decisioni rievo­ catrici dalle rievocazione effettive. Ad esempio, può essere im­ portante per me che io ricordi esattamente che cosa ho fatto un certo giorno. Per questo ho appunto i miei buoni motivi. Ma essi non bastano a generare il ricordo. Voglio vederci chiaro: ma può essere che, volgendo lo sguardo indietro, scorga soltanto il buio. La sensazione che nell'espressione "decidere di ricordare" ci sia qualcosa che non va è naturalmente del tutto giustificata. Una decisione rievocatrice sta ancora del tutto al di qua della rievocazione ed essa non è affatto in grado, di per se stessa, di spalancare la porta che chiude l'aula della memoria. Non siamo liberi di ricordare ciò che vogliamo. Affinché abbia luogo il ricordo deve aver luogo una sintesi: il simile trae il simile, dal passato. Già per questo il ricordo deve essere con­ siderato come momento di un processo. Una volta che un unto del passato è stato rischiarato, altri possono esserlo di passo in passo, e nello stesso modo. Un ricordo - un'espe­rienza passata che è stata resa nuovamente attuale - può essa stessa ridestare un altro ricordo. Eventualmente ancora sulla base della somi­ glianza. Oppure della "contiguità" (o di qualche altra regola). Si forma così ciò che potremmo chiamare una catena di ricordi. Ogni ricordo interviene in essa come un'esperienza passata ridestata e dunque anche come motivo possibile di una "sintesi di ridesta­ mento" [7]. 130 8 Ricordi che ci appaiono immotivati - Ma il motivo potrebbe non essere palese - La coscienza come "flusso" di esperienze - Modo erroneo di impiego di questa immagine - La nozione di catena deve poter essere applicata ad ogni processo dell'esperienza in genere - La domanda sui motivi del ricordo ha sempre senso. Tutto ciò sta bene se consideriamo il caso dei ricordi motivati. Ma, come abbiamo osservato fin dall'inizio, vi sono anche ricor­ di immotivati: una scena memorativa si impone senz'altro, all'im­ provviso, senza alcun motivo. Talora accade proprio così. Dobbia­ mo contentarci di questa constatazione e passare oltre? In realtà, quando siamo assaliti da un ricordo improvviso, siamo spesso tentati di andare alla ricerca delle sue ragioni. In fin dei conti, ciò che possiamo constatare è soltanto che certi ricordi, quanto al modo del loro sorgere, ci appaiono senza alcun motivo. Ma il motivo potrebbe non essere palese. Vogliamo intanto cercare di chiarire che cosa comporti l'am­ missione che esistono ricordi che non solo appaiono immotivati, ma che anche lo sono. Considerando i ricordi motivati, abbiamo visto che vi sono regole dell'associazione che istituiscono dei vincoli nel processo, che dànno ad esso la forma di una catena. Naturalmente siamo ben lontani dal pensare che parlando della somiglianza e della continuità si possa rendere conto della com­plessa dinamica dei processi rievocativi in genere. Come sempre, ricorriamo anche qui ad una semplificazione estrema per mettere in chiaro attra­ verso di essa il punto essenziale: se vi è un processo rievocativo, allora debbono esserci in ogni caso regole di esso, esso deve ave­ re una struttura, per ogni suo passo debbono esserci dei motivi. Perciò non diremo che nei processi rievocativi domina il caso. Certamente proprio perché la somiglianza e la continuità determinano la via, noi non siamo padroni del sentiero del passa­ 131 to, ma dobbiamo lasciarci condurre per mano lungo quel sentie­ ro. E tuttavia possiamo dire che qui non domina il caso proprio perché vi sono in generale delle ragioni. Richiamare l'atten­zione sul fatto che i processi rievocativi assumono la forma di una ca­ tena è, in fondo, un modo di richiamare l'atten­zione su questa "razionalità" interna. Questo problema si mostra in tutta la sua rilevanza soprat­ tutto se pensiamo ad una sua possibile generalizzazione all'e­ sperienza in genere nella molteplicità delle sue orme. Proprio su questo punto l'immagine famosa proposta da James e ripresa da Husserl della "coscienza" come "flusso" di esperienze può essere fuorviante. In essa sembra che vada perduta, o venga addirittura respinta, l'idea del sussistere di connessioni interne tra le espe­ rienze strutturalmente definite. Questa coscienza "fluente" rischia di diventare una coscienza liquefatta - un com­plesso inarticolato di esperienze in rapporto al quale non avrebbe nemmeno senso tentare di vederci chiaro. Spesso l'immagine del flusso è stata ripresa proprio nella direzione di un rifiuto di principio della possibilità di una chiara penetrazione analitica. Invece l'idea che questo flusso accade secondo regole, che le vicende dell'espe­ rienza siano determinatamente articolate, che nel fluire si faccia vale­ re una razionalità interna che è la razionalità dei motivi, deve passare in primo piano. Le esperienze non solo fluiscono, ma sono an­ che concatenate tra loro secondo complessi rapporti motivazio­ nali. La nozione di catena, nella quale ci im­battiamo considerando i processi rievocativi, deve poter essere applicata, al di là della tematica del ricordo, ad ogni processo dell'esperienza in genere. Questa istanza di generalizzazione deve essere dunque già fatta valere in riferimento al problema che ora stiamo discuten­ do. Se i ricordi internamente motivati fossero solo casi speciali, potremmo certamente dire che vi sono processi della rievoca­ zione di cui è possibile indicare una struttura, ma questa circo­ stanza sarebbe a sua volta un caso, all'interno di processi in cui dominerebbe il caso. 132 Questo problema potrebbe assumere la forma che segue. Quando qualcosa "ci torna in mente", questo ricordo può agi­ re come, motivo che suscita altri ricordi. Inoltre, poiché ogni, esperienza passata è oggettivamente contestualizzata con altre esperienze passate è possibile in linea di principio che, a sua vol­ ta, esso sia suscitato da un altro ricordo. Tuttavia la contestua­ lizzazione oggettiva in altri eventi non può garantirle nulla sulla contestualizzazione soggettiva in una catena di ricordi. Potrebbe darsi che un ricordo sia l'inizio assoluto di una catena. In rappor­ to ad esso non sarebbe lecito interrogarsi intorno al motivo del suo ridestamento. Infatti esso non ne ha alcuno. In questo modo l'idea del caso entra nella considerazione dei processi memora­ tivi. Essi non sarebbero affatto autentici processi, anche se pos­ siamo constatare che talora contengono segmenti di processi. Contro di ciò noi affermiamo che la domanda sui motivi del ricordo ha sempre senso. Ma ciò vuol dire che un ricordo non può essere l'inizio assoluto di una catena di ricordi; e poiché ogni catena deve avere un inizio assoluto, questo deve trovarsi nel campo del presente. Tutto ciò può essere efficacemente illustrato mediante un'altra immagine proposta da Husserl che si richiama ai feno­ meni di risonanza [8] . Un diapason può cominciare a vibrare, se sono soddisfatte certe condizioni, nel momento in cui un altro diapason vibra nelle vicinanze. Possiamo allora concepire il passato come un immenso ammasso di diapason inerti. Questo o quel diapason entra in vibrazione, e così, dall'uno all'altro, anche altri diapason cominciano a vibrare per risonanza. All'inizio deve esserci un diapason vibrante nel presente. Annotazione Nel breve dramma di O'Neill, In viaggio per Cardiff il marinaio Yank, morente, e l'amico Driscoll rievocano. All'inizio vi è una fantasticheria che sorge per contrasto. "È una vita d'in- 133 ferno, il mare". - "Deve essere magnifico stare tutta la vita in terraferma e avere una fattoria con una casa propria e mucche e maiali e galline... Deve essere magnifico avere una moglie, e dei marmocchi da far giocare alla sera dopo cena..." La fantasia suscita il ricordo di un progetto fantasticato: "... e mi ero ficcato un chiodo in capo... andare nel Canada o in Argentina o in qualche posto a comprare una fattoria...". E poi seguono i ricordi secondo la struttura elementare della contiguità e della somiglianza: "In Argentina, dicevo? Ti ricordi dei tempi di Buenos Aires? Il cinematografo di Barracas? Che lezione si è dato a quei tali, ti ricordi?... E quando ci hanno messo dentro tutti e due per una rissa a Sidney?... E quella rissa sulla banchina di Città del Capo...". A questo punto: il ricordo del delitto - non nominato, a cui la catena delle fantasie e dei ricordi conduce inesorabilmente sotto il dominio della morte vicina e del timore fantasticato della punizione divina e della speranza di essere assolto. "Credi che Lui ne terrà conto contro di me?" - Ed è questo contesto, interamente determinato dalla situazione presente - morire in viaggio per Cardiff - che motiva non solo il ripresentarsi del ricordo del delitto ma anche il modo in cui esso si presenta, la sua "vivacità", il carattere dell'appena accaduto, la sua visualizzazione allucinatoria: "Mi è parso di vederlo un momento fa, con il sangue che gli zampillava dalla gola". (E. O'Neill, "La luna dei Caraibi e altri drammi marini", trad. di Ada Prospero, Milano, 1966). 9 Tematica delle sintesi inconscie. Il buon fondamento della sensazione che la ricerca di un motivo sia comunque giustificato, che un motivo debba pur esserci, sta dunque nella posizione di principio secondo cui i processi del­ l'esperienza sono strutturalmente ben definiti. Ogni assenza di motivi deve poter essere interpretata come assenza apparente e rinviare perciò a motivi non manifesti. A motivi di cui non siamo 134 consapevoli, a motivi inconsci. Nella considerazione della tematica del sorgere dei ricordi come una peculiare specie di sintesi, ed in particolare discutendo il caso dei ricordi immotivati, siamo perciò indotti ad ammettere che le sintesi dell'esperienza non debbono essere necessariamen­ te consapevoli, ma che si possono date in generale sintesi inconscie. Naturalmente qui ci preme rilevare soltanto l'esistenza del problema, e nella sua forma iniziale, anche in una ricerca feno­ menologicamente orientata [9]. Si potrebbe infatti pensare che un simile stile di indagine che tanto insiste sull'aspetto descritti­ vo non può che escludere dal proprio campo visuale qualunque problematico che metta in questione la nozione di processi in­ consci. Quel che è certo è che, come non bisogna confondere i problemi di fenomenologia pura con quelli di fenomenologia empirica, tanto più occorre sottolineare che è del tutto inutile manipolare nozioni di origine fenomenologica per tentare di af­ frontare problemi che non appartengono né all'una né all'altra. Tuttavia, la cosiddetta descrizione fenomenologica, almeno nel senso qui inteso, è essenzialmente una descrizione strutturale, ed il tema del ridestamento dei ricordi, pur nelle sue particolarità, si presta ad un accenno abbastanza significativo al fine di mostra­ re che l'estensione del problema in questa direzione si im­pone, all'interno del nostro contesto, anzitutto per ragioni di ordine strutturale. Quando, in rapporto ad un ricordo che ci appare immotiva­ to non ci limitiamo a prenderne atto, ma andiamo alla ricerca dei suoi motivi non facciamo altro che proporlo come anello visibile di una catena i cui altri anelli sono nascosti. Altri ricordi, altre esperienze debbono essere state ridestate ed aver agito come motivi. Se parliamo in rapporto ad esse di esperienze inconscia vincoliamo fin dall'inizio questa tematica ad un principio di inte­ grazione dinamica: si tratta in generale di ricostruire l'unità di un processo. Ed allora è necessario sottolineare che qualunque cosa accada nel "flusso" delle esperienze è un risultato necessario delle 135 tendenze e delle controtendenze che attraversano l'intera vita di esperienza, dunque un risultato anche l'anello visibile, nel fatto stesso che è visibile, nel contesto di altri che non lo sono. La sua necessità va poi intesa in un senso all'incirca analogo a quello in cui si può parlare del risultato necessario di un diagramma di forze. Perciò l'esperienza non si svolge su due piani, ognuno con il proprio dinamismo, con le proprie regole, con le proprie tendenze che entrano eventualmente in varie forme di contrasto: vi è invece un unico dinamismo che determina, insieme a ciò che appare, anche ciò che non deve apparire. Perciò la distinzione tra conscio e inconscio si richiama essenzialmente ad una duplice modalità di strutturazione necessaria del­l'esperienza considerata nei suoi decorsi attuali e nella loro dinamica materiale. Di conseguenza occorrerà liberarsi da una nozione della consapevolezza modellata sulla mera forma temporale. Altrimen­ti avremmo a che fare, sul polo opposto, solo con l'incon­sape­vo­ lezza dell'oblio. Nulla ci impedisce infatti di chiamare "cosciente" tutto ciò che appartiene al campo del presente, che si trova al di qua della linea del suo orizzonte. In questo senso siamo coscienti di tutto ciò che ci sta di fronte, come del resto di ciò che si trova alle no­ stre spalle. Siamo consci in generale di tutto ciò che appartiene al passato ritenzionale. Considerando le cose in questo modo, la regressione temporale avrebbe potuto essere illustrata non solo come passaggio dalla chiarezza all'oscurità, dall'at­tività all'iner­ zia, ma anche come un graduale allontanamento dal cen­tro della consapevolezza, come approssimazione ai margini della coscien­­ za: ed il passato dunque come un essere caduto fuori di quei mar­ gini, come un essere divenuto inconscio. Evidentemente nel parlare di sintesi inconscia deve essere lasciata da parte sia la nozione del ricordo che quella del­l'oblio. Infatti, ora chiamiamo inconscia un'esperienza proprio per il fat­ to che essa è attiva. Ed in rapporto ad essa, tuttavia, non possia­ mo dire né che essa è ricordata dal momento che non appare; 136 ma nemmeno che essa è dimenticata, dal momento che essa è stata in qualche modo attivata ed opera attivazioni nel processo. In ciò potremmo scorgere una difficoltà solo se stia­mo fermi ad un'immagine della "coscienza" derivata dalla dimensione della presenza. Si direbbe quasi che se un'esperienza ne ha motivato un'altra ed essa è per me rimasta inconscia, qualcun altro debba essersene accorto. Ed infatti ce ne siamo accorti proprio noi, ma esattamente in questo modo, attraverso l'anello visibile. La con­ sapevolezza sta nel fatto che ci siamo comportati così; l'incon­ sapevolezza sta invece nel fatto che di questo comportamento non sapremmo indicare i motivi. L'"inconscio", non è dunque un sottofondo oscuro del­l'e­­ spe­rienza, ma un oscurarsi dell'esperienza nel suo processo. Ed esso si pone come problema quando si cerca di ristabilire un nesso là dove non ne appare alcuno. La posizione dell'o­scurità diventa allora una condizione della trasparenza. 10 La distanza del passato nel ricordo - L'urgenza del passato - Il passato come orizzonte di senso del presente. Il modo in cui siamo andati raccogliendo i nostri problemi di­ pende indubbiamente dalla nozione di ricordo che abbiamo iso­ lato fin dall'inizio parlando di rievocazione. Di qui quella nozio­ ne di passato inerte che da un lato può essere considerata ovvia, dall'altro anche troppo elementare. Attenendoci alla strut­tura di decorso del presente, il passato si costituisce come limite della regressione temporale nella quale la vivacità dell'e­spe­rienza pro­ gressivamente si dissolve. Ciò che sottrae questo dissolvimento al puro e semplice annientamento dell'esperien­za trascorsa è na­ turalmente la possibilità del ricordo. Attraverso di essa la sogget­ tività mantiene la propria presa sul passato come un campo di latenze - riattivabili. Proprio perché possiamo ricordare, molte 137 cose si dimenticano, ma non si dimentica mai di avere un passa­ to. Può sembrare solo strano il notarlo. Gli sviluppi successivi della nostra problematica, con l'ac­ cento posto su una riattivazione che deve necessariamente radi­ carsi nel presente, sono coerenti con questo modo di impostare il problema. Solo il presente è originariamente vibrante: solo di qui può venire quel suono di cui il passato rimanda l'eco. La tematica del ricordo come rievocazione ci conduce dun­ que a considerare in primo luogo il peso del presente sul passato, il peso dunque delle esperienze successive sulle esperienze pre­ cedenti, delle possibilità future rispetto a ciò che è già accaduto. Ma vi è un altro aspetto del problema della rievocazione che mostra la necessità di prendere in considerazione la direzio­ ne opposta. In realtà, quando parliamo delle sintesi di ridesta­ mento abbiamo a che fare con un processo rievocativo esplicito che richiede la chiara distinzione dei due termini del rapporto. Quando il ricordo si riappropria del passato, mantenendolo nella dimensione soggettiva dell'esperienza, una distanza deve comunque essere fissata. Una scena attuale può motivare una scena memorativa e così dare inizio ad un processo rievocativo. Qualcosa ora mi ha colpito e di qui è stato suscitato il ricordo di un'esperienza trascorsa: dal presente lo sguardo si volge indie­ tro al passato. Le scene percettive possono ancora continuare a decorrere, ma proprio di esse io sono divenuto "immemore". A quella sequenza se ne sovrappone un'altra: la catena dei ricordi che si sviluppano secondo le loro motivazioni interne, secondo le sintesi che istituiscono il processo memorativo e che seguo­ no la propria via. Il rimando motivante dal presente al passato è certamente un modo di unificazione, ma esso non istituisce nessuna autentica integrazione tra le scene, operando invece il ribaltamento dal piano della percezione a quello della memoria. Si stabilisce una connessione realizzando un distacco. In questo aleggiare del ricordo sul nostro presente possiamo certamente riconoscere uno dei tratti che ci fanno parlare della sua evane­ 138 scenza e che talvolta rendono il ricordo così prossimo al regno dell'imma­ginario. Da esso invece se ne separa proprio per il fat­ to che l'esperienza rivissuta nel ricordo è temporalmente con­ notata: ha il senso del non essere più qui, che è il senso di una distanza che non può essere colmata. Il fluttuare del ricordo è il fluttuare di ciò che vediamo in lontananza. Sull'appropriazione operata dal ricordo si fa dunque sentire ancora l'estraneità costitutiva del passato: da questo non posso più essere toccato, come una volta. In fondo i ricordi non hanno peso. Nella rievocazione prendiamo le nostre distanze dal pas­ sato e possiamo liberarci di esso. Quando invece i ricordi hanno un peso, quando il passato urge sul presente e lo stringe da ogni parte, allora forse non si tratta propriamente di ricordi, di pro­ cessi espliciti del rievocare. Nel considerare il peso del passato sul presente dovremmo pen­ sare piuttosto al momento che precede l'inizio effettivo di un processo rievocativo. Quando nella scena presente traspare ap­ pena una scena passata. Insieme a questo diapason risuona quel­ l'altro che giace nel passato. Ma nessun ribaltamento è ancora intervenuto a districare la memoria dalla percezione. Non vi è ancora nessun effettivo rapporto motivante, nessuna riattivazio­ ne memorativa vera e propria. Accade invece che nell'e­spe­rienza presente è fuso il suono dell'esperienza trascorsa, e questa evo­ cazione implicita anziché prendere le vie di una esplicitazione memorativa resta appresa all'esperienza presente come una sua determinazione di senso. In realtà, dobbiamo poter dire non solo che il passato rivive nel ricordo, ma che vive nella stessa esperienza attuale come un'im­pronta da cui essa è segnata. Per­ ciò non parliamo più del passato come oscurità che può essere rischiarata o come inerzia che può ridiventare attiva. Questo è infatti il passato del ricordo : il passato, delle cose insignificanti o che hanno ormai soltanto un significato lontano. A questa di­ stanza del passato, bisogna contrapporre la sua urgenza: il passato che non ha bisogno di essere ricordato perché è troppo vicino, 139 il passato che si costituisce come orizzonte di senso del presente, come il suo scenario. 11 Il problema delle "abitualità percettive" - Sua riconduzione alla tematica delle attese passive - Avviamento alla discussione sulla formazione di anticipazioni percettive contenutisticamente determinate. Tra i problemi che possono essere presi in considerazione all'in­ terno della tematica del peso del passato sul presente, ad uno solo vogliamo dare un po' di spazio per il fatto che esso è par­ ticolarmente significativo per mostrare alcune conseguenze no­ tevoli della nostra impostazione. Potremmo richia­mar­ci ad esso parlando di problema della formazione di abitualità e prendendo in esame solo il caso semplice, e del resto esemplare, delle abi­ tualità percettive. Si tratta perciò di un problema che riguarda anzitutto la tematica della percezione, ma le ragioni per cui esso può essere trattato solo a questo pun­to sono chiare: con il ter­ mine di abitualità indichiamo infatti, in modo forse un po' fuor­ viante, la circostanza secondo cui nella percezione si impongono formazioni di senso che possono essere spiegate soltanto sulla base di esperienze passate. Per rendersi conto di una simile circostanza non è certo necessario aver meditato a fondo sulle speculazioni dei filosofi. Quando ci accingiamo con cautela a cogliere una rosa nel giar­ dino, evidentemente la cautela non può essere giustificata dalla percezione di questa rosa, che del resto non abbiamo ancora toccato. Dobbiamo dire che in qualche modo esperien­ze passa­ te sono presupposte. Siamo così venuti a conoscere l'abitu­dine delle rose ad avere le spine, e di qui abbiamo tratto questa nostra buona abitudine. Si comincia tuttavia già un poco a filosofare se si fa notare 140 che il passato ha certamente qui il suo peso, ma ciò non significa che qualche esperienza trascorsa sia stata effettivamente rievo­ cata. Inoltre, parlando di abitualità, non è tanto il, passato che viene in questione, quanto il rapporto tra passato e futuro: come appare chiaro dall'esempio, l'abitudine, in questo senso un poco insolito, si risolve in un comportamento che si rivolge alla cosa prospettandola entro una rete di attese passive. Il problema della formazione di abitualità deve essere tradotto nel problema della formazione di attese. Alla base di ciò sembra esservi la convin­ zione profondamente radicata in noi che il futuro sarà per, lo più simile al passato: l'esperienza si attiene ad una sorta di regola di uniformità che assolve una funzione di cui sarebbe difficile sottovalutare l'importanza. Poiché le rose per lo più hanno effet­ tivamente le spine, l'azio­ne di questa regola nell'esperienza fa si che noi non lo dobbiamo riconoscere ogni volta a nostre spese. Ci si trova infine nel bel mezzo della riflessione filosofica se si mette in questione il buon fondamento di una simile regola. Ci si può chiedere, ad esempio, se sia lecita la sua generalizzazione nell'asserzione che ogni formazione . di attese rinvia ad esperien­ ze accumulate in passato; ed anche se essa sia da considerare come un dito di fatto dell'esperienza o in qual­che altro modo. A queste domande sembra si debba rispondere in modo senz'altro positivo. Noi vogliamo mostrare invece che, applican­ do il metodo e le nozioni che sono ormai a nostra disposizione, a entrambe deve essere data una risposta negativa. Intanto, se il problema della formazione di abitualità deve essere convertito nella formazione di attese, è indubbiamente opportuno riprendere in esame la struttura di decorso del pre­ sente. Ad essa abbiamo in varie occasioni fatto riferimento, ma per lo più puntando l'attenzione sui fenomeni ritenzionali, che rappresentano solo uno dei momenti di cui consta la sua dialetti­ ca interna. Sulla protenzione come fenomeno inverso e corrispon­ dente alla ritenzione si è detto molto poco. Abbiamo insistito sul fatto che la ritenzione delle scene "appena" decorse non è un 141 dato di fatto psicologico, ma una condizione necessaria di ogni sintesi percettiva. Lo stesso si può dire per le proiezioni anti­ cipanti. La progressione temporale è altrettanto necessaria al­la struttura del presente quanto lo è la regressione. Vi deve essere, nell'istante presente, un'anticipazione del­ l'istante successivo. Ma evi­dentemente non si tratta degli istanti considerati come astrazione vuote. L'anticipazione deve essere contenutisticamente determinata. E proprio avendo di mira la determinatezza contenutistica dell'attesa, si fa subito avanti l'i­ dea di una generalizzazione a partire dal nostro piccolo esem­ pio. Di dove può essere tratto il contenuto atteso se non dal­l'e­ sperienza passata? Questo è il primo punto che vogliamo mettere in discussio­ ne. Vogliamo mostrare che per illustrare la formazione di attese è necessario anzitutto considerare più da vicino il nesso tra ri­ tenzione e protenzione nell'ambito del presente esteso. Questo nesso è il fenomeno originario sulla cui base si può giustificare la stessa formazione di abitualità e il modo del loro operare. 142 12 Riflessioni sul movimento di una pallina - Le attese e la loro progressiva selezione - Il passato proietta nel futuro la propria immagine. Supponiamo allora di assistere ad un processo che si svolge nel tempo, ad esempio al movimento di una pallina che scorre sulla superficie di un tavolo: vi è un istante in cui esso ha inizio ed un istante in cui esso ha termine. Per noi che assistiamo al mo­ vimento, il tratto di tempo che esso riempie è naturalmente un tratto del presente esteso e la successione di istanti di cui consta deve essere perciò intesa come una successione di "punti-ora". Tutto ciò che è accaduto prima dell'istante iniziale e ciò che ac­ cadrà dopo l'istante terminale è irrilevante. A noi interessa pro­ prio questo processo, così come si svolge sotto i nostri occhi. Ci occupiamo solo di esso. La pallina segue un percorso che possia­ mo rappresentare con una linea. Ogni punto della linea sta per un punto percorso in un determinato istante. Converrà inoltre assumere che la pallina possa muoversi come le pare - un'assunzione a cui non è necessario dare con­ cretezza dal momento che essa ci serve soltanto per mettere fuo­ ri gioco le attese motivate dallo sfondo esperienziale. Se il piano del tavolo fosse inclinato, sapremo già che cosa accadrebbe se deponessimo su di esso una pallina. Invece qui le cose stanno in questo modo: deponiamo la pallina sul tavolo e stiamo a vedere che cosa accade. Ecco che essa comincia a muoversi. E se si chiede quali attese di direzione si proporranno in questo istante iniziale, la risposta non può essere che questa: nessuna o, che è lo stesso, una qual­ siasi. Ma le cose mutano dopo un po' di tempo. 143 Ora la pallina si trova nel punto A. Qui alcune direzioni di movi­ mento sono indubbiamente anticipate. Potremmo rappresentare le cose in questo modo: Nello sviluppo successivo una di queste attese sarà confermata le altre attese, di conseguenza, deluse. Ciò non significa, beninteso, che si debba necessariamente giungere ad un punto in cui l'anticipazione non sia più "equi­ voca". Nel punto B la situazione potrebbe essere rappresentata così: Ma potrebbe darsi il caso che in un certo istante, e quindi ad un cer­ 144 to punto dello sviluppo del movimento, la direzione anticipata sia effettivamente unica: È avvenuta una sorta di selezione progressiva delle attese nel rap­ porto tra le attese e il loro soddisfacimento. Che poi un'unica attesa si sia imposta, ciò dipende esclusivamente dal movimento stesso, dal fatto cioè che, fino ad ora il movimento si è sviluppato in questo modo. E ciò non toglie, naturalmente, che nell'i­stante successivo quella attesa possa andare delusa. Potrebbe accadere una deviazione improvvisa. Ma è chiaro che il percepire il movi­ mento della pallina in un certo punto come una deviazione pre­ suppone l'anticipazione percettiva che si è stabilizzata nel senso indicato dal percorso tratteggiato. In quel punto si è verificata una deviazione imprevista, ed in effetti imprevedibile. Quin­di vi era una direzione prevedibile e prevista. Vi sono qui alcune circostanze che meritano particolare at­ tenzione. La pallina - questo lo abbiamo ammesso fin dall'ini­ zio - può andare dove vuole. Tuttavia il movimento, nel suo sviluppo, deve essere inteso come un movimento che genera, al di là dell'istante dato di volta in volta, certe attese di direzione: ogni suo momento conferma un'attesa e ne esclude altre, ope­ rando progressivamente una selezione. È importante a questo proposito sottolineare che la "regolarità" del movimento è solo una particolarità dell'esempio. Anche un movimento "disordi­ nato" genera attese e le seleziona, eventualmente proiettando, ad un certo punto dello sviluppo, l'immagine di un movimento "disordinato". Potremmo parlare sensatamente di deviazioni an­ che in casi come questi: in quel punto, imprevedibilmente, la pallina si muove secondo un ordine. E così è anche logico che all'inizio 145 del movimento non vi siano attese ovvero che la molteplicità di direzioni possibili sia totalmente indeterminata: all'inizio, infatti, non vi è alcuna ritenzione. Tutto ciò mostra anche come sia assai poco adatto ad illu­ strare il tema delle attese percettive l'esempio, così spesso ripetu­ to, della percezione di una "melodia". Esso è più complesso del necessario e proprio per questo rischia di confonderci le idee. In realtà volendo addurre altri esempi, eventual­mente tratti dal mondo dei suoni, non abbiamo bisogno di melodie. Ci basta un fischio. Un fischio monotono, che è cominciato poco fa e che o­ra continua senza variazione alcuna. Anche qui si è formata un'at­ tesa, e precisamente l'attesa che esso continui ancora così, senza Ma non attendiamo forse che questo fischio finalmente cessi? Ce lo attendiamo solo nel senso che lo speriamo. Nel dato percettivo infatti non c'è nulla che annunci questa fine - questo fischio non finisce proprio mai! - e perciò possiamo solo sperare che esso si interrompa: imprevedibilmente. Del resto potrebbe anche darsi che un fischio abbia termine, senza interrompersi. Ad un certo punto ha annunciato da se stesso l'imminenza della propria fine. La tematica della formazione di attese può essere illustrata considerando processi che si sviluppano nel presente: vi sono qui, e non possono non esservi, anticipazioni contenutistica­ mente determinate. Poiché il percorso fino a questo punto è sta­ to questo, in questo punto si dànno queste e queste altre attese. La determinatezza del contenuto sorge dall'interno della perce­ zione, dal passato immediatamente, ritenzionale. In certo senso ci troviamo qui di fronte ad un fenomeno analogo a quello delle sintesi di ridestamento: anche in questo caso potremmo parlare del prodotto di un dinamismo associati­ vo che tuttavia, a differenza del ricordo, pone in essere uno dei poli dell'associazione. Il decorso attuale viene sopravanzato da un'im­ma­gine di decorso a venire che è l'immagine del decorso pas­ sato. Si comincia così a delineare un'interpre­tazione della regola secondo cui il passato proietta sul futuro la propria immagine. 146 13 Sviluppo delle considerazioni precedenti in rapporto al problema della formazione di abitualità - Elaborazione di uno schema interpretativo. Nelle considerazioni precedenti non vengono in alcun modo in questione le "abitualità" percettive. Abbiamo mostrato inve­ ce che la struttura del presente esige essa stessa la posizione di attese e che il passato "improprio" fornisce la base per la loro determinazione contenutistica. Ma possiamo anche spingerci oltre: non solo le anticipazioni percettive non sono sempre determinate da abitualità, ma il nes­ so ritenzione-protenzione, insieme a considerazioni concernenti la struttura della rievocazione, fornisce un modello per rendere conto schematicamente della formazione di abitualità e dunque di attese che rinviano ad uno sfondo di esperienze passate. Vogliamo senz'altro procedere all'elaborazione di questo schema. Sia dato nel campo del presente un evento A seguito da un evento B. In un nuovo presente appare un evento A' simile ad A. Assumiamo allora che A' agisca da motivo per il ridestamen­ to di A. A' suscita il ricordo di A per somiglianza; e assumiamo ancora che A, a sua volta, susciti per contiguità il ricordo di B. Il passo ulteriore riguarda invece la "sintesi proiettivo-evocati­ va": B proietta la propria immagine B' in quanto contenuto nella percezione di A'. Abbiamo così un processo unitario, una conca­ tenazione che ha il carattere di un doppio processo: rievocativo ed evocativo. Esso consta di tre momenti: rievocazione di A me­ diante A'; rievocazione di B mediante A; evocazione di B'. Tutto ciò potrebbe essere all'incirca rappresentato così: 147 Naturalmente nel proporre un simile schema dobbiamo subito sottolineare il suo carattere puramente "teorico": esso ci è utile per rendere chiara la struttura della situazione descrittiva, ma non può pretendere di essere una. sua fedele riproduzione. Per questo possiamo ricorrere all'idea della concatenazione, riba­ dendo tuttavia che nella situazione descrittiva non vi è alcuna ri­ evocazione. Da questa del resto non potrebbe affatto risultare la proiezione di un contenuto atteso. La schematizzazione consiste proprio nel porre come ridestamento di A a partire da A' ciò che è invece un vivere di A, e dunque di B, nel senso di A' - la fusione dell'esperienza passata nell'esperienza presente è una condizione della sintesi proiettiva: tuttavia a fini illustrativi nulla ci impedisce di operare una scomposizione teorica districando l'una dall'altra. Uno stile fenomenologico di approccio nel senso da noi inteso non esclude affatto il ricorso a schemi che, pur avendo di mira le componenti descrittive dell'espe­rienza, forniscano gli ele­menti per interpretazioni. Al contrario, la nostra insistenza sulla de­ scrizione come descrizione strutturale conduce direttamente a problemi di ricostruzioni schematizzanti che siano in grado di rendere chiari i nessi interni di quel fluire dell'espe­rien­za che ha in realtà la forma di una catena. Nel caso che stiamo ora discutendo, attraverso lo schema proposto non è difficile vedere quale forma assumerebbe ciò che abbiamo chiamato in precedenza selezione delle attese. L'attesa di B' può essere confermata o delusa. In questo secondo caso in luogo di un B' simile a B subentra un C. Al ripresentarsi di un evento A", simile ad A', l'attesa concernerà allora sia un B' simile a B sia un C' simile a C. Tutto ciò potrebbe 148 essere rappresentato in questo modo: In A" avremmo in corrispondenza all'esperienza passata due di­ rezioni dell'attesa. L'attesa di B' sarà di conseguenza più debole rispetto al caso in cui la stessa direzione dell'attesa fosse stata in precedenza soddisfatta. Nello sviluppo progressivo dell'e­spe­ rien­za, potrà dunque rafforzarsi l'attesa di B'e stabilizzarsi per così dire definitivamente questa "direzione sintetica"; oppure potranno verificarsi casi più complessi di selezione del­le attese, rafforzamenti, indebolimenti, ecc. Riconduciamo così anche il problema delle "abitualità" a funzioni sintetiche che sono dina­ micamente interconnesse tra loro. In tutto ciò viene certamente tenuto fermo un riferimento soggettivo. Infatti qui parliamo sem­ pre di esperienze di eventi e della loro attesa all'interno dei pro­ cessi esperienziali concreti, e non di eventi in genere. Il nostro tema è dunque trattato interamente entro i limiti di una dottrina dell'esperienza. Perciò quando diciamo che il futuro viene atteso come simile al passato oppure che liberazione dell'esperienza rafforza l'atte­sa, queste for­mulazioni non debbono essere inte­ se come se enunciassero una sorta di postulato di uniformità ontologica. E nem­meno come formulazioni che si riferiscono a oscuri dati di fatto psicologici, a disposizioni che possiamo ri­ scontrare in noi stessi o nella maggior parte delle persone. Esse debbono invece essere illustrate facendo riferimento allo schema teorico proposto, nel quale si mostra non solo la necessità della co­ stituzione di attese, ma anche della loro costituzione in conformità al passato, come proiezioni di esso [10]. 149 14 Confutazione della tesi fondamentale dell'empirismo. Abbiamo mostrato che vi è un processo di formazione di attese già nel campo del presente: dunque dobbiamo distinguere tra le attese la cui base è nel presente stesso e le attese la cui base si trova nelle esperienze passate. Abbiamo inoltre mostrato che il processo di formazione di "abitualità" può essere interpretato secondo uno schema che ha il suo modello nelle proiezioni anti­ cipatrici del passato immediatamente ritenzionale. Con ciò ribadiamo con nuovi argomenti a nostra posizione antiempiristica. La tesi secondo cui ogni attesa percettiva sareb­ be dovuta all'abitudine può infatti essere considerata come un caso particolare della tesi secondo cui ogni unificazione, ogni sintesi - quindi in generale ogni formazione oggettiva - avrebbe il proprio fondamento nell'esperienza passata. Non è difficile riordinare intorno ad essa gli aspetti più caratteristici di un at­ teggiamento empiristico, cosicché sarebbe giustificato indicarla co­me tesi fondamentale dell'empirismo nell'am­­­bito della dottrina della esperienza. Si vede subito, ad esem­pio, che l'idea di un livel­ lo primitivo dell'esperienza nel quale si avrebbe a che fare con una materia ancora non interpretata ed eventualmente proposta come antecedente la stessa distinzione tra soggetto e oggetto, non è altro che la trasposizione "genetica" di quella tesi di carat­ tere generale. E con ciò è naturalmente coerente la negazione che si diano nell'espe­rienza delle necessità. Il passato avrebbe po­ tuto comunque essere diverso: e benché vi siano regole dell'as­ sociazione, tuttavia queste sono da intendere come nozioni reperite esse stesse come dati di fatto e debbono essere interpretate in modo da istituire dei vincoli solo dalla parte della soggettività psicologica, che è propriamente il tema di una indagine intorno alle formazioni dell'esperienza secondo un simile atteggiamento intellettuale. 150 Sembra così che si liberi il campo da ogni dogmatismo e che ci si avvii in modo più o meno diretto ad una concezione che esalta le formazioni dell'esperienza come formazioni storiche. Ogni unità è data soltanto attraverso una "storia". Ma come ab­ biamo osservato un simile "storicismo" non può che dissolvere il problema del fondamento materiale dell'espe­rienza, operando una psicologizzazione che non regge nemmeno il livello più ele­ mentare della nostra problematico. La tesi fondamentale dell'empirismo è assurda perché con­ tiene un circolo vizioso: sulla base della contiguità o della somi­ glianza possono indubbiamente sorgere "abitudini" associative. Ma proprio per questo non può darsi il caso che rapporti di somiglianza e di continuità sorgano a loro volta sulla base di abitudini associative. Se un evento A funge da segnale per un evento B, nel senso che, essendo dato A, si impone l'attesa di B, allora sono certa­ mente presupposte altre esperienze. Ma sarebbe assurdo pre­ tendere di illustrare nello stesso modo l'esperienza stessa della contiguità. Qui si dà semplicemente il. fatto che A è dato come contiguo a B - e già per questo sussiste tra A e B un rapporto, una sintesi: l'esperienza presente esibisce modi di organizzazio­ ne senza che altre esperienze siano necessariamente presuppo­ ste. Così, nel caso dell'esempio del movimento che abbiamo di­ scusso in precedenza, sarebbe assurdo ricondurre le direzioni di movimento anticipate passivamente nel corso del suo sviluppo ad altri movimenti ad esso simili che in passato abbiamo ite­ ratamente sperimentato svilupparsi secondo quella direzione di movimento. Qui la mente si attorciglia su se stessa. Di fronte a ciò è interessante notare che l'ammissione di "sintesi a priori" come una intelaiatura presupposta nel soggetto che effettua l'esperienza, come momenti soggettivi di struttu­ razione dei dati - in breve, il punto di vista trascendentalistico - mentre si presenta come un tentativo di confutazione radicale della tesi empiristica, avendo di mira le sue conseguenze "ca­ 151 tastrofiche" nell'ambito di una dottrina della scienza, in realtà si appropria di almeno un aspetto che è ad essa essenziale. Le necessità strutturanti debbono risiedere nel soggetto a titolo di condizioni di possibilità proprio perché, se da un lato si ricono­ sce che esse debbono essere costitutive del rapporto dell'e­spe­ rienza, dall'altro si ammette come ovvio che esse siano esterne ai. suoi materiali. Alla soggettività psicologica subentra così la sog­gettività trascendentale. Nel sostenere le necessità dell'espe­ rienza seguiamo evidentemente una via molto diversa e dalle no­ stre considerazioni possiamo trarre argomenti anche contro il punto di vista trascendentalistico. La formazione di abitualità poggia indubbiamente sul raf­ forzamento dell'attesa nella conferma iterata. Ma proprio la riconduzione interpretativa di questo fenomeno alla struttura ritenzionale-protenzionale del presente mostra che il rafforza­ mento dell'attesa nell'iterazione della conferma non può essere considerato come un principio oscuro. Come se potessimo dire: accade così, e questa fortuna è capitata proprio a noi. In realtà non potrebbe accadere altrimenti. Un principio che proponesse l'indebolimento progressivo di un'attesa nell'i­ te­ra­zione della conferma non potrebbe affatto darsi, se ci atte­ niamo a ciò che è escluso ed a ciò che è incluso nel concetto di esperienza. Perciò, se volessimo andare alla ricerca di condizioni "trascendentali" dell'esperienza, la formazione di abitualità do­ vrebbe certamente essere annoverata tra esse. Annotazione Dalle considerazioni precedenti non è difficile rendersi conto in che senso debba essere considerata erronea la famosa argomentazione critica di Hume che dissolve il nesso causale nell'iterazione di rapporti di continuità. Alla radice del­l'errore vi è indubbiamente la confusione tra il piano della con­ cettualizzazione epistemologica e il piano dell'esperienza. Questa confusione appare con particolare chiarezza proprio 152 nel­l' esempio del gioco del biliardo proposto da Hume: in es­ so infatti non è in questione in primo luogo il concetto della causa, ma il problema della percezione di nessi causali. Solo un pregiudizio filosofico di carattere generale può condurre al tentativo di dissoluzione analitica della tipicità fenomenologica della percezione di un nesso causale nella percezione di un nesso di pura e semplice continuità. Di conseguenza sarebbe sbagliato ritenere che le ricerche di Michotte ("La percezione della causalità", tr. it. a cura di G. Potter, Giun­­ti, 1972) rap­presentino una confutazione sperimentale delle tesi humeane. Infatti di esse non si può dare alcuna con­futazione sperimen­tale. Quelle ricerche determinano in sede di fenomenologia empirica le condizioni di quel particolare tipo di percezione che può essere indica­ta, indipendentemente da ogni concettualizzazione, come "percezione di un nesso causale". Che vi sia in generale una simile percezione deve essere presupposto come un dato di fenomenologia pura, il cui riconoscimento dà origine a problemi fenomenologico-empirici di vario genere. Ciò che rende possibile l'inda­gine di Michotte è una modificazione di principio nel­l'am­bito della filosofia dell'e­sperienza (come del resto appare chiaro nelle osservazioni introduttive, relative alla "impostazione del problema", pp. 1-23). 15 Attese passive e giudizi di previsione - Il problema di una teoria dei giudizi di probabilità fondata su principi evidenti. Vogliamo concludere con un'osservazione integrativa. Le attese, nel senso in cui ne abbiamo parlato finora, non sono natural­ mente giudizi di previsione. Si tratta invece di momenti di inte­ grazione che fanno parte della struttura necessaria dei decorsi percettivi. Perciò anche in questo caso l'accento deve cadere sulla passività delle sintesi, ed in rapporto a questo problema natural­ mente non vi è alcuna significativa differenza tra attese fondate nell'esperienza passata e attese fondate nel passato "improprio". In entrambi i casi non viene formulato nessun giudizio di pre­ 153 visione, nessuna valutazione in rapporto a qualcosa che sta per avvenire. Se vedo un tale che, tenendo il dito sul grilletto del fu­ cile, prende la mira, forse mi si drizzeranno le orecchie, ma que­ sto non è certo un modo di effettuare giudizi. Se invece penso: "Tra un attimo sentirò una detonazione" - questo è certamente un giudizio; ed inoltre sarebbe giusto dire che il suo contenuto è identico a quello dell'attesa, senza che ciò tolga la differenza. Anche in questo caso dobbiamo dunque far valere la po­ lemica contro la tendenza logicizzante nell'ambito della dottrina dell'esperienza. Assumendo un simile atteggiamento si fareb­ be notare che si procede qui come se si argomentasse, come se si inferissero certi eventi futuri da certi eventi passati secondo un rapporto di premessa e conclusione. Il fatto che nella situa­ zione descrittiva non vi sia alcuna traccia di un'argomen­tazione potrebbe indurci a parlare di un processo argomentativo che è diventato una sorta di fatto fisiologico e che accade in modo di­ retto e immediato, "inconsciamente". Che questo richiamo a in­ ferenze inconscie sia in un caso come questo nient'altro che una assunzione surrettizia che dovrebbe eliminare una difficoltà di­ pendente dalla erroneità dell'impo­sta­zione iniziale del problema sembra abbastanza chiaro. Ciò che qui più ci importa mettere in chiaro è tuttavia il fatto che, stando ad una simile impostazione si tenderà a porre le cose come se ci fosse prima una certa for­ ma argomentativa e poi la formazione di attese modellata su di essa. Perciò, qualora si ponesse il problema della giustificazione di quella forma, la si ricercherà al di fuori dell'esperienza stessa. Essa dovrebbe avere una giustificazione logica autonoma che sa­ rebbe destinata, una volta acquisita, a dare un fondamento anche a quella pro­cedura che si fa valere "inconsciamente" nei processi esperienziali. Certamente anche noi potremmo trovare estremamente si­ gnificativa il fatto che, nella vita di ogni giorno, ricorriamo a moduli argomentativi direttamente connessi alla tematica della forma­zione di attese. Troviamo significativo, cioè, che si possa 154 incorrere nell'errore di inter­pretare l'attesa come conclusione di un'argomentazione implicita. Tra la struttura della formazione di attese e la forma di argo­ mentazione corrispondente vi deve indubbiamente essere qual­ che rapporto. Solo che noi presentiamo le cose in modo esatta­ mente inverso all'impostazione precedente. Non assumiamo che quella forma sia proiettata dal di fuori all'interno del processo, ma al contrario che essa sia estratta dal processo stesso. Perciò saremmo persino disposti a parlare di una forma argomentativa implicita nel processo dell'esperienza: ma non nel senso di una procedura intellettuale che viene immessa in esso e che opera in modo inconscio, ma appunto nel senso che essa rappresenta la versione sul piano intellettuale di quella struttura esperienziale. Di conseguenza, se ci poniamo il problema di una giustificazione della forma argomentativa stessa, andremo alla ricerca di essa pro­ prio nella struttura del processo esperienziale. Se consideriamo le cose da questo punto di vista ci rendiamo conto che le nostre osservazioni precedenti assumono un nuo­ vo significato. L'illustrazione che abbiamo dato del processo di formazione delle attese ci ha portato alla conclusione che il raf­ forzamento delle attese nella conferma iterata, quindi in generale il processo di formazione di "abitualità", non è una circostanza accidentale, ma necessaria. Ora, tale cir­costanza, che mantiene un riferimento soggettivo nella stessa misura in cui si parla in rap­ porto ad essa di attese, ammette tuttavia una riformulazione in termini interamente oggettivi. In luogo di rafforzamento delle attese possiamo parlare di rafforzamento del grado di probabi­ lità degli eventi. Ad esempio, potremmo enunciare il seguente principio generale: "La probabilità che si realizzi un evento B, se si è realizzato un evento A, è tanto maggiore quan­to maggiore è il numero dei casi in cui la realizzazione di B è stata concomitan­ te alla realizzazione di A". In rapporto a questo principio sono in generale possibili due atteggiamenti. Esso può essere assunto come "assioma": sulla sua base si possono giustificare conclu­ 155 sioni, ma non è lecito porre il problema della sua giustificazio­ ne, non già perché esso sia "evidente in se stesso", ma proprio perché assumerlo come assioma significa la stessa cosa che con­ venire che esso non venga messo in discussione. È compatibile con tale atteggiamento il ritenere che questo principio abbia una sua evidenza, sia cioè, "prossimo all'intuizione" (come si usa dire talvolta), ma nel senso generico per cui esso ci sembra, a oc­ chio e croce, una riproduzione abbastanza fedele di convinzioni profondamente radicate in noi, del cui eventuale fondamento in ogni caso ci disinteressiamo. Ma è possibile anche un altro at­ teggiamento, che è suggerito dalle nostre considerazioni nel loro insieme. A quel principio, qualunque sia il modo in cui appare a questo o a quello, può essere attribuita una necessità, e dunque un'evidenza interna, sulla base di considerazioni che mettono in questione la struttura dell'esperienza: l'esperienza stessa nel suo concetto. Nella formulazione oggettiva questo riferimento - il rife­ rimento alla esperienza - viene ovviamente dissolto. Ma poiché consideriamo la formulazione oggettiva come una trasposizione di una formulazione soggettiva, nella quale la necessità del raf­ forzamento delle attese appare appunto evidente, allora possia­ mo indubbiamente non soltanto richiamarci alla sua evidenza, ma anche indicare in che senso questa evidenza possa esserle attribuita in linea di diritto. Naturalmente, occorrerà evitare di confondere i piani. Un conto è la tematica della percezione, del ricordo, delle attese e delle abitualità, e un altro è l'elaborazione sistematica di una teoria dei "giudizi di probabilità". Non è però senza significato che già sul piano dell'esperienza si annunci la possibilità di giudizi di questa forma e di una loro elaborazione sistematica in una teoria fondata su principi evidenti [11] . 156 Note [1] Entrambe le citazioni sono tratte da B. Russell, Sintesi filosofica, trad. it. di A. Visalberghi e di A. Visser't Hooft Musacchio, Firenze, La Nuova Italia, 1966, p.208 e p. 217. [2] L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, trad. it. a cura di M. Rosso, Torino, Einaudi, 1976, oss. 5, p. 39. [3] Cfr. invece D. Hume, Trattato sulla natura umana, 1, Parte III, sez. 5 (trad. it. cit., p. 98): "Accade spesso che di due uomini che hanno preso parte a una stessa azione uno la ricordi molto mi­ glio dell'altro e duri grandissima fatica per farla ricordare al suo compagno. Invano gli enumera minutamente le diverse circo­ stanze, gli cita il tempo, il luogo, la compagnia, ciò che è stato detto, ciò che è stato fatto: finché tocca per caso un particolare che fa rivivere tutta la scena e dà all'amico la completa memo­ ria dell'accaduto. Qui, la persona che ha dimenticato, riceve da principio tutte le idee del discorso del compagno, con le stesse circostanze di tempo e di luogo, benché le consideri mere fin­ zioni dell'immaginazione. Ma, appena accennato questo parti­ colare che colpisce la sua memoria, queste stesse idee appaiono sotto una luce nuova: sono sentite, si può dire, in modo diverso di prima. Senza che nulla si alteri in esse all'infuori del modo di sentirle, diventano immediatamente idee di memoria e suscita­ no l'assenso. Potendo, dunque, l'immaginazione rappresentare gli stessi oggetti che la memoria, e distinguendosi queste facoltà soltanto per il diverso modo di sentire le idee, vien fatto di chie­ dersi qual è la natura propria di questo modo di sentire. Ognuno, credo, risponderà convenendo che le idee della memoria sono più forti e più vivaci di quelle della fantasia". [4] Si consideri, per confronto, la tematica dell'identità personale e la teoria dell'appropriazione nei Principi di psicologia di Ja­ mes. Per richiamarne la linea di tendenza, in rapporto al nostro tema, possono forse bastare le due seguenti citazioni: "La me­ moria richiede qualcosa di più che datare un fatto nel passato. Il 157 fatto deve essere datato nel mio passato. In altre parole, debbo pensare che proprio io sperimentai il suo verificarsi. Esso deve avere quel calore e quell'intimità di cui tanto spesso abbiamo parlato nel capitolo sull'Io, come di elementi caratterizzanti tutte le esperienze appropriata a sé dal soggetto pensante, come sue proprie" (Principles of Psychology, New York, Dover, 1950, p. 650). - "Ed è per questo, dunque, che Pietro, svegliandosi nello stesso letto con Paolo e ricordandosi delle cose che entrambi avevano pensato prima di addormentarsi, reidentifica e si appropria delle idee che gli appaiono "calde", e non è mai tentato di confonderle con quelle fredde e sbiadite che attribuisce a Paolo" (ivi, p. 334). [5] In un manoscritto del 1922-23, pubblicato come Appendice VIII della Husserliana, XI (Analysen zur passiven Synthesis, op. cit.) con il titolo "L'apoditticità dei ricordo", Husserl osserva: "Che il ricordo possa essere ingannevole è una teoria su cui i filosofi concordano, e chi potrebbe in effetti negare qui la possibilità dell'errore?... Peraltro, anche in questo caso, debbo scostarmi dalla tradizione, debbo respingere il rifiuto incondizionato di qualsiasi evidenza apodittica nella sfera memorativa e chiarire che esso deriva da una deficienza di analisi" (p. 371). Questo scritto, tuttavia, potrebbe essere citato come un esempio signi­ ficativo di intreccio, in Husserl, tra motivi analitici particolari e preoccupazioni filosofico-speculative di altro ordine. Infatti la cornice in cui il problema viene discusso è quello delle conse­ guenze, in rapporto alla teoria dell'"ego cogito", della dubbiosità dei ricordo; e la tematica sfocia, inaspettatamente, benché con apparente coerenza, nella posizione dell'"eternità" dell'"ego tra­ scendentale" (pp. 377 sgg.). [6] Cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbe­wusstseins, op. cit., pp. 25-26. [7] E. Husserl, Analysen zur passiven Synthesis, op. cit., sez. III, pp. 117-191. [8] ivi, Appendice XVIII, pp. 405-411. [9] Cfr. ivi, § 33 "Non ho bisogno di dire che al complesso delle 158 considerazioni che stiamo sviluppando può essere anche dato un titolo ben noto, quello di "inconscio". È dunque in questione una fenomenologia del cosiddetto inconscio", p. 154). [10] Cfr. ivi , sez. III, cap. IV (pp. 184-191). [11] In realtà, questo accenno rientra nel quadro della tematica delle strutture antepredicative, delineata nel capitolo quarto di questo libro. 159 Capitolo Terzo L'immaginazione 160 161 1 Primo avviamento alla tematica dell'immaginazione mediante la determinazione di alcune caratteristiche notevoli dei contenuti immaginativi - Nell'immaginazione non si possono com­ mettere errori - L'immaginare non è avere impressioni in qualche modo simili alle impressioni visive. Le nostre considerazioni sulla tematica dell'immagina­zione pren­ dono l'avvio - ancora una volta - dal rifiuto di un'impo­sta­zione "psicologistica". In effetti bisogna riconoscere che la tentazione di seguire questa via è, in questo caso, particolarmente forte. Supponiamo che qualcuno ci rivolga questo invito: imma­ ginate un bicchiere davanti a voi, su questo tavolo. E noi facciamo proprio così. Ma che cosa facciamo quando immaginiamo qual­ cosa? Sembra allora che il modo migliore per rispondere a que­ sta domanda sia quello di rivolgersi "riflessivamente" al nostro interno, al fine di afferrare che cosa accade nella nostra testa nell'atto di immaginare. Ci rendiamo presente un bicchiere che palesemente non è presente. E soltanto l'introspe­z ione può inse­ gnarci che cosa significhi "rendere presente" in un caso tan­to particolare. Mentre immaginiamo, dobbiamo osservare noi stes­ si con la coda dell'occhio, in modo da sorprenderci nell'atto stes­ so di produrre un contenuto immaginativo. Qualcuno potrà certamente tentare di fare una cosa simi­ le, ammesso che il compito sia formulato in modo realmente intelligibile (cosa di cui peraltro sarebbe lecito dubitare): quan­­to a noi, ci comporteremo in tutt'altro modo, in un mo­do ormai prevedibile. Messa da parte la via dell'introspezione, attireremo invece l'attenzione su alcune caratteristiche notevoli del modo di presentar­ si del contenuto immaginativo in quanto tale. Come già sappia­ mo, con caratteristiche non intendiamo certe qualità del contenuto immaginativo: se così fosse ci ritroveremmo esattamente nella situazione precedente. Il metodo introspettivo si imporrebbe 162 ancora come l'unico mezzo per una simile descrizione. Deter­ minare una caratteristica significa, invece, per noi, determinare una differenza. Per far questo, nessuna introspezione è evidente­ mente necessaria, nessun atto riflessivo. Un'analisi "fenomeno­ logica" è anzitutto un'analisi che va alla ricerca di differenze caratteristiche o, che è lo stesso, di caratteristiche differenzianti: un modo di proporre il problema che è legato a doppio filo con un orien­ tamento strutturalistico che si contrappone ad ogni tentativo di descrizione introspettiva delle qualità del contenuto. Come si comporta dunque un oggetto immaginativo rispetto ad un oggetto della percezione? Qui "c'è" un bicchiere. "C'è" lo mettiamo tra virgolette, perché in fin dei conti si tratta di un bicchiere immaginario. In rapporto ad esso chiediamo: ha una forma, questo bicchiere? Contiene qualcosa? Possiamo prenderlo fra le mani ed eventual­ mente lasciarlo cadere a terra e mandarlo in mille pez­zi? In un certo senso, a domande come queste deve essere data una risposta affermativa. Ma, appunto, in che senso? Nel senso che possiamo benissimo immaginare non solo un bicchiere, ma anche un bicchiere di forma ovale; possiamo immaginare che sia pieno di acqua. Possiamo immaginare di af­ ferrarlo e scagliarlo a terra, mandandolo in frantumi. In bre­ve: questo bicchiere si comporta in tutto e per tutto come un bic­ chiere effettivamente presente di fronte a noi. Certamente, qui non c'è nessun bicchiere. Eppure possiamo fare come se ci fosse; come se avesse questa o quella forma; come se noi lo scagliassimo a terra; come se esso andasse in mille pezzi. Come se: tutta la differenza sta qui. Sta nelle virgolette che dovremmo apporre a tutto ciò che accade nell'imma­gina­zio­ ne. Il modo in cui l'oggetto è costituito nel "vedere" del­l'imma­ ginazione è tutt'altro rispetto al modo in cui lo è nel vedere come atto autenticamente percettivo. Se vediamo qualcosa, possiamo proporre sensatamente il compito di descriverla nelle sue proprietà. Nel caso dell'og­getto 163 immaginativo possiamo certamente ancora parlare delle sue pro­ prietà e di una loro eventuale descrizione: possiamo dire che esso è fatto così e così, ma solo nel senso che abbiamo deciso così. Perciò, all'inizio di una trattazione intorno all'im­­ma­ginazione, dobbiamo dare il massimo risalto ad un'os­ser­vazione che abbia­ mo compiuto a suo tempo a proposito della percezione: nel per­ cepire, il contenuto si impone nel suo essere, e quanto a ciò non possiamo farci nulla. Nel "percepire" dell'imma­gi­na­zio­ne siamo invece liberi di porre l'og­getto come vogliamo. Se immaginiamo una "macchia", e poi ne vogliamo determinare il colore, questa determinazione è, a sua volta, tra virgolette: facciamo come se lo determinassimo. Di fatto pren­diamo una decisione. Per questo qualcuno ci può invitare ad immaginare un bic­ chiere, ma non può poi dire: ed ora osservatelo bene. Il verbo "os­ servare" non tollera come complemento oggetto un conte­nuto immaginativo. Ma questa è una regola che nessuna gram­­matica si dà la pena di formulare. E giustamente. Infatti in essa è in que­ stione l'impiego delle parole nella misura in cui esso è determi­ nato dalla natura dei contenuti immaginativi. L'osserva­zione di un oggetto dato immaginativamente può es­sere soltanto un'os­ servazione come se, un'osservazione tra vir­golette, oppure, per in­ trodurre un altro termine equivalente: una quasi-osser­vazione. Tutti questi termini alludono a questa circo­stanza elementare e fon­ damentale: l'osservazione e la descrizio­ne nell'immaginazione vanno di pari passo con la produzione immaginativa in quanto produzione spontanea di un determinato contenuto. Perciò in rapporto ai contenuti immaginativi qualun­que problema di accertamento è in linea di principio escluso. Diciamo la stessa cosa se affermiamo che nell'imma­gina­z ione non si possono commettere errori. A differenza della percezione e del ricordo. Se cominciamo a porre il problema in questo modo, è chia­ ro che di immagini mentali non abbiamo affatto bisogno di parla­ re. E proprio su questo punto possono essere mosse obiezioni. 164 Si tratta dunque solo di mettere in chiaro differenze come que­ ste? Ma allora ci sfugge un aspetto importante, forse decisivo, in rapporto alla nostra tematica. Nell'immaginazione deve effettiva­ mente apparire qualcosa. Ciò sembra che anche noi lo diamo per presupposto. Ma in che modo potremo chia­rire il senso di questo apparire, se rinunciamo fin dall'inizio a proporre una nozione di immagine che, pur con le dovute differenze, abbia un carattere che la approssimi ai dati percettivi? Se immagino veramente un bicchiere certo non lo vedo, ma debbo almeno avere l'impressione di vederlo. Del resto, pensiamo al modo in cui illustreremmo la dif­ ferenza tra un buon mimo ed un altro che ci lascia invece del tutto indifferenti. Solo il primo sa rendere "visivamente" ciò che intende rappresentare, mentre l'altro non riesce a far apparire proprio nulla. Possiamo veramente rinunciare a questo carattere "in­tuitivo" o "quasi-intuitivo" che si è sempre riconosciuto alle immagini dell'immaginazione? Sembra invece che ci sia qualco­ sa che non va proprio nel nostro modo di cominciare. Ci viene rivolto un invito. immaginate un bicchiere! Ma uno potrebbe ri­ spondere: io non ci riesco! In effetti, per comprendere lo stile delle nostre considera­ zioni si deve comprendere anzitutto che una simile risposta non può essere ammessa. Certamente, qualcuno potrebbe risponde­ re così, ma la cosa ci lascia completamente indifferenti. Se non ci riesce, ciò significa che cerca qualcosa di più o di diverso da quanto gli viene richiesto. Possiamo ammettere che qualcuno non riesca a ricordarsi di aver visto un bicchiere, ma non che non riesca a immaginare un bicchiere su questo tavolo. A ben pensarci, anche l'esempio del mimo è meno proban­ te di quanto possa sembrare a prima vista. Tra un mimo buono ed uno cattivo si può certo porre una differenza, ed essa può essere espressa proprio con quelle parole. Cosicché sembra che chi si richiama ad essa per difendere una nozione di immagine che in un modo o nell'altro ha a che fare con "impressioni" quasi 165 percettive abbia veramente ragione. Tuttavia non è affatto facile decidere in che cosa propriamente abbia ragione. Un tale imita un domatore di pulci, e lo imita con molta efficacia. Ci pare quasi di vederle - le pulci, le quali, anche se ci fossero non le vedremmo in ogni caso. Eppure ciò che vediamo, e lo vediamo veramente, è proprio una efficace imitazione di un domatore di pulci. Perciò dobbiamo ribadire che, se adottiamo un punto di vista strettamente antipsicologistico che voglia fare a meno di ricorrere al difficile esercizio dell'introspezione, si deve rinun­ ciare in primo luogo ad un modo di approccio al problema che intenda l'immaginare come avere "impressioni" in qualche modo simili alle impressioni percettive. 2 Un possibile equivoco nell'impiego del termine "immaginario" - In che modo, nell'immaginazione si pone il problema dell'inesistenza dell'oggetto - La neutralizzazione delle posizioni d'essere e l'eterogeneità dei contenuti immaginativi. È molto probabile che chiunque, posto di fronte senza pream­ boli alla richiesta di indicare un esempio di oggetto dell'imma­ gi­nazione, risponda facendo riferimento ad un oggetto fuori del­ l'ordinario - un cavallo alato o un mostro a sette teste - un ogget­ to, cioè, nel quale finora non ci siamo mai imbattuti e nel quale pensiamo fondatamente che non ci imbatteremo in futuro, un oggetto, dunque, irreale, inesistente. La richiesta, non meno della risposta, contiene un equivo­ co che conviene cercare di dipanare. Stando ad essa ed a quegli esempi, si direbbe quasi che il carattere di oggetto dell'immagi­ nazione dipenda non già dal modo in cui l'oggetto è dato, ma dal modo in cui esso è fatto, come se potessimo dire che un cavallo alato è un oggetto immaginativo per il solo fatto che ha le ali. Ci troveremmo di fronte ad un punto di vista che si affida 166 sen­z'altro ad una discriminazione ingenuamente ontologica, ad una classificazione che riguarda la natura degli enti. Da un lato avremo oggetti ed eventi reali e, dall'altro, oggetti ed eventi ir­ reali. Questi ultimi sarebbero prodotti dell'immaginazione per il fatto che in essi accade proprio ciò che non può accadere nella realtà. Si suggerisce così, al tempo stesso, l'idea che l'imma­ginare consista semplicemente nel mettere sottosopra la realtà e le sue regole, producendo eventi o oggetti che meritano di essere qua­ lificati come immaginativi per il solo fatto che la realtà è in essi messa sottosopra. Non è certo difficile cogliere il punto dell'equivoco. Na­ turalmente possiamo ammettere pacificamente che un cavallo alato non esista nel mondo e che esso sia un prodotto dell'im­ maginazione. Ciò che non può essere ammesso è evidentemente che esso, per il modo in cui è fatto, sia un oggetto privilegiato dell'im­maginazione, che il carattere che determina l'im­ma­­gi­na­ rietà dell'oggetto sia una peculiarità oggettiva del contenuto, una peculiarità che poi sarebbe intrinsecamente connessa con la sua inesistenza. Ciò che noi sosteniamo è, invece, che l'imma­gina­ rietà di un contenuto è essenzialmente una forma di rapporto, tipicamente diversa da quella forma entro cui un oggetto si co­ stituisce come un oggetto percepito, e quindi esistente qui ed ora di fronte a me. Quanto all'esempio del cavallo alato, il modo in cui è fatto questo oggetto fa si che noi riteniamo alquanto improbabile che un giorno o l'altro ci possa accadere di vedere una cosa simile. Così, se un tale ci assicura di aver visto un cavallo alato, riterremo con buone ragioni che egli abbia preso un grosso abbaglio. Forse anch'egli lo dubita: ma ciò non implica in nessun modo che egli, come ognuno di noi, non sappia distinguere tra un cavallo alato in quanto è oggetto dell'imma­ginazione, in quanto cioè è dato in un atto immaginativo, ed un cavallo alato in quan­to è oggetto della percezione. Tant'è che egli va in giro raccontando una cosa tanto straordinaria: non già di avere immaginato un cavallo alato 167 - ciò sarebbe piuttosto banale - ma di averlo proprio visto. In se stesso un cavallo alato può essere tanto oggetto del­l'im­­­­ ma­­­ginazione quanto oggetto della percezione. Come un qualun­ que cavallo. La proprietà di avere o non avere le ali è, a questo proposito, del tutto indifferente. Ma che cosa significa, in fin dei conti, tutto questo? Sembra che tutto si riduca semplicemente a distinguere con chiarezza tra un impiego della parola "immaginario" per indicare una entità che non esiste ed un altro impiego della stessa parola per indicare il puro e semplice correlato di un atto immaginativo. In effetti tutto si riduce a questo: con qualche complicazione in più. Infatti il problema dell'inesistenza si presenta in ogni caso in rapporto ai correlati degli atti immaginativi in genere. Ed è questo il punto che merita di essere chiarito. In che senso possiamo dire che l'oggetto dato in un atto im­ma­ginativo non esiste? Cominciamo allora con il notare che immaginare un bicchie­ re su questo tavolo è cosa completamente diversa dal constatare che su questo tavolo non c'è nessun bicchiere. Quando si imma­ gina qualcosa, non si compiono accertamenti, e quindi nep­pure gli accertamenti concernenti l'esistenza o l'inesi­stenza. Porre un contenuto immaginativo non solo non è un atto giudicati­ vo, ma nemmeno contiene implicitamente un atto giudicativo. Il giudizio: "Qui non c'è nessun bicchiere" poggia su un accerta­ mento percettivo: vedo che sul tavolo non c'è alcun bicchiere. Ma supponiamo di immaginare un bicchiere, e poi diciamo: questo bicchiere non esiste. Questa frase suona ovvia, e tuttavia anche un po' strana e paradossale. Questo bicchiere: ma in fondo non si capisce bene di quale bicchiere si parli. Quando accertiamo percettivamente l'ine­sistenza di un bicchiere, non ci riferiamo ad un bicchiere dell'immaginazione, ma ad un bicchiere che si possa effettivamente toccare, spostare, sollevare, ecc. Per accer­ tare che qui non c'è nessun bicchiere, cerchiamo un bicchiere, e precisamente un vero bicchiere, un bicchiere reale. Perciò vi 168 è una procedura determinata per compiere un simile accerta­ mento. Osservo il tavolo, appunto, e se ho gli occhi bendati, ne tasterò la superficie in ogni suo punto. Ma quando diciamo: "Questo bicchiere non esiste", e ci riferiamo all'oggetto immagi­ nario, quali procedure di accertamento sono a mia disposizione? Come faccio a sapere che non esiste? Tutto ciò che possiamo indubbiamente affermare è che qui non c'è nessun bicchiere. Ma l'oggetto che ora immagino non è evidentemente "nessun bicchiere", quasi che l'immaginazione avesse di fronte un nulla di bicchiere. L'immaginazione ha di fronte proprio un bicchiere, nella forma che spetta agli oggetti immaginari. Con. ciò non voglia­ mo dire che questi abbiano un modo peculiare di esistere, che competerebbe solo a loro, come se vi fossero due nozioni diver­ se di esistenza. Piuttosto riconduciamo anche questo problema all'im­postazione che abbiamo già adombrato. E allora si dissolve anche l'andamento un poco paradossale delle nostre conside­ razioni precedenti. Quei paradossi sorgevano infatti dall'illegit­ timo intreccio dei piani della realtà e dell'imma­gina­zione. Par­ lando di inesistenza, l'esistenza è sem­pre presupposta, è presup­ posto cioè un riferimento determinato alla realtà. Ed è invece proprio questo riferimento che le virgolette dell'immaginazione tolgono di mezzo. L'oggetto immaginativo si situa in linea di principio al di fuori del terreno in cui hanno senso le posizio­ ni relative all'es­sere ed al non essere. Ogni posizione d'essere viene neutralizzata: questa è la condizione espressa dal come-se. Se un og­getto dell'imma­ginazione viene determinato come rosso, non possiamo certo dire: ma in realtà non è rosso. Non possiamo dire che non lo è, come non possiamo dire lo sia veramente. È il problema stes­so che non può essere proposto. La domanda sulla posizione d'essere è priva di senso. Ciò significa nello stesso tempo che i contenuti immaginati­ vi, gli oggetti e gli eventi immaginati vengono posti su un piano totalmente altro rispetto a quello in cui sono situati gli oggetti e 169 gli eventi effettivi. L'immaginazione dispone i propri contenuti su una "realtà" parallela che non ha alcun punto di intersezione con la realtà libera da virgolette. La tematica della neutralizzazione delle posizioni d'essere con cui si apre una esposizione elementare delle caratteristiche dei contenuti immaginativi richiama in pri­ mo luogo l'attenzione su una eterogeneità radicale. 3 Osservazioni integrative: l'immaginare e le anticipazioni della percezione - L'immaginazione non è la "facoltà del futuro" - Immaginare e supporre. In tutto ciò è indubbiamente implicita una certa restrizione nell'uso della parola "immaginare". Essa può ricorrere nei con­ testi del discorso corrente in una grande varietà di accezioni; e certamente non sapremmo trarre alcun profitto da una analisi di questi modi di impiego che si riduca ad una loro elencazione cieca, che non sia guidata da alcun problema. Tuttavia può esse­ re utile passare in rapido esame alcuni casi interessanti al fine di apportare qualche chiarimento ulteriore. Accenniamo anzitutto al problema delle anticipazioni percettive. Come già sappiamo, in un atto percettivo qualcosa è presente all'istante, ma qualcos'altro viene sempre percettivamente antici­ pato. Quando il fucile è puntato, si attende la detonazione. In un caso come questo saremmo forse tentati di ritenere che anticipa­ re percettivamente una detonazione sia all'incirca la stessa cosa che immaginarla. Qui il punto essenziale non è tanto la questione terminologica, quanto la necessità di tenere chiaramente distin­ te situazioni fenomenologiche ben diverse. Se volessimo parlare delle anticipazioni come componenti immaginative, dovremmo sottolineare subito che esse sono integra­te nel­l'atto percettivo stesso. Quest'ultimo non consta di percezioni e di atti del rivol­ gersi immaginativamente a qualcosa. È proprio l'integrazione di questa componente "immaginativa" nel decorso percettivo che 170 indica con chiarezza questa differenza: nel. percepire andiamo un poco oltre ciò che vediamo, ma appunto nella forma di un'at­ tesa che può essere confermata o non confermata. Sulla base del dato percettivo attuale un'istanza viene posta sul decorso succes­ sivo. Ma l'immaginare, nel nostro senso, non pone in generale alcuna istanza. Considerazioni analoghe valgono anche per ciò che riguar­ da la connessione tra immaginare da un lato, prevedere e progettare dall'altro. Questa connessione viene spesso presentata in termi­ ni piuttosto ovvi. L'immaginazione sarebbe, in mo­do eminente, la "facoltà del futuro". La tripartizione classica tra percezione, memoria e immaginazione sembra si attagli a meraviglia alla tri­ partizione tra presente, passato e futuro. Si può percepire solo al presente. E l'immaginazione avrebbe a che fare con il futuro nello stesso senso in cui la memoria ha a che fare con il passato. Eppure si vede subito che le cose non possono stare così. La formula più semplice in cui si esprime un progetto potrebbe essere: "Domani farò così". Una previsione, invece: "Domani ac­ cadrà così". Nell'uno come nell'altro caso le formule stesse mostrano che non abbiamo bisogno di chiamare in causa l'immagina­zione in un senso che possa essere ben definito. Secondo il nostro modo di impiegare il termine, l'immaginazione interviene solo se, ad esempio, insieme al progetto, una scena immaginativa ap­ pare. "Domani andrò al mare". Ed ora mi immagino la scena: ecco il mare! Qui ed ora di fronte a me, e tutto si trova racchiuso tra le virgolette dell'immaginazione. Il caso della previsione, ed il modo in cui lo distinguiamo dall'immaginare, ha alcune analogie con questo. Prevedete signi­ fica all'incirca fare una supposizione intorno ad un evento futu­ ro. Ed il punto per noi essenziale è che quando si fanno supposi­ zioni si possono commettere errori. Una previsione mantiene la presa sulla realtà. Come nel caso dei progetti. Un progetto non è certo una supposizione sul mio comportamento futuro: alla sua 171 base vi è una decisione. Ma le decisioni possono essere mante­ nute o tradite, ed un altro può sempre dire: "Domani vedremo!". Del resto il futuro posto nel progetto o nella previsione non è affatto un futuro "immaginario" - domani è proprio il giorno che segue ad oggi. Un problema parallelo presentano le forme del tipo: "Se non fosse accaduto questo...", "avrei potuto fare così e così..." (ma intanto è accaduto proprio questo; mi sono comportato in tutt'altro modo). Qui viene trasposta al passato quella apertura al possibile che spetta solo al presente. Enunciamo una possibilità che oggi è chiusa, ma che ieri era effettivamente aperta. Ed è vero che ieri avrei potuto fare questo e invece ho fatto quest'altro. Quella possibilità era ieri altrettanto realizzabile, quanto quel­l'al­ tra che invece è stata realizzata. Che non ci si trovi di fronte ad alcuna operazione immaginativa autentica è indicato a sufficien­ za dal fatto che una possibilità intesa in questo modo è comun­ que una possibilità integrata nella realtà effettiva. Come nel caso precedente, il prospettarsi un passato diverso può essere alla base di una immaginazione esplicita. Ma allora evidentemente si effettua una netta divaricazione di piani. Nell'imma­ginazione è del tutto indifferente il riferimento al passato, al fatto che avrei potuto fare così, che è accaduto questo mentre sarebbe potuto accadere quest'altro. Proprio nulla qui appartiene all'ambito del­ le supposizioni. Tuttavia la parola "supporre" non è sempre impiegata in questo modo. Talvolta essa si presenta in contesti in cui può essere sostituita con "assumere", e addirittura con "immagina­ re". Sembra allora che, volendo prescindere interamente dalle immagini mentali, dovrebbe essere importante per noi poter distinguere con chiarezza le immaginazioni dalle assunzioni. Se potessimo contare sulle immagini mentali la differenza sareb­ be indubbiamente a portata di mano. Per assumere che qui ci sia un bicchiere - si potrebbe osservare - non si richiede che un bicchiere appaia effettivamente agli occhi della mente. L'imma­ 172 ginazione deve invece produrre fantasmi. Essa ha a che fare con pienezze intuitive, sia pure larvali. Se invece mettiamo da parte questa concezione, affidandoci interamente al filo conduttore del "come-se", sembra che la distinzione diventi molto sfumata, che essa quasi si perda. Assumiamo che in questa stanza ci sia un elefante. Faccia­ mo questa supposizione. Qui il termine non ha lo stesso senso di prima. Infatti sarebbe erroneo affermare che si tratta di una supposizione falsa. Al contrario, se si ode un barrito al di là di una porta chiusa, un tale potrebbe dire: "suppongo che là dentro ci sia un elefante". Il fatto è che allora ha senso andare a vedere se c'è; e l'elefante che si cerca è un vero elefante, un elefante au­ tentico, anche se non ci fosse. È più giusto dire che un oggetto dell'immaginazione non lo si cerca nella realtà, piuttosto che dire che non lo si trova. Ma se il supporre ha il senso dell'assumere, e se prescindia­ mo dai fantasmi interiori di cui dichiariamo di non saperne nulla, qual è il punto della distinzione? Pensiamo ai giochi dei fanciulli. Un albero ha ora il senso immaginativo di una nave che compie un lungo viaggio. Faccia­ mo questo gioco. Facciamo come se fosse così. Noi non vediamo i loro fantasmi, ma non abbiamo nemmeno alcun motivo di rite­ nere che per essi vi siano dei fantasmi. Qui la realtà, nel suo esse­ re e nelle sue determinazioni concrete, è lasciata a se stessa e ser­ ve soltanto come rozzo sostegno per la produzione di contenuti immaginativa. Che non ci si trovi di fronte ad una supposizione nel senso di qualcosa che esiga una conferma, questo è chiaro. Quanto alla seconda accezione del termine, in cui esso compare libero da posizioni d'essere, in cui cioè il supporre è piuttosto un assumere perché non riconoscere senz'altro che esso non è molto lontano da ciò che noi vogliamo intendere con "immaginare"?t veramente necessario cercare il punto della distinzione? In fon­ do, anche in rapporto al gioco dell'albero, si potrebbe dire che in esso viene compiuta un'assunzione. Se l'espressione non ci sem­ 173 bra al suo posto, ciò accade probabilmente perché si tratta di un gioco. Il contesto determina qui le preferenze nell'impiego del termine. Compiuta quell'assunzione ha inizio un gioco, e non un'argomentazione. Se consideriamo le cose da questo punto di vi­ sta potremmo arrivare a dire che l'immaginare è, tutto sommato, un assumere al di fuori di un contesto argomentativo. Quindi, un assumere in senso improprio, se vogliamo connettere le assunzio­ ni alle argomentazioni. 4 L'acontestualità dell'immaginazione - Confronto con la struttura sintetica della percezione - La fantasia come essenza dell'immaginazione. La conclusione che abbiamo ritenuto di poter acquisire nella no­ stra prima presa di contatto con la tematica dell'immagi­nazione è la seguente: considerando gli oggetti dell'immagina­zio­ne dob­ biamo mettere in rilievo anzitutto la loro non integrabilità di principio rispetto al piano della realtà o, come potremmo anche dire, più semplicemente, rispetto al piano della percezione. Ciò riguarda naturalmente soltanto la forma del rapporto entro cui si istituisce l'oggetto immaginativo. Questa non integrabilità non ha dunque nulla a che vedere con la circostanza secondo cui pro­ prio di qui, dalla realtà, l'immagi­na­zione trae i propri materiali. Noi diciamo soltanto che essa li trae di qui per disporli a mezz'a­ ria. Ma a mezz'aria si trova­no i prodotti dell'immagina­zione, e non certo l'attività immaginativa, l'esperienza dell'im­ma­ginare. Come esperienza, come "vissuto", essa è integrata con le altre esperienze soggettive del genere più vario. Da esse, l'immagi­ nazione è strettamente motivata. La tematica delle motivazioni porrebbe a sua volta, se venisse concretamente affrontata, tutto un complesso di nuovi problemi, senza tuttavia che sia neces­ sario rimettere in questione il carattere di eterogeneità e di non 174 integrabilità dei contenuti immaginativi nel senso qui inteso. Questo problema della non integrazione viene ulterior­ mente precisato e ribadito se consideriamo i rapporti dei conte­ nuti immaginativi tra loro. In generale possiamo affermare che le scene immaginative sono acontestuali, non solo nel senso che non sono integrabili con le scene percettive, ma anche nel senso che esse non hanno bisogno di essere integrate con altre scene immaginative. Una scena immaginativa può apparire, per così dire, in un isolamento assoluto, ed una sequenza di scene imma­ ginative, non deve sottostare ad alcuna forma di unificazione. Vogliamo fissare le nostre idee facendo riferimento alle sintesi della percezione. Come sappiamo, un decorso percettivo può essere concepito come una sequenza di scene che si modifi­ cano gradualmente trapassando l'una nell'altra. In questo senso potremmo dire che la sequenza è aggregata, compatta. Con ciò è strettamente connesso il fatto che nessuna scena percettiva è isolabile in senso assoluto. Il campo della percezione è ovunque dominato da forme di unità e di coesione che rendono il dato percettivo sempre aperto a integrazioni possibili. Vi è inoltre uno stretto legame tra la posizione percettiva di un oggetto come sussistente in se stesso e le concordanze sintetiche delle scene in cui esso si presenta nella molteplicità dei suoi aspetti. Attraverso la molteplicità viene determinata per­ cettivamente un'identità - e per questo è necessario che i feno­ meni siano attraversati da una norma. Non solo: è necessario che questa norma si imponga sulla base dei fenomeni stessi, in modo tale che venga posta un'oggettività esistente in se stessa, "al di là" di essi: come una oggettività che determina nel suo es­ sere i propri modi di manifestazione. Le legalità della percezione invece non prescrivono nulla all'immaginazione. Anche in essa, certamente, l'oggetto può es­ sere costituito processualmente, ma ciò è già il risultato di un intento immaginativo che si propone esplicitamente uno scopo imitativo. In generale, un oggetto immaginativo non ha affatto 175 bisogno di presentarsi "prospetticamente": questa circostanza è tanto essenziale alle cose della percezione quanto è essenziale l'insussistenza di questo problema in rapporto alle cose dell'im­ ma­ginazione. Se immagino un cubo, ciò non implica che esso venga afferrato tutto intero in un colpo solo, e neppure che esso mi si presenti di scorcio, mentre gli altri lati sono nascosti. Sem­ plicemente, immagino un cubo, e per adesso non mi pongo alcun problema. Se poi venissi interrogato intorno al suo "aspetto", potrei eventualmente dare un senso a quella domanda attraverso una de­ cisione immaginativa esplicita: "Ora lo vedo dall'alto". L'identità della cosa viene prima della costituzione di essa, o più preci­ samente: la cosa è data indipendentemente da una costituzio­ ne processuale attraverso progressive concordanze. Perciò non sono nemmeno prescritte delle attese. Si possono dare sequenze immaginative, ma non per questo debbono darsi regole di tran­ sizione tra esse. L'imitazione della norma attraverso cui si ha una posizione costitutiva di oggetto nell'ambito della percezione può solo appartenere alle possibilità dell'im­ma­­ginazione, e proprio per il fatto che in essa, invece, tutto può essere al di fuori di ogni norma. Potremmo del resto provarci ad invertire i termini del pro­ blema. Prendiamo le mosse da una situazione percettiva nella quale si inserisce un elemento di disgregazione. Ora accade pro­ prio così: apro la porta dell'armadio e, come da una finestra, vedo il mare. Di ciò non mi sorprendo. Penso piuttosto: l'immagina­ zione si sta prendendo gioco di me. Ma che cosa mi fa pensare questo? Perché chiamiamo in causa proprio l'immaginazione? Il fatto è che mi si è presentata or ora una incongruen­ za cru­ciale: e non semplicemente qualcosa di inatteso. Le attese possono anche non essere confermate: e quando non lo sono, di ciò potrei anche sorprendermi. Ma la mancata conferma è una non concordanza che tuttavia appartiene ad uno sviluppo di costituzione concordante e presuppone perciò la permanenza di una tipicità che contiene ambiti di possibilità precostituite. In 176 quello strano caso, invece, non si tratta di un'attesa che non vie­ ne confermata, ma di un momento che disgrega la compagine dell'esperienza stessa, superando così la stessa dimensione della sorpresa. Questa incongruenza cruciale rappresenta una sorta di contrassegno dell'immaginazione, un segnale che ne denuncia la presenza. In questo modo, l'im­ma­­ginazione si tradisce. Di tutto ciò potremmo approfittare per riproporre a modo nostro la distinzione tra immaginazione e fantasia che è in qualche modo presente nell'uso corrente dei termini. Talora preferiamo parlare di fantasia piuttosto che di immaginazione, e la sfumatura di senso che suggerisce la scelta riguarda proprio il modo in cui l'oggetto è fatto, piuttosto che il modo in cui esso è dato. Pur tenendo ferme le nostre considerazioni precedenti, dobbiamo dunque riconoscere che vi è qualche ragione se, di fronte alla richiesta di indicare un esempio di prodotto del­l'im­ma­ginazione, si pensa subito anzitutto ad un oggetto fuori dell'ordinario. Ab­ biamo la sensazione che l'immaginazione operi secondo la sua natura proprio quando presenta un mondo stra­volto. Qui entra in campo la fantasia. Così possiamo dire di due storie che l'una differisce dall'altra perché in essa prevale l'elemento fantastico. Oppure, di due dipinti: l'uno presenta come l'altro, ad esempio, una casa con una finestra aperta. Ma in uno di essi, dalla finestra sporge una mano enorme. In qualche modo si è sempre saputo che è utile distinguere tra fantasia e immaginazione e che tuttavia l'una e l'altra sono proprio la stessa cosa. Una volta si usava dire che la fantasia è l'immaginazione "senza freni": l'immaginazione che non si at­ tiene ad alcuna norma e scopo, che si abbandona ad eccessi, sregolata e perversa. Ma secondo lo spirito delle nostre conside­ razioni dovremmo dire piuttosto che la fantasia è l'essenza del­l'im­ ma­ginazione. 177 5 Acontestualità e indeterminazione temporale. La problematica della temporalità in rapporto all'immagi­nazione ci è utile non tanto per ampliare le considerazioni precedenti, quanto per ricomporle sotto un unico titolo. Diciamo senz'altro che, messo da parte il falso problema di una connessione interna tra l'immaginazione e la dimensione temporale del futuro, ciò che caratterizza i prodotti dell'im­ma­ginazione dal punto di vista temporale è la loro indeterminazione. Nell'inde­ter­minazione temporale possiamo indicare una sorta di caratteristica riassuntiva a cui tut­ te le altre possono essere ricondotte. Anche in questo caso è naturalmente importante distingue­ re con chiarezza l'esperienza dell'immaginare come atto, come vissuto, dai contenuti immaginativi che sono i suoi correlati. Va da sé che l'esperienza dell'immaginare è connotata temporal­ mente in modo altrettanto determinato quanto una qualunque esperienza di altro tipo. Possiamo dire ora immagino, così come diciamo ora percepisco, ricordo, desidero, ecc. E tutti sappiamo che questo ora può essere esteriorizzato e oggettivato, fissando un punto, identificabile da parte di tutti, sulla linea del tempo. "Ora, e sono le cinque della sera". Le differenze sussistono invece se consideriamo le cose dal­ la parte dei correlati dei vissuti. Nel ricordo, si ricorda qualcosa che è accaduto nel passato: l'evento ricordato ha una sua propria connotazione temporale, ovviamente non coincidente con quel­ la che spetta all'esperienza del ricordare. Benché questa localiz­ zazione nel passato possa essere per me relativamente oscura, il punto essenziale è comunque che si possa porre il problema della sua determinazione. L'ora in cui ricordo e l'ora di ciò che viene ricordato hanno a che vedere l'uno con l'altro proprio in quanto sono riferibili a luoghi del tempo, come due punti sulla stessa retta. A questa immagine non intendiamo rinunciare, così 178 come del resto vogliamo ammettere senza discussioni il requisi­ to della unicità del tempo che sta alla base delle nostre considera­ zioni, anche se ad alcuni esso potrà sembrare una postulazione metafisica priva di giustificazioni. Si possono perciò commettere errori nel ricordo, non sol­ tanto nel senso che può accadere che si ricordino le cose in modo diverso da come sono effettivamente andate, ma anche per ciò che riguarda la localizzazione temporale obiettiva di un evento. Ciò vale anche nel caso della percezione. L'errore non può concernere la determinazione soggettiva dell'ora, ma la sua fissa­ zione oggettiva. Per il resto la determinazione temporale del­l'e­ spe­rienza del percepire si estende, a differenza che nel caso del ricordo, sino ad abbracciare il correlato di essa. Non già come se potessimo dire che il percepire sia simultaneo al percepito. Que­ sto sarebbe un modo molto strano di presentare le cose. Ma nel senso che ciò che ora percepisco - alle cinque, c'è - alle cinque. Supponiamo invece che io, mentre me ne sto seduto in una stanza, ora (alle cinque), immagini di camminare per una strada di campagna. "Ora cammino per una strada di campagna". Né l'una né l'altra descrizione si attaglia in qualche mo­do a questa nuova situazione. Perciò saremmo propensi a parlare di indeterminazione. temporale dell'immaginazione. Se immagino di fare una passeg­ giata, la domanda "quando?" riferita all'evento immaginato giun­ ge comunque fuori luogo. Potremmo rispondere: questo non è affatto importante. Oppure: proprio ora. Questa seconda rispo­ sta non è molto diversa dalla rima, e l'una e l'altra equivalgono ad un modo di alzare le spalle. Il carattere, in certo senso, sorprendente della domanda "Quando accade questo" nel caso di un evento fantastico, dipen­ de dal fatto che in essa si pretende di operare un'inte­gra­zione nel tempo oggettivo. In realtà, la tematica dell'aconte­stualità può es­ sere interamente ricondotta sotto il titolo dell'in­deter­mina­zione temporale. 179 Pensiamo al classico inizio delle fiabe: c'era una volta . Que­ sta è una formula temporale che rinvia ad un passato lontano. Il quale, tuttavia, non è soltanto relativamente e accidentalmente indeterminabile, ma è indeterminabile essenzialmente e assolu­ tamente. Ciò che si racconta è effettivamente una storia, quindi una successione di eventi: e restando all'interno di essa, possia­ mo distinguere ciò che è avvenuto prima da ciò che è avvenuto poi. Vi è dunque qualcosa di simile ad un ordinamento tempora­ le. Ma se uno comincia una fiaba dicendo: "C'era una volta", al­ lora un altro non può chiedergli: e prima che cosa c'era? E così non possiamo chiedere che cosa accadde dopo il felice matrimonio. La fiaba sbuca dal nulla e torna nel nulla - una formula che richiama indubbiamente l'acontestualità dei prodotti del­l'im­ma­ ginazione. La fiaba ha un inizio ed una fine assoluti. Con ciò ri­ petiamo, in altro modo, che essa è acontestuale, ed è tale proprio perché è provvista di una temporalità meramente interna, una temporalità non esteriorizzabile: la storia che si racconta non è un ritaglio nella Storia, un suo piccolo pezzo. Il tempo della fiaba è tutto dentro la fiaba ed ogni fiaba ha un tempo, per co­sì dire, esclusivamente suo. Ma la problematica dell'acontestualità si ripresenta anche in rapporto ai singoli eventi di cui la fiaba è composta. Essa può avere certamente uno sviluppo relativamente consequenzia­ le, e vi sarà perciò un'unità non solo nel senso di un succedersi ordinato di eventi l'uno dopo l'altro, ma anche nel senso del dispiegarsi degli eventi l'uno dall'altro. Tuttavia non possiamo chiedere: se prima è accaduto questo e poi quest'altro, che cosa è mai accaduto nel frattempo? Questa domanda non è diversa da quella che chiedeva che cosa c'era prima di quella volta. Se la se­ quenza di eventi ordinati l'uno dopo l'altro è immaginata, non vi è alcun frattempo. E non è come se si raccontassero solo le cose più importanti e si trascurassero i dettagli - come se si tacesse qualcosa. E neppure inversamente come se nella fiaba tutto fos­ se raccontato e nulla venisse taciuto. Tutto ciò che vi è da dire 180 nella fiaba viene determinato dalla fiaba stessa. L'acontestualità rimane appresa ad una storia per quanto essa possa essere unitaria. Per questo motivo, laddove questa acontestualità si spinge sino alla "sfrenatezza" della fantasia, non vediamo altro che uno sviluppo dell'immaginazione secondo la tendenza che le è propria fin dall'inizio. 6 Il problema dell'individuazione nel campo dell'imma­gina­zione - Breve discussione sulle nozioni di eguaglianza e di identità - L'eguaglianza come grado estremo della somiglianza. Una diretta conseguenza dell'indeterminazione temporale è lo strano aspetto che assume la problematica dell'individuazione nel campo dell'immaginazione. Atteniamoci ancora all'esempio delle fiabe - benché qui na­ turalmente il contenuto della storia non abbia alcuna rilevanza. Nella fiaba, vi è un protagonista, un eroe. Pollicino, ad esem­ pio. Questi ha certe proprietà ben determinate, certi modi di comportarsi quando si trova in certi frangenti, un certo stile, un carattere. E naturalmente, all'interno della fiaba, si tratta sempre dello stesso Pollicino che fa questo e quello. Egli è appunto l'eroe della fiaba, ed in essa egli ha la sua "individualità". Ma supponiamo che vi sia un'altra fiaba. Essa comincia all'incirca nello stesso modo. L'eroe si chiama ancora Pollicino: 181 solo che fa cose abbastanza diverse, le sue gesta non si avvicen­ dano nello stesso modo e, d'altronde, qui vengono raccontate cose che nell'altra fiaba vengono taciute. Supponiamo infine che ci venga chiesto: il Pollicino della seconda fiaba è veramente lo stesso Pollicino della prima? Naturalmente potremmo allora accingerci ad un confron­ to: ma, checché ne sia del risultato, questo confronto non può certamente avere lo scopo di decidere la questione sollevata da quella domanda, come se potessimo in base ad esso arrivare alla conclusione: è chiaro che si tratta dello stesso Pollicino. Oppure: non vi è dubbio che si tratta di due persone ben diverse, solo che hanno lo stesso nome (e ciò potrebbe trarci in inganno). Benché la direzione verso la quale puntiamo sia fin d'ora ben visibile, forse non è inopportuno indugiare un poco su que­ sto punto. Vogliamo cioè spendere qualche parola sulla proble­ matica dell'individuazione. In che cosa essa consiste? Come può essere delimitata nel modo più semplice? Anzitutto potremmo tentare di fissare una definizione, ad esempio: l'individualità di un oggetto in genere consiste in tutto ciò che lo determina nel suo essere in modo tale che esso è pro­ prio quell'oggetto, e non un altro. Ora, proviamoci a leggere ed a rileggere questa frase: e tanto più essa ci apparirà misteriosa. Alla fine forse corriamo il rischio di dubitare che almeno qualche volta, le definizioni servano a ben poco. Converrà allora pren­ dere il problema un poco più alla lontana, cominciando con il notare che una discussione sull'indivi­duazione chiama in causa la nozione di eguaglianza e di identità. Nel discorso corrente, questi termini possono talora essere usati nello stesso contesto senza mutamento di senso. Non così per l'espressione "lo stesso". Se un bicchiere va in frantumi, potrei pregare qualcuno di procu­ rarmi un bicchiere eguale ad esso o ad esso identico, ma non di procurarmi lo stesso bicchiere. Lo stesso, infatti, è ormai andato in frantumi. Vogliamo approfittare della nostra libertà di convenire 182 sull'uso dei termini, decidendo di riservare la parola identico per i contesti in cui impiegheremmo l'espressione lo stesso. La distin­ zione a cui prima si accennava diventa allora, e in ciò ci allonta­ niamo dall'uso corrente, una distinzione tra eguaglianza e identità. In che cosa consiste l'eguaglianza? Anche in questo caso saremo forse tentati di lambiccarci il cervello per proporre fin dal­l'inizio una definizione. Invece vogliamo fissare un'acce­zione esemplificativamente ben determinata dell'uso della parola "eguale". Cosicché la domanda precedente potrebbe essere riformulata così: in quali contesti diremmo che due cose sono eguali? Op­ pure: quando saremmo propensi a dire che questo bicchiere è eguale a quest'altro? Ci esprimeremmo così - io penso - quando un bicchiere è tanto simile ad un altro che, in certe circostanze, ci risulterebbe difficile distinguerli. L'uno è una sorta di equivalente indiscernibile dell'altro. Ma solo in certe circostanze. Se i bicchieri mi venissero posti di fronte, non sorgerebbe alcun problema. Supponiamo invece che vi sia un solo bicchiere sul tavolo e che io apra e chiuda gli occhi alternativamente. Affermerò di vedere sempre lo stesso bicchiere, e sem­plicemente mi sbaglio se un ami­ co, quando tengo gli occhi chiusi, lo sostituisce con un altro ad esso eguale. Diremo dunque eguali due cose quando sono tanto simili tra loro che, in certe circostanze, potremmo non distinguerle l'u­na dall'altra, enunciando così un falso giudizio di identità. A que­sto punto potremmo anche azzardare una definizione: l'e­gua­ glian­za è il grado estremo della somiglianza. Ma essa non deriva dal pensare il concetto nel vuoto, argomentando altrettanto vuo­ tamente sui termini: infatti quella definizione può essere com­ presa solo se viene illustrata secondo i chiarimenti precedenti che riconducono l'impiego della parola a situazioni di esperienza concretamente determinate. 183 Annotazione Nella sua "Psicologia del suono" (op. cit., p. 111), Stumpf propone la seguente definizione di eguaglianza: "L'egua­ glianza di fenomeni sensibili non è altro che estrema somiglianza. Il non sussistere di quest'ul­tima è la differenza". L'ampia discussione metodologica entro la quale Stumpf introduce questa definizione ha un particolare interesse dal nostro punto di vista. In essa infatti si intende polemizzare contro la tendenza a proiettare senz'altro nell'ambito intuitivo nozioni istituite in modo puramente logico-concettuale. Poiché le indagini di Stumpf vertono intorno a giudizi che rinviano a com­parazioni relative a fenomeni sensoriali, è necessario chia­­rire in primo luogo che cosa si debba intendere, entro que­sto ambito, con somiglianza ed eguaglianza. Deve essere allora respinta anzitutto una concezione che subordini la prima alla seconda. In altri termini, assumendo un punto di vista logicizzante, la somiglianza dovrebbe risolversi nell'e­gua­glianza di alcune parti e nella differenza di altre. Di conseguenza se due cose possono essere dette simili, esse dovranno anche essere composte, mentre tra oggetti semplici potrà intervenire Soltanto un rapporto di eguaglianza o disuguaglianza (p. 112). Con la propria definizione, Stumpf intende invece istituire quelle nozioni tenendo conto della loro applicazione concreta nell'ambito dei "giudizi di sensazione", Egli parla perciò (p. 113) di valutazioni di somiglianza fondate a) sull'eguaglianza di rapporti e b) sull'egua­glianza di parti. In entrambi i casi l'eguaglianza è presupposta, così come è presupposta la "com­­ posizione" degli oggetti. Tuttavia da essi deve essere distinta la valutazione di somiglianza relativa ad oggetti "semplici". Benché le. nozioni di semplicità e di composizione non siano esplicitamente chiarire, gli esempi mostrano che esse non debbono essere intese in un senso astrattamente logico (come nel caso della concezione precedente), ma in un senso fenomenologico concreto. Così un suono percepito nella sua singolarità può valere come oggetto semplice e se sono dati tre suoni singoli A, B e C e B è percepito come suono "intermedio", A potrà essere valutato più simile a B che a C. "Dove è qui l'eguale e il diverso?" (p. 115). "È una fatica vana andare 184 ovunque alla ricerca di elementi eguali" (p. 117). In particolare, nel caso delle successioni percettive di incremento e di decremento, l'andare alla ricerca di parti eguali comporta un assurdità manifesta. Stumpf rafforza le proprie considerazioni con il seguente argomento: se la serie A, B, C... avesse forma Xa, Xb, Xc..., dove X rappresenterebbe l'ipotetica parte eguale, la struttura della progressione dovrebbe essere ricercata nelle parti a, b, e..., con conseguente regresso all'infinito (p. 116). La definizione proposta deve perciò essere ribadita, così come la priorità della nozione di somiglianza rispetto a quella di eguaglianza e della valutazione di somiglianza tra semplici rispetto a quella tra composti. Ciò richiede, inversamente, che si concepisca la differenza come una differenza di grado, cioè come una distanza che può essere aumentata e diminuita in modo continuo a partire da un contenuto dato. Se si considerano i §§ 44-45 di "Esperienza e giudizio" si può notare come questa discussione dovette avere per Husserl un significato metodologico esemplare. Che la somiglianza debba essere "analizzata" in una eguaglianza di parti è senz'altro escluso dal modo di porre il problema. Infatti si distingue qui tra somiglianza concreta(o totale) e somiglianza trasposta (o parziale) (§ 45). Con la prima si intende la somiglianza riferita a due oggetti colti nella loro globalità. Nel secondo caso invece siamo colpiti anzitutto dalla somiglianza di due parti, e la valutazione di somiglianza viene poi trasposta agli interi corrispondenti. Perciò si potrà parlare, nello stesso senso, anche di eguaglianza totale e di eguaglianza trasposta o parziale. Questa differenza potrebbe sembrare irrilevante solo se non si tenesse conto del contesto strettamente fenomenologico in cui essa viene proposta, nel quale occorre dare risalto alle differenze nei modi soggettivi in cui si attua il processo del confronto. Inoltre è chiaro che con somiglianza totale Husserl intende la somiglianza tra semplici nella terminologia di Stumpf e che l'eguaglianza andrà intesa come una distanza che tende a zero. 185 7 L'identità e il principio di individuazione - Gli individui immaginari non sono individui autentici. Ritorniamo ora al problema dell'individuazione: in esso è in que­ stione l'identità dell'oggetto. Questo appariva chiaro persino dal nostro tentativo iniziale di definizione. Le proprietà individualiz­ zanti saranno appunto quelle proprietà che contraddistinguono l'oggetto da ogni altro e che lo determinano dunque nella sua identità. Ed è chiaro, anche, che in rapporto a queste proprietà non sorgono problemi se non nel caso "estremo" della egua­ glianza. Se un oggetto è in tutto e per tutto eguale ad un altro, che cosa fornisce in questo caso il criterio della distinzione op­ pure, come potremmo dire più sapientemente, il principium individuationis? Vogliamo allora proseguire la nostra discussione nello stes­ so modo in cui la abbiamo cominciata. Sul tavolo di fronte a me ci sono due bicchieri eguali. Ciò significa: sarebbe molto difficile per me cogliere tra essi anche la più piccola differenza, per quan­ to li osservi con cura. In certe circostanze, potrei incorrete in errore e formulare in rapporto ad essi un falso giudizio di iden­ tità. Tuttavia, ora un bicchiere si trova alla mia destra, l'al­tro alla mia sinistra. E questo luogo che essi occupano può valere come criterio della distinzione. Ma questa condizione sembra troppo debole. Vogliamo forse dire che se un bicchiere cambia di posto allora diventa un altro? Certamente no. Di fronte a questa possibile obiezione, faremmo ancora notate: che il bicchiere cambi di posto significa questo: il bicchiere che prima era alla mia destra, ora si trova alla mia sinistra. Agli indici spaziali, debbono essere giustappo­ sti indici temporali. Il riferimento alla temporalità bal­za così in primo piano come la determinazione individualizzante decisiva. Ancora una volta vogliamo sottolineare che tutto ciò ha senso 186 solo nella misura in cui l'unicità e l'og­gettività del tempo è espli­ citamente presupposta. Di qui togliamo un'ovvia conseguenza nel campo dell'im­­ ma­­ginazione: poiché in esso vige un'indeterminazione temporale, viene sospesa anche l'azione del principium individuationis. La sen­ sazione che fosse privo di senso chiedere se il Pollicino di una fiaba fosse veramente lo stesso Pollicino dell'altra era giustificato dal fatto che il mondo della prima, dunque il suo tempo, il suo spazio, gli eventi che accadono in esso, è un mondo a sé stante, che non ha nulla a che vedere con il nostro mondo, e nemmeno con quello di altre fiabe. Ogni fiaba sta per con­to suo. Certo, questa può sembrare, e del resto possiamo addirit­ tura ammettere che lo sia senza rimetterci nulla, soltanto una versione sofisticata del tema elementare della libertà dell'imma­gin­ azione. Il motto dell'immaginazione è: "Fa' come vuoi!". Che una fantasia sia totalmente chiusa rispetto ad ogni altra, ed il modo in cui essa lo è, ci consente di affermare, nello stesso tem­ po, che essa può essere considerata come totalmente aperta. La mancanza di connessione, l'acontestualità consiste appunto nel­ l'as­sen­za di contesti, ma anche, che è lo stesso, nella possibilità di istituire contesti a piacere. Alla domanda sull'individuazione siamo liberi di dare una risposta qualunque. Si tratta, nella seconda fiaba, dello stesso Pollicino? Ebbe­ ne, possiamo decidere che sia così. La fiaba termina nel punto in cui termina, e termina assolutamente. Ma allora possiamo anche continuarla. Tutta la nostra tematica precedente mostra ora il suo rovescio. Abbiamo parlato di isolamento assoluto e di non integrazione. Ma allora possiamo integrare la fiaba in un modo qualunque. Due fiabe formano mondi a sé stanti: ed allora pos­ siamo congiungerle l'una con l'altra. Se si determinano incon­ gruenze potremo sempre ricorrere a qualche accorgimento op­ portuno: ma può essere anche che esse non ci disturbino affatto. Pollicino, ad esempio, nasce anche nella seconda fiaba. Ed 187 un bambino potrebbe protestare: ma come! Non era già nato? E noi possiamo rispondere: infatti, era già nato. Qui c'è una ripeti­ zione. Oppure: ora Pollicino è nato un'altra volta. Del resto, tut­ to è già dentro l'esempio del cavallo alato. "I cavalli non hanno le ali". "Questo, invece, ce le ha." Gli individui della fantasia non sono individui autentici e quindi non hanno proprietà nello stesso senso in cui le hanno gli individui reali. Pollicino aveva una sorella? Questo la fiaba non lo dice. Ma non lo tace. Essa è interamente priva di lacune ed è attraversata da mille lacune. Per questo non possiamo dire di non sapere se Pollicino avesse o non avesse una sorella. Dobbiamo ri­ nunciare alla certezza del tertium non datur .Almeno questo infat­ ti dovremmo sapere: che, comunque stiano le cose, o Pollicino aveva una sorella o non l'aveva. Tuttavia di questo potremmo essere certi solo se Pollicino non fosse un'eva­ne­scenza dell'im­ maginazione. Sarebbe comunque sbagliato ritenere che con ciò verrebbe compromessa la generalità della logica. Viene invece messo in chiaro quello che potremmo chiamare il suo "presupposto di mondo". Per lo stesso fatto che sono operanti nella logica i con­ cetti di verità e di falsità, quando in essa parliamo di individui o di oggetti in generale, di proprietà in generale, di eventi e di mondi possibili in generale, quando, nella logica, ci eleviamo alla massima generalità e oggettività formale, in cui ogni riferimento alla nostra realtà viene tolto, tuttavia qualcosa di questo riferi­ mento deve continuare a sussistere. Il terreno delle posizioni d'essere deve essere comunque presupposto. La logica presuppone che ci sia qualcosa. Annotazione Spunti consistenti per il contenuto dei §§ 5-7, nel quadro del tema husserliano dalla neutralizzazione delle posizioni d'essere, si trovano con particolare chiarezza nel §§ 39-40 di "Esperienza e giudizio". 188 Di acontestualità (Zusammenhanglosigkeit) si parla, in particolare, nel § 39. "Mentre tutte le percezioni confluiscono in un'u­nità in rapporto alle oggettività in esse intenzionate e sono riferite all'unità di un mondo, le oggettualità fantastiche cadono fuori da questa unità..." ("Erfahrung und Urteil", Hamburg, Claassen Verlag, 1964, p. 195). - "E tuttavia esse non hanno un nesso né tra loro, né con le percezioni. Il centauro che ora immagino e un ippopotamo che ho immaginato in, precedenza, ed inoltre il tavolo che percepisco or ora, non hanno alcun nesso tra loro, cioè non hanno alcuna posizione temporale l'uno rispetto all'altro" (p. 195). - "Ma una cosa manca necessariamente alla mera finzione, qualcosa che caratterizza gli oggetti realmente esistenti: la posizione temporale assoluta - il tempo reale in quanto essere dato effettivamente e assolutamente una volta per tutte del contenuto individuale in forma temporale" (p. 197). - Formazioni unitarie della fantasia sono certamente possibili, ma non appartiene all'essenza delle fantasie che esse debbano presentarsi in una concatenazione: "Fantasie separate non hanno a priori alcun nesso necessario" (p. 198). Nel § 40 il tema dell'acontestualità è intrecciato con quello dell'individuazione. "Nell'essenza di due fantasie qualunque non è affatto insito che esse richiedano l'unificazione in una fantasia" (p. 201). - "Infatti le "cose", i "processi", le "realtà" in un mondo non hanno nulla a che vedere con quelli dell'altro" (p. 201). "In rapporto alle loro componenti possiamo parlare di eguaglianza e di somiglianza, ma mai di identità, cosa che non avrebbe alcun senso; e quindi non possono presentarsi incompatibilità stringenti, che presupporrebbero tale identità. Ad esempio, non ha alcun senso chiedere se Gretel in una fiaba e Gretel in un'altra sia la stessa Gretel, se ciò che viene immaginato e detto per l'una sia o non sia in accordo con ciò che viene immaginato per l'altra, ed anche se esse siano imparentate, ecc. Certo, io lo posso stabilire - e l'assumerlo è già uno stabilire, ma allora le due fiabe si riferiscono al medesimo mondo" (p. 202). - "Nel mondo reale nulla resta aperto, esso è come è... Nessuna fantasia si trova al termine..." (p. 202). - "In ciò che è stato esposto è implicito che l'individuazione e l'identità dell'in- 189 dividuale, così come la possibile identificazione su di essa fondata è possibile solo all'in­terno del mondo dell'esperienza possibile, sulla base della posizione temporale assoluta" (p. 203). 8 Digressione: critica delle posizioni di Sartre. A questo punto della nostra esposizione possiamo conceder­ ci una digressione sulla posizione espressa da Sartre nella sua o­pera giovanile dedicata all'immaginario, soprattutto perché essa ci fornisce un ottimo termine di confronto per dare maggiore forza ad alcuni aspetti caratteristici dell'impo­sta­zione che abbia­ mo se­guito. Fra le ragioni di questo nostro interesse vi è indubbiamente il fatto che Sartre ha fortemente posto l'accento sulla posizione di Husserl e afferma senz'altro di condurre una ricerca intorno alla "coscienza di immagine" anzitutto con l'ausilio del metodo fenomenologico. La nostra insistenza su una "descrizione feno­ menologica" orientata verso il rilievo di differenze strut­turali, in contrapposizione ad ogni qualificazione psicologico intro­ spettiva, appare allora assai meno ovvia di quanto possa sembra­ re ad un primo sguardo. Infatti, non è necessario andare molto lontano nella lettura del testo di Sartre per rendersi conto che ciò che egli chiama "metodo fenomenologico" e di cui riven­ dica la diretta ascendenza husserliana non è che il vecchio me­ todo dell'osservazione interna. Secondo Sartre, per introdurre il metodo basterà distinguere tra coscienza riflessa e coscienza irriflessa - ad esempio tra l'atto percettivo che ha come oggetto un albero e l'atto che ha come oggetto questa percezione. Così se il problema è quello di una fenomenologia dell'imma­gina­zio­ ne, basterà produrre un'immagine, ad esempio quella del no­ stro amico Pietro e riflettere su ciò che accade nel­la nostra testa in quel momento. Secondo Sartre ciò che otteniamo in questo 190 modo sono dei dati che egli ritiene di poter senz'altro identificare con i dati fenomenologici evidenti di cui parlava Husserl, mentre l'unica cosa realmente evidente è che si tratta proprio dei dati dell'introspezione - un'espressione che del resto ricorre anche nel testo come equivalente a "dati della riflessione" [1]. La distinzione tra coscienza riflessa e coscienza irriflessa ha, d'altro lato, le sue origini lontane nell'empirismo classico e ciò tanto più merita di essere sottolineato per il fatto che Sartre ritie­ ne di dover avviare la propria ricerca con la sua ben nota critica dell'illusione di immanenza di cui egli vede il prototipo nella posi­ zione di Hume. Il fatto strano è che, mentre una critica dell'illu­ sione di immanenza può essere fatta dipendere in Husserl dalla critica del fenomenismo e del metodo introspettivo, Sartre è ben lontano dal sospettare l'esi­stenza di una simile connessione e procede come se l'errore dipendesse soltanto da una lettura er­ ronea dei "dati della riflessione". Tuttavia, poiché più che al problema filologico, siamo qui interessati ad un confronto diretto intorno ai problemi, converrà attirare l'attenzione, non tanto sulla questione del metodo, quan­ to su alcune conseguenze della sua applicazione. Si rammenterà che anche noi abbiamo parlato di quasi-osservazione, impiegando un termine caratteristico di Sartre: la nostra intenzione era, tuttavia quella di contrassegnare non un'af­finità, ma una contrapposizione. È opportuno comunque non lasciare la cosa nel vago. Il tema della quasi-osservazione è connesso in Sartre alla critica dell'illusione di immanenza. Se l'im­magine fos­ se una "percezione rinascente", allora un cubo immaginato po­ trebbe essere osservato nello stesso modo di un cubo percepito. Invece non lo può, e noi potremmo indicare la differenza tra il dato immaginato e il dato percepito dicendo: "L'immagine non ci insegna nulla" [2]. Nel contesto della nostra impostazione; la questione si ri­ duce, come si è visto, ad una questione di "grammatica filosofi­ ca" intorno al verbo osservare, strettamente dipendente dalla ca­ 191 ratteristica generale della libera posizione di un contenuto nella forma del come-se. Altrimenti stanno le cose in Sartre. Se non riusciamo a contare il numero delle colonne del Partenone nella sua immagine, ciò dipende anzitutto dalla qualità, dell'immagine stessa: essa si presenta come un contenuto sfuggente, non chia­ ramente articolato, che in luogo di presentarsi prospetticamente, offrendosi così ad una percezione capace di prenderla in esame, si presenta "globalmente all'intuizione", "offre in un colpo solo quello che è" [3]. L'im­ma­gine non tollera di essere vista più da vicino, ed anche l'immagine più chiara diventa subito labile e con­ fusa se tento di osservarla e di venire a sapere qualcosa da essa. È del resto già molto indicativo dell'orientamento assunto dal problema il fatto che gli esempi che ricorrono fin dal­l'inizio sono anzitutto esempi di immagini intese come riproduzioni men­ tali di qualcosa di ben conosciuto o che abbiamo visto poco fa. Ora vedo il foglio di carta bianca di fronte a me. Poi volgo la testa da un lato e cerco di immaginare proprio quel foglio. Sartre, in altri termini, in conformità con tutta una tradizione filosofi­ ca, considera l'immaginazione come un titolo generale, sotto il quale si possono poi distinguere, come casi speciali, le immagini memorative e le immagini nel senso di contenuti liberamente prodotti, indipendentemente da un rimando memorativo. Ma questo modo di impostare il problema dipende direttamente da una nozione dell'immaginare inteso come una specie particolare di visualizzazione. L'immagine non è altro che una debole allucinazione. Perciò deve avere perfettamente senso "non riuscire ad immaginare qualcosa" - altrimenti l'imma­ginare non potrebbe essere distinto dal pensare, dalla comprensione vuota del signi­ ficato di una parola. Le nostre osservazioni intorno all'imma­ gi­nare ed al supporre non potrebbero assolutamente risultare convincenti assumendo un simile punto di vista, ma proprio per il fatto che in esso ci si attiene strettamente ad una nozione di immagine connessa alla visualizzazione, e dunque intesa come un contenuto mentale di una certa specie. Perciò Sartre non può 192 evitare di impiegare il termine di "immagine mentale" [4], sia pure circondandolo di qualche riserva concernente i possibili equivoci dell'illusione di immanenza. Il problema della ricerca del cosiddetto "rappresentante analogico", su cui si affaccenda l'intera seconda parte del­l'opera di Sartre, sorge direttamente da questo modo di concepire l'im­ ma­gine. La discussione che induce alla posizione del problema comincia con la messa in questione del rapporto istituito dal­ l'im­­­ma­­gine intesa nel senso di raffigurazione. Questo inizio può sembrare abbastanza curioso in un'indagine che attribuisce tan­ to rilievo alla critica dell'illusione di immanenza - e dunque ad una critica di una concezione secondo cui l'oggetto immaginato sarebbe da intendere come un oggetto che si trova "dentro" la coscienza. Questa critica deve naturalmente respingere la stes­sa concezione anche nella sua forma più debole: dentro la coscien­ za non vi è nemmeno una copia della cosa data in immagine. Ciò resta vero anche secondo l'impostazione di Sartre. Le immagini mentali non sono "ritratti" delle cose presenti nella coscienza. Eppure ciò non toglie che alla domanda se l'"atteg­giamento del­ la nostra coscienza" di fronte ai ritratti, alle fotografie, a ciò che noi abbiamo chiamato raffigurazioni, sia "assimilabile a quello che essa assume nel fenomeno dell'immagine mentale" [5] si debba rispondere positivamente: il ritratto costituisce così un ri­ ferimento esemplare per l'inda­gine di Sartre. Abbiamo qui un fenomeno visivo-percet­tivo, nel quale possiamo chiaramente di­ stinguere la rappresentazione raffigurativa ed una materia che serve come sua base. Questa circostanza, che dal nostro punto di vista potrebbe essere citata proprio come una caratteristica tendente a differenziare l'una nozione di immagine dall'altra, di­ venta invece il tratto comune che tutte le immagini debbono avere: ciò che caratterizza la loro essenza. Prendiamo dunque le mosse dal ritratto proprio perché in questo caso, è possibile addirittura un'apprensione che isoli il momento materiale - il dato semplicemente percettivo - dal 193 momento raffigurativo. In altri casi può accadere che questa di­ stinzione non si presenti in modo così netto e chiaro: e tuttavia essa deve essere comunque proposta per ogni specie di coscien­ za di immagine, quindi anche nel caso delle immagini mentali. Qui la materia è certamente "più difficile da determinare"; ma "è evidente che anche in essa ci deve essere una materia" [6]. Lo sviluppo successivo è determinato da questo inizio. A partire di qui, infatti ci accingiamo ad esaminare diversi tipi di immagini, scelti in modo tale da esibire un progressivo assotti­ gliamento della materia. Le considerazioni relative alle raffigu­ razioni ci forniscono la concezione generale secondo la quale l'immagine si dà in un atto che concerne "un oggetto assente o inesistente, attraverso un contenuto fisico o psichico che non si dà in proprio, ma a titolo di rappresentante analogico dell'og­getto" [7]. Quindi passiamo a considerare, dopo alcune notazioni sul segno e sull'immagine-raffigurazione, la "coscienza delle imitazioni". Il caso del mimo rappresenta un primo esempio di immagine in cui la materia e impoverita. Nell'immagine prodotta dal mimo, i suoi gesti, la sua persona, i suoi movimenti, formano la materia percettiva dell'immagine stessa. Tuttavia si tratta di una materia più povera che nel caso del ritratto perché il ruolo più impor­ tante non può essere svolto dalla somiglianza in senso letterale. Saranno allora messi in gioco contrassegni e rimandi schematici di vario tipo oltre che la capacità da parte del mimo di ridestare ciò che Sartre chiama il senso effettivo di ciò che viene imitato. Un ulteriore impoverimento si ha nel caso dei disegni sche­ matici. L'orientamento introspettivo dell'indagine diventa qui particolarmente evidente per il fatto che Sartre cerca una spiegazione per la formazione delle immagini, in particolare, nelle "sen­ sazioni interne" di movimento. Per Sartre non c'è dubbio che, se prestiamo l'attenzione necessaria, nella "riflessione" che stiamo compiendo, "sentiamo ruotare i globi oculari nelle nostre orbite" [8]. Queste sensazioni, insieme alle linee del disegno, svolgono quella funzione di rappresentanza analogica senza la quale non 194 si darebbe alcuna immagine. Seguendo questa via, attraverso i casi dei volti visti attraverso le fiamme o nel­le macchie dei muri e quelli delle immagini del dormiveglia, "ci innalziamo sempre più nella serie delle coscienze immaginative" e "la materia si impo­ verisce sempre più". Al punto estremo di questa serie troviamo l'immagine nel senso della rappresentazione mentale: in rapporto ad essa l'analisi fenomenologica (intesa persino come analisi in­ trospettiva) non esibisce alcuna materia, per quanto povera e in­ determinata. Questo fatto, che ci dovrebbe finalmente liberare dal problema, è invece. per Sartre il punto della "difficoltà". Da un lato non riusciamo a reperire nessun rappresentante analogico dell'og­ getto. immaginato. Dall'altro sappiamo che un rappresentante ana­ logico ci deve essere, dal momento che "l'immagine mentale non va studiata a parte" [9]. Il problema della materia deve dunque essere mantenuto: solo che esso non può essere risolto sul piano fenomenologico. Di quella difficoltà possiamo forse sperare di venire a capo proseguendo la nostra indagine sul terreno della psicologia sperimentale. Tutto ciò sembra sufficiente per stabilire una chiara tenden­ za di lettura dell'opera di Sartre. Naturalmente essa non può pre­ scindere dal punto di vista critico conseguente al nostro impian­ to teorico interamente diverso. Nello stesso tempo, l'effica­cia eventuale della critica rappresenterebbe una sorta di conferma indiretta dall'impostazione che abbiamo proposto. A questo scopo potrebbero naturalmente essere richiamati numerosi altri aspetti della tematica di Sartre, ed in particolare meriterebbero di essere discussi proprio quegli aspetti che sem­ brano portare molto vicino alle nostre tesi. Ad esempio, anche in Sartre si presenta la tematica della indeterminazione temporale e dell'individuazione. Già nel trattare della "coscienza delle imi­ tazioni" egli parla di una indeterminazione fondamentale delle imma­ gini [10]. Ed accenna al fatto che di questa indeterminazione "ce ne dovremo ricordare quando, più oltre, studieremo le immagini mentali" [11]. Ma egli allude qui al fatto che le qualità della perso­ 195 na imitata non possono che presentarsi, nella ricreazione imitati­ va operata dal mimo, in un modo relativamente vago e fluttuan­ te. Tanto più questa indeterminazione dovrà ripresentarsi nel caso delle immagini mentali: qualunque cosa funga qui da rappresen­ tante analogico, certamente essa non potrà avere la consistenza di un'esteriorità concretamente percepibile. A ciò Sartre ricollega la mancanza di un'individualità autentica degli oggetti immaginativi: questi oggetti so no "fantasmi", sono oggetti "ambigui", "sfuggen­ ti", "in parte loro stessi e altra cosa..." [12]. Io credo che non ci si debba sorprendere se nonostante la cri­tica iniziale dell'illusione di immanenza, una filosofia del­l'im­ magine che la propone anzitutto come una debole allucinazione, finisca con l'attribuire ad essa - parlando di continuo della "po­ vertà essenziale", dell'"ambiguità", dell'"opacità" del­le immagini - caratteri di vaghezza e di labilità in un senso non molto diverso da quello in cui sono stati teorizzati dalla tradizione empiristica. Ma naturalmente non possiamo concludere la nostra digres­ sione passando sotto silenzio il punto in cui la posizione di Sar­ tre si approssima alla costruzione di un vero e proprio sofisma che è destinato peraltro ad avere una fondamentale importanza nelle conclusioni dell'opera e nel passaggio alla tematica esisten­ zialistica. Esso trova formulazione in ciò che Sartre indica come terza caratteristica della coscienza di immagine questa pone il suo oggetto come un nulla [13]. Prendiamo le mosse dall'affermazione generale secondo cui "all'esistenza di un oggetto per la coscienza corrisponde noeticamente una tesi o posizione di esistenza", per sottolineare che "la tesi della coscienza immaginativa è radical­ mente diversa dalla "tesi" di una coscienza realizzante" [14]. Ma il fatto è che, secondo Sartre, si tratta pur sempre di una tesi; e la "differenza radicale" consisterebbe in questo: nel primo caso vengono poste realtà, nel secondo irrealtà. Ecco allora che "l'im­ magine dà il suo oggetto come un nulla d'essere" [15]. ""Ho un'immagine di Pietro" equivale a dire non soltanto "non vedo Pietro", ma anche "non vedo nulla"" [16]. Il sofisma sta proprio 196 in queste pretese equivalenze di senso. Per dipanarlo bastano certamente le poche cose che abbiamo osservato in precedenza: immaginare qualcosa non ha affatto il senso di porre qualcosa che non c'è. Immaginare Pietro non è una sorta di giudizio implicito sull'assenza di Pietro. Tanto meno possiamo dire, quando imma­ giniamo Pietro, di non vedere nulla. I filosofi sono talvolta simili a selvaggi - diceva Wittgen­ stein - che ascoltano parlare gli uomini civili senza capirne il linguaggio e di conseguenza fanno strane congetture [17]. Gli uomini civili siamo naturalmente tutti noi, quando non fìlosof­ iamo (come selvaggi). Ed allora, in quali circostanze noi, uomini civili, diremmo di non vedere nulla? Io penso: quando qualcuno, all'improvviso, spegne la luce. Invece, quel sofisma permette a Sartre di elevarsi ben al di sopra di queste piattezze per preparare le enfasi conclusive della coscienza che pone il Nulla - che andrà scritto, alla fine, proprio così, con la lettera maiuscola; le enfasi sull'imma­gina­zione come "condizione di possibilità di una coscienza in generale" [18]; il passaggio, infine, a partire da una tematica che avanza in più di un punto la pretesa di volersi attenere al procedere sicuro dell'in­ dagine psicologica, ai motivi esistenzialisti che saranno alla base de L'Essere e il Nulla. 9 Passaggio ad un nuovo ambito di problemi: l'immaginosità dell'immaginazione - Una diversa accezione del termine "immagine" - Richiamo all'associazione delle idee - Introduzione della nozione di sintesi immaginativa. L'immaginazione produce immagini. Ma fin qui con "immagine" abbiamo sempre inteso soltanto il correlato di un atto immagi­ nativo. Tutti i nostri argomenti precedenti si aggiravano intorno ad un unico nucleo tematico: e questo era essenzialmente deter­ minato dal riferimento dominante alle im­magini in questa prima 197 accezione. Tuttavia l'immaginazione produce immagini anche in un altro senso, che deve essere nettamente distinto dal precedente e che è portatore di una tematica volta in tutt'altra direzione. Nella terminologia relativa all'immaginazione, non disponiamo soltanto dell'aggettivo "immaginario", ma anche dell'ag­gettivo "immaginoso". Potremmo dire allora che la tematica sviluppata fino a questo punto aveva a che fare con l'immaginarietà dell'im­ maginazione piuttosto che con la sua immaginosità. Per questo motivo, il nostro esame ha dato un rilievo centrale alla neutraliz­ zazione delle posizioni d'essere, e dunque all'indeter­minazione temporale, come caratteristica dominante dei contenuti immagi­ nativi come tali. Con ciò si metteva in risalto l'immaginazione in quanto facoltà che supera la dimensione sintetica dell'esperienza sensibile. La possibilità di formare contesti nell'ambito dell'im­ maginazione rinvia essa stessa ad un'acontestualità di principio. Se ora consideriamo l'immaginosità dell'immaginazione il quadro stesso del problema muta completamente. Spesso ci accade di fare uso di espressioni immaginose: il nostro richiamo dunque è diretto anzitutto a certi determinati fatti linguistici, che possono del resto essere di genere molto vario. Tuttavia non è ad essi che intendiamo dedicare la nostra attenzione. Questo richia­ mo ci serve solo come un modo di introdurre la nostra nuova tematica. Le espressioni immaginose si chiamano così perché contengono immagini, e basta una superficiale considerazione di esempi per rendersi conto che qui parliamo di immagini in un senso del tutto diverso dal precedente. Ciò a cui ora siamo inte­ ressati è il modo in cui si esplica la funzione dell'imma­ginazione in quanto produce immagini in questa seconda accezione. In rapporto ad esse forse più che altrove può sembrare ap­ propriato il mettere in questione fin dall'inizio l'"associazione delle idee": la passione evoca il fuoco, e perciò possiamo parlare di passione ardente oppure dell'ardere appassionato del fuoco. Per quanto si possano cercare esempi più sofisticati, sembra tuttavia 198 che alla base delle immagini, prescindendo dai loro modi di co­ struzione che possono essere altrettanto vari quanto sono varie le regole dell'associazione vi sono sempre nessi associativi. Tuttavia il termine di associazione in se stesso insegna ben poco: noi ne abbiamo già fatto un uso, trattando della tematica della percezione e del ricordo un uso prudente proprio perché esso deve essere inteso di volta in volta in modo strettamente dipendente dal quadro dei problemi che siamo andati via via considerando. Talvolta abbiamo parlato di "associazioni" per in­ dicare le sintesi in genere, le sintesi percettive così come le sintesi che stanno alla base delle catene di ricordi oppure che dànno ori­ gine ad attese percettive ed alla formazione di abitualità. Il modo di proporre il problema rendeva giustificato questo impiego e toglieva di mezzo eventuali ambiguità. La stessa cosa accade ora nel riprendere questo tema in rapporto all'immaginazione. Potremmo parlare delle immagini, nella nuova accezione, richiamandoci senz'altro all'"asso­ciazio­ne delle idee", ma allora abbiamo bisogno di qualche chiarimen­ to preliminare. Infatti, se intendiamo l'associazione come una pura e semplice giustapposizione di contenuti secondo connessioni "motivazionali" in un senso all'incirca analogo a quello che ve­ niva in questione nel caso delle catene di ricordi, indubbiamente ci muoveremmo in una direzione sbagliata. Più giusto sarebbe il richiamo alla fusione della, scena memorativa nella scena presente, che induce in essa un arricchimento di senso, senza che vi sia alcun ricordo esplicito e dunque nemmeno un effettivo rappor­ to di connessione motivazionale nel quale si possa chiaramente distinguere tra l'elemento motivante e l'elemento motivato. In effetti l'immaginazione, nel suo produrre immaginoso, non opera una semplice giustapposizione di contenuti, ma una vera e propria assimilazione reciproca. Nel fuoco vediamo, in trasparenza, la passione. Nella passione, il fuoco. Per questo, dal punto di vista da cui ci disponiamo, non sarebbe molto utile mettere senz'altro avanti la distinzione tra un senso proprio ed un 199 senso immaginativo nella parola che fa da veicolo all'imma­gine. Questa distinzione è naturalmente giusta: solo che non si vede in che modo essa possa apportare un effettivo chiarimento rispetto alla funzione immaginativa che è qui in opera. Infatti l'accento deve cadere sul trapassare dei contenuti l'uno nell'al­tro, sull'indistin­ zione e sulla fusione. Indubbiamente abbiamo a che fare con una duplicità: ma essa non può essere intesa come un'ambiva­ lenza fortuita, come un divergere di significati nella stessa paro­ la. I significati invece convergono nel punto in cui sorge l'immagine. in questo punto il senso proprio diventa cangiante, e tuttavia deve essere ancora vivo, altrimenti l'immagine stessa si spegne. Proprio perché l'unificazione avviene in questo modo, è forse opportuno riservare il termine di associazione di idee, solo alle strutture di concatenazione tra contenuti in genere, parlando invece delle immagini nell'accezione che ora prendiamo in con­ siderazione come risultati di sintesi immaginative. In effetti, mentre la. problematica dell'immaginarietà ci poneva di fronte al carattere antisintetico dell'immaginazione, la tematica del­l'im­ma­ginosità pone in primo piano l'immaginazione in quanto facoltà di produrre sin­ tesi che solo essa è in grado di operare. 10 Le cose della percezione in quanto sono vissute secondo una piega immaginativa. Per cogliere la problematica elementare delle sintesi immagi­ native non dobbiamo considerare l'immaginazione che unifica idee fluttuanti nel nostro universo mentale. Dobbiamo invece rimettere in questione il rapporto tra il terreno della percezione e quello dell'immaginazione. Fin qui abbiamo insistito soprattutto su un'eterogeneità di principio che esclude il sussistere tra l'uno e l'altro di qualunque punto di intersezione. Tuttavia, proprio al fine di chiarire la nozione di sintesi immaginativa e di mostrarne 200 alcune, articolazioni problematiche diventa importante conside­ rare le cose che ci stanno intorno in quanto non sono sempli­ cemente percepite e poste come sussistenti in se stesse, ma in quanto sono vissute secondo una piega immaginativa. Pensiamo alla situazione del discendere in una cantina. Può darsi il caso che nel discendere si provi un lieve senso di inquie­ tudine. Un certo disagio: anzi, forse, soltanto passando dinanzi alla porta che conduce ad essa. Se dovessimo in qualche modo spiegare le ragioni di que­ sto disagio, parleremo forse dell'oscurità della cantina; delle sue pareti umide e viscide, del fatto che essa si trova sottoterra e di altre cose ancora. Ma che ragioni possono essere queste? Di una cosa pos­ siamo elencare le proprietà, ma esse non possono fare altro che circoscriverla attraverso le determinazioni di cui consiste e che possono essere constatate. La cantina è oscura. E con questo? Ammettiamo allora che l'immaginazione deve svolgere qui un qualche ruolo. Ma sarebbe evidentemente un errore presentare le cose come se passando davanti alla porta della cantina ci im­ mergessimo in strane fantasticherie. In realtà non accade nulla di tutto questo. La differenza del punto di vista che ora abbiamo adottato e che ci. consente di mettere in rilievo un altro aspetto della tematica dell'immaginazione appare qui dal fatto che, se con "immaginare" intendiamo, come in precedenza un'effetti­ va produzione di scene immaginative, allora sarebbe giusto dire che, nel caso in questione, non stiamo immaginando nulla. Per­ ciò vogliamo parlare piuttosto di una piega immaginativa che la situazione percettiva assume in quanto essa è compenetrata di immaginazione. Se poi andiamo alla ricerca delle ragioni di quel disagio e ci richiamiamo anzitutto all'oscurità, sappiamo benissimo che non si tratta di rilevare un dato di fatto da cui possa derivare qual­ cosa. L'oscurità pura e semplice non spiega nulla. In questo modo vorremmo piuttosto accennare ad un senso da cui la cosa è tutta 201 permeata ed in cui essa tende a dissolversi. Quella porta si apre sull'oscuro - conduce in esso. Perciò non si tratta di una proprietà che fissa la cosa nella sua determinatezza: l'oscurità è qui una de­ terminazione instabile, un'"idea" che "ci viene in mente" e sulla quale si addensano in modo indeterminato altre "idee". Ci sono dunque "associazioni": ma ciò non significa che vi siano idee concatenate l'una all'altra e la mia mente non faccia altro che passare da questa a quella. Parliamo anzitutto dell'o­ scurità: ma in realtà ci riferiamo ad essa come ad una sorta di indice di direzione immaginativa. L'immaginazione si innesta su que­ sto punto, ma non propone, a partire di qui, altri contenuti, spo­ standosi da un punto ad un altro punto. Essa invece imprime alla cosa una tendenza al movimento, si impossessa di essa per proiettarla sul piano di un dinamismo latente. In questo modo viene imboccata la via che conduce all'immagine: la cosa si trova ora avvolta da un orizzonte indeterminato di sensi fantasmagorici, viene risuc­ chiata in una prospettiva immaginativa nella quale tende a perdere stabilità e consistenza. Essa comincia a muoversi, secondo un movimento che fa tutt'uno con l'azione delle sintesi, con il peso di altre idee che si fanno sentire nella forma di un richiamo allusivo. In breve potremmo dire: alla cosa viene apposto un indice di direzione sintetica dell'imma­ginazione: ed essa assume così il carattere di valore immaginativo. 11 La funzione valorizzante dell'immaginazione. L'immaginazione sta all'origine di valori: essa fa della cosa un valore immaginativo disponendola su un altro piano e superan­ do così la sua dimensione di cosa. Questa funzione valorizzante dell'immaginazione, che poggia sulle sintesi immaginative, spet­ta originalmente all'immaginazione stessa e non, può essere ricon­ dotta ad un altro fondamento. La vecchia frase: da fatti non pos­ 202 sono sorgere valori può ben essere rammentata a questo punto. Nessuna immagine può sorgere da un semplice. accostamento di contenuti, ma da una loro, autentica sintesi. Alla luce di ciò vogliamo riprendere e chiarire meglio la questione che in precedenza era stata appena accennata e lascia­ ta subito in sospeso - la questione, cioè, del modo in cui si situa, all'interno del nostro tema, la problematica dell'"asso­ciazione delle idee". Supponiamo che ci venga proposto di giocare un gioco il cui compito potrebbe essere formulato così: io nomino una cosa e tu ne nomini un'altra, la prima che ti viene in mente. Allora può accadere, ad esempio, che io dica "cantina" ed un altro dica "tomba". Oppure che io dica "cielo" ed un altro risponda "ful­ mine". Qui vediamo una connessione. Ma può anche accadere che io dica "cielo" ed un altro risponda "corvo". Qui, invece , non vediamo nessuna connessione. Questi nostri commenti intorno al sussistere ed al non sus­ sistere di una connessione meritano qualche riflessione. Eviden­ temente, in essi si distingue tra il puro e semplice "venire in men­ te" di una cosa se ne è data un'altra, ed il sussistere tra una cosa ed un'altra di una qualche forma di legame. Il gioco che abbiamo proposto potrebbe essere chiamato un gioco "associativo", ma questa denominazione può essere equivoca proprio perché il fat­ to che due contenuti siano "associati" nel senso che essi compa­ iano insieme nel gioco, non comporta che essi siano "associati" nel senso che siano connessi l'uno all'altro secondo un legar­ ne interno. Naturalmente possiamo senz'altro ammettere, sulla base di considerazioni compiute a suo tempo, che non sia affatto un caso se, avendo io detto "cielo", l'altro ha risposto "corvo". Anche qui si può porre il problema dei motivi. Noi non vedia­ mo nessuna connessione, ma una connessione per lui deve pur esserci. Ci debbono essere delle ragioni in base alle quali questi contenuti sono per lui concatenati. Di esse noi non ne sappiamo nulla, ma lui potrebbe saperne qualcosa. 203 Sembra allora che si possa distinguere tra nessi associativi in rapporto alla cui istituzione sono determinanti le esperienze soggettive individuali e nessi associativi in rapporto ai quali il momento soggettivo può essere considerato relativamente irrile­ vante, poiché il contenuto stesso agisce senz'altro da motivo per il sorgere dell'altro. Anche in rapporto alla tematica delle associa­ zioni orientata nel campo dei problemi dell'imma­gina­zione, sembra dunque proporsi il problemi di un fondamento contenutistico. Altrimenti non sarebbe lecito dire, in rapporto al gioco as­ sociativo: qui non c'è nessuna connessione. Con ciò assumiamo implicitamente che il Semplice fatto che proprio il contenuto B sia "venuto in mente", essendo dato A, non è in grado di istituire tra quelle cose, considerate per quello che sono) una connes­ sione interna. Esse sono connesse appunto solo nel gioco, e si potrà allora aprire eventualmente il problema delle motivazioni soggettive. Inversamente, se c'è una connessione, essa non può dipendere dal puro e semplice fatto che dato A, al mio amico sia venuto in mente B. In questa faccenda il mio amico non c'entra per nulla, e la connessione dipende proprio dal fatto che i conte­ nuti in questione sono questi e non altri. Tuttavia, non è ancora chiaro in che senso parliamo, in certi casi, dell'insussistenza di un legame associativo. Prescindendo dalle circostanze di fatto del gioco e quindi dalle motivazioni soggettive, noi diciamo che tra "cielo" e "corvo" non sussiste nessun legame. Ma come facciamo a saperlo? In generale pos­ siamo sempre immaginare. un percorso che conduca dall'una all'altra "idea", interpolando contenuti intermedi, secondo una concatenazione che sia evidente di passo in passo. Sembra allora pretestuoso parlare di un fondamento contenutistico - e quindi, sia pure in un senso non troppo forte, di legami oggettivi - dal momento che siamo sempre in grado di trasformare un elenco di contenuti in una catena associativa. Si tratta di un'osservazione che contiene molte cose giuste, anche se l'opinione che essa suggerisce secondo cui l'arbi­trio 204 domina nel campo delle associazioni è in realtà erronea. Senza dubbio, non possiamo parlare del sussistere o non sussistere di un nesso tra contenuti come se si trattasse di compiere su di essi una constatazione. Proprio il fatto che possiamo sempre immaginare un percorso che conduca da un contenuto ad un altro qualunque ci avverte che le cose non stanno così. Qui il verbo "immaginare" non è affatto usato a caso. Isti­ tuendo un percorso non formuliamo nessuna supposizione, non formuliamo nessuna ipotesi sull'esistenza di contenuti interme­ di. Sostenere che vi è un fondamento contenutistico delle as­ sociazioni non significa affermare che vi sia nella nostra testa un percorso oggettivamente determinato: una sorta di geografia dell'universo in cui si aggirano le idee. Anche il parlare di una complicata rete di percorsi, come se questa rete fosse in qualche modo prestabilita, conduce ad equivoci orientati nella stessa di­ rezione. Fa pensare al problema di una corrispondenza possibile tra i percorsi che noi istituiamo e i percorsi che ci sono oggetti­ vamente da qualche parte, come se, insomma, i percorsi che noi istituiamo siano supposizioni che hanno, bisogno di una confer­ ma, come se nell'istituire questi percorsi non facessimo altro che indovinare i tracciati di una carta muta. Per questo motivo non c'è dubbio che possiamo liberamen­ te trasformare un elenco qualunque di contenuti in una catena associativa. Attraverso l'associazione, l'immaginazione può cor­ rere a piacere da un capo all'altro dell'universo. Ma da queste considerazioni non si può trarre una conclu­ sione che dissolva il problema di un fondamento delle associazio­ ni nelle cose stesse l'aspetto che vorremmo chiamare "oggettivo". Infatti, in esse si mantiene ferma la distinzione di prin­cipio tra elenco e catena. Stabilire un percorso tra contenuti qualunque non vuol dire affatto stabilire un percorso in un modo qualunque: non significa cioè cominciare con il contenuto A, far seguire ad esso contenuti arbitrari e, ad un certo punto, aggiungere il contenuto B. In tal caso infatti non vi sarebbe alcun percorso. 205 Quest'ultimo deve essere giustificato in ogni suo passo. Se consideriamo un elenco come una catena, il punto essenziale è che debbano essere postulate delle lacune. E l'interpo­lazione di contenuti intermedi deve soggiacere al requisiti richiesti dalla nozione di catena: se B istituisce un nesso tra A e C, non ha certamente senso asserire che tra l'uno e l'altro ci sia proprio B, come se il percorso ci fosse già e noli non dovessimo far altro che metterlo allo scoperto. Un altro contenuto potrebbe andare altrettanto bene, purché, come B, sia in grado di fungere da a­n­ ello di congiunzione. L'"associare idee" è indubbiamente faccenda dell'imma­ ginazione. Ma se intendiamo l'associare idee nel senso ristretto che abbiamo or ora illustrato, allora dobbiamo distinguere l'im­ ma­ginazione associativa - l'immaginazione, cioè, in quanto isti­tuisce catene associative - dall'immaginazione sintetica. Istituire una catena non è ancora la stessa cosa che produr­ re quella assimilazione immaginativa, quella sintesi valorizzante che noi abbiamo riconosciuto come l'origine delle immagini. La tematica della associazione, intesa in questo modo, si trova al di qua del problema della valorizzazione. Così, nel "gioco associativo", se io dico "cantina", può dar­ si che un altro dica "tomba" ed un altro ancora: "morto". Ecco dunque un esempio di catena: le sue regole potrebbero essere la somiglianza, nel suo primo passo, e la continuità, nel secondo. Nell'istituire questi nessi, tutto sommato, procediamo aderendo ai fatti. Anche la cantina si trova sottoterra. Così il sole potrebbe essere "associato" ad un occhio: essi hanno effettivamente qual­ cosa in comune. Per giustificare i passi di una catena possiamo talvolta ricorrere a giudizi autentici. Ma la tematica della neu­ tralizzazione delle posizioni d'essere continua a essere presente, nonostante la riformulazione che essa deve subire per via della sua subordinazione al problema della valorizzazione. Valore im­ maginativo e posizione d'essere si trovano l'uno contro l'al­tra. Se attraverso la copula viene introdotta un'imma­gine, essa cessa di 206 avere un senso predicativo autentico: altrimenti nessuna imma­ gine viene introdotta. Non basta dunque che il sole sia connesso associativamente ad un occhio: ma l'immagine comincia a vivere solo se, ad esem­ pio, sentiamo il peso del suo sguardo, se ci sentiamo ovunque spiati da esso. Alla connessione associativa deve subentrare la sintesi pseudo­predicativa dell'immaginazione: il sole è l'occhio del cielo. L'essere trapassa nel valore. E questo trapassare consiste in una vera e propria compenetrazione tra oggetti: il risultato della sintesi è un oggetto di genere interamente nuovo, un og­ getto cangiante che è un altro da quello che è proprio perché è quello che è. Né sole. né occhio - ma l'uno e l'altro insieme, e l'uno attraverso l'altro. Tuttavia, dopo che si è sottolineata l'irriducibilità della fun­ zione valorizzante dell'immaginazione è importante notare che essa poggia anzitutto su associazioni. Una pietra è effettivamente solida, dura, pesante. La pioggia viene proprio dal cielo, bagna la terra e senza di essa i semi non germinano. Il cielo è effetti­ vamente alto, altissimo addirittura, e luminoso. Di qui, da fatti, si traggono immagini. 12 La nozione dell'unità e del contrasto immaginativo - Equivalenza e polivalenza di valori immaginativi - Le anticipazioni dell'immaginazione. Se consideriamo la nozione dell'unità e del contrasto immaginativo, la distanza che separa la cosa e il valore immaginativo apparirà con chiarezza anche maggiore. Come abbiamo osservato or ora, l'associazione delle idee sta in ogni caso alla base delle sintesi im­ maginative, anche se l'immaginazione sintetica è carat­terizzata in primo luogo da una funzione di valorizzazione. Indubbiamente, in questo modo si fa valere la necessità di un appiglio della stessa 207 funzione valorizzante nelle determinazioni materiali delle cose. È importante anche per l'im­maginazione che una cosa abbia cer­ te proprietà piuttosto che altre. Ad esse infatti essa appone i pro­ pri indici di direzione. Tenendo conto di ciò, il campo dell'im­ maginazione appare attraversato da direzioni di movimento che entrano in complessi rapporti di unità e di contrasto. Ovunque si fanno valere relazioni di reciprocità o di equivalenze immaginative; i contenuti valorizzati si organizzano in sistemi di valori definiti, nella loro unità, dalla convergenza delle direzioni immaginative. Ma può accadere anche che si diano conflitti e contrasti, modi più o meno complessi di intersezione tra sistemi di valori che rimandano a loro volta al divergere delle direzioni immaginative. Queste tensioni interne al campo delle immagini sono un portato della stessa funzione valorizzante e in nessun modo esse possono essere ricondotte al terreno, per così dire, sottostante delle esistenze fattuali. Su questo terreno ha senso parlare dell'u­ nità delle proprietà di una cosa solo in riferimento all'unità della cosa stessa di cui esse sono le proprietà. Vi è qui un accordo, che è tuttavia solo un accordo congiuntivo che riman­da all'oggettività costituita nel suo essere nella predicazione. Nella cosa coesisto­ no queste e queste altre proprietà. Tuttavia la cosa non entra nel campo dell'im­maginazione nella totalità delle sue determinazioni concrete, Se abbiamo dato un senso immaginativo ad uno specchio, non per questo abbia­ mo dato di conseguenza un senso immaginativo alla sua cornice. Qualcosa del nostro discorso sulla disaggregazione immaginati­ va continua a restare alla base. anche della tematica dell'operare sintetico dell'imma­gina­zio­ne. In rapporto all'unità della consi­ stenza fattuale delle proprietà nella cosa, l'imma­ginazione opera anzitutto una scissione essa si appiglia ad un aspetto della cosa per risolverla in questa sua determinazione valorizzata. Tutto il re­ sto, tutto ciò che c'è nella cosa e intorno ad essa, non conta per l'imma­ginazione. Oppure, se conta, allora abbiamo altre direzio­ ni possibili di valorizzazione. Sugli aspetti della cosa, che forma­ 208 no in essa una unità, si aprono molteplici prospettive dell'imma­ ginazione. La cosa si scinde nei suoi valori immaginativi. Da questa polivalenza l'immaginazione può trarre profitti, mettendo in gioco questa molteplicità di prospettive in quanto esse, a loro volta, sono disposte secondo rapporti di unità e di contrasto immaginativo. Ma ciò non significa affatto che all'im­ maginazione quel che più importa sono proprio le determina­ zioni contraddittorie delle cose. Quasi che l'imma­ginazione avesse una logica sua propria che deve essere contrapposta alla logica dei ragionamenti. Ben pochi, parlando della polivalenza, rinunciano a speculare su di essa, ammiccando intorno con l'aria di chi ac­ cenna ad un grande mistero. Mentre è chiaro che nelle cose non vi sono affatto determinazioni contraddittorie e se parliamo di un contrasto, di una contraddizione, allora abbiamo già adottato il punto di vista dell'imma­ginazione. Perciò non vi è dubbio che se da un lato ha senso parlare di una logica dell'immaginazione, dall'altro non avrebbe affatto senso contrapporre questa logica alla logica dei ragionamenti. Nel caso delle equivalenze e delle polivalenze immaginative, tetto si riduce al riconoscimento che la differenza nell'esse­re non può decidere nulla sull'unità del valore immaginativo; e inversa­ mente, può essere solo un caso se il sussistere di un legame di fatto rappresenti un legame anche per l'imma­ginazione. Può accadere, ad esempio, che una persona sia intelligente e alta di statura. Ma per l'immaginazione questa "congiunzione" si risolve nella fusione che caratterizza le sintesi immaginative. L'intelligenza è immaginativamente inclusa nell'alta statura, e in­ versamente - l'una sta nelle pieghe immaginative dell'altra. E beninteso, indipendentemente da ogni. esperienza passata - nes­ suno, penso, vorrà sostenere che questo legame derivi di qui. In questo l'immaginazione è autenticamente produttiva in un senso che da un punto di vista empiristico sarebbe del tutto incom­ prensibile: qui infatti la tematica dell'associazione, anziché essere orientata secondo il problema della valorizzazione immaginati­ 209 va, conduce ad una concezione dell'immaginazione come facoltà meramente combinatoria che ha il solo vantaggio di essere coe­ rente con gli assunti di principio. Talvolta simili legami assumono la forma di attese paradossali. Ciò che giace nella piega immaginativa viene anticipato nella determinazione valorizzata: e l'anticipazione può essere de­­lusa o confermata. Apprezzeremo tanto più l'intel­ligenza di una perso­ na se oltretutto, essa è alta. Può accadere invece che la situazione opposta ci deluda, che in essa si colga l'effetto di un contrasto [19]. Nella valorizzazione di un contenuto abbiamo in effetti a che fare con qualcosa di simile alle protenzioni della percezione. La differenza la si coglie nel risultato della conferma. Nel caso delle sintesi della percezione le conferme stabilizzano l'oggetto che si costituisce in esse nella sua identità d'essere, mentre nel caso delle sintesi immaginative la conferma assume essa stessa un carattere paradossale: da un lato essa. avviene sul piano delle posizioni d'essere, sul piano delle constatazioni e degli accerta­ menti; dall'altro ciò che viene constatato è anticipato soltanto come valore immaginativo. Ciò che viene rafforzato dalla confer­ ma non è dunque l'oggetto nella sua identità di cosa, ma la sua appartenenza al campo dei valori immaginativi. La consistenza di fatto di aspetti che stanno fra loro in un rapporto di reciproca inclusione immaginativa consolida la sua evanescenza di imma­ gine. Nel disagio di fronte alla porta della cantina, forse "ci atten­ diamo" il morto. Ma tanto più quella cantina appartiene all'immaginario se sappiamo che in essa è realmente seppellito un morto. 210 13 Riconsiderazione della tematica delle sintesi immaginative in rapporto al problema del simbolismo - Una prima accezione del termine "simbolo" - La differenza rispetto ai contrassegni ed alle raffigurazioni. Vi sono vari elementi nella tematica delle sintesi immaginative che suggeriscono la possibilità di riconsiderarla dal punto di vi­ sta del problema del simbolismo. Per impostare questa discussione secondo la prospettiva che qui ci interessa è utile far riferimento ad una prima accezione del termine "simbolo" che potremmo formulare così: con "simbolo" intendiamo un peculiare rapporto rappresentativo tra una cosa ed un'altra che ha alla sua base un nesso associativo. In questa definizione si attira l'attenzione anzitutto sul fat­ to che, quando parliamo di simboli in questa prima accezione, dobbiamo essere in grado di distinguere con chiarezza da un lato la cosa che funge da rappresentante, dall'altro la cosa rap­ presentata. Da un lato il simbolizzante, dall'altro il simbolizzato. Ma naturalmente non ci possiamo limitare a questo: dobbiamo precisare in che cosa consista la peculiarità del rapporto simbolico di cui si parla nella definizione. In particolare, potremo ritenere di aver operato una caratterizzazione sufficiente ai nostri scopi se riusciremo a contraddistinguere la relazione rappresentativa che vogliamo chiamare simbolica rispetto alla relazione di raffigurazione ed a quella di contrassegno. Dell'una e dell'altra abbiamo parlato a suo tempo, ed alcu­ ne delle nostre osservazioni debbono essere richiamate a questo punto. Di una certa figura in un dipinto possiamo dire che essa raffigura un vecchio, guardando il dipinto vediamo sen­z'altro di che si tratta e non abbiamo bisogno di altre spiegazioni. Nel caso dei contrassegni, invece, il sussistere di una relazione rappresen­ tativa deve essere il risultato di una stipulazione esplicita. Se una cosa è assunta a contrassegno di un'altra, di ciò dobbiamo essere 211 informati. La cosa stessa non ci dà, a questo proposito, alcuna informazione. Supponiamo ora di trovarci di fronte ad un dipinto che raf­ figura un vecchio. E qualcuno ci informa che il vecchio, qui, rap­ presenta la saggezza. È un simbolo di essa. Ciò non lo a­vrem­mo potuto capire da noi. In questo dunque il simbolo si contraddi­ stingue dalle raffigurazioni: il simbolizzante non esibisce senz'al­ tro il simbolizzato. Deve esserci una stipulazione e prima di essa il simbolo non sussiste. Naturalmente può anche accadere che, indipendentemente da un'informa­zione esplicita che ci viene dall'esterno, noi giungiamo alla conclusione che una certa figura debba essere intesa come un simbolo. Può accadere, ad esem­ pio, che la scena rappresentata nel dipinto risulti incongruente se consideriamo le figure come pure e semplici raffigurazioni mentre, interpretandole come simboli, essa mostri di avere un senso. Ciò non muterebbe tuttavia la sostanza delle cose, dal momento che quando diciamo che il rapporto simbolico deve essere il risultato di una stipulazione, e di essa dobbiamo essere informati, intendiamo essenzialmente sottolineare che il simbo­ lizzato non si mostra senz'altro nel simbolizzante. E dun­que può essere necessaria un'interpretazione. Con ciò approssimiamo la relazione simbolica a quella di contrassegno. La differenza dei simboli rispetto ai contrassegni è tuttavia altrettanto netta, ed essa potrebbe essere formulata così: in rapporto a ciò che noi vorremmo chiamare "simbolo" ha senso chiedere che l'istituzione del nesso venga giustificata. Se ci viene detto che il vecchio, nel dipinto, rappresenta la sag­ gezza, abbiamo il diritto di chiederne le ragioni. Il modo in cui si risponde alla domanda non è in realtà molto importante: infatti ciò che contraddistingue il simbolo dal contrassegno sta nel diritto alla domanda più che nel contenuto della risposta. Una simile domanda sarebbe infatti fuori luogo nel caso dei contrassegni, proprio perché si tratta solo di contrassegni. Con ciò questa di­ stinzione assume indubbiamente una certa relatività soggettiva: 212 e non converrà tentare di forzare questa relatività cercando la differenza nelle cose stesse, perché potrebbe accadere di dover rinunciare interamente ad essa. La definizione proposta sembra dunque fornire una carat­ terizzazione del rapporto simbolico che è in grado di contraddi­ stinguerlo dalle raffigurazioni e dai contrassegni. La distinzione tra simbolizzante e simbolizzato consente di parlare di un rap­ porto rappresentativo, mentre la peculiarità di questo rapporto sta nel fatto che il simbolizzato non è esibito dal simbolizzante (a differenza delle raffigurazioni) e la domanda intorno alla giusti­ ficazione è in ogni caso legittima (a differenza dei con­tras­segni). Notiamo infine che la definizione è abbastanza ampia da com­ prendere sia i casi in cui il simbolizzato è astratto, come nel­ l'esempio proposto, sia quelli in cui il simbolizzato è esso stesso concreto, come il simbolizzante. 14 I valori immaginativi come "simboli" in una seconda accezione. Vogliamo ora rammentare i termini iniziali della discussione con cui si apre l'esposizione della "forma d'arte simbolica" nelle le­ zioni hegeliane sull'estetica [20] . Qui ci viene spiegato anzitutto che i simboli sono caratte­ rizzati da due circostanze notevoli: in primo luogo, data una cosa non possiamo sapere se essa è un simbolo; ed in secondo luogo, qualora sappiamo che essa è un simbolo, non sappiamo ancora che cosa propriamente simbolizzi. Su di ciò non si può che concordare. Abbiamo notato or ora che dobbiamo essere informati - o dobbiamo comunque ricorrere a operazioni interpretativi più o meno complesse - in­ torno al fatto che una figura in un dipinto sia soltanto una raf­ figurazione o anche un simbolo. Ed anche se sappiamo che un 213 vecchio, in un dipinto, è un simbolo, dobbiamo ancora essere informati su che cosa propriamente simbolizzi. Infatti, potrebbe simbolizzare varie cose. Forse, la saggezza. Ma perché non la demenza? Tuttavia sarebbe troppo affrettato ritenere che entrambe le osservazioni possano essere riportate entro il nostro contesto, come se Hegel avesse di mira, nelle sue considerazioni intro­ duttive la nozione di simbolo nella nostra prima accezione. Egli pensa infatti di poter trarre da esse che la caratteristica del sim­ bolo "autentico" sia proprio la dubbiosità - che si traduce senz'al­ tro per lui nell'allusività del simbolo, nell'intra­sparenza e nell'in­ determinatezza del simbolizzato. In realtà questa conclusione non solo non sembra possa essere tratta da quelle osservazioni, ma ci può anche apparire profondamente paradossale. Così può accadere che visitando i templi di una civiltà scomparsa, notiamo la ricorrenza di una figura incisa sulle pareti, e vari indizi ci fanno sospettare che essa abbia una funzione simbolica: benché si tratti solo di un so­ spetto, e non sapremo per il momento nemmeno dire con chia­ rezza che cosa essa propriamente simbolizzi. Ma la stranezza del­l'argomento di Hegel, stranezza che può essere portata sino al paradosso, sta in questo: su questa base, sulla base dei nostri dubbi, delle nostre incertezze dovremmo concludere che qui ci troviamo di fronte ad un simbolo autentico! Sembra, in altri ter­ mini, che proprio la circostanza per la quale io dubito che una cosa sia un simbolo e, eventualmente, di che cosa lo sia, divenga il motivo per asserire che essa è effettivamente un simbolo, e addirittura nell'accezione autentica del termine. Naturalmente, se si guarda al modo in cui questo inizio vie­ ne di fatto impiegato all'interno dello sviluppo problematico he­ geliano, il nostro paradosso può sembrare costruito in un modo, ad un tempo, troppo semplice e artificioso. Resta certamente il fatto che si tenta di operare un passaggio che la "dubbiosità" del simbolo non può giustificare; ma proprio questo tentativo 214 è ricco di senso, perché tende a proporre una nozione di sim­ bolo in cui è messa in questione la stessa struttura del riferi­ mento rappresentativo. Attraverso la "dubbiosità", viene posta in primo piano la tematica dell'allusività che diventa dominante nell'esposizione delle figure fenomenologiche della forma d'arte simbolica. Perciò è in realtà già un errore il mettere a confronto le determinazioni hegeliane con la nozione di simbolo nella no­ stra prima accezione. Esse richiamano piuttosto la tematica della valorizzazione immaginativa. Vogliamo dunque chiamare "simboli" in una seconda ac­ cezione del termine ciò che fin qui abbiamo chiamato "valori immaginativi". La differenza più rilevante, rispetto ai simboli in prima accezione sta proprio nel momento della rappresen­ tazione. Un contenuto valorizzato non è un contenuto posto in una determinata relazione rappresentativa con un altro. Qui non possiamo distinguere tra il simbolizzante da un lato e il simbo­ lizzato dall'altro. Sotto la presa dell'immaginazione, la cosa viene avvolta da una rete di allusioni. E sarebbe, un errore sia far dipen­ dere questa allusività dalla molteplicità possibile di riferimenti rappresentativi, sia intenderla come una relazione rappresentati­ va il cui riferimento resterebbe indeterminato. Ciò che invece le due nozioni hanno in comune è il riman­ do all'"associazione delle idee". Il simbolo nella prima accezione può sorgere dalla semplice istituzione di un nesso associativo posto nella forma di una relazione rappresentativa o dal dispie­ gamento in questa forma di una sintesi del­l'immagi­nazione. Annotazione Ecco alcune citazioni hegeliane, per confronto: "Simbolo in generale è una esistenza esterna che è immediatamente presente o data all'intuizione, ma che non deve essere presa in base a essa stessa, così come im­mediatamente si presenta, bensì in un senso più ampio e più universale. Quindi nel simbolo vanno subito distinti due lati: il significato e la sua espres- 215 sione" (op. cit., p. 344). "Il simbolo è anzitutto un segno. Ma nella semplice designazione la connessione reciproca che vi è fra il significato e la sua espressione è un legame dei tutto arbitrario" (ivi). "Diversamente stanno le cose per il segno che deve essere un simbolo" (ivi, p. 345). Nel caso dei simboli "le esistenze sensibilmente date hanno già nel proprio esserci quel significato per la cui rappresentazione ed espressione esse sono impiegate" (ivi). Così un cerchio non può simbolizzare la stessa cosa e nello stesso modo di una linea retta, ed un triangolo può rappresentare l'idea di Dio "quando si vuole dar numero alle determinazioni che la religione coglie in Dio" (ivi). Questo accordo è tuttavia solo parziale, dal momento che il simbolizzante "come l'esi­stenza concreta ha in sé più determinazioni attraverso cui può essere simbolo" ed inversamente il contenuto "rimane indifferente nei riguardi della forma che lo rappresenta e la determinatezza astratta che esso è può e­gual­mente essere presente in infinite altre esistenze e figurazioni" (ivi, p. 346). "Dio possiede certamente proprietà interamente diverse da quelle che possono essere colte in un numero" (ivi). Dalla possibilità per una stessa cosa di simbolizzare una molteplicità di contenuti e inversamente dalla possibilità di uno stesso contenuto di essere simbolizzato da una molteplicità di cose, Hegel pensa di poter concludere: "Di qui deriva che il simbolo, secondo il suo concetto, rimane essenzialmente ambiguo" (ivi). "In primo luogo la vista di un simbolo fa in generale subito sorgere il dubbio se una figura debba essere considerata come simbolo o no, anche se trascuriamo l'am­bi­guità ulteriore circa il contenuto determinato che una forma deve esprimere quando vi sono più significati di cui la si può spesso usare come simbolo mediante connessioni più remote" (ivi). "Questa mancanza di sicurezza noi la incontriamo ora non già in casi limitati, ma in domini molto estesi del­l'arte, nel contenuto anzi di una materia inesauribile, quello di quasi tutta l'arte orientale. Perciò nel mondo delle figurazioni e delle produzioni dell'antica Persia, dell'India, dell'Egitto, ci sentiamo a disagio, non appena ci accostiamo ad esso. Sentiamo di muoverci tra problemi..." ( ivi, p. 349). 216 15 Digressione: la nozione di simbolo in Freud. È interessante notare che entrambe le nozioni di simbolo or ora introdotte possono essere utilmente richiamate in rapporto alla discussione sul simbolismo che rappresenta uno dei punti certa­ mente non marginali di divergenza tra Freud e Jung. L'ampiezza e la portata del dibattito vanno ampiamente oltre l'ambito a cui intendiamo attenerci. E tuttavia non vogliamo rinunciare a dirne qualcosa. È noto che in Freud l'ammissione i simboli nei sogni si pre­ sentò particolarmente problematico, dal momento che essa per molti versi equivale ad una vera e propria messa in questione del metodo e del concetto stesso di interpretazione. Cerchiamo di mettere brevemente in chiaro questo punto. Il sogno, in primo luogo, non solo non si presenta senz'altro come prodotto dell'immaginazione, ma nemmeno si presenta per così dire da se stesso come se richiedesse un'inter­pretazione. Il problema sorge invece da un atteggiamento generale nei con­ fronti dei fatti della vita psichica che assume che ovunque in essa debbano esserci ragioni sufficienti. Se qualcosa accade, nella vita di coscienza, essa deve avere un motivo. Così di fronte al so­ gno possiamo reagire dicendo: ecco che cosa fa l'imma­gi­na­zione senza freni! Oppure possiamo chiederci: come mai proprio io ho sognato proprio questo? Possiamo considerare la forma di questa domanda come determinante non solo ai fini della posizione del problema di un'interpretazione sogno, ma anche della delimitazione del con­ cetto di interpretazione qui in questione. In quella domanda non si avanza il sospetto che il sogno racconti in modo coperto una storia di cui si dovrebbe cercare la chiave. Essa pone invece il problema del sussistere di una connessione tra le scene del so­ gno e l'esperienza complessiva del sognatore. 217 Non si tratta dunque del fatto che la storia si presenta stra­ vagante e strana, e proprio per questo come un enigma che chie­ de di essere risolto. Talora le storie dei sogni sono effettivamente stravaganti e strane. Ma non sempre è così. Un tale, ad esempio, sogna: "Tra due imponenti palazzi c'è, un po' retrostante, una casetta le cui porte sono chiuse. Mia moglie mi accompagna per un tratto di strada fino alla casetta, sfonda la porta e poi io penetro svelto e leggero all'interno di un cortile che sale obliquamente" [21]. Ebbene, che cosa c'è qui di strano? Sono cose che possono acca­ dere ogni giorno. Potremmo tuttavia trovare strano che proprio lui abbia sognato proprio questo. Perciò l'interpretazione non dovrà procedere trasversal­ mente attraverso le scene del sogno, come se il nostro compito fosse quello di ricomporle in una unità in se stessa coerente, ma perpendicolarmente, dalle scene del sogno alle esperienze del sognatore. Il metodo delle "associazioni libere" dipende strettamente da questa nozione di interpretazione ed ha appunto il caratte­ re di una procedura "perpendicolare": la storia del sogno viene segmentata, ed ogni segmento viene sottoposto al gioco delle associazioni, fungendo, da primo elemento di "catene associati­ ve", intese ovviamente in un senso più ampio di quello al quale ci siamo attenuti in precedenza. In esse non interverranno solo contenuti come tali, ma esperienze in genere, dunque ricordi di eventi passati, fantasie, preoccupazioni, timori, ecc. Il sogno potrà dirsi interpretato se, attraverso le catene as­ sociative, si riesce a rendere ragione delle , peculiari formazioni immaginative del sogno, se cioè è stato istituito un complesso di connessioni tra il sogno e le esperienze del sognatore in modo tale che, all'interno di esso, tornino i conti, In questo senso, come sarebbe sbagliato ritenere che le associazioni ripercorrano all'in­ verso il processo di formazione del sogno, così sarebbe giusto affermare. che nell'interpretazione dei sogno non si fanno ipo­ 218 tesi. Il noto paragone con il rebus illustra con chiarezza proprio questo aspetto. Mentre non si attaglia su un punto importante: gli elementi sulla cui base il rebus deve essere interpretato sono tutti nel rebus stesso. Di esso cerchiamo la soluzione tentando di dare congruenza ad un complesso di figure e di parole incongruenti. Nell'interpretazione del sogno bisogna invece procedere in dire­ zione del sognatore, lasciando da parte ogni preoccupazione di congruenza interna della storia. Di conseguenza la storia stessa avrà di norma un significato di volta in volta particolare, e proprio per questo della sua interpretazione è, in ultima analisi, respon­ sabile il sognatore stesso (anche se ciò può essere affermato solo in via di principio). Le stesse procedure tipiche del lavoro onirico, ed in parti­ colare lo spostamento e la condensazione, sono indubbiamente da considerare come procedure generali, ma i loro prodotti sono di volta in volta particolari e potranno essere analizzati e risolti solo attraverso il metodo delle associazioni. Attenendoci a questo concetto di interpretazione potremo parlare di un linguaggio del sogno in senso abbastanza debole. Il metodo delle formazioni oniriche sarebbe sufficientemente de­ terminato, ma non certamente i loro materiali. Disporremo di qualcosa di simile ad una grammatica, ma nulla di simile ad un vocabolario. Il problema muta se ammettiamo che tra le varie forma­ zioni del sogno intervengano anche simboli. Naturalmente, nel­ la stessa misura in cui distinguiamo tra contenuto manifesto e contenuto latente, potremmo dire che la storia nel suo insieme ha un significato simbolico, in un'accezione abbastanza lata e generica del termine. Tuttavia in Freud il termine simbolo" non viene impiegato così. Con "simboli" Freud intende oggetti che compaiono nel sogno in luogo di altri e come rappresentanti di essi. Ciò che li contraddistingue rispetto alle altre formazioni del sogno è proprio il fatto che metodo delle associazioni libere non 219 è in grado, di norma, di venire a capo della loro analisi. È come se essi fossero a disposizione del lavoro onirico già provvisti del loro riferimento simbolico ed il lavoro onirico non facesse altro che impiegarli nel contesto del sogno. Le implicazioni critiche che questa ammissione comporta sul concetto e, di conseguenza, sul metodo dell'inter­preta­zione sono particolarmente rilevanti: ciò che tende a venir meno è, in primo luogo, proprio quella del problema dell'inter­pretazione che rappresenta quella particolarizzazione del problema dell'in­ terpretazione che rappresenta il centro da cui il problema stesso nasce e riceve un'impostazione. Infatti qui ci troviamo di fronte a oggetti che sembrano provvisti di un significato "permanente" o "prefissato", che è in­ dipendente dalle esperienze del sognatore. L'analogia con il lin­ guaggio diventa particolarmente forte: ora potremmo forse di­ sporre anche di un vocabolario. Portando all'estremo la tendenza implicita nell'ammissione di simboli si arriverebbe a prospettare un'interpretazione "senza il sognatore", quindi un concetto di interpretazione completamente diverso, essenzialmente fondato sulla traduzione di simboli. Si comprende dunque la cautela con la le Freud circonda l'ammissione della presenza del simbolismo nel sogno e le condizioni restrittive che egli stesso propone al­ l'in­terpretazione intesa come traduzione: il metodo dominante dell'interpretazione deve restare quello delle associazioni - e con ciò si ribadisce il concetto di interpretazione che deve restare dominante - mentre la traduzione dei simboli deve intervenire soltanto come "mezzo ausiliario". Questo cenno sommario può essere considerato sufficiente ai nostri scopi. Ciò che deve essere chiaramente sottolineato è che, in ogni caso, la definizione di simbolo che abbiamo a suo tempo proposta, in prima accezione, è abbastanza ampia e nello stesso tempo sufficientemente precisa da comprendere l'acce­ zione freudiana, sebbene naturalmente non ne ricopra la proble­ matica specifica. 220 Benché Freud non presenti nessuna definizione esplicita di "simbolo", limitandosi ad osservare che i simboli sono peculiari "rappresentazioni indirette" che si differenziano da altre, benché non si riesca "ancora a cogliere con chiarezza le loro caratteristi­ che distintive" [22], tuttavia risulta dal contesto che le oscurità a cui si allude riguardano, piuttosto che il concetto stesso di sim­ bolo, il problema della sua genesi e della sua funzione psicologi­ ca. Se stiamo invece agli esempi, essi mostrano che, comunque ne sia del suo impiego nel sogno, con "simbolo" Freud intende appunto un rapporto rappresentativo fra una cosa ed un'altra che ha alla sua base un nesso associativo. Possiamo dunque sem­ pre distinguere con chiarezza il simbolizzante dal simbolizzato; e talvolta la base associativa è evidente di per se stessa. Quando ciò non accade, ha comunque senso il problema di una giustifi­ cazione associativa del nesso. 16 Confronto con Jung. A questa posizione di Freud, Jung ne contrappone un'altra che, nonostante le oscurità da cui viene subito avvolta, può essere considerata a sua volta sufficientemente precisa. Secondo Jung, la nozione di simbolo impiegata da Freud è una nozione impropria. Egli dice che Freud intende i simboli "semeioticamente", cioè come puri e semplici segni [23]. Stando a Freud il rapporto simbolico consisterebbe unicamente in un rapporto elementare di riferimento in cui una cosa ben determinata sta per un'altra cosa ben determinata. Perciò non vi sarebbe una sostanziale dif­ ferenza tra i simboli nel senso di Freud e, come noi diremmo, i contrassegni. Come abbiamo visto, una differenza invece c'è, e sufficientemente precisa. Ma anche il mettere in rilievo questo punto non toglie la critica di Jung, dal momento che, in tutta evidenza, ciò che egli intende criticare, nell'accezione freudiana 221 di simbolo, è essenzialmente il suo carattere rappresentativo, ed in­ dubbiamente questo è il tratto che hanno in comune i simboli e i contrassegni. Il simbolo in senso proprio ed autentico è invece, secondo Jung, una "espressione indeterminata, anzi polisensa, che indi­ ca qualcosa di difficilmente definibile, cioè non pienamente co­ nosciuta" [24]. Nel simbolo si manifesta "un'entità sconosciuta, difficile da riconoscere e in definitiva non mai precisabile com­ pletamente" [25]. Accanto a citazioni come queste se ne posso­ no proporre molte altre, all'incirca dello stesso tenore. In esse vi sono due aspetti che meritano di essere sottolineati:, essi si presentano in Jung in un rapporto di stretta interdipendenza che rappresenta in realtà il punto del problema. In primo luogo vi è l'indeterminatezza del simbolo in essa possiamo riconoscere il tema hegeliano dell'allusività. E possia­ mo dunque richiamare la nostra nozione di simbolo in seconda accezione. In effetti, se consideriamo l'imponente lavoro docu­ mentario ed analitico che Jung ha compiuto in questo campo, ci rendiamo conto che esso è orientato dall'intento non già di istituire i rappresentanti dei simboli, ma di delineare i loro campi di azione, di ricreare i percorsi e i dinamismi che connettono in forme complesse i contenuti immaginativamente valorizza­ ti. Abbiamo qui sempre a che fare con strutture di reciproci­ tà, con equivalenze immaginative, con varianti simboliche, dove l'equi­valenza non deve essere intesa come fondata dall'identità del­l'og­­getto simbolicamente denotato di cui i simboli sarebbero solo rappresentazioni tra loro sostituibili, ma nel senso di quell'u­ nità che poggia sull'inclu­sione immaginativa. Se si parla in questo contesto, ad esempio, della madre come simbolo della materia si intende proporre non già un rapporto rappresentativo, ma una connessione im­ma­ginativa secondo cui un contenuto sta nella piega immaginativa dell'altro. Così, in rapporto alla sfera della sessualità, ciò che conta non è il fatto sessuale, ma il suo valore immaginativo e i simboli che rinviano a questa sfera non do­ 222 vranno essere intesi come indicatori di azioni corporee o di parti del corpo, ma dovranno essere interpretati secondo una por­tata allusiva che li riconduce ed organizza in sistemi dinamici di equi­ valenze e polivalenze immaginative. Ma vi è anche un altro aspetto, ben presente nelle citazio­ ni precedenti, che rappresenta in realtà l'avvio di una speculazione che la chiarificazione della nozione di valore immaginativo non dovrebbe rendere possibile. In precedenza abbiamo posto l'ac­cento proprio su questo punto: nella valorizzazione imma­ ginativa di un contenuto non vi è in generale alcun rapporto rappresentativo, e ciò significa tutt'altra cosa dall'eventuale in­ determinatezza dell'oggetto della rappresentazione. Se riferiamo l'allu­sività del simbolo allo sfuggire del contenuto in una direzio­ ne immaginativa, non possiamo poi dire che non sappiamo che cosa propriamente il simbolo simbolizzi. Non possiamo fare di esso una cifra dell'ignoto. Jung invece insiste proprio sulla difficoltà di determinare a che cosa i simboli autentici si riferiscono. Insiste sul fatto che, mentre il simbolo-segno denota una cosa conosciuta, il simbolo autentico rinvia a qualcosa di sconosciuto e di inconoscibile. La speculazione ha inizio di qui. Il simbolo "si riferisce ad uno sfondo che resiste tenacemente ad ogni formulazione con­ cettuale"; a qualcosa che può essere afferrata solo se "la si consi­ dera assai di lontano, ed anche, allora soltanto sotto la forma di un'idea vaga. Perciò essa ha bisogno di un sim­bolo" [26]. Nulla di tutto ciò potrebbe essere affermato se ci atteniamo alla nozione di valore immaginativo così come noi l'ab­biamo proposta. Le varianti immaginative non possono in alcun modo essere intese come una progressiva approssimazione ad un con­ tenuto, che può essere comunque sempre soltanto colto di lon­ tano, per così dire, appena intravisto. Non possiamo intrecciare in questo modo le due nozioni di simbolo: come se, dopo aver esclusa la struttura stessa del riferimento, potessimo ancora con­ tare su qualcosa che "resiste ad ogni formulazione concettuale" a cui il simbolo autentico comunque si riferirebbe. 223 Seguendo questa via dobbiamo certo arrivare a concludere che c'è effettivamente qualcosa di inconoscibile, e proprio per questo abbiamo bisogno di simboli: per poter almeno alludere ad esso. L'im­ maginazione simbolica assume su di sé responsabilità metafisi­ che. Come spesso accade, l'errore concettuale è solidamente ra­ dicato dentro un quadro ideologico: il modo in cui questa impo­ stazione del problema si innesta nell'irrazionalismo esplicito di Jung è anche troppo chiaro, e non è necessario perciò indugiare oltre su questo punto. Vogliamo invece dedicare un cenno conclusivo al problema dell'interpretazione da cui abbiamo preso le mosse. Come abbiamo visto, l'ammissione di simboli nel sogno rappresentava in Freud un momento critico in rapporto alla impostazione complessi­ va del problema. L'introduzione di questa diversa accezione di simbolo recide questo nodo, e il problema dell'inter­pretazione muta interamente. Certamente non si tratterà di chiarire il senso dei simboli andando alla ricerca degli oggetti che essi denota­ no. La chiarificazione del senso dei simboli dovrà essere operata ricostruendo la trama dei rimandi interni in cui ogni simbolo è intessuto. Perciò abbiamo bisogno di una conoscenza il più possibile approfondita delle immagini, delle loro possibilità di organizzazione, dei loro intrecci una conoscenza che possiamo acquisire passando al vaglio materiali attinti al mito, alla religio­ ne, al folklore, all'arte in genere. Queste cognizioni non potran­ no che tornare utili, per l'interpretazione del sogno, mentre nes­ sun aiuto ci può venire dalle "associazioni libere": esse ci fanno probabilmente penetrare sino ai "complessi" del sognatore, ma per ottenere questo risultato basterebbero associazioni operate su materiali qualunque, - ad esempio su manifesti o brani di giornale. Ciò che ci occorre è appunto la conoscenza di un pecu­ liare linguaggio - del linguaggio dei simboli: "Con le associazioni libere non giungerò allo scopo: è come se volessi interpretare con associazioni una iscrizione ittita" [27] . 224 Di conseguenza viene anche abbandonata la distinzione tra contenuto manifesto e contenuto latente nell'accezione freudia­ na: stando ad essa, potremmo affermare che il contenuto laten­ te non appartiene alla storia narrata dal sogno, ma al sognatore stesso. Perciò non ha senso, dal punto di vista di Freud, isola­ re il contenuto manifesto pretendendo di dare di esso un'inter­ pretazione. Oggetto dell'interpretazione non è il sogno, ma il so­gnatore. Altrimenti stanno le cose per Jung: certo anche per lui il sogno ha un contenuto nascosto che deve essere portato allo scoperto. Ma esso si trova nascosto nel sogno stesso, ed è nasco­ sto unicamente dal linguaggio arcaico ed enigmatico dei simboli. Perciò il sogno può essere considerato nel suo insieme come provvisto di un senso sufficientemente generale da poter essere inteso indipendentemente dalle particolarità del sognatore. Se poi vogliamo tener conto delle circostanze di vita del sognatore, di cui siamo in qualche modo venuti a conoscenza, non dovrem­ mo avere difficoltà a determinare questo senso in direzione del sognatore, come quando concretizziamo riferendola a noi stessi, una favola con la morale. 17 Valorizzazione immaginativa e tematica dell'espressività. La nozione di valorizzazione immaginativa può essere richiamata non soltanto in una direzione di sviluppo che conduce ai simboli ed alle immagini in genere, ma anche in rapporto al problema delle potenzialità espressive dei materiali percettivi. Consideriamo, ad esempio una melodia. Essa "ci piace". La risentiremmo volentieri. Ci dice qualcosa (anche se non saprem­ mo dire chiaramente che cosa). La troviamo "espressiva". D'al­ tra parte, una melodia non è altro che una composizione di suoni disposti secondo un certo ordine: e tra i quali intercorrono de­ terminati rapporti. I suoni singoli di cui essa è composta, consi­ 225 derati indipendentemente da questo modo di composizione, po­ trebbero essere indicati come i suoi materiali. Allora potremmo chiedere: l'espressione - qualunque cosa si voglia intendere con essa - sorge soltanto con la melodia stessa? Oppure vi è un qual­ che senso legittimo in cui possiamo dire che già i suoi materiali sono carichi di espressione? Sembra abbastanza naturale propendere per una risposta affermativa a quest'ultima domanda. Dagli stessi suoni può es­ sere tratto un gran numero di melodie, variando le possibilità di ordinamento e i rapporti reciproci; ma sarebbe assai strano se il materiale grezzo, il materiale cioè inteso come esso si presenta prima del problema di una messa in forma compositiva, fosse in se stesso espressivamente neutro. Ma che cosa significa questa ammissione? Restando all'e­ sem­pio dei suoni, un buon filo conduttore per tentare una ri­ sposta soddisfacente ci è offerto dalle distinzioni elementari che valgono in questo campo e dalla terminologia che corrisponde ad esse. Si parla, ad esempio, di suoni gravi e acuti. E così anche di un movimento sonoro di ascesa dalla regione grave alla regione acuta. Ed allora notiamo subito: un suono non può essere grave, se questo termine significa pesantezza; e nemmeno può essere acuto se con ciò indichiamo l'acuminatezza di una punta. E d'altro lato come possono i suoni muoversi, e addirittura scendere e salire? Qui usiamo il linguaggio dei corpi e lo trasponiamo a cose che non sono corpi. Ci troviamo dunque di fronte ad e­spres­sioni immaginose. A dire il vero, poiché si tratta di una terminologia che di fat­ to è in uso, prima di decidere qualcosa intorno a quelle e­spress­ ioni dovremmo documentarci accuratamente sulla loro origine e sulla loro formazione. Per semplificare le cose ed anche per evi­ tare obiezioni giustificate, vogliamo supporre che quei termini siano nostre invenzioni. Ci assumiamo così la responsabilità del­ le immagini contenute in essi e diamo per scontato che, al loro 226 posto, avremmo potuto inventarne altri, e non necessariamente tali da contenere immagini. Ad esempio, anziché di suoni gravi potremmo parlare di suoni che appartengono alla prima regione; potremmo indicare i suoni che stanno tra i gravi e gli acuti come suoni appartenenti alla seconda regione e i suoni acuti come suoni appartenenti alla terza regione. Un residuo di operazione immaginativa resta cer­to anco­ ra appreso alla parola "regione", mentre è chiaro che le designa­ zioni "primo", "secondo" e "terzo" possono essere considerate puramente convenzionali ed il loro modo di impiego potrebbe essere invertito. Così, invece di parlare di un movimento ascendente, potremmo parlare di una sequenza di suoni dalla prima alla terza regione o dalla terza alla prima secondo la convenzione prescel­ ta. Potremmo insomma inventare una terminologia relativa alle strutture sonore che ci consenta una descrizione tecnicamente adeguata e che tuttavia sia del tutto, o quasi, priva di una portata immaginativa. Con ciò il nostro problema riceve un risalto anche mag­ giore. Infatti, quando ci serviamo di espressioni immaginose in­ tendiamo proprio descrivere l'impressione che il suono ci fa, e non possiamo ritenere che la pura e semplice possibilità di stabilire una terminologia immaginativamente neutra abbia come conse­ guenza che i suoni si presentino con la stessa indifferenza che quei termini dimostrano. La differenza, beninteso, prima ancora che immaginativa, è anzitutto semplicemente percettiva. Un'e­ ven­tuale inversione della denominazione tecnica non conduce a nessuna modificazione nelle qualità percettive dei suoni. E sulla base di una differenza percettiva si innestano diverse direzioni di movimento dell'imma­ginazione. La connessione tra il problema dell'espressività dei materia­ li percettivi e quello della valorizzazione immaginativa risulta a questo punto del tutto chiara. Parliamo di suoni gravi, e in ciò è contenuto, non un ri­ mando semplicemente associativo alla pesantezza dei corpi, ma 227 una vera e propria fusione immaginativa. La "gravità" si presenta come "valore di gravità", quindi come indice di una direzione sintetica dell'immaginazione. In essa è messa in questione non la pesantezza soltanto, ma anche, ad esempio, la lentezza, l'opacità, lo spessore; l'idea di qualcosa di massiccio, di voluminoso, eventualmente di profondo e forse anche di oscuro, di tenebroso. Tutte queste "idee" si implicano reciprocamente per l'imma­ginazione. Esse formano una unità immaginativa. Lo stesso potremmo dire dei suoni che appartengono alla ter­za regione. Essi sarebbero per noi acuti anche se la termino­ logia corrente non li chiamasse così. Questo termine lo abbiamo inventato or ora, proprio perché ci sembra che questa acumina­ tezza si addica ad essi, nello stesso modo in cui la gravità ai suoni della prima regione. Ed anche in questo caso si tratta per noi di un vettore immaginativo: in questa stessa direzione potremmo trovare la leggerezza, la velocità, la trasparenza, la sottigliezza, la chiarezza, la luminosità, ecc. Ed allora è del tutto logico che si parli del movimento dal grave all'acuto come di un movimento di ascesa. Il luogo della gravità, per l'immaginazione, si trova sotto, e non sopra; così il luo­ go della sottigliezza è, della leggerezza è lo stesso luogo della luce: si trova in alto e non in basso. Il nostro spazio sonoro si presenta così articolato in una zona inferiore, che sta sotto che è pesante ed oscura; una zona intermedia, vorrei dire, grigia, ed infine una zona superiore, che sta in alto, ed è leggera e lucente. Queste caratterizzazioni qualitative rimandano ad una valoriz­ zazione immaginativa ed è essa che conferisce al materiale una capacità espressiva. Questa espressività fa tutt'uno con la capacità allusiva del materiale. Nel materiale vi è un'immaginazione nascosta. A questo punto sarebbe forse il caso di chiedersi se con tutto ciò non siamo andati oltre i limiti prescritti dalla nostra stes­sa impostazione di metodo. Abbiamo preso le mosse da con­ siderazioni relative ai modi di descrivere verbalmente i suoni ed abbiamo ammesso esplicitamente, al di là di ogni considerazione 228 relativa agli impieghi correnti dei termini, la presenza di immagi­ ni. Perciò se si obiettasse che la terminologia non ha nulla a che vedere con i fatti stessi, questa obiezione sarebbe certamente tolta dal modo stesso di impostare il problema. Tuttavia, an­ che se ammettiamo che queste parole rendano in qualche modo l'im­pressione che il suono ci fa, questo rimando dal linguaggio all'esperienza evidentemente non può garantire nulla in rappor­ to ad una possibile generalizzazione. Lo stesso parlare di un'"im­ pressione" non è forse equivoco? Si allude qui ad un modo di "vivere", di "sentire" il suono: ad un sentimento del suono. E qui entriamo indubbiamente nell'ambito delle relatività soggettive. Altri potrebbero "sentire" i suoni in modo del tutto diverso, ad­ dirittura opposto. E se ammettiamo che il linguaggio possa es­ sere talora uno specchio dell'esperienza, ciò potrebbe alla fine giocare a sfavore di quanto andiamo sostenendo: se noi ritenia­ mo che la parola "grave", intesa nella sua portata immaginativa, si addica al suoni della prima regione altri potrebbero ritenere che essa si addica molto meglio ai suoni della terza regione. Si potrebbe allora concedere che il problema della espressività ri­ conduca a quello della valorizzazione immaginativa. ma le dire­ zioni della valorizzazione debbono essere lasciate interamente aperte. Se consideriamo una simile osservazione dal nostro pun­ to di vista, non è difficile prevedere in che modo reagiremmo ad essa. Naturalmente non potremo che essere lontani dal negare l'apertura delle direzioni di valorizzazione. Tuttavia, la nostra in­ sistenza sulla base associativa delle sintesi immaginative, il modo in cui abbiamo presentato in questo contesto la tematica della associazione delle idee mostra che in realtà non saremmo affatto disposti ad operare quella dissoluzione delle resistenze del materiale che è insita in un atteggiamento storicistico-empiristico coeren­ temente sviluppato. I dati percettivi non sono mai informi nem­ meno se li consideriamo dal punto di vista del­l'im­maginazione. Un contenuto qualunque non può essere valorizzato in una di­ rezione qualunque. All'apertura delle direzioni di valorizzazione 229 deve essere imposto, per così dire, un preciso limite inferiore. E di fronte ad un atteggiamento che toglie ogni limite, tenderemo a ribadire il nostro oggettivismo fenomenologico: a mettere l'accento sul fatto che, la stessa natura fenomenologica del suono pone il suono stesso come sfuggente sul piano immaginativo proprio in quella direzione. Come se potessimo dire: questi suoni sono proprio pesanti, quegli altri invece sono proprio svelti e leggeri: anche se sappiamo benissimo che ci troviamo di fronte ad una specie di imbroglio. Annotazione 1. All'argomento dei suoni gravi e acuti Stumpf dedica un'interessante ed ampia discussione nel § 11 della sua "Psicologia del suono" (op. cit., I, pp. 189-226). In esso si pone il problema se il "simbolismo spaziale" che talora viene impiegato per indicare queste differenze sia "dato immediatamen­te nel fatto sonoro" oppure se si tratti di "qualcosa di estrinseco". Dopo aver notato che non è qui in questione l'impie­go di relazioni spaziali ad uno scopo puramente illustrativo, e nemmeno dell'applicazione estrinseca di modelli di rappresentazione spaziale (come nel caso del "corpo cromatico" che è soltanto una "escogitazione teorica"), Stumpf discute in modo dettagliato vari esempi di usi linguistici (pp. 192-199), giungendo alla conclusione, che nessuno di essi sembra potere provare l'"accidentalità" dell'asso­cia­zione. Piut­­tosto occorre riconoscere che vi sono caratteristiche ben determinate nel fenomeno sonoro che sono tali da motivare la possibilità di immagini spaziali. Ai suoni gravi, ad esempio, viene riconosciuta una minore levigatezza o brillantezza rispetto ai suoni acuti, e nello stesso tempo una maggiore e­sten­sione. Essi si muovono con difficoltà, sono in certo senso, proprio perché più estesi, anche più lenti e pesanti. A ciò si aggiunge una maggiore difficoltà di differenziazione percettiva. "Soprattutto per questo motivo la pratica musicale fa procedere il basso non solo lentamente ma anche a larghi passi, disponendo i pedali e altre note tenute preferibilmente nella regione grave, gli sviluppi cro­matici e simili nella regione acuta" (p. 220). Per indicare questi ca- 230 ratteri Stumpf parla di un sentimento del suono (Tongefühl) (p. 202) che tuttavia egli considera essenzialmente come un dato di fatto psicologico, piuttosto che da un punto di vista puramente fenomenologico. Di conseguenza egli tende a porre l'accento sulla soggettività del sentimento del suono ed a demandare la sua determinazione ad accertamenti di ordine sperimentale. 2. Un altro buon esempio per illustrare il nostro tema è rappresentato dalla distinzione tra consonanza e dissonanza. È ormai diventato un luogo comune affermare che questa di­ stinzione rimanda a relatività storico-culturali e che essa non ha dunque nessun fondamento nelle cose stesse. Ma in real­tà, quando si fanno affermazioni come queste occorre prestare attenzione a non confondere due piani nettamente diversi di discorso. In generale, attenendoci ad un terreno fenomenologico, ciò che sembra possibile affermare è solo che questa distinzione potrebbe risultare in certi casi relativamente indeterminata. Se adottiamo il criterio di istituite la nozione di consonanza e di dissonanza sulla base della mag­giore o minore difficoltà di discriminazione della molteplicità di suoni nell'accor­ do (Stumpf), non vi è dubbio che accanto ai casi estremi nei quali la difficoltà di discriminazione è massima, come nel caso dell'unisono o dell'accordo di ottava, oppure mi­nima, come nel caso dell'intervallo di seconda, vi saranno casi intermedi, e dunque casi di relativa indeterminazione. Questa relatività riguarda tuttavia il materiale percettivo e, sia nei casi estremi come nei casi intermedi, possiamo parlare di una tipicità che caratterizza il materiale percettivo e in rapporto ad essa possiamo proporre differenze che riguardano il nostro modo di sentire tanto poco quanto riguardano il nostro modo di vedere il fatto che certe figure ci si presentano come triangolari piuttosto che come quadrate o grosso modo circolari. Proprio per questo ha indubbiamente senso affermare che l'indice di valorizzazione immaginativa non può essere affatto indifferente nell'uno come nell'altro caso. L'effetto e­spres­sivo che si può ottenere con una consonanza non lo si può ottenere con una dissonanza - questo sembra ovvio, eppure merita qualche riflessione. Infatti, se è così, nell'affermare la storicità di quella 231 distinzione, e quindi in primo luogo la sua relatività soggettiva, dobbiamo essere più precisi. Già la via seguita da Schönberg, che all'inizio del suo "Manuale di armonia" impiega la teoria degli armonici per mostrate che la dissonanza non è altro che una "consonanza più lontana", così da difendere (in nome della consonanza!) i diritti al suo impiego libero da restrizioni, può far inclinare nell'errore di ritenere che non sussista qui alcuna differenza percettivo-imma­ginativa che non sia riducibile ad un dato di fatto culturale. Invece non bisogna confondere le diversità intrinseche del materiale, che fondano suggestioni immaginative altrettanto intrinseche ad esso, con problemi di tutt'altro genere relativi all'accettabilità di questo o quel modo di composizione di suoni come mezzo di espressione. Del resto lo stesso Schönberg, nel suo Manuale, è ben cosciente di questa differenza dal momento che è molto lontano dall'attenersi alle conseguenze di quello spunto iniziale, per orientarsi invece secondo una tendenza accentuatamente strutturalistica che cerca ovunque di giustificare le regole dell'armonia classica nelle legalità interne del materiale sonoro. 18 I pensieri che orientano l'immaginazione - Alle spalle dell'immaginazione vi debbono essere altre istanze - Discussione di un esempio: le suggestioni immaginative del punto - Kandinsky e Klee. La possibilità di mettere in questione la tematica della valoriz­ zazione immaginativa in rapporto ad una trattazione, sia pure iniziale, dell'espressività dei materiali percettivi mostra indub­ biamente che nella impostazione del problema ci siamo mossi in una direzione densa di implicazioni e di possibilità di svilup­ po. Nell'arricchimento immaginativo indotto sul dato percettivo nessuna immagine intesa come risultato di sintesi immaginative viene effettivamente prodotta. Ma la valorizzazione immaginati­ va sta alla radice della potenzialità espressiva dei materiali percet­ 232 tivi così come della produzione di simboli. In entrambi i casi il contenuto viene colto secondo "protenzioni" in un senso affatto nuovo, che non rinvia ad integrazioni che irrigidiscono la cosa nella determinatezza chiusa del suo essere, ma la aprono nelle direzioni dell'imma­ginazione. In coerenza con la nostra impostazione di principio è per noi importante insistere sul fatto che questa animazione imma­ ginativa del dato non venga intesa come una sorta di proiezione estrinseca, ma scaturisca dal suo interno, come se in esso fosse nascosto un potenziale di immagini che debbono essere attua­ lizzate. Eppure se io segnassi un punto su questo foglio di carta e vi chiedessi di mettere allo scoperto le immagini che sono nasco­ ste in esso, probabilmente vi guardereste intorno disorientati. Ed è giusto che sia così. Infatti noi non siamo motivati da alcun intento espressivo. Nessun pensiero ci attraversa la mente che sia in grado di orientare l'immaginazione. Finora si è taciuto su questo punto essenziale: nessuna con­­ siderazione del materiale puro e semplice può offrire all'im­ ma­ginazione quell'orientamento di cui essa ha bisogno per co­ minciare ad operare. Abbiamo assunto tacitamente un punto di vista secondo cui i processi di valorizzazione sono comunque in corso: allora è abbastanza naturale arrivare a sostenere Che, considerando i materiali, si riesce a rendere conto dei modi in cui quel processi sono stati effettuati. Ma se qualcuno ci avesse polemicamente fatto notare fin dall'inizio che per rendere con­to di quel disagio che può accadere di provare di fronte alla porta della cantina non basta parlare di cantine, noi gli avremmo dato pienamente ragione. Vi deve essere una intelaiatura di esperienze che determina il fatto stesso che proprio qui l'immagi­nazione ha potuto far presa. Un momento irriducibilmente soggettivo finisce dunque con il rivendicare tutti i suoi diritti. Ed insieme ad esso riprende 233 i suoi diritti il fattore storico che le nostre considerazioni pongo­ no a distanza solo per dare ad esso, nel luogo giusto, tutto il suo risalto. In rapporto al nostro problema ciò non significa soltanto che l'immaginazione non opera nel vuoto e nemmeno sempli­ cemente che si deve dare un ampio spazio alle relatività sogget­ tive; ma significa soprattutto che essa non può essere concepita come una facoltà chiusa in se stessa, che comincia da se stessa per ritornare continuamente in se stessa. Vi sono motivi ed intenti che orientano l'imma­ginazione: ed essi debbono trovarsi tutti al di fuori di essa, per così dire alle sue spalle. Lo sfondo a partire dal quale l'immaginazione diventa at­ tiva ed eventualmente si dirige sul materiale per realizzare scopi espressivi non può essere fatto a sua volta di fantasie. Alla sua base vi sono altre istanze, nelle quali anch'essa si misura con la nostra realtà e di fronte alla quale essa prende posizione. In questo consiste anzitutto la dimensione storico-sog­gettiva dell'im­ma­­ ginazione. Noi tenteremo di mettere a fuoco questo aspetto tanto im­ portante del nostro problema, riducendolo ad una dimensione microscopica. Abbiamo chiesto all'inizio: quali sono le direzioni imma­ ginative di un punto? In che cosa consiste la sua espressività, ammesso che ne abbia una? Come abbiamo osservato, quella domanda era sbagliata. Ad essa non ce la siamo sentiti di dare una risposta. Non ci viene in mente nulla. Ma proprio sul punto possiamo documentare le immagina­ zioni esplicite di due grandi artisti del nostro tempo. Vogliamo perciò realizzare un breve confronto. "Il punto geometrico" così dice Kandinsky all'inizio del suo libro intitolato Punto, linea, superficie "è un ente invisibile. Esso deve essere definito anche come un ente immateriale. Dal punto di vista materiale, il punto equivale ad uno zero. In questo zero sono però celate varie proprietà umane Ai nostri occhi questo zero - il punto geometrico - è associato alla massima concisio­ 234 ne, ossia al massimo riserbo, che però parla" [28]. Si attira dunque l'attenzione anzitutto sulla immaterialità del punto. L'avvio è rappresentato dal punto geometrico : ma questo riferimento è naturalmente già proposto all'interno delle ambi­ guità di una dimensione immaginativa. Se ci disponessimo ef­ fettivamente dal punto di vista della geometria, non avremmo certamente particolari ragioni per caratterizzare il punto come "invisibile": nella geometria, infatti, non abbiamo a che fare né con entità visibili, né con entità invisibili, ma con entità astratte. Tuttavia, proprio il punto considerato in questa astrazione suggerisce a Kandinsky questa prima transizione immaginativa: poiché il punto è inesteso, esso non, deve essere considerato an­ zitutto come una entità percepibile su un foglio di carta. Esso è invisibile, dunque immateriale. A questa prima transizione dell'immaginazione, ne segue immediatamente un'altra: la massima concisione del punto, il suo riserbo. L'immaginazione si sposta qui dalla geometria al linguaggio: o meglio, al "luogo" che il punto occupa nel linguaggio. Se con linguaggio intendiamo il discorso vivente - e non la scrittura - allora il punto certamente non appare in esso, non occupa nessun luogo. E tuttavia appartiene al linguaggio, come silenzio della parola in mezzo alle parole. Ciò che nella scrittura rappresentiamo con un punto, quindi con un segno materialmente percepibile, è invece, nel discorso vivente, il suo respiro. Nella scrittura il punto si mate­ rializza e diventa "un segno usato in modo pratico, recante in sé l'elemento pratico-funzionale che noi impariamo da bambini". Una cosa dunque che abbiamo imparato ad usare così. "Io vado al cinema" Dopo "cinema" devi mettere punto. E perché? Perché si fa così: perché in questo modo si separa una frase dall'altra. Il punto serve a questo: per indicare che la frase è terminata. - E noi mettiamo punto. Questo segno è pratico, svolge una funzio­ ne. Ed ora nel punto non è rimasto più nulla di ciò che esso era nel discorso vivente: la sua anima silenziosa, il suo respiro. Dal discorso vivente alla scrittura, il simbolo si è degradato a segno: "Il 235 segno esterno diventa una abitudine e vela il suono interiore del simbolo. L'interiorità viene murata dall'esteriorità" [29]. I pensieri che orientano l'immaginazione cominciano così a farsi avanti. Il punto invisibile e immateriale, la cui origine si trova nel discorso, di cui esso è il respiro, diventa una figura con­ centrata, un simbolo della vita interiore, di una spiritualità che non può che essere compromessa non appena entra in rapporto con l'esteriorità delle cose, con i loro valori pratici, con l'utilità in genere. A loro volta questi pensieri contengono una precisa presa di posizione. Così, poco oltre, leggiamo: "Siamo assoggettati mortalmente all'elemento pratico-funzionale". E questo è giudizio sull'epoca. Ovunque, oggi, l'interiorità è murata dall'esteriorità. E questo giudizio sull'epoca si ribalta anche nella delinea­ zione dei compiti e della concezione della pittura. An­ch'essa deve contribuire alla riacquisizione dei valori della spiritualità contro il materialismo dominante. Il primo passo dell'imma­gi­nazione deve consistere allora nella liberazione del punto dalla scrittura e nella sua proiezione nel libero spazio del mondo pittorico in cui il punto può essere considerato "in se stesso" e il suo simboli­ smo spirituale può dispiegarsi in tutta la sua autonomia. Cerchiamo così di impiegare il punto, ancora racchiuso nella frase scritta, in modo antifunzionale, antipratico. "Oggi io vado. Al cinema." Ma qui il punto ha ancora la funzione di una sottolineatura enfatica. "Oggi io. Vado al cinema." Non basta ancora. Si potrebbe pensare ad un refuso, ad un segno di inter­ punzione usato in modo sbagliato. Ed allora scriviamo il punto sopra, sotto la frase, in un luogo qualunque del foglio. Cancellia­ mo addirittura la frase. Ora il punto campeggia sul foglio di carta, comincia a vive­ re unicamente nella sua densità espressiva. Le immagini iniziali possono essere riprese e sviluppate in tutta la loro ricchezza di richiami. La silenziosità del punto, la sua riservatezza, diventa introversione. Il punto è chiuso in se stesso. Perciò potremmo dire che è "concentrico". Quindi anche essenzialmente statico, privo 236 di dinamismo. Esso non presenta "la minima tendenza al mo­ vimento, in nessuna direzione, né orizzontale, né verticale". Il punto "non avanza né retrocede". In questo è simile al quadrato. Nella staticità del punto la dimensione temporale tende annul­ larsi: "L'elemento tempo è quasi totalmente escluso dal punto" [30] . Eppure basta che i punti si moltiplichino sul foglio perché questa latenza espressiva muti interamente di segno. Nella sem­ plice ripetizione del punto sorge già un ritmo: qui il punto è bat­ tito, pulsazione, come la percussione breve del tamburo o i "col­ pi di becco di un picchio in natura" [31]. Ed ancora: agglomerati di punti: ammassi stellari. Una tempesta di sabbia nel deserto: un immane scatenamento di punti. Oppure: nel punto, la tensione di un movimento raggiunge il suo estremo accumulando in esso la forza da cui il movimento è scaturito. Per Kandinsky il punto è anzitutto conciso; per quanto poi ci allontaniamo da questa immagine iniziale, tuttavia, è essa che conferisce senso all'intero percorso immaginativo successivo. Per Klee, invece, il punto è anzitutto grigio. Questa diffe­ renza manifesta in una enorme concentrazione e condensazione tutta la differenza tra l'uno e l'altro autore. Ciò che colpisce è in primo luogo il riferimento cromatico. Fin dall'inizio, Klee pensa al possibile colore dei punto [32] . E na­ turalmente qui non si tratta del colore vero e proprio, ma del co­ lore che il punto deve avere per l'immaginazione. Il grigio, abbiamo detto. Ma per rendere conto di questa determinazione imma­ ginativa dobbiamo immergerci in una dimensione "metafisica". Cominciamo, cioè, ad interrogarci sulla contrapposizione tra il cosmo ed il caos. Del caos potremmo proporre un'im­magine. Ad esempio, questa: 237 Un confuso e inestricabile agglomerato di linee. Ma in questo modo della rappresentazione, vediamo anche in che senso que­ sta idea del disordine, di ciò che è confuso e caotico, sia una idea indiretta e "inautentica". In essa il cosmo è presupposto: l'uni­verso in quanto attraversato da un ordine. Il disordine è qui soltanto un'antitesi. In realtà possiamo, formarci anche un'altra idea del caos: non come ciò che sorge dalla rottura di un ordine, ma come ciò che sta prima dell'ordine stesso, prima della differenza, ed all'o­ rigine di essa. Questo caos primigenio è certamente qualcosa di "imponderabile e incommensurabile", di "inconcepibile" - e tuttavia anche per esso disponiamo di una rappresentazione. Il punto può essere il suo simbolo [33] . Il punto allude al caos inteso come indistinzione e indifferenza primigenia. L'immagine che comincia a diventare dominan­te è quella del punto come origine. Anche qui, come in Kandinsky, vi sono richiami all'a­stra­ zione del punto, al punto geometrico nella trasvalutazione com­ piuta dall'immaginazione. Questi richiami hanno tuttavia un si­ 238 gnificato diverso. Ciò che ci colpisce è l'assenza di dimensioni del punto: dunque il suo essere "qualcosa che è nulla" o un "nulla che è qualcosa", la "contraddittorietà" del punto, il suo essere sospe­ so tra il "divenire" e lo "svanire". Ma esso è privo di dimensioni anzitutto perché è origine delle dimensioni. Non appena un punto diventa visibile, non appena esso è posto anche le dimensioni sono poste. L'ordine ha preso vita: sopra, sotto, a destra, a si­ nistra. Davanti. Dietro. Il punto come origine è qui proprio il punto origine delle coordinate cartesiane, benché naturalmente sottratte al contesto idealizzante della geometria e riferite ad un soggetto concreto che guarda. Il punto orienta lo spazio, e per­ ciò ha carattere di centro. "Una volta stabilito", il pun­to "trapassa nella sfera dell'ordine" [34]. Ma perché il punto deve essere grigio? Perché dimensioni cromatiche e dimensioni spaziali fanno tutt'uno. Lo spazio è colore. Le direzioni dello spazio sono di­ rezioni del colore. Sopra, in alto: "verso il bianco"; sotto: "verso il nero"; a sinistra: "verso l'azzurro"; davanti: "verso il verde e il giallo" e così via. Ed al centro deve esserci proprio il grigio: perché il grigio "non è né bianco né nero, ovvero perché è sia bianco che nero. È grigio perché non è né sopra né sotto, ovvero perché è sia sopra che sotto. Grigio perché non è né caldo né freddo, grigio in quanto punto adimensionale, in quanto punto tra le dimensioni"[35] . Così procede la fantasia di Klee sul punto: essa, come in Kandinsky, prende l'avvio dal punto come entità percettiva su cui pesa ambiguamente l'idealità astratta del punto geometrico: ma si sviluppa poi in un'immaginazione metafisico-cosmo­go­nica che tuttavia non abbandona nemmeno per un istante il materiale stesso come materiale concreto che deve essere inserito in un progetto espressivo. Questa differenza risulta particolarmente chiara proprio là dove le immagini sembrano comuni. Il punto viene detto "con­ centrico" anche in Klee [36]. Ma questo termine che, geometri­ 239 camente parlando, è privo di senso, ha ora tutt'altra portata im­ maginativa. Ora non si tratta dell'introversione del punto, del fatto che il punto è chiuso in se stesso: l'immagine dell'in­tro­ versione, in Kandinsky, è solidale con quella della taciturnità e della riservatezza. In Klee invece l'immaginazione non si orien­ta in primo luogo verso le proprietà umane del punto: ciò che viene subito colto è invece il prendere forma di uno spazio a cui il punto dà origine in quanto ha "valore di centro". Su questo "valore" si addensano le immagini della latenza primordiale: ha valore di centro ciò che prima di ogni differenza contiene tutte le diffe­ renze. Attraverso il punto traspare la mitica immagine dell'uovo cosmico [37] . Intorno al punto gravitano così, fin dall'inizio, fantasie della nascita, del germinare, della crescita, dello sviluppo. "Qua­le ele­ mento originario, il punto è cosmico. Ogni germe è cosmico" [38]. "Concepito astrattamente, ci troviamo qui di fronte al punto sti­ molato in quanto energia latente. Il punto in procinto di abban­ donare alla minima occasione la sua latenza motoria, di muover­ si, di assumere una direzione o più direzioni. Di farsi cioè linea. In una metafora concreta: il seme mette radici, la linea dapprima si dirige verso terra, non per viverci ma per ritrarre energie onde emergere al regno della luce" [39]. Dietro queste immagini ci sono molti pensieri. Ma non si tratta di pensieri che, in luogo di seguire uno sviluppo argomen­ tativo, assumono forma di immagini: come se vi fosse un nucleo intellettuale che esse si limiterebbero a rivestire. Il problema, in­ fatti, non è anzitutto quello di comunicare dei pensieri, ma di far emergere le tensioni immaginative interne ai materiali. Quindi non vi è anzitutto un modo di pensare, ma un modo di "sentire". Ad esempio: un modo di sentire la linea: come un movimento di espansione e di dilatazione del punto. Per questo la linea che sorge dal punto ha anzitutto la forma di una spirale: 240 Si tratta, ancora una volta, di un'immagine di un concrescere organico stesso che allude alla generazione di un universo infinito. Di questo universo infinito ogni essere contiene la proiezione, e perciò può assumere a forma - un fiore o una foglia, ma anche un uomo o una astratta figurazione geometrica. E tuttavia proprio qui si può innestare un ribalta nella direzione immaginativa. La spirale è anche un vortice che va verso il suo centro "in una angosciosa ritmica accelerazione verso la fine" [40]. Dall'universo infinito siamo riportati indietro alla dimensione terrestre, al­ l'"im­pe­rativo statico" della nostra esistenza terrena, nella quale "noi, episodio nell'ambito del tutto", siamo "appiccicati alla crosta terrestre", proprio perché vi è un punto che ci attrae a sé: Il valore di centro del punto richiama la terra, la forza di gravità, il filo a piombo che ci obbliga "con la forza di un comandamento che si risolve nelle opposte direzioni dell'uovo e della morte" [41]. La concentricità del punto ha ora il senso di un richiamo all'"andamento concentrico" di un movimento che si dirige "sempre più 241 rapido verso il fondo dell'imbuto" [42]: il richiamo, dunque, ad una dimensione esistenziale circondata da immagini che riman­ dano ad un equilibrio instabile, alla possibilità sempre presente di una caduta. In queste differenze di orientamento che determinano le direzioni delle sintesi immaginative non è in questione l'imma­ ginazione soltanto, ma si confrontano istanze che stanno al di là di essa e in rapporto alle quali possiamo cominciare a misurare il divergere del progetto pittorico. In Kandinsky, l'assenza di dimensioni del punto conduce senz'altro alla sua immaterialità e questa viene intesa come riso­ nanza lontana di una interiorità prigioniera. Così, in generale, il segno grafico, la figura è, in Kandinsky, in primo luogo una cifra dello spirito. In Klee, invece, una cifra della natura. In Kandinsky l'o­ pera deve attingere i propri contenuti sprofondando all'interno di una spiritualità non contaminata dall'esterno. In Klee, invece, l'opera imita gli stessi processi organici della natura proprio per il fatto che in quei processi anch'essa affonda le proprie radici. 19 Le opere dell'immaginazione ci dànno da pensare. Siamo giunti così alle soglie di altri problemi. Non appena ci accingiamo a prendere in esame qualche esempio particolare di produzione immaginativa, non possiamo arrestarci alla super­ ficie delle immagini, ma dobbiamo spingerci sino ai pensieri che sono in esse intessuti e che indicano la via per una comprensione più profonda. Cominciamo con il ricostruire la coerenza interna delle immagini: ma questo inizio deve essere proseguito con l'in­ tento di rintracciare quei punti di ancoramento la cui presenza, al di là del piano immaginativo, è annunciata dal­le stesse confluen­ ze dell'immaginazione. Proprio all'interno di una impostazione di tipo "fenome­ 242 nologico", questo punto merita di essere particolarmente sot­ tolineato. Infatti ci si è spesso richiamati alla "fenomenologia" in direzione di una difesa dell'autonomia e dell'autosuf­ficienza dei prodotti dell'immaginazione, facendo valere una tendenza alla costruzione di tipologie nella quale la giusta esigenza di una comprensione inattingibile ad un orientamento empirico-posi­ tivo non viene tuttavia integrata dalla consapevolezza della ne­ cessità della specificazione storica. Da questo punto di vista è già abbastanza significativa, an­ che in rapporto ad una problematica più ampia, la tendenza pre­ sente, in varie forme nella letteratura fenomenologica ad una ripresa di alcune fondamentali posizioni kantiane nell'am­bito dell'estetica. Ciò che attrae in questa direzione sembra essere in primo luogo il fatto che in Kant si rivendica l'autonomia dell'"e­ sperienza estetica" e dunque dell'oggetto che in essa deve essere attinto. Una ricerca fenomenologica, giunta alle soglie di questi problemi, sembra infatti doversi muovere tra rompicapi concer­ nenti l'essenza dell'una e l' essenza dell'altro. Senza pretendere di aprire proprio ora un nuovo fronte di problemi, è possibile tuttavia aggiungere a quanto si è già espo­ sto qualche indicazione ulteriore di orientamento. In effetti è innegabile che vi è qualcosa nei nostri discor­ si che può richiamare in qualche modo la posizione di Kant. Pensiamo in particolare alla tematica della neutralizzazione delle posizioni d'essere. Nel trattare delle sintesi immaginative questo tema è stato lasciato un poco ai margini. ma esso può in realtà essere riproposto, in forma un po' modificata, proprio nel mo­ mento in cui si mostra la connessione tra la tematica della valo­ rizzazione immaginativa e quella dell'espres­sività. A differenza dei fantomatici contenuti immaginativi da cui abbiamo preso le mosse, i prodotti dell'immaginazione sono ora anzitutto cose che si trovano tra le se del nostro mondo circostante. Da esse si distin­ guono perché l'immaginazione ha fatto presa sul materiale orga­ nizzandolo in vista di uno scopo espressivo. Ma allora, affinché 243 questa differenza possa essere colta, è necessario in primo luogo la restituzione della cosa all'immaginazione di cui essa è appunto un prodotto. Ciò non significa soltanto che, nel prendere in considera­ zione, ad esempio, un ritratto, non possiamo essere interessati alla sua consistenza materiale ed alle varie utilità che potremmo trarre da essa. Ma questo è il lato più ovvio del problema. La restituzione della cosa all'immaginazione richiede che essa sia sottratta ai contesti che la vincolano con le altre cose stanno intorno, ma questi vincoli possono ancora essere ben saldi se consideriamo il ritratto proprio come un ritratto - come una raf­ figurazione. Essa infatti può essere intesa anzitutto come un'atte­ stazione delle fattezze di una persona: come una sorta di equi­ valente visivo ad una descrizione verbale che potrebbe essere impiegata, e persino con maggior efficacia, per identificare una persona che non conosciamo. Inteso così il ritratto può attestare il falso. In esso si possono commettere errori. In questo modo si ripresenta ora il tema delle posizioni d'essere e di conseguenza quello della loro neutralizzazione. Infatti, un dipinto comincia con l'essere restituito all'im­ma­ginazione quando la sua eventuale portata di attestazione viene neutralizzata. Basta poi introdurre qualche variazione inessenziale per mo­ strare che lo stesso problema si ripresenta anche nel caso dei dipin­ ti non raffigurativi o addirittura delle composizioni di suoni. Pensiamo ai suoni in senso ampio: sono suoni non soltanto le note suonate da un violino o da un flauto, ma anche il fischio di un treno, lo squillo del telefono, il rumore di un bicchiere che cade a terra. Ed allora notiamo questa differenza: sento il fischio di un treno - è passato il treno delle cinque. Suonano alla porta: ci deve essere qualcuno. E del resto, udendo il suono di un violino, un tale potrebbe chiedere: "Chi è stato?", come se fosse caduto a terra un bicchiere. Il suono qui è anzitutto un segnale. Annuncia qualcosa. Il 244 treno che passa. Qualcuno alla porta. Talora esso impartisce un ordine imperioso: debbo rispondere al telefono. In tutto ciò vi è indubbiamente qualcosa di simile alle atte­ stazioni, anche se non certamente la stessa cosa. L'evento sono­ ro è oggettivamente connesso con altri eventi e si trova ad essi strettamente integrato. La neutralizzazione del carattere di segnale o di attestazione recide i nodi di questa integrazione. Talora potremmo esprimerci così: "Mentre ero in ascolto di quella melodia, il trillo del campanello mi ha richiamato brusca­ mente alla realtà". E prima dov'eri? E non posso affatto rispondere dicendo che ero trasportato nella particolare realtà della musica, nel suo tempo affatto speciale, che non ha nulla a che vedere con la temporalità quotidiana, in quel mondo di trilli di violini e di flauti che non ha niente a che fare con il trillare dei campanelli. A meno che non si voglia con ciò contrassegnare rozzamente la differenza tra un'apprensione posizionale e un'ap­prensione non posizionale. Infatti la frase: "Mi richiama bruscamente alla real­ tà", l'allusione cioè ad una realtà parallela, nella quale possiamo accedere o dalla quale possiamo uscire, per ritornare alla nostra, solo in modo "brusco", resta comunque anche per noi abbastan­ za significativa. Contiene un'analo­gia con il sonno e il risveglio. Il campanello mi richiama al fatto che là c'è una porta e può essere venuto qualcuno. In questo piccolo incidente, il mondo intero si fa avanti. Le scene sonore, invece, rispetto a questo mondo, se ne stanno a mezz'aria, prive di relazioni con tutto il resto, come i nostri sogni. Eccoci dunque ad un passo dalla contemplazione disinteressata di cui parlava Kant per indicare la peculiarità dell'e­sperienza estetica. Ed invece noi abbiamo accennato a questo argomento per mostrare che questo legame è del tutto infondato e che anzi a partire di qui si intravede la possibilità di una critica. "Quando si tratta di giudicare se una cosa è bella - scrive Kant in un passo della sua Critica del giudizio - non si vuol sape­ 245 re se a noi o a qualcun altro importi o anche soltanto potrebbe importare della sua esistenza: ma come noi la giudichiamo con­ templandola semplicemente" [43] . Ciò che Kant intende dire viene illustrato da un esempio che segue immediatamente la frase or ora citata. Supponiamo, egli dice, di essere in presenza di un palazzo. Ne vediamo la facciata. Essa ci piace. Enunciamo il giudizio: è bella. Supponiamo ancora che questo palazzo sia il frutto di una allucinazione. Esso non esiste. In forza di questa sua inesistenza, di cui noi ad un certo punto potremmo diventare consapevo­ li, la sua facciata diventa meno bella? Se ciò dovesse accadere è evidente che siamo interessati all'impiego della casa, alle sue comodità. Pensiamo in qualche modo, anche se non abbiamo formulato nessun pensiero esplicito in proposito, di abitarla, di trovarla ampia e spaziosa. Ma togliendo di mezzo l'esistenza, togliamo di mezzo in un colpo solo, tutto le utilità della cosa e gli interessi pratici a collegati. Di un palazzo immaginario non sapremmo che cosa farcene. Se il giudizio: "La tal cosa è bella" poggia su utilità, esso avrebbe solo l'apparenza di un giudizio estetico, mentre si ha un giudizio estetico solo quando possiamo dire: "Giudicheremmo bella quella cosa, se essa non esistesse". Questa illustrazione esemplificativa che Kant stesso propo­ ne chiarisce varie cose e mostra in particolare che noi ci muovia­ mo in tutt'altra direzione. In primo luogo noi non abbiamo parlato di esistenza o di inesistenza, ma di posizione di esistenza e della sua neutraliz­ zazione, spiegando inoltre quest'ultima deve ora essere intesa in un senso piuttosto particolare. Non si tratta dunque dell'as­ sunzione della cosa a titolo di oggetto immaginario. Certamente, non si renderebbe giustizia alla formulazione kantiana se la si riducesse a quello che abbiamo indicato or ora come il più ov­ vio del problema. Tuttavia, non appena ci allontaniamo da que­ sta ovvietà e pretendiamo di scorgere qualcosa di più profondo, come è certamente giusto fare, diventa subito abbastanza dubbia 246 la stessa connessione tra assunzione di inesistenza e l'esclusione di interessi pratici nel mantenimento di una intenzione "esteti­ ca". Se un bicchiere ci pare bello per la sua forma, può essere che in ciò abbia il suo peso anche il piacere pregustato di bere in un bicchiere fatto così. Se supponiamo poi che il bicchiere non esi­ sta, ciò toglie soltanto la possibilità di bere in quel bicchiere, ma non le intenzioni pratiche che continuano a valere in rapporto ad esso, sia pure esse stesse in una modificazione immaginativa. Il bicchiere, anche quando non esiste, ci appare ancora "bello", ma esattamente per i motivi di prima. La stessa cosa può darsi naturalmente per una "bella architettura". Questi dubbi assumono poi un orientamento abbastanza preciso se, riconsiderando la nostra impostazione, notiamo che in essa non si fa parola di un atteggiamento estetico, di una par­ ticolare esperienza che si chiama "estetica" perché essa è capace di afferrare un oggetto altrettanto particolare, nel quale la "bel­ lezza" assume un aspetto visibile. Evidentemente il nostro scopo era diverso: volevamo soltanto mettere in rilievo la connessione interna tra la neutralizzazione dei riferimenti posizionali della cosa e l'apprensione di essa come "carica di espressione". Tra l'una e l'altra vi è un rapporto di opposizione: quan­to più la cosa viene liberata dai suoi caratteri di segnale o di attestazione tanto più prende risalto la sua portata espressiva. Se mostriamo un ritratto ad un amico ed egli ci chiedesse: "Chi è?", forse rispon­ deremmo: guarda piuttosto come sorride. Il ritratto devi limitarti ad osservarlo. Ma ciò non ha nulla a che fare con la contemplazione disinteressata di Kant: devi limitarti ad osservarlo, per cominciare a vedere come in esso l'immagina­zione si sia messa all'opera - e per giungere di qui a comprendere i suoi pensieri. L'inclinazione erronea dell'impostazione di Kant non di­ pende tanto dalla presenza di un passaggio privo di giustificazio­ ni, come potrebbe risultare da una critica letterale della formula­ zione che egli propone, quanto dal fatto che quella formulazione circoscrive l'atteggiamento estetico nel presupposto di un determi­ 247 nato canone della bellezza. Secondo Kant, alle spalle dell'immaginazione non ci sono pensieri. La subordinazione dell'immaginazione alla norma dell'intelletto, che ha tanta parte nella filosofia kantiana e che rappresenta un aspetto così caratteristico del suo stile complessi­ vo, si fa valere essenzialmente nella funzione epistemologica che Kant assegna ad essa. Diversamente stanno le cose se conside­ riamo l'operare dell'immaginazione nei prodotti dell'arte. An­che qui l'immaginazione deve certamente guardarsi dalle per­ver­sioni della fantasia, e quindi deve soggiacere a norme. Ma queste nor­ me essa le trae unicamente da se stessa. E si tratta di norme che sono tutte dirette alla ricreazione di interne armonie: nell'opera l'immaginazione deve realizzare la coesione organica delle parti in un intero che basta a se stesso. L'ob­biet­tivo deve essere dunque la produzione di belle forme nelle quali non si debbono cercare pensieri, il puro arabesco a cui conviene una contemplazione che non può che essere disinteressata. Nelle nostre considerazioni invece non è in questione in al­cun modo un qualche canone della bellezza, anche solo pre­ supposto alla lontana. Più importante ci sembra il fatto di poter dire che alla radice dell'immaginazione ci sono molti pensieri e che proprio per questo le sue opere ci dànno da pensare. 248 Note [1] J.P. Sartre, L'Imaginaire, trad. it. di E. Bottasso con il titolo Immagine e coscienza, Einaudi, Torino 1964, p. 11. [2] ivi. p. 23. [3] ivi [4] ivi, p. 28. [5] ivi, p. 34. [6] ivi, p. 36. [7] ivi, p. 39. [8] ivi, p. 56. [9] ivi, p. 39. [10] ivi, p. 51. [11] ivi. [12] ivi, p. 105. [13] ivi, p. 39. [14] ivi, p. 56. [15] ivi, p. 39. [16] ivi, p. 29. [17] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, op. cit., oss. 194, p. 105. [18] J.P. Sartre, op. cit., p. 287. [19] Perciò, raccomanda Kant, "non è prudente di una persona, che per la prima volta si introduce in società, fare in precedenza grandi lodi; ciò può essere piuttosto un cattivo scherzo di un furbacchione per farsi beffa di lei". - "Talune idee di oggetti con­ducono spesso ad attribuire involontariamente ad essi un'im­ ma­gine spontaneamente prodottasi (in forza dell'imma­ginazio­ne produttiva). Se si legge o si sente raccontare la vita e le imprese di un uomo grande per talento, per meriti o per posizione socia­ le, si è comunemente condotti ad attribuirgli nell'im­ma­ginazione un'imponente statura, e viceversa a dare una forma piccola e delicata ad una figura descritta come dolce e fine di carattere" (Antropologia pragmatica, op. cit., pp. 58-59). [20] G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. a cura di N. Merker, Einaudi, 249 Torino 1972, pp. 343-349. [21] S. Freud, L'interpretazione dei sogni, trad. it. di E. Fachinelli e di H. Trettl Fachinelli, Torino, Boringhieri, 1971, p. 365. [22] ivi, p. 323. [23 ] Cfr. C.G. Jung, Simboli della trasformazione, trad. it. di R. Rabo e L. Aurigemma, Torino, Boringhieri, 1976, p. 128 e Tipi psicologici, trad. it. di C. Musatti e L. Aurigemma, Torino, Boringhieri, 1927, p. 525. [24] C.G. Jung, Simboli della trasformazione, op. cit., p. 128. [25] C.G. Jung, L'applicabilità pratica dell'analisi dei sogni , in Realtà dell'anima, trad. it. di P. Santarcangeli, Torino, Boringhieri, 1975, p. 73. [26] ivi, p. 76. [27] ivi, pp. 65-66. [28] W. Kandinsky, Punto, linea, superficie , trad. it. di L. Sosio in Tutti gli scritti, I, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 15. [29] ivi. [30] ivi, pp. 19-20. [31] ivi, p. 20. [32] Le illustrazioni contenute in questo paragrafo sono suggeri­ te dai disegni di P. Klee (Teoria della forma e della figurazione. I, trad. it. di M. Spagnol e R. Shapper, Feltrinelli, Milano 1959, p. 2). [33] ivi. [34] ivi, p. 4. [35] ivi, p. 3. [36] ivi, p. 4. [37] ivi. [38] ivi, p. 9. [39] ivi, II, p. 29. [40] ivi, p. 414. [41] ivi, I, p. 5. [42] ivi, II, p. 417. [43] I. Kant, Critica dei giudizio, trad. it. di A. Gargiulo, rev. di V. Verra, Laterza, Bari, 1960, p. 44. 250 251 Capitolo quarto Il pensiero 252 253 1 Pensare e fare ragionamenti - Concatenare pensieri - Il pensiero e la proposizione - In che modo deve essere inteso il richiamo al linguaggio. La nostra aspirazione sarebbe ora quello di discorrere intorno al pensiero. Certo, non possiamo nascondere l'attrazione che eserci­ ta su di noi un lontano modello classico. Abbiamo parlato del­ la percezione, del ricordo e dell'immaginazione - ed ora, co­me rinunciare a dire qualcosa intorno al pensiero? Eppure, non si può negare che persino la pura e semplice enunciazione del terna suoni in questo caso piuttosto sconcer­ tante. Se qualcuno dice che intende discorrere, ad esempio, sul­la percezione o sulla immaginazione, la nostra attenzione di ascol­ tatori si orienta in ogni caso in una direzione sufficientemente determinata. Ma di quale argomento tratterà chi si propone di par­lare del pensiero? Vorrà forse indagare intorno ai lampi mi­ steriosi che attraversano incessantemente il nostro cervello? Naturalmente la nostra prevedibile prima mossa lo esclude. Abbiamo già deciso una volta per tutte di non immischiarci in questioni di ordine psicologico introspettivo, e ciò varrà certa­ mente anche in rapporto al nostro nuovo problema. Tuttavia si vede subito che anche questa prima mossa, a meno che non sia accompagnata da qualche chiarimento, non ci conduce molto lontano. Per avviare la nostra trattazione della tematica dell'im­ ma­ginazione potevamo dire: "immaginate questo e quest'altro" avanzando implicitamente la pretesa di indicare un compito sufficientemente determinato. Questa pretesa deve ora essere lasciata cadere. Ciò non dipende tuttavia da qualche difficoltà intrinseca alla natura della cosa, ma solo dal fatto che in realtà l'impiego quotidiano del termine fluttua entro margini più ampi che negli altri casi.. Così in precedenza abbiamo potuto parlare dei "pensieri" dell'immagi­na­zione proprio approfittando dell'in­ 254 de­terminatezza del termine che era anche, nel nostro contesto, ricchezza e pregnanza di senso: con pensieri dell'immaginazione in­ tendevamo infatti tutto ciò che determina un modo di pensare e che ha quindi le sue radici in un modo di essere, in un modo di vivere la realtà e di confrontarsi con essa. Talora invece il termine "pensare" viene impiegato in modo più ristretto e all'incirca analogo a "effettuare ragionamenti". Del resto potremmo inversamente illustrare quest'ul­tima e­spressione dicendo che il ragionare consiste nel concatenare pensieri. Proprio tenendo conto di ciò possiamo cominciare con il circoscrivere un ambito sufficientemente determinato di problemi, entro il quale la nostra prima mossa comincia con il diventare significa­ tiva. Il miglior modo di giocarla sta poi nel considerare le conca­ tenazione di pensieri nella misura in cui esse prendono forma in concatenazioni di proposizioni. In luogo di pensieri, parleremo di proposizioni ed in questo modo ci si libera di colpo da discus­ sioni che possono prendere in ogni momento un'inclinazione "psicologistica". L'idea, certo, non è nuova e non è nemmeno particolar­ mente moderna. Anche senza voler risalire troppo oltre nel tempo, potremmo indubbiamente richiamare ancora una volta la posizione di Kant. A parte ogni altra considerazione più pre­ cisamente attinente al sistema filosofico che egli propone, non c'è dubbio che la distinzione cardinale tra esperienza sensibi­ le e intelletto sia operata proprio a partire dal presupposto che la facoltà del "pensare" si esplichi nella produzione di giudizi, e che dunque il pensiero, in un'accezione sostantiva del termine che ammette il plurale, non sia altro che la proposizione. In rappor­ to al giudizio dovrà inoltre, secondo Kant, essere introdotta la nozione di concetto: "I concetti" egli dice "si riferiscono, come a predicati di giudizi possibili, a qualche rappresentazione di un oggetto ancora indeterminato" [1]. In questo modo viene fissa­ ta una delle possibili accezioni del termine facendo riferimento alla costanza del predicato nella libera variazione del soggetto, 255 presupponendo così, nella definizione, la forma stessa della pro­ posizione. Si osserverà subito che la sostituzione del pensiero con la proposizione sembra stabilire una stretta connessione tra pensie­ ro e linguaggio e che di conseguenza una discussione filosofica che abbia a che fare con questo ambito difficilmente potrà fare a meno di prendere in considerazione determinati fatti linguistici, se non addirittura convertirsi integralmente in una discussione che ha il linguaggio come proprio tema esclusivo. Prima di prendere una simile posizione converrà tuttavia andare cauti, dal momento che essa può rivelarsi più densa di problemi di quanto possa apparire ad un primo sguardo. Lo stes­ so Kant, del resto, che ha così chiaramente impostato il proble­ ma su questo versante, non ha affatto posto l'accento proprio su questo punto, non ha cioè considerato la riflessione sul lin­ guaggio come la principale via d'accesso ai problemi del pensie­ ro. Dobbiamo forse senz'altro ritenere che ciò dipenda da una qualche ingenuità filosofica che dovremmo considerare ormai superata o comunque da superare? È opportuno allora precisare in che senso si pone per noi questa connessione, cominciando con il dare per acquisito che la terminologia del pensiero possa essere "tradotta" in una ter­ minologia che rimanda a fatti linguistici, diciamo molto sempli­ cemente: a parole ed a configurazioni di parole. Ma per noi non può essere affatto irrilevante lo scopo che vogliano perseguire nell'operare una simile conversione. La nostra intenzione è in­ fatti quella di mettere fuori gioco un equivoco "psicologistico" che sembra inerente alla terminologia del pensiero. Spieghiamo, ad esempio, che con "concetto" non devi intendere niente altro che un predicato possibile. Per questo termine potremmo anzi proporre un'accezione molto più ampia, forse anche troppo am­ pia, ma che comunque mantiene il riferimento linguistico che è qui il punto essenziale. In generale, i concetti non sono altro che i significati intesi nelle parole. In questo modo liberiamo il terreno 256 da processi ed entità mentali che non sapremmo poi in che modo possano essere considerati più da vicino. Così noi abbiamo la sensazione che abbia senso parlare di operazioni e di procedu­ re intellettuali, se non altro in contrapposizione alle operazioni rivolte agli oggetti concretamente dati negli atti di esperienza. E tuttavia, non appena tentiamo di rendere esplicita in qualche modo questa sensazione, essa diventa sempre più nebulosa. La stessa contrapposizione tra operazioni intellettuali e operazioni concretamente rivolte alle cose che ci stanno intorno non ci for­ nisce altro che l'immagine di un operare aereo e sottile su mate­ rie enigmaticamente sfuggenti. Il riferimento al linguaggio ci deve invece insegnare qual­ cosa. Ad esempio spieghiamo che un cubo pensato - vogliamo proprio esprimerci così non è altro che il significato inteso in quella parola. In questo senso, l'aver di mira nel pensiero questo o quell'oggetto è tutt'altra cosa che averlo di mira nella percezione, nel ricordo o nell'immaginazione. Impiegato in questo modo il richiamo al linguaggio mostra la via per apportare chiarimenti essenziali. Ma il nostro scopo pedagogico sarebbe interamente compromesso se quel richiamo - non fosse compreso nel conte sto che lo moriva e inducesse a ritenere che il luogo di tutti i nostri problemi fosse dentro il lin­ guaggio. E che quindi al centro della nostra indagine dovrebbero essere posti determinati dati di fatto linguistici. In effetti se portia­ mo la possibilità di quella conversione terminologica fino ad una vera e propria identificazione ci troviamo immediatamente di fronte alla circostanza che non appena parliamo del linguaggio non possiamo, a quanto sembra, fare a meno di considerare que­ sta nozione, al plurale. Una qualunque proposizione sarà espres­ sa in una lingua determinata; una parola qualunque appartiene in ogni caso ad un determinato vocabolario. Ed a questo dato di fatto ne sono connessi ovviamente molti altri. Dovremmo dunque ritenere che il richiamo critico all'ambito linguistico comporti come conseguenza ovvia che da questi fatti linguistici si debbano 257 prendere senz'altro le mosse e che ad essi ci si debba in ogni caso attenere nell'intero corso della nostra discussione come il suo tema autentico? In realtà come siamo sempre disposti a mostra­ re che laddove interviene la terminologia del pensiero possiamo sempre operare una conversione che sottolinei il riferimento a parole ed a configurazioni di parole, così dovremmo essere al­ trettanto disposti a seguire il percorso inverso - dalla termino­ logia del linguaggio a quella del pensiero. I nostri problemi non si aggirano nell'empiria delle lingue. Vogliamo parlare proprio di determinate procedure e metodi intellettuali e non di questioni concernenti la grammatica di questa o quella lingua. E se il far notare che un concetto non è altro che il significato inteso nel­ la parola inducesse nell'errore di ritenere che solo della parola si tratta, allora dovremmo ritornare sui nostri passi, sottolineando inversamente che ci interessiamo proprio del concetto, di questo prodotto del pensiero, rispetto al quale la parola non è che un veicolo che può essere considerato importante solo in rapporto ad altri problemi. 2 Tra il pensiero e l'esperienza vi sono connessioni - L'au­tonomia del pensiero - Vari modi di intendere questa autonomia - Perché in rapporto a questo problema, qualcosa ci attrae in un atteggiamento di tipo empiristico. Abbiamo osservato che proprio il riferimento all'ambito lingui­ stico ci è utile per cominciare a rendere chiara la contrapposizio­ ne tra il Pensiero da un lato e, dall'altro, la percezione, il ricordo e l'immaginazione a titolo di esperienze. Con ciò intendiamo evi­ dentemente sottolineare che sarebbe un errore proseguire la di­ scussione secondo il nostro stile consueto. Percezione, memoria e immaginazione possono infatti essere subordinate ad un titolo comune. Questa possibilità si traduce in un modo di approccio 258 omogeneo, dal momento che si è sempre trattato, in precedenza, di mettere in evidenza differenze nella struttura del rapporto con il dato, di chiarire modalità diverse di presentazione dei contenuti. Ora è chiaro che il significato inteso nella parola non può essere concepito come un oggetto o un contenuto che si pre­ senta secondo una modalità eventualmente da mettere in chiaro. Già per questo fatto la tematica del pensiero si situa al di fuori dell'ambito di un'esposizione come la nostra che ha come temi i primi elementi di una dottrina dell'esperienza. Tuttavia vi è al­ meno un aspetto rilevante secondo cui essa può essere messa in questione anche all'interno di questo ambito, In primo luogo possiamo notare che vi sono connessioni tra il pensiero e l'e­spe­rienza, e proprio nel senso più ovvio suggerito dalla nostra stessa impo­ stazione. Se un pensiero non è altro che una proposizione, allo­ ra vi sono certamente proposizioni che significano stati di cose percettivamente accertabili: il significato in esse inteso viene sa­ turato da un atto di esperienza percettiva. In generale po­tremmo dire che vi sono talvolta "intuizioni corrispondenti" ai concetti. Tuttavia vi sono anche casi in rapporto ai quali può essere dubbio in che senso si parli di corrispondenza intuitiva, e addi­ rittura può essere escluso lo stesso sussistere di una connessio­ ne. Vi sono dunque, impiegando la vecchia terminologia, concetti puri. Vi sono cioè significati chiari e distinti rispetto ai quali po­ trebbe noti avere nemmeno senso tentare di correlare oggetti dati intuitivamente; e qualora una simile correlazione potesse in qualche modo essere proposta, essa non sarebbe in grado di ag­ giungere o togliere nulla alla chiarezza e distinzione del concetto. Nell'intendere attraverso la parola non siamo affatto vincolati al terreno intuitivo - le possibilità del pensiero superano da ogni lato le possibilità dell'intui­zione. Sembra allora abbastanza natu­ rale riconoscere che proprio quando il pensiero opera in questa autonomia e purezza, esso dispiega la propria azione autentica. Si impone così l'idea di una "sfera del pensiero" che attinge le proprie regole, i propri strumenti e i propri materiali unicamente 259 da se stessa. Tutto ciò dovrebbe soltanto rafforzare l'estraneità della problematica del pensiero rispetto ai temi di una dottrina dell'e­ sperienza, se non accadesse invece, come del resto è inevitabile, che vi sono diversi modi di intendere questa autonomia e in essi viene messo in questione, insieme a problemi di impianto filoso­ fico generale, lo stesso configurarsi nel suo interno della nostra tematica specifica. Pensiamo al caso esemplare della posizione che la logica as­ sume nel razionalismo classico: l'importanza attribuita alla me­ todologia argomentativa è strettamente connessa con il deprez­ zamento del mondo nella sua dimensione fenomenologica. Il nostro mondo, la realtà ha una struttura profonda che si trova al di là delle apparenze, dei fenomeni, e non vi è nessuna via che conduce dal mondo di esperienza, dal mondo così come ci appare al mondo così come esso è in se stesso. Proprio perché il pensiero opera in una rigorosa autonomia rispetto all'esperienza, ci è con­ sentito, attraverso il suo esercizio, di accedere a questa struttura profonda e deve essere dunque la logica, il pensiero puro, a porge­ re, attraverso precisi canoni argomentativi, i mezzi necessari che debbono consentire la realizzazione della nostra metafisica. La rottura del nodo tra logica e metafisica ad opera del tra­ scendentalismo kantiano, modifica indubbiamente l'impo­sta­zio­ ne del problema, ma in una direzione non meno densa di impli­ cazioni speculative. Infatti, il modo in cui si stabilisce un limite al pensiero sop­ prime la pretesa metafisico-costruttiva del razionalismo, man­ tenendone tuttavia integralmente il presupposto di fondo: la real­ tà ha veramente una struttura profonda, solo che essa è imperscrutabile. Ciò che vi è di veramente nuovo nella filosofia trascenden­ tale è la posizione del problema della connessione tra il pensiero e l'esperienza. Di qui deriva l'oscura invenzione kantiana di una logica trascendentale. Quella logica formale che la concezione razionalisti­ ca propone come capace di porci di fronte alle profonde verità 260 che concernono l'essenza del mondo, si presenta invece come in linea di principio incapace di superare il vuoto della forma. Tut­ tavia il pensiero non è attivo solo su questo terreno, ma in primo luogo nella capacità formatrice di contenuti fenomenici. A con­ siderazioni logico-formali, che sono prive di una portata conte­ nutistica, debbono dunque subentrare considerazioni logico-tra­ scendentali, secondo le quali il pensiero non potrà più essere inteso come un apparato di regole e di concetti che rispecchia nella sua oggettività e nella sua purezza l'orga­niz­zazione della realtà nel suo essere in se stessa, ma come un pensiero organiz­ zatore che unifica, attraverso principi autonomi, la molteplicità disparata dei materiali fenomenico-sen­soriali. La stessa nozione di esperienza deve allora essere riformulata ponendo in luce la sua articolazione interna in componenti sensibili e componenti intellettuali. Questo è propriamente il compito dell'analisi filo­ sofica: essa interviene per districare criticamente queste compo­ nenti e nello stesso tempo per legittimare l'anteriorità di prin­ cipio delle forme intellettuali. In una simile impostazione non può che essere proposta, per rendere conto di questa autonomia, ancora qualche cosa di simile ad una preformazione: l'intel­letto deve essere già dato a se stesso come apparato predisposto all'u­ nificazione. Nello stesso tempo viene qui a mancare il vincolo che lega l'oggettività del pensiero al­l'og­gettività della realtà - ma deve essere il pensiero stesso, con il suo ineliminabile rimando alla soggettività, a garantire la stessa possibilità di una realtà og­ gettiva. Il problema metafisico finisce così con il presentarsi due volte: dalla parte dell'in sé autentico, della realtà transfenomeni­ ca, e dalla parte della "soggettività trascen­den­tale". In entrambe queste prospettive filosofiche, il tema del­ l'autonomia del pensiero viene affrontato da un punto di vista che propone una concezione dell'esperienza orientata in una dire­ zione più o meno apertamente speculativa. A quanto sembra, quel tema non può essere elaborato senza implicare anche de­ cisioni sull'altro versante - sul versante, appunto, di una dottri­ 261 na dell'esperienza. Cominciamo così a indicare entro quali limiti intendiamo proporre alcune questioni anche in questa direzio­ ne. Si tratta di chiarire in che modo possa essere posto il tema dell'autonomia entro il contesto dell'impostazione filosofica che abbiamo fatto valere fino a questo punto, di illustrare quali istan­ ze si presentino anche in rapporto a questo problema a partire da un impianto filosofico fenomenologico. Gli accenni precedenti bastano certamente per spiegare che non possiamo che essere molto lontani da una direzione nazio­ nalistica, così come da una direzione trascendentale nel senso kantiano del termine. Qualcosa ci attrae, invece, in un atteggia­ mento di tipo empiristico. In rapporto ad esso manteniamo in­ tatta la nostra critica di carattere generale ed è anzi lecito preve­ dere che la distanza che separa la nostra impostazione da una impostazione empiristica verrà ancor più approfondita in questa nostra ultima estensione della discussione. Tuttavia, il rifiuto di un punto di vista di carattere generale, non toglie certo la possi­ bilità di accogliere lo spunto di un problema. Si noterà subito che proprio in rapporto al tema del­l'au­­ tonomia, assumendo un atteggiamento empiristico, ci trovia­ mo in realtà di fronte a due possibilità alternative che si trova­ no in conflitto aperto e che sembrano imporre una decisione preliminare. In primo luogo sembra coerente con una posizione empi­ ristica la pura e semplice soppressione dell'autonomia del pensiero: ogni produzione intellettuale deve poter essere integralmente ri­ solta entro l'ambito intuitivo, sia pur attraverso la mediazione di determinate procedure astrattive. Di fronte ad ogni questione che concerne la "sfera del pensiero" dovremmo in ogni caso, come empiristi, proporci il problema di chia­rire una connessione con il terreno sottostante dell'esperien­za. Tuttavia, anche all'in­ terno di un impianto filosofico empiristico, la purezza del pen­ siero sembra poter essere proposta e difesa, purché si accentui la vuotezza delle nozioni e delle procedure intellettuali. In rap­ 262 porto alla logica metteremo l'accento sul suo carattere formale, quindi sull'assenza di contenuto, ed allora va da sé che essa, non solo non può oltrepassare il piano dell'esperienza in direzione di una pretesa struttura metafisica della realtà, ma non è vincolata a que­sto piano per il semplice fatto che in essa non si parla di nulla. Il passaggio al problema di un'altra logica che in Kant era motivato, ad un tempo, dal tentativo di superare il punto di vista empiristico e di salvare le istanze di fondo del razionalismo classi­ co, può essere considerato come privo di giustificazioni. Sia che si segua la prima via come la seconda è evidente che, almeno nelle intenzioni, si fa tabula rasa di ogni impostazione speculativa: ma ciò che forse merita qualche riflessione consiste piuttosto nella forma alternativa che quelle vie tendono ad as­ sumere. Sembra qui che la posizione dell'auto­nomia tolga ogni connessione e che inversamente la posizione della connessione tolga ogni autonomia. Se consideriamo la prima direzione di di­ scorso, essa propone in modo del tutto generale che di fronte alla pretesa purezza del concetto si ponga il problema della sua base esperienziale. Ogni assunzione di preformazione viene messa da parte: di ogni procedura intellettuale possiamo e dobbiamo ren­ dere conto - vogliamo aggiungere, ad un primo livello - nel quadro di una problematica interamente inscritta dentro l'ambito di una dottrina dell'esperienza. Si tratta di un problema a cui sembra assai difficile rinunciare se si vuole evitare che la teorizzazione dell'autonomia del pensiero non comporti conseguenze, sia pure indirette, che si trovano in netto con­trasto con una nozione di esperienza elaborata da un punto di vista fenomenologico. D'al­ tro lato, è noto. che nella realizzazione di questa via secondo lo stile empiristico si afferma un riduzionismo manifestamente in­ sostenibile. Sembra addirittura che i diritti della purezza del pen­ siero ricevano maggior forza proprio tenendo conto dei risultati a cui mette capo la loro negazione. Ciò su cui occorre riflettere è tuttavia se questa posizione di connessioni che toglie ogni au­ tonomia metta in questione l'ef­fet­tiva sussistenza del problema 263 della base esperienziale, e non invece i canoni di una dottrina em­ piristica dell'esperienza. Il richiamo alla base esperienziale deve infatti servire anzitutto a liberare il terreno dall'immagine di una sfera del pensiero "conclusa in se stessa", ma anche a mettere in risalto il fatto che, a partire dall'esperienza, qualcosa di effetti­ vamente nuovo accade nel pensiero. Di qui l'interesse che rive­ ste anche il secondo polo dell���alternativa: l'accentuazione della vuotezza del pensiero, l'indicazione del terreno formale come l'ambito delle operazioni intellettuali rappresenta indubbiamen­ te una indicazione preziosa. Non meno che nel caso precedente è lecito chiedersi se vi sia un passaggio realmente conseguente tra l'accentuazione di questa dimensione formale e la rescissione di ogni nodo con il terreno dell'esperienza. Sembra che questa contrapposizione possa essere sostenuta soltanto sulla base di una concezione pregiudiziale secondo la quale il contenuto si troverebbe tutto dalla parte dell'esperienza e da questa parte si troverebbero solo con­tenuti. Sappiamo già che questa concezione è erronea. Nell'e­ sperienza non ci sono solo contenuti, ma anche modi di organizzazione e di strutturazione di essi. Ma se è così, possiamo forse tentare di mostrare che entrambe le direzioni suggerite da un atteggiamen­ to empiristico possono saldarsi l'una all'altra e che l'autonomia del pensiero può essere difesa senza rinunciare al fondamentale pro­ blema della sua connessione con l'esperienza. 264 3 La problematica della base esperienziale dei concetti - Un esempio tratto dalla "Filosofia dell'aritmetica" di Husserl: il concetto di numero. Vogliamo subito fornire un esempio di ciò che intendiamo par­ lando del problema della base esperienziale facendo assumere, nello stesso tempo, alla nostra discussione un andamento più pronun­ ciatamente espositivo. In rapporto alla nozione di fenomenolo­ gia nella forma teorizzata da Husserl, questo problema assume un'importanza per molti versi centrale. Esso si trova in modo particolarmente evidente all'inizio ed al termine dell'iti­nerario fi­ losofico di Husserl. Ne La crisi delle scienze europee, infatti, il tema principale è rappresentato dalla necessità di una ricomposizione tra la scienza in genere ed il mondo della vita, avendo di mira come obiettivo polemico da un lato l'im­ma­gine posi­tivista della ragione e dall'altro l'esplicito irrazionalismo del­­la filosofia esi­ stenziale. In questo contesto si presenta in modo consistente, e precisamente in connessione con la critica della "matematizza­ zione della natura", la tematica della base esperienziale delle for­ mazioni intellettuali. Poiché il tramite della "matematizzazione" è storicamente rappresentato dall'e­sem­plarità della geometria, la discussione di Husserl si orienta in questa direzione, sottolinean­ do che alla formazione della geo­­metria come scienza presiedono determinate procedure di idealizzazione che hanno la loro origine nell'esperienza. All'u­ni­verso delle forme concretamente intuitive si contrappone l'uni­verso delle forme geometrico-ideali: e tutta­ via questa contrapposizione deve essere illustrata proprio attra­ verso l'indi­ca­zione di una connessione, attraverso l'esibizione di processi che conducono dalle prime alle seconde. Nel quadro complessivo di quell'opera è tuttavia difficile rendersi conto dell'effettiva portata teoretica del problema, dal momento che le preoccupazioni ideologiche orientate in dire­ 265 zione di una presa di posizione sul piano propriamente cultura­ le sono nettamente dominanti. D'altro lato, lo stesso problema viene proposto, indipendentemente da quelle preoccupazioni ideologiche ed in una forma che ha di mira una tematica più specifica, ai primi inizi dello sviluppo della filosofia di Husserl, in una fase anteriore alla stessa teorizzazione della nozione di fenomenologia. Perciò vogliamo togliere il nostro esempio dalla Filosofia dell'aritmetica. Il principio entro il quale essa si muove, un prin­ cipio che ricorda da vicino un atteggiamento di tipo empiristico, può essere formulato semplicemente così: "Nessun concetto può essere pensato senza fondazione in un'intuizione concreta" [2]. Ciò deve valere naturalmente anche per il concetto di numero, benché ci si trovi qui di fronte proprio ad uno degli esempi che potrebbero essere citati per indicare quanto talvolta possa essere problematico il parlare di "intuizioni corrispondenti" ai concetti. Tuttavia anche in questo caso deve essere possibile in­ dicare i "fenomeni concreti" a partire dai quali, attraverso deter­ minate procedure astrattive, il numero si forma. Questa indica­ zione della "genesi" deve nello stesso tempo fornire una risposta soddisfacente alla domanda stilla natura del numero. Questo è il primo punto su cui occorre attirare l'atten­zione. Se chiediamo: "Che cosa è il numero?" - la forma stessa della domanda sembra esigere una definizione. In essa si presuppone una sorta di essenza del concetto, e la domanda verte su di essa. Attraverso la definizione, una nozione che, considerata nei suoi impieghi quotidiani e correnti, può forse essere ritenuta ovvia e ben nota e che tuttavia si oscura non appena su di essa si rivolga la riflessione, deve essere portata a piena chiarezza. Invece noi ci accingiamo in realtà ad operare un'inter­ pretazione della domanda che conduce ad una sua riformulazione. Non devi chiederti anzitutto che cosa sia il numero, ma in che modo abbia origine questa nozione. Alla richiesta di una delimi­ tazione definitori deve subentrare la richiesta relativa alla forma- 266 zione del concetto ed in questa conversione della domanda non si effettua il passaggio ad un altro problema, ma si orienta lo stesso problema nella sua direzione corretta. Il prodotto viene chiarito chiarendo il modo della sua produzione. Certamente, ponendo le cose in questo modo, tendiamo ad accentuare fin dall'inizio il carattere di chiarificazione filosofica di un'impostazione "genetica", tacendo sull'equivoco psicologistico dentro il quale l'opera giovanile di Husserl è interamente situata. Che l'analisi logica e la ricerca psicologica debbano col­laborare ai fini di una chiarificazione filosofica è per Husserl un presup­ posto ovvio, in rapporto al quale non si intravede alcuna diffi­ coltà di principio. Nella Filosofia dell'aritmetica è in realtà ben presente l'o­bie­ zione che può essere rivolta già alla semplice enunciazione del suo sottotitolo: ricerche logiche e psicologiche. Qui si unifica ciò che deve invece essere tenuto chiaramente distinto. In rapporto al concetto di numero possono essere riferiti due compiti molto diversi, quanto ai loro metodi ed ai loro problemi. Da un lato, si tratta di determinare ciò che è logicamente contenuto nel con­ cetto, di compiere di esso una sorta di analisi logica. Dal­l'altro, potremmo invece essere interessati al processo di formazione e poiché con ciò sembra noti si possa intendere altro che il modo in cui ha origine nella nostra testa il concetto di numero, allora dovremo piuttosto ricorrere ai metodi di un'in­dagine psicologi­ camente orientata. Lo statuto psicologico del concetto non deve essere confuso con quello logico: di conseguenza la domanda che chiede che cosa è il numero non solo non trova la sua for­ mulazione corretta nella domanda intorno alla sua genesi, ma l'ima è nettamente irriducibile all'altra ed esse esigono campi di indagine del tutto separati [3] . Di questa obiezione Husserl è perfettamente consapevole e ritiene tuttavia che essa non meriti di essere tenuta in conto [4], mentre, come sappiamo, la preoccupazione di liberate il campo dall'equivoco psicologistico si trova alla base della prima posi­ 267 zione dell'idea di "analisi fenomenologica". Questo atteggiamen­ to ha dalla propria parte almeno un buon motivo: la convinzione fondamentale da cui muove Husserl nella filosofia dell'a­ritmetica riguarda infatti la portata chiarificativa di indagini intuitivamentc orientate anche in rapporto alla "sfera del pensiero", i concetti non hanno una essenza, ma una storia. Perciò la loro chiarifica­ zione deve prendere la via del processo di formazione. Se poi si ammette che il problema della formazione sia un problema psicologico, allora la ricerca psicologica deve essere importante proprio per chiarire lo statuto logico del concetto e ad essa non è possibile rinunciare. Ciò che in seguito viene a cadere è quell'ammissione ovvia e la conseguenza altrettanto ovvia che se ne trae. Non invece il criterio metodico della chiarificazione genetico-intuitiva. La su­ perficie psicologistica può anche essere abbandonata senza con ciò intaccare il nucleo profondo del problema. Perciò possiamo cominciare con il trarre il nostro esempio proprio di qui. 4 Numero e molteplicità - Il numero come concetto formale o categoria - La nozione di collegamento collettivo e la sua interpretazione psicologistica. La direzione in cui verrà sviluppato il problema dell'origine del concetto di numero è già ampiamente decisa da due osservazio­ ni che si presentano nel primo capitolo della Filosofia dell'arit­me­ tica. Assumendo come indizio significativo l'impiego quotidiano del termine, si fa notare anzitutto che vi è un legame interno tra la nozione di numero e quella di molteplicità. Possiamo servirci della parola "numero" semplicemente per, indicare molte cose; quanto ai numeri determinati, attraverso di essi una molteplicità può essere specificata. Inoltre viene sottolineata la generalità del numero, da inten­ 268 dere come generalità contenutisticamente incondizionata del­­la sua applicazione. Se sappiamo che due cose sono azzurre, sap­ piamo anche che tipi di cose sono a quale regione dell'essere ap­ partengono, mentre nulla sappiamo di ciò se sappiamo soltanto che sono due. Per questo parliamo di generalità formale e del nume­ ro come esempio di concetto formale oppure, secondo l'e­spres­sione usata da Husserl come esempio di categoria [5]. Sulla base della prima di queste due osservazioni, l'inda­gine si sposta dal problema del numero a quello della nozione di mol­ teplicità e della sua origine. In questo modo la via è senz'altro aperta verso conside­ razioni intuitive. Non già nel senso che il rifiuto della ricerca di una definizione, rifiuto che naturalmente andrà ribadito anche in rapporto alla chiarificazione della nozione di molteplicità, debba essere sostituito da vaghi richiami a idee oscure che si trovano già nella nostra testa, secondo un impiego della parola "intuizione" molto più vicino al discorso corrente che alla tradizione filosofi­ ca. Certamente, qui parliamo di molteplicità di cose, ed eventual­ mente di insiemi, di aggregati o di collezioni, presupponendo che "ognuno sappia che cosa si intenda con queste e­spres­sioni" [6]. Ma questa presupposizione non è fondata a sua volta nella convinzione che nella nostra mente si trovi una qualche idea approssimativa di "molteplicità" che attenda di essere purificata e rigorizzata. Non si tratta affatto di questo. Presupponiamo sol­ tanto che ognuno sap­pia, in circostanze appropriate, applicare correttamente quelle espressioni. In particolare, le circostanze a cui vogliamo fare riferimento mettono in questione l'intuizione per il semplice fatto che in esse una molteplicità di cose si trova direttamente sotto il nostro sguardo. I fenomeni concreti a cui dobbiamo risalire sono dun­que le molteplicità concretamente percepite. Tuttavia la nostra seconda osservazione pone una condizio­ ne molto precisa che la nozione di molteplicità che, per così dire, ci conduce sulla via del problema del numero, deve in ogni caso 269 soddisfare. Le molteplicità in genere, ed anche le mol­teplicità per­ cettive, o come potremmo anche dire, gli interi in un'ac­cezione lata del termine, possono essere di diverso tipo. La differenza del tipo dipenderà in generale dalla differenza della forma di collegamento tra le parti dell'intero. Nel caso che ci interessa tale collegamento deve poter sussistere indipendentemente dalle qualificazioni contenutistiche concrete delle parti. Nel primo ca­ pitolo della Filosofia dell'aritmetica, per indicare una simile forma di collegamento si parla senz'altro di collegamento collettivo [7]: ma non si va oltre la pura e semplice introduzione del termine. Le spiegazioni giungono invece con la posizione della di­ stinzione tra relazioni primarie e relazioni psichiche, proposta nel ca­ pitolo terzo. Questa discussione merita di essere sommariamente riferita perché essa presenta già alcuni spunti che si riveleranno di, importanza fondamentale per il futuro impianto del discorso propriamente fenomenologico. Con relazioni primarie intendiamo, detto in breve, le relazioni che poggiano sulle caratteristiche contenutistiche degli e­lementi posti in relazione. Nell'indicazione di esempi potremo fare ri­ ferimento, in par­ti­co­lare, a interi percettivi. Ogni distribuzione spaziale di elementi nel campo visivo, così come ogni relazione dipendente dalla forma o dalle qualità cromatiche degli oggetti potrà essere richiamata per illustrare la nozione di "relazione pri­ maria". Così una superficie che presenti una successione gradua­ le di sfumature di colore può essere indicata come un intero che è determinato nel suo tipo dal modo in cui, in rapporto ad esso, possiamo parlare di parti e dalla forma fenomenologica concre­ ta del loro essere insieme. A differenza degli in­teri composti di parti discrete, qui possiamo parlare di parti soltanto nel senso che sul piano percettivo si presentano settori differenziabili fra i quali tuttavia non vi è alcuna netta linea di demarcazione. Per­ ciò, se consideriamo dei tratti abbastanza vicini della superficie vi sarà tra esse una relativa indistinzione cromatica. Dal punto di vista percettivo questa situazione è irriducibile al caso della di­ 270 scretezza e la sua eventuale interpretazione come un caso par­ ticolare di essa sarebbe appunto soltanto un'interpre­ta­zione. Ammetteremo invece di trovarci qui in presenza di una specie particolare di intero caratterizzato da un modo peculiare di collegamento tra le parti che vogliamo chiamare "collegamen­ to di continuità" [8]. La riconduzione del tipo di intero al modo di collegamento tra le parti è importante perché ci consente di affermare che la relazione deve essere intesa come una componente sensibile dello stato di cose percepito. Nello stesso tempo essa libera tale tipi­ cità dal vincolo ad un campo sensoriale determinato. Lo stesso tipo di intero caratterizzato dalla "continuità" tra le parti, che possiamo illustrare con l'esempio delle transizioni cromatiche, può ripresentarsi nel campo dei suoni. Infatti, come possiamo avere configurazioni sonore costruite sulla discretezza percettiva delle parti, così possiamo avere vere e proprie transizioni sonore che sarebbe erroneo interpretare come giustapposizione di punti di suono. Questa possibilità di trasposizione della nozione di intero da un campo sensoriale all'altro non è ovviamente da intendere come se il fattore di integrazione fosse indipendente dal mate­ riale percettivo e venisse imposto ad esso a titolo di "compo­ nente intellettuale". Sono infatti in ogni caso le relazioni prima­ rie, e quindi i contenuti direttamente percepita, che decidono la tipologia degli interi; mentre la possibilità della trasposizione rap­presenta piuttosto un indizio della possibilità di operare "con­ cettualizzazioni" su questa base di esperienza. Considerazioni analoghe valgono per ogni forma di ordina­ mento seriale, per ogni rapporto di somiglianza e di contiguità, come in generale per ogni configurazione percettiva. Non è evidentemente difficile riconoscere nella nozione di relazione primaria una delle idee guida della tematica propria­ mente fenomenologia. In essa viene in questione, sia pure nel quadro di una tematica che ha di mira tutt'altri problemi, una 271 concezione dei processi percettivi come processi di integrazio­ ne che poggiano su sintesi direttamente proposte dal materiale. L'idea della passività delle sintesi è qui già presente come uno spunto destinato ad assumere grande rilievo in futuro. Cosic­ ché assume per noi particolare significato la precisa critica che si trova già nella Filosofia dell'aritmetica nei confronti della posizione kantiana: "Kant trascurò il fatto che ci sono dati molti collega­ menti contenutistici nei quali non si può notare nemmeno una traccia di attività sintetica che crea i legami" [9] . Alle relazioni primarie si contrappongono le relazioni che Husserl chiama "psichiche"; ed è inutile dire che nella scelta di questo termine così come nelle spiegazioni particolari intorno a questo punto si fa sentire direttamente l'incerta metodologia psi­ cologistica dell'opera. Per questo converrà insistere sulla contrap­ posizione indicata, piuttosto che sull'impiego di quel termine. In rapporto ad uno stato di cose relazionale colto percettivamente, dalla relazione fondata nei suoi elementi (che sarà dunque una relazione primaria) distingueremo certamente l'atto percettivo in cui essa viene appresa. La percezione, tuttavia, quindi l'atto soggettivo (o come si esprimerebbe ora Husserl: l'atto psichico) non determina il sussistere della relazione stessa. Viceversa può darsi il caso che due oggetti siano osti in relazione e che tuttavia per rendere conto di essa sia essenziale il rimando a determinati atti soggettivi. Ciò accade, ad esempio, quando due oggetti, indi­ pendentemente dal fatto che tra essi sussistano o meno relazioni primarie, sono oggetti della volontà o del desiderio di qualcuno. Il rimando soggettivo è allora essenziale per rendere conto del modo in cui essi sono collegati. Il sussistere di modi primari di collegamento tra gli oggetti non può evidentemente rappresen­ tare una condizione per la posizione di una relazione psichica; e d'altra parte sarebbe una forzatura evidente interpretare il sus­ sistere di una relazione psichica come se fra gli oggetti posti in relazione intercorresse una sorta di flusso psichico. Di fatto ciò che si vuol dire è unicamente che vi sono tipi di relazioni che, a 272 differenza di altre, sono prive di fondamento contenutistico. Questa possibilità di attenuare l'inflessione psicologistica dell'impostazione del problema non significa tuttavia che essa non abbia conseguenze rilevanti nella trattazione di Husserl. Ciò appare chiaro proprio nel passaggio alla discussione del proble­ ma del collegamento collettivo rispetto al quale la distinzione tra relazioni primarie e relazioni psichiche ha uno scopo puramente introduttivo. Come abbiamo osservato, il collegamento che abbiamo de­ ciso di chiamare "collettivo" deve essere indipendente dai con­ tenuti collegati nella molteplicità. E poiché intendiamo riportate le nostre illustrazioni sul terreno dei fenomeni concreti, ci tro­ viamo subito di fronte al fatto che ogni molteplicità concreta­ mente percepita presenta in ogni caso collegamenti "primari" di vario genere tra i propri elementi. Ci troveremmo allora di fronte ad una ovvia difficoltà se non potessimo contare sulla nozione di relazione psichica. Il collegamento collettivo infatti non può che essere annoverato tra le relazioni psichiche. Perciò possiamo prescindere dalle relazioni primarie, e quindi dalle determina­ zioni contenutistiche degli elementi della molteplicità, senza che in questa astrazione venga soppressa la molteplicità stessa. Può ancora esserci un atto psichico che abbraccia unitariamente gli elementi della molteplicità. In altri termini, affinché oggetti qua­ lunque siano collegati collettivamente si richiede soltanto che ad essi sia diretto un interesse unitario. Una soluzione della difficoltà indubbiamente significativa, ma ben poco convincente. Tanto più che, Husserl proprio per spie­gare questo punto ricorre esplicitamente - come in realtà accade di rado nell'opera - all'esperienza interna: "La prima con­ ferma della nostra concezione" egli scrive "è offerta ancora una volta dall'esperienza interna. Se chiediamo in che cosa consista il collegamento quando, ad esempio, pensiamo ad una pluralità di cose tanto disparate come il rosso, la luna e Napoleone, allora riceviamo la risposta che noi pensiamo insieme questi contenuti, 273 che li pensiamo in un unico atto" [10]. Li pensiamo insieme; in un unico atto. Ma che cosa vuol mai dire questo? Quale voce interiore ci offre questa risposta? E se per me le cose non stessero affatto così? Quanto più ci penso - a ciò che accade nella mia testa quando dico "il rosso, la luna e Napoleone" - tanto più avverto una gran confusione [11] . Vi è tuttavia in Husserl un'indicazione solo apparentemente marginale e che mostra invece la consistenza del problema e nel­ lo stesso tempo la necessità di ridiscuterlo in tutt'altra direzio­ ne. Egli osserva che quella particolare relazione che chiamiamo "collegamento collettivo" ha la sua espressione nel linguaggio di ogni giorno nella paroletta "e"[12]. In realtà si sarebbe forse dovuto cominciare ad impostare il problema a partire di qui: dal suggerimento che la relazione in questione si trova espressa anzitutto in una componente formale del giudizio; che essa non è senz'altro data nell'esperienza, anche se ciò non esclude ogni rap­ porto con essa. 274 5 Spiegazioni intorno alla formula proposta da Husserl per indicare la nozione di molteplicità - Necessità di distinguere tra un piano pre-aritmetico e l'aritmetica "vera e propria" - Conseguenze di questa distinzione - Operazioni pre-aritmetiche e operazioni di calcolo. Nonostante gli equivoci richiami all'esperienza interna, ciò che Husserl intende sostenere è che, sulla base delle molteplicità percettive, è possibile operare un'astrazione il cui risultato è un "intero" i cui elementi sono connessi dalla forma di collegamen­ to espressa sul piano linguistico dalla congiunzione. Di conseguen­ za, gli elementi della molteplicità diventano irrilevanti nelle loro qualificazioni concrete: ognuno di essi viene inteso uni­camente come "qualcosa in generale". Ciò significa che la relazione in questione permane nella libera variazione delle determinazione contenutistiche dei suoi termini. L'espres­sione "qualcosa" indi­ ca dunque l'oggetto in quanto variabile: l'og­getto inteso in senso matematico-formale o, come potremmo dire più bre­vemente, l'oggetto matematico. La possibilità di intendere una molteplicità concreta di ogget­ ti come una molteplicità di oggetti matematici sta alla base della costituzione del concetto di numero. Questo è il senso effettivo della semplice formula proposta da Husserl per indicare la no­ zione di molteplicità istituita dal collegamento collettivo: "Qual­ cosa e qualcosa e qualcosa ecc.". Oppure: "Uno e uno e uno ecc.". Ed ancora, e forse più chiaramente: "Un... e un... e un... ecc.": infatti, la seconda formulazione deve essere intesa sulla base delle spiegazioni che illustrano la prima. Perciò l'"u­no" che compare in essa non è affatto il numero 1, ma l'ar­ticolo indeterminato e ad esso potremmo far seguire dei punti di sospensione. Del resto la "e" non sta qui in luogo di un segno di somma, ma indica proprio la relazione espressa dalla congiunzione. In realtà in questa formula, apparentemente così povera, vi 275 sono tutti gli elementi per orientare una filosofia dell'arit­metica in una direzione ben determinata. Ciò che in essa va sottolineato in primo luogo è che la nozione di numero, proposta a partire da quella di molteplicità, viene costituita indipendentemente dal problema di un sistema numerico, cioè dal problema di un metodo di notazione per le specie determinate di molteplicità. Numero, nella prima accezione di cui l'im­po­stazione genetica cerca di rendere conto, è la molteplicità stessa intesa come una molteplicità di oggetti matematici. Così, se parliamo del numero degli elementi di una mol­ teplicità non ci riferiamo a qualcosa di diverso dalla molteplicità e nemmeno ad una sua qualche proprietà, ma alla molteplicità. in quanto essa si specifica in quel numero. Risulta allora importante una distinzione che, in un diver­ so contesto di discorso, potrebbe apparire del tutto irrilevante: in effetti noi dobbiamo distinguere tra molteplicità direttamente percepite nel numero dei loro elementi e molteplicità in rap­ porto alle quali la determinazione del numero può essere fissata solo attraverso una procedura indiretta - attraverso il contare. In quest'ultimo caso un sistema numerico deve essere presupposto: deve essere cioè presupposto un sistema di segni che indichino chiaramente le distinzioni tra i concetti specifici di numero, sen­ za tuttavia che ad essi possa corrispondere la chiarezza in senso intuitivo-percettivo. Diciamo semplicemente: una molteplicità costituita da due oggetti può essere riconosciuta e chiaramente differenziata sul piano percettivo da una molteplicità costituita da quattro ogget­ ti. A molteplicità di questo tipo possiamo anche assegnare un nome ("due", "quattro"), ma ciò non richiede che il nome sia, per così dire, integrato in un sistema di nomi. La differenziazione percettiva viene ovviamente meno in rapporto a molteplicità più ampie. Di esse si può avere una chiara nozione, e quindi even­ tualmente una chiara denominazione, ma nessun corrisponden­ te intuitivo diretto. Se sappiamo contare soltanto fino a cinque, e tutto il resto cadesse per noi sotto il titolo generico dei "molti" 276 non sapremmo affatto contare. A questo punto si impone una netta differenziazione tra un livello che potremmo chiamare pre-aritmetico, nel quale l'i­dea di numero si presenta in stretta connessione con l'idea di moltepli­ cità, ed un livello propriamente aritmetico a cui si accede sol­tanto ed in primo luogo attraverso la posizione di un metodo segnico notazionale per la designazione di "concetti numerici". Questo è il nodo effettivo della tematica di Husserl nella Filosofia dell'aritmetica: la distinzione tra l'aritme­tica vera e propria e il piano pre-aritmetico deve essere saldamente fissata, e nello stesso tempo un'analisi filosofica effettiva della nozione di numero deve "regredire" dal piano propriamente aritmetico a quel­lo pre-aritmetico. Questo nodo può essere reso più chiaro e significativo ri­ chiamando almeno due punti della discussione di Husserl. Il pri­ mo riguarda l'accenno precedente alla formula della molteplici­ tà. In essa, l'"uno", non è affatto il numero l. Ma ora vogliamo rafforzare questa affermazione: l'l non è affatto un numero. E tanto meno lo zero. Non potremmo evidentemente attenderci un'altra conclusione in un'impostazione che comincia con il pro­ porre la nozione di numero a partire da quella di molteplicità. D'altra parte, una simile conseguenza potrebbe valere come una palese dimostrazione della debolezza dell'impo­stazione pro­ posta. Per dirla con le parole di Frege: "E non si pretenda che 0 e 1 non siano numeri nello stesso senso in cui lo sono 2 e 3! Il numero risponde alla domanda: "Quanti?"; e se, ad esempio, si chiede: quante lune ha questo pianeta? si può dare sia la risposta 0 oppure 1 così come 2 oppure 3, senza che muti il senso della domanda. Certo, il numero 0 ha qualcosa di particolare e così anche l'1; ma ciò vale in fondo di ogni numero intero; solo che nel caso dei numeri più grandi ciò appare sempre meno eviden­ te. È del tutto arbitrario proporre qui una differenza di specie. Ciò che non si addice allo 0 o all'1 non può essere essenziale al concetto di numero" [13] . Ciò che si può accettare in questa osservazione - questo 277 è il tenore della risposta di Husserl che cita e discute il passo di Frege - è che mediante un numero rispondiamo alla domanda intorno alla quantità. Ma anche in questo caso, come nel caso di ogni domanda, vi sono risposte positive e risposte negative. Con l'l e lo 0 si risponde negativamente a quella domanda. Qui non vi è nessuna molteplicità, ma solo un oggetto; oppure: e nemmeno un oggetto. "Un oggetto non è un collettivo di og­ getti; perciò l'enunciato secondo cui c'è qui una cosa non è un enunciato numerico". "E anche nessun oggetto è un collettivo e perciò l'enunciato secondo cui qui non c'è nessun oggetto non è un enunciato numerico" [14]. Ma dietro l'ovvietà di questa risposta - un'ovvietà, natural­ mente, se la si considera in rapporto all'impostazione iniziale del problema del numero attraverso il suo spostamento a quello della molteplicità - vi è la questione più profonda dell'indivi­duazione del terreno propriamente aritmetico sul piano delle rappresentazioni indirette del numero, cioè sul piano segnico-notazionale. Lo 0 e l'l non sono numeri se consideriamo la nozione di numero come costituita sul terre­ no pre-aritmetico. Inversamente, la considerazione dell'1 e dello 0 come numeri, rinviando ad un metodo di notazione, assume un senso esemplare perché rappresenta la prima decisiva estensione del concetto di numero nel campo dell'aritmetica autentica, dell'aritmetica come "linguaggio", come "algoritmo". L'insistenza di Husserl su una giustificazione intuitiva del concetto di numero si ribalta dunque nella rivendicazione di una filosofia dell'aritmetica che ponga al proprio centro il fatto che l'aritmetica è installata sul piano del "simbolismo". Il secondo punto che intendiamo richiamare per illustrare la distinzione in questione e la problematico di ordine genera­ le ad essa sottesa riguarda la nozione di operazione. Anche nel caso delle operazioni dovremo distinguere tra operazioni com­ piute su molteplicità concrete intese come numeri direttamente rappresentati e le operazioni propriamente aritmetiche, che sono invece operazioni di trasformazione di "simboli numerici", cioè di rappresentazioni indirette di molteplicità. 278 Addizionare numeri non può avere nell'uno e nell'altro caso lo stesso senso. Sul terreno pre-aritmetico, addizionare può a­ve­ re solo il senso elementare di formare da due o più aggregati un unico aggregato. E qui si tratta, beninteso, proprio dell'a­rit­ metica dei sassolini, che non è affatto il caso di disprezzare più del necessario. Peraltro, questo rimando alla concretezza non ci impone affatto di prendere in considerazione il modo, di volta in volta ben determinato, in cui viene operata una simile uni­ ficazione. Ciò dipenderà appunto dalle circostanze concrete, e queste sono del tutto irrilevanti. Anche i sassolini sono qui intesi co­me oggetti matematici. Di conseguenza è irrilevante il modo in cui spostiamo i sassolini (se li spostiamo) per formare di due mucchietti. un unico mucchietto. È importante invece notare che questa connessione "additiva" è una operazione interamen­ te diversa dalla connessione "collettiva". La congiunzione non è addizione - la "e" non ha lo stesso senso del "+". Unificare sin­ goli oggetti in una molteplicità non è la stessa cosa che unificare aggregati in un unico aggregato. La seconda operazione presup­ pone logicamente la prima, "il concetto di somma presuppone quello di collezione di unità" [15]: e si noti come ciò abbia poco o nulla a che vedere con una questione di ordine psicologico. Che poi l'addizione di unità possa essere intesa come un caso particolare di addizione ed ogni numero come risultato di essa, questo è indubbiamente un passo che ci conduce da una nozione diretta di operazione ad una nozione di operazione che è nuovamente istituita sul piano della aritmetica vera e propria. Ancora più significative sono, da questo punto di vista, le considerazioni di Husserl sull'operazione inversa dell'addi­zione intesa come operazione concretamente realizzata su mol­teplicità intuitive. Qui non converrà affatto pensare senz'altro alla sot­ trazione! Infatti, se con addizione intendiamo l'unificazione di più aggregati, l'operazione inversa consisterà nella separazione [16] di un aggregato in più aggregati. Questa indicazione �� significativa - anche per il fatto che nell'aritmetica non conosciamo nessuna 279 operazione che si chiami così. D'altro lato, la sottrazione può esse­ re considerata come un caso particolare di separazione, così come, addirittura (e ovviamente), la divisione. Facendo riferimento a in­ siemi concreti, entrambe le operazioni sono infatti formulabili come modi di risolvere compiti che richiedono una procedura di separazione. Quanto più ci muoviamo su questo terreno, tanto più dob­ biamo tuttavia sottolineare che le operazioni intese in questo senso non sono affatto autentiche operazioni di calcolo. Se diciamo che l'aritmetica è un "linguaggio", allora ciò che chiamiamo ter­ reno pre-aritmetico può essere indicato come un terreno pre-lin­ guistico nel quale abbiamo a che fare con i numeri stessi, cioè con molteplicità concrete intese nell'astra­zione presupposta dal collegamento collettivo, e non con "simbolizzazioni" di numeri, con "rappresentazioni indirette" di essi. Le operazioni aritmeti­ che saranno invece operazioni di trasformazioni di simboli. Cer­ tamente proprio per il fatto che i simboli sono anzitutto segni sensibili percettivi, non solo il momento intuitivo si ripresenta anche sul piano della aritmetica autentica, ma lo stesso riman­ do simbolizzante può venir meno, può essere cioè interamente soppresso il rinvio concettuale alle molteplicità rappresentate. 1 simboli aritmetici possono essere considerati "formalisticamen­ te" come "segni privi di significato". Ma non per questo abbiamo a che fare con pure e semplici molteplicità percettive. Ciò che importa, in una caratterizzazione delle operazioni pro­priamente aritmetiche, è la forma sensibile del segno in quan­to determinata all'interno di un soste ma di regole di trasformazione. Come muta sul piano aritmetico la nozione di operazione, così muterà anche quella di operazione inversa. Su questo piano è del tutto fuori questione una nozione di inversione nella quale sia direttamente implicata la nozione di molteplicità. Si tratterà piuttosto di considerare la connessione tra simboli numerici e simboli operazionali: ciò che prima era base della operazione diventa ora, nella trasformazione inversa, il suo risultato. 280 Annotazione Molto significative, per il punto di vista adottato, sono le considerazioni sulla moltiplicazione. "La moltiplicazione è realmente soltanto un caso speciale di addizione? Si sarebbe fortemente tentati di rispondere affermativamente. Ma intan­ to non si indicano somme del tipo a+a, a+a+a, a+a+a+a... come moltiplicazioni o prodotti. Solo contando i membri del­ l'addizione, otteniamo il moltiplicatore e con ciò la possibilità dei prodotti 2a, 3a, 4a... Qual è ora lo scopo di una simile distinzione tra somma e prodotto? Perché mai oltre i conteggi relativi ai singoli numeri, si contano anche questi stessi numeri? La risposta sembra chiara: come i numeri in genere fungono da segni generali abbreviativi per semplificare il nostro pensiero e il nostro linguaggio, così essi fungono anche da moltiplicatori. Come per abbreviare nomi complessi di forma A e A e A e A diciamo quattro A, così per abbreviare 3+3+3+3 diciamo quattro volte tre, coimplicando tacitamente l'addizione. Di conseguenza, tutta la differenza tra mol­tiplicazione e addizione sembra consistere in nuovo mo­do di designazione che è possibile nel caso di particolari forme di addizione. Il prodotto offre una comoda devozione e rappresentazione simbolica abbreviata di particolari. forme di somme, nelle quali gli addendi sono eguali; essa viene resa possibile attraverso il conteggio di questi addendi eguali. - Ma se le cose stanno così, perché si parla di una particolare operazione di moltiplicazione? Un modo di designazione abbreviato può essere come tale molto comodo e utile, ma esso non è comunque un'operazione. Esso simbolizza brevemente e con precisione il modo in cui il numero deve essere formato: ma con ciò esso formula solo il compito, non esibisce la soluzione. Per ottenere effettivamente il numero inteso, non vi è altra via che eseguire effettivamente le addizioni che si trovano alla base della simbolizzazione; ma queste non si distinguono in nulla da altre addizioni qualsiasi. Numeri eguali non vengono addizionati in altro modo dei numeri tra loro diversi. Ed allora resta per noi oscuro perché i matematici parlino della moltiplicazione come di una nuova fondamentale operazione aritmetica" (pp. 185-186). 281 6 Il senso della polemica contro le definizioni e la critica nei confronti di Frege. Se alla luce di questa indicazione sommaria dell'impianto proble­ matico della Filosofia dell'aritmetica riesaminiamo le nostre osser­ vazioni iniziali, saremo forse in grado di dare di esse una giusti­ ficazione più motivata. Abbiamo infatti cominciato con il dare rilievo all'aspetto di chiarificazione filosofica a cui tende l'indagine di Husserl po­ nendo in secondo piano l'impostazione psicologistica entro cui essa viene sviluppata. Come abbiamo visto questa impostazione non è certo priva di conseguenze né in rapporto all'im­pianto complessivo dell'opera né ai suoi sviluppi ed elaborazioni par­ ticolari. Tuttavia sarebbe indubbiamente una forzatura che non potrebbe trovare alcun riscontro testuale ritenere che essa abbia come oggetto il problema della formazione psicologico-fattuale del concetto di numero. L'obiettivo perseguito resta in ogni caso un'indagine sull'origine che ha di mira la natura del concetto. Ciò che non viene chiarito - e questo mancato chiarimento dipende indubbiamente da equivoci di ordine metodologico - è che l'o­ rigine di cui si parla è un'origine in senso ideale: la processualità che viene messa in questione è una processualità, per così dire, interna al concetto. Tenendo conto di tutto ciò e nello stesso tempo dei lineamenti di una filosofia dell'aritmetica che seguen­ do questa via cominciano a prendere forma, la conversione della domanda iniziale sulla natura del concetto in una domanda sul­ la sua formazione non è affatto connessa in modo inscindibile all'equivoco psicologistico, ma ad un punto di vista che può es­ sere riformulato in modo interamente libero da quell'equivoco. Ciò che si esclude, anzitutto, nella conversione della do­ manda, è che il numero abbia un'essenza fissabile definitoria­ mente una volta per tutte. La polemica contro le definizioni che 282 si ripresenta in vari luoghi della Filosofia dell'aritmetica vale anzitut­ to, come abbiamo visto, in rapporto al terna del numero che è il suo oggetto principale di indagine. Ma essa non potrebbe essere intesa nel suo senso effettivo e nella sua portata se non si vedes­ se la sua connessione con un determinato modo di approccio ai problemi filosofico-aritmetici che ha molto meno a che vedere con l'impostazione psicologistica di quanto ne abbia con una concezione dei compiti specifici di una chiarificazione filosofica. Secondo questo modo di approccio è tanto importante esclude­ re un'essenza precostituita del numero, quanto lo è ammettere che tale nozione abbia comunque delle radici: di essa possiamo perciò cominciare a fornire una delimitazione primaria a partire dall'esperienza. Di qui il rilievo che viene ad assumere da un lato la tecnica della simbolizzazione, dall'altro la problematica conse­ guente che considera l'edifi­ca­zione dell'aritmetica come un pro­ cesso di progressive estensioni che interessano nella stessa misura il lato propriamente linguistico come quello concettuale. Se invece ponessimo fin dall'inizio l'accento sulle definizio­ ni, tali estensioni potrebbero essere ammesse solo a titolo di dati di fatto che richiedono in ogni caso di essere legittimate nell'es­ senza del numero. Ora chiamiamo numeri cose che una volta non avremmo chiamate così. Ma allora la nostra preoccupazio­ ne. fondamentale deve essere quella di trovare una nuova defini­ zione, perché solo da essa quella estensione può essere resa legit­ tima. Nello stesso tempo, la nuova definizione non potrà essere intesa come una sorta di adeguazione al movimento del numero il numero, infatti, in se stesso, non ha alcun movimento - ma come la sostituzione con una definizione giusta di una definizio­ ne sbagliata. In un simile atteggiamento la storia della matema­ tica non potrà rappresentare il farsi della matematica stessa, ma la vicenda terrena in cui l'universo matematico, nella sua infinita perfezione, imperfettamente si rivela. Proprio perché la Filosofia dell'aritmetica ha alla propria base un atteggiamento contrapposto a questo, un largo spazio vie­ne 283 dedicato ad una critica diretta e indiretta alle posizioni di Frege. Inversamente, la confutazione esemplare di Frege di quell'o­pera è esemplare anche per il modo in cui non coglie nel segno. Il rifiuto dello psicologismo di Husserl non può non misurarsi a fondo con la portata di chiarificazione dell'impo­sta­zione geneti­ ca. I due problemi non sono coincidenti. La riprova di ciò è del resto rappresentata dal fatto che il problema dell'o­rigine è solo provvisoriamente destinato ad eclis­sarsi nella serrata e decisiva cri­ tica dello psicologismo condotta da Husserl nelle Ricerche logiche. Annotazione In rapporto a ciò che ho chiamato polemica contro le definizioni, ecco alcuni riferimenti particolarmente significativi. "Si può definire solo ciò che è logicamente composto. Non appena ci imbattiamo nei concetti ultimi, elementari, ogni definire ha termine. Nessuno può definire concetti come qualità, intensità, luogo, tempo, ecc. Lo stesso vale per le relazioni elementari e per i concetti su di essi fondati. Eguaglianza, somiglianza, rapporti di incremento, intero e parte, molteplicità e unità, ecc., sono concetti che si sottraggono interamente ad una definizione logico-formale" (p. 119). Il capitolo sesto, dedicato alla discussione dei problemi dell'egua­glianza e della differenza, si apre con l'osservazione seguente: "Dal tempo in cui gli "Elementi" di Euclide hanno ottenuto un valore di modello di esposizione scientifica, i matematici seguono il principio fondamentale di non considerare i concetti matematici come pienamente giustificati finché essi non sono stati chiaramente distinti mediante rigorose definizioni. Questo principio fondamentale, senza dubbio utilissimo, non di rado ha tuttavia condotto a esagerazioni ingiustificato..." (p. 97). Poche pagine prima, a proposito del "togliere" e "aggiungere" in rapporto a insiemi concreti ed alle differenze del "più" e del "meno" tra essi, si sottolinea che ciò che qui si intende "si può solo mostrare e non definire"(p. 91). Questa distinzione rammenta anche troppo da vicino la distinzione tra mostrare e dire nel "Tractatus" di Wittgenstein. Nonostante le differenze profonde, che sono anzitutto differenze di atteggiamento 284 intellettuale e di stile filosofico, tuttavia non si può non notare l'aspetto comune, nell'ambito della filosofia del­l'a­rit­metica, rappresentato dalla polemica antilogicista che stabilisce alcune singolari convergenze sulle quali oc­corre­rebbe riflettere. Ciò vale naturalmente soprattutto per il Wittgenstein delle "Osservazioni sui fondamenti de­ll­a matematica" e delle "Ricerche filosofiche". Del resto, sarebbe opportuno sottolineare che la distinzione tra mostrare e dire - al di là delle posizioni del Tractatus alle quali gli interpreti sono soliti vincolarla - si trova alla base anche della formulazione del metodo dei giochi linguistici. In esso infatti si tratta sempre di mostrare e mai di definire. In realtà, la portata metodica della nozione di gioco linguistico può essere esaustivamente riproposta nei termini di ciò che Wittgenstein chiama una volta "metodo degli esempi", sottolineando significativamente che questo metodo non è da intendere come "un metodo indiretto di spiegazione - in mancanza di un metodo migliore" ("Ricerche filosofiche", oss. 133, trad. it. cit. p. 71). Insistere su questo punto potrebbe tra l'altro essere utile per contestare l'immagine stereotipa e fuorviante di Wittgenstein "analista del linguaggio". 7 L'abbandono del punto di vista psicologistico e il ripresentarsi del problema dell'origine sul terreno "fenomenologico" - La proposizione come filo conduttore per un'indagine intorno alle operazioni del pensiero - La distinzione tra soggetto e predicato - Esempi di discussioni che conducono ad un vicolo cieco - Il falso problema delle compromissioni ontologiche. Facendo riferimento alla Filosofia dell'aritmetica abbiamo comincia­ to con il fissare le idee sulla tematica della base esperienziale dei concetti, nonostante il fatto che in essa siano ben riconoscibili i tratti di un atteggiamento empiristico, a cui è del resto collegata la sua inclinazione psicologistica. Certamente, a nostro avviso, in un'analisi approfondita dell'opera, si dovrebbe dare il massimo rilievo all'emergenza di elementi problematici orientati in tutt'al­ tra direzione. Ciò non vale solo per gli aspetti direttamente con­ 285 nessi con la tematica del numero, ma anche per altri il cui legame con quella tematica è molto debole, come è certamente il caso di quell'ampia digressione che conduce Husserl alla formulazio­ ne della nozione di momento figurale. Dalla questione del rappor­ to del numero con i "fenomeni concreti", Husserl è indotto ad una più precisa analisi dei fenomeni concreti stessi: cosicché egli dedica un largo spazio alla percezione di molteplicità, andando evidentemente oltre i limiti della problematica filosofico-aritme­ tica specifica e mettendo nello stesso tempo in questione alcuni assunti fondamentali della psicologia associazionistica. In realtà, la tematica di un'indagine sulle forme e modalità dell'esperienza comincia ad imporsi nella sua au­tonomia e per di più secondo una tendenza "strutturalistica" che certamente oltrepassa un at­ teggiamento empiristico in una direzione la cui importanza per gli sviluppi futuri può difficilmente essere sottovalutata [17]. La proposta di una metodologia fenomenologica conduce infine alla posizione generalizzata di una tematica relativa alle strutture dell'esperienza in un'accezione ampia del termine che è irriducibile all'indicazione di condizioni empirico-fattuali. In questo quadro, il problema della base esperienziale delle categorie può essere riconfermato e riproposto, avendo tuttavia di mira il giudizio come momento intorno al quale le operazioni del pensie­ ro possono, per così dire, essere raccolte sistematicamente. Ritorniamo così alla nostra tematica iniziale. La terminolo­ gia del pensiero può essere illustrata facendo riferimento a pa­ role ed a configurazioni di parole. E tuttavia ciò non ci impe­ gna. affatto a seguire la via di indagini linguistiche empiriche, e nemmeno ad attenerci ad un metodo puramente argomentativo. Tuttavia solo ora forse siamo in grado di ren­derci conto meglio della portata di questa posizione di principio che in precedenza ci siamo limitati solo ad enunciare. Ad un primo sguardo, sembra qui ci si imbatta in un nodo di problemi che tende sempre più ad aggrovigliarsi. Non appena parliamo di proposizione e ci accingiamo anche soltanto ad una 286 classificazione delle sue possibili forme, sembra che dobbiamo prendere le mosse da quella articolazione elementare della pro­ posizione che abbiamo imparato a indicare parlando della distin­ zione tra soggetto e predicato. Questa distinzione tuttavia l'abbiamo attinta in primo luogo dalla grammatica della nostra lingua. E qui ci impigliamo in una prima difficoltà. Infatti, affinché essa pos­ sa fungere da filo conduttore per l'identi­ficazione delle forme del pensiero, dobbiamo attribuirle un'au­ten­tica rilevanza logica, mentre sembra legittimo il dubbio che essa appartenga alle acci­ dentalità della lingua nella quale siamo stati educati. In che modo allora potremmo prendere una decisione qualora questo dub­ bio fosse sollevato? A ciò si aggiungono obiezioni dipendenti da questioni di filosofia generale. A molti sembra infatti che una simile decisione vada molto al di là delle modeste apparenze del problema. Il linguaggio parla del mondo. E non appena abbiamo preso la via dell'"analisi del linguaggio", cominciamo con il te­ mere "compromissioni metafisiche", "opzioni ontologiche" più o meno implicite. Una decisione sulla forma della proposizione che conferisca dignità logica ad una distinzione come quella tra soggetto e predicato è già, volenti o nolenti, una decisione sulla forma del mondo. Cominciamo con l'ammettere che l'articola­ zione fondamentale della proposizione sia rappresentata dalla distinzione in questione: ma poi dovremo ammettere che ci sono sostanze e attributi. Inversamente se, d'accordo con la vecchia critica lockiana che mantiene nonostante tutto un certo suo fa­ scino, critichiamo l'idea di un misterioso sostegno delle qualità, avremmo alcune buone ragioni filosofiche per negare a quella di­ stinzione una effettiva consistenza logica. D'altra parte, ad essere sinceri, dobbiamo riconoscere che intorno a questa forma proposizionale non abbiamo le idee mol­ to chiare. Se prendiamo un esempio di proposizione che esprime una relazione tra due oggetti, non sarebbe certo difficile mostra­ re che l'articolazione tra soggetto e predicato è ancora presente e che pertanto la forma predicativa è la vera forma fondamen­ 287 tale, mentre la forma relazionale è solo un suo caso particolare. Purtroppo vi sono ragioni altrettanto buone per sostenere l'in­ verso. E potremmo infine essere presi dal dubbio che sia invece la forma a soggetto-predicato una variante da subordinare alla proposizione relazionale. Sembra poi che quest'ultima soluzione possa essere appoggiata da considerazioni filosofiche di rinfor­ zo: l'ammissione che ci siano veramente soggetti e predicati ci porta diritti filati ad una metafisica sostanzialistica che prospetta, più o meno di lontano, una concezione monistica della realtà. Se diamo maggior importanza alla forma relazionale, op­teremmo invece per un'ontologia pluralistica. Ed è vero che un'ontologia pluralistica resta pur sempre un'ontologia: ma potrebbe darsi che si possa ritenere un'opzione in questa direzione meno arrischiata di una opzione in quell'altra. L'aspirazione più profonda sarebbe quella di compromettersi il meno possibile con il mondo: se di ciò non si può proprio fare a meno, si cercherà di orientarsi ver­ so l'opzione più prudente. Su tutto ciò domina poi il dubbio più tormentoso di tutti: che la lingua che parliamo in ogni caso ci tradisca e che, se è giusto riportare il problema delle funzioni del pensiero a quello della forma della proposizione, questa dovrebbe essere proposta prescindendo interamente da ciò che sappiamo intorno ad essa a partire dal linguaggio di ogni giorno. Potremmo rovesciare il modo in cui viene in questione il problema ontologico. Se sia­ mo convinti che il linguaggio rispecchi il mondo e che possa rispecchiarlo in modo sbagliato, decidiamo allora anzitutto come il mondo è fatto, a rigor di logica. E da ciò sarà deciso anche come deve essere fatto il linguaggio, se deve rispecchiarlo nel modo giusto. 288 8 Che cosa una proposizione non è - Introduzione della nozione di rappresentazione strutturale - Raffigurazioni, contrassegni e rappresentazioni strutturali - La proposizione non è una particolare specie di rappresentazione strutturale - Perciò il fatto sorge con la proposizione. Uno dei vantaggi dell'impostazione che intendiamo illustrare è proprio il fatto che ci consente di tagliar corto con tutto que­ sto. Si taglia corto anzitutto con la finzione che tutti questi dubbi hanno in comune: di saperne ben poco intorno a che cosa è una proposizione o addirittura di non saperne nulla. E nello stesso tempo con le pretese implicazioni ontologiche delle decisioni relative alla forma proposizionale. Naturalmente non può essere chiesto proprio a noi di dire che cosa è una proposizione. Ma poiché intorno a questo pun­ to sorgono difficoltà che potrebbero dar luogo, volendo, a di­ scussioni senza fine, è forse utile chiarire almeno che cosa una proposizione non è. Con ciò sarà forse possibile mostrare anche che, più che entrare alla cieca nel merito di quelle discussioni, è necessario invece operare un consistente spostamento dell'asse del problema. Anzitutto una proposizione appartiene all'ambito delle rappresentazioni indirette, è un'immagine nel senso ampio del termine: mediante parole si rappresenta un fatto. A suo tempo noi abbiamo discusso una particolare specie di rappresentazione indiretta che abbiamo chiamato raffigurazione. Come sappiamo una raffigura­ zione va distinta da un puro e semplice contrassegno. Ma va anche distinta da un'altra specie di rappresentazione indiretta a cui fi­ nora non abbiamo fatto cenno e che potremmo chiamare rappresentazione strutturale. Su di ciò conviene spendere qualche parola. Come esempio di rappresentazione strutturale potremmo indicare una rappresentazione grafica di una successione di suo­ ni che sia conforme ad un metodo. Possiamo così fissare una prima 289 differenza notevole tra raffigurazioni e rappresentazioni struttu­ rali. In rapporto a queste ultime la posizione del pro­blema di un effetto raffigurativo è del tutto priva di senso, così come, di con­ seguenza, il parlare di un movimento di pro­gressiva approssi­ mazione della "copia" rispetto all'"ori­ginale". Stando all'esempio, ciò risulta particolarmente evidente per il fatto che il rappresen­ tante e il rappresentato appartengono a campi sensoriali etero­ genei. Questa circostanza non è essenziale per la delimitazione della nozione di rappresentazione strutturale, mentre è essenziale il fatto che possano darsi rappresentazioni strutturali nelle quali il rappresentato è eterogeneo - dal punto di vista sensibile-per­ cettivo - al rappresentato. In questi ultimi casi può anche acca­ dere che qualcosa di simile ad un effetto raffigurativo abbia luogo, poiché possiamo approfittare, nella posizione del metodo della rappresentazione, della possibilità di investimenti immaginativi che conferiscono agli elementi della rappresentazione una portata sim­ bolica nell'acce­zione discussa a suo tempo in connessione con il problema della valorizzazione immaginativa. Così un movimento di discesa sonora sarà più chiaramente rappresentato da un movimento di discesa figurale nella rappre­ sentazione grafica, esattamente come un movimento di ascesa dei prezzi potrà essere più chiaramente rappresentato da una linea ascendente nel grafico corrispondente (che, naturalmente, come ogni altro grafico per la rappresentazione di una relazione funzionale tra grandezze, è un buon esempio di ciò che inten­ diamo qui con rappresentazione strutturale). Tuttavia, nell'isti­ tuzione del metodo, di questa possibilità potremmo anche non tener conto. Verrebbe allora meno la chiarezza simbolico-in­tui­ tiva della rappresentazione, ma non la sua adeguatezza che è vin­ colata unicamente alla forma dei rapporti che sussistono tra gli oggetti della rappresentazione. L'esclusione di un effetto raffigurativo e l'inessenzialità di eventuali momenti simbolico-intuitivi sono elementi sufficienti per contraddistinguere le rappresentazioni strutturali dalle raffi­ 290 gurazioni. A ciò si potrebbe aggiungere che la stessa distinzione tra copia e originale può diventare dubbia nel caso delle rappre­ sentazioni strutturali. Le ragioni per le quali propenderemmo a considerare lo spartito come qualcosa di analogo alla copia piut­tosto che all'originale, meriterebbero qualche riflessione. Se teniamo poi conto del fatto che una successione di suoni può essere la rappresentazione strutturale di un'altra è evidente che vi so­no casi in cui tra rappresentante e rappresentato si propor­ rebbe una reciprocità che cancella, per così dire, l'interesse della distinzione "copia" e "originale". Il riferimento ad un metodo della rappresentazione è invece importante per differenziare la nozione di rappresentazione strut­­ turale da quella di contrassegno. Indipendentemente da ogni me­ todo, è indubbiamente possibile fornire una rappresentazione grafica di una successione sonora, così come è possibile rappre­ sentate numeri mediante segni indipendentemente da un sistema di notazione. Ma si tratterà allora soltanto di rappresentazioni mediante contrassegni: stabiliamo regole singole che istituisco­ no tra una cosa ed un'altra un rapporto rappresentativo. Invece le figure che entrano in una rappresentazione strutturale non possono essere considerate in questo modo, come se per ognu­ na di esse fosse stipulata una regola apposita. Vi sono indub­ biamente delle convenzioni iniziali, e queste sono il risultato di una nostra decisione che avrebbe potuto anche essere diversa. Ma esse debbono essere tali da istituire un vero e proprio siste­ ma di rappresentazioni possibili. Nel caso delle rap­presentazioni strutturali è fondamentale l'osservazione secondo cui quando una convenzione segnica è posta, altre convenzioni seguono necessariamente [18]. Insieme a regole di corrispondenza debbono dunque essere poste regole per la composizione dei segni. Il momento della determinazione di una "sintassi" può essere anzi considera­ to prioritario: quando una sintassi è predisposta l'asse­gnazione di un corrispondente rappresentativo ad un elemento del siste­ ma implica l'assegnazione di un corrispondente rappresentativo 291 ad ogni elemento del sistema. Proprio per questo potremmo parlare in rapporto ad un metodo di rappresentazioni strutturali di un linguaggio, così come abbiamo fatto in precedenza in rapporto al sistema per la nota­ zione dei numeri. Ma bisogna prestare attenzione al fatto che vi sono molte accezioni della parola "linguaggio" e che potrebbe essere forse più interessante indicare le differenze che intercor­ rono tra esse piuttosto che andare alla ricerca della "proprietà comune". Quando parliamo di linguaggio aritmetico è opportuno sottolineare che l'accezione in cui impieghiamo quel­la parola è strettamente vincolata alla nozione di rappresentazione struttu­ rale; ed in particolare che, in rapporto ad un linguaggio in questa accezione, sarebbe certamente appropriato parlare di un rappor­ to di specularità: il rappresentante rispecchia il rappresentato. A questo punto possiamo tornare finalmente alla propo­ sizione. Ci potremmo chiedere anzitutto se la proposizione sia una specie autonoma di rappresentazione indiretta, da caratte­ rizzare per differenza rispetto alle raffigurazioni ed alle rappre­ sentazioni strutturali oppure se essa sia riconducibile sotto l'u­no o l'altro titolo. Naturalmente sussistono affinità di vario genere rispetto a entrambe le nozioni. Vi sono proposizioni che sembrano dire esattamente tanto quanto raffigura un dipinto o un disegno. Tant'è che possiamo comprendere una frase composta in parte di pa­ role e in parte di immagini vere e proprie che stanno in luogo di parole. Certuni pensano addirittura che sia particolarmente edu­ cativo insegnare l'impiego delle parole ricorrendo a simili strata­ gemmi. Presentiamo ad un bambino l'immagine di una mela sul tavolo e lo invitiamo a dire che cosa vede. Sembrerebbe quasi che il dire non consista in altro che nel verbalizzare una raffigu­ razione, assumendo che in questa verbalizzazione non av­venga alcun mutamento essenziale. Tuttavia è anche vero che in una frase si percepiscono solo parole e il loro significato deve essere conosciuto così come 292 deve essere conosciuto il metodo della loro connessione. Ciò ci fa pensare piuttosto a qualche affinità con le rappresentazioni strutturali. Ora, se si, trattasse di richiamare l'attenzione su queste af­ finità solo per agitare le acque del problema, ne prenderemmo certamente nota. Ma in ogni caso noi ci accingeremmo a se­ gnalare le affinità proprio allo scopo di evitare che si facciano confusioni. Penso che non sia necessario insistere troppo sul fatto che una proposizione è tutt'altra cosa che una raffigurazione. Se citia­ mo il caso delle scritture pittografiche, sarebbe opportuno ricor­ rere ad esse per mostrare che la parola scritta potrebbe imitare la parola parlata, piuttosto che la cosa significata. Analogamente, nel caso della strana scrittura mista di cui si diceva, composta in patte di parole e in parte di raffigurazioni, il punto importante non è che alla parola si possa sostituire l'immagine della cosa, ma proprio il fatto che a questa immagine si possa so­stituire la parola. Le parole ci consentono di fare a meno delle immagini. Quanto alle rappresentazioni strutturale, ogni differenza potrebbe essere esibita facendo riferimento al punto accennato per ultimo, alla possibilità di presentare il rapporto tra rappre­ sentante e rappresentato come un rapporto di rispecchiamento. Se assumiamo che la proposizione sia una particolare specie di rappresentazione strutturale, dovremmo anche assumere che, come ci sono da un lato successioni di suoni e dall'altro grafici che le rispecchiano, così ci saranno da un lato, in generale, dei fatti e dall'altro le proposizioni come loro immagine specula­ re. La nozione di fatto sarebbe dunque indipendente da quella di proposizione, nello stesso senso in cui una successione di suoni è indipendente dal grafico che la rappresenta. Invece già le nostre considerazioni sulla tematica della per­ cezione dovrebbero insegnarci che le cose non stanno affatto così. Ancora una volta siamo interessati alla differenza tra il percepire e il constatare di cui cogliamo ora una ulteriore e importante 293 conseguenza. Se entriamo in una stanza e volgiamo lo sguardo intorno, vedremo presumibilmente tavoli, sedie, mele e varie al­ tre cose - e naturalmente anche una mela sul tavolo, se sul tavolo c'è una mela. Ma potremmo dire per questo di essere attorniati da fatti di cui le proposizioni fornirebbero una sorta di grafico verbale? Certamente, se mi si ponesse la domanda: "Che cosa c'è sul tavolo?" risponderei che sul tavolo c'è una mela: e questo è un fatto. Ma né il tavolo né la mela contengono la domanda e tanto meno la risposta. Se qualcuno mi mostra un oggetto, non sono affatto obbligato a dirne qualcosa. Solo la domanda pone il problema, e deve proporlo in modo sufficientemente determi­ nato da orientare la risposta. Perciò non ha affatto senso presen­ tare stati di cose o immagini di essi, pretendendo di ottenerne una sorta di trasposizione in parole. Inversamente, dire qualcosa di un oggetto non è la stessa cosa che presentarne un altro, anche se questo è la sua raffigurazione fedele o la sua rappresentazione strutturale adeguata. Di ciò che abbiamo or ora udito possiamo dire che si trattava di una successione di terze, ma le nostre paro­ le non si trovano in un ordinamento che rispecchia la forma del rapporto di una successione di terze. Esse sono invece ordinate secondo una strut­turazione logica, in un'ac­cezione del termine che è propria soltanto del linguaggio fatto di parole, quindi di una no­ zione di linguaggio strettamente vincolata alla proposizione come una peculiare specie di rappresentazione indiretta. Perciò noi affermiamo senz'altro che il fatto sorge con la proposizione. Ciò non significa che la strutturazione logica della pro­posizione sia in qualche modo antecedente rispetto all'e­ sperienza, riproponendo nello stesso tempo dubbi e interroga­ tivi sul versante linguistico del problema. Infatti, quando con­ nettiamo in questo modo il fatto con la proposizione, pensiamo anzitutto alle proposizioni che dànno espressioni a constatazioni. Il nostro problema può subire così uno spostamento che ci con­ duce ad una riconsiderazione della tematica dell'esperien­za che può lasciare ai suoi margini considerazioni di ordine linguistico. 294 Se attraverso la proposizione abbiamo in realtà di mira le consta­ tazione, il problema dell'organiz­zazione logica della proposizione può essere riportato a quello della struttura della constatazione, intesa come una modalità dell'avere esperienza del mondo. La via che attraversa il linguaggio può anche non essere percorsa dal momento che le constatazione non sono fatti linguistici - come del resto moltissime altre cose. In questo spostamento dell'asse del problema non potrem­ mo certamente imbatterci in quel groviglio di questioni mal poste a cui abbiamo alluso in precedenza. In particolare viene meno l'idea che una decisione sulla forma logica della propo­ sizione implichi decisioni sul piano ontologico: essa dipende in generale dall'errore di assumere in modo più o meno, esplicito che la proposizione sia una specie particolare di rappresentazio­ ne strutturale. Si impone allora la tesi di specularità che fa del mondo una sorta di correlato oggettivo del linguaggio: come se potesse esserci per noi un mondo senza l'e­sperienza che abbiamo di esso [19]. 9 Passaggio all'esposizione di alcuni temi di "Esperienza e giudizio" - La struttura dell'osservare in quanto in esso si effettuano constatazioni - I processi di esplicitazione e la distinzione tra sostrato e determinazione - Ribaltamento sul terreno predicativo Gli elementi di discussione che abbiamo or ora proposto pos­ sono essere considerati come una libera introduzione ad alcuni dei temi di Esperienza e giudizio [20]. È in quest'opera infatti che assume una forma concreta quella tematica delle "strutture an­ tepredicative" che, pur essendo abbastanza nota nelle sue linee generali, secondo l'inclinazione che essa riceve nella Crisi delle scienze europee, lo è invece assai meno nella sua elaborazione spe­ 295 cifica. Il passo che può essere considerato iniziale e fondamentale in essa compiuto è proprio quello di fornire una giustificazione della distinzione tra soggetto e predicato come una distinzione che fa parte, vorremmo dire, del concetto stesso di proposizione. Abbiamo già visto in quali difficoltà e paradossi si imbatta un modo di approccio che si muova sul piano di considerazioni puramente logiche o logico-linguistiche. Esse vengono invece meno se si riporta il problema al terreno intuitivo-esperienziale, quindi se si fa riferimento anzitutto alle constatazioni. Con ter­ minologia più propriamente husserliana, potremmo parlare di osservazione [21] ed il filo conduttore della nostra riflessione sarà dunque la struttura dell'osservare in quanto in esso si effettuano constatazioni. Anche in questo caso il nostro compito sarà anzitutto quel­ lo di indicare certe caratteristiche, illustrando certe differenze. La differenza tra l'osservare e il semplice percepire sta, come già sappiamo, nel fatto che nell'osservare un interesse verso la cosa deve essere presupposto, e dunque debbono essere presupposti anche i processi percettivi nei quali la cosa si costituisce come un risultato sintetico, come una polarità identica dei suoi fenomeni. Il modo in cui questa differenza può essere chiarita tenen­ do conto dell'uso husserliano dei termine "tenere sotto presa" [22] per indicare il permanere di qualcosa come tema di un inte­ resse osservativo, è in realtà molto significativo anche dal punto di vista di una corretta comprensione della metodologia che qui viene messa in opera. In se stesso questo termine potrebbe essere impiegato an­ che in rapporto alle sintesi "semplicemente" percettive: nell'u­ dire un suono che perdura, noi manteniamo la presa su di esso - potremmo anche esprimerci così, per indicare la ritenzione [23]. Analogamente, potremmo dire che, nella sintesi che attraversa un decorso percettivo, le scene percettive sono tenute sotto pre­ sa nel suo sviluppo, e ciò rappresenta una condizione necessaria 296 (benché non sufficiente) per il costituirsi di un riferimento uni­ tario. Invece noi intendiamo riservare questo modo di espressio­ ne per illustrare una nozione di sintesi processuale di genere in­ teramente diverso. La presa di cui si parla è la presa di un interesse - ed è chiaro che non vi è alcuna implicazione diretta tra l'effet­ tuazione di sintesi percettive e l'effettuazione di constatazioni in rapporto ai loro prodotti. In quest'ultimo caso, ai fenomeni ritenzionali, che hanno comunque luogo, si sovrappone un pro­ cesso nel quale qualcosa permane in un riferimento unitario, ma nella forma di sostrato di possibili determinazioni. Potremmo forse parlare, per spiegarci di una costituzione di primo livello, nella quale l'oggetto si mostra nella sua iden­ tità e tuttavia solo secondo una tipicità relativamente vaga, in uno "sguardo d'insieme", che, considera la cosa "all'ingrosso", trascorrendo sui "dettagli". Ad essa ora volgiamo (per qualche motivo) la nostra attenzione al fine di portare a chiarezza quel­le determinazioni che sono date soltanto "implicitamente". Parle­ remo perciò dell'osservare che effettua constatazioni come di un processo di esplicitazione [24]. Un richiamo alla nozione della sintesi si impone certamente anche in questo caso, ed anche a quel momento dialettico, nell'ac­ cezione elementare del termine di cui abbiamo già fatto un uso prudente trattando delle sintesi percettive in genere. Nel pro­ cesso viene infatti mantenuta l'i­dentità del tema nella progressiva differenziazione operata dalla sua esplicitazione. Tuttavia qui non si tratta di un processo di unificazione di "aspetti" parziali che si sviluppa ritenzionalmente secondo regole di associazione conte­ nutistica che si realizzano passivamente, ponendo infine l'ogget­ to nella sua identità come un risultato. Nel caso delle sintesi esplicitative vi è invece un'identità presupposta e intesa come una unità di parti la cui articolazione è tuttavia oscura: la differenziazione è un progressivo chiarirsi delle parti e della loro articolazione, in cui l'intero è attivamente mantenuto sotto presa come ciò che deve 297 essere reso esplicito. Nella distinzione tra sostrato e determinazione, nella dia­ lettica peculiare delle sintesi esplicitative, sta tutto l'enigma del­la distinzione tra soggetto e predicato. Nell'esperienza, qualcosa può assumere carattere di sostra­ to. Qui è importante in primo luogo che questo carattere non sia inerente al dato considerato in se stesso, ma che esso dipenda dal riferimento ad un interesse soggettivo. Di qui deriva la relativi­ tà essenziale di questa nozione: qualunque cosa, nell'e­sperienza, può ricevere questo carattere, perché non dipende dal dato in se stesso che esso sia o non sia tema di un interesse. La nozione di sostrato non ha, almeno fino a questo punto, nulla a che vedere con quella di sostanza. Ciò che qui deve valere a titolo di oggetto è infatti interamente risolto in una modalità spe­ cifica di riferimento soggettivo. Se ora guardiamo alla forma logica del soggetto nella propo­ sizione, appare subito chiaro che la nozione di oggetto che essa mette in questione è del tutto diversa. In nessun caso tale nozio­ ne potrebbe essere caratterizzata attraverso il rimando ad un in­ teresse soggettivo, che per di più impone una limitazione ai dati della percezione. Certamente, noi intendiamo stabilire una con­ nessione tra esplicitazione e predicazione nel senso indicato da una impostazione "genetica". Ma ciò non significa affatto operare una riduzione della seconda alla prima, come se si dovesse a tutti i costi scorgere nella proposizione la presenza di un riferimento soggettivo che sta al di là di essa e che essa addirittura celerebbe nel suo presentarsi come una pura descrizione di stati di cose. Al contrario, vi è una differenza essenziale che deve essere in­ dicata proprio nella completa liberazione, nel­l'ar­ticolazione pre­ dicativa, dai vincoli del riferimento ad una soggettività concreta che opera constatazioni, e quindi dai vincoli determinati dal rap­ porto con l'espe­rienza in genere. Ciò che la predicazione estrae dalla esplici­tazione è unicamente la forma del processo. Perciò la nozione di oggetto che essa propone rimanda alla forma di sostra­ 298 to e può essere indicata come la nozione di un vuoto "qualcosa in generale" come polo identico di riferimento di predicati possibili. Ritroviamo così quella nozione di oggetto matematico che era già presente nella Filosofia dell'aritmetica. Già nel quadro di quell'o­ pera essa doveva certamente essere inclusa tra i concetti formali o categorie. Questa inclusione viene tuttavia solo ora giustificata non già attraverso richiami piuttosto generici a procedure astrattive di indubbia risonanza empiristica, ma mediante il suo coordina­ mento alla forma logica del soggetto proposizionale, alla strut­ tura della predicazione. Questa, a sua volta, non deve essere in­ tesa, nelle sue articolazioni formali possibili, come una sorta di dispositivo intellettuale predisposto, che viene a calarsi entro il materiale dell'esperienza, ma come un ribaltamento su un nuo­ vo terreno di forme di rapporti che sono già presenti sul piano dell'esperienza stessa. L'esplicitazione può essere considerata la base esperienziale della predicazione. La distinzione tra soggetto e predicato ha la sua origine "ideale" nella distinzione tra sostrato e determinazio­ ne. La sua messa in questione come distinzione logica comporterebbe la messa in questione, non già di determinati fatti linguistici, ma di questa possibilità di strutturazione dell'e­sperienza. Se poi il parlare di origine in un senso ideale sembrasse oscu­ ro, in realtà potremmo farne a meno, dal momento che il punto essenziale sta unicamente nell'adozione di una metodologia che poggi su chiarificazioni intuitive. Proponiamo una discussione sulla distinzione tra soggetto e predicato, che troviamo anzitutto, nella nostra lingua, come una ben nota distinzione grammaticale. E cominciamo poi a parlare delle constatazioni. 299 10 Risposta alla domanda se vi siano veramente le cose e le loro proprietà - Considerazioni sulle nozioni di molteplicità e di oggetto semplice. I passi ulteriori che intendiamo compiere mostreranno - io pen­ so ancora più nettamente lo scopo di chiarificazione di una im­ postazione "genetica".La nozione logico-matematica (come ora potremmo dire) di oggetto viene ricondotta alla forma di sog­ getto nella struttura della proposizione: essa, a sua volta, viene giustificata e chiarita attraverso il rimando alla nozione di so­ strato. La relatività essenziale del sostrato, dipendente dal riferi­ mento alla soggettività che effettua l'esplici­tazione, la si ritrova, sul piano dell'oggettivazione operata dalla predicazione, come ge­ neralità formale, come identità nella variabilità delle qualificazioni contenutistiche. Ci si chiederà allora se in nessun caso possa essere giustifi­ cato un impiego di questi termini - "cosa" o "oggetto" oppure, correlativamente, "proprietà" o "qualità" - così come essi vengo­ no normalmente impiegati nel discorso corrente. Diciamo che intorno a noi ci sono cose, e con ciò pensiamo proprio a tavoli, sedie, lampadari. E così eventualmente parliamo delle loro proprietà. Anche il colore di una superficie è, in generale, qualcosa - cioè, un sostrato per possibili determinazioni. Ma in rapporto ad esso impiegheremo preferibilmente il termine di proprietà. Qui la distinzione non sembra affatto dipendere da un riferimento relativo-soggettivo. Sembra invece che il contenuto in questione si proponga come un contenuto che ha bisogno di un sostegno, anche se poi questo non deve essere necessariamente tanto mi­ sterioso quanto ci può forse apparire se intorno ad esso comin­ ciamo a speculare. Si tratta dunque di porre il problema di accertare se questa sensazione della necessità di proporre ulteriori distinzioni dipen­ 300 da soltanto da consuetudini derivanti dalla forma grammaticale della nostra lingua - ad esempio, dalla distinzione tra sostantivo e aggettivo - oppure se si possa dare ad essa un autentico fon­ damento. Nel cercare una risposta a questo interrogativo, vogliamo ritornare sulla tematica dell'esplicitazione, proponendo di distin­ guere tra esplicitazione semplice (o lineare) ed esplicitazione ramificata [25]. Come è già chiaro dai termini, nel secondo caso intendiamo un processo di esplicitazione che si articola in processi di esplici­ tazione un interesse principale si differenzia in interessi ad esso subordinati. Tenendo conto di questa distinzione, perveniamo in modo abbastanza spedito a proporre la nozione di determinazione assoluta [26]. Diremo assoluta una determinazione la cui esplicitazione è, in via di principio, il ramo di un processo di esplicitazione. In­ versamente, sostrati assoluti saranno quei contenuti che non met­ tono in questione, in via di principio, la nozione di espli­citazione ramificata. Appare chiara qui la duplice intenzione, da un lato di riportare la distinzione "ingenua" o di "senso comune" tra cosa e proprietà entro il nostro contesto filosofico, dall'al­tro di mostra­ re che essa, in questo contesto, pur aven­do certamente ancora a che fare con una strutturazione soggettiva dell'esperienza nella stessa misura in cui il richiamo ai processi di esplicitazione resta determinante, tuttavia risulta libera dalle relatività degli orienta­ menti soggettivi dell'interesse. L'orien­tamento dell'interesse può ren­dere qualunque cosa un sostrato; ma l'assolutezza o la non assolutezza del sostrato non può dipendere da ciò. Se oltre a di­ ventare un sostrato, un contenuto è anche un sostrato assoluto, ciò dipende dal contenuto stesso. Cosicché in generale va proposta sia in rapporto ai sostrati che alle determinazioni una nozione ampia ed una nozione più ristretta. Nell'accezione più ristretta con "sostrati" si intendono propriamente i sostrati assoluti, con "determinazioni" le deter­ 301 minazioni assolute. Se ora parlassimo di "cose" o di "oggetti" e di "proprietà" o di "qualità", non intenderemmo più ciò che intendevamo in precedenza parlando in generale di sostrato e di determinazione. Se l'idea di sostanza può essere in qualche modo rammentata nell'ambito delle nostre considerazioni, il richiamo più appro­ priato cade proprio a questo punto. La forma di soggetto man­ tiene nel suo carattere meramente formare quell'am­piezza di ap­ plicazione che rimanda alle relatività soggettive delle posizioni tematiche. Nel caso dei sostrati assoluti, invece, queste rela­tività vengono a cadere. Ciò che importa è tuttavia il fatto che conti­ nuiamo ad attenerci strettamente entro il campo di problemi di una dottrina dell'esperienza. Perciò, se si volesse impiegare il termine di sostanza per indicare i sostrati assoluti, vi sarebbe ben poco da obiettare: si dovrebbe solo far notare che quando affermiamo che vi sono sostanze, quindi cose con le loro proprietà, questa affermazione non è affatto il risultato di un'argomentazione logica che ci deve condurre al di là delle apparenze, ma essa non fa altro che fis­ sare una circostanza che appartiene ai modi di presentazione di dati fenomenologici. Infatti, va comunque messo in rilievo il fat­ to che una simile articolazione è data nell'espe­rienza solo nel­le condizioni poste da un processo di esplicitazione in corso. Che qualcosa abbia questa o quella proprietà non può essere sem­ plicemente percepito, ma deve essere constatato. La distinzione tra cosa (sostrato assoluto) e proprietà (determinazione assoluta) non sorge dall'esplicitazione, ma la nozione di esplicitazione è presupposta dalla chiarificazione di quella distinzione. L'acce­ zione più ristretta di sostrato è una specificazione della nozione più ampia. Dalla distinzione tra determinazioni assolute e sostrati as­ soluti, ottenuta attraverso il rimando a quella tra esplicitazione semplice e esplicitazione ramificata, possiamo ancora ottenere un'ulteriore distinzione che concerne re i processi di esplicitazio­ 302 ne. Distingueremo dunque tra processi di esplicitazione che ren­ dono esplicite determinazioni assolute e processi di esplicitazio­ ne che rendono espliciti sostrati assoluti. Ciò va rammentato se non altro per mostrare fino a che punto le nostre considerazioni siano indipendenti da considerazioni linguistiche, e quanto poco possano essere illuminanti le chiarificazioni sulla struttura della predicazione che facciano ogni sforzo di riflessione sulla paro­ letta "è". In effetti se questa distinzione, in sé del tutto legittima, viene ribaltata sul terreno predicativo, dovremo distinguere due forme, per così dire, ugualmente originarie, di predicazione. Po­ tremmo dire che nel primo caso comparirà nel predicato un "so­ stantivo", nel secondo un "aggettivo". Ma questi termini hanno per noi ormai, più che un significato grammaticale relativamente indeterminato dal punto di vista logico, soltanto un significato logico che va illustrato mediante la sua riconduzione al terreno intuitivo. L'aggettivo rinvia ad una determinazione assoluta, così come il sostantivo ad un sostrato assoluto. La differenza sta dunque ancora nella forma della predicazione. Se ci esprimiamo, adottando la terminologia di Husserl, parlando rispettivamente di giudizi in essere e giudizi in avere [27], qui ci aiutiamo con il lin­ guaggio per esprimere mediante esso una differenza che sta al di fuori e prima di esso. Se diciamo che una certa cosa è rossa, potremmo con ciò dare un esempio di giudizio in essere, non già per il fatto che usiamo il verbo essere, ma per il fatto che la de­ terminazione acquista nel processo è una determinazione asso­ luta. Inversamente, se diciamo che una certa figura è composta da un triangolo e da un rettangolo, con ciò diamo un esempio di giudizio in avere, indipendentemente dal fatto che in esso si impie­ ghi come potremmo anche fare, il verbo avere. Le parolette "è" e "ha" sono espressioni della copula nello stesso modo, se con la copula intendiamo la predicazione in genere, e dunque la sintesi di esplicitazione. A proposito dei giudizi in avere si potrebbe forse obiettare 303 che in realtà si tratta di esempi di proposizioni relazionali. Ma questa non può essere una questione da decidere a occhio e croce. Di fatto qui vi è un sostrato ed una esplicitazione ad esso diretta. Qualora l'esplicitazione dia luogo a determinazioni che sono so­ strati assoluti, indubbiamente possiamo dire che il sostrato che è tema dell'esplicitazione è un sostrato plurale, una molteplicità che consta di queste e quelle parti. Ma il tema dell'interesse è comunque l'intero e d'altro lato abbiamo bisogno di precisazioni intorno all'impiego del termine "molteplicità" che esigono una chiara distinzione tra giudizi in essere e giudizi in avere. Alla questione abbiamo in realtà già accennato trattando della tematica della percezione. Di un quadrato diciamo che esso è una cosa, benché abbia quattro segmenti. Ma diciamo che è una cosa anche di un cerchio, benché esso consti di circonferenza, superficie e colore. La distinzione tra sostrato assoluto e deter­ minazione assoluta diventa indispensabile per spiegare perché ci si riferisca a cose di questo genere come singolarità. Naturalmente siamo liberi di parlare di molteplicità anche in casi come questi, ma con ciò non faremmo altro che passare dalla nozione più ristretta della "cosa" alla nozione più ampia, e corrispondentemente ad una nozione ampia di molteplicità, non vincolata a quella di sostrato assoluto. L'acce­zione più ristretta di molteplicità richiede invece questo vincolo e per illustrarla faremo riferimento a quelle situazioni fenomenologiche nelle quali si presentano contenuti indipendente (sostrati assoluti). E ciò non basta ancora: come abbiamo spiegato a suo tempo, si richiederanno anche determinate condizioni percettive di sepa­ razione. Un quadrato si presenta come una cosa singola perché tra i segmenti di cui consta intercorrono determinati rapporti. Dal punto di vista da cui ora ci disponiamo, essi sono comunque determinazioni del quadrato che sono sostrati assoluti ed il pro­ cesso che li rende espliciti mette capo a giudizi in avere. Benché ciò non implichi che la percezione in questione sia da considera­ re come percezione di una molteplicità. 304 Nel caso del cerchio, l'apprensione di esso come una sin­ golarità è decisa invece dal fatto che la sua esplicitazione mette capo a determinazioni che sono determinazioni assolute. Qui sono possibili solo "giudizi in essere". Con ciò disponiamo di una nozione di singolarità ultima o, se vogliamo, di oggetto semplice, intuitivamente chiara. Beninteso, la nozione di semplicità non ha affatto bisogno di questa chiarezza intuitiva per essere compresa - ciò vale in generale per ogni con­ cetto nel suo impiego formale-categoriale. L'e­spres­sione "qual­ cosa che non ha parti" la comprendiamo altrettanto bene quanto l'espressione "qualcosa che ha parti". Sembra invece che proble­ mi particolarmente oscuri sorgano se si chiede, oltre questa chiarezza intellettuale, anche una chiarezza intuitiva. Ogni difficoltà si dissolve se assumiamo un modo di approccio fenomenologico. Allora il concetto formale della parte deve essere ricondotto a quello di determinazione, così come quello di intero a quello di sostrato. La distinzione tra sostrato e determinazione in senso assoluto esibisce allora una nozione di singolarità ultima, cioè di singolarità che non può essere esplicitata in determinazioni che sono sostrati assoluti e che può essere direttamente esemplifi­ cata sul piano dei dati dell'esperienza. Perciò non andremo alla ricerca di enti che sono in sé indivisibili, ma di cose che ci appaiono così, dove la divisibilità è definita dal fatto che la cosa appare per­ cettivamente priva di determinazioni indipendenti. Un segmen­ to consta di punti solo se è punteggiato. Altrimenti è un buon esempio di oggetto semplice quanto lo è il punto [28] . In margine a tutto ciò possiamo osservare infine che il vec­ chio principio secondo cui ogni oggetto composto è analizzabile in oggetti semplici - a cui la logica tradizionale ha conferito un così grande rilievo al fine delle esplorazioni metafisiche a cui essa era subordinata - è tanto discutibile come principio logico-intel­ lettuale quanto poco lo è come principio che rinvia alla struttu­ ra dell'esperienza sensibile. Considerandolo da questo punto di vista, esso deve naturalmente essere interamente riformulato ed 305 assume perciò tutt'altro senso. Il composto è qui ciò che appare composto; ed allora possiamo indubbiamente affermare che ogni composto, nella percezione, rinvia necessariamente a sin­ golarità ultime, che non sono "ulteriormente divisibili". Nell'am­ bito dell'esperienza, la divisibilità infinita è esclusa, ma non nel senso che ci si richiami qui a qualche procedura concreta di di­ visione che, qualora venga messa in opera, incontri un limite di fatto invalicabile. La semplicità non ha nulla a che vedere con la straordinaria piccolezza; ma semplice può essere detta una cosa qualunque in rapporto alla quale sia possibile un processo di esplicitazione che metta capo soltanto a determinazioni assolute. Essa non ha una molteplicità di parti, ma di proprietà: non consta di determinazioni indipendenti, ma di determinazioni essenzial­ mente integrate nell'intero e inseparabili da esso. Del resto la mente acuta di Leibniz si rese conto di poter ammettere la molteplicità nella monade, dopo averne proposto la semplicità proprio a partire da quel principio assunto nella sua validità logica indiscussa. 11 Risposta alla domanda se vi siano veramente le relazioni. Un punto delle nostre osservazioni precedenti merita di essere ripreso, perché ci consente di accennare ad un nuovo problema. Abbiamo distinto due forme del giudizio - il giudizio "in essere" e il giudizio "in avere". Sul piano predicativo si deve ritrovare la differenza tra proprietà e parte, in un accezione illustrata dal rinvio alle determinazioni dipendenti e indipendenti. Si poneva allora la domanda: nel giudizio "in avere" non è già posta in questione la nozione di relazione? Oppure, più in ge­ nerale: che ne è della distinzione tra proposizioni a soggetto-pre­ dicato e proposizioni relazionali? Di ciò Husserl si occupa nel capitolo terzo della sezione 306 prima di Esperienza e giudizio [29]. Di esso converrà dare un breve schizzo che ne mantenga i tratti essenziali, ricollegandoci al pro­ blema or ora indicato. In un processo di esplicitazione mettia­ mo in risalto determinazioni che sono sostrati assoluti - dunque parti (e non proprietà). E non è questo già un constatare una relazione? La nostra risposta negativa punta tutte le sue carte sulle relatività soggettive dei processi di esplicitazione. Come abbia­ mo già notato, ciò che qui importa è che un'unica cosa sia tenuta sotto presa e che le "parti" vengano rese esplicite come articola­ zioni interne che la determinano "più da vicino".L'esplicitazione chiarifica - adottiamo anche qui la terminologia di Husserl - l'orizzonte interno della cosa. Altrimenti starebbero le cose se l'interesse verso l'intero ve­ nisse meno e si volgesse invece ad una sua parte, intesa nella sua indipendenza, per accertare in quale relazione essa si trovi con un'altra, essa stessa considerata nella sua indipendenza. In tal caso muta non soltanto l'orientamento dell'interesse, ma la for­ ma stessa di questo orientamento. L'interesse si dirige ora ver­so le altre cose che stanno intorno, verso il suo orizzonte esterno. Ma come potremmo sperare di essere compresi in questa distinzione tra orizzonte interno e orizzonte esterno, se non ci ponessimo decisamente sulla strada, così dubbia per una così larga parte della filosofia accademica, delle spiegazioni intuitive? Con ciò non si intendono affatto spiegazioni date alla buona: si tratta invece di un vero e proprio metodo di chiarificazione che si avvale di rimandi esemplificativi a contesti di esperienza. Ecco qui, sul tavolo, un foglio di carta: e accanto ad esso c'è un altro foglio. È molto strano che, raggiunte le altezze del pen­ siero puro, si ritenga di non essere ormai più in grado di operare simili distinzioni. Se invece, nonostante tutta la confusione che può esserci nella nostra testa intorno ai concetti di proprietà e di relazione, ammettiamo ancora di saper fare quella distinzione sul piano dell'esperienza concreta, allora dovremmo anche essere in grado di riportare un po' di ordine in tutta quella confusione. 307 Se consideriamo il foglio che si trova alla nostra destra, in­ teressandoci alla sua forma, ai segni che sono tracciati in esso, al grado di finezza della carta di cui. è fatto e così via, allora ci muoviamo, come noi diremmo, nel suo orizzonte interno. Se invece procediamo nell'esplicitazione da questo foglio a quell'altro per metterne a confronto le dimensioni, allora ci muoviamo ver­ so il suo orizzonte esterno. L'osservare ha qui mutato senso - ed in Husserl questa differenza merita di essere contrassegnata an­ che terminologicamente. Il termine di esplicitazione viene riser­ vato ai processi orientati verso l'orizzonte interno del sostrato, mentre si parla di osservare relazionante [30] per indicare i processi diretti verso l'orizzonte esterno. Ancora una volta si esemplifica qui l'unità del metodo e dello scopo perseguito. Relazione è un concetto formale, una ca­ te­goria, un prodotto del "pensiero puro". E come tale può essere teoreticamente elaborato, indipendentemente da ogni sostegno intuitivo. Nello stesso tempo, ogni categoria deve essere ripor­ tata sotto il titolo tematico del giudizio e il problema della base esperienziale delle categorie deve essere affrontato attraverso una sorta di "deduzione" delle forme del giudizio dell'e­spe­rienza . che, considerata dal punto di vista di questa problematica, potrà essere qualificata come esperienza antepredicativa. Di qui deriva l'orientamento soggettivo dell'indagine, la messa in rilievo cioè di differenze che non appartengono senz'altro alle cose stesse, ma che sorgono da certi modi di correlazione soggettiva che esi­ biscono determinate caratteristiche strutturali. Una differenza logica viene così giustificata (e in questo senso: dedotta) da dif­ ferenze di struttura che possono essere esibite sul terreno ante­ predicativo. Così la differenza logica tra una proposizione come "A è rosso" e "A si trova alla destra di B" non viene evidentemente meno per il solo fatto che si possa parlare del trovarsi a destra di B come di una proprietà di A. Questo lo diamo per scontato. Sem­mai si tratta di una circostanza che ci invita ad una rifles­ 308 sione orientata in tutt'altra direzione. Nel constatare relazioni, può essere che la direzione dell'interesse si muova dall'oggetto A all'oggetto B che sta nel suo orizzonte esterno. Qui il sostrato principale - il soggetto della proposizione - è A. Ma potremmo indifferentemente muovere anche da B verso il suo orizzonte esterno nel quale si trova A. Comunque venga formulato ver­ balmente uno stato di cose relazionale, già il proporsi antepre­ dicativo della nozione di relazione mostra che vi è una caratteri­ stica di reversibilità che fa parte delle condizioni descrittive del­ l'e­sperienza del constatare relazioni. Passando sul terreno delle considerazioni formali, potremo affermare allora che per ogni relazione data, vi è sempre una relazione inversa. E in che modo giustificheremo questo "sempre"? Sulla base di quale evidenza? Qualcuno, avvezzo alla prudenza, potrebbe dire: io mi limito a supporre che le cose stiano così, e di una simile evidenza non vo­ glio nemmeno sentir parlare. Un altro, più spericolato, ci assicura invece che si tratta di una circostanza che appartiene al concetto di. relazione, che è contenuta analiticamente in esso. Ebbene, dove si trova questo concetto? Chi lo ha mai visto? I concetti non si trovano da nessuna parte e nessuno li può vedere. Si possono vedere solo, ad esempio, le relazioni. Un'"a­ nalisi del concetto" può essere compiuta anzitutto come analisi della sua "origine": in questo modo otteniamo una delimitazione che poggia su chiare differenze nella forma delle constatazioni. Nel caso dell'esplicitazione, i passi di cui consta il processo pos­ sono anche essere discontinui, a differenza delle sintesi percetti­ ve; mentre deve essere soddisfatta una condizione di continuità in rapporto all'oggetto tematico. Nel constatare che istituisce re­ lazioni anche questa condizione può essere lasciata cadere, dal momento che possiamo procedere da A verso B oppure da B verso A [31]. Di questi riferimenti soggettivi, come di ogni ri­ mando contenutistico, non resta alcuna traccia sul piano predi­ cativo, anche se proprio su di essi poggia la "delimitazione del concetto". 309 12 Ciò che si tenta di fare è una vera e propria "deduzione delle categorie", dall'esperienza al giudizio - La congiunzione e l'ecceterazione come esempi di "sintesi intellettuali". Il nostro gran parlare di rimandi alla concretezza dell'espe­rien­za non deve tuttavia trarre in inganno il lettore di Esperienza e giudizio: in quell'opera si tenta, in realtà, un'elaborazio­ne piuttosto sofisticata che segue un proprio filo conduttore di cui sarebbe indubbiamente opportuno sottolineare l'astrat­tezza. Ciò appare tra l'altro dall'ordine seguito dalla esposizione, ordine a cui noi non ci atteniamo strettamente essendo guidati più da scopi in­ terpretativi che letteralmente esegetici, ma non al punto di ren­ derne confusi i tratti. Questo ordine può apparire per molti versi artificiale, ma, ad uno sguardo più approfondito, esso si rivela nello stesso tempo strettamente coerente con l'impostazione ge­ nerale del problema. In primo luogo ci siamo occupati della struttura della pre­ dicazione delle distinzioni fondamentali che dobbiamo proporre in rapporto ad essa. Di qui deve scaturire tutto il resto: facendo costante riferimento alla nostra metodologia, dobbiamo essere in grado di dispiegare le "funzioni intellettuali" - di operare una vera e propria deduzione delle categorie. L'"intelletto" non è un complesso di dispositivo predisposti da proiettare sull'espe­rienza, ma ha le sue radici nell'esperien­za stessa in quanto essa si auto-organizza nelle forme di correlazione necessaria tra i dati della sensibilità e la soggettività concreta che li riceve. Alla via trascendentale-kan­ tiana che procede dal giudizio all'esperienza contrapponiamo una via che procede dall'esperienza al giudizio - senza con ciò ricadere in forme di riduzionismo empirista. Ma il dispiegamento delle funzioni, categoriali deve svi­ lupparsi secondo un ordine determinato dall'impostazione stes­ sa del problema. Cominceremo così con il distinguere stadi di 310 com­plessità crescente dei processi di esplicitazione, secondo un criterio per la valutazione della complessità che, se appare ov­ vio entro l'impostazione proposta, risulterebbe invece incom­ prensibile se ci disponessimo senz'altro dal punto di vista del giudizio [32].Anzitutto parleremo di una maggiore elementarità della esplicitazione lineare rispetto all'esplici­tazione ramificata e, a titolo di forma elementare di esplicitazione lineare, indichere­ mo l'esplicitazione che termina nella prima determinazione acquisita. La forma del processo che mettiamo in questione per seconda sarà dunque l'esplicitazione che termina dopo aver acquisito più di una determinazione [33]. Forse ci si chiederà che cosa ci possa essere mai di tanto degno di interesse in una differenza così insignificante. Prima con­sta­tiamo che una certa cosa è rossa. Ora constatiamo che essa è rossa e rotonda. La congiunzione ha fatto la sua comparsa dalla parte del predicato. Questo è interessante. Pensiamo al modo, equivoco e denso di problema, in cui il problema della congiunzione si presentava nella Filosofia del­ l'aritmetica. Cercavamo allora un particolare tipo di relazione che stesse alla base di quella nozione astratta di molteplicità di cui avevamo bisogno per illustrare l'origine del concetto di numero. Abbiamo parlato di "collegamento collettivo" ed abbiamo rite­ nuto significativo un rapido cenno di Husserl alla con­giun­zione come il segno che, nel linguaggio, indica quel col­legamento. In realtà, quel cenno poteva essere significativo per noi solo tenen­ do conto del punto di vista dal quale ci disponiamo ora e che, al tempo della Filosofia dell'aritmetica, non era certamente acquisito. Se il collegamento collettivo è quella "relazione" indicata dalla congiunzione, allora per sapere di che si tratta non dobbiamo seguire la via dell'indagine psicologica, ma dobbiamo segnalare fin dall'inizio la natura intellettuale-cate­go­riale di quella relazio­ ne proponendo di essa un'inter­pretazione che sia conforme alla problematico dell'ori­gine. La "congiunzione" intesa come funzio­ ne interna dei processi di esplicitazione non fa altro che man­ 311 tenere l'unità del processo riconducendo le determinazioni via via acquisite nel campo di azione della "copula", alla quale essa è dunque strettamente subordinata. Dalla parte del predicato sorge così una molteplicità anzi­ tutto come molteplicità di determinazioni rese via via esplicite nel processo, ma questa molteplicità può a sua volta essere resa sostrato e poiché disponiamo di una nozione logico-ma­tematica di oggetto, sono allora date, insieme alla congiunzione tutte le funzioni intellettuale per la costituzione di una nozione di mol­ teplicità intesa come un'oggettività intellettuale di nuovo genere. È data cioè la possibilità di una nozione di insieme in rapporto alla quale è possibile elaborare una teoria sistematica e formale che si muova interamente sul piano del "pensiero puro" [34]. In questa reinterpretazione del problema ogni rischio psicologistico resta certamente escluso, benché non possano sfuggire le connessioni con la posizione espressa a suo tempo. Ora non facciamo più l'affermazione, in realtà profonda­ mente oscura, secondo cui il segno di congiunzione sarebbe il segno di una particolare relazione - sia pure solo "psichica" o anche "soggettiva". E ci liberiamo anche dall'equivoco rinvio all'atto del "pensare insieme", fissando eventualmente il senso effettivo di quella espressione in rapporto al fatto che la connes­ sione in questione è appunto un'autentica sintesi intellettuale, cioè una sintesi di cui non possiamo in nessun modo rendere conto restando sul terreno della semplice percezione. Se parliamo di ciò a cui si riferisce la paroletta "e" come di una relazione allora questa non potrà essere intesa nello stesso modo di quelle rela­ zioni che si impongono nella passività delle sintesi percettive in forza delle determinatezze contenutistiche dei ma­teriali dell'e­ sperienza sensibile. Il fatto che ci siano momenti del­l'e­spe­rienza da cui possono essere estratte forme logiche, non toglie che queste siano poi da caratterizzare in contrapposizione ad essi. Nel constatare che qualcosa che ci sta di fronte ha una certa proprietà e poi anche un'altra, non vi è dubbio che con ciò sia 312 fissato un ordine in senso temporale. Tuttavia il passaggio dall'e­ splicitazione alla predicazione è un passaggio oggettivante nel qua­ le ogni riferimento a processi resta escluso. La temporalità del processo di esplicitazione non resta appresa alla struttura predi­ cativa in modo per così dire implicito. Nel caso della congiun­ zione può essere interessante notare piuttosto che, già sul piano antepredicativo, l'ordine è inessenziale al processo. Ciò dipende dalla caratteristica di discontinuità che potrebbe essere indicata come uno dei momenti che differenziano le sintesi e­splicitative in genere dalle sintesi percettive. Come abbiamo già osservato, mentre l'oggetto si costituisce percettivamente nel­la sua identità proprio perché i contenuti percettivi si dispiegano secondo un certo ordine, e non secondo un altro, nel caso delle sintesi di esplicitazione l'unica condizione che deve essere soddisfatta è la continuità rispetto al sostrato. L'ordine dei passi in cui essa si sviluppa è invece indifferente. Questa indifferenza all'ordine si ritrova sul piano predicativo e appartiene alle regole che definiscono la congiunzione nel suo impiego logico. Per quelle regole vi sono dunque delle giustificazioni, ed è questo lo scopo verso cui è orientato l'inten­ to di stabilire una correlazione tra piani che debbono comunque essere mantenuti nella loro contrapposizione. Il terzo passo che intendiamo compiere si impone in mo­ do piuttosto naturale. Se come primo passo abbiamo preso in considerazione l'esplicitazione che termina nella prima determi­ nazione acquisita e come secondo l'esplicitazione che termina dopo l'acquisizione di più di una determinazione, consideriamo allora come terzo passo quello dei processi di esplicitazione il cui pro­ gresso rimane aperto [35]. Bastano poche parole per spiegare che cosa vogliamo in­ tendere con ciò. Abbiamo parlato in precedenza di un possibile termine del processo di esplicitazione, assumendo che questo con­cludersi del processo non abbia bisogno di ulteriori spie­ gazioni. In realtà, almeno una precisazione si rende necessaria. Il processo sorge dalla parte della soggettività e non da quella 313 dell'oggetto: quest'ultimo diventa tema appunto nella misura in cui vi è un interesse ad esso rivolto. Il termine del processo dovrà perciò essere inteso come un esaurirsi dell'interesse, e non come un esaurirsi dell'oggetto nella totalità delle sue determinazioni. Se teniamo conto delle nozioni di orizzonte interno ed esterno, della possibilità di istituire relazioni e della possibile ramificazio­ ne dell'esplicitazione, è chiaro che ogni processo di esplicitazio­ ne si muove in un campo di aperta determinabili del suo tema. Ciò significa soltanto che l'esplicitazione può proseguire libera­ mente, e naturalmente questa possibilità non può essere affatto convertita nell'affermazione che le determinazioni di una cosa sarebbero infinite e addirittura lo sarebbero in modo necessario [36]. Una simile affermazione avrebbe tanto poco senso quanto il compito di addurre di esse un elenco completo. Ciò che l'aper­ tura del campo di determinabilità mostra è che il sostrato, a dif­ ferenza della nozione di oggetto proposta sul piano predicativo che è esattamente ciò che si dice di esso, si trova sempre entro contesti e dunque, come potremmo esprimerci in generale, entro un orizzonte di mondo. Questo orizzonte è lo sfondo passivamente presupposto nell'isolamento tematico operato dall'interesse ed appartiene alle condizioni dell'espe­rienza tematizzante. Il venir meno di esso sul piano predicativo non toglie tuttavia che la pos­ sibilità di proseguire nell'e­splici­tazione al di là dell'ultima deter­ minazione acquisita possa essere inclusa nella forma stessa del giudizio. Anche in questo caso, come in precedenza, per indicare l'apertura nell'am­bito della predicazione potremmo servirci di una espressione linguistica assai poco vistosa: la paroletta "ecce­ tera" fa proprio al caso nostro. C'è ancora bisogno, dopo tutto ciò, di ribadire che non stiamo affatto spiegando il vero significato della parola "eccete­ ra", come se essa avesse un significato nascosto che deve essere messo allo scoperto? Stiamo invece introducendo, secondo una particolare metodologia e seguendo un ordine da essa determi­ nato, una vera e propria nuova funzione intellettuale che ha una 314 fondamentale importanza tra le procedure che dànno luogo a oggettività intellettuali. Ciò che ci interessa è l'identifi­cazione della possibilità di operare ecceterazioni al di fuori e indipendente­ mente dai problemi che, chiamano in causa l'orizzonte di mon­ do dei dati tematici dell'esperienza. Se poi parliamo di origine dell'ecceterazione da una determinata tipologia dei processi di esplicitazione, questo modo di procedere deriva in primo luogo dall'intento di mostrare come le funzioni intellettuali in genere siano per così dire condensate nell'unità del giudizio e possano essere dispiegate da essa. Anche l'ecceterazione nella sua intro­ duzione primaria - potremmo forse esprimerci così - si presenta subordinata alla copula, come la congiunzione. Ma ciò può es­ sere chiaramente mostrato solo attraverso una "classificazione" delle forme del giudizio che segua il filo conduttore dei processi di esplicitazione. Tutto il resto risulta di conseguenza e va valu­ tato secondo i criteri ormai consueti. Nel giudizio ecceterante nessun presupposto di mondo è direttamente o indirettamente implicato: si tratta appunto soltanto dell'aper­tura, inclusa nella forma del giudizio, dell'operazione predicativa. E va da sé che come la congiunzione non è cosa che riguardi solo le proposi­ zioni, così anche l'ecceterazione non è una funzione che debba necessariamente esercitarsi solo nell'ambi­to delle sintesi predi­ cative. Del resto si pensi ancora una volta alla formula proposta da Husserl per indicare la forma della molteplicità nella Filosofia dell'aritmetica. La funzione intellettuale dell'ecceterazione è ad essa essenziale non meno del "collegamento collettivo" e dell'u­ nità intesa come "qualcosa in generale". 315 13 La modificazione "attributiva" della proposizione - Interpretazione dei "giudizi di identità". Si sarà notato che, parlando del secondo caso che abbiamo preso in considerazione, si sarebbe potuto forse argomentare in tut­ t'altro modo. Di fronte ad una proposizione che presenta nel predicato due aggettivi, potremmo pensare che essa sia in realtà da intendere come il risultato della fusione di due proposizioni in una sola: essa dunque deve essere analizzata e per certi scopi proprio questa analisi ci interessa. Ciò vale in generale anche nei casi in cui la molteplicità sta dalla parte del soggetto: oppu­ re in altri casi di complicazioni interne della proposizione, in particolare quando si presentano in essa nomi accompagnati da aggettivi, proposizioni principali e subordinate, e così via. Anche in questi casi, ai fini di un trattamento logico, si proporrà un'a­ na­lisi tendente a proporre una articolazione logico-grammaticale di base semplice e chiara, che faccia a meno di complessità che sono, per gli scopi perseguiti, del tutto superflue. Per quale ragio­ ne dovremmo mantenere una forma del tipo: la tal cosa è rossa e rotonda, se possiamo dire invece: la tal cosa è rossa e la tal cosa è rotonda? In queste possibili riduzioni della forma "complessa" della proposizione, tuttavia, abbiamo appunto di mira scopi molto diversi rispetto a quelli propriamente interpretativi che ora stiamo perseguendo. O se vogliamo, inversamente: la diversità degli scopi può essere illustrata proprio sottolineando il fatto che noi diamo una particolare importanza proprio a quegli aspetti che appaiono, per altri versi, come complicazioni superflue. Se, ad esempio, proponiamo l'"analisi" di una proposizio­ ne che presenta un predicato "plurale" in due proposizioni con­ giuntivamente connesse in cui il predicato è "singolare", possia­ mo senz'altro ammettere che l'una e l'altra unità proposizionale hanno un identico senso logico e che è più conveniente per noi adottare 316 la seconda in luogo della prima. Perciò parliamo in rapporto ad essa di un'"analisi" (talvolta invece ci si esprime come se questa ri­ duzione analitica rappresentasse un vero e proprio passaggio ad una pretesa forma logica reale della proposizione analizzata, e questo è certamente un errore). D'altro lato, nell'identità di senso logico possono celar­ si differenze significative nell'interpretazione che riconduce la strut­tura proposizionale ai processi antepredicativi. In rapporto all'esplicitazione della seconda specie, in. effetti, si tratta proprio di un unico processo di esplicitazione che procede oltre la prima determinazione, e non vi è nessun motivo per ritenere che i pro­ cessi, in realtà, siano due. Qualora i processi siano due, e nello stesso tempo venga mantenuto dall'uno all'altro la consapevo­ lezza dell'identità del sostrato, allora abbiamo a che fare con una situazione fenomenologica di nuovo genere che sposta la nostra attenzione dalla struttura interna dei processi alle loro possibili relazioni. Se diciamo: la tal cosa è rossa e la stessa cosa è rotonda, ri­ conducendo questa formulazione dal piano logico-linguistico al piano delle constatazioni è chiaro che in rapporto ad essa noi parleremmo di una maggiore complessità, proprio per il fatto che ad un processo di esplicitazione ne segue un altro che si connette al precedente per via dell'identità del sostrato. La con­ tinuità del tenere sotto presa deve essere stata interrotta ed a questa interruzione è subentrata una ripresa dell'interesse nella consapevolezza che il sostrato è ora lo stesso di prima. E si badi bene: qui non si tratta di dare un'interpretazione psicologizzante della frase, per il semplice fatto che la frase nel suo senso logico è del tutto fuori questione. Del resto questa osservazione può essere considerata come un'osservazione preliminare alla trattazione dei "giudizi di iden­ tità". Come orientate in questa direzione possono essere inte­ se le osservazioni di Husserl sulla differenza tra proposizione principale e subordinata e sulla forma attributiva [37], benché 317 naturalmente esse si situino nel quadro più generale di una dedu­ zione antepredicativa delle categorie che deve, tra l'altro, fornire l'ambito delle nozioni fondamentali per l'elabo­razione di una te­ oria delle forme possibili del significato nel senso illustrato dalla Quarta ricerca logica (problema che in Esperienza e giudizio è sem­ pre chiaramente presente). Se consideriamo ancora il caso della esplicitazione lineare Che procede oltre la prima determinazione acquisita, non si tie­ ne evidentemente conto in essa di possibili differenze di grado nell'interesse verso le determinazioni della cosa che vengono via via dispiegate. Invece può accadere che vi sia una distribuzione ineguale dell'interesse, può accadere cioè che l'inte­resse verso la prima determinazione acquisita sia minore che verso la seconda. Anche una distinzione tanto inappariscente merita di essere pre­ sa in considerazione, proprio perché essa può essere considerata come la base di una differenza formale nella struttura della pre­ dicazione. Qui infatti possiamo indicare l'"origine" del­la distin­ zione tra proposizione principale e proposizione subor­dinata [38]. Più precisamente, ciò di cui si vuole rendere conto ora è la modificazione della proposizione che Husserl chiama attributiva. La struttura semplice della predicazione "S è p" assume la forma "S, che è p" proponendosi come una parte che deve essere inte­ grata in una predicazione completa: "S, che è p, è q". La stessa forma di modificazione può naturalmente essere introdotta anche in altro modo, dalla parte del predicato, ricor­ rendo alla nozione di esplicitazione ramificata. In luogo di distribu­ zione ineguale dell'interesse sulle determinazioni acquisite, parle­ remo piuttosto di un'articolazione vera e propria dell'in­te­resse in un interesse principale e in interessi subordinati. Come abbiamo già spiegato, pur mantenendo la presa sul sostrato iniziale. ora viene resa sostrato una sua determinazione, e nel ribaltamento sul piano predicativo otteniamo la forma: "S è p, che è q". Anche in questo caso sarà opportuno far notare che vi po­ trebbero essere ragioni per fare a meno di. queste complicazioni 318 interne della proposizione operando la loro eliminazione ana­ litica. Dal nostro punto di vista invece non vi sono motivi per assumere che la proposizione sia il risultato di una fusione di più proposizioni - ovvero, considerando il piano antepredicati­ vo, che la forma in questione, proposta in un modo o nell'altro, presupponga una pluralità di processi. Al contrario, in entrambi i casi, si tratta di un unico processo che presenta soltanto un maggiore grado di complessità rispetto ai casi considerati in pre­ cedenza. Diversamente stanno le cose in rapporto alla tematica del­ l'identità, argomento con il quale si conclude il capitolo sulla struttura generale della predicazione [39]. Ad esso vogliamo de­ dicare un cenno perché forse qui più che altrove appare con chiarezza il fatto che l'intera tematica "genetica" proposta da Husserl non ha nulla a che vedere con una interpretazione psi­ cologizzante, ma si risolve essenzialmente in una metodologia di chiarificazione filosofica. La questione dell'identità viene anzitutto riportata al pro­ blema dell'interpretazione del "giudizio di identità", cioè del giu­ dizio di forma: "S è identico (lo stesso che) a S'". La difficoltà centrale nell'interpretazione di una simile forma giudicativa è stata indicata in modo esemplarmente semplice da Wittgenstein: in essa si asserisce di due cose che esse sono una sola [40]. Vogliamo proporre questo problema alla prova del nostro metodo: e cominciamo con lo spostare il discorso dalla forma giudicativa ai processi di esplicitazione. Quando allora si pone il problema dell'identità? Questo punto è stato or ora brevemente anticipato. Esso non si pone in rapporto ad un unico processo di esplicitazione: che il sostrato permanga come "lo stesso" è qui una circostanza ovviamente presupposta. L'inte­res­se continua ad essere rivolto a quell'oggetto che esso tiene sotto la sua pre­ sa. Affinché sorga il problema deve intervenire un'interruzione dell'interesse - ed un'interruzione che sia tale che, nell'even­tuale ripresa del processo di esplicitazione rivolto allo stesso oggetto, 319 di questa identità potremmo anche non saperne nulla. Vi è dun­ que prima un sostrato determinato secondo p e poi un altro so­ strato determinato secondo q. Il senso dell'essere-altro sta allora anzitutto, e cioè prima ancora che nella differenza delle determinazioni, nella differenza dei processi. Perciò l'iden­tificazione dei sostrati non è affatto equivalente all'affer­mare di due cose che esse sono una sola, ma assolve una funzione di unificazione di una moltepli­ cità ,di processi. La constatazione "S è identico a S'" sottintende la molteplicità dei processi di esplicitazione a partire dalla quale essa si pone come problema. In S è sottinteso: "che è p"; in S' è sottinteso: "che è q". I giudizi di identità sono dunque giudizi di forma autonoma che "fanno da ponte" - come si esprime Husserl - ed esplicano proprio per questo una funzione conoscitiva fondamentale. Alla luce di queste considerazioni si mostra subito quanto sia peregrina la domanda se l'identità esprima una proprietà di una cosa o una relazione tra cose. Da un punto di vista puramente formale, il problema po­ trebbe essere considerato irrilevante - come del resto può essere considerata irrilevante la distinzione tra giudizio determinativo e giudizio relazionale. L'identità è un predicato a due posti. E tutto finisce li. Se d'altronde facciamo riferimento alle nostre fissazioni concettuali, ci potremmo trovare, accettando la domanda, in un certo imbarazzo. Poiché "è identico" connette un sostrato S ad un altro so­ strato S', potremmo pensare che la forma proposizionale in questione sia una forma relazionale, che l'identità sia dunque una relazione tra cose. Tuttavia, l'altro sostrato non appartiene affatto all'orizzonte esterno del primo, dal momento che si trat­ ta proprio dello stesso sostrato. Cosicché manca la condizione essenziale per il concetto di relazione. Supponiamo allora che la forma proposizionale sia da qualificare come determinativa e di conseguenza l'identità come una proprietà della cosa. Ma allora 320 dovrebbe accadere che nel corso del processo del processo, fra le proprietà, della cosa si presenti anche la proprietà alquanto singo­ lare di essere identica a se stessa. Un simile andamento paradossale della discussione non può che ricondurci ad una riflessione critica sulla domanda, che d'altra parte può avere qualche efficacia solo se la nozione vuo­ ta dell'identità viene chiarita attraverso rimandi esemplificativi a contesti esperienziali. Seguendo la metodologia interpretati­ va in­dicata, appare chiaro che la sintesi espressa dal giudizio di identità non è una sintesi determinativa e nemmeno una sintesi relazionale, ma una sintesi di nuovo genere che unifica rispetto ad un unico sostrato determinazioni acquisite in processi diffe­ renti. Il giudizio di identità è dunque una formazione predicativa del tutto peculiare e ad essa non può essere attribuito un caratte­ re elementare, nella nostra accezione. Quanto alla posizione di Wittgenstein nel Tractatus a cui abbiamo accennato in precedenza essa è coerente con il qua­ dro complessivo di quell'opera, con l'esclusione della tematica del­l'esperienza e di ogni punto di vista dinamico-processuale. Se non viene in questione alcun processo, non vi sono nemme­ no ponti da gettare tra processi. L'identità viene perciò sottratta al­l'am­bito della predicazione e può presentarsi soltanto come una regola del "simbolismo". In luogo di questo segno puoi usare quest'altro. D'altronde Frege, proponendo la propria interpretazione a cui Wittgenstein intende contrapporsi, poneva al centro della questione la portata conoscitiva dei giudizi di identità. Ciò che è conosciuto come stella della sera non è necessariamente cono­ sciuto anche come stella del mattino. Non si identificano dun­ que due oggetti, ma si riferiscono determinazioni acquisite in differenti processi ad un unico oggetto. Nella propria interpre­ tazione, Husserl è evidentemente vicino alla posizione di Frege. Tuttavia non può sfuggire la radicale differenza nel metodo. Per Frege ogni riflessione intorno alla logica deve situarsi sul piano 321 del linguaggio. Ad esempio: oggetti saranno quelle cose designate dai nomi, anche se poi non sappiamo quali cose siano veramente nomi. La questione dell'identitá dovrà essa stessa proporsi ne­ cessariamente nell'am­bito dei problemi della designazione. Nello stesso tempo, Frege intendeva con le proprie spiegazioni ripor­ tare a tutti i costi sotto il concetto della proposizione la nozione di equazione. È chiaro allora che Wittgenstein, sottraendo il pro­ blema dell'iden­tità all'am­bito della predicazione, mirava a colpire essenzialmente questo punto: e forse aveva molte buone ragioni dalla propria parte. 14 Tematica delle modalizzazioni Un breve cenno alle "modalità del giudizio" potrà essere interes­ sante, più che per approfondire una problematico così comples­ sa, per illustrare la connessione tra l'idea di una "genealogia della logica" e il metodo fenomenologico di approccio alla tematica dell'esperienza in genere. Questa connessione, che è presente anche negli esempi discussi fino a questo punto, risulta indubbia­ mente con particolare chiarezza proprio in rapporto al problema delle modalizzazioni. Il terreno per la sua trattazione è già stato infatti ampiamente preparato nell'ambito di considerazioni che non avevano ancora di mira il giudizio, ma che erano interamen­ te interne all'illustrazione dei decorsi percettivi in genere. In particolare dobbiamo occuparci ancora una volta delle anticipazioni percettive di cui abbiamo parlato trattando del ricor­ do. Vi è qui un aspetto su cui ora dobbiamo attirare l'atten­zione perché mostra in che senso si possa parlare di modalizzazione, ovviamente in un'accezione peculiare, già nell'ambito dell'espe­ rienza percettiva. In essa l'oggetto è posto percettivamente secon­ do un senso che, nella stessa misura in cui rinvia ad esperienze passate, determina attese interne al decorso percettivo. 322 Proprio perché l'attesa è una sorta di prolungamento della percezione, e non una supposizione che derivi da una riflessione su ciò che ci sta di fronte, in essa. si prolunga anche quella certezza senza problemi che caratterizza la posizione percettiva dell'og­ getto. Ora vediamo un uomo - e ciò propone, nella percezione, attese percettive ben determinate. Il carattere della certezza si pro­ lunga nell'attesa proprio per il fatto che ciò che ci si attende è soltanto una conferma. Ma l'attesa può andare delusa - e la percezione, di conseguenza, diventare dubbia. Nel primo capitolo di Esperienza e giudizio [41] - in cui que­ sta tematica viene rammentata in vista della trattazione del pro­ blema della modalità sul terreno predicativo - si parla di questo insorgere preriflessivo del dubbio come di un freno o di un impedimento interno al decorso percettivo, in coerenza con la concezione di esso come di un processo di continua autoconferma che si sviluppa sul piano di una certezza senza problemi. Que­sta dovrà dunque essere intesa non già come una delle possibili modalità della percezione, ma come la dimensione fondamentale rispetto alla quale ogni altra modalità può essere presentata come una modificazione. Questa nozione di certezza "ingenua" - nella quale non è difficile cogliere una raffinata ripresa della nozione hu­ meana del belief - deve perciò essere distinta dalla certezza che sorge dopo il dubbio e nella quale esso eventualmente si risolve. La situazione del dubbio percettivo diventa così la situazione fenomenologica nodale per l'intro­du­zione della tematica della modalità sul piano dei decorsi percettivi. Nello stesso tempo, già su questo piano, appare chiaro che la discussione intorno alle nozioni modali in senso stretto - certezza, possibilità, necessità - è strettamente connessa con la problematico dell'affermazione e della negazione che la logica tradizionale riconduceva invece sotto il titolo autonomo di "qualità del giudizio" [42]. Vogliamo chiederci anzitutto in che modo sorga il dubbio percettivo. Accade qui che una tesi proposta in un'antici­pazione percettiva vuota viene soppressa da ciò che si presenta nella 323 pienezza del decorso percettivo successivo. Occorre sottoline­ are che la tesi deve riguardare un aspetto della cosa e non la cosa stessa, dal momento che "un'unità di senso oggettivo deve mantenersi attraverso il flusso delle manifestazioni successive" [43] come condizione di possibilità del contrasto. Tuttavia, nel­ la soppressione della tesi, quell'unità può diventare a sua volta fluttuante nel suo senso. La nuova percezione agisce retroatti­ vamente sulle percezioni anteriori, mettendole in questione in quanto in esse si è costituito un senso che ora è diventato dub­ bio. Nel dubbio, si oscilla tra possibilità disgiuntive. Se si tratti di questo o di quest'altro non è ancora stato deciso: l'esperienza successiva contrasta con l'anticipazione, ma non esclude ancora il senso che in precedenza la percezione ha attribuito all'unità della cosa. Nel proseguimento del processo percettivo vi saran­ no altre istanze che determineranno propensioni di diverso grado nell'una o nell'altra direzione, o che decideranno senz'altro per l'una direzione, piuttosto che per l'altra. La "credenza" che segue il dubbio nel gioco delle propensioni e che può eventualmente tradursi nella certezza fondata sul peso delle istanze è evidente­ mente qualcosa di completamente diverso dalla "creden­za" nel senso della certezza senza problemi. D'altro lato, la nozione di possibilità che viene fissata qui risulta definita dal fatto che essa viene proposta in rapporto alle disgiunzioni operate dal gioco delle istanze e delle controistanze. Husserl parla a questo proposito di possibilità problematico o presuntiva osservando che in rapporto ad essa può essere impiegata la parola probabilità. Ad essa contrappone un'altra nozione di pos­ sibilità che egli chiama possibilità aperta. La differenza tra l'una e l'altra si chiarisce nel diverso modo in cui esse si rapportano ai processi percettivi. La possibilità problematico è direttamente radicata nella struttura ritenzionale-protenzionale del processo, e di conseguenza è essenziale qui il riferimento a propensioni fondate su istanze. Tuttavia, indipendentemente da ciò, ogni cosa percepita, in quanto appare determinata secondo un tipo, 324 è data entro un ambito di possibilità disgiuntive che non hanno a che fare con il processo stesso, ma che dipendono unicamente dalla sua tipicità. Una superficie deve avere un colore, ma questo può essere, indifferentemente, rosso o verde o giallo... L'indifferenza qui non può indicare un equilibrio tra le istanze - e può accadere che si effettuino varie argomentazioni erronee fondate su que­ sta confusione. Nel caso della possibilità aperta un principio di indifferenza va ammesso proprio perché si tratta di possibilità aperta. "Nella possibilità problematico" scrive Husserl "vi sono inclina­ zioni alla credenza in conflitto le une con le altre, che sono moti­ vate dalla situazione percettiva. Vi è una possibilità a favore della quale qualcosa parla, che ha di volta in volta un proprio peso. Nella possibilità aperta non vi è niente di simile ad un peso. In essa non vi sono alternative, poiché all'interno dell'ambito determinato di generalità sono aperte nello stesso modo tutte le particolarizzazioni possibili. La modalizzazione consiste qui nel fatto che una inten­ zione generale indeterminata, che ha essa stessa il modo della certezza , porta in sé implicitamente, in certo senso, un indebolimento di questa certezza in rapporto a tutte le particolarizzazioni pensabili" [44]. Benché tutto ciò contenga vari motivi di interesse, il loro impiego ai fini della problematico attinente al giudizio non è affatto immediatamente a portata di mano. Fin qui infatti abbia­ mo messo in rilievo, da una particolare angolatura, certi aspetti di una problematico strettamente attinente alla struttura dei de­ corsi percettivi, senza dedicare nemmeno un cenno al constatare che, come sappiamo, rappresenta il nostro filo conduttore per la problematico che conduce alla struttura della predicazione. Ma se ora consideriamo le cose da questo lato, si vede subito che non possiamo trasporre direttamente le nostre considerazioni precedenti intorno alle anticipazioni percettive riferendole alle constatazioni. In effetti, da esse possiamo trarre qualche profitto solo se nel trattare la questione delle modalizzazioni presuppo­ niamo constatazioni già acquisite. Anche in questo caso l'ordine 325 dell'esposizione è strettamente interno alla natura del problema ed al modo della sua impostazione. La nozione di giudizio "cate­ gorico" - che potremmo far corrispondere al concetto primario della certezza senza problemi - deve essere trattata per prima (come effettiva ed unica forma fondamentale) dal momento che le modalizzazioni non sono altro che modificazioni di essa [45] . Nello stesso tempo il riferimento a constatazione già acquisite, a giudizi già enunciati, esige la posizione dei giudizi stessi come intenzioni giudicative dirette a stati di cose inattuali, quindi come intenzioni "vuote", mentre fino a questo punto il constatare era sempre ovviamente per noi un constatare alla presenza diretta dell'oggetto. La vuotezza del­l'in­tenzione giudicativa tiene qui il ruolo assolto in precedenza dalle anticipazioni della percezione. Il giudizio già acquisito è proposto a vuoto, e si presenta allora come una vera e propria presa di posizione che può essere messa in dubbio e che può di conseguenza essere accettata o rifiutata. Nella tematica della modalizzazione il riferimento al mo­ mento soggettivo diventa particolarmente sensibile e significati­ vo. Al di là della descrizione che il giudizio presenta dello stato di cose, al di là dunque del puro e semplice accertamento che ripete sul piano della spontaneità predicativa ciò che è dato passivamente, il giudicare si richiama alle prese di posizione del soggetto, alla sua capacità di decisione. L'"afferma­zione" e la "nega­zione", consi­ derate anzitutto come accettazione e rifiuto, stan­no quindi, in certo senso, al di fuori della proposizione, e non possono essere con­ siderate come sue "qualità". Da questa nozione dell'affermare e del negare occorrerà allora distinguere le constatazioni in quanto sono soltanto accertamenti e come tali possono accertare tanto l'es­ sere quanto non essere - possono cioè essere. accertamenti positivi così come accertamenti negativi. "Il non ovvero ciò che non è entra allora nel contenuto del­l'ac­certamento. Di conseguenza il concetto del giudizio può essere inteso anche come se esso abbraccias­ se esclusivamente l'operare accertamenti d'essere e ciò che non è come Momento che fa parte del contenuto di questi accertamenti, per 326 dir così, come non essere che è. Di fatto la logica e la scienza riducono tutto a giudizi che operano accertamenti e con buone ragioni. Così per quanto si operino negazione, negli enunciati delle teo­ rie, non vi è nulla della negazione nel senso del rifiuto (Leugnung), ma essi accerta­no ora che le cose stanno così, ora che le cose non stanno così, ecc. Di conseguenza, il concetto primario del giudizio è quello che ammette come valida solo una "qualità", l'accer­tamento" [46]. Nel capitolo terzo della seconda sezione non si aggiunge poi nulla di essenzialmente nuovo intorno alla problematico della modalità del giudizio nel senso stretto, La distinzione tra possibilità problematico e possibilità aperta viene riproposta ed in particolare impiegata per differenziare la nozione di certezza empirica dalla nozione di probabilità. Mentre quest'ul­tima richie­ de il sussistere di controistanze che si fanno comunque valere, diciamo certo empiricamente un fatto quando ogni controistanza è stata soppressa. Questa soppressione tuttavia non implica la soppressione dell'ambito di possibilità aperte entro il quale il dato empirico è situato. La cosa che ora vedo è certamente rossa, e non lo è solo ad un grado molto elevato di probabilità. Ma avrebbe potuto avere un altro colore, anzi potrebbe averlo. Questa nozio­ ne di possibilità - chiamata in causa dalla certezza empirica - è ovviamente la nozione di possibilità aperta. In contrapposizione alla certezza empirica potrebbe infine essere caratterizzata una nozione di certezza apodittica - di necessità, a cui viene dedicato tut­ tavia solo un rapidissimo cenno [47] . Per il resto occorre osservare che proprio nella tematica della modalità, allo sforzo di chiarificazione teoretica si associa un'inclinazione ideologica che diventa in più di un punto netta­ mente percepibile. L'emergere in primo piano del momento soggettivo, la tematica della decisione e delle prese di posizione, il rinvio ad acquisizioni conoscitive passate, alle convinzioni che debbono essere sottoposte alla crisi del dubbio, lo stesso tema della certezza come un obiettivo che deve essere perseguito per 327 superare la scissione operata dal dubbio, scissione che penetra e minaccia il soggetto stesso [48], tutto ciò allude, sia pure alla lontana, ad un altro ambito di problemi. Note [1] I. Kant, Critica della ragione pura. Analitica trascendentale, Libro I, Cap. 1, Sez. I, trad. it. a cura di G. Gentile e di G. Lombardo-Ra­ dice, Laterza, Bari, , 1949, p. 110. [2] E. Husserl, Philosophie der Arithmetik (Husserliana, XII), a cura di L. Eley, Den Haag, Nijhoff, 1970, p. 79. [3] Cfr. la recensione di Frege alla Filosofia dell'aritmetica di Hus­ serl in Logica e aritmetica, scritti raccolti a cura di C. Mangione, Torino, Boringhieri, 1965, pp. 418-437. - Come appare chiaro dalla nostra esposizione, non ci sembra che si possa in alcun 328 modo ritenere che la recensione di Frege possa aver avuto quella portata determinante che di solito si attribuisce ad essa per la successiva svolta fenomenologica di Husserl. [4] E. Husserl, Philosophie der Arithmetik, op. cit., p. 119: "... non possiamo trovare in sé nulla di riprovevole se i matematici, al culmine dei loro sistemi, in luogo di dare una definizione dei concetti di numero, "descrivono il modo in cui si perviene a questi concetti": si richiede soltanto che queste descrizioni siano corrette ed assolvano al loro scopo". [5] ivi, p. 84. [6] ivi, p. 15. kollektive Verbindung. [8] Kontinuierliche Verbindung, cfr. ivi, p. 19. [9] ivi, p. 61. [10] ivi, p. 74. [11] Frege, ad esempio, reagisce così: "Debbo confessare che non mi è riuscita di formarmi un aggregato secondo le istruzio­ ni dell'autore. Col collegamento collettivo, i contenuti deb­bono venir pensati o rappresentati semplicemente insieme, senza che venga rappresentata una loro qualunque relazione o un loro qualsiasi nesso. A me questo non è possibile. Non riesco a rap­ presentarmi contemporaneamente il rosso, la luna e Napoleone senza alcun collegamento fra loro; per esempio, il rosso di un villaggio che brucia, dal quale si stacchi la figura di Napoleone, illuminato a destra dalla luna" (op. cit. , pp. 427-428). [12] "Per via della natura elementare del collegamento collettivo è naturale che esso abbia trovato la sua espressione anche nel­ la lingua corrente. Sotto questo riguardo basta a tutti i bisogni pratici la paroletta sincategorematica "e". In sé e per sé essa è priva di significato; ma quando essa connette due o più nomi, essa indica il collegamento collettivo dei contenuti denomina­ ti. Che la lingua comune non possegga alcun nome autonomo per il concetto di collegamento collettivo, non può destare la nostra meraviglia; ad esso ci si interessa solo eccezionalmente e per motivi scientifici. Gli scopi consueti del pensare e del par­ 329 lare richiedono appunto soltanto la fissazione linguistica della circostanza secondo cui certi contenuti possono essere connessi in modo collettivistico, e ciò è quanto opera, nella nostra lingua, in modo pienamente adeguato, la congiunzione e" (Philosophie der A­rith­metik, op. cit. , pp. 75-76). [13] G. Frege, I fondamenti dell'aritmetica, in Logica e aritmetica, op. cit. , pp. 279280. Il passo è citato da Husserl a p. 130. [14] Philosophie der Arithmetik , op. cit., p. 131. Frege risponde espli­ citamente a questa osservazione di Husserl nella sua recensione, op. cit.., pp. 432-433. [15] ivi, p. 184. [16] Teilung. [17] Cfr. in questo stesso testo Cap. I, § 14, Annotazione. [18] Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, prop. 3.342 (trad. it. a cura di A.C. Conte, Einaudi, Torino 1964, p. 19). [19] Questo errore si trova all'origine del Tractatus di Wittgen­ stein. [20] Erfahrung und Urteil, a cura di L. Landgrebe, Claassen Verlag, Hamburg 1964. [21] Betrachtung. [22] Im-Griff-behalten. [23] Sulla distinzione tra ritenzione e tenere-sotto-presa, ivi, pp. 121-122. [24] ivi, § 24, pp. 124 sgg. [25] ivi, § 28, pp. 147 sgg. [26] ivi, § 29, pp. 151 sgg. [27] ivi, § 52, pp. 261 sgg. [28] Sulla tematica qui in discussione, considerata in rapporto alla Terza ricerca logica, cfr. G. Piana, La tematica husserliana dell'intero e della parte, Introduzione a E. Husserl, L'intero e la parte (Terza e Quarta ricerca logica), Il Saggiatore, Milano 1977 [29] op. cit. , pp. 171 sgg. [30] Beziehendes Betrachten. [31] ivi, § 34 b, p. 177. 330 [32] ivi, § 49, pp. 241-242. [33] ivi, § 51 a, pp. 255-256. [34] ivi, § 61, pp. 292 sgg. [35] ivi, § 51b, pp. 257-259. [36] ivi, p. 259. [37] ivi, §55, pp. 270-276. [38] Queste espressioni, sottolinea esplicitamente Husserl, "non indicano primariamente alcunché di linguistico, ma il modo di sin­ tesi categoriale che dà significato all'espressione linguistica e che può, ma non deve necessariamente essere espressa, nell'i­potassi linguistica, secondo i modi consentiti dalla struttura di una lin­ gua" (ivi, p. 271). Analogamente, parlando della sintesi copulati­ va: "Con ciò non si asserisce affatto che tutte le lingue debbano essere capaci di un simile modo di espressione..."(ivi, p. 254; cfr. anche p. 266 e p. 249). [39] ivi, pp. 280-282. [40] Cfr. Tractatus logico-philosophicus, prop. 4.243 (trad. it. cit., p. 34). [41] § 21, pp. 93 sgg. [42] ivi, p. 328. [43] ivi p. 95. [44] ivi, p. 108. Il termine Alternative viene usato da Husserl in questo contesto soltanto in rapporto alla nozione di possibili­ tà problematico. Verso la fine del passo citato, ho corretto Abschichtung che compare nel testo con Abschwächung, correzione che è resa legittima dal confronto con Analysen zur passiven Synthesis, op. cit., p. 43. [45] ivi, pp. 352-353. [46] ivi, pp. 353-354. [47] ivi, p. 371. [48] Cfr. § 71 p. 349 e pp. 351-352. Inoltre: §§ 78-79 (pp. 371 sgg.). Giovanni Piana Opere Complete Volume secondo Strutturalismo fenomenologico e psicologia della forma 1. L'idea di uno strutturalismo fenomenologico, p. 5. 2. Fenomenologia e psicologia della forma, p. 17. 3. La nozione di qualità ghestaltica in von Ehrenfels, p. 73. 4. Momento figurale e qualità ghestaltica, p. 101. 5. La tematica husserliana dell'intero e della parte, p. 119. 6. La nozione di tendenza sintetica illustrata con esempi, p. 175. 7. Una passeggiata sulla collina di Loretto, p. 197. 8. Un'analisi husserliana del colore, p. 225. 2013 4 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT ISBN 978-1-291-26167-7 Copyright : Giovanni Piana (2013) Nota: Nel corso di questo libro uso il termine Gestalt come termine tedesco e dunque lo scrivo come tale; essendo l'aggettivo corrispondente una italianizzazione, preferisco aggiungere la "h", in conformità alla pronuncia corretta. 5 Giovanni Piana L'idea di uno strutturalismo fenomenologico 1996 6 Questo saggio è stato pubblicato nel volume Phänomenologie in Italien, edito da Renato Cristin, Verlag Knigshausen & Neumann, Würzburg 1996 7 Introduzione Talvolta ho parlato di strutturalismo fenomenologico o, in senso più ampio, di un punto di vista fenomenologico-strutturale, per caratterizzare il mio modo di intendere le tematiche fenomeno­ logiche. Nelle pagine che seguono cercherò di dare qualche spiegazione in proposito. Va premesso anzitutto che questo punto di vista non deriva dalla commistione di fenomenologia e strutturalismo, in­teso quest'ultimo come un orientamento filosofico e culturale che deriva i suoi metodi dalla linguistica. Né si vuole qui ac­cennare al presentarsi di temi fenomenologici in quell'orizzonte culturale. In realtà, se non cediamo alle abitudini della terminologia filosofica, ci è possibile scorgere nella parola tedesca Wesen una sfumatura di significato che potremmo esprimere meglio con struttura che con essenza. In questo modo risulterebbero sempli­ cemente prive di senso le innumerevoli vecchie dispute sul platonismo fenomenologico. La parola "struttura" rimanda all'idea di uno scheletro, di uno schematismo interno, ad un modo della costituzione interna, in breve: all'idea di una forma caratteristica che, a mio parere, indica direttamente la mèta delle ricerche fenomenologiche. Definizione del metodo fenomenologico Ho cercato una volta di definire in breve la natura del metodo fenomenologico nell'ambito di una filosofia dell'esperienza in que­sto modo: il metodo fenomenologico vuole caratterizzare gli atti dell'esperienza, esibendo le loro differenze di struttura. Non conosco nessuna definizione più semplice e chiara ed è strano che una simile formulazione non si fosse già fatta avanti nella letteratura fenomenologica. 8 Richiamare l'attenzione sulla struttura significa innanzi­tutto sottolineare il senso vero, ed anzitutto polemico, della do­manda fenomenologica intorno alle "essenze". Questo sen­so giace nell'atteggiamento antipsicologistico che caratteriz­za la filosofia fenomenologica. Non si tratta di un'osservazione su­perflua: filosofi come Merleau-Ponty o Sartre non hanno com­preso questo punto e le loro ricerche fenomenologiche assu­mono in ultima analisi la forma di riflessioni sui risultati della ricerca psicologico-empirica. Ne segue che essi hanno meno a che spartire con lo strutturalismo fenomenologico di filosofi come Cassirer o Witt­genstein, che sono certo più lontani dalla filosofia di Husserl. Nello stesso tempo, tuttavia, si deve prendere posizione contro ogni tentativo di deprimere la fenomenologia in un super­ ficiale descrittivismo, incapace di discernere ciò che è si­gni­ficativo da ciò che non lo è, e che si accontenta di sommare gli uni agli altri i risultati descrittivi. Lo scopo della fenome­no­lo­gia non è quello di affastellare alla cieca descrizioni su de­scrizioni, ma - attraverso la descrizione - portare a piena evidenza determinate circostanze significative di ordine strutturale. Tesi generale La tesi generale e, al contempo, la condizione di possibilità della ricerca fenomenologica suona dunque così: l'esperienza pos­ siede, in ogni sua forma di manifestazione, una struttura e la ri­cerca fenomenologica deve rendere evidente questa struttura, mostrando con chiarezza i suoi nodi e le sue articolazioni. Dunque, non ogni situazione di per sé descrivibile è meritevole di essere descritta. Con le parole "esperienza" e "struttura" vie­ne circoscritto per intero lo spazio dell'indagine fenome­nologica. La fenomenologia è "dottrina dell'esperienza" in senso emi­nente. Ma l'esperienza non ha nulla a che fare con la conoscenza pura. La conoscenza è un titolo per un diverso orientamento della ricerca - l'orientamento di una "dottrina della 9 scienza". Dottrina dell'esperienza e dottrina della scienza sono aree di ri­cerca assai ampie, cui spesso capita di essere erroneamente sovrapposte, ma che in realtà debbono essere distinte con la massima cura. Ma noi non diciamo soltanto che la fenomenologia è in senso eminente dottrina dell'esperienza: affermiamo anche che una dottrina dell'esperienza, che sia sviluppata con quella radi­ calità che la filosofia chiede, può assumere soltanto la forma di una teoria fenomenologica. La via husserliana È necessaria tuttavia un'importante precisazione. Una teoria fe­ no­menologica dell'esperienza ha naturalmente come suo pos­ sibile tema il soggetto esperiente. Più precisamente: anche in rela­zione alla vita soggettiva nelle sue molteplici forme si possono avanzare constatazioni di carattere strutturale - anche qui vi è libero spazio per chiarificazioni fenomenologiche. Ma queste ricerche non conducono ad una "filosofia della sogget­tività", non sfociano in un rinnovato idealismo filosofico. Non vi è dubbio che questa fosse invece la via di Husserl, una via che si apre con la svolta cartesiana e che continua con il rimando al trascendentalismo kantiano. Non è il caso di affrontare qui temi così ampi e complessi. Tuttavia appartiene agli intenti di questo breve saggio sotto­ lineare almeno che all'origine della teoria della riduzione di Hus­ serl non vi è soltanto un'istanza teoretica. I suoi sforzi di tras­ formare la teoria della riduzione in una questione metodica onni­comprensiva, il sorgere in questo contesto del problema di una fondazione assoluta - una richiesta che diviene sempre più pressante per Husserl e che si trasforma nei suoi ultimi anni in una vera e propria ossessione - tutto questo mostra che ci troviamo di fronte ad uno sviluppo filosofico che non ha le sue ragioni nell'ambito della teoria pura. 10 Nella rarefatta atmosfera teorica delle Idee il termine "Welt­ vernichtung" (annientamento del mondo) caratterizza la riduzione fenomenologica come un'astratta operazione filo­so­fica: ma in realtà si tratta di un termine profondamente ambivalente poiché esprime nel contempo l'irrompere di un dramma storico di proporzioni inaudite. L'impiego di un termine così forte non sarebbe comprensibile se nel 1913 l'immagine di un annientamento del mondo non sembrasse vicina alla sua tragica realizzazione. Di fronte alla mi­nac­cia di un annientamento del mondo, la filosofia deve azzerarlo consapevolmente ed azzerarsi a sua volta per assu­mersi il compito di annunciare la possibilità di un nuovo inizio. La tradizione nella sua interezza deve essere allora ne­gata, affinché il suo senso originario e dimenticato possa essere ripensato e possa nuovamente agire - al di là della catastrofe. Di questo parla la Crisi delle scienze europee, il cui senso più profondo - seppure soltanto nei suoi contorni - è già annun­ciato nella teoria della riduzione e nel ritorno alla sogget­tività. Così, nel problema della fondazione assoluta non è soltanto in questione il concetto di fenomenologia: vi è un invito pressante ad attuare una presa di coscienza storica ed etica. L'idealismo trascendentale ha di mira un obiettivo etico: la filosofia e il filosofo debbono fare valere la loro saggezza e responsabilità contro la tragica e cieca insensatezza della storia. Critica Molte sono le questioni che restano qui aperte, ed è noto che la riflessione di Enzo Paci si orientava proprio in questa direzione. La dimensione etica dell'idea di fenomenologia come filosofia della soggettività, che era già presente e tematizzata in Husserl, diventa nettamente prevalente in Paci. La proposta di un'analisi concreta dell'esperienza doveva rimanere così sullo sfondo, ed è senz'altro possibile affermare che l'idea di realizzare una 11 "dot­trina dell'esperienza" rimane del tutto estranea al pro­gram­ ma filosofico di Paci. Al suo posto troviamo le discussioni sulla scienza e sulla tecnica nella loro relazione rispetto al "significato dell'uomo". È in questo contesto soprattutto che si parla di "mondo della vita" (Lebenswelt), per lo più facendo riferimento a quegli a­spetti che sottolineano in modo particolare la contrapposizione tra la concettualità della scienza, che si presume ostile alla vita, e il corso della vita stessa nella quale gli uomini sono immersi. Di contro, se vogliamo mettere in luce il contenuto ana­ litico della fenomenologia, dobbiamo ricondurre la teoria della riduzione alle sue intenzioni originarie che sono già espresse in modo icastico nel motto "alle cose stesse!". In questa prospet­tiva l'epoché fenomenologica - e in parte anche il dubbio car­tesiano - rappresenta soltanto un artificio, per introdurre una ricerca che ha per tema il mondo come campo fenomenico. La tensione verso una fondazione assoluta e l'esasperazione del pathos rivolto alla soggettività trascen­dentale ultimamente fon­dante possono trovare qui, in un diverso orizzonte proble­matico, la loro chiarificazione adeguata. A questa stessa impostazione critica appartiene anche la nostra valutazione della tradizione empiristica il cui significato fondamentale è stato di norma trascurato dagli studi italiani, in modo particolare nelle interpretazioni più recenti che mostrano la tendenza generale ad elaborare tematiche originarie della fenome­ nologia in modo tale da farle infine confluire in un oriz­zonte heideggeriano, in ossequio ad un conformismo che purtroppo non è diffuso soltanto in Italia. Naturalmente, la fenomenologia non è una forma di empirismo, e lo strutturalismo fenomenologico deve anzi essere in grado di esercitare una critica approfondita delle tendenze empiristiche che sono ancora così diffuse nel dibattito culturale e filosofico, in particolar modo nell'ambito semiologico. E tuttavia rammentare l'importanza del ruolo che la tradizione empiristica ha sempre giocato per Husserl è anche il contrassegno di un 12 punto di vista teoretico: l'adesione ad un concetto di filosofia, ad un atteggiamento intellettuale che non ama i profluvi di parole, la vuota retorica e nemmeno quelle verità che per essere troppo "profonde" sono spesso anche profondamente incomprensibili. Va del resto notato che il tema della costituzione, che è indub­ biamente uno dei motivi più ricchi del pensiero fenomeno­logico, è in realtà di matrice empiristica. Genesi e struttura La parola "costituzione", che rimanda a constituo e constitutio, racchiude un ordine di idee che implicano anche il concetto di struttura. Constitutio significa infatti disporre, costruire, istituire, ma anche comporre, nel senso di un raccogliere insieme volto a raf­ forzare e consolidare qualcosa. Nell'uso retorico-giuridico, con­ sti­tuere significa definire con chiarezza una questione di di­rit­to, e quindi anche fissare e circoscrivere i confini di un con­cetto. Alla definizione in senso logico come enunciazione del­l'es­­ senza deve essere dunque contrapposta l'esibizione della costitu­ zione, e cioè la descrizione del modo e della forma in cui un con­ cetto è sorto. Ogni analisi costitutiva è l'esibizione di una gene­si. Nel concetto di costituzione fenomenologica si fa dunque avanti un momento genetico nell'indagine strutturale: i concetti hanno una storia, le strutture sono strutture costituite, e l'e­ si­bizione dei processi costitutivi deve essere considerata come l'autentico metodo della chiarificazione filosofica. Se si vo­glio­ no chiarire rappresentazioni intricate e confuse e se si vogliono sciogliere nodi concettuali, allora si deve anche sapere che vi è un interno movimento dei concetti e che è necessario ripetere passo per passo questo loro cammino. La questione costitutiva ci riconduce così al tema dell'esperienza: se vi è una storia dei concetti, vi è anche un terreno a partire dal quale essa può pren­ dere le mosse; e se del terreno dell'esperienza si tratta, forse po- 13 tremmo dire che abbiamo a che fare con l'esperienza nella sua forma più generale, con la quotidianità. Sciogliere i nodi con­ cettuali vuol dire descrivere il modo in cui i concetti vengono concretamente adoperati nel nostro quotidiano avere a che fare con il mondo. Ci troviamo così sul terreno dei problemi che sono circo­ scritti dal titolo di Lebenswelt; si tratta allora di renderlo fruttuoso e ciò vuol dire liberarlo da quei significati che rimandano, in modo più o meno nascosto, alla filosofia della vita e, soprattutto, alla falsa antitesi tra la vita e la scienza. L'importanza della nozione wittgeinsteiniana di "gioco linguistico" A questo proposito è sicuramente appropriato rammentarsi dei concetti wittgensteiniani di gioco linguistico e di forma di vita come contesto di un gioco linguistico. Tuttavia, in relazione al nostro punto di vista, sarebbe senz'altro opportuno indebolire la piega relativistica che caratterizza la posizione di Wittgenstein e, ancor più, quella dei suoi continuatori, così come si dovrebbe d'altro canto rinunziare a quella unilaterale accentuazione della tematica del lin­guaggio, secondo la quale l'analisi linguistica sarebbe l'unico metodo filosofico. Senza aver con questo l'intenzione di sollevare una vera e propria discussione intorno a questo problema, si debbono al­ me­no proporre due osservazioni che in un certo senso giocano l'u­na contro l'altra: in primo luogo si deve ricordare come nello svi­luppo di un'indagine filosofica sia spesso necessario tener conto delle forme dell'espressione linguistica, e proprio nello stes­so senso che Wittgenstein ha esemplarmente mostrato; in se­ condo luogo, si deve in linea di principio distinguere tra espe­rien­za e linguaggio, anche se si tratta di ambiti strettamente intrecciati l'uno con l'altro. Non è vero che soltanto il lin­guag­gio sia il filo conduttore che dà ordine e sviluppo ai problemi filosofici. Del 14 re­sto, nell'indagine fenomenologica è sempre importante il poter parlare di una dimensione prelin­guistica. En­tro questi limiti, tut­ tavia, la prospettiva wittgen­steiniana è sen­z'altro utile per poter approfondire l'idea di uno struttura­lismo fenomenologico. Necessità di una teoria dell'immaginazione Nel problema della costituzione originaria, ma anche più in generale in una dottrina dell'esperienza gioca un ruolo consi­ derevole una teoria dell'immaginazione adeguatamente svi­lup­ pata. Il mondo esperito non è solo un mondo percepito, né tanto meno è soltanto un mondo per la conoscenza. La relazione sog­gettiva al mondo si manifesta in modalità diverse, e ciò fa sì che le attribuzioni di senso siano disposte su molti livelli e siano riccamente articolate. Nella costituzione di questo intreccio di sensi l'immaginazione svolge un lavoro considerevole. Ora per conoscere ciò che essa opera si deve analizzare la sua natura, e ciò significa, tra l'altro, cogliere quelle determinazioni che ca­rat­terizzano il suo oggetto rendendo possibile la distinzione tra oggetti dell'immaginazione, della percezione e del ricordo. In Husserl vi è un inizio significativo per un'autentica filosofia dell'immaginazione. Ma si tratta solo di un inizio: la filosofia dell'immaginazione di Husserl è incompleta e si può trarre da essa profitto solo integrandola. In particolar modo si debbono far valere le sintesi immaginative, nella loro peculiare natura. Con queste sintesi è del resto strettamente intrecciato il concetto di valorizzazione immaginativa. Nell'elaborazione di una teoria dell'immaginazione si apre un varco verso le domande che appartengono alla filosofia del­ l'ar­te. Di recente ho cercato di misurare la validità di un ap­ proccio fenomenologico-strutturale sul terreno di una filosofia della musica. Di fatto, la musica del nostro secolo ha realizzato un ritorno alle fonti originarie - un ritorno alle condizioni del suo sorgere. Credo che una filosofia della musica debba ripercorre- 15 re un cammino analogo sul piano della riflessione. Ne segue che una filosofia della musica deve di nuovo interrogarsi su quelle distinzioni e su quelle regole fondamentali che - nel loro appartenere al modo di datità del suono in quanto materia con­ cre­tamente percepibile - rappresentano le condizioni di ogni prassi musicale. Una teoria fenomenologica dell'imma­gi­nazione è infine irrinunciabile, se si cerca di rendere conto della questione, affrontata così spesso in modo insoddisfacente, del simbolismo nell'espressione musicale. 16 17 Giovanni Piana Fenomenologia e psicologia della forma 1988 18 Dei rapporti tra fenomenologia e psicologia della forma mi sono occupato nel corso 1978-79 sul tema "Problemi di fenomenologia della percezione" e nel corso del 1988 sul tema "Introduzione alla fenomenologia". Il presente testo è tratto dalle lezioni del 1988. 19 Indice 1. Il punto di vista atomistico-associazionistico - La sensazione pura e l'esperienza passata secondo questo indirizzo. 2. La critica ghestaltistica dell'idea di sensazione pura - L'esigenza di una corretta descrizione fenomenologica del dato percettivo da parte della psicologia della forma come compito preliminare - Importanza del contesto - La distinzione tra fenomenologia pura e fenomenologia empirica. 3. La problematica dell'unificazione e le leggi della forma - Contiguità e somiglianza. 4. Legge della forma chiusa - Legge di buona continuazione - La pos­ sibilità di interpretare le leggi della forma come formulazioni di condizioni intrinseche delle formazioni unitarie - Stretta relazione tra tematica feno­ menologica delle sintesi percettive e tematica delle leggi della forma così intese. 5. Dubbi e perplessità sull'impiego della parola "legge" - Difficoltà di intendere le leggi della forma come leggi empiriche - Le leggi della forma interpretate come tendenze psicologiche. 6. La legge della pregnanza come legge generale di cui le leggi della forma sarebbero casi speciali - Essa sembra formulare una tendenza psicologica alla rettificazione - Distanza su questi aspetti tra fenomenologia filosofica e psicologia della forma. 20 21 1. Il punto di vista atomistico-associazionistico - La sensazione pura e l'esperienza passata secondo questo indirizzo. Ciò che va sotto il titolo di Psicologia della forma o psicologia della Gestalt (Gestaltpsychologie) è una corrente di grandissimo rilievo nella psicologia del novecento i cui inizi possono essere fatti risalire al primo decennio del secolo. I primi lavori importanti e nettamente orientati della "scuola di Berlino" (Wertheimer, Köhler, Koffka) sono datati tra il 1910 e il 1913. Le date debbono essere spostate all'ultimo ventennio del secolo XIX per ciò che concerne i primi inizi, le anticipazioni, le considerazioni che preparano i punti di vista di questa corrente psicologica. Questi primissimi inizi sono caratterizzate da un intreccio tra problematiche filosofiche e psicologiche: in particolare, in una storia che mostri l'origine dei problemi della psicologia della forma, non potrebbe essere certo trascurata la posizione di Brentano, Stumpf, Meinong, von Ehrenfels, Husserl, Mach e di molti altri nomi autorevoli che sono legati tra loro sul piano culturale da precisi e documentabili nessi. Questi nomi mostrano in particolare che vi è una rete di interrelazioni teoriche assai complessa che riguarda le origini della fenomenologia e in generale di un atteggiamento fenomenologico in senso lato e le origini della psicologia della forma. Questa problematica si estende in seguito anche al di fuori del campo della psicologia in senso stretto. Nel campo filosofico, va rammentata almeno l'attenzione che Ernst Cassirer dedica a questa corrente psicologica; e la determinante presenza della psicologia della forma nel pensiero di Merleau-Ponty. Ma l'influenza della psicologia della Gestalt non si limita alla filosofia, coinvolgendo anche altri campi, soprattutto la teoria dell'arte e della critica d'arte (basti pensare a Rudolf Arnheim), ed anzi influenzando 22 talvolta direttamente la stessa produzione artistica, in particolare pittorica. La psicologia della forma è perciò uno dei grandi punti di incontro della cultura del secolo XX. In questa nostra discussione ci limiteremo a considerare i rapporti tra fenomenologia e psicologia della forma, avendo di mira le tematiche specifiche che riguardano una filosofia dell'esperien­za. Nel loro sviluppo avremo modo di puntare l'attenzione soprattutto sulla distinzione tra fenomenologia filosofica e fenomenologia psicologica, cioè tra una nozione di fenomenologia che si separa in via di principio da una problematica di ordine psicologico e una nozione di fenomenologia integrata invece in un programma psicologico. Oltre a questo aspetto metodico, cercheremo di mostrare come le concezioni della psicologia della forma si incontrino per aspetti particolarmente significativi soprattutto il rapporto la problema delle sintesi percettive, così come viene proposto dalla fenomenologia. Nell'intento di mettere in luce anzitutto gli aspetti comuni, va attirata l'attenzione in primo luogo sulla critica all'indirizzo psicologico associazionistico a cui la psicologia della forma si contrappone e dunque, sotto il profilo filosofico, alle ascendenze di questo indirizzo nell'empirismo classico, e in particolare nella posizione di Hume, il cui "atomismo psicologico" viene respinto da entrambi gli indirizzi. La parola "atomo" evoca subito l'idea di una concezione della realtà i cui costituenti ultimi sarebbero delle particelle indivisibili che si aggregano fra loro formando le cose così come ci appaiono e i cui movimenti renderebbero conto dell'acca­dere degli eventi. Nell'atomismo antico queste particelle venivano considerate come veri e propri corpuscoli materiali reciprocamente indipendenti, privi di relazioni interne tra loro, cosicché la loro aggregazione deve essere concepita come un'aggregazione estrinseca, sia che si supponga che derivi da incontri casuali oppure che sia governata da leggi ben determinate. Questa concezione filosofico-speculativa, tende a diventa- 23 re, all'inizio della scienza moderna, qualcosa di molto simile ad un'i­potesi esplicativa di carattere generale per i fatti studiati dalla scienza della natura. Il tema dell'atomismo concerne dunque anzitutto una teoria della materia e quindi della realtà fisica. Nello stesso tempo, l'atomismo assume il carattere di un modello da applicare anche in altri campi, ed in particolare nel campo della fisiologia e della psicologia. Più precisamente: ciò che assume carattere di modello è l'idea che sia sempre possibile risolvere una situazione complessa in elementi semplici, una funzione complessa in funzioni elementari e l'idea conseguente che la funzione o la situazione complessa in genere derivi da una aggregazione "sommativa" (come anche talvolta ci si esprime) degli elementi o delle funzioni elementari considerate come reciprocamente indipendenti l'una dal­l'altra. Considerando il lato psicologico, ciò significa ad esempio, che una percezione tattile complessiva, ad esempio, la sensazione che io ricevo afferrando un bicchiere con una mano, sarà il risultato della somma delle stimolazioni singole ricevute dai singoli punti sensibili della mia mano. Vi è così la molteplicità degli elementi sensitivi della mia mano che, in quanto eccitati simultaneamente da stimoli puntuali, dànno luogo all'impressione tattile globale. Formulata in questo modo una posizione come questa sembra avere numerosi motivi di plausibilità. In base ad essa, anche le sensazioni relative a campi sensoriali differenti saranno intese come reciprocamente indipendenti, anche se naturalmente esse potranno aggregarsi tra loro, ad esempio una sensazione visiva con una sensazione tattile, secondo il modello "sommativo" che caratterizza le sensazioni elementari. Anzi è necessario che ciò accada perché in ge­ne­rale quando parliamo di oggetti percepiti si intendono delle unità che rimandano ad organi di senso differenti. Nello spirito dell'im­postazione associazionistico-atomistica la nozione della cosa andrà in effetti intesa come un aggregato di sensazioni: una mela, ad esempio, sarà considerata come un puro aggregato sommativo di sensazioni tattili, cromatiche, visi- 24 ve in genere, gustative ed olfattive. Ponendo le cose in questo modo lo schema interpretativo di Hume si impone in modo del tutto ovvio. Se la cosa non è altro che un complesso di sensazioni, essa può apparire tale solo attraverso un processo di consolidamento e di stabilizzazione: solo nella misura in cui quel complesso di sensazioni si ripresenta più e più volte mantenendo proprio quelle determinazioni sensoriali caratteristiche e quei legami tra esse, cosicché una determinata sensazione tattile e visiva di rotondità viene costantemente associata ad una determinata sensazione gustativa ed olfattiva, le sensazioni che hanno un intrinseco carattere di fluidità possono apparire solidamente inerenti ad una cosa a titolo di sue proprietà. Risulta allora inevitabile il richiamo all'esperienza come formatrice di "abitualità" che interessano la stessa forma del mondo che ci appare. Se nella mia testa vi è l'idea di una mela, in base alla quale sono in grado di riconoscere come tale un complesso sensoriale che ora mi si presenta dinanzi, ciò dipende dalla frequenza con cui ho sperimentato la coesistenza di determinate qualità - una coesistenza che peraltro è del tutto accidentale all'inizio e tale resta nell'iterazione dell'esperienza. Accade soltanto che questa accidentalità si conferma e si stabilizza nell'iterazione - cosicché se io ora io vedo una mela mi aspetto fondatamente che essa abbia un determinato sapore. Ciò vale in generale per qualunque unità esperita. Con questo schema interpretativo, si impone anche uno dei problemi fondamentali che conseguono ad esso: il problema, cioè, di districare all'interno della percezione ciò che è dovuto alla sensazione in quanto tale, nella sua attualità, e ciò che è invece dovuto ad un'acquisizione associativa che rimanda all'espe­rienza passata. Questo problema è solo genericamente presente in Hume, nel concetto stesso di impressione, mentre nella psicologia atomistico-associazionistica esso assume un senso piuttosto preciso, che è per noi particolarmen­te interessante in quanto ci presenta in modo concreto la sostanza della polemica che viene svi- 25 luppata nei confronti di questa direzione di ricerca da parte degli psicologi della forma. Per indicare il contenuto sensoriale come tale, indipendente da interpretazioni che implicano l'esperienza passata, vogliamo par­lare di "sensazione pura" [1] . È interessante notare che, benché questa nozione, nell'interpretazione data dalla psicologia associazionistica venga respinta sia dalla psicologia della forma che dalla filosofia fenomenologica, per rendere conto di essa e renderla immediatamente comprensibile è utile far riferimento ad uno dei padri lon­tani del pensiero fenomenologico, e precisamente agli esempi che Lambert, nel suo Nuovo Organo, citava per illustrare la nozione di parvenza come nozione di base della sua "fenome­nologia": "Non è necessario in questa sede - egli scrive - addurre molti casi per mostrare la distinzione tra la parvenza e la vera natura delle cose visibili, in quanto esse sono un oggetto della vista. Infatti ognuno sa che cose identiche sembrano ad una maggiore distanza più piccole, più confuse e più sfocate; che esse appaiono diversamente considerate da altri punti di vista; che il loro colore cambia con il cambiare della luce che le colpisce; che le spiagge sembrano allontanarsi, avvicinarsi e, in genere, muoversi agli occhi dei naviganti; che un cerchio considerato di sghembo potrebbe sembrare oblungo e viceversa, un'ovale oblunga, considerata da certi lati, potrebbe sembrare rotonda, ecc." [2] . Tenendo conto di questi esempi non è difficile illustrare la nozione di "sensazione pura" e naturalmente anche, da subito i problemi e le difficoltà che essa solleva - oltre che i modi diversi di interpretarla. Prendiamo in considerazione il caso della percezione della profondità dello spazio, quindi di una persona vista prima a distanza, e poi più da vicino. Secondo l'impostazione che abbiamo precedentemente delineata, una simile percezione verrà considerata co­me un risultato di due momenti. Un momento è attinente alla sensazione pura: esso riguarda proprio la piccolezza 26 della persona vista a distanza. Se prescindessimo dall'esperienza passata e dagli insegnamenti che da essa abbiamo potuto trarre e che pesano sulla sensazione attuale, certamente valuteremmo piccola la persona dal momento che essa ci si presenta effettivamente piccola. Ma questa valutazione non entra affatto nel risultato percettivo complessivo proprio perché nel corso dell'esperienza passata si è costituita un'i­dea delle dimensione dei corpi, della loro grandezza e del loro volume: in particolare, sempre in base all'esperienza passata, sappiamo che la grandezza non muta con il movimento del corpo nello spazio. Se potessimo ipotizzare una situazione di esperienza temporalmente primitiva, in cui questa idea non ha ancora potuto prendere forma, allora dovremmo attenerci ai dati puramente sensoriali e valuteremmo la variazione di grandezza di una persona che si avvicina come un'effettiva variazione di grandezza. Poiché invece l'esperienza passata ci ha fornito i suoi insegnamenti, essi agiscono all'interno della percezione nel suo complesso: la sensazione pura come tale viene corretta e reinterpretata. Si noti come ciò richieda che nel processo percettivo si verifichi qualcosa di simile ad un'argo­ mentazione, o più genericamente ad un'attività giudicativa, che tuttavia non è consa­pevol­mente effettuata dal soggetto percettivo, ma che interviene direttamente a determinare il risultato percettivo. Questo problema delle attività giudicative inconsce si ripresenta in realtà di continuo non solo in questi dibattiti psicologici relativamente lontani, ma anche negli svi­lup­pi dell'empirismo filosofico novecentesco, ad esempio nel­l'am­bito della filosofia dell'e­sperien­za di un Bertrand Russell. Consideriamo l'esempio del mutamento di forma o di colore. L'impian­to della questione è naturalmente analogo. Guardando di sbieco un oggetto di forma sferica, esso mi appare di forma ovale: e questo sarà inteso come un dato della sensazione pura che verrà in qualche modo sottoposto ad una correzione dovuta ad un "sapere" accumulato nell'esperienza passata. Il giudizio inconscio che si inserisce nella percezione potrebbe 27 essere fondato sulla convinzione che gli oggetti non mutano di forma con il mutare di punto di vista o, ancora più semplicemente, potrebbe poggiare sul fatto che io so che quell'oggetto è effettivamente di forma sferica, cosicché il dato sensoriale viene in certo senso soppresso dalle conoscenze in precedenza acquisite. Cosicché noi continueremo ad affermare, contro ciò che viene attestato dalla sensazione pura ed addirittura alla sua presenza, di vedere un oggetto di forma sferica. Va da sé che, stando a questa impostazione, lo psicologo associazionista era particolarmente interessato a mettere in evidenza il divario esistente tra sensazione pura e interpretazione ricorrendo anche a svariati esperimenti. Ecco un esempio, riguardante la variazione cromatica, illustrativamente molto efficace. Sia a nostra disposizione un cartoncino [3] che osserviamo alla luce di una finestra: esso ci appare bianco. Osserviamolo poi in un angolo relativamente buio della stanza. Esso ci appare ancora bianco. Lo psicologo che sta conducendo l'esperimento e ci fornisce le istruzioni necessarie, ci prega ora di guardare il cartoncino nell'an­golo buio della stanza, ma questa volta attraverso un altro cartoncino nel quale è stato praticato un piccolo foro. Ora il cartoncino che prima avevamo giudicato bianco ci appare invece nettamente grigio e di ciò diamo comunicazione allo psicologo. L'esperimento può naturalmente essere compiuto in prima persona dallo psicologo stesso. Esso sembra adattarsi a meraviglia per mostrare il divario tra sensazione pura e sensazione interpretata attraverso giudizi inconsci derivanti dall'esperienza passata. Il cartoncino con il foro rappresenta il mezzo che ci ha consentito di effettuare materialmente questo divaricazione, mettendoci per così dire faccia a faccia con la sensazione pura. 2. La critica ghestaltistica dell'idea di sensazione pura - L'esigenza di una corretta descrizione fenomenologica del dato percettivo da parte della psicologia della forma come compito preliminare - Importanza del contesto - La distinzione tra fenomenologia pura e fenomenologia empirica. 28 L'affermazione "esistono sensazioni pure" può essere assunta come un'affermazione che sintetizza il punto di vista centrale della psicologia atomistico-associazionistica, naturalmente tenendo conto sia del modo in cui questa nozione viene introdotta sia del quadro esplicativo entro cui l'intera tematica deve essere comunque racchiusa. Da un lato l'esistenza di sensazioni pure sembra indispensabile per mostrare il peso del­l'esperienza passata, e quindi dei meccanismi associativi, dal­l'altro essa prepara il terreno alle spiegazioni che debbono ricondurre dal piano propriamente psicologico a quello fisiologico. Abbiamo notato in precedenza che l'atomismo psicologico sembrava stabilire una via d'accesso anzitutto a spiegazioni da ricercare nei meccanismi fisiologici soggiacenti, proprio in quanto si tendeva ad assumere una concezione "som­mativa" in rapporto alle funzioni fisiologiche complesse, interpretate come una somma di funzioni singole reciprocamente indipen­denti. Questa concezione rappresenta il terreno primario di attacco della psicologia della forma. La critica avviene anzitutto sul piano delle spiegazioni fisiologiche e del modo di correlare fatti psicologici e fisiologici. Del resto è il caso di richiamare fin d'ora l'atten­zione, proprio all'interno di una discussione che ha come tema il confronto tra un atteggiamento fenomenologico filosoficamente elaborato e la psicologia della forma, che quest'ultima resta e intende restare strettamente all'interno della problematica della psicologia come scienza empirico-sperimentale, e in questo ambito il problema delle relazioni tra piano psicologico e piano fisiologico è un problema della massima importanza e del massimo interesse scientifico. Ciò che viene messo in discussione è il modo in cui l'associazionismo istituisce questa correlazione, ed in particolare l'assunto che l'organismo debba essere concepito come una sorta di meccanismo il cui movimento complessivo è determinato da una somma di movimenti di parti considerate come tra loro indipendenti. A questa concezione si contrappone 29 l'idea dell'organismo come una totalità di parti che si trovano in un rapporto di influenza reciproca, che sono perciò interdipendenti e che interagiscono attivamente tra loro. Del resto il termine di organismo, il parlare in genere di organicità allude spesso proprio ad un modo di essere delle parti nel tutto interamente diverso dal modo di essere degli elementi all'interno di un ingranaggio. Dal punto di vista filosofico questa distinzione è stata particolarmente elaborata da Kant nella sua Critica del giudizio: ciò merita di essere rammentato dal momento che spesso si parla in rapporto alla psicologia della forma di una sorta di kantismo trasferito dal piano filosofico a quello psicologico. Io credo che una simile affermazione sia troppo forte, ma non c'è dubbio che il richiamo a Kant abbia una sua validità almeno in rapporto al problema del rapporto dell'intero e della parte, problema che può indubbiamente essere utilizzato come una sorta di fondamentale filo conduttore all'interno di un'esposizione introduttiva ai punti di vista della psicologia della forma. Alla luce di questa nozione di totalità costituita di parti tra loro interagenti, e quindi di una totalità che supera la semplice somma delle parti, come anche si dice, muta naturalmente anche il modo di prospettare i problemi della percezione. Anch'essi infatti dovranno essere presi in considerazione tenendo conto del fatto che le formazioni percettive sono a loro volta "interi organici". Ciò implica una critica serrata dei due punti essenziali dell'impo­stazione psicologica associazionistica: l'idea di atomi sensoriali ovve­ro di sensazioni riconducibili a stimoli semplici e l'idea della "sensazione pura". Uno stimolo semplice - ad esempio derivante da una fonte puntiforme - induce comunque una modificazione nel campo percettivo che deve essere intesa come una modificazione di tipo globale. Esso deve essere in ogni caso considerato all'interno di un contesto relazionale più o meno complesso. Il rifiuto dell'idea di sensazione pura, così come è interpretata nel contesto teorico della psicologia associazionistica, consegue direttamente dall'in- 30 sistenza posta necessità di un esame contestuale che sappia situare la parte nella totalità a cui appartiene. L'esem­plificazione del cartoncino bianco che ci è parsa in precedenza particolarmente efficace per mettere in evidenza la nozione di sensazione pura si presta anche per illustrare la critica di essa. Questo esperimento viene interpretato dallo psicologo associazionista come se esso ci ci consentisse di cogliere la sensazione pura - sensazione che verrebbe in certo modo corretta in forza di cognizioni implicite derivate dal­l'esperienza passata. Su questa interpretazione lo psicologo della forma ha qualcosa di molto serio da obbiettare. Egli farà notare in primo luogo la radicale variazione del contesto complessivo nel quale avviene l'osservazione nell'uno e nell'altro caso. Nel caso dell'osservazione del cartoncino nei due punti della stanza il campo visivo abbraccia naturalmente non soltanto il cartoncino ma la stanza intera; con le sue diverse zone di luminosità, con le sue dimensioni determinate ecc. Nel secondo caso invece - nel caso dell'osservazione attraverso il foro - il cartoncino come tale, ad esempio con i suoi bordi, con la sua forma, ecc. non viene più nemmeno visto dal momento che attraverso i1 foro possiamo cogliere solo una sua piccola porzione. A maggior ragione non appartiene al campo visivo la stanza e le cose che si trovano in essa. Questa variazione di contesto è il punto essenziale: secondo lo psicologo della forma ci dovremmo limitare a prendere atto del fatto che ora, attraverso il foro, il cartoncino mi appare grigio mentre in precedenza mi appariva bianco, e ciò proprio in dipendenza della variazione di contesto determinata dalla percezione attraverso un foro. Stando all'interpretazione precedente invece noi non ci limitiamo a tener conto del contenuto osservativo come tale, dal momento che assumiamo senz'altro che anche prima, quando osservavamo il cartoncino senza ricorrere all'artificio dell'osservazione attraverso il foro, il cartoncino non poteva che apparirci grigio, perchè questo era il contenuto della sensazione pura, solo che su questo contenuto sarebbe intervenuta una correzio- 31 ne. Nella prospettiva metodologica dello psicologo della forma dunque l'esperimento non illustra per nulla la nozione di sensazione pura: questa nozione viene anzi apertamente contestata come una pura astrazione non meno di quella di sensazione elementare. Nello stesso tempo appare chiaro come l'intera situazione sia gravemente fraintesa sullo stesso piano descrittivo. Si è infatti costretti ad ammettere, dal punto di vista interpretativo, che prima vedevo quello che in realtà non vedevo affatto, chiamando in causa dei "giudizi inconsci" in cui evidentemente non posso trovare alcuna traccia o indizio autentico nella situazione descrittiva: questi giudizi inconsci (ad esempio, la costanza del colore in qualunque luogo della stanza) sono niente altro che postulazioni conseguenti di quella impostazione pregiudiziale. La teoria della sensazione pura, e così anche il modo in cui viene intesa l'azione dell'esperienza passata è appunto soltanto una teoria, e precisamente una teoria che anticipa indebitamente delle interpretazioni su determinati fatti descrittivamente accertabili, proponendoli in modo fuorviante e aperto ad un completo fraintendimento. Se invece guardiamo al campo dell'esperienza senza pregiudizi teorici, dobbiamo anzitutto prendere atto del fatto che ogni singolarità che si offre in questo campo si determina in ciò che essa è in forza della totalità in cui essa è inserita. Ciò significa che siamo sempre alla presenza di totalità organizzate e che compito primario dello psicologo è quello di individuare quei fattori di organizzazione che determinano la forma della totalità (la Gestalt di essa) e dunque anche i modi in cui in base a questa forma appaiono le parti di cui la totalità stessa è composta. Il primo passo compiuto in positivo è dunque la rivendicazione della necessità di una corretta descrizione fenomenologica del dato percettivo: il termine stesso di fenomenologia o di livello fenomenologico dell'indagine viene spesso usato dallo psicologo della forma. Così Metzger sottolinea che "non ha senso e por- 32 ta inevitabilmente ad errori fare ipotesi e ricerche intorno alle cause ed agli effetti del dato immediato senza preliminarmente conoscerlo bene" e che una "feno­menologia della percezione" appartiene interamente alla psicologia [4] . Questo termine ha naturalmente un senso filosoficamente non troppo impegnativo e viene normalmente impiegato con il senso elementare di descrizione non prevenuta da teorie pregiudiziali. Katz parla in proposito di "descrizione semplice di dati di fatto non turbata da presupposti di sorta"; di "descrizione candida" e di "valutazione priva di preconcetti" [5] . Nei suoi Principi di Psicologia, Koffka si esprime così: "La buona descrizione di un fenomeno può da sola escludere parecchie teorie e indicare le precise caratteristiche che debbono comparire nella teoria corretta. Chiamiamo 'fenomenologia' quest'ultimo tipo di osservazione; il termine ha vari altri significati, da non confondersi con il nostro: per noi fenomenologia significa una descrizione dell'esperienza diretta il più possibile completa e non prevenuta" [6] . L'idea di fenomenologia che viene qui teorizzata è quella di un livello descrittivo interno della ricerca psicologica che prepara il terreno alle spiegazioni psicologiche vere e proprie, spiegazioni che non potranno certo trascurare la formulazione di ipotesi sul terreno delle funzioni fisiologiche - una problematica a cui, come abbiamo già osservato, gli psicologi della forma dànno la massima importanza. A questo proposito è ormai tempo di dare corpo alla distinzione tra una nozione di fenomenologia integrata in interessi psicologici ed una nozione di fenomenologia invece tutta intrecciata in un tessuto filosofico. È un fatto che dopo le inclinazioni psicologizzanti del suo primo periodo di sviluppo del suo pensiero, Husserl ha poi posto particolarmente l'accento su una via di accesso puramente filosofica alla sua fenomenologia, prima nel nome di Cartesio e poi in quello di Kant, approfondendo le distanze rispetto alla psicologia. Egli parla infatti di fenomenologia pura in contrapposizione ad una nozione di fenomenologia te- 33 orizzata all'interno di un program­ma psicologico, e che potremmo invece contrassegnare come fenomenologia empirica. Per fissare le idee, credo che si possa dire di essere in presenza di un problema di fenomenologia empirica quando sono soddisfatte almeno due condizioni: la prima riguarda ciò che si vuole sapere. La questione proposta deve infatti riguardare unicamente la superficie dell'esperienza, il modo di apparire delle cose. La seconda condizione è che la risposta possa essere cercata soltanto nell'osservazione diretta senza escludere naturalmente l'appresta­mento di appropriate situazioni sperimentali. Il senso in cui si parla di esperimento e di situazione sperimentale è tuttavia in questo caso piuttosto particolare. Poiché si tratta di accertare come vengono percepiti determinati oggetti o relazioni tra oggetti, eventi, movimenti ecc., è appunto indispensabile il riferimento ad osservatori e il risultato dell'esperimento non potrà che avvalersi delle comunicazioni verbali che gli osservatori interpellati produrranno come descrizioni di ciò che essi hanno colto nella situazione percettiva proposta; va da sé che lo psicologo stesso che organizza la sperimentazione potrà a sua volta disporsi in quella determinata situazione sperimentale e registrare con parole proprie il risultato della sua osservazione. Si comprende allora come simili sperimentazioni possano essere considerate come fondate, come talvolta si dice, sull'osservazione introspettiva o sull'intro­spe­zione - ma si comprende anche come questa formulazione possa prestarsi ad equivoci o a interpretazioni differenti. Sia che si tratti di una osservazione in prima persona o per persona interposta, si fa pur sempre riferimento ad una esperienza direttamente vissuta di una situazione percettiva. Per questo in realtà la caratteristica essenziale di questo modo di intendere lo sperimentare è proprio il fatto che esso possa essere compiuto in prima persona. Nello stesso tempo l'espressione di "introspezione" con il suo riferimento ad un "guardar dentro", e quindi ad un essere rivolto verso l'interno sembra richiamarsi ad un "guardare dentro di me per accertare che cosa accade 34 quando…" che inclina una direzione piuttosto differente dalla precedente che sembra mettere in questione un'osservazione diretta sulla cosa piuttosto che su me stesso che osservo la cosa. Si tratta di due sensi differenti, che andrebbero tenuti distinti, e sarebbe certamente opportuno riservare la parola "introspezione" alla seconda accezione piuttosto che alla prima. Vorrei citare almeno un esempio di un problema fenomeno­ lo­gico che va classificato come un problema di fenomenologia empirica. Nella nostra vita di ogni giorno siamo colpiti da una enorme quantità di stimoli di diversa natura. Anche se consideriamo il senso della vista soltanto ci troviamo normalmente alla presenza di stimoli differenziati, chiaramente distinti che ci dànno informazioni di varia natura (forma, spessore, volume, colori, caratteri di opacità e di trasparenza ecc.). Potremmo dunque affermare che di norma siamo sotto l'azione di una stimolazione percettiva discontinua, ovvero molteplice e differenziata. Supponiamo ora di porci il problema di che cosa accade sul piano percettivo qualora la stimolazione percettiva sia perfettamente omogenea. Una risposta a questa domanda non può affatto essere ovvia - non sembra siamo in grado nemmeno di prevederla, dato il carattere a dir poco inconsueto della situazione proposta. L'unico modo di ottenere una risposta consisterà nel produrre "in laboratorio" una situazione che sia il più possibile prossima a quella indicata - situazione che sarà soddisfatta, come osserva Koffka, "da qualsiasi superficie posta di fronte all'osservatore, purchè tutti i punti di essa inviino la stessa quantità di luce ai suoi occhi" [7] . Si tratta di una situazione tutt'altro che facile da ottenere, e non basterà certo per produrla disporsi di fronte ad una parete bianca: in tal caso vi saranno certamente delle discontinuità sulla parete, la linea del pavimento e del soffitto, ecc. Ammettiamo comunque di essere riusciti a realizzare una situazione sperimentale soddisfacente da questo punto di vista e di essere dunque in grado di affrontare in modo adeguato la que- 35 stione. Si noti che essa è in via di principio di natura descrittiva, dal momento che riguarda il modo di manifestarsi delle cose; e la sua soluzione può essere ricercata unicamente attraverso l'osservazione mia o di altri posti all'interno di quella situazione. Si sta dunque compiendo un esperimento, ma in un senso un poco particolare, dal momento che esso non deve verificare alcuna teoria, non deve confermare nessuna ipotesi, e nemmeno in realtà, considerato di per se stesso, aprire lo spazio a qualche ipotesi - che dovranno invece essere formulate se si passa al piano esplicativo. Il risultato dell'esperimento insegna che l'osservatore in simili condizioni non vedrà affatto una superficie piatta ed a una certa distanza ma "si sentirà immerso in una bruma di luce che diventa più densa ad una distanza indefinita" [8] . Si crea cioè quello che viene chiamata effetto nebbia - dove lo stessa parete non viene percepita come un piano ma "come una coppa cava che circonda da tutte le parti l'osservatore" [9] ; "In una situazione come questa si realizza intorno all'osservatore un'atmosfera nebbiosa, ugualmente estesa nello spazio davanti agli occhi come nello spazio fenomenicamente presente al di là dei confini ai quali arriva lo sguardo, omogenea e in parte penetrabile con la vista come può esserlo, ad es., il fumo denso o l'acqua torbida. Questa atmosfera costituisce un ambiente indifferen­ziato, nel quale l'osservatore si avverte situato; la nebbia arriva fino in prossimità degli occhi, e costituisce una unità tridimensionale inconfondibile con l'osservatore stesso, dato che c'è una ben chiara differenza tra il luogo dove egli sente di avere gli occhi e il luogo dove comincia ad esserci la nebbia" [10] . È del tutto chiaro che alla domanda proposta si deve rispondere con una descrizione della situazione percettiva e che nello stesso tempo la risposta dovrà essere cercata nell'espe­rien­za concretamente vissuta da un osservatore e verbalmente descritta nel modo che egli ritiene più adeguato. Si tratta dunque di una questione fenomenologica che ha carattere empirico. Si noti di passaggio come un venatura di introspezione nel secondo senso 36 del termine si affacci nella descrizione quando si parla del luogo l'osservatore "sente di avere gli occhi". Le cose stanno in modo profondamente differente se ad esempio ci venisse proposta la seguente figura: fig. A e ci venisse richiesto perché essa viene vista come una cosa unitaria, e precisamente come un rettangolo tagliato da una linea - e non come due figure accostate l'una all'altra: fig. B Per rispondere a questa domanda, forse ci sembrerà che non si tratterà tanto di fare esperimenti, quanto piuttosto di cerca­ re dei chiarimenti sulla base della struttura della configurazione. Si noti tra l'altro che, nella stessa posizione del problema, si dà per evi­ dente che la figura A si presenti, di primo acchito, proprio come un rettangolo tagliato da una linea. Ciò non significa, tra l'altro, che escludiamo per ciò stesso che qualcuno possa sostenere di vederla in modo differente: semplicemente ora non siamo interessati ad un simile caso. Del resto noi stessi, dopo l'esibizione della figura B, potremmo vederla proprio in conformità a ciò che 37 essa suggerisce. Nel proporre la figura B infatti abbiamo variato il contesto globale dell'osservazione della stessa figura A, e su di questa ormai la figura B proietta la sua ombra. Ed è proprio così che potrebbe cominciare un'analisi puramente fenomenologica… 3. La problematica dell'unificazione e le leggi della forma. - Contiguità e somiglianza. Fin qui ci siamo occupati prevalentemente di problemi di carattere metodologico. Ora invece la nostra discussione procede entrando nel vivo di una delle problematiche centrali che la psicologia della forma ha affrontato. Si tratta della problematica dell'unifi­ca­zio­ne percettiva. Il fatto che si parli di unificazione non implica peraltro l'idea che vi sia uno strato di esperienza costituito da dati dispersi da unificare - ciò sarebbe contrario al punto di vista generale che è qui dominante. Si tratta invece di mettere a fuoco il problema della formazione di unità all'interno di un campo percettivo globale - ciò significa che all'interno di questo campo certi complessi di dati si distinguono e prendono rilievo da altri, assumendo un carattere unitario. La tematica che indichiamo sotto il titolo di unificazione percettiva comprende quindi anche tutti i problemi attinenti alla separazione ed alla segregazione percettiva - l'unificare è, sul piano percettivo, anche un distinguere, la tematica dell'unificazione è nello stesso tempo anche una tematica della differenziazione. Vorrei premettere lo schema dello sviluppo che intendo seguire in questa discussione. In primo luogo si tratterà di spiegare che cosa si intende all'interno della psicologia della forma con tematica dell'unificazione, e già in questa spiegazione si confermerà il nostro interesse di fenomenologi verso questo problema: per certi versi potremo stabilire un legame diretto e immediato in particolare con la tematica fenomenologica delle sintesi percettive. Inoltre seguendo questa via ci imbatteremo subito nelle cosiddette leggi della forma: anzi, l'orientamento della tematica 38 dell'unificazione può essere illustrato in breve ed efficacemente proprio soffermandoci sul contenuto di queste leggi. Dopo di ciò, cercheremo di chiarire in che senso si parli di leggi e la discussione tenderà allora ad assumere un andamento di riflessione critica che chiamerà in causa la distinzione tra fenomenologia empirica e fenomenologia pura: cosicché al termine tenderemo a prendere le distanze da certe tendenze interpretative presenti nella psicologia della forma, pur dopo aver segnalato i punti di intersezione più interessanti. In che cosa consiste anzitutto il problema dell'uni­ficazione percettiva? Vogliamo dare a questa domanda una risposta attraverso un esempio. Di fronte a noi ci sia un mazzo di fiori in un vaso. La questione dell'unificazione e quello strettamente connesso della separazione può essere concretamente formulata in rapporto ad un un simile esempio in questo modo: come mai vedo proprio una simile configurazione complessa, che è in se stessa unitaria, ma che è anche composta di unità che mi appaiono in ogni caso ben distinte tra loro? Il vaso con la sua forma e il suo colore si presenta chiaramente distinto dal mazzo di fiori che contiene, e nello stesso tempo il mazzo è, a sua volta, una unità a se stante, articolata nei fiori che lo compongono. Di questi naturalmente io vedo unicamente la parte che si trova all'esterno del vaso, ma va da sé che, nel senso della percezione, sono anche in qualche modo presenti i gambi dei fiori che sono dentro il vaso. Se ci guardiamo intorno, ovunque potremo trovare esempi altrettanto pertinenti per i quali si potranno porre interrogativi analoghi che riguardano l'unifica­zione e le separazione dei contenuti percettivi. Questi interrogativi sono indubbiamente interrogativi che riguardano il piano fenomenologico. Nella "riduzione fenomenologica" non accade che scompaiano le unità oggettive e il campo percettivo ci si presenti come un caos di impressioni nel senso humeano del termine; accade piuttosto che queste unità si presentino come problemi. 39 Naturalmente saremmo tentati di rispondere: vediamo il mazzo di fiori come qualcosa di differente dal vaso per il semplice fatto che l'una cosa non è l'altra, così come vediamo i fiori tra loro come unità a se stanti perché essi sono effettivamente distinti: se non vi sono circostanze che ci inducono in errore, non facciamo altro che vedere unità e differenze che stanno anzitutto nelle cose. Perché mai dovremmo vedere qualcosa di diverso da fiori infilati a mazzo in un vaso se proprio così stanno le cose? Se rispondessimo in questo modo, il problema proposto verrebbe rifiutato come problema. In questo rifiuto, vedremmo certo affiorare quello che Husserl chiamava "atteggia­mento naturale". Anzitutto ci sono le cose, con le loro unità e differenze effettive: poi vi è la nostra percezione di esse, più o meno adeguata, più o meno corrispondente all'essere delle cose. Assumendo condizioni normali della percezione, la cosa nelle sue proprietà oggettive, e quindi nella sua unità e nelle sue differenze, si rispecchierà semplicemente nella coscienza. Dal punto di vista dell'atteggiamento naturale la domanda che abbiamo prima formulata può dunque non porsi nemmeno o apparire alquanto singolare. Dopo la riduzione fenomenologica, invece, l'atteggia­mento muta e il dire che essa ci porta alla presenza di un cam­po fenomenologico significa esattamente che ora è possibile porrre proprio quel problema dell'unificazione che in preceden­za non era affatto un problema essendo tutto risolto nell'es­sere stesso delle cose. Naturalmente nella psicologia della forma non si parla di riduzione fenomenologica e nemmeno di atteggiamento naturale - ma si farà notare che la questione proposta non riguarda in nessun modo l'essere delle cose, il fatto obbiettivo che fiori e vaso sono entità separate. Essa riguarda invece la perce­z ione di questi oggetti, dunque del loro apparire come entità separate. La tesi implicita, che, pur non essendo particolarmente elaborata sul piano filosofico, tuttavia deve qui essere presupposta con estrema 40 chiarezza, è che questo problema dell'apparire non può essere risolto con un rimando all'essere. Ed al contrario dobbiamo rendere conto dell'essere a partire dall'apparire, a partire dall'ambito delle parvenze fenomenologiche. Per quanto questa frase possa sembrare arrischiata, tuttavia essa è da intendere non già come se enunciasse una tesi di filosofia generale, ma come se essa non fosse altro che la tesi di apertura di una problematica analitica ben determinata. La questione dell'unificazione viene affrontata dallo psicologo della forma non tanto con riferimento ad oggetti che hanno una particolare complessità percettiva, ma a figure relativamente semplici ed anche semplicissime, come linee e complessi di linee, figure geometriche elementari, o anche semplicemente punti e configurazioni di punti. Un mazzo di fiori in un vaso, anzi un semplice vaso, è in ef­fet­ti una cosa particolarmente complessa - non tanto naturalmente per le sue proprietà di oggetto - ma come configurazione percettiva: intanto è una cosa materiale, tridimensionale, ha determinate caratteristiche di forma e di colore, ha certe proprietà tattili, inoltre naturalmente ha un "senso" pratico che viene coimplicato nella percezione della cosa. Facendo invece riferimento a semplici strutture grafiche operiamo una semplificazione del problema che è utile alla sua chiarezza, e soprattutto possiamo isolare meglio i vari fattori, come il colore dalla forma, scegliendo una volta configurazioni colorate, un'altra casi in cui il colore non assolve alcuna funzione, in modo da considerare separatamente la loro azione all'interno della funzione unificante, aumentando la complessità di grado in grado e quindi riuscendo meglio a dominare ed a controllare la problematica intera. È interessante poi notare che il problema potrebbe essere proposto senza aver di mira cose reali. Attraverso disegni è possibile raffigurare cose - ad esempio ci potremmo proporre di disegnare un vaso. E potrebbe darsi che noi, disegnatori inesperti, se ci accingessimo ad una simile impresa, non trovassi- 41 mo affatto facile realizzare un disegno come questo. Potremmo trovare difficoltà a dare la profondità necessaria per raffigurare la tridimensionalità della cosa, ecc. In realtà proprio in queste difficoltà si rispecchia in qualche modo proprio il problema di cui ci stiamo occupando, anche se non si tratta esattamente lo stesso problema. Io non so che cosa si debba fare affinché nella raffigurazione appaia una unità complessa ed articolata, non so in che modo posso far apparire il vaso ad una certa distanza dalla parete della stanza, con la sua tridimensionalità, ecc. - in certo senso ignoro le condizioni percettive che farebbero apparire un risultato piuttosto che un altro. Formulata in questo modo è subito chiaro che la questione non riguarda differenze nell'ordine dell'essere, cosicché l'esistenza della cosa è indifferente e può essere messa tra parentesi. Tutto il problema riguarda solo la parvenza. Così volendo chiarire in quali condizioni parleremmo di un movimento di una pallina da biliardo che provoca, attraverso un urto, il movimento di un'altra pallina, non avremmo bisogno né di un biliardo né di palline reali - qualcosa di simile ad un car­tone animato, di cui si possano controllare le parvenze di movimento, è sufficiente allo scopo. Nella sperimentazione dello psicologo della forma la riduzione fenomenologica, se non viene teorizzata, viene tuttavia concretamente realizzata come uno specifico e produttivo me­ todo di indagine. Vi sono così diversi motivi per la scelta di trattare il problema dell'unificazione attraverso forme particolarmente elementari, non oggetti veri e propri (cose), ma figure, dal momento in generale ogni unificazione o segregazione seguirà regole che sono già rilevabili in rapporto linee, punti, forme geometriche semplici. Ad esempio, la domanda può essere formulata così: come mai vediamo una certa linea come separata da un'altra oppure, inversamente, come il suo proseguimento? Come mai di fronte a due punti saremmo tentati talvolta di parlare di una coppia di punti richiamandoci così ad una formazione unitaria che essi 42 formerebbero, mentre in altri casi i punti ci appaiono come completamente separati e in rapporto ad essi non parleremmo affatto di una coppia? Nel caso della psicologia associazionistica il problema dell'u­ nità verrebbe certamente affrontato mettendo in questione nessi associativi derivanti dall'esperienza passata - ed eventualmente adat­ta­menti operati sulle sensazioni da giudizi inconsci costruiti nel passare dell'esperienza. La tesi generale che ora si fa avanti potrebbe invece essere formulata così: data una qualunque percezione di unità vi sono condizioni dell'unità stessa che giacciono all'interno della situazione percettiva. Queste condizioni le chiamiamo leggi della forma o leggi della Gestalt. Il termine Gestalt rimanda al verbo gestalten che significa strutturare, organizzare, plasmare, dare un'artico­lazione. Gestalt potrebbe dunque essere considerato come un altro termine per indicare la struttura. Nell'uso di questa parola è implicata l'idea che ogni situazione percettiva sia una situazione strutturata, che l'operazione del gestalten sia già da sempre in opera nello stesso atto del percepire. Ciò significa, in particolare, che non dobbiamo pensare ad un livello percettivo privo di forme, che viene poi messo in forma come il marmo ad opera dello scultore. Questa analogia può essere fuorviante proprio per questo motivo: non appena abbiamo a che fare con una situazione percettiva, non appena si attivano le operazioni percettive, si attivano anche le operazioni strutturanti. Come abbiamo detto or ora, il percepire stesso è un gestalten - ed esso, così forse ci potremmo esprimere, obbedisce a determinate leggi. Si parla così di leggi della forma. Come prima e seconda legge indicheremo la legge della conti­ guità e la legge della somiglianza. Naturalmente il parlare di prima e di seconda legge ha il solo significato di indicare l'ordine secondo il quale abbiamo deciso di presentarle nella nostra esposizione. La legge della contiguità potrebbe essere formulata così: 43 "A parità di altre circostanze, formeranno un'unità i dati percettivi tra loro più vicini". La formula "A parità di altre circostanze" intende escludere la presenza di fattori unificanti più forti, e naturalmente si tratta di una formulazione che si può ripetere in rapporto a tutte le leggi che stiamo considerando. Di questa prima legge diamo una illustrazione esemplificativa estremamente semplice ricorrendo ad una figurazione con linee verticali: a b c d Noi diremo che la Gestalt è qui costituita da due coppie di linee cioè da due formazioni unitarie (a,b) e (c,d) e che ciò avviene in forza della legge della contiguità: ciò significa che se a si unifica con b piuttosto che con c, ciò dipende dal fatto che a è più vicino a b, di quanto sia vicino a c. La seconda legge, la legge della somiglianza, potrà avere una formulazione perfettamente equivalente: "A parità di altre circostanze, formeranno un'unità i dati percettivi tra loro più simili". L'esemplificazione illustrativa può essere altrettanto elementare: In questa figura tutti i punti sono egualmente vicini tra loro, ma nessuno di questi emerge come coppia; accade piuttosto che i punti neri da un lato e i punti bianchi dall'altro formeranno 44 configurazioni unitarie in forza della loro somiglianza. Si noterà inoltre che l'unità formata dai tre punti neri assume maggiore rilievo, ci appare maggiormente in primo piano, rispetto all'unità formata dai tre punti bianchi per ragioni che certo non hanno bisogno di essere spiegate. Naturalmente contiguità e somiglianza possono agire insieme rafforzando o attenuando l'effetto unificante, o rendendolo anche dubbio. Nell'esempio che segue i due cerchi potrebbero essere percepiti come una coppia unitaria, ma l'effetto di unificazione è indebolito dalla vicinanza del quadrilatero al cerchio più in basso con il quale tende ad "accoppiarsi". L'effetto risulterebbe nuovamente rafforzato per somiglianza se i due cerchi fossero entrambi colorati in rosso. È chiaro che si possono immaginare vari tipi di casi intermedi che stabiliscono delle tensioni interne alle figure. Parlando di somiglianza e contiguità potrebbe sembrare che si ritorni alle vecchie leggi dell'associazione. Il nome è lo stesso - e del resto anche il termine di unificazione può essere considerato come una variante di associazione e di sintesi. Non è dall'aspetto terminologico come tale che dobbiamo attingere effettive differenze. Potremmo anche affermare che si tratta proprio di quelle vecchie leggi, ma riconsiderate da un punto di vista interamente nuovo. La novità sta essenzialmente in due circostanze. In primo luogo esse non sono considerate come leggi che regolano contenuti mentali, non sono perciò leggi dell'associa- 45 zione delle idee, ma sono direttamente riferite alle configurazioni presenti nel campo percettivo e riguardano le formazioni unitarie che possono essere colte in esso. In secondo luogo, nelle spiegazioni associazionistiche queste leggi potevano svolgere la loro funzione solo attraverso la ripetizione dell'esperienza, quindi insieme ad esse doveva essere imprescindibilmente presa in considerazione una componente temporale, più precisamente una componente che rinvia all'esperienza passata. Ora invece possiamo dire che la loro azione si dispiega tutta nell'attualità, al presente - queste regole bastano a se stesse e non hanno bisogno di alcun supporto nell'esperienza passata. Ciò stabilisce una differenza molto netta che ha ben poco a che vedere con l'aspetto terminologico. Nulla impedisce che si parli di associazione anche in rapporto alle leggi della forma - se non ragioni ovvie di ordine storico che servono anche ad evitare inutili equivoci: ciò che importa è in ogni caso il senso attribuito a questo termine. 4. Legge della forma chiusa - Legge di buona continuazione - La pos­ sibilità di interpretare le leggi della forma come formulazioni di condizioni intrinseche delle formazioni unitarie - Stretta relazione tra tematica feno­ menologica delle sintesi percettive e tematica delle leggi della forma così intese. A titolo di terza legge, potremmo parlare di legge della forma chiu­ sa. L'espressione "forma chiusa" deve essere intesa secondo un senso molto naturale, che è del resto chiaramente illustrato dalle figure seguenti: Una possibile formulazione della legge della forma chiusa po- 46 trebbe essere: "A parità di alte circostanze, formeranno una unità gli elementi del campo percettivo che realizzano una forma chiusa". Ecco un esempio che sembra illustrare efficacemente l'azione della legge: a b c d a b c d Mentre nella prima figura abbiamo due coppie di segmenti (a,b) e (c,d), nella seconda figura b e c fanno parte di una configurazione unitaria in quanto contribuiscono a realizzare una forma chiusa: essi vengono ora intesi come parti del rettangolo. L'importanza della forma chiusa è del resto subito illustrata dal fatto che in un campo percettivo una forma chiusa tende a prendere rilievo di oggettività vera e propria, anche quando appare costituita di parti chiaramente distinte (come del resto nel caso di questo esempio). Come quarta legge vogliamo nominare la cosiddetta legge della buona continuazione. La formulazione della legge sarà: "A parità di altre circostanze, formeranno una unità gli elementi del campo percettivo che sono l'uno la buona continuazione dell'altro". La nozione di buona continuazione può essere illustrata dalla seguente configurazione percettiva: Di fronte a questa configurazione, ciò è quanto potremmo 47 osservare, si unificheranno 1,2 e 3,4 piuttosto che 1,4 o 1,3, ed in ciò potremmo vedere l'azione della legge di buona continuazione. 1 3 4 2 Tutti i nostri esempi mostrano con particolare chiarezza che la strutturazione del campo percettivo va considerato come un risultato delle relazioni in gioco. Tutta l'indagine condotta dalla psicologia della forma rappresenta in certo senso una enorme documentazione dell'importanza del contesto per la determinazione del senso di una configurazione percettiva. Il "senso" muta al variare del contesto e secondo le condizioni di unificazione che sono chiamate in causa. Consideriamo la configurazione del nostro primo esempio: a b c d Sappiamo già in che modo essa sarà intesa per ciò che concerne le formazioni unitarie. Arricchiamo ora la configurazione nel modo seguente: e f g 48 Dovremo ora prendere nota che con questa modificazione, e precisamente con l'introduzione dei segmenti e, f, g muta il senso della configurazione complessiva. E precisamente: i segmenti e, f, g non verranno percepiti come segmenti separati e che non hanno a che vedere gli uni con gli altri, ma come un'unica linea. Ciò è dovuto (come ora vogliamo esprimerci) alla legge della buona continuazione. Di conseguenza i segmenti verticali muteranno senso, e tenderanno ad essere colti come delimitanti una superficie, quindi come strisce dietro le quali passa la linea. La situazione o meglio il suo "senso" verrebbe ulteriormente rafforzato se si facesse intervenire la legge della forma chiusa con dei segmenti orizzontali che sovrapporti a quelli verticali formano due rettangoli: e f g Si noti come questo caso illustra molto bene anche la circostanza secondo la quale viene colta una configurazione globale, della quale possono far parte anche elementi che non sono attualmente visti, ma che vengono posti a partire dagli elementi che cadono effettivamente sotto gli occhi. Lo stesso esempio illustra altrettanto bene l'idea dell'esistenza di attese percettive suggerite direttamente dalla Gestalt, cioè dalla strutturazione del campo percettivo attuale - e che non sono affatto fondate nell'esperienza passata. Infatti, se ora di fronte ai nostri occhi vi fosse realmente una configurazione percettiva di questo genere, se vi fossero, ad esempio, due strisce di cartone tra i quali vediamo cordicelle in quella disposizione, indubbiamente ci attenderemmo che, sollevando le strisce di cartone, ci appaia una cordicella intera. Una simile attesa è del tutto giustificata e non è evidentemente fondata in qualche esperienza passata che riguarda il com- 49 portamento normale delle strisce di cartone o delle cordicelle, ma fa tutt'uno con il "senso" della configurazione percettiva nel suo complesso. È chiaro peraltro che nella formazione dei sensi inerenti a ciò che viene visto potranno contribuire contenuti che appartengono all'esperienza passata - questo non è affatto escluso dallo psicologo della forma, come del resto è ovvio. Qualunque configurazione percettiva attuale si può arricchire, per me, di sensi che si ritrovano nelle mie esperienze passate. Inoltre si può prevedere che leggi come quelle che abbiamo or ora formulato abbiano una loro applicazione non soltanto in rapporto alla situazione percettiva attualmente data, ma anche per illustrare la struttura dei rapporti presente-passato. Le indicazioni che abbiamo fornito intorno alle leggi della forma, per quanto ridotte al minimo, sono in realtà sufficienti non soltanto per lumeggiare questa nozione e per delineare in che cosa consista la tematica dell'unificazione, ma anche per mostrare in che senso questa tematica sia particolarmente interessante da un punto di vista puramente fenomenologico. Da questo punto di vista si tenderà infatti a intendere i problemi sollevati dalla discussione intorno alle leggi della forma alla luce della nozione fenomenologica di sintesi e di tendenza sintetica che possono essere sviluppate seguendo una via del tutto indipendente e sulla base di motivazioni puramente filosofiche. A questo contesto appartiene anche la problematica di una tipologia fenomenologica delle unificazioni percettive che viene indubbiamente aperta dalla discussione sulle leggi della forma. Si potrebbe anzi affermare che i temi e gli esempi presenti in grande ricchezza nella problematica ghestaltistica dell'unifi­cazione potrebbero essere ripresi e coordinati direttamante alla problematica fenomenologico-filosofica delle sintesi percettive, ed assolverebbero anche la funzione di dare concretezza ad essa. Particolarmente importante è anche il fatto che, almeno stando a quanto ci sembra fin qui di capire, si parli di condizioni intrinseche ai dati stessi, 50 e non invece di proiezioni che hanno origine nella soggettività. Questo punto è importante perché stabilisce una netta differenza rispetto alla posizione kantiana. Questa differenza potrebbe essere caratterizzata, per quanto concerne questo problema, facendo notare anche che la tematica delle sintesi si pone ora sul piano della sensibilità e non unicamente su quello di una elaborazione intellettuale. In Kant inoltre l'at­tività sintetica è concepita in modo che difficilmente può specificarsi in rapporto agli autentici contenuti dell'esperienza percettiva ed alla loro varietà. In effetti occorre mostrare che vi sono molteplici modalità di unificazione, e questa molteplicità non è affatto presente nella problematica kantiana, mentre comincia ad essere indagata proprio nel­l'enun­ciazione delle leggi delle forma. Se consideriamo le cose da questo punto di vista, avendo di mira l'accentuazione di una relazione tra psicologia della forma e fenomenologia filosofica, dovremo allora porre in rilievo anche la distanza tra la psicologia della forma e la posizione di Kant, almeno per questo modo di concepire i processi unificanti dell'esperienza. Non mancano del resto, all'interno della psicologia della forma, prese di posizioni che si trovano nella direzione interpretativa qui proposta. Ad esempio Metzger, a cui dobbiamo una vasta sintesi dei risultati della psicologia della forma, sottolinea esplicitamente che "le qualità intrinseche ai dati stessi determinano la formazione di unità più ampie, la loro delimitazione, la loro articolazione e il loro raggruppamento" [11] . E si cita esplicitamente, per contrasto, la posizione di Kant in quanto affida ogni sintesi all'attività dell'osser­vatore, senza peraltro riuscire a specificare questa attività in rapporto ai contenuti autentici dell'espe­rienza percettiva. Così Metzger osserva che la formula kantiana dell'io penso riguarda "qualsiasi formazione di unità e non è possibile pertanto stabilire in base ad essa che cosa in determinate condizioni viene unificato e che cosa resta diviso". Non meno significativa è l'osservazione secondo cui per ciò che riguarda le unificazioni propriamente percettive, Kant non 51 va oltre Hume, abbandonando l'intera questione ad un punto di vista sostanzialmente empiristico [12] . Tuttavia resta il dubbio che la nostra esposizione sia stata fin qui influenzata più dall'intento di segnalare le affinità problematiche, che da quello di mostrare le differenze. La diversità dell'oriz­zon­te in cui si muovono psicologia della forma e fenomenologia filosofica presumibilmente non può non avere un'incidenza anche sul modo di intendere le problematiche specifiche. 5. Dubbi e perplessità sull'impiego della parola "legge" - Difficoltà di intendere le leggi della forma come leggi empiriche - Le leggi della forma interpretate come tendenze psicologiche. Intanto è opportuno ritornare sulla questione metodologica. Noi abbiamo parlato senz'altro di leggi della forma e non ci siamo soffermati nemmeno un istante sull'impiego di una parola tanto impegnativa: legge. L'impiego di questa parola in rapporto alla problematica che abbiamo illustrata è in realtà piuttosto imbarazzante. Anche le nostre formulazioni, apparentemente ovvie, potrebbero suscitare dubbi e perplessità di vario genere. Che cosa in esse viene propriamente espresso? Hanno esse la forma di previsioni, esse dicono forse come verrà necessariamente percepita una certa configurazione percettiva? Che cosa significa il verbo al futuro che abbiamo così spesso impiegato "A parità di altre circostanze formeranno una unità…" - oppure formule come "far intervenire la tal legge", "in forza della legge…" ed altre analoghe? Non dobbiamo forse ritenere significativo il fatto che, a ben pensarci, questa parola potrebbe essere sostituita, come del resto accade non di rado anche nei testi di psicologia della forma, da parole meno impegnative come "regola", "fattore", "condi­zione"? Sorge persino il dubbio che si possa sostenere (certamente in questa direzione propenderebbe chi volesse accentuare la componente puramente fenomenologica di una 52 simile indagine) che queste pretese "leggi" altro non sono che strumenti ausiliari per descrizioni possibili. Mentre in precedenza era per noi importante fornire una prima idea della problematica soggiacente, fornendo alcune semplici formulazioni accompagnate da esempi e da qualche parola di commento, ora è tempo di mettere a fuoco le perplessità a cui dànno voce queste nostre ultime domande. Vi è poi un altro aspetto, in realtà collegato con l'impie­go del termine "legge", che può suscitare dubbi proprio in rapporto ad una lettura delle leggi della forma che riconduca senz'altro la problematica che esse propongono a quella propriamente fenomenologica delle sintesi percettive e delle tendenze e controtendenze sintetiche. Infatti, rammentando la distinzione tra fenomenologia pura e fenomenologia empirica, dobbiamo anche sottolineare che lo psicologo della forma, anche quando parla di questioni che si situano indiscutibilmente anche per lui su un terreno fenomenologico, tuttavia sarà pronto a ribadire che si tratta in ogni caso di un terreno empirico, che si tratta di fenomenologia empirica. La possibilità di una fenomenologia pura è semplicemente ignota allo psicologo della forma, quando non è apertamente contestata. Se dal nostro punto di vista è determinante il riconoscimento di un livello puramente fenomenologico, vi deve essere certo una linea di demarcazione - per quanto possa essere sottile e possa, secondo i vari autori, essere variamente sfumata - che separa fenomenologia e psicologia della forma. Questa linea di demarcazione può essere resa più marcata proprio attraverso una riflessione sull'impiego della parola "legge". Stando su un terreno puramente fenomenologico, il senso di questa parola deve essere considerato come risolto nella descrizione stessa della struttura della configurazione percettiva, e come un modo di raccogliere sotto un unico tipo esempi che si presentano come descrittivamente simili: si tratta dunque, in ogni caso, di qualcosa di interamente diverso dall'idea di legge 53 empirica ed empiricamente fondata, e naturalmente anche qualcosa di diverso dalle leggi di cui possiamo parlare nella logica o nella matematica in genere. Come abbiamo già notato, qualora si temesse che dall'uso di un termine tanto impegnativo possano derivare equivoci, non avremmo alcuna difficoltà ad eliminarlo per sostituirlo con altri che rendono tra l'altro più efficacemente il senso di queste formulazioni: in fin dei conti ciò che deve essere rivendicato è unicamente la presenza di nessi strutturali fondati nelle parvenze fenomenologiche. Ma ora dobbiamo prendere atto di questo: se cerchiamo una risposta alla domanda intorno allo statuto metodologico di queste leggi nei lavori degli psicologi della forma, questa risposta sarà rivolta in una direzione assai diversa. Lo psicologo della forma pone l'accento sul carattere empirico della propria ricerca, anche quando il suo tema è il campo fenomenologico, cosicché anche in rapporto alle leggi della forma egli tenderà a sostenere che esse sono leggi in senso proprio, e precisamente leggi empiriche. Quando la questione non viene esposta esplicitamente, ciò accade per il fatto che una simile assunzione è data per ovvia. Del resto, quale altra alternativa vi è all'em­piria della scienza, se non l'apriorismo dei filosofi? Ed è del tutto sicuro che lo psicologo della forma non perderà troppo tempo a porsi il problema di questo apriorismo. Cerchiamo allora di afferrare con chiarezza che cosa significhi proporre queste leggi come leggi empiriche vere e proprie. Una legge empirica è, detto in breve, una proposizione ipotetica ampiamente confermata dai fatti - pertanto essa potrà anche essere impiegata per effettuare previsioni che avranno un grado più o meno alto di probabilità di verificarsi. Ciò significa che si assume che nella maggior parte dei casi accadrà esattamente ciò che è formulato dalla legge, ma anche che essa non perde di validità se venisse contraddetta da qualche dato di fatto. Ma quali sono i dati di fatto a cui dovremmo appellarci nel caso delle cosiddette leggi della forma? Non sembra che si possa rispon- 54 dere altrimenti se non richiamandoci ad esperimenti nel senso di cui abbiamo precedentemen­te già discorso: sottoponiamo una configurazione percettiva ad un certo numero di osservatori e li andiamo interrogando sui modi in cui essi la percepiscono - ottenendone dei resoconti verbali. Eventualmente elaboreremo statisticamente i dati ottenuti, ecc. Ora, se riportiamo queste considerazioni sulla tematica delle leggi della forma così come sono state discusse ed esemplificate in precedenza, e soprattutto senza temere l'apriorismo dei filosofi, avvertiamo subito che vi è qualcosa che non va. Cominciamo intanto con il rammentare la "legge" di contiguità. In effetti noi abbiamo dato di essa la forma di una previsione: abbiamo detto che "formeranno una unità i dati percettivi tra loro più vicini". Ma è il caso di chiedersi: siamo qui alla presenza di una effettiva previsione che rimanda alla natura dalla proposizione come legge "empirica" oppure si tratta di una previsione apparente che non rimanda ad una legge empirica, ma piuttosto qualcosa che solo impropriamente può essere caratterizzato come legge? Io propenderei proprio per rispondere affermativamente a questa seconda parte della domanda. Questa propensione può trovare una giustificazione se ripensiamo al nostro solito esempio: a b c d Il fatto che, in una configurazione come questa, si propongano come coppie (a,b) e (c,d), e non (b,c) è fenomenologicamente evidente e l'eventuale generalizzazione che potremmo trarre di qui secondo cui quanto più due oggetti si approssimano l'uno all'altro 55 tanto più ci appariranno accoppiati tra loro sembra avere un carattere in qualche modo "tautologico" - quasi come se accoppiamento e approssimazione volessero dire all'incirca la stessa cosa. In ogni caso: possiamo forse anche soltanto immaginare che avvenga l'inverso - che tanto più due elementi del campo percettivo si allontanano tra loro tanto più ci appariranno tra loro accoppiati? È proprio il caso di affermare che qui ci troviamo nell'ambito del problema filosofico delle "condizioni di un'esperienza possibile". A conferma di ciò si presti attenzione a questo punto: difficilmente saremo indotti a cercare dati di fatto di sostegno al fine di fornire una verifica empirica a quella formulazione. In tal caso dovremmo organizzare esperimenti per conferire validità a questa legge che consisteranno nel mostrare configurazioni del tipo di quelle proposte nel nostro esempio ponendo agli osservatori l'interrogativo relativo alla formazione di coppie. La verità invece è questa: di fronte ad affermazioni come quella della legge di contiguità sembra addirittura strano (e profondamente sbagliato) che possa essere sollevato il problema di una prova. Esse non hanno affatto bisogno di essere provate, anzi il tentativo della prova corrisponde ad un effettivo fraintendimento del loro senso e della loro portata. Poiché non formulano ipotesi, non ha senso il tentativo di verificarle. Supponiamo tuttavia di essere così convinti del carattere empirico della ricerca nel suo complesso e così ostili all'apriorismo filosofico e in particolare all'idea di affermazioni che non hanno affatto bisogno di essere provate da non avvertire affatto queste difficoltà. La conseguenza di ciò sarà allora quella di attenuare fortemente l'accento, che ci era sembrato in precedenza particolarmente significativo, posto sull'esistenza di condizioni intrinseche ai dati stessi, per spostare l'attenzione proprio sulla polarità soggettiva. Il fattore di unificazione non sarebbe allora un fattore rilevabile all'interno del dato percepito, ma il risultato di una tendenza psicologica, di una propensione psicologica, ad 56 esempio, a vedere unitariamente cose tra loro più vicine piuttosto che cose tra loro più lontane, oppure cose tra loro simili, piuttosto che dissimili, e così ogni legge della forma precedentemente formulata. Ora, l'esistenza di una tendenza psicologica ha effettivamente bisogno di essere provata e il fatto che vi sia una certa propensione piuttosto che un'altra è una circostanza di ordine empirico e non ha alcuna necessità intrinseca. Ciò significa che è in linea di principio possibile una propensione psicologica interamente diversa, ad esempio la propensione a vedere unitariamente cose tra loro più lontane piuttosto che più vicine: questa singolare affermazione è una conseguenza pura e semplice dell'impostazione del problema in termini di tendenze e propensioni psicologiche. Cosicché possiamo dire che la legge di contiguità può essere giustificata proprio attraverso osservazioni - attraverso sperimentazioni che possiamo compiere noi stessi o attraverso le comunicazioni di altri. Così potremmo provare - come suggerisce Katz - ad accoppiare piuttosto che due elementi vicini, due elementi che sono invece lontani ed allora, avverte ancora Katz, si riuscirà a farlo "soltanto superando una marcata resistenza soggettiva" [13] . Questa frase è assai sintomatica. Ecco una sorta di dato di fatto, una rilevazione introspettiva (proprio nella seconda accezione del termine) che potrebbe essere portata a sostegno della legge. L'esistenza di questa tendenza psicologica, in rapporto alla quale potremmo anche non saperne nulla, sarebbe attestata dal fatto che se proviamo ad unificare in altro modo, anzi secondo una regola opposta, sentiamo una marcata resistenza soggettiva - come se una voce interna protestasse, come se udissimo un ammonimento interiore: non fare questo! Questo modo di impostare l'intero problema mi sembra profondamente insoddisfacente. Ad esso si sarebbe tentati di obbiettare che nella problematica delle leggi della forma vi è 57 un aspetto - estremamente rilevante - che non riguarda per nulla un piano di fenomenologia empirica, che non chiama per nulla in causa l'introspezione, ma che è strettamente attinente al campo puramente fenomenologico. Si tratta di un aspetto che riguarda le funzioni di esperienza nella loro generalità, che mette in questione non già l'esperienza nella determinatezza dei modi del suo esplicarsi, ma l'esperienza stessa nel suo concetto. Del resto, si sarà notato che ciascuna delle leggi dell'unificazione enuncia una circostanza di fronte alla quale sarebbe lecito il commento: è logico che sia così! Si pensi, oltre che alla somiglianza e alla contiguità in rapporto alle quali una simile considerazione si impone con particolare immediatezza, anche alla forma chiusa. Non è forse logico che in un campo percettivo ciò che ha carattere di forma chiusa assuma un particolare rilievo e si imponga come unità rispetto a puri e semplici configurazioni lineari disparate? Se tuttavia l'espressione "questo è logico" venisse intesa come se rimandasse ad una funzione intellettuale, essa dovrebbe certamente essere evitata. Si tratta piuttosto di una necessità interna ai rapporti fenomenologici, una necessità che noi afferriamo appunto in tutta evidenza. Vorrei sottolineare l'impiego della parola "evidenza" in casi come questi: A a b B c d a b c d Se passiamo dalla figurazione A alla figurazione B, potremmo dire: è evidente che ora il segmento b non è più unificato al seg- 58 mento a, bensì appartiene alla configurazione unitaria costituita dalla figura rettangolare. In nessun caso avremmo bisogno di ritenere che il termine di evidenza rimandi ad una sensazione interiore che ci approva se operiamo questa unificazione e ci ammonirebbe qualora tentassimo invece ancora di mantenere la coppia a,b. Il parlare di evidenza indica qui semplicemente il fatto che l'articolazione del campo percettivo è tale da manifestare questa connessione piuttosto che quel­l'altra. E che dire se qualcuno ci dicesse: dell'evidenza non ti devi affatto fidare! Forse il segmento b è ancora connesso con il segmento a, esattamente come prima. Osservazioni come queste sono assurdità fenomenolo­ giche. E abbandoneremmo il nostro obiettore al suo destino. Vogliamo raccogliere queste ultime nostre idee con alcune osservazioni sulla legge della buona continuazione. Si riprenda ancora l'esempio: 1 3 4 2 La linea 2 viene unificate con 1 perché è la sua "buona continuazione". Prima ci siamo limitati a esporre la questione in questi termini, ma ora che guardiamo queste formulazioni con maggior senso critico non possiamo certo evitare di porci la domanda: perché si parla qui di continuazione buona - che senso ha questo aggettivo? Perché non parlare soltanto di continuazione? Si tratta di un piccolo dettaglio, apparentemente insignificante, eppure a partire di qui si possono estrarre tutti i problemi e le difficoltà che abbiamo enunciato in precedenza. Dal nostro punto di vista non vi sarebbe affatto una buona e una cattiva continuazione, ma semplicemente una continuazione oppure una deviazione improvvisa. Il fatto che un elemento del campo percettivo possa assumere il senso di continuazione o di deviazione dipende appunto dal campo percettivo complessivo, dipende dal contesto 59 in cui quell'elemento è disposto - ciò del resto è quanto afferma di continuo la psicologia della forma, adducendo un ricchissimo materiale esemplificativo. Tuttavia l'idea che in ultima analisi la questione riconduca a tendenze e disposizioni di ordine psicologico e che le leggi formulino circostanze che hanno a che fare non già con la struttura del campo percettivo come tale ma con queste tendenze e disposi­ zioni psicologiche affiora di continuo. Le leggi della forma sono dunque leggi in senso improprio. Quando parliamo di leggi o regole indichiamo certe tipicità strutturali e per illustrarle forniamo esempi. Ciò che importa è rendere conto dell'esempio, mostrando i momenti di connessione che sono in essi operanti. Annotazione A proposito dell'espressione "condizioni di una esperienza possibile" è notevole quanto scrive P. Bozzi: "La presenza di qualcosa che possieda la caratteristica fenomenica dell'unitarietà è ineliminabile dal mondo delle nostre esperienze, vissute o immaginate che siano. L'unità intesa in questo senso non è solo un aspetto del mondo vissuto, ma anche una condizione di esso; non deve sorprendere il fatto che nell'esperienza ci siano caratteristiche visibili e tangibili - e come tali empiricamente analizzabili - le quali svolgono una funzione categoriale: se è vero, come noi riteniamo, che la presenza immediata del mondo deve essere studiata ed interpretata iuxta propria principia, essa deve contenere anche alcuni aspetti che sono sue condizioni, tolte le quali null'altro di esperibile potrebbe in alcun modo sussistere. Quest'ammissione potrà sembrare un po' troppo filosofica per trovare posto in un libro di psicologia. Ma la sua base è molto semplice: sta di fatto che certe caratteristiche fenomeniche si realizzano nell'esperienza solo se altre caratteristiche sono presenti; ed è logico che, stando le cose a questo mode, debbano esserci caratteristiche esperibili, tolte le quali non è più possibile parlare d'esperienza in alcun modo sensato" (Unità, Identità, Causalità. Una introduzione allo studio della percezione, op. cit., Cap. I, § 4). Un'affermazione come questa attesta una presa di posizione 60 non facile da ritrovare all'interno della letteratura di psicologia della forma. 6. La legge della pregnanza come legge generale di cui le leggi della forma sarebbero casi speciali. - Essa sembra formulare una tendenza psicologica alla rettificazione - Distanza su questi aspetti della fenomenologia filoso­ fica dalla psicologia della forma. In tutta la nostra precedente esposizione abbiamo accuratamente evitato anche soltanto di accennare ad una nozione fondamentale nella psicologia della forma ed alla legge che fa riferimento ad essa: si tratta della nozione di pregnanza e dunque della cosiddetta legge della pregnanza. La ragione di questo rinvio è presto detta: una delle caratteristiche delle leggi che abbiamo enunciato in precedenza - secondo l'interpretazione che ne dà la psicologia della forma - è quella di poter essere considerate come particolarizzazioni di una condizione formulabile in termini molto generali, e precisamente come casi speciali della legge della pregnanza. Adottando questo punto di vista, è possibile dare la massima forza ai nostri dubbi, trasformandoli anzi in una presa di posizione piuttosto precisa: fenomenologia filosofica e psicologia della forma percorrono un tratto in comune, forse prendendo le mosse da un unico luogo, ma prima o poi le due vie si separano irrimediabilmente. Inoltre è possibile avanzare nei confronti della psicologia della forma la critica secondo la quale - almeno in rapporto alla tematica propriamente descrittiva - in essa si corre spesso il rischio di confondere problemi puramente fenomenologici con problemi empirico-fenomenologici. Questa presa di posizione può in realtà essere effettuata con la massima chiarezza proprio mettendo in discussione il tema della pregnanza, ed è per questa ragione che esso si presta a chiudere la nostra esposizione. Della legge della pregnanza si possono dare varie formu- 61 lazioni. Vogliamo scegliere la seguente, che Koffka trae da Wertheimer: "L'organizzazione psicologica sarà sempre 'buona' nella misura consentita dalle condizioni prevalenti" [14] . In luogo dell'aggettivo "buono" possiamo naturalmente so­sti­tuire la parola "pregnante" - cosicché la legge afferma che, date certe condizioni percettive, il campo percettivo verrà organizzato secondo una tendenza alla massima pregnanza possibile. Ma naturalmente né "buono" né "pregnante" sono parole che si spiegano da sé. Esse dovranno a loro volta essere risolte in altri aggettivi che rimandano a proprietà connesse alla regolarità, alla simmetria, alla semplicità, all'equilibrio, ecc. Quanto alla scelta della parola "pregnante" è dovuta alla sua latitudine di impiego. Il principio vuole essere volutamente vago per poter essere il più possibile generale. Nel linguaggio corrente parliamo di pregnanza in rapporto ad una frase, quando vogliamo indicare ad un tempo la concisione e la ricchezza di senso nella concisione. In effetti la legge della pregnanza può essere formulata anche come una legge che afferma la tendenza alla massima sensatezza nelle condizioni date. La possibilità di questa formulazione la si comprende se pensiamo che parole come irregolare, caotico, disordinato, complicato e simili sembrano tutti suggerire la tendenza alla perdita di senso. Come esempio scegliamo senz'altro una situazione percettiva a cui abbiamo in precedenza già accennato Abbiamo detto che possiamo intendere questo caso come figura di una superficie che "ricopre" un segmento che passa dietro di 62 essa. Ma altri modi di intendere la figura sarebbero certamente possibili. Ad esempio la figura complessiva potrebbe essere intesa come congiunzione di figure differenti come le seguenti: Il problema è: come mai fra le varie interpretazioni possibili la percezione sceglie proprio la prima, mentre le altre sembrano interpretazioni "forzate"? La risposta è ora la seguente: secondo quella interpretazione, la situazione complessiva viene proposta nel modo più semplice e ordinato - una unica linea retta si struttura con una figura rettangolare, formando una configurazione provvista di senso che potremmo considerare come raffigurazione di una striscia dietro la quale passa una cordicella. Abbiamo scelto un esempio già discusso proprio per il fatto che in questo modo appare chiara la relazione tra la legge della pregnanza e le altre leggi. Infatti possiamo rendere conto di quella configurazione ricorrendo alla legge della forma chiusa, in base alla quale viene senz'altro operata la segregazione della figura rettangolare dallo sfondo come una figura in se stessa unitaria; ed alla legge della buona continuazione che ci consente di considerare unitariamente i segmenti a sinistra ed a destra del rettangolo. Ma ciò significa null'altro che queste due leggi (come ogni altra) possono essere intese come specificazioni della legge della pregnanza. Che cosa accade se portiamo tutta l'attenzione in questa direzione, se assumiamo la legge della pregnanza come legge fondamentale di cui tutte le altre sono specificazioni? Accade che, mentre considerando le leggi in se stesse potevamo 63 in qualche modo neutralizzare la loro interpretazione in termini di affermazioni relative a tendenze psicologiche per ribaltarle sul terreno di considerazioni puramente fenomenologiche, nella loro considerazione come specificazioni della legge della pregnanza, questo ribaltamento è reso del tutto impossibile. O anche in altro modo: mentre in precedenza ci era possibile ricondurre i temi delle varie leggi all'idea di tendenze e di controtendenze sintetiche interne al campo percettivo, la pregnanza è invece tutta orientata in direzione del versante psicologico soggettivo, è una legge che concerne primariamente la soggettività psicologica e solo secondariamente il campo percettivo. In rapporto alla soggettività psicologica essa formula una supposizione: si suppone che i meccanismi stessi della percezione, come processo psico-fisiologico, siano eminentemente caratterizzati da una propensione verso il semplice, lo stabile, l'equilibrato, il simmetrico, l'ordinato, e così via [15] . Si noti di passaggio che la psicologia della forma aspira a diventare psicologia nel senso più ampio, superando i limiti tematici di una psicologia della percezione, cosicché in via di principio verrebbe qui enunciata una tendenza che caratterizzerebbe la vita psichica in generale. La psiche umana non amerebbe le complicazioni. Talora la legge della pregnanza viene anche chiama principio di semplicità. Si noti come il problema del "kantismo" della psicologia della forma tenda a riproporsi in questo contesto, ed ancora avvolto di ambiguità. Su questo punto noi abbiamo già fatto notare che si può sicuramente parlare di kantismo in rapporto alla tematica dell'intero e della parte. Questa tematica la vediamo riaffiorare in rapporto al tema della pregnanza. La sensatezza del campo percettivo viene concepita come una tendenza interna al massimo ordine, alla massima armonia: il senso complessivo è legato ad una sorta di scopo interno della figura - per usare il linguaggio kantiano. Ma il fatto che questo scopo interno sia per così dire realizzato attraverso una tendenza della soggettività, il fatto che le cosiddette leggi della forma siano riconducibili ad 64 enunciati che chiamano in causa tendenze psicologiche, fanno di questo kantismo, contro tutte le intenzioni kantiane, un kantismo psicologizzante [16] . Si può dunque affermare che la legge della pregnanza è estranea a considerazioni di ordine fenomenologico e saranno di conseguenza estranee ad esse tutte le leggi della forma considerate come sue specificazioni. Per estendere un poco la discussione, vogliamo esaminare qualche caso citato come caso di conferma, allo scopo non già di mettere alla prova il buon fondamento della legge (compito che non può essere nostro, tanto più se si considerano le sue implicazioni sul terreno delle spiegazioni fisiologiche), quanto il senso della nostra presa di posizione intorno ai rapporti tra fenomenologia e psicologia della forma. Si supponga che si chieda a qualcuno di dire ciò che vede in rapporto alla figura seguente: Potrebbe benissimo darsi che la risposta sia: vedo un cerchio. Analogamente un angolo che si discosti di poco dai novanta gradi potrebbe essere descritto come un angolo retto e così via. Casi come questi verrebbero spiegati con l'azione della legge della pregnanza ed anzi come dimostrazione della sua azione. Il fatto che non si faccia parola della piccola lacuna nella figura del cerchio viene inteso come se la percezione sia stata rettificata, e proprio secondo la tendenza alla maggiore regolarità. Una figura chiusa - lo ammetteremo senz'altro - è più pregnante di una figura aperta. La rettificazione sarebbe una circostanza di prova dell'esistenza di una tendenza psichica alla regolarità. L'espressione rettificare non va intesa soltanto per indicare genericamente 65 una correzione, ma anche nel suo senso letterale di rendere diritto qualcosa che non è. Comprendiamo ora verso quali conseguenze ci spinga ora la tematica ghestaltistica sottoposta ad una simile reinterpretazione. Intanto si ripresenta qui, con una certa nostra sorpresa, un'idea che pensavamo respinta una volta per tutte all'interno del dibattito metodologico iniziale: l'idea di una correzione della percezione, così caratteristica del punto di vista delle sensazioni pure e dunque in generale della psicologia atomistico-associazio­ nistica, si ripresenta proprio in questi sviluppi. Ciò significa proporre una differenza tra ciò che io dovrei vedere e ciò che di fatto vedo o dico di vedere - una differenza presunta! - un divario che la tendenza psicologica avrebbe il compito di riempire. Come se si dicesse: ciò che in realtà dovrei vedere non è un cerchio, ma una linea circolare fatta così e così, e tuttavia vedo e dico di vedere un cerchio proprio perché è inconsciamente in opera la tendenza psicologica che caratterizziamo con la nozione di pregnanza. Naturalmente anche questo riferimento all'azione inconscia della tendenza ci ricorda il problema dei giudizi inconsci nell'associa­zionismo psicologico. Quale potrebbe essere invece il commento che faremmo a nostra volta? Noi osserveremmo che quella figura - sia che la si veda da vicino come da lontano, sia che la si veda per un periodo di tempo abbastanza lungo oppure brevissimo - è prevalentemente un cerchio più di ogni altra cosa. Per questo motivo, chi dicesse di vedere in essa un cerchio - senza precisare che in quel punto vi è una lacuna - avrà in ogni caso le sue buone ragioni, sia che veda la lacuna sia che non la veda e noi non avremmo affatto ragioni per considerare questa risposta come conseguenza di una tendenza psicologica al comple­tamento e quindi nemmeno come una circostanza che proverebbe l'esistenza di questa tendenza. La nostra critica tende dunque a mostrare come la confusione concettuale tra la dimensione empirica e la dimensione 66 puramente fenomeno­logica non sia affatto innocua in rapporto al modo di interpretare i risultati dell'osservazione ed anche, presumibilmente, in rapporto al problema psicologico di stabilire le giuste correlazioni tra livello fenomenologico e livello delle spiegazioni fisiologiche. Peraltro la nozione di pregnanza potrebbe entrare a buon diritto anche nell'ambito delle considerazioni puramente fenome­ no­logiche. Distinzioni che non hanno alcun senso sul piano geometrico, possono averlo invece sul piano percettivo. Ad esempio, potremmo certamente dire che l'angolo acuto o ottuso sono meno pregnanti di quanto lo sia l'angolo retto - attribuendo al termine di pregnanza proprio il senso che in precedenza gli abbiamo attribuito. Gli angoli acuti o ottusi sono certo più mossi, più instabili, più squilibrati degli angoli retti. E così anche avrebbe senso dire che il cerchio è più pregnante del quadrato, alludendo con ciò alla maggiore compattezza e coerenza della figura circolare. Tuttavia, la parola pregnanza considerata all'interno di un quadro puramente fenomenologico ha esclusivamente un senso descrittivo e dovrebbe essere illustrata soltanto attraverso il tema delle direzioni sintetiche interne delle configurazioni. Affermare che il cerchio è più pregnante del quadrato non è affatto compiere un'affermazione misteriosa, dal momento che essa può essere illustrata attirando l'attenzione sul fatto che nel quadrato vi sono spezzature e deviazioni che invece non si presentano nella figura circolare; cosicché nel quadrato si evidenziano subito quattro parti distinte, mentre ciò non accade nel cerchio. 67 La compattezza percettiva dunque è certamente maggiore nel cerchio che nel quadrato. Koffka argomenta nello stesso modo a proposito del cerchio posto a confronto con un triangolo. Egli osserva che il cerchio è una forma perfettamente buona perché "ogni sua parte contiene il principio del tutto". Nel triangolo invece nessun suo lato richiede di essere continuato in modo che ne risulti la forma triangolare. "Ogni porzione di ognuno dei tre lati richiede di venire continuata in modo che risulti una continuazione nella propria direzione, e i tre angoli costituiscono delle interruzioni in questa modalità di continuazione" [17] . La spezzatura è naturalmente un fattore di segregazione, e costituisce appunto ciò che noi chiameremmo una "contro­tendenza" alla sintesi. Ai fini dell'integrazione dei lati del qua­drato o del triangolo tra loro agiranno altri fattori che superano questa controtendenza, ed anzitutto il fatto che essi formano una figura chiusa. Considerazioni come queste sarebbero del tutto accettabili all'interno della problematica fenomenologica delle sintesi percettive, e la psicologia della forma ha fornito una formidabile messe di materiali interpretabili in questa direzione. Tuttavia la psicologia della forma non si limita a queste motivazioni interne, ma vuol dire, sulla loro base, tutt'altra cosa: e precisamente che vi sarebbe una nostra predilezione per il cerchio piuttosto che 68 per il quadrato, per il quadrato piuttosto che per il rettangolo, per il rettangolo piuttosto che per un quadrilatero irregolare e così via. E poiché questa predilezione va intesa come una vera e propria tendenza psicologica che interviene attivamente nei processi percettivi, dovremmo arrivare ad ammettere una tendenza a percorrere questa sequenza nella direzione inversa - una tendenza cioè a rettificare un quadrilatero irregolare in un rettangolo, un rettangolo in un quadrato, un quadrato in un cerchio. Naturalmente con ciò esasperiamo appositamente questo tema, ma questa esasperazione non vuole essere una esasperazione polemica, ma servire piuttosto a comprendere il nodo della questione. Del resto Koffka osserva che secondo il principio della pregnanza ci si potrebbe aspettare che ogni macchia venga rettificata in un cerchio. Ciò non accade - osserva Koffka - solo per il fatto che ci sono circostanze che lo impediscono [18] . Ma un conto è considerare una configurazione percettiva come risultato di tendenze e controtendenze, ed un altro è assumere che il gioco delle tendenze e delle controtendenze avvenga sotto il dominio del principio della forma "migliore". È vero che questo orientamento del problema è determinato in particolare dagli intenti esplicativi che la psicologia della forma si pone e quindi dai problemi di correlazione con il sottostrato fisiologico - considerando le cose da questo lato, tutto il problema potrebbe essere riguardato sotto altra luce. Ma anche ampliando i termini della discussione, io credo che resti una mancanza di chiarezza sui tre livelli che debbono essere tenuti distinti, il livello esplicativo, il livello empirico-feno­menologico e il livello puramente fenomenologico. Detto di passaggio, questa mancanza di chiarezza si fa sentire anche nei vari modi di impiego della tematica ghestaltistica, e in particolare nella riflessione sui problemi dell'arte. I critici della psicologia della forma hanno forse buone ragioni per sospettare che nelle sue tesi vi sia qualcosa di simile ad un'estetica pregiudiziale. Del resto accenni a pregiudizi estetici si posso- 69 no rintracciare anche, sia pure sporadicamente, negli scritti degli psicologi. Ad esempio, in Koffka, a proposito di un esempio di violazione della buona continuazione si osserva che ciò che ne risulta è un'impressione esteticamente sgradevole [19] ; ed altrove si nota che simili violazioni "entrano in conflitto con il nostro senso dell'oppor­tuno, offendono il nostro senso del bello" [20] . Si tratta certamente di espressioni sfuggite dalla penna, ma che sono tuttavia sintomatiche in rapporto all'inclinazione dell'intera tematica. Di fronte a questi aspetti, dopo aver tratto il massimo vantaggio dagli apporti della psicologia della forma interpretabili in senso puramente fenomenologico, il fenomenologo farà bene ad esercitare una "messa in parentesi" rispetto al quadro teorico complessivo. Annotazione Nel volume di P. Bozzi, Unità, identità, causalità, op. cit., la pregnanza non si presenta affatto con le caratteristiche qui descritte, ma compare invece come uno tra gli altri fattori di unificazione senza particolare enfasi su di essa. Ciò è molto indicativo per questo autore che, nel quadro della tematica della psicologia della forma, ha elaborato una propria originale posizione che assume per noi un particolare rilievo per la chiarezza con cui viene delimitato il campo di indagine. Caratteristica di questa posizione è proprio l'insistenza sugli aspetti fenomenologici, insistenza che non si risolve - come spesso accade negli psicologi della forma - in un richiamo relativamente generico, ma che manifesta una precisa consapevolezza delle questioni metodologiche e filosofiche che sono in gioco. Non a caso Bozzi preferisce raccogliere la propria ricerca sotto il titolo di "fenomenologia sperimentale". Si vedano in proposito i saggi contenuti in P. Bozzi, Fenomenolo­ gia sperimentale, il Mulino, Bologna 1989 ed Experimenta in visu, Guerini, Milano 1993. Proprio per l'approfondimento dei problemi dei rapporti tra fenomenologia e psicologia della forma, il contributo di Paolo Bozzi va considerato come fondamentale. 70 Note [1] Cfr. D. Katz, La psicologia della forma, trad. it. di E. Arian, Torino, 1950. Cap. II. [2] J. H. Lambert, Nuovo organo, trad. it. di R. Ciafardone, Bari, 1977, p. 604. [3] Cfr. Katz, op. cit., pp. 26-27. [4] W. Metzger, I fondamenti della teoria della Gestalt, trad. it. di L. Lumbelli, p. 13 e p. 16. [5] op. cit., p. 34. [6] K. Koffka, Principi di psicologia della forma (1935), trad. it. di C. Sborgi, Boringhieri, Torino 1970, p. 84. [7] K. Koffka, op. cit., p. 124. Il problema è stato studiato da Metzger. [8] ivi, p. 123. [9] ivi, p. 130. [10] P. Bozzi, Unità, Identità, Causalità. Una introduzione allo studio della perce­ zione, Cappelli, Bologna, 1969 (ora reperibile anche in versione digitale in Internet, Spazio filosofico) cap. I, par. 4. P. Bozzi suggerisce anche un modo semplice per realizzare questa situazione: "L'attrezzatura usata da Metzger non è molto semplice da descrivere, ma il lettore può riprodurre per conto suo l'esperienza utilizzando un globo di vetro finemente smerigliato e omogeneamente colorato, il quale abbia una apertura abbastanza grande da permettere di affacciarsi all'interno: vanno bene, per esempio, i normali globi usati per l'illuminazione delle stanze, purché di dimensioni adatte". [11] W. Metzger, op. cit., p. 130. [12] ivi, p. 124. [13] Katz, op. cit. p. 42. [14] K. Koffka, op. cit., p. 122: "Il principio fu introdotto da Wertheimer, che lo chiamò legge di pregnanza. Può venir brevemente formulato nel modo seguente: l'organizzazione psicologica sarà sempre 'buona' nella misura consentita dalle condizioni prevalenti. In questa definizione il termine 'buono' non è definito: esso comprende proprietà quali la regolarità, la simmetria, la semplicità e altre". [15] In realtà la nostra esposizione lascia deliberatamente da parte il significato che riveste il richiamo alla "pregnanza" ai fini della problematica esplicativa. Non bisogna mai perdere di vista il fatto che obbiettivo della psicologia della forma è quello di fornire spiegazioni psico-fisiologiche e il tema della pregnanza 71 è fortemente implicato su questo versante. Considerare le cose anche da questo lato è di particolare importanza per avere una visione più compiuta e meno unilaterale dell'intera questione. [16] Nella fenomenologia filosofica è il lato trascendentale del kantismo che viene ripreso e reinterpretato. [17] Koffka, op. cit., p. 164. [18] ivi, p. 150. [19] ivi, p. 166. [20] ivi, p. 189. 72 73 Giovanni Piana La nozione di qualità ghestaltica in von Ehrenfels 1987 74 Materiali di lavoro per un corso sul tema "Linguaggio ed esperienza nella filosofia della musica" tenuto nel 1987 (Università di Milano, Insegnamento di Filosofia teoretica I). Il testo qui commentato è Christian von Ehrenfels, Über Gestalt­qualitäten. Vierteljahresschr. für Philosophie, 14, 1890, pp. 249-292. Lo si può trovare ora in Philosophische Schriften, Band III - Psychologie, Ethik, Erkenntnistheorie, a cura di Reinhard Fabian, Philosophia Verlag, Mo­naco 1991, pp. 128-168. Una traduzione inglese di questo testo sotto il titolo di "On Gestalt qualities" si trova in B. Smith, Foundations of Gestalt Theory, Philosophia Verlag, Wien, pp 82-117. Barry Smith ha anche scritto un bel libro sulla filosofia austriaca, Austrian Philosophy. The Legacy of Franz Brentano, Open Court Publi­shing Company, Chicago 1994. Esso contiene due capitoli, il VIII e il IX, dedicati a Von Ehrenfels. A questi si rimanda sia per un inquadramento della figura del filosofo, sia per un ampliamento della discussione sulla nozione di qualità ghestaltica. Il testo di Barry Smith è anche liberamente disponibile in Internet all'in­dirizzo http://ontology.buffalo.edu/­smith/ book/­aust­rian­_phi­­­loso­phy/. - I numeri di pagina delle citazioni si riferiscono all'edi­zione contenuta nei Philosophischen Schriften. In italiano, il saggio di von Ehrenfels è stato tradotto da N. Stucchi nel volume Forma ed esperienza, Angeli, Milano 1984, pp. 40-74. 75 Indice 1. Introduzione della nozione di Gestalt attraverso l'esempio della melodia 2. La Gestalt e gli elementi su cui si fonda 3. Ampliamento della nozione di Gestalt 4. Gestalt e teoria dell'associazione 5. Qualità ghestaltiche e creatività artistica 6. Qualità ghestaltiche ed affettività 7. Considerazioni conclusive 76 77 1. Introduzione della nozione di Gestalt attraverso l'esempio della melodia Il saggio di Christian von Ehrenfels intitolato Über Gestalt­­ qualitäten (1890) è ritenuto di solito come uno dei lavori nei quali si manifesta nettamente l'esigenza di una svolta metodologica all'interno degli studi di psicologia della perce­zione, una svolta che raggiunge in realtà piena chiarezza solo all'inizio del secolo XX. È proprio in questo saggio che compare per la prima volta in modo significativo, già nel titolo, il termine di Gestalt. Gestaltqualität potrebbe essere reso con "qualità for­male" purché la parola forma venga intesa piuttosto secondo quella inclinazione che la orienta verso le pienezze della per­cezione - figure concretamente visibili, strutture effettivamente per­cepite - piuttosto che verso qualcosa di vuoto, di a­strat­tamente intellettuale. Si potrebbe parlare anche di qualità ghestaltica, italianizzando il termine - ed in seguito useremo indifferentemente l'una o l'altra espressione. Il saggio è dedicato ad un'introduzione ed a una di­scussione di questo concetto che trova qui un primo abbozzo, spunti estremamente interessanti e molti problemi. Diciamo subito che si tratta di un lavoro caratterizzato in certo senso da cautela e imprudenza insieme. Molto cauto è intanto il suo inizio. La nozione di Gestalt viene introdotta infatti sulla base di un'esemplificazione apparen­ temente molto chiara. Tuttavia, non appena la nozione è stata introdotta, l'autore tenta di operarne una generalizzazione, esten­ den­done il campo di applicazione in modo spericolato, offrendo, piuttosto che un discorso organico, un insieme di accenni, di sug­ gerimenti che mostrano molto bene l'ampiezza della proble­matica che quella nozione mette in ogni caso in gioco, ma anche le sue difficoltà interne. Nell'introduzione della nozione di Gestalt gioca inizial­men­te un ruolo di rilievo una esemplificazione musicale. Von Ehren­fels nota infatti che noi non diciamo soltanto di udire questo o quel 78 suono, ma anche di udire una melodia. Una si­mile espres­sione, che del resto è caratteristica del parlare comune, von Ehren­fels la trova, in particolare, nel testo di Mach, L'analisi delle sensazioni, dove si nota che le melodie, co­me le configurazioni spaziali in genere, sono "date nella sensazione". "Mach - scrive von Ehrenfels - propone asserzioni che per molti suonerebbero certamente come paradossali secondo le quali noi possiamo 'sentire' (empfin­ den) forme spaziali ed anche 'forme sonore' (Tongestalten) ovvero melodie in modo immediato" (Über Gestaltqualitäten, p. 128). Ma - questo è il dubbio da cui prende le mosse la riflessione di von Ehrenfels - questa espressione "essere dato nella sensazione" non può essere consi­derata realmente ovvia o senz'altro comprensibile. Questa mancanza di ovvietà appare con particolare evidenza proprio nel caso esemplare di una melodia. Si noti che la parola 'melodia' va intesa, all'interno del saggio di von Ehrenfels senza particolari sofisticazioni, come uno sviluppo tematico elementare - egli cita di passaggio una canzone popo­lare. Si tratta dunque di una sequenza di note che si susseguono temporalmente l'una all'altra. Ora, la percezione è legata in generale alla presenza effettiva dell'oggetto percepito: quindi giustamente possiamo dire di udire un suono, ed esattamente quel suono che proprio ora sta risuonando. Ma se ci atteniamo a quest'accezione del percepire non potremmo affatto affermare di "udire una melodia" se non ammettendo che la melodia sia una vera e propria unità di nuovo genere. La melodia si fa sentire attraverso i suoni in successione, tra essi e la melodia vi è certa­mente una connessione, ma l'esistenza di questa connessione deve essere tale da rendere possibile il considerare la melodia come autonoma rispetto ai suoni di cui è composta, e quindi come un'oggettività che è appunto l'oggettività che abbiamo di mira quando affermiamo di udire una melodia. Attraverso la successione dei suoni si instaura un'impressione della sequenza intesa come colta direttamente ed in un colpo solo - si può dire che la melodia sia data nella sensazione solo in questo senso. 79 L'unità della melodia è dunque il primo esempio citato da von Ehrenfels come esempio di Gestalt: esso deve servirci da guida per comprenderne la nozione e per intenderne gli sviluppi. L'esempio è scelto anzitutto per la sua capacità illu­stra­tiva, per la sua chiarezza. Se pensiamo, secondo la finzione proposta dall'autore, di fare udire a persone diverse ciascuna nota della melodia e se fosse possibile poi riunire queste diverse sensazioni in una sola non sarebbe in ogni caso pensabile di poter ricostruire ciò che accade in un singolo individuo che oda la melodia dall'inizio alla fine. Ciò che verrebbe a mancare sareb­be proprio quella "qualità formale" che è costitutiva dell'og­getto "melodia". La qualità formale è dunque qualcosa che risulta dai suoni presi nella loro singolarità, ma in nessun modo può essere con­ siderata come coincidente con essi. La Gestalt poggia sui suoni, ma è in certo modo sospesa su di essi. Detto in altro modo, un poco più astrattamente: l'unità risultante dalla molte­plicità dei suoni non è analizzabile negli elementi della molte­plicità. In un altro modo ancora - spesso ripreso dalla letteratura successiva: il tutto, l'intero, non è riducibile alla "mera somma" delle sue parti. Si tratta di una formulazione che può essere fatta risalire a Kant. La prova decisiva della consistenza di una simile nozione di qualità formale sta, secondo Ehrenfels, nella possibilità di "trasporre" una melodia, di proporla in una regione più grave o più acuta. Nella trasposizione, tutti i suoni vengono spostati verso l'alto o verso il basso, quindi tutti i suoni vengono mutati, non sono più quelli di prima: ma la melodia è senz'altro riconosciuta e identificata come la stessa. Di contro, se im­pieghiamo gli stessi suoni in un altro ordine otterremmo una melodia interamente diversa. Contro di ciò si potrebbe ob­biettare: ciò accade semplicemente per il fatto che la melodia non sorge dai suoni con­ siderati nelle loro altezze assolute, ma dai rapporti inter­vallari intercorrenti tra essi. Tuttavia questa per von Ehrenfels non può affatto essere considerata un'obiezione: ciò che egli sostiene è appunto l'importanza dell'intervallo, dunque della relazione, ri- 80 spetto al contenuto dell'impressione singola; quel­l'u­nità di nuovo genere che chiamiamo Gestalt e che può essere percepita in se stessa sorge appunto dalla relazione, dal rapporto. Quando parliamo di intervalli come costitutivi della me­lodia, osserva von Ehrenfels, parliamo di "qualcosa di diverso dalla somma delle note". 2. La Gestalt e gli elementi su cui si fonda Il riferimento non solo alla melodia, ma in particolare alla possibilità della trasposizione è nettamente dominante nelle prime pagine del saggio. Gli argomenti di appoggio implicano o rimandano a questa possibilità di trasposizione. Che cosa significa, ad esempio, rammentare una melodia? Vi è qui qual­cosa di diverso dal rammentare una semplice successione di eventi ognuno dei quali con una connotazione determinata. Ad esempio, non è affatto importante, nel rammentare una melodia, rammentare il suono da cui precisamente inizia. Il suono da cui inizia lo posso scegliere liberamente nei limiti delle mie capacità vocali. Ciò che debbo rammentare è il passo compiuto a partire da questa prima nota alla successiva, e poi ancora alla suc­cessiva, ecc. Chi rammenta una melodia rammenta una Gestalt, una costruzione unitaria globale, e riprodurre una melodia significa qualcosa di completamente diverso che rammentare un comples­ so di rappresentazioni singole che eventualmente, dopo essere state rammentate, rimettiamo poi nel loro giusto ordine. La portata - ed anche i limiti - di questa prima introdu­ zione della nozione, la si coglie tenendo presente lo sfondo in cui questa tematica viene proposta. Questo sfondo è rappre­sentato dalle tematiche empiristiche allora fortemente presenti nella psicologia dell'epoca. In base a queste tematiche i com­plessi debbono poter sempre essere analizzati in elementi semplici. Oppure, in un'altra formulazione ancora più chiara in rapporto al nostro problema: nel complesso non può esservi né di più né di meno 81 di quanto vi è negli elementi di cui esso è composto. Se vi è qualcosa di più esso deriva da un'a­zione, da un qualche intervento "soggettivo", da una qualche attività mentale che si aggiunge ai materiali sensoriali. L'impostazione iniziale del problema in von Ehrenfels non deve essere separata da questo sfondo al quale si rapporta in modo tendenzialmente critico, ma dal quale risulta poi dipen­ dente per alcuni tratti importanti. Ciò che in ogni caso von Ehrenfels non mette in questione è l'idea secondo la quale alla base delle formazioni di esperienza vi siano degli "ele­menti" - in qualche modo dunque degli oggetti semplici - e che tali formazioni siano il risultato della loro composizione. Il punto in cui agisce la critica è semmai l'idea che dalla composizione degli elementi non possa sorgere nulla di nuovo a meno di un qualche tipo di collegamento proposto da una specifica attività mentale. Il parlare di "somma" - parola già di per se stessa equivoca, impiegata in questo contesto, perché rimanda ad un campo del tutto diverso quale è l'aritmetica - ha per lo più il senso di un'analogia implicita. L'insistenza sul fatto che non si tratta di una "somma" intende rammentare che nell'a­rit­ metica cambiando l'ordine degli addendi il risultato non cambia. L'argomento soggiacente alle considerazioni di von Ehrenfels è che qualora il complesso sia interamente analiz­zabile nei suoi elementi, allora due complessi saranno eguali qualora abbiano gli stessi elementi ovvero un mutamento nel­l'or­dine non implicherebbe alcuna modificazione del com­plesso. L'introduzione della nozione di Gestalt non mette in discussione l'idea degli elementi e della composizione degli elementi, bensì la concezione sommativa e additiva della composizione. Dobbiamo poter dire: gli stessi elementi possono stare alla base di complessi diversi, più precisamente possono essere unificati in modi diversi. Il modo dell'unificazione è ciò che vogliamo chiamare "qualità ghestaltica". Così nella definizione proposta si sottolinea ad un tempo l'autonomia rispetto agli elementi e la necessità 82 per la qualità ghestaltica di avere in essi un fondamento. Definizione di qualità ghestaltica "Con qualità ghestaltiche intendiamo quei contenuti rappresentativi positivi (positive Vorstellungsinhalte) che sono vincolati all'esistenza di complessi rappresentativi nella coscienza, che a loro volta consistono di elementi separabili l'uno dall'altro (cioè rappresentabili separa­ta­men­te). Chiamiamo fondamento (Grund­­­ lage) delle qualità ghestal­tiche i complessi rappresentativi necessari per l'esistenza delle qualità ghestaltiche" (ivi, p. 136). Va da sé che queste qualità ghestaltiche non derivano da "alcuna attività speciale diretta su di esse", come si sostiene in modo esplicito proprio verso la fine del saggio, riprendendo un tema già presente fin dai suoi inizi, e che esse sono date "contem­poraneamente al loro fondamento". In questo senso si parla di contenuti rappresentativi "positivi" con particolare insistenza: essi sono tanto positivi quanto sono le sensazioni elementari stesse, e per questo si può dire che una melodia è effettivamente "data nella sensazione", autenticamente perce­ pita. A questo punto si comprende molto bene anche perchè proprio la melodia assolva una funzione così esemplare. Infatti per quanto fin dall'inizio venga proposto il problema del­la Ge­ stalt anche in rapporto alle forme spaziali, tuttavia si avverte nel testo una maggiore difficoltà nella ricerca di un'e­semplificazione suffi­cientemente chiara. A mio avviso, ciò dipende dal fatto che mentre le note singole sembrano fornire se non altro una buona immagine di ciò che potrebbe valere a titolo di elementi di un complesso, e dunque di fondamento di una Gestalt, non è invece affatto chiaro che cosa potrebbe valere come tale nel caso di una configurazione visiva qualunque, anche se naturalmente potrem­mo escogitare qualche risposta (ad esempio, in una figura triangolare i segmenti di cui essa è composta). Ancor più pro­ blematico sarebbe il ritrovare nel campo delle forme spaziali qual- 83 cosa di analogo alla trasposizione nella melodia - mentre la possibilità della trasposizione, in una qualche nozione generalizzata del termine, sembra talora rappresentare una condizione generale per accertare l'e­sistenza di una Gestalt. Infine si comprende anche in che senso si possa parlare di una novità o addirittura di una scoperta nella posizione di questa nozione. Non sembra infatti essere una gran scoperta il rilevare che con dodici note possiamo costruire melodie molto diverse oppure che con dodici segmenti, variamente disposti, potremmo formare figurazioni molteplici! Ma secondo gli intenti di von Ehrenfels non si tratta tanto di accertare che con gli stessi suoni possono sorgere molteplici melodie, ma piuttosto di affermare anche la possibilità di ricondurre la diversità delle formazioni dell'esperienza a fondamenti "omo­genei". L'esempio diventa interessante non già in se stesso (come si crede di solito), ma per ciò che esso potrebbe significare in una sua generalizzazione. Vedremo fra breve in che modo questo tema si ripresenti al termine del saggio, dopo essere passato attraverso varie e singolari - e molto interessanti - peripezie. 3. Ampliamento della nozione di Gestalt Riassumendo: ogni formazione unitaria deriva dalla compo­ sizione di elementi semplici. L'esempio della melodia mostra tuttavia che questa composizione non può essere solo "additiva". La composizione deve dar luogo ad un'oggettività autonoma, per quanto fondata negli elementi che la compongono. Gli sviluppi successivi sono caratterizzati da un progres­sivo ampliamento del campo di applicazione della nozione di qualità ghestaltica. Abbiamo già notato che fin dall'inizio, nonostante la maggiore evidenza degli esempi di Gestalten sonore, si ammette senz'altro che vi siano fenomeni analoghi nell'ambito delle formazioni spaziali. Vi sono Gestal­ten spaziali così come Gestalten temporali, una distinzione che non deve essere neces­sariamente 84 disgiuntiva. Una qualità forma­le può sorgere da un fondamento spaziale e temporale. Ad esem­pio, nel caso della percezione del movimento operano con eguale importanza sia la componente temporale della succes­sione che quello spaziale: ci sarà cioè un succedersi di impressioni visive singole che tuttavia dànno luogo ad una impressione-di-movimento che pone all'in­circa gli stessi pro­blemi che nel caso della melodia. L'accento cade in questo caso sul fatto che ogni movimento ha quello che potremmo chiamare un andamento caratteristico - ed è proprio questo andamento che rappresenta la qualità ghestal­ti­ca. Si pensi ad un movimento che caratterizzeremmo come movimento rotatorio, oppure come un movimento a scatti - designazioni che indicano appunto il carattere del movimento. Ma proprio in questi esempi si stenta a comprendere che cosa debba valere a titolo di fondamenti oppure a titolo di trasposizione. Comincia a profilarsi il dubbio che il tema dei "fondamenti" finisca con il riproporre la questione delle "impressioni" nell'accezione humeana del ter­mine, e dunque tutte le difficoltà relative alla nozione di elemento ultimo e semplice. Ciononostante ciò che si è detto sulla qualità ghestaltica suggerisce ampiamente la sua applica­zione anche a casi come questi. Ad esempio, rammentare un movimento non significa rammentare ad uno ad uno i suoi momen­ti costitutivi (qualunque cosa possano essere), ma ram­mentare un andamento del movimento che viene colto unitaria­mente. Questa tematica viene sviluppata in particolare sulla base della distinzione tra qualità ghestaltica temporale e qualità ghestaltica atemporale. Si tratta di una distinzione che non viene elaborata realmente a fondo da von Ehrenfels, e tuttavia essa ci appare subito significativa perché implica l'ammissione di Gestal­ ten che non hanno bisogno della temporalità per costituirsi. Esempi di qualità ghestaltiche atemporali saranno qualun­ que configurazione visiva considerata come tale - le forme spaziali in genere; ma anche un insieme di suoni dati simul­ taneamente, un accordo. Esso è detto atemporale non già per il 85 fatto che un accordo sia fuori dal tempo - quando esso risuona certamente esso risuona in un qui ed in un ora; ma per il fatto che tutto ciò che sta alla base di questa formazione unitaria è dato in questo qui ed ora. Ciò che invece caratterizza la qualità ghestaltica temporale è il fatto che i fondamenti sono distribuiti in una successione, benché siano afferrati "global­mente". Nel caso delle qualità ghestaltiche temporali "può essere rappre­sentato al massimo un elemento mentre i rimanenti sono presenti come immagini mnestiche (o come immagini di attesa rivolte al futuro)" (ivi, p. 137). È dunque chiaro perché si possa chiamare un accordo "atemporale". Molto più problematico, ma particolarmente significativo invece è il caratterizzare come qualità ghestaltica atemporale il timbro di un suono. In realtà non è facile trovare una concor­ danza tra il fenomeno "timbro" e la definizione di qualità ghestaltica che è stata proposta. Nella definizione si parla infatti di fondamenti. Supponiamo che ora intorno a noi risuoni uno squillo di tromba. Dove sono i fondamenti? E dove è il com­ plesso di contenuti rappresentativi positivi, per giunta "separabili" che fonderebbero la "qualità timbrica", ed anzi questa specifica qualità timbrica? Eppure non possiamo certo fare a meno di quella definizione, così come non possiamo dimenticarci dell'esempio della melodia che serve per intro­durla. Le due cose si sostengono l'un l'altra. Nel caso dell'ac­cordo possiamo ammettere il suo carattere di unità ghestaltica perché potremmo intendere l'accordo come una sorta di melodia verticale - le note sono i suoi elementi esattamente come nel caso della dimensione orizzontale, e vi è certo un qualche senso in cui potremmo parlare di una analogia con la trasposizione melodica. Nel caso del timbro invece le cose cambiano dal momento che non riusciamo ad attribuire alcun senso alla richiesta di indicare i fondamenti della qualità ghestaltica. Forse faticheremmo anche a parlare della percezione di un complesso, facendo riferimento agli armonici: infatti una molteplicità ri­scontrabile nella spiegazione fisica non 86 necessariamente diventa leggibile sul piano fenomenologico. Eppure von Ehrenfels cita questo esempio, ed è interes­ sante che lo faccia, segnalando egli stesso la difficoltà. Ma come pensa di venirne a capo? La sua soluzione è ricca di significato: "A questo proposito è degno di nota che le qualità ghestaltiche talvolta si spingono a tal punto in primo piano, cioè si impongono a tal punto alla nostra attenzione che risulta difficile scomporre in elementi il loro fondamento. Questo vale nella misura più ampia per il timbro, ma spesso anche per quegli impasti sonori che in generale si suole chiamare accordi. Entrambi i fenomeni - risultando da uguali cause fisiche - si assomigliano anche psichicamente e non possiedono un confine netto, ma trapassano di continuo l'uno nell'altro" (p. 138 ). Questo passo va commentato con cura. Sullo sfondo di esso sta certamente il terreno delle spiegazioni fisiche piuttosto che quello delle considerazioni fenomenologiche. Ed è eviden­ temente importante rendersi conto del piano su cui si dispone la nozione di Gestalt nel momento in cui muove i suoi primi passi. Implicando il timbro come qualità ghestaltica, von Ehrenfels non può fare altro che riconoscere che i fondamenti non appaiono alla superficie fenomenologica. Questo può essere dovuto - così egli ipotizza - alla forza dell'unità costituita che prenderebbe tutta la nostra attenzione. Con uno sforzo dell'atten­zione potremmo allora arrivare a cogliere percet­tivamente questi fondamenti? In realtà ancora prima di questa domanda dovremmo rispondere a quest'altra: come potremmo proporci di forzare la nostra atten­zio­ ne in direzione dei fondamenti se questi sono del tutto inavver­ titi ed io ignoro la loro stessa esistenza? D'altra parte per parlare di qualità ghestaltica debbo sapere che gli elementi costitutivi vi sono veramente, e se non attingo questo sapere dalla superficie fenomenologica lo debbo attingere da altre fonti, esso deve esse­ re proposto mediante argomentazioni o come una ipotesi espli­ ca­tiva più o meno forte. 87 Ciò è quanto si dice nella seconda parte della frase: ab­ biamo proposto un esempio abbastanza palese di qualità ghe­ staltica atemporale facendo riferimento ad accordi. Ora, vi è una spiegazione dell'effetto di un accordo facendo ricorso agli armo­ nici, ed alla struttura degli armonici del suono potrebbe essere riportate anche le differenze timbriche. Gli armonici porrebbero rappresentare dunque i componenti elementari in­av­vertiti che co­sti­tuiscono il fondamento della qualità ghestaltica. Ciò che merita di essere sottolineato qui è la natura tutta argomentativa del problema e l'apporto determinante di ipotesi specifiche sulla natura fisica del fenomeno sonoro. Ciò significa che, secondo von Ehrenfels, gli elementi possono anche trovarsi al di fuori del campo percettivo attuale. Il fondamento della qualità ghestaltica non è necessariamente una entità effet­ti­vamente percepita. Ma allora l'esemplarità della me­lodia in rap­porto alla nozione di qualità ghestaltica si allenta, mentre si apre una breccia che ci conduce in direzioni inattese. Il caso della melodia era infatti particolarmente chiaro pro­prio perché ci con­sentiva di intendere le note stesse, che sono dati effet­tiva­mente percepiti come componenti elementari. Se siamo disposti ad ammettere il timbro come Gestalt, perché non ammettere come tale anche una nota singola? Anche in questo caso gli elementi non sono affatto "dati". Eppu­ re potremmo addurre argomentazioni analoghe alle precedenti, richiamandoci del resto alla stessa teoria degli armonici che potrebbe giustificare ampiamente il fatto che la nota sia un complesso, anche se non appare così. Ciò è quanto sostiene ancora von Ehrenfels. E naturalmente possiamo andare oltre. Non ci sono solo le "note", ma anche i rumori. Vi è il rumore del tuono, di uno sparo, vi sono fruscii del genere più vario. Lo schiocco che ora faccio con le mie dita è una Gestalt. Il suono a cui ognuna di quelle parole si riferisce è può essere considerato come una particolare qualità ghestaltica. È naturalmente possibile che la spiegazione di von Ehrenfels non ci convinca: tuttavia vi è 88 certamente un aspetto del problema che mostra la possibilità di simili sviluppi, anche in modo del tutto indi­pendente da quella spiegazione. In fin dei conti tutti questi e­sempi potrebbero essere intesi come esempi di andamenti, pro­fili, tratti caratteristici. Sono andamenti le melodie e i movi­menti, le figure hanno le loro tipicità riconoscibili ed afferrabili "in una volta sola", e questo si può dire anche per una nota, per un timbro, per uno schiocco delle dita. Da un lato dunque von Ehrenfels, per attenersi alla propria definizione di qualità ghestaltica oltrepassa il piano fenomenologico, dall'altro sembra sostenere che in fin dei conti non è poi così importante trovare giustificazioni per i fondamenti elementari, che potranno essere più o meno abborracciate, mentre lo è il riconoscere di essere in presenza non già di "elementi", ma piuttosto di "caratteri" tipicamente differenziati. In tal caso il problema del fondamento o quello della trasposizione perdono di importanza. Questa è una nostra chiave di lettura. Essa tende a mettere in evidenza anche le indeterminatezze metodologiche di questo testo, il cui interesse in fin dei conti sta anche in queste indeterminatezze. Esso è pregevole proprio per i problemi che riesce a scatenare, è un testo forse più geniale che realmente profondo. Non meno interessanti sono le proposte di ulteriori estensioni. Esse vengono operate mediante spostamenti suc­ces­sivi, secondo un procedimento analogico che abbiamo già visto in opera. Abbiamo proposto l'accordo come qualità ghestaltica (atemporale). Le note che lo costituiscono potrebbero essere intese come degli analoghi sul piano uditivo di ciò che sono i colori sul piano visivo. Allora gli accostamenti cromatici potrebbero dar luogo a qualità ghestaltiche come nel caso degli accordi. Ad esempio, in rapporto agli accordi consonantici si può parlare di "armonia" in una delle svariate accezioni che ha questo termine. E il termine di armonia è spesso impiegato nel campo degli accostamenti cromatici. Uno dei problemi carat­teristici che la teoria dei colori si è sempre posta è quello di dare un senso anche 89 nel campo cromatico a questa espressione di "armonia" che ha la sua prima applicazione nel campo dei suoni. Si tratta di un parallelismo ricorrente, di cui von Ehren­fels approfitta allo scopo di mostrare e rafforzare la generalità della nozione di Gestalt. Il punto di collegamento consiste intanto nel ritrovare anche nel campo cromatico una qualità ghestaltica come risultato dell'accostamento dei colori. Peraltro anche in questo caso il riferimento alla definizione ed all'impianto iniziale del problema non può che essere piuttosto debole. In particolare, non è certo facile applicare in questo campo il tema della trasposizione: nel campo uditivo si possono produrre ar­mo­nie eguali sulla base di elementi diversi, mentre ciò non sem­bra aver senso nel campo del colore. La soluzione della difficoltà ha anche in questo caso l'aspet­ to di una facile scappatoia che mostra come von Ehren­fels sia assai poco disposto a rinunciare ad un'indicazione interes­sante a favore di un impianto teorico coerente. Egli si limita infatti ad osservare che non è affatto detto che la nozione di qualità ghestaltica debba avere le stesse caratteristiche nei vari campi sensoriali. Nello stesso tempo viene prospettata la possibilità di qualità ghestaltiche per ogni campo sensoriale, compreso quello del gusto. Il sapore di una vivanda, il suo essere attraente o repellente, non è riducibile analiticamente ai suoi componenti e rappresenta certamente un suo tratto caratteristico. Infine von Ehrenfels avanza, a titolo di congettura, la possibilità che si diano qualità ghestaltiche che abbracciano campi sensoriali differenti - dunque che vi siano formazioni unitarie nelle quali ad esempio le componenti sonore confluiscano in componenti cromatiche formando una unità caratteristica. An­che questa congettura è assai poco sorretta dall'im­pianto teorico, e lontanissima dalla formulazione della definizione. Ma forse niente affatto estranea alla differenza tra composizione "additiva" e composizione "ghestaltica" degli elementi, potendosi illustrare quest'ultima come risultato di una con­fluenza di elementi, di un trapassare gli 90 uni negli altri in una sorta di fusione che genera qualcosa di nuovo. 4. Gestalt e teoria dell'associazione La possibilità di intendere il rapporto tra gli elementi che stanno a fondamento della qualità ghestaltica come un confluire dei contenuti l'uno nell'altro propone un'angolatura del problema che sta alla base di numerosi riferimenti a stati di transizione, di passaggio nei quali una determinazione sfuma nell'altra, e quindi anche di situazioni nelle quali si potrebbe parlare di progressioni percettive, di intensificazioni, di incrementi. Questi riferimenti potrebbero apparire a tutta prima sconcertanti, eppure hanno una loro motivazione nel modo in cui il problema viene via via sviluppato. Come esempio potremmo pensare ad una successione di suoni in crescendo. Oppure ad una sequenza cromatica nella quale un colore da una tonalità molto chiara raggiunge in modo progressivo, attraverso sfumature, una tonalità molto scura. Ed anche naturalmente a passaggi continui dal rosso al giallo attra­verso l'arancione, ecc. Casi analoghi a questi potrebbero certamente essere consi­ derati sequenze figurali nelle quali una figura appare come una modificazione dell'altra, ad esempio una sequenza di cerchi sempre più grandi potrebbe essere proposta come una sorta di rappresentazione di un crescendo sonoro. Rincresce soltanto che von Ehrenfels non indugi su questi esempi limitandosi ad osservare che anche questi casi di progres­ sione e intensificazine possono essere considerati alla luce della nozione di Gestalt. Peraltro con qualche incertezza: ad esempio egli sembra mostrare indecisione sul fatto che si debba parlare in casi come questi di qualità gestaltiche oppure di mutamento di qualità ghestaltiche. Ma resta in ogni caso molto significativo il fatto che egli riconosca l'appartenenza all'area del problema le sfumature, le progressioni, le intensificazioni. Così come è signi- 91 ficativo il riconoscimento sull'im­por­tanza che queste for­ma­zioni rivestono nell'ambito dell'e­spe­­rienza in genere. Si tratta di un riconoscimento che viene effettuato in certo senso indi­rettamente in tutti quei punti in cui von Ehrenfels lamenta la carenza della lingua sotto questo riguardo. Essa consta - egli dice - di astratte indicazioni indirette (ivi, p. 140) che per lo più, in luogo di esprimere la transizione, tendono a fissare come uno stato ciò che in realtà è il momento di una trasmutazione. "Come è azzurro è il cielo!" - eppure espressioni come queste sono lontane dal poter esprimere la mobilità dell'espe­rien­za che in essa viene indicata: l'azzurro del cielo è un "azzur­rarsi" del cielo che può avvenire in molti modi diversi che non possono affatto essere rispecchiati dalla parole di cui di­sponiamo. Ciascuno di questa mobile fusione di contenuti appartiene all'ambito dei fenomeni ghestaltici. L'importanza di questa affermazione sta nella consapevolezza implicita dei pro­blemi che sorgono considerando queste formazioni e in particolare nella consapevolezza della difficoltà a rendere conto di essi in termini "atomistici" e "additivi". In nessun modo infatti qualcosa può essere dato come un momento, una fase, una sfumatura se è inteso in sé e per sé, come una formazione chiusa e non invece aperta ad una possibile integrazione. Si prospettano così implicitamente dubbi su possibili spiegazioni di stile empiristico, anche se non si può certo parlare di una esplicita polemica antiempiristica. La tematica dell'asso­ ciazione viene mantenuta - ma viene a mutare la sua angolatura: l'associazione viene riportata alle qualità ghestaltiche piuttosto che agli elementi su cui esse si fondano, sulla base dell'argo­mento che esse possono essere più facilmente trattenute nella memoria. I termini dei nessi associativi sono dunque ora pre­valentemente le qualità ghestaltiche. E l'accen­to cadrà più spesso sulla somiglianza piuttosto che sulla contiguità. La somiglianza, a sua volta, non verrà più intesa secondo uno stile atomistico alla luce dell'i- 92 dea di una parte comune, nettamente individuata e separata dalle altre parti. Ad una concezione della somiglianza concepita come risultato di un confronto punto contro punto si contrappone un concetto di somiglianza ade­guato alla nozione di Gestalt. Se la Gestalt è un tratto carat­teristico, anche la somiglianza tra Gestalten sarà so­mi­glianza di caratteri. In realtà von Ehrenfels si trova ad un solo passo dal formulare l'idea della somiglianza come "somi­ glianza di fami­glia" così come verrà molto più tardi formulata da Wittgenstein in una riflessione che mina le basi della tradi­zionale teoria del concetto. Dopo aver notato che possiamo rico­no­scere l'affinità di una melodia con altre melodie senza essere in grado di indicare in modo più preciso in che cosa consista questa affinità, egli osserva: "In questo modo riconosciamo che qualcuno appartiene ad una stessa famiglia stando ad una somiglianza che è esibita dal suo carattere psichico globale, dal suo habitus, una somiglianza che si oppone ostinatamente ad un'analisi che voglia ricondurla all'eguaglianza di singole parti" (ivi, p. 146). 5. Qualità ghestaltiche e creatività artistica Spunti in direzione della filosofia dell'arte non mancano, e pur essendo relativamente esigui e frammentari sono in grado di indicare qualcosa di simile ad un orientamento e ad una dire­zione. Essi non debbono dunque essere considerati come sem­plici integrazioni incidentali relativamen­te estrinseche. Intanto, la frase più volte ripetuta secondo la quale la Ge­ stalt è "qualcosa di nuovo" rispetto agli elementi su cui essa è fondata contiene una possibile accentuazione di un momento di creatività su cui von Ehrenfels richiama l'attenzione alla fine del saggio. Egli rammenta proprio la vecchia teoria humeana dell'im­ maginazione nella quale si fa valere la tesi della di­pendenza dell'immaginazione dalle "impressions", con­­­sistendo la sua libertà nella "facoltà di combinare liberamente elementi dati dalla sensazione e 93 dell'esperienza interna". Von Ehrenfels sembra non voler attaccare direttamente questa concezione, ma ne modifica profondamente il senso poiché ciò che viene liberamente combi­nato sono proprio le Gestalten. La formu­lazione humeana dun­que poteva essere interpretata come se proponesse una combi­nazione puramente "additiva", indebo­lendo il momento della creatività, es­sendo ogni formazione immaginativa intera­mente analizzabile nei suoi componenti, mentre in von Ehrenfels la crea­tività viene accentuata al massimo grado perché la combi­nazione di cui egli parla conduce a "qualcosa di nuovo" irri­ducibile agli elementi che stanno al suo fondamento (e la cui consistenza tende a diventare sempre più evanescente). Questa libertà viene appoggiata con una curiosa argomen­ tazione che richiama tuttavia lo stile dell'impostazione comples­ siva del saggio. In realtà, osserva von Erhrenfels, se stiamo alle qualità ghestaltiche di grado inferiore - suoni o colori singolarmente presi, ad esempio - esiste la possibilità di una loro organizzazione sistematica che consente la loro relativa dominabilità. I colori, ad esempio - e qualcosa di simile vale anche per i suoni - possono essere intesi come sfumature all'interno di un sistema cromatico complessivo che può essere idealmente considerato come conte­nente tutte le possibilità cromatiche. Cosicché se all'interno di una sfumatura chiaroscurale vi è un "salto" io sarò sempre in grado di "riempirlo" con i giusti "passi". Vi è qui un sapere che traggo direttamente dalla Gestalt della sfumatura che mi sta di fronte. Ora anche dipinti e melodie sono Gestalten a loro volta, ma in rapporto ad essi non ha alcun senso porre un problema analogo. Un dipinto o una melodia non sono interpolazioni prevedibili nel presupposto di un sistema globale che li comprende tutti. Creatività artistica e concezione della attività artistica come produttiva di Gestalten di ordine superiore sono problemi che secondo von Ehrenfels stanno l'uno nell'altro. Melodie, dipinti, forme architettoniche, ecc. sono in primo luogo Gestalten e proprio per 94 questo possono essere dette il risultato di una attività creativa. Naturalmente di qui deriva la stretta connessione tra produzione artistica e strutture della percezione. Ecco in che modo von Ehrenfels cerca di sviluppare que­sta connessione. A suo avviso vi è una differenza tra vista e udito per ciò che concerne la capacità di afferramento globale di un mutamento. Il senso dell'udito sorpassa ampiamente quello della vista nella capacità di "raccogliere insieme le sezioni tem­porali di processi di modificazione in un immagine comples­siva " (ivi, p. 141). Ciò è da intendere attraverso l'e­sempio della ballerina che esegue passi di danza molto vari, seguendo fedel­mente l'andamento di una melodia. Abbiamo dunque una sequenza sonora ed una visiva che hanno la stessa durata. Tuttavia se la melodia è abbastanza breve chiunque sarà in grado di riprodurla, mentre stenterà a riprodurre le movenze della danza. Ciò significa, secondo von Ehrenfels, che la succes­sione tempora­le delle scene visive non dà luogo ad una Gestalt altrettanto stabile quanto la sequenza temporale della melodia. Inver­samente "l'udito è di gran lunga inferiore alla vista nella capacità di percepire le qualità ghestaltiche atemporali"(ivi). Una conseguenza di ciò è che mentre in un dipinto possono giocare insieme una grande quantità di colori che vengono colti distintamente nella ricchezza dei loro rapporti, nel caso degli accordi "la varietà delle note udite contem­ poraneamente non può rivaleggiare neppure lontana­mente con la varietà di configurazioni e di colori percepibili in una occhiata" (ivi, p. 141). Proprio in base a considerazioni di questo tipo si chiarisce, secondo von Ehrenfels, perché non esista un vera e propria arte della luce, dei suoi cambiamenti e quindi dei cambiamenti graduali dei colori - mezzi che vengono utilizzati "spora­di­ camente con finalità estetiche", ad esempio come mezzi ausiliari nelle rappresentazioni teatrali. In questo campo si producono Gestalten troppo deboli per dare luogo a produzioni autonome. In realtà questo è ancora un modo di ribadire che la produzione 95 artistica è essenzialmente produzione di Gestalten. Un'arte della luce colorata e delle sfumature di colore in movimento non c'è perché sono troppo labili le Gestalten che possono essere prodotte in questo modo - esse sono troppo fugaci e difficil­mente si imprimono nella memoria. Se così non fosse un'arte della luce potrebbe ben esserci! 6. Qualità ghestaltiche ed affettività Volendo leggere più a fondo gli spunti di von Ehrenfels in direzione dell'arte, c'è anche dell'altro. Certo, questi spunti per diventare significativi debbono essere sfruttati a fondo dal lettore. Nel testo troviamo cenni che tendono ad una breve elaborazione dell'idea secondo cui l'attività artistica è un' attività produttiva di Gestalten. Occorre anzitutto mettere l'ac­cento sul fatto che questa attività non avviene nel vuoto, ma è radicata all'interno dei processi di esperienza. Un pittore dipinge un cielo azzurro. Abbiamo già messo in rilievo la carenza della lingua nei suoi impieghi descrittivi al fine di rendere l'autentica esperienza dell'azzurro del cielo; ed anche notato che questa esperienza, come nell'esperienza in genere, vi sono ovunque trasmutazioni, sottili passaggi, una enorme ricchezza di sfumature. Ora dobbiamo aggiungere: que­ste qualità ghestaltiche hanno anche uno sfondo emotivo da cui sono accompagnate. Un pittore che si propone di dipingere un cielo azzurro tenderà dunque a superare la carenza della lingua, a restituire la mobilità dell'esperienza ed anche a far apparire nel suo prodotto lo sfondo emotivo che la accompagna: anche se anche in questo caso vi saranno delle limitazioni. Anche il pennello del pittore non può fare altro che cogliere "solo un mem­bro della catena dei singoli stati in trasformazione", e perciò egli "può compensare solo in misura limitata la carenza della lingua". Ma a parte ciò il compito di superare questi limiti sembra essere il compito stesso dell'arte. Anche la poesia, arte del linguaggio per 96 eccellenza, cerca, secondo von Ehrenfels, di suscitare le qualità ghestaltiche nel­l'animo del lettore o dell'ascoltatore insieme agli effetti emotivi ad esse collegati. Per quanto non sia troppo giusto tentare di trarre da queste scarne indicazioni un discorso approfondito, tuttavia occorre almeno notare che von Ehrenfels non intende enfatizzare più di tanto la presenza dell'affettività nella pro­duzione artistica, essendo più interessato a richiamare l'atten­zione sugli aspetti formali, più che su quelli contenutistici. Il problema dell'emo­tività si pone per due ragioni: la prima, accennata or ora, per il fatto che le Gestalten hanno comunque uno sfon­do emotivo. La seconda riguarda invece il fatto che la nozione di Gestalt può essere applicata non soltanto ai fenomeni della percezione esterna, ma anche a quelli della percezione interna - cioè ai vissuti in genere ed ai loro temi. In quale altro campo infatti troviamo con maggiore evidenza fusione e confluenza delle parti, passaggi e transizioni, se non nella vita psichica, nella dinamica delle emozioni e dei sentimenti? Potremmo dire addirittura che l'essenza del sentimento è la trasmutazione, che di questa essenza fanno parte l'inten­ sificazione e il decremento qualitativo, fanno parte quei crescen­do e decrescendo che abbiamo già messo in rilievo come Ge­stalten nel campo del suono. Nell'ambito della vita affettiva "si riscontrano cambiamenti (come l'insorgere e lo sparire di un piacere, di un dolore, di un'attesa) che, se sono oggetti di rap­presentazione interna, sono analoghi alle qualità ghestaltiche caratteristiche di un suono che cresce o si va spegnendo" (p. 58). Poiché un'analogia tra Gestalten può stare a fondamento di una nuova Gestalt, osservazioni come queste possono essere consi­derate orientate a sostenere una possibile "asso­ciazione" tra suono e sentimento, o meglio tra movimento sonoro (musicale) e movimento affettivo, a cui attribuire eventualmente l'"ef­fetto estetico" dell'opera. Nessun riferimento dunque alla par­ticolarità del sentimento, ma piuttosto ai suoi tratti caratteristici. Forse si tratta di una posizio- 97 ne non troppo lontana da una estetica "formalistica" secondo temi allora molto dibattuti? Qui si apre una discussione molto ampia a cui certo non è possibile nemmeno accennare. Vi è un interessante indizio già in questo testo degli orientamenti e degli interessi futuri di von Ehrenfels dal punto di vista della riflessione teorica e specificamente musicale. Trattando della somiglianza tra Gestalten egli osserva che ci si può chiedere se "le qualità gestaltiche di differenti cam­pi rappresentativi, che possono apparire come disparati (come un crescendo, l'inten­sificazione della luce nel montare del giorno, l'inten­sificazione emotiva di un'attesa) non esibi­scano una somiglianza diretta che, al di là dell'eguaglianza di caratteri comuni (come in questo caso il tempo), hanno la loro sede nel feno­meno stesso, e non solo nei sentimenti da cui sono accompagnate". E in nota a questo passo si rammenta l'aurora nel prologo del Crepuscolo degli dei osservando che le opere di Wagner in genere "per via del parallelismo che in esse si realizza tra eventi musicali e drammatici offrono materia ricchissima per la messa a confronto di qualità ghestaltiche di ogni genere" (ivi, p. 147). Nello stesso periodo della stesura di questo testo in effetti von Ehrenfels prendeva vivacemente parte con una posizione propria al dibattito sul wagnerismo. I saggi dedicati ad esso sono stati ripubblicati nei Philosophischen Schriften, Bd. 2, Aesthetik, Philosophia Verlag, München, 1986. 7. Considerazioni conclusive Nella nostra esposizione e nei nostri commenti non sono stati evitati cenni critici soprattutto in direzione degli aspetti meto­ dologici. Il saggio resta interessante per le aperture pro­blema­ tiche che esso contiene, ma vi sono ovunque incoerenze e indeterminatezze che sono dipendenti, io credo, dalla scarsa chiarezza in rapporto al terreno su cui l'intera problematica deve essere riportata. In particolare vi è una forte ambiguità sulla nozio­ne di elemento inteso come fondamento della qualità ghestaltica. Talora questi 98 elementi sembrano dover appartenere alla configurazione percettiva e poter essere colti in essa. In questa direzione ci orienta l'esempio-guida della melodia. Talaltra invece, e forse anzi dovremmo dire per lo più, ciò che deve valere come elemento viene lasciato o relativamente indeciso o varia­men­te argomentato e ipotizzato ricorrendo al terreno delle spiegazioni fisiche. Ciò ha naturalmente delle conseguenze sul modo in cui deve essere intesa la definizione proposta di Gestalt così come sull'intero andamento del saggio che in parte sembra orientato da considerazioni prevalentemente descrittive, in parte da considerazioni di tutt'altro ordine. A questo proposito basterà attirare l'attenzione sulla singola­ rissima conclusione del saggio che approfitta ancora una volta della nozione di qualità ghestaltica, ed anzi della possibilità di qualità ghestaltiche abbraccianti campi sensoriali differenti per volgerla in una direzione forse del tutto inattesa. Al termine del saggio si fa infatti notare che differenze significative sul piano dell'esperienza, come quella tra suono - ad esempio tra un accordo consonante o dissonante - e rumore, possa venire meno in una considerazione relativa ai fondamenti: secondo von Ehrenfels la differenza sembra consistere nel fatto che nel primo caso è possibile "analizzare l'impressione", cioè a "tenere distinte le singole parti del fondamento". Tuttavia non è impensabile che qualcuno riesca ad "analizzare nei suoi ele­menti ogni rumore attraverso l'attività dell'attenzione" (ivi, p. 154). La differenza tra il rumore e suono consisterebbe unica­mente nelle qualità ghestaltiche, e non negli elementi. La stessa cosa potrebbe essere ipotizzata nel caso delle differenze tra suoni e colori, e in generale di qualità sensoriali eterogenee. Se così fosse l'idea di qualità ghestaltica si adatterebbe a meraviglia all'idea della "deriva­zio­ne dei contenuti rappresentativi com­ples­si da un elemento primitivo comune" e sarebbe perciò possibile "comprendere sotto una unica formula matematica l'intero mondo conosciuto" (ivi, p. 155) . All'interno di una si­mile forzatura spe- 99 culativa l'idea di "elemento", che continua ad essere dubbia lungo tutto il saggio, diventa del tutto eva­nescente, e sembra non poter fare a meno di presupporre una concezione atomistica del reale. È inutile dire che una simile conclusione è sintomo di una confusione tra piani concettuali ed analitici profondamente diversi. Questi piani sono, almeno in via di principio, tenuti distinti da von Ehrenfels. La distinzione, che egli trae da Brentano, tra psicologia descrittiva e psicologia genetica viene infatti esplicitamente rammentata. In particolare in Bren­tano come in von Ehrenfels con il termine di "psicologia genetica" si intende il terreno delle "spiegazioni" psicologiche, dunque della ricerca delle cause, con inevitabili implicazioni di consi­dera­zioni di ordine fisico e fisiologico. Ma questo ricono­sci­mento di principio non toglie che i due piani si intersechino equivocamente l'uno con l'altro: più precisamente le cognizioni acquisite sul piano genetico vengono presupposte nel momento in cui ci si accinge alla descrizione, e persino proiettate nel suo interno. A mio avviso, ciò che si chiama "psicologia della forma" ha in realtà il suo inizio non tanto in questo saggio di von Ehrenfels, quanto nel momento in cui si teorizza apertamente ed esplicitamente sia l'autonomia della "psicologia descrittiva" sia la sua anteriorità rispetto a considerazioni genetico-causali. E così, nonostante la ricchezza degli spunti che von Ehren­fels propone, quando questo passo viene effettuato con piena con­sapevolezza metodologica, il modo di intendere la nozione di Gestalt muta profondamente. Esse viene infatti utilizzata in primo luogo per indicare che ogni formazione di esperienza è una formazione strutturata, ovvero che essa è una risultante dei dinamismi direttamente rilevabili all'interno della configura­zione stessa. La nozione di elemento nell'accezione di von Ehrenfels, che rimanda da un lato alle impressioni humeane, o ne contiene almeno il ricordo, dall'al­tro deborda sul terreno genetico-cau­sale, viene abbandonata e si acquista anche la piena consa­pe­volezza della necessità di una revisione profonda del­l'im­pal­catura empiristica della tematica psicologica. 100 101 Giovanni Piana Momento figurale e qualità ghestaltica 1977-2013 102 Questo testo è stato redatto nel 2013 sulla base di materiali predisposti per il corso intitolato "La tematica del mondo della vita e delle strutture antepredicative nella filosofia di Husserl" tenuto nel 1977-78 all'Università degli Studi di Milano. Il testo da cui sono tratte le citazioni è l' edizione della Philosophie der Arithmetik, Husserliana, XII, a cura di Lothar Eley, Nijhoff, Den Haag 1970, e ad essa si riferiscono le pagine delle citazioni. Ora esiste la traduzione italiana curata da Giovanni Leghissa, Bompiani, Milano 2001. 103 Nella sua Filosofia dell'aritmetica, Husserl conduce una ampia indagine sull'origine del concetto di numero che, pur precedendo la teorizzazione del metodo fenomenologico, è particolarmente significativa per il successivo sviluppo della sua impostazione filosofica, e in particolare per l'idea di una chiarificazione dei concetti attraverso il processo della loro formazione. Per il concetto di numero, il primo passo da compiere è il regresso dalla nozione vera e propria di numero, che presuppone un sistema segnico-notazionale già costituito ("sistema numerico"), alla nozione di molteplicità di cose concretamente percepite dalle quali il processo di formazione del numero deve prendere inizio. In forza di questa impostazione, il filosofo è indotto a interessarsi degli insiemi sensibili concreti e del modo della loro apprensione percettiva, allontanandosi talora dal filo conduttore del suo problema principale, per digressioni che in realtà arricchiscono notevolmente la sua esposizione. In questo saggio ci occuperemo in effetti di un argomento che sta a latere della problematica aritmetica, e che invece va associato ai primi tentativi di formulare una psicologia della percezione che fosse in grado di superare i limiti empiristici della psicologia anteriore e di risolvere i problemi che essa aveva lasciato insoluti. Con il concetto di "momento figurale" elaborato da Husserl (cap. XI) ci troviamo ormai sulla via maestra che condurrà di lì a pochi anni alla nuova "psicologia della forma". La digressione distoglie lo sguardo dalla problematica filosofico-aritmetica per puntare tutta l'attenzione verso questa domanda: noi abbiamo la percezione di molteplicità di cose, e questa percezione si contraddistingue certamente da quella di un oggetto unitario, di una cosa nel senso usuale. Ma in che cosa consiste propriamente questa differenza? Occorre precisare intanto che la molteplicità di cose di cui ora parliamo è una molteplicità di cose afferrabili nella loro singolarità, fra le quali, certamente, può esserci una varietà di legami dipendenti dal loro contenuto. Ora il problema sorge per il 104 fatto che gli elementi singoli non sono afferrati nella loro singolarità, ad uno ad uno, ma sono colti "insieme" in modo tale che la configurazione che ci sta di fronte si appare come una unità. Come spesso accade nella filosofia, dobbiamo compiere qualche sforzo per capire che vi è un problema, laddove a tutta prima non ne vediamo alcuno. Ad esempio: entriamo in una sala e vediamo molte persone. Tuttavia esprimendoci in questo modo non è detto che intendiamo riferire il "molti" alle tre persone che vediamo in modo chiaro e distinto nella loro singolarità di fronte a noi, ma piuttosto alle persone che vediamo indirettamente brulicare qui e là dentro la sala. Un altro esempio: diamo uno sguardo al cielo stellato e vediamo un gran numero di stelle. Le vediamo in un solo sguardo. Che c'è di strano in questo? C'è qualcosa di strano solo se interpretassimo questa percezione globale come se essa fosse preceduta dalla percezione delle stesse singole. Invece la molteplicità come tale si offre, in questi esempi, in un colpo solo, e se mai solo in un secondo tempo puntiamo l'attenzione su questa o quest'altra stella. Potremmo anche dire: dobbiamo distinguere tra le piccole e le grandi molteplicità. Supponiamo di avere di fronte tre cerchi: In questo caso c'è certamente la percezione globale, ma sembra che possiamo porre le cose come se vi fosse una unica percezione articolata in tre percezioni. Husserl parla di "tanti atti psichici quanti sono i contenuti presenti, unificati da un atto psichico 105 di ordine superiore" (p. 196). Possiamo pensare di ricondurre il secondo caso al primo, assumendo che la percezione di un cielo stellato sia articolata in tante percezioni quante sono le stesse in cielo? Sembra proprio di dover dare a questa domanda una risposta negativa. Potremmo allora pensare di dare una spiegazione un poco più sottile, una spiegazione cioè che operi una simile riconduzione senza sfociare in un palese paradosso. Ci potremmo servire della distinzione tra rappresentazione diretta e indiretta, dove con rappresentazione indiretta indichiamo una rappresentazione mediante segni. Forse la percezione di una molteplicità molto ampia è costruita a partire da una molteplicità più ristretta. Questa potrebbe essere intesa come una sorta di segno che indica una molteplicità più ampia. In altri termini la molteplicità più ampia sarebbe rappresentata solo indirettamente - ma questa rappresentazione "simbolica" poggerebbe in ogni caso su una rappresentazione diretta. Così, nell'esempio citato in precedenza, le tre persone che vediamo distintamente sarebbero oggetto di rappresentazione diretta che formerebbe la base per la rappresentazione indiretta di molte persone. Husserl si dilunga su una simile ipotesi (bisognerebbe spiegarne più perché), ma a parte i dettagli della discussione, a quanto sembra, questa seconda spiegazione è solo più sofisticata della prima, ma non meno della prima appare come una spiegazione surrettizia. L'apprensione dei molti precede l'apprensione dei pochi, l'esempio è ingannevole. Il vedere una folla è difficilmente interpretabile come una sorta di prolungamento della percezione di alcune persone di essa. E così nel caso del cielo stellato: è chiaro che non potremmo distinguere una piccola molteplicità che rimanda ad un'ampia molteplicità. Fin dall'inizio sia in presenza di "molte" stelle. Dopo questo sguardo globale, cerchiamo eventualmente di identificare una costellazione. La tesi di Husserl prende dunque le mosse dal riconosci- 106 mento che un aggregato viene anzitutto percepito come tale, direttamente e immediatamente. E il tipo di percezione che lo afferra non è analizzabile in percezione degli elementi dell'insieme presi nella loro singolarità e nemmeno nelle relazioni che intercorrono tra gli elementi presi a due a due. Ciò che viene colto è una sorta di qualità, anche se il termine ci può apparire troppo forte. Di un momento quasi-qualitativo il quale, pur sorgendo dagli elementi dell'aggregato e dal modo delle loro relazioni, è esso a presentarsi per primo (p. 201). Il carattere quasi-qualitativo che si trova alla base dell'apprensione di una molteplicità viene chiamato da Husserl "momento figurale". Il termine "figurale" illustra abbastanza bene il problema su cui Husserl vuole richiamare l'attenzione. Nel linguaggio corrente, spesso le molteplicità sono specificate secondo termini generici che tuttavia sono dal nostro punto di vista abbastanza significative. Così si parla di una fila di soldati, di un mucchio di mele, di uno sciame di api o di uno stormo di uccelli. Questi termini (pp. 203-204) sono designazioni che rinviano ad una determinata figura o configurazione della molteplicità - e ciò ce Husserl vuol dire è che questa figura è appunto il carattere che viene direttamente percepito e che propone senz'altro l'apprensione come una apprensione di molteplicità. Si tratta dunque di una qualità che da un lato è indubbiamente una risultante sia delle proprietà degli elementi dell'insieme sia delle loro relazioni. Ciononostante, essendo data in modo diretto, la percezione corrispondente non richiede affatto che sia intesa come una risultante di percezioni dirette ai singoli elementi o alle relazioni reciproche. Cosicché possiamo dire che una simile qualità non è riducibile alla "somma" delle qualità degli elementi dell'insieme. A questo proposito Husserl usa il termine di fusione (Verschmel­ zung): "… questi momenti debbono essere considerati proprio come 107 unità nelle quali le particolarità dei contenuti e delle loro relazioni primarie si fondono l'una con l'altra. Io dico 'si fondono' e voglio con ciò sottolineare che i momenti unitari sono appunto tutt'altro che mere somme" (p. 204). Quest'affermazione deve essere intesa in questo modo: ciò che percepiamo come fila, ad es., si presenta senz'altro come un'unità autentica, quindi come qualcosa di semplice anche se poi possiamo in un'analisi successiva mostrare che essa è composta di parti indipendenti tra loro. "L'affermazione secondo cui la rappresentazione della figura consisterebbe nella rappresentazione della somma di quelle relazioni richiederebbe il postulato, in generale non soddisfacibile, secondo cui in un'effettiva rappresentazione ai aggregato, noi abbracceremmo tutti i singoli punti-oggetti nelle loro relazioni reciproche" (p. 205). Così in una figura se variamo la disposizione di uno dei suoi elementi ciò che percepiamo è la variazione della figura stessa. "Immediatamente siamo colpiti dal momento figurale e solo in una riflessione successiva notiamo i rapporti condizionanti e variabili di caso in caso" (p. 204). Particolarmente significativa è poi l'affermazione che l'unità della figura è più che la somma delle relazioni "ma ciò vale per ogni unità che sia più che una mera unità collettiva" che è quanto dire che ogni complesso percettivo presenta quella che in seguito verrà chiamata Gestalt . Solo le molteplicità puramente logiche non hanno dunque un carattere ghestaltico. Con la nozione di momento figurale, Husserl propone dunque una concezione della problematica dell'intero che ben pre- 108 sto orienterà un intero indirizzo di ricerca nell'ambito della psicologia della percezione. Ciò che Husserl chiama momento figurale era stato proposto un anno prima della pubblicazione della Filosofia dell'aritmetica da von Ehrenfels sotto la denominazione affine di Gestaltqualität, in un articolo famoso che viene considerato come precorritore della psicologica della forma. Husserl lo cita in una nota (p. 210-236) sottolineando che la problematica in esso presentata era stata elaborata in modo indipendente nell'articolo di von Ehrenfels e facendo risalire questa analogia di impostazione ad un possibile influsso comune di Ernst Mach. Questo riferimento ci aiuta d'altro lato a localizzare meglio la tematica di Husserl. In linea generale le difficoltà notate all'inizio nell'interpretazione della percezione delle molteplicità, sono difficoltà strettamente connesse con un punto di vista psicologico atomistico-associazionistico, che proprio in questo periodo comincia a rivelare nettamente i propri limiti. Di fronte ad esso, e sia pure in un contesto problematico diversamente orientato, Husserl giunge a proporre con estrema chiarezza una nozione di intero che richiede un punto di vista del tutto diverso. È notevole il fatto che il paragrafo dedicato ai momenti figurali prende l'avvio appellandosi alla "testimonianza dell'esperienza" (Zeugnis der Erfahrung), che a me sembra richiami piuttosto da vicino la famosa parola d'ordine "Alle cose stesse" (Zu den Sachen selbst).Ed è proprio questa testimonianza che ci insegna che la percezione della totalità precede quella delle sue singole parti esattamente come, nel caso della percezione di un quadrato, noi vediamo proprio un quadrato e non quattro segmenti che si toccano ai loro estremi. L'"analisi" può intervenire in un secondo tempo. Ma ciò vale per quattro segmenti qualunque disposti su un foglio di carta 109 La lunghezza dei segmenti, la loro posizione relativa, la loro direzione, tutto ciò sta alla base dell'apprensione, in primo luogo di una Gestalt, di una forma. Ma naturalmente per la determinazione del momento figurale non vengono in considerazione soltanto determinazioni di carattere spaziale come la distanza relativa o la direzione, ma anche altri rapporti, ad esempio i rapporti cromatici e in generale qualitativi. Ad esempio, se abbiamo un insieme di quattro cerchi di colore grigio: il momento della configurazione spaziale interagisce con quello della configurazione cromatica e la Gestalt che ne risulta dipende dall'uno e dall'altro fattore. Se i cerchi sono colorati nello stesso modo, è determinante ai fini della figura, solo l'aspetto spaziale; se invece sono colorati diversamente il momento cromatico assume una sua precisa funzione (p. 208). La nozione di momento figurale può essere estesa anche a campi sensoriali diversi da quello visivo. Nel campo dei suoni, vi è una configurazione temporale che, unitamente alle proprietà specifiche dei suoni esibisce un carattere figurale (Figural-Charakter) (p. 209), cosa confermata dal fatto che la modificazione di una sola nota significativa all'interno di una struttura melodica viene percepita come una alterazione della melodia stessa. 110 Tirando le fila: sembrerebbe che le parti debbano "precedere" l'intero poiché questo non è altro che l'insieme delle parti. Ma se proponiamo il problema come un problema di fenomenologia della percezione, risulta invece che l'intero (e precisamente la percezione dell'intero) "precede" le parti nel senso che noi siamo colpiti anzitutto da uno schema figurale globale: lo stormo, la fila, ecc. È importante sottolineare che ciò non riguarda l'intero come tale - come se si trattasse di distinguere tra complessi che in sé non sono somme e complessi che in sé lo sono. Il nostro problema riguarda propriamente non i complessi, ma la percezione di complessi. In che senso allora diciamo che l'intero precede le parti, e quindi che l'intero presa qualcosa di diverso e di nuovo rispetto ad esse, cessa di essere una oscura affermazione di sapore "metafisico", per diventare una formula abbreviativa che esprimiamo estesamente in questo modo: la percezione della forma di ordinamento è ciò che viene colto in primo luogo, ciò che percepiamo anzitutto è il momento figurale. Quest'ultimo è fondato nelle parti, ma nello sesso tempo presenta qualcosa di nuovo e di diverso dalle parti singole perché non può risultare da una percezione separata delle parti stesse. Per dirla in breve: posso percepire ora dei quadrati bianchi e dei quadrati neri, ma solo se essi vengono posi insieme in un certo modo ne risulta la Gestalt "scacchiera". Con tutto ciò veniamo anche a capo del nostro problema iniziale. L'ammissione dei momenti figurali toglie di mezzo la difficoltà prima notata della percezione di molteplicità molto ampie. Nello stesso tempo siamo in certo senso andati oltre quello stesso problema che ora si presenta in modo abbastanza diverso. Infatti si sarà notato che l'ammissione di momenti figurali non può in alcun modo essere limitata agli insieme molto ampi. Quattro segmenti su un foglio formano una Gestalt esattamente quanto quattrocento segmenti. Husserl stesso osserva che i momenti figurali svolgono un ruolo rilevante anche nel caso delle collezioni "autentiche" (p. 216). Tuttavia forse non 111 si traggono di qui le conseguenze necessarie. Il fatto è questo: disponendoci dal punto di vista del momento figurale, il problema della molteplicità nel senso qui inteso diventa un problema relativamente particolare. Come abbiamo osservato all'inizio, noi tenderemmo a porre una differenza abbastanza netta tra la percezione di una cosa singola - un quadrato - e la percezione di una molteplicità di cose singole - quattro quadrati o quattro segmenti. Solo nel secondo caso tuttavia parleremmo di molteplicità in senso proprio. Ciò significa che le forme percettive che chiamiamo molteplicità (gli insiemi concreti, dunque) sono Gestalten di una particolare specie di cui dobbiamo specificare le condizioni. In Husserl trova qualche spunto in questa direzione. A questo proposito occorre tener presente l'uso del termine fusione (Verschmelzung) che egli impiega per indicare l'unità delle parti. Fusione è l'opposto di separazione. Il termine indicava in Stumpf il fatto che note consonanti in un accordo sono indistinguibili da parte dell'ascoltatore inesperto. Generalizzando questa nozione possiamo considerare gradi diversi di fusione nel senso che procediamo dal caso limite dell'indistinzione delle parti al caso in cui le parti si separano dalle altre in modo sempre più netto. Così potremmo considerare configurazioni in cui il grado di fusione è più o meno elevato. Ad esempio, un quadrato ha un grado di fusione più stretto di quattro segmenti posti a caso su un foglio. Analogamente una successione di segmenti in una serie determinata da una regola forma presenta una fusione più stretta di un insieme di segmento non organizzati in una serie. In entrambi i casi tuttavia abbiamo a che fare con Gestalten, quindi con interi percettivi veri e propri. Solo che vi è una differenza nel grado della fusione. Questo è un punto che mi sembra chiaramente formulato da Husserl che sottolinea che il grado di fusione è particolarmente elevato nel caso di forme sistematiche di ordinamento (cfr. p. 206 e p. 211). 112 Particolarmente equivoca può essere poi la distinzione tra intero organico e intero inorganico, per indicare rispettivamente interi con un nesso forte tra le parti e interi con un nesso debole (un ammasso di punti, un garbuglio di linee…). Contro di ciò si deve invece osservare che ogni intero percettivo è un intero ghestaltico - per la percezione non ci sono interi disorganici, mentre resta ovviamente lecito l'uso del termine facendo riferimento alla semplice differenza di grado. Annotazioni 1. In rapporto alla nozione di totalità organica, puoi vedere anche i miei Elementi di una dottrina dell'esperienza, I, & 14. In un'annotazione a questo paragrafo vi è anche una serie di considerazioni sull'uso del termine Verschmelzung in Carl Stumpf e sulla generalizzazione di questa nozione operata da Husserl. 2. Poiché siamo venuti ad accennare al problema dell'organicità dell'intero, vogliamo accennare alla tematica della parte e dell'intero nella Critica del giudizio di Kant, che sta all'origine della questione e che non era certamente ignota a Husserl ed agli psicologi della forma. Abbiamo già segnalato le nostre perplessità, in rapporto agli interi percettivi, di fronte alla contrapposizione tra l'intero organico e la "mera somma" - dunque tra l'organismo e l'intero senza vita, il morto meccanismo. Tuttavia intorno a questa coppia di termini gravitano molti problemi, e sembra opportuno dedicare ad essa un poco di attenzione. Questo problema assume probabilmente la sua prima versione filosoficamente elaborata nella Critica del giudizio di Kant, dove Kant nel & 65, parla di una sorta di reciprocità delle parti nell'intero per via della quale "ogni parte deve essere pensata per mezzo delle altre e per le altre". Poco prima egli aveva dichiarato che la conservazione della parte e la conservazione del tutto dipendono l'una dall'altra (& 64). Questa idea di intero viene contrapposta ad una diversa nozione il cui modello è dato in certo senso dal modo in cui sono concatenate tra loro le ruote, i pali e le rotelle di una macchina. Muoviamo una rotella ed un'altra rotella si mette in moto: e 113 così una leva, un paletto, una cinghia, ecc. Tutti i pezzi sono concatenati gli uni agli altri, ma lo sono essenzialmente nel senso di un nesso causale - il movimento di un pezzo è causa del movimento di un altro, e quest'ultimo di un altro movimento ancora, e così via. In questo caso abbiamo certo una struttura di interdipendenze, perché le parti debbono essere connesse in un determinato modo per ottenere il movimento complessivo, che sarà dunque il risultato di una "somma" di movimenti. Inoltre il legame tra un pezzo e l'altro potrebbe essere considerato un legame "estrinseco": un pezzo non contiene il "pensiero" dell'altro, ovvero non deve essere pensato per mezzo dell'altro. Così si esprime Kant. Questa contrapposizione ha avuto una portata difficile da sottovalutare. Notiamo, ad esempio, che l'organicità è spesso considerata semplicemente come sinonimo di sensatezza: un discorso disorganico è un discorso disarticolato, che tende ad essere o è di fatto privo di senso. Così se giudichiamo disorganico un brano musicale o un dipinto o un pezzo di teatro, questo giudizio ha un'accentuazione inesorabilmente svalutativa. Così molti pensano che ad un'opera d'arte non possa mancare quel requisito che noi chiamiamo sommariamente con il termine di organicità. Ritornare in breve sulla posizione di Kant - ovviamente seguendo un filo conduttore liberamente costruito ed evitando una lettura testuale che presenterebbe difficoltà di vario genere - può, io credo, fornire quanto meno alcuni motivi di riflessione, sia in rapporto all'ambito ristretto del nostro problema, sia in una direzione più ampia. Chiediamoci dunque: in che modo sorge quella distinzione in Kant? Qual è lo sfondo filosofico sul quale essa prende rilievo? In effetti, ciò da cui Kant prende le mosse, la preoccupazione che sta alla base delle sue considerazioni è un problema generale. Si tratta del problema del senso - ed io sarei tentato di dire: il problema del senso dell'esistenza, anche se forse questa espressione può sembrare troppo forte. Cerchiamo di giustificare questo inizio. La questione ha il suo motivo principale nella proiezione sul mondo intero di un punto di vista meccanicistico. L'immagine della macchina può essere proiettata sulla natura intera. Secondo Kant, questa proiezione non è opera di un punto di vista arbitrario, ma una vera e propria 114 necessità dello stesso operare conoscitivo. La nozione di causa, e dunque quella della legge, è inserita nelle categorie intellettuali, dunque nelle forme necessarie per la conoscenza della realtà. Ma al mondo della natura appartiene anche il mondo umano, e si comprende allora come una posizione meccanicistica venga sentita come una posizione che svuota di senso l'operare umano, che si orienta non solo secondo cause, ma soprattutto secondo fini e scopi. Per questi, in una considerazione meccanicistica non vi è posto, e d'altra parte essi rappresentano una condizione di senso dell'esistenza. Da questo contrasto sorge il problema che Kant tenta di mettere a fuoco nella sua Critica del giudizio. Ed il problema principale che egli si pone è se sia possibile ammettere un principio teleologico accanto ed insieme ad un principio meccanicistico. Per articolare questo problema secondo lo spirito di Kant, dobbiamo in realtà fare un giro piuttosto largo. La Critica del giudizio si presenta suddivisa in due grandi parti, e solo nella seconda parte emerge in tutta la sua portata il problema teleologico in rapporto alla conoscenza della natura. La prima parte invece è interamente dedicata ad una discussione che riguarda l'ambito dell'estetica. Di questa parte vogliamo segnalare in breve i risultati ed i punti essenziali. Ciò che noi chiameremmo oggi "giudizio estetico" Kant chiamava "giudizio di gusto" ed esso concerneva in generale l'ambito della sensibilità. Giudicare "bello" un oggetto tuttavia non significa determinare su di esso una proprietà che spetterebbe ad esso allo stesso titolo di ogni sua altra proprietà percettivamente accertabile. "La tal cosa è bella" significa anzitutto "La tal cosa ci piace". Tuttavia molte cose ci piacciono, ma non per questo le chiameremmo belle. Ad esempio: ci piace il vino. Ma non diremmo che il vino è bello. Il primo problema che si trova ad affrontare Kant è quindi quello di proporre una caratterizzazione dell'esperienza estetica, cioè dell'esperienza nel cui ambito diventa legittimo parlare di bellezza. L'obiettivo critico prioritario sarà allora quello di discriminare questa esperienza da ogni sentimento di piacere "gastronomicamente" inteso e più in generale da ogni sentimento di piacere connesso ad una qualche utilità. Secondo Kant siamo in presenza di un giudizio estetico autentico quando diciamo "ci piace" in rapporto ad un oggetto prescinden- 115 do da qualunque scopo che si potrebbe realizzare con esso, quando dunque lo contempliamo in modo disinteressato. Questa posizione sembra avere varie buone ragioni dalla propria parte. Quando contempliamo un dipinto, il piacere che ne proviamo non deriva certo dal pensiero di un suo possibile impiego pratico, e nemmeno da un piacere sensoriale immediato - benché la differenza rispetto al piacere sensoriale, benché resa evidente con esempi come il buon vino, potrebbe per altri versi manifestarsi problematica. Ma problematici sembrano anche alcuni aspetti che riguardano le implicazioni più vicine ad una simile presa di posizione e che del resto ci portano a ristabilire la connessione con il problema - in parte epistemologico, e in parte metafisico, da cui abbiamo preso le mosse. Se si prescinde da ogni legame con un interesse, e dunque con uno scopo, che cosa afferriamo nella contemplazione disinteressata di un oggetto, che cosa in essa ci dà piacere? A questo punto possiamo introdurre la distinzione fondamentale che sta alla base di tutta la Critica del giudizio: un conto è la rappresentazione di uno scopo e la volontà diretta al suo conseguimento, un altro è l'apprensione di qualcosa che è tale da proporsi come orientata ed organizzata secondo fini interni - pur senza che si possa indicare con chiarezza di quali fini si tratti. Vi sarebbe dunque secondo Kant una nozione di fine interno, che è tuttavia privo di contenuto, e che quindi merita forse più propriamente di essere chiamato forma del fine. Non meno significativa è l'espressione kantiana di "finalità senza uno scopo". Ciò di cui godiamo nell'esperienza estetica è, ad esempio, la configurazione delle linee del disegno o dei suoni di una melodia, come una configurazione che ci appare come se fosse nel suo interno ordinata secondo un progetto. Sono i suoi equilibri interni che recano piacere, le sue simmetrie, i suoi richiami e rimandi - in essa si esplica quello che Kant chiama "il libero gioco dell'immaginazione", che si svolge secondo regole, anche se di esse non sapremmo dare nessuna precisa enunciazione. In realtà, una simile posizione sorge da una nozione pregiudiziale della bellezza. Ed è lo stesso Kant che ci mette sull'avviso: se giudico bello un dipinto che rappresenta un mazzo di fiori o fogliame ciò che importa non è soltanto il fatto che il dipinto non ha alcuna utilità in se stesso, e nemmeno il fatto che in esso ri- 116 conosco i fiori o le foglie. Ciò che veramente importa è che posso considerare quella rappresentazione come "linee intrecciate senza scopo" e che "non significano nulla" - ma che mantengono la presa sul piacere estetico per via della loro armonia interna. Si tratta di una posizione che potremmo chiamare "formalistica" - in certo senso parallela al formalismo kantiano nella sfera etica, anche se, ad una lettura attenta del testo si rivela qualche incertezza. La bellezza si rivelerà dunque secondo questa concezione nelle belle forme e proporzioni, nella regolarità, nelle simmetrie; e dunque nelle arti figurative l'essenziale sarà il disegno, piuttosto che il colore, nella musica il grafico sonoro sotteso al brano musicale più che i suoni presi nella loro sensuale materialità (cfr. & 14). A questo punto siamo in grado di ricomporre il quadro teorico. Le considerazioni estetiche ci mettono sotto gli occhi la forma della finalità. Ma questa forma non può forse essere vista ovunque nella natura, non vi è nella natura una sorta di finalismo segreto? La risposta si appella alla vita organica, al campo degli organismi viventi. In questo campo, al di là di ogni punto di vista finalistico ingenuo e ingenuamente antropomorfico, troviamo rispondenze interne che connettono armonicamente e circolarmente le parti e il tutto, le cause agli effetti. Qui si innesta naturalmente il tema dell'organicità dell'intero (& 64). Il seme è causa dell'albero, ma non nel senso di una ruota che è causa del movimento di un'altra ruota. Se mai il seme contiene l'anticipazione di questo effetto, nel senso che l'albero sorge dallo sviluppo del seme. E significa anche che l'albero si autoproduce e in questa autoproduzione potremmo dire che le parti sono reciprocamente interdipendenti: "Una parte di questa creatura si produce da sé, in modo che la conservazione della parte e la conservazione del tutto dipendono l'uno dall'altro" (§ 64). "Le parti si legano a formare l'unità del tutto in modo da essere reciprocamente causa ed effetto della loro forma"(§ 65). "Ogni parte deve essere pensata per mezzo delle altre e per le altre" e deve "essere pensata come organo che produce le altre parti" (ivi). Nell'ambito dei fenomeni della natura vivente troviamo dun- 117 que se non altro uno spiraglio per giustificare un cauto impiego di criteri di carattere teleologico, un impiego che non dovrà sostituire un punto di vista meccanicistico, ma che potrà in qualche modo operare congiuntamente con esso per rendere conto della complessità della natura e nello stesso tempo del senso dell'esistenza. 118 119 Giovanni Piana La tematica husserliana dell'intero e della parte 1968 120 Questo testo è stato pubblicato da Il Saggiatore, Milano 1968 come introduzione ad un'edizione separata della terza e quarta delle Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano1968. Desidero segnalare che nel 2000, Ettore Casari ha realizzato una "formalizzazione" del contenuto della Terza ricerca: On Husserl's Theory of Wholes and Parts" in "History and Philosophy of Logic", 2000, 21,1-43. 121 I 1. La pubblicazione in volume separato della Terza e Quarta ri­ cerca logica di Husserl sembra incontrare almeno due obiezioni di principio. In primo luogo: è possibile operare un simile isolamento rispetto al contesto com­plessivo dell'o­pera? Ed in secondo luogo: ci si può ripro­mettere da ciò qualche vantag­gio al fine di un approccio alla tematica del primo Husserl? A questi interrogativi io penso si possa dare senz'altro una risposta po­sitiva. La Terza ricerca logica, dedicata alla problematica del­l'intero e della par­te, nonostante la sua brevità e la spe­cificità dell'argomento, rappresenta in realtà la chiave di volta dell'opera intera. Ciò vale anzitutto per gli aspetti pro­priamente attinenti alla tematica di filosofia della lo­gica come è dimostrato dalla Quarta ricerca, che dipende strettamente dalla ricerca precedente; ma vale anche per gli aspetti filosofici e metodologici più generali che nella Terza ricerca vengono, sia pure sotto l'angolatura del pro­ blema proposto, messi direttamente in questione. Proprio questa posizione centrale che assume la Terza ricerca, insieme, naturalmente, alla sua relativa autonomia tematica, potrebbe rendere addirittura consigliabile iniziare la lettura di un'opera tanto complessa e difficile da do­minare pagina dopo pagina quali sono le Ricerche logiche proprio a partire di qui. Il consistente vantaggio che si ottiene procedendo in questo modo è un approccio di­retto alla tematica del primo Husserl, al suo modo di impostare i problemi e di svilupparli, senza passare attra­verso mediazioni superflue e rendendo concretamente pos­sibile l'indicazione di più ampie prospettive di ricerca, secondo una linea interpretativa che tenda fin dall'inizio alla valo­rizzazione degli aspetti analitici così caratteristici (e, in fondo, così trascurati) dell'impostazione husserliana[1]. 2. Vogliamo esporre in breve il contenuto della Terza ricerca. Si 122 noterà subito, ad una prima lettura, che una buona parte delle difficoltà che si incontrano in essa de­rivano dall'intenzione di mantenere la mira su obbiettivi diversi, benché tra loro connessi. Colpisce anzitutto la netta differenza di piani su cui si muovono i due capitoli di cui consta la ricerca, e che del resto si intersecano an­che all'interno di ciascun capitolo. Il primo di essi è pre­ valentemente orientato nella direzione di un'illustrazione delle nozioni fondamentali di una teoria dell'intero e della parte in stretta aderenza ad un terreno intuitivo. Nel se­condo, invece, si suggeriscono, senza peraltro effettive pre­tese sistematiche, i principi per un'elaborazione assioma­tico-formale della teoria. Questa giustapposizione può in qualche punto apparire sconcertante, ed essere in effetti una sorta di denuncia indiretta di una problematica ancora imperfettamente formulata dal punto di vista del metodo. Cominciamo intanto con l'attirare l'attenzione sull'uso delle parole "intero" (Ganz) e "parte" (Teil). Esse possono essere applicate alle cose che ci stanno intorno, a contenuti possibili di esperienza quali sono, ad esempio, un cavallo o la testa di un cavallo. Tuttavia esse non circoscrivono nessuna specie determinata di contenuti, men­tre ciò accade per parole come "cavallo" o "testa di cavallo". Delle parole "intero" e "parte" possiamo fare un uso formale-vuoto: possiamo parlare di qualcosa (un oggetto) in generale che ha parti; ed allora anche di qual­cosa in generale che non ha parti. Strani enigmi filosofici sorgono se si confondono questi due piani di applicazione delle parole. E se in precedenza abbiamo alluso alla molteplicità di direzioni compresenti nella problematica svolta da Husserl, ad una giustappo­sizione e ad una intersezione di piani, non volevamo con ciò affermare che venga effettuata una simile confusione. Al contrario: la distinzione tra l'uno e l'altro livello, tra l'uso "concreto" e l'uso formale-vuoto, è sempre chiara­mente presupposta. Notiamo inoltre che, mentre potremmo dire, ad esempio, 123 che la testa di un cavallo è una sua parte, forse esiterem­mo a parlare di "parte" in rapporto al colore della sua pelle. Ciò concerne ovviamente soltanto l'uso linguistico cor­rente: e naturalmente nulla ci impedisce di applicare la parola in un'ac­cezione più lata. Con ciò, tuttavia, non sembra sia senz'altro tolto di mezzo il problema di rendere conto, anche sul piano terminologico, della differenza in questione. Potremmo allora decidere di parlare di parti indipendenti per riferirci alle parti nel senso in cui diciamo che è una parte la metà di un quadrato tagliato da una diagonale; e di parti non-indipendenti nel senso in cui diciamo che è una parte del quadrato il suo colore. Nello stesso senso, parleremo anche di pezzi o fra­z ioni (Stück) e, rispettiva­mente, di momenti (Moment). 3. Il primo capitolo della Terza ricerca è dedicato al­l'elaborazione della distinzione che è stata or ora così grezzamente introdotta. Per fornire su di essa qualche spiegazione, potremmo proporre di indicare come indi­pendenti quei contenuti che sono rappresentabili in se stessi, separatamente rispetto ad altri contenuti, mentre ciò non accade per i contenuti che chiamiamo non-in­ dipendenti. Possiamo forse rappresentare separatamente il colore e la superficie su cui è diffuso? Oppure la lunghezza di una linea e il suo spessore? Invece, possiamo immaginare facilmente una testa di cavallo "in sé e per sé", e possiamo associare questo contenuto ad un altro contenuto indipendente qualsiasi - possiamo immaginare un uomo con la testa di cavallo o un cavallo con la testa di un uomo. Tutto ciò sembra anche troppo semplice. Il fatto è che bisogna spiegare che cosa intendiamo quando par­liamo di possibilità o impossibilità di rappre­sentare sepa­ratamente un contenuto. Questa stessa formulazione fa pensare ad una sorta di evidenza interiore. Se qualcuno dubitasse della di­stinzione e della sua applicazione ai casi particolari, dovremmo forse pregarlo di ef- 124 fettuare la prova della separazione nella rappresentazione? E in che altro può consistere questa prova se non in un richiamo al­ l'esperienza interna, all'introspezione, con la tacita o esplicita convinzione che ognuno vedrà dentro di sé esatta­mente ciò che noi vediamo dentro di noi? L'impegno di Husserl di fronte a questo problema sta tutto nel mantenere ben ferma questa distinzione liberan­dola nello stesso tempo da una giusti­ficazione di ordine psicologico. L'antipsicologismo di Husserl, l'intran­sigente rifiuto nei confronti di qualunque ricorso introspettivo che con­trad­distingue la sua impostazione filosofica com­plessiva, appare esemplificato qui (nella discussione sviluppata nei §§ 3-6) con particolare chiarezza. Con altret­tanta chiarezza si presentano in questo contesto gli ob­biettivi e le conseguenze di questo antipsicologismo. Se vogliamo parlare di "rappresentazione separata" in rapporto alla distinzione tra parti indipendenti e non-in­dipendenti possiamo farlo, purché si intenda questa espres­sione come una formulazione che rinvia ad una caratte­ristica intrinseca dei contenuti come tali, e non ai modi in cui essi vengono concepiti. La distinzione in questione deve essere operata esclusivamente sul versante dell'oggetto. Se, dopo che questa distinzione è stata introdotta e illustrata richiamando, mediante esempi, la possibilità o l'impossibilità di una rappresentazione sepa­rata, qualcuno sostenesse di non riuscire assolutamente a rappresentarsi una testa di cavallo senza al tempo stesso rappresentarsi il cavallo intero - che cosa concluderemmo? Ebbene, concluderemmo semplicemente che egli è fatto così. La posizione della distinzione non toglie a chicchessia il diritto di rappresentarsi separatamente il colore dalla superficie che esso ricopre. Così come non avrem­mo nulla da ridire se qualcuno sostenesse, sulla base della propria esperienza interiore, di riuscire a rappresentarsi simulta­neamente le sei facce di un cubo. Oppure, considerando il problema da un altro lato: possia- 125 mo senz'altro ammettere che, nel caso dei contenuti che chiamiamo indipendenti, una rap­presentazione separata sia effettivamente impossibile da realizzare, sia nel sen­so per cui ogni rappresentazione è comunque connessa al flus­so delle mie espe­ rienze (§ 5); sia nel senso più forte secondo cui affermare che un certo con­tenuto visivo è una parte indipendente del campo visivo equivale all'incirca ad ammettere la "possibilità che il campo visivo si contragga al punto da abbrac­ciare quest'unico contenuto" (§ 6), e si concederà che una simile possi­bilità presuppone una procedura idealizzante. Perseguendo gli stessi obbiettivi, viene criticata (§ 6) la teoria secondo cui i contenuti non-indipendenti sareb­bero quelli che possono essere rappresentati isolatamente solo mediante un'accentuazione osservativa ad essi diretta, attra­verso una sorta di concentrazione dell'attenzione che si fissa sul contenuto, mantenendo non osservate le altre parti. Appare subito chiaro che una simile giustificazione della distinzione renderebbe tanto poco conto di essa da toglierla semplicemente di mezzo. Infatti si potrà obiet­tare che qualunque contenuto osservato richiede un qual­che grado di attenzione - quindi una figura non meno del suo contorno; o, alternativamente, che non si comprende che cosa potrebbe voler mai dire osservare attentamente il contorno di una figura mantenendo inosservata la figura stessa (di cui il contorno è appunto un "momento"). 4. Nel quadro della chiarificazione della portata che vo­gliamo attribuire alla distinzione tra parti indipendenti e non-indipendenti, si presenta un'interessante digressione in­torno ad un'altra distinzione che può essere facilmente confusa con la precedente (§§ 8-9). Abbiamo parlato di "rappresentazione separata". Con­ sideriamo ora un complesso di dati percet­tivi, un com­plesso di punti, ad esempio. Fra essi, ve ne è uno che si contraddistingue da tutti gli altri per via di una sua peculiarità (ad es., esso è rosso, 126 mentre tutti gli altri sono gialli). Potremmo dire: questo punto, questo contenuto per­cettivo riceve risalto all'interno del contesto complessivo, viene isolato da tutto il resto, almeno per ciò che concerne l'aspetto cromatico. Non sarebbe allora lecito parlare, anche in questo caso, di una "rappre­sentazione separata", quindi, in rapporto a questa parte della configurazione complessiva, di parte indipendente? Sarebbe lecito, certamente: ma anche alquanto inoppor­ tuno, perché ab­biamo già fissato un'accezione interamente diversa per il termine di "parte indipendente". Parleremo piuttosto, in casi come questi, di contenuti di­ stinti, di contenuti che, all'interno di un contesto, sono posti in risalto. Per chiarire la differenza in questione ed i nuovi pro­blemi che essa pro­pone, sarà opportuno variare l'esempio. In generale, possiamo suddividere una superficie in parti indipendenti, in frazioni. Nella misura in cui una super­ficie appare effettivamente suddivisa in frazioni, queste saranno ovviamente anche distinte. Tuttavia, l'indipenden­za del­le frazioni non è affatto la stessa cosa che la loro distinzione. Se parliamo di una superficie uniformemente colorata, ciò equivale a dire che nessuna sua parte è, cro­maticamente, posta in risalto. L'omogeneità qualitativa può essere concepita perciò come un caso limite di indistin­zione delle parti - e preci­samente delle parti indipendenti. Le parti trapassano senza "lacune", senza "intervalli", in modo continuo, l'una nell'altra. Alla distinzione dei contenuti contrapponiamo perciò la loro fusione. Condizione per il verificarsi della prima è l'istituirsi di una discontinuità, la quale presuppone a sua volta che "momenti di specie differenti" siano "contigua­mente diffusi su un momento - quello spaziale o tempo­rale - che varia in modo continuo". La semplice diffe­renza qualitativa, il sussistere di un "intervallo" quali­tativo può non essere una condizione sufficiente per la 127 distinzione, come mostra l'esempio di un accordo conso­nante, nel quale ogni suono è qualitativamente diverso da ogni altro e tuttavia forma con essi una unità di fusione. L'indipendenza delle parti ha dunque, in questo caso, un senso completamente diverso dal precedente. "Se pen­siamo ai contenuti indipendenti nel senso precedente - contenuti che sono ciò che sono, qualunque cosa accada nel loro ambito circostante - essi non avranno bisogno di possedere l'indipendenza, di genere del tutto diverso, della distinzione" [2]. Nel caso della distinzione ciò che importa è la relazione ad un contesto. Una macchia si distingue e prende risalto rispetto allo sfondo nella misura in cui si differenzia qua­litativamente da esso: si istituisce così un "intervallo", si individua un contorno secondo gradi di maggiore o minore nitidezza. Si presuppone qui la possibilità di un tra­passo continuo "da una parte spaziale ad un'altra parte spaziale": tuttavia, nel caso, ad esempio, della variazione del colore, in questo trapasso continuo "noi non passiamo in modo continuo anche alla qualità ricoprente, ma almeno in un luogo dello spazio, le qualità "contigue" hanno un intervallo finito (e non troppo piccolo)" [3]. Tutto ciò va inteso - sottolinea espressamente Husserl - "nel senso empiricamente vago in cui nella vita comune si parla, ad esempio, di punti e di spigoli aguzzi, contrapponendoli a quelli smussati o addirittura arrotondati" [4]. La continuità e la discontinuità non vanno assunte "secondo l'esattezza matematica". Tuttavia vi è una nozione di continuità e di discontinuità che viene attinta direttamente ai fatti percettivi e che pone problemi descrittivi ben determinati. Lo scopo di questa digressione è duplice: si tratta an­zitutto di evitare un ulteriore equivoco per ciò che con­cerne la nozione di parte indipendente e non-indipendente. La problematica ad essa inerente non deve essere fraintesa con quella della distinzione e della fusione che si situa su un piano interamente diverso. Tuttavia, viene anche implicitamente suggerito che l'eventuale elabo­ razione di questa problematica non richiederebbe, nemmeno in 128 questo caso, analisi introspet­tive: in essa non verrebbero in questione i modi sogget­tivo-individuali di "vivere" certi contenuti esperienziali, ma determinate possibilità tipiche di rapporti tra contenuti come tali. La stessa elementare istituzione della differenza descrittiva tra contenuti fusi e contenuti distinti si pro­ pone già nell'ambito di una "fenomenologia della perce­zione", accennando così, subordinatamente agli scopi di chiarificazione più direttamente attinenti al nostro tema principale, ad una problematica più generale [5]. 5. Possiamo ora fare un passo ulteriore che rappresenta il punto di arrivo del primo capitolo della Terza ricerca e nello stesso tempo un'acquisizione fondamentale del­l'intero discorso logico e filosofico di Husserl. Nell'introduzione della distinzione tra parti indipendenti e non-indi­pen­denti, ciò che viene in questione è, come abbiamo spiegato, la "natura" dei contenuti. Che il colore sia una parte non-indipendente significa, per dirla con Husserl, che esso "è predestinato ad essere parte, infatti un colore può esistere puramente in quanto tale ed in generale soltanto come momento di un oggetto colorato"[6]. La problematica della non-indipendenza ci conduce così sul terreno delle connessioni necessarie tra i contenuti del­l'esperienza possibile. Queste connes­sioni necessarie pos­sono essere formulate in proposizioni che meritano il ti­tolo di leggi. E non vi è dubbio che, facendo riferimento alla distinzione classica tra a priori ed a posteriori, do­vremmo classificare queste leggi tra le leggi a priori. A questo punto una domanda si impone come ovvia: nella tradizione empiristica sino ai nostri giorni, a parte i casi in cui si è addirittura giunti a ne­ga­re il sussistere di leggi a priori in genere, si nega comunque quella terza possibilità che Kant aveva caratterizzato con l'espressione di sintetico a priori. Di questa negazione l'empirismo mo­derno si è fatto una bandiera. 129 Come stanno ora le cose con le leggi di cui potremmo parlare nell'ambito della problematica della non-indipen­denza? Affermare che esse sono a priori significa affermare anche la loro analiticità? Oppure dobbiamo in qualche modo tener conto della posizione trascendentalistica, nella quale l'ambito dell'a priori giunge ad abbracciare tipi pe­culiari di proposizioni sintetiche? Per chiarire questo punto in breve sarà sufficiente dare il massimo risalto al fatto che in Kant la nozione di pro­posizione sintetica a priori è definita negativamente rispet­to a quella di proposizione analitica. Una volta, cioè, fis­sata la nozione di proposizione analitica, il cui carattere di necessità e di apriorità sembra risultare ovvio, consta­tiamo che vi sono proposizioni neces­sarie e non analitiche: perciò queste proposizioni verranno denominate propo­si­zioni sintetiche a priori. È chiaro allora che, se vi è qual­ cosa che non va in quest'ultima nozione, converrà cercare la ragione dell'errore nella concezione kantiana di propo­sizione analitica. Nell'affrontare questo nodo critico, l'empirismo moder­no non si è affatto reso conto di questo punto: la con­cezione di analiticità in Kant viene rico­nosciuta sostan­z ialmente corretta, purché sia liberata dai residui psico­lo­gistici che sono ancora in essa inerenti e sia riformulata esplicitamente in termini "linguistici". Le proposizioni sintetiche a priori saranno quindi sop­presse come costru­zioni fittizie di cui si può senz'altro fare a meno. Al contrario, in Husserl, per una critica della classi­ficazione kantiana ci si deve impegnare anzitutto in una nuova definizione di analiticità. Stando alla nuova definizione proposta da Husserl (§ 12), non risulta più possibile classificare come analitica la pro­ posizione "ogni corpo è esteso", che è invece l'esempio tipico di analiticità in Kant. D'altra parte non vi è dubbio che quella proposizione non dà espressione ad alcuna ge­neralizzazione indut­ tiva, ma ad una relazione necessaria tra contenuti dell'esperienza possibile, e precisamente ad un rapporto di non-indipendenza. Una volta chiarito questo punto, una volta chiarito cioè che 130 anche secon­do Husserl non vi sono proposizioni sin­tetiche a priori nel senso di Kant, avremo a che fare uni­camente con scelte più o meno opportune dal punto di vista terminologico. La sostanza del problema sta infatti nel riconoscimento, eluso sia dall'empirismo che dal tra­scendentalismo, del sussistere di una problematica speci­fica attinente ad un ambito che possiamo circoscrivere con il termine di a priori materiale [7]. 6. Il tentativo di indicare le linee di sviluppo di una teoria dell'intero e della parte come teoria assiomatico­-formale viene effettuato nel secondo capitolo della Terza ricerca. In esso si insiste sul "grande interesse scientifico assunto in ogni campo dalla costituzione di una teorizza­zione deduttiva" [8]; e si sottolinea che "il progresso che conduce dalle teorie e dalle costruzioni concet­ tuali vaghe alle teorie ed alle costruzioni concettuali matematicamente esatte è qui, come sempre, la condizione preliminare di una piena comprensione dei nessi a priori ed un'istanza irrinunciabile della scienza" [9]. In questo contesto si propongono le linee per un'ela­ borazione della teoria, ed il primo paragrafo del secondo capitolo (§ 14) comincia addirittura con la presentazione, sia pure a titolo puramente indicativo, di alcuni principi fondamentali che dovrebbero presiedere ad essa. Cionono­stante non si può dire che l'esposizione si raccomandi per il suo ordine e la sua chiarezza. Al contra­rio: proprio questo capitolo presenta notevoli difficoltà di lettura, di cui il lettore ha normalmente la minore responsabilità. Per tentare una chiarificazione del materiale e mettere in evidenza le idee principali e le distinzioni più significa­tive converrà anzitutto sottolineare che il passaggio al terreno formale è già contrassegnato dal fatto che la no­zione di intero qui in gioco viene istituita definitoriamente sulla base della relazione di non-indipendenza, che riceve ora la denominazione di relazione di fondazione. Que­st'ultima sarà da intendere come relazione 131 primitiva e il termine di fonda­zione, dunque, come un termine non definito. Nella "definizione" proposta (§ 14), non si fa altro che introdurre il termine di fondazione rinviando alla no­zione di non-indipendenza, della quale si dovrà comun­que rendere conto attra­verso elucidazioni "informali". Che Husserl intenda la nozione di fondazione come nozione primitiva non definita nel senso in cui abbiamo biso­gno di simili nozioni in una qualunque teoria assiomatico-for­male diventa infi­ne chiaro nel § 21 dove si dichiara che la nozione di intero fino a quel punto presupposta può, e in realtà deve, essere introdotta "per mezzo del con­cetto di fondazione" [10]. Procediamo dunque con ordine - precisamente secondo questo ordine, che non corrisponde alla lettera del testo, ma che tenta, nella misura del possibile, una riesposizione che ne faciliti la lettura e richiami l'attenzione sui punti più notevoli. Avendo presupposto la nozione di fondazione come una forma di relazione possibile tra oggetti, potremo senz'altro proporre la distinzione tra oggetti tra cui sussiste una relazione di fondazione e oggetti tra cui tale relazio­ne non sussiste. Considerando due oggetti qualunque tra cui sussiste una relazione di fondazione, distingueremo ancora tra l'og­getto fondante e l'oggetto fondato e parleremo di fonda­z ione unilaterale e di fondazione bilaterale (o reciproca) in un'ovvia accezione dei termini. Sempre in linea di principio, cioè considerando le pos­sibilità a priori dei rapporti di fondazione, si distinguerà tra oggetti che si trovano in un rapporto di fondazione immediato o mediato - diremo, ad esempio, che un og­getto A è mediatamente fondato in un oggetto C, se A è fondato in B e B è fondato in C (§ 16). Benché nell'introdurre queste distinzioni, Husserl si ser­va già dei termini di intero e parte, per le ragioni esposte suggeriremmo di fare a meno di essi sino a questo punto e di passare senz'altro (in conformità alla procedura indi­cata nel § 21) all'introduzione della nozione di fondazione unitaria. Diciamo dunque che un aggregato di oggetti (contenuti) 132 è abbracciato da una fondazione unitaria se, dato un qua­lunque oggetto (contenuto) appartenente all'aggregato sus­siste tra quell'oggetto ed ogni altro oggetto appartenente all'aggregato un rapporto di fondazione (mediato o im­mediato). Si dice infine intero in senso pregnante o intero-di-fon­dazione o brevemente intero un aggregato di oggetti ab­bracciato da una fondazione unitaria; e gli oggetti appar­tenenti ad esso si diranno parti dell'intero. Distingueremo infine due specie notevoli di intero se­condo il modo di connessione delle parti. Chiameremo intero di prima specie l'intero le cui parti sono connesse le une alle altre senza forme di collegamento. Le parti di un intero di prima specie si chiameranno mo­menti (parti non-indipendenti). Con intero di seconda specie intendiamo un intero le cui parti sono connesse le une alle altre mediante forme di collegamento. Le parti degli interi di seconda specie si chiameranno pezzi o fra­ zioni (parti indipendenti). Notiamo infine che lo stesso intero può essere, in rap­porto a certe parti, un intero di prima specie, in rapporto ad altre un intero di seconda specie. In breve: un intero può constare di momenti e di frazioni. 7. Ciò che richiede subito qualche spiegazione è, ovvia­mente, la nozione di forma di collegamento a cui abbiamo fatto ricorso or ora senza preparazione alcuna. Per illu­strare questa nozione vogliamo ritornare nell'ambito delle considerazioni fenomenologiche. Facciamo perciò rife­rimento anzitutto agli interi percettivi, quindi all'esperien­za percettiva di totalità che possono essere altrettanto bene esemplificate da una fila di alberi, quanto da una costella­zione di punti o da una successione di suoni. Sappiamo già che gli alberi che appartengono alla fila, i punti della costellazione o i suoni della successione sono da caratterizzare come parti indipendenti. Si pone allora senz'altro il 133 problema di rispondere alla domanda che chiede che cosa appartenga al "contenuto effettivo" del­l'esperienza percet­tiva di queste totalità: ed in particolare se a questo contenuto appartiene il rapporto che istituisce tra questi "pezzi" l'unità percettiva complessiva. Se vi appartiene, allora nella percezione di due suoni A e B che si susseguono dovre­mo distinguere tre componenti: il suono A, il suono B e la loro forma di collegamento, cioè la contiguità temporale. Peraltro, parlando della con­tiguità temporale come forma di collegamento riduciamo il problema al suo livello minimo: è chiaro infatti che, nella misura in cui si tratta di suoni qualita­tivamente ben determinati, tra essi intercorreranno in ogni caso relazioni di altra specie, fondate in questa determinatezza qualitativa. Che nel contenuto percettivo in questione si possano indicare tre componenti è ciò appunto che pensa Husserl, ma con una precisazione importante. Le connessioni di vario genere che sorgono tra le parti sono effettivamente percepite nella percezione delle parti stesse; tali connes­sioni sono poste nella misura in cui sono posti quei con­tenuti, esse sono non-indi­pendenti rispetto ad essi. Potremmo dunque parlare dei collegamenti tra le parti indipendenti come forme sensibili di unità ovvero come momenti di unità (§ 22). La posizione di un momento di unità a titolo di "com­ponente" del contenuto percettivo non deve dunque trarre in inganno: tanto più che Husserl si serve talora del­l'espressione, indubbiamente equivoca, di "nuovo conte­nuto". Risulta chiaro, infatti, che ciò che si intende so­stenere non è affatto la produ­zione di un nuovo contenuto che dovrebbe istituire il collegamento tra le parti come se si trattasse di una terza parte della stessa specie dei contenuti collegati. Ci si deve piuttosto orientare sull'espres­ sione di forma sensibile di unità: nella percezione di due suoni che si susseguono, non viene percepito soltanto il suo­no A ed il suono B, ma anche il fatto che B segue ad A (così il fatto che A ha lo 134 stesso timbro di B; oppure che A è più intenso di B, ecc.). Di qui la significativa polemica contro l'uso dell'espres­sione "essere l'uno accanto all'altro" per indicare l'as­senza di nessi: questa immagine è inadeguata "anzitutto perché pretende di illustrare la mancanza di forma sensi­bile con un esempio di forma sensibile". Se parliamo di due cose che si trovano l'una accanto all'altra presuppo­niamo "evidentemente contenuti relativamente indipen­denti che, per il solo fatto di essere indipendenti, sono già in grado di fondare questa forma sensibile dell'essere l'uno accanto all'altro" [11]. Non è difficile ora rendersi conto che il sussistere di forme di colle­gamento, o come ora diciamo, di momenti di unità può essere richiamato per contraddistinguere de­finitoriamente le frazioni dai momenti. Infatti, se due parti sono unificate mediante momenti di unità, esse sa­ranno necessariamente parti indipendenti. Ed inversamente la "compenetrazione" che caratterizza il rap­porto tra parti non-indipendenti (se è lecito parlare di "compenetrazione"per indicare, ad esempio, il rapporto tra il colore e la superficie che esso ricopre) esclude che essi fondino un momento di unità. Con ciò sembra si delinei una via per differenziare fra­zioni e momenti secondo gli intenti sistematici preceden­temente indicati che richiedono la formulazione di queste distinzioni in modo tale che esse non risultino in alcun modo vincolate alla tematica degli interi percettivi. La portata del problema or ora discusso dal punto di vista logico viene indirettamente illustrata dal modo in cui siamo in grado di venire a capo di un vecchio para­dosso che costruisce sul collegamento delle parti una sorta di regresso all'infinito. Se parliamo delle parti A e B e del loro collegamento C, allora si porrà il problema di un collegamento C1 tra A e C e di un collegamento C2 tra B e C: sic in infinitum. Ma questo argomento sorge palesemente dall'errore di con­siderare il collegamento tra "pezzi" come se fosse esso stesso un "pezzo". Un momento di 135 unità non ha evi­dentemente bisogno di essere collegato con le parti che esso collega (§ 22). 8. L'introduzione della nozione di intero sulla base della relazione di fondazione ha anche lo scopo di determinare in quale accezione vogliamo far uso di questa parola. In se stessa, essa è infatti tanto vaga quanto lo sono in genere le parole che esprimono concetti formali - ed in questa vaghezza essa potrebbe essere usata indifferentemente in luogo di "aggregato", "complesso", "insieme", ecc. Nella tradizione filosofica, inoltre, il termine di "intero" viene spesso usato secondo un'accentuazione che rinvia al problema se sia da porre in generale una distinzione tra enti le cui parti si troverebbero in un'unità che me­riterebbe di essere chiamata "organica" ed enti le cui parti si troverebbero in un'unità che non meriterebbe af­fatto di essere chiamata così. Un muro, potremmo dire, è una unità composta di mattoni, ma in tutt'altro modo dob­biamo concepire l'unità tra un albero e le sue parti. Talora si usa anche contrap­porre al termine "intero" (sot­ tintendendo la sua "organicità") all'espres­sione di "mera somma" (volendo indicare un complesso analizzabile nelle sue parti nello stesso modo in cui un muro potrebbe es­sere materialmente scomposto nei mattoni di cui è co­stituito). In quest'ultima distinzione vi è indubbiamente almeno un aspetto che sembra implicare decisioni sull'essere delle cose e che quindi rinviano ad un terreno che forse sarebbe il caso di chiamare "metafisico". Ciò non toglie, evidentemente, che di quegli esempi si possa fare un uso non impegnativo conferendo ad essi la portata di puri e semplici riferimenti analogico-illustrativi. Ma anche tenendo conto di ciò, la nostra tematica si muove su una diversa direttrice. In effetti, la nozione di intero determinata sulla base della relazione di fondazione traccia una discriminazione, e precisamente tra complessi di oggetti che sono interi (nell'accezione fissata) e complessi che non lo sono. Poiché potremmo essere 136 tentati, in rapporto a questi ultimi, di parlare di "mere somme", è allora necessario precisare in che senso potrebbe essere usata in questo contesto una simile espressione. Si tratta, in breve, di rispondere con chiarezza alla domanda: rispetto a che cosa la nozione di intero proposta traccia una netta linea di demarcazione? La nostra nozione di intero si riferisce, attraverso la relazione di fondazione, ad una determinata possibilità di "essere insieme" di oggetti in genere. Per questo non sarà detto intero, nella nostra accezione, un complesso qualunque di oggetti. Complessi di oggetti che non sono interi saranno banal­mente caratterizzati in modo negativo dal fatto che essi non sono abbracciati da una fondazione unitaria. Se decidiamo di riservare il termine di "insieme" a questi ultimi, allora distingueremo gli interi dagli insiemi, restando inteso che il nome viene, per così dire, dopo il concetto: la scelta terminologica può essere irrilevante, non invece la distinzione tra i termini. All'argomento è dedicato un accenno molto breve (§ 23) che è tuttavia sufficiente per indicare l'orientamento com­plessivo secondo cui la discussione potrebbe essere af­frontata. In esso si contrappone al termine di intero (Ganz) il termine di aggregato o insieme (Inbegriff), e si osserva che quest'ultimo "esprime un'unità "cate­goriale" cor­rispondente alla mera "forma" del pensiero, esso indica il correlato di una certa unità dell'in­ tentio che si riferisce a tutti gli oggetti eventuali" [12] L'intonazione psicologistica di questa caratterizzazione è solo apparente e può essere facilmente rimossa attraverso una breve illustrazione del suo senso. In primo luogo: si parla qui di "unità categoriale, corrispondente alla mera forma del pensiero", e con ciò si opera una contrapposizione rispetto alle forme di unità che si istituiscono sul piano della sensibilità. Ogni forma­zione unitaria dell'esperienza è debitrice della propria uni­tà alla determinatezza dei contenuti. Così, in generale, sul piano della sensibilità, avremo sempre a che fare con interi nel senso degli interi di fondazione. 137 Nell'ambito di una considerazione formale, la relazione di fondazione si presenta come una possibilità relazionale che può sussistere a priori tra oggetti in generale: nes­suna determinatezza contenutistica viene perciò messa in gioco. Resta tuttavia il fatto che "un intero in senso pieno e proprio è un nesso determinato dai generi infe­riori delle "parti". Ad ogni unità intrinseca inerisce una legge" [13]. Come già sappiamo tali leggi saranno "leggi essenziali materiali". La loro determinazione tuttavia non rientra tra i compiti di una teoria degli interi. O, in altri termini: un conto sono le indagini fenome­nologiche che si muovono nell'ambito dell'a priori materiale ed un altro è l'elaborazione di una teoria dell'intero nel senso del­l'intero di fondazione. Il rinvio a determinazioni conte­nutistiche che la nozione di fondazione comporta non esige certo uno scambio di compiti così diversi e neppure esclude la possi­bilità di una teoria dell'intero che si svi­luppi all'interno di una considerazione puramente for­ male (§ 23). Precisato questo punto, resta ancora aperta la possibilità di una nozione categoriale di unità, cioè una nozione di unità che sia interamente libera da vincoli contenutistici, dal riferimento ai contenuti di un'esperienza possibile. La stessa cosa si può esprimere dicendo, sia pure con una certa equivocità, che l'unità non sorge in questo caso dalle cose stesse, ma dal fatto che gli oggetti sono appunto semplicemente "pensati insieme"; essa è il correlato di una "intenzione" unitaria. Cosicché viene a cadere il problema della non-indi­pendenza e le distinzioni di prin­cipio effettuate sulla sua base. Alla nozione di intero contrapponiamo la nozione di insieme, ed even­tualmente a quest'ultima potremo riferirci con l'espressione di "mera somma" - per quanto possa essere considerata inopportuna. Essa dovrebbe soltanto suggerire l'idea che gli oggetti che intervengono nel com­plesso non sottostanno ad alcuna unificazione intrinseca, che essi si trovano in linea di principio in rapporti di estrinsecità reciproca per il semplice fatto 138 che sono con­siderati prescindendo da ogni determinazione contenutistica. Sarebbe privo di senso postulare "momenti di unità" che operino la connessione. È sufficiente che siano pensati insieme - e ciò significa, in fin dei conti, soltanto: è suf­ficiente che tra il nome di un elemento di un insieme e il nome dell'altro compaia la paroletta "e", o almeno una virgola. Qualora l'unificazione rinvii anche ad una determinazione attributiva comune, il problema non mu­terebbe nella sostanza, poiché attraverso di essa gli og­ getti sono in ogni caso soltanto "pensati insieme" e non anche "intuitivamente dati". 9. Nella nostra esposizione della tematica relativa al secondo capitolo della Terza ricerca abbiamo tentato una ricostruzione con l'intento di mettere in evidenza l'impo­stazione di carattere generale, discostandoci dallo sviluppo letterale del testo. In particolare, non abbiamo dato ri­lievo alla presentazione dei teoremi con cui si apre il ca­pitolo (§14). In effetti essi non solo non possono essere considerati come una sorta di effettivo inizio della teoria, ma non fanno altro che accennare al fatto che, una volta che si disponga del necessario apparato di assiomi e di definizioni e di un simbolismo adeguato, si sarà in grado di elaborare una teoria in piena generalità formale, met­tendo in opera procedure puramente dimostrative. Io penso tuttavia che questo aspetto, piuttosto che dalla esibizione, non adeguatamente preparata dal punto di vista metodico, di esempi di teoremi, possa essere meglio illustrato dalla discussione dei "rapporti più notevoli tra le parti", e quindi anzitutto della problematica della "mediatezza" delle parti rispetto all'intero (§§ 18-19) e delle parti tra loro (§ 20). In generale una parte potrà essere parte di una parte dell'intero, ed in tal caso si dice parte mediata dell'in­tero. Si dice invece parte immediata una parte che non è una parte mediata dell'intero. Questa distinzione può essere formulata come una di­ stinzione assoluta, intendendosi con parti assolutamente mediate 139 "quelle parti in rapporto a cui nell'intero vi sono parti nelle quali esse risiedono come parti"; e con parti asso­lutamente immediate "quelle parti che non possono valere come parti di alcuna parte del medesimo intero". L'iterabilità di principio del rapporto di mediatezza con­ sente l'introdu­zione di differenze di grado, consente cioè, per usare la terminologia di Husserl, di parlare di mag­giore o minore "vicinanza" (o "lontananza") delle parti rispetto all'intero. È chiaro che l'introduzione di queste distinzioni elemen­ tari e la loro eventuale elaborazione non hanno bisogno di alcun sostegno intuitivo, avendo a che fare puramente con il concetto di parte come tale. L'esposizione di Husserl mira in effetti ad acquisire questa "purezza", avvalendosi tuttavia di continui rimandi all'esemplificazione concreta, che debbono fungere come fili condut­tori per l'imposta­zione preliminare dei problemi. Possiamo così attirare l'attenzione su esempi in cui si mostra come la distinzione tra immediatezza e mediatezza possa essere meramente relativa alla successione accidentale e arbitraria dei passi del processo di partizione dell'intero. Un segmento può essere suddiviso in sottosegmenti, ed ognuno di essi potrà essere inteso - secondo l'ordine ar­bitrario della partizione - come una parte immediata o una parte mediata, cioè come un sottosegmento dell'intero oppure come un sottosegmento di un sottosegmento dell'intero. In casi di questo genere, la distinzione in que­stione è irrilevante nel senso che tutti i sottosegmenti possono essere considerati come "equidistanti" rispetto al­l'intero. Le differenze concernenti la mediatezza dipen­dono dall'ordine della partizione e quest'ultimo è "privo di un fondamento oggettivo". Si noterà che, in questi esempi, le parti in questione sono precisamente frazioni e che queste sono "per loro essenza, del medesimo genere inferiore che viene determinato dall'intero indiviso" [14]. A partire di qui viene identificata una possibilità a priori nella forma del riferimento delle parti rispetto all'intero: a tale 140 possibilità si richiama il principio secondo cui "fra­zioni di frazioni dell'intero sono a loro volta frazioni del­l'intero" - principio che è peraltro passibile di dimostra­zione formale [15]. Il problema di un fondamento oggettivo nell'ordine della partizione di­ven­ta particolarmente chiaro se consideriamo le differenze tra momenti e fra­zioni, tenendo conto del fatto che in generale possono darsi frazioni di mo­menti e momenti di frazioni. Esemplificativamente: i suoni sono parti della melodia. E l'intensità di un suono sarà oggettivamente parte di una parte della melodia. All'intensità del suono, come mo­mento di una frazione della melodia, attribuiremo dunque; una mediatezza non accidentale, ma essenziale; il momento della frazione è "più lontano" dall'intero di quanto lo sia la frazione stessa, con la precisazione piuttosto ovvia che con ciò non ci si riferisce "ad un privilegiamento arbitrario, oppure addirittura ad una costrizione psicolo­gica di un certo processo di parti­zione, secondo cui ci imbatteremmo prima nel suono ed in un secondo tempo nei suoi momenti qualitativi, ma in se stesso, nell'intero della melodia, il suono è la parte precedente e la sua qualità la parte mediata, successiva" [16]. Analogamente: una superficie può essere suddivisa in parti, e precisa­mente in frazioni. Come esempio di mo­mento di una frazione si potrà indicare il colore di una di esse. Come nel caso precedente, a tale momento spet­terà oggettivamente il carattere di parte mediata. Se con­sideriamo il grado di chiarezza del colore come momento del colore, otteniamo un ulteriore esempio di parte essen­zialmente mediata, secondo un rapporto di mediatezza cre­scente. La frazione potrà essere considerata come parte primaria dell'intero, il suo colore come parte primaria di una parte primaria, cioè come parte secondaria, il grado di chiarezza come parte terziaria, ecc. Con ciò illustriamo la differenza tra parti più vicine e più lontane dall'intero "sul piano puramente descrittivo, ricorrendo 141 ad esempi"; ma questa differenza può comun­que "essere ridotta alla mera forma di rapporti di fon­dazione ed essere in questo modo formalizzata" [17]. La sussistenza o l'insussistenza di una "gerarchia" nell'or­dine della mediatezza può essere presentata, in modo in­teramente libero da esempi, come una differenza nella forma del riferimento delle parti rispetto all'intero. Che in generale il momento di una frazione sia una parte essenzialmente mediata dell'intero, può essere fatto valere come un principio derivabile dalla differenza formale tra "momenti che possono soddisfare il bisogno di inte­grazione solo nell'intero completo oppure già nelle sue frazioni" [18]. In quest'ultimo caso, la mediatezza "non è più extra-essenziale, come quella delle frazioni di secondo grado nella suddivisione di un segmento, ma è una me­diatezza essenziale che va caratterizzata attraverso la natura formale del rapporto" [19]. Una problematica analoga può essere proposta considerando i rapporti delle parti tra loro (§ 20). Anche in questo caso potremo parlare di rapporti di mediatezza (e quindi di vicinanza e di lontananza) e dei loro gradi, benché certamente questi termini ricevano ora una diversa accezione in corrispondenza alla modificazione di angola­tura del problema. Si parlerà, in generale, di connessione tra le parti e si distinguerà tra connessione mediata e immediata. Diremo così che A è connesso mediatamente con C, se esiste un B tale che A è connesso con B e B con C. Potremo inoltre distinguere tra le connessioni che con­tengono concatenazioni e connessioni che non contengono concatenazioni, avendo convenuto di dire che "due con­nessioni formano una concatenazione se hanno qualche membro (ma non tutti) in comune" [20]. Di conseguenza, le connessioni che contengono concatenazioni saranno "com­plessioni di connes­sioni che non ne contengono" ed i membri di una connessione priva di conca­tenazioni saranno immediatamente connessi. In generale, possiamo perciò affer­ mare che in ogni concatenazione "debbono esserci membri immediatamente connessi, cioè appartenenti a con­nessioni di parti 142 che non contengono più concatenazioni" [21]. Questa tematica, nel suo insieme, converge verso la posizione del proble­ma delle strutture d'ordine. Così, al termine del § 20, si accenna alla possibilità di ricondurre la nozione di numero ordinale alla forma di una conca­tenazione nella quale sia fissata una "direzione di progressione" ed un elemento rispetto a cui deve essere de­terminato il grado di lontananza di ogni altro elemento secondo un rapporto di mediatezza crescente. "Queste idee" avverte conclusivamente Husserl "deb­bono valere per noi soltanto come semplici cenni in vista di una trattazione futura della teoria degli interi e delle parti. Un'esposizione effettiva della teoria pura a cui qui pensiamo dovrebbe definire tutti i concetti con esattezza matematica e dedurne i teoremi mediante argumenta in forma, cioè matematicamente" [22]. II 1. Fin dall'inizio abbiamo notato che, per un approccio corretto alla tematica della Quarta ricerca, è necessario tenere presente la connessione che sussiste tra la propo­sta, in essa avanzata, di una teoria pura delle forme pos­sibili del significato e la problematica di una teoria degli interi nel senso prospettato dalla Terza ricerca. In effetti, come esempi di interi, e precisamente nel senso di interi-di-fondazione, avremmo potuto servirci di espressioni, ed in primo luogo di enun­ciati completi, più o meno complessamente articolati. Un enunciato non è un mero cumulo di parole da cui risulta in ogni caso un significato unitario, esso è attra­versato da un nesso di fondazione. Tutte le parole da cui esso è costituito sono sue parti relativamente non-indipen­denti. Ognuna di esse può essere considerata come una parte che deve essere integrata, secondo forme ben de­terminate, con le altre parti dell'intero. Par­liamo perciò dell'enunciato come di un intero-di-significato e ricondu­ 143 ciamo quest'ultima nozione sotto il titolo, certamente più ampio, di intero-di-fon­dazione. Una concezione funzionale della struttura degli enunciati è con ciò data senz'altro come acquisita. Così, la problematica della mediatezza, che costituisce uno dei punti focali nella discussione precedente, può tro­vare un'esemplificazione elementare facendo riferimento agli enunciati. In essi possiamo distinguere non solo parti, ma anche, eventualmente, parti di parti, secondo gradi di maggiore o minore "profondità" o, secondo la termi­nologia propriamente husserliana, secondo gradi di maggiore o minore "vicinanza" rispetto all'intero di cui sono parti. In rapporto a questo problema si noterà che gli enunciati forniscono esempi di interi nei quali la parti­zione non può avvenire in un modo qualsiasi e i rapporti di mediatezza non variano arbitrariamente, ma hanno un fondamento oggettivo. Per questo motivo, del resto, pos­siamo parlare di un'articolazione logico-grammaticale del­l'enunciato. Tuttavia, la nostra tematica non si sposta ora nel cam­po logico-linguistico solo per attingere nuove esemplifica­zioni. Si tratta piuttosto di mostrare che, come esiste il problema di rendere esplicito ciò che è contenuto nel concetto di intero - il problema, cioè, di formulare le legalità a priori che lo circoscrivono e lo determinano - così esiste il problema di rendere esplicito ciò che è con­tenuto nel concetto di unità possibile di significato, quindi il problema di un'elu­cidazione preparatoria in vista di un'esposizione teoretico-formale delle legalità a priori che presiedono alla formazione degli interi-di-significato. Questa premessa è importante per indicare in che senso debbono essere intese le discussioni preliminari (§§ 1-9) che Husserl fa precedere alla proposta programmatica di una "morfologia pura dei significati". 2. Queste discussioni vertono essenzialmente sulla distin­zione tra significati semplici e composti (§§ 1-3) e su quella tra significati indipendenti e non-indipendenti (§§ 4-9). 144 Intendendo con espressione, in generale, l'unità di se­gno e significato, si dirà composta una espressione quando consta di parti che sono a loro volta espressioni. L'analisi di un'espressione composta nei suoi costituenti espressivi deve infine condurre a espressioni semplici. La semplicità e la composizione delle espressioni rinviano perciò sen­z'altro alla semplicità e alla composizione dei significati. Il significato dell'espressione "oggetto semplice" è com­posto - ed è inoltre "del tutto indifferente che un simile oggetto esista o non esista". Inversamente è semplice il significato dell'espressione "qualcosa" (benché con "qual­cosa" si possa intendere un composto). Con ciò viene indicato un criterio linguistico interno della semplicità e della composizione, tagliando corto con concezioni che presuppongono in un modo o nell'altro la specularità del rapporto tra linguaggio e mondo. Possiamo fondatamente dubitare che espressioni come "uomo", "ferro" "re", ecc., abbiano un significato semplice? Possiamo dubitarlo solo se, in linea generale, riteniamo che la questione della semplicità e della com­posizione ci obblighi a prendere in seria considerazione la natura degli enti. E se riteniamo ciò, è probabile che alla fine non riusciremo più a raccapezzarci. Il modo in cui Husserl delinea in pochi cenni la pro­blematica dei "nomi propri" (§ 3) è interessante, nono­stante la sua brevità, proprio perché illustra questo motivo di ordine generale. Facendo riferimento esemplificativo ad un nome proprio di persona a noi nota, Husserl insiste soprattutto sul fatto che sarebbe erroneo ritenere che le determinazioni attri­butive dell'oggetto designato che fanno indubbiamente par­te della "coscienza significante", siano da intendere come "significati parziali che sarebbero realmente impliciti nel significato originario" [23]. Il significato del nome proprio è indubbiamente semplice, benché possano, ed anzi deb­bano, esserci "costituenti rappresentazionali", "anche se di contenuto variabile, senza i quali il significato attuale non può dirigersi all'oggettualità significata" [24]. 145 La semplicità del nome non esclude la complessità della "coscienza significante". D'altro lato, i costituenti rap­presentazionali di quest'ultima non sono costituenti effet­tivi del nome. Ciò che viene in questione è la modalità del riferimento all'oggetto, non in ogni caso la natura dell'oggetto e l'adeguatezza ad essa della struttura lingui­stica che lo designa. Del resto, osserva Husserl, problemi analoghi possono sorgere in rapporto ai "nomi comuni". Come nel caso dei nomi propri possiamo fissare il loro uso determinando uno tra i molti possibili costituenti rappresentazionali della coscienza significante, così nel caso dei nomi comuni pos­siamo proporre defini­ zioni. Così facendo, istituiamo una norma che pone un limite alla "fluttuazione del significato delle parole" [25]. Stabiliamo dunque degli "equivalenti nor­malizzati" e "al tempo stesso raccomandiamo come regola di usare il più possibile, nell'attività conoscitiva, i termini nei loro significati normalizzati o di regolare i si­gnificati dati riportandoli continuamente ai significati nor­malizzati e ricorrendo anche ad opportune disposizioni d'uso, quando essi svolgono una funzione conoscitiva" [26]. Come la risoluzione "descrittiva" di un nome proprio non autorizza a ritenere che la "descrizione" sia real­mente contenuta in esso, così la fissazione di disposizioni d'uso mediante definizioni non autorizza l'assunzione di com­plessità implicite. È naturalmente coerente con questa impostazione l'ammissione che "nel pro­cesso di slittamento del significato, ad un significato ori­ginariamente forma­to da membri subentri un significato privo di membri, in modo tale che, nel significato del­ l'intera espressione non corrisponde più nulla ai membri del­ l'espres­sione. In questo caso, tuttavia, l'espressione ha perduto il carattere di un'espressione composta in senso proprio, e del resto di solito nell'evoluzione della lingua accade anche che simili espressioni si fondino in un'unica parola" [27]. Nel caso della distinzione tra significati indipendenti e non-indipendenti procederemo all'incirca nello stesso modo. 146 Facendo riferimenti ad esempi opportuni di espressioni in­ complete, mostriamo anzitutto che si può parlare di incompletezza secondo accezioni molto diverse. Le espressioni "abbreviate" e le espressioni "lacunose" saranno messe da parte come casi particolari (§ 6). Quindi rammentiamo la distinzione tra parti dell'espressione che sono espressioni e parti che non lo sono: se consi­deriamo un'espressione semplice e ne isoliamo una parte, quest'ultima sarà priva di significato, benché possa essere mantenuto il riferimento ad un comple­tamento possibile da cui potrebbe risultare un significato unitario. Questa incompletezza delle parti "meramente sensibili" delle espressioni deve essere di­stinta dall'incompletezza di una parte di un'espressione che è ancora un'e­spressione. In quest'ultimo caso, l'incompletezza non esclude una relativa unità di significato. Infine possiamo dare esempi di incompletezza nel senso di parti di espressioni che, pur non essendo prive di si­gnificato (come i costituenti meramente sensibili delle espressioni), tuttavia non ammettono nemmeno un'unità relativa di significato. Si tratta dunque di espressioni in­ complete nel senso più stretto: di esse diciamo che assolvono una funzione di significato nella formazione di interi di significato. Con espressioni di significato non-indipendente o "sin­ categoremi" pos­siamo intendere le espressioni incomplete in quest'ultima accezione. Ad esse contrapponiamo le espressioni di significato indipendente o "categoremi". I sincategoremi assolvono la loro funzione di significato solo all'interno dei categoremi. Tra questi ultimi, infine, occuperanno una posizione eminente gli enunciati, nella misura in cui i categoremi sono enunciati o parti possibili di enunciati. Un'analisi delle forme possibili dei significati ha nella forma proposizionale il suo centro, nella misura in cui "ogni struttura concreta di significato è una pro­posizione oppure interviene all'interno delle proposizioni come loro possibile membro" [28]. Con ciò la distinzione tra indipendenza e non-indipendenza viene riproposta se­condo i modi in cui era stata senz'altro introdotta all'inizio. 147 Come nel caso della distinzione tra significati semplici e composti, anche qui si ribadisce che sarebbe erroneo ritenere che, "se un elemento costitutivo qualsiasi del­l'oggetto è non-indipendente", esso debba necessariamente essere espresso da un significato non-indipendente. In real­tà, "la possibilità di significati indipendenti diretti a mo­menti non ha nulla di strano, se pensiamo che il significato rappresenta "appunto qualcosa di oggettuale, ma non per questo esso ha il carattere dì un'immagine riflessa; la sua essenza consiste piuttosto in un'intenzione che può essere rivolta "a qualsiasi cosa, a ciò che è indipen­dente come a ciò che non lo è" [29]. Riconsiderando queste discussioni dentro il quadro con­ cettuale delineato all'inizio, risulta con evidenza l'impro­ponibilità dell'obiezione secondo cui l'istanza aprioristica avanzata da Husserl sarebbe puramente pretesa: parlando di "categoremi" e di "sincategoremi" non si farebbe altro che trasvalutare distinzioni meramente grammaticali in distinzioni logiche, operando una sorta di ipostatizza­zione di materiali empirici che hanno una validità solo rela­tivamente ad una lingua determinata o, a voler essere generosi, ad una fami­glia di lingue. Su questo punto ba­ sterà richiamare la trattazione parallela della problematica degli interi. Affinché quell'obiezione possa essere difesa, ci dovremmo impegnare a sostenere che la distinzione tra parti indipendenti e non-indipendenti derivi a sua volta dalle nostre abitudini linguistiche. Natural­mente, in un'im­postazione preliminare del problema, non vi è nulla di pernicioso nel prendere le mosse di qui. Ma il fatto in ultima analisi deter­minante è che "nelle nostre ricerche sui contenuti non-indipendenti, abbiamo definito in linea generale il concetto di non-indipendenza, ed è proprio que­sto concetto di non-indipendenza che noi pensiamo debba essere rilevato qui, nel campo del significato" [30]. 3. Per introdurre l'idea di una grammatica logica e per indicare le linee essenziali dell'abbozzo programmatico de­lineato da 148 Husserl converrà richia­mare la critica rivolta nei confronti delle distinzioni kantiane nella Terza ricer­ca. Questa critica può essere sintetizzata dicendo che Kant, nella definizione proposta di analiticità, a parte la formula­zione tendenzialmente psicologistica, ha intersecato tra loro due piani che debbono essere tenuti nettamente distinti. Se vogliamo indicare nella proposizione "ogni corpo è esteso" un esempio di proposizione analitica, allora dob­biamo precisare che in essa sono in questione i contenuti espressi dalle parole "corpo" e "estensione". Si tratterà dunque di una proposizione materialmente analitica. Ma da questa nozione di analiticità materiale, andrà allora chia­ramente distinta una nozione di analiticità formale - po­tendosi indicare come formalmente analitica una propo­sizione la cui negazione comporta un'assurdità indipen­dentemente dai contenuti even­tualmente espressi dalla pro­posizione in questione. L'esempio di Kant non soddisfa questa condizione e poiché si richiama, nella sua defini­zione di analiticità, all'essere contenuto del predicato nel soggetto e al tempo stesso al principio di non contraddi­zione come "principio supremo dei giudizi analitici", egli confonde equivocamente i due piani. Nell'empirismo moderno questo errore si ripresenta ancora, sia pure sotto altra veste, e precisamente nel tentativo di ricondurre ogni enunciato che possa in un modo o nell'altro dirsi analitico sotto l'unico titolo dell'analiticità formale. È dunque di fondamentale importanza, all'interno della prospettiva logico-filosofica di Husserl, ristabilire con chia­rezza questa distinzione. Il passaggio al nostro nuovo problema può essere effet­tuato attirando l'attenzione sul fatto che le proposizioni analitiche (e le loro negazioni) in entrambe le accezioni sono comunque unità proposizionali. Una proposizione, abbiamo detto, non è un complesso qualunque di parole. Cosicché possiamo proporre la distinzione tra complessi di parole che formano un'unità propo­ sizionale (o una unità di significato in genere) e complessi di 149 parole che non la formano - possiamo, cioè, proporre una terza no­zione di assurdità (nonsenso) da distinguere nettamente dalle precedenti. Il passaggio all'idea di una morfologia dei significati sta essenzialmente nel riconoscimento che, nello stesso modo in cui sorge un'assurdità materiale o formale nella misura in cui si contravvengono regole ben determinate, così vi sono regole ben determinate che pre­siedono alla formazione di significati unitari e dalla cui contravvenzione sorgono assurdità nella terza accezione (nonsensi). Il problema che una teoria delle forme dei significati deve affrontare consiste nella messa in chiaro di tali re­gole. E non è difficile rendersi conto che una tale teoria deve assolvere, secondo un'impostazione cosciente dei pro­pri metodi e dei propri obiettivi, i compiti che la tradi­zione affidava ad una "teoria del giudizio" come pre­supposto della logica intesa come "teoria dell'infe­renza". Il problema centrale è un'elucidazione preliminare del­l'unità del giudizio e delle sue forme possibili in quanto, come abbiamo osservato, ogni unità di significato o è una unità proposizionale o è parte di una unità proposi­zionale. Dall'analisi della proposizione debbono dunque po­tersi dispiegare le categorie del significato, cioè le forme delle possibili unità di significato in generale. Questa era appunto l'antica aspirazione di una teoria del giudizio: l'aspirazione ad una "tavola", ad una "sinossi" com­pleta delle forme possibili delle unità giudicative. Questo problema si ripresenta ora sotto una luce completamente nuova. In primo luogo, diciamo che una certa espressione, cioè un complesso segnico significante, ha una determinata for­ma oppure che è un esempio di una certa categoria. Essa potrà essere intesa come il risultato dell'applicazione di un certo operatore logico a espressioni, essendo nello stesso tempo una base possibile per l'applicazione di ope­ratori. Se chiamiamo termini le basi possibili per l'appli­cazione di operatori, possiamo senz'altro ricondurre la no­zione di categoria o di forma logica a quella 150 di regola per la formazione di termini da termini. Che vi siano ter­mini che sono soltanto basi per l'applicazione di operatori (e non anche risultati) deve essere ammesso in via di prin­cipio, e con ciò si acquisisce una nozione astratta di com­ponente puramente contenutistica delle unità significanti. Di conseguenza, si distinguerà tra operatori che conferi­ scono una forma alle componenti puramente contenutisti­che delle unità significanti, e quindi, in generale, tra ope­ratori che modificano la forma di una espressione determi­nando al tempo stesso un ventaglio di connessioni possi­bili; e operatori che connettono termine a termine. Questa distinzione si può dire sia, nella Quarta ricerca, appena accen­nata, o quanto meno essa non riceve nell'espo­sizione un rilievo corrispondente all'importanza fondamen­tale che deve esserle indubbiamente attribuita all'in­terno dell'impostazione di Husserl. Nella Quarta ricerca si parla di modifi­cazione e di complica­ zione delle espressioni. Con complicazione si allude alla formazione di espressioni per connessione di termini; con modificazione, invece, ad un mutamento di forma di un termine tale da determinare per esso certe possibilità di connessione con altri termini. La distinzione tra compli­cazione e modificazione rinvia così alla distinzione generale tra due specie nettamente diverse di operatori: gli operatori sintattici e gli operatori non sintattici. L'applicabilità dei primi è, per così dire, su­bordinata all'applicazione dei secondi, dal momento che, come si è già osservato, sono gli operatori non sintattici che determinano l'apertura sintattica di un termine, cioè la possibilità per un termine di essere connesso con altri formando un'espressione che è un esempio di una determinata categoria. Operatori sintattici e non sintattici costituiscono l'ap­parato di regole per ottenere termini da termini, in un'ap­plicazione iterativa e secondo una complessità crescente. "Quindi, in una morfologia puramente logica dei si­gnificati, si tratta in primo luogo dell'accertamento delle forme primitive... 151 Più esattamente, dovrebbero essere fis­sate le forme primitive dei significati indipendenti, delle proposizioni complete, con le loro articolazioni immanenti e le strutture di queste articolazioni. Inoltre, le forme primiti­ ve della complicazione e della modificazione, che sono ammesse dalle diverse categorie dei membri possibili secondo la loro essenza (dove va notato che anche pro­posizioni complete possono diventare membri di altre pro­posizioni). Di conseguenza, si tratta di una sinossi siste­matica della molteplicità illimitata delle forme ulteriori che possono essere derivate attraverso una continua complica­z ione e, rispet­tiva­mente, una continua modificazione" [31]. 4. Alla delineazione astratta del problema può certamen­te seguire una esemplificazione che fornisca qualche illu­strazione concreta. Occorrerà solo sottolineare che gli esem­pi dovranno essere intesi con le cautele del caso. In essi, infatti, le distinzioni logiche assumono necessariamente una veste empirico-grammaticale, e può senz'altro darsi che talune distinzioni logiche siano grammaticalmente indif­ferenti o inversamente che, ad una differenza nella veste grammaticale, non corrisponda un'effettiva distinzione lo­gica. Così, se parliamo di "proposizione predicativa" e citiamo esempi che contengono la paroletta "è", si sot­tintenderà che non si dia per scontato che qualunque pro­posizione costruita con la "è" in modo ordinariamente considerato corretto sia da caratterizzare come "predica­tiva" in senso logico. Eventualmente si ri­chiamerà espli­citamente l'attenzione su questo punto ed in linea gene­rale si po­trà sempre ricorrere a spiegazioni atte ad ovviare a questo o a quel possibile fraintendimento. Da questa circostanza, cioè dall'"inadeguatezza logica" del linguaggio corrente, si traggono tuttavia spesso con­clusioni erronee. In certo senso si tende più ad accentuare la possibilità che la "veste grammaticale" nasconda la "reale forma logica", piuttosto che a sottolineare il fatto, ben più significativo del primo, che noi possiamo comun­que dipanare queste confusioni, di esse pos­siamo venire a capo. Il sussistere di questa possibilità 152 rappresenta di per se stesso un buon argomento per sdrammatizzare la pretesa enigmaticità del problema della "forma logica" e per insistere sull'anteriorità di principio delle considera­zioni logico-morfologiche rispetto a quelle empirico-gram­ maticali. Oltre che sul carattere normativo delle prime rispetto alle seconde - normativo non nel senso che una morfologia pura prescriva qualcosa alle nostre lingue, ma perché ci fornisce un apparato per valutare dal punto di vista logico la struttura grammaticale delle nostre lingue. In ogni caso, ai fini di un'illustrazione che renda ele­ mentarmente conto della nostra precedente esposizione, ed in particolare della distinzione tra operatori sintattici e non sintattici, non si richiedono certo decisioni partico­larmente impegnative dal punto di vista della problematica più generale che potrebbe essere aperta a questo punto. Ci possiamo limitare ad osservare, a titolo esemplifica­tivo, che un termine di forma nominale può assumere la forma di soggetto ed un termine di forma aggettivistica la forma di predicato - quindi essi possono essere predi­cativamente connessi, possono cioè formare un'unità pos­sibile di significato (indipendentemente da ogni conside­razione relativa ai contenuti messi in gioco). In tutta evidenza, forma di soggetto e forma nominale si dicono "forme" in sensi interamente diversi: con forma di sog­ getto intendiamo infatti niente altro che una possibilità sintattica del nome. Lo stesso vale, ovviamente, per la forma di predicato e la forma aggettivistica. D'altra parte, termini di forma nominale o di forma aggettivistica saranno sintatticamente aperti anche, ad esem­pio, rispetto alla connessione congiuntiva. In generale, l'operatore "congiunzione" può essere applicato a ter­mini di forma qualunque purché i termini congiunti ap­partengano alla stessa categoria. In questo caso, inoltre, l'espressione che ne risulta appartiene a sua volta alla stessa categoria dei termini a cui l'operatore logico è stato applicato. La congiunzione di due proposizioni è una pro­ 153 posizione; la congiunzione di due aggettivi un aggettivo, ecc. Inoltre, un termine che non ha forma nominale potrà assumere forma di soggetto solo se la sua forma viene corrispondentemente modificata - e dunque, in questo caso, nominalizzata. Un nonsenso sorge non già perché accu­muliamo parole a caso, ma perché (eventualmente a caso) si contravvengono regole ben determinate. "Solo in certi modi, preliminarmente determinati, i si­gnificati sono reciprocamente congruenti e costituiscono ulteriori significati unitari sensati, mentre le restanti pos­sibilità combinatorie sono escluse secondo una legge: esse producono soltanto un cumulo di significati invece di un unico significato. L'impossibilità della connessione è con­forme ad una legge essenziale... ogni volta che, in rapporto ai significati dati, comprendiamo con evidenza l'impossi­bilità della connessione, questa impossibilità rimanda ad una legge incon­dizionatamente generale, secondo cui i significati delle corrispondenti categorie di significato, connessi nello stesso ordine e secondo la norma delle me­desime forme pure, debbono necessariamente essere privi di un risultato unitario - in una parola: si tratta di un'im­possibilità a priori." [32]. Gli esempi presentati nel testo da Husserl intendono unicamente illustrare questo orientamento di principio e sarebbe palesemente erroneo ritenere che essi abbiano lo scopo di giustificarlo. Essi indicano, se mai, i limiti entro cui viene contenuta la tematica della Quarta ricerca: come nel caso della Terza, ci troviamo di fronte alla delineazione sommaria di uno spunto programmatico. Prima ancora di indicare la via per effettive realizzazioni, Husserl sembra voler anzitutto legittimare questa problematica su un piano generale, e ciò conferisce ad alcune pagine un respiro insolitamente ampio, oltre che un rilievo più generalmente culturale. Husserl è infatti pienamente consapevole della portata polemica che veniva ad avere, "nella nostra epoca di naturalismo scientifico", tanto ricca di "ricerche ge­nerali di carattere empirico", il prendere le difese di una grammaire générale et 154 raisonnée, di una grammatica "filosofica" [33]. Oggi, l'importanza storica della Quarta ri­cerca è generalmente riconosciuta. Nonostante il fatto che la parola "a priori" continui ad essere ritenuta, in ogni caso, sospetta. Il punto che sembra talvolta così difficile da spiegare è quanto poco la determinazione di "legalità a priori" vincoli l'ambito dei fatti. Da questo punto di vista, è particolarmente importante fissare chiaramente il luogo del nostro problema nel campo della logica, e non in una sorta di terra di nessuno che si troverebbe da qualche parte tra logica, linguistica e analisi del linguaggio ordi­nano. La morfologia dei significati, sottolinea Husserl, ap­ partiene alla logica pura e costituisce in essa una "sfera fondamentale in se stessa prima". "Considerata dal punto di vista della grammatica, essa mette a nudo una impal­catura ideale che ogni lingua fattuale riempie e riveste in modi diversi con materiale empirico, seguendo motivazioni empiriche, in parte di carattere universalmente umano, in parte variabili in modo accidentale" [34]. Ciò che può rendere perplessi in questa frase è l'espres­sione "impalcatura ideale" - qui si evoca qualcosa di simile ad un impalpabile reticolo sottostante alle lingue naturali. In certo modo, l'asserita idealità di questa im­palcatura non riesce a sopprimere la concretezza dell'im­magine. Eppure, tutto ciò significa soltanto questo: che "è ne­cessario avere di fronte agli occhi questa "impalcatura per poter chiedere sensatamente: come esprime il tedesco, il latino, il cinese, ecc., "la" proposizione esistenziale, "la" proposizione categorica, "la" antecedente dell'ipo­tetica, "le" modalità di "possibile", "probabile", il "non", ecc.?" [35]. Si potrebbe obiettare: e se ci fosse una lingua in cui il "non" non venisse affatto espresso? - Ne prenderem­mo semplicemente atto (non senza prima aver tentato di renderci conto di che cosa propriamente prenderemmo atto). L'equivoco sorgerebbe inevitabilmente qualora si rite­nesse 155 che questa impalcatura ci fosse veramente e che prima o poi, sia pure in un giorno molto lontano, arri­veremo a toccarla con mano anatomizzando con ogni pos­sibile sottigliezza le lingue naturali. Alla frase sopra citata secondo cui "ogni lingua riempie e riveste in modi diversi con materiali empirici" quella "impalcatura ideale", sarà dunque opportuno accostare l'affermazione molto netta se­condo cui "in base agli sviluppi precedenti, nessuno ci attribuirà l'idea che noi riter­remmo possibile una gram­ matica universale che abbracci in sé tutte le grammatiche particolari come casi particolari accidentali, nello stesso modo in cui la teoria matematica generale includerebbe in sé tutti i casi particolari pos­sibili a priori risolvendoli in un colpo solo" [36]. III 1. Tenendo conto degli scopi introduttivi che la nostra esposizione si propone, ci potremmo arrestare a questo punto. Tuttavia conviene spingersi un poco oltre. Le di­stinzioni fondamentali presentate nella Terza ricerca ven­gono infatti riprese e ribadite in Esperienza e giudizio [37], in particolare nei §§ 30-32. E può essere interessante prendere in esame queste pagine dal momento che in esse non si ha una pura e semplice ripetizione del problema, ma una sua impostazione ex novo. Come abbiamo visto, nella Terza e Quarta ricerca viene proposta una duplice istanza. L'istanza dominante è indub­biamente quella della costruzione sistematica: in entrambi i casi, si tende essenzialmente a prospettare la possibilità di una teoria formale degli interi in generale e, rispetti­vamente, delle unità di significato. Sullo sfondo è tuttavia presente anche. il problema di una giustificazione delle no­zioni e delle distinzioni che si trovano alla base del sistema e che, in certo senso, delineano la cornice entro cui esso è istituito. In Esperienza e giudizio, il problema della costruzione siste- 156 matica passa in secondo piano: l'istanza dominante diventa quella della giustificazione. È bene sottolineare che questo problema può assumere la forma di compiti ana­litici precisamente determinati che, in se stessi, non sono necessariamente avvolti dalle vesti ideologiche che ricevono in Husserl stesso, soprattutto nel quadro della teorizzazione della fenomenologia come "filosofia prima", con la conseguente presentazione di compiti fenomenologico-fondazionali volti indeterminatamente in ogni direzione e per ciò stesso del tutto vacui. Di fronte a questa espansione del problema, che conduce alla sua completa vanificazione, Espe­ rienza e giudizio do­cumenta invece il permanere, anche in questa nuova di­mensione di ricerca, di quelle tendenze analitiche che formano indubbiamente l'aspetto più valido della teorizzazio­ne husserliana. Che forma assume ora il problema della giustificazione? In breve, possiamo dire che ci dobbiamo disporre in un'ottica nella quale le distinzioni logiche fondamentali, quelle distinzioni che venivano una volta raccolte sotto il titolo di "teoria del giudizio" possano essere ricondotte ad una base esperienziale. Il terreno dell'esperienza deve essere coimplicato nell'ela­borazione di una teoria del giu­dizio. E deve essere coimplicato in modo tale da esibire forme di rapporto che possano essere estratte da esso e riportate su un piano interamente diverso, sul piano del "pensiero" - per utilizzare ancora la nostra vecchia ter­minologia filosofica. Alcune brevi considerazioni sulla forma della proposi­zione a soggetto-predicato potranno servire ad illustrare questo assunto e ad introdurci direttamente al nostro pro­blema particolare. In rapporto a tale forma potremmo chiedere: vi è nel­ l'esperienza qualcosa che accenna ad essa, alla distinzione in cui essa consiste e che, in certo senso, la prepara? Ci richiamiamo allora senz'altro all'osservazione percettiva e, prescindendo da qualunque tentativo di descrizione di ordine psicologico-introspettivo, facciamo notare che gli atti di os- 157 servazione percettiva hanno caratteristiche strut­turali peculiari. Distinguiamo anzitutto, dal lato sogget­tivo, un interesse nei confronti della cosa. Quest'ultima assume il carattere di tema dell'interesse, il cui "conte­nuto" si dispiega progressivamente nel corso del processo. Seguendo la terminologia di Esperienza e giudizio, vo­gliamo chiamare esplicitazione il processo dell'osservazione percettiva; sostrato dell'e­spli­citazione, l'oggetto tematico dell'interesse osservativo; determinazione, tutto ciò che viene dispiegato nell'esplicitazione del sostrato. La coppia sostrato-determinazione rappresenta così un naturale filo conduttore per lo sviluppo del problema della base esperienziale della connessione predicativa. Diciamo ancora più impegnativamente: per giu­sti­ficare la distin­zione soggetto-predicato come una distinzione logica, indi­pen­den­temente da considerazioni di ordine linguistico. Di­sponendoci in questa ottica, ciò che avviene dentro il lin­guaggio diventa irrilevante. Potremmo arrivare a sostenere che quella distinzione non la abbiamo "tratta" dal lin­guaggio - benché questa affermazione significhi propria­mente soltanto che non intendiamo giustificarla attraverso di esso. Il centro del problema diventa il rapporto tra logica e esperienza, e precisamente tra forme logiche e strutture dei processi esperienziali. Con ciò, tutte le que­stioni attinenti al nesso tra linguaggio e logica da un lato e tra linguaggio ed esperienza dall'altro non vengono cer­tamente soppresse, ma si attribuisce ad esse uno spazio autonomo ed in ogni caso relativamente indipendente ri­spetto al problema della giu­stificazione. 2. Queste premesse, che risultano da una estrema sem­plificazione del ben più complesso e articolato discorso di Esperienza e giudi­ zio, sono tuttavia sufficienti per mo­strare in che modo si possa pervenire a riproporre le di­stinzioni essenziali relative alla nozione di intero che, seguendo tutt'altra via, erano già state introdotte nella Terza ricerca. Vogliamo anzitutto fissare una prima accezione - l'ac­cezione 158 più lata del termine intero. Con intero inten­deremo qualunque cosa possa essere resa sostrato di un processo di esplicitazione. Parte, in un'accezione altret­tanto lata, sarà detta ogni possibile determinazione di un sostrato. La relatività delle nozioni di intero e parte dovrà allora essere ricondotta alla relatività della distinzione tra sostrato e determinazione. Che qualcosa sia un sostrato o una determinazione, dipende unicamente dalla direzione dell'interesse. Si richiede soltanto che ci si attenga, in rapporto a queste nozioni, al punto di vista processuale a partire dal quale esse sono state istituite. Dire, ad esem­pio, che un certo contenuto si presenta come determina­ zione equivale a postulare un processo di esplicitazione in corso, e dunque a presupporre il rinvio ad un sostrato tematico. Inversamente, la posizione di un contenuto come sostrato equivale alla posizione di un processo di esplici­tazione iniziale, quindi alla posizione di determinazioni possibili. Possiamo concepire la situazione come se, all'inizio, l'og­ getto dell'in­teresse fosse dato "all'ingrosso", in modo relativamente indifferenziato: nel­l'os­servazione percettiva si vanno via via chiarendo i suoi "dettagli". Considerando la struttura possibile dei processi di espli­ citazione, mettia­mo ora in evidenza una differenza per noi particolarmente interessante. Può accadere che, nel corso di un processo di esplici­tazione, nel quale le determinazioni vengono via via dispiegate l'una dopo l'altra, abbia luogo una modificazione dell'interesse, che si rivolge ora all'ultima determinazione acqui­sita. Tale determinazione viene così, a sua volta, resa sostrato, e nella misura in cui l'interesse per il sostrato anteriore viene a cadere, avremo l'apertura di un nuovo processo di esplicitazione. Tuttavia, può anche accadere che l'interesse per il sostrato anteriore venga mantenuto. In tal caso, si tratterà propriamente dell'emergere di un interesse subordinato ad un interesse principale, e di con­seguenza il processo di esplicitazione, rivolto ora temati­camente all'ultima de­ 159 terminazione acquisita, sarà da in­tendere come un'articolazione di un unico processo. Distingueremo dunque tra esplicitazione semplice ed esplicita­ zione ramificata [38]. Alla base di questa distinzione vi è indubbiamente la relatività della differenza tra sostrato e determinazione. Qualunque cosa può essere resa sostrato, poiché la nozione di sostrato si risolve in quella di oggetto tematico di un interesse. Nel caso dell'esplicitazione ramificata, fac­ciamo solo notare una complicazione in più: qualcosa può essere resa sostrato e tuttavia mantenere il carattere di determinazione rispetto ad un altro sostrato. Facciamo dun­que notare una possibile ramificazione dell'interesse e cor­rispondentemente del processo di esplicitazione. Dovremo in base a ciò concludere senz'altro che la di­ stinzione tra sostrato e determinazione non possa essere proposta, da nessun punto di vista, come una distinzione assoluta? Oppure, in altri termini: non è possibile repe­rire una qualche accezione legittima per l'uso dell'espres­sione "sostrato assoluto" e, correlativamente, "determi­nazione assoluta"? [39] Chiediamoci anzitutto che cosa potremmo intendere con "sostrato assoluto". A quanto sembra, si tratterà di un sostrato che non può assumere il carattere di sottotema rispetto a qualunque altro. Se un simile sostrato esiste, esso dovrà essere unico. Il termine di "sostrato" non potrebbe essere usato al plurale. Il sostrato assoluto sa­rebbe un tema che abbraccia ogni tema. Ogni processo di esplicitazione dovrebbe poter essere inteso come un ramo di un unico processo di esplicitazione. Rispetto al sostrato assoluto, ogni sostrato avrebbe il carattere di sostrato relativo. Qui evochiamo l'idea maiuscola del Tutto. Ed appena evocata converrà metterla da parte. Basterà notare che, stando al modo in cui abbiamo introdotto la nozione di esplicitazione, facendo riferimento agli atti elementari del­l'osservazione percettiva, escluderemo che possa darsi un processo di esplicitazione che sia direttamente rivolto ad una simile totalità onniabbraccian- 160 te. Cosicché, ammesso che questa nozione possa essere istituita, essa comporterà inevitabilmente una sorta di operazione idealizzante che dovrà peraltro essere sufficientemente critica da evitare il consolidamento metafisico del suo risultato. In linea generale, dunque, escluderemo che vi sia un tema che non possa essere sottotema e corrispondentemente ammetteremo che qualunque processo di esplicitazione pos­sa essere considerato come ramo di un processo di espli­citazione. Si tratta allora di accertare se questa ammissione escluda altre possibili accezioni per l'uso del termine "sostrato assoluto". In effetti resta ancora aperto il problema se vi siano processi di esplicitazione che debbono essere intesi come rami di un processo. Se così fosse, avremmo una nozione di sostrato che potrebbe essere caratterizzato come relativo nella misura in cui risulta necessariamente dalla "sostratizzazione" di una determinazione. Si trat­terebbe di un tema che è, essenzialmente, un sottotema, ed in rapporto ad esso sarebbe lecito parlare di determi­nazione assoluta. Correlativamente, un sostrato che non è essenzialmente un sottotema potrebbe essere detto sostrato assoluto. Una simile distinzione sarebbe chiaramente improponibile se si considerasse unicamente la forma dei processi. Altrimenti stanno le cose se entrano in gioco considerazioni di ordine contenutistico. La nozione di un contenuto la cui esplicitazione rinvia necessariamente ad un processo di esplicitazione in corso - la nozione, dun­que, di determinazione assoluta, diventa concretamente esemplificabile. E così anche la nozione correlativa di sostrato assoluto. Con sostrato assoluto intendiamo dunque un oggetto tematico che può essere sottotema, ma non è necessario che lo sia. E tale espressione ammette ovviamente l'uso plurale. Qualora invece un certo processo di esplicitazione sia intrinsecamente connesso con un altro per via del con­tenuto che esso rende tematico, qualora cioè esso sia in linea di principio ramo di un processo, la determinazione che in esso è stata resa tematica sarà detta determinazione assoluta. Nel caso dei sostrati assoluti, l'assunzione di 161 un tema rispetto a cui essi sono sottotemi è sempre possibile, ma arbitraria. Nel caso delle de­ter­minazioni assolute, qua­lora esse siano rese sostrato, vi è in linea di principio un tema rispetto a cui essi sono sottotemi. Il rinvio ad una esplicitazione ramificata è qui presupposto. Nella terminologia dell'intero e della parte, i sostrati assoluti si chiameranno interi in una seconda accezione - più ristretta; oppure parti indipendenti (pezzi o frazioni). Le determinazioni assolute si chiameranno invece parti non-indipendenti (o momenti) (e in luogo di parti indipendenti e non-indipendenti potremo parlare ovviamente anche di determinazioni indipendenti e non-indipendenti). Possiamo infine fissare una terza accezione per il termine di intero, che chiameremo intero in senso pregnante. Par­lando di interi in senso pregnante intendiamo gli interi "che sono composti di parti indipendenti e sono frazio­na­bili in esse" [40]. "Al concetto di intero in senso pre­gnante appartiene la pro­prie­tà di essere divisibile in fra­zioni; ciò significa che la sua esplicitazione conduce a de­terminazioni indipendenti" [41]. 3. Abbiamo così riproposto la distinzione fondamentale su cui si regge la tematica della Terza ricerca logica. Il pas­saggio alle ulteriori distinzioni non presenta, a questo pun­to, particolari difficoltà, benché si debba tenere presente che ormai è determinante il riferimento alle strutture dei processi di esplicitazione e tale riferimento implica che tutte le distinzioni a suo tempo introdotte vengano sotto­poste ad una reinterpretazione che le adegui al nuovo punto di vista che qui è stato adottato. In particolare va notato che riportando la tematica del­ l'intero a quella dei processi di esplicitazione, le distin­zioni in gioco e la nostra stessa terminologia vengono strettamente vincolate ad una dimensione descrittiva che non va mai perduta di vista. Se diciamo ad esempio che con intero nella terza acce­zione 162 intendiamo un intero che consta di parti indipen­denti, l'espressione "constare" avrebbe un senso del tutto indeterminato se non facessimo notare che quando par­liamo di qualcosa che ha "la proprietà di essere divisibile in frazioni" intendiamo dire soltanto che nel pro­cesso di esplicitazione percettiva ad essa diretta pervenia­mo a determinazioni indipendenti. La "scomposizione" di un intero in parti non deve dunque essere intesa in qualche senso logico, fisico o addirittura metafisico. Considerazioni analoghe rendono chiara la differenza tra pluralità e singolarità. Nella caratterizzazione proposta di sostrato assoluto non è in alcun modo implicito che un sostrato assoluto debba essere singolare. Un sostrato asso­luto può "constare" di sostrati assoluti, e questo è anzi il caso degli interi nella terza accezione. Se a ciò aggiun­giamo che vi dovranno comunque essere dei sostrati asso­luti che sono singolarità ultime, ciò potrà sembrare ancora una volta enigmatico, qualora non si tenga presente la reinterpretazione del pro­blema nei termini richiesti dal ri­ferimento alla struttura dei processi di esplicitazione, e quindi in termini fenomenologico-descrittivi. Se di fronte a noi, disegnati su una lavagna, vi sono tre cerchi, la figura complessiva come oggetto tematico di un interesse può ben essere indicata come un esempio di sostrato assoluto; ed all'interno di questa figura com­plessiva, ogni cerchio vale come sostrato assoluto che è una singolarità ultima. Infatti, uno qualunque di essi può essere "osservato in se stesso" - gli altri cerchi possono ben essere cancellati e di essi non è affatto necessario che se ne conservi il ricordo; ed in secondo luogo l'esplicita­ zione ad esso rivolta non "mette in evidenza" alcuna parte indipendente. Certo, potranno ancora essere "messi in evidenza" dei momenti, come il colore del cerchio o la sua cir­conferenza, ma non per questo parleremo di una pluralità, avendo fissato questa nozione in connessione con l'indipendenza delle parti. Potremo notare che le singolarità ultime vengono at­tinte procedendo alle parti, ed alle parti delle parti - inten­dendo sem- 163 pre le parti indipendenti. Come già sappiamo questi rapporti di mediatezza possono risolversi arbitra­riamente in rapporti di immediatezza, cosicché è inessen­ziale che le singolarità ultime siano considerate come parti di parti: le frazioni delle frazioni sono frazioni dell'intero. L'origine fenomenologica di quel principio non poteva es­sere del tutto ignorata nemmeno nella esposizione della Terza ricerca, nella quale esso viene formulato anzitutto all'interno di una considerazione puramente formale. In modo analogo può essere illustrato il principio se­condo cui la frazione di un momento non può valere come frazione dell'intero, il principio, cioè, secondo cui la fra­zione di un momento è una parte essenzialmente mediata del­l'in­tero. Variando l'esempio precedente, supponiamo che la circonferenza di uno dei cerchi sia tratteggiata. In tal caso non diremo che i tratti della circonferenza sono singolarità ultime della figura complessiva costituita dai tre cerchi, poiché l'esplicitazione deve articolarsi secondo il percorso prescritto dalla struttura della figura. Del re­sto, tali tratti non possono valere nemmeno come parti indipendenti immediate del singolo cerchio nella misura in cui la loro esplicitazione in quanto determinazioni pre­suppone come tema dell'in­teresse la circonferenza, e que­st'ultima rinvia al cerchio come tema essenzialmente so­vraordinato. La distinzione tra mediatezza essenziale e inessenziale, già illustrata nella Terza ricerca, viene qui risolta illustra­tivamente nel quadro di riferimento fornito dai processi di esplicitazione e dai loro rapporti possibili. Di conse­guenza riceve anche una indubbia chiarezza la nozione di singolarità ultima, di unità non composta di parti, di og­getto semplice o in qualunque altro modo la si voglia chiamare. Certamente, alla nozione di sostrato assoluto come sin­golarità ultima occorrerà riconoscere una certa relatività soggettiva. Di lontano ci può apparire come un segmento ciò che da vicino ci appare come un segmento tratteg­giato. Tuttavia questa mobilità, così come le eventuali complicazioni delle situazioni esemplificative che potreb­bero richiedere approfondimen- 164 ti descrittivi di vario genere, nulla tolgono alla determinatezza della distinzione concet­tuale - ed è ovviamente quest'ultima che qui ci interessa. 4. Ricorrendo alle differenze di struttura tra i processi di esplicitazione ed in particolare alla nozione di esplici­tazione ramificata non facciamo altro che riproporre da un diverso punto di vista le considerazioni che nella Terza ricerca gravitavano intorno al problema della "rappresen­tabilità separata" dei conte­nuti. Nel complesso, tuttavia, seguendo questa diversa via, il nostro discorso si presenta più sicuro dal punto di vista metodico e la distinzione fon­damentale tra parti indipendenti e non-indipendenti viene vincolata al terreno di una fenomenologia della percezione più strettamente di quanto lo fosse nel quadro della Terza ricerca. Quella distinzione può ora essere illustrata anche fa­cendo riferimento ai modi in cui un certo contenuto è ap­preso come parte di un intero. Considerando il problema da questo lato, è chiaro che, nel caso delle parti indipen­denti, si richiede non solo che il contenuto possa essere appreso come "isolato dal resto", ma che questo "re­sto" sia implicato come tale all'interno del­l'ap­ prensione stessa. In altri termini, nell'apprensione di un contenuto deve essere implicato il rimando ad un altro contenuto in quanto sua parte com­plementare rispetto all'intero. La complementarità richiede ad un tempo l'esteriorità reci­proca delle parti e il loro collegamento - ed è appunto la presenza di queste condizioni che qualifica l'apprensione come apprensione di un contenuto che è parte indipen­dente dell'intero. "Prendiamo, per semplicità, un intero che consti solo di due pezzi... Se pensiamo al caso in cui l'esplicitazione sia rivolta ad uno dei due pezzi, nella sua essenza è insito il fatto che, nell'isolamento esplicitativo di un pezzo dell'intero, emerga una eccedenza, un plus, che abbia la forza di colpirci di per se stesso e che possa essere colto come un secondo pezzo, collegato con il pri­mo". "Qualora un pezzo sia stato messo in rilievo, allora riceve risalto attraverso di esso e 165 "al di fuori di esso" benché con esso in collegamento, il "resto" che non è stato ancora reso esplicito" [42]. In rapporto alle parti non-indipendenti, questa descri­zione sarebbe del tutto inadeguata. Nell'apprensione di un contenuto come momento di un intero non è implicato alcun rinvio ad un'eccedenza, ad un resto, ad una parte complementare: "Nel caso del momento non-indipenden­te, nel nostro esempio, del colore rosso che ricopre, per così dire, l'intero posacenere, non vi è nulla che emerga "al di fuori di esso". Gli altri suoi momenti non-indi­pendenti non ci colpiscono separatamente dal colore, e sol­tanto in collegamento con esso, ma il sostrato che è stato reso esplicito come rosso e come tale tenuto sotto presa ci colpisce al tempo stesso come ruvido o liscio, ecc., e può essere colto, nell'esplicitazione ulteriore, solo in questo modo. Con questa descrizione diventa comprensibile dal lato soggettivo ciò che già nella Terza ricerca logica (§ 21) era stato fissato unicamente dal punto di vista noematico: il fatto che le parti non-indipendenti "si compenetrano" a differenza di quelle indipendenti che sono "l'una al di fuori dell'altra"" [43]. Converrà a questo punto ribadire l'avvertimento inter­ pretativo che era già stato avanzato nel corso dell'esposi­zione della Terza ricerca. A proposito dell'intero nella terza accezione, Husserl ripete che esso non è "in ogni caso una semplice somma". Eppure, si potrebbe osser­vare, non abbiamo forse detto che le parti si trovano qui necessariamente l'una al di fuori dell'altra? Non abbiamo parlato di "parti complementari", dunque di parti che, "sommate insieme", producono l'intero? Nella posizione di questi interrogativi si rischia di fraintendere la natura effettiva del problema proposto. In realtà, non si tratta di differenziare certi interi percettivi da altri interi per­cettivi che sarebbero mere somme. Con l'espressione di "mera somma" si traccia una linea di demar­ca­zio­ne tra classi di oggetti in quanto sono soltanto "pensati insie­me" (ed even­tualmente che sono pensati insieme come "oggetti di un concetto") e complessi di oggetti percet­ 166 tivamente dati. Potremmo dire: tra complessi logici e complessi percettivi. Di ogni complesso percettivo si può dire che non è, in questo senso, una "mera somma". Perché allora insistiamo sull'indipendenza delle parti e non piuttosto, come sembrerebbe più ragionevole, sulla loro interdipendenza? La ragione di ciò sta nel fatto che, l'indipendenza, nel senso fissato, rappresenta una ovvia condizione preliminare per possibili rapporti di interdi­pendenza. Anche in rapporto al solito esempio della me­ lodia, diremo anzitutto che essa consta di pezzi: i singoli suoni. Essi sono l'"uno al di fuori dell'altro" e proprio per questo è possibile che si istituiscano sulla loro base collegamenti di vario ge­nere. Gli interi nella terza accezione sono dunque caratteriz­zati dall'indipen­denza delle parti e dal sussistere tra essi di determinate forme di collegamento. A proposito di que­ste ultime non è necessario ripetere qui ciò che, è già stato illustrato, nel contesto della Terza ricerca, in rapporto al cosiddetto "momento di unità". Per ciò che concerne la nostra problematica attuale, è invece importante rammen­tare che tali momenti sono essenzialmente mediati. "Il col­legamento si presenta dunque - scrive Husserl - non già come una terza parte che l'intero avrebbe nello stesso senso in cui ha le altre due, ma come una determinazione me­diata dell'intero, ovvero come un momento mediato che non è un momento immediato né dell'una né dell'altra parte, ma del loro essere insieme. Esso può presentarsi solo quando l'essere insieme è dato come tale, vale a dire quando l'intero è stato esplicitato nelle sue parti e sud­diviso in esse" [45]. Si sarà probabilmente notato che nel corso della nostra esposizione non è finora comparso il termine di "pro­prietà" (Ei­ genscbaft). In effetti, lo abbiamo accuratamente evitato. Ma è chiaro che avremmo potuto usarlo già per indicare le determinazioni di un sostrato nell'accezione più lata. Otteniamo una seconda accezione, più ristretta, di questo termine, se lo usiamo per indicare le parti non-indipendenti. In tal caso, tuttavia, verrebbero com- 167 presi sotto questo termine anche i momenti che sono "collega­ menti". Questi ultimi possono essere esclusi, determinan­do una terza , accezione del termine, qualora si convenga di impie­garlo solo in rapporto ai momenti immediati del­l'intero. Parlando di momenti escludiamo le parti indipen­denti, mentre facendo riferimento all'immediatezza esclu­diamo quelle parti non-indipendenti che sono i collega­menti. Questi ultimi, infatti, sono parti essenzialmente mediate. Questo modo di determinare un'accezione ristretta del termine di "proprietà" può essere considerato esemplare dal punto di vista del metodo qui applicato. Ricorrendo, come abbiamo fatto, al problema della mediatezza e dell'immediatezza, riceve risalto la tendenza a porre in opera una procedura che riconduca differenze che sono even­tualmente già presenti negli impieghi cor­renti delle pa­role a differenze chiaramente indicabili di ordine struttu­rale. La parola "parte", come abbiamo notato all'inizio, si applica normalmente alle parti indipendenti. Così, in rapporto all'esempio dei tre cerchi, diremmo che ognuno di essi è una parte della figura complessiva, e non già che è una sua proprietà. Mentre parleremmo di "proprietà"del cerchio per indicare il suo colore. In quest'ultimo caso l'uso del termine "parte" sarebbe sentito come una forza­tura. Forse altrettanto forzato ci apparirebbe l'uso di "pro­prietà" per indicare la somiglianza di colore tra due figure. Saremmo piuttosto propensi a parlare, in questo caso, di relazione o di rapporto. Si tratta di pure e semplici propensioni psicologiche derivanti da consuetudini linguisti­che? Sia pure. Ma allora, sulla base delle nostre consi­derazioni, possiamo almeno giudicare quelle consuetudini come ben fondate. 5. Ciò che colpisce maggiormente, nel confronto tra l'esposizione della Terza ricerca e di Esperienza e giudi­z io, è probabilmente il diverso modo di affron­tare il rap­porto tra la problematica dell'intero e della parte e quella delle "cate­gorie del significato". In precedenza abbiamo insistito in modo particolare sulla con- 168 nessione tra la Terza e Quarta ricerca, e non c'è dubbio che molti e­qui­voci in­terpretativi vengono meno se essa non viene perduta di vista. Tutta­via questa connessione si presentava essenzial­ mente nella forma di una traspo­sizione al campo dei si­gnificati di un certo apparato concettuale elaborato in vista di una teoria dell'intero e della parte. Ora invece il problema dell'intero viene introdotto all'interno di uno sviluppo che ha già di mira la struttura della predicazione. Le distinzioni fondamentali rilevanti ai fini di una delimi­tazione della nozione di intero vengono acquisite in stretta unità con l'indicazione di una via che dovrebbe condurre alla "deduzione" delle "categorie", cioè all'in­tro­duzione ed alla giustificazione delle nozioni di base di una teoria del giudizio. Nonostante i limiti entro i quali è stata con­tenuta la nostra esposi­zio­ ne, si intravede tuttavia con sufficiente chiarezza che è possibile delineare un percorso di complessità crescente nella struttura dei possibili pro­cessi di espli­citazione; e che ogni passo di questo per­corso è contrassegnato dall'acqui­sizione "antepredicativa" di forme che possono essere ripresentate come forme logi­che di connessione e di trasformazione possibili. In linea generale, il progetto di Husserl deriva dalla convinzione che, una volta istituita la correlazione tra pre­dicazione e esplicitazione, sia possibile procedere ad un'ana­lisi strutturale dei processi di esplicitazione ribaltandone i risultati sul terreno "predicativo". Questo progetto, che riceve in Esperienza e giudi­ zio uno sviluppo molto ricco, è già, in certo senso, interamente contenuto nell'indica­zione iniziale: il richiamo alla distinzione tra oggetto te­matico dell'interesse e contenuti che vengono via via resi espliciti come determinazioni implica il riconoscimento di un'articolazione interna dei processi esplicitativi, sugge­rendo l'idea di correlare ad essa l'articolazione del "pen­siero" nell'unità proposizionale. Si tratterà allora, in pri­mo luogo, di individuare le forme elementari di tali pro­cessi, muovendo poi alle forme più complesse secondo passi che sono predelineati dalla stessa impostazione del problema. 169 A titolo di forma elementare si impone un processo che termina sulla prima determinazione acquisita. Questa potrà essere una proprietà nell'ac­cezione più ristretta op­pure una parte indipendente. Questa differenza compor­terà una differenza correlativa sul piano del giudizio [46]. Il processo espli­citativo che termina dopo l'acquisizione di più di una determinazione apparterrà ad un passo suc­cessivo, nella stessa misura in cui, sul piano del giudizio, si richiederà la complessità dalla parte del predicato, apren­do nello stesso tempo il problema della congiunzione come operatore logico [47]. Si ottiene una nuova struttura, sempre seguendo la linea di una complicazione crescente dei pro­ cessi di esplicitazione semplice, qualora si consideri un processo di esplicitazione in cui si faccia valere l'orizzonte aperto di determinabilità del sostrato, dopo l'ultima de­terminazione acquisita, con il conseguente ribaltamento sul piano del "pensiero" della funzione "ecceterante" [48]. La considerazione dell'esplicitazione ramificata, così come la messa in gioco di una molteplicità di processi e delle loro possibili relazioni conduce all'introduzione di forme sempre più complessamente articolate. Questi eventuali sviluppi sono comunque condizionati nel loro senso dalla posizione iniziale del problema: al di là della for­ ma della proposizione dobbiamo essere in grado di scorgere lo schema di un processo. Le "forme del pen­siero" non possono essere semplicemente presupposte - di esse si deve poter rendere conto. Ciò riguarda sia le no­zioni che appartengono al campo delle unità di significato (logica), sia quelle che debbono invece essere ascritte al campo di una "ontologia formale", di una "teoria degli oggetti in generale" (matematica). Il presentarsi della pro­blematica dell'intero (che è una nozione ontologico-for­male) nel quadro di uno sviluppo che ha di mira una "teo­ria del giudizio" rappresenta un'indicazione consistente del fatto che entrambe queste sfere debbono essere consi­derate da un punto di vista strettamente unitario. 170 L'intera problematica viene proposta sotto il titolo ge­nerale di una "genealogia della logica" - ed in questo senso le correlazioni istituite vengono prospettate nella di­rezione di un discorso che intende sottolineare l'origine delle forme del giudizio dall'esperienza. Ciò può sugge­rire equivoci di vario genere. Certo, non vi è dubbio che l'origine di cui qui si parla non è riducibile, nemmeno nella forma più debole, ad una sorta di origine semifat­tuale e tanto meno ad una trascrizione speculativa di cir­ costanze di ordine psicologico. Non si segue la via del­l'analisi del linguaggio. Ma nemmeno quella dell'analisi introspettiva. In realtà, il richiamo all'esperienza può as­solvere il suo scopo solo se vengono messe in opera pro­cedure schematizzanti che si avvalgono di esemplificazioni concrete solo per dare chiarezza a rapporti di ordine strut­turale. Andrà dunque sottolineata l'idealità di questa ori­gine. Ma il senso effet­tivo dell'impostazione proposta può forse essere colto più chiaramente se si mette l'accento sul fatto che essa rappresenta anzitutto una possibile metodo­logia di chiarificazione filosofica. Giovanni Piana Note [1] Le Ricerche logiche (Logische Untersuchungen) vennero pubblicate in prima edizione nel 1900-1901 e in seconda edizione riveduta nel 1913 (Sesta ricerca: 1921). La traduzione italiana, a cura di G. Piana, è stata pubblicata in due volumi da Il Saggiatore, Milano, nel 1968. [2] Terza ricerca, § 8, p. 100. [3] ivi, p. 103. [4] ivi, p. 101. [5] In rapporto alla tematica qui accennata, come anche per la distin­zione tra parti indipendenti e non-indipendenti, l'influenza di Carl Stumpf è esplicitamente dichiarata nel testo e richiederebbe un esame a parte. Essa fuoriesce tuttavia dai li- 171 miti entro cui intendiamo mantenere la no­stra esposizione. Per lo stesso motivo abbiamo evitato riferimenti alla problematica della Filosofia dell'aritmetica. [6] Terza ricerca, § 7, p. 96. [7] Cfr. G. Piana, Husserl, Schlick e Wittgenstein sulle cosiddette "pro­posizioni sintetiche a priori", in "Aut Aut", 1971, n. 122, pp. 1941. [8] Terza ricerca, p. 123. [9] ivi, p. 156. [10] ivi, p. 142. Cfr. anche p. 151: "... secondo la nostra teoria, l'idea dell'unità o dell'intero è basata su quella di fondazione...". [11] ivi, p. 145. [12] ivi, p. 149. Nel testo abbiamo preferito tradurre Inbe­ griff con "aggregato" piuttosto che con "sistema" (modificando la nostra prece­dente versione). Il termine di "insieme" viene suggerito tenendo conto anche del fatto che, in rapporto allo stesso problema, in Esperienza e giudizio, § 30, si fa senz'altro uso del termine Menge. Notiamo inol­tre che nel testo Zur Lehre vom Inhegrifl (1891) pubblicato come Quarta dissertazione in Philosophie der Arithmetik, Husserliana, Bd. XII, Den Haag, 1970, p. 385 si legge: "Se indichiamo con A, B, C... oggetti qualunque, siano essi intuiti o pensati, esistenti o immaginari, purché reciprocamente compatibili, cioè tali che l'essere dell'uno non escluda l'essere dell'altro, allora l'espressione comunemente comprensibile "A e B e C... presenta una definizione del termine Inbegriff degli oggetti A, B, C..."". Nella Terza ricerca il termine Inbegriff viene utilizzato in un'accezione generica anche al di fuori della contrapposizione in questione. [13] ivi, p. 150. [14] ivi, p. 131. Con ciò si determina la nozione di intero estensivo: "Se un intero ammette di essere frazionato in modo tale che le fra­zioni siano, per loro essenza, del medesimo genere inferiore che viene determinato dall'intero indiviso, noi chiamia- 172 mo quest'ultimo intero esten­sivo, le sue frazioni parti estensive" (ivi). [15] Cfr. §14, teorema 3. Inoltre, il richiamo a p. 153. [16] ivi, p. 136. Nel testo, l'esempio viene presentato in una forma lie­vemente più complessa. [17] ivi, p. 153. [18] lvi, p. 154. [19] ivi, p. 155. [20] ivi, p. 140. [21] ivi. [22] ivi, p. 156. In realtà, la Terza ricerca può essere considerata con­clusa con il § 24. Il § 25 contiene una digressione che introduce in una forma troppo concisa e alquanto discutibile una tematica che avrebbe bisogno di uno spazio più ampio e che comunque può essere solo forzo­samente ricondotta nel quadro del problema dell'intero e della parte così come è stato finora delineato. Vogliamo comunque accennare bre­vemente al contenuto di questo paragrafo. In esso si osserva che sem­ bra si possa asserire, in linea generale, che il frazionamento di un mo­mento determina anche il frazionamento dell'intero. Così la durata di un processo può essere considerata come un suo momento. D'altro lato, una durata, in quanto tratto di tempo oggettivo, può essere concepita come consistente di parti indipendenti. Quindi può essere "frazionata". Il frazionamento della durata comporta il frazionamento del processo che la "riempie", così come il frazionamento del colore che ricopre una superficie comporta il frazionamento della superficie. Ciò dipende in particolare dal fatto che non sussiste fra le frazioni in questione alcun rapporto di fondazione unilaterale o bilaterale. Tutto ciò, osserva Husserl, vale unica­mente nell'ambito delle legalità essenziali in senso stretto. È possibile tuttavia porre il problema delle legalità che pre­siedono all'idea di natura in generale. Tali legalità saranno esse stesse legalità essenziali, in un'accezione più ampia. Vogliamo dare per scon­tato il sussistere di questo problema, come anche che a tale idea di na­tura in generale appartenga 173 quella di connessione causale. Allora, un certo tratto temporale, considerato come momento del processo che lo riempie, sarà in linea di principio connesso causalmente ad un tratto temporale anteriore, anch'esso ovviamente considerato come momento di un processo concreto. In generale, "ogni decorso deve essere un conseguente necessario di certi antecedenti", e ciò comporta che il fra­zionamento della durata "non realizzi alcun frazionamento nel concreto temporale": "ciò viene appunto impedito dalla fondazione causale bila­terale dei contenuti temporalmente separati" (p. 161). Forse più interessante dell'argomentazione è la conclusione che se ne trae: si osserva infatti che, sulla base di queste considerazioni, l'in­finità del tempo oggettivo "è una pura e semplice conseguenza della causalità e si riferisce quindi al riempimento temporale". La stessa osser­vazione vale per lo spazio e per la posizione della sua infinità. La possi­bilità apriorica di "estendere a piacere nella fantasia segmenti spaziali e temporali" non dimostra "la necessità che lo spazio e il tempo deb­bano essere realiter infiniti o anche soltanto che essi possano essere realiter infiniti" (p. 163). [23] Quarta ricerca, p. 174. [24] ivi. [25] ivi p. 177. [26] ivi. [27] ivi, p. 182. [28] ivi, p. 211. [29] ivi, p. 192. [30] ivi, p. 189. [31] ivi, p. 212. [32] ivi, p. 198. [33] ivi, p. 222. [34] ivi. [35] ivi, p. 223. [36] ivi, p. 224. 174 [37] L'opera Esperienza e giudizio (Erfahrung und Urteil) venne pub­blicata postuma da L. Landgrebe, a cui è dovuta la sua stesura, nel 1938, in un'edizione che non poté essere distribuita al pubblico. La seconda edizione risale al 1954. Nel testo citiamo dalla terza edizione immodi­ficata, Hamburg, Claassen Verlag, 1964. La traduzione italiana edita da Silva, Milano, 1960, a cura di F. Costa, è del tutto inutilizzabile. Eventualmente si potrà ricorrere alla traduzione francese Expérience et Jugement, Paris, P.U.F., 1970, a cura di D. Souche. [38] Erfahrung und Urteil, op. cit., § 28. [39] La discussione sulla nozione di sostrato assoluto e di determinazione assoluta viene sviluppata da Husserl nel § 29 ed anche in questo caso tendiamo a mettere in luce i punti essenziali ricorrendo ad opportune semplificazioni. [40] ivi, p. 162. Si noti che qui intendiamo con "intero in senso pre­gnante" ciò che nella Terza ricerca si indica con "intero (in senso pregnante) di seconda specie". Per evitare equivoci, in seguito si par­lerà semplicemente di interi nella terza accezione. [41] ivi. [42] ivi, p. 164. [43] ivi, pp. 164-65. [44] ivi, p. 162. [45] ivi, p. 160. [46] Cfr. § 52. [47] Cfr. § 51a. [48] Cfr. § 51b. 175 Giovanni Piana La nozione di tendenza sintetica illustrata con esempi 1999 176 Questo testo è tratto da appunti di una lezione di un corso intitolato "Problemi di filosofia della musica" tenuto nel 1999 presso l'Università degli Studi di Milano. 177 Esempio visivo Per illustrare il problema della sintesi percettiva e delle tendenze sintetiche, nei miei Elementi di una dottrina dell'esperienza, mi sono servito di un esempio che desidero ora riprendere e sviluppare un poco. Fig. 1 Cerchiamo di dare una possibile descrizione di questo disegno. Esso appare nettamente suddiviso in due metà: se guardiamo la parte sinistra esso presenta dei triangoli che mantengono un lato identico mentre gli altri variano, ma variano "regolarmente" - e ciò significa secondo una regola: il vertice a destra si va sempre più approssimando al lato che resta identico e il triangolo di conseguenza si "restringe". Al di là della linea centrale, la parte destra del disegno può essere descritta nello stesso modo, ma secondo un ordine inverso: dal centro verso la periferia, la superficie dei triangoli si amplia e le due metà si trovano chiaramente in rapporto speculare tra loro. In che senso potremmo parlare di sintesi ovvero di unificazione in rapporto ad un simile esempio? Intanto potremmo richiamare l'attenzione sul fatto che noi cogliamo la figura nel suo complesso unitariamente, come un intero. Nello stesso tempo cogliamo anche il fatto che questo intero ha una sua articolazione interna. 178 Esso è scomponibile in unità sottostanti, che sono integrate fra loro e nell'intero complessivo che ne risulta. Andrebbe notato in margine che questa figura è composta esattamente di quelle unità sottostanti, e non ad esempio anche dai segmenti che costituiscono i lati di cui sono formati i triangoli, o addirittura dei punti di cui sono formati quei segmenti. Questa osservazione tuttavia non è marginale: essa infatti toglie di mezzo una idea astratta del semplice e del composto. Dal punto di vista fenomenologico non avremmo ragione di contraddire il senso comune che accetterebbe senza problemi il fatto che gli elementi semplici, ovvero gli elementi di base, di cui è composta questa figura, sono appunto i triangoli e la sbarretta centrale. Non è il caso di risalire più in là di essi. Da un punto di vista astratto invece semplice è grosso modo equivalente a elemento ultimo e indivisibile, e si comprende subito che non è molto chiaro dove ci si debba fermare nella divisione. Questi pezzi ci appaiono tutti insieme come una figurazione fortemente unitaria. Sarebbe un errore tuttavia concepire la tematica della sintesi e della unificazione come se tutte le formazioni di esperienza debbano essere caratterizzate dall'unitarietà in un'accezione molto forte. Il fatto che possano darsi gradi diversi di unità, di coerenza e di coesione interna è anzi molto importante per comprendere in che senso propriamente si parla di unificazione. Per spiegarci meglio, vogliamo modificare quel disegno nel modo seguente: Fig. 2 179 Con questa modifica la configurazione unitaria si è indebolita, anche se non è andata del tutto distrutta e rimane anzi ancora piuttosto forte. Tenendo conto dell'andamento prevalente della configurazione complessiva, il secondo triangolo a sinistra appare come se fosse caduto fuori dalla posizione normale di allineamento nella fila dei triangoli. Nell'esprimerci in questo modo continuiamo a sottolineare l'importanza del momento relazionale nella percezione della configurazione nel suo complesso. Che senso ha il parlare di posizione normale ed eventualmente dire: "il secondo triangolo avrebbe dovuto essere allineato agli altri triangoli"? Questo "avrebbe dovuto" è piuttosto singolare. Eppure questo modo di esprimersi sottintende che vi è una logica com­ plessiva della figura, e il secondo triangolo è fuori di questa logica. Quindi non deve trovarsi dove ora si trova, ma dovrebbe trovarsi nel luogo proposto nella prima figura. L'esistenza di gradi fa in realtà tutt'uno con l'esistenza di possibili conflitti interni alla figura. In certo senso il secondo triangolo reagisce alla tendenza sintetica dominante (anche se senza effettivo successo). Possiamo dunque porre il problema delle sintesi in termini di forze, dando a tutto il problema una valenza dinamica, piuttosto che statica. L'espressione di tendenza sintetica che abbiamo utilizzato or ora è in proposito particolarmente appropriata. La tematica fenomenologica della sintesi è una tematica che riguarda tensioni interne alla figura, dunque di tendenze, che non sono necessariamente risolte e concluse. Il risultato stesso è da concepire come un risultato in certo modo provvisorio, che non è dato una volta per tutte, e che può modificarsi modificando il modo di intendere la figura. Assumendo questo punto di vista diremo ad esempio, leggendo la prima figura da sinistra a destra, che il primo pezzo tende ad associarsi al secondo (o inversamente) per via della somiglianza tra le due figure. 180 Infatti abbiamo potuto chiamare entrambe queste figure "triangoli"; quindi vi è una somiglianza figurale. Questa somiglianza agisce da forza unificante. I due triangoli sono anche vicini, ed anche questa vicinanza contribuisce a rafforzare l'unificazione fra essi. È interessante notare che l'unificazione che avviene tra i due triangoli non è tale da formare una unità chiusa, ovvero essa si apre verso il terzo triangolo in forza della tendenza unificante che lega il secondo al terzo triangolo che è dello stesso genere della tendenza unificante che lega il primo al secondo. Nello stesso tempo i vari triangoli vanno "logicamente" verso una prima "conclusione" nella linea verticale centrale. Questa linea viene afferrata come appartenente alla sequenza anche se non si tratta di un triangolo. Supponiamo ora di spostare il secondo triangolo in terzultima posizione: Fig. 3 In questo caso avvengono varie cose. L'unità complessiva è fortemente indebolita, il primo triangolo sulla sinistra tende ad isolarsi da tutto il resto. E nello stesso tempo si fa avanti una nuova formazione unitaria, che è quella tra il terzultimo e il penultimo triangolo della fig. 3, che sono l'uno simmetrico all'altro, secondo un rapporto speculare. Questa formazione unitaria a sua volta assume una propria autonomia e non appare senz'altro come un'articolazione interna della configurazione complessiva, la cui unità è ormai molto debole. Anzi: potremmo dire che proprio la formazione unitaria del terzultimo e penultimo triangolo è un 181 ulteriore fattore di indebolimento della unitarietà della configurazione complessiva. Notiamo inoltre che qui i due pezzi posti insieme, proprio in forza della specularità, tendono a presentarsi come un'unità chiusa e non scivolante via, come nel caso precedente. Fig. 4 La specularità delle parti svolge in ogni caso un ruolo rilevante proprio nella fig. 1 da cui abbiamo preso le mosse. Abbiamo già notato che proprio in base ad essa possiamo dire che la configurazione complessiva può essere percepita come suddivisa in due parti. La cesura viene a cadere nel mezzo, sulla linea verticale. Fig. 5 In generale quando la struttura è sufficientemente "forte", la suddivisione non è arbitraria, cioè non dipende da noi che guardiamo la figura il suddividerla in un modo o nell'altro: dipende invece dal modo in cui la figura è internamente articolata come fenomeno percettivo. Se qualcuno dicesse che per lui la suddi- 182 visione non cade sulla linea verticale, al centro della configurazione, ma ad esempio dopo il secondo "pezzo", in realtà non avremmo modo di confutarlo con argomentazioni. Al più potremmo richiamare la sua attenzione sul fatto che al centro si può cogliere percettivamente un punto di volta, per quanto riguarda le relazioni interne tra i pezzi dell'intero. Il fatto che la suddivisione non sia arbitraria non vuol dire che non si possano dare interpretazioni diverse della stessa configurazione. Ad esempio, potremmo associare le parti specularmente simmetriche a due a due, ad esempio i due triangoli estremi, poi i due triangoli più interni ecc. Fig. 6 Questo secondo modo di intendere la figura può essere agevolato da funzioni sintetiche concomitanti, ad esempio, se i triangoli fossero associati tra loro da colori omogenei a due a due, in modo tale che l'identità di colore faccia da controtendenza alla distanza reciproca oppure se la stessa funzione venisse svolta da riempimenti figurali interni omogenei a due a due. 183 Una modificazione corrispondente, che fissa questo tipo di articolazione in maniera stabile sulla figura stessa potrebbe essere la seguente: fig. 7 In questa modificazione della figura vengono rispettati elementi importanti dell'articolazione precedente, ma nello stesso tempo si impone con molta decisione un modo diverso di afferrare le parti all'interno dell'intero. Le tendenze sintetiche ricevono qui un complessità maggiore: l'associazione infatti si estende sia orizzontalmente che secondo una linea inclinata verso il basso. Orizzontalmente i fattori dell'unificazione sono l'identità delle figure e la loro inversione speculare. Mentre seguendo la dire- 184 zione verticale sono fattori di unificazione la somiglianza e il progressivo restringimento della figura in conformità ad una regola. Conseguentemente riceve una lettura diversa anche la linea che in precedenza era al centro: questo elemento viene integrato nell'insieme unicamente secondo la direzione verticale. Ma anche in questo modo assolve una funzione fondamentale nel completare per così dire la configurazione complessiva - nel chiudere la figura. Vi è infine un'altra possibile interpretazione di questa configurazione nella forma della fig. 1. Si può assumere questa sequenza come una sequenza che intende rappresentare, fissata in pochi "fotogrammi", il movimento di un triangolo - ad esempio di legno o di cartone - che ruota su uno dei suoi lati di fronte al mio sguardo, precisamente un triangolo che compie un mezzo giro intorno ad uno dei suoi lati preso come asse. In tal caso esso ci propone la tematica della sintesi in rapporto al problema dei lati della cosa e delle modificazioni degli aspetti. In effetti se noi fotografassimo più volte un triangolo reale, una cosa materiale effettiva che si muove rotatoriamente sotto il nostro sguardo, la sequenza dei fotogrammi potrebbe benissimo essere questa. Se assumiamo questa "interpretazione", la linea di mezzo verrà intesa come il triangolo quando assume rispetto il nostro sguardo una posizione di "taglio" (ovvero quando si è spostato di 90°). In questo caso, il problema dell'unificazione è in certo senso duplice: da un lato vi è una unificazione delle figure secondo un ordine che va da sinistra a destra (o da destra a sinistra), dall'altro, e su quella base di questa unificazione, vi sarà come risultato sintetica, non già una configurazione di una molteplicità di triangoli, ma l'unità di senso "triangolo che compie un movimento rotatorio di un determinato tipo sotto i miei occhi". In effetti i momenti del processo che istituisce quell'unità di senso - quindi gli aspetti che nei vari istanti assume il triangolo - vengono per così dire risucchiati nel suo risultato. 185 La nostra figura rappresenta staticamente alcune delle fasi di un processo. Che ciò potesse succedere forse lo si poteva intuire anche in precedenza. La configurazione globale aveva elementi per così dire intrinseci di dinamismo possibile - in particolare vi era la forma di "progressione" della configurazione che spinge ad una lettura orientata già in direzione di un movimento. Nello stesso tempo bisogna naturalmente sottolineare che in un'effettiva esperienza di questo genere, l'unità conclusiva di senso si fa strada per così dire lungo il decorso delle angolature prospettiche, non si presenta già fin dall'inizio e nemmeno solo alla fine del processo. Si fa strada, significa: ad un certo punto della sequenza la percezione comincia a sospettare di che cosa potrebbe trattarsi, e se tutto procede secondo una determinata regola, a questo sospetto subentra una quasi-certezza, e poi alla fine la certezza. Ogni passo conferma il precedente. Quando lo conferma. Di qui anche l'opportunità di parlare di tendenze sintetiche: le unità che vengono così costituite non sono da intendere come qualcosa di totalmente compiuto, ma siamo in presenza di tendenze all'unità che vanno via via confermandosi oppure che vengono contrastate da tendenze volte in altra direzione. Esempio musicale Dopo una discussione così minuta di un esempio visivo, vorremmo fare un tentativo in direzione della problematica musicale. Troveremo anche in questo caso problemi analoghi? Ne possiamo essere quasi certi. Alcuni temi assumono in questo caso un'evidenza anche maggiore. Naturalmente resta una radicale differenza che non dobbiamo assolutamente perdere di vista: un brano musicale si svolge nel tempo, e quindi ogni sintesi è una sintesi attraverso il tempo. La direzione sintetica avrà allora fin dall'inizio una forma dinamica e temporale: essa si costituisce nel "ricordo" immediato del 186 decorso precedente di eventi sonori, sulla base del quale si fondano anticipazioni, che vengono confermate oppure che possono essere contraddette. Ho parlato di ricordo immediato: questa espressione intende fare riferimento al ricordo di qualcosa che è appena passato, e che è un ricordo in certo senso improprio. Se qualcuno ha recitato poco fa il primo verso dell'Odissea: "Narrami o musa dell'eroe multiforme che tanto vagò dopo che distrusse la rocca sacra di Troia" questo verso mi è rimasto nell'orecchio come si usa dire e in rapporto ad esso potremmo certo parlare di un evento passato che io ricordo. Ma questo richiamo al ricordo ha evidentemente un altro senso rispetto al ricordo di un evento lontano, che ho eventualmente dimenticato e di cui ora, per qualche motivo, mi ritorna nella mente. Questo stesso problema lo si ritrova anche nell'enunciazione effettiva della frase. Anch'essa ha naturalmente un decorso temporale. E quando il lettore è giunto a dire "dell'eroe multiforme" - le parole "narrami o musa" sono trascorse, quindi fanno parte del "passato", ma di un passato in un senso del tutto particolare. Si tratta infatti di un passato che appartiene ancora al presente. E questo passato non può essere propriamente ricordato per il semplice fatto che non è mai stato dimenticato. Perciò abbiamo parlato di ricordo immediato. In luogo di ricordo immediato, la terminologia fenomenologica propone il termine di ritenzione, che in effetti assai più appropriato. La coppia di termini che esprime la situazione è quella di ritenzione da un lato e di anticipazione dall'altro. Il termine consueto utilizzato nella terminologia fenomenologica in luogo di anticipazione è quello di protenzione. Un brano musicale decorre nel mio presente e decorre tra ritenzioni e protenzioni. Ma naturalmente quanto al risultato complessivo, tutto di- 187 pende da ciò che viene ritenuto e da ciò che viene anticipato, dipende cioè dalle relazioni che vengono effettivamente colte nel decorso temporale e queste relazioni dipendono dalla specificità degli eventi sonori che si presentano in questo decorso. Occorre non lasciarsi ingannare dalla terminologia. Ritenzioni e protenzioni sono parole che esprimono unicamente la forma temporale. Rendono possibile l'afferramento di relazioni, ma non generano le relazioni stesse. Di che tipo di relazioni si tratta? Per parlare di esse dobbiamo subito e senz'altro invocare concetti particolari della teoria musicale? Oppure possiamo, almeno per un certo tratto, fornire illustrazioni che non richiedono questo riferimento? Riconsideriamo da questo punto di vista gli esempi visivi precedenti. Si potrebbe pensare che il fatto che ci siamo serviti anzitutto di esempi visivi dipenda da un pregiudizio secolare che conferisce alla visualità un particolare privilegio. Del resto nell'ambito della psicologia della percezione spesso si propongono problemi relativi alla sfera musicale, proprio a partire da situazioni visive assunte come modelli. In realtà abbiamo indugiato sugli esempi visivi per una ragione del tutto diversa: e precisamente per mostrare situazioni che possono essere analizzate indipendentemente da un sostegno teorico e concettuale particolarmente forte. Di fatto non bisogna aver studiato nessuna teoria per operare l'associazione tra un triangolo ed un altro. L'una figura è identica o è simile all'altra. L'una figura è l'immagine speculare dell'altra. Io vedo un andamento, una tendenza della figura globale, oppure vedo delle fratture all'interno di una tendenza che si annuncia, ma che nello stesso tempo non riesce ad operare una effettiva unificazione. Di quale teoria ho bisogno per cogliere queste relazioni, per percepirle? Perché mai le cose dovrebbero stare in modo del tutto diverso nel caso degli eventi sonori di cui sono costituiti i 188 brani musicali? In effetti vi è almeno uno strato del nostro problema che non è molto diverso e che può essere affrontato nello stesso modo - anche se in questo campo dobbiamo muoverci con raddoppiata cautela. Una configurazione sonora in qualche modo analoga alla fig. 1 - la prima sequenza dei triangoli - potrebbe essere una semplice struttura scalare in direzione ascendente e in direzione discendente. In quanto viene avvertita la direzione ascendente e discendente, viene anche avvertito naturalmente sia il carattere unitario complessivo di questa formazione sonora, sia l'articolazione in due sezioni di questa sequenza, così come l'esistenza di un punto mediano in cui cade la partizione e che può essere considerato come ultimo elemento della prima sezione e come primo della seconda. In questo caso questa funzione mediana è accentuata dal fatto che la nota intermedia dura un po' più a lungo. Le condizioni per cogliere questa struttura sono semplicissime. Non sarebbe difficile variare questa scala in modo da ricreare situazioni come quelle che abbiamo considerato nelle nostre precedenti figure. Ad esempio, in analogia con la fig. 2: 189 Proprio all'inizio della sequenza vi è, come nel caso della seconda figura, un elemento che rompe la direzione del movimento. Peraltro dobbiamo essere abbastanza sottili nel commentare anche esempi semplicissimi come questo. Nel caso della sequenza dei triangoli, il fatto che vi fosse un elemento per così dire "fuori posto" era subito chiaro. Qui il problema è assai diverso per il fatto che questo elemento si trova proprio all'inizio di una sequenza che si sviluppa temporalmente. Di conseguenza io non posso sapere nella fase iniziale come si svilupperà la sequenza dopo le prime due note. Il fatto che la seconda nota si dissoci dall'ordine della configurazione sonora nel suo complesso può essere avvertito solo quando questo ordine si è costituito: perciò vi è una modificazione del "senso" delle prime due note che subentra successivamente al momento in cui esse sono risuonate. Ciò che accade dopo introduce una modificazione in ciò che è già avvenuto. Quelli che potremmo chiamare i contenuti ritenzionali, cioè i contenuti del ricordo immediato, non si modificano certamente se considerati in se stessi, singolarmente. La seconda nota molto grave rimane sempre quella che è. Ma poiché qui non importa la seconda nota considerata come tale, ma il suo senso relazionale, allora questo senso dipende in gran parte da ciò che segue. Ad esempio dopo le prime due note potrebbero seguire delle note discendenti, come nell'esempio seguente: Come è chiaro in questo caso le prime cinque note fanno parte a sé e la seconda nota è associata a questo gruppo di note discendenti. Vi è poi un netto stacco con tre note ascendenti a cui segue una successione regolare di note discendenti che peraltro si chiude con la nota con cui il frammento ha avuto inizio. Prendiamo ora un esempio appena un poco più evoluto e 190 tratto dal repertorio musicale - lasciando da parte la questione delle eventuali analogie con i casi visivi a cui del resto non siamo particolarmente interessati. Si tratta dell'inizio della sonata di Mozart KV 533, Wien 1788, in fa maggiore. Di questo brano limitiamoci a considerare il segmento iniziale, rappresentato dalla prime otto battute: Trattandosi di un esempio tratto specificamente dal repertorio musicale evoluto, e non di una semplice struttura scalare, possiamo forse riproporre più sensatamente la domanda precedente: è possibile dire qualcosa sulla configurazione qui in questione senza fare appello a concetti specifici della teoria musicale? Occorre in realtà considerare questa domanda con una certa cautela perché può dar luogo a vari equivoci. In particolare non si deve assolutamente pensare che il prescindere da concetti specifici della teoria musicale significhi tentare di fare un'analisi alla buona, con le mani e con i piedi, ed in particolare che il richiamo all'ascolto sia da intendere come una descrizione di ciò che mi passa per la mente durante l'ascolto. In realtà in esposizioni che si pretendono ispirate alla fenomenologia, accade spesso che l'accento cada proprio sull'ingenuità dell'ascolto, ovvero su un ascolto privo di preparazione musicale - ed io confesso di avere una particolare ostilità nei confronti di questo modo di 191 intendere le tematiche fenomenologiche. Non si tratta per nulla di chiedere di essere ingenui, di non usare elementi di teoria quasi che essi fossero in qualche modo pericolosi o fuorvianti. Il problema è invece completamente diverso. Si tratta di prendere atto di una circostanza importante ed a mio avviso incontrovertibile. Qualunque sia la sistemazione concettuale e teorica che sta alle spalle della composizione, vi è un preciso risultato percettivo e di esso vi è una possibile fenomenologia come per qualunque altro oggetto della percezione. Questa possibile fenomenologia non si sostituisce e neppure cancella o si può sostituire ad un'analisi nel corso della quale non è possibile fare a meno di elementi tratti dalla teoria musicale. Potremmo anzi dire che rappresenta un preciso interesse teorico far interagire considerazioni puramente fenomenologiche con considerazioni di teoria musicale, in una ricerca che intreccia le une con le altre. Ciò premesso, ritorniamo al nostro breve inizio della sonata mozartiana. Che cosa potremmo dire intorno ad essa prescindendo da conoscenze musicali specifiche? Intanto risulta subito chiaramente il fatto che la sequenza di suoni, che naturalmente dobbiamo supporre sia effettivamente eseguita e dunque udita, ha un carattere unitario, e questo vuol dire almeno due cose: che nel suo corso si percepisce un andamento orientato, una sorta di direzione di percorso; ed inoltre che questa direzione di percorso arriva a concludersi in modo chiaramente definito. Dopo di esso potrebbe anche non seguire nulla. Il piccolo brano avrebbe in ogni caso una sua completezza interna. Nello stesso tempo si avverte anche la presenza di segmenti subordinati. Il piccolo brano si presenta uditivamente come chiaramente suddiviso in tre parti. La seconda parte è naturalmente una letterale ripetizione della prima. Mentre la terza parte sembra proporre una breve di- 192 vagazione (ma tra breve potremo essere più precisi) che prepara una conclusione. Ognuna di queste parti subordinate in realtà ha il carattere un pezzo concluso. Prendiamo anzitutto il motivo iniziale che viene due volte ripetuto Questo è un motivo che viene avvertito come relativamente compiuto. Esso è caratterizzato da un andamento discendente che si muove tra due poli (do-fa). Questa osservazione ha una precisa implicazione: se il motivo viene interrotto in un punto qualunque, esso apparirà "tronco" all'udito, e questo non accade - come inclinerebbe a pensare un "empirista" - per il fatto che abbiamo già più volte ascoltato il brano completo. Non dobbiamo dire, ad esempio, che un motivo non può concludersi in questo modo perché esiste l'equivoco sia su "non può", sia su "concludersi". Concludersi può significare sia terminare in senso puramente temporale, sia fare riferimento ad un effetto di chiusura che risulta dalle relazioni delle note all'interno del brano stesso. Non può a sua volta potrebbe anche significare "è vietato", o espressioni analoghe. Naturalmente non è affatto vietato che un brano termini temporalmente in questa maniera; ciò che tuttavia va affermato è che questo motivo, nel momento in cui termina temporalmente, appare come lasciato in sospeso, e dunque "bisognoso di una conclusione" (espressione anch'essa un poco equivoca). Questa circostanza appare così ovvia sia per musicisti come per gli ascoltatori, che si deve allora far notare che in ogni caso l'evidenza uditiva nasconde dei problemi. Perché accade proprio così, c'è forse qualche regola che determina l'esistenza di un ef- 193 fetto di conclusione e la cui inosservanza genera un effetto di sospensione e di inconclusione? Notate inoltre che parlando di andamento discendente intendiamo riferirci alla linea di tendenza prevalente nel motivo e non quindi esattamente ad ogni singolo passo. È possibile allora notare che questo andamento può essere semplificato in un segmento di una scala discendente. La semplificazione non fa altro che proporre l'andamento complessivo del motivo. Dopo la ripetizione, perveniamo alla terza parte del brano che conduce ad una nuova conclusione. Questa terza parte comincia esattamente nel punto in cui finisce la seconda, e questo è un altro significativo dato strutturale. Le parti possono essere congiunte o disgiunte. Sono congiunte se l'ultimo elemento della parte precedente è nello stesso tempo il primo della parte successiva, disgiunte se ciò non accade. Lasciando da parte l'accompagnamento che non è necessario prendere in considerazione per i nostri scopi notiamo anzitutto che questa terza parte inizia e termina con la stessa nota. Ovviamente questa è una circostanza significativa per quanto riguardo la compiutezza e il carattere di unità. Il suono che apre un motivo si presta anche alla sua chiusura proprio per il fatto che è il suono di apertura. Questo non vi sembri troppo strano. L'immagine di una figura chiusa è il cerchio - e se voi fissate un determinato punto del cerchio, percorrendo il cerchio ritornate sullo stesso punto che funge così da inizio e termine di un processo. 194 Che l'ultimo suono sia lo stesso che il primo suggerisce l'idea di un ritorno, e se questa idea è sostenuta anche dalle fasi intermedie allora naturalmente l'effetto di conclusione è particolarmente forte. Notate come sia importante qui il gioco delle ritenzioni. Quando giungo all'ultimo suono in senso temporale il primo suono deve essere ancora presente ritenzionalmente affinché venga colta l'identità dell'ultimo con il primo e dunque si dia quell'accoppiamento che ha il senso di un "ritorno". Abbiamo detto che questo senso del ritorno è particolarmente forte se è sostenuto dalle note intermedie. In effetti se consideriamo le note intermedie nella terza parte notiamo allora che, con qualche piccola deviazione, esse descrivono in modo completo una scala ascendente e discendente. Naturalmente per rendere evidente questa circostanza è opportuno operare una semplificazione dell'andamento, sopprimendo appunto gli elementi che possiamo ritenere inessenziali rispetto allo schema strutturale di questo movimento. Giunti a questo possiamo tirare le fila. Come sequenza sonora, valutata senza speciali apparati concettuali, dobbiamo mettere in evidenza anzitutto l'importanza uditiva che assume un suono, esattamente l'ultimo (fa). Questo suono si trova in chiusura della parte prima e della parte seconda e in apertura e chiusura della parte terza e quindi di tutto il brano. Non minore importanza assume l'intervallo tra cui si gioca la prima e la seconda parte (do-fa). Ma un altro singolare risultato è quello di aver ottenuto nelle prime due parti un segmento di una struttura scalare discendente all'interno dell'intervallo do-fa e una struttura scalare ascendente e discendente che inizia e termina con fa nella parte terza. In certo senso si tratta di un risultato alquanto deludente, il nostro brano iniziale si presenta ridotto realmente all'osso, una sorta di scheletro miserello miserello. Ma non è questo il problema - che il brano così ridotto sia più povero è ovvio. Il problema era quello di mostrare con 195 chiarezza la struttura del brano, la sua articolazione. Parlando di struttura alludiamo ad uno schema, ad elementi portanti rispetto ad altri elementi che abbiamo definito piccole deviazioni dall'andamento di insieme del segmento colto come una unità. Occorre tuttavia aggiungere che questa riduzione alla struttura, toglie di mezzo proprio il profilo melodico, per il quale quegli elementi che abbiamo chiamato "piccole deviazioni" sono assolutamente essenziali. La melodia ha un tratto individuale. La riduzione alla struttura ci riporta semplicemente allo "spazio" di fa maggiore. Non è il caso di andare oltre, su un brano tanto elementare - ma vogliamo ribadire che, qualunque sia la complessità del brano, le considerazioni riferibili al piano fenomenologico possono benissimo intrecciarsi con considerazioni "linguistiche", implicando quindi nozioni di teoria musicale, in un'interazione reciproca. 196 197 Giovanni Piana Una passeggiata sulla collina di Loretto 1993 198 Questo saggio deriva da una conferenza tenuta all'Università di Pavia su invito del Prof. Franco Alessio in data 9 febbraio 1993. 199 §1 È assai raro in un testo di Husserl imbattersi in qualche riferimento autobiografico, per quanto tenue. Nelle Lezioni sulla sintesi passiva [1] vi è tuttavia qualcosa di simile ad un piccolo racconto con un'intonazione autobiografica e noi lo vogliamo cogliere al volo, perché a partire da esso possiamo introdurre con esempi proprio la nozione che sta al centro di quelle lezioni. Naturalmente, immedesimandoci nel racconto e appropriandoci di esso ci permetteremo di arricchirlo di particolari e di dettagli, in certo modo di romanzarlo. È notte fonda e il filosofo, che noi immaginiamo profondamente immerso nei suoi pensieri, passeggia su un sentiero della collina di Loretto che si affaccia sulla valle del Reno (siamo nei pressi di Freiburg im Breisgau). Il panorama è certamente ampio e vasto, ma questa vastità la si coglie appena, tanto esso è immerso nel buio della notte. Nemmeno si vedono le cose che appartengono al paesaggio, il fiume e le sue rive, le case, i prati e le zone boschive. Tutto si trova in una relativa indistinzione. Una fila di luci si scorge appena in lontananza. Ad essa tuttavia non prestiamo attenzione - la passeggiata del filosofo continua assorta e meditabonda. Ma ad un certo punto una delle luci di quella fila comincia a lampeggiare, ed allora ecco che il suo sguardo si volge finalmente ad essa, prima ancora distrattamente senza distogliersi dai suoi pensieri. Ben presto tuttavia egli guarda proprio da quella parte, addirittura rallenta il passo e infine si arresta ad una svolta del sentiero per osservarla meglio. Ebbene, che cosa c'è di particolare o di importante in questo racconto? E che cosa poi che riguardi la filosofia e le sue speculazioni? In realtà noi tendiamo ad immaginare che le riflessioni filosofiche comincino sempre da grandi pensieri, abbiamo un'imma­ gine monumentale della filosofia, ma è vero invece che molto spesso tutto comincia invece da minute osservazioni, da osservazioni pic­ 200 cole piccole che vengono sottoposte ad un'elaborazione progressiva. A partire da esse si istituiscono relazioni e rapporti facendo leva sia sulla forza delle argomentazioni che sulla capacità di aggregazione metaforica dell'immaginazione, oltre che sui problemi e sulle soluzioni che la storia della filosofia ci tramanda. §2 Esaminiamo allora quel racconto in ogni dettaglio. Cominciamo da immagini di oscurità e in certo senso di oblio. Il mondo, nella varietà delle cose da cui è popolato, nella ricchezza e nella molteplicità delle sue differenze, è, nella notte, ridotto alla sensazione di un indeterminato spazio vuoto, in una sorta di grande antro oscuro. Nel senso della piccola storia, poi, noi non passeggiamo in esso per sforzarci di scorgere ciò che non si vede, per cercare di identificare le forme che comunque si delineano nell'oscurità. In certo senso possiamo dire che siamo dimentichi del mondo stesso mentre al centro della nostra attenzione stanno gli argomenti dei nostri pensieri. Il filosofo cammina "sovrappensiero", come talvolta si dice - con espressione molto efficace, anche se in questo contesto essa suona molto singolare. In realtà, queste prime considerazioni tendono ad attirare l'attenzione su una distinzione che riguarda la nozione di consa­ pevolezza nella forma più comune del termine. Potremmo dire infatti che ogni volta che noi siamo intenti in una qualche azione, ogni volta che vi è un interesse verso qualcosa o qualcuno, vi è anche sempre una differenza di piani: qualcosa sta di fronte a noi, al centro dei nostri interessi - e qualcos'altro sta sullo sfondo: è solo oscuramente presente. Se sono intento a dibattere vivacemente un argomento con un amico per strada, i rumori che mi stanno intorno, e che possono essere molto intensi, li odo appena ed io svolgo magari, in tutto questo fracasso, una argomentazione molto sottile; mentre odo con chiarezza le obiezioni dell'amico. È come se tutti 201 i rumori del traffico fossero smorzati, attutiti. Naturalmente io continuo sempre ad udire questi rumori, eppure in un qualche senso non li odo. Essi appartengono ad un orizzonte indistinto, che sta "alle mie spalle". Nel nostro racconto tuttavia c'è un dettaglio importante: in questo orizzonte indistinto qualcosa comincia con il distinguersi: quella fila di luci nel fondo valle. Essa ci colpisce appena: si presenta appena alla soglia della mia attenzione: essa ha in sè qualcosa che può trarre su di sè la mia attenzione, ma questa potenzialità non riesce forse ancora ad essere attualizzata. L'attualizzazione è legata ad un elemento ulteriore, ad una variazione interna nella configurazione - il pulsare di una delle luci attrae l'attenzione su di sé, e infine il mio interesse osservativo si dirige esclusivamente su quella configurazione. Quali sono le riflessioni suggerite da un simile dettaglio? §3 Richiamiamoci in breve alla filosofia dell'esperienza di David Hume, in particolare alla sua nozione di "impressione" ed alla sua concezione fondamentale secondo la quale "originariamente" non vi sarebbe un mondo fatto di cose, di oggettività già date e costituite, un mondo nel senso adulto del termine, ma piuttosto delle impressioni prive di unità interna, vaganti in un universo mentale fluido e privo di solidi riferimenti - un mondo quale possiamo forse immaginare che sia simile a quello di un bambino a pochi giorni dalla sua nascita. Ripensando dunque a Hume, e ripensando alle sue distinzioni elementari, intese non come pure distinzioni logico-analitiche, ma interpretate piuttosto come una vera e propria dissoluzione della compagine del mondo nella molteplicità disaggregata delle impressioni, troviamo subito un aggancio con quell'antro oscuro e le sue luci baluginanti in esso. Questo ricordo filosofico co­ mincia ad animare dall'interno la passeggiata notturna sulla collina di 202 Loretto. Hume non ha certamente scelto a caso il termine di "impressione" (impression). Impressione è qualcosa che si imprime e che quindi, in un senso peculiare, esercita un'azione sulla coscienza: nel linguaggio quotidiano talora si parla di qualcosa che "ci colpisce", e proprio questo impiego quotidiano, con gli esempi che potremmo addurre per illustrarlo, ci interessa in modo particolare. Siamo "impressionati" da un incidente stradale al quale abbiamo assistiti, siamo colpiti dalla bellezza di un paesaggio, dalla dolcezza di una melodia. Questo termine entra nel linguaggio della fenomenologia come un termine capace di rendere una nozione di stimolo immediatamente comprensibile e che non ha bisogno di misurarsi con considerazioni di ordine fisiologico e psicologico. Tutti sappiamo che cosa vogliamo dire quando diciamo di "essere colpiti" da un evento a cui abbiamo assistito, da una reazione inattesa, da un dipinto o da un brano musicale. Nello stesso tempo entra nella terminologia fenomenologica, e in particolare proprio nelle Lezioni sulla sintesi passiva, un altro termine di origine interamente diversa, al quale Husserl conferisce un senso analogo, il termine di origine kantiana di affezione (Affektion). Esso deriva dal latino afficere il cui significato primario è quello dell'influire e dunque dell'essere colpiti, dell'es­sere impressionati, di subire le conseguenze di un'impressione. Questo significato primario è anche quello che vale in Kant e in Husserl. Ma in Husserl, questa scelta in realtà singolare, è dovuta probabilmente all'intenzione di implicare il termine anche nel suo significato più ampio, secondo il quale l'affectio indica una disposizione del sen­ tire, uno stato che concerne l'affettività, il mondo degli affetti nel comune senso del termine. L'andamento del nostro esempio si discosta tuttavia subito dal percorso che avrebbe seguito Hume. In Hume queste luci baluginanti - le impressioni - si presentano anzitutto come entità separate che il decorso dell'esperienza si curerà di unificare 203 in unità complesse, le quali a loro volta si andranno sempre più consolidando quando più verranno confermate in questo decorso. Naturalmente si innesta a questo punto il discorso sull'associa­ zione con le sue famose regole. Qui vediamo invece, e lo vediamo proprio nei pochi elementi del nostro racconto, una vicenda che ha al suo centro anch'essa il problema dell'uni­fic­ azione, e quindi vengono richiamate questioni attinenti ai modi della connessione. Il termine utilizzato in prevalenza è tuttavia il termine di sintesi, e il proposito è quello di una riscrittura del problema humeano dell'associazione. L'orien­tamento complessivo è dunque profondamente diverso. Intanto vi è già da subito un legame con il problema della coscienza. Abbiamo qui anzitutto una coscienza assorta - "meditabonda" - ma in realtà possiamo prescindere dal fatto che questa coscienza sia immersa nei suoi pensieri. Anzi: perché non approfittare dell'espressione che abbiamo precedentemente usata, perché non parlare di una coscienza "sovrappensiero" per sottolineare il tema dell'oblio del mondo? Si tratta dunque di una coscienza puramente latente, di una coscienza dormiente che può essere ridestata da una impressione, da uno stimolo che, provenendo dal mondo, la colpisce e la ridesta (come quando una mano mi scuote mentre dormo fino a provocare il mio risveglio). Il problema dell'unificazione si salda dunque con quello di una nozione di coscienza inizialmente inattiva, che diventa a poco a poco attiva. Nello stesso tempo questa nozione di coscienza si presenta subito come essenzialmente caratterizzata dall'e­si­stenza di stratificazioni interne. Abbiamo visto la nozione di primo piano e di sfondo e del localizzarsi di tutti gli atti di coscienza all'interno di questa distinzione: ma a sua volta la nozione di sfondo ha le sue differenze interne. Vi sono cose che, pur appartenendo allo sfondo, possono essere dette più lontane o più vicine all'io. Qualcosa appartiene già, dice una volta Husserl, "all'anticamera dell'io", 204 qualcos'altro invece si perde nell'indistinzione delle regioni più lontane. Ma soprattutto vi è una differenza significativa nel problema stesso dell'unificazione. Stiamo ancora presso il nostro esempio: ciò che comincia ad entrare nell'"anticamera dell'io" è una "fila di luci" - e qui l'accento deve cadere non tanto sulle luci come tali, dunque sulle impressioni come entità separate, ma proprio sulla fila come una determinata configurazione unitaria. §4 Riflettiamo su questo punto: che cosa significa propriamente il parlare di una "fila di luci", o di una "fila di alberi", quindi anche ad esempio "uno stormo di uccelli", una "schiera di soldati" ed altre espressioni come queste che alludono ad una molteplicità unitaria? A che tipi di oggetti rimandano queste espressioni? Dobbiamo ritenere, ad esempio, che ci sono effettivamente dati solo gli oggetti singoli e che vi sia poi una qualche operazione mentale che organizzi in unità questa molteplicità? Queste erano le domande che Husserl si rivolgeva già nella Filosofia dell'aritme­ tica, quindi quando non aveva ancora formulato un progetto filosofico di ampio respiro come quello fenomenologico Si tratta del resto di domande che molti psicologi dell'epoca si rivolgevano in varie forme. La risposta verso la quale egli si orienta già allora e che poi riconferma in vari modi è la seguente: ciò che ci fa parlare di una fila di alberi o di uno stormo di uccelli è il modo stesso in cui gli oggetti di cui è composto il complesso sono in relazione gli uni con gli altri. Sulla base di queste relazioni sorgono delle tendenze sintetiche - delle tendenze interne all'unificazione, dal cui gioco il complesso assume una configurazione caratteristica - una Gestalt, secondo la terminologia che comincia a diffondersi nella psicologia dell'epoca - che si impone come tale all'osservatore. 205 §5 Ecco dunque come si prospetta ora il nostro problema: anzitutto va osservato che la differenza, sulla quale abbiamo attirato l'attenzione sul lato soggettivo, tra ciò che sta al centro degli interessi dell'io e ciò che sta invece ai suoi margini, deve essere naturalmente riproposta, secondo un diverso orientamento, in rapporto al campo percettivo. Questo è caratterizzato dal fatto che "qualcosa" emerge da uno sfondo - quindi non vi sono dati singoli come tali, atomi percettivi - ma anche il dato più elementare, un punto o una linea su un foglio di carta è già una emergenza. Questo termine, con il quale abbiamo proposto a suo tempo, di tradurre il tedesco Abgehobenheit, è in molti casi preferibile a quello corrente di figura, proprio per la sua maggior generalità e per il suo possibile riferimento anche ad entità non visive come sono, ad esempio, i suoni. Con emergenza si indica il contraddistinguersi di qualcosa rispetto ad uno sfondo. Presupposto dell'emergenza è il contrasto, ma l'idea del contrasto non può che essere correlativa a quella di un'unificazione che forma il suo presupposto. Consideriamo a titolo esemplificativo l'immagine seguente: 206 Qui in realtà vediamo molte cose, ma queste molte cose sono in realtà raggruppate fra loro. Precisamente, se dovessi descrivere la figura direi che vi sono due raggruppamenti 1. un raggruppamento, particolarmente in evidenza, dei grandi cerchi che ci appaiono in primo piano 2. la nostra fila di luci che è stata portata di peso in questo nuovo contesto. Lo sfondo è invece caratterizzato da una sfumature che va dal grigio al bianco ad andamento circolare entrando in un gioco di una certa complessità con le figure raggruppate ed emergenti. È appena il caso di notare che è proprio questo sfondo che conferisce all'intera immagine una notevole profondità e questo "effetto" è una conseguenza della sfumatura e dei suoi gradi. Osservando una figura come questa non è difficile rendersi conto del perché si parli qui di sintesi - ed anzi di tendenze sintetiche, come si potrebbe meglio dire accentuando la componente dinamica del problema. Il problema della sintesi è legato anzitutto al motivo della somiglianza: ecco un altro grande tema humeano che qui riprendiamo e rivediamo sotto una luce nuova: i due raggruppamenti emergenti sono in realtà attraversati da almeno tre tendenze sintetiche. Una tendenza che deriva dalla somiglianza di forma, un'altra dalla somiglianza di colore e una tendenza che deriva da quella che potremmo chiamare dalla somiglianza di direzione. Quest'ultima tendenza è messa in rilievo nel disegno dalle frecce che abbiamo aggiunto ad esso - le quali, dunque, secondo le nostre intenzioni, non dovrebbero essere considerate come appartenenti, al disegno stesso. Non stiamo a discutere peraltro perplessità e dubbi che potrebbero essere proposti in rapporto a questa nostra descrizione e che richiederebbero una analisi ancora più ricca. 207 Per i nostri scopi, è invece particolarmente importante notare che vi sono anche controtendenze alle sintesi, ovvero tendenze volte ad altre forme di unificazioni. Ad esempio la luce più luminosa e di colore diverso della fila rappresenta indubbiamente, da un lato, una chiamata di attenzione sulla fila stessa, cioè sulla configurazione unitaria; dall'altro potrebbe anche agire come una controtendenza al raggruppamento, ad imporsi in se stessa, nella sua singolarità rispetto alla fila a cui appartiene. Inoltre la fila nel suo complesso, essendo dello stesso colore dello sfondo, emerge in modo particolarmente debole. Vi è qui un gioco di tendenze e controtendenze, ed è esso che fa del campo percettivo un campo attraversato da tensioni. Queste possono riguarda gli elementi emergenti tra loro o i rapporti tra questi elementi e lo sfondo. Quest'ultimo, nel nostro esempio, è relativamente omogeneo, ma non è a sua volta privo di differenze. Anche in esso possiamo parlare dell'unità di una direzione in un senso un po' diverso poiché riguarda l'an­ damento dello sfumatura cromatica. Di conseguenza le varie emergenze si distaccano da questo sfondo in un grado talora maggiore e talora minore - ogni elemento di omogeneità con il fondo rappresenta una attenuazione del contrasto, e quindi una controtendenza rispetto alla forza "impulsionale" della singolarità considerata. §6 Questi temi meritano di essere arricchiti ed illustrati mediante ulteriori situazioni esemplificative. Per comprendere in che senso parliamo di sintesi, è importante sottolineare che questa parola è strettamente legata alla dialettica emergenza-sfondo. Di conseguenza svolge un ruolo fondamentale il contrasto nelle sue possibili differenze di grado. In generale ciò che viene in questione non è un puro e semplice "stare insieme", ma una formazione unitaria di vari gradi di complessità, che è in ogni caso il risultato di 208 tensioni interne al campo percettivo. La parola sintesi non deve essere dunque essere separata da parole come tendenza, tensione, emergenza, contrasto, somiglianza, differenza. In questa figura abbiamo delle "emergenze" che si trovano in varie relazioni con lo sfondo: sulla sua base possiamo dare evidenza alla relatività che spetta a queste nozioni. Vi è infatti uno sfondo chiaro rispetto al quale il grande ovale con gradazione di grigi che si schiariscono verso il centro rappresenta un'emergenza. Questo grande ovale rappresenta a sua volta uno sfondo per gli altri cerchi - il maggiore dei quali richiama il colore dello sfondo rettangolare, mentre uno degli altri cerchi più piccoli ha la sfumatura grigia del luogo, cosicché emerge solo per il contorno lineare. Il cerchio in alto è nettamente più scuro dello sfondo - il contrasto è maggiore e l'emergenza più netta. La forma circolare rappresenta un fattore di unificazione, mentre le dimensioni di uno dei cerchi separano il cerchio più a sinistra dagli altri. Queste differenze e somiglianze debbono essere intese come tensioni interne alla figura. 209 Le figure successive invece illustrano il problema dell'uni­tà di direzione: È inutile dire che siamo qui alla presenza di due configurazioni unitarie. L'unità dovuta alla "somiglianza della forma" è tuttavia più debole dell'unità fondata sul cromatismo e sulla direzione. Cosicché prevale l'andamento-verso ed i triangoli si vanno associando secondo due diversi "cammini". Basta scompaginare un poco questa struttura, anzitutto u­nificando il colore e quindi potenziando la direzione sintetica che era già caratteristica della forma e rovesciare qualche triangolo in modo da attenuare la somiglianza, per indebolire il senso della direzione, senso che non viene tuttavia del tutto a mancare: 210 Parlare di direzioni significa anche alludere alla nozione di "luo­ go" - quindi ad una partizione ed a un'articolazione dello spazio. Ci si dirige infatti verso un luogo. Le due nozioni sembrano essere correlative. Anche nozioni tipicamente spaziali come quella di luogo possono riportate all'interno della problematica delle sintesi della percezione? Lo possono se consideriamo non il concetto del luogo come tale, ma l'apparire del luogo. In realtà il problema centrale che ha fatto spesso sembrare la nozione di luogo come una sorta di difficile enigma (ed insieme ad esso naturalmente quella di spazio) consiste in questo: i luoghi non si vedono, essi non possono essere "propriamente" percepiti in se stessi. Se, ad esempio, voglio caratterizzare come luoghi l'angolo in basso a destra e l'angolo in alto a sinistra di uno spazio rettangolare dovrò ricorrere alle frecce che abbiamo già utilizzato in precedenza all'interno del disegno, ma che debbono invece essere intese come non appartenenti ad esso. 211 Diversamente stanno le cose se affidiamo l'individuazione del luogo ad emergenze ed alle loro loro possibilità di raggruppamento. In questo caso non abbiamo soltanto due gruppi di oggetti, che sono unificati dalla forma e dal colore: ma vi è anche per ciascun gruppo una "somiglianza di luogo" - cosicché potremmo dire che il "luogo" comincia ad esserci (ad apparire) quando ci sono emergenze nel campo percettivo e si attivano dunque processi della sintesi. In base a questi processi anche il campo spaziale 212 riceve un'articolazione ed una strutturazione. Naturalmente si potranno proporre diversi tipi di esempi di configurazioni che potremmo definire non articolate, caotiche, disordinate, prive di struttura. Occorre prestare attenzione tuttavia a non commettere l'errore di ritenere che in casi come questi non siano in azione le tendenze sintetiche. Anche in questi casi infatti dobbiamo "applicare delle regole": ad esempio è chiaro che non si verificano raggruppamenti interni - e dunque non vi sono direzioni o luoghi o emergenze più "importanti" di altre - cosicché al più si può parlare di un unità globale che ha in sè delle parti non gerarchizzate, delle parti che si trovano tutte allo "stesso livello". Ci si approssima qui a una molteplicità di emergenze che potrebbe anche fungere da "sfondo". Nella figura seguente invece si presenta un raggruppa­mento sulla destra della figura, mentre la distanza sepa­ ra la piccola macchia sulla sinistra. Le macchie più piccole sulla destra sembrano attratte da quella più grande come se vi fosse qualcosa di simile ad una legge di gravitazione. In ogni caso, saremmo tentati di assimilare il raggruppamento sulla destra ad un'isola o ad un continente con i suoi isolotti, avendo così un tutto unitario con una propria articolazione interna. Questa cir- 213 costanza è, a pensarci bene, abbastanza singolare. Potremmo osservare che in realtà non a caso qui parliamo di isola e di isolotti. Questa immagine infatti ci rammenta una configurazione nota, che abbiamo visto mille volte sulle carte geografiche. Si tratta naturalmente di un'osservazione del tutto giusta che tuttavia potrebbe essere intesa ed impiegata in modo sbagliato. La si potrebbe infatti integrare all'interno di un'obiezione di tipo empiristico. L'effetto del raggruppamento, ed anche quello che ho chiamato una sorta di forza gravitazionale che le masse più grandi eserciterebbero sulle più piccole, non sarebbe dovuto, come noi anzitutto sosteniamo, alla sua Gestalt fenomenologica, cioè al modo in cui si presenta la figura, ma al fatto che la figura ci è familiare, che essa ci è già nota nel suo senso. L'associazione qui sarebbe allora, nello stile di Hume, un'associazione tra l'esperienza presente e le esperienze passate. 214 Posta in questo modo la giusta osservazione precedente pretende di fornire una spiegazione che non è affatto soddisfacente. Si confondono in essa due piani molto diversi: da un lato vi è la circostanza che la configurazione ha un senso primario che dipende dal modo stesso in cui essa è fatta e quindi dal complesso di regole sulla base delle quali è costruita; e dal­l'altro, questo senso primario si arricchisce di ulteriori rimandi e quindi di nuovi strati di significato. Su tutto ciò naturalmente ha rilevanza e peso l'esperienza passata. In ogni caso, è certo che in modo molto più netto che nei casi precedenti la configurazione va oltre se stessa, non si limita a presentare forme e rapporti tra forme, ma attraverso di esse il disegno tende dunque ad assumere un significato "rappresentativo". Esso assume i tratti di una raffigurazione. Questo è un punto ha naturalmente una portata generale: sulla base di certi rapporti strutturali la configurazione percettiva può assumere diversi e più o meno complessi orientamenti di senso che sono fondati in essa, ma che nello stesso tempo la superano. Non necessariamente tuttavia questo superamento va in direzione di una raffigurazione. Si considerino ad esempio le immagini seguenti nelle quali due semplici figure geometriche vengono proposte in contrasto l'una con l'altra. 215 Il parlare di contrasto sembra del tutto naturale ed appropriato, eppure questa espressione non ha qui un significato troppo ovvio. Naturalmente essa non ha un senso geometrico - dal momento che nella geometria un cerchio è un cerchio e un triangolo 216 un triangolo, ciascuno con le sue differenti proprietà geometriche, e non avrebbe affatto senso contrapporre l'uno all'altro. Ma qui non si parla di contrasto nemmeno nel senso in cui ne parlavamo in precedenza, quando alludevamo al rapporto tra sfondo ed emergenza. Naturalmente potremo ripetere in rapporto ad esse le considerazioni già proposte in precedenza. Ma con particolare chiarezza in questo caso vi è un "senso" che viene realizzato su relazioni oppositive come rigidità e mollezza, curvilineo e rettilineo, ecc. che sono ricche di valenze immaginative. Difficilmente si può ritenere appropriato il parlare di contrasto senza far riferimento a queste valenze; e nello stesso tempo le due figure, entrambe emergenti sullo sfondo, formano un'unità non solo in forza della "contiguità", ma proprio in forza di queste relazioni oppositive e delle direzioni immaginative ad esse connesse. Si tratta naturalmente di un'unità internamente tesa, e fino a che punto questa tensione sia dovuta all'opposizione è mostrato dall'appiattimento, dalla "perdita di interesse", dall'attenuazione della capacità "impulsionale" che si ottiene con una semplice modificazione della figura triangolare che viene sostituita da una figura con bordi arrotondati: 217 Hume riteneva anche di poter distinguere piuttosto nettamente la percezione dall'immaginazione, l'impressione dall'idea. L'idea dell'immaginazione è una copia illanguidita di un'impressione. Se così fosse le figure che abbiamo presentato or ora non avrebbero in sé alcuna componente immaginativa. Esse non hanno nulla di "languido" e non vi è nessun originale di cui esse possano essere una copia. Cosicché potremmo addirittura esibirle come una confutazione di quella posizione in quanto mostrano la presenza di una componente immaginativa che è difficile districare dall'elemento percettivo. Come nel caso precedente del continente e delle isole, anche ora il dato percettivo come tale viene oltrepassato ma questo oltrepassamento non avviene in direzione della raffi­gurazione, ma piuttosto in direzione espressiva, e dunque in direzione immaginativa. Il triangolo è l'elemento appuntito, il cerchio è l'elemento curvilineo con tutti i sensi aggiunti, i sensi allusivi che l'immaginazione può dare all'uno o all'altro, la spada, l'idea del ferire, dell'incidere, dello scalfire ovvero, sul lato opposto: la mollezza che non oppone resistenza o che si presenta indifesa rispetto a questa aggressione. È singolare che anche in Husserl questo aspetto del problema così importante per una teoria della percezione così come per una teoria dell'espressione non sia quasi per nulla preso in considerazione. Ci sono solo cenni sporadici, ma in lui è assente quasi interamente proprio l'idea fondamentale di sintesi di carattere immaginativo, che operano in modo diverso dalla pura produzione dell'oggetto fantastico. Io credo invece che la tematica delle sintesi debba prendere in esame approfondito l'operare sintetico dell'immaginazione. §7 Vogliamo conclusivamente tirare le fila sulla nozione di sintesi passiva e su quelle ad essa connesse, cercando di metterne bre- 218 vemente in rilievo la rilevanza filosofica e nello stesso tempo di intravedere le conseguenze di più ampia portata che si possono estrarre da un problema che può avere un avvio così minuto. Anzitutto deve essere portato l'accento sulla critica alla filosofia empiristica dell'esperienza, nella forma esemplare che diede ad essa Hume, al quale peraltro la fenomenologia deve molti dei suoi problemi: i dati dell'esperienza non sono dati disciolti e disparati, nemmeno quando essi siano considerati al loro livello più elementare. Essi sono invece dati determina­tamente articolati e ci colpiscono proprio attraverso questa loro organizzazione interna. Se poi ci chiediamo da che cosa dipenda questa organizzazione, allora ci troviamo nell'ambito del problema delle sintesi. La differenza con Hume non sta naturalmente nel puro fatto terminologico: egli parla infatti di associazione piuttosto che di sintesi. Tuttavia, presi in se stessi e prescin­dendo dalla loro storia, le parole "sintesi" o "asso­cia­zione" si richiamano entrambe alla tematica dell'uni­ficazione [2]. La differenza sta piuttosto nel modo di inten­dere l'unificazione: in Hume si tratta di processi essenzialmente fondati sulla ripetizione costante di una relazione. Da un punto di vista fenomenologico invece - accanto le unificazioni e le sintesi che indubbiamente avven­gono in forza dell'esperienza passata - si effettua l'importante riconoscimento dell'esistenza di tendenze sintetiche interne alla configurazione percettiva, che si impongono come tali alla soggettività percettiva. Le sintesi sono appunto "sintesi passive". Qui ci imbattiamo in un altro importante richiamo. Si tratta naturalmente del richiamo a Kant. La parola "sintesi" è appunto parola kantiana. Ma il continuo insistere sulla tematica della soggettività come tematica portante della fenomenologia ne ha da un lato esaltato l'orientamento idealistico-trascendentale, dall'altro ha portato spesso al misconoscimento dell'importanza del tema della passività - che certamente è assai lontano dallo spirito della filosofia dell'e­sperienza di impronta kantiana. 219 Vi sono a questo proposito almeno due elementi a cui deve essere dato particolare rilievo: 1. la problematica della sintesi che in Kant si presentava come un rovello sulla ricerca di poche categorie generali, si frantuma nell'impostazione fenomenologica in una grande quantità di problematiche particolari, esemplificativamente determinate, e lo scopo della ricerca diventa la realizzazione di un ampio quadro di differenti tipologie fenomenologiche degli interi percettivi. 2. che il rovello kantiano assuma il giudizio come proprio tema e filo conduttore mostra che in Kant si attribuisce la sintesi al lato soggettivo-intellettuale, e quindi questa tematica viene ascritta essenzialmente all'attività ed alla spontaneità delle operazioni di coscienza. A volte è molto istruttivo cercare di rendere una posizione filosofica in uno schema grafico. Naturalmente si tratta di una impresa che non deve avanzare troppe pretese, ma che risulta essere di una certa utilità, persino nelle ovvie difficoltà in cui è destinata ad imbattersi. Per ciò che riguarda il tema della soggettività e del suo rapporto con la sensibilità in Kant si potrebbe forse proporre lo schema seguente: Io trascendentale C ategorie Forme dello spazio e del tempo Il molteplice dell'esperienza 220 L'intero campo è dominato dalla distinzione tra fenomeno e noumeno. Il noumeno, ovviamente, è la parte scura, nella quale nulla si riesce a distinguere. Si noti che una parte della soggettività trascendentale appartiene proprio al noumeno. Si tratta della parte che chiama in causa l'io etico-pratico: forse anche, secondo una suggestiva e importante indicazione interpretativa di Schopenhauer, di quella parte dell'io che riguarda ciò che Schopenhauer chiama "carattere intelligibile" - una nozione che per Schopenhauer rimanda alle scelte primarie e insondabili nei loro motivi dell'io stesso. Tutto il resto, la zona chiara rappresenta invece la tematica kantiana delle sintesi di esperienza. La prima condizione generale della sintesi è l'unità dell'io stesso (la cosiddetta appercezione trascendentale); sul lato opposto, vi è "il molteplice dell'esperienza": questa espressione è tipica di Kant e manifesta la volontà di aggirare una terminologia di origine psicologica ed empiristica. Il molteplice dell'esperienza è un termine rarefatto, di intonazione logico-concettuale in quanto allude all'esperienza sensoriale di base come ad una mera "molteplicità". Di fatto, si tratta naturalmente del campo humeano delle impressioni. Tuttavia il termine di impressione viene evitato proprio perché allude ad un dato di fatto psicologico. Kant preferisce impiegare invece un'espressione che porta piuttosto l'accento sulla forma più che sul contenuto sensoriale come tale, quindi sul fatto che tale contenuto è una molteplicità priva di unità intrinseca. Dalla soggettività trascendentale promanano i mezzi (me­ dia) delle sintesi, le categorie e le forme apriori dello spazio e del tempo. Nel caso delle categorie siamo nettamente nel campo dell'attività intellettuale, quindi le operazioni sintetiche saranno "spontanee" - come è spontanea l'attività giudicativa in genere. La sintesi di cui parla Kant è una sintesi "attiva". È sintomatico da questo punto di vista il fatto che in rapporto al primo livello di unificazione del materiale sensoriale at- 221 traverso lo spazio e il tempo, Kant eviti di parlare di sintesi così come di categorie - due termini che sono per lui concettualmente collegati - preferendo parlare dello spazio e del tempo come forme (di unificazione) a priori dell'intuizione. Ciò mostra che Kant da un lato è passato nei pressi del problema della passività, dall'altro che non ha saputo trovare la via per una sua elaborazione. Il timore di una "ricaduta" in una prospettiva psicologistico-empiristica ha agito da ostacolo e da impedimento. Così, invece di andare ad attingere le regole presso il materiale di esperienza attraverso un'analisi onnilaterale di essa, Kant pensa ad un piccolo numero di regole preformate - regole che la geometria e l'aritmetica hanno reso esplicite e che vengono proiettate sul materiale sensibile conferendo ad esso l'unità di cui ha bisogno. Si noti di passaggio come si commetta normalmente anche l'errore di non distinguere con chiarezza il livello di una teoria dell'esperienza da quello di una teoria della conoscenza. Si comprende subito che non è possibile proporre un grafico di insieme per la posizione fenomenologica, proprio perché questa posizione non propone un ordine precostituito e poggiante su pochi pilastri fondamentali, ma rimanda ad un'indagine su una molteplicità di ordini possibili che debbono essere estratti dalle situazioni esperienziali concrete. Si può invece tentare di schematizzare graficamente almeno un aspetto della concezione fenomenologica della soggettività, tenendo conto delle indicazioni che abbiamo esposto all'inizio di questo saggio. 222 Questa immagine è assai carente sotto più di un riguardo. Ma proprio discutendone i limiti avremo modo di compiere alcune precisazioni. Una prima carenza sta nel non rendere conto della natura non puntuale dello stimolo, anzi essa fa pensare al contrario a "punti" da cui hanno origine le frecce (le "affezioni"). Per questo lato della questione l'immagine è assai fuorviante: il punto da cui ha origine la freccia deve essere inteso come un complesso percettivo strutturato. Tuttavia vi è un aspetto che questa immagine riesce a rammentare abbastanza efficacemente. Si tratta dell'idea di una soggettività considerata sotto la presa dell'affezione, anzi di molteplici tendenze affettive (le frecce che si dirigono su di essa). Una di queste tendenze affettive sta per "impressionare" l'io, sta per colpirlo, mentre le altre non lo raggiungono ancora, e sono più o meno lontane da esso. La gradazione dal chiaro allo scuro allude ad una differenziazione interna del campo della presenza - che sarà delimitato da un orizzonte oscuro che indica l'al di là di questo campo. A questo proposito ci rendiamo conto di un altro importante limite e di un'interessante ambiguità, che fa parte della na- 223 tura del problema. Il limite sta nel fatto che l'immagine non mostra che vi è un'interazione, nel fenomeno del "colpire", tra l'elemento soggettivo e l'elemento oggettivo. Di questo aspetto importantissimo si è trattato assai poco anche in precedenza, ma occorre avvertire che questa interazione è destinata a svolgere un ruolo particolarmente importante. Detto in breve: il campo delle "forze impulsionali" (affettive) è in parte predisposto dalla configurazione dell'oggetto, in parte viene ri-orientato dalle "predisposizioni" della soggettività, dalla sua "temporalità" concreta, dalla sua storicità. L'ambiguità sta nel problema della delimitazione interno-esterno. Questa delimitazione non può essere chiaramente rappresentata - perciò non può essere nemmeno esattamente delimitata la regione della soggettività. Il campo di presenza dell'io non è solo il centro più luminoso, ma è un campo degradante da questo centro, verso i limiti oscuri dell'inconsapevolezza. Ciò significa anche che questa immagine può assumere una diversa inclinazione di senso, così come la può assumere l'intera tematica della sintesi passiva. La differenza e le relatività, le dinamiche più o meno complesse che abbiamo segnalato in precedenza possono forse trovare dei significativi parallelismi e corrispondenze qualora siano reinterpretate riportandole all'in­ter­no della soggettività stessa ed alla sua dimensione temporale. Che il campo della presenza conosca gradazioni richiama una nozione di consapevolezza che comprenda la possibilità di un "avvertire inavvertito", di una forma peculiare di essere dentro la coscienza e, ad un tempo, fuori di essa. Lo "sfondo" può essere inteso come "sfondo di vissuti" - come passato dell'io, in parte obliato, in parte potenzialmente attivo, che è ancora in grado di premere sulla soggettività con le sue "forze affettive". Vi sono certamente, anche in questa diversa angolatura del problema, delle unifica­ zioni dinamiche che possono essere intese come "sintesi passive". Ma allora si ci può chiedere: è possibile, dentro il quadro 224 di un'impostazione fenomenologica, che ha sempre messo l'accento sulla chiarezza e sull'evidenza, estendere al problema delle oscurità dell'inconscio il grande tema delle sintesi passive, naturalmente tenendo conto di tutte le differenze e della novità dei problemi che si dovrebbero affrontare? Questa è la domanda che finisce con l'insinuarsi tra i pensieri che accompagnano il filosofo nella sua passeggiata notturna sulla collina. Note [1] Il testo così intitolato rappresenta la traduzione italiana realizzata da Vincenzo Costa con la cura di Paolo Spinicci delle lezioni contenute in E. Husserl, Analysen zur passiven Synthesis, Husserliana XI, a cura di Margot Fleischer, Martinus Nijhoff (ora: Kluwer Academic Publishers B.V., Dordrecht), Den Haag 1966 ed è stato edito dall'Editore Guerini e Associati, Milano 1993. [2] In Husserl si usano intenzionalmente entrambi i termini in quanto la tematica delle forme di ordinamento indotte dalle sintesi passive può essere presentata come un'elaborazione di una "teoria dell'associazione" secondo lo spirito e il metodo della fenomenologia. Si veda in proposito la Sezione terza delle Lezioni sulla sintesi passiva, op. cit., pp. 167 sgg. 225 Giovanni Piana Un'analisi husserliana del colore 1966 226 Questo testo è stato pubblicato nella rivista "Aut Aut", n. 92, 1966 227 È stato talvolta osservato che la fenomenologia husser­liana ha sempre mantenuto il carattere di un programma di ricer­ca, in rapporto alla cui ampiezza ed estensione le indagini effettivamente ese­guite da Husserl in funzione della sua realiz­zazione possono sembrare relativamente esigue. In questa osservazione che spesso viene compiuta in senso critico per rilevare, per così dire, materialmente, l'inadeguatezza dei risultati all'ambizione dei propositi - vi è di vero che la tensione programmatica sempre presente nelle principali opere husserliane infrange costantemente i limiti delle ricerche in atto, che spesso sono valorizzate non solo in loro stesse, ma in rap­ porto a quei campi ancora inesplorati che si possono intra­vedere. Inoltre, essa può essere suggerita da una falsa inter­pretazione della generalizzazione filosofica dell'imposta­zione della fenomenologia come metodo che interviene ad un certo punto dell'evoluzione husserliana. Vi è così chi contrappone il lavoro prevalentemente analitico delle prime opere husserliane, alle grandi sintesi filosofiche essenzialmente "pro­grammatiche" di Ideen I o Meditazioni cartesiane. Si tratta di un punto di vista, a nostro avviso, fondamentalmente inesatto, dal momento che in Husserl la generalizzazione filosofica, se da un lato deriva da un approfondimento di certe direzioni di ricerca e dalla elabo­razione di istanze metodologiche implicite, dall'altro richiede, non già un nuovo movimento speculativo, ma piuttosto un'e­stensione del campo verso il quale deve dirigersi l'attenzione del fenomenologo. Per decidere sul senso della filosofia husserliana, ed anche per giungere ad una reale praticabilità della ricerca fenomenologica, occorre cogliere proprio questa unità tra la generalizzazione filosofica nella quale la fenomenologia eredita i classici problemi della filosofia del passato ed il suo esclusivo realizzarsi nella costante specificità della ricerca. Del resto questa unità può essere colta direttamente in una lettura organica delle opere di Husserl, ed appare in piena evidenza in alcune di esse. Da questo punto di vista è esemplare 228 un'opera come Ideen II, che solo di recente è stata pubblicata in traduzione italiana in un volume curato da Enrico Filippini, comprendente anche il primo e il terzo volume delle Idee, se­condo la redazione presentata, in volumi separati, dalla Hus­ serliana [1]. Anche in questo caso si può osservare che il carattere complessivo di questo lavoro è essenzialmente programmatico : l'intento è quello di gettare le basi per una generale delimitazione fenomenologica dell'oggetto delle "scienze naturali" e delle "scienze umane". Ma se questo può essere indicato come l'orizzonte generale, l'obiettivo di fondo perseguito dalla ricerca nel suo complesso, nulla è più caratteristico del fatto che esso si precisa fin dall'inizio in una molteplicità di direzioni, ognuna delle quali - pur restando all'interno di una orientazione globale - dà luogo, nella misura in cui viene sviluppata, ad una serie di analisi determinate i cui risultati debbono poi essere complessivamente valutati e ricompresi. In gioco sono i classici problemi di una "filosofia della natura" e delle formazioni dello "spirito oggettivo", ma essi trovano realizzazione e sviluppo soltanto nella loro dissoluzione fenomenologica, e quindi nella loro risoluzione in una molteplicità di ricerche costitutive. Così, un'opera come Ide­ en II fa intravedere, forse più di ogni altra, lo stile di una ricerca fenomenologica in atto, il modo in cui essa può essere condotta, i problemi che sorgono di fatto nella sua esecuzione : fa intravedere, in una parola, quel lavoro eminentemente analitico-descrittivo che appare in primo piano, come l'elemento che determina nel modo più caratteristico il senso della "feno­me­nologia", nell'o­pera husserliana inedita. A questo proposito vorremmo riferire brevemente su uno degli inediti husserliani del gruppo D, nel quale sono raccolti parte dei lavori preparatori alla prima sezione di Ideen II. Si tratta di un inedito che risale al 1910 e che contiene nella sua parte centrale una analisi fenomenologica del colore? Vogliamo soffermarci su questo inedito - coordinandolo con la lettura di Ideen II - essenzialmente per il carattere esemplificativo che esso de- 229 tiene in rapporto all'esecuzione di una ricerca fenomenologica. Abbiamo osservato che le indagini di Ideen II - ed in particolare della sua prima sezione (La costituzione della natura materiale) - sono dirette a chiarire il senso della natura "in quanto oggetto delle scienze della natura" [3] Ma questo problema si sposta fin dall'inizio - nell'assunzione di un primo senso della "natura" come "mondo di cose materiali" - in quello della determinazione della caratteristica fenomenologica della "materialità" della cosa. A questo proposito va notato anzitutto che la soluzione del problema della delimitazione concettuale della "natura" non è - secondo Hus­serl - affidata alle risposte che si possono trarre dalle stesse scienze della natura, ma dipende piuttosto dalla conseguente elaborazione fenomenologica della questione della loro "possibilità". Ana­logamente, per ciò che concerne il problema della materialità della cosa, esso non può essere risolto - in questo ordine di considerazioni - esibendo qualche costruzione attraverso la quale il concetto della materialità risulti scientificamente definito. Ciò che dobbiamo esplorare, prima ancora di assumere una costruzione scientifica - che andrà peraltro a sua volta rigorosamente interpretata e delimitata nel suo senso esplicativo - è l'esperienza della ma­terialità della cosa - esperienza intesa nel suo senso più quotidiano e familiare. Ora, se riflettiamo all'interno di questa esperienza, l'idea del­la cosa materiale ci si presenta essenzialmente come idea della realtà della cosa, della caratteristica cioè per la quale la cosa è per noi un reale, che si distingue in quanto tale dall'im­maginario. Tutte le analisi concernenti l'apprensione delle varie qualità della cosa - fra le quali dunque è da inserire anche quella relativa alla percezione del colore di pendono dal fatto, che il carattere di materialità o di realtà non è, per così dire, dato direttamente nella datità della cosa. Se consideriamo la cosa nella sua singolarità, prescindendo cioè dal contesto di cose in cui è inserita "ci accorgiamo che non disponiamo di nessun mezzo per distinguere l'essenza della cosa dall'essenza del vuoto fantasma, che l'eccedenza 230 della cosa non può giungere per noi a una datità reale, a una datità dimostrativa nel senso che abbiamo illustrato. Un mero fantasma si produce per es. quando noi lavoriamo con lo stereoscopio, quando cerchiamo di portare a una fusione corporea determinati raggruppamenti. Allora vediamo un corpo spaziale, per il quale, per quanto riguarda la sua forma, il suo colore, per quanto riguarda il liscio o il ruvido della sua superficie, e analoghe determinazioni, si possono porre domande ragionevoli, domande che dovrebbero poter ottenere una risposta conforme alla verità, una risposta di questo genere: questa è una piramide rossa, ruvida, ecc." [4]. Il manoscritto in questione prende le mosse proprio da questo punto, chiedendo fin dall'inizio che cosa distingua il semplice corpo spaziale, qualitativamente riempito, ciò che Husserl chiama "fantasma" (Phantom), e che è appunto una "pura datità priva dello strato di apprensione della materialità" [5], dalla cosa stessa come cosa materiale e reale, ed anche in che modo questa mera immagine di qualità si presenti con la co-apprensione che fa di essa una qualità proprietà reale di una cosa. Si tratterà dunque di avviare una serie di ricerche che illustrino le qualità sensibili della cosa e che chiariscano il loro riferirsi alla cosa stessa e la struttura delle loro interrelazioni. Poiché non cogliamo direttamente la materialità, ma siamo solo di fronte a delle "immagini", dobbiamo cominciare proprio da esse„ considerando ogni qualità della cosa come un suo strato immaginativo. Ciò può essere chiaramente comprensibile so­prat­tutto in rapporto ai caratteri visivi della cosa, dal momento che l'idea dell'immagine è direttamente radicata nel terreno della visualità. Ma questa idea deve essere sviluppata anche in rapporto agli altri strati qualitativi della cosa. Esiste un "fan­tasma" puramente tattile? - si chiede Husserl in questo manoscritto [6]. E lo stesso problema si ripresenterà per l'essere profumato, l'avere un gusto, l'essere caldo o freddo della cosa, e così via. Ogni qualità avrà un proprio modo, che deve essere illustrato attraverso la descrizio- 231 ne, di riferirsi alla cosa stessa ed alle sue altre qualità. Prendiamo in considerazione, ad esempio, la proprietà del risuonare di una cosa. Il suono si irraggia a partire dalla cosa e si diffonde nello spazio circostante. Da un lato esso è una proprietà della cosa, il suo suono; dall'altro ha, rispetto ad essa, una relativa autonomia, un proprio modo di essere spazialmente localizzato. La spazialità del suono, il "cor­po spaziale" che esso riempie non coincide con la spazialità della cosa. D'altra parte è dubbio che si possa parlare di un "corpo spaziale" del suono, di una estensione che esso pro­priamente riempie? Inoltre, per ciò che concerne il rapporto tra il suono e la cosa di cui è una qualità, si può notare che esso è bensì inerente ad essa, le aderisce, non la ricopre: il suono di una campana non viene intuito come "diffuso" sul corpo della campana allo stesso modo del colore"[8]. Ma vi è, comunque, nonostante queste differenze descrittive tra i fenomeni visivi e quelli sonori, un complesso di interrelazioni. A partire da una distanza visivamente costituita io posso comprendere la per­ cezione del suono come una modificazione sonora, ed acquisire l'idea di una semplice distanza sonora. Nuovi problemi vengono alla luce nella descrizione fenomenologica della qualità termica della cosa: le proprietà di freddo e di caldo hanno senza dubbio un modo di aderenza e svolgono quindi una specifica funzione riempiente. Trattando del calore Husserl usa l'espressione colorazione termica (Warme-Färbung) "per analogia con la colorazione in senso comune" [9]. Tuttavia il calore è anche "irraggiante" e si richiede allora una analisi ulteriore perché "calore come copertura" e "calore come irraggiamento" sono fenomenologicamente da distinguere. Si tratta naturalmente, meno ancora che di un abbozzo di analisi, piuttosto di un primo tentativo di delimitare i temi, di metterli provvisoriamente alla luce per portarli poi ad una continua e più approfondita elaborazione. Ciò non deve mai essere dimenticato nella lettura dei manoscritti husserliani, che hanno sempre un carattere immediatamente sperimentale. Così, certe impostazioni po­tran­no essere abbandonate, un 232 modo di procedere potrà essere lasciato da parte, un abbozzo di descrizione rivelarsi scorretto. Per individuare alcuni aspetti fenomenologicamente essenziali, si potrà riflettere - nel nostro caso - sulle analogie e sulle differenze tra qualità diverse cercando di elaborare dei concetti fenomenologicamente esplicativi e soprattutto di cogliere alcuni indizi che potranno forse rivelarsi ricchi di sviluppi. Nel confronto tra le qualità termiche e le qualità visive si può notare che l'essere colorato della cosa è una qualità di riempimento che detiene un proprio carattere di necessità, e questo è appunto un indizio che si può rivelare importante nell'esame della configurazione complessiva delle qualità cosali [10]. Se consideriamo il "corpo spaziale" in certo senso come "l'impalcatura fondamentale per la costituzione della cosa intera" non c'è dubbio che al colore come qualità va attribuito un carattere primario. Nella percezione del colore infatti sembra risolversi l'ambito complessivo della visualità: "Il visto potrebbe ben essere da noi definito come colore, o come ciò che si costitui­sce in un nesso indissolubile, essenziale, con il colore"[11]. È vero che noi vediamo delle forme, delle figure (Gestalten), ed il colore appare come riempimento di queste forme. Ma, dal punto di vista fenomenologico, si tratterebbe di chiarire più a fondo questa distinzione tra colore e forma, dal momento che essa sembra essere piuttosto fondata sulla di­stinzione tra colore e colorazione, cioè tra il colore e la sua estensione [12]. Finché restiamo in questo ambito di considerazione, la cosa vista, e quindi la sua qualità cromatica, viene colta nella sua singolarità ed indipendenza. Ma appartiene all'essenza stessa del colore di darsi come proprietà di questa cosa solo in rapporto ad un'altra cosa - ad una fonte luminosa. Tra colore e illuminazione vi è uno stretto rapporto di dipendenza, per il quale il colore appare solo se vi è intorno una fonte luminosa, ed inoltre varia, si modifica, in connessione con le variazioni di intensità della fonte luminosa stessa, sia che tali variazioni dipendano 233 dalla natura stessa della fonte luminosa, sia che esse siano prodotte dal suo allontanarsi o avvicinarsi alla cosa illuminata. Per questo motivo il colore mi si dà per essenza in una molteplicità di adombramenti (Farbenabschattungen). Ma nello stesso tempo io posso rilevare in questa relatività del colore rispetto alla fonte luminosa, delle regolarità, dei modi costanti di comportamento. Il colore, ad esempio, si modifica costantemente nella modificazione costante dell'illuminazione e discontinuamente nella modificazione discontinua [13]. Se avvicino progressivamente una luce, tutto diventa pro­gres­sivamente più chiaro, se io la allontano, le cose riprendono a poco a poco l'aspetto di prima. In una costanza di illuminazione ho una colorazione costante che si costituisce come stato oggettuale (Gegenstandliche Beschaffenheit); nella modifica­zione, il precedente stato oggettuale diventa mero modo fenomenico di una nuova unità. La reciprocità tra colore e illuminazione si rivela anche nel fatto che la nuova unità costituita può essere considerata sia come colore uguale "ad una illuminazione più forte, sia come modificazione del colore in un'uguale illuminazione". In realtà il colore viene posto oggettivamente e la variazione di colore viene interpretata nel primo senso; la cosa ha un colore oggettivo, che appare diversamente ad una illuminazione diversa. In che modo si for­ma allora questa oggettività del colore? Si potrebbe rispondere con il determinare una "normalità" di illuminazione nella quale si raggiunge uno stato "ottimale" della datità del colore, affer­mando ad esempio che il colore oggettivo è quello che vie­ne visto sulla cosa, quando questa è esposta alla chiara luce del giorno. "Così certe condizioni risultano essere le condizioni "normali": la visione nelle condizioni costituite dalla luce del sole e da un cielo chiaro, senza l'intervento di altri corpi capaci di influire sul colore dell'apparizione. L'"op­timum" che così viene ottenuto vale come il colore stesso, a differenza per esempio del rosso di sera che "soffoca" tutti i colori propri del corpo. Tutti gli altri colori della qualità sono un "aspetto di", "ap­parizioni di" questo pri- 234 vilegiato colore dell'apparizione... Ma la cosa stessa implica che questo colore normale può a sua volta modificarsi, appunto sulla base dell'intervento di altri corpi luminosi, di una luce più chiara o più fosca; senonché, ristabilendosi le circostanze normali, si ristabilisce anche lo stesso colore "in sé" al corpo inerisce un colore essente in sé, un colore che viene colto nella visione ma che ha un aspetto sempre diverso, un aspetto che dipende dalle circostanze oggettive e che ha un rilievo più o meno forte (fino al limite dell'invisibilità), a cui va connesso anche il grado di visibilità della forma" [15]. Nella variazione continua degli adombramenti di colore si costituisce dunque il colore stesso come una unità che resta identica nella modificazione. Se guardiamo l'oggetto attraverso un vetro colorato, il suo colore appare modificato non soltanto intensivamente ma anche qualitativamente [16]. Eppure noi continuiamo ad attribuire alla cosa una colorazione "propria" ed essa viene appresa, attraverso il variare dei suoi modi di mani­ festarsi, immodificata anche rispetto al colore. Potremmo dire allora che il permanere immodificato dell'oggetto è indotto dalla ripetibilità sempre possibile di un suo stato costante; se inter­ viene una modificazione di colore prodotta da variazione di illuminazione o da interposizione di medio, posso sempre ritor­nare al sistema precedentemente costituito tramite l'elimi­nazione della variazione e della interposizione. Tuttavia è necessario distinguere anche tra le apparenze. Secondo l'illuminazione, abbiamo detto, il colore si può presentare in questa o in quella Abschattung. Ma l'adom­bra­mento non è me­ra apparenza nello stesso senso in cui lo è il colore modificato per interposizione di medio. Anche la datità ottimale del colore, nella quale esso si presenta nella sua ogget­tività, è una Ab­schattung. La variabilità del colore è in questo caso oggetti­vamente regolata dal rapporto di dipendenza tra illuminante e illuminato. Questo rapporto è tale per cui l'illuminante influisce sull'illuminato, determina il grado di chiarezza in cui il colore è dato - il suo stato 235 visuale - ed il colore è sempre neces­sariamente dato ad un certo grado di chiarezza. Per questo va sottolineata la differenza essenziale tra la modificazione di colore dipendente dalla variazione di illuminazione e dalla interposizione di medio: "L'illuminazione modifica il colore e la chiarezza: lo stato visuale. La cosa illuminante agisce sul­la cosa illuminata. Il medium invece non modifica la cosa, ma soltanto il vedere della cosa: la sua apparizione (Erscheinung). E ciò per motivi ben comprensibili. Se pongo di fronte agli occhi un vetro rosso, ciò modifica tutti i colori che io vedo in questo modo; ma questo vale solo per me, non per gli altri; invece, una modificazione di illuminazione opera un mutamento per tutti coloro che (senza interposizione di medio) guardano le cose illuminate"[17]. Il rapporto tra illuminante ed illuminato, all'interno del quale si realizza la percezione del colore, ha una sua complessa struttura che non si riduce al rapporto tra l'oggetto visivo e la fonte luminosa. Se da un lato lo stato visuale dell'oggetto è determinato come effetto di un corpo luminoso, dall'altro "ogni cosa agisce come "illuminante" ad un grado qualsiasi, anche se non è essa stessa luminosa; in tal caso, in quanto si trova "alla luce", e non "al buio", essa ha ricevuto luce ed è colorata, ha uno stato visuale come effetto di un corpo che illumina per virtù propria, ed irraggia a sua volta la luce ricevuta operando così come fonte luminosa e determinando lo stato visuale delle altre cose. - Vi sono dunque qui dei rapporti di dipendenza, e per mezzo degli stati visuali delle cose, che si trovano nelle dipendenze (dipendenze causali), si costituisce una nuova pro­prietà: la proprietà ottica oggettiva. Questa non è qualcosa di visto, ma di "pensato". In che senso? Non si tratta di un pensiero enunciativo e deduttivo, e neppure di concetti. Siamo qui di fronte ad una sintesi di grado superiore che presuppone le unità degli altri gradi e le unità che qui vengono poste nei rapporti di dipendenza. - L'unità di grado inferiore non è ancora una cosa; essa lo diventa per il solo fatto che viene appresa come unità, che è anche iden- 236 tica nella serie delle nuove modificazioni, che hanno il carattere di effetti, derivanti da altre modificazioni. Avere proprietà uguali come effetti in contesti uguali, in contesti-di-cose uguali - questo è costitutivo per la cosalità" [18]. Si ripresenta allora il nostro problema iniziale, il problema cioè della costituzione della cosa in quanto tale oppure della cosa materiale e reale di fronte all'irrealtà dell'immagine. Nell'analisi dello schema puramente visivo abbiamo rilevato la presenza di rapporti regolari di connessione, che spiegano la posizione dell'og­gettività e la riferibilità del colore come qualità oggettiva di un ente reale. Ma questo vale, in generale, per l'essenza della cosa stessa, dal momento che soltanto in quanto l'essere sensibile viene costantemente appreso come effetto ed efficiente, come sussistente in un determinato sistema di intrecci causali, esso si presenta come cosa" [19]. L'immagine come pura parvenza può essere prodotta da qualcosa di reale, ma non può "patire" e non può agire" : essa "non ha alcuna causalità, è "nulla"" [20]. Giungiamo così al margine del problema della connessione tra il concetto di "sostanza" e quello di causa, che è uno dei fuochi intorno a cui si articola la discussione della prima sezione di Ideen II. 237 Note [1] E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965. [2] Ms. D 13 XXIV. Il manoscritto stenografico originale consta di trenta fogli divisi in piccoli gruppi. Reca il titolo : Phan­ tom und Ding. Le citazioni ed i rimandi si riferiscono alle pagine della trascrizione dattiloscritta. [3] Idee, II, trad. it. cit., p. 401. [4] ivi, p. 434. [5] ivi, p. 435. [6] Ms cit., p. 1. [7] ivi, p. 2. [8] ivi, p. 3. [9] ivi, p. 3. [10] ivi, p. 3. [11] ivi, p. 20. [12] ivi, p. 3. [13] ivi, p. 23. [14] ivi, p. 5. [15] Idee II, trad. it., p. 455. [16] Ms. cit., p. 6. [17] ivi, p. 9. [18] ivi, p. 10. [19] ivi. [20] ivi, p. 1. Giovanni Piana Opere complete Volume Terzo La notte dei lampi Parte prima 1. Il lavoro del poeta. Saggio su Gaston Bachelard, p. 5. 2. Colori e suoni, p. 85 Appendice: L'esperienza della transizione e il sistema dei colori, p. 205 2013 * Le figure del saggio su Bachelard sono tratte da dipinti di Odilon Redon * La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell'immaginazione è stato pubblicato dall'Editore Guerini e Associati, Milano, nel 1988. Questa edizione è stata divi­ sa in due parti e alla prima parte è stato aggiunto, a titolo di appendice, il sag­ gio "L'esperienza della transizione e il sistema dei colori", che integra e spiega con illustrazioni i temi trattati in "Colori e suoni" Copyright Giovanni Piana Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.5 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.5 Uniform Resource Identifier Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT 5 Giovanni Piana La notte dei lampi Parte prima Il lavoro del poeta Saggio su Gaston Bachelard 6 7 Indice 1. Introduzione 2. L'immaginazione come "funzione dell'irreale" e come "po­ tenza maggiore della natura umana" 3. Le interpretazioni psicoanalitiche e l'atteg­giamento fenome­ nologico 4. Il silenzio della lettura e la solitudine delle immagini 5. Tema del retentissement 6. Memoria e immaginazione 7. Le immagini per le immagini - Bachelard e il surrealismo 8. Tematica della rêverie - Rêverie e soggettività - "La rêverie illu­ stra il riposo dell'essere" 9. Poetica dello spazio: messa da parte degli spazi ostili - Lo spa­ zio del riposo e dell'inti­mità protetta - Una casa per sognare 10. Elementi per una critica - Ovvietà ed erroneità dell'oppo­si­ zio­ne tra operazioni razionali e immaginative - L'intervento del­­l'im­ma­ginazione nelle pratiche della conoscenza - Du­ rezza del reale e forza disintegrante dell'imma­ginazione - Co­ lui che vide una ruota mettere i denti 11. Ciò che manca in Bachelard: l'immaginazione sociale; la teatrali­tà dell'immaginazione; l'immaginazione festosa 12. Considerazioni critiche conclusive - L'ingenuità fe­nomeno­ lo­gica e l'immedesimazione - Fenomenologi e lupi - Le tec­ niche dell'immaginazione e il lavoro del poeta. 8 9 1. Introduzione Nell'ampia produzione di Ba­ chelard sulla tematica dell'im­ maginazione, la Poetica dello spazio [1] merita certo di essere consi­ derata come un'opera che apre un nuovo corso: in essa infatti in­ terviene una modificazione me­ to­ dologica che egli ca­ ratterizza con il termine di fenomenologia. Ma qual è il senso che assume questa parola, tanto polivalente, all'interno della sua elaborazio­ ne? Noi vorremmo intanto ri­ spondere a questa do­manda co­gliendo, in una visione di scorcio, alcuni tratti carat­teristici della sua impostazione. È cosa nota che la posizione epistemologica di Bachelard è stata realmente apprezzata nel suo giusto valore e nella sua por­ tata solo in questo ultimo decennio. Negli anni Trenta, benché non si possa dire che la posizione di Bachelard fosse ignorata o mancasse di riconoscimenti e di apprezzamenti, tuttavia non vi è dubbio che essa fosse priva di quella risonan­za che gli venne in seguito riconosciuta. Ciò è dovuto a numerose circostanze di ordine diverso, le­ gate in parte alle vicende della cultura francese, dominata prima dal bergsonismo, di fronte al quale Bachelard aveva preso una po­ sizione ostile, poi dall'esistenzialismo, al quale Bachelard rea­gì in maniera altrettanto ostile. In parte, allo stesso imporsi della te­ matica epistemologica sul piano europeo e internazio­nale, che fu fin dall'inizio prevalentemente legata all'indirizzo neopositivistico a cui, per ragioni di impostazione teorica, Bache­lard fu sostanzial­ mente estraneo. Questo indirizzo prendeva forma, ed era desti­ 10 nato in breve tempo ad assumere un grande sviluppo, negli stessi anni in cui Bachelard andava elaborando le proprie posizioni in sede epistemologica. E non vi è dubbio che la fortuna di questo indirizzo ha contribuito a fare per un certo tempo di Bachelard un caso piuttosto particolare e isolato. Peraltro vi è almeno un punto che in qualche modo acco­ muna la posizione di Bachelard con il primo neopositivismo, un punto che conviene tenere d'occhio perché nello stesso tempo conduce a esiti ed a sviluppi interamente diversi. Si tratta precisamente di un atteggiamento di principio per ciò che attiene non soltanto la sottolineatura dell'importanza del­­ la scienza per la riflessione filosofica, ma soprattutto la delimi­ tazione dello spazio della riflessione filosofica alla pro­ble­matica teoretica emergente dalla scienza stessa. Questa problematica teoretica non definisce soltanto una regione di interessi della fi­ losofia, ma definisce l'unica regione legittima di questi interes­ si. In particolare la filosofia non deve essere concepita co­me una riflessione autonoma intorno alla scienza, non deve dunque pretendere di sovrapporsi a essa, ma deve riproporre eventual­ mente i suoi classici problemi di ordine generale a partire da una riflessione che si misuri di continuo con la scienza stessa, nella sua concretezza e nella sua attuali­tà, nella determinatezza, nella varietà e nel movimento delle sue procedure e dei suoi metodi. In quest'atteggiamento di principio vi è, quanto meno, un'af­­finità con la posizione dell'indirizzo neopositivistico. Tut­ ta­via, per tutto il resto la tematica epistemologica di Bachelard diverge profondamente dalle prime versioni del neopositivismo viennese, e diverge già per le conseguenze che vengono tratte da quell'atteg­gia­mento di principio. Si potrebbe anzi osservare che, come l'espan­sione e la fortuna delle tesi neopositivistiche hanno contribuito a mettere in ombra la posizione Bachelard, così la ripresa di interesse verso questa posizione è in gran parte legata al­la crisi di quella impostazione. Sono proprio le concezioni più recenti che fanno parte della storia di questa crisi, a consentire 11 una ripresa della tematica bachelardiana che è apparsa assai più attuale di quanto potesse apparire ai tempi suoi. Per ciò che riguarda le divergenze, basterà qui attirare l'at­ tenzione su due motivi, attraverso i quali potremo speditamen­ te localizzare la tematica dell'immaginazione, che è lo scopo di queste considerazioni preliminari. Il primo motivo riguarda la pretesa di far rivivere, a partire da un discorso epistemologicamente orientato, istanze filosofi­ che di tipo empiristico o, più in generale, realistico. Questa pretesa è presente in varie forme del neopositivismo viennese e si tratta di una pretesa vivacemente attaccata da Bachelard in modo estre­ mamente ricco e articolato. In linea generale, egli tende a e­saltare l'aspetto secondo cui la scienza può essere considerata u­na vera e propria costruzione e ricostruzione razionale della real­tà stessa, una tesi che viene elaborata in modo molto sottile e anche sedu­ cente, così da evitare nello stesso tempo di cadere nella teoriz­ zazione di un razionalismo di stampo idealistico. All'in­terno di questo quadro va segnalata anche la critica di un atteggiamento fenomenologico: con l'insistere sui dati per­cettivi, sui dati come dati da descrivere, piuttosto che da costruire, la fenomenologia sembra presentarsi, secondo Ba­chelard, come una variante di un atteggiamento empiristico. Il secondo motivo riguarda l'impronta prevalentemente lo­ gica che caratterizza il neopositivismo viennese. Il filosofo neo­ positivista si pone di fronte alla scienza come se essa fosse un prodotto finito: cosicché ci si deve essenzialmente porre il com­ pito di enuclearne la compagine logica, in modo da ottene­re dei veri e propri canoni che circoscrivano l'idea della scientifi­cità. Di qui deriva una pronunciata at­tenzione agli aspetti formali della scien­ za, a cui fa da conseguente contrappeso un disinteresse presso­ ché totale verso le dinamiche concrete dello sviluppo della scienza, verso il problema della sua storicità. Per Bachelard le cose stanno ben diversamente. L'idea del­la realtà, posta dalla scienza e dalla tecnica come una realtà razio­ 12 nalmente costruita, si accompagna con il rifiuto di fare di questo razionalismo un'astrazione che trova il proprio modello fissato, una volta per tutte, nella logica. La scienza stessa entra in que­ stione proprio nella sua processualità storico-concreta. In que­ sto secondo motivo si fa sentire in modo consistente anche il peso della polemica antiempiristica. Ciò che distoglie l'interesse epistemologico dalla processualità della scienza con­siste nella stessa nozione di processualità implicata da un punto di vista empiristico. Il processo è qui semplicemente un sommarsi di co­ noscenza a conoscenza, un processo lineare di accumulazione. Ma se consideriamo le cose in questo modo, la processualità non avrà un autentico interesse epistemologico, dal momento che l'acquisizione della verità sta interamente al di fuori dello statu­ to della verità stessa. Un simile atteggia­mento si incontra con la tendenza rivolta prevalentemente agli aspetti logico-formali delle teorie. Qui siamo interessati essen­zialmente alla forma del­ la verità, piuttosto che al suo movi­mento. Nell'orientamento di pensiero di Bachelard, la storicità della scienza assume invece un interesse direttamente episte­mologico: e ciò in coerenza con una profonda riformu­lazione della stessa idea del movimento del­la scienza considerato come un progredire discontinuo che si sviluppa in una dimensione di intensa conflittualità. All'interno di una simile concezione, tutta orientata verso i dinamismi effettivi, verso i modi delle concettualizzazioni scien­ ti­fiche considerate nel loro sviluppo, assume rilievo non solo un'idea della scienza considerata anzitutto come prodotto cul­ turale, che va integrato nell'orizzonte più ampio della cultu­ra, ma anche il riferimento agli scienziati stessi come produtto­ri di essa. La produzione di razionalità non avviene nell'ambi­to della ragione pura, ma è intrisa di componenti che rimanda­no allo psichismo concreto degli uomini. Assumendo il punto di vista di Bachelard non può che essere concesso uno spazio piuttosto ampio anche all'incidenza dei fattori psichici come una inciden­ za connotata in senso negativo. L'idea del sussiste­re di ostacoli epi­ 13 stemologici, che fa tutt'uno con l'insistenza sugli aspetti conflittuali delle acquisizioni conoscitive - un'idea che assume in Bachelard una grande ricchezza di articolazioni - viene sviluppata anche in questa direzione. Nella stessa misura in cui consideriamo la storia della scienza come significativa ai fini della sua teoria, e sottolineiamo di continuo l'aspetto conflittuale, non possiamo certamente sottovalutare la circo­stanza che questi conflitti han­ no spesso un fondamento psico­logico: le idee nuove, le nuove prospettive, i nuovi modi di vedere, la stessa capacità di cogliere la novità di un'osservazio­ne o di un esperimento e la sua porta­ ta, incontrano una resistenza dovuta a pregiudizi che sono tanto più radicati quanto più si riferiscono all'ambito della vita emo­ tiva e affetti­va. La filosofia stessa intesa come epistemologia, così come una storia della scienza che non voglia ridursi alla sua croni­storia, si deve assumere il compito di esibire i punti in cui la vita affettiva ed emotiva interviene ostacolando il progresso della razionalizzazione. Del resto l'opera del 1938, La formazione dello spirito scientifi­ co, reca il sottotitolo Contributo ad una psicoanalisi della conoscenza oggettiva, che allude esplicitamente a questo am­bito di problemi. Il termine di "psicoanalisi" non è qui certa­mente da intendere alla lettera, come del resto non sono mai da intendere alla lettera i numerosi termini più specifici tratti da Freud o da Jung che Bachelard impiega spesso, e con compiacenza, a modo suo: e tuttavia questo impiego resta comunque significativo. Parlando di componenti psichici ab­biamo fatto riferimento alla sfera delle emozioni e degli affetti: ma all'interno di questo ambito è natu­ ralmente implicata l'immaginazione stessa. Ciò che si richiede ad una psicoanalisi della conoscenza oggettiva è di fugare i fantasmi dell'immagi­nazione esattamente come sono proprio questi fan­ tasmi che debbono essere fugati dalla terapia psicoanalitica. In questo modo ci imbattiamo nel problema dell'immagi­ nazione. Ed è inutile dire che si tratta di un incontro che, da un lato, è strettamente subordinato ad un interesse dominante volto 14 altrove, dall'altro esso assume subito connotazioni preva­lente­ mente negative. L'immaginazione è una delle fonti degli ostacoli epistemologici: essa si presenta come una facoltà psi­co­logica, essenzialmente come una facoltà di operare sintesi e asso­ciazioni che non hanno alcun fondamento oggettivo, che si sovrappon­ gono all'istituzione di relazioni e rapporti effettivi e che traggo­ no la loro forza dal piano dell'emozione e del sentimento. Ecco dunque il profilo della prima posizione bachelardiana del problema: da un lato vi è la scienza come realizzazione, ad un tempo progressiva e conflittuale, della ragione; dall'altro vi sono gli ostacoli che la frenano, che danno a quel progresso uno svi­ luppo discontinuo. Fra questi ostacoli vi è l'immagina­zione: che sta dalla parte del sentimento, dell'istinto, di ciò che è dunque intrinsecamente irrazionale. È interessante notare che questa connessione tra l'immagi­ nazione e l'irrazionale era presente nell'ambito dell'elaborazio­ne epi­stemologica del neopositivismo viennese, di cui abbiamo per altri versi già misurato la distanza rispetto alla posizione di Ba­ chelard. Anche in quell'ambito di idee valeva una connes­sione fondata su una contrapposizione del tutto analoga, e anzi forse in modo più diretto e immediato, dal momento che essa non ave­ va affatto bisogno di alcuna mediazione "psicologica". Secondo le prospettive del neopositivismo viennese, al di là delle scienze e della filosofia che ha rinunciato definitivamente alla metafisica per porsi come teoria del metodo della scienza, si apre l'oscuro campo dell'irrazionale a cui appartiene la vi­ta emotiva e affettiva. In questo campo cade inevitabilmen­te tutto ciò che può essere detto opera dell'immaginazio­ne - quindi, per esempio, anche i prodotti dell'arte in gene­re. Questa divaricazione tuttavia non pone qui alcun proble­ma: in quanto filosofi prendiamo semplicemente nota del sussistere dell'irrazionale, eventualmente ne ammettiamo l'im­por­tanza ai fini del soddisfacimento di bisogni particolari, poiché possiamo anche concedere che la scienza non arrivi dappertutto, e da esso 15 distogliamo lo sguardo. Ciò che possia­mo ancora ammettere è che questo campo, nella misura in cui da esso derivano determi­ nati prodotti culturali, come la reli­gione o l'arte, possa essere og­ getto di indagini specializzate. Queste indagini dovranno tuttavia appartenere più alla scien­za che alla filosofia, e rispetto ad esse faremo valere l'istanza di una ricerca positivamente orientata, che si attenga a criteri e a metodi che non possono essere molto diversi da quelli che valgono per la scienza in genere. Nonostante l'indubbia presenza della stessa contrapposi­ zione in Bachelard, il diverso orientamento in cui è inserita fa sì che essa agisca in tutt'altra direzione. La concezione dinamica della scienza e l'accento posto più che sul risultato conoscitivo, sul processo attraverso cui si per­ viene a questo risultato conduce a conferire un interesse filosofi­ co specifico proprio a quegli elementi irrazionali che rimandano a circostanze psicologiche in quanto rappresentano ostacoli allo sviluppo della conoscenza. L'interesse al sottofon­do psicologi­ co delle procedure conoscitive è del tutto estraneo all'am­biente neopositivistico: qui si chiede un'analisi logica, una logo-ana­lisi della conoscenza oggettiva, e non una psico-ana­lisi di essa. Di conse­ guenza in Bachelard, come assume rilievo l'a­spetto psicologico, che non deve essere affatto lasciato a se stesso, così può diven­ tare tema di una riflessione approfondita l'ir­ra­zionale in genere: e dunque l'immaginazione. 2. L'immaginazione come "funzione dell'irreale" e come "po­ tenza maggiore della natura umana" L'immaginazione, in Bachelard, assume sempre più impor­tanza con il passare degli anni. All'ini­ zio il problema si prospetta nel senso che abbia­ mo or ora indicato: ma ben presto esso comin­ cia con l'assumere una precisa e autonoma fisionomia, erodendo pro­gressivamente lo spazio destinato agli studi epistemologici. 16 Fino al punto che questo singolare pensa­tore si immerge inte­ ramente nel problema, pubblicando opere di ampie proporzioni e numerose, nelle quali la tematica dell'immaginario è divenuta dominante. L'epistemologo Bachelard si è infine innamorato dell'im­ maginazione. Stando alla superficie delle cose, potremmo for­ se essere tentati di considerare questa espansione del problema come connessa, più che alle necessità intrinseche di una rifles­ sione filosofica che prosegue il suo corso, alle caratteristiche in­ dividuali dell'autore, e anzitutto alla sua personale passione, in particolare, per la letteratura - una passione coltivata inizialmen­ te in privato e che a poco a poco prende sempre più la mano al filosofo invadendo la sfera della sua produzione pubblica. In effetti, i libri di Bachelard dedicati all'immaginazione sono anzitutto una testimonianza molto viva della sua passione per la lettura, del suo vero e proprio amore appassionato per i libri, e in particolare per i libri di poesia. L'introduzione alla Poetica della rêverie si chiude con una im­ magine che rende molto bene lo spirito che anima Bache­lard let­ tore di poeti: "Io vorrei che ogni giorno mi cadessero dal cielo a grandi fasci i libri che raccontano la giovinezza delle immagini... Lassù, in cielo, non è forse il paradiso una immensa biblioteca?" [2]. E ancora: "... ci consigliano di non leggere troppo veloce­ mente e di guardarsi dall'inghiottire pezzi troppo grossi... Tutti questi precetti sono belli e buoni. Ma un principio li comanda. E necessario dapprima un buon deside­rio di mangiare, di bere e di leggere. Bisogna desiderare di leggere molto, leggere ancora, leggere sempre. - Fin dal matti­no, davanti ai libri accumulati sul mio tavolo, faccio la mia preghiera al dio della lettura: "Dacci oggi la nostra fame quotidiana"" [3]. Isolatamente prese, citazioni come queste sembrano aprirci uno squarcio sulla "sensibilità" di Bachelard, piuttosto che sui suoi pensieri e sulle sue meditazioni di filosofo intorno all'im­ maginazione. E certamente in parte le cose stanno così. Ma dob­ 17 biamo guardarci dall'intenderle solo così. Frasi come que­ste ci potranno apparire più o meno attraenti, ma certamente ci sfug­ girebbe il loro interesse. Facili da leggere, ma difficili da capire - se non vogliamo addirittura concludere che qui non ci sia nulla da capire. E invece dobbiamo assumere, ne i confronti di Ba­ chelard, un atteggiamento sospettoso, un atteggiamento in cui co­minciamo subito a sospettare che chi si immagina il paradiso, e proprio il paradiso, come una immensa biblioteca, abbia una sua molto precisa filosofia dell'immaginazione, anche se per il mo­ mento non la riusciamo a intravedere nemmeno da lontano. In realtà, con l'emergere della problematica dell'immagi­ nazione all'interno di una concezione della filosofia tutta orien­ tata in senso epistemologico emerge anche l'esigenza di esten­ dere e ampliare quella nozione di filosofia che ora viene avvertita come troppo unilaterale. Lo stesso orientamento epistemologico viene percepito come un limite e la tematica dell'imma­gi­nario si propone sin dall'inizio insieme all'aspira­zione a superare questo limite. La filosofia non deve soltanto aggirarsi nei dintorni delle scienze, appropriandosi della razionalità che si sviluppa in esse; ma deve anche circoscrivere lo spazio dell'immaginazio­ne, ac­ quisendolo nell'ambito delle proprie riflessioni, allo sco­po di ri­ comporre l'unità dell'essere umano che deve essere rico­nosciuto non solo come un essere che conosce la realtà e la trasforma, ma che anche di continuo la "sogna". La contrap­posizione iniziale deve essere così nello stesso tempo superata e presupposta, mentre la nozione di filosofia, direttamente pratica­ta da Bachelard più che esplicitamente teorizzata, muta di accento, tende a dilatarsi. Se consideriamo le "facoltà", ragione e immaginazione, per esempio, o i loro prodotti - la scienza e l'arte -, ci trove­ remo in­dubbiamente di fronte ad una contrapposizione. Ma se consi­deriamo la soggettività stessa nella sua unità, allora la con­ trapposizione è superata per il fatto stesso che l'uomo, nella sua concretezza è ragione pensante, che si misura attivamente con la 18 realtà, con l'esterno, ed anche sognatore, che si ripiega nella pro­ pria interiorità in una continua produzione di irrealtà. L'uo­mo è ad un tempo ragionatore-realizzatore; e sognatore-­irrealiz­zatore. Ad un tempo, evidentemente, non nel senso della contempora­ neità temporale. La vita dell'immaginazione, dell'emozio­ne, del sentimento, degli affetti deve esplicarsi altrove ed in un tempo diverso che nell'esercizio delle facoltà propriamente razionali. Bachelard attribuisce a queste ultime il carattere di ciò che egli chiama "funzione del reale". Attraverso l'esercizio di questa fun­ zione, egli dice, "noi fabbrichiamo opere che sono della realtà" [4]. Ma non meno importante è "la funzione dell'ir­reale", la quale ha il compito, di estrema importanza, di custodire "lo psichismo umano al di fuori di tutte le brutalità di un non-io ostile, di un non-io estraneo" [5]. Si comprende subito che impostando il problema in que­ sto modo ci siamo ampiamente lasciati alle spalle l'idea di una considerazione della tematica dell'immaginario subordinata ad un orizzonte epistemologico. Qui l'immaginazione non è in que­ stione in quanto taglia la strada alla scienza, in quanto si interpone sul suo cammino. Ciò su cui cade ora l'accento è la pura e semplice alterità dell'immaginazione rispetto a ciò che appartiene alla scien­ za e questa alterità si esercita legittima­mente esplicando una sua precisa funzione nello spazio suo proprio. La contrapposizione viene mantenuta. Ma anche superata, perché questa alterità ri­ confluisce nell'unità dell'es­sere umano che non può essere ridot­ to né all'uno né all'altro polo della contrapposizione. Ma proprio perché l'essere umano viene chiamato in cau­ sa, il percorso che conduce dalla subordinazione epistemologica della tematica dell'immaginazione all'immaginazione conside­ rata nella sua autonomia è anche un percorso che sposta l'asse della stessa nozione di filosofia in Bachelard. Lo sposta insensi­ bilmente - dal momento che in rapporto a ciò non vi è alcuna discussione esplicita in Bachelard, ma dobbiamo piuttosto af­ fidarci a suggestioni interne al testo che talvolta hanno l'appa­ 19 renza di annotazioni di sfuggita. Eppure in esse si avverte con chiarezza il senso di questo spostamento: la conce­zione della fi­ losofia come epistemologia tende ora ad essere sostituita da una concezione della filosofia che vorrebbe assu­mersi senza pompe e un poco tacitamente il compito di prospettare una vera e pro­ pria concezione dell'uomo nel mon­do. Si comincia a proporre un complesso di problemi che potrebbero forse essere attribuiti all'ambito di una "antropolo­gia filosofica". Tuttavia, una simile espressione deve essere intesa in modo attenuato: con essa non possiamo voler dire che Bache­lard si proponga di mettere nero su bianco una vera e propria concezio­ ne dell'uomo e della natura umana. Si tratta soltanto di una incli­ nazione che assume la tematica dell'immaginazione: proprio per il fatto che ci occupiamo di essa come di una funzione dell'irreale, questa funzione andrà considerata in riferimento all'essere che la esercita - all'uomo stesso. Così, quando per esempio, nella Poetica dello spazio, leggiamo: "La nostra proposta è quella di considerare l'immaginazione come potenza maggiore della natura umana" [6], abbiamo tutti i diritti di considerare una simile affermazione come riguardan­te, prima ancora che l'immaginazione, la "natura umana" stessa. In questo senso potremmo dire che essa appartiene all'ambito di un'antropologia filosofica. Ed analogamente, quan­ do leggiamo che l'immagina­zione è "al tempo stesso un divenire espressivo ed un divenire del nostro essere" [7] tende­remmo a dare importanza all'espres­sione "il nostro essere"; un'importan­ za e un'accen­tuazione che in realtà non è affatto arbitraria. Poco oltre infatti Bachelard osserva che con ciò viene definito "il livel­ lo dell'ontologia a cui lavoriamo" [8]. Se espressioni come "natura umana" o "il nostro essere" sono forse troppo deboli per essere notate, di contro una parola come questa: "ontologia", è anche troppo forte, e il nostro eser­ citato orecchio di filosofi reagisce vivacemente. Dunque Bache­ lard lavora ad una "ontologia"? Del resto Bachelard non rinuncia nemmeno a impiegare la 20 parola "metafisica" che così spesso si accompagna a "onto­logia". Proprio al termine della Poetica dello spazio egli parla, per esempio, di metafisica concreta. Citando una poesia di Rilke nel qua­ le si parla di un grande albero che "sviluppa in rotondo il proprio essere", egli dice che questo albero deve certamente occupare un posto significativo "nel mio album di metafisica concreta" [9]. E così altrove egli parla semplicemente di ontologia dell'immagina­ zione o di metafisica dell'immaginazione, in contesti in cui questi termini si presentano in un certo senso all'improvvi­so, inattesi, un poco sorprendenti. Per rendersi conto di questi impieghi dovremmo ripetere all'incirca ciò che abbiamo osservato parlando di una direzio­ne filosofico-antropologica. Proprio perché abbiamo di mira l'esse­ re umano potremmo parlare di una inclinazione antropo­lo­gi­ca, ma in fondo anche di una ontologia, di una metafisica, purché la si intenda non già come una esplorazione dell'essere "assoluto", che sta alle nostre spalle e che incombe su di noi, ma come l'es­ sere che noi siamo: il nostro essere. Si tratta in ogni caso di impieghi molto tenui. Direi quasi che Bachelard riesce a usare con dolcezza persino termini così duri, così rigidi come "ontologia" o "metafisica". Guardiamo del resto in che modo si parla di metafisica concreta nel passo che abbia­ mo or ora citato: la metafisica concreta di Bachelard assume su­ bito la forma, così privata, così personale, di un album, nel quale andiamo raccogliendo e ricomponendo, nelle ore della tranquil­ lità, come un gioco che ci rasserena, le immagini che ci hanno fatto sognare. Tuttavia questi impieghi non debbono essere troppo sot­ to-valutati per ciò che concerne le intenzioni filosofiche vere e proprie. Attraverso queste parole che irrompono nel testo e che subito diventano fluide come il testo stesso, si affaccia almeno lo spunto di un'operazione più sottile di quanto possa apparire ad un primo sguardo. E in ogni caso un fatto che Bachelard, in rapporto alla tematica dell'immaginazione, è indotto a parlare 21 di metafisica. E in particolare di metafisica concreta. Anche questo aggettivo deve avere un suo preciso significato. Riusciamo probabilmente a cogliere la portata di queste espressioni se le consideriamo orientate in una direzione pole­ mica abbastanza precisa, in una direzione che ha di mira la filo­ sofia esistenzialistica. Infatti non vi è dubbio che la filosofia esistenzialistica si muova in primo luogo sul terreno di un'antropologia filosofi­ca - pensiamo soltanto a Essere e tempo di Heidegger. La "natura uma­ na", l'uomo in genere è il tema effettivo anche se, per varie ragio­ ni, Heidegger rifiuta l'impiego di questi termini, introducen­do la parola Dasein (Esserci) in un'accezione pecu­liare. Questa parola rimanda a sua volta al problema più ampio dell'essere, al problema ontologico e metafisico in gran­de, entro il cui orizzonte l'antropo­ logia filosofica deve essere inserita. Questo problema viene ripro­ posto in tutta la sua serietà; e soprattutto in tutta la sua imponenza. Lo stile di pensiero che troviamo sviluppato in Essere e tempo è uno stile fortemente sistematico, e questa sistematicità assume a suo modo il carattere di qualcosa di simile ad un rigore "filosofi­co": almeno nel senso che nella descrizione dei modi d'essere dell'e­ sistente, si segue un determinato schematismo secondo il quale questi modi vengono identificati, concatenati e sviluppa­ti l'uno dall'altro. Su questo sfondo persino lo stemperamento di Bachelard nell'impiego dei termini assume subito il carattere di una con­ trapposizione tendenzialmente polemica. Il pastore dell'es­sere è invitato a rimettersi le pantofole e a rientrare tra le mura dome­ stiche. Questa polemica indiretta e implicita diventa tuttavia tal­ volta del tutto esplicita. La stessa aggettivazione di metafisica concreta ha una chiara intonazione polemica. E l'astratto schema­ tismo della filosofia esistenziale, il suo impianto, nonostante tutto, ancora categoriale - la lontana imitazione, su un nuovo terreno, del modello kantiano che viene presa di mira. 22 Non appena si comincia a parlare dell'uomo, dell'esserci, ecco che esso viene immediatamente fissato e circoscritto, anzi per meglio dire fulminato da determinazioni che sono in realtà pure astrazioni, che non hanno nulla a che fare con la ricchez­za, la varietà, la molteplicità delle dimensioni esistenziali concrete. Abbiamo appena accennato alla dimensione esisten­ziale del­l'uo­ mo, ed ecco che subito diciamo che ciò che caratte­rizza questa dimensione è, per esempio, l'essere gettato del­l'uomo nel mon­ do - cosicché quest'uomo noi lo vediamo subito lì, lungo tirato. Ecco come operano i metafisici fulminei - quei filosofi che quando parlano di "apertura al mondo", scrive Bachelard, "sem­ bra che abbiano soltanto da tirare una tenda per trovarsi di colpo in faccia al mondo" [10]. Così, nel capitolo dedicato alla casa, Ba­ chelard osserva che la "situazione della casa nel mondo" "ci offre in maniera concreta, una variazione della situazione, spesso così metafisicamente riassunta, dell'uomo nel mondo" [11]. Ciò che è interessante in questa frase è proprio il fatto che la concretezza viene qui contrapposta alla contrazione metafisi­ca, che è anche astratta semplificazione, cosicché l'accoppia­men­to in positivo operato da Bachelard quando parla di "metafisi­ca con­ creta" diventa significativo di una direzione polemica ben deter­ minata. Tuttavia, proprio il fatto che Bachelard impieghi comun­ que in positivo questo termine, mostra che vi sono anche altre implicazioni. Non si tratta in effetti solo di polemizzare contro la filosofia esistenziale: si affaccia anche un'aspirazione a occuparne lo spazio. In rapporto a questo aspetto ci è utile ancora una volta il rimando alla posizione neopositivistica. Naturalmente, anche a partire da questa posizione si sviluppa una polemica anti­ esistenzialistica. Tuttavia questa polemica può risolversi in un puro e semplice gesto di rifiuto metodologico. In fin dei conti si tratta qui soltanto di mostrare che la filosofia esistenziale non solo non rispetta i canoni autentici della razionalità scientifica, ma si situa 23 esplicitamente in opposizione a essi. Questo gesto di rifiuto non può essere considerato sufficien­ te nel contesto di discorso di Bachelard: e ciò proprio perché attraverso l'immaginazione si ripropone con particolare forza almeno il nucleo dei problemi che sta alla base della riflessione esistenzialistica. Bachelard parla in ogni caso di metafisica, assume in qual­ che modo questo termine nel proprio vocabolario, cosa che mai e poi mai avrebbero potuto fare i filosofi viennesi. E con ciò egli riconosce la legittimità di una riflessione proprio entro un ambito che si contrappone o che è comunque altro rispetto alla scienza e alla ragione, riconosce dunque il buon diritto di una filosofia inclinata verso i problemi "esistenziali" secondo una di­ rezione che è aperta appunto dalla tematica dell'immagina­zione. Per questo motivo abbiamo parlato di spostamento dell'as­ se della nozione di filosofia in Bachelard. In un certo senso, se adottassimo lo schema elementare proposto dal neopositivismo secondo cui si avrebbe la filosofia come epistemologia e poi nient'al­ tro che la filosofia come metafisica, non ci sarebbe da dubitare che secondo Bachelard la filosofia deve essere anche metafisica. Una simile affermazione dovrebbe poi essere segui­ta da tutte le atte­ nuazioni del caso; anzitutto l'attenuazione che riferisce questo termine entro una dimensione filosofico-antropo­lo­gica; quindi l'attenuazione di questa dimensione in direzione di un rifiuto di una teoria filosofica vera e propria; infine l'atte­nuazione estrema consistente nel ricondurre tutto ciò ad una pura e semplice inclina­ zione che assume la tematica del­l'imma­ginazione. La congiunzione di questi termini - metafisica e immagina­ zione - non rimanda peraltro, in Bachelard, ad una tendenza sempre rinascente ad attribuire all'immaginazione una sorta di vocazione metafisica, una sorta, cioè, di predisposizione ad acce­ dere ad un campo di realtà profonda e ignota, che resta in linea di principio inaccessibile agli strumenti e ai metodi della ragione, ma è orientata se mai nella direzione opposta. 24 Ogni discorso che pretenda di mostrarsi come esplorazione di una realtà situata oltre la superficie delle cose acquista interesse proprio in quanto viene considerato come espressione dell'im­ maginazione stessa. Idea certamente non nuova; anzi, molto vecchia, dal momento che qualunque polemica antime­tafisica ha sempre sottolineato, con maggiore o minore sarca­smo, l'imma­ ginarietà delle costruzioni metafisico-speculative. Ma questa vec­ chia idea assume in Bachelard una singolare trasformazione. Il punto della questione sta non tanto nell'esi­bire la relazione con l'immaginazione del discorso orientato metafisicamente, ma nel segnalare il suo interesse quando ci accingiamo a considerarlo così. La distinzione tra epistemologia e metafisica non può qui essere presentata come una distinzione simmetrica a quella tra senso e nonsenso. Al contrario, scopriamo la ricchezza di senso, lo spessore del discorso metafisico nella stessa misura in cui mettiamo in evidenza la sua connessione con l'immagina­rio, operandone la riconduzione al discorso "poetico". Così alla fine Bachelard non nasconde la propria ammira­ zione, accompagnata da una punta di invidia, verso il metafisi­ co esplicito, senza remore, che ha perduto ogni freno, che parla come se avesse gli occhi rove­ sciati verso il mondo che sta al di là. E qualche volta deside­ rerebbe trovarsi al suo posto: "Quale gioia professorale, qua­ le gioia sonora nell'incomin­ ciare la le­zione di metafisica, [...] dicendo: "Das Dasein ist rund". L'essere è rotondo. Ed attendere poi che il rombo del tuono dogmatico si calmi sugli estasiati discepoli" [12]. 25 3. Le interpretazioni psicoanalitiche e l'atteg­giamento fenome­ nologico Vogliamo ora volgere la nostra attenzione alla nozione di feno­ menologia proposta da Bachelard. Come abbiamo osservato, pro­ prio la Poetica dello spazio può essere considerata come opera di apertura di un nuovo periodo caratterizzato dall'adozione di un punto di vista "fenomenologico". Non è nostra intenzione ap­ profondire la questione se con ciò si annunci una vera e propria svolta, oppure se si tratti piuttosto di un riorientamen­to della tematica bachelardiana, nel quale molte cose subisco­no una mo­ dificazione, alcuni temi perdono di importanza, mentre altri ven­ gono in primo piano, senza che tuttavia si modifichi l'impianto di base [13]. Volendo indicare in che modo viene impiegato da Bache­ lard il termine di fenomenologia, non possiamo affatto contare su qualche pagina nella quale il nostro autore si diffonda speci­ ficatamente intorno alla questione, dibattuta in primo luogo in se stessa, eventualmente con rimandi ad altri autori che illustrino per analogia o per contrapposizione il modo del suo impiego. Il termine di fenomenologia viene gettato di continuo dentro il testo senza particolari preamboli e senza rimandi culturali im­ mediatamente appariscenti. Quindi dob­biamo, anche in questo caso, ottenere i chiarimenti di cui abbiamo bisogno operando 26 una ricomposizione di problemi intorno a questa nozione. Ve­ dremo allora ben presto che una discussione intorno alla nozio­ ne di fenomenologia in Bachelard non riguarda propriamente una questione di modo di approc­cio metodologico, ma ci porta direttamente nei punti nodali della sua filosofia dell'immagina­ zione. Un modo di cominciare ad operare questa ricomposizione sta forse nel notare che spesso, laddove si parla di fenomenolo­ gia, si trova anche una più o meno esplicita contrapposizione tra punto di vista fenomenologico e punto di vista psicoanalitico. In altri ter­ mini, uno dei momenti che orientano Bachelard in direzione di una fenomenologia dell'immaginazione sta nelle perplessità e nei dubbi che possono essere sollevati di fronte ad un modo di approccio che tragga ispirazione dalla psicoanalisi. Questi dubbi Bachelard li rivolge in primo luogo alla pro­ pria impostazione precedente che appariva influenzata dal­la psi­ coanalisi. I modi di questa influenza richiederebbero una discus­ sione a parte, benché si possa senz'altro affermare che su questo aspetto autocritico non sia il caso di calcare troppo la mano. Infatti, Bachelard si mantiene sempre fortemente indi­pendente da schematismi di derivazione psicoanalitica, non rinunciando nem­­­­meno a impiegare, come abbiamo già osser­vato, concetti e ter­mini di derivazione psicoanalitica in modo personale, ag­ giungendovi spesso del suo con molta disinvoltu­ra e senza trop­ pe preoccupazioni. Inoltre, anche uno sguardo sommario alla produzione di Bachelard mostrerebbe il peso della presenza di Jung, cosa che comporta fin dall'inizio un atteggiamento molto prudente di fronte alle interpretazioni psicologiche delle opere d'ar­te in genere. Per questo è opportuno insistere piuttosto sul fatto che Ba­ chelard ha di mira una tendenza implicita soprattutto nella im­ postazione freudiana, che sembra avere conseguenze fuor­vianti qualora essa venga fatta valere in rapporto alle opere letterarie. Questa tendenza può essere ricollegata alla nozione di interpre­ 27 tazione e ha a che vedere sia con il problema della particolarizza­ zione, cioè della riconduzione del sogno alle de­terminatezze del sognatore, sia con il tema del simbolismo e delle assegnazioni puntuali e stabili di significati reali ai simboli; sia infine con il terreno vero e proprio delle ipotesi psicoanalitiche con il loro rimando centrale al tema della sessualità. Contro di ciò, e avendo di mira gli esempi più grezzi e sprovveduti, Bachelard prende netta posizione: le interpreta­ zioni psicoanalitiche nei confronti delle opere poetiche, e quin­di delle immagini in genere, sono da respingere non tanto perché sono false, ma soprattutto perché la loro eventuale giustezza è priva di interesse ai fini di un'autentica apprensione delle immagini. Il metodo psicoanalitico - osserva Bachelard - resta in ogni caso un metodo degno di attenzione "per determinare la perso­ nalità di un poeta" [14]; da questo punto di vista le inter­pretazioni psicoanalitiche hanno "un vasto campo di applica­bilità" [15]; ma nel cogliere le immagini della poesia non siamo rivolti alla per­ sonalità del poeta, ed inoltre l'imma­gine poetica viene afferrata in tutta la sua densità espressiva proprio per il modo in cui essa si mostra alla superficie; anzi potremmo dire che questa densità va perduta se l'immagine viene spiegata in termini psicologici e risolta in simboli che a loro volta rimandano a dati di fatto riguardanti le vicende interiori ed esteriori del poeta stesso. Se assumiamo l'atteggia­mento psicoanalitico rischiamo dunque di porci in una disposi­zione che preclude di rivivere l'immagine - presi come siamo a sbrogliare la matassa delle nostre interpre­ tazioni [16], ricorrendo di continuo ad un "simbolismo globa­ lizzante" [17] e precostituito [18] che tende all'uniformità e alla monotonia. Un simile atteggiamento critico, che può essere ampiamen­te condiviso avendo di mira le applicazioni più ingenue dello stru­ mento psicanalitico al campo della letteratura e dell'arte in genere, potrebbe preludere ad un'accentuazione del fatto lette­rario nella sua autonomia e nella sua specificità. Di contro all'opera, considera­ 28 ta essenzialmente come documento psicolo­gico, che deve essere integrata nella storia personale della soggettività che la ha pro­ dotta, potremmo proporre l'integra­zione dell'opera stessa come fatto letterario nel contesto della letteratura come una totalità relativamente omogenea di pro­dotti che ha le sue norme e le sue tipicità interne e che quindi esige dei modi specifici di approccio e degli specifici criteri di valutazione. Bachelard invece non imbocca questa strada - anzi, sotto certi riguardi, sembra avviarsi in una direzione opposta. Ed è a questo punto che si presenta la questione dell'atteggiamento "fe­ no­me­nologico". Ciò che sfugge alle interpretazioni psicoanalitiche è lo stes­ so atto poetico, dice Bachelard [19]. Parlando di atteggiamen­to fenomenologico, egli vuole indicare in primo luogo un atteg­ gia­mento che aderisce all'atto poetico, in modo da riviverlo dall'in­ terno. L'immagine, prima ancora che compresa o interpreta­ta, deve essere colta, afferrata. E afferrarla significa partecipare alla sua vitalità, immedesimarsi con essa. Cominciamo ora con il renderci conto del modo in cui l'o­ rigine dicotomica dell'impostazione iniziale del problema del­­ l'im­­maginazione si rifletta già sui primi sviluppi. Abbiamo det­ to che l'attività immaginativa si svolge nell'unità di un soggetto concreto insieme alle altre attività che ascriviamo alla ragione: ma anche che essa si svolge su un piano interamente diverso, che essa occupa uno spazio e un tempo diversi. Ora questa alte­ rità, questa contrapposizione si manifesta anche all'interno del­ la riflessione che si orienta in direzione di questa attività. Così Bachelard osserva, facendo riferimento a se stesso e ai propri interessi epistemologici, che il filosofo che ha legato "tutta la formazione del suo pensiero ai temi fondamen­tali della filoso­ fia delle scienze", quando si accinge a studiare i problemi posti dall'immaginazione poetica "è obbligato a di­menticare il suo sapere ed a rompere con tutte le consuetudini di ricerca filosofica" [20] Nelle intenzioni di Bachelard, questo "dimenticare il sape­ 29 re", questa messa in parentesi delle proprie "consuetudini di ricerca" è l'azione preliminare che dovrebbe introdurci all'at­ teggiamento fenomenologico. Si sarebbe forse tentati di notare qui un'analogia con la tematica della "epoché" in Husserl, che talvolta si presenta come una operazione di messa in parentesi, di sospensione di validità relativa alle teorie a nostra disposi­zione che ci dovrebbe mettere in grado di afferrare i dati così come si presentano, indipendentemente da opinioni pregiudi­ziali. Tutta­ via converrà non aver fretta nel tentare di stabilire parallelismi e analogie come queste che, per quanto sembrino giustificate, in realtà potrebbero fuorviarci facendoci correre il rischio di una doppia incomprensione. Anziché andare senz'al­tro alla ricerca di analogie che ci portano al di fuori del contesto del discorso ba­ chelardiano, è opportuno attenersi strettamente ad esso facendo notare, invece, che questa messa in parentesi delle "consuetudini di ricerca filosofica" è una diretta conseguenza dell'impianto iniziale, proprio di Bachelard, della tema­tica del­l'im­ma­ginazione. ­Del resto questa messa in parentesi non riguarda soltanto l'orientamento metodico dell'indagine epistemologica. L'atteg­ giamento fenomenologico deve lasciare dietro di sé "tutti gli al­ lettamenti della cultura" [21]: il lettore deve disporsi di fronte a un'opera poetica in una dimensione di ingenuità, di semplicità proprio perché solo se ci disponiamo all'interno di questa dimen­ sione possiamo essere realmente preparati all'afferramento della vita delle immagini. Talvolta Bachelard parla anche di primitivi­ smo, alludendo appunto a questa dimensione di totale disponibilità che richiede poi essenzialmente che il lettore legga per il piacere di leggere, senza "secondi fini". Vi sono dunque delle ragioni filosofiche del fatto che Bache­ lard ami presentare se stesso come un simile lettore, come un lettore elementare e "incompetente". Nell'ambito di queste ra­ gioni è compreso anche quell'apparente disimpegno che traspa­ re nei suoi libri dedicati all'immaginario e che talora viene espli­ citamente denunciato: come quando egli dice di aver scritto il 30 proprio libro come un "libro di piacere" [22], come una sorta di vacanza spirituale del vecchio epistemologo che invita i suoi stessi lettori ad una vacanza con lui. In tutto ciò dobbiamo essere preparati a scorgere gli ele­ menti di una teorizzazione che ha il suo punto focale nell'idea di atteggiamento fenomenologico nella forma in cui esso viene prospettata in Bachelard. Lo stesso problema che abbiamo preso in considerazione per le interpretazioni psicoanalitiche si ripresenta naturalmen­te per le interpretazioni psicologizzanti in genere; come del resto per le informazioni biografiche che possono essere even­tual­men­te esibite in connessione con il testo. Di fronte ai versi di Verlaine che evocano l'azzurra calma del cielo ("le ciel est par dessus le toit/si bleu, si calme"), il biografo "ci può aiutare dicendoci che questa poesia è stata scritta quando Verlaine era nella prigione di Mons". Il commento di Bachelard a questo proposito è molto significativo: "In prigio­ne! Ma chi non è in prigione nelle ore di malinconia?" [23] Che è quanto dire: quella informazione può interessarci solo nella misura in cui la prigione stessa diventa un'immagine. Ma allora essa, in quanto è informazione, è senz'altro superflua. Essa non può aggiungere qualcosa al testo così com'è, il cui motivo interno è appunto l'ora della malinconia. Se dovessimo accentuare l'importanza di quella informazione tenderemmo indubbiamente a degradare la poesia dell'ora della malinconia a qualcosa di completamente diverso, che non è più "poesia", ma piuttosto una sorta di documento, di atte­ stazione. La poesia diventa una cosa - come se dicessimo: "Questo lo abbia­mo scritto in prigione" per documentare con quel foglio di carta che siamo stati effettivamente in prigione. Per dirla con parole nostre: un'informazione biografica può togliere di mezzo quella neutralizzazione delle posizioni d'esse­ re che è essenziale per il mantenimento dell'immagine. L'infor­ mazione biografica deprime l'immagine proprio perché connet­ te l'immagine alla realtà incollandola a essa: anche se non po­ 31 tremmo essere certi che ciò debba accadere in ogni caso, se non altro per lo stesso rilievo implicito nel ribaltamento opera­to da Bachelard nel passo citato a proposito della prigione di Verlai­ ne. Potrebbe cioè accadere una operazione più comples­sa del­l'im­ ma­­ginazione che approfitta dello stesso riferimento biografico e fattuale per trarne una suggestione immaginativa rafforzan­ do e ravvivando il livello delle immagini in luogo di deprimerlo. Checché ne sia di questa complicazione eventuale del problema, non vi è dubbio che un impiego ingenuo dei rimandi biografici possa incorrere nelle stesse critiche che potremmo rivolgere alle interpretazioni psicologizzanti in ge­nere. E che il rifiuto delle "riduzioni" biografiche sia coerente con l'idea di un approccio fenomenologico. Con questa idea, sviluppata secondo le intenzioni di Bache­ lard, è infine coerente anche una netta separazione tra atteg­ giamento critico-letterario in genere e atteggiamento fenome­ nologico. Quest'ultimo "non ha niente a che vedere" con l'at­ teggiamento critico-letterario [24]. E ciò ha le sue ragioni nel semplice fatto che l'esercizio della critica letteraria, comunque venga inteso, rimanda pur sempre ad una lettura del testo con "secondi fini". Certamente anche qui la lettura deve aderire al testo, ma in un senso abbastanza diverso dalla lettura di un co­ mune lettore. Potremmo dire che nel leggere raccogliamo men­ talmente appunti per il nostro commento critico, richia­mando e riattivando tutta la nostra cultura. Di qui la distinzione di principio tra atteggiamento criti­ co-letterario e atteggiamento fenomenologico, che non deve certa­mente essere inteso come una alternativa e nemmeno in senso ottusamente svalutativo nei confronti dell'analisi criticolette­ raria. Si tratta piuttosto di connettere questo tema alla rivendi­cazione di una lettura diretta e immediata, che dovrà pur trovare modo di essere difesa, se esiste un piacere di leggere e se i libri vengono scritti forse anche per questo. La dimensione fenomenologica è proprio quella in cui ci 32 abbandoniamo ad una lettura disinteressata, interamente libera da obiettivi che le sono estranei. Cosicché da un lato non esitere­ mo a circondare questa dimensione con espressioni di modestia; dall'altro, saremo sempre abbastanza pronti a sotto­lineare que­ sta modestia con una punta di orgoglio: "Quanto a noi, dediti ad una lettura felice, non leggiamo e rileggiamo se non quanto ci piace, con una piccola dose di orgoglio di lettura mescolata a molto entusiasmo" [25]. 4. Il silenzio della lettura e la solitudine delle immagini La parola fenomenologia in Ba­ chelard indica dunque qualco­ sa di completamente diverso da un criterio metodico di lettura. Se ci imbattiamo nell'espressione "metodo fenomenologico", non vi è dubbio che la parola meto­ do sia usata in modo improprio. Proprio perché l'ac­ cento vie­ ne posto sulla parteci­ pazione e sull'imme­desimazione, sull'ingenuità e la felicità della lettura, dovremmo piuttosto pensare al senso usuale della parola atteggia­ mento, che spesso viene impiegata anche in rap­porto alle posizioni del corpo. E come se si trattasse di assumere una posizione con lo spirito, anziché con il corpo. Di fronte alle immagini devi atteg­ giarti così... Nello stesso tempo, e forse proprio per questo, ci rendiamo subito conto del fatto che a questa povertà metodologica, corri­ sponde un legame interno tra l'atteggiamento nei confronti delle immagini e il modo di concepire l'immagine. In ciò che viene detto intorno all'atteggiamento fenomenologico si rispec­chia ciò che potremmo dire in rapporto alle immagini e, infine, all'imma­ ginazione stessa. 33 Uno dei temi che affiora spesso in Bachelard, e che del re­ sto si percepisce nello stesso stile del testo, è quello della solitu­ dine della lettura. La lettura condotta da Bachelard è una lettura silenziosa e solitaria. Qualcosa di simile ad una lettura ad alta voce, la voce effettivamente risonante nella stanza delle nostre lettu­ re - ecco qualcosa che turberebbe la nostra immer­sione nel­le immagini. Proprio perché la parola risonante è una parola che si rivolge a qualcuno, e in generale avendo di mira l'e­ser­cizio di una qualche funzione della realtà. In certo senso, la parola enunciata a voce alta appartiene alla realtà dello spazio circostante, è un evento fisico esteriore: mentre di questa esteriorità non ha biso­ gno la parola poetica, che può essere intimamente rivissuta in un silenzio che rappresenta, in certo senso, una "sospensione" dello spazio e del tempo della realtà. Ciò non significa che venga sottovalutato il peso del­l'a­spet­ to sonoro della parola poetica. Al contrario Bachelard si sof­ ferma spesso, in pagine suggestive, sul suono delle parole - e proprio sul loro suono puro e semplice, sul "significante", indi­ pendentemente dal significato. Sul suono delle parole come un momento in cui l'immaginazione può innestarsi, come un suono che ci fa sognare. Così, per esempio, nella Poetica dello spazio: "Esiste un solo sognatore di parole che non sentirà risuonare dentro di sé la pa­ rola armoire? Armoire, una delle grandi parole della lingua france­ se, insieme maestosa e familiare. Quale volume di respi­ro, bello e grande insieme! Apre il respiro con la a della prima sillaba e lo chiude dolcemente, lentamente con la sillaba che espira" [26]. Nella Poetica delle rêverie egli stesso si definisce un sognatore di parole: "Io sono infatti un sognatore di parole, un sognatore di parole scritte. Io credo di leggere. Una parola mi blocca. Abban­ dono la pagina. Le sillabe della parola cominciano ad agitarsi. Accenti tonici cominciano a rovesciarsi. La parola abbandona il suo significato come un carico troppo pesante che impedisce di sognare. Le parole assumono allora altri significati come se aves­ 34 sero acquisito il diritto di essere gio­vani" [27]. Questa attenzione al suono della parola non è tuttavia af­ fatto in contrasto con ciò che dicevamo prima sulla silenzio­sità della lettura. Se facciamo risuonare a voce alta la parola, a nostra volta - vorremmo dire quasi - la dobbiamo ascoltare in silenzio, anzi la facciamo risuonare proprio per poterla ascolta­re in silen­ zio. Ciò traspare anche dalle frasi che abbiamo or ora citate. La parola armoire risuona dentro di noi. E quando Bachelard si presen­ ta come sognatore di parole, sente subito il bisogno di aggiunge­ re: di parole scritte. Cioè di parole silenziose. La lettura silenziosa è anche una lettura solitaria - se non altro perché se leggiamo con altri, qualcuno deve leggere ad alta voce. Altrimenti ognuno leggerebbe per conto suo. Si sarebbe quasi tentati di vedere anche in questo una coerente conseguen­ za della contrapposizione fondamentale. Indubbia­mente è pos­ sibile leggere insieme un testo di chimica, di fisica e persino di filosofia. Infatti qui c'è qualcosa da capire; e qualche volta accade che io non capisca. Cosicché un altro mi può venire in aiuto. Ma sembra difficile leggere insieme un poeta, leggerlo rivivendo le sue immagini, immedesimandosi con esse. Se debbo immedesi­ marmi proprio io, gli altri che cosa c'entrano? La loro presenza potrebbe essermi di disturbo. Nel tema della solitudine della lettura si rispecchia, d'altro lato, il tema parallelo della solitudine delle immagini. È un fatto che le considerazioni di Bachelard si sviluppano sempre facendo riferimento ad immagini isolate. Il commento, la citazione riguarda sempre versi o frasi ampiamente sottratte al contesto poetico o narrativo, che appare accennato spesso solo di sfuggita o del tutto omesso. L'unità della poesia non è mai pre­ sente in Bachelard. Non già nel senso che non si proponga in Bachelard il problema dell'unità immaginativa. Al contra­rio: la frantumazione delle unità poetiche avviene proprio in forza del problema di una ricomposizione delle immagini clic vengono ri­ 35 condotte intorno a centri tematici ben determinati. Ciò che impor­ ta è appunto il tema: il fuoco, l'acqua, l'aria, lo spazio... e i versi dei poeti vengono sottratti ai loro contesti per essere ricomposti sotto quelle unità tematiche. Tuttavia sarebbe un errore ritenere che questo isolamento delle immagini sia solo una naturale conseguenza di questo inte­ resse orientato verso i temi dell'immaginazione. Esso ha anche a che vedere con la nozione di fenomenologia e con la concezione dell'immagine poetica che corrisponde a essa. Nell'introduzione alla Poetica dello spazio, Bachelard attira esplicitamente l'attenzione su questo punto: la nostra fenome­ nologia è in primo luogo una fenomenologia di immagini isolate [28]. Di ciò viene in parte data una giustificazione che rimanda alla modestia dei compiti proposti. Vogliamo muo­verci su un piano elementare e quindi non vogliamo assumere il problema tanto complesso "della composizione della poesia come agglo­ merato di molteplici immagini" [29]. Non intendiamo spingerci così lontano. Una fenomenologia "completa", ci av­verte Bache­ lard, dovrebbe certamente considerare anche il problema della composizione e dunque implicare riferimenti a quegli elementi complessi che "associano la cultura più o meno lontana e l'ideale letterario di un tempo" [30]. Ma anche questa volta non ci lasceremo troppo convincere da queste considerazioni, andando invece alla ricerca di ragio­ni meno estrinseche. In effetti Bachelard procede a isolamenti anche in luoghi in cui i motivi di elementarità qui addotti non sarebbero certa­ mente pertinenti. Fra i non numerosi scritti di Bachelard dedicati alla pittu­ra, ve ne è uno che riguarda un gruppo di illustrazioni di episodi della Bibbia di Marc Chagall [31]. Qui troviamo in atto la stessa tendenza alla frantumazione delle immagini, una circostanza che ci colpisce sia per il fatto che il saggio non ha di mira il problema delle unità tematiche, sia per il fatto che non ci muoviamo più 36 all'interno delle immagini poetiche, ma di quelle pittoriche. Ciononostante si presenta anche qui questa tendenza a iso­ lare, a rompere un ordine, a distogliere l'attenzione dall'uni­tà delle composizioni. Bachelard sfoglia il libro delle immagini cha­ galliane, assumendo l'aria del lettore avido e impaziente [32]. Anzi, egli afferma espressamente: "Penso però che, ove si voglia fruire di tutte le ricchezze visionarie che sono i frutti succulenti tipici dell'opera illustrata, ove si voglia spezzare il filo della storia, più prodigo di pensieri che non di immagini, sia meglio andare per le pagine un po' a caso, senza troppo curarsi di seguire un or­ dine. Dal canto mio, è così che ho organizzato la mia piacevole avventura" [33]. In realtà questa tendenza all'isolamento delle immagini ha una sua precisa motivazione nei lineamenti della filosofia del­ l'immaginazione che stiamo cercando di rintracciare. Essa anzi rimanda forse allo stesso impianto di principio del proble­ma, alla contrapposizione tra operazioni razionali e operazioni im­ maginative. Il sospetto che le cose stiano così ci viene da una breve affermazione contenuta nell'introduzione alla Poetica del­la rêverie nella quale Bachelard osserva che mentre nel caso degli sviluppi razionali, delle argomentazioni, abbiamo sempre a che fare con frasi che debbono essere considerate come momenti di una "catena di verità", un simile rinvio ad una unità più ampia non si rende necessario in rapporto alla coscienza produttiva di immagini [34]. In questo passo Bachelard difende esplicitamente un modo di approccio che considera le immagini nel loro isolamento, come immagini "separate", come egli dice, avanzando la con­ vinzione che l'immagine mantiene almeno in gran parte intatto il suo valore anche quando viene isolata ed estratta dal contesto in cui è inserita. Un'osservazione che ha certamente una sua por­ tata, dal momento che potremmo ammettere, almeno fino ad un certo punto, che un'immagine possa essere giocata da sola. Tal­ volta anche un verso soltanto, o il frammento dì un verso, può 37 apparirci carico di senso o di pregnanza espressiva. Tuttavia, ciò su cui dovremmo attirare l'attenzione è che questa circostanza viene comunque proposta in modo che in essa risentiamo un'eco della contrapposizione fondamentale. Questa eco è presente persino nella breve citazione che abbia­mo tratto dal saggio intorno a Chagall, laddove si invita a "spezzare il filo della storia", cioè del racconto implicito nelle illustrazioni del pittore, dal momento che questo è "più prodigo di pensieri, che non di immagini". I pensieri vengono contrapposti alle immagini, ed in modo ten­ denzialmente esclusivo: laddove ci sono pensieri, c'è anche un filo che li conduce; e laddove vi è un filo conduttore, esso è ope­ ra più del pensiero che dell'immaginazione. Prescindendo dal filo conduttore con cui sono intessute le immagini, noi prescindiamo dal momento del pensiero, da una com­ponente, in senso lato, intellettuale, cogliendo attraverso que­sta procedura di isolamento la componente immaginativa autentica. Perciò la messa da parte del problema dell'unità com­ positiva non si presenta più soltanto come una necessità dipen­ dente dalla elementarità delle nostre considerazioni, ma appare come uno dei temi che ci aiuta a cogliere il profilo della tematica bachelardiana dell'immaginario; un tema che diventa partico­ larmente significativo al fine di individuarne le implica­zioni che forse non sono fin dall'inizio direttamente visibili. Del resto, se ritorniamo all'affermazione già ricordata che richiama l'idea di un "completamento" dell'indagine in dire­ zione dei problemi dell'unità compositiva, ci troviamo di fronte a questa significativa limitazione: "Un programma tanto vasto - osserva Bachelard alludendo a quel completamento - potreb­ be tuttavia nuocere alla purezza delle osservazioni fenomenolo­ giche" [35]. E perché mai? Bachelard non lo spiega nel dettaglio, ma ormai siamo in grado di renderci ragione di ciò, senza ope­ rare alcuna forzatura. Considerare l'immagine nel contesto della poesia significa ritrovare un filo conduttore che non risiede alla 38 sua superficie immaginifica, ma che fa poggiare le immagini, anzi le fa scaturire da una trama di pensieri. Una considerazione conte­ stuale delle immagini non può che condurre, secondo l'imposta­ zione di Bachelard, ad attenuare la "purezza" delle osservazioni fenomenologiche, proprio perché con "purezza" si intende qui il puro e semplice rivivere simpatetico dell'imma­gine che com­ porta l'elisione di tutto ciò che ci conduce al di là dell'immagi­ nazione, quindi all'ambito dei suoi motivi, psicologici e culturali, all'ambito dei pensieri che la motivano. 5. Tema del retentissement Dalla solitudine della lettura siamo riman­ dati alla solitudi­ne delle immagini. E di qui ancora una volta all'idea di una immedesi­ mazione, di una parte­cipazione diretta alla vita del­l'im­ma­­gine. Tra le molte espressio­ ni di cui Bachelard si serve per indicare questa immedesimazione, particolarmen­ te fre­quente è la parola retentissement: "È dunque a livello delle immagini singole che possiamo fenomenologicamente provare il retentissement" [36]. Questo termine può forse essere reso con qualche espressio­ ne che rimanda alla eco, all'echeggiare, togliendo tuttavia di mez­ zo quel senso di attenuazione, di indebolimento del feno­meno originario, della voce che provoca l'eco, un'attenuazione che è indubbiamente presente negli impieghi correnti, come mostrano espressioni come "pallida eco" oppure "eco lonta­na". L'immagine invece echeggia dentro di noi con voce viva, e noi siamo invasi e pervasi dalla eco dell'immagine come se noi stessi fossimo una grande caverna. In ogni caso deve essere evitato il termine, che ci potrebbe sembrare adatto, di "risonanza" per il semplice fatto che Bache­ 39 lard lo riserva ad un altro impiego, ad un impiego contrap­posto. Bachelard parla di risonanza (resonance), e la contrappone all'echeggiare dell'immagine, essenzialmente per indicare il ri­ destamento dei ricordi di nostre esperienze realmente vissute, che l'immagine poetica può eventualmente provocare. Si ha una sem­plice risonanza, una "mediocre" risonanza, quando l'imma­ gine propone niente altro che "ripercussioni sentimen­tali, richia­ mi del nostro passato" [37]. E come se nel leggere una poesia d'amore fossimo sempli­ cemente richiamati ai sentimentalismi dei nostri amori - come se la poesia che stiamo leggendo non facesse altro che fornire uno spunto per riandare alle nostre esperienze passate, uno spunto per la rievocazione. A questo punto ci imbattiamo in altri aspetti del nostro problema. In realtà, non appena ci accingiamo a parlare di atteg­ giamento fenomenologico così come ne abbiamo parlato all'ini­ zio, come immedesimazione e come partecipazione im­mediata, tendiamo subito a scorgere una inclinazione psicologistica che potrebbe disporci in una posizione fortemen­te critica. L'atteg­ gia­mento fenomenologico di cui parla Bache­lard non è in fon­ do niente altro che uno "stato d'animo". E il fatto che poi ci troviamo in difficoltà nell'illustrare di che si tratta, il fatto, per esempio, che si parli di retentissement e poi si stenti a trovare una traduzione adatta dipende proprio da questa circostanza: come ogni stato d'animo, più che essere definito e descritto, deve es­ sere direttamente sperimentato. Leggiamo i poeti, e allora sapre­ mo che cosa è questo retentisse­ment. Ed eventualmente dopo aver letto i poeti potremo provar­ci a descrivere quello stato d'animo seguendo la via obbligata dell'introspezione. Noi siamo tuttavia così maldisposti verso il ricorso dell'introspezione nelle questio­ ni filosofiche che, una volta messo in rilievo questo pun­to, sare­ mo fortemente tentati di voltar pagina e di lasciare Ba­chelard al suo destino. Tuttavia avremmo indubbiamente torto nel comportar­ 40 ci così, nel dare cioè un giudizio troppo sommario rilevando l'inflessione psicologistica della nozione di atteggiamento feno­ menologico in Bachelard senza procedere oltre. Infatti siamo qui di fronte ad una elaborazione molto raffinata che merita in ogni caso di non essere messa da parte troppo frettolosamente, senza una comprensione reale della sua portata. Per questo cerchiamo - nella misura del possibile - di trattenere la critica per dare spa­ zio all'esposizione, anche se non siamo certi che questo nostro sforzo abbia un effettivo successo. D'altra parte proprio la differenza proposta tra risonanza e retentissement, insieme alla critica delle interpretazioni psicolo­ gizzanti, mostra che ci sono aspetti antipsicologistici nella impo­ stazione di Bachelard. L'accentuazione negativa che cade sulla risonanza è volta proprio in questa direzione. Nella risonanza non è l'immagine che viene rivissuta: l'im­ magine rappresenta qui unicamente l'inizio di un percorso orien­ tato verso la soggettività psicologica che si è di fatto costituita at­ traverso le accidentalità della vita vissuta. Nella risonanza sono proprio queste accidentalità che vengono ri­chiamate. Nello stes­ so tempo, quanto più il lettore si immerge nella rievocazione della propria esperienza passata, tanto più si allontana e si distrae dall'immagine. Dice una volta Bachelard: "Non si legge una po­ esia pen­sando ad altro" [38]: una frase in realtà molto felice nel­ la sua espressiva sinteticità. Nel retentissement restiamo presso la poe­sia; mentre leggiamo la poesia pensando ad altro se la poesia si limita a suscitare "risonanze" sentimentali del nostro passato. Nello stesso tempo si presenta qui, secondo l'angolatura bache­ lardiana del problema, la differenza tra fatti e valori immaginati­ vi. Nella risonanza sono richiamati determinati fatti, mentre nel retentissement ci muoviamo nello spazio dei valori immaginativi. Come in precedenza, a proposito delle interpretazioni psicolo­ gizzanti e delle riduzioni biografiche, si era criticato il rimando alle circostanze di fatto che connettono il prodotto poetico con il suo autore come significativo ai fini della sua comprensione, 41 così ora la stessa critica si ripresenta dall'al­tro lato, dalla parte del lettore. In riferimento a questa tendenza antipsicologistica va infi­ne illustrato anche ciò che Bachelard chiama l'essenza trans­soggettiva dell'immagine [39]. La soggettività oltre la quale l'immagi­ne si si­ tua, la soggettività superata dall'immagine è appunto ancora una volta la soggettività intesa nelle sue determinatezze psicologiche. Non dovremmo forse provare meraviglia di fronte al fatto che l'immagine prodotta da un altro, non appena viene proposta, subito "affondi le proprie radici in me" [40] - un altro che ha un carico di esperienze vissute diverse dalle mie e che quindi ha presumibilmente motivazioni fattuali che suggerisco­no l'imma­ gine diverse da quelle secondo le quali avviene da parte mia la sua ricezione? Come può accadere che questa differenza tra le soggettività psicologiche venga senz'altro tra­scesa? Attraverso l'immagine entriamo direttamente in contatto con l'altro per il fatto che non è l'altro nella sua specificità e nel­la sua singolarità che viene in questione, ma l'immagine stessa in quanto essa opera il trascendimento non tanto della soggettività come tale, ma di ciò che nella soggettività appar­tiene al puro e semplice dato di fatto. Nell'immagine è possibi­le un incontro - anche se poi si tratterà di discutere in che senso si possa parlare veramente di incontro e in che misura su tutto ciò continui a pesare la tematica della solitudine. 42 6. Memoria e immaginazione Un altro caratteristico parallelismo tra l'idea di atteggia­mento fenomenologico e la concezione dell'immagine si può ritrova­ re nella messa in parentesi della cultura che, come abbiamo vi­ sto, rappresenta uno dei requi­ siti di una lettura fenomenologi­ camente orientata. Questo "pri­ mitivismo" è pro­prio anzitutto dell'immagine. L'immagine non ha antecedenti, non ha un passato, non vi è qualcosa che sta pri­ma di essa come condizione del suo sorgere [41]. Ciò mette in questione ancora una volta la critica delle interpretazioni psicologizzanti: ma affermazioni come que­ ste hanno una portata più ampia. Non si escludono solo que­ gli antecedenti delle immagini che rinvia­no alla "psicologia" dei loro produttori, ma anche quegli antecedenti che rimandano allo stesso passato letterario, al contesto culturale. "Un'immagine poetica - dice Bachelard - non è preparata da nulla, soprattutto non dalla cultura, secondo i moduli lettera­ ri, soprattutto non dalla percezione, secondo i moduli psicolo­ gici" [42]. Come deve essere intesa un'affermazione così impegnativa? In essa non si vuole certamente negare il dato di fatto secondo cui oltre ad antecedenti psicologici, vi sono anche anteceden­ ti culturali dell'immagine. Ogni immagine ha una storia, anche quando è un'immagine nuova. Ma la novità dell'immagine intesa in questo modo riguarda appunto l'integrazione dell'o­pera poe­ tica in genere all'interno del contesto letterario. In una conside­ razione di questo contesto noi possiamo eventual­mente pren­­dere atto della sua novità: questo prendere atto appartiene probabil­ mente all'ambito delle acquisizioni cono­scitive, piut­tosto che a quello della partecipazione diretta alla vita dell'im­ma­gine. Invece 43 Bachelard parla della novità e dunque del primitivismo dell'im­ magine in tutt'altro senso, accentuando la relazione con il fruito­ re delle immagini piutto­sto che il riferimento al contesto lettera­ rio. Secondo Bachelard, l'opera poetica non vive in quanto riferita al contesto della letteratura, ma vive nell'incontro con il lettore. Di qui conse­gue non tanto la negazione del passa­to dell'imma­ gine, quanto l'affermazione della sua irrilevanza in rapporto alla presenza dell'immagine. Ciò che caratterizza l'im­ma­gine non è tanto il suo avere un passato che mi può essere più o meno noto, ma il suo essere immediatamen­te viva nella sua diretta presenza al lettore. Il poeta esibisce l'immagine stessa, qui e ora: egli "non mi fornisce il passato della sua immagine". Di questo passato io po­ trei non sapere nulla [43]. E inutile dire che una simile posizione, portata all'estremo, opera una netta e discutibile discriminazione tra l'afferramento dell'opera poetica e il problema della sua valutazione, che richie­ derebbe appunto, indubbiamente, il ricorso a "moduli letterari". Cosicché si affaccia il rischio che il lettore ingenuo sia realmente troppo ingenuo e finisca con l'entusiasmarsi della novità delle immagini quando non ne sarebbe affatto il caso. Ma può essere che Bachelard consideri tutto ciò come un rischio da correre di fronte al rischio opposto di rimetterci la vita delle immagini, all'interno di uno stile di lettura più sapiente, ma anche troppo obbligatorio. Per altri aspetti, il tema dell'assenza di antecedenti del­l'im­­­ ma­gine chiama invece in causa il vecchio problema delle "relazio­ ni tra le facoltà". In particolare, la relazione dell'im­maginazione con la percezione attraverso il ricordo. Il modo empiristico di impostare questo rapporto - secon­ do il quale i contenuti dell'immaginazione possono essere sem­ pre ricondotti a contenuti memorativi e questi a dati della perce­ zione o, più in generale, ad una realtà di fatto che è stata vissuta nel nostro passato - viene senz'altro respinto da Bache­lard che, 44 del resto, già in sede epistemologica organizza la propria conce­ zione in funzione antiempiristica. Val tuttavia la pena di considerare questo problema un poco più da vicino perché esso ci consente di accennare ad un altro aspetto notevole dell'impostazione bachelardiana. In essa la nozione di immagine ovunque prevalente è quel­la che chiama in causa l'immaginazione come attività sintetica, men­ tre l'immaginario nel senso di un puro contenuto immagina­tivamente inteso non appare nemmeno come problema. Più precisamente: si teme un impiego psicologizzante dello stesso termi­ne di im­ magine che, a titolo di contenuto mentale in genere, non avrebbe nessuna applicazione specifica ai prodotti dell'imma­ginazione, ma sarebbe egualmente riferibile alla me­moria e perfino alla percezio­ ne. In questo senso si parla delle confusioni di cui è gravida la parola immagine secondo un approccio psicologicamente orien­ tato: "... in generale, la parola immagine è gravida di confusioni nei lavori degli psicologi: si vedono immagini, si riproducono immagini, si conservano immagini nella memoria. L'immagine è tutto tranne che un prodotto dell'immaginazione" [44]. Il rischio di un'accezione di immagine come contenuto mentale e la preoccupazione di accentuare il momento della pro­ duttività dell'immagine inducono Bachelard ad un vero e proprio salto della tematica del fantastico-immaginario. L'im­ma­gine che è un prodotto "diretto" dell'immaginazione è appunto essenzial­ mente, per Bachelard, l'immagine immagi­nosa. In questo contesto cade il problema della restituzione del­ la distanza tra immaginazione e ricordo, il nostro interesse a "bloc­care il processo che assimila le immagini ai ricordi" [45]. In ciò andrà vista essenzialmente una posizione parallela e corri­ spondente sul piano della concezione dell'immagine a ciò che si era già detto a proposito del problema della risonanza e della distinzione tra questa e il retentissement. L'immagine può avere radici nel ricordo, nella nostra esperienza vissuta, ma essa su­ 45 pera questa dimensione proponendosi nel suo emergere come irriducibile a essa. Semmai è l'avvenire che viene messo in que­ stione dall'immagine, proprio in quanto la parola poeti­ca si pre­ senta come parola nuova, che irrompe nelle consuetu­dini del lin­guaggio mostrandone le immense e sconosciute possibilità. La parola poetica è una parola che "si sforza di avere un avveni­ re" [46]. L'immagine poetica "nella sua novità apre un avvenire al linguaggio" [47]. Tuttavia il problema dei rapporti tra ricordo e immagina­ zione si presenta secondo una trattazione più elaborata. Nono­ stante l'esplicito chiarimento relativo alla distanza dell'imma­gine dai contenuti memorativi, si presentano spesso in Bache­lard for­ mulazioni che si richiamano direttamente ad una con­nes­sione: si parla, per esempio, di solidarietà della memoria e del­l'imma­ ginazione [48], di una loro funzionale mescolanza [49]. Ciò non significa certamente che la distanza, nel senso in cui la abbiamo affermata in precedenza, sia messa in discussione. Non si tratta di questo. Il ricordo viene ancora in questione per una ragione che riguarda la stessa vitalità delle immagini, la loro capacità di toccar­ ci nel profondo. L'immagine non può apparirci realmente viva se nello stesso tempo ci appare lonta­na ed estranea. Ciò che occorre cogliere qui, secondo lo spirito della rifles­ sione bachelardiana, è il modo in cui il tema del ricordo, che ca­ ratterizza in primo luogo la risonanza, si innesti anche in manie­ ra determinante nel retentissement delle immagini. Ciò che muta è naturalmente il tipo di rapporto tra memoria e imma­ginazione: non si tratta più di subordinare la seconda alla prima stabilendo un rapporto di dipendenza, ma di cogliere appunto una fusione funzionale, in cui lo sfondo della memoria potenzia e arricchi­ sce l'immaginazione e nello stesso tempo si tinge esso stesso di una tonalità immaginaria. Il passato conferisce profondità all'im­ maginazione; e viene risucchiato nel campo dell'im­ma­ginario. I valori immaginativi si possono rafforzare attraverso il ricordo; e d'altro lato ai nostri ricordi si sommano valori di so­gno [50]. 46 Nello stesso processo rievocativo vi è qualcosa che appartiene già all'immaginazione: nel ricordo "noi non siamo mai veri stori­ ci, siamo sempre un po' poeti, e può darsi che la no­stra emozio­ ne non faccia che tradurre poesia perduta" [51] . La funzionalità della connessione sta proprio in questo scambio: sulle immagini grava un senso di passato, esse evoca­no in qualche modo ricordi, ma in questa evocazione i ricordi vissu­ ti diventano "ricordi dell'immaginazione" [52] e tendono così a sfumarsi nella loro determinatezza, attraverso la quale essi sono riferiti ad un destino personale individuale. Attenendoci all'esemplificazione di Bachelard: le immagini della casa possono ricondurre alla mia infanzia, in qualche modo la evocano - ma ciò che propriamente evocano è il sogno stesso dell'infanzia, che non è più soltanto la mia: è l'infanzia stessa, l'infanzia Immobile, come egli dice [53]. Questo sfumarsi della determinatezza del ricordo è anche uno sfumarsi della nozione stessa del passato. Il passato diventa indefinito [54] assume una caratteristica di intemporali­tà: è un passato che si trova al di là del passato, così come la memoria di questo passato si trova al di là della memoria. In questo senso, Bachelard impiega talvolta il termine immemoriale - un termine che vorrebbe ad un tempo affermare e negare la connessione tra memoria e immaginazione, riunendo il riferi­mento al passato e il suo sfumare nell'intemporalità, l'apparte­nenza dell'imma­gine al campo del ricordo e al campo del sogno. "In quella remota regione, memoria e immaginazione non si lasciano dissociare, l'una e l'altra lavorano al loro reciproco ap­pro­ fondimento, l'una e l'altra compongono, nell'ordine dei valori, una comunanza del ricordo e dell'immaginazione" [55]. E ancora: "I sogni discendono talvolta così profondamente in un passato indefinito, in un passato liberato dalle date, che i ricordi precisi della casa natale sembrano distaccarsi da noi... arriviamo a du­ bitare di avere vissuto dove abbiamo vissuto: il nostro passato è in un altro tempo e una irrealtà giunge a impregnare i luoghi e i 47 tempi" [56]. "Una irrealtà si infiltra nella realtà dei ricordi che stanno alla frontiera della nostra storia personale e di una preistoria indefi­ nita..." [57]. Le immagini di cui io parlo, avverte infine Bachelard, non sono "semplici metafore" [58]. Ed a ciò che egli chiama "intellet­ tualismo della metafora" contrappone l'immaginazione pura, le immagini nella loro purezza. Naturalmente la distinzione tra immagine e metafora è significativa unicamente all'interno della sua impostazione filo­sofica e il richiamare l'attenzione su di essa è utile soltanto per ribadirne la direzione. All'inizio del capitolo terzo della Poetica dello spazio in cui vengono dedicate alcune pagine a illustrare questa distinzione, Bachelard si serve esemplificativamente della famosa metafora bergsoniana del cassetto. I cassetti vengono spesso richiamati da Bergson all'interno di una polemica contro le filosofie che egli considera intellet­ tualistiche, dunque contro ogni tendenza alle concettualizzazioni rigide e alle classificazioni schematiche. Il cassetto diven­ta l'im­ magine di una ragione astratta che di fronte a qualun­que nuovo oggetto si chiede unicamente entro quale cassetto, tra i tanti a disposizione, esso debba essere opportunamente sistemato. A parte la portata di questa polemica che in ogni caso Ba­ chelard giudica troppo rudimentale, egli osserva che proprio fa­ cendo riferimento ai cassetti di Bergson si può illustrare la dif­ ferenza tra ciò che è una "semplice metafora" e ciò che è invece un'immagine autentica. Naturalmente i cassetti di Bergson sono, secondo la propo­sta terminologica di Bachelard, appunto sol­ tanto "semplici metafore". Questo termine viene infatti desti­ nato da Bachelard a indicare quelle figure immaginative che in realtà sono impie­gate non già nella loro pura e semplice portata immaginativa, ma in funzione di uno scopo che sta oltre il piano dell'immagi­nazione. Così fin dall'inizio si fa notare la funzione polemica dei cassetti di Bergson: la parola "cassetto" in Bergson, 48 "comanda e giudica" [59] e questo è appunto ciò che un'immagine autenti­ca non fa mai. Questa funzione polemica dipende appun­ to dallo scopo, che è essenzialmente uno scopo intellettuale. La metafora del cassetto intende osteggiare un atteggiamento filo­ sofico a partire da un altro atteggiamento filosofico, che viene implicitamente rivendicato. In questo senso potremmo dire che quando si presenta una metafora "l'immaginazione è fuori causa" [60]. L'immagina­zione è fuori causa perché la metafora non si offre alla partecipazio­ ne: in rapporto ad essa non avrebbe senso parlare di un atteg­ giamento fenomenologico necessario per afferrare l'imma­gine. La metafora "non può sostenere uno studio fenomenolo­gico", non ha un valore "fenomenologico" [61] - dice Bachelard impie­ gando espressioni che certamente stenteremmo a capire se non tenessimo chiaramente presente ciò che abbiamo osser­vato in precedenza intorno alla nozione di fenomenologia qui in que­ stione. Si tratta invece di un'immagine fabbricata [62], che tende ben presto a trasformarsi in uno stereotipo e che infine, proprio mentre pretende di tradurre immaginativamente un pensiero, fi­ nisce con il risparmiarci di pensare. Il richiamo alla fabbricazio­ ne della metafora rimanda del resto alla differenza che in ultima analisi è determinante per Bachelard: la metafora non viene pro­ dotta all'interno di una coscienza immaginativa, non scaturisce cioè da un autentico atto poetico, ma viene appunto apposita­ mente costruita per significare qualcosa che si trova al di fuori del campo dell'im­ma­gi­nazione. 7. Le immagini per le immagini - Bachelard e il surrealismo La filosofia dell'immaginazione di Bachelard deve essere rintrac­ ciata anche nei dettagli dello stile. Prestiamo allora attenzione alle immagini per le immagini che incontriamo nel testo: e forse rimarremo colpiti dal fatto che esse sono per lo più orientate in una direzione ben determinata. Nelle immagi­ni per le immagini 49 di Bachelard il riferimento dominante è quello della luce. Un ag­ gettivo, un verbo, una espressione che rimanda in qual­che modo alla sfera del luminoso, del lucente, dello scintillante sembra im­ porsi spontaneamente alla penna di Bachelard quando parla del­ le immagini. Già nelle prime pagine della Poetica dello spazio, l'im­magine si presenta come una fiammata d'essere [63]. E l'essere stesso che, nell'immagine, fiammeggia. L'essere significa qui, certamente, il nostro essere - il nostro essere in quanto si esprime nel linguaggio, nella parola. E ancora: l'immagine è folgorante [64] è una luce splen­ dente; è un minuscolo fenomeno della coscienza luccicante. Questo riferimento immaginativo alla luce, in realtà, ben si adatta alle caratteristiche che Bachelard attribuisce alle imma­gini. Per esempio, quando parla della luce originaria delle immagini [65], l'originarietà rimanda indubbiamente all'autono­mia dell'im­ magine, al fatto che l'immagine trae il proprio senso unicamente da se stessa. Nel fiammeggiare dell'immagi­ne è presente sia l'i­ dea della vitalità interna delle immagini, sia quella del loro emer­ gere improvviso dal linguaggio stesso: l'immagine come "parola nuova", come un guizzo del linguag­gio che non ha una storia, ma si brucia interamente nel presente in cui essa appare. Al senso immaginativo della fiamma è indubbiamente ine­ rente la dimensione temporale del presente, anzi ancor più: il senso di ciò che è istantaneo. E l'apprensione dell'immagine si situa interamente in questa istantaneità. Per cogliere l'immagi­ne "è importante essere presenti, presenti all'immagine nell'i­stante dell'immagine" [66]. La "fenomenologia" non può che accordare un privilegio alla dimensione dell'attualità [67]. L'apprensione dell'immagine può essere descritta proprio come uno stato nel quale noi siamo illuminati dall'immagine. In questo senso noi "comprendiamo" l'immagine: una compren­ sione che non avrà alcun carattere intellettuale. L'immagine vie­ ne afferrata nella sua evidenza, ma ciò non significa che in questa evidenza essa ci appaia nella trasparenza dei suoi elementi costi­ 50 tutivi, come quando comprendiamo una nozione o uno sviluppo argomentativo. La "comprensione" - se voglia­mo usare questo termine - è nello stesso tempo stupore di fronte alla immagine. L'immagine è una "meraviglia fenomenologica" - dice Bachelard [68] - giocando sulle sfumature di senso della parola. "È una meraviglia": e qualcosa di luccicante forse ci brilla già di fronte agli occhi. Nello stesso tempo le immagini che gravitano intorno alla luce sono anche in grado di rappresentare, insieme al tema dell'i­ stantaneità e dell'attualità, anche quello della solitudine. L'imma­ ginazione è un balenio, un lampeggiamento. Infine, le immagini che convergono nella regione della luce si connettono certamen­ te al tema della sublimazione pura di cui parla Bachelard nell'intro­ duzione alla Poetica dello spazio [69]. Sublimazione pura: un'espressione, presa in se stessa, alquan­ to misteriosa. Ma il suo impiego si chiarisce ben presto tenen­do conto del riferimento alla psicoanalisi freudiana. In Freud il ter­ mine di sublimazione viene impiegato per indicare una trasfor­ mazione degli impulsi sessuali, la cui energia viene incanalata e orientata verso una mèta che non ha carattere sessuale. Secondo Freud sono le attività intellettuali nel senso ampio del termine, e le attività artistiche in particolare, che possono essere interpre­ 51 tate come attività che derivano da un processo di sublimazione: determinate inclinazioni del caratte­re che debbono essere ricon­ dotte a inclinazioni sessuali vengo­no deviate dalla loro mèta ses­ suale, e la forza degli impulsi che sta alla loro base viene impie­ gata per scopi più "elevati". Per questo si parla di sublimazione: per indicare la distanza dalla sfera degli istinti e degli impulsi, ma anche nello stesso tempo per mantenere una connessione e per tentare di ricomporre in una unità il piano del­le attività spirituali con quello dell'i­stinto. Bachelard trae il termine di qui, ma lo ritorce, mutandone il senso, contro la stessa psicoanalisi. Questo mutamento e questa ritorsione sono contenuti nell'aggettivazione sublima­zione pura. L'immagine sta oltre l'impulso e il desiderio, e in questo senso vi è qui una sublimazione. Una sublimazione che peraltro "non su­ blima nulla, alleggerita dal carico delle passio­ni, liberata dall'im­ pulso dei desideri" [70]. Si ripresentano così vari aspetti della tematica che abbiamo già discusso in precedenza. Ma il vero motivo per cui ci interessa in modo particolare richiamare l'attenzione sulle immagini per le immagini di Bachelard non sta solo nel fatto che in esse conver­ gono i fili conduttori della sua concezione. Proprio il carattere delle immagini bachelardiane ci con­ sente infatti di guardare un poco oltre la filosofia del nostro au­ tore per mostrare in modo semplice e diretto una connessio­ne culturale particolarmente significativa che va almeno segna­lata, benché su di essa non ci sia possibile indugiare. Negli stessi anni in cui Bachelard inizia a elaborare la pro­ pria tematica relativa all'immaginario, va affermandosi, in parti­ colare in Francia, nell'ambito dell'avanguardia artistica, il movi­ mento surrealista. Le immagini per le immagini di Bachelard ci offrono lo spunto per gettare uno sguardo su questo rapporto. Anche in André Breton le immagini connesse alla luce hanno una parte importante. Al punto che potremmo assumere come partico­ 52 larmente significativo il frammento di un sogno che Breton rac­ conta di aver sognato e nel quale egli si rappresenta nell'at­to di scrivere poesie: "Ma pur abbandonandomi alla più grande spon­ taneità possibile, riesco a scrivere sul primo foglio solo queste parole: la luce... Lo strappo subito e sul secondo foglio: la luce.., e sul terzo foglio: la luce..." [71]. La luce e la poesia; la luce e l'immaginazione così come essa si esprime nelle immagini della poesia. Questa connessione ap­ pare formulata in modo del tutto esplicito nel Primo manifesto del surrealismo scritto da Breton nel 1924. Lo spirito, scrive Breton, che si è convinto a poco a poco della realtà suprema delle immagini, "va, portato da quelle im­ magini che lo rapiscono, che gli lasciano appena il tempo di soffiare sul fuoco delle sue dita" [72]. Questo passo si conclude così: "È la più bella delle notti, la notte dei lampi". Le immagini che rimandano alla luce, alla fiamma, alla scin­ tilla, ai lampi che illuminano la notte tendono qui a diventare immagini per le immagini. L'immagine si forma attra­verso l'accosta­ mento associativo di cose distinte e separate, e n questo accosta­ mento sprizza "una luce particolare, luce dell'immagine, a cui ci mostriamo infinitamente sensibili" [73]. E naturalmente la notte dei lampi di Breton, che è la più bella delle notti, è un'immagine per l'immaginazione stessa. Essa ci riporta alla tematica bachelardiana - fra l'una e l'al­ tra posizione ci sono indubbiamente almeno alcune affinità, an­ che se ad un esame più approfondito potrebbero emergere e apparire forse più importanti le differenze. Vi è qui il privilegio accordato all'immaginosità in genere, e in particolare alla poesia ricca di immagini, e vi è anche una tendenza a far valere l'imma­ gine in se stessa, come qualcosa che vive unica­mente in forza dell'accostamento associativo, per lo scintillio che si sprigiona da esso. Di fatto, nel Primo Manifesto, Breton esibisce immagini isolate alla nostra ammirazione: 53 - nel ruscello c'è una canzone che scorre - il giorno si è dispiegato come una tovaglia bianca - una chiesa si ergeva squillante come una campana - durante una pausa della partita, come i giocatori si riuni­ vano intorno ad una tazza di punch bollente, chiesi all'al­bero se avesse sempre il suo nastrino rosso [74]. In Bachelard, in stretta coerenza con il tema dell'isola­men­­ to delle immagini, si afferma anche una tendenza a contrap­porre la poesia al romanzo. Questa tendenza la abbiamo già marginal­ mente incontrata rammentando un passo del saggio su Chagall. Ma se consideriamo l'album "spezzando il filo della storia", e mantenendo tuttavia la presa sui suoi disegni, come potremo apprezzare il romanzo, in cui quel filo sembra essere, se non l'essenziale, almeno una parte importante di ciò che è essenziale? In realtà, se già tendiamo a conferire il massimo valore all'immagine sottratta persino all'unità della poesia, quasi che nell'organizzazione delle immagini in una poesia si annuncias­ se già una funzione del pensiero in linea di principio estranea all'immaginazione considerata nella sua purezza, saremo ben poco disposti a entusiasmarci dell'immaginazione letteraria in quanto si esplica nella forma del racconto. Qui abbiamo appun­ to il filo della storia, che non può essere spezzato a piacere, e i fatti che il romanzo descrive a uno a uno e che quel filo ricuce l'uno all'altro. In effetti le idee di Bachelard si orientano in que­ sta dire­zione, benché in modo molto sfumato. Perciò occorre dare rilievo a quei passi in cui affiora una sorta di ostilità ver­ so le descrizioni. Ciò che è opera dell'im­ma­ginazione non può essere descritto: il rivivere dell'atteg­giamento fenomenologico di Ba­chelard si contrappone al descrivere. Le nostre dimore, le case nelle quali abbiamo abitato in un tempo lontano e che sono di­ venute, nel ricordo stesso, dimore dell'immaginazione, non pos­ sono essere descritte, perché la descrizione non può che ridursi ad un puro elenco di fatti, di circostanze, di luoghi, sopprimen­ do proprio la componente immaginativa che circon­da quei fatti, 54 quelle circostanze, quei luoghi. Essi debbono conservare la loro "penombra" - una penombra che possiamo penetrare senza dis­ solvere attraverso "la letteratura che scruta nel profondo, vale a dire la poesia", e certamente non attraverso "la letteratura faconda che ha bisogno del romanzo altrui per analizzare l'intimità" [75]. Le descrizioni sono sempre descrizioni di fatti, cosicché i valori immaginativi si sottraggono a esse: e di qui comincia con l'affiorare una singolare condanna della stessa forma di roman­ zo. La poesia scruta nel profondo. E questo è certamente un elogio. Mentre il qualificare il romanzo come letteratura fa­conda è, altrettanto certamente, un elogio a rovescio. Diciamo facondo per non dire chiacchierone. L'ironia intende mettere in evidenza la superflua prolissità del romanzo di fronte alla concisione e alla pregnanza espressiva della poesia che ci porta direttamente nel cuore dell'esperienza immaginativa, che non ha bisogno per giungere alla nostra intimità di fare, come il romanzo, un lungo giro attraverso le vicende di un altro, pazientemen­ te e meticolosamente de­ scritte. Ciò che in Bachelard appare come una coerente linea di tendenza che affio­ ra a tratti con sufficiente chiarezza, si pre­senta nel Primo manifesto del surreali­ smo come un gesto violen­ to, provocatorio, gustosa­ mente paradossale. Breton rammenta qui che il poeta Paul Valéry "proponeva di recente di riunire in un'antologia il più gran numero possibile di inizi di romanzo; e si aspettava grandi cose in fatto di imbecillità" [76]. E rammenta ancora che lo stesso Valéry assicu­rava che "quanto a lui si sarebbe sempre rifiutato di 55 scrivere: la marchesa uscì alle cinque" [77]. In questo modo si avvia una polemica distruttiva che do­ vrebbe semplicemente e paradossalmente espungere la for­ma di romanzo dalla letteratura. Si noti peraltro il modo di procedere che qui viene propo­ sto: prendiamo le frasi iniziali di un romanzo e le poniamo l'una dopo l'altra, così come in precedenza abbiamo esibito i versi di poesie disparate. Si propone dunque una procedura di isolamen­ to, proprio quella procedura che, nel caso della poe­sia, darebbe il massimo risalto alla luce dell'immagine. Ma questa procedu­ ra, ora noi la applichiamo al romanzo per mettere in evidenza il decadimento nella descrizione più piatta e banale di un dato di fatto: la marchesa uscì alle cinque. Una frase che non reg­ ge il confronto con il più mediocre dei versi."E le descrizioni! - esclama Breton - Nulla è paragonabile al nulla delle descrizioni: è il puro e semplice sovrapporsi delle illustrazioni di un catalogo e l'autore prende sempre più confidenza, approfitta dell'occasione per rifilarci le sue cartoli­ne, cerca di strappare il mio consenso con una serie di luoghi comuni" [78]. Segue una citazione dimostrativa tratta da Dosto­evskij e si conclude: "Quella descrizione permette­ temi di sal­tarla, come tante altre" [79]. 8. Tematica della rêverie - Rêverie e soggettività - "La rêverie illustra il riposo dell'essere" Ci si sarà probabilmente resi conto, nel corso della nostra espo­ sizione, che leggendo il testo di Bachelard cercando di farne emergere lo sfondo teorico, si presentano numerosi temi - cer­ tamente più numerosi di quanto potrebbe apparire ad un primo sguardo. Ma anche, nello stesso tempo, che essi si presentano tanto strettamente intrecciati tra loro che l'uno appare come una variazione del­l'al­­tro, come se si trattasse di considerare da diver­ se angolature un unico nucleo problema­tico. Ciò può essere detto anche in rapporto alla nozione di rê­ 56 verie. Attraverso di essa non aggiungeremo nulla di realmente nuovo rispetto ai nostri sviluppi precedenti. Questa nozione contiene l'intero quadro che abbiamo delineato: e dà ad esso un altro tocco. Che cosa intende Bachelard quando parla di rêverie? Se in­ contrassimo questo termine in un contesto non troppo impe­ gnativo, potremmo tradurlo con fantasticheria, ma in riferimen­to alla problematica che stiamo illustrando questa parola sarebbe inadatta, se non altro per quella sfumatura un po' peggiorativa che essa riceve in molti impieghi correnti. In realtà mentre, come vedremo subito, tra sogno e rêverie dobbiamo porre una netta differenza, è proprio al sogno che converrà richiamarsi per illustrare il senso della rêverie. Anche in italiano infatti la parola "sogno" non viene impiegata solo per indicare quegli strani eventi che ci accadono mentre dormiamo, ma anche le nostre fantasticherie diurne. E ancor più converrà tenere presenti espressioni come "atmosfera so­gnante" o "pae­ saggio sognante": qui ci troviamo molto prossi­mi alla sfumatura di senso della parola rêverie. La rêverie è una fantasticheria sognante - forse potremmo esprimerci così. Il senso di questa nozione, e il rilievo che ci accingiamo a dare ad essa, si comprende invece se la contrapponiamo al sogno in senso usuale, al sogno che accade nella notte. La rêverie si esercita in ogni caso nella veglia, e non durante il sonno - e proprio di qui essa trae quelle caratteristiche che la rendono tanto importante agli occhi di Bachelard. Egli osserva che, in quanto la dimensione della réverie è la dimensio­ne au­ tentica dell'esercizio concreto dell'immaginazione, noi dobbia­­mo dedicare ad essa un'attenzione molto maggiore di quanto forse lo psicologo sia disposto a concederle. Alla base di una possibile sottovalutazione della rêverie sta, secondo Bachelard, il frainten­ dimento della sua natura. Se consideriamo la rêverie come un peculiare stato di co­ scienza, tendiamo ad attribuire subito ad essa un carattere crepu­ 57 scolare, che interpretiamo come un allentamento della coscien­ za che ci induce in una sorta di stato intermedio tra la piena consapevolezza, attivamente diretta all'ambiente circo­stante, e la totale inconsapevolezza dello stato di sonno. Po­tremmo allora ritenere che il caso intermedio sia implicitamente considerato nella considerazione dei casi estremi, e sarebbe­ro questi dunque i casi veramente importanti e degni della massima attenzione. La rêverie non è altro che "un po' di materia notturna dimenticata nel­la limpidezza del giorno" e la psicologia può applicarsi ai due poli, "quello del pensiero chiaro e quello del sogno notturno, sicura di avere in questo modo sotto controllo l'intero ambito della psiche umana" [80]. Secondo Bachelard, una simile risoluzione della rêverie co­ me stato intermedio tra veglia e sogno non corrisponde alla sua natura "fenomenologica" - e qui il termine di fenomenolo­gia rimanda proprio alla superficie descrittiva del fenomeno. Parlan­ do di stato crepuscolare, di allentamento della coscienza si pensa subito ad un suo ottundimento, ad un suo offuscamento. Ma le cose stanno veramente così? Leggiamo, con Bachelard, questo passo tratto da Victor Hugo e citato nella introduzione alla Poetica della rêverie "Tut­to questo non era né una città, né una chiesa, né un fiume, né co­ lore, né luce, né ombra; era rêverie. - Sono rimasto a lungo im­ mobile, lasciandomi dolcemente penetrare da questo insie­me inesprimibile, dalla serenità del cielo, dalla malinconia dell'ora. Non so che cosa capitava nel mio spirito e non potrei dirlo, era uno di quegli istanti ineffabili in cui si sente in se stessi qualcosa che si sveglia" [81]. Quest'ultima frase è soprattutto significativa in rapporto al problema della rêverie in Bachelard. Il paesaggio cittadino si al­ lontana, si offusca, diventa indeterminato; le cose perdono la definitezza dei loro contorni. Ma questo allentamento della co­ scienza, anziché preludere al sonno che si avvicina, alla perdita della coscienza, prelude a quell'istante nel quale sen­tiamo in noi 58 stessi qualcosa che si ridesta. In quell'istante, è l'immaginazione stessa che entra in opera, attivando quella funzione dell'io che è puntata verso l'irreale. Il diventare opaco del mondo appare così, più che un allen­ tamento della coscienza, come una condizione per il ride­starsì della coscienza attivamente immaginante. Il crepuscolo della rêv­ erie è il crepuscolo della realtà stessa, non è un decadere dell'io nella passività del sonno e del sogno, ma un emergere dell'io "irrealizzante" nell'allontanamento della di­mensione del­la realtà. Ecco dunque che nella condizione della rêverie si annuncia la tematica stessa della soggettività, e di una soggettività emergente nella sua dimensione di libertà. E qui diventa particolarmente significativa, nel contesto del discorso di Ba­chelard, la differen­ za tra rêverie e sogno. Se ci disponiamo dal punto di vista della rêverie considerata nella sua natura autenti­ca, essa si presenta non già come qualcosa di intermedio tra il sogno e la veglia e che dovrebbe dunque avere tratti in comune con l'uno e con l'altra: sono proprio quei due estremi che invece hanno forse qualcosa in comune. Nella veglia abbiamo dì fronte a noi la realtà stessa, che ci appare anzitutto come qualcosa che si impone e che si oppone alla soggettività. Anche se naturalmente noi possiamo intervenire liberamente sulla realtà: tuttavia essa si presen­ta in pri­ mo luogo nel suo essere come è, come un dato di fatto di cui dob­ biamo prendere atto. Ma anche il sogno, per quan­to debba essere annoverato tra i prodotti dell'immagina­zione, considerato alla sua superficie, si presenta con un analogo carattere "necessitante". Noi non siamo padroni dei nostri sogni, non possiamo intervenire sugli eventi che accadono in essi. Proprio per questo gli eventi dei nostri sogni ci possono apparire profondamente estranei. A questa estraneità rispetto alla soggettività che sogna e che racconta i propri sogni Bachelard tende a conferire un par­ ticolare significato. Non solo non riconosciamo senz'altro, alla superficie del sogno, l'operare dell'immaginazione, ma nemme­ no possiamo riconoscerci nei nostri sogni: "Spesso - osserva 59 Bachelard - l'estraneità di un sogno può essere tale che un altro soggetto sembra sognare in noi" [82]. Naturalmente noi sappia­ mo che questa estraneità può avere una sua precisa spiegazione psicologica e rimanda alla tematica dell'inconscio e della dialet­ tica tra conscio e inconscio. E Bachelard non lo ignora. Ma que­ sta circostanza non toglie l'estraneità del sogno rispetto all'io e le spiegazioni psicoanalitiche possono essere rilevate in questo contesto nella stessa misura in cui sanciscono una sorta di frat­ tura tra due livelli dell'io confermando, in un certo senso, che nel sogno l'io soggiace interamente all'incon­scio e l'immaginazione come funzione dell'irreale ne segue le leggi. L'inconscio rappresenta così una sorta di nozione paral­lela alla nozione di realtà: né nell'uno né nell'altro caso l'io si può senz'altro riconoscere. La realtà si presenta - e abbiamo già avu­ to occasione di citare questa espressione di cui tuttavia solo ora possiamo valutare la portata - come "un non-io ostile, un nonio estraneo" [83]. E questa stessa ostilità ed estraneità potrebbe essere attribuita all'inconscio. L'idea di una profonda scissione della soggettività si pre­ senta in Bachelard nella considerazione del rapporto attivo della soggettività con la realtà; e nella elaborazione "cieca" che l'im­ ma­ginazione compie, alle nostre spalle, nei nostri sogni. Alla luce di tutto ciò assume un peso, in rapporto agli stes­ si contenuti della filosofia bachelardiana dell'immagi­nazione, la tematica della rêverie intesa come una vera e propria riconcilia­z ione della soggettività stessa. L'io che sprofonda nella rêverie è l'io che ritorna a se stesso, quel "qualcosa che si ridesta" - nel passo di Hugo - è l'io stesso che, nell'immaginazione effettua il ricono­ scimento di sé, che si sente finalmente a casa. È proprio nella rêverie, e non nel sogno, che questa funzione fondamentale di riconciliazione, nella quale dobbiamo cogliere l'importanza autentica dell'immaginazione come funzione del­ l'irreale, può pienamente esplicarsi: "Se un sogno notturno può disgregare un'anima, diffondere nel giorno stesso le follie speri­ 60 mentate nella notte, la rêverie aiuta veramente l'anima a fruire di una facile unità" [84]. Attraverso la nozione di rêverie l'immaginazione si ricon­ giunge con lo stesso concetto di soggettività. Nello stesso tempo comincia a diventare esplicita una nozione di soggettività tutta puntata in direzione dell'interiorità. La soggettività di cui si parla è la soggettività che si riconosce anzitutto nell'intimità delle pro­ prie fantasticherie sognanti. A partire da questo punto di vista possiamo ritrovare molti dei motivi che abbiamo già incontrato in precedenza come ca­ ratteristici della filosofia dell'immaginazione di Bachelard. Ma ritrovarli da questo punto di vista significa anche proiet­tarli su un piano che va oltre quello dei lineamenti di una filosofia del­ l'im­maginazione, richiamando invece quell'aspira­zione alla rea­ lizzazione di una "metafisica concreta" a cui abbiamo accennato all'inizio dei nostri commenti: l'aspirazio­ne cioè a delineare, at­ traverso la tematica dell'immaginazione, il profilo di una conce­ zione dell' esistenza stessa. Questa concezione assume un'impronta pronunciatamente interioristica. Tutti i temi precedenti debbono essere riconside­rati secondo questa prospettiva. Se, per esempio, in precedenza ab­ biamo attirato l'atten­zione sul tema della solitudine, ora dobbia­ mo mettere in rilievo che questo tema è strettamente dipendente da un determinato modo di concepire il nesso tra immaginazio­ ne e soggettività. Del resto l'immaginazione in Bachelard non è solo solita­ria: e anche un'immaginazione sedentaria. Ciò suona certamente un poco ironico: ma rimanda comunque ad un problema molto serio per Bachelard. Egli dice: "La rêverie illustra il riposo dell'essere" [85]. Pos­ siamo abbandonarci alle nostre fantasticherie sognanti solo nella distensione del nostro essere. E intanto si ripresenta in contesti come questi la terminologia "ontologi­ca", utilizzata naturalmente in modo tipicamente bachelardia­no: la metafisica dell'immagina­ zione tende a diventare una metafisica del riposo. 61 9. Poetica dello spazio: messa da parte degli spazi ostili - Lo spazio del riposo e dell'inti­mità protetta - Una casa per sogna­ re Tutto ciò trova piena conferma e illustrazione nei contenuti specifi­ ci della Poetica dello spazio. Questo lavoro si propone di mostrare i modi di valorizzazione immagina­ tiva dello spazio. In esso è dunque presente una delle idee guida fon­ damentali che attraversa l'intera produzione sul versante dell'immagina­rio: l'idea di una consi­ derazione che si rivolge non tanto alla forma, alla struttura delle operazioni immaginative, quanto piuttosto ai contenuti che essa mette in gioco. All'interno di una simile prospettiva si affaccia il problema di organizzare la molteplicità delle immagini intorno ad alcuni centri gravitazio­nali. Nelle opere precedenti alla Poetica dello spazio questi centri sono rappresentati dai quattro elementi fondamentali delle antiche cosmogonie: la terra, l'acqua, l'aria, il fuoco. Sarebbe certamente interessante cercare di esaminare più da vicino le ragioni dì questo orientamento, che peraltro man­ tiene in Ba­chelard il carattere di una suggestiva assunzione, più che di una vera e propria posizione filosoficamente teorizzata ed elaborata. Anche in questo caso si potrebbe mostrare che ha un suo peso la contrapposizione fondamentale che fa parte dell'impianto iniziale del problema: benché anche nella scienza si elaborino teorie onnicomprensive, tuttavia essa è essenzial­mente caratterizzata non tanto dal riferimento all'universo considerato come una totalità, quanto piuttosto dalla delimita­zione del cam­ po di indagine a regioni relativamente circoscrit­te di oggetti. È invece l'immaginazione che oltrepassa di continuo questa deter­ minatezza e si orienta verso la problematica del tutto. Vi è un 62 respiro cosmico dell'immaginazione - anche per questo aspetto essa si differenzia dall'ambito della scienza. Questa è certamente una delle ragioni che orientano Bachelard ad una considerazione della metafisica arcaica dei quattro elementi dal punto di vista di una filosofia dell'immagi­na­zione "mate­riale": così come anche uno dei motivi del presentarsi di questa filosofia come una me­ tafisica. Questo orientamento viene abbandonato in un'opera come la Poetica dello spazio e il motivo di questa modificazione viene illustrato così: "Nelle nostre ricerche precedenti sull'immagi­ na­zione avevamo in effetti preferito collocarci con la maggiore obbiettività possibile davanti alle immagini dei quattro ele­menti della materia, dei quattro principi delle cosmogonie intuitive. Fe­ deli alle nostre abitudini di filosofi delle scienze, avevamo tentato di considerare le immagini al di fuori di ogni ricerca di interpre­ tazione personale" [86]. Una motivazione, in realtà, ingannevole. La modificazione non consiste tanto nel fatto che in precedenza si era adottato un punto di vista scientifico. Accade invece un significativo spostamento nella nozione di "metafisica" impie­ gata in rapporto alla filosofia dell'immaginazione: una sorta di passaggio da una nozione totalizzante dell'essere, nella quale la soggettività è solo indiret­tamente implicata, a un'altra nozione in cui la soggettività è l'essere stesso, l'essere che immagina. Il tema dell'autocritica è dunque uno stile in qualche modo oggettivi­ stico che, dalla metafisica intesa come descrizione della sostan­ za del mondo trapassa in quella metafisica che è diventata una metafisica dell'immaginazione e che si propone di descrivere la sostanza delle immagini. La riconduzione delle immagini ai quattro elementi si dimostra insufficiente per la "fon­da­zione di una metafi­ sica dell'immaginazione" per il fatto che ora al centro del problema vi è invece la connessione tra imma­ginazione e soggettività. Il venir meno della "teoria" dei quattro elementi non signi­ fica la caduta dell'idea della possibilità di un'organizza­zione delle immagini - questa idea è ancora ben presente nella Poetica dello 63 spazio. Tuttavia non appena il problema riceve i suoi primi svi­ luppi ci rendiamo subito conto che le direzioni di sviluppo delle valorizzazioni operate sono strettamente deter­mina­te dall'o­ rizzonte filosofico entro cui si situa ormai lo stesso pro­blema dell'immaginazione. Fin dall'inizio Bachelard ci av­verte che "gli spazi di ostilità", "gli spazi dell'odio e della lotta", dunque gli spazi che rimandano a forme di conflitti e all'im­maginazione dinamica "sono appena evocati nelle pagine che seguono". "Per ora ci poniamo davanti alle immagini che attirano" [87]. Così lo spazio di cui ci si occupa anzitutto è lo spazio della casa, e precisamente della casa come un centro intorno a cui gravitano immagini di intimità protetta [88]. E non è ormai più necessario far notare che questa limitazione, così come anche il prendere le distanze dalle immagini del conflitto, sia coerente con le idee che abbiamo precedentemente esposte. Questo riferimento intimistico assume spesso toni partico­ larmente accentuati. Si noti, del resto, che si parla qui non sem­ plicemente di valori di protezione, ma di intimità protetta. La casa in effetti ci protegge da molte cose - dal freddo, dal vento, dalla pioggia: ma ciò su cui cade l'accento è che, pro­ teggendocì in molti modi, la casa protegge anzitutto la nostra in­ timità, diventando essa stessa un'immagine di inti­mità. Secondo un caratteristico movimento di pensiero Bache­lard risucchia la dimensione immaginativa della casa nei ter­mini della sua stessa filosofia. La casa protegge anzitutto il sognatore: essa "ci consen­ te di sognare in pace" [89]. Come se fosse necessario arrivare a stabili­re una connessione intrinseca tra la casa come valore immagi­nativo e la dimensione stessa della rêverie. Questo tema, che si annuncia nel primo capitolo, serpeggia dappertutto e si ripre­senta infine nel capitolo conclusivo, dedicato alla "fenome­ nologia del rotondo". Il rotondo è una "centralizzazione di vita protetta da ogni parte" [90]. Così come si ripresentano i temi ad esso connessi. Per esempio, il tema del riposo: "E nel paesaggio 64 arrotondato tutto sembra riposare" [91]. Ciò non significa certa­ mente che la riflessione di Bachelard si sviluppi monotonamente secondo un'unica direzione e che il testo non sia ricco di spunti che hanno una portata autonoma rispetto all'impianto filosofico di base. Al contrario: a partire da un tema immaginativo, Ba­ chelard opera di continuo, e con estrema mobilità, spostamenti, amplificazioni, variazioni tema­tiche. Come egli dice una volta per indicare il proprio metodo: si tratta di "sensibilizzare il docu­ mento moltiplicandone le variazioni" [92]. Tuttavia questa stessa sensibilizzazione del documento, la ripresa cioè di un'immagine come indicazione di un tema da va­ riare liberamente, viene a sua volta operata secondo moduli che riconducono di continuo all'impostazione di base - e in partico­ lare alla nozione della rêverie. Del resto mostrando le implicazioni di questa nozione pos­ siamo anche mostrare che in essa l'intera tematica di Bachelard raggiunge il suo coerente estremo e, in certo senso, in questo estremo si consuma. La sensibilizzazione dell'immagine non si realizza in altro modo se non installandosi all'interno dello stesso atto poetico, nella condizione della rêverie. Ma allora dovremo affermare coe­ rentemente che la dimensione della lettura si svolge essa stessa come un atto della rêverie. Il lettore deve coincidere con il poeta: deve farsi poeta. La sensibilizzazione del documento può avve­ nire certamente passando da un documento all'altro, dal verso ad altri versi che operano una amplificazione e uno spostamento introducendo temi tra loro concatenati. Questo modo di proce­ dere deve poter contare sulla nostra capacità di istituire relazioni e connessioni, e non è altro che un modo indiretto, un modo obliquo di proseguire per conto nostro l'im­ma­ginazione poetica che in quel verso ha iniziato il suo corso. La lettura continua la scrit­ tura, e il rivivere di cui si parla non è il vivere una seconda volta, da parte del lettore, un'espe­rienza vissuta da un altro, ma il coin­ cidere con l'altro nella stessa attività produttiva di immagini. 65 "La rêverie poetica scritta, portata sino a dare la pagina let­ teraria, diventa per noi una rêverie comunicabile, una rêverie che ispira, cioè una ispirazione a misura del nostro talento di lettori" [93]. La dimensione della rêverie - che è la dimensione stessa della creazione poetica - è anche la dimensione entro cui può e deve realizzarsi una lettura autentica dei poeti: "La lettura dei poeti è essenzialmente rêverie" [94] E ancora: "Quali consigli ci suggerisce l'atteggiamento fe­ nomenologico? Esso ci richiede di istituire in noi un orgoglio di lettura capace di darci l'illusione di partecipare al lavoro stesso del creatore di libri... Insensibilmente arriviamo a illu­derci che problemi e soluzioni ci appartengano. Eppure è tale sfumatura psicologica ("Avrei dovuto scrivere io questo libro") a porci nella condizione di fenomenologi della lettura" [95]. Affermazioni coerenti con l'insieme, e tuttavia estremamen­ te impegnative. Che cosa accade infatti considerando il proble­ ma della nozione di fenomenologia in Bachelard secondo que­ sta angolatura? Accade che l'atteggiamento fenomenologico si identifichi con lo stesso fantasticare in atto. Per caratterizzare questa intrinsecità del metodo con il tema dell'immaginazione, Bachelard osserva una volta che l'immaginazione è un tema in certo senso privilegiato del metodo fenomenologico e che una feno­menologia dell'immaginazione potrebbe essere impiegata come una sorta di propedeutica alla fenomenologia in gene­re [96]. Ma si tratta di un'affermazione troppo debole: infatti, che senso dovremmo attribuire all'espressione di fenomenologia in genere, se tutto il discorso di Bachelard è orientato nel senso della esibizione di una coincidenza, di una risoluzione dell'at­ teggiamento fenomenologico con l'atto del fantasticare, della fenomenologia con la poesia? Per questa ragione assume parti­ colare importanza per Bachelard una frase di Van den Berg che formula questa stessa coincidenza nella direzione inversa: "I po­ eti e i pittori sono fenomenologi nati" [97]. Ma sempre seguendo con filosofica coerenza un simile svi­ 66 luppo di idee ci rendiamo infine conto che se una critica può essere rivolta ai nostri libri, essa potrebbe consistere in questo: nell'essere essi ancora troppo filosofici e troppo poco poetici. La nostra ambizione sarebbe quella di realizzare "una poetica della rêverie poetica" [98]: un'ambizione troppo grande dal mo­mento che in essa si tratta di effettuare un rovesciamento che "ci faccia passare dall'espressione poetica ad una coscienza di creatore" [99]. L'innescare questo processo resta comunque lo scopo. L'a­ spirazione al libro poetico sorge così direttamente dai motivi filosofici entro i quali Bachelard elabora là tematica dell'imma­ ginazione. Questa aspirazione è il punto estremo a cui giunge la sua filosofia dell'immaginazione e nel quale essa cessa ormai di essere una filosofia dell'immaginazione. 10. Elementi per una critica - Ovvietà ed erroneità dell'oppo­ sizione tra operazioni razionali e immaginative - L'intervento del­l'immaginazione nelle pratiche della conoscenza - Du­rezza del reale e forza disintegrante dell'imma­ginazione - Colui che vide una ruota mettere i denti È ormai tempo di raccogliere le nostre idee intorno alla posizio­ ne di Bachelard, cosa che significa certamente per noi ordinare gli elementi per una critica [100]. Infatti, nonostante tutti i no­ stri buoni propositi, è apparso chiaro dal­l'an­da­mento della nostra esposizione che essa si è sviluppata in modo da sospin­gere sem­ pre più la tematica bachelardiana verso quelli che sono, a nostro avviso, i suoi limiti critici, operando una sorta di amplificazione progressiva di indicazioni che all'inizio non ci sembravano pro­ babilmente tanto cariche di conseguenze come poi ci sono di fatto a poco a poco apparse. Il discorso va aperto sull'antitesi iniziale tra le operazioni razionali e le operazioni immaginative. Abbiamo infatti avuto modo di constatare nel corso della nostra esposizione che quella antitesi, da cui prende l'avvio l'intera problematica di Bachelard, 67 non delimita soltanto un orizzonte di carattere generale, ma pe­ netra sino alla determinazione degli ultimi dettagli. A nostro avviso la tematica dell'immaginazione deve essere impostata in primo luogo entro il quadro di una "dottrina del­ l'e­sperienza" ed entro questo quadro lo stesso problema dell'an­ titesi, all'inizio, non si pone neppure. Se poi, assumendo un si­ mile punto di vista, siamo indotti a prenderla in conside­razione, eventualmente proprio per via del rilievo che le confe­risce Ba­ chelard, essa ci appare ad un primo sguardo come un luogo comune di tutta una tradizione filosofica, un luogo comune che ha alcune circostanze piuttosto ovvie dalla propria parte, ma che è ben lontano dal giustificare una contrapposizione tanto ricca di impegnative conseguenze. L'immaginazione considerata all'interno di una dottrina dell'esperienza non è altro che una modalità di essa, e dunque una delle tante nostre "capacità". Come ogni nostra capacità essa è autonoma, ma anche strettamente intrecciata con ogni altra se­ condo una complessa molteplicità di rapporti. Cosicché non ha senso né attribuire ad essa unicamente il carattere di freno nelle operazioni conoscitive né riconoscerle uno spazio di movimen­ to legittimo. Al più possiamo riconoscere che entro questo o quel­l'ambi­ to vi siano funzioni dominanti rispetto ad altre: e nelle pra­tiche del conoscere non sono certo dominanti le funzioni immagina­ tive. Altrettanto indubbio è che l'immaginazione possa essere fonte di errore. Questa è la base ovvia del luogo comune che conduce all'antitesi. Ma l'antitesi stessa è ben lontana dal­l'es­­sere giustificata perché non abbiamo alcun preciso motivo per esclu­ dere che, all'interno delle operazioni conoscitive e razio­nali in genere, l'immaginazione possa svolgere un ruolo pro­duttivo e positivo. Ciò non deve essere inteso come se si volesse rivendica­ re l'importanza nella scienza delle intuizioni geniali; come se si volesse soltanto porre l'accento sul fatto che, se badiamo alle 68 procedure concrete della scienza, non possiamo ignorare che, accanto a tutti gli apparati logici e sperimentali, intervenga spes­ so un quid di irrazionale, una sorta di scintilla che condu­ce infine alla nuova teoria, alla nuova scoperta. Se così fosse resteremmo interamente nell'ambito dell'op­ posizione, muovendoci all'interno di una concezione dell'im­ maginazione che si ostina ad attribuirle la qualifica di diritto del­ l'ir­razionalità. La genialità dello scienziato singolo, l'intervento di intui­ zioni che orientano ad una scoperta, che formano il germe di una nuova teoria, tutto ciò è fuori discussione. Ma il problema di una considerazione in positivo dell'immaginazione nei pro­cessi conoscitivi assume reale interesse qualora lo si consideri da un punto di vista completamente diverso. Si tratta infatti di ricono­ scere che l'immaginazione può intervenire produttivamente nel­ le pratiche della conoscenza proprio in quanto viene considerata nella specificità delle sue funzioni. Pensiamo, per esempio, all'immaginazione associativa: sulla base di associazioni possono realizzarsi sintesi immaginative che dànno luogo ad immagini. Ma questa stessa capacità associativa non è affatto predestinata all'immaginazione poeti­ca. Attraverso associazioni si possono effettuare trasposizioni, realizzare ana­ logie che non hanno necessariamente il carattere del mero ac­ certamento di una somiglianza di fatto, ma che sono in grado di prospettare nuovi modi di approccio ad un campo di problemi. Una trasposizione analogica, che è una vera e propria trasposi­ zione immaginativa, potrebbe assumere una funzione propria­ mente conoscitiva nella misura in cui fosse integrata in un con­ testo in cui gli interessi conosciti­vi sono gli interessi dominanti. Oppure si pensi alla nozione di esperimento mentale, alla finzione immaginativa di eventi che non potrebbero essere con­ cretamente realizzati e che tuttavia siamo interessati a prospet­ tare come parte integrante di una riflessione scientifico-teorica. Oppure ancora ai vari modi in cui l'immaginazione viene messa 69 in questione nelle illustrazioni concrete di concetti e formula­ zioni teoriche astratte: illustrazioni che, in realtà, suggeriscono l'idea che l'immaginazione non intervenga solo dopo la formazio­ ne del concetto, ma che possa anche interveni­re nella sua stessa produzione. Ma a parte ogni discussione più precisa, ciò a cui siamo in­ teressati è indicare una linea di impostazione della proble­matica filosofica dell'immaginazione che non escluda la propo­nibilità del problema della subordinazione delle operazioni immagina­ tive a funzioni propriamente conoscitive, mostrando al tempo stesso che una simile esclusione dipende soltanto da opinioni filosofiche prive di fondamento. Assumendo questo punto di vista non sentiremmo come un paradosso il fatto che si parli non solo di immaginazione letteraria, poetica, pittorica, ecc., ma anche di immaginazione scientifica; oppure di imma­ginazione tecnologica. Contro la tendenza così fortemente riduttiva di Bachelard, che tende a restringere l'ambito "autentico" di esercizio del­ l'immaginazione all'immaginazione poetica, noi saremmo ten­ tati di moltiplicare le aggettivazioni: soprattutto con lo scopo di mantenere viva la consapevolezza che sotto il titolo dell'im­ maginazione può essere raccolta una enorme molteplicità di pro­ blemi, anche se una filosofia dell'immaginazione ha come scopo primario quello di cominciare con l'attirare l'attenzione su alcuni pochi temi fondamentali. Tuttavia questi temi posso­no poi esse­ re specificati in una grande varietà di direzioni. Prendiamo per esempio il tema della neutralizzazione del­le posizioni d'essere e quello ad esso connesso della decostruzione della realtà. Nell'immaginazione non abbiamo bisogno di atte­ nerci al dato di fatto, a ciò che c'è. Possiamo fantasticare. Il fan­ tasticare stesso d'altronde assolve qualche scopo, non fos­s'altro che quello di illustrare "il riposo dell'essere" stando a Ba­chelard. Ma questo tema riceve subito un nuovo senso se lo prospettia­ mo all'interno di un contesto che abbia di mira scopi pratici, 70 scopi che derivano dalla soggettività stessa in quanto fronteggia la realtà con tutti i suoi bisogni. Di qui sorgono problemi che la realtà, così com'è, lascia irrisolti. Come farò a sollevare quella pietra così in alto? - Il "ragiona­ mento" che in questo modo si avvia è fatto di molte componen­ ti, e anche di componenti immaginative. Il fatto che nel­l'imma­ ginazione non abbiamo bisogno di attenerci al dato significa ora, nello stesso tempo, che possiamo cogliere il dato non solo nel suo essere così com'è, ma anche nel modo del poter essere altrimenti. La forma degli oggetti ci appare come una forma alterabile, l'og­ getto integrato entro un contesto dato ci appare come disintegra­ bile da quel contesto; la funzione che gli è assegnata si presenta come una funzione che può essere modificata. Questa plasticità immaginativa dell'oggetto che rimanda alla forza disintegrante dell'immaginazione si installa all'in­terno del problema a cui ora, ragionando, cerchiamo di dare una soluzione. In questo modo non vi è solo l'immaginazione che ripara den­tro le pareti domesti­ che, affinché l'io possa ritrovare la pace nelle sue sognanti fantasti­ cherie, ma anche l'immaginazione che si misura direttamente con la durezza della realtà, cominciando con l'esibire la sua possibile plasticità. Pensiamo all'invenzione della ruota dentata - questo ogget­to semplicissimo e straordinario che contiene l'idea di tutte le macchine. Pensiamo addirittura all istante in cui venne inven­ tata la ruota dentata: in quell'istante, l'oscuro inventore vide, fis­ sando una ruota, che essa metteva i denti. L'immagine si sovrappone all'oggetto, che si trova già sotto la presa di un problema, come termine medio per la sua soluzione. 11. Ciò che manca in Bachelard: l'immaginazione sociale; la teatrali­tà dell'immaginazione; l'immaginazione festosa Mettendo in questione il buon fondamento dell'antitesi iniziale, tenderemo ad attaccare tutte quelle posizioni che siamo andati via via esponendo e che sono da essa dipendenti secondo me­diazioni 71 più o meno esplicite. In particolare da essa dipende quella ten­ denza ad una considerazione pronunciatamente unilaterale che diventa sempre più evidente nella lettura di Bachelard, come se lo stesso impianto filosofico del proble­ma ci imponesse pro­ gressive e coerenti restrizioni del raggio d'azione dell'immagina­ zione. Abbiamo già notato che Bachelard tende a porre al centro della propria trattazione il tema della valorizzazione immaginativa, il cui concetto peraltro non viene teorizzato. E non vi è dubbio che pro­ prio per questo si possano trarre molti spunti e motivi ricchi di interesse, cercando di estrarli dalla cornice filosofica in cui essi sono inseriti. In primo luogo vi è la netta accentuazione della differenza tra fatto e valore. Il fatto non basta [101]: nell'immagine "l'es­sere è immediatamente un valore" [102]. A partire da questa distinzio­ ne si assume implicitamente l'idea che le sintesi immaginative han­ no un fondamento contenutistico. Tenendo conto di ciò si può approfittare largamente degli esempi per mettere in evi­denza estensioni e sviluppi del problema che hanno a che fare proprio con la differenza tra la dimensione positivo-descrittiva e la di­ mensione della valorizzazione. Si vedano, per esempio, le suggestive considerazioni intor­no alla "completezza onirica" della casa. La casa per l'imma­ginazione è una casa verticale, è una casa che ha uno spazio intorno, una cantina e una soffitta, un pianterreno e un primo piano, e già un secondo piano è probabilmente di troppo. L'im­maginazione in­ torno alla casa sa contare al massimo sino a tre o quattro [103]. Qui ciò che importa non è il modo in cui sono fatte le case o come erano fatte una volta; e nemmeno è importante che noi abbiamo realmente abitato in case di questo tipo. Ciò che importa è che per l'immaginazione la casa è fatta proprio così. Quanto ai nostri alloggi condominiali, a cui ormai quasi tutti siamo assegnati e rassegnati, essi sono case oniricamente incomplete, nella loro inflessibile orizzontalità; e la loro commisurazione alla 72 casa immaginaria mostra quante valenze imma­ginative restino aperte in rapporto a questi nostri "buchi convenzionali". In questa stessa direzione di discorso potranno essere ap­ prezzate le numerose esemplificazioni che portano l'atten­zione sulle curiose asimmetrie introdotte dall'immaginazione. La sim­ metria di fatto della scala, per esempio, che serve per scendere come per salire, oppure delle chiavi che servono per chiudere e per aprire, viene spesso meno nell'operazione valo­rizzante: la chiave, dice Bachelard, serve soltanto per chiude­re [104]; e vi sono scale che scendono sempre, altre che salgono sempre. Di queste esemplificazioni potremmo ampiamente approfit­ tare per arricchire la tematica della valorizzazione; ma per appro­ fittare di esse dobbiamo isolare gli esempi dal quadro filosofico complessivo: cosa non sempre facile, perché esso si rivela parti­ colarmente impegnativo, particolarmente ingom­brante. L'attenzione unilaterale per la tematica dell'immaginosità si accentua ancor più non appena ci rendiamo conto che essa punta in direzione quasi esclusiva dell'immagine verbale, del­l'immagine fatta di parole, e infine dell'immagine poetica. Questa limitazio­ ne è stata messa più volte in luce da parte degli interpreti di Bachelard. Una simile concezione dell'im­ma­gina­zio­ne, che in­ dugia così a lungo sull'immaginazione poetica, si rivela piuttosto povera di indicazioni se ci volgiamo ad altri campi, pur restando all'interno della produzione arti­stica. E anche in rapporto a questa ulteriore restrizione vi sono ragioni che vanno oltre il piano delle predilezioni personali, del resto legittime. Vi sono considerazioni, in Bachelard, che con­ nettono stret­tamente la rêverie, e quindi l'immaginazione stessa nel suo concreto esplicarsi, con il linguaggio: anzi, più precisa­ mente, con la scrittura. Dobbiamo perciò dare tutta l'importanza che merita ad un'osservazione contenuta nella Poetica della rêverie nella quale si nota che, a differenza del sogno, la rêverie non la si racconta. Ma può accadere che la si scriva. Più importante che il dire è lo scri­ 73 vere. Lo scrivere non è un modo come un altro di realizzare le nostre fantasticherie, ma è un'azione diretta della stessa atmosfe­ ra sognante, l'immersione nella rêverie genera la scrittura. "Quanti amanti - esclama Bachelard - al ritorno dai più teneri incontri aprono lo scrittoio!" [105]. Questo richiamo un poco sentimentale, un poco fotoroman­ zesco, è comunque significativo per illustrare questa connes­sio­ ne: la condizione sognante fa tutt'uno con la dimensione della scrittura come la dimensione stessa dell'immaginario. La rêverie poetica "esiste già davanti a questo grande universo che è la pa­ gina bianca" [106]. Se al ritorno dai loro teneri incontri gli amanti aprono lo scrittoio, ciò non accade certamente perché abbiano dimenti­cato di dirsi qualcosa. Accade invece perché quel che resta da dire non poteva essere detto alla presenza corposa, carnale, dell'altro. Nella scrittura, invece, l'altro è percettivamente assente e può esse­ re reso presente nell'immaginazione come un momento della stes­ sa dimensione sognante. L'altro a cui ci rivolgiamo nella scrittura è un fantasma della rêverie. La scrit­tura diventa soliloquio interiore, la presenza poetica dell'altro può realizzarsi solo nella condizio­ ne della solitudine: nella quale possiamo finalmente rimirarci nel nostro stagno. Perfino il privilegio concesso all'immagine poetica è dun­ que connesso con il tema della solitudine, integrandosi in una filosofia dell'esistenza il cui centro è rappresentato dal tema dell'intimità. Sullo sfondo di questi problemi è interessante notare che una delimitazione della tematica elementare delle funzioni im­ maginative, operata da un punto di vista fenomenologico strut­ turale, potrebbe assumere la situazione del gioco come situa­zione esemplificativa iniziale. Il gioco potrebbe fornirci il nostro primo filo conduttore, la nostra prima guida. E non è difficile rendersi conto che molte cose sono già decise se prendiamo le mosse dal gioco oppure dalla rêverie nel senso di Bachelard. Si definisce 74 così una precisa alternativa nella quale l'una nozione può essere polemicamente rivolta contro l'altra, rimandando ad un atteggia­ mento di principio interamente di­verso. Prendendo le mosse dal gioco noi cominceremo, di fronte alla connessione istituita da Bachelard dell'immagina­zione con la soggettività solitaria, con il fare un elogio dell'im­maginazione sociale. Contro la rêverie, ci richiameremo ai giochi dei bambini: di qui possiamo trarre tutto ciò di cui ha bisogno una filosofia dell'imma­ginazione. E così faremo l'elogio della teatralità dell'imma­gina­zione; e dell'imma­ ginazione festosa. Se ammettiamo che cominciando dalla rêverie si possa ac­cennare ad una ontologia, ad una metafisica dell'immaginazione che si conclude con una metafisica del riposo, cominciando dal gioco, contro la rêverie, si accennerà forse ad una metafisica tutta diver­ sa: di cui sappiamo se non altro che il suo paradiso - dal mo­ mento che ogni buona metafisica deve avere un paradiso - non sarà affatto una "immensa biblioteca". 12. Considerazioni critiche conclusive - L'ingenuità fe­ no­ menologica e l'immedesimazione - Fenomenologi e lupi - Le tecniche dell'immaginazione e il lavoro del poeta. Vi sono almeno due punti nella nozione bachelardiana di feno­ menologia che ricordano alla lontana la posizione di Husserl. Il primo riguarda ciò che Husserl chiamava epoché feno­menologica; il secondo invece quelle connotazioni dell'at­teg­­­gia­mento feno­ menologico in Ba­­che­lard che possiamo riunire sot­to il titolo di "partecipazione" o di "immedesimazione". L'uno e l'altro sono poi tra loro connessi dal momento che l'esercizio della epoché in­ troduce appunto all'atteggiamento fenomenologico. Entrambi questi aspetti erano già stati rammentati in prece­ denza con l'invito a non concludere troppo frettolosamen­te ad un'effettiva affinità. In realtà la differenza è nettissima, e balza agli occhi non appena teniamo conto del modo in cui il primo momento si connette al secondo in entrambi gli autori. L'interesse 75 principale di Husserl è quello di conferire un preciso statuto fi­ losofico ad una problematica descrittiva orien­tata nel senso della esibizione di differenze di struttura. Per questo motivo, la cosid­ detta epoché fenomenologica è, almeno all'ini­zio dell'elaborazione di Husserl, niente altro che una sorta di artificio metodologico della cui artificiosità siamo interamente consapevoli. Nello stes­ so tempo essa può assume­re anche la forma di una vera e pro­ pria argomentazione filosofica - la forma di una ripresa della argomentazione cartesiana del dubbio. In Bachelard invece questa messa in parentesi introduce all'idea di un atteggiamento fenomenologico inteso come una sorta di disposizione dell'animo, nella quale l'assenza di pre­giudizi si converte nell'immedesimazione secondo quelle carat­teristiche di partecipazione, di immediatezza e di semplicità che abbiamo così spesso rammentato. L'aspetto descrittivo viene così addi­ rittura esplicitamente contestato, come un aspetto certamente troppo prosaico per una nozione come questa che è destinata a far rifluire una filosofia dell'immagi­nazione nella sua poesia. La differenza balza agli occhi: e tuttavia ciò dipende più dalla chiarezza delle nostre idee che dalla natura del problema. Sulla stessa nozione husserliana di fenomenologia - ed a parte ogni considerazione relativa a Bachelard - si addensano inter­ pretazioni che arrivano a rendere quella differenza abbastanza sfumata. Inoltre il tema della assenza di pregiudizi, e quindi an­ che il tema dell'ingenuità, si può ritrovare in contesti diversi che non si prestano ad una critica troppo ovvia. Per esempio, questo tema lo si ritrova talvolta negli psico­ logi della forma e, con intonazioni diverse, all'interno dell'indi­ rizzo fenomenologico in psichiatria. E almeno fino ad un certo punto, il richiamo all'ingenuità ha, in entrambi i casi, giustifi­ cazioni piuttosto precise nella stessa misura in cui è inserito in un contesto di dibattito ben determinato. Negli psicologi della forma si tratta in effetti di porre il pro­ blema di un livello preliminare dell'indagine entro l'ambito dell'e­ 76 sperienza che non risulti fin dall'inizio pregiudicato da costruzioni teoriche - alludendo in particolare alla psicologia associazionistica. Quindi non si tratta affatto di un richiamo all'ingenuità pura e semplice: si tratta invece di un modo abbreviato di presentare una posizione critica piuttosto com­plessa e articolata. In parte, ma solo in parte, ciò può essere detto per la presen­ za di questo tema all'interno della psichiatria fenomeno­logica. Il prescindere dalle teorie assume qui il senso di una messa da parte, nel contatto diretto con il malato mentale, delle categorizzazioni e delle tipologie istituzionali, sia per il fatto che queste categoriz­ zazioni e queste tipologie sono spesso sature di opinioni pregiu­ diziali; sia perché, in fin dei conti, il malato mentale non è né un tipo né una categoria. Tuttavia non vi è dubbio che non appena si allentano i le­ gami del tema dell'ingenuità con la determinatezza dei suoi rife­ rimenti, l'esortazione ad uno sguardo semplice, ad un atteg­gia­ mento immediato, ecc., diventa un'esortazione del tutto vuota, alludendo ad un atteggiamento di disponibilità e di apertura che non può che apparire alquanto misterioso. Tutto ciò che resta allora è un generico anti-intellet­tuali­smo che affida interamente la stessa attività del comprendere e dell'in­ terpretare ad un momento puramente intuitivo che per principio si sottrae a qualunque considerazione di ordine metodologico. Bachelard si trova certamente su questo versante: e anche se il tema fenomenologico orientato in questa direzione viene acquisito percorrendo una via propria e sulla base di motivi che sono specificamente suoi, tuttavia egli trova il terreno già disso­ dato nell'ambito della psichiatria fenomenologica. Infatti, nonostante ciò che abbiamo or ora osservato, la te­ matica teoretica dell'orientamento fenomenologico in psi­chia­ tria è fin dall'inizio tutta puntata in direzione di una polemica anti-intellettualistica che esalta il momento della comprensione intuitiva, che fa tutt'uno con la partecipazione, con l'imme­de­si­ mazione. 77 Così scrive Binswanger in un saggio del 1922 dedicato alla fenomenologia: "Esistono però anche uomini i quali sanno come, accanto alla percezione sensibile, si dia altresì un altro ge­ nere di conoscenza, di esperienza immediata diretta e che, accanto alla scomposizione concettuale dell'oggetto nei suoi singoli elementi, esiste la possibilità di coglierlo in modo più originario e più totale. Flaubert, per esempio, riconosce questo modo di conoscenza quando, esprimendo in poche parole il principio fondamentale di qualsi­ asi fenomenologia, dice: "A forza di guardare un ciottolo, un ani­ male, un dipinto, me ne sono sentito compenetrare". Osservare, guardare e poi ancora guar­dare; il risultato: un essere trasportato dentro l'oggetto osser­vato (un oggetto sia animato che inanima­ to della natura o dell'arte)" [107]. Questa citazione è molto significativa proprio per il fatto che essa è del tutto chiara ed esplicita. Qui si parla di un al­ tro genere di conoscenza, di una conoscenza intuitiva che viene contrapposta alla "scomposizione concettuale dell'oggetto nei suoi singoli elementi" - quindi alla conoscenza intellettuale. Con l'ausilio della citazione di Flaubert, si formula l'atteggia­mento fenomenologico come un atteggiamento che si realizza nella concentrazione osservativa sull'oggetto, una concentra­zione e un'osservazione che tuttavia hanno il solo scopo di farci trasmi­ grare nell'oggetto, di farci coincidere con esso. Nonostante le sue particolari motivazioni filosofiche, la nozione di fenomenologia in Bachelard ha all'incirca le carat­ teristiche descritte da Binswanger, anche se l'autore di riferi­ mento è piuttosto Minkowski, che appartiene in ogni caso all'a­ rea della psichiatria fenomenologica. Teorizzando l'atteggiamento fenomenologico come imme­ desimazione e partecipazione; il problema di una fenomenolo­gia dell'immaginazione tende a perdere il carattere di una indagi­ ne autentica. Talvolta Bachelard parla di studio fenome­nologico delle immagini [108] : ma in fin dei conti questa parola è qui impiegata impropriamente proprio perché questo studio si ri­ 78 solve nell'atto del retentissement. Da questo punto di vista, diventa particolarmente significativa la tendenza a convertire la lettura "fenomenologica" di un testo poetico in una conti­nuazione del­ la rêverie. All'interno delle immagini non c'è nulla da pensare. Esse ci danno soltanto da immaginare. L'atteg­giamento fenome­nologico non è niente altro che un immaginare attra­verso le immagini. Certamente bisogna prendere atto di questa circostanza: per cogliere le immagini bisogna effettivamente partecipare ad esse. Non si può dare torto a Bachelard su questo punto. Biso­ gna partecipare ad esse, così come quando attestiamo, ridendo, la no­stra partecipazione ad un racconto, ad un evento, ad una bat­tu­ta di spirito ben riuscita. Anche nel riso c'è parteci­pazione, e molta immaginazione. Prendendo atto di ciò l'inte­ra questione può essere riconsiderata nelle sue giuste propor­zioni. Guardia­ mo invece che cosa accade in Bachelard. Di fronte alla storia di un lupo affamato che si avventa contro una tartaruga per divo­ rarla, Bachelard osserva: "Occorre che il fenomenologo abbia per un istante viscere da lupo davanti alla preda che diventa pie­ tra" [109]. Ora, è certo che se raccontiamo la storia anche ad un bambino, probabilmente egli manifesterà la propria partecipa­ zione in qualche modo, per esempio riden­do divertito. Ha rivis­ suto tutta la storia con viscere da lupo? Ammettiamolo senz'al­ tro. Non c'è bisogno di essere "fenome­nologi" per questo! Certamente, parlando di semplicità o di ingenuità Bache­ lard non intende richiamarsi a qualcosa di simile a uno stato d'a­ nimo infantile. Sarebbe sbagliato orientare la critica in questa direzione. Il punto del problema sta altrove. Nella Poetica dello spazio, Bachelard osserva che si tratta di partecipa­re attivamente "al lavoro stesso del creatore di libri" e che un simile atteggia­ mento "non si può certo assumere alla prima lettura, lettura che conserva ancora troppa passività, in quanto il lettore è anco­ ra un po' bambino, che la lettura distrae" [110]. Invece dopo una prima lettura dell'opera, deve seguire una seconda lettura, e dopo la seconda una terza..., perché in questo modo veniamo a 79 conoscere i problemi e le soluzioni di cui quell'opera è fatta. Tutto ciò è molto ben detto - soprattutto per ciò che concerne l'idea che nell'opera siano contenuti problemi e soluzioni. Ma in che modo diventiamo coscienti di essi? Leggendo, rileggendo, rileg­ gendo ancora... Questa itera­zione delle lettura sembra avere un senso non molto dissimile dalla concentrazione dell'attenzione negli atti dell'osservare, del fissare intensamente l'oggetto che ci dovrebbe far trasmi­grare nel suo interno. Del resto, al termine di questo passo la tendenza di fondo della filosofia bachelardiana si afferma ancora una volta. L'espressione "Avrei dovuto scrive­ re io questo libro", che Bachelard rammenta come espressione di una sfumatura psicologica che caratterizza il passaggio dalla coscienza di lettore di libri alla coscienza di creatore, può essere intesa anche secondo un'altra angolatura: forse essa dice, quasi inavvertitamente, che anche il libro deve diventare uno stagno in cui io possa rimirarmi. Certamente, si tratterà di un io sublimato. Ma forse, in qualche senso del termine, era sublimato anche l'io di Narciso. Ritorniamo così alla tematica dell'interiorità, il centro au­ tentico della filosofia bachelardiana dell'immaginazione. L'im­ maginazione è l'organo dell'interiorità, le immagini sono effu­ sioni dell'anima. Nella introduzione alla Poetica dello spazio, Bachelard ram­­ menta che nella lingua francese "si è un po' sordi rispetto ai temi così numerosi nella filosofia tedesca nei quali la distinzio­ne tra lo spirito e l'anima (der Geist e die Seele) è tanto netta e definita" [111]. Bisogna invece riprendere questa distinzione, e tanto più in una filosofia che voglia essere fenomenologia della poesia. Lo spirito, il Geist, richiama l'idea stessa della storia e della cultura; di ciò che è pubblico e intersoggettivo. L'anima invece l'interiorità solitaria, separata da tutto il resto, conside­rata nel suo isolamen­ to, quell'isolamento così necessario affin­ché l'io, sognando, pos­ sa riconciliarsi con se stesso: "Il registro poetico che corrisponde all'anima deve dunque rimanere aper­to e disponibile alle nostre 80 ricerche fenomenologiche" [112]. È inutile dire che in una simile prospettiva non può avere nessun rilievo il fatto che vi siano delle tecniche dell'imma­ginazio­ ne; e più specificamente tecniche della scrittura, tecniche dell'im­ maginazione letteraria. E che in qualche modo il lavoro del po­ eta sia pur sempre un lavoro. Il poeta spesso suda sulle sue carte. Questa evocazione del sudore del corpo genera una certa ripu­ gnanza in un contesto di discorso come quello di Bache­lard. Il corpo non è in questione, è l'anima che conta. E l'anima che si immerge nella fantasticheria sognante. Nel Manifesto del surrealismo si racconta di un poeta strava­ gante che, ogni volta che andava a dormire, appendeva al­la pro­ pria porta un cartello con sopra scritto "Il poeta lavora". Senza pretendere di proiettare sul surrealismo idee che sono di Ba­ chelard e tenendo conto del resto del fatto che qui si parla del sogno e non della rêverie, cosicché ci muoviamo in un ambito di problemi essenzialmente diverso, questo simpatico aneddoto può tuttavia, in un senso modificato, essere posto a conclusione anche delle nostre considerazioni intorno alla filo­sofia dell'im­ ma­ginazione di Bachelard. 81 Note [1] La poétique de l'espace, PUF, Paris 1957. In seguito si farà ri­ ferimento, con la sigla PS, alla traduzione italiana a cura di E. Catalano, Dedalo, Bari 1975. [2] La poétique de la rêverie, PUF, Paris 1960. In seguito si farà ri­ ferimento, con la sigla PR, alla traduzione italiana a cura di G. Silvestri Stevan, Dedalo, Bari1975. [3] PR, pp. 33-34. [4] ivi, p. 20. [5] ivi. [6] PS, p. 24. [7] ivi, p. 13. [8] ivi. [9] ivi, p. 261. [10] ivi, p. 10. [11] ivi, p. 55. [12] ivi, p. 260. [13] Su questo punto, come su molti altri che possiamo toccare solo margi­nalmente o che dobbiamo del tutto tacere si rimanda al volume che Giuseppe Sertoli ha dedicato a Bachelard: un libro che si raccomanda sia per la limpidezza dell'esposizione, sia per la ricchezza di analisi dei testi bache­lardiani sia per l'ampiezza re­ almente notevole dei riferimenti al contesto culturale. G. Sertoli, Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard, La Nuova Italia, Firenze 1972. [14] PS, p. 7. [15] ivi, p. 257. [16] ivi, p. 14. [17] ivi, p. 53. [18] ivi, pp. 93 e 109. [19] ivi, p. 7. [20] ivi, p. 5 [21] ivi, p. 257. 82 [22] PR, p. 22. [23] ivi, p. 16. [24] PS, p. 15. [25] ivi. ­[26] ivi, pp. 103-104. [27] PR, p. 24. [28] PS, p. 15. [29] ivi. [30] ivi. [31] Le droit de rêver, PUF, Paris 1970, tr. it. a cura di M. Bianchi, Dedalo, Bari 1974, pp. 14-29. [32] ivi, p. 22. [33] ivi, p. 20. [34] PR, p. 8. [35] PS, p. 25. [36] ivi, p. 15. [37] ivi, p. 13. [38] PR, p. 10. [39] PS, p. 8. [40] ivi, p. 7. [41] ivi, p. 6. [42] ivi, p. 14. [43] ivi, p. 7. [44] ivi, p. 24. I termini di sintesi immaginativa, di fantastico-immagina­ rio e di immaginoso sono usati qui nell'accezione fis­sa­ta in Elementi di una dottrina dell'esperienza, cap. III. [45] ivi. [46] PR, p. 9. [47] ivi. [48] PS, p. 34. [49] ivi, p. 43. [50] ivi, p. 34. [51] ivi. [52] ivi, p. 54. 83 [53] ivi, p. 33. [54] ivi, p. 82. [55] ivi, p. 33. [56] ivi, p. 82. [57] ivi, pp. 83 e 59. [58] ivi, p. 29. [59] ivi, p. 98. [60] ivi, p. 101. [61] ivi, p. 100. [62] ivi. [63] ivi, p. 7. [64] ivi, pp. 6, 7, 17. [65] ivi, p. 257. [66] ivi, p. 5. [67] PR, p. 10. [68] PS, p. 254. [69] ivi, p. 19. [70] ivi, p. 70. [71] Clair de Terre (1923), in Breton e il surrealismo, a cura di Ivos Margoni, Mondadori, Milano 1976, p. 209. [72] ivi, p. 276. [73] ivi, p. 275. [74] ivi, pp. 269-270. [75] PS, p. 41. [76] Op. cit., p. 254. [77] ivi. [78] ivi, p. 255. [79] ivi [80] PR, p. 17. [81] ivi, p. 19. [82] ivi, p. 18. [83] ivi, p. 20. [84] ivi, p. 23. [85] ivi, p. 19. 84 [86] PS, p. 7. [87] ivi, p. 26. [88] ivi, p. 31. [89] ivi, p. 34. [90] ivi, p. 257. [91] ivi, p. 256. [92] ivi, p. 255. [93] ivi, p. 14. [94] ivi. [95] ivi, p. 45. [96] PR, p. 8. [97] PS, p. 18. [98] PR, p. 23. [99] ivi. [100] In tutta la discussione che segue delle posizioni di Bache­ lard, si presuppone l'impostazione data ad una teoria fenomeno­ logica dell'immaginazione nel capitolo terzo degli Elementi di una dottrina dell'esperienza. [101] PS, p. 46. [102] ivi, p. 35. [103] ivi, p. 53. [104] ivi, p. 97. [105] PR, p. 14. [106] ivi. [107] L. Binswanger, Per un'antropologia fenomenolo­gica, Fel­trinelli, Milano 1970, p. 7. [108] PS, pp. 100 e 190. [109] ivi, p. 152. [110] ivi, p. 49. [111] ivi, p. 9. [112] ivi, p. 10. 85 Giovanni Piana La notte dei lampi Quattro saggi sulla filosofia dell'immaginazione Colori e suoni 86 In copertina: Evaristo Baschenis, Strumenti musicali (part.) Prima edizione a stampa: 1988 87 Indice I. Introduzione: idea della materia 1. Intorno alla costituzione della cosa materiale 2. Realtà e nessi causali. 3. Limiti di una considerazione epistemologica e necessità di un nuovo orientamento 4. La nozione della materialità illustrata attraverso il rimando ad un modello 5. Un immagine per l'immateriale 6. La cosa e la forma II. Colori 7. Colori e cose 8. Il colore e la forma 9. Il sistema cromatico 10. Gradazione chiaroscurale ed esperienza della transizione 11. Nuova determinazione del problema 12. Il divenire del colore 13. Fenomenologia e naturalismo nella teoria del colore di Goe­ the 14. I colori dentro gli occhi 15. Il colore come valore d'ombra 16. I fenomeni di inversione cromatica 17. Riproposta delle considerazioni sistematiche 18. Teoria dei mezzi torbidi 19. Là dove il colore comincia con l'apparire 20. Guardando attraverso il prisma 21. Il colore appare là dove il bianco si incontra con il nero 22. Il simbolismo del colore e il suo fondamento nell'ordina­ 88 mento sistematico 23. Il tema dell'armonia e la sua interpretazione in direzione del problema di una grammatica del colore III. Suoni 24. La relazione tra il suono e la cosa. Causalità e provenienza 25. Suoni più vicini alla cosa e suoni da essa più lontani 26. I nomi dei suoni e i suoni senza nome 27. Tematica temporale 28. I suoni non sono fatti di tempo 29. Il sistema dei suoni 30. L'esperienza della progressione 31. Lo spazio sonoro 32. Consonanza e fusione 33. Consonanza e somiglianza 34. Osservazioni conclusive 89 I. Introduzione: idea della materia 90 Nella pagina precedente: G. Courbet, Mare in tempesta (part.) (1870) 91 1. Intorno alla costituzione della cosa materiale L'intento che ci proponiamo è quello di gettare uno sguardo d'in­­sieme sulla tematica dei colori e dei suoni per fornire un'e­ sem­plificazione dei problemi che sorgono dall'applicazione, all'in­ terno di questo ambito, di un punto di vista fenome­nolo­gico. In modo particolare, il riferimento al colore si presta addirittura ad un'introduzione concisa della stessa nozione gene­rale di fe­ nomenologia, proprio perché i colori hanno assolto il compito di illustrare esemplarmente la classica distinzione fi­lo­sofica tra qualità primarie e qualità secondarie. Chiunque voglia afferrare il primo nodo di un'impo­ stazione fenomenologica, evitando lunghi e tortuosi cammini, potrà certamente anzitutto prendere le mosse di qui, dalla di­ stinzione tra proprietà che spettano alle cose considerate in se stesse, indipendentemente dalle condizioni soggettive della loro apprensione percettiva, e proprietà che invece sorgerebbero uni­ camente all'interno del rapporto istituito dall'espe­rienza, e che si contrappongono dunque alle precedenti come l'apparente al reale, come ciò che è essenzialmente soggettivo a ciò che è in­ve­ce es­ senzialmente oggettivo. Il colore potrà allora essere ram­men­tato, nelle sue relatività dipendenti dalle circostanze e dalle condizio­ ni dell'osservazione, come esempio presuntiva­men­te evi­­dente di qualità secondaria; in opposizione, eventual­mente, alla forma, a cui il richiamo implicito alla oggettività geo­metrica sembra, con altrettanta presuntiva evidenza, confe­rire sen­z'al­tro il carattere di qualità primaria. Contro di ciò si fa valere invece una critica che contiene il nucleo dell'impostazione fenomenologica: stando alle appa­ren­ ze percettive, quella distinzione risulta del tutto infondata e gli esempi si ritorcono contro di essa, potendosi rilevare, all'in­terno della stessa apprensione percettiva, l'attribuzione del colore come proprietà inerente alla cosa al di là e attraverso le relatività dei suoi modi di manifestazione; nello stesso modo in cui la for­ 92 ma della cosa si offre nella sua identità in una continua varia­bilità di adombramenti prospettici. Con questa critica si opera la prima rivendicazione fonda­ mentale per l'acquisizione di un punto di vista fenomeno­logi­co, la rivendicazione cioè del diritto, da sempre esercitato dagli usi linguistici correnti, di giocare la contrapposizione tra il reale e l'ap­parente in primo luogo all'interno dello spazio dei fenomeni. Ma questa prima rivendicazione che, a partire da un'e­nun­ cia­zione così generale, trae il suo interesse essen­zialmente dal­le sue possibili specificazioni sulle datità concrete del­l'e­spe­rien­za, è subito accompagnata dal riconoscimento di un limite di prin­ cipio: se andiamo alla ricerca di spiegazioni autentiche, ben pre­ sto dovremo accedere al terreno della trans­fenomenologia. La distin­zione tra qualità primarie e qualità secondarie, liberata dal­la equivocità degli esempi e dalle o­scurità teoretiche delle sue for­ mu­lazioni tradizionali, contiene nel suo nucleo valido la di­stin­­ zione tra due orientamenti net­tamente diversi dell'inda­gine. Da un lato vi è la "fisica", dall'altro la "fenomenologia"; da un lato vi è il problema del processo fisico che conduce a questo o a quel risultato feno­me­nologico, dall'altro, vi è questo stes­ so risultato, considerato indipendentemente da quel pro­ces­so, come un dato che ha un suo contenuto descrittivo che può es­ sere reso esplicito nella molteplicità delle sue interconnessioni e nella complessità dei suoi rimandi di senso, restando intera­ mente sul terreno delle apparenze fenomeno­logiche. Che cosa tutto ciò possa significare, lo possiamo comin­ ciare a mettere in evidenza non appena ci avviamo a proporre i lineamenti di una fenomenologia della cosa materiale, che può fun­ gere, per motivi che solo in seguito potranno divenire chiari, da premessa alla nostra tematica così come da filo conduttore per il suo svolgimento. Come prima guida, può essere utile fare riferimento alle ri­ cerche husserliane sopra la costituzione, e precisamente a quel capitolo secondo del secondo volume delle Idee per una fenomenolo­ 93 gia pura [1] nel quale il problema è appunto quello di rendere conto dell'essenza della cosa, della co­sa data nell'esperien­za concreta, dei "corpi" del nostro mondo circo­stante. Riprendiamone dunque, in breve, il contenuto. L'apertura del problema non potrebbe essere più tra­dizio­ nale: la res è caratterizzata anzitutto dalla extensio [2]. Ma già l'in­ sistenza con cui si sottolinea che l'estensione di cui si parla non è da intendere come una nozione "pensata", bensì come una datità intuita, mostra che l'avvio e la terminologia tradizionale debbo­ no subire un netto spostamento su un nuovo terreno. L'esten­ sione inerente alla cosa non è una porzione dello spazio astratta­ mente inteso, non è un suo ritaglio. Le cose non appartengono all'universo della geometria così come del resto e nemmeno ad esso le loro estensioni. Per questo, nel testo, si parla, non tanto di estensione spaziale della cosa, quanto piuttosto del suo corpo spaziale (Raumkörper), della sua esten­sione corporea [3]. L'estensione è essenziale alla nozione della cosa - ovvero, secondo una terminologia meno compromessa, ma che ripete il problema negli stessi termini: in questo modo abbiamo preso una decisione sull'impiego della parola "cosa materiale". I suoni, per esempio, non sono cose materiali. Ma subito andiamo oltre: una simile qualità delle cose è una qualità in un'accezione del tutto impropria e per un duplice ordi­ ne di motivi. In primo luogo essa non è una qualità che una cosa può avere o non avere; in secondo luogo, essa non si dà mai in se stessa e come tale, ma sempre insieme ad altre qualità. Il colore - per esempio; ma anche tutte quelle determinazioni che risultano dall'esplorazione tattile e più in generale pratica della cosa stes­ sa. Queste determinazioni si rapportano all'esten­sione della cosa come a un loro necessario presupposto, come a una forma vuota che esse debbono riempire. E proprio per questo loro carattere di pienezza, solo ad esse potremmo riser­vare il termine di qua­ lità, mentre l'estensione ha il senso di "una forma essenziale di qualsiasi qualità reale". "La sua particolare posizione non è quella 94 di una qualità tra le altre" [4]. Essa appartiene primariamente alla cosa come condizione per ogni qualificazione possibile. Nulla ci impedisce infatti di riprendere la vecchia terminologia parlando delle qualità riem­pienti nel loro insieme come qualità secondarie e riservando invece l'espressione di qualità primaria all'esten­sione, in un senso totalmente rinnovato dei termini. 2. Realtà e nessi causali Questo primo chiarimento non ci porta tuttavia ancora al centro del problema. La domanda a cui si cerca una risposta è quella relativa alla costituzione della cosa materiale: il richiamare l'attenzio­ ne sull'estensione rappresenta solo un primo passo attraverso il quale non è certamente possibile attingere le connotazioni fe­ nomenologiche specifiche della materialità stes­sa. Il corpo spa­ ziale della cosa è infatti un corpo fantomatico, è la cosa stessa colta secondo un'apprensione puramente visiva. Ma allora può accadere - come accade nell'esempio, rammen­tato da Husserl, delle immagini viste attraverso lo stereoscopio - che il momento dell'estensione venga scisso dal momento della materialità. At­ traverso lo stereoscopio "vediamo un corpo spa­ziale per il quale, per quanto riguarda la sua forma o il suo colore, per quanto riguarda il liscio o il ruvido della sua super­ficie, e analoghe deter­ minazioni, si possono porre domande ragionevoli... D'altra parte, ciò che appare può essere dato in modo tale che domandare se sia pesante o leggero, elastico, magnetico, ecc. non ha più alcun senso, o meglio non trova più un appiglio nel senso della per­ cezione. Allora, appunto, non vediamo una cosa materiale" [5]. "I corpi spaziali, riempiti attraverso il plenum qualitativo che ha un'estensione, non equi­val­gono ancora a una cosa, a una cosa nel senso usuale, a una cosa in quanto reale materiale" [6]. Resta dunque ancora da effettuare il passaggio dall'e­ stensione come datità visiva alla materialità, un passaggio che deve nello stesso tempo condurre dalla cosa come possibile ap­ 95 parenza illusoria, nel senso in cui possiamo dire che è una appa­ renza illusoria la piramide rossa vista attraverso lo stereo­scopio, alla cosa posta come tale nel suo esserci effettivo. Il problema della res diventa dunque il problema della realtà stessa. E nel tema della materialità dovrà confluire anche quello della sostanza dal momento che, al fine della posizione della cosa come realmente sussistente, l'idea di un sostrato identico a cui le datità sensoriali sono ancorate deve certamente assolvere un ruolo decisivo. Questo passaggio dal motivo della materialità a quello del­la realtà e della sostanzialità rappresenta un punto partico­lar­mente importante per comprendere l'orientamento complessivo del­la discussione che qui viene condotta. Altrettanto importante è il fa­tto che il riferimento puro e sempli­ce ai sistemi di con­cordanze che si vengono istituendo attraverso gli schemi sen­soriali venga ritenuto come parte del problema, ma non ancora come il rife­ rimento risolutivo. Questa sembra infatti essere la via che va anzitutto per­corsa quando si sia posto il problema dell'opposizione tra l'ap­pa­renteillusorio e il reale sul piano della costituzione fenome­no­logica: tanto più la cosa verrà confermata nel suo esserci, quanto più i dati emergenti nei diversi schemi sensoriali si presenteranno tra loro organizzati e coordinati in uno schema com­plessivo artico­ lato e coerente. La cosa, nella sua realtà so­stan­zia­le, si impone allora come polarità identica di riferi­mento all'in­ter­no dell'ap­ prensione percettiva. Ma nel testo che stiamo considerando si intende procedere oltre: pur riconoscendo che la presenza di concordanze senso­ riali sistematicamente organizzate non possano che agire come motivazioni per la posizione della cosa, si afferma anche peren­ toriamente che "rifarsi alla concordanza dei sensi diversi signi­ ficherebbe fraintendere il nostro problema" [7]. Mentre questo problema viene avviato alla sua soluzione passando dalla cosa, fin qui implicitamente intesa nel suo isolamento, alla considera­ zione dei nessi e delle relazioni intercosali in cui essa si presenta 96 e ponendo l'accento sul fatto che ogni variazione delle manifestazioni fenomenologiche di essa ci appare come funzionalmente dipendente da circo­ stanze specificabili. L'attribuzione a una cosa di una qualità deve risolversi nel­ la descri­zione del comportamento della cosa nel variare delle circostanze del suo apparire. Il tema della materialità conflui­ sce in quello della realtà e della sostanza: e nello sviluppo della discussione emerge come determinante il tema della connes­sio­ne causale. "La realtà o, ed è lo stesso, la sostanzialità e la causali­ tà sono inseparabilmente inerenti. Le qualità reali sono eo ipso qualità causali" [8]. "Perciò conoscere una cosa significa: sapere per esperienza come si comporterà sotto una spinta, sotto una pressione, quando verrà piegata, quando verrà rotta, sotto­posta al riscaldamento, sottoposta al raffreddamento, vale a dire: come si comporterà nel contesto delle sue causalità, in quali stati ver­ rà a trovarsi e in che modo si manterrà la stessa attraverso tutti questi stati" [9]. 3. Limiti di una considerazione epistemologica e necessità di un nuovo orientamento Per quanto un'esposizione così contratta non sia certo in gra­ do di rendere giustizia della complessità e della portata del pro­ blema, tuttavia stando ad essa possiamo in ogni caso mettere in rilievo il punto che ha maggiore interesse per i nostri scopi. Essa mostra infatti come sia importante, in rapporto allo svolgimento del tema e alle conclusioni a cui esso mette capo, la cornice entro la quale la questione della costituzione della cosa materiale viene fin dall'inizio situata. In tutto lo sviluppo del problema della materialità Husserl si attiene strettamente ai criteri di principio di un'impostazione fenomenologica: in particolare, la nozione della cosa è propo­ sta in primo luogo a partire dall'esperienza della cosa, quindi dalla concretezza delle datità fenomeno­logiche. E tuttavia lo scopo 97 prefissato fin dall'inizio, che orienta le conclusioni, era essen­ zialmente quello di mostrare in che modo, a partire di qui, la cosa si proponga alla fine come un'oggettività sulla quale pos­ sano innestarsi operazioni conoscitive. Ciò spiega come mai il titolo della materialità non assolva, nonostante tutto, alcun ruolo specificamente determinato, ma esso si converta senz'altro in quello della realtà e della sostanza, con le loro più dirette ed evi­ denti implicazioni epistemologiche. Come abbiamo visto, la domanda effettiva intorno alla cosa diventa propriamente: "Che cosa costituisce il concetto di que­ sta res, che cosa significa realtà estesa, che cosa significa realtà in generale? Si parla anche di sostanza estesa. Che cosa significa, ci chiediamo, questa sostanzialità, e che cosa significa nella massi­ ma generalità possibile?" [10]. Ma se questa è la domanda, allora ad una simile linea di svi­ luppo di una fenomenologia della cosa materiale si può obiettare di tenere in scarso conto proprio i contrassegni della materialità. Dove, in essa, si parla propriamente della "ma­te­ria"? In quale punto emerge il tema della materia, in se stesso, come un "senso" da rendere esplicito? Lo scopo che qui si persegue è piuttosto quello di mostrare la transizione della cosa dell'esperienza alla cosa per la conoscenza, dalla cosa materiale alla cosa fisicalistica, alla cosa cioè in quanto essa si offre come obiettivo di indagini sistematiche rivolte alla natura elementar­mente intesa come mondo di cose. Fa parte allora dell'impostazione di principio del problema il mostrare da un lato che il pensiero di una simile possibilità co­ noscitiva, dunque il pensiero che è costituito dalla nozione del­la realtà oggettiva, ha la sua origine nell'apprensione percet­tiva dei nessi causali, di cui si ribadisce l'effettività fenomeno­logica; ma dall'altro si tratta anche di esibire la necessità di proce­dere oltre questo terreno dell'immediatezza dell'esperien­za. Anzi, l'intero percorso argomentativo che abbiamo breve­mente sintetizzato può essere considerato come un percorso di progressivo allon­ tanamento da quella immediatezza: e la nozio­ne della cosa alla 98 fine teorizzata, secondo la quale essa è in ultima analisi una x interamente descritta da un sistema di leggi, si dispone a quel livello minimo di astrazione intellettuale che possiamo assumere idealmente come condizione per l'avvio di un progetto conosci­ tivo. La cosa intesa così non è affatto data, benché una simile possi­ bilità di intenderla sia coimplicata nel darsi della cosa. Ma essa si presenta appunto come risultato di un'elabo­razione teoretica che comincia a superare l'immedia­tezza del dato, preludendo alla produzione di vere e proprie oggettività di "ordine superiore" che non hanno alcun riscontro diretto nel­l'esperienza concreta. Riceve particolare significato il fatto che al termine di que­ sto percorso, quando si perviene alla "nuova determina­zione" del concetto della cosa, nella quale le qualità reali assumono senz'al­ tro lo statuto di qualità causali, si parli anche, e in conseguenza di questa nuova determinazione, di soppressione e di superamento (Aufhebung) dell'esperienza della cosa [11]. Tutto ciò è una diretta conseguenza della cornice epistemo­ logica nella quale si sviluppa, nel volume secondo delle Idee, la fenomenologia della cosa materiale. Ma una volta che abbiamo preso atto di un simile orientamento e dell'incidenza che esso finisce con l'avere sull'intero sviluppo argomentativo, si impone la possibilità di procedere in una direzione intera­mente diversa. Naturalmente la domanda iniziale può anche essere formu­ lata nello stesso modo: quali sono le caratteristiche che condu­ cono ad attribuire a un complesso di datità fenomeno­logiche il senso della materialità, della cosa materiale? Ma del tutto diversa può essere l'intenzione della domanda e di conse­guenza il modo secondo cui ci accingiamo a dare a essa una risposta. Parlando di materia o di cosa materiale non siamo affatto tenuti a scorgere anzitutto l'emergere del problema della costituzione di "cose" intese come oggettività da conoscere, quindi come identità sostanzia­ li il cui concetto richiede di essere filosoficamente chiarificato. La chiarificazione filosofica potreb­be invece essere chiamata in causa per mostrare quali sono i momenti che forniscono un ri­ 99 empimento intuitivo della nozione di materia al di là di un'elabo­ razione teoretica preliminare. L'indagine costitutiva non deve al­ lora senz'altro indirizzarsi ver­so la cosa fisicalistica, per mostrare in che modo essa possa delinearsi a partire dalle datità concrete, ma può arrestarsi presso l'esperienza della cosa e proporsi come compito l'espli­cita­zione del suo contenuto. Di cose materiali, di cose che hanno cioè nella materialità la loro specificazione essenziale, parliamo a ragion veduta, ma per parlarne così non è affatto necessaria una qualche forma di sapere più profondo, che vada oltre il piano della semplice im­ mediatezza percettiva. Chiediamo, per esempio, che ci venga indicato qualcosa a cui ci si possa appigliare per avviare un discorso intorno alla materia; e certamente si farà riferimento anzitutto a un "corpo solido". Questa è una prima circostanza assai più significativa di quanto possa apparire a un primo sguardo. Di fatto, in ciò è implicitamente ammessa un'anteriorità di principio, un'esem­pla­ rità, nel senso più forte, della cosa nel senso consueto per l'illu­ strazione della nozione di materialità: passando semplice­mente al di sopra della circostanza, nota a ognuno, secondo la quale sarebbe certamente più corretto parlare della solidità come di uno stato della materia, e della materia stessa come di qual­cosa di soggiacente alla modificazione degli stati. Di questa circostan­ za si tace proprio perché lo stesso parlare di stati presuppone un'elaborazione teoretica che, pur avendo a sua volta una base fenomenologica nella specifica esperienza della modificazione di stato, tuttavia propone una nozione di materia che non ha un riempimento intuitivo diretto e che si trova già nella prospettiva di una concettua­lizzazione. Dal punto di vista di una fenomenologia della cosa mate­ riale che metta da parte, come un diverso problema, gli impegni e le implicazioni di ordine epistemologico, non solo deve essere riconosciuta una priorità espositiva ai corpi solidi [12], ma so­ prattutto essa deve prendere le mosse e lasciarsi orientare dalla 100 loro esemplarità. Parliamo della materia, della cosa materiale, e subito propo­ niamo una sorta di modello fenomenologico, di cosa materiale in senso eminente, attiriamo l'attenzione su un complesso di apparenze fe­ nomenologiche nel quale quei caratteri che sono condizioni per l'attribuzione del senso della materialità esplicano la loro massi­ ma energia. Una pietra di granito, dunque, e di grandi dimensioni. E non, per esempio, un granello di sabbia. E tanto meno l'acqua; o addi­ rittura l'aria. E così facendo ci comportiamo da uomini di buon sen­ so. Né l'acqua né l'aria sono cose. Ma se abbiamo bisogno di un caso veramente esemplare, di un modello, nemmeno il mi­ nutissimo frammento, il granello di sabbia, è adatto allo scopo: proprio, vorremmo dire, per la sua sfuggente piccolezza. Esso non ha peso. Mentre la pietra di granito ci sta di fronte in tutta la sua pesantezza, la sua stabilità, la definitezza e la compiutezza della sua forma. Nella sua ferma individualità: non certamen­ te nel senso letterale della indivisibilità, ma nel senso che essa si contraddistingue, nella determinatezza dei suoi contorni, da tutto ciò che sta intorno, emergendo in modo netto e definito nello spazio circostante. Di essa possiamo dire: questa cosa qui, proprio questa e non altra. Fissando la pietra nella sua identità irremovibile. 4. La nozione della materialità illustrata attraverso il rimando ad un modello Siamo ora interessati a mettere in chiaro ciò che fa sì che il no­ stro esempio possa assumere carattere di modello, a formulare esplicitamente ciò che implicitamente ci è già noto. Costituire la nozione della materialità non significa affatto in qual che modo inventarla. Noi possiamo esibire un modello proprio perché quella nozione è una nozione precostituita dall'esperienza stes­sa. I 101 momenti di questa precostituzione rimandano alla re­gio­ne della tattilità intesa non già anzitutto come un'esplora­zione os­ser­vativa del dato, ma come integrata in azioni concrete e con­cre­tamente rivolte alla cosa. Dal punto di vista della costituzione fenomenologica, che riprende, esplicitandole, le precostituzioni operate dall'espe­rien­ za, la materia rimanda all'azione. L'irremovibilità del blocco di gra­ nito ha il senso di una risposta a un'intenzione di movimento. La materia è anzitutto pesante, molto pesante, secondo un'ac­cezione della pesantezza che è interamente risolta nella sensa­zione sog­ gettiva dello sforzo. L'esperienza vissuta della materia riconduce sempre a mo­ da­lità di resistenza a intenzioni pratico-attive. La cosa resiste al tentativo di solle­var­la. Resiste alla pressione delle mie dita, si op­ pone alla penetrazione e alla modificazione. La durezza ap­par­­ tiene ai suoi attributi costitutivi; così come l'impe­netrabilità, che si annuncia visivamente nell'intra­sparenza e nell'o­pa­­­cità; e il corruga­ mento della sua superficie che genera l'attrito. Appare ora certamente chiaro in che senso sia mutato l'o­ rientamento delle nostre considerazioni. Anche seguendo il per­ corso precedente ci imbattiamo in esempi che rimandano ad azioni, alle pressioni che possiamo esercitare sulle cose e alla resistenza che oppone, per esempio, una molla di acciaio [13]; ma questi esempi sono inseriti in un contesto che fa apparire quelle azioni come pratiche che mettono alla prova le proprietà della cosa e consentono infine un collegamento diretto con la problematica delle dipendenze causali. E così in generale tutti i riferimenti alla tattilità tendono principalmente a illustrare la nozione di schema tattile come uno dei momenti dello schema sensoriale complessivo che è destinato a svolgere un ruolo di conferma all'interno del sistema di concordanze che rafforzano le motivazioni della posizione della cosa nel suo esserci. Il filo conduttore è infatti quello della cosa come oggettività da cono­ scere che deve essere anzitutto costituita nella sua identità so­ 102 stanziale. Mentre ora la nozione di oggettività con cui abbiamo a che fare si definisce unicamente per il suo carattere di polarità oppositiva, come momento negativo rispetto alle intenzioni sog­ get­tive, come ostacolo ad esse. E del resto muta interamente anche il senso in cui andia­ mo enu­merando gli attributi costitutivi della cosa materiale. Solo tenendo conto di questo mutamento risulta realmente signi­fica­ tivo il progetto di avviare le nostre considerazioni cominciando dall'esibizione di un modello fenomeno­logico. Non si trat­ta di ricono­ scere che in essi si trovano di fatto unificati i contrassegni della materialità, ma piuttosto di sottolineare che attraverso le tensioni pratico-percettive prende forma un immagine della ma­te­rialità che il blocco di granito porta all'espressione. Fin dal momento in cui abbiamo deciso di lasciare da parte la cosa epistemologica negli sviluppi di una fenomenologia della cosa materiale che si atten­ ga unicamente all'esperienza vissuta della materialità, abbiamo anche deciso di lasciare liberamente agire le componenti pro­ priamente immaginative, che del resto fanno integralmente parte di quella esperienza. Indicare nel blocco di granito un modello fenomenologico della cosa materiale signi­fica richiamare l'atten­ zione sul fatto che la percezione lo sa cogliere come la cosa che esso propriamente è, ma anche, e nello stesso tempo, come una sorta di monumento innalzato alla materia stessa. 5. Un'immagine per l'immateriale Ciò va tenuto chiaramente presente, in particolare, nel momento in cui, all'interno di queste considerazioni, accenniamo al fatto che, attraverso il tema della materia, proposto in questo modo, si apre nello stesso tempo il tema dell'immateriale. Ed è appena il caso di rilevare che l'opposizione tra materialità e immaterialità non deve essere confusa con quella tra realtà e apparenza il­lusoria che resta dominante nell'ambito delle considerazioni orien­tate da un prevalente interesse epistemologico. Si tratta invece del fatto che, non appena perveniamo a un'imma­gine della materialità, in­ 103 sieme a essa è subito proposta per oppo­sizione un'immagine per l'immateriale. Ogni connotazione posi­tiva del­la materia circoscri­ ve anche, in negativo, una nozione di ciò che può valere come elemento immateriale. Ed è indicativo dell'orizzonte entro cui si muove la feno­ menologia della cosa materiale di Husserl il fatto che nell'e­spo­ sizione del volume secondo delle Idee, di tutto ciò non si fac­cia cenno, benché non manchi qualche spunto che può essere inter­ pretato in questa direzione. Per esempio si osserva, e potrebbe sembrare un'af­ferma­ zione un poco stravagante, che "i corpi solidi trasparenti rap­pre­ sentano già una deviazione dal caso normale della costi­tuzione originaria" [14]: spiegando che una lastra di vetro che riempia l'intero campo visivo in posizione parallela all'osserva­tore tende a sfuggire alla vista. Essa comincia ad apparire solo se "modi­ ficandone l'orientamento, attraverso il suo rapporto con altri corpi, vengono in luce per esempio gli orli"; ma difficilmente potremo ottenere di questa cosa uno schema visivo vero e pro­ prio, poiché siamo ostacolati "dal lucido, dai riflessi, da immagini di altre cose viste in trasparenza" [15]. Osservazioni come queste, che compaiono in quel testo come osservazioni relativamente marginali, rivestono per noi un particolare interesse perché possono diventare veramente signi­ ficative solo all'interno del nostro contesto di discorso. Si accenna qui a una costituzione normale della mate­rialità, e la deviazione da essa viene imputata alla mancanza di "una da­ tità parallela per la vista e per il tatto" [16]. Ma si indebolirebbe certamente la portata dell'esempio se una simile osservazione si riducesse al rilievo delle difficoltà di formazione di uno schema visivo a causa della trasparenza. Modificando l'esempio, potrem­ mo pensare a un piccolo oggetto di vetro: in questo caso, lo sche­ ma visivo si forma senz'altro e senza difficoltà: vedo infat­ti i suoi contorni, la superficie da essi circo­scritta, una superficie traspa­ rente, liscia e levigata. Se poi tocco questa superficie, i dati tattili 104 confermeranno addirittura i dati visivi. Eppure sarebbe giusto parlare anche in questo caso di "una deviazione dal caso normale della costituzione originaria" nel senso che vi è qui comunque una forma particolare di in­ coerenza, di conflitto interno alle apparenze percettive, che non è da porre sullo stesso piano di quelle discordanze che condur­ rebbero al dubbio intorno all'effettivo esserci della cosa, alla sua possibile illusorietà. L'impenetrabilità tattilmente sperimentata contrasta infat­ ti, nell'imma­gine della materia, con la trasparenza della cosa che evoca invece l'elemento immateriale. Non per questo, certa­ mente, il vetro diventa una oggettività fittizia ma piuttosto una materia paradossale, una materia meravigliosa - una materia di fronte alla quale dovremmo forse imparare ancora a meravi­gliarci e di cui, in ogni caso, la percezione stessa si meraviglia. 6. La cosa e la forma Una modificazione significativa subisce infine anche il tema dell'estensione. Ciò a cui siamo più interessati in rapporto ad esso, non è tanto la carat­terizzazione del "corpo spaziale" come condizione primaria della cosa stessa in quanto mera vuotezza che deve essere riempita dalle proprietà effettivamente quali­ ficanti, quanto piuttosto il dare evidenza ad un principio di op­ posizione - tra il momento formale e il momento materiale - che rimanda in primo luogo alla differenza delle operazioni costitu­ tive, rispettivamente visive e tattili-pratiche. Lasciando da parte il problema delle conferme reciproche tra gli schemi, che del resto continua a sussistere per conto suo, intendiamo invece sottoli­ neare il fatto che la forma della cosa potrebbe essere ri­condotta in modo esclusivo all'ambito della pura visività o in­ver­samente che il mostrarsi della forma alla tattilità richie­derebbe il rilievo, lo spessore e, dunque, la mediazione neces­saria dei momenti della materialità. 105 La considerazione di questo rapporto contiene tuttavia an­ che un altro motivo che ci costringe in certo senso a ritornare sui nostri passi proprio per ciò che concerne la nozione della materialità così come l'abbiamo prospettata facendo riferimento al nostro modello fenomenologico. Abbiamo parlato della ferma individualità del blocco di gra­ nito. E abbiamo spiegato che con ciò volevamo alludere al suo stagliarsi da tutto il resto che lo circonda. Ma se ora ci chie­diamo a che cosa esso debba questa individualità proba­bil­mente pense­ remmo alla forma piuttosto che alle connotazioni propria­mente materiali: alla forma intesa come contorno, come linea chiusa, come momento di separazione e di distinzione. Ma allora, se riconsideriamo la questione sotto questo aspet­ to, a partire dalla vuotezza della forma si opera la transi­zio­ne alla sua essenziale rigidità. La forma è l'elemento indivi­duante, e an­ che l'elemento rigido. Cosicché si delinea un'imma­gine della ma­ teria interamente diversa, in opposizione alla forma e alla stessa nozione della cosa: l'immagine della materia senza nome, di una materia che, essendo priva di forma, è anche essenzialmente defluente: la materia come elemento informale, come melma. In questo strano argomentare, manteniamo comunque fer­ ma la centralità del riferimento, dal punto di vista della costi­tu­ zione, al nostro modello di cosa materiale. In rapporto a esso si realizza una costituzione positiva del­la materialità. Ma abbiamo già notato che una costituzione posi­tiva può comportare una costituzione negativa, e proprio per que­sto abbiamo potuto proporre il tema dell'immateriale. Con questo ultimo cenno non abbiamo fatto altro che sviluppare la possibi­ lità di una costituzione negativa rivolta tuttavia in un'al­tra dire­ zione. 106 Nella pagina successiva: Fotografie della finestra del mio studio al "Butto", Olgiate Mogora. 107 II. Colori 108 109 7. Colori e cose Nell'avviarci a mostrare l'orientamento di una considerazione fenomeno­logica del colore, facciamo agire il tema della cosa ma­ teriale come filo conduttore già per il fatto che prendiamo le mosse dal colore inteso anzitutto come proprietà delle cose. Un simile inizio non urta certamente il senso comune, men­­ tre potrebbe suscitare riserve e perplessità filosofiche. Co­mun­que vengano formulate, esse riproporranno prima o poi, in maniera più o meno scoperta, i termini della distinzione tra qualità pri­ marie e qualità secondarie. Il colore non apparterrebbe alla cosa stessa, ma alla relazione della cosa con la soggettività. In modo più sottile l'obiezione potrebbe essere formulata ri­chiamandosi alla fisica del colore e alle spiegazioni corri­spon­denti. Da questo punto di vista il parlare del colore come pro­prie­tà delle cose sa­ rebbe un'indebita concessione al senso comune. Dovremmo in­ vece impostare il problema parlan­do di uno stato sensoriale - la sensazione cromatica - che sorge come risultato di un processo fisico complesso, nel quale svol­gono una parte determinante la conformazione dell'occhio, la costitu­zione fisica della luce e del­ la cosa che ci appare colorata in questo o quel modo. Naturalmente non vi è nulla da eccepire intorno al passag­ gio al piano delle spiegazioni: mentre è sbagliata l'opi­nione che l'effettuazione di questo passaggio comporti l'illu­so­rietà del rife­ ri­mento del colore alla cosa come una sua proprietà. Questo riferimento appartiene infatti all'ambito delle pure ap­parenze fe­ nomenologiche. Non sbaglia invece il linguag­gio corrente quan­ do attribuisce un determinato colore ad una cosa determina­ta, e lo attribuisce anzi in modo permanente e persi­stente come un attributo inerente alla cosa così come essa è in sé e per sé. Del colore come qualità secondaria si può parlare solo nel senso che abbiamo in precedenza chiarito quando abbiamo mo­ strato che esso riempie l'estensione vuota e priva di una da­tità intuitiva autonoma. Questo carattere riempiente è natu­ralmente proprio di tutte le proprietà qualificanti, ma nel caso del colore 110 questo rapporto con l'estensione ha certamente le sue pecu­liari­tà. Il colore si distende sulla superficie della cosa e la ricopre tutta come una sottile pellicola che aderisce perfet­tamente ad essa. Questa analogia gioca peraltro su una distinzione analitica che, per quanto possa apparire ovvia, merita tuttavia di essere mes­sa in evidenza. Ciò che forma una sottile pellicola distesa sulla cosa è, tutt'al più, il colore inteso come pigmento, come vernice, come materia cromatica. Mentre da essa dobbiamo di­ stinguere il colore in quanto qualità puramente visiva che "a­de­ risce" all'estensione in un senso interamente diverso. Pensiamo del resto al modo in cui una volta si usava stende­ re il colore sulla tela. In fondo, di fronte a quei dipinti potremmo chiederci ingenuamente perché mai essi sono così lisci, perché mai tanta perizia veniva messa alla prova nello stendere il colore in modo non solo da ricoprire la tela in ogni suo punto, così che essa ne risulti interamente nascosta, ma anche da non lasciare trasparire la minima traccia del pennello che passa e ripassa su di essa. Fin dall'inizio la pratica pittorica non può non avere a che fare con quella distinzione che evoca l'opposizione tra la materia­ lità del colore e la sua immaterialità. Se appena un'in­­crespatura si notasse nel dipinto, se la pennellata lasciasse un segno, attraverso il corrugarsi della superficie, con l'ine­gua­glianza e la ruvidità, ap­ parirebbe in primo piano la ma­teria stessa. Mentre, così facendo, facciamo di tutto per ridurre que­sta presenza ed esaltare invece la natura puramente estesa del colore. La tela in quanto cosa deve scomparire sotto la vernice e questa, a sua volta, come materia cromatica, deve dissolversi nel livellamento di ogni scabrosità e di ogni spessore. Tutte le nostre intenzioni sono rivolte verso la immaterialità del colore, verso l'estensione cromatica immateriale: attirando tutta l'atten­zione sulla scena rappresentata nel dipinto come una sorta di rappre­ sentazione visionaria, che è apparsa al pittore e che egli conse­gna intatta allo spettatore, vorremmo quasi dire, nella sua ogget­tività. Infatti l'occultamento della matericità del colore ha anche, nel­lo 111 stesso tempo, il senso di celare il momento pratico concre­to, e dunque la soggettività stessa in quanto si esprime nel gesto effet­ tivo del dipingere. Tutta la cura gestuale nello stendere il colore ha di mira la soppressione del gesto stesso, manifestando un modo di concepire l'attività pittorica come un'attività essa stes­sa eminentemente "spirituale". Inversamente potremmo lasciare che la scena visiva si ri­ empia di segnali tattili, orientandoci così nella direzione oppo­sta: nella direzione della esibizione della matericità del colore che è anche esibizione della soggettività del gesto e della prassi pittorica come una prassi che ha a che fare anzitutto con cose. 8. Il colore e la forma Nelle nostre considerazioni introduttive abbiamo tuttavia anche parlato dell'estensione come superficie delineata da un contor­ no, abbiamo parlato della forma come rigida impalcatura della cosa. E ciò fa pensare anche al colore come circoscritto in essa, chiuso dentro la forma. Considerando il rapporto tra colore ed estensione sotto questo aspetto, il colore viene posto a distanza: esso si trova laggiù, nel recinto della cosa, appiattito su di essa. Abbiamo preso le mosse dal colore come proprietà della cosa: ed è come se avessimo voluto dire anche, esprimendoci così, che la cosa è veramente la proprietaria del suo colore. La relazione del colore alla luce si presenterebbe allora come una semplice messa allo scoperto di una determinazione obiettiva: un raggio lineare va a scovare l'oggetto nel suo luogo, lo colpisce, come una freccia, e poi fa la sua denuncia: "Esso è azzurro". La cosa si mostra e dice: "Questo colore è il mio". Il prendere le mosse dal colore come proprietà della cosa sarebbe certamente orientato anzitutto in questa direzione se non sapessimo già che un simile modo di intendere la cosa e le sue proprietà può giungere solo al termine delle procedure ogget­tivanti dei processi di costituzione. Se da un lato infatti è 112 per mol­ti versi importante richiamare primariamente l'atten­zione sull'appartenenza del colore alla cosa come un dato di espe­rien­ za, dall'altro è altrettanto importante per uno sviluppo effet­tivo del problema non perdere di vista la processualità della costitu­ zione, e dunque l'intero ambito delle relatività fenome­nologiche nelle quali questi rapporti non sono affatto decisi. A questo proposito la fenomenologia implicita nelle pra­ tiche pitto­riche potrebbe insegnarci molte cose. Per esempio, il pittore impressionista sembra voler tradurre sul piano pittorico i risultati delle indagini scientifiche intorno alla luce e alla forma­ zione del colore come evento fisico. Di fatto, viene invece rea­ liz­­­zata una complessa fenomenologia dell'esperienza croma­tica, nella quale viene respinta ai margini la cosa nella sua identità onnitemporale, così come il rapporto del colore alla cosa inte­ so come mero rapporto di riempimento. Il colore viene anzi­ tutto giocato contro la forma, cosicché il "corpo spaziale" diventa nient'altro che un addensamento del cromatismo, im­mer­so e sconfi­ nante nelle atmosfere di luce da cui sembra avere origine. In que­ sto modo, la cosa, tendenzialmente dissolta nella sua con­sistenza materiale, viene attratta nella temporalità soggettiva del vissuto. Raffigurata non è la cosa in sé, ma la cosa nel suo giorno, e il giorno nella sua ora - così come ci appare. Ma non appena attiriamo l'attenzione sulla problematicità di questi rapporti ci rendiamo subito conto che essa non è cer­ tamente solo attestata dalle relatività dei processi di costi­tuzione. Anche qui vi sono infatti quelle che potremmo ancora chia­ mare deviazioni dal caso normale della costituzione ori­ginaria. Ai colori distesi e fermi sulla superficie delle cose si pos­sono con­ trapporre i colori irrequieti delle bolle di sapone oppure gli scin­ tillanti cromatismi che baluginano nei riflessi delle superfici. Ma infine la massima distanza dalla cosa è data dai colori diffusi: dalla possibilità di colorare la luce - vogliamo proprio esprimerci così. Nella luce colorata, il colore si libera interamente dal vincolo con la cosa materiale, si libera addirit­tura dal riferimento all'estensio­ 113 ne intesa come forma, come contorno, come "corpo spaziale". In luogo di distendersi e di riempire una forma, esso si diffonde nello spazio. Esso non è più circoscritto in un luogo, il luogo stesso della cosa - non è più là: ma in esso ci si può immergersi e da esso ci si può lasciare avvolgere. 9. Il sistema cromatico Facendo agire i punti di vista finora emersi affrontiamo ora il clas­sico problema del sistema dei colori. Dell'universo croma­tico possiamo dare una sorta di rappresentazione grafica, ricor­rendo a un cerchio o a un'altra configurazione geometrica più comples­ sa, e questa possibilità indica in primo luogo che i colori singoli sono in realtà integrati in una struttura relazionale essenzialmen­ te unitaria. La circostanza è ben nota, ma l'ovvietà con la quale po­ trebbe essere assunta è in realtà solo apparente. In primo luogo ci stanno di fronte i colori nella loro enorme varietà, nella loro infinita molteplicità che il linguaggio stesso stenta a domina­ re. Ciononostante il pensiero di una fondamentale sem­plicità, di una struttura in ultima analisi elementare, della possi­bilità di un ordine rigoroso, e precisamente di un ordine inscritto nella natura stessa del colore, si è imposto dal tempo dei tempi e ha determinato, nelle sue trasformazioni ed evoluzioni, la lunga e complessa storia di questo problema. Possiamo idealmente assumere che in questo pensiero con­ fluiscano almeno due motivi che ci riconducono alla du­plici­tà del colore come qualità visiva e come materia cromatica. Da un lato infatti vi sono evidenti affinità nell'aspetto dei colori, come tra il rosso e l'arancione o tra diversi tipi di uno stesso colore. Dall'al­ tro, vi sono le constatazioni relative alle mesco­lan­ze delle mate­ rie cromatiche, nelle quali un determinato colore appare come risultato di una composizione. Di qui certamente ha avuto origine il problema, che è rimasto così a lungo indeciso, della distinzione 114 tra colori semplici e colori composti. Se vi sono colori che sorgono per composizione, allora debbono esservi colori semplici - e l'identi­ ficazione di un numero ristretto e ben definito di colori semplici rappresen­terebbe la soluzione del problema dell'unità. Ma si cominciano a intravedere alcune prime difficoltà non appena facciamo notare che si tratta di motivi per nulla omoge­ nei e che connettere il secondo con il primo conduce a una falsa posizione del problema. Come possiamo infatti essere certi che ciò che risulta composto in una mescolanza concreta di materie, debba essere giudicato tale anche in rapporto alla natura intrin­ seca del colore? Inversamente la semplicità, riferita alla materia cromatica, ha solo un senso affatto accidentale, e indica niente altro che l'impos­sibilità tecnico-pratica di ottenere questa mate­ ria cromatica attra­verso mescolanze di altre. Di qui risulta chiara non solo la non ovvietà di una consi­ derazione dei colori da un punto di vista sistematico, ma persino della distinzione tra colore come qualità visiva e colore come materia cromatica. La storia della teoria del colore mostra un continuo e oscuro oscillare tra l'uno e l'altro polo, e molte delle proposte tradizionali di ordinamento sistematico sarebbero del tutto incomprensibili se non si tenesse conto di questa confu­ sione latente. A complicare ancor più le cose, si aggiunge poi il problema dell'"armonia dei colori", che si affaccia fin dall'inizio in stretta connessione con le considerazioni sistema­tiche, e il peso delle valenze simboliche di cui vengono investiti i colori singoli e la stessa idea dell'unità dell'universo croma­tico. In questo intreccio di motivi si è inserito infine in modo determinante il motivo scientifico-esplicativo - un motivo che può a sua volta essere largamente frainteso nel suo senso e nella sua portata. Per una comprensione corretta è infatti necessario essere consapevoli che, nel momento in cui si propone una spie­gazione autentica del prodursi del colore come evento fisico, l'asse del problema subisce un radicale spostamento e il tema stesso 115 dell'unità riceve un senso interamente nuovo, così come la stessa problema­tica della semplicità e della composizione. 10. Gradazione chiaroscurale ed esperienza della transizione Di fronte a tutto ciò ci proponiamo il compito, molto limitato, ma probabilmente utile per un orientamento della discussione, di mostrare quale aspetto assuma il problema del sistema dei co­ lori inteso come un problema di fenomenologia filosofica. Si tratta allora in primo luogo di prescindere a un tempo dalle me­scolanze tra le materie cromatiche così come da giustificazioni che presup­ pongono in un modo o nell'altro le spiegazioni tratte dalla fisica del colore. Il colore deve venire in questione solo come datità visiva - e allora deve indubbiamente essere chiarito in che senso si possa parlare di relazioni tra i colori e se seguen­do questa via sia possibile pervenire alla posizione di un or­dinamento sistema­ tico, che a sua volta deve trarre il suo senso esclusivamente dal modo in cui esso viene proposto. Il primo chiarimento necessario riguarda il carattere del si­ stema. Accanto alla tendenza alla moltiplicazione dei colori, al fine di adeguarsi all'infinita varietà dei casi singoli, vi è nel linguaggio corrente anche la tendenza opposta all'estrema sem­pli­ficazione. Se non vi sono particolari ragioni per una speci­ficità che rag­ giunga il caso singolo, ci limitiamo di norma all'impiego di un numero relativamente ristretto di parole di colore. "Semplifican­ do" si prendono le distanze dalle parti­colarità del materiale em­ pirico, dalle determinatezze del caso singolo-indivi­dua­le. Perciò si parla dell'azzurro o del rosso come di unità eidetiche che non hanno alcun corrispondente empirico vero e proprio, ma che fanno riferimento ai casi singoli solo come esempi che illustrano un tipo. In realtà questa tendenza è assecondata e fatta propria da una considerazione fenomeno­logica che prospetta fin dall'inizio 116 il problema del sistema all'in­terno di un orizzonte platonistico. Le idealizzazioni operate deb­bono tuttavia poter essere giustificate a partire da una base feno­menologica, si richiede cioè che la struttura relazionale propo­sta poggi su relazioni effettivamente sperimen­ tate. Questa richiesta è, a nostro avviso, interamente soddisfat­ ta dall'esperienza della transizione, che trova la sua prima ed ele­ mentare illustrazione nell'apprensione percettiva delle diffe­renze chiaro­scurali. Stando a essa, il colore singolo può essere col­to come in­ tegrato in una sequenza continua che procede ver­so gradazioni sempre più chiare sino al bianco e, nella direzione opposta, verso gradazioni sempre più scure fino al nero. La chiarezza ha dunque il carattere di una "proprietà interna" del colore, e ciò comporta che una rete relazionale sia presupposta all'apprensione del colore nella sua singolarità. Ora, il problema effettivo della base fenomenologica di un ordinamento sistematico dei colori sta nel mostrare la possibilità di operare una generalizzazione, di mostrare cioè che l'espe­rienza della transizione si fa valere anche in rapporto ai colori considerati nelle differenze del loro momento cromatico vero e proprio. Per illustrare il senso della questione vogliamo riprendere nei suoi termini essenziali la discussione a cui abbiamo già accennato in precedenza. Abbiamo osservato che l'apparente ovvietà del problema di una considerazione unitaria è messa in questione anzitutto dalla stessa complessa e controversa storia del problema. In realtà è necessario giungere sino agli inizi del secolo XVII per avere la prima schematizzazione grafica del sistema che ci può apparire realmente ragionevole. Il più antico diagramma delle relazioni cromatiche sembra sia dovuto a Franciscus Aguilonius che, nella sua Ottica del 1613, propone lo schema seguente [17]: 117 Come colori fondamentali vengono riconosciuti, stando a que­ sto schema, il flavus, il rubeus e il caeruleus: dunque il giallo, il ros­ so e l'azzurro. Ciascuno di essi è posto in relazione nella parte superiore del grafico con il bianco e il nero. Si noti poi come il nome di ciascun colore venga scritto sugli estremi delle linee se­ micircolari di connessione. Tuttavia solo il rubeus è equidistante rispetto al nero ed al bianco mentre il ceruleus è spostato verso il nero e il flavus verso il bianco. In forza di questa equidistanza il rosso viene a trovarsi al centro della costruzione grafica. I colori derivati o composti vengono propo­sti nella parte sottostante della figura, con i nomi di viridis, per il colore composto da flavus e caeruleus, aureus per il colore composto da rosso e giallo, purpureus per il colore composto da rubeus e caeruleus. Si tratta dunque, rispettivamente, di verde, arancione e viola. È infine da notare che i nomi dei colori composti vengono scritti lungo l'arco di congiunzione dei colori sem­plici corrispondenti. Tenendo conto di quel diagramma e trascurando per il mo­ mento le relazioni con il bianco e con il nero, si può passare senz'altro alla rappresentazione mediante la circonferenza di un cerchio. Su di essa si contrassegneranno anzitutto i punti rappre­ sentativi dei colori semplici e, tra essi, quelli dei colori composti corrispondenti. La rappresentazione potrà poi essere integrata 118 con i gradi di chiarezza e di saturazione cromatica, sviluppando la figura nella terza dimensione e ottenendo così un solido (un doppio cono, una doppia piramide o una sfera, per esempio) che sarà con­siderato come rappre­sentativo dell'intero spazio croma­tico. Ma comunque ne sia dei dettagli della costruzione ideale e delle alternative possibili in proposito, tutti i problemi si tro­ vano già nella decisione preliminare relativa ai fondamenti del si­ste­ma. E che vi siano qui dei problemi è mostrato dal fatto che, nonostante l'apparente plausibilità della sistemazione proposta, ci troviamo subito in difficoltà non appena tentiamo di conferire un senso sufficientemente determinato in primo luogo alle no­zioni della semplicità e della composizione. Queste espressioni so­no or ora state impiegate come se esse potessero essere as­sunte in un accezione ovvia e ben nota. Ma le cose non stanno co­sì. Infatti si potrà parlare di semplicità e di composizione in rapporto al colore come materia cromatica oppure al colore come qualità visiva. Ma né nell'uno né nell'altro caso possiamo giunge­ re a una conclusione realmente soddisfacente. Nel primo caso, infatti, il parlare di semplicità in rapporto ai colori giallo, rosso e azzurro significherebbe niente altro che formulare un'ipotesi empirica sulle materie cromatiche, che sarebbe irrilevante ai fini di una considerazione sistematica. Nel secondo caso, al quale del resto pensava Aguilonius, la distinzione stessa diventa fon­ damentalmente inconsistente, dal momento che verrebbe inte­ ramente affidata a contestabili impressioni soggettive attinenti alla semplicità e alla composi­zione del colore. Sarebbe infatti in errore chi tentasse di rendere conto sul piano fenomenologico di quella differenza, ritenendo che essa possa essere giustificata sul piano della stessa mani­festazione cromatica. Se prescindiamo con buoni motivi dalle mescolanze delle materie cromatiche, sembrerebbe allora che dovrebbe esserci un qualche contrassegno all'interno dell'esperienza visiva che con­ trad­­distingua il viola, per esempio, dal giallo e dal rosso. Ma se pro­poniamo a qualcuno la domanda se il viola gli appaia come 119 colore semplice o composto non solo non potremmo essere si­ curi della risposta, ma nemmeno del fatto che la domanda abbia real­mente senso e possa essere veramente com­presa. Inversamente potremmo vedere con i nostri stessi occhi che il giallo appare verde attraverso un filtro azzurro, senza che da ciò consegua che l'impressione visiva del verde comporti l'im­ pressione della composizione. Di fronte a questi dubbi è naturale che una chiara formu­ lazione del problema della semplicità e della compo­sizione ven­ ga ricercata piuttosto sul piano esplicativo. Solo prendendo le mosse dalla fisica del colore possiamo attribuire un senso suf­ ficientemente determinato a parole come semplice, com­posto, fon­da­­mentale e derivato, o introdurre altri termini eventual­ mente ritenuti più appropriati. Assumendo questo punto di vista tenderemo certo a guardare a quella vecchia schematizzazione (e alla sua stessa terminologia) come ad una rozza anticipazione "intuitiva" di una proble­matica che può trovare il suo assetto au­ tentico solo considerando il colore come evento fisico. 11. Nuova determinazione del problema Eppure anche il pieno riconoscimento dei diritti conoscitivi e degli interessi tecnico-pratici di un sistema dei colori con un fondamento esplicativo non toglie il sussistere dell'altro aspetto della questione. Vogliamo allora riconsiderare il problema mettendo dra­sti­ ca­mente da parte ogni tentativo di dare un senso, presuntiva­ mente giacente nell'esperienza del colore, alla distin­zione tra colore semplice e colore composto. Occorre invece fare riferi­ men­to a ciò che nel cerchio cromatico giunge effettivamente alla manifestazione percettiva. Indipenden­temen­te da ogni conside­ ra­zione relativa alle mescolanze concrete così come alle impres­ sioni psicologiche sulla semplicità e sulla composizione, il cer­chio cromatico ci appare come un percorso percettivo che con­duce 120 secondo sfumature continue da una tonalità cromatica all'altra, come una sequenza di gradazioni tonali. Ma non solo: questa sequenza ci appare caratterizzata da un proprio ritmo interno i cui accenti cadono proprio su quei colori a cui in pre­ce­denza attri­ buivamo un oscuro carattere di semplicità e di fon­damentalità. Cerchiamo di illustrare il senso di un simile rilievo. Stando a esso, la nostra attenzione non viene attirata sulla natura intrin­ seca di questo o di quel colore, ma sulla struttura comples­siva della sequenza qui in questione. Anzi, prima ancora, attiriamo l'attenzio­ ne sul fatto che possono essere date sequenze croma­tiche del genere più vario, che vengono colte appunto nel­le loro tipiche differenze di struttura. Ma in che mo­do ciò sareb­be pos­sibile se nell'apprensione stessa non fosse implicato il rimando a una sorta di ordine precostituito nell'es­senza della datità croma­tica, e dunque ad una localiz­zazione ben determi­nata all'interno di un sistema ideale? Riprendiamo a questo proposito il caso elementare della se­ quenza cromatico-chiaroscurale. Il bianco e il nero operano la chiusura della sequenza, essi hanno il carattere di polarità estre­ me. Ma questo carattere non è pura accidentalità empirica, non indica cioè meramente il posto che essi occupano nella sequenza che proprio ora sta di fronte ai nostri occhi. Potrem­mo dire inve­ ce che questa sequenza esibisce il luogo ideale di questi "colori", del bianco e del nero, all'interno dell'universo cro­ma­tico. Il dubbio filosofico intorno al diritto di annoverare il bian­co e il nero tra i colori veri e propri ha del resto sempre avuto i suoi 121 motivi nella posizione che essi occupano all'interno di una con­ siderazione sistematica. Naturalmente, il bianco e il nero sono colori come tutti gli altri - se considero le materie cromatiche. Ma possiamo anche dire di una cosa che essa è bianca, oppure nera, volendo con ciò parlare proprio del suo colore. Mentre potrebbe essere giu­stifi­cato avanzare dubbi sull'impiego del termine, se con ciò si vuole met­ tere in evidenza la dissoluzione dell'universo cro­matico nella chia­ rezza e nell'oscurità, se cioè si vuole indicare la posizione estrema che il bianco e il nero occupano in via di prin­cipio nel sistema. Se dunque sono in presenza di una sequenza che condu­ ce dal bianco al nero secondo una transizione chiaroscurale del l'azzurro (o di un altro colore qualunque), posso dire che questa se­quenza presenta il luogo che spetta "a priori" al bianco e al nero. Ma può ben darsi una sequenza, per esempio, dall'azzurro al giallo attraverso il nero. Questo si trova allora tra l'uno e l'altro colore. Ma questo luogo di fatto non modifica certamente il suo luogo ideale e anzi proprio in forza del riferimento a questo luogo ideale la sequenza viene appresa come determi­natamente carat­terizzata da una forma strutturale che la diffe­renzia in maniera tipica da altre sequenze possibili. Il richiamo all'esperienza della transizione ha appunto il sen­ so di un richiamo alla manifestazione percettiva delle diffe­renze strutturali delle sequenze cromatiche e di conse­guenza quell'e­ sperienza può essere proposta in via del tutto generale come 122 base fenomenologica del sistema. Si comprende allora in che senso possiamo attirare l'at­ ten­­zione sul ritmo interno del cerchio cromatico: in esso, per e­sem­pio, il rosso si trova tra il viola e l'arancione e que­st'ul­ti­mo tra il rosso e il giallo. Ma la struttura feno­meno­lo­gica della prima sequenza è interamente diversa da quella del­la secon­da: nel primo caso, il rosso appare come punto di volta verso cui si im­pen­nano l'arancione e il viola; nel secondo il cromatismo scorre dal rosso al giallo, o nella dire­zione in­versa. 12. Il divenire del colore Nonostante i buoni motivi dei dubbi a cui abbiamo accennato, e nonostante il riconoscimento necessario della possibilità di pro­ porre lo stesso problema su una base interamente diversa - e di conseguenza con un significato e uno scopo diverso - non 123 dobbiamo affatto rinunciare alla vecchia idea di un sistema che poggi sulla "fondamentalità" del giallo, del rosso e dell'azzurro. Non si tratta infatti di una idea sbagliata, che va sostituita con una teoria più aggiornata e con la terminologia corri­sponden­ temente mutata. Ma di una idea che può trovare la sua giusti­ fi­cazione in primo luogo mettendo l'accento sull'inter­vento di procedure di idealizzazione; e in secondo luogo mostrando che le idealizzazioni operate hanno tuttavia la loro base fenome­no­ logica nell'esperienza della transizione e quindi più in generale nelle differenze strutturali, effettivamente sperimentate, delle se­ quen­ze croma­tiche possibili. Tutte le discussioni intorno alla nozione della semplicità e della composizione, sia quelle orientate in direzione della fisica del colore come in quella della sua psicologia, vanno coeren­ te­mente messe da parte. La circostanza realmente rilevante nel nostro contesto di discorso, è che alcuni punti del cerchio cro­ma­tico si propongono come limiti di una sequenza, altri invece come momenti di pas­ saggio. Allo scopo di togliere ogni pos­sibi­le equivoco potremmo parlare, rispettivamente, di colori termi­nali e colori intermedi. Stando a questa impostazione, infine, il tema dell'unità del mondo cromatico si impone in tutta la sua evidenza all'interno delle stesse datità percettive. Ciò che stabilisce un legame tra i co­lori è in primo luogo la possibilità di stabilire tra l'uno e l'al­tro una transizione percettiva continua: la possibilità, per esem­pio, di vedere il rosso trapassare nell'azzurro, diven­tare azzurro. Si istituisce così una relazione che ha la stessa evidenza di quel­la che sussiste tra due momenti di una sequenza chiaro­scu­rale di un unico colore. La molteplicità dei colori si comprime così, idealmente, nel­ la più stretta unità. Anzitutto vi è il Colore. E nel cerchio si rispec­ chia il suo movimento. Quella rappresentazione infatti non deve essere intesa solo come una statica fissazione di rappor­ti, ma come se essa mostrasse il divenire del colore. 124 13. Fenomenologia e naturalismo nella teoria del colore di Go­ ethe Bozzetto di Goethe per una scenografia del "Flauto Magico" di Mozart Vi sono diversi motivi che ci suggeriscono di proseguire la nostra discussione prendendo ora in esame la teoria goethiana dei colori [18]. In primo luogo, il libro di Goethe mostra con chiarez­ za, nella molteplicità degli aspetti che in esso vengono implica­ti, e anche nelle difficoltà e nei dubbi che solleva la sua lettura, le vicissitudini che può attraversare una teoria del colore che sia investita da interessi filosofici di carattere generale. Siamo qui in presenza di un'opera sbagliata e straordinaria, nella quale l'inge­ nuità scientifica si mescola con la scienza genuina e il momento ideologico con la discussione teorica e con l'osser­vazione empi­ rica. Di fronte ad essa vorremmo anzitutto cercare di mostrare come le nostre considerazioni precedenti ci mettano in grado di farne una lettura produttiva e ci aiutino a cogliere i nodi centrali ed a scioglierne i grovigli. In rapporto alla posizione che Goethe assume nel suo ap­ proccio alla tematica del colore si parla spesso di un atteggia­mento fenomenologico implicito. Ma più che l'uso di una simile espressione, ci interessa cercare di individuare le ragioni parti­colari della pos­ sibilità della sua applicazione nel caso di Goet­he, proprio perché in queste ragioni essa può ricevere la necessaria determinatezza. 125 Affrontando questo primo compito, abbiamo subito a che fare con lo sfondo filosofico generale dell'opera, concentrato nel­le pagine introduttive che fissano in pochi tratti lo spirito da cui essa è animata. Questo sfondo rimanda al concetto di natura, un concetto che Goethe condivide con così larga parte della cul­ tura romantica, di cui la Teoria dei colori è anzitutto un documen­ to esemplare. La natura come un sistema complesso di leggi, che assumono necessariamente forma matematica e la cui for­ mulazione richiede elaborate costruzioni intellettuali - la natura dunque come "mondo di cose" e precisamente secondo quel­ la nozione della cosa che comporta la soppressione dell'e­sperienza, come ci siamo espressi in precedenza sotto­lineando l'inerenza di questo punto di vista alla stessa posizione di scopi conosciti­ vi - questa nozione di natura non è certamente per Goethe una nozione prioritaria. Colori e suoni appartengono alla natura scrive Goethe [19]; e molto, se non tutto, il senso della posizione che egli assu­me di­ pende proprio dalla comprensione di questa frase. Colori e suoni sono parti di un intero, di quel grande or­ga­ni­smo vivente che è la natura stessa. Essi sono fenomeni na­turali in un'ac­ cezione pregnante: non semplici eventi invia di principio domi­ nabili all'interno di un sistema unitario di leggi; sono fenomeni nel senso di manifestazioni. La natura si manifesta in essi; colori e suoni sono espres­sioni della natura. I fenomeni naturali di cui consta il grande organi­ smo, sono ciò attraverso cui esso ci parla, sono il linguag­gio stesso della natura: "e dal più leggero soffio fino al più selvaggio rumo­ re, dal suono più elementare fino al più com­plesso accordo, dal più veemente e appassionato grido sino alle più miti parole della ragione, sarà sempre la natura a parlare, a rivelare la propria pre­ senza, la propria vita e le proprie con­nessioni" [20]. Ciò decide fin dall'inizio l'atteggiamento che deve essere assunto nei confronti dei colori. Se essi sono il linguaggio vi­ vente della natura, attraverso la vita dei sensi attraverso l'espe­ 126 rienza sensibile, si deve realizzare un rapporto autentico di co­ mu­nicazione. Il colore parla e dunque noi dobbiamo sforzar­ci di comprendere ciò che esso dice. Per fare questo dobbiamo affer­rare il fenomeno cromatico in tutta la sua vivezza, così come ci si presenta in tutta la sua forza ai nostri occhi. Si annuncia in questo modo, nell'intera impostazione goe­ thiana, una tensione verso il qualitativo, verso un sapere legato alla corposità dei fenomeni come una corposità che non può es­sere affatto ridotta. Ciò che fa del colore una "qualità secon­ daria", la pienezza che lo caratterizza in quanto datità visiva si propone come tale nella sua validità. E naturalmente già per que­ sto potremmo parlare di un aspetto fenomenologico che si im­ pone con motivazioni proprie che avranno le loro conse­guenze nello stesso impianto del problema. Sono proprio le peculiarità di queste motivazioni che impe­ discono la consapevolezza dei limiti entro cui deve muo­versi una fenomenologia del colore. Fin dall'inizio abbiamo atti­ra­to l'at­ tenzione su questo punto: la distinzione tra qualità pri­ma­rie e qualità secondarie, nel suo senso classico, è erronea perché ridu­ ce ad apparenza illusoria il mondo visibile e tangi­bile. I risultati delle spiegazioni fisiche possono così essere falsamente proposti come se contraddicessero le datità fenome­nologiche. Ma è pos­ sibile anche incorrere nell'errore inverso di contrapporre i rilievi descrittivi condotti sulla base della con­cretezza dell'esperienza come tanto potenti da contestare le ipo­tesi es­pli­cative. Questo è appunto l'errore di principio di Goethe, attestato dalla sua acca­ nita polemica antinewtoniana. Goethe non si rassegna alla necessità di considerare la luce, e dunque - per Goethe - la chiarezza, il bianco, come un risul­ tato della fusione di una molteplicità di colori. "Che tutti i colori mischiati producano il bianco è un'assurdità che, accan­to ad altre assurdità, si è abituati a ripetere fiduciosi da un secolo, e in con­ trasto con la testimonianza degli occhi" [21]. Goethe ha certamente ragione, se stiamo appunto alla testi­ 127 monianza degli occhi. E ha ragione anche nel ritenere che non sia affatto giustificato respingere questa testimonianza come se essa fosse ingannevole. E tuttavia il problema di Newton era intan­ to quello di fornire una spiegazione soddisfacente della for­ma­ zione, su uno schermo, di un ordinato cromatismo ad opera di un fascio di luce passante per un prisma di vetro. Escludendo con buoni motivi che una simile formazione possa essere do­ vuta alla natura del mezzo, è possibile formulare l'ipotesi teo­ rica e appre­stare esperimenti di conferma, secondo cui la "luce bianca" sarebbe la risultante di raggi "monocro­matici" (e dun­ que semplici, in un senso ben definito del termine), ciascuno caratterizzato da uno specifico angolo di rifrazione. In tal caso, il dato di fatto della formazione dello spettro risulterebbe spie­ gato in termini fisici come un processo di scomposizione. La for­mu­lazione della ipotesi e i risultati soddisfacenti della speri­ men­ta­zione corrispondente non ci consentono peraltro di rite­ nere definitivamente raggiunta l'essenza stessa della luce o del processo fisico di formazione dei colori, dal momento che si pone subito la necessità di chiarimenti epistemologici sulla na­ tura e sulla portata della teoria, la quale a sua volta è destinata a muoversi problematicamente con il movimento stesso degli apparati concettuali entro cui essa è integrata. Ma è certo in ogni caso che quella teoria non può essere semplicemente riportata all'imme­diatezza fenomenologica e giudicata a partire da essa, ma deve essere lasciata esattamente dove si trova, sul terreno della transfenomenologia. La presenza, così consistente in Goethe, dell'esigenza di convalidare i risultati della propria indagine anche attraverso la confutazione polemica della teoria newtoniana deriva indub­ biamente da un'ambiguità di fondo, da un nodo metodologi­ co destinato a restare irrisolto. Cosicché da un lato è giusto ri­ chiamare l'attenzione sul fatto che ci troviamo qui di fronte non già a teorie contrapposte, ma semplicemente a problemi distinti. Dall'altro è altrettanto giusto mettere in rilievo che l'equivoco 128 dipende a sua volta dal modo in cui in Goethe prende forma la rivendicazione della concretezza dell'esperien­za cromatica. Infatti, per Goethe non si tratta soltanto di realizzare una compiuta descrizione di quella esperienza, ma di penetrare attra­ verso di essa sino all'essenza naturale del colore. In qual­che modo, vi è un'istanza naturalistica che si integra stret­tamente con la feno­ menologia di Goethe e ne specifica la dire­zione [22]. Di qui deriva anche il dubbio ricorrente sull'impiego del­ lo strumento matematico dello studio dei fenomeni naturali in ge­nere. Se il linguaggio della natura è rappresentato già dai feno­meni naturali sperimentati nella loro concretezza, allora il linguaggio matematico deve essere considerato come un secon­ do linguaggio che si sovrappone al primo e che rischia di con­ fonderne il senso, qualora il suo impiego non sia accompa­gna­to da opportune cautele [23]. Ogni possibilità di acquisire ele­men­ti conoscitivi sarà dun­que interamente affidata all'osser­vazione: a un osservazione at­tenta, ostinata, minuta, puntuale, incessante, a un'osservazio­ne empirica nel senso più ampio, dalla quale man­ ca tuttavia, per ragioni ben comprensibili, una chiara nozione di esperi­mento. Non vi è infatti qui propriamente nessuna ipotesi da mettere alla prova, e anche tutti i dispositivi di cui possiamo eventualmente avvalerci hanno come scopo essenziale quello di rendere più acuta l'osservazione stessa. Lo strumento principa­le di Goethe è proprio questa attenzione os­ser­vativa portata alla sua estrema esasperazione: ci accin­giamo ora a spiare ogni mossa del colore, a inseguire le sue mani­festazioni negli angoli più riposti, non tanto per giungere a rendere conto di esse, quanto piuttosto per arrivare a possederle nel loro senso. 14. I colori dentro gli occhi L'importanza della componente naturalistica, nel senso certa­ mente un poco particolare che dipende dal contenuto comples­ sivo del discorso di Goethe, diventa subito chiara se consi­ 129 deriamo l'impianto dell'opera e in particolare se cerchia­mo di renderci conto dei motivi per i quali egli prende le mosse dai colori fisiologici. L'ingente massa di osservazioni minute viene infatti distri­ buita per l'essenziale nelle prime tre sezioni, ognuna delle quali fa riferimento a un modo di manifestazione del colore, secondo un ordine di sviluppo che richiama l'opposizione tra il materiale e l'immateriale. Anzitutto vengono considerati i colori che Goe­ the chiama fisiologici intendendo con ciò quelle manife­stazioni cromatiche che possono essere considerate come ap­partenenti essenzialmente all'occhio. Si tratta dunque di mani­festazioni e­mi­­nentemente soggettive, che hanno il carattere della massima fugacità, della precarietà e della transitorietà in quanto sono del tutto libere da vincoli rispetto alla cosa. All'estremo opposto vi sono invece i colori chimici, consi­dera­ ti nella terza sezione, i colori cioè intesi come proprietà deter­ minante di cose materiali, i colori consolidati sulla cosa e che sono quelli che sono in forza della compo­sizione chimica di essa. I colori fisici invece, considerati nella seconda sezione, oc­cu­­ pano una posizione intermedia tra i colori fisiologici e i colori chimici in quanto hanno un carattere sia soggettivo che ogget­ tivo: non appartengono alla cosa come una proprietà stabi­le di essa, ma hanno bisogno della cosa per sussistere. Dal punto di vista concettuale si prende l'avvio dal colore come apparenza evanescente per progredire sempre più verso la cosa - un principio di ordinamento a cui Goethe attribuisce un particolare significato e al quale si attiene anche nell'opera­re ulteriori sottoclassificazioni, come accade nella sezione dedi­cata ai colori fisici [24]. Particolarmente significativa è anzitutto la decisione di dare rilievo a quei fenomeni cromatici che si trovano alla massima distanza dalla cosa, che non hanno alcuna consisten­za effettiva e alcun rapporto con l'esteriorità. Esempi caratteri­stici, che of­ frono una chiara illustrazione della nozione goet­hiana di colore 130 fisiologico, sono tutti i fantasmi cromatici che sperimen­tiamo in seguito ad un abbagliamento, all'osservazione prolun­gata di una figura intensamente illuminata o addirittura quelle formazioni cromatiche che ci appaiono esercitando una pres­sione delle dita sulle palpebre abbassate. Essi sono colori che sembrano attraver­ sare fugacemente il nostro campo visivo, ma che non hanno in esso nessuna localizzazione obiettiva: essi sono visti per così dire di sbieco, anzi, che in senso proprio non sono visti affatto, sono colti dall'occhio come colori dentro gli occhi. Che vi siano simili colori ognuno lo deve sapere per conto proprio, dal momento che essi non sono indicabili ad altri, sono colori soggettivi nel senso più stretto e rigoroso. Eppure Goethe si accinge a sottoporre proprio questi colori, che esite­remmo persino a chiamare tali, ad una osservazione sistematica riven­ dicando anzi fin dall'inizio, e non a torto, l'originalità di questo avvio. Questi colori, egli osserva, "sono stati finora considera­ ti inessenziali e casuali, alla stregua di illusioni e deficienze. Le loro manifestazioni sono note fin dall'antichità ma, poiché non si poteva avere ragione della loro incostanza, li si relegò tra le apparizioni di natura maligna" [25]. Contro di ciò, e contro le varie denominazioni che rimandano in vari modi ad un presun­ to carattere patologico, Goethe fa notare che il termine di co­ lore "fisiologico" è stato scelto appositamente per sottolinea­re che queste manifestazioni cromatiche appartengono al nor­male fun­zionamento dell'occhio sano [26]. In questa motivazione del nome, troviamo anche la motivazione dell'interesse che muove Goethe anzitutto in que­sta direzione. I colori dentro gli occhi sono colori prodotti dall'occhio stesso nella sua relazione con la luce - nulla qui deriva dall'artificio, ma tutto sorge dalla stes­ sa produttività spon­tanea della natura. Cosicché se, attraverso l'os­ ser­vazione, riu­sciamo a individuare qualcosa di simile a regole che presiedo­no a questa produzione, con ciò arriveremmo for­se a cogliere almeno qualche aspetto rilevante dell'intima essenza 131 del colore come fenomeno naturale. La relazione del colore con l'occhio e con la luce potrebbe cominciare a rivelarsi, non già da osserva­zioni anatomiche o dalla ricostruzione teorica di un processo fisico, ma proprio attraverso una fedele descri­zione di questi strani eventi. Ecco dunque che il momento dell'osservazione fenome­ nolo­gica si ripresenta in uno stretto legame con il tema dell'es­ senza naturale del colore, e questo legame rappresenta indub­ biamen­ te il tratto caratteristico dell'impostazione goethiana. Di esso dobbiamo in qualche modo cercare di impa­dro­nirci se voglia­mo pervenire a una comprensione autentica del senso del­ la sua opera. 15. Il colore come valore d'ombra Non c'è dubbio che la sezione dedicata ai colori fisiologici possa essere indicata come la parte meno compromessa con le prese di posizioni generali più impegnative e discutibili dell'o­pera e la più ricca di osservazioni particolari e di spunti geniali che possono essere particolarmente apprezzati dal punto di vista psicologico come anticipazioni di problemi che solo in seguito riceveranno un'elaborazione effettiva. Tuttavia a noi interessa non tanto isolare questa sezione da tutto il resto, ed eventualmente, all'interno di essa, quei pochi, benché significativi momenti che possono essere valorizzati in questa direzione, quanto piuttosto mostrare il filo conduttore che tiene insieme le osservazioni empiriche e la connessione di esso con l'atteggiamento mentale da cui sono orientate. Questo filo conduttore è rappresentato dal tema della oppo­ sizione e del contrasto, e ciò ci riconduce ancora una volta alla con­ cezione della natura come totalità vivente e onnicom­prensiva. Fa parte di questa concezione l'idea di una dialettici­tà interna, nel senso più ampio, che rimanda a un gioco di opposizioni, di azioni e reazioni, di complessi equilibri e di con­trasti, di tensioni 132 e di compensazioni, di attrazioni e repul­sioni. Uno degli aspetti più sorprendenti dell'indagine di Goet­he è il modo in cui una si­ mile concezione di carattere generale, un simile sentimento della natura si specializzi fino al più infimo det­ta­glio, che riceve così una improvvisa ricchezza di signi­ficato, un valore esemplare. Che cosa accade se entriamo in una stanza completamente buia? "Avvertiamo subito un senso di privazione" [27] E inversa­ mente "se ora rivolgiamo l'occhio verso una superficie bianca, fortemente illuminata, esso viene abbagliato e, per un certo tem­ po, rimane incapace di distinguere oggetti mode­ra­tamente illu­ minati" [28]. Osservazioni come queste vengono subito riscattate dal­ la loro apparente insignificanza proprio perché manifestano la presenza di una sorta di legge della visione che rimanda al tema del contrasto e del ripristino della totalità attraverso il richiamo dall'uno all'altro polo dell'opposizione. In quel senso di priva­ zione vi è già il richiamo dallo scuro al chiaro; così come dal chia­ro allo scuro, nel ritrarsi dell'occhio di fronte a una luce trop­ po viva. Questa opposizione della chiarezza e dell'oscurità, del bian­ co e del nero è destinata ad avere un ruolo di fondamentale im­ portanza nello sviluppo della tematica del colore, così come nel­ lo stesso orientamento dell'osservazione empirica. Il colore in generale sta tra il bianco e il nero - e perciò esso signi­ fica dettaglio, specificità, varietà, individuazione. In que­­sto senso Goethe ripete più volte, e in vari modi, che il colore ha un valore d'ombra [29]. Attraverso il colore si disegna la forma - "in quanto soltanto chiaro, scuro e colore stabiliscono insieme ciò che di­ stingue un oggetto dall'altro e la parte di un oggetto dalle altre. Sulla base di questi tre momenti costruiamo il mondo visibile" [30]. "Il chiaroscuro fa apparire il corpo come corpo, in quanto luce e ombra ci danno nozione della materia­lità" [31]. Nello stes­ so tempo nel colore dobbiamo cogliere la stessa molteplicità e varietà della vita e perciò pos­siamo dire che "ogni essere vivente 133 tende al colore alla speci­ficazione", mentre "ogni ente privo di vita si muove verso il bianco, verso l'a­strazione, verso la genera­ lità, verso la trasfi­gurazione, verso la trasparenza" [32]. Ma già nelle affermazioni iniziali questo trovarsi del colore tra il bianco e il nero tende ad assumere un'inclinazione che potrà apparirci subito arrischiata. Goethe presenta infatti fin dall'inizio il rapporto del colore con il bianco e il nero come un rapporto "genetico" in un qualche senso che subito non riusci­remmo af­ fatto a precisare. Dal bianco e dal nero è come se si avviasse un duplice movimento, di scurimento e di schiarimen­to, e proprio di qui avrebbe origine il colore. In qualche modo è l'incontro del bianco con il nero che genera il colore. Per il momento queste formulazioni non possono che sem­ brarci oscure: si avvia forse qui un'astrusa speculazione che vor­ rebbe riprendere dal passato la vecchia teoria aristotelica, ri­pe­tu­ ta lungo tutto il Medioevo e poi finalmente dimenticata, secon­ do la quale i colori sorgerebbero per mescolanza del bianco e del nero secondo rapporti numerici determinati? E se non questo, che altro allora? In che senso si deve intendere il fatto che si parli qui di origine? In che modo quelle formula­zioni possono avere una qualche giustificazione? 16. I fenomeni di inversione cromatica Nessuna risposta a questa domanda possiamo ritrovare nella se­ zione dedicata ai colori fisiologici. Qui si procede posi­tivamente nell'osservazione diretta a cui il tema dell'oppo­sizio­ne chiaroscu­ rale offre unicamente il materiale su cui eser­citarsi. Si presentano così in essa significative considerazioni sui rapporti figura-sfon­ do, realizzate con figure elementari bianche e nere, e si ordinano all'interno di un quadro sistema­tico osser­vazioni in parte note, in parte nuove e originali: ed è co­mun­que notevole già in se stes­ sa l'idea di un'indagine siste­mati­ca rivolta agli effet­ti contestuali delle apparenze feno­meno­logi­che concer­nenti sia l'aspetto figura­ 134 le o dimensionale, sia i valori cromatici e chia­ro­­scurali. Nello stesso tempo una simile indagine è solo preparatoria rispetto al tema delle manifestazioni fisiologiche vere e proprie, che entrano in campo soltanto nella considerazione dei fenome­ ni di inversione. Anzitutto tra il bianco e il nero: se guardiamo intensamen­te, dall'interno di una stanza, una finestra illuminata dalla luce del giorno, come immagine consecutiva non si pro­ porrà solo l'immagine della crociera, ma questa immagine con l'in­versione dei valori chiaroscurali: "La crociera apparirà chiara e lo spazio del vetro scuro" [33]. A questi fenomeni di inversione fisiologica Goethe è straor­ dinariamente interessato, e per motivi che ormai ci sono noti. L'occhio si mantiene in una determinata situazione percet­tiva in modo dinamico, cioè proponendo l'opposizione imma­nente nel dato percettivo e ricostituendo così di continuo la totalità di cui sente la mancanza: "L'occhio di una persona desta - egli scrive - esprime la sua vitalità in modo particolare nel fatto che esso richiede un mutamento delle proprie condizioni pas­sando, nel caso più semplice, dallo scuro al chiaro, e viceversa. L'occhio né può né vuole neppure un istante restare identico nella con­ dizione specifica a cui è determinato all'og­getto. Esso è invece costretto a una sorta di opposizione che, mentre contrappone termine estremo a termine estremo e termi­ne medio a termine medio, contemporaneamente congiunge quan­­­to ha contrappo­ sto e nella successione, così come nella contem­poraneità e nella coesistenza, tende verso un intero" [34]. A questo motivo di carattere generale se ne aggiunge uno più particolare che riguarda non più l'opposizione bianco-nero, ma i fatti cromatici veri e propri. Se infatti poniamo un pezzo di carta colorata rossa su un fondo bianco, se lo osser­viamo abba­ stan­za a lungo e poi togliamo la carta rossa, sul fondo bianco lasciato scoperto apparirà una distinta immagine "fisiologica" verde [35]. E lo stesso "esperimento" può essere ripetuto per le coppie giallo-viola e azzurro-arancione. 135 Per comprendere il rilievo che Goethe conferisce a questa circostanza converrà ricollegarsi al cerchio cromatico. rosso arancione viola giallo azzurro verde Facendo riferimento unicamente ad esso potremo subito notare che pro­prio queste coppie sono tra loro connesse da una deter­ minata relazione strutturale che è rispecchiata nella rappresenta­ zione grafica dal fatto che i punti corrispondenti, e solo essi, pos­ sono essere connessi tra loro attraverso diametri. Ciò dipende natu­ralmente soltanto dall'ordinamento dei colori terminali e in­ termedi - il quale peraltro non è un ordinamento arbitrario, ma poggia sulle datità fenomenologiche. La connes­sione diametra­le nel cerchio indica pertanto che non è possibile alcuna sequenza continua dal rosso al verde nello stesso modo in cui è possibile una sequenza continua dal rosso al giallo o dal rosso all'aran­ cione. Il sussistere di una simile relazione di tipo peculiare non ha bisogno di essere dimostrato empiricamente e tanto meno di essere interpretato in termini psicologici. Vi è dunque una precisa differenza di principio tra il rilievo del sus­sistere della relazione di connessione diametrale effettuato sulla base di con­ 136 siderazioni fenomenologico-struttu­rali e la consta­tazione empi­ rico-psicologica dell'evoca­zio­ne fan­to­matica del­l'un colore da parte dell'altro in un caso particolare di atto percettivo concreto. Questa differenza può essere resa chiara sottolineando che è possibile effettuare quell'"esperimento" prendendo atto del sussistere di una simile connessione di fatto senza saperne nulla della connessione diametrale, e inversamente è possibile rilevare quest'ultima senza saperne nulla della connessione rilevata nel­ l'"e­sperimento". Va da sé che distinguendo l'un caso dall'al­tro escluderemo che la situazione sperimentata possa essere propo­ sta come una sorta di verifica empirica del sussistere della rela­ zione sistematica, dal momento che questa non ha bisogno di alcuna verifica empirica. Come stanno ora le cose in Goethe? In realtà abbiamo già spiegato che Goethe non ha affatto di mira una logica del colore fenomenologicamente fondata, ma la natura del colore in quanto essa può essere colta nell'osservazione immediata. Di conseguenza il modo di valutare il problema segue un'ango­latura interamen­ te diversa. In primo luogo, la comparsa intro­spettiva del colore diametrale viene intesa come un caso vero e proprio di inversio­ ne, dunque la relazione tra quelle coppie cromatiche interpretata come una relazione oppositiva; in se­condo luogo, la constata­ zione di una simile evocazione di fatto dall'u­no all'altro polo dell'opposizione sembra conferire un senso ben più ricco alla re­ lazione stessa in quanto proposta unicamente sulla base di con­ siderazioni sistematiche. Consta­tata all'interno della percezione visiva, essa non è più una relazione in certo mo­do astratta, ma diventa significativa in rapporto all'essenza naturale del colore. Ma vi è anche un altro aspetto della questione che procede nella direzione inversa: la sistemazione dei colori nel cerchio, che - a quanto sembra - ci insegna che vi sono solo tre colori "semplici", sembra a sua volta arricchire di senso l'evocazione fattuale dei colori diametrali. Poiché il verde, per esempio, se­ condo lo schema proposto, si presenta come "composto" dal 137 giallo e dell'azzurro, l'evocazione fisiologica del verde da parte del rosso può essere considerata come una evocazione del siste­ ma nella sua totalità. Si fa avanti così l'idea che le circostanze osservate in rap­ porto alle comparse fisiologiche dei colori diametrali non siano solo di notevole importanza per illustrare i meccanismi psico­ logici della percezione, ma che attraverso di esse si possa dare consistenza al problema dell'"armonia dei colori", av­viandolo a una soluzione ben fondata. I colori fisiologici "che legittimamente collochiamo qui all'i­ nizio - osserva Goethe in apertura della sezione - costitui­scono il fondamento dell'intera teoria e svelano quella armonia croma­ tica che è tema di tante dispute" [36]. E nella chiusa: "L'occhio richiede qui... una totalità, e serra in se stesso il cerchio dei colori... Vedremo più avanti per quale via da que­ sti fenomeni si derivi la teoria dell'armonia dei colori e come soltanto per queste proprietà il colore è adatto ad un impiego estetico" [37]. 17. Riproposta delle considerazioni sistematiche Siamo venuti così a riparlare dei colori considerati da un pun­ to di vista sistematico. Questo problema non solo è tutt'al­tro che assente dal libro di Goethe, ma potrebbe essere consi­derato come uno dei suoi centri, come uno dei suoi motivi conduttori che conferiscono unità all'enorme massa di osserva­zioni sparse. Più precisamente: il sistema nella forma che abbiamo descrit­ ta, con l'individuazione dei colori rosso-giallo-azzurro a titolo di colori "fondamentali" e dell'arancione-verde-viola a titolo di colori "derivati", è senz'altro presuppo­sto come una nota ov­ vietà, la quale ha tuttavia bisogno di una interpretazione ulteriore. E gli elementi essenziali della tematica goethiana possono essere considerati come finalizzati a presen­tare questa interpretazione più profonda, a fornire una sorta di seconda let­tura di quel­l'ordi­ 138 namento sistematico - una lettura strettamente integrata nel contesto teorico e osservativo che abbiamo cominciato con il delineare. Il "cerchio" di per se stesso non è affatto importante, non è realmente significativo: esso comincia ad assumere rilie­ vo pro­prio nel momento in cui possiamo dire che l'occhio lo racchiu­de in se stesso, quando dunque quell'astratta costruzione rappresentativa arriva a congiungersi con la concretezza dell'e­ sperienza del colore. Considerato da questa angolatura, esso ci si presenta in modo diverso, richiede di essere nuovamente in­ terpretato, riceve ulteriori determinazioni che non sono di­retta­ mente contenute in esso. Lo abbiamo visto or ora a proposito della connessione dia­ metrale. Attraverso l'esperienza, questa relazione diventa una re­ lazione di opposizione dinamica nella quale il cerchio comincia ad agitarsi. Ma prima ancora, ciò che segnala l'inter­vento di una prospettiva interpretativa è naturalmente la stessa concezione del colore come valore d'ombra, quindi la proposta del bianco e del nero come polarità oppositiva fonda­mentale. Tra questi due poli, e nell'incontro di essi, come ci esprimevamo in precedenza, si trova il colore. E ora possiamo aggiungere, più precisamente, che nelle immediate prossimità del bianco si trova il giallo, nelle immediate prossimità del nero sì trova l'azzurro. Oppure, in ter­ mini genetici: dal bianco ha origine anzitutto il gial­lo, dal nero l'azzurro. E ancora: il giallo è un colore essen­zialmente chiaro, l'azzurro invece un colore essenzialmente scuro. Dalla polari­ tà oppositiva fondamentale scaturisce infatti, secondo Goethe, questa nuova opposizione polare che si avvia a diventare il fulcro della lettura goethiana del cerchio cromatico. Ma che cosa possiamo intendere con tutto ciò, in che modo questa opposizione deve essere intesa e in che modo può essere giustificata? Se ci atteniamo alle nostre considerazioni precedenti intor­no al sistema, appare chiaro che una sequenza che conduca dal bianco al nero attraverso il giallo è altrettanto possibile quan­ to lo è una sequenza che conduca dal bianco al nero attraverso 139 l'azzurro. Ciò significa che nella rappresentazione grafica potre­ mo convenire che i colori siano rappresentati con un grado di chiarezza corrispondente a un grigio medio; e in generale appare ovvio che a un qualunque grado di chiarezza del giallo potremo in via di principio associare un grado di azzurro esattamente corrispondente. Se le cose stanno così, allora non vi è nessun motivo per affermare che il giallo sta dalla parte del bianco e l'azzurro dalla parte del nero. Tuttavia vi è qualcosa anche a partire dagli impieghi lingui­ stici che sembra dare un senso all'osservazione goethiana. Par­ lare di un "giallo scuro" sembra assai singolare - sembra quasi un controsenso, e forse potremmo sostenere che un giallo scuro non riusciremmo nemmeno ad immaginarlo. Cosicché è pos­ sibile che che di fronte a una sequenza del tipo indicato che contenga tutte le gradazioni chiaroscurali del giallo, se fossimo richiesti di indicare il giallo, non indicheremo il punto medio della sequenza, ma un punto spostato verso il polo bianco. La parola "azzurro", nell'impiego corrente, si riferisce ad una tona­ lità certamente piuttosto chiara, a differenza del "blu" che che si riferisce ad una tonalità tendenzialmente scura. Ma l'un termine sta sulla scia dell'altro. "Azzurro scuro" - quindi blu - è invece una possibilità implicitamente riconosciuta. Tuttavia questo argomento linguistico è indubbiamente molto debole. Va segnalata inoltre la possibilità che la connes­ sione del giallo con il bianco e dell'az­zurro con il nero possa essere suggerita da una nozione di "luminosità" che non ha pro­ pria­mente a che vedere con la chiarezza ed i suoi gradi, quanto piuttosto con il "calore" del colore. Se guardiamo un paesag­ gio attraverso un filtro giallo non accade solo la modi­ficazione corrispondente dei colori delle cose, ma il pae­sag­gio ci appare più "luminoso", come se fosse animato da un soffio di nuova energia. Di contro, l'im­pressione complessiva del paesag­gio mu­ ta completamente se lo osserviamo attraverso un filtro azzur­ro. Ora il paesaggio si è in qualche modo incupito, si è smorzato, ha 140 subito una sorta di offuscamento, di perdita di brillantezza e di vivacità. Questi aspetti, che appartengono anch'essi a una fenome­ no­logia con­creta del colore, sono presenti sullo sfondo del­l'im­ postazione di Goethe, e sono certamente destinati a emergere in primo piano nel suo sviluppo. Ma il modo in cui egli giustifica l'opposizione polare tra il giallo e l'azzurro e la dipendenza di essa dall'op­posizione tra il bianco e il nero è fondamentalmente diverso. 18. La teoria dei mezzi torbidi Volendo riferire sulle ragioni di Goethe intorno a questo proble­ ma dobbiamo anzitutto accennare alla cosiddetta teoria dei mezzi torbidi. Non già perché in essa si trovi il punto centrale di soste­ gno della posizione assunta, ma al contrario per potercene sbri­ gare al più presto e passare oltre. La proposta di quella teoria infatti è significativa soprattut­ to perché rivela con particolare chiarezza l'ambiguità metodo­ logica che resta alla base dell'impostazione goethiana. Il moti­vo fenomenologico si attenua qui quasi al punto da dissolversi inte­ ramente, mentre la pretesa di avanzare una vera e propria ipotesi esplicativa sull'origine dei colori, che intende in qual­che modo contrapporsi sul terreno conoscitivo alle teorie new­toniane de­ nuncia apertamente il proprio primitivismo. Lo scopo della teoria è in realtà quello di articolare sul pia­ no empirico l'indicazione suggestiva dell'origine dei colori dal chiaro e dallo scuro, dove la parola origine assume una spiccata accentuazione genetico-causale. Per questo l'area del­le conside­ razioni fenomenologiche, sia pure nel senso più lato del termine, viene ampiamente oltrepassata e l'intera proposta teori­ca appa­ re, tutto sommato, come un momento spurio, diffi­cile da inserire organicamente nello sviluppo problematico nel suo com­­­plesso e indicativo dunque solo di una difficoltà metodo­logica pregiudiziale. 141 Un simile tentativo di articolazione passa attraverso la no­ zione di mezzo torbido. L'aggettivo "torbido" deve essere inteso in primo luogo in un accezione del tutto corrente. Torbido si oppone a limpido, trasparente: l'acqua viene detta torbida quando è pie­ na di pulviscolo che impedisce di vederne chiara­mente il fondo. Torbido è ciò che sta tra la perfetta trasparenza e la completa opacità. Saranno allora esempi di mezzi torbidi la nebbia, il fumo, il vetro affumicato [38]. Ma poiché la perfetta trasparenza rappre­ senta solo un limite ideale che può essere riferito solo alla nozio­ ne della pura immaterialità saranno mezzi torbidi natu­ralmente l'aria oppure il vetro - anche l'aria più limpida o il vetro più libe­ ro da impurità. Questo tema della torbidezza si incontra ora con l'opposi­ zione di chiaro e scuro. E il colore sorgerebbe dall'interposi­ zione di mezzi torbidi rispetto al chiaro ed allo scuro. Consideriamo, per esempio, le montagne in lontananza. Esse sono in realtà grandi masse nerastre [39], e tuttavia ci ap­ paiono azzurrine proprio per via del mezzo torbido, cioè del velo atmosferico. Oppure pensiamo semplicemente all'azzurro del cielo. Al di là dell'atmosfera vi è l'oscuro spazio infinito che ci appare azzurro proprio perché vi è tra il nostro occhio e quella oscurità l'interposizione di un mezzo torbido [40]. Inversa­men­ te, una montagna bianca, coperta di neve, un iceberg, se visto di lontano e attraverso la nebbia, ci apparirà giallastro [41] - così almeno ci assicura Goethe. In questo modo forniamo una spiegazione autentica per la formazione dell'opposizione polare dell'azzurro e del giallo a partire dal nero e dal bianco, e Goethe pensa che elaborando a fondo questo spunto, si possa arrivare a fornire una spiegazio­ne soddisfacente della formazione dei colori in genere: "Da un lato la luce, il chiaro, dall'altro la tenebra, lo scuro; poniamo tra le due la torbidezza e da questi opposti, con l'aiuto delle media­zioni di cui abbiamo detto e ancora in un'opposizione si svilup­pano i 142 colori..." [42]. Una spiegazione autentica, beninteso, soltanto nelle inten­ zioni. Per il resto, la nozione di torbidezza, attinta dall'espe­rienza quotidiana resta tanto generica nel tentativo di operare una ge­ neralizzazione da rendere a malapena possibile una discussione. Non deve peraltro sfuggire che una simile teoria, presenta­ta in buona sostanza come una ipotesi esplicativa, può essere intesa invece come una sorta di variazione immaginativa sul tema del colore come valore d'ombra. La generalizzazione del concetto della torbidezza introduce nel contesto di queste considerazio­ni il momento della materialità. Che la trasparenza perfetta rappre­ senti solo un limite ideale significa, in particolare, che nessun mezzo materiale può essere perfettamente traspa­ren­te. La torbi­ dezza diventa allora un indice essenziale della materia stessa. Ciò che genera il colore è l'impatto della visione con la materialità. Senza questa mediazione della materia, il mondo ci apparirebbe solo in bianco e in nero - dunque interamente privo della vita stessa, che il colore esprime proprio in quanto l'ombra è la sua essenza. 19. Là dove il colore comincia con l'apparire Goethe non solo non insiste più del necessario sulla teoria dei mezzi torbidi presentandola spesso solo come uno spunto grez­ zo che attende un'elaborazione effettiva, ma soprattutto ripren­ de lo stesso problema da un'angolatura interamente diversa. La sua soluzione, o meglio il suo senso deve essere ricercato in tutt'al­tra direzione che in quella della teoria dei mezzi torbidi, e precisamente nell'ambito delle considerazioni relative ai colori "prismatici" che si presentano all'interno della seconda sezione [43]. Qui si trova anzi il centro effettivo dell'intera opera, nella quale i diversi motivi che la ispirano trovano modo di entrare in una singolare confluenza l'uno con l'altro. Come abbiamo già osservato, la seconda sezione è dedi­cata 143 nel suo complesso ai colori fisici, cioè ai colori che, pur non es­ sendo inerenti alla cosa, hanno bisogno della cosa per sussi­stere. Per comprenderne la nozione converrà ricollegarsi agli esempi. All'interno dei colori fisici, e come specie di essi, ab­ biamo anzitutto le apparizioni cromatiche dovute a feno­meni di riflessione della luce su superfici lucide (colori catot­trici), che sono indubbiamente le più fugaci e che si possono cogliere solo assumendo una determinata angolatura della visione, per giun­ gere attraverso numerosi casi intermedi sino a quei colori che sorgono per via di processi di ossidazione o di arroventamen­ to e che tendono a fissarsi stabilmente sulla cosa (caso estremo dei colori epottici, nel quale stiamo ormai debordando sul terre­ no dei colori chimici). Tra i casi inter­medi vi sono quelle mani­ festazioni cromatiche che si possono talora scorgere ai margini e agli spigoli delle cose in particolari circostanze di illuminazio­ ne (colori parottici), così come i colori che possiamo osservare guardando attraverso prismi di vetro (colori diottrici). Anche un semplice ragguaglio intorno a una simile classi­ fi­cazione mostra in che direzione è orientata l'attenzione osser­ vativa di Goethe, che cosa propriamente egli osserva e soprat­ tutto che cosa cerca in questo osservare. Tutta la teoria deve es­ sere costruita indipendentemente da considerazioni attinenti alle materie cromatiche e in particolare alla produzione artifi­ciale dei colori attraverso le mescolanze tra i pigmenti. Per questo d'altra parte abbiamo preso le mosse dai colori fisiolo­gici: proprio in quanto essi sono produzioni spontanee dell'oc­chio, possiamo sperare di cogliere in essi qualcosa che riguarda la natura stes­ sa del colore. Ora abbiamo abbandonato questo terreno, non cerchiamo più di guardare dentro i nostri occhi, ma il nostro sguardo si volge intorno non già per arrestarsi e acquetarsi sulla superficie stabile e variopinta delle cose, ma per cogliere il colore nelle sue apparizioni minime e momen­tanee. In realtà cerchiamo il colore dove esso non c'è affatto, dove non c'è ancora. Fissiamo, per esempio, una corda di acciaio ap­ 144 pesa davanti a una finestra illuminata [44] in attesa di intravedere scintille di colore sprizzare da essa nel punto in cui viene colpita da un raggio di sole. Oppure giriamo e rigiriamo tra le nostre mani, torcendo la testa alla ricerca dell'inclinazio­ne adat­ta, un piatto di rame variamente arabescato per scopri­re che "sotto una certa angolazione appaiono nell'occhio colori can­gianti, special­ mente dei verdi e dei porpora" [45]; oppure indugiamo a lungo a descrivere i cromatismi che sorgono ai bordi del­le fessure [46], sui vetri appannati [47] o sui fiori di ghiac­cio che si formano sui finestrini della nostra diligenza [48]. E naturalmente non potre­ mo certo trascurare i colori delle bolle di sapone [49] che cerche­ remo anzi di sottoporre a una descri­zio­ne accurata; così come ci potrà accadere di spro­fondarci nella contemplazione della schiu­ ma della cioccolata, nelle cui bolle, a quanto sembra, i colori si possono osservare ancora meglio che nel caso delle bolle di sapone [50]. Qual è dunque il tema vero e proprio dell'osservazione di Goethe? Abbiamo detto prima: qui il colore non c'è affatto, ma comincia a esserci. Ciò che vogliamo afferrare è l'apparire stes­so del colore, il momento in cui il colore, che prima non c'è, si pre­ senta all'improvviso sotto i nostri occhi. Vogliamo sorpren­dere il colore nell'istante della sua nascita. Tutti i casi considerati negli esempi potrebbero essere ca­ ratterizzati come fenomeni di insorgenza cromatica come feno­me­ni cioè in cui il colore si produce spontaneamente, naturalmente, in rapporto ai quali possiamo parlare di origine del colore, senza che una simile espressione comporti un riman­do a un processo fisico causale. Tra essi, debbono certamente occupare una posizione emi­ nen­te le manifestazioni cromatiche che si presentano guar­dando attraverso il prisma. L'insorgere del colore è qui parti­colarmente vistoso, particolarmente eclatante. Secondo la clas­sificazione in­ di­cata, i colori prismatici occupano (come esempi di colori diot­ trici) il terzo posto nell'ordine, per via della loro particolare sta­ 145 bilità, ma l'esposizione di Goethe comincia sen­z'altro da essi, per­ché da essi dobbiamo trarre le indicazioni decisive. 20. Guardando attraverso il prisma E con Goethe dobbiamo accingerci anche noi a guardare attra­ verso il prisma. Dobbiamo farlo veramente, perché solo in que­ sto modo è possibile cogliere lo spirito delle sue minute descri­ zioni ed esserne in qualche modo compartecipi. Guardan­doci attorno, con l'occhio appiccicato al piccolo pezzo di vetro, non possiamo trattenere la meraviglia e la sorpresa di fronte a un mondo improvvisamente arricchito di vividi cro­matismi: attra­ verso il prisma, vediamo le cose letteralmente grondanti di colo­ re, di un colore che esse non hanno. E così Goethe si getta avidamente nell'osservazione dello strano mondo cromatico che il prisma ci offre - certamente con la convinzione che una tanto vistosa apparizione del colore non sia semplicemente una circostanza che richiede una spiegazio­ne, ma un fenomeno affatto peculiare: forse esso mette sotto i nostri occhi ciò che è normalmente nascosto, in esso sono forse conte­ nute tutte le risposte alle nostre domande. Ci siamo interrogati sull'essenza del colore come feno­ meno naturale, quindi anche intorno all'origine del colore. In che modo sorge il colore in quanto è spontaneamente prodotto dalla natura stessa? E non è forse vero che questa origine ci vie­ ne mostrata ora nell'osservazione dei fenomeni prismatici? Qui 146 il colore ci appare nella ricchezza delle sue possibili sfuma­ture, e inoltre lo possiamo rimirare in tutta tranquillità dal mo­men­to che esso non è più soltanto una comparsa fugace e istan­tanea, ma possiamo ripristinare in ogni momento le condizioni per il suo sorgere. Cosicché dapprima gettiamo uno sguardo pieno dì meravi­ glia dentro il prisma, restando affascinati da quei sorprendenti cromatismi: ma poi ci accingiamo a un osservazione accurata e sistematica. Allora ci rendiamo ben presto conto che la produ­ zione del colore non è arbitraria e accidentale e nemmeno segue da cause oscure, ma si attiene invece a regole semplici e ricche di significato che si possono cogliere sulla superficie del feno­ meno stesso. Perciò possiamo pensare di trovarci di fronte a un fenomeno che lascia finalmente trasparire l'essenza stessa delle manifestazioni cromatiche, a un fenomeno che, nel suo stesso ma­nifestarsi, contiene la propria spiegazione. Proprio a questo punto Goethe impiega uno dei termini più caratteristici della sua speculazione filosofica, il termine di fenomeno originario. Si parla di fenomeni originari nel caso di quei fenomeni nei quali "non vi è nulla che li oltrepassi e permettono anzi, dopo es­ sere saliti fino a essi, di scendere sino al caso più comune dell'e­ sperienza quotidiana" [51]. In questo tema, come è facile comprendere, confluiscono tutte le istanze di carattere generale che erano alla base del pro­ blema goethiano. In primo luogo, naturalmente, quella tensione verso il concreto, verso il momento qualitativo dell'e­sperienza da cui abbiamo fin dall'inizio fatto dipendere la componente fe­ nomenologica. Ma la nozione di fenomeno origi­nario precisa e determina il modo in cui questa componente e interamente risucchiata entro una matrice "naturalistica". In questa fenomenologia non si tratta semplicemente di os­ servare e di descrivere ciò che è stato osservato, eventual­mente fissando con chiarezza la reciproca autonomia del piano descrit­ 147 tivo e del piano esplicativo, ma di andare anzitutto alla ricerca di quei fenomeni inderivabili che aprono per ciò stesso la via ad una comprensione autentica. L'accento sulla irriducibilità del fenomeno contiene così anche la riconferma dell'atteggiamento polemico nei confronti della riduzione fisicalistica - il tema così spesso ricorrente nel testo dello scambio tra ciò che è derivato e ciò che è originario - così come il dubbio nei confronti della trasposizione linguisti­ca dei fenomeni naturali che debbono invece essere anzitutto colti nella loro immediatezza e pienezza intuitiva: "Qui in luogo delle manifestazioni non vengono posti segni arbitrari, lettere e altre cose a piacimento. Qui non vengono offerti modi di dire che si possono ripetere cento volte senza veramente che si dia qualco­ sa da pensare a qualcuno. E invece questione di manifestazioni che si debbono avere presenti dinanzi agli occhi del corpo e del­ lo spirito per poter mostrare con chiarezza la loro nascita e la loro derivazione dinanzi a sé e agli altri" [52]. 21. Il colore appare là dove il bianco si incontra con il nero 148 Ma che cosa si vede mai, guardando dentro il prisma, che ha colpito a tal punto la fantasia di Goethe? Intanto, non appena ci accingiamo ad un'osservazione anali­tica tendente a cogliere precise regole fenomenologiche per la comparsa dei colori prismatici, dobbiamo subito prendere nota del fatto che essi sorgono lungo i contorni degli oggetti e delle forme. E le ragioni per le quali un simile dettaglio può apparire estre­ mamente significativo diventano subito chiare: considerato come pura apparenza percettiva, il contorno non è altro che uno scarto chiaroscurale, vi è contorno solo se vi è contrasto. Cosicché ci deve apparire subito significativo il fatto che, laddove la produzione stessa del colore si esibisce originaria­ mente sotto i nostri occhi, essa riveli una sorta di legame intrin­ seco con l'opposizione tra il chiaro e lo scuro, tra il bianco e il nero. Il colore sorge nel punto in cui il bianco si incontra con il nero. Ecco che allora l'essere del colore tra l'uno e l'altro assu­me un senso interamente nuovo. A questa prima regola, ne seguono altre che riguardano l'ordine e la disposizione dei colori tra loro e nel rapporto con il bianco e il nero e che ci consentono di entrare ancor più nel dettaglio. Una volta che abbiamo notato che il colore si forma lungo il contorno degli oggetti e che il fenomeno è tanto più vivido e intenso quanto più aumenta il contrasto, ci disponiamo nelle condizioni più agevoli per l'osservazione servendoci di figure elementari bianche su sfondo nero e nere su sfondo bianco. Osservando, per esempio, un cerchio bianco su sfondo nero i colori assumeranno sul cerchio una disposizione caratte­ ristica che merita di essere descritta nel dettaglio. 149 La zona centrale del cerchio apparirà ancora bianca, mentre sul lato destro, al confine con il nero dello sfondo, ma senza debor­ dare in esso, apparirà una orlatura di colore arancione intenso e nella parte più interna apparirà una zona gialla. La regione gial­ lo-arancione si presenta percettiva­mente come interamente dif­ fusa sulla superficie bianca del cerchio. Consideriamo ora come stanno le cose sul lato opposto quindi sul lato sinistro. Qui avremo verso l'esterno del cer­ chio una zona blu-viola (che chiameremo semplicemente viola) tendenzialmente sconfinante verso lo sfondo nero. A ridosso di essa, verso la zona interna del cer­chio, vi è invece una zona azzurra. L'impressione percettiva della regione azzurro-vio­la è dunque che essa si diffonda a partire dal cerchio verso lo sfondo nero. 150 Il cerchio ci appare articolato in due regioni cro­matiche ben differenziate, la regione giallo-arancione e la regione az­zurroviola che si presentano come regioni localmen­te oppo­ste. Na­ turalmente il fatto che l'una si presenti sul lato destro e l'altra sul lato sinistro dipende unicamente dalla disposizione del pri­ sma: ma ruotando il prisma e modificandone l'orien­ta­mento si avrà una modificazione coerente e corri­spondente delle regioni. Questa opposizione locale è in certo senso rafforzata dall'oppo­ sizione rispetto al bianco ed al nero dunque rispetto alla figura e allo sfondo. La regione giallo-arancione appartiene interamente alla figura bianca; la regione azzurro-viola allo sfondo nero. Invertendo il rapporto tra figura e sfondo - cioè assumendo per esempio un cerchio nero su sfondo bianco si ha una inver­ sione simmetrica e corrispon­dente di questi rapporti: la regio­ ne giallo-arancione ci apparirà interamente diffusa sullo sfondo chiaro (verso il bianco), con la zona gialla nella parte più esterna, mentre la regione azzurro-viola si presenterà diffusa sulla su­ perficie del cerchio nero (verso il nero), e precisamente avremo l'azzurro al confine con lo sfondo bianco e il viola nella parte più interna. 151 Accingiamoci ora a osservare una striscia rettangolare bianca su fondo nero, non troppo larga. La zona bianca centrale tenderà a contrarsi nell'approssimarsi della zona gialla e di quella azzur­ ra, fino alla "sovrapposizione" dell'una con l'altra. In luogo del bianco abbiamo ora il verde. Naturalmente in un cerchio bianco su fondo nero, se il giallo si sovrappone all'azzurro, si avrà una zona centrale gialla e verde. 152 Inversamente, nel caso di una striscia rettangolare nera su sfon­ do bian­co, la compressione della zona nera centrale porterà all'ap­­­ pros­simarsi della zona arancione con quella viola, fino alla "so­ vrapposizione" dell'una con l'altra. E in luogo del nero avremo il rosso. Quest'ultimo risultato non sarebbe certo preve­dibile a partire da considerazioni riguardanti i risultati di mescolanze di materie cromatiche, ma qui appunto non stiamo affatto occupandoci di esse [53]. 153 Goethe propone illustrativamente la seguente figura otta­ gonale bianco-nera per metterla alla prova dell'osservazione at­ traverso il prisma: Essa assume allora questo aspetto: Si considerino in particolare il cerchio bianco su sfondo nero e il cerchio nero su sfondo bianco sulla sinistra della figura: 154 La zona azzurro-blu nel primo caso si diffonde sullo sfondo nero, mentre nel secondo a diffondersi verso lo sfondo bianco è la zona giallo-arancione. Naturalmente si generano cromatismi anche ai bordi dello sfondo e nello stesso senso: la zona azzur­ ro-viola invade lo sfondo nero e mentre la zona giallo-arancio­ ne lo sfondo bianco della figura adiacente. Ciò accade anche nel caso della striscia nera e della striscia bianca nella parte superiore della figura: dove dal bordo dello sfondo nero si diffonde sullo sfondo bian­ co adiacente una zona giallo-arancione, ed inoltre si crea dalla "sovrapposizione" tra l'arancione e il blu-viola, una tonalità ros­ sa (magenta). 155 Il sistema cromatico si sta così nuovamente dipanando sot­ to i nostri occhi, non più come una costruzione che rimanda a procedure di idealizzazione e nemmeno come derivante dai ri­ sultati delle composizioni effettuate con i colori intesi come ma­ terie cromatiche, ma come un fenomeno direttamente intui­tivo, nel quale assumono evidenza quelle connessioni, quei rapporti e quelle tensioni che caratterizzano l'interpretazione goe­thiana del sistema dei colori. Abbiamo già osservato, anzitutto, che il tema dell'origine dei colori dal bianco e dal nero assume un senso interamente nuo­vo. Ma naturalmente ora possiamo anche constatare in che senso si possa parlare di un'affinità dell'azzurro con il nero e del giallo con il bianco e di una polarità cromatica dipendente dalla polarità chiaroscurale fondamentale. Si ha qui di mira la regola fenomenologica che governa l'insorgenza delle regioni croma­ tiche corrispondenti ed è proprio questa regola che conferisce senso alla tematica goethiana nel suo insieme, che fornisce a es­ sa, in certo modo, la sua giustificazione ultima. E natural­mente quella regola assume una portata tanto ampia, di fronte a quelle motivazioni implicite a cui abbiamo accenna­to, proprio per via dell'istanza naturalistica della concezione dei colori prismatici come "fenomeno originario". Gli estremi a cui Goethe intende spingere una simile istanza sono d'altronde anche troppo chiaramente visibili nella sezione terza dedicata ai colori chimici. In essa raggiungiamo finalmente i colori che di volta in volta sono stati chiamati (una terminolo­ gia rammentata da Goethe) materiales, proprii, cor­porei, veri, perma­ nentes, flexi [54]: i colori, dunque, come colori che possono essere apposti stabilmente alla cosa ovvero che sono inerenti alla cosa in forza della sua composizione fisico-chimi­ca. Giunti a questo punto ci rendiamo conto, con nostra mag­giore o minore sorpre­ sa, che Goethe intende ritrovare anche su questo piano quelle regole che erano state messe in evidenza anzitutto in rapporto ai colori fisiologici e ai colori fisici. 156 Così egli comincia col dare una grande importanza alla di­ stinzione tra acidi e alcali come una distinzione che può essere posta in stretta corrispondenza con l'opposizione tra il giallo e l'azzurro [55]: e dato un simile inizio non è difficile prevedere che cosa possa seguire. In generale i processi di trasformazio­ ne chimica e gli effetti di mutazione cromatica che spesso ne conseguono saranno considerati come di per se stessi altamente significativi nel quadro della tematica precedentemente espo­ sta. Per esempio, Goethe richiama l'attenzione sul fatto che una determinata sostanza che, disciolta nell'acqua, appare di colore verde assume poco dopo una colorazione rossa [56] quasi che si potesse scorgere in ciò niente altro che un parallelismo sul piano chimico dei fenomeni di inversione messi in rilievo in rappor­ to ai colori fisiologici. Oppure può trovare significativo che un determinato materiale nero possa assumere, in seguito a trasfor­ mazione chimica una colorazione azzurra [57]; o addirittura che la carta più candida, con il passare del tempo, assuma una colo­ ra­zione giallastra [58]. Il discorso avviato in questo senso nel campo dei minera­ li, si amplia e si estende ai vegetali e agli animali, dagli animali inferiori sino all'uomo. E il colore delle cose tende a diventare una sorta di cifra che ha una sua precisa ricchezza di significa­ to rispetto a una presupposta gerarchia degli esseri della natura. Attraverso il colore si prospetta l'ordine stesso dell'uni­verso e il suo procedere dalla natura inanimata sino alle soglie della vita spirituale. Annotazione Le immagini presentate in questo paragrafo così come l'immagine della fine­ stra all'inizio di questa sezione sono state da me ottenute ponendo un prisma di fronte all'obbiettivo di una macchina fotografica e fotografando l'imma­gine fantomatica che si mostra. 22. Il simbolismo del colore e il suo fondamento nell'ordina­ mento sistematico 157 Tuttavia, nonostante l'indubbia invadenza dei temi di una filoso­ fia della natura caratterizzata da una ipertrofica richiesta di sen­ so, io penso che si possa ribadire che l'impresa di Goethe si presenta, nel suo nucleo essenziale, come una sorta di complessa interpretazione del sistema cromatico. In questo senso è stata sottoli­neata la centralità delle osservazioni goethiane intorno ai colori prismatici rispetto alla tematica complessiva dell'opera e il carattere di giustificazione ultima che deve essere attribuito ai loro risultati. Ciò non significa naturalmente che sia in qualche modo sostenibile l'idea che la tematica goethiana abbia qualco­ sa di simile a un fondamento empirico. Di fatto il modo in cui Goethe guarda attraverso il prisma è impregnato di una tensione immaginativa che è diretta a cogliere anzitutto la dialettica del colore come una dialettica dell'espressione. Sul sistema cromatico viene proiettata la polarità giallo-az­ zurro - il sistema è articolato in un lato del Più e in un lato del Meno. E non si tratta naturalmente di una pura contrap­posi­zione formale, i cui termini possano essere invertiti a piaci­men­to: dal lato del Più dovrà essere posto il giallo, e dal lato del Meno, l'az­ zurro. Questo perché il giallo è immaginati­vamente connesso a momenti di attività e di dinamismo, esso richiama la luce, l'ener­ gia, il calore, evoca idee di prossimità e di vicinanza. L'azzurro invece ci attrae: ma questa attrazione è qualcosa di diverso dalla spinta che ci dà il giallo, non è una forza esercitata attivamente su di noi, ma qualcosa di simile a un invito ad abbandonarci, ad affondare nell'azzurro, cosicché questo colore si associa a im­ magini di privazione, di estenua­zione, di offu­scamento e di lon­ tananza. Ma queste due regioni possono essere approssimate l'una all'altra, il giallo e l'azzurro confluiscono nel verde, così come l'arancione e il viola nel rosso. A questo proposito è certamente della massima impor­tanza non solo prescindere dalle mescolanze concrete, ma anche mette­ re da parte coerentemente l'intera questione della com­posizione, 158 badando unicamente all'aspetto che assumono i colo­ri nel loro ordine originario esibito dalle immagini prisma­tiche. Il verde ci appare del resto "come una unità a proposito della quale non pensiamo più alla composizione" [59], mentre nell'a­rancione "degli esperimenti prismatici, che direttamente origina dal giallo, ben poco si pensa a quest'ultimo" [60]. Perciò non ha particolare interesse rilevare che mescolando il giallo con il rosso si possa ottenere l'arancione, quanto piuttosto il fatto che que­sto colore ci possa apparire come un colore che "sorge" dal giallo, come un giallo che si oscura e si arroventa. E in modo analogo può essere inteso il passaggio dall'azzurro al viola. Cosicché, dalle regioni cromatiche opposte si annuncia il rosso come punto culminante di un simile processo di intensifica­zione. Inversamente, se guar­ diamo alla formazione del verde, in esso la tensione delle regioni opposte giunge al suo punto di equilibrio e di riposo. Nell'osservazione attraverso il prisma dunque non vedia­mo soltanto ricomporsi il sistema cromatico, ma soprattutto esso si presenta, nel proprio ordine e nella propria disposizione, nel modo stesso del suo apparire e nel modo in cui appaiono in esso i singoli colori e i loro rapporti, come un sistema che ha una propria dinamica interna e che da questa dinamica trae il proprio senso. Tutto ciò mostra quanto sia erroneo e riduttivo isolare l'ultima sezione dell'opera, proponendola alla lettura come se avesse di per se stessa un contenuto autonomo. In essa si tratta dell'"azione sensibi­le e morale del colore", così come suona il ti­ tolo; e si può essere indotti a ritenere che, mentre su tutto il resto pesano le confusioni di un'impostazione metodologica troppo indetermi­nata e di una polemica che poggia su presup­posti falsi, qui almeno si possa riconoscere la presenza di acute annotazioni intorno agli effetti psicologici del colore, che avrebbero un'even­ tuale validità indipendentemente dall'ampio insieme delle con­ siderazioni da cui esse sono precedute. Nulla invece potrebbe essere più fuorviante di un simile 159 modo di lettura, che oltretutto ridurrebbe quelle poche annota­ zioni proprio a ben poco. Fuorviante è anzitutto il parlare di effetti psicologici, benché una simile formulazione del proble­ma sia suggerita dallo stesso titolo della sezione. In realtà qui non ci si propone il compito di descrivere alla buona quali impressioni generino in noi i colori considerati in se stessi, quanto piuttosto di indicare le valenze espressive che possono essere attribuite ai colori sul fondamento dell'ordinamento sistematico esibito spon­­­­ ta­­­neamente dalla natura. Perciò la ben nota distinzione tra simbolo e allegoria pro­po­ sta al termine della sezione, è naturalmente a essa preordi­nata. Nel caso del simbolo come in quello dell'allegoria, si tratta in generale, spiega Goethe, di un rapporto di rinvio significativo ad altro di cui è investito un certo materiale percettivo - per esempio, il colore. Parleremo tuttavia di allegoria - fissando in questo modo una regola per l'impiego del termine - quando ci troviamo di fronte a una connessione tendenzialmente arbitra­ria o esplicitamente dipendente da convenzioni. L'impiego allego­ rico "contiene una quota maggiore di casualità e di arbitrarietà, direi perfino qualcosa di convenzionale, in quanto prima di re­ alizzarne il significato è necessario che ci venga offerto il senso del segno come nel caso del verde attribuito alla spe­ranza" [61]. Mentre si parlerà di simbolo o di impiego simboli­co, quando in luogo di una simile estrinsecità del rapporto tra rappresentante e rappresentato, il significato ci appaia come adeguato al materiale che lo esprime, e pertanto direttamente leggibile in esso. Naturalmente non sarebbe difficile mostrare le difficoltà e anche l'inconsistenza di una simile formulazione. Gli esempi stessi sui quali essa si appoggia mostrano la sua inadeguatez­za: di contro all'esempio della connessione verde-speranza, esempio evidente di connessione allegorica, sta l'esempio della connes­ sione rosso-regalità, in rapporto alla quale Goethe non nutre dubbi che ci si trovi di fronte a un rapporto che è del tutto con­ for­me alla natura delle cose, e dunque ad un esempio altrettanto 160 evidente di connessione simbolica. Tuttavia sviluppare la discussione in questa direzione sa­ rebbe in ultima analisi improduttivo, perché nonostante l'ina­ deguatezza in cui quella distinzione è formulata, lo scopo che essa persegue rimanda a un problema reale e precisamente al rifiuto di un atteggiamento che riduca le associazioni di idee che stanno alla base delle manifestazioni espressive a contin­genze di ordine psicologico e più in generale empirico-cultu­rale. L'esempio della connessione tra il rosso e l'idea della re­ galità come connessione simbolica non deve dunque metterci troppo in imbarazzo, e in particolare non deve farci pensare che saremo ora costretti a decidere se il rosso sia veramente il giusto colore del re, ma piuttosto essere inteso come un esempio che attira la nostra attenzione verso il centro del problema goethia­ no, che ricollega la tematica del simbolismo alle osservazioni dei colori attraverso il prisma. Come già sappiamo qui il rosso si presenta come "il vertice dell'intero fenomeno" [62], e il parlare della maestosità del rosso non fa altro che rafforzare la quali­ ficazione espressiva che esso detiene già in forza di una simile caratterizzazione. In linea generale dunque è lo stesso "interno del cerchio dei colori" che rappresenta il filo conduttore per lo sviluppo del­ la tematica dell'espressione e proprio per questo, nonostan­te la terminologia impiegata da Goethe, che parla spesso di stati d'a­ nimo suscitati dai colori, il problema non è affrontato come un problema propriamente psicologico. Così quando si osserva che i colori che stanno dal lato del Più "dànno luogo a stati d'animo attivi, vivaci, tendenti all'azione" [63] mentre i colori che stanno dal lato del Meno "dispongono a uno stato di inquietudine, di te­ nerezza e di nostalgia"; oppure quando si afferma che l'"azzurro porta sempre con sé qualcosa di scuro" [64] (in un'accezione am­ bigua del termine che non riman­da più ora soltanto all'oscurità vera e propria, ma alle sue possibili valorizzazioni immaginative), non si fa altro che operare la riconversione espressiva di deter­ 161 minazioni acquisite sul piano dell'osser­vazione fenomenologica, anche se è certa­mente giusto dare il massimo rilievo al fatto che quella osser­vazione era già fin dall'inizio sotto la presa di una simile intenzione diretta all'af­ferramento dell'espressione. 23. Il tema dell'armonia e la sua interpretazione in direzione del problema di una grammatica del colore L'insistere su questo carattere dell'esposizione goethiana relati­va al simbolismo ha infine particolare interesse per chia­rire entro quali termini si propone in questo contesto il tema del­l'"ar­monia dei colori". In tutta la storia della teoria dei colori ci si è spesso chiesti quali accostamenti cromatici posso­no essere considerati tra loro "concordanti" e "armonici". E una delle dif­ficoltà prin­ cipali del problema consisteva nell'in­determi­na­tez­za del senso di questi termini, come del resto dello stesso scopo della domanda. Parlando di armonia tra i colori potremmo ap­pun­to pensare ad un effetto psicologico di grade­volezza, a un sentimento di com­ pletezza e di soddisfazio­ne di fronte agli acco­stamenti che chia­ meremmo armonici; e all'opposto a una sgra­devole impressione di urto che sorgereb­be in noi di fronte ai colori che chiamerem­ mo disarmonici. Il riferimento analogico al mondo dei suoni, e in particolare alla distinzione tra consonanza e dissonanza sem­ bra direttamente a portata di mano per dare del problema un'il­ lustrazione appa­rentemente evidente. Ora, il primo compito che Goethe si propone a questo proposito è quello di operare una determinazione di senso della nozione di armonia, cosa che egli ritiene di poter conse­guire ri­col­legandola al concetto di totalità. Armonica è anzitut­to la to­ talità stessa [65]. Ciò comporta un netto indebolimento di un approccio puramente psicologico. Il riferimento a un'im­pres­ sio­ne di gradevolezza potrà essere mantenuto senza ambi­guità, solo dopo che si sia chiarito che il centro del problema è rappre­ sentato dal tema della totalità. 162 In questo modo ci si avvia ad una considerazione della que­ stione che, secondo la linea di tendenza dell'intera tratta­zio­ne del simbolismo del colore, può almeno avanzare la pretesa di una giustificazione interna nei materiali percettivi, una pretesa che riceve ancor più forza dal fatto che il tema della totalità, e naturalmente dell'opposizione che la caratte­rizza, è stato già ela­ borato in vari modi come una legalità interna dell'occhio e dei fatti della visione in genere. Stando a questa impostazione sappiamo già quale sarà la configurazione armonica dei colori per eccellenza: essa sarà rap­ presentata dallo stesso "cerchio cromatico", proprio perché esso presenta l'universo cromatico nella sua totalità. Il cerchio cro­ matico produce una "sensazione di gradevolezza" in forza del suo contenuto, di fronte a esso ci sentiamo pervasi dall'"idea di questa armonia, avvertendone la presenza nello spirito" [66]. Dalla posizione del cerchio cromatico come modello di configurazione armonica, consegue la possibilità di proporre un secondo e un terzo modello particolarmente notevoli. Si tratterà naturalmente anzitutto dell'accostamento dei tre colori "fonda­ mentali", secondo la vecchia terminologia. Il giallo, il rosso e l'azzurro ripropongono infatti il sistema nella sua totalità. Ma ciò vale anche per le coppie dei colori che si trovano nel cerchio in un rapporto di opposizione diametrale, e per lo stesso motivo. Perciò considerando le coppie cromatiche, solo le coppie dei colori diametrali meriteranno di essere chiamate armoniche. Goethe chiama invece caratteristiche quelle composizioni di colori che risultano da connessioni mediante corde, con salto di un colore intermedio, e prive di carattere le composizioni di colori prossimi nel cerchio cromatico cioè che risultano da connessioni mediante corde senza salto di colore intermedio. In tutto ciò va notata soprattutto la chiarezza con la quale agisce l'intenzione di ricavare le connotazioni espressive dal­l'ambito delle conside­ razioni sistematiche; così come l'inten­zione di far valere anco­ ra una volta, insieme al tema della totalità, quello del contrasto 163 e dell'opposizione. Le composizio­ni dette "prive di carattere" sono infatti quelle in cui vi è minore contrasto cro­matico, men­ tre il contrasto è massimo nel caso delle compo­sizioni "armoni­ che" dal momento che il rap­porto che sussiste qui tra i colori è assimilabile, secondo Goethe, all'oppo­sizione bianco-nero. Ri­ sulta così confermata, in questi sviluppi conclusivi, la coerenza del quadro di insieme e la prospettiva di lettura del testo che abbiamo proposto. L'aggiun­gere qualche parola di commento proprio sul tema dell'armonia dei colori sembra tuttavia tanto più necessario per il fatto che la sistemazione goe­thiana di que­ sto problema, certamente non nei suoi detta­gli, ma in alcuni dei suoi aspetti essenziali, si ripresenta di continuo immutata sino ai nostri giorni. Per esempio, nella classica opera di Itten, L'arte del colore [67], l'autore nota che molti tendono a ritenere armonici solo gli accostamenti dei colori aventi caratteri simili e che per lo più le parole "armonico-­disarmonico" vengono impiegate come sinonimo di "gradevo­le-sgradevole". Ma questa nozione dell'ar­ monia che Itten qua­lifica come mera­mente soggettiva viene respin­ ta come priva di fondamento. Ad essa si deve contrapporre una nozione oggettiva che viene indi­viduata nel principio: "Due colori sono armonici se la loro combinazione dà un grigio neutro", una relazione che è appunto la relazione di opposizione diametrale, formula­ta nei termini delle mescolanze tra materie cromatiche. Come in Goethe, Itten dà inoltre il massimo risalto alla com­ parsa "fisiologica" del colore "complementare", connettendola al problema dell'armo­nia: "Il principio fondamentale di armonia è desumibile dalla legge fisiologica dei colori complemen­tari" [68]. Eppure, monostante il fatto che la concezione goethiana nella sua sostanza si sia diffusa al punto da diventa­re quasi un luogo comune, sentiamo ancora il bisogno di qualche chiari­ mento. Ciò che ci può apparire oscuro è infatti proprio il tipo di problema che è realmente in discussione sotto il titolo di "ar­ monia dei colori". La stessa formulazione di Itten, che di­stingue anche terminologicamente una nozione soggettiva di armonia 164 da una nozione oggettiva, da un lato rende indubbia­mente più drastica la tendenza, implicita nell'impostazione goe­thiana, a im­ pedire la sua riduzione psicologistica, dall'altro e di conseguenza, mostra la difficoltà dell'impiego dello stesso termine di armo­ nia, la difficoltà cioè di riempirlo di un con­tenuto fenomenologico spe­ cifico. Infatti, la soluzione goethiana di far confluire la nozione di armonia in quella di totalità che sta del resto anche alla base delle formulazioni di Itten, ci appare significativa unicamente in quanto mostra la coerenza dell'im­postazione complessiva, men­ tre considerata in se stessa non sembra dire di più di una vuota tautologia. Le difficoltà del problema e la loro natura risultano del re­ sto evidenti se consideriamo i modelli di configurazioni armo­ niche di cui abbiamo parlato in precedenza. Mentre nel cerchio direttamente esibito la totalità è effetti­vamente presente, già nel caso dei tre colori "fondamentali", essa è solo implicitamente evocata. Ma che cosa si vuole dire quando, in un caso come questo, si parla di "evocazione"? La risposta ci viene appunto dal richiamo alla comparsa fisiologi­ca del colore "complementa­ re". Giustamente Goethe dà una grande importanza, dal proprio punto di vista, a questa com­parsa, ponendola a fondamento del tema dell'armonia: senza di ciò infatti, la parola "evocazione" resterebbe del tutto vuota. Ma il punto è questo: il richiamo fisiologico del colore com­ plementare non è altro che un dato di fatto empirico che può avere la massima rilevanza nel campo della psicologia del colo­re, ma non per questo esso deve avere la stessa rilevanza nella sua fenomenologia. In realtà, qui ragionamenti e dati di fatto si intrec­ ciano insieme, restando al di qua o al di là del dato fenomenolo­ gico. Se per esempio affermo che, dati i tre colori fondamentali o una coppia di colori diametrali è evocata la tota­lità, può essere che il contenuto di questa evocazione si risolva in niente altro che in un ragionamento: poiché so che a par­tire di qui il cerchio intero può essere costruito, allora penso che sia lecito parlare di 165 evocazione della totalità. Se poi faccio riferi­men­to alla comparsa fisiologica dei colori diametrali, ag­giun­go al ragionamento un dato di fatto di rinforzo. Ma il fatto è che non riusciamo a repe­ rire per tutto ciò un effettivo riscontro sul piano fenomenologico. In realtà, il problema che sta alla base della tematica del­ l'armonia dei colori non è affatto quello a cui il termine stes­ so sembra oscuramente alludere, quindi in particolare quello di decidere qualcosa intorno alle concordanze e alle discordanze cromatiche in un' accezione qualunque dei termi­ni, quanto piut­­ tosto quello di conferire un'articolazione al problema, essen­zial­ mente diverso, di una vera e propria gram­matica del colore. Il primo passo in questa direzione consiste nel mostrare la possi­bilità di realizzare una tipologia degli accosta­menti cromatici, di esibi­ re le forme possibili delle sequenze croma­tiche. Impostando il problema in questo modo appare subito chiaro che la que­stione dell'armonia, con tutte le sue difficoltà può essere sem­plice­mente messa da parte e che il tema può essere trattato facendo conver­ gere considerazioni struttu­rali con considerazioni pro­­priamente fenomenologiche. Ciò stabilisce naturalmente per noi anzitutto un punto di vista per la lettura del problema di Goethe: da un lato va messo in rilievo il ripresentarsi anche su questo terreno dei temi di fon­ do su cui è costruita la teoria; dall'altro l'interesse che riveste il fatto stesso che ci si orienti verso un tentativo di differen­z iazione tipologica degli accostamenti cromatici, adombrando così il problema autentico di una grammatica del colore. 166 167 III. Suoni 169 24. La relazione tra il suono e la cosa: causalità e provenienza Passiamo ora al campo dei suoni. Nessuno avrà allora incertezze nell'in­dicare la direzione nella quale va ricercata la relazione del suono alla cosa. A differenza del colore che la percezione stessa attribuisce alla cosa come sua proprietà oggettiva, il suono non inerisce alla cosa nello stesso modo, per così dire, staticamente: ma dinamicamente. Il suono proviene dalla cosa, ha origine in essa. Proprio per questo, non appena la nostra attenzione, per qualche motivo, viene attratta da uno dei tanti suoni che stanno sempre sullo sfondo della nostra vita di ogni giorno, esso ci appare senz'al­tro e in primo luogo come un segnale, come un indice della cosa da cui proviene o addirittura come una sorta di immagine di essa. Il suono ci appare tanto prossimo alla cosa, da valere come una sua pura e semplice presenza uditiva. Udiamo il suono e cer­chiamo la cosa. La naturalezza di un simile atteggiamento ci appare tanto più significativa quanto più riusciamo ad avvertirne la singola­ rità. In fin dei conti, i suoni non sono affatto cose, e non sono nemmeno qualità delle cose. E inoltre non è in generale vero che ogni volta che è dato un suono, siano date anche le circostanze della sua produzione e neppure che i suoni abbiamo sempre e necessariamente origine da cose. Si pensi soltanto a ciò che ac­ cade durante un temporale di agosto. E, tuttavia, se siamo orien­ tati verso l'indicazione di condizioni fenomenologiche pri­marie che assolvono una funzione orientativa all'in­terno dei fatti del­ l'esperienza, il rumore del tuono, per esem­pio, dovrebbe appa­ rirci anzitutto sorprendente; mentre il sempli­ce gesto con il quale ora emetto un suono percuotendo con le nocche delle mie dita la superficie di questo tavolo - nonostan­te le particolarità del caso - assume subito il senso di un gesto esemplare. In questo modo mostro che il suono (e non semplicemente questo suono) è connesso con la cosa, e posso mostrare anche 170 che il suo carattere, il tipo di suono che viene emesso dipende dal tipo di azione che ho compiuto, così come dalla specifica con­sistenza materiale della cosa. Il suono sarebbe certamente sta­­to diverso se la superficie percossa fosse stata metallica op­ pure se in luogo di percuotere questa superficie l'avessi sfregata con le unghie. In particolare, l'esemplarità del gesto consiste nel mostrare il realizzarsi del suono, la sua inerenza alla realtà, il suo inserirsi all'interno di una catena di rimandi, di connessioni causali che - lo abbiamo visto a suo tempo - costituisce la nozione della cosa, e dunque della realtà stessa. Ma a questo proposito occorre notare: il parlare di causa­lità coglie solo un aspetto della relazione del suono con la cosa, men­ tre il tipo di questo nesso non è affatto esaustivamente espresso dal richiamo alla nozione di causa. Infatti andrà certa­mente sot­ tolineato che in talune circostanze questo rap­porto può giun­ gere, in quanto rapporto causale, sino al piano delle appa­renze fenomenologiche dirette. Pizzicando corde me­talliche ben tese udiamo un suono, e non in un semplice rapporto di con­tiguità: nella situazione complessiva ci appare una precisa corre­lazione tra le vibrazioni delle corde, visivamente percepite, e il suo­no emesso. Di qui potremmo prendere le mosse per un approccio autenticamente conoscitivo dei processi di produzione del suo­ no. E questo approccio potrà spingersi molto oltre queste prime apparenze sino a giungere a elaborazioni teoriche di am­pio re­ spiro, superando l'effettività percettiva dei dati sonori. Se invece vogliamo attenerci strettamente a questa effet­tivi­ tà, il parlare di provenienza del suono dalla cosa si presenta parti­ colarmente appropriato, proprio perché, pur richiaman­dosi alla produzione di esso e alla sua origine nella cosa, non pone affatto in primo piano il rimando alla causalità come un rimando che qualifica in modo esauriente la situazione. Quando diciamo che il suono proviene dalla cosa non in­ ten­­diamo semplicemente un nesso causale eventualmente per­ 171 ce­pi­to, ma anche sulla via di assumere la forma di un'astra­zione produttiva sul piano conoscitivo: vogliamo dire anzitutto che il suono comincia di qui, dalla cosa, dentro di essa, e poi si fa a­van­ti irraggiandosi tutt'intorno. Pensiamo alle rappresentazioni infantili del suono di una campana: la campana viene circondata da raggi che promanano da essa, da un punto che sta dentro di essa, e che di qui si dif­ fondono nello spazio intorno. Una simile convenzione grafica non fa parola di una con­ nessione causale, ma mostra appunto il farsi avanti del suono dalla cosa. Tuttavia il suono non solo proviene dalla cosa ma, nella sua qualità specifica, porta anche con sé qualcosa della mate­ria da cui proviene. Ed è interessante notare questo, dopo tutta la no­ stra discussione sulla tematica del colore. Mentre allora poteva­ mo cominciare dal rilievo di un saldo riferimento del colore alla cosa, e tuttavia dopo quel primo inizio la tematica poteva essere sviluppata mettendo in secondo piano il momen­to della mate­ rialità, proprio nel caso dei suoni il legame con l'azione, e dunque con i momenti costitutivi della materialità, con la materia stessa, ci appare fin d'ora particolarmente rile­vante. Ogni suono, lo accennavamo poc'an­ zi, ha una sua caratteristica impronta che dipende dal gesto che lo determina così come dalla consistenza materiale della cosa da cui proviene. Il colore aderisce sempli­cemente alla superficie della cosa, mentre il suono comincia dalle sue fibre profonde portando la cosa alla sua espansione espressiva. Ci allontaniamo così sempre più da un'interpretazione della provenienza del suono dalla cosa nella pura e semplice forma di un rapporto causale, mentre tendiamo a ritrovare nel suono del­ la cosa il modello originario del suono soggettivo - la voce umana. Se non comprendi che cosa possa significare il parlare del suo­ no come espansione espressiva della cosa, pensa allora alla tua voce, alla voce degli altri, alla voce umana in generale. Quando la odi, nulla è più distante del pensiero del meccanismo della sua 172 produzione; e nello stesso tempo, la nozione stessa della cosa e delle sue legalità causali si dissolve ed a essa subentra la nozione, interamente diversa, della cor­poreità vivente e soggettivamente vissuta. Tuttavia, se da un lato incliniamo spontaneamente, guidati da una sorta di istinto causale che ha una funzione costitutiva rispetto alla realtà stessa a ricondurre il suono alla cosa, dall'al­ tro il suono si impone percettivamente come una pura datità uditiva, come un'oggettività di nuovo genere che si trova in una netta opposizione alla cosa. Il gesto esemplare che mostra le circostanze della produzione del suono reagisce alla vocazione del suono a prendere le distanze dal mondo, effet­tuando un'in­ tegra­zione di questi singolari eventi che sono i suoni con tutti gli altri eventi del nostro mondo. I suoni sarebbero infatti comparse misteriose e incomprensibili se non ci fosse un qual­che punto a partire dal quale sia possibile porre il problema della loro origine, se non potessimo vincolare questa origine alla cosa stes­sa, alla materia che diventa fre­mente sotto le percosse delle no­stre dita. Eppure, ciò che caratterizza il suono è proprio la sua "im­ materialità", il suo darsi come un'oggettività a sé stante, che ten­ de a sfuggire al mondo, a proporsi fuori di esso o addirittura prima di esso. I racconti delle antiche mitologie nei quali si espri­ me in varie forme l'idea del divenire del mondo dal suono, dal canto di un dio che è il suo stesso canto [69] - rappresen­tano certamente straordinarie elaborazioni dell'imma­ginazione che si innestano sulla possibilità di intendere il suono come ciò che non ha origi­ ne e che perciò può assumere il significato di origine dell'origine. Inversamente, si potrebbe affermare che il suono può esse­ re veramente udito solo in una sorta di "soppressione del mon­ do", di "messa tra parentesi" dei legami con la cosa in modo tale che esso ci si presenti nella sua pura oggettività uditiva [70]. Molti pensano del resto che sia quasi obbligatorio ascol­ tare la musica ad occhi chiusi. E allora si potrebbe com­men­tare: in questo modo si manifesta concretamente e simbo­licamente l'in­ tenzione di un ascolto che cerca di porsi alla presenza del flusso 173 sonoro stesso, e che dunque deve anzitutto porre fuori campo ciò che non appartiene al suono come tale e che ricon­duce inve­ ce soltanto alla sua provenienza dalla cosa. Ma qui occorre prestare particolare attenzione a non con­ fondere due ordini interamente differenti di considerazioni. Un conto è mettere in evidenza il manifestarsi del suono come og­ get­tività autonoma, ed eventualmente come oggettività in se stessa espressiva (e di ciò fa parte, in primo luogo, il prescinde­re dalla natura di segnale del suono); e un altro è il ritenere che nelle determinazioni fenomenologiche del suono, e in un certo modo sul prolungamento di esse, siano già implicite decisioni sulla na­ tura intrinseca dei fatti musicali in genere. Ecco che cosa soleva dire quel personaggio del Wilhelm Meister che "aveva la bizzarria di non vedere i cantanti", e che perciò aveva apprestato una sala da concerto provvista di op­ portuni tendaggi per celare cantanti e strumentisti alla vista de­ gli spettatori: "Il teatro ci vizia troppo. In esso, la musica serve quasi soltanto per l'occhio: essa accompagna i movimen­ti, e non i sentimenti. Negli oratori e nei concerti ci disturba sempre la persona del musicante. La vera musica è solo per l'orecchio. Una bella voce è ciò che di più universale e di più astratto possa pen­ sarsi. E se l'individuo da cui essa emana ci compare dinanzi agli occhi nella sua concretezza, distrugge il puro effetto di quella vaga generalità. Io amo vedere colui con il quale debbo parlare, poiché è un dato uomo, la cui figura e il cui carattere rendono interessante o meno il suo discorso. Al contrario, chi canta deve restarmi invisibile". Questo stesso personaggio "anche nella mu­ sica strumentale voleva che fosse nascosta il più possibile l'or­ chestra; poiché si viene distratti e confusi dagli sforzi meccanici e dai necessari e sempre curiosi gesti dei suonatori. Quindi, in generale, ascoltava la musica a occhi chiusi..." [71]. Un simile personaggio potrebbe certamente essere con­vin­ to che questo atteggiamento si imponga a partire dall'es­senza della musica, e prima ancora dall'essenza stessa del suono. Un'im­ 174 magine della musica sembra infatti profilarsi dalla stes­sa essenza immateriale del suono - un'immagine nella quale l'accento cade nella sua prossimità alle dimensioni più profon­de della vita spi­ rituale. Perciò la voce deve restare senza un corpo; mentre del gesto espressivo degli strumentisti resta soltanto il goffo affanno del movimento tendente alla produzione mec­canica del suono. 25. Suoni più vicini alla cosa e suoni da essa più lontani Ma che cosa intendiamo propriamente dire, quando par­liamo dell'immaterialità del suono contrassegnando in questo modo la sua opposizione alla cosa? In realtà, una simile caratterizzazione può valere solo in via del tutto generale, quindi come una deter­ minazione generica dei suoni considerati nella loro ogget­tività autonoma. Ma la problematica della materialità e dell'im­mate­ rialità è destinata a ripresentarsi in una nuova forma, non ap­ pena procediamo in direzione delle differenze specifiche che con­traddistinguono i suoni considerati come datità pura­mente uditive. Qui pensiamo anzitutto a ciò che in precedenza abbiamo chiamato l'impronta del suono, riferendola alla provenienza del suo­ no dalla cosa. Ma anche se prescindiamo interamente da que­sta provenienza, se consideriamo la pura apprensione del suo­no po­ nendo fuori campo questo riferimento fattuale, il tema della ma­ terialità e dell'immaterialità si ripresenta in una trasvalu­ta­zione immaginativa all'interno delle descrizioni che cer­cano di fissare i caratteri dei suoni e le loro tipicità qualitative. È un fatto per noi estremamente interessante che proprio in rapporto a queste oggettività genericamente immateriali che sono i suoni ci si possa accingere a una descrizione che si avvale in modo efficace di aggettivazioni che rimandano agli attribu­ ti della materialità specifica della cosa. Noi possiamo parlare di suoni aspri, massicci, pesanti, opachi; e naturalmente all'op­posto di suoni vellutati, levigati, sottili, trasparenti, rare­fatti. 175 Queste descrizioni poggiano certamente su sintesi dell'im­ maginazione, ma possono anche nello stesso tempo essere con­ siderate in qualche modo autentiche descrizioni. E a questa cir­ costanza noi tendiamo a dare il massimo rilievo. In base a essa potremmo parlare di suoni più vicini alla cosa e di suoni da essa più lontani, dove la vicinanza e la lontananza non hanno più alcun significato reale. Perciò tenderemmo anche a prendere abbastanza sul serio la distinzione, propria degli impieghi correnti del linguaggio, tra suoni e rumori. Esiste infatti almeno un'inclinazione del linguag­ gio cor­ren­­te a impiegare questi due termini in contesti differenti: anche se proprio l'illustrazione comune di questa differenza può essere citata per mostrare che essa non solo è largamente equi­ voca, ma anche particolarmente dannosa quando si pre­tenda di farla valere acriticamente sul piano della rifles­sione musicale. Alla domanda sulla differenza dei contesti si rispon­derà, di norma, appellandosi alla gradevolezza del "suo­no" e alla sgradevolezza del "rumore", quando non ci si richia­merà senz'altro ai "suoni" emessi dagli strumenti musicali. Non è certo difficile mostrare che una simile risposta non ha alcuna effettiva consistenza teorica. Il rimando alla grade­ volezza e alla sgradevolezza abbandona infatti quella distinzio­ne alle relatività delle impressioni psicologiche; e il riferimento agli impieghi musicali approfondisce queste relatività non appena si attira l'attenzione sulla varietà delle dimensioni culturali nelle quali deve essere deciso quali suoni debbano entrare nell'uni­ ver­so dei fatti musicali. Per questo chi si accin­ge a spendere una parola di difesa nei confronti di quella distinzione si espone cer­ tamente al rischio di essere accusato di parlare a difesa di pregiu­ dizi dannosi e da tempo superati. Consideriamo tuttavia il modo in cui, nel contesto del no­ stro problema, la distinzione tra suoni e rumori può essere ri­ considerata come un indizio significativo di un'autentica diffe­ renza sul piano dei contenuti percettivi. 176 In effetti potremmo dire che rumori e suoni si distri­bui­scono sui due poli dell'opposizione tra il materiale e l'imm­a­teriale, che gli uni sono caratterizzati dalla prossimità alla cosa, gli altri dalla lontananza da essa. E da una simile affermazione sono escluse tutte quelle giustificazioni relative alla grade­volez­za e alla sgrade­ volezza, o più in generale agli impieghi musicali, contro le quali possono essere sollevate obiezioni che potremmo fare senz'altro nostre. 26. I nomi dei suoni e i suoni senza nome Lo stesso problema può anche essere sviluppato in un'al­tra di­ rezione. Infatti, come esempi di "suoni" in contrapposi­zione a "ru­mori", potremmo proporre anche quei suoni che chiamia­ mo note, richiamando l'attenzione sul fatto che abbia­mo a che fare qui con oggettività sonore nel senso più stretto. Anche in questo caso resta escluso qualunque rimando al piano delle impressioni e delle differenze psicologiche, così come a quello degli impie­ ghi musicali. E nemmeno appare rilevante l'impronta del suono, dal momento che quanto qui importa è che il suono sì mantenga identico al variare di essa. Nel proporre le note come esempi di suoni, mettiamo dun­ que in evidenza, all'interno dell'infinita varietà dei fatti so­no­ri, la presenza di suoni che ci appaiono come entità puntuali e semplici, come singolarità ben definite. Perciò i suoni-note possono essere chiamati con nomi propri, mentre agli altri suoni spet­ta­no soltanto, nel discorso corrente, designazioni tipiche nel­le quali spesso con il fatto uditivo è coimplicata, con una carat­te­ristica ambivalenza, la provenienza del suono o l'azione con­­creta che lo produce. I suoni-oggetti in senso pregnante hanno una ferma indivi­ dualità. Ed esprimendoci in questo modo evochiamo il nostro vecchio esempio del blocco di granito, e proprio nel punto in cui eravamo interessati a introdurre una nozione di materia diver­ samente orientata: se consideriamo l'individualità della cosa 177 come dipendente dalla sua forma e se questa può essere intesa come una rigida impalcatura, si impone allora una nozione di materia come pienezza fluida e priva di contorni. In un nuovo senso, tutto ciò fornisce un suggerimento an­ che in rapporto al nostro tema attuale. I suoni-oggetti appar­ten­gono al lato della forma. Essi non sono blocchi di granito, ma almeno stelle fisse attraverso le quali si profilano costel­lazio­ni sonore. In quan­ to possono fungere come nodi di articolazioni e strutturazioni possibili, i suoni-oggetti si contrap­pongono a quelle formazioni sonore che appartengono invece al lato della materia nella nostra ultima accezione: agli impasti sonori, alle fusioni instabili e i­nart­ icolate del suono, al suono magmatico e melmoso. 27. Tematica temporale Le considerazioni intorno alla temporalità, che hanno sem­ pre avuto un ruolo particolarmente importante nelle tema­tiche di filosofia della musica, debbono probabilmente prende­re il loro avvio da chiarimenti elementari intorno al senso secondo cui si parla dell'essenza temporale dei suoni. In primo luogo, è certamente in questione qui, ancora una volta, la contrapposizione alla cosa, che sembra poter trovare nella temporalità del suono la sua determinazione riassuntiva. L'og­gettività del suono si specifica nel suo carattere essenzial­ mente temporale, differenziandosi e contrapponendosi alle cose materiali, che hanno l'estensione spaziale come condizione co­ stitutiva. Tuttavia basterà rammentare le nostre prime indicazioni in­ torno al rapporto tra il suono e la cosa per notare come vi sia una tematica spaziale specifica che fa integralmente parte di una fenomenologia del suono. L'immagine dell'irraggiamento del suo­no dalla cosa si richiama al diffondersi del suono nella pro­ fon­­dità dello spazio. Ed è appena il caso di notare che i suoni possono essere intesi, nel variare dei loro momenti, per esem­ 178 pio, nelle differenze di intensità, come segnali spaziali che contras­ segnano rapporti di prossimità e di distanza. Questo rapporto inoltre non si arresta sul terreno della posizione di una spazialità autentica, ma può essere trasposto sul piano espressivo-imma­ ginativo, sul piano di una spazialità simbolica. Già per questo l'e­ sclusione dell'interesse del problema della spazialità in rap­porto alle questioni attinenti all'espressione musicale sarebbe soltanto un indizio di concezioni pregiudiziali. Eppure ha certamente un senso, che non è affatto fin dal­ l'inizio risucchiato in qualche pregiudizio, il parlare della tempo­ ralità come caratteristica specifica degli oggetti sonori. Ciò che occorre mettere in rilievo in primo luogo, avvian­do le nostre considerazioni in questa direzione, è che la temporali­tà viene allora in questione in un'accezione piuttosto partico­lare. Infatti, anche le cose in genere le cose estese, le cose mate­ riali - possono essere dette temporali: esse non si trovano solo nello spazio, ma anche nel tempo, e hanno una durata, un inizio e una fine. Un tavolo, per esempio, è stato una volta co­struito in una falegnameria, ha dunque una sua data di nascita e con il passare del tempo certamente si logorerà e andrà in pezzi. Esso ha una durata obiettiva, e mentre lo osservo oppure lo impiego, si consuma anche un frammento di essa. In questo senso, del tutto ovvio, si può parlare della temporalità delle cose materiali, e an­ che naturalmente degli stessi oggetti sonori. Una significativa differenza comincia tuttavia subito a pro­ filarsi se teniamo conto non già degli oggetti o eventi in quan­to tali, ma della parte che la temporalità svolge nell'espe­rienza che noi abbiamo di essi. Allora ci rendiamo conto che in rapporto alle cose, la temporalità non ha alcuna presenza autentica. In altri termini, il dato di fatto che il tavolo, che ora sto osservando, abbia una data di nascita e che prima o poi giungerà alla propria fine rimane al di fuori dell'apprensione percettiva. Cosicché, se da un lato è certamente giusto afferma­re che, mentre lo osservo, si consuma un frammento della sua durata, dal­l'altro questo con­ - 179 sumo del tempo non è affatto dato nella percezione. Questo è il motivo per cui occorre chiaramente distin­guere, in particolare, il rapporto di coesistenza spaziale e il rapporto di simultaneità temporale. Se ci accingessimo a dare una descrizio­ ne della disposizione di una configurazione di segmenti che si trovano sotto il nostro sguardo, ci serviremmo di qualificazio­ ni spazia­li, ma non diremmo che essi sono tra loro simultanei, come una necessaria determinazione aggiuntiva. Così facendo infatti non arricchiremmo la descrizione, ma introdur­remmo una confu­sione di ordine concettuale. La simultaneità non appar­ tiene ai segmenti, ma alla percezione di essi: i segmenti sono ora dati simultaneamente, piuttosto che in una successione. Per mettere in evidenza la diversa nozione della temporali­ tà che viene qui in questione, potremmo parlare addirittura di intemporalità delle cose estese: a esse non sono applicabili le re­ lazioni della simultaneità e della successione considerate come relazioni della temporalità fenomenologica, cioè della tempora­ lità che si manifesta nell'esperienza. Di fronte all'intemporalità delle cose estese assume il suo senso effettivo il parlare dei suoni come di oggettività essen­ zialmente temporali. Con ciò non ci si richiama al puro e sem­ plice dato di fatto della durata oggettiva, ma alla circo­stanza che questa durata è data in inerenza al contenuto percettivo. L'inizio e la fine appartengono allo statuto di oggetto del suono, così come la simultaneità e la successione. Nell'esperienza del suono è coimplicata la esperienza della temporalità, con il suono è an­ che dato il consumo del tempo. Il suono non ha soltanto una durata, ma è anzitutto una durata. 28. I suoni non sono fatti di tempo Mentre in precedenza abbiamo insistito sull'oggettività dei suo­ ni, nell'accezione più lata, come nell'accezione più ristretta, a proposito della quale abbiamo portato l'attenzione sulla pun­ 180 tualità del suono, quindi sulla sua fissità e rigidità, la temporalità del suono propone ora l'idea del movimento, l'im­ma­gine di un punto che si sviluppa nella linea, di una macchia che si dilata. L'accento deve allora cadere sulla processualità del suono come una processualità definita dalle stesse carat­teristiche essenziali della temporalità che si manife­sta attraverso di essa. In effetti, non bisogna concepire questa temporalità come una giustappo­ sizione di istanti che si avvi­cendano in modo semplice e lineare gli uni agli altri e che vengono direttamente appresi nella loro successione. L'apprensione soggettiva della durata temporale non ha af­ fatto il carattere di un puro rispecchiamento di un ordine og­ get­tivamente precostituito. Si tratta invece di una modalità di coscienza particolarmente complessa, nella quale lo svilup­po del de­corso percettivo si mantiene costantemente al presen­te, secondo un dinamismo che implica le opposte dimensioni del passato e del futuro. Il fatto che possa essere utile, per illustrare l'apprensione della durata, fare riferimento ai suoni come esem­ pio particolarmente evidente di oggettività tempora­li, non deve trarre in inganno sulla natura del rapporto tra il suono e il tem­ po. Si tratta infatti di un rapporto intrinseco, nel senso che abbia­ mo spiegato, ma che mantiene in ogni caso la distanza della forma dal contenuto. I suoni non sono fatti di tempo. La temporalità si rapporta al suono così come l'estensione spaziale al colore: essa rappresen­ta uno schema vuoto che la qualità sonora deve riempire. E ancor più: forse non è affatto opportuno parlare di schema, dal mo­ mento che la parola rimanda a una qualche articolazione. Do­ vremmo dire invece che il tempo, rispetto al suono, è una forma informe, una forma inarticolata, che non cono­sce nessuna diffe­ renziazione interna. La differenziazione del tempo è operata dai suoni stessi, in forza delle particolarità del loro contenuto, della loro concreta so­stanza sonora. Perciò i compiti compositivi in genere possono essere intesi 181 come compiti di strutturazione del tempo attraverso i suoni. Le rela­ zioni in forza delle quali si istituisce questa struttu­razione non sono relazioni puramente temporali, ma dipendono dalle affinità e dalle differenze dei suoni considerati nei caratteri percettivi da cui sono concretamente contraddistinti. Il tempo viene differen­ ziato e articolato proprio perché questa configu­razione sonora che ora odo evoca un'altra configura­zione già trascorsa oppure fa presentire, per il modo stesso in cui essa è fatta, uno sviluppo possibile. A ogni brano musicale è essenzia­le la struttura del ri­ mando dalla presenza a un'assenza, la struttura della evocazione e della rievocazione. Ciò vale naturalmente anche, e anzitutto, per suoni consi­ derati unicamente nelle loro singole durate, attraverso le quali entrano in determinati rapporti tra loro. Risuonando, il suono frantuma la continuità omogenea del tempo, e da questa fran­ tumazione si propone la sua ricomposizione ritmica: che non andrà certamente intesa come una pura e semplice suddi­visio­ne aritme­ tica del tempo, ma come una vera e propria pla­sma­­zione della tem­ poralità. Attraverso il suono, attraverso le differenze tra le sostanze sonore e le relazioni che istituiscono configurazioni sonore, at­ tra­verso i rapporti reciproci fra le durate e tutti gli altri momenti che qualificano la processualità del suono, riceve strutturazione e articolazione il semplice fluire del tempo, il suo divenire astrat­to, che può assumere ora una grande varietà di forme. Attraverso il suono, possiamo agire sul tempo, possia­mo mettere in opera una vera e propria manipolazione della temporalità. Tenendo conto di ciò si coglie uno degli aspetti secondo cui la tematica della temporalità può diventare produttiva dal punto di vista di una filosofia della musica. L'idea che alla base della cre­ azione musicale vi sia una specifica esperienza del tempo, che in essa si debba cogliere l'origine dell'opera e che di qui debba essere tratta addirittura una sorta di tipologia che valga come principio per una valutazione estetica, come è stato sostenuto nell'ambi­ i 182 to dell'estetica musicale novecentesca [72], mostra nei suoi stessi risultati i propri limiti, sia dal punto di vista delle giustificazioni filosofiche, sia da quello della sua efficacia come strumento di interpretazione. Mentre è certa­mente legittimo e ricco di interes­ se proporre il tema della tem­poralità come uno degli interroga­ tivi che possono essere av­an­zati nei confronti dell'opera. Essa è infatti portatrice, nella sua stessa struttura com­positiva, di immagini della temporalità, e l'interrogarsi intorno a esse, il chiedersi in che modo la forma vuota del decorso temporale viene riempita ed articolata me­diante suoni, può certamente rappresentare uno dei mezzi per la comprensione. E infine interessante notare come la tematica tempora­ le si trovi nel punto di intersezione di due modi di approccio nei con­fronti della musica che appaiono nettamente antitetici. Il luogo comune di origine romantica della musica come arte dell'inte­riorità per eccellenza, a cui abbiamo accennato parlan­do del­ l'ascolto a occhi chiusi, che intende l'"imma­terialità" del mez­ zo come sua vocazione alla massima spiritua­lizzazione, sembra trovare nell'intrinsecità del rapporto tra il suono e il tempo un ulteriore momento a cui appoggiarsi. La temporalità è infat­ ti la dimensione primaria e costitutiva della soggettività stes­ sa, consi­derata puramente come tale, come centro rarefatto dei suoi vissuti [73]. E tuttavia uno sviluppo effettivo del problema non potreb­ be certamente non dare il massimo rilievo all'emergere in questo contesto del tema della movenza gestuale, della temporalità che si traduce nel movimento sensuale del suono: mettendo in que­stione ancora una volta la soggettività, ma intesa come sog­get­tività che vive e si esprime anzitutto attraverso il suo corpo. 29. Il sistema dei suoni Torniamo ora ai suoni-oggetti, di cui le nostre "note" forniscono un esempio. Tra tutte le possibilità dell'universo dei suoni, essi 183 occupano certamente una posizione particolare, una posizione in certo senso privilegiata, anzitutto per i motivi a cui abbiamo già fatto cenno. Il suono puntiforme si prolunga nella linea, e da suono a suono prende forma il disegno sonoro. L'importan­ za dei suoni-oggetti è legata alla possibilità della melodia, dove all'e­lemento figurale si associa, quasi in forza di un'intrinseca coe­renza, la tensione verso la finezza del tessuto sonoro, la sua levigatezza e la sua trasparenza. Il disegno aereo richiama una timbrica aerea. Una fantasia certamente unilaterale, sull'origine della musica, potrebbe forse raccontare che anch'essa sorse, in un tempo lontano, dalla meraviglia - di fronte alla figura tracciata nell'aria dall'aria insufflata in una canna raccattata da terra. La linea melodica, il "canto" sorge sulla base dei rapporti che si istituiscono tra i suoni. Ed è proprio a questo proposito che sorgono le prime richieste di un chiarimento. In che modo, secondo quali forme i suoni entrano in rapporto tra loro? E dif­ ficile sottovalutare la portata di una simile domanda: la musica in genere può essere definita come arte del connettere i suoni in un modo certamente più ricco di senso di quanto possa esser­ lo il definire in modo analogo la pittura o la poesia. Attraverso il significato della parola, la poesia raggiunge in ogni caso l'e­ steriorità del mondo, così come la possibilità della raffigurazio­ ne è una possibilità immanente nella natura dei mez­zi pittorici. Del resto è certamente significativo il fatto che uno dei motivi che hanno sospinto verso l'astrazione dal mondo nella pittura, sopprimendo l'elemento propriamente raffigurativo dal dipinto a favore del puro gioco delle forme e dei colori, è rappresentato dall'intenzione di portare a realizzazione una pittura essenzial­ mente musicale. La musica sembra infatti fin dall'i­ni­zio installata in questa astrazione, essa è in primo luogo un'arte della sintassi, in rappor­to alla quale il tema delle forme di connessioni possibili tra i suoni, l'esplosione delle loro potenzialità espressive assume un carattere fondamentale. Senza discostarci di un solo passo dal terreno delle con­side­ 184 razioni elementari al quale abbiamo deciso di attenerci e seguen­ do del resto la nostra particolare traccia argomentativa, voglia­ mo avviare qualche considerazione in questa direzione. Non c'è dubbio che parlando della semplicità che caratte­ rizza le apparenze fenomenologiche dei suoni-oggetti abbiamo nello stesso tempo insistito sulla loro chiara differenziabilità reciproca, sulla loro determinatezza e distinzione. Ora si tratta anzitutto di decidere se questa distinguibilità, connessa alla pun­ tualità del suono, comporti la pura e semplice eterogeneità dei suoni l'uno rispetto all'altro, in modo tale che ogni relazio­ne sor­ gerebbe per così dire da un investimento di senso proveniente dall'esterno, oppure se il momento relazionale debba comunque essere inteso come un momento interno che indica a sua volta in che modo la singolarità dei suoni debba essere intesa. Rammentiamo del resto ciò che avevamo osservato in rap­ porto ai colori. Anche allora avevamo sottolineato la varie­tà dei colori, la loro singolarità e le differenze, ma ci eravamo an­che posti il problema di una loro possibile considerazione si­ste­matica. Abbiamo cominciato con l'attirare l'attenzione sulla possibilità delle gradazioni della chiarezza per giungere infine a mostrare l'u­ nificazione dinamica delle differenze nel cerchio cro­ma­tico inteso come rappresentativo del movimento del Colore. Nello stesso modo, vogliamo adottare anche ora un pun­ to di vista sistematico, orientandoci in direzione di una temati­ ca strettamente parallela. Esattamente lo stesso è poi l'assunto di prin­cipio: l'insistenza con la quale oggi si parla della musica come di un linguaggio, mettendo in opera un'analogia così ricca di interesse, è tuttavia spesso accompagnata dall'opinio­ne, espli­ cita o implicita, della totale convenzionalità delle forme e delle strutturazioni espressive che divengono operanti nei fatti musi­ cali in genere. Una simile posizione, che viene talvolta so­stenuta con scarsa consapevolezza degli impegni che con essa si con­trag­ gono, si è imposta contro l'errore consisten­te nel rite­nere che certe modalità compositive, che hanno come loro giu­stifi­cazione 185 unicamente opzioni di ordine culturale, siano radi­cate nella stes­ sa fisica del suono. A una posizione asso­luti­stica si con­­trap­pone così un relativismo altrettanto estremo e altrettanto erroneo. Nel primo caso si sopprime il livello pro­priamente linguistico, nel se­ condo si misconosce inve­ce l'esi­stenza di un piano prelinguistico con le sue proprie regole interne. 30. L'esperienza della progressione Non solo il problema di una considerazione dei suoni da un punto di vista sistematico riprende e ripete i termini della tema­ tica del colore sviluppata a suo tempo, ma sussiste anche una stretta affinità nel modo in cui è possibile affrontarlo. Ci siamo chiesti or ora in che senso i suoni, di cui deve esse­ re anzitutto sottolineata l'individualità e la differenza en­trino in relazione tra loro. A questa domanda rispondiamo nello stesso modo in cui risponderebbe il maestro di musica ai suoi allievi alle primissime armi. Facciamo notare, cioè, che è possibile pre­ disporre una successione di suoni in modo che ne risulti la per­ cezione di una progressione, e precisamente nella duplice direzione dell'ascesa e della discesa. Ad una simile esperienza della pro­gressione tenderemo a dare lo stesso rilievo che abbiamo riconosciuto all'esperienza della transizione ai fini delle nostre con­siderazioni sistematiche intorno ai colori. Naturalmente, per evitare troppo lunghe digressioni di det­ taglio, sarà opportuno tenere d'occhio le nostre assunzioni di carattere più generale, raccomandando al lettore di apporta­re quelle opportune delimitazioni e precisazioni che ci liberano dal­ le obiezioni più ovvie, sulle quali in ogni caso non intendia­mo indugiare più di tanto. Va da sé, per esempio, che la distinzione tra livello linguistico e livello prelinguistico deve essere in ogni caso rigorosamente mantenuta, e perciò l'esibi­zione di una pro­ gressione sonora a titolo di possibilità di un ordinamento non va intesa come esibizione di un modello ben determinato di "scala" 186 eventualmente concepita come una sorta di ordinamento fon­ da­mentale del materiale di base su cui poggerebbe l'inven­zione di "melodie". Cosicché dobbiamo es­sere avvertiti del fatto che, quando il maestro di musica mostra in concreto il sussistere di una progressione, intenderà certa­mente introdurre nello stesso tempo elementi più particolar­mente attinenti a un determinato linguaggio musicale. Il punto importante e significativo per noi è invece il rico­ noscimento di momenti generali che stanno alla base dei possibili impieghi particolari - dunque in primo luogo della possibilità di ordinamenti scalari in genere, come una possibi­lità interna che caratterizza i suoni-oggetti. Questo riconoscimento apre il problema di una rete rela­ zionale presupposta alla percezione dei suoni presi nella loro singolarità. Nella singolarità dei suoni è già implicata la relazione. Dato un suono esso si trova tra un suono più grave e un suono più acuto - se abbiamo deciso di indicare in questo modo le op­ poste direzioni della progressione. E questo essere tra implica, nel caso dei suoni, il punto di vista sistematico esattamente come la tematica della gradazione chiaroscurale nel caso dei colori. Appartiene inoltre ancora ai nostri presupposti di metodo lo stabilire una netta differenza di principio tra l'"altezza" intesa come determinazione percettiva, la cui nozione può essere solo illustrata e introdotta esemplificativamente, e l'al­tezza come una nozione fisica esattamente definita. Basti qui notare che è possibile considerare le frequenze indipendentemente da fatti uditivi corrispondenti come puri e­ven­ti fisici di cui possiamo indagare la struttura mediante appo­ siti dispositivi; o, inversamente, è possibile considerare i risultati fenomenologici indipendentemente dagli eventi fisici, e infine i rapporti tra eventi fisici e risultati fenomenologici: si tratta, per noi, di piani problematici concettualmente distinti, e nessun van­ taggio si può trarre dalla loro confu­sione. L'esperienza della progressione di cui parliamo qui non ha, 187 in particolare, nulla a che vedere con la percezione di una varia­ zione numerica di frequenze, ma rappresenta appunto l'evidenza primitiva da cui prendiamo le mosse. 31. Lo spazio sonoro L'appartenenza a una progressione di un suono preso nella sua singolarità può essere anche formulata dicendo che dati due suo­ ni c'è sempre un suono tra essi. Ma questa formula non vale evidentemente senza restrizioni, dal momen­to che accade qui qualcosa di diverso che nel caso dell'interpo­lazione ideale dei punti che può proseguire all'infinito. Il suono puntuale non è una idealità, e interpolando suono a suono, riducendo progressi­ vamente la grandezza dell'interval­lo, il decorso discontinuo dei suoni trapassa nella condizione percettiva interamente diversa della continuità. In luogo di una successione di punti sonori, si avrà un flusso sonoro che si muove da un punto a un altro punto che formano i suoi estremi. Sarebbe del tutto erroneo considerare questo glissare del suono come costituito da una molteplicità di punti sonori, dal momento che la molteplicità risulta del tutto cancellata dalla si­ tuazione percettiva. Resta vero naturalmente che nel flusso sono contenuti tutti i suoni possibili compresi tra il punto ini­ziale e il punto terminale, come momenti del flusso stesso che posso­ no essere fissati in esso. Ma di fatto il tema della progressione conduce all'acquisizione di una vera e propria nuova nozione di unità sonora. Ancora una volta si impone, e da un nuovo punto di vista che non è più connesso soltanto alla mera forma dello sviluppo temporale, la processualità del suo­no. La puntualità del suono, e dunque la sua molteplicità, viene superata, lo stesso suono diventa di continuo un altro: nello stesso senso in cui eravamo giun­ ti in precedenza a ricondurre la molteplicità dei colori all'unità del divenire del Colore. Il fatto che nella terminologia musicale corrente si parli di "alterazio­ne" per indicare lo stesso suono che 188 tuttavia non è affatto lo stesso, non è pura accidentalità termi­ nologica che avrebbe bisogno di essere corretta, ma corrisponde all'essenza trasmu­tante del suono. Del flusso sonoro continuo così inteso, che ha inizio in un suono A e termina in un suono B, o più precisamente che pre­ senta il trasmutare del suono A nel suono B, potremmo dire che esso costituisce un segmento dello spazio sonoro. Secondo il senso delle nostre considerazioni (e anche su questo punto l'ana­logia problematica con la tematica del colore può rappre­sentare anco­ ra una guida) il flusso sonoro continuo rappresen­ta infatti la no­ zione fondamentale e prioritaria di unità sonora, in particolare per il fatto che di qui può essere introdotta quella di spazio sonoro. Lo spazio sonoro nella sua totalità potrà essere inteso co­me pro­ lungamento da entrambi i versi di un segmento che appartiene a esso. Ma contro di ciò vi è ancora una circostanza che mostra quanto poco ci possiamo affidare alla logica di una possibile rap­ presentazione geometrica. Men­tre in via di prin­cipio è possibile prolungare indefinitamente da entrambi i versi un segmento, lo spazio sonoro è uno spazio chiuso, l'ascesa e la discesa sono qui caratterizzate da un limite superiore e da un limite inferiore. Occorre a questo proposito prestare particolare attenzione a non confondere questo problema con il problema interamen­ te diverso delle soglie di udibilità, che richiede, per essere posto, che si tenga la presa a un tempo sui risultati fenomeno­logici e sugli eventi fisici corrispondenti. Nel parlare di chiusura dello spa­ zio sonoro in rapporto alle altezze, abbiamo invece di mira una circostanza interamente giacente sul piano fenome­ nologico. Perciò non si tratta di sostenere la semplice esistenza di suoni estremi - come se ci fosse un suono che si annunciasse da se stesso come ultimo suono - ma piuttosto di riferire la chiusura dello spazio sonoro alla struttura stessa della progres­sione, alla sua forma complessiva. Lo spazio sonoro va chiu­dendosi da en­ trambi i versi, nella direzione della discesa e dell'ascesa, in una sorta di curvatura che contrassegna ogni suo punto. 189 Si comprender�� subito che questo procedere del suono ver­ so opposti estremi è già implicato nella differenza del grave e del­l'acuto, purché queste designazioni non vengano intese come designazioni puramente formali, ma come qualificazioni auten­ tiche del materiale percettivo che attingono il loro fonda­mento dal­l'intreccio del dato con le sintesi operate dall'imma­gina­zio­ne. Un bambino rise sentendo chiamare "bassi" i suoni gravi: osservando che gli sembravano soltanto molto più vecchi [74]. Ma il nome non importa, e nemmeno importa l'immagine in se stessa, quanto piuttosto la convergenza delle immagini. Verso il grave, il suono invecchia, si ispessisce, aumenta il suo peso e la lentezza del suo passo. Verso l'acuto, il suono si assottiglia, diventa veloce, leggero, trasparente. L'opposizione tra ma­te­riale e immateriale si ripresenta anche in questo contesto, richiamando la nostra attenzione sul rilievo che assume, anche in rapporto alle altezze, momenti che spettano primariamente alla timbrica del suono. Ma forse l'immagine che sarebbe più opportuno richia­ mare per illustrare la chiusura dello spazio sonoro intesa come chiusura che caratterizza la sua forma fenomenologica è anco­ra quella verso cui ci orientano le considerazioni sul colore. Verso l'acuto: il bianco. Verso il grave: il nero. E lo spazio sonoro ter­ mina in essi [75]. Con tutto ciò siamo ancora lontani dall'avere indicato quei primi elementi che ci offrano un orientamento per una rappre­sentazione grafica dello spazio sonoro così come era possibile fare nel caso della tematica dei colori. Naturalmente, il perve­nire a una simile rappresentazione non è affatto importan­ te o indispensabile, mentre è interessante comprendere le ragio­ ni della sua intrinseca difficoltà. Fin qui abbiamo dato rilievo alla continuità dello spazio so­ noro, alla sua forma di progressione ascendente e discenden­te, al modo, infine, di intendere la sua chiusura come una chiusura che si manifesta sul piano fenomenologico. Ma la stessa immagine a cui ci siamo richiamati poco fa ci avverte che abbiamo soltan­ 190 to compiuto un primo passo in direzione della complessa pro­ blematica della forma dello spazio sonoro, e quindi in generale delle relazioni interne tra i suoni. Il nostro continuo dei suoni si presenta ora soltanto come un continuo chiaroscurale, come un continuo di grigi. E di fronte a ciò fa risentire i propri diritti il problema della differenza tra i suoni, di una differenza che non può essere interamente assorbita dal luogo che essi occupano nella progressione. Indipendentemente dal loro grado di chiarezza, e anche dalla possibilità di una transizione continua dall'uno all'altro nell'unità del movimento del colore, il giallo e il viola hanno i loro caratteri particolari che sono a loro volta il fondamento del­ la specificità della relazione da cui sono connessi. Procedendo oltre in questa direzione, dobbiamo allora at­ tirare l'attenzione su un'altra singolare e importantissima pro­ prietà dello spazio sonoro: esso non è caratterizzato soltan­to dal movimento progressivo nell'ordine delle altezze, ma anche dalla struttura della ripetizione. Cosicché se prendiamo un punto qualun­ que A del continuo sonoro e progrediamo nell'u­na o nell'altra direzione incontreremo un punto A' che "con­suona" con esso incontreremo cioè un suono che si trova con il precedente, impiegando la terminologia musicale corrente, in un "rapporto di ottava". Ciò significa che è una caratteristica essenziale dello spazio sonoro il fatto che un segmento di esso sia rappresentativo dell'intero spazio sonoro. - 32. Consonanza e fusione In realtà, l'introduzione del tema della struttura iterativa dello spazio sonoro, e nello stesso tempo dell'identità e della diffe­ renza dei suoi punti, chiama in causa la nozione di consonanza: il rapporto di ottava, infatti, sembra poter valere come caso esem­ plare, particolarmente evidente, di una relazio­ne che diventa in­ vece subito problematica non appena ci si allontani da quel caso 191 esemplare e si tenti di essa una delimita­zione concettuale soddi­ sfacente. Sull'importanza storica che ha avuto una simile proble­ matizzazione all'interno delle vicende della musica novecentesca non è certamente necessario insiste­re. Piuttosto è il caso di no­ tare che essa aveva tutti i suoi motivi e i suoi scopi sul piano del linguaggio musicale e tendeva a liberare la dissonanza dalla sua posizione subordinata nel­l'ambito della sintassi tonale, aprendo nuove prospettive espressive. All'inter­no di questo dibattito, tut­ tavia, l'accento tendeva in ogni caso a spostarsi anche sul piano prelinguistico, in modo tale che la rivendicazione dell'impiego li­ bero da vincoli della dissonanza si spingeva sino alla negazione di un'effettiva consistenza della distinzione sul piano percetti­ vo. E in ciò il motivo polemico, l'esigenza di opporsi nel modo più netto a tentativi di giustificazione extralingui­stica del sistema espressivo fondato sui predominio della consonanza, prevaleva su una più precisa configurazione teorica del problema. Una significativa ripercussione della situazione sul piano dell'indagine scientifica può essere considerata per molti versi la Psicologia del suono (1883-90) di Carl Stumpf [76] che, per quanto eviti di proposito riferimenti agli sviluppi musicali ad essa con­ temporanei, rappresenta tuttavia già nella sua stessa impostazio­ ne di principio, indizi consistenti dei mutamenti intervenuti. Ciò che occorrerebbe mettere in luce in rapporto a essa è anzitutto la chiarezza con cui viene individuato un terreno di indagine pro­ priamente psicologico come un terreno che deve essere neutrale rispetto alle opzioni di ordine estetico e autonomo rispetto alle problematiche fisico-acustiche. Que­sta neutralità corrispondeva certamente ad un atteggiamento di massima apertura dal punto di vista dell'impiego espressivo dei materiali - atteggiamento del resto documentato dagli interessi pioneristici di Stumpf verso l'indagine etnomusicolo­gica. Le conseguenze di ciò si fanno sentire, in particolare nel modo in cui viene prospettata la distinzione tra consonanza e dissonanza. Se ci muoviamo all'interno di un approccio pura­ 192 mente psicologico, prescindendo dunque dalla teoria e dalla pras­si musicale così come dalle spiegazioni fornite dalla fisica del suono, la certezza di quella distinzione non può essere data per garantita, ma deve essere messa alla prova. A tale scopo è necessario provvedere a determinarne il senso, in modo tale da poter procedere ad una sperimentazione psicologica adeguata. Va da sé che i soggetti della sperimentazione non potranno es­ sere persone musicalmente preparate; ma, a parte la difficol­tà di configurare, in modo sufficientemente esente da obiezioni, i requisiti che deve possedere una persona per essere conside­rata atta alla sperimentazione, deve ancora essere stabilito il tipo di domanda che deve esserle rivolta. A questo punto interviene la decisione cruciale di Stum­ pf intorno al senso del termine di "consonanza"; una volta che ci siamo liberati dalle implicazioni valutative relative alle belle armonie, al sentimento di gradevolezza e di compiutezza che potrebbe rinviare a una consuetudine di ascolto più che alla cosa stessa, quel termine sembra non alludere ad altro che a una si­ tuazione percettiva nella quale i suoni si fondono insieme fino al punto da formare un tutto unitario. Ciò non significa rimandare circolarmente a una sorta di sentimento di unitarie­tà. Che più suoni formino un tutto unitario ha, secondo Stumpf un signifi­ cato molto concreto: e precisamente diremo che i suoni sono tra loro fusi quando persone musicalmente impreparate non riesca­ no facilmente a valutare in modo cor­retto se il fenomeno uditivo proposto sia semplice o complesso. Secondo Stumpf, comunque il concetto di consonanza sia introdotto nella teoria musicale o definito sul piano degli eventi fisici, per ciò che concerne la sua consistenza percettiva, esso deve essere ricondotto a quello della fusione, intesa come diffi­ coltà di analizzare il fenomeno uditivo. Stumpf si accinge così ad apprestare esperimenti nei quali vengono proposti alla valutazione accordi di due note a perso­ ne musicalmente impreparate. Ne risulteranno risposte giuste 193 e risposte sbagliate. E gli esperimenti mostrano che il numero percentuale delle risposte sbagliate cresce con il crescere del rap­ porto di consonanza come viene normalmente teorizzato nel­­la tradizione musicale. Non vi sono dubbi sull'interesse di questa impostazione del problema da parte di Stumpf. Essa prende le mosse da una espli­ cita messa in questione della consistenza della distinzione, per poi ritrovarla sul piano dei dati percettivi dopo aver operato una ridefinizione concettuale che sembra attribuirle un con­tenuto positivo. Ogni oscurità sembra dissolta se il proble­ma si riduce a un possibile inganno della percezione intorno alla questione dell'uno e dei molti. Nello stesso tempo, la differenza viene ri­ portata a una dimensione strettamente empi­rica e inoltre essa viene fortemente relativizzata: la dissonanza infatti non è che un grado, determinabile entro margini abba­stanza ampi di arbitra­ rietà, all'interno della curva delle rispo­ste sperimentali. Eppure dubbi e perplessità sorgono ben presto non appena riconsideriamo con attenzione critica, prima ancora che le con­ seguenze di dettaglio, quello che rappresenta il vero e pro­prio punto di volta di quel percorso argomentativo e preci­samente la risoluzione della nozione di consonanza in quella di fusione, e l'interpretazione di questa nella difficoltà empirica di operare la discriminazione tra i suoni. Per quanto all'inizio questo modo di ricondurre il fenomeno della consonanza alla sua essenza tan­ gibile liberandola da implicazioni espressive ci possa sembrare convincente, tuttavia il dubbio che così facen­do si operi in realtà il passaggio da un problema a un altro intera­mente diverso ap­ pare subito ampiamente giustificato. Per rendersi conto di ciò, può forse essere sufficiente fare richiamo alla circostanza di carattere generale secondo la quale il parlare, per esempio, di una configurazione visiva unitaria, nella quale le parti sono fuse, e cioè integrate l'una all'altra nel­l'intero, non implica certo una difficoltà della loro discriminazione. Di fronte a un quadrato, noi vediamo natu­ralmente anche il numero 194 dei suoi lati, benché ciò che è colto sia anzitutto l'unità figurale stessa. Assume allora senso il fatto che le persone musicalmen­ te preparate, che sono perciò in grado di dare risposte corrette sulla molteplicità dei suoni nell'accordo, continueranno a perce­ pire appunto una conso­nanza tra essi, mentre questa circostanza, secondo lo spirito dell'impostazione di Stumpf, dovrebbe essere considerata estranea al fatto per­cettivo stesso. La difficoltà della discrimi­nazione da parte di persone musicalmente impreparate si aggiunge allora come una caratteristica peculiare della situa­ zione percettiva, che fornisce una nuova informazione, ma che non è certamente in grado di rappresentare la base concettuale della differenza. Ma prima ancora di ciò, è presente nell'argomento di Stu­ mpf una confusione che rimanda all'aspetto propriamente me­­to­ dologico: se qualcosa è un quadrato o un triangolo, ciò dipende dalle caratteristiche interne della figura, e non può es­se­re deciso dalla media delle opinioni delle persone che compiono osserva­ zioni intorno a quelle unità figurali. E così non può essere deciso statisticamente se una configurazione sia una conso­nanza o una dissonanza. Nella ricerca proposta da Stumpf si pone in realtà un auten­ tico problema di fenomenologia empirica, e precisamente sì cerca di accertare che cosa accade nel caso della percezione di conso­ nanze e dissonanze da parte di persone di scarsa prepa­razione musicale. Ma la differenza puramente fenomeno­logica tra consonanza e dissonanza è comunque presupposta e non è in ogni caso messa in questione. 33. Consonanza e somiglianza Obiezioni di questo tenore vennero avanzate insieme ad altre critiche di carattere più particolare nei Fondamenti di psicologia del suono [77] di Geza Révész e una breve sintesi di esse si può tro­ vare nella sua Psicologia del suono [78]. In quest'ultima opera, dopo 195 aver riferito criticamente intorno alle teorie mate­matiche della consonanza e alle spiegazioni fisiche, Révész dà atto a Stum­ pf di aver tentato di proporre il problema come una questione puramente psicologica, ma nello stesso tempo sotto­linea la ne­ cessità di mantenere la netta distinzione concet­tuale tra la no­ zione di consonanza e quella di fusione intesa come difficoltà di analisi del complesso sonoro [79]. Peraltro anche in Révész è presente la preoccupazione di distinguere il fatto percettivo della consonanza come tale dalle modalità possibili del suo im­ piego. In linea generale, egli sostiene che, considerazioni relative all'eufonia sono dipendenti da consue­tudini culturali, dall'adde­ stramento all'ascolto, da impieghi espressivi nei quali il contesto in cui il complesso sonoro e inserito può avere un'impor­tanza determinante. Tuttavia ciò non significa che, indipendentemente da un determinato riferi­mento linguistico, non si diano differen­ ze tipiche - e sono proprio queste differenze che hanno di mira le espressioni "consonante" e "dissonante". La tendenza al livel­ lamento della distinzione, a cui abbiamo accennato in precedenza come originata da un motivo polemico portato troppo oltre viene di conseguenza nettamente respinta: "La critica che, dal punto di vista atonale, si muove al principio della consonanza, affer­mando che questo concetto ha avuto nel corso dei secoli un contenuto variabile, conduce su una falsa strada" [80]. Vi è dunque per Révész un aspetto importante del proble­ ma che riguarda il fatto percettivo stesso. Ma mentre in Stumpf si cerca di riportare questo aspetto alla nozione di "fusione", per Révész il fenomeno del "consuonare" o del "dissuonare" è, come egli dice, un "fatto percettivo immediato, non ulte­rior­mente ri­ ducibile" [81]. E tuttavia sarebbe sbagliato ritenere che questo riconosci­ mento, che pure è della massima importanza, sia sufficiente a liberare il campo da ogni difficoltà. Il sostenere che siamo in pre­ senza di un fenomeno irriducibile significa portare l'accento sul­ la specificità della situazione percettiva. La parola "conso­nanza" 196 è, in se stessa, una parola vuota, che può ricevere il proprio sen­ so solo attraverso l'esempio, quindi attraverso un riempimento intuitivo diretto. Ma ciò significa forse che si deve rinunciare a una qualunque "analisi", facendo valere la distin­zione tra conso­ nanza e dissonanza come semplicemente presup­posta? In realtà, stando a Révész, la discussione deve spostare il proprio centro. L'attenzione deve essere portata piuttosto alla somiglianza e dis­ simiglianza qualitativa dei suoni, della quale la consonanza e la dissonanza non sarebbero altro che manifesta­zioni nell'ordine della simultaneità. Questo orientamento deriva dall'accento particolarmen­ te forte posto da Révész sull'autonomia di ciò che egli chiama "qualità sonora" rispetto all'altezza, quindi sul punto sonoro che si ripete "identico" di ottava in ottava, lungo l'intero spazio so­ noro. Così nel problema di una rappresentazione grafica dello spazio sonoro che sia in grado di rendere conto dei suoi aspetti sistematici si dovrà tenere conto sia del movi­mento ascendente sia del ritorno della stessa "qualità sonora", compresa nell'inter­ vallo di ottava, nel quale l'intero spazio sonoro deve poter essere proiettato [82]. Questa attenzione al problema dell'identità conduce in primo luogo a mettere in evidenza l'ordine della successione, piuttosto che quello della simultaneità. Di effetto consonantico si parla, certamente, in rapporto a suoni che risuonano simul­ taneamente, ma è chiaro che non è la simultaneità come tale che si trova all'origine di quell'effetto. La consonanza non sorge dal­ la simultaneità. E nemmeno la "qualità" sorge dalla consonanza, mentre ovviamente vale l'inverso: proprio perché i suoni sono quelli che sono, risuonando insieme ne risulta un effetto conso­ nantico o dissonantico. In secondo luogo se nell'ottava vi è identità qualitativa, allo­ ra sembra che si possa sostenere che nelle consonanze in genere ciò che è in questione è la somiglianza tra le qualità so­nore. Così Révész sottolinea non solo l'inderivabilità della conso­nanza, ma 197 soprattutto il carattere "primario" e "irri­ducibile" [83] dell'impres­ sione di somiglianza che sor­gereb­­be quando risuonano, anzitutto in successione, due suoni in rapporto di ottava o eventualmente in quei rapporti che, nella simultaneità, dareb­bero luogo a conso­ nanze. Nel primo caso avremmo la massima somiglianza quali­ tativa [84] che andrebbe decrescendo negli altri casi. Di fronte a ciò ci si dovrebbe chiedere in quale punto l'ar­ gomentazione subentri all'esibizione di condizioni descritti­ve. In effetti la somiglianza di cui qui si parla è anzitutto una somiglian­ za argomentata: e la pretesa che si tratti anche di una relazione percepita è appunto soltanto una pretesa [85]. 34. Osservazioni conclusive Non è certo qui il caso di andare oltre l'esibizione del problema e delle sue difficoltà interne. Per superare questo piano sareb­ be necessario ripensare la questione della distinzio­ne tra conso­ nanza e dissonanza in modo tale da individuare entro quali limiti e secondo quali criteri essa possa entrare all'interno di una con­ siderazione fenomenologica. Si tratta di una possibilità che non verrà senz'altro ammessa, ma che ha bisogno di essere aperta­ mente rivendicata e sostenuta: così come del resto la pro­spettiva di carattere generale entro la quale si situano gli accenni e gli spunti che sono via via affiorati lungo il percorso delineato dal nostro filo conduttore. Fin dal momento in cui abbiamo cominciato con il parlare della relazione tra il suono e la cosa, ritrovando nello sviluppo del tema l'opposizione del materiale e dell'immateriale e quin­di anche la possibilità di rendere conto della distinzione tra suoni e rumori, al di là dei motivi che suggerirebbero di affermare in­ vece la sua inconsistenza teorica, e poi anche nelle segna­lazioni elementari intorno alla tematica della temporalità, è costante­ mente presente l'idea che gli approfondimenti che possono es­ sere condotti in questa direzione, benché non siano affatto in 198 grado di condurci direttamente sul terreno della filo­sofia del­l'ar­ te, rappresentino tuttavia un piano di riferimen­to da cui non è possibile prescindere. Ciò vale in modo particolare nel campo delle consi­derazio­ ni sistematiche a cui rinvia la tematica dello spazio sonoro. All'opposto che nel passato, l'opinione oggi prevalente - anche se talvolta solo tacitamente presupposta - è che anche in questo campo tutto sia affidato alla relatività linguistica, al­l'empi­ria delle condizioni di fatto, alle scelte e alle decisioni soggettive, alle parti­ colarità delle grammatiche storiche. Eppu­re, proprio questo mo­ mento della storicità e della soggettività ver­reb­be esaltato e messo nella massima evidenza dal ricono­sci­men­to di modi e di forme di organizzazione interna, di ordini strut­turali immanenti al ma­ teriale stesso che dànno certamente luogo alla precostituzione di un apparato di regole, ma che nello stesso tempo, non solo non sono in grado di stabilire vincoli au­tentici, ma non fanno altro che determinare la scacchiera di al­ter­native possibili dentro il quale viene giocato il gioco dell'e­spressione. 199 Note [1] E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filoso­ fia fenomenologica, tr. it. a cura di E. Filippini, Libro II (Ricerche fenome­no­logiche sopra la costituzione), cap. II, Einaudi, Torino 1965, p. 426 e sgg. [2] ivi, pp. 426-7. [3] ivi, p. 429. [4] ivi, p. 430. [5] ivi, p. 434. [6] ivi, p. 435 [7] ivi, p. 438. [8] ivi, p. 442 [9] ivi, p. 441. [10] ivi, p. 432. [11] ivi, p. 441 (nel titolo del § 15e). [12] Per quanto ci stiamo avviando in una diversa direzione di sviluppo del problema, questo riconoscimento è peraltro pre­ sente anche nel testo di Husserl, cfr. l'Aggiunta a p. 449. [13] ivi, pp. 437 e 445. [14] ivi, p. 450. [15] ivi. [16] ivi. [17] Cfr. H. Matile, Die Farbenlehre Philipp Otto Runges, Mäand­ er Kunstverlag, München-Mittenwald 1979, p. 51. Su Aguilonius si intrattiene piuttosto a lungo Goethe nella parte storica della sua Farbenlehre. Cfr. Zur Farbenlehre. Materialen zur Geschichte der Farbenlehre, trad. it. a cura di R. Troncon, Luni Editrice, Milano- Trento 1997, pp. 206-211. [18] J.W. Goethe, Teoria dei colori (parte didattica), tr. it. a cura di R. Troncon, Il Saggiatore, Milano 1979. In questa stessa edi­ zione, si veda di R. Troncon, Goethe e la filosofia del colore, pp. 215250. La pubblicazione dei questa traduzione italiana dell'opera fu da me proposta e promossa presso l'Editore Il Saggiatore. 200 [19] ivi, p. 12. [20] ivi, p. 3. [21] ivi, p. 140. [22] Wittgenstein rileva giustamente nelle sue Osservazioni sui colori (tr. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1981) che sussiste una distinzione di principio, e non un'opposizione, tra il problema di Newton e quello di Goethe (cfr. a es. oss. 206, p. 78). Nello stesso tempo, egli tende ad accentuare, anche in rapporto a Goethe, l'idea di una fenomenologia del colore come "analisi concettuale", tacendo del tutto su questa componente naturalistica (cfr. a es. oss. 16, p. 28). Su questo testo si veda la limpida Introduzione di A. Gargani, pp. VII-XIX. [23] J.W. Goethe, op. cit., p. 175. [24] ivi, p. 50. [25] ivi, p. 17. [26] ivi. [27] ivi, p. 18. [28] ivi. [29] ivi, pp. 14, 35, 77. [30] ivi, p. 11. [31] ivi, p. 70. [32] ivi, p. 144 ­[33] ivi, p. 23. [34] ivi, pp. 24-25. [35] ivi, p. 29. [36] ivi, p. 17. [37] ivi, p. 33 [38] J.W. Goethe, op. cit., pp. 52-53. [39] ivi, p. 55. [40] ivi, p. 53. [41] ivi. [42] ivi, p. 57 [43] ivi, p. 58 e sgg. [44] ivi, p. 103. 201 [45] ivi, p. 104. [46] ivi, p. 107. [47] ivi, p. 120 [48] ivi, p. 49. [49] ivi, p. 122. [50] ivi, p. 123 [51] ivi, p. 57. [52] ivi, p. 73. [53] Per ragioni di chiarezza è bene avvertire che, nel primo caso, in cui si ha la formazione dei colori viola, arancione, verde si tratta dei colori fondamentali additivi chiamati invece corrente­ mente, nell'ordine, blu, rosso, verde: nel secondo caso, in cui si ha la formazione dei colori azzurro, rosso, giallo si tratta dei colori fondamentali sottrattivi chiamati correntemente, nell'ordine, ciano, magenta, giallo. [54] ivi, p. 127. [55] ivi, p. 128. [56] ivi, p. 137. [57] ivi, p. 130. [58] ivi, p. 148 [59] ivi, p. 169. [60] ivi, p. 170. [61] ivi, p. 210. [62] ivi, p. 170. [63] ivi, p. 186. ­[64] ivi, p. 189. [65] ivi, p. 192. [66] ivi, p. 194. [67] J. Itten, Arte del colore, tr. li. di A. Monferini e M. Bigna­ mi. Il Saggiatore, Milano 19812. [68] ivi, p. 21. [69] Cfr. M. Schneider, Il significato della musica, Rusconi, Mi­ lano 1981. [70] R. Schaeffer ha elaborato ampiamente questo tema, 202 con riferimento all'epoché husserliana, nel suo Traité des objets musicaux, Ed. du Seuil, Paris 1966. [71] Cit. in Romanticismo e musica, a cura di G. Guanti, EDT, Torino 1981, p. 90. [72] Cfr. G. Brelet, Esthétique et creation musicale, PUF, Paris 1947. [73] G.W.F. Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1972, p. 1013: "L'io è nel tempo... il tempo è l'essere del soggetto stesso.., e il tempo del suono è anche quello del soggetto, e già su questa base il suono penetra nell'io stesso". [74] Lo racconta Carl Stumpf, nella sua Tonpsychologie (188390), ristampa anastatica, Bonset, Amsterdam 1965, p. 537. [75] G. Révész rammenta nella sua Grundlegung zur Tonpsycho­ logie (Leipzig 1913) uno spunto di analisi di Brentano: questi par­ lava in rapporto ai suoni di un elemento saturo e di due elemen­ ti insaturi "che si presentano in rapporti diversi con l'elemento saturo, dei quali l'uno è paragonabile al nero e l'altro al bianco". Con queste ultime nozioni Brentano intendeva essenzial­mente caratterizzare le differenze di altezza: "Un do nella regione media si distingue, secondo questa teoria, da un do più basso o più alto all'incirca come un azzurro saturo si distingue da un azzurro scuro e da un azzurro chiaro" (pp. 37-38). [76] Op. cit. nella nota 75. L'argomento viene ripreso in C. Stumpf, Konso­nanz und Dissonanz, Berlin 1898. [77] op. cit. nella nota 76. [78] tr. it., Firenze 1954. [79] ivi, p. 92. [80] ivi, p. 96. [81] ivi. [82] Se decidiamo di rappresentare le quantità sonore me­ diante punti sulla circonferenza di un cerchio e il movimento ascensionale con una curva spiraliforme che si muove nella terza dimensione avremo allora il cilindro dei suoni secondo Révész: cfr. ivi, p. 67. 203 [83] ivi, p. 61. [84] ivi, p. 55. [85] La difficoltà emerge in particolare nel testo di Révész quando la relazione tra due suoni che si trovano in un intervallo consonantico viene posta come una relazione misteriosa. La conso­ nanza di quinta, dice per esempio Révész, sarà basata su una "certa parentela" tra i due suoni, anche "se non sappiamo di che specie e natura"; in ogni caso si tratterà di una parentela di diverso tipo rispetto a quella dei suoni in rapporto di ottava. ivi, p. 61. 204 205 Giovanni Piana L'esperienza della transizione e il sistema dei colori La notte dei lampi Quattro saggi sulla filosofia dell'immaginazione Appendice 1. Premessa 2. La transizione chiaroscurale 3. La transizione cromatica 4. Lo spazio cromatico e il suo ritmo 5. L'opposizione cromatica diametrale 7. La sfera del colore di Runge 2000 206 Questo saggio riprende e svilupa i temi trattati in G. Piana, La notte dei lampi, Colori e suoni, §§ 9-12. Esso è stato redatto nel 1988 e riveduto nel 2000. 207 1. Premessa L'antica discussione sui colori semplici (fondamentali) e compo­ sti (derivati) e la sua connessione con il sistema dei colori sem­ bra ormai aver da tempo trovato la via per la propria solu­zione attraverso la teoria dei fondamentali additivi e sottrattivi [1]. In primo luogo essa si distacca nettamente dalle pratiche pittoriche, a cui quella discussione è stata per lungo tempo vincolata, per associarsi invece alle spiegazioni intorno alle cause fisiche e fisio­ logiche delle sensazioni cromatiche. Alla base vi è l'idea del­la luce "bianca" come comprendente tutte le lunghezze d'on­da che in­ teressano i fenomeni cromatici; dall'altro l'idea che le cose, nella loro materialità specifica, facciano in certo sen­so da filtro della luce, in parte assorbendo in parte riflettendo determinate lunghezze d'onda. La spiegazione fisiologica riguarda le lunghezze d'onda riflesse. Queste vengono ricevute dai recettori della retina che a loro volta sono sensibili soprattutto a quelle lunghezze d'onda che vengono usualmente caratterizzate, dal punto di vista cro­ matico, come rosso, verde e blu (spesso si usa la sigla RGB - dai termini inglesi Red, Green, Blue). Il bianco è una risultante del­ la sovrapposizione della totalità delle lunghezze d'onda appar­ tenenti al campo cromatico, mentre il nero può essere interpre­ tato come assenza di stimolazione luminosa. I vari modi in cui le lunghezze d'onda corrispondenti ai colori RGB si sommano insieme generano le altre sfumature cromatiche, ed in particola­ re i colori che vengono chiamati ciano, magenta, giallo (ovvero CMY - Cyan, Magenta, Yellow). A RGB spetta una prio­rità di principio fondata nell'ambito delle spiegazioni fisico-fisiologi­ che, e sono dunque essi che vengono preferi­bilmente chiamati colori primari. Un riscontro fenomenologico diretto del­la sintesi per addizione deve ricercare situazioni peculiari: stando ad essa, infatti, l'addizione di rosso e verde deve produrre il giallo, dal verde e il blu deve risultare il ciano, dal rosso e il blu il magenta, come è mostrato dalla seguente figura. 208 Tutto ciò sembra alquanto "controintuitivo". Vi sono però situa­ zioni in cui una simile circostanza si manifesta con evidenza di­ ventando una circostanza osservabile. Ad esempio, la derivazio­ ne dei colori ciano, magenta e giallo da RGB può essere in cer­to senso "toccata con mano" usando tre fonti luminose distin­te (ad e­sempio, tre proiettori) filtrate con i colori corrispondenti e proiettate in sovrapposizione parziale su uno schermo. Ciò non basta tuttavia a stabilire un raccordo con la teoria tradiziona­ le che si appoggiava piuttosto, spesso con qualche confusione, all'esperienza visiva del colore così come alle pratiche pittoriche fondate sulle mescolanze dei colori. Questo raccordo è semmai costituito dal fatto che sovrapponendo dei filtri corrisponden­ ti le coppie magenta-giallo, ciano-giallo, magenta-ciano, corri­ spondenti dànno luogo ai precedenti colori primari, rosso, ver­ de, blu - mentre il nero risulterà dalla sovrapposizione di tutti e tre i colori. Questa circostanza, che invece corrisponde alle nostre attese, può essere spiegata ancora facendo riferimento alla teoria pre­ cedente. In effetti, occorre tener conto anzitutto che l'azione di un filtro deve essere interpretata come un corpo che in parte 209 lascia passare delle radiazioni in parte le impedisce. Cosicchè un filtro ciano (C=B+G) filtrerà la luce "bianca" lasciando passare solo le lunghezze d'onda relative al blu ed al verde, cosicché dalla luce "bianca" sarà stato sottratta la lunghezza d'onda relativa al rosso. Il giallo invece, essendo Y= R + G, impedirà il pasaggio della lunghezza d'onda relativa al blu. Sovrapponendo i due fil­ tri, le lunghezze d'onda "sottratte" sono dunque R e B. Cosic­ ché il colore filtrato deve essere necessariamente il verde (G). I tre colori della sintesi additiva mantengono in ogni caso una priorità esplicativa, ma il fatto che essi possano essere ottenuti "sottratti­vamente" dai colori CMY fa sì che anche a questi possa essere riconosciuta una sorta di primarietà [2] . La terminologia peraltro può variare. H. Küppers parla, ad esempio, di Urfarben per RGB e di Grundfarben per tutti i sei colori oltre il bianco e il nero [3]. Una possibilità è in effetti quella di caratterizzare come fondamentali i Grundfarben e primari gli Urfarben. Le idee della semplicità e della composizione potranno essere riproposte nella misura in cui si riesca a dare di esse una interpretazione stretta­ mente coerente con la teoria fisica. Questa sistemazione teorica consente poi di intervenire an­ che sull'idea, altrettanto antica, di un diagramma dei colori, ovvero di una rappresentazione grafica dell'intero spazio cromatico che sia in grado di identificare ogni tonalità cromatica come un punto all'interno di esso. Naturalmente oltre la tonalità cromatica, an­ drà presa in considerazione, nella costruzione del diagramma, il grado di chiarezza e il grado di saturazione. Tenendo conto di ciò sono possibili diversi tipi di rappresentazione dello spazio cromatico, che possono tuttavia essere considerati concettual­ mente equivalenti. Sulla base di questa concezione è possibile una designazione numerica di ogni colore fondata su unità di conto rispetto ad un totale convenzionalmente assunto - cosic­ ché ad esempio, posto questo totale eguale a cento - il magenta sarà eguale, nel sistema fondato su MCY, a "100 0 0" ed una 210 sfumatura di verde a "0 50 30", essendo naturalmente l'ordine dei colori quello fissato nella sigla. Una osservazione conclusiva, ma di particolare impor­tan­za, riguarda la terminologia. Sino a questo punto per i Grund­farben ci siamo limitati a riprendere i nomi diventati correnti. Ma attenen­ doci strettamente ad una simile terminologia ci troveremmo ben presto in una situazione imbarazzante soprattutto per quanto riguarda i nomi di magenta e rosso, ciano e blu. In particolare perderemmo contatto anche con la discussione tradiziona­le di teoria del colore, e nello stesso tempo ci rimetteremmo alcuni richiami relazionali di particolare importanza. Consideriamo anzitutto la coppia magenta (M) e rosso (R). M R Anche la teoria esposta ci informa che il colore R può essere ottenuto per "composizione" da giallo e magenta. Inoltre il ma­ genta - nome assai raro nella discussione storica sul colore - vie­ ne talvolta descritto come un rosso porpora [4]; ed era indub­ biamente questo "rosso", che Goethe poteva vedere guardando attraverso il prisma e considerare come il rosso per eccellenza. E vi è anche concordanza sul fatto che il colore R debba essere inteso come un rosso-arancio, in breve come un arancione [5]. Un problema simile si presenta per la coppia di colori ciano (C) e blu (B). 211 C B Il termine cromatico ciano è altrettanto insolito nella tradizione storica della teoria del colore quanto lo è il termine magenta. In italiano abbiamo il termine "azzurro", ed il ciano può essere considerato un azzurro sia pure un po' particolare. Per quan­ to riguarda il colore qui detto blu, esso può essere prodotto da magenta e ciano per sintesi sottrattiva - cosicché come in prece­ denza avevamo deciso per arancione in luogo di Red, è coerente decidere di considerare questo blu come blu-viola inserendolo senz'altro nella scala dei viola [6]. Le convenzioni terminologiche sono convenzioni, e su di esse non ci si deve troppo attardare, ma non tutte le convenzioni sono altrettanto buone e sono indif­ ferenti agli scopi. Per i nostri scopi è una convenzione migliore quella di parlare di rosso, arancione, azzurro e viola rispettiva­ mente per magenta, Red e Cyan, Blue. A queste sostituzioni ci atterremo coerentemente di qui in avanti. 2. La transizione chiaroscurale Di fronte a tutto ciò noi troviamo interessante interrogarci in­ torno a che cosa si possa mantenere, quanto a organizzazione sistematica dello spazio cromatico, contando unicamente su­ gli aspet­ti fenomenologici e quindi prescindendo dall'impianto e­spli­cativo che ha, nell'impostazione precedente, un peso così 212 rilevante. Ci si chiede in altri termini se abbia senso, stando al colore come dato percettivo, ritrovare una qualche nozione di "primarietà", di "fondamentalità" o di "semplicità" - comunque la si voglia chiamare - e quindi se si possa giustificare l'idea di colori di base da cui tutti gli altri sono derivati, connettendo a questa idea il problema di uno "spazio cromatico" (sistema dei colori), oppure se, orientando l'attenzione esclusivamente in que­­ sta direzione e mettendo da parte ogni riferimento esplica­tivo, si ottenga piuttosto una riconfigurazione complessiva del­l'in­tera questione. Parlare di ordinamento sistematico, di sistema dei co­ lori presuppone un'immagine fortemente unitaria dell'universo croma­tico. Questa a sua volta può esistere solo in forza di una riduzione estrema del numero dei colori. E non dovremmo in­ vece, inizialmente, mettere in risalto l'enorme varietà, l'in­fin ­ i­ta molteplicità dei colori? Ogni volta che vorremmo nominare un colore con qualche precisione non sappiamo esattamente a quale parola affidarci. Ci aiutiamo con qualche giro di frase, nel quale facciamo per lo più riferimento ad una cosa che abbia quel colore, o un colore simile a quello che intendiamo. Cerchiamo un modello da esibire senza troppe spiegazioni verbali. Nello stesso tempo, tutti sappiamo quanto sia ricca e varia la nomenclatura dei colori, e come que­sta nomenclatura sia diversa da una lingua all'altra, e quanto diffe­ renti siano i rimandi analogici implicati. All'interno di una stessa lingua i nomi dei colori possono differire di epoca in epoca - un commento filologico accurato è spesso necessario per capire l'e­ satto significato dei nomi dei colori di cui si parla, e del resto un significato "esatto" richiederebbe in ogni caso la ripresentazione del modello. In taluni casi si può arrivare a pensare che il signi­ ficato del nome sia definitiva­mente perduto. Queste difficoltà sono determinate dalla molteplicità e dalla varietà, dalla enorme ricchezza dei cromatismi, e naturalmente al tempo stesso dalla difficoltà di fissare verbalmente una qualità che ha sempre bi­ sogno di essere concretamente esemplificata. Così, arriviamo 213 a chiederci se in una considerazione che bada soprattutto al co­ lore così come lo vediamo, all'aspetto del colore, non sia il caso di mettere in risalto anzitutto il momento della differenza piuttosto che quello dell'affinità e della relazione. Mettiamo sotto i nostri occhi un azzurro e un rosso: Che cos'altro dire se non che l'aspetto dei due colori è interamen­ te diverso, che l'uno ha poco o nulla a che vedere con l'altro se eccettuiamo appunto il fatto che essi sono entrambi colori? Ciò toglierebbe di mezzo ogni problema di ordinamento sistemati­ co. Ma le cose cambiano se, in luogo dell'e­sem­pio precedente, scegliamo piuttosto un caso di differenza di chiarezza che rende immediatamente evidente l'esistenza di una relazione: Questi due colori si presentano alla vista come colori affini. La situazione esemplificativa di base, che ci offre una via di accesso 214 ad una corretta impostazione del problema, è appunto quello della gradazione chiaroscurale. In essa non si mostra soltanto l'esi­ stenza di una relazione di maggiore o minore chiarezza, ma an­ che il fatto che è in generale pensabile un quadrato più scuro sulla sinistra della figura e un quadrato più chiaro sulla destra; oppure che è pensabile che tra l'uno e l'altro si possa situare un quadrato con una gradazione chiaroscurale intermedia. Parlando di "pen­ sabilità" si vuole mettere l'accento sul fatto che il grado di chia­ rezza non è una proprietà accidentale del colore - una proprietà empirica­mente rilevata che si può trovare in certi colori, ma che altri potrebbero non possedere. Data una tonalità cromatica, essa avrà sempre un certo grado di chiarezza e dunque si situerà in una posizione determinata all'interno di una scala chiaroscurale. La parola "grado" deve essere peraltro intesa con un rimando implicito ad una condizione di continuità intuitiva: tra l'uno e l'altro azzurro è possibile che si dia un azzurro intermedio in quanto essi possono essere considerati come estremi di un intervallo che può essere riempito da gradazioni di colore che conducono senza salti dall'uno all'altro. Sfumatura e transizione sono i due termini che potremmo applica­ re in questo caso. Dal primo colore si passa al secondo attraverso sfumature che sono da considerare appunto come momenti di passaggio (fasi) all'interno di un percorso privo di lacune. La relazio­ ne tra i due colori tende così ad assumere un carattere dinamico: tra essi si svolge un processo, un movimento che procede dall'u­ no all'altro, ed anche i due estremi ricevono questo carattere sia 215 per il fatto di essere punto di partenza e punto di arrivo, sia per il fatto di poter a loro volta entrare come momenti di passaggio all'interno di un processo più ampio, che sarà la sequenza chia­ roscurale completa e chiusa dal bianco e dal nero. Del nero e del bianco, e quindi anche del grigio, si è dibattuto a lungo se fossero da considerare colori autentici oppure no. Ed anche in rapporto a questo problema, apparentemente peregri­ no, si fanno sentire equivoci ed errori derivanti dall'intreccio tra i piani di discorso. Il bianco e il nero se ne stanno nel tubetto del pittore esattamente come il rosso o il giallo. Dice Leonar­ do: benché alcuni filosofi "non accettino né il bianco né il nero nel numero de' colori, perché l'uno è causa de' colori, l'altro ne è privazione", tuttavia "perché il pittore non può fare sen­ za questi, noi li metteremo nel numero degli altri" [7]. Peraltro, l'indispensa­bilità del bianco e del nero per il pittore è dovuta al fatto che attraverso di essi si possono ottenere i valori chiaro­ scurali: "Nero, bianco, benché questi non sono messi fra' colori, perché l'uno è tenebre, l'altro è luce, cioè l'uno è privazione e l'altro è generativo, io non li voglio per questo lasciare indietro, perché in pittura sono i principali, conciossiaché la pittura sia composta d'om­bre e di lumi, cioè di chiaro e oscuro" [8]. E d'altro lato, passando dal colore come materia cromatica (pigmento) al colore come proprietà delle cose, una rosa bianca, non è forse bianca così come è rossa una rosa rossa? Come può nascere un simile dubbio sul nero e sul bianco? Considerando l'universo cromatico nelle molteplicità delle sue sfaccettature, bianco, nero e grigio sono certamente colori come tutti gli altri. 216 Dispersi tra i colori essi sono colori. Se invece la domanda sul bianco e sul nero viene posta avendo di mira la sfumatura chia­ roscurale, e quindi nella prospettiva di un punto di vista siste­ matico, il suo senso muta. Interviene infatti una modificazione che dipende dalla loro localizzazione necessaria ai bordi della sequenza. Bianco e nero sono le condizioni in cui il colore si perde. L'uno vale dunque come puro valore di chiarezza (luce), l'altro come puro valore di oscurità (buio). In quanto apparten­ gono alle sequenze cromati­co-chiaroscurali essi sono colori, in quanto appartengono a tutte le sequenze cromatico-chiaroscura­ li sono ciò in cui si estingue la differenza cromatica ed quindi il colo­re stesso. In ogni caso essi appartengono allo spazio croma­ tico di cui occupano posizioni limite. 3. La transizione cromatica Il passo decisivo verso un punto di vista sistematico è dato dalla possibilità di generalizzare l'idea della sfumatura chiaroscurale che interessa la singola tonalità cromatica all'idea di una transi­ zione da una tonalità cromatica all'altra - cosicché le differenze tra colore e colore si presentano come distanze tra fasi di un uni­ co percorso cromatico. Così i colori azzurro e rosso che abbiamo in precedenza citato come un esempio di colori di aspetto tanto differente da non lasciar intravvedere alcuna relazione possibile 217 si mostrano invece come estremi possibili di una transizione con­ tinua di sfumature cromatiche che conducono dall'uno all'al­tro. Essi stessi possono essere concepiti come fasi di un percorso completo che è chiuso in un senso differente dalla chiusura effet­ tuata dal bianco e dal nero nel caso delle sfumature chiaroscurali: si tratta infatti di un percorso circolare che termina nella sfumatu­ ra cromatica da cui ha avuto inizio. Il sistema dei colori, nel dibattito storico, è stato tuttavia costitui­ to per lo più da considerazioni riguardanti i colori singoli e i modi della loro composizione piuttosto che sulla transizione. E quindi sul problema della identificazione dei colori che potevano essere considerati semplici da cui tutti gli altri debbono poter deriva­ re per composizione. La varietà delle proposte e le discussioni che risalgono all'antichità ed attraversano il medioevo mostrano le difficoltà di un'impostazione corretta del problema. L'oscil­ lazione sta soprattutto tra il colore considerato come materia cromatica (pigmento) e il colore come datità visiva. L'idea di una riduzione del mondo cromatico a pochi cromatismi fondamentali 218 fu certamente suggerita dalle mescolanze concrete fra i pigmenti che mostravano la possibilità di ottenere determinati co­lori per composizione di altri. Ma mantenendo questo riferimen­to la que­ stione della semplicità e della composizione si ridurrebbe ad una questione strettamente empirica. Parlare della semplicità del giallo, rosso e azzurro in questo contesto significherebbe postulare che non vi siano materie cromatiche dalle quali questi colori si pos­ sano ottenere per composizione. Questa è palesemente una que­ stione empirico-fattuale che riguarda il modo di produrre il co­ lore come pigmento. Che non vi siano pigmenti di diverso colore da cui possa essere prodotto il giallo, non significa ancora che non possano esservi. Potrebbero non essere stati ancora trovati. Inol­ tre, anche ammesso che si possa decidere qualcosa in proposito, indicando alcuni pigmenti come "semplici" in questa accezione, non si vede come si possa garantire la loro "suffi­cienza", ovvero che attraverso di essi possa essere ottenuta qua­lunque sfumatura di colore per mescolanza concreta. Un punto di vista sistematico non può essere certo tratto di qui. Ed in fin dei conti, posta in questi termini, la questione rischia di essere total­mente priva di interesse. Al massimo è pensabile una semplicità ed una compo­ sizione puramente relativa - cosicché il pittore potrebbe ritenere giustamente che per colori semplici e fondamentali si debbano intendere tutti i colori contenuti nei tubetti della sua cassetta. Se il problema è rimasto vivo, pur mantenendo spesso un riferimento importante ai pigmenti, ciò è dovuto soprattutto al fatto che a questo riferimento si è sempre guardato anche avendo di mira il colore in se stesso - alla pura astrazione del colore che peraltro si materializza nel colore in quanto semplicemente appare al nostro sguardo - nel colore come fenomeno. Si giunge così in età moderna a formulare l'idea di un siste­ ma dei colori che presenta i colori azzurro, rosso e giallo come colori "semplici", mentre come colori derivati dai precedenti per composizione i colori arancione, verde e viola. Nulla ci impedi­ sce naturalmente di considerare i primi come il ciano magenta 219 e giallo della sintesi sottrattiva e i secondi come il rosso verde e blu della sintesi additiva, anche se è ovviamente escluso in que­ sta classificazione un qualche sostegno di tipo esplicativo in una teoria della luce e delle cause delle sensazioni cromatiche. Resta in ogni caso difficile stabilire in che senso si parla propriamente di semplicità e di composizione. Anche l'approccio al problema dal lato del fenomeno e del­ le idealizzazioni che possono essere compiute sulla sua base, la­ scia un margine molto ampio all'equivoco. Sembrerebbe infatti che chiamando in causa le datità visive e nello stesso tempo in­ vocando la distinzione tra semplicità e composizione, la decisio­ ne se un colore sia semplice o composto debba essere senz'altro affidata all'impressione visiva di quel colore singolarmente preso. In tal caso non solo potremmo essere in balia della soggettività e della particolarità delle impressioni - a taluni un certo verde potrà sembrare composto, ad altri semplice - ma soprattutto non vi è necessariamente un passaggio tra la consapevolezza eventual­ mente acquisita osservativamente del fatto che un colore sorge per composizione ed il fatto che sia visto come colore composto. Ad esempio, se io sovrappongo un vetro giallo ad un vetro az­ zurro, non avrò difficoltà ad ammettere di vedere formarsi un verde, e così anche riconoscere che il colore verde può sorgere dalla "sovrapposizione" dell'az­zurro al giallo. Ma non vi sareb­ be nessuna incoerenza nel sostenere che, per quanto riguarda il verde come dato visivo, esso non si mostra come un colore "compo­ sto". Non vi è nessun contrassegno che segnali questa "natura composta". Ed a dire il vero gli stessi termini di "semplice" e "composto" hanno in questo contesto una grammatica malsi­ cura. Forse potremmo arrivare a sostenere che nemmeno il ri­ conoscimento di una tendenza, ad esempio, di un verde giallastro o azzurrino, è sufficiente ad effettuare il passaggio all'idea della composizione. Ma fin qui abbiamo parlato di un'impressione psicologica relativamente ad una tonalità cromatica presa nella sua singolari­ 220 tà. Secondo lo spirito dell'impostazione precedente ogni tonalità cromatica deve invece essere integrata in una sequenza croma­ tica continua e ciò determina una reinterpretazione del sistema dei colori che non solo deve mettere da parte qualunque riferi­ mento giustificativo all'impressione psicologica, ma deve anche arrivare a mettere in discussione il tema della composizione in genere, riproponendo la distinzione tra colori fondamentali e derivati in tutt'altra chiave e in tutt'altro senso. 4. Lo spazio cromatico e il suo ritmo La base fenomenologica del sistema non è un preteso aspetto di semplicità o di composizione del fenomeno cromatico rileva­ bile alla vista, sul colore singolo, staticamente inteso, ma l'espe­ rienza della transizione. In base ad essa i colori esistono sempre anzitutto come "sfumature" appartenenti ad un unico percorso cromatico, come momenti o fasi dello spazio cromatico. Questo spazio è il colore stesso come unità cangiante. I colori, al plurale, sono le fasi del cangiamento. Essi sono, nella loro molteplicità, mutazioni del Colore. Il percorso cromatico ha peraltro un ritmo interno, ed è questo il punto che va attentamente spiegato e che ha un'im­portanza cruciale per l'impostazione che stiamo discuten­ do. Ritorniamo al nostro esempio molto semplice della sequenza cromatica chiaroscurale. Abbiamo già osservato che il bianco e il nero sono gli estremi della sequenza chiaroscurale e ciò fa par­ te della "logica" stessa della sequenza. Cosicché potremmo dire che la seguente sequenza: 221 presenta di fatto il luogo che spetta a priori al bianco ed al nero all'interno del sistema cromatico (in luogo dell'azzurro possia­ mo sostituire un altro colore qualunque). Tuttavia è appena ovvio che possa darsi anche una sequen­ za che ha il nero tra due colori qualunque. Ad esempio: Ma il dato di fatto che qui il nero si trovi tra azzurro e giallo non significa affatto che venga modificato il suo luogo ideale - ovvero la sua posizione sistematica. Il nero nel sistema non si trova tra un colore ed un altro, ma si trova ad uno degli estremi di una sequenza chiaroscurale (e come limite chiaroscurale dello spazio cromatico nel suo com­plesso). Questo luogo ideale determina anche il senso della sequenza in cui il nero si trova tra due colori. In essa - potremmo dire - l'az­ zurro affonda nel­l'oscurità, dalla quale sorge un colore interamente differente. Questo potrebbe essere uno dei possibili modi di "in­ tendere" la figura e di rendere conto di un andamento che dipen­ de essen­zial­mente dalla posizione attuale del nero interpretata attraverso il suo luogo ideale. Il nero è in ogni caso, anche qui, ciò in cui un colore termina oppure ha inizio. Inoltre va notato che, per quanto tutto avvenga per gradi se consideriamo il nero un colore come tutti gli altri, tuttavia se lo si intende come oscurità in cui il colore si annienta, esso rappresenta invece un momento pe­ culiare di rottura della sequenza cromatica, un vero e proprio buco 222 nello sviluppo del cromatismo. Prendiamo ora in esame le sequenze cromatiche vere e pro­ prie, e la posizione corrispondente dei colori in essi. Il rosso si trova tra il viola e l'arancione e l'arancione si trova tra il rosso e il giallo. In entrambi i casi si tratta di posizioni ide­ ali che possono essere esemplificate fattualmente. Ed a queste esemplificazioni possiamo riccorere per comprendere che cosa significhi questo essere tra. Ci rendiamo allora conto che il suo senso non è univoco. Nel primo caso: 1. "si passa" dal viola all'arancione o inversamente, ma oltre questo passaggio potremmo vedere un doppio movimento - l'aran­cione e il viola che "salgono" al rosso (o in qualunque altro modo ci si voglia esprimere), cosicché il rosso si presenta come una sorta di punto di volta della sequenza, come un punto verso cui essi con­ vergono. Si tratta di qualcosa di diverso dalla situazione della se­ quenza precedente con il nero centrale, per il fatto che in questo 223 caso non potremmo parlare certo di una rottura della sequenza. Nel secondo caso invece: 2. l'arancione resta sempre una fase di passaggio tra il polo giallo e il polo rosso. Si passa dal rosso al giallo e dal giallo al rosso, attraverso l'arancione, ma questo non ha il carattere di punto di volta. Così nella sequenza verde - giallo - arancione, il giallo ha lo stesso carattere del rosso nel l'es. 1, rappresenta punto di transizione ma anche punto culminante, ovvero punto iniziale e terminale di un processo: 3. 224 Mentre nel caso della sequenza azzurro-verde-giallo: 4. il verde appare come colore transitorio come l'arancione nell'es. 2. 5. Nell'es. n. 5, dove si presenta la sequenza viola-azzurro-ver­ de, l'azzurro ha carattere terminale nel senso or ora definito. 225 Il viola tra il rosso e l'azzurro ha carattere di colore di transizio­ ne: 6. Possiamo dunque parlare di colori terminali per i colori che hanno carattere di punti di volta e colori intermedi o transitori per gli altri. Questa distinzione ricopre quella dei colori fondamentali e deri­ vati oppure dei colori semplici e composti - ma è del tutto priva dei significati che gravano su queste ultime espres­sioni e delle equivocità latenti in esse, traendo il suo senso unicamente dal fenomeno della transizione e dall'e­sperienza di esso. 5. L'opposizione cromatica diametrale Il problema della transizione può essere richiamato anche in rap­ porto alla tematica dei colori complementari. È noto il fatto che se, dopo aver fissato abbastanza a lungo un foglio di carta ros­so intensamente illuminato, volgiamo lo sguardo in una zona scu­ ra, nel nostro campo visivo compare una misteriosa macchia verdastra, piuttosto netta anche se instabile. La stessa situazio­ ne si ripete rispettivamente per le coppie azzurro-arancione e gial­lo-viola. Si tratta di una circostanza di grande importanza per una teoria del colore così come del resto per le pratiche del 226 colore nel senso ampio del termine. Tuttavia questa relazione non può essere rilevata come tale all'interno di una tematica che deve attenersi strettamente ad un terreno di pure considerazioni fenomeno­logico-strutturali. Essa infatti, introdotta attraverso l'os­ser­vazione, sembra avere il carattere di un dato di fatto ed es­ sere di pertinenza di una considerazione empirico-psicologica, e dun­que di una fenomenologia empirica piuttosto che di una fenomenologia pura. Cionondimeno è possibile interrogarsi se non vi siano aspetti di questa relazione che possano essere mo­ strati seguendo lo stesso metodo messo in atto in precedenza e precisamente facendo riferimento alle sequenza cromatiche ed all'e­spe­rienza della transizione. Già una semplice rappresenta­ zione grafica può suggerire qualcosa. Se distribuiamo i cromati­ smi intesi come "punti cromatici" sulla circonferenza di un cer­ chio equidistanti l'uno dal­l'altro, e se congiungiamo ad esempio il rosso con tutti gli altri, vi sarà un solo punto connesso attraverso il diametro del cerchio, e questo sarà il verde. E così nel caso di ogni altro punto, potranno risultare connessi attraverso il diametro solo coppie di colori "comple­mentari". Po­tremmo allora parlare di queste coppie come coppie di colori diametralmente opposti e della opposizione in questione come di 227 opposizione diametrale. Questo tipo di relazione non dipende evi­ dentemente da alcuna osservazione empirica o sperimenta­zione di qualche sorta. Si tratta invece di una connessione dipendente dall'ordinamento dello stesso sistema dei colori. Se ci limitiamo a questo tuttavia non andiamo certo molto lontano, e si può so­ spettare che questa nozione di opposizione diametrale riguardi più le convenzioni operate nella rappresentazione grafica che la cosa stessa. Per dare ad essa un significato, dobbiamo in effetti ritornare alla sequenze cromatiche. Notiamo allora che non può esservi transizione dal rosso al verde. Ciò significa che non può esservi sfumatura graduale dal­­ l'uno all'altro colore, che l'uno non può trapassare nell'al­tro. La manifestazione positiva corrispondente è il passaggio necessario attraverso il grigio. Come nel caso del nero posto tra due colori, il grigio può essere interpretato, in un senso particolare, come un elemento che "in­ ter­rompe" il percorso cromatico. Forse si potrebbe parlare, in mo­­do più aderente alla situazione che comunque presenta una gradualità, di una graduale perdita del cromatismo. Nel grigio i colori si dissolvono come nel bianco e nel nero. Ciò vale naturalmente per tutti i colori diametralmente opposti. 228 Quello che era in precedenza un puro rilievo tratto dalla rappre­ sentazione grafica riceve in questo modo non soltanto un signi­ ficato cromatico ma anche un'integrazione all'interno delle con­ siderazioni sistematiche. Ciò significa, in particolare, che questa relazione riceve un carattere di necessità che una giustificazione psicologica non è in grado di conferire ad essa. 7. La sfera del colore di Runge Runge ha espresso benissimo il senso della relazione di comple­ mentarità come relazione sistematica, appartenente ad una "lo­ gica" del colore piuttosto che alla sua "psicologia" quando dice che "non possiamo rappresentarci un verde che tende al rosso, un arancio che tende all'azzurro, un violetto che tende al giallo proprio come non possiamo rappresentarci un occidente orien­ tale o un nord meridionale" [9]. Del resto, nella costruzione della sua sfera del colore si delinea un percorso che sembra rimandare proprio all'esperienza della transizione, benché egli parli ancora di "mescolanze" (Mischung). Egli individua così il rosso, giallo ed azzurro (Blau) come colori "puri", ovvero privi di mescolan­ ze - una nozione che peraltro lo spinge verso la sottolineatura dell'elemento ideale. Si riconosce infatti che il materiale croma­ tico non è mai tale da poter sostenere questa idea di purezza. Cosicché questi tre colori vengono assimilati a punti, concepiti come unità "assolute" in analogia ai punti matematici, e posti come vertici di un triangolo equilatero. 229 La molteplicità si trova invece dalla parte del verde, arancione e violetto, ed essa viene illustrata con il fatto che "se nel verde l'azione dell'azzurro prevale su quella del giallo, il verde sfuma (abstufen) o tende all'azzurro, oppure, nel caso inverso, sfuma o tende al giallo, laddove è infine anche possibile che il verde si perda completamente in uno di essi. Lo stesso si può dire dell'arancio che tende al rosso e al giallo e in questi si perde, e del violetto rispetto al rosso e all'azzurro" [10]. Di conseguenza questi colori occupano ciascuno dei lati del triangolo equilatero. Particolare importanza assume poi la considerazione del bianco e nero: "Noi separiamo tuttavia il nero e il bianco dagli altri tre colori (ai quali soltanto diamo in generale il nome di "colori") e li disponiamo in una classe diversa, in certo senso opposta a quella dei colori, e questo perché il bianco e il nero non solo designa­ no nella nostra rappresentazione, presi di per sé, l'oppo­sizione 230 tra chiaro e scuro, tra luce e tenebra, ma anche perché nella loro maggiore o minore mescolanza sia con i colori che con tutte le me­ scolanze cromatiche rappresentano in generale le differenze del più chiaro e del più scuro, con una maggiore o minore tendenza verso il bianco o verso il nero: di conseguenza il bianco e il nero in quanto chiaro e scuro stanno in un rapporto con i colori in linea di principio differente da quello che i colori intrattengono tra loro"[11]. E quanto al grigio, i colori diametralmente opposti si distruggono in esso [12]. Su queste basi Runge propone la propria rappresentazione dello spazio cromatico nella forma di una sfera: Ad essa si perviene prima realizzando un triangolo in corrispon­ denza ai punti medi dei lati e rappresentativo dei colori di tran­ sizione e poi estendendo le dimensioni di questo stesso trian­ golo per eguagliarlo al triangolo dei colori "puri", potendo così congiungere i vertici dei triangoli così ottenuti realizzando un esagono iscritto in un cerchio. 231 La considerazione delle differenze chiaroscurali richiede poi il passaggio alla terza dimensione ponendo la linea del bianco del nero come verticale che attraversa il centro del cerchio. Ed a questo punto la sfera si è ormai profilata. Si deve infine notare che, trattandosi in ogni caso di transizio­ ni cromatiche - Runge stesso richiama l'attenzione su questo punto - la divisione in dodici parti della superficie della sfera va considerata come arbitraria [13] 232 Note [1] Sull'argomento come su altri numerosi aspetti relativi alla teoria del co­ lore si può vedere L. De Grandis, Teoria e uso del colore, Milano, Mondadori, 1984. [2]"La definizione di colore primario dovrebbe attribuirsi solo alle luci fondamentali di sintesi additiva. È però invalso l'uso di riferirla anche ai tre pig­ menti fondamentali di miscela sottrattiva, che più propriamente si dovrebbero chiamare colori di base" - L. De Grandis, op. cit., p. 17, n. 1. [3] H. Küppers, Das Grundgesetz der Farbenlehre, Dumont, Köln, 1978, p. 32. [4] "un rosso tendente al purpureo" - L. De Grandis, op. cit., p. 18. [5] Orangerot lo chiama H. Küppers, op. cit., p. 32. [6] Violettblau in Küppers, op. cit., p. 32. [7] Leonardo, Trattato sulla pittura, oss. 250, Le Bibliophile, Neuchâtel, s.d. [8] ivi, oss. 209 [9] Ph. O. Runge, Farbenkugel, Tropen Verlag, Stuttgart 1999, p. 18. Trad. it. La sfera del colore e altri scritti sull'"arte nuova", a cura di R. Troncon, Il Sag­ giatore, Milano 1985, p. 154. [10] trad. it. cit. p. 151. [11] ivi, p. 149. [12] "in Grau zerstören", ed. ted. cit., p. 23 [13] trad. it. cit., p. 136. Giovanni Piana Opere complete Volume quarto La notte dei lampi - Parte seconda 1. L'immaginazione sacra. Saggio su Ernst Cassirer, p. 5 2. Riflessioni sul luogo, p. 121 2013 4 * In copertina: "Caos e cosmo" - Fotografia di G. P (Goccia di rugiada su un petalo di tulipano) * La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell'immaginazione è stato pubblicato dall'Editore Guerini e Associati, Milano, nel 1988. Questa edizione è stata divi­ sa in due parti e alla prima parte è stato aggiunto, a titolo di appendice, il sag­ gio "L'esperienza della transizione e il sistema dei colori", che integra e spiega con illustrazioni i temi trattati in "Colori e suoni" ISBN 978-1-291-26293-3 Copyright Giovanni Piana Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Uniform Resource Identifier Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT 5 Giovanni Piana La notte dei la mpi Parte seconda L'immaginazione sacra Saggio su Ernst Cassirer 6 7 Indice 1. Nel considerare il pensiero mitico Cassirer non parla della relazione tra mito e immaginazione 2. L'esperienza mitico-religiosa come esperienza vissuta e l'irrealtà delle formazioni mitiche 3. Critica di un approccio empirico-psicologico 4. Implicazioni positivistiche 5. Immaginazione ed errore in Frazer 6. La nozione cassireriana di simbolo 7. Implicazioni idealistiche 8. Attività simbolizzatrice e teoria della coscienza 9. La tesi del simbolismo implicito 10. Sviluppi ed esempi 11. Tematica della causalità 12. L'indifferenza verso i nessi causali secondo Lévy-Bruhl 13. Il processo dello spirito e la rarefazione dei simboli 14. Riflessioni sulla nozione di esperienza mitico-religiosa 15. Riapertura del problema 16. L'immaginazione come facoltà dell'eterogeneo 17. Avviamento della critica alla tesi del simbolismo implicito 18. Doppiezza della credenza e coscienza dell'immagine 19. La reificazione delle immagini come reificazione incom­ pleta 20. Sacro e profano 21. L'uniformità indifferente del quotidiano e la pretesa fun­ zione ordinatrice del sacro 22. Riconsiderazione della posizione di Lévy-Bruhl 23. Digressione bergsoniana 24. La profondità dell'immaginazione 25. Riconsiderazione della posizione di Frazer alla luce delle osservazioni di Wittgenstein 26. Le pratiche magiche dicono i desideri degli uomini 27. Il ripresentarsi del nesso tra immaginazione e mito 8 9 1 Nel considerare il pensiero mitico Cassirer non parla della relazione tra mito e immaginazione. È un fatto che, nell'intera trattazione cassi­reriana del pro­blema del "pensiero miti­co", sviluppata nel secondo volume della Filo­ sofia delle forme simboliche, nono­stante la grande ric­chezza e artico­ la­zione del percorso seguito, non ci imbattiamo mai in qualche passo realmente significativo che metta in causa il problema dell'immaginazione. Tra l'imma­ginazione e il mito vi è certamente una relazione intrinseca - le produzioni mitiche sono anzitutto produzioni dell'immagina­zio­ne. Eppure Cassirer non ritiene af­ fatto che questo sia il punto da cui possa prendere le mosse una filosofia della mitologia nel senso da lui teorizzato, e nemmeno che, all'interno di essa, questa relazione debba as­sol­vere un ruolo ben determinato. Che le produzioni mi­tiche sia­no anzitutto produ­ zioni dell'immagina­zione è una ovvietà su cui non vale nemme­ no la pena di soffermarsi. Si tratta di una presa di posizione così vistosa che certa­mente ha alla sua base un intero complesso di ragioni che deb­bono esse­ re comprese a fondo per rendersi conto dei pre­supposti della po­ sizione filosofica cassireriana e delle sue con­seguenze, così come per avviare su di essa una riflessione approfondita. 10 2 L'esperienza mitico-religiosa come esperienza vissuta e l'irrealtà delle for­ma­zioni mitiche Il primo motivo che orienta Cassirer in questa emarginazio­ne della problematica del­l'im­­ma­ginazione rimanda indubbia­mente al­la componente fenomenologica della sua impostazione filoso­fica. Questa componente viene già chiaramente in luce nei riferimenti a Schelling che occupano una parte così impor­tante nel­la posi­ zione introduttiva del problema. Schelling ha posto con estrema chiarezza - osserva Cassirer - il problema di una considera­ zione autonoma del mito, e ha potuto formu­lare il pro­gram­­ma autentico di una filosofia della mitologia in quanto ha cessato di considerare il mito nel suo contenuto narrativo puro e sempli­ ce, insistendo invece sulla sua efficacia per la coscienza umana, quindi sul rapporto con la soggetti­vità. "Il vero fenomeno che qui si tratta di intendere - cita Cas­ sirer da Schelling - non è il contenuto rappresentativo del mito come tale, ma il significato che esso possiede per la coscienza uma­ na e il potere che esercita su di essa" [1]. "Signifi­cato" vuol dire qui rilevanza; e questa rilevanza può essere colta solo se il mito si presenta alla riflessione filosofica come qualcosa che è concreta­ mente vissuto, solo se si prendono le mosse dall'assunto che vi è una vera e propria esperienza vissuta specificamente mitico-religio­ sa. Il tema dell'autonomia può essere proposto solo facendolo gravitare su questa idea di esperienza mitica, cioè sull'idea che "la mitologia come storia degli dei si potrà produrre solo nella vita stessa", realizzandosi concretamente "come qualcosa di vissuto e 11 di sperimentato" [2]. L'altro lato del problema, in Schelling, secondo il quale il tema dell'esperienza mitica deve essere integrato in un sistema dell'Assoluto, in modo che il suo sviluppo fenomenologico assuma un senso e una giustificazione ontologica, viene intera­mente la­scia­to cadere da Cassirer come un'indebita esten­sione meta­fisica che fi­ nisce con il porre su un falso terreno un pro­gramma che ha una corretta impostazione iniziale. Tutta la questione deve invece essere posta e risolta nei con­ fini circoscritti dell'esperienza mitico-religiosa: di essa la filo­sofia non ha il compito di indagare la fondazione, ma di co­gliere le tipicità che la caratterizzano nella sua essenza. In tutto ciò sembra che vi sia già un buon motivo per respin­ gere un modo di approccio alla problematica filosofica del mito che porti l'accento sulle produzioni mitiche come produ­zioni dell'immaginazione. Infatti, poiché l'immaginazio­ne non sembra essere altro, in primo luogo, che la facoltà di produrre oggettività irreali e fittizie, se prendessimo le mosse di qui l'ir­realtà del mito assumerebbe il carattere di un dato di fatto fondamentale ai fini dell'apprestamento della sua filoso­fia. Inve­ce l'indicazione me­ todica che porta l'accento sull'espe­rienza mi­ti­co-religiosa come esperienza vissuta procede nella direzione esattamente opposta: ciò che è irrilevante è proprio il carattere fittizio e irreale delle entità mitiche considerate in se stesse. Per la coscienza mitica, esse hanno infatti una forma peculiare di efficacia; sono una vera e propria potenza dello spi­rito umano (come si esprimeva Schel­ ling); esse hanno dun­que una specifica realtà intenzionale. Il rac­ cordo con la posizione fenomenologica propriamente hus­serliana sembra a questo punto del tutto chiara, secondo Cas­sirer. L'idea di un'analisi intenzionale nel senso di Husserl mette in questione non già il modo di essere dell'ogget­tività in sé, ma la correlazione tra soggetto e oggetto come corre­lazione in se stessa significati­ va; in particolare, nella fenomeno­logia "deb­bono essere studiate le strutture di campi completamente diversi di oggetti, secondo il 12 loro puro "significato" e senza che si tenga conto della "realtà" dei loro oggetti" [3]. Nell'estensio­ne del metodo fenome­nologico al campo del mito, questo punto deve essere messo in rilievo pro­ prio perché le oggettività intese sono qui sempre, considerate in se stesse, ogget­tività irreali. Ma questa irrealtà viene messa in pa­ rentesi dalla riduzione feno­menologica, e si mostra così che essa non appar­tiene in alcun modo allo statuto di senso del rapporto isti­tuito dall'esperienza mitica. Ernst Cassirer 13 3 Critica di un approccio empi­rico-psicologico Il secondo motivo che agisce nella stessa direzione riguarda inve­ ce la componente strutturalistica dell'im­po­stazione filoso­fica cassi­ reriana. In­­fat­­­ti, il parlare nei confronti della posizione di Cassirer di una sorta di strutturalismo fenomenologico, sarebbe, io credo, abba­ stanza appropriato. Va solo notato che i termini in questione, che qui sono proposti in connessione, sono invece spesso impie­gati per formulare una netta opposizione: all'ade­sione descrittiva alla superficie delle cose, che caratteriz­zereb­be l'atteggiamento feno­ me­nologico, si contrap­pone l'atten­zione verso le strutture consi­ derate come costruzioni interpre­tative messe in opera nel corso di un'analisi logica che va neces­sa­ria­mente oltre l'imme­diatezza con­cre­ta di ciò che appare alla superficie. Si tratta tutta­via di un impiego terminologico che non deve necessa­riamente essere con­­ si­derato vincolante. Una componente strutturalistica è indubbiamente ricono­ sci­bile in Cassirer già per il fatto che qui non si fa questione delle particolarità dell'esperienza mitica, delle sue determina­tezze con­ crete, ma appunto delle sue tipicità in quanto modali­tà peculiare di organizzazione del mondo. Questa componente può essere a sua volta ricollegata allo stile fenomenologico dell'in­da­­gine, e in particolare all'idea dell'analisi intenzionale come analisi eidetica. Tuttavia su questo punto è assai più opportuno richiamare la matrice portante dell'intera costruzio­ne della Filo­sofia delle forme simboliche: la matrice kantiana. L'intera trattazione della problematica del pensiero mitico 14 è determinata, anche nel dettaglio e nella distribuzione esposi­ tiva degli argomenti, dal modello della filosofia kantiana dell'e­ sperienza. Ciò che rende legittimo il parlare di una considera­ zione rivolta agli aspetti strutturali, precisando il senso di questa espressione in quanto riferita al contesto del discorso cassire­ riano, è proprio questo consistente rimando alla filosofia kantiana e ai suoi classici luoghi polemici. Il problema delle condizioni trascendentali dell'esperienza che Kant prospetta in diretta connessione critica con le istanze empiristiche, ha infatti il senso di rivendicare l'esistenza di forme strutturali che operano come principi di articolazione e di orga­ nizzazione del mondo. La critica del limite epistemologico della posizione kantiana e la proposta conseguente di un'esten­sione di questo punto di vista di principio conduce Cassirer a presentare il programma generale di una filosofia delle forme simboliche e, nel suo interno, di una filosofia della mitologia che considera fin dall'inizio il mito come pensiero: cioè come un'at­tività di mes­ sa in forma, come un insieme coerente di strutture sulla cui base vengono istituite le connessioni e i momenti di artico­lazione. Le numerose critiche rivolte da Cassirer in dire­zione del punto di vista empiristico rimandano, come in Kant, ad un orientamento che nel considerare la modalità specifica dell'espe­rienza mitica mira a mettere in evidenza le sue compo­nenti di ordine struttu­ rale, mettendo da parte le compo­nenti di carattere psicologico fattuale. Lo stesso motivo antipsicologistico, per il quale Cassirer si richiama ancora alla posizione espressa da Husserl nei Prolego­me­ ni alle Ricerche logiche come un inizio che deve essere ge­nera­lizzato all'intero arco della filosofia della cultura, conflui­sce in realtà senza residui nel motivo strutturalistico pro­pria­mente kantiano che resta ovunque dominante. Dall'adozione di una simile prospettiva deriva una ulte­riore attenuazione della rilevanza del problema dell'immagina­zione ai fini della elaborazione di una filosofia della mitologia. 15 In precedenza abbiamo notato che, assumendo l'immagi­ nazione come facoltà dell'irreale, ne consegue l'accentuazione del carattere fittizio delle entità e delle narrazioni mitiche: le cre­ denze mitico-religiose sono anzitutto credenze erronee, e questa circostanza dovrebbe rappresentare una premessa fon­damentale per l'interpretazione delle produzioni dell'esperien­za mitica. Ora si aggiunge un nuovo motivo, che riguarda più pro­priamente l'a­ spetto metodico: se ci si accinge a mettere in e­videnza le moda­ lità in cui si esprime il mito, a titolo di strutture che danno luo­ go ad una forma coerente della realtà, dovremo allora guardarci dal mettere al centro delle nostre considerazioni la questione dei rapporti tra mito e immagina­zione perché ciò farebbe inclinare l'intera tematica in una direzione sostanzial­mente psicologisti­ ca. L'immaginazione è infatti una facoltà psicologica che ha le proprie leggi e i propri dinamismi psico­logici. E non si tratta certamente di negare la legittimità di una problematica speci­ ficamente psicologica che abbia come tema le produzioni im­ maginative del mito, ma di circoscrivere un deter­minato spazio problematico in modo da rendere evi­dente che ogni questione relativa alle componenti psicologiche (come del resto storico-so­ ciologiche) dell'esperien­za mitica sono da esso escluse. Il com­ pito di una descrizione strutturale dell'esperienza mitica e del mondo che in essa si costituisce è semplicemente un altro com­ pito rispetto ad un'in­dagine volta all'ambito esplicativo delle cause e delle motiva­zioni. Il richiamo all'immaginazione tende perciò a confondere i linea­menti del problema o addirittura ad effettuare la sua pura e sem­plice soppressione. Esso appare caratteristico di un atteg­giamen­to empiristico piuttosto che di una filosofia dello spirito che cer­chi di riappropriarsi della tradizione kantiana; e di quella idealistica. 16 4 Implicazioni positivistiche In effetti ciò che conferisce allo struttu­ralismo fenomenolo­gico di Cassirer la sua impronta definitiva è proprio l'inten­zio­ne di riproporre le grandi istanze della filo­sofia idealistica, e precisa­ mente hegeliana, in modo da metterle alla prova della concretez­ za del materiale documentario, così da evitare una filosofia della cultu­ra fonda­men­talmente aprioristica, tutta fat­ta di proiezioni di ordini concettuali precostituiti. Dunque: aderenza al materia­ le, in pri­mo luogo. Moltiplicazione degli esempi, delle citazioni, dei riferimenti testuali. E rinuncia alle più spericolate specula­ zioni condotte sul filo del pensiero puro. Ma anche, nello stesso tem­po, tensione interpretativa che cerca di istituire tra i materiali connessioni significative, che sappia mostrare come essi parlino un unico linguaggio: come in essi si manifesti un ordine concet­ tuale sia sul piano di una esperienza mitica considerata statica­ mente, sia da un punto di vista che faccia apparire questa espe­ rien­za come un momento iniziale e dinamico di uno svi­luppo ideale che conduce a partire da essa al mondo della religione, del­l'ar­te, della scienza. Il pensiero mitico è un processo, e la fenomenologia cri­tica di esso ne mostra, a un tempo, la struttura e il cammino. Alla luce di questa impronta idealistica hegeliana, che Cassi­ rer riesce a imporre ed a sovrapporre tanto agevolmente - e con nostra grande ammirazione e meraviglia - a motivi kantiani e hus­ serliani, debbono essere riconsiderati tutti gli argomenti antiempi­ 17 ristici e antipsicologistici che assumono allora una con­no­tazione polemica meno astrattamente filosofi­ca e più concre­tamente orientata verso la cultura dell'epoca. Idealismo contro positivismo. Questo è in effetti il nodo dello scontro. L'immaginazione come via di approccio alla problematica del mito: un filosofo positivista avrebbe certamente preso le mos­ se di qui. James Frazer 5 Immaginazione ed errore in Frazer Accennando alle linee più esterne del­l'impianto teorico di un'o­ pera an­tropologica che illustra esemplar­men­te l'atteggia­mento positivistico, quale è Il ramo d'oro di Frazer [4], avre­mo modo di farci un'idea più chiara delle ragioni cassire­riane. In primo luogo vi è in essa il motivo della connessione tra immaginazione ed errore: In Frazer abbiamo un esempio molto vivo del modo in cui opera nell'interpretazione del pensiero mi­ 18 tico, un punto di vista che tende a porre l'accento sulla falsità delle credenze, sul fatto che esse sono fondate anzitutto su fal­ se opinioni. E nello stesso tempo è facile mostrare in che modo un simile punto di vista sia connesso a istanze empiristi­che così come a una tendenza psicologizzante che conduce a conseguen­ ze particolarmente rilevanti. In Frazer, l'immaginazione è naturalmente fin dall'inizio in questione sotto il titolo dell'associazione delle idee. Un percorso evi­ dentemente lineare conduce dal tema dell'asso­cia­zio­ne delle idee a quello della falsità. Nella dinamica dell'as­sociazione delle idee, determinati contenuti vengono connessi ad altri indipendente­ mente ed eventualmente contro le connessioni reali. I legami mentali si sovrappongono a quelli effettivi, e la formazione di un'opinione erronea è di ciò una ovvia conse­guenza. Del resto anche nell'empirismo classico la tematica dell'asso­ciazione del­ le idee, appena posta, era già orientata in direzione dell'errore, anche se gli intenti erano - per esempio in Hume - accentua­ tamente filosofici: il richiamo all'associa­zione delle idee occorreva ogni volta che si doveva esibire l'effettività psicologica dei nessi dell'esperienza e, nello stesso tempo, la loro profonda illusorietà. Indipendentemente da queste preoc­cu­pazioni di ordine fi­ losofico, anche in Frazer il primitivo ha di fronte a sé un mondo costituito di connessioni illusorie, un mondo appreso attraverso legami pura­mente mentali, istituiti dall'azione dei meccanismi asso­ ciativi - quei meccanismi che agiscono, anche se in direzioni diver­ se, nello stesso modo e secondo le stesse regole nel primitivo come nell'uomo civilizzato. Il vecchio problema della "natura umana", della "essenziale similarità... con cui la mente umana ha elaborato la sua prima e rude filosofia della vita" [5] è anzi il presupposto che ci consente di affrontare il problema della comprensione di usanze che ci appaiono a tutta prima incomprensibili, e spesso anche incom­prensibilmente barbare. Come venire a capo del tragico destino del sacerdote - omi­ cida e vittima - che si aggira nel bosco sacro di Nemi? Una 19 regola strana. Una regola barbara. Eppure, deve esserci, dietro questa regola, come dietro le innumerevoli altre che ci appaio­ no sorprendenti e inintelligibili, un qualche criterio della com­ prensione. Dobbiamo riuscire, nel lavoro antropologico, a sco­ prire le opinioni implicite che stanno alla base di quelle usanze; ed operare nello stesso tempo quelle connessioni, quelle relazioni che consentano di cogliere il loro formarsi nelle stesse regole del­l'as­ so­ciazione delle idee. La teoria della magia e il modo in cui la magia viene dif­ ferenziata dalla religione illustra gli elementi teorici su cui si fon­ da questo programma interpretativo. Secondo Frazer, la magia è caratterizzata non tanto dalla concezione di un mondo pervaso da forze spirituali, quanto piuttosto dall'idea di una vera e propria legalità naturale, quin­ di dall'idea di una concatenazione stabile nel corso degli eventi, entro il quale lo stregone si intromette, aderendo alle leggi che lo regolano. Se consideriamo le pratiche dello strego­ne, appare subito chiaro che esse sono variazioni delle regole dell'associa­ zione immaginativa proposte dalla tradizione empi­ristica; e dal momento che quelle pratiche sono credute effica­ci, indubbia­ mente in esse è implicita la teoria secondo la quale la natura stes­ sa sviluppa il suo corso attenendosi alle stesse regole. Per questo alla magia deve essere riconosciuta una sorta di analogia formale con la scienza - in essa vi è l'idea di una legalità na­turale; e nelle pratiche magiche qualcosa di simile all'idea della possibilità di un dominio tecnologico della natura. Mentre la differenza di principio con ciò che potremmo chia­mare "religione" balza agli occhi con evidenza nella modifica­zione delle pratiche che rivelano un at­ teggiamento interamente diverso nei confronti della realtà. Agli artifici dello stregone subentrano i sacrifici del sacerdote: dunque la proiezione di una potenza sovrannaturale e la concezione di una natura priva di una legalità immanente, dal momento che può soggiacere in ogni momento all'arbitrio del puro volere per­ sonale. 20 Ma certamente quanto più Frazer sottolinea che nella magia possiamo scoprire "un germe della moderna nozione di legge naturale" [6], quanto più fa notare che la stessa scrupolosi­tà con cui lo stregone applica le regole magiche rammenta da vicino lo scrupolo con cui dobbiamo attenerci alle leggi natura­li per mettere la natura al nostro servizio [7] , tanto più deve essere accentuato il tema della falsità. La magia non è altro che la "sorella bastarda della scien­za"; essa rappresenta "una grande e disastrosa illusione" [8]. In che modo tuttavia una simile illusione ha potuto così lar­ gamente affermarsi e persistere tanto a lungo e addirittura so­ pravvivere fino ai nostri giorni, dove il modo di pensare magi­ co trova ancora un "solido strato di consenso intellettuale tra gli sciocchi, i deboli, gli ignoranti e i superstiziosi che co­stituiscono disgraziatamente la grande maggioranza del ge­nere umano?" [9]. Proprio nel rispondere a domande come queste l'inclina­zio­ne psicologistica del problema diventa particolarmente eviden­te nelle sue conseguenze insostenibili. In effetti non basta parlare di pura e semplice falsità, ma anche di falsità grossolana, di una falsità che dovrebbe risulta­re subito patente. Come mai l'urto delle opinioni con l'espe­rienza stessa non venne fin dall'inizio avvertito? Alla credenza in falsità grossolane deve certamente corrispondere non solo uno sviluppo culturale molto basso, ma una vera e propria ottusità intellettuale. Eppure, uomini intelligenti dovevano pur esserci anche tra i selvaggi; e allora "il lettore sarà tentato di domandare: come mai gli uomini intelligenti non scoprirono prima la fallacia della magia? Come mai poterono continuare a tenere care speranze invariabilmente destinate a fallire? Con che animo seguitavano a ripetere venerabili buffonate che non conduceva­no a nulla e a borbottare delle solenni tiritere che rimanevano senza effetto?" [10]. A questo proposito bisogna osservare - risponde Frazer - che l'errore "era tutt'altro che facile da scoprire", l'"insuccesso 21 tutt'altro che ovvio", perché spesso l'evento desiderato "segui­ va realmente l'esecuzione del rito destinato a causano". "Una cerimonia diretta a far soffiare il vento o a far cadere la pioggia o a causare la morte di un nemico sarà sempre seguita presto o tardi da quell'avvenimento che pretende di provocare" [11]. Vi erano certamente, anche presso i primitivi, dei "filosofi radicali" che forse si azzardavano a esercitare la scepsi nei confronti della magia, ma essi potevano essere facilmente tacitati. Ecco come argomenterebbe di fronte a questi dubbi il selvaggio "pratico", poco avvezzo alle dispute teoriche: "Ci può essere una cosa più evidente.., del fatto che quando io accendo la mia candela da due soldi sulla terra, il sole accende il suo gran fuoco in cielo? Mi piacerebbe sapere se non è vero che quando mi sono messo il mio vestito verde di primavera gli alberi non fanno lo stesso. Questi sono fatti chiari per tutti, e sopra questi io mi baso" [12]. Insieme all'ottusità vi è dunque anche la possibilità di un circolo vizioso al quale non è troppo ovvio sottrarsi. Chi si sot­ trae a esso, e anzi sa trarne profitto, è proprio lo stregone. Per quanto all'inizio lo stregone possa essere "sinceramente convinto di possedere quei meravigliosi poteri" che gli attribui­scono i suoi "ottusi fratelli" [13], tuttavia egli può confermare queste sue virtù solo se, resosi conto della falsità e della inefficacia della magia, sa approfittare accortamente di essa, realizzando la carriera a cui è predestinato. Lo stregone assu­me sempre più importanza non so­lo per i singoli, ma per il gruppo sociale e può infine aspirare ad assumere "l'autorità di capo e di re" [14]. In tutto ciò non solo diventano dominanti nozioni pura­ mente psicologiche come l'ottusità e l'intelligenza, la furberia e l'am­ bizione, ma attraverso queste nozioni si tenta addirittura di ren­ dere conto del passaggio dalla presunta "democrazia primi­tiva" al regime "monarchico". Lo scaltro briccone, l'intelligen­te im­ postore diventa infine l'autocrate del gruppo sociale -questo è il punto terminale della "carriera del mago" - impri­mendo una radicale modificazione alle forme di esistenza della tribù. 22 Possiamo qui stendere un velo sul fatto che approfittando del passaggio dal selvaggio democratico guidato dai suoi vec­ chi pacifici e tradizionalisti allo stregone astuto e ambizioso che instaura la monarchia, Frazer prenda lo slancio per un elogio del­la monarchia in genere come fautrice in se stessa di progres­so, del ci­ nismo politico, nonché delle tendenze espan­sionistiche e impe­ rialistiche che sono proprie di un regime autocratico [15]. Tutto ciò può essere particolarmente signi­ficati­vo sotto altri riguardi. Ciò che ci interessa invece notare è l'esemplificazione della por­ tata di un punto di vista che pone al centro del pro­ble­ma teorico della magia la sua falsità, seguendo la via di una trattazione che ci pone senz'altro di fronte all'origine imma­gi­nativa delle forma­ zioni mitico-magi­che e che dà a questo centro uno sviluppo in se stesso del tutto coerente. Non meno coerente è l'inflessione ironica che punteggia la stessa espressione letteraria. Se lo sguardo della beccaccia, con il suo occhio d'oro, ha la virtù di curare i malati di itterizia, il ven­ ditore di beccacce farà bene a portarle al mercato accurata­mente ricoperte affinché un malato di itterizia, passando di lì per caso, non venga curato gratis [16]. Quanto alla medicina ma­gica, "uno dei suoi grandi meriti è che essa permette di eseguire la cura sulla persona del medico invece che su quella della vittima, la quale evita così ogni noia e inconveniente, mentre vede il suo medico che si contorce e spasima davanti a lui" [17]. Una ironia che non ha certamente lo scopo di avvilire l'ar­ gomento, ma che trae tutta la sua serietà dalla polemica con­tro le sopravvivenze superstiziose, contro i pregiudizi dei bigotti che frenano in ogni tempo lo sviluppo delle sane argo­mentazioni e il progresso del costume. 23 6 La nozione cassireriana di simbolo L'esempio di una caratteristica impo­stazione del problema a par­ tire da un atteggiamento po­si­tivistico sembra dare parti­colare consi­stenza alle ragioni di Cassirer per mettere total­mente ai margini della problematica filosofica del mito il tema della connes­ sione del mito con l'imma­ginazione. Per quanto questa connessio­ ne possa essere ovvia, essa può essere alla fine fuorviante perché sembra co­stringerci fin dall'inizio a proietta­re sul mito il punto di vista dell'er­rore, facendo inclinare tutta la trattazione secondo una piega psicologistica con conseguen­ze più o meno mani­festa­ men­te inaccettabili. Dobbiamo per questo disporci senz'altro nell'alternativa proposta da Cassirer tra idealismo e positivismo? In realtà, pri­ ma di prendere una decisione converrà cercare di dare un reso­ conto del modo di approccio di Cassirer al problema par­ticolare del mito. Questo problema è particolare perché esso si presenta in Cassirer nel più ampio quadro di una filosofia delle forme simboliche, che traccia gli elementi di filosofia generale la cui applicazione viene sperimentata e messa alla prova sul terreno della problematica del mito. Si tratta dunque di un rapporto mol­ to stretto che difficilmente può essere scisso: concor­dare intorno al modo in cui Cassirer imposta la questione del pensiero mitico significa concordare anche sui presupposti filoso­fi­ci generali, e 24 inversamente dubbi sollevati su questa impo­stazione sarebbero anche dubbi sull'at­teggiamento filoso­fico complessivo. Uno dei modi per venire a capo della discus­sio­ne senza perdersi all'in­ terno della sua intrinseca complessità è probabil­mente quello di puntare fin dall'inizio l'attenzione sul­la nozio­ne di simbolo qui in questione, la cui teorizzazione è tanto essenziale all'impostazio­ ne di principio quanto lo è alle sue specificazioni particolari. Si è talvolta notato che la nozione di simbolo in Cassirer non può essere agevolmente impiegata per via della sua am­piezza che sconfina con l'aperta genericità. Un'osservazione come questa tuttavia non è corretta, dal momento che ciò che andrebbe rilevato in primo luogo non è tanto la difficoltà di rin­tracciare nel testo di Cassirer una precisa definizione quan­to piuttosto che quel­ la nozione è sempre intesa come rappresen­tativa dell'intera posizio­ ne filosofica esposta; ed è proprio da questa circostanza che deriva l'ampiezza d'uso del termine che appare così esso stesso ricco di significato e di problemi. Non è possibile, in altri termini, par­ lare della nozione di simbolo in Cassirer senza implicare il suo idealismo e la forma specifica che esso assume in questo autore. Da questo punto di vista è già indicativo che questa nozio­ ne sia introdotta anzitutto in connessione con la proble­matica della teoria della conoscenza. Per quanto l'impresa di Cassirer nel suo complesso sia carat­ terizzata dal tentativo di superare una concezione della filosofia strettamente legata ai problemi epistemologici, tutta­via è impor­ tante mettere in rilievo il fatto che questi problemi mantengono una posizione in qualche modo privilegiata. Le considerazioni iniziali intorno alla nozione di simbo­ lo si muovono sullo sfondo della questione del realismo - una questio­ne proposta secondo un'angolatura caratteristicamente epistemologica e in modo tale da implicare, con opportuni adat­ tamenti argomentativi, l'empirismo fenomenistico e in ul­tima analisi l'abito mentale di tipo positivistico. 25 Heinrich Hertz Nella sua Storia della filosofia [18] Cassirer spiega con partico­lare chiarezza in che modo Ernst Mach possa essere considera­to il teorizzatore di una posizione fenomenistico-empiri­stica e come gli elementi di carattere generale che si possono trarre dai Principi della meccanica di Heinrich Hertz possano essergli contrapposti. Secondo Mach, "la verità che il fisico deve descrivere con­ siste unicamente in una somma di semplici dati sensibili, in suo­ ni, colori, odori, gusti" [19]. Mach compie dunque una sorta di messa fuori gioco della portata ontologica delle nozioni fisiche che non sono direttamente riportabili a qualità senso­riali. Il fatto che nella conoscenza fisica della realtà vengano introdotte nozioni astratte fa sorgere l'idea di una realtà vera che sta al di sotto dei dati fenomenici come una sorta di impalcatura che li sostiene. Esse vengono intese come se si trattasse di nozioni che rin­ 26 viano a entità, mentre la loro natura vera e propria sta nel loro carattere di costruzioni teoriche. La critica di questa portata onto­ logica non conduce naturalmente alla loro sop­pressione, ma alla tesi secondo cui queste costruzioni sono veri e propri artifici, stru­ menti ausiliari, per rendere possibile il dominio, mediante il ricorso alla formulazione di una legge, della molteplicità dei casi particolari che si presentano nella realtà fenomenica. Alla critica della portata ontologica delle costruzioni astratte della fisica fa dunque segui­ to in Mach un determinato carattere della costru­zione teorica e della nozione di legge che ne segue [20]. La legge non fa altro che riassumere "la conoscenza che la percezione ci offre in una maniera immediata": e la teoria stessa assume il carattere di una semplice "riproduzione dei fatti stessi" [21] in modo tale che essa è, in linea di principio anche se certa­ mente non in linea di fatto, del tutto eliminabi­le [22]. Con tutto ciò viene riproposto un ideale di conoscenza che misconosce una partecipazione autentica delle operazioni co­noscitive nella deter­ minazione del risultato conoscitivo, separando nettamente la co­ struzione teorica come puro mezzo o artificio del conoscere dai fatti che sono, nella loro singolarità, il suo obiettivo. Contro la posizione di Mach, assume particolare rilievo, se­ condo Cassirer, la posizione di Hertz: "Con lui comincia una nuova fase anche nei metodi della fisica" [23]. Questa modifica­ zione non consiste certamente in un ritorno all'attribuzione di una portata ontologica secondo un punto di vista ingenuo già criticato da Mach. Anche in Hertz assume un particolare rilie­ vo il momento della costruzione teorica, l'accentuazione posta sulla astrattezza delle nozioni scientifiche. Ma questa accentua­ zione ha ora un senso interamente diverso - e mentre in Mach era possibile ipotizzare, sia pure in via astratta, l'eliminabilità del momento teorico, ciò non accade in Hertz. Per Hertz infatti non è in generale proponibile il problema della commisurazione del­ la teorizzazione alla vera realtà delle cose - si tratti di un livello soggiacente allo strato empirico fenomenico o di questo stesso 27 strato. Ed è proprio per mostrare questa improponibilità che in­ terviene in Hertz la nozione di immagine secondo quella sfuma­ tura di senso che interessa in particolare Cassirer. Una teoria fisica non è altro, per Hertz, che una nostra rap­ presentazione della realtà, un'immagine di essa. Ma per dare di essa una valutazione non abbiamo bisogno di postulare che essa rispecchi dati di fatto a cui debba essere commisurata. Una te­ oria consta di leggi e queste debbono essenzialmente assolvere lo scopo di consentirci di effettuare previsioni. Ma questo scopo si può dire assolto nel momento in cui da una certa immagine possiamo trarre il verificarsi di eventi essi stessi dati in immagine. Il fatto che questi eventi si verifichino conferma soltanto che tra la sequenza di immagini e la sequen­za dei fatti ci deve essere una qualche connessione. Ma non dice nulla sulla pretesa presenza nell'immagine dell'essenza della cosa. Una teoria si presenta dun­ que essenzialmente come un modo di ricomporre i fenomeni da un punto di vista unitario. Si richiedono perciò par­ticolari requisiti che la teoria deve possedere, ma essi conste­ranno essenzialmente nella sua coerenza logica interna, nella sua semplicità e nella sua comprensività, oltre che nella capacità di consentire previsioni, mentre non viene affatto in questione un eventuale fondamento nei dati di fatto dei quali la teoria stessa dovrebbe fornire una rappresentazione fedele. Prescindendo da una discussione sul senso e sulla portata effettiva della posizione di Hertz - una posizione del resto che potrebbe essere richiamata anche da punti di vista molto diversi - risulta comunque chiaro l'aspetto che in essa attira l'interesse di Cassirer. In un modo o nell'altro, viene qui proposta una nozione di immagine che esclude il carattere di semplice riflesso delle cose, che propone dunque i concetti fondamentali della scienza come simboli. Questa parola ha qui il senso che deriva a essa dall'im­ postazione teorica che abbiamo or ora esposto. Dei simboli verrà dunque certamente accentuato il carattere stru­mentale, ma soprat­ 28 tutto la partecipazione dello strumento alla determinazione del ri­ sultato conoscitivo. Il valore dei simboli della scienza secondo la prospettiva emergente nella posizione di Hertz "non risiede nel rispecchiamento di una determinata cosa esistente, ma nel risultato che essi forniscono come stru­mento della conoscenza, nell'unità dei fenomeni che essi stessi producono nel loro senso" [24]. Nello stesso tempo Cassirer mette in risalto che la nozione di legge presente in Hertz supera la concezione di un puro ri­ assunto di casi particolari, così come la necessità di conside­rare una teoria come un vero e proprio sistema unitario che non ha senso tentare di mettere alla prova pezzo a pezzo; e infine la na­ tura peculiare dell'apparato propriamente concet­tuale che non appare semplicemente derivato dall'esperienza, ma liberamente prodotto indipendentemente da essa in funzio­ne dell'acquisizio­ ne di un punto di vista che dovrà essere messo alla prova dell'e­ sperienza in modo certamente più com­plesso e meno lineare di quello suggerito dalla "teoria del rispecchiamento". In breve, in Hertz si affaccia, secondo Cassirer, l'idea che la scienza si muove interamente all'interno di un universo simbolico in un'accezione niente affatto ovvia del termine, che ci conduce direttamente sull'assunto epistemologico di ascenden­za kantia­ na fatto proprio da Cassirer. Secondo questo assunto, la deter­ minazione dell'oggetto del conoscere può avvenire solo attraverso "la mediazione di una peculiare struttura logico­concettuale" [25]. In generale non vi sono oggetti da conoscere come ogget­ ti dati che attendono soltanto la "riflessione" fina­lizzata alla loro conoscenza, ma l'oggetto si offre come oggetto da conoscere in quanto viene proposto all'interno di un deter­minato punto di vi­ sta, quindi all'interno di una prospettiva che non può pro­manare dall'oggetto stesso, ma che sorge dalla forma del rapporto che si istituisce con esso. Nell'introdurre la nozione di simbolo, dunque, ci troviamo anzitutto nel bel mezzo di una discussione caratteristicamente 29 epistemologica che implica una presa di posizione antirealisti­ca, in primo luogo in rapporto allo statuto dei concetti teorici impie­ gati dalla scienza, e in particolare dalla fisica; anche se poi l'obiet­ tivo autentico è quello dell'estensione e della genera­lizza­zione di una simile presa di posizione. Conoscere non significa rispecchiare, ma piuttosto dare forma ai dati. L'attività conoscitiva, d'altro lato, è solo un sin­go­lo genere di attività formatrice, un peculiare tipo di mani­fe­sta­zio­ne della "vita spirituale". E quei caratteri che ab­biamo rife­rito in via del tutto generale alle produzioni cono­scitive e che si vuole qui che siano implicati nello stesso impiego della parola "simbolo" andranno attribuiti ad ogni produzione come il mito, l'ar­te, la religione, che sono anch'es­se, non meno della scienza, manife­ stazioni dello spirito e nello stesso tempo modalità ben definite di costituzione del reale. Questo modo di impostazione del problema, che riguarda l'ambito delle prese di posizioni di principio, incide natural­mente in modo decisivo sulla direzione problematica verso cui si trova fin dall'inizio orientata la tematica del mito. Se infatti as­su­miamo una concezione realistica, la nostra attenzione dovrà essere subito attratta dalla distorsione e dalla falsifica­zione operata dal mito ri­ spetto a una realtà presupposta come già data. Cosicché si impor­ rà subito un'elaborazione teoretica che non perda mai di vista il rapporto di pura e semplice contrappo­sizione con la conoscenza in genere. Mentre se le immagini del mito ci appaiono anzitutto come simboli nell'ac­cezione che abbiamo or ora illustrata, ecco che il mito, non meno della scien­za, ci appare come il risultato di "un'attività originaria, e non semplicemente riproduttiva", il suo mondo di immagini come un mondo nel quale "non semplice­ mente si rispecchia un dato empirico", ma come un mondo che il mito produce "se­condo un principio autonomo" [26]. E si apre pertan­to il pro­blema di indicare i modi specifici secondo i quali si esplica questa par­ticolare attività formatrice così come il pro­ blema di portare a chiarezza il "principio autonomo" a partire 30 dal quale il mondo mitico prende forma. 7 Implicazioni idealistiche La stretta integrazione della nozione cassireriana di simbolo all'interno dei presupposti filosofici di Cassirer ap­pa­re con evi­ denza anche se consi­de­riamo il problema da altri lati. Una filosofia idealisticamente orientata, osserva Cassirer, corre il rischio, già in sede di considerazione epistemologica, di condurre ad una frantumazione dell'oggetto stesso del sapere pro­prio perché questo oggetto non può essere semplicemente pre­supposto, ma l'apparato concettuale e strumentale intervie­ ne nel­la sua stessa determinazione. Poiché questi apparati sono mol­teplici, sembra che si debba conseguentemente "ac­cettare la conclusione che ad una diversità dei mezzi debba corrisponde­ re necessariamente anche una diversa disposizione dell'oggetto, un diverso significato dei nessi "oggettivi""; "l'u­nità dell'essere... minaccia di dissolversi in una mera moltepli­cità dell'esistente" [27]. Ed a maggior ragione questo rischio si estende nella genera­ liz­zazione di un simile punto di vista alle manifestazioni culturali in genere. Assumendo una concezione realistica, in­vece, all'og­getto verrebbe riconosciuta in via di principio una identità sostan­ziale e i diversi punti di vista da cui esso verrebbe considerato sa­reb­bero appunto soltanto luo­ghi di osservazione rivolti ad una entità in se stessa unitaria. 31 Di conseguenza il problema dell'unità andrà risolto non dal lato dell'oggetto, ma da quello del soggetto; e può cadere a questo punto un ulteriore richiamo alla plasmazione "simboli­ca" del reale. Ciò che importa è in Cassirer non tanto la specificità dei simboli e le loro differenze, quanto il fatto che l'attività at­ traverso cui lo spirito si "obbiettiva" è comunque un'attività di simbolizzazione: cosicché la "funzione spirituale" è sempre in ogni caso formalmente la stessa. Dal punto di vista del problema di una considerazione unitaria, non interessa il contenuto dei simboli, ma quella forma che è comune ai simboli di qual­sivoglia contenuto e origine, una forma che va infine illustrata come pro­ duttività intrinseca della vita spiri­tuale. Il riconoscimento della molteplicità di "direzioni della vita spirituale" è fin dall'inizio accompagnato dal problema di indi­ care il termine medio che le attraversa e unifica, così da perve­nire ad una considerazione unitaria "che estenda alla totalità delle forme spirituali i risultati raggiunti dalla critica trascendentale della pura conoscenza" [28]. Questo termine "me­dio onni­comprensivo nel quale si incon­ trano tutte le forme spirituali pur co­sì diverse" è il simbolo stesso, la stessa attività di simbolizzazione. La filosofia delle forme simboliche è perciò anzitutto una filosofia dello spirito e, nello stesso tempo, una versione dell'i­dea­lismo filosofico. Poiché questo idealismo assume a proprio con­cetto rappre­ sentativo la nozione di simbolo, dando così rilievo al tema del linguaggio, esso può presentarsi sotto l'aspetto di una semeiotica filosofica. Il riferimento - in realtà alquanto forzato - alla caratteristica universale di Leibniz ha esattamen­te questo senso: come Leibniz ricercava sotto questo titolo una lingua generale della conoscen­ za, così si potrebbe indicare con lo stesso termine il problema di una lingua generale dello spirito [29]. 32 8 Attività simbolizzatrice e teoria della coscienza Posto il problema in questi termini risulta essere un errore ricer­ care nell'opera cassireriana qualcosa di simile a una defi­nizione di "simbolo" sufficien­te­mente precisa. Questa nozione può esse­ re illustrata solo richia­mando i presupposti filosofici di fondo e, in­ versamente, nell'il­lu­strazione di questi presupposti essa è destinata a ripresen­tarsi di continuo. Si consideri, per esempio, il modo in cui si afferma la pro­ blematica della totalità che riprende temi kantiani, investen­doli dell'aura dell'esasperato organicismo dell'idealismo ro­mantico. Alla base vi è appunto la nozione kantiana di categoria che assume in Cassirer, accentuatamente, il senso di un rimando a nessi relazionali che non possono essere immanenti ai dati, ma che vengono proiettati in essi da una specifica ed autonoma atti­ vità della coscienza. La coscienza è sempre una coscienza che istituisce relazioni. Perciò essa è costitutiva di unità ogget­tive di varia specie, in corrispondenza con le diverse direzioni dello spirito, con le molteplici modalità della sua realizzazione. Nel­ lo stesso tempo la coscienza, nella sua unità soggettiva, ha essa stessa una struttura relazionale: essa ha dunque carattere totaliz­ zante, è una totalizzazione e opera totalizzazioni. Come formula breve capace di sintetizzare questa "teoria 33 della coscienza" potremmo proporre: ogni contenuto della coscien­za è sempre mediazione di un altro contenuto. Cassirer dice propria­men­te: "Non vi è alcuna cosa nella coscienza senza che in tal modo eo ipso, senza ulteriore mediazione, sia posta un'altra cosa o una se­ rie di altre cose" [30]. Ciò deve essere inteso, evidentemen­te nel senso che qualunque contenuto di coscienza è senz'altro la me­ diazione di altri contenuti oppure che ogni cont­enuto, non ap­ pena è dato, è aperto ad altri contenuti e rinvia a essi. In questo modo nella singolarità è sempre presup­posta la totalità: "in­fatti ogni singolo essere della coscienza ha la sua determi­na­tezza pro­ prio soltanto per il fatto che in esso viene nel contempo posto e rappresentato in una forma qualsiasi la totalità della co­scienza" [31]. Questo tema, che determina non soltanto l'impostazione ge­ nerale del problema, ma anche l'atmosfera nella quale l'ope­ra è immersa, viene variamente esemplificato da Cassirer. In primo luogo vi è la questione del modo di intendere la temporalità della coscienza [32]. Ogni contenuto coscienziale è certamente presente alla coscienza, ma non in ogni caso in un senso che rinvia ad una concezione puntiforme della temporali­ tà. Per quanto il passato della coscienza non ci sia più e il futu­ ro non ci sia ancora, tuttavia "il contenuto che noi indichiamo come "ora" non è altro che il limite eternamente fluente che separa il passato dal futuro. Il singolo istante temporale, in quanto lo si voglia determinare come temporale non può concepirsi come rigida esistenza sostanziale, ma solo come l'oscillante trapasso dal passato al futuro, dal non più al non ancora" [33] . Il presente deve dunque essere inteso come momento di una processualità, cosicché in esso vi è un accenno alle altre di­ mensioni temporali, quindi alla totalità dello sviluppo stesso. Il rimando ad altro assume qui la forma dell'oltrepassamento ver­ so l'altro, e si apre così la prospettiva di una considerazione di­ namica che si salda al problema dell'integrazione e della "totalità autentica". 34 Per ciò che riguarda il problema dello spazio Cassirer nota che i rapporti spaziali si costituiscono a loro volta in un processo temporale, benché il risultato debba essere l'appren­sione di dati coesistenti. Lo spazio percepito è costituito nella processualità della percezione, e dunque esso "si può rappre­sentare soltanto sulla base delle sintesi successive" [34]. Anche in questo caso è necessario perciò che il dato venga trasceso ed integrato in una totalità. Il processo di costituzione della spazialità "si spezzerebbe per noi in singoli elementi completa­mente isolati, senza rapporti fra loro, e perciò non permette­rebbe in modo alcuno il compen­ diarsi in un unico risultato, se qui non sussistesse la possibilità generale di comprendere già il tutto nell'elemento, così come l'elemento nel tutto" [35]. In questa direzione viene rammentato il prospettivismo del­ la percezione: la visione della cosa secondo l'angolatura deter­ minata da un punto di vista fa parte della struttura del processo percettivo, ma di essa fa parte necessariamente anche il riman­ do dal lato colto prospetticamente alla cosa intera. "L'immagine spaziale che noi possediamo di un singolo ogget­to empirico, per esempio di una casa, ha luogo solamente per il fatto che noi ampliamo in questo senso una singola visione prospettica relati­ vamente limitata, per il fatto che noi la utilizziamo come punto di partenza e come stimolo per costrui­re, in base a essa, un tutto molto complesso di relazioni spaziali" [36]. In particolare, implicando nell'ambito di una simile impo­ stazione la questione dell'inerenza delle proprietà a una cosa, inerenza che non può essere spiegata in termini "sommativi", ma che richiede che l'idea della totalità della cosa sia in qualche modo presupposta, Cassirer rafforza con il richiamo al tema del­ la totalità la propria polemica antiempiristica che assume in que­ sto contesto il carattere di un netto rifiuto dell'associazioni­smo psicologico. Egli fu del resto tra i primi a dare peso filo­sofico ai risultati della psicologia della forma di cui fa un ampio utilizzo, anche se proprio per questo è probabilmente responsa­bile del 35 kantismo implicito così spesso troppo somma­riamente attribui­ to a quell'indirizzo psicologico. Tuttavia a noi preme soprattutto sottolineare che l'insi­sten­ za sul carattere totalizzante della coscienza, quel carattere fonda­ mentale "per cui il tutto qui non è raggiunto solo dopo che si è partiti dalle parti, ma ogni singolo atto che pone una parte impli­ ca che si ponga il tutto, non secondo il suo contenu­to, ma secon­ do la sua struttura" [37], costituisce un altro modo di riproporre il problema della simbolizzazione, un modo ancora più radicale dal momento che, seguendo questa via si giunge a far coincidere la nozione stessa della coscienza con l'attività della simbolizzazione. La formula secondo cui ogni contenuto è sempre mediazio­ ne di un altro contenuto può certamente essere modi­ficata sen­ za mutamento di senso e resa ancora più concisa, di­cen­do che la presenza è sempre anche rappresentazione. Attra­ver­so l'impie­go di quest'ultimo termine, inteso come "presenta­zione di un conte­ nuto in un altro e per mezzo di un altro" [38], unitamente all'idea che "solo in questa rappresen­tazione e mediante essa diventa possibile anche ciò che noi chiamiamo l'essere dato e la presenza del contenuto" [39] diventa evidente la saldatura tra la tematica della totalità e la nozione di simbolo. E non meno evidente ap­ pare che la nozione di simbolo è radicata, secondo questa im­ postazione della questione, nella stessa essenza della coscienza. Là dove si dice che "la rappresentazione... dovette essere rico­ nosciuta come presup­pos­to essenziale per la costru­zione della coscienza e come condizio­ne della sua peculiare unità formale" [40], la parola simbolo può certamente essere sostituita a quella di rappre­sentazione. La nozione di simbolo non può dunque in Cassirer esse­ re una nozione rigorosamente determinata, e nemmeno essere riservata per così dire ad impieghi particolari. Questo termine indica anzitutto i rapporti rappresentativi in genere, nei quali si possono discernere i termini del rapporto, come accade per le parole del linguaggio e per tutti quelli che Cassirer chiama simboli 36 indiretti [41]. Questa accezione viene poi ulteriormente ampliata, in quanto con il termine di simbolo si indica anche qualunque rapporto di rinvio ad altro, quindi tutte le strutture relazionali che reperiamo all'interno dei decorsi percettivi e della vita di esperienza in genere. In essa agisce già una sorta di "simbolica naturale" che rappresenta il fondamento del rapporto simbolico vero e proprio. Da tutto ciò risulta una significativa accentuazione sui sim­ boli indiretti, quindi sulla simbolica artificiale: infatti il ri­chiamo alla simbolica naturale serve essenzialmente a mostrare che i simboli indiretti sono "fondati nell'essenza stessa della coscien­ za" [42], ma al tempo stesso solo essi esprimono com­piu­ta­mente questa essenza proprio perché sono l'espressione della sua spon­ taneità e della sua libera produttività. Proprio il fatto che vi sono simboli artificiali mostra che la coscienza si può affermare, nella propria simbolicità essenziale, con una radica­le autonomia. Nel­ la simbolica naturale (nella percezione per esempio) noi siamo vincolati al dato di fatto sussistente: men­tre nei segni simbo­ lici prodotti ad arte "l'esistenza sorge solamente dal significa­ to"; in essi la coscienza "si crea essa stessa determinati contenuti concreti e sensibili come espres­sione di determinati complessi signifi­cativi" [­43]. Qui diventa tra l'altro chiara la tensione, tutta idealistica, verso l'ideale del pensiero puro così come la distanza, che le indubbie analogie tra spunti problematici non sono in grado di attenuare, tra una posizione come quella cassireriana e la feno­ menologia nel senso di Husserl. L'affinità di contenuto tra le stesse formule generali - la simbolicità della coscienza sembra portare in prossimità della intenzionalità di cui parla­va Husserl - viene sommersa dalla tendenza a fissare un sommo principio unificante, tendenza che è tanto caratteristica di un idealista au­ tentico, quanto è lontana dalla passione fenomeno­logica per le piccole differenze. 37 9 La tesi del simbolismo implicito Questa tendenza all'unità si fa naturalmente sentire con tutta la sua forza nel modo di approccio al tema del mito. Oggetto di indagine sono qui certamente le forme strut­turali dell'esperienza mitica intesa come un vero e proprio modo di costituire la realtà stessa, ma queste forme strutturali sono dominate da un principio fondamentale, da un assunto che riguar­da il modo in cui si esplica, nel mito, l'attività simboliz­zante che caratterizza la vita dello spi­ rito in generale. Questo principio potrebbe essere formulato così: nell'e­spe­­ rienza mitica della realtà vi è una radicale indistin­z ione tra il simbolo e la cosa simbolizzata. Ciò significa: il pensiero mitico è in sé un pensiero simbolico, ma trae la propria specificità proprio dal fatto che in esso non si produce la consapevolezza del simboli­smo in quanto simbolismo. Questa tesi si presenta già nella intro­duzione dell'o­ pera e ricorre ovun­que nel suo corso. Cassi­rer non si stanca di ripetere che per il primitivo il simbolizzan­te ed il simbolizzato fanno tutt'uno, che qui manca la coscien­za di una precisa discri­ minazione. Le "immagini" che sono presenti nei comportamenti mitici non sono mai coscienti in quanto immagini, ma fanno corpo con la cosa stessa. Con terminologia di derivazione hegeliana potremmo par­ 38 lare di questa tesi fondamentale, che dovrà servire come riferi­ mento interpretativo di base per illustrare le peculiarità delle produzioni mitiche come tesi del simbolismo implicito. Una terminologia hegeliana che, nonostante tutte le diffe­ renze, è in realtà opportuna anche in base a considerazioni di contenuto e che riguardano il modo in cui l'analitica fenome­ nologica della coscienza mitica si dispiega nel corso della sua ela­ borazione. In effetti, non appena abbiamo enunciato l'as­sunto fondamentale dell'indistinzione del rapporto simbolico ci tro­ viamo subito orientati in una prospettiva di sviluppo e di proces­ sualità ideale che richiama direttamente la nozione he­geliana di fenomenologia. Il parlare di simbolismo implicito rimanda subi­ to alla possibilità di una esplicitazione - l'incon­sape­volezza del rap­ porto ad una graduale presa di coscienza, che dovrà anche neces­ sariamente rappresentare il superamento dialettico di quel­la fase dell'esperienza culturale dell'umanità che caratterizziamo co­me esperienza mitica. Un principio concettuale forma la traccia per l'interpreta­ zione e la comprensione della struttura del pensiero mitico e nello stesso tempo istituisce differenze secondo l'ordine di una genesi ideale. Ciò riguarda naturalmente in primo luogo l'individuazio­ ne di una precisa distinzione tra mito e religione. Il mito di cui parla Cassirer - proprio in quanto è definito dal simbolismo implicito - e molto prossimo a tutto ciò che Frazer avrebbe fatto rientrare sotto il titolo della magia. E in effetti questo ri­ ferimento alla magia come la fase più primitiva, ma anche più genuina, del pensiero mitico diventa spesso del tutto manifesta. Benché il pensiero mitico non si riduca per Cassirer all'ambito della magia, tuttavia il nucleo di esso è indubbia­mente rappresentato dal rapporto magico; mentre quanto più ci allontaniamo da questo nucleo tanto più ci approssimiamo all'ambito dell'e­sperienza che dovremmo chiamare, più pro­priamente, esperienza religiosa. Ciò che accade in quest'ultima, e che fa parte dell'essen­ziale 39 novità che essa introduce nelle vicende della vita spiritua­le è pro­ prio la presa di coscienza del rapporto di rappresenta­zione sim­ bolica. Non questo o quell'oggetto nella sua singolari­tà e nel­la sua esistenza concreta diventa oggetto di venerazione e di culto, ma questa esistenza concreta in quanto rimanda a qual­cosa che sta al di là di essa e alla quale essa si limita ad accen­nare simbo­ licamente. Indipendentemente dunque dalle intersezioni che rimanda­ no a "sopravvivenze" o, inversamente, ad anticipazioni che rendono difficile di fatto la discriminazione tra mito e religio­ne, vi è una precisa discriminazione ideale che mette in questio­ne la struttura del rapporto simbolico. Questa discriminazione propone di per se stessa, proprio in quanto riguarda la dialetti­ca tra l'implicito e l'esplicito, un ordinamento processuale secondo il quale la reli­ gione si situa sulla linea di sviluppo del mito e il mito è destinato a trapassare ed a superarsi in essa. L'accenno alla nozione di arte merita di essere rammenta­to, nonostante la sua brevità, perché conferma e ribadisce l'uti­lizzo dello schematismo concettuale della tesi del simboli­smo impli­ cito. Mentre nel pensiero mitico nessuna raffigura­zione della re­ altà potrà valere come tale dal momento che l'immagine sarà fin dall'inizio investita da valori magici nei quali si presenta la cosa stessa, nella religione la relativa autonomia acquisita nella presa di coscienza della distanza dei termini del rapporto non potrà es­ sere veramente completa: l'immagine non potrà, nemmeno nella religione, valere in se stessa proprio perché è ancora il simbolo di una realtà trascen­dente. All'esperienza estetica dunque spetta una caratterizzazione autonoma dal momento che in essa l'immagine appare nella sua totale autonomia e indipendenza rispetto alle en­ tità di riferimento che giacciono al di fuori di essa presentandosi come libera estrinsecazione della soggettività del suo produt­tore [44]. Il prendere le mosse dalla tesi del simbolismo implicito contiene già queste possibili "deduzioni" - così come del resto 40 prospetta l'intera descrizione dell'esperienza mitica secondo le linee di un movimento di progressiva dissoluzione. Nello stesso tempo, il principio che fissa la tipicità del pensiero mitico lo pro­ pone non solo come fase di un processo, ma come la fase iniziale del processo stesso della cultura. All'inizio non vi è e non può che esservi l'esperienza mitica dal momento che la distinzione appare come una evoluzione dell'in­­­di­­ stinzione, e la fase dell'indistinzione come una fase con­cet­­­­tual­mente e storicamente anteriore. Se poi vogliamo spingere lo sguardo, in qualche modo, pri­ ma di questo inizio, allora troviamo l'esperienza concepita co­me un caotico fluire di pure percezioni sensoriali nella loro singolari­ tà e molteplicità inorganizzata; una nozione di espe­rienza che ha, naturalmente, il carattere di una mera astra­zione, di una nozione limite, che deve comunque essere postu­lata pro­prio per portare in primo piano la funzione ordinatrice dell'e­sperienza mitica. In tutto ciò si fa sentire il peso del modello della filosofia kantiana dell'esperienza. Anche in essa la nozione del "molte­ plice dell'esperienza" - espressione che indica niente altro che le impressioni sensoriali della tradizione empiristica - deve essere mantenuta come nozione limite, puramente negativa, per indica­ re il materiale nel quale le forme a priori introduco­no un ordine. Nella trasposizione di questo modello all'esperienza mitica, il flusso dei dati inorganizzati viene richiamato in Cassirer per ren­ dere conto dell'origine dell'esperienza mitica: all'interno di questo flusso accade che questa o quella singola impressione assu­me un particolare rilievo per la coscienza, un particolare significato che fa tutt'uno con l'impressione stessa e che istitui­sce, all'interno del flusso, una differenza e con ciò stesso un principio di ordina­ mento. Il tema dell'intensificazione delle intuizioni sensibili sintetizza molto bene i vari aspetti della tematica cassireriana e ne indica l'orientamento di fondo. Il problema del simbolismo implicito è in realtà già presen­te 41 nella illustrazione del trapasso dalla impressione alla espressio­ne: il dato semplicemente percettivo non solo è investito da un flusso emotivo particolarmente intenso che lo rende ricco di signifi­ cato, ma viene compenetrato dal significato in mo­do da esser­ ne indistiguibile. Di fronte alla cosa da cui siamo stati colpiti in quanto ha ricevuto un senso in rapporto ai nostri timori, ai no­ stri desideri e ai nostri bisogni la reazione non è quella di istituire una rete di relazioni che riporti questo senso in un contesto più ampio liberandolo dal riferimento alla cosa nella sua singolarità, ma al contrario quello di associare sem­pre più strettamente il significato alla cosa stessa, traducendo questa connessione in un vincolo indissolubile. La cosa è diventata pre­gnante e in questa sua pregnanza affascina la coscienza. La co­scien­za mitica è una coscienza affascinata, quindi una coscienza legata alla presenza, nella sua immedia­tezza, "prigioniera del suo contenuto" [45]. "Il mito si attiene esclusivamente alla presenza del suo og­ getto, all'intensità con cui questo in un determinato momen­to afferra la coscienza e se ne rende padrone" [46]. "E come se là, dove l'uomo sta nel cerchio magico di questa intuizione miti­ co-religiosa, tutto il resto del mondo fosse sprofondato e som­ merso" [47]. E tuttavia nonostante questa concentrazione nella singola­ rità che preclude in via di principio ogni transizione propria­ mente concettuale e che conferisce alla coscienza mitica un ca­ rattere di passività, attraverso l'investimento mitico dì senso "il mondo della passiva impressione sensibile" è trasceso [48], il pri­ mo passo al di là del dato è stato compiuto perché il materiale dell'esperienza è in ogni caso entrato in relazione con l'attività produttiva dello spirito; e la cosa che è emersa dall'indifferenza si appresta a diventare il punto zero delle coordinate del mondo. 42 10 Sviluppi ed esempi In forza di tutto ciò il pensiero mitico riceve la sua prima quali­ ficazione come pensiero concreto: esso si trova presso le cose e non prende mai le distanze da esse. Le astrazioni e le idealità in ge­ nere restano ad esso sconosciute; e ciò appare come una conse­ guenza diretta delle tesi del simbolismo implicito, della tendenza cioè, che questa tesi attribuisce al pensiero mitico, a considerare ogni elemento significativo come direttamente in­corporato nel materiale che fa da veicolo ad esso. Nel pensiero mitico "man­ ca la categoria dell'i­dea e di conseguenza ogni volta che incon­ tra un elemento significativo questo, per essere colto, si deve trasformare in qualcosa di oggettivo e assumere il carattere di un essere" [49]. Ciò appare con particolare chiarezza nei compor­ tamenti e nelle azioni. Le cerimonie in genere, per quanto con il tempo possano attenuarsi in puro e semplice spettacolo, non hanno mai "originariamente un significato semplicemente alle­ gorico, imitativo o rappre­sentativo, ma un significato del tutto reale: sono intrec­ciate con la realtà dell'a­gire tanto da formarne un'indi­spen­sabile parte costitutiva" [50]. E in che cosa consiste questo intreccio? Consiste per esempio nel fatto che l'atto rituale deve avere efficacia sulla realtà stessa, dagli atti di culto dipende tutto ciò che cresce e prospera. "Il culto è il vero strumento in virtù del quale l'uomo, non tanto dal punto di vista spirituale, quanto dal punto di vista fisico sottomette la natura" [51]. Op­ pure consiste nella partecipazione alla cerimonia come una par­ 43 tecipazione non già a qualcosa che viene messo in scena qui e ora, ma all'evento mitico che la cerimonia, più che rappresentare, ricrea e pone in essere ancora una volta. Il danzatore che ha messo la maschera del dio "diventa il dio" [52]. "In tutti i riti che si riferi­ scono alla vegetazione in cui si celebra la morte e la resurrezione del dio si esprime sempre questo fondamentale sentimento di identità, di identificazione reale. Ciò che avviene in questi riti.., non è la semplice rappresentazione di un evento, ma l'evento stesso nel suo compiersi" [53] . Fra i primi e più evidenti esempi che Cassirer rammenta per illustrare la tesi dell'indistinzione, vi sono naturalmente gli impieghi magici del linguaggio, in particolare tutti quegli esem­ pi che mostrano, nei modi più svariati, che per il primiti­vo il nome proprio di una persona o di un dio racchiude la persona stessa o la sua potenza. E ciò che vale per le immagini verba­ li, var­rà anche per le immagini non verbali in genere. Questa "identificazione reale" sta alla base di tutte le pratiche magiche, incantesimi e fatture, operate sulle immagini. La convinzione di quei popoli primitivi, citata da Frazer e ripresa da Cassirer [54] , che tremavano alla vista dell'arcobaleno perché lo ritenevano una grande rete tesa da un potente stregone per catturare la loro ombra, riassume molto efficacemente questa tematica. Secondo lo spirito della concezione cassireriana do­vremmo commenta­ re che qui l'arcobaleno viene considerato secondo le analogie dell'immaginazione, ma l'immagine si solidifica senz'altro nella cosa - la rete - così come l'ombra dell'uomo viene subito con­ dotta a identificazione reale con l'uomo stesso. All'interno della esperienza mitica, concepita a partire dall'assunto del­l'indistin­ zione tra il simbolo e la cosa, l'arcobaleno deve essere vissuto come una rete reale e l'ombra non meno realisticamente come un corpo del corpo, come una sua diretta emanazione fisica - ed è significativa del resto la perplessità che Cassirer manifesta a proposito dell'interpreta­zione dell'ombra come "anima", che gli appare come un'interpo­la­zione riflessiva fondamentale estranea 44 al pensiero mi­tico. Tutto qui diventa reale: nel senso dell'og­ gettivi­tà, dell'es­sere, della sostanzialità. E reale sarà naturalmente anche il timore di fronte ad un pericolo così concreto. Se poi procediamo oltre nel tentativo di delineare "il carat­ tere della coscienza mitica dell'oggetto" ci troveremo continua­ mente di fronte a variazioni, articolazioni e ampliamenti proble­ ma­tici che hanno strettamente a che fare con il principio dell'in­ distinzione. Lucien Levy Bruhl 45 Vi è anzitutto il rilievo che assume, nell'ambito del mito, l'esperienza onirica: questo rilievo che "le esperienze vissute in sogno hanno per il nascere e il costituirsi dell'esperienza mitica" [55] va compreso tenendo conto del fatto che le immagini oni­ riche tenderanno per il primitivo ad assumere una consi­stenza e una solidità che per noi spetta soltanto agli eventi della veglia. Su questo punto Cassirer rimanda alla documen­tazione riunita da Lévy-Bruhl nel capitolo terzo del suo libro intitolato La mentalità primitiva [56] dal quale risulta indubbia­mente che qui non si tratta soltanto di prestare fede al conte­nuto dei sogni, oppure sempli­ cemente di considerarli come se contenessero ammonimenti o previsioni sugli eventi quotidiani: tutto sembra confermare che il sogno, come scrive Lévy-Bruhl, "porti ai primitivi dei dati che valgono altrettanto, se non più, che le percezioni acquisite du­ rante la veglia" [57] e che sulla base di una simile documentazio­ ne si possa affermare che non vi è, per il primitivo, alcuna netta linea di demarcazione tra il sogno e la veglia. Dall'indistinzione tra sogno e veglia all'indistinzione tra vita e morte il passo è breve. Si tratta del resto di una connessione già presente in Lévy-Bruhl. Egli rammenta che secondo un modo di considerare il sogno molto diffuso, nel sogno l'"anima" si al­ lontana temporaneamente dal corpo: esattamente come accade nel caso dei morti recenti, la cui anima "dimora nelle vicinanze e continua ad agire sul gruppo sociale". Colui che dorme e so­ gna "si trova in uno stato simile a quello dei morti recenti" [58], e proprio per via di questa affinità intrinseca spesso incontrerà i morti intrattenendosi con loro: oppure potrà accadere che siano i morti stessi a visitarlo mentre egli dorme. Queste ombre, questi incontri misteriosi nella dimora dei morti sono, anche per Lévy-Bruhl, apparizioni e incontri reali, che in nulla si distinguono dagli incontri della veglia. "Se si è visto in sogno qualcuno che è morto da molto tempo si è ve­ ramente conversato con lui" [59]. E la domanda "Sei vivo?" che si rivolge a modo di saluto quando si incontra un amico andrà 46 intesa nel suo senso letterale, perché l'altro che io vedo potrebbe ben essere morto e allora è il caso anzitutto di operare un accer­ tamento preliminare [60]. Tutto ciò si ripresenta in Cassirer strettamente fuso nel quadro filosofico che gli è proprio. La vita e la morte - "queste due sfere non si trovano tra loro in un rapporto simile a quello che intercorre tra essere e non essere, ma sono come parti omo­genee di un solo e medesimo essere" [61]. Del resto, continua Cassirer, la distinzione stessa non è proposta "in modo diretto e immediato nel dato di espe­ rienza come tale": l'idea della morte come pura e semplice degra­ dazione del vivente a pura mate­rialità inerte è una costruzione posteriore della rifles­sione che cancella il rapporto emotivo che permane con la persona al di là della sua morte. "Se si ammette che "realtà" sia tutto ciò che si offre nell'im­ pressione immediata, se si considera questa realtà come suffi­ cientemente attestata nel potere che essa esercita nella nostra vita rappresentativa, affettiva e volitiva, in tal caso il morto è an­ cora anche se ha cambiato la forma del suo mani­festarsi... Il fatto che il vivente si trovi in rapporto con lui come prima, nelle appa­ rizioni del sogno, come pure negli affetti del­l'amore, della paura, ecc., non può essere "spiegato" ed e­spresso... altrimenti che con la sopravvivenza del morto" [62]. In altri termini l'idea della sopravvivenza è l'espressione sim­ bolica di questo rapporto, ma proprio questo simbolismo non può che rimanere nascosto e ciò che è soltanto l'espressione di un sentimento viene vissuto come qualcosa di affatto reale e concreto. E con ciò naturalmente si afferma anche che, al di là della enorme varietà di credenze e di pratiche rituali relative alla morte, l'idea della sopravvivenza fa parte del pensiero mitico in generale dal momento che inerisce al suo principio formale. 47 11 Tematica della causalità Ma l'autentico punto nodale che riunisce tutte le caratteri­stiche che qualificano la direzione fondamentale del pensiero mitico verso l'og­getto secondo Cassirer è l'atteggiamento nei confronti della causalità. Proprio in rapporto a questo proble­ma si misura con particolare evidenza la distanza del mondo costituito attra­ verso l'esperienza mitica e il mondo em­pirico, cioè il mondo del­ la semplice percezione che diventa, di grado in grado, il mondo costituito nelle operazioni propria­mente conoscitive. Questa distanza appare qui come una vera e propria op­ posizione: il pensiero mitico viene costantemente commisu­rato a ciò che Cassirer chiama pensiero empirico o pensiero empi­ rico-teoretico, intendendo con ciò in senso ampio non solo le operazioni intellettuali che intervengono nella scienza ma tutte quelle operazioni che sono mosse da un obiettivo conosci­tivo in genere. Quindi anche, per esempio, tutti gli atti percet­tivi in quanto in essi si effettuano in generale degli accertamen­ti. Nella scienza il pensiero empirico-teoretico trova la sua "elabo­razione più perfetta" [63], ma un orientamento cono­scitivo, e quindi anche una componente puramente intellet­tuale non è presente solo nella scienza interamente dispie­gata, ma nei più semplici accertamenti della percezione. A questo proposito vale per Cassirer integralmente la le­ zione epistemologica kantiana: "In realtà già quello che noi chia­ miamo mondo della nostra percezione non è un dato sem­plice fin da principio evidente, ma è solo in quanto e compenetrato da certi fondamentali atti teoretici mediante i quali esso è colto, appreso, determinato" [64]: percepire non e altro che un giudizio implicito, e ogni attività giudicativa presup­pone che si sia ormai consolidata la differenza tra ciò che è meramente apparente e soggettivo e ciò che invece appartiene al nucleo solido dei fe­ 48 nomeni, tra ciò che varia secondo le circostanze e le condizioni costanti di questa variabilità. L'idea dell'oggettività è d'altro lato circoscritta da quella della legge, dal momento che la costanza, la solidità, il perma­ nente assume il senso, nella prospettiva della conoscenza, del­ la conformità ad una legge. Il pensiero empirico nell'accezione lata del termine avrà pertanto alla propria base la nozione della causalità nella misura in cui questa nozione, concepita essen­zial­ mente come relazione di dipendenza funzionale tra eventi, è una nozione equivalente a quella generale della legge. Tuttavia ciò che caratterizza la tematica cassireriana intor­ no a questo problema e che consente di considerare la causali­tà come il nodo intorno a cui possono essere collegate le varie mo­ dalità dell'apprensione mitica della realtà non è tanto il carattere sintetico della causalità quanto piuttosto la presenza, nel giudizio causale, di un ineliminabile momento analitico che resta in via di principio inaccessibile al pensiero mitico. Pertanto Cassirer mette una cura particolare per spiegare che per la posizione di un rapporto causale non basta accertare la concomitanza spaziale e temporale di due eventi, ma occor­ re operare una scomposizione che abbia lo scopo di accertare quali, fra i molteplici componenti degli eventi, stiano fra loro in un rapporto di effettiva dipendenza funzionale. La valuta­ zione cau­sale richiede dunque un'analisi e nello stesso tempo una "astra­zione isolatrice" [65] che sappia risolvere la complessi­ tà dell'e­vento in quei componenti che costituiscono la sua effet­ tiva condizione. Questa capacità analitica che nel corso della sua esplicazione si imbatte nella necessità di operare con costruzio­ ni astratte è in generale propria del pensiero conosci­tivamente orientato: "Prima di poter essere inseriti nella forma della totalità sistematica, i dati debbono subire in se stessi una trasformazio­ ne; essi debbono venire ricondotti e in certo qual modo risolti in "elementi" ultimi che non sono più tali da essere colti nell'im­ mediata impressione sensibile, ma possono venire posti soltanto 49 nel pensiero teoretico" [66]. Tutto ciò urta naturalmente contro la concretezza del pensie­ ro mitico. Esso è incapace di una posizione autentica di nessi causali proprio perché ignora la dimensione analitica nella quale si situa l'idea della causa. Poiché il pensiero mitico non compie alcuna analisi degli eventi concomitanti, lo stesso rap­por­to di concomitanza si presenta senz'altro come rapporto causale di­ retto tra eventi presi nella loro singolarità. "Ivi ogni rapporto di contemporaneità, ogni contiguità e contatto spa­ziale racchiude già in sé una reale conseguenza...". Cosicché vale il principio: "Post hoc, ergo propter hoc"; oppure: "Iuxta hoc, ergo propter hoc". "Per il punto di vista mitico è davvero la rondine che "fa" primavera" [67] Il tema del simbolismo implicito si ripresenta al termine di questo percorso argomentativo. Del resto questo percorso in­ tende anche evitare la via breve dell'associazione delle idee, che avrebbe subito fatto notare la diretta transizione immagi­nativa dalla contiguità alla conseguenza causale, per tentare di dare di questa transizione una motivazione in certo senso più organica e strettamente integrata in una modalità tipica dell'e­sperienza. Di qui la funzione essenziale che assolve in tutto ciò il pro­ blema dell'analisi. Anche nei confronti di Hume e del modo in cui egli propone in sede di teoria della conoscenza il problema della causa, Cassirer obietta anzitutto che il difetto fondamentale della sua concezione e della sua critica psicologi­ca è che "que­ sta funzione analitica insita nel concetto di causalità non viene riconosciuta come si sarebbe dovuto fa­re" [68] e ciò ha come conseguenza "il fatto curioso che Hume, mentre in apparenza analizzava il giudizio causale della scien­za, ha sco­perto invece una radice di tutte le spiegazioni mitiche circa il mondo" [69]. Questo stesso interesse a esibire l'organicità del comporta­ mento mitico nei confronti dei nessi causali, mette chiaramente in secondo piano l'ovvia falsità delle connessioni così istituite. Ciò che importa far notare è che questa falsità va considerata 50 nella forma del suo prodursi, e allora ci rendiamo conto che essa fa parte di un vero e proprio unitario sistema del pensiero. Si consideri, per esempio, in che modo viene proposto il problema dell'intero e della parte: anche qui il richiamo alla ca­ pacità analitica assolve una funzione essenziale per esibire questa sistematicità. Nella visione empirica del mondo l'intero è for­ mato dalle sue parti ed è analizzabile in esse: le parti a loro volta saranno chiaramente differenziate dall'intero stesso. E an­che in questo caso, la prima osservazione che deve essere com­piuta in rapporto all'atteggiamento mitico nei confronti di questa rela­ zione consisterà nel rilievo, ormai consueto, di una "man­canza di differenziazione". "Il tutto non ha parti e non si divide in esse; la parte è invece qui direttamente il tutto, esplica la funzione del tutto" [70]. Nel pensiero mitico vige allora il principio "Pars pro toto" - la parte in luogo dell'intero, dove ogni senso di rappre­ sentanza meramente simbolica è natural­mente escluso: "Non si tratta di un nesso simbolico ideale, ma di un nesso oggettivo-re­ ale" [71]. Esempi di una simile mancata differenziazione si trovano ovunque nelle pratiche magico-rituali. Gli stessi esempi che ri­ troviamo in Frazer per illustrare le fatture della magia secon­do il nesso di contiguità possono naturalmente servire a questo scopo illustrativo. E del resto Frazer viene rammentato a questo punto. Ma mentre per Frazer, per esempio, le fatture compiute sui ca­ pelli tagliati di un uomo o sulle sue unghie documentano unica­ mente l'azione della legge psicologica asso­ciativa della contiguità, in Cassirer questi stessi esempi diven­tano significativi per mostrare l'insussistenza di un orienta­mento analitico e la connessione attra­ verso questa via con il problema della relazione causale: "Siccome il mito non cono­sce la forma di pensiero dell'analisi causale, per esso non ci può essere neppure il netto confine che solo questa forma di pensiero traccia tra il tutto e le sue parti" [72]. E se la coscienza della parte come tale rimanda a quella "funzione analitica e classificatoria del pensiero mediato che da­ 51 gli oggetti, quali realtà concrete, risale alle loro condizioni costi­ tutive" [73], vi è certamente da attendersi che nel pensiero mi­ tico sia sostanzialmente assente un'autentica capacità di operare subordinazioni concettuali. Del resto il rapporto tra specie e genere può essere inteso come un caso particolare del rappor­to tra par­ te e intero. La fusione e l'indistinzione si manifesta "non soltan­ to là dove si tratta di rapporti reali, ma anche dove si tratta di rapporti - nel nostro senso - puramente ideali" [74]. Pertanto vi sarà da un lato l'incapacità di elevarsi all'astrazio­ne del concetto, e dunque la tendenza a concretizzare il genere stesso, dall'altro a considerare il genere come concretamente presente nelle sue "par­ ti". Secondo Cassirer, anche prescin­dendo dal pren­dere posizio­ ne sulle varie ipotesi tendenti a spiegare l'origi­ne e la natura del "totemismo", tuttavia la "concezione totemica" potrebbe essere rammentata per illu­strare questa situazione. È infatti indubbio che qui si fa valere una tendenza alla clas­ sificazione - una tendenza che tuttavia non ha modo di e­splicarsi autenticamente proprio per la mancanza di consape­volezza del rapporto simbolico: "Nella suddivisione totemica non troviamo una semplice coordinazione fra le classi dì uomini e di cose da una parte e determinate classi di uomini e di animali dall'altra; qui invece il singolo viene pensato come dipendente in modo reale dal suo progenitore totemico e anzi come identico a esso" [75]. Ciò è coerente, non solo con la forma complessiva del pen­ siero mitico, ma anche con il mondo di esperienza costituito entro questa forma. Alla rigidità del mondo, come campo di og­ gettività da conoscere, quale si presenta al pensiero empirico, che comporta continue opera­zioni di distinzione e di confronto che confermino e fissino le cose nella loro determina­tezza, si contrappone la fluidità del mondo proposta dal pensiero miti­ co come pensiero concreto. La stessa idea della specie uma­na e della nostra appartenenza a essa, apparentemente così ov­via, è in realtà un'acquisizione evoluta: "I limiti della specie uomo non sono affatto rigidi per la coscienza mitico-religiosa, ma del tutto 52 fluttuanti... Per i gradi primitivi della concezione mitica non vi è ancora un taglio netto che divida l'uomo dal complesso dei viventi, dal mondo degli animali e delle piante". "Il ciclo rappre­ sentativo del totemismo è caratterizzato proprio dal fatto che ivi l'affini­tà tra uomo e animale o, più esattamente, l'affinità tra un determinato clan e il suo animale o pianta totem vale non in senso figurato, ma nel senso proprio della parola" [76]. Tutto ciò "deve avere una ragione in qualche tratto generale della "logica" del pensiero mitico e soprattutto nella forma e nella direzione del suo modo di formare i concetti e le classi" [77]. Questo deve essere tanto più vero perché innegabilmente la coscienza primitiva "è caratterizzata proprio dall'acutezza con cui coglie tutte le sfumature sensibili concrete, tutte le differen­ze tra le forme percepite" [78]. Un riconoscimento alquanto raro nel testo di Cassirer: e del resto esso viene compiuto, marginal­ mente, in un contesto tutt'altro che favorevole ad una sua elabo­ razione in positivo. Infatti proprio questo acume della sensibili­ tà, che assumerà tanta importanza in Lévi-Strauss per teorizzare la pensée sauvage come un sapere autentico, finisce con il rappre­ sentare in Cassirer un vero e proprio ostacolo che si frappo­ ne all'esercizio di operazioni classificatorie realmente valide. In queste operazioni intervengono in generale atti del distinguere, del connettere, del paragonare. Ma la presenza di questi atti non è sufficiente di per se stessa per rilevare la presenza di una dire­ zione conoscitiva efficace. Nel pensiero mitico essi si svolgono interamente sul terreno della immedia­tezza sensibile. Mentre oc­ corre scorgere, ancora una volta, la connessione tra il problema qui in questione e quello dell'ana­lisi causale. La conoscenza empirico-teoretica suddivide l'essere in clas­ si, ma per operare questa suddivisione fa intervenire conside­ razioni che rimandano alla causalità in un'accezione ampia del termine. Perciò sarebbe erroneo accentuare più del dovuto la parte assolta dalla sensibilità, quindi dalle "somiglianze o diffe­ renze riconoscibili dal punto di vista puramente sensibi­le" [79]. 53 Una classificazione comincia infatti ad avere una portata conosci­ tiva effettiva solo quando tra i suoi criteri intervengono in modo determinante considerazioni relative ai rapporti di "discen­denza", quando dunque è implicato "l'esame della successione e dei nessi causali della procreazione e della na­scita" [80]. La centralità del problema causale come punto di riferi­ mento che qualifica la direzione fondamentale della coscienza mitica trova naturalmente conferma anche nella tendenza alla sostanzializzazione che Cassirer riconosce come uno dei trat­ ti caratteristici del pensiero mitico. Questa connessione appare direttamente nella forma immaginativa della metamorfosi così spesso assunta dalla causalità mitica dove il problema posto dal­ la pro­ces­sualità, nella sua concatenazione causale, viene risolto dal mito fissando un punto iniziale e un punto termina­le del processo che saranno entrambi rappresentati da cose materiali e concependo il processo stesso come una trasforma­zione altrettan­ to materiale dell'una nell'altra [81]. Parlando di tendenza alla sostanzializzazione Cassirer non intende in realtà affermare una sorta di preferenza del pensiero mitico per la categoria della sostanza. Si tratta piuttosto di una sorta di indecisione che il pensiero mitico manifesta rispetto alla differenziazione tra la sostanza e le sue proprietà - anche questo rapporto non è altro che un caso particolare del rappor­to tra parte e intero. Tanto più che Cassirer argomenta anche in questo caso in termini strettamente kantiani: la sostanza è, appunto, una categoria; dunque un "medio ideale" che riman­da a una funzio­ ne propriamente intellettuale di organizzazione dell'espe­rienza. Essa presuppone una duplicità di livelli - sensoriale e intellettua­ le - che interagiscono tra loro per istitui­re l'espe­rien­za nella sua unità e stabilità. Il pensiero mitico invece, in quanto pensiero sensibile intuitivo, ignora questa duplicità, dispone "tutto il rea­ le sullo stesso piano" [82] e pertanto non può che fluttuare tra sostanze e attributi inerenti, assumendo al più come modello la cosa così come si esibisce direttamente nella sua materialità 54 sensibile concreta. Dentro questo quadro, intera­mente libero da riferimenti psicologici, andrà riassorbita la tema­­tica associativa del­la somiglianza, cioè la tendenza a operare fusioni concrete sulla base di somiglianze esteriori. Infine, dovunque viene ribadita la tesi del simbolismo im­ plicito come condizione fondamentale che dà senso a questi svi­ luppi di dettaglio. Così, rammentando la credenza che la malat­tia contagiosa contratta da una comunità possa essere "trasferita" a un singolo, "per esempio ad uno schiavo ed essere eliminata con l'uccisione di questi", Cassirer osserva che "in tutti questi riti di purifi­cazione e di espiazione non si tratta affatto, se si considera il significato originario dell'usanza, di una semplice rappresen­ta­ zione simbolica, bensì di un trasferimento perfetta­mente reale e perfino fisico" [83]. Analogamente, considerando le unità associa­ tive fondate sulla somiglianza si fa notare: "Nel fumo che si spri­ giona dalla pipa, il pensiero mitico non vede un sem­plice simbolo, né lo intende come un semplice mezzo per provocare la pioggia, ma ha dinanzi a sé in modo diretto e chiarissimo l'immagine della nube; e in questa la cosa medesi­ma, cioè la pioggia desiderata. E un principio generale della magia che anche senza intraprendere alcuna azione "adeguata al fine" come noi la intendiamo si possa­ no ridurre in proprio possesso certe cose unicamente per mezzo della loro rappresen­tazione mimica, giacché dal punto di vista della coscienza mitica non vi è nulla di semplicemente mimico, di semplice­mente significativo" [84]. 55 12 L'indifferenza verso i nessi causali secondo Lévy-Bruhl L'indifferenza alle condizioni causali più semplici è, come noto, una delle tesi centrali che secondo Lévy-Bruhl caratte­rizza ciò che egli chiama la "mentalità primitiva". Un con­fronto ravvicina­ to con la posizione di Cassirer sarebbe indub­biamente istruttivo ed anche se esso non può qui essere con­dotto a fondo merita di essere almeno accennato. Nel più tardo Saggio sull'uomo (1944) Cassirer polemizza esplicitamente con la posizione di Lévy-Bruhl, con considera­ zioni che vanno in parte oltre lo spunto polemico mettendo in questione, almeno indirettamente, alcuni degli assunti fonda­ mentali della propria Filosofia delle forme simboliche [85]. Da que­ st'opera una simile polemica è d'altra parte assente: Lévy-Bruhl viene abbastanza spesso rammentato, anche se non vi sono esplicite affermazioni di consenso e l'uso di alcuni termini ca­ ratteristici del filosofo francese è sempre accompagnato da una certa circospezione. Anche senza considerare la posizione espressa nel Saggio sull'uomo, non c'è dubbio che vi è una netta distanza tra Cassirer e Lévy-Bruhl per ciò che concerne la cornice filosofica del problema, una cor­nice particolar­mente mas­sic­cia e raffi­nata in Cassirer, linea­ re e relativa­mente ele­mentare in Lévy-Bruhl. La differenza più vis­ to­sa sta in primo luogo nel fatto che Cassirer considera il pensiero pri­mitivo all'in­terno del pro­gramma di una filo­sofia dello spirito, e quindi le sue produzioni come produzioni rette in qualche modo da regole "trascen­denta­li" dell'e­spe­rienza men­­­t­re Lévy-Bruhl è le­ gato ad un concetto di "men­talità primitiva" che conferisce ai suoi a priori una conno­tazione accentuatamente psicologica. Secondo una direzione peraltro nettamente diversa da quel­ la di Frazer. In Frazer infatti, come abbiamo osser­vato in prece­ denza, vale co­me presupposto la fonda­men­­tale unità della natura 56 umana. Essa può differen­ziarsi in infiniti modi, in dipen­denza dal­ le circostanze di natura sto­rico-accidentale; ma per ciò che concer­ ne l'ap­­parato psi­chico conside­ra­to nelle sue strutture elementari, esso è ovunque lo stesso, e proprio questa identità rende possi­ bile da parte nostra la comprensione di modi di com­por­tamento che ci appaiono inizialmente inintelli­gibili. Lévy-Bruhl invece ritiene che per rendere realmente giustizia al modo di pensare e di agire delle popolazioni primitive sia necessario partire dal presup­posto che vi sia, rispetto alle popolazioni "civili", una ra­ dicale differenza di "mentalità", dove questa parola deve essere as­sunta in un senso fortissimo: non si tratta di una pura e sem­ plice differenza di atteggiamento nei confronti della realtà, ma di una diffe­renza negli stessi meccanismi che regolano la produ­ zione del pensiero. Il principio di non contrad­dizione non ha qui alcun carattere normativo - e ciò incide in maniera determinante sulla forma delle argomentazioni, anzi tende a sopprimere questa forma; mentre l'indifferenza ai nessi causali incide sulla forma stessa della realtà. Perciò Lévy-Bruhl parla di una mentalità prelogica, se­condo una direzione che sembra integrarsi nell'orizzonte cultu­rale degli anni Venti nei quali la tematica dell'irrazio­nalismo desta partico­ lare attrazione. Proprio la decisione con cui Lévy-Bruhl imbocca questa via è certamente uno dei motivi che spiegano la prudenza di Cassirer, avvertibile anche nella Filo­sofia delle forme simboliche, nei suoi confronti. Resta tuttavia il fatto che l'uno e l'altro autore sono acco­ munati dall'idea di una coscienza mitica come una totalità coe­ rente e unitaria che si regge su determinati principi e che può essere compresa solo in base a essi. E che questi principi hanno il loro centro nell'atteggiamento nei confronti dei nessi causali. Su quest'ultimo punto l'orientamento di Cassirer bada so­ prattutto ai momenti formali, istituisce connessioni concet­tuali a partire da un ampio apparato filosofico. In Lévy-Bruhl invece il problema è affrontato in termini più direttamente contenu­tistici. 57 Secondo Lévy-Bruhl la realtà si presenta al primitivo come do­ minata nel suo insieme e nei suoi dettagli da potenze e forze invisibili che egli chiama "mistiche". Questo dominio non riman­ da tanto a entità trascendenti quanto ad una effettiva com­pene­ trazione, a una partecipazione del mondo visibile e del mon­do invisibile direttamente data nell'espe­rienza vissuta. Non vi è alcun passaggio vero e proprio dal dato empirico alla potenza mistica, ma il dato empirico è investito da un senso mistico che viene colto immediatamente in esso. Lo stesso ter­ mine di "passaggio" osserva Lévy-Bruhl "conviene alle no­stre operazioni discorsive", ma "non esprime esatta­mente il mo­do di attività della mentalità primitiva che assomi­glia piuttosto a una apprensione diretta o ad una intuizione. Nel momento stesso che percepisce quel che è dato ai suoi sensi, il primitivo si rap­ presenta la forza mistica che vi si manifesta" [86]. Lévy-Bruhl insiste dunque sul carattere intuitivo, quindi sull'immediatezza dell'esperienza primitiva: vi è qui un rapporto analogo a quello che sussiste tra la parola e il suo senso, che noi sentiamo risuonare direttamente in essa; oppure a quello che si istituisce quando "leggiamo la simpatia o la collera nel viso di una persona senza aver bisogno di percepire prima i segni di quelle emozioni, per interpretare poi quei segni. Non è un'ope­ razione che si compia in due tempi successivi. Avviene in un colpo solo". "In questo caso si può dire davvero che il mondo è un linguaggio che gli spiriti parlano ad uno spirito. Linguaggio che non ricorda di avere imparato e che le preconnessioni delle sue rappresentazioni collettive gli rendono naturale" [87]. Pur in un contesto molto diverso e con una terminologia propria affiorano qui idee interamente presenti nella posizione di Cassirer. Ciò vale, io credo, anche per la tematica della causalità. An­ che su questo punto, non troviamo in Lévy-Bruhl una discus­sione così ampia e così filosoficamente impegnativa come nel caso di Cassirer. Ci troviamo invece di fronte alla contrap­posi­zione pura 58 e semplice tra la nostra mentalità e quella primitiva. Anche in­ dipendentemente da un atteggia­mento rivolto in una direzione conoscitiva, osserva Lévy-­Bruhl, negli atti più sem­pli­ci della vita quotidiana è sempre presente l'idea della conca­tenazione cau­ sale degli eventi: "Noi abbiamo un senso continuo di sicurezza intellettuale che non vediamo come possa essere scosso; poiché anche supponendo l'apparizione improvvisa di un fenomeno del tutto misterioso e le cui cause ci sfuggissero intera­mente agli inizi, non saremmo per questo meno persuasi che la nostra ignoranza è soltanto provvisoria, che queste cause esisto­no veramente e che presto o tardi potranno essere determinate. Così la natura in seno alla quale viviamo è, per così dire, intellet­tuali­zzata in anticipo. La nostra attività quotidiana, fin nei suoi più umili particolari, implica una tranquilla e perfetta fiducia nella invaria­bilità delle leggi natu­ rali" [88]. L'atteggiamento mentale del primitivo è invece radical­ mente diverso proprio su questo punto. Non appena si pre­senta un evento insolito, egli vede senz'altro l'azione di una forza mi­ stica e le cause naturali diventano per lui indifferenti o vengono indebolite a pure e semplici occasioni per il suo manifestarsi. Gli esempi più significativi che Lévy-Bruhl adduce a questo propo­ sito riguardano il problema della morte: "Dappertutto nelle società inferiori, la morte richiede una spiegazione diversa dalle cause naturali. Secondo un'osserva­ zione che è stata fatta spesso, quando vedono morire un uomo, sembra che per loro questo fatto si verifichi per la prima volta e che non ne siano mai stati testimoni altre volte... Lo stesso inde­ bolimento senile, come ogni malattia, non è dovuto nean­ch'esso a ciò che noi chiamiamo causa naturale: deve anche spie­garsi con l'azione di una forza mistica. Insomma, se il primitivo non presta alcuna attenzione alle cause della morte è perché egli sa già per­ ché la morte si è verificata; e sapendo questo perché, il come gli è indifferente. Ci troviamo qui in presenza di una specie di apriori sul quale l'esperienza non ha presa" [89]. 59 In che modo questo problema sia connesso con la tesi della partecipazione tra mondo visibile e mondo invisibile non ha certo bisogno di molte spiegazioni. Questa nozione assolve del resto in Lévy-Bruhl la stessa funzione di indicazione fonda­mentale uni­ taria a cui riportare e giustificare i comportamenti dei primitivi che è svolta, in Cassirer, dal principio dell'indistin­zione tra il sim­ bolo e la cosa. Sembra anzi che si possa affermare, più impegna­tiva­men­ te, che ci troviamo di fronte a due formulazioni che, nonostante la diversità dei contesti, si implicano reciprocamente. A partire dall'indistinzione tra il simbolo e la cosa si giunge, per esempio, all'indistinzione tra il fisico-naturale e lo psichico-spirituale, e il materiale documentario a questo proposito potreb­be altrettanto bene essere impiegato per illustrare la parteci­pazione di cui parla Lévy-Bruhl, dai cui testi del resto esso è spesso tratto. Inversa­ mente, stando all'esposizione di Lévy-Bruhl deve essere sempre dato per scontato che compor­tamenti e azioni siano fondate su credenze autentiche. Sembra dunque che, a partire dal postulato della indistinzione tra simbolizzante e simbolizzato si debba per­ venire a quello della partecipazione e inversamente che, parlan­ do di partecipazione, quella indistin­zione debba essere senz'altro presupposta. 60 13 Il processo dello spirito e la rarefazione dei simboli Ora è tempo di ritornare sui nostri passi: quando ci siamo chiesti le ragioni per le quali la relazione del mito all'immagi­nazione rappre­ senta in Cassirer solo un'ovvietà priva di interesse per una filosofia della mitologia ed abbiamo tentato, dopo di ciò, una sintesi della sua im­postazione filosofica, il nostro scopo era già essenzialmente quello di approfittare dell'ampiezza e dell'arti­co­la­zione della tema­ tica in discussione per metterci alla prova. Le nostre intenzioni sono infatti essenzialmente critiche: vogliamo sperimentare la nostra capacità di sviluppare una cri­ tica e nello stesso tempo cercare di guadagnare in rapporto ai problemi emersi un nuovo luogo di osservazione. Abbiamo osservato in precedenza che la posizione di Cas­ si­rer può essere indicata come una posizione fenomenologi­ co-strutturale, che è tuttavia proposta secondo una angolatura dalla quale l'ispirazione idealistica risulta determi­nante. Que­sto è il primo nodo che siamo interessati a tagliare. L'indubbia perfe­ zione, la consumata abilità con la quale Cassirer riesce a far con­ fluire l'uno nell'altro il momento idealistico con quello pro­pria­ mente fenomenologico nasconde in realtà più di un pro­blema. Cominciando a indicare questo nodo non vorremmo sem­ plicemente orientarci verso una critica dell'idealismo cassire­riano considerato nei suoi lati più espliciti e manifesti. Nono­stante la raffinatezza della elaborazione restano, nel complesso della ri­ cerca cassireriana della Filosofia delle forme simboliche, alcuni atteg­ giamenti tipici ricorrenti che fanno parte dell'idea­lismo come luogo comune e ai quali è indubbiamente possibile contrapporre i luoghi comuni di una critica già compiuta. Su di essi è certamente interessante richiamare l'atten­zione perché individuano prima ancora che una filosofia, uno stile filosofico. Di questo stile fa indubbiamente parte l'esigenza di 61 un punto di vista unitario portata al suo grado di esasperazio­ne estrema. Il nostro scopo, se fossimo filosofi cassireriani, diven­ terebbe quello di mostrare che dalle primitive formazioni della comunicazione linguistica, dalle pratiche magiche più rozze alle forme religiose più evolute e, al di là di esse, alle tecniche dell'ar­ te, alle tecniche in genere, sino alle più sofisti­cate teorie scien­ tifiche moderne - dell'uomo delle caverne al grande cervello di Einstein - di tutto ciò vogliamo mostrare la derivazione da un unico centro. Magari scrivendo un libro enorme. L'enorme varietà del mondo deve poter essere non solo attraversata dal pensiero, ma anche ripensata e infine messa per iscritto in una sorta di enciclopedia filosofica. L'esasperazione della tendenza all'unità come la voca­z ione enciclo­ pedica sono appunto tratti che caratterizzano l'idealismo in ge­ nere. Con tutto l'apparato di immagini che essi comportano. Lo Spirito: il Maestoso fiume, il cui incedere non può essere re­ almente interrotto da nessuna interna conflittualità; il Gran­de Animale che muove dapprima torpidamente strisciando, e poi a poco a poco si eleva sempre più agilmente verso gli orizzonti del­ la più compiuta spontaneità e autonomia; l'Albero Millenario la cui cima svetta alla fine nel terso cielo del pensiero puro. L'idealismo è una filosofia elevata, è una filosofia del­l'ele­­va­ zione. E tutto il percorso della Filosofia delle forme simboliche procede verticalmente da un disordine primario a un ordine crescente, che è anche un ordine sempre più rarefatto. Vor­remmo quasi dire: il processo dello spirito è un processo di progressiva spiritualizza­ zione - per quanto ciò possa sembrare strano. L'esprimersi in questo modo, e proprio in rapporto a Cas­ sirer, potrebbe certamente sollevare qualche perplessità. Infat­ ti basterebbe rammentare i precisi spunti polemici che Cassirer rivolge a Kant in particolare per ciò che concerne la frattura fra sensibilità e intelletto: un atteggiamento critico che si con­ cretizza, negli sviluppi particolari, in un'aperta difesa dei dirit­ ti della sensibilità, dell'elemento materiale in genere così come 62 del­l'elemento affettivo ed emotivo. E tuttavia, nono­stante ciò, se consideriamo con attenzione la tematica cassire­riana nel suo in­ sieme, non possiamo non sottoli­neare che una simile filosofia del­ lo spirito descrive il suo processo come una graduale libera­zione dalle impurità dei materiali sensibili. Del resto di ciò abbiamo già discorso: proprio la nozione di simbolo assunta come nozione unificante di tutta la temati­ ca cassireriana può assolvere questa funzione solo rarefacendosi e nello stesso tempo ponendo come modello e punto di arrivo l'attività produttiva di simboli che realizza un puro rapporto di significazione, nel quale non vi è più alcuna traccia delle cose e delle determinatezze dei contorni. La matematica ha per Cassi­ rer anche questo fascino. E inoltre solo quando questa attività è stata conseguita si può parlare di un'azione autenti­camente libera, di un'azione che non soggiaccia ad altre condizioni oltre quelle che le impone la soggettività stessa, una soggettività in­tesa come autocoscienza, come pensiero puro, come centro degli atti del puro volere. La posizione cassireriana della nozione di simbolo con­ tiene già, per quanto obliquamente e indirettamente, l'idea che la quintessenza delle operazioni spirituali stia nella loro perfetta trasparenza e impalpabilità. D'altronde, che cosa vuol dire "spiri­ tua­le"? Eppure l'immagine della rarefazione come imma­gine della spiritualità non è affatto obbligatoria, e la sua ado­zione fa parte invece di una decisione filosofica. Siamo filosofi idealisti non sem­ plicemente perché subordiniamo tutta la nostra filosofia sotto il titolo di "filosofia dello spirito", ma soprattutto perché sia­ mo guidati nel nostro argomentare da immagini come queste. Tutta­via, come abbiamo osservato, la nostra riflessione critica non intende muoversi su un terreno così generale, e nemmeno com­piere una troppo facile aggressione nei confronti dei tratti tipicamente idealistici della impostazione di Cassirer: vorrem­ mo invece avviarci in una direzione più produttiva, tentando di considerare le conseguenze che derivano dalla sua impostazione 63 entro il quadro di una filosofia dell'esperienza che, pur potendo essere, a sua volta, caratterizzata come orientata in senso fenome­ no­logico-strutturale, sia tuttavia inte­ramente libera da presupposti idealistici. 14 Riflessioni sulla nozione di esperienza mitico-reli­gio­­sa Il primo punto su cui è interes­sante prestare attenzio­ne riguar­da la stessa nozione di espe­rienza mitico-religiosa o, più semplicemen­ te, di esperienza reli­giosa, assumendo quest'ulti­mo termine nella sua accezione più lata. La consistenza di questa nozione è natu­ ralmente presupposta in Cassirer con argomenti che rimandano a considerazioni di carattere feno­menologico: come abbiamo ram­ mentato a suo tempo, Cassirer fa valere nei confronti di Husserl la necessità di ampliare, dal punto di vista dei compiti analitici, il campo delle direzioni intenzionali della coscienza, così come, in stretto parallelismo, fa valere nei confronti di Kant, il problema di una estensione della tematica categoriale che sappia abbrac­ ciare le modalità dell'esperienza che giacciono al di fuori di un orizzonte episte­mologico. La nozione di esperienza religiosa sta del resto alla base della cosiddetta "fenomenologia della religio­ ne" che ha assunto da tempo lo statuto di una disciplina auto­ noma all'in­terno delle scienze dei fatti religiosi in genere. Per quanto possano essere differenziati i suoi impieghi, si tratta pur sem­pre di assumere l'esperienza religiosa tra le esperienze vissute con la conseguente proposizione di compiti descrittivi specifici, rivolti nella duplice direzione soggettiva e oggettiva della polarità intenzionale. Naturalmente, il parlare di esperienza religiosa non pone 64 nessun problema se una simile espressione viene utilizzata in una accezione filosoficamente non troppo impegnativa facendo eventualmente poggiare il suo impiego sull'esistenza di creden­ze e pratiche che sono dati di fatto culturali incontestabili. Questi dati di fatto rimandano a modi di sentire e di concepire il mondo che hanno le loro peculiarità e pongono un'amplissi­ma gamma di problemi di varia natura. Le cose stanno molto diversamente se con esperienza reli­giosa si intende o si sottintende un'esperienza semplice, un e­sperienza che non solo sta a fondamento di determinati com­portamenti, ma che è definita da una caratteristica direzione ver­so l'oggetto, anzi, più precisamente, da un oggetto intenzionale caratte­ristico, che potremmo designare come il sacro stesso, anche se questa designazione potrà essere assunta non solo come libera da implicazioni direttamente ontologiche, ma anche come una designazione indeterminata che proprio l'indagine descrittiva avrebbe il compito di riempire di contenuto. Per chiarire meglio in che senso si parli qui di esperienza semplice, è opportuno richiamare l'analogia con i fatti della perce­ zione in genere. La complessità di ogni esperienza percet­tiva, il fatto cioè che in essa intervengano componenti di varia natura - componenti emotive, memorative, immaginative, in­terper­sonali, socioculturali, ecc. - tutto ciò è naturalmente fuori questione. E ciononostante è lecito citare la percezione come esempio di un'esperienza vissuta semplice in quanto vi è qui indubbiamente la possibilità analitica di isolare la funzio­ne costitutiva assolta, così come è determinatamente indicabile l'og­get­tività che nella percezione si ha di mira. Parlando di esperienza religiosa come esperienza semplice intendiamo allora non già una nozione che un generico riman­do a esperienze vissute del genere più vario basta a giustifica­re, ma una nozione che è costruita su un preteso parallelismo con le esperienze per­ cettive. L'esperienza religiosa potrebbe allora essere definita come percezione del sacro. E allora si vede subito che l'affermazione "esi­ 65 ste una percezione del sacro" cessa di essere ovvia e che si posso­ no di conseguenza avanzare dubbi sulla sua effettiva consistenza. Un primo segno di inconsistenza sta nel fatto che la no­ zione di esperienza religiosa, non appena viene proposta, non può essere propriamente teorizzata, ma alla sua teorizza­zione de­ve subentrare la pura e semplice constatazione del vissuto, una constatazione da effettuare necessariamente in prima persona, co­ sicché l'indagine deve assumere fin dall'ini­zio un andamento pro­ nunciatamente introspettivo. Rudolf Otto 66 Questo orientamento introspettivo, che si trova in netto con­ trasto con uno stile di indagine fenomenologico-strutturale, è espresso con esemplare chiarezza in un passo del volume di Ru­ dolf Otto intitolato Il Sacro (1917), nel quale la nozione del sacro non viene discussa e introdotta secondo uno stile argo­mentativo ed a partire da un apparato teologico precostituito, ma facendo riferimento alla nozione di esperienza religiosa nel senso in cui ne parlavamo poc'anzi. Rudolf Otto, fin dalle prime pagine, ci mette di fronte, coeren­temente, alla circostan­za che l'e­spe­rienza religiosa nel suo insieme, così come le determinazioni parti­colari del sacro che andiamo via via estra­endo da essa, possono esse­re comprese solo a caldo, cioè solo se siamo effettivamente parte­cipi di essa, se la condividia­mo nel nostro intimo. Abbiamo appena letto poche pagine di questo libro, siamo stati appena informati che l'e­sperienza del sacro è una espe­rienza del "nu­minoso", secondo la partico­lare parola coniata da Otto, stiamo anzi sforzandoci di capire che cosa mai questo neologismo possa significare, quando veniamo perentoriamen­te ammoniti: "Invitiamo il lettore a rievocare un momento di commozione religiosa e possibilmente specifica. Chi non può farlo o chi non ha mai avuto tali momenti è pregato di non leggere più innanzi" [90]. Il problema della comunicazione decide anche la questione del parallelismo con gli atti percettivi in genere. In certo senso, anche in rapporto ad essi ci si potrebbe avventurare a sostener­ne l'incomunicabilità - perché è certo che non potrò mai trasferire le mie sensazioni uditive nell'orecchio di un altro. Ogni fenome­ nologia della percezione soggiace d'altra parte alla condizione che qualunque cosa si dica, per esempio, intorno al vedere o all'udire, si sappia già di che si tratta. In che cosa consista l'e­ sperienza di udire un suono, questo non lo posso affatto spie­ gare. Eppure questa incomunicabilità non ci pre­occupa, perché un'intesa è qui già da sempre presupposta. Mentre le cose stanno in maniera del tutto diversa nel caso dell'esperienza religiosa: la 67 radicale assenza di un'intesa si rivela nel fatto che non solo, se qualcuno mi invita a "rievocare un momento di commozione religiosa e possibilmente specifi­ca", io non so assolutamente che cosa dovrei fare; ma anche: ammesso che un'altra persona sappia che cosa sia avere un momento di commozione religiosa, io non so nemmeno esatta­mente che senso abbia per me il dire di non averlo. A me non manca nulla. In fin dei conti è proprio questa idea della mancanza che decide l'inconsistenza del parallelismo su cui si fonda la nozio­ne di esperienza religiosa come esperienza semplice. A questo pro­ posito la metafora della cecità, che così spesso ricorre per indicare l'assenza di commozioni religiose, meriterebbe di essere presa alla lettera. I termini del confronto sembrano qui essere particolar­ mente vicini, se si pensa che la parola "vedere" sarà per sempre priva di contenuto per un cieco. E tuttavia sarebbe sbagliato ri­ solvere questa mancanza, che è certo concreta­mente avvertita, in una sorta di sensazione interiore relativa alla parola "vedere". Essa riguarda piuttosto una rete di impedimenti, e chi non vede sa benissimo che cosa significhi "vedere" perché sa che, vedendo, questi impedimenti sareb­bero tolti. Egli sente una mancanza e sa che cosa gli manca. I termini del confronto si allontanano a questo punto irri­ mediabilmente e il parallelismo appare così interamente privo di fondamento. Ciò significa che non esiste, accanto a tutte le varie nostre facoltà, una specifica facoltà di apprensione del sacro, che in taluni è attiva e in altri invece è andata incontro a un processo di disfunzione e di ottundimento. 68 15 Riapertura del problema Si noterà che solo in parte le os­servazioni precedenti toccano l'im­po­sta­zione propriamente cas­sire­ria­na del proble­ma. In ef­ fetti, l'im­pian­to kantiano suggerisce a Cassi­rer diret­tamente il problema non tanto della qualità dell'espe­rienza mitico-religiosa, quanto quel­lo delle sue categorie. Considera­zio­ni di ca­rat­­­tere in­ trospettivo vengo­no dun­que in linea di principio escluse. Tuttavia l'orientamento che ci conduce ad affermare, con­ tro l'idea della semplicità dell'esperienza mitico-religiosa, il suo ca­ rattere composito si sviluppa fin dall'inizio in una direzione com­ pletamente diversa. In base a esso infatti non solo mettiamo da parte i compiti di un'indagine introspettiva, ma anche un programma di ricerca che sia tutto puntato sulla forma di unità dell'esperien­za miticore­ligiosa e dunque su questa esperienza come costi­tutiva di un mondo. In effetti, se da un lato l'impianto kantiano fa si che Cas­ sirer eviti un approccio di carattere introspettivo, dall'altro que­ sto stesso impianto pregiudica in questa direzione i compiti che egli ascrive a una fenomenologia dell'esperienza mitico-religiosa. L'analogia con il mondo costi­tuito nella percezione si impone in ogni caso, benché da un diverso punto di vista: come ci sono for­ me strutturali dell'espe­rienza percettiva, di quella esperienza cioè che sta alla base della visione empirico-teoretica del mondo, così debbono esservi forme strutturali dell'espe­rienza mitica. Parlando del carattere composito dell'esperienza mitico-re­ ligiosa noi ci avviamo invece fin dall' inizio ad attribuire a una analitica fenomenologica il compito preliminare di pene­trare in questa composizione per mettere in evidenza il ruolo che assol­ vono le sue componenti: e a questo titolo può essere ripro­posto il problema della relazione del mito all'immagina­zione. Con ciò facciamo indubbiamente regredire il nostro pro­ 69 ble­­ma dal terreno di una filosofia dello spirito a quello di una filosofia dell'esperienza nella quale la vecchia distinzione tra le facoltà assu­ me ancora un ruolo. Più precisamente: cominciamo a far vale­ re le ragioni di una considerazione fenomenologico-strutturale orientata in una direzione nettamente anti-idealisti­ca. In effetti, uno degli aspetti che caratterizza il passaggio storico-filosofico all'idealismo romantico è proprio l'abbando­no e la critica dello schematismo delle facoltà entro il quale è, in fin dei conti, ancora ordinata la filosofia kantiana dell'espe­rienza. L'arti­co­lazione e le distinzioni tra le facoltà si presenta­no al filosofo idealista come il risultato di un modo di pensare che pone l'accento sulla sepa­ razione piuttosto che sull'unità e che rischia di irrigidire il corso fluente della totalità della vita spirituale. Potremmo dire addirittura che lo stesso concetto dello Spi­ rito che si fa avanti nella prospettiva idealistica con la massima enfasi può essere considerato come cresciuto in oppo­sizione al tema delle facoltà. Di qui in avanti non parleremo più delle facol­ tà e quindi delle loro articolazioni, delle loro connes­sioni e intrec­ ci, da porre in evidenza analiticamente, ma dello spirito come una unità inscindibile e in continuo movi­mento, la cui tematica va sempre colta sinteticamente, in uno sguardo di insieme. Vi è dunque un'implicita tensione polemica in una filosofia dell'esperienza che impieghi il riferimento alle facoltà come un modo di ordinare i propri problemi - una tensione che dovrà riuscire a concretizzarsi mostrando la centralità della tematica dell'immaginazione ai fini dell'impostazione preli­minare delle questioni filosofiche che possono essere proposte in rapporto al pensiero mitico. 70 16 L'immaginazione come facoltà dell'eterogeneo Va da sé che non siamo affatto convinti che le ragioni che ten­gono lontano questo problema della tematizzazione cas­sire­ria­na siano senz'altro da condi­vi­dere. Secondo Cassirer, il ri­chia­­­mo all'imma­ ginazione de­ve essere escluso in primo luo­go per il fatto che esso impor­rebbe all'indagine un'im­pron­ta net­tamente psicologi­stica: e pro­prio su questo pun­to egli si richiama all'impostazione metodica della fenomenologia hus­ser­liana. Tuttavia, stando a quella impostazione, il problema si pone in realtà in modo assai diverso: dentro il quadro di una filosofia fenomenologica dell'esperienza, si pone naturalmente anche il compito di una fenomenologia dell'immagi­nazione nettamente distinta dall'ambito delle questioni psicologiche. Un'ovvia con­ seguenza di ciò è che il problema della relazione tra mito e im­ maginazione potrà essere affrontato da questo punto di vista senza che si stabilisca alcun nesso necessario tra la natura del problema e la sua risoluzione in termini psicolo­gistici. Ciò che vale dal punto di vista metodico per l'immagina­ 71 zione in generale vale anche per le sue specificazioni. Il mito può essere considerato una specificazione dell'immaginazione. La no­stra indagine si orienta in questa direzione e i suoi sviluppi successivi sono essenzialmente determinati da questo punto di avvio. Dob­ biamo anzitutto fissare in breve una caratterizzazio­ne corretta della facoltà di produrre immagini in generale, in modo da poter disporre delle prime indicazioni senza le quali non potremmo muovere nemmeno i primi passi. Tutta un'am­pia serie di pro­ blemi si apre poi non appena volgiamo la nostra attenzione alle molteplici modalità in cui si realizzano le funzioni im­maginative. Come parliamo per esempio dell'immaginazione poetica o musicale, così possiamo parlare dell'immaginazione in quanto il suo operare si esplica nelle produzioni mitiche - e siamo tenuti allora ad accertare, mantenendo fermo lo stile puramen­te feno­ menologico dell'indagine, le differenze che la caratteriz­zano in quanto immaginazione specificamente mitica. L'indicazione generale da cui prendiamo le mosse potrebbe essere formulata così: l'immaginazione è la facoltà dell'ete­rogeneo. Que­ sta formula non è certamente una defini­zione, ma un concentra­ to di problemi: e noi non cercheremo di dare di essa un'ampia giustificazione [91] ma di fornire le poche indicazioni utili per comprendere il suo senso orientandola nella direzione del no­ stro problema. Diremo allora che ciò rispetto a cui le produzioni immagi­ native sono eterogenee è la realtà stessa - una nozione che viene dunque senz'altro presupposta. Questo riferimento alla realtà non è propriamente un riferimento per opposizione, altrimenti avremmo parlato più semplicemente di facoltà dell'ir­reale. Quel­la formula intende invece contestare la pura e semplice opposizio­ ne tra reale e irreale come sufficiente a rendere conto dello sta­ tuto dei contenuti immaginativi. Piutto­sto che di opposizione, si potrebbe parlare di diversità, benché anche questo termine non sia realmente adatto. Ogni valuta­zione di diversità presuppone infatti uno strato in qualche modo omogeneo, presuppone tratti 72 comuni a partire dai quali abbia senso mettere in risalto le diffe­ renze. Impiegando la parola "eterogeneo" noi vorremmo invece mettere fuori gioco anche questo strato di omogeneità, vorrem­ mo alludere a una sorta di diversità radicale che può essere illu­ strata con l'imma­gine delle rette parallele: esse giacciono l'una accanto all'altra, hanno in qualche modo a che vedere l'una con l'altra e formano perciò una configurazione unitaria, e tuttavia forni­scono l'immagine di una radicale indipendenza reciproca. Le nostre considerazioni cominciano dunque con il sottoli­ neare un netto dualismo, una disparità di livelli: il livello della re­ altà e il livello immaginativo. Quest'ultimo può essere indi­cato come un campo di irrealtà solo pagando il prezzo di possibili equivoci: si tratta piuttosto di una realtà totalmente altra, di una realtà parallela. Fin dall'inizio ci troviamo dunque a rilevare una sorta di doppiezza, a porre l'accento su una unità paradossale che rimanda a una scissione profonda. Lo stesso problema dell'eterogeneità può anche essere in­ trodotto ed illustrato osservando che gli oggetti e gli eventi im­ maginativi sono essenzialmente caratterizzati dal fatto che a essi sono inapplicabili le distinzioni tra vero e falso, tra esisten­te e inesistente. Per intendere la portata di questo punto, pensiamo alla te­ matica della percezione. Poiché ci riferiamo qui all'immagi­nare come a una modalità dell'esperienza, è abbastanza natu­rale che le circostanze che la caratterizzano siano messe in evidenza at­ traverso il rimando comparativo ad altre modalità. In Cassirer, sia pure per tutt'altre ragioni, si nota una volta che il termine tedesco che indica la percezione (Wahrnehmung) contiene persi­ no nella forma linguistica un richiamo al proble­ma della verità [92]. Questa osservazione è compiuta da Cassirer per sottolineare che ogni percezione è in qualche modo un giudizio implicito e in essa sono dunque immanenti determina­te operazioni catego­ riali-intellettuali. Su questo modo di ap­profittare della peculiarità del termine tedesco si potrebbe avanzare qualche dubbio: in fin 73 dei conti ci potrebbe apparire almeno una forza­tura il presentare ogni nostro atto percettivo come accerta­mento di verità. Sareb­ be invece opportuno distin­guere tra percezione e constatazione: dove con percezione possia­mo inten­dere il puro e semplice afferramen­ to visivo o uditivo di qualcosa, mentre la con­statazione è appunto l'accertamento che noi com­piamo visiva­mente o uditivamente di qualcosa che c'è. Tuttavia poiché ogni percezione può assumere la forma di una constata­zione, può essere giustificato segnala­ re la presenza del problema della verità già sul piano degli atti semplicemen­te percettivi. Nella percezione la cosa è posta come sussistente qui e ora di fronte a me. Parleremo pertanto del carattere posizionale della percezione come di un carattere che appartiene alla sua essenza fenomenologica. Tenendo conto di ciò diremo che l'immagina­ zione non ha carattere posizionale ovvero che in essa ogni posi­ zione d'essere viene neutralizzata. Poiché una simile neutralizzazione toglie di mezzo non solo la sensatezza della do­manda sulla sussi­ stenza o insussistenza, ma la possibilità di un confronto tra og­ getti immaginativi e oggetti reali, per questa via facciamo ritorno al tema della eterogeneità. 17 Avviamento della critica alla tesi del simbolismo implicito Eterogeneità e neutralizzazione delle po­sizioni d'essere, nella loro reciproca impli­ca­zione, è tutto ciò che ci serve per muo­ver­ci incontro al nostro problema. Certamente non è facile intravede­ re senz'altro in che modo una simile caratterizzazione elemen­ 74 tare dell'immagina­zione in generale possa fornire indicazioni sul tema dell'imma­ginazione mitica. Tutto ciò riguarda anche la trasposizione del tema della neutralizzazione sul lato soggettivo, cioè sul lato delle condi­zioni che debbono essere soddisfatte per l'apprensione dei contenuti immaginativì. Alla neutralizzazione delle posizioni d'es­sere che riguarda le entità e gli eventi immaginari corri­sponde da questo lato una sorta di neutralizzazione della credenza. Se consideriamo, per esempio, il caso di una rappresentazione teatrale, è chiaro che alcune condizioni debbono essere soddi­sfatte affinché lo spettatore si disponga nel giusto rapporto nei confronti dello spettacolo. Questa disposi­zione deve essere stret­tamente correla­ tiva al carattere non posi­zionale degli eventi proposti nella scena. Ed essa non può essere certamente indicata parlando di una cre­ denza autentica nell'effettività degli accadi­menti rappresentati; ma nemmeno parlando di una costante co­scienza del loro carattere fittizio, come se la co­scienza della falsità fosse lo sfondo attuale e permanente della visione dello spettacolo. Nell'uno come nell'altro caso, per motivi diversi, si avrebbe una soppressione di quella for­ ma di partecipazione che è appunto condizione della ricezione delle produzioni immaginative in generale. Lo spettatore parteci­ pa invece allo spet­tacolo anzitutto in quanto vive le scene che gli si dispiegano dinanzi in una credenza neutralizzata. Che è quanto dire: egli crede agli eventi rappre­sentati e nello stesso tempo non vi crede, senza che in questo sussista alcuna contraddizione. Infatti ciò che accade qui è essen­zialmente una sorta di dislocazione tempora­ nea dello spet­ta­­tore sul piano stesso su cui accadono gli eventi dello spetta­colo, sul piano della realtà eterogenea dell'immagina­zione. Con ciò si sbarazza il terreno da un altro dei motivi criti­ ci che potrebbero essere mossi alla riproposta della questione del mito a partire dalla problematica dell'immaginazione. Non solo è sbagliato ritenere che una simile via conduca a distorsio­ni psicologistiche ma anche che essa proponga senz'altro una con­ siderazione del mito dal punto di vista dell'errore. Da una simile 75 obiezione noi ci troviamo al riparo proprio perché essa rimanda a quella caratterizzazione dell'immaginazione come facoltà del­ l'irreale che è stata da noi respinta in via prelimi­nare. Ciononostante non risulta ancora chiaro se da tutto ciò possiamo trarre indicazioni realmente significative in relazione al problema dell'esperienza mitico-religiosa. Considerando la questione a un primo sguardo, tenderemo probabilmente a dare a questa domanda una risposta negativa. Un racconto mitico è certamente anzitutto un racconto, e noi lo possiamo considerare dunque alla stregua di ogni altro racconto libera­mente inven­ tato. Ma sappiamo già che non è così per la coscienza mitica. Analo­gamente, una cerimonia religiosa è qualcosa di interamen­ te diverso da una rappresentazione tea­trale - anche se l'elemen­ to spettacolare non è certo assente. Per quanto possano essere messe in rilievo affinità, andrà sottolineato anzitutto che il modo della partecipazione ad una rappresentazione teatrale e ad una cerimonia religiosa - quindi anche il modo della "credenza" - è in entrambi i casi profon­damente diverso. Del resto il carattere totalmente esplicito dell'origine e della natura immaginaria delle produzioni mitiche sopprime­rebbe ovviamente l'esperienza mitica stessa. Come è chiaro, ciò che fin d'ora è in questione è proprio il problema centrale di Cassirer, il problema del simbolismo im­ plicito. Per quanto in Cassirer si tratti propriamente di una teo­ rizzazione dell'inconsapevolezza della distanza simbolica, essa fa tutt'uno con l'inconsapevolezza della natura immagina­tiva del mito, e proprio per il fatto che questa natura non fa parte dell'e­ sperienza vissuta essa non può entrare in linea di conto nella sua fenomenologia. E tuttavia noi vogliamo insistere proprio su questa strada. La tesi del simbolismo implicito non coglie nessun indizio in­ teressante nel tema della credenza neutralizzata e in realtà è in­ teramente orientata in direzione della credenza autentica­mente posizionale. Si tratta di un punto che va sottolineato con particolare 76 decisione per il fatto che, essendo quella tesi formulata essen­ zialmente avendo di mira la relazione simbolica, potrebbe sem­ brare che la questione della verità e della falsità non venga affatto sfiorata. E chiaro invece che l'inconsapevolezza della distanza tra simbolo e simbolizzato ha come conseguenza l'effet­tuazione di posizioni d'essere, e precisamente di posizioni d'es­se­re false. Nel­ la misura in cui la distanza simbolica viene tolta, le connessioni immaginative diventano connessioni reali. La rondine produce re­ almente la primavera, la persona intera è realmente presente nelle sue parti, fra cose simili vi è una effettiva identità sostanziale. E tutto ciò è naturalmente falso. Vi è dunque un significativo punto di intersezione tra autori tanto diversi come Cassirer e Frazer (e del resto anche Lévy-Bruhl). La differenza sta essenzialmente nel­ la posizione che questo problema assume nell'uno e nell'altro: una posizione centrale in Frazer, laddove Cassirer ci avverte subito che il tema della falsità non può occupare alcuna parte rilevante in una filosofia della mitologia correttamente impostata. Tuttavia, se ora, liberi da preoccupazioni espositive, ritor­ niamo a riflettere sul simbolismo implicito e sull'ovvio corolla­ rio che ci impone di assumere la credenza nei prodotti del pen­ siero mitico come una credenza autenticamente posiziona­le, co­minciamo a dubitare della sua effettiva praticabilità come principio dell'interpretazione. Vi deve essere in esso, certa­men­ te, qualcosa di giusto: l'esempio di una qualunque pratica magica sembra attestare la sua ovvietà ed evidenza. Ma che invece si nascondano proprio in questo assunto numerosi problemi è in fondo mostrato dalla stessa insistenza con la quale Cassirer di continuo lo ribadisce e in qualche modo cerca di documentarlo. La tesi del simbolismo implicito formu­la una condizione di con­ fusione - e ora possiamo aggiungere: una confusione tan­to gros­ solana da apparirci quasi inverosimi­le. L'immagine viene confusa con la cosa rappresentata; le nuvolette di fumo che escono dalla mia pipa con le nuvole che si rincorrono in cielo. Io, uomo civiliz­ zato, so distinguere l'una cosa dall'altra. Lui, il selvaggio, fonde e 77 confonde l'una e l'altra cosa. E veramente possibile questo? Non accade forse qui che quel tanto di giusto che è contenuto nella tesi del simbolismo implicito appaia totalmente compromesso se quel­la tesi viene presa alla lettera e in particolare se essa viene intesa nella direzione di una nozione posizionale della cre­denza? Si tratta di dubbi più che giustificati. Se da un lato la pura e semplice nozione della neutralizzazione considerata nella sua generalità, non pare all'inizio esserci di particolare aiuto, non vi è dubbio che l'adozione del punto di vista del simbolismo implicito può apparirci come inficiata da difficoltà a cui è possibile dare una forma particolarmente urtante. In realtà dobbiamo riportare la riflessione proprio sul tema elementare della neutralizzazione e in particolare sul dualismo che in esso è implicato. Prendendo così sempre più le distanze dalla posizione di Cassirer. Come abbiamo notato più volte, la tematica dell'unità è dominante nello stile filosofico di Cassirer, fa in certo sen­ so corpo con il suo idealismo. Ed essa si ritrova naturalmente nel­l'elaborazione del problema dell'esperienza mitica. Questa esperienza non soltanto viene proposta come costitutiva di un mondo strettamente omogeneo, ma anche come una modali­ tà esclusiva dell'esperienza, come una modalità proposta global­ mente in opposizione ad altre. Basti pensare al fatto che i carat­ teri del pensiero mitico vengono di continuo illustrati in oppo­ sizione a ciò che Cassirer definisce pensiero empirico-teoretico. Si tratta certamente di un'opposizione concettuale, che tuttavia comporta nello spirito e nel senso della posizione cassireriana, la negazione di una possibile coesistenza. Il mon­do mitico è, in altri termini, un mondo compiuto e completo che corrisponde ad una fase primaria della costituzione del mondo: l'"empiria" è qui in generale esclusa e può sorgere solamente al suo crepusco­ lo. Solo quando, in seguito ad un complesso sviluppo dialetticofenome­nologico la soggettività ha acquisito coscienza di sé, essa può assumere rispetto al mondo che la circonda quella distanza che è necessaria per l'effettuazione di autentiche constatazioni. 78 Prestare attenzione al dualismo significa, in certo senso, ri­ formulare la stessa nozione di pensiero empirico e di mondo empirico ripresentando il problema della sua connessione con l'esperienza mitica. Già Cassirer tende a distinguere tra pen­siero empirico e pensiero scientifico, benché nel primo veda subi­ to profilarsi l'orizzonte della scienza. Noi potremmo allora in primo luogo calcare la mano su questa differenza; un conto è l'acqui­sizione di un orientamento rivolto al mondo circostan­te secondo un intento conoscitivo programmatico e sistemati­co, e un altro è concludere dall'assenza di un simile atteggia­mento alla totale immersione in una realtà costituita emotivamente e dunque miticamente, all'esclusione che si diano elementi di co­ noscenza autentica, benché interamente affidati alla sensibilità e strettamente integrati nel campo dei bisogni e degli scopi della vita. Il riferimento all'empiria, ad una costitu­zione pratico-espe­ rienziale del mondo, che non si propone affatto secondo una semplice simmetria oppositiva al mondo mitico, appare in realtà essenziale alla stessa impostazione del problema. Qui del resto tocchiamo l'effettivo nodo critico di ogni con­ cezione che in qualche modo presupponga tacitamente o espli­ citamente una nozione posizionale della credenza nell'am­bito dell'atteggiamento mitico. Queste concezioni non possono mai essere prese alla lettera - in questo sta tutta la sostanza della critica che può essere a esse rivolta. Ciò vale in particolare per la posizione di Cassirer. Benché egli cerchi di mostrare che l'indistinzione tra simbolizzante e simbolizzato rappresenta un vero e proprio cri­ terio per l'interpretazione delle operazioni mitiche come opera­ zioni che conducono ad una coerente orga­nizzazione del mon­ do, tuttavia quella indistinzione, se presa alla lettera, sopprime qualunque possibilità della costituzione di un mondo in generale. Lo stesso vale anche per la pretesa indifferenza alla contraddizio­ ne di cui parla Lévy-Bruhl; oppure per l'idea di un totale assor­ bimento nelle connessioni associative secondo ciò che teorizza Frazer. Da un lato queste concezioni esigono di essere prese alla 79 lettera, altrimenti esse ci rimettono tutta la loro pregnanza ed il loro interesse; dall'altro possono esserlo solo a patto di tacere del tutto sul fatto che vi è una organizzazione dell'esistenza che presuppone una precisa cognizione empirica dell'ambiente cir­ costante, una cognizione che coesiste con le operazioni vere e proprie della coscienza mitica. La prospettiva nella quale ci muoviamo presuppone dun­ que che il mondo circostante quotidiano appaia al primitivo esattamente come appare a noi, che si dia uno strato del mondo che si costituisce esattamente nelle stesse forme e negli stessi modi. E addirittura, come osserva Wittgenstein in un testo che prenderemo fra breve in considerazione, che la conoscenza della natura del primitivo non sia affatto fondamentalmente diversa dalla nostra [93]. La conoscenza della natura di cui qui si parla non è evi­ dentemente una conoscenza acquisita programmaticamente che si procura via via i propri strumenti nella posizione di un fine conoscitivo autonomo, ma è quella conoscenza che possia­mo considerare concresciuta nella stessa costituzione pratico­-espe­ rienziale della realtà. Anche il primitivo conosce la legge di gra­ vità, nella misura in cui sa benissimo che una pietra cadrà ineso­ rabilmente a terra se la solleviamo in alto e poi abbando­niamo la presa. E se conosce la legge di gravità in questo senso conosce nello stesso senso una vera folla di altre leggi: benché non le conosca affatto in quanto leggi. Del resto noi le conosciamo esattamente nello stesso modo nelle nostre azioni quotidiane. Per il primitivo come per noi si tratta di momenti che fanno direttamente parte dello stile del mondo così come esso viene praticato nella nostra esperienza di esso. 80 18 Doppiezza della credenza e coscienza dell'immagine Ma in che modo il riconoscimento che ab­biamo or ora effettua­ to si connette con un diverso punto di vista sulla costituzione del mondo mitico mettendo in questione la temati­ca della credenza neutralizzata e mostrando così la rilevanza della componente im­ maginativa della stessa compagine dell'e­sperienza mitica come esperienza vissuta? In effetti, se ripensiamo ai materiali che siamo andati pren­ dendo via via in esame, secondo un punto di vista che è stato reso attento a questo lato del problema, siamo colpiti da una circostanza alla quale tenderemmo ora ad attribuire la massima importanza: ogni documentazione relativa a pratiche o a com­ portamenti mitico-magici è in realtà sempre accompa­gnata dal sottinteso che queste pratiche e questi comportamen­ti sono lo­ calizzati su un terreno completamente diverso rispet­to alle pra­ tiche, alle azioni, ai comportamenti ed alle credenze in senso usuale. Per esempio: in Lévy-Bruhl si parla delle previsioni intorno al decorso di una malattia attraverso la pratica del gettare i dadi [94]. L'episodio, narrato così, potrebbe farci concludere che non ci si rende conto della mancanza di connessione tra la malattia e il tiro dei dadi, che il primitivo istituirebbe una connessione pro­ fonda tra eventi che non hanno nemmeno una connessione su­ perficiale. La narrazione ha tuttavia un sottinte­so, e precisamente è sottinteso che la previsione è possibile solo se i dadi vengono tirati da una determinata persona, il cosid­detto uomo-medicina. Se qualcun altro, per esempio un con­giunto del malato, effet­ tuasse il tiro dei dadi, il risultato verrebbe certamente ritenuto insignificante ai fini della previ­sione. Ci chiediamo allora: crede o non crede colui che si affida ad una simile pratica che esista una connessione profonda tra la malattia e il tiro dei dadi? In realtà 81 accade qui che la stessa azione può ricevere due sensi, o più pre­ cisamente, la stessa azione non è affatto la stessa se la compie una persona qualunque oppure se la compie lo stregone. Compiuta dallo stregone essa appartiene ad una sfera di azioni completa­ mente diverse dalle azioni quo­tidiane. E se da un lato il presagio affidato allo stregone mostra che si istituisce una relazione profonda tra la malattia e il tiro dei dadi, dall'altro il fatto che la stessa azione non possa essere svolta da chiunque mostra che non si istituisce alcuna connessione profonda tra la malattia e il tiro dei dadi. Oppure si pensi all'esempio, di genere diverso, ma che illu­ stra lo stesso problema, della malattia concepita come un corpo estraneo - una pietra o un animale - che è entrato nel malato e deve esserne cacciato fuori. Cassirer si serve di questo esempio essenzialmente per il­ lustrare la tendenza alla sostanzializzazione che sarebbe pro­pria del pensiero mitico [95]. Alla base di una simile concezione della malattia vi è certamente un'immagine, ma essa c'è solo per noi, e non invece per chi è totalmente immerso nell'atteg­giamento miti­ co. La cosa che è la malattia è proprio una cosa come tutte le altre: ogni coscienza dell'immagine è esclusa. Noi ci chiediamo invece fino a che punto si possa dire che questa coscienza non sussiste ovvero in che senso possiamo dire che essa non sussiste. Infatti, se da un lato è vero che si parla della malattia come di una cosa, e quindi indubbiamente al di fuori di un contesto innocuo come quello delle immagini del discorso corrente (come quando diciamo che "un tarlo ci rode"), non sembra invece affatto vero che proprio nulla subentri alla coscienza dell'immagine e che in qualche modo ne faccia le veci. Infatti, se l'indistinzione tra simbolizzante e simbolizzato fosse realmente da prendere alla lettera, allora sarebbe logico atten­ dersi che la cura non possa consistere in altro che nel ricercare questa pietra nel corpo del malato tentando di estrarla - proprio come accade nel quadro di Bosch nel quale un medicastro si ac­ cinge a trapanare il cranio di un poveraccio per estrarne la pietra 82 della follia. Se si tratta di una credenza effettiva, cioè di una opi­ nione autentica intorno alla malattia, vi sarà anche una tecnica adeguata a quella opinione. Invece normalmente non accade così. All'"opinione" della malattia come corpo estraneo non corrisponde alcuna tecnica conseguente di estrazione, ma una speciale cerimonia dalla quale ci si attende che il corpo estraneo venga cacciato fuori - e cioè semplicemente che l'ammalato guarisca... Qualche cosa di simile ad una sostanzializzazione è certamente avvenuta, ma non pos­ siamo affatto passare sotto silenzio il fatto che nessuno si atten­ de poi di vedere rotolare via il sasso sul terreno della capanna o di poterlo far passare di mano in mano dicendo: "Si trattava di questo". Come stanno allora le cose quanto al problema della cre­ denza? Fede e malafede si sostengono l'una con l'altra. Il tratto fondamentale dell'esperienza mitico-magica e, forse, del­l'espe­ rienza religiosa in generale, è una sorta di intrinseca doppiezza: "Egli sa bene che il fulmine viene dalle nuvole - scrive un osservatore a proposito di un africano a cui il fulmine ha distrut­ to la casa - e che le nuvole sono inaccessibili alla mano dell'uo­ mo. Ma qualcuno gli ha detto che quel fulmine gli era stato man­ dato da un vicino che gli vuole male, lui lo ha creduto, lo crede ancora, lo crederà sempre" [96]. 83 19 La reificazione delle im­magini come reificazione in­com­pleta Alla base dei comportamenti e delle credenze mitiche vi sono immagini. Ma questo carattere immaginativo sfugge alla coscien­ za mitica. Ciò significa che l'immagine viene ridotta a cosa, vie­ ne sottoposta in vari modi a un processo di reificazione. Fin qui giunge la tesi del simbolismo implicito. Ma non appena attiria­ mo l'attenzione sul fatto che l'esperienza mitica non può essere una esperienza globalizzante, costitutiva di un mondo in sé com­ piuto, non appe­na cioè effettuiamo il ricono­scimento che una concezione empirica del mondo deve essere comunque presup­ posta, allora ci rendiamo conto che resta ancora un aspetto del problema che deve essere messo in rilievo. Infatti la reificazione delle immagini non giunge fino al punto di integrare le formazio­ ni mitiche nella realtà stessa e la credenza non arriva a essere una credenza autenticamente posizionale. Che le cose non stiano così è indicato dal fatto che ogni azione, oggetto o pratica mitico-magi­ ca viene segregata da tutto il resto, coesistendo con i decorsi degli eventi e delle azioni quotidiane nella forma di una rigida frattura. In altri termini, non appena ci sembra che la neutralizzazione sia stata soppressa, e dunque che l'immagine abbia perduto il carattere di immagine, ci troviamo di fronte a procedure segreganti che richiamano il tema dell'eterogeneità. E come se la coscienza mitica si realizzasse in un doppio processo: in primo luogo essa mette in opera una vera e propria degradazione del­l'im­magine; ma le cose in cui le immagini si sono degradate vengono subito poste da parte, delimitate e circoscritte rispetto al mondo empi­ ricamente costituito, effettuando in questo modo una sorta di ripristino della loro valenza immaginativa. La nostra tesi è dunque che la reificazione delle immagini che caratterizza l'esperienza mitica è una reificazione incompleta. Proprio nella misura in cui le procedure di segregazione 84 possono essere intese come la forma peculiare che assumono le operazioni neutralizzanti nell'ambito dell'immaginazione miti­ca la tesi dell'inconsapevolezza della distanza simbolica deve essere respinta. 85 Mircea Eliade 20 Sacro e profano Alcune osservazioni sull'opposi­zio­ne tra sacro e profano potran­ no forse servirci per compiere una prima ve­rifica di questo spun­ to iniziale che ha certamente bi­sogno di essere mes­so alla prova, per accertare se esso sia in gra­do di offrirci un punto di vista real­ mente significativo al fine di una nuova impostazione del nostro 86 pro­blema. Questa opposizione si trova formulata a titolo di antitesi fon­ damentale in apertura della seconda parte del volume della Filoso­ fia delle forme simboliche dedicato al mito, ed essa assolve del resto un ruolo determinante all'interno della letteratura sull'argomento. Ciò che attira il nostro interesse su questa opposizione è naturalmente il modo stesso in cui abbiamo sviluppato fin qui il nostro discorso, un modo che poneva l'accento su una duplicità di principio inerente alla natura del problema. Tutta­via dobbiamo subito sottolineare che l'intera questione viene resa confusa già dalla terminologia impiegata. Infatti non si dovrebbero mettere l'uno di fronte all'altro il sacro e il profa­no, ma piuttosto il sacro e il quotidiano, la realtà sacra e la realtà comune. Che il profano sia per così dire una faccenda interna al sacro e che del resto ne pre­ supponga la nozione sembra del tutto evidente - basti pen­sare all'impiego del verbo "profana­re" - per quanto, strana­mente, né in Cassirer né in altri autori venga attratta l'at­tenzione in modo particolare su questo punto. Mircea Eliade - un autore che merita di essere ricordato an­ che in rapporto a Cassirer e che può essere considerato fra i più notevoli e interessanti rappresentanti della "fenomenologia della religione" - nel volume Il sacro e il profano parla del sacro come di ciò che si oppone al profano [97]; mentre sembra appunto evidente che si debba dire l'esatto inverso e, beninteso, una simile inver­ sione incide sul contenuto della questione. Di norma questo equivoco è reso possibile dal fatto che si considerano il profano e il quotidiano come nozioni di senso per­ fettamente equivalente, mentre una simile equivalenza non ha alcuna ragione di sussistere e la sua assunzione, implicita o espli­ cita che sia, è destinata a incidere in profondità sulla trattazione del problema. Infatti, mentre il profano presuppo­ne il sacro, la quotidianità è in se stessa libera da questo rimando, e anche di­ sponendosi dal punto di vista del sacro non avrebbe certamente senso caratterizzare tutto il resto - un qualunque oggetto del 87 mondo circostante di ogni giorno, ogni azione o comportamen­ to comune - come profano. In che modo questa annotazione terminologica abbia un preciso rilievo concettuale è mostrato dal fatto che il porre al centro la coppia sacro-quotidiano tende a porre il problema in una forma diversa da quella di una pura e semplice antitesi. L'an­ titesi sussiste solo tra il sacro e il profano, mentre tra il sacro e il quotidiano sussiste un rapporto di totale alterità. È un fatto cer­ tamente significativo per le valenze critiche in esso implicite che anche noi ci possiamo associare alla nota desi­gnazione del sacro come Ganz Anderes, già presente in Rudolf Otto, e poi ripresa ovunque nell'ambito della fenomenologia della religione. Solo che per noi la trasposizione in una regione totalmente altra non solo rappresenta il punto nodale che connette il mito all'immagi­ nazione, ma assume il senso di un'o­perazione che conduce a una vera e propria costituzione delle oggettività sacre. Siamo dunque molto lontani dall'atteg­gia­mento consueto del fenomenologo della religione che si accinge ad una pura e semplice descrizione del sacro come di una pretesa oggettualità di riferimento di una esperienza mitico-religiosa caratterizzata da una direzione inten­ zionale univoca. Si tratta invece di prestare attenzione alle procedure di rei­ ficazione e di alterificazione che conducono all'investimento sa­ crale di oggetti e di eventi. Tutte le descrizioni che in vari modi ripresentano la tematica dell'eterogeneità all'interno del­le forme di manifestazione del mito assumono allora una portata ed un significato interamente diversi. Si consideri per esempio la circostanza più volte sottolinea­ta e richiamata anche da Cassirer [98], secondo cui il sacro è spesso connesso con ciò che è eccezionale, che è nuovo e straordinario. Si dovrebbe commentare, a questo proposito, che già questo at­ testa come uno stabile senso della realtà debba in qualche modo essere dato come presupposto: l'eccezionalità, l'essere fuo­ri dalla norma presuppone la norma. La realtà ha le sue consue­tudini ed 88 esse ci sono perfettamente note. Ma potremmo anche spingerci oltre. La sacralizzazione dell'evento straordinario potreb­be talvol­ ta essere addirittura intesa come una reazione ai suoi potenziali effetti disaggreganti. Ciò che è anomalo minaccia la nor­ma e da questa minaccia ci si può difendere respingendo l'anomalia nella regione di eterogeneità che è il sacro stesso. La sacralizzazione può presentarsi così talvolta come funzione del senso di realtà. Che dire allora di una posizione come quella cassireriana che propo­ ne l'esperienza mitica come anteriore alla distinzione tra reale e irreale, tra il sonno e la veglia, tra il morto e il vivo? Eppure si potrebbe pretendere che tutto ciò sia ben docu­ mentato: gli uomini bianchi vennero spesso considerati, secon­ do quanto riferisce Lévy-Bruhl, come morti vaganti nella foresta [99]. Ma è indubbio che anche in racconti come questi vi sono importanti sottintesi: incontrare un morto in giro per la foresta non è appunto cosa di ogni giorno e questa possibilità non può certamente essere integrata facilmente nella realtà senza scom­pa­ ginarla. Il luogo dell'incontro sarà dunque presu­mibil­mente sacra­ lizzato, contrastando così una simile confusio­ne di piani. Quanto al modo della sacralizzazione, esso può essere ripreso diretta­ mente dalle descrizioni fenomenologiche relative al sacro, nel­ le quali il tema della segregazione si ripresenta di continuo. Il primo atto, l'atto che costituisce il luogo come luogo sacro è la costruzione di un recinto, anche soltanto l'atto di tracciare una linea sul terreno. Al di là di questa linea vi è il radicale altrove. In esso non si accede di passo in passo per transizioni successive, ma di salto - come negli spazi dell'im­maginazione in genere, nello spazio del gioco o dell'azione teatrale. Naturalmente ogni prescrizione rituale deve essere intesa come l'istituzione di un re­ cinto. Se dovessimo dire, per esem­pio, che cosa caratterizza una narrazione mitico-religiosa ri­spetto a un semplice racconto, non ci richiameremmo affatto alle pecu­liarità del suo contenuto o a uno speciale modo di "perce­pirlo", ma faremmo piuttosto rife­ rimento alle pratiche rituali prescritte per la sua comunicazione. 89 21 L'uniformità indifferente del quotidiano e la pretesa fun­zione ordinatrice del sacro Consideriamo ora in che modo lo stesso problema dell'op­posi­ zio­ne tra sacro e profano si pre­sen­ta all'interno della tematica di Cassirer. Come abbiamo osservato, anche in Cassirer la coppia dei termini viene assunta come tale e il tema della quotidianità viene per così dire interpolato sotto il titolo del profano. Ma Cassirer non si limita a questo: in realtà compie una operazio­ne molto più sofisticata che è in certo senso resa necessaria dalla sua imposta­ zione complessiva e che orienta subito la discussione secondo una direzione interamente diversa. Evi­dentemente, data la natu­ ra dei presupposti filosofici da cui egli prende le mosse ciò che va tenuto fermo è il carattere primario dell'esperienza mitica, e dunque nulla può essere più estraneo alla prospettiva cassireria­ na - almeno nella forma che essa assume nella Filosofia delle forme simboliche - quanto l'assumere la quo­tidianità come un mondo già in se stesso strutturato. Perciò questa stessa nozione deve essere sottoposta a una sorta di mani­polazione filosofica in modo da renderla quanto più pros­sima è possibile al materiale indifferen­ ziato dell'esperienza che attende di essere messo in forma. 90 In effetti, quando Cassirer parla del "profano", intendendo con ciò anzitutto il "piano dell'esperienza di tutti i giorni" [100], come di una "serie dei soliti fatti della comune esistenza empiri­ ca" [101], non fa altro che proiettare su questo piano l'immagine della dispersione che precede quella strutturazione che solo l'e­ sperienza del sacro è in grado di apportare. Ciò che viene messo in evidenza è l'uniformità dell'esistenza quotidia­na, la perfetta indifferenza di livello dei piccoli fatti che accadono in essa - dunque nello stesso tempo, l'assenza di un senso e di una dire­ zione. Si avverte qui qualcosa di simile a una lacuna argomen­ tativa, o meglio ad un passaggio che non sembra avere alcuna giustificazione teoretica interna. Una giustificazione comunque c'è, ed essa sta precisamente nello scopo che Cassirer persegue. Ponendo le cose in questo modo, infatti, il sacro verrà senz'al­ tro assimilato alle forme kantiane: esso cioè verrà in questione essenzialmente come un modo primario di dare ordine al modo. Di conseguenza l'alterità del sacro assume un senso com­ pletamente diverso. Anche qui si dice, per esempio, che l'idea di mana "contrappone al piano dell'esistenza di tutti i giorni e di ciò che avviene nelle maniere usuali un altro piano nettamen­ te distinto" [102]. Ma questa differenza è intesa anzitut­to come rottura, indotta dal sacro, del continuo omogeneo e insensato, del profano quotidiano: il problema della differenza si prospetta in primo luogo come inserimento di una disconti­nuità ordina­ trice. Tutta la trattazione dello spazio e del tempo mitico, a cui introduce il tema dell'antitesi tra sacro e profano come antitesi fondamentale, nonostante la grande varietà degli aspetti considerati che la rende così ricca di interesse, è dominata da una simile pro­ spettiva che subordina i temi della segregazione a quelli dell'or­ ganizzazione. Ora, non si tratta certo di negare il sussistere di un aspet­ to tanto notevole che appartiene indubbiamente alla tematica di una fenomenologia dell'esperienza mitico-religiosa. Ma il rico­ noscimento di questo aspetto e della sua portata - e quindi anche 91 il riconoscimento dell'interesse intrinseco che riveste l'indagine cassireriana - non implica affatto che si debbano assumere le implicazioni filosofiche che sono a esso sottese e che si prestano peraltro ad impieghi nettamente ideologici. Per quanto da Cassirer possa essere lontano l'intento di ap­ pro­dare a una pura e semplice apologetica indiretta della religio­ ne in genere, tuttavia non vi è dubbio che il modo in cui questa tematica viene messa in gioco si presta ampiamente a essere uti­ lizzata in questa direzione. Ciò appare chiarissimo nel volume di Eliade che abbiamo rammentato in precedenza per altri motivi. Nonostante il fat­ to che nella stessa terminologia si facciano sentire alcuni echi della filosofia esistenzialista, vi è una profonda affinità con la posi­zione di Cassirer proprio per ciò che concerne il modo di intendere l'"antitesi fondamentale". Attraverso il sacro si ope­ ra una rottura di livelli [103]; il sacro implica una scissione, una frattura: esso si manifesta come una irruzione [104]. E tutto ciò accade in funzione del problema dell'ordine e nello stesso tempo del problema del senso. Perciò Eliade parla spesso del sacro in quanto realizza una vera e propria fondazione del mondo. La frattura organizza il mondo. La sacralizzazione deve essere considerata anzitutto come un processo di cosmizzazione. "La manifesta­ zione del sacro fonda ontologicamente il mondo. Nella distesa omogenea e infinita senza punti di riferimento né impos­sibilità alcuna di orientamento, la ierofania rivela un "punto fisso" asso­ luto, un "centro"" [105]. Ma se la sacralizzazione assolve questo compito, allora la desacralizzazione, cioè la demitizzazione dell'esperienza del mondo sembra dover essere niente altro che una regressione nell'a­ morfo, una regressione dal senso al non senso. Ed è naturalmente questa la conclusione che trae Eliade. Di qui gli antichi e rinno­ vati lamenti sulla "modernità", sul disorienta­mento esistenziale che sarebbe componente essenziale necessa­ria della "gigantesca trasformazione del mondo prodotta dalle società industriali e 92 resa possibile dalla desacralizzazione del Cosmo per effetto del pensiero scientifico" [106]. In positivo andrà allora proposta una sorta di nuova pro­ gressione verso il sacro, in modo da riattivare il potenziale di espe­ rienza mitica sempre latente in noi, andrà messo in opera un pro­ cesso di rimitizzazione che ostacoli la demitizzazione in corso. 22 Riconsiderazione della posizione di Lévy-Bruhl Sempre allo scopo di mettere alla prova il punto di vista che ab­ biamo adottato, per mostrare in che modo a partire da esso pos­sa essere articolata una discussione sui materiali prece­dentemente esposti, può essere interessante riprendere nuova­mente in esame la posizione di Lévy-Bruhl a cui abbiamo rapidamente accenna­ to come una estensione del nostro com­mento alla posizione cas­ sireriana. Ora che abbiamo messo in questione quest'ultima nel principale dei suoi capisaldi, ten­diamo a rileggere le stesse pagi­ ne che abbia­mo prese in considerazione a suo tempo, dando il massimo rilievo ad aspetti del problema sui quali in precedenza, tutti presi nel cercare conferme alla tesi del simbolismo implici­ to, aveva­mo sorvolato. E ci rendiamo subito conto che la nostra esposi­zione era stata certamente troppo unilaterale - e ciò non soltanto per via della sua brevità. Riconsideriamo per esempio la questione dell'indistin­zione tra sogno e veglia: in rapporto al sogno Lévy-Bruhl afferma cer­ 93 tamente che "il sogno porta ai primitivi dei dati che, ai loro oc­ chi, valgono altrettanto, se non più, che le percezioni acqui­site durante la veglia" [107]; ma afferma anche, in maniera inequivo­ cabile, che nell'attribuire questo valore al sogno i primiti­vi "non sono nemmeno vittime di una grossolana illusione psicologi­ ca. Sanno benissimo distinguere il sogno dalle perce­zioni della veglia, e sanno benissimo di sognare quando dor­mono" [108]. Non solo: essi distinguono tra sogno e sogno e operano questa distinzione facendo riferimento alla differenza tra vero e falso: essi "non danno credito a tutti i sogni indistintamente. Certi so­ gni sono veridici e altri no". Così accade talvolta che si dia un nome speciale ai sogni veridici, considerando tutti gli altri come frutto di pura immaginazione. "Presso gli indiani della Nuova Francia quelli che hanno il dono di sognare non accettano tutti i loro sogni indifferente­mente; ne riconoscono di falsi e di veri e questi - dicono - sono assai rari" [109]. C'è dunque la veglia; e il sonno con i suoi sogni; e ci sono i grandi sogni, che accadono solo a persone che ne hanno il dono, e i piccoli sogni di tutti che non hanno nessuna impor­tanza. Ed è naturale che sia così - è naturale dal punto di vista che abbiamo adottato. Mentre da un punto di vista che nega la doppiezza e la consapevolezza di essa, circostanze come queste dovrebbero essere passate sotto silenzio. È naturale persino che a certi sogni venga attribuita una veridicità, in un senso che sa­ rebbe peraltro tutto da chiarire. Se infatti è vero che il sogno si presenta, alla sua superficie, come una serie di eventi non loca­ lizzabili nel contesto della realtà, una circostan­za che denun­ cerebbe la sua origine immaginativa, è anche vero che almeno per certi aspetti il sogno ha la forma dell'ac­cadere autentico. Se un morto mi appare mentre dormo e io ne odo distintamente la voce, come posso sapere che si tratta soltanto di una illuso­ ria creazione dell'immaginazione? Di fatto il sogno ci mette di fronte all'enigma di eventi irriducibili alla realtà perché sfuggono alle sue regole, e che sono nello stesso tempo provvisti di alcuni 94 caratteri che sono propri degli eventi reali. Una soluzione di que­ sto enigma sta proprio nel raddoppiamento della realtà stessa, un raddoppiamento che non solo non ha nulla a che vedere con l'indistinzione tra sogno e veglia, ma che anzi pre­sup­pone che tra l'uno e l'altra sia stata effettuata una chiara distinzione. Ciò mette in questione, naturalmente, anche il tema del­ la simbiosi tra "mondo visibile" e "mondo invisibile". Secondo Lévy-Bruhl, il primitivo vive direttamente questa unità e siamo noi a introdurre questa differenza, essenzialmente per dire che essa è ignorata dal selvaggio. Mentre essa deve essere considera­ ta come posta all'interno della stessa esperienza mitico-religiosa nella forma di una sovrapposizione, in appa­renza contraddittoria, secondo i modi che abbiamo illustrato in precedenza. Da questo punto di vista dovrebbe essere ripresa la discus­ sione intorno al problema causale così vivacemente proposto da Lévy-Bruhl e ripreso da Cassirer che lo inserisce in un contesto filosofico più ampio e particolarmente elaborato. Come in rapporto alla posizione di Cassirer, così anche in rapporto a quella espressa da Lévy-Bruhl si può obiettare che essa non può essere presa alla lettera. Una filosofia della mito­ logia non può affatto ignorare che vi è una forma primaria di unità costitutiva della nozione di mondo e che ad essa appartiene l'idea di una concatenazione causale degli eventi. Per usare una espressione di Husserl: il mondo ha uno stile causale. Questa frase va rammentata qui perché Husserl la enuncia proprio in rapporto al mondo della vita, cioè al mondo come si dà all'in­terno dell'esisten­ za stessa, al mondo che antecede le elabora­zioni concettuali ed intellettuali della scienza. Sarebbe tuttavia ingiusto ritenere che Lévy-Bruhl non scor­ ga le difficoltà insorgenti dalla negazione di questo presuppo­sto. L'unilateralità della nostra esposizione precedente consiste an­ che nell'aver taciuto sulle restrizioni con cui Lévy-Bruhl accom­ pagna l'asserita indifferenza alla causalità naturale da parte del primi­tivo: anzi, più che di restrizioni si tratta proprio dell'emer­ 95 genza di una difficoltà intrinseca che egli enuncia in tutta chia­ rezza. Nonostante tutto, "i primitivi si servono co­stantemente della connessione effettiva delle cause e degli effetti". Infatti, co­ munque ne sia della sua costituzione menta­le, non si può non riconoscere che "il primitivo si muove nello spazio esattamente come noi e per lanciare i suoi proiettili o per raggiungere uno scopo lontano sa come noi e a volte meglio di noi valutare rapi­ damente le distanze, ritrovare una direzione, ecc.". "Nella costru­ zione degli utensili, per esempio, o in quella delle trappole essi danno spesso prova di una ingegnosità che implica una finissima osservazione di questa connessione" [110]. Ma la difficoltà appena intravista viene ben presto sbrigati­ vamente superata. Possedere un modo di attività, dice Lév­ y-Bruhl, è tutt'altra cosa che "possedere contempora­neamente l'analisi di questa attività". Da un sapere pragmatico, incorpo­rato nell'azione dobbiamo distinguere un sapere che è il risul­tato di una riflessione. Ma ciò non basta ancora: un sapere pragmatico è ancora pur sempre un sapere implicito e rimar­rebbe allora il paradosso secondo cui la teoria a cui si attiene esplicitamente il primitivo per ciò che concerne la nozione di realtà in generale sarebbe l'esatto opposto della teoria impli­cata in quelle pratiche. Cosicché Lévy-Bruhl propone la scis­sione in modo più radicale, negando alle tecniche esercitate dal primitivo ogni carattere di un sapere implicito: esse sorgono invece dall'i­stinto. Si costruiscono capanne così come si cam­mina: e anche gli animali lo fanno. "Dal punto di vista dell'azione essi si spostano nello spazio come noi (e come gli animali), raggiungono i loro scopi per mezzo degli strumenti il cui uso implica la connessione effettiva delle cause e degli effetti; e se non si conformassero a questa connessione, ancora come noi (e come gli animali) perirebbero subito" [111]. Di una simile soluzione non possiamo certo ritenerci soddi­ sfatti. Il paradosso che essa doveva sciogliere è diventato soltan­ to più clamoroso. Infatti, ponendoci in questa prospetti­va, tutto ciò che sembra richiedere un ampio complesso di cogni­zioni au­ 96 tentiche sul mondo circostante, tutto ciò che presuppone un as­ sennato progetto di appropriazione dell'am­biente, una cosciente posizione di scopi e la ricerca di mezzi a essi adeguati, tutto que­ sto dovrà essere livellato ad un atto puramente motorio, a quella componente istintiva che abbia­mo in comune con gli animali. L'homo faber non è altro che un castoro. Ciò che è pro­pria­mente umano nell'uomo lo ricerche­remo invece nella sua "cultura", in un'accezione tanto ridutti­va del termine da comprendere esclu­ sivamente l'ambito delle credenze religiose e dei comportamenti rituali in genere: per quanto forsennati ci possano apparire. Henri Bergson 97 23 Digressione bergsoniana Quando dunque Bergson, in Le due fonti della morale e della religio­ ne, avvia la propria critica a Lévy-Bruhl rilevando che vi è una cognizione causale immanen­te nelle pratiche quotidiane, tocca una difficoltà che anche Lévy-Bruhl aveva scorto e risolto a suo modo [112]. Tuttavia Ber­gson non è interessato in modo parti­ colare a mettere in rilievo il fatto che anche Lévy-Bruhl si rende conto della difficoltà ed a discutere il modo in cui egli pensa di venirne a capo. Bergson è invece colpito da un unico punto che assume il carattere di un punto nodale. Quando Lévy-Bruhl insi­ ste sull'indifferenza ri­spet­to alle cause naturali, portando a ripro­ va numerose testi­monianze e docu­mentazioni, "un primo punto è notevole: che in tutti i casi riportati, l'effetto di cui si parla e che è attribuito dal primitivo a una causa occulta è un avvenimen­ to che concerne l'uomo o più particolarmente un avvenimento accaduto a un uomo o più particolarmente ancora, la morte, e la malattia di un uomo. Non si tratta mai dell'azione dell'inanimato sull'inani­mato (tranne nel caso di un fenomeno meteorologico nel quale l'uomo ha, per così dire, degli interessi). Non si dice che il primitivo vedendo il vento che curva un albero, il flutto che trascina dei sassolini, il proprio stesso piede che solleva la polvere, faccia intervenire qualche cosa di diverso da ciò che noi chiamiamo causalità meccanica" [113]. Ma se le cose stanno così, allora non possiamo contentarci di rilevare che in taluni casi interviene il rimando a una "forza mistica", ma dobbiamo invece cercare di andare più a fondo nel problema, chiedendoci quale sia il tipo di operazione che viene effettivamente compiuta. Poiché dobbiamo senz'altro ricono­ scere che, quando il primitivo vede che un uomo è stato ucciso da un frammento di roccia, coglie la connessione causa­le esat­ tamente come la cogliamo noi, dobbiamo chiederci perché mai 98 introduce una causa soprannaturale. E se osservia­mo le cose da vicino, ci rendiamo conto che "ciò che il primitivo spiega in tal caso con una causa soprannaturale non è l'effetto fisico, ma il suo significato umano, la sua importanza per l'uomo, e più parti­ co­larmente per un certo uomo determi­nato, quello ucciso dalla pietra. Non vi è nulla di illogico, né di conseguenza di prelogi­ co... nella credenza che una causa deb­ba essere proporzionata al suo effetto e che, una volta consta­tate l'incrinatura della roccia, la direzione e la violenza del vento.., resti da spiegare questo fat­ to di importanza capitale per noi, la morte di un uomo" [114]. Emerge così un motivo che deve essere indubbiamente ri­ preso, indipendentemente dal contesto filosofico nel quale esso si trova inserito. La nostra attenzione viene qui richiama­ta sul fatto che ci si rifiuta, con un simile comportamento, di ammet­ tere l'equivalenza tra due serie causali una delle quali sfocia in un fatto che ha una rilevanza umana. La richiesta di qualcosa di simile ad una spiegazione supplementare è una diretta conse­ guenza di questa operazione di discriminazione. Ora, la prima domanda che ci si deve proporre è se, così facendo, il primitivo si trovi già sotto la presa del pensiero miti­ co-magico che lo orienta senz'altro in questa direzione, oppure se non si tratti piuttosto di un problema indipendente rispetto alla soluzione mitico-magica proposta nei casi partico­lari, che peraltro, secondo la nostra concezione, non potrà in ogni caso essere intesa come una soluzione autentica nemmeno per la co­ scienza mitica. Noi propendiamo a confermare il secondo polo di questa alternativa. Ciò non dipende affatto dall'intenzione di prende­re partito per una direzione tendenzialmente "spiritualistica" piut­ tosto che tendenzialmente "materialistica". La questione non verte infatti sulle nostre convinzioni filosofiche o su quelle dei primitivi: non si tratta di prendere decisioni sulla natura in sé degli eventi, ma sulla nostra esperienza di essi; e per quanto le nostre convinzioni possano pesare su questa esperienza, non 99 riusciremo probabilmente a ricondurle integralmente sul piano stesso del vissuto, che è il piano su cui quella discriminazione viene operata. Basterà riflettere, a questo proposito, sul fatto che il proble­ ma di una doppia interpretazione, si ripresenta come un proble­ ma fondamentale della costituzione intersoggettiva. I movimen­ ti dell'altro, per esempio, sono anch'essi eventi di questo mondo che possono essere considerati come strettamen­te inseriti in una concatenazione meccanico-causale. Nell'ap­prensione dell'altro, tuttavia, questo modo di considerazione non può essere origi­ nario: anche se parliamo, nel discorso corrente di cause, inten­ diamo di norma qualcosa di profonda­mente diverso dalle cause meccaniche, intendiamo piuttosto le motivazioni, le intenzioni che orientano l'agire. Alla pura e semplice percezione del movi­ mento si sovrappone e diventa dominante l'apprensione di una gestualità che rimanda a una ininterrotta produzione di senso. Nel contesto di una fenomenologia dell'intersoggettività, la morte si presenta, nell'esperienza stessa, come un problema: come se le forme originarie della costituzione dell'altro si prolungas­ sero anche su questo evento, investendo l'esperienza che noi ab­ biamo di esso. Quando muore un uomo, ciò che viene percepito è anzitutto il chiudersi di un universo irriduci­bile e irripetibile di significati, i significati che emanano dalle sue azioni e dai loro prodotti, ma forse in primo luogo, e più semplicemente, i signi­ ficati che vengono direttamente colti nel suono della voce, nelle minime variazioni espressive del volto. Ciò che resta, dopo la morte di un uomo, è l'infinita no­ stalgia di una gestualità definitivamente perduta. E proprio questa chiusura della produzione del senso che resta un problema: le causalità meccaniche che nel processo di costituzione dell'altro stanno sullo sfondo come totalmente irri­ levanti, sembrano qui operare un livellamento intollerabile. Di qui l'istanza di confermare la differenza dei piani, di ripor­tare l'e­ vento sul piano degli eventi-valori, integrando anche la morte 100 nel fiume della produzione soggettiva del senso. Tutto ciò ci consente di scorgere un nuovo aspetto, di fon­ damentale importanza e fin qui non ancora considerato, del pro­ blema della relazione del mito all'immaginazione. In effetti, il mito dà a quella istanza una risposta immaginativa. Sappia­mo già che questo carattere immaginativo non si sottrae affatto alla stessa esperienza vissuta. Ora dobbiamo aggiungere che l'im­ ma­­ginazione interviene qui non soltanto come facoltà del­l'ete­ rogeneo, ma anche secondo l'altra funzione essenziale che deve esserle attribuita: la funzione di valorizzazione. Infatti, la via che conduce da un determinato contenuto all'immagine è una via nel cui corso il contenuto, entrando nei dinamismi relazio­ nali dell'associazione delle idee, attenua sempre più le proprie connotazioni che lo vincolano al contesto dei fatti per accede­ re al contesto dei valori. Questa funzione valorizzante dell'im­ maginazione - che è una sua funzione originaria con­nessa allo stesso concetto delle sintesi immaginative - entra qui in opera su contenuti che hanno già un indice di valore. Ciò significa che l'ela­ borazione immaginativa dell'evento non ten­de a dare una giusti­ ficazione per così dire metafisico-sostanzia­le dell'evento stesso, quanto piuttosto a confermare, a rafforza­re, ad ampliare il suo carattere di evento-valore. Solo a questo punto, quando cioè si sia effettuata la connes­ sione della nostra tematica precedente con il problema del va­ lore, si può realmente parlare di immaginazione mitica, e più in generale di immaginazione sacra. Di qui le operazioni immaginative traggono tutta la loro serietà, riproponendo una forma di con­ nessione profonda con la vita stessa. 101 24 La profondità dell'imma­gi­na­zione Il parlare della sacralizzazione co­me di un processo di reificazione incompleta, di un doppio processo che consta di operazioni che concre­tiz­zano le immagini e di operazioni, di segno opposto, di segre­gazione rituale, dunque non basta. Dob­biamo anche parlare della profondità dell'immaginazione miti­ca, di quella profondità che appartiene all'aura immaginativa secondo cui appaiono le produzioni del mito e che istituisce un raccordo con il problema del valore. Tuttavia introdurre ed illustrare questo problema sulla base di un esempio così estremo come quello della morte può essere per molti versi fuorviante. Il movimento che dà origine al sacro non ha infatti il suo inizio soltanto nelle questioni ultime della esistenza, ma anche nello stesso ambito del suo decorrere quo­ tidiano. La posizione di valori si effettua di continuo proprio in questo decorso ed in essa è da subito implicata la soggettività pratico-attiva in quanto è orientata verso il pro­prio mondo circo­ stante secondo gli scopi della produzione e della ripro­duzione della sua stessa esistenza. Per questo, quan­do qui si parla di va­ lore, sarebbe opportuno pensare anzitutto alla nozione generale di valore d'uso. La valorizzazione è anzi­tutto una valorizzazione pratica che certamente non mette ancora in causa, in se stessa, le funzioni immaginative. Nel­l'ambito della quoti­dianità viene o­pe­rata una precisa differen­ziazione tra le cose del mondo circo­ stante, tra gli eventi della vita di ogni giorno. Ciò che ha appunto un "significato uma­no", proprio perché è attinente ai bisogni e ai desideri umani e alle pratiche che tendono a soddisfarli, viene distinto, raccolto e messo accuratamente da parte. Tutto ciò ha certamente a che vedere anzitutto con l'u­tilità. Eppure saremmo disposti a sostenere che qualunque azione di chiusura, di custo­ dia del­l'oggetto in quanto tale, può arricchire l'oggetto di una 102 densità immaginativa autonoma, può determinare, insieme ad al­ tre circostanze, l'inizio di un percorso che conduce alle soglie del sacro immaginario. Il legame con l'utilità comincia ad allen­tarsi e quindi anche si allentano le posizioni d'essere ancora implicite nella valoriz­zazione diretta­mente pratica. Nella cu­stodia dell'og­ getto d'uso - nella custodia del fuoco, nella sua alimentazione pe­ renne - esso comincia a entrare nel gioco delle sintesi immagina­ tive che attraverso una catena di riman­di e di connessioni nuove lo ripro­pongono in una totale trasfigurazione. Alla valorizzazione pra­tica subentra la valorizza­z ione immaginativa che approfondisce le differenze ed opera, secondo le regole sue proprie, un'ampli­ ficazione e un'in­ten­sificazione di valore. Seguendo una simile linea di discorso, da un lato saremmo tenuti a inserire all'interno della fenomenologia dell'atteggia­ mento mitico il problema delle condizioni e delle forme del­ la vita entro cui quell'atteggiamento ha origine e si sviluppa in modi diversi e diversamente determinati; dall'altro, assume­rebbe particolare rilievo il fatto che l'immaginazione sacra non investe soltanto oggetti o eventi che sono inquietanti o insoliti, porten­ tosi o semplicemente fuori dell'ordinario ma anche, e altrettanto spesso, essa si dirige su oggetti quotidiani e familiari - sulle cose che ci stanno intorno e che ci danno sicurezza, tutto ciò che sta vicino a casa. Sono questi gli spunti problematici contenuti nel tema della profondità dell'immaginazione. L'immaginazione sacra opera su eventi già valorizzati, amplificando e spostando il loro accento di valore: l'evento che emergeva già all'interno della quotidiani­ tà viene immaginativamente trasfigurato entrando nel racconto mitico, nella cerimonia, nel rito, esprimendo tutte le proprie po­ tenzialità immaginative. In questa trasfigurazione resta tuttavia il legame interno con l'origine, e anzi proprio da questo legame esso riceve tutta la sua intensità. Nella cerimo­nia della primave­ ra, la primavera non è soltanto liberamente fanta­sticata attraver­ so immagini di ogni genere giocate intera­mente al di fuori delle 103 connessioni reali: la primavera del rito non è semplicemente la rappresentazione della primavera, ma è la primavera profonda, la profondità della primavera. 25 Riconsiderazione della posizione di Frazer alla luce delle osservazioni di Wittgenstein Le nostre riflessioni possono avviarsi a un riepilogo ed a una conclusione considerando il breve testo steso da Wittgen­stein come appunti di lettura al Ramo d'oro di Frazer. Essi si prestano indubbiamente a questo scopo dal momento che vanno molto oltre - nonostante la loro brevità - le contingenze di una critica nei confronti di que­sto autore: le osservazioni di Wittgenstein infatti, non solo non sono prive di rilevanza nei confronti della posizione di Cassirer, ma presentano spunti di impostazione del dibattito teorico che possono essere conside­rati in coerenza con l'ango­latura che abbiamo proposta, anche se essa è stata da parte nostra diversamente elaborata. La direzione della critica peraltro non ci è nuova. Essa si rivolge al punto centrale della posizione di Frazer: l'esibizione dei costumi e delle usanze è costantemente accompagnata dal ri­ lievo della loro erroneità; e tutta la teoria della magia si sviluppa a partire dal problema dell'errore. Per questo l'espo­sizione è at­ traversata da una polemica "positivistico-illumini­stica" contro la superstizione che non esita a ironizzare e a ridicolizzare i com­ portamenti selvaggi. E contro di ciò, Wittgenstein: "Vorremmo dire: è accaduto questo e quest'altro: ridi se puoi" [115]. Frazer lo può, e proprio perché fin dall'inizio è installato in una certezza che deve essere messa in questione. Non a caso le osservazioni di Wittgenstein si aprono con l'invito filosofico a immergersi "sempre di nuovo nelle acque del dubbio", a mettere in questione l'apparente saldezza dei principi sui quali siamo at­ 104 testati - ed a maggior ragione in presenza di una documen­tazione di modi e di forme della vita che tanto ci sconcerta. Gli studi antropologici ci mettono di fronte all'inattesa va­ rietà delle risposte umane ai problemi dell'esistenza e questa va­ rietà deve rappresentare uno stimolo costante per la riflessione filosofica, non solo come dato di fatto, ma nella sua stessa pos­ sibilità. La filosofia dovrebbe imparare ad agitare i propri pro­ blemi attraverso l'esercizio di una sorta di antropo­logia immagi­ naria, di un metodo di "invenzione antropologi­ca" che consiste "nell'imma­ginare una tribù nella quale ci si comporta in questo modo..." [116] traendo di qui sviluppi proble­matici ed argomen­ tativi. Degli atteggiamenti selvaggi dovremmo dunque anzitutto limitarci a prendere atto. Il ridicolizzare, invece, non solo tra­ disce l'assenza del dubbio, ma anche implica ciò che sempre si accompagna a essa: l'arroccamento su pregiudizi che alla fine potrebbero rivelarsi meschini. Il tono di Wittgenstein è qui particolarmente aspro: le spie­ gazioni di Frazer dei costumi dei primitivi "sono molto più roz­ ze dello stesso significato di quegli usi" e un primitivo sarebbe proba­bilmente più capace di comprendere un evento qua­lunque della vita spirituale di quanto lo sia "un inglese del XX secolo". Sino al­l'effica­cissimo e spiritoso sarcasmo: "Frazer sa­rebbe capa­ ce di credere che un selvaggio muoia per erro­re" [117]. Le parti si invertono con un effetto parodistico: Frazer presenta le usan­ ze dei selvaggi in modo che alla fine essi non possono che ap­ parire infinitamente stupidi - in questo modo rende certamente plausibili quelle usanze "a gente che la pensa in modo simile al suo"; ma nello stesso tem­po attribui­sce in una buona fede così perfetta una tale dose di ingenuità credulona al selvaggio da fare egli stesso la figura del credulone; e il selvaggio potrebbe certa­ mente farsi beffe di lui. La prima reazione di Wittgenstein di fronte alla lettura di Frazer è dunque questa: "E molto strano che tutte quelle usanze 105 alla fine vengano presentate per così dire come stupi­daggini". E non è in linea di principio plausibile che "gli uomini facciano tutto ciò per pura stupidità" [118] . A tutto ciò si ricollega natu­ ral­mente il tema delle abilità pratiche, il tema della lotta per la sopravvivenza. Il selvaggio intaglia a regola d'arte le sue frecce; costruisce capanne e canoe, ha conoscenze sufficienti per soddi­ sfare i propri bisogni vitali, per dominare le avversità del mondo circostante. Ciò significa, in particolare, ed è una frase che ab­ biamo già rammentato, che "le conoscenze della natura, se le esponessero per iscritto, non si distinguerebbero fondamen­tal­ mente dalle nostre" [119]. Su questi motivi, che abbiamo già incontrato in preceden­za, non è il caso di indugiare: mentre è interessante soffermarsi sul modo in cui, una volta dichiarato non plausibile "che gli uomini facciano tutto ciò per pura stupidità", Wittgenstein cerchi di ri­ spondere al problema di rendere conto dei compor­tamenti miti­ co-magici. In che modo può essere realmente su­perato il punto di vista dell'errore che sembra imporsi persino nel quadro di concezioni come quella di un Cassirer, che ha un fondamento filosofico ed è guidata da intenzioni così diverse da quelle di Frazer? La posizione di Wittgenstein su questo punto è molto netta e significativa: non ogni volta che ci troviamo di fronte ad un comportamento, quindi ad una usanza, ad un modo di agire, dobbiamo ritenere che esso abbia al proprio fondamento una vera e propria opinione. Ciò può certamente accadere: io "la penso così" e proprio per questo in certe circostanze mi comporterò in un modo piut­ tosto che in un altro. Delle opinioni che stanno alla base del mio comportamento posso anche essere del tutto consape­vole, so cioè di avere agito in quel modo in coerenza con convinzioni che mi accingerei a difendere se il mio comporta­mento fosse contestato. Oppure può accadere che le opinioni siano solo im­ plicite, che io non sia chiaramente consapevole di esse e che esse 106 richiedano, per diventare esplicite, una qualche forma di analisi. Nell'uno come nell'altro caso le opinioni potrebbero essere ri­ conosciute come ingiustificate e in linea di principio basterebbe allora "fare notare all'uomo il suo errore per distoglierlo dal suo modo di agire" [120]. Ma il problema è appunto questo: è realmente lecito, di fronte a ogni comportamento, considerarlo come fondato su opinioni implicite che sarebbe nostro compito portare alla luce, come se ogni azione non fosse altro che la logica conse­guenza di una teoria? Wittgenstein dà a questa domanda una risposta nega­ tiva. Nega ciò che in Frazer era una circostanza del tutto ovvia: le pratiche magiche implicano una teoria, un complesso di opinioni che si espongono alla valutazione del giusto e dello sbagliato, del vero e del falso. Mentre nozioni come queste risultano inap­ plicabili se viene meno il riferimen­to alle opinioni. La critica a Frazer diventa così indubbiamen­te più ricca di con­tenuto e nello stesso tempo Wittgenstein propone un motivo di fondamentale importanza per orientare le riflessioni di una filo­sofia del pen­ siero mitico. Questo motivo si annuncia fin dall'inizio quando Wittgen­ stein osserva che l'esposizione di Frazer è insoddisfacente an­ zitutto perché "fa apparire come errori" le pratiche magiche e religiose degli uomini [121], volendo con ciò non solo affermare la marginalità di questo problema rispetto agli scopi di una com­ prensione autentica (come accade in Cassirer e in Lévy-Bruhl) ma sviluppare una critica più radicale che è anche una critica nuo­ va: non vi è errore se non vi è alcuna opinione, e la prima circo­ stanza da mettere in rilievo nei comportamenti mitici e religiosi in genere è proprio il fatto che l'opinione non appartiene all'essenza del comportamento, anche se può naturalmente essergli giustap­ posta. Se un dio viene invocato, nell'in­vo­cazione non è contenuta necessariamente la posizione della sua esistenza e tanto meno la dimostrazione argomentativa di essa. 107 26 Le pratiche magiche dicono i desideri degli uo­mini Per illustrare il senso della tesi esposta converrà ricorrere a esempi tratti dai nostri com­por­tamenti quotidiani: facendo rife­ rimento a essi, infatti, quella tesi assume tutta la sua evidenza. Si vede subito qui che non tutti i comportamenti possono essere interpretati come se, agendo, non facessimo altro che trarre con­ seguenze dalle nostre teorie. Prendiamo il caso della collera: que­ sto stato d'animo si esprime in determi­nate azioni. Può accadere, stando all'esempio proposto da Wittgenstein, che se abbiamo tra le mani un bastone percuo­tiamo la terra oppure la scorza di un albero o un qualunque altro oggetto che si trovi nelle vicinanze [122] . Si tratta di un'azione che chiameremmo "istintiva", e ciò significa in primo luogo che di essa non cercheremmo affatto spiegazioni e soprattutto non le cercheremmo in opinioni sog­ giacenti. Eppure basta spostare di poco l'accento dell'esem­pio perché cominci a perdere la sua apparente ovvietà: il compor­ tamento ben noto dei bambini nei confronti dello spi­golo del tavolo contro cui hanno urtato - un grande strillo, immediata­ mente placato dall'atto di punizione - non è molto diverso dal 108 precedente: ma la maggior parte degli adulti saranno probabil­ mente convinti che un simile comportamento attesterebbe che il bambino crede che gli oggetti siano animati come le persone che gli stanno intorno. A partire dall'osserva­zione di un comporta­ mento, viene ipotizzata un'opinione che sembra l'unica in grado di spiegarlo. In questa direzione va intesa l'affermazione di Wittgen­ stein, indubbiamente piuttosto impegnativa: "Già l'idea di volere spiegare l'usanza mi sembra sbagliata" [123]. È sbagliato porre il problema di una spiegazione, se si tratta poi di andare alla ricerca di opinioni da cui l'azione possa essere conseguen­temente de­ dotta. Se il nostro scopo è quello di comprendere, un primo li­ vello della comprensione è indubbiamente da attin­gere anzitutto alla superficie dell'azione stessa: "Ciò che conta è la somiglianza con l'atto del punire" [124]. Segnaliamo così dei comportamenti quotidiani in rapporto ai quali la tesi critica iniziale sia illustrabile con evidenza, sugge­ rendo nello stesso tempo che "i miti sono tutti di questa natura" [125]: un'affermazione che non va intesa come se si volesse so­ stenere che ogni atteggiamento mitico sia riducibile a una pura e semplice reazione emotivo-istintiva, ma che, richia­mando l'e­ sempio di una manifestazione espressiva come è la reazione irosa, intende insistere sul fatto che l'intero mondo delle produzioni mitiche risponde ad esigenze essenzialmente espressive. Questo problema riveste una grande importanza anche nel quadro di un'impostazione come quella di Cassirer, come mo­ stra la trattazione del fenomeno espressivo e della sua connes­ sione con il problema del mito nel terzo volume della Filosofia delle forme simboliche. In esso, a parte ogni considerazio­ne relativa a un mutamento di accento nell'impostazione complessiva del problema, si dà la massima pregnanza alla contrapposizione tra "impressioni" ed "espressioni", indicando nell'espres­sività già presente nella percezione il tratto dell'e­sperienza della realtà che sta alla base della esperienza mitica. 109 Per rendere giustizia al mito, osserva Cassirer, occorre ren­ dere anzitutto giustizia "a quella forma di esperienza per­cettiva in cui il mito ha la sua radice e da cui trae di continuo nuovo nu­ trimento. Senza una tale fondazione di una originaria maniera del percepire, il mito sarebbe sospeso nel vuoto invece di essere una universale forma fenomenologica dello spirito sarebbe soltanto una specie di malattia spirituale, un fenomeno che, per quanto diffuso, avrebbe soltanto il valore di un fenomeno contingente e patologico" [126]. Appare tuttavia chiaro, nono­stante la ricchezza dei problemi che vengono messi in gioco, che la tematica del­ la immediatezza dell'espressione che si presenta come centrale nella trattazione del fenomeno espressivo, deriva la sua centralità dal fatto che sembra sancire in modo definitivo l'inconsapevolezza del rapporto simbolico nell'atteggia­mento mi­tico. Per Cassirer non si tratta dunque di notare soltanto che il mondo della espe­ rienza mitica è un mondo carico di conno­tazioni espressivo-e­ motive, ma soprat­tutto di rilevare che nel concetto stesso della espressione nella quale la cosa è imme­diatamente portatrice del suo senso, sarebbe contenuta quella soppressione del rapporto rappresen­tativo che istituisce il mito come modalità del pensie­ ro. "Il mondo di esperienza del mito - ribadisce Cassirer - è fondato non tanto in atti rappresentativi o simbolici, quanto in pure esperienze espres­sive" [127]. Non sarebbe dunque possi­ bile mette­re in questione la tesi del simbolismo implicito senza mettere in questione questo modo di fondare l'esperienza mitica e dunque di connettere questa esperienza con la tematica dell'e­ spressività in genere. La posizione delineata da Wittgenstein procede in una dire­ zione opposta. Dal rilievo della connessione tra manifesta­zioni espressive e produzioni mitico-religiose, si passa infatti alla sot­ tolineatura della rilevanza del momento simbolico come un mo­ mento che non è soltanto riconosciuto dalla nostra coscienza analitica, ma che deve in qualche modo far parte della stessa apprensione mitica della realtà. 110 Quella sorta di realismo magico che è associato all'idea dell'indistinzione tra simbolo e cosa viene insistentemente nega­ to nelle esemplificazioni proposte e ci si avvia a sostenere che "la magia poggia sempre sull'idea del simbolismo e del linguaggio" [128] in un senso interamente diverso da quello che una simile affermazione potrebbe avere nel contesto filosofico cassireria­ no. Di fronte alle pratiche adottive che imitano le vicende del parto, "sarebbe da stolti credere che qui vi sia un errore, che la madre creda di aver partorito il bambino" [129]. Il fatto che il bambino venga fatto passare attraverso le vesti della madre esprime l'adozione e, a suo modo, la dice. Così in generale le pratiche magiche dicono i desideri degli uomini: il desiderio di una caccia abbandonante o che la terra sia fertile e la siccità non devasti il raccolto: senza che si effettui il passag­gio dal desiderio soggiacente alle operazioni magiche all'idea della onnipotenza del pensiero, della sua realizzazione "ma­gica". Certamente, le operazioni magiche presentano desi­deri appagati, ma ciò accade per il semplice fatto che non è possibile rappresentare un desi­ derio se non rappresentando il suo appagamento. Solo in questo modo possiamo renderci ragione del fatto che nonostante tutte le pratiche che dovreb­bero assicurare il successo della caccia, il selvaggio provvede ad assicurarsi in proprio avvelenando accu­ ratamente la punta delle sue frecce. Non meno significativi da questo punto di vista sono gli esempi che attaccano la pretesa identità tra l'immagine e la cosa. Talvolta l'innamorato bacia l'immagine dell'innamorata: e questo comportamento non si basa sulla credenza "in un determinato effetto sull'oggetto rappresentato dal ritratto" [130]. E allora perché ci si comporta così? A quale scopo mira questo atto? A nessuno scopo. Agiamo così, e ci sentiamo appagati. Il solo fatto di cercare spiegazioni ci sembra sbagliato. 111 27 Il ripresentarsi del nesso tra immaginazione e mito Le osservazioni nelle quali risulta con la massima evidenza che per Witt­genstein la componente simbolica fa parte della stes­ sa coscienza mitica so­no pro­­ba­bilmente quelle che riguar­dano il problema dell'effi­cacia delle pratiche magiche. La credenza in questa efficacia è naturalmente un ovvio corollario dell'incon­ sapevolezza della distanza simbolica. Così in Cassirer non si du­ bita sull'autenticità della credenza nell'efficacia, per esempio, dei riti per la caccia: benché il rito stesso si presenti come una sorta di pantomima del desiderio che anticipa imita­tivamente "fin nei più minuti par­ticolari la cat­tura e l'uccisione dell'ani­male" [131], questa relazione con il desiderio dovrebbe restare nascosta alla co­scienza mitica stes­sa, la quale vincolerebbe l'effettuazione del rito al risultato che con esso si ritiene di poter conseguire. L'im­ portanza del rito sarebbe così strettamente dipendente dalla sua efficacia: men­tre appaiono invece subito chiare le difficoltà e i paradossi a cui una simile concezione si espone. Queste difficol­ tà non erano certo sfuggite a Frazer che si era posto il problema di spiegare le ragioni per le quali gli inevitabili e continui insuc­ cessi delle pratiche magiche non fossero senz'altro palesi e non conducessero al loro rapido declino. In particolare Wittgen­stein trae da Frazer l'informa­zione che i riti della pioggia si verificano quando sta per arrivare la stagione delle piogge. Per Frazer ciò va spiegato indubbiamente con l'astuzia dello stre­gone, il quale del resto può anche contare sul fatto che prima o poi pioverà. L'efficacia deve in qualche modo essere subdolamente garantita, 112 e ciò richiede tanto l'intelligenza dello strego­ne quanto 1'ottusità della sua tribù. A tutto ciò Wittgenstein obietta molto semplicemente: "È molto strano che gli uomini non giungano a rendersi conto che pri­ ma o poi pioverà" [132]. E con ciò l'impostazione del problema è interamente ribaltata. Il fatto che i riti si svolgano in prossimità della stagione delle piogge mostra proprio che tutti hanno una chiara cognizione delle vicende meteorologiche e che di conse­ guenza l'importanza connessa al rito è totalmente indipen­dente dalla credenza nella sua efficacia. La relazione con il desiderio che conferisce all'azione una funzione di rassere­namento, il fatto che il desiderio stesso riguardi eventi che hanno una importanza vi­ tale, tutto ciò e sufficiente ad illustrare la serietà del rito. In esso viene evocato e celebrato un evento vis­­suto nella carica emotiva che gli proviene dalla sua connes­sione con il ritmo stesso della vita. Solo quando il sole sta per sorgere "vengono celebrati dagli uomini i riti per il sorgere del sole"; di notte essi "accendono semplicemente dei lumi" [133]. Il centro verso cui convergono tutte queste considerazio­ ni è ormai chiaro: nel loro insieme esse portano alla massima accen­tuazione il carattere celebrativo e cerimoniale del com­por­ tamento mitico-magico. Se noi proponessimo la formula "l'uomo è un animale cerimoniale", questa formula conterreb­be certamente qualcosa di giusto [134]. Essa attirerebbe infatti l'attenzione sul fatto che, accanto alle azioni quotidiane, gli uomini ne compio­ no altre, di natura interamente diversa, che potremmo chiamare "azioni rituali". Un libro di antropologia dovrebbe cominciare, a titolo di chiarificazione preliminare che stabilisca un orientamento di lettura del materiale docu­mentario, proprio con il proporre una simile distinzione, cer­cando nello stesso tempo di circoscrivere con precisione la nozione di "azione rituale". Certamente Wittgenstein non va oltre una simile indicazio­ ne sommaria. Anche se a noi essa non sembra di poco conto, soprattutto se teniamo presente la tematica che abbiamo svolto 113 in precedenza in modo autonomo e seguendo un diverso filo conduttore. Che la pratica magica debba essere intesa come un ripristi­no del livello metaforico sembra implicito nell'insieme così come in alcune osservazioni di dettaglio. Per esempio, quan­ do Wittgenstein, alludendo alla concezione della malattia come un animale estraneo, osserva che "nella guarigione di una malat­ tia con la magia, si intima alla malattia di abbandonare il pazien­ te. Dopo la descrizione di una cura magica del genere, verrebbe sempre da dire: se la malattia non capisce questo, non so proprio come glielo si debba dire", egli sembra voler sotto­lineare che la cura che consiste nella intimazione non è una tecnica conforme a quella concezione, ma si ricollega piuttosto all'immagine stessa da cui quella concezione è sorta. Anche il tema della segregazione è ovunque implici­tamente operante, e lo è in particolare nei luoghi che illustrano la nozione di azione rituale. Si consideri in proposito l'esempio dei com­ portamenti pos­sibili nei confronti della persona del re. Wittgen­ stein sotto­linea che, in linea di principio, questi com­portamenti potrebbero essere i più vari e anche incompatibili tra loro: "Ci possiamo immaginare, per esempio, che il re di una tribù non sia visibile per nessuno, ma anche (all'opposto) che ogni uomo della tribù lo debba vedere. Certo, in quest'ultimo caso, ciò non dovrebbe accadere più o meno per caso, ma il re dovrebbe es­ sere mostrato alle gente. Forse nessuno può toccarlo o forse, invece, lo dovrà toccare" [136]. Questo esercizio di antropologia immagi­naria dimostra che non è tanto il contenuto delle prescri­ zioni proposte che interessa, quanto anzitutto il semplice fatto che vi siano delle prescrizioni. Queste sono poi tali da conferire alle azioni rituali una proprietà che le contraddistingue nettamente dalle azioni quotidiane: lo stesso scopo può essere conseguito da azioni o comportamenti stretta­mente antitetici. Le prescri­zioni sono dunque indifferenti al contenuto, ma esse debbono in ogni caso attenersi ad una regola che presuppone una opposi­zione. In questo senso va intesa anche l'affermazione secondo cui l'azio­ 114 ne cerimoniale deve essere fredda o calda, in contrapposi­zione alle azioni comuni che sono invece tiepide [137]. La scelta deve essere netta ed esclusiva tra alternative oppo­ ste: cosicché se si è deciso che il re debba essere invisibile, allora esisteranno prescrizioni che imporranno, per esempio, la messa a morte di chi ha scorto il re che viene tenuto nascosto; inver­ samente, se il re può essere visto, al tempo stesso lo deve, e ciò non avverrà in un modo qualunque, per così dire, tiepi­damente. La visione accidentale deve essere esclusa per­ché sopprime la sacralità della persona regale. Nel contesto di considerazioni come queste il problema dell'immaginazione non potrà alla fine non ripresentarsi in tutta la sua rilevanza; e in particolare proprio il tema della associazione delle idee, come un tema a cui non possiamo affatto rinunciare in una considerazione che abbia di mira le produzioni del mito. 115 Note [1] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche (in seguito indicato con FFS), 3 voll., La Nuova Italia, Firenze 1961-66, II, p. 9. [2 ] ivi, p. 10. [3] ivi, p. 19. [4] J.G. Frazer, Il ramo d'oro, 3 voll., Boringhieri, Torino 1965. [5] ivi, p. 9. [6] ivi, p. 21. [7] ivi, p. 82. [8] ivi, p. 84. [9] ivi, p. 91. [10] ivi, p. 97. [11] ivi. [12] ivi, p. 98. [13] ivi, p. 77. [14] ivi, p. 75. [15] ivi, pp. 78-79. [16] ivi, p. 31. [17] ivi. [18] E. Cassirer, Storia della filosofia, Il Saggiatore, Milano 1968, IV, pp. 165-175. [19] ivi, p. 169. [20] ivi. [21] ivi, p. 173. [22] ivi, pp. 173-174. [23] ivi, p. 186. [24] FFS, I, p. 7. [25] ivi. [26] ivi, p. 10. [27] ivi, p. 8. [28] ivi, p. 19. [29] ivi, p. 21. [30] ivi, p. 37. 116 [31] ivi. [32] ivi, p. 38 e sgg. [33] ivi. [34] ivi, p. 39. [35] ivi, p. 40. [36] ivi, p. 41. [37] ivi. p. 43 [38] ivi, p. 47. [39]ivi, p. 37 [40] ivi, p. 47. [41] ivi, p. 48. [42] ivi. [43] ivi. p. 49. [44] FFS, II, p. 38. [45] E. Cassirer, Linguaggio e mito (in seguito indicato con LM, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 59. [46] FFS, II, p. 52. [47] LM, 59. [48] FFS, II, p. 37. [49] ivi, p. 57. [50] ivi, p. 58. [51] ivi. [52] ivi. [53] ivi. [54] ivi p. 63. [55] ivi, p. 53. [56] L.Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, (in seguito indicato con MP), Einaudi, Torino 1966. [57] ivi, p. 86. [58] ivi. [59] ivi, p. 87. [60] ivi, p. 54. [61] FFS, I, p. 54. [62] ivi, p. 55. 117 [63] ivi, p. 44. [64] ivi. [65] ivi, p. 66. [66] ivi, p. 48. [67] ivi, p. 67. [68] ivi, p. 65. [69] ivi, p. 67. [70] ivi, p. 73. [71] ivi. [72] ivi, p. 75. [73] ivi, p. 73. [74] ivi, p. 95. [75] ivi, p. 96. [76] ivi, p. 250. [77] ivi, p. 251. [78] ivi. [79] ivi, p. 253. [80] ivi, p. 252. [81] ivi, pp. 69 e 80. [82] ivi, pp. 97. [83] ivi, p. 83. [84] ivi, p. 100. Deve essere notato che tutti quei principi che Cassirer rammenta come principi informatori dell'esperienza mitico-magica (dunque la pars pro toto, il post hoc, ergo propter hoc, la sostanzializzazione, ecc.) non sono altro che i principi che reggono la formazione delle immagini in genere e che la retorica ha analizzato e classificato. Per quanto poco si insista sul rapporto tra retorica e mito nella Filosofia delle forme simboliche, esso è ben presente in Cassirer e appare formulato a tutte lettere in Lin­ guaggio e mito. E interessante tuttavia sottolineare che, attraverso il richiamo a un piano di esperienza "ra­dicalmente metaforico", la cui radicalità consisterebbe nel fatto che la metafora non viene appresa come tale, questo tema viene esso stesso subordi­nato alla tesi del simbolismo implicito, il cui carattere portante per 118 un approccio filosofico al problema dell'esperienza mitica viene così ulterior­mente ribadito. [85] E. Cassirer, Saggio sull'uomo, Armando Editore, Roma 1968. Cfr. in particolare p. 160 e sgg. [86] MP, p. 46. [87] ivi. [88] ivi, p. 20. [89] ivi, p. 23. [90] R. Otto, Il sacro, Feltrinelli, Milano 1966, p. 19. [91] Sull'argomento si rimanda a G. Piana, Elementi di una dottrina del dell'espe­rienza, Il Saggiatore, Milano 1979. [92] FFS, p. 52. [93] L. Wittgenstein, Note sul "Ramo d'oro" di Frazer, (in seguito indicato con LW), Adelphi, Milano 1975, p. 37. [94] MP, p. 296. [95] FFS, II, p. 85. [96] MP, p. 34. [97] M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 14. [98] FFS, II, pp. 113-114. [99] MP, p. 344. [100] FFS, 11, p. 123. [101] ivi, p. 109. [102] ivi, p. 113. [103] M. Eliade, op. cit., pp. 24, 28, 31. [104] ivi, pp. 23, 34, 45, 64. [105] ivi, p. 19. [106] ivi, p. 37. [107] MP, p. 86. [108] ivi. [109] ivi, p. 89. [110] ivi, p. 82. [111] ivi, p. 83. [112] H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, Comuni­ 119 tà, Torino1963, p. 123. [113] ivi. [114] ivi, p. 124. [115] LW, p. 21. [116] R. Rhees in L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni, Adelphi, Milano 1967, p. 43. [117] LW, p. 28. [118] ivi, p. 18. [119] ivi, p. 37. [120] ivi, p. 18. [121] ivi, p. 17. [122] ivi, p. 34. [123] ivi, p. 18. [124] ivi, p. 34. [125] ivi. [126] FFS, III, 1, p.82. [127] ivi, p. 90. [128] LW, p. 22. [129] ivi. [130] ivi, p. 21. [131] FFS, II, , p.255. [132] LW, p. 19. [133] ivi, p. 26. [134] ivi. [135] ivi, p. 24. [136] ivi. [137] ivi. 120 121 Giovanni Piana La notte dei lampi Quattro saggi sulla filosofia dell'immaginazione Riflessioni sul luogo 122 * La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell'immaginazione è stato pubblicato dall'Editore Guerini e Associati, Milano, nel 1988 123 Indice 1. 2. 3. 4. 5. 6. Introduzione aristotelica e avviamento del dibattito aporetico Digressione platonica Ripresa del dibattito aporetico L'immagine dell'anfora La definizione raggiunta Riconsiderazione dell'intera problematica da un nuovo pun­to di vista 7. Interpretazione del qui 8. Interpretazione del là 9. La cosa e lo spazio 10. Tematica della terra 11. Intorno al pianeta 12. Il pensiero dello spazio suddiviso 124 1 Introduzione e avviamento del dibattito aporetico Nel libro quarto della Fisica, Aristotele si interroga intorno al luogo (to/poj). Egli si chiede se ciò che chiamiamo "luogo" sia qualcosa e che cosa, se vi siano effettivamente luoghi, se essi in gene­ rale possano avere un modo di esistenza autentica. Dobbiamo ammettere che domande come queste ci appaio­ no anzitutto sorprendenti: mai esse ci si presentano come do­ mande impellenti, la cui risposta potrebbe rappresentare una sorta di condizione necessaria per superare una difficoltà o un ostacolo imprevisto. Il senso della parola "luogo" ci appare del tutto chiaro. E sempre operiamo presupponendo luoghi. Se dun­ que il filosofo ci chiede: "Che cosa è il luogo?", saremmo tentati di rispondere: prima di tutto, l'argomento ci sembra di scarso peso. A tal punto che se ora ci accingiamo a dare uno sguardo alle pagine aristoteliche, in realtà siamo mossi proprio da que­ sta ingenua curiosità: come fanno quelle domande a elevarsi alle altezze a cui pensiamo debbano sem­pre attenersi le riflessioni dei filosofi, come fa quella chiarezza a oscurarsi al punto da ac­ quisire con ciò una dignità filosofica? Del resto, il primo avvio del discorso aristotelico subito ci rassicura, dal momento che la nozione di luogo viene proposta proprio come una nozione ben nota e con le connessioni che notoriamente la caratterizzano. Certamente vi sono luoghi - e la realtà stessa è connessa al luogo da una ovvia relazione intrinseca: le cose-che-ci-sono sono sempre da qualche parte. In rapporto a esse possiamo sempre rispondere alla domanda intorno al "dove". "Dove sono infatti la sfinge e l'ircocervo?" [1]. Tutti ammettono la realtà del luogo per il fatto stesso che tutti ammettono la realtà del movimento, che altro non è se non spostamento di una cosa da un luogo a un altro luogo. La cosa e il movimento della cosa esigono luoghi. Perciò, che vi siano luoghi è un'opinione che si situa sul piano della chia­ 125 rezza legata alle nostre pratiche quotidiane, una chiarezza che non sembra nemmeno concedere l'interesse del problema. Tuttavia ciò che si chiede è che questa nozione pra­ticamen­te chiara venga afferrata e compresa. La domanda chiede soprattutto che venga formulata una risposta. Tutti sanno che esistono luoghi. Anche tu lo sai. Ora prova a dirlo in parole - che cosa sia il luogo. A questo scopo potremmo tentare di seguire questa strada; oppure quest'altra. Tentiamo e ritentiamo. Forse si stenterà a trovare una formula realmente con­ vincente, un'autentica via d'uscita. Forse arriveremo a dire: qui ci sono molte aporie [2]. Nello sviluppo della discussione che prende le mosse dalle prime evidenze accade proprio così - la confusione comincia ben presto con l'apparire. Si può addirittura sospettare con qual­ che fondamento che proprio questo sia il suo primo scopo: fare apparire la confusione significa infatti produrre quella con­sape­ volezza del problema che può essere raggiunta solo quando si sia compreso come sia difficile, una volta che una formula definito­ ria sia stata proposta, porla al riparo dal gioco dell'argo­men­tare che su di essa liberamente si mette alla prova. Intanto cominciamo con l'osservare che la realtà del luogo esclude qualunque approccio puramente soggettivo, che prospet­ta l'alto e il basso, la destra e la sinistra come determinazioni me­ ramente relative e strettamente dipendenti dalla posizione del corpo. La nozione di luogo sarebbe allora evanescente e precaria come il gesto che indica una direzione. Queste determinazioni debbono invece essere intese come direzioni di movimento, come tendenze che sono radicate nello stesso interno delle cose, nella stessa materia di cui sono fatte. Aristotele parla della potenza (du/namij) del luogo: e si ri­ chiama alle antiche speculazioni mitiche sulla sostanza ulti­ma delle cose, mistura dei quattro elementi di cui consta la materia. Per sottrarre alle determinazioni locali il loro riferi­mento sogget­ tivo, dobbiamo prestare attenzione al movimento che per natura 126 spetta ai quattro elementi. "Alto" e "basso" non sono desi­gnazioni locali che possano essere scambiate ad arbitrio - ma indicano la possibilità di spostarsi secondo una direzione determi­nata, in qualche modo prescritta alla cosa stessa che inclina, nel movi­ mento, verso il basso o verso l'alto secondo la sua compo­sizione materiale. Lo spazio (xw/ra) stesso non è inteso come una nozione astratta ma, secondo una connessione anch'essa presente nel pensiero mitico, come totalità indifferenziata che precede l'esi­ stenza delle cose e dei luoghi - il caos di cui narrava Esiodo, come materialità che non ha un ordine, ma nella quale la possibili­ tà di un ordine è comunque già presente come possibi­lità dell'arti­ colazione locale dell'alto e del basso, dal momento che "anteriore a tutto è la potenza del luogo" [3]. Non vi è dubbio che questi primi passi sono già in grado di mostrarci almeno l'inclinazione che riceve l'intera trattazione aristotelica del problema. Sarebbe del tutto inesatto affermare che Aristotele non ci offre una teoria dello spazio, ma una teoria del luogo: è certo invece che ciò che viene proposto è una teoria dello spazio attra­ verso una teoria del luogo. Ma di questa circostanza occorre afferrare le ragioni nelle loro implicazioni più profonde. Il pro­blema dello spazio si presenta fin dall'inizio come insepara­bile da quello della materia, cosicché l'una teoria deve svilup­parsi dentro l'altra: una teoria dello spazio dentro una teoria della materia. E a sua volta questa connessione viene considerata alla luce di una nozione di realtà che ha il suo primo modello nella concre­tezza della cosa mate­ riale, del corpo che c'è nella sua indivi­dualità e determinatezza. Di conseguenza la nozione fonda­mentale di una teoria dello spazio diventa proprio quella di luogo. Di qui d'altra parte derivano tutte le difficoltà nelle quali la discussione subito si avvolge. Ciò di cui abbiamo bisogno è soprattutto la possibilità di operare una chiara distinzione del luogo dalla cosa - una distinzione che non sia semplicemente 127 assunta come ovvia oppure ovviamente presupposta, ma in cer­ to modo giustificata ed estratta dalla formula che ne carat­terizza l'essenza. E proprio su questo punto ci imbattiamo fin dall'ini­zio in un dilemma di principio. Il luogo esiste, esso c'è. Ma modello di ciò che c'è, della realtà stessa è appunto il corpo, dal quale il luogo deve essere concettualmente differen­ ziato. Ed è senza dubbio possibile affermare che tutte le contro­ versie presenti nel testo prendano la forma di argomenti antino­ mici, forse non sempre chiaramente formulati (o di non facile interpretazione), ma comunque gravitanti sul contrasto latente tra la tesi della realtà e la tesi della distinzione. Se il luogo è corporeo non potrai distinguerlo dalla cosa, se è incorporeo non potrai affermare che esso esiste. Questo di­ lemma si ripresenta secondo diverse varianti che sembrano per­ seguire un effetto di radicale disorientamento. Dovremmo forse attribuire al luogo un'effettiva consistenza materiale, in modo da conferire ad esso una condizione essen­ziale della realtà stessa? Ma allora esso sarà solido e impene­trabile come una cosa e non potrà certamente essere occupato da cose. Il luogo è dunque simile a un ircocervo? No - certamente. Al­ lora potrai porre la domanda intorno al dove, aprendo un proces­so senza fine. Come sembra dicesse Zenone: "Se tutto l'essere è in un luogo, anche del luogo ci sarà un luogo, e così all'infinito" [4]. Da questo lato non vi è dunque alcuna via d'uscita. Allo­ ra potremmo tentare, all'opposto, di indebolire la consistenza materiale del luogo, approssimandolo se non alle irrealtà del­ l'immagine, almeno allo statuto delle entità che appartengono al pensiero. A una simile considerazione tuttavia subito si oppone la grandezza (me/geqoj) del luogo. Il luogo ha tre dimensioni, come i corpi, e proprio perché esso è luogo dei corpi. Dagli elementi intelligibili invece "non deriva alcuna grandezza" [5]. D'altra parte, non possiamo affatto ritenere real­mente chiaro che cosa si intenda qui con grandezza del luogo, anche se siamo certi che una grandezza debba essere attribuita ai luoghi e a essa 128 riteniamo di doverci giustamente richiamare per contestare la posizione della sua mera intelligibilità. È chiaro invece ciò che si intende con grandezza di un corpo: della grandezza di un luogo possiamo parlare, a quanto sem­bra, solo con essenziale riferi­ mento al corpo che ora lo occupa. Ma se il corpo aumenta o diminuisce, come un sacco di grano che ora è vuoto e ora è pieno, diremo forse anche che cresce e diminuisce la grandezza del luo­ go? Forse dovremmo dirlo: e allora non potremo certo so­stenere di distinguere il luogo dal corpo, se portiamo in questo modo a coincidenza la grandezza dell'uno con quella dell'altro. Fra tutti questi argomenti, nei quali l'attenzione riflessiva portata sulla nozione irriflessa di luogo sembra non avere altro risultato che quello di avviarci a passo rapido in una sorta di vero e proprio ingorgo intellettuale, è il caso di indugiare un poco su un argomento che sembra abbia di mira un modo interamente di­ verso di impostare fin dall'inizio l'intero pro­blema. L'argomento ammonisce a distinguere il punto dal luogo del punto: essendo qui il punto inteso come spigolo di un corpo e quindi come limite delle linee che sono a loro volta limiti delle sue facce. Il punto dovrà essere distinto dal luogo del punto, al­ trimenti la linea non potrà essere distinta dal luogo della linea, la faccia dal luogo della faccia e infine il corpo dal suo luogo [6]. La singolarità di questo "argomento" (se vogliamo accetta­re di chiamarlo così) e anche il suo interesse sta appunto nell'al­ lusione in esso contenuta alla possibilità di un modo di approc­ cio al problema della spazialità e del rapporto tra la cosa e lo spazio che non sia affatto mediato dal problema del luogo. Al corpo nella sua fisicità sensibile-percettiva, per il quale ha subito senso la domanda intorno al dove, tende qui a sovrapporsi e a sostituirsi il solido idealmente inteso, i cui costituenti spaziali - punto, linea superficie - non possono affatto essere messi in questione quanto al loro luogo. Ciò che Aristotele presenta come un'aporia contiene in re­ altà un riferimento tacito alla via tracciata dal platonismo, un 129 riferimento che intende ribadire una polemica e confermare una direzione: seguendo quella via la nozione stessa del luogo viene tolta, e quindi anche una posizione del tema dello spazio che ha nella cosa il suo centro. 2 Digressione platonica In ogni caso, la polemica è anticipata nel Timeo platonico, proprio in rapporto a quei due punti, tra loro connessi, che ab­biamo richiamato come una sorta di premessa all'avvio della problema­ tica aristotelica del luogo: la teoria dei luoghi naturali e la teoria dei quattro elementi. Che esistano un alto e un basso irrelativi deve essere, in Platone, duramente contestato, non già sulla base di un prete­sti vincolo delle determinazioni spaziali alla soggettività, ma con argomenti che chiamano in causa la struttura stessa dell'uni­ver­ so. Questa struttura è concepita nella tensione di un pensiero che, dalle profondità immaginative del mito, sembra prospettare utopicamente la possibilità di una razionalizzazio­ne completa. Le oscure parole di Timeo sulla totalità intesa come un grande essere vivente, come un animale che "doveva raccogliere in sé tutti gli animali", privo di occhi, "non essen­dovi rimasto nulla da vedere al di fuori", e di udito, "non essendovi rimasto niente da udire", sono da intendere sullo sfondo dei difficilissimi in­ dugi intorno alla ricerca delle propor­zioni matematiche fonda­ mentali - nei quali si riflette la con­vinzione che nella matema­tica debba essere ricercata l'essenza profonda del tutto. Un'es­senza viva, dinamica, palpitante. La matematica non è forse ciò che dà alla musica il suo respiro? Perciò quell'animale che è l'universo è certamente rotondo, essendo la sfera la più sinfonica di tutte le forme, così come rotonda è la terra che il demiurgo fece a somi­ glianza dell'uni­verso [7]. In nessun caso allora potremo ammettere l'irrelatività delle 130 regioni dello spazio. Nessun luogo può essere indicato come es­ senzialmente in alto o essenzialmente in basso: "Perché il luogo che è nel centro dell'universo, di esso non si può dire giustamen­ te né che sia il basso né l'alto, ma proprio il centro: e la circon­ ferenza non è il centro, né ha alcuna parte che sia con il centro in altro rapporto che la parte opposta... ma se uno cam­minasse intorno a esso in giro, spesso fermandosi in punti fra loro op­ posti, chiamerebbe necessariamente bassa la mede­sima parte di quello. E perciò essendo sferico l'universo, come ora si è detto, non è da savio affermare che esso abbia un luogo superiore e uno inferiore" [8]. E nemmeno è da savio chiamare "principi" (a)rxai/) il fuo­ co, l'aria, la terra e l'acqua, proponendoli come lettere di cui consisterebbe l'alfabeto dell'universo, come se ogni parola della natura fosse da esse composta. Una simile teoria della materia si arresta alle apparenze dei sensi senza tenere in nessun conto che esse non possono nemmeno insegnarci che cosa sia fuoco e che cosa aria o terra o acqua, dal momento che di continuo muta il loro aspetto; e ciò che ora abbiamo chiamato acqua, quando si congela, appare pietra e terra, e poi vento e aria quando evapo­ rando si dissolve "e l'aria arsa diviene fuoco, e invece il fuoco compresso e spento diviene nuvola e nebbia, e da queste ancora più contratte scorre acqua, e dall'acqua di nuovo si formano ter­ ra e pietre" [9]. In questa vicenda, in cui ogni stato si modifica e trapassa nell'altro, nulla possiamo dire su ciò che permane nella modifi­ cazione e che rappresenta la sostanza ultima delle cose. L'uno e l'altro argomento vengono proposti nello sviluppo di un discorso che ha di mira il tema della totalità e quello dell'o­ rigine. Ed è interessante notare che entrambi questi temi sono presenti nel momento in cui lo spazio (xw/ra) viene in questio­ ne [10]. Si avverte qui una sorta di impennarsi dello stile - che certo è già elevato e teso fin dall'inizio, quando Crizia cerca di rispondere al singolare desiderio di Socrate di vedere descritta 131 come una realtà vivente quella che sa essere soltanto una real­ tà utopica, a sua volta in modo singolare, narrando il racconto di un passato profondissimo, precedente a molti diluvi, da cui emerge ancora il ricordo dell'isola in mezzo al mare ignoto, al di là delle colonne d'Ercole. Questo preludio determina l'atmosfe­ ra del dialogo intero, ed essa si rinnova quando la parola passa a Timeo, che si spinge ancora più lontano, dalle origini della civiltà alle origini dell'universo, alla sua costituzione intima e ultima: il tema è grande, e pieno di rischi il discorso che deve avventurarsi in un pensare che attraversa i sogni. Nel momento in cui Timeo si accinge a parlare dello spa­ zio, questa atmosfera raggiunge la massima concentrazio­ne. Qui più che altrove l'esposizione di Timeo assume l'anda­mento della comunicazione di un arcano che le parole riescono a stento a esprimere ed a comunicare. In più di un punto Timeo denuncia l'oscurità e la difficoltà dell'argomento. Di esso non possiamo sperare di venire a capo mediante un ordinato percorso di de­ duzioni e di argomentazioni autentiche, ma dobbiamo invece affidarci agli equivoci suggerimenti dell'im­maginazione, al punto che la purezza del pensiero risulta a ogni passo compromessa e inficiata dalle immagini. Dobbiamo dunque correre il rischio che i nostri ragionamenti possano apparire come ragionamenti bastardi (logismoi\ no/qoi) [11]. Bastarda, del resto, è la natura stessa dello spazio: che da un lato, potendo essere detto sempre esistente e indistruttibile, si sottrae alla presa dei sensi e sembra appartenere piuttosto alla sfera di ciò "che è sempre nello stesso modo" e che "non riceve un'altra cosa da altrove, né passa mai in altra cosa"; dall'altro, invece, mantiene certamente una stretta relazione con il mondo delle cose sensibili e percepibili. Dovremmo forse rammentare anche qui, nel contesto della tematica platonica, che tutte le cose sono in un luogo? Questa era infatti l'affermazione che in precedenza abbiamo comincia­to a elaborare fino a ingarbugliare i fili del nostro cervello. E certo 132 questa prosaica verità si riaffaccia proprio a questo punto: ma vedi che cosa ora essa diventa! I fini analitici, argomentativi e dimostrativi, sullo sfondo del problema della ricerca di una for­ mula verbale capace di stringere in pugno l'essenza del luogo - tutto ciò è messo da parte. Perciò muta la direzione dei richiami: il movimento, per esempio, non viene in questione come puro spostamento delle cose da un luogo a un altro luogo, e allo sco­ po di addurre una prova, ma evoca piuttosto la generazione e la corruzione, la grande vicenda del vivere e del morire: che altro non è se non questo: l'apparire della cosa nello spazio e lo svani­ re da esso. Lo spazio è "ciò in cui ogni cosa nascendo si mostra e donde di nuovo svanisce" [12]. Palcoscenico del divenire, dunque: il suo teatro eterno. E forse qualcosa di questa immagine è ancora presente in quella, in realtà prevalente nel testo platonico, del ricettacolo. Così viene normalmente tradotta la parola greca u(podoxh/: nel suo senso essa rimanda all'azione dell'accogliere, a ciò che dà un riparo e un asilo. Questa immagine di un'accogliente cavità si determina e rafforza confluendo con l'idea di un apparire nello spazio che ha il senso del venire all'esistenza. Lo spazio è "ricettacolo di tutto ciò che si genera": perciò può essere detto madre (mh/thr) e nutrice (tiqh/nh): uno sviluppo apparentemente inatteso che tuttavia segue un percorso indi­cato dalla coerenza delle immagini. In forza dì questa stessa coeren­ za compiamo poi un passo ulteriore: la maternità dello spazio fa tutt'uno con la sua matericità originaria, ed è proprio per questa via che viene ripreso l'arcaico motivo dello spazio-caos, di cui si risentono ancora gli echi nelle pagine aristote­liche. Lo spazio, la madre, è la materia formativa di tutto. Perciò esso non potrà fin dall'inizio essere articolato in forme, ma è co­me oro non ancora forgiato, preparato a ricevere tutte le forme e, proprio per questo, affine a nessuna. Come della materia del­ l'o­rafo, anche dello spazio si potrà dire che esso è un magma nel quale gli elementi ancora fra loro indistinti, si agitano e ribollono. 133 Neppure in Platone riusciamo dunque ad andare realmente al di là di un'antica tradizione? Di fatto, se manteniamo la presa sulle nostre premesse e nello stesso tempo badiamo alle conclu­ sioni, ci rendiamo ben presto conto che le cose stanno altrimenti. La discussione era cominciata proprio da una critica alla teoria dei quattro elementi ed essa non si conclude nello spazio-caos, ma in una sua effettiva messa in questione, benché non priva ancora di una profonda equivocità. Ciò che segue alle immagini dello spazio materno e materico è infatti la domanda, resa legit­ tima dalla critica iniziale, sulla natura ultima dei quattro elemen­ti, e nella risposta a questa domanda avviene un radicale ribalta­ mento che riporta queste conclusio­ni alla coerenza degli spunti dai quali avevamo preso le mosse. Che cosa sono infine il fuoco, l'aria, la terra e l'acqua a cui la tradizione attribuisce il carattere di principi ultimi delle cose materiali, di elementi nei quali si dovrebbe risolvere ogni sostan­ za corporea? Essi non sono altro, a loro volta, che so­stanze cor­ poree che si dànno nella comune esperienza dei sensi. Di ciò si è già detto: in nessun caso possiamo attribuire validità a ciò che è soltanto mutevole apparenza, alle qualità immedia­tamente percepite ed osservate come se esse fossero realmente in grado di condurci in prossimità dell'essenza. L'essenziale viene colto non già osservando la cosa, ma badando alle condizioni della sua concezione, a quei caratteri che in base a esse sono possibili o impossibili. Per esempio, non può esserci corpo senza tridimen­ sionalità. E nemmeno tridimen­sionalità sen­za il piano. Il piano poi lo puoi in ogni caso suddividere in superfici di forma trian­ golare. In proposizioni come queste si manifesta il passaggio a una vera e propria nuova modalità del pensiero che distoglie lo sguardo dalla precarietà del dettaglio, per badare invece alle rego­ le interne che sono costitutive della forma come tale. La corporei­ tà da cui si prende l'avvio sembra alla fine interamente trascesa, e proprio in direzione della sua risoluzione in una spazialità che certo non potrà più essere descritta come un informe impasto 134 materico. Le prime materie ci appaiono ora, nella varietà dei loro modi di apparire, come manifestazioni di un'es­senza cristallina: in esse e al di là di esse noi intravediamo i profili dei "quattro bel­ lissimi corpi" [13], le meravigliose consonanze dei solidi regolari alla cui costru­zione il triangolo fa da fondamento. Lo stupore della forma sopra­van­za così il mito della materia. 3 Ripresa del dibattito aporetico I punti della posizione platonica che abbiamo rapidamente ri­ chiamato sono in realtà essenziali per districarsi negli ulterio­ri sviluppi della discussione aristotelica che continua per un buon tratto a inerpicarsi tra i rovi di una dialettica onnipresen­te [14]. A quella posizione non si allude soltanto con l'argo­mento del luo­go del punto, ma essa è presente, talora in modo esplicito, in particolare quando viene messa in questione pro­prio l'oppo�� si­zione tra la forma e la materia. Ciò che complica il dibattito è che la trama, già fittamente intrecciata, della posizione platonica viene proposta criticamente nel quadro di un'impo­sta­zione che mantiene la cosa e il luogo come centro effettivo del problema. In Platone, invece, anche se in modo certamente non espli­cito, si tende a prospettare l'intera problematica secondo una nozio­ne di spazialità astrattamente intesa come pura estensione. In particolare è importante, per cogliere i successivi svi­ luppi della discussione aristotelica, interpretare correttamente l'es­pres­sio­ne "materia della grandezza" (u(/lh tou= mege/qouj), riportandola all'area problematica dell'impostazione platonica. Con "materia della grandezza" non si intende in realtà alcuna effettiva sostanzialità materiale, ma unicamente una quantità di estensione, che è circoscritta e racchiusa da una determinata for­ ma, ma che, considerata appunto come mera quantità, non ha con questa forma alcun legame intrinseco. Così due solidi o due figure di diversa forma potrebbero avere lo stesso volume ovve­ 135 ro la stessa area. Noi parleremmo in tal caso della stessa materia della grandezza, della stessa quantità dello spazio-estensione. In senso analogo dovrebbe essere interpretata l'e­spres­sione "interval­ lo della grandezza" - più precisamente essa dice in termini di vuo­ to, ciò che l'espressione materia della grandezza dice nei termini dell'astratta pienezza dello spazio-estensione. Data la forma della cosa, che nel senso più elementare della parola non significa altro che il suo contorno, potrai inten­dere ciò che si trova all'interno di questo contorno sia come vuotez­ za che la cosa nella sua concretezza riempie, sia come porzione dell'e­stensione. Queste proposte interpretative sembrano trarre una loro conferma dall'efficacia con la quale ci consentono di cogliere i nodi essenziali della discussione aristotelica. Essa prende nuovamente le mosse con una distinzione che precisa il problema e, dopo tante controversie, con una prima affermazione positiva. La distinzione è quella tra luogo comune (koino/j) "nel quale stanno tutti i corpi" e luogo particolare (i)/dioj), che è quello che "immediatamente contiene ciascun corpo" [15]. Poiché lo scopo di Aristotele è quello di costituire lo spa­ zio a partire dal luogo, e non inversamente, la nozione di luogo comu­ne, in quanto richiama già la problematica dello spazio, an­ drà provvisoriamente messa da parte, concentrando invece tutta la nostra attenzione sul luogo particolare. In rapporto ad esso abbiamo la prima affermazione positiva: il luogo particolare, proprio in quanto contiene immediata­mente il corpo, "sarà allora, un certo limite (pe/raj)" [16]. Ma come dovrà essere propriamente intesa questa affer­ ma­­zione il cui senso non sembra affatto essere subito chia­ro? Forse parlando di "limite" intendiamo dire che il luogo aderi­sce alla cosa in ogni sua piega come un guanto rispetto alla mano? Cosicché, per esempio, il mio luogo particolare termine­rà esatta­ mente nel punto in cui terminano la mia testa, le dita delle mie mani o dei miei piedi. Forse potrei dire di occupare anche il luo­ 136 go che sta pochi centimetri al di sopra della mia testa? Invece, è come se intorno al mio corpo fosse ritagliata la sua sagoma. E questa sagoma è il suo luogo. Potremmo allora tentare di spiegarci così: ora io depongo un cu­betto su questo tavolo. E comprenderemo certo che cosa intendiamo dire, parlando di "un certo limite" se, tolto il cubetto, riusciamo ancora a intravederne la sagoma evane­scente come im­ magine del luogo particolare che esso poco fa occupava. Sono realmente corrette queste illustrazioni? In realtà stan­ do a esse non potremmo sfuggire alle riduzioni che esse suggeri­ scono. Alla riduzione del luogo alla forma (ei=)doj) - anzitutto: e ciò è certamente suggerito dal richiamo ai contorni e alle sago­ me delle cose. Ma queste illustrazioni sosterrebbero altrettanto bene la riduzione del luogo a ciò che è fra i contorni, dunque alla "materia" (o all'"intervallo") della gran­dezza. Se ciò è vero, allora ci siamo allontanati di poco dalle nostre difficoltà iniziali: se a partire dalla concezione del luogo come limite, che sembra tro­ varsi sulla giusta via, la si sviluppa nella direzione suggerita dai presupposti platonici, si perviene all'identificazione del luogo o con la forma o con la materia, e la conseguenza di ciò è ancora una volta l'incapacità di distinguere con autentica chiarezza con­ cettuale il luogo dalla cosa: "La forma (ei=)doj) e la materia (u(/lh) sono inseparabili dalla cosa, il luogo invece si ammette come separabile" [17]. 4 L'immagine dell'anfora La nostra prima affermazione positiva intorno al luogo ha avu­ to dunque anch'essa uno sviluppo aporetico. Da questo primo passo verso una definizione sembra si debbano trarre nuove e insolubili difficoltà argomentative. Secondo ciò che ci è sembra­ to di capire, tuttavia, non è quella indicazione del luogo come 137 limite che deve essere soppressa, ma deve essere invece corretta l'interpretazione che di essa si può dare nella tacita assunzione di presupposti platonici. Nello stesso tempo cominciamo ad avere la sensazione che qualcosa debba essere mutato nel modo stesso in cui procede l'in­ da­gine. Essa rischia di continuo di andare verso un punto morto. E la ragione di ciò sta anzitutto nel fatto che la nozione di luogo è stata fin qui assunta astrattamente, come una nozione vuota, che sembra fatta di nulla. Proposta in questa vuotezza, essa viene subi­ to risucchiata nel vortice dell'argo­mentazione aporetica. Invece dovremmo forse, proprio in vista e per le esigenze di una razionalizzazione, riflettere su un terreno che non sa an­ cora nulla di pure determinazioni razionali ed è tuttavia in grado di indicarci una strada. Così Aristotele ci invita a indu­giare sulle parole di luogo, e in particolare sulla paroletta in (e)n) che risponde normalmente alla domanda intorno al dove, avvian­do un modo della riflessione che, pur essendo stretta­mente in­trec­ciato con momenti argomentativi, ha piuttosto il carattere di un'analisi e di un'esplorazione del senso, di una chiari­fi­cazione concettuale che può finalmente avvalersi della pienezza degli esempi. Certamente non basta segnalare la relazione dell'in che compare nella risposta al dove che compare nella domanda. Dob­ biamo invece mettere subito in evidenza la possibilità di impie­ ghi differenti. Si dice per esempio: il dito è nella mano e la mano non è un luogo o qualcosa di simile a un luogo. Noi potremmo infatti parafrasare il senso di questa frase sopprimendo il riferimento al luogo, poiché dire che il dito è nella mano significa dire che ap­ partiene a essa, che è, concretamente, una sua parte. Ma si può dire anche che l'animale è nell'uomo, per indicare il rappor­to tra genere e specie, che è anch'esso concepibile come un rapporto di parte. E come posso dire che una parte è nell'intero, così anche che un intero è nelle sue parti, cioè consiste in esse. Il nostro primo compito - analitico, piuttosto che argo­ 138 men­­tativo - è quello di indicare il senso propriamente locale della parola, districandolo da impieghi differenti, e soprattutto da quegli impieghi che mettono in questione il nesso dell'intero e della parte. Il senso propriamente locale è concretamente illustrato da un paragone che contiene la possibilità di un'immagine: "Il luo­ go sembra essere qualcosa di simile ad un vaso (a)ggei=on)" [18]; essere in un luogo è essere "come in un vaso" [19]. La relazione dell'acqua o del vino in un'anfora: su di essa conviene riflettere se vogliamo chiarire la natura del luogo. E ora certamente quel mutamento nello stile della ricerca che era già implicito nel passare in primo piano del riferimento lingui­stico riceve un approfondimento ulteriore: diventa infatti sem­pre più chiaro che il momento propriamente argomentativo, che pre­ mette e deduce, che contrappone tesi a tesi provando e contro provando, non procede, nonostante ogni apparenza, in una pura e autonoma elucidazione concettuale. Ci sembra ora partico­ larmente significativo il fatto che quel paragone fosse presente in modo apparentemente irrilevante - al punto che allora non ne avevamo nemmeno preso nota - quando, nelle battute iniziali, si parlava dell'acqua che cede il luogo all'aria, da esso defluendo "come da un vaso" [20]. E come se fin dall'ini­zio ci fossimo tro­ vati sotto il segno di quell'immagine, come se il pensiero del luogo fosse stato da essa subito catturato e ne avesse nasco­stamente seguito la guida, che diventa ora esplici­ta e manifesta. Tuttavia, stando ad Aristotele, non è sufficiente la sempli­ ce esibizione dell'analogia dell'acqua o del vino nell'anfora per separare il senso locale dell'in da ogni possibile equivoco con il rapporto parte-intero. Intanto, l'anfora-di-vino può essere con­ siderata come un intero le cui parti sono appunto l'anfora e il vino. Perciò l'anfora è certamente, come il vino, nell'anfora-di­ vino. Potremmo dire addirittura che essa è in o dentro se stessa: ma qualora decidessimo di esprimerci in questo modo, quelle espressioni sarebbero solo apparentemente impiegate in senso 139 locale, dal momento che, come abbiamo premesso, "sono parti dell'intero sia ciò in cui una cosa è, sia ciò che è in questa" [21]. Inversamente, non sarà ammissibile dire di una cosa che sta in o dentro se stessa, se l'in o il dentro hanno senso locale. L'alterità del­ la cosa e del luogo viene dunque ribadita come una condi­zione essenziale. Così come viene ribadito che il luogo non consisterà né nella materia né nella forma, essendo esse parti di ciò che è in un luogo. È interessante notare in margine, benché si tratti di un rilie­ vo per nulla marginale, che è presente in Aristotele la convin­zione o almeno il sospetto che la stessa struttura dell'ar­gomen­tazione aporetica sorga da un impiego abile e nascosto di una stessa pa­ rola secondo significati differenti. Ciò risulta con chiarezza dalla proposta di "risolvere" l'a­ poria di Zenone attraverso la duplice possibile interpretazio­ne dell'in. Se noi parliamo di un luogo come di un'entità, certamente può accadere che subito sorga la domanda sul luogo del luogo. Ma nessun processo all'infinito si darebbe se l'in fosse impiega­to la prima volta come parola locale, la seconda nel senso del rap­ porto di parte. Se per esempio diciamo che la cosa è in un luogo e il luogo è nello spazio, solo nel primo impiego l'in è un'autentica parola locale. Tuttavia non si è ancora chiarito che cosa ci insegni l'im­ma­ gine dell'anfora, che cosa, attraverso di essa venga pensato intor­ no al luogo. Anzitutto la nozione di luogo riguar­da un rap­porto che è quello di un contenuto in un contenente - ed essa si dispone dalla parte del contenente. La metafora dell'an­fora si addice in particolare proprio perché attira l'attenzione sulla corposità del luogo - l'essere in un luogo è proprio l'essere-dentro, come in un vaso, quindi il luogo viene proposto anzitutto esso stesso come una cosa: non come una sorta di ombra eva­nescente della forma. Di qui possiamo poi ottenere un definitivo chiarimen­ to sulla nozione di limite, per il quale il riferimento al rapporto 140 contenente-contenuto, di cui in prece­denza non potevamo ancora disporre, svolge un ruolo essen­ziale. Il primo luogo, cioè il luogo particolare, non è né mag­gio­re né minore del contenuto, ma non per questo è da intendere come sagoma del contenuto. Piuttosto dovrà essere inteso come limite interno del contenente. Con questa concezione del limite, non cer­to priva di problemi, la corposità del luogo, che non può non essere anzitutto sottolineata, riceve tuttavia indubbiamente un'atte­nua­ zione, dal momento che il luogo non coinciderà affatto con la cosa contenente come tale, e per questo verso si può dire che esso non sia affatto una cosa. L'anfora e il vino ci insegnano ancora che fra la cosa e il suo luogo vi è, a un tempo, contiguità e discontinuità. Peraltro, l'una nozione implica l'altra, poiché con contiguità (to\ e)xo/menon) si intende qui, all'incirca, il contatto, e questo presuppone la "massima vicinanza", l'"aderenza", ma si con­ trappone anche alla continuità (to\ sunexe/j), un termine che in­ dica invece una fusione: "Vi è continuità tra oggetti le cui estre­ mità si unificano, si confondono, contiguità tra quelli le cui estre­ mità coincidono" [22]. Su questo punto è tuttavia il caso di diffonderci in una spie­ gazione un poco più precisa. Come esempio di fusione, possiamo pensare ancora all'ac­ qua, al vino, a una qualunque sostanza fluida. E possibile so­ stenere allora che l'acqua contenuta in un vaso sia composta di particelle, e ciò che intendo lo illustro vuotando il vaso goccia a goccia. L'acqua del vaso è composta di tante piccole gocce: esse sono le parti e il loro modo di essere all'interno del vaso illustra la nozione della continuità e della fusione. Una goccia d'acqua è certamente nell'acqua - chi potrebbe negarlo? Ma non ha un luogo. Più precisamente: non ha un luogo in atto, ma solo in potenza. Dunque, non ha un luogo, ma può averlo. Per esempio, da questo vaso io verso ora una goccia, esatta­mente in questo punto, sul tavolo. Ora la goccia ha un luogo, che prima 141 non aveva perché era soltanto una parte fusa con le altre parti nel­l'in­tero. Solo di ciò che ha carattere di cosa, e quindi solo di un'en­tità corporea solidamente contraddistinta da altre entità corporee, che è determinatamente individuata, si può dire che essa sia in un luogo. Questa è la condizione della discretezza. In­ vece, "quando il contenente non è discreto, ma continuo, allora si dice che il corpo è in esso non come in un luogo, ma come parte nel tutto" [23]; "alcune cose sono in un luogo in potenza, altre in atto. Perciò quando un corpo omoge­neo sia continuo, le parti sono in luogo in potenza, altre in atto. Perciò quando un corpo omogeneo sia continuo, le parti sono in luogo in poten­ za; quando invece esse siano separate, ma contigue, come in un mucchio, lo sono in atto" [24]. Queste considerazioni confermano la direzione comples­ siva secondo cui l'intera tematica è stata fin qui sviluppata, ma anche contribuiscono in modo determinante al suo chiarimen­to. Da esse risulta confermato che la nozione di luogo è una no­zione relazionale, ma in un senso strettamente definito dal percorso che è stato seguito e dai presupposti che lo hanno determinato fin dal suo primo punto di avvio. La nozione di luogo deve in effetti essere risolta nella relazione dell'essere in un luogo, e questa a sua volta va intesa come essere in un corpo secondo modalità e con­ dizioni che sono state or ora definite. Dunque il luogo c'è solo se ci sono i termini della relazione, che debbono essere corpi - il corpo che contiene e il corpo che è contenuto. Ma se abbiamo ragione nel sottolineare questo punto, allora hanno torto quegli interpreti che hanno ritenuto di vedere emergere già in Aristo­ tele consistenti anticipazioni della futura teoria relazionale dello spazio così come viene prospettata con particolare chiarezza in Leibniz [25]. Si tratta invece di una differenza semplicemente irrimediabile, ed è giusto che sia così. Infine, il richiamo al problema della continuità e in gene­ra­le dell'intero assolve una funzione determinante nel bloc­care verso l'interno e verso l'esterno quel processo di relativiz­zazio­ne reci­ 142 proca del luogo e del corpo, del contenente e del contenuto, che si apre in modo ovvio a questo punto. Ciò che è luogo rispetto ad un corpo che contiene, è corpo rispetto a un luogo da cui è contenuto. Ma questo processo incontra, verso l'interno, un limite nel raggiungimento di interi costituiti di parti continue e, verso l'e­ sterno, nel raggiungimento della totalità stessa. Abbiamo detto: l'acqua nell'anfora: ma una goccia di que­ st'acqua dovrà avere un luogo, e ciò per tutte le gocce così come per le gocce di cui constano le gocce? Abbiamo spiegato che così non è. Verso l'esterno, le anfore diventano sempre più gran­ di fino ad un contenente che da nessuna altra cosa può essere conte­nuto. Questo contenente assoluto è il cielo: esso è infatti il tutto - "e il tutto non è in nessun luogo" [26]. Perciò Aristotele dice che tutte le cose sono nel cielo (e)n tw=Ð ou)ranw=Ð pa/nta) [27]. 5 La definizione raggiunta Prima di stringere le considerazioni fin qui sviluppate nella sin­ tesi di una definizione, dobbiamo compiere un ultimo passo. In­ fatti il tema della relativizzazione, che noi abbiamo richia­mato nel contesto della questione dell'intero e della parte, si presenta in Aristotele prevalentemente nella prospettiva del tema del mo­ vimento. La connessione tra la nozione di luogo e quella di movi­ mento, che era già presente all'inizio della discussione, si ripre­ senta ora con particolare forza, poiché non si afferma soltanto che la realtà del movimento implica quella del luogo, ma piut­ tosto che la questione del luogo non si porrebbe nemmeno se non vi fosse movimento. Questa osservazione non ha lo stesso senso della precedente: in essa si sostiene infatti che qualora tut­ te le cose fossero in quiete, noi non ci interro­gheremmo in­torno al luogo per il semplice fatto che esse non ci apparireb­bero in un 143 luogo. Il movimento diventa allora una condizione per districare la determinazione locale della cosa dalla cosa stes­sa: cosicché è certamente possibile affermare che, nel senso della considera­ zione aristotelica, le cose ci appaiono in un luogo solo nel mo­ mento in cui lo abbando­nano [28]. Il tema del movimento viene ora riproposto nel quadro dell'impostazione più complessa che siamo venuti delineando. Non solo infatti si può muovere il corpo, ma anche l'altro corpo che lo contiene e il cui limite interno è il suo luogo. Il vaso è un luogo trasportabile [29] - da poppa a prua, per esempio, sulla navicella che risale la corrente del fiu­me. Naturalmente le condizioni che abbiamo fissato discu­tendo la problematica dell'intero e della parte si faranno valere anche nel caso del movimento, e in particolare la condizione della con­ tiguità. Osserva Aristotele: "Se l'oggetto è in continuità con il suo contenente, esso non si muove nel contenente, ma insieme con questo; se invece è diviso, si muove in questo: e tanto se si muo­ ve il contenente, tanto se non si muove, esso tuttavia si muove" [30] Dunque il pesce si muove dentro l'acqua dell'anfora che viene trasportata da poppa a prua o lasciata dove si trova sulla navicella che risale la corrente del fiume - non invece la goccia nell'acqua, ma l'acqua con l'anfora, se questa viene mossa. Questa precisazione chiama direttamente in causa la relati­ vità del movimento: l'affermazione incondizionata di questa re­ la­tività minaccia la decisione intorno a ciò che può essere detto realmente in moto oppure in quiete e sembra condurre a una vera e propria dissoluzione della nozione di luogo e di essere in un luogo. Dobbiamo allora prendere atto che il limite della nostra im­ magine guida sta proprio in quella affermazione che allude­va alla mobilità del luogo e che poco fa ci è sembrata ancora per­tinente. Ma essa lo è solo per mettere in evidenza una nozione relativa di 144 luogo che esige, a suo stesso sostegno, una nozione assoluta. Non dobbiamo dire soltanto che il vaso è un luogo traspor­ tabile, ma piuttosto: "Come il vaso è un luogo trasportabile, così anche il luogo è un vaso intrasportabile" [31]. Grande sapienza dei filosofi! E noi, muniti di questa sa­ pienza, siamo ormai in grado di comprendere la definizione ari­ stotelica del luogo nella sua ultima forma: "Il luogo è il primo limite immobile del contenente" [32]. Avevamo già detto e fatto valere nel corso della discussione che il luogo è il limite del contenente. Ora si aggiunge, come inte­ grazione necessaria, che questo limite è il primo, incontrato risa­ lendo lungo la catena dei contenenti, che non si muova in senso assoluto. Dall'acqua all'anfora, dall'anfora alla navicella, dalla navi­ cella al fiume - sino all'intero immobile. Risalendo lungo la catena dei contenenti, siamo destinati ancora una volta ad arrivare sino al cielo. 6 Riconsiderazione dell'intera problematica da un nuovo punto di vista Abbiamo così detto in parole che cosa è il luogo. Questo era fin dall'inizio il nostro scopo: mostrare che la nozione ovvia del luo­ go diventa un problema nel momento in cui vogliamo dare di essa una effettiva determinazione razionale, nel momento in cui vogliamo concettualizzarla, e quindi dare di essa una formulazione verbale. Dobbiamo allora sottoporre quella nozione, le sue possibili attribuzioni, i vari modi di concepire il rapporto del luogo con i corpi, alla prova del pensiero argomentante, che tenta di aggre­ dire ogni proposta definitoria per saggiarne la solidità. Lo scopo era quello di pervenire alla fine a una definizione del luogo logi­ camente in ordine, dalla quale non possano essere dedotte tesi 145 contradditorie. La chiarificazione che viene qui perseguita deve mettere capo a una formulazione verbale dell'essenza che resista a ogni possibile confutazione argomen­tativa. La chiarezza è qui il risultato di una teorizzazione che si è venuta costruendo di passo in passo. Il luogo è il primo limite immobile del contenente. E anche noi vorremmo proprio poter esclamare con Aristotele, all'ini­zio della quarta sezione, nella quale quella definizione vie­ne final­ mente raggiunta: "Orbene, che cosa mai sia il luogo, ecco come potrebbe diventare chiaro!" [33]. Ma con quale effettiva convinzione possiamo realmente fare nostra questa frase? Certamente, nel corso della nostra let­ tura, abbiamo imparato a riconoscere il problema, a notarne la rilevanza, a coglierne le diramazioni e le complicazioni. La que­ stione del luogo, che in precedenza ci sembrava di scarso peso, è esplosa nella nostra testa - e poi siamo anche riusciti a seguire la complessa opera di ricomposizione, e quindi a renderci conto delle motivazioni interne delle tesi che comin­ciano a prendere positivamente consistenza nell'esposizione di Aristotele fino alla proposta della definizione conclusiva. Eppure dobbiamo confessare che, per evitare che si disper­ da quel tanto o poco che ci è sembrato di aver compreso, ci toc­ ca quasi trattenere il respiro. Perciò vorremmo ritornare sui nostri passi, da un lato ri­ pensando alle tesi aristoteliche e al loro modo di procedere, dall'altro riprendendo da capo e in modo più libero queste no­ stre riflessioni sul luogo. Ancora prima che sulla definizione proposta o sui momenti che conducono a essa, vi sono dubbi che riguardano la direzio­ne nella quale si è subito orientata la chiarificazione filosofica. Come abbiamo osservato or ora, essa prospetta la nozione da chiarire come una nozione che deve essere liberata dalle sue impurità, sottraendola alle ovvietà degli impieghi correnti e integrandola saldamente nel contesto di una teoria. Ciò che si cerca fin dall'i­ 146 nizio è una giustificazione razionale, an­che là dove l'esperienza della spazialità non vede alcun pro­blema. Perciò da questa espe­ rienza si prendono subito le distanze, mirando invece all'essenza che l'argomentazione ha il compito di mostrare e circoscrivere. Il dubbio riguarda proprio questo modo di intendere il pro­ blema, di proporlo e di costruirlo. L'attenzione filosofica non po­ trebbe forse indugiare più a lungo nell'ambito di consi­derazioni che precedono le proposte razionalizzatrici e che non per questo sono prive di un'autentica portata concettuale? E re­al­­mente ne­ cessario impostare il compito della chiarificazione come se esso dovesse necessariamente mettere capo a una definizione? Del resto abbiamo già potuto segnalare anche in Aristotele la presenza di uno spunto significativo in questa direzione, benché sovrastato da una dimensione argomentativa netta­mente preva­ lente. Nel bel mezzo del dibattito aporetico, Aristotele sembra interrompere il flusso delle argomentazioni, come se fosse assa­ lito da un ricordo improvviso. Aristotele si ricorda dei giochi linguistici correnti, delle parole che ricorrono in essi indicando determinazioni locali. E tra queste, soprattutto, dell'in. Si ricorda di luoghi come anfore e vasi. "Il lavoro del filosofo consiste nel mettere insieme ricordi per uno scopo determinato". Questa frase di Wittgenstein [34], il legame tra la filosofia e la memoria non ha il senso dell'acqui­ sizione di un'evi­denza razionale, di un sapere profondo che coin­ cide con il sapere intorno all'essenza, nello spirito della filosofia platonica. Ci si richiama al ricordo soprattutto per il fatto che nel ricordo ciò che è già oscuramente presente nella nostra mente viene portato alla luce, volendo nello stesso tempo sottolinea­ re che ricordarsi non significa qualcosa di simile a inventare o escogi­tare, e nemmeno propriamente concatenare l'un concetto al­l'altro, non significa "fare un ragionamento". Beninteso, deve esservi uno scopo particolare, un tema de­terminato che attrae i nostri ricordi filosofici; e la determina­tezza dello scopo ci guida 147 nel "mettere insieme" questi ricordi, cioè nel dare a essi un ordi­ ne, nello stabilire nessi, nel rintracciare percorsi, nuove vie della riflessione. ricordi di cui consta la filosofia, infine, non sbucano dal nulla ma, come del resto accade per i ricordi in genere, vi deve essere una motivazione interna che renda conto del loro sorge­re. Così, se Aristotele si rammenta anzitutto dell'in, ciò è coerente con il presupposto del luogo come nozione oggettiva, quindi con la centralità che la cosa assume per la sua elucida­zione fino agli esiti conclusivi nei quali la teoria del luogo si ricongiunge con una teoria dello spazio del mondo e infine con una teoria dell'u­ niverso. Nel quadro di una ricerca oggettivamente orientata, come è quella aristotelica, il luogo deve esserci già fin dal­l'i­nizio - e ci si rammenta dell'in proprio perché questa paroletta lo presuppone. nostro dubbio iniziale può trovare ora una formulazione più de­ cisa: il problema della chiarificazione può essere propo­sto modi­ ficando l'atteg­giamento stesso della ricerca, impri­mendo a essa un orienta­mento soggettivo anziché oggettivo, così da illu­strare non già che cosa il luogo in se stesso sia, ma in che mo­do a par­ tire da determinazioni soggettive si pervenga alla posizione og­ gettiva. La nozione del luogo, anziché essere pre­sup­posta, deve allora addirittura essere soppressa e la sua chiarificazione può rea­ lizzarsi dinamicamente mostrando come essa si formi, come essa sorga e che cosa essa divenga. I concetti si formano. E noi vogliamo esaminare i passi di questa formazione. Perciò quelle determina­zioni soggettive che Aristotele se­gnala solo di scorcio, per sottolinear­ ne l'irrilevanza o la non pertinenza a causa della dimensione di soggettività che esse comportano, diventano i punti di forza di un nuovo inizio. 148 7 Interpretazione del qui Il nostro primo passo consiste nel fare regredire la nozione del luogo a quella del qui. Noi ci siamo rammentati del qui. Ma che senso può mai avere questo stravagante conflitto tra parole così piccole? Possiamo seriamente sperare di illu­strare in questo modo le impegnative prese di posizione che abbiamo or ora compiuto? L'espressione "qui", certo, non designa in se stessa alcun luogo, essendo il suo senso solo soggettivamente determinato. Ma a questa determinazione soggettiva può esse­ re associata una determinazione obbiettiva. nozione di luogo è dunque anche in questo caso ovviamente presupposta. a simile osservazione critica trae la sua apparente ovvie­tà dal fatto che, se mi venisse chiesto di parafrasare il senso della frase "io sono qui", forse sarei tentato di rispondere che essa dice che una de­ terminata persona si trova a una certa ora in un edificio di una città lombarda, ecc. La frase "io sono qui" direbbe dunque all'in­ circa che c'è una determinata cosa in un luogo determinato del pianeta terra. una risposta come questa fosse realmente perti­ nente, l'obiezione avrebbe una sua evidente ragione d'essere. Ma è certo soltanto che quella parafrasi opera un'obbiettivazione dell'espressione, ma non è affatto - come potrebbe credere una filosofia del linguaggio infarcita di pregiudizi - un'esplicitazio­ne del suo senso. Quando operiamo quella parafrasi, infatti, presup­ poniamo un orizzonte di cono­scenze implicite, per quanto roz­ ze, che sono tuttavia sufficienti a realizzare una localizzazione in qualche modo "obbiettiva". Ma si può sostenere che questo orizzonte può essere indebolito sino alla sua soppressione sen­ za che per questo venga necessariamente meno il significato della parola "qui". Che la nozione di luogo sia già costituita, che essa abbia già preso forma, non è affatto una condizione necessaria per il suo impiego. 149 Anche un bambino ha il senso del qui - ma questo senso non può affatto essere illustrato attraverso l'idea di una concatena­zione di luoghi che deve dare per presupposta una nozione, per quanto rozza, di spazialità geografica e persino astronomica. L'espressione "senso del qui" è del resto impiegata in modo intenzionalmente ambiguo. Con essa noi vorremmo richia­mar­ci non tanto al significato della parola, quindi al versante linguistico del problema; vorremmo invece alludere al sentimen­to che sostie­ ne quel significato. Ciò non rappresenta in realtà una psicologiz­ zazione della questione, come una simile termi­nologia potrebbe certamente far sorgere il sospetto. Abbiamo invece essenzial­ mente di mira ciò che si può trarre da esempi di impiego concre­ to della parola. Io sono entrato una volta in un'aula dicendo: eccomi qui! E nessuno può aver pensato che io abbia inteso dire: ecco G.P. che sta occupando un luogo determinato sul pianeta terra. In­ fatti, con quella frase io non ho voluto dare un'informazione, e in particolare non un'informazione intorno al luogo. Non ho fatto questo. Ma intendevo fare qualcosa. Sarei potuto entrare nel­l'aula zitto zitto - come faccio di solito. Del resto, che io fos­si lì lo hanno visto tutti. Ma intendevo manifestare la mia pre­senza, anzi operare di essa un rafforzamento: come se, dicendo questo, mi mettessi al riparo dal rischio di passare inosservato. Naturalmente può anche accadere che dicendo "qui", que­ sta parola mi inchiodi nel luogo nel quale ora mi trovo. Infatti, non si tratta di negare che essa possa avere un impiego tale da presupporre il luogo, ma soltanto di riconoscere che vi è un im­ piego più primitivo nel quale l'orizzonte spaziale oggettivo, lo stesso sapere che vi sono luoghi e che noi stessi siamo in un luogo, può essere interamente ridotto, così da contrarre quel­ l'orizzonte sino a una sorta di ultimo residuo. Il qui non designa affatto un luogo. In generale, questa paro­ la non ha alcuna funzione deittica, e nemmeno opera per integrare e completare un'indicazione, ma esplica una funzione essenzial­ 150 mente espressiva. In essa la soggettività intende non solo rendere manifesta la sua presenza, ma soprattutto imporla ad altri: come se dal fondo della scena avanzasse imperiosamente sul proscenio. Nulla sarebbe perciò più erroneo che interpretare la riduzione dell'orizzonte spaziale oggettivo come una sorta di riduzione alla pura interiorità. La presenza di cui stiamo parlando non è affatto la presenza di sé a se stesso, tutta volta verso l'interno: al contrario, è proprio una presenza esteriore, corposa ed imponente, che dal qui si fa guardare. 8 Interpretazione del là È appena il caso di dirlo: ad un'interpretazione del qui dovrà certo far seguito un'interpretazione del là, sviluppata in stretta coerenza con l'impostazione precedente. Considerate come designazioni locali, queste parole hanno in comune la circo­stanza che né l'una né l'altra determinano propriamente un luogo. L'u­nica differen­ za - irrilevante da un punto di vista obiettivo - consisterebbe nel fatto che l'una designa un luogo vicino, l'altra invece un luo­ go lontano dall'io. Ma noi non abbiamo fatto valere un'interpre­ tazione del qui in quanto luogo vicino all'io o addirittura da esso occupato. La soggettività occupa un luogo? Ciò sembra ovvio: eppure può anche suonare falso, come se quella espressione compor­ tasse una staticità, una pesantezza assai poco pertinente. Perciò noi abbiamo mostrato la necessità di adottare un punto di vi­ sta diverso in cui venga posto l'accento, piuttosto che sul luogo come nozione obiettiva, sul proporsi della soggettività che ma­ nifesta il suo esserci. Il qui è quel luogo prima del luogo nel quale la soggettività stessa si fa avanti. Tenendo conto di questa linea dell'interpretazione e assu­ mendo il punto di vista che comporta, appare subito chiaro il sussistere di una profonda differenza che riguarda anzitutto la 151 funzione. Ciò che ci apprestiamo a sostenere è che, mentre nel caso del qui la funzione espressiva prevale su quella deittica, il là si contrappone al qui proprio per il fatto che in esso la funzione deittica diventa dominante. Il là è una parola anzitutto indicativa. Ma ciò non vuol dire certamente che passiamo d'un balzo al luogo come nozione obbiettiva, come se a esso fosse senz'al­ tro rivolta la designazione. In realtà noi ci manteniamo, inizial­ mente, all'interno di quella soggettivazione estrema che ci aveva indotto a portare a coincidenza il qui con la soggetti­vità stessa. Nei suoi dintorni, di fronte a essa, c'è la cosa, ed è proprio la cosa che è ora puntata dal là: non invece il luogo che essa oc­ cupa, dal momento che questa nozione non è ancora costituita, ma è incorporata nella cosa-là. A questo livello del problema, l'es­sere-là appartiene alla cosa come una determinazione a essa essenzialmente inerente, cosicché ciò che viene indicato con la parola o con il gesto è un'unità tangibile e percepibile, nella qua­ le la determinazione locale è ancora fusa e indistinta. E tuttavia cominciamo a intravedere come, a partire da questa condizione di indistinzione, si venga a prospettare la nozione obbiettiva del luogo e conseguente­mente quella connessione concettuale tra la cosa e il luogo che ci era parsa così piena di oscurità e di enigmi nella nostra introduzione aristotelica al problema. La nozione del luogo e la sua connessione con la cosa deve certamente apparire profondamente oscura se la discussione prende le mosse da formulazioni obbiettive: se il luogo senz'al­tro c'è, allora deve essere in qualche modo concepito come una en­tità indipendente. Ma che cosa mai può voler dire percepire sol­tanto un luogo? Alla pretesa legittima che esso debba essere percepito sembra far da contrappeso il dubbio altrettanto legittimo che esso non possa affatto esserlo: la nozione di luogo comincia così a fluttuare tra lo statuto di oggetto del pensiero e quello di oggetto della percezione. Il dilemma tra la "corporei­tà" e l'"incorporeità" 152 del luogo ha in realtà le sue motivazioni profonde nella stessa impostazione del problema. Ma ora abbiamo assunto lo stile di una ricerca soggettiva­ mente orientata, riportando la discussione indietro sino a un'in­ ter­pretazione del là. Tema dell'indicazione, abbiamo det­to, è la cosa stessa; e abbiamo precisato: la cosa che contiene l'essere-là nell'unità delle sue determinazioni concrete. E non vi posso­ no cer­tamente essere dubbi sul modo in cui viene operata la discriminazione del riferimento locale: il suggeri­mento che era già presente in precedenza, secondo il quale senza il movimento il luogo non potrebbe apparire, riceve il suo giusto senso solo nel mo­ mento in cui viene ripreso e strettamente integrato nel contesto della nostra impostazione. Nella consi­derazione del movimento, l'essere-là si presenta come mera designazione relativo-soggettiva di un rapporto locale mutevo­le, e ciò può accadere soltanto se al tempo stesso viene effettuata la separazione, nel là, della cosa dal luogo e se di conseguenza viene acquisito lo sfondo di oggettivi­ tà in forza del quale possiamo dire: vi sono luoghi, ed essi sono occupati da cose (e io stesso, naturalmente, occupo un luogo). Eppure si potrebbe ancora chiedere: che ne è del proble­ ma a cui abbiamo or ora accennato della percezione del luogo? Possiamo dire realmente di vedere un luogo - per esempio, quel luogo da cui si è mossa la cosa che poco fa lo occupava? Rispondo di no: e ciò può sembrare davvero strano. Ma se rispondo di sì, mi si potrà chiedere ancora di dire che cosa vedo quando dico di vedere un luogo, di descrivere le sue fattezze. Ha delle fattezze il luogo? E come posso dire di vedere qualcosa, se ciò che io vedo non ha delle fattezze? Anzitutto "là" indica quella cosa. Poi indica il luogo. Ma non è affatto chiaro allora che cosa venga propriamente indi­cato. Il presentarsi di queste domande che, per molti versi, ci ri­ portano in prossimità delle nostre difficoltà iniziali e sembra­no addirittura rendere conto, da un diverso punto di vista, delle loro ragioni, mostra che vi è ancora qualche punto importante che 153 resta da chiarire. Questo chiarimento, inoltre, deve essere ricercato proprio sul terreno a cui siamo ora pervenuti dopo aver effettuato il passaggio obbiettivante ri­chiesto dalla consi­de­ra­zione del movi­ mento. E forse, più che alla parola, dovremmo pensare al gesto: io chiedo: "dove?" e un tale stende la mano. Mi dirigo dunque in quella direzione. Tuttavia può accadere che, dopo un certo tratto, io mi arresti imbarazzato e mi volga indietro nuovamente interrogando. Sto forse cercando il luogo e non lo trovo? Noi diremmo invece che quel gesto non determinava a sufficienza il luogo. Sarebbe perciò inutile iterarlo, come se si potesse segnare a dito qualco­sa che non c'è o, in questo modo, portarlo all'esistenza. Invece il luogo c'è quando, per esempio, un mattone viene posto in terra, e io senz'altro lo raggiungo: il mattone, il luogo. In modo ovvio, e nello stesso tempo singolare si ripresenta la tensione dell'identità e della differenza del luogo e della cosa, ripetendo in una nuova forma, dopo la costituzione del luogo come nozione obbiettiva, il problema che era già presen­te all'o­ rigine. L'inerenza reciproca della cosa e del luogo si manifesta nel fatto che la cosa può essere considerata come una sorta di materializzazione del luogo, come un là materializzato. Prima il là era una determinazione della cosa, ora la cosa e una determinazione del là. Ciò non significa soltanto che le cose possono assolvere la funzione di contrassegni di luoghi. In realtà la nostra afferma­ zione è più impegnativa, poiché questa funzione deve essere in­ tesa, nel senso dei nostri sviluppi, come un'operazione che, deter­ minando il luogo, lo pone anche in essere. 154 9 La cosa e lo spazio Anche adottando un punto di vista che, invece di mirare alla definizione, cerca di seguire la via della formazione del concet­ to, la relazione tra la cosa e il luogo si manifesta in tutta la sua importanza. L'una nozione tende a rifluire nell'altra. Eppure, se­ guendo questa via, sembra proprio che riusciamo a evitare che una simile connessione si converta in pura e semplice confusione concettuale. In particolare diventa chiaro che il luogo deve esse­ re materialmente determinato: questa determinatezza materiale è la sua condizione costitutiva. Natu­ralmente l'impiego di una cosa come contrassegno di un luogo rappresenta nulla più di un esempio in cui questa condizione può essere assolta. Mentre ciò che le nostre considerazioni intendono mettere in rilievo è che il luogo ha bisogno di essere materialmente determinato - consi­sta poi questa materializzazione in una qualunque azione di determina­ zione concreta, come il piantare un paletto nel terreno, l'erigere un recinto o semplice­mente il proporre l'immagine di un recinto. Attribuire a questi gesti la capacità di determinare luo­ghi dipen­ de a sua volta dal riconoscimento che all'essenza del luogo, come siamo tentati di dire, appartiene la delimitazione e la chiusura, e di conseguenza un centro e un confine. E come se il nostro pensiero del luogo non potesse fare a meno di questa materializzazione e pensando al luogo subi­ to balenasse nella nostra mente un cerchio tracciato sulla sabbia. Ma anche esprimendoci così, continuiamo a mantenere la nostra distanza di sicurezza rispetto a una psicologizzazione della nozio­ ne. Ciò che dobbiamo ammettere invece è che, per quanto sia stato superato il piano di estrema soggettivazione da cui abbia­mo preso le mosse, ci stiamo ancora muovendo all'interno di un'ob­ biet­tivazione di primo livello e ciò significa che in questa confi­ gurazione del problema sono ancora presen­ti elementi di sogget­ 155 tività così come sono attive ed operanti le regole interne dell'espe­ rien­za nella quale la nozione di luogo è ancora immersa. Sottolineare questo punto è particolarmente importante nel momento in cui ci apprestiamo a effettuare il passaggio dal luogo allo spazio. Questo passaggio segue il movimento interno di un con­ cetto che ha ancora nell'esperienza le proprie radici. Perciò non si tratterà di proporre, astrattamente, lo spazio come la totalità dei luoghi. In tal caso "luogo" sarebbe una qualunque porzione dello spazio ed è chiaro che l'esserci del luogo non avrebbe nulla a che fare con recinti e paletti, così come sarebbe del tutto irrilevante il richiamo al problema della chiusura e della delimi­tazione. Del resto occorre porre con particolare forza l'accento sul fatto che la nozione della spazia­lità non è presup­posta a quel­la del luogo, ma al contrario che il pensiero dello spazio sorge da una nozione di luogo non ancora separata dal sentimento della spazialità circo­ scritta - una nozione in rapporto alla quale l'essere nel luogo ha un senso concreto: noi ci sentiamo in un luogo, sto per dire, come in un'anfora, come in una cavità che ci accoglie. Ciò che lo spazio e viene detto anzitutto attraverso ciò che è il luogo in forza di una logica oppositiva affatto elementare. Al chiuso si contrappone l'aperto, al dentro il fuori: e così lo spazio è ciò che si apre, sconfinato, al di là del luogo. Tra luo­ go e spazio vi è una sorta di opposizione: il luogo è nello spazio come l'oasi è nel deserto. Ma anche una connessione intrinseca: lo spazio lo si scorge dal luogo, il luogo è presuppo­sto quando parliamo dello spazio come l'aperto e senza con­fine. Certamente siamo qui molto lontani dalla purezza dei con­ cetti, entrambe le nozioni non sono affatto prive di risonanze emotive e di inclinazioni immaginative latenti. Esse tuttavia - ed è questo che ora ci preme mettere in evidenza - ineriscono in ogni caso ad uno schematismo elementare sul quale è opportuno indugiare un poco. Si tratta naturalmente, ed ancora una volta, di un cerchio, o 156 più precisamente di un cerchio all'interno di un altro - se voglia­ mo dare rappresentazione alla cosa che istituisce il luogo determi­ nando il centro e prospettando al tempo stesso il confine. Questa rappresentazione del luogo non ci abbandona: con la sua ostinata e imbarazzante sempli­cità segue l'intero andamento delle nostre considerazioni. Ciò che genera imbarazzo in essa e soprattutto l'evidenza con la quale esibisce la relatività del rapporto, quindi la possibilità dell'ite­ razione dei cerchi verso l'interno e verso l'esterno. Il problema aristotelico del rapporto di contenente e contenuto sembra così nuovamente riproporsi nonostante la distanza dell'impostazione di principio. Tuttavia, l'interpretazione che noi daremmo di quella rap­ presentazione, da un lato rende interessante questo richiamo alle nostre discussioni iniziali, dall'altro mostra che il percorso che ab­ biamo seguito conduce a conseguenze profondamente differenti. C'è certo qualcosa di seducente in una filosofia dello spazio ispirata dall'idea delle scatole cinesi, che sono del resto esse stes­ se una sorta di riflessione concreta sul concetto della spazialità. Ciò che in essa fuorvia è tuttavia la staticità nella quale viene proposto il rapporto tra luogo e luogo e, del resto, tra luogo e spazio; e così anche il fatto che si ripresenta, sia pure attraverso 157 l'immagine del contenitore assoluto, l'idea dello spa­zio come la totalità dei luoghi. Questa totalità deve essere in qualche modo presupposta come una totalità compiu­ta, tutti i luoghi debbono essere già dati e segnati tutti i confini. n è questo, in realtà, il sen­ so in cui abbiamo parlato dell'apertura dello spazio; e la chiusura del luogo non può essere intesa come se esso fosse circondato da alte mura. La nostra interpretazione dello schematismo elementare, e dunque anche della rappresentazione proposta tenderà ad ac­ centuare invece la componente dinamica. Perciò osservere­mo subito che fuori del luogo non significa per nulla, da subito, nello spazio, ma vorremo quasi dire, attenendoci ai modi del discorso corrente: nei dintorni del luogo, nelle sue vicinanze. Se dunque intor­ no al cerchio che rappresenta il luogo viene tracciato un altro cerchio, esso non indicherà i confini di un luogo che contiene il precedente, ma andrà inteso piuttosto come una sorta di limite: di qui comincia il lontano. E allora tutti quei cerchi che potremmo tracciare iterata­mente alluderanno a un progressivo allontanamento, essi dovranno esse­ re intesi come rappresentazione di una lontananza che sem­pre più si allontana. Lo spazio che viene scorto dal luogo è tutto meno che un grande contenitore: in rapporto a esso non si fanno valere sol­ tanto le differenze del chiuso e dell'aperto, ma anche del vicino e 158 del lontano. Il tema del vicino ci riporta al luogo, quello del lontano allo spazio: e non si tratta certamente di una contrapposizione che rimanda a un puro apprezzamento, ten­denzialmente obbiettivo, della distanza tra luoghi. L'apertura che abbiamo riconosciuto allo spazio si arricchisce invece del senso del "sempre-più-lont­ ano" e dunque del dinamismo di cui questo senso contiene l'e­ vocazione. Lo spazio è il movimento della lontananza. È interessante infine considerare anche la possibilità inver­sa, verso l'interno del luogo. Ciò che accade allora lo possiamo trarre direttamente dalla struttura stessa dello schema e della rappresentazione che abbiamo proposto. Si vede subito che potremmo tracciare cerchi non solo intorno al confine del luogo, ma anche dentro questo confine, operando una progres­siva restrizione che ha termine quando viene incontrata, al suo centro, la cosa stessa. Questo potrebbe essere un buon modo di mostrare che delle tre nozioni che sono state fin qui in gioco, la cosa, il luogo, e lo spazio, in rap­ porto alle quali abbiamo ritenu­to di dover marcare soprattutto l'opposizione tra il luogo e lo spazio, il luogo può essere soppres­ so, poiché la cosa può apparire come punto finale della progressiva contrazione del luogo. Di qui, dalla cosa intesa come ultimo luogo o luogo minimo, come da un sasso gettato nell'acqua, lo spazio inizia il suo movimento. 10 Tematica della terra È importante rendersi conto che vi sono obbiettivazioni di di­ verso grado. Al grado inferiore, ciò che è stato obbiettivato può essere ancora variamente attraversato da tensioni emotive e im­ maginative, mentre il processo dell'obbiettivazione può spinger­ si oltre verso il superamento più completo di ogni residuo del vissuto. Ma sarebbe del tutto sbagliato ritenere che se aumenta il grado dell'obbiettivazione si pervenga per ciò stesso a una re­ altà di grado più elevato, vorremmo dire, a una realtà più reale. 159 Potremmo dire invece che la realtà stessa è in qualche modo sempre una realtà sfuggente, una realtà che va sfumando nell'una o nell'altra direzione, nella direzione del pensiero o nella direzio­ ne opposta del vissuto. In rapporto al problema del luogo e delle comuni determi­nazioni locali, ciò significa in particolare che la dimensione della realtà non viene affatto tolta per il semplice fatto che le nostre caratterizzazioni appaiono sotto la tensione delle funzio­ni dell'immaginazione. Per esempio, non si accetterà affatto come ovvio che differenze come quelle designate dal so­ pra e dal sotto siano indicative di una relazione puramente sogget­ tiva, mentre a esse va certamente attribuita, al di là di qualunque pretesa di una giustificazione "naturale", una determinata forma di obbiettività e di irrelatività. Del resto proprio questa obbiettività rende possibile il mo­ vimento dell'immaginazione: essa non saprebbe che farsene di determinazioni locali intese come mere relatività soggettive - l'immaginazione ha bisogno invece di qualcosa di simile a una contrapposizione autentica nella quale, per esempio, i poli del sopra e del sotto non possano affatto essere arbitrariamente scam­biati. Queste differenze sono differenze reali, fanno parte della nostra realtà. Anche se resta inteso che, a un grado di ob­ biettivazione più elevato, potrebbe venire meno lo stesso impie­ go sensato delle parole "sopra" e "sotto", senza che ciò implichi una sorta di incremento della realtà: essa inclina ora in direzione del pensiero, della teoria. Lo stesso può dirsi dell'opposizione tra il dentro e il fuori, tra il chiuso e l'aperto, di cui abbiamo messo in rilievo l'ade­ renza alla nozione di luogo. E tuttavia è chiaro che queste deter­ minazioni potrebbero essere intese in modo puramente relativo, e sembrerebbe anzi logico considerarle così. Non è forse vero che ogni entrare è anche un uscire? Posso entrare in un luogo senza nel contempo essere uscito da un altro? È singolare come una simile logica si incontri con l'idea dello spazio come insca­ tolamento di luoghi - mentre si trovi in urto con gli impieghi 160 linguistici correnti che in realtà non sorgono affatto dai capricci del caso, ma aderiscono alla dimensione della spazialità concre­ tamente esperita. Dobbiamo allora sot­tolineare che, al di là degli impieghi relativi possibili di quelle opposizioni, fuori deve signifi­ care alla fine: a cielo aperto. Cosic­ché anche noi, nonostante tutto, potremmo dire: tutte le cose sono nel cielo. Più precisamente: tutte le cose stanno tra cielo e terra, dal momento che, all'interno delle nostre considerazioni, se ci espri­ messimo in quel modo non chiameremmo in causa l'idea di una totalità obbiettivamente proposta, ma l'ambiente stesso della no­ stra vita. Il tema del cielo ci riporta così a quello della terra. Ed è certo strettamente pertinente al nostro argomento interro­garci almeno per un istante su ciò che può significare all'interno di questi sviluppi la parola "terra". Se qualcuno dice "la terra" subito qualcosa di rotondo e di vagamente sospeso a mezz'aria mi si para dinanzi. Affiorano qui certamente dei ricordi abbastanza lontani. Ci siamo subito ri­ cordati del pianeta. Eppure dovremmo riuscire a ridestare ricordi molto più profondi. Dovremmo ricordarci di una geo­grafia ar­ caica, di quella geografia che ha inizio nei racconti di coloro che sono andati e tornati da terre molto lontane. La terra a cui essi fanno ritorno non poteva non avere il carattere di terra centrale, dunque di luogo. Di qui è iniziato il viag­ gio, sempre più lontano, andando di terra in terra. Ma questo impiego del termine al plurale esibisce fin dall'inizio la possi­bilità di una modificazione essenziale di senso, stando alla quale si dirà "la terra", semplicemente, in un singolare che non am­mette plu­ rale. E anche in questo caso questa parola non è ancora usata come nome di un pianeta. Sarebbe semplice e logico, in apparenza, poter dire: tutte le terre sono la terra. Ma questo pensiero della totalità non è affatto fondato nel vuoto raccoglimento operato dal "tutti". Concreta­ mente, la terra si costituisce nella possibilità dell'an­dare sempre più lontano di terra in terra, che è un autentico movimento di 161 allontanamento e non un percorso tra l'indiffe­renza dei luoghi. Anche in questo caso si conferma la tendenza del pensiero, che ha le sue giustificazioni effettive nelle funzioni obbietti­van­ ti, a ridurre opposizioni che sono per l'immaginario, ma anche in generale per il pensiero invischiato nell'esperienza, essenzial­ mente irriducibili. Si potrebbe osservare: che diffe­renza "con­ cet­tuale" potrai pretendere di stabilire tra il vicino e il lontano? Il lontano non è altro che il vicino del vicino. La lonta­nanza si riduce a una vicinanza semplicemente iterata. Invece, per rendere conto del modo in cui la terra si co­ stituisce come totalità, abbiamo bisogno di una interpreta­zione che la consideri in stretta unità con una nozione pre­gnante di lontananza. E interessante in proposito richiamare quello che è quasi un luogo comune dell'immaginazione miti­ca: nelle terre più lontane essa pone esseri mostruosi ed eventi straordinari, che non è dato trovare nei dintorni del luogo. Allontanarsi non significa dunque soltanto entrare e uscire da un luogo all'altro, ma avventurarsi in un cammino irto di pericoli inauditi, lungo il quale tende a venire meno ogni regola e norma. Se dunque si parla di confini della terra - dove la terra è intesa come totalità - ciò non accade certamente perché si prenda partito per la fini­ tezza di contro all'infinità, ma il procedere verso questi tremen­ di confini assume il senso di un allontanamento dal reale verso l'irreale, ancor più che dal noto verso l'ignoto. Sfingi e ircocervi non sono in un luogo, ma ai bordi dello spazio. L'andare sempre più lontano è un approssimarsi a quei confini nei quali la realtà stessa sconfina. 11 Intorno al pianeta Abbiamo così rievocato un arcaico sentimento della spa­zialità. Ma tutto ciò che cosa mostra? Che interesse può avere per noi richiamare l'attenzione su una simile condizione ap­partenente a 162 un passato anche troppo remoto? In queste domande sarebbe giusto cogliere lo spunto di una polemica: perché mai, mentre ci siamo ricordati anzitutto del pianeta, abbiamo subito ritenu­ to di non doverne tenere conto? Si affaccia qui il sospetto che, alla fine, una tendenza fastidiosamente regressiva si manifesti, in modo più o meno aperto, nei nostri discorsi. Riprendiamo allora la nostra discussione proprio a partire di qui: tutti ci ricordiamo ora del pianeta. Ma intanto non possia­ mo certamente non fare notare che la terra e il pianeta non sono affatto la stessa cosa, al di là di ogni richiamo alle fanta­sticherie del mito. La terra e il pianeta hanno proprietà molto differenti. Per esempio: l'una è piatta; l'altro, invece, e sferico. O più preci­ samente: la terra non è affatto piatta, ma essa ha le sue montagne e le sue pianure, che possiamo percorrere nei nostri andirivieni terrestri, talora scendendo, talora salendo nello spazio compreso tra cielo e terra. La terra, intesa così, è il grande teatro della nostra vita. Certamente, il sapere intorno alla terra ricaccia in un pas­ sato irrecuperabile, tra le molte altre cose, anche il senso mitico della lontananza che ancora permane nei viaggi di esplo­razione, ma come un senso da confutare e da superare in un progressivo consolidamento della realtà stessa. E come cambia l'at­mosfera del viaggio se esso è accompagnato dall'e­nigma del­la terra oppu­ re dal sapere rasserenante della rotondi­tà planetaria! Forse dovrei scusarmi di definire rasserenante questo puro e semplice dato di fatto: la terra è rotonda. Eppure, questa ro­ tondità toglie l'angoscia di un viaggio che avanza in un deserto infinito, verso l'orrore dei confini. L'andare sempre più lontano - sul rotondo - è anche un ritornare. Allontanandomi, mi avvi­ cino. Viaggiando, sto quasi fermo: resto in luogo. Certo, la rotondità non appartiene fin dall'inizio all'espe­ rienza della terra: nella storia del problema, la percezione viene indubbiamente per ultima. All'interno della tematica platonica essa viene proposta nel quadro di un possibile siste­ma della na­ 163 tura fantasticato sotto il fascino delle perfette proporzioni: e poi ragionamenti e osservazioni effettive sono in qualche modo en­ trati - con nostra meraviglia e soddisfazione - in concordan­za con ciò che era certamente il frutto di un ragionamento bastar­ do. Infine la rotondità è diventata, nell'e­sperienza dell'a­stronauta, un fatto percettivo concreto. Noi sappiamo tutto questo. E perciò viviamo sulla terra nella permanente consape­volezza di una di­ mensione "cosmica", nel­la quale la terra è anzitutto un pia­neta e la nozione della spazialità è di conseguenza profondamente mutata. Perché allora ostinarsi a parlare dello spazio come di uno spa­ zio compreso tra cielo e terra? Una simile nozione di spazialità rozzamente fenomenologico-antropologica non ha più alcuna ragione d'essere. Questa osservazione coglierebbe nel segno se all'idea di spazio "cosmico" non fosse in alcun modo applicabile lo sche­ matismo strutturale intorno allo spazio e al luogo che sta alla base dell'intera nostra discussione: se dunque, giunti a questo punto, essa dovesse operare una svolta rinnovando interamente i suoi termini. Eppure una simile svolta non sembra affatto necessaria. Il punto essenziale lo abbiamo già suggerito: lo spazio cosmi­ co è in ogni caso lo spazio di una esperienza possibile. Lo è natural­mente anche per noi, uomini comuni, che siamo desti­ nati al massimo a viaggiare sul rotondo. Io, per esempio, non ho nessuna difficoltà a immaginare la terra in questo modo, cioè a im­ maginare l'esperienza della terra come di un pianeta - non ho nes­ suna difficoltà a immer­germi in questa fantasticheria astro­nautica. Anzi, quando guardo un mappamondo, mi sento quasi mancare la terra sotto i piedi - mi sento, appunto, nello spazio. E ora volgo lo sguardo verso la terra. Essa è là. Ed è importante notare che non possiamo mai esprimerci così in rapporto alla terra che non è un pianeta. Invece ora ha certamente senso dire: la terra è là. Dunque, essa è una cosa. Mentre la terra che non è un pianeta non ha mai carattere di cosa. Prima o poi dobbiamo accorgerci 164 di questo: noi viviamo sopra una cosa. Perciò la differenza è profonda: ora non vi è più né il cielo né la terra, nel senso in cui ne parlavamo prima, e nemmeno vi è un sopra e un sotto, cosicché sembra del tutto priva di fonda­ mento quella distinzione che prima ritenevamo di poter addirittu­ ra sottrarre all'ambito delle pure relatività soggettive. Ma subito si deve notare che la nostra fantasticheria astronau­tica è una fan­ tasticheria concreta e ognuna delle parole dì cui ci serviamo per descriverla ha un senso concreto. Perciò, quando diciamo che non c'è un sopra e non c'è un sotto, queste espres­sioni negative rimandano alle proposizioni affer­mative corri­spondenti e hanno un criterio del senso che rinvia alla terra in quanto non è affatto un pianeta. Lo spazio terrestre si è modificato nello spazio cosmico, ma anche questo appartiene all'ambito di un'esperienza possi­bile. Perciò lo schema al quale in precedenza abbiamo fatto ricorso non viene affatto soppresso, ma proprio nel passaggio dallo spa­ zio terrestre allo spazio cosmico, esso sembra presen­tarsi in tutta la sua semplicità, quasi che proprio in questa immagine della terra nello spazio gli elementi di quello schema vengano liberati da confusi dettagli, da particolari minuti e insi­gnifican­ti. Ora vi è la terra, e soltanto la terra: cioè, la cosa, il luogo minimo; e di qui, lo spazio aperto. 12 Il pensiero dello spazio suddiviso Nello sviluppo della discussione che abbiamo condotto fin qui è certamente rimasto in ombra quel diverso modo di considerare lo spazio che era affiorato nel corso della nostra digressione pla­ tonica. Ci siamo mossi piuttosto sulla linea di prevalenti motivi aristotelici, sia pure liberamente reinventati. Numerose formu­ lazioni aristoteliche ci sono sembrate poter ricevere un senso, in modo talvolta inatteso, anche in una profonda modifi­cazione 165 di prospettiva teoretica. L'orientamen­to delle nostre riflessioni è stato comunque quello di delineare il costituirsi di una nozione di spazialità in stretta connessione con la cosa materiale concre­ tamente data nell'esperienza, ten­tando anche di mostrare fino a che punto può essere spinto questo ambito di considerazioni che si mantiene coscientemen­te e coerentemente all'interno di una dimensione fenomenolo­gico-antropologica. In Aristotele invece questa dimensione, inevitabilmente presente in una pro­ blematica che è appena ai suoi inizi, è già prospettata in vista del suo superamento, ed è proprio in questo aspetto che consiste la profondità e la portata della sua esposizione. In realtà, per quanto possa essere singolare e un poco fuorviante l'impiego di una simile terminologia, ciò che potremmo chiamare spazio fisico - distin­guendolo dallo spazio "cosmico" nel senso or ora il­ lustrato -potrebbe essere caratterizzato negativamente proprio dal fatto che esso non è lo spazio di un'esperienza possibile. Lo spazio fisico è invece lo spazio pen­sato in connessione necessaria con il problema di una teoria della materia. Ma vi è anche un altro modo di pensare lo spazio - allo spazio fisico si può contrapporre lo spazio geometrico, oppure, come noi preferiamo dire, lo spazio-estensione. Questa differenza potrebbe essere suggerita richiamando l'attenzione su due modi possibili di rispondere alla domanda intorno alla caratte­ristica spaziale delle cose: da un lato, possiamo richia­marci alla loro possibilità di localizzazione - ed è questa la risposta alla quale fin qui ci siamo essenzialmente attenuti. Ma si può anche dare una risposta che non fa menzione del luogo, ma dell'esten­sione. Le cose sono estese. Oppure, come anche si dice: esse partecipano all'e­ stensione. Io credo che la seconda risposta richieda assai più spiega­ zioni della prima: essa non si presenta senz'altro comprensibi­le, altrettanto ovvia ed evidente. Su che cosa infatti intendo propria­ mente richiamare l'attenzione quando affermo che le cose sono estese? E non richiede forse di ricevere qualche giustificazione 166 il parlare di partecipazione delle cose all'estensio­ne? Che rappor­ to sussiste tra le cose e l'estensione, se il verbo "partecipare" ci sembra adatto ad esprimerlo? La risposta a domande come que­ ste non è per nulla a portata di mano, e si è persino tentati di ri­ condurre la seconda risposta alla prima, come se dire che le cose sono partecipi dell'estensione fosse solo un modo inutil­mente complesso di affermare la loro possibilità di essere in un luogo. Invece occorre sottolineare con forza che la seconda ri­sposta non è affatto equivalente alla prima: essa mostra invece una di­ versa inclinazione da cui considerare il problema dello spa­zio, se­ condo la quale la nozione di luogo non sembra esplicare alcuna funzione. Più precisamente: non sembra esplicare una funzione la cosa nella sua materialità specifica, la cosa intesa come un ple­ num materiale, come pienezza. Ora, ci sembra interessante avviarci alla conclusione mo­ strando in breve che l'impianto concettuale che ci è servito da fondamento e da guida alle nostre riflessioni è in grado di ren­ dere conto del problema dello spazio-estensione e di fornire in rap­por­to a esso i primi necessari chiarimenti. Cominceremo con una annotazione che avremmo potuto proporre anche in precedenza, ma che abbiamo evitato di fare perché sarebbe parsa del tutto marginale. Più volte abbiamo fatto notare che la cosa e il luogo sono nozioni che possono rifluire l'una nell'altra. Ora aggiungiamo l'osservazione secondo la quale vi è fra esse un vero e proprio gioco delle parti: l'una può svolgere il ruolo dell'altra. Ciò signi­ fica che, in questo scambio, o la cosa o il luogo resta in ogni caso sulla scena. Una simile osservazione è certamente destinata ad appa­rire irrilevante finché non si fa notare che vi è anche un altro modo di confluenza delle due nozioni che ha un senso interamente diver­ so e che implica la loro dissoluzione reciproca. Con ciò la discussione si apre su uno degli altri grandi temi che appartengono all'area del problema dello spazio: tutte le 167 nostre considerazioni precedenti rimandavano, come abbiamo notato or ora, alla cosa considerata come pienezza, come mate­ ria. Ora deve invece essere riconsiderato il tema della forma. In particolare, chiamando in causa questo tema cercheremo di mo­ strare in che modo possa avvenire il passaggio dall'una all'altra prospettiva del problema della spazialità. Abbiamo già notato in precedenza che qualunque impiego complesso ed elaborato della parola forma rimanda a un senso elementare che può essere attinto e illustrato proprio ricolle­ gandosi alla cosa in quanto oggettività della percezione. La for­ ma viene infatti percepita come essenzialmente inerente a essa, cosicché possiamo dire che la tendenza all'informe può esse­re considerata come una tendenza alla perdita dell'indivi­dualità e della stabilità che caratterizzano le cose. Esse debbo­no potersi contraddistinguere. Perciò hanno necessariamente una forma. Questa parola allude dunque alla distinzione di un con­torno che può essere tastato con la punta delle dita o seguito con lo sguar­ do. Tenendo conto di ciò si comprende subito ciò che a tutta prima può sembrarci solo un'affer­mazio­ne oscura: la forma è an­ zitutto forma chiusa. Questo problema della chiusura della forma, che potrebbe trovare elaborazione sul piano di una fenomenologia della perce­ zione, deve essere qui prospettato piuttosto come una relazione di ordine concettuale. Al concetto della forma spetta la chiusura: e ciò non significa che non potremmo usare la parola "for­ma" in modo da indicare figurazioni qualsiasi, aperte o chiuse che siano. Quella affermazione deve essere intesa infatti in mo­do da implicare ancora nel tema della forma il riferimen­to alla pienezza della cosa. Appare allora chiaro che non sarebbe lecito parlare di una messa in forma se non vi fosse anche la determinazione di una sagoma e di un contorno. La pienezza deve essere in qual­ che modo rinchiusa e circoscritta, e se lo fosse incompletamente vi sarebbe non tanto una forma aperta, quanto piuttosto una cosa incompleta, come se l'oggetto plasmato dall'o­rafo affondasse in 168 parte nell'oro ancora incan­descente. Ma la chiusura è anche una determinazione essenziale del luogo. Per­ ciò possiamo sostenere che la forma contiene un richiamo sia alla cosa che al luogo: e anche che l'una nozione si dissolve nell'altra in modo tale che il risultato di questa recipro­ca dissoluzione sia l'emergenza della forma. Sulla scena vi è ora soltanto la forma. Ciò sembra intanto poter essere inteso come una riafferma­ zione di osservazioni precedenti. Come è fatto il luogo? - ci sia­ mo chiesti una volta. E abbiamo già risposto al­l'in­circa in questo modo: là vi sia una cosa. Ora la togliamo da quel luogo, e tuttavia la sua sagoma è ancora presente nella nostra mente. Quel luogo che prima era occupato dalla cosa è fatto così. Ma in realtà noi intendiamo mostrare che il problema del­ la forma può essere formulato in modo tale che della cosa e del luogo non rimanga più di un lontano ricordo, benché possa essere inizialmente proposto in inerenza a essi. Mentre tutta la tematica precedente poteva essere riunita sotto il titolo lo spazio e la cosa si assume ora un diverso orientamento secondo il quale lo spazio e la forma debbono essere concettualmente correlati senza mediazioni l'uno all'altra. Questa correlazione viene effet­tua­ta, nell'esperienza, attraverso la mediazione della cosa. Esclu­dere questa mediazione, allontanando dalla nozione della forma l'im­ magine della cosa significa allora pensare la forma mettendo in­ teramente da parte il suo rapporto con la pienezza, e quindi an­ che con l'opposizione del vuoto e del pieno. Questa opposizione è ovunque presente nello spazio percepito: lo spazio circostante è fatto di vuoti e di pieni, e là dove ci sono i pieni ci sono anche le cose. In questo contesto si addice certamente una nozione della forma come contorno che delimi­ta la pienezza. Ma non è forse possibile intendere la forma in modo intera­ mente indipendente da questo rapporto? Pensiamo a un disegno raffigurante un ambiente, dal quale fossero cancellati a poco a poco tutti quei segnali visivi che hanno il compito di rappresen­ tare la differenza tra il vuoto e il pieno. Fino a un certo punto 169 riusciremo ancora a scorgere sagome di oggetti, dunque cose e luoghi, forme nell'accezione elementare della parola. Ma quan­ do la differenza tra il vuoto e il pieno è stata interamente tolta, ci troveremo allora alla presenza di un semplice grafismo, di un reticolato di linee dal quale sarebbe tolto ogni riferimento alla re­ altà in genere: non vi sarebbero dunque più sagome, con il loro rimando a cose e luoghi. Le linee che prima contrasse­gna­vano contorni sono diventate ora linee che operano una suddi­visione dello spazio e che in questo modo determinano forme. La parola forma ha ora un senso interamente diverso: essa significa nul­l'al­tro che parte dello spazio. Con ciò viene proposta l'idea dello spazio come di una totalità omogenea che può essere differenziata soltanto attra­verso una partizione. Essa contiene tutte le forme, e anche nessuna. Lo spazio-estensione è il pensiero dello spazio suddiviso. Ed è, nello stesso tempo, lo spazio pensato dal punto di vista della forma. Il tema della parte e dell'intero, che non è certamente rimasto estraneo alle nostre discussioni iniziali, mostra ora di assolve­ re una funzione decisiva nella determinazione di questo nuovo momento della problematica dello spazio. E ad esso si giunge superando la dimensione dell'esperienza, ma non al pun­to che non sia possibile scorgere ancora la continuità di un per­corso che riconduce a concetti ricchi di contenuto. Una rottura effettiva, che ha anche il senso di un radicale mutamento nell'impostazione del problema, si ha invece quan­do si coglie nell'impiego metaforico della parola "luogo" la possi­ bilità di una generalizzazione concettuale. Per esempio, si può parlare del luogo occupato da una persona all'interno di un albero genealogico - per rammentare di sbieco una nota imma­gine lei­ bniziana. La parola "spazio" potrebbe allora essere impiegata per indicare un sistema ordinato qualunque, e di conseguenza "cosa" un elemento del sistema e "luogo" una posizione all'in­ter­no di esso, la cui determinazione deve essere in linea di principio puramente relazionale. 170 Le nostre riflessioni sul luogo si arrestano poco prima che venga effettuato questo passaggio decisivo che, per molti versi, può essere concepito come un superamento ed una soppressio­ ne della tematica propria della spazialità: poco prima che la tema­ tica dello spazio si svuoti in quella della relazione. 171 Note [1] Aristotele, Fisica, IV,208 a 30. Si fa riferimento alla tr. it. di A. Russo, Laterza, Bari 1968. [2] ivi, 208 a 33. [3] ivi, 208 a 35. [4] ivi, 209 a 25. [5] ivi, 209 a 18. [6] ivi, 209 a 9. [7] Platone, Timeo, 33 b. - Si fa riferimento alla tr. it. di C. Giarratano, Platone, Opere complete, voi. VI, Laterza, Bari 1971, p. 361 e sgg. [8] ivi, 63 a. [9] ivi, 49 c. [10] ivi, 48 d. È evidentemente fonte di confusione la tra­ du­zione "lieu" proposta da A. Rivaud in Platon. Oeuvres complètes, Belles Lettres, Paris 1985, voi. x, p. 166 e sgg. [11] ivi, 52 b. [12] ivi, 49 e. [13] ivi, 53 e. [14] Nella discussione della posizione di Platone viene im­ plicata anche quella degli atomisti. Su questo punto si veda J. Moreau, L'espace et le temps selon Aristote, Editrice Antenore, Pa­ dova 1965, capp. I-II.. In questo stesso testo potranno essere considerati i commenti alle citazioni aristoteliche esplicite del Ti­meo platonico (in particolare, p. 22 e sgg.). Sull'argomento si può leggere con interesse la tesi latina di Bergson, Quid Ari­ stoteles de loco senserit, disponibile anche in traduzione italiana in H. Bergson, Opere 1889-1896, a cura di P.A. Rovatti, L'idea di luogo di Aristotele, tr. it. di F. Franco Repellini, Mondadori, Milano 1986, p. 345 e sgg. [15] Fisica, IV, 209 a 33. [16] ivi, 209 b 2. 172 [17] ivi, 209 b 23. [18] ivi, 209 b 28. [19] ivi, 210 a 24. [20] ivi, 208 b 3. [21] ivi, 210 b 10. [22] ivi, V, 226 b 20 e VI, 231 a 22-23. Cfr. J. Moreau, op. cit., p. 35. [23] ivi, 211 a 30. [24] ivi, 212 a 5. [25] Cfr. J. Moreau, op. cit., p. 41. [26] Fisica, IV, 212 b 15. [27] ivi, pp. 212 b 18. [28] J. Moreau, op. cit., pp. 41-42. [29] Fisica, IV, 209 b 29. [30] ivi, 211 a 35. [31] ivi, 212 a 15. [32] ivi, 212 a 20 [33] ivi, pp. 210 b 30. L'enfasi, aggiunta dal traduttore, non è in realtà inopportuna. [34] Ricerche filosofiche, oss. 127. Giovanni Piana Opere complete Volume quarto Le regole dell'immaginazione 1. Lineamenti di una filosofia dell'immaginazione, p. 5 2. Le regole dell'immaginazione, p. 55 3. Le regole dell'immaginazione e le procedure del lavoro oniri­ co, p. 101 4. Sulla fantasticheria, p. 145 5. Elogio dell'immaginazione musicale, p. 161 6. La tematica dell'immaginazione in Kant, p. 187 7. Tragitti dell'immaginario - Note in margine a "L'acqua e i sogni" di Gaston Bachelard, p. 241 8. Leggere i poeti. Note in margine a Giovanni Pascoli, p. 283 2013-2018 4 ISBN 978-1-291-26188-2 Copyright Giovanni Piana (2013) Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Uniform Resource Identifier Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT In copertina: fotografia di Giovanni Piana 5 Lineamenti di una filosofia dell'immaginazione 1988-2013 6 Questo testo riprende i temi trattati nel capitolo terzo degli Elementi di una dottrina dell'esperienza. Esso è stato redatto nel 2013 sulla base di lezioni tenute all'Università degli Studi di Milano nell'aprile del 1988. In copertina: Max Ernst, Il paradiso 7 Indice 1. Realtà, ragione e immaginazione 2. L'immaginazione nelle dinamiche della vita soggettiva 3. Critica di un approccio introspettivo 4. Primi tentativi di un approccio fenomenologico-strutturale 5. Spiegazioni attraverso esempi 6. L'esempio del gioco 7. Sul comportamento degli oggetti immaginari 8. Immaginazione e finzione 9. L'eterogeneità del mondo immaginario 10. Immaginazione e mondi possibili 11. La fantasia come facoltà antisintetica 12. Le sintesi immaginative e l'immaginazione immaginosa 13. Valorizzazione immaginativa e associazione delle idee 14. Simbolo e valore immaginativo 8 9 1 Considerazioni introduttive. Realtà, ragione e immaginazione. Quali sono le questioni di principio che vengono chiamate in causa nel momento in cui ci poniamo il problema di una chia­ rificazione filosofica della tematica dell'immaginario? In quale direzione si orientano le decisioni che eventualmente vengono prese su questo terreno? Qual è, in generale, il peso di questo problema? Queste sono probabilmente le domande che tende­ emmo a porci fin dall'inizio. È in realtà subito chiaro che il tema dell'immaginario è un luogo in cui si possono incontrare e scontrare intere posizioni fi­ losofiche: dall'inclinazione che assume questo tema si intravvede subito il profilo di orientamenti di grande respiro. L'immagina­ zione è certamente una delle grandi capacità dell'uomo, ma que­ sta capacità non è unidirezionale, e non possiamo fin dall'inizio e in linea di principio valutare il senso dei risultati a cui mette capo. Indubbiamente il tema dell'immaginario tende a presentarsi come un polo all'interno di un'opposizione nella quale la polari­ tà opposta è rappresentata dal reale stesso, da ciò che effettivamente c'è, e che dunque può essere effettivamente conosciuto. Rispetto al reale, anzi, l'immaginario può essere come un velo che modifica il suo aspetto, e ne impedisce o anche soltanto ne ostacola l'accesso. Dall'angolatura del problema della conoscenza si potrebbe con­ siderare l'imma­gina­rio come provvisto da un segno negativo. Il processo del conoscere sembra caratterizzato infatti proprio da una costante liberazione da quei fantasmi che la facoltà immagi­ nativa impone alle cose stesse, da quegli errori di cui è in ultima analisi responsabile proprio quella facoltà che sembra intrapren­ dere sempre e soltanto dei cammini che ci portano fuori e lon­ tano dalla realtà: cammini fuorvianti rispetto ai retti percorsi della ragione. 10 Ecco dunque l'altro polo, il contropolo dell'immagina­zione in genere. Quando parliamo di ragione - qualunque sia il senso più o meno complesso che vogliamo conferire a questo termi­ ne - alludiamo sempre ad una sfera in cui vige l'ordine e la regola, ed in particolare quell'ordine e quelle regole che sono essenziali per dare unità e sistematicità al patrimonio delle conoscenze. Si tratta in effetti di una razionalità che ci riporta al problema della re­ altà stessa come realtà da conoscere. Possiamo ammettere delle regole in rapporto all'immaginario o addirittura un ordine che tragga la sua fonte di qui? Saremo proabilmente tentati di dire, al contrario, che questa facoltà vive del disordine, o comunque del fatto di poter riordinare a piacere, di stabilire ordini autonomi, privi di qualunque necessità interna. Ed un ordine a piacere non sembra proprio essere qualcosa di diverso da un modo del disordine. Dove risiede allora la grandezza dell'immaginazione, che tutti siamo disposti a riconoscerle? A tutta prima risponderem­ mo: questa grandezza non la devi ricercare nei cammini della ragione, ma piuttosti in quelli dell'arte; oppure in quelli del mito. Nei loro prodotti ritroverai il peso e la forza dell'immaginario. Le opere che ammiriamo ed apprezziamo nell'arte e nel mito sono certamente, e forse anzitutto, opere dell'immaginazione. E tuttavia il senso e la portata di questa affermazione, ed anche il modo in cui effettuiamo questo nesso non sono affatto ovvi, ed anzi la riflessione filosofica ha tra i suoi compiti in particola­ re quello di mettere a fuoco questi rapporti, di decidere qualcosa intorno ad essi, dal momento che non si tratta tanto di accertare o scoprire qualcosa, ma anzitutto di scegliere un punto di vista da cui impostare l'intera questione. Le angolature possono essere infatti molto diverse. È fuori discussione che vi sia un nesso tra la facoltà immaginativa e le propduzioni dell'arte - ma esso è tanto centrale da escludere che si guardi anche in altre direzioni? L'ambito delle attività cono­ scitive ha realmente una posizione del tutto marginale e insi­ gnificante? E' giusto considerare le produzioni dell'arte come 11 una pura manifestazione dell'irrazionale - o anche, secondo una diversa e più ricca formulazione: è giusto concepire il campo dell'irrazionale come ciò che non è attraversato da nessun ordine o regola e che si manifesta in puri fantasmi e finzioni? La parola "fantasia" - come del resto quella di "fenomeno" - contiene nel proprio etimo un rimando all'apparenza. La fantasia produce dunque mere parvenze del tutto svincolate dai legami profondi con la realtà stessa, parvenze che fluttuano alla sua superficie senza radici in essa? Pensiamo alle produzioni del mito - o in generale a quelle della religione: nonostante la possibilità di proporre raffinate di­ stinzioni tra mito e religione, le due parole si richiamano ad uno stesso ambito di problemi, rispetto ai quali una filosofia dell'im­ maginazione ha certamente da dire la sua. Il rimando ad un'ir­ razionalità produttiva di mere parvenze potrebbe essere consi­ derato soddisfacente all'interno di una prospettiva filosofica che tende ad una interpretazione "po­sitiva" della religione in genere, e che dunque tende a interpretare manifestazioni e comporta­ menti religiosi riportandoli verso fatti psicologici, sociologici o genericamente antropologici. Ma ad una simile prospettiva si è sempre contrapposta la tendenza a com­provare anche sul piano filosofico quella "serietà" e quella "profondità" che la religione e mito dicono di avere. Il fatto è che non può in ogni caso essere negata al mito e alla religione una fortissima componente immaginativa - anzi proprio all'interno di questa sfera l'immaginazione sembra tro­ vare il terreno più fertile per la sua creatività e produttività. Sorge così una precisa alternativa: o questi prodotti imma­ ginativi sono puri momenti esteriori che che non fanno altro che fornire un abito esteriore, e dunque inessenziale, ad un nu­ cleo che resta in qualche modo accessibile alla ragione; oppure si assume fin dall'inizio che il contenuto espresso nella religione e nel mito sia troppo grande per essere compreso ed espresso con mezzi razionali, e dunque che l'intervento dell'immaginazio­ 12 ne assolva una funzione essenziale rispetto alla comunicazione di quel contenuto. Nella crisi della metafisica razionalistica assume vigore l'idea che l'immaginazione abbia la vocazione e la capa­ cità di superare la "strettoie della razionalità" , assumendo a sua volta una funzione metafisica. Si sarà allora disposti a rimettere in questione la nozione di realtà, così come il nesso tra realtà e razionalità: in certo senso, quanto più l'immaginazine si avvicina alla realtà, intromettendosi in essa, tanto più la realtà stessa si avvicina ad una surrealtà che si popoli sempre più di "simbo­ li" - parola che potremmo considerare provvisoriamente come allusiva a connessioni ed legami a ciò che non cade e non può cadere immediatamente sotto gli occhi. Ma la questione può essere anche essere vista in altro modo: lasciando da parte le grandi sfere dell'arte, del mito e della re­ ligione, potremmo anche chiederci che ne sarebbe del nostro mondo circostante se lo privassimo di qualunque nesso imma­ ginativo. In che modo ci apparirebbe l'aurora o un tramonto, un albero o un fiore? Con queste prime osservazioni vogliamo indicare, come di­ cevo in precedenza, il peso del problema. Per il momento non siamo certo in grado di prendere partito per questa o quella al­ ternativa e nemmeno per nemmeno per valutare se queste alter­ native siano correttamente poste oppure se la stessa problema­ tica non possa essere organizzata in modi ancora diversi. Una filosofia dell'immaginazione ha fra i suoi compiti anche quello di orientarci in un simile dibattito. 2 L'immaginazione nelle dinamiche della vita soggettiva Fin qui abbiamo sviluppato le nostre considerazioni avendo di mira una produzione immaginativa che comunque si realizza concretamente in "opere" che hanno una esistenza oggettiva, an­ che se molto diversificata nella forma: è il caso appunto di di­ 13 pinti o di narrazioni, di composizioni poetiche, ma anche più ampiamente di cerimonie, rituali che appartengono all'ambito dei comportamenti religiosi. Si tratta di "cose" o di "gesti", an­ che se il loro senso va al di là di essi. L'immaginazione opera qui nell'ambito delle forme dello spirito, per usare il linguaggio dell'ide­ alismo, oppure, come io preferirei dire, delle forma della cultu­ ra. Libri, dipinti, spettacoli teatrali, rituali, ecc. sono "oggetti" o "comportamenti" culturali. Ma l'immaginazione potrebbe essere chiamata in causa an­ che come una facoltà che interviene nelle dinamiche della vita soggettiva, interagendo con altre forze e tendenze soggettive, ed allora, benché tenda a rinnovarsi il gioco delle opposizioni sulle quali ci siamo in precedenza soffermati, ci troviamo di fronte a nuovi interrogativi. Il problema della realtà ci si ripresenta, ma in una nuova forma. L'io che immagina è infatti un io reale e ciò significa che egli ha bisogni reali, interessi reali, che deve superare difficoltà effettive che incontra sul suo cammino e superare ostacoli che si frappongono tra lui e la realizzazione dei suoi progetti. È allora lecito chiedersi: in che modo l'immaginazione opera in questo contesto di realtà, in che modo si esplicano le tendenze immagi­ native: esse si integrano all'interno di quel contesto oppure ope­ rano in esso rischiose rotture? Bisogna chiaramente sottolineare che parlare della realtà dell'io non è certo lo stesso che parlare della realtà di una cosa. Una cosa semplicemente c'è , mentre la realtà dell'io non può risolversi in questo esserci. Essa consiste invece in un proces­ so del farsi dell'io, in un io che si realizza processualmente, e questa realizzazione consiste in una continua ricomposizione unitaria. Vorrei quasi dire: il nostro maggior problema sta nel tentativo co­ stantemente rinnovato di tenere insieme i frammenti della nostra vita, in modo da mantenere una "identità" che non c'è già, ma che deve di continuo essere proposta e riproposta. Ed allora ci chiediamo: che funzione assolve, all'interno di 14 questo processo di realizzazione, l'immaginazione stessa? A qua­ li livelli di questo processo essa interviene ed in quali direzioni è orientato il suo operare? Anche considerando questo lato del problema, si presenta subito una molteplicità di punti di vista e di prospettive differen­ ti da cui può essere colto. Per certi versi, i temi che potremmo trattare in questo ambito si intrecciano anche con quelli dell'im­ maginazione produttiva di oggetti e di comportamenti. Le stesse capacità dell'immaginazione di velare la realtà stessa che ci sta di fronte può agire in funzione di un'aggregazione di una soggetti­ vità che corre il rischio di disgregarsi. Ancora una volta la ritualità mitico-religiosa è una vera mi­ niera di esempi possibili. Si pensi all'atto rituale di deporre fiori sulla tomba di un defunto - quante fantasie sono dentro questi fiori, quanti veli vengono frapposti loro tramite ad una realtà che potrebbe risultare insopportabile agendo così contro le minacce di questa insopportabilità? L'atto rituale riporta un qualche equi­ librio, oltre a ricevere l'approvazione del contesto sociale che rafforza questa sua funzione (un motivo, questo, che meritereb­ be certo di essere discusso a fondo). È possibile tuttavia anche che l'immaginazione agisca in funzione di una disaggregazione piuttosto che di una aggrega­ zione, creando quindi rotture interne all'unità della soggettività piuttosto che cooperare ai processi di unificazione che la co­ stituiscono. Ci si può chiedere in che misura l'attenuarsi o l'in­ debolirsi del senso della realtà dovuto ai veli della fantasia non comporti nello stesso tempo una tendenza all'allentamento dei legami che tengono insieme la soggettività stesso nella sua identità. Sullo sfondo vi è il problema di una perdita di sé, vi è il proble­ ma della follia. Sarebbe certo troppo semplice e ingenuo parlare della follia come se si trattasse di un precipitare della soggetti­ vità nelle sregolatezze dell'immagi­nazione. Altre forze e impulsi psichici particolarmente potenti spingono nella stessa direzione. Ma non è certo fuori luogo richiamare l'attenzione sul problema 15 della follia nel contesto di un discorso intorno all'immaginario. Intorno al nodo che lega le opposizioni che ci riportano all'immaginario ci sono più cose di quanto a tutta prima si sia portati a pensare. Ad esempio, la distinzione tra l'infanzia e la vita adulta potrebbe essere contrassegnata proprio dal tema dell'im­ maginazione. Il fatto che la vita infantile sia dominata dall'imma­ ginazione, anzi che lo stesso passaggio alla dimensione adulta sia caratterizzato dal freno posto alle costruzioni dell'immaginario sembra quasi un luogo comune, e del resto, almeno in parte, affermazioni come queste potrebbero essere considerate come pure ovvietà. Ma vi sono invece aspetti poco ovvi - aspetti che si colgono forse meglio nella distinzione in certo senso parallela che attribuisce questo predomio nell'immaginazione all'infan­ zia dell'umanità, ai cosiddetti "primitivi" rispetto alla dimensio­ ne "storico-culturale" che starebbe qui in luogo dell'età adulta. L'assimilazione tra modo di pensare del primitivo e atteggiamen­ to infantile nei confronti della realtà può essere tutto meno che un luogo comune da accettare senza discussione. Per molti versi può sembrare che qui si colga un nesso tra costituzione dell'io e costituzione della realtà stessa. Ad una costituzione tendenzial­ mente immaginaria del reale sembra corrispondere una tenden­ ziale labilità dell'unità soggettiva. Ma osservazioni come queste sono tutte da interpretare e da determinare nel loro senso ef­ fettivo. Possiamo forse prospettare il consolidamento della sog­ gettività come un processo puramente negativo, nel quale ciò che viene negato è proprio l'azione dell'immaginazione? Basta formulare il problema in questi termini per mostrare che l'intera questione, nonostante alcuni aspetti ovvi, propone numerosi lati oscuri. Fa infine parte di questo aspetto della tematica dell'imma­ ginario la distinzione tra conscio e inconscio sulla quale ha par­ ticolarmente insistito la psicoanalisi nella varietà dei suoi orien­ tamenti teorici. Nella psicoanalisi si è insistito soprattutto sulla relazione tra immaginazione e inconscio e sul fatto che le produ­ 16 zioni immaginative sarebbero sempre ed inesorabilmente legate a dinamiche psicologiche di natura inconscia. Questo problema ha assunto una tale importanza all'interno delle teorie psicoana­ litiche da ritorcersi in certo senso anche sul piano di una proble­ matica filosofica dell'imma­ginazione. Sembra, in altri termini, che una filosofia dell'imma­ginazione non possa avviarsi e svilupparsi senza riprendere direttamente temi e concetti elaborati dalla psi­ coanalisi. Su questo punto dobbiamo esprimere il nostro dis­ senso, ed anzi affermare che anche le tematiche psicoanalitiche dell'immaginario potrebbero trovare giovamen­to dalla riflessio­ ne su concetti autonomamente elaborati. 3 Critica di un approccio introspettivo In realtà, ripensando alle cose dette fin qui, non troviamo nes­ suna traccia per organizzare la problematica molto generale che abbiamo delineato. Ma è chiaro che proprio questa generalità impone qualche precisa delimitazione del modo di approccio: non possiamo gettarci a capofitto in essa, ma dobbiamo propor­ re una delimitazione preliminare che ci consenta poi di tracciare un percorso lungo il quale raccogliere quelle nozioni che possa­ no servirci come basi per poter procedere con un certo ordine. Noi dunque ci domandiamo: qual è il compito da cui dob­ biamo prendere le mosse al fine di poter ordinatamente rintrac­ ciare i concetti fondamentali di una teoria dell'im­ma­ginazione? Potremmo pensare di approfittare senz'altro dei suoi prodotti, anzi dai suoi prodotti più evoluti per avviare una riflessione a partire da essi. Ma questo sarebbe un errore perché cercherem­ mo di cominciare proprio dalla cima della montagna, tra sentieri irti di difficoltà. Invece, proprio per potersi accostare a questi piani problematici di particolare complessità è necessario aver deciso qualcosa intorno a questioni che sono ad un tempo molto più semplici e molto più generali. Dobbiamo soprattutto aver 17 deciso qualcosa intorno ai vari di significati che la parola immagi­ nare può assumere. Noi abbiamo parlato, di passaggio, di capacità immagina­ tiva. Ebbene, non ci dobbiamo forse chiedere anzitutto in che cosa consista questa capacità? Non dobbiamo forse chiarire in che senso, e più probabilmente in quale molteplicità di sensi si parla di immagini e di una produzione di immagini in genere? Questo è in realtà il nostro compito preliminare che non è in se stesso affatto ovvio. Potrebbero esservi delle cornici filo­ sofiche che non tollerano nemmeno la posizione del problema. Io credo invece che noi possiamo proporlo proprio perché pre­ supponiamo un atteggiamento filosofico che ce lo consente ed anche un campo di problemi filosofici nel quale è perfettamente lecito porre quella domanda elementare ed anche indirizzare la risposta nella giusta direzione. Ad esempio, non intraprenderemo fin dall'inizio la strada della psicologia. L'immaginare non è forse, come il ricordare, il percepire, il desiderare niente altro che un "vissuto" psicico? Un atto della mente? Allora - così si potrebbe sostenere - l'inda­ gine intorno alla capacità di immaginare dovrà necessariamente assumere l'andamento di un'indagine psicologica, e più precisa­ mente di un'indagine introspettiva. Ciò significa: come posso sapere qualcosa intorno all'im­ maginare ed alla natura dei prodotti dell'attività immaginativa se non producendo io stesso attualmente delle immagini, se non accingendomi ad una reale attività immaginativa e nello stesso tempo auto-osservandomi in questo produrre? Sembra dunque necessario una sorta di ripiegamento che io stesso, che mi pongo la domanda, debbo effettuare su me stesso per cogliermi nell'at­ to stesso di immaginare - una sorta di riflessione nel senso in cui Locke usava questo termine quando distingueva tra le "idee" della sensazione e le "idee" della riflessione - cioè tra i conte­ nuti derivati dal mondo esterno attraverso gli organi di senso e i contenuti (o gli atti) che si manifestano in questo ripiegamen­ 18 to auto-osservativo su se stessi. Sembra evidente che l'idea di "albero" è derivata da sensazioni che contengono un rimando all'esteriorità; affinché io possa avere una "idea" di albero debbo dunque guardare fuori, mentre l'idea del ricordare o dell'immagi­ nare sembra poter essere ottenuta soltanto guardando dentro. Un simile orientamento introspettivo mette generalmente capo, da un lato, ad una concezione dell'immagine come conte­ nuto mentale; dall'altro all'accentazione posta sulla maggiore o minore "vivacità" o "vivezza" di questo contenuto. L'immagine deve essere vivida - certo non altrettanto vivida quanto lo è un contenuto percettivo, ma tuttavia abbastanza vivida da presen­ tarsi talvolta come un vero e proprio doppione di un contenuto percettivo. Nel contenuto immaginativo vi deve essere un mo­ mento allucinatorio, più o meno spinto, più o meno pronun­ ciato, ma questo momento probabilmente non può essere del tutto assente, altrimenti il contenuto proposto assume piuttosto i caratteri della vuotezza concettuale. Dall'im­ma­ginare qualcosa si passa al pensare qualcosa. In fondo, il modello di immagine è, se­ condo questo orientamento, ciò che appare nei nostri sogni. Ciò che li caratterizza è la vivezza dei fantasmi che appaiono in essi, il loro carattere di autentiche allucinazioni. Cerchiamo di avviare una critica di questa via riprendendo la distinzione lockiana che abbiamo rammentato or ora tra idee della sensazione e idee della riflessione. Essa riassume efficace­ mente il nodo della questione. In luogo di accettarla nella sua apparente ovvietà, dobbiamo anzitutto richiamare l'attenzione sul fatto che essa ci ha indotto ad usare espressioni come guardare fuori e guardare dentro - ma qui il senso del "fuori" e del "dentro" è tutt'altro che ovvio, ha già il peso di tutta una filosofia. Abbiamo detto che per avere un'idea dell'albero dobbiamo naturalmen­ te guardare fuori, ma questo fuori avrebbe il suo senso consue­ to, normale, solo se, ad esempio, il guardare fuori significasse "affacciarsi alla finestra e guardare fuori l'albero nel giardino". Invece questa espressione trae ora il suo senso dalla contrappo­ 19 sizione con la riflessione intesa come un guardare dentro. Facendo riferimento a questo senso, dovrei essere costretto a dire che guardo fuori ogni volta che semplicemente guardo. Ciò ci richiama alla mente la concezione della coscienza come di una scatola o di un sacco contro cui Husserl polemizzava vivacemente. Di conseguenza saremmo propensi a contestare anche il fatto che le "idee" del ricordare o dell'immaginare abbiano avuto origine da una qualche riflessione introspettiva. Basti pensare al senso in cui qui si parla di origine. Interrogarsi sull'origine significa in­ fatti porsi la domanda: in che modo io so dell'immaginare e del ricordare, ovvero in che modo io ho ho appreso l'impiego corretto di parole come queste? Se si pone il problema in questi termini, appare subito quanto sia artificioso ritenere che da un lato vi sia un "processo interiore" colto all'interno di una pretesa riflessione introspetti­ va, dall'altro l'applicazione della parola a questo processo. Chie­ diamoci invece in che modo un bambino apprende a impiegare verbi come desiderare, ricordare, immaginare, sognare. Questo apprendimento è certamente mediato, come ogni apprendimen­ to linguistico, dagli altri: si tratta di un'osservazione tutt'altro che secondaria proprio in rapporto a processi che fanno parte della soggettività concepita anzitutto nella sua singolarità e individua­ lità. Il bambino, dunque, si desta all'improvviso dal sonno e si mette a piangere. La madre lo tranquillizza: "È soltanto un so­ gno". Come è importante questo "soltanto", quante cose esso contiene! Ma in esso è forse inclusa la conoscenza che si tratta di un processo interiore che può eventualmente essere osserva­ to in una riflessione introspettiva che assume qui la forma del ricordo? Veniamo ora all'ultimo punto della critica. Abbiamo osser­ vato che seguendo la via dell'introspezione attireremmo l'atten­ zione da un lato sul contenuto immaginativo come contenuto mentale, dall'altro sulla sua vividezza, sul suo carattere almeno 20 tendenzialmente allucinatorio. Così cominceremmo con il dire: un albero dato nell'imma­ ginazione è un contenuto mentale, mentre un albero, là, in giardino, non lo è. Chi potrebbe dar torto a qualcuno che cominciasse con il dare una simile risposta alle nostre domande iniziali? Eppure noi saremmo subito tentati di dargli torto. Anzitutto ricollegandoci alle nostre precedenti considerazioni sul dentro e il fuori, ma ora anche obiettando più determinatamente che la questione è mal posta: in essa si assume che si debba decidere qualcosa intorno alla natura di due particolari entità - l'albero immaginato, l'albero percepito - senza aprire subito la discussione, come si dovrebbe fare, sulla relazione tra questi oggetti e gli atti corrispondenti, l'immaginare e il percepire. Secondo quella falsa impostazione, il fatto di dire che l'albero immaginato è mentale, mentre l'albero percepito non lo è - affermazione che certamente deve avere un qualche senso legittimo - assume invece un senso assai pe­ regrino. Come se si dicesse: l'albero percepito è fatto di legno, e non invece l'albero immaginato. La "mentalità" dell'immagine dovrebbe essere illustrata dalla materialità della cosa, ed allora essa diventa un autentico enigma. Se l'albero immaginato non è di legno, allora di che cosa è fatto? Forse di una "sostanza men­ tale"? Oppure dovremmo dire che è "insostanziale"? È chiaro che simili risposte non possono soddisfare le nostre esigenze filosofiche. Quanto poi alla vividezza del contenuto immagina­ tivo potremmo subito osservare quanto meno questo: perché mai dovrei essere costretto a parlare di immaginazione solo in rapporto ad un'attività quasi-allucinatoria? Perché mai se dico di immaginare un cavallo alato, l'uso del verbo immaginare sarebbe appropriato solo se un cavallo alato mi appare ora dinanzi con una tale vivezza che quasi mi spavento? Ed ancora: come so ov­ vero chi decide se un cavallo è abbastanza vivido per meritare di essere chiamato un prodotto dell'immaginazione? Non si tratta di critiche di poco conto. Esse ripropongono per intero le nostre domande iniziali. 21 4 Primi tentativi di un approccio fenomenologico-strutturale Ad un approccio introspettivo noi contrapponiamo un approc­ cio fenomenologico-strutturale. Non vogliamo tuttavia ricorre­ re ad un dibattito metodologico preferendo affidare le spiega­ zioni che potremmo anticipare astrattamente, alla concretezza dell'e­sempio. Cominceremo dunque con il dire che l'immaginare è an­ zitutto una modalità dell'intendere. Ciò comporta che se vogliamo indicare i caratteri di un oggetto immaginario non dobbiamo considerarlo come se esso fosse una particolare entità, una en­ tità a se stante accanto ad altri tipi di oggetti, ma come polo di una correlazione intenzionale, quindi in stretta connessione con l'atto immaginativo che lo pone. La domanda intorno alla natura dell'oggettività immaginaria diventa allora una domanda intorno al modo in cui l'immaginare intende i suoi oggetti ovvero intorno al modo in cui vengono intesi gli oggetti quando diciamo che essi sono immaginati. Ma ecco un altro punto che va vivacemente sottolineato: noi non dobbiamo porci di fronte a questo nostro quesito ini­ ziale come se si trattasse di acquisire una conoscenza che ci è ignota. In realtà, noi sappiamo benissimo in che cosa consista l'immaginare, esattamente come sappiamo in che cosa consista il desiderare, il ricordare, l'amare e l'odiare. Il nostro atteggiamen­ to di ricerca dunque non è propriamente puntato in direzione dell'acquisizione di nuove conoscenze. Ciò che sappiamo tuttavia, non è mai stato posto nero su bianco, il nostro sapere è in fin dei conti solo implicito dal momento che non ci siamo mai interro­ gati in questa direzione. Si tratta di un sapere avvolto da oscurità, e il nostro compito è un compito di chiarificazione, di esposizione, di esplicitazione. Proprio per questo motivo la nostra indagine si caratterizza 22 come un' indagine filosofica: in essa non formuliamo ipotesi, non apportiamo circostanze di fatto per confermare o consolidarle, non facciamo esperimenti degni del nome. La filosofia è spes­ so stata attratta dalle procedure delle scienze empiriche o delle scienze deduttive. Le ha in certo modo invidiate. Ora possiamo lasciare questa invidia agli sciocchi, a coloro che, nella filosofia scimiottano la scienza, senza essere né scienziati né filosofi. Ciò, beninteso, non implica per nulla che non vi sia il mas­ simo apprezzamento verso le procedure conoscitive in genere - o addirittura che si contrapponga il sapere filosofico al sapere scientifico: semplicemente si affidano alla filosofia altri compiti. L'andamento della nostra ricerca consisterà, piuttosto che nello sperimentare, dedurre e calcolare, nell'attirare l'attenzione su que­ sto o que­st'altro, nel far notare, nel mettere in rilievo circostanze che forse non apparivano subito in primo piano e che invece potreb­ bero essere particolarmente ricche di significato. Nell'argomentare nel senso ampio del termine, ovvero nell'addurre vari argomenti a favore di una determinata tesi. Ciò vale naturalmente anche per la filosofia della scienza, che è appunto riflessione filosofica sulla scienza. Come abbiamo detto, il nostro obbiettivo attuale è il tenta­ tivo di apportare chiarimenti sul carattere dell'atto immaginativo e correlativamente sul carattere dell'oggettività che è posta in esso, e dunque sulla specificità di questo modo di intendere. Ma ciò può avvenire soltanto in un confronto - implicito o esplicito - con altri modi di intendere, in una sorta di singolare rimando reciproco dall'uno all'altro, di vera e propria circolarità. Se ad esempio attiriamo l'attenzione su un carattere tipico dell'oggetto immaginario, questo carattere va inteso come tratto distintivo, ed è quindi sempre implicito il riferimento ad altre mo­ dalità intenzionali da cui appunto l'oggetto immaginario si con­ traddistingue. "Su questo punto richiamo la tua attenzione, sul fatto che, a differenza della percezione…". Caratterizzare significa contraddistinguere, indicare il punto della differenza. 23 In un libro nel quale ho tentato di ridurre la problematica feno­ menologica entro i limiti della mia ragione, ho ritenuto di poter semplificare drasticamente ogni discussione sul "metodo feno­ menologico" indicandolo semplicemente come un metodo di caratterizzazione degli atti di esperienza attraverso l'esibizio­ne di differenze di struttura (Elementi di una dottrina dell'esperienza, Introduzione). Stranamente, in tutta la pur ricchissima letteratura fe­ nomenologica, non ho mai trovato una formulazione tanto elemen­ tare e non meno ricca di senso rispetto a formulazioni molto più complesse. In generale si è preferito discutere all'infinito sulle "essenze" ed a muovere critiche all' "essenzia­lismo fenomeno­ logico" senza tener conto del fatto che la ricerca intorno all'es­ senza non è altro che una ricerca tesa ad indicare i tratti distinti­ vi, e non è dunque puntata, come sembra suggerire il termine di "essenza", alla messa in evidenza di una sorta di nucleo necessario, ma ha invece di mira differenze che si rimandano l'un l'altra. 5 Spiegazioni attraverso esempi Ebbene: che differenza c'è tra un cavallo percepito ed uno im­ maginato? Uno dei primi importanti chiarimenti che siamo in grado di apportare è il fatto che la risposta non si orienta per nulla sull'opposizione tra esistente e inesistente. Del resto, inserendo nella formulazione della domanda il riferimento alla percezione ed all'immaginazione, noi abbiamo evitato di porre il problema come se si trattasse di stabilire una differenza tra tipi di oggetti. Se in luogo di oggetti usassimo il termine di entità, potremmo dire che abbiamo evitato di porre il problema in termini ontologici. In tal caso avremmo forse incontrato la questione dell'esistenza e dell'inesistenza addirittura nella formulazione della domanda. Forse ci saremmo chiesti: che differenza c'è tra un oggetto rea­ le, e quindi un oggetto effettivamente esistente, ed un oggetto 24 immaginario? È evidente allora la parola "immaginario" avrebbe subito lo stesso senso che "inesistente" o "irreale". Abbiamo invece avuto la cura di parlare di oggetto percepi­ to e di oggetto immaginato - cioè di mettere l'accento sulla cor­ relazione. Ciò cambia la prospettiva del problema più profonda­ mente di quanto a tutta prima sia possibile sospettare. È certo che se ci venisse chiesto a bruciapelo di fornire un esempio di oggetto immaginario, la nostra risposta, altrettanto a bruciapelo, cadrebbe su un oggetto inesistente. In altri termini, tenderemmo spontaneamente a porre la questione in termini ontologici, ricer­ cando la differenza nel modo in cui è fatto un oggetto, piuttosto che nel modo in cui è dato. È chiaro invece che uno stesso con­ tenuto - un unicorno, ad esempio, potrebbe essere dato all'im­ maginazione, ma anche, e perché no?, alla percezione, come un normalissimo cavallo. La differenza non sta appunto nella cosa, ma nel modo in cui essa è intesa. E in che modo essa è intesa, quando è data nell'immaginazione? La risposta è: essa è intesa nel modo del come se. Per spiegarmi addurrò un esempio di immaginazione con­ creta che effettuo ora appositamente, sui due piedi, nell'aula in cui sto (realmente) parlando. Vi dirò dunque, miei pazienti ascol­ tatori, che in questo momento sto immaginando un cavallo bian­ co, o meglio: un cavallo bianco è entrato in quest'aula e che io mi sono completamente immerso in questa singolare visione. Prima stavo parlando; ora mi sono interrotto. I miei ascoltatori passa­ no sullo sfondo, sono tutto preso da questa fantasia del cavallo che del resto io stesso ho prodotto, e decido in qualche modo di continuarla. Cosicché salgo a cavallo e mi allontano lentamente e pomposamente da quest'aula. Vorrei che si notasse: questo sviluppo immaginativo è stato da me prodotto in piena consapevolezza, per così dire del tut­ to "freddamente", in realtà senza un autentico motivo che non sia quello di proporvi una elucidazione filosofica, una sorta di 25 commento che suonerà così: quando dico "qui c'è un cavallo" - ed una simile affermazione è volta a descrivere la mia attuale fantasticheria - intendo dire che io faccio come se qui ci fosse un cavallo, e se dico che indugio ad osservarlo con ammirazione, ciò significa che faccio come se indugiassi ad osservarlo con am­ mirazione, e così per tutto il resto. Di tutto ciò voi non vedete nulla: al più potete notare l'im­ provvisa interruzione del discorso che vado facendo, il fatto che il mio sguardo, che prima era mobile e attivo, è diventato ora in certo senso opaco - preso com'è dall'am­mirazione del cavallo. Di ciò che io vedo nell'imma­ginario voi non vedete nulla. Ma forse io vedo qualcosa di più? Solo che io faccio come se vedessi un cavallo, e questo è tutto quanto mi sembra di poter dire per illustrare che cosa accade quando immagino qualcosa. Naturalmente ciò comporta che io perda in qualche modo la presa su ciò che mi sta effettivamente di fronte, che io mi distragga dall'attività che sto effettivamente svolgendo per badare piuttosto a quella scena immaginativa che ora mi si dipana di fronte agli occhi dell'immaginazione sovrap­ ponendosi alla scena percettiva. Cosicché anche i miei piedi restano distrattamente per terra, mentre monto su un cavallo dell'immaginazione. Cominciamo così ad intravedere in che modo possiamo liberarci da riferimenti introspettivi. Ma l'esempio non sembra ancora del tutto convincente. Infatti esso propone la connessio­ ne tra l'immaginario e ciò che è rigorosamente individuale, met­ tendo gli altri in linea di principio fuori gioco. Nel commen­ tare l'esempio appariva chiaro che operavo una esclusione ed un allontanamento del contesto intersoggettivo nel quale ero in precedenza operante. Prima discorrevo di questo e di quello, ri­ volgendomi a qualcuno che prestava ascolto alle mie parole. Poi mi sono interrotto, mi sono distratto, ho cominciato a guardare in quell'altra direzione: un cavallo bianco occhieggiava da quella porta ed io ho cominciato ad occhieggiare verso di lui. In questo 26 modo sembra essere proposta una sorta di legame intrinseco tra l'immaginare e la soggettività concepita nel suo isolamento, e dunque con l'interiorità stessa, e questo ha certo a che vedere con l'introspezione dal momento che solo io stesso posso acce­ dere alla scena immaginativa. E in particolare nessun altro può sapere o rendersi conto in che cosa consista la sovrapposizione tra scena immaginativa e scena percettiva. 6 L'esempio del gioco Vogliamo allora proporre un secondo esempio che ci può con­ sentire altrettanto bene, e forse meglio, di illustrare il nostro problema escludendo alla radice ogni possibile equivoco. Esso mette in questione il tema del gioco, ed anche, coerentemente, quello dello spettacolo e dell'azione teatrale. Ora non mi immer­ gerò più in una stravagante fantasticheria, ma vi proporrò di fare tutti insieme un gioco che si può fare anch'esso seduta stante. Chiamiamolo "il gioco del treno". Basterà fare come se quest'aula fosse la carrozza di un treno, e poi attribuire a ciascuno una par­ te. Ad esempio quelli dell'ultima fila fanno chiasso con le mani e con i piedi in modo da imitare il rumore del treno, poi ci saranno naturalmente i viaggiatori con le loro svariate tipologie, il con­ trollore, il capotreno, il ladro da treno, e così via. Questo secondo esempio è assai più soddisfacente del pre­ cedente per la chiarezza con la quale ci mette dinanzi ai pun­ ti essenziali. Anzitutto l'espressione "come se" si impone con naturalezza nella stessa esposizione della situazione. L'aula sarà considerata "come se fosse…", ma così ciascuno dei miei ascol­ tatori, e persino il rumore delle mani che tamburellano sui ban­ chi sarà inteso come se fosse il rumore del treno. Notate che la somiglianza è del tutto fuori questione. Ma questo esempio illustra con molta chiarezza anche il fatto che l'immaginare non consiste per nulla in una produzio­ 27 ne di "cose" che sono immagini, e di conseguenza anche che il problema della vividezza non deve essere posto al centro ed all'inizio di una teoria dell'immaginazione. Naturalmente vi sa­ ranno molti modi di partecipare al gioco: alcuni aderiranno con entusiasmo a questa proposta e dunque alla parte loro assegnato, vi sarà una maggiore o minore immedesimazione - ma questo è un altro problema che interessa la migliore o peggiore riuscita ed efficacia della "recitazione". Forse il punto più importante è l'evidenza con la quale si mostra che non vi è alcun legame intrinseco tra l'imma­ginazione e l'interiorità nel senso in cui ne parlavamo in precedenza. Nel gioco del treno l'immaginare potrebbe non essere nemmeno detto un processo interiore: esso dipende fin dall'inizio da una decisione sociale condivisa e si sviluppa in seguito socialmen­ te e in modo del tutto esteriore. Una teoria dell'immaginazione potrebbe benissimo prendere le mosse da una simile situazione esemplificativa piuttosto che dalla precedente, dal momento che contiene la possibilità di esibire tutti gli aspetti e i motivi che sono necessari per dare ad essa i primi inizi. Naturalmente tra il primo e il secondo esempio vi è una significativa differenza. Nel caso del gioco, l'immaginazione si appoggia sulle cose: quacosa che io effettivamente percepisco viene intesa in un senso modificato. Le cose sono qui sostegno delle immagini. Ma occorre anche aggiungere che vi è una indif­ ferenza relativa tra la cosa e l'immagine che essa sostiene. Così è indifferente che proprio lui e non un altro svolga la parte del ca­ potreno. Potremmo peraltro spingerci ad affermare che le cose potrebbero anche non esserci. Verrebbe allora meno la situazio­ ne (reale!) del gioco e mostreremmo come dal secondo esempio si possa ritornare al primo. È sempre per me possibile perdere il filo del discorso che sto facendo e seguire la fantasia di un viag­ gio in treno, con viaggiatori, controllori, capotreni ecc., e sullo sfondo il rumore del treno, benché nessuno ora tamburelli con le dita sui banchi o batta i piedi per terra. 28 Dall'immaginazione sociale siamo ritornati all'immagi­na­ zio­ne privata, ed è interessante effettuare questo passaggio in questo modo perché si ribadisce che il produrre immagini non significa per nulla avere a che fare con apparizioni fantomatiche intese come eventi mentali di un qualche tipo, eventualmente da contrapporre ad eventi reali. Questa circostanza, che risulta del tutto evidente nel caso dell'esempio del gioco, viene ribadita dal­ la transizione all'esempio di immaginazione "privata" per il fatto che si vede subito che questa transizione consiste unicamente nel venir meno del sostegno dell'immagine: ora abbiamo a che fare soltanto con immagini. Tuttavia la determinazione fondamentale re­ sta in ogni caso la stessa: il modo in cui le cose o gli eventi pura­ mente immaginati vengono intesi può essere indicato con le due parolette "come se". 7 Sul comportamento degli oggetti immaginari Eppure queste due parolette ci sembrano diventare sempre più misteriose quanto più le ripetiamo - e nonostante tutte le nostre plausibili spiegazioni. Il fatto è che il nostro "come se" è desti­ nato a diventare realmente significativo solo se lo associamo ad un intero complesso di differenze che vanno indicate con cura. Consideriamo allora nuovamente i nostri esempi: noi ab­ biamo posto l'atto dell'immaginare come un atto che io decido di compiere, in piena consapevolezza di ciò che sto facendo. An­ che nell'esempio del gioco, si può giocare soltanto se si è liberi di farlo e se lo si decide. Ma questo problema riguarda eviden­ temente qualunque sviluppo dell'attività immaginativa una volta che essa ha avuto inizio. Tenendo conto di ciò potremmo dire che gli oggetti immaginari (immaginati) non ha delle speciali qua­ lità, ma certamente è peculiare il loro comportamento. Un cavallo immaginato può essere in tutto e per tutto simile ad un cavallo percepito, ma la differenza sta nel fatto che il cavallo immaginato 29 si comporta secondo le nostre decisioni. Ciò non lo posso mai dire in rapporto agli oggetti percepiti. Questi hanno le loro determinate proprietà che io non posso fare altro che accertare e constatare, esse possono essere gra­ devoli o sgradevoli, ma su di ciò non posso farci nulla. Quando abbiamo abbiamo detto che il nostro cavallo immaginario era bianco, non abbiamo fatto nessun accertamento - ma abbiamo semplicemente deciso così. Un oggetto-come-se è un ogget­ to le cui proprietà vengono di volta in volta decise, e vengono decise nello sviluppo effettivo dell'attività immaginativa concre­ ta. Come corollario potremmo notare: l'oggetto-come-se non è predeterminato in tutte le sue proprietà. In una parola: decido qualcosa intorno al colore del mio cavallo solo quando me ne sembra il caso e se me ne sembra il caso. Vi possono conseguentemente essere aspetti della cosa sui quali non si è deciso proprio nulla. Se la questione del colore non è stata posta, essa semplicemente non sussiste. Ecco dunque un altro interessante tratto distintivo coimpli­ cato nel "come se". Gli oggetti della percezione possono essere imperfettamente conosciuti, le loro determinazioni possono an­ che non esserci note oppure potremmo disinteressarci di esse, e tuttavia in via di principio si tratta di oggetti predeterminati in tutte le loro proprietà. Forse potremmo dire che gli oggetti immaginari sono sem­ pre aleatori anche se il richiamo al caso contenuto in questo ter­ mine non è molto adatto per esprimere ciò che intendo dire. L'aleatorietà va intesa relativamente al modo in cui le loro deter­ minazioni si rapportano alle nostre decisioni. Ma non stai forse ridando fiato al vecchio tema della libertà dell'immaginazione? È vero, ma esso viene ripreso non soltanto secondo nuove angolature, ma soprattutto secondo nuovi scopi. All'interno di questa libertà rientra ovviamente anche quella di proporre connessioni di proprietà e determinazioni che non ap­ partengono affatto alle cose che ci appaiono percettivamente - 30 la libertà dunque di proporre oggettività "irreali". Come non ho nessuna difficoltà a fare come se qui di fronte a me ci fosse un cavallo, così non ho difficoltà a mettergli le ali. O ad immaginare un unicorno. Ecco come si presenta ora la questione dell'irrealtà dell'oggetto immaginario, che all'inizio poteva sembrarci centra­ le. All'interno delle nostre attuali considerazioni, essa appare or­ mai come un'annotazione di dettaglio. 8 Immaginazione e finzione Giunti a questo punto tuttavia, si è indotti a chiedersi - ripen­ sando alle nostre mosse iniziali: come mai si è posta tanta enfasi, in apertura del problema, sull'errore di risolvere l'imma­ginarietà nell'inesistenza dell'oggettività considerata? A ben vedere tutta la tematica del "come se" sembra presupporre in maniera piutto­ sto ovvia il rimando all'inesistenza. Quando dico: "faccio come se qui ci fosse questo e quest'altro" questa formula non sottin­ tende forse un giudizio di inesistenza? Facciò come se ci fosse, ma so benissimo che non c'è. E se in un gioco faccio come se fossi il capotreno, so benissimo di essere un falso capotreno, un capotreno finto. Si rammenterà che in inglese spesso si parla dell'immagi­ nazione impiegando il termine di fiction - letteralmente dunque: finzione. Nella parola stessa dunque avremmo un richiamo ad una oggettività fittizia, a questa essenziale falsità. Ma le cose non stanno così. Quando la lingua inglese dice fiction per indicare l'immaginazione, in realtà si ricorda del verbo latino fingo, fingere. E questo verbo latino non significa affatto pri­ mariamente qualcosa come "manifestare il falso" , ma significa piuttosto "plasmare", "dare una forma a qualcosa", far sorgere da una materia come la cera o il marmo una figura. Questa idea della figura è certamente prioritaria rispetto a qualunque richia­ mo all'irrealtà o alla falsità. Così, la scultura viene talora detta 31 ars fingendi. Coerentemente, una imago ficta ha semplicemente il senso di figura plasmata, di statua. Naturalmente anche in latino troviamo quei sensi che sono prevalenti nell'italiano "fingere" e che rimandano piuttosto alla falsità ed alla menzogna. Ma cre­ do che si possano nutrire pochi subbi sul fatto che, nella storia della parola, questi sensi che richiamano l'idea della simulazione dell'inganno siano successive ai sensi che invece si richiamano alla formazione di figure e sui quali si è innestata una diversa direzione di significato. Un simile ordine di sviluppo corrisponde in ogni caso al modo in cui il tema dell'immaginazione è connesso con quello dell'irrealtà e della falsità. Pensiamo ancora al nostro esempio del gioco: io faccio come se fossi il controllore e mi aggiro dunque tra i banchi dell'aula in cui si svolge il gioco, esigendo da ciascuno l'esibi­ zione del biglietto. Si tratta certamente di una finzione, ma non nel senso di una simulazione. La situazione è in tutto e per tut­ to analoga a quella del teatro e dell'attore che recita una parte: egli propone una figura dell'immaginario, ma non per questo vuol dare ad intendere quello che non è. Qualcuno ha osservato che l'immaginazione è finzione senza inganno, e questa è una formula piuttosto buona per attirare l'attenzione su questo punto, purché non si fraintenda la finzione con la simulazione o anche come se essa producesse una entità "illusoria". Il fingere come presentazione di una figura dell'immagina­ rio tende a diventare una finzione in quell'altro senso che implica il simulare, il dare ad intendere, quando abbandoniamo il gioco e tuttavia pretendiamo di svolgere ancora la parte che svolgevamo in esso: come se io ora me ne andassi alla stazione e, salito su un treno, continuassi a esigere il biglietto da viaggiatori reali come se fossi un vero controllore. Il rapporto con la realtà è dunque un poco più complicato di quanto sembrerebbe suggerire la semplice opposizione. Vi sono intrecci più complessi, intendimenti e tensioni differenti. 32 E credo che si possa ribadire che ritenere che qualcosa di im­ maginato sia equivalente nel suo senso a qualcosa che non c'è sia effettivamente un errore. 9 L'eterogeneità del mondo immaginario Il terreno su cui si enunciano i più elementari giudizi di esistenza è indubbiamente quello della percezione. Attraverso la percezio­ ne si effettuano accertamenti e constatazioni. Lo stesso atto per­ cettivo come tale tende a riferire ciò che in esso viene appreso a qualcosa di esistente - ad esempio una sensazione cromatica viene intesa come colore di qualche cosa, e precisamente di una cosa che effettivamente c'è, qui ed ora, di fronte a me. Con ter­ minologia che ha origine in Husserl, potremmo parlare di questa tendenza come una tendenza a porre l'essere: il termine di posizione, in contesti pertinenti, potrebbe perciò sottintendere l'esserci della cosa e questo carattere posizionale farà parte del modo di intende­ re percettivo e quindi dell'essenza della percezione o, come io preferirei dire, della sua struttura ovvero dei suoi tratti distintivi. Ora, è della massima importanza richiamare l'attenzione sul fatto che non viene accertato percettivamente solo l'esserci di qualcosa, ma anche il suo non esserci ed in entrambi i casi resta ferma la caratteristica posizionale dell'atto percettivo. Ora sto ricercando un libro che non ho sotto mano: mi guardo dunque intorno ed in particolare sul tavolo sul quale mi sembra di averlo posato poco fa. Ma il libro non c'è, non lo vedo. Ciò significa naturalmente: vedo che il libro non c'è - questa espressione è naturalmente del tutto legittima non solo nell'uso quotidiano, ma anche nei nostri dotti conversari filosofici. Infatti questo guardarsi intorno ha di mira qualcosa - l'intenzione per­ cettiva è tuttavia "vuota". Questa vuotezza è essa stessa caratterizzata dalla posizio­ nalità: il libro è posto come esistente in quel luogo, la posizione 33 di esistenza è presupposta, solo che essa non è "riempita" (sod­ disfatta). Se ora consideriamo un oggetto immaginario ci rendiamo subito conto che non ha alcun senso parlare di inesistenza nem­ meno in questo senso. Possiamo infatti invertire l'anda­mento del problema: se ammettessimo che nell'ogget­tività immaginaria sia implicato un giudizio di inesistenza, dovremmo ammettere anche che questa oggettività possa essere cercata e non trovata, mentre ciò è semplicemente privo di senso. Se io dico: "Ora sto immaginando un cavallo bianco" ed un altro dicesse "Qui non c'è nessun cavallo", queste due frasi non sono affatto in correla­ zione tra loro, ma al contrario sono interamente l'una al di fuori dell'altra. È evidente che non può esserci alcun passaggio effet­ tivo dall'inesistenza del cavallo che tu puoi accertare percettiva­ mente e il cavallo che è dato eventualmente alla mia immagina­ zione. Sempre utilizzando la terminologia di Husserl, potremmo dire che, nel caso dell'imma­ginazione, le posizioni d'essere sono neutralizzate, indicando questa neutralizzazione come un tratto di­ stintivo dell'inten­zionalità immaginativa. Vogliamo portare il problema ad una chiarezza anche mag­ giore: è implicito infatti in queste nostre considerazioni che in luogo di un'opposizione tra il reale e l'immaginario si dovreb­ be parlare di una sorta di duplicazione, di raddoppiamento dei livelli - come se ci trovassimo di fronte non tanto ad una op­ posizione, quanto ad un parallelismo , contrassegnando così una distanza radicale. Una opposizione richiede un piano omogeneo sul quale l'opposizione stessa possa essere effettuata. Il bianco e il nero, ad esempio formano una opposizione, ed ventualmente una opposizione polare, ma in essi è direttamente implicato il riferimento allo spazio cromatico, che forma il terreno sulla cui base questa opposizione può essere tale. D'altra parte, dal bian­ co possiamo raggiungere il nero effettuando una transizione che passi attraverso tutte le gradazioni del grigio. Invece, parlando di parallelismo intendiamo qualcosa di in­ 34 teramente diverso. La "realtà-come-se" dell'immaginazione non si contrappone alla realtà sic et simpliciter, ma sta accanto ad essa, scorre parallelamente ad essa senza mai incontrarla. Piuttosto che un'opposizione, vi è una sovrapposizione - ecco un tema che ritorna: la scena immaginativa non sopprime ne­ cessariamente la scena percettiva, ma può coesistere con essa. Io posso immergermi in una fantasticheria, posso assistere ad uno spettacolo dell'immaginazione che io stesso produco per me stesso, senza che debba necessariamente risultare sopresso ciò che io prima vedevo, anche se ad esso non presto più atten­ zione. La scena percettiva diventa uno sfondo indifferente. Que­ sta possibile coesistenza è segno anche della massima distanza, più precisamente: della effettiva alterità del piano dell'imma­ginario. Nell'immaginazione noi abbiamo a che fare con un'al­tra realtà, con una radicale eterogeneità che toglie ogni possibilità di rap­ porto, anche oppositivo. In particolare non può darsi nulla di simile ad una transizio­ ne dall'uno all'altro piano cosicché l'accesso al piano dell'imma­ ginario o inversamente l'uscita da questo piano per "ritornare" su quello della realtà che non può che avvenire di salto. Il nostro gioco comincia - una volta presi gli accordi necessari - di col­ po, in modo brusco e immediato; e così anche finisce. Questo significa che esso ha un inizio assoluto ed una fine assoluta. Il tempo compreso tra questo inizio e questa fine non è affatto da intendere come una frazione del tempo oggettivo, ma come una temporalità eterogenea rispetto alla temporalità oggettiva - come un altro tempo. Naturalmente il mio immaginare è un atto reale, è qualcosa che effettivamente accade e come tale ha le sue determinazioni temporali: il suo inizio e la sua fine sono obbiettivamente determinati, e così anche la sua durata. Ma que­ ste determinazioni temporali obbiettive non hanno nulla a che vedere con la temporalità a cui eventualmente io dò forma nella successione degli eventi immaginari in cui sono immerso. Ciò riguarda ogni momento costituito all'interno di un de­ 35 corso immaginativo. Lo spazio dell'aula, ad esempio, una volta divenuto uno spazio di gioco, non può più essere considerato come uno spazio coerentemente e omogeneamente connesso con altri altri spazi che gli stanno intorno. E benché basti aprire la porta per entrare in esso, tuttavia anche ad esso si accede "di salto" e le sue pareti non sono pure delimitazioni oggettive, ma sono confini assoluti. La tematica dell'immaginario in genere è dunque connessa alla tematica di una dimensione assoluta, dove il termine "assoluto" deve essere preso nel suo stretto significato letterale, che indica l'essere separato, disciolto, privo di legami. Mi rendo conto dei fraintendimenti a cui tutto questo di­ scorso può andare incontro e che potrebbero assumere il carat­ tere di obiezioni apparentemente più che plausibili. Ma il mio lettore deve a sua volta rendersi conto che che noi stiamo cer­ cando di delineare i primi elementi di una filosofia dell'im­ma­ ginazione, di circoscriverla nelle sue linee essenziali e basilari, e quindi dobbiamo guardarci dal buttarci a capofitto nella com­ plessità delle dimensioni in cui si muove l'attività immaginativa. Perciò se cominciamo con l'attirare l'attenzione sui temi dell'al­ terità e dell'assolutezza non vogliamo per nulla affermare che, nella concretezza delle sue produzioni, l'immaginazione non si intersechi in mille modi con la dimensione della realtà e in par­ ticolare che essa non assolva nessuna funzione nella nostra vita soggettiva. Evidentemente, rispetto a tutto ciò che abbiamo det­ to fin qui, non vi potrebbe essere fraintendimento maggiore di questo. 10 Immaginazione e mondi possibili Vogliamo fissare con chiarezza questo primo punto di arrivo. Dalla critica della contrapposizione elementare tra reale e imma­ ginario, si prospetta l'idea, di cui forse già intravediamo l'inte­ resse, di una sovrapposizione tra ciò che è costituito come reale 36 e ciò che è costituito come immaginario. Parlando di sovrap­ posizione alludiamo ad un'indifferenza reciproca, una massima distanza. La scena immaginativa si può sovrapporre alla scena percettiva soltanto perché si ignorano l'un'altra, io che immagi­ no lascio vivere la scena percettiva come uno sfondo indifferen­ te: non guardo più ciò che mi sta di fronte, non bado a ciò che accade effettivamente intorno a me, ma sono "assente" rispetto a tutto ciò, il mio sguardo è diventato un guardare a vuoto. Sem­ bra che, esprimendoci in questo modo, ci muoviamo sul terreno dell'introspezione - eppure il senso di queste formulazioni si risolve tutto all'interno della nostra caratterizzazione strutturale. Ma ciò significa anche attirare l'attenzione sulla massima di­ stanza: la due scene non si sopportano e tendono ad agire l'una contro l'altra escludendosi reciprocamente. Ricolleghiamoci ancora al nostro esempio del gioco: se, mentre siamo intenti nel nostro gioco, qualcuno che viene dall'e­ sterno (un bidello, ad esempio) apre la porta all'improvviso, que­ sto intervento verrà avvertito come una irruzione, e non soltan­ to perché egli non è partecipe del nostro gioco, ma soprattutto perché egli diventa immediatamente una sorta di rappresentante della realtà che noi, giocando, abbiamo implicitamente esclusa, e con la sua presenza opera a sua volta un'esclusione del nostro gioco. Chi è fuori del gioco sente a ragione di non essere sempli­ cemente fuori di esso, ma di essere stato escluso e tenderà a sua volta ad operare una esclusione. Vorrei notare come una simile situazione non può affatto essere proposta in rapporto ad una concezione che consideri la pura e semplice opposizione tra il reale e l'immaginario. Il fatto che si parli di altra realtà ha bisogno tuttavia di essere messo al riparo almeno da un equivoco particolarmente notevo­ le. Questa espressione richiama alla memoria l'idea leibniziana dei mondi possibili. Osservava Leibniz: il nostro mondo è solo uno dei mondi possibili, e precisamente quel mondo possibile di cui dio ha voluto la realizzazione. Gli altri mondi sono quei 37 mondi che noi possiamo liberamente immaginare, sono insieme coerenti di fatti e di leggi in se compiuti a cui manca tuttavia soltanto questo: il fatto di essere realizzati. Essi restano mere possibilità. In questa tematica leibniziana che è fondamentale all'interno del suo sistema e che può dar luogo a diverse compli­ cazioni, vi è tuttavia questa idea guida elementare: noi possiamo immaginare delle altre realtà. Dei mondi diversi dal nostro. In tempi recenti si è manifestato un rinnovato interesse dei logici nei confronti di questa idea leibniziana, e spesso questo inte­ resse non è motivato solo da interessi logici, ma anche dell'idea di penetrare, seguendo questa via, all'interno della problematica filosofica dell'immaginazione. Dal modo in cui abbiamo impostato il nostro tema, pren­ dono subito risalto alcune possibili annotazioni in proposito. La prima annotazione riguarda il modo in ci deve essere correttamente intesa la tesi che abbiamo prima voluto enunciare: noi possiamo immaginare altre realtà. Se si disponiamo a com­ mentare una simile affermazione nello spirito di Leibniz non basta certamente richiamarsi alla produzine di entità fantastiche qualunque o a decorsi di eventi immaginari. Essa non dice, ad esempio: noi possiamo immaginare sfingi o ircocervi. Ma dice qualcosa che è solo apparentemente simile, ma in realtà si trat­ ta di un'affermazione completamente differente. Essa dice: noi possiamo immaginare un mondo nel quale ci siano sfingi e ircocer­ vi. La parola "mondo" è qui tutt'altro che inessenziale in quanto richiama un insieme coerente, una totalità nella quale qualunque evento singolo o qualunque oggettività possa essere organicamente integrata. Non c'è dubbio che quando Leibniz parlava di mondi possibili intendeva attribuire ad essi una caratteristica che è de­ tenuta anzitutto dal mondo possibile che si è realizzato, il nostro mondo: esso è una totalità coerente, in certo senso una totalità compatta, priva di lacune. Perciò deve aver senso il chiedere se in un determinato mondo possibile sussiste e non sussiste un determinato evento possibile, ovvero, forse più chiaramente, se 38 una certa proposizione relativa ad un fatto o ad una sequenza di fatti sia vera o falsa in un mondo possibile. Ma allora abbiamo subito dei buoni argomenti per conte­ stare un'impostazione della problematica dell'immaginazione a partire dalla nozione di mondo possibile. Secondo questa linea di orientamento immaginare una sequenza di eventi, ad esempio, immaginare una favola dovrebbe avere necessariamente il senso di immaginare un mondo in cui quella favola sia vera - e dunque immaginare una totalità di eventi nei quali si inseriscano coeren­ temente gli eventi narrati dalla favola. Una simile impostazione si trova nel contrasto più netto con ciò che abbiamo sostenuto sin qui. Che l'immaginazione sia "facoltà del possibile" è cosa che viene spesso ripetuta, e forse c'è un senso giusto in cui questa af­ fermazione può essere proposta e mostrare lati interessanti della problematica dell'immaginario. Ma questo senso eventualmen­ te giusto non lo si ritrova certo all'interno del contesto temati­ co del "mondo possibile". Infatti questa possibilità è intesa in ogni caso come una possibilità in vista di una realizzazione. Ora, proprio questo rapporto non sussiste in via di principio per ciò che riguarda le produzioni immaginative. Non si tratta peraltro di chiamare in causa l'improbabilità empirica della realizzabilità delle nostre fantasticheria: al contrario: può benissimo succede­ re che troviamo modo di realizzare qualcosa che è cominciato come una fantasia. Ma questa evoluzione trasforma retrospetti­ vamente la fantasia in progetto - che è tutt'altra cosa. Finché la fantasia resta tale il problema della sua realizzazione è privo di senso, perché mette in questione la sua alterità. Lo stesso problema può essere proposto con la nostra fan­ tasticheria solitaria del cavallo bianco. Accade ora che un cavallo bianco entri effettivamente in quest'aula e si mostri a tutti noi. Qualcuno potrebbe dire: ora ciò che era semplicemente possi­ bile si è realizzato. E poiché nessuno, tranne io stesso, ha visto il cavallo bianco, mi si potrebbe chiedere se quel cavallo reale 39 sia effettivamente lo stesso cavallo che ho immaginato or ora. Vogliamo prendere sul serio questa domanda, ed allora in tutta serietà dobbiamo rispondere che non siamo affatto in grado di decidere se il cavallo che ora appare percettivamente sia lo stes­ so cavallo che poco fa mi è apparso nell'immaginazione. L'uno e l'altro si situano su due piani eterogenei. E se un'astronave (a dire il vero, un'astronave un po' speciale se riesce a fare una cosa simile) ci portasse in un mondo possibile dove, così si sostiene, la favola di Biancaneve è vera e Biancaneve in persona mi ve­ nisse presentata, come faccio a sapere che si tratta proprio della Biancaneve della favola? Ma ora bando alle favole! Torniamo al nocciolo teorico della questione. Questo nocciolo potrebbe essere formulato così: il "mondo" dell'immaginazione non ha carattere di mondo. E ciò basta a stabilire le distanze rispetto ai tentativi di elaborare una filosofia dell'im­ maginario sulla base della problematica leibniziana dei "mondi possibili". Questa problematica è tutta forgiata sul modello della realtà stessa: il concetto di "mondo possibile" è sempre domi­ nato dal problema delle posizioni d'essere, dall'alternativa tra il vero e il falso. La formulazione secondo la quale il mondo dell'immagi­na­ zione non ha carattere di mondo ci sembra abbastanza efficace per esprimere la linea di tendenza di questi sviluppi. Non c'è dubbio infatti che in essi abbiamo messo l'accento soprattutto su aspetti della facoltà immaginativa che sembravano proporla essenzialmente come una forza disgregante e diseg­ gregante. E quella formulazione non significa semplicemente che quel mondo non è reale, ma soprattutto che esso può fare a meno delle connessioni che caratterizzano la realtà stessa, che esso tollera ogni lacuna, ogni rottura interna, che esso non ha bisogno di quella compattezza che è propria non soltanto del nostro mondo, ma anche di ogni mondo possibile. 40 11 La fantasia come facoltà antisintetica Come ci siamo espressi in precedenza, la percezione ha la ca­ ratteristica di essere "posizionale". La percezione pone i propri oggetti. Ma questa posizione non avviene al di fuori di qualun­ que processualità costitutiva, soprattutto non avviene in forza di qualche caratteristica qualitativa interna del contenuto percetti­ vo, per esempio, la vividezza che superebbe quella dei contenuti immaginativi in genere. Si rammenti la tematica humeana della credenza, che è in certo modo l'equivalente, in chiave prevalen­ temente psicologistica, del problema delle posizioni d'essere. Secondo Hume, l'esistenza di qualcosa viene creduta (noi di­ remmo "posta") quando siamo alla presenza di una sensazione particolarmente viva. Invece, secondo la nostra impostazione, siamo indotti a considerare una dinamica percettiva interna più complessa, una dinamica che d'altronde assume particolare evi­ denza nei casi di dubbio percettivo. Può accadere infatti che le circo­ stanze siano tali da farmi dubitare che qualcosa che percepisco sussista realmente o comunque che essa sia realmente così come mi appare. Ad esempio, nell'oscurità o nella nebbia possono sor­ gere incertezze intorno a ciò che vedo ed all'esistenza stessa di ciò vedo. In che modo vengo a capo di queste incertezze? Cer­ tamente compiendo più di un accertamento, da diversi punti di vista ed anche in rapporto a proprietà diverse. Ciò che vado ac­ certando con la vista può essere confermato (o non confermato) con l'olfatto; posso poi avvicinarmi alla cosa se la vedo solo di lontano, girare intorno ad essa, e così via. Da punti di vista diver­ si si tenta di confermare un complesso di attese percettive, per vedere se vi sia la formazione di un riferimento unitario. Tutte queste procedure, proprio perché mirano ad costituire una uni­ tà, e precisamente come unità effettivamente sussistente, sono procedure sintetiche, le sintesi effettuate sono sintesi di concor­ 41 danza ed il tema della posizionalità consiste dunque in una espli­ citazione dei problemi posti da queste sintesi. Occorrono ben poche parole per mostrare che questa te­ matica delle sintesi è radicalmente esclusa dall'orizzonte del pro­ blema delle oggettività immaginative. In questo ambito, l'ogget­ tività è subito proposta nella sua esistenza-come-se e non si dà nessun accertamento intorno al suo susisstere o non sussistere. Ciò significa anche che una simile oggettività può essere propo­ sta singolarmente e isolatamente, senza che sia integrata in un "mondo": inteso non solo come una totalità astrattamente ge­ nerale, ma anche nel senso particolare di "mondo circostante", di ambiente. La disambientazione è un tratto caratteristico dell'oggetto im­ maginario. Vorrei sottolineare che in tutte queste considerazioni si fa valere l'idea di un'analisi che ha di mira la struttura e che la coglie attraverso l'esibizione di differenze - che è la caratteriz­ zazione da me teorizzata dell'analisi fenomenologica. Infatti qui abbiamo attirato l'attenzione sul fatto che qualunque oggetto percettivo si presenta come ambientato, non può essere dato nel vuoto come un'oggettività a se stante. E ciò vale come caratteri­ stica strutturale degli atti percettivi che li contraddistingue dagli atti immaginativi. Una cosa può essere data all'immaginazione anche indipendentemente da qualunque ambientazione, possia­ mo immaginare un unicorno, soltanto un unicorno, e non siamo obbligati ad immaginare un unicorno che pascola in un prato o che esce dal folto di un bosco. Anche da questo punto di vista potremmo affermare che gli oggetti dell'immaginazine possono essere considerati oggetti "assoluti", ovvero "liberi da contesti" - e d'altra parte tutti i temi trattati fin qui sono strettamente lega­ ti tra loro. Noi stiamo dicendo e ridicendo che l'immaginazione è una facoltà che opera in tutt'altra direzione delle sintesi che stanno alla base della costituzione di un mondo di esperienza, stiamo dicendo e ridicendo che essa è una facoltà "antisintetica" che si muove in una dimensione interamente libera da quei le­ 42 gami in base ai quali si costituisce qualsiasi "mondo possibile". Ma come vedremo ben presto vi è anche una funzione sintetica dell'immaginazione di fondamentale importanza e che può del resto interagire con la funzione anti-sintetica. Benché immaginazione e fantasia possano essere usati come sinonimi - e così fino a questo punto abbiamo fatto anche noi - tuttavia, approfittando di una sfumatura di senso che a me sembra avvertibile nell'impiego corrente del termine, potrem­ mo parlare dell'immaginazione antisintetica come immaginazione fantastica o semplicemente come fantasia, riservando il termine di immaginazione all'uso più generale, naturalmente in contesti non equivoci. Mentre riserveremo il titolo di immaginazione im­ maginosa per la funzione sintetica dell'immaginazione a cui ora ci apprestiamo ad accennare. 12 Le sintesi immaginative e l'immaginazione immaginosa Naturalmente qualcuno potrebbe chiedere: ciò che tu chiami im­ maginazione fantastica non è a sua volta una facoltà sopattutto aggregativa, dal momento che aggrega contenuti che nella realtà sono distinti e separati? Il cavallo alato, l'unicorno o la medusa: noi potremmo commentare: vedete come l'immaginazione co­ struisce un oggetto unendo insieme ciò che nella realtà è sepa­ rato! Ma evidentemente questa è una costruzione in certo senso secondaria, rispetto all'operazione primaria della disaggregazio­ ne. L'unificazione, come composizione di parti, ha qui luogo nel presupposto di una operazione immaginativa preliminare di scomposizione e di disaggregazione. Vogliamo dunque ribadire: l'immaginazione fantastica man­ da anzitutto in frantumi il mondo: ciò che forma l'unità di una cosa viene frantumata, le sue parti vengono lacerate e disperse; poi interviene un'opera di ricomposizione ed i frammenti ven­ 43 gono nuovamente raccolti e ricomposti a piacere in una nuova unità. Spesso gli oggetti rimagono quello che sono nella realtà, nelle proprietà che unitariamente competono loro: l'azione della fantasia approfitta di ciò per decontestualizzarli ovvero per met­ terli insieme in un contesto "irreale". Si pensi a qualche esempio di pittura surrealista in cui si gioca sul realismo del soggetto e l'irrealismo del contesto. Vi è invece una funzione unificatrice di tutt'altro genere, e di fondamentale importanza, del tutto diversa e che perciò merita una diversa terminologia che abbiamo or ora anticipato. Nell'esercizio di questa funzione l'immaginazione non produce unità oggettive e in certo senso statiche, ma unità dinamiche che possono anch'esse essere indicate con il nome generico di "immagini", ma in tutt'altra accezione. In luogo di immagini potremmo parlare di "simboli"; ed anche di "figure", ma anche in questo caso in un'accezione interamente diverse dalle figure prodotte dalla fantasia. Alla loro base vi sono infatti delle opera­ zioni di sintesi che dànno luogo a forme di unità che non hanno nulla a che vedere con gli oggetti fantastici, anche se con essi possono entrare in varie forme di relazione. In contrapposizione alla immaginazione fantastica, io proporrei dunque di parlare di immaginazione immaginosa o anche, dal momento che si tratta di un'unica area problematica, di immaginazione simbolica. Alla radice di questa produttività dell'immaginazione vi è una funzione di valorizzazione che poggia su sintesi immaginative. Prendiamo le cose un po' alla lontana, tentando di realizza­ re un approccio il più possibile semplice in una problematica che è piuttosto aggrovigliata. Abbiamo parlato di immagine e di simbolo, e al di là dell'im­ piego dei termini che può essere molto vario, che in quelle no­ zioni si abbia a che fare con una unificazione appare ad anche ad uno sguardo di superficie abbastanza ovvio. È sufficiente citare qualche esempio per notare che vi è un uso della parola "imma­ gine" che mette in questione più di un contenuto. Se parliamo ad 44 esempio, per non essere troppo originali, del carattere leonino di Achille o diciamo di Don Abbondio che è un coniglio, abbiamo appunto degli esempi elementari di metafore - e l'esistenza di un problema di unificazione è piuttosto evidente. La modalità dell'unificazione è però tutta da chiarire. Per ciò che riguarda i "simboli", da un lato si tratta di un termine che è certamente prossimo a quello di immagine, nella nuova accezione in cui stiamo usando questa parola, dall'altro la presenza del problema dell'unificazione è annunciata nello stes­ so etimo. Si tratta infatti di un termine coniato sul verbo greco sumba/llw che significa, tra le altre cose, mettere insieme, para­ gonare, confrontare. Se ad esempio parliamo della ruota come simbolo della fortuna, stabiliamo evidentemente una relazione tra due contenuti - la ruota e la fortuna - paragonandoli in certo senso l'un l'altro per poi connetterli insieme. Ma tutto ciò vale per noi solo come apertura del tema, che contiene in particolare qualche equivoco, tenendo conto del no­ stro orientamento di ordine generale. Infatti sembra essere sug­ gerito dagli esempi un approccio "linguistico" o più in generale "semiologico". Sembra giusto notare che la stessa terminolo­ gia relativa alle immagini, alle loro tipologie e classificazioni - si pensi appunto a metafora, similitudine, metonimia, sineddoche e in generale a tutte le "figure retoriche" - fanno riferimenti a contesti linguistici, cosicché un approccio da questo lato sembra imporsi obbligatoriamente. Lo stesso si dica per un approccio semiologico che, secondo le concezioni correnti, non è che un approccio linguistico, per così dire, allargato. Le immagini e i simboli non sono forse anch'essi segni? Ed allora essi verranno convenientemente trattati dall'interno di quella scienza dei segni che è la semiologia. Naturalmente qui si pone un problema: una considerazio­ ne come vuole essere la nostra, benché possa avvalersi come strumento ausiliario di riflessioni sugli impieghi linguistici, tutta­ via mantiene il suo profilo autonomo, e del resto tutta la nostra 45 impostazione gravita intorno ad una teoria delle facoltà - tra le quali vi è l'immaginazione che opera in diversi campi e che rea­ lizza la propria produzione eventualmente anche sul terreno del linguaggio. Ma certamente non si vedono ragioni per prendere le mos­ se da questo terreno. Prima della parola Achille, c'è Achille - e prima della metafora della leoninità di Achille c'è il leone. Semio­ logi molto illustri sembrano non aver compreso, dopo profondi studi, questa ovvietà. Per ragioni che mi sfuggono, a costoro, che ci sia qualcosa prima del linguaggio secca molto. Ed ecco che invece noi ci accingiamo a battere una via nuo­ va: vogliamo cercare nella percezione la situazione originaria a partire dalla quale si possa rendere conto delle sintesi immagi­ native. In primo luogo occorre guardare ai fatti percettivi non mo­ tivati unicamente da interessi teoretico-conoscitivi, tesi ad ac­ certare ed a constatare questo e quello, l'esserci o non esserci di qualcosa o di qualche proprietà inerente alla cosa. In effetti i dati percettivi non ci propongono sempre e soltanto materiali che entrano nelle sintesi di concordanza in modo da attestare che qualcosa c'è o non c'è. Corrispondentemente noi stessi non siamo semlici soggetti che contemplano i dati e li mettono insie­ me più o meno attivamente. Accade invece che noi ci sentiamo da essi più o meno attratti o respinti, che un elemento emotivo più o meno intenso si associ alla percezione cosicché le cose che ci stanno intorno vengono colte come se fossero avvolte da una tonalizzazione emotiva da cui sentiamo siamo coinvolti più o meno intensamente. Alla ricerca di esempi che abbiano la massima evidenza, possiamo pensare alle nostre reazioni in una stanza che sentiamo troppo stretta; o alla variazione del colore della luce in un ambiente; ad una piovosa giornata autunnale. Può essere che il termine di tonalizzazione emotiva non si attagli sempre e in ogni caso, o che in alcuni casi si attagli meglio che in altri. Quel che importa rispetto al problema che vogliamo 46 segnalare è soprattutto il sovrappiù di senso, all'interno della si­ tuazione percettiva che sperimentiamo, che non può essere spie­ gato e risolto nella situazione percettiva stessa, nella natura della cosa che viene presa in considerazione, nelle sue proprietà o nel contesto obbiettivamente considerato. Vi è un resoconto ob­ biettivo della situazione che lascia qualche elemento inesplicato. Se io parlo di una stanza troppo stretta, non è l'esatta metra­ tura che conta, ma quel sovrappiù di senso che fa sì che dalle pareti di quella stanza noi ci sentiamo stringere, una sensazione che può diventare angosciosa e che ci indurrebbe ad uscirne il più presto possibile. Ma un problema solo apparentemente lon­ tano da un simile caso estremo, può presentarsi in situazione di esperienza che hanno un carattere di piena normalità. Il colore azzurro viene caratterizzato come freddo, l'aran­ cione come un colore caldo. Ma il freddo e il caldo sono pro­ prietà accertabili tattilmente, mentre qui vengono riferiti a dati puramente visivi. Non è forse lecito chiedersi quale sia la legitti­ mità di queste attribuzioni? È a questo punto che cominciamo ad avvertire, già all'inter­ no della percezione, l'azione dell'immaginazione. Se una situazio­ ne che è obbiettivamente priva di pericoli e che io del resto riconosco esplicitamente come tale viene tuttavia sperimentata come se essa contenesse un'oscura minaccia, certamente l'im­ maginazione deve svolgere uno ruolo. Non quello comunque di una fantasticheria esplicita, che prenda le mosse dalla scena percettiva per poi giustapporsi ad essa, secondo le modalità che abbiamo illustrato in precedenza. Una simile descrizione non sarebbe certamente adeguata. Ma nemmeno lo sarebbe l'idea che la situazione attualmente vissuta evochi una "associazione" di idee perfettamente e compiutamente determinate - benché questa seconda alternativa si trovi presumibilmente nella giusta direzione. In effetti possiamo cominciare con il rispondere: se qualco­ sa assume un senso che non possiamo ricondurre o ridurre alle 47 proprietà accertabili e constatabili, allora essa trae questo senso da nessi associativi che in qualche modo sono attivati nella per­ cezione ad opera dell'immaginazine. Ma questo inizio di risposta deve poi proseguire facendo notare che parlare di nesso associa­ tivo sembra suggerire l'idea di un puro e semplice accostamento di un contenuto ad un altro, quindi l'idea di un rapporto fonda­ mentalmente statico, rigido: in esso i contenuti sono assunti nel­ la loro determinatezza, come contenuti chiaramente circoscritti che entrano in una relazione altrettanto chiaramente determina­ ta: questo mi fa venire in mente quello. Anche il parlare di nessi asso­ ciativi impliciti è insoddisfcente dal momento che fa pensare ad un rapporto statico tra contenuti nettamente disgiunti, che ha bisogno soltanto di essere messo allo scoperto. Ponendo il pro­ blema in questi termini potremmo essere tentati di ritenere che il parlare dell'azzurro come di un colore freddo sia adeguatamente interpretato da una relazione associativa che si stabilisce - chissà come, ovvero per qualche accidentalità della vita psichica - tra una sensazione cromatica determinata ed una sensazione tattile. Si noti come in tal caso il confronto sarebbe posto tra due entità "reali" ed il parlare di immaginazione si riferirebbe unicamente all'istituzione del rapporto, che sarebbe immaginario proprio nel senso di fittizio e insussistente. Questo sarebbe un modo interamente erroneo di porre il problema. Perciò dobbiamo precisare: se vogliamo mettere in quetione i nessi associativi allora dobbiamo pensare piuttosto ad un innestarsi dell'immaginazione su dati percettivi in modo tale che in essi si faccia sentire il peso di nessi associativi possibili - un peso che si manifesta non già nell'effettuazione di questo o quel nesso associativo (nessuna associazione determinata viene di fatto effettuata), ma nel conferimento alla cosa di una interna vibrazione immaginativa. Cerchiamo di spiegarci meglio. L'immaginazione si innesta sulla cosa inducendo in essa un principio di instabilità. La cosa che fino ad ora se ne stava stabilmente di fronte a noi nella fermezza 48 e nella rigidezza delle sue determinazioni oggettive manifesta un inizio di dinamismo, una sorta di inquietudine interna, come se, sotto la presa e l'impulso dell'imaginazione, essa cominciasse a mettersi in moto. Non è dato questo o quel contenuto, ma una baluginante e confusa presenza di una molteplicità di contenuti che tendono a proporsi in questa forma come senso della situa­ zione vissuta. Senso significa qui anzitutto direzione. Non c'è dunque dubbio che altri contenuti siano richiamati. Ma poiché non si tratta né di un singolo contenuto determinato, né di una molteplicità distinta di contenuti, la sintesi finisce con l'implicare quella che potremmo chiamare una regione dell'immagi­ nazione. Ciò che viene messo in questione in questo scivolamen­ to immaginativo del dato percettivo è l'unità di una direzione. Perciò potremmo cominciare con il parlare di direzione sinteti­ ca dell'immaginazione - e qualora un un contenuto singolo fos­ se esplicitamente chiamato in causa dovremmo intenderlo non tanto nella sua singolarità statica, quanto come un indicatore di direzione immaginativa. Esso "punta" in una regione dell'imma­ ginario. Avevamo iniziato questa nostra discussione da alcune con­ siderazioni sulle parole "immagine" e "simbolo", ma in realtà il nostro primo passo è stato quello di una riconsiderazione della situazione percettiva tendente a mettere in luce in essa la presen­ za di una componente immaginativa. In che modo va interpre­ tata questa presenza? Credo che anzitutto si debba sottolineare che questa componente non debba essere intesa come se accanto e insieme ai dati percettivi vi fossero appunto delle componen­ ti dovute all'imaginazione come parti distinte all'interno di un tutto chiaramente articolato. L'espressione "componente" po­ trebbe essere equivoca se intesa così. Si tratta invece del fatto che una situazione percettiva in genere, quando cade sotto la presa immaginazione, tende a diventare quello che io chiamerei un valore immaginativo. Cosicché potremmo parlare di valorizzazio­ ne immaginativa per indicare questa funzione specifica dell'imma­ 49 ginazione, che è evidentemente tutt'altra cosa dalla funzione di fantasizzazione, nel senso ristretto che abbiamo voluto dare al termine fantasia. Non si tratta di un neologismo, ma comunque di una terminologia mia propria - mi sembra giusto avvertire di ciò il lettore affinché la intenda nel senso che gli attribuisco all'interno della sistemazione teoretica non usuale del problema dell'imaginario. Nemmeno nella letteratura fenomenologica, che io sappia, vi è una trattazione analoga, anche se di qui abbiamo tratto suggerimenti importanti, a cominciare dal problema del "come se". 13 Valorizzazione immaginativa e associazione delle idee Benché non sia nostra intenzione nemmeno tentare un appro­ fondimento effettivo della nozione di valorizzazione immagina­ tiva, vorremmo che fosse chiaro il suo senso complessivo, e so­ prattutto il modo in cui attraverso di esso si possa effettuare una ripresa, in un senso interamente rinnnovato, dell'antica tematica dell'associazione delle idee. A questo scopo si pensi anzitutto al modo in cui potremmo parlare di valorizzazione in primo luogo indipendentemente da riferimenti al problema dell'immaginazione. Ad esempio, al fat­ to che a qualcosa possa essere sottoposta ad una valorizzazione pratica. Ciò che in questo caso ci interessa notare è che la cosa nelle sue proprietà oggettive viene integrata in una rete di inte­ ressi e di bisogni e colta in questa integrazione. Potremmo dire che essa non ci si presenta come una semplice oggettività fissata nelle due determinazioni, ma come un'ogget­tività aperta, che va al di là di se stessa, proprio in quanto quelle sue determinazioni assumono un senso che dipende dal fatto che essa viene riferita ad un complesso di fini e di scopi che sono ad essa esterni. Consideriamo ora la valorizzazione immaginativa. Noi di­ ciamo che qualcosa assume una valore immaginativo quando 50 essa non viene colta puramente nelle sue proprietà oggettive, ma quando queste proprietà diventano la base su cui si innesta­ no "nessi associativi". Una sfera, ad esempio, è quella che è, ha le sue proprietà geometriche ed i suoi modi di presentarsi alla percezione. Ma la sfera può essere valorizzata dall'immaginazione, e ciò significa che quelle proprietà obbiettive della sfera non vengono conside­ rate come tali e soprattutto come proprietà chiuse in se stesse, ma come anelli per agganciare contenuti differenti. La catena che ne risulta è tuttavia una catena fluida, mobile, relativamente indeterminata - nei dintorni della sfera si muovono altri conte­ nuti che sono tuttavia connessi da una unità di direzione. In questo modo il problema della valorizzazione rimanda alla tematica dell'associazione delle idee. Nei miei Elementi di una dottrina dell'esperienza ho impiegato un esempio che mi sembra particolarmente semplice ed efficace: se esitassimo a scendere le scale che conducono nella cantina - meglio se si tratta del­ la cantina di un vecchio castello! - spiegheremmo questa esita­ zione osservando che la cantina non viene colta per quella che semplicemente è, ma secondo una direzione sintetica dell'imma­ ginazione. Ciò significa che un processo di valorizzazione im­ maginativa ha cominciato il suo corso. La cantina assume ora un valore immaginativo - essa è entrata in una rete di nessi associa­ tivi: ma nessun nesso e nemmeno una molteplicità di nessi as­ sociativi si è imposta come determinata e distinta. Diremo anzi che se con associazione si intende null'altro che un nesso tra due idee secondo il rapporto "il contenuto A richiama alla mente il contenuto B" dovremmo allora distinguere nettamente dalla tematica della associazione delle idee dalla nostra tematica della valorizzazione. Potremmo forse cercare di giustificare la nostra esitazione a scendere in cantina osservando che la cantina ha assunto "valore di tomba", ma con ciò non intenderemmo af­ fatto una associazione di idee analizzabile dicendo "la cantina ri­ chiama alla mente una tomba" - poiché secondo lo spirito delle 51 nostre considerazioni la tomba rappresenta soltanto un indice di direzione sintetica dell'imma­ginazione: un vettore che punta in una regione dell'imma­ginazione dove non vi sono solo tombe ma oscuri misfatti, delitti misteriosi ed efferati, cadaveri murati, impiccagioni, acque torbide, pareti viscide, animali verminosi, e molte altre cose ancora. Senza che nulla di tutto ciò sia effettiva­ mente immaginato né esplicitamente né implicitamente. Il processo di valorizzazione deve dunque essere inteso come una vera e propria metamorfosi della cosa: potremmo dire che essa assume una piega immaginativa, ma ciò significa soprat­ tutto che essa tende a perdere i tratti di cosa percettivamente costituita. Cose (fatti) e valori immaginativi sono nozione con­ trapposte e il processo di valorizzazione può essere inteso come un processo che crea una transizione tra la cosa e il valore imagi­ nativo, istituendo così una distanza sempre più marcata rispetto al terreno della realtà stessa. Infatti anche su questo terreno si ripresenta il problema dell'opposizine tra reale e irreale - ed anzi proprio su questo terreno appare con particolare chiarezza come sia erroneo intendere l'irrealtà come sempre non-esistenza. L'ir­ realtà non deve essere invece essere intesa come inesistenza della cosa, ma come opposizione del valore immaginativo alla cosa. Possiamo caratterizzare come "irreali" i valori immaginativi solo se intendiamo con ciò affermare che essi non sono cose e nulla di simile alle cose. 14 Simbolo e valore immaginativo Possiamo ora avviarci ad una conclusione ricollegandoi alla te­ matica delle immagini e dei simboli. La nostra tesi è che il tema della valorizzazione sta alla radice delle problematiche estrema­ mente ricche e complesse che chiamano in causa l'immaginazione immaginosa così come l'immagine simbolica. Prendiamo dunque l'immagine espressa della proposizione 52 "Achille è un leone". Lo stereotipo non nuoce, anzi va a van­ taggio della semplicità della nostra esposizione. È osservazione abbastanza comune, ma che nel contesto del nostro discorso assume lo spessore filosofico che le spetta, che in quella frase la copula "è" che normalmente viene usata nei giudici predicativi, ha invece un carattere "pseudo-predicativo". In effetti essa non introduce nessuna proprietà. Naturalmente si potrebbe subito osservare: in questa frase si parla della somiglianza di Achille con un leone. O anche: vi è qui una associazione delle idee, ed i contenuti associati sono appunto Achille e il leone. Apparen­ ti ovvietà, di fronte alle quali dobbiamo essere molto prudenti. Intanto anche la frase pseudopredicativa tradotta in un giudizio di somiglianza rientra nel camo delle immagini per il fatto che in essa non presuppone nessun confronto effettivo. Non abbiamo messo a confronto Achille e il leone e sulla sua base abbiamo fondatamente deciso che in effetti Achille è simile ad un leone come Pietro è simile a suo fratello Paolo. Affermare poi che vi sia una associazione di idee tra Achille e il leone contiene in re­ altà il rischio di perdita dell'immagine: la questione infatti non si risolve per nulla nel fatto che Achille mi fa venire in men­ te un leone, e ciò non solo per l'inclinazione psicologistica che avrebbe questa formulazione, ma soprattutto perché il parlare di associazione di idee sembra poter sopportare perfettamente la distinzione dei contenuti associati. Occorre anche notare che la frase "Achille è un leone" non può essere ridotta all'affermazio­ ne "Achille è coraggioso" - basti notare che ci possono essere prove del coraggio di Achille, ma non della sua leoninità. Inoltre è appena il caso di osservare che in questa leoninità vi è anche la ferocia, l'aggressività, la ferinità, l'ira, la forza, e molte altre cose. Il centro del problema sta invece proprio nella nozione di sintesi immaginativa. Se non vogliamo rimetterci l'immagine dobbiamo pensare ad una sintesi immaginativa, quindi ad un'as­ similazione di un contenuto all'altro non in un senso meramente associativo, ma nel senso di una fusione interna sulla cui base 53 il leone diventa il valore immaginativo secondo cui viene col­ to Achille. Il leone non è dunque semplicemente un'altra idea associata ad Achile, ma diventa figura di Achille, quindi è ormai appartenente all'immaginario. A questa appartenenza è legata la comprensione dell'immagine. Il leone come figura di Achille non può affatti fuggire vigliaccamente di fronte ad una tigre o ad una leonessa, come potrebbe benissimo accade nel caso di un leone reale. Altrettanto brevemente possiamo trattare la relazione con il problema del simbolismo, ricollegandoci direttamente al tema delle immagini e addirittura approfittando ancora del nostro ul­ timo esempio. Abbiamo parlato del leone come figura di Achille, come sua immagine. Ma perché, lasciando perdere Achille, non citare ancora il nostro buon vecchio leone come "simbolo" del coraggio? L'esempio serve per illustrare una delle delle accezioni in cui può essere impiegato il termine di "simbolo" - restando peraltro al di fuori della tematica propriamente immaginativa, benché chiami in causa l'associazione delle idee. Ciò che caratte­ rizza questa prima nozione di simbolo è da un lato la chiarezza del rapporto rapprsentativo determinato, la possibilità dunque di distinguere chiaramente il simbolizzante dal simbolizzato, dall'altro l'esistenza tra simbolizzante e simbolizzato di un nesso associativo. Come seconda accezione per l'impiego del termine "sim­ bolo" noi proporremmo semplicemente di attribuirgli lo stesso senso che abbiamo attribuito all'espressione "valore immagina­ tivo". L'intera tematica della valorizzazione può essere così pro­ posta come una problematica di simbolizzazione. Naturalmente non è questa la sede per mostrare quale enorme quantità di pro­ blemi scateni questa nostra decisione finale intorno al termine simbolo. Ma noi la abbiamo proposta allo scopo limitato di mo­ strare la capacità orientativa della tematica della valorizzazione: in effetti essa suggerisce due nozioni di simbolo, l'una più spe­ cificamente connessa con la problema associativa e con un rap­ 54 porto rappresentativo, l'altra invece direttamente connessa alla tematica della valorizzazione. Osserverò di passaggio che nelle due grandi nozioni di simbolo che si sono imposte nella psico­ analisi, la prima ci fa pensare alla nozione freudiana di simbolo; mentre per mettere in discussione la nozione di simbolo in Jung dovremmo piuttosto fare riferimento al simbolo nella seconda accezione. Tenendo conto di questa possibilità di impiegare la paro­ la simbolo come sinonimo di valore immaginativo, vediamo articolarsi la nostra tematica relativa ai principi di una filosofia dell'immaginazione su due grandi assi: da un lato, vi è l'immagi­ nario-fantastico, dall'altro l'immaginario-simbolico. Il fantastico e il simbolico sono i due poli entro cui si deve muovere una filosofia dell'immaginazione. 55 Le regole dell'immaginazione 1980 56 Questo testo deriva da alcune lezioni del corso sul tema "L'immaginazione" tenuto nell'anno accademico 1979-1980 (Università degli Studi di Milano, Filosofia Teoretica I) In copertina e in pagina di indice: libere elaborazioni da Joan Mirò 57 Indice 1. Introduzione 2. In che senso si parla di regole nel caso dell'immaginazione 3. Le regole nell'immaginazione fantastica 4. Le regole nell'immaginazione immaginosa 5. Le regole nelle opere dell'immaginazione 6. La concretizzazione dell'immagine 7. Figure retoriche e regole dell'immaginazione 58 59 1. Introduzione Ci occuperemo qui di problemi che possono essere riuniti sot­ to il tema delle "regole dell'immaginazione". In luogo di regole potremmo parlare anche di metodi o di procedure dell'imma­ ginazione, o addirittura di logica dell'imma­gina­z io­ne. Come vi sono regole del pensiero - quelle regole che applichiamo più o meno espli­ citamente nei nostri ragionamenti e che possono essere studiate sistematicamente da un'apposita di disciplina, la logica - così potrebbero esservi delle regole dell'immaginazione ed anche una di­ sciplina che tenti di individuarle e di fornire di esse una sinossi sistematica. L'idea di una "logica dell'immaginazione" affiora nel­l'am­­ bito della filosofia romantica dell'immaginazione, ed in partico­ lare all'interno di quel singolare complesso di riflessioni filoso­ fiche rappresentato dai Frammenti di Novalis [1] . Si tratta di un libro assai singolare per più di un motivo: accanto a spunti che colpiscono per la loro vivacità ed acutezza, ve ne sono altri che appaiono, ad una lettura a prima vista, quanto meno stravagan­ ti; altri ancora ci potranno sembrare degli enigmi indecifrabili. La lettura di questi frammenti richiede perciò una difficile rico­ struzione di nessi interni, e naturalmente una conoscenza appro­ fondita della cultura e dell'atmo­sfera spirituale del roman­ticismo nel suo complesso. Questa difficoltà interpretativa è presente anche negli unici due frammenti che intendiamo ricordare qui. In essi si parla di "fantastica", espressione coniata sul modello di "logica" proprio per indicare una disciplina relativa alle regole dell'imma­ginazione. Framm. n. 1092: "Se possedessimo anche una fantastica come possediamo una logica, l'arte dell'invenzione… sarebbe inventata. Della fantastica fa parte anche l'estetica, in certo qual modo come la dottrina della ragione fa parte della logica" [2] . 60 Framm. n. 1187: "Che le leggi fondamentali della fantasia siano quelle opposte (non quelle capovolte) della logica?" [3] . In entrambe le osservazioni è chiaramente formulato il pro­ blema di una logica dell'immaginazione in connessione con la logica nel senso consueto. Nel primo frammento questa con­ nessione sembra assumere il carattere di un parallelismo, mentre nel secon­do si inclina a cogliere piuttosto una contrapposizione. L'ana­logia con la logica è naturalmente presente anche nell'im­ piego del­l'espressione: "leggi fondamentali della fantasia". Que­ sta for­mu­lazione è abbastanza naturale nell'ambito della logica, tenendo conto del modo in cui essa è stata concepita dalla tradi­ zione filo­so­fica, perché essa rimanda ad uno studio delle regole che abbia lo scopo di organizzarle in un sistema. Il nesso siste­ matico sarà poi dato dall'esistenza di leggi fondamentali da cui una molte­plicità di altre leggi possa essere derivata. Nel secondo fram­mento si avanza il dubbio che questo rapporto tra fantastica e logica possa essere di contrapposizione, anche se la natura di essa viene lascia in sospeso. Si tratta di formulazioni molto precise, ma non appena cer­ chiamo di interpretare più a fondo il loro senso la loro apparente chiarezza tende ad offuscarsi. Intanto non è affatto chiaro se l'idea di una "fantastica" sia prospettata in positivo, come compito da portare a realizzazione, o non piuttosto in nega­tivo, come se si volessero sollevare dubbi intorno alla possibilità di un simile com­ pito. La formulazione della prima frase nel fram­mento n. 1092 potrebbe far propendere per questa seconda interpretazione. In effetti essa si apre al condizionale, ed inoltre si connette subito una simile "fantastica" ad un'arte dell'inven­zione ed all'i­dea di un'estetica. Si potrebbe voler dire: se possedessimo una fantastica, l'estetica non sarebbe più un problema e disporremo di una vera e propria arte dell'arte. Le leggi fondamentali della fanta­stica for­ nirebbero i criteri della valutazione estetica e nello stesso tempo 61 i metodi per la produzione artistica. In effetti è abbastanza dub­ bio che, dal punto di vista di Novalis e di una filosofia roman­tica dell'immaginazione in genere, la realiz­zazione di una simile fan­ tastica sia seriamente auspicabile. Di quella filosofia fa parte l'idea di una creatività irriducibile - e in particolare irriducibile a regole - così come una stretta relazione dell'imma­ginazione con l'interiori­ tà intesa come una interiorità insondabile. È possibile dunque che l'idea della fantastica formu­lata nel primo frammento possa essere considerata "in negativo" e che nel secondo frammen­to l'accento cada sull'opposizione tra lo­gica e immagina­zione, piuttosto che sull'idea dell'esi­stenza effet­tiva di "leggi fonda­mentali". Forse la cosa migliore per noi è consi­derare la questione come sospesa tra l'una e l'altra alternativa - come un interrogativo che può fare da sfondo alla discussione che intendiamo sviluppare. Joan Mirò 62 2. In che senso si può parlare di regole dell'im­ma­­gina­ zio­ne L'analogia con cui può essere introdotta l'idea di regole dell'im­ ma­gina­zione deve tuttavia essere presa con molta cautela. Ciò che segnala subito una differenza è che, nell'ambito della logica, la nozione di regola ha senso proprio perché è possibile in base ad essa discriminare un ragionamento corretto da uno sbagliato. La regola implica dunque strettamente la possibilità della sua viola­ zione. Per questo motivo la regola può assumere il carat­tere di norma. "Dalla proposizione p consegue q secondo questa regola": in questo modo si potrebbe indicare che sussiste tra le due pro­ posizioni un determinato rapporto. Tuttavia si vede subito che questa indicazione può essere posta nella forma di una prescri­ zione: se è data la proposizione p, allora devi assumere la verità di q - se questa consegue da p: non sei obbligato a farlo, ma così devi fare se vuoi ragionare in conformità alle "legalità interne del pensiero". Che le regole della logica possano presen­tarsi come norme significa appunto che esse possono assumere il carattere di prescrizioni. Ciò mostra subito che l'analogia non ci può portare lonta­ no. Ammesso che si possa parlare di regole anche nel campo dell'im­ma­ginazione, certamente il senso di questa parola deve essere abbastanza diverso. L'immagina­zione è, in via di prin­cipio, libera - essa non tollera prescrizioni. Questa intol­leranza non è una caratteristica aggiuntiva dell'imma­ginazio­ne, ma rimanda all' "essen­za" stessa degli atti immaginativi. Certamente, talvolta si è parlato di regole dell'imma­gina­ zio­ne in un senso prescrittivo. Tuttavia quando queste regole venivano concretamente formulate, ad esempio nel campo delle produzioni artistiche, non si trattava dell'im­ma­ginazione soltan­ to, ma di "preconcetti estetici" le cui giustificazioni debbono esse­ 63 re ricercate non tanto in una filosofia dell'imma­gina­zione, ma in ben determinate opzioni culturali. In base ad esse, si discrimina tra opere valide o semplicemente accettabili e opere non vali­ de ed inaccettabili, ristabilendo così una sorta di sim­metria con il problema della correttezza o scorrettezza dei ragionamenti. Un'opera artistica che non si attenga a certe regole sarà allora da considerare come qualcosa di simile ad un ragio­namento contorto e confuso, se non proprio ad un'argomen­tazione falsa. E la regola avrà di conseguenza carattere di norma. Dovremmo allora affermare che vi è una logica dell'im­ma­ gina­zione, una sua "grammatica" solo in rapporto a deter­minate scelte e decisioni estetiche - ad esempio quando si tratta dei prodotti dell'arte, e dunque che vi sono soltanto gram­ma­tiche storiche dell'immaginazione, escludendo che pos­sa darsi una grammatica dell'immaginazione come tale? Finché ci atte­nia­mo all'accezione di regola fin qui formulata la risposta non può es­ sere che affermativa. Lo stesso problema può tuttavia essere affrontato anche da un altro punto di vista, a partire dal quale la nozione di regola muta di senso. Pensiamo in proposito all'ambito della percezione. I compiti che si propongono in questo ambito riguardano le varie tipologie possibili delle situazioni percettive: essi si realizzano indi­ viduando differenze caratteristiche, ovvero, che è lo stesso, rintrac­ ciando le condizioni fenomenologiche che debbono essere soddisfat­ te affinché si dia una configurazione percettiva di questo o quel tipo. Tenendo conto di ciò si potrebbe parlare, in rapporto a queste condizioni, di regole della percezione, e ciò avrebbe un senso che non conterrebbe nessun rimando, né esplicito né impli­cito, ad una qualche prescrizione. Si tratta semplicemente del fatto che se in una sequenza di fenomeni percettivi mi si presenta un determinato oggetto, ciò di­ pende da condizioni immanenti nel contenuto e nella forma di connessione dei fenomeni, dunque nella stessa struttura della se­ quenza. Il parlare di regole si impone qui in stretta connessione 64 con un orientamento rivolto in direzione della struttura. Considerazioni analoghe valgono nel campo dell'imma­gina­ rio. Naturalmente si dovrà tener conto della "libertà dell'imma­ gina­zione". Nell'ambito della percezione noi abbiamo sempre a che fare con situazioni percettive che si integrano nell'unità di un mondo reale, di un mondo dell'espe­rienza. Le tipologie eventuali rimandano a questa unitarietà di principio. Nulla di simile acca­ de invece nell'ambito dell'im­ma­ginario. In esso non abbiamo a che fare con un unico mon­­do - cosicché proporre il problema delle regole dell'im­ma­ginazione come se si trattasse di individuare qualcosa di simile a costanti imma­gi­native, a categorie che sareb­ bero in grado di delineare lo schema di organiz­zazione del mondo immaginario, sarebbe certamente pri­vo di senso perché la nozione di mondo immaginario inteso come un mondo unico ed unitario non ha alcun fondamento. Ma non per questo si deve rinunciare alla nozione della tipicità e della regola. Occorre invece assume­ re un punto di vista che guardi ai prodotti dell'immaginazione anzitutto nella loro disparatezza. I prodotti dell'immaginazione sono molteplici e sono anche imprevedibili. Questa molteplicità fa parte del problema della libertà dell'im­ma­ginazione. Nell'im­ maginazione facciamo come voglia­mo. Eppure, quando abbiamo fatto ciò che abbiamo voluto, dando luogo ad un prodotto immaginativo, è ancora pos­si­bile rivolgersi a questo prodotto per rendere chiaro il modo in cui è stato costruito, dunque per portare alla luce le regole della sua costruzione. L'equivoco sta nel considerare il tema delle regole come se esso implicasse una legalità dell'im­ma­ginazione nella quale siano precostituiti i suoi prodotti. Secondo questo modo di impostare il problema si prende­ ranno le mosse dalla particolarità: ad esempio, da una determi­ nata narrazione, da un dipinto, da un sogno, da una fantasti­ cheria concreta. Ma se di qui riusciamo ad estrarre delle regole, sappiamo già che in linea di principio altre storie potranno essere costruite nello stesso modo, applicando le stesse regole. Dal pia­ no del dato di fatto passiamo a quello delle pure possi­bilità. Le 65 regole messe in evidenza non sono regole solo di que­sta storia, ma anzitutto possibili regole dell'imma­gina­zione, che convergono nella formazione di un tipo. 3. Le regole nell'immaginazione fantastica Per illustrare esemplificativamente il tema delle regole dell'imma­ ginazione conviene prendere le mosse dai prodotti della fantasia: la fantasia opera una alterazione della realtà, il fantastico è il reale alterato [4] . Gli esempi potrebbero essere anche assai poco am­ biziosi: mostri dalle sette teste, giganti e nani, cavalli alati, castelli di vetro, ecc. Si tratta di esempi che sono rammentati anche da Hume quando tratta appunto della facoltà immaginativa. Ma in Hume essi pretendono di illustrare l'essenza stessa dell'immagi­ nazione, cosicché essa assume il carattere di una facoltà essen­ zialmente combinatoria e per di più come un'atti­vità che si esercita in ogni caso su materiali preesistenti. Invece la capacità combinato­ ria dell'imma­gina­zione rappresenta solo un aspetto dell'attività immaginativa. L'immagi­na­zione come fantasia coglie il mondo come un mondo da ricomporre a pia­cere - quindi la sua prima azione è proprio questa: essa manda il mondo in pezzi. Il disunire ciò che sta unito, per operare riaggregazioni in oggetti che non appartengono al nostro mondo può essere il nostro primo ele­ mentarissimo esempio di "regola dell'immaginazione". Se dovessimo descrivere il paesaggio della fantasia certa­ mente in esso dovrebbe esservi un luogo in cui vi sono, sparsi di qui e di là, le mani separati dalle braccia, la testa dal tronco, le ali dal corpo…; ed in altri luoghi si aggireranno esseri strani, mostri con i piedi attaccati direttamente alla testa, centauri, alberi dal volto umano, cavalli alati… Il cavallo alato… Qui intanto si vede subito, dalla super­ ficie, dal modo in cui questo oggetto è fatto, la regola che ha presieduto alla sua costruzione. E che lo si veda subito, dalla 66 superficie, non è affatto una sottolineatura superflua. Anzi essa è indicativa della nozione di regola qui in questione e dell'impo­ stazione che intendiamo far valere. Così, se per mostrare il ca­ rat­tere disaggregativo e aggregativo dell'imma­ginazione si citasse il personaggio di Natascia nel romanzo di Tolstoj Guerra e Pace, che, a detta dello stesso autore, risulterebbe dalla fusione dei tratti della moglie e della cognata dell'autore, si alluderebbe ad un problema interamente diverso, e precisamente alla genesi psico­logica di un personaggio che ovviamente non può essere estratta dalla lettura del testo [5] . È chiaro inoltre che con lo stesso metodo in cui è costruito il cavallo alato, possono essere costruiti molti altri oggetti. Citando il cavallo alato illustriamo l'idea che esistono metodi dell'imma­ ginazione: e ne indichiamo uno. Sulla base di altri esempi, ne po­ tremmo indicare altri: un pittore dipinge di azzurro un ca­vallo. Ecco un altro metodo, un altro modo di alterare la realtà. Volen­ do imitare questo metodo, potrei dipingere di giallo il cielo. F. Marc, Grandi cavalli azzurri Ed ancora: i giganti non hanno nulla da spartire in quanto meto­ do della loro costruzione con i cavalli alati; e neppure con quelli 67 azzurri. Ma anche in questo caso vi è un'alterazione della realtà: l'oggetto fantastico è ottenuto in un altro modo, come eccesso di un oggetto reale. Vi sono uomini molto grandi - e la grandezza può diventare iperbolica. Ecco dunque un'altra regola. Nello stes­ so modo sorgono i pollicini oppure i lunghissimi capelli di Rape­ ronzolo. Ma subito ci si chiederà se indicando alcuni esempi di metodi di alterazione immaginativa della realtà vorremmo sugge­rire che il problema sia quello di realizzare un elenco, come se qui fossimo in presenza di un primo inizio che dovrebbe poi a poco a poco essere esteso sistematicamente. In tal caso si vede subito che ben presto finiremmo in un vicolo cieco. Scegliendo opportuna­mente l'esem­pio, ogni regola sembra relativamente determinata e circo­ scritta. Ma volendo proseguire su questa strada ci trove­remmo di fronte ad una singolare indeterminatezza. Qualora ci proponessi­ mo di elencare seriamente i modi possibili dell'alte­razione si vede subito che il compito potrebbe non finire mai. I modi di alterazio­ ne della realtà, di decomporla e di ricomporla, sono certamente tanti. Ma forse prima che infinito esso è soprattutto un compi­ to indefinito: spesso potremmo essere incerti se due regole si debbano riunire in una sola, se l'una sia un caso particolare di un'altra che forse non val nemmeno la pena di mettere in elenco. L'alterazione iperbolica del reale sembra un metodo ben distinto dalla regola di una nuova aggregazione di parti originariamente appartenenti ad oggetti reali distinti. Ma che potremmo dire di un uomo con sette teste o di una mano con otto dita? Simili forma­ zioni sono da subordinare alla prima regola o alla seconda, oppure si deve introdurre una nuova regola? La sensazione che si tratti di domande oziose è più che giustificata: esse richiedono non tanto una risposta, quando un ulteriore chiarimento intorno alla nozione di regola dell'imma­ginazione. Il fraintendimento presente in quelle domande sta in que­ sto: quando ci si accinge, di fronte ad un prodotto dal­l'im­ma­ ginazione, ad interrogarsi sulle sue regole, non si vuole per nulla 68 pretendere che di esse si voglia o si debba fare un inventario. Alla domanda sotto quale regola cada una mano con otto dita - se si tratti di una procedura iperbolica o di una nuova aggregazione oppure se si debba formulare una nuova regola e quale - rispon­ deremmo: fai come vuoi. Se per qualche motivo sei interessato ad un caso simile ed eventualmente ad una nuova regola, ag­giun­gila tu. Il nostro elen­ co non diventerà per questo più completo per il semplice fatto che quegli esempi non sono l'inizio di un elenco che attenda un completamento. Ci si sbarazza della domanda assumendo una relativa inde­ terminatezza come un dato del problema. Indicando alcune regole, scegliendo gli esempi opportuni per stabilire tipologie, intendiamo anche segnalare che le regole dell'im­maginazione sono molto varie, che esse sono innumerevoli - alla lettera: che esse sono senza numero, e perciò non si possono contare. Una "fantastica", nello spirito di queste considerazioni, conterrebbe dunque esempi di regole, e quindi il tema della regola che quegli esempi debbono illustrare, ma non un inventario di re­ gole. Quegli esempi poi debbono essere intesi come un modo di aprire gli occhi secondo una determinata direzione nei confronti dei concreti prodotti dell'im­ma­ginazione. Osservando un dipin­ to in cui la realtà appare fantasticamente alterata, ci porremo tra le altre, anche domande intorno al modo dell'alterazione e dun­ que intorno alle sue regole. Per questo non vi è bisogno di alcun elenco preventivo, la regola puoi trarla direttamente dal dipinto. E puoi far riferimento ad altre regole, a tipologie che ci sono già note per stabilire raffronti, mettere in evidenza diffe­ renze, e dunque per porre nuove domande intorno a ciò che stiamo guardando, per comprendere il prodotto immaginativo nel suo possibile senso. 69 4. Le regole nell'immaginazione immaginosa Questo stesso problema si ripresenta anche nell'ambito dell'imma­ ginazione immaginosa. Abbiamo allora a che fare, non già con enti­ tà immaginarie, ma con sintesi immaginative. L'indicazione generale da cui dobbiamo prendere le mosse è dunque la fusione dei con­ tenuti. La tematica dell'imma­ginosità dell'immaginazione rimette in questione quella dell'associa­zione e delle catene associative. Le catene associative sono caratterizzate dal fatto che possiamo in­ dicare una regola che giustifica il passaggio da un anello all'altro della catena. La formulazione della regola rimanda a sua volta al sussistere di un rapporto tra i contenuti in base al quale essi ven­ gono associati e quindi immaginativamente fusi. Ora i rapporti tra le cose possono essere di varia specie, e così abbiamo subito a che fare con la varietà e la molteplicità delle regole associative e di conseguenza con vari modi di fusione, con immagini di diverso tipo. Vi saranno ad esempio immagini fondate sul rapporto si somiglianza: così si può dire di Achille che "è un leone". Invece l'espressione "bere un bicchiere" rimanda nel suo senso ad un nesso associativo che non è fondato su un rapporto di somiglian­ za. Il vino lo si beve normalmente dentro un bicchiere - abbia­ mo così a che fare con un rapporto contenente-conte­nuto. Nel caso vela-barca, il rapporto potrebbe essere di parte ad intero. Considerati sul piano linguistico si tratta di esempi che vengono normalmente indicati rispettivamente come esempi di metafora, metonimia e sineddoche. Ma alla base della formu­lazione lingui­ stica vi è un'immagine, ed alla base di questa una associazione. In realtà non basta associare Achille al leone per avere l'immagine; sull'associazione si deve innestare una sintesi immaginativa, che fa sì che l'un contenuto si fonda con l'altra - perché vi sia un'im­ magine autentica si deve veder trasparire in Achille le zanne del leone. Ma il problema della sintesi non si pone solo nel caso della metafora, ma anche negli altri casi. L'espres­sione "bere 70 un bicchiere" la si può usare anche come un'immagine spenta, ma se essa fosse in qualche modo viva, potremmo dire che in quel bicchiere vediamo spumeggiare il vino. Anche qui vi è fusione, come nel caso precedente, benché l'immagine abbia alla sua base una diversa regola associativa. Così parlando della "vela" come immagine della barca non significa solo che il profilo della barca si annuncia immagina­tivamente nelle sue vele, ma che il richia­ mare la barca attraverso le vele significa prospettare la barca ve­ leggiante sulle onde marine mosse dalla brezza del vento. Ciò che hanno in comune queste immagini è la presenza di sintesi immaginative. La diversità sta nella differenza della regola asso­ ciativa che rende possibile quella sintesi. In questo senso, se da un lato possiamo indicare una caratteristica generale delle imma­ gini, dall'altro possiamo anche mettere in evidenza il sussistere di differenze che rimandano al modo diverso in cui i contenuti assimilati si trovano all'interno di una catena associativa. A questo punto ci imbattiamo in difficoltà analoghe a quel­le relative alle regole dell'alterazione. Da un lato mettiamo l'accento sulla possibilità di stabilire delle classificazioni e delle tipologie. Dall'altro sorge subito la questione relativa all'inde­ter­minatezza delle regole ed alla loro varietà. Se questa inde­terminatezza non viene intesa in modo corretto, potrebbero sor­gere falsi proble­ mi. Per ciò che concerne l'indeterminatezza, è già abbastan­ za significativo il fatto che in precedenza non abbiamo affatto presentato una definizione delle figure linguistiche citate. Non abbiamo definito che cosa è una metafora in generale, che cosa è una metonimia, che cosa una sineddoche. Abbiamo invece for­ nito alcuni esempi illustrativi. Se volessimo una definizione vera e propria di queste figure, che ci offra un criterio di appli­cazione sicuro, potremmo rivolgerci ai manuali di retorica. Ma essi non sono in grado di liberarci in un battibaleno da ogni difficoltà. In luogo di chiare distinzioni, troveremo elenchi e casistiche e tentativi di definizione in mezzo a controversie e discussioni. In 71 effetti, sulla base di determinati esempi, la distin­zione tra le figure potrebbe risultare del tutto chiara. Per altri esem­pi invece po­ tremmo rimanere indecisi, e la distinzione tra le figure si oscura. Quanto alle definizioni proposte esse sono appunto dei tentativi che per lo più cercano di formulare in qual­che modo gli aspetti che sembrano comuni nella casistica degli esempi. Ma in rapporto ad esse si aprono discussioni a non finire. Dobbiamo concludere che non disponiamo ancora di una definizione rigorosa e che prima o poi questa definizione verrà sco­perta? Evidentemente le nostre considerazioni procedono in altra direzione. Una relativa indeterminatezza fa parte della natura del problema. Essa è strettamente connessa con l'aspetto apparen­ temente paradossale che assume la questione del numero delle re­ gole. Poiché abbiamo indicato tre esempi di regole, sembra ovvio pensare ad una possibile enumerazione, come se ci dovessimo ac­ cingere a realizzare una sorta di quadro sistematico di tipi di im­ magini. Ma le cose mutano se ritorniamo sulla questione dell'as­so­­ ciazione, che sta alle radici del problema. Pensiamo a Hume: egli riconosce l'esistenza di tre regole dell'asso­ciazione: la somiglianza, la contiguità e il rapporto di causa ed effetto. Poiché quest'ultimo rapporto viene interpre­ tato, in seguito a considerazioni di ordine filosofico, come un rappor­to iterato di contiguità, la regola causale può essere sop­ pressa. Si effettua così una prima riduzione delle regole, che da tre diventano due. Si noti che Hume non ritiene affatto necessario menzionare tra le regole associative il nesso con­te­nente-contenu­ to oppure quello di parte-intero. Dobbiamo così presumere che questi nessi siano per lui riducibili a nessi di contiguità. La parte sarà certamente "vicina" all'in­tero di cui è parte; e così pure il vino al bicchiere. In certo senso ampliamo l'impiego del termine di contiguità, facciamo di esso un impiego generico - cosicché quando parliamo di due regole soltanto, possiamo ritenere che un processo di riduzione abbia già avuto luogo. Ma questo pro­ cesso può ancora essere portato oltre. Così non sarebbe diffi­cile 72 ridurre la contiguità alla somiglianza. Ad esempio oggetti spa­ zialmente vicini potrebbero essere detti simili nel luogo che essi occupano. Con un po' di fantasia argomentativa si può riusci­re ad operare anche la riduzione inversa, riconducendo la somiglianza a contiguità (ciò si trova del resto esplicitamente teorizzato nella tradizione associazionista) [6] . Ma se giungiamo ad operare una simile riduzione, in certo senso la tematica delle regole sembra dissolversi. Come potrebbe non aver senso elencare i modi di al­terazione possibile della realtà, così potrebbe non avere senso ac­cingersi ad elencare i modi possibili dei rapporti che consen­ tirebbero l'istituzione di un nesso associativo. Naturalmente invece di imboccare la via riduttiva, potrem­ mo imboccare la via opposta, rifiutandoci fin dall'inizio di opera­re uno svuotamento dei termini, che rappresenta il vero e proprio conge­gno della riduzione. Decidiamo allora di attenerci al senso che i termini hanno in contesti di esperienza ben definiti. Ovvero: ci impegnamo a riportare l'impiego di un termine e il suo senso ai giochi linguistici quotidiani. Notiamo come appare da questo pun­to di vista forzato parlare della vicinanza come somiglianza nel luogo oppure della somiglianza come dovuta al possesso di una parte comune. Così nel discorso corrente non diremo che il mio piede è vicino al mio corpo, e nemmeno che esso è in con­ tatto con esso. Parleremmo invece del mio piede come parte del mio corpo. Così non diremo che il vino è parte del bicchiere in cui si trova, ma che esso è contenuto nel bicchiere. In questo modo le differenze riprendono i loro diritti. Anche questa via peraltro potrebbe andare troppo oltre, invece che una riduzione estrema si potrebbe avere una moltiplicazione estrema. Se prima le regole erano troppo poche, ora rischiano di essere troppe. Alla regola contenente-contenuto dobbiamo aggiungere anche una regola del contatto - visto che cose in contatto potrebbero trovare in questo un motivo per la loro associazione? In realtà tra la via riduttiva e quella moltiplicativa non sia­ mo affatto obbligati a scegliere. L'una e l'altra intendono solo 73 mostrare la problematicità della nozione di regola qui in que­ stione. L'importante non è la regola in se stessa, e nemmeno stabilire quante regole ci sono, oppure quali siano tra esse le più importanti. Di fronte all'ossessione di una classificazione esaustiva e rigorosa, a noi basta affermare che le regole sono molto varie e innumerevoli. Ciò che ci sembra interessante è la proponibilità di una tematica delle regole. Questa proponibilità significa che, data un'immagine puoi sempre porti il problema di individuare la sua regola interna, la sua struttura. Ed una tematica di tipolo­ gia dell'immagine sorge da confronti e serve come strumento per effettuare confronti, ed infine ancora per comprendere meglio la struttura dell'im­magine. Di fronte ad un dipinto non possiamo limitarci a guardarlo intensamente, dando libero seguito alle no­ stre fantasticherie. Ma dobbiamo porci delle domande ed anche imparare a porcele. A questo serve attirare l'attenzione sull'esi­ stenza di regole dell'imma­gi­na­zione. 5. Le regole nelle opere dell'immaginazione La tematica delle regole e di possibili tipologie dell'imma­gina­ zione non può avere lo scopo di fornire una descrizione del­l'o­ perare dell'immaginazione prima delle sue opere. Perciò le entità fantastico-immaginarie non debbono essere considerate come cose della fantasia, cioè come entità inesistenti che hanno le loro proprietà così come tutte le altre cose che ci stanno in­torno. Nel descrivere i modi della loro costruzione potrebbe ac­caderci di comportarci come ingegneri che descrivono il modo in cui è fatto un giocattolo con cui nessuno gioca più. È invece indispen­ sabile considerare i giocattoli dell'imma­ginazione in quanto essi sono effettivamente giocati. Dunque non dovremmo parlare del modo in cui è fatto un cavallo alato, ma del cavallo alato in quan­ to si trova effettivamente in una favola, in un disegno, in una fan­ 74 tasia concretamente realizzata: non ci interessa solo sa­pere come è fatto un simile oggetto, ma come esso funziona con­cre­tamente all'in­ter­no di contesti ben determinati, tenendo conto d'al­tron­de del fatto che non vi è affatto una sola via che conduce dal modo di costruzione al suo funzionamento. Il modo della costruzione può essere ovvio. La funzione, imprevedibile. I giocattoli del­l'im­ ma­ginazione non sono predestinati ad un unico gioco. Dopo aver tanto parlato di cavalli alati, nel disegno di Ku­ bin intitolato Di fronte ai gradini (1900), ci troviamo final­mente faccia a faccia con un cavallo alato autentico, cioè effetti­vamente immaginato all'interno di un fantasizzare reale: 75 Nell'osservare questo disegno, avvertiamo subito che nei nostri discorsi precedenti vi era una lacuna. Sottolineando che l'ogget­ to fantastico non è una cosa della fantasia, quindi richiamandoci alla sua vitalità, dobbiamo certamente implicare la relazione con la soggettività che lo vive, con tutto il suo carico di emozioni, di sentimenti, di pensieri. Considerando la questione da questo lato ci rendiamo subito conto che deve far nuovamente sentire i suoi diritti l'altro lato dell'operare dell'immaginazione, la sua attività produttiva di immagini. La distinzione elementare tra fantastico e immaginoso non toglie certamente l'unità delle funzioni imma­ ginative ed il fatto che l'immaginazione si applica a se stessa in una grande varietà di forme. Cosicché non vi è affatto da sorprendersi se la funzione della valorizzazione immaginativa viene ritrovata all'interno stesso del fantastico. È anzi proprio la valorizzazione immaginativa che conferisce agli oggetti fantastici tutto il loro fascino. Ciò che li rende attraenti è proprio l'innestarsi su di essi di processi di valorizzazione. Il tema della valorizzazione fa riemergere d'altra parte il nesso tra immaginazione e desiderio e l'emotività in genere: la soggettività viene messa in questione proprio dall'attra­zione esercitata dall'entità fantastica, attrazione di cui non potremmo rendere conto soltanto sulla base della sua regola di costruzione, ma sui percorsi di senso che a partire da essa prendono l'avvio. La soggettività stessa si mette allora in cammino sul doppio sen­ tiero del fantastico e dell'im­ma­ginoso - accompagnandosi con le figure che si prospettano nel suo corso ed entrando con esse in rapporti variamente complessi di appro­priazione, repulsione, identificazione. Così il cavallo alato, non appena entra in una fantasia con­ creta, diventa un oggetto fantastico che ha il profilo di un'imma­ gine. Quale sia il movimento dell'immaginazione che esso met­ te in moto lo possiamo decidere a partire dalla con­cre­tezza del contesto. Certamente il puro contenuto del cavallo alato sembra subito evocare felici fantasie di cavalcate celesti; e così può acca­ dere che gli saltiamo fiduciosamente in groppa abbandonandoci 76 ad una cavalcata nell'alto dei cieli. Ma si guardi quanto da ciò diverge il cavallo alato di Kubin! Subito siamo colpiti dall'atmosfera cupa del disegno. E tan­ to più lo siamo quanto più un indice di valorizzazione positiva fa comunque parte delle possibilità di questa entità fantastica. In certo senso tale indice continua a fare da sfondo alla nostra lettura del disegno. In una parola: il cavallo di Kubin non è affat­ to un cavallo a cui si possa saltare in groppa. Vi è un'importante possibilità immaginativa che viene contestualmente svisata, ovvero l'oggetto viene proposto in un con­testo che blocca proprio quel­ la possibile direzione dell'im­maginazione (e un simile svisamento potrebbe benissimo essere annoverato tra le regole dell'immagina­ zione). Per questo non basta richiamarsi solo al contesto come se l'oggetto assumesse questa o quella connotazione di senso unica­ mente in forza di esso. Il contesto è decisivo - ma esso interagi­ sce con il campo dei valori possibili entro cui vive il contenuto immaginativo. E come non possiamo appropriarci del cavallo e saltare ad esso in groppa sentendolo immediatamente nostro, così un si­ mile cavallo alato non spiccherà mai il volo. Esso sta in cima a qualcosa di simile ad un enorme monumento - ed in questo suo irrigidimento statuario le ali non possono più richiamare la possi­bilità del volo. Esso diventa un idolo pietrificato, qualcosa di simile all'immagine di un potere inaccessibile, misterioso, insen­ sato. Muta allora la direzione dell'identificazione. Il disegno ci co­ stringe ad identificarci con quegli esseri umani oscuri e miseri, che si pro­sternano all'idolo animalesco e che girovagano, ciascuno per pro­prio conto, avvolti da neri mantelli, intorno al grande monu­ mento: in una sorta di processione che esclude tuttavia la co­ munanza di un rito. Ognuna formicola per conto proprio sotto l'incombere dell'idolo, la cui inaccessibilità è sottolineata dagli enormi gra­dini. Anche qui è presente un altro possibile artificio imma­gina­tivo, al quale si può dare eventualmente la forma di una rego­la: la scala che indica anzitutto una possibilità di accesso e di 77 ascesa, è rappresentata nel disegno per rendere evidente una con­ dizione di assoluta inaccessibilità. Notevole è anche la dimensione spaziale in cui la scena viene presentata. Nell'insieme essa appare con caratteri di irrealtà che contribuiscono ad accentuare la valorizzazione in direzione pro­ nun­cia­tamente simbolica - sfiorando l'allegoria. Questo effetto di irrealtà è affidato soprattutto al momento spaziale. La costituzione dello spazio come costituzione esperienziale è strettamente con­ nessa con l'apprensione di cose che possano fungere da sostegni per la costruzione percettiva di uno spazio. Nel disegno invece vi sono certamente cose - il cavallo, il monumento, le figure umane - tuttavia esse non fanno da basi per la costruzione di uno spazio, ma sono immerse in uno spazio indeterminato che è da esse com­ pletamente indipendente. Le cose non prospettano uno spa­z io. Nessu­ no, io credo, parlerebbe in questo caso di una piazza, al cui centro vi è un monumento ad un cavallo alato. Ancora da Kubin toglia­ mo un secondo esempio. Si tratta di un disegno anch'esso del 1900 il cui titolo vorremmo per il momento tener nascosto. 78 Tanto era semplice e generica la regola della disaggregazione operata dalla fantasia, tanto è sottile e complesso il modo in cui essa opera in questo disegno. In effetti se dicessimo soltanto che vi è una testa separata dal tronco, saremmo lontani dal fornire an­ che una semplice descrizione del disegno. Ciò che importa infatti, nel risultato espressivo, è la relazione che viene istituita nello stesso momento in cui l'immaginazione ha realizzato la disaggregazione. Se volessimo avviare una descrizione che for­nisca il filo condutto­ re ad un commento, potremmo cominciare con il dire che in esso un corpo senza testa guarda la propria testa che lo guarda in modo stra­ volto. È il disegno stesso che ci costringe ad esprimerci in questo modo apparentemente para­dossale. La posizione reciproca della testa e del tronco ci induce a parlare di un duplice sguardo. E pro­ prio questo tema del duplice sguardo contiene l'intero problema costruttivo che sta alla base della ideazione di questo disegno. Il corpo umano dalla testa moz­zata si trova in posizione eretta, e non, ad esempio, riverso come quello di un decapitato. Per di più, in posizione di riposo, di contemplazione, vorrei quasi dire: di cal­ ma contem­plazione, se teniamo conto della posizione leggermen­ te divari­cata delle gambe e delle mani presumibilmente incrociate davan­ti. A questa calma contemplazione del tronco fa da contrasto lo sguardo sconvolto, ad un tempo, terrificato e terrificante, della testa giacente a terra. Ci troviamo qui dunque di fronte ad una complesso di opposizioni: la disaggregazione agisce nel senso di separare due parti congiunte, ma la separazione rimanda ad una opposizione che oltre ad essere spaziale è anche psicologica (cal­ ma e sconvolgimento). Nello stesso tempo la disaggre­ga­zione viene realizzata in modo da mantenere l'immagine di un'i­dentità personale. Abbiamo detto infatti: un corpo senza testa guarda la propria testa, e inversamente la testa guarda il proprio corpo: questo duplice sguardo è in realtà un unico sguardo rivolto a se stesso. Credo che per fare questo commento basti il disegno, e non vi sia bisogno del titolo che apertamente lo conferma e che suona: Selbstbetrachtung - osservazione di sé. L'unità è istituita vi­ 79 sivamente nel disegno. Credo che sia difficile che il disegno venga percepito come se la testa fosse quella di un altro. Attraverso la dissociazione di corpo e testa si percepisce un'unità. Ed è appena il caso di dirlo: una unità come drammaticamente scissa. Il dise­ gno congela immaginativamente una condizione di irrimediabile lacerazione. È poi possibile ritrovare altri significati "inconsci" all'immagine della testa mozzata e della "autosservazione" così rappresentata? È possibile, io credo. Ma attraverso altri mezzi, altre metodologie. Una considerazione fenomenologica non può, ad esempio, sostituirsi ad un'inter­pre­ta­zione psicoanalitica, e nem­ meno lo vuole. ** ** Mi è gradito rammentare in rapporto a Kubin, il bel lavoro di tesi di laurea di Tulliola Sparagni, Orbis Pictus: il mondo immaginativo di Alfred Kubin, svolto presso il mio insegnamento e discusso nell'anno accademico 1979-1980. 6. La concretizzazione dell'immagine La tematica delle regole dell'immaginazione è stata qui affrontata tenendo d'occhio la nostra distinzione tra il fantastico-imma­gina­ rio e l'immaginoso. Abbiamo anche già notato che vi è un intreccio tra le due funzioni, che l'una interagisce con l'altra in una grande molteplicità di forme. Un caso interessante di questa interazione è quella che potremmo forse chiamare, dando ad essa la dignità di una regola, "concretiz­zazione dell'immagine". In base ad essa l'im­­­ ma­­­gine trapassa nell'entità fantastico-immaginaria. Questa procedura è illustrata a meraviglia da ciò che ac­ cade a Pinocchio quando giunse nel paese dei balocchi. Come tutti sanno, egli divenne un ciuco. Dopo di ciò gli capitano tutte quelle disavventure che possono capitare ad un ciuco, finisce in un circo, viene bastonato, azzoppato, buttato in mare, ecc. ecc. 80 L'origine di questa invenzione narrativa è del tutto chiara. Di una persona possiamo dire che è un asino, dove la copula non espri­ me alcuna predicazione autentica; ed ecco che l'imma­ginazione interviene sull'imma­gine, in certo modo riproponendo l'autentico impiego predicativo, benché ovviamente nell'ambito della neutra­ lizzazione delle posizioni d'essere. Di qui la meta­morfosi da cui prende lo spunto la narrazione. L'immagine con­cretiz­zata diven­ ta nucleo di una storia. Procedura semplice ed ammirevole - che fa apprezzare l'intelligenza dell'immaginazione, contro i discorsi scontati sulla sua irrazionalità. In certo senso, in casi come questi l'immaginazione gioca con se stessa, con le proprie regole. Essa interviene due vol­ te: nella produzione dell'immagine e nella sua concretizzazione. Nello stesso tempo, si mostra qui una possibile e precisa connes­ sione tra l'immaginoso e l'immaginario. L'oggetto fantastico, l'a­ sino come metamorfosi di Pinocchio, è direttamente derivato da una sintesi immaginativa. L'imma­gina­zio­ne che opera sintesi mo­ stra qui la propria unità con l'immagi­nazio­ne in quanto facoltà antisintetica. Nello stesso tempo, l'esempio collodiano illustra an­che questo aspetto: l'imma­gine deve essere soppressa affinché possa tradursi in spunto di una storia, e tuttavia la relazione a questa origine metaforica deve essere in qualche modo mantenuta, essa continua a trasparire attraverso l'entità fantastica ed a questo man­ tenimento è dovuta naturalmente la portata pedagogico-mo­ra­ listica della storia. È appena il caso di notare quanto in Collodi questo artificio abbia carattere di un metodo più volte ripreso. Esso è applicato ovviamente nel caso dell'al­lunga­mento reale del naso di Pinoc­ chio quando dice le bugie. Il naso entra nei proverbi sulle bugie ("La bugia cola dal naso", " La bugia corre su pel naso di chi la dice") [7] , ma probabilmente il punto di partenza è il proverbio secondo cui le bugie hanno le gambe corte - questa immagine rappresenta il modello su cui viene coniata quell'altra "le bu­ gie hanno il naso lungo", vi è qui la variazione di uno stereotipo 81 immaginativo a cui segue la concretizzazione che mantiene co­ munque la presa sul senso della metafora. Con le bugie non si va lontano, e prima o poi appariranno alla luce del giorno. Per non dire dell'invenzione centrale della storia, che ha origine ancora dall'espressione metaforica "testa di legno" - quella testa che Gep­ petto trae anzitutto dal ceppo di Mastro Ciliegia. Parlando di origine di queste invenzioni narrative non si intende naturalmente nulla di simile ad un'origine psicologica, come tutti questi esempi dimostrano. Esse non sono affatto regole occulte, 82 e nemmeno sono regole derivate da una psicologia dell'immagi­ nazione fondata su determinate ipotesi intorno ai suoi meccani­ smi oggettivi. Possiamo dirle occulte solo nel senso che, per noi lettori, esse debbono rimanere sul­lo sfondo, badiamo appunto alla storia, e non ai suoi metodi. Il "non badare ai meto­di" è una condizione di buona lettura di una storia - in questo ha le sue buone ragioni la "fenome­nologia" nel senso di Bachelard, che insiste sulla necessità di abbandonarsi al racconto, di immede­ simarsi nelle sue vicende "vivendo" in esse - cosa che richiede certamente un atteggiamento nel quale siamo disposti ad accet­ tare senz'altro tutte le sue regole senza portarle in primo piano. Questo punto è importante se non vogliamo che i libri siano sempre e soltanto libri di scuola. Ma i libri ci dànno da pensare, sia per il loro contenuto che per il modo in cui sono costruiti; ed in questa riflessione possiamo cominciare a notare le regole della narrazione, a renderci conto che esse sono state scelte tra possibilità alternative, ed a interrogarci sulle loro ra­gioni e sul loro senso in rapporto alla storia che viene narrata. La concretizzazione dell'immagine a sua volta potrebbe in­ dicare, più che una procedura singola, una molteplicità di proce­ dure. Tra i racconti di Grimm ve ne è uno che si sviluppa presso­ ché interamente secondo varianti diverse di questo metodo. Esso narra di un contadino che invita la morte a fare da madrina ad uno dei suoi molti figli. Questo, diventato adulto, farà il me­ dico - ed un medico protetto dalla morte, come si comprende, è destinato a far fortuna. Senonché, per amore di una principessa, il figlioccio della morte inganna la morte stessa, ed egli stesso dovrà morire. La scena culminante del racconto è quella in cui la morte conduce il proprio figlioccio in una grande caverna. In essa ardono migliaia di candele e - così spiega la morte - ogni vita è rappresentata da una candela accesa. Questa scena è co­ struita a partire da un'im­ma­gine che viene concretizzata. Una candela che si consuma è un'immagine del consumarsi della vita, e così la candela che si spegne un'immagine del morire. 83 Ma la candela è ora una vera candela, ed il protagonista del rac­ conto è perciò in grado di vedere la propria e di constatare come essa sia ormai alla fine. Un altro esempio di procedura di concretizzazione si può coglie­ re nell'episodio in cui il figlioccio contravviene all'ordine della morte; più precisamente, nel modo in cui si prende gioco di essa. Il successo di questo strano medico, in effetti, non sta nel curare i malati ed eventualmente nel guarirli, ma nel predire se essi gua­ riranno o moriranno. Per fare questo egli si avvale dell'aiuto della 84 madrina: se la morte sta ai piedi del letto il malato sicuramente morirà (ed è appena il caso di notare che cosa possa significare "aver la morte ai piedi del letto"), mentre se essa si trova al ca­ pezzale ciò significa guarigione. Da questo elemento narrativo tutto derivato da immagini, segue il modo in cui il medico si prende gioco della morte: di fronte alla principessa morente, il medico non fa altro che invertirne la posizione. L'azione "rea­ le" consegue dall'immagine. Ma questi due episodi di una storia del resto molto breve sono lontani dall'esaurire la sua ricchez­ za esemplificativa. Essi sono situati in una rete di immagini, ed attraverso questa rete la storia rimanda ad una connessione di pensieri, ad una vera e propria concezione filosofica che conferisce un senso allo stesso impiego delle regole - che prese in se stesse sono sempre relativamente neutre dal punto di vista espressivo. Questi pensieri, questa filosofia rimanda ad un pessimismo profondamente ateo che ha le sue radici nella povertà e nella mi­ seria. Essa si annuncia fin dall'inizio della storia: "Un pover'uo­mo aveva dodici figli…". E per il tredicesimo egli cerca un compare o una comare per il battesimo. Incontra il buon dio, ma lo rifiuta: "Tu dai al ricco e fai patire la fame al povero". Ed anche il diavolo viene rifiutato, perché seduce gli uomini per ingannarli. La morte invece sia la benvenuta perché "fa tutti eguali". Noto di passaggio che il racconto non ha bisogno di dare una rappresentazione indiretta della morte, cioè di rappresen­ tarla attraverso un simbolo; e nemmeno ha bisogno di darle una figura in qualche modo personale utilizzando allo scopo qualche tratto simbolico. La personificazione che viene qui effettuata ha la peculiarità di essere unicamente legata alla parola: "L'uomo chiede: "Chi sei? - Sono la Morte". E la morte è già là, in per­ sona - per attuare questa personificazione basta dire il nome ed attribuire al nome una voce. Ad una figura esteriore della mor­ te si allude appena parlando del "pugno risecchito" e della sua "mano gelida". La morte dunque viene bene accolta come madrina. "Do­ 85 me­nica prossima c'è il battesimo: sii puntuale". La doppiezza del racconto arriva qui sino agli ultimi dettagli. La puntualità della morte! Niente è più puntuale di essa, e nello stesso tempo più inattesa ed imprevista. Nello stesso tempo, l'immagine della ma­ drina collega la morte al nascere, una connessione che sottolinea l'ineluttabilità della morte per tutti coloro che sono una volta nati. Quel tredicesimo figlio ci rappresenta tutti, perché tutti siamo stati tenuti a battesimo dalla morte. Ma questa connessione tra la morte e la nascita ha un senso ancora più profondo - un senso che conferisce inoltre una stretta unità che il racconto sembra a tutta prima non possedere. Essa si ripresenta infatti nella scena della grande caverna. Vi è una legalità metafisica che regola l'avvi­cen­ darsi di tutte quelle candele: una candela può accendersi solo se un'altra si spegne. Così spiega la Morte: affinché qualcuno possa nascere, un altro deve morire. Un altro deve pagare con la morte, il prezzo della nostra vita. Questo è il legame che ci affra­tella. In­ sieme all'idea dell'ineluttabilità, vi è anche l'idea di una assoluta immobilità del tutto, dell'assoluta esclusione di ogni evoluzione e di ogni crescita. Il numero delle luci deve rimanere sempre eguale a se stesso. Ed ogni luce è rispetto ad ogni altra del tutto indifferente. Anche in questo senso la "morte fa tutti eguali". Per questa sua giustizia che ha la forma insensata della legge che regola le luci della grande caverna, essa può essere scelta come madrina, dandole la preferenza persino rispetto al buon dio. Si tratta di una giustizia che è giusta proprio perché non ha alcun valore etico, perché essa è cieca, ed anche perversa e crudele. In effetti con un atto di crudeltà si conclude questa breve e melan­ conica storia. Il figlioccio ha scherzato con la morte - e questo, come si sa, non lo si può assolutamente fare. Cosicché, avendo egli salvato una vita, secondo la legge della grande caverna, deve pagarne il prezzo con la propria. Mentre contempla la propria candela che ha preso fra le mani, la morte con una spinta gliela fa cadere a terra - ghignando. In uno dei racconti più famosi di Kafka - La metamorfosi - 86 il protagonista della storia si sveglia un mattino trasformato in uno strano animale. Siamo qui forse molto lontani dalla regola che presiede all'invenzione di Pinocchio? Assai meno di quanto saremmo disposti ad accettare questo singolare accostamento, che sembra del tutto pertinente per quel che riguarda la regola. Ma la regola in sé dice ben poco. È necessario guardare ai modi del suo impiego, ai contesti, ai sensi che via via vengono dipanati nel racconto. E nulla è più lontano nell'impiego kafkiano della regola da quello collodiano, immediato, trasparente, elementare, privo di reticenze. L'acco­stamento ci serve per ribadire quanto poco con­ tino le regole astrattamente formulate e separate dal loro impiego in una produzione immaginativa vivente. Ma di questo accenno a Kafka potremmo approfittare per segnalare la presenza, in un suo brevissimo racconto, di qualcosa di simile ad una procedura inver­ sa a quella della concretizzazione dell'immagine. Se con questa formula intendiamo la traduzione dell'imma­gine in una vicen­ da o in uno spunto di una vicenda immaginaria, la procedura inversa potrebbe consistere nella traduzione di una vicenda in un'immagine. Il brevissimo racconto intitolato L'avvoltoio - una quindi­ cina di righe in tutto - è sviluppato in prima persona e narra di un avvoltoio che becca crudelmente i piedi del prota­gonista. Un tale, passando di lì, gli chiede come sia possibile lasciarsi strazia­ re i piedi in quel modo. Il protagonista risponde di aver tentato più volte di strozzare quell'avvoltoio senza riu­scirvi. Il passante offre aiuto e dichiara di recarsi a casa per pren­dere un fucile. L'avvoltoio, quasi avesse udito e compreso il dia­logo, si avventa contro il protagonista affondando "il becco attraverso la mia bocca, dentro di me. Cadendo all'indietro, sentii che, nel mio sangue straripante, di cui erano piene tutte le cavità, l'avvoltoio annegava irrimediabilmente". In questa storia non vengono impiegate immagini. La sto­ ria stessa si presenta invece come una vicenda che si dissolve in un'immagine. E si dissolve secondo una particolare modalità. 87 Avere un avvoltoio che ci becca ostinatamente i piedi, mentre noi non possiamo fare nulla, è certamente una cosa che non ac­ cade tutti i giorni. Tuttavia esiteremmo in questo caso a parlare di elemento fantastico, per il fatto che la straordinarietà dell'evento viene in certo senso soppressa dal tono quotidiano in cui l'evento viene narrato. La storia viene raccontata prosaicamente, come se si trattasse di un malaugurato incidente che potrebbe accadere a chiunque in un giorno qualunque. Altrettanto prosaico è l'inter­ vento del passante: "Passò un tale che stette a guardare e dopo un poco domandò perché tolleravo quell'avvoltoio". Il dialogo che si svolge tra i due è altrettanto piatto e ovvio: "Per favore, tenti in ogni caso". "Sta bene - disse: cercherò di fare presto". Alla fine esplode l'immagine: la storia si conclude in una pura figura di in­ dicibile angoscia, l'avvoltoio che entra nel mio corpo e affoga nel mio sangue. 7. Figure retoriche e regole dell'immaginazione Nel corso dell'esposizione precedente, è già emerso un possi­ bile riferimento alle figure retoriche, là dove abbiamo chiamato in causa, senza troppi preamboli, metafora, sineddoche e metoni­ mia. Vogliamo qui riprendere l'argomento per suggerire qualche spunto ulteriore di riflessione. La retorica, come ci è stata tramandata dalla tradizione, ave­ va essenzialmente due compiti: quello di studiare le forme del discorso persuasivo (e quindi degli artifici linguistici e verbali atti a persuadere) e quello di analizzare e studiare gli "abbellimenti" del discorso. Il linguaggio è dunque qui in primo piano, e pre­ cisamente il linguaggio nel suo uso figurato. Secondo una con­ cezione recente, che è peraltro radicata nella tradizione, il tema della retorica è circoscritto dalla nozione di deviazione o scarto da un impiego normale delle espres­sioni (comunque questa nor­ 88 malità venga poi individua­ta o definita). Se scriviamo trillare con quattro rr - trrrrillare - evidentemente commettiamo un errore ortografico, ma potrebbe darsi che si voglia con questo errore far tendere la parola all'onomatopea, cosicché l'errore ha uno scopo letterariamente significativo. Che la problematica dell'immaginario sia attiva nella for­ mazione delle "figure" è naturalmente fuori discussione; ma se chiamiamo in causa la retorica dovremmo forse fin dal­l'inizio mettere in evidenza che in essa non ci troviamo, per così dire, faccia a faccia con le funzioni immaginative, ma ci muoviamo piuttosto all'interno di un'indagine che prende in esame tali fun­ zioni in quanto trovano una realizzazione nel linguaggio. Non ci si oc­ cupa dunque anzitutto dei modi di produzione delle immagini, ma del modo in cui le immagini si realiz­zano me­diante la parola. Questa è una differenza importante. Non vi è dubbio infatti che possiamo occuparci dell'operare dell'imma­ginazione prescin­ dendo da considerazioni di ordine linguistico; e inversamente è possibile trattare del discorso immaginoso ponendo al margine considerazioni relative all'immagina­zione in genere e prestando attenzione piuttosto alle modificazioni che intervengono relati­ vamente all'aspetto linguistico. Ciò che voglio dire è bene illustrato dalla nostra nozione di valorizzazione immaginativa [8]. Nell'introdurla si possono prende­re le mosse dall'animazione immaginativa di un contenuto per­ cet­tivo: attraverso questo avvio si chiarisce l'intenzione di proporre il problema mettendo inizialmente da parte possibili riferimenti linguistici. L'animazione immaginativa di un contenuto percetti­ vo non è un fatto linguistico, ma riguarda in tutto e per tutto una relazione tra contenuti. Il produrre immagini non è senz'altro la produzione di fatti linguistici. La sineddoche è un fatto linguistico, ma non abbiamo ragioni di qualificare come un fatto linguistico l'operazione associativa che sta alla sua base. Analogamente un'immagine può essere verbalmente espres­ 89 sa, può realizzarsi in un'espressione verbale, e talora può nascere solo passando attraverso un fatto linguistico e quindi essere tessu­ ta inestricabilmente in esso. Ma anche in questo caso si impone una chiara distinzione tra l'operare dell'imma­ginazione e la rea­ lizzazione delle operazioni immaginative in questo o quel mate­ riale verbale. Rispetto ad una metafora come espressione verbale, si potranno certamente problemi che concer­nono il piano speci­ ficamente linguistico. Il metaforizzare come operazione immagi­ nativa, e in generale l'asso­ciare idee, il sinte­tizzarle secondo varie regole (cioè, secondo certe tipicità) sono anzitutto "funzioni del­ la mente", "opera­zioni dello spirito" - espressioni che in fin dei conti sarebbe il caso di rimettere in vigore, impiegandole almeno come salutari provocazioni. In una formu­lazione verbale immagi­ nosa è contenuta un'immagine; e noi ci potremmo occupare di essa disinteressandoci della formulazione verbale. Ciò che per noi sono anzitutto funzioni della mente oppure operazioni dello spirito sono invece, se badiamo al lato dell'espre­s­ sio­ne linguistica, essenzialmente operazioni relative ad una mani­ polazione del materiale linguistico nei suoi vari aspetti. Perciò saranno qui anzitutto rilevanti le differenze che possiamo notare nell'unità della parola o della frase. In essa distinguiamo l'aspet­to grafico o fonico, gli aspetti propriamen­te grammaticali, la strut­ tura della frase, e naturalmente non può che rivestire grande im­ portanza il fatto che la parola è portatrice di un significato più o meno precisamente determinato. La parola può divergere dal suo impiego normale per questi vari aspetti e in particolare per ciò che concerne il rapporto del­ la significazione. Naturalmente si può discutere al­l'in­finito sulla nozione di normalità qui in questione. Vi sono comunque casi che, almeno alla superficie, sembra non pongano troppi problemi. "Cane" è parola che si riferisce ad un determinato animale. Ma se la usiamo in rapporto ad un tenore, l'impiego della parola muta, muta il suo senso che ora contiene una assimilazione immaginati­ va. Si tratta del problema della sintesi immaginativa, che ora viene 90 colto dal punto di vista di un'operazione linguistica che riguarda una peculiare trasforma­zione del rapporto signifi­cante-significato. Parlare di assimi­lazione tra contenuti non basta, proprio per il fat­ to che è necessario considerare anche il livello linguistico. Vi è dunque una differenza ed una relazione. Questa rela­ zione era forse più chiara nelle classificazioni empiriche della retorica classica piuttosto che nelle versioni più recenti che ten­ tano di superare i limiti della retorica del passato attraverso un netto mutamento nel modo di approccio che punta su tentativi di formalizzazione. Una gran parte degli sforzi degli antichi stu­ diosi di retorica consistette nel tentativo di proporre una clas­ sificazione il più possibile completa ed esaustiva degli impieghi figurati del discorso. Il problema era quello di mettere ordine nel campo delle immagini verbali, elaborando accurati repertori nei quali ogni immagine nuovamente prodotta potesse trovare il suo luogo ben determinato. A tale scopo ci si accinse alla for­ mazione di classi di immagini. Ma mentre si poteva cogliere sulla base di esempi la differenza tra tipi di immagini, ben più difficile si dimostrò il problema di definire precisi criteri della differenza. Le generalizzazioni definitorie diventavano di continuo o troppo ristrette o troppo ampie, e per di più tendevano a sfumare l'una nell'altra mostrando una sconcertante labilità. Talora si legge che "i confini tra metonimia e metafora non sono netti" [9] ; ma lo stesso si potrebbe dire dei confini tra sineddoche e metonimia, potendo la sineddoche avere una definizione assai prossima a quella della metonimia o essere senz'altro posta come una specie di metonimia [10] . Cosicché alla fine ci restano tra le mani non tanto vere e proprie definizioni capaci di delimitare classi, ma elenchi di esempi, variamente tipicizzati, insieme a molti, forse troppi, casi dubbi. A questo problema si è già in precedenza ac­ cennato, indicandone anche il motivo. Come abbiamo mostrato in precedenza, le regole dell'associazione possono essere molti­ plicate o ridotte a piacere, ed è forse proprio questa circostanza che rende conto delle oscurità e delle difficoltà nelle classifica­ 91 zioni. In realtà non ha senso pretendere di specificare tutte le re­ gole dell'asso­ciazione; e così non ha senso cercare di realizzare un inventario di tutti i casi possibili di fusioni immaginative. Questa impotenza rispetto ad una classificazione rigorosa è stata forse una delle ragioni che hanno contribuito al declino della retorica nella sua forma classica ed alla sua ripresa in forme nuove. Ciononostante quegli elenchi hanno per noi interesse per­ ché mostrano con particolare chiarezza il legame con la temati­ ca dell'associazione - quindi il legame tra l'operazione linguistica vera e propria e l'operazione immaginativa. Potremmo dire che molti dei tentativi moderni di ripresa della tematica retorica sono per noi almeno altrettanto significativi per la ragione inversa: in essi quel legame viene pressoché interamente tolto. In primo luogo si pensa alla retorica come una vera e pro­ pria "grammatica del linguaggio figurato". In altri termini, come vi è una disciplina che indaga intorno alle regole per la forma­ zione delle parole e per la formazione delle parole in frasi, così vi è anche una disciplina che studia le regole della deviazione dalla grammatica corrente in funzione espressiva. Se ci serviamo del­ la parola grammatica per indicare l'insieme delle regole relati­ ve all'impiego "normale" del linguaggio, e quindi dell'im­piego corretto, la retorica verrebbe ad essere una sorta di gramma­tica dell'uso scorretto, una grammatica del­l'an­tigram­matica. In effetti si è qui in presenza di violazioni di regole, peraltro fina­lizzate ad uno scopo espressivo. Questa la tesi di ordine ge­nerale. Nello stesso tempo l'idea di grammatica viene prospettata secondo un pronunciato formalismo. Le regole "gram­maticali" dovranno essere infatti concepite come operatori che inducono questa o quest'altra trasformazione su un materiale verbale dato. Il compito diventa dunque quello di individuare delle regole di trasformazione linguistica a cui ricondurre la disparata molte­plicità dei casi di volta in volta presi in considerazione [11] . In questa prospettiva il legame con le regole dell'immaginazione, e dunque con le regole associative, diventa assai tenue, se non va addirittura 92 del tutto disperso. Uno dei risultati che mostrano questa tendenza portata all'estremo è rappresentato dalla Retorica generale del Gruppo m [12]. L'idea di regola o di operazione retorica si attiene ad un mo­ dello aritmetico-formale. Ad esempio, come operatori retorici di base si assumono, tra gli altri, ciò che gli autori chiamano aggiun­ zione e soppressione. La terminologia rimanda in modo trasparente all'addizione ed alla sottrazione in senso aritmetico. Assumendo l'idea dello scarto dagli impieghi normali, gli autori cercano di illustrare le figure retoriche in senso ampio come ottenute at­ traverso operazioni di aggiunzione e soppressione applicate ad espressioni linguistiche. In certo casi, ciò ha un lato piuttosto ov­ vio: come nel caso che prima ho citato della parola trrrrillare. È chiaro che qui si sono aggiunte delle r di troppo. Ciò vale in gene­ re per le modificazioni a cui può essere sotto­posta nel linguaggio letterario la parola considerata come puro supporto di un signi­ ficato ("significante"), quindi nel caso di alterazioni meramente verbali come "virtute" o "spirto". In altri casi, e proprio in quelli in cui ci si approssima al campo dell'imma­ginoso, il rimando a que­ ste regole-operazioni diventa assai più problematico. Se impiego la parola zulù per indicare i neri in genere (sineddoche particola­ rizzante) oppure la parola arma in luogo di pugnale (sineddoche generalizzante) si intravede forse la possibilità di considerare que­ sti impieghi figu­rati come se risultassero dall'ag­giun­zione o dalla soppres­sione di determinati componenti di significato delle parole. Ad esempio, poiché il significato della parola zulù contiene un maggior numero di pro­prie­tà caratteristiche di quanto ne con­ tenga la parola nero, se usiamo zulù per nero, questo impiego po­ trebbe essere interpre­tato come se implicasse qualcosa di simile ad un'aggiun­zione di elementi di significato rispetto alla parola nero. Inversamente se parliamo di arma per indicare un pugnale, la modificazione potrebbe essere interpretata come un'opera­zione di soppressione di componenti di significato relativamente alla parola "pugnale". 93 Si avverte subito che ci avviamo in direzione di una conside­ razione puramente teorica che, se da un lato potrebbe esserci utile per certi fini, dall'altro potrebbe rivelarsi fuorviante. L'analogia con il formalismo aritmetico è alquanto estrinseca, e non ha dalla sua parte alcuna necessità interna chiaramente visibile; e natural­ mente l'impiego di procedure formalizzanti non può pretendere di avere in se stesso la propria giustifica­zione. Tuttavia l'aspetto che a noi interessa mettere in evidenza è soprattutto il fatto che assumendo un simile punto di vista non resta più nemmeno una traccia di ciò che vale per noi sotto il titolo di regola dell'immaginazione. È l'immaginazione stessa che scompare, per così dire, dall'orizzonte. Si consideri come il Gruppo m ritiene di poter "ana­lizzare" la metafora [13]. Si assume senz'altro che affinché vi sia metafora, debbono darsi due contenuti, siano B (betulla) e G (giovinetta), che hanno un componente di significato comune. Questa parte comune sarebbe necessaria come "come base probante per fondare l'identità che si pretende", mentre la parte non comune sarebbe necessaria "per creare l'originalità dell'im­ magine" [14] . Gli stessi autori propongono la seguente rappresentazione (che non è il caso di mettere in discussione): Sia questa "parte comune" la fragilità. Tuttavia, così si argomenta gli autori, affinché vi sia metafora è necessario che l'i­den­tità, a partire dalla parte comune, venga proiettata sugli interi corri­ spondenti. "La metafora estrapola, si basa su un'i­dentità reale manifestata dall'intersezione dei due termini per affermare l'i­ 94 dentità dei termini interi" [15] . Naturalmente questa proiezione implica un errore logico - anzi secondo gli autori una vera e propria contraddizione. Nella me­ tafora, essi osservano, una giovinetta è una betulla e nello stesso tempo non la è. In essa si fa un uso della copula che il logico giudicherebbe illecito in quanto "essere" in questo caso signifi­ cherebbe "essere e non essere" [16] . In questo modo di proce­ dere si ottiene poi come risultato, per gli autori certamente non secondario, di togliere di mezzo la metafora come figura auto­ noma riducendola ad una coppia di sineddochi. Infatti l'impiego di fragilità in luogo di betulla può essere intesa come sineddoche generalizzante, e l'impiego di giovinetta in luogo di fragilità può essere intesa come sineddoche particolarizzante [17] . Da questa pretesa "analisi" della metafora qualunque cen­no ad una funzione immaginativa è scomparso benché ovviamente non si possa ignorare sullo sfondo (ma su uno sfondo che non conta nulla) l'azione dell'asso­ciazione. Persino la metafora può così essere ridotta ad un'operazione (pseudo) arit­metica di ag­ giunzione e di soppressione, perché in questo modo è stata in­ terpretata la sineddoche. Nel bel mezzo di questa spiegazione viene poi pesantemente fraintesa la "co­pula" metaforica. Natu­ ralmente si tratta di un uso pseudopredicativo, ma questo uso in nessun modo può essere ricondotto alla contraddizione, come se lo "è" pseudopredicativo fosse equiva­lente a "è e non è". Quando diciamo di Achille che è un leone, non vi è da nessuna parte, né nella nostra testa, né nella logica o nella grammatica più o meno nascosta e più o meno ipotetica della frase, l'idea che Achille sia 95 un leone e nello stesso tempo non lo sia. Entrambi i termini del­ la contraddizione debbono poggiare solidamente sul terreno delle posizioni d'essere. L'uso pseudopredicativo va invece illustrato attraverso il tema della neutralizzazione delle posizioni d'essere e della valo­ rizzazione immaginativa che subentra all'associa­zio­ne - la quale a sua vol­ta non indica una proprietà determina­ta, effettivamente ine­ren­te alla cosa, come si ribadisce qui esplicitamente, ma una direzione di movimento dell'im­ma­ginazione. Questi esiti critici non debbono essere fraintesi. Essi riguar­ dano unicamente una determinata direzione di sviluppo del tema di una relazione tra il campo della retorica ed il campo di una filosofia dell'immaginazione. Nella direzione indicata questa relazione si allenta fino al punto da non essere quasi visibile. Ma è evidente che questa relazione c'è e con essa si ha sempre a che fare ogni volta che si ha che fare con immagini che prendono forma attraverso il linguaggio. E non solo in rapporto al linguag­ gio delle parole. Ci si può chiedere ad esempio se abbia senso riferire una fi­ gura retorica dal campo del linguaggio verbale ad altri campi, ad esempio a quello della rappresen­tazione visiva. Questa domanda è del tutto legittima. L'unico errore che si può commet­tere è ri­ tenere che in questo modo si operi una sorta di subordi­na­zione concettuale, come se vi fosse, ad esempio, un concetto generale di "chiasmo" e si fosse perciò costretti a ritro­vare chiasmi ad es. nel linguaggio musicale o pittorico, cine­matografico o fotografico, gestuale, ecc. - consi­derati a loro volta come specie del genere "linguaggio". Non di subordinazione si tratta, ma di movimento del concetto, di un suo spostamento in direzioni differenti. Questo spostamento non deve essere fine a se stesso, ma rea­ lizzato a fini euristici determinati. Quando ad esem­pio parliamo di linguaggio pittorico o di linguaggio musicale ciò non accade per il fatto che abbiamo riconosciuto nella musica o nella pittura qualche tratto caratteristico che rimanda ad una comune essenza, e di ciò prendiamo semplicemente atto. Fac­ciamo invece lavorare la for­ 96 mi­dabile leva dell'analogia per cavare problemi, punti di vista, domande e tentativi di risposte, dunque per interrogare l'opera e conoscerla più a fondo, essendo pronti a rinunciare all'analogia quando potrebbe portarci fuori strada. In taluni casi il riferimento al linguaggio delle parole ci aiuta a cogliere un problema, in altri ci confonde le idee. Se la musica è un discorso, dovremmo proprio chiederci quando in un brano musicale compare una metonimia? Non possiamo escludere che queste domande ci servano a qualcosa; ma non possiamo nemmeno assumere che esse abbiano senso per il solo fatto che abbiamo deciso di parlare della musica come di un linguaggio. Una volta chiarito questo punto si può tentare di vedere un "chiasmo", definito come figura verbale come simmetria incro­ cia­ta [18] , ad esempio nella seguente rappresentazione fotogra­ fica [19] Il concetto di "chiasmo" si è mosso. In questo "movimento del concetto" alcune cose cambiano, e sarebbe interessante stabilire esattamente che cosa. In rapporto a questa figura potremmo par­ lare di una duplice forma di simmetria, sia nell'ordine verticale che in quello orizzontale, che si intreccia con una "opposizione" che 97 riguarda anche la differenza delle stagioni. Nel seguente disegno di Füssli varie procedure immagina­ tive si saldano insieme nel risultato complessivo, ed in rapporto ad esse non sembra inopportuno l'impiego di una terminologia "retorica". Anzitutto vi è la grandezza iperbolica della mano e del piede: in questo modo si sim­bolizza la grandezza del passato, una grandez­ za che ovvia­mente trapassa dal piano della cosa al piano del valore. L'iperbole rinvia quindi a qualcosa di simile ad una trasposizione 98 meta­forica. Nello stesso tempo la parte sta qui per l'intero ("si­ neddoche") e questa circostanza assolve un'impor­tante fun­zione espressiva, dal momento che la grande mano e il piede rappresen­ tano le dimensioni della statua forse in modo più efficace che la figura intera. Inoltre la parte toglie di mezzo un riferimento individualizzante che si sarebbe imposto nel caso della rappre­ sentazione dell'intero - la statua intera avrebbe do­vuto essere quella di un eroe mitico, di un imperatore, di qual­cuno insomma su cui si sarebbe attirata l'atten­zione inop­por­tunamente, mentre la parte soltanto opera un'a­stra­z ione concet­tuale vera e propria realizzata con mezzi figurativi (la grandezza del passato). Infine, ed questo è il punto in cui la figura rattri­stata viene integrata in questa rete di significati, si tratta non di parti soltanto, ma di re­ sti, di frammenti, la cui unità non può più essere ricomposta. I frantumi del passato. Così al­l'idea della monumentalità del passato si associa quella del suo impossibile ritorno. Proprio nel momento in cui ci accingiamo a commenti come questi, risulta comunque chiaro che non si tratta tanto di un meccanismo linguistico che viene trasferito sul piano visivo, ma di regole dell'immaginazione che ora si esercitano su mate­ riale verbale, ora su materiale di altra specie. 99 Note [1] trad. it. di E. Pocar, introd. di E. Paci, Milano Rizzoli 1976. [2] ivi, p. 280. [3] ivi, p. 301. [4] Presuppongo qui la distinzione tra fantastico e immaginoso così come viene proposta nei miei Elementi di una dottrina dell'esperienza, cap. III. [5] Cfr. L. S. Vygotsky, Immaginazione e creatività nell'età infantile, Roma 1969, p. 41: "Un esempio assai interessante del circolo completo, descritto dall'opera d'arte, ci vien dato da L. Tolstoj, quando racconta in che modo nacque in lui l'immagine di Natascia in Guerra e Pace. 'Ho preso Tanja - egli dice - l'ho tritata ben bene e amalgamata con Sonja; e ne è uscita Natascia'. Tanja e Sonja (rispettivamente cognata e moglie dell'autore) sono due don­ ne reali, dalla combinazione delle quali è appunto sgorgata l'immagine ar­ tistica". E ancora p. 44: 'Per poter riunire, più tardi, i vari elementi, l'uomo deve incominciare anzitutto con il distruggere quel loro legame naturale, secondo il quale li ha percepiti. Prima di creare l'immagine di Natascia in Guerra e Pace, Tolstoj ha dovuto isolare i tratti distinti delle due donne della sua famiglia, altrimenti non avrebbe potuto mescolarli insieme (o tritarli e amalgamarli come egli dice) in quell'immagine di Natascia. Dare così ri­ salto ad alcuni tratti distinti, e altri lasciarne cadere, è un processo che può godere a buon diritto del nome di dissociazione". [6] P. Guillaume, Manuale di psicologia, Giunti, Firenze 1972, p. 206: "A sua volta la somiglianza si può riportare alla contiguità. Si passa da A al suo simile tramite ciò che è loro comune (m). Si passa dall'insieme A al dettaglio m e da questo all'insieme A' che ha anch'esso il medesimo det­ taglio m. Poiché l'insieme e il dettaglio sono stati percepiti nel medesimo istante, si tratta di una duplice associazione per contiguità". È significativo anche che si aggiunga che mentre la somiglianza "è una nozione oscura e fugace", "la teoria sembra guadagnare in chiarezza e in semplicità quando riconduce la somiglianza (e il contrasto) ad una forma particolare di con­ tiguità, o più in generale, quando riconduce ogni unità di un tutto, ogni coesione fra i suoi elementi ad un effetto della loro sovrapposizione nella percezione, indipendentemente dal loro contenuto". Si tratta di una osser­ vazione significativa per il fatto che manifesta quel fastidio filosofico nei confronti delle relazioni fondate nel contenuto che sarà poi ereditato dall' "empirismo logico". [7] Cfr. A. Selene, Dizionario dei proverbi, ("Bugia"), Eco ed., 2000. [8] Elementi di una dottrina dell'esperienza, cap. III, § 11. 100 [9] H. Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, p. 126, § 225). [10] M. Le Guern, Sémantique de la métaphore et de la métonymie, Librai­ rie Larousse, Paris 1973, p. 12. [11] O. Ducrot e T. Todorov, Dizionario Enciclopedico delle scienze del linguaggio, Isedi, Milano 1072,p. 305 "Diversamente dai retori classici, gli autori che si ispirano alla linguistica cercano di formulare delle matrici lo­ giche, di cui le figure sarebbero la manifestazione: in altre parole, si voglio­ no presentare le figure come prodotti di una combinatoria di cui bisogna trovare le categorie costitutive" [12] Retorica generale. Le figure della comunicazione, 1970, trad. it. di M. Wolf, Bompiani, Milano 1976. [13] ivi, p. 161. [14] ivi, p. 163. [15] ivi. [16] cfr. anche ivi, p. 201. [17] Per una critica di questa concezione definita "séduisante par son ingéniosité", ma da respingere, si veda M. Le Guern, Sémantique de la métaphore et de la métonymie, Librairie Larousse, Paris 1973, p. 13. Peral­ tro, sullo sfondo di questa argomentazione si intravvede una forma più o meno sofisticata di eliminazione dell'associazione per somiglianza, a favo­ re della contiguità a cui abbiamo in precedenza accennato. [18] H. Lausberg, op. cit., § 392: "Il chiasmo, come è chiamato in tempi moderni, consiste nella posizione incrociata di elementi corrispon­ denti in gruppi che si corrispondono tra loro ed è così un mezzo della dispositio che esprime l'antitesi". [19] Nel dicembre 1977 la rivista Progresso fotografico ha dedicato, con la cura di Attilio Colombo, un numero eccellente nel testo e nelle immagini alla tematica della retorica nell'immagine sotto il titolo "La fotografia come lingua". Di qui è tratta la fotografia qui proposta (Peter Chytry). 101 Le regole dell'immaginazione e le procedure del lavoro onirico 1980 102 Questo testo deriva da lezioni del corso "L'immagina­zione" tenuto presso l'Università degli Studi di Milano nell'anno accademico 1979-1980. In copertina: Arcipelago Bismarck Maschera cerimoniale 103 Indice 1. L'effetto di realtà del sogno 2. La condensazione 3. Lo spostamento 4. La traduzione visiva dei pensieri latenti. 5. L'impiego delle immagini nel sogno 104 105 1. L'effetto di realtà del sogno Nel parlare di regole dell'immaginazione [1] si potrebbe pensare che vi sia una stretta relazione tra questo tema e quello delle pro­ cedure oniriche nel modo in cui Freud ne parla nella sua Inter­ pretazione dei sogni [2] . Vogliamo anche noi guardare per un certo tratto in quella direzione, dunque in direzione del problema del "lavoro onirico" ovvero di quell'insieme di procedure che o­per­ ano la "traduzione" dei pensieri latenti nel contenuto manifesto del sogno. Uno degli obiettivi importanti che si propone Freud consiste appunto nel tentativo di chiarire i modi e i metodi che vengono applicati nella produzione del sogno. È appena il caso di dire che la problematica del sogno è destinata ad occupare una posizione di rilievo in una filosofia dell'immaginazione. Comunque questa venga sviluppata, il sogno rappresenta un riferimento importante con cui essa prima o poi deve misurarsi. Ciò vale in particolare per una filosofia fenome­ no­logica dell'immaginazione. In realtà, anche dal nostro punto di vista, il sogno rappresenta una sorta di silloge significativa dei problemi che una fenomenologia dell'immaginazione deve toc­ care. In rapporto al sogno deve essere rimessa in gioco la que­ stione della neutralizzazione delle posizioni d'essere, la tematica dell'acon­testualità interna ed esterna, la problema delle sintesi associative e immaginative, la tematica del simbolismo; e poi na­ turalmente anche la relazione tra immaginazione e vita emotiva, così come quella delle regole dell'immaginazione. Tra i tratti specifici che caratterizzano il sogno vi è indub­ biamente la circostanza secondo la quale i sogni presentano se­ quen­ze di eventi che appaiono come eventi realmente accaduti. Se volessimo distinguere il sogno dalle fantasticherie, sarebbe giusto ricollegarsi proprio a questa circostanza. Nei sogni noi compiamo atti ed esperienze di vario genere, e tutto ha il senso del realmente accaduto. Potremmo parlare in proposito di un 106 effetto di realtà che appartiene agli eventi del sogno, un effetto che, come tutti sanno, è totalmente indipendente dalla maggiore o minore stranezza e incoerenza di que­gli eventi. Questa circostanza è un poco imbarazzante proprio assu­ men­do un punto di vista fenomenologico. Una filosofia fenome­ no­­logica dell'immaginazione infatti può essere sviluppa­ta facen­do ricorso ad esempi di prodotti dell'imma­gina­zione in cui la neutra­ lizzazione delle posizioni d'essere fa parte del loro stesso statuto de­ scrittivo. Invece qui ci troviamo di fron­te ad una situa­zione nuova, e per certi versi critica. Intanto: in che senso si parla di effetto di realtà in un caso come questo? Nell'ambito della fenomenologia della percezio­ ne, potremmo indubbiamente parlare di effetto di realtà, ma in tal caso vincoleremmo il sorgere di un simile effetto alle con­ cordanze sintetiche dei processi percettivi. Ciò che vedo di fron­ te a me, viene posto in essere proprio nella misura in cui in un decorso osservativo le attese percettive interne al decorso ven­ gono di continuo confermate. Invece nel caso del sogno, l'effetto di realtà non appare af­ fatto vincolato alla coerenza delle sintesi. E ciò potrebbe rap­ presentare un argomento per mettere in discussione il nostro stesso modo di intendere il problema delle posizioni d'essere. Si potrebbe infatti approfittare dell'esempio del sogno per so­ stenere che l'effetto di realtà non è connesso ad una strut­tura­ zione interna delle scene percettive, ma piuttosto ad un aspetto qualitativo del vissuto stesso. La vivacità delle impressioni - per dir­ la con linguaggio humeano - che sarebbe responsabile dell'ef­ fet­tuazione di una posizione d'essere sul terreno dell'espe­rien­za sensibile, potrebbe anche rendere sen­z'al­tro conto dell'effetto di realtà del sogno. Le apprensioni del sogno sia di ordine visivo che tattile o uditivo sarebbero abbastanza vivaci da approssimarsi alle percezioni della vita desta, ed a questa vivacità sarebbe dovuto, in entrambi i casi, l'effetto di realtà. In realtà non credo che si debba senz'altro, in nome del­la 107 vivacità della scena onirica, rimettere in questione l'idea che la nozione di realtà abbia la sua costituzione primaria nell'ambito delle concordanze della percezione - idea che è tra l'altro di fon­ damentale importanza per la tematica immaginativa. Natural­ mente nel descrivere gli eventi del sogno possiamo esprimerci dicendo: quella cosa mi si è presentata con una tale evidenza, con una tale chiarezza che era come se la percepissi. Tuttavia il "c'è" del sogno non si risolve affatto in questa descrizione qua­ litativa. Nel sogno si presentano spesso, ed anzi per lo più, cose assai poco chiare, poco evidenti. Vi è una vaghezza ed un'inde­ terminatezza che fa parte del senso stesso degli eventi onirici e che quindi si manifesta in inerenze ad essi, nel modo stesso in cui essi sono sognati. Il fatto singolare è che questa mancanza di evidenza e questa indeterminatezza non tolgono il "c'è" oni­ rico. Su che cosa esso poggia? In che cosa trova la sua peculiare certezza? Una congettura sul meccanismo psichico che starebbe alla base del carattere "allucinatorio" del sogno è formulata da Freud nel quadro della teoria esplicativa esposta nel capitolo settimo dell'Interpretazione dei sogni, laddove si parla di una "via retrogra­ da" che rende possibile la regressione dal sistema mnestico al si­ stema percettivo. "Non abbiamo fatto altro - osserva qui Freud - che dare un nome ad un fenomeno inspiegabile. Chiamiamo re­ gressione il fatto che nel sogno la rappresentazione si ritrasforma nell'immagine sensoriale da cui è sorta in un momento qualsiasi". Impostato in questo modo Freud ritiene di connettere questo stesso problema alla ripresa di "ricordi infantili che esistono in forma intensamente sensoriale" e addirittura di elementi che ri­ salgono alle "eredità arcaiche" dell'uomo [3]. Si tratta evidente­ mente di un punto di fondamentale importanza per l'elaborazione complessiva di Freud: tuttavia pro­prio da ipotesi esplicative tanto forti noi vogliamo programma­ticamente prescindere. La domanda proposta pertanto va intesa come una domanda relativa ad un importante peculiarità della scena onirica di cui si può tentare una 108 risposta sul piano della sua fenomenologia. Assumendo questo punto di vista risulta piuttosto naturale ricollegare il problema dell'effetto di realtà alla questione della passività, non tanto nel senso che l'io sognante è un io immerso nel sonno, ma nel senso del modo in cui l'io che vive e agisce nel sogno sperimenta il suo mondo onirico circostante. Il sogno ha il carattere di una fantasticheria, e precisamente di una fantasticheria estrema proprio per ciò che concerne il tema della passività. Si può allora sostenere questa passività portata all'estremo sopprime il carattere del contenuto imma­gina­tivo come contenuto immaginativo. Inversamente potremmo no­tare che un momento di sponta­neità del­l'io, anche se molto tenue, rappresenta una sorta di condizione affinché il prodotto imma­ ginativo appaia come tale. L'effetto di realtà non va ricercato in una qualche determinazione positiva delle scene immaginative, ma nel fatto che esse si impongono e su di esse "io non posso farci nulla". Qualunque cosa accada in sogno assume il carattere di ciò che c'è veramente, per il solo fatto che l'io non è in alcun modo in grado di controllare la scena immaginaria. L'incoerenza viene molto spes­ so avvertita - ma questa incoerenza si converte in disagio della soggettività dormiente che non può fare altro che recepirla; nel momento in cui questa soggettività riesce a formulare il pensie­ ro "questo è soltanto un sogno", allora essa è ormai prossima a ridestarsi. Nello statuto descrittivo del sogno non è compresa l'ap­ partenenza all'immaginario: ad esso il sogno verrà restituito solo in un secondo tempo, nonostante l'effetto di realtà. È un fatto che nel rendere conto del modo in cui avviene questa restituzione è necessario richiamarsi ai principi genera­ li su cui si regge la costituzione di un prodotto immaginativo come tale. Anzitutto i sogni hanno per noi una qualche forma di esisten­za solo in quanto vengono ricordati. Ma il ricordo del sogno ha alcuni tratti peculiari rispetto ai ricordi in genere. Essi sono evanescenti al massimo grado. Ma non nello stesso senso dell'evanescenza dei ricordi di fatti realmente accaduti: questa 109 è accompagnata dall'idea che in ogni caso la memoria si sta ri­ volgendo ad un fatto avvenuta nel passato, ed in un momento ben determinato - un fatto che è a sua volta stretto tra altri fat­ ti ben determinati. Noi sappiamo questo mentre ricordiamo, e sappiamo dunque che potremmo eventualmente affidarci come appigli agli altri fatti che sono nelle sue vicinanze. Nel caso del ricordo di un sogno le cose stanno diversamente: è come se voles­ simo trattenere qualcosa che ci sfugge, e che potrebbe sfug­girci in modo definitivo dal momento che non vi è alcuna compagine vera e propria, alcuna rete nella quale gli eventi onirici siano intes­ suti. Del resto, l'immagine del volgersi indietro nel passato che si attaglia al ricordo degli eventi passati in genere, non si attaglia per nulla nel caso dei ricordi dei sogni. Il passato riguarda l'io che poco fa dormiva e non il sogno stesso, la sequenza delle scene oniriche. Il passato si trova interamente al di fuori del sogno. Nel sogno accade qualcosa, e accade al presente. Ma in un presente to­ talmente indeterminato. In un presente che si sottrae a qualunque autentica sintesi tempo­rale. Il tema dell'indeterminazione temporale, che assolve un ruolo così importante nella filosofia dell'immaginazione, si ripresenta qui in forma quasi letterale. Ed altrettanto letterale è la ripresa del problema dell'acontestualità. Anche indipenden­te­mente dalle cose più o meno strane che accadono nei nostri sogni, la resti­ tuzione del sogno all'immaginazione può avvenire per lo stesso fatto che la storia raccontata nel sogno si presenta come una storia sé stante, rispetto alla storia di cui ricolleghiamo i fili da un giorno all'altro, attraverso ed oltre la notte, anche quando fosse­ ro a portata di mano nel racconto della veglia i "residui diurni" di cui il sogno si avvale. Vi è dunque un'attri­buzione del sogno all'imma­gina­zione che si effettua sulla base di una nozione di re­ altà costituita a sua volta attraverso operazioni di sintesi. Proprio per il fatto che il sogno non può essere ricomposto all'interno di queste operazio­ni, esso si pro­spetta infine come appartenente al campo dell'immaginario, come una labile parvenza che non ha 110 alcun fondamento sostanziale. In margine a tutto ciò vorrei notare che qualunque discorso sull'immaginazione che ponga l'acccento sulla sua fluidità e mo­ bilità, presuppone una nozione di realtà che deve a­vere in ogni caso una sua stabilità, una sua durezza. La realtà, quella vera, sta sempre alle nostre spalle. Incombe su di noi. Cade a proposito, per contrasto, un accenno alla "filosofia" sur­realista dell'imma­ gina­zione, che naturalmente non vogliamo considerare come una filosofia vera e propria, da approvare o confutare, ma come si­ gnificativa di un atteggiamento che confluisce poi in una pratica artistica. André Breton Mentre noi abbiamo mostra­to come, a partire dalla realtà, si co­ stituisca il sogno come fantasia, nel Primo Manifesto del surrealismo 111 (1924) Breton sottolinea il fatto che, inversamente, si dovrebbe decostituire la realtà stessa di fronte al sogno. Si suggerisce così che forse la nozione di realtà a cui facciamo di continuo appello, con la sua stabilità, sia dovuta più di quanto saremmo propensi ad ammettere, ad una sorta di razionalizzazione, a qualche cosa di simile ad una prevaricazione della volontà, che proviene dall'io desto con le sue istanze di dominio e di controllo. "Mi ha sem­ pre stupito - scrive Breton - l'estrema differenza di importanza, di gravità che presentano per l'osservatore comune gli avveni­ menti della veglia e quelli del sonno. Ciò avviene perché l'uomo, quando cessa di dormire, è prima di tutto lo zimbello della propria memoria…" [4]. L'unità della realtà al di là del sogno, è ricostituita attraverso la memoria che supera la lacuna del sonno e che lascia valere ciò che accaduto durante il sonno come una parentesi irrilevante. Se la memoria non intervenisse la realtà stessa diven­ terebbe tanto fluida da non consentire che si faccia valere alcuna istanza di unità e di coe­renza. Contro questa nozione di realtà che si contrappone al sogno, Breton gioca sui termini stessi in cui manifesta questa opposizione, ipotizzando legami nei sogni e fratture nella realtà. I sogni ci appaiono frantumati e disgregati, ma nulla toglie che si possano ipotizzare legami sia all'interno del sogno fra i sogni della stessa notte e fra i sogni in genere. Poiché siamo "zimbello della memoria", la memoria potrebbe prendersi gioco di noi, arrogandosi il "diritto di fare dei tagli" in questa possibile continuità. Nello stesso modo la memoria po­ trebbe forzare legami nella vita reale che in realtà non ci sono. A ben pensarci la realtà che ci sta di fronte potrebbe essere avver­ tita come una realtà costituita di frammenti sparsi che vengono tenuti insiemi da una volontà che ha orrore del disordine e che sente l'incoe­renza come una minaccia. Che unità vi è tra que­ sta o quella delle tante azioni che viviamo ogni giorno, tra uno studente che ascolta una lezione intorno all'imma­ginazione e ciò che egli farà appena sarà uscito dall'aula, o tra un docente che ora parla delle regole dell'immaginazione e poi corre a casa a suonare 112 il violi­no? Se non ci fosse questo io sempre vigile, attento a tenere insieme se stesso e la realtà con tutte le proprie forze, con la sua volontà e la sua memoria, "niente ci permetterebbe di inferire che sussista una dispersione maggiore negli elementi costitutivi del sogno" [5]. Breton collega a tutto ciò lo stesso termine di sur­real­tà e di surrealismo: "Credo alla futura soluzione di questi due stati, in apparenza così contradditori, che sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può dire" [6] . Annotazione Per quanto si possa insistere sull'effetto di realtà e sul carattere quasi-percettivo del sogno, in esso non vi è nulla che sia anche lontanamente simile alla costituzione percettiva di oggetti nella vita diurna. L' "ef­fet­to di realtà" del sogno non è infatti certamente in grado di restituirci la realtà co­sì come la conosciamo nella vita diur­na. Il sogno ha la "forma dell'accadere", ma a questa forma si associa uno "stile" che non è quello del­la realtà effettiva. Gli eventi che sono vissuti nel sogno, gli oggetti che sono 113 in qualche modo percepiti sono nettamente differenti nel loro modo di apparire dagli oggetti e dagli eventi della vita reale. Ciò pone forse il problema di una possibile fenomenologia del contenuto onirico manifesto, ovvero della possibilità di conside­rare i caratteri della scena onirica come tali ed eventualmente di individuare in essi delle tipicità. Per ragioni abbastanza ovvie questo problema non appartiene certo agli interessi freudiani che sono invece volti a frantumare il racconto del sogno nei suoi componenti per ritrovare una coerenza in profondità nei sensi fatti emergere nel corso dell'interpretazione. Il disinteresse di Freud per questo lato del proble­ma è dunque del tutto coerente e giustificato. Una fenomenologia del contenuto manifesto si muoverebbe invece alla superficie della scena onirica e dovrebbe essere sviluppata indipendentemente da ogni preoccupazione di ordine interpretativo. Essa dovrebbe rispondere alla domanda: come è fatto il "mondo" del sogno? Quali sono le tipicità che in esso si possono rilevare? Come appaiono gli ambienti, i luoghi, lo spazio nei sogni? Vi sono "caratteri" propri della "cosa" onirica? In che modo vi è una successione di eventi nei sogni? Anche se abbiamo costantemente la sensazione che la disposizione degli eventi del sogno in una sequenza narrativa tenda a mettere da parte le peculiarità del sogno, indebolendo ed attenuando le componenti che sono costitutive della "realtà" onirica, tuttavia una fenomenologia del contenuto manifesto potrebbe forse tentare, attraverso i racconti dei sogni, di ricostituire proprio quelle peculiarità che sono proprie del sogno, e non ad esempio di una realtà "fiabesca". Anche in una fiaba può accadere che una persona diventi un'altra oppure che abbia un modo di essere duplice. Ma il modo di essere duplice della formazione mista che si esprime nella frase "Incontrai Pietro, ma era Paolo" è caratteristica del sogno e non si troverà mai in una fiaba. Il sogno non imita le fiabe. Il sogno ha uno stile suo proprio che forse è possibile circoscrivere e delimitare, descrivendo quella che potrebbe essere considerata come una vera e propria regione dello spazio del fantastico. 114 2. La condensazione Cerchiamo ora di fornire una traccia, sia pure molto tenue e som­ maria, della tematica freudiana del lavoro onirico. L'an­golatura da cui ci disponiamo ci pone ad una certa distanza dalle preoc­ cupazioni e intenti di fondo che orientano la ricerca di Freud, e persino da interessi psicologici in genere. Il nostro terreno è quello di una filosofia dell'immaginazione: tutta la nostra attenzio­ ne è dunque orientata nel senso di cercare di determinare in che modo una simile analisi che tende, in particolare, ad un'illustra­ zione dei meccanismi di una formazione immaginativa qual è il sogno, possa essere di giovamento al­l'in­ter­no delle nostre consi­ derazioni filosofiche. Notiamo anzitutto che l'idea stessa di lavoro onirico è tutta interna al concetto freudiano di interpretazione, al suo metodo. Essa è infatti implicitamente presupposta nella distin­zione tra contenuto manifesto e pensieri latenti, dal mo­men­to che rimanda alla modificazione che il pensiero latente esibisce nella sua riformu­ lazione onirica. Per questo essa deve essere considerata come una nozione teorica - Freud insiste in modo particolare su questo punto. All'inizio dell'analisi abbiamo a che fare unicamente con il racconto del sogno, quindi con il contenuto manifesto; man mano che l'analisi procede vengono alla luce i pensieri latenti. Possiamo allora pensare di operare un ribaltamento, ponendoci il problema del cammino inverso, dai pensieri latenti al contenu­ to manifesto, proponendo appunto l'idea, tutta teorica, di lavoro onirico e dei suoi metodi. Ad esso dunque non possiamo acce­ dere in modo diretto, ma accertiamo che vi è stato un "lavoro" nella stessa misura in cui operiamo un confronto tra il contenuto manifesto e ciò che risulta dalla sua interpretazione. In questo confronto non emerge solo la modifi­cazione, ma emergono an­ che i modi della modificazione, che vengono colti con evidenza, così come le loro tipicità. Si apre così il problema di una tipolo­ 115 gia delle forme dell'attività onirica. Da questo punto di vista può essere considerato il capitolo sesto dell'In­ter­pretazione dei sogni a cui faremo qui prevalente riferimento in una lettura molto par­ ziale ed anche palesemente unilaterale. L'unilateralità consiste in particolare nel fatto che nel trattarne la tematica prescinderemo dalle ipotesi esplicative vere e proprie che sono sviluppate nell'ul­ timo capitolo dell'opera. Le procedure del lavoro onirico vengono classificate sotto quattro grandi titoli: 1. procedure di condensazione 2. procedure di spostamento 3. procedure dipendenti dalle esigenze di rappresentabilità onirica come rappresentabilità visiva 4. impiego di simboli In rapporto al problema attuale, l'impiego dei simboli (nell'accezione specifica che Freud attribuisce a questo termine) può essere lasciato da parte [7] , mentre assumono rilievo i primi tre titoli, che meritano di essere considerati entrando un poco nel dettaglio. Vogliamo occuparci anzitutto della condensazione (Verdich­ tung). Attenendoci all'impiego corrente dei termini in luogo di condensare potremmo dire concentrare, riassumere, esporre in forma con­ cisa, fondere insieme, sintetizzare. Potremmo allora pensare che una simile tematica possa arrivare a coincidere o ad intersecarsi stret­ tamente con quella delle sintesi immaginative e che dunque si ri­ apra, secondo modi determinati dalla peculiarità dell'argomento, quel complesso di problemi che altrove abbia­mo posto sotto il titolo di immagino­sità dell'immagina­zione [8] . Del resto vi è un'inter­ pretazione dive­nu­ta corrente secondo la quale la condensazione di cui parla Freud si troverebbe in un rapporto di stretta analogia con l'attività immaginativa che conduce alla metafora. In rapporto a ciò credo sia giustificato avanzare qualche perplessità. In realtà Freud fa un uso del termine di condensazio­ ne piuttosto elastico. Egli sembra disposto ad utilizzarlo ogni volta 116 che si è in presenza di una situazione di concisione. Si tratta perciò di un impiego relativamente generico del termine, che non ha il carattere di una designazione tecnica ben definita. Sotto di esso cadono esempi di tipo piuttosto diverso, cosicché sarebbe forse opportuno parlare della condensazione come di un insieme di procedure, piuttosto che come un'unica procedura. E va notato in particolare che i risultati a cui mettono capo le procedure di condensazione non sono immagini nell'accezione vera e propria che rinvia alle sintesi immaginative. L'ampiezza dell'uso del termine di condensazione può es­ sere mostrata già nel fatto che Freud lo impiega sia in rapporto al sogno nel suo complesso o ad un suo frammento abbastanza esteso, sia in rapporto agli elementi del sogno considerati nella loro singolarità, ed in un'accezione diversa e più nettamente de­ limitata. In rapporto al sogno intero o a frammenti di sogni si parla di condensazione richiamandosi al fatto che "il sogno è scar­ no, misero, laconico in confronto alla mole ed alla ricchezza dei pensieri del sogno" [9]. Ma questa nozione diventa per noi par­ ticolarmente interessante quando essa viene riferita ai singoli elementi del sogno. Risulta allora subito la stretta dipendenza della nozione di condensazione dalle associazioni libere come metodo dell'interpre­tazione. In generale, e non dunque soltanto nel caso dei sogni, un qua­ lunque contenuto che venga proposto in un "gioco associativo" può dar luogo a più di una catena associativa. Questa circostanza non ha in sé nulla di stupefacente. Se tuttavia, come accade in Freud, consideriamo i contenuti associati come motivi che stan­ no alla base dell'elemento onirico proposto all'associazio­ne, e dunque anche come suoi sensi, ecco che quell'elemento onirico si presenta come un elemento in cui sono condensati una plu­ ralità di richiami. Naturalmente il passaggio dalla pura e semplice connessione associativa all'af­fer­mazione che gli elementi associati fanno effettivamente parte dei motivi che hanno prodotto nel so­ 117 gno una determinata formazione non è affatto ovvio - ed esso è d'altronde essenziale affinché si possa parlare di conden­sazione. In effetti secondo Freud il cammino delle associazioni libere non deve essere inteso come una vera e propria ripetizione a ritroso del cammino percorso dal lavoro onirico, ma nello stesso tempo occorre mantenere ben ferma l'idea che attraverso le associazio­ ni ci si aggiri nei dintorni dei motivi effettivi del sogno. Se si assume senz'altro questo punto di vista, il parlare di condensazione assume un senso ben determinato che si trova in stretta connessione con il problema delle concatenazioni asso­ ciative effettuate nel corso dell'analisi. Nel caso del sogno della "monografia botanica", la mono­ grafia botanica dà luogo a ben quattro serie associative i cui pri­ mi elementi sono i seguenti: Monografia botanica Monografia su ciclamino vista il giorno prima in una vetrina Erbario ricordo di ginnasio Monografia Monografia sul sogno che Freud sta scrivendo sulla coca scritta da Freud Le quattro serie hanno poi determinate relazioni tra loro (il rife­ rimento botanico nella prima, seconda e terza, oppure il riferi­ mento alla propria attività scientifica nel secondo e terzo caso); ed ogni elemento è provvisto da una particolare tonalità emoti­ va, sulla cui base possono stabilirsi nuovi nessi. 118 È chiaro che ciò che qui viene in questione è anzitutto l'immaginazione associativa. Attraverso di essa non perveniamo a nessuna immagine in un senso vero e proprio, ma ad un conte­ nuto che rappresenta una sorta di punto di incontro di catene associative, e per questo fatto tende ad assumere una com­plessa stratificazione di sensi. Per questo motivo parlare soltanto di im­ maginazione associativa come se si trattasse del puro e semplice dispie­gamento di una concatenazione non basta. Potremmo dire che nelle pieghe della monografia botanica, come elemento onirico, vi sono quelle altre monografie, con i loro ulteriori elementi im­ pliciti, con le loro specifiche tonalità emotive. Vi è dunque una sorta di arricchimento di senso del contenuto - senza che vi sia un processo di valorizzazione che metta capo ad un'immagine. Alla base della tema­ tica della condensazione vi è dunque quella di un arricchimento di senso che non va confuso con la "valorizzazione" fondata su sintesi immaginative vere e proprie. Questo arricchimento pog­ gia in­vece su percorsi associativi e sulla portata di senso di cui sono carichi i contenuti associati per la soggettività che li compie. Questo è lo sfondo generale del problema. Qualche indugio presso esempi e casi particolari può contribuire ad un chiarimento. Consideriamo il caso dell'immagine collettiva ovvero della "persona collettiva" [10] . Nel personaggio onirico di Irma so­ no "condensate" almeno altre sei persone. Ciò significa sempli­ cemente che proponendo "Irma" alle associazioni libere si apro­no varie serie di catene associative che hanno come primo elemen­ to quelle persone. In sé nulla di straordinario. Se in un gioco asso­ciativo propongo il nome di De Gaulle, il mio interlocutore potrebbe proporre svariati altri nomi di persona, senza che ciò debba generare particolare stupore. In tal caso tuttavia non a­v­ rebbe senso parlare di De Gaulle come persona collettiva. Men­tre lo avrebbe se avessimo sognato De Gaulle e l'associazione non avvenisse per gioco, ma in rapporto all'analisi del sogno. Affinché la tematica della condensazione non perda tutta la sua pregnanza abbiamo dunque bisogno di attenerci strettamente entro la cornice specifica del proble­ 119 ma, così come abbiamo bisogno di postulare che le associazioni libere siano, in un modo o nell'altro, autentiche vie di accesso al nucleo del sogno. Inoltre va tenuto presente che il termine iniziale, proposto all'associazione, non è un termine qualunque - Irma è una per­ sona in carne ed ossa conosciuta da Freud, verso la quale egli ebbe determinati rapporti che potevano in qualche modo chia­ mare in causa altre persone. Del resto, in ogni incontro altri in­ contri sono spesso inconsciamente richiamati, in ogni rapporto tra me e l'altro, altri rapporti si trovano sullo sfondo e determinano in modo più o meno pronunciato i nostri atteggiamenti. Tuttavia non parleremmo per questo di "persone collettive". Dove sta dunque la differenza? La differenza sta nel fatto che la persona che com­ pare nel sogno è tutta fatta di immaginario, la persona incontrata nel sogno è di per se stessa, per quello che è e che fa, totalmente inconsistente, mentre tutta la sua consistenza sta nel fatto che essa deve essere integralmente considerata come manifestazione di un senso da ricercare. Un caso piuttosto diverso è rappresentato da quelle che Freud chiama "persone miste". Si tratta di persone che appaiono nel sogno con i tratti caratteristici di persone distinte. La con­ densazione è qui una vera e propria commistione che si presenta direttamente nel contenuto manifesto. Nel caso delle persone colletti­ ve, il carattere collettivo si presenta al di fuori della scena oni­ rica, nelle associazioni; mentre in quello delle persone miste la commistione è palesata nella stessa scena onirica, anche se per venire capo di essa è naturalmente ancora necessario il ricorso alle associazioni libere. Questa differenza viene chiaramente avvertita da Freud, che riprende il problema estendendolo alle cose in genere [11]. In questa ripresa Freud compie un'affermazione che per quanto possa essere trascurabile da altri punti di vista, è invece interes­ sante dal nostro: "La possibilità di creare formazioni miste è il primo dei tratti che tanto spesso conferiscono ai sogni un'im­ 120 pronta fantastica, in quanto per loro mezzo vengono intro­dotti nel contenuto onirico elementi che non hanno mai potuto essere oggetto della percezione. Il processo psichico che interviene nel­ la formazione mista, durante il sogno, è eviden­temente identico all'atto di immaginare o riprodurre durante la veglia un centauro o un drago" [12] . Incontriamo qui forse la regola elementarissima dell'im­ ma­­gina­zione fantastica che divide ciò che nella realtà è unito e unisce ciò che nella realtà è diviso? Non sono certo che a questa domanda si debba rispondere senz'altro in modo affermativo. La questione è più sottile e quella identità del processo psichico di cui si parla in quella frase è assai poco evidente, e forse fuor­ viante. Osserviamo anzitutto che quell'affermazione può avere un senso per le persone miste, ma non per quelle collettive. Nel caso delle persone miste esse entrano nel sogno con le loro ca­ ratteristiche paradossali; e nella narrazione del sogno noi se­gna­ liamo la commistione anche se non ne sappiamo indicare il sen­ so. La formulazione verbale nel racconto del sogno è di solito "era questo, ma anche quest'altro" oppure "era questo, ma in realtà era quest'altro" [13] . Il fatto che la strana aggregazio­ ne sia palese nella scena onirica potrebbe farci pensare appun­ to all'analogia con le figure fantastiche, come centauri e draghi. Nello stesso tempo non possiamo trascurare il fatto che questo tema si impone nel quadro della tematica della condensazione, dunque alla differenza tra persone collettive e miste fa riscontro una stretta affinità che rimanda alla tematica dell'inter­pretazione attaverso le associazioni. Qui vi sono alcuni equivoci da districare. Le oggettività fan­ tastiche in quanto formazioni miste - centauri, draghi - sor­ gono da una libera disaggregazione dei contenuti che vengono altrettanto liberamente riaggregati. In rapporto ad essi non ab­ biamo allora affatto bisogno di richiamarci a processi associativi, ed anzi dovremmo sottolineare questa funzione della fantasia in 121 contrapposizione ai processi della sintesi. Nel caso delle persone o degli oggetti misti, non appena essi vengono proposti nel racconto del sogno, si pone senz'altro il problema del loro senso, e questo problema può essere risol­ to solo interpretativamente, ponendosi alla ricerca di un elemento comune nei pensieri del sogno che illustri e giustifichi quella ag­ gregazione. Ed è anche il caso di notare che mentre entità fanta­ stiche come centauri e draghi hanno un interesse imma­ginativo diretto, queste entità miste di questo interesse sono del tutto pri­ ve, non hanno in se stesse alcuna portata immaginativa. La loro consistenza, lo ripetiamo, sta tutta nel coprire un senso che deve essere ricercato. L'analogia tra persone miste ed entità fantasti­ co-immaginarie appare di conseguenza alquanto proble­matica. Del resto lo stesso Freud, che si è fortemente sbilanciato parlando di "identità evidente", limita la propria affermazione, osservando che vi è comunque una differenza dovuta al fatto che "nella creazione fantastica della veglia, elemento determinante della nuova formazione è l'impressione ricercata, mentre la for­ mazione mista del sogno viene determinata da un movimento esterno alla propria configurazione, cioè dell'elemento comune esistente nei pensieri del sogno" [14]. Che è quanto dire: nel pro­ durre una entità fantastica badiamo soltanto allo scopo espres­ sivo, narrativo o emotivo che ricerchiamo. Essa avrà allora una consistenza immaginativa interna, dipendente proprio dal mo­do della sua configurazione superficiale. Mentre la configu­razione superficiale della formazione mista va interamente risolta nel pro­ cesso psichico della condensazione. Se questo è il senso di que­ sta osservazione limitativa, di quella "identità evidente" resta ben poco. Entità fantastico-immaginarie e persone miste si situano entro orizzonti problematici interamente diversi. In linea gene­ rale, anche in rapporto al tema delle regole, risulta impor­tante la riconduzione del senso al motivo. Le regole che ven­gono messe in evidenza come regole del lavoro onirico non possono essere facilmente scisse dalla problematica dei nessi motivazionali. 122 Un altro esempio ricco di interesse e di problemi è quel­ lo della condensazione applicata alle parole. Nei nostri so­gni compaiono talvolta parole, pronunciate nel corso del­l'e­vento onirico, che ricordiamo distintamente come stravaganti forma­ zioni verbali del tutto prive di senso. Impiegando il metodo del­ le associazioni ci si rende conto che queste formazioni verbali derivano da una procedura di storpiamento di parole note che gioca spesso sull'aggre­gazione di due parole in una. Il parlare di condensazione appare qui naturale sia per la procedura combi­ natoria utilizzata (due parole vengono fuse in una) sia per il fatto che l'applicazione di questa procedura può essere considerata come un modo "laconico" di formulare un lungo discorso. Par­ ticolarmente illustrativo è l'esempio della parola Norekdale, per la quale l'analisi esibisce l'asso­ciazione Nora + Ekdal che sono entrambi nomi di personaggi di drammi di Ibsen [15] , e di qui si sviluppano ulteriori nessi che l'interpretazione del sogno deve dipanare. Anche in questo caso l'individuazione del motivo è ciò che conferisce senso alla formazione verbale. Benché questo caso non introduca nulla di realmente nuovo rispetto alle persone collettive ed alle configurazioni miste, Freud richiama l'attenzio­ ne sul fatto che il portare l'attenzione su questo punto riveste una grandissima importanza dal momento che apre nuove prospettive di ricerca anche oltre la problematica specifica dell'interpretazio­ ne dei sogni. Infatti si esemplifica qui una rielaborazione incon­ scia che ha di mira materiali linguistici che vengono variamente modificati, attraverso la mediazione emotivamente ricca del so­ gnatore, secondo connessioni che riguardano sia il piano pura­ mente materiale delle parole (ad es. assonanze) sia il piano dei riferimenti di significato. Freud intravvede subito la possibilità di estendere l'indagine ai lapsus verbali e ai meccanismi di for­ mazione dei motti di spirito, problemi ai quali dedicherà opere di fondamentale importanza [16]. Va infine notato, in rappor­ to alla condensazione, che i temi della laconicità e della brevità assumeranno una particolare importanza all'interno della teoria 123 esplicativa che verrà proposta nel capitolo settimo dell'Interpre­ tazione dei sogni, come rispondenti ad una tendenza che fa parte dello stesso meccanismo dei processi psichici in genere. Come abbiamo premesso, questo aspetto non rientra nell'ambito delle nostre considerazioni. Annotazione In Freud vi è una tendenza ad assimilare le tecniche del motto alle procedure del lavoro onirico. Questa tendenza prende le mosse da alcune analogie e dalla possibilità di riportare alcune importanti distinzioni dal sogno al motto. Essa si orienta tuttavia anche nel senso di rafforzare una concezione secondo la quale vi sarebbe uno speciale "modo di pensare" caratteristico dell'incon­scio. In realtà vi sono differenze significative che meritano di essere chiaramente sottolineate. In primo luogo la procedura di costruzione del motto sta interamente alla superficie, la sua struttura sta sotto i nostri occhi anche se a tutta prima potrebbe essere per noi poco chiara. Ma il chiarimento non avviene attraverso un'"interpre­tazione" - nel senso in cui questa parola può essere usata in rapporto al sogno, bensì attraverso una "analisi" del motto stesso. Dalla superficie del motto possiamo leggere le regole dalla cui applicazione esso sorge; nel caso delle formazioni oniriche invece, la nozione di regola subisce uno spostamento dal piano orizzontale della scena onirica (contenuto manifesto) al piano verticale della sua origine motivazionale. Lo stessa affermazione che il sogno ha una strut­tura può essere sostenuta solo esibendo la possibilità della sua intepretazione. A ciò è strettamente connesso il fatto che nell'inter­pretazione del sogno siamo costretti ad interessarci di fatti privati e strettamente individuali, mentre i motti di spirito sono in via di principio "pubblici", ovvero immediatamente comprensibili da ciascuno. Così la formazione del lavoro onirico "norekdale" richiede necessariamente il rimando ad associazioni individuali, strettamente dipendenti dalle motivazioni soggiacenti, mentre il caso strutturalmente affine dei modi "familionari" di un milionario non ha bisogno di un simile supporto. Sottolineare questi aspetti significa anche suggerire che il tema delle regole dell'immaginazione è indipendente dalle specificazioni possibili dell'attività immaginativa. 124 3. Lo spostamento Molto più compromesso con l'apparato teorico-esplicativo di Freud sembra a prima vista la seconda procedura generale del lavoro onirico, che egli caratterizza con il termine di spostamento (Verschiebung), benché non manchino aspetti riportabili sul terre­ no fenomenologico. Anche nel caso dello spostamento, la nozione viene isti­ tuita a partire dal confronto tra contenuto manifesto e pensieri latenti. Ma mentre nel caso della condensazione potevamo dare un'esem­pli­ficazione ricorrendo ad elementi del sogno presen­ ti nella loro singolarità, mostrando una stretta corrispondenza con il tema delle associazioni, qui le cose cambiano ed abbiamo bisogno di considerare un frammento sufficientemente ampio del sogno sia nel suo contenuto manifesto che nella sua inter­ pretazione. Infatti si parla di spostamento in primo luogo quan­ do ciò che appare centrale o importante nei pensieri latenti non appare rappresentato nel contenuto manifesto o viene rappre­ sentato solo indirettamente. Potremmo, in altre parole, distingue­ re tra centro e margini dei pensieri latenti e del contenuto manife­ sto. Si ha spostamento quando un aspetto marginale dei pensieri latenti, che è tuttavia connesso con il loro centro, viene posto al centro del contenuto manifesto, mentre il centro dei pensieri latenti diventa a sua volta marginale oppure viene rappresentato solo indirettamente: "Il sogno (contenuto manifesto)… è diver­ samene centrato: il suo contenuto è imperniato su altri elemen­ ti diversi dai pensieri del sogno" [17]. In generale Freud parla di spostamento ogni volta che sia possibile esibire una simile modificazione di accento in forza del quale un elemento margi­ nale, che si trova in qualche modo in prossimità con l'ele­men­ to centrale, riceve l'importanza che spetterebbe a quest'ultimo. Si vede subito che qui ci troviamo su un terreno piuttosto diverso da quello della condensazione e che inoltre, almeno in questo primo modo di approccio, risulta partico­larmente accentuato il carattere 125 di un ben determinato dinamismo psicologico. In particolare, più direttamente che nel caso della conden­ sazione, per lo spostamento dobbiamo chiamare in causa la cen­ sura onirica e il conseguente effetto di deformazione dei pensieri latenti. Lo spostamento è in primo luogo una diretta operazione censoria che preclude la rappresentazione del nucleo reale del sogno, consentendo soltanto una rappresentazione indiretta at­ traverso un elemento marginale connesso a quel nucleo. In que­ sto senso si tratta di una nozione più strettamente collegata alla concezione complessiva del sogno di Freud. Tuttavia anche nel caso dello spostamento non abbiamo sempre bisogno di ricorrere alle ipotesi esplicative vere e pro­ prie. In particolare la stessa nozione di "censura" non deve es­ sere legata, o almeno può non essere legata a fil doppio all'ap­pa­­rato esplicativo freudiano. Del resto, per una libera illustrazione della nozione di spostamento potremmo anche ricorrere a situazioni che si presentano di continuo nei rapporti interpersonali di ogni giorno così come nei nostri discorsi correnti. Ogni volta che, per una ragione o per un'altra, non possiamo dire le cose come stanno, aggiriamo l'ostacolo facendo un'osservazione marginale, che ha tuttavia attinenza con il nucleo del problema che ci sta veramente a cuore. Se il nostro interlocutore è abbastanza attento, farà una rapida "interpre­tazione" del nostro modo di parlare contorto e ci costringerà a venire al sodo, oppure si offenderà definitivamen­ te, cosa che era nelle nostre intenzioni cercare di evitare. Vi è dunque anche nella nozione di spostamento qualche aspetto che rimanda a considerazioni di psicologia fenomenologica, evitan­ do di implicare direttamente l'apparato vero e proprio delle ipo­ tesi psicoanalitiche. Senza pretendere di proporre un approfondimento effettivo, ci interessa chiarire un poco più da vicino il modo in cui il proble­ ma dello spostamento ha a che vedere con la tematica dell'asso­ cia­zione. Il punto della questione sta evidentemente nello scivo­ lamento da un evento A ad un evento B, e la condizione di pos­ 126 sibilità di questo scivolamento sta nel sussistere di qualche nesso associativo tra A e B. In forza di questo nesso, B può diventare il rappresentante indiretto di A (e l'analisi dovrebbe rimettere le cose al loro posto). Parlando di nesso associativo non pre­ giudichiamo l'eventuale modalità attraverso cui il nesso stesso ha luogo: l'ele­men­to B può essere contiguo ad A dal punto di vista spaziale o tem­porale; oppure può essere simile ad A sotto qualche riguardo, per richiamare soltanto le due grandi regole dell'associa­zione. Questa osservazione ha in realtà maggiore importanza di quanto possa sembrare a prima vista. Una lettura abbastanza comu­ne del problema approfitta della possibilità di stabilire una relazione tra metafora e condensazione, per mettere in relazione lo spostamento e la metonimia. Si può in effetti essere tentati di scorgere nella condensazione una relazione privilegiata con la regola della somiglianza e nella metonimia una relazione pri­ vilegiata con la regola della contiguità. La precisazione fatta or ora intende raccomandare una certa prudenza nello stabilire simili analogie. Da un lato la distinzione tra somiglianza e contiguità come regole generali dell'associazio­ ne sono abbastanza dubbie come criterio di classificazione per le immagini in genere; dall'altro la peculiarità della problematica del lavoro onirico non ci consente traposizioni dirette sul terreno dell'immaginazione in genere. Del resto abbiamo visto poco fa che sarebbe improprio ritenere che la procedura della condensazione conduca ad im­ magini vere e proprie. Ora facciamo notare che non vi è alcuna plausibile ragione per vincolare la natura del nesso associativo che sta alla base dello spostamento alla regola della contiguità. 127 4. La traduzione visiva dei pensieri latenti. Sotto il titolo di "mezzi di rappresentazione del sogno" Freud riunisce tutto un complesso di metodi in un'esposizione ricchis­ sima di spunti e di elementi di discussione. Va subito precisato che la "rappresentazione" di cui si parla è anzitutto la rappresentazione visiva: alla base della posizione di questa problematica vi è l'assunto che le rappresentazioni del sogno assumano per lo più una forma quasi-visiva. Poiché i so­ gni vengono poi "raccontati" e dun­que vengono formulati con espressioni verbali, ed anche l'analisi si sviluppa nella forma di pensieri verbalmente espressi, sorge il problema di mostrare in che modo il sogno esprima pittoricamente ciò che sta alla sua ori­ gine. Si noti che anche in questo caso troviamo l'inversione pro­ blematica che è caratteristica dell'intera impostazione del tema del lavoro onirico: in base ad essa, viene proposto come origine e motivo del sogno (e che dunque sta prima di esso), ciò che viene acquisito dopo di esso nella sua interpretazione. Benché Freud non affermi che tutti i sogni abbiano un ca­ rattere allucinatorio, tuttavia egli finisce con l'annettere un'im­ portanza grandissima a questo aspetto anche nel quadro della te­ oria esplicativa del sogno. Lo abbiamo già notato fin dall'inizio, a proposito della problematica dell'effetto di realtà. E il punto di vista precedentemente emerso va qui ribadito: l'effetto di realtà, considerato come elemento descrittivo della scena onirica, va riportato al tema della "passività", così come ovviamente la sua apparenza "percettiva". In questo quadro, la questione dei mezzi della rappresen­ta­ zione non riguarda allora unicamente il problema delle forme pe­ culiari del sogno, ma quello più generale della tradu­zione visi­va di materiali verbali. La tematica delle regole e delle procedure dell'imma­ ginazione precede in via di principio quello delle procedure oniriche e non deve essere derivata da questa. Del resto Freud si richiama una volta al caso della pittura 128 proprio per illustrare questo problema [18]. Egli osserva che una delle limitazioni della pittura consiste nel fatto di non dispor­ re di parole. Come potranno allora essere espressi in essa dei pensieri che assumono una forma anzitutto attraverso le parole? Come può la pittura dire qualcosa? Come si può esprimere pit­ toricamente una relazione logica, una relazione temporale o una relazione di causa ed effetto? Naturalmente è sbagliato presentare le cose come se la man­ canza di parole fosse una limitazione della pittura. Infatti potrem­ mo inversamente sostenere che la mancanza di immagini visive sia una limitazione della poesia o del racconto verbale, o arrivare ad affermare che un racconto cinematografico sia superiore ad un racconto fatto di parole perché possiamo "vedere" i personaggi e le azioni e non dobbiamo limitarci a pensarli. Il punto del problema non sta qui - ed il richiamo alla pittura, fatto in questo modo, potrebbe dar luogo a equivoci. Se consi­ deriamo un dipinto non dobbiamo necessariamente assumere che esso sia la trasposizione o addirittura la traduzione visiva di un pensiero ben determinato, che possa assumere la forma effettiva di una frase. Una volta tolto di mezzo questo equivoco, è chiaro tuttavia che vi sono contesti in cui può essere perfettamente sen­ sato proporsi il problema di realizzare un disegno che comunichi esattamente lo stesso messaggio che potremmo comunicare in parole. Supponiamo ad esempio di dover comunicare per iscrit­to ad un analfabeta un'informazione qualunque, oppure un ordine o un invito. Potremmo allora ricorrere ad un disegno, e nell'affron­ tare questo compito ci troveremmo di fronte a varie difficoltà che sono appunto quelle difficoltà che incontra il lavoro onirico. Non vi è perciò da sorprendersi se le soluzioni che esso propone tal­ volta non sono molto diverse da quelle propor­remmo, in piena coscienza ed a ragione veduta, di fronte al compito proposto. Più che l'analogia con la pittura, risulta interessante pro­ prio questo problema di un messaggio verbale che deve essere 129 tradotto in una raffigurazione, la quale assumerà a sua volta il carattere di messaggio. Vogliamo prendere in esame qualche esempio. Freud esa­ mina anzitutto la rappresentazione onirica dei legami logici. Ad esempio egli si chiede: "In che modo vengono raffigurati nel sogno i 'se, perché, come se, benché, o… o' e tutte le altre pre­ posizioni senza le quali non possiamo comprendere una frase o un discorso?" [19] Nel porre un problema come questo è necessario tener pre­ sente che se da un lato è possibile proporre la distinzione tra pensieri latenti e contenuto manifesto come una distinzione tra un testo e la sua messa in scena nel contenuto manifesto, dall'al­ tro è difficile sostenere alla lettera che nel sogno si dia espressio­ ne non verbale ad un contenuto che sta al di là di esso e che è già stato formulato verbalmente. Non dobbiamo perdere mai di vista il modo in cui il problema è impostato, quel caratteristico ribaltamento sul quale abbiamo già più di una volta richiamato l'attenzione. Ciò che sta alla base del sogno non sono in ogni caso pensieri verbalmente espressi, ma determinati intrecci di vissuti. Nell'interpretazione portiamo alla luce questi intrecci e perveniamo in effetti a formulazioni verbali, ad una o più fra­ si che effettivamente contengono parole logico-grammaticali come "se", "perché" ecc. Nell'inver­sione metodica effettuata, assume allora senso la domanda sul modo in cui il sogno espri­ me queste relazioni - che è un problema alquanto differente dall'idea che il sogno abbiamo un modo tutto suo di trattare le relazioni logiche. La questione è appunto quella di una traduzio­ ne visiva di un testo espresso in parole. Come potremmo tradur­ re "pittograficamente" una frase che comincia con un "se fossi presso di te…"? Anche noi in prima istanza adotteremmo per quel "se" la stessa soluzione che adotta anche il sogno. Sempli­ cemente lo trascureremmo. Freud osserva infatti che per lo più il sogno "trascura tutte queste preposizioni, e si assume soltanto l'elaborazione del contenuto oggettivo dei pensieri onirici" [20] . 130 Supponiamo che la frase sia: "se fossi presso di te, potrem­ mo giocare una partita a tennis". Qual è il contenuto oggettivo di questa frase? Indubbiamente il fatto di essere insieme e poi il giocare insieme una partita a tennis. Questi due fatti possono in qualche modo essere rappresentati visivamente attraverso un di­ segno, lasciando poi all'acume del nostro amico la comprensione del messaggio visivo che gli invio, e cioè il nesso tra i due fatti rappresentati in disegni. La connessione vera e propria è anda­ ta distrutta nel disegno, ma può essere che il messaggio venga comunque compreso. "All'inter­pretazione del sogno è lasciato appunto il compito di ristabilire la connessione che il lavoro oni­ rico ha distrutto" [21] . Dunque la domanda che chiede come vengano rappresen­ tate le relazioni logiche tra i pensieri si risponde che esse non vengono rappresentate affatto, e questo non perché il sogno se­ gua una sua logica particolare, ma perché questa è una conse­ guenza ovvia della trasposizione visuale. Portare l'atten­zione su questo punto potrà forse rendere il problema meno affascinante di quanto possa apparire nelle letture correnti di Freud, nelle quali si tende a presentare le procedure oniriche come procedure che dovrebbero sempre suscitare in noi la massima meraviglia; ma in realtà la vera meraviglia sta piuttosto nel modo complessivo e straordinariamente ricco di idee in cui Freud imposta l'intera pro­ blematica teorica qui in questione. Che le relazioni logiche non vengano rappresentate costi­ tuisce tuttavia solo una indicazione di massima, che non vale sempre e in ogni caso. Secondo Freud, di fronte ad un'analisi detta­gliata di esempi ci si può rendere conto che il sogno cerca talvolta mezzi ingegnosi per segnalare le connessioni tra i pen­ sieri. Freud sottolinea in particolare che su questo punto "ogni sogno si comporta a modo suo" [22] , cosicché i rilievi che pos­ sono essere compiuti in rapporto a questo o a quel sogno singo­ lo non rivestono carattere di procedura generale. Prendiamo rapidamente in rassegna alcuni casi notevoli. 131 Il sussistere di un qualche legame, di un aspetto comune tra due pensieri di diverso contenuto, quindi il sussistere di un nesso logico tra l'uno e l'altro in un'accezione abbastanza ampia del termine può essere segnalato ricorrendo a rappresentazioni simultanee. Qui cade ancora un significativo esempio pittorico: "Il sogno procede in ciò come il pittore che, per il quadro della scuola di Atene o del Parnaso, riunisce tutti i filosofi o poeti che non sono mai stati insieme, ma che per la speculazione intel­ lettuale formano una comunità in una sala o sulla cima di un monte" [23] . Di fatto il rappresentare simultaneamente cose o eventi di­ stinti per alludere al sussistere di un aspetto comune è una solu­ zione, vorrei quasi dire, del tutto ragionevole se si ha a disposi­ zione un materiale non verbale. Altrettanto ragionevole è la rappresentazione del rapporto causale. Secondo Freud talora il rapporto viene segnalato almeno in due modi: 1. il contenuto oggettivo della proposizione principale, che esprime l'effetto, e della proposizione subordinata che formula la condizione causale, viene rappresentato in due sogni distinti che vengono tuttavia raccontati in una successione temporale, in modo che la proposizione che formula l'effetto segua la proposi­ zione che formula la condizione causale (laddove l'ordine tempo­ rale viene invertito, il sogno che rappresenta l'effetto si presenta in ogni caso come un sogno più sviluppato e più ricco di detta­ gli). La causalità viene così ricondotta alla contiguità temporale, ed anche questo modo della rappresentazione potrebbe essere im­ piegato in un dipinto. Naturalmente in esso non si ha una con­ tiguità temporale vera e propria, ma sarebbe errato pensare che nel dipinto non si possa dare una qualche rappresentazione del­ la successione temporale. Una successione di eventi può essere rappresentata attraverso scene distinte e concomitanti, cosicché la contiguità spaziale potrebbe assumere il senso di una contigui­ tà temporale e questa a sua volta, tenendo conto del contenuto 132 delle singole scene, di una concatenazione causale. 2. L'altro metodo di rappresentazione indicato da Freud per il rapporto causale è la "trasformazione durante il sogno di un'immagine, sia di persona sia di oggetto, in un'altra" [24] . Benché Freud non indugi su questo punto, limitandosi ad os­ servare che anche in questo caso abbiamo a che fare con la ri­ conduzione del rapporto causale ad un rapporto di successione "tramite, una volta, una successione di sogni, un'altra volta, la trasformazione immediata di un'immagine in un'altra", tuttavia anche in questo caso potemmo osservare che la connessione cau­ sale può effettivamente assumere l'aspetto di una metamorfosi della causa nell'effetto - e lo può naturalmente anzitutto per l'im­ maginazione. Alcune osservazioni interessanti sono infine dedicate all'e­ spressione della disgiunzione. Anche qui vale in linea generale la tendenza alla soppressione di questa connessione logica. "La disgiunzione non può essere espressa in alcun modo nel sogno". Perciò vi sarà la pura e semplice giustapposizione del contenu­ to oggettivo dei pensieri espressi disgiuntivamente. Ma Freud nota anche che nel racconto del sogno spesso vengono formu­ late disgiunzioni del tipo "era un giardino o un salotto" [25] . In casi come questi la disgiunzione deve essere intesa come una congiunzione. Ed anche questa circostanza ha le sue ragioni. Si tratta infatti di una disgiunzione che non formula un'alternativa, ma che esprime incertezza, cosicché essa rimanda a complessi associativi compresenti che debbono entrambi essere presi in considerazione nell'interpretazione. In questa forma disgiuntiva si manifesta "un aspetto confuso, che può essere ancora chiari­ to, di un elemento del sogno" [26] . Vi sono cioè "due gruppi ideativi principali" che confluiscono nella formazione onirica ed entrambi hanno interesse ai fini dell'interpretazione [27] . Del resto si può anche pensare a casi di condensazione, ad es. alle configurazioni miste di fronte alle quali nel racconto del sogno si operi una sorta di razionalizzazione, utilizzando appunto la 133 disgiunzione con questa funzione. Di fronte alla formazione mi­ sta che presenta un personaggio che è mio fratello e mio zio, nel racconto potremmo ricorrere all'alternativa "mio fratello o mio zio" che, attraverso l'incertezza, tende a sopprimere l'incon­ gruenza. Accenniamo infine ad un'altra peculiarità che riceve in Freud una particolare accentuazione. Si tratta della rappre­sentazione onirica del contrasto o della contraddizione tra i pensieri latenti. Qui il sogno si comporta in maniera "assai sorprendente" - com­ menta Freud. La contraddizione "viene semplicemente trascura­ ta, il "no" sembra non esistere per il sogno. I contrasti vengono riuniti con singolare predilezione in unità o rappresentati insie­ me. Inoltre il sogno si prende anche la libertà di rappresentare qualsiasi elemento con il suo desiderio antitetico, di modo che, di fronte ad un elemento che ammette un proprio contrario, da principio non sappiamo se è contenuto nei pensieri del sogno in senso positivo o negativo" [28] . Freud nota tuttavia come in qualche caso il sogno tenda a contrassegnare in qualche modo la negazione: "Il non riuscire del sogno è una espressione della contraddizione, un 'no', e perciò va corretta l'affermazione pre­ cedente che il sogno non è in condizione di esprimere il no" [29] . Ma di norma il sogno non sembra tenere in conto la negazio­ ne e non segue affatto la regola della reciproca esclusione degli opposti - ed è questo che a Freud sembra "assai sorprendente". Forse saremo portati a condividere la sorpresa di Freud ed a conferire a questo problema una portata molto ampia. Si com­ prende subito che qui non sembra sia in gioco un particolare aspetto del problema dell'interpretazione, ma che sia chiamata in causa la prospettiva complessiva nella quale ci muoviamo. Se ci limitiamo a prendere atto del comportanmento del sogno nei confronti della contraddizione, possiamo ritenere di aver sancito in modo definitivo l'opposizione tra conscio e inconscio come una opposizione tra ragione e non ragione. L'osservazione secon­ do cui il sogno non terrebbe in nessun conto la contrad­dizione, 134 presa in se stessa, si può arricchire di risonanze non difficili da intuire. Quando si parla della contraddizione sembra sempre che ci troviamo alla presenza di contrapposizioni cruciali. Tanto più se poi richiamiamo l'attenzione sul fatto che il sogno, che pure ha un senso ed è in fin dei conti un modo di esporre pensieri, non si comporta affatto secondo una regola che è considerata come la quintessenza delle regole della logica. In una nota ag­ giunta in un'edizione successiva alla prima (1911) Freud scrive di "aver appreso il fatto sorprendente… che le lingue più antiche si comportano in tutto e per tutto come il sogno" [30] . In effetti risale al 1910 un breve scritto di Freud intitolato Significato oppo­ sto delle parole primordiali [31] in cui egli riprende e riassume un lavoro del glottologo Karl Abel scorgendo in esso una conferma "lingui­stica" del comportamento del linguaggio onirico nel quale una parola può indicare significati opposti. Sembra così che si arrivi a lambire, giunti a questo punto, la soglia di uno dei segreti delle dinamiche dell'inconscio, la soglia di un problema che va molto al di là di quello del sogno e che tocca forse le stesse radici inconscie del linguaggio. In realtà Èmile Benveniste ha mostrato con chiarezza gli errori materiali e metodologici contenuti nella posizione formulata da Karl Abel e ripresa con particolare enfasi da Freud, sottolineando che non a caso "nessun linguista quali­ ficato, né quan­do Abel (nel 1884 ce n'erano già) scriveva, né in seguito abbia preso in considerazione tanto nel metodo quanto nelle conclusioni questo Gegensinn der Urworte" [32] . Tuttavia, a parte questo riferimento linguistico specifico, la questione della contraddizione in Freud ha un notevole peso ed è lontana da noi l'intenzione di pretendere di affrontare questo problema in grande. Ma non vogliamo nemmeno limitarci ad enunciarlo. In effetti, l'affermazione da cui abbiamo preso le mosse ap­ pare effettivamente densa di quelle risonanze di carattere più ge­ nerale a cui accennavamo or ora, soprattutto se la conside­riamo isolatamente, come un'enunciazione sul sogno e sull'in­conscio 135 come tali, prescindendo dunque dal modo in cui si affaccia il problema. Invece occorrerebbe insistere sulla necessi­tà di pro­ porlo entro il quadro problematico suo proprio, cosa che ten­ de subito ad attenuare l'enfasi in cui esso viene subito avvolto. Occorre sottolineare due volte che la que­stione viene affrontata dentro il problema della traduzione pittografica di un pensiero; e nello stesso tempo questa tematica va considerata nell'orizzonte delle procedure immaginative. Cosicché non vi è da sorprendersi più di tanto se nella traduzione pittografica di un pensiero trove­ remmo difficoltà nel dare rappresentazione ad una proposizione negativa. In queste stesse difficoltà si imbatte, in tutt'altro contesto, Ludwig Wittgenstein nel Tractatus. Le considerazioni di Witt­ gen­stein prendono le mosse dalla natura del linguaggio e dall'a­ nalogia della proposizione verbale con le raffigurazioni in genere. Ed allora sorge subito il problema di come si possa dire, in un linguaggio concepito "pittograficamente", che due persone non tirano di scherma. Ciò che osserva Wittgenstein è che la raffigu­ razione negativa dovrà in ogni caso contenere la raffigu­razione di due persone che tirano di scherma. Del resto, il divieto di fumare dovrà comunque espresso in figura da una sigaretta accesa e non ad esempio da una bottiglia o da un bicchiere. Freud nota a sua volta, come abbiamo rammentato in precedenza, che il sogno si assume soltanto "l'elaborazione del contenuto oggettivo dei pensieri onirici" [33] . Nel caso in questione questo contenuto oggettivo è proprio la proposizione affermativa corrispondente. Vi è tuttavia un altro aspetto del problema che è connes­ so, piuttosto che alla questione della rappresentazione in figura, alla tematica dell'immaginario. Nel considerare le osservazioni di Freud intorno alla questione del contrasto, è bene tener pre­ sente che il contrasto potrebbe essere annoverato tra le rego­ le dell'associa­zione, esattamente come la contiguità e la somi­ glianza. La luce potrebbe "far venire in mente" il buio, il giovane il vecchio, il grande il piccolo, ecc. Interessante è il modo in cui 136 questa regola associativa può essere nuovamente prospettata sul piano delle operazioni immaginative vere e proprie. Vi sono qui alcune peculiarità: sulla base del contrasto non perveniamo senz'al­ tro ad una fusione, ma l'opposi­zione istituisce in ogni caso un lega­ me e la compresenza di ciò che è opposto può condurre ad un raf­ forzamento immaginativo reciproco dei termini dell'opposizione. Ciò significa che per l'immaginazione (in gene­rale) l'opposto può esprimere il suo opposto. Le grandi dimensioni vengono esaltate se vengono poste di fronte alle pic­co­le dimen­sioni. Nell'antitesi, gli elementi antitetici si rafforzano vicendevol­mente ed in questo raf­ forzamento reciproco ha origine la loro soli­da­rietà imma­ginativa. Il problema in Freud non è tuttavia esaurito né dal riman­ do alla rappresentabilità visiva né da quello alle regole generali dell'immaginazione. L'aspetto più notevole della tematica freu­ diana sta probabilmente nell'attirare l'attenzione sul modo in cui si configura questo problema nel quadro della tematica più am­ pia della conflittualità intrapsichica. Tenendo conto di ciò, può accadere effettivamente che il no significhi si secondo una "logi­ ca" che non ha affatto la possibilità di essere sensatamente con­ trapposta alla legalità del discorso razionale: se il sogno "si prende anche la libertà di rappresentare qualsiasi elemento con il suo de­ siderio antitetico", questa libertà va intesa in funzione di un con­ flitto psichico entro cui un simile comportamento è strettamente integrato ed entro cui quella libertà ha le sue precise motivazioni. 5. L'impiego delle immagini nel sogno Concludiamo la nostra esposizione con un ultimo punto che ri­ guarda l'impiego di espressioni figurate vere e proprie. Come abbiamo detto, il lavoro onirico è un'attività (teori­ camente postulata) di trasformazione del pensiero latente nel con­ tenuto manifesto. Il pensiero latente va inteso a sua volta come un pensiero verbalmente formulato, come una frase o un insieme 137 di frasi nel senso consueto del termine che rimanda al "linguaggio delle parole" mentre il contenuto manifesto viene inteso preva­ lentemente come scena visiva. Ora, un altro interes­sante modo di procedere del lavoro onirico consiste essenzial­mente nel so­ stituire nel testo del pensiero latente di una espres­sione figurata ad un'espressione letterale. Questa espressio­ne figurata avrà in generale un carattere plastico e concreto - sono espressioni di Freud - e proprio per questo si presta ad essere convertito in un ele­ mento della scena onirica vera e propria. L'impiego di metafore o immagini suggerisce un modo di rappresentazione concreta di situazioni o di relazioni relati­vamente astratte. L'impiego dell'immagine è dunque subordinato al proble­ ma della rappresentabilità visiva che mantiene anche in questo caso il carattere di filo conduttore principale. Osserva Freud che proprio perché "per il sogno, ciò che è plastico è rappresentabi­ le", il passaggio dal testo linguistico al contenuto manifesto può giovarsi del tramite dell'immagine. Il testo viene riformulato in un nuovo testo che esprime il precedente con espressioni figu­ rate e di qui si trae un possibile materiale rappresentativo visi­ vo. Viene dunque effettuata una "trasfor­ma­zione linguistica dei singoli pensieri", dove "linguistico" deve essere inteso in senso stretto, cioè con riferimento al linguaggio delle parole. Di qui si trae una scena onirica o un elemento di essa. Per indicare il passaggio da un'espressione astratta ad una "plastica e concreta", Freud parla di spostamento, e preci­ samente di "spostamento lungo una catena associativa". In par­ ticolare si nota: "Lo spostamento avviene di regola nel senso che un'espres­sione incolore e astratta del pensiero onirico viene scambiata con un'altra, plastica e concreta" [34] . Ed ancora si parla di "sostituzione di una determinata rappresentazione con un'al­tra, in qualche modo contigua ad essa dal punto di vista associativo". In contesti come questi evidentemente la parola spostamento non può avere lo stesso senso fissato a suo tem­ po, in cui indicava fondamentalmente il mutamento di accento 138 dal rilevante all'irrilevante, così come del resto il riferimento alla contiguità indica soltanto la prossimità dei contenuti all'interno di una serie associativa e non ha nulla a che vedere con il modo dell'associazione (e dunque in particolare la regola associativa della contiguità). Ciò che qui viene indicato con spostamento indica semplicemente il passaggio da un membro all'altro di una catena associativa - qualunque sia la regola dell'associazione - come condizione per il formarsi delle immagini. Freud parla an­ che di "secondo tipo di spostamento". Questo argomento meriterebbe di essere approfondito, ma il problema nelle sue linee essenziali è tuttavia sufficientemente chiaro. Un esempio molto semplice suggerito dal testo [35] po­ trebbe essere il seguente: la parola "perfezionare" in relazione ad uno scritto, ad un discorso ecc., potrebbe essere sostituita con la parola limare, nella sua accezione metaforica. La metafo­ ra suggerisce così un equivalente rappresentativo concreto. Un altro esempio: nel sogno riferito da Freud in rapporto a questo problema, il desiderio della sognatrice che il suo amico musicista primeggi su tutti gli altri dà luogo ad una scena onirica in cui un personaggio - che rappresenta l'amico (anche se non lo è) - di­ rige in cima ad una grande torre un'orchestra che si trova ai suoi piedi. Vi è dunque nel testo del pensiero latente un "primeggia­ re" che è stato sostituito con un "tor­reg­giare" e di qui sorge lo spunto per una rappresenta­zione "plastica". Usando una terminologia nostra [36] , potremmo parlare di "concretizzazione dell'immagine" - dal momento che proprio di questo si tratta nell'ultimo passo compiuto dal lavoro onirico. Infatti qui non vi è solo l'impiego di un'espressione metaforica, ma una vera e propria soppressione del senso metaforico, che viene sostituito dal senso letterale dell'espres­sione [37] . Lo schema è dunque: testo espresso in parole astratte-tra­ sformazione del testo con espressioni figurate-concre­tizzazione delle immagini contenute in quelle espres­sioni. Usando ancora la nostra terminologia: nella concretizza­ 139 zione dell'immagine, il riferimento im­ma­ginoso viene a cadere, mentre si realizza una transizione ad un contesto fantastico-im­ maginario. Questo punto è esplicitamente segnalato da Freud: "Questo secondo tipo di spostamento è… anche singolarmente idoneo a chiarire la parvenza di assurdità fantastica con cui si ma­ schera il sogno" [38] . "Il sogno, per quanto del resto ben centra­ to su una situazione, è abbastanza assurdo: la torre in mezzo alla platea…" [39] . Anche in questo caso, va attirata l'attenzione sul fatto che questa procedura può essere illustrata in modo del tutto indipendente dalla tematica del lavoro onirico. La concretizzazio­ ne dell'immagine va annoverata tra le regole dell'immaginazione in genere, prima ancora che fra quelle del lavoro onirico; ed essa è inoltre non viene messa in gioco soltanto come una soluzione del problema della "rappresentabilità nel peculiare materiale psichico di cui si serve il sogno, vale a dire per lo più la rappresentabi­ lità in immagini visive" [40] - problema a cui invece in questo caso essa è strettamente subordinata. È il caso di notare che si ha una concretizzazione dell'immagine, esattamente in questo senso, quando si tenta di tradurre visivamente, attraverso una fotografia o un disegno, un'espressione figurata. Nella seguente elaborazione fotografica ci si è forse posti il compito di trasporre sul piano visi­ vo l'espressione "uscire il fumo dagli occhi": 140 E naturalmente si ottiene anzitutto la figura di un uomo dagli occhi fumanti. Questo accade probabilmente ogni volta che si tenta di tradurre visivamente un'immagine verbalmente e­spressa - il passaggio al senso letterale sembra allora inevitabile. Così l'"essere tutto orecchi" rappresentato dall'uomo dall'orecchio enorme: Ciò non esclude che, senza alcuna mediazione di metafore verbali, si possano realizzare delle raffigurazioni che possano essere rite­ nute qualcosa di simile a "metafore visive". Forse può essere con­ siderata tale la ben nota immagine del Violon d'Ingres di Man Ray. Ma nel considerare questi esempi [41] ci allontaniamo ormai dal terreno delle procedure del lavoro onirico, per approssimar­ ci piuttosto a quello della relazione tra le regole dell'imma­gina­ zione e le figure "retoriche" [42] *. Ringrazio Luca Zendri per la sua accurata rilettura di questo lavoro nella sua stesura conclusiva e per le preziose indicazioni suggerite. * 141 142 Note [1] Cfr. G. Piana, Le regole dell'immaginazione in questo volume. [2] S. Freud, L'interpretazione dei sogni (1899), trad. it. in Opere, Torino 1972, vol. III. [3] ivi, p. 501. [4] cfr. I. Margoni, André Breton e il surrealismo, Mondadori, Mi­ lano 1976, p. 257 [5] ivi, p. 258. [6] ivi, p. 259. [7] Parlo del concetto di simbolo in Freud in Elementi di una dottrina dell'esperienza, cap. III, § 15. [8] ivi, III, § 9. [9] S. Freud, L'interpretazione dei sogni, cit., p. 259. [10] ivi, p. 271. [11] ivi, p. 298. [12] ivi. [13] cfr. ivi, pp. 299-300, dove si cita l'immagine mista "costi­ tuita dalla figura di un medico e da un cavallo, e per di più vestita da una camicia da notte". [14] ivi, p. 298. [15] Casa di bambola e L'anitra selvatica. [16] La psicopatologia della vita quotidiana (1900) - Il motto di spirito e le sue relazioni con l'inconscio (1905)(S. Freud, Opere, Torino 1972, vol. IV e V). Sul problema del motto di spirito ed in generale del comico in Freud, si può vedere il cap. II, § 1 del bel libro di Alfredo Civita, Teorie del comico, Unicopli, Milano 1984, ora disponibile anche in ver­ sione digitale in Spazio filosofico, Collana Il dodecaedro, all'indirizzo http://www.­lettere.­unimi.it/­Spaz­io_Fi­lo­so­fico. [17] S. Freud, L'interpretazione dei sogni, cit. p. 282. [18] ivi, p. 279. [19] ivi, p. 288. [20] ivi, p. 279. [21] ivi, p. 288. [22] ivi, p. 279. [23] ivi, p. 289. 143 [24] ivi, p. 291. [25] ivi, p. 292. [26] ivi. [27] ivi, p. 293. [28] ivi. [29] ivi, p. 310. [30] ivi, p. 293. [31] S. Freud, Opere, trad. it., VI, pp. 185 sgg. [32] É. Benveniste, Note sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana, in Problemi di linguistica generale pp. 97 sgg.. trad. iit, di M. Vit­ toria Giuliani, Il Saggiatore, Milano, 1971. [33] S. Freud, L'interpretazione dei sogni, cit. p. 288 [34] ivi, p. 312. [35] ivi, p. 317. [36] L'argomento è trattato nel mio lavoro Le regole dell'immagi­ na­z ione, cit. [37] S. Freud, L'interpretazione dei sogni, cit. p. 315. [38] ivi, p. 313. [39] ivi, p. 315. [40] ivi, p. 316. [41] La foto dell'uomo dagli occhi fumanti è di Jim Mac Crary e quella dell'uomo dal gran­de orecchio di Peter Wandrey. Entrambe, oltre a quella di Man Ray, sono tratte dal bel numero di Progresso foto­ grafico, dic. 1977, interamente dedicato al tema "Linguaggio e fotogra­ fia" curato da Attilio Colombo. [42] Su questo problema, relativamente a Freud, ed anche sulla tematica complessiva qui trattata, è ricco di interesse T. Todorov, Teo­ rie del simbolo (1977), a cura di Cristina De Vecchi, Garzanti 1984, cap. VIII, La retorica di Freud, pp. 313 sgg. 144 145 Sulla fantasticheria 1980 146 Appunti di lavoro relativi ad un corso tenuto all'Università degli Studi di Milano nel 1979-80 intitolato "L'immaginazione". 147 1. Uno dei primi problemi che una filosofia dell'immaginazione deve affrontare è quello di interrogarsi sulla "natura" dell'ogget­ to immaginato. Quando immaginiamo qualcosa, qual­cosa ci è immaginativamente presente. Si tratta allora di dare un senso suf­ ficientemente determinato a quell'avverbio, alla qualifi­cazione di un oggetto come oggetto dell'imma­ginazione. A questo scopo ci può servire anche soltanto l'invito a freddo ad immaginare questa o que­st'al­tra cosa. Ed a questo invito possiamo accon­discendere con altrettanto freddezza. Ecco che ora immagino di fronte a me, sul tavolo, un bicchiere di cristallo. Ma quando mai accade che si avviino processi imma­ginativi in questo modo? Forse accade soltanto quando è solleci­tata la nostra curiosità teoretica. 2. Un simile inizio è in effetti scientemente artificioso. In questo modo di cominciare è presente l'intenzione di operare un isola­ mento delle operazioni immaginative da operazioni e funzioni di altra natura, quasi si volesse indicare con ciò che una filosofia dell'immagina­zio­ne deve cominciare con un tentativo di circo­ scrivere l'immagina­zio­ne soltanto, e non le altre attività in cui essa è certamente intessuta. Così facendo la soggettività imma­ ginante viene posta ai margini, e considerata al più come una spettatrice ed una libera manipolatrice dei suoi fantasmi. Assu­ mendo questo punto di vista, si presuppone che le sintesi imma­ ginative seguano percorsi che avvengono all'interno di una sog­ gettività che immagina, ma l'attenzione è poi tutta rivolta ai nessi contenutistici come tali. Anche in rapporto a questo problema la soggettività rappresenta una pura e semplice pre­condizione inindagata. Uno sviluppo eventuale di una simile problematica richiede tuttavia che questo isolamento metodico, neces­sario per l'impostazione iniziale del problema, venga oltre­passato e ad esso subentri una considerazione dell'imma­ginazione come essa effet­ tivamente è, integrata in una rete di esperienze e interagente con esse, chiamando in causa più direttamente la soggettività che si 148 costituisce in questa rete. Ciò si rende necessario proprio nel momento in cui ci accingiamo a consi­derare l'immaginazione come una modalità dell'e­sperienza che opera nella trama di altre modalità. Questa integrazione si presenta poi fin dall'inizio come un'integrazione dinamica, come una integrazione cioè che parte­ cipa alle varie forme dei con­flitti che attraversano la soggettività come unità di esperienza. 3. Accade di tanto in tanto, per quanto possiamo essere poveri di immaginazione, che ci immergiamo in una qualche fanta­sticheria. In effetti vorremmo ora fissare qualche sommario appunto pro­ prio sull'immaginare inteso come fantasticare. A questo proposito dobbiamo certo destreggiarci con i termini ed anche affidarci ai contesti per evitare di continuo pedantesche precisazioni termi­ nologiche. Ora intendiamo parlare del fanta­sticare come una sorta di specificazione dell'attività imma­gina­tiva, diversa ad esempio dal sognare. Il sognare non è imma­ginare puro e semplice e non è nemmeno soltanto fantasticheria. La fantasticheria sorge "spontaneamente", ma questa spon­ taneità non ha a che vedere con l'io che effettua decisioni. Si do­ vrebbe piuttosto parlare di un io passivo, sia pure in un senso ab­ bastanza debole, dal momento che la fantasticheria, non appena è sorta, può essere assecondata, così come può essere respinta e ricacciata indietro. Il punto essenziale che ci fa considerare la fantasticheria sotto il titolo della "passività" nell'ambito dell'immaginazione, consiste nel fatto che potrei decidere di fantasticare, ed addirit­ tura di attribuire un tema alla fantasticheria, senza che questa de­ cisione sia in grado di generarla. Così come nel caso dei processi memorativi: può anche essere necessario od opportuno che mi ricordi di qualcosa, ma alla decisione di ricordare, il ricordo non segue necessariamente. Se dico: immagina che qui vi sia un li­ bro aperto, non sembra sensato che qualcuno reagisca dicendo: "Non ci riesco!". Altrimenti stanno le cose con le fantasticherie. 149 4. Proprio per via di questa componente di involontarietà, vi sono condizioni favorevoli e sfavorevoli alla produzione di fan­ tasticherie - e queste condizioni si riassumono tutte, in certo senso, nell'al­lentamento dell'attenzione alla realtà, quindi della tensione verso ciò che mi è di fronte come qualcosa verso cui sono attivamente diretto. In generale non ci perderemmo in fan­ tasticherie se fossimo intenti in un lavoro delicato o pericoloso; mentre può accadere che ci perdiamo in fanta­sti­cherie se cammi­ niamo lungo un sentiero ben noto. Il sentiero non ha bisogno di essere percorso attentamente con lo sguardo, i piedi sono suffi­ cienti al cammino; e così il paesaggio può essere troppo noto per destare il nostro interesse. In questo allentamento degli interessi nei confronti di ciò che ci sta intorno sono presenti le condizioni favorevoli per il prodursi di fantasticherie. 5. Nell'immaginare in genere debbono essere prese le distan­ ze rispetto alla realtà; nella fantasticheria la realtà "se ne va da sé", scivola via. Qualcosa di simile osserva Bachelard per la sua nozione di rêverie - termine non facile da rendere in italiano te­ nendo conto del senso che gli attribuisce questo autore. Nella Notte dei lampi noi abbiamo proposto, per così dire, di passaggio la traduzione di "fantasticheria sognante". In questa proposta viene richiamata l'attenzione su una qualche affinità tra la no­ zione di fantasticheria che vorrei proporre qui e la rêverie di cui parla Bachelard. Ma qui ci interessano maggiormente le diffe­ renze nell'impiego che io vorrei riservare a questo termine. La descrizione di Bachelard è strettamente vincolata al problema di rendere conto della rêverie come di un peculiare stato d'animo, più o meno inafferrabile ed in ogni caso da descrivere introspet­ tiva­mente, mentre ciò che abbiamo detto fin qui non ha bisogno di appoggiarsi su alcuna "introspezione". In secondo luogo, la descrizione introspettiva è fin dall'inizio compromessa con una ben determi­nata filosofia della soggettività. 150 6. Proprio per via dei suoi presupposti filosofici, Bachelard non può far al­tro che operare una connessione tra rêverie ed una sogget­ tività attraverso l'idea della sublimazione, nell'acce­zione che egli dà a questo termine. La soggettività che viene in questio­ne nella rê­verie di Bachelard è una soggettività essenzialmente subli­mata, purificata da tutti i suoi desideri e dalle sue passioni. 7. Io vorrei invece impiegare il termine di "fantasticare" per indicare un immaginare riferito ad una soggettività considerata concretamente come un processo di motivi. Per questo è il caso di guardare con interesse alla nozione di fantasticheria così co­ me viene in questione sul versante psico­analitico. In Freud il so­ gno viene inteso in certo senso come una fantasticheria estre­ ma, molto complicata, che ha tratti suoi pecu­liari, ma che deve comunque avere tratti comuni con quello che egli chiama sogno ad occhi aperti. Egli osserva più di una volta, e con particolare accentuazione, che il meccanismo di formazione del sogno po­ trebbe essere indagato a fondo se potes­simo disporre di una ricca documentazione sui sogni ad occhi aperti. Ad una simile osservazione Freud era soprattutto stimolato dalla tesi secondo la quale il desiderio deve essere proposto come un vero e proprio principio generatore delle fantasie oniriche. Questa affermazione, formulata nella sua gene­­ralità, ha in realtà il carattere di una pura ipotesi. La riconduzione del sogno al desiderio appare evidente in molti casi abbastanza particolari, mentre la generalizzazione di questa circostanza ha solo una natura ipotetica, ed essa andrà del resto integrata nel­l'am­bito della teoria esplicativa del sogno. Pro­ prio per questo per Freud è importante richiamare l'attenzione sul sogno ad occhi aperti: quell'origine dal desiderio ha una particolare evidenza nel caso delle fantasticherie. Esse sono manifestamente "appagamenti im­ma­ginativi" di desideri o han­no comunque a che vedere con svi­luppi che riguardano inten­zioni desiderative. 151 8. In Freud l'evidenza di questa connessione senbra essere soprat­ tutto di carattere empirico, ovvero essa si presenta come una con­ nessione chiaramente accertabile esaminando una molte­plicità abbastanza ampia di fantasticherie concretamente effet­tuate. Ma forse è possibile cogliere tra immaginare e desiderare una con­ nessione interna - e questo ci riporta sul terreno fenome­nologico. 9. Il desiderio è una modalità dell'esperienza, un modo di esse­ re rivolti, di aver di mira qualcosa, un modo dell'intenzionalità. Se consideriamo immaginazione e desiderio da questo punto di vista siamo colpiti anzitutto da alcune differenze caratteristiche: anzitutto dalla differenza in certo senso cruciale che riguarda la problematica delle posizioni d'essere. Il desiderio ha carattere posizionale. Si desidera qualcosa - e precisamente qualcosa che c'è, non qui - ma da qualche altra parte. Non ora, ma eventual­ mente nel futuro. La posizionalità del desiderio ha per­altro carat­ teristiche diverse dalla posizionalità della perce­zione: è una posi­ zionalità connessa con la prassi, con l'azione. Non pone l'oggetto nel suo essere, ma lo propone come qualcosa che deve essere posto in essere. Se desidero qualcosa farò di tutto per realizzarla o per possederla. In questo vi è una netta differenza tra immaginare e deside­ rare. Ciò che essi hanno in comune è, se mai, l'assenza dell'og­ getto. Nessuno desidera ciò che già possiede. Ma l'assenza dell'oggetto si propone in modo interamente diverso. L'assenza dell'oggetto desiderato è connesso ad una presenza possibile, mentre sarebbe sbagliato implicare la nozione di una presenza possibile in rapporto agli oggetti immaginari. 10. Ciò pone il desiderio in opposizione sia all'esserci autentico della cosa della percezione - l'oggetto che c'è qui ed ora di fron­ te a me - all'esserci inautentico dell'immaginazione. Non solo non ha senso desiderare qualcosa che già si possiede o che sta qui ed ora di fronte a me, ma nemmeno non ha senso desidera­ 152 re un oggetto immaginario, perché allora l'oggetto "ci sarebbe" senz'altro. 11. Tutto ciò in realtà non è che un modo di svolgere la fonda­ mentale distinzione tra intenzione desiderativa e appa­gamento del desiderio che svolge qui una funzione essenziale. Il desiderio è anzitutto una intenzione vuota - di avere, di essere, di fare - che tende al proprio riempimento, alla propria soddisfazio­ ne. Ciò si può dire anche in rapporto ai decorsi percettivi: il dato attualmente presente ci appare come insaturo, e dunque aperto verso riempimenti percettivi possibili. La pienezza sta nell'at­tualità della pecezione. Ma in questa pienezza è presente anche una intenzione vuota, e la distinzione tra intenzione vuo­ ta e rimpimento giace tutta all'interno della struttura di decor­ so della percezione. Nel caso del desiderio invece, questa stessa distin­zione non richiede nessuna continuità processuale, nessun ri­man­do alle sintesi, nessun carattere di decorso. Questo è un aspetto che approssima il desiderio all'imma­gi­na­zione. Entrambi si sottraggono alla struttura di decorso entro cui si costituisce la realtà, entrambi sbucano da essa. 12. Tuttavia proprio per ciò che concerne il rapporto con la re­ altà va probabilmente riconosciuto un legame che è un legame per opposizione. All'origine del desiderio vi è un'istanza di ne­ gazione. Il desiderio non pone semplicemente un'altra realtà da sovrapporre a questa. Così opera l'immaginazione. L'altra realtà del desiderio è una realtà possibile, contro quella che ci sta sot­ to gli occhi. Questo momento negativo non è affatto implicito nell'imma­ginazione, così come non è affatto implicito in essa il legame con l'azione, con la spinta, promossa dal desiderio, alla realizzazione. L'immaginazione in se stessa lascia la realtà così come è, e si limita a metterla da parte per sovrapporre ad essa un'altra realtà, una realtà eterogenea. Forse nel caso dell'immagi­ nazione la stessa distinzione tra intenzione vuota e saturazione 153 non può essere nemmeno posta. 13. Vi sono dunque chiare differenze. Eppure anche attraver­ so di esse si mostra una sorta di interna affinità, di solidarietà, in modo tale che il desiderio può tingersi di immaginazione e l'imma­ginazione di desiderio. Questo intreccio risulta chiaro met­ tendo in questione il problema della temporalità. Sia in rapporto all'imma­ginazione che al desiderio potremmo parlare di una re­ lativa indeterminazione temporale. Se desideriamo che qualcosa accada e ci venisse posta la domanda intorno al quando potrem­ mo rispondere: di qui in avanti nel futuro. Naturalmente questo futuro è un futuro reale, il punto del tempo che indichiamo inde­ terminatamente appartiene alla linea del tempo oggettivo. Tuttavia si vede subito in che modo questa inde­terminazione, che è in linea di principio qualcosa di comple­tamente diverso dall'indetermi­ nazione temporale dell'im­ma­ginazione, pos­sa assumere i tratti di questa. Può accadere che il futuro posto indeterminatamente nel desiderio, e possibilmente come un futuro prossimo, diventi inve­ ce sempre più remoto: che la realizzazione postulata nel desiderio tenda ad allontanarsi sempre più nel tempo. Ed alla fine questo allontanarsi nel tempo assume sempre più i tratti di un allontanarsi dal tempo. Così il futuro remoto del desiderio tende a diventare un futuro improprio, un futuro intemporale, diventando piuttosto, come nel caso del passato lontano delle favole o del mito, un contrassegno dell'indetermi­nazione temporale che caratterizza gli scenari dell'immaginazione. 14. Forse si può arrivare a dire che la fantasticheria è l'imma­ ginazione coniugata con il desiderio. Naturalmente non si tratta soltanto di prendere atto del fatto che uno stesso contenuto può essere dato come riferito al desiderio oppure come immagine pura e semplice. Si tratta invece di sostenere che l'immaginazione può diventare un vero e proprio luogo di estrinsecazione del desi­ 154 derio, una vera e propria forma di manifestazione del desi­derio stesso. Ciò che l'immaginazione presenta nella scena immaginaria è la stessa intenzione desiderativa che ha assunto una forma visio­ naria. Non si tratta nemmeno di una risposta im­ma­ginativa che prospetta un riempimento immaginario dell'in­tenzione deside­ rativa. Naturalmente l'immagina­zione può anche rappresentare come appagato un desiderio inappagato. Ma io vorrei sostenere qualcosa di diverso: è il mancato appagamento che determina la modificazione dell'inten­­zione desiderativa, di cui la scena imma­ ginaria non è altro che una proiezione. In questo modo nella scena immaginaria possiamo leggere il desiderio stesso perché essa non è altro che il desiderio inappagato che ha mutato forma. 15. Attraverso questa connessione interna tra immaginazione e desiderio noi possiamo riproporre nel quadro della nostra impo­ stazione il tema della relazione dell'immaginazione con la sog­ gettività. Stando a Bachelard l'immaginazione è il luogo della conciliazione dell'io con l'io stesso, il luogo della ripresa dalle scissioni e dalle tensioni con la realtà. Si tratta di un tema che ela­ bora sul piano filosofico e secondo moduli peculiari un'idea che appartiene in real­tà ad uno dei luoghi comuni intorno all'immagi­ nazione: quello della relazione tra immaginazione e interiorità, tra il fantasticare e il sentiero solitario. Quel tanto di giusto che vi è in questa associazione lo potremmo rilevare proprio in una conside­ razione, non già dell'im­ma­gi­nazione in genere, ma dell'immagina­ zione coniugata con il desiderio. Finché ci limitiamo a considerare l'immaginazione in se stessa, la sogget­tività ci può apparire soltan­ to come una unità astratta, come un puro e semplice presupposto dei processi immaginativi. Di contro si dovrebbe riflettere sullo spazio che dovremmo concedere al desiderio in una teoria della soggettività concreta. Il desiderio infatti ha una precisa funzione costitutiva in rapporto alla sog­get­tività stessa. L'io si costituisce come soggettività concreta e nella sua determinatezza personale attraverso il desiderio, come una unità attraversata dai conflitti 155 del desiderio, in una dialettica dei desideri appagati ed inappaga­ ti. Tutto ciò ha una sorta di riscontro fenomenologico nel fatto che di norma, nella fantasti­cheria non soltanto l'io immagina, ma più precisa­mente si im­ma­gina, l'io stesso è il protagonista delle pro­prie fantasticherie. 16. Nello stesso tempo, attraverso la mediazione del desiderio, vi è anche una coimplicazione dell'immaginazione con la realtà in senso proprio e autentico. Ogni desiderio contiene una presa di posizione implicita nei confronti della realtà, la posizionalità del desiderio poggia su una negazione di ciò che è già posto in es­ sere. Per questo l'immaginazione, intrecciandosi con il desi­derio, assume tratti che in se stessa non possiede. L'eterogeneità sembra non concedere nemmeno la possibilità di una contrap­posizione; la contrapposizione - l'antiteticità - presuppone in ogni caso qualche legame. Può accadere che ciò che appare allo sguardo dell'imma­ginazione non sia soltanto qualcosa di total­mente altro, ma una realtà antitetica. L'immaginazione può così diventare facoltà dell'anti­tesi rispetto alla tesi della realtà. Spesso nel fantasticare viene posto in essere ciò che nella realtà è impedito o precluso. Questo può essere in fin dei conti solo una constatazione. E tuttavia in questa op­po­sizione vi è qualcosa di simile ad una logica elemen­ tare che determina la struttura del desiderio e dell'immaginazio­ ne e che coin­volge i rapporti che l'uno intrattiene con l'altra. 17. In un film del regista giapponese Kurosawa intitolato Do­ deskaden vi è un bell'esempio, molto ricco di sfumature, che si presta in modo particolare ad illustrare quanto siamo andati di­ cendo. In esso si tratteggia, con episodi che si alternano, il de­ stino di persone che vivono in una bidonville ai margini di una grande città urbana. Tra un episodio e l'altro compaiono lungo l'intero corso del film un adulto ed un bambino che sono esclu­ sivamente impegnati a sognare ad occhi aperti. 156 Essi effettuano la costruzione visionaria di una grande casa, che viene costruita di giorno in giorno, pezzo dopo pezzo e che si profila materialmente di fronte ai loro occhi ed a quelli dello spettatore. Ecco un bellissimo caso di rêverie, assai poco rientrante - pe­ raltro - nel concetto proposto da Bachelard. Anzitutto perché si tratta proprio di una visione, di una vera e propria allucinazione (e non di un'immagine letteraria); e poi anche per il fatto che qui la rêverie non è solitaria ma si sviluppa dialogicamente in un sogno ad occhi aperti che è visto e parlato, tra l'adulto e il bambino: attraverso di essa si stabilisce tra i due una solidarietà profonda e patetica, come tra padre e figlio. Nel film tutto ciò è ricco di sottigliezze: è infatti il bambi­ no che in realtà protegge materialmente l'adulto-padre, provve­ dendo mendicando alla fame quotidiana; mentre è l'adul­to che organizza la visione del bambino, che guida ed orienta la fanta­ sticheria della costruzione della casa splendida. Qui l'immaginazione come facoltà dell'antitesi e la sua re­ lazione con il desiderio è esibita in forma del tutto elementare. La fantasia della casa splendida fluttua al di sopra di un paesaggio sub­ur­bano e del resto la "casa" in cui vivono i due personaggi è una vecchia automobile ridotta ad un rottame. 157 Non già che l'antitesi debba essere intesa in un senso banalmen­ te fattuale. La casa è certamente nei desideri di questi due perso­ naggi miserabili. Ma la magnificenza della casa desi­derata mostra che il desiderio si trova sul pendio dell'imma­gina­zione. Entrando nel campo dell'immaginario il desiderio si am­plifica e si dilata, ed assume in questa dilatazione un senso più ampio. Nella transizio­ ne immaginativa l'oggetto del desiderio per­de la propria partico­ larità e determinatezza per diventare rap­presentativa di un'aspi­ razione indefinita ad una realtà total­mente altra. Abbiamo anche qui a che fare con una casa, come tanto spesso accade in Bache­ lard, nella sua Poetica dello spazio. E ripensando a Bachelard ci rendiamo conto che assume un senso nuovo, un senso filosofico il fatto che la casa visionaria dei due miserabili di Dodeskaden sia una casa vista sempre soltanto dall'esterno. Vediamo la facciata crescere a poco a poco; la vediamo arrichirsi di finestre, di ter­ razze ed adornarsi di fregi; e così tutt'intorno viene realizzato un grande giardino, e poi una stupenda cancellata. 158 Una casa tutta esteriore: ci accorgiamo allora quasi all'im­prov­ viso che in Bachelard che non ci siamo mai imbattuti in una casa vista dall'ester­no: nelle sue case è sempre l'interno che conta. E sorge il dubbio che questo dettaglio abbia a che fare con la filo­ sofia della soggettività tutta volta verso l'interno di Bachelard, e naturalmente con la relazione che egli stabilisce tra immagina­ zione e interiorità. Agli straccioni di Kurosawa, che certamente non sanno nemmeno leggere, degli interni forse im­porta ben poco, mentre il loro sguardo è tutto puntato nelle tenebre che per loro si illuminano spettacolarmente mostrando gli splendori della casa immaginaria. Si potrebbe obiettare che, nonostante tutto, un simile esempio, potrebbe forse essere adeguato ad almeno un aspetto del pro­ blema in Bachelard, e proprio a quell'aspetto che riguarda il tema della soggettività conciliata. Si potrebbe trovare un nesso tra l'im­ma­ginazione come facoltà dell'antitesti e l'immaginazione in quan­to restituisce l'unità della soggettività dalle sue scissioni. Tutto lo sviluppo dell'immaginazione della casa potrebbe forse essere inteso proprio in termini bachelardiani come un ritrarsi nella rêverie dall'ostilità della realtà per trovare riposo nel­ l'imma­gi­na­­zione. Si potrebbe riconoscere all'immaginazione una funzione di pu­ra e semplice compensazione. Ma proprio questo esempio si presta assai poco a riportare la rappresentazione immaginativa dell'antitesi ad una forma ele­ mentare di compensazione. Che in qualche modo la fantasia in 159 questione rappresenti anche una sorta di contrappeso rispetto al conflitto con il reale - questo è abbastanza ovvio. Ma di qui all'idea dell'immaginazione che riporterebbe l'unità in una sog­ gettività lacerata il passo è tutt'altro che breve. Per noi spettatori, non vi sono dubbi che, quanto più si dipanano queste scene di costruzione visionaria della casa, quan­ to più è esibita questa totale immersione nell'immaginario che assorbe comple­tamente l'attività dei due sognatori come se si trattasse di un'attività autentica, tanto più viene esasperato il mo­ mento del­l'antitesi, tanto più si impone l'imma­gi­ne di una lacera­ zione che diventa sempre più intollerabile. L'episo­dio si conclude infine tragicamente: il bambino muore nella carcassa della automobile. E l'adulto si perde, dopo quella morte, in una visione estrema: alla casa ormai compiu­ ta aggiunge una grandiosa piscina circo­lare, soddisfacendo così in modo struggente l'ultimo desiderio visionario espresso poco prima di morire dal fanciullo. L'immaginazione è qui veramente una sorta di disperazione del desiderio, oppure disperazione soltanto. 160 161 Elogio dell'immaginazione musicale 162 L'autore ha riferito sull'argomento di questo saggio du­rante il convegno organizzato da Nuova Consonanza, Roma, 30 novembre 1994 nella giornata dedicata a "Dopo Adorno, verso una nuova teoria estetica della musica". Copertina: Krishna danzante - XVIII sec. 163 Indice 1. Se questo elogio sia necessario 2. Extratemporalità dell'immaginazione musicale 3. L'esigenza di un punto di vista interstorico in una riflessione sulla musica 4. Adornismo e storicismo 5. La maschera metaforica 6. Citazioni ed esempi che mostrano le ragioni della necessità di un elogio 164 165 1. Se questo elogio sia necessario In questo scritto vorrei cercare di realizzare qualcosa di simi­ le ad un elogio dell'immaginazione musicale, vorrei tentare di abbozzare una sorta di perorazione in favore di essa. E subito ci si chiederà: ma ve ne è forse il bisogno? Oppure: perché mai dovremmo sentirne il bisogno? In realtà io credo che una simile esigenza si faccia sentire proprio nel momento in cui si avvia una riflessione sull'estetica musicale, un ripensamento dei suoi problemi. C'è qualcosa che oggi si muove nella direzione di questo ripensamento, per lo più con la consapevolezza non solo della musica che cambia, ma soprattutto del fatto che il cambiare della musica richiede un "cambiare musica" anche nei modi di "pensarla", di intenderne il senso e gli scopi. Sia dal punto di vista dei progetti compositivi che da quelli della riflessione teorica, si ricomincia a considerare la musica come forma d'arte piuttosto che come qualsiasi altra cosa. Sembra stra­ no il notarlo. E tuttavia proprio tutti i problemi legati al­l' "arti­ sticità" della musica, e quindi alla specificità dei suoi scopi e della sua destinazione, sono stati troppo a lungo messi da parte da moduli di pensieri e da orientamenti intellettuali di derivazione adorniana. Ci troviamo dopo Adorno - e si ha la sensazione che il dir­lo e il poterlo dire sia accompagnato da un non so qual senso di sollievo. Certamente vi è ancora chi ritiene che la posizione ador­ niana valga non solo per i cinquant'anni precedenti agli anni Cin­ quanta - ma che, leggendo accortamente tardi scritti di occa­sione e compulsando qui e là folgoranti illuminazioni, si possa fare di Adorno il profeta della fine del secondo millennio. Ed anche al di là di simili entusiasmi, che non è il caso di prendere in seria considerazione, vi sono forse ancora delle apparenti ov­vie­tà, dei persistenti pregiudizi, delle remore che hanno ancora, talora in­ 166 consapevolmente, quella matrice e che è interessante portare alla luce, per contribuire in qualche misura a liberare le potenzialità del dibattito in corso e le forze creative che in esso si misurano. In questo contesto si situa l'intento del nostro elogio. In esso si tratta soprattutto di raccogliere alcuni motivi che sembrano di particolare importanza proprio in rapporto al "cambiare musica" in una teoria della musica, e di conseguenza per giustificare anche la scelta del filo conduttore di queste mie considerazioni. Alla domanda su quale necessità vi possa essere di un elogio dell'immaginazione musicale, cominceremo con il ri­spon­­dere notando che la stessa espressione di immaginazione mu­sicale da un lato può avere un impiego del tutto ovvio, dall'altro ha invece bisogno di essere di essere chiarita, e per certi versi di essere proprio il tema di una perorazione e di una difesa. Nessuno contesterà infatti che si possa dire che un brano musicale è opera dell'immagina­ zione nel senso che essa è il risultato di una "invenzione". Essa viene inventata così come si inventa la trama di un romanzo o il soggetto di un dipinto. Ma se ci scostiamo un poco da questo senso così generico, e naturalmente anche così privo di proble­ mi, ci imbattiamo subito in qualche difficoltà. C'è infatti qualcosa che sembra fare resistenza a porre l'ac­ cento sull'immaginazione nel campo musicale, e in par­ticolare nel campo della riflessione sulla musica - qualcosa che in parte dipende dalla natura peculiare della musica, in parte dai nostri pregiudizi intorno ad essa ed alle funzioni immaginative in ge­ nere. In realtà ci sembra subito di comprendere che cosa signi­ fichi immaginare la trama di un racconto, non solo nel sen­so generico dell'invenzione, ma in quello del prospettarsi una se­ quenza di eventi che si succedono e si intrecciano variamente gli uni agli altri; oppure che cosa significhi immaginare un perso­ naggio, la sua fisionomia, la sua psicologia, il suo modo di com­ portarsi. L'immaginare si esplica qui in un senso assai prossimo a quello del "fantasticare" nel senso usuale del termine, cioè del­­ 167 l'im­mergersi in un mondo di eventi nel quale con­fluiscono fram­ menti del reale, e quindi della memoria, dell'e­sperienza vissuta, che vengono tuttavia organizzati secondo nuovi nessi e raccolti secondo nuove reti di significato. L'immaginazione si appoggia qui a cose, a eventi, ad espe­ rienze vissute. Si appoggia al passato. Si trova in rapporti più o meno occulti con il desiderio. L'oggetto immaginario è in realtà assai prossimo, nella struttura fenomenologico, all'oggetto del desiderio. È già indicativo dell'esistenza di un problema il fatto che una espressione come "oggetto immaginario" possa apparire in­ ve­ce tenden­zialmente enigmatica in rapporto alla musica. "Im­ ma­gi­nare" nel linguaggio corrente richiede un complemento og­ getto. Immaginare è immaginare qualcosa. E si può con qualche ragione sostenere che nell'ascolto, l'immaginare qualco­sa sia con­ trario alle convenienze, se non addirittura una mani­festazione di grossolanità e di mancanza di raffinatezza. Si può essere certi che in rapporto alla musica si possa di­ re, e soprattutto lo si possa con la stessa ovvietà, che l'imma­ ginazione si appoggia ad eventi e ad esperienze vissute? Dove cercare, nella musica, la memoria, dove il desiderio? Di contro siamo subito messi di fronte alla composizione come costruzione secondo regole in qualche modo simili a "re­ gole grammaticali". Questo è probabilmente un altro dei motivi che tendono a porre in secondo piano il momento dell'imma­ ginario musicale. Il punto importante è che vi siano delle regole, e che l'opera sorga dalla loro applicazione. Tutto il resto appar­ terrebbe alla psicologia della creazione o della fruizione. Vi è qui indubbiamente una tentazione particolarmente forte ad emarginare il problema dell'immaginario musicale, a ri­ te­nerlo irrilevante nella riflessione filosofica ed estetica. Que­sta tentazione può approfittare di modi erronei di concepire l'ana­lisi musicale oppure di malintesi e fraintendimenti legati agli svilup­ pi dell'informatica musicale. 168 L'analisi della tecnica compositiva di un brano musicale do­ vrebbe forse essere concepita soprattutto come un momento interno di un percorso che comincia con la musica e termina nel­la musica, cioè come una dissoluzione analitica considerata stret­tamente in funzione di una nuova sintesi interpretativa, in funzione dunque di una possibile esecuzione. Essa viene invece talora intesa come un puro e semplice smontaggio che avrebbe il solo scopo conoscitivo di "sapere come il pezzo è fatto", proiet­ tando sul brano musicale l'immagine di un congegno di cui deb­ bono essere messi allo scoperto molle, viti e ruote dentate. D'altro canto la ricerca informatica dell'"algoritmo gene­ ratore" di uno stile fa pensare all'opera come un teorema all'in­ terno di un sistema deduttivo. Si è allora tentati dall'analogia tra un brano musicale e ciò che i logici chiamano una formula ben formata - e non vi è bisogno di immaginazione per realizzare una simile formula. È vero che una formula ben formata è solo una condizione del significato, e quindi occorre che ad essa si aggiunga qualcosa affinché essa arrivi a livello significante. Tut­ tavia anche l'osservare che la semplice applicazione delle re­go­le non basta, che deve esserci appunto la scintilla dell'im­ma­ginario per far passare il prodotto di scuola all'opera autentica, rappre­ senta una considerazione super­ficial­mente giusta, ma trop­po de­ bole e per molti versi insoddisfacente. In essa viene mantenuta l'opposizione tra le regole e l'immaginazione, e que­st'ul­tima viene nuovamente messa ai margini come quel certo non so che di fondamentale importanza, di cui comunque non vale la pena di parlare. L'idea che vi sia una simile opposizione sembra del resto far parte della stessa essenza teorica del problema. La facoltà immaginativa non si esplica forse nella violazione della regola piuttosto che nella sua osservanza, non si parla forse della libertà della fantasia che sfugge in via di principio ad ogni controllo? Rammentare questo punto sembra avere un particolare si­ gnificato in rapporto alla musica novecentesca nel suo insieme. 169 Si potrebbe sostenere che nella musica novecentesca, l'idea del­ la grammaticalità della musica si sia fortemente allentata, e che questo allentamento comporti una liberazione dell'imma­ginario musicale. Ma questa espressione resta ancora, nella sua generici­ tà, priva di un'autentica giustificazione teorica, il suo significato resta, ad un tempo, ovvio e poco chiaro. 2. Extratemporalità dell'immaginazione musicale Naturalmente l'immaginazione entra a pieno diritto nell'ambito delle questioni attinenti alla teoria ed alla filosofia della musica, non solo come riconoscimento generico della necessità di un'in­ ef­fabile scintilla creativa, ma come un problema che mette in questione la stessa capacità espressiva della musica. Per rendere realmente chiaro questo punto, è necessario tuttavia poter contare su alcune determinazioni generali, pren­ dendo le mosse dalla distinzione fondamentale tra l'imma­gina­ zione "fantastica" e l'immaginazione che si potrebbe invece chia­ mare "immaginosa": ovvero tra a) l'immaginazione produttiva di "figure", nel senso pro­ priamente oggettuale del termine, dove la figura è, ad esempio, il personaggio di un romanzo, l'unicorno che compare nel raccon­ to mitico o il paesaggio raffigurato in un dipinto; b) l'immaginazione metaforizzante in generale le cui forma­ zioni sono il risultato di unificazioni, di "sintesi immagi­native", dunque ancora produttiva di "figure", ma in un senso interamen­ te diverso. Alla base sia dell'operare fantastico e che dell'operare immagi­ noso vi è la funzione valorizzante dell'immaginazione, la capacità di operare la trasvalutazione di dati di fatto in valori immaginativi. La musica trae la propria capacità espressiva proprio dal fatto che 170 essa risale alle radici di questo processo: nella musica non vi sono espli­ citamente immagini né nel senso dell'og­getto fantastico né in quello della metafora esplicitamente formulata: e tuttavia già nel primo approccio al materiale sonoro con intenti diretti all'opera musicale, diventa subito attiva pro­prio questa funzione valoriz­ zante che ha come primo risultato quello di rendere ambiguo lo statuto ontologico del materiale, che diventa fondamento insta­ bile di un processo immaginativo germinale. Questa funzione agisce naturalmente anche, ed anzitutto, al di fuori di un contesto propriamente musicale. Il verso del gufo cessa di essere un puro fatto della notte, il verso di un animale appollaiato da qualche parte nel giardino, e comincia ad appartenere al campo dei valori della notte, tingendosi di coloriture emotive e di oscure inquietudini. Il bello "naturale" - per usare questa vecchia terminolo­ gia - trapassa nel "bello artistico" attraverso una differenza che ci può apparire talora quasi insensibile, talaltra particolarmente profonda. Quasi insensibile, perché l'esperienza percettiva in se stessa, considerata in modo del tutto indipendente da una proget­ tualità artistica, non è affatto priva di componenti immaginative; ma anche particolarmente profonda perché il valore immagina­ tivo come pura componente di un'esperienza vissuta e il valo­ re imma­ginativo integrato in un progetto espressivo sono cose intera­men­te diverse. Queste considerazioni tuttavia non debbono far pensare ad un'attenzione unilaterale puntata in direzione semantica, ed in particolare in direzione del simbolismo. E nemmeno debbono essere interpretate come se intendessero confermare l'oppo­si­ zio­ne tra il campo d'azione dell'immaginario e quello delle re­ gole, opposizione che tende a imporsi, come abbiamo mostrato, se­con­do vie e angolazioni diverse. Al contrario deve essere svol­ ta una critica vivace verso una simile opposizione che a ben ve­ dere ripropone vecchi schemi filosofici: in particolare, lo schema oppositivo intuizione/intelletto, dove la parola intuizione assu­ 171 me il carattere di un vago richiamo ad una genialità inafferrabile nel suo operare e l'intelletto riceve una connotazione tendenzial­ mente negativa, richiamando l'idea di un categorizzare astratto estraneo all'arte, lontano dal vissuto. In realtà, una simile opposizione non è in grado di inse­ gnarci nulla, persino la terminologia è fuorviante. La musica sta presso il materiale percettivo, questo è certa­ mente il "concreto" su cui poggia l'esperienza musicale. Ma una simile affermazione sarebbe fuorviante se non notassimo che al­ trettanto giustamente potremmo dire che questa esperienza ha le sue radici nella soggettività creativa, che vive nella pienezza dei suoi vissuti, che sono emotivi e intellettuali insieme. La sogget­tività creativa è una soggettività pensante. Ciò significa che essa ha molti "pensieri", che ha delle "opinioni" e con que­ste opinioni si misura continuamente con la realtà. L'imma­ginazione non si metterebbe nemmeno in moto senza questo sfondo di pensieri, solo su que­ sto sfondo può prendere forma un progetto espressivo. Questo progetto peraltro non assume affatto fin dall'inizio il carattere di un'ela­borazione del materiale che abbia di mira la traduzione e la manifestazione di questi pensieri, o che sia addirittura esplicita­ mente guidata dall'intento di rap­presentarli. Al contrario il progetto espressivo comincia a realizzarsi come una riflessione sulle regole, sulle tecniche, come una speri­ mentazione di modi possibili di organizzazione del materiale: con una riflessione sulle strutture. Di fatto il problema delle regole è assai poco una que­stione "meramente intellettuale". Una discussione intorno ad esse ri­ guarda infatti necessariamente le forme strutturali del materiale sonoro, le tecniche della sua messa in forma e delle sue trasfor­ mazioni possibili. Naturalmente le regole possono essere ereditate da una tra­ dizione ed essere riunite nell'unità di un linguaggio; oppure que­ sta unità linguistica può essere diventata un problema: si tratta di due situazioni molto diverse, ma la sostanza della questione non 172 muta. Infatti non sembra affatto corretto riportare riportare l'i­ dea della regola unicamente all'esistenza di una unità linguistica riconosciuta vincolando la regola alla convenzione in una forma che può essere fuorviante. Certamente il parlare di regole fa pensare anzitutto alla con­ venzione, al fatto che esse esistono in quanto vengono osservate e dunque in quanto vi è il rimando ad una unità intesa come lin­ gua comune. Inoltre la regola, proprio in quanto semplicemente "convenuta", può apparire come qualcosa che viene imposto dal di fuori, e che contiene perciò i rischi di un'appli­cazione astratta, dello schema già predisposto che va sem­pli­cemente memorizzato e applicato nei luoghi previsti. Tuttavia non bisogna dimentica­ re che il problema delle regole si pone non appena abbiamo a che fare con una Gestalt percettiva e fa tutt'uno con la creazione dell'opera intesa come Gestaltung - cioè come una plasmazione concreta del materiale, come suo ordinamento e organizzazione interna. Per questo motivo vi è un certo margine di equivoco quando si afferma che l'imma­gina­zione musicale si esplica più nell'infrazione della regola che nella sua osservanza. Questa af­ fermazione riceve un significato ovvio solo se si ha di mira lo stere­ otipo "linguistico", il paradigma scolasticamente iterato, appunto, "senza immaginazione". Dal punto di vista teorico è importante invece notare come le latenze immaginative che si manifestano nel brano musicale e che fanno parte della sua pregnanza di significato affiorino at­ traverso l'azione del rapporti relazionali interni, quindi attraverso tensioni create attraverso il gioco sintattico-combinatorio: il quale non è per nulla "astratto" proprio per il fatto che è in grado di ge­ nerare queste tensioni. L'inerenza reciproca di connessioni strutturali e valenze simbolico-immaginative rappresenta la forza e il mistero dell'e­ spressione musicale. Il brano musicale può così presentarsi come un sentiero ben delineato - perché ben definito è certamente il percorso sonoro, e chiaramente identificabili gli eventi sonori che accadono in esso, le differenze timbriche e dinamiche, i rapporti di affinità e 173 di contrasto, tutto ciò che costituisce la dimensione percettiva del brano stesso; e tuttavia questo sentiero, che noi nell'ascolto andia­ mo percor­rendo, attraver­sa un paesaggio che trae il suo fascino dall'indetermi­natezza e dalla mobilità, dall'incertezza dei suoi con­ fini, da bagliori inattesi e da improvvise oscurità, dal mostrarsi e dal celarsi di possibili dire­z ioni di senso. Questo paesaggio appartiene all'immaginario musicale, esso è un risultato, una proiezione dell'immaginazione musicale. Occorre dunque prendere atto di una situazione partico­ larmente complessa. Le operazioni immaginative hanno una doppia origine nella percezione e nel "pensiero" - e il reale stesso è dunque il loro presupposto. Con reale intendo il mondo umano, il mondo sto­ rico-sociale, il mondo circostante culturale nel quale l'artista è immerso, dal quale egli attinge forme e modi di espressione che si presentano intanto come dati, come premesse da cui prendere le mosse: quel mondo che è intriso nei suoi vissuti, che condi­ ziona i suoi pensieri e le sue opinioni, ma che rappresenta anche il tema di giudizi e di valutazioni, di scelte e prese di posizioni. E al reale appartiene naturalmente anche l'universo degli oggetti sonori, essi sono pezzi del mondo, come gli alberi, gli animali, i fiumi e le montagne. Tuttavia l'immaginazione agisce come uno strappo rispetto alla realtà, come un balzo al di fuori del cerchio del reale, che si ma­ nifesta tanto nella fantasticheria in senso comune che nell'eser­ cizio dell'immaginazione in direzione della produzione artistica. Questa azione caratterizza l'arte in genere, anzi essa si realizza ovunque l'immaginazione sia in opera, nel gioco, nella festa, nel mito, nella religione, nel rito; ed anche nel campo musicale essa si fa sentire in tutta la sua energia. Le esperienze vissute dell'auto­ re o dello spettatore debbono passare sullo sfondo, e così i suoni debbono essere estratti dai contesti causali obbiettivi per essere integrati in un altro scenario: il silenzio stesso che precede l'ese­ cuzione fa ad esso da sipario che lo dischiude. La considerazione 174 così spesso ripetuto secondo la quale la musica ha una "tempo­ ralità" propria trae uno dei propri sensi importanti proprio dal fatto che quel silenzio è come il "c'era una volta" delle fiabe che, prospettando il racconto in un passato immemorabile, spezza la catena del tempo e dispone il racconto in un tempo chiuso, fuori della temporalità obbiettiva. Nella musica la catena del tempo è spezzata anzitutto per il fatto che il brano si sviluppa in un presen­ te puramente decorrente che è a sua volta, chiuso, e che è dunque privo di un passato vero e proprio e di un futuro autentico - dun­ que in una sorta di presente assoluto incuneato nel presente reale con il quale è essenzialmente privo di rapporti. Questa peculiarità del "tempo musicale" che talvolta è stata sopravvalutata in senso metafisico pretendendo che in essa si effettui il passaggio dalla dimensione superficiale e meramente psicologica alla dimensio­ ne meta­fisico-ontologica della temporalità, deve essere restituita ad una corretta interpretazione fenomenologica riscoprendo an­ zitutto il legame che attraverso di essa si istituisce con l'immagi­ nario. Tutto ciò si riflette naturalmente sulla modalità dell'a­scolto. Come ascoltatori dobbiamo infatti poter tagliare i fili del­la stori­ cità, dobbiamo inoltrarci sui sentieri della musica con la coscienza implicita di questa peculiare extratemporalità, di questo tempo-fuori-dal-tempo che le appartiene in quanto produ­zione espressiva. Solo a questa condizione potranno libera­mente a­gire le tensioni immaginative, i paesaggi immaginari che il brano musicale espone. Ma naturalmente il mondo è sempre là; il reale che è sta­ to posto a distanza e superato in una dimensione interamente diversa può talvolta diventare improvvisamente vicino, può ir­ rompere sulla scena dell'immaginario - e non in modo ovvio, come un rumore estraneo, che reca disturbo, ma in modo tale da intervenire in quelle tensioni, da attribuire ad essi ulteriori indici di senso, cosicché in luogo di provocare una caduta al di fuo­ ri della scena immaginativa, questa irruzione può rappresentare una vera e propria impennata della sua forza espressiva. Quando 175 il contesto del problema è correttamente delimitato non dobbia­ mo per nulla temere la complessità delle diverse situazioni che si possono presentare in rapporto alle componenti che fanno del percorso dell'opera qualcosa che ci attrae, e che dunque ha per noi un "significato" - non dobbiamo nemmeno temere che si allenti la nostra "neutralità" di ascoltatori e che frammenti dei nostri vissuti si insinuino nelle pieghe dell'ascolto. 3. L'esigenza di un punto di vista interstorico in una riflessione sulla musica A questo punto possiamo certamente riproporre la domanda iniziale: perché un elogio dell'immaginazione nel contesto di una rinnovata riflessione sul problema dell'estetica e della teoria mu­ sicale? Intanto vorrei notare che mi sembra oggi debba essere avanzata l'esigenza di una riflessione filosofica sulla musica che proceda in stretta prossimità con i problemi di una teoria della mu­ sica, conferendo nello stesso tempo a questa espressione quell'al­ to grado di generalità a cui forse essa ha da tempo rinunciato. Questa esigenza si impone anche a partire dall'esperienza della musica novecentesca, proprio per il fatto che essa è emi­ nentemente caratterizzata dalla messa in questione delle nozioni costitutive della musicalità, sia in rapporto alla materia sonora che alle modalità della sua organizzazione. Naturalmente, si parla di continuo di una molteplicità lin­ guistica come di una fondamentale acquisizione sia sotto il pro­ filo teorico che sotto quello della prassi compositiva; ma sarebbe un errore ritenere che all'acquisita consapevolezza di una plu­ ralità di linguaggi debba corrispondere, sul fronte teorico, un indebolimento delle istanze di una considerazione unitaria. Porsi su questa via avrebbe il senso di risolvere e dunque di dissolvere la teoria della musica in una pluralità di ermeneutiche nelle quali dovrebbero farsi valere punti di vista strettamente relativizzati 176 all'esperienza musicale presa di volta in volta in considerazione. Con ciò ci si rimetterebbe tutta la ricchezza dei problemi che scaturisce dalla possibilità di scorgere connessioni fra problemi nella diversità delle soluzioni, e quindi di rendere realmente conto e di trarre profitto, intanto sul piano teorico, e forse anche su quello creativo, proprio da questa diversità. Occorre sottolineare con particolare decisione che il puro e semplice riconoscimento della molteplicità non comporta per nulla l'inte­resse verso il molteplice: al contrario, quanto più si sottolineano differenze da cui non pos­ siamo essere toccati perché manca il terreno comune necessario per un incontro, tanto più appare questo un modo di sancire il disinteresse verso di esso, creando un terreno propizio per la riproposta di schemi pregiudiziali di valutazione. Da questo punto di vista rappresenta un motivo su cui ri­ flettere il fatto che l'esperienza musicale novecentesca, sia stata spesso considerata all'interno di schematismi fortemente ridut­ tivi al punto che rappresenta un compito ancora attuale il ripen­ sarla al di fuori di essi per rimettere in luce potenzialità emargi­ nate da visioni unilaterali. Peraltro, proprio negli interessi di una elaborazione teorico-filosofica di grande respiro, non basta né il riferimento al presente, né in generale il riferimento alla tra­ dizione musicale europea, ma occorre far valere un punto di vista interstorico, cioè un punto di vista che sappia passare attraverso le diverse tradizioni storiche per attingere ovunque stimoli per una rinnovata riflessione di principio. Detto in breve e con un esempio: dovremmo poter entrare in contatto con trattati sanscriti scritti dieci o venti secoli fa, do­ vremmo poterci sentire contemporanei a quei trattati, cercare di capire che cosa era per essi la musica, perché questo è ciò che la musica anche ed ancora è. 177 4. Adornismo e storicismo Se a partire da queste considerazioni volgiamo lo sguardo ad Adorno, che abbiamo rammentato di sfuggita all'inizio come un punto di vista a lungo dominante, è appena il caso di dire quanto poco riusciamo a trovare esigenze come queste non dico soddi­ sfatte, ma semplicemente poste. Forse esse sono anzi, per ragioni di principio, implicitamente negate. La filosofia della musica di Adorno ha sempre voluto esse­ re una filosofia della musica moderna (nuova), e se tentas­simo di considerare la sua produzione sotto il profilo di una filosofia della musica sic et simpliciter resteremo forse sorpresi di fronte alla scarsità del materiale che potremmo trarre da essa. La verità, solo apparentemente paradossale, è che in Adorno c'è una filosofia della musica moderna senza che ci sia una filosofia della musica. Si tratta di un paradosso solo apparente per il fatto che Adorno non ha di mira una riflessione filosofica sulla musica sviluppata in stretta prossimità con la sua teoria. Il progetto complessivo di Ador­ no, in rapporto alla problematica musicale, resta legato all'assillo di fornire una chiave filosofica per una vicenda culturale di par­ ticolare importanza nella storia della musica novecentesca. Questa chiave, come si sa, è una chiave tutta giocata nei termini di una sociologia filosofica. Vorrei che a tutte queste parole fosse dato il loro giusto peso. È importante infatti che si parli di una chiave, così come il fatto che si sottolinei il riferi­ mento ad una sociologia filosofica. Parlare di sociologia filoso­fica in riferimento ad Adorno significa essenzialmente par­lare di una sociologia dedotta da una filosofia della storia. Di conse­guenza la sua indagine è indubbiamente un'inda­gine rivolta al "significato", ma questo significato si trova tutto già scritto in quella filosofia della storia, con la sua necessaria unilateralità, con i suoi vincoli, le sue limitazioni e restrizioni. Del resto, alme­no in larga parte, proprio a questa circostanza è dovuta la fortuna che Adorno ha avuto in Italia: l'impianto hegeliano di Adorno conferiva infatti ai 178 suoi discorsi un che di familiare ad una cultura immersa da sem­ pre in tematiche storicistiche. Io penso che Adorno possa essere considerato, per quanto riguarda l'ambito della cultura italiana, un episodio interno agli sviluppi dello storicismo. 5. La maschera metaforica Su questo sfondo assume un diverso risalto il nostro elogio dell'immaginazione musicale. Nelle considerazioni precedenti ci è sembrato importante avanzare un problema di senso del­ l'espressione musicale mettendo l'accento sugli elementi tecni­ co-costruttivi dell'opera: l'immaginazione gioisce delle tecni­che, l'immaginare nella musica è un immaginare attraverso le possibi­ lità compositive dei suoni, e dunque un immaginare attra­verso le tecniche, attraverso la struttura. Abbiamo tuttavia anche attirato l'attenzione sul fatto che, senza incorrere in alcuna incoerenza, il compositore può essere prospettato anche come un "sognatore di suoni" - la composizione stessa come una "revêrie", per usare un termine caro a Bachelard, e la dimensione dell'ascolto come un'adesione a questa "revêrie", una dimensione a cui si accede aprendosi a dinamismi imma­ ginativi latenti, ad un "mondo" che non ha forma di mondo, in cui non vi sono né cose né fatti, ma direzioni di senso e di valore. Abbiamo dunque operato una connessione tra problema del senso e problema delle funzioni immaginative, e così facen­ do abbiamo difeso la necessità di un approccio al problema del senso che tenesse la presa sulla superficie fenomenologica e sui nessi effettivamente proposti dalla costruzione musicale. L'af­fer­ ra­mento di quelli che potremmo chiamare vettori imma­ginativi interni dell'opera rappresenta il primo passo - un passo che può essere effettuato ovviamente solo se la loro esistenza viene anzi­ tutto riconosciuta. Ma solo il primo passo. Vi sono infatti i contesti in cui si localizza il progetto compositivo nel suo insieme, contesti che 179 non sono semplicemente leggibili in quella superficie fenomeno­ logica. E la comprensione di questi contesti è di fondamentale importanza per penetrare nella complessità degli strati di senso di cui l'opera è costituita. Potremmo dire che una fenomenologia dell'espressione non può fare a meno di una dialettica dell'espressione - ma il termine di "dialettica" deve essere allora liberato da ogni richia­ mo al piano di una filosofia della storia e indicare invece essen­ zialmente la dinamica dei rapporti tra immaginazione e realtà. Questi rapporti non sono definiti una volta per tutte nelle loro modalità; e nemmeno è definito una volta per tutte il grado di prossimità o di distanza dal mondo che sta all'orizzonte. Una via assai diversa è quella di misconoscere la presenza di componenti espressive interne fondate sulle valorizzazioni im­ maginative e di concepire la funzione immaginativa come una pura capacità di produrre maschere metaforiche: alla funzione primaria della valorizzazione, come operazione che sta alla radi­ ce delle immagini, delle "figure" nel duplice senso in cui ne ab­ biamo parlato in precedenza, si sostituisce una funzione di mera trasposizione e rappresentazione sul piano musicale di significati giacenti interamente altrove. In Adorno ci si imbatte di continuo in valutazioni che par­ tono da questo presupposto implicito, e questo tanto più per il fatto che si tenta di evitare l'obiezione di "riduzionismo" e si teorizza una sorta di significato sociale interno che investe anche ed in primo luogo gli aspetti formali dell'opera. Vorrei sottolineare che dal nostro punto di vista si tenderà a dare un peso all'analisi strutturale del brano proprio perché si richiede che l'attenzione venga portata anzitutto alla Gestalt percettiva, e dunque alle regole di cui essa è il risultato. Nello stesso tempo si sostiene che questa analisi deve estendersi neces­ sariamente al di là del piano fenomenologico strettamente inteso proprio per il fatto che mentre l'opera musicale come tale segue un tracciato ben delimitato, non è invece delimitato il cam­po dei 180 significati possibili che quel tracciato attraversa. Que­sto campo reca naturalmente in sé i segni della storicità, in varie forme che di volta in volta debbono essere accertate e ricono­sciute. In Adorno invece il riferimento alla storicità, e quindi l'am­ bito del significato, è esclusivamente determinato da una teleolo­ gia filosofico-storica, e tende necessariamente ad una fissazione ed a una determinazione univoca. Di conseguenza gli elementi strutturali, le regole di articolazione e di organiz­za­zione inter­ na debbono essere considerate come una faccenda meramente tecnica, finché non arriva l'illuminazione filosofica che propone la maschera metaforica e nello stesso tempo la toglie riportando­ la al suo preteso significato reale come significato sociale. Questa illuminazione ha il carattere di una chiave, ignota anzitutto all'au­ tore (le cui idee, i cui progetti, le cui opinioni debbono, come si sa, essere del tutto messe da parte come irrilevanti), ignota all'ascoltatore, per lo più considerato come irretito nelle maglie della "società amministrata"; ed è nota soltanto al "critico della cultura" che la rivela ed al quale si deve supporre sia stata rivelata dallo spirito del tempo, e dunque dallo spirito assoluto che com­ pie il suo cammino. Non si può non notare, tenendo conto degli stessi termini che sto ora utilizzando, che non solo la posizione di Adorno appartiene ad un'altra epoca, ma che si avverte come antiquata persino la polemica nei suoi confronti. Come esempio di ciò che intendo dire parlando di "chiave" mi limiterò a citare l'interpretazione adorniana della ripresa nella forma-sonata in Beethoven che sarebbe null'altro che una traspo­ sizione musicale, e quindi una maschera metaforica, del gesto di rinuncia al compimento della rivoluzione borghese, un vero e pro­ prio riflesso di una volontà di conservazione di ordine ideologico sociale [1]. In ogni caso l'idea che il paesaggio immaginario sia esatta­ mente ciò che va tolto dalla superficie della musica per coglier­ ne il senso effettivo corrisponde ad una tentazione ben presen­ te nello storicismo in genere - essa non riguarda dunque solo 181 Adorno. Ed in realtà essa penetra anche ampiamente all'interno dell'area della semiologia e dell'ermeneutica. 6. Citazioni ed esempi che mostrano le ragioni della necessità di un elogio Mi sia consentito un ultimo riferimento in proposito. Vi è un punto, nel saggio di Nietzsche Il caso Wagner (1888) [2] in cui egli attacca il contenuto mitico del dramma musicale wagneriano come una pura "scorza" [3], dentro la quale non troviamo altro che "la sfera reale, moderna" - anzi la "sfera borghese", ed assimila i personaggi femminili wagneriani a Madame Bovary. Ora, per il critico storicista questo passo rappresenta una formidabile intu­ izione interpretativa, benché essa debba essere mutata di segno. Questa circostanza ha infatti per Nietzsche un senso negativo e rappresenta per lui il crollo di una grande illusione, - e dunque una simile osservazione è guidata da un'intenzione denigrato­ ria e di pesante derisione: per il critico storicista - e non parlo di uno qualunque, tutte le citazioni che seguono sono tratte da Massimo Mila [4] - essa corrisponde invece alla pura verità, ed anzi la grandezza di Wagner sta proprio nel fatto che il mito è in Wagner "metafora e rivestimento della realtà" [5] , una pura e semplice scorza dentro la quale si può scorgere un "robusto realismo" [6] . Motivo di apprezzamento è allora il fatto che, ad esempio, Fricka - cito letteralmente, lo confesso, con un certo disagio, con un imbarazzo crescente - non è altro che "un co­ munissimo esemplare di moglie gelosa", Brunilde "una ragazza generosa che sui banchi dell'università avrebbe certamente fatto il '68", Sigfrido "un giovane eroe pieno di entusiasmo che parte con tante illusioni alla conquista del mondo (...) e ci si rompe le ossa", Wotan "un cinquantenne deluso, un marito stufo, uno che ha sognato di combattere le belle battaglie e poi invece si è acconciato a tutti i compromessi per far carriera" [7]. Che cosa importa a me, esclama ad un certo punto Mila, 182 dei Nibelunghi e dei Ghibicunghi? Egli risponde con una sola parola: "Niente" [8] . Risposta che ha da un lato un vago sapore lapalissiano - perché sarebbe certamente la risposta dell'uomo della strada se lo interrogassimo così: "Ti importa forse qualcosa dei Nibelunghi e dei Ghibicunghi?"; dall'altro, a me sembra quasi sinistra formulata da un cultore di cose dell'arte. Lo stesso critico cita con favore la regia dell'Anello realiz­ zata da Chéreau a Bayreuth, con la direzione di Boulez, nel 1976 [9]. Ad essa il semiologo Jean-Jacques Nattiez ha dedicato un intero libro [10], nel quale, sia detto ai margini, è presente an­ che l'intenzione di un incontro tra semiologia ed ermeneutica [11] . Naturalmente non è qui il caso di entrare nel merito della questione - anche perché questi riferimenti wagneriani sono da parte mia del tutto occasionali, ed hanno una pura funzione il­ lustrativa rispetto ai problemi di ordine generale che abbiamo toccato in precedenza. La regia di Chéreau va certamente consi­ derata, almeno in parte, uno dei tanti episodi di sociologiz­zazione nell'ambito del teatro musicale che sono stati sono stati la norma più che l'eccezione in questi ultima trentina d'anni - episodi che possono essere considerati come una possibile concretizzazione di una tendenza teorica in rapporto alla quale è certamente d'ob­ bligo richiamare il nome di Adorno. In questo caso Chéreau lesse Adorno su sollecitazione di Boulez, ed alcuni tratti vistosamente adorniani sono rimasti nella sua regia [12] . Il punto che ci interessa notare è tuttavia che l'operazione interpretativa condotta parte dall'assunto tacito (e forse nemme­ no troppo) che il senso possa essere dato soltanto in due modi: o attraverso la riduzione al presente storico del compositore o attraverso la riduzione al presente storico dell'ascoltatore; even­ tual­mente attraverso l'una e l'altra insieme, come fa del resto Chéreau con ambientazioni che richiamano sia il Novecento che il primo Ottocento [13]. L'essenziale è togliere di mezzo l'extratem­ poralità immaginativa - reinchiodando saldamente le operazioni immagina­ 183 tive al terreno della determinatezza storica. Dobbiamo essere grati a Chéreau di aver formulato con molta chiarezza questo punto. Egli dice una volta: "Io ho sempre detto di non comprendere la parola Zeitlosigkeit (atemporalità). Ogni mitologia è una mitologia di una epoca precisa" [14]. Se riesce a dire una sciocchezza come questa sulla mitologia, so­ spetto che siano molte le cose che Chéreau non comprende. Ed anche Massimo Mila. Era proprio il caso, io credo, di tentare una difesa dei diritti dell'immaginazione: per una riapertura di una riflessione a tutto campo sull'estetica e la teoria della musica. Apsara danzante 184 Note [1] Su questo punto si vedano le osservazioni di Antonio Serra­ vezza, Musica, filosofia e società in Adorno, Dedalo, Bari 1976, pp. 34-36. Si fa qui riferimento all'ultimo capitolo dell'In­troduzione alla sociologia della musica di Adorno, trad. it., Einaudi, Torino 1971, pp. 250-252. [2] F. Nietzsche, Il caso Wagner, Mondadori, 1975. [3] ivi, p. 24. [4] M. Mila, Tra Wagner e Nietzsche , Quaderni di M/R, 4. Si tratta di un intervento ad un Convegno su Wagner e Nietzsche, tenuto a Torino nel 1983. [5] ivi, p. 31. [6] ivi, p. 27. [7] ivi, p. 25. [8] ivi, p. 25. A dir tutta la verità egli dice non "a me", ma "a noi". [9] "Quando ci si accorge del realismo profondo che sotto il ve­ lame del mito fa dell'Anello del Nibelungo, una storia ideale ed eterna dell'uomo, allora non è più possibile privarsi di questo specchio della nostra vita, e perfino la pazza messa in scena di Chéreau a Bayreuth, in ambienti moderni, con Fricka in abito da sera e il commendator Wotan simile a un autorevole cinquantenne in caccia d'avventure, non ci sembra poi tanto dissennata" (pp. 25-26). Cosicché sarebbe proprio il piattume che qui Mila chiama realismo profondo che ren­ derebbe giustizia dell'aspetto "universalmente umano" del dramma wagneriano, aspetto che il mito notoriamente cela! [10] Tétralogies. Wagner, Boulez, Chéreau. Essai sur l'infidelité. Paris, Christian Bourgois Editeur, 1983. [11] "Non sorprenderà dunque che siano in questione, dall'ini­ zio alla fine dell'opera, la semiologia e nella conclusione i rapporti tra semiologia ed ermeneutica" ivi, p. 12. [12] cfr. ivi, pp. 76-78. [13] L'ambientazione riguarda il primo ottocento e il sorgere della società industriale; e vi sono allusioni al nove­cento, a New York ecc. Commenta Nattiez che "Chéreau rein­troduce sulla scena il mon­ do industriale del 1848 per far comprendere che il mito del Nibelun­ go raccontato in questa data concerne anche quell'epoca" ma così 185 facendo dice anche allo spettatore del 1976: "Vedete che io non mi lascio gabbare da ciò che Wagner raccontava nel 1848" (cfr. ivi, p. 79). [14] La dichiarazione, citata da Nattiez a p. 79, è con­tenuta in un'intervista a Boulez ed a Chéreau realizzata da Carlo Schmid sotto il titolo "Mithologie et Ideologie", pubbli­cata nel programma "Rhein­ gold 1977" del festival di Bayreuth. 186 187 La tematica dell'immaginazione in Kant 1976 188 Questo testo è tratto da lezioni del corso intitolato "L'immaginazione" tenuto nel 1976 - 77 all'Università degli Studi di Milano. - Nelle citazioni della Critica della ragione pura si fa riferimento alla traduzione italiana a cura di G. Gentile e L. Lombardo Radice, Bari, 1940, mentre le citazioni italiane da Anthropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst (L'antropologia, considerata da un punto di vista pragmatico), pubblicata in prima edizione nel 1798 e in seconda edizione nel 1800, sono riprese dalla traduzione italiana di G. Vidari, riveduta da A. Guerra (Laterza, Bari 1969) che è stata realizzata sulla prima edizione. L'indicazione di pagina si riferisce sempre alle traduzioni italiane. 189 Indice 1. Promemoria sui principi della filosofia kantiana 2. La funzione trascendentale dell'immaginazione 3. L'interpretazione temporale delle categorie in quanto opera dell'immaginazione. 4. L'immagine come schema. Concetto, regola e schema. 5. Passaggio all'"Antropologia dal punto di vista pragmatico" 6. Immaginazione e fantasia. Il sogno. 7. Figure, concetti, superstizioni 8. Alcuni singolari esempi di assimilazioni immaginative. 9. Ricordi e previsioni 10. Simbolizzazioni 190 191 1 Promemoria sui principi della filosofia kantiana I più sapienti tra i miei lettori, mi scuseranno se, per entrare nel merito della tematica dell'immaginazione in Kant, anzi sol­ tanto per sfiorarla, dedicherò qualche cenno a cose risapute, da manuale; ma anche loro alla fine mi saranno grati per un breve ripasso, che risulta sempre utile. Anzitutto voglio rammentare lo scopo e il metodo della filoso­ fia critica di Kant. Lo scopo va caratterizzato in opposizione ai progetti di costruzioni metafisiche sulla base di argomentazioni logiche nello stile del razionalismo classico e, ad un tempo, alle proposte di analisi sistematiche sui principi della conoscenza, e più in generale sulla natura umana, sulla base dell'osservazione, nello spirito dell'empirismo e soprattutto della filosofia humea­ na. Si potrebbe peraltro fondatamente sostenere che in Kant vi sia la ripresa di una idea che risale a Locke: quella di indicare "i limiti della conoscenza umana", di tracciare dunque l'area en­ tro cui possiamo e dobbiamo muoverci per ottenere conoscenze effettive, e non puramente apparenti. Tra queste ultime vanno annoverate le speculaioni metafisiche, ma in Kant l'impossibilità della costruzione di un sistema metafisico deve essere accura­ tamente dimostrata, e non semplicemente lasciata alle proprie spalle, come in realtà accadeva in Hume. In Kant occorre indica­ re una via che conduca ad un'effettiva dimostrazione. Essa potrà avvenire solo attraverso l'esibizione delle condizioni attraverso cui la conoscenza è possibile. In questo modo si mostra in negati­ vo l'impossibilità della metafisica come sapere autentico in quan­ to si mostra che il suo modo di procedere si trova in contrasto con quelle condizioni. Il progetto critico si contrappone così al progetto empiristico ed a quello razionalistico. 192 Quanto al metodo, esso è strettamente connesso alla formu­ lazione del progetto. In linea generale, e certo approfittando dei vantaggi dati da una forte semplificazione, potremmo dire che il progetto razionalistico assumeva come proprio metodo es­ senzialmente l'argomentazione logica, la deduzione da principi assiomatici: il modello era rappresentato, sul lato della scienza, dalla geometria. Le scienze naturali, considerate anzitutto per la rilevanza conferita all'osservazione diretta, fornivano invece il modello per il progetto empiristico. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a metodi che hanno modelli in altre scienze. In Kant invece ciò non può avvenire per una ragione di principio: poiché si tratta di indagare le condizioni di possibilità della conoscenza, non possiamo, a pena di incorrere in un cir­ colo vizioso, servirci di un metodo già pronto. Il metodo deve essere un metodo filosofico autonomo. In questa convinzione Kant era rafforzato dalla possibilità di esercitare obiezioni particolar­ mente efficaci nei confronti del razionalismo e dell'empirismo. L'uso di un metodo piuttosto che dell'altro non era in grado di garantire nulla sulla legittimità del risultato. L'impiego della logica non preservava il razionalismo dall'elaborazione delle me­ tafisiche più fantasiose. D'altra parte la generalizzazione del me­ todo sperimentale fraintendeva talvolta in maniera grossolana il senso e la portata delle scienze non empiriche come l'aritmetica e la geometria, pretendendo di ricondurre a dati dell'esperienza i risultati acquisiti in queste scienze. La filosofia, in quanto si propone un progetto critico - nel senso che kantiano del termine che abbiamo or ora indicato - deve dunque dare a se stessa il proprio metodo. Ed esso consi­ sterà essenzialmente in un'analisi tendente a portare chiarezza all'interno del rapporto conoscitivo, che Kant qualifica con il termine di analisi trascendentale. Si può arrischiare di spiegare in breve di che si tratti andando a vedere che cosa effettivamente egli si propone di fare. 193 Come Hume, benché ovviamente da un punto di vista net­ tamente diverso, Kant si accinge alla costruzione di una sorta di sistema dell'esperienza, subordinatamente ad una problematica epistemologica. Giungiamo ben presto al centro della questione se, in rapporto alle conoscenze in genere, distinguiamo con chia­ rezza tra problema dell'origine e problema della giustificazione. Questi due problemi sono fusi e confusi nella posizione empiristica di Hume: in essa, il mostrare l'origine empirica delle conoscenze equivale ad esibire il fondamento che le rende legittime. Questo atteggiamento generale è implicito nel suo modo di con­ cepire le idee come copie di impressioni. Si tratta allora per ogni idea di ricercare l'impressione di cui essa è una copia, o in ogni caso di individuare i passi di un processo attraverso i quali le idee possono essere ricondotte alle impressioni. Qualora non sia reperibile l'impressione corrispondente o non vi sia alcun processo di riconduzione al terreno delle impressioni, l'idea sarà in linea di principio illegittima, e si tratterà allora di ricercare una spiegazione della sua formazione attraverso qualche proces­ so psicologico più o meno complesso in cui l'associazione delle idee avrà una parte preponderante. Kant insegna invece in primo luogo a discriminare questi due problemi. Anche se ammettiamo che ogni nostra conoscen­ za abbia origine dall'esperienza, non siamo per questo affatto ob­ bligati a ritenere che essa trovi nell'esperienza la propria giustifi­ cazione. Le conoscenze geometriche ci offrono un esempio elemen­ tare in cui la portata di questa distinzione risulta evidente. Se prendiamo un teorema relativo ai triangoli, come il teorema di Pitagora, non avremo difficoltà ad ammettere che, quanto alla sua origine di fatto, esso sia stato acquisito eventualmente me­ diante l'osservazione e la misurazione di numerosi triangoli ef­ fettivamente disegnati su una lavagna. Ciò non può essere affat­ to escluso. Così per molte altre conoscenze geometriche. Può perfettamente accadere che ad un certo punto ci rendiamo con­ 194 to che normalmente la somma degli angoli interni di un triangolo è eguale a due retti. Tuttavia quando ci proponiamo il problema di giustificare conoscenze di questo genere, allora ci muoviamo piuttosto nella direzione di una ricerca dei principi primi dai quali quelle cono­ scenze siano derivabili. Allora il modo in cui è stato attinta di fatto quella conoscenza diventa irrilevante, è un problema che riguarda la storia della geometria, e non la geometria stessa. La conoscenza non viene giustificata dalla sua storia, ma dalla sua dimostrabilità a partire da assiomi. A loro volta questi ultimi tro­ vano il loro fondamento nel concetto della spazialità, ovvero, nel caso citato come esempio, nel concetto di "figura triangolare come tale", e non nelle molteplici esperienze di figure triango­ lari. La distinzione tra problema dell'origine e problema della giu­ stificazione viene formulato con particolare chiarezza nell'intro­ duzione della Critica della ragione pura, dove Kant scrive: "Non c'è dubbio che ogni nostra conoscenza cominci dall'esperienza… Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l'esperienza, non però essa deriva tutta dall'esperienza" - ( p. 40 ). Quando si tratta di conoscenze empiriche l'origine coincide in modo ovvio con la giustificazione. Tuttavia non tutte le cono­ scenze sono empiriche. Vi sono tuttavia anche conoscenze non empiriche che Kant chiama conoscenze pure. Esse non trovano nell'empiria la loro giustificazione, e non è facile nemmeno sta­ bilire donde esse abbiano origine, da che cosa scaturiscano. Il sistema proposto da Kant vuole rispondere soprattutto a questo problema. Si ammette in primo luogo che vi sia uno strato di base che fornisce i materiali delle esperienze. Questo strato consta di sensazio­ ni in un senso non molto lontano da quello in cui Hume parlava di impressioni. Le differenze rispetto a Hume sono essenzial­ mente due: 1. in primo luogo non diamo nessuna carattterizzazione 195 psicologizzante delle sensazioni (ad esempio, non parliamo della vivacità maggiore o minore delle sensazioni). 2. in secondo luogo ammettiamo che questo materiale non sia disparato e disperso, ma debba presentarsi in una qualche forma di organizzazione. Le forme più elementari di organizza­ zione o di ordinamento dei materiali sensoriali sono lo spazio e il tempo. Questo è un modo di sottolineare che qualunque sensa­ zione ci viene sempre data in un ordinamento spazio-temporale insieme ad altre sensazioni. Tali forme di ordinamento non sono giustificabili in linea di principio sulla base dei materiali sensoria­ li, cosicché esse, non essendo a posteriori ed avendo carattere di forme di organizzazione relative a mateiali intuitivamente colte, vengono chiamate da Kant forme a priori dell'intuizione. Il materiale così ordinato può essere poi sottoposto ad ul­ teriori e più elevate forme di organizzazione che chiameremo categorie. In realtà Kant prende termini e problemi dalla tradi­ zione filosofica, ma ne rinnova il senso ed i modi di approccio. Così sembra non si dica nulla di nuovo se si citano come esempi di categorie la sostanza e la causa, e se si riuniscono le catego­ rie sotto il titolo di intelletto. Cosa nuova è invece fare di esse, e dunque dell'intelletto nella totalità delle sue funzioni, una forma soggettiva di organizzazione e di ordinamento consistente a sua volta in una molteplicità di forme di unificazione, o, come Kant preferisce dire, di sintesi. Si suggerisce dunque che una certa esperienza anche molto elementare, ad esempio la percezione di un tavolo rosso di fron­ te a me, sia analizzabile in componenti. Alcune di queste compo­ nenti appartengono all'ambito della sensibilità pura e semplice - che peraltro soggiacciono alle forme a priori dell'intuizione - altre al campo dell'intelletto. Nella percezione del tavolo rosso abbiamo infatti una molteplicità di dati sensoriali come colore, ruvidezza, ecc. Di esso percepiamo naturalmente anche l'esten­ sione, la forma della superficie, ecc. Questi dati sensoriali sono unificati e ordinati anzitutto dal fatto che sono insieme compre­ 196 senti (tempo) secondo un ben determinato ordinamento spaziale re­ ciproco (spazio). Ciò tuttavia non basta. Un puro aggregato di qualità sensoriali, sia pure spazio-temporalmente ordinato, non si presenta ancora come una cosa a cui sono riferite determinate proprietà. Di fronte ad un tavolo rosso noi possiamo enunciare il giudizio "questo tavolo è rosso", ed è una condizione di possibi­ lità della percezione e del giudizio corrispondente il fatto che si dia, attraverso il materiale sensoriale, la struttura di riferimento cosa-proprietà. Questa struttura di riferimento non può tuttavia essere reperita nell'aggregato sensoriale come tale, e perciò viene riferita da Kant ad una peculiare categoria. La "sostanza" ovve­ ro la cosa costituisce dunque, secondo Kant, una componente a priori, una funzione intellettuale, nel complesso dell'esperienza percettiva interpretata come risultato di una messa in forma di mate­ riali della sensibilità. In Kant abbiamo un sistema il cui asse sta nella distinzione tra forma e contenuto dell'esperienza. Le forme non sono giu­ stificate dal materiale sensoriale, proprio per il fatto che sono modi di organizzazione di esso. Questi modi di organizzazione si distinguono poi in "forme dell'intuizione" e "categorie". La necessità secondo Kant di stabilire questa distinzione dipende dal fatto che una forma o una relazione spaziale in genere è esemplificabile all'interno del materiale percepito - noi pos­ siamo illustrare il concetto di triangolo mostrando una figura di for­ ma triangolare. Non possiamo invece esemplificare nello stesso modo il concetto di sostanza o di causa. Si noterà inoltre che quando mostriamo un oggetto di forma triangolare, la funzione della sostanza è già operante. Si tratta infatti di mostrare qual­ cosa che ha determinate proprietà. Perciò si impone in Kant anche l'idea che il luogo delle funzioni sintetiche vere e proprie sia l'intelletto. Questo schema non rappresenta la soluzione, ma soltanto l'intento. Kant è tenuto infatti ad indicare un insieme di argo­ mentazioni per provare che spazio e tempo sono nozioni a pri­ 197 ori; così come deve indicare una strada per mostrare non solo l'apriorità delle categorie, ma anche quali e quante esse siano. Nonostante le novità con cui Kant usa i termini della tradi­ zione, è naturale che i vecchi significati restino sullo sfondo per riemergere quando è il caso. Questo vale in particolare per l'at­ tività dell'intelletto. Dunque per il "pensare", per il "formulare pensieri". Questo vecchio senso del termine ci farebbe ricadere in una concezione psicologizzante facendo riferimento alla con­ cretezza di un processo mentale. Dobbiamo invece badare al suo risultato. L'attività in cui il pensiero si riversa è quella della formulazione di proposizioni ovvero, secondo la terminologia di Kant, di "giudizi". I giudizi "tutti i corpi sono estesi" oppure "questo tavo­ lo è rosso" possono essere da noi compresi indipendentemente da qualunque accentuazione psicologica relativamente all'attività mentale esplicata in essi, ma anche indipendentemente dalle par­ ticolarità di chi li formula e dal contesto di volta in volta diffe­ rente in cui essi vengono formulati. Ad esempio, in un particola­ re contesto, con "questo tavolo è rosso" potrei voler anche dire: e ciò non mi piace affatto, avevo dato altre disposizioni. Ponendo il problema dell'intelletto dal punto di vista dell'at­ tività giudicativa nella quale il pensare si realizza, una classifica­ zione presuntivamente esaustiva dei tipi di giudizi dovrebbe of­ frire un naturale filo conduttore per un elenco di categorie. Questo modo di procedere ha il vantaggio, secondo Kant, di prescinde­ re, nella determinazione della "tavola delle categorie", dai ma­ teriali sensoriali di base. In effetti, l'aspetto contenutistico non verrà considerato. Ciò che interessa sono solo le forme dei giudizi. Kant è infine tenuto a mostrare che le categorie sono appli­ cabili soltanto ai materiali dell'intuizione spazio-temporalmente organizzati (ovvero ai fenomeni), ad esempio deve dimostrare che la nozione di sostanza applicata in ambito metafisico-teologico, in cui dio potrebbe essere proposto come la sostanza di tutte le cose, genera aporie insolubili. Solo attraverso questo lungo per­ 198 corso si può arrivare allo scopo di dimostrare che la metafisica come scienza è impossibile. Tutto ciò si rispecchia nell'articolazione della Critica della ra­ gione pura in una Estetica trascendentale (teoria della sensibilità) e in una Logica trascendentale. Quest'ultima viene suddivisa a sua volta in una Analitica trascendentale (teoria dell'intelletto) e in una Dialet­ tica trascendentale (teoria della ragione). Ci troviamo così di fronte ad una ripartizione di facoltà: sensibilità, intelletto, ragione. La sensi­ bilità sarà intesa come capacità di ricevere dati sensoriali organiz­ zati secondo le forme dello spazio e del tempo. L'intelletto invece come capacità di formulare concetti sia empirici che puri. I primi saranno le nozioni di cui possiamo indicare un corrispondente intu­ itivo e che fungono come forme di ordinamento dell'esperienza nella misura in cui esplicano una funzione essenzialmente classi­ ficatoria; i secondi sono invece nozioni che hanno la loro giusti­ ficazione nell'intelletto stesso e che sono forme di ordinamento nel senso che esplicano una funzione primaria di unificazione e di organizzazione (sulla cui base sono possibili le stesse classifi­ cazioni empiriche). La ragione infine sarà intesa come tendenza a impiegare concetti puri oltre i materiali dell'esperienza sensibile ed inoltre come capacità di formulare idee - una parola a cui Kant conferisce un nuovo senso con il quale non avremo a che fare nella nostra esposizione futura e che possiamo qui trascu­ rare, nonostante il fatto che perveniamo con le idee all'effettivo compimento del sistema critico dal punto di vista teoretico. Così anche trascureremo in questa nostra esposizione tutte le compli­ cazioni derivanti dalle differenze tra le due edizioni della Critica della ragione pura - 1781 e 1787 - affidandoci alla seconda edi­ zione. Peraltro va notato che le differenze sono rilevanti proprio per il problema dell'immaginazione considerato sotto l'aspetto episte­ mologico. Naturalmente per tutto ciò si rimanda alla ricchissima letteratura specializzata. Da parte nostra abbiamo cercato di fare uno sforzo di semplificazione sufficiente ai nostri scopi. 199 2 La funzione trascendentale dell'immaginazione Questo nostro rapido promemoria, oltre a rammentarci gli ele­ menti di base della filosofia kantiana, ci introduce in certo senso negativamente al problema che ci sta a cuore. Abbiamo parlato di facoltà, ma che ne è dell'immaginazio­ ne? In questo sommario non ne troviamo traccia. A ben pensarci ciò potrebbe apparire abbastanza naturale. Se vogliamo realmente mettere da parte, in polemica con il pro­ getto empiristico, il problema dell'origine, e quindi in generale le componenti psicologiche nei progetti conoscitivi, dovranno farne le spese proprio la memoria e l'immaginazione che non a caso assolvono una parte così importante nella descrizione hu­ meana dei processi dell'esperienza. Ciò non significa che Kant cancelli queste facoltà, ma che egli assegna ad esse un rilievo es­ senzialmente dal punto di vista della problematica della storia dei concetti. Esse sono importanti dal punto di vista del problema dell'origine, non da quello della giustificazione. Ciò almeno per quanto riguarda la memoria. Nel caso dell'immaginazione le cose sono un po' più complicate. Occorre poi precisare che anche nel caso dei concetti em­ pirici, ciò che Kant mette in rilievo non è tanto il fatto che essi abbiano una storia, ma la peculiare forma di rapporto che essi intrattengono con l'esperienza. Così non è tanto importante il fatto che quando viene pronunciata la parola "corvo", io abbia una certa rappresentazione mentale (l'idea nel senso humeano); mentre lo è il fatto che io possa illustrare il senso della parola at­ traverso una "intuizione corrispondente", ovvero mostrando un corvo. La differenza rispetto al punto di vista di Hume non po­ trebbe essere più chiara. Ma nello stesso tempo è opportuno sottolineare che Kant sarebbe fondamentalmente in accordo 200 con le analisi di Hume qualora esse fossero intese come analisi dirette all'origine, nel presupposto di una differenza chiaramente posta tra problema dell'origine e problema della giustificazione. Questo modo di coesistere di un punto di vista trascendentale con un punto di vista empirico viene normalmente trascurato dalla manualistica, mentre, a nostro avviso, rappresenta una delle caratteristiche specifiche - e di grande interesse - della problematica kantiana. Nel caso dell'immaginazione, come abbiamo detto or ora, le cose sono qui un po' più complicate, anzi: molto più compli­ cate. Gli interpreti si sono affaccendati a lungo per capire che funzione epistemologica assuma l'immaginazione dal punto di vista trascendentale kantiano. L'immaginazione assolve sicura­ mente una funzione estremamente importante, benché la sua illustrazione richieda che si prenda posizione su uno dei punti più controversi ed oscuri della Critica della ragione pura. Si tratta della tematica dello schematismo trascendentale. Naturalmente non vogliamo certo qui buttarci nel mezzo di queste controversie, ma solo tentare di delineare nel modo più lineare possibile l'a­ zione dell'immaginazione nel gioco tra categorie e intuizione, soprattutto al fine di mostrare una nuova angolatura che emerge nella discussione di questo problema. Come abbiamo visto, vi sono buone ragioni per indicare come filo conduttore per l'individuazione delle categorie una classificazione dei giudizi. Kant ritiene che se vogliamo usare parole come intelletto, pensiero, pensare, ecc. in modo non psi­ cologico dobbiamo far riferimento ai giudizi ed alle loro forme possibili. Le operazioni intellettuali saranno dunque individuate facendo riferimento ai risultati logico-linguistici in cui si esplica la loro attività. La nozione di sostanza rimanda così al giudizio di forma pre­ dicativa "S è p" nel quale si afferma l'inerenza di un determinato attributo ad una cosa. Si vede subito tuttavia che non possiamo arrestarci alla pura e semplice affermazione dell'esistenza di una corrispondenza tra una categoria e una determinata forma giu­ 201 dicativa. Stando a questa forma, quel che si cava da essa è ancora soltanto una forma logico-linguistica. Considerando il giudizio di forma predicativa, siamo in presenza di un soggetto a cui vie­ ne connesso un predicato. Ma ciò non basta, perché dobbiamo fare valere la pretesa che la categoria della sostanza sia una vera e propria funzione che opera sui materiali dell'esperienza sensibile uni­ ficandoli secondo questo rapporto. La pura e semplice esibizione di forme logiche - la forma di soggetto, la forma di predicato, la forma della loro connessione - non riesce a soddisfare questa pretesa. La difficoltà risulta ancora più chiara nel caso del nesso cau­ sale. La forma "se… allora…" non contiene senz'altro questo nesso. Essa esprime un rapporto di condizione a condizionato, ma anzitutto sotto il profilo di una pura e semplice conseguenza logica, o meglio: a partire da essa non riusciamo a districare la differenza tra il rapporto causale e il rapporto di conseguenza logica. Per questo Kant parla di eterogeneità delle categorie rispetto all'esperienza sensibile - e questa eterogeneità rappresenta un pun­ to cruciale della sua posizione. La stessa difficoltà secondo Kant non vi è invece per lo spazio e per il tempo per il fatto che questi ultimi sono integrati nei materiali sensoriali e direttamente colti in essi. Guardandoci intorno e vediamo già degli ordinamenti spa­ ziali e temporali. Vediamo cerchi e triangoli, rumori e suoni in successione, ecc. Non vediamo invece - così almeno ritiene Kant - rapporti come quello di causa e di effetto o quello di sostanza e attributo. Risulta assai chiaro in questo caso che, nelle premesse da cui Kant prende le mosse, vi sono aspetti impor­ tanti che ci riportano a Hume. Il senso espresso dalla parola sostanza non trova, non meno della parola causa, un corrispon­ dente intuitivo immediato. La differenza sta nel fatto che mentre Hume ricavava di qui la conseguenza che tali nozioni dovevano essere semplificemente espunte ed eventualmente spiegate attra­ verso meccanismi psicologico-associativi, Kant pensa invece che 202 la loro espunzione e psicologizzazione metterebbe in questione la stessa possibilità di istituire un rapporto conoscitivo. Cosicché non siamo tenuti soltanto a indicare la strada che conduce dal giudizio alla categoria, ma anche a mostrare, dietro l'una e l'altra, il baluginare di una connessione valida, non solo entro il linguaggio, ma entro l'espe­rienza. Se tuttavia vogliamo spingerci sino a questo punto, ci imbattiamo nell'eterogeneità delle categorie rispetto all'intuizione, che rappresenta un problema di cui è difficile in­ travedere da subito una soluzione. Di fronte a questa difficoltà, Kant se ne stette a lungo con il dito in bocca. La soluzione che, dopo mille tergiversazioni, egli si decise a proporre nella seconda edizione della Critica, dando ad essa la forma più oscura possibile, non è certo in grado di la­ sciarci soddisfatti. Essa ha tutta l'aria di un'escogitazione ad hoc, di una soluzione da deus ex machina - eppure si tratta di un'esco­ gitazione assai ricca di idee, su cui val la pena indugiare. 3 L'interpretazione temporale delle categorie in quanto opera dell'immaginazione. Ecco come a me sembra stiano le cose. Categorie ed esperien­ za sensibile sono eterogenee - questa è la tesi di base. D'altra parte abbiamo bisogno di superare questa eterogeneità. Ora, se ci fosse una facoltà molto speciale, che da un lato fosse omogenea alle categorie, dall'altro alla sensibilità, allora vi sarebbe un piano intermedio che guarda da due parti e porta il piano categoriale in contatto con quello dell'esperienza sensibile. Ma questo piano intermedio c'è! Risponde Kant. Si tratta del piano dell'immagina­ zione - il deus ex machina comincia ad intravedersi. Beninteso, la questione così posta è una questione stretta­ mente epistemologica, essa riguarda la teoria della conoscenza 203 - e poiché di rado parliamo di immaginazione in un simile con­ testo dobbiamo attenderci che la parola "immaginazione" abbia qui un senso particolare. Questo senso deve certo avere qualco­ sa in comune con l'accezione usuale del termine, ma nello stesso tempo discostarsi da essa, dovendo l'immaginazione assolvere una funzione specifica nel sistema delle funzioni trascendentali che sono necessarie per circoscrivere il problema critico delle condizioni di possibilità dell'esperienza. In che cosa consiste dunque questa funzione trascendentale dell'imma­ginazione, in che modo essa può operare come piano di mediazione tra intelletto e sensibilità? La risposta di Kant suona così: l'immaginazione si impos­ sessa delle categorie e conferisce ad esse un'interpretazione tempo­ rale. E se l'immaginazione riesce a far questo allora la difficoltà è risolta, perché il tempo è già esso stesso una forma dell'in­ tuizione: le categorie interpretate in termini temporali cessano di essere forme logico-linguistiche vuote e vanno senz'altro ad integrarsi sul piano dell'esperienza sensibile. Si tratta certo di una risposta oscura, ma si intravede con relativa chiarezza il percorso che conduce ad essa. Se consideriamo la forma soggetto-predicato è chiaro che non scorgiamo in essa alcuna implicazione temporale. Se invece consideriamo il soggetto della proposizione come una cosa del­ la percezione, allora viene richiamata l'idea di qualcosa che perma­ ne nella molteplicità dei suoi attributi che vengono via via colti come inerenti ad essa in un'osservazione che ha necessariamente una forma temporale. Vi è dunque il tema della permanenza e quello della successione temporale. Analogamente, la forma logico-linguistica "se… allora…" comincia ad avere attinenza con il problema della causa ed a contraddistinguersi dalla semplice espressione di un rapporto di conseguenza logica qualora si considerino eventi (esistenti nel tempo) e un legame temporale tra essi. L'uno precederà l'al­ tro, la condizione precede il condizionato, cosicché il nesso logi­ 204 co espresso da "se… allora…", interpretato come rinviante ad un certo ordine di successione tra eventi, assumerà una inclinazione causale. Ciò non basta certo ancora affinché si possa parlare di un nesso causale vero e proprio, ma è sufficiente per prendere le distanze da un rapporto di conseguenza logica che non ha nulla a che vedere con una successione di eventi. Debbo avvertire che Kant non pone le cose esattamente in questo modo, ma a me sembra che egli si renda chiaramente conto di non poter proporre senz'altro la categoria come funzio­ ne dell'esperienza partendo dalla sua determinazione puramente logica e credo anche che sia presente nella sua discussione l'idea che il punto di discriminazione stia nel riferimento temporale. All'interno del suo sistema, tuttavia, l'intelletto non può fornire questa interpretazione temporale, perché non può che attenersi strettamente alla forma del giudizio. A questo punto interviene l'immaginazione. Forse potremmo far dire a Kant qualcosa di molto simile a quanto già sosteneva Hume: in fin dei conti relazioni come quel­ le di sostanza e causa sono "immaginarie". E nella misura in cui egli condivide alcune premesse humeane, non può non dire anche questo. Tuttavia Kant avverte il rischio di una simile posizione, cosicché mette in guardia dall'accentuare questo aspetto, mentre tiene a sottolineare che, per quanto l'interpretazione temporale delle categorie sia opera dell'imma­ginazione, tuttavia in questo operare, in quanto integrata nelle funzioni trascendentali, essa non può manipolare a proprio piacimento il materiale dell'espe­ rienza, come l'immaginazione intesa in senso usuale. La differenza con Hume ridiventa dunque assai netta dal momento che l'intervento dell'immaginazione come associazio­ ne delle idee porta alla dissoluzione di ogni struttura categoriale, mentre al contrario qui l'immaginazione è la via per la loro af­ fermazione. In altro modo: per parlare dell'immaginazione in Kant, pri­ ma dobbiamo aver introdotto una classificazione dei giudizi ed 205 elaborato una tavola delle categorie. L'immaginazione intervie­ ne non già, come in Hume, per illustrare il carattere fittizio di concetti come quello di sostanza e di causa, ma per mediare i concetti categoriali, che sono stati anzitutto garantiti nella loro auto­ nomia, con la sfera della sensibilità. Resta comunque il fatto che la connessione tra i concetti e il tempo non può essere realizza­ ta dall'intelletto, ma essa deve essere opera dell'imma­ginazione stessa. Ed andrà anche ribadito che proprio in questo caso essa non sarà meramente riproduttiva di contenuti già dati, anche se il concetto è in certo senso predisposto ad una possibile inter­ pretazione temporale. Il percorso e le motivazioni kantiane sono dunque abbastan­ za comprensibili, anche se resta l'impressione che Kant ricorra in questo modo ad un' ingegnosa escogitazione. In questa tematica inoltre viene alla luce sia il peso che l'impostazione humeana ha ancora in Kant, sia la natura di compromesso tra razionalismo ed empirismo che è propria del progetto kantiano. Kant non supera l'uno e l'altro come se il progetto critico rappresentasse una sorta di inveramento dell'uno e dell'altro, come le letture ide­ alistiche continueranno in seguito a suggerire. Si cerca invece una via intermedia, una sorta di compromesso che traspare con particolare chiarezza proprio nella tematica della funzione tra­ scendentale dell'immaginazione. 4 L'immagine come schema. Concetto, regola e schema Come abbiamo già osservato, questa ingegnosa escogitazione è comunque straordinariamente ricca di idee e ciò che abbiamo det­ to fin qui non basta ancora a mostrare questa ricchezza. A que­ sto scopo, vorremmo ora accingerci ad una sconda esposizione del problema, nella quale conviene mettere sullo sfondo le difficoltà di ordine sistematico che hanno fornito il nostro filo conduttore. 206 Seguendo questo filo si punta subito in direzione di una specialis­ sima funzione attribuita all'immaginazione all'interno delle forme di organizzazione dell'espe­rienza, ma resta da spiegare per qua­ le ragione questa specialissima funzione viene attribuita proprio all'immaginazione. Forse uno dei problemi che rendono particolarmente oscu­ ra la trattazione dell'argomento in Kant consiste nel fatto che sono intrecciati di continuo due piani problematici differenti: si tratta da un lato di venire a capo del problema dell'eterogeneità, dall'altro di operare una determinazione delle funzioni dell'im­ maginazione in genere. Siamo così indotti a nostra volta a separare nettamente que­ sti due piani ed a proporre una vera e propria nuova esposizio­ ne che prende le mosse proprio dalla risposta che Kant dà alla domanda intorno che cosa si possa intendere con immaginazione in genere. A questa domanda egli risponde con una definizione piuttosto precisa nel § 24 della Critica della ragione pura (II ed.), che tuttavia viene fraintesa dai pur autorevoli traduttori. Infatti essi traducono "L'immaginazione è la facoltà di rappresentare un oggetto, anche senza la sua presenza nell'intuizione" la frase "Die Einbildungskraft ist das Vermögen einen Gegenstand auch ohne des­ sen Gegenwart in der Anschauung vorzustellen". In questo modo "in der Anschuung" viene attribuito a "Gegenwart" e non a "vor­ stellen", come deve essere anzitutto per ragioni sintattiche, ed il senso completamente svisato. Infatti il senso della frase è "L'im­ maginazione è la facoltà di rappresentare un oggetto nell'intu­ izione, anche senza la sua presenza". In questa definizione si parla dunque anzitutto di facoltà di "rappresentare un oggetto nell'intuizione" (come si dirà del reso anche nell'Antropologia prag­ matica): dunque Kant intende sottolineare che l'immaginazione appartiene ad un ambito molto prossimo a quello dell'esperien­ za sensibile. Nell'imma­ginazione qualcosa è dato direttamente, immediatamente, in modo non verbale. Un oggetto dell'immagi­ nazione si presenta per certi versi esattamente come si presenta 207 un oggetto della percezione. Benché in modo immaginario - e questa immaginarietà viene spiegata da: "anche senza la presen­ za dell'oggetto", dove "presenza" in questo caso significa l'"ap­ parire presente", esserci di fronte a me qui ed ora (Gegenwart è termine che indica anche il tempo presente). Ciò che si vuol dire infatti è che, nell'immaginazione, qualcosa è intuitivamente rappre­ sentato, solo che questo qualcosa non c'è. La definizione kantiana potrebbe essere allora riformulata così: l'immaginazione è la facoltà di rappresentare qualcosa che non esiste. Una simile definizione potrebbe in realtà essere tratta anche da Hume, cosicché si impone un confronto che in realtà risulta molto istruttivo. Infatti in Hume si cerca una caratterizzazione psicologico-qualitativa delle idee dell'immaginazione, e la si tro­ va nella loro scarsa "vivezza", da cui dipende d'altra parte l'as­ senza della credenza. In questo modo la posizione di qualcosa come esistente viene fatta dipendere da uno stato psicologico (la credenza) e quest'ultimo da una connotazione qualitativa del dato. In Kant invece si assume senz'altro la definizione proposta senza tentare di sostenerla sulla base di motivazione psicologi­ che. Si ragiona dunque in termini oggettivistici, mentre in Hume in termini fenomenistico-soggettivistici. Un certo oggetto esiste o non esiste. E la facoltà di rappresentarlo, quando non esiste, la chiamiamo immaginazione. Detto questo, è implicita l'irrilevan­ za di ogni tentativo di spiegazione psicologica ulteriore. La via di Hume non ha bi­sogno di essere percorsa ed inoltre possiamo del tutto fare a meno dell'imbarazzante concezione delle idee come copie delle impressioni. In base alla concezione humeana non è affatto facile distinguere chiaramente i "concetti" dalle "im­ magini", mentre nel contesto dell'impostazione kantiana il con­ cetto (un contenuto dato al pensiero ovvero il significato dell'e­ spressione corrispondente) può essere afferrato senza che ciò implichi alcuna rappresentazione immaginativa. Resta tuttavia la possibilità, secondo Kant, che l'immaginazione non si limiti 208 a riprodurre un contenuto già dato nell'esperienza sensibile, ma che essa agisca produttivamente traducendo un concetto, che è in sé qualcosa di vuoto e di astratto, in una figura, in un'immagine, dando così di esso una sorta di concretizzazione. Vogliamo cercare di chiarire un poco questa differenza. Se prendiamo in considerazione l'immagine di un cane, possiamo certo considerarla da un duplice punto di vista: come riprodu­ zione di un cane che è stata effettivamente percepita, ad esempio come l'immagine-ricordo di un cane visto il giorno prima, oppu­ re come traduzione immaginativa del concetto di cane. Nel primo caso si riproduce qualcosa che è stato sensibilmente presente, nel secondo caso alla comprensione del significato della paro­ la "cane" - che è possibile indipendentemente da qualunque immagine - si aggiunge una rappresentazione immaginativa concreta. Si tratta di due situazioni differenti, e tuttavia questa differenza non risulta troppo chiara se ci arrestiamo ad una simi­ le esemplificazione che riguarda pur sempre un "concetto empi­ rico" ovvero un concetto direttamente esemplificabile sul piano dei fenomeni e di cui si può persino dare una raffigurazione, ad esempio, mediante un disegno. Le cose cambiano se ci riferiamo a concetti che non hanno una traduzione intuitiva del tutto ovvia. Si pensi al concetto di numero: non possiamo senz'altro mostrare una cosa nella realtà e dire di essa: "Questo è un nu­ mero". Tanto meno possiamo proporre una sua raffigurazione mediante una raffigurazione (copia). L'esempio è di Kant stesso, e viene proposte in entrambe le edizioni della Critica della ragione pura e spiega più di quanto possa fare un lungo testo. Si diano cinque punti . . . . . Essi possono essere intesi come un modo di rappresentare il nu­ mero cinque, come una sua "immagine". Ma il senso della figura 209 cambia completamente se io la intendo come una presentazione di una regola per la costruzione di figure di numeri qualsivoglia: in base ad essa diventa possibile in certo senso pensare in con­ creto qualunque numero, anche senza la sua produzione figurale effettiva. Per Kant è importante questa duplice funzione perché in essa consiste la funzione mediatrice dell'immaginazione: da un lato deve essere possibile avere una concretizzazione intuitiva del concetto, dall'altro questa concretizzazione non deve essere legata ad alcun caso singolo e possedere una generalità riferibile alla sua essenza concettuale. Nel caso del numero, di conseguen­ za, non lo si considererà come una identità statica, come un'idea platonica, ma come un oggetto costruito secondo un determina­ to metodo ovvero come una regola che produce la serie numerica e che, in certo senso, la attraversa tutta. Ogni figura realizzata secondo quella regola può essere intesa come immagine della regola stessa, e non come raffigurazione di qualcosa. Potremmo dire che la figura è caratterizzata dal fatto di essere prodotta dall'imma­ ginazione in conformità ad un concetto, interpretato come una regola. L'immagine così intesa la chiameremo immagine-schema o semplicemente schema. Questo termine sembra rendere effica­ cemente il fatto che ci troviamo in presenza di una formazione intermedia tra astrazione e concretezza. Meritano di essere citate le stesse parole di Kant sull'argo­ mento: "Lo schema è sempre in se stesso soltanto un prodotto dell'immaginazione; ma poiché la sintesi di questa mira, non ad una singola intuizione, ma solo all'unità nella determinazione della sensibilità, lo schema è da distinguere dall'immagine. Così, se io metto l'uno dopo l'altro cinque punti, . . . . . , questa è una immagine del numero cinque. Invece se io penso soltanto un numero in generale, che in questo caso può essere cinque come cento, allora questo pensiero è la rappresentazione di un meto­ do per rappresentare una molteplicità (ad es. mille) secondo un 210 certo concetto, in un'immagine, piuttosto che questa immagine stessa, la quale nell'ultimo caso sarebbe difficile da abbracciare con la vista e confrontare con il concetto. Ora io chiamo schema di un concetto la rappresentazione del procedimento generale onde l'immaginazione porge al concetto la sua immagine" (Ana­ litica dei principi, cap. I, Dello schematismo dei concetti puri dell'intelletto, p. 169). Dobbiamo dunque distinguere molto nettamente tra le im­ magini riproduttive (raffigurazioni, copie) e gli schemi. Questo modo di impostare il problema rende poi plausibile l'idea che la capacità di esibire schemi non sia meramente riproduttiva, ma produttiva. Questa produttività è d'altra parte comandata dal con­ cetto da interpretare. Kant ripete più volte che l'immaginazione produttiva di schemi opera in ogni caso sotto il dominio dell'in­ telletto. Lo schematismo di cui parla Kant è anzitutto uno sche­ matismo dell'intelletto, l'immaginazione non può produrre schemi in un modo qualsiasi, liberamente fantasticando, ma deve at­ tenersi alla regola del concetto. Nello stesso tempo gli schemi sono materiali sensibili, e non possono dunque essere generati dall'intelletto come tale. Ecco un altro esempio che sembra illustrare efficacemente la differenza tra l'immagine come raffigurazione e l'immagine come concretizzazione di un concetto. Una figura come la seguente: può essere intesa come copia di una figura triangolare che mi è stata mostrata fugacemente poco fa e che ora mi è stato chiesto 211 di riprodurre su un foglio di carta. Per intendere la stessa figu­ ra come una concretizzazione intuitiva del concetto di triangolo potremo invece seguire una via molto simile alla precedente. Si tratterà di prendere le mosse dal concetto di triangolo anzitutto interpretandolo come una regola che renderà possibile un'immagi­ ne-schema. Ad esempio, se definiamo il triangolo come una figura che risulta considerando la superficie racchiusa da tre rette qua­ lunque che si intersecano tra loro disporremo di una regola per costruire triangoli qualunque e quella stessa figura potrà essere intesa come un'immagine-schema. Questo secondo esempio collima con il precedente ed il­ lustra altrettanto bene il problema della funzione dell'imma­ ginazione in quanto produttiva di schemi oltre che la sua subor­ dinazione all'intelletto. Si noti che in questo modo si ottiene anche una spiegazione interessante della funzione astratta che 212 può essere applicata alle figure concrete ad esempio all'interno di una dimostrazione geometrica. Infatti qui non si tratta né del fatto che, mentre ci è di fronte un triangolo particolare noi pen­ siamo in un modo o nell'altro a tutti i triangoli possibili e nem­ meno del fatto che un certo triangolo particolare è assunto come rappresentante, in una qualche accezione del termine non facile da determinare, come rappresentazione di tutti gli altri triangoli. Quella figura non presenta una cosa ma una regola, e per presen­ tare quella regola la figura A va altrettanto bene quanto la figura B e qualunque altra figura costruita secondo la stessa regola. A B Potremmo dire che la nozione di schema contiene già in se stes­ sa l'astrazione necessaria. Una distinzione all'incirca analoga dovrà valere, mutate le 213 cose da mutare, anche per i concetti "empirici". La differenza tra immagine riproduttiva e schema, benché risulti con partico­ lare chiarezza per i concetti "puri", dovrà essere estesa anche ai concetti empirici. Si pensi ad una figura che rappresenta un cane per illustrare il concetto di cane, ovvero il significato della parola. La figura sarà qui intesa come uno schema, e non come una raffigurazione. Si richiede cioè che la figura non venga intesa come una sorta di rappresentazione fedele di un cane reale - il bambino a cui essa è eventualmente destinata non dovrà essere indotto a cercare dove si trova ora la cosa qui rappresentata; ma eventualmente a disegnare qualcosa che abbia gli stessi tratti di ordine generale qualora gli si chiedesse di disegnare un cavallo. In questo senso la figura funge da immagine di una regola, dun­ que come schema, piuttosto che da raffigurazione di un oggetto. Detto di passaggio: in tutto ciò sembra implicita una teoria dell'acquisizione dei concetti assai diversa da quella empiristica. Nello spirito dell'impostazione empiristica una certa "idea" par­ ticolare, che è copia di una impressione, riceve una funzione in qualche modo generale in quanto è attorniata associativamente da una molteplicità di idee altrettanto particolari, nessuna delle quali tuttavia, per dirla alla breve, prende il sopravvento sulle al­ tre. Invece, secondo l'impostazione kantiana, nella percezione di qualcosa si colgono anzitutto i suoi tratti caratteristici, il suo "sche­ ma", ed in questo modo viene aperta la via verso il concetto. I tratti caratteristici a loro volta possono risolversi in una procedura di costruzione. Se ora dopo queste considerazioni che sono state sviluppa­ te indipendentemente dal contesto problematico da cui abbiamo preso le mosse, ritorniamo alla nostra prima esposizione possia­ mo dire quanto meno che la funzione specifica che svolge l'im­ maginazione come funzione trascendentale nel sistema dell'e­ sperienza è coerente con la funzione che in linea generale Kant attribuisce all'imma­ginazione in quanto produttiva di schemi. Le due tematiche debbono tuttavia essere tenute distinte 214 l'una dall'altra, mentre nella Critica della ragione pura Kant fa un unico discorso intersecando di continuo i piani. Questa inter­ sezione è una delle ragioni dell'oscurità del testo. Ed abbiamo anche il sospetto che si comprenda meglio la nozione di schema se cominciamo a proporla secondo lo stile della nostra seconda esposizione, piuttosto che se, disponendoci senz'altro dal punto di vista generale del sistema, ci accingiamo a proporla secondo lo stile della nostra prima esposizione. A questo sospetto se ne aggiunge inevitabilmente un secondo: il presentare l'interpre­ tazione temporale delle categorie come una "schematizzazione immaginativa del concetto" sembra essere una estensione ana­ logica della tematica vera e propria degli schemi, resa necessaria dal proporsi nel sistema di una difficoltà altrimenti insolubile. 5 Passaggio all'"Antropologia dal punto di vista pragmatico" Per ciò che concerne la tematica kantiana dell'immaginazione all'interno del progetto critico, abbiamo detto quanto basta per un'esposizione introduttiva. Varie cose si possono invece ag­ giungere sulla tematica dell'immaginazione in Kant al di fuori ed indipendentemente da questo progetto. Per fissare le idee, potremmo fare riferimento esclusivo all'opera di Kant intitola­ ta Anthropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst (L'antropologia, considerata da un punto di vista pragmatico). Si tratta di un vo­ lume molto tardo, essendo stato pubblicato nel 1798, ed in se­ conda edizione nel 1800. Quest'opera raccoglie il contenuto di lezioni rivolte ad un pubblico più ampio degli studenti di filo­ sofia. Tuttavia questo carattere "popolare" non basta a spiegare interamente la struttura e la natura di quest'opera. Chi, dopo aver anche soltanto avuto sentore delle idee ela­ borate nella Critica della ragione pura e dopo essersi un poco mi­ 215 surato con il suo stile, passa alla lettura dell'Antropologia non può non provare un senso di profonda meraviglia. Intanto vi è la differenza dello stile. Nella Critica ci troviamo a percorrere sen­ tieri tortuosi, che spesso hanno come mèta autentici enigmi, e nello stesso tempo ci vengono presentate pazienti classificazioni e minuziose ripartizioni che dovrebbero presentare attraverso sezioni e sottosezioni una sorta di grafico dell'itinerario ideale che deve essere percorso. Nell'Antropologia non vi è nemmeno l'ombra di tutto questo. Lo stile è colloquiale, semplice, ricco di esemplificazioni quotidiane, qualche volta persino un po' depri­ menti, altre volte persino divertenti. Non mancano nemmeno le battute di spirito, gli aneddoti, qualche allusione a ricordi per­ sonali, ecc. Ciò che sconcerta maggiormente, tuttavia, sono i temi trat­ tati e soprattutto il modo di trattarli. L'Antropologia sembra, ad un primo sguardo, porre nettamente da parte il punto di vista critico, limitandosi a raccogliere osservazioni sulla natura uma­ na, che spesso si concludono in dettami pratici, in esortazioni di ogni genere che si estendono dal campo della morale - spesso nel senso spicciolo del termine - sino a quello della buona edu­ cazione. Si tratta certo di un'opera minore, ma della quale si avreb­ be torto a dare una valutazione troppo riduttiva. Essa merita di essere presa in seria considerazione proprio per la presenza di aspetti inattesi, ma non trascurabili, per avere un'immagine real­ mente completa del filosofo. Il titolo dell'opera è già molto indicativo: antropologia signifi­ ca all'incirca scienza dell'uomo. Ma l'uomo può essere considerato da diversi punti di vista. La specificazione che si tratta di una an­ tropologia pragmatica precisa da quale punto di vista l'uomo viene qui considerato. Nella breve introduzione premessa al volume, Kant spiega che l'uomo viene considerato in quanto cittadino del mondo, in quanto cioè vive con altri e con essi è associato da vin­ coli che noi potremmo chiamare politici, pensando all'etimologia 216 del termine che rimanda alla polis: l'uomo dunque in quanto vive nella città, che in essa agisce socialmente attenendosi a determi­ nate regole e perseguendo certi scopi. All'antropologia pragmatica non compete perciò lo studio delle 217 razze e in generale degli aspetti fisiologici, ma certamente quello delle usanze, dei costumi, ed anche dei caratteri, nella misura in cui i caratteri determinano i modi di comportamento degli uomini e il tipo delle loro relazioni. L'antropologia considerata dal punto di vista pragmatico, che si contrappone, secondo la terminologia di Kant, al punto di vista fisiologico, si interessa di ciò che l'uomo fa, ed è pragmatica anche nel senso che, oltre ad offrire conoscenze, deve essere in grado di proporre precetti e raccomandazioni. Il tema dell'antropologia in Kant ha implicazioni molto più ampie, ma in quest'opera esso si presenta in termini assoluta­ mente minimali. Viene posta l'esigenza di una "conoscenza della natura umana", ma questa conoscenza non avanza le pretese di una vera e propria scienza, nel senso in cui ne aveva parlato Hume, anche se ne contiene il ricordo. Anche qui infatti il meto­ do è quello dell'osservazione empirica, ma anche in rapporto ad essa si ha una sorta di riduzione ai minimi termini. In quest'opera l'osservazione empirica è in realtà l'osservazione spicciola, quotidiana - di quell'osservazione che possiamo at­ tingere anche standosene a casa propria: a Königsberg, ad esem­ pio, dove per l'appunto Kant viveva e in rapporto alla quale, con 218 simpatica ingenuità, scrive in nota: "Una grande città, centro di uno stato, dovano si trovano i consigli locali di governo, che pos­ siede un'università (per la cultura scientifica) ed è anche sede di commercio marittimo, che per mezzo di fiumi favorisce il traf­ fico dall'interno e con i paesi vicini e lontani di diverse lingue e costumi, una tal città, come è per esempio Königsberg sul Pre­ gel, può essere presa come sede adatta per l'ampliamento della conoscenza dell'uomo e per la conoscenza del mondo, la quale può essere acquistata anche senza viaggiare" (p. 4). D'altra parte, egli aggiunge, un romanzo, un'opera teatrale, una biografia può giovare alla conoscenza dell'uomo tanto e for­ se più di un viaggio in una terra lontana. Una scienza autentica non può avere simili fonti, cosicché questa antropologia potrà pretendere al massimo di fornire qui e là qualche utile precetto o raccomandazione sul modo migliore di comportarsi in certe circostanze. Ci troviamo dunque di fronte ad un Kant veramente inat­ teso - un Kant in pantofole che dialoga amabilmente di varia umanità, seguendo fili conduttori estremamente tenui e, almeno ad una prima apparenza, disimpegnati. Ma le cose stanno ve­ ramente così come ci appaiono ad un primo sguardo piuttosto rapido e superficiale? Per rendere conto di un simile mutamento di stile è sufficiente rammentare la destinazione popolare di que­ ste lezioni? In realtà se vogliamo vederci chiaro, dobbiamo tener pre­ sente in ogni caso il progetto critico, per certi versi per contrap­ posizione, ma anche per un altro motivo più profondo. Nella Critica della ragione pura, come del resto nelle altre due Critiche, Kant si propone la realizzazione di un sistema di lar­ ghissimo impegno teorico. Questo sistema si contrappone nel suo insieme ad una metodologia di tipo empiristico, ed in parti­ colare alla psicologizzazione che sembra inevitabilmente esserle inerente. Tuttavia abbiamo già suggerito che il punto di vista tra­ scendentale nel senso di Kant, a differenza di quanto insegnano 219 i manuali, è compatibile con un punto di vista empiristico-psi­ cologico: esso lascia sussistere accanto a sè indagini altrimenti orientate, che puntano proprio in direzione di un'illustrazione dei comportamenti di fatto degli uomini sia nella sfera conoscitiva sia in quella pratico-sociale. L'oggetto effettivo della polemica kantiana è la confusione di piani, ovvero la pretesa di spiegare da un punto di vista empirico ciò che può trovare spiegazione solo assumendo un punto di vista trascendentale. Se si tiene conto di questo aspetto, nella Critica si noteranno frequenti esortazioni a non confondere questi piani problematici, ma non meno fre­ quenti affermazioni sulla loro possibile coesistenza di principio. Del resto in questo senso era già orientata la nostra distin­ zione tra il problema dell'origine e quello della giustificazione del concetto. Ma vi sono anche altri punti estremamente significativi che non abbiamo menzionato. Così, nell'elaborazione del pro­ blema dello schematismo non ci siamo imbattutti nella tematica dell'associazione delle idee - e tuttavia Kant avverte che si tratta di una tematica effettiva che può e deve essere studiata. Solo che il suo studio non appartiene alla filosofia come pro­ getto critico, ma alla psicologia. In altri termini: se consideriamo la tematica dell'associazione ci troviamo di fronte a dati di fatto che concernono l'immaginazione in quanto facoltà psicologica. Di qui deriva la sensazione, che ci accompagna nella lettura di Kant, che vi sia un costante raddoppiamento delle funzioni e delle facoltà che è fonte di dubbi e perplessità. Vi è l'immagina­ zione così come la conosciamo e l'immaginazione che produce schemi. Vi è l'intelletto (il pensare) nel senso usuale e l'intelletto come apparato di categorie. A mio avviso, questo raddoppia­ mento è strettamento legato all'assun­zione della coesistenza e compatibilità dei due punti di vista. 220 6 Immaginazione e fantasia. Il sogno. Volendo occuparci del modo in cui la tematica dell'immagina­ zione si presenta nell'Antropologia, basterà in realtà far riferimen­ to alla prima parte che parla della sensibilità, dell'immaginazione, dell'intelletto e dei sentimenti, mentre la seconda parte consta essenzialmente di una discussione sul concetto di carattere, a partire dal carattere e dai temperamenti della persona, per pas­ sare al carattere del sesso, del popolo, delle razze e del genere umano. Le considerazioni di apertura sono dedicate alla coscienza di se stesso - dunque alla tematica della soggettività: "Il fatto che l'uomo possa rappresentarsi il proprio io lo eleva infinita­ mente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi" (p. 9). Ma ecco che subito dopo Kant mette in guardia "contro il proposito di esporre in modo minuzioso una storia interna del corso sponta­ neo dei propri pensieri e sentimenti". L'osservazione di se stes­ so, egli dice, "è un raccoglimento metodico delle osservazioni fatte su noi stessi, il quale porge la materia per un giornale di un osservatore di se stesso e conduce facilmente alla fantasticheria (Schwärmerei) ed al delirio (Wahnsinn)" (p. 14). Anticira è il punto di approdo di un simile "viaggio alla scoperta di se stesso": ed Anticira è la città nel golfo di Corinto in cui cresce l'elleboro, erba impiegata contro i disturbi mentali. La soverchia introspezione, in una parola, apre le porte del manicomio. Una simile singolare osservazione si interseca già con la tematica dell'immaginario; nell'immersione in noi stessi, dimentichi della vita sociale, pos­ siamo cadere nella "fantasticheria di pretese ispirazioni superiori e di forze che senza la nostra partecipazione influiscono chi sa come sopra di noi" (p. 176). In questo modo colui che dedica soverchia attenzione all'osservazione di sé diventa un "visiona­ rio": parola che da quest'opera dell'ultimo Kant ci riporta al 221 Kant precritico ed alla sua polemica illuministica ed antisuper­ stiziosa dei Sogni di un visionario. Nell'Antropologia, e in particolare quando si parla dell'imma­ginario, questo tema riemerge con una certa significativa frequenza, in connessione con il fanatismo e la follia. "Quando certi giudizi e intuizioni vengono ritenuti validi come provenienti direttamente dal senso interno (non per mez­ zo dell'intelletto) e questo (il senso interno) è ritenuto come im­ perante per sé e le sensazioni vengono prese come giudizi, allora si ha un vero fanatismo che è molto affine alla pazzia" (p. 19). La tematica dell'immaginazione (Einbildungskraft) si annun­ cia già all'interno della trattazione della sensibilità nella misura in cui sotto il titolo di sensibilità intesa come "facoltà di rappresen­ tare nell'intuizione", Kant riunisce senz'altro non solo "il senso" - come egli dice intendendo con ciò i cinque sensi e le cosid­ dette sensazioni interne - ma anche l'immaginazione. Questa sarà definita, come nella Critica, come facoltà delle intuizioni anche senza la presenza dell'oggetto (§ 28). Anche la distinzione tra imma­ ginazione produttiva e immaginazione riproduttiva viene nuova­ mente ribadita. Tuttavia la produttività dell'immaginazione è ora intesa in un'accezione particolarmente ampia. Di essa si parlerà ogni volta che l'immaginazione fa qualcosa di più e di diverso che ripetere "un'intuizione empirica avuta in precedenza". Ad esempio, si parlerà di immaginazione produttiva nel caso in cui un cieco cerca di "farsi un'idea" della distanza ed in genere della spazialità visiva prendendo le mosse da sensazioni tattili. Quanto al titolo di "immaginazione riproduttiva" esso raccoglierà sotto di sé, oltre le immagini di cui esiste un modello intuitivo, anche le immagini della memoria. In tedesco, come in italiano, immaginazione (Einbildungskraft) e fantasia (Phantasie) possono essere impiegate come sinonimi, ma si può approfittare di questa duplicità per differenziarne il senso in rapporto alle funzioni. Altrove lo abbiamo fatto noi stessi, riservando a immaginazione l'accezione più ampia, distinguendo poi l'immaginazione che abbiamo caratterizzato come immagi­ 222 nazione immaginosa che opera la fusione tra contenuti differenti e per la quale è particolarmente appropriato proprio il termine kantiano di sintesi, dalla fantasia intesa come immaginazione pro­ duttiva di oggetti, come la sfinge o l'ircocervo, ma anche oggetti in genere che non cadono attualmente sotto lo sguardo. Si tratta di una scelta terminologica assai diversa da quella decisa da Kant che ritiene di poter invece utilizzare come linea discriminante la volontarietà e l'involontarietà delle immagini. Quando l'immagina­ zione "produce immagini anche senza volerlo" si parlerà prefe­ ribilmente di fantasia. Riassumendo con la parole di Kant: "L'immaginazione (Einbildungskraft) (facultas imaginandi) come facoltà delle intui­ zioni anche senza la presenza dell'oggetto (als ein Vermögen der Anschuungen auch ohne Gegenwart des Gegenstandes), è produttiva (productiv), cioè facoltà di presentazione originaria dell'oggetto (exhibitio originaria), e dunque precede l'esperienza; o riprodutti­ va, cioè facoltà di presentazione derivata (exhibitio derivativa), ed allora riconduce nell'animo un'intuizione empirica prima avuta. Le intuizioni pure dello spazio e del tempo appartengono alla prima forma di presentazione (Darstellung), tutte le altre presup­ pongono una intuizione empirica, la quale, quando è unita con il concetto dell'oggetto e diventa conoscenza empirica, si dice esperienza. - L'immaginazione in quanto produce immagini an­ che senza volerlo, si chiama fantasia (Phantasie). Colui che è abi­ tuato a ritenere tali immagini per esperienze (interne o esterne) è un fantastico (Phantast). - Nel sonno (che è una condizione di sanità) si dice di sognare quando vi è un gioco involontario delle proprie immagini" (p. 52). Questa distinzione tra immagini liberamente prodotte e im­ magini subite passivamente potrebbe essere considerata precaria, dal momento che potremmo essere indecisi nei casi particolari se e in che senso un'immagine sia volontaria o involontaria. Tut­ tavia vi sono casi indiscutibili di immagini involontarie, e sono le immagini dei sogni. Il sogno è costituito da un gioco del tutto 223 involontario delle immagini ed esso fornisce l'esempio più caratteristico dell'imma­ginazione in quanto è fantasia nell'accezione kantiana del termine. Benché il sogno intervenga sporadicamente nelle conside­ razioni di Kant, tuttavia in questi interventi si delinea qualcosa di simile ad un abbozzo di teoria. Il sonno è una condizione fi­ siologica indispensabile per il recupero delle forze logorate nello stato di veglia. A sua volta il sogno assolve nel sonno - sostie­ ne Kant - una funzione fisiologicamene indispensabile, indi­ pendentemente dal suo contenuto. Nel sonno infatti le attività organiche elementari, come la respirazione o il battito cardiaco tendono ad allentarsi ed a rilasciarsi, ed inoltre può accadere che nel sonno si assuma una posizione inadatta al loro esercizio, che ci potrebbe far correre grossi rischi. A questo punto interviene l'azione benefica del sogno che sorveglia il nostro comporta­ mento nel sonno e prova, con le emozioni che sono in esso intrecciate, dei rigiramenti di posizione o addirittura, quando è il caso, ci costringe a svegliarci. In questa ingenua teoria vi è tuttavia l'idea di una funzione del sogno, di una sua azione benefica che spetta anche agli incubi proprio per la forza con cui ci scuo­ tono. Quanto poi al contenuto stravagante del sogno, al fatto ad esempio che "nel sogno siamo portati in un tempo remoto, parliamo con gente morta da molto tempo", tutto ciò è cosa che "rimarrà sempre inspiegata" (p. 77). È tuttavia assai caratteristi­ co dell'orientamento intellettuale di Kant il fatto che per lui la stravaganza del contenuto dei sogni sia una prova degli estremi a cui può giungere l'immaginazione quando è lasciata a se stessa ed agisce senza regola e senza freni. "I vizi (vitia) dell'immagina­ zione sono questi, che le sue finzioni (Dichtungen) sono o senza freni o del tutto senza regola (bloss zügellos oder gar regellos) (effrenis aut perversa)" (p. 67) Inoltre il sogno presenta una caratteristica che ha per Kant un significato esemplare. Nel sogno tutto ciò che accade, anche ciò che nello stato di veglia ci apparirebbe assurdo e inverosimi­ 224 le, viene preso come reale. Questo è un rischio in certo senso interno alla fantasia: il fatto che essa sia involontaria significa in particolare che noi siamo passivi di fronte ad essa, che siamo nelle sue mani, in sua balìa. Il sogno è per principio visionario. E dunque, poiché il sogno è una sorta di quintessenza della fan­ tasia, la fantasia stessa è sempre un poco visionaria. E dunque ci riporta a ciò che dicevamo poco fa intorno agli eccessi di intro­ spezione: "fantastico" (Phantast) sarà detto chi inclina a prendere le immagini della fantasia come reali (p. 16), e con ciò si vuol anche dire che un "fantastico" finirà prima o poi ad Anticira. La parola fantasia è dunque in Kant carica di valenze ne­ gative e forse ancor più le espressioni equivalenti che egli usa: quando parliamo di fantasticherie (Schwärmerei) intendiamo in realtà dei veri e propri vaneggiamenti - dei "sogni da svegli". Ma mentre il sogno nel sonno attesta una condizione di sanità, sognare nella veglia significa niente altro che vaneggiare. 7 Figure, concetti, superstizioni Il riconoscimento kantiano di un'immaginazione involontaria, che ha il suo estremo nel sogno, ma che conosce anche tutta una serie di gradi intermedi, è in realtà un punto notevole che merita di essere sottolineato, nonostante la scarsa elaborazione a cui Kant sottopone questo tema. Certo, anche in Hume l'im­ maginazione opera normalmente a nostra insaputa ed alle nostre spalle, ma appare chiaro che in Kant ci troviamo di fronte ad una problematica essenzialmente nuova. Abbiamo già sottolineato che la nozione di immaginazio­ ne produttiva così come si presenta in queste pagine, che non sono vincolate al rigido percorso seguito nella Critica, può esse­ re definita piuttosto elasticamente per semplice opposizione rispetto all'immaginazione riproduttiva: l'immaginazione si dirà produttiva 225 quando fa qualcosa di più o di diverso dal riprodurre contenuti dati anteriormente. A proposito di questa produttività, Kant ripete più volte che essa non dovrà in ogni caso essere intesa come un'effettiva creazione di nuova materia. In questo senso egli è in larga par­ te d'accordo con Hume, benché non abbia bisogno di intende­ re le immagini dell'immaginazione come copie di impressioni. Ciò che resta dell'impostazione humeana è che l'immaginazione, quanto alla sua materia, è legata ai sensi. Il rosso non può essere immaginato se non è stato in prece­ denza percepito. E così un cieco che si è fatto qualche idea dello spazio visivo attraverso sensazioni tattili, dovrebbe imparare tut­ to daccapo se acquistasse improvvisamente la vista. Ma a parte ciò la tematica della produttività e riprodutti­ vità assume in questo contesto, ed in particolare alla luce della distinzione, estranea a Hume, tra immaginazione e fantasia, una differente angolatura. Anzitutto il problema della relazione con l'intelletto, che svolgeva una parte così importante nella Critica, fa sentire il suo peso anche nell'Antropologia. Ecco quanto si legge all'inizio del § 30: "L'originalità (cioè la produzione non imitata) dell'immagi­ nazione quando sbocca in concetti si dice genio; quando non vi sbocca è fantasticheria" (Schwärmerei) (p. 57). Il vocabolario sug­ gerisce per "Schwärmerei" anche sogno, esaltazione, estasi… Ma come abbiamo già osservato, il termine ha una inflessione net­ tamente negativa. E la sostanza di questa ulteriore precisazione sta nell'indicare due forme assai diverse di originalità: si attribu­ isce una originalità autentica solo a quella che entra in campo quando l'immaginazione si propone di dar forma sensibile ad un pensiero, ad una nozione, ad un concetto. Il richiamo al genio ed alla genialità mi sembra suggerire che non si voglia qui ripren­ dere il tema della funzione mediatrice dell'immaginazione nel senso epistemologico illustrato nella Critica della ragione pura, ma 226 che si voglia piuttosto attirare l'attenzione sulla capacità dell'im­ maginazione di tradurre "genialmente" in una narrazione, in un racconto, forse anche in un dipinto, un contenuto concettuale. Si pensi soltanto ad un precetto che assuma forma di una favola. In effetti, una favola con la morale sbocca in concetti, la "morale" è il suo contenuto concettuale. Anche in questo caso vi è un rap­ porto tra intelletto e immaginazione. Nonostante la differenza profonda rispetto alla problematica trascendentale, forse questo modo elementare di reimpostare il problema getta in realtà luce sull'orizzonte di idee che accerchiano la tematica dello schemati­ smo. Anche il richiamo alla genialità necessaria per l'invenzione della favola dà una tangibile consistenza all'idea della produtti­ vità dell'immaginazione in questa funzione mediatrice. Naturalmente l'immaginazione esplica una funzione media­ trice anche quando traduce concetti che non sono propriamente rappresentabili, quando essa produce simboli (p. 57). Ad esempio quando il serpente viene proposto come immagine della furberia maliziosa; oppure quando rappresentiamo dio padre come "un vecchio e ci rappresentiamo la sua casa in cielo". Si intravede così la problematica della funzione simbolica dell'immaginazio­ ne, ma si intravede appena: ed è anzi palese una certa sospet­ tosità secondo l'inclinazione della polemica antisuperstiziosa - cosicché Kant osserva subito che sarebbe puerile elevare "la rappresentazine simbolica al concetto della cosa in sé" - come se dio fosse veramente un vecchio che abita in cielo. L'immaginazione traduce in figure dei concetti. Ma allora è molto importante non confondere le une con gli altri, è molto importante intendere espressioni del tipo "salire in cielo" per quello che sono: espressioni metaforiche, figurate. Siamo nel campo che io chiamerei dell'immaginosità dell'immaginazione. In quanto produce figure, l'immaginazione si espone ai giochi insensati della fantasia, che potrebbero arrivare a dissolvere in­ debitamente il concetto nella figura, dando luogo a superstizioni che sorgono da un movimento che ha inizio in una lecita operazione 227 di simbolizzazione per concludersi in una illecita concretizzazione fantasti­ ca. Ritorna qui il ricordo di Swedenborg e della critica illuministi­ ca alla superstizione: "Presentare (con Swedenborg) i fenomeni reali del mondo sensibile come semplice simbolo di un mondo intelligibile nascosto nel profondo, è fantasticheria (Schwärmerei)". Invece l'illuminismo consiste "nel distinguere nelle rappresenta­ zioni dei concetti (idee) riferentesi alla moralità (la quale costi­ tuisce l'essenza di ogni religione)… il simbolico dall'intellettuale (il culto dalla religione), l'involucro, che invero è per un certo tempo utile e necessario, dalla cosa stessa…altrimenti si scambia un ideale (Ideal) (della ragione pura pratica) con un idolo (Idol), e si fallisce lo scopo finale" (p. 78) . 8 Alcuni singolari esempi di assimilazioni immaginative Sullo sfondo di queste considerazioni si comincia ormai a pre­ sentire una cerchia di problemi che hanno a che fare con l'as­ sociazione delle idee in cui prima o poi non avremmo potuto non imbatterci: osservazioni minute, che potrebbero apparirci insignificanti e marginali e che in realtà manifestano un notevole acume, purché si usi una lente di ingrandimento sufficientemen­ te potente. Sulla relazione tra figura umana e razionalità, Kant osserva: "È degno di nota il fatto che noi non sappiamo concepire altra forma adatta per un essere ragionevole che quella di un uomo". Se immaginiamo - continua Kant - un essere ragionevole che abiti su un altro pianeta, che altra forma gli conferiremmo se non forma umana? L'aggiunta è poi soprattutto notevole: "Tutte le altre forme che noi potremmo dar loro sono caricature" (p. 58). Se leggiamo un poco distrattamente questa osservazione essa potrebbe sembrarci non solo falsa, ma al limite della bana­ lità. E subito obietteremo che ci possiamo imaginare l'aspetto 228 di esseri ragionevoli che abitano su un altro pianeta esattamente come ci pare. Non siamo tenuti e nemmeno obbligati da una qualche misteriosa forza psicologica a immaginarci questi esseri sotto un aspetto umano. Al contrario: spesso ce li immaginiamo con un aspetto assai diverso dal nostro, e qui sta il bello della cosa (il bello dei film di fantascienza). Qui sta il bello. Il che vuol dire: qui sta ciò che in qualche modo ci attrae. Ci attrae il fatto che un essere "mostruoso", così diverso da noi, possa ragionare come noi o addirittura meglio di noi. Ed è proprio questo che fa di lui una nostra caricatura. Non possiamo che vedere questo essere come una "deformazione" della nostra figura. Ma se le cose stanno così ciò significa che alla base di questa attrazione vi è la stretta connessione tra il nostro aspetto fisico e l'idea di un essere ragionevole. Kant dunque non dice che dobbiamo necessariamente im­ maginarci un essere ragionevole come provvisto di un aspetto umano. Dice soltanto che la forma umana è l'unica che ci appa­ rirebbe adatta. La riprova sta nel fascino esercitato da una forma diversa, il fascino della caricatura ovvero della deformazione. A sua volta questo fascino non può che derivare da un legame asso­ ciativo tra figura umana e razionalità da cui, da un lato è difficile liberarsi, dall'altro rappresenta un legame che non appartiene in alcun modo alla cosa stessa. Un altro esempio degno di nota è il seguente: se si parla di una certa persona, momentaneamente assente, esaltandone l'intelligenza, l'abilità o l'impor­tanza sociale, noi tendiamo spon­ taneamente "ad attribuirgli nell'imma­gina­zione una imponente statura" (p. 58). Anche questa osservazione è ricca di senso, e tuttavia Kant sembra far di tutto per renderla del tutto inconsi­ stente. In effetti tutto ciò che gli ne trae è una saggia regola di condotta: nella conversazione da salotto, se vuoi far fare bella fi­ gura ad un tuo amico che sta per sopraggiungere, non fargli lodi sperticate, soprattutto se è di statura piccolina. Alla sua appari­ zione potrebbe generare fra gli astanti una forte delusione. L'ac­ 229 cenno esemplificativo resta tuttavia interessante. In esso si mette in luce l'azione di un singolare meccanismo associativo, secondo il quale l'imponente statura diventa una sorta di equivalente im­ maginativo di tutte le altre proprietà. A quelle lodi ci attendiamo spontaneamente che ci appaia una persona molto alta: spontanea­ mente significa in realtà involontariamente. Questa amplificazione dovrebbe allora essere forse attribuita alla fantasia. Inoltre va no­ tato che, per quanto involontaria, l'immaginazione è qui in cer­ to senso produttiva dal momento che in nessun caso potremmo spiegare questa estensione immaginativa dall'intelligenza all'alta statura come risultato di una iterata esperienza anteriore. Men­ tre nel caso del nesso tra figura umana e razionalità potremmo in qualche modo riferire l'associazione alla persistanza di fatto nella nostra esperienza di questo nesso, nel caso della statura imponente questa riconduzione all'esperienza passata non può essere richiamata come base dell'operazione associativa. Non è in generale vero che l'imponenza della statura è normalmente associata di fatto, nella nostra esperienza, con altre qualità posi­ tive come l'intelligenza o l'importanza sociale. Kant non fa que­ sto commento, ma attribuisce in ogni caso questa amplificazione immaginativa alla produttività dell'immaginazione. Notevole è infine un terzo esempio che è un vero e proprio divertente aneddoto. Kant narra di un avvocato che ad un certo punto perde il filo del discorso. Ma la cosa è resa un po' più com­ plicata dal fatto che questo avvocato aveva l'abitudine, durante le proprie arringhe, di arrotolare e srotolare intorno ad un dito una cordicella. L'avvocato della parte avversa improvvisamente gli sottrae con destrezza la cordicella, ed allora il nostro avvocato si confonde e dice cose senza senso (pp. 59 - 60). Evidentemente, nel fatto stesso di narrare questa storia, Kant si rende conto che deve esserci una connessione tra il modo in cui l'avvocato discorre e il filo arrotolato al dito e che que­ sta connessione deve essere opera dell'imma­ginazione. Invece la spiegazione che egli poi tenta di dare di questa imbarazzante 230 situazione è piuttosto ingegnosa, ma non riguarda affatto questo nesso come un nesso immaginativo. Quando ci immergiamo in immaginazioni, egli dice, quindi in generale quando seguiamo il corso dei nostri pensieri spesso ci è utile guardare in direzione di cose "che di per sé non hanno propriamente alcun significato che possa destare l'attenzione". In certo senso questa percezio­ ne che è attenta e disattenta nello stesso tempo ci aiuta ad isolar­ ci e quindi a facilitare la nostra immersione nei nostri pensieri. Il filo dell'avvocato assolverebbe allora la funzione di una simile percezione, così come guardando le fiamme di un caminetto ci distogliamo dal badare a qualche altro oggetto che "cade più for­ temente i nostri sensi" e che potrebbe distrarci. La cordicella e l'azione dell'arrotolare servirebbe a mettere a distanza ciò che ci sta intorno, la sala dell'udienza, gli altri avvocati, il pubblico, ecc. Ed allora sembra ovvio che se gli si toglie all'improvviso la cor­ dicella, il poveretto perda il filo dei propri pensieri. Tutto il resto gli appare in primo piano: e avverte che tutti lo guardano. Ma in questa spiegazione ciò che non viene preso in considerazione è proprio la relazione, vorremmo dire, tra un filo e l'altro. 8 L'immaginazione plastica, l'imma­ gina­ zione associativa e l'immaginazione per affinità Vogliamo dedicare un breve cenno alle diverse forme secondo cui l'immaginazione opera ( §§ 31 - 33). Intanto va detto che Kant distingue tre diversi modi di pro­ cedere dell'immaginazione: 1. L'immaginazione in quanto inventa forme spaziali (ima­ ginatio plastica) 2. L'immaginazione in quanto associa tra loro cose tempo­ ralmente vicine (imaginatio associans) 231 3. l'immaginazione in quanto assimila cose affini (affinitas) Consideriamo anzitutto l'imaginatio plastica. Come dice il ter­ mine essa opera ogni volta che ci rappresentiamo una cosa o un evento plasticamente, ovvero come fa un pittore o uno scultore quando si accinge al proprio lavoro. Possiamo pensare che un pittore prima si immagini una figura e poi si accinga a disegnarla. Questo "prima" e questo "poi" potrebbero tuttavia non avere molta importanza. L'altro esempio molto chiaro di imaginatio pla­ stica è naturalmente il sogno. La differenza tra l'immaginazione del pittore e l'immaginazione operante nel sogno consiste nel­ la volontarietà e involontarietà. Questa differenza viene dunque ancora ribadita e con una formulazione molto felice che vale la pena di rammentare: "Noi giochiamo spesso e volentieri con l'immaginazio­ ne; ma l'immaginazione (Einbildungskraft) (in quanto è fantasia (Phantasie)) gioca altrettanto spesso, e talvolta molto male a pro­ posito, con noi" (p. 60). Va notato che in queste considerazioni, che pur si muovono nell'ambito delle funzioni di fatto dell'immaginazione, quindi su un piano psicologico o quasi psicologico, resta tuttavia piutto­ sto evidente il tendenziale antipsicologismo di Kant, la tendenza cioè ad evitare determinazioni qualitative e descrittive per rife­ rirsi piuttosto a determinazioni, in senso lato, concettuali. Così è significativo che l'immaginazione plastica venga definita come facoltà di produrre forme nello spazio, e ciò consente da un lato il rimando esemplificativo allo scultore ed al pittore, dall'altro non si richiede che si supponga che il pittore nel creare il proprio di­ pinto, abbia nella mente un'effettiva immagine quasi-visiva, una sorta di debole allucinazione. Così anche nel caso del sogno non è tanto importante il suo carattere allucinatorio, quanto piutto­ sto il fatto che nel sogno si presentano in generale forme e figure nello spazio. Probabilmente se, nello spirito di queste conside­ razioni, ci venisse richiesto se l'immagine nella mente dell'artista sia qualcosa di simile ad un'allucinazione, dovremmo rispondere 232 che questi sono dettagli di ordine psicologico di cui ci possiamo benissimo disinteressare. Con immaginazione associativa e con associazione in genere, Kant intende quel processo secondo cui "rappresentazioni empiriche che spesso si siano succedute l'una all'altra determinano un'abi­ tudine nell'animo per cui, quando una si produce, anche le altre risorgono" (p. 61). Si tratta dunque di ciò che Hume avrebbe chiamato associazione per contiguità. Poiché Hume usava il ter­ mine di associazione come titolo generale per tre regole - so­ miglianza, contiguità, causalità - sembra giusto pensare che Kant lo riservi invece all'associazione secondo la successione temporale ritenendolo adatto soprattutto a questo tipo di nessi. In questo caso i contenuti associati possono essere fra loro del tutto eterogenei, cosicché il fatto che sussista o meno un legame associativo dipende dall'esperienza del soggetto nel tempo. Pur­ ché sussista questo legame nella coscienza del soggetto indivi­ duale, qualunque contenuto può essere associato a qualunque al­ tro. L'associazione è in questo caso empirica nel senso più stretto del termine, in un senso che esclude qualunque fondamento in legalità di ordine oggettivo. Questo soggettivismo dell'associa­ zione per contiguità ovvero, come Kant dice semplicemente ed efficacemente, dell'associazione empirica (p. 65), viene sottolineato da Kant con una certa vivacità. In contrapposizione con l'associazione empirica vi è invece ciò che Kant chiama "facoltà di inventare delle affinità (Dichtung­ svermögen der Verwandschaft)" - definendo l'affinità (Verwandschaft - affinitas) come "l'unione delle rappresentazioni fondate sulla derivazione del molteplice da una sola radice (Grund)" (p. 62). Questa definizione di affinitas è certo piuttosto oscura: ma alcune cose sono chiare. Anzitutto è chiara l'intenzione di dare alla somiglianza una veste astrattamente concettuale e di porre l'associazione per somiglianza su un piano diverso da quello del­ la contiguità. Mentre nel caso delle catene associative, esse sono empirico-soggettive in senso forte, nel caso dell'invenzione di 233 affinità si ha qualcosa di simile ad uno sviluppo logico, benché non si tratti certo di connessioni logiche nel senso usuale riferito alle argomentazioni. Vi è infatti il riferimento ad un fondamento co­ mune, dal quale la catena delle associazioni si dispiega in realtà in conformità ad una regola - e quando parliamo di regole siamo in certo modo in prossimità dell'intelletto, benché poi la regola si attenga a ciò che proviene dal materiale della sensibilità (p. 63). In breve, Kant suggerisce che nel caso dell'"invenzione di affinità" vi sia un legame oggettivo che manca invece nel caso dell'associazione empirica. Cosicché all'interno della triparti­ zione dei modi di operare dell'im­ma­ginazione, l'immaginazione plastica e l'associazione empirica dovranno essere considerate su un versante, l'invenzione di affinità su un altro (cfr. p. 63). Kant osserva anche che a differenza delle prime due che opererebbero soltanto un ampliamento dell'esperienza, nella terza "si produce una cosa del tutto nuova", come nel caso della fusione di due sostanze in una terza sostanza in una reazione chimica. Si tratta di una osservazione da non sottovalutare. Così è interessante che Kant citi esempi in cui l'immagina­ zione opera direttamente all'interno della percezione, facendo­ ci "credere di vedere e sentire fuori di noi quello che soltanto abbiamo in testa" (cfr. §§ 32 - 33). Qui non si allude solo alle allucinazioni, ma anche a situazioni che possono accadere ogni giorno, a casi di discrepanza tra le condizioni oggettive e il modo in cui esse vengono da noi vissute. Ad esempio: guardiamo in un abisso e siamo presi da ango­ scia, per quanto possa essere escluso qualunque pericolo di ca­ duta. Qui una vera e propria fantasia del cadere si insinua nel fatto percettivo. Parliamo di fantasia nello specifico senso kantiano del termine, per indicare un'azione immaginativa che non effettuia­ mo, ma che piuttosto subiamo. Della nostalgia si parla riferendola in modo eminente, chis­ sà perché, agli svizzeri (p. 64). Si tratta della nostalgia del proprio paese, della patria, della casa. L'annotazione di Kant rimanda ad 234 un intreccio in cui le immagini del ricordo sono trasfigurate in immagini fantastiche che hanno a loro volta alla base un desi­ derio: che non è poi propriamente quello di ritornare nei paesi dell'infan­zia, ma quello di ritornare all'infanzia. L'annotazione è interessante proprio per questo accenno a intrecci complessi in cui entrano in gioco fantasia, memoria, stati emotivi di vario ge­ nere, desideri, speranze, timori… Si noti inoltre che qui abbiamo un'azione della fantasia sul ricordo. Come nel caso precedente, la fantasia opera qui delle proiezioni, avvolge la percezione e i ricordi. Analogamente può accadere che crediamo di leggere la mal­ vagità intrinseca di una persona disegnata nei tratti stessi del suo volto per il semplice fatto che abbiamo udito dire da qualcuno che si tratta di una persona malvagia. Anche questo è un caso di proiezione, in rapporto alla quale entra in gioco la fantasia e che rientra nella sua capacità di farci credere che vi sia fuori di noi qualcosa che sta solo nella nostra testa - almeno così interpreta le cose Kant che talora sembra persino divertirsi a queste pro­ iezioni dell'immaginazione che tradiscono ansie, desideri, stati d'animo. Sono poi citati a titolo di esempi vari casi di "immede­ simazione simpatetica" - come l'espansione imitativa dello sba­ diglio o anche la partecipazione emotiva ad una storia capitata ad altri, quindi la partecipazione che è necessaria per gustare la lettura di un racconto, l'ascolto di un pezzo di musica ecc. Si tratta spesso di esempi apparentemente banali, eppure si avverte in essi la presenza di problemi, per quanto appena sfiorati, che una teoria dell'immaginazione in stile humeano non era nemmeno in grado di intuire e tanto meno di elaborare. "La notte eccita l'immaginazione e questa la solleva al di sopra del suo reale contenuto" (p. 66): come potremmo sperare di venire a capo di questa semplice annotazione con la teoria humeana di un'immaginazione che o copia le impressioni o le combina le une con le altre? Purtroppo anche osservazioni come queste sono, come 235 sempre, dissolte e indebolite nella loro portata teorica, da preoc­ cupazioni "pragmatiche" e rappresentano per lo più la base per buoni consigli sui modi migliori di comportarsi in società e di esercitare una buona conversazione. 9 Ricordi e previsioni Nel contesto del problema dell'immaginazione e subordinata­ mente ad esso vengono toccati anche i problemi del ricordo e della previsione. Attraverso l'immagina­zione, infatti, ci rendiamo presenti qualcosa che non esiste, ed allora si vede subito che basta aggiungere una connotazione temporale per mostrare la subordinazione concettuale del ricordo e della previsione all'im­ maginazione. Ricordare significa infatti rendere presente un og­ getto che non esiste più; prevedere rendere presente un oggetto che non esiste ancora. Anche in questo ambito Kant ci intrattiene con osservazio­ ni minime, ma spesso molto acute. Tutti abbiamo avuto modo di sperimentare la situazione nella quale abbiamo l'impressione di avere un nome "sulla punta della lingua" senza riuscire tutta­ via a pronunciarlo. Kant direbbe che in realtà ricordiamo quel nome (ovvero ne sentiamo la presenza nella memoria), ma non ci riesce di richiamarlo alla mente. Quando ci troviamo in una si­ tuazione tanto imbarazzante - osserva Kant - cessiamo i nostri sforzi direttamente su quel punto, tenendolo d'occhio solo di scorcio e andiamo piuttosto alla ricerca di rappresentazioni associate che siano in grado di sollecitare quel ricordo. L'interesse di questo esempio sta proprio nel fatto che vie­ ne chiamata in causa l'associazione all'interno della tematica del­ la memoria e l'esposizione si sviluppa brevemente sulle tecniche memorative basate su di essa. Ed è singolare notare come anche sui piccoli dettagli l'orientamento intellettuale kantiano si faccia sentire. Non appena si allenta la presa sui concetti, Kant disap­ 236 prova e scuote la testa. Abbiamo trovato un metodo ingegnoso per fissare nella memoria una qualche nozione facendo leva sulle associazioni (chi si è mai dimenticata la frase priva di senso "Ma con gran pena le recan giù" che sintetizza la geografia alpestre?) - ma di fronte a questa memoria ingegnosa, Kant fa notare che essa si fonda su associazioni artificiose, nelle quali non vi è nes­ suna connessione concettuale con ciò che deve essere ricordato, cosicché egli deplora questo modo di procedere osservando che oltretutto, anziché allegerire la memoria, le si dà un peso in più, perché oltre a ricordare il detto occorre ricordare l'interpretazio­ ne di ogni dettaglio verbale. "La memoria ingegnosa è un metodo di imprimere nella memoria certe rappresentazioni per mezzo dell'associazione con altre collaterali, le quali invero non hanno in sè (per l'intelletto) alcuna parentela con quelle, per esempio le parole di una lingua con delle immagini del tutto diverse che devono corrisponde­ re a quelle: in tal caso, per accogliere più facilmente qualcosa nella memoria, la si carica ancor più di rappresentazioni affini; è quindi un procedimento assurdo questo dell'immaginazione, che accosta senza regole ciò che non può stare sotto un solo e medesimo concetto"(p. 68). Un esempio divertente di associazione parole-immagini è proposto da Kant stesso. Si tratti di ricordare la frase "De he­ redibus suis", e la proposta sia quella di associare queste paro­ le all'immagine di una cassa con lucchetti. Qualcosa in effetti potrebbe collegare l'immagine con il concetto. Una eredità po­ trebbe essere simbolizzata da un forziere chiuso. Ma come fare con suis? Si propone allora l'immagine di un suino (suillus), e qui si sfrutta associativamente un'assonanza, sopprimendo l'aspetto logico-sintattico tra una parola e l'altra, per non dire del conte­ nuto, che ci orienta in tutt'altra direzione. Si ha qui una sorta di traduzione intuitiva del concetto, nel senso che possiamo benis­ simo disegnare una cassa ed una scrofa l'una accanto all'altra, la relazione con le parole è cifrata come nel caso di un rebus. È 237 singolare come Kant riesca alla fine a mostrare l'estensione della problematica immaginativa con questi semplici e singolari esem­ pi. E credo che proprio in questa circostanza si debba cercare il loro pregio. Ma per Kant le cose stanno diversamente: si tratta di approvare o disapprovare questo o quella procedura dell'im­ maginazione con riferimento al modo in cui essa si rapporta ai concetti. Ed è inutile dire che tutta la nostra approvazione deve andare alla memoria "giudiziosa" nella quale facciamo bensì uso di traduzioni intuitive e di associazioni immaginative, ma sotto una regola intellettuale. Così possiamo ricorrere a classificazioni concettuali o a tabelle che sono fondate su uno schema costrut­ tivo: eventualmente inventeremo dei nomi che, anche dal punto di vista fonico, richiamino l'articolazione della classificazione. Quanto alla previsione basterà notare che si ammette la previ­ sione empirica istituita sulla base dell'esperienza quotidiana e fondata sull'attesa di casi simili. Nello stesso tempo se ne svaluta ampia­ mente la portata conoscitiva (p. 77). Da essa si distingue invece la previsione fondata su conoscenze scientifiche vere e proprie, come nel caso delle previsioni astronomiche. Dall'una e dall'altra di distinguo­ no poi presentimenti, presagi, divinazioni, profetizzazioni - ed è chiaro che su questi argomenti avrà modo di essere ribadita la polemica antisuperstiziosa così caratteristica dell'illuminismo kantiano. 10 Simbolizzazioni La nostra esposizione si avvia alla conclusione con un rapido cenno a ciò che Kant chiama facoltà di produrre segni (facultas si­ gnatrix) e, in particolare, alla nozione di simbolo, che abbiamo già incontrata in precedenza. Di questa nozione nell'Antro­pologia si dà la definizione seguente: "Le forme delle cose (intuizioni), in quanto esse servono 238 soltanto come mezzi della rappresentazione per concetti sono simboli, e la conoscenza fondata su di esse si chiama simbolica o figurata (speciosa)" (p. 77) Questa definizione la si comprende meglio se la si legge come intesa a caratterizzare la differenza tra simboli e parole. Que­ ste ultime, in quanto segni (caratteri) provvisti di un significato, effettuano in certo senso una rappresentazione diretta del con­ cetto. Un conto è dire "dio padre" ed un altro è rappresentare in un dipinto un grande vecchio che rappresenta dio padre - nel qual caso si avrebbe appunto una "cosa della percezione" che serve come "mezzo della rappresentazione". Inoltre i simboli vanno distinti dagli schemi, nell'acce­zione illustrata in precedenza. La definizione or ora proposta di simbolo tuttavia dice troppo poco, e in particolare non è chiaro che cosa in essa rappresen­ ti la caratteristica eminente del simbolo. Kant mette l'accento sul fatto che nell'istituzione di un rapporto simbolico agisce un meccanismo associativo di tipo peculiare: un certo dato intuitivo ne suscita un altro per associazione ed è in forza di questa re­ lazione che un concetto viene indirettamente rappresentato dal simbolo. Quando, secondo l'esempio di Kant, un indiano d'A­ merica dice "vogliamo seppellire l'ascia", con ciò egli esprime attraverso figure un pensiero, rappresenta mediante immagini un concetto. Il pensiero è "Vogliamo fare la pace"; ma la giusti­ ficazione di questa connessione simbolica deve passare neces­ sariamente attraverso l'immaginazione. L'ascia evoca la guerra, cosicché seppellire l'ascia diventa una espressione analogica per indicare intenzioni di pace. Qualche utile spiegazione integrativa la possiamo trovare dall'esempio del mulino come simbolo dello stato dispotico nel § 59 della Critica del giudizio. Occorre anzitutto rammentare che, per quanto riguarda la corrispondenza tra intuizioni e concetti, bisogna distinguere tra i concetti empirici, di cui possiamo in­ dicare tra le cose del mondo circostante esempi di oggetti che "cadono sotto di essi", i concetti puri di cui possiamo costruire 239 schemi e le idee della ragione (ad es. dio) in rapporto alle quali non vi è nessuna possibile traduzione intuitiva adeguata, ma che tollerano simbolizzazioni. Ciò non vale soltanto per le "idee della ragione", ma anche per nozioni astratte come la guerra, la pace, ecc. , che non sono in linea di principio direttamente rappresen­ tabili. In rapporto a queste idee si può dare una presentazione (Darstellung) intuitiva indiretta attraverso un materiale sensibile che funga da immagine-simbolo. Come simbolo di uno stato di­ spotico potremmo proporre un mulino dalle molte braccia. Ma quali sono le procedure che producono simboli? Quali regole segue l'immaginazione in questa produzione? Kant stesso osserva che l'argomento "è stato finora poco chiarito". Un mulino è in primo luogo un oggetto che può es­ sere sensibilmente intuitivo. Ma non si può in ogni caso parlare di una corrispondenza come quella che sussiste tra un concetto empirico, il cane, ad esempio, e questo cane che ci sta di fron­ te. Indubbiamente nella procedura di simbolizzazione svolge un ruolo determinante la somiglianza, l'analogia. Nello stesso tem­ po l'attività del paragonare non può certo consistere nel mettere a confronto un mulino con un altro mulino. Quindi l'analogia non può concernere il contenuto intuitivo come tale, ma in certo senso il modo in cui quel contenuto viene pensato. Potremmo dire: ciò che mi colpisce nel mulino è questo: il fatto che vi sia un unico centro motore e che da esso vengano mossi tutti gli ingra­ naggi. Uno stato dispotico a sua volta potrebbe essere pensato ("inteso") come un ingranaggio complesso i cui movimenti sono determinati da un unico centro. L'analogia sta dunque - osser­ va Kant - "tra le regole con le quali riflettiamo sulle due cose". Sta dunque nel modo in cui intendiamo l'oggetto intuitivo e, nello stesso tempo, nel modo in cui interpretiamo il concetto. Il richiamo alla regole ed all'in­terpretazione ci ricordano in qualche modo la tematica dello schematismo, e Kant non dimentica di sottolineare questa affinità, quando dice che nella presentazio­ ne simbolica "il procedimento del giudizio è soltanto analogo 240 a quello dello schematismo"(Critica del giudizio, § 59), benché si avverta che si tratta solo di un'analogia rispetto a due tematiche sostanzialmente differenti. Annotazione Per la tematica dell'immaginazione in Kant è fondamentale il lavoro di Paolo Gambazzi, Sensibilità, immaginazione e bellezza. Introduzione alla dimensione estetica nelle tre critiche di Kant, Libreria Universitaria Editrice, Verona 1981, reperibile anche in Internet, "Spazio filosofico". A questo testo si rimanda per ogni approfondimento. In particolare per quanto riguarda lo schematismo e la distinzione immagine, schema e concetto si veda il cap. III, pp. 142 sgg. Su quest'ultimo argomento potrà essere essere utilmente letto il volume di M. Palumbo, Immaginazione e matematica in Kant, Bari 1985, con particolare riguardo al cap. III, L'immaginazione e la descrizione matematica. 241 Tragitti dell'immaginario Annotazioni in margine a "L'acqua e i sogni" di Gaston Bachelard 1988-2013 242 Questo scritto riprende materiali relativi al corso "Introduzione alla fenomenologia" tenuto all'Università degli studi di Milano nel 1988. Le citazioni dell'introduzione di L'eau et les rêves sono state ripre­ se dalla edizione francese del 1942 edita da Librairie José Corti. Le citazioni dalla traduzione italiana sono riprese dal volume Psi­ coanalisi delle acque, a cura di Claudio Risé, Red Edizioni, Como 1986. A ciò si attiene la numerazione di pagina indicata in pa­ rentesi. 243 Indice 1. Fenomenologia e psicoanalisi delle immagini 2. Per chi è scritta l'opera letteraria 3. Valorizzazioni immaginative e tematica dell'inconscio 4. Immaginazione formale e materiale 5. L'immaginazione materiale 6. Narciso alla fonte 7. Chiare, fresche e dolci acque… 8. Realismo e convenzionalismo delle immagini 9. Valorizzazione immaginativa e associazione delle idee 10. La fontana della giovinezza 11. L'occhio del pavone 12. L'occhio di di Buster Keaton 244 245 1. Fenomenologia e psicoanalisi delle immagini 1. Scopo di una filosofia dell'immaginazione consiste nel fornir­ ci un orientamento e una direzione al fine di poter intervenire sulle diverse impostazioni che si possono dare di questo tema così importante e così ricco di problemi che ci toccano da vici­ no. Gaston Bachelard lo ha esplorato a fondo, con libri di grande fascino. Anche se all'interno di un orientamento filosofico che ci rende perplessi. Noi vogliamo seguire alcune sue tracce manife­ stando i nostri dubbi e i nostri consensi. 2. Intanto, dal punto di vista filosofico, vi è il grande fascio di problemi che riguardano il rapporto tra processi immaginitivi e processi conoscitivi. Uno degli aspetti cruciali in Bachelard è la loro netta separazione. L'intreccio porta dànni. L'immagi­ nazione ostacola i processi conoscitivi: la vicenda dell'alchimia che rappresenterebbe esemplarmente, a suo avviso, la tendenza dell'immaginazione a sviare la conoscenza dai suoi obbiettivi au­ tentici e importanti (Ma è poi vero che l'alchimia abbia sempre fatto questo? Non vi è qualcosa nelle fantasie alchemiche qual­ cosa che prepara conoscenze successive?). In ogni caso secon­ do Bachelard vi è opposizione tra ragione e immaginazione, tra procedure razionali e procedure immaginative - ed essa sem­ bra appoggiarsi o comunque essere parallela ad un'altra grande opposizione: quella tra realtà oggettiva che deve essere dominata da operazioni razionali, e l'irrealtà prodotta dall'immaginazione: questo dominio non potrebbe essere esercitato se non siamo in grado di esercitare il controllo sulle nostre reazioni emotive immediate, sulle nostre passioni e sui nostri sentimenti. Dobbia­ mo essere in grado di aggredire la realtà o di rispondere alla sua aggressione "freddamente" - e per questo scopo occorre fare buon uso delle nostre conoscenze, delle tecnologie di cui, nel corso dei processi conoscitivi, siamo venuti in possesso. 246 3. La realtà oggettiva di cui parla Bachelard è soprattutto una realtà pubblica, intersoggettiva - non è una realtà-soltanto-mia, che è invece, secondo Bachelard, quella in cui vive il sentimento e la passione e nella quale l'immaginazione può e deve svolge­ re una funzione insostituibile. Tuttavia io mi chiedo se anche questo sia poi vero, se sia vero che non ci sia comunicazione degli affetti, che l'immaginazione svolga una funzione insostitui­ bile anche sul piano pubblico e sociale. A me sembra di trovarla dappertutto. Ci siamo forse dimenticati della parte che l'imma­ ginazione ha nella festa o nel culto, per citare due casi che mi sembrano particolarmente clamorosi? 4. Questa "solitudine dell'immaginazione", come io la chiamerei è soprattutto evidente nell'ultimo periodo della filosofia dell'im­ maginazione di Bachelard, il periodo cosiddetto "fenomeno­ logico" , che va dal 1957 al 1962 quando Bachelard scrive La poetica dello spazio (1957), La poetica della reverie (1960), la fiamma di una candela (1960). Questo modo di approccio viene propo­ sto da Bachelard in contrapposizione esplicita ed anche parzial­ mente polemica, contro una direzione caratterizzabile invece come una direzione psicoanalitica, secondo la terminologia che egli stesso ritenne di poter adottare. Il primo testo di Bachelard sull'immaginazione risale al 1938 e si intitola significativamente Psicoanalisi del fuoco. Ma in realtà una sorta di dubbio, di perples­ sità sull'opportunità di porre l'accento sul metodo psicoanaliti­ co si presenta già nella seconda opera importante sulla tematica dell'immaginazione. Si tratta precisamente dell'opera tradotta in italiano con il titolo Psicoanalisi delle acque: ma il titolo francese originale non contiene affatto questo riferimento alla psicoana­ lisi, ma suona semplicemente L'eau et le rêves (1942), l'acqua e i sogni. - Forse la parola Psicoanalisi nel titolo suggerisce buoni affari, ma non credo che si possa attribuire la responsabilità di questo titolo all'editore: la si può attribuire senza dubbio veruno al curatore dell'opera, che dunque va anche indicato per nome: 247 Claudio Risé. Ma che male c'è in un cambio di titolo, cosa che accade abbastanza spesso per svariate ragioni? C'è un fatto che fa di questo cambio, di per se stesso innocuo, un vergognoso fatto di sottocultura, perché Gaston Bachelard nell'introduzione al volume spiega con chiarezza le ragioni per le quali egli non ha voluto dare a questo libro il titolo di Psicoanalisi delle acque, che sembrava imporsi in modo ovvio dopo la Psicoanalisi del fuoco. E che cosa fa allora l'astuto Claudio Risé per mantenere il tito­ lo che Bachelard stesso criticava nella propria introduzione? Ha soppresso l'introduzione. 5. Nell'introduzione Bachelard spiega che un effettivo esercizio psicoanalitico richiede oggettività e distacco - in qualche modo richiede quel "razionalismo" che è in ogni caso presupposto ogni volta che si compie un' operazione di scomposizione analitica. Ora Bachelard confessa - e ciò è straordinariamente caratteristi­ co del suo stile, di non essere riuscito, proprio in rapporto alle immagini acquoree ad ottenere il distacco necessario per il fatto che "… le immagini dell'acqua noi le viviamo ancora, le vivia­ mo sinteticamente nella loro complessità primaria dando a loro spesso la nostra adesione irragionevole" (p. 10). Aggiungendo addirittura una spiegazione autobiografica: "Se voglio studiare la vita delle immagini dell'acqua, sento il bisogno di ricollegare il loro ruolo dominante al fiume e alle fonti del mio paese…" (p. 11). Ed ancora: "non siamo riusciti a sviluppare sistematicamen­ te in questo libro come sarebbe necessario in una psicoanalisi condotta a fondo il carattere organicistico delle immagini mate­ rializzate" (p. 11). Parlando di carattere organicistico Bachelard intende riferirsi certamente alle tematiche psiconalitiche della corporeità e dei desideri ed impulsi che hanno fondamento nella corporeità. 6. In forma apparentemente dimessa, e addirittura con un richia­ mo autobiografico che sembra suggerire di non essere di fronte 248 ad una problema filosofico vero e proprio, ma ad un tratto ca­ ratteristico, privato, dell'autore, si accenna invece ad una presa di posizione molto precisa ed in realtà ricca di contenuto e di riflessioni nascoste. 7. In quell' "adesione irragionevole" vi è già il dubbio che por­ terà più tardi all'opzione fenomenologica e l'inclinazione secon­ do cui questa opzione dovrebbe essere esercitatata: anzi è forse già presente il nucleo centrale di quella che dovrebbe essere se­ condo Bachelard una lettura fenomenologica delle immagini. Su questa idea bachelardiana di fenomenologia, tutta giocata sull'im­ medesimazione, abbiamo già preso nettamente le distanze nel vo­ lume La notte dei lampi. 2. Per chi è scritta l'opera letteraria 8. Tuttavia, la rivendicazione che sta al fondo del Bachelard "fe­ nomenologo" non è del tutto priva di fondamento. Questa ri­ vendicazione consiste essenzialmente nel sottrarre la produzione immaginativa, e l'opera letteraria in particolare di cui soprattut­ to Bachelard si occupa, sia per ragioni di preferenza personale, sia per ragioni più profonde relative alla sua posizione filosofica complessiva, al puro consumo critico, ovvero, più precisamente: l'opera letteraria, sembra sostenere Bachelard, non è stata scrit­ ta per i letterati, per il critici professionali, per i chiosatori, per commentatori, per i docenti universitari in genere. L'opera let­ teraria è scritta semplicemente per essere letta, e per essere letta da chiunque, e quindi anche goduta nella ricchezza dei significati che essa mette immediatamente a nostra disposizione. 9. Il tono modesto con il quale Bachelard rammenta di essere un lettore semplice, di essere soltanto un lettore appassionato, ed anche di mancare di esperienza storico-critica, quindi di essere un lettore "dilettante" - questa modestia annuncia una polemica 249 nascosta, nello stile tipico di Bachelard che non ama le forti tin­ te, e quindi nemmeno le polemiche aspre, in direzione dei lettori professionisti: questa espressione suona singolare, eppure è quanto mai opportuna proprio per indicare le attività di analisi letteraria in genere. Il problema - ed è un problema che io credo sensa­ to, almeno entro certi limiti è questo: fino a che punto l'attività analitica può essere spinta senza che essa arrivi a danneggiare irrimediabilmente l'opera letteraria stessa, proprio perché essa rappresenta una sua disintegrazione che impedisce la partecipa­ zione al suo senso? Questo è in realtà un problema effettivo. 10. Peraltro la polemica può forse essere anche meno generi­ ca ed essere rivolta, più meno scientemente, non già verso la critica letteraria genere, ma verso lo strutturalistico critico-let­ terario. Del resto lo strutturalismo in genere, e quello critico- letterario in particolare, ha sempre considerato polemicamente le posizioni di Bachelard, a sua volta con qualche buona ragio­ ne dalla propria parte. La produzione letteraria così come viene prospettata da Bachelard tede a proporsi come pura effusione dell'anima, mentre da parte strutturalista si rivendica l'impor­ tanza del momento di costruzione tecnica e quindi del riferimento alla tradizione letteraria concepita peraltro come un universo chiuso al quale il poeta attinge nella produzione della propria opera. Contro gli eccessi di una posizione di questo genere che, portata agli estremi tende a fare dell'opera un'architettura priva di scopo e di destinatario, in certo senso chiusa dentro una città disabitata, che può essere giocata la posizione di Bachelard. D'altra parte l'esistenza di un estremo non ci costringe affatto a disporci sull'estremo opposto, cosicché anche quel tanto che vi potrebbe essere di giustifica­ to nella posizione bachelardiana non basta a sostenere l'insie­ me della sua proposta. Che peraltro non si riduce certo alle sue visioni di ordine generale: vi è una grande ricchezza di idee, di motivi e spunti problematici di ampio respiro lungo l'intero arco della riflessione di Bachelard che rappresenta, per una filosofia 250 dell'immaginazione, una miniera tutta da esplorare. 3. Valorizzazioni immaginative e tematica dell'inconscio 11. Anche la libertà con cui Bachelard si serve dei rimandi cul­ turali e della terminologia corrispondente forniscono numerosi spunti di riflessione. Si pensi alla componente psicoanalitica o anche soltanto al titolo del suo libro Psicoanalisi del fuoco. Questo titolo ha qualcosa di singolare. Oltre ad indicare una discipli­ na ed una metodologia psicologica, il termine psicoanalisi può certamente essere utilizzato per indicare una pratia analitica che tuttavia sarà diretta a persone, e non certamente a cose come il fuoco o l'acqua. Il termine ha perciò un impiego particolare, nel quale scompare il riferimento terapeutico, ed in realtà anche il riferimento ad una metodologia determinata: il fatto che quell'e­ spressione venga riferita ad una cosa, il fuoco, ci mette subito di fronte al fatto che essa viene considerata non in quanto cosa, ma in quello che noi potremmo chiamare il suo valore psichico. Una psicoanalisi del fuoco avrà allora il senso di una ricerca diretta a mettere in evidenza le connessioni immaginative che si svilup­ pano a partire dal fuoco, quelle connessioni che noi saremmo subito disposti a chiamare, con un nostro termine, valorizzazioni immaginative. 12. Il termine di valorizzazione è peraltro presente in Bachelard. Ciò che manca è una teoria della valorizzazione nel nostro senso e con le implicazioni ed i contesti che noi abbiamo attribuita ad essa. Tuttavia non è certo sbagliato affermare che uno dei pun­ ti focali della problematica bachelardiana nel suo complesso è proprio quella della valorizzazione e delle immagini intese come valori. Certo va sottolineato che noi abbiamo introdotto e teo­ rizzato la nozione di valore immaginativo in modo del tutto au­ tonomo, mentre in Bachelard questa nozione viene inizialmente tratta da un orizzonte psicoanalitico: in un senso indubbiamente 251 elastico e piuttosto debole - e del resto destinato ad attenuarsi, ma è questo orizzonte che suggerisce un orientamento di mas­ sima oltre che uno stile di ricerca nell'universo delle immagini. 13. Il primo suggerimento - particolarmente importante - che Bachelard fa proprio è l'idea che le radici delle operazioni imma­ ginative siano da ricercare nell'inconscio, che l'inconscio sia la regione privilegiata in cui agisce l'immaginazione. Si tratta di un tema che accomuna l'intera tendenza psicoanalitica nella varietà dei suoi diversi indirizzi. A questo proposito va subito detto che quando parliamo di psicoanalisi in rapporto a Bachelard dob­ biamo pensare alle posizioni di Jung, piuttosto che a quelle di Freud, e questo riferimento prevalente a Jung è particolarmente significativo proprio per ciò che concerne il modo in cui si pre­ senta la tematica della valorizzazione. In Jung infatti l'immagine, il simbolo non ha la rigidezza di un rapporto rappresentativo. Diversamente da Freud, in Jung non si pone il problema di de­ terminare ciò che viene simbolizzato da un determinato conte­ nuto, ma piuttosto il compito di delineare l'area dei sensi richia­ mati da un certo contenuto assunto come fondamento per un tragitto di imagini. 14. Un modo di procedere caratteristico di Jung è quello di pren­ dere le mosse da un contenuto simbolico seguendo il suo dina­ mismo interno, un dinamismo che conduce ad altri contenuti delineando un percorso che tende a circoscrivere una regione che ha un centro gravitazionale, una sorta di punto di conver­ genza verso cui sono orientati ed attratti i contenuti che sono stati via via messi in questione lungo quel percorso. Questo modo di procedere viene naturalmente integrato in Jung all'in­ terno di una problematica interpretativa che non dovrebbe per­ dere di vista una preoccupazione di ordine terapeutico. Pertanto sarà necessario proporre interpretazioni dei simboli che ripor­ tino alle particolarità individuali e personali del singolo. Ma l'i­ 252 dea di un'analisi dell'immagine che consista essenzialmente in un tragitto o nell'esibizione di più tragititti possibili, e l'idea ad essa collegata di un'area di senso delle immagini provvista di un cen­ tro gravitazionale - queste idee sono indipendenti dal problema della particolarizzazione al singolo e mantengono un interesse autonomo. Si tratta di una questione che ha conseguenze no­ tevoli sulla tematica junghiana dell'inconscio. Essa differisce da quella freudiana soprattutto per la possibilità di liberarla dallo stretto legame con il singolo: l'inconscio si presenta allora come una sorta di terreno psichico comune che si trova, a differenza della coscienza, al di fuori delle fluttuazioni della storicità rap­ presentando una sorta di base e fondamento della vita psichica e, più largamente, della vita spirituale dell'uomo. Perciò si parla di inconscio collettivo. Le immagini e i simboli appartengono all'uomo in quanto appartengono anzitutto all' "incon­scio collettivo" e traggono la loro forza proprio di qui. Le ricorrenze simboliche che si possono presentare in culture diverse e fra loro prive di re­ lazioni documentabili, oppure in epoche lontane tra loro, trove­ rebbero la loro spiegazione proprio in questa relazione tra sim­ bolismo e inconscio collettivo. Si tratta naturalmente di istanze molto forti, molto impegnative, ma che sono tuttavia presenti nella prima posizione del problema dell'immaginario in Bache­ lard e che costituiscono una parte importante della sua filosofia dell'immaginazione. 4. Immaginazione formale e materiale 15. La netta prevalenza del versante letterario in Bachelard è cosa che dovrebbe essere spiegata. Rarissime sono le considera­ zioni che riguardano la pittura; quasi assente il problema musica­ le. Naturalmente l'argomento è tanto ampio da richiedere delle limitazioni. Ma ci si può chiedere se non vi siano elementi interni alla teoria - ed in particolare alla problematica della valorizza­ zione immaginativa - che rendono conto di queste restrizioni. 253 Converrà dunque tentare di vedere un po' più a fondo i nuclei teorici più significativi della posizione bachelardiana. Indubbia­ mente il principale di questi è la distinzione tra immaginazione formale e immaginazione materiale che a sua volta, con la sua sottoli­ neatura del carattere fondamentale che assume l'immaginazione materiale non può essere adeguatamente presentata se non ci si richiama ad una delle idee basi più seducenti dalla tematica di Bachelard: l'idea della possibilità di realizzare una sorta di geo­ grafia dell'universo delle immagini, di sviluppare una ricerca ten­ dente ad individuare le regioni dell'immaginario ed a tracciarne in qualche modo i confini. Questa idea è particolarmente forte in tutto l'arco della produzione di Bachelard che precede le ulti­ me opere "fenomeno­logiche", ma non è affatto assente, anche se attenuata, nelle opere più tarde. 16. È proprio nell'introduzione a L'acqua e i sogni che viene teo­ rizzata la distinzione tra immaginazione materiale e immaginazione formale, anche se va detto che la parola "teorizzazione" va qui usata in un senso piuttosto debole: in tutte le sue opere sull'im­ maginario Bachelard teorizza assai poco, procedendo piuttosto per spunti e per motivi che poi egli va direttamente applicando ed esemplificando attraverso esposizioni che constano essenzial­ mente di percorsi immaginativi. Così, nell'introduzione a L'acqua e i sogni ci si limita a spiegare che vi è un duplice orientamento dell'immaginazione - un orientamento verso e le forme ed un orientamento verso la materia. Con la prima si intende un ri­ volgersi agli oggetti in genere, le cose - che sono entità com­ piute e naturalmente hanno una forma, dalla quale deriva la loro compiutezza e determinatezza. Nell'ambito dell'immaginazione formale dovrà allora cadere anche l'immaginazione che assume come propri temi i colori perché anch'essi sono legati alla no­ zione della forma, riconducendo alla cosa, alla sua superficie, ai suoi contorni. Appare chiaro che l'immaginazione formale è essenzialmente legata alla visualità, ed in una forma tendenzial­ 254 mente svalutativa, che spiega anche il disinteresse di Bachelard per l'esemplificazione pittorica in genere. 17. La carenza di una teorizzazione a fondo della problemati­ ca della valorizzazione è qui particolarmente evidente. Natural­ mente alludo al modo in cui io intendo questa problematica con riferimento all'immaginosità dell'immaginazione. In un dipinto certa­ mente ci sono per lo più raffigurazioni di cose, ritratti, paesaggi ed eventualmente puri e semplici "composizioni" di forme e di colori. Ma che ciò significhi l'assenza dell'elemento immagino­ so non lo si può certo sostenere, dal momento il "senso" del dipinto dipende in realtà, qualunque cosa presenti o rappresenti, dalla sua capacità di susscitare tensioni immaginative. Forse, ma lo dico con titubanza, nel caso della figura letteraria, la sinte­ si immaginativa è spesso subito presente, mentre nel caso del­ la figura pittorica l'aspetto immediatamente a portata di mano sarebbe quello "scenografico" - ma lo dico appunto con titu­ banza perché il problema dell'immaginosità, come io ho cercato di mostrare, ha le sue radici nelle scenografie che la percezione stessa ci offre. L'intero problema deve cominciare dagli intrecci tra immaginazione e percezione, e dalle sintesi immaginative che sono sempre latenti in questi intrecci. Ma non è questa, appunto, la posizione di Bachelard. 5. L'immaginazione materiale 18. In Bachelard viene più volte affermata l'idea che solo l'imma­ ginazione "materiale" sa andare in profondità, mentre l'immagi­ nazione formale agisce solo in superficie. È come se l'imma­ ginazione delle forme si muovesse in orizzontale, mentre l'im­ maginazione materiale in verticale. Ma che cosa è propriamente l'immaginazione materiale? In linea generale, Bachelard, più che ai modi di operare dell'immaginazione, è interessato ai suoi con­ tenuti, cosicché l'aggettivo "materiale" indica soprattutto il suo 255 tema. Che è poi la sostanza stessa delle cose, i materiali di cui le cose sono fatte, liberati dai vincoli delle forme ed anche dagli aspetti che in un modo o nell'altro rimandano a questi vincoli. E poiché la nozione di materia qui in gioco non può certo essere una nozione astratta, attinta dalle scienze, il pensiero corre su­ bito all'idea mitico-immaginativa della materia: prima caos indi­ stinto, magma ribollente, e poi il caos che non ha trovato ancora un ordine, ma che è comunque internamente distinto, ma anche collegato, nei quattro elementi: fuoco, acqua, terra e aria. Le cose e le forme si sono dissolte, si raggiunge la materia attraverso un regresso all'indeterminato, e ciò ha una portata anche in rappor­ to al tema dell'imma­ginazione che, se è legato primariamente alla materia, non amerà contorni troppo duri, prediligerà la mobilità e la fluidità, piuttosto che la rigidità e la stasi. Ma il richiamo alla materia inteso così costituisce in Bache­ lard anche una sorta di accento posto dall'immaginario sull'ele­ mento tattile, ed in generale sugli altri sensi che, ad eccezione di quello visivo, ci pongono in rapporto più diretto e immediato con le cose. Anche su questo punto io avrei qualcosa da ridire. Non vi è cosa vista che non richiami associativamente momen­ ti che riguardano gli altri sensi e la sensibilità in genere anche se è naturalmente vero che la tattilità implica un "possesso" di tutt'altro genere. In ogni caso in Bachelard si ripresenta un anti­ co motivo in base al quale la visualità è sempre stata associata al distacco ed alla distanza dal mondo e nello stesso tempo al suo afferramento prevalentemente teoretico-conoscitivo. La vista allontana il mondo per osservarlo, ed anche la semplice osser­ vazione visiva contiene in sé il germe di un'istanza conoscitiva, quindi il germe di una razionalità che è destinata ad evolversi. Nel caso del tatto invece ogni distanza dalle cose è tolta e con il tatto ciò che si fa avanti in primo luogo è proprio la materia di cui una cosa è fatta. Quanto al gusto esso presupppone addirit­ tura una incorporazione della materia, mentre le reazioni olfatti­ vo di piacere o di disgusto sono reazioni direttamente corporee. 256 19. Il tema della materia così concepito richiama dunque l'idea di una sensorialità diretta, pronta a trasformarsi in elementi di sen­ sualità altrettanto diretta. Vi è qui una prossimità al corpo che si contrappone alla freddezza dello sguardo che pone a distanza. Possiamo immergere le nostre mani nella melma, possiamo im­ pastare la creta, immergerci nell'acqua, sentirci avvolti dal calore del fuoco, bere l'aria che entra nei nostri polmoni. 20. L'interesse per l'immaginazione materiale è certamente do­ vuto, in Bachelard all'opposizione alla razionalità, e nello stesso tempo è questo interesse che spiega la simpatia da parte di Ba­ chelard in direzione della psicoanalisi - la relazione profonda che egli trova nella psicoanalisi tra vissuti corporei e produzioni immaginative lo induce a guardare in quella direzione, sulla base di motivi propri, e peraltro con grande libertà e con cautela. L'i­ dea che si possa ricondurre ogni momento immaginativo ad un vissuto corporeo, ed in particolare ad un vissuto appartenente alla sfera della sessualità viene in qualche modo tenuta presente nelle prime opere di Bachelard sull'immaginario, senza essere né enfatizzata né concretamente sviluppata. 21. Ciò che invece riceve un effettivo sviluppo e rappresenta il senso autentico del programma di Bachelard è l'idea di una descrizione della geografia dell'universo delle immagini, l'idea di un mondo di immagini che può essere suddiviso in regioni e di cui si possa dare in qualche modo una mappa. Si tratta di una idea di grande interesse, che può essere giocata in vari modi e che assume un senso ed una portata di volta in volta diver­ sa secondo la filosofia dell'immaginazione che essa ha alle sue spalle. In Bachelard essa viene elaborata in coerenza con il tema dell'immaginazione materiale e nello stesso tempo in uno spirito in cui l'elemento fenomenologico, sia pure non esplicitamente teorizzato, è già presente. In effetti, una volta esclusa l'idea che 257 l'analisi delle immagini e dei simboli consista fondamentalmente nel dire il loro significato, individuando un qualche riferimento oggettivo puntualmente associato ad essi, il problema sarà soprat­ tutto quello di mostrare le loro aree di senso. Questo problema ha un versante caratterizzabile come fenomenologico in senso lato. Infatti non possiamo mostrare l'area di senso di un'immagi­ ne se non percorrendola, ovvero - per usare la nostra terminolo­ gia - seguendo un tragitto che ci è indicato dalle direzioni sintetiche dell'immaginazione. L'imma­gine viene illustrata e chiarita entrando nel suo movimento, seguendo la sua mobilità, e raccogliendo le altre immagini che vengono suggerite lungo questo percorso. Ciò che caratterizza l'immagine intesa come valore immaginativo è l'apertura verso altri contenuti e il compito della chiarificazione e dell'esibizione del senso delle immagini si può realizzare mo­ strando come un'immagine si sviluppi a partire dall'altra, quasi prendendo forma nell'altra ed attraverso l'altra. Bachelard dice che un'immagine è un complesso di immagini - il termine è ripreso da Jung, ma in un'accezione molto indebolita. Noi faremmo il commento seguente: ogni immagine è un viluppo di immagini e il compito dell'"analisi" è quello di districare questo viluppo, in certo senso di sbrogliare la matassa in un unico filo, o meglio in una rete di cui siano chiaramente visibili i nodi. Dunque se parliamo di analisi non intendiamo un'attività del distingere e del separare: bisogna invece esibirne il movimento, ed in questa esi­ bizione sta la spiegazione dell'immagine - parola, anche questa, che va intesa in coerenza con ciò che abbiamo detto or ora: la spie­ gazione dell'immagine consiste nel suo dispiegamento, spiegare un'immagine significa mostrarne le pieghe. 22. A noi sembra che questa idea del tragitto e dei percorsi immagi­ nativi sia strettamente coerente con quella di valore immaginativo, e che dunque debba essere considerata come appartenente ad una fenomenologia dell'immaginario. Ma questa idea del tragitto immaginativo non basta per portarci senz'altro sul terreno del pro­ 258 blema di una geografia dell'universo delle immagini. In Bachelard non possiamo fare a meno di collegare questa nozione a quella di immaginazione materiale. Cosicché i tragitti immaginativi bache­ lardiani non ci portano ovunque e in ogni luogo, come se essi at­ traversassero un universo immaginativo indefinitamente aperto. Questi tragitti finiscono invece con il convergere verso un unico centro, che è la materia stessa, articolata nei quattro elementi. Un tragitto che comincia da un'immagine deve poi ricondurre ad uno dei quattro elementi. Come si scrive nell'introduzione a L'acqua e i sogni: nel campo dell'immaginazione vale "una legge dei quattro elementi che classifica le diverse immaginazioni ma­ teriali secondo che esse si agganciano al fuoco, all'aria, all'aqua o alla terra" (ed. fr., p. 4). E così egli dedica a ciascun elemento volumi appositi: oltre la Psicoanalisi del fuoco e L'acqua e i sogni, nel 1943 egli scrive L'aria e i sogni e nel 1948 i due volumi dedicati alla terra: La terra e le rêveries della volontà, La terra e le rêveries del riposo. 259 6. Narciso alla fonte Caravaggio 23. È il motivo mitico di Narciso che si rispecchia alla fonte e si innamora di sé che apre i sogni bachelardiani sull'acqua. Un po' sorprendentemente! Perché la ricerca comincia dalla capacità dell'acqua di riflettere una figura, dunque dalla visione - la "sen­ sazione meno sensuale" (tr. it. p. 25). Eppure ci troviamo già sul terreno dell'immaginazione materiale, perché qui abbiamo 260 una prima esemplificazione dell'indeterminatezza che caratterizza i suoi contenuti. Lo specchio fatto di vetro infatti restituisce la nostra immagine in modo freddamente realistico, con precisione e completezza, mentre Bachelard richiama l'attenzione sul fatto che l'immagine rispecchiata nell'acqua è morbida, fluida, evane­ scente come se fosse essa stessa diventata acquorea. Cosicché, benché la visione appartenga piuttosto alla tematica dell'immagi­ nazione formale, la visione attraverso l'acqua risente già di quella dissoluzione della forma che è invece caratteristica dell'immagi­ nazione della materia. Affiora anche fin d'ora anche un motivo naturalistico che si associa all'immaginazione materiale. Qui ad esempio si suggerisce che la fonte si presti al movimento dell'im­ maginazione proprio come elemento che appartiene alla natu­ ra, mentre lo specchio è un artefatto, un oggetto artificialmente prodotto. 24. Vi è poi un altro tema che a noi sembra particolarmente inte­ ressante: "Con Narciso, per Narciso è la foresta intera che si ri­ mira, il cielo intiero che viene a prendere coscienza della propria grandiosa immagine…" (p. 29). In questo diventare cosmico del narcisismo, Bachelard ritiene di poter vedere in azione una vera e propria procedura immaginativa o anche, come egli talora si esprime: una legge dell'immaginazione. In base ad essa essa tende sempre a proiettare sul piano cosmico situazioni particolari im­ maginativamente ricche. La storia di Narciso non è una storia particolare, una piccola favola, ma riguarda la natura stessa: la quale a sua volta trova nello stagno l'elemento capace di dare evidenza alla sua bellezza. 25. La bellezza! L'acqua dello stagno altro non rispecchia che la bellezza. Ecco un altro motivo che Bachelard mette in evidenza e che a noi sembra di grande interesse. Le connessioni immagi­ native non sono affatto connessioni arbitrarie, ma al contrario ciò che le caratterizza è proprio un'interna necessità, un'interna 261 coerenza. I tragitti immaginativi sono fatti di implicazioni. L'ac­ qua nel mito di Narciso implica la bellezza - potremmo quasi dire: acqua e narcisismo stanno l'una dentro l'altro. E così tutto ciò che si rispecchia in essa. Come se si potesse dire che "accan­ to al ruscello, nei suoi riflessi, il mondo tende alla bellezza" (p. 30). Perciò la storia di Narciso non deve essere intesa come una storia effettiva, come se ci fosse un giovane molto bello a cui accade di rispecchiarsi nell'acqua - ma piuttosto come un'imma­ gine che si dispiega in una storia. 7. Chiare, fresche e dolci acque… 26. Questa tematica dell'implicazione e della coerenza immagi­ nativa, delle pieghe che conferiscono senso e mobilità all'imma­ gine è ovunque presente in Bachelard, ed una filosofia dell'im­ maginazione - anche per altri aspetti molto differente come la nostra - non può non farla propria. Così la freschezza e la chia­ rezza dell'acqua, non è una sua peculiare proprietà oggettiva, ma un senso immaginativo implicato. "Chiare, fresche e dolci acque…" - è strano che Bachelard non si rammenti di questo verso, il cui fascino dipende in larga parte proprio dal fatto che in esso si opera una pura esplicitazione di sensi immaginativi. Inoltre l'implicazione tra i motivi dell'acqua e della bellezza così come quella dell'acqua con la freschezza e la limpidezza, fanno già presagire che su questo tragitto incontreremo la figura fem­ minile. Intorno alle acque, stagni e ruscelli, ecco aggirarsi ninfe, nereidi, driadi, amadriadi - tutte "personificazioni" della fusione dell'acqua con il chiaro, il limpido, il fluido, il bello. E la nudità - la donna al bagno - vi si aggiunge come una nuova e coerente visione. Potremmo dire che l'elemento scenografico e visionario, il fatto che una figura femminile nuda si delinei effettivamente di fronte al nostro sguardo trasognante e trasognato rappresenta una sorta di concretizzazione di un nesso che ha le sue radici nella materia acquorea. 262 27. Naturalmente, siamo fortemente tentati di tradurre tutto ciò nella nostra terminologia attraendolo nel nostro contesto filoso­ fico. L'elemento che noi chiameremmo fantastico, la "scenogra­ fia", viene qui fatto sorgere dall'elemento immaginoso, diventa una sorta di esplicitazione figurale di sintesi immaginative. In realtà il tema dei rapporti tra il fantastico e il simbolico è in qualche modo presente nella distinzione tra immaginazione formale e immagi­ nazione materiale, così almeno mi sembra; anche se certo non vi è equivalenza tra queste distinzioni e tra le tematiche di cui sono portatrici. Il motivo che qui è certamente nuovo e inte­ ressante sta nella subordinazione dell'imma­ginazione di forme all'immaginazione della materia. Per questo ritroviamo almeno in parte ed a titolo di problema proprio il tema dei rapporti tra fantastico e simbolico. Ma la parzialità di questa corrispondenza va a sua volta chiaramente sottolineata. Bachelard resta parti­ colarmente legato all'idea che l'imma­ginazione delle forme non sia un'immaginazione autentica: in essa sarebbe operante una vera e propria intellettualizzazione dell'immagine. A suo avvi­ so, le immagini nel senso dell'imma­gi­na­zione formale sono per lo più pensieri travestiti da immagini (e questo è inaccettabile) . In questo spirito egli osserva che molte psicologie dell'immagina­ zione sono condannate a "restare psicologie del concetto o del­ lo schema. Diventano mere psicologie del concetto immaginato" per "l'attenzione unilaterale che esse riservano allo studio delle forme"(p. 66). Questo anti-intellettualismo di Bachelard che lo porta a distinguere l'immagine autentica da quella che invece po­ trebbe essere considerato un puro supporto immaginativo di un concetto, e che rimanda infine alla contrapposizione tra opera­ zioni razionali e operazioni immaginative come una contrappo­ sizione irrimediabile, non verrà affatto meno quando l'idea di un sistema delle immagini con riferimento alle quattro materie tenderà ad attenuarsi nelle ultime opere del periodo fenomeno­ logico. Ne L'acqua e i sogni essa è particolarmente viva, come 263 lo è l'idea delle radici sessuali delle immagini che fa inclinare la tematica in direzione psicoanalitica. Le immagini incontrate nei tragitti fenomenologici vengono spesso proposte secondo an­ golature che propongono esplicitamente o almeno suggeriscono interpretazioni che rimandano alla sfera sessuale. 28. Caratteristico in rapporto a questo problema è il commento bachelardiano al tema della maternità, quindi a quello del nutri­ mento che contiene l'associazione tra il latte e l'acqua. Questa associazione sembra a Bachelard particolarmente difficile da giustificare facendo riferimento al biancore - quindi ad un ele­ mento visivo, mentre il fondamento dell'immagine deve essere ricercato sul piano della materialità e "per giustificare la frequen­ za e la naturalezzza dell'immagine occorre integrare l'immagine con componenti che non si vedono, componenti la cui natura non è visiva… (p. 104). L'acqua, per l'immaginario, richiama "il cibo più dolce". "Il biancore verrà più tardi. Sarà dedotto" (p. 105). (Ancora ci si sorprende che Bachelard non rammenti il verso petrarchesco che si attaglia così compiutamente alle sue considerazioni: "Chiare, fresche e dolci acque…") . Ma il pun­ to essenziale è che il biancore verrà aggiunto ad un significato che originariamente non aveva nulla di cromatico, ma riguardava piuttosto il tepore del cibo e la sensazione di benessere dovuta all'attenuazione della fame. "Il colore - dice ancora senza mezzi termini Bachelard - non è davvero nulla quando l'immaginazio­ ne materiale sogna i suoi elementi primitivi" (p. 105). 8. Realismo e convenzionalismo delle immagini 29. Vi è un altro tema di ordine generale in cui è opportuno soffermarsi. Si tratta della critica di ciò che talvolta Bachelard chiama realismo dell'immagine. Un atteggiamento critico è rivolto anche verso ogni riduzione dei momenti immaginativi a moti­ vi utilitaristici e di ogni concezione che riporti l'immagine ad 264 una connessione che si è imposta per motivi più o meno casuali all'interno di un ambito culturale. È ciò che Bachelard chiama convenzionalismo dell'immagine. 30. Abbiamo già detto che cosa noi possiamo intendere con spie­ gazione dell'immagine. In luogo del dispiegamento e delle pieghe di cui parlavamo in precedenza, nel caso del realismo e del con­ venzionalismo si hanno tentativi di spiegazione nel senso più consueto: spiegare le immagini significherà fornire ad esse delle ragioni. Dunque ci troviamo ad avere a che fare con una razio­ nalizzazione contro la quale Bachelard prende prevedibilmente posizione. 31. Si pensi al motivo ricorrente del fiume dei morti, al viaggio difficile e pericoloso che il defunto deve compiere per giungere nel regno della morte, al traghetto che conduce i morti a que­ sta ultima sponda. Una spiegazione realistica di questo nesso miti­ co-immaginativo sarà rappresentato dai pericoli reali dei viaggi sull'acqua, tanto più presso popolazioni primitive in grado di costruire solo imbarcazioni rudimentali, e dunque il viaggio sull'acqua viene temuto e genera angoscia reale che si riflette nella produzione mitica della barca della morte. Altro esempio che potremmo addurre è il nesso tra acqua e purificazione, che sta alla base di così numerosi rituali religiosi: la spiegazione reali­ stica non ha qui certo bisogno di essere illustrata tanto potrebbe apparire evidente. La stessa evidenza è il motivo utilitaristico che vi si può connettere - in questo modo la gente si laverà almeno una volta l'anno! 32. Una spiegazione "convenzionalistica" cercherà di avvaler­ si di circostanze di ordine culturale - in particolare in caso di fallimento delle spiegazioni realistiche. Bachelard prende come esempio il canto del cigno. Egli rammenta ironicamente i bei tempi nei quali "ci si chiedeva se la laringe del cigno gli consentisse un 265 certo canto e persino un grido di agonia" (p. 42). Il fatto è che il cigno non canta, e tanto meno canta quando muore. Un simile tema immaginativo sembra mettere in scacco una spiegazione realista, ed allora una spiegazione convenzionalistica potrebbe imporsi come inevitabile: nelle sue versioni estreme una spiega­ zione convenzionalistica può tollerare anche un'origine casuale del motivo e un'accettazione altrettanto casuale da parte di un gruppo sociale che accoglie quel tema nella propria tradizione immaginativa. 33. Nonostante la semplicità degli esempi, non può sfuggire l'importanza dell'argomento. In realtà non si tratta ora soltanto di decidere sulla funzione meramente riproduttiva oppure sulla creatività dell'immaginazione, ma della questione certamente più ampia del modo in cui l'immaginazione si rapporta alla realtà: o meglio: a quale realtà si rapportano le produzioni dell'imma­ ginazione in particolare quando esse hanno anche carattere di produzioni simboliche in senso lato? Evidentemente l'ostilità di Bachelard nei confronti del realismo e del convenzionalismo - quindi nei confronti delle spiegazioni "positive" - sembra lasciar spazio all'idea che l'immaginazione possa arrivare là dove non può arrivare la ragione stessa, e ci parli, in una sorta di linguaggio cifrato dell'essenza più profonda del reale. E questo non rientra certo nelle intenzioni di Bachelard. 34. Per chiarire e approfondire questo spunto ritorniamo sull'e­ sempio del motivo del fiume che conduce alla terra dei morti. Nelle spiegazioni di intonazione realistica questo motivo veni­ va riportato, nell'esempio, all'angoscia di un possibile naufragio. Bachelard non elude il problema sostenenendo che l'immagina­ zione è appunto soltanto immaginazione. Egli propone invece un approccio del tutto diverso rammentando i rituali di sepol­ tura che spesso prevedono l'affidamento del morto alle acque. Ma ogni rituale ha a sua volta comonenti immaginative determi­ 266 nanti: non vi è qui l'angoscia di un naufragio, ma l'idea del ritor­ no alla materia primordiale che è anche un ritorno nel grembo materno ("La morte nelle acque sarà per questa rêverie la più materna delle morti" - p. 53). Una pratica rituale è una pratica reale, ma tutta intessuta da nessi di carattere immaginativo. An­ dando alla ricerca dell'origine di motivi immaginativi non possia­ mo che trovare nuovi motivi immaginativi. Così non è la somi­ glianza reale tra la barca e una bara che dà origine alla "barca dei morti", ma all'interno di quel rituale quella barca è già da subito una bara. Il tema della connessione tra l'acqua e la morte precede l'esperienza del viaggio in mare e dei suoi pericoli - il tema del pericolo naturalmente c'è, ed esso è accompagnato dal timore al viaggio verso l'ignoto che il morto deve compiere. Bachelard con grande acume osserva che "il primo marinaio è stato il pri­ mo essere vivente che abbia dimostrato coraggio pari a quello di un morto" (p. 54). È come se la stessa nozione di realtà fosse costruita successivamente, come se i sensi immaginativi fossero inizialmente dominanti e solo attraverso la maturazione di modi di approccio razionali si facesse strada la differenza tra il reale e l'immaginario. 35. All'interno di questo quadro ritorna anche il tema dell'as­ sociazione delle idee, che Bachelard vede con sospetto. L'im­ magine non è riducibile a rapporti tra contenuti. Il rilevare un nesso associativo è sempre troppo debole per rendere conto dell'immagine e in generale delle atmosfere affettive ed emotive associate a certi temi. Questo indebolimento della tematica del­ le associazioni è del resto collegato piuttosto strettamente con la priorità conferita all'immaginazione materiale. L'associazione delle idee sembra operare con oggetti in genere, con somiglian­ ze di forme e di colori, mentre all'origine delle immagini vi è un "sentimento" globale che riguarda la materia stessa. 36. Anche le interpretazioni convenzionalistiche vengono svalu­ 267 tate da Bachelard, o meglio vengono svalutate quelle immagini che hanno un carattere prevalente di "consuetudine culturale". Va richiamata in proposito l'attenzione sull'espressione "com­ plesso di cultura". Con questa espressione Bachelard intende in generale un insieme di immagini sulle quali si sente il peso di una tradizione culturale, e che proprio per questo - a suo dire - tenderebbero all'artificialismo. Si tratta di una posizione che noi non condividiamo, ma che è coerente con la posizione comples­ siva di Bachelard. In tutta la discussione critica in questa dire­ zione è sempre presenta l'idea che le interpretazioni realistiche o convenzionalistiche contengano una istanza di razionalizzazione che sarebbe contrario all'essenza stessa dell'immaginazione. Ma proprio qui sta uno dei nodi importanti della questione che stia­ mo discutendo: da una simile impostazione deriva certamente non solo che si può parlare dell'irrazionalità dell'immaginazio­ ne, ma anche che questa irrazionalità debba essere difesa e che una corretta filosofia dell'immaginazione debba porsi in primo luogo proprio il compito di questa difesa. Ed allora viene da chiedersi: in quale direzione deve essere sviluppata questa dife­ sa? Come abbiamo già detto viene escluso che l'immaginazione possa essere una sorta di via di accesso privilegiata alla dimensio­ ne metafisica del reale. Una simile posizione è profondamente estranea all'impostazione complessiva di Bachelard, al suo stesso atteggiamento intellettuale. Diventa allora ancora più pressante il chiarire se la critica del riferimento dell'immaginazione al reale tolga di mezzo qualunque problema delle radici dell'imma­ginazione, come se la tematica dell'autonomia dell'imma­ginazio­ne si risol­ vesse nell'idea che essa si muova puramente all'interno di se stes­ sa, come in una gabbia. Sappiamo già che per Bachelard le cose non stanno così: sullo sfondo della tematica dell'immaginazione vi è quella dell'in­ conscio, secondo le inclinazioni junghiane. Di questo tema Ba­ chelard fa un impiego prudente e tuttavia nella sua filosofia as­ sume un'importante funzione di integrazione teorica, all'interno 268 di un quadro che minaccerebbe di presentarsi fortemente in­ completo. Credo che si possa sostenere che la pretesa assenza del riferimento alla realtà e, più in generale, il venire meno della problematica dell'associazione delle idee lascia aperta una lacuna che la nozione di inconscio ha appunto il compito di colmare. Su questo punto talora Bachelard è particolarmente esplicito: "La metafora del canto del cigno non è spiegabile né da un punto di vista convenzionale, né dal punto di vista della realtà. Occorre, come per molte altre metafore, scavare nell'inconscio per reperi­ re le ragioni di una spiegazione" (p. 42). L'inconscio diventa così depositario di immagini e fonte del loro senso. Le istanze di Jung ci vengono in aiuto in queste ca­ renze. Di Jung, Bachelard sembra adottare la teoria dell'inconscio collettivo e della costanza in esso di tipologie immaginative determinate. Bachelard sembra associarsi senza troppi problemi all'idea, che per una linea di tendenza della filosofia dell'immaginario è di­ ventata quasi un luogo comune, secondo la quale la ricorrenza delle immagini presso culture differenti sarebbe da spiegare at­ traverso la loro presenza nell'inconscio collettivo. 9. Valorizzazione immaginativa e associazione delle idee 37. In tutta la nostra discussione precedente il problema della va­ lorizzazione immaginativa era costantemente presente in stretta connessione con la nozione di immaginazione materiale. Ora, noi siamo particolarmente interessati a precisare le nostre stesse idee proprio su questo punto, precisando meglio i nodi che ci legano a Bachelard e i motivi puntati invece in altra direzione. Si sarà infatti avvertito che per certi versi la nostra posizione passa in prossimità di quella di Bachelard, per altri versi sorge invece il dubbio che vi siano, anche in rapporto al tema della valorizza­ zione, differenze piuttosto marcate. Questo dubbio sembra particolarmente forte a proposito del problema del rapporto tra immaginazione e associazione 269 delle idee. Dal nostro punto di vista, attraverso il tema della va­ lorizzazione è possibile effettuare una ripresa, in un senso inte­ ramente rinnovato, proprio della problematica che va tradizio­ nalmente sotto il titolo di "associazione delle idee". Una simile affermazione non può trovarsi in contesto bachelardiano - al contrario il richiamo all'associazione verrebbe considerato come rientrante in un progetto riduzionistico, e precisamente nel qua­ dro di quella interpretazione realistica delle immagini che Ba­ chelard intende contestare vivacemente. Inversamente, non sarà certo sfuggito al mio lettore la tendenza da parte mia a mettere a distanza la tematica bachelardiana relativa all'incon­scio. 38. Intanto vanno messe ben in chiaro per quali motivi siamo interessati ad un modo di concepire la valorizzazione che rap­ presenti anche una ripresa del problema dell'associazione delle idee. Questi motivi, sia detto al margine, agiscono anche nelle mie prese di posizioni sulla concezione di Cassirer, trattata al­ trove. Essi debbono essere considerati come convergenti verso l'intenzione di mantenere un legame con la superficie del reale - o anche, forse con espressione meno equivoca: di mantenere l'immaginazione nella cerchia dell'esperienza della realtà. Di fatto, operando la massima divaricazione tra realtà e im­ maginazione si perviene all'uno o all'altro polo dell'alter­nativa che ho già rammentato: o si assegnano all'im­ma­ginazione com­ piti metafisici oppure, secondo la via proposta da Bachelard che su questo punto non fa che associarsi ad una linea di tendenza molto ampia, si enfatizza al massimo la relazione dell'immagina­ zione con l'inconscio. Come sappiamo, in Bachelard, proprio in forza dell'istanza fenomenologica che tende sempre più ad imporsi, questa seconda via viene attenuata e indebolita; ma a parte il caso particolare di Bachelard, il quadro del problema è proprio quello di un'alternativa tra queste due vie, come se una volta riconosciuta l'autonomia delle produzioni immaginative non restasse altra possibilità al di questa: la superficie del reale 270 viene comunque superata o in direzione di uno strato profondo del reale o in quella di uno strato profondo della soggettività. Peraltro non è difficile rendersi conto che queste due vie posso­ no confluire in una sola. È infatti subito a portata di mano l'idea che l'inconscio, più che la vita desta e cosciente, si possa trovare a contatto con la dimensione metafisica del reale. L'immaginario, l'inconscio, il metafisico sembrano far tutt'uno e incontrarsi nel­ la figura del veggente - o quanto meno di una saggezza da veg­ genti al cui possesso potremmo forse essere tentati di aspirare. 39. Ma che cosa significa per noi mantenere l'immaginazione nella cerchia dell'esperienza della realtà? Forse non siamo ancora riusciti a liberarci da una sorta di bacillo positivistico che ci fa da sug­ geritore, forse per questo non siamo disposti a disfarci troppo rapidamente dal realismo delle immagini, dalle spiegazioni con­ venzionalistiche, dal problema delle associazioni delle idee? Beninteso, vi sono ottime ragioni per rifiutare un'imposta­ zione positivistica della problematica dell'immagina­zione e va­ lidissimi motivi per respingere il "realismo delle immagini" nel senso in cui ne parla Bachelard. La spiegazioni realistiche pro­ poste negli esempi che egli esibisce ci appaiono particolarmente rozze ed inadeguate. Tra il dato di fatto e l'immagine vi è una sorta di iato che non può affatto essere colmato. Si avverte che le immagini sono in un qualche senso "irriducibili" e che una filosofia dell'immaginazione debba prendere le mosse anzitutto da questa irriducibilità. Ora, un'impostazione "positivistica" trova proprio nella associazione delle idee un importante punto di appoggio. La distinzione tra colori freddi e colori caldi si presta ad avviare la discussione. L'azzurro viene caratterizzato come colore freddo, e naturalmente questa caratterizzazione non risponde solo ad un intento classificatorio, ma contiene un'immagine. Ora, non è difficile rendersi conto dell'andamento che potrebbe assumere un'interpretazione "positivistica" che chiami in causa l'associa­ 271 zione delle idee. Si tratterà di ipotizzare che si sia data frequen­ temente nella mia esperienza passata qualcosa di azzurro che era anche molta fredda - dove la parola "azzurro" sta per una sensazione cromatica determinata e "freddo" per una sensazio­ ne tattile-termica altrettanto determinata. Ci siamo imbattuti in cose fredde e azzurre e questa esperienza, variamente ripetuta, ha creato il nesso associativo. Questa spiegazione potrebbe esse­ re proposta in modo più raffinato, ma la scarsa raffinatezza gioca qui a favore della chiarezza dei punti essenziali del problema. Qui vi sono anzitutto dati di fatto e in base ad essi queste pro­ prietà - l'azzurro e il freddo - finiscono con l'essere accidental­ mente, ma anche assai solidamente associate. Del resto che legame può essere più stretto tra il rosso e il fuoco? Potrà allora il rosso essere associato al freddo? 40. Eppure siamo in presenza esempi di riduzione dell'immagi­ ne che risultano profondamente inaccettabili. Una spiegazione "positiva" non può pretendere di cominciare proprio togliendo di mezzo ciò che un'immagine effettivamente è. E il freddo im­ maginativo dell'azzurro non certo riconducibile ad alcuna effet­ tiva sensazione termica. Naturalmente le associazioni accidentali esistono veramente - e può benissimo darsi che una determina­ ta cosa azzurra si presenti di norma molto fredda: ciò avrebbe come conseguenza che si genereranno attese relative esattamente a quella cosa che in passato è stata sperimentata azzurra e fredda, tanto costantemente da farci fondatamente supporre che anche in futuro essa verrà sperimentata con quelle caratteristiche. Ma una simile relazione resta in ogni caso una relazione di fatto: e l'azzurro stesso non va considerato come sensazione cromatica pura e semplice, ma come un contenuto percettivo che sta assu­ mendo un'inclinazione immaginativa. Qui vi è appunto uno iato che simili spiegazioni non possono pretendere di colmare. 41. In questa critica delle spiegazioni positive vi è naturalmente 272 la posizione di Bachelard, ma vi è soprattutto la nostra teoria delle sintesi immaginative, la nostra problematica della valorizza­ zione. E qui si comincia a delineare una divergenza netta rispet­ to alla posizione di Bachelard. Per noi questa problematica non implica un'abbandono di ogni riferimento all'associazione delle idee, ma una sua ripresa da nuovi punti di vista. Il concetto di valore immaginativo dovrebbe garantirci ad un tempo l'autonomia e la pregnanza, l'autonoma ricchezza di senso delle produzioni immaginative, senza essere per questo costretti ad enfatizzazioni che non hanno fondamento. Il valore immaginativo sorge da sintesi immaginative, e la sintesi imma­ giativa da cui sorge l'immagine non è un puro accostamento di contenuto a contenuto e non è nemmeno una funzione nel sen­ so di una mistura o mescolanza di qualche sorta. Si tratta invece di un'operazione che supera il terreno degli accertamenti percet­ tivi, e quindi anche quello dei puri e semplici confronti, dei dati di fatto e delle positività in genere. Attraverso di essa, una cosa o una qualità percettiva tende a perdere la determinatezza che la vincola al piano del reale diventando instabile e internamente inquieta. Questo movimento interno del contenuto è contrasse­ gnato da una direzione - cosicché quando parliamo della fred­ dezza all'interno di una sintesi immaginativa che mette in que­ stione l'azzurro, non vi sono sensazioni termiche né presenti né passate, e nemmeno una sensazione termica immaginata per così dire presso l'azzurro, ma la freddezza è unicamente un vetto­ re dell'immaginazione che in qualche modo annuncia che l'azzurro sta emergendo rispetto al piano delle cose per entrare nell'ambito dei valori immaginativi: e come tale non sarà soltanto la freddezza, non sarà soltanto tale, ma annunciatrice di pena, di povertà e di miseria, e potrà essere generatrice di figure che saranno forse azzurre. 42. Il termine di valorizzazione non è impiegato in modo gene­ 273 rico, come se esso indicasse unicamente l'attribuzione a qual­ cosa di un particolare peso, di una particolare importanza. Va­ lorizzare vuol dire per noi tradurre una cosa in un valore, e ciò avviene facendola entrare all'interno di una tendenza sintetica dell'immaginazione, quindi all'interno di dinamismi possibili che conferiscono ad essa un "comportamento" che ha senso ed è possibile sul piano dell'altra realtà dell'immaginazione. Questa nozio­ ne di valorizzazione è assente in Bachelard, anche se i termine di valore e valorizzazione sono qui e là occasionalmente presenti - ma comunque per lo più nell'accezione di dar importanza e peso. Talora Bachelard si esprime come se vi fossero dei valori - eventualmente depositati nell'inconscio - che le immagini si ap­ presterebbero a incorporare ed a manifestare. Un simile impiego è evidentemente del tutto lontano dal nostro. Esso tuttavia sta all'interno del tema dell'immaginazione materiale, ed è proprio attraverso il filtro di questa nozione tipicamente bachelardiana che noi ritroviamo temi e aspetti comuni. 274 10. La fontana della giovinezza L. Cranach, La fontana della giovinezza (part.) 43. Nel suo tragitto lungo le immagini dell'acqua, Bachelard in­ contra il motivo della fontana della giovinezza - quella fontana meravigliosa immergendosi nella quale noi ritroviamo i nostri più begli anni. L'acqua della fontana della giovinezza è un'acqua che ci rigenera. Questo motivo antico ha affascinato narratori, poeti e pittori - si ritrova nelle fiabe, ma anche nel mito. Po­ tremmo parlare di questo motivo come un motivo immaginario che rende tuttavia manifesta, anche se solo in forma misterio­ samente allusiva, una verità inattingibile alla superficie del reale per il semplice fatto che appartiene alla sua dimensione metafi­ sica. Ad esempio, potremmo scorgere qui un motivo connesso all'idea religiosa dell'immortalità ed alla resurrezione della carne, in ogni caso ad una rigenerazione a cui siamo destinati dopo la morte. Oppure potremmo ritenere che questo movimento sia profondamente radicato nella nostra vita inconscia e che gravita 275 appunto sul "valore" della giovinezza. Questo motivo sarebbe così redisposto all'interno della nostra psichicità e sarebbe una manifestazione di un desiderio in essa profondamente radicato. Inutile dire che Bachelard propende per la seconda inter­ pretazione. E ciononostante se ne esce con questa singolare, ed anzi, sorprendente, affermazione: "Ognuno possiede una fontana della giovinezza nella sua bacinella di acqua fredda, in una sferzante mattina. E senza una simile esperienza triviale il complesso della poetica fontana della giovinezza non potrebbe forse configurarsi" (p. 132). Dopo tutte le proteste contro il realismo delle immagini e l'associazione delle idee, abbiamo un qualche diritto alla sorpre­ sa. E ciononostante vogliamo prendere le difese di Bachelard. Intanto questa frase può essere ricollegata al tema dell'immagi­ nazione materiale: ritroviamo in essa anzitutto quella regressione dall'oggetto - campo di azione privilegiato dall'immaginazione formale - all'immediatezza sensoriale. Essa ci riporta quindi a quei momenti di contatto diretto con la materialità stessa che starebbero alle radici delle produzioni immaginative. Conside­ rando il problema dal questo punto di vista forse dovremmo considerare quella frase come coerente con l'impostazione com­ plessiva. Eppure con la sua evidenza e la sua esplicitezza essa denuncia la presenza di un problema proprio all'interno di que­ sta coerenza, di una difficoltà che non è stata superata. Infatti presa in se stessa quell'affermazione sembra riproporre addirit­ tura con brutalità (si noti quella "esperienza triviale") un aspetto della problematica dell'imma­ginazione che potevamo supporre respinto una volta per tutte dalla critica dell'interpretazione rea­ listica delle immagini. Ma voglio parlare ancora a favore di Bachelard, a riprova della mia simpatia nei suoi confronti: e dirò che certamente egli non dice che il motivo della fontana della giovinezza si riduce al nostro energico lavacro mattutino, e nemmeno, forse, intende dare un'interpretazione o una spiegazione dell'immagine - an­ 276 che se qualche sospetto resta. Ma questa mia difesa è soprattutto motivata dall'intento di mettere in evidenza che ora l'inconscio non viene in nessun modo messo in questione, mentre ciò che sicuramente si intende dire è che questa esperienza triviale della freschezza rigenerante di un lavacro sia tutt'altro che indifferen­ te alla formazione dell'immagine, sia alla sua permanenza, cioè alla vitalità che essa mantiene per noi. E per rendere conto della relazione tra questa esperienza triviale e l'immagine, o forse me­ glio tra il movimento immaginativo che di qui può avere inizio, abbiamo proprio bisogno di quella teoria della valorizzazione immaginativa che la concezione di Bachelard non contiene. L'immaginazione supera di continuo il terreno delle cose e delle proprietà delle cose; e tuttavia tiene sempre conto di come le cose sono fatte. Per l'immaginazione non è affatto indifferen­ te che una cosa abbia proprio certe caratteristiche piuttosto che altre, dal momento sono proprio quelle caratteristiche reali che possono stare alla base di trasvalutazioni immaginative. Ma ciò richiede che non venga lasciato cadere il tema dell'associazione delle idee. 11. L'occhio del pavone 44. Talora vi sono associazioni che hanno, per così dire, una motivazione intrinseca, ossero che non sono dovute a pure e semplici coesistenze fattuali. Ne L'acqua e i sogni viene fornito un bell'esempio: l'occhio del pavone. Il pavone appartiene ad un possibile tragitto dell'acqua per le idee che abbiamo già rammen­ tato a proposito di Narciso: Narciso si specchia nell'acqua, egli si guarda e scopre la sua bellezza. Così nelle pieghe dell'immagina­ rio cominciamo a scorgere il pavone, animale che si fa guardare e che ostenta la sua bellezza. Ma Bachelard ci parla del pavone soprattutto per le macchie delle sue penne, sono queste macchie che vengono spesse chiamate "occhi" ed a queste macchie si deve anche il mito del pavone primitivo come animale dai cento 277 occhi. Di fronte ad una simile immagine Bachelard è preoccupato soprattutto da una possibile interpretazione realistica, cioè da un'interpretazione che facendo notare le macchie tondeggianti simili ad un occhio fa risalire l'occhio del pavone all'associazione delle idee. Quale potrebbe allora essere il nostro commento di fronte a questa preoccupazione? Noi cominceremmo con il dire che la forma circolare delle macchie sulle penne del pavone non è affatto priva di importan­ za rispetto alla formazione dell'immagine. L'immagine si innesta su questo aspetto della cosa - e da queste immagine trae la sua forza espressiva. Potremmo forse parlare di occhi del pavone se su queste penne non ci fosse proprio nessuna macchia? Talvolta l'immaginazione ha bisogno di un sostegno. Ed in questo caso di un sostegno del tutto manifesto, di un sostegno fenomenolo­ gico. Ma una volta detto ciò dobbiamo anche notare: un simile 278 sostegno ha un carattere retrospettivo: esso agisce solo quando l'immagine è stata posta. Nulla ci obbliga ad effettuare questo passaggio, a vedere la macchia che "diventa" un occhio. Potreb­ be darsi addirittura che una macchia sia così simile ad un occhio umano da proporre sen'altro un giudizio di somiglianza senza che entri in gioco nessuna funzione immaginativa. Tutte le ra­ gioni dell'autonomia ed irriducibilità delle immagini poggiano proprio sulla non necessità di questo passaggio. Non appena all'interno della situazione complessiva - tenendo conto non solo della forma, ma anche del contesto - qualcosa appare come occhio allora possiamo parlare dell'intervento di un'operazione specificamente immaginativa, irriducibile a sua volta alle opera­ zioni percettive e di confronto osservativo. E naturalmente non vi sono solo le sintesi dell'immaginazione, ma anche le regole o, come Bachelard preferisce dire, le leggi dell'immaginazione che agi­ scono movimentando l'immagine e sviluppando il suo cammino. Nel caso dell' "occhio del pavone" agisce la legge di inversione: ciò che è ammirato, anche ammira; ciò che è guardato, anche guarda. "così il lampo che illumina, guarda" (p. 36). Nel caso del pavone, che attrae su di sé il nostro sguardo, si ha per inversione immaginativa non solo il rafforzamento della forma della mac­ chia in "occhio", ma la moltiplicazione dello sguardo attraverso i suoi cento occhi - facendo sì che ora sia l'oggetto guardato a guardare iperbolicamente. 12. L'occhio di Buster Keaton 45. Ogni esempio ne suggerisce un altro, con nuovi problemi. Un'immagine genera una storia. Una storia regredisce all'imma­ gine. Fantasia e immaginazione imaginosa interagiscono tra loro - i cento occhi del pavone sono anche i cento occhi di Argo, e questa è una nuova e articolata storia, nella quale vivono le im­ magini. Sullo sfondo di questa storia vi è poi la musica, la dolce melodia suonata da Hermes che fa richiudere, per una volta, tutti 279 i cento occhi di Argo, e con ciò ci viene narrata in immagine la forza rasserenante della musica. Ma io voglio concludere un po' bruscamente il nostro tragitto tra le immagini bachelardiane e i loro problemi rammentando il breve e unico unico cortome­ traggio di Beckett realizzato nel 1965 con la partecipazione di Buster Keaton, intitolato semplicemente: Film. Esso mostra in modo impareggiabile un personaggio posseduto da un'immagi­ ne, e precisamente posseduto dalla propria immagine che, come un demone maligno, di continuo gli si impone e di continuo viene respinta in un rifiuto impotente. Si tratta in qualche modo ancora del mito di Narciso, in certo senso considerato alla rovescia: solo alla fine del film lo spettatore vedrà il volto dell'attore, che è ciò da cui il personag­ gio fugge. E come nel caso di Narciso viene coinvolto il tema dello sguardo, e quindi anche del riflesso e dello specchio. Noi, gli spettatori, non vediamo il volto dell'uomo se non nell'orrore che esso genera nelle persone che egli incontra. Il comporta­ mento dell'uomo è poi tutto determinato dall'intenzione di non vedere il proprio volto e di impedire che il suo volto venga visto. La prima sequenza del film è occupata da un occhio che si apre. Poi l'uomo corre lungo una muraglia per rifugiarsi in una stanza squallida dove ogni cosa che vede o che può vedere - i piccoli animali come il fatto, il cane, il pappagallo, il pesce … altrettanti occhi che lo guardano; e naturalmente la finestra e lo specchio - generano la massima inquietudine e vengono a loro volta nascosti e ricoperti. Senza che tutto ciò riesca a impedire la fantomatica ricomparsa della propria immagine: che è un'imma­ gine devastata dalla vecchiaia, lacerata, distrutta, un'immagine di decadenza e di miseria. Tutta la narrazione ha un andamento che potrebbe essere quello di un incubo onirico. 280 281 282 Mi sembra giusto, visto che abbiamo aperto questa nostra discus­ sione con la bellezza e la gioventù di Narciso, chiuderla rammen­ tando questo straordinario cortometraggio - con il rammarico di non possedere un commento di Gaston Bachelard su di esso. 283 Giovanni Piana Leggere i poeti. Note in margine a Giovanni Pascoli. 2018 284 Questo testo è stato alla base dell'intervento tenuto dall'autore e da Alessandro Cazzato all'Università degli Studi della Calabria (Unical) su invito del Seminario Permanente di Filosofia della Musica diretto da Carlo Serra per il ciclo "Maschere sonore" (24 aprile 2018) 285 1. Come filosofo sarei tentato di dire che, almeno in parte, quel fanciullino di cui ci parla Pascoli, traduce poeticamente in una figurina immaginaria e, si suppone, in parole semplici, lo sguardo alquanto severo e le parole dotte e difficili di un "fenomenolo­ go" - parola a sua volta piuttosto complicata. Pur non amando troppo la sovrapposizione tra filosofia e poesia, per i rischi che corrono l'una e l'altra in operazioni di questo tipo, come non pensare all'epoché husserliana, alla messa in parentesi, alla ridu­ zione fenomenologica - a quell'ingenuità che quelle parole le compendia tutte e che per l'appunto è l'ingenuità del fanciullo che "resta piccolo" mentre noi diventiamo adulti? Una volta mi è stato chiesto: come mai ti sei interessato a Pascoli che è certamente un autore nel quale c'è così poca filo­ sofia? In realtà sono stato affascinato dalla poesia di Pascoli an­ zitutto e proprio soltanto in quanto poesia, e grande poesia. Ed in quanto musica nella poesia. Ma quella domanda mi ha colpito e mi ha fatto riflettere. Mi sono accorto così che l'anima poetica rappresentata dal fanciullino di filosofia ne contiene non poca. E così anche l'intera produzione poetica di Giovanni Pascoli. 2. Ma procediamo con ordine. Altri si sono accorti che una te­ matica filosofica come quella fenomenologica avrebbe potu­ to offrire un apporto significativo alla lettura del poeta. Così voglio cominciare questi miei appunti nel segnalare quello che - a quanto ne so - è il primo saggio che pone questo proble­ ma, e lo pone con notevole raffinatezza, eleganza ed acume. Si tratta del saggio di Adriana Zangara, intitolato Sensazioni pasco­ liane. La poesia e l'apparire delle cose, pubblicato nel 1911 in Chro­ niques italiennes (1/2011)(1). In esso si sostiene con decisione che nella fenomenologia si possono trovare elementi concettualmente 286 preziosi per un approccio a Pascoli, al di fuori di ipotesi definite giustamente "fantasiose" di una conoscenza pascoliana dell'ope­ ra husserliana, le Ricerche logiche, nella quale viene già enunciata la formula famosa del ritorno "alle cose stesse" nella quale si annunciano i futuri sviluppi della teoria della "riduzione feno­ menologica". Secondo l'autrice questi elementi sono importanti anche per superare i limiti di letture che - anche dopo la "svolta cruciale" avvenuta nella critica letteraria negli anni cinquanta che ha reso del tutto obsoleti punti di vista in ultima analisi risalenti alla lettura crociana - continuano ostinatamente a riemergere fino a tempi recenti e recentissimi. Del resto, mi sia consentito di aggiungere, Contini, che di quella svolta fu fra i protagonisti, continua a professarsi crociano, sia pure crociano postcrocia­ no e, nonostante tutte le novità interpretative da lui introdotte, conclude il suo saggio Il linguaggio di Pascoli sostenendo, sia pure come un "paradosso ricreativo", che tutto sommato la poesia di Pascoli, in cui si ritroverebbe a suo dire la tesi, l'antitesi e la sin­ tesi, concorda comunque con i principi dell'estetica di Benedetto Croce (2). - Nella lettura di Adriana Zangara è determinante il venire a capo di quella che sembra essere una sorta di inafferrabilità del mondo pascoliano, inafferrabilità che a sua volta dipende dal fatto che esso è soprattutto un "mondo di sensazioni", e con le sensazioni condivide la fugacità e l'orizzonte di indeterminatez­ za che è sempre presente anche quando le sensazioni assumono forma apparentemente stabile di cose. Il puntare in questa dire­ zione orienta anche i temi tratti dalla filosofia fenomenologica. È l'ultimo Husserl che interessa maggiormente, dunque l'idea di "mondo della vita" teorizzata soprattutto nella Crisi delle scienze europee. Ma questa idea viene vista dalla Zangara con gli occhi di Merlau-Ponty: la riduzione fenomenologica riconduce al mondo della vita considerato come un mondo che non si è ancora stabi­ lizzato dentro un quadro categoriale ed a cui il soggetto non ha 287 ancora dato la sua impronta ordinatrice. Come si sa vi sono diversi modi di riprendere i temi hus­ serliani, e va da sé che anche la stessa terminologia originaria di Husserl possa assumere significati differenti. In realtà l'espres­ sione "mondo della vita" (Lebenswelt) in Husserl non è che una variante di ciò che egli chiama molto spesso "mondo dell'e­ sperienza" (Erfahrungswelt o Welterfahrung), quindi si trova anco­ ra sulla linea di una tematica della struttura dell'esperienza. Il mondo della vita è infatti, in Husserl, strutturato, e perciò di esso è possibile una vera e propria "ontologia" e dunque una "scien­ za" (3). In Merleau-Ponty l'accento cade in tutt'altra direzione: il mondo della vita è ciò che si offre nella percezione, e non porta anzitutto sulle cose ma sulle sensazioni, proponendo una pro­ spettiva di discorso in cui la distinzione soggetto-oggetto tende ad indebolirsi fino al punto della sua dissoluzione. Questa ango­ latura essenzialmente merleau-pontiana orienta l'autrice ad una originale interpretazione di alcuni punti-chiave della posizione di Pascoli - in particolare del tema dell' "udire e del vedere" e il tema della dialettica tra determinatezza e indeterminatezza già indicato da Contini che qui l'autrice riprende in nuova chiave, particolarmente suggestiva. 3. In realtà noi seguiremo anzitutto la traccia offerta dal Il fanciulli­ no, e dunque una diversa via (4). In questo saggio vi è anzitutto questa idea importante: io posso vedere e guardare le cose come se le guardassi e le vedessi per la prima volta ed è infelice "chi non sente la voce del fanciullo che è lui stesso, rimasto piccolo, perché chi non ode quella voce non può dire di sé: 'Anch'io vedo ora, ora sento ciò che tu dici e che era, certo, anche prima, fuori e dentro di me e non lo sapeva io affatto o non così bene come ora'". Certamente si addice anche ai filosofi, e forse soprattutto a loro, l'ammonimento implicito nelle frasi: "tu dici sempre quello 288 che vedi come lo vedi" - a differenza dei retori, ovvero, per noi, a differenza di quei filosofi che altro non sono che dei retori: "Tu illumini la cosa, essi abbagliano gli occhi. Tu vuoi che si veda meglio, essi vogliono che non si veda più" (5). Il fanciullo infatti "vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta", e mentre l'adulto sa molte cose e "ha studia­ to e ha fatto suo pro degli studi degli altri" e "sa tanti particolari che tu non sai": per questo egli "non vede le cose come le vedi tu" - e tu puoi essere la sua guida nella loro riscoperta (6). Puoi condurre il poeta (o il filosofo) anche se egli spesso, come vuole la tradizione, brancola nel buio, purché chieda la tua mano come compagna e tu subito gliela concederai "guardando torno torno" con quegli "occhioni che sono dentro di lui" (7). Persino la tradi­ zionale metafora della cecità del poeta potrebbe assumere il sen­ so di una messa in parentesi del mondo di ogni giorno: ripagata con un ritorno ad una sorta di primitivismo dello sguardo, ov­ vero un ritorno allo sguardo dell'uomo primevo a cui il fanciullo interiore assomiglia. Questo primitivismo dello sguardo è tutto meno che una regressione al passato, è una possibilità presente in ogni uomo e che in ogni momento può essere riattualizzata. Per questo da Pascoli il fanciullo una volta viene detto "eterno". Fuori dai limiti della vecchiaia storica, fuori dal tempo. In forza di questa extratemporalità egli è in tutti gli uomini potenzialmen­ te presente e la sua voce può in ogni tempo risuonare ed essere ascoltata. Questa atemporalità interessa in realtà anche la filosofia, proprio nel senso qui inteso, e naturalmente ad essa trasposto: anche la filosofia non invecchia, o meglio: ha un suo modo di non invecchiare. La poesia, comunque, è un'altra cosa. Ha al­ tri scopi. Non mira a convincere, non mira a persuadere. Non impiega "filze di sillogismi", anche se il ragionamento non le è estraneo ed anzi talora un ragionamento può addirittura apparire più nitido e chiaro se arricchito ed esposto attraverso le illumi­ nazioni dell'immaginazione poetica. Della relazione del fanciullo 289 con l'imma­ginario Pascoli parla fin dall'inizio del suo saggio. Le cose che il fanciullo vede non sono semplicemente cose, oggetti che se ne stanno a lui davanti e di cui si potrebbe pretendere di dare una descrizione fedele. La fedeltà peraltro c'è, ma è un fedeltà che rileva le trame immaginative in cui le cose viste sono intessute. E c'è la gioia del racconto, della narrazione - gioia che si manifesta nei modi in cui il racconto viene narrato, nelle parole antiche e nuove in cui esso si dipana, nelle immagini che illuminano la cosa o l'evento. "Egli scopre nelle cose le somi­ glianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare" (8). Ora la poetica di Giovanni Pascoli si fa sempre più avanti. Come l'uomo dei primordi, il fanciullo dà il nome alle cose. "A tutto ciò che vede e sente". E talora alla meraviglia rispet­ to alle cose subentra la meraviglia rispetto alle parole nuove - proprio come "i primi uomini" che stupivano di fronte all'aereo aleggiare della parola: stupivano che la parola "volasse e splen­ desse e sonasse, e fosse loro e diventasse d'altri, e recasse attorno l'anima di chi la emetteva dopo lunga e silenziosa meditazione" (9). - Volasse, splendesse, sonasse. Qui c'è tutto il sentimento della lingua in Pascoli, la mobile e inafferrabile suggestione del volo, la parola come stella splendente: e soprattutto il suo suono. Ciò che nella parola suona è l'anima del poeta, ciò che in essa trova realizzazione è il lavoro del poeta - la sua "lunga e silenziosa meditazione". La parola gli appartiene, ma subito diventa d'altri, attraverso i fanciulli che sono in loro. 4. La parola nuova - ce ne sono veramente molte nelle poesie di Pascoli, così come vi sono parole antiche. In questo scritto tro­ 290 viamo una sintesi fulminea di questa apparente contraddizione. E nello stesso tempo un cenno significativo di critica ai propri critici: "Come sono stolti quelli che vogliono ribellarsi o all'una o all'altra di queste due necessità, che paiono cozzare tra loro: veder nuovo e veder da antico, e dire ciò che non s'è mai detto e dirlo come sempre si è detto e si dirà!". Il tema evidentemente potrebbe estendersi variamente, ma, come sempre, Pascoli con­ cede ai propri critici ben poco spazio. Stolti: semplicemente. In queste poche parole vi sono in realtà molti pensieri. Il problema della parola poetica non sta nell'idea del nuovo o del vecchio. Il fanciullo usa la sua libertà di fanciullo per dar voce al suo chiacchiericcio come meglio gli aggrada. In questo atteg­ giamento non vi sono contraddizioni, nonostante le formule apparentemente contradditorie di cui ci potremmo servire per caratterizzarlo. "Non vuoi né ripetere il già detto né trovare l'in­ dicibile… Vuoi il nuovo, ma sai che nelle cose è il nuovo per chi sa vederlo, e non t'indurrai a trovarlo, affatturando e sofistican­ do" (10). Questo oscillare pascoliano tra due opposti poli, facendo valere l'uno e l'altro, è uno degli aspetti che rendono difficile e controversa la sua immagine, e la stessa ricostruzione del suo mondo poetico. Esso lo si ritrova anche nel rapporto tra filoso­ fia e poesia. Un rapporto che diventa aggrovigliato se, per illu­ strarlo vogliamo avvalerci proprio di Platone. "Se tu conoscessi Platone, ti direi che come egli ha ragione nel volere che i poeti facciano mythous e non logous, favole e non ragionamenti, così non ho torto io nel pretendere che i ragiona­ tori facciano logous e non mythous (Fedro, 61 b). Ma purtroppo è difficile trovare chi si contenti di fare solo quello che deve. E Platone stesso... Ma egli era Platone" (11). Questo nome è naturalmente per noi filosofi un'occasione per rammentare che proprio il filosofo Platone sta all'origine di quella suggestione che prende forma nel fanciullino, come Pascoli stesso ricorda all'inizio di quel suo saggio.Val la pena di 291 citare il passo tratto dal Fedone (77 e) per intero: "E Cebes con un sorriso: 'Come fossimo spauriti," disse,"o Socrate, prova di persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c'è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d'orchi'"". È opportuno notare che nel testo platonico il fanciullino viene evocato come timoroso della morte e bisognoso di rassicura­ zione. Questo tema non mi sembra entri a far parte delle con­ siderazioni di Pascoli, che raccoglie soltanto da Platone l'idea di un fanciullino che sta dentro di noi. Problematico non è solo, sull'esempio di Platone, il rapporto tra poesia e filosofia: può diventare problematico persino il rapporto tra la poesia e l'im­ maginario. Perciò Pascoli tiene a distinguere tra "fantasia" e "sen­ timento poetico": "Già, per me, altro è sentimento poetico, altro è fantasia: la quale può essere bensì mossa e animata da quel sen­ timento, ma può anche non essere" (12). Distinzione che si può ben comprendere! La fantasia, l'immaginazione in genere (se vo­ gliamo usare questi due termini come sinonimi ed attribuendo ad essi un senso particolarmente ampio) ha molti modi di ma­ nifestarsi e di realizzarsi. Una normale narrazione favolistica è opera della fantasia, e così lo sono anche le nostre fantasticherie o i nostri sogni effettivamente sognati. Ma in tutto ciò non vi è poesia. Dunque distinguiamo tra fantasia e sentimento poetico. Ciò lascia subito aperta la domanda: in che cosa consiste questo sentimento? Pascoli risponde con un'immagine: "Poesia è trova­ re nelle cose, come ho a dire? il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e se­ renamente di tra l'oscuro tumulto della nostra anima". Dunque il "sentimento poetico" è ciò che rende le cose vive, esso si trova in esse (".. La poesia è nelle cose..: un certo etere che si trova in questa più, in quella meno, in alcune sì, in altre no")(13) dunque 292 esso è, in realtà, il "sentimento delle cose", ciò che in esse piange e sorride. Certo, dobbiamo ammettere che questo sentimento appartiene anzitutto a noi stessi, alla nostra anima, ma esso può essere colto solo da uno sguardo semplice e rasserenato perché questo sguardo è libero dall'"o­scu­ro tumulto", dalle inquietudini nel quale siamo ciecamente immersi. Se questo modo di leggere questa frase si avvicina a ciò che Pascoli ci vuol dire, egli fa agire da buon filosofo la capacità illu­ minante delle immagini e la loro dialettica interna, stringendo in un cerchio coerente ragionamenti e immagini ed attribuendo alla poesia la capacità di una visione che rasserena. Il poeta che tanto ci ha parlato della morte si rappresenta nella voce di un fanciullo che di essa non sa nulla, anche se sa afferrare le inclinazioni e le pieghe più sottili dei sentimenti delle cose, tristi o gioiose che siano, e che "nella morte degli esseri amati esce a dire quel parti­ colare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva" (14). 5. Abbiamo già accennato al fatto che talora si ha la sensazione che la concezione della poesia di Pascoli viva di contrasti, che essa accetti la contraddizione come se fosse ricca di senso, quasi che tenendo fermi entrambi gli opposti poli si colga il punto es­ senziale. Forse qualcosa di simile lo si può dire anche per molte delle sue poesie. Ma certamente ciò vale per la sua poetica, e in particolare per la sua idea della "poesia pura". Virgilio "cantò, per cantare"; non vi è un fine, uno scopo perseguito dal poeta. Virgilio "fece poesia senza pensare ad altro, senza darsi arie da consigliatore, di ammonitore, di profeta del buono e del mal au­ gurio" (15). Pascoli non rinuncia alla polemica contro "rimatori di frasi tribunizie, o verseggiatori di teoriche sociali", dunque anche contro "poeti socialisti" in realtà mantenendo in qualche modo fede al socialismo della sua giovinezza, pur nelle modifi­ che indotte dal clima culturale della sua epoca, dal temperamen­ 293 to e dal rifiuto della violenza. Ma questa difesa del canto per il canto si associa a fil doppio agli effetti morali e sociali della poesia che egli marca nello stesso tempo con particolare forza: Virgilio apparteneva certamente al suo tempo, eppure - ecco un altro contrasto - non solo la sua poesia in quanto è soltanto poesia varca i limiti del tempo, superando i secoli, ma possiamo anco­ ra oggi trarre insegnamenti persino in rapporto alla concezione della vita etica e sociale che vive spontaneamente in essa. Forse, io aggiungerei, in una prospettiva utopica, che è poi quella che è presente a sua volta nella poesia di Pascoli. Virgilio "avendo la mira soltanto al poetico, ci mostra lo spettacolo tanto anticipato, ahimè! d'un'umanità buona, felice, tutta al lavoro e alle pure gioie dei figli, senza guerre e senza schiavi. Gli uomini, al suo tempo, parrebbe che avessero impetrato ciò che è ancora il desiderio inadempiuto de' nostri operai, le otto ore di lavoro per ogni otto di sonno e altre otto di svago" (16). In coerenza con tutto ciò è certamente il fatto che il poeta si ritrae sempre più sullo sfondo, tende a scomparire in quell'u­ dire e vedere in cui consta il suo produrre: "Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l'arpa che un soffio anima, è la lastra che un raggio dipinge" (17) - la soggettività, così importante per l'idea stessa di "sentimento poetico", diventa evanescente, e dunque anche il poeta è puro portatore di una visione - egli non parla, ma ascolta, e se parla non si rivolge ad alcuno, "parla piut­ tosto tra sé", e se parla forte, ciò accade "per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui" (18). 6. Su questo motivo val la pena di indugiare un poco. Vedere e udire sono atti della percezione. Il vedere è vedere oggetti, cose materiali, cose reali. L'udire è udire suoni - che non sono cose materiali ma che sono comunque eventi o processi che fanno parte del mondo reale da cui siamo circondati e nel quale noi, 294 come soggetti reali, conduciamo la nostra vita. Ora la poesia - ci sono dubbi forse su questo punto? - è opera dell'immaginazio­ ne. O possiamo dimenticarlo? Ma se è così come è possibile che Pascoli si appelli tanto decisamente ad una soppressione dell'e­ lemento soggettivo chiamando in causa unicamente atti della percezione? Effettivamente su questo punto il filosofo si sente autorizzato a prendere la parola. Abbiamo già accennato ad una spiegazione che si avvale di spunti fenomenologici nella versione proposta da Merleau-Ponty che vede nella percezione un operare eminentemente corporeo che rende ambiguo il rapporto soggetto-oggetto: la soggettività viene in certo senso sommersa dal flusso delle sensazioni in cui la percezione consiste. Poiché si tratta di flussi sensoriali, secon­ do questa prospettiva di discorso, possiamo dare un'interpre­ tazione della formula del sentimento poetico come sentimento delle cose, non solo indebolendo la presenza di una soggettività intesa come una presenza ordinatrice e categorizzante, ma anche attenuando la solidità della cosa: la cosa materiale diventa a sua volta fluttuante. A questo punto debbo dire la mia, sia pure in modo fulmi­ neo. Seguendo la via a cui abbiamo or ora accennato, l'immagi­ nazione resta interamente fuori gioco, diventa una parola vuota. Del resto nella Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty che consta nella traduzione italiana di circa seicento pagine, la parola immaginazione ricorre sei volte, ed in contesti del tutto generici. Questa circostanza è assai strana. Infatti, può accadere, anzi ac­ cade spesso in forme più o meno pronunciate, che le cose viste e udite - le cose nel senso esemplare delle cose materiali, case, alberi, pietre… - o gli eventi reali che ci accadono intorno - lo scorrere di un fiume, il volo di un uccello, il suono di una cam­ pana… - cadano sotto la presa dell'immaginazione: ciò significa che i processi di unificazione dei dati sensoriali che costituiscono queste oggettività sono integrati da processi di unificazione di tutt'altro genere: le sintesi percettive costitutive degli oggetti for­ 295 niscono i materiali e i sostegni per sintesi immaginative - e di qui sboccia l'immagine. Io mi esprimerei così: i dati della percezione vengono sottoposti ad un processo di valorizzazione immaginativa. Queste sintesi immaginative possono rientrare sotto il grande tema di sinte­ si passiva. La soggettività non costruisce spontaneamente i con­ tenuti percettivi valorizzati, ma li riceve: non agisce, ma recepisce. Questa tematica viene sviluppata da Husserl prevalentemente nell'ambito della tematica della percezione e del ricordo, piutto­ sto che in quello dell'immaginazione. Io credo che con l'idea della sintesi immaginativa come sin­ tesi passiva si possa dare una buona parafrasi filosofica del pensiero pascoliano del sentimento poetico come "sentimento delle cose" - una parafrasi che non è arbitraria né gratuita e che forse con­ tribuisce a chiarire l'enigma contenuto in quella formulazione. Se­ guendo la via merleu-pontiana, Adriana Zangara accenna al tema della sintesi passiva, ma nella sua impostazione manca l'anello della sintesi e della valorizzazione immaginativa e, in generale, il riferi­ mento alle operare dell'immaginazione. 7. Dopo questa digressione, torniamo al testo. Credo che sia diffi­ cile trovare formulazioni così forti dell'essere in sé della poesia, della sua - nonostante tutto - oggettività come quelle che ab­ biamo citato poc'an­zi. Ma queste formulazioni portano diritto anche verso altri spunti che riguardano il modo di leggere la poesia, e dunque l'esercizio stesso della critica letteraria. Spunti soltanto, ma molto precisi, e molto duri. Sostiene Pascoli: i critici sono come agricoltori che non pensano alle sementi ed ai con­ cimi (ovvero a ciò che è la vera origine dei buoni prodotti), ma ai mezzi per la coltivazione, agli strumenti come le vanghe e gli aratri, e non li considerano nemmeno come mezzi per una buo­ na coltivazione, bensì come mezzi in sé di cui si è dimenticato il fine e che vengono al più apprezzati per le loro "bellurie". Siamo 296 dunque ancora in presenza di una critica di coloro che rovistano nelle opere letterarie alla ricerca dei metodi e degli strumenti della loro costruzione. Essi "non si occupano d'altro, e credono che non ci si debba occupar d' altro, e stimano, io vedo, che la loro sia la più nobile delle occupazioni. E almeno li facessero loro, codesti strumenti: no, li 'giudicano' e li 'collezionano'. Co­ dest'ozio noi chiamiamo ora critica e storia letteraria. E ognun può vedere che ci sono cose molto più utili e belle da fare: cioè coltivare e seminare" (19). Credo che non vi sia chi non veda quanto siano pesanti e drastiche queste osservazioni, ma anche come in esse si faccia strada una presa di posizione sul modo di leggere la poesia. La creatività poetica, ed il lavoro del poeta che è duro come il lavo­ ro dei campi, viene contrapposto a quello ozioso del critico che si limita a creare tipologie, ad operare classificazioni, a emettere sentenze inappellabili e che si pretende siano scientificamente fondate. Contro tutto ciò, Pascoli dice di averne abbastanza: "Quella scuola era migliore, questa peggiore. A quella bisogna tornare, a questa rinunziare. No: le scuole di poesia sono tut­ te peggio, e a nessuna bisogna addirsi" (20). Ne ha abbastanza anche delle classificazioni che annegano le creazioni poetiche nella genericità degli stili - arcadico, classico, romantico, veristi­ co, realistico, idealistico "e via dicendo". Ed anche della "mania di giudicare". Ma averne abbastanza di tutto ciò significa, in una parola, averne abbastanza della storicizzazione. Ritroviamo qui in modo polemicamente rafforzato il tema l'extratem­poralità della poesia. La poesia viene divisa per secoli e per scuole: "Affer­ miamo che progredisce, che decade, che nasce, che muore, che risorge, che rimuore" (21). "La poesia non si evolve e involve, non cresce o diminuisce; è una luce o un fuoco che è sempre quella luce e quel fuoco; i quali quando appariscono, illuminano e scaldano ora come una volta, e in quel modo stesso" (22). "In verità la poesia è tal maraviglia, che se voi fate una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila 297 anni sono. Come mai?" (23). A questa domanda apparentemente così difficile, è possibi­ le dare una risposta semplice appellandosi al fanciullo interiore: "La sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli. Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo da per tutto. E quindi, né c'è poesia arcadica, romantica, classica, né poesia italiana, greca, sanscrita; ma poesia soltanto, soltanto poesia, e... non poesia" (24). La sintesi di tutto ciò potrebbe essere la frase straordinaria: "Non c'è poesia che la poesia" (25). Che io peraltro mi prendo l'arbitrio di leggere, con qualche esitazione, anche così: "Quan­ do c'è una poesia non c'è altro che quella poesia". Non c'è più il poeta con la sua vita, non c'è più la critica letteraria, non c'è più l'intera storia della letteratura. Pascoli opera qui una sorta di grandioso annientamento. Ma qual è il suo senso effettivo? 8. Io credo che questo senso lo si debba cercare in una risposta ad una domanda implicita: come leggere i poeti? Qui il riferimento particolare a Pascoli può essere lasciato un poco da parte. Come leggere i poeti? Con tutte le domande che suscita questa domanda. Non ha dunque importanza la biografia del poeta, la sua personale esperienza di vita? In realtà non vi è po­ eta che non faccia sentire, e proprio all'interno della sua stessa produzione poetica, la presenza della sua vita vissuta. Possiamo pensare Leopardi senza Recanati? Non c'è poeta che non tragga dalla realtà elementi assai vari, e spes­­so in modo non privo di dettagli. Vi sono persone reali chiamate con il loro vero nome. Vicende strettamente fa­ miliari evocate inequivocabilmente come tali - certo proprio Pascoli di ciò è un esempio che non ha eguali. Ma esempi ne troverai ovunque. Ed attraverso l'elemen­to biografico si affaccia, all'interno dell'opera poetica, l'epoca intera, i suoi personaggi 298 maggiori e minori, i suoi giudizi e pregiudizi. La storicizzazione sembra obbligatoria. Quanto alla storia letteraria il poeta è lontanissimo dal di­ menticarla. È lontanissimo dal dimenticare il linguaggio che vive nella tradizione letteraria e che tende a diventare una sorta di linguaggio autonomo rispetto a quello corrente, poiché ha con­ venzioni proprie, parole nuove e parole dimenticate che soprav­ vivono solo in esso. E che oltretutto è un linguaggio che canta. Ogni poeta interviene in esso nelle forme più varie; ed ancora Pascoli rappresenta di ciò uno straordinario esempio. Anche in forza di ciò una poesia non appartiene solo a se stessa, ma rap­ presenta un anello nella storia della letteratura, non meno di un dipinto nella storia della pittura. Possiamo dunque affermare che la biografia del poeta e la storia letteraria sono le sorgenti dell'opera poetica. La prima, certo, può anche mancare in vari modi, ad esempio perché non è nota, o l'opera poetica è anonima o appartenente alla poesia po­ polare, epica, ecc. In tal caso tuttavia vi sono sempre riferimenti storici come riferimenti alla realtà in cui l'opera ha le sue radici. Vi è da chiedersi se con la poesia di Pascoli non si possa, o addirittura si debba, confutare la sua poetica. Oppure siamo anche qui in presenza di quell'elemento conflittuale ricco di sen­ so che abbiamo già rilevato in precedenza per altri problemi? In realtà si tratta di una tematica che ha bisogno di un approfondi­ mento, che non può certo essere effettuato in noterelle marginali come sono queste mie, ma che forse può essere sostituito da uno schematizzazione grafica, vorrei quasi dire: geometrica. Lo schema che vorrei proporre è costituito da tre linee pa­ rallele. La linea di mezzo è rappresentativa del testo letterario, essa è dunque la linea dell'immaginazione creativa. Sulla linea sottostante stanno gli aspetti biografici - le vicende vissute dal poeta e più largamente il contesto storico nel quale ogni vita è inserita. La linea sovrastante è quella della letteratura e della sua storia. E poiché la letteratura è fatta di parole, a questa linea 299 attribuiamo più estesamente, non solo le opere letterarie, ma le parole in genere e tutto ciò che può essere detto su di esse. Ad essa appartengono dunque anche tutte le considerazioni di ordi­ ne linguistico relative al testo letterario. L'idea del parallelismo proposta in questo schema ha la massima importanza. Come si sa, le rette si dicono parallele perché, per definizione, non si intersecano. Eppure abbiamo detto or ora che il poeta attinge sia alla linea sottostante che alla linea sovra­ stante. Le intersezioni dunque in questo schema non si mostra­ no. Ciò che mostra le intersezioni, le quali naturalmente non possono togliere il parallelismo, sono nuove linee che stabilisco­ no dei nessi tra le parallele, ed a tracciarle è la critica letteraria - termine che va inteso qui nel suo senso più ampio e ad esso io preferirei il termine di analisi letteraria. Le intersezioni debbono essere mostrate perché spesso esse contengono, tra le altre cose, informazioni che sono essenziali per la comprensione del senso letterale del testo e che riguardano eventualmente aspetti biogra­ fici o relazioni e rapporti con il linguaggio letterario, e dunque tutto ciò che contiene riferimenti o rimandi di varia natura ad altri testi, ad altri autori, ad altre epoche più o meno lontane. Si pensi soltanto alle parole inconsuete - arcaismi, dialettismi, neologismi… - il cui senso non è, certo, a portata di mano del comune lettore. A questo proposito vi è una cosa da non dimenticare mai, mentre viene certamente dimenticata da quegli uomini di lettere che sembrano solo dialogare tra loro palleggiandosi le citazioni. Il poeta non scrive per essere letto da poeti, il narratore da nar­ 300 ratori, così come il pittore o il musicista non pensano ad un pub­ blico fatto di pittori e di musicisti. (Nemmeno il filosofo scrive per i filosofi). La letteratura in genere si rivolge sempre al comune lettore, e non ad altri uomini di lettere. Ed al comune lettore gli uomini di lettere fanno un inestimabile servizio mettendolo in grado di leggere e di comprendere ciò che talora gli sarebbe pre­ cluso. Il nostro schema deve dunque essere completato all'incirca così: Ma il problema è questo: una volta che sono state create le condizioni per una possibile lettura dell'opera poetica è asso­ lutamente necessario "mettere tra parentesi" quelle condizioni. Questa messa in parentesi non è una cancellazione o una caduta in un definitivo oblio, ma una sorta di allontanamento di ciò che era in primo piano facendo di esso un fondale lontano in cui le notizie che fanno essenzialmente parte di quelle condizioni mutano radicalmente di senso. Per ritornare ai nostri filosofemi: quella epoché di cui parlano i fenomenologi veniva caratterizzata da Husserl, naturalmente con tutt'altro ambito di riferimento, come un "annientamento del mondo" (Weltvernichtung) (26) e noi abbiamo parlato proprio di un grandioso annientamento in rap­ porto alla frase pascoliana "non c'è poesia che la poesia". Se vuoi entrare realmente nella poesia devi sopprimere quelle linee che collegano le linee parallele: di più: devi annientare la linea sovra­ stante e la linea sottostante e lasciare soltanto nella sua splendida solitudine la linea dell'imma­gina­zione creativa. 301 Io credo di cominciare a capire ora che non c'è poesia che la poesia. Credo di capire di conseguenza le buone ragioni per i cenni polemici di Pascoli contro certi modi di realizzare l'analisi di un testo letterario. Ciò che è in questione, in certo senso, è sal­ vare, nella lettura della poesia, la sua portata immaginativa. Per­ ché se per un verso, come abbiamo già detto, l'analisi letteraria fornisce al lettore contributi spesso indispensabili, per altri versi rappresenta addirittura una minaccia per entrare in un rapporto con il sentimento poetico espresso nel testo. Questa minaccia può assumere varie forme. Intanto lo sta­ bilire nessi, vuoi con l'elemento biografico vuoi con la storia letteraria, può essere proposto come se questi nessi fossero spie­ gazioni del senso, mentre non possono in via di principio esserlo per il fatto che non vi sono cause di cui la poesia sia l'effetto. Il dato biografico rimane sul fondale ed assume un'inclinazione lungo la quale scivola dal terreno del reale a quello dell'immaginario. Nel­ la poesia X agosto ciò che importa soprattutto è la similitudine con la rondine uccisa, importa il pensiero del perdono, la bam­ bola per la bimba, i rondinini che pigolano sempre più piano, il tragico appellativo della Terra, "atomo opaco del male". Questa scenografia fantastica supera il dato di fatto dell'assassinio per­ ché lo trasferisce lassù, nel firmamento, nel pianto di stelle. In un mondo totalmente altro: che può essere anche quello delle fiabe. Perché alla fiaba appartiene sicuramente anche la cavalla storna, l'animale che ha compreso il tragico evento e la domanda impe­ riosa alla quale sa dare una risposta. 9. È un grande merito di Simonetta Bartolini l'aver posto e svi­ luppato il tema della fiaba in Pascoli con una originalità tale da prospettare un nuova e seducente modalità di lettura del poeta. Il suo testo si intitola Il 'fanciullino' nel bosco di Tolkien. Pascoli: la fiaba, l'epica e la lingua (27). Il richiamo a Tolkien richiede che si 302 metta l'accento sulla posizione teorico-filosofica di questo auto­ re in rapporto all'idea della fiaba e del suo rapporto con il mito, con l'invenzione linguistica e il culto delle lingue antiche. Que­ sta "inedita e un po' exstravagante operazione di comparatistica" consente a Simonetta Bartolini di prospettare un'inter­pretazione di Pascoli "che lo sottragga al dato puramente biografico e ne evidenzi piuttosto quello creativo-linguistico" implicando "il pro­ getto di una poesia che sia epica moderna, anzi contemporanea, grazie alla scelta di una lingua capace di esprimerla e nello stesso tempo sua co-creatrice, dunque non mero strumento espressivo, ma appunto creativo"(28). L'autobiografismo di cui si è così spes­ so avvalsa la critica letteraria storicistica viene in questo libro nettamente superato, così come l'ossessione delle fonti: va da sé che tra Tolkien e Pascoli non può esser documentata alcuna relazione di fatto e tutti i notevoli sviluppi conferiti dall'autrice all'idea-guida riguardano la sola trama delle idee che si illumi­ nano a vicenda nelle affinità e nelle differenze. Gli eventi au­ tobiografici vengono trasformati in pretesti "per un'operazione linguistico-estetica che crea la poesia, è poesia, secondo un pro­ cesso inverso a quello comunemente inteso. Il poeta non cerca la parola per esprimere un'immagine, un'idea, un pensiero, ma è la parola co-generatrice del­l'im­­ma­gine, dell'idea, e del pensiero. In questo senso si dovrà intendere anche il ricorso al fonoeste­ tismo pascoliano, troppo spesso identificato con un processo di pura ricerca formale e decorativa o, nella migliore delle ipotesi, come connotazione esasperatamente simbolistica" (29). In que­ ste pagine si possono leggere ben fondate osservazioni su Pa­ scoli poeta "epico", attraverso la mediazione della lingua e della fiaba. Il raggio di azione della poesia pascoliana è ben più ampio di quello che probabilmente ancor oggi si fa credere nelle scuole, ed esso può suggerire più di una plausibile chiave interpretativa. Uno degli elementi più caratteristici e ricchi di significato della poesia di Pascoli è proprio il fatto che, come nelle fiabe, gli animali parlano, e persino le piante partecipano alla vita in tutte 303 le sue forme - talora anche un edificio può manifestare senti­ menti. Leggiamo insieme per intero, da Myricae, la poesia Nel parco che a mio avviso raccoglie in pochi versi, alcuni degli aspetti dominanti del suo mondo poetico. Certo il signore, e la chiomata moglie, partì pe' campi, ché già il tordo zirla: muto, tra un'ampia musica di foglie (dolce sentirla d'autunno, a tarda notte, se il libeccio soffia con lunghi fremiti sonori), muto è il palazzo. S'ode un cicaleccio di tra gli allori; un cicaleccio donde acuti appelli s'alzano come strilli di piviere: il gatto è fuori: ruzzano i monelli del giardiniere. Torvo, aggrondato, il candido palazzo formicolare a' piedi suoi li mira; e sì n'echeggia un cupo, a quel rombazzo, battito d'ira; ma non s'adira il giovinetto alloro, il leccio, il pioppo tremulo ed il lento salice: a prova corrono con loro; cantano al vento. Intanto vi è il tema della musicalità di questo mondo, che si esprime sia nel suono delle parole, sia nel ritmo e nelle scelte metriche sia nel richiamo a fatti sonori che in quelle parole è contenuto. Che cosa si narra in questa poesia? In assenza dei pa­ 304 droni, i monelli del giardiniere giocano nel giardino del palazzo: e questo gioco è espresso musicalmente dal "cicaleccio di tra gli allori", dalle grida gioiose dei ragazzi che si chiamano a vicen­ da, dai loro "acuti appelli" che s'alzano come "strilli di piviere". Questo gioco è avvolto dalla "musica di foglie" "dolce a sentirla" soprattutto quando il soffio del libeccio crea "lunghi fremiti so­ nori". Ed è inutile dire che anche la parola "cicaleccio", ripetuta qui due volte, richiama il frinire delle cicale di cui ne contiene il nome. Ma vi sono anche allusioni sonore più sottili: la parola "zirlo" riferita al tordo non è né una parola generica come "cin­ guettio" e nemmeno una parola tecnica per indicare il verso del tordo. La sua origine, come ho appreso dal dizionario italiano della Treccani, è onomatopeica, è una parola che imita un suono: questa origine è forse ancora più evidente nella sua derivazione dal tardo latino zinzilulare. Il palazzo, invece, è "muto". Ma ha senso dire di un palazzo che esso è muto? Si vuol forse affermare che, essendo un palaz­ zo, esso non ha il dono della parola? Certamente no! È muto perché rimugina dentro di sé il fastidio che i ragazzi gli dànno con i loro rombazzi, tace perché li osserva con sguardo rabbioso e torvo, è muto perché è irato. Un'altra parola che rimanda al suono rafforza quest'ira: il battito, quella sorta di acceso batti­ cuore che si agita dentro la persona adirata. Di contro, gli alberi lietamente giocano con i ragazzi, gareggiando nella corsa: ed al vento, già prima evocato con la musica di foglie, essi "cantano". "Cantano al vento". Ci potrebbe accadere di leggere in qualche commento che qui entra in azione il "consueto antropomorfismo" di Pascoli (o espressioni analoghe). E non è forse questo letteralmente vero? Leggo in un dizionario: "Antropomorfismo: Tendenza ad attri­ buire aspetto, facoltà e destini umani a figure immaginarie, ani­ mali e cose. In particolare, l'attribuzione alla divinità di qualità umane fisiche, intellettuali e morali". Solo che, quando abbiamo pronunciato questa parola, essa ci fa considerare i versi di Pa­ 305 scoli come puro e semplice risultato di una simile "tendenza": in questo modo viene reciso alla radice il senso stesso dell'evo­ cazione poetica. Facendo volgere lo sguardo altrove: alla consuetudine che talora gli uomini hanno di attribuire, in particolare alle figure divine, tratti umani - ed il nostro pensiero corre naturalmente anzitutto alle divinità greche che vengono caratterizzate con le nostre virtù e i nostri vizi; e persino al dibattito di ordine teolo­ gico che si prolunga ben oltre la cultura greca e che naturalmente investe interessi di ordine filosofico. In certo senso potremmo dire che l'antropomorfismo attivamente praticato appartiene alle regioni dell'immaginario, ma la parola stessa da queste regioni ci allontana perché essa esprime un concetto. E ci allontana piutto­ sto che avvicinarci al "sentimento poetico" di questi versi, anne­ gando la varietà delle figurazioni che in essi compaiono sotto un unico titolo concettuale. Quali osservazioni invece saremmo invece tentati di fare, noi - lettori comuni? È in questi versi che comprendiamo vera­ mente che per Pascoli il "sentimento poetico" è un "sentimento delle cose", e comprendiamo nello stesso tempo che ciò può es­ sere detto in forza di una idea potente dell'unità della natura: in questa idea trapassa l'elemento che prima ho chiamato fiabesco e che può ancora essere chiamato così anche se questa idea poten­ te non è necessariamente in primo piano nella fiaba. All'interno di questa idea, tutto è partecipe della vita del tutto - tutto è vita palpi­ tante, e questo palpito di vita non appartiene ai fanciulli che gio­ cano, ma anche agli alberi che gareggiano nel gioco e che, mossi dalla brezza, con la loro musica di foglie, cantano al vento, ed anche il palazzo diventa fremente di vita facendo da contraltare a questa gioia con la sua repressa ira latente. Ma non potrem­ mo forse dire che anche i ragazzi del giardiniere, nel loro gioco, sono immersi in quella musica, avvertono il canto degli alberi e persino l'ira del palazzo nel cui parco finalmente, in assenza dei padroni, essi possono in piena libertà fare le loro scorribande chiamandosi a piacere l'un l'altro? In questa atmosfera si immer­ 306 ge anche il poeta rendendo partecipe il lettore di un felice istante del proprio modo di guardare il mondo. Usando il termine di antropomorfismo si chiude ogni pos­ sibile discorso, si oscura la stessa atmosfera che dà senso all'in­ tera poesia. È come se dicessimo: qui e là troviamo degli antro­ pomorfismi. Ed è invece un'intera visione del mondo, del rap­ porto tra uomo e natura che si fa avanti - questa poesia è una sorta di vero e proprio inno alla gioia che accomuna i bimbi che giocano festosi agli alberi del giardino che stanno loro intorno - tutti partecipano a questa gioia, a questo gioco che diventa una danza: sì, una danza. "Il gatto è fuori…". Questa danza, questa gioia non viene certo incrinata, ma addirittura potenziata, per contrasto, dal vecchio palazzo che resta muto ed accigliato, come disturbato da questa festa. E così potenziano questa gioia arricchendola di suoni lo zirlo del merlo e gli strilli del piviere - bimbi, alberi, uccelli, e persino il torvo palazzo che fa da sce­ nario fanno tutt'uno in una visione armoniosa della vita degli uomini e della natura. Vi è un episodio narrato da Pascoli che mostra fino a che punto si spingano le buone ragioni della nostra lettura. Egli trae da Augusto Conti una piccola storia di una bambina che "quando mirava la luna o le stelle, emetteva voci di gioia, e me le additava, e chiamavale come cose viventi; offrendo loro quel che avesse in mano, anche le vesti". (Dobbiamo chiamare questa bimba antro­ pomorfista?). Pascoli commenta: "Rivado col pensiero a tutte le poesie che ho lette: non ne trovo una più poesia di questa!" (30). Ed io vorrei aggiungere: a quell'episodio non vi potrebbe essere commento più bello di questo. Il concetto stesso della poesia viene spostato dalla scrittura ad un comportamento, e questo comportamento è un modo di essere nel mondo, e si tratta del mondo in grande, dell'universo - in mezzo alla luna ed alle stelle - come momenti di un tutto in cui tutto vive. Nel saggio Il fanciullino, Pascoli si concede una volta la li­ bertà di fare qualcosa di simile ad una critica addirittura a Dante, 307 e per di più relativamente ad uno dei suoi passi più famosi ed ammirati: Era gi�� l'ora che volge il disio ai naviganti…. Una critica che, certo, della critica ha solo l'apparenza. Egli dice che "in questa rappresentazione che di più poetiche non si può trovare", il verso più poetico è l'ultimo - quello in cui si ode la squilla di lontano che paia il giorno pianger che si muore. Eppure, osserva Pascoli, in questo verso vi è una sorta di inde­ bolimento della sua poeticità. Esso si nasconde in quella piccola parola di quattro lettere: "paia". Ha detto dunque, Dante, "che la squilla pare piangere, non piange veramente". Il fanciullo che è in lui forse si vergogna "d'esser fanciullo e di parlar fanciulle­ sco, e si corregge. Pare, non è, intendiamoci". Ed allora Pascoli riprende teneramente questo fanciullo e gli parla: "Ma, caro bim­ bo, lo sapevamo da noi, che la campana non piange, ma par che pianga: anche però il giorno par che muoia, e non muore" (31). Di fronte a questo dialogo io non posso che ritornare un po' filosofo e più precisamente filosofo dell'immaginario. Ciò su cui qui Pascoli mette l'accento, a modo suo, ed io lo seguo, a modo mio, è l'eterogeneità del mondo dell'immaginazione che qui viene implicitamente sottintesa e riferita in particolare all'immaginazione poetica. Questo "paia", questo "sembra", tie­ ne i piedi in due staffe, vuol tenere insieme il mondo reale e il mondo immaginativo, vincolandoli l'uno all'altro. Mentre tra i due mondi vi è un' alterità invalicabile. La campana non piange e il giorno non muore - questa è la realtà. Ma poi la campana piange veramente e veramente il giorno muore nel mondo trasfi­ gurato dall'immaginazione. Analogamente la bimba che gioisce 308 delle stelle e ad esse porge i suoi doni è interamente integrata ed estranea al mondo reale: proprio per questo di essa e del suo comportamento possiamo dire che è poesia, che della poesia, in quel comportamento, si coglie forse l'essenza. 10. Torniamo ora al gioco dei bimbi nel parco, continuando in realtà a spigolare tra i commenti. Ciò può essere utile anche per dar un poco più corpo al semplice schema che abbiamo preceden­ temente proposto. Intanto, potremmo cominciare con il dire, la poesia ha una dedica a Mario Racah - e non è forse giusto chiedersi: Chi era costui? Di lui si sanno alcune cose e persino della moglie, citata nella poesia. Vengo a sapere da un commen­ to che questo Mario Racah era esponente di una delle famiglie ebraiche più importanti di Livorno, che la moglie si chiamava Fanny ed era figlia di un banchiere, console a Livorno del Perù e dell'Uruguay. Inoltre il Racah era proprietario della casa affittata da Pascoli nel periodo livornese. Si tratta di una notizie ovvia­ mente disposte sulla linea storico- biografica. E sulla loro base potremmo essere tentati di cercare l'indirizzo del palazzo di cui qui si parla; e magari lo troviamo e potremmo dire: ecco il giar­ dino del palazzo in cui giocavano i fanciulli nella poesia intitolata Nel parco! (Aggiungo in margine un aneddoto personale: mi trovai da ra­ gazzo in un pullman che faceva il giro dei "luoghi manzoniani". La gita era organizzata dalla Casa Manzoni. Ad un bivio di strade asfaltate il pulmann si fermò e la nostra guida disse perentoria­ mente: questo è il bivio in cui Don Abbondio incontrò i bravi. Poco dopo ci venne mostrata la casa di Lucia). Qualcuno ipotizza che in quel palazzo, nel suo parco giocasse da ragazzo lo stesso Pascoli - chissà, può essere: la memoria è im­ 309 portante per l'immaginazione, ma io credo che se essa non com­ pare esplicitamente all'interno della poesia - almeno un'ombra di essa, fuggevole, ai suoi margini, ma deve apparire - se essa non compare allora, nel richiamarla, è come se invece di goderci uno spettacolo teatrale dal nostro posto, andassimo a guardare che cosa c'è dietro le quinte. Senza dire del fatto che quella ipo­ tesi ci riporta sulla linea storico-biografica. C'è poi chi ha da ridire sul fatto che, nella poesia, quella Fanny venga detta chiomata - ed essendo questa un'aggettivazio­ ne omerica questa parola sarebbe più al suo posto nei Poemi Con­ viviali dove Pascoli riprende esplicitamente tematiche e soggetti tratti da Omero. Qui invece ci troviamo invece sulla linea stori­ co-letteraria, perché naturalmente a questa linea appartengono anche tutte le opere del poeta. Ma certo un conto è ricercare e segnalare le ricorrenze verbali nell'opera complessiva di un poe­ ta - e si possono in questo modo probabilmente scoprire cose interessanti - un'altra è dire che una parola starebbe meglio altrove, quasi che fossi io, e non l'autore a decidere dove stareb­ bero meglio le sue parole. Ancora sulla linea storico-letteraria si trova l'informazione che si potrebbe essere tentati di dare secondo la quale il parco è soggetto di molte liriche tardo-ottocentesche. E qui si parla ap­ punto di un parco. Se vogliamo situare letterariamente la poesia, questa è comunque un'informazione. Del tutto insignificante. E tuttavia si può anche proporre il problema dell'ambienta­ zione letteraria in tutt'altro modo - non tanto per dare una no­ tizia che di per sé non ci insegna nulla, ma per arricchire di sen­ so il testo poetico considerato. Uno splendido esempio ci viene offerto dal saggio Sul fanciullino e non solo di Maria Teresa Lanza, compreso nel volume Le domande indiscrete (32). Esso si avvia con un'ampia e intensa introduzione sulla figura del fanciullo a par­ tire da Blake e spingendosi ad autori di fine secolo implicando Pater, Baudelaire, Proust, Walser, Altenberg, Hofmannstahl… È intanto evidente che l'autrice di tutto si preoccupa tranne del fat­ 310 to di stabilire ascendenze o discendenze: a proposito di un sag­ gio di Pater, ma la frase mostra un atteggiamento generale, ella dice, "Che Pascoli conoscesse o meno questo testo non ha molta importanza" (33). Tutta la tensione di questa parte del saggio sta, vorrei quasi dire, nell'estendere e dare profondità attraverso altre esperienze letterarie al fanciullino di Pascoli: lo scopo non è quello di una storicizzazione, ma quello di un arricchimento di significato, che è scopo assai diverso: non una riduzione al reale, ma un'esaltazione dell' immaginario. La seconda parte, tutta de­ dicata esclusivamente a Pascoli, si muove sulla stessa linea con considerazioni interpretative illuminanti. Il saggio si avvia alla conclusione con una frase che va citata per intero: "Del 'fanciul­ lino' s'è detto molto; dei suoi dintorni troppo poco, o meglio: con percorsi troppo unidirezionali, intesi a determinare precise discendenze piuttosto che a scoprire sintomatiche affinità. Ma la circolazione di una cultura è labirintica; le affinità nella ricerca sono sempre più numerose di quanto non sembri a chi guar­ di troppo da vicino o si faccia condizionare da documenti non sempre rivelatori (rivelatore il Sully?) in questo genere di cose" (34). (Sully è l'autore di un volume sull'infanzia presente nella biblioteca di Pascoli che viene spesso considerato come fonte indubitabile del Fanciullino). Dice assai bene qui Maria Teresa Lanza: "La circolazione di una cultura è labirintica". 11. Tra le cose più preziose che l'analisi letteraria ci può offrire va annoverata indubbiamente l'analisi linguistica vera e propria, la riflessione e lo studio della parola. Ad esempio, nella poesia di cui ci stiamo occupando, l'analista potrebbe soffermarsi sulla pa­ rola "aggrondato" e scoprire che il palazzo è già in essa. Non ha forse esso delle "gronde"? Si potrebbe obbiettare che questa è una relazione del tutto arbitraria. Ma in realtà non è così. Intan­ to la parola "gronda" per indicare le ciglia si trova già in Dante 311 (Paradiso, XXX, 66-89). E nel Vocabolario etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani (35): "Aggrondare - Aggrottar le ciglia in segno di cruccio, Adirarsi; per metafora dedotta da Gronda = estremità sporgente del tetto, poi­ ché nell'ira le sopracciglia corrugandosi si rendono più rilevate e sporgenti, oppur meglio da Gronda nel significato di broncio" Naturalmente tra le due possibilità etimologiche la prima è nel nostro caso particolarmente seducente. E tuttavia andando nello stesso dizionario alla voce Gronda si aggiungono elementi coe­ renti ricchi di interesse: anch'essa infatti allude all'aggrottamen­ to, e si moltiplica la ricchezza di sensi che nell'etimo se ne stanno nascosti. Oltre ad aggiungersi un'inclinazione a possibili signi­ ficati sonori. In questa voce ci si richiama alle due possibilità principali e si forniscono ulteriori indicazioni. Anzitutto viene citata l'origine latina Subgrunda (tettoia, cornicione, grondaia, tra­ beazione) che "fa pensare alla radice ghar, ghrad rumoreggiare onde il senso di crosciare": ed in sanscrito troviamo ghar- ghara nel sen­ so di suono, scroscio di risa; ghur- ami nel senso di risuonar fortemente. Per quanto riguarda la seconda possibilità si va prevalentemente ai dialettismi. Così si rammentano il "far la gronda" per "fare il broncio" associato al lombardo Grunda, ma anche al latino grundi­ re nel senso di grugnire ed altre espressioni affini nel bolognese e nel toscano. Infine la stessa voce rammenta l'uso di "grondone" coi verbi andare, venire, camminare: "dicesi di chi va piano, raccolto nella persona e accigliato". E di questo uso certamente si ricorda Pascoli in altra poesia quando dice "ora quel cielo sembra che m'irrida/ mentre vado così, grondon grondoni" (Myricae, In alto). Certo, ci siamo allontanati dalla parola in quanto inserita nel contesto del verso, ma da essa in ogni caso abbiamo preso le mosse, ovvero da un punto della linea del testo poetico e di qui siamo passati sulla linea storico-letteraria che comprende il vastissimo ambito dello studio della parola e della linguistica in 312 genere. Questo il lettore comune non lo può fare, è necessario che l'uomo di lettere lo assista. Si può tuttavia ripetere ciò che abbiamo già detto in rapporto ai ricordi nascosti. Come in quel caso, anche in questo ci sentiamo di filosofeggiare un poco - da fenomenologi che siamo. Dobbiamo stare il più possibile presso il testo stesso, l'essere del testo è ciò che nel testo appare. Anche questa è una chiosa fenomenologica. L'apparire si dice in due modi che sono contrari l'uno all'altro: qualcosa appare, ma così non è - e questo è l'apparire come parvenza; oppure: qualcosa appare nel senso che qualcosa si mostra, ed in quanto si mostra anche è. Questo secondo senso è quello fenomenologico, che sta natu­ ralmente nel senso della parola tedesca Erscheinung e nell'etimo greco della parola "fenomeno". 12. Lo studio delle parole riguarda anche la loro musica, e non solo quella musica che viene evocata dal loro significato, ma anche dal loro suono e dal movimento che va, nel verso, da una parola all'altra parola come una nota ad un'altra nota. Questa "musica", che del resto fa parte dell'idea stes­sa dell'opera poetica in quan­ to tale, assume in Pascoli una presenza che non ha eguali, è il cie­ lo che avvolge l'intero suo mondo poetico - il fascino del suo verseggiare ha in essa le sue radici più profonde. La produzione poetica di Pascoli è una produzione particolarmente difficile per la sua complessità, contrariamente all'immagine comunemente divulgata; ma una delle sue caratteristiche eminenti è che essa può essere colta unitariamente assumendo punti di vista diver­ si. Tra questi assume particolare importanza quello "musicale" che Alessandro Cazzato ha messo al centro del suo bel libro La musica delle parole. Giovanni Pascoli (36). "In tutta la migliore poesia pascoliana l'analogia - la corrispondenza - avvicina il mondo poetico alla sfera musicale; è infatti l'elemento sonoro, insito in tutte le cose, ad avere un rapporto privilegiato con la ricerca 313 poetica, per la sua immediatezza e spontaneità. Il simbolismo pascoliano ha dunque la sua matrice fondamentale nella rivalu­ tazione dell'elemento fonico del mondo che circonda il poeta, in cui tutto parla e diffonde la propria voce" (37). Per quanto riguarda il significato delle parole, questo aspet­ to lo abbiamo segnalato fin dall'inizio nel gioco dei ragazzi nel parco. Va da sé che per coglierlo ci basta rimanere sulla linea del testo poetico. Ciò vale anche per il significante, ovvero per il suono della parola, ma già con qualche differenza e qualche dif­ ficoltà in più. Il suono, per esserci, deve effettivamente risuona­ re. Anche qui è importante usare il verbo apparire nel suo senso fenomenologico. Potremmo dire che il suono può apparire solo se risuona: anche se poi musicisti e maestri di musica si fanno un vanto di poter "udire" e persino giudicare un brano musicale dalla sua partitura. Forse, almeno in parte, così può essere anche per la lettura tacita di una poesia. Forse. Ma per Pascoli questo forse si rafforza a tal punto da avvicinarsi ad una vera e propria negazione. Egli stesso lo dichiara apertamente: la mia poesia non solo deve essere letta ad alta voce, ma cantata. "Cerco sempre di intonare le mie liriche come s'elle dovessero essere cantate" - egli scrive una volta in una lettera (38). E fra i dati biografici certamente significativi sta il vivo desiderio di Pascoli di scrivere per il melodramma. Del resto il fanciullino di Pascoli è detto anche "musico". Tuttavia in questo legame, così profondamente sentito, della poesia con la musica non c'è soltanto lo stupore e la curiosità del fanciullo che tende l'orecchio ad ogni suono del mondo, c'è il ricordo della grande cultura greca, in esso rivive l'aoidós, colui che canta. Ed all'aedo è sempre associata la cetra con la quale egli si accompagna. Certamente, non è la parola singola che attrae per il suo suo­ no, ma è il modo in cui le parole si richiamano tra loro fonica­ mente, forse potremmo dire anche "melodicamente", e come nelle melodie cantate contano soprattutto le vocali, così la melodiosità del verso si gioca per lo più su di esse (39). Per esemplificare come 314 il suono della parola, giocato in particolare sulle vocali, aderisca al senso del verso - perché questo è il problema! - basteranno i tre versi di apertura di Alba festiva (Myricae): Che hanno le campane, che squillano vicine, che ronzano lontane? rammentando il bel commento che ad essi fa Gianfranca Lavez­ zi: "campane replica il suono in hanno, squillano, ronzano, lontane (quasi una imitazione del suono iterato dello scampanio). Il se­ condo verso si poggia sul suono acuto della I (squillano vicine), il terzo su quello più grave della O (ronzano lontane). Il suono vicino è squillante, quello lontano più attutito e indistinto, ma insistente, come un ronzio" (40). Peraltro in tutta questa poesia i richiami vocalici e sillabici si risentono ovunque. Tra verso e verso il richiamo più facile da udire è naturalmente la rima a cui Pascoli resta fortemente legato sicuramente per ragioni musicali. Ma vi sono impieghi particolarmente complessi tra le parole di un verso ed anche ed anche tra rima e rima. Un elemento sonoro importante è l'assonanza, talora indicata come "rima imperfet­ ta", che possiamo intendere in senso lato come affinità sonora - e questo la possiamo ritrovare sia all'interno del verso che tra rime differenti - quest'ultimo caso può essere esemplificato nel­ la poesia Nel parco: ma nella sezione a cui questa poesia appartie­ ne intitolata Alberi e fiori l'assonanza tra le rime si ritrova in misura minore o maggiore in tutti i dodici brani in cui essa consta. Rime, assonanze, allitterazioni rientrano nel campo della ri­ petizione. La ripetizione è importante nella musica. E nella poe­ sia. Il verseggiare di Pascoli ama la ripetizione. E la utilizza non solo in rapporto al suono, ma al senso complessivo del contesto in cui essa compare. Secondo i contesti, la parola ripetuta assume valenze poetiche differenti. Nella nostra poesia la parola "muto", non appena si presenta (v. 3), ha valore di un'anticipazione so­ 315 spesa creando un'attesa, come se essa fosse seguita da una pausa, e nella pausa vi è spazio per un inciso, cosicché quando, dopo quell'inciso, ritorna quella parola la sospensione "si risolve". Si è spontaneamente portati ad adottare termini tratti dalla teoria musicale. Un altro bellissimo esempio si trova in Orfano (Myricae) che vogliamo anzitutto riferire interamente: Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca Senti: una zana dondola pian piano. Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; canta una vecchia, il mento sulla mano. La vecchia canta: intorno al tuo lettino c'è rose e gigli, tutto un bel giardino. Nel bel giardino il bimbo s'addormenta. La neve fiocca lenta, lenta, lenta. A proposito del primo verso della breve poesia si può certo, passando precipitosamente dalla linea del testo alla linea stori­ co-letteraria, rammentare La nevicata di Carducci (Nuove Odi Bar­ bare)(41), che comincia così Lenta fiocca la neve pe'l cielo cinereo Può essere che consciamente o inconsciamente Pascoli si sia rammentato di questo inizio, ma come uno spunto che dà l'av­ vio ad un processo creativo che con la poesia carducciana non ha proprio nulla a che vedere. Intanto vi è in Pascoli quella ri­ petizione che subito ci attrae. Essa mostra quasi visivamente la nevicata, ha lo scopo di portare il lento e sonnolento andamento della neve sul piano della percezione. E la conclusione è tanto semplice quanto straordinaria: La neve fiocca lenta, lenta, lenta 316 Il motivo finale riprende, variato in modo quasi speculare, il mo­ tivo iniziale, la prima parola del primo verso viene ripresa e ripe­ tuta tre volte nell'ultimo verso, mentre l'ultima parola del primo verso, ripetuta tre volte, ricompare nel prima parte dell'ultimo verso. Viene così ribadito quello che è lo scenario del brano, l'at­ mosfera della poesia , in certo senso la sua "tonalità", come se nel primo verso la si enunciasse e nell'ultimo essa venisse ricor­ data e confermata quasi chiasticamente. La ripetizione e il chia­ smo, che è qualcosa di simile, nel linguaggio musicale, al moto retrogrado, rappresentano i mezzi espressivi essenziali di questi versi. Nelle ripetizioni del primo e dell'ultimo verso vi è l'evoca­ zione della monotonia di un movimento, sono parole, è proprio il caso di dirlo, dondolanti: del resto Pascoli lo dice nel secondo verso con una sfumatura che riguarda l'udito. Senti: una zana don do la pian pian o A A O O A O Tra il primo e l'ultimo verso, vi è una ninna nanna, c'è "un bimbo che piange" e una "vecchia che canta". Sarei inoltre propenso a considerare i due punti del secondo verso come un impedimento alla sinalefe. Ad essi deve seguire, nella lettura, una pausa. Cosic­ ché in questo verso si contravviene alla struttura endecasillabica. Ed una sinalefe salva la struttura endecasillabica del terzo verso: ed anche in questo verso la sinalefe, nella lettura, è impedita da una virgola: Il bimbo piange, il piccol dito in bocca Lo stesso accade per il quarto verso accoppiato in rima con il secondo 317 canta una vecchia, il mento sulla mano. Così anche per il quinto verso che si apre con il "retrogrado" dell'apertura del verso precedente: canta una vecchia…/la vecchia canta… Ciò che possiamo ignorare nell'analisi metrica, e di fatto nei commenti non ho potuto trovare sostegno a queste mie semplici osservazioni, non possiamo ignorarlo nella lettura ad alta voce, o comunque in una lettura mentale che tenga conto del valore ritmico della punteggiatura. Si potrà forse obbiettare che l'impie­ go della terminologia musicale è improprio e un po' forzato, ed io potrò persino convenirne, ma non rinuncerò invece a far no­ tare che in ogni caso il rispetto che apprendo dai commenti essere la forma poetica su cui sono modellati questi versi fa parte della famiglia degli strambotti e degli stornelli, e dunque di una fami­ glia di canzoni del repertorio popolare. 13. Come abbiamo detto poco fa, ciò che importa sono i richiami interni, le anticipazioni e le retroazioni delle parole: la "musica delle parole" è fatta di strutture relazionali. Esse vengono di fat­ to udite o possono essere in qualche modo essere avvertite in una lettura tacita, ma non c'è dubbio - io credo - che per evi­ denziarle e identificarle occorra molto spesso una lettura analiti­ ca, e che il lettore faccia bene a chiedere aiuto all'uomo di lettere. Tanto più ciò vale per l'aspetto metrico-ritmico. Anch'esso rap­ presenta un fattore di unità che riguarda la musica delle parole, ed anch'esso verrà colto e avvertito passivamente: in realtà anche in rapporto alla lettura della poesia si è tentati di servirci del tema fenomenologico della sintesi passiva. Nella fruizione poetica co­ gliamo questi aspetti sintetici, ma solo implicitamente. Per quanto riguarda l'esplicitazione della struttura metrico-ritmica l'ausilio 318 dell'analisi letteraria diventa indispensabile. Infatti, le domande che a questo proposito si possono sollevare chiamano in causa non soltanto la grande varietà possibile dei metri e dell'organiz­ zazione strofica dei versi sperimentata nella storia letteraria, ma richiedono che si colga la differenza tra un andamento (prima abbiamo parlato di movimento delle parole) che rispetta formalmen­ te il metro, ma che nello stesso tempo non è di esso prigioniero e lo supera con vari artifici. Scrive Alessandro Cazzato: "L'ana­ lisi-metrico ritmica non deve risolversi nella catalogazione delle forme metriche più frequenti: Pascoli rivela infatti una magistra­ le abilità nel valorizzare tutto il potenziale inespresso della me­ trica italiana, seguendo spesso soluzioni apparentemente antite­ tiche ma straordinariamente interessanti" (42). "La tendenza alla rottura interna del verso e della strofa con una sintassi spezzata, la ricchezza di incisi, sospensioni, ellissi, spostamenti di parole secondo il modello della lingua parlata (della lingua 'popolare'), l'uso ossessivo di relazioni sonore tra le parole, l'impiego osti­ nato di enjambements, la frequenza di onomatopee, a prima vista prive di significato, sono tutti elementi che concorrono all'af­ fermazione di una sfasatura tra ritmo metrico e ritmo sintattico. Alla fissità metrica corrisponde un'infinita gamma di tecniche compositivo-stilistiche capaci di creare una musicalità vera, di restituire agli oggetti poetici una realtà sonora autentica e rin­ novata, perché intrinsecamente unita da un profondo legame di significanza sonoro-concettuale" (43). Pascoli distingueva assai chiaramente due tipi di ritmi, che egli chiamava l'uno "ritmo proprio", l'altro "ritmo riflesso": "il ritmo riflesso è dato dalla scansione del verso formalmente intatto, e il ritmo proprio dalle articolazioni sintattiche non coincidenti con quelle metriche. La relativa autonomia dell'unità sintattica rispet­ to all'unità ritmica determina inoltre molto spesso la non coinci­ denza dell'accento prosodico con l'ictus, con effetti ulteriormente stranianti, talora addirittura devastanti, sulle inveterate abitudini percettive del lettore di fine Ottocento" (44). "La versificazione 319 di Pascoli si basa infatti su un frequentissimo sfasamento dell'u­ nità ritmica rispetto all'unità sintattica: pause interne non in ce­ sura né in sinalefe, così come enjambements spesso arditissimi (ad esempio fra articolo e sostantivo), finiscono quasi per vanificare, pur esteriormente rispettandola, la scansione metrica del tipo di verso di volta in volta prescelto" (45). Gianfranca Lavezzi parla di "originalità stupefacente nello scomporre e ricomporre i vari elementi della frase" ed anche di "vera e propria disgregazione della sintassi tradizionale" (46). Talora questa disgregazione della sintassi, che può essere intesa come tensione tra ritmo e metro, può rendere difficile la stessa comprensione del testo, ed anche quando il testo è afferrato occorre una lettura analitica per ren­ dere conto del risultato. Il fanciullino del resto non sa nemmeno che enjambement si usa chiamare una struttura in cui due parole strettamente connesse vengono disposte su due versi contigui e neppure sa che sinalefe è una fusione tra la vocale di una paro­ la e la vocale di una parola successiva, cosicché questo artificio fa tornare i conti del metro. Non sa che si parla di allitterazione quando la stessa consonante o la stessa sillaba vengono ripetute in parole vicine e "per estensione: ripetizione di suoni in qual­ siasi posizione, vicini tra loro quanto basta per essere avvertiti facilmente nella loro sequenza" (47). E non sa un'infinità di altre cose; e così non può dare suggerimenti al lettore che dovrà inve­ ce, con l'aiuto dell'uomo di lettere, percorrere uno dei segmenti che congiungono la linea del testo con la linea della storia lette­ raria. 14. Mi avvio ora a tirare un poco le fila di questi appunti sparsi. An­ zitutto va fatto un elogio dell'uomo di lettere. Giustamente egli viene detto "umanista". Degli umanisti egli è l'erede autentico. Di quegli umanisti che Carducci nel suo Quarto discorso sullo Svol­ gimento della letteratura nazionale dipinge così: "magri, sparuti, con 320 lo sguardo fisso, con l'aria trasognata", mentre salgono affannosi "le scale ruinate di qualche abbazia" e ne scendono "raggianti con un codice sotto il braccio" (48). Da questo amore per la ri­ scoperta dell'antico trae nutrimento l'amore appassionato per le lettere in genere, che esso già presuppone. Fin dall'inizio di que­ sti miei appunti ho definito inestimabile questo studio, e confer­ mo questo aggettivo ora che mi avvio ad una conclusione. Lo confermo in realtà anche per non essere frainteso e per sentirmi più libero di manifestare quei dubbi che sono qui e là affiorati, non già sull'analisi letteraria come tale, ma sulla domanda che chiede come leggere i poeti che si è imposta nelle mie letture pascoliane. Nel loro corso ha preso forma, tra molte altre cose, anche questo interrogativo di carattere generale - e certamente di ar­ dua risposta: che io ho affidato soprattutto ad uno schema. Con questo schema, associato a pochi esempi tratti da Pascoli, dalle sue poesie e dalla sua filosofia del fanciullino, ho già preso po­ sizione. Ho detto che, per ciò che riguarda la lettura, le tre linee parallele si debbono infine ridurre ad una. Quella centrale - e sulle altre è necessario esercitare una chiara "messa in parentesi": in questo aderendo alla posizione di Pascoli. "Non c'è poesia che la poesia". Questa presa di posizione ha bisogno tuttavia di qualche spiegazione in più. Vorrei anzitutto fare un riferimento a Giuseppe Nava, a cui va la gratitudine di tutti i lettori di Pascoli, e precisamente a ciò che egli dice proprio in apertura della sua introduzione al commento di Myricae, dove io credo ci sia almeno l'ombra del dubbio che questa messa in parentesi possa avere una qualche giustificazione. Forse - egli dice - non è lecito commentare quest'ope­ ra, un simile commento può apparire "una operazione di lusso" poiché "l'atto stesso del commento potrebbe configurarsi come un vero e proprio attentato alla 'liricità' del volumetto". Questo 321 incipit di un grande commento continua così : "Il lettore di gusto, sempre un po' sospettoso nei confronti della filologia, potrebbe rimproverare al commentatore di appesantire e quasi sommer­ gere l'esile libretto con una folla di note, che si sovrapporrebbe­ ro al testo e finirebbe con lo sviare l'attenzione dalla 'sostanza poetica'"(49). Naturalmente da Nava quest'ombra di dubbio viene subito cancellata, facendo notare che sorge da subito, non appena ci si accinge alla lettura, la necessità di chiarire problemi esegetici che riguardano i vari livelli che essa richiama e che io ho cercato di esemplificare con il mio schema "geometrico". Nava rammenta poi sinteticamente i termini di un dibattito molto ampio quando osserva che "l'accertamento dei rapporti che intercorrono tra i temi dominanti e i topoi della tradizione, possono servire a delimitare i confini interpretativi, a ridurre i margini d'una lettura sensibilistica, senza per questo costringere il testo in un'interpretazione univoca, incongrua con la dimen­ sione poetica e con l'ambito culturale in cui si sviluppa la poesia del Pascoli…". Si tratta dunque di "contribuire a illuminare il campo di for­ ze che ha concorso alla genesi della poesia", di "escludere inter­ pretazioni suggestive, ma storicamente estranee all'in­tenzionalità del poeta", di "distinguere la soggettività di lettura puramente arbitraria da quella motivata da un progetto culturale o creativo", contribuendo a "restituire dell'opera una fisionomia storicamen­ te più attendibile per il lettore interessato alla ricostruzione d'un gusto e d'una poetica" ed "a capire ed ordinare le forme poetiche come momenti di una storia letteraria, che fa parte d'una più generale storia della cultura" (50). Tutto ciò può essere fatto confluire nella parola chiave della "storicizzazione" - di una storicizzazione che non solo è com­ patibile, ma che confluisce in modo coerente con istanze di ori­ gine strutturalistica. 322 15. Qualche parola va anzitutto detta approfittando dell'accenno, evidentemente non benevolo, a quella sospettosità nei confronti della filologia che Giuseppe Nava attribuisce al "lettore di gusto" in via di principio: almeno nel caso di Pascoli, a me sembra che questa ipotetica sospettosità avrebbe qualche ragione dalla pro­ pria parte se questo grande poeta ha dovuto attendere almeno quarant'anni, prima di essere realmente riconosciuto come tale dalla critica letteraria, beninteso con qualche meritoria eccezio­ ne. Ma che dico? Quaranta anni? Cento anni! Ancora nel 2012, esattamente cento anni dopo la morte di Giovanni Pascoli, si possono leggere testi che contengono frasi che non hanno nulla da invidiare alla seguente citazione di San­ guineti, che del resto risale al 1969: la poesia pascoliana è "una fabbricazione sadica di macchinette liriche per lacrime, ad usum infantis, ma tutt'altro che inefficace sui maggiori, pazientemen­ te manipolata sull'occasione della tragedia familiare del poeta di Barga". Traggo questa citazione dal testo di Simonetta Bartolini che commenta: "Pietra tombale su qualsiasi altra interpretazione della poesia del poeta di Barga" (51). Aggiungo: oltre ad avere il carattere di una miserabile volgarità. Di frasi come queste, anche se non altrettanto miserabili, si potrebbe fare un amplissimo florilegio traendole dalla critica letteraria pascoliana a partire da Benedetto Croce in poi. Ma non valgono il ricordo. Più importante, io credo, è attirare l'attenzione sul fatto che le parole di Giuseppe Nava possono essere sottoscritte solo qua­ lora si diventi consapevoli del fatto che la "storicizzazione" non può avvenire ai danni dell'opera poetica e nemmeno può ridursi ad un apprezzamento "culturale" che metta in non cale la poesia in quanto è soltanto poesia. A questa consapevolezza deve poi aggiungersi quella del problema molto serio che il "lettore di gusto" qui evocato solleva e che è semplicemente un altro proble­ 323 ma. Esso, a mio avviso, non riguarda per nulla la rivendicazione di un'interpretazione "sensibilistica" o che si lascia trasportare dall'arbitrio soggettivo e nemmeno riguarda "il mito romantico dell'assoluta originalità del poeta". 16. Quest'altro problema consiste nel fatto che nella lettura dei poe­ ti dobbiamo preservare almeno due cose: l'unità della creazione poetica e il piano dell'immaginario nel quale essa si situa. Ora, non c'è dubbio, anche dai nostri esigui esempi, che considerazioni che si aggirano tra la linea sovrastante e quella sottostante rischiano anzitutto di frantumare quell'unità - que­ sto è inevitabile. Prima ho parlato di sguardo che si volge altrove. Questo altrove è un materiale assai vario e variopinto, sono fram­ menti di notizie, informazioni, riferimenti e richiami linguistici e letterari, dati biografici di ogni specie che riguardano l'autore, ma non solo lui - la madre, il padre, la sorella, gli amici, altri commentatori… - e questi frammenti si inseriscono tra una pa­ rola e l'altra del verso, frantumando l'unità del verso e dell'opera poetica nel suo insieme. Si pensi anche soltanto all'importanza delle fonti. Si tratta di una importanza che lo stesso Pascoli difende vivacemente de­ dicando varie pagine nel suo scritto su Manzoni alla "notte degli imbrogli e dei sotterfugi" (52) dando la massima importanza agli antecedenti che egli ritiene di poter ritrovare nell'Eneide virgilia­ na. Il titolo stesso del saggio "Eco di una notte mitica" rappre­ senta una sottolineatura di questi richiami, consapevoli o incon­ sapevoli che fossero: "La notte degli imbrogli e dei sotterfugi è l' ultima notte di Ilio trasformata in modo che nessuno, nemmeno Manzoni, sospetterebbe la strana trasformazione" (53). E non mancano in proposito prese di posizione di ordine generale. Un conto sono le imitazioni, un altro le fonti. "Già tra l'imitazione e le fonti spesso noi confondiamo; e scoprendo fonti di qualche 324 opera d'arte, noi diciamo o intendiamo o facciamo involontaria­ mente credere d'aver tolto qualche fronda alla corona di lauro dell'artista" (54). Il poeta non crea in senso stretto e proprio: perché la creazione è creazione dal nulla, e dal nulla non v'è uomo, nemmeno il poeta, che possa trarre qualcosa. I richiami alla tradizione letteraria sono per Pascoli più che legittimi, e del resto tutta la sua opera è straricca di questi ri­ chiami: che sono trasfigurati assumendo un'impronta pascoliana inconfondibile. La stessa riconduzione della notte degli imbrogli all'ultima notte di Troia a ben vedere è una fantasia nella fanta­ sia, come viene giustamente notato da Nava quando parla della prodigiosa memoria poetica di Pascoli "che lo portava a ripla­ smare tutto il materiale che gli veniva fornito da una lettura di tipo immaginativo anziché critico" (55). Ciò viene del resto confermato da Pascoli stesso quando dice a chiare lettere di non voler fare ipotesi e cercare di do­ cumentarle con verifiche fattuali ma piuttosto, segnalando una fonte, si cerca di gettare uno sguardo sui misteriosi processi che orientano la creazione poetica. La questione delle fonti pone poi un altro problema. Si è molto insistito sulle ascendenze di Pascoli da Leopardi, e non ci si lascia certo scappare qualunque cosa assomigli ad un ricordo leopardiano, l'occorrenza della stessa parola o di una parola o situazione affine. Cosicché il fantasma di Leopardi si ripresenta di continuo nei commenti. Si tratta di riferimenti culturalmente del tutto giustificati, ma che non possono in via di principio essere trasferiti nell'atto della lettura. Non possiamo leggere Pascoli e nello stesso tempo pensare a Leopardi: sarebbe una forma di strabismo assai dif­ ficile da adottare; per non dire che non ci basterebbero i cento occhi di Argo per mantenere lo sguardo sui più di mille altri fan­ tasmi che, nel caso di un poeta così culturalmente ricco come è Pascoli, potrebbero rivendicare la loro presenza influente. 325 17. Altrettanto importante è la ricerca e la segnalazione delle occor­ renze di una parola, di un sintagma, di un artificio metrico pecu­ liare ecc., soprattutto quando questa ricerca si svolge all'interno delle opere di uno stesso autore. Qui è soprattutto in questione, evidentemente, l'idea dello stile, e la ricerca è orientata verso la ri­ costruzione di una unità che oltrepassa la poesia singola ma alla quale la poesia singola appartiene. Quando la ricerca è invece a tutto campo vi sono casi di interesse molto differente. Il rischio è quello di considerazioni disintegranti. Una parola in un verso è integrata con altre parole nell'unità del verso. Nella poesia Nel parco troviamo il verbo formicolare: Torvo, aggrondato, il candido palazzo formicolare ai piedi suoi li mira; e sì n'echeggia un cupo, a quel rombazzo, battito d'ira; Potremmo segnalare come un caso di occorrenza la presenza di questo stesso verbo in una frase dei Promessi Sposi, cap. IV: "gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso". Mi sembra chiaro che in questa eventuale segnalazione la parola viene isolata e disintegrata dal contesto mentre per il suo senso e per la sua valenza immaginativa spesso il contesto è tutto. Senza contare la cancellazione rovinosa dell'immagine. For­ micolare in fin dei conti è già una parola che appartiene al linguag­ gio corrente, e viene impiegata di solito in rapporto ad un luogo in cui vi sono molte persone che vanno e vengono senza un par­ ticolare ordine, di qui e di là. Già essa peraltro contiene un'im­ magine in quanto, nella sua formazione, vi è la valorizzazione del modo in cui si comportano le formiche, valorizzazione che peraltro non viene evidenziata nel suo uso comune. Nell'esem­ 326 pio manzoniano del termine ed in altri esempi che si possono trarre da Manzoni ("le anticamere, il cortile e la strada formico­ lavan di servitori"), ci si discosta ben poco dall'uso corrente del termine e l'immagine viene lasciata inoperosa. E spenta. Sempre di molte persone si tratta e di luoghi in cui esse formicolano. Del tutto diversamente stanno le cose nel contesto dei versi pascoliani. In essi quel verbo non ha a che fare con molte persone che vanno e vengono. Proprio per nulla: la piega immaginativa del verbo non viene esaltata rispetto ai ragazzi che giocano, ma rispetto al palazzo che li guarda e che, come è logico, li guarda dall'alto come un gigante, e dunque li vede come formiche. Ai suoi piedi. È veramente stu­ pefacente il modo in cui le immagini qui scivolino l'una nell'altra - e che l'efficacia dell'immagine venga messa in risalto proprio richiamando il modo in cui noi vediamo le formiche ai nostri piedi. Non meno interessante è che la stessa parola compaia ne Il giorno dei morti (Myricae) vv. 44-45 in un contesto del tutto diverso e in tutt'altro senso: o miei fratelli! nella notte oscura, quando il silenzio v'opprimeva, e vana l'ombra formicolava di paura… Quale distanza rispetto sia all'uso corrente, sia all'uso pascoliano che abbiamo illustrato or ora! Il formicolio ha nel senso usua­ le anche una seconda accezione che richiama ancora un den­ so andirivieni di formiche, percepite non già in un luogo, ma sul nostro corpo - e dunque tattilmente, un brulichio che ci tormenta a fior di pelle o sotto la pelle. Ma qui è la paura che formicola nell'ombra - l'ombra in cui non c'è nulla è invece mo­ vimentata da vibrazioni che incutono paura: ed anche in questo caso il verbo si lega immaginativamente al contesto. In rappor­ to a questo formicolare di paura è difficile contentarsi di una spiegazione dell'immagine che la dissolve: ad esempio vedendo 327 in essa soltanto la paura proiettata nell'ombra dai fratellini che stentano a prendere sonno e che vengono rassicurati dalle pa­ role della sorella. In quel verso si avverte il brivido della morte, la cui presenza è dappertutto, nella notte oscura dove vagano solo ombre che sono anch'esse in questo brivido e persino nelle braccia incrociate sul petto dei fratellini che si addormentano rasserenati dalle parole della sorella morta: le immagini scorrono l'una nell'altra, nella piega immaginativa dell'una c'è la piega im­ maginativa dell'altra. 18. Con ciò perveniamo soprattutto al secondo punto che ci preme mettere in rilievo. Una lettura che vada zigzagando sulle tre rette parallele contiene il rischio di sopprimere l'immagine piuttosto che preservarla. La stessa corretta riconduzione dell'immagine sotto una tipologia retorica, in se stessa tutt'altro che priva di interesse sotto vari riguardi, rappresenta una sorta di dissoluzione dell'immagine nella forma: anziché attrarre l'attenzione sul contenuto e quindi sulle direzioni sintetiche interne alla valorizzazione im­ maginativa, la distoglie verso il metodo della costruzione: quest'o­pe­ra­ zione dice come è fatta l'immagine, non ci fa penetrare in essa e l'opera poetica viene proposta come un assemblaggio di metodi ben noti, accuratamente classificati con il loro nome e cognome. I modi di sopprimere il piano dell'immaginario sono del resto molto vari, ed anch'essi, in fin dei conti, meriterebbero di essere in qualche modo tipicizzati e classificati. Ad esempio, nel caso di un autore in cui i riferimenti biografici sono così presen­ ti, si può porre l'accento su di essi in modo da ricondurre la loro presenza non alla modalità in cui essi sono proposti nella poesia, ma alle vicende piccole o grandi della loro vita reale. Lo abbiamo in realtà già detto, e qui lo ripetiamo solo con altre parole: il pa­ drone del palazzo è tanto immaginario quanto lo è il palazzo ag­ grondato - mentre si può arrivare ad almanaccare che siccome 328 "il tordo zirla" soprattutto all'inizio dell'autunno, che è l'epoca della caccia, quel signore è sicuramente andato a caccia. Anche questa è una chiosa che si trova nei commenti. Allora io esigo che mi si risponda alla domanda: che ne sarà mai della chiomata signora, a caccia anche lei? E il gatto dov'era? (Amico mio, lo abbiamo già suggerito; il gatto era andato in un proverbio e là era rimasto. Quando il gatto non c'è, i topi ballano. L'immagine contenuta nel proverbio si proietta sul gioco dei bimbi, e per questo abbiamo potuto parlare di esso come di una danza). In queste domande indubbiamente provocatorie, ma sug­ gerite da una chiosa, lo spostamento dei piani e il misconosci­ mento dell'eterogeneità dell'immaginazione è radicale e sconcer­ tante. Invece questa eterogeneità va duramente mantenuta, essa è essenziale proprio per restare all'interno della "sostanza poeti­ ca" dei versi. Perciò noi arriveremmo a dire: se vuoi penetrare in questa sostanza, dimenticati di Mariù, della sorella reale… per te, lettore, essa vive, e vive ancora, nel sentimento, che non è nem­ meno il sentimento di Giovanni Pascoli, ma è quel "sentimento" che si manifesta solo ed esclusivamente nella tenerezza dei versi in cui quel nome compare. E non diresti questo per la Silvia di Giacomo Leopardi? 19. A proposito di Leopardi: è diventato famoso il rimbrotto di Pa­ scoli a Leopardi intorno alla donzelletta che vien dalla campagna con il suo mazzolin di rose e viole: "Rose e viole nello stesso mazzolino campestre d'una villanella, mi pare che il Leopardi non li abbia potute vedere. A questa, viole di Marzo, a quella, rose di Maggio, sì, poteva; ma di aver già vedute le une in mano alla donzelletta, ora che vedeva le altre, il Poeta non doveva qui ricordarsi" (56). Tuttavia, in coerenza con il discorso che stia­ mo facendo, dovremmo forse fare noi un rimbrotto a Pasco­ li: la donzelletta Leopardi non può averla vista, ma può averla 329 fantasizzata così: con il mazzolin di rose e viole. Ho scritto una volta: nell'immaginario non si possono commettere errori (57). Ma ho an­ che introdotto una distinzione tra immaginazione come fantasia (immaginazione fantastica) e immaginazione come produttiva di immagini (immaginazione immaginosa). Ed alla luce di questa distinzione l'osservazione di Pascoli può essere difesa: infatti nel verso di Leopardi rose e viole non fanno parte di un'immagine. Dunque si può dire che esse sono effettivamente solo rose e vio­ le. In questo caso si possono commettere errori. Mentre una rosa può nascere anche sulla neve, se essa sta dentro una rete di immagini. 20. In realtà, vi sono anche modi particolarmente sottili di soppri­ mere o comunque di indebolire il piano dell'immaginario. In Myricae, nella poesia Mare vi è questo verso: Sul mare è apparso un bel ponte d'argento. Credo che si debba notare intanto che qui non si dice che qual­ cosa sul mare pare un ponte d'argento, ma si parla dell'apparire come di un mostrarsi. Questa immagine è certamente suggerita da un fatto percettivo: la striscia di luce di colore argenteo che il sole produce poco prima dell'arrossamento del tramonto. Ma se noi diciamo che questo verso dà espressione ad un'illusione ottica, allora l'immagine è tolta: resta soltanto l'illusione ottica, che non a caso si chiama così. L'illusione ottica si muove tra questi due poli, prima ci appare e poi ci rendiamo conto della sua illusorietà: così appare ma così non è. Se non ce ne rendiamo conto non possiamo parlare di illusione. Quando invece il piano della semplice percezione è entrato in un processo di valorizzazione immaginativa, vengono effettuate sintesi immaginative. Ed una volta effettuate, queste stesse sintesi hanno operato una transizione al 330 piano dell'immaginazione che è senza ritorno. Nell'immaginario non ci sono illusioni ottiche. Il ponte d'argento è un ponte d'ar­ gento. Perché appare. Certo, in questa copula è neutralizzata ogni autentica posizione d'essere. E va anche detto che la valoriz­ zazione immaginativa non solo non retrocede al piano dell'essere, ma piuttosto procede ed avanza essa stessa e si muove verso nuove immagini possibili. Per questo possiamo parlare di una nozione di simbolo strettamente legata al tema del valore immaginativo. In rapporto a questa nozione non si può in via di principio operare una netta distinzione tra simbolizzante e il simbolizzato, poiché il simbolizzante ha a sua volta delle pieghe immaginative che puntano in diverse direzioni. Quando si parla di allusività del sim­ bolo, a mio avviso, si intende in realtà proprio questa apertura ad altro che a sua volta deve manifestarsi. La nostra insistenza sulla necessità di leggere nel testo ciò che nel testo appare, e non qual­ cosa che sta fuori di esso, vale anche per le inclinazioni simboli­ che che debbono annunciarsi all'interno del testo e lo possono fare in molti modi. L'immagine del ponte d'argento è subito resa esplicita e lo è - non già come illusione ottica - ma come ap­ parizione misteriosa, apparizione che è misteriosa perché evoca una mèta: tuttavia questa rimane indeterminata, cosicché viene rafforzato retroattivamente il carattere simbolico-immagi­nativo del ponte d'argento. La poesia si chiude, aprendosi ad altro, con un punto interrogativo: Ponte gettato sui laghi sereni, per chi dunque sei fatto e dove meni? 21. In rapporto alla breve poesia Il lampo, Giuseppe Nava sottolinea che essa fu concepita "come metafora degli ultimi momenti del padre agonizzante" e la prova di ciò è indicata nel passo seguen­ te della Prefazione inedita di Myricae: "I pensieri che tu, o padre 331 mio benedetto, facesti in quel momento, in quel batter d'ala - il momento fu rapido…ma i pensieri non furono brevi e pochi. Quale intensità di passione! Come un lampo in una notte buia: dura un attimo e ti rivela tutto un cielo pezzato, lastricato, squar­ ciato, affannato, tragico; una terra irta piena d'alberi neri che si inchinano e si svincolano, e case e croci". Ciò basta naturalmente per giustificare una stretta relazione tra questo passo e la poesia. E cielo e terra si mostrò qual era: la terra ansante, livida, in sussulto; il cielo ingombro, tragico, disfatto: bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d'un tratto; come un occhio, che, largo, esterrefatto, s'aprì si chiuse, nella notte nera. Ma quale relazione? Che nella similitudine tra la casa che "apparì sparì d'un tratto" e "l'occhio, che, largo, esterrefatto, / s'aprì si chiuse, nella notte nera" venga simbolizzato l'ultimo sguardo del padre morente, questa poesia non lo dice proprio né direttamente né allusivamente. D'altra parte il passo citato mostra chiaramen­ te che Pascoli nel comporre la poesia pensava all'ultimo istan­ te di vita di suo padre. Questa circostanza deve tuttavia essere considerata come un dato di fatto psicologico-biografico, e dunque, come tutti i dati di fatto di questo genere, deve essere "messo tra parentesi". Del resto lo stesso Nava riferisce il passo pascoliano alla concezione della poesia, quindi al processo psicologico della sua creazione, e non alla poesia stessa. "Vuoi dire con questo che qui non c'è simbolizzazione, ma solo pittura impressionista di un lampo nella notte?" - No: non voglio dire questo. La simbolizzazione c'è. E c'è nel senso che l'immagine conclusiva dell'occhio si innesta in un contesto for­ temente caratterizzato dall'ansimare della terra e dalla sua livida 332 apparenza, dalla tragicità del cielo, dalla notte nera. Con queste caratterizzazioni si resta ancorati al piano dell'immaginario, ed esse confluiscono l'una nell'altra richiamandosi a vicenda e con­ vergendo infine nell'immagine conclusiva. Cosicché l'"occhio che, largo, esterreffatto, / s'aprì, si chiuse, nella notte nera" può certamente a sua volta apparire come una cupa allusione all'ultimo sguardo di un morente; ma è obbligatorio aggiungere: o ad altre situazioni interne a quella rete di immagini. La tensione che ci spinge oltre la lettera della poesia è tuttavia ancora all'interno delle va­ lorizzazioni delle immagini che essa propone. Tant'è che quella cupa allusione è stata da altri colta indipendentemente da quella prova documentale. Giustamente dunque Giuseppe Nava, dopo aver richiamato l'attenzione, con qualche rischio, sullo sguardo paterno, si limita poi ad osservare che "L'analogia casa - occhio che associa il biancheggiare della casa intravista alla luce del lam­ po, al biancore di un occhio aperto e subito richiuso, è una delle più intense del Pascoli e richiama indirettamente l'ultimo sguardo di un moribondo" (51). 22. Credo a questo punto di aver sia pure solo affastellato qualche argomento e qualche esempio a difesa dell'antistoricismo di Giovanni Pascoli, aprendo tuttavia degli interrogativi che van­ no un poco oltre questo riferimento letterario e che interessa­ no questioni che si possono sollevare sulla lettura dei poeti in genere. Ciò che mi preme sostenere è la necessità di separare quella che è la problematica storica - sia essa storico-lette­raria o storico-biografica - dalla problematica di una lettura punta­ ta sulla "sostanza poetica", secondo l'espressione impiegata da Giuseppe Nava che coincide poi con il "sentimento poetico" di cui parla Giovanni Pascoli. In questa separazione è implicito che il lettore deve preoccuparsi di preservare l'unità della creazione poetica e il piano dell'immaginario nel quale essa situa. Non già 333 che questo compito non sia proprio anche dell'analisi e della critica letteraria - è anzi fortemente auspicabile che lo sia, ed in moltissimi casi lo è - ma non è, a quanto pare e a quanto essa stessa per lo più vuole, il suo compito primario. La parola analisi sembra esigere la frantumazione. E questi frantumi chiunque si accinga a leggere i poeti farebbe comunque bene a conoscerli nella misura più ampia. 334 Note 1. Lo puoi trovare all'indirizzo internet http://chroniquesitalien­ nes. Univ-paris3.fr/numeros/Web19.html. 2. "Abbiamo ritrovato in lui un sincretismo e come una sinergia del­ la componente romantica e della componente classica, tale che la presenza dell'una condiziona vitalmente la presenza dell'altra. Ora, che è questa descrizione se non la definizione che di romantico e di classico come termini antitetici e fusi nella superiore sintesi dell'ar­ te è scolpita sul frontone dell'Estetica crociana? E allora vedete: se Croce giudica Pascoli secondo una poetica che non gli è pertinente, e se quindi la poetica crociana non è affatto idonea a dare ragione di Pascoli, è un caso spiritosamente istruttivo che, quasi per una sorta di automatico risarcimento e vendetta, la sua estetica sia tuttavia la più capace di riconoscere e giustificare la posizione conoscitiva di questo autore". G. Contini, Conferenza tenuta a San Mauro il 18 dicembre 1955. Mondadori editore, Milano 1974, p. 27. 3. Krisis, Husserliana, VI, p. 176. 4. Tutte le citazioni da Il fanciullino sono tratte da Miei pensieri di varia umanità, Muglia editore, Messina 1903. 5. ivi, p. 14-15. 6. ivi, p. 16. 7. ivi, p. 5. 8. ivi, p. 12. 9. ivi, p. 17. 10. ivi, p. 18. 11. ivi, p. 21. 335 12. ivi, p. 24. 13. Il sabato, in Miei pensieri di varia umanità, op. cit., p. 69. 14. Il fanciullino, p. 11. 15. ivi, p. 26. 16. ivi, pp. 34-35. 17. Il sabato, op. cit. p. 69. 18. Il fanciullino, pp. 35-36. 19. ivi, p. 40. 20. ivi, p. 42. 21. ivi, p. 41. 22. ivi, p. 43. 23. ivi, p. 41. 24. ivi. 25. ivi, p. 42. 26. Idee per una fenomenologia pura, I, § 49, trad. it. di V. Costa con intro­ duzione di E. Franzini, Einaudi, Torino 2002, p. 119. 27. Edizioni Polistampa, Firenze 2013. 28. ivi, p. 9. 29. ivi, p. 13. 336 30. Il fanciullino, p. 10, n. 1. 31. ivi, p. 43. 32. Palomar, Bari 1997. 33. ivi, p. 149. 34. ivi, p. 163. 35. Reperibile in internet all'indirizzo https://archive.org/details/ vocabolarioetim00piangoog oppure direttamente consultabile in rete all'in­di­rizzo http://www.etimo.it/ 36. Florestano Edizioni, Bari 2011. 37. ivi, p. 83. 38. Traggo questa citazione dall'edizione dei Canti di Castelvecchio cu­ rata da G. Nava, Rizzoli, Milano 1983, p. 261. 39. Questo problema ha una sua storia a cui accenna Giuseppe Nava nella sua introduzione a MY Salerno Editrice, Roma 1991, p. XXXI, dove trovi belle citazioni dal Canocchiale Aristotelico di Emanuele Te­ sauro (1653). 40. Myricae, commentate da G. Lavezzi, Rizzoli, Milano 2015, p. 22. 41. Zanichelli, Bologna 1886 (II ed.), p. 109. 42. op. cit. p. 68. 43. ivi, p. 75-76. 44. S. Giovanardi, Myricae di Giovanni Pascoli, Einaudi, Torino 1995, p. 26. 337 45. ivi. 46. op. cit., p. 22. 47. G. Bertone, Breve dizionario di metrica italiana, Einaudi, Torino 1999, p. 11. 48. G. Carducci, Dello svolgimento della letteratura nazionale, in Storia d'Italia, vol. III, Einaudi, Torino 1982, p. 74. 49. op. cit. p. XV. 50. ivi, pp. XVI- XVII. 51. op. cit., p. 13. 52. Miei pensieri di varia umanità, op. cit., pp. 171 sgg. 53. ivi, p. 178. 54. ivi, p. 174. 55. Myricae, op. cit., p. XXII. 56. Miei pensieri di varia umanità, op. cit., p. 69. 57. Elementi di una dottrina dell'esperienza, in Archivio Internet, p. 150. 58. Myricae, op. cit., p. 236. Giovanni Piana Opere complete Volume sesto Filosofia della musica 2013 4 ISBN 978-1-291-26293-3 Copyright Giovanni Piana Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Uniform Resource Identifier Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT 5 Giovanni Piana Filosofia della musica 1991 6 In copertina: Figure di bronzo africane Questo volume è stato pubblicato dall'Editore Angelo Guerini e Associati nel 1991. Frammento di cratere - Magna Grecia, IV sec. a.C. 7 Indice Introduzione (p. 9) 1. Breve riflessione sulla musica del secolo scorso - 2. Prospetti­ va semiologica e filosofia empiristica dell'espe­rien­za - 3. Musica e linguaggio - 4. Abitudini uditive e sentimento della tonalità. Primi sviluppi critici - 5. Digressione sulla musica degli altri. Le ultime parole di Curt Sachs - 6. Ripresa delle considerazioni critiche. Inconsistenza degli argomenti convenzionalisti. Elogio dei precon­cetti - 7. Tempo, senso e struttura. Il passo indietro da cui una fi­losofia della musica può avere inizio. Tematica della possibilità e della scelta. Fenomenologia e dialettica dell'espres­ sione - 8. Nuo­va riflessione sulla musica novecentesca. L'espe­ rienza del suono. Capitolo primo (p. 73) Materia I due aspetti del silenzio - 2. La voce in eco - 3. I suoni sen­za mondo - 4. Suoni e segnali - 5. La cosa sonora - 6. Origi­ne della voce - 7. Il suono nell'immaginazione mi­tica - 8. La musica e il suo significato perduto - 9. Rumori e suoni - 10. Masse sonore, suoni-oggetti e suoni inoggettivi - 11. Tim­bro - 12. La macchi­ na sonora. Capitolo secondo (p. 141) Tempo La musica, il tempo e i vissuti - 2. Nozioni della durata. Il suo­ no come fenomeno di evenienza - 3. La forma del trascorrere e le dinamiche dell'articolazione materiale - 4. Ritmo - 5. Cen­ni sulla storia della parola - 6. Teoria del suono-evento - Scandire 8 il tempo - 8. Temporalità del flusso e temporalità del cammino - 9. Schema - 10. Schematizzazione temporale e for­ma dell'ac­ cadere - 11. Il ritmo sta tra lo schema e l'evento. Capitolo terzo (p. 201) Spazio I suoni che cantano - 2. Suoni giusti e suoni sbagliati - 3. L'uni­ tà del suono-processo: lo spazio sonoro - 4. Sue caratte­ristiche notevoli: progressività e chiusura - 5. Ciclicità - 6. Te­matica dell'alterazione. La differenza tra il grande e il piccolo intervallo. Continuità e discontinuità. Cromatismo - 7. Avviamento di uno studio filosofico sulla consonanza e sulla dissonanza - Le inde­ terminatezze della sensibilità e il problema della giustifi­cazione uditiva di questa distinzione - 9. Somiglianza e dissimi­glianza tra suoni - 10. Interpre­tazione della con­sonanza e della dissonanza come caratteristica strutturale dello spazio sonoro - 11. Consi­ derazioni conclusive - 12. La questione di una teoria generale della musica. Capitolo quarto (p. 287) Simbolo 1. La musica basta a se stessa - 2. Dubbi se ciò sia vero - 3. La musica e la forma del sentimento - 4. La musica e l'ineffabile - 5. Nuovo avviamento del problema: la scoperta ontologica che sta all'origine della musica. La musica ha molte origini - 6. Senso e direzione imma­ginativa - 7. L'immaginazione musicale e il piacere della struttura sensibile. La musica consta di suoni ri­ sonanti - 8. La musica è un serbatoio di immagini inesplose - 9. L'imma­ginazione musicale e la memoria del mondo. 9 Introduzione 10 11 §1 Non possiamo fare a meno di notarlo: la musica del nostro se­ colo che così spesso ha meritato e vantato, secondo le più va­rie formula­zioni e accentuazioni, soprattutto il suo essere nuova è ormai diven­tata, nell'ineluttabilità del tempo che passa, la mu­sica di un secolo che ora volge al suo termine. Fra non più di una decina d'anni avre­mo tutti i diritti di rivolgerci ad essa con quel senso di passato che viene realmente avvertito forse soltan­to quando possiamo parlare rife­rendoci al secolo scorso, per quan­ to un simile schema temporale possa essere ritenuto arbi­trario e irrilevante. Ma richiamare l'attenzione su questa circostanza non vuole af­fatto essere la premessa, peraltro inconsistente, per un discor­ so sull'invecchiamento, ma al contrario per fissare questa novità come una delle caratteristiche interne della musica no­ve­centesca. Di essa è del resto possibile fornire un'inter­preta­zione che ha ben poco a che vedere con la dimensione pu­ramente temporale, con l'avvicendarsi del vecchio al nuovo. Gettiamo dunque uno sguardo d'insieme, già installati nel se­ colo appena futuro, alla musica del secolo XX. E allora avremmo forse ragione di notare: al di là della grande complessità intrinseca delle vie intraprese, della differenza dei progetti e dei pensieri che stanno alla loro base, vi sono certamente tratti comuni che in qual­ che mo­do sono in grado di tipicizzare la vicenda musicale nove­ centesca, ed a questo proposito proprio il parlare di novità coglie nel segno. Tuttavia occorre subito precisare: parlando di novità co­me una caratteristica della musica novecentesca, non vogliamo sem­ plicemente ribadire ciò che essa ha continuato a dire ed a ridire di se stes­sa, ma vogliamo piuttosto - e qui naturalmente i termini e il senso del problema mutano profondamente - cogliere un atteggiamento verso il nuovo come un atteg­giamento pecu­liare, che 12 caratterizza la musicalità novecentesca, il modo d'essere del Nove­ cento nella musi­ca e per la musica. Certo, siamo consapevoli di come sia arrischiata già la stessa pretesa di rintracciare qualcosa di simile a dei tratti caratteristici e come si possa, nel tentare di soddisfare questa pretesa, pervenire a formulazioni che possono apparire astratte e ben poco signi­ ficative. Eppure abbiamo la sensazione che, anno­verando tra essi l'atteggiamento verso il nuovo, non si abbia a che fare con una vuo­ta genera­lità, ma con uno dei punti di vista che possono es­ sere utilmente as­sunti per vedere da una diversa ango­la­tura cose mille volte già viste, cominciando a scorgere problemi ricchi di senso e difficoltà inavver­tite. Intanto dobbiamo essere in grado di afferrare tutto ciò che si chiama realmente in causa chiamando in causa il nuovo - è nuovo ciò che non appartiene alla cerchia delle cose familiari e note, anda­re verso il nuovo significa in qualche modo al­lontanarsi da casa, ad­dentrarsi in un paese straniero. Novità vuol dire dunque anche estraneità, differenza, sradicamento e viaggio. Perciò non è affatto interessante chiedersi se e quando vi sia stata novità nella musica novecentesca - domanda che diventerebbe forse ben pre­ sto oziosa - quanto riconoscere in essa un'esigenza fondamentale che la caratte­rizza in profondità. Ovunque, nelle più diverse e diversamente mo­tivate proposte musicali, sembra potersi appli­ care l'immagine di un cerchio come delineazione di un confine che deve essere oltrepassa­to. Ovunque si scorgono limitazioni, barriere che ci stringono da ogni parte e che esigono di essere superate, e proprio in esse consiste il vecchio a cui si contrappo­ ne il nuovo, nell'abbat­timento di queste barriere consiste soprat­ tutto l'innovazione. Ciò vale naturalmente per il supe­ramento del linguaggio tonale - il primo passo decisivo. Per quanto si possa mostrare la continui­tà di un processo in cui questo superamento può apparire come il suo esito coerente, è più interessante per noi portare ora l'attenzio­ne piuttosto sul momento della rottura, e quindi, se mai, su un processo di erosione progressiva che pro­ 13 duce alla fine un varco dal quale si può uscire all'aperto. Ciò che la pratica musicale ha sempre mostrato di sapere - che nessun privilegio intrinseco spetta al lin­guaggio della tonalità dal punto di vista espressivo - arriva infine alla più chiara con­sapevolezza teorica, e con ciò viene a cadere l'i­dea di un sistema fondamentale prossimo più di ogni altro all'es­sen­za stessa della musica, come anche l'idea di un finalismo interno ca­pace di operare la subor­ dinazione di ogni forma di espressione mu­sicale entro una pro­ spettiva unitaria. L'apertura al nuovo si rivela così fin dall'inizio essere un'a­­per­tura al molteplice. Non solo vi sono molti modi di intervenire nella crisi del tonalismo e di operarne un superamento - una circostanza che an­cora oggi si tende a trascurare immiserendo con falsi schema­ tismi la ricchezza di dimensioni della musicalità nove­centesca - ma questo superamento va compreso e integrato in un più ampio processo di acquisizione delle esperienze musicali extra­europee, dall'altra musi­ca, che può perciò essere conside­rata anch'essa musica nuova. Come abbiamo osservato poco fa, l'idea della su­ periorità della musica eu­ropea, laddove non ha come conseguenza il puro e semplice disinte­resse, comporta una sorta di distorsione finalistica, come se il lin­guaggio musicale europeo fosse anche situato al livello finale di uno sviluppo a cui non potevano che tendere anche le altre culture con maggiore o minore successo. Solo l'effettivo venir meno di una si­mile idea può consentire un approccio che preservi l'autonomia dell'altra musica da quelle pra­ tiche assimilatrici che ne annientano l'al­terità e che, all'interno di un simile finalismo, potevano essere ritenute plausibili e senza problemi. Lo stesso si può dire per il modo in cui riemerge nella mu­sica novecentesca ai suoi inizi il problema della musica po­polare e della sua relazione con la musica colta. Questo pro­blema fa parte della musica di sempre: ma solo nel nostro secolo la musica popo­lare viene assunta come un altro lin­guaggio da sca­tenare contro o da inne­stare come elemento esplosivo all'in­terno della musica colta. 14 Il cer­chio che chiude è qui rappre­sentato proprio dall'idea che il nuovo sia acquisito semplicemente espli­citando e dispie­gando ten­ sioni ap­parte­nenti al passato, in una sorta di logico sviluppo di una tradi­zione che pretende di bastare a se stessa e di attingere da se stessa l'energia per andare più avanti. Rompere il cerchio potrebbe allora significare acquisire di salto forme di espressione musicale nuove, che sono tali non già perché superano il passato prossimo, promuo­vendo un passo dopo l'altro il futuro, ma perché appar­ tengono a un'altra dimensione storica, nella quale esse sono del resto ricche di passato. Diventa così sempre più chiaro in che modo sia possibile fare ri­ferimento al nuovo in un senso più ampio, più ricco e profondo di quanto lo sia quello che vincola la parola alla pura dimensione tem­porale. Si consideri da questo punto di vista il problema delle nuove sono­rità. In realtà, ogni epoca, ogni cultura musicale ha operato le pro­prie scelte anche sul terreno della materia sonora, manife­ stando preferenze verso certi tipi di sonorità piuttosto che verso altri. Ep­pure è certamente una caratteristica esclusiva della no­ stra epoca l'entusiasmo - così spesso manifestato - per la pura e semplice idea della possibilità di scoprire una suono nuovo, un suono mai pri­ma udito. Ciò sembra riportare l'accento sull'aspetto temporale, prospettando un'e­spe­­rien­za di ascolto che dovreb­ be essere conside­rata in via di principio eccezionale proprio per questa assoluta novi­tà. Ma a uno sguardo appena un poco più penetrante appare invece che anche questo tema merita piutto­ sto di essere considerato alla lu­ce delle nostre osservazioni pre­ cedenti. Veramente importante è infatti, anche in questo caso, la perce­zione di una limitazione che deve essere trascesa. Nuovi non sono solo i suoni inauditi, ma anche quelli che non appartengono alla chiusa cerchia di quelli che la nostra tradizione musicale ci ha reso familia­ri, dunque anche quei suoni che si odono ogni giorno, facendoci più o meno caso, integrati come sono nelle immediate circostanze della nostra vita quotidiana. 15 La ricerca di nuove sonorità tende così a fare tutt'uno con l'idea di un ampliamento del campo dei suoni utilizzabili all'in­ terno della composizione. La concezione secondo la qua­le vi sarebbero suoni predestinati ad un impiego musicale deve essere giudicata come priva di fondamento. Questa idea si ripresenta in numerose varianti che del resto esplicitano la ricchezza del suo contenuto. Intanto si tende a ribaltare o comunque a modificare le "gerarchie" tradizionali degli strumenti, si promuove e si degrada; si propongono modifiche e alterazioni delle pratiche strumentali tali da produrre effetti rari e inusitati. E anche in questi casi non dobbiamo dimenticare l'area dei sensi entro cui si agita questa tensione alla novità: ciò che ora si esalta o che si pone al centro dell'interesse musicale sono sonorità reiette, lontane, marginali. Che importanza hanno avuto, ad esempio, le percussioni nel­ la tradizione musicale europea? Solo una nuova consapevolezza di altre civiltà musicali e quindi della necessità di operare un supe­ ramento dei limiti imposti al materiale sonoro della nostra tra­ dizione può portare ad una valorizzazione degli strumenti per­ cussivi. Di contro si sa come il pianoforte, punto culminante ed emblema di una civiltà musicale, venga spesso "degradato" a ciò che di fatto es­so è innanzitutto, e cioè uno strumento per­cussivo. Si assiste così a operazioni di particolare complessità, nel­ le quali spesso le dimensioni temporali e le dimensioni cultu­ rali ten­dono a intrecciarsi. È il caso qui di rammentate in un lampo come in Ioni­sation di Varèse all'arcaismo dei suoni per­ cussivi, appar­tenenti a civiltà lontane ed a paesaggi desertici, si con­trapponga il suono perfo­rante di una sirena che ci riporta di colpo al centro della città ope­raia, al presente della fabbrica metropo­litana. All'ambito della problematica delle nuove sonorità appar­ tiene naturalmente la riflessione musicale sulla produzione elet­ tronica del suono - benché naturalmente il suo raggio di azione sia molto più ampio. In realtà questa riflessione è stata guidata per un buon tratto dall'idea di poterci liberare una volta per tut­ 16 te dagli strumen­ti non solo della tradizione europea, ma dagli strumenti, come dire? - umani in genere: dalle pesantezze, rigi­ dità, incapacità, dai limiti derivanti non solo dalla costituzione mecca­nica e materiale dello strumento, ma soprattutto dal fatto che esso può produrre suoni solo attraverso l'azione dello stru­ mentista educato in un lungo eserci­zio. E per quanto quell'eser­ cizio sia stato perseguito ostinatamente, per quante abilità siano state in esso acquisite, il flautista dovrà pu­re, almeno una volta, tirare il fiato, e il violinista non potrà ar­ram­picarsi sulla tastiera più velocemente di quanto lo consenta l'osso delle sue dita. Per non dire poi della rozzezza, approssimazione, grossolanità delle capacità psicologiche, dei limiti invalicabili che rendono impos­ sibile, ad esempio, una suddivisione temporale real­mente fine, il mantenimento esatto delle durate e la differenziazio­ne dei picco­ li intervalli. All'improvviso tutti gli strumenti in genere ci appa­ iono invecchiati, anzi ci appaiono vecchi cadenti. Rammentan­ do ancora Varèse. Contro il violino: "gracile, misero, penoso" [1]. "Il violino non esprime la nostra epoca" [2]. "Con le attuali possibilità di amplificazione del suono è stupido mettere venti primi violini in un'orchestra" [3]. Contro gli strumenti a fiato: "E nonostante che nella vita quotidiana abbiamo scoperto qualcosa di più efficace e di più conveniente della pompa a mano, siamo ancora lì a soffiare co­me matti negli strumenti a fiato" [4]. Qualunque cosa oggi si possa pensare di affermazioni come queste, esse fanno certamente parte della storia del problema. Ed è sempre all'interno di questa storia che si va affermando la convin­ zione non solo di possedere un mezzo per produrre suoni mai prima uditi, e nemmeno soltanto di realizzare un ampliamento dei mate­riali della musica, ma soprattutto di poter dominare l'intero campo dei fenomeni uditivi in generale possibili. Un atteggiamento verso il nuovo che è essenzialmente caratte­rizzato dall'esperienza di un limite contiene indubbia­mente nelle sue pieghe il pensiero di un dominio e di un controllo che ha di mira la totalità stessa. Ed è il caso forse di attirare l'attenzione sul fatto che si tratta di 17 un pensiero che in passato non è mai stato formulato, nem­meno in una prospettiva uto­pica. Annotazioni 1. A. Schönberg, Manuale di armonia, Il Saggiatore, Milano 1963, vol. II, p. 302: "Credo invece al nuovo, credo che il nuovo sia quanto di buono e di bello noi bramiamo involontariamente e irresistibilmente con il nostro essere più interiore, così come tendiamo al futuro: ci dev'essere nel nostro futuro una perfezione sovrana, a noi ancora ignota, dal mo­ mento che tutto il nostro essere associa ad essa le sue speranze. Forse questo futuro è uno stadio d'e­voluzione superiore del nostro genere in cui si adempie quello struggimen­to che oggi non ci dà pace; forse esso è solo la morte, forse però è anche la certezza di una vita superiore dopo la morte: il futuro reca con sé il nuovo, e per questo il nuovo è per noi così spesso ed a ragione identico al bello ed al buono". 2. E. Varèse, op. cit., p. 70: "In ogni opera d'arte, ciò che conta è la no­ vità". §2 Cerchiamo ora di precisare la direzione in cui sono volti questi nostri primi appunti. Anzitutto è bene avvertire fin d'ora che, né in questa sede introduttiva, né nelle nostre discussioni future, avremo propriamente di mira la contemporaneità - soprattutto non sare­mo guidati dall'intento di proporre in rapporto ad essa schematizza­zioni interpretative che avanzino al tempo stesso la pretesa di giudi­care e di distinguere, di formulare apprezzamenti e valutazioni. La nostra vuole proprio essere soltanto una rifles­sione filosofica sulla musi­ca in genere, e perciò siamo interessati soprat­ tutto alle questioni di principio che non si sviluppano a contatto di problematiche partico­lari benché debbano certamente offrire in rapporto ad esse orientamenti e strumenti per la comprensio­ 18 ne e l'interpretazione. Prendere l'avvio da poche, sommarie considerazioni sul­ la musi­ca novecentesca è tuttavia per noi opportuno in questa sede intro­duttiva proprio per cominciare con il delineare il qua­ dro teorico nel quale si svolgeranno le nostre discussioni future. Abbiamo così cer­cato anzitutto di mostrare come il tema della novità possa essere proposto secondo un'angolatura non bana­ le, e anzi ricca di signifi­cative implicazioni. In esso è contenuta anzitutto l'idea della molte­plicità delle forme possibili di espres­ sione musicale, un'idea che as­sume una particolare radicalità dal momento che investe non solo i modi di organizzazione del ma­ teriale sonoro, ma il materiale sono­ro stesso. L'importanza e la portata di questa idea naturalmente può essere colta soltanto sullo sfondo di una tradizione che poteva considerare il proprio stesso sviluppo come un movimento, tortuoso e tormentato fin che si vuo­le, ma pur sempre svolgentesi all'interno di un alveo chiaramente delineato. Nessun musicista del passato ha cer­ to ignorato la pos­sibi­lità del movimento, nessuna convinzione profonda dell'e­sistenza di un'es­­senza del musicale ha impedito e ostacolato lo svi­luppo, così come il riconoscimento di regole la loro infrazione. Ma ora il tema della molteplicità richiede certa­ mente la negazione e­spli­cita dell'essenza. Delle varie forme di espressione musicale noi possiamo di­ re, co­me del resto così spesso si dice, che esse sono dei linguag­ gi. Questa non è altro che un'estensione metaforica del termine, anzitutto im­piegato per le forme di espressione verbale degli uo­ mini. Gli uomini parlano in molti modi, in molti modi alle cose vengono associati nomi, e infinitamente varie sono le regole per la loro connessione. Ma allora dovremmo trarre dall'esten­sione metaforica ciò che sembra chiaramente implicato nell'im­pie­go originario: e subito nulla appa­re più insensato dell'idea di ridurre la molteplicità delle lingue ipo­tizzando un'essenza a cui com­ misurare la loro maggiore o minore perfezione. Con altrettanta chiarezza appare qui l'assenza di vincoli intrinseci nella forma 19 di rapporto tra il nome e la cosa - esso ha origine nella conven­ zione, cioè nel patto idealmente stipulato dalla co­munità lingui­ stica. Anche se la parola "convenzione" può essere considerata come non del tutto ade­guata rispetto alla processualità storica concreta che presiede alle formazioni linguistiche e alle loro tra­ sformazioni, tuttavia essa richiama efficacemente l'attenzione sull'acciden­talità di principio dei rapporti istituiti. La processua­ lità sta in luogo del sigillo del patto - ad essa spetta il compito di sancire il vincolo fino a farlo apparire necessitante. Tutto ciò può essere trasposto al campo della musica. Per lungo tempo questo campo è stato considerato come un campo circoscrit­to, anzitutto per ciò che riguarda la sua materia. Ancor prima di ogni messa in forma musicale, vi è la grande distinzione tra suoni e rumori, nella quale la parola suo­no, che può naturalmente essere im­piegata in un'eccezione generale per indicare qualsiasi fe­ nomeno uditivo, rimanda piu­ttosto a considerazioni di eufonia e di gradevo­lezza percettiva, in opposizione ai rumori che generano fa­ stidio e insofferenza. Si può forse rinunciare ad una distinzione tanto ovvia e che sembra appartenere alle condizioni più elementari della musica stessa? Eppure sappiamo già che proprio la musica ha de­ ciso altrimenti. Questa decisione effettuata sul campo, nel vivo dell'azione musicale, sembra poter ora cominciare con l'essere sostenuta da elementi di teoria. Se considerazioni di eufonia pos­ sono essere am­messe già in rapporto alla selezione del materiale musicale come ta­le, allora potranno essere richiamate anche per giustificare livelli e distinzioni più evolute, che comin­cia­no a met­ tere in questione il piano dell'arti­colazione forma­le. Si pensi sol­ tanto alla distinzione tra consonanza e dissonanza, in rapporto alla quale si sono sempre fatte valere considerazioni di eufonia che a loro volta stanno alla ba­se di u­na precisa regola­mentazione compositiva. Ora, l'in­con­si­sten­za di questa regola­mentazione mo­ strata dalla prassi musicale sembra poter essere ribadita e con­ fermata sul piano della riflessione teorica: la sua validità sarebbe puramente intralinguistica, quelle regole nascono e muoiono con il 20 gioco linguistico che esse stesse contribuiscono ad isti­tuire. Ed il ri­ chiamo al linguaggio è naturalmente qui ancora il ri­chiamo alla convenzione. Ad essa potremo appellarci regredendo dal tema delle regole sino alla distinzione tra suoni e rumori, in rappor­ to alla quale non mancheranno certo argomenti per met­tere in evi­denza la fondamentale vaghezza, l'essenziale relatività, il suo rife­rirsi al piano delle impressioni psicologiche più labili. Questa inde­terminatezza di ordine concettuale potrà a sua volta essere appog­giata dall'esibizione dell'enorme varietà di impiego della vocalità o delle timbriche strumentali nelle diverse culture quan­ do esse siano considerate senza pregiudizi. In che cosa consiste allora l'eufonia? Ciò che importa è la solidità di una pratica mu­ sicale nel quadro di un riconoscimento e di un'accettazione inter­ soggettiva. Ed è chiaro che né questa solidità né questo ricono­ scimento possono essere otte­nuti fin dall'inizio e in una volta sola. Essi richiedono tempo. La soli­dità giunge nel corso di un processo di consolidamento. Vogliamo caratterizzare la prospettiva che stiamo così delinean­do e che non solo prende le mosse, ma assume come proprio centrale punto di riferimento l'idea della musica come linguaggio, con il ter­mine di prospettiva semiologica. In essa si tenderà dunque a dare il massimo rilievo alla componente tem­ porale, e dunque alla compo­nente soggettiva e intersogget­tiva. Un brano musicale è eminentemente un "oggetto cul­tu­rale" - la musica è anzitutto una prassi so­ciale che va considerata nella sua integrazione con la cultura a cui essa appartiene. Ciò significa che su di essa si fa sentire il peso di una tradizione che determi­ na non solo le modalità dell'azione musicale, ma naturalmente anche le modalità dell'ascolto: determi­nati modu­li compositivi si impongono sempre più con il passare del tempo, ge­nerando consuetudini di ascolto e dunque schematismi di attese nella successione di eventi di cui consta il brano musicale. Una pras­ si che certamente poteva essere all'inizio instabile tende via via a sta­bilizzarsi assumendo la dignità di una regola, al punto da 21 poter avanzare la pretesa di una giustificazione obbiettiva, in­ sita nella stessa natura del fenomeno sonoro. Per molto tempo non si è forse ritenuto che la "risoluzione" della dissonanza nel­ la consonanza - per richiamarci ancora all'esempio precedente, con un luogo comu­ne così spesso ripetuto - fosse una regola intrinsecamente connessa con la nozione di dissonanza e con il modo del rapporto tra conso­nanza e dissonanza? Invece essa avrebbe il suo sostegno solo nelle pratiche dell'arte e di queste pratiche non si può dare nessuna giustifica­zione al di fuori del loro essere in uso. Sullo sfondo di un'apparente necessità vi è invece un'accidentalità di principio. Ed è naturalmen­te questa circostanza che sta alla base della possibilità del nuovo, della cri­ tica della tradizione come critica del pregiudizio, della rot­tura della tradizione o semplicemente del suo continuo movimen­to. Tutto ciò può essere ripresentato nel modo di concepire il mate­riale della musica: considerato indipendentemente da un processo attivo di musicalizzazione esso sarà in se stesso senza regole, amorfo e privo di differenze. L'analogia con il linguaggio verbale può forse dare par­ ticolare evidenza ad una simile affermazione. Nella parola noi distinguiamo il suono dal senso, ma il suono - il materiale sono­ ro che funge da vei­colo del senso - è certamente neutrale rispet­ to all'istituzione di que­sto o quel riferimento all'oggetto, non vi è nulla in esso che prospet­ti o suggerisca un determinato legame di senso piuttosto che un al­tro qualsiasi. Secondo questa ana­ logia, anche al materiale musicale spetterebbe un "sen­so", solo attraverso un'immissione estrinseca al materiale stesso benché, come del resto può accadere anche nel caso del­la parola, senso e materiale possano apparire come reciprocamente e inestrica­ bilmente connessi l'uno all'altro. Con ciò, oltre a ribadire in altra forma tutti i temi precedenti, si prende posizione sui simbolismi che talora si attribuiscono alle qualità sonore come tali e alle loro possi­bili differenze: in essi si deve cogliere niente altro che l'azione della facoltà associativa sulla quale ancora una volta la 22 tradizione esercita tutto il suo peso. Non vi è dunque alcun po­ sto, all'interno di una prospettiva semiologica, per una nozione pregnante di simbolo, cioè per una nozione di rapporto simboli­ co che non si risolva interamente in un meccanismo psicologico caratterizzato da nessi associativi occasio­nali più o meno solida­ mente stabilizzati, così da poterne operare in via di principio la riduzione alla convenzionalità del rapporto di segno. Ma come avevamo preannunciato, il terreno del nostro di­ scorso ha subito uno spostamento. Ora lo vediamo con chiarezza. Esso si è sviluppato da una tematica sia pure molto generale, ma in ogni caso interna al problema musicale, e tuttavia il suo anda­mento, le forme argomentative che incominciamo ad intravedere, la stessa termino­logia che abbiamo utilizzato mostrano la presenza di istan­ ze filoso­fiche volte in una direzione ben determinata: in tutto ciò che siamo andati dicendo sono diventati sempre più riconosci­ bili i tratti di una filosofia empiristica dell'esperienza. Tutti i suoi temi principali sono stati chiamati in causa, in tutta la coerenza dei loro nessi. A cominciare da quello dell'amorfismo che deve essere at­ tribuito ai dati di un'e­sperienza considerata nella condizione del suo primo giorno: il pen­siero di un passato soppresso conduce alla postulazione di contenuti in via di principio instabili, di con­ nessioni precarie la cui regola è il caso, ed è questo pensiero che deve dare evidenza all'idea che ogni formazione di senso, inizial­ mente caratterizzata da una contingen­za di principio, si stabilizza sempre più nella ricorrenza temporale ed è perciò, in questo senso, una formazione essenzialmente stori­ca. Ciò fa tutt'uno, natural­ mente, con il grande tema dell'abi­tudine. Nonostante l'amplifica­ zione e la diversa inclinazione che questo termine riceve nel suo impiego filosofico, in esso viene mantenuta e persino fortemente accentuata una sfumatura di senso che appartie­ne anzitutto all'im­ piego quotidia­no. L'abitudine non è qualcosa che mi appartiene e di cui posso disporre a piacimento, non è ap­punto - nonostante l'affinità dell'etimo - come un abito che io posso togliere o met­ tere quando voglio o una casa dalla quale pos­siamo ogni giorno 23 entrare o uscire. Noi siamo in possesso di abitudini. Le abitudini ci consentono di sentirci in un mondo familiare e noto, in esse e attraverso di esse si realizza lo stesso processo di formazio­ne della soggettività. Esse non hanno ragioni che non siano il dato di fatto di un inizio occasionale e di una reiterata conferma nella suc­cessione temporale. Eppure proprio in questa contingenza e nel modo della loro istituzione temporale sta tutta la loro potenza. Come le nostre azioni normali sono sostenute e compenetrate di abitudini, così esse compenetrano in generale il nostro modo di rivolgerci al mondo, dal momento che ogni cosa viene sem­ pre intesa secondo un senso e una direzione in forza di sensi provenienti dal passato. Ciò vale già in rapporto agli strati più elementari delle significazioni percettive - ciò che appare come semplicemente percepito, come dato nell'esperienza considerata nella sua attualità, è invece per lo più sotto la presa di una connessione di senso istituita e fondata nell'a­bitudine. Ciò che può appari­ re come un giudizio "spontaneo" emes­so all'istante e puramen­ te fondato in ciò che ora vedo oppure odo, si dimostra invece come un pregiudizio nel quale hanno un'incidenza determinante abitualità che sono cresciute con me, che mi appar­tengono nella stessa misura in cui io appartengo ad esse, così come appartengo al contesto storico-sociale nel quale sono immerso. Nell'atteggiamento intellettuale che sta alla base di una simile posizione non vi è tuttavia soltanto il richiamo alla capacità forma­ trice dell'abitudine. Infatti, quanto più si insiste su contingenze che sembrano, sulla base di dinamiche psicologiche, assumere carattere di necessità, tanto più si mostra la possibilità inversa di ricondurre il necessario a pura apparenza. Il filosofo dell'abitudine ci mette anche in guardia contro le abi­tudini. Attira la nostra attenzione sulla tradizione, e in questo mo­do ci fa notare che essa è soltanto tradizione. Questi motivi di carattere generale ci riportano certamente alle nostre considerazioni precedenti: l'apertura al nuovo sembra infatti esigere in via di principio l'abbandono di considerazioni 24 centraliz­zate, cioè di considerazioni fondate sulla convinzione dell'esistenza di criteri e di regole che possano pretendere di occu­ pare una posizio­ne centrale all'interno dell'universo musicale. Que­ sto universo consta unicamente dei fatti della musica e in esso non vi è alcun centro. A quei fatti dunque occorre soprattutto guardare, e con quell'assenza di pregiudizi che diventa effettiva solo quando essa è accompagnata dalla piena consa­pevolezza della forza del pregiudizio, della resistenza che l'"abitudi­ne" oppone al "nuovo". Annotazione Come accade in genere in un campo così incertamente definito come è quello della semiologia, anche nel caso della semiologia musicale si ha a che fare con una grande varietà di posizioni, sia per ciò che concer­ ne i compiti affidati alla ricerca semiologica, sia per ciò che riguarda i presup­posti filosofici di carattere più generale. Il parlare genericamente di "pro­spettiva semiologica" intende in un certo senso rispettare que­ sta indeter­minatezza, mentre il richiamo ai possibili legami con una filosofia empiri­stica dell'espe­rien­za e ai temi convenzionalistici ad essa connessi intende identificare una più precisa linea di tendenza all'in­ terno degli studi di semiologia musicale. Questa linea di tendenza è tipicamente rappresentata da J. J. Nattiez, Fondements d'une sémio­logie de la musique, Union Générale d'Editions, Paris 1975. Si veda anche, dello stesso autore, Il discorso musicale, Einaudi, Torino 1987 e Musicologia generale e semiologia, edizione italiana (a cura di Rossana Dalmonte), Edt, Torino 1989. §3 Abbiamo così mostrato connessioni e rapporti che sembrano contenere premesse incontrovertibili per ogni discussione sul­ l'ar­gomento e che del resto si ripresentano di continuo nel­la ri­ flessione critica come ovvietà ormai da tempo acquisite. Tuttavia la messa in chiaro di uno sfondo filosofico di cui 25 talvol­ta non si sospetta nemmeno l'esistenza dovrebbe mettere in guardia da un'adesione troppo ingenua all'evidenza di quelle connessioni. È possibile che quelle prese di posizione che ci sem­ bra di dover subi­to far nostre siano in realtà proposte in un falso contesto e che il loro senso sia fin dall'inizio svi­sato proprio dalla loro, apparentemente naturale, integrazione all'interno di una filo­ sofia dell'esperienza fondamentalmente erronea. Ciò che merita un approfondimento è infatti proprio il passag­gio dalla rivendicazione di un punto di vista dal quale la musica stessa possa essere abbracciata nell'effettiva molteplicità delle sue forme all'idea della totale accidentalità di ogni rap­porto, dalla criti­ca dell'essenza al dominio della convenzione, dall'affermazione dell'inesistenza di un luogo centrale dell'u­ni­verso della musica ad una concezione di questo universo co­me un puro agglomerato di fatti dispersi. Queste opposizioni hanno un effettivo fondamento oppure è necessario dare a questa stessa pro­blematica un'articola­ zione e un orientamen­to interamente diversi? Che ci siano buoni motivi per queste perplessità e per ri­ chiedere una considerazione più approfondita che non si fermi alle prime ov­vietà, lo si comincia a intravedere non appena cerchia­ mo di consi­derare ad una distanza un poco più ravvicinata e con maggiore atten­zione critica il richiamo al linguaggio di cui ci siamo in precedenza avvalsi. Abbiamo no­tato che l'applicazione della parola "linguag­gio" alla musica, così come del resto alle arti in genere, deve essere intesa come un'estensione metaforica a partire da un'accezione pro­pria che fa riferimento al linguaggio fatto di pa­ role, al linguaggio verbale. Una simile affermazione, coerentemente sviluppata nelle sue con­seguenze, è assai più ricca di significato di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Anzitutto, in base ad essa possiamo senz'altro sostenere che non vi è nessuna necessità intrinseca che ci induca ad asserire il carattere "linguistico" della musica. Benché possa apparire sin­ golare l'espri­mersi in questo modo, il parlare della musica come linguaggio non significa affatto asserire che essa lo è, ma così fa­ 26 cendo si mostra soltanto un'angolatura dalla qua­le la musica può essere considerata. Più precisamente: si mostra, richiamandosi al linguaggio, che la musica può essere considerata da una delle mol­ teplici angolature che sono im­plicate nella nozione di linguaggio. E con ciò si ribadisce certamen­te quanto sia importante il poter di­ sporre di una nozione primaria di linguaggio. Di questa nozione primaria fanno parte numerosi ca­ratteri, e ciascuno di essi può rappresentare l'appiglio per la deter­minazione di un punto di vista da cui guardare alla musica. Attraverso il linguaggio si realizza la comunicazione tra gli uo­mini - attraverso il linguaggio si dà espressione a sentimenti ed emozioni; si formulano ordini e desideri. Attraverso il linguag­ gio si può dare una descrizione fedele di come stanno le cose; sen­ za il lin­guaggio non si potrebbero costruire strade, macchine, ecc. [5] Inoltre il linguaggio è fatto di parole, e queste sono emissioni foniche di tipo particolare, dal momento che, ad esempio, non consideriamo come appartenenti al linguaggio gemiti e lamenti, urla di gioia o di dolore. La parole hanno a loro volta caratteri diversi, che la grammatica corrente ha classificato e tipicizza­ to, elaborando e formulando nello stesso tempo quelle regole alle quali noi, parlando, inconsapevolmente - e cioè senza esplicita mediazione riflessiva - ci atteniamo. Dalla concatenazione delle parole, nel rispetto delle regole, deriva l'unità della frase e dalla concatenazione delle frasi l'unità del discorso. Ciascuno di questi caratteri, ed altri ancora, possono forma­ re, come abbiamo osservato, l'appiglio per la posizione di un'a­ nalogia e dunque per conferire senso ad una possibile estensione metaforica del termine. Perciò quando si parla della musica come linguaggio non solo non si è affatto deciso che essa lo è, ma nemmeno l'angola­ tura dalla quale si suggerisce di considerarla. Di conseguenza la domanda se la musica sia o non sia un linguaggio è una domanda malposta alla quale non ha senso dare una risposta affermativa o negativa; mentre potremmo trovare interessante considerare la 27 musi­ca alla luce della molteplicità di aspetti presenti nell'analogia in essa suggerita. Un'analogia può essere illuminante. Attraverso il punto di vi­ sta che essa istituisce diventano accessibili aspetti della cosa che prima erano nascosti o solo sullo sfondo: ora mi pongo inter­ rogativi che sono indotti proprio dal riferimento analogico. L'ana­ logia mette in moto un processo della riflessione che è guidato non tanto dalla cosa stessa, quanto da ciò a cui la cosa stessa è posta come analoga. Ma può anche essere vero l'inverso. L'analogia può esser fuor­viante proprio perché comporta uno spostamento dell'at­ tenzione verso qualcosa di altro dalla cosa stessa, proprio perché viene effet­tuato il tentativo di riportare su una cosa caratteri, di­ stinzioni e problemi che sono invece propri di un'altra. Può così accadere che una metafora, che appare inizialmente efficace, si riveli poi, quan­do sia spinta troppo oltre o troppo ostinatamente tenuta ferma, fonte di fraintendimen­ti e di impo­stazioni proble­ matiche interamente false. Op­pure che l'efficacia si limiti ad al­ cuni aspetti della cosa ri­chiamata e che per altri invece il richiamo sia del tutto inopportuno e introduca null'altro che confusione. Tutto ciò è chiaramente illustrato proprio dall'idea della musi­ca-linguaggio. Si tratta di una connessione in realtà mol­to antica, da sempre operante nella riflessione sulla musica e nella storia della sua terminologia. Su di ciò ha certamente avuto un peso il rappor­to effettivo con la parola attraverso il canto. Ma se per certi versi la musica può essere vista alla luce del linguaggio, per altro invece questo richiamo può condurre ad una vera folla di questioni malposte. Ad esempio: tutti i motivi che possiamo addurre per soste­ nere l'interesse di questa relazione, possono convincerci anche che il problema della convenzionalità del rapporto desi­gnativo tra i nomi e le cose possa essere trasposto tal quale nel cam­ po del "linguaggio" musicale? In proposito dovremmo in­vece richiamare l'attenzione anzitutto sul fatto che nella musica non 28 ci sono nomi. Oppure: da sempre si è trovato interessante considerare il brano musicale come un discorso - ma questo interesse non può che essere circostanziato, cioè limitato ad alcuni aspetti notevoli che un brano musicale può, e non necessariamente deve, avere: la pretesa di poter ridurre la musica intera a discorso musicale è intera­ mente priva di fondamento. Inoltre, come dicevamo or ora, può essere rischioso lasciarsi guidare da ciò a cui la cosa stessa è posta come analoga - e in realtà sarebbe certamente erroneo trarre dalla considerazione di un brano musicale come un discorso l'idea che in esso si debba ri­cercare una "comunicazione" o un "messag­gio" come accade ogni giorno nei nostri discorsi. Si possono così avere buone ragioni in quantità per affermare che "le iden­tificazioni mu­ sica-messaggio, musica-comunicazione, musica-lin­guag­gio sono schema­tizzazioni che conducono all'assurdità ed al­l'inari­dimento" [6]. L'idea della musica-linguaggio deve perciò essere mante­nuta nella mobilità di una discussione che non ha per nulla deciso fin dall'inizio di impiegarla senza condizioni e che si serve di essa come uno dei tanti strumenti utili, non solo considerata in posi­ tivo, ma anche in negativo, per circoscrivere, arricchire e movi­ mentare la trattazione. Ma non è tutto ciò fin troppo ovvio? In quale altro modo mai potrebbe essere proposto di parlare della musica come di un lin­guaggio se non attraverso un impiego esplicitamente o im­ plici­tamente analogico-metaforico? In realtà vi è anche un altro modo: e le nostre considerazioni precedenti assumono la forza di una presa di posizione proprio te­ nendo conto di questa prospettiva interamente diversa di porre il problema. Naturalmente non si tratta di negare la possibilità di un impiego analogico-metaforico della parola "linguaggio", ma di so­stenere senza mezzi termini che quando ciò accade, allora la que­stione perde gran parte, se non tutto il suo interesse. È forse interessante poter parlare del "linguaggio" degli uc­ 29 celli oppure del "linguaggio" dei fiori, e dunque anche del "lin­ guaggio" della musica in un vago senso metaforico come è il caso - evidentemente - degli esempi or ora menzionati ai quali certo ne potrem­mo aggiungere molti altri a piacere? Ciò sem­ bra assai poco sedu­cente. Invece potremmo avanzare un'i­stan­za molto più forte: l'idea della musica-linguaggio è veramente ricca di implicazioni e ha una effettiva portata solo se in essa non è messa in questione un'imma­gine, ma il concetto stesso di linguag­ gio. Ciò che importa non è la determinazione di un'angolatura, del resto mobile e provvisoria, effi­cace esattamente fino al punto in cui è in grado di dimostrarsi tale, ma la possibilità di effettua­ re, come potremmo dire servendoci della terminologia logica tradizionale, una vera e propria operazione di sussun­z ione. Sot­ to una luce interamente diversa dovrà allora essere propo­sto il tema del linguaggio verbale e della sua priorità. A esso potre­mo forse riconoscere una particolare e indiscutibile rilevanza pro­ prio per via della funzione che assolve nella vita degli uomini; e tut­tavia anch'esso dovrà essere considerato come un linguaggio tra i molti, cosicché il riferimento alla parola, la qualifica di lin­ guaggio verbale dovrà essere considerata come un tratto distinti­ vo che diffe­renzia spe­ci­ficamente questo linguaggio da ogni altro. Ciò significa postulare un'unità concettuale che deve valere come genere rispetto alle specie sottostanti. I linguaggi in generale sono sistemi di segni e la no­zione stessa di segno, in un'accezione molto ampia ma spera­bilmen­te non così ampia da renderla inado­perabile, sembra potersi assu­mere la responsabilità di rappre­sentare que­ sta unità sovra­stante. Parlare della musica come linguaggio ha ora un senso ben più impe­gnativo di prima, dal momento che la do­manda intorno alla natura linguistica della musica ha, in que­ sta pro­spettiva, perfettamente senso e nella risposta deve es­sere deciso se anche ad essa la nozione generale di segno debba esserle sovraordinata. È appena il caso di notare che nei confronti della concezio­ ne del rapporto musica-linguaggio come un rapporto di subor­ 30 dinazione concettuale noi assumiamo una netta presa di posizione critica, co­me appare del resto dal modo in cui è stata condotta la nostra esposizione. E questa netta presa di po­sizione critica si rivolge anche in direzione della prospettiva semiologica, per il fat­ to che questa, pur oscillando con scarso ri­gore tra l'una e l'altra impostazione del problema, deve ri­vendicare in ultima analisi le proprie giustificazioni nella natura in­trinsecamente linguistica della musica e dunque ricollegarsi in via di principio alla conce­ zione più forte di questo rapporto. La convin­zione della perti­ nenza rispetto al campo musicale di nozioni e cate­gorie tratte dalla linguistica e gettate di peso nella ricerca musicolo­gica - con­ vinzione così radicata ai tempi dei primi entusiasmi se­miologici - non avrebbe certamente potuto imporsi se non fosse stata so­ stenuta da qualcosa di più di una semplice relazione metafo­rica, considerata per di più come interamente aperta nei suoi esiti e nei modi della sua applicazione. §4 Tutto ciò rappresenta naturalmente per noi una premessa per ul­ teriori sviluppi critici. Fin qui si è soltanto operata una problema­ tizzazione dell'ovvietà con la quale sembra potersi effet­tuare il pas­saggio da una considerazione della musica come lin­guaggio o addi­rittura dalla posizione della natura linguistica della musica a tutto un complesso di prese di posizione nelle quali abbiamo ritenuto di poter individuare i tratti più caratteristici di un atteg­ giamento em­piristico nell'ambito della filosofia dell'espe­rienza in genere. Ma ora vogliamo portare più a fondo l'attenzione proprio su questi trat­ti per cogliere, sia pure solo di scorcio, le con­seguenze che ne discendono e soprattutto per delineare, a partire da questo sfondo cri­tico, l'orientamento di principio sul quale vo­glia­mo im­ piantare i temi della nostra riflessione futura. In realtà ciò che abbiamo detto in precedenza su questo lato del problema non basta forse nemmeno a giustificare l'op­por­ 31 tunità di una critica. Tutto sembra infatti essere coerentemente ordinato nell'unità di una posizione fondamentalmente plausibile e addirittura emergente dagli sviluppi della musica novecentesca come un oriz­zonte teorico necessario. Questa plausibilità può tuttavia cominciare a incrinarsi già nel momento in cui richiamiamo l'attenzione, evitando di impo­ stare la discussione in, grande, su alcuni fraintendimenti indot­ ti da quello schema teorico che appariranno inizialmente anche troppo minuti, ma che invece sono in grado di fornirci un orien­ tamento critico già chiaramente indirizzato. Vogliamo dunque ricollegarci all'esempio a cui in prece­denza abbiamo fatto cenno e che in realtà risulta efficace proprio per il suo carattere di luogo comune. Alludo naturalmente alla distin­ zione tra consonanza e dissonanza e in particolare al tema della risoluzione della dissonanza. In precedenza si è accennato a esso proprio per fornire un esempio particolarmente evidente di re­ gola strettamente relativa ad un determinato linguaggio musicale, il linguaggio della tonalità nell'e­po­ca che precede la sua crisi. La validità della regola sta, potremmo dire, nella sua stessa appli­ cazione, e quindi nella de­cisione di attenersi all'in­terno di quel linguaggio. Ciò è quan­to deve essere ammesso senza problemi. Ora, è della massima importanza rendersi conto del punto in cui una simile ammissione, entrando in un orizzonte teorico di tipo empiristico, muta interamente di senso e inclina in una direzione che non è per nulla contenuta in essa. Rammentiamo in primo luogo che chi volesse accingersi ad una giustificazione di quella regola comincerà probabilmen­te a richia­mare l'attenzione sul fatto che la consonanza, già sul piano puramente percettivo, e quindi al di fuori di considerazioni "lin­ guistiche", sarebbe caratterizzata da una sensazione di stabilità e di quie­te, la dissonanza, all'opposto, sarebbe avvertita come instabile e inquieta. La regola che alla dissonanza faccia seguito la consonanza avrebbe in ciò il proprio fondamento. Secondo uno schema teorico di tipo empiristico si tenterà, 32 non tanto di contestare la caratterizzazione percettiva proposta della di­stinzione e dunque anche del rapporto tra consonanza e dissonan­za, quanto piuttosto di fornire di essa una spiegazione che avanza la pretesa di sciogliere una circolarità interna. Nel linguaggio della tonalità l'accordo dissonante è sem­pre trat­tato come un accordo che opera una transizione che termina nella consonanza. Vi è dunque una connessione di contiguità tra due even­ti sonori, la frequenza con la quale essa si ripresenta e la formazione, su questa base, di un'attesa, dato un certo accordo dissonante, di un accordo consonante di un determinato tipo. Si forma dunque quella che potremmo chiamare un'abitudine uditi­ va. Se l'attesa non è soddi­sfatta, allora l'accor­do dissonante se ne resta in sospeso, con il suo "bisogno di risoluzione", ed esatta­ mente a questa circostanza è do­vuta la caratterizzazione secon­ do la quale alla dissonanza dovrebbe essere attribuita una sorta di instabilità. Questa caratterizzazione non sta dunque prima del linguaggio, ma sorge insieme a esso e come conseguenza delle sue regole. Mentre in precedenza si pretendeva che la regola fosse in qualche modo giustificata nella stessa sensazio­ne sonora, ora si mostra inversamente che questa sensazione è già sotto la presa di quel­l'abitudine uditiva che è andata formandosi con il linguag­ gio stesso. Ciò che chiamiamo rapporto di risoluzione e che ci appare a sua volta determinato da uno specifico carattere percettivo, che farebbe pensare ad una relazione intrinseca tra i due eventi sonori, deve essere in realtà ridotto ad una mera relazione di contiguità. Tutto ciò può infi­ne ricevere la sua formulazione più forte nel­ l'affermazione seguen­te: per qualunque coppia di accordi, tem­ poralmente contigui, è possi­bile la formazione di una sensazione di una relazione interna per cui il secondo venga percepito come risoluzione del primo, pur­ché la loro successione sia ripetuta un numero di volte sufficiente a for­mare un'abitudine. Le spiegazioni che forniamo per questa regola e le linee en­ tro le quali ne configuriamo il problema hanno naturalmente una 33 validità che si estende all'intero sistema di regole di cui consta il linguaggio tonale stesso. Nella ripetizione frequen­te dell'ascolto di opere che di continuo ripropongono determinate forme di sequenze sonore, determinati tipi di rapporti intervallari, con la preponderanza di alcu­ni rispetto ad altri, eventualmente secondo particolari gerarchie co­stan­temente riconfermate - tutte queste forme e complessi relazio­nali generano nell'ascoltatore un vero e proprio "sentimento della tonalità". La parola "senti­mento" sem­ brerebbe alludere ad un piano che sta al di qua o al di là della dimensione culturale; e invece si chiarisce, parlando della sua ge­ nesi, che esso è da parte a parte un prodotto dell'ac­cul­turazione, che esso è niente altro che un fascio di abitudini uditive che si sono stabilizzate al punto da tradursi in un vero e proprio modo di sentire. Ed è subito chiaro che qui si innesta anche il tema del pregiudizio e della resistenza che questo "sentimento" non può non opporre all'ascolto di altri linguaggi. Ma ripensiamo ora alla nostra considerazione conclusiva, e in particolare alla formulazione alla quale abbiamo ritenuto di poter ricondurre l'intero problema. In essa si imponeva, in realtà come assunto di principio, l'idea che non vi sia alcuna differenza caratte­ristica tra la contiguità e la risoluzione, dal momento che questa non è altro che un risultato temporale, una modificazione di senso che la contiguità riceve nella costante ripetizione. Ciò ri­ produce fe­delmente lo schema dell'argomentazione critica di Hu­ me in rap­porto alla nozione di causa. Ma come quell'argo­menta­ zione critica può essere efficacemente contestata quando sia con­ si­derata come rinviante ad un problema di fenomenologia della percezione, così è certamente legittimo manifestare perplessità rispetto a un'operazio­ne di riduzione di situazioni percettive che sono in ogni caso profon­damente differenti dal punto di vista descrittivo. Certamente, vi è la ripetizione - ed essa può senza dubbio generare l'attesa che ad un accordo ne segua un altro. Ma ciò che viene chiamato rapporto di risoluzione non può essere concepito come un'attesa in senso puramente temporale. Affer­ 34 mare, come abbiamo fatto, che un rapporto di risoluzione sorga dalla pura e semplice iterazione, significa am­mettere che quel rapporto possa anche affermarsi nella direzione inversa, come se la dissonanza potesse assolvere il compito di accordo nel quale la risoluzione viene effettuata. Questa pretesa sor­pren­den­te è in realtà contenuta nella formulazione conclusiva proposta nella qua­ le si parla di contiguità e di iterazione per una qualunque coppia di accordi. In realtà, sullo sfondo di tutto ciò vi è la messa in questione della consistenza percettiva della distinzione tra con­so­nanza e dissonanza - questo è un passo rasentato di continuo e che solo la mancanza di rigore e, ad un tempo, il lontano bar­lume dell'e­ videnza impedisce di realizzare a piede fermo. "L'accordo dissonante - scrive Francés - è diventato non tan­to l'equivalente dell'accordo consonante sul piano della qualità sen­sibile (ciò che non è mai stato), ma nella coscienza percettiva (conscience perceptive) dei musicisti educati un equivalente con­cet­ tuale (equivalent conceptuel) che ha perduto tutti i suoi attributi ne­ gativi" [7]. In questa frase, nella sua imbarazzata terminologia, è leggi­ bile l'esitazione dovuta ad un nodo concettuale irrisolto. Da un lato non si può non ammettere che sul piano della qualità sensibile la differen­za resti - nonostante tutto! Quale sia questo piano tuttavia non lo si comprende affatto, dal momento che esso viene nettamente distinto dalla coscienza percettiva dei musicisti nella qua­ le dissonanza e consonanza sarebbero concettualmente equivalenti: frase e terminologia contorta, dal momento che, dopo aver scis­ so la qualità sensibile dalla coscienza percettiva, quasi che i musi­ cisti percepissero qualcosa di diverso da qualità sensibili, si parla poi di una componente con­cettuale che caratte­riz­zerebbe questa coscienza percettiva. Di pas­saggio: questa af­fer­ma­zione è material­ mente falsa - basti pensare al divieto di im­piego della consonanza nella musica dodecafonica, cosa che mostra a meraviglia che non vi è, per Schönberg in particolare, proprio nessuna equivalen­ 35 za, né percettiva né concettuale, anzi la massima coscienza della differenza, tra consonanza e disso­nanza [8]. E già la si sente, la protesta: la consonanza è qui vietata proprio per il fatto che essa ridesta un complesso di associazioni abi­tuali, per il fatto che basta una sola consonanza per risvegliare quel "sentimento della tonalità" che guasterebbe ogni cosa! Cerchiamo allora di renderci conto meglio di che cosa sia questo "sentimento della tonalità". La difficoltà della discussione - diffi­coltà che crea anche fastidiose possibilità di fraintendimen­ to delle nostre intenzioni critiche - sta nel fatto che l'esistenza di condizio­namenti e di pregiudizi uditivi è semplicemente incontro­ vertibile. La storia della ricerca etnomusicologica è in grado di por­ tare in pro­posito una documen­tazione quanto mai signifi­cativa. E non vi è af­fatto bisogno di difficili ricerche empirico-psicologi­ che per prevedere che la maggior parte delle persone di nostra conoscenza realizze­ranno continuazioni tonali di motivi even­ tualmente proposti. Ma quando si parla di "sentimento della tona­ lità" si vuole certamente (e sperabilmente) andare oltre rilievi così ovvi. Si intende soprattutto negare l'esistenza di rapporti interni tra le formazioni sonore che sono organizzate secondo le regole del linguaggio della tonalità: questi rapporti non si trovano nella cosa stessa, ma fanno parte, ap­punto, di un "sentimento" che si va formando all'interno di una pratica musicale, la quale va a sua volta concepita come operante sopra un materiale che è in se stesso "privo di senso". Il sentimento porta così sulla convenzione, piuttosto che su ciò che viene colto origi­nariamente presso la percezione e alla pratica musicale viene affida­to il compito di istituire un sistema di relazioni che il tempo si inca­richerà di fis­ sare sul materiale sonoro come se appar­tenesse ad esso. Ora stiamo dicendo qualcosa di molto diverso che rileva­ re l'esi­stenza di abitudini uditive: stiamo invece prospettando il pro­blema dell'abitudine uditiva secondo una formulazione parti­ colarmente forte, dalla quale si possono trarre conseguenze così pesanti da non poter essere tollerate dalla semplice affermazione 36 dell'esistenza di pregiudizi uditivi. Basti notare subito che la for­ mazione di un sentimento della tonalità diventa nientemeno che una condizione per lo stesso apprezzamento del linguaggio tona­ le, dal momento che, co­me abbiamo detto or ora, ogni rapporto viene istituito solo in quan­­to quel sentimento comincia a prendere forma. Ma se co­sì stanno le cose non è difficile sviluppare coeren­ temente queste considerazioni portandole ai margini del contro­ senso. Riconsideriamo, ad esempio, l'intera questione alla luce della molteplicità dei linguaggi musicali. Ciò che abbiamo det­ to per il linguaggio tonale deve valere in rapporto a qualunque altro lin­guaggio. Dovremmo allora postulare un sentimento del­ l'atonalità, della politonalità, della dodecafonia e così in genere un "sentimen­to" per ogni forma linguistico-espressiva? In tutta serietà dovrem­mo rispondere affermativamente. Ma il peggio è che questi "sentimenti" sono tanto poco compatibili tra loro quan­to lo sono i lin­guaggi in questione. E allora le cose si complicano ancor più. Parlare di una pluralità di "sentimenti" non è affatto facile quando si assume che essi siano generati dall'abitudine. Richiamandoci ancora una volta al senso corrente del termine, un'abitudine è in generale un modo di com­portamento al quale noi ci atteniamo "istintiva­ mente", senza rifles­sione esplicita: e si intende che essa può esse­ re acquisita e anche perduta. Ma una nuova abitudine, nell'ambito dello stesso genere di cose, scaccia la vecchia - questo è ovvio. Non posso essere abituato a levarmi il cappello come saluto ed a non levarlo affatto. Cosicché non posso possedere il "sentimento dell'a­tona­ lità" ammesso che questa espressione abbia senso, e deve averlo! - senza aver perso le abitudini uditive legate alla tona­lità. Solo che questa perdita, come si comprenderà, non significa per nulla essere liberi dai condizionamenti del linguaggio tonale, ma signi­ fica più radical­mente non essere più in grado di operare quelle sintesi uditive da cui sorge l'opera tonale stessa. 37 Sarebbe interessante considerare con quali argomenti ci si po­trebbe opporre a esiti così apertamente paradossali. Ma il punto del problema non sta nella pura e semplice esasperazione teorica della questione: essa assolve il compito di richiamare vi­ vacemente l'at­tenzione sul fatto che proprio uno schema teorico di tipo empiristi­co, a cui va riconosciuto il merito di un'apertura di principio verso ogni "novità", conduce tuttavia, in uno svi­ luppo coerente, ad una considerazione degli universi linguistici come universi chiusi, cia­scuno con il proprio sfondo di passato come unica origine delle loro formazioni di senso. La molte­ plicità viene fin dall'inizio senz'altro posta: e rischia subito di diventare un enigma. Annotazioni 1. Il testo citato di R. Francés, La perception de la musique (Vrin, Pa­ ris 1958, 19842) mostra ovunque con particolare chiarezza l'azione di presupposti vetero-empiristici nell'ambito di una ricerca di psicologia della musica. In particolare si parla di sentiment de tonalité come un sen­ timento che è istituito nella répétition fréquente, e dunque attraverso la mémoire e in forza di liaisons constamment expérimentées. "Il rapporto 3/2 tra due frequenze (con la leggera approssimazione del temperamento) diventa per il soggetto una quinta, con tutti i significati culturali che vi si ricollegano, con l'insieme delle partico­larità strutturali che ciò compor­ ta, come il fatto di contenere due terze, l'u­na minore e l'altra maggio­ re, di determinare da sola una tonalità, di essere indeterminata quanto al modo e di richiamare una determinazione attra­verso la mediazione della terza, ecc. Tutte queste proprietà degli intervalli non restano sul piano concettuale, esse sono implicitamente pensate in at­to, cioè as­ sociate alla ricezione uditiva dell'intervallo come se fossero vir­tualità sonore concrete. In quanto esse sono state 'sperimentate' nella sem­plice frequentazione delle opere, possono acquisire una certa evidenza an­che prima di essere state isolate come tali in un rapporto astratto e gene­ rale" (pp. 41-42). "Così l'incom­pletezza di una melodia che termina 38 su un grado diverso dal primo, terzo e quinto è sentita emotivamen­ te come una tensione che richiede un completamento non di ordine logico, ma di ordine sen­soriale. Questa componente emo­zionale non poggia su un sapere rap­presentato, ma su un'accumu­lazione di perce­ zioni anteriori" (p. 105). La sintassi tonale "è un fatto sociale di grande estensione, di origine storica abbastanza indetermi­nata, ma abbastanza antica da giustificare l'imporsi in rapporto ad essa dell'illu­sione natu­ ralistica (che ha imperversato soprat­tutto fino al secolo scorso quando le nozioni del relativismo socio-cul­turale non erano ancora venute a tormentare il sonno dogmatico dei musicologi)" (p. 64). Di un simile punto di vista fa naturalmente parte integrante il ri­fiuto dell'imposta­ zione teorica della psicologia della forma e della fenome­nologia filoso­ fica. "La Gestalttheorie, in particolare, che ha conosciuto in psi­cologia successi positivi, può essere ripresa in estetica solo a condizione di im­ portanti riserve; l'adattamento delle leggi che essa ci ha lasciato deve per lo più consistere nel relativizzarle all'interno della storia dell'arte e dell'individuo. (...) Per la loro tendenza a misconoscere il carattere sto­ rico delle forme fisiche (qui, delle forme acustiche) a partire dalle quali si costi­tuisce l'esperienza dei soggetti, gli psicologi di questa scuola, le cui acqui­sizioni presentano ad un certo livello un valore incontestabile, hanno finito con il dare un tono innatista alle loro spiegazioni. La forma e l'informe sem­brano spesso, stando a loro, dei dati immediati della coscienza che essi non colgono né nel loro divenire individuale come momenti di uno sviluppo psicologico, né nella loro evoluzione sociale come prodotti di un linguaggio transitorio fissato da istituzioni che tendono a farlo apparire come 'naturale' fino al giorno in cui ad esso si sostituisce un nuovo linguaggio generatore di 'forme' sconosciute che, un secolo prima, sarebbero passate per informi. (...) Qualunque tenta­ tivo di comprensione 'ingenua' è escluso, qualunque 'riduzione fenome­ nologica' che 'metta tra parentesi' il mondo istituzionale della cultura per tentare di ritrovare il vissuto nelle sue mani­festazioni è senza ogget­ to. L'elemento non è semplice se non in quanto lo si sradica dall'insieme di cui esso fa parte e nel quale è rivestito di proprietà specifiche, ciò che si chiama il dato è in realtà costituito a partire da una sfera oggettiva 39 che è necessario conoscere (quella delle opere e delle tecni­che che esse presuppongono) prima di esplorare il contenuto di coscienza" (p. 9). - Va infine notato che le ricerche di R. Francés rappresentano un fon­ damentale punto di riferimento a cui si richiama spesso la semiologia musicale nell'intento di dare alle prese di posizione convenzionalisti­ che un supporto psico­logico. In questo quadro è utile rammentare le formulazioni, a dire il vero un po' strampalate, ma in ogni caso molto indicative, che si pos­sono trovare in M. Pagnini, Lingua e musica. Proposta per un'indagine strutturalistico-semioti­ca, il Mulino, Bologna 1974 e in rapporto alle quali si rimanda al testo di Francés: "Il materiale eletto dalla musica tonale consta di determinate fis­sazioni a coppia dette 'in­ tervalli', riconosciuti validi in quanto acquisiti mediante una profonda acculturazione, e con radici storiche così remote e imprecisabili da darci l'illusione di una vera e propria 'naturalità' (mentre si potrebbe, se mai, parlare solo di 'seconda natura' o di 'natura acquisi­ta'). L'impiego assi­ duo di certi intervalli ha prodotto una specie di sedimento memoriale, che a sua volta costituisce un sistema di attese automa­tiche (su cui si basano le cosiddette esigenze dell'orecchio e le regole di composizione che s'inse­gnano nei manuali). Oggidì le teorie naturalistiche sono state sostituite dalla visione relativistica, sollecitata in modo partico­lare dai vari studi di antropologia musicale. Una nota singola suonata nel vuo­ to, non è in realtà nel vuoto, né è propriamente singola. Essa va auto­ maticamente ad inserirsi in un sistema probabilistico inconscio, per cui il suo possi­bile rapporto con altre note non è che relativamente libero... E il concetto è valido anche per quanto concerne i rapporti gerarchi­ ci delle va­rie note di un componimento nei confronti di quella nota fondamen­tale verso la quale le varie note di un dato complesso provano una specie di at­trazione. Si sa che il sistema tonale consiste proprio di questa specie di cen­tro calamitato, attorno al quale si distribuiscono, in rapporti vari, le altre note della scala. Perciò il suono unico di cui par­ lavamo viene spontaneamente interpretato come elemento fonda­men­ tale di una serie melodica. Il 'sentimento tonale' dunque è un fenome­ no di condizionamento, ed ha na­tura ontogenetica e non filogenetica" (pp. 15-16). "L'opera singola concre­ta suscita nell'ascoltatore acculturato 40 un'inconscia rete di possibilità di so­luzione, un'inconscia rete probabilisti­ ca, che provoca nel processo di com­prensione un'alacre attività di richiami memoriali, di confronti, fra le varie forme del componimento, in stato di equivalenza o no, che sono alla ri­cerca di una specie di modello interno, o archetipo" (p. 22). 2. Dal punto di vista teorico, nel suo Manuale di armonia (Il Saggiato­ re, Mi­lano 1963), Schönberg cerca di mostrare che, assumendo che la disposizio­ne degli armonici abbia rilevanza nella istituzione della diffe­ renza tra con­sonanza e dissonanza (assunzione di cui per altro egli stesso segnala la discu­tibilità), quella differenza può essere riportata a quella tra armonici "più vicini" e armonici "più lontani" dalla nota fonda­ mentale, cosicché l'opposi­zione non avrebbe alcuna giustificazione sulla base della fisica del suono. Di conseguenza "le espressioni 'consonanza' e 'dissonanza' che indicano un'antitesi, sono errate: dipen­de solo dalla crescente capacità dell'orec­chio a familiarizzarsi anche con gli armonici più lontani, allargando in tal modo il concetto di 'suono atto a produrre un effetto d'arte' in modo che vi trovi posto tutto il fenomeno naturale nel suo complesso. - Quello che og­gi è lontano domani potrà esse­ re vicino: basta essere capaci di avvicinarsi. Nella via che la musica ha percorso essa ha introdotto nell'ambito dei suoi mezzi espressivi un numero sempre maggiore di possibilità e di rapporti già insiti nella co­ stituzione del suono" (op. cit., p. 24). In Stile e idea Schön­berg rammenta che "a distinguere le dissonanze dalle consonanze non è una maggiore o minore bellezza, ma una maggiore o minore comprensibili­tà. Nella mia Harmonielehre ho sostenuto la teoria che i suoni dissonanti sono meno familiari all'orec­chio di quanto appaiono tra gli ultimi armonici, e che perciò non si giustificano termini così violentemente contraddittori come consonanza e dissonanza. Una maggiore familia­rità con le consonanze più remote, ossia le dissonanze, eliminò gradatamente la difficoltà di com­prensione..." (Feltrinelli, Milano 1975, p. 107). Quanto al divieto di impiego delle consonanze, altrove si precisa: "L'e­sclusione degli ac­ cordi consonanti non posso giustificarla con un motivo fi­sico, ma con uno artistico, ben più decisivo. E infatti una questione di econo­mia - . 41 Secondo la mia sensibilità della forma (ed io sono tanto immodesto da rimettere ad essa l'unico diritto di comandare, per quel che riguarda le mie composizioni), l'inser­zione anche di un unico accordo tonale avrebbe conseguenze tali e reclame­rebbe per sé un tale spazio, qua­ le non ho a di­sposizione en­tro l'ambito della mia forma. Un accordo tonale accampa pretese riguardo a quel che segue e, retroattivamente, riguardo a tutto quel che precede; e non si vorrà dunque esigere che io butti all'aria tutto ciò che precede perché un accordo tonale, sfuggi­ to inavvertitamente, vuol essere reintegrato nei suoi diritti... Tuttavia, nonostante il mio punto di vista odierno, non ritengo escluso di poter usare insieme anche gli accordi consonanti, qualora si trovi la possibili­ tà di soddisfare oppure di paralizzare le loro esigenze formali" (Analisi e pratica musicale, Einaudi, Torino 1974, p. 59). §5 "In tutto il mondo, dagli Esquimesi agli abitanti della Terra del Fuoco, dai Lapponi ai Boscimani, la gente canta, urla, mugo­ la con voci selvagge o monotone; grida e mugola, nasalizza e vocalizza; squittisce e ulula; scuote sonagli e percuote tamburi. La gamma dei suoni è limitata, gli intervalli diversi, le forme di respiro brevi, la capacità inventiva apparentemente ridotta e i limiti assai marcati. È possibile chiamare tutti questi rumori con il nome di musica, se la parola musica è la stessa che designa la sacra arte di Bach e di Mo­zart?". Con questa domanda si apre l'ultimo capitolo del libro di Curt Sachs, Le sorgenti della musica, che è anche l'ultima sua opera, pub­blicata postuma nel 1962 [9]. Il grande cammino della sua ricerca e della sua riflessione si conclude così sul tema dell'al­ tra musica, della molteplicità dei linguaggi e dei problemi posti dall'assunzione di un punto di vista unitario. In realtà, la discussione verte inizialmente sulla nozione di pro­gresso, ma i dubbi subito accumulati, e con buoni motivi, sull'appli­cabilità di questa nozione alla musica e alle arti in gene­ 42 re, rivelano ben presto che il vero obbiettivo sta nel cominciare a contestare la possibilità di un ordine temporale che riproponga un modello teleo­logico che vede nell'altra cultura al più uno stadio arcaico della pro­pria, per giungere a mettere in questione la stessa possibilità di una considerazione unitaria. Una melodia esquimese, ad esempio, no­nostante la sua elementarità e rudimentalità, non è qualcosa di meno progredito di qualunque capolavoro della cultu­ ra musicale euro­pea, ma è anzitutto una musica che presuppone una modalità dell'esperienza musicale interamente diversa. Il dub­ bio posto sul tema del progresso riporta l'accento sulla moltepli­ cità dei linguaggi della musica, ma secondo un'inclinazione nella qua­le avvertiamo fin dall'inizio emergere come un problema la possibilità di stabilire un nesso tra "giochi linguistici" che sono radicati in "forme di vita" in­teramente diverse. Anzitutto la musica non è una lingua universale [10] , non è una lingua che parla immediatamente e in modo eguale a tutti gli uo­ mini. Questa formulazione di Sachs può far venire in mente, per contrap­posizione, il fatto che nella sua Teoria della visione, Berke­ ley aveva parlato del linguaggio della visione, appunto, come una lingua universale, volendo con ciò indicare, ad un tempo, che i fatti visivi sono segni e dunque debbono essere interpretati, ma anche che il loro si­gnificato è subito lì, a portata di mano, lo stes­so per tutti gli uomini: quelle manifestazioni percettive che significano per me un albero, significano un albero anche per un aborigeno australiano come per chiunque [11]. La stessa cosa non si può dire per la musica, essa non è un lin­guaggio che parla direttamente e spontaneamente a tutti gli uomi­ni. E in rapporto a questo problema deve essere conside­ rato parti­colarmente significativo il fatto che essa debba essere appresa, sia che l'apprendimento venga realizzato attraverso un vero e proprio inse­gnamento scolastico [12] , sia che esso con­ sista in una trasmissione diretta di pratiche musicali insieme alle altre pratiche della vita comu­nitaria. E tuttavia, quando si parla qui di apprendimento non si 43 deve pensare soltanto a qualcosa di simile all'apprendimento di una tec­nica, all'acquisizione di un'abilità che può essere tra­ smessa come tale. Del senso di queste tecniche infatti fa parte integrante l'oriz­zonte storico nel quale esse hanno potuto affer­ marsi ed essere elabo­rate. Questo orizzonte non se ne sta là, a disposizione di chiunque lo voglia afferrare. Esso si è appunto concretizzato in "abitudini", in "sentimenti", in orientamenti del vissuto. Perciò può sorgere il dub­bio che questo orizzonte non possa affatto essere "appreso" o che possa esserlo soltanto in modo superficiale, situandosi all'esterno della cultura a cui esso fa da fondamento. E in che modo è possibile situarsi al suo in­ terno se non apparteniamo ad essa fin dal­l'inizio? Nel campo particolare dell'esperienza e della pratica mu­ sicale sembra così prospettarsi un problema che è ovunque pre­ sente nella ricerca antropologica: una difesa effettiva del­l'al­te­ rità sembra com­portare difficoltà di principio nell'istitu­zione di un rapporto abba­stanza profondo da condurre ad una com­ prensione autentica. Si po­stula la possibilità di un incontro, senza individuarne il luogo o addi­rittura affacciando il dub­bio che esso esista o in generale possa esi­stere. Naturalmente, per chi come Sa­ chs ha così lungamente e appas­sionatamente indagato le culture musicali "lontane", questo dubbio assume un senso peculiare: esso intende non soltanto ribadire un motivo relativistico, ma soprat­ tutto la possibile validità di altri mo­delli di valutazione profon­ damente diversi da quelli europei. In questo spirito sono anche da intendere i significativi aneddoti nar­rati da Sachs e che da soli possono sostituire un lungo discorso. Si tratta - una volta tanto! - di esempi clamorosi di "incomprensio­ne" della musica colta europea da parte degli "altri". Si narra, ad esempio, di un "eccellente musicista popolare alba­nese" che, condotto ad ascoltare per la prima volta la Nona Sinfonia di Beethoven, commenta perentoriamente: "Lepo ali pre­ prosto". Che in albanese vuol dire: "Bello, ma troppo semplice" [13]. 44 In realtà ciò che si vuole rilevare qui non è tanto la que­ stione della comprensione o dell'incomprensione, e nemmeno si vuoi portare l'accento sul "condizionamento" di cui valutazioni come queste sono indubbiamente il risultato, quanto piuttosto si vuole rivendicare in positivo una differenza di va­lori, sotto­li­nean­ do ad un tempo la profondità con la quale l'ascolto è radi­cato nella tradizione cultu­rale e nell'atteggia­men­to spirituale ad essa sottesa. E tuttavia, già nell'atmosfera nella quale fin dall'inizio si muove la discussione e poi sempre più nel suo sviluppo, non può sfuggire la presenza di un disagio teorico che si avverte sia nel pessimismo di chi guarda alle altre culture musicali come culture che appartengono in ogni caso al passato, sia nel conflit­to interno che qui si sta deli­neando. Entrambi questi temi sono contenuti emblematicamen­te nella frase con la quale Sachs dichiara, dopo tutto, di non essere affatto disposto a scambiare la messa bachiana in si minore con una melodia esquimese [14]. E lo si dice, si badi bene, con un certo non so qual senso di rammarico. Mi dispiace ma non posso. Vorrei, ma è ormai troppo tardi. Sarebbe certamente un inammissibile fraintendimento inter­ pretare quell'affermazione come una sorta di inatteso rigurgito di eurocentrismo. Al contrario: essa è pienamente coerente con l'inte­ra impostazione precedente. Infatti, si tratta non tanto di porsi sul piano di una valuta­ zione assoluta, ma al contrario di non potersi sottrarre ad una valutazione condizionata, a quella valutazione che il tempo stes­ so mi impone. Il tempo infatti viene qui in questione due volte, sempre come pas­sato, e in una duplice forma: come appartenen­ za al passato, ad un passato per così dire di principio, di quelle formazioni di senso che si trovano al di fuori della tradizione europea; come passato di que­sta stessa tradizione a cui noi stessi apparteniamo e dalla quale sia­mo posseduti. La ragione profonda per la quale non possiamo scambiare 45 la grande messa bachiana con una rozza melodia esquimese, non sta né nella grandezza della prima né nella rozzezza della secon­ da. Si tratta invece di questo: "Non possiamo sfuggire alla cultura che noi stessi abbiamo costruito" [15]. Queste sono le ultime parole di Curt Sachs. Non c'è dubbio che in tutto il percorso che conduce a questa conclusione si sentano nuovamente echeggiare, certo da diverse an­golature e all'interno di una peculiare atmosfera intellettuale, i mo­tivi sui quali ci siamo soffermati in precedenza avviando il nostro riesame critico, e soprattutto sembra affiorare qui quello schema teorico al quale abbiamo imputato di non riuscire a di­ stricare l'idea della molteplicità degli universi lin­guistici da quella della loro chiu­sura di principio. E ciò è tanto più significativo per il fatto che que­sti temi si presentano proprio in un autore la cui intera attività di ri­cerca è per lo più caratterizzata dalla tensione verso sintesi di ampio respiro, che richiedono, volenti o nolenti, criteri unitari e fili con­duttori ideali capaci di stabilire nessi signi­ ficativi tra i fatti e che proprio per questo potrebbe soggiacere alle critiche di un orientamento di ricerca che fa della particola­ rità la propria vocazione esclusiva. Vogliamo ora riconsiderare la conclusione a cui perviene Sachs alla luce delle intenzioni critiche che abbiamo già mani­ festato in precedenza. In quella conclusione, come del resto nel­ le considera­zioni che la preparano, affiora di continuo come un problema la possibilità di vivere tra linguaggi differenti, la diffi­ coltà di mantene­re la presa sull'uno e sull'altro - e quindi anche, benché questo tema si presenti solo di sbieco, di pervenire ad una comprensione au­tentica di un altro linguaggio. Il richiamo al lin­ guaggio verbale del resto potrebbe insegnarci proprio questo: la possibilità di apprendere più di una lingua si fonda sul fatto che in lingue diverse possiamo dire la stessa cosa, dall'una all'altra possiamo entro limiti ragione­volmente larghi, operare una tra­ duzione, mentre un simi­le proble­ma è semplicemente privo di 46 senso nel caso delle diverse forme di espressione mu­sicale. L'ac­ cenno poi, fatto da Sachs, all'impiego della parola "neve" e alla ventina di termini qualificativi con i quali gli esquimesi differen­ ziano vari modi di essere della neve, tende a collegare a tal punto il linguaggio verbale alla forma di vita da estendere la difficoltà al linguaggio verbale stesso. Potremmo arri­vare a sostenere che nessuna traduzione autentica può essere data della parola "neve" così come è impiegata dagli esquimesi: debbo essere stato lag­ giù da sempre, mio padre e mia madre debbono es­sere andati a morire sulla neve perché io possa dire di comprendere che cosa significhi quella parola per un esquimese! Emerge così nuovamente un problema anche troppo gene­ rale nel quale vorremmo evitare di immergerci più di quanto sia strettamente indispensabile alle nostre esigenze cri­tiche. A tale scopo converrà indugiare sui nostri aneddoti mini­mi che tutta­ via, come ab­biamo già sottolineato, possono svolge­re un'effica­ ce funzione di sintesi. La frase del cantore al­ba­nese ci consente un breve commen­to che potrebbe fare passare in secondo piano la funzione prevalente che assolve qui di illustrare clamorosamen­ te la differenza di modelli e di abitudini di ascolto. Sachs stesso rammenta infatti l'impor­tanza che riveste nella musica popola­ re albanese l'elemento ritmico e la sua particolare complessità sotto questo riguardo [16]. L'"abi­tudine" dunque ha certamente orientato l'ascolto verso l'a­spet­to ritmico, ed è indubbiamente con implicito riferimento ad esso che egli si esprime così: è troppo semplice. Ma non è affatto lecito ritenere, solo per questo, che l'estra­neità verrebbe in questo modo ribadita ovvero che una simile valutazione documenterebbe unicamente l'inesisten­za di un luogo d'in­contro. Infatti il punto essenziale è che in ogni caso, a partire da un ascolto "pregiu­dicato", viene qui colto qualcosa che appartiene all'opera stessa - e voglio proprio dire questo: anche a me, ora che ci penso, la Nona Sinfonia sembra troppo semplice. Cosicché è vero, ma è anche falso che quella valutazione mani­festi un'incomprensione, ed è senz'altro falso ritenere che 47 essa dipenda in tutto e per tutto dalla "cultura" dell'ascol­tatore. Altrimenti non sarei in grado di farla mia propria. Forse si osserverà: finora non è stato determinato in che senso si parli di "comprendere" e di "comprensione". Ed a ciò noi controbat­tiamo: qualunque cosa si intenda con comprensione, questa nozione deve comunque essere una nozione praticabile. Infatti potrebbe acca­dere che essa sia invece impiegata in modo tale da rendere irrilevan­te affermare che la comprensione mi sia consentita o preclusa; op­pure che io non riesca nemmeno ad afferrare che cosa propriamente mi chieda - di dire? di fare? - quale penitenza mi imponga chi mi chiede se io abbia veramen­ te compreso, non dico una melodia esqui­mese, ma quell'opera beethoveniana, addirittura. Supponiamo ora che si dica: nessuno può apprezzare insieme la messa bachiana in si minore e una me­ lodia esquimese: perché nes­suno può essere nello stesso tempo un europeo del secolo XX e un esquimese di un'epoca inde­terminata. Formulata in questo modo, forse nessuno accet­terà un'af­ferma­ zione come questa. È importante tuttavia render­si conto di che cosa comporti il suo rifiuto. Nemmeno Sachs del resto compie esattamente questa afferma­zione. Egli afferma soltanto di non essere disposto a scam­biare la messa in si minore con una melodia esquimese. Ma nessuno gli ha chiesto di farlo! §6 Si va così imponendo a poco a poco la necessità di una profon­ da revisione di quell'atteggiamento di principio che in un primo tempo poteva sembrare addirittura scaturire dall'inter­no della stessa pro­blematica da cui abbiamo preso le mosse. I richiami relativistici, le pretese di un convenzionalismo radicale che non conosce limiti nemmeno nella cosa stessa, l'idea che basti evocare il linguaggio per aver chiaro di fronte agli occhi come stanno le cose - tutto ciò si ri­vela ben presto fonte di difficoltà e di con­ fusione. 48 Particolarmente erronea è l'idea che a porci su quella via sia la riflessione sulle vicende più recenti della musica. Al contrario è ne­cessario rendersi conto fino in fondo che quando, a partire da consi­derazioni sulla musica, assumiamo quel­l'o­rientamento e quell'im­postazione non facciamo altro che applicare un vero e proprio sche­ma filosofico già pronto, la cui adeguatezza ed effi­ cacia per gli scopi di una filosofia della musica non può affatto essere accettata come un'ovvietà, ma deve essere messa alla pro­ va. E le nostre prime prove, i nostri primi sondaggi suggerisco­ no certo di orientare la ricerca in tutt'altra direzione. Essi mostrano soprattutto la necessità di spingere la critica sino a cogliere quello che può essere considerato il principale presuppo­sto di una prospettiva semiologica che intenda, più o meno consa­pevolmente, incontrarsi con lo schema empiristico nell'ambito della filosofia dell'esperienza: si tratta del­l'idea che ogni formazione di senso abbia origine da una pura attività del comporre materiali che sarebbero in sé privi di articolazioni e di differenze interne. A partire da essa possiamo ritrovare tutti i motivi che abbiamo già delinea­to in precedenza, così come tutti i luoghi comuni che sono a essi collegati. Stando a questo presupposto, ogni richiamo ad un piano dell'esperienza che non sia da subito soggiacente ad interpreta­ zioni sembra quasi attrarre su di sé la critica mille volte riproposta della pretesa che si dia un "occhio innocente" al quale i dati si danno, ap­punto, nella loro irrelatività, così come essi sono. Non si è ancora forse abbastanza ripetuto che, già sul piano percet­ tivo più elemen­tare, e poi a maggior ragione nell'apprensione percettiva di prodot­ti caratterizzati da una particolare ricchezza nella stratificazione dei sensi come sono in generale le opere d'arte, il momento della "rice­zione" non è separabile da quello dell'"inter­pre­tazione" - e quindi dalle proiezioni di senso che de­ rivano dallo sfondo delle nostre abi­tualità? Anzi: lo si è ripetuto anche troppe volte, e per lo più senza ren­dersi conto che questa inseparabilità, che è una pura e sempli­ 49 ce ov­vietà in rapporto a decorsi percettivi di fatto, non significa e non può significare l'improponibilità della distinzione tra l'una e l'altra componente. Al contrario: la possibilità di operare questa distinzio­ne è una condizione per po­ter asserire l'inseparabilità di fatto, altrimenti non sapremmo che cosa viene giudicato insepa­ rabile. Ciò è quanto basta per mostrare come siano fuori luogo le troppo facili polemiche contro la pretesa di datità assolute che vengano colte da un'esperienza "innocente". Questa pretesa non ha affatto bisogno di essere avanzata o qualora lo fosse essa si ridurrebbe in ogni caso alla pretesa, del tutto legittima, di poter distinguere le componenti "interpretative" da quelle puramente "ricettive" - cioè, tra gli aspetti della formazione globale di senso appartenenti al lato tempo­rale-soggettivo e gli aspetti appartenen­ ti all'oggettività considerata nella sua struttura fenomenologica. L'enfasi posta sull'"interpreta­zione" - intendendo que­sto termine nell'accezione che sempre è presupposta in questo genere di di­ scorsi, con gli accenti posti sulle accidentalità e sulle relatività culturali - rende invece privo di og­getto il compito di un'inda­ gine volta al campo della ricettività. Questo compito può essere posto e cominciare ad essere assolto solo se questo campo viene concepito come attraversato da ten­sioni e di­stinzioni interne che formano la base per possibili configurazioni di senso. Ad una concezione puramente proiettiva, si contrappone così una concezione più complessa che considera il senso come una for­mazione che ha bisogno di presupposti non solo dal lato soggettivo, ma anche da quello oggettivo. Si consideri, per illustrare questa opposizione, un esempio ri­corrente tratto dal campo della visione: la rappresentazione della profondità in un dipinto. Si potrebbe in proposito soste­ nere che la rappresentazione della profondità poggerebbe su un modo di "interpretare" contorni e cromatismi il cui principio non sta per nulla in essi, ma in abitudini visive acquisite; di con­ seguenza le rego­le secondo le quali la rappresentazione viene in fin dei conti costrui­ta non avrebbero alcuna necessità interna e 50 sarebbero puramente "convenzionali"; oppure che queste regole abbiano a che fare con la cosa stessa, nel senso che la loro ap­ plicazione consente la realizza­zione di configurazioni percettive sulla cui base è in generale possi­bile la visione della profondità, qualunque cosa ne sia poi dell'azio­ne, in circostanze determina­ te, dello sfondo di abitualità visive ac­quisite. Si tratta di formulazioni profondamente diverse, di una vera e propria alternativa che non ammette alcuna soluzione inter­ media. Nella sua opera intitolata I linguaggi dell'arte, un libro a cui è utile fare riferimento proprio per la chiarezza con la quale mostra il nesso tra una prospettiva semiologica e una fi­losofia empiristica dell'esperienza, Goodman osserva in proposito, fa­ cendosi sosteni­tore aperto ed estremo della convenzione, che "i quadri in prospettiva, come tutti gli altri, debbono essere letti; e la capacità di leggere deve essere acquisita" [17]. Una simile formulazione merita certo qualche parola di com­mento. Anzitutto si noterà il rinvio metaforico alla lettura, che propone senz'altro la connessione analogica tra un dipinto e un testo. Negli intenti di Goodman, questa connessione è operante nelle sue implicazioni più forti. Intanto, un testo deve essere riconosciuto co­me tale, e questo riconoscimento non è senz'altro ovvio dal momen­to che è necessario che certe configurazioni grafiche vengano appre­se come "segni provvisti di significato"; e in secondo luogo, il te­ sto debbo saperlo leggere, a quei segni debbono essere attribuiti quei significati che com­pe­tono a essi, e naturalmente a leggere si impara andando a scuola. La pittura - anch'essa dunque, che pure si fonda sulla vi­ sio­ne, non è per nulla una lingua universale: anche la rappre­ sentazione vi­siva della realtà che si pretende più fedele potrebbe dunque non es­sere "compresa", poiché è costruita sulla base di regole che non hanno alcun fondamento oggettivo e che, come le regole della scrittura e della lettura, si apprendono solo attra­ verso un processo di "addottrinamento" [18]. 51 Con chiarezza veramente esemplare si arriva qui a enun­ ciare esplicitamente la tesi - spesso prudentemente sotta­ciuta e che trapela solo come una tendenza - che stabilisce una sorta di equivalenza tra l'affermazione della molteplicità delle forme della rappresentazione e la pura e semplice soppressione dell'oggettività: "La rappresentazione è relativa - qualsiasi quadro può rappresentare qual­ siasi oggetto" [19]. In un simile contesto non può mancare, e in effetti non manca, l'esempio del solito etnologo che mostra una fotografia al solito sel­vaggio, il quale, non essendo andato alle nostre scuole elementari, non sa "leggere", e dunque gira e rigira quel piccolo pezzo di carta tra le mani, lo guarda per diritto e per rovescio, e perfino ne osserva attentamente il retro, restituendolo infine con l'aria interrogativa di uno che non ci ha capito proprio nulla [20]. Poiché nessuna rappresentazione può essere più somiglian­ te all'originale di una normale fotografia scattata in condizioni normali, quello strano caso sembra fornire la prova palmare non solo dell'importanza della componente "culturale" - cosa che in generale non sarà affatto contestata - ma che essa ha una tale importanza da rendere del tutto irrilevante il fatto che la confi­ gurazione percet­tiva sia costruita secon­do certe regole piuttosto che secondo altre. Invece qui c'è soltanto la prova palmare di un equivoco partico­larmente urtante, che ha origine dal misconoscimento di una distin­zione assolutamente necessaria. In considerazioni di questo genere si assume che se esistono direzioni di senso ap­ partenenti alla cosa stessa, esse debbono essere immediatamente riconosciute in ogni tempo e in ogni luogo. La reazione dei sin­ goli di fronte ad una data configurazione assume così il carattere di una vera e propria prova sperimentale; e può allora apparire ovvio che a prove sperimentali debba essere de­man­data ogni de­ cisione in questo ambito di proble­mi. Questo stesso motivo sta naturalmente anche alla base della convinzione che qualora una qualche forma di addestramento sia necessaria per l'afferramen­ 52 to di relazioni e connessioni, questo stes­so fatto sia a sua volta una dimostrazione che queste relazio­ni e con­nessioni siano di natura meramente proiettiva. Così nella frase precedentemente citata a proposito del proble­ma dell'afferramento di una rappresentazione prospettica si sottoli­nea come argomento in ultima analisi decisivo il fatto che "la capa­cità di leggere deve essere acquisita", dunque che l'af­ ferramento stesso è risultato di un addestramento esat­tamente come lo sono le regole di costruzione del disegno. Ora, la distinzione da cui sorge l'equivoco può essere sem­ plicemente formulata dicendo: ciò che importa non è per nulla se questa o quella determinata persona di fronte ad un dipin­ to realizzato se­condo certe regole percepisca o non percepisca la profondità, ma se le regole in conformità delle quali quel dipinto è stato costruito siano tali da rendere possibile per qualcuno la per­ cezione della profon­dità. L'un problema viene ora nettamente separato dall'altro: an­ zitutto vi è una possibilità che è mostrata da considerazioni atti­ nenti alla struttura del campo percettivo. E poi vi sono compor­ tamenti di fatto, e in particolare vi è la varietà delle reazioni dei singoli, in cir­costanze determinate, accertabili me­diante prove. Il modo in cui questi livelli problematici entrano in rapporto è completamente diverso da quello in precedenza ipotizzato. In pri­mo luogo le reazioni dei singoli non possono avere forza dimo­ strativa in rapporto alle tensioni di senso interne al campo percet­ tivo: al contrario queste tensioni rappresentano nel loro insieme un criterio per districare la componente "proiettiva", e quindi per valutare l'in­cidenza e il peso dell'"esperienza passata". Ed è appena il caso di notare come, in questa diversa impostazione del proble­ ma, venga tolto qualunque fondamento all'idea che il solo dato di fatto della necessità di un addestramento implichi l'indifferenza del materiale di base. Tanto meno si potrà pretendere che questa indifferenza sia provata dalla molteplicità delle "interpretazioni". In realtà gli argomenti relativisti spesso non sono affatto 53 argomenti, ma si riducono ad una pura e semplice esibizione del­ la molteplici­tà. Restando al nostro esempio della rappresen­tazione prospettica, si pretende che la molteplicità dei me­todi per la crea­ zione di un ef­fetto di profondità sia come tale sufficiente a mostra­ re la convenzio­nalità di quei metodi, passando al di sopra del fatto che questa mol­teplicità non è affatto indefinita, ma ha il proprio limite in quegli aspetti del fenomeno globale che parte­cipano alla costituzione per­cettiva della profondità e sui quali del resto i diver­ si metodi rappre­sentativi hanno il loro fonda­mento. Questo atteggiamento è del resto connesso con la tendenza ad attestarsi ai fatti stessi come se la ricerca avesse in essi il suo termine, come se essi non fossero al tempo stesso anche pro­ blemi. Non è forse un problema che qualcuno, posto di fronte ad una fotografia di una persona o di un luogo a lui ben noto, non afferri la somiglianza e non realizzi la sintesi necessaria per istituire il rapporto di immagi­ne? Il dato di fatto sembra proporre da sé la necessità del suo oltre­passa­mento verso un'interpretazione che sia in grado di renderne conto. Ma ciò richiede che si riconosca uno scarto tra il comportamento accertato e ciò che sarebbe lecito attender­ si, prima di ogni accertamento, stando ai dati della situazione percettiva. In altri termini, dobbiamo essere in grado di dire: ciò che avrebbe dovuto accadere non si è invece veri­ficato e questo fatto richiede una spiegazione. Un tale non vede la profondità nel disegno, men­ tre esso è fatto in modo tale che egli do­vrebbe vederla. Vi sono con­ dizioni per un'apprensione che tuttavia non si verifica. E questo è appunto un problema. Se invece non riteniamo che sia lecito parlare di condizioni, se si sostiene che non vi è nulla nella configurazione percettiva che possa giustificare l'idea di un senso possibile, e dunque l'im­ piego di espressioni come "dovrebbe" o "avrebbe dovuto" sa­ rebbero solo il segnale di opinioni pregiudiziali, allora si impone la tendenza a bloccare ogni movimento verso l'interpretazione, ritenendosi sod­disfatti della pura e semplice fissazione e documentazio­ ne della differenza. 54 Vogliamo spiegarci ricorrendo ancora una volta ad alcune esemplari formulazioni di Goodman - questa volta concernenti la tematica dell'espressione. Il contesto polemico riguarda ora "la diffu­sa convinzione che suscitare emozioni sia una funzione primaria dell'arte" [21] - una frasetta nella quale egli ritiene (sua bontà) di po­ter riassumere la filosofia "romantica" dell'arte; e ov­ viamente la po­lemica è rivolta anche in direzione di una conce­ zione che assegna all'arte il compito non solo di suscitare emo­ zioni, ma anche soltanto di esprimerle. Si comprenderà allora che questo compito critico possa cominciare con alcune riflessioni dedicate all'espressione del volto, alla mimica e alla gestualità espressiva in genere. I tratti del volto, nella loro mobilità "espri­ mono" sentimenti - così si dice di solito. E va da sé, tenendo conto dell'obbiettivo perseguito, che si tratterà al­lora anzitutto di indebolire al massimo il nesso per il quale un dato esteriore viene inteso come una manifestazione immediata di un determi­ nato stato interiore. A questo proposito, ciò che abbiamo in precedenza os­ servato in rapporto al nesso raffigurativo o al problema della rappresentazione prospettica dello spazio dovrà essere soltanto ripetuto, quasi senza modificazioni. In generale siamo portati a ritenere che vi sia una qualche connessione intrinseca tra sen­ timento ed espressione, quasi che, ad esempio, un certo modo di atteggiarsi del volto che noi intendiamo come manifestazione di un sentimento di ira sia l'ira stes­sa stampata sul volto. Invece, anche l'afferramento dell'espressione va considerato come una "lettura", nel senso e con le implicazioni che abbiamo illustra­ to in precedenza. Potremmo infatti sostenere che le espressioni facciali siano ovunque senz'altro comprese? Al contrario. Subi­ to potremo addurre una grande varietà di fatti che mostrano la necessità di una vera e propria decifrazione, o inversamente di un vero e proprio processo di addestramento al controllo della mimica. Che le espressioni facciali siano "plasmate dal costu­me e dalla cultura" non è forse mostrato in maniera esemplare dalla 55 mimica dell'attore giapponese che è del tutto indecifrabile per un occidentale? Del resto è sufficiente ricordare il lungo e difficile stu­dio a cui si sottopongono gli attori in genere per imparare a espri­mere i sentimenti in tutte le loro varietà e sfumature [22]. Neppure in questo caso si dimenticherà di approfittare della ci­tazione dell'antropologo, il quale ci assicura che "... non ci sono movimenti fisici, espressioni facciali o gesti che provochino rispo­ ste identiche in ogni parte del mondo... Un sorriso in una società indi­ca amicizia, in un'altra imbarazzo e, in un'altra ancora, può avvi­sare che, se non viene meno la tensione, può seguire ostilità e ag­gressione" [23]. Anche questa osservazione verrà senz'altro inserita tra quel­la documentazione della differenza che dovrebbe bastare a sostenere la tesi secondo la quale "tanto nel caso della rappresenta­ zione, quanto dell'espressione certe relazioni si fissano stabilmente per un certo popolo attraverso l'abitudine, ma in nessuno dei due casi esi­stono relazioni assolute, universali e immutabili" [24]. Peraltro proprio l'osservazione intorno al riso attira la no­ stra attenzione critica, essendo l'esempio dell'attore sen­z'altro indiscu­tibile, ma anche incapace di provare alcunché in rapporto al nostro problema. Ciò che invece ci appare singolare in quella frase è che essa può assumere il senso e assolvere lo scopo che ad essa gli attri­buisce il nostro autore solo se viene intesa nel senso più letterale possibile, come se ci fosse un popolo per il quale il riso esprime solo amicizia, un altro solo im­barazzo e un altro ancora solo ostilità e ag­gressione latente. Noi europei, ad esempio, sorridiamo ad un amico perché siamo lieti di incon­ trarlo. Siamo abituati a fare così. E il no­stro amico che vede il nostro sorriso, lo interpreta come una manife­stazione di letizia, perché anche lui è abituato a fare così. Ma c'è forse un qualche legame interno tra l'una e l'altra cosa? Per nulla affatto. Si tratta solo di un'associazione occasionale - venuta fuori chissà come e chissà perché. E infatti se nel nostro sorriso si imbat­tesse un uomo di un'altra tribù, forse se ne scapperebbe a gambe levate 56 sospettando una grave aggressione di lì a poco. Qui diventa evidente la miseria teoretica di tutte queste conside­razioni relativiste. Occorre forse essere osservatori raffi­ nati e psico­logi esperti per cominciare con il notare che il riso in generale può esprimere di volta in volta gioia, imbarazzo, amicizia, ostilità, disprezzo, e molte altre cose ancora? Tutti sanno questo. Io, ad esempio, rido quando vinco; ma rido anche quando perdo. E come talvolta si piange di felicità, talaltra si ride per non piangere. Vi sono poi comportamenti connessi al riso molto particola­ ri. Ad esempio, i sardoni, preistorici antenati dei nostri enigmatici sar­di, ammazzavano i loro vecchi ridendo. Sardonicamente [25].. Di fronte a ciò potremmo allora limitarci al rilievo della diffe­renza, come se la prima e l'ultima parola fosse concentrata nel ben noto detto: Paese che vai, usanza che trovi? Commenteremmo allora: ecco qui una tribù per la quale l'ucci­sione dei vecchi è abitualmente connessa al riso. Guarda come è vario e relativo il senso delle espressioni facciali umane! La concezione che sta sullo sfondo di un simile commento consi­dera la mimica come se in essa fosse in gioco l'impiego a piacere di un repertorio di movimenti facciali a nostra disposi­ zione, di una collezione di smorfie in rapporto alle quali si tratta semplicemente di decidere a quale sentimento esse debbano essere associate. L'idea, di origine linguistica, dell'arbitrarietà del segno si rispecchia ora nella concezione secondo la quale una smorfia qua­ lunque potrà essere associata ad un sentimento qualunque. Dell'esistenza di questa o di quella connessione non fac­ ciamo poi altro che prendere atto. Il gesto, tipicamente empirista, del prendere atto è, in questa impostazione, ovunque dominante, in coerenza del resto con il timore, anch'esso tipicamente em­ pirista, della formulazio­ne di opinioni che tende­rebbero subito a presentarsi, per il modo stesso in cui è deli­ne­ata la problematica, con la caratteristica negativa del pre­giudizio. Mentre le nostre considerazioni e osservazioni critiche vorrebbe­ro mostrare che, 57 in uno sviluppo coerente, si corre qui il rischio di un vero e pro­ prio blocco della ricerca. Affinché que­sto blocco venga superato è necessario un atteggiamento interamen­te diverso: fin dall'inizio, per attenerci ancora al nostro esempio, dobbiamo avvertire, dietro la possibilità del riso di connettersi a sen­timenti diversi e anche contrastan­ti, un nodo di problemi che debbono essere dipanati e che chiamano in causa, vorremmo proprio dire, la natura del riso. E ciò vale a maggior ragione nel caso del riso dei sardoni. Non esiteremmo qui a osservare che l'ingenuo pensiero "non si dovrebbe affatto ridere quando si uccidono dei vecchi" abbia una sua necessità per mettere in moto le domande necessarie allo svi­ luppo della ricerca. Di quel fatto non dobbiamo soltanto prendere atto, ma anche rendere conto, dobbiamo por­tare la nostra attenzione in dire­zione di quella complessa trama di rapporti nella quale quel compor­tamento ha le sue ragioni [26]. E si comincia allora forse a sospettare che la critica del pregiudizio non sia sempre e necessa­ riamente incompatibile con l'elo­gio del preconcetto. §7 Vogliamo ora mettere in secondo piano i motivi polemici per rac­cogliere insieme le linee emerse in positivo all'interno della nostra discussione. Credo intanto che risulti chiaro dal modo stesso in cui essa si è andata sviluppando che l'insofferenza più volte manifestata nei confronti del relativismo e dei temi a esso connessi non può affat­to essere interpretata come una sorta di preludio verso la riacquisi­zione di posizioni che possono essere considerate da gran tempo su­perate. Fin dall'inizio, del resto, la nostra critica è stata sviluppata nel presupposto che alcuni punti fermi fossero in ogni caso ben deter­minati. Il nostro vero pro­ blema è tuttavia in che modo possiamo muoverci intorno a questi punti fermi. Tutte le nostre considerazioni precedenti mostrano anzitutto quanto sia fuorviante contrapporre al dogmatismo del­le giustifica­ zioni assolute un atteggiamento di apertura così incondizionata 58 da rivelare difficoltà quanto meno singolari ed esiti più o meno nasco­stamente paradossali. Ed è naturalmen­te disponendoci al di fuori di quest'alternativa che cominciamo con l'affermare l'er­ roneità di una concezione che riduce ogni determinazione del materiale della musi­ca a dati di fatto di ordine psicologico e so­ cio-culturale. Anche nelle nostre riflessioni filosofiche intorno alla musi­ ca dob­biamo invece lasciarci guidare da una presa di posizione che ha natu­ralmente una portata più generale: la componente soggettiva che in­terviene nella produzione delle formazioni di senso ha di fronte a sé un campo di sensi latenti, di direzioni di senso possibili; e il senso stesso, nella sua realtà ed effettività, sorge come un risultato dei di­namismi che entrano in gioco in questo rapporto. Nell'ambito di questi dinamismi interviene certamente an­ che la problematica dell'abitudine, ma solo come parte di una tematica più ampia e d'altronde orientata in una maniera inte­ ramente diver­sa. Perciò sembra, più opportuno richiamarsi alla dimensione temporale in genere, che è la dimensione anzitutto pro­ pria della soggettività, così da implicare non soltan­to i motivi dell'educazione e dell'ap­prendimento, degli a­bi­ti mentali e dei pregiudizi, dei sensi sedimen­tati e socialmen­te validi ed ogni al­ tro motivo che può essere raccolto sot­to il titolo dell'abitudine, ma anche tutte le tensioni che apparten­gono alla soggettività come soggettività attiva e attivamente operan­te con le sue scelte e l'intero sfondo di pensieri che la motivano. Di fronte a tutto ciò vi sono tuttavia anche quei dinamismi che si impongono alla soggettività stessa come appartenenti al suo campo di azione che deve essere concepito come una tota­ lità internamente strutturata. Alla potenza dell'abitu­dine, e più in generale delle forze che hanno il loro fondamento nella dimen­ sione storico-temporale dell'esperien­za, con­­trap­poniamo così la po­tenza della struttura. Dall'u­na e dal­l'altra scaturisce ogni forma­ zione di senso, l'origine del sen­­so sta nell'incontro tra queste due 59 potenze. Tutto ciò potrebbe essere schematizzato così: Vogliamo ora delineare la prospettiva problematica che una simile presa di posizione suggerisce nel momento in cui comin­ciamo a con­cretizzarla sul piano dei problemi di una filosofia della musi­ ca. Le formazioni di senso con cui abbiamo a che fare sono allora specificamente formazioni musicali, sono in generale le opere di cui consta la musica stessa - si tratta dunque di oggettività culturali integrate in una tradizione e che debbono essere colte e afferra­ te in questa inte­grazione, in questa loro essenziale storicità. Ma queste opere di cui consta la musica constano a loro volta di suo­ ni, esse sono alcunché di reale in quanto sono costituite di questo determinato materiale percetti­vo, che ha in se stesso, come noi stia­ mo sostenendo, pri­ma che una qualunque elaborazione lo faccia rivivere all'in­terno dell'opera mu­sicale, le sue determinazioni e differenze caratteristiche, le proprie qualità specifiche che stan­ no a fondamento di molteplici modalità possibili di connessione e di rapporto. In queste stesse qualità e ca­ratteri e nella rete di relazioni che sorgono sulla loro base si innestano direzioni e ten­ sioni immaginative che confe­riscono al materiale sonoro stesso la sua molteplice latenza espressiva. E tutto ciò fa na­turalmente parte del lato della struttura. Proprio il fatto che questo termine viene impiegato qui in primo luogo in rapporto ad un campo di manifestazioni percettive, conside­rate puramente come tali, mostra che esso non intende fare riferi­mento anzitutto a reticoli logici da rintracciare ad un grado di mag­giore o minore profondità al di là delle manifestazioni percet­ tive stesse, ma al contrario a distinzioni ed a relazioni che sono 60 rilevabili interamente all'interno di una considerazione fenome­ nologica. Inoltre il suo impiego è libero da implicazioni obbiet­ tivistiche, dal momento che il legame con l'elemento soggettivo in generale deve essere necessariamente e ovviamente mantenuto all'interno di con­side­ra­zioni che non hanno di mira oggetti in ge­ nerale, ma oggettivi­tà percepite. Ciò che invece viene posto da par­ te, come appartenen­te ad un ambito problematico essenzialmente diverso, è la connessio­ne con la soggettività considerata nella sua determinazione empiri­co-psicologica. Una simile impostazione del problema ci consente di fare un im­piego della metafora del linguaggio in modo da illuminare un nuovo e fondamentale aspetto che in precedenza non poteva che restare oscuro. Abbiamo già rilevato che le nostre critiche in direzione di una prospettiva semiologica non ci precludono affatto l'impiego della metafora del linguaggio, ma ci consentono anzi di fare di essa un impiego liberamente illustrativo, di volta in volta cali­ brato al contesto e con tutti gli adattamenti alle necessità del ca­so in discussione. Ora, se vogliamo, come del resto si è già fat­to in precedenza, parlare dei linguaggi della musica per indicare i modi in cui sono realizzate le sue opere, se in generale portia­ mo l'accento sulla loro varietà e mol­teplicità, è chiaro che qui viene implicata anzitutto la dimensione tem­porale: le diffe­renze che istituiscono questa molteplicità rimandano infatti a validità so­ cialmente sedimentate, alle differenze delle tradi­zioni e delle cul­ ture. Ma allora si impone anche la distinzione tra pia­no linguistico, essenzialmente legato alla dimensione temporale, e piano prelin­ guistico, al quale debbono anzitutto essere riferite le consi­derazioni fenomenologico-strutturali. All'in­terno di una pro­spettiva ernpiri­ stico-semiologica questa distinzione sarebbe improponibi­le per il semplice fatto che, in rapporto al problema dell'origine del senso, il piano prelinguistico non sarebbe altro che un puro nulla. Tutto ac­ cade, appunto, dentro un gioco linguistico, del quale certamente fa parte l'esperienza stessa, ma in ogni caso come un'espe­rienza 61 essenzialmente determinata dalle regole che istituiscono quel gioco. Ciò che ora ci apprestiamo a sostenere è invece proprio la pre­gnanza di quella distinzione, già naturalmente da un pun­to di vista generale, e poi specificamente sul terreno di una riflessione filosofi­co-musicale. In realtà non è forse molto importante stabilire i confini entro i quali questa riflessione dovrebbe attenersi e dunque l'am­ piezza del campo che essa abbraccia: questi confini possono ben restare aleato­ri, come sembra giusto nel caso di ogni "disci­plina" della filosofia. È invece importante per determinare l'orientamento di una filosofia della musica fissare il punto da cui essa ha inizio. E noi sostenia­ mo allora che una filosofia del­­la musica comincia e può cominciare soltanto facendo un passo indietro: essa non si rivolge da subito alla musica stessa conside­rata nella molteplicità aperta delle sue forme espressive, ma regredisce al piano dell'esperienza del suono come un'e­sperienza che forma ad un tempo il presupposto e il fondamento di ogni progetto composi­tivo. Ma proprio su questo punto bisogna intendersi: che vi siano dei presupposti o dei fondamenti di ogni progetto compo­sitivo è, in fondo la rivendicazione di ogni concezione "essen­zialistica" della musi­ca, di ogni concezione, cioè, che ritiene di poterne cir­ coscrivere il concetto in modo non arbitrario, e quindi di poter ritrovare, al di là della varietà delle sue forme di mani­festazione, una ra­dice unitaria. In che modo si prospetta ora questo pro­ blema alla luce delle nostre consi­dera­zioni preceden­ti? Qual è propriamente la direzione in cui agisce l'idea che ogni progetto compositivo abbia dei presupposti e dei fondamenti? Intanto muta il modo di concepire il progetto stesso: in questa parola è contenuta l'immagine della proiezione. Ma questa proiezione non può essere considerata secondo lo schema ele­ mentare dell'occhio che anima una materia senza vita, come se il colore delle cose dipen­desse dalla luce del nostro sguardo. E in realtà non è nemmeno per­tinente l'opposta esemplarità della 62 scultura, così spesso citata per rammentare la vittoria dello scal­ pello sulla durezza della materia inerte. Nell'uno come nell'al­tro caso si ha a che fare con un'opposi­zione troppo elementare, nella quale il momento soggettivo è in ogni caso dominante. E lo è proprio nel senso, in entrambi i casi, di un sopravanzamento soggettivo sulla materialità stessa - la sogget­tività essendo sede di ogni "forma" e ogni prodotto il risultato della sua "attività formatrice". Più coerente con le nostre considerazioni è invece l'idea di una progettualità che ha le sue origini nella soggettività, che in essa co­mincia oscuramente a formarsi, ma che può diventare realmente produttiva solo quando si incontra con un materiale concepito come ricco di vita e animato da autonome tensioni interne. Certamente, questa vitalità interna è ancora da attribu­ ire al nesso con la soggetti­vità - il materiale così considerato, il suono, non è proposto secon­do un'ob­biet­tività che può essere garantita solo dall'adozione di un punto di vista fisicalistico. Si tratta, lo ripetiamo, pur sempre del suo­­no percepito, del suono in quanto esso è dato in un'e­spe­rienza del suono. Ma ciò che è prodotto nella relazione con la soggettività in generale si impone alla soggettività nella sua effettività e concre­tezza come qual­cosa che appartiene al suono stesso, alla sua interna vitalità della quale siamo anzitutto percettivamente partecipi. Perciò è perfettamente lecito parlare di sensi prede­terminati, di differenze precostituite, di forme relazionali e di regole in esse fondate che stabiliscono vincoli e condizioni che sono da subito poste non appena avviene l'incontro con la materia sonora. Po­ tremmo parlare addirittura di veri e propri a priori fenomenologi­ co-strutturali, e non soltanto per eccitare la repulsione empiristi­ co-semiologica di fronte alla parola, ac­centuando così la differenza dell'una e dell'altra posizione: ma anche per richiamare l'attenzione sul fatto che su quella formulazione non vi è nulla da ridire se la parola "a priori" viene strettamente intesa nel quadro della tema­ tica esposta. 63 Sarà allora difficile fraintendere il nostro problema come se si trattasse di proporre schemi di giudizio di cui non si è in grado di indicare il fondamento - questo è all'incirca il senso in cui si parla ne­gativamente di "apriorismo". Si tratta invece di penetra­ re nella natu­ra della materia sonora e di indagarne le peculiarità fenomenologi­che in modo da dispiegare ed esibire il campo di possibilità aperto all'azione compositiva. Questo tema del possibile, già affiorato in precedenza, deve es­sere richiamato con forza a questo punto per indicarne la por­ tata e le implicazioni. Ed in particolare deve essere sottolineato il fatto che es­so deve essere pensato dinamicamente - le possi­bilità dell'universo dei suoni sono possibilità in tensione, le tendenze da cui esso è attra­versato possono divergere variamente ed entrare variamente in con­trasto tra loro. Ora, il parlare di possibilità non solo richiama l'idea di una potenzialità non realizzata, ma pro­ pone soprattutto l'azione realizzativa come un'azione che decide. Quando parliamo di sensi pre­costituiti dun­que intendiamo af­ fermare che ciò che viene precosti­tuito è soltanto l'ambito delle alternative possibili per una decisione. Per ciò che concerne la relazione con la soggettività siamo dun­que ben lontani da una concezione che vede nei materiali sonori delle pure "cifre" da rendere significanti e che concepi­ sce dunque la soggettività stessa come una soggettività, che proiet­ ta "interpretazioni". Viene invece subito in primo piano il tema della "ricettività" e si avanza la proposta di un'inda­gine rivolta alle modalità strutturali dell'esperienza del suono in quanto esse formano presup­posti e condizioni appartenenti ad un piano che precede le differenze dei linguaggi della musica. Ma sullo sfondo di questa indagine vi è fin dall'inizio il problema di una conside­ razione volta in direzione di una soggettività attiva, cioè di una soggettività che prende decisioni. Infatti, finché si rimane sul piano di un'esplorazione di ciò che sta dalla parte della struttura, l'elemento soggettivo viene posto ai margini e deve dunque essere dato il massimo risalto ai 64 dinamismi interni della materia sonora: ma sono poi proprio que­ sti dinamismi che chiamano in causa l'azione sog­gettiva, esigendo essi di continuo che venga operata una scelta. La composizione può allora essere considerata come un risultato dei dinamismi del materiale quando essi siano concretamente entrati nel gioco delle scelte. Qualunque realizza­ zione musicale non può che sostenersi sulle legalità interne del materiale, sulle sue differenze fenomenologiche, sui caratteri che gli appartengono strutturalmen­te. Ma quelle legalità interne resta­ no pure possibilità finché in rap­porto a esse non siano state prese delle decisioni. Linguaggi differenti sorgono da decisioni differenti. Perciò il fatto che si possa parlare di natura (fenomenolo­gica) del suono non implica la legittimazione di un linguaggio come più o meno naturale di un altro. Qui sta tutta la verità del conven­ zionalismo. Ma le nostre considerazioni mostrano anche quanto poco una con­cezione convenzionalistica, coerentemente svilup­ pata, possa essere considerata soddisfacente. Essa rappre­senta, oltre che un miscono­scimento profondo degli aspetti strut­turali, anche un impoverimen­to e un immiserimento sul ver­san­te tem­ porale. Su questo versante non troviamo certamente soltanto il tema dell'abitudine, per di più inteso in modo riduttivo, ma que­ sto stesso tema deve essere ampliato, arricchito e infine superato nella concre­tezza della dimensione storica. A questa dimensione storico-concre­ta rimanda certamente la tematica della decisione e della scelta: le decisioni non sorgono dal nulla - di esse noi possiamo limitarci a prendere atto, ma su questa presa d'atto re­ sta in ogni caso sospesa la domanda intorno ai motivi. Cosicché in via di principio non ci si può arrestare al dato di fatto, alla pura constatazione e alla registra­zione di una differenza, ma si è subi­ to stimolati alla messa in primo piano dell'orizzonte dei pensieri, di fatti, di interpretazioni, di prese di posizione che formano l'o­ rizzonte dei motivi che orientano la scelta in una direzione piut­ tosto che in un'altra. In base a questi motivi è stato deciso così, è stato deciso di usare queste regole e queste possi­bilità piuttosto 65 che al­tre regole, altre possibilità. Di conseguenza ciò che è stato mu­sicalmente realizzato ha assunto questo aspetto, que­sto caratte­ re. Ma allora è importante anche richiamare l'atten­zione sul fatto che, per l'afferramento dell'aspetto e del carattere del­l'ope­ra e per la stessa comprensione dei motivi, è necessario che ci si ren­da chia­ ramente conto delle regole e delle possibilità escluse. Che nella scelta tra possibilità alternative insieme all'a­zione del porre vi sia anche quella del negare deve essere in realtà con­ siderato come qualcosa di più o di diverso di una pura ovvietà logica. Nella musica, e nell'arte in genere, è sempre importante intravedere nell'opera le scelte effettuate, e dunque avvertire in ciò che esse hanno positivamente posto il peso di ciò che da esse viene implicitamente negato. Dal campo dei problemi di una fenomenologia dell'espres­sione, più determinatamente rivolta a considerazioni di ordine strut­ turale, vorremmo allora distinguere quello di una dialettica dell'e­ spressione - un titolo che si addice certamente ad una dimensione essenzialmente caratterizzata dai temi del tempo, della soggetti­ vità e della negazio­ne. Tra questi due campi vi è tuttavia anche, e necessariamente, re­ciprocità e connessione: le considerazioni fenomenologico-struttu­rali debbono, nel loro pie­no sviluppo, essere superate in direzione di considerazioni dialettiche, mentre una dialettica dell'e­spressione, senza una fenomenologia, non potrebbe nemme­no avere inizio. §8 Il senso e la portata di questa nostra discussione, ed in particolare la praticabilità e l'interesse della via tratteggiata nelle nostre ulti­ me considerazioni, potrà essere valutata solo in seguito, quando le grandi tesi di principio potranno specificarsi e anche risultare più chiare attraverso le applicazioni e gli e­sempi. I nostri intenti sono stati fin qui puramente introdut­tivi, e ciò significa soprattutto che il nostro compito è stato quello di indicare l'inclinazione 66 della nostra problematica generale, in modo da rendere conto dell'andamento degli sviluppi successivi e del piano entro cui essi vanno sin dall'ini­zio chiaramente situati. Ed è naturale che questi sviluppi potranno por­tare una luce retrospettiva su questo stesso schizzo introduttivo, chiarendo aspetti problematici forse ancora oscuramente formulati, operando estensioni, approfon­ dimenti, arricchimenti. Tuttavia, vogliamo intrattenerci ancora un poco in questo am­bito introduttivo per riprendere, alla luce della discussione svolta, i motivi che ad essa hanno dato l'avvio. Pensiamo naturalmente al problema di una caratterizzazione della "musicalità" novecentesca, e all'interno di essa al tema del "nuovo" che abbiamo ritenuto di poter ricondurre soprattutto a quello dell'esperienza di un limite e dell'istanza del suo oltrepas­ samento. È difficile, io credo, negare la pertinenza di quelle nostre prime considerazioni: esse colgono indiscutibilmente aspetti ri­ levanti della situazione effettiva. E tuttavia la presenza di un ele­ mento proble­matico si è manifestata ben presto nel fatto che, almeno in parte, quella visione delle cose poteva soggiacere al peso di una "filosofia" - di un orientamento dell'in­terpretazione - e proprio su questo punto abbiamo spostato l'attenzione. Ora, il risultato della nostra discussione critica, che mostra­ va, se non altro, l'unilateralità di quell'orientamento e la sua in­ capacità ad andare realmente oltre alcune ovvietà di superficie, non contiene forse dei suggerimenti anche in direzione, non tanto di una revisio­ne, quanto di un approfondimento di quelle consi­ derazioni iniziali? Naturalmente non si deve perdere di vista la differenza di piani, la netta distinzione di ordini problematici: al centro della nostra atten­zione sta in ogni caso la questione dell'impianto possibile di una filo­sofia della musica, del modo in cui essa può cominciare, dell'area dei problemi che sono ad essa pertinenti. Su un piano completamente diverso si situa invece una discussione che ha di mira il "carattere" della musica nove­ 67 centesca. Eppure non vi è dubbio che i temi che abbiamo via via prospet­tato non siano senza conseguenze anche su questo pia­ no, qualora si voglia accettare lo slittamento che la discussione tende a subire. Non appena infatti ripensiamo nei termini dei no­stri motivi teorici il qua­dro precedentemente delineato, esso mostra una maggiore densità problematica, una crescente ten­ sione interna. Prendiamo il tema del pregiudizio che ha certamente, come vo­gliamo ribadire ancora una volta, le sue buone ragioni. Ma queste ragioni si indeboliscono se poi si fa di esse un uso fal­ so, esse tendono anzi a fuorviare l'attenzione da quello che è il centro effettivo della questione. Fino a che punto, ad esempio, possiamo considerare il processo di estensione e di ampliamen­ to dei materiali della musica come se si trattasse soltanto di un processo liberatorio, come un processo di emancipazione pro­ gressiva nel quale vengono a cadere tabù e pregiudizi che non sembrano avere alcuna giustificazione intrinse­ca? Questo modo di presentare le cose rischia in realtà di cancellare la complessi­ tà della problematica che la musica novecentesca pro­po­ne nella varietà delle sue forme. L'errore maggiore è qui quello di as­ sumere implicitamente un modello di sviluppo che è anzitutto ap­plicabile ai processi conoscitivi in genere, che possono essere frenati da pregiudizi oppure promossi e stimolati da una sco­ perta tecnolo­gica capace di aprire nuove possibilità alle verifiche e alle sperimen­tazioni. Naturalmente questo problema si presenta anche nel cam­po dell'arte: ma esso deve in ogni caso essere con­ siderato subordinatamente ad un punto di vista che pone l'accento anzitutto sul fatto che l'arte in genere, e la musica in particolare, risponde a determinate esigenze di ca­rattere espressivo che appar­ tengono al musicista e alla sua epoca. Rammentiamoci allora della problematica delle scelte e dei loro motivi su cui abbiamo insistito in precedenza. In base ad essa noi ten­deremmo ad affermare senza esitazione: il cadere 68 di un pregiudizio non rappresenta affatto un motivo. Dovremmo dire piuttosto che vi sono esi­genze di carattere espressivo che fanno apparire qualcosa come un pregiu­dizio e pongono quindi il problema del suo superamento. Sarebbe al­quanto singolare e riduttivo, ad esempio, ritenere che nel nostro secolo ci si sia accorti di poter fare un impiego musicale autonomo della dissonanza purché ci si emancipasse da alcune opinioni sbagliate intorno ad essa. E pos­ siamo ora realmente sostenere che si sia con ciò dimostrata una maggiore libertà mentale che nel passato? Per quan­to ne so, non vi sono ragioni di ritenere che il musicista del Novecen­to sia più libero da pregiudizi di quanto lo fosse il musicista del Set­tecento o dell'Ottocento. Si sono prese semplicemente altre decisioni. Già il fare notare esplicitamente questo punto sembra spo­ stare in modo per nulla irrilevante il luogo di osservazione. Que­ sta pro­blematica delle scelte è inoltre connessa strettamente ad un modo di concepire la riflessione filosofico-musicale che ri­ vendica la necessità di disporsi ai margini del musicale, sul piano della pura esperienza del suono, assumendo una forma di rapporto tra il musicale e il sonoro più complessa di quella proposta all'inter­ no di una prospettiva empiristico-semiologica. In questo senso abbiamo parlato della rilevanza che assumeva per noi la distinzione tra piano "linguistico" e piano "prelinguistico". Ora, se acconsentiamo a operare quello slittamento da si­ mili considerazioni di carattere generale alle pratiche compositi­ ve nove­centesche, non possiamo fare a meno di notare che un aspetto certamente presente in varie forme all'interno di queste pratiche sta pro­prio nella consapevolezza di quella distinzione e nello stesso tempo della complessità di questo rapporto. Si può anzi dire di più: fra i movimenti caratteristici della musica novecen­ tesca dovremmo certamente annoverare un movimento in direzione dei margini del musicale - come se venisse accettato scientemente, e nello stesso tempo temuto, il rischio di cadere al di fuori della musica stessa. Da questo punto di vista può persino essere interpretata, almeno in parte, l'insistenza con la quale musicisti tutt'altro che 69 tradizionalisti amano richiamare il legame con la tradizione - talvolta questa insistenza sembra assumere il senso di una vera e propria protezione contro quel rischio, come se indicando un antecedente si volesse fornire una sorta di garanzia o di prova indiretta di essere all'interno del grande fiume della mu­sica. Ma come ci si può esprimere in questo modo, parlare di un simi­le rischio, senza presupporre dogmaticamente un'es­senza della mu­sica? Si può. Anzi lo si può proprio perché un'es­senza della musica non c'è - questo è stato assodato. Lo si può, per manifestare il ma­lessere di questa circostanza, come se il fatto che un'essenza non ci sia ci imponesse il compito di porla ogni volta in essere. E proprio la condizione indicata dal rischio, ad un tempo voluto e temuto, di ca­dere al di fuori della musica, rappre­ senta uno dei tratti caratteristici ed esclusivi dell'esperien­za musicale novecentesca. Tra questi tratti dobbiamo allora annoverare certamente an­che il fatto che la distinzione tra il musicale e il sonoro diventa instabile e ciò che or ora abbiamo chiamato movimento in dire­ zione dei mar­gini del musicale si può manifestare come una vera e propria regres­sione verso il materiale come tale, che non deve essere obbligatoriamente messo in una forma, ma che può esse­ re invece duramente contrapposto a ogni tendenza ordinatrice. In questa prospettiva il mobile richiamo analogico al linguag­ gio riceve un significato ancora diverso. Il lato che de­termina ora il "punto di vista" è rappresentato - nel linguaggio verbale - dalla presenza di regole rigorose, di condizioni neces­sarie che debbo­ no essere soddisfatte affinché un complesso di parole esibisca un senso. Si attira dunque l'atten­zione sull'elemento strutturale, dove la pa­rola "struttura" non allude tanto ad una rete relazionale che deve es­sere senz'altro manifesta, ma ad un'impalcatura logica in­ terna, ad una relazio­nalità intrinseca capace di conferire un ordine di principio. Per quanto poco si sia messo in rilievo questo punto, è pos­ sibile sostenere che nel linguaggio della tonalità ciò che vi è in 70 esso di logi­camente strutturato arriva a manifestarsi sul piano percettivo - la relazione logica si traduce senz'altro in una rela­ zione esperita. Ciò suggerisce l'idea di cogliere nella "crisi della tona­ lità" - tra le molte altre cose - anche la rottura di questo equilibrio tra l'elemento logico e l'elemento fenomeno­logico. Si comprende allora che questa rottura possa manifestarsi nell'estrema divaricazione di questi due poli: anzitutto nell'esa­ sperazione dell'elemento "linguistico" nell'accezione che ab­biamo or ora ram­mentata e che conduce all'accen­tua­zio­­ne dei motivi dell'ordine, del controllo, dell'organizza­zione formale, ad un'ela­ bo­razione strutturale che non si cura di appurare quanto di essa possa essere effettivamente colto attraverso l'udito. Di fronte a ciò, e con non minore insistenza, si impone in modi diversi la tendenza ad allentare la strutturazione linguisti­ ca, a inde­bolire l'azione della regola e della norma, la sua fissità e stabilità - e ciò può naturalmente essere interpretato come un movimento verso il materiale sonoro, verso la varietà delle sue di­ mensioni fenomenologi­che e delle loro potenzialità espressive. L'atonalismo in contrappo­sizione alla sistematicità dodecafonica contiene già interamente l'annuncio esemplare di questo proble­ ma, che si sviluppa poi lungo un arco estremamente complesso di posizioni e di pratiche composi­tive conseguenti, e naturalmente secondo linee che si intrecciano va­riamente su­perando questo semplice schematismo oppositivo. La sua pre­senza si può av­ vertire ogni volta che viene rivendicata la "mu­sicalità" di un'e­ sperienza del suono non modificata lingui­sticamente, quindi di ciò che, dal punto di vista precedente, verrebbe prospettato come appartenente ad una premusicalità amorfa. Il pro­blema si gioca infatti, ad un tempo, come amplia­mento della sfera del musicale e come problematizzazione della distinzione tra musicale e premusi­ cale, come inquietudine che sorge dalla messa in tensione di questi due piani. Al suono costruito, con i suoi caratteri di piena control­labi­lità, può così contrapporsi il suono trovato e gettato come tale nella 71 composizio­ne, all'evento sonoro consegnato al nastro magneti­ co e dunque fis­sato nella sua identità come un evento definitivo e rigorosamente ri­petibile, una concezione dell'evento sonoro di cui viene esasperata la precarietà e l'irri­petibilità. All'attività soggettiva che in ogni caso determina l'evento, anche quando affida la sua generazione al calcolo e lascia che un'impalcatu­ ra logica predisposta in anticipo stabi­lisca ogni suo dettaglio, si contrappone l'idea di un'azione del com­porre che non è un'azio­ ne affatto, ma una passione dell'ascolto di fronte al­l'ef­­fervescenza di un materiale che ha già nel suo interno le proprie forme di movimento. I suoni sono in se stessi troppo si­gnifica­tivi perché il compositore possa pensare di aggiungervi qualcosa. Nel quadro di queste opposizioni estreme che fanno parte di un unico problema si definisce una ricerca che contiene in sé, più o meno oscuramente, l'aspirazione ad una vera e propria rifondazione del musicale. In realtà è questo il senso più profon­do della novità nello spi­rito della musica novecentesca; ed in questo senso è certamente contenuto il pensiero di un ritorno a ciò da cui la musica in generale trae la sua origine. "Mi ricordo di aver amato il suono prima di aver preso una sola lezione di musica" [27]. Questa frase di John Cage formula quel pen­siero e nello stesso tempo indica, per noi, il punto da cui una filosofia della musica può avere inizio. 72 73 Capitolo primo Materia 74 75 §1 Vi è una semplice analogia visiva che può servire a illustrare, o anche soltanto ad introdurre, il tema del rapporto tra suono e si­ lenzio: si pensi ad un foglio di carta bianca sul quale sia stato pra­ ticato un intaglio con una lama bene affilata. Il silenzio vie­ne qui prospettato come una superficie opaca, continua, per­fettamente omogenea, che viene lacerata dall'apparire del suo­no. Il silenzio viene rotto - il suono è una irruzione nel silenzio. Il rompere, l'irrompere, il lacerare sono parole che il linguaggio assegna anche all'ambito dei fenomeni sonori e che richiamano, in questo am­ bito, il rapporto tra il suono e il silenzio. Eppure si potrebbe osservare che una simile immagine solo in parte aderisce alla concretezza di questo rapporto. Essa sembra su­bito troppo semplice, troppo unilaterale. Soprattut­to si può sospet­tare che in essa faccia sentire il suo peso il pensiero del silenzio come pura assenza di suoni, come un concetto pura­mente negativo. E allora si può obbiettare che forse al mondo non si dà e non può darsi una condizione nella quale non vi sia una benché minima manifestazione sonora. Dovremmo allora concludere che qualcosa come il silenzio non ci sia affatto e che esso si riduca solo a quel pensiero? In real­ tà l'immagine proposta potrebbe essere difesa notando che essa, forse, non prende le mosse da quell'astrazione, ma piuttosto dalla dimensione del silenzio a cui ci richiamiamo, ad esempio, quando parliamo di un silenzio profondo. Con­trapporre ad esso l'onnipresenza del suono, e per di più come una sorta di dato di fatto, appare allora meno signi­fica­tivo di quanto potrebbe appa­ rire a prima vista. Per rendere que­sta onnipresenza ricca di senso noi dobbiamo infatti dare di essa una reinterpretazione, ed an­ cora a partire da quell'im­ma­gine. Essa non è sbagliata ma, come abbiamo detto, è soltanto unilaterale. La carta infatti po­treb­be anche non essere perfettamente omogenea, ma increspata da ogni 76 genere di im­pu­rità, benché queste piccole disconti­nuità non impe­ discano di cogliere un disegno eventualmente tracciato su di essa. Ciò significa che il silenzio stesso, da cui un suono singolo si sta­ glia, nella sua precisione e determinatezza, può essere concepito come una sorta di texture sonora, come una trama di piccoli suoni, come un brulichio e un mormorio. Questo silenzio mormorante è l'altro aspetto del silenzio: esso consta di un formicolare di suoni che stanno sulla soglia della consapevolezza, che sono avvertiti appena o che sono del tutto inavvertiti, nel senso delle cose che stanno sullo sfondo e che per­ ciò non vengono notate. Il mormorio è lontano. Quando esso si avvicina, quando oltrepassa la soglia della consapevolezza cessa di essere un a­spet­ to del si­lenzio, assumendo invece il carattere di un'oppres­siva pienezza so­nora così da apparire come una vera e propria occlu­ sione dell'oriz­zonte entro cui sono possibili i suoni. Il parlare soltanto di onnipresenza dei suoni, il limitarsi a constatare che ovunque vi sono manifestazioni sonore, non ci pone di fron­te al silenzio mormorante e al silenzio profondo come due aspetti del si­lenzio. La relazione che vi è tra l'uno e l'altro aspetto la si coglie riflet­tendo sul tema dello sfondo. Ne possiamo parlare qui come si parla del fondale di una scena teatrale, dello scenario che apre e chiude lo spazio scenico, sul quale è dipinto un giardino, un pa­ esaggio, una forma architettonica. Ora, noi parliamo del silenzio mormorante come di un fondale sonoro disposto per così dire oltre il fondale visi­vo, un poco più lontano, appena avvertito o non avvertito affatto. Questo secondo fondale, apparen­temente privo di qualunque im­portanza, realizza invece anch'esso, come il fondale visivo, una delimitazione della scena che è essen­ziale per conferire ad essa la sua vi­talità interna. Proprio in forza di questo remoto avvolgimento sono­ro ciò che accade sulla scena ci appa­ re vivamente presente. Immaginiamo infatti che questo sfondo già lontano venga 77 spinto ancora più lontano. Allora certamente subentra un radicale mutamento: la scena subisce uno svuotamento inquietante, una singolare sospensione. Potremmo dire: ora il silenzio è divenuto profondo. Saremmo anzi quasi tentati di dare di questa espres­ sione una spie­gazione tutta nostra: il silenzio si dice profondo perché quel secondo fondale che chiudeva la scena è stato tolto, e dunque essa non è più avvolta, e in certo senso anche protetta e custodita, da quel mormo­rio vivente, ma si è aperta da tutti i lati, come se si protendesse nel vuoto e restasse in esso sospesa. Mentre scrivo, la penna non fruscia più sul foglio di carta - pri­ma quel fruscio certamente non lo udivo: ora invece odo che non c'è. Camminando non si ode più lo scalpiccio dei miei piedi e la por­ta che si apre scivola silenziosamente sui suoi cardini, come se non avesse peso. Al silenzio mormorante che si è fatto troppo avanti, al mor­ morio che ha cessato di essere tale trasformandosi in una occlu­ siva pienezza che toglie ogni spazio ai suoni, impedendo la chia­ rezza e la distin­zione attraverso cui essi possono prendere rilie­ vo, si contrappone così, nell'allontanamento del fonda­le sonoro, il silenzio come vuotez­za che viene concretamen­te avvertita. Il silenzio profondo viene talvolta detto silenzio mortale. Vi è forse bi­sogno di rammentare la connessione tra il silenzio e la morte? Eppu­re vi è anche l'altro aspetto del silenzio in rapporto al quale il silen­zio è esso stesso una realtà vivente - a ciò allude­ vano parole come brusio, mormorio, brulichio: in pa­role come queste vi è l'idea di una vita germinante, come se sullo sfondo ci fossero miriadi di pic­coli animali in movimento. Ma questa realtà vivente è anche ciò che fa vivere la realtà stessa. La nostra esistenza ha bisogno di un mor­morio discreto, e così vi è anche una condizione sonora per la perce­zione della vitalità stessa della vita. 78 §2 In questo silenzio, ora si odono suoni. Essi si fanno notare, a essi prestiamo attenzione. Di passo in passo cerchiamo così di mettere in rilievo concisamente le prime ed elementari distinzioni neces­ sarie. Nell'udire suoni, infatti, questi debbono essere posti come oggettività che in qualche modo mi stanno di fronte e alle quali siamo uditivamente rivolti. Ma allora è qui già presente una pri­ ma distinzione di fondamentale importanza, per quanto possa passare inavvertita. Tra i suoni in genere vi sono anche le nostre voci, ed è chiaro che occor­re qui marcare una differenza non tan­ to come se essa fosse attinente alla manifestazione sonora come tale, quanto piuttosto nel modo di avere esperienza della voce, e anzitutto di quella voce che è la mia. In altro modo: dobbiamo anzitutto indugiare su un piccolo dettaglio della gram­matica fi­ losofica del verbo "udire": la frase "egli udì quel suono" non ha affatto subito senso se quel suono è la sua voce. Ad essa dobbiamo dare un contesto che sia in grado di conferirle un senso che in se stessa non possiede. Cominciamo allora con il dire: la voce è il suono origina­ riamen­te soggettivo, è il suono che sorge dalla soggettività - con la voce es­sa si esprime. Di espressione si parla qui nel senso ampio del termine: voce significa anche parola, essa pone fin dall'inizio il problema del linguaggio. Con la voce dico quello che penso, comunico i miei pen­sieri. Ma la voce non è solo suo­no linguisti­ camente articolato. Con espressione si intende anche, ad esempio, il gemito e il grido, la mani­festazione inarticolata del dolore o della gioia. Richiamare l'atten­zione sulla voce come suono origi­ nariamente soggettivo significa sottolineare le peculiarità di un modo di rapporto che ciascuno intrattiene con la propria voce, e solo con essa, a differenza di tutti gli altri suo­ni da cui siamo raggiunti da ogni parte. Più precisamente: questa peculiarità è tale da rendere a malapena tollerabile il fatto stesso che si parli di 79 un rapporto o di un modo di rapporto. Tra la sog­gettività che si esprime e il suono della sua voce vi è una relazione così interna da non consentire quasi la distanza neces­saria perché si possa parlare dell'esistenza di un rapporto. L'atto del parlare, per colui che parla, non è preceduto dal­l'intento di emettere suoni prov­ visti di senso. E chi prova dolore non pensa che potrebbe dare a esso espressione impie­gando nel modo giusto le sue corde voca­ li. Sempli­cemente par­la. Oppure grida. Per questo la domanda che interroga intorno al rapporto con la propria voce è tanto singolare quanto lo sarebbe il chiedere: che rap­porto hai con i tuoi occhi? Oppure: che rapporto intrattie­ ni con le tue mani? Infatti potrei rispondere: con le mie mani af­ ferro un frutto dall'albero - e così ora parlo, come afferro e guardo. Ma tutto ciò ci riconduce certamente al problema a cui ab­ biamo accennato all'inizio: la mia voce è caratterizzata da un modo pecu­liare di restare inavvertita, di non essere mai alla mia presenza. Ciò che manca qui è l'indugio presso l'udire, così come quella messa a distanza che rende possibile la dimensione dell'ascol­ to. È interessante notare che un simile rilievo potrebbe essere pre­sentato come un modo di prendere posizione nei confronti del tema ricorrente dell'origine della musica dal canto. Come gli uo­ mini hanno prima agito con le loro mani e poi hanno costruito strumenti, così dovremmo ammettere che le prime manifesta­ zioni musicali fossero quelle realizzate con questa capacità ori­ ginariamente soggettiva e immediatamente corporea di emettere suoni. Il suono strumentale non può che situarsi ad un grado più evo­luto dello sviluppo. Eppure la relativa ovvietà di una simile osservazione non è affat­to esente da obiezioni: e non tanto sulla questione meto­do­ logica dell'origine, un tempo così controversa. Che non si trat­ ti di un proble­ma storico-fattuale, e quindi che in esso non si formulino autentiche ipotesi empiriche, questo può essere dato per acquisito. Tuttavia l'interesse del porre il problema dell'ori­ 80 gine consiste nel fatto che esso può essere considerato come una proiezione che assume forma genetica di ciò che si pensa sia la musica stessa - ciò che la musica è alle sue origini è anche ciò che essa è nel suo fondo. Non è certo difficile cogliere quali possano essere le te­ matiche fondamentali sollecitate dall'"ipotesi" dell'origine della musica dal canto. Si tratterà qui certamente di porre l'ac­cento sul momento dell'espressione come manifestazione del sentimento, di dare dunque il massimo risalto alla relazione con la vita affet­ tiva ed emotiva: dal canto si risale ancora più indie­tro all'urlo e al lamento, al pianto e al riso. Il suono prodotto per mezzo della cosa verrà più tardi. Prima di tutto, alle origini della musica vi è il suono come espressione diretta di un corpo vivente. Di fronte a ciò abbiamo già avanzato lo spunto di una cri­ tica. È noto che le numerose forme di melodia che possiamo attribui­re alle fasi più arcaiche della civiltà sono a struttura di­ scendente e questa può essere interpretata come un'elabo­razio­ ne di una forma ancora più elementare, la forma della melodia a picco. Così la descrive Curt Sachs: "Il suo carattere è selvaggio e vio­lento: dopo un passaggio brusco alla nota più alta possibile, in un fortissimo quasi urlato, la voce precipita verso il basso con salti, ca­dute o slittamenti verso un pianissimo cantato su una o due note bassissime, appena udibili; poi, con un balzo vigoroso, la melodia recupera la nota più alta per ripetere il movimento a picco ogni qualvolta è neccessario" [28]. La forma della melodia a picco è dunque appena un poco oltre la forma di un urlo, ed anzi noi vogliamo fare proprio que­ sto ulteriore passo indietro a cui del resto questa descrizione ci invita: "Nella sua forma emozionale e meno melodiosa, questo stile richiama le esplosioni incontenibili, le grida quasi inumane di gioia selvaggia o i mugolii di rabbia da cui probabilmente de­ riva" [29]. 81 Elaboriamo così filosoficamente questa fantasia dei primordi: una volta il bestione urlò di dolore nella sua caverna ed essa ne ri­mandò l'eco. Fu allora che egli udì la propria voce. Dimentico del dolore e delle sue cagioni, ora ascolta attonito. E poi ripete quell'urlo, senza il dolore, variamente modificandolo. Perciò, se ci venisse chiesto che cosa distingue il canto dall'ur­ lo noi ri­sponderemmo semplicemente che il canto non è altro che l'eco di un urlo. E in questa risposta vorremmo con­densare le nostre considera­zioni precedenti. Abbiamo parlato infatti della necessità che si stabi­lisca una distanza, che si operi una desoggetti­ vazione che sia capace di liberare dalla voce il suo suono in modo da rendere possibile la di­mensione dell'ascolto. Ed è questo an­ zitutto che realizza la voce in eco: il fatto che di essa io mi possa riappropriare, che io possa in qualche modo assumerla ancora come "mia" è diventato ora irrile­vante. In essa né io stesso né un altro si esprime: la voce in eco è invece una voce senza soggetto, una voce impersonale, e anzi, non più vo­ce, ma suono che io ora finalmente ascolto. Annotazione Nei giochi linguistici correnti l'udire rappresenta una condizione necessa­ria, ma non sufficiente, dell'ascoltare, essendo l'ascoltare niente altro che un indugiare presso l'udire che può assumere molte forme. E poiché quei gio­chi linguistici non sanno nulla della differenza tra il 82 fisiologico e lo psicolo­gico, l'inizio della voce "Ascolto" di R. Barthes e R. Hadas nell'Enciclope­dia Einaudi (Torino, vol. I, 1977, pp. 982 sgg.) che dice perentoriamente: "Udire è un fenomeno fisiologico; ascoltare è un atto psicologico" non sem­bra affatto un buon inizio, benché siano certamente ricchi di interesse gli sviluppi successivi. §3 Vogliamo ora muoverci di un altro piccolo passo. Come si sarà ormai compreso, noi non disdegniamo le domande minime, o più precisamente: quelle domande che certamente impegnereb­ bero diversi fronti del sapere vengono subito da noi ricondotte entro un ambito dominabile da riflessioni molto semplici, per quanto anche in esso sia necessario procedere con cautela e me­ todo. Così alla condizione dell'udire suoni può seguire la doman­ da intorno alla natura di questo udire e di ciò che viene udito. Ad essa possiamo certamente cercare una risposta nella fisiologia dell'udire e nella fisica del suono. Ma vi è anche un altro modo di intendere la domanda, che non si contrappone al precedente, ma muta soltanto il suo senso, facendo di essa un'altra domanda: ci si interroga allora sulle caratteri­stiche del suono come concreto fenomeno uditivo, caratteristiche che possono essere messe in evidenza mostrando analogie e differenze rispetto agli altri ambiti dell'e­spe­rienza percettiva in genere. Si dice di udire un suono, così come di vedere una cosa, di af­ ferrarla o di toccarla. Ma è appena il caso di notare che il suono è un'enti­tà di tutt'altro genere della cosa materiale che mi sta di fronte, che vedo in un determinato luogo dello spazio circo­ stante, che io posso afferrare con le mie mani ed eventualmente riporre in un altro luo­go. Come la voce in eco, il suono aleggia nell'aria diffondendosi nello spazio intorno. Il suo essere "qual­ cosa" non può non apparire già per questo ricco di problemi, dal momento che se da un lato sembra giustificato, come sug­ geriscono gli impieghi linguistici correnti, far riferimento al suono 83 come ad un "oggetto" autentico, dall'al­tro man­cano qui quella de­ terminatezza e quella stabilità che potrebbero for­se essere poste a condizione dell'oggettività stessa. Ma se i suoni non sono assimilabili alle cose, non lo sono nem­meno a proprietà delle cose, come è invece stato assunto da un'anti­ca tradizione. Come nel caso dei colori, anche ai suoni si è attribuito lo statuto di "qualità secondarie" - quindi di qualità che non ineri­scono alla cosa obbiettivamente, ma che comun­ que sorgono in ine­renza ad essa nel rapporto con la soggettività percettiva [30]. Si ammette così che colori e suoni siano da anno­ verare tra le proprietà che ap­par­tengono alle cose, comun­que venga poi intesa questa relazione di appartenenza. Eppure proprio su questo punto il confronto tra colori e suoni, così ricco di suggestioni interne e sul quale la riflessione si è sempre esercitata con profitto, sembra piuttosto segna­lare una profonda differenza. Come si parla di una cosa colorata, così si può forse parlare di una cosa sonora, ma subito si avverte una modificazione di senso. Il suono sta nella cosa come una poten­ zialità che ha bisogno di essere attualizzata. Esso c'è in forza di un'azione esercitata sulla cosa. Ma possiamo forse af­fer­mare per questo che il suono sia impensabile sen­za la cosa attraverso cui è stato prodotto? Più precisamente, e ri­prendendo il confronto con il colore: un colore, ad esempio l'azzur­ro, può essere soltanto pensato senza il riferimento a cose, mentre il suono può essere anche percepito. Proprio questa possibilità di percezione autonoma che po­ trebbe attribuire al suono una singolare solidità, è invece ciò che ci fa esitare tra lo statuto della proprietà e quello dell'oggetto e che conferisce al suono la sua essenziale inconsistenza. Il suono è sempre sul punto di dileguare e questa evanescenza può essere ricondotta all'assenza di vincoli rispetto alla cosa materiale alla cui costituzione, del resto, l'udito non sembra svolgere un ruolo paragonabile a quello della vista o del tatto., Queste operazio­ ni percettive sono subito coinvolte non solo nell'istituzione di 84 quella forma di rapporto che fa del dato fenomenico la proprietà di una cosa, ma anche nei processi che ope­rano la discriminazione tra la cosa posta come effettivamente sussi­stente e la parvenza illu­ soria. Nel gioco del­le reciproche conferme, ciò che si dà anzitutto come semplice visione, e dunque come fanta­sma puramente visivo - ad esempio, una forma colta di lontano - può ricevere una con­ ferma pratico-tattile, cosicché questa fantoma­ticità si attenua sem­ pre più lasciando avanzare la cosa nelle sue determinazioni obbiet­ tive. Sullo sfondo del problema vi è del resto la stessa obbiettività del mondo, il fatto che il mondo non è una mia rap­presentazione, ma mi sta fermamente di fronte come se le cose, nella loro du­ rezza e solidità, fossero i nuclei su cui esso si sostiene. Di fronte a tutto ciò vi è la fluidità acquorea del suono, la sua mo­bilità ignea, la sua aerea evanescenza. Solo la terra, nella quale si concentra la materia con tutto il suo peso, sembra estranea al suono. In rapporto a esso il tema dell'ob­biet­tività e dell'esserci ob­ biettivo può affermarsi solo in modo estremamente debole. Occorre notare a questo proposito che non esiste alcun ac­ certamento intrafenomenico al di là dell'udito che possa far­ci decidere intorno all'esserci effettivo di una manifestazione sono­ ra. Il dato udi­tivo come tale si impone senz'altro nel suo esserci al di là di opera­zioni di sintesi più complesse - cosicché viene qui a mancare la pos­sibilità di una conferma, come accade nel caso del rapporto tra dati visivi e dati tattili. E ciò non significa affatto un rafforzamento della posizione d'es­sere, ma al contra­ rio massima prossimità dell'esserci effettivo del suono al­la pura apparenza, difficoltà di principio nella discriminazione tra il suo­ no come qualcosa che effettivamente c'è nel mondo circostante e la pura allucinazione uditiva. I suoni sono entità eminentemente fantomatiche. Ma dicen­do ciò non attiriamo soltanto l'attenzione sul fatto che i suoni sono anzitut­to fantasmi uditivi la cui sussistenza obbiet­tiva può essere considerata ambigua in via di principio. Alla base di ciò vi è un problema più ge­nerale: il modo d'essere del suono sembra met­ 85 tere in questione la stessa necessità di integrazione del suono tra gli eventi del mondo. Da che cos'altro deriva questa fantomaticità se non dal fatto che il suono può apparire come interamente disciolto da vincoli rispetto ad un qualunque contesto di cose, e dunque dal conte­ sto del mondo stesso? Su questa possibile assolutezza del suono ha potuto certamen­te trovare se non un fondamento, almeno un appiglio, l'idea, che si ripresenta di continuo e in varie forme nel­ la riflessione intorno alla musica, del­l'essenza extramondana del suono. Il suono si presta sempre ad una sopravvalutazione metafisi­ ca. E ciò non accade soltanto per un arbitrio dell'immaginazione che non può trovare alcuna giu­stificazione nella fenomenologia dei dati esperiti. Si po­trebbe invece sostenere che la percezione stessa suggerisce il pensiero che il suono potrebbe esserci anche se il mondo non ci fosse: nel suo modo di manifestarsi vi è qualcosa che rimanda a questa negazione latente. Annotazione Che la musica sia "del tutto indipendente dal mondo fenomenico" e che es­sa potrebbe dunque "in certo modo continuare ad esistere an­ che quando il mondo non ci fosse: cosa che non si può dire delle altre arti" è opinione espressa da Schopenhauer, motivata naturalmente nel quadro e in coeren­za con quell'"unico pensiero" che sta alla base del Mondo come volontà e rap­presentazione (cfr. Mursia, Milano 1985, par. 52, p. 299). 86 §4 Questi nostri primi sviluppi procedono anche troppo rapidamen­ te in un'unica direzione, lasciando per via motivi e temi che merite­rebbero forse di essere riconsiderati più da vicino. Così si è accenna­to alla produzione del suono mediante cose, ma solo per passare su­bito oltre, quasi che le tematiche qui implicate fossero di secondaria importanza. E invece, contro tutto quanto prece­ de, si potrebbe so­stenere che se si considera la modalità norma­ le dell'udire, il modo in cui quotidianamente percepiamo suoni, dovremmo avviare un genere di considerazioni pro­fon­damente di­ verse: dovremmo infatti por­tare l'attenzione anzi­tutto sul fatto che i suoni entrano con le co­se in una relazione tanto stretta da poter essere considerati come se­gni della loro stessa esistenza. Quando si ode un suono, l'istanza di identificare la cosa la cui esistenza è in qualche modo implicata in es­so è tanto immediata e spontanea da far pensare che essa sia radicata in profondità nel tessuto per­ cettivo. Se poi l'identifi­cazione fallisce, se dal suono non si rie­sce a effettuare questo pas­saggio alla cosa, ciò basta a generare una sorta di ansiosa inquietu­dine - come se nell'appren­sione per­ cettiva fosse impressa la tesi fi­losofica: non può esserci alcun suono assoluto. La mancata identificazio­ne può inquietare come inquieta una lacuna nel reale, un dettaglio che deve essere completato e che non riesce a completarsi. Ma ciò mostra nello stesso tempo fino a che punto i suoni facciano parte della connessione e della compattezza della realtà stessa, fino a che punto dunque siano solidamente integrati nel mondo. Dobbiamo dunque ricrederci rispetto a ciò che abbiamo soste­nuto poco fa? È il caso piuttosto di mostrare lo stesso pro­ blema da nuove angolature. Non c'è dubbio che faccia parte della struttura della situa­ zione percettiva quotidiana dell'udire la forma del rinvio che dal suono orienta verso la cosa che deve essere stata la sua fonte - il 87 suono viene avvertito come segnale, e perciò non solo si assume senz' altro che esso c'è, ma questo esserci è veicolo di una posi­ zione d'esistenza ul­teriore. Proprio l'esame di questa situazione percettiva mostra tut­tavia come la domanda sull'udire suoni pos­ sa non essere affatto ov­via. Ciò che si ha propriamente di mira nell'udire il suono come se­gnale non è il suono stesso, ma ciò che da esso viene designato. L'udire non si arresta dunque presso il suono, ma da esso lascia la presa per attivare quelle funzioni che subito si tendono per afferrare la co­sa che nel suono si annuncia. Così, ciò presso cui indugia il nostro sguardo non è la mano tesa a indicare, e anche l'udire del suono che è soprattutto un segnale è un udire sfuggente, come lo sguardo dalla mano nella direzio­ ne che essa indica. Si rammenti ora ciò che abbiamo osservato a proposito della vo­ce in eco. La voce soltanto, come pura manifestazione soggettiva, viene risucchiata dalla soggettività stessa - non ri­ esce dunque a proporsi come oggetto per l'udito. Ma anche ora potremmo osservare che, nelle condizioni descritte, manca la dimensione dell'ascolto. Ora è la cosa che risucchia interamente il suono, è essa che è pro­priamente alla nostra presenza. Affinché il suono ci appaia è necessario che questo le­game venga rescisso, e ciò significa che nell'apprensione uditiva non deve farsi valere il rapporto di segno e così non debbono farsi valere le posizio­ni di esistenza eventualmente impli­cate nella ma­ nifestazione sono­ra: è necessario dunque restituire al suo­no la sua pura essenza fan­tomatica sciogliendolo dai vincoli che lo integrano nel contesto del reale. Ed a questo punto natural­mente ci imbat­ tiamo nuovamente nel tema dei suoni assoluti. Lo scioglimento di questi vincoli può infatti essere proposto come una sorta di ideale annientamento del mondo - come se il mondo scomparisse dalla nostra visuale e non potesse più essere polo di riferimento di una rete di interessi e di azioni nella quale il suono stesso è solo un momentaneo nodo. È interessante notare, inversamente, che in quan­to siamo immersi in questa rete, il venir meno della possibi­ 88 lità della visione opera nella direzione di un'attivazione dell'udito come funzione costitutiva del reale - al buio prestiamo attenzio­ ne ai suoni, e precisamente come segnali di ciò che accade nello spazio intorno; ma nel momento in cui si impo­ne l'i­stan­za di un'apprensione dei fantasmi sonori come tali e quin­di di mettere fuori gioco quella rete, allora il vedere ram­menta sem­pre che il mondo c'è, cosicché il chiudere gli occhi di fronte ad esso è un modo di simbolizzare la necessità dell'o­blio. L'annientamento del mondo è un abbuiamento del mondo. Il suono si manifesta in un mon­ do obliato. Ciò spiega perché la figura della cecità sia una figura essenzial­ mente musicale, così come il fatto che Pitagora - come si racconta - fosse solito parlare ai suoi discepoli nascosto da una tenda è cer­tamente da interpretare come una meditazione implicita in­ torno al suono stesso che ci rammenta il tema della voce in eco. Annotazione Il racconto di Pitagora è rievocato da Pierre Schaeffer nel suo Traité des objets musicaux (Ed. du Seuil, Paris 1966) in occasione dell'introduzione della nozione di campo acusmatico. Questo termine "caratterizza la re­ altà percettiva del suono come tale, distinguendolo dai modi della sua produ­zione e della sua trasmissione: il fenomeno nuovo delle telecomu­ nicazioni e della diffusione di massa dei messaggi si esercita soltanto a proposito e in funzione di un dato radicato da sempre nell'espe­rienza uma­ na: la comuni­cazione sonora naturale. Per questo noi possiamo, senza anacronismo, ri­tornare ad un'antica tradizione che, non diversamente da ciò che fanno oggi la radio e la registrazione, restituiva soltanto all'u­ dito l'intera respon­sabilità di una percezione di solito appoggiata su altre testimonianze dei sensi. Una volta il dispositivo era rappresentato da una tenda; oggi la radio e il nastro magnetico, mediando l'insieme delle trasformazioni elettroacu­stiche, ci ricollocano, come ascoltatori di una voce invisibile, nelle condi­zioni di un'espe­rienza simile" (p. 91). Questo problema è connesso con quello dell'ascolto ridotto (écoute réd- 89 uite) ed entrambi possono essere ricollegati alla tematica dell'epoché fenomenologica, e dunque della Weltvernichtung di cui parla Husserl in Idee I. Questo riferimento è reso esplicito da Schaeffer alle pp. 262-272. Va tuttavia segnalato l'equivoco a cui un simile collegamento è esposto: l'epoché fenomenologica come tale non recide affatto la relazione del suono con la cosa, in quanto questa relazione fa anch' essa parte della rete dei rapporti intrafenomenici. §5 Con tutto, ciò non possiamo affatto ritenere di poter mettere da parte l'intera tematica del rapporto del suono con la cosa materiale come se essa fosse esaurita dalle poche annotazioni sulla capacità dei suoni di fungere come segnali. Questa funzione poggia del re­ sto sulla circostanza, di cui certamente non possiamo dimenticarci, che vi è una produzione del suono nel­la quale la cosa, nella sua materia­lità, interviene come una me­diazione necessaria. Ritorniamo dunque sui nostri passi: seguendo questa o quella via abbiamo più di una volta ribadito la possibilità del suono di es­ sere senza mondo. Ma non potremmo, contro di ciò, richiamare l'attenzione, più vivacemente di quanto abbiamo fatto fin qui, sul fatto che i suoni non sbucano dal nulla, ma sono risultati di pro­ cessi causali e appartengono come tali alle connessioni che sono costitutive della realtà stessa? Diciamo subito che una simile domanda non può essere assunta così com'è, ma deve essere rielaborata tenendo conto del contesto metodico al quale intendiamo attenerci. Stando a esso, non possia­mo attribuire al richiamo alle cause e ai processi causali un senso troppo evoluto, e dunque in particolare un senso che contenga l'idea di una concatenazione di eventi che siano sottratti in tutto o in parte alle evidenze fenomenologiche e che forniscano il supporto teorico per rendere conto dell'esi­stenza di una manifestazione sonora. La messa da parte di considera­ zioni di ordine fisico rappresenta un as­sunto metodo­logico che non crediamo qui di dover giustificare. 90 Ma ciò rende certamente più mossi i lineamenti del nostro pro­blema. In rapporto ad esso non è tanto importante afferma­ re che in generale i suoni sono risultati in cui terminano processi causali, quanto piuttosto sottolineare che la parola "causa" deve essere vincolata nel suo senso ad un modo di rapporto tangibile e percepibile - cosicché l'accento dovrà cadere piuttosto sul fat­ to che non ogni manifestazione sonora propone questo vinco­ lo. Ad esempio, l'im­mediatezza con la quale la voce appar­tiene alla corporeità che in es­sa si esprime non consente nemmeno la formulazione della doman­da intorno ai processi reali della sua produzione. Ma nemmeno un'operazione di estraneazione e di oggettivazione, come è quella che è stata riassunta dall'esempio della voce in eco, è tale da proporre l'interrogativo intorno alle "cause". È necessario invece che si dia anzitutto uno stato di cose nel quale la stessa manifestazione sonora si mostri come un prodotto mostrando nello stesso tempo il modo della propria produzione. Difficilmente possiamo vedere vibrare la superficie di un ta­ volo che pure, percosso, emette suoni. Possiamo invece vedere vibrare una piastra metallica abbastanza sottile e possiamo vede­ re come es­sa, vibrando, produce suoni. Se pizzicando corde ben tese un suono viene udito, questa manifestazione sonora viene strettamente integrata nella situazione complessiva, e non come se tra essa e l'azione della mia mano ci fosse un rapporto di pura contiguità. L'azione stessa appare come un'azione efficiente che produce il suono met­tendo le corde in vibrazione. Occorre sot­ tolineare con particolare forza il fatto che queste vibrazioni sono un fenomeno visivo pienamen­te evidente, così come la loro con­ nessione con il suono che viene emesso. Per questo possiamo affermare che la nostra mano, con il suo movimento, fa vibrare le corde e che queste vibrazioni stanno all'origine di quel suono. Nella particolarità del caso è tuttavia già implicato il pensiero di una generalizzazione. La possibilità che essa porta alla massima evidenza può essere prospettata come una ne­cessità che sta in generale alla base di ogni manifestazione sonora, e nell'elabo­ 91 razione di questo pensiero non ha più alcuna rilevanza il fatto che la connessione possa essere operata direttamente all'inter­no delle apparenze percettive. Tuttavia, affinché questa generaliz­ za­zione possa avere luogo, è necessario che le nozioni implicate divengano dei concetti autentici, e non formazioni il cui senso è strettamente commisurato alla situazione percettiva che deter­ mina la loro istituzione primitiva. Ciò vale anzitutto per la nozione di vibrazione. Attirando l'atten­zione, come abbiamo fatto or ora, sul fatto che la vibra­ zione può entrare nel campo dell'esperienza percettiva, intendia­ mo anche vincolare il senso della parola a quel terreno, come se esso fosse riempito unicamente dalla visione effettiva delle pia­ stre o delle cor­de vibranti. Dobbiamo dunque assumerci l'intera responsabilità dell'impiego di quel termine in un'accezione tanto rozza. Già la consueta illustrazione della nozione di vibra­zione at­ traverso il rife­rimento ad un moto pendolare, per quanto possa implicare margi­nalmente e in modo del resto non significativo una condizione con­cre­tamente percepibile, mostra chiaramente la tendenza ad allonta­narsi - a giusta ragione - dalla dimensione fenomenologica, a su­perare dunque il terreno dell'esperienza, per il fatto stesso che propo­ne di considerare la vibrazione come un particolare tipo di movimen­to inteso come spostamento di luogo. Un processo di concettualizzazio­ne ha in sé necessariamente la ten­ denza ad oltrepassare la particola­rità traendo il massimo profitto dai tratti comuni, mentre un pensiero libero da impegni teorici e vincolato nelle sue determinazioni concettuali a riempimenti intuitivi marcherà piuttosto la differenza, riconducendola alla pro­ fonda diversità delle situazioni percettive di sostegno. Abbiamo ora percosso una piastra metallica e la vediamo vibrare. Forse si è mossa? In realtà è rimasta esattamente do­v'era. La nozione di movimento come spostamento di luogo non può trovare subito un'applicazione a quel fremito che noi chiamiamo vibrazione. La cosa non si è mossa. Essa ha tremato. Ha mostrato un dinami­smo che tenderemmo ad attribuire non tanto al mo­ 92 mento spaziale, quanto alla materia stessa. Nello spostamento da luogo a luogo, la cosa che si muove permane nella sua i­den­tità sostanziale. Saremmo tentati di dire: il dinamismo è qui soltanto esteriore. Mentre la cosa che diventa vibrante e che pure resta dove si trova sembra perdere rigidità e compattezza: se voglia­ mo parlare di movimento, dovrem­mo forse osservare che non ci troviamo di fronte ad un percorso della cosa che attraversa lo spazio, ma è piuttosto il movimento stesso che attraversa la cosa e la percorre scuotendola nelle sue fibre. La vibrazione, inte­sa così, introduce un principio di dinamicità interno alla materia stessa. Per quanto si possa portare l'accento sull'inconsistenza del suono e sulla sua essenza fantomatica, esso mantiene un lega­ me origi­nario con i momenti che costituiscono la materia­lità. Il suono comin­cia dalla cosa, e proprio in quanto essa è tutto meno che una entità evanescente, ma in quanto è al con­­trario, concreta pienezza. Una cosa sonora sarebbe forse rappresentata da un bambi­ no con dei raggi tutt'intorno - così da rammentarci che il suono è ma­teria che si irradia e che, irradiandosi, si espande nello spa­ zio profondo con il quale il suono, quando c'è, entra subito in relazione. Annotazioni 1. Il suono (Klang), dice Hegel, è "il tremito interno del corpo stesso" (das innere Erzittern des Körpers in ihm selbst) (Enciclopedia §§ 299-302). Ma questa caratteristica è già tutta sotto la presa del problema, così caratteristico della filo­sofia hegeliana della musica, dell'adeguatezza del materiale sonoro alla manifestazione dell'in­teriorità soggettiva. Si veda l'accu­rato commento di Adolf Nowak, Hegels Musikästhetik, Gu­ stav Bosse Verlag, Regensburg 1971, pp. 41-47. Nowak rammenta in particolare che il verbo erzittern (mi­seramente tradotto da Benedetto Croce con tremolare e tremolio) ricompare in Hegel "là dove si fa valere una conversione dialettica decisiva" (p. 46), come accade nella proble­ 93 matica del superamento della coscienza servile nella Fenomenologia dello spirito: tale coscienza "non è stata in ansia per que­sta o quella cosa e neppure durante questo o quell'istante, bensì per l'intie­ra sua essenza; essa ha infatti sentito paura della morte, signora assoluta. E stata, così, intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa vi era di fisso ha vacillato" (tr. it., Nuova Italia, Firenze 1967, vol. I, pp. 161162). 2. Sugli argomenti qui trattati è interessante leggere R. Casati, "Conside­razioni critiche sulla filosofia del suono di Husserl", Rivista di Storia della Fi­losofia, n. 4, 1989, pp. 725-743, basate su materiale husser­ liano inedito e arricchito da osservazioni su Brentano, Schapp e Con­ rad-Martius. Non possiamo tuttavia condividere la critica, condot­ ta nelle pp. 730-732, dell'impiego della metafora dell'irraggiamento e dell'analogia con i fenomeni termici che rappresentano un punto signi­ ficativo della posizione espressa da Husserl. In discussione non è pe­ raltro il problema preso nella sua singo­larità, quanto una più generale questione di metodo: è naturalmente possi­bile citare casi in rapporto ai quali quell'immagine si rivela inappropriata, ma il primo problema di una ricerca fenomenologica è quello di individuare come oggetto effet­ tivo e interessante per una descrizione quei casi che ri­vestono caratteri di esemplarità in quanto rappresentano il fenomeno nella sua forma più pregnante. Se si è realmente in chiaro su questo punto, si comprenderà subito che il fruscio di una camicia sfiorata dalla punta delle mie dita cessa di va­ lere come "controesempio" rispetto all'irradiazione so­nora provocata da un colpo di gong. §6 In queste nostre considerazioni è certamente implicito che il pas­saggio al suono strumentale rappresenti una sorta di con­ dizione per l'istituzione del nesso che mostra il suono come un prodotto. Il suono cessa allora di essere un'entità passivamente ricevuta e sussisten­te in sé e per sé, e diventa qualcosa che la 94 mia azione è capace di porre in essere esercitandosi in vari modi sulla "cosa sonora". Dei suoni ora posso essere padrone. Il suono strumen­talmente prodotto sta tutto nelle mie mani, per quanto resti inafferrabile, e questa padro­nanza non è nulla di simile ad un astratto processo o alla libera dispo­nibilità di entità preesistenti. La nostra insistenza sul nesso tra l'a­zione della mano, la vibra­ zione della corda e il suono emesso non ha solo il senso di sotto­ lineare che questo nesso è visivamente manife­sto. Se ci disponia­ mo dalla parte dello strumentista, il produrre è ine­stricabilmente connesso con l'espe­rien­za del produrre - e ciò significa: il suono c'è già nel gesto che lo crea. Ma che ne è di questo problema dell'origine e della prove­ nienza del suono in rapporto a quei suoni che sono le nostre voci? È subito chiaro che esso non può ripresentarsi negli stessi termi­ ni. Vi sono forse qui corde vibranti? Di ciò non sappiamo nulla. Solo un orientamento conoscitivo nel quale si sia già attestata la possi­bilità di spiegazioni unitarie per fenomeni affini e l'idea di una con­catenazione causale iscritta dentro un quadro teorico suffi­ cientemente evoluto può farci sospettare che il pro­ble­ma possa es­ sere posto all'incirca nello stesso modo. Ma fin­ché ciò non accade, la que­stione dell'origine sembra fissare una opposizione. 95 La voce ha origine dalla bocca. Essa, dunque, non proviene da una cosa, dalla pienezza: vi è qui il richiamo al vuoto, piuttosto che al pieno. Il suono risuonante nella caverna proviene dalla caver­ na, e così la voce ha origine da una vuotezza attraversata dal respiro. Se prima abbiamo parlato di un'irra­dia­zione del suono dal nucleo mate­riale della cosa, ora forse potremmo par­lare della voce fluente dalla bocca come materializzazione di un respiro. Si delinea così un'opposizione tra suono vocale e suono stru­mentale nella quale si rinnova l'opposizione più ampia tra il corpo che vive, e dunque respira e canta, la cui soggettività consiste pro­prio in quel vuoto interno che può dare spazio al respiro, e la cosa che emette suoni in forza della sua stessa pie­ nezza. Ma proprio nel punto in cui la distanza tra questi due poli appare massima si co­mincia a scorgere la possibilità di una dialettica elementare tra l'uno e l'altro polo. Questa possibilità è del resto già suggerita da quella che è intanto una pura osserva­ zione empirica: le cose sonore possono giovarsi della cavità. Ciò che qui si osserva è che il suono, laddove pre­vale il volume e lo spessore, la densità e la solidità, è un suono sordo - com'è singolare il fatto che un suono possa essere chiamato così! Il suono deve udirsi, e dunque risuonare vivacemente come quando risuona nel vuoto e attraverso il vuoto. Al centro della cosa sonora, da cui il suono comincia a ir­ raggiarsi, po­trebbe non esserci nulla, null'altro che una cavità. E di qui inizia certamente una proiezione di sensi soggettivi nel cui corso lo strumento diventa sempre più strumento-corpo, quan­to più il senso della corporeità vivente si so­vrappone a quello della cosa sonora. Del suono che da essa proviene si potrà parlare come della sua voce. Ma vi è anche un movimento che procede nella dire­ zione inversa - il corpo vivente diventa sem­pre più corpo-stru­ mento: esso deve infatti essere appreso come una co­sa capace di emettere suoni, affinché si dia, anche per la voce, un'esperienza del produrre suoni e del padroneggiarli. 96 Annotazione "Non ricordo cosa ho sognato, / ma solo il vuoto che quel sogno m'ha lasciato, / il vuoto in me / quel vuoto da cui vengono i suoni / e che ora tace". Così canta Prospero, all'inizio di Un re in ascolto di Luciano Berio su libret­to di Italo Calvino (Universal Edition, 1983, p. 2). §7 Riconsiderando tutto ciò che siamo venuti esponendo intorno alle determinazioni fenomenologiche del suono non possiamo non av­vertire che esse sembrano già predisposte per entrare all'interno dei dinamismi dell'immaginazione, esse sono in cer­­ to modo sospese su questi dinamismi, pronte a essere sospinte nell'una o nell'altra dire­zione dalla gentle force dell'asso­cia­zione delle idee. Naturalmente non avrebbe alcun senso tentare di dedur­ re astrattamente quei percorsi associativi di cui intravediamo la pos­sibilità: mentre può certamente contribuire ad arricchire la nostra tematica il mostrare con pochi esempi in che modo il mito si impos­sessi di quelle determinazioni e le sviluppi nel qua­ dro dei propri problemi fondamentali. Per questo scopo ci possiamo liberamente sostenere, alme­ no per un certo tratto, sulle ricerche di Marius Schneider, tra i cui molti meriti vi è certamente quello di aver dato il massimo risalto ai riferi­menti musicali e in generale sonori che sono rinvenibili nelle narra­zioni e nei comportamenti mitici, accentuando la por­ tata di questa presenza con un radicalismo che è in ogni caso fonte di punti di vista di grande interesse [31]. Il discorso soggia­ cente è che quella sorta di predominio dei puri significati verbali e, ad un tempo, di quei mo­menti gestuali e mimici riconducibili agli interessi della visualità, che si fa sentire nei campi più di­ versi, ha agito e continua ad agire nello studio del folclore e del 97 mito, con conseguenze particolarmen­te gravi sia nella selezione che nell'inter­pretazione del materiale do­cumentario. Riportando vivacemente l'accento sul fenomeno sono­ro, Schneider realizza uno scambio di piani attraverso il quale persino figurazioni sim­ boliche ben note possono essere proposte sotto una luce intera­ mente nuova. A questa ricerca di Schneider, che è in realtà orientata da in­ tenti speculativi da cui tra breve prenderemo le nostre distanze, noi sia­mo interessati soprattutto perché nei documenti dell'imma­ ginazio­ne mitica che in essa vengono richiamati sia­mo in grado di rico­struire una rete di connessioni immaginative che superano cer­ tamente il piano al quale ci siamo in precedenza attenuti, ma che an­che lo presuppongono. Potremo così effettuare per la seconda volta il percorso che abbiamo fin qui compiuto, riepilogando ogni suo passo come punto di innesto di coerenti sviluppi immaginativi. Consideriamo anzitutto il tema dei suoni senza mondo. Come ab­biamo visto, l'"incorporeità" del suono, la sua "immaterialità" può essere interpretata come una indipendenza del suono dai contesti di cose, e dunque dalla realtà stessa. Ma questo moti­ vo ci porta in prossimità del tema cosmogonico centrale secon­ do Schneider: di continuo si ribadisce che è o­vunque presente nell'immaginazione cosmogonica, nonostan­te la varietà di aspet­ ti che essa può assumere, l'idea del­l'o­ri­gine del mondo dal suono. E noi saremmo tentati di com­mentare: il suono senza mondo può certamente essere immaginato come se esso fosse prima di esso - e allora si fanno avanti quei ra­gionamenti bastardi che fanno subito presa: se il suono non ha biso­gno del mondo per esistere, allora è il mondo che deve al suono la sua stessa esistenza. Ciò che appare senza origine, può fungere esso stesso come origine. A questo stesso motivo - intrecciato tuttavia con il tema del si­lenzio - ci riconduce la riflessione sull'acquaticità della musica, se­condo un epiteto ricorrente nella trattatistica medioevale [32]. Schnei­der rammenta in particolare il tentativo di rendere con­ to di questa qualificazione immaginativa attraverso una riduzio­ 98 ne all'empiria che assume il carattere di una razionalizzazione: il nesso tra la mu­sica e l'acqua sarebbe stabilito sulla base del "rumore che fa la piog­gia sui tetti e sulle pietre" [33]. Lo spunto che fa dell'acqua qualcosa che appartiene al campo dei fenomeni sonori è qui completamente frainteso nel suo senso e nella sua portata. Il suono dell'acqua, il suo fluire gorgogliante e mormoran­ te deve essere inteso come immagi­nativamente trasfigurato, e noi sappiamo già che nel suo mormorio possiamo cogliere niente altro che una figura del silenzio ricco di vita latente [34]. Da questo silenzio si sta per levare un urlo, una risata, un grido - e di qui cominceranno a scaturire ed a dispiegarsi forme, piante, animali e tutte le altre cose del nostro mondo: dio stesso è tutto in questo grido, in esso egli comincia a pren­dere forma, poiché dio non è altro, all'inizio, che un soffio, un alito, un vento divino che spira sopra le acque silenziosamente mormoranti fa­ cendole sollevare e turbinare finché esplode la voce tonante che crea l'universo. Tutti questi temi si trovano unificati in uno splendido rac­ conto cosmogonico degli indiani Yuki [35]. Anche in questo mito l'acqua c'è prima di tutte le cose, e sul pelo dell'acqua vol­ teggiava una piuma. In essa comincia a esistere, cantando, il dio Taoicomol. Cantando egli prendeva forma, dai piedi alla testa, e così prendeva forma an­che il mondo intero, mentre l'acqua "emise un forte suono". La storia dell'origine del mondo è la storia del passaggio dall'ac­qua spumeggiante alla sonorità dispiegata di una voce che canta. La piuma rappresenta il centro in cui si incontrano diverse direzio­ne immaginative: essa è ad un tempo spumeggiare dell'ac­ qua e alitare del vento, è silenzio, respiro e canto: "La terra non esisteva anco­ra... allora questo padre, sotto le sembianze di una piuma, apparve sull'acqua affacciandosi all'esistenza, ed entrò nella schiuma; entrò nella schiuma come una piuma, e Taoiko­ mol nella schiuma cantava continuamente il canto con cui voleva creare se stesso e venire all'e­sistenza..." [36]. 99 Il suono primordiale è anzitutto voce, ma non voce personale; talvolta si impone anche l'idea dell'eco per indicare il modo in cui quella voce risuona [37] : su questo punto si innesta subito il motivo della ca­vità nella grande varietà dei suoi richiami immagi­ nativi - bocca spalancata nell'urlo canoro, vuotezza nella quale il suono rimbomba, l'interno dei corpi viventi così come l'interno delle cose sonore in forza del quale esse hanno una voce. Questi sensi, e altri ancora, confluiscono insieme nell'unità solidale e fluente delle sintesi imma­ginative. Talvolta i flauti vengono detti affamati. Il dato di fatto con­ creto, l'esperienza vissuta della fame, che può certo essere de­ scritta come una sensazione di vuoto interno, entra in una catena di sensi imma­ginativi diventando a sua volta un senso immagi­ nativo. La bocca spalancata è ad un tempo figura della fame e del canto: i flauti vengono detti affamati perché sono bocche che cantano [38]. Secondo questa stessa chiave interpretativa, Schneider ram­ menta che fra le pratiche ricorrenti di ascesi dello stregone vi è an­che il digiuno, un digiuno reale il cui senso sta tuttavia intera­ mente sul piano immaginativo, dal momento che esso deve pre­ parare lo stregone ad impossessarsi con il canto dei suoni della natura, delle voci degli animali e delle cose: esso ha lo scopo di trasformare il cor­po dello stregone in cosa sonora: "Il fine ultimo è quello di trasformare l'intero suo corpo in un risuonatore" [39]. La cosa cava può comparire infine all'interno del tema cosmo­gonico o nelle forme palesi di una cassa di risonanza, come nel caso del tamburo considerato come un grande conte­ nitore da cui emer­gono le cose del mondo [40] ; oppure in forme indirette e intrecciate con altri sensi, come nel caso del­l'uo­vo co­ smico che dovrà essere considerato non solo come uovo, con il suo ovvio rimando alla ge­nerazione, ma soprattutto come cavità sonora [41]. Nella stessa direzione potrà allora essere interpretata la ricor­rente descrizione mitica del sole che, dapprima nascosto in 100 una grande caverna si affaccia alla sua imboccatura nell'au­rora e poi il­lumina di luce piena il paesaggio del mondo. L'aurora non può for­se essere descritta come un risveglio annunciato da mille e mille pic­coli suoni, quindi come un fenomeno essenzialmente sonoro? E oltre l'aurora esplode infine la luce squillante del sole a mezzogiorno [42]. Eppure, il suono, che contiene il richiamo alla vita nascente, può essere circondato da immagini di morte. Talvolta il dio che canta è un dio morente: il suo canto è un lamento, oppure è in­ sieme riso e lamento [43]. Sono morti che cantano gli strumenti in genere, e soprattutto il tamburo - uno scambio e una fusione tra il morto e il vivo che assume una inquietante concretezza, quando il mito narra di tamburi fatti con la pelle di nemici uccisi [44]. In realtà in questi motivi siamo ancora alla presenza di un'ela­borazione del tema della cavità e della vuotezza. In que­ sta elabora­zione affiora il pensiero del nulla - un pensiero che non può attestarsi sul piano di un'astratta negazione dell'es­ser­ci in generale di qualcosa, ma che deve assumere le fattezze del­ la morte. Prima di tut­to cos'altro poteva esserci se non abissale vuotezza e profondissimo silenzio? E prima della vita, cos'altro se non la morte - la morte stessa, affamata, che intona un canto, "desiderando un corpo"? [45] "Al principio c'era il nulla, poiché il mondo era avvolto dal­ la morte, dalla fame, essendo la morte fame" [46]. Questa fame della morte ribadisce anzitutto il suo essere un pu­ro nulla, ma rappresenta nello stesso tempo il punto in cui può av��venire una conversione della direzione immaginativa, non più ver­so le oscure profondità della caverna, ma verso l'imboc­ catura, dun­que verso quel canto che è l'origine stessa dell'uni­ verso. 101 §8 La nostra digressione potrebbe concludersi a questo punto, es­ sendo ormai soddisfatto lo scopo che abbiamo fin dall'inizio esplici­tamente dichiarato, se non fosse invece utile per evitare possibili equivoci, ma anche interessante in se stesso, prendere in considerazione il contesto nel quale sono inseriti quei motivi che tracciano intorno al suono una rete di rapporti immaginativi che noi abbiamo trovato significativa per ragioni strettamente interne ai nostri sviluppi precedenti. È chiaro infatti che abbia­mo operato una sorta di isolamento e di dislocazione di quei motivi, tacendo anche su intere tematiche che hanno una fon­damentale impor­ tanza per delineare la posizione vera e propria di Schneider. Quei rapporti e quelle connessioni che siamo venuti illu­ strando costituiscono invece il supporto per una concezione della musica che è a sua volta profondamente integrata in una cornice filosofica più ampia. Del resto, il titolo sotto il quale sono stati raccolti i saggi a cui abbiamo fatto riferimento prevalente, Il significato della musica, non è affatto fuori luogo: in tutte le in­ terpretazioni proposte, sem­pre penetranti e ricche di suggestioni, l'argomento effettivo che sta al loro fondo, affron­tato in realtà con esasperata decisione speculativa, è proprio quello della natura e del significato della musica. Sono dunque i nostri interessi in di­ rezione di una riflessione filosofica sulla musica, oltre che motivi di chiarezza critica e polemica, a suggerirci di impostare i termini di una discussione anche sotto questo ri­guardo. Ricollegandoci al tema del suono e della morte sul quale ci sia­mo intrattenuti al termine del paragrafo precedente entreremo su­bito nel vivo dell'argomento. Abbiamo fatto notare che questo mo­tivo può essere introdotto a partire dalla condizione originaria del nulla, che questo nulla deve assumere 1'im­ma­gine concreta della morte, e dunque che il canto divino da cui sorge l'universo può es­sere proposto come canto della morte oppure come canto 102 di un dio morente. Si tratta di un motivo che riceve in Schneider un approfondi­ mento nel quale tuttavia diventa particolarmente dif­ficile distri­ care la pura e semplice esibizione dei nessi immaginativi dalla loro inte­grazione diretta dentro il problema del­l'essenza del musi­ cale. Questo approfondimento può comunque ancora contare su uno spunto fenomenologico iniziale. Il modo d'essere tem­ porale del suono può essere inteso come un progresso verso la fine, come este­nuazione ed estinzione. Il canto si va facendo, e fa­cendosi si consuma. Cosicché il canto divino che crea il mondo e lo mantiene in es­sere è anche un canto morente, dunque il canto di un morente. In questo motivo si può allora subito mettere in evidenza il tema del sacrificio: "Questo dio-cavità "canta o suona a ritmo di tamburo se stesso; poiché egli stesso è l'inno. Però mentre egli si canta o si suona, il suo canto, cioè egli stesso, svanisce nel nulla, sacrifica se stesso per rica­vare un inno da suoni che subito si spengono" [47]. Ma da ciò sorge una nuova relazione dal lato umano, dal lato dei sacrifici che gli umani offrono ai divini. Anche in rappor­ to a que­sto tema Schneider mostra l'unilateralità di un modo di lettura del materiale mitico che descrive il sacrificio con gli occhi piuttosto che con le orecchie. Si offrono vittime agli dei, accom­ pagnandole con canti, quasi che esse, come nutrimento auten­ tico, dovessero corri­spondere ad un'au­ten­tica fame, mentre un simile realismo non è al­tro che la proiezione di una connessione incompresa che mostra un senso ben più profondo. L'uccisione della vittima va infatti intesa come regresso alla condizione che prepara i canti che accompagnano l'offerta - autentico nutrimen­ to è il canto stesso degli uomini che si incontra con il canto di un dio esausto, restituendogli vita e forze. Con il loro canto, che è cer­ tamente ancora un canto di mo­renti, gli uomini riempiono la gola spalancata di dio, colmando "questo dio caverna esausto con il 103 canto della loro vita" [48]. Vogliamo lasciare da parte il fascino di una simile interpretazio­ne; e nemmeno vogliamo indugiare sui problemi inter­ni che sugge­stioni interpretative come queste indub­bia­ men­te sollevano sullo sfondo di complesse questioni di metodo. Quel che più ci preme invece è mostrare che cosa accade quando una simile connessione im­maginativa viene assunta come se essa cogliesse il centro stesso del problema del significato della musica, ciò che la musica è nella sua es­senza. In tal caso, ciò che abbiamo detto or ora per il canto sacrifi­cale dovrà valere per la musica in genere: è la musica che rappre­senta il punto che congiunge cielo e terra, che stabilisce un vincolo, nell'eterno ciclo della vita e della morte, tra umani e divini. Da que­sto rapporto con il sacro la musica non può essere separata se non rimettendoci il suo signi­ ficato più autentico. In que­sto modo la musica giunge al centro stesso dell'esistenza: certo, purché si sia disposti ad ammettere che questo centro non sia dentro il mondo, ma altrove, "fuori di noi", "fuori del tempo" [49]. A questo punto abbiamo ormai oltrepassato il terreno al quale ci siamo attenuti in precedenza e ci stiamo avviando in direzione di una vera e propria speculazione sul musicale di cui cominciamo ad intravedere i possibili sviluppi. Appare anzitutto chiaro in che modo le considerazioni precedenti sul­l'ex­tramon­ danità e sulla fantomaticità del suono possano essere integrate in un quadro filosofico generale che opera una sublimazione della mu­sica proponendola come massima manifestazione dell'essenza spi­rituale della realtà. Di questo in effetti si tratta se volessimo, senza troppi problemi, tradurre in termini filosofici il tema dell'origine del mondo dal suono o dal nucleo sonoro delle cose. La parvenza è materialità, solidità, inerzia. L'essenza invece è suono, dunque respiro e vita vivente. Proiettando questi motivi sul problema del significato della musica non si ottiene soltanto l'affermazione del legame intrinseco tra la musica e il sacro, ma anche, coeren­ 104 te­mente, si attribuisce alla musica il carattere eminente di un'arte che più di ogni altra è connessa con una dimensione assoluta, dunque di arte metafisica per eccellenza. Una tesi certo non nuova! Eppure, sarebbe un errore sbrigarsi troppo rapidamente del­ la posizione di Schneider come se essa fosse portatrice di temi e motivi profondamente estranei alle vicende e al pensiero musicale della nostra epoca. Invece, proprio l'esasperata ostinazione con la quale Schneider, facendo ricorso alle opere dell'immaginazione mitica, sostiene l'idea di una connessione interna tra la musica e l'essenza della realtà, proprio il fatto che questa idea sia elaborata nel quadro di una polemica aperta contro la modernità che non teme affatto di apparire fortemente regressiva, fa sì che essa assu­ ma un carattere per molti versi esemplare e persino, a suo modo, esemplarmente moderno. Intanto, è ormai tempo di notarlo, questa teoria del signi­ ficato della musica, elaborata sulle fantasie del suono primordiale e dell'essenza sonora del mondo, è costretta a essere una teoria del signifi­cato perduto. Le ragioni di ciò sono presto dette. Nella misura in cui la ricchezza di senso del musicale è vincolata inter­ namente al rap­porto con il sacro, l'allenta­mento di questo rap­ porto rappresenta un impoverimento e una perdita del senso. Quanto meno si cantano le lodi di dio, tanto più la musica subisce un progressivo svuotamento, tanto più essa diventa estranea ad un'esistenza divenuta a sua volta dimentica delle proprie radici nel­ la trascendenza. Con ciò l'intero problema del significato della musica riceve un rimando al passato che in realtà gli appartiene anzitutto sotto il profilo concettuale, prima ancora che sotto quello "storico". La stessa domanda che chiede quando questo processo di decaden­ za abbia avuto inizio non può pretendere alcuna determinatezza nella rispo­sta, che tenderà a rinviare questo inizio a tempi sem­ pre più remoti. In realtà, se parliamo del significato della musica non possiamo che richiamarci al suo significato originario, e basta questo a far sì che es­so sia proposto come significato perduto. 105 La polemica contro la laicità del presente si accompagna così ad una polemica non meno esplicita contro un modo di pensare secondo ordini e procedure razionali, alle quali si con­ trappongono le produzioni immaginative del mito come capaci di dare contenuto e fondamento alle istanze che stanno alla base di quella polemica. In tutto ciò si ripresentano i luoghi comuni di tutta una linea di pensiero tipicamente novecentesca: ma ciò che rende l'esposizione di Schneider particolarmente istruttiva è l'estre­mi­ smo con il quale questi luoghi comuni vengono riproposti, ri­ baditi e riversati nell'ambito della riflessione filosofico-mu­sicale. Ciò vale in particolare per la problematica del simbolismo. Que­ sta problematica ricorre di continuo nella filosofia della musica, e in una grande varietà di forme e di orientamenti. In Schneider essa forma addirittura il centro intorno al quale possono essere fatte con­vergere le sue prese di posizione con­clusive. Non solo il simbolo è connesso all'essenza del musicale, ma esso ha nella mu­ sica il suo luogo di formazione, la sua forma di manifestazione primaria ed eminente. Ma di quale nozione di simbolo si tratta? In che senso si parla di un pensiero simbolico che viene duramente contrapposto ad un pen­siero dominato dai principi della razionalità? La risposta è subito a portata di mano non appena viene e­nun­ciato il "presup­ posto" di questo pensiero, che consisterebbe nella "convinzione che dietro ogni parvenza esteriore stia un principio creatore, il quale pur es­sendo intangibile può essere intravisto dall'intuizio­ ne umana" [50]. Il simbolo può allora essere caratterizzato come "una realtà materiale la cui configurazione permette ad una realtà spirituale e dinamica di manifestarsi. Un elemento sovratemporale e sovraspaziale tralu­ce fugacemente in una materia che è estranea alla sua natura" [51]. L'assunzione che ci sia realmente una for­ za intesa come principio creativo ed ultima sostanza delle cose rende conto del fatto che la sua manifestazione nel simbolo non possa essere ridotta ad un puro e semplice modo di intendere, ad 106 una forma di apprensione: l'esisten­za del rimando trascendente è perciò indipendente dalla capacità o incapacità dell'uomo di afferrarlo [52]. Ci troviamo dunque di fronte ad una concezione ontologica del simbolo esplicitamente e anche trop­po elementar­ mente formulata. Se poi ci chiediamo perché proprio il suono debba essere consi­derato come un materiale simbolico per eccellenza al punto da potersi parlare di "nascita musicale del simbolo" si risponderà che la forza trascendente che tende a un'auto­rea­lizzazione simbo­ lica può trovare nell'immaterialità del suono e nella sua natura non rappre­sentativa la sua manifestazione più adeguata poiché essa stessa è una forza "dinamica" e "spirituale". La strada mae­ stra attraverso cui la "potenza creatrice" arriva a manifestarsi sim­ bolicamente è dunque proprio la musica, perché nella musica essa non appare "vincolata ad una forma concreta o ad un'im­magine determinata" [53]. Il "veicolo più adeguato", affinché "un elemento trascen­dente possa giungere a trasparire in una realtà del nostro mondo con­ creto" sarà un ritmo sonoro "poiché tale ritmo è spoglio di ogni forma o imma­gine concreta che potrebbero essere un ostacolo alla natura immate­riale e dinamica di una simile manifestazione" [54]. Proprio al fine di valutare meglio l'operazione che noi ab­ biamo compiuto nei confronti di Schneider, isolando da que­sto quadro ideologico la pura trama delle connessioni im­ma­ginative, è oppor­tuno sottolineare quanto poco l'imma­ginazione venga qui in que­stione come una pura capacità sin­tetica, come, un ope­ rare che, per quanto non si risolva nel­l'"as­sociare idee", ha tut­ tavia nell'"associa­zione delle idee" uno dei suoi essenziali fonda­ menti. Ed è certamen­te significativo che quando in Schnei­der si parla di analogia e di ap­prensione di analogie si tenda subito ad allontanare da questa no­zione qualunque riferi­mento in qualche modo positivo, che potreb­be far pensare ad una relazione an­ zitutto semplicemente osservabile, per richia­marsi invece all'ap­ prensione "intuitiva", in­­tendendo que­st'ultima e­spres­sione come 107 oscuro avvertimen­to dell'elemento rit­mico come ele­mento che accomuna tutte le cose nella loro profonda unità vitale e spiri­ tuale. Si potrebbe allora sostenere che la nostra esposizione pre­ cedente si arresti al livello più superficiale, ignorando quel­lo più profondo, ignorando cioè che l'immaginazione subentra al falli­ mento del pen­siero puro nel compito metafisico assumendo su di sé questo compi­to e che dunque ad essa deve essere attribuita, se non una portata propriamente conoscitiva, almeno la capacità di far trasparire verità in via di principio inafferrabili al pensie­ ro razionale. Dal nostro punto di vista, invece, qui non si fa altro che fraintendere come pro­fondità metafisica quella profondità che certamente deve essere ri­conosciuta alle operazioni immaginative in quanto rimandano al campo dei sensi e dei valori. Tutto ciò è più che sufficiente per spiegare l'adesione simpateti­ca con la quale Schneider segue le narrazioni mitiche, un'adesione che talora è tanto intensa da farci sospettare che egli creda realmente, per dirla in breve, che il suono sia l'es­senza del mondo, che il mon­do abbia un'essenza vibratile. Si tratta di un sospetto fondato? Ri­sponderemmo volentieri di sì, se potes­ simo essere certi di capire che cosa realmente crede chi dice di credere che l'essenza del mondo sia un'essenza vibratile. È vero soltanto che siamo costretti a rammen­tarci di tanto in tanto che questo autorevole studioso, questa perso­nalità eminente e sin­ golare, "apprese dai tamburini del Marocco l'arte di incantare i serpenti" [55]. Nel testo si dice una volta: "Chi scrive non è il solo ad avere visto con i propri occhi come scorpioni, serpenti e anche uomini siano immobilizzati e resi rigidi in virtù di certe sillabe o note di flau­to" [56]. Altrove si cita con apprezzamento un volume nel quale si tenta di mostrare l'esistenza di una relazione tra i valori numerici connessi alla crescita delle piante e la progressione dei suoni armo­nici [57] ; e così si guarda con interesse alla possi­bilità di stabilire nessi misteriosi tra questi suoni e i pianeti [58]. 108 In luogo di soffermarci su questo imbarazzante magismo e sul suo sfondo solidamente e stolidamente irrazionalistico, sulla critica del presente e sui motivi "tradizionalistici" che la informa­no, in una parola, sui tratti esplicitamente regressivi della concezione di Sch­neider, sembra più interessante avviarci ad una conclusio­ ne ram­mentando una contrapposizione che da un lato è stretta­ mente dipendente dall'impostazione d'in­sieme, dall'al­tro prospetta in forma nuova il tema del significato perduto. Si tratta della contrapposizione tra musica naturale e musica d'arte. La musica che Schneider chiama naturale consisterebbe nei "suoni che l'uomo emette spontaneamente, sia come espressio­ ne del ritmo interiore della propria persona sia come imitazione dei rumori della natura. Si tratta dunque di una musica essen­ zialmente improvvisa­ta o conforme alle manife­sta­zioni acustiche abituali di un indivi­duo" [59]. Una simile definizione tuttavia è lontana dal rendere conto del modo in cui questa nozione viene impiegata. La "naturalità" della musica non è data soltanto dalla sua spontaneità e immedia­tezza o dall'improv­visazione, ma so­ prattutto dall'organicità con la quale essa si integra in un rappor­ to armonioso tra l'uomo, la società e la natura. In realtà, accanto alla sublimazione del mu­­sicale attra­verso il nesso con il sacro, si presenta anche, secondo una connes­sione solo apparentemente necessaria, l'i­stan­za dell'acquisizione di una dimensione di natu­ ralezza del­l'esistenza umana che ha come sua prima condizio­ ne un rapporto di rasserenato equilibrio con la natu­ra. Accanto all'esa­sperazione religiosa del problema del ritmo, vi è l'idea della necessità del recupero nei modi dell'esi­stenza umana di una pul­ sazione che coincida con le pulsazioni della natura [60]. La mu­ sica naturale si situa all'interno di questo problema e si richiama d'altro lato alla densità della relazione simbolica che in essa trova espressione. Così il fatto che qui si parli di "imitazione dei rumori della natura" non deve essere frainteso: il rumore naturale stesso, il tuono, la pioggia, il grido di un ani­male non sono soltanto fatti acu­stici, ma hanno a loro vol­ta una portata simbolica, cosicché 109 la loro imitazione non ha il senso della pura riproduzione di un dato e nemmeno soltanto quello connesso con le pratiche di dominio magi­co, ma rappre­senta un modo di partecipazione al simbolismo. Alla musica naturale si contrappone la musica d'arte, la musi­ ca artistica. In questa contrapposizione risulta subito chia­­­ro che arte si­gnifica soprattutto artificio: la musica d'arte non sarà dunque spon­tanea e immediata, non sarà musica impulsiva: si trat­terà in­ vece di una musica meditata, "coscientemente costruita" [61] , per la cui elaborazione ha certamente parte dominante il pensiero razionale - tutti segni, secondo Schneider, di un indebolimento del rimando simbolico, di una sua degradazione. Così nella musica d'arte l'imitazione ha tut­t'altro senso, non è una riproduzione che riprende la portata simbolica del feno­ meno sonoro ampliandola e potenziandola, ma è piuttosto un "dipingere con i suoni", cioè un trasferimento di un'immagine visiva sul piano acustico, dal quale verrà poi nuovamente trasferita dall'ascol­ta­tore sul piano delle sensazioni quasi-visive [62]. La presenza dell'arte è in generale presenza dell'artificio, e ciò ci riporta al problema del significato della musica e della sua perdita. Non vi è dubbio infatti che la contrapposizione tra musica naturale e musica d'arte possa essere ridotta alla contrapposizione elementare tra musica da un lato e arte dall'altro. La teoria del si­ gnificato perduto è anche una teoria della musica perduta. Nello spirito delle considerazioni di Schneider possiamo certamente dire: la musica è morta, molto tempo fa. A noi resta soltanto l'arte dei suoni. In questa opposizione e in questa formulazione conse­ guente, la musica di cui parla Schneider si perde veramente nelle nebbie di un puro ideale filosofico. E tuttavia, nonostante il fat­ to che proprio su questa conclusione intendiamo riposare, c'è ancora qualcosa che fomenta la nostra inquietudine teorica: si arriva qui a dire in negativo esattamente ciò che teorici e musici­ sti del Novecento, guidati da orientamenti opposti, hanno detto 110 e ridetto in positivo come un'acquisi­zione importante e nuova: finalmente siamo arrivati a renderci conto del fatto che la musica è niente altro che arte dei suoni. §9 La distinzione tra suoni e rumori merita certamente la massima attenzione all'interno di uno sviluppo interessato alle distinzio­ ni elementari tra i fenomeni sonori con particolare riguardo dal proble­ma musicale. Talora la musica è chiamata così direttamente in causa che il riferimento ad essa sembra intervenire come criterio di discriminazione, come se si trattasse di distinguere tra fenomeni so­nori che appartengono in via di principio alla musica e fe­ nomeni so­nori che non vi appartengono e che non possono ap­ partenervi. Non è forse vero che dalla musica dovrebbero esse­re esclusi i rumori? Impiegata in opposizione a "rumore", la parola "suono" ha evi­dentemente un significato speciale, mentre essa può essere im­ piegata in modo generale per indicare un fenomeno sonoro qual­ sivoglia. Ed è proprio a quest'accezione generale che ci siamo in precedenza atte­nuti. Con ciò intendevamo tacitamente liberarci di quella distinzio­ne contestando la sua effettiva consistenza e in particolare la sua at­tinenza alla delimitazione del campo del mu­ sicale? Anche se così fosse, sarebbe un errore evitare di passare attraverso una discussio­ne approfondita, sbrigandosi di essa in quattro parole. L'intera questione ha le sue ovvietà e anche le sue difficoltà interne, e le une e le altre meritano di essere chia­ ramente esposte. Anzitutto l'opposizione tra suono e rumore è propria del lin­guaggio corrente. Ciò non significa certo che in esso sia impli­ cito un criterio rigoroso di distinzione: significa invece che vi è un'inclina­z ione del linguaggio corrente a impiegare questi termini in contesti differenti, una tendenza a ritenere più appropriata, all'interno di un gioco linguistico determinato, l'una parola piut­ 111 tosto che l'altra, implicando un richiamo non tanto al possesso di questa o quella proprietà distintiva, ma ad aree di senso diffe­ renti. Il punto del problema sta nello stabilire se queste consue­ tudini linguistiche abbiano una qualche dignità teorica oppure se non siano altro che usanze del linguaggio sorte alla cieca e senza alcuna possibile giustificazione. Un bambino parla del rumore prodotto da un flauto e il ma­ estro corregge quella espressione. Così facendo lo educa ad un pregiudi­zio? Suggerisce, attraverso la differenziazione dei termi­ ni, una dif­ferenziazione concettuale che in realtà non sus­siste nella cosa stessa? Chiunque esiterà a rispondere in modo netta­ mente affermativo. E tuttavia, anche se fossimo dell'opinione che quella distin­ zione avesse un qualche fondamento nell'esperienza dei feno­meni sonori, non sarebbe del tutto facile convalidarla e confer­marla contro le nu­merose obiezioni che possono essere ad essa rivolte. Intanto sorgono diverse perplessità già nel momento in cui cer­chiamo di cogliere il criterio del modo di impiego delle parole nel discorso corrente. All'inizio tutto sembra abbastanza chiaro: rumori e suoni sono fenomeni uditivi che si distribuiscono su due poli - al suono spettano qualificazioni positive, del rumore invece si può dire tutto il male che si vuole. Ciò significa che parleremmo di rumori quando il fe­nomeno uditivo genera urto e fastidio, quando esso ci respinge e ci allontana, mentre parlerem­ mo di suoni quando il fenomeno uditivo è piacevole per l'orec­ chio e attira per questo la nostra attenzione percettiva. Dobbia­ mo senz'altro concludere che il criterio della di­stinzio­ne consista nella gradevolezza e nella sgradevolezza? In real­tà, non si tratta tanto di prendere senz'altro una decisione in pro­po­sito, quanto di chiarire se, pro­posta in questo modo, cioè attraverso un riferimen­ to giustificativo al gradevole ed allo sgradevole, la distinzio­ne tra suoni e rumori abbia un'effettiva tenuta concettuale. Non è dif­ ficile allora mo­stra­re come ben presto, proprio su questo punto, 112 ci si potrebbe trovare in difficoltà. Parlare di gradevolezza o di sgra­devolezza significa parlare di un'impressione psicologica che può essere proposta o in termini introspettivi, come una speciale sen­ sazione in­teriore peraltro difficile da descrivere in parole, oppure in termini di reazioni comportamentali - ad esempio, ci si ritrae dal rumore con una qualche reazione caratteristica, come quando si accenna al ge­sto di tapparsi le orecchie. Sia che si consideri l'una o l'altra possibilità, il criterio della di­stinzione sarebbe di carattere empirico e inoltre non avrebbe nes­sun sostegno nella cosa stessa, ma riguarderebbe unicamente la sog­gettività percettiva. Cosicché si fa subito a­van­ti un'obiezio­ ne relati­vistica che mostra come all'eventuale rilevanza psicolo­ gica faccia da contrappeso la totale inconsistenza concettuale. In breve: ciò che può apparire gradevole ad alcuni, appare sgradevole ad altri; e così può accadere che qualcuno si tappi le orecchie udendo i suoni troppo acuti di un violino o dichiari il proprio fa­ stidio nei confronti dei suo­ni troppo gravi di un contrabbasso. Se il criterio fosse quello della gradevolezza, ciò che è suono e ciò che è rumore dovrebbe essere accertato di caso in caso, subordi­ nando la decisione alla presenza di determinate reazioni compor­ tamentali caratteristiche. Tuttavia un simile relativismo non è seguito con filosofi­ ca coe­renza dal discorso corrente: infatti, mentre possono dar­si passaggi dal gradevole allo sgradevole per lo stesso contenuto uditivo non solo per persone diverse, ma anche per la stessa persona in tempi e circostanze diverse, non siamo affatto auto­ rizzati a dire, ad esem­pio, che ciò che prima era per noi suono, ora è diventato rumore. No­nostante tutto sembra che la distinzione sia proposta come inerente al contenuto u­ditivo e non come se essa fosse riempita dalla pura "impressione" momentanea che il suono ci fa e liberamente fluttuante insieme a quella impressio­ ne. Ciò ci fa pensare che forse la grade­volezza e la sgradevolezza, benché certamente appartengano all'area del nostro problema, non si trovino al suo centro, e soprat­tutto non assolvano quella 113 funzione di condizione e di criterio che poco fa ci sembrava così ovvia. Lo stesso impiego corrente mostra esempi significativi nei quali la gradevolezza non è affatto implicata o non è comun­ que rilevante. Il fruscio del vento tra le foglie o la pioggia bat­ tente saranno preferibilmente chiamati rumori senza che in questa designazione sia implicata necessa­riamente una reazione negativa di urto e di fastidio. Mentre il suono di una tromba che ci è sta­to scortesemente soffiato in un orecchio, lo chiameremo ancora suo­ no nonostante il massimo fastidio che ci reca. Dobbiamo allora andare alla ricerca di un altro criterio che sia in grado di fornire una giustificazione più completa e per­ suasiva? Oppure non sarebbe più giusto assumere l'e­si­sten­za di impieghi differenti come un puro dato di fatto respingendo come priva di senso la ricerca di una ragione? In non minori difficoltà ci imbatteremmo implicando nel­la di­scussione il riferimento all'am­ bito musicale. A tutta prima, potreb­be sembrare che la musica pre­ supponga la distinzione tra suoni e ru­mori. Nel vasto mondo dei fatti uditivi, la musica opera una selezio­ne - da essa è esclusa un'immensa varietà di fenomeni sonori, cosicché si potrebbe so­ stenere che quella distinzione si impone prima e indipendente­ mente da ogni progetto espressivo. Contro di ciò vi è subito una buona obiezione a portata di mano: la musica, al singolare, è una pura astrazione e se con­ sideriamo la molteplicità dei sistemi musicali ci troviamo alla presenza di una grande varietà di modi di selezionare il mate­ riale uditivo, cosicché non solo si ribadisce quanto siano labili e mobili i confini tra rumori e suoni, ma si fa avanti come più ragionevole l'ammissione inversa: che semmai sia questa distin­ zione a presupporre l'esistenza della musica, almeno nel sen­ so che nell'impiego corrente di quei termini assolve una parte importante il riferimento diretto o indiretto ad una determinata cultura musicale. Così quando parliamo del "suono" del flauto in contrapposizione a un' altra manifestazione sonora che chiame­ remmo invece "rumore", non a caso facciamo riferimento ad 114 uno strumento e ad un modo di suonarlo che fa parte integrante di una tradizione musicale. La selezione operata tra i fenomeni sonori della musica di tradizione europea non può pretendere alcuna vali­dità intrinseca, come mostra anche solo uno sguardo in direzione delle culture musicali extraeuropee. Perciò preten­ dere che la distin­zione tra suoni e rumori sia una distinzione ri­ gida e che la sua giu­stificazione poggi sulla natura del fenomeno sonoro, piuttosto che sulla sua elaborazione culturale, significa niente altro che educare al pregiudizio: di fatto un determinato si­ stema mu­sicale, una determi­nata tradizione verrà presupposta più o meno implicitamente come modello e canone della valutazione, e ciò rappresenta certamente un ostacolo frapposto alla compren­ sione della musicalità in tutta la complessità e la ricchezza delle sue manifestazioni. Contro questo pregiudizio parlerebbe infine tutta la musica dei nostri giorni. L'aver fatto giustizia di questa opposizione è uno degli aspetti che essa ascrive a proprio merito. Non esistono suoni e rumori, ma soltanto suoni nell' accezione generale della parola, e tutti i suoni, nes­suno escluso, appartengono di diritto alle pos­ sibi­lità della musica. Proprio facendo riferimento a questa circo­ stanza, che va certamen­te considerata come una circostanza sto­ rica della musica del Novecento, avremmo potuto scegliere una strada molto breve per venire a capo di tutta questa faccenda dei suoni e dei rumori. Si dovrebbe dunque concludere: questa distinzione è pura convenzione: e non vi è nulla nella natura dei feno­ meni acustici che possa giustificarla . § 10 Nel corso di questa nostra discussione si presentano certo consi­ derazioni in se stesse giustificate, ma l'impostazione problematica nella quale esse sono inserite cela fin dall'inizio pro­fonde ambigui­ tà, ed esse permangono e anzi si approfondiscono in uno sviluppo 115 che conduce a conclusioni apparentemente provviste della mas­ sima forza di convinzione. Che in esse ci sia invece qualcosa che non va traspare proprio dal modo in cui viene chiamata in causa la musica novecentesca per assestare la botta decisiva: quasi si trattasse di esi­bire, dopo tante argomentazioni, un dato di fatto che avrebbe una forza dimostrativa assai maggiore di qualunque sviluppo argomen­tativo. Ciò su cui si tace è che questo dato di fatto è innestato in una selva di problemi e non vi può essere appiattimento maggiore del pensiero musicale novecentesco che presentare le cose come se tutto fosse cominciato perché ci si è resi conto che distinguere tra suoni e rumori è un pregiudizio infondato a cui i nostri antenati ingenuamente soggiacevano. Eppure molte affermazioni intorno alla convenzionalità della distinzione tra suoni e rumori, nonostante le più sofisticate appa­renze, non vogliono dire altro che questo. Su questo punto non faremo altro che rimandare alle considerazioni con­clusive della no­stra Introduzione. Il parlare di convenzionalità di quella di­ stinzione può al massimo essere considerato come un modo pro­ fondamente equivoco di sottolineare l'a­per­tura delle decisioni mu­ sicali - il che significa, in particolare, che nulla deve essere considerato come deciso una volta per tutte e che se vi sono motivazioni per una decisione, vi possono essere buone motiva­z ioni anche per la sua messa in questione. Dopo di ciò vogliamo forse avviarci a contestare punto per pun­to gli argomenti che abbiamo ordinatamente esposto in preceden­za? In realtà si tratta piuttosto di chiarire quale sia l'og­ getto vero e proprio della discussione e di delinearne nuova­mente i termini. Es­sa era stata aperta con alcune consi­derazioni sull'im­ piego delle parole "suono" e "rumore" nel discorso corrente. Il nostro compito tut­tavia non può essere quello di passare in ras­ segna i modi e i contesti in cui queste parole si presentano cor­ rentemente ricercando per es­se una giustificazione. Nemme­no si tratta di pretendere di scoprire, all'inter­no delle inde­ter­minatezze degli impieghi, una qualche precisa delimitazione con­cettuale. In li­ nea generale, il riferimento agli impieghi correnti è utile - quando 116 lo è! - per segnalare la pre­senza di un problema il cui sviluppo non può essere affatto racchiu­so all'interno di considerazioni di "grammatica filosofica"; ed even­tualmente per raccogliere indizi che potranno fornire un primo orientamento attirando l'atten­ zione in una direzione piuttosto che in un'altra. La riflessione filosofica non farebbe altro che aggirarsi senza scopo e senza guida tra insignificanti barlumi se si dovesse esercitare esclusi­ vamente su impieghi linguistici di fatto o addi­rittu­ra speculando su impieghi fittizi "possibili", più o meno astutamen­te escogitati. Ora, nell'inclinazione del discorso corrente a impiegare le parole "suono" e "rumore" in contesti differenti riteniamo di po­ ter cogliere l'indizio di una differenza il cui senso e la cui portata può forse essere esibita portando ad un maggiore approfondi­ mento gli spunti precedenti volti alla ricerca delle determinazio­ ni fenomenologiche del suono. La presenza di quella distinzione terminologica suggerisce subito che si debba­no prendere in esa­ me le possibili dif­ferenze interne di una nozione di suono pro­ posta come abbraccian­te ogni mani­festa­zione sonora in generale. Gettando un rapido sguardo indietro, cominciamo allora a render­ ci conto che ciò che abbiamo a suo tempo sostenuto non può che rappresentare un livel­lo del problema che richiede di essere per­ fezionato e arricchito. Ab­biamo parlato infatti dell'evanescenza del suono, della sua inconsi­stenza. Ma con ciò veniva senz'altro presup­posta l'op­po­sizione con le modalità costitutive della cosa materiale. Rispetto ad essa qualun­que manifestazione sonora ha un carattere fantomatico. Ora ci pos­siamo chiedere che ne è di questo pro­blema se esso viene sottratto a questo riferimento oppositivo, effettuando uno spostamento di an­golatura e dunque anche una modificazione dei suoi termini. Parle­remmo forse di evanescen­ za o di inconsistenza per il rumo­re di una valanga o di una frana, per il mare in burrasca o anche per un tutti orchestrale di parti­ colare densità e intensità? In questo spostamento diventa subito visibile un aspetto che in precedenza non era nemmeno affiorato ai margini delle 117 nostre con­siderazioni, o era affiorato forse soltanto nel momen­ to in cui ci è parso di poter parlare del suono come di una mate­ ria irradiata: non si attribuiscono talvolta ai suoni aggettivazioni che chiamano in causa la materia stessa, come quando si parla, ad esempio, di suono metallico, avendo di mira peraltro la pura manifestazione sonora? Infatti, vi può certamente essere qui il rinvio al modo di produrre il suono e alla cosa con la quale esso viene prodotto, ma come qualco­sa che permane nel carattere del suono senza che sia implicata alcuna presa di posizione sulla provenienza di fatto del suono o sul modo ef­fettivo della sua pro­ duzione. Da questo povero esempio dobbiamo tuttavia essere in grado di intravedere una dimensione problema­tica nuova. Occorre anzitutto rammentare che dal punto di vista della costi­tuzione percettiva, sono i momenti pratico-tattili, piuttosto che quelli legati alla visualità, a fornire la nozione primaria della materia: infatti tutti gli attributi che sono significativi per circo­ scrivere questa nozione si ricollegano ad azioni compiute sulla cosa o ad operazioni tattili. Nella visione la cosa si offre nella sua forma e nei suoi colori, ma essa si manifesta come cosa materiale solo se, ad esempio, la superficie che io vedo non viene subito attraversata dalle dita della mia mano protesa per afferrarla, solo se dunque essa re­siste a questa mia azione. E così quelle pro­ prietà che noi attribuia­mo alla cosa, al materiale di cui è fatta, la sua maggiore o minore durezza, la sua ruvidezza, il suo peso, il suo volume, sono anzitutto rilevate all'interno di operazioni pratico-tattili. Inoltre, la nozione primaria di materia costituita in questo modo va considerata come una nozione che rimanda ad un modello nel quale confluiscono insie­me le pro­prietà deter­ minanti considerate nella loro massima intensi­fica­z ione. Per questo viene prospettata fin dall'inizio una nozione di immaterialità che gioca anzitutto su determinazioni oppositive ele­mentari e che va pertanto intesa non già come un astratto annullamento della ma­ teria, ma come un'attenuazione dei suoi momenti co­sti­tutivi [63]. Assume allora per noi particolare significato il fatto che 118 gli orientamenti sintetici che si fanno valere per qualificare la sonorità dei suoni siano spesso nettamente indirizzati verso gli attributi spe­cifici della materia, e dunque in particolare verso le operazioni che sono propriamente costitutive della materialità. Noi non diciamo, ad esempio, che un suono è quadrato o rettan­ golare, e nemmeno di­ciamo correntemente che esso è giallo, mentre diciamo, e con un intento fondamentalmente descrittivo nonostante la presenza dell'immagine, che un suono è pastoso, implicando l'a­ zione dell'impastare insieme alla cedevolezza e alla resistenza del materiale; oppure lo chiamia­mo tagliente, implican­do non tanto la forma, quanto la sottigliezza, la durezza, l'acu­mi­na­tezza della cosa che taglia; e così anche parliamo di sonori­tà ruvide, aspre, morbide, vellutate, levigate, ecc. - tutte qualifi­cazioni che rimandano a ope­ razioni pratico-tattili di conferma. Ecco dunque che non ci possiamo affatto contentare di as­ serire la fantomaticità dei suoni in generale: infatti, non appena tentiamo di andare un poco oltre questa generalità e di fissare le prime diffe­renze, subito ci imbattiamo nella materici­tà fenome­ nologica dei suoni, nel fatto cioè che i suoni si manifestano corpo­ samente, come masse so­nore i cui caratteri possono essere avvertiti come una trasposizione sul piano uditivo del­le proprietà delle sostanze materiali come il le­gno o il metallo. E naturalmente con questo problema si pone anche quel­lo strettamente conseguente dell'opposizione tra sonorità che esaltano questo rapporto con la materialità al massimo gra­do e so­norità nelle quali prevale invece la tendenza ad attenuarlo ed a inde­bolirlo. All'interno della fantoma­ ticità che spetta in generale ai suo­ni possiamo ancora distinguere tra suoni che prendono le massime distanze dalla cosa come se volessero liberarsi dal peso della sua ma­teria; e suoni invece orien­ tati nella direzione opposta, invischiati nella materia, nei quali è prevalente l'elemento corporeo e massic­cio, il peso e lo spessore. È dunque in questo modo che intendiamo riprendere e determi­nare la distinzione tra "rumori" e "suoni"? Diciamo più propriamente che l'indizio suggerito da quella distinzione ha 119 avuto qui un primo e significativo sviluppo. In questo sviluppo è certamente implicito che nell'impiego corrente di quei termini si faccia sentire talvolta questo problema: se chiamiamo la sonorità di una frana "rumore" e non "suono", ciò accade anche per via di tutta quella ter­ra che in esso si trascina; e se chiamiamo suono e non rumore la so­norità di un flauto, ciò accade anche per il fatto che la sua sostanza sonora è tanto esigua e sottile da apparire piuttosto come un che di insostanziale. Ma ciò che più importa è il fatto che possiamo comin­ciare con il rendere conto di una differenza tra i suoni in genere sen­za aver bisogno di ricorrere al motivo della gradevolezza e della sgradevolezza eludendo così interamente le difficoltà da esso com­portate e che sono state in precedenza riconosciute e ammesse una volta per tutte. A partire di qui dobbiamo subito procedere oltre. Tra le masse sonore in genere dobbiamo distinguere quelle masse che hanno un nucleo oggettivo e che potremmo chiamare suoni-oggetti e quelle che sono prive di un simile nucleo e che potremmo chiamare invece suoni inoggettivi. La parola "oggetto" non ha qui un senso generico, ma si richia­ma piuttosto a quegli impieghi filosofici secondo i quali essa può es­sere applicata soltanto a cose che hanno un'indi­vi­ dualità autentica e che perciò possono essere riconosciute come identiche a ogni loro ri­presentarsi. Parlare di masse sonore che hanno un nucleo oggettivo significa ammettere che esse possa­ no essere concepite come se aves­sero un centro semplice e dunque essere designate da un nome proprio che colpisce puntualmente quel centro come una freccia il suo ber­saglio. Sullo sfondo della distinzione proposta vi è ancora quella tra suo­ni e rumori. In effetti, volendo fornire esempi di suoni in­oggettivi citeremmo quelle manifestazioni sonore che nel discorso corrente verrebbero chiamate "rumori" piuttosto che "suoni". L'angolatura da cui ora guardiamo al problema suggerisce in particolare di pre­stare attenzione ai modi della designazione. Se, ad esempio, parliamo di cigolio, con questa parola non inten­diamo certamente 120 deno­minare quel suono che è ora risuonato come entità individua­ le, ma dare di esso una caratterizzazione che ne metta in rilievo la tipicità, e quin­di la sua appartenenza ad una classe di suoni per altro solo gene­ricamente delimitata. Il problema di una designa­ zione propria non si pone neppure e il tentare di porla non sareb­ be altro che una strava­ganza filosofica priva di senso. Talvolta il carattere indiretto della denominazione di un ru­ more è manifestato anche dal fatto che in essa è implicato il modo in cui esso viene prodotto - dunque la cosa o l'azione, o l'una e l'altra insie­me. Così c'è fracasso nel fracassare (e inversamente) e vi sono ferrosi ingranaggi in movimento nel suono di un treno sferragliante. Infine può essere ritenuto significativo il fatto che possa es­ sere talvolta giustificato in rapporto a parole che indicano rumo­ ri il sospetto di un effetto onomatopeico (p.es. fruscio). Ciò che importa è infatti la nozione di somiglianza piuttosto che quella di identità, e in ciò è già implicita la possibilità dell'imitazione. Tutte queste circostanze noi riteniamo di poterle ricondur­ re al­l'inoggettività di queste manifestazioni sonore, al fatto cioè che esse non hanno carattere di oggetti, ma di agglomerati so­ nori più o meno densi o compatti, ma in ogni caso privi di una identità soggiacente. Come esempi di suoni-oggetti citeremo invece, è appena il caso di dirlo, le nostre "note". Che esse siano qualcosa di diverso dai suoni inoggettivi appare subito chiaro se consideriamo il modo di deno­minarle: in realtà la possibilità della denominazione pro­ pria nell'accezione stretta che abbiamo pre­cedentemente deline­ ata può es­sere ammessa come pura possibilità di princi­pio. La deno­ minazione usuale di una nota nella sua singolarità assegna invece ad un nome che può essere comune a più suoni un indice che rimanda alla posi­zione della nota all'interno di un ordinamento sistematico che deve essere presupposto (p. es. do3, la2, ecc.). Analogamente, nella nota­zione musicale corrente la designazio­ ne non è assoluta, ma puramente relazionale. Questi metodi, che 121 aderiscono alla circostanza secondo la quale le note non sono individualità a sé stanti, ribadiscono tuttavia quello che per noi è in ogni caso la questione essenziale: suoni come questi possono essere concepiti come punti, più precisamente come centri puntuali (sem­plici) di masse sonore; e vi sono dun­que metodi in grado di designarli colpendo direttamente questi cen­tri. L'usuale designa­ zione delle note mediante punti può essere così considerata non solo come una convenzione, ma come una conven­zione adeguata a questo lato della cosa stessa. Tutto il resto viene di conseguenza. A differenza dei suoni inog­gettivi, non ha senso qui il problema di una caratterizzazione "tipologica", così come non ha senso implicare nella designazione il mo­do in cui il suono è stato prodotto. Alle "note" non si posso­ no dare denominazioni onomatopeiche, proprio perché ciò che è in questio­ne è l'identità, e non la somiglianza. Esse non possono dunque essere imitate, ma solo "intonate". Infine appare particolarmente rilevante per istituire la differen­za la possibilità di una determinazione relazionale. Come abbiamo osservato or ora, questa possibilità è legata alla puntua­ lità - con la nozione del punto entra all'interno delle nostre con­ siderazioni quella dell'intervallo tra punti, e con questa la pos­ sibilità di un ordinamento seriale. I suoni che hanno carattere di oggetto possono essere certamente serializzati. A ciò si potrà forse obbiettare che anche nel campo dei suoni inoggettivi non solo sono possibili classificazioni, ma an­che ordinamenti che potrem­ mo chiamare seriali in senso debole, almeno là dove si può con­ tare sensatamente su differenze del più e del meno: ma si vede subito che il problema può essere posto qui con un margine troppo ampio di arbitrarietà e di indeterminatezza e soprattutto non vale ciò che invece vale per i suoni-oggetti in genere: dati due suoni qualunque, l'intervallo fra essi è sempre perfettamente deter­minato. Nel caso dei suoni inoggettivi vale invece che dati due suo­ni qualunque non è nemmeno determinato se abbia sen­ so il par­lare di un intervallo tra essi. 122 Annotazioni 1. La nozione di oggetto deve essere qui intesa nel senso in cui ne parla Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus come nozione correlativa a quella di nome. Inversamente questo rapporto, e in particolare la deter­ minazione puramente relazionale degli oggetti può essere illustrata ef­ ficacemente facendo riferimento all'usuale metodo di notazione musi­ cale mediante punti sul rigo, come ho mostrato nella mia Inter­pretazione del "Tractatus" di Wittgen­stein, Il Saggiatore, Milano 1973, pp. 13-15. 2. Il modo in cui qui si parla di identità e di oggettività in rapporto ai suo­ ni potrà sembrare forse troppo semplice e perentorio se lo si confronta con la sottile e complessa discussione che P.S. Strawson con­duce, pro­ prio sulla questione dell'identificazione, nel capitolo secondo, intitola­ to "Suoni", in Individui. Saggio di metafisica descrittiva (tr. it., Feltrinelli, Milano 1978, pp. 50-71). Tuttavia le domande a cui egli vuol dare una risposta passando at­traverso la finzione di un'esperienza puramente uditiva mostrano un orientamento e un intento complessivo così diver­ so dal nostro da rendere difficile persino un confronto. 3. È appena il caso di richiamare l'attenzione sul fatto che le fluttua­ zioni oggettivamente riscontrabili nell'apprezzamento dell'iden­tità delle note non possono rappresentare un'obiezione rispetto all'imposta­zione proposta, poiché l'accertamento avviene in ogni caso all'esterno della situazione fe­nomenologica. Ciò che importa è infatti la convin­zione percettiva che il suono sia lo stesso e che in generale una simile identifi­ cazione abbia senso, mentre rappresenta un altro interessante proble­ ma il fatto che un'identifi­cazione possa verificarsi in rapporto a feno­ meni acustici caratterizzati da differenze di frequenza relativa­mente ampie. Si noti infine che l'intera questione dovrà essere interamente ripensata alla luce delle considerazioni sulla processualità del suono che svilupperemo in seguito. 123 § 11 La nostra esposizione ha lasciato chiaramente trasparire già da un buon tratto, l'autentico obbiettivo che essa persegue: la di­ stin­­zione tra suoni e rumori è tanto poco irrilevante che la di­ scussione intorno ad essa può fungere da introduzione a due fon­ damentali "parametri" del suono: l'altezza e il timbro. In tutto il gran parlare che abbiamo fatto dei suoni-og­getti, in questione era niente altro che la nozione di altezza - abbiamo soltanto evitato di impiegare questa espressione per comprensibili ra­gioni di metodo: sembra difficile parlare dell'altezza senza chia­ mare in causa la nozione di frequenza, quindi senza trava­li­care il campo delle determinazioni fenomenologiche. Ma le nostre considerazioni indicano anche con chiarez­ za la via per operare la connessione tra la tematica del rumore e quella del tim­bro. Questa connessione è spesso presente nel­ la discussione intorno al timbro, di continuo essa affiora come una connessione di cui si avverte l'importanza - e tuttavia anche come una connessione profondamente oscura che non sa a che cosa appigliarsi per rag­giungere un'effettiva evidenza e giustifica­ zione. Vogliamo soffermarci un poco su questo punto, anzitut­ to con qualche considerazione intorno all'impiego della parola "timbro" nella terminologia musicale corrente. Essa viene an­ zitutto applicata alle altezze in quanto esse vengono emesse da strumenti diversi e per caratterizzare questa diversità. Il significato della parola potrà dunque essere introdotto ostensi­vamente facen­ do risuonare la stessa nota, ad esempio, mediante una tromba, un pianoforte, un violino. Ciò che varia nell'identità dell'altezza è appunto il timbro. È appena il caso di notare che questa diffe­ renza chiama in causa la materia di cui lo strumento è fatto, il modo concreto in cui il suono viene prodotto e le forme dell'a­ zione che lo produce. Per questo motivo la pa­rola "timbro" può 124 essere riferita, oltre che al suono, anche allo stru­mento che lo produce. Si dirà così che sono timbricamente affini strumenti che hanno un modo affine di produzione del suono e perciò si potrà anche parlare di suoni timbricamente differenti quando si tratta di suoni emessi dallo stesso strumento, ma mediante azioni di tipo differente. In uno strumento ad arco, le corde possono anche essere pizzicate oppure si possono ottenere, attenuando la pressione delle dita, suoni "flautati" e diversi effetti timbrici pos­ sono essere ot­tenuti mediante sordine e con particolari tecniche nel­l'uso dell'arco. Attenendoci ancora alla terminologia musicale corrente va se­gnalato un altro modo di impiego della parola - anche se non è af­fatto chiaro se questa diversa accezione, del resto assai meno nettamente definita, sia con maggiore o minore difficoltà ripor­ tabile alla precedente. Infatti non si parla soltanto della timbrica di uno stru­mento o di una famiglia di strumenti e di effetti e va­ riazioni timbriche ottenibili con l'im­piego di tecniche parti­colari: in tal caso ci si riferirebbe al timbro come ad un carattere che contraddistingue tipi diversi di sonorità. Oltre a ciò si am­met­te anche la possibilità di un impiego relativo, secondo il quale ha senso, almeno fino ad un certo punto, stabilire connes­sioni e re­ lazioni del più e del meno, cosicché ci si riferisce al timbro come una qualità che può appartenere in misura maggio­re o minore all'uno o all'al­tro strumento, come se po­tessimo dire che il suo­ no dell'uno sia più o meno timbrato di quello dell'al­tro. Alla pura differenza nel carattere del suono, ad esempio del violino rispet­ to a quello della tromba, si aggiunge, considerando il termine nella seconda accezione, la possibilità di un ordi­namento scalare, e in effetti questa seconda accezione è in ogni caso presup­posta ogni volta che si allude ad una simile possi­bilità. Naturalmente il riferimento esemplificativo allo strumento e alle pratiche strumentali, che fornisce un ausilio essenziale per ren­dere sufficientemente determinato il criterio dell'impiego del­ la parola, dovrebbe poter essere evitato dal mo­­mento che ciò che 125 si vuol co­gliere parlando di differenza timbrica è in ogni caso una differenza che riguarda la "sonorità" del suono, e non la pura differenza di fat­to nei modi della sua produzione. Prescin­dendo da questo riferi­mento tuttavia le cose si complicano un poco e la nozione di timbro sembra non tollerare un'attenzione rivolta ad essa con troppa insi­stenza. Consideriamo le espressioni correnti che si riferiscono al­ l'a­­spet­to timbrico. Molte di esse si richiamano all'ambito della tattilità, e quindi in generale al momento della materialità (come morbido, vellutato, ruvido, pieno, sottile, duro, metallico); e mol­ te anche all'ambito della visualità, soprattutto per ciò che riguarda l'area di senso della luminosità (chia­­ro, cupo, trasparente, velato, opaco). Questi richiami possono essere intesi come già orientati in direzione psicologica - come se ad esempio parlando di un tim­ bro cupo oppure di un timbro vellutato venisse già prospettata una determinata atmo­sfera emotiva. Di conseguenza talvolta si con­ siderano come attinen­ti all'aspetto timbrico parole nettamente orientate in senso psicolo­gico, con richiami culturali più o meno sommersi. Perché non parlare ad esempio di una timbrica e­stro­ versa e introversa per caratteriz­zare la differenza tra la trom­ba e il fagotto? O addirittura del timbro "pastorale" del­l'oboe e "ro­ mantico" del corno? Attraverso considerazioni sul carattere del suono lo stru­ mento viene in qualche modo personalizzato - il suo suono è appunto una voce dal cui timbro si intravede un carattere e che è capace di tradire con minime variazioni la presenza di una ten­ sione emotiva. Ora, ammettiamo pure che si tratti in questi casi di un'e­ stensio­ne dipendente da una sua riconsiderazione alla luce del problema dell'espressione e che in questa estensione abbia­no una parte deter­minante modi di impiego musicali radicati all'interno di culture musicali particolari: tuttavia è chia­ro che la possibilità di queste estensioni può ampiamente sostenere il dubbio che un elemento ineliminabile di soggettività sia inerente, non solo 126 a queste estensio­ni, nelle quali esso appare del tutto evidente, ma nelle caratterizza­zioni iniziali. In altri termini, non appena si tenta di formulare in parole la differenza acustica, ci troveremmo di fronte a proiezioni interpretative - questo punto di vista ge­ nerale sembra avere pro­prio nel caso del timbro un'applicazione particolarmente evidente. Ripensiamo ora alle considerazioni svolte intorno alla distinzio­ne tra rumori e suoni. Esse agiscono anzitutto come filtro e criterio di selezione per rendere realmente significative le caratterizzazioni dell'aspetto timbrico che abbiamo in preceden­ za richiamate. Dall'angolatura della nostra tematica del rumore, diventano immedia­tamente rilevanti quelle caratterizzazioni che mettono in questione il suono come massa sonora. E possiamo stabilire perciò con quella te­matica una connessione immediata. Vogliamo infatti, riprendendo la nostra precedente terminolo­ gia, chiamare corpo del suono la massa sonora di un suono-oggetto. Il timbro è allora null'altro che il corpo del suono. Si tratta naturalmente di una prima accezione, più ristretta, di timbro che viene introdotta nel presupposto del­l'altezza: la massa sonora gravita qui intorno ad un centro semplice. Di que­ sto centro il timbro è l'involucro "rumoroso". Ma dalla formu­ lazione dell'acce­zione ristretta risulta subito la possibilità di una seconda accezione, più lata. In base ad essa, potremo impiegare la parola "timbro" per indicare una qualunque massa sonora - con o senza nucleo oggettivo. In questo modo potremo fare a meno di parlare di "rumori", restituen­ do final­mente la parola ai suoi impieghi ordinari. Era dunque necessario un lungo giro per arrivare a dare una formulazione perspicua della connessione interna tra timbro e ru­more: in essa è inoltre condensato un complesso di prese di posizio­ne che non sono affatto contenute nelle frequenti e gene­ riche affer­mazioni sulla prossimità tra queste due nozioni. Consideriamo in primo luogo più da vicino l'accenno che abbia­mo compiuto or ora sulla necessità di disporre di un con­ 127 testo inter­pretativo che possa assolvere una funzione di orienta­ mento in rap­porto alle qualificazioni linguistiche. Come abbia­mo già notato, le parole impiegate per indicare il momento timbrico non saranno considerate alla rinfusa, e dunque come prive di in­ dicazioni significative: tutte le nostre considerazioni precedenti fanno sì che la no­stra attenzione sia attirata dalle parole puntate verso l'area di senso della "corposità". Ma queste stesse conside­ razioni ci consentono di rendere conto di entrambi gli aspetti del problema del timbro. Non soltanto infatti il carat­tere del suono è collegato al momento materico, ma in esso si fa valere anche l'op­ posizione che deriva dalla sua attenuazione e intensificazione. Le qualificazioni pratico-tattili, che rendono conto della pura diffe­ renza timbrica, ammettono delle differenze del più e del meno, cosicché un suono potrà essere considerato tanto più "timbrato" quanto più quelle caratteristiche conflui­scono coerentemente in un'immagine che esalta la voluminosità, la densità, l'a­sprez­za, lo spessore. Al polo opposto vi è la timbrica "immateriale", e cioè, seguendo la nostra delimitazione concettuale, l'idea del suono atimbrico, del suono senza corpo, del suono tendenzialmente privo delle impurità della materia. Si presti attenzione al modo in cui siamo pervenuti a pro­ porre affermazioni come queste che potrebbero certo appari­re alquanto singolari. Tutta la nostra discussione è stata svolta nella convinzio­ne della possibilità di operare una determi­nazione della differenza tra rumori e suoni che fosse essenzial­mente qualitati­ va, cioè fonda­ta sulla manifestazione percettiva come tale; e che al tempo stesso non potesse essere impugnata come meramente empirico-psicologi­ca. Se le nostre considerazioni han­no mostrato in concreto questa possibilità, allora dobbiamo portar­le alle loro conseguenze imme­diate sul terreno della questione del timbro. E non deve naturalmente sorprendere che fra queste conseguen­ ze vi sia una sorta di messa da parte delle caratteriz­zazioni visuali in genere, quasi che si potesse parlare di una maggiore o minore appropriatezza di un'e­spressione che ha in ogni caso le sue radici 128 in associazioni. Eppure le cose stanno proprio così, lo abbia­ mo spiegato fin dall'inizio: i richiami alle espressioni linguisti­ che entrano all'interno di una rifles­sione filosofica come momenti di quella riflessione, e non dunque co­me dati di cui essa debba semplicemente prendere atto. Così ci tro­viamo nella posizione singolare di dover mettere in questione, con le caratterizzazioni visuali in genere, una tipica espressione di lin­gua tedesca che viene di continuo citata per il modo della sua for­mazione come un'efficace espressione illustrativa dell'a­spetto tim­brico. In tede­ sco, timbro si dice Klangfarbe - letteral­mente colore del suono ed è sempre sembrato che questa analogia con le differenze cromatiche fosse particolarmente adeguata alla fenomenologia delle differen­ ze timbriche. Naturalmente sarebbe puro nonsenso, al di fuori di un per­ corso argomentativo che abbia di mira una precisa chiarifi­cazione concet­tuale, contestare la possibilità di assimilare una variazio­ ne timbrica ad una variazione cromatica, così come la molte­ plicità timbrica ad una tavolozza ricca di colori nelle sfumature più varie. Ma laddove, come nel nostro caso, stiamo seguendo proprio un simile percorso argomentativo, e tenendo conto de­ gli scopi che in esso si perseguono, ha invece senso co­glie­re in queste espressioni illustrative la pre­senza di un proble­ma. Del resto quando abbiamo parlato del tim­bro come corpo del suono - dunque come Klangkörper, questa rifles­sione su Klangfarbe era certamente già implicata. Conclusivamente converrà rammentare almeno un altro aspet­to del problema. Spesso nelle discussioni intorno al tim­ bro, sia per sottolineare il carattere relativamente sfuggente del­la nozione, sia per mostrare come sia difficile contraddistin­guere tra loro i "parametri" del suono, e il timbro in modo particolare, si fa notare che una componente timbrica deve essere ammessa anche in rapporto all'altezza, all'intensità, e persino agli accordi considerati puramente come agglomerati sonori. Naturalmente ciò può avere un si­gnificato relativamente ovvio: in quanto si 129 intende con timbro l'ef­fetto sonoro globale, la "sonorità" com­ plessiva di una manifestazio­ne sonora, è comprensibile che qua­ lunque elemento costitutivo della manifestazione eserciti una qualche azione nella determinazione di questo effetto. Tuttavia la nostra impostazione suggerisce anche considera­ zioni diversa­mente orientate. Infatti alla differenza tra regioni so­ nore può essere riconosciuto un latente effetto timbrico per il semplice fatto che è possibile contrapporre lo spessore dei suoni gravi all'esilità dei suoni acuti. E qual­cosa di simile può essere notato in rapporto alle differenze di intensità. Naturalmente un suono for­te non dovrà necessariamente apparirci aspro e ruvido: e tuttavia chiun­que troverebbe di poco buon senso l'indicazione esecutiva "pp e aspramente". Ciò si­ gnifica che un pianissimo potrebbe essere con­siderato soffice e vellutato, puramente per il fatto che è un pianissimo, cosicché sa­ rebbe giustificato riconoscere un effetto timbrico in rap­porto alla dinamica come tale. Infine non vi è dubbio che suoni si­multaneamente risuonanti abbiano un volume maggiore rispetto ad un suono singolo e sia­ no dunque più spostati di esso verso la polari­tà materica. Ma si potrebbe anche sostenere che questo spostamen­to è più accen­ tuato nel caso degli accordi dissonanti che in quelli consonanti, per il fatto che in essi tende ad attenuarsi la presenza aggregante di un suono che funge come centro di gravità, ripresen­tandosi così in una nuova forma l'altro aspetto del problema che chia­ma in causa l'esi­stenza o meno di un nucleo oggettivo della massa sonora. La possibilità di rendere conto di questi impieghi come estensio­ni motivate e coerenti della nozione di timbro a partire da un signi­ficato primario rappresenta certamente un'inte­res­san­ te conferma della correttezza del nostro impianto del problema. 130 Annotazioni 1. Già Carl Stumpf attira l'attenzione sull'affinità tra la nozione di timbro e quella di rumore di cui egli dà una trattazione unitaria nella Tonpsychologie, Leipzig 1883-1890 (rist. anast. Hilversum, Amsterdam 1965) vol. II, par. 28, pp. 497-549. Questa affinità viene giustificata fa­ cendo notare che in generale si mette in rilievo come qualcosa che è essenziale a entrambi la lo­ro natura composta e l'indistinzione delle parti costitutive. Inoltre "i tim­bri sono spesso caratterizzati dalla pre­ senza di rumori, mentre alcuni ru­mori potrebbero essere chiamati al­ trettanto opportunamente suoni brevi di timbro cupo" (p. 497). Ma a nostro avviso la sua esposizione mantiene tuttora un interesse da un punto di vista fenomenologico soprattutto per il rilievo che in essa viene conferito, ai fini della formazione dell'effetto tim­brico, a ciò che Stumpf chiama Tongrosse (cfr. pp. 535 sgg.), insieme all'al­tezza (Höhe) e all'intensità (Stärke). Si tratta di una nozione caratterizzata dall'impie­ go di parole come grande (gross), ampio, (breit), spesso (dick), pieno (voli), massiccio (mässig) così come anche, naturalmente, delle parole di sen­so contrapposto come piccolo (klein), sottile (dünn), acuminato (spitzig), fine (fein), etereo (ätherisch), ecc. Si sottolinea inoltre che "anche predicati come morbido (weich) e dolce (mild) non sono privi di nessi con la am­ piezza del suono. Ciò che noi chiamiamo morbido al tatto, presuppone sempre una certa estensione spaziale" (p. 539). Il fatto che il suono del corno sia più spesso di quello dell'oboe "non è una pura associazione" (p. 539). È infine interessante per noi notare che all'interno di queste con­ siderazioni si fa avanti una cer­ta perplessità per il termine Klangfarbe di cui si rileva l'origine relativamen­te recente, rammentando che questa parola non è ancora presente nella Acustica di Chladni del 1802, nella quale si usa Timbre come neologismo proposto per compensare una carenza della lingua tedesca "che non ha ancora una parola per indicare propriamente queste modificazioni del suono" (cfr. nota l, p. 514); e soprattutto si osserva che "sotto Klangfarbe dovrem­mo annoverare solo quei predicati che sono determinati unicamente dalla grandezza (Gro:s- 131 se). Una tale restrizione del significato usuale conferi­rebbe alla parola un concetto unitario, ma sarebbe certamente scomoda dal pun­to di vista pratico. Perciò ci atteniamo al vecchio uso, dopo aver messo in salvo la nostra coscienza teorica" (p. 540). 2. Secondo Xenakis, l'idea schönberghiana di una Klangfarbe si tro­ va in contraddizione con il prevalere dell'elemento puntuale e linea­ re del suono nella musica dodecafonica, dal momento che con quella espressione si deve intendere "la dispersione delle note tra gli strumen­ ti dell'orche­stra", alludendo dunque ad una nozione di timbro essen­ zialmente caratteriz­zata come massa sonora (cfr. I. Xenakis, Musica. Architettura, Spirali Edi­zioni, Milano 1982, p. 23). § 12 In realtà non possiamo prendere congedo da questi nostri ar­ gomenti per passare oltre, senza formulare finalmente quella obiezione che sarà già affiorata, e forse a ogni pagina, nella mente del lettore. Fin dalle nostre prime battute e poi in seguito, in ogni sviluppo par­ticolare, nei cenni sul suono nel­l'immagina­zione miti­ ca, così come nella discussione sulla nozione di timbro, abbiamo sempre presup­posto i suoni nella loro "naturalità" così come li possiamo reperire nel nostro mon­do circostante oppure come li possiamo emettere im­piegando la voce e agendo in svariati modi su strumenti. L'e­lemen­to tecnico che qui è certamente presente, sia nel fatto che gli stru­menti sono forgiati e predisposti in modo conforme allo scopo, sia nel fatto che le pratiche di produzio­ ne vocale e strumentale sono appunto prati­che autentiche che debbono essere apprese e che richie­dono studio ed esercizio, fornisce una mediazione che tuttavia è in grado di mantenere l'unità vivente di un processo che conduce dall'in­tenzione soggettiva dell'emissione sonora alla sua realiz­za­zione. La tecnica del produrre è così null'altro che un mo­men­to interno di un'e­sperienza del pro­ durre - come ci siamo espressi in precedenza: il suono sta nelle nostre mani, ed esatta­mente nel senso in cui ciò può es­sere detto 132 per il chitarrista che trae suoni dalla sua chitarra. Abbiamo così preso le mosse dal suono originariamente sogget­tivo, dalla voce, per poi passare a considerare nella molte­ plicità dei suoi aspetti il rapporto tra il suono e la cosa, sino alle nostre ultime osservazioni sulla distinzione tra rumori e suo­ ni e sulla nozione di timbro, e non vi è stato argomento la cui tratta­zione non fosse stret­tamente determinata da questo presup­ posto. Anche le variazioni immaginative del mito di cui abbiamo dato una traccia con l'ausilio di Schneider si innestano sui sensi im­ma­ginativi che possono sorgere solo all'interno di una rela­ zione tutta dominata dal rimando alla soggettività considerata nella sua corporeità concreta. Ma proprio questo interesse verso motivi arcaici, lontani e dimenticati, non è forse significativo di un limite intollerabile delle nostre considera­zioni? Alludiamo na­ turalmente al fatto che fin qui non abbiamo speso ancora nem­ meno una parola intorno alla produzione elettronica del suono nelle sue diverse modalità così come alle varie possibilità di manipo­ lazione tecnica del suono che i progressi della ricerca scientifica e tecnologica hanno messo a disposizione della musica e che la musica novecentesca ha integrato nelle proprie produzioni come un momento essenziale del proprio sviluppo. Qui siamo cer­ tamente lontani da qualunque motivo teorico che possa valere solo nel pre­supposto di un modo di produrre il suono "con le mani e con i piedi", così come non si vede che cosa potremmo farcene di tutti i ri­chiami alla soggettività che danno senso alle nostre considerazioni precedenti così come dell'intera dialettica che gravita intorno al tema della "cosa sonora". La questione dell'origine e della provenien­za del suono dovrebbe suggerire presumibilmente considerazioni di tutt'altro genere, e ciò signi­ fica in realtà che forse saremmo tenuti, nel momento in cui la questione viene sollevata, a prendere atto della necessità di una radicale modificazione nell'atteggiamento di fronte al suono e forse anche, di conseguenza, dei metodi nell'ap­proccio teorico ai nostri problemi. 133 Naturalmente non è possibile qui discutere, o anche sol­ tanto illustrare, la problematica molto ricca che è sottesa ad una simile obie­zione, ma è necessario proporre. qualche anno­tazione conclusiva tendente a limitare gli effetti devastanti che essa sem­ bra avere sull'impostazione proposta e sui suoi sviluppi. Non vi è dubbio intanto che le prospettive aperte dalla possibili­tà di elaborazione elettronica del suono abbiano agito potentemente in direzione fisicalistica, abbiano cioè stimolato ad una considerazione del suono interamente obbiettiva, che ha su­ bito di mira ciò che il suono è in se stesso, come evento fisico, e quindi i processi che stanno a fondamento delle sue forme di manifestazione. Alle spalle dell'op­posizione tra microstrutture e macrostrutture non vi è tanto l'opposizio­ne, in se stessa ben poco significativa, del piccolo e del grande quanto di ciò che, appartiene al livello fisico piuttosto che al livello fenome­nologico. Si comincia così a prospettare che il pensiero compositivo debba spostarsi interamente "a basso livello" nel senso che gli infor­matici confe­ riscono a questa espressione. E può forse la teoria della musica ignorare questa modificazione ed evitare di adeguarsi ad essa? Sembra così che si imponga la necessità di una riformulazione di tutti i concetti e le nozioni fondamentali della teoria musicale e della sua vecchia termino­logia che dovrebbe forse essere rinno­ vata modellandosi stret­ta­mente sui metodi e sui risultati delle più recenti ricerche elettro­acustiche. Naturalmente, l'ostinazione con la quale ci siamo attenuti nella nostra esposizione precedente alle pure manifestazioni per­ cettive contiene una chiara presa di posizione proprio su questo punto: non vi è nessuna coerente linea di sviluppo dall'interesse verso problemi connessi alla produzione elettronica del suono, in tutta la ricchezza delle tematiche in essa implicate, e la pretesa di una radicale modifi­cazione di atteggiamento nei confronti dei fe­ nomeni sonori che comporterebbe come conseguenza necessaria una riforma in senso fi­sicalistico della teoria musicale. Vorrei sottolineare vivacemente questo punto, qualora ve 134 ne fosse bisogno: dei numerosi problemi che abbiamo preceden­ temen­te discusso avremmo potuto venire a capo in quattro paro­ le, o in ogni caso con formule definitorie piuttosto semplici e del resto ovunque reperibili, se invece di ostinarci nel tentativo di commisurare i concetti ai dati esperiti avessimo voluto fare riferimento ad una consi­derazione fisicalistica. È allora evidente che la strada che abbiamo voluto seguire contiene anche una presa di posi­ zione piuttosto pre­cisa che deve essere valutata in tutta la sua portata: ciò che resta fuori discussione è soltanto la circostan­ za ovvia secondo la quale all'impiego di determinate tecniche debbono corrispondere cognizioni a esse adeguate. Ed è ormai tempo di dire a tutte lettere che il grado di questa adeguatezza è in gran parte determinato dal grado di sviluppo delle attrezzature o, ancora più chiaramente, che queste cognizioni sono costrette a mantenersi tanto più "a basso livel­lo" quanto più sono arretrate le attrezzature a disposizione. Anche da questo punto di vista l'analo­ gia con i linguaggi informatici si at­taglia perfettamente. Tuttavia, con tutto ciò ci siamo soltanto aggirati intorno al pro­blema dal quale abbiamo preso le mosse - il nostro quesito iniziale non era soltanto di ordine metodologico, ma aveva un senso più preciso. Ci siamo chiesti infatti che ne è delle nostre considerazioni sulla questione della provenienza del suono dalla cosa e di tutti gli sviluppi problematici che ad essa sono collegati se facciamo riferi­mento alle sonorità prodotte elettronicamente e questa domanda può certamente essere proposta anche se è stato correttamente indi­viduato il luogo delle considerazioni obbiettive, evitando confusi in­trecci con il piano delle considerazioni feno­ menologiche. Ma una simile domanda può assumere la forma di un'obiezione - quasi che avessimo fin dall'inizio imboccato una strada sbagliata - solo se si dimentica che queste nuove sonorità sono venute per ultime e che le nostre apprensioni originarie dell'universo sonoro si strutturano su una rete di sensi e di connessioni che formano un presupposto anche rispetto a esse. Cosicché tutte le considerazioni che abbia­mo sviluppato in precedenza hanno una precisa portata an­ 135 che sotto questo riguardo, benché pu­ramente negativa. Non dovremmo forse trovare interessante il fatto che, ad esempio, nel caso della generazione elettronica del suono non ha senso parlare di un'esperienza della sua produzione, come lo ha invece nel ca­so del suono prodotto attraverso lo strumento? Ma ciò implica natu­ralmente che si parli di una tecnica di produzione del suono in un senso profondamente diverso che non può af­ fatto contare sull'ap­prensione di un processo unitario nel. quale si mostri con l'apparire del suono anche il modo in cui viene prodotto. Assume così particolare risalto l'assenza di quella re­ lazione con il corpo e la cosa che ha svolto una funzione così importante in tutti i nostri sviluppi pre­cedenti. A quel singolare oggetto che è un altoparlante, luogo ne­cessario di materializ­ zazione del suono elettronicamente prodotto, non possiamo in ogni caso attribuire le caratteristiche della cosa so­nora, almeno nell'accezione in cui in precedenza abbiamo impiega­to questa espressione, benché udiamo i suoni provenire propri di lì e ad­ dirittura possiamo vedere le vibrazioni della membrana e il loro modificarsi in connessione con l'emissione sonora. Sviluppare il problema in questa direzione significa tuttavia null'altro che atti­ rare l'attenzione sul fatto che - mettendo da parte le sintesi pu­ ramente riproduttive, le imitazioni più o meno buone di ciò che c'è già - i suoni prodotti elettronicamente, nella loro molteplicità e va­rietà, sembrano manifestare al massimo grado quel carattere extramondano che del resto abbiamo riconosciuto come trat­ to caratteri­stico di ogni fenomeno sonoro. Potremmo dire che questo tratto sia da essi rappresentato tipicamente, che essi siano tipicamente suoni sen­za mondo. Suono elettronico vuol dire scienza. E stranamente vuol an­ che subito dire: fantascienza, anzi, metafisica, tout court, dal momento che questo suono eminentemente "fisico" sembra pre­starsi più di ogni altro a speculazioni metafisiche alla buona. Tutto ciò lo possiamo dire senza timore di sopravvalutare il suo utilizzo nell'effettistica e nella giocattoleria "extraterrestre". 136 Sap­piamo infatti che nessuna specie di suono è predestinata ad alcunché, e dunque anche i suoni prodotti elettronicamente o in generale elaborati attraverso apparecchiature elettroacustiche sono soltanto, come oggi si tende sempre più a sottolineare, ma­ teriali della musi­ca, sono una possibilità che sta a disposizione del­ la pratica musicale all'interno della quale deve essere giocata nel suo senso e nella sua portata. Ciò che tuttavia ci sembra di dover notare è che quella pratica comincia con il misurarsi proprio con quelle determinazioni ne­ gative che ci hanno consentito di caratterizzare i suoni prodotti elettroni­camente come suoni sradicati dalla realtà stessa, come suoni che non possono essere in nessun modo "afferrati", e di cui siamo pa­droni senza che essi stiano nelle nostre mani: come suoni infine che appaiono separati dal gesto e appellarsi invece direttamente al pen­siero di un'a­stratta rete di rapporti che è tut­ tavia capace di generare queste meraviglie dell'udito [64]. Da questa angolatura sarebbe interessante ripensare alla storia del problema, ai suoi sviluppi e al modo di interpretarli, senza cedere alle ovvietà delle spiegazioni insignificanti che so­no sempre già pronte. È opportuno soprattutto riflettere sui mo­ menti superati di questa storia perché molto spesso il superamento è sopravvenuto senza che fosse chiaro che cosa esat­tamente fosse stato superato e verso che cosa esso fosse orientato. Idee grande­ mente caldeggiate - si pen­si all'emargina­zione degli strumenti come antiquati utensili di un'epoca ormai trascorsa, a cui ab­ biamo accennato nell'Introduzione - hanno all'improvviso perso di interesse, come accade per un en­tusiasmo malposto che ina­ spettatamente si spegne e di cui si mantiene malvolentieri persi­ no il ricordo. Per una riflessione come la nostra sarebbe invece importante poter cogliere con chiarezza insie­me ad un percorso di posizioni raggiunte e via via oltrepassate le ra­gioni che stanno alla loro base. In realtà, proprio la storia del problema della musica elettro­ nica è ricca, dal punto di vista teorico, di numerosi punti inter­ 137 rogativi ai quali non è affatto facile dare una risposta che non si arresti alle pri­me ovvietà. Intanto la dizione "musica elettronica", - a cui oggi non si tenderà a dare un particolare pe­so - non è af­ fatto stata una dizione priva di precise e impegnative intenzioni teoriche. In essa erano latenti almeno due idee particolarmente grevi: in primo luo­go, parlando di musica elettronica, per il fatto stesso di richiamare una possibilità di generare suoni certamente insospettata e insospettabi­le nel passato, si sollevava il problema di un nuovo genere musicale, accanto ai generi della musica vocale e della musica strumentale. Ma a questa prima idea se ne associava subito un'altra, che traeva la pro­pria forza dalla convinzione che un controllo effettivo sulla sintesi del suono comportasse la pa­ dronanza sulla totalità dei fenomeni sonori in generale possibili. Alla luce di questa convinzione la nozione di musica elettronica non può tollerare di essere considerata come un genere accanto agli altri generi, ma deve proporsi come l'au­tentica musica del futu­ ro, nella quale i generi non possono che essere dissolti e superati in linea di principio. L'idea di un nuovo inizio, di cui ab­biamo già rilevato l'importanza per larga parte della musica nove­centesca, si ripre­senta anche in rapporto alla musica elettronica in quanto essa presuppone l'idea della macchina sonora capace di dispie­gare, senza limiti, l'universo dei suoni nella prospettiva di una tota­le artificializzazione. A questo punto cominciano ad affiorare interrogativi che meri­terebbero certo di trovare una chiara risposta. Di fat­to, ci si è mossi ben presto in direzione ben diversa da quella suggerita da queste idee più o meno latenti. Stando ad esse, ed anche senza accordare troppo peso a quelle "infinite possibilità" della musica elettronica di cui oggi nessun musicista parlerebbe più [65] , non avremmo dovuto forse attenderci uno sviluppo di musica elet­ tronica pura tanto impo­nente come è stato in passato quello della musica puramente stru­mentale? O forse non dovremmo nem­ meno porci questo problema? E perché non dovremmo farlo? Forse non abbiamo ragione di con­siderare la musica elettronica 138 come un genere? E perché man­cano queste ragioni? In realtà, fin dall'inizio ci si è mossi prevalentemente in direzio­ne della creazione di impasti tra queste sonorità e le so­ norità vocali e strumentali - ed è proprio questa linea di tendenza che ha opera­to di fatto una "sdrammatizzazione", un'attenuazio­ ne delle enfasi iniziali e dunque anche la messa da parte di quelle assunzioni parti­colarmente forti che facevano parte integrante di quelle enfasi. Ma questa linea di tendenza non va forse a sua volta interpretata? Per quali motivi ci si è mossi in questa direzio­ ne e non in quell'altra che non era certa­mente priva di plausibilità? Naturalmente, rispondere richiaman­dosi al fatto che ogni feno­ meno sonoro è omogeneo ad ogni altro in quanto è appunto un fenomeno sonoro, sarebbe un modo di non rendere giustizia alla complessità e alla ricchezza di idee che ca­ratterizza questo am­ bito della ricerca musicale. In luogo dell'omo­geneità di princi­ pio, certamente incontrovertibile, ma anche, in rapporto al nostro problema, relativamente insignificante, sembra invece più interes­ sante at­tirare l'attenzione sul tema della differenza, facendo notare nello stesso tempo non solo che questo nuovo inizio non basta a se stesso e non è in grado di assorbire l'inizio più antico, ma anche che con questo inizio più antico esso ha invece anzitutto bisogno di misurarsi - cosicché se una voce risuona, ad esempio, in una com­pagine di suoni elettroni­camente prodotti, si possa dire: "qui si ri­torna alle sorgenti elementari dell'espressione musicale" [66] , un ri­torno che viene avvertito come provvisto di una sua propria necessi­tà interna. In questo contesto - e cioè dopo il rilievo della differenza, si ri­propone indubbiamente, ma come un problema, il tema dell'omoge­neità, che poi non è un'omogeneità senz'altro data, ma via via ac­quisita in una sperimentazione della possibilità dell'avvicinamento e dell'allontanamento, della fusio­ ne e della distinzione. La cosa sonora è qualcosa di profondamen­ te diverso dal­la macchi­na sonora, è diverso il modo di produrre i suoni, è diverso il rapporto che si istituisce con queste modalità differenti di produzione, e dun­que l'area dei sensi che sono im­ 139 plicitamente richiamati. Ma questo riconoscimento esclude forse la possibilità che queste differenze vengano messe concretamente in gioco e una simile possibilità non mostra anche in che senso si possa intravedere nuovamente una prospettiva unitaria? Henri Pousseur osserva una volta: "Non dimentichiamo, prima di tutto, che l'altoparlante che è, per lo meno sinora, la vera sorgen­te, il vero corpo sonoro della musica elettronica non è un niente, non è una cosa qualsiasi. Una membrana tesa non è forse la realiz­zazione dell'idea di quei tamburi parlanti di cui le tablas indù offrono probabilmente da millenni un esempio così straordinario? E le cor­renti elettriche che noi inviamo ad esso non sono forse i nostri "mo­di di attacco" che sostituiscono le dita o il fiato, i plettri o le bacchet­te dei più antichi strumenti?" [67]. In realtà non lo sono. Ma è interes­sante la pretesa di dire che lo siano, una pretesa nella quale il tema della cosa sonora, dello strumento non viene più ripreso per denun­ciarne la mediocrità di fronte alla potenza della macchina, ma al contrario per rivendicare l'ap­ plicabilità della nozione alla macchina stessa. E così è anche inte­ ressante l'idea che, come il pianoforte in­terpone dei nuovi inter­ mediari rispetto al liuto, così un intero stu­dio per l'elaborazione elettronica del suono con tutti i suoi apparec­chi possa essere concepito "come un vero e proprio strumento di musica che comporta qualche intermediario supplementare fra l'intenzio­ne produttrice e il risultato sonoro" [68]. L'interesse di queste frasi non sta tuttavia nel pensiero, che pure è in esse contenuto, e che è destinato a restare solo un pensiero, "di una correlazione intima fra i fenomeni vibratori che noi avremo susci­tati (per esempio nei tubi elettronici) e gli oggetti e i materiali di cui crediamo di percepire la risonanza, con le loro strutture molecolari (partico­ larmente responsabili della loro capacità vibratoria), la loro co­ erenza, la loro elasticità, il loro spessore" [69]. Esso sta piuttosto nel fatto che questa unità profonda deve di continuo farsi valere, di continuo essere rimessa in gioco attraverso le differenze che stanno alla superficie della manifestazione sonora. 140 141 Capitolo secondo Tempo 142 143 §1 La grande importanza che ogni riflessione sulla musica assegna alla tematica temporale ha certamente la propria origine elementa­ re nel modo di esserci del suono. Il suono c'è quando c'è. Il richiamo alla temporalità si impone subito come richia­ mo ad una caratteristica distintiva: in base ad essa anzitutto il suono o una sequenza di suoni si contraddistingue dal­le cose e dalle configurazioni di cose. Da essa sembrano dipendere per l'es­ senziale non solo i modi e le forme di aggregazione dei suo­ni, ma anche il tipo di rapporto che noi intratteniamo con essi. Come potrebbe una riflessione sulla musica, che porta questo rapporto alla massima elaborazione, evitare di porre questo tema al centro dell'attenzione? Eppure possono esservi dei buoni motivi per ritenere che talora l'importanza del problema sia sopravvalutata, o più preci­ samente che il richiamo al tema della temporalità si arric­chisca di significati che non sono afferrabili senz'altro alla sua superficie e che potrebbero dunque essere il risultato di una mediazione argomentativa tenuta nascosta. In realtà, non appena si tenta di andare un poco oltre l'indicazione elementare della temporalità del suono, ci si impiglia ben presto in nodi partico­larmente ag­ grovigliati che impongono di operare una netta di­stin­zione tra ciò che può essere direttamente ricollegato a quel­l'origine ele­ mentare e ciò che invece rappresenta un'elabo­razione che implica un tacito mutamento di piani. Consideriamo, ad esempio, l'idea ricorrente che fa del mo­ mento temporale la dimensione più profonda della musica, alla quale dovrebbero essere riportate le sue determinazioni più ric­ che di senso. Non di rado questa idea è accompagnata dall'affer­ mazione secondo la quale proprio in forza di questo legame intrin­ seco con la temporalità la musica sarebbe, in modo meno media­ 144 to di ogni altra arte, connessa alla vita soggettiva in genere, alla vita degli affetti e dei sentimenti. La soggettività qui in que­stione non è naturalmente, in primo luogo, la soggettività corpo­rea, la soggettività in quanto vive nel suo mondo circostante al quale essa è da subito rivolta nella totalità delle sue manife­stazioni attive. Il richiamo alla tematica temporale sembra invece orientare l'atten­ zione verso una soggettività essenzialmente rifles­siva, che vive di se stessa piuttosto che del mondo che le stadi fronte. Il primo impulso in una simile direzione proviene certamen­ te dalla tradizionale contrapposizione con la pittura, e quindi dal riferi­mento, considerato senz'altro come un riferimento oppo­ sitivo, all'ambito della visualità. Lo abbiamo una volta già notato: la riflessione sulla musica può essere attratta da immagini di cecità, mentre un elogio della pittura tende subito a trasformarsi in un elogio del­l'occhio, come finestra aperta sull'esteriorità del mondo, come ciò che ci con­ sente di guardare fuori e attraverso cui, sprofondati come siamo nel carcere oscuro dei nostri corpi, possiamo essere raggiunti dallo sfolgorare delle luci e dal trascolorare delle ombre, goden­ do di tutte le belle forme. Così Leonardo: "L'occhio, dal quale la bellezza dell'u­niverso è specchiata dai contemplanti, è di tanta eccellenza che chi con­ sente alla sua perdita si priva della rappresentazione di tutte le opere della natura, per la veduta delle quali l'anima sta contenta nelle umane carceri, mediante gli occhi per i quali essa anima si rappresenta tutte le varie cose di natura" [70]. In Leonardo tuttavia l'opposizione tra esterno e interno non viene resa esplicita e portata a elaborazione, essendo appe­ na adombrata dalla figura di quel filosofo - "Pazzo fu l'uomo, e pazzo il discorso" [71] che si accecò per meglio scrutare nel profondo. Ciò dipende in realtà dal fatto che un modello grafico pittorico è proposto come criterio per la valutazione della stes­ sa composizione musicale, cosicché si fa avanti un'in­clinazione a considerare il momento della temporalità più co­me un limite 145 intrinseco che come una caratteristica essenziale su cui si gioca l'espressione musicale. È interessante notare a questo proposito che la famosa immagine del corpo umano racchiuso da una cir­ conferenza rappresenta per Leonardo un buon modello anche per la musica dal momento che an­ch'essa, come la pittura, "com­ pone un corpo di molte membra", realizzando un'armonia "non altrimenti che faccia la linea circonferenziale per le membra di che si genera la bellezza umana" [72] Ma se la composizione è orientata a produrre belle forme, che sono belle in quanto sono fondate nelle perfette proporzio­ ni, allora la temporalità della musica rappresenta il suo limite, anzi la sua sventura [73]. In primo luogo infatti le forme che essa ricrea non possono che essere effimere e caduche - la musica "si va consumando mentre ch'ella nasce" [74]. Nella pittura invece può essere conservato "il simulacro di una divina bellezza di cui il tempo o morte in breve ha distrutto il naturale esempio" [75]. E il fatto poi che la bella forma musicale debba necessariamen­ te presentarsi all'interno di uno sviluppo temporale rappresenta un ulteriore limite, dal momento che la musica è così costretta a mostrare il suo disegno pezzo a pezzo come "un bel volto, il quale ti si mostra membro a membro, che così facendo rimarre­ sti mai satisfatto della sua bellezza" [76]. Ma l'opposizione tra esterno e interno che affiora in generale nel confronto con la pittura comincia ad assumere un profilo più netto solo nel momento in cui le considerazioni sulla temporali­ tà della musica vengono prospettate sullo sfondo del problema della soggettività. In breve: ogni vissuto è anzitutto un processo e così le relazioni tra i vissuti sono relazioni tra processi: più pro­ priamente, i vissuti e le loro relazioni sono da considerare come momenti interni di un processo unitario che è la soggettività stes­ sa. Sullo sfondo di questo problema, la natura temporale della musica non appare più come un limite, ma come una caratteri­ stica essenziale che fa della musica, eminentemente, un'arte della vita interiore. Per ritornare alle fonti soggettive da cui è scaturita 146 essa non ha bisogno di compiere un giro tortuoso tra colori e forme, ma l'in­teriorità è subito raggiunta per il fatto che il suo materiale avrebbe già una forma ad essa omogenea. Da un lato vi è infatti la temporalità del suono, dall'altro la temporalità del vissuto, cosicché il tempo sembra fare da termine medio tra il suo­ no e il vissuto. E come se il vissuto trovasse nel suono un modo di apparire senza mediazione alcuna: incontrandosi con esso, il vis­ suto, anziché mirare al mondo, fuori di sé, ripiega su se stesso e si appaga in questo ripiegamento. Nella dinamica temporale dei suoni può così rispecchiarsi la di­ namica degli affetti e dei sentimenti. Spesso si insiste proprio su questo punto: la vita interiore è caratterizzata da un'estrema mo­ bilità, che tuttavia non è una mobilità indeterminata e caotica, ma presuppone quegli ordini che pure sono presenti nelle forme dei conflitti. Le tensioni interne crescono e si sviluppano secondo molte­ plici intrecci fino a punti culminanti ai quali non possono che se­ guire fasi di allentamento e di attenuazione che pre­parano del resto nuovi conflitti e nuove risoluzioni. La cop­­pia tensione-disten­sione ricorre al continuo negli sviluppi relativi alla tematica del ritmo e l'animazione ritmica dei suoni musicalmente orga­niz­zati sembra riproporre l'immagine sonora di quel ritmo da cui la stessa vita soggettiva è permeata. E poiché i vissuti nel loro avvicendarsi tem­ porale non sono giustapposti gli uni agli altri, ma si integrano reci­ procamente essendo essi stessi costituiti dell'unità soggettiva che si va facendo, un simile concetto della totalità sembra valere come 147 naturale modello dell'unità di un brano musicale. Tutti quei pro­ cessi di integrazione percettiva, di connessione interna tra i suo­ ni che vengono realizzati nell'ascolto potranno così essere intesi come una vera e propria apparizione della compagine dei vissuti dentro la compagine dei suoni. Ora chiediamoci: possiamo realmente sostenere che tutto ciò sia senz'altro contenuto proprio in quel primo rilievo elemen­ tare del modo d'esserci temporale del suono? In realtà, nel per­ corso che è stato delineato la mèta è fin dall'inizio predisposta ed a ogni suo passo vengono celate difficoltà e problemi che lo renderebbero certo molto più accidentato e malsicuro. Cosicché le connessioni operate resistono appena al primo tentativo di demolizione critica. Perché mai saremmo tenuti ad aderire, a partire da una con­ statazione tanto elementare come è quella della temporalità dei suoni, ad una concezione della musica certamente impegnativa come è quella che le assegna il compito privilegiato di manife­sta­ zione della vita interiore? E prima ancora: perché mai l'apertura del problema della temporalità dovrebbe vincolarci ad una deci­ sione sul terreno della problematica dell'espressione musicale in genere? E non è forse sospetta la rapidità con la quale viene giocato per opposizione il riferimento alla visualità? Intanto potremmo affermare più che legittimamente che l'udito è proteso verso il mondo ad afferrare ciò che accade "fuori di me" esattamente come le mie mani e in generale i miei organi di senso. Del resto, se parlando di interiorità, intendiamo la mia vita affettiva, le mie emozioni e le mie passioni, che cosa ha a che fare tutto ciò con le mie orecchie? Altrettanto poco convincente è la pretesa "mediazione" operata dalla temporalità. In realtà possiamo trovare ricca di senso la possibilità di considerare la temporalità come tratto co­ mune del suono e del vissuto solo se siamo già in qualche modo convinti che il "significato della musica" si debba ricercare pro­ 148 prio in questa direzione. I vissuti in generale sono processi e la soggettività come compagine di vissuti è essa stessa un'unità costituita processualmente. E allora la soggettività si rispecchia nel flusso sonoro. Ma perché dovrebbe farlo? Si pensi infine al modo in cui viene messa in questione una nozione di totalità che sembra addirittura assumere carattere normativo; oppure al modo in cui si accenna al tema del rit­ mo, come se questa nozione fosse del tutto ovvia e non avesse bisogno di essere accuratamente introdotta e opportunamente delimitata nel suo senso. Converrà dunque mettere da parte sviluppi tanto equivoci per cominciare a fissare la nostra attenzione su quella che abbiamo riconosciuto essere l'origine del problema. I suoni so­no oggetti temporali. Ma qual propriamente il senso di questa affermazione e quale differenza si intende marcare con essa? §2 Sembra anzitutto che affermando la temporalità dei suoni non si dica gran cosa. Vogliamo forse sottolineare che qualun­que mani­ festazione sonora accade in un determinato momento del tem­ po? Che essa è nel tempo? Ma con ciò non si formulerebbe cer­ tamente alcuna caratteristica distintiva - qualunque accadimento è temporale in questo senso, e persino delle cose concrete si può dire che esse non solo sono nello spazio, ma anche nel tempo. Cominciamo comunque con il prendere nota del fatto che si parla qui del tempo in un'accezione del tutto ovvia e comune, in rapporto alla quale il tempo è una nozione obbiettivabile an­ zitutto in funzione ed entro i limiti delle pratiche quotidiane. In un'accezione altrettanto consueta converrà anzitutto impiegare il termine di durata che, liberato da pesantezze filosofiche, avrà semplicemente il senso di un tratto di tempo concepito come un segmento del tempo obbiettivo. Potremmo allora cominciare con il dire che i suoni sono 149 oggetti temporali in quanto hanno una durata, cioè occupano un determinato tratto di tempo, tra il momento del loro inizio e quello della loro fine. Ma ciò non basta ancora. Il nocciolo della questione non sta qui. Nulla ci impedisce infatti di parlare di durata anche in rapporto a cose, anche di esse si può dire che hanno un inizio e una fine. Ad esempio, il tavolo su cui scrivo ha in qualche modo cominciato a esserci, e prima o poi andrà in pezzi - e si potrà certamente parlare della sua durata tra quell'inizio e quella fine. Ma proprio questo esempio ci è utile per operare quella distinzio­ ne di cui si avverte subito la necessità. Tra quell'inizio e quella fine, la cosa si consuma, e ciò significa: essa invecchia, si logora, si modifica nella sua consistenza materiale e nella sua forma, cosic­ ché prima o poi non sarà più in grado di assolvere le funzioni per le quali essa è stata fatta. Tutto ciò non riguarda, in primo luogo, la temporalità. Iniziare e finire non hanno qui un senso primaria­ mente temporale. Quando si parla di durata del suono si propone invece un rapporto con la temporalità interamente diverso: ciò che si consuma, nella durata del suono, è proprio la durata, l'inizio e la fine hanno un senso primariamente tempo­rale. Il suono passa, ma non invecchia. Finisce, ma non si di­ strugge. Il tempo è condizione, nel senso più forte, del suo es­ serci, come se il suono contenesse in se stesso il bisogno del tempo - saremmo quasi tentati di dire: come se il suo stesso es­serci fosse fatto di tempo. Tutto ciò, in ogni caso, non lo si può dire per le cose. Lo si può dire, invece, per le parole che si avvicendano in un discorso, per le fasi di un movimento, per i processi in genere. Cosicché par­ lando della temporalità del suono intendiamo certamente attira­ re l'attenzione sul fatto che il suono è anzitutto un processo - e lo è, beninteso, già il suono singolo, e non soltanto una sequenza di suoni, perché anche il suono singolo c'è solo nella forma del trascorrere [77]. Ora incominciamo a intravedere i lineamenti del nostro 150 problema, per quanto essi siano ancora incerti. In effetti abbiamo fatto notare che gli oggetti temporali sono propriamente dei proces­ si, che la differenza qui in questione è quella tra cose e proces­ si. Ai processi che hanno "bisogno di tempo" dobbiamo poter contrapporre l'intemporalità delle cose, ma questa opposizione non diventa forse labile e indeterminata se si cerca di dare di essa una determinazione obbiettiva? Anche il parlare di intemporalità non sembra avere alcun senso chiara­mente deter­minato benché l'espressione sia apertamente sug­ge­rita da quella opposizione. Di fatto tutto il problema deve essere ripensato mettendo interamente da parte l'ambito delle consi­dera­zioni obbiettive e riconducendolo invece all'interno della rela­zione di esperienza. Parlare di intempo­ ralità delle cose significa allora null'altro che far notare che la durata non appare nelle apparenze percettive delle cose, che essa non può essere consi­derata come una tra le loro determinazioni fenomenologi­ che. Vogliamo spiegarci con un semplice esempio. Supponiamo di aver sott'occhio quattro segmenti e che ci venga richiesto di dare una sommaria descrizione della loro disposizione. Per indicare le posizioni reciproche ci serviremo certamente delle qualificazioni spaziali correnti (sotto, sopra, vicino, ecc.) così come di parole che rimandano a configurazioni geometriche tipiche (parallelo, ortogonale, convergente, ecc.). Non diremo invece che essi sono simultanei l'uno all'altro. E perché no? Non dovremmo, prima di ogni altra considerazione, premettere la constatazione di que­ sto rapporto di simultaneità? I lati di un quadrato non sarebbe­ ro certamente tali se non fossero anzitutto simultanei tra loro. Dovremmo allora dire che i lati di un quadrato, oltre a essere ortogonali tra loro, debbono anche essere simultanei, anzi, do­ vremmo prima proporre la condizione della simultaneità e poi quella dell'orto­go­nalità? È chiaro invece il luogo dell'errore: la simultaneità o la suc­ cessione non possono essere attribuite ai segmenti, ma even­ tualmente al modo in cui essi si presentano alla percezione. Ad 151 esempio, può darsi il caso che il disegno sia parzialmente coper­ to e che le sue parti vengano proposte successivamente, l'una dopo l'altra, mentre la copertura viene gradualmente tolta. Alla fine possiamo ben dire: ora i segmenti sono simultaneamente presenti - ma questa affermazione ha senso solo tenendo con­ to del modo in cui essi venivano presentati in precedenza. Ciò che qui viene chiamato in causa è dunque la relazione soggettiva con l'oggettività piuttosto che l'og­gettività come tale: il modo in cui la configurazione si presenta è ad essa inessenziale. Analo­ ga­mente non ha senso affermare che una certa proprietà di una cosa sia simultanea a ogni sua altra proprietà, oppure che siano si­multanee tra loro le sue parti. Nemmeno avrà senso attribuire alle cose un inizio e una fine in senso propriamente e primaria­ mente temporali. Solo a questo punto l'affermazione della temporalità dei suoni è diventata realmente pregnante. In rapporto a essi non si può dire soltanto che occupano un tratto di tempo, ma soprattutto che questo tratto di tempo viene effettivamente colto, nella loro apprensione, come decorso temporale. Quan­do parliamo di inizio e di fine del suono, parliamo di un inizio e di una fine diretta­ mente sperimentati; e ha senso parlare di suoni simultanei e suc­ cessivi proprio per il fatto che nell'esperienza del suono è impli­ cata l'esperienza della simultaneità e della successione. Perciò è opportuno parlare qui non di durata soltanto - richiamandosi così al puro tratto di tempo inteso come nozione obbiettiva - ma di durata fenomenologica, cioè di durata che si manifesta concre­ tamente nella percezione. Per orientarsi nel percorso intricato del dibattito teorico in­ torno al problema della temporalità nella musica è della massima importanza cominciare a intendersi anzitutto sul senso e sulla portata di queste prime considerazioni elementari. Ed è impor­ tante anzitutto comprendere per quale motivo così spesso i fi­ losofi, sia pure con intenti diversi, richiamino l'ambito musica­ le ogni volta che la discussione verte sul problema del tempo. 152 Questo stesso fatto potrebbe far pensare che i suoni, e dunque la musica in genere, si trovino in una relazione ecce­zionale e misteriosa con la temporalità, mentre le nostre prece­denti con­ siderazioni portano a particolare chiarezza almeno questo punto: il tempo non è qualcosa che possa essere direttamente afferrato, non vi è un modo speciale di coglierlo in se stesso, una partico­ lare "intuizione" della tempo­ralità. Come non può darsi una per­ cezione "pura" dello spazio che non si sostenga sulla percezione di cose, così solo l'espe­rienza di processi può far apparire un de­ corso temporale, ed è per questo che da quel­l'esperienza debbono prendere le mosse i difficili problemi della costituzione temporale. Ora, i suoni sono anzitutto materiali percettivi attraverso i quali la temporalità arriva a manifestarsi e i riferimenti musicali - in genere del resto assai poco approfonditi - che ricorrono nel di­ battito filosofico sulle questioni temporali sono certamente do­ vuti in primo luogo all'efficacia esemplificativa con la quale una sequenza di suoni può illustrare una processualità data in con­ creto, efficacia a cui contribuisce, non essendo implicati momenti spaziali, la possibilità di un più netto isolamento e di una più chiara delimitazione del momento propriamente attinente alla tempora­ lità. In certo senso, noi dobbiamo approfittare di questa effica­ cia, ma anche dobbiamo mutare l'ango­latura da cui consideriamo l'intero problema. Infatti qui non siamo interessati alla tematica della costituzione temporale come tale, ma piuttosto a ciò che possiamo cominciare con il dire dei suoni in quanto considerati dal punto di vista della loro forma temporale. Ciò che fin qui ci sembra di aver accertato a questo propo­ sito è che in rapporto alla caratterizzazione del suono come "og­ getto temporale" è significativa anzitutto la durata fenomenologica, quindi non tanto il fatto che il suono occupi un tratto del tem­ po obbiettivo, secondo una concezione nella quale risulterebbe certamente accentuato l'elemento statico, quanto che il suo esser­ ci ci appaia nella forma del trascorrere. Dobbiamo ora integrare queste nostre prime considerazioni fa­cendo notare che questa 153 forma fa tutt'uno con una condizione di continuità. Ciò non si­ gnifica banalmente che il suono che io ora odo e continuo a udire è appunto un suono inin­terrotto. Significa invece sottolineare che questo suono ininterrotto si propone percettivamente come un succedersi di fasi che trapassano l'una nell'altra, come un venire-daandan­do-subito-oltre, come un avanzare sopravanzando. Per indicare questa circostanza vogliamo parlare di fenomeno sonoro come un fenomeno di evenienza: il suono considerato nella sua durata fenomenologica è suono eveniente. Si consideri ancora una volta l'istruttivo esempio del movi­ mento. Tutti sanno che alla base di un'impressione di movi­mento può esservi una successione discreta di immagini dello stesso og­ getto, purché siano soddisfatte alcune condizioni, ad esempio, le immagini debbono presentarsi a intervalli temporali e spaziali abbastanza piccoli. Queste condizioni mirano infatti a dissol­vere la discretezza obbiettiva, fornendo il presup­posto essen­ziale affinché si dia una percezione di movimento. Ora, volendo descrivere la struttura del movimento installandosi all'in­ter­no della situazione percettiva e quindi mettendo da parte il problema delle sue basi, sembra opportuno parlare di una sequenza di fasi, nella quale ogni fase è caratterizzata da un avanzare sopravanzante. Ma lo stesso esempio è istruttivo anche da un altro pun­ to di vista. Si osservi un punto luminoso che si muove su uno schermo scuro. Il movimento si va facendo e noi lo vediamo in questo suo farsi. Ma questo vedere e questo osservare ha un ca­ rattere interamente diverso dal vedere e dall'os­servare riferiti ad una cosa in quiete. Il nostro punto luminoso sullo schermo cattura il nostro sguardo e lo trascina nel suo corso proprio in forza del sopravanzare del movimento, in forza del fatto che non appena l'occhio si posa sul punto che si muove, esso è tratto subito oltre. Ciò è interessante proprio in rapporto al suono, e più pre­ cisamente in rapporto alle modalità elementari dell'ascolto. Ora infatti possiamo dire: l'ascolto del suono è teso, ed esso lo è in quanto è attratto dalla tensione temporale che appartiene al suono 154 stesso. Lo sguardo è catturato dal movimento. L'orecchio dal suono. Il suono attrae. La nostra tesi di apertura della tematica della tempo­ ralità potrebbe essere formulata così: i suoni sono attraenti. Annotazione Nel suo lavoro intitolato The Temporal Structure of Recent Music: a Phenomenological Investigation (Dissertazione di dottorato, State Uni­versity of New York, 1982), nel quale si propongono nuovi strumenti per l'analisi musicale ispirati alle tematiche fenomenologiche, Judith Irene Lochhe­ ad fa un uso del termine "oggetto temporale" che ha un'inclinazione di senso e un modo di impiego essenzialmente diverso dal nostro e di cui si rivendica in ogni caso l'origine in Husserl. Oggetto tempo­ rale (Temporal Object) viene infatti definita "una qualunque struttura (structure) che noi apprendiamo come un intero successivo (successive whole). Gli oggetti temporali sono caratterizzati dall'estensione tempo­ rale (temporal extension)" (p. 168). Sulla base di una simile definizione e del resto tenendo conto del modo in cui il termine viene impiegato, con oggetto temporale si intende dunque un'unità strutturale complessiva, così come ogni sua componente che possa valere essa stessa come unità strutturale, per quanto subordinata: cosicché il termine può anzitutto sostituire termini come "motivo", "antecedente", "conseguente", "fra­ se", ecc. nell'analisi di brani tonali; ma può anche e soprattutto esse­ re impiegato in modo più generale per unità prive di organizzazione tonale, per segmenti di brani musicali a cui si possa in qualche modo attribuire un carattere unitario. L'occasione per un simile impiego è fornita dal fatto che, nelle sue Lezioni sulla coscienza interna del tem­ po, Husserl indica come esempio di oggetto temporale genericamente una "melodia". "Benché Husserl consideri soltanto una melodia nella descrizione della coscienza del tempo, la sua nozione di oggetto tem­ porale può essere applicata ad altri tipi di strutture musicali" (p. 163). Ora, occorre notare che in Husserl il richiamo alla melodia ha la fun­ zione di fornire, come abbiamo spiegato, una situazione esemplificativa per illustrare la durata fenome­nologica, soprattutto in ordine al tema 155 della continuità, piuttosto che quella di dare un esempio di Gestalt, la cui unitarietà d'altronde non è certo dovuta alla pura forma tempo­ rale. Ciò che invece caratterizza l'esempio di Husserl lo si comprende con chiarezza proponendo la sua sostituzione, perfettamente possibile, con un suono singolo che dura. Questo aspetto è certamente presente nella definizione della Lochhead, là dove si sottolinea che "gli oggetti temporali sono caratterizzati dall'estensione temporale", ma la defini­ zione sembra escludere signifi­cativamente 1'applicabilità del termine di oggetto temporale ad un suo­no preso nella sua singolarità. Si tratta dunque di un'utilizzazione dell'esempio husserliano che ne modifica il contesto, per altro proponendo una problematica ricca di interesse. §3 Veniamo ora ai commenti. Si sarà notato che nella nostra esposi­ zione abbiamo fatto riferimento illustrativo prevalente al suono considerato nella sua singolarità, piuttosto che ad una sequenza di suoni - sequenza che naturalmente è essa stessa un oggetto temporale e che dunque può essere descritta come un fenomeno di evenienza che si realizza in una continuità ritenzionale-proten­ zionale. Tuttavia il riferimento al suo­no singolo ci consente di proporre una distinzione di particolare importanza con maggio­ re evidenza di quanto si possa fare nel caso della sequenza a causa della sua maggiore complessità. Come esempio di suono singolo converrà anzitutto pensare ad un suono-oggetto che permane nella sua identità oggettiva e nell'identità della sua qualità timbrica - che dunque non muta tra il suo inizio e la sua fine nelle sue determinazioni caratteristiche. Talvolta per indicare questa assenza di mutamenti si parla, nella terminologia musicale, di suono "tenuto fermo" espressione che diventa ora per noi particolarmente significativa proprio per il fatto che in essa si sottintende l'idea che si possa parlare di movimento in senso pieno e proprio, nell'ambito musicale, solo là dove vi sia­ no differenze interne, e in particolare là dove vi sia una pluralità 156 di suoni materialmente differenti. Ora, nelle nostre considerazioni noi abbiamo in certo senso spostato un poco più indietro l'inizio di questo problema, dal momento che sulla loro base possiamo certamente cominciare con il parlare di movimento avendo di mira unicamente la forma del trascorrere, e dunque in un senso pura­ mente temporale. Come abbiamo spiegato, vi è una tensione del suono per il fatto stesso che ha una durata. Consideriamo ora il caso di una sequenza di suoni. I suo­ni sono chiaramente differenziati l'uno dall'altro, abbiamo a che fare non già con un suono che dura ininterrottamente, ma con una pluralità di suoni che si susseguono. Spesso è stato messo in rilievo che, dal punto di vista percettivo, questa successione non viene appresa nel senso di uno statico allineamento, ma come passaggio dall'uno all'altro suono, cosicché deve essere in ogni caso presupposta la continuità temporale così come il tipo di dinami­ smo che è ad essa inerente. Si tratta di un'osservazione corretta, che tuttavia non è esente dal rischio di equivoci e fraintendimen­ ti. Il suo senso effettivo sta nella considerazione che noi abbiamo già anticipato secondo la quale qualunque sequenza di suoni, come il suono singolo, può essere considerata temporal­mente come "protesa in avanti", come caratterizzata da quest'unica direzione di movimento. La sequenza stessa, come ogni momento di cui essa è costituita, ha la forma del trascorrere, e dunque quella del­ l'avanzare sopravanzando. Anche in rapporto alla sequenza possiamo dunque ribadire gli spunti già in precedenza emersi. L'osservazione di una cosa in quiete è certamente, consi­ derata dal lato soggettivo, un processo, ed esso può avere inizio da una "chiamata" che proviene dalla cosa stessa: essa ci incu­ riosisce oppure ci incuriosisce un suo dettaglio, e così può ac­ cadere che fino ad un certo punto siano i suoi momenti e le sue determinazioni a guidare il nostro sguardo. Ma certamente nello stesso fatto di dire che la cosa ci incuriosisce è già implicito che il richiamo proveniente da essa deve ricevere una risposta attiva, che 157 questo richiamo può sempre convertirsi in uno spontaneo interes­ se soggettivo che si rivolge alla cosa liberamente esplorandola in ogni suo lato. Si pensi ad un disegno che sta tutt'intero di fronte a noi. Ora lo possiamo co­gliere nel suo insieme, ora il nostro sguardo segue le linee del disegno e questo indugiare presso il disegno è essenzialmente caratterizzato dalla possibilità di per­ correrlo con lo sguardo in lungo e in largo, ora partendo da un punto, ora dall'altro, ora facendo un certo percorso, ora il percorso inverso. E ciò è possibile perché il disegno sempli­cemente c'è, intemporalmente, là di fronte a noi. Si noti l'impiego che abbiamo fatto or ora del verbo "se­ guire". Di un disegno, di una figura si può dire che si seguono i contorni; oppure si può parlare di un ascoltatore che segue lo svi­ luppo di un discorso. E si dice infine anche che si segue un brano musicale, una "melodia". Se stiamo al problema che abbiamo finora posto di una ten­ sione connessa alla pura forma temporale, questa parola si presta certamente a qualche equivoco. Con essa allora si vuole indicare qualcosa di diverso sia dal movimento dello sguardo che si aggira liberamente intorno alla cosa in quiete, sia dal­l'attenzione attiva­ mente rivolta ad afferrare lo svolgersi dei motivi argomentativi o narrativi che vengono via via proposti all'interno di un discorso. Poiché una sequenza di suoni non c'è fin dall'inizio, ma diviene, poiché essa si va facendo, sarebbe più giusto dire, non tanto che noi la seguiamo, quanto che essa si fa seguire. Perciò non possia­ mo affatto percorrerla in lungo e in largo e nemmeno possiamo sceglierci questa o quella via di accesso, ma dobbiamo attenerci all'ordine che ci impone. Come su una barca senza remi, non possiamo che "seguire" la corrente del fiume che ci trascina. Con tutto ciò facciamo ancora una volta notare: l'udire suo­ ni non è un analogon uditivo di un atto di contemplazione. Non si contemplano suoni così come si contemplano forme e colori. Si impone piuttosto l'analogia con la visione del movi­mento, e tanto più questa analogia può essere efficace quan­to più essa è accom­ 158 pagnata dal pensiero della soppressione della cosa che si muo­ ve così come dello sfondo immobile su cui si muove, dunque dal pensiero certamente paradossale, e tuttavia ricco di senso, di qualcosa che è soltanto movimento, di movimento pu­ro. Rendendo inconsistenti nella misura del possibile la cosa e lo sfondo, l'esem­ pio di un punto luminoso che si muove su uno schermo scuro conteneva già questo pensiero. Eppure tutta questa tematica non avrebbe affatto senso se non ci affrettassimo a sottolineare che essa ricopre solo una parte del problema e che essa deve essere integrata da considerazioni concernenti dinamismi che non sono affatto dipendenti dalla forma temporale. Vi è, come accennavamo in precedenza, un margine piuttosto ampio di equivocità quando si porta l'accento sulla continuità temporale e sull'apprensione della successione dei suoni come passaggio dall'uno all'altro. Si osserva allora che una "melodia" non è una semplice "giustapposizione" di suoni, ma che nel suono attuale è ritenuto il suono precedente e che vi sono in generale attese suscitate dall'intero decorso anteriore. Ma in simili formulazioni non è mai abbastanza chiaro se con "melodia" si intenda una sequenza qualunque di suoni, in modo da dare ad essa la necessaria generalità, oppure (come per lo più è il caso) se si presupponga la nozione di "melodia" nel senso più ovvio e comune richiamandosi tacitamente ad un ordinamen­ to tonale. In tal caso quelle formulazioni sono applica­bili solo ad un particolare tipo di esempi ed a questa limitazione si aggiunge anche la mancata distinzione, che si impone natural­men­te anche in rapporto a essi, tra dinamismi dipendenti dalla pura for­ma temporale e dinamismi che dipendono invece dalla concreta ar­ ticolazione delle sequenze sonore. Una simile distinzione può essere chiaramente messa in evidenza, restando all'interno di quest'ambito esemplificativo, ri­ correndo al confronto con il discorso, al cui andamento melodie tonalmente organizzate vengono così spesso assimilate. Sappiamo già che anche un discorso, e precisamente con­ 159 siderato nel rapporto concreto dell'ascolto, può rappresen­tare un esempio di fenomeno di evenienza. Anch'esso presuppone la continuità del flusso temporale, continuità che va intesa come continuo sopravanzamento. Supponiamo ora che l'oratore che stiamo ascoltando si interrompa bruscamente in un punto qualunque del­ la frase che sta pronunciando, preso alla sprovvista da una singola­ re amnesia. La parola che doveva venire non è venuta e l'oratore se ne sta ora attonito di fronte a questa lacuna. Per i suoi ascoltatori la situazione potrebbe essere ben diversa dal momento che essi hanno attentamente seguito il suo argomentare: per essi l'ultima parola udita si oltrepassa, sulla base delle parole precedenti, verso un'area di altre parole o anche, addirittura, verso una parola as­ solutamente determinata che potrà infine essere generosamente sug­gerita all'oratore in imbarazzo. Vi è qui certamente un'azione ritenzionale-protenziale che sarebbe erroneo riferire alla pura forma temporale. Ciò che udiamo in una successione temporale è una sequenza di parole provviste di senso e organizzate secondo una grammatica che ci è nota perché è la grammatica del linguaggio che noi stessi pratichiamo. L'anticipazione non è un'anticipazione vuotamente temporale, ma è un'anticipazione di un contenuto ben determinato che diventa possibile proprio in rapporto alla struttura sintattica del discorso e ai significati in esso espressi. Ma ciò non ha peculiar­ mente a che fare con la temporalità. La continuità tem­porale, e cioè l'estensione ritenzionale-proten­zionale del pre­sente, è certamente una condizione per la realizzazione dei nessi tra le parole che fan­ no della loro semplice successione un discorso - un termine del resto che non indica un puro e semplice dispiegamento temporale, benché ne contenga certamente il motivo, ma uno sviluppo in cui ogni passo consegue organicamente dai passi precedenti, come se di quei passi fosse l'esplicitazione o l'esten­sione coerente e neces­ sa­ria. E naturalmente, come si è già os­ser­vato, seguire significa qui soprattutto cogliere di passo in passo quello svolgimento inter­no nei suoi nessi logici e concettuali. È interessante inoltre notare che, 160 per ciò che riguarda il contenuto appreso, l'ordine temporale in cui è stato esposto potrebbe essere mutato entro limiti piuttosto ampi, esso potrebbe essere variamente riassunto, parafrasato, va­rian­do i punti di accesso senza modifi­cazioni realmente essen­ziali. Accanto alle differenze, vi è certamente qui qualche inte­ ressante analogia. Anche una melodia tonale ha uno sviluppo in un'ac­ce­zione che non è certo riportabile ad una pura successio­ ne di suoni, vi è in essa una coerenza interna che fa sì, nel caso di una interruzione improvvisa, che possa essere suggerita una con­tinuazione entro un ambito sufficientemente de­ter­minato. Ma queste attese, così come gli eventuali richiami retroattivi, sono fondati sulla proprietà dei suoni che la costituiscono e sulle re­ lazioni di cui esse stanno a fondamento. I suoni, per l'appunto, non sono fatti di tempo. Ora tuttavia abbiamo bisogno di prospettare questo stesso problema nella sua generalità, e non già puramente al­l'in­­terno di una tematica che presuppone un modello di "me­lodia". Perciò abbiamo preferito parlare di sequenza sonora senza pregiudicarne la struttura. Assumendo questo punto di vista più generale si co­ mincia certamente con il piede sbagliato se si pretende di portare subito l'attenzione sul tema della continuità, sulle varie forme possibili di integrazione, di organicità e di sviluppo. Intanto an­ drebbe subito notato che in una sequenza di suoni abbiamo a che fare con una pluralità di suoni, e dunque con una condizione di di­ scontinuità. Questa discontinuità può essere attenuata o rafforzata in vari modi, "staccando" o "legando" i suoni tra loro, interpo­ lando "pause" tra essi, riducendo o aumentando l'ampiezza degli in­ter­valli tra l'uno e l'altro suono, facendo giocare le differenze e le affinità timbriche, ecc. In generale, in forza dei dinamismi che sorgono dalle differenze tra i tratti caratteristici della materia so­ nora e dai modi in cui esse sono giocate per operare convergenze e divergenze, per unificare e segregare, si pone il problema di una tipologia molto ampia di possibili articolazioni che rimanda ad una grande varietà di situazioni descrittive. Il tema della continu­ 161 ità si presenta co­stantemente come condizione soggettiva dell'ap­ prensione per­cet­tiva e, dalla parte dell'oggettività percepita, come forma del trascorrere - ma questa forma deve ora misurarsi con le dinamiche dell'artico­la­zione materiale, così come inversamente queste dinamiche deb­bono entrare con quella forma in relazioni più o meno complesse. Il fatto che abbiamo parlato di un movi­ mento sopravanzante, da un punto di vista puramente tem­porale, non significa che esso sia senz'altro assecondato dall'ar­ticolazione della sequenza, oppure che non possano darsi momenti retroatti­ vi o che lo stesso carattere di movimento sia messo in questione ad esempio da una struttura fortemente ripetitiva oppure da una discontinuità particolarmente accentuata. Si noterà che in queste nostre considerazioni si ripropone, certamente in tutt'altro senso, la polarità tempo/struttura che aveva già assolto un ruolo significativo nella formulazione del nostro progetto complessivo. E anche in questo caso, per quanto siano mutati i termini del problema, avendo ora di mira unicamente le dinamiche interne di un brano musicale, portiamo l'accento piut­ tosto sull'interazione e sull'azione reciproca che sulla semplice op­ posizione. A questo proposito è interessante notare come talvolta si insista a tal punto sulla componente architettonica del brano musicale da mettere interamente in secondo piano la componen­ te temporale. La frase ben nota di Lévi-Strauss secondo la quale la musica avrebbe bisogno del tempo soltanto "per inflig­gergli una smentita" [78] formula efficacemente un atteggiamento secon­ do il quale la dimensione temporale do­vrebbe essere considerata come un dispiegamento di configu­razioni che non sono intrinse­ camente temporali. Nello stesso senso deve essere interpretata la frase di De Schloezer secondo la quale "organizzare musicalmente il tempo significa trascen­derlo" [79]. In realtà come illustrazione, e nello stesso tempo come spun­ to per una critica, può valere proprio quel richiamo alla presen­ tazione parziale di un disegno che si era già proposto, da un'an­ go­latura diversa, nei commenti alle nostre citazioni leonar­desche: 162 assumendo questo punto di vista, un brano musicale può esse­ re paragonato ad un disegno che, in luogo di essere mostrato tutt'intero e in un colpo solo, è parzialmente coperto diventando visibile a poco a poco. Cosicché dovremmo dire non tanto che il senso dei dettagli si va chiarendo man mano che il disegno viene messo allo scoperto, ma che un'effettiva chiarezza sulle connes­ sioni può essere raggiunta solo quando il disegno ci appare nella sua integrità, quando dun­que il brano è giunto al suo termine. La temporalità sarebbe allora veramente una circostanza accessoria che deve essere trascesa, un modo di rivelarsi della struttura, di una totalità che è in se stessa intemporale A tutto ciò è in realtà sufficiente obiettare che nell'espe­ rienza dell'ascolto non può trovare nessun appiglio l'imma­gine del brano musicale come disegno che viene di passo in passo messo allo scoperto. In nessun modo possiamo affermare che, in un punto qualunque del decorso di un brano musicale, qual­ cosa si manifesti e qualcos'altro ci venga tenuto nascosto. In quelle formulazioni si eleva la singolare pretesa che quando il brano c'è, sia a esso inerente un'essenziale mancanza di chiarez­ za, mentre l'evidenza sarebbe raggiunta soltanto quando esso ha semplicemente cessato di esserci: come se solo allora il brano ci stesse realmente davanti e ogni sua parte fosse colta nella sua autentica relazione con l'intero. Annotazioni 1. Lo stesso problema è certamente presente nella distinzione proposta da Xenakis tra "fuori del tempo" e "nel tempo" - ed è caratteristi­ ca dell'intera sua posizione l'idea che si possa dire dei brani musicali che "si tratta di immissioni nel tempo di costruzioni fuori del tempo" (Musica. Architettura, Spirali Edizioni, Milano 1982, p. 36). "Quando si costruisce una melodia si agisce nel tempo, si mette infatti una nota dopo l'altra e quello che ne risulta è un evento calato nel tempo. Le note che hai scelto appartengono però ad una scala o ad un modo e questi 163 elementi non sono immessi nel flusso temporale vero e proprio; sono piuttosto delle strutture che esistono fuori del tempo, indipendenti. Anche il lavoro teorico che fai a tavolino, disponendo le note o calcolando i tempi, avviene in un certo senso fuori del tempo; solo la messa in opera, l'esecuzione, cala nel flusso del tempo tutto questo. Accanto a quella che ti ho descritto c'è però una realtà più complessa: tutto quello che ci accade intorno viene catturato dalla memoria, dove diviene qualcosa di simile ad un'impronta che si erode, si cancella a poco a poco, ma sempre in una dimensione sottratta al flusso reale del tempo. In fondo tutta la musica si basa su questo principio di costruzione, che attinge i suoi ma­te­riali da una dimensione fuori del tempo perché vengano succes­ sivamente pro­iettati nella prospettiva del tempo, e qui il nostro potere di con­trollo viene meno". (Xenakis, a cura di E. Restagno, EDT, Torino 1988, p. 41). "Il tempo non esiste, probabilmente si tratta di una delle nostre illusioni, un'illusione di trasformazione dello spazio. Senza lo spazio non può esserci tempo"(Ivi, p. 25). - Su un piano interamente diverso si situano le "testimonianze" di Mozart e di Beethoven, ram­ mentate da A. Collisani (Musica e simboli, Sellerio, Palermo 1988, p. 149), nelle quali è presente l'idea di una apprensione globale dell'opera caratterizzata da esplicite analogie visive. Si dice in Mozart che, anche nel caso di un brano piuttosto lungo, "io lo vedo tutto in un'unica oc­ chiata, come se fosse un quadro meraviglioso o un bellissimo essere umano; in questo modo nella mia immaginazione non lo sento affatto come una successione"; e Beethoven: "... l'idea fondamentale non mi abbandona mai. Essa sorge, si espande, ed io vedo e odo il quadro pren­ dere forma come un tutto unico ed ergersi dinanzi a me come fuso in un sol getto". 2. Un miraggio è invece, per Jankélévitch, proprio l'idea di uno "svi­ luppo" inteso non già in senso temporale, ma avendo di mira l'unità argomentativa di un discorso. A esso corrisponde, dal lato dell'ascolto, la forma di un "seguire" che assume coerentemente il senso di afferrare il bandolo e tenerlo fermo. "Una sinfonia è un discorso? La sonata è paragonabile ad una arringa? La fuga ad una dissertazione, l'oratorio 164 ad un sermone? I temi svolgono nella sinfonia lo stesso ruolo delle 'idee' nella lezione del conferenziere?" (La Musique et l'Ineffable, Seuil, Paris 1983, p. 26). Ma ogni discorso presuppone un piano, un termine nel quale certamente si intravede un ordine spaziale, e dunque, per Jan­ kélévitch che assume l'opposizione dello spazio e del tempo secondo l'impostazione di Bergson, una strutturazione di ordine intellettuale che si allontana dalla dimensione del vissuto. La stessa ritenzione udi­ tiva del già trascorso, che è certamente una condizione per l'afferra­ mento dei rapporti strutturali, può essere considerata come derivante da una tensione caratteristicamente intellettuale: "Là dove l'intelligenza associativa e spazializzante, sorvolando sul divenire, distingue più parti inquadrate fra un esordio ed una perorazione, l'orecchio, aderendo con genuina immediatezza alla successione vissuta, non si accorge di niente: senza la visione retrospettiva del cammino percorso il puro ascolto non noterebbe il piano della sonata. Giacché il piano è cosa concepita, non cosa udita né tempo vissuto" (Ivi). §4 Volendo cominciare con il delineare la specificità che la musica trae dalla temporalità dei suoi mezzi espressivi, come non ram­ mentare - e proprio all'interno di uno sviluppo che sembra voler mettere in primo piano il suo potere trascinante - la singolare rela­ zione che la musica può intrattenere con il movimento corporeo, relazione che trova la sua massima manifestazione nella danza? Il dire che una sequenza di suoni si fa seguire avendo di mira la pos­ sibilità della danza assume allora un nuovo senso che tuttavia non è affatto estraneo all'ambito dei motivi precedentemente sollevati. Il tema della soggettività che certamente aleggia nel campo delle considerazioni temporalistiche si ripresenta qui secondo un'altra delle sue molteplici sfaccettature: sembrava in precedenza che l'ac­ cento cadesse proprio su un ascolto che si abbandona, e dunque anche su una soggettività catturata dal suono e portata via nel suo decorso. Queste stesse formulazioni assumono ora un senso persino più nitido e chiaro. La tensione del suono sopravanzante 165 ci appare ora come una sorta di leggera vertigine, di squilibrio, di oscillazione della verticalità del corpo che fa muovere il passo. Con il notare questa possibilità di una relazione interna con il gesto e con il movimento non solo riceve evidenza la peculia­ rità dell'ascolto e la sua non assimilabilità di principio ad un atto di pura contemplazione, ma con altrettanta evidenza si mostra la presenza di un legame diretto e immediato con la soggettività intesa non tanto come flusso di vissuti, come sog­gettività "psico­ logica", ma soprattutto come vitalità prorom­pente nel movimen­ to corporeo. Le nostre considerazioni precedenti suggeriscono certamente anche questi possibili sviluppi. E tuttavia si avverte subito che essi non offrono ancora una base sufficiente per un autentico approfondimen­to in questa direzione. Facendo riferimento alla danza, l'attenzione viene subito portata sul tema del ritmo come un tema che deve certamente occupare una posizione centrale nell'ambito di considerazioni rivolte all'aspetto temporale. È allora il caso di chiedersi fino a che punto questa nozione possa essere adeguatamente introdot­ ta e circoscritta nell'ambito di una discussione tutta gravitante intorno al suono inteso come fenomeno di evenienza. Fin d'ora è lecito almeno sospettare che la questione del ritmo non pos­ sa essere affrontata come un lineare sviluppo della tematica del suono eveniente. Vogliamo dunque muoverci con la cautela richiesta dal­ la portata e dall'importanza dell'argomento. E anche dalla sua oscurità. Infatti, benché per certi versi si possa rivendicare alla no­ zione di ritmo, rispetto alle altre nozioni base della musica, una particolare semplicità ed evidenza, tuttavia non appena si ten­ ta una qualche delimitazione essa sembra perdere consistenza e precisione, sembra diventare una nozione profondamente oscu­ ra. Ciò si rispecchia clamorosamente nella questione della ri­ cerca di una definizione. 166 Se parliamo così frequentemente di ritmo, all'interno della problematica musicale o al di fuori di essa, saremo pur in grado di fornire di esso una definizione soddisfacente. Quanto meno dovremmo ritenere di trovarne qualcuna già elaborata nella lun­ ga storia del problema. E naturalmente ne troviamo non una, ma più d'una; trovia­ mo molte definizioni di ritmo; anzi, ne troviamo troppe. Sembra addirittura che qualcuno, sorpreso dalla difficoltà e dalla varietà dei modi della sua teorizzazione, si sia accinto a recensire le definizioni di ritmo, riuscendo a esibirne circa quat­trocento. Altre stime più prudenti segnalano almeno cinquanta significati della parola chia­ ramente distinguibili. "Rit­mo", dice Sachs, è anzitutto una parola priva di significato generalmente accettato: sottoline­ando in pro­ posito che la confusione è semplicemente "terri­ficante" [80]. Sarebbe tuttavia sbagliato considerare questa situazione, così sconcertante, come se la parola "ritmo" alludesse a un'es­senza inef­ fabile che nessuna definizione riuscirebbe ad afferrare. Le molte definizioni proposte non sono affatto da intendere come tentati­ vi senza speranza di cogliere un'essenza profondamente nascosta. Si tratta invece di una molteplicità di sensi che, se da un lato certamente può essere fonte di confusioni e di incertezze con­ cettuali, dall'altro mostra che la questione del ritmo può essere considerata da vari lati, secondo punti di vista e angolature diverse, avvalendosi della possibilità di operare restrizioni e deli­mitazioni o all'inverso ampliamenti ed estensioni di senso. Il vero problema non consiste affatto nella ricerca della definizione giusta all'interno della molteplicità delle definizioni proposte: infatti ciascuna di esse potrebbe essere interessante non in se stessa, ma in rapporto alla discussione che presuppone. E neces­sario invece disporre di alcuni criteri sufficientemente solidi per intervenire in essa. In vista di ciò è necessario in primo luogo richiamare l'at­ tenzione sulla possibilità di un impiego molto generale della pa­ rola che va oltre il piano specificamente musicale: si può parlare di ritmo, ad esempio, in rapporto a configurazioni visive - ad 167 una cancellata, ad un colonnato, ad una struttura architettonica in genere. La connessione tra la tematica temporale e la nozione del ritmo tende qui a indebolirsi o almeno a diventare problematica. Lo stesso rilievo può essere fatto per quegli impieghi che chiama­ no in causa i "movimenti" della natura - basti rammentare qui il "ritmo" delle stagioni oppure del battito cardiaco. Appare particolarmente chiaro in questi esempi, così spesso ripetuti, uno dei punti nodali della difficoltà: se parliamo del rit­ mo delle stagioni non vogliamo evidentemente alludere alla loro pura e semplice successione temporale. E così se qualifichiamo come ritmico il battito cardiaco intendiamo dire qualcosa di più e di diverso da una pura successione di battiti. Ma la difficoltà sta appunto nel determinare con chiarezza in che cosa consista que­ sto "di più" che sarebbe in grado di trasformare 1'avvicendamento puro e semplice in un avvicendamento che me­rita di essere chia­ mato "ritmico". L'idea che questa differenza sia una differenza "irrazionale" - cioè una differenza difficile, se non impossibile da concettualizzare - tende a farsi avanti già da questi esempi. Il richiamo al ritmo sembra qui voler sottolineare la presenza di un'or­ganicità interna, di un momento vitale che si contrappone al morto meccanismo: la pura alternanza temporale - questo succede a quello - appartiene all'ordine estrinseco dei meccanismi, mentre se parliamo del ritmo delle stagioni connettiamo la loro ricorren­ za alle necessità interne della vita stessa. Analogamente, il battito del cuore sembra predestinato a ricevere una qualificazione ritmica per il solo fatto che esso è addirittura condizione della vita e può quindi valere come suo simbolo eminente. Tutto ciò è particolarmente interessante proprio in riferi­ mento alla musica. In effetti, quando nella discussione filosofica il discorso cade sull'aspetto ritmico, sembra quasi che il filosofo si riscuota dal suo compassato torpore per seguire gli slanci che il tema stesso sembra suggerire. In luogo di essere un momento specificamente e primariamente musicale il ritmo appartiene a tutto ciò che nell'universo è vivo, ed è dunque da un lato il mo­ 168 mento al quale la musica è debitrice della propria vitalità interna, dall'altro, attraverso il ritmo, essa si apre e si integra nella totalità della natura vivente. Queste enfasi filosofiche non sono affatto necessarie, così come non è necessario un modo di approccio al problema che prenda le mosse dalla massima generalizzazione della nozione. Del resto i motivi che stanno alla base di quelle enfasi si ripresen­ tano spesso anche nel quadro di impostazioni che ten­dono a vin­ colare il problema all'interno del campo specificamente musicale. Il riferimento al di fuori dell'ambito musicale sembra necessario al più per una sommaria introduzione della nozione, soprattutto per illustrare attraverso esempi persuasivi e apparente­mente evidenti la differenza che può essere considerata come costitutiva del ritmo stesso: la differenza del battere e del levare. In certo senso questa differenza deve essere sottratta alla terminologia insignificante del solfeggio che rimanda alla for­ma convenzionale di un gesto escogitato a scopi meramen­te pratici: in essa dobbiamo invece cogliere un'anima­zione interna in cui consiste l'autentica essenza del ritmo. Quando si parla di ritmo è certamente in questione anzitutto il movimento: ma non un movi­ mento qualunque! Dobbiamo piuttosto pensare ad un movi­mento pulsante, che avanza in un coerente alternarsi di momenti di slan­ cio e di riposo. Perciò possiamo certamente riprendere nuovamen­ te le analogie rammentate in precedenza: che cosa può illustrare meglio una simile animazione ritmica se non, ad esempio, il pro­ cesso vitale della respirazione con la sua articolazione in inspira­ zione ed espirazione? E forse cominciamo ora a capire meglio per quale ragione si parli così spesso di ritmo per i battiti cardiaci, se pensiamo non tanto alla loro monotona successione, quan­to piuttosto alla sistole e alla diastole, al loro carattere di pulsazioni. Del resto, al di là di ciò, basterà richiamare l'attenzione sulla dif­ ferenza tra il movimento di un meccanismo e la naturalezza e la scioltezza del passo umano - già qui c'è ritmo, quel ritmo da cui la musica è compenetrata. 169 Forse possiamo ancora una volta ricollegarci all'esem­plarità della danza? Forse. Ma intanto dobbiamo tuttavia segnalare che l'approccio alla tematica del ritmo attraverso la danza viene talora sentito come tendenzialmente riduttivo, come se venisse suggerita una angolatura dalla quale non può che sfuggire in linea di princi­ pio il modo in cui la ritmicità si radica nella dimensione più pro­ fonda della musica. La nozione di ritmo così come può essere proposta a parti­ re dalla danza non è in fin dei conti la più povera, sarebbe proprio il caso di dire, la più pedestre? Il momento ritmico si presenta qui anzitutto come suddivisione e articolazione della durata, quindi in stretta connessione con la temporalità. In questione è perciò un particolare "parametro" del suono che contribuisce, insieme ad altri fattori, al risultato complessivo. Esso potrà in via di princi­ pio essere separato dal contesto e messo in evidenza in se stesso: come quando il ritmo viene materialmente fatto risuonare a colpi di tamburo accompagnando il brano musicale nel suo corso. Do­ vremmo forse attenerci ad una nozione di ritmo tanto parziale e tanto modesta? Tutto è stato predisposto in vista di un rifiuto. Eppure sulle motivazioni del rifiuto è bene fare la massima chiarezza, proprio in vista degli sviluppi, volti in tutt'al­tra dire­ zione, che il nostro argomento riceverà tra poco. In realtà; nella riflessione filosofica intorno alla musica, l'i­ dea che nel ritmo si abbia a che fare con la musica intera e non semplicemente con una delle sue componenti, per quan­to pos­ sa essere considerata importante, si ripresenta di continuo. Ciò richiede che la nozione di ritmo non solo possa estendersi al di fuori dell'ambito specificamente musicale, ma che essa possa ri­ cevere una generalizzazione tutta interna a questo ambito: solo in questo modo si può pretendere che essa possa valere come nozione che interessa l'essenza stessa della musica. Che cosa significa infatti affermare che tutta la musica è ritmo, che nel ritmo deve essere ricercato il fondamento della costru­ zione musicale? Affermazioni come queste, proprio nella loro 170 generalità, e del resto per la stessa indeterminatezza della no­ zione di ritmo, sembrano non comportare un impegno teorico troppo preciso, e talvolta la sensazione della loro vacuità e incon­ sistenza è in realtà più che giustificata. Tuttavia non sempre esse cominciano e terminano nell'entusiasmo che manifestano. Spesso il portare l'accento sulla fondamentalità della dimen­sione ritmica rispetto alla musica intera implica prese di posizio­ne significati­ ve, e non solo sul terreno della pura speculazione filosofica. Come abbiamo visto, il primo passo che viene effettuato, aprendo questa prospettiva di discorso, consiste nel focalizza­ re l'attenzione sul dinamismo del battere e del levare - c'è ritmo ogni volta che c'è questa relazione e questa differenza. Ma un'il­ lustrazione di questo dinamismo attraverso le differenze nel­l'ac­ centazione può valere al più come avviamento del problema. Ciò che importa è infatti il momento di generalità impli­cato in questo inizio, un momento che richiama lo sche­ma dell'inten­z ione vuota e del suo riempimento; di un'i­stan­za che chiede di essere soddi­ sfatta; oppure della domanda a cui segue una risposta, di uno slancio a cui subentra il riposo. C'è levare ogni volta che c'è tensione che deve scaricarsi, un senso sospeso che deve essere deciso, valenze aperte che debbono essere chiuse. Non può forse un "motivo" essere posto in relazione con un altro in modo tale che essi possano essere intesi secondo una simile modalità di rapporto? All'indecisione del "piano" si contrappone la decisione affermativa del "forte" - dunque c'è ritmo nei rapporti tra le configurazioni sonore, dove sono in gioco altezze e differenze di intervallo; ma c'è ritmo anche nel gioco dei rapporti di intensità, c'è ritmo nella risoluzione della dis­ sonanza nella consonanza, c'è ritmo ovunque, come dicevamo in precedenza, si possa rilevare la differenza del battere e del levare considerata nel suo senso generale. O più precisamente: ogni possibi­ lità compositiva, che rimanda a sua volta ai diversi parametri del suono, contribuisce al risultato complessivo, ed è questo risultato che è propriamente ritmo da parte a parte. 171 Si comprende allora in che senso abbiamo in precedenza osservato che sono qui in questione idee che non riguardano solo un modo generale di concepire la musica, ma anche proble­ matiche più specificamente attinenti alla "forma" della costru­ zione musicale. Sullo sfondo vi è certamente l'idea che la co­ struzione musicale debba essere una totalità compiuta, orga­ni­camente articolata, idea che può essere elaborata badando in particolare alle condizioni interne di questa organicità e di questa articola­ zione. In questo modo, il principio del ritmo - dunque la differen­ za del battere e del levare - può diventare principio di unità e di organizzazione. La tematica del ritmo si incontra e si sovrappone così alla tematica della forma, in quanto in essa si chiede una logica interna nella connessione del­le parti. Questa logica interna deve tener conto del fatto che la totalità qui in questione è una totalità diveniente. Ed è per questo aspetto che il problema del ritmo resta - nonostante tutto - collegato alla tematica temporale. Anzi è possibile sostenere che il suo principio sia da interpretare pro­ prio in stretto rapporto con l'idea di una totalità che si va facendo nel decorso temporale. Essa non c'è fin dall'inizio: ma allora è necessa­ rio che essa si presenti anzitutto in un'essenziale incompletezza - ecco lo slancio - e non come una incompletezza "morta", ma come un'incompletezza che si manifesta esigendo la propria integrazione. L'idea della forma che sembra imporsi con evidenza è dunque l'idea di una forma-che-si-chiude - ed ecco il riposo. L'opera è nel suo insieme niente altro che una cadenza. Questo principio dell'or­ ganizzazione che riguarda l'insieme è ovunque attivo nel corso dello sviluppo rifrangendosi in molteplici modi all'interno dei rapporti tra le parti. È il caso di rammentare in proposito, solo di sfuggita, le vecchie analisi formali delle connessioni motiviche tutte tese alla ricerca di "frasi" articolate in "domande" e "risposte": in esse, più profondamente dell'analogia linguistica che può certo interessare per il suo richiamo ad un senso poggiante sulla coeren­ za interna, agisce proprio una simile idea della ritmicità [81]. Eppure se riconsideriamo con attenzione questi sviluppi 172 non possiamo affatto dire che le oscurità e le difficoltà del pro­ blema si siano realmente attenuate. Nessuna proposta è stata infatti avanzata per un impianto preliminare della questione del ritmo che ci consenta poi di dare una risposta soddi­sfacente agli interrogativi che possono essere sollevati nel cor­so della nostra esposizione. Che ne è, ad esempio, dopo tutto quanto si è detto, del rapporto tra il tema del ritmo e quello della temporalità? In che modo questo rapporto può ancora essere considerato cen­ trale alla luce di una nozione generalizzata della dimensione rit­ mica, sia pure mantenuta al­l'in­terno dell'ambito musicale? Qual è il senso effettivo delle nostre osservazioni sull'organicità della costruzione musicale e sull'idea della forma a cui essa rimanda? Non traspare forse da esse l'azione di modelli strutturali parti­ colari che potrebbe limitare la loro portata fuorviando da una corretta impostazione dei termini del problema? In realtà si tratta di problemi che attendono ancora un'ef­ fet­tiva elaborazione §5 Nel corso della nostra esposizione, e in particolare nei nostri esempi, ogni volta che si è sottolineata la "vitalità" del ritmo, si sarebbe certamente potuto rammentare che già nel conio stesso della parola è impresso il rimando ad una fluente mobilità. Etimo­ logi­camente la parola riconduce al verbo greco r(e/w, scorrere, fluire. Eppure la nostra rimessa in discussione della nozione può cominciare proprio facendo notare che gli stessi esempi - con­ tenendo per lo più l'idea della ripetizione - segnalano anche la presenza di un elemento di rigidità, e persino di monotonia, come quando si tende a chiamare ritmiche, sequenze nelle quali lo stesso "motivo", in una cancellata o in una pavimentazione, vie­ ne più volte ripetuto senza variazioni oppure variato appena, e non in modo casuale, ma secondo una regola fissa. Identità, fissità, monotonia, ripetizione - tutto ciò può forse appartenere senza pro­ 173 blemi al fluire del ritmo? Sem­bra anzi che si debba essere colpiti da una dura opposizione, che tanto più diventa evidente quan­ do, messi da parte gli esempi organicistici, facciamo notare che la parola ritmo può essere applicata anche nel caso di movimenti inequivocabilmente meccanici: non si può forse parlare di ritmo per il rumore di una pressa, di un orologio, di un treno in corsa? Sarebbe in realtà un errore cercare di attenuare la portata di questa opposizione, magari tentando di suggerire che la rigidità "meccanica" possa essere soggettivamente appresa nella forma "organica" della pulsazione. Ci sembra invece molto più interes­ sante aumentare il peso di questa opposizione gettando uno sguar­ do sulla storia della parola che mostra con singolare chiarez­za fino a che punto essa faccia parte delle sue vicende interne. Abbiamo accennato or ora all'appartenenza della parola, dal punto di vista etimologico, a un'area semantica a cui appar­ tiene il verbo r(e/w. Questo etimo viene rammentato di continuo nella manualistica corrente, in realtà con scarso discernimento e senza effettiva cognizione di causa, come subito vedremo. Stando a esso, l'accento viene a cadere sulla coesione di un movimento privo di interruzioni e di lacune. La temporalità sembra dun­ que venire in questione anzitutto come temporalità continua - ciò è direttamente suggerito dall'im­ma­gine acquorea del ritmo. Tal­ volta questa connessione etimologica viene sostenuta anche da una sorta di ingenuo naturalismo nella formazione dei concetti, come se il pensiero celato nella parola fosse sorto anzi­tutto dalla contemplazione del moto delle onde marine che si infrangono sulla battigia. Ma il fatto è questo: il collegamento tra r(uqmo\j e r(ei=n tra il nome ritmo e il verbo scorrere proposto in una simile imme­ diatezza, la pura e semplice constatazione di una radice comune non fornisce di per sé alcuna interpretazione e può essere addirit­ tura fuorviante se non viene integrata da più complesse considera­ zioni riguardanti i contesti effettivi di impiego delle parole. Su tutto ciò ha richiamato l'attenzione Emile Benveniste in 174 un breve e notevole saggio intitolato La nozione di ritmo nel­la sua espressione linguistica [82]. Possiamo prendere le mosse - osserva Benveniste - pro­ prio da questo vecchio luogo comune che vede ritmo nell'on­da marina: ma anzitutto il mare non "scorre" - non si usa mai il ver­ bo r(e/w per le onde del mare. Ciò che scorre è, se mai, il fiume, e potremmo stabilire con effettiva convinzione un legame tra questo modo dello scorrere e il concetto di ritmo? In realtà, r(uqmo/j, nei suoi impieghi più antichi, non si applica mai nemme­no allo scorrere dell'acqua in genere. "Tutta l'inter­pretazione si basa su dati inesatti" [83]. Prima di Benveniste la questione era già stata segnalata con particolare decisione da Werner Jaeger, ed è assai singolare che nel saggio di Benveniste non vi sia traccia di un antecedente così importante [84]. In Jaeger la questione si pone nel commento di un verso di Archiloco, nel quale il poeta rivolge a se stesso l'e­ sortazione a non menare troppo vanto delle proprie vittorie ed a non lamentare le proprie sconfitte, dal momento che dobbiamo ben conoscere "quale ritmo tenga vincolati gli uomini" [85]. Commentando questo passo, Jaeger non ritiene di dover mette­re in evidenza il motivo di un'alternanza riferita alle sorti umane come ciò che potrebbe giustificare l'impiego della parola "ritmo", quanto piuttosto l'idea che questa alternanza rappresen­ ti per l'uomo un vincolo. Di conseguenza egli sottolinea il fatto che non bisogna vedere nel senso della parola "quel fluire che per la concezione moderna deve esser conseguenza naturale del­ la ritmicità e che suole appoggiarsi ad una derivazione linguistica da r(e/w, scorrere" [86]. Si tratta invece di ricercarne il senso proprio in direzio­ ne dell'idea di un freno, di un impedimento, idea che è presente nell'applicazione della parola in contesti non musicali ai quali d'altronde occorre riferirsi, secondo Jaeger, anche per illustrare in che senso deve essere intesa la nozione propriamente mu­ sicale. Questa linea interpretativa poggia naturalmente su vari 175 esempi, alcuni dei quali particolarmente netti. Così in Eschilo, Prometeo dice di se stesso: "io sono qui serrato in que­sto ritmo", alludendo alle catene dalle quali è "tenuto immo­bile"; mentre di Serse si dice, nei Persiani, che egli pre­tendeva di dare un ritmo alle acque dell'Ellesponto, signi­ficando con ciò l'idea di imbrigliarle, frapponendo al loro scorre­re una barriera [87]. Commenta Jaeger: "Evidentemente non si tratta di un'im­ magine presa dalla musica quando i greci parlano del ritmo di un edificio o di una statua e l'intuizione prima che sta a fondamento della scoperta greca del ritmo nella danza e nella musica non è del pari il fluire, ma all'opposto la saldezza e la rigorosa limitazio­ ne del movimento" [88]. Non flusso dunque, ma barriera al flusso; non fiume, ma diga. Non poteva forse essere maggiormente marcata l'idea che con la nozione di ritmo non si ha tanto a che fare con la liberazione di energie, quanto con il loro controllo. Le considerazioni svolte da Benveniste, pur prendendo le mosse dalla critica di una riconduzione ovvia del ritmo all'idea dello scorrere e dal riconoscimento della necessità di un'inter­pretazione più profonda, assumono tuttavia un'incli­na­zione sensi­bilmente di­ versa. In primo luogo, Benveniste dà il massimo rilievo al senso che la parola "ritmo" riceve in un contesto filosofico, e preci­samente nella filosofia atomistica di Leucippo e di Democrito [89]. Il pri­ mo punto interessante da mettere in rilievo è che questa parola non contiene, almeno in apparenza, alcun riferimento diretto al movimento. Piuttosto essa sembra riferirsi ad un tratto distintivo o ad un insieme di tratti distintivi che differenziano e contraddi­ stinguono le cose (e gli atomi) - quindi essa va annoverata tra le parole indicative della forma. Così una lettera alfabetica si con­ traddistingue da un'altra - il loro schema è diverso, e proprio que­ sta parola sxh=ma è impiegata da Aristotele per indicare il ritmo di cui parlano gli atomisti. Questo significato viene messo alla prova da Benveniste, a 176 partire da questo impiego filosofico specifico che egli considera particolarmente importante, sino a un'esemplificazione più ampia e varia. L'idea del ritmo come "forma distintiva", co­­me "assetto ca­ ratteristico delle parti in un tutto" [90] sembra po­ter essere conside­ rato come centro delle fluttuazioni di significato che consentono di fare riferimento sia all'aspetto esterno, richia­mando eventual­ mente le configurazioni visive, e in esse le pro­por­zioni e i rappor­ ti, sia ai tratti psicologici personali, quando la parola si richiama piuttosto a inclinazioni e disposizioni che formano il carattere, che del resto può essere inteso come lo schema psichico di una persona [91]. Ciò non significa tuttavia che la nozione di ritmo sia da considerare come totalmente priva di rapporti con il tema del movimento. Secondo Benveniste occorre infatti rendere in ogni caso conto della sfumatura di senso che suggerisce in determinati contesti l'impiego della parola "ritmo" in luogo di altre parole che indicano anch'esse la forma. Proprio in rapporto a questa sfu­ matura il legame tra r(uqmo/j e r(e/w che d'altronde "non si presta di per sé a nessuna obiezione", essendo la critica rivolta piuttosto "al significato inesatto di r(uqmo/j che ne era stato dedotto", può nuovamente essere ripreso e diventare signifi­cativo [92]. Si pensi allora non già alla forma come una figura stabil­ mente riferita ad un oggetto e che ha a sua volta la fissità e la stabilità di una cosa, quanto alla forma assunta da qualcosa di mobile e di fluido quando questa mobilità viene fissata all'istante. Per un simile concetto della forma è appunto particolarmen­ te adatta la parola r(uqmo/j. Così possiamo dire di un mantello gettato per avvolgere il corpo che esso assume una forma che è subito pronto ad abbandonare. La forma non è qui altro che mo­vimento rappreso, essa è ad un tempo rigida e precaria, immo­ bile e sospesa nel movimento da cui proviene e in cui subito può sciogliersi. Secondo Benveniste, questa sfumatura di senso rende conto da un lato dell'applicazione del termine nel quadro della filosofia 177 atomistica nella quale si è interessati a "descrivere delle 'dispo­ sizioni' o 'configurazioni' prive di stabilità o necessità naturali o derivanti da una sistemazione sempre soggetta a cambiamen­ to" [93] ; dall'altro prepara l'applicazione del termine nel campo musicale sancita da Platone che, con la sua famosa definizione del ritmo come "ordine del movimento", riprende e rinnova il significato tradizionale [94]. §6 Dopo aver tanto girovagato nei dintorni del problema, vogliamo ora tentare di chiarire entro quali termini esso potrebbe essere proposto in coerenza con la nostra impostazione di principio e rendendo esplicite le prese di posizione che erano certamen­ te già presenti nella discussione che abbiamo condotto fino a questo punto. È appena il caso di dire che questo chiarimento, seguendo del resto lo stile complessivo del nostro lavoro, non può andare oltre il progetto di stabilire un modo di approccio al problema, una sorta di preparazione ad esso, aperta ad ogni appro­ fondimento e miglioramento. Anzitutto converrà mettere in ombra gli impieghi extra­ musicali della parola "ritmo", o in ogni caso la presenza, anche nell'impiego in ambito musicale, di analogie che rinviano ad un piano che si trova al di fuori di esso. Per quanto questi impieghi possano essere ricchi di idee, non è affatto chiaro in che modo potremmo trarre profitto da essi, ed è perciò opportuno speri­ mentare la possibilità di un riesame che abbia fin dall'inizio di mira il problema del ritmo come un problema specificamente musicale. Debbono dunque essere messe da parte tutte quelle impostazioni gravitanti su motivi organicistici e vitalistici così come anche quelle concezioni che, riprendendo il tema dell'or­ ganicità, tendono a ricondurre la questione del ritmo nel quadro dei problemi della forma musicale in genere. Siamo invece interessati a portare in primo piano un aspet­ 178 to che, in tutte le nostre considerazioni precedenti, era so­lo sullo sfondo, se non addirittura respinto ai margini. Fin dall'inizio, e poi qui e là nei nostri sviluppi, è affiora­ ta, ma in negativo, una nozione di ritmo a tambur batten­te, che ci siamo affrettati a definire povera e modesta, quasi che un simile riferimento nuocesse allo sviluppo delle nostre consi­dera­zioni. Ma forse era già chiaro allora che una rimessa in discus­sione del problema deve, a nostro avviso, prendere le mos­se proprio di qui. Ora dobbiamo dire a tutte lettere: se vuoi sapere qualcosa intorno all'essenza del ritmo, chiedilo alle percussioni. Del resto non si dice forse che le percussioni sono stru­ menti ritmici per eccellenza? Si tratta di un'opinione comune che deve tuttavia essere apertamente rivendicata, dal momento che, nella riflessione filosofica, non riceve affatto in rapporto al pro­ blema del ritmo quell'importanza che sembra essere ad essa ga­ rantita in via di principio. D'altra parte, se ci venissero chieste le ragioni di quell'opinione, la risposta non sarebbe forse tanto pronta quanto lo è l'accettazione di quel luogo comune. Che cosa implica o che cosa insegna intorno al concetto di ritmo l'affer­ mazione che fa delle percussioni strumenti ritmici per eccellenza? E vi è persino un modo di frain­tendere, in una direzione inver­ sa, questo nostro punto di avvio, avanzando il sospetto che esso sottintenda la sottovalutazione, caratteri­stica­mente europea, delle straordinarie potenzialità espressive delle percussioni, che solo la produzione musicale più recente ha cominciato a porre in rilievo: come se affermando la loro eccel­lenza ritmica si affermasse anche un loro limite essenziale [95]. E invece non è così: si tratta semplicemente del fatto che se ci venisse chiesto di indicare uno strumento particolarmente "capace" in rapporto al ritmo, non indicheremmo il flau­to, il cor­ no o il violino, ma proprio il tamburo dalla pelle d'asino: e ancora meno. Se crediamo di avere ragione a rispondere così, dovremmo essere in grado di fornire le motivazioni da cui si pos­sa trarre 179 il filo conduttore principale per i chiarimenti di cui siamo alla ricerca. In che cosa dunque consiste quella peculiarità, quella diffe­ renza che suggerisce questa risposta? Un primo punto è subito chiaro: noi attiriamo l'attenzione non tanto su questa o quella peculiarità timbrica, anzi da queste peculiarità, che sono attinenti alla materia sonora, noi vogliamo esplicitamente prescindere: ma sulla possibilità del suono percussivo di essere anzitutto battito e colpo. Questa possibilità chiama in causa, ancora una volta, il tema della temporalità, ma secondo un'an­golatura interamente diversa rispetto a quella dalla quale quel tema è stato considerato sino a questo punto. Si è parlato in precedenza soprattutto della durata - e proprio per questo il tema della temporalità è stato propo­ sto prevalentemente secondo l'angolatura da essa suggerita: si è parlato dunque del suono eveniente e del modo di intendere il suo trascorrere. Invece il suono che è un colpo contiene una tendenza ideale all'i­stantaneo e ad esso possiamo attribuire un'im­portanza esem­­plare proprio per la sua contrapposizione al suono come feno­ meno di evenienza. Prendiamo attentamente in esame questo punto. Il tema dell'evenienza, lo abbiamo sottolineato più di una volta, è stretta­ mente connesso con quello della continuità. Ma all'uno e all'altro è certamente connesso anche il tema del silenzio. Naturalmente non avrebbe senso parlare del silenzio come di un fenomeno di evenienza, ma esso potrebbe indubbiamente essere concepito come il suo calco negativo, come una pura temporalità fluente vuo­ ta che il suono eveniente non fa altro che saturare senza lacune. Il tema della continuità era del resto già presente nell'immagine del foglio bianco, indifferenziato e perfettamente omogeneo, con cui sono cominciati tutti i nostri discorsi. A quell'inizio converrà ricollegarsi anche per illustrare ciò che abbiamo chiamato or ora l'esemplarità del colpo. Riportare il problema del ritmo al suono percussivo non significa soltanto ribadire l'appartenenza del problema all'a­rea 180 delle considerazioni attinenti alla forma temporale - appartenenza così spesso riconosciuta e altrettanto spesso attenuata e indebolita: con i loro colpi le percussioni ci avvertono, con una chiarezza che riusciamo a ottenere solo a questo punto, del fatto che una di­ scussione sul ritmo non può nemmeno avere inizio se si misco­ nosce l'importanza che riveste, per circoscrivere quella nozione, la discontinuità temporale. Il suono che rompeva il silenzio nelle nostre pagine iniziali era certamente anzitutto un colpo. Nella continuità non c'è ritmo, non c'è ritmo nel silenzio, naturalmente - ma nemmeno nel suono soltanto fluente. Do­ vremmo dire allora che c'è ritmo nel colpo, e addirittura nel singolo colpo che risuona nel silenzio? Siamo tentati di rispondere che il problema del ritmo comincia esattamente a questo punto. Il senso di questa risposta ha tuttavia bisogno di una precisazione: nel suo­ no che è un colpo noi non vediamo un modo d'essere qualunque del suono. Nell'istantaneità del suono percussivo, nel suo sbucare dal silenzio spezzando la continuità di un flusso temporale vuoto, noi vediamo essenzialmente l'accadere del suono, vorremmo poter dire: nel colpo un suono accade e contrapporre dunque al suono evenien­ te il suono che è caso ed evento. Infatti, tutto ciò che accade comincia e finisce - proprio in questo consiste l'essenza temporale dell'accadere. Qualunque suono è allora un accadimento, di qualunque suono possiamo dire che è anche un suono-evento. Eppure questa essenza temporale deve certo trovare la sua massima espressione nel col­ po, in quel suono che si contrae nell'istante, che appena cominciato è subito finito: cosicché esso non solo è soprattutto un evento, ma può valere come immagine concreta dell'accadere stesso [96]. Invece, il suono eveniente, che pur comincia e finisce, po­ trebbe essere tuttavia da sempre cominciato e non finire mai. Il suono che dura contiene nel suo senso quella libertà dal vincolo con l'accadere che conduce al pensiero filosofico della sublime e inudibile armonia delle sfere: questo pensiero insegna che se un suono appartiene all'eterno, allora certamente esso è un flusso perfetto, è continuità pura, e anche profondo silenzio. 181 E così, quando nel silenzio si leva il braccio del percus­sionista, questo gesto è permeato da sensi che vanno oltre il realismo della produzione pratica del suono. Peraltro, tutte le nostre conside­ razioni ci tengono in qualche modo legati a questo realismo: ciò significa che non siamo affatto disposti ad ignorare che il battere e il levare di cui abbiamo prima discorso accennando ad un dina­ mismo che farebbe parte dell'es­senza del ritmo si possono illustra­ re anzitutto rammentando l'atto percussivo. Indipendentemente dalle pratiche gestuali del solfeggio, che potrebbero essere molto varie, il gesto che produce il suono assume a sua volta l'esemplarità che possiamo attribuire al suono che viene prodotto. Nella tensio­ ne e nel dinamismo del gesto si possono cogliere una tensione e un dinamismo che riguarda il rapporto tra il suono e il silenzio - essi non sono l'uno accanto all'altro come stati meramente suc­ cessivi: ma la mano sembra levarsi ad eccitare il silenzio, prean­ nunciando che qualcosa sta per accadere. In questo essere del suono nella tensione del silenzio e poi ancora, nel levarsi della mano dopo il colpo battuto, del silenzio nella tensione del suo­ no, cominciano a delinearsi i contorni del problema del ritmo. §7 Non è affatto facile allontanarsi da uno strumento a percussione dopo aver battuto soltanto un colpo. Si sperimenta infatti una singolare coazione a ripetere, come se l'iterazione fosse impli­ cata nella stessa forma del gesto e il resistere all'im­pulso a rin­ novare i colpi, al gioco dell'"ancora una volta", richiedesse un autocontrollo troppo severo. Rinnoviamo, dunque, i colpi! Ma vogliamo farlo realizzando una successione nella quale essi si avvicendano monotonamente, a intervalli eguali, anziché in modo vario e mutevole, modifican­ do a piacere ora l'intensità ora la grandezza degli intervalli. Ora infatti vorremmo illustrare in che senso si dice che il tempo può essere battuto, che con i colpi possiamo scandire il tempo 182 - ed a tale scopo quella forma della successione rappresenta na­ turalmente la situazione elementare di riferimento. A dire il vero, il verbo "scandire" è caratterizzato da una certa fluttuazione del suo senso in rapporto alla varietà dei suoi impie­ghi correnti e poiché non intendiamo impegnarci in una discus­sione intorno a essi il riferimento a quella situazione elementare ci serve anche per determinarne l'impiego, e quindi per operare su di esso una convenzione restrittiva. In seguito, a questa prima accezione ri­ stretta, e in coerenza con essa, si potrà aggiungere una seconda accezione, più ampia. Naturalmente, espressioni come battere il tempo o scan­dire il tempo hanno un significato del tutto chiaro e privo di problemi per il musicista e ci si può chiedere persino se sia il caso di indu­ giare su di esse. La riflessione filosofica sulla musica, del resto, ha molto spesso e del tutto a torto trascurato le evidenze che possiamo trarre dalla pratica musicale, benché queste evidenze abbiano bisogno di essere riconsiderate con attenzione critica. Le domande che chiedono in che modo si parla del tempo in quelle formulazioni, che cosa significhi propriamente scandire il tempo, se la scansione appartenga all'area del problema del ritmo e in che modo, oppure non vi appartenga affatto, richiedono di essere af­ frontate con cautela e contengono più pro­blemi di quanto possa apparire ad un primo sguardo. In realtà possiamo ottenere le indicazioni essenziali co­min­ cian­do con il differenziare l'operazione che noi abbiamo conve­ nuto di chiamare scansione da un'operazione di misura­z ione, con la quale essa rischia di continuo di essere confusa. Non vi è dubbio intanto che scansione e misurazione siano nozioni molto prossime l'una all'altra, e in particolare che sia possibile operare una misurazione attraverso una scansione, e dunque attribuire allo scandire il senso del misurare. Proprio a partire da questa prossimità, possiamo tuttavia richiamare l'atten­ zione sulla differenza. Non disponendo di un orologio potremmo valutare una 183 durata battendo con una bacchetta a intervalli eguali e contan­ do i battiti. Vi è qui una unità di scansione che serve direttamente come unità di misura del tempo: il fatto che si tratti di un'unità di misura meno affidabile di quella di un orologio, questo può es­ sere considerato come un dettaglio privo di importanza. In ogni caso disponiamo in questo modo di una possibilità di valuta­zione, e potremo effettuare su questa base confronti quantitativi tra du­ rate, ad esempio valutare il tempo impiegato da due corridori per compiere lo stesso percorso. La scansione è qui interamente prospettata all'interno di un problema di misurazione, ma questa possibilità non toglie la profonda differenza di principio. Essa la si coglie anzitutto badando al senso dell'una e dell'altra opera­ zione e alle posizioni in esso implicite, cioè al modo in cui è intesa l'oggettività che esse hanno di mira. Nella misurazione la temporalità è posta essenzialmente come quantità e totalità chiusa. Questa totalità viene intesa come suddivisa secondo l'unità di misura prescelta. Si tratta dunque, nel misurare, di determinare il numero di queste unità - ed a questo risultato finale è esclusivamente interessata una procedu­ ra di misurazione. Nel caso della scansione, invece non c'è la posizione di al­ cuna totalità chiusa, non vi è la posizione di un tratto di tempo la cui quantità debba essere determinata. Di conseguenza, l'unità di scansione, benché possa fungere da unità di misura, non è affatto considerata essa stessa come una quantità determinata che può essere presa singolarmente e riportata come tale su una quantità più ampia altrettanto determinata. Ciò che è l'unità di scansione lo si comprende dal modo in cui essa è proposta: l'u­ nità di scansione non è mai semplicemente indicata indicando la grandezza di un intervallo temporale preso nella sua singolarità, ma attraverso la ripetizione ecceterata dell'intervallo che deve fun­ gere da unità, dunque dando alla scansione il suo corso. Ma se la misurazione mette capo ad una determinazione quantitativa, qual è il risultato di una operazione di scansione 184 quando essa non si trova sotto la presa di un intento misurativo? Che cosa si fa quando si scandisce il tempo? In certo senso, si tratta qui proprio di afferrare che cosa accade nella mente del direttore d'orchestra in quel momento così carico di tensione nel quale sta per levarsi il gesto che dovrà dare avvio all'esecuzione. Se una simile formulazione può sembrare troppo "psicologica", diciamo allora che vorremmo sapere che cosa avviene, in rap­ porto al problema temporale, proprio in quel momento - qual è la condizione da cui quel gesto ci separa e quale quella a cui essa dà inizio. Ponendoci domande come queste, appare ben presto chiaro che la temporalità presupposta è proprio la tempo­ralità del flusso, il tempo che scende a valle con tutti i suoi detriti - il tempo che passa. Quel gesto ha allora il senso di un gesto che imperiosa­ mente si frappone a questo flusso, quasi ordinandone l'arresto: ma è anche un gesto che annuncia che quell'andare senza anda­ tura sta per diventare un cammino. Il tempo passa. Ora bisogna determinarne il passo. Ed è proprio questo che anzitutto fa la scansione. Essa non misura il passare del tempo e nemmeno lo suddivide, ma lo fa diven­ tare un cammino. Annotazioni 1. Forse la distinzione proposta da Boulez tra tempo pulsato e tempo amorfo nel saggio "Tecnica musicale", in Pensare la musica oggi, Einau­ di, Torino 1979, pp. 87 sgg. può essere interpretata nel quadro delle nostre considerazioni, benché essa sia ottenuta in ogni caso seguendo una via ben diversa. Mentre il nostro filo conduttore è rappresentato dall'e­sperienza della temporalità e dal gesto concreto dello scandire, in Boulez quelle nozioni sorgono per trasposizione analogica all'interno di una riflessione su ciò che egli chiama "spazio delle frequenze". In rapporto ad una suddivisione regolare di esso, ottenuta attraverso l'i­ terazione di un'unità campione, Boulez parla di spazio striato - nozio­ ne che, trasposta analogicamente al tempo, dà luogo all'idea del tempo 185 pulsato, nel quale "le strutture della durata si riferiscono al tempo cro­ nometrico in funzione di una localizzazione, di una assegnazione di rotta - si potrebbe dire - regolare o irregolare, ma sistematica..." (p. 87); mentre allo spazio liscio, costituito a partire da una suddivisione irregolare dello spazio sonoro, può essere fatto corrispondere il tempo amorfo, che è appunto ciò che noi chiamiamo temporalità del flusso in opposizione alla temporalità scandita. "La pulsazione è per il tempo striato quello che il temperamento è per lo spazio striato" (p. 90). "Il vero tempo liscio è quello il cui controllo sfuggirà all'interprete" (p. 93). "Nel tempo liscio si occupa il tempo senza contarlo; nel tempo striato, si conta il tempo per occuparlo. Queste due relazioni mi paiono primordiali nella valutazione teorica e pratica delle strutture temporali; sono leggi fondamentali del tempo in musica" (p. 94). Cfr. Cap III par. 5, Annotazione 4. 2. Anche il problema della misurazione può assumere un significato importante in rapporto al modo di intendere il tempo della musica. Ba­ sti pensare alla nozione di mensura che riconduce naturalmente più alla problematica generale della misurazione che a quella della scansione (cfr. W. Seidel, Il ritmo, il Mulino, Bologna 1987, pp. 45 sgg.). §8 Cominciamo ora a intravedere il giusto modo di impostare il problema della specificità del "tempo musicale", un problema che non può per nulla trovare un'effettiva elaborazione, come così spesso si pretende, dalla contrapposizione del "tempo mu­ sicale" al cosiddetto "tempo degli orologi", al "tempo obbiettivo". Sembra allora subito naturale avviare una sorta di elogio nei con­ fronti del "tempo musicale" che andrà senz'altro ricollegato o ad una dimensione "ontologica" su cui si addensano molti misteri oppure al tempo degli affetti e della vita interiore; mentre l'a­ bominevole "tempo degli orologi" verrà denunciato come tem­ po "meccanizzato" e "spazializzato", come una pura astrazione eventualmente utile dal punto di vista dei bisogni pratici e cono­ 186 scitivi, ma irrimediabilmente lontano dall'autentica temporalità vissuta. Verso una simile impostazione abbiamo già mostrato di essere ostili: essa non fa altro che cogliere l'esistenza di differenze senza identificarne l'origine e il senso, e anzi propo­nendole in un contesto di discorso troppo semplice e fuorviante. Uno dei modi di affrontare questo problema, senza far pe­ sare sulla sua impostazione iniziale concezioni precostituite, è probabilmente quello di mettere in rilievo queste differenze a partire da considerazioni sulla terminologia musicale in uso. In essa la parola "tempo" ha una grande varietà di impieghi e spesso una grammatica così particolare da risultare priva di senso o in ogni caso del tutto intollerabile in rapporto alla parola "tempo" nei suoi impieghi correnti. Un maestro, ad esempio, può chiedere all'allievo di eseguire un esercizio in tempo più lento o più veloce - questa è un'e­ spressione di senso ovvio nella pratica musicale: l'allievo sa per­ fettamente che cosa deve fare, e anche l'ascoltatore può rendersi conto di che cosa è avvenuto una volta che quella richiesta è stata assolta. La terminologia sembra così suggerire che il tempo della musica sia diventato qualcosa che può essere liberamente modi­ ficato, qualcosa di plastico, di malleabile. Nel discorso corrente, invece, non ha affatto senso parlare di un tempo più lento o più veloce, e un orologio che accelera è semplicemente un orologio guasto. Un metronomo, d'altra parte, è qualcosa di molto simile ad un orologio. Tuttavia esso ha la singolare proprietà di essere guasto se, ad esempio, non mi è possibile farlo andare "avanti" o "indietro". E allora è certamente qualcosa di molto diverso da un orologio, o meglio, è impiegato (e inteso) in modo diverso. Ma non vi è forse in queste osservazioni qualcosa di molto simile ad un sofisma? Guardiamo infatti che cosa veramente accade! Se ci atteniamo a ciò che risulta da una descrizione obbiettiva, allora non c'è dubbio che non diremo che il tempo è diventato, ad esempio, più veloce, ma soltanto, e più ragione­volmente, che sono 187 state abbreviate le durate delle singole note. Un suono che durava un secondo, ora dura solo mezzo secondo: l'allievo esegue ora in sei secondi ciò che prima eseguiva in dodici, e noi udiamo lo stesso numero di note in un tempo minore. Questo è tutto: numero di suoni e quantità obbiettiva di tem­ po sembrano essere gli unici elementi obbiettivamente implicati nel problema. Di conseguenza, tutte le espressioni che, alludendo alla malleabilità del tempo, sono certamente incom­patibili con la grammatica corrente della parola, sarebbero da intendere come metafore inessenziali, dal momento che esse non colgono alcun elemento che appartenga alla realtà della situazione. Eppure si tratta di un modo di argomentare profondamen­ te sbagliato. Non già che non sia lecito fornire una descrizione obbiettiva, e nemmeno si può sostenere che quella descrizione sia scorretta: obbiettivamente accade proprio così. Ogni brano musicale occupa un segmento del tempo obbiettivo che può es­ sere ovviamente misurato dai nostri orologi: i suoni che fanno parte di esso sono di numero determinato e ciascuno ha la pro­ pria durata obbiettiva. Tuttavia fa parte della realtà della situazione anche il fatto che, quando odo ventiquattro suoni non odo che sono ven­ti­quattro, così come quando odo un suono che dura quattro secondi non odo che esso dura quattro secondi, anche se potrei, udendo, pormi il problema del numero dei suoni, così come potrei tentare una valutazione della durata di una nota espressa in secondi. La con­ seguenza di ciò è che la richiesta del maestro non è affatto for­ mulata in termini impropri, come se essa potesse essere meglio formulata in termini obbiettivi: invece la formu­lazione obbiettiva sopprime il punto essenziale, e preci­samente il riferimento implici­ to alla scansione, sostituendo ad essa il problema del tutto diverso di una misurazione. E mentre facendo riferimento alla scansio­ ne si propone soltanto il compito perfet­tamente determinato di un mutamento dell'unità di scansione, con quella sostituzione il compito stesso diventa indeterminato e impraticabile: la relazio­ 188 ne soggettivamente istituita con la tem­po­ralità non può essere soppressa, anzitutto perché in essa è in questione il tempo scan­ dito. Per tutti questi motivi si può fondatamente affermare che il "tempo musicale" non è il "tempo obbiettivo", che vi è tra l'uno e l'altro una profonda differenza di principio. Ma sarebbe anche erroneo risolvere l'intera tematica del "tempo mu­sicale" come se fossimo alla presenza di due nozioni di tempo che non han­ no nulla a che vedere l'una con l'altra e il "tempo musicale" fosse caratterizzato da proprietà e attributi specialissimi. In questione è infatti essenzialmente la distinzione tra una temporalità pensata nella sua obbiettività come passibile di operazioni di mi­surazione e ciò che della processualità temporale arriva a mani­fe­starsi nella concreta processualità della musica. §9 Nelle nostre considerazioni intorno alla scansione si effettua un passaggio particolarmente importante al fine di delineare la no­ zione di ritmo. Colpo dopo colpo, a intervalli eguali, abbiamo cominciato a scandire il tempo. Quest'azione così elementare supera inte­ ramente il terreno del semplice accadere dei suoni, degli eventi sonori "casualmente" risuonanti, e ci pone direttamente di fronte all'altro polo del nostro problema: attraverso la monotonia dell'i­ terazione si realizza una vera e propria schematizzazione della tempo­ ralità. Ora i colpi non fanno altro che materializzare uno schema proiettato sul decorso temporale. Il percorso che abbiamo seguito rappresenta così un modo elementare per introdurre le nozioni dell'evento e dello schema che possono essere considerati come casi estremi che circoscrivo­ no l'area della problematica del ritmo. Nel ritmo abbiamo a che fare con eventi sonori e schematizzazioni temporali. 189 Il compito su cui si può concludere la nostra discussione è ora quello di illustrare il senso effettivo di questa formulazione, richiamando attraverso di essa i motivi principali che sono in precedenza emersi. Vogliamo anzitutto notare che la parola "schema", che ap­ partiene del resto, come abbiamo visto, alla storia del problema, è stata da noi impiegata anzitutto in rapporto alla scansione; ma non è certamente vincolata ad essa. Considerata sotto questo riguardo, la scansione assolve la funzione di fornire una situazio­ ne esemplificativa estrema, una situazione dunque che, dando la massima evidenza alla nozione di schema, si presta partico­ larmente alla sua introduzione. Con schema vorremmo infatti intendere semplicemente qualcosa che viene ripetuto e per il fatto che viene ripetuto. Ad esempio, la lettera alfabetica H verrà detta schema qualora venga coimplicata, nel modo di in­ tenderla, la possibilità della sua iterazione: HHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH HHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH HHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH HHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH HHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH HHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH Uno schema ha dunque carattere di modulo nel senso in cui gli architetti usano talvolta questa espressione (e qui intravediamo nuovamente debordare la nozione di ritmo al di fuori del campo musicale). Questa nozione è esemplificata nel modo più stretto ed ele­ mentare proprio dalla scansione, nella quale l'unità schematica 190 di base, il modulo, è proprio null'altro che l'unità di scansione. Ma è naturalmente importante notare che possono darsi sche­ mi più complessi, che potranno eventualmente sovrapporsi alla schematiz­zazione indotta dalla scansione, così come un grafema più o meno complesso può sovrapporsi iterativamente ad una quadrettatura uniforme. È interessante inoltre sottolineare che, dopo aver introdotto la nozione generale di schema sulla base esemplificativa della scansione nel­l'ac­cezione ristretta del termine, è possibile proporre una seconda accezione nella quale viene operata coerentemente la sua generalizzazione. Con scansione potremmo allora intendere, in generale, un'operazione tesa a dare ri­ lievo ad una qualunque modalità di schematizzazione del decorso temporale. Annotazione Proprio per il fatto che in tutto il corso della nostra esposizione ab­ biamo scientemente evitato di sollevare il problema, di grande impor­ tanza storica e teorica, dei rapporti tra ritmo e "prosodia" e tenendo conto dell'accezione generale di scansione ora introdotta, è forse utile richiamare l'attenzione sulla definizione di scansione proposta da Mario Ramous in La metrica, Garzanti, Milano 1984, pp. 221-222, nella quale si accenna anche, al termine, ad un problema che può essere considera­ to come parallelo al problema musicale del fraseggio: "scansione, tipo di esecuzione che mette in luce la legge di distribuzione degli ictus o degli accenti e tutti gli altri fenomeni e figure che compaiono nel verso, permettendo il riconoscimento dei fatti metrici e ritmici, che, per la ragione di porsi a fondamento della sua metricità, gli sono pertinenti... Per quanto artificiale e con ufficio strettamente pro­pe­deutico... questa scansione non è operazione arbitraria, perché si limita a rendere palesi le regole di costruzione insite nei versi. Va tuttavia da sé che non si deve intendere la scansione come la lettura concreta di un verso, né tanto meno l'unica lettura 'corretta'. Al con­trario, l'esecuzione comporta il ri­ spetto di altri fattori (sintattici, semantici, eufonici, di legatura o spez­ zatura, ecc.), che assumono spesso rilevanza maggiore, e in ogni caso 191 può variare, entro certi limiti, da soggetto a soggetto". § 10 Vogliamo ora mostrare che le forme fondamentali di schematiz­ zazione sono riconducibili al duplice aspetto temporale del suono come evenienza e come evento. Come sappiamo, parlando di evenienza abbiamo soprat­tutto a che fare con il tema della durata, cosicché una sequenza qua­ lunque di suoni, uditivamente dominabile nella sua identità in modo da poter avvertire la sua iterazione, può essere consi­derata come un esempio di schema, e precisamente di uno schema che poggia sui rapporti tra le durate dei suoni da cui la sequenza è costituita. In questione è qui soprattutto la quantità di tempo, il fatto dunque che un suono può essere più lungo o più breve di un altro, può durare la metà, il doppio, un terzo, ecc. di una determinata unità assunta come unità di scansione. In effetti, mentre il par­ lare di quantità di tempo sembra attirare l'attenzione in direzio­ ne della misurazione, è opportuno ram­mentare le ambiguità già messe in evidenza nella discussione intorno al problema dello scandire e del misurare: anche gli schemi di durate vengono colti proces­sualmente e le considerazioni che abbiamo richiamate in precedenza per contraddistinguere scansione e misurazione si possono ripetere qui senza modificazioni. Sottolineare questo punto è evidentemente importante anche per richiamare l'atten­ zione sul fatto che uno schema di durate non è qualcosa di simile alla suddivisione di uno spazio dato in parti che intrattengono tra loro determinati rapporti, ma le strutture degli schemi ed eventualmente il loro vario avvicendamento sono componenti essenziali del dinamismo musicale. L'elemento ten­denzialmente statico non sta evidentemente nella struttura dello schema, ma nell'attualizzazione del carattere di schema, cioè nella sua itera­ zione. 192 Ma una forma fondamentale di schematizzazione può es­ sere ricollegata anche al tema del suono come evento. In essa si tratta proprio della differenza tra il battere e il levare nella quale si è così spesso voluto scorgere la quintessenza del ritmo, la dimensione ritmica per eccellenza. Questa differenza sembra tuttavia opporsi con tenacia e con successo a ogni tentativo di il­ lustrarne con chiarezza i termini ed è esposta, come abbiamo già visto, a un'estensione e ad una generalizzazione tale da rendere problematica la sua stessa consistenza. Attestandoci sul versante della pratica musicale, probabilmente non si incontrereb­bero trop­ pe obiezioni qualora si proponesse di caratterizzare la differenza del battere e del levare ricorrendo, con qualche spie­gazione integrativa, alla nozione di accento. Ma proprio nel mo­men­to in cui dovrem­ mo accingerci a quella spiegazione inte­grativa che dovrebbe evitare ogni malinteso, cominciano le difficoltà: ciò che si deve intendere con "accento", quando que­sta espressione viene im­ piegata in rapporto alla dimensione propriamente ritmica, resta profondamente oscuro dal punto di vista concettuale. Possiamo forse trarre in proposito qualche utile indica­zione dalla sua applicazione nell'ambito del linguaggio verbale? Non ne siamo troppo convinti. Certamente, tutti sappiamo che cosa fare quando dobbiamo porre l'accento sulla vocale di una parola: eppure non è affatto facile stabilire che cosa realmente facciamo quando operiamo così. Da un lato si affaccia subito l'idea che la differenza tra vocale accentata e non accentata pos­sa essere ridotta ad altri parametri obbiettivi indiscutibili, come l'altezza, la durata o l'intensità, dall'altro dobbiamo anche rico­no­scere che una simile riduzione apparterebbe eventual­mente all'ordine delle assunzioni ipotetico-esplicative, dal momento che la vocale ac­ centata viene colta come vocale accentata, e non dunque come suono più lungo, più intenso o più acuto, oppure come il risulta­ to di un'intera­zione complessa di questi fattori. Potremmo allora fare riferimento al linguaggio verbale solo per attingere da esso la nozione di accentazione, tanto chiara 193 quanto lo è a scopi pratici, domandandoci in che modo potrebbe essere concepita la sua trasposizione in ambito musicale. Volen­ do dare un senso alla differenza tra suono accentato e suono non accentato non potremmo forse semplicemente riportarla ad una differenza di intensità? Una simile decisione non man­che­rebbe certo di evidenza. E anche di ingenuità - come si osserverà su­ bito. Ciò che infatti deve subito essere insegnato è che l'accento "in senso ritmico" è qualcosa di diverso dal­l'accento "intensivo", cioè dall'accento ottenuto attraverso una qualunque pratica di aumento dell'intensità del suono. Il primo riguarda la forma di movimento di una sequenza di suoni internamente strutturata, il secondo invece la pura e semplice differenza del forte e del piano. Si affaccia così l'idea che all'"accento" in senso ritmico sia affidato ad una differenziazione eterea, evanescente, legata più al modo di intendere una sequenza che al modo in cui essa è fatta. È significativo a questo proposito il richiamo esemplificati­ vo, ripetuto infinite volte e diventato una sorta di luogo comune, all'onomatopea del tichettio dell'orologio: questa onomatopea che istituisce una differenza tra i battiti ("tic-tac") manifesterebbe una sorta di tendenza dell'orecchio ad animare ritmicamente, attra�� verso la posizione di una differenza soggettivamente indotta, una sequenza di suoni di per sé inanimata. Noi vogliamo invece guardare quell'ingenuità con rinnova­ to interesse filosofico. A ciò siamo del resto indotti dalla risposta che forse darebbero alla nostra questione le percussioni: con le percussioni, se mettiamo da parte la possibilità di operare sulla pura differenziazione timbrica, l'accento lo si ottiene soprattutto con la forza del colpo. In ciò dovremmo forse vedere un'ulteriore conferma di quella pretesa incapacità di fraseggio che sarebbe di per sé sintomo evidente di una nozione grossolana e triviale di ritmo di cui esse sarebbero portatrici? Al contrario: si pone qui la necessità di una riconsiderazione del problema dell'accentazione come intensificazione da un punto di vista interamente nuovo. Oc­ 194 corre del resto notare che, mentre è certamente giusto non con­ fondere l'accentazione "ritmica" con il puro e semplice aumento di intensità, sarebbe tuttavia sbagliato affermare che l'una cosa non ha nulla a che vedere con l'altra. Vi è invece tra differenzia­ zione ritmica e differenza di intensità una qualche importante forma di rapporto, come del resto è attestato dal fatto che un accento "intensivo" può rafforzare un accento "ritmico" oppure può entrare con esso in conflitto svolgendo in entrambi i casi un'importante funzione ritmica. Per avviare una simile riconsiderazione, è opportuno anzi­ tutto dare il massimo rilievo ad un aspetto che, per ragioni inter­ ne alla nostra esposizione, è rimasto fin qui un poco in ombra: si tratta della doppiezza dei suoni percussivi, che da un lato sono au­ tentiche sostanze sonore, concrezioni sonore piene e complete, nell'enorme varietà delle loro differenze materiali, dall'altro, pro­ prio in questa loro materialità e concretezza, possono essere intesi come rappresentativi di una trama astrattamente temporale. Ma allora una simile doppiezza si rifletterà anche nell'ambito del nostro problema. Perciò quando si suggeriscono la forza e la debolez­ za del suono come fattori che caratteriz­zerebbero la differenza dell'accento e della mancanza di accento, e proprio in rappor­ to alla dimensione ritmica, in ciò dobbiamo essere in grado di cogliere non già la pura differenza di intensità, ma il suo senso rappresentativo. Nel suono forte dobbiamo vedere un'enfasi posta sul suono, così come nel suono debole un'allusione al silenzio. A questo punto diventa chiaro in che modo possiamo for­ nire un'interpretazione del battere e del levare in termini essen­ zialmente temporali e in che modo una simile interpretazione può essere ricollegata al tema del suono-evento. Questo legame era naturalmente già presente quando abbiamo riportato quelle espressioni al gesto del colpire, inteso a sua volta non tanto come gesto concretamente effettuato, ma come gesto rappresen­tativo del rapporto dinamico ed energetico nel quale accadono suoni. 195 Tutto ciò si ripresenta ora in una prospettiva interamente nuova. Abbiamo mostrato che il parlare di accenti e di una schematiz­ zazione corrispondente non basta e che occorre invece cogliere nell'accentazione la presenza dell'opposizione e della tensione tra il suono e il silenzio. La nozione del suono come evento può allora essere richiamata per il fatto che la schematizzazione tem­ porale che ha al suo fondamento il battere e il levare è costituita, nella sua modalità più generale ed ele­mentare, dalla forma stessa dell'ac­cadere. È come se la verticalità del gesto del colpire venis­ se proiettata sull'orizzontalità del decorso temporale, prospet­ tandolo come alternanza possibile di suono e silenzio. Parlare di alternanza è per altro equivoco dal momento che suggerisce l'idea di un puro avvicendarsi di stati che si susseguono l'uno all'altro, mentre la stessa impostazione di principio del problema richiama l'attenzione piuttosto sul fatto che si tratta di momen­ ti dinamicamente protesi l'uno verso l'altro. Si ripresenta così nuovamente la tematica fondamentale del movimento tempora­ le inteso come un avanzare sopravanzante. Que­sta espressione può ora essere utilizzata con riferimento non tanto al concetto della durata, quanto al modo in cui gli eventi sonori trascorrono avvicendandosi tuttavia temporalmente secondo il dinamismo di una forma che richiama proprio l'immagine del flusso e del riflusso dell'onda marina sulla battigia. Annotazione Nella terminologia musicale corrente, per indicare le differenze del bat­ tere e del levare si parla di tempi forti e tempi deboli che si susseguono secondo la regola di una semplice alternanza. Sulla base delle nostre ultime considerazioni queste e­spressioni non possono non sembrarci particolarmente significative. Quelle aggettivazioni infatti non si riferi­ scono certo primariamente al tempo, ma al suono, ed è seducente per noi pensare che questo impiego sia dovuto proprio ad uno scambio tra suono e tempo, uno scambio che ci riconduce appunto al tema dell'al­ 196 ternanza suono/silenzio. § 11 Sono ora necessari alcuni chiarimenti, prima ancora che sul tema del ritmo, sulla distinzione fondamentale che ad esso fa da sfondo. Si tratta naturalmente della distinzione tra temporalità del flusso e temporalità del cammino in rapporto alla quale va segnalata la possibilità di un fraintendimento a cui può indurre il nostro stesso riferimento al gesto del direttore d'orchestra che dà l'av­ vio all'esecuzione. In quanto avevamo allora di mira il problema della scansione, era certamente giusto cogliere in esso il gesto che separa una temporalità puramente trascorrente da una tem­ poralità scandita. Ma è certamente estraneo al senso del nostro discorso ritenere che solo la temporalità scandita appar­tenga al "tempo musicale", come se in esso non avesse alcuna funzione il puro "passare" del tempo. Tutte le nostre consi­dera­zioni sono invece attraversate dalla convinzione che non vi sia, in realtà, al­ cun "tempo musicale" a sé stante, ma che il problema del tempo nella musica faccia tutt'uno con il problema dei molteplici modi in cui la musica, nelle concrete differenze delle opere, subordina alle proprie esigenze espressive le forme fenomenologiche della temporalità. È bene attirare l'attenzione sul fatto che in queste nostre considerazioni ci si dispone nettamente dal punto di vista del­ l'ascolto, cosicché parleremmo di tempo scandito solo, ad esem­ pio, se la scansione è effettivamente data sulla base del modo in cui la sequenza sonora è strutturata - cosa che naturalmente non significa che sia data anche un'effettiva successione di battiti. Ma non ogni sequenza deve essere strutturata in modo tale da esibire una scansione: essa può certamente anche essere caratterizzata, in rapporto all'ascolto, in qualche sua parte o nella sua totalità, dalla forma di un flusso temporale nel quale accadono even­ ti sonori a loro volta variamente strutturati dal punto di vista 197 del problema della continuità e della discontinuità. Ciò significa semplicemente che non è avvertibile nessuna scansione in corso, che le "pause" sono intese piuttosto come "silenzi" [97] - una determinazione puramente negativa che lascia aperte numero­ se possibilità di situazioni descrittivamente differenti. Di con­ seguenza, non ha particolare rilevanza ciò che accade, per così dire, alle spalle della mani­festazione sonora, nel modo della sua produzione. Ad esem­pio, un singolo suono tenuto "a lungo" è in ogni caso colto nella temporalità del flusso, anche se lo strumen­ tista lo realizza "contando". Un simile "contare" non è per nulla uno scandire, ma una semplice determinazione quanti­tativa di una durata. Analogamente non ha nessuna importanza il fatto che una determinata sequenza sonora sia realiz­zata facendo ricorso a para­ metri temporali obbiettivi, quindi al "tempo degli orologi", come nel caso delle composizioni al calcolatore, dal momento che essa avrà un certo risultato percettivo nel quale può essere o non essere implicata la scan­sione, e ciò unicamente sulla base della struttura della sequenza e quindi del modo in cui essa appare all'ascolto. Se poi si rammenta che la nozione di schema è stata in­ trodotta a partire da quella scansione, dando luogo del resto a un'estensione di quest'ultima nozione, le considerazioni prece­den­ ti possono essere riferite alla questione della schematiz­zazione in genere. In effetti non abbiamo mai detto che il tempo deve essere schematizzato, ma soltanto che lo può e che questa possibilità può essere realizzata in molti modi, possono darsi schematizzazioni temporali più o meno complesse, variamente stratificate, e anche schematizzazioni parziali, lacunose, variazioni improvvise e gra­ duali dei moduli, eguaglianze imperfette, simmetrie e asim­metrie, trasformazioni di vario genere, secondo regole più o meno rigide, e così via. Ciò vale in particolare per lo schema del battere e del levare: benché abbiamo proposto un'interpretazione che mostra come il dinamismo in esso implicato faccia parte della forma stes­ sa dell'accadere del suono, di cui esso può essere considerato - na­ turalmente situandosi al necessario livello di astrazione filosofica 198 - come una proiezione, tuttavia sarebbe sbagliato intendere una simile interpretazione co­me se essa alludesse a qualcosa di più e di diverso da una pura possibilità che può essere fatta valere in molti modi sul piano espressivo. Tutto ciò è utile per richiamare gli scopi che abbiamo perse­ guito nel complesso della nostra discussione sul tema del ritmo. L'intento che ci siamo proposti è stato quello di delineare un modo di approccio al problema del ritmo che riu­scisse a enucle­ are, al di là della ricchezza delle problematiche speciali che una teoria del ritmo effettivamente sviluppata deve essere in grado di dominare, i motivi generali che sono a esse soggiacenti, così come i concetti fondamentali che dalla nozione di ritmo sono chia­ mati in causa. Secondo la nostra esposizione, che ha operato una prima restrizione della tematica all'ambito musicale, e quindi un'ulteriore restrizione al­l'am­­bito delle considerazioni temporali­ stiche, i concetti intor­no ai quali gravita la nozione di ritmo sono quelli di evento, evenienza e schema. A loro volta questi concetti contengono una duplice opposizione interna. Anzitutto quella dell'evento e dell'evenienza, che fa tutt'uno con l'opposizione tra continuità e discontinuità. Il ritmo sorge dalla rottura della continuità temporale e quindi da un gioco vario e complesso tra continuità e discontinuità. A que­ sto proposito abbiamo cercato di mostrare come la complessità di questa problematica tenda a sfuggire nell'ac­centuazione dei motivi "organicistici" per il fatto che da essi può essere tratto un sospetto di principio nei confronti di ogni momento di rigidità, di meccanicità, di semplice eguaglianza, che sembra contraddire l'elemento "vitale" al quale il ritmo dovrebbe sempre e soprattutto dare espressione. L'enfasi così spesso posta sul "fluire" tende per lo più ad avere questo senso, e così anche a confondere i termini del grande problema della continuità e della discontinuità. Ma a questo punto abbiamo in realtà già indirettamente im­ plicata l'altro opposizione presente nella triade dei nostri concet­ ti fondamentali. Si tratta dell'opposizione tra l'evento e lo schema. 199 Tutta la nostra esposizione poggia sull'idea che attraverso questa opposizione si fissino i margini di applicabilità della nozione di ritmo: essa tende a diventare inapplicabile quando gli elementi di rigidità attinenti alle schematizzazioni ricevono la massima ac­ centuazione o quando, inversamente, non è più afferrabile uditi­ vamente alcuna forma, per quanto debole, di schematizzazione. A questo proposito è il caso di richiamare nuovamente l'at­ tenzione sul modo in cui è stata introdotta la nozione di scansio­ ne, ed a partire da essa, quella di schema. Dal colpo alla succes­ sione dei colpi si effettua il passaggio da ciò che è soltanto evento, e dunque puro accadimento, irruzione casuale, e ciò che è invece soltanto schema, e dunque vuoto ordinamento, forma necessa­ ria - il passaggio dal caso alla necessità, come se ciò che separa l'uno dall'altra fosse la semplice ripetizione. All'interno di questa impostazione possiamo rendere conto della tendenza così diffu­ sa a considerare la tematica della scansione, nel senso ristretto del termine, come una tematica che cadrebbe interamente al di fuori della problematica autentica del ritmo. Come abbiamo os­ servato or ora, questa tendenza non può tro­vare giustificazione in una pretesa fluidità del ritmo che sfugge alla presa. Possiamo invece sottolineare che il colpo costan­temente rinnovato, una sequenza uniforme di battiti può essere considerata ai margini del­l'applicabilità della nozione di ritmo, benché in questi mar­ gini si possa cogliere il profilo delle sue nozioni fondamentali, per il fatto che essa è costituita dalla pura ripetizione dell'iden­tico, perché dunque si presenta soltanto come una schematizzazione. Nell'iterazione dei colpi possiamo veramente dire che, in realtà, non accade proprio nulla (così come non accade nulla nel silenzio), mentre basterebbe una minima differenziazione interna affinché si possa dire che qualcosa è accaduto. L'assunto di mantenere la discus­ sione intorno al ritmo entro l'ambito delle considerazioni tempo­ ralistiche potrebbe essere formulato anche dicendo che ciò a cui si dà ritmo è il tempo stesso, ma dare ritmo al tempo non significa mettere in opera soltanto procedure di schematizzazione, poi­ 200 ché, come ci siamo espressi, il ritmo consta di schematizzazioni temporali e di eventi sonori. Inversamente l'attenuazione dell'ele­ mento sche­matico conduce alla dispersione casuale, alla singolarità isola­ta, alla pura differenza, alla frantumazione della discontinuità estrema alla quale la nozione di ritmo diventa di nuovo tenden­ zialmente inapplicabile. In questo senso possiamo dire che il ritmo sta tra l'evento e lo schema, volendo con ciò non tanto indicare una dimensione me­ dia che riproporrebbe in altro modo l'idea di un punto otti­male, e dunque di un'essenza autentica della ritmicità, quan­to confer­ mare l'appartenenza all'area del problema del ritmo di tutto ciò che sta dentro quegli estremi. 201 Capitolo terzo Spazio 202 203 §1 È osservazione spesso ripetuta che uno dei tratti caratteri­ stici della musica novecentesca, è la reazione al peso prevalente attribuito in passato alle "altezze", a cui subentra invece una pro­ pensione verso la pura sostanzialità materiale del suono che co­ min­cia come tendenza a lasciarsi afferrare dal fascino dei timbri, per spingersi coerentemente alla rilevazione di qualunque massa sonora, sia essa caratterizzata o meno dalla presenza di "nuclei og­get­tivi". Le "note" sono diventate sempre meno importanti. La nostra riflessione deve ora riprendere l'avvio proprio da questo punto: è qui in questione solo il tratto caratteristico di una tradizione, una sua inclinazione di cui possiamo liberamente modificare il verso oppure il problema è radicato più in profon­ dità, e addirittura nell'essenza stessa della musica, come certa­ mente una volta si sarebbe sostenuto? Forse potremmo affermare: la musica è essa stessa sorta da una selezione all'interno dell'universo sonoro, essa ha avuto origine dalla scoperta di suoni che si sono imposti alla nostra at­ tenzione uditiva emergendo dalla congerie dei materiali sonori da cui siamo raggiunti da ogni parte, proprio in forza del loro carattere di "oggetti". Fino a quando questa scoperta non è ancora stata effettua­ ta, i suoni in genere, pur nelle loro differenze, possono al più formare un godimento passeggero, nel momento in cui si of­ frono occasionalmente all'orecchio, ma nessuna attenzione co­ strut­tiva può indugiare presso di essi accennando alla possibilità di un progetto. Che cosa posso farmene del fruscio del vento o del rombo della valanga che precipita a valle? Nessuna cosa come la musica avrebbe forse potuto sorgere se fin dall'inizio ci fossimo attestati sul terreno su cui ora, dopo uno sviluppo millenario, ci siamo infine attestati: se ci fossimo disposti di fronte all'universo sonoro nell'atteg­gia­mento di chi 204 vuole impossessarsene per intero. Verrebbe fatto di dire: questa decisione della musica può essere presa soltanto nell'età della sua vecchiaia. Essa deve essere ricca di un passato che la motivi. Per questo osiamo affermare che non con i suoni in genere, ma con i suoni-oggetti ne va della musica stessa. Tuttavia ciò significa per noi soltanto questo: qualcosa di molto importante per la musica è chiamato in causa quando essi sono chiamati in causa. Chi potrebbe negarlo? Ciò che si impone allora non è affatto il gesto di appro­ priazione dell'universo sonoro come possibile totalità degli eventi sonori semplicemente esistenti, ma proprio l'idea di eventi sonori privilegiati che in qualche modo più degli altri meritano di esse­ re chiamati suoni e che si offrono da sé, nella loro differenza e nella loro distinzione, come se formassero un universo sonoro a sé stante. Naturalmente è il caso di soffermarsi un poco sulla por­tata di queste affermazioni. In che cosa consiste propriamente l'impor­ tanza dei suoni-oggetti? In che modo si può parlare, in rapporto ad essi, di eventi sonori "privilegiati" ed è realmente giustificato affermare, come abbiamo fatto or ora, che essi si offrono da sé nella loro differenza e nella loro distinzione? Prima ancora merita tuttavia qualche commento la nostra stessa terminologia che certamente si adatta solo ad un aspet­ to, per quanto essenziale, del fenomeno sonoro. Parlando di suoni-oggetti si attira indubbiamente l'attenzione, come abbia­mo spie­gato a suo tempo, sulla stabilità, sulla fissità, sulla permanenza di un nucleo che può presentarsi immutato in "corpi" differen­ ti. Stando all'interno di questo ordine di idee, abbiamo anche potuto proporre l'immagine di un centro puntuale, connettendo così il tema dell'identità a quello della semplicità. Ma già nella di­ scussione svolta in precedenza abbiamo accennato entro qua­ li limiti debbono essere intese queste nostre caratterizzazioni. Non si tratta affatto di evocare, con una simile terminologia, una dimensione di staticità e di frantumazione atomistica. Perciò 205 abbiamo rammentato il rilievo che assume in rapporto ai suo­ ni-oggetti la nozione di intervallo. Questa nozione non può essere proposta nella sua piena determinatezza di senso in rapporto a qualunque fenomeno sonoro, ma essa è applicabile nel suo sen­ so più stretto anzitutto in rapporto ai suoni-oggetti. Solo là dove ci sono suoni-oggetti si può parlare in senso pieno e proprio di un intervallo tra essi. Ciò significa, in modo più pregnante, che dati due suoni-oggetti essi possono essere considerati come estre­ mi di un intervallo, cosicché la nozione di intervallo può essere senz'altro proposta come prioritaria ed i suoni come punti che lo delimitano. A partire da questa possibilità fondamentale, i punti non sono prospettati in una pura separazione e assenza di rappor­ ti, ma al contrario essi sono strettamente integrati all'interno di un sistema di relazioni. Ciò significa che la molteplicità dei suoni è fin dall'i­nizio at­ traversata da un principio di organizzazione e che il suono singolo è sempre inteso come integrato in quella molteplicità sulla base di quel principio. La possibilità di un ordinamento scalare esemplifi­ ca anzitutto questa circostanza fondamentale: in un simile ordina­ mento ciascun suono occupa un luogo perfettamente determina­ to. Essa esemplifica anche in che modo, sul fondamento di questi suoni, nella loro semplice successione, cominci a delinearsi un per­ corso sonoro rispetto al quale i "punti" sono in realtà momenti che sostengono il suo sviluppo e ne tracciano la forma. Considerando la questione da questo lato, il parlare di suo­ ni-oggetti o l'impiego dell'immagine del punto può apparire for­ se inappropriata e persino fuorviante, in particolare quando le osservazioni precedenti siano integrate nel quadro del proble­ ma temporale. Dobbiamo allora anzitutto distinguere nettamente alme­no due modi di parlare della puntualità del suono - la puntua­ lità intesa come determinazione puramente temporale, che è con­ nessa all'istantaneità e che si contrappone alla durata, e la pun­ tualità che invece può essere attribuita al suono in quanto nucleo semplice di un corpo sonoro. Proprio per via di questa possibile 206 equivocità, abbiamo fatto riferimento alle altezze parlando pre­ feribilmente di suoni-oggetti piuttosto che di suoni-punti [98]. Nella durata il suono si sviluppa in linea sonora - lo stesso suo­ no in una linea che resta sempre uguale, mentre la linea so­nora andrà variamente mutando il proprio andamento quando essa prende forma sulla base di suoni di altezza differente. La vistosa durezza della nostra terminologia - gli oggetti, i punti - deve allora attenuarsi, deve sciogliersi nella mobilità della concreta figurazione temporale, e ciò significa che in tutto questo parlare di punti o di oggetti abbiamo in realtà di mira una nozione del suono che sta a fondamento della possibilità della melodia. I suoni di cui parliamo qui, che sono tanto importanti per la musica da poter essere proposti alla sua origine, sono quei suoni attraverso i quali un canto diventa possibile - essi sono suoni che cantano. Perciò si comprende da sé che, alle prime origini, gli uomini non potevano che essere colpiti dalla loro natura sem­plice ed elementare, che subito li contraddistingue rispetto alla dilatazio­ ne informe di masse sonore, alle colate di superfici e volumi di suono, ai confusi intrecci e agli oscuri grovigli sonori del mon­ do circostante: non potevano che esser colpiti dall'in­can­tevole chiarezza e nitidezza del disegno sonoro. Perciò si narra spesso dell'origine della musica dal canto degli uccelli: opera qui il fasci­ no della voluta fantomatica, libera e ordinata ad un tempo, che 207 sembra sottrarsi all'universo dei suoni subito inte­grati nelle forze della natura. Si comprende da sé che si possa distinguere tra il fruscio del vento e il canto del tordo eremita. Questi suoni che cantano sono anche incantevoli - lo ab­bia­ mo detto or ora. E di ciò vorremmo precisare il senso: quan­do il suono risuona, quando il disegno comincia a tracciarsi nell'aria, allora l'orecchio che lo coglie non può distogliersi da esso, ma viene afferrato e trattenuto nel suo movimento. Questo è l'incan­ to. Incantevoli sono i suoni che generano incanto, e dunque ti obbligano ad ascoltarli. §2 Vogliamo ora metterci nei panni di docili scolaretti alle prime armi. Ad essi il maestro insegna che ci sono note principali e note secondarie, che le note principali sono sette, che esse si chiama­ no così e così. Insegna inoltre che vi sono alcuni intervalli parti­ colarmente importanti, insegna a distinguere la consonanza e la dissonanza, ad ordinare i suoni in successioni scalari di un deter­ minato tipo, e molte altre cose ancora. I primi passi di questo insegnamento consisteranno cer­ to nell'addestrare l'allievo a "intonare" i suoni (gli intervalli), ad esempio con la voce oppure su uno strumento, e dunque a di­ stinguere tra suoni giusti, "intonati", e suoni "stonati", e quindi falsi. "Calante" - dice il maestro. Oppure: "crescente". E il dito cerca sulla tastiera del violino - più avanti, più indietro - la giusta posizione. Questo è importante: i suoni debbono occupare la loro giu­ sta posizione, e proprio in questa giusta posizione consiste il loro esserci autentico. Un suono è ciò che è solo se occupa esatta­ mente quel luogo. Altrimenti è un suono falso. È un suono mu­ sicalmente inesistente. Ma è molto importante anche che il giovane allievo non 208 faccia troppe domande, se vogliamo che impari qualcosa. Le cose stanno proprio così. Eppure le domande potrebbero essere molte: perché si di­ stingue tra suoni più importanti e meno importanti, tra suoni principali e secondari, e perché i principali sono proprio sette? E come mai si tratta proprio di questi suoni disposti secondo que­sto ordine di intervalli? In che cosa poggia la possibilità di di­stin­guere un suono buono da uno cattivo? Che cosa ci fa capire che siamo in presenza di un suono falso? Forse la smorfia del mae­ stro? Ed imparare a compiere questa distinzione significa imparare a fare questa smorfia da noi stessi al momento giusto? Domande in realtà molto serie. A ben pensarci vi è cer­ tamente qualcosa di molto singolare nell'idea della giusta posi­ zione e in tutte le altre nozioni ad essa connesse. Consi­derando la questione dal punto di vista degli intervalli, questa singolari­ tà balza agli occhi con particolare evidenza. L'inter­val­lo, che è certamente, in se stesso, un rapporto. deve essere in­vece consi­ derato percettivamente come qualcosa di analogo alla distanza spaziale tra due cose; e tuttavia questa analogia non può in nes­ sun modo essere estesa al problema degli intervalli ac­cettabili e inaccettabili. Lo stesso parlare, come abbiamo fatto or ora, di suoni musicalmente inesistenti, richiamandoci di con­se­guenza ad una nozione di esistenza che si appella alla validità, può ap­ parire come un enigma. Eppure non solo nella pratica e nell'ad­ destramento musicale corrente, ma anche in tutta una lunga e complessa tradizione teorica si è imposta con particolare forza la tendenza a considerare le note come entità determinate, come sette magnifici oggetti che esistono in se stessi e che debbono in certo modo essere scoperti e identificati nella loro posizione og­ gettiva. Le note ci sono veramente, e sono esat­tamente quelle - né più né meno. Ci sono come ci sono i pianeti. E così è anche dato e determinato il modo della loro successione. Se le cose stessero proprio così, tuttavia, non ci acconten­ teremmo certo del dato di fatto puro e semplice ma, di fronte 209 a circostanze assunte come obbiettive, cercheremo di dare una giustificazione altrettanto obbiettiva. Vi deve essere qualcosa nel­la natura del suono che è in grado di rendere conto della sele­ zione effettuata all'interno della molteplicità dei suoni pos­sibili a disposizione, e quindi dell'intero sistema di relazioni che si viene in questo modo a istituire. Una simile tendenza ad una giustificazione naturalistica è d'al­ tronde presente ogni volta che ci si richiama all'orecchio come ciò a cui spetta in ultima analisi la responsabilità di queste decisioni. Nell'orecchio dobbiamo cercare le risposte alle nostre domande. È l'orecchio che sa quale sia la giusta posizione. Co­me nel caso del gusto e dell'odorato, anche l'orec­chio ha le proprie preferen­ ze, e perciò può accettare o rifiutare, accogliere o respingere. Tuttavia questo richiamo non intende semplicemente appel­ larsi ad un altro dato di fatto, come se ci si limitasse a prendere atto di una sorta di istinto o di tendenza innata: si assume invece, esplicitamente o tacitamente, che questa tendenza, che è essa stes­ sa innestata in un processo naturale, si trovi in stretta connessione con il suono stesso, con la natura del suono. Solo se consideria­ mo la manifestazione sonora nella sua immediatezza, può sem­ brare che abbiamo a che fare con una pura reazione istintiva non ul­teriormente analizzabile: essa deve invece poter trovare motivo in ciò che sta al di là della manifestazione sonora e, al tempo stesso, a suo fondamento. Perciò il richiamo all'orecchio non ha tanto lo scopo di tentare una giustificazione mantenendosi sul piano delle caratteristiche percettive, ma sembra al contrario esigere un'inte­ gra­zione fisicalistica. Esso preannuncia spiegazioni naturalisti­che adeguatamente elaborate. Mentre tracciamo il profilo di un simile modo di considera­ zione, attraverso di esso si intravede anche la possibilità di seguire un percorso interamente diverso, si intravede un'op­po­sizione che è del resto ovunque presente e che ci accompagna, con poche varianti, lungo tutto il nostro cammino. Abbiamo parlato or ora di validità musicale, e abbiamo fatto 210 riferimento a determinati intervalli ed a modalità relazionali de­ terminate: ma in che cosa consiste questa determinatezza se non nel richiamo a ciò che vale all'interno della musica di tradizione europea? Secondo la precedente linea di discorso, le validità di fatto inerenti a questa tradizione riceverebbero una legittimazione transculturale e tenderebbero dun­que ad assumere la forma di una validità di principio in quan­to adeguate alla cosa stessa, e pertan­ to sottratte a ogni relatività. Si delinea così una possibile opposizione tra natura e cultu­ ra e conseguentemente tra un punto di vista assolutistico, connesso con l'ambito delle giustificazioni naturalistiche e un punto di vi­ sta relativistico che invece, senza negare l'interesse intrinseco delle spiegazioni naturalistiche, attira l'attenzione sull'autonomia del piano propriamente musicale, un piano che appartiene già fin dall'inizio al versante della cultura. Assumendo quest'ultimo punto di vista, si mette in eviden­ za l'attribuzione indebita al sistema scalare europeo del carattere di un modello rispetto al quale ogni altro sistema deve essere inteso come un'approssimazione più o meno rozza; al contra­ rio, contro una simile concezione, alla cui base vi è certamente l'idea dell'unicità in via di principio del sistema scalare, assume una portata esemplare proprio la varietà delle scale assunte come valide all'interno di tradizioni musicali diverse. Del resto già la storia complessa di questo problema nello sviluppo della stessa musica europea contiene indizi significativi che suggeriscono di non enfatizzare al di là del lecito l'orecchio - che non sembra af­ fatto veicolo di de­terminazioni assolute, ma al contrario mostra di essere esso stesso ampiamente soggiacente a ciò che è stato culturalmente convenuto. L'assunto di base deve dunque essere che tutte le scelte, quando siano state realmente effettuate all'interno di una cultura musicale, sono ammissibili, e dunque tutti i suoni sono di eguale valore, tutti gli intervalli altrettanto buoni. Di conseguenza non ha affatto senso parlare di una giusta posizione, o lo ha solo rela­ 211 tivamente ad una tradizione musicale. E allora, se non vi è una giusta posizione, non vi è nemmeno qualcosa come una "ten­ denza innata": l'orecchio non ha in se stesso alcuna speciale vir­ tù, e soprattutto non ha la virtù di fare valere ciò che il suono è nella sua fisicità profonda. Il tema dell'abitudine potrà qui essere nuovamente richiamato. L'ac­cet­ta­zione e il rifiuto dipenderebbe­ ro non tanto dalle caratteristiche uditive come tali, ma dal modo secondo cui queste caratteristiche sono strutturate in una rete di significati che possono determinare a tal punto la ricezione stessa da apparire quasi come una tendenza innata - come una seconda natura. Rappresenta invece un compito critico essenziale il mettere allo scoperto la costituzione di que­sta seconda natura attraverso l'abitudine. Si tratta di un dibattito il cui schema ci è ampiamente noto e sul quale ci siamo già a lungo intrattenuti nelle nostre consi­ derazioni introduttive. In esse, in particolare, abbiamo mostrato in che modo in quel dibattito si può innestare il tema della musica come linguaggio. La varietà delle scelte intervallari, l'eventuale ap­ posizione, all'interno di un sistema musicale, di indici di validità a determinate forme strutturali a preferenza di altre, tutto ciò non può certo sorprendere se l'accento viene portato sul carattere "linguistico" della musica. L'orecchio, a sua volta, l'orecchio teso verso il musicale, non ode soltanto, ma soprattutto ascolta compren­ dendo e respinge ciò che sfugge alla sua comprensione in quanto appartenente ad una rete di significati che gli è estranea: come quando siamo alla presenza di una lingua che ci è sconosciuta. Abbiamo anche notato in quelle considerazioni introduttive che l'efficacia polemica del punto di vista relativistico è così visto­sa che esso sembra senz'altro cogliere nel segno anche al di là di even­ tuali miglioramenti e approfondimenti argomentativi. Mentre non appena ci accingiamo a esporre, sia pure sommariamente, il punto di vista obbiettivistico e naturalistico, abbiamo subito l'impres­ sione di narrare una storia di altri tempi. E tuttavia proprio il fatto che possiamo senza sforzo dare l'alter­nativa per risolta in rapporto 212 a ciò che appare superficial­mente evidente, ci consente forse di esigere che l'argomen­to non venga senz'altro abbandonato e si ponga invece la domanda se la stessa problematica non possa ripresentarsi secondo una diversa angolatura, capace di guardare più nel profondo con esiti che non sono affatto già scontati in anticipo. §3 Riconsideriamo dunque i termini della nostra discussione prece­ dente. Vi era in essa un presupposto che sembra avere a mala­ pena bisogno di essere formulato e che resta alla base di impo­ stazioni anche molto diverse di proporre il problema. Que­sto presupposto consisteva nell'assunzione della stessa esistenza dei suoni (ovvero degli intervalli). Ciò su cui si discute è even­tual­ mente se abbia senso o che senso possa avere il parlare di suoni giusti o sbagliati, se vi siano intervalli notevoli, se, tenendo conto della varietà dei sistemi scalari esistenti, sia leci­to, o non lo sia affatto, operare tra essi una differenziazione in ordine ad una maggiore o minore aderenza alla natura del suono. Ma il presup­ posto apparentemente ovvio è che ci siano entità come i suoni puntualmente intesi, ovvero, in una formulazione equivalente, che ci siano intervalli delimitati da suoni. È come se fosse a nostra di­ sposizione un'intera costellazione di punti (e di possibili distanze tra punti) e che tutti i problemi siano in realtà riducibili alla que­ stione di quali tra essi debbano assumere validità. Del resto la nostra discussione ha preso l'avvio proprio dall'accento posto sulla discretezza. La nostra stessa termi­nologia - la metafora del punto, in particolare - attira l'atten­zione pro­ prio su una molteplicità discreta, come se ogni deci­sione dovesse essere presa in rapporto ad essa. Non è difficile tuttavia rendersi conto che questo modo di presentare le cose, mentre può certo essere utile tanto per cominciare, non può portarci oltre una de­ lineazione preliminare del problema e in realtà fuorvia dal suo centro effettivo. In effetti l'esistenza stessa dei suoni­-oggetti deve essere 213 messa in questione. I suoni, le note non ci sono senz'altro e fin dall'inizio. All'inizio c'è soltanto lo spazio sonoro. E il nostro tema fondamentale in rapporto al quale debbono essere nuovamente giocati i termini della nostra discussione non è la molteplicità discreta dei suoni, ma l'unità e la continuità originaria dello spa­zio sonoro che sta alla sua base. Naturalmente ci proponiamo di mettere in evidenza a poco a poco il senso e la portata di una simile presa di posizione. E anzitutto merita certo qualche chiarimento l'espres­sio­ne di "spa­ zio sonoro". Essa può essere impiegata, nell'am­bito musicale, in contesti e in sensi diversi nei quali tuttavia è sempre implicata l'idea di una totalità e in connessione più o meno stretta con essa l'idea di una struttura relazionale dalla quale la totalità stessa è attraversata e costituita. La nozione di spazio sonoro sarà inoltre tanto più pregnante quanto più forte è il richiamo all'elemento relazionale, poiché proprio a questo elemento si deve l'interesse della ripresa della metafora dello spazio. In realtà, l'accezione più ampia, ma anche nello stesso tem­po meno pregnante, di spazio sonoro comprende la totalità dei feno­­meni uditivi in genere. La possibile istituzione di nessi non è qui tuttavia tale da assegnare a qualunque fenomeno uditivo un luogo determi­ nato così da poter entrare in una relazione altrettanto determinata con qualunque altro elemento della totalità. Il mondo dei suoni, nell'accezione lata del termine, è un mondo aperto sia verso l'e­ sterno, quindi indefinito nei suoi confini, sia verso l'in­terno, quindi fondamentalmente privo di un'articolazione unitaria. Sappiamo già che le cose stanno diversamente nel caso dei suoni-oggetti. Infatti vi è in rapporto ad essi la possibilità di far valere un criterio di ordinamento. Questa possibilità è connessa anzitutto con la nozione di intervallo e con la differenza del grave e dell'acuto. Ciò significa, come abbiamo già sottolineato, che una qualunque successione di suoni-oggetti può in via di principio es­ sere riordinata scalarmente. 214 Notiamo ora che dati due suoni distinti - e dunque percet­ tivamente caratterizzati dall'essere l'uno più grave e l'altro più a­cuto - è certo immaginabile e anzi concretamente producibile un percorso sonoro che conduca dall'uno all'altro at­traverso suoni intermedi, scalarmente ordinati. Si consideri allora che cosa accade qualora gli intervalli tra essi vengano progressivamente ridotti: al di là di un certo limi­ te della riduzione, l'intera configurazione percettiva assumerà un aspetto interamente diverso. Alla successione scalare puntiforme subentrerà una variazione con­ tinua delle altezze, mentre quei suoni che prima erano estremi di un intervallo hanno ormai assunto il carattere di suono iniziale e terminale di un vero e proprio processo sonoro. Più precisamente: il suono iniziale è un suono che comincia a modificarsi e che di modificazione in modificazione si risolve nel suono terminale. Dai punti siamo così passati al segmento e potremmo allora comin­ ciare con il dire che la retta a cui questo segmento appar­tiene è ciò che chiamiamo spazio sonoro, in una seconda acce­z ione, più ri­ stretta, del termine. Vogliamo esaminare con cura ciò che accade in questo passaggio. Anzitutto è importante portare l'attenzione sul fatto che qui e stata introdotta una vera e propria nuova nozio­ ne di unità sonora - l'unità costituita dal glissare del suono iniziale fino al suono terminale. La continuità percettiva con la quale qui abbiamo a che fare deve essere intesa come una situazione quali­ tativamente diversa da una successione di punti - cosicché occor­ re evitare in particolare di sovrapporre ad essa interpretazioni 215 orientate in senso obbiettivo tendenti a ridurre la differenza tra continuo e discontinuo. Si pensi in pro­po­sito all'analogia della linea a cui ci siamo or ora richiamati. Dal punto di vista percettivo, una linea è una configura­zione visiva essenzialmente diversa da una successione di punti, anche se questa, vista di lontano, può apparire come una linea - i pun­ ti si confondono allora l'uno con l'altro. Ma il problema è che questa confusione non è affatto una confusione mia, non sono io che mi sbaglio, non compio un errore in­tellettuale, e nemmeno la mia percezione si sbaglia. Ciò che io vedo è il confondersi dei punti, cosa che mi fa dire: qui non ci sono punti affatto, ciò che vedo è proprio una linea. Allon­ta­nando lo sguardo, veniamo posti alla presenza di una formazione nuova che è irriducibile ad una successione di punti, benché vi sia qui obbiet­tivamente una simile successione e in generale una linea possa es­se­re pensata come una successione di punti. L'analogia con la linea ci è inoltre già servita per illustrare l'idea del movimento, e anche questa idea è naturalmente presente in rapporto ai suoni glissanti, ma in un'accezione profondamente diversa dai casi rammentati in precedenza. Abbiamo infatti parla­ to di movimento, in modo che si potrebbe anche ritenere impro­ prio, già per il suono singolo semplicemente perdurante, quindi in un'accezione riguardante la pura forma temporale. Inoltre si può parlare di movimento per una sequenza di suoni singoli, così da coinvolgere non solo la pura e semplice forma di sviluppo tem­ porale, ma anche le relazioni tra i suoni appartenenti alla sequen­ za. In un senso interamente diverso da questi casi già richiamati in precedenza, si può parlare di movimento in rapporto al suono glissante. In esso non dobbiamo senz'altro cogliere la molteplicità di suoni che pure potrebbe esserne estratta, quanto piuttosto un processo di continua modificazione che riguarda il nucleo del­ la sostanza sonora, cosicché potremmo parlare, in opposizione al suono-oggetto di suono-processo: all'identità immodificata del suo­ no-oggetto subentra ora il movimento del suono inteso come 216 alterazione continua, come metamorfosi e trasmutazione. Ora, come abbiamo già anticipato, la nozione del suono come segmento fluente che satura l'intervallo tra suono e suo­ no ci serve anche per operare il passaggio alla nozione di spazio sonoro. Tutto ciò che abbiamo detto in rapporto al segmento lo possiamo riferire alla linea a cui esso appartiene, cosicché anche e anzitutto in rapporto allo spazio sonoro possiamo parlare di una mobilità interna, di un dinamismo interno alla sostanza sonora. In rapporto allo spazio sonoro pos­siamo anzi proporre formu­ lazioni particolarmente radicali. Pos­siamo affermare, ad esempio, che i suoni nella loro distinzione e nelle loro differenze, e così gli in­tervalli intesi come delimitati da suoni puntuali, di tutto ciò si fa tabula rasa nello spazio sonoro. Alla molteplicità soppressa dei suoni subentra l'unità del Suono stesso come unità del divenire e attraverso il divenire, la sostanza sonora come sostanza trasmutan­ te. Si intravede così una complessa dialettica tra l'unità e la molteplicità, tra l'oggetto e il processo, che rimanda alla contrap­ posizione e alla relazione tra continuità e discontinuità. Que­­sto pro­ blema, di cui abbiamo già messo in rilievo la portata nell'ambito della questione della temporalità, si ripresenta qui nuovamente come un problema fondamentale di ogni filosofia della musica. Ad esso dovremo dedicare di qui in avanti tutta la nostra atten­ zione. §4 Si comprende certamente, alla luce di queste considerazioni, l'affermazione dell'apparenza tanto singolare secondo la quale è l'esistenza dei suoni e degli intervalli che deve essere anzitutto messa in questione. Il nostro problema ha infatti un ordine inter­ no e stando ad esso la priorità spetta certamente al continuo piut­ tosto che al discreto, nonostante il fatto che, per opportunità di carattere espositivo, abbiamo fatto riferimento anzitutto alla mol­ teplicità discreta per operare di qui il passaggio al suono glissante 217 e allo spazio sonoro. Come abbiamo messo in evidenza, quest'ul­ timo deve essere inteso come movimento del Suono stesso che contiene nelle sue mutazioni la totalità dei suoni (note) in generale possibili, cosicché ogni suono può essere considerato come fis­ sazione puntuale di una fase di questo movimento. Si noti come a tutta prima l'idea di un flusso continuo che sta alle spalle della molteplicità dei suoni sembri assecondare l'i­ stanza convenzionalistica. All'incauto che ci insegna che ci sono suoni giusti e sbagliati, e dunque anche successioni scalari privi­ legiate e che istituisce a partire di qui ulteriori differenze, preten­ dendo che esse siano radicate nel fatto sonoro stesso, potremmo controbattere puntando il dito sullo spazio sonoro. Vedi forse qui Spazio sonoro punti o intervalli privilegiati? Nel continuo non c'è questa o quella scala - o meglio: c'è sia questa sia quella, insieme a tutte le altre possibili. Ciò che abbiamo osservato in precedenza, quan­ do abbiamo parlato di tabula rasa di tutte le differenze, può ora essere interpretato come se con ciò si volesse anche dire: tutte le differenze sono imposte dall'esterno. E se tu chiedi in che modo lo spazio sonoro debba essere suddiviso, allora io ti mostrerò in quanti modi puoi suddividerlo. U­na suddivisione qualunque può essere fatta valere nel tuo linguaggio. Sappiamo già del resto, dal momento che un motivo ana­ logo era già emerso all'interno della nostra discussione della te­ ma­tica temporale, che quanto più stretta diventa la nozione del­ la continuità, tanto più si attenuano i momenti di sostegno per un'articolazione possibile. Questa stessa parola rimanda ad una connessione di parti, e dunque anche alla loro distinzione e se­ parazione, richiamando l'idea di un corpo che forma un'unità at­ traverso i propri arti, insieme connessi nei punti nodali. Nello spi­ 218 rito delle osservazioni precedenti, si potrebbe sostenere che nella continuità mancano quelle differenze che stanno necessariamente alla base di un'articolazione, cosicché solo la posizione, in via di principio, arbitraria, di quelle differenze rende possibile qualco­sa come un discorso musicale. L'errore non troppo difficile da mettere in evidenza è qui quello di assumere la continuità come se chiamasse in causa unicamente la perfetta eguaglianza e omogeneità, come se essa non potesse implicare invece anche, come certamente è il nostro caso, la transizione e la differenza di grado. Ciò che ci apprestiamo a sostenere è che lo spazio sono­ ro, pur essendo indubbiamente una nozione prima che un dato, pre­sup­ponendo così elementi di costruzione intellettuale, ha tuttavia il proprio fondamento nei suoni glissanti, e dunque in manifesta­zioni uditive concrete e che facendo riferimento ad esse è possi­bile mettere in evidenza alcune sue caratteristiche no­ tevoli che smentiscono l'idea di una continuità indifferenziata e infor­me circoscrivendo invece una struttura fenomenologica ben deter­minata. Una prima caratteristica notevole è subito a portata di mano e del resto non abbiamo in precedenza potuto fare a meno di accennarvi. In effetti noi abbiamo parlato della differenza del grave e dell'acuto e della possibilità di un ordinamento scalare, possibilità che ha naturalmente le sue radici nella forma ascendente o discendente del suono glissante. Esso sale - dal grave verso l'a­ cuto; e scende - dall'acuto verso il grave. Questa caratteristica po­ trà naturalmente essere estesa al­l'in­tero spazio sonoro ed essere dunque indicata come una sua caratteristica strutturale. Potrem­ mo parlare a questo proposito di progressività dello spazio sonoro, indicando con ciò ovviamente entrambe le possibili direzioni di movimento. La rappresentazione dello spazio come una semplice linea orizzontale potrebbe allora essere considerata fuorviante anzitutto per via della sua orizzontalità. In essa non si rende conto dello 219 scendere e del salire e dunque di ciò in cui consiste propria­men­te, dal punto di vista percettivo, la variazione con­tinua dell'al­tez­za. La considerazione della progressività sembra invece con­tenere il suggerimento della verticalità dello spazio sonoro, intesa non già in un senso astrattamente geometrico, ma proprio nel senso che essa riceve nella spazialità concreta dell'e­spe­rien­za, nella quale insieme alla verticalità viene subito prospettata la differenza tra il sopra e il sotto, tra ciò che sta in alto e ciò che sta in basso. Attraverso il tema della progressività si annuncia così una sorta di geografia dello spazio sonoro, in esso si può sommariamente distinguere una regione media che sta tra una regione inferiore e una supe­ riore. Naturalmente sappiamo già come potrebbe essere conte­stata la fondatezza di una simile geografia. Si farà infatti subito notare quanto sia singolare pretendere che la progressività, e quindi dif­ ferenze come quella del grave e dell'acuto, del sopra e del sotto, e così via, siano inerenti allo spazio sonoro quando la nostra stessa terminologia mostra un'inclinazione immaginativa che tradisce l'intervento soggettivo necessario per operare quel determinato conferimento di senso. Possiamo invece supporre fondatamente che l'allievo alle prime armi non possa trarre nulla dal fenome­ no uditivo come tale: di tutto ciò sarebbe respon­sabile proprio il maestro che non solo mostra una successione, ma nello stesso tempo parla e dice ora "scala", ora "salire" e "scendere", sugge­ rendo in questo modo agganci per associa­zioni che sempre più andranno rinsaldandosi nella mente dell'allievo al punto da sta­ bilire un modo di intendere il fenome­no uditivo a cui egli non sarà più in grado di sottrarsi. Quelle poche e semplici parole costituiscono brecce in cui irrompe tutta una tradizione. Una simile osservazione potrà essere eventualmente appog­ giata richiamando l'attenzione sulle differenze termino­logiche presso le diverse lingue che attesterebbero di per sé, come del resto sembra accadere nelle nostre coppie alto/basso e gra­ve/ acuto, modi profondamente diversi di "sentire" il suono. 220 Dal nostro punto di vista, invece, proprio quella inclina­ zione metaforica che può fornire il pretesto per uno sviluppo convenzionalistico può diventare una sorta di punto di forza per procedere in direzione opposta. Cosicché non si tratta affatto di attenuarne la portata oppure di tentare in qualche modo di celarla o mascherarla, ma al contrario di attirare l'attenzione su di essa conferendole la massima evidenza: la descrizione non può essere neutra per il fatto che non è neutro il campo su cui essa verte. Nel­ la terminologia il momento immaginativo deve intervenire per ren­dere conto di una direzione interna di senso. L'espressione "acuto", ad esempio, potrebbe essere assunta in fin dei conti come una pura espressione tecnica che caratte­ rizza convenzionalmente una certa regione dello spazio sonoro, repri­mendo ciò che in essa sembra richiamarsi al carattere speci­ fico dei suoni appartenenti a quella regione. Invece noi non solo mettia­mo in evidenza la sua inclinazione metaforica, ma avanzia­ mo anche la pretesa che in essa si manifesti il fenomeno stesso. Più precisamente: che l'espressione appartenga a quell'area di sensi immaginativamente coerenti nei quali può manifestarsi una tendenza che appartiene al fenomeno stesso. Perciò non ha nessuna importanza l'esistenza di fatto di una certa terminologia piuttosto che di un'altra. Ciò che importa è che si possa parlare in rapporto ai suoni "acuti" non solo della loro acuminatezza, ma anche della loro sottigliezza, snellezza, rapidità, e così via, secondo un'apertura e mobilità che si attie­ ne tuttavia alla logica delle sintesi dell'imma­gina­zione. A questa logica appartiene naturalmente anche il fatto che i suoni acuti si trovino in alto e non in basso, che essi siano sopra e non sotto e che dunque lo spazio sonoro inteso come flusso possa essere caratterizzato come movimento ascendente e discendente. Con tutto ciò non si vuole evidentemente fissare qualcosa di simile ad una pura determinazione oggettiva come se non fosse implicato un ineliminabile elemento di soggettività, quanto piuttosto si vuole segnalare la circostanza che qui quelle immagini fanno presa, esse 221 suggeriscono qualcosa, e il suggerimento cadrebbe nel vuoto se non trovasse un solido appiglio nella superficie fenomenologica della cosa stessa. Sarebbe tuttavia certamente un errore affidarsi alle imma­ gini alla cieca: esse attendono sempre di essere riordinate all'in­ terno di un filtro interpretativo. Si rammenti in proposito ciò che si era detto nel corso della discussione sul problema del tim­ bro. Riconducendo l'elemento timbrico al corpo del suono, dun­ que in generale all'ambito della materialità, avevamo da un lato messo in ombra la consueta associazione tra timbro e colore e dall'altro avevamo richiamato l'atten­zione sul fatto che proprio chiamando in causa la corposità del suono era possibile rendere conto della presenza di una valenza timbrica anche in rapporto alle altezze. Ma il tema qui dominante della variazione continua delle altezze, della metamorfosi del suono stimola certamente ad una ripresa del richiamo al colore. In realtà questa relazione tra colori e suoni ha sempre stimo­ lato la speculazione musicale, secondo direzioni comunque ric­ che di interesse anche là dove sfociavano in pura fantasticheria. Per quel che riguarda il nostro tema attuale, deve essere subito sottolineata l'evidenza con la quale si ripropone qui il problema della continuità: un determinato colore sembra proporsi senz'al­ tro come sfumatura di colore all'interno di una possibile sequenza di sfumature. Mentre nel caso dei suoni abbiamo a che fare anzitutto con una condizione di discretezza e la priorità del continuo deve in qualche modo essere esplicitamente teorizzata, nel caso del co­ lore invece questa priorità si propone subito con la massima evi­ denza ed è semmai la puntualità che tende ad apparire come una costruzione teorica. Da questo punto di vista è certamente si­ gnificativo il fatto che Newton ritenne di poter distinguere nella sequenza continua dello spettro cromatico esattamente sette co­ lori unicamente in quanto guidato dalla norma dei sette suoni della scala che gli era familiare [99]. Ciò che rende interessante questo 222 famoso errore non è solo la forza del pregiudizio di un fonda­ mento assoluto di una successione scalare certamente rela­tiva, ma soprattutto l'assunzione implicita della discretezza dei suoni come situazione fondamentale, assunzione che propone subito il falso problema di un conteggio del numero dei colori. Il riman­ do paradigmatico dal suono al colore sembra allora imporsi per il fatto che nel campo del colore abbiamo fin dall'inizio a che fare con sfumature, piuttosto che con punti. Naturalmente per noi una simile circostanza diventa motivo di riflessione in quanto, inver­ samente, attira l'attenzione sul problema della continuità dello spazio sonoro: anche nel campo dei suoni abbiamo anzitutto a che fare con sfumature. Lo spazio sonoro, così come lo abbiamo inteso, è un dispiegamento di sfumature sonore. E in particolare con­ verrà pensare soprattutto alle differenze del chiaro e dello scuro, non solo dunque ad esempi di sequenze cromatiche nelle quali un colore trapassa nell'altro, come il giallo nel rosso attraverso le sfumature di arancione. Proprio una sequenza di sfumature chiaroscurali, nella quale, è appena il caso di notarlo, la chiarezza appartiene all'area di senso dei suoni acuti, così come l'oscurità a quella dei suoni gravi, è particolarmente adatta a illustrare l'idea dello spazio sonoro co­me variazione continua dell'altezza e ci consente soprattutto di portare in primo piano un'altra caratte­ ristica notevole dello spazio sonoro, strettamente connessa con la sua progressività, di cui fin qui tuttavia non si è fatto cenno. Infatti non è ancora stato esplicitamente notato che il flusso sonoro non può procedere indefinitamente nell'una o nell'altra direzione, cosicché la progressione deve essere considerata come una progressione chiusa. Rispetto a questa caratteristica l'ele­ mentare rappresentazione lineare dello spazio sonoro - orizzon­ tale o verticale che sia - è del tutto inappropriata dal momento che non è in grado di rendere conto di questa chiusura e anzi suggerisce l'idea della prolungabilità infinita. Vogliamo cercare di spiegarci meglio. In primo luogo oc­ corre mettere in guardia dal fraintendere la nozione di chiu­sura 223 con l'esistenza di soglie di frequenza che delimitano il campo dell'u­ dibile. Al di sopra o al di sotto di queste soglie non si verifica al­ cun fenomeno uditivo, cosicché possiamo dire che il campo dei fenomeni uditivi è compreso tra valori frequenziali determinati, e in questo senso è un campo certamente limitato. Quando parliamo di chiusura dello spazio sonoro inten­diamo qualcosa di interamente diverso: essa non riguarda il rapporto tra fenomeno uditivo ed evento fisico corrispondente, ma il fe­ nomeno uditivo come tale. La chiusura deve essere intesa allora come chiusura fenomenologica, e dunque avvertita e colta nella percezione come un carattere del flusso sonoro stesso. Il senso di una simile affermazione, d'altra parte, non è subito chiaro. Dovremmo assumere che il flusso termini in un punto che si manifesta, nell'uno o nell'altra direzione, come un non plus ultra? C'è forse un ultimo suono che si annuncia dicen­ do: io sono l'ultimo e dopo di me nessun altro? Come fac­cio a sapere, anzi, a udire, che un suono non è solo quello che è, ma anche l'ultimo, o, nella direzione opposta, che non vi è altro suo­ no prima del primo? In realtà proprio queste domande mostrano che la chiusura come chiusura fenomenologicamente manifesta non può consiste­ re nella percezione di un primo o ultimo suono, ma piuttosto essa chiama in causa la forma intera dello spazio sonoro, una sua tendenza interna che è in esso ovunque operante. Infatti la percezione del­ la chiusura fa tutt'uno con la percezione di un movimento che avanza verso un limite superiore e retrocede verso un limite in­ feriore. Non si tratta dunque di un semplice sempre più, ma di un approssimarsi sempre più ad un non plus ultra. La chiusura della pro­ gressione è un carattere della progres­sione stessa ed è un carattere percepito in inerenza ad essa. È allora interessante notare come sia appropriata per illustra­ re la chiusura dello spazio sonoro proprio l'immagine del­la gra­ dazione chiaroscurale. Nulla può essere più bianco del bianco e più nero del nero; e ogni grigio in una sequenza dall'uno al­l'altro 224 mostra di essere una fase possibile all'interno di un movimento di approssimazione verso quei limiti invalicabili. Annotazioni 1. E. Mach, L'analisi delle sensazioni e il rapporto tra psichico e fisico (1896) tr. it., Feltrinelli, Milano 1975, p. 245: "La serie dei suoni si trova in un analogo dello spazio, in uno spazio ad una dimensione... esso è analogo ad una retta verticale o ad una retta che decorre nel piano mediano dall'avanti all'indietro. Mentre inoltre i colori non sono legati ai punti dello spazio, bensì possono muoversi nello spazio, e perciò noi pos­ siamo distinguere facilmente le sensazioni di spazio dalle sensazioni di colore, la situazione è assai diversa per la sensazione di suono. Una determinata sensazione di suono può presentarsi solo in un punto de­ terminato del menzionato spazio unidimensionale; tale punto dev'es­ sere ogni volta fissato con precisione se la relativa sensazione di suo­ no deve emergere chiaramente... Il fatto che l'ambito delle sensazioni di suono presenti un'analogia con lo spazio... si esprime già inconsciamente nella lingua. Si parla di suoni alti e bassi, non destri e sinistri, anche se i nostri strumenti musicali si adatterebbero meglio alla seconda deno­ minazione". 2. L'idea dell'assimilabilità della differenza di altezza alla chiarezza, e dunque alla differenza del bianco e del nero, è già presente in Brentano (Untersuchungen zur Sinnespsychologie, Leipzig 1907, pp. 101 sgg.), che si avvale nello stesso tempo dell'analogia con la saturazione per illustrare l'"identità" dei suoni in intervallo di ottava. Si potrebbe parlare infatti, in analogia con i colori, ad un tempo di differenza di grado di chiarezza e di parità nel grado di saturazione. Révész vede in ciò un'anticipazio­ ne del proprio concetto di "qualità sonora" e rammenta una possibile influenza di Mach su Brentano a proposito di questo punto (cfr. G. Révész, Grundlegung der Tonpsychologie, Leipzig 1913, p. 38). 225 §5 Passiamo ora a considerare la ciclicità dello spazio sonoro che rappresenta certamente un'altra caratteristica strutturale di fonda­ mentale importanza. Parlando di ciclicità ci richiamiamo natural­ mente al cosiddetto intervallo di "ottava" e ci accingiamo così a riprendere circostanze ben note, prospettandole tuttavia da un punto di vista affatto generale. Per questo formuliamo il proble­ ma notando che dato un punto qualunque del continuo - sia A0 - e procedendo verso la regione acuta (o grave) dopo un certo tratto ci imbatteremo in un altro punto - sia A1 - del quale è possibile dire che esso è lo stesso di A0, solo che è più acuto (o più grave). Di qui si può trarre subito che se, posto un A0 è posto an­ che un A1, essendo A0 scelto arbitrariamente nel continuo dei suoni, allora sarà posto anche A2, A3, e così via sino al limite dello spazio sonoro. Si noterà subito che non abbiamo potuto fare a meno, in questo nostro primo tentativo di realizzare un resoconto della si­ tuazione, di parlare di punti e naturalmente ciò dipende dal fatto che nella considerazione della ciclicità si annuncia un principio di suddivisione interna dello spazio sonoro: l'in­tervallo di ottava rappresenta una possibilità di segmentazione che ha fondamento nello spazio sonoro stesso, anzi, potremmo dire che, in quanto appartenente alla sua struttura, e in esso senz' altro operante. Nella nostra formulazione è anche implicato che un qua­ lunque punto sonoro - sia ad esempio B0 - compreso tra A0 e A1, sarà presente come B1 nell'intervallo di ottava A1 A2, e così in ogni altro. Ciò ha diverse e importanti conseguenze. In primo luogo siamo tenuti a fissare una distinzione che in precedenza pote­ va essere trascurata. Come abbiamo mostrato or ora infatti un punto qualunque fissato nel flusso può essere designato da una lettera provvista di indice, dove la lettera sta a rappresentare il 226 suono stesso considerato indipendentemente dalla sua iterazio­ ne ov­vero come "ciò che hanno in comune" i suoni iterati, men­ tre l'indice caratterizza la differenza della regione sonora, quindi la differenza dell'altezza. Dunque con A, B, C, ecc. possiamo indi­ care specie astratte di suoni, a ciascuna delle quali corrisponde una molteplicità di suoni indicizzati. I suoni indicizzati possono esse­ re considerati come esempi di suoni della stessa specie. Come esempio di A possiamo indicare A1, oppure, indifferen­temente, A2, e così via. E mentre in precedenza avevamo parlato di "note" per indicare i suoni-oggetti in genere, ora questo stesso termine potrà essere impiegato, in una seconda accezione, per indicare le specie di suoni astrattamente considerate. Quando dicevamo poco fa che A1 è lo stesso che A0, a par­ te la differenza dell'altezza, intendevamo dire propriamente che l'uno e l'altro sono suoni della stessa specie. La nota, nella seconda accezione del termine, è appunto la stessa. Un altro termine utilizzato talvolta per caratterizzare la no­ zione della nota differenziandola con chiarezza dalle altezze è quello di "qualità sonora" [100]. Questo termine sembrerebbe parti­colarmente appropriato in rapporto alla situazione dal mo­ mento che esso richiama l'analogia cromatica che sembra pro­ porsi anche sotto questo riguardo con particolare efficacia illu­ strativa. Alle differenze degli indici potremmo far corrispondere le differenze chiaroscurali, mentre la differenza tra le specie di suoni potrebbe essere illustrata dalla differenza cromatica vera e propria: una qualità sonora si distinguerebbe da un'altra così come il rosso dal giallo o il verde dal blu. Mentre in rapporto alla pura considerazione della progressività si poteva parlare di un continuo di grigi, ora, nella considerazione della ciclicità sembra irrompere l'intera varietà delle differenze cromatiche. La vecchia idea della corrispondenza tra note e colori che abbiamo già avu­ to occasione di rammentare sembra avere qualche soste­gno in alcune significative analogie strutturali. Il termine di qualità sembra inoltre imporsi per il fatto che 227 le variazioni di altezza sono in ogni caso variazioni del più e del meno, dunque in qualche modo caratterizzabili come quantitative, cosicché ciò che intendiamo con specie di suoni sembra contrap­ porsi a esse come l'elemento puramente qualitativo. Sulla base della ciclicità, si può affermare che un qualunque segmento delimitato da suoni che si trovano in intervallo di otta­ va può essere considerato come segmento rappresentativo dell'in­te­ ro spazio sonoro e di conseguenza lo stesso intervallo di ottava può essere definito come quel segmento del­lo spazio sonoro che lo rappresenta. Questa circostanza può essere illustrata dicendo che tutte le note ("qualità sonore") di cui consta lo spazio sonoro trovano esemplificazione in quel segmento. O anche: lo spazio sonoro non contiene un numero maggiore o minore di note di quanto ne contenga il suo segmento rappresentativo. Per questo motivo all'intervallo di ottava è senza dubbio lecito applicare la nozione di spazio sonoro in una nuova accezione, nozione che è per noi la terza. Va da sé che l'esistenza di un segmento dello spazio sonoro che è il suo segmento rappresentativo può essere consi­derata come una formulazione equivalente della sua struttura ciclica. Notiamo in margine che è possibile parlare di un centro dello spazio sonoro (in quest'ultima accezione), in quanto si dà all'interno dell'ottava un punto che è equidistante dagli estremi che la delimitano. Ciò che poteva inizialmente apparire come una condizione relativamente priva di complicazioni, si dimostra invece particolar­ mente complessa da descrivere. L'andamento progressivo che si manifesta nella variazione di altezza deve essere colto insieme all'andamento ciclico, dal quale può solo astrat­tamente essere separato. Ciò significa che viene percepita non la mera "identità" degli estremi del segmento rappresentativo in una sorta di effet­ tivo confronto di punto contro punto, ma il procedere del mo­ vimento verso una fine che "coincide" con il suo inizio - questo approssimarsi alla fine che è anche un ritorno all'inizio appartiene al senso della situazione percettiva, così come la percezione della 228 progressione o della sua chiusura come tendenza ad un non plus ultra. Del resto, tenendo conto di tutto ciò possiamo formulare una condizione di chiusura, in un nuovo senso, anche in rappor­ to allo spazio sonoro in questa terza accezione. Perciò una linea chiusa, sulla quale si potrà contrassegnare un punto come inizio e fine Spazio sonoro può fornire una rappresentazione dell'andamento del segmen­ to rappresentativo quando si prescinda dalla progressività. In essa si vuole portare l'attenzione soprattutto sulla "curvatura" dello spazio sonoro che annuncia il ritorno dell'identico. Volen­ do includere insieme al momento ciclico anche quello progressi­ vo (senza per altro dare una rappresentazione della chiusura della progressione), otterremo allora piuttosto, come nella rappresen­ tazione proposta da Révész, una linea spiraliforme che si eleva nella terza dimensione. Ogni punto sulla spirale è proiezione dei punti della cir­ conferenza del cerchio che vale ora come rappresentazione del­ la totalità chiusa delle "qualità sonore" come tali, astrattamente considerate come indipendenti da qualunque riferimento alle al­ tezze [101]. In questa rappresentazione appare anche con evidenza che il punto in cui la progressione modifica il proprio andamento coincide con il centro dello spazio sonoro. 229 Spazio sonoro (secondo Révész) Annotazioni 1. In realtà la figura proposta da Révész per lo spazio sonoro ha un im­ portante precedente in M.W. Drobisch che argomenta intorno ad essa in "Über musikalische Tonbestimmung und Temperatur", in Abhandlungen der math. phys. Classe der Kön. Sachs. Gesellschaft, Leipzig 1855 (debbo questa segnalazione a R. Casati). 2. L'impiego dominante del termine "spazio" in questo capitolo non arriva ad abbracciare lo spazio inteso concretamente come ambiente in cui la musica risuona, e dunque in esso non si parla dell'ampia pro­ blematica che a quella nozione è connessa e che ha suscitato grande 230 interesse in particolare nella musica novecentesca. Significativi contributi sull'argomento sono stati proposti da D. Carpitella, A. Tamba, E. Fu­ bini, H.W. Heister, A. Negri, J. Kondo, G. Manzoni, A. Melchiorre, F. Fabbri, L. Pestalozza durante il seminario di studio del XXI Festival Pontino di Musica tenuto a S. Felice Circeo nei giorni 13-14 giugno 1985, i cui atti sono stati raccolti e pubblicati da R. Pozzi con intro­ duzione di L. Pestalozza con il titolo La musica e il suo spazio, Quaderni di Musica/Realtà, Unicopli, Milano 1987. La varietà degli argomenti trattati mostra che il tema può essere affrontato da una grande molte­ plicità di punti di vista e ciò determina del resto una certa difficoltà nel­ la sua delineazione teorica. In questione sono qui certamente anzitutto i luoghi in cui la musica viene di volta in volta eseguita - il teatro greco, la chiesa, la corte, il teatro d'opera, la sala da concerto, ecc. - quindi la spazialità reale, architettonicamente delimitata, con l'intero ambito di questioni attinenti l'"ottimizzazione" della ricezione del suono che im­ pongono decisioni sulla forma dello spazio, sulla localizzazione in esso delle fonti sonore, sulla disposizione degli ascoltatori, e l'eventuale ri­ corso ad artifici tecnici tendenti a eliminare o a ridurre effetti acustici indesiderabili, ecc. Occorre notare che se la spazialità fosse considerata esclusivamente da questo punto di vista, essa riguarderebbe soltanto la contingenza del suono, il fatto che esso risuona in ambienti determina­ ti, con i loro pregi e difetti acustici - riguarderebbe dunque il suo ac­ cadere empirico, di cui ci si potrebbe relativamente disinteressare assu­ mendo semplicemente che l'ese­cu­zione debba essere compiuta in ogni caso in luoghi "idonei" e in condizioni acusticamente "ottimali". Di fat­ to l'attenzione esclusiva alla temporalità può talvolta rappresentare un indizio che segnala la messa al margine proprio del fatto che il suono è un evento empirico-reale e in forza di ciò esso entra in relazione con lo spazio. Considerazioni sulla provenienza e sulla diffusione del suono fanno parte della fenomenologia del suono in genere; e d'altro lato, gli stessi problemi di "ottimizzazione" hanno un versante fisico-oggettivo, ma anche un versante culturale-soggettivo e quest'ultimo ha una fun­ zione tutt'altro che marginale nella determinazione di ciò che si deve intendere di volta in volta con "ottimizzazione" della ricezione sonora. 231 La questione della spazialità nella musica si propone allora come una questione interna al fenomeno musicale e alla sua portata simbo­ lico-espressiva ed a questo punto lo spazio comincia con il diventare materiale della musica, come si esprime G. Manzoni nel saggio "Lo spazio come materiale della musica", in op. cit., pp. 80 sgg. Ma vi sono naturalmente molti modi in cui ciò può accadere: ad esempio, mante­ nendo la presa sulla spazialità reale, come nella fantasia della città che suona, di cui si parla nel saggio di Manzoni; oppure ponendo il pro­ blema in termini di effetti spaziali interni al fenomeno sonoro, e in tal caso la spazialità reale potrà certamente essere "messa tra parentesi". Dopo l'avvento del­la stereofonia e prima ancora della radiofonia (con i suoi bisogni di manifestazione dell'elemento spaziale) che hanno agito da stimolo in rapporto a questa direzione della ricerca musicale - come sottolinea molto giustamente F. Fabbri nel saggio "Il mezzo elettroa­ custico, lo spazio musicale, la popular music", in op. cit., pp. 96 sgg. - non può certo destare sorpresa l'affermazione secondo cui il sussistere di uno spazio reale non è affatto una condizione per il prodursi di un effetto spaziale - anche se è diffuso l'equivoco che un'apparecchiatu­ ra stereofonica non faccia altro che "imitare" il risuonare della musi­ ca nello spazio. Di fatto essa fa qualcosa di diverso, e cioè fa apparire l'elemento spaziale nel fenomeno sonoro e lo fa apparire in un modo che non è per nulla garantito dal puro accadere empirico-spaziale del suono. Il presupposto non sempre abbastanza esplicito nelle discus­ sioni sull'ar­gomento è che l'effetto che annuncia la spazialità all'interno del puro fenomeno sonoro riguarda fondamen­talmente la profondità e le manifestazioni ad essa connesse. Ciò corri­sponde del resto al fatto che la profondità è la dimensione costitutiva fondamentale della spa­ zialità. L'esperienza dello spazio è soprattutto esperienza del "vuoto" e del "profondo". Cosicché il problema della stereofonia è quello di fare avvertire questa profondità nello stesso fenomeno sonoro, e in questo senso sarebbe forse più giusto dire che in essa si avverte lo spazio nel suono, piuttosto che il suono nello spazio. Si tratta di un problema che va chiaramente oltre una tematica della spazialità nella musica che comincia a delinearsi a partire dall'impiego di metafore spaziali oppure 232 dal reperimento di analogie strutturali tra forme spaziali e forme mu­ sicali (cfr. A. Melchiorre, "Lo spazio come forma e materia della mu­ sica", in op. cit., pp. 88 sgg.), anche se non è sempre facile tracciare tra questi diversi ambiti della questione una chiara linea di demarcazione. Nella nozione di Varèse di proiezione del suono si propone l'idea di un movimento del suono inteso come un movimento vero e proprio del suono nello spazio profondo - un'idea che richiede che il suono venga concretizzato e prospettato come un corpo, come una massa capace di spostarsi attraverso lo spazio, in un senso che non può essere banal­ mente ridotto allo spostamento effettivo della fonte sonora, anche se un simile movimento reale può forse essere annoverato tra i mezzi per conseguire quell'effetto fenomenologico. Cosi Varèse stesso rammenta che l'uso di sirene in Ionisation e Amériques ha in particolare la funzione di manifestare questo movimen­ to attraverso lo spazio (Il suono organizzato, Edizioni Unicopli-Ricordi, Milano 1985, p. 151), alludendo ad una concezione della musica come "qualcosa di spaziale, come un insieme di corpi di suoni" proiettati nel­ lo spazio (ivi, p. 154), anche se "si trattava ancora di un trompe-l'oeil, di un'illusione uditiva, per così dire, e non di qualcosa di letteralmente vero" (ivi, p. 152). Vorrei infine richiamare l'attenzione sul saggio di A. Tamba, "Spazio teatrale e spazio psicologico nel teatro Nô", in op. cit., pp. 23 sgg., nel quale il peculiare impiego della voce nel teatro Nô viene ricollegato alla estetica dello Yûgen. Con particolari tecniche vocali si cerca di ottenere "timbri oscu­ rati e gravi, che dànno una sensazione di vastità, di profondità, di calma e di mistero". Analo­gamente, la maschera assolve lo scopo di rendere "la voce più grave, profonda e misteriosa all'ascolto". Si può certamente parlare anche in questo caso di un effetto spa­ ziale nell'accezione in cui ne abbiamo parlato in precedenza, un effetto che è apertamente subordinato ad un intento espressivo, come è segna­ lato appunto dai legami con l'estetica dello Yûgen, dove Yû significa "un vasto spazio, incommensurabile, profondo e misterioso" e Gen si­ gnifica "cupo e profondo". 233 3. Nel saggio di P. Boulez, "Tecnica musicale", in Pensare la musica oggi, Einaudi, Torino 1979, pp. 30 sgg., che deve essere letto come un mani­ festo del serialismo integrale, più che come un testo rivolto alla rifon­ dazione della teoria musicale (problema che peraltro esso contiene), lo spazio viene in questione sia come ambiente del suono sia come siste­ ma di relazioni astrattamente considerato. Può tuttavia sembrare sin­ golare che non si ritenga né necessario né opportuno dedicare qualche parola per fissare la differenza, ma ciò dipende certamente dal fatto che, secondo lo spirito dello strutturalismo logiciz­zante che caratterizza que­ sto saggio, si dovrebbe mirare proprio al superamento di questa diffe­ renza, riconducendo (più o meno forzo­samente) situazioni percettive implicanti in varie forme lo spazio reale (rapporto locale tra ascoltatore e fonte sonora, pluralità delle fonti e loro dislocazione, effetti di mobi­ lità del suono da un punto all'altro dello spazio circostante, ecc.) sotto concetti vuoti e applicabili come tali a ogni altra dimensione del suono. Si approfitta così, seguendo una metodologia ovunque messa in opera, di ogni possibile riferimento analogico, non già allo scopo di ottenere approfondimenti descrittivi, ma a quello di operare generalizzazioni e subordinazioni concettuali. All'interno di un simile punto di vista che sembra ricercare proprio in un fondamento concettuale comune la legittimazione dell'impiego della spazialità come parametro musicale, è naturale che si tema un im­ piego "aneddotico" o "decorativo" della dimensione spaziale - "non per nulla si citano sempre come antenati Berlioz e i veneziani, cioè il compositore più esteriore e quelli più decorativi" (p. 64) - un impiego che minaccerebbe di distogliere l'attenzione che deve essere interamen­ te assorbita dalle "strutture stesse" (p. 66). In particolare, a proposito degli effetti di movimento sonoro ottenuti ricorrendo alla mobilità delle fonti, degli esecutori, ecc. si sottolinea il rischio di una "teatralizzazione" priva di scopo, che sarebbe giustificata solo là dove vi sia un teatro capace di operare un'integrazione effettiva tra gesto, parola e suono, come nel caso del teatro Nô che "ci fornisce di questa concezione un'ammirevole forma tradizionale" (ivi). 234 Per ciò che riguarda lo spazio sonoro definito in rapporto al sistema delle altezze ("spazio delle frequenze"), assume particolare rilievo la distinzione tra continuità e discontinuità. Ma la continuità di cui qui si parla non solo non è presentata dal "percorso continuo effettuato da un punto ad un altro dello spazio" (p. 83) - e si intendono qui i movimenti sonori apparenti nello spazio-ambiente, i "glissandi dello spazio" secondo un'espressione precedentemente impiegata (p. 64) - ma nemmeno, a quanto sembra, dalla variazione continua delle altezze come un fenomeno sonoro che può essere concretamente esibito. Viene invece ribadito l'in­teresse verso una nozione astratta di continuità, alla quale il fenomeno sonoro concreto deve essere subor­dinato. Del resto, in questo ordine di considerazioni la nozione fonda­men­tale diventa quel­ la di taglio, e in essa l'allusione alla concezione matematica del continuo diventa esplicita. "Il continuum si manifesta con la possibilità di taglia­ re lo spazio secondo certe leggi; la dialettica tra continuo e discontinuo passa dunque attraverso la nozione di taglio; arriverei perfino a dire che il continuum è questa possibilità stessa perché contiene insieme il continuo e il discontinuo: il taglio, se si vuole cambia il continuum di segno" (p. 83). Che si sia qui prevalentemente interessati all'idea astratta di con­ tinuità è confermato dalla nozione di spazio liscio, espressione con la quale si intende non già il continuo stesso (come forse il termine po­ trebbe suggerire), ma una selezione irregolare di punti su di esso, cosic­ ché questi debbono essere concepiti come singolarità emergenti da uno sfondo indifferenziato. La continuità viene così posta in modo indiretto e proprio attra­ verso un esempio di discontinuità. In opposizione allo spazio liscio, si propone di parlare di spazio striato quando si sia in presenza di suddi­ visioni regolari (temperate, nell'accezione generale del termine). Come abbiamo già osservato (Cap. II, par. 7, Annotazione 1) questa distin­ zione assume un qualche interesse nella sua trasposizione al problema temporale. 235 §6 Rammentiamo quali erano i termini del nostro problema ini­ziale: il fatto stesso di prendere le mosse dallo spazio sonoro sembrava subito mettere in questione i suoni come entità obbiettivamen­ te sussistenti, suggerendo invece che il passaggio dal continuo al discreto dovesse essere concepito come conseguenza di una selezione di punti del continuo effettuata in via di principio in modo arbitrario. La domanda che chiede quanti suoni ci sono e quali appare perciò subito come una domanda mal posta. Ma questo primo avvio del problema riceveva un nuovo orienta­ mento nell'elaborazione dell'idea che il continuo sonoro non sia affatto da intendere come una totalità indifferenziata, ma che esso abbia una struttura fenomenologica di cui abbiamo comin­ ciato con il dare una sommaria delineazione. Da questa elabora­ zione è lecito attendersi che lo stes­so problema generale del pas­ saggio dal continuo al discreto, che rappresenta in ogni caso il problema centrale di questa nostra discussione, si presenti in una forma più complessa di quanto potesse sembrare inizialmente. La possibilità della segmentazione in ottave dello spazio so­ noro, benché abbia cominciato con il mostrare la presenza di un fondamentale principio di suddivisione intrinseca, non sembra tuttavia avere spostato significativamente i termini della questione. Possediamo forse dei criteri per decidere quante note debbano essere individuate in un segmento rappresentativo dello spazio sonoro ed a quale distanza si debbano trovare l'una dall'altra? Sembra invece che si possano ripetere qui le stesse considerazioni critiche, volte in senso convenzionalistico, che erano già state pro­ poste in precedenza quando avevamo rammentato la molte­plicità dei sistemi scalari come una circostanza di fatto che sembra­ va trovare nel continuo sonoro un'immediata legittima­zione di principio. L'intero problema può tuttavia essere ora sottoposto ad un 236 esame più accurato. Vi è intanto certamente un modo di delimitare la questio­ ne che rende sensato affermare che il numero dei suoni compresi all'interno del segmento è determinato e così anche è sensata la domanda che chiede quale sia questo numero. Si tratta semplicemente del fatto che, essendo in questione un flusso di variazioni continue, vi è un limite al di sotto del qua­ le la variazione non viene avvertita. Il segmento può così essere "analizzato" in punti distinti e il loro numero è deter­minato dalla minima differenza percepibile. La domanda intorno al numero dei suoni diventa allora una domanda tendente ad accertare la capacità psicologica di diffe­ renziazione percettiva, e ad essa si potrà rispondere ricorrendo ad una sperimentazione adeguata. Tuttavia, già il fatto che ci troviamo alla presenza di una questione di fenomenologia empirica, e quindi in ultima analisi di psicologia della percezione, ci avverte che muovendoci in questa direzione rischiamo di rimetterci il senso stesso del nostro pro­ blema. Soprattutto la questione della differenza tra suono e suo­ no, e dunque di ciò che deve valere come lo stesso suono, viene già deciso secondo un criterio troppo elementare che nasconde e confonde l'aspetto realmente rilevante dal punto di vista pura­ mente fenomenologico e, di conseguenza, vorrei quasi dire, dal punto di vista musicale. Vogliamo del resto metterci anzitutto da quest'ultimo pun­ to di vista. Accanto alle note vere e proprie, con il loro nome, si ammette la possibilità di "alterazioni", intendendosi con ciò, nella terminologia usuale, la possibilità di spostamenti abbastan­ za piccoli della nota verso il grave o verso l'acuto. Una nota può, come anche si dice, essere bemollizzata o diesizzata, vale a dire che essa può essere abbassata o elevata di un semitono, pur restando la stessa: il nome, di conseguenza, rimane invariato. È opportuno sottolineare che, a parte le peculiarità termi­ nologiche e così anche i modi di integrazione di questa possibilità 237 all'interno del sistema musicale europeo, si tratta di un problema che non è affatto specificamente legato ad esso e che si ritrova ovunque, facendo parte integrante della problematica delle strut­ ture scalari in genere. In rapporto ad esse, dobbiamo sempre di­ stinguere tra note principali ed eventuali loro possibili alterazioni, che non sono quindi da porre nel novero delle note vere e proprie. Il fatto che nella vecchia terminologia si parlasse in rapporto ai segni delle note alterate di accidenti ha probabilmente il senso di una sottolineatura dell'inessenzialità dei suoni corrispondenti e della loro dipendenza dalle note "principali" che possono even­ tualmente essere sottoposte ad alterazione. Ma a ben pensarci, qui tutto sembra contravvenire un'ef­­fet­ tiva coerenza e ordine concettuale. In primo luogo si pretende di proporre un'ulteriore regola per l'uso della parola "lo stesso" che non riguarda affatto la "coincidenza" dei suoni che si tro­ vano in intervallo di ottava, ma che si applica proprio nei casi in cui parliamo comunque di un'alterazione, e dunque di una diversificazione. Sembra allora il caso di chiedersi se non sia più corretto, almeno all'interno di una trattazione che a­van­za la pre­ tesa di muoversi su un terreno generale, considerare ogni suono di pari dignità, ed attribuire pertanto a ciascuno - ad esempio, a ciascuno dei dodici semitoni della scala temperata - un nome distinto. Il parlare di alterazione sarebbe dunque una pura con­ suetudine terminologica, essa sì accidentale, e cioè sprovvista di una qualche giustificazione e persino ampiamente sospetta di illogicità, ferma restando naturalmente la possibilità di operare differenziazioni di dignità tra i suoni sul terreno della loro elabo­ razione "linguistica". Del resto proprio la questione della suddivisione secondo il criterio della minima differenza percepibile sembra insegna­ re proprio questo. In essa non si parla di alterazioni e dunque nemmeno di una possibile distinzione tra note principali e note secondarie. Alla luce di quel criterio una simile distinzione non può avere alcun sostegno nello spazio sonoro. 238 Abbiamo qui un esempio particolarmente significativo del rischio che si corre nel fare valere modelli argomentativi e criteri logico-concettuali assunti acriticamente senza tener conto della problematica effettiva in discussione. Non vi è bisogno infatti di rammentare che la parola alterazione è stata da noi impiegata (cfr. § 3) non già per caratterizzare una circostanza specificamente musicale, non dunque come una parola che farebbe semplice­ mente parte della terminologia tecnica o addirittura di una termi­ nologia applicabile solo a qualche particolare sistema musicale e di cui si possa dare solo una giustificazione storica, ma per carat­ terizzare il senso dello spazio sonoro come movimento fluente, come continua trasmutazione e metamor­fosi. Con quella parola dunque noi intendevamo cogliere un'effettiva realtà fenomenolo­ gica ed è certamente questa realtà che sta alla base del problema che noi abbiamo or ora prospettato. Tenendo conto di ciò, l'intera questione riceve un nuovo impulso. In primo luogo, appare subito chiaro che ciò che deve valere come lo stesso suono o come un altro, da esso semplice­ mente distinto, non è una circostanza affatto ovvia e che conce­ pire il suono singolo, nella molteplicità dei suoni, come un'og­ gettività puntuale e identica coglie un aspetto del problema, ma non lo esaurisce. Ad una considerazione statica deve infatti su­ bentrare una considerazione dinamica non appena, attenuandosi la distanza tra i suoni, si fa sentire la tensione unitaria del continuo. Di qui l'importanza della distinzione tra grande e piccolo interval­ lo, un'importanza che può essere colta solo se ci si installa all'in­ terno di un atteggiamento rivolto al lato soggettivo, piuttosto che alla pura determinazione oggettiva. Quale differenza, si potrebbe chiedere, può mai intercorrere tra un grande e un piccolo intervallo tranne il fatto che l'uno è grande e l'altro è piccolo? Questa logica considerazione, proiettata senz'altro sul piano percettivo, potrebbe subito insegnarci che percepire un piccolo intervallo è la stessa cosa che percepirne uno grande, tranne il fatto che esso è piccolo. Questo insegna­mento 239 è invece smentito dalla manifestazione percettiva, che mostra come sia qui in questione il problema stesso della molteplici­ tà e della differenza, dell'identità e dell'unità dei suoni. Ciò che viene percepito infatti non è solo la maggiore o minore gran­ dezza dell'intervallo: nel caso del piccolo intervallo, poiché vi è un'approssimazione alle condizioni del continuo, in luogo di percepire due suoni sem­plicemente distinti, si avrà una specifica percezione di alterazione, come se il suono prece­dentemente udito si dilatasse o si contraesse pur mante­nendosi nella sua "identità": mentre un intervallo abbastanza gran­de è necessario affinché si dia effettivamente un altro suono. Sulla base di queste considerazioni possiamo formulare una regola fenomenologica che riguarda proprio il problema della suddivisione dello spazio sonoro e quindi il numero dei suoni e la grandezza degli intervalli. Essa stabilisce che per intervalli abbastanza piccoli in luogo della distinzione e della differenzia­ zione subentra l'effetto di alterazione. Di conseguenza all'interno del segmento rappresentativo la suddivisione non può essere troppo fine e dunque il numero delle note non può essere troppo gran­ de. L'interesse di una simile regola non viene certo meno per il fatto che essa deve essere lasciata nell'indeterminatezza nel­ la quale l'abbiamo formulata. Il nostro scopo non è infatti per nulla quello di proporre una sorta di deduzione delle strut­ture scalari. Piuttosto si tratta di mostrare, intanto, che una qualun­ que sud­divisione arbitraria dello spazio sonoro soggiace a quella regola la quale decide per la sua parte sul risultato. Sulla base di ciò possiamo affermare, ad esempio, che nell'intervallo dobbiamo contare, tra i due estremi in ottava, due note, e non 240 tre, così come nell'intervallo una soltanto. Considerazioni come queste mostrano almeno in quale direzione possa essere sviluppata una critica di una posizione puramente convenzionalistica - una critica che per altro non pretende affatto di appoggiarsi su giustificazioni naturalistiche. Ma certamente il motivo polemico è nettamente superato dall'evi­ denza con la quale si mostrano, lungo il percorso che abbiamo seguito, le radici del problema musicale del cromatismo. Le esposizioni scolastiche di teoria musicale, impegnate come sono a fornire informazioni ed a circoscrivere le loro pro­ blematiche strettamente all'interno della musica stessa, non con­ cedono nemmeno al lettore più attento di sospettare che qui è in gioco il rapporto con il tema della continuità. Differenze come quelle tra l'ordine diatonico e l'ordine cromatico vengono subito proposte sulla base di modelli particolari, con riferimento stret­ to a linguaggi determinati, senza nemmeno tentare di cogliere il fondamento generale che è in grado di gettare una luce immediata sul loro senso di principio. La parola cromatismo naturalmente ha per noi un senso che va oltre la sua eventuale elucidazione tecnica. Essa richiama pro­ prio la sfera del colore, ma non in un'accezione generica, o in modo impressionistico, come se si alludesse a non so quale sen­ timento di coloritura del suono. Nella considerazione del piccolo intervallo - nell'altera­ zione cromatica, come ora possiamo dire - è in questione la differenza tra ciò che è un suono e ciò che è invece soltanto la sfumatura di un suono: differenza che poggia a sua volta sulla relazione e sulla tensione tra continuità e discretezza. 241 Annotazione È significativa, anche in rapporto al nostro discorso, la resistenza di Schönberg all'impiego del termine di alterazione, così come viene di­ chiarata, ad esempio, nel Manuale di armonia, Il Saggiatore, Milano 1963, vol. II, p. 441: "La parola alterare, derivando dal latino alter ( = altro) può essere intesa nel senso di modificare (verändern); è meglio però supporre che alterare significhi prendere un altro suono, che non quello proprio della scala; e questo ci fa pensare alla sostituzione dei modi maggiore e minore con la scala cromatica di cui si è già parlato" (cfr. anche vol. I, p. 125). Ciò è conforme e conseguente al richiamo alla scala cromatica soltanto in quanto essa presenta lo spazio sonoro disponibile nella sua totalità, indipendentemente da qualunque gerar­ chiz­zazione. Perciò è più opportuno, secondo Schönberg, intendere l' alterazione come passaggio ad una nota effettivamente altra, piuttosto che come modificazione di un suono: ciò significa la stessa cosa che prendere le distanze dal cromatismo come approssimazione alla con­ tinuità, accentuando invece il tema della discretezza. §7 Ci avviamo ora, sviluppando e approfondendo il quadro del no­ stro problema, ad un esame della distinzione tra consonanza e dis­ sonanza. Come in precedenza i nostri interessi sono strettamente filosofici: il nostro esame vorrebbe essere un tentativo di indica­ re i termini di uno studio filosofico di quella distinzione - questo aspetto deve ora essere particolarmente sottolineato perché, più che in precedenza, corriamo il rischio di essere fraintesi, prima ancora che nei risultati, nei nostri stessi intenti. Si tratta infatti di non perdere di vista il fatto che non abbiamo di mira l'acqui­ sizione di conoscenze effettivamente nuove, ma che le nostre sono propriamente discussioni sulla tenuta dei concetti e quindi, ora in particolare, sulla consistenza o inconsistenza del­la distinzione tra consonanza e dissonanza, sul modo di inten­derla, soprattutto sulla posizione che essa deve o può assumere all'in­terno del qua­ 242 dro teorico che stiamo delineando. Naturalmente non è il caso di insistere più di tanto su che ne è di questa distinzione dal punto di vista musicale, e più pre­ cisamente alla luce degli sviluppi della musica novecentesca. Alla centralità della consonanza che in varie forme ha dominato l'in­ tera tradizione musicale europea e alla posizione subordinata della dissonanza, sono subentrate teorizzazioni e pratiche musicali tendenti ad una radicale messa in questione di questi rapporti. Ed è ben noto anche come questo non sia stato altro che il pri­ mo passo di una critica della tradizione di proporzioni molto più ampie. In rapporto a tutto ciò, a noi basta attirare l'attenzione sul fatto che l'andamento del dibattito ha suggerito fin dall'i­nizio e poi sempre più ribadito fino al limite del luogo comune, la natu­ ra eminentemente linguistica della distinzione, por­tando ulteriori elementi ad un punto di vista relativistico e convenzio­nalistico. Ciò significa, come ormai sappiamo, dal momento che qui si rinnova un impianto che ci è ben noto, sottolineare l'incon­ sistenza della distinzione ovvero asserire che essa può diventa­ re consistente solo all'interno di una sintassi che la renda tale. Naturalmente anche su questo punto noi intendia­mo invece ri­ badire e consolidare le nostre tesi; o forse dovremmo dire più correttamente: tutta l'impostazione di cui abbiamo cominciato a intravedere i lineamenti si dimostrerebbe profondamente inade­ guata se non riuscisse a venire a capo di questa distinzione, natu­ ralmente sul terreno problematico che è stato proposto fin dall'i­ nizio: la varietà delle possibilità linguistiche si misura sempre con le possibilità latenti nel materiale fenomenologico. Detto in altro modo: la consonanza e la dissonanza, prima ancora di essere problemi per un linguaggio musicale, prima ancora dunque di entrare all'in­terno di una dialettica dell'e­spressione, sono una faccenda interna dello spazio sonoro e della sua fenomenologia. Tuttavia, che cosa questo propriamente significhi può ri­ sultare chiaro solo al termine di un percorso che deve invece 243 cominciare con il circoscrivere i termini del problema mettendo in evidenza i punti che possono essere fonti di difficoltà e di oscurità. Anzitutto converrà richiamare l'attenzione sulla gramma­tica corrente di questi termini. Consonanza e dissonanza indicano una relazione tra suo­ ni: precisamente, questi termini vengono applicati anzitutto ad una coppia di suoni, cosicché si dirà che un dato suono (nota) è consonante o dissonante rispetto ad un altro. Naturalmente si parlerà anche, in modo relativo, di intervalli consonanti e disso­ nanti. In generale, nell'impiego di questi termini, si pensa a situa­ zioni esemplificative nelle quali i suoni vengono fatti risuonare simultaneamente e si tende allora a caratterizzare co­me consonante o dissonante l'accordo che ne risulta. Se l'accordo è composto di più note, verrà detto dissonante se contiene almeno un intervallo dissonante. Per questo il rapporto tra due suoni può essere con­ siderato non solo come caso elementare ma anche fondamentale per la giustificazione della distinzione o più semplicemente per l'impianto di una discus­sione intorno ad essa. È forse anche il caso di notare che il richiamo all'ordine del­ la simultaneità sembra necessario per sottolineare che con con­ sonanza e dissonanza si intende un effetto sonoro carat­te­ristico - nel primo caso di armoniosa confluenza dei suoni, nel secondo di urto e di conflitto. Come casi speciali di consonanze potranno essere citati l'u­ nisono e la consonanza di ottava. Nel primo caso sembra ovvio che si possa parlare del consuonare di un suono con se stesso, e il secondo si discosta di poco dall'unisono dal momento che il sussistere di un rapporto di consonanza di ottava può essere considerato come una condizione definitoria per la posizione dell'identità "specifica", cioè dell'identità della "qua­li­tà sonora". La nozione di consonanza come consonanza di ottava era dunque tacitamente presupposta nelle nostre considerazioni precedenti. Della consonanza di ottava si tende inoltre a parlare come 244 caso di massima consonanza dopo l'unisono, e si innesta a que­ sto punto, spesso senza che nemmeno venga avvertito il muta­ mento concettuale implicato, un'inclinazione a considerare con­ sonanza e dissonanza come nozioni che ammettono differenze del più o del meno. Si affaccia così l'idea di una gradualità e che dunque le consonanze o le dissonanze non si trovino tutte sul­ lo stesso piano, ma che abbia senso dire, non soltanto "questo intervallo è consonante", ma anche: "questo intervallo è meno consonante di quest'altro". La distinzione tra consonanza e dis­ sonanza diventa così relativa, ammette una gradualità e dunque la possibilità di un ordinamento scalare. Al problema puramente classificatorio di porre da un lato le consonanze, dall'altro le dissonanze, subentra il problema di istituire la serie il cui principio di ordinamento sia rappresentato dalla relazione "più consonante" ("meno dissonante"). Poiché ci stiamo riferendo alla grammatica corrente della parola, altrettanto correnti potranno essere gli esempi: così si potrà dire, non solo "l'intervallo di quinta è consonante" oppu­ re "l'intervallo di settima è dissonante", ma anche "l'intervallo di terza maggiore è meno consonante dell'inter­vallo di quinta" oppure "la terza maggiore nel sistema temperato è meno conso­ nante della terza maggiore nel sistema zarliniano". È possibile infine che nella manualistica corrente si avverta, in particolare proprio in rapporto al problema delle differenze nel grado di consonanza, di non ricercare un autentico fondamento obbiet­ tivo, dal momento che intervengono in modo determinante in queste valutazioni considerazioni che chiamano in causa l'educa­ zione dell'orecchio e dunque in ultima analisi l'as­sue­fazione a de­ terminati stilemi compositivi. Nessuna docu­men­tazione sembra infatti più a portata di mano di quella che mo­stra, in rapporto al problema dei gradi di consonanza, valutazioni differenti e nello stesso tempo una difficoltà di principio a decidere a che cosa propriamente queste valutazioni dovrebbero essere ancorate. Accentuando anche di poco questa direzione di discorso si po­ 245 trà pervenire a sottolineare la va­ghezza intrinseca non solo delle "scale di consonanze", ma anche della distinzione stessa: tanto più essa sembra perdersi nella nebbia, al di là dei casi estremi e più evidenti, quanto più si pretende di isolarne la problematica rispetto alle decisioni effet­tuate sul piano linguistico. Ma naturalmente la discussione può cominciare ancora prima: la nostra sommaria esposizione sull'impiego dei termini avrebbe potuto essere interrotta in più di un punto da richieste di precisazioni, dubbi, perplessità, obiezioni. Si pensi alle espres­ sioni illustrative che abbiamo ritenuto di poter usare. Ad esempio, in precedenza si è parlato, in rapporto alla consonanza, di armo­ niosa confluenza di suoni. Potremmo allora aggiungere che la consonanza possiede una coerenza interna, che essa si pre-senta come una formazione unitaria in un senso partico­larmente forte del termine, e per questo essa può formare una sorta di mo­dello per l'impiego della parola "armonia". E ancora potremmo dire che essa riposa stabilmente in se stessa, come attratta da un cen­ tro di gravità, in opposizione alla conflit­tualità interna della dis­ sonanza. Alla consonanza armoniosa contrap­poniamo la dissonanza atroce [102] : i suoni che in essa sono entrati in contatto, anziché compenetrarsi l'uno nell'altro subito diver­gono in opposte dire­ zioni, pur essendo trattenuti forzosa­mente insieme. Qui siamo alla presenza di una tensione sonora interna, ad una scissione latente, ad una mobilità inquieta. Ora, formulazioni come queste prestano certamente il fian­ co a obiezioni e possono essere fonti di perplessità, benché la critica sia spesso malamente impostata e in particolare non ci si debba lasciare confondere dall'ottusa esibizione di esempi che mostrano quanto, in certi casi, possa essere statica e quieta op­ pure morbida e tenera una dissonanza. Intese correttamente, descrizioni come queste segnalano una latenza espressiva interna senza peraltro nulla pregiudica­ re intorno a ciò che potrebbe accadere nel gioco compositivo. Nel proporle tuttavia si corre il rischio che vengano interpretate 246 come se rappresentassero in qualche modo l'analisi dei concetti, quasi che si volesse affermare che in esse si risolverebbe il senso della distinzione. Ma quando abbiamo parlato della consonanza come relazione tra suoni o come proprietà degli intervalli, oppu­ re quando abbiamo parlato dell'effetto consonantico o dissonan­ tico che risulta dall'accordo, intendevamo evidentemente, almeno nel senso di quelle espressioni, riferirci ad una qualche caratteristi­ ca colta sui fenomeni stessi che non avrebbe senso analizzare e risolvere completamente in certe impressioni o stati psichici che eventualmente possano essere avvertiti dentro di noi. Ora sem­ bra invece che con quelle caratterizzazioni si voglia dire che ciò che chiamiamo consonanza non sia altro che una formazione sonora che suscita dentro di noi un'impressione di stabilità, di coerenza, di compattezza, ecc., cosicché esse potreb­bero essere fraintese come se realizzassero l'analisi psicologica dei concetti in questione: il rischio effettivo che si corre è dunque quello di una psicologizzazione, rischio che può essere corso fino a toc­ care il fondo di una tesi che fa della distinzione stessa una pura faccenda psicologica. E ciò, è appena il caso di dirlo, ripropone nuovamente una tesi di fondamentale incon­sistenza della distin­ zione stessa. Tanto varrebbe risolvere tutta la questione proponendo la solita coppia del gradevole e dello sgradevole come capace di coprire interamente il senso di quella distinzione. L'insistenza con la quale, in una tradizione millenaria, si è parlato della gradevolezza della consonanza e della sgradevolezza della dissonanza dovrebbe in realtà mettere in guardia dal ritenere che queste qualificazioni siano del tutto prive di fondamento [103]. Sarebbe invece certamente sbagliato ritenere di avere a che fare con una sorta di equivalenza concettuale, perché ciò comportereb­ be una implicita soppressione della distinzione. È necessario dunque da un lato difendere una certa per­ tinenza di quelle caratterizzazioni, ovviamente entro i limiti pro­ posti dalla natura stessa della questione, dall'altro sottolineare che 247 esse non debbono essere interpretate come se operassero una ri­ duzione delle nozioni di consonanza e di dissonanza all'empiria psicologica delle sensazioni interne. Questo punto può essere chiarito in un lampo con un esem­ pio tratto dall'ambito visivo. Supponiamo che voi non conosciate affatto il senso delle parole "rettilineo" e "curvilineo". Allora potrei mostrarvi questo senso mostrando esempi a piacere: Come nel caso delle parole "consonanza" e "dissonanza", anche in quello di "curvilineo" e "rettilineo", essendo intese come ri­ ferite a certe configurazioni percettive, il loro senso deve essere anzitutto insegnato ostensivamente. In questa introduzione ostensiva non sono per nulla chiamate in causa eventuali sensa­zioni interne che noi possiamo provare o non provare di fronte a quelle configurazioni. Dopo di ciò, supponiamo che io faccia notare che, parago­ nata ad una linea rettilinea, una linea curvilinea potrebbe essere descritta anche come una linea molle e morbida. Vi sono allora buoni motivi per pretendere che con ciò non ci si richiami per nulla all'esistenza effettiva di sensazioni speciali di fronte ad essa e tanto meno che simili sensazioni debbano fungere da riempimento di senso della parola "curvilineo". 248 Annotazioni 1. Un'esposizione storica approfondita che tenta di fornire nello stesso tempo un'interessante sintesi teorica del problema è contenuta nel bel volume di James Tenney, A History of "Consonance" and "Dissonance", op. cit. . In esso si documenta ampiamente la variazione del problema della distinzione tra consonanza e dissonanza che è anche naturalmente una variazione nella delimitazione del concetto in stretta inerenza con le esigenze espressive e le pratiche musicali. Tanto più è degno di interesse il fatto che una simile documentazione così come le interpretazioni, spesso particolarmente raffinate, proposte al fine di mostrare questa inerenza, siano associate ad una polemica esplicita nei confronti della tendenza a "insistere sull'uso esclusivo di questi termini in un senso puramente funzionale" (p. 98), come se la distinzione tra consonanze e dissonanze si risolvesse di volta in volta nella funzione ad esse asse­ gnate. Cosi anche si criticano quelle concezioni che riducono il proble­ ma ad una pura questione di ricorrenze statistiche, facendo no­tare che "l'uso di simili misure statistiche come criteri per definire 'consonanza' e 'dissonanza' evidentemente mette il carro davanti ai buoi" (p. 98), es­ sendo chiaro che non si dicono "consonanze" gli accordi il cui impiego è predominante, ma inversamente il loro impiego è predominante per­ ché si tratta di consonanze. 2. Sul problema delle spiegazioni fisiche in rapporto alla consonanza/ dissonanza si rimanda a P. Righini e G.U. Righini, Il suono, Tamburini, Milano 1974, pp. 239 sgg., benché occorra avvertire il lettore che la tesi che correla il fenomeno consonantico/disso­nantico ai battimenti - tesi che risale a Helmholtz - dichiarata dagli autori prima come teoria che "resta tuttora la più accreditata" (p. 246), e poi senz'altro come teoria categoricamente confermata sulla base di dati sperimentali ("la con­ ferma del principio studiato da Helmholtz è quindi categorica", ivi), è tuttora oggetto di discussione ed esposta a possibili contestazioni. 249 Questo testo può essere rammentato anche perché mostra, nel modo in cui il problema viene introdotto, le oscurità di ordine concettuale, talvolta inavvertite, che lo circondano. Si pre­mette infatti che ciò che si può dire della consonanza e della dis­sonanza ha come fondamento solo un "consenso generico e tradizionale" e che "la stessa situazione può essere giudicata in modi diversi a seconda dell'educazione musi­ cale dei soggetti, della loro appartenenza ad una situazione geografica e culturale piuttosto che ad un'altra e per altri fattori sui quali persino il trascorrere del tempo ha influito in maniera determinante" (p. 239). "Certe combinazioni sonore che ieri erano ritenute dissonanti, sono oggi accettate in maniera molto diversa, e così sarà, verso un'accoglien­ za sempre più larga nel futuro" (p. 240). Ciò che appare singolare è che non si avverta che, se queste affermazioni fossero prese alla lettera, non avrebbe nessun senso la ricerca di una giusti­ficazione fisica, ma solo culturale, della differenza; né avrebbe senso, richiamarsi, come qui si fa, a un'"essenziale caratteristica" (p. 142) che consonanza e dissonanza dovrebbero pur possedere. In realtà, per la stessa posizione di un pro­ blema fisico-esplicativo è necessario il riconoscimento preliminare del­ la sussistenza della distinzione sul piano fenomenologico: altrimenti non si saprebbe che cosa propriamente debba ricevere una spiegazione. 3. La dissoluzione linguistico-convenzionalistica della distinzione tra consonanza e dissonanza è efficacemente sintetizzata da Stefano Lanza nella sua Introduzione alla musica. Manuale ragionato di teoria musicale, Zanibon, Padova 1987, quando dice che "la tradizionale classificazio­ ne che ancora vige nella scuola, ha ormai solo il valore di una regola di grammatica che serve a distinguere quali intervalli devono essere sotto­ posti all'obbligo della risoluzione, e in che modo" (p. 43). Sullo sfondo della questione, svolgerebbe la sua parte l'abitudine ("il punto limite è fissato arbitrariamente, e infatti nella storia si è spostato via via che l'orecchio si abituava a combinazioni di suoni sempre più comples­se", ivi) e la sovrapposizione al dato fenomenologico di problemi attinen­ ti alle scelte espressive ("Oggi che il nostro orecchio si è assuefatto ai cromatismi del romanticismo e agli 'aggregati armonici' dodecafonici e 250 atonali in genere, non ha più senso basare la distinzione tra consonan­ za e dissonanza sulla sensazione dell'orecchio, anzi, non ha più senso del tutto mantenere la distinzione", ivi). Quanto all'argomento secondo cui "con l'attuale sistema di intonazione temperato, tutti gli intervalli alterati, ad eccezione dei due diatonici, sono enarmonici di intervalli naturali: sono dunque costituiti dagli stessi suoni e producono perciò la stessa sensazione uditiva. Eppure mentre quelli alterati sono dissonanti per definizione, i loro enarmonici naturali possono essere consonanze, imperfette e anche perfette" (ivi), esso dimostra indubbia­mente qualcosa intorno all'impiego delle parole, ma non può certo dimostrare che, in generale, la distinzione tra consonanza e dissonanza è "sprovvista di fondamenti acustici" (ivi). §8 Le nostre critiche in direzione di una psicologizzazione aprono naturalmente il problema di una giustificazione della distinzione tra consonanza e dissonanza in termini obbiettivistici. Tuttavia in che modo e fino a che punto possa essere sostenuta una con­ cezione obbiettivistica non è affatto subito chia­ro e in partico­ lare sorgono difficoltà per ciò che concerne il modo di configu­ rare il rapporto tra il piano delle spiegazioni obbiettive e quello della percezione. Si tratta infatti pur sempre di una distinzione che chiama in causa l'udito, di precise (o pretese tali) differenze uditive. A cos'altro è affidata la valutazione: "questa è una conso­ nanza", "questa è una dissonanza", se non alla responsabilità esclu­ siva dell'orecchio? Ma allora, se non vogliamo ritenere che valu­ tazioni come queste si appoggino interamente su conside­razioni di "eufonia", su "impressioni" di gradevolezza e di sgradevolezza, che ci farebbero arretrare alle difficoltà precedenti, dobbiamo ri­ proporre il problema, nel quale ci siamo già una volta imbattuti, di considerare l'orecchio come veicolo attraverso cui si manife­ stano proprietà e relazioni profonde, che appartengono all'ob­ biettività stessa in cui i fenomeni sonori sono radicati. Ma il fatto è che anche operando questa assunzione, si sarebbe tentati di 251 insistere con il chiedere: che cosa propriamente deve cogliere il nostro orecchio per formulare quelle valutazioni? Vi è qualcosa nel fenomeno percettivo che possa essere considerato un indizio certo della presenza di una consonanza? E soprattutto quell'as­ sunzione non solo non ci libera dalle oscillazioni e dalle incertezze dei giudizi percettivi, ma è essa stessa resa problematica da queste possibili indeterminatezze. Ad esempio, potremo concordare sul fatto che una terza maggiore e una sesta minore siano entrambe consonanze. Ma che dire se ci venisse richiesto di decidere se una terza maggiore sia più o meno consonante di una sesta minore? Oppure si pensi alle piccole differenze. Supponiamo che ci venga proposto sulla base di un'audizione concreta di decidere se una terza maggio­ re zarliniana (che è pari a 386 cent) sia più o meno consonante di una terza maggiore temperata (che è pari a 400 cent). In un caso come questo, in cui tra l'altro la differenza nella grandez­ za dell'intervallo è appena apprezzabile, è persino difficile com­ prendere su che cosa propriamente debba essere pronunciato il giudizio. Questa situazione spiega in realtà una delle circostanze più singolari nella storia del nostro problema, il fatto cioè che la di­ fesa di una giustificazione obbiettiva tenda non soltanto ad una critica del piano empirico-psicologico, ma ad un effettivo oltrepas­ samento dei dati della percezione concreta. L'udi­to è insomma soltanto un tramite che trasmette, quando vi rie­sce, rapporti che sono costituiti interamente al di là del fenomeno sonoro. Un passo della Repubblica platonica ci offre uno squarcio sul problema colto alle sue prime origini. Si sa quanto sia profondamente e significativamente am­ biguo l'atteggiamento di Platone nei confronti della musica: da un lato ne sono temuti gli effetti patetici, la sua efficacia sull'i­ stinto; dall'altro, più di ogni altra arte, la musica si approssima alla scienza, e in particolare all'astronomia, secondo l'opinione dei Pi­ tagorici che, nel passo a cui ora facciamo riferimento [104] , Pla­ 252 tone dichiara di condividere. Ma in questo passo colpisce il fatto che i seguaci di Pitagora non sono menzionati soltanto per lodare la loro dottrina - non solo per sottolineare come convenga recarsi presso di loro "per sapere che cosa dicono di questi argomenti". In realtà, non e possibile non cogliere, accanto alla lode, una sfumatura di ironia, quando si accenna a quelle "brave persone" che passano tutto il santo giorno "a malmenare ed a torturare le corde, stirandole sui piroli" [105] e che cercano di afferrare con l'udito le più sottili differenze avviando su di esse discussioni a non finire. Si coglie qui, in un rapido scorcio, una situazione nella qua­ le, nulla essendo ancora stato deciso, tutto è affidato alla prova e riprova, ad una sperimentazione percettiva diretta che cerca nel materiale sonoro rapporti e differenze, regole e norme possibili. Il problema è dunque molto serio. Eppure l'inclinazione è ironica: il dotto pitagorico, che della musica ha fatto certamente uno dei centri della propria riflessione, viene qui descritto con l'orecchio proteso a spiare il suono così come talvolta tendiamo l'orecchio con la curiosità un po' perversa di cogliere ciò che dicono i nostri vicini al di là del muro. Platone dice proprio così: "tendendo l'orecchio come a cogliere la voce dei vicini" [106]. L'ironia interviene allora a cogliere questa tensione osser­ vativa, questa esasperazione dell'attenzione che sembra affi­da­re al­l'orecchio, e dunque alla sensibilità, differenze e rapporti che sa­ ran­no sempre labili e incerti se considerati su questo piano. Ad esempio, di fronte a uno spazio sonoro ancora indifferen­ ziato, dobbiamo introdurre criteri e metodi di sud­divisione: perciò indugiamo a lungo intorno al "problema del mini­mo intervallo con cui si deve misurare". E nello stesso tempo si affaccia il dubbio che si tratti di controversie senza un costrut­to: "Taluni afferma­no di percepire in mezzo ancora una nota e che questo sia l'intervallo minimo con cui si deve misurare, altri invece che il suono è si­ mile a quelli di prima" [107]. Un accenno altrettanto significativo cade proprio sul tema della consonanza. 253 Gli stessi Pitagorici hanno, anche su questo punto, aperto una strada: infatti essi "cercano numeri che esprimano questi accordi"; e allora, coerentemente, si dovrebbe proseguire proprio nella di­ rezione di una ricerca puramente matematica che sappia decidere "quali numeri diano luogo a consonanze e quali no, e perché gli uni sì e gli altri no" - "compito degno di un demone" [108]. Si chiede dunque che venga ancora più accentuata quella tendenza che in realtà i Pitagorici avevano fatto valere con la massima forza. Nella sperimentazione con i suoni la meraviglia del filosofo si appiglia anzitutto alla consonanza come concreto fatto percet­ tivo. Un suono non solo risuona simultaneamente ad un altro, ma "consuona" con esso - e come se l'uno risuonasse dentro l'altro. E non è forse questa "sinfonia" qualcosa di assolu­tamente straordinario, qualcosa che ci colpisce nel profondo? Ma questa meraviglia si moltiplica ed esalta nello scoprire che questo con­ suonare dei suoni non è una mia labile impressione sog­get­tiva, ma sembra poggiare sulla regola di un rapporto nume­rico ele­ mentare. Se abbiamo scoperto che il rapporto tra la lunghezza delle corde sta alla base delle consonanze che ci colpiscono con par­ ticolare evidenza percettiva - ad esempio che il rapporto di 2/1 genera una consonanza di ottava e di 3/2 una consonanza di quinta - questa scoperta suggerisce il travalicamento proprio del terreno empirico su cui quella scoperta è stata effettuata, pro­ spettando il fatto percettivo come riflesso di un rapporto idea­le e dunque proponendo che la ricerca, che ha certamente preso le mosse dall'udito, debba procedere in tutt'altra direzione. Cosicché, quando l'udito oscilla, incerto persino sul tipo di decisione che dovrebbe essere presa, allora non dovremmo esi­ tare a sottrarre ad esso ogni affidabilità, passando ad una deter­ minazione che stabilisca una volta per tutte quali numeri diano luogo a consonanze, quali no. Le orecchie non debbono essere anteposte al pensiero [109]. 254 Per quanto possa sembrare stravagante l'idea di abban­donare, in questo ordine di problemi, il piano uditivo con­creto - e anche al di là delle motivazioni più generali che chiamano in causa il modo in cui si presenta il tema della sensibilità nella filosofia platonica - è interessante notare come essa possa effettivamente sorgere all'interno di un conflitto irrisolto tra il pensiero della rilevanza intrinseca della nozione di consonanza e dunque del­ la sua obbiettività, e la constatazione ricorrente che essa tende invece ad apparire inconsistente quando la si consideri sul piano puramente sensoriale. Ma è anche certo che una denuncia dell'empiria psicolo­gica proposta in questo modo non fa altro che portare allo sco­perto le difficoltà di principio di una concezione obbietti­vistica. Annotazione Benché i pitagorici siano esplicitamente citati nel passo platonico, tut­ tavia vi potrebbero essere ragioni per sospettare che la polemica sia di­ retta più propriamente contro quegli "armonisti" contro cui polemizza anche Aristosseno, proprio in rapporto al problema dei piccoli inter­ valli. Vi è tuttavia incertezza su chi pro­pria­mente indichi questa de­ signazione, se una scuola vera e propria, che sarebbe stata avversa ad una teoria matematica degli intervalli, o una linea di tendenza interna al pitagorismo. Que­st'ul­tima è peraltro la tesi prevalente. Scrive in proposito A. Bélis, Aristoxène de Tarente et Aristote: le Traité d'harmonique, Klincksieck, Paris, 1986, p. 106: "Nelle loro tesi si riconoscono idee di provenienza pitagorica; la loro identificazione ha suscitato numerosi commenti, ma non si può forse supporre che Aristosseno abbia utiliz­ zato questo nome per indicare globalmente l'insieme di teorici formati dall'insegnamento pitagorico e che tenevano per loro conto delle scuole di musica?". È anche possibile che questa designazione generica non in­ dichi affatto l'unità di una dottrina. "Impiegando un termine generico, Aristosseno si dispensa di attaccare frontalmente i pitagorici che sono indirettamente interessati da cia­scuna delle polemiche impegnate con­ 255 tro gli armonisti". Ed ancora viene notato che testimonianze antiche ci invitano a ritenere che "gli armo­nisti erano di appartenenza pitagori­ ca" (p. 109) - le tesi ad essi attribuite sono pitagoriche così come la loro sperimentazione al mono­cordo erano certamente di spirito pitagorico. §9 Si è già notato all'inizio della nostra discussione che parlando di consonanza e di dissonanza si pensa per lo più a esempi di suoni che vengono fatti risuonare simultaneamente. Talvolta, nella ma­ nualistica corrente, la simultaneità entra senz'altro nelle caratte­ rizzazioni definitorie come se essa fosse una sorta di condizione del concetto stesso. Ora, non c'è dubbio che quan­do parliamo di effetto consonantico o dissonantico, facciamo riferimento esclu­ sivo alla simultaneità; e se diciamo che un suono è consonante con un altro, possiamo intendere con ciò che qualora essi venis­ sero fatti risuonare insieme ne risulterebbe una consonanza. Ma come è chiaro che siamo in presenza di una relazione tra suoni che certo non può sorgere dal puro fatto della simultaneità, così è chiaro anche che questa relazione sussiste e si manifesta anche nell'ordine di successione. Del resto potrem­mo esprimerci in termini di intervalli, e allora si mo­strerebbe forse con maggiore chiarezza che qui è in gioco una differenza in certo modo "qualitativa" de­ gli intervalli - essi non differi­scono solo per la loro grandezza, ma anche per questa "qualità consonantica" che potrà poi essere con­siderata nell'ordine della simultaneità oppure nell'ordine della successione. Eppure, nuove difficoltà si intravedono con affermazioni come queste, per certi versi del tutto ovvie. Noi abbiamo detto che la relazione che appare nella simultaneità come consonanza, non solo sussiste, ma si manifesta anche nella successione. Ciò significa che la "qualità consonantica" dell'inter­vallo viene ef­fet­ tivamente percepita. Ma allora è subito lecito chiedere: in che cosa consiste la percezione di una simile qualità? Vi è forse una qualche 256 caratteristica distintiva che differenzia percettivamente l'intervallo consonantico da quello dissonantico? In che modo si manifesta nella successione quella relazione tra suoni in rapporto ai qua­ li diremmo senz'altro che essi formano una consonanza nella simultaneità? È appena il caso di notare che espressioni come quelle di cui ci siamo serviti in precedenza quando parlavamo del compenetrarsi dei suoni nel caso della consonanza oppure del loro urto o conflitto nel caso della dissonanza sareb­be­ro ora in­ teramente fuori luogo - esse sono in effetti stretta­mente vinco­ late alla simultaneità e il loro impiego nell'ordine di successione condurrebbe ad un travisamento della situazione descrittiva. Vogliamo allora riesaminare il caso della consonanza di ottava che, come abbiamo notato, viene di norma considerato come caso esemplare. Esso mostra intanto con particolare chia­ rezza, ed è certo interessante notarlo proprio a questo punto, che questo rapporto può essere considerato anche - e saremmo quasi tentati di dire anzitutto - nell'ordine della successione. Supponiamo infatti di dover insegnare che cosa si intende quando si parla di due suoni in relazione di ottava. Di fatto do­ vremo addurre qualche esempio: e faremo bene a far anzitutto risuonare le note l'una dopo l'altra, e poi eventualmente insie­me, quasi a modo di conferma. Ci comporteremmo allora come se proponessimo di valutare a vista la lunghezza di due righelli. Pri­ ma proponiamo l'uno, poi l'altro. Quindi li mo­striamo insieme, sovrapponendoli l'uno all'altro per mostrare che essi, effettiva­ mente, sono collimanti. Ciò naturalmente ha strettamente a che vedere con il fatto che i suoni che si trovano in rapporto di ottava sono suoni della stessa specie. In un'accezione peculiare, possiamo certamente parlare di un rapporto di identità "specifica" che sta alla base dell'effetto consonantico più forte - un rapporto che può essere avvertito naturalmente anche nell'ordine di successione. Ma al­ lora sembra evidente che tutte le altre consonanze, che ven­gono concepite appunto come consonanze più deboli rispetto alla 257 consonanza di ottava, possano essere intese come fondate sulla somiglianza, anziché sull'identità tra i suoni; e sarebbe appunto null'altro che la somiglianza ad essere percepita nell'or­dine di successione. Si presti attenzione al fatto che, in queste considerazioni, non si tratta per nulla di andare alla ricerca di una traduzione verbale esatta di una circostanza percettiva - problema per lo più privo di senso - ma di mostrare in che modo ciò che viene percepito e che può essere solo mostrato in una e­sem­­plificazione concreta possa anche essere adeguatamente concepito e diventare tema di un coerente resoconto descrittivo. Da questo punto di vista la possibilità di parlare di somi­ glianza, il poter dire "questo suono è simile a quello" sem­bra portare una schiarita sulle nostre iniziali difficoltà e sug­gerire anche una direzione praticabile di sviluppo del problema. Come si può parlare di suoni vicini o lontani tra loro allu­ dendo alla grandezza degli intervalli, così si può ammettere che l'uno possa essere più o meno simile (o "qualitativamente vicino") all'altro - e il legame con il tema della consonanza sarebbe già reso evidente dal vecchio principio secondo cui il simile unito al simile è fonte di compattezza e di coesione, mentre l'unione con il dissimile genera conflitto e contrasto. Anche nel campo dei suoni si ritroverebbe così non solo la contiguità, ma anche la somiglianza come principi e criteri organizzativi che manifestano ovunque la loro azione. Anche il problema controverso delle scale di consonanza potrebbe ricevere almeno una chiara impostazione, essendo la differenza del grado inerente al concetto stesso di somiglianza. A somiglianza maggiore, consonanza maggiore sino al caso della massima consonanza. Almeno un rapido cenno merita di essere compiuto per mo­ strare come questo modo di impostare il problema, facendo rife­ rimento alla somiglianza, possa incontrarsi con la teoria secondo la quale l'effetto consonantico sarebbe strettamente di­pendente 258 dalla composizione armonica dei suoni. In base ad essa, due suoni si diranno consonanti quando hanno qualche armonico in comune. Naturalmente ci troviamo qui alla presenza di un altro grande tentativo, accanto a quella teoria dei rapporti matemati­ ci semplici che abbiamo rammentato nel pa­ragrafo precedente, di dare forma ad una concezione obbiettivistica. Ma a parte le difficoltà e le obiezioni a cui questa teoria soggiace e sulle quali non è qui il caso di soffermarsi, ci interessa invece sottolineare che in questo modo viene operata un'obbiettivazione implicita anche del concetto di somiglianza. Infatti la circo­stanza obbiettiva del possesso di una parte comune potrebbe stare a fondamento della possibilità di parlare di somiglianza tra due suoni. È chiaro tuttavia fino a che punto, in questo modo di pro­ porre i termini della questione, ci allontaniamo dal nostro pro­ blema iniziale e dal terreno sul quale lo avevamo posto. Qualun­ que sostegno teorico ricercato nella problematica degli armonici rappresenta di fatto un abbandono della dimensione percettiva, e in particolare l'idea di una somiglianza che avreb­be una pura giustificazione teorica in una nozione di parte che è priva di qua­ lunque corrispondenza fenomenologica non può assolvere al­ cuna funzione all'interno della nostra impostazione. Il rischio di separare la concezione del fenomeno dal suo resoconto descrittivo è qui corso fino in fondo. Ma questo rischio è già presente nell'an­ damento prevalentemente argomen­tativo in cui l'idea della so­ miglianza è stata avanzata in pre­cedenza, e non solo in questa sua estrema obbiettivazione interpretativa. È il caso quindi di condurre di quell'idea un esame un poco più accurato. Anzitutto è opportuno ribadire che non si tratta qui di stabili­ re una pur utile convenzione terminologica. Se questo fosse il no­ stro problema, nulla ci impedirebbe di chiamare "simili" due suoni quando essi nella simultaneità formano una consonanza. Nello spi­ rito delle considerazioni precedenti si argomenta invece che, come si può parlare di un'identità di "qualità sonora" effettivamente percepita nell'ordine di successione, così si deve poter parlare di 259 una somiglianza tra suoni data in un'apprensione percettiva: as­ sumendo naturalmente che è proprio questa so­miglianza che sta a fondamento del­l'effetto consonantico nell'or­dine della simulta­ neità. È esattamente questa impostazione del problema che genera giustificate perplessità. Intanto si tenderà a dare alla parola "simile" il senso con il quale essa viene normalmente impiegata facendo riferimen­to a cose, a oggetti o figurazioni visive in genere. Al di là di qualun­ que determinazione più precisa, la domanda se la figura C sia più o meno simile ad A di quanto lo sia la figura B è subito compresa e riceverà presumibilmente risposte concordanti. La stessa domanda sembra invece rasentare il nonsenso se con A, B e C intendiamo suoni, anzitutto per il fatto che non sappia­ mo in che modo le parole "simile" e "dissimile" possano trovare qui un'applicazione. Potremmo forse sostenere che nella suc­ cessione di due suoni che si trovano, ad esempio, in rap­porto di quinta, si abbia realmente un'appren­sione di somiglianza, quan­ do questa parola venga intesa con riferimento implicito agli im­ pieghi di cui abbiamo or ora dato un esempio nel campo visivo? Le perplessità aumentano ancor più se consideriamo il caso opposto della dissonanza. In tal caso, nella successione, oltre alla percezione della distinzione numerica, dovremmo am­mettere che vi sarebbe anche una specifica percezione di dis­simiglianza? Ciò non sembra nemmeno possedere un senso intel­ligibile. D'altra parte, l'oscuro groviglio nel quale sembra che ci sia­ mo cacciati ci riporta alla memoria uno dei nostri temi essen­ziali che sembra sia andato quasi interamente perduto negli ultimi 260 sviluppi della nostra discussione. Nonostante tutto, i suoni non sono oggetti, non sono entità da considerare nella loro sem­plice singolarità e molteplicità. Ogni volta che spingiamo troppo oltre il punto di vista dell'oggettività, è certo che prima o poi ci im­ batteremo, nonostante l'ordine apparente dei nostri argomenti, in difficoltà che possono apparire insolubili. Questo punto di vista tende ora a prevalere, e ciò è dimostrato proprio dalle nostre ul­ti­me considerazioni, nelle quali si suggerisce di effettuare para­ goni tra i suoni come se si trattasse di confrontare la forma di una cosa con la forma di un'altra. Vogliamo allora riprendere la riflessione sul nostro proble­ ma tenendo conto dei dubbi e delle perplessità esposte, e pro­ prio a partire dalla consonanza di ottava, anzi dall'unisono addi­ rittura. È subito chiaro che, considerando l'ordine di successione, in corrispondenza all'unisono avremo la semplice ripetizione. E certamente non vi è nulla di misterioso nel parlare di apprensione percettiva della ripetizione. Vogliamo tuttavia egualmente interrogarci su ciò che signi­ fica propriamente questa apprensione. Qualche spiegazione sul­ la struttura dell'atto è certamente opportuna, dal momento che il fatto che in una sequenza vi sia un suono ripetuto non implica per nulla che questa ripetizione venga effettivamente colta. Ad esempio, può accadere che la ripetizione del suono sia temporal­ mente troppo lontana dalla sua prima comparsa, oppure che vi siano altri fattori che agiscono in modo da disturbare o oscurare l'apprensione della ripetizione. Con questa espressione inoltre noi non intendiamo un esplicito atto giudicativo che arrivi addi­ rittura alla formulazione verbale, ma un "ricono­sci­mento" inte­ ramente effettuato sul piano percettivo: l'apparire del suono ha ora il senso di un riapparire. Affinché ciò si verifichi si richiede una sorta di doppio movimento, anzitutto un richiamo all'in­ dietro, una vera e propria sintesi retroattiva che si ribalta poi nuovamente sul suono attualmente risuonante, con­fer­mando il 261 richiamo retroattivo: È interessante notare che proprio in forza di questa struttura dell'apprensione percettiva la ripetizione della nota iniziale della sequenza è atta a operare la chiusura della sequenza stessa. Si consideri ora l'esempio di due suoni in intervallo di ot­ tava proposti in successione. La descrizione sarà certamente la stessa - dal momento che si tratta ancora di una percezione di "identità". L'intervallo in questione merita di essere caratterizzato come intervallo chiuso, intendendo la chiusura come una caratteristica manifesta dell'intervallo stesso. A questo punto si intravede ormai la direzione di discorso che abbiamo di mira. Se conveniamo di parlare di suoni simili non dobbiamo pen­ sare al modello di un confronto tra oggetti e ad un atto che coglie per così dire positivamente questa somiglianza in inerenza agli oggetti stessi, quanto piuttosto ad un carattere percettivo dell'in­ tervallo che è appunto la sua chiusura, in rapporto alla quale potremo anche ammettere differenze di grado, come del resto le ammettiamo già per l'unisono e per l'ottava. 262 In altre parole: ciò che si manifesta nella simultaneità come conso­ nanza, si manifesta nella successione come chiusura dell'intervallo. Ciò ci consente naturalmente di venire subito a capo anche dello strano problema della "dissimiglianza" in rapporto alla dis­ sonanza che sembrava in precedenza fare precipitare il nostro discorso nella massima confusione. L'indica­zione che possiamo trarre dalle precedenti considerazioni è semplicemente che, nel caso di suoni dissonanti nella simultaneità, non si dà nessuna sintesi retroattiva - e questa determinazione puramente negativa è in realtà in grado di rendere conto dell'idea di intervallo aperto. "Simile" e "dissimile" diventano allora espressioni il cui senso viene deciso sulla base del rimando a queste situazioni fenome­ nologiche, che mettono in causa non già speciali (e misteriose) affinità tra i suoni che sembrano in via di principio richiedere spiegazioni più profonde, quanto piuttosto l'anda­men­to della se­ quenza. Considerare i suoni nella successione significa considerare il movimento dall'uno all'altro suono. E la differenza consiste in questo: nel caso dell'intervallo consonantico l'avanzare del suono è trattenuto e frenato dal richiamo retroattivo - cosicché potremmo dire che, da questo punto di vista, il suono compie un movimento minimo, non procede, tende a restare nel luogo in cui si trova. Mentre nel caso dell'intervallo dissonantico, il semplice fat­ to che non vi è alcuna sintesi retroattiva ci consente di affer­ mare che vi è un effettivo avanzare del suono, un proten­dersi in avanti piuttosto che all'indietro. Ed è proprio questa differenza, chiaramente afferrabile sulla base di esempi, che si vuol cogliere parlando di intervalli chiusi e aperti. 263 § 10 Eppure tutto ciò non ci soddisfa. Certo, noi abbiamo promesso soltanto uno studio filosofico intorno alla consonanza e alla disso­ nanza - e ciò non significa per nulla l'elaborazione di una teoria - filosofica per giunta - che debba poi competere con ciò che sull'argomento hanno da dire il musicista o il musico­logo, il fisico o lo psicologo. Lo scopo che ci proponia­mo è invece quello di apportare sulla questione la massima chiarezza di cui siamo capaci intorno a difficoltà di ordine concettuale, tentando nello stesso tempo di accertare fino a che pun­to e in che modo il tema della consonanza e della dissonan­za possa diventare argomento legittimo di una considerazio­ne fenomeno­logica. Proprio a questo proposito non possiamo ancora dichiararci realmente soddisfatti; anche dopo gli ultimi chiarimenti, sulla questione della conso­ nanza e della dis­sonanza, restano aspetti che generano ancora una sorta di imbarazzo e di cui non possiamo affatto liberarci, come saremmo tentati di fare, distogliendo da essi l'attenzione. Si tratta infatti di aspetti non marginali, particolar­mente significativi. Basti notare che non è ancora per nulla chiaro che parte debba essere attribuita al tema dei gradi di consonanza, se esso debba essere considerato come una questione di scarso rilievo, sulla quale non è il caso di indugiare più di tanto oppure se non si possa fare a meno di esso senza rimetterci aspetti essenziali. E nemmeno del resto è realmente chiaro in che misura si possano approvare le tendenze ad una relativizzazione linguistica e psi­co­ logica e in che misura invece ci si possa esprimere in direzione del loro superamento. In una parola, il problema della consistenza e dell'incon­si­ stenza della distinzione, benché esso sia stato variamente elaborato, resta ancora in sospeso. Di fatto, non abbiamo compiuto ancora la mossa essenziale che forse fin dall'inizio era lecito attendersi, tenendo conto delle nostre premesse. Solo negli esiti della nostra 264 ultima discussione sono nuovamente affiorate perplessità su un modo di affrontare i nostri problemi mettendo da parte il punto di vista del processo. I suoni non sono oggetti, benché entro certi limiti ci possiamo rivolgere ad essi come se lo fossero. Ora que­sta osservazione va ripresa e radicalizzata. Tutta la nostra discussio­ne precedente si è sviluppata avendo di mira l'impostazione usuale del problema, cioè avendo di mira la molteplicità già costituita dei suoni, assunti nella loro pretesa singolarità e identità obbiettiva. Così abbiamo cominciato con il dire che le parole "conso­nan­ za" e "dissonanza" indicano una relazione tra suoni; oppu­re, in una formulazione equivalente, che esse caratterizzano una diffe­renza "qualitativa" tra tipi di intervalli. In entrambi i casi ci si di­spone in realtà sul terreno di una considerazione essenzialmente stati­ ca, nella quale è determinante l'idea della puntualità del suono, del suono-oggetto che può essere messo a confronto con un altro suono-oggetto. Ma in realtà la nostra prima mossa avrebbe dovuto essere quella di installarci fin dall'inizio sul terreno del continuo dei suoni nel quale le differenze che conducono alla molteplicità non sono ancora state poste e il problema può essere colto nella sua di­ mensione originaria. Tutta la discussione precedente deve perciò essere considerata come una discussione preparatoria che tende a mettere in luce difficoltà e problemi, ma anche a dare la massi­ ma evidenza, per contrasto, al mutamento di punto di vista che sta ora per intervenire. Per semplicità espositiva vogliamo limitare le nostre con­ siderazioni all'intervallo di ottava inteso come segmento rappre­ sentativo dello spazio sonoro. Come abbiamo già spiegato, i suoni in ottava A0 e A1, saranno considerati come estremi di un flusso sonoro che conduce dall'uno all'altro in un'alterazione continua. L'andamento del flusso sarà ascendente, qualora sia considerato nella direzione da A0 ad A1. Se dunque insieme a esso viene fat­to risuonare e tenuto fermo il suono A0 allora la situazione com­ plessiva verrà descritta come un progressivo allontanamento 265 dall'unisono - un allontanamento dalla nota tenuta che si con­ clude nella consonanza di ottava. Ma questa descrizione è naturalmente insufficiente. Nel­lo svi­ luppo del flusso sonoro entra in gioco anche il consuonare e il dissuonare delle fasi del flusso in rapporto al suono di riferimento. Al distanziarsi del flusso dalla nota iniziale dovuta alla struttura progressiva, si accompagna l'avvicinamento e l'allontanamento "qualitativo" - volendo esprimerci in questo modo - dipendente dagli effetti consonantici e dissonantici che ne risultano. Il nostro problema è quello di mettere in evidenza quale forma assuma il flusso sonoro in forza di questi rapporti. Non si tratta certo né di scoprire né di inventare nulla. La risposta la dobbiamo ricerca­ re nel fatto percettivo stesso; e in esso noi richiamiamo l'attenzione non solo sull'u­ni­sono e sulla consonanza di ottava, ma anche sul fatto che non appena il flusso sonoro procede oltre l'unisono, il risultato sonoro diventa fortemente dissonantico: que­sto effetto dissonantico tende progressivamente ad attenuarsi evolvendosi in un risultato consonantico che giunge ad un punto massimale, al di là del quale si verifica un'inversione di tendenza: l'effet­ to consonantico tende ad attenuarsi evolvendosi in un effetto sempre più dissonantico che culmina in prossimità dell'ottava, dissolvendosi poi completamente in essa. Tutto ciò può essere sintetizzato e schematizzato nella se­ guente figura che ha naturalmente solo pretese sommariamente illustrative. In essa il rapporto consonantico o dissonantico viene proposto come distanza crescente o decrescente rispetto al flus­ so di riferimento. 266 La linea rettilinea contrassegnata da A0 rappresenta il suono te­ nuto, mentre la linea curva il flusso da A0 ad A1, considerato nell'evoluzione del rapporto consonantico rispetto ad A0. Fac­ ciamo notare che i casi "speciali" di consonanza, l'unisono e l'ot­ tava, non vengono rappresentati - essi si trovano, come abbiamo già detto, subito oltre le due fasi opposte della massima dissonanza. Ce ne rendiamo conto: questa nostra descrizione può subito suscitare obiezioni e critiche particolarmente rilevanti. Ma ci sem­ bra per il momento più importante, anziché preoccuparci trop­po di esse, chiarire a fondo i motivi, in ogni caso ricchi di interesse, che vengono qui alla luce. Intanto si comprende certamente ora molto meglio di pri­ ma in che senso si era proposto di abbandonare l'impo­sta­zione usuale del problema passando da una considerazione legata ai suoni singoli e ai loro rapporti ad una considerazione dello spa­ zio sonoro come tale e nello stesso tempo da una con­­si­derazione statica ad una considerazione dinamica. Si comprende meglio, soprattutto, la profonda modificazione di punto di vista che è anche una profonda modificazione dei termini del problema. In certo senso dobbiamo essere pronti a mutare la stessa gram­ matica delle parole "consonanza" e "dissonanza", e proprio in conseguenza del fatto che con esse ora si indica non tanto e non anzitutto una relazione tra suoni, ma una caratteristica strutturale dello spazio sonoro. Il fatto che esso abbia, relativamente ad un suo­ no di riferimento ("fondamentale"), quella determinata curvatura consonantica, appartiene alla feno­menologia dello spazio sonoro, esattamente come vi appar­tiene la caratteristica della progressività o della chiusura. Ma affermazioni come queste non possono essere separate dal piano dinamico entro cui esse sono proposte. Qui abbiamo a che fare con flussi e con fasi di essi; e con le parole "consonanza" e "dissonanza" si intende ora cogliere una tendenza interna del flusso. Dobbiamo allora poter parlare, ad esempio, di un divenire della consonanza dalla dissonanza, di un trapassare dell'una nell'altra, 267 e addirittura di un trapassare della dissonanza nell'unisono o nel­ la consonanza di ottava. E tutte queste espressioni hanno il loro "riempimento" in situazioni percettive concretamente esemplifi­ cabili. In questo mutamento di prospettiva la questione della gra­ dualità trova naturalmente una precisa localizzazione e mostra quanto essa sia importante per ciò che concerne la stessa co­ stituzione concettuale della distinzione. Essa non poggia su una pura e semplice possibilità classificatoria, ma contraddistingue i poli di un processo nel quale l'un polo si converte gradualmen­ te nell'altro. Il legame che qui viene mostrato tra consonanza e dissonanza non è proposto da considerazioni che riguardano la pura costruzione logico-linguistica delle parole - secondo l'ov­ vietà che istituisce l'equivalenza tra "più consonante" e "meno dissonante" (e inversamente) - ma è direttamente vincolato alla situazione percettiva concreta. All'interno di questa impostazione del problema non vi sono propriamente ancora consonanze e dissonanze. Al più po­ tremmo individuare nello spazio sonoro un'articolazione inter­ na, una suddivisione tra un'area consonantica e un'area dissonantica: Ma non per questo saremo tenuti a determinare esattamente la linea di demarcazione tra le due aree. Una delle obiezioni più frequenti contro la consistenza della distinzione che trae argomen­ ti dall'incertezza dei suoi confini risulta in realtà essere profon­ damente erronea alla luce di una caratterizzazione dinamica del­ le nozioni in quanto quell'incertezza diventa una conseguen­za di 268 quella caratterizzazione. Qui siamo infatti interessati uni­camente alla tendenza del movimento, e in base a questa ten­denza sappia­ mo che la distinzione dovrà diventare ad un certo punto relativa­ mente indeterminata, e anche questa possi­bile inde­terminatezza fa parte della natura del problema, essendo la distinzione realmente netta solo se si considerano "luoghi" pros­simi alle polarità estreme. Tutto ciò mostra infine come il flusso sonoro che, consi­derato indipendentemente da questa modalità di rapporto ha la forma di un mero "scorrere" nell'una o nell'altra direzio­ne, non appena viene proposto prospetticamente, e cioè colto, per così dire, dal pun­ to di vista di una nota assunta come unità di riferimento dei rapporti conso­ nantici e dissonantici, si anima di una potente conflittualità interna. Nulla forse illustra meglio come sia diverso considerare rapporti tra suoni singoli come tali oppure come integrati nei dinamismi dello spazio sonoro del modo in cui deve essere qui proposta la problematica dell'identità; e anche: nulla meglio di questa pro­ble­ matica mostra la profonda dialetticità interna dello spazio sonoro. Se prendiamo in considerazione l'identità nel senso più stretto rappresentata dall'unisono, ciò che importa è allora il luo­ go che l'unisono occupa all'interno dello spazio sonoro inteso come flusso. Dalle schematizzazioni precedenti non è difficile trarre la seguente rappresentazione, che deve essere naturalmente inte­ sa in un senso un po' diverso dalle precedenti. I due flussi in mo­vimento debbono infatti essere considerati simultaneamente risuonanti: quello a sinistra proviene dall'ottava inferiore, quello a destra dall'otta­va superiore, e risuonano insieme con il suono di riferimento. I rapporti consonantici e dissonantici sono intesi rispetto alla nota di riferimento. 269 L'unisono, l'identità più compiuta viene dunque raggiunta salen­ do dalla consonanza (quinta) inferiore e discendendo da quella superiore secondo un percorso che esaspera progressivamente la differenza - in un percorso di dissonanza crescente che trova nell'unisono il proprio punto culminante. Annotazioni 1. Benché non sia nostra intenzione andare oltre una proposta tenden­ te a indicare il modo di approccio al problema e la sua direzione di sviluppo, mantenendo l'esposizione aperta a ogni possibile miglioramen­ to, è tuttavia certamente opportuno aggiungere alcune precisazioni e qualche commento. È osservazione abbastanza spesso ripetuta che il rapporto consonan­ tico o dissonantico tra due note risulta inapprezzabile se le note sono molto distanti tra loro: esse allora si propongono come note semplice­ mente distinte, come note che "non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra". Alla base di una simile osservazione vi è in realtà un problema fenomenologico che merita di essere reso interamente esplicito. È il caso anzitutto di notare che anche nel campo dei suoni, come in quello della visione, vale la regola fenomenologica secondo la quale formeranno un'unità suoni più vicini, piuttosto che suoni più lontani, essendo la distanza intesa nel senso della grandezza dell'intervallo. Si tratta manifesta­ mente di una regola di "sintesi per contiguità" a cui naturalmente cor­ risponde la regola che attribuisce all'au­men­to della grandezza dell'in­ tervallo una funzione segregante. Questa regola non è peraltro pecu­ 270 liarmente legata al problema della consonanza e della dissonanza e in particolare l'unità di cui qui si parla non va confusa con l'unità che, in altra accezione del termine, potrebbe essere attribuita alla consonanza in quanto confluenza e compenetrazione dei suoni. Tuttavia questa no­ zione di unità ha un'incidenza significativa sul problema della consonanza e della dissonanza che merita di essere esplicitamente sottolineata. Infatti vi è indubbiamente una condizione per l'apprez­za­mento percettivo sia di una consonanza sia di una dissonanza, e questa condi­ zione è rappresentata proprio dal fatto che i suoni debbono essere "ac­ coppiati" nel senso stabilito dalla regola precedente. L'allentamento di questa condizione conduce al prevalere della semplice distinzione per­ cettiva sia sull'effetto consonantico che su quello dissonantico - i suo­ ni vengono allora percepiti come reciprocamente indifferenti, e quindi anche come suoni che non entrano l'uno con l'altro in un rapporto di contrasto o di reciproca confluenza. Tenendo conto di ciò potremmo parlare di attenuazione del­l'ef­fetto consonantico o dissonantico in una nuova accezione, per indicare non già l'evolversi graduale dell'effetto consonantico in un effetto dissonan­ tico e inversamente, ma come un'attenua­zione conseguente all'allen­ tamento della sintesi di contiguità e dunque all'indebolimento di ciò che forma una condizione per il sorgere di un effetto consonantico o dissonantico. Questa considerazione ci consente un'importante precisazione sulla grammatica della parola "grado di consonanza", e quindi delle espressioni "più consonante", "meno consonante", così come è stata implicitamente fissata dalla nostra impostazione del problema. Stando ad essa, infatti, le espressioni "più consonante" o "meno consonante", come espressioni che indicano la direzione di un movimento, sono ap­ plicabili solo all'interno dell'una o del­l'altra sezione dello spazio sonoro. Per dare un'esemplifi­cazione concreta: secondo l'impostazione propo­ sta non ha affatto senso porre la domanda se una terza maggiore sia più o meno consonante di una sesta minore o di una sesta maggiore. Ma, è naturalmente per lo stesso motivo, non ha senso porre il problema se l'ottava sia più o meno consonante dell'unisono. 271 Quest'ultima circostanza ci invita certo ad un qualche appro­ fondimento. Non è forse la nostra regola grammaticale troppo restritti­ va? Di fatto, l'affermare, come si fa di solito, che l'ottava è "meno con­ sonante" dell'unisono (o ha un grado di consonanza minore) non ha forse qualche evidenza dalla propria parte? In effetti, si può rendere conto della differenza in questione attraverso l'azione della regola della "sintesi per contiguità", e quindi facendo riferimento alla maggiore di­ stinzione percettiva che va riconosciuta all'ottava rispetto all'unisono. Vi è qui un'attenuazione del­l'ef­fet­to consonantico nel nuovo senso or ora spiegato. Se vogliamo, dopo di ciò, usare l'espressione "meno conso­ nante", dovremo allora impiegare questa espressione vincolandola, vor­ remmo quasi dire, non tanto ad un effetto di minore consonanza, ma ad un minore effetto consonantico, e quindi riferirla al "grado di unità" piuttosto che al "grado di consonanza" nella nostra prima accezione del termine. Come è chiaro, si possono qui inserire equivoci fastidiosi. Lo stesso problema si ripresenta ogni volta che si prendono in consi­ derazione coppie di suoni della stessa specie, ma che sono estremi di in­ tervalli diversi, come nel caso del confronto tra un intervallo di seconda e un intervallo di nona, oppure nel caso dei rivolti all'interno dell'ottava. In questi casi è possibile parlare di un confronto solo in quanto si abbia di mira il problema del grado di unità e il modo in cui le differenze nel grado di unità incidono sull'effetto consonantico o dissonantico. Così si può dire che un intervallo di nona ha un minore effetto dissonantico di un intervallo di seconda oppure che un intervallo di terza maggiore, che può essere considerato come appartenente all'a­rea consonantica, ha un maggiore effetto consonantico della sesta minore. Non credo infine che sia troppo forte l'assunzione che il grado di unità cominci con l'a­ gire come controtendenza all'effetto consonan­tico o dissonantico al di là del limite rappresentato dalla massima consonanza. In questo modo si mostra come l'empiria psicologica e le pratiche linguistiche esplichi­ no la loro azione, in realtà molto ampia e la cui considerazione è indi­ spensabile in questo ordine di problemi, a partire da determinazioni di ordine fenomenologico-struttu­rale la cui chiarifica­zione è, a sua volta, indispensabile per comprendere il senso di quel­l'azione. 272 2. L'insistenza con la quale nelle nostre considerazioni sulla consonan­ za e sulla dissonanza, e in generale sulla struttura dello spazio sonoro, mettiamo l'accento sulla differenza di principio rispetto a un'impostazio­ ne psicologico-sperimentale degli stessi problemi, non toglie il riconosci­ mento che questa differenza possa diventare meno netta e la linea di demarcazione malsicura quando è la stessa psicologia della percezione ad assumere un andamento fenomenologico. Lo stesso terreno d'indagi­ ne tende allora a essere comune e diventano perciò possibili confronti e discussioni certamente feconde in rapporto alla posizione, dei proble­ mi e alle proposte della loro soluzione. A questo proposito vogliamo segnalare l'importanza che riveste, per ciò che riguarda l'aspetto più ge­ nerale di questo rapporto, il volume di P. Bozzi, Fenomenologia sperimentale, il Mulino, Bologna 1989 e, dello stesso autore, le ricerche specificamente dirette all'ambito musicale, in particolare: P. Bozzi, "Un aspetto della qua­ lità armonica: la tendenza alla risoluzione", Rivista di Psicologia, LIII, 2, 1960; P. Bozzi e G. Vicario, "Due fattori di unificazione fra note musicali: la vicinanza temporale e la vicinanza tonale", Rivista di Psicologia, LIV, 4, 1960; P. Bozzi, "I fattori di unificazione, il mascheramento, il gioco dell'in­ terprete", in Atti del Convegno "Psicologia ed Estetica", Palermo 1981. No­ tiamo che la sintesi per contiguità di cui si parla nell'annotazione prece­ dente fa tutt'uno con la nozione di vicinanza tonale trattata nel penultimo e nell'ultimo articolo citato. Particolarmente significative sono infine per noi le considerazioni sulla tematica dell'espres­sione svolte da P. Bozzi nel terzo capitolo ("Qualità terziarie") del volume Fisica ingenua, Garzanti, Milano 1990, pp. 80 sgg., nel quale la critica dell'associazio­nismo psicolo­ gico nei sui impieghi ingenui si avvale anche, in modo pertinente ed effica­ ce, di esempli­ficazioni musicali. § 11 Abbiamo detto di non voler precipitarci a considerare le obiezioni che affiorano alla prima delineazione dell'impostazione proposta: ma una volta che essa è stata abbozzata nei suoi lineamenti es­ senziali prendere in esame le obiezioni rappresenta un modo di fornire ulteriori importanti precisazioni e di evitare fraintendi­ 273 menti da cui, in realtà, ci sentiamo minacciati molto da vicino. A dire il vero tutte le obiezioni si possono ridurre ad una soltanto, particolarmente dura e rivolta a ciò che fornisce la base stessa della nostra impostazione del problema. Tutti i nostri ultimi sviluppi sul tema della consonanza e della dissonanza possono essere considerati come conseguen­ze di un'assunzione fondamentale che chiama in causa la grandezza degli intervalli. Vogliamo esaminare con maggiore attenzione que­ sto punto, anzitutto con riguardo alla prima sezione in cui lo spazio sonoro viene suddiviso. Ciò su cui abbiamo attirato l'attenzione è che il movimento ten­ de ad un punto di massima consonanza, riducendosi pro­gressivamente l'effetto dissonantico che segue all'uni­sono. Si noti che mentre possiamo parlare di un punto di massima consonanza, non pos­ siamo nello stesso senso parlare di un punto di massima disso­ nanza dal momento che il processo ha inizio proprio dall'uniso­ no. Di massima dissonanza si potrà naturalmente parlare, in un'ac­ cezione meno stringente, in rapporto ad un "luogo" che si trova comunque in prossimità dell'unisono. Dobbiamo allora notare che il punto di massima consonanza è anche il punto più distan­ te dalla nota fondamentale, così come inversamente il punto di massima dissonanza è il punto più vicino alla nota fondamentale. Si ripresenta così, in forma nuova, e in stretta connessione con il problema della consonanza, la differenza tra il grande e il piccolo intervallo. Potremmo dire: è massimamente dissonante con un suono il suono che è tanto vicino a esso da poter apparire come una sua alterazione. Tuttavia se ci limitassimo ad un simile rilievo vi sarebbe ben poco da obiettare: in fin dei conti, chiunque, invitato a fornire esempi il più possibile chiari, farà presumibilmente riferimento all'intervallo più piccolo all'interno del nostro sistema - quindi all'intervallo di seconda minore - e, volendo evitare la conso­ nanza di ottava, all'intervallo di quinta. Ma noi in realtà andiamo oltre, poiché pretendiamo di poter considerare questi due casi 274 estremi come indicativi della presenza di una precisa regola feno­ menologica in base alla quale vi è una relazione funzionale tra il grado di consonanza e la grandezza dell'intervallo. Questa regola noi la vediamo operante, e ciò naturalmente può valere come un'ulteriore importante conferma, nella secon­ da sezione dello spazio sonoro. Il movimento si allontana sempre più dalla nota fonda­ mentale, gli intervalli diventano sempre più grandi, ma si tratta in ogni caso di un movimento di approssimazione alla nota che è più "simile" di ogni altra alla nota fondamentale tanto da poter essere detta "identica" ad essa (a meno della maggior "acutezza"). L'intervallo rispetto a questa nota si riduce progressivamente, e in questa riduzione l'effetto dissonantico diventa sempre più pronunciato. Ora proprio questa regola fenomenologica che sta alla base di tutta la nostra discussione potrebbe essere oggetto dell'obie­ zione più dura: essa è semplicemente falsa! Si è del resto mai let­ to qualcosa di simile in un testo di teoria musicale o in una trat­ tazione qualsiasi che si occupi della questione? Sembra davvero necessaria la speculazione filosofica per assumere il coraggio di enunciarla. Può forse questo coraggio da due soldi mettere a ta­ cere fatti ben noti che appaiono subito sufficienti ad una decisa confutazione? Si sa, ad esempio, che l'intervallo tritonico è di norma con­ siderato fortemente dissonante, pur essendo più grande dell'in­ tervallo di quarta e appena più piccolo dell'intervallo di quinta; mentre, proprio per questo, secondo lo spirito (o forse sarebbe meglio dire, la logica) delle nostre considerazioni, esso appartie­ ne all'area consonantica e il suo grado di consonanza dovreb­ be essere addirittura maggiore di quello dell'intervallo di quarta. Oppure si può rammentare che in generale si è propensi a con­ siderare la terza zarliniana più consonante della terza tem­perata, pur essendo più vicina alla nota fondamentale. Baste­rebbe citare questi due casi, anzi soltanto il primo, per mettere da parte l'idea di una connessione funzionale tra il rapporto consonantico e la 275 grandezza dell'intervallo. Invece obiezioni come queste che sembrano tagliare l'erro­ re alla radice ci consentono di apportare alla nostra posizione gli ultimi miglioramenti che sono indubbiamente indispensabili per evitare che, in luogo di ottenere un effettivo chiarimento, tutto ricada nella massima confusione. In realtà un errore autentico lo commetteremmo se, pren­ dendo alla lettera quelle obiezioni, ci accingessimo a sostene­ re alcunché su questo o quel determinato rapporto intervallare, singolarmente preso ed eventualmente messo a confronto con un altro. Si tratta invece di richiamare l'attenzione su quel muta­ mento di punto di vista che avevamo annunciato nel momento in cui abbiamo dato l'avvio a questi ultimi sviluppi, per farne ora apprezzare a fondo tutta l'importanza. Esso era stato ope­ rato soprattutto con l'intenzione di passare ad una consi­derazione dell'intera problematica in un quadro fenomenologico, dal mo­ mento che deve essere anzitutto chiaro che qui è in gioco propria­ mente l'ammissibilità di una considerazione della distin­zio­ne tra consonanza e dissonanza da un punto di vista fenome­nologicostrutturale, e di conseguenza ciò che in rapporto a quella distin­ zione può essere detto attenendosi strettamente all'interno di questo punto di vista. Cosicché, mentre abbiamo cominciato la nostra discus­ sione prendendo in esame la grammatica corrente dei termini, passando ad un'impostazione dinamica e chiamando in causa lo spazio sonoro, abbiamo operato una vera e propria nuova deter­mina­zione del problema, e quindi dello stesso senso delle parole "consonante/dissonante", scontando possibili divergen­ ze rispet­to a impieghi più o meno determinatamente codificati dalla teoria e dalla pratica musicale. Siamo passati ad un nuovo gioco linguistico, nel quale non solo non sono ancora implicati i suoni nella loro molteplicità e singolarità, ma soprattutto viene meno la possibilità, lasciata ampiamente aperta dall'impostazio­ ne u­sua­le del problema e che di continuo traspare nella gramma­ 276 tica corrente dei termini, di una riduzione dell'intera tematica al piano empirico-psicologico. Il nostro problema diventa allora: che ne è della distinzione tra consonanza e dissonanza se separiamo da essa quei momenti che possono pretendere al massimo una giustificazione empiri­ co-psicologica? Perciò non abbiamo preso nemmeno in considerazione que­ sta o quella curva del rapporto consonantico fondata su più o meno accurate sperimentazioni psicologiche che sono a disposi­ zione di ognuno [110]. Abbiamo invece richiamato l'at­tenzione sull'esistenza di una tendenza dello spazio sonoro che esibisce di per se stessa la presenza di una regola interna. La rilevazione di questa tendenza poggia ovviamente su una situazione percetti­ va, e tuttavia non su introspezioni, non su esperimenti, e nemmeno su elementi che ci potrebbero far sospettare l'azione determinante della convenzione e quindi della mediazione linguistica. In precedenza non ho fatto altro che farvi notare che lo spazio sonoro, relativamente ad un suono di riferimento che vie­ ne tenuto fermo, tende alla massima consonanza secondo la de­ scrizione fornita in precedenza. Esso ha proprio questo andamento. Qualcuno potrebbe chiedere: come la sai? Che cosa ci può assicurare che non si tratti di una tua sommaria impressione per­ sonale che non ha nessun fondamento nella cosa stessa? Allora io attiro la vostra attenzione sul fatto che la linea seguente: si impenna verso l'alto all'incirca nella zona indicata dalla freccia. Chi è ora disposto a chiedere, seriamente, come faccio a saperlo? 277 E chi sarebbe tanto ottuso da ammettere una simile affer­mazione solo se supportata da una verifica sperimentale adeguata? Si vedono allora subito le conseguenze di questo modo di impostare il problema: la forma strutturale messa in eviden­ za fornisce un criterio per la formulazione delle domande così come per la determinazione del senso delle risposte. In base ad essa è certamente già deciso se un determinato punto apparten­ ga all'area consonantica o a quella dissonantica. E così è anche già deciso in quali circostanze sia ammissibile il parlare di una differenza nel grado di consonanza e in partico­lare il modo in cui va intesa questa differenza. Ci liberiamo così in un colpo solo di tutte le difficoltà che abbiamo segnalato a suo tempo e che giustificano il dubbio sulla consistenza della nozione. La terza è una consonanza? E il suo grado di consonanza è maggiore o minore della quinta o della sesta? Qui è veramente il caso di dire, stando all'impostazione usuale: come faccio a saperlo? Che cosa esattamente debbo mettere a confronto e in che modo questo confronto può essere realiz­ zato? Di fatto secondo quella impostazione, la nozione di conso­ nanza tende a ridursi ad una nozione di eufonia e di grade­volezza che rende labili e incerti i contorni stessi del problema. La teoria e la storia musicale sembrano confermare, con la varietà delle rispo­ ste e delle decisioni, una simile dissoluzione dell'intera questione nell'empiria psicologica. Di fronte a tutto ciò, noi ammettiamo senz'altro di sentir­ ci presi da un soprassalto platonistico: con il richiamo a criteri ed a regole interne alla struttura facciamo nuovamente valere, a modo nostro, quel motivo che abbiamo visto così chiaramente formulato nel passo della Repubblica dove si manifesta, e proprio in rapporto ad un materiale così inesorabilmente sensi­bile come è il suono, una sorta di insofferenza verso le indeterminatezze della sensibilità. Naturalmente non si tratta per noi di rivendicare la necessi­ tà di oltrepassare il piano della sensibilità in direzione di pretesi a 278 priori matematici. Eppure la presenza di un motivo "aprioristico" è innegabile nella stessa proposta di una nuova determinazione del senso del problema a partire dal ricono­scimento di una tra­ ma di rapporti strutturali direttamente afferrabili sulla superficie fenomenologica. È così interamente cambiata l'angolatura dalla quale guardiamo alla distinzione tra consonanza e dissonanza - è cambiato, come dicevamo in precedenza, il modo di impiego dei termini, la loro grammatica. Di questo cambiamento occorre prendere chiaramente coscienza dal momento che tutte le diffi­ coltà entro cui è costretta a destreggiarsi la nostra discussione sor­ gono proprio dalla coesistenza tra un piano empirico­-psicologico e un piano feno­meno­logico-strutturale. A questo intreccio di piani, e dunque di "giochi linguistici" diversi, sono dovuti quei frain­ tendimenti della nostra posizione che si manifestano nelle dure e aperte obiezioni che abbiamo formulate all'inizio. In effetti, mentre nell'impostazione usuale della questione, ha senso proporre confronti tra intervallo e intervallo, per quan­ to possa una simile proposta diventare subito altamente proble­ matica, considerando la questione dal lato della struttura, avre­ mo a che fare non con punti o intervalli, ma con fasi di un pro­ cesso ed eventualmente con differenze nel senso dello svi­luppo processuale. Poiché questo processo è caratterizzato come un progresso verso una condizione di massima conso­nanza, una fase può essere più o meno prossima a questo limite. Questa prossimità, a sua volta, non deve essere intesa staticamente, ma dinamicamente, come un essere più o meno proteso verso quel limite. Per questo motivo le obiezioni prece­denti non posso­ no pretendere alcuna forza di confutazione, e dunque noi non abbiamo affatto bisogno di intervenire con qualche nostra per­ sonale opinione, ad esempio, sul carattere dell'intervallo tritonico. La differenza dei piani deve dunque essere sottolineata con energia, così come al tempo stesso il fatto che l'intera imposta­ zione proposta fa riferimento allo spazio sonoro nella sua di­ mensione originaria come movimento sonoro, come flusso. La 279 coppia consonanza-dissonanza designa allora una tensione in­ terna dello spazio sonoro, una tensione che appartiene ad esso e che non solo mostra la presenza di una regola, ma che istituisce al tempo stesso un nuovo momento di articolazione. In effetti non dobbiamo perdere di vista il problema più generale dal quale abbiamo preso le mosse e nel quale è inscritto anche quello della consonanza e della dissonanza. La nostra domanda era: se la dimensione iniziale da cui vo­ gliamo prendere le mosse è il Suono stesso, il continuo sonoro, come fanno a esserci i suoni? In che modo diventa possibile il passag­ gio dalla continuità alla discretezza? Vi sono criteri che orienta­ no in via di principio la suddivisione dello spazio sonoro? Tutta la nostra discussione è attraversata da questa doman­ da che certo ha cominciato a ricevere qualche risposta. In primo luogo, lo spazio sonoro è caratterizzato da una struttura iterativa che non solo esibisce una prima suddivisio­ ne, ma che consente anche di limitare il problema all'inter­vallo di ottava. In secondo luogo, la tematica dell'alterazione mostra l'esistenza di un limite di principio alla libertà della suddivisione fornendo una giustificazione intrinseca alla distinzione tra suo­ ni "principali" e suoni "secondari", intesa in una delle accezio­ ni possibili di questi termini. Ora, con la considerazione della distinzione tra consonanza e dissonanza facciamo un ulteriore passo avanti in rapporto a questo problema. Mentre la regola della "contiguità" implicata nella tematica dell'alterazione, non era naturalmente in grado di determinare alcun punto all'interno dell'intervallo di ottava, appare invece chiaro che la considerazione della forma dissonantica­-consonantica dello spazio sonoro effet­ tua questa determinazione. Si tratta ovviamente del punto di mas­ sima consonanza: esso individua due intervalli notevoli, secondo la terminologia musicale corrente, l'intervallo di quinta e l'inter­ vallo di quarta. Gli intervalli di quinta e di quarta sono inscritti nella struttura dello spazio sonoro: in questo modo può essere certamente ripreso non tanto un punto di vista ogget­tivistico 280 che sembra aver bisogno di una giustificazione fisicali­stica e che difficilmente può essere liberato da elementi di dogmatismo, quanto quelle sue ragioni che possono essere repe­rite a livello puramente fenomenologico. La novità teorica sta qui nel fatto che questo punto che suddivide il segmento rappresentativo del­ lo spazio sonoro non ha affatto bisogno di giustificare la propria rilevanza - e quindi eventualmente la propria funzione struttu­ rante - attraverso considerazioni che riguardano la consonanza più bella, più gradevole, più eufonica, più compiuta. Essa deriva invece dal fatto stesso che quel punto può essere appreso udi­ tivamente come punto terminale di uno sviluppo sonoro di un determinato tipo. Esso ha carattere di punto di volta, perché proprio in quel punto avviene l'inversione della direzione di mo­ vimento. In realtà ogni altro momento del processo ha carattere di uno stato essenzialmente transitorio. Ciò vale naturalmente anzitutto per i momenti che appartengono all'area dissonanti­ ca: la dissonanza è infatti un divenire dissonante a partire dalla condizione iniziale dell'unisono (o della consonanza di ottava), cosicché dal rapporto dissonantico non può essere individuato - nello stesso senso - alcun punto determinato. Ma in stretta coerenza con la nostra impostazione dobbiamo affer­mare che anche l'area consonantica rappresenta per noi una transizione verso quel massimo a cui spetta nel senso più stret­to e proprio il titolo di Consonanza. In realtà le considerazioni fenomenologico­-strutturali non possono spingersi oltre il riconoscimento di questa articolazione interna elementare, quindi oltre l'idea di un unico punto di consonanza e di aree di consonanza e di dissonanza intese come transizioni. In certo senso riscopriamo il senso antico della parola - il senso greco del termine di consonanza ("sinfonia") che, come si sa, ammetteva di essere applicato solo all'intervallo di quinta e di quarta, a parte i casi dell'ottava e dell'unisono. Questa circostanza viene spesso citata come conferma di una visione relativistico-soggettivistica 281 del problema: come se quell'impiego linguistico documentasse che per l'orecchio greco qualunque altro intervallo fosse avverti­ to come dissonante. A noi invece piace pensare che un impiego tanto ristretto del termine fosse soltanto un segnale della prossi­ mità all'aspetto strutturale del problema. § 12 Dopo una discussione che, nonostante tutti i nostri sforzi per evitare le tentazioni che si ponevano a ogni passo di estender­ ne la portata e approfondirne i termini, ha assunto in ogni caso un'ampiezza tale da rendere difficile dominare il senso dell'in­sieme, si sente il bisogno di riportare la riflessione sugli inten­ti che stanno alla sua base e che rappresentano anche le sue motiva­zioni più profonde. Questa riflessione può essere avviata dedicando qualche parola di commento alla nozione di regola fenomenologica - espres­ sione che in precedenza abbiamo direttamente introdotto senza particolari spiegazioni. Con una simile espressione noi intendia­ mo una regola formulata in stretta inerenza alla forma e ai modi di manifestazione del materiale percettivo - e di essa potremmo dare un'illustrazione ricorrendo ad esemplificazioni estrema­ mente elementari. Si pensi alle nostre considerazioni sulla temporalità. Non potremmo forse rendere esplicite delle regole che sono con­ tenute nel fatto stesso che i suoni e le sequenze sonore sono temporalmente determinate? Ad esempio: un suono che dura di più, all'interno di una sequenza, avrà certamente mag­gior peso di un suono che dura di meno, cosicché potremmo dire che vale in generale la regola "maggiore durata, maggiore importanza". Lo stesso si potrà dire per la ripetizione: il ritorno percettivo dello stesso suono non può che conferirgli pregnanza. Oppure potremmo rammentare il rilievo che assume in una sequenza il primo suono e proprio per il fatto che esso è il primo. Infatti, sviluppandosi una "melodia" temporalmente e dunque non po­ 282 tendo essere data fin dall'inizio in una "visione d'insieme" nella quale si distinguano senz'altro i tratti principali dai dettagli, il pri­ mo suono non può essere afferrato come un dettaglio, cosicché essa comincia con una prevenzione uditiva e ciò proprio per il fatto che essa comincia. Anche se questa prevenzione potrà essere subito smentita dallo sviluppo successivo. Del resto l'imponenza del primo suono sarà senz'altro sminuita da una durata troppo breve. Regole elementarissime, come abbiamo detto, ma pur sem­pre regole. In quanto poi esse mettono in questione l'impor­tanza mag­ giore o minore dei suoni in una sequenza, esse vertono sull'idea stessa dell'articolazione come un'idea che appartiene alla nozio­ ne di "melodia" considerata nella sua massima generalità. Non chiameremo "melodia" una sequenza di suoni in tutto e per tutto indifferenti, così come non parleremmo di "melodia" in rappor­ to al risuonare uniforme di un unico suono. La significatività di una sequenza di suoni consiste anzitutto nel fatto che essa consta di suoni che hanno pesi differenti. Le regole che abbiamo rammentato sono regole atte a istituire differenze. Ma questa problematica è presente ovunque nelle nostre considerazioni sulla struttura dello spazio sonoro proprio per il fatto che, come abbiamo cercato di mostrare, esso è attraversato da tensioni che sono in grado di differenziare la continuità pre­ parando il passaggio alla discretezza, e dunque ad una moltepli­ cità di possibili forme di articolazione. Da questa angolatura può essere riconsiderata l'intera tematica dell'al­tera­zione, e dunque della connessione tra continuità e discretezza, così come, e ap­ pena il caso di dirlo, quella della consonanza e della dissonanza. Possiamo in generale dare forma di regola a relazioni strutturali che chiamano in causa la grandezza degli intervalli, la loro carat­ terizzazione "qualitativa", la maggiore o minore "somiglianza" tra i suoni, dunque i rapporti istituiti nel gioco della dissonanza e della consonanza. Ora, proprio considerando gli esempi nella loro elemen­ 283 tarità, appare subito chiaro che queste regole non sono da inten­ dere come se esse avessero una validità relativa ad un de­ter­minato linguaggio, ma come regole che poggiano su nessi necessari, su legalità di ordine strutturale. Non meno importante, per chiarire la natura di queste regole, e che nella loro for­mu­lazione non è stato ancora deciso proprio nulla sui modi, certa­mente moltepli­ ci, in cui esse potrebbero intervenire in un progetto espressivo. In base ad esse possiamo affermare, per stare alle semplici esem­ plificazioni precedenti, che se all'interno di una sequenza una nota ritorna con particolare insistenza, essa tenderà a prender rilievo all'interno della sequenza stessa, un rilievo che potrebbe essere accentuato se quella stessa nota aprisse la sequenza e an­ che la chiudesse. Ma se affermassimo, ad esempio, che deve es­ serci sempre, in ogni sequenza di suoni, una nota più importante di tutte le altre e che questa deve sempre stare all'inizio e alla fine della sequenza, opereremmo una netta modificazione di piani, segnalata del resto dalla formulazione prescrittiva a cui or ora ab­ biamo fatto ricorso. La regola di cui ora si parla è propriamente una norma, e possiamo assumere che essa faccia parte di un lin­ guaggio di cui contri­buisce a determinare la particolarità. In un altro linguaggio potrebbe ad esempio valere la norma secondo cui un suono deve presentarsi in una sequenza una volta soltanto, e dunque nessuna nota deve prevalere sulle altre attraverso il modo della ripeti­zione. Ma è della massima importanza sottoli­ neare che anche questa norma, come la precedente, presuppone la validità della regola fenomenologica ed è a partire da essa che può essere compreso il senso di quel divieto. Val la pena di notare a questo proposito che nulla sarebbe più erroneo che interpretare la nostra trattazione del problema della struttura dello spazio sonoro come se in essa si tendesse a operare una trasposizione su una pretesa terra di nessuno di luo­ ghi comuni che sono invece caratteristici del linguaggio tonale nella prospettiva di una loro legittimazione. Naturalmente osia­ mo pensare che anche le regole di questo linguaggio (come di 284 ogni altro) non siano campate in aria, ma abbiano le loro ragioni, da un lato, negli intenti espressivi perseguiti, dall'altro nel modo in cui, in conformità a questi intenti, viene elaborato il materiale sonoro. Ma occorre anche sottolineare che sul terreno nel quale ci disponiamo non si è affatto deciso, anzi non si è nemmeno posto il problema, se, ad esempio, l'importanza che l'intervallo di quinta ha indiscutibilmente in rapporto alla descrizione della struttura dello spazio sonoro debba essere fatta valere sul piano espressi­ vo e secondo quali possibili norme. E lo stesso si può dire per le caratterizzazioni tendenzialmente espres­sive che sottolineano la dinamicità della dissonanza oppure la staticità della consonanza di cui abbiamo difeso in vari modi la pertinenza; oppure per tut­ te quelle norme, appartenenti al linguaggio della tonalità (come quella della risoluzione della dissonanza) di cui possiamo rico­ noscere il fondamento all'in­terno di considerazioni strutturali (e quindi togliendo di mezzo l'ottusa idea di clausole fondate uni­ camente sull'abitudine), fa­cen­do tuttavia notare che queste stesse considerazioni debbono esse­re chiamate in causa per rendere con­ to di norme interamente diverse. A questo punto si intravvede con chiarezza in che modo la problematica che abbiamo qui trattata si integri nel quadro critico e polemico che abbiamo delineato nella nostra Introduzione contri­ buendo a fissarne più nettamente i contorni. In certo senso nella discussione che abbiamo in essa condot­ to sul problema della molteplicità dei linguaggi della musica ci siamo chiesti: in che modo veniamo educati a questa molteplicità? In che modo la teoria musicale o, più ampiamente, la riflessione te­ orica intorno alla musica ci può preparare ad essa? E avevamo già ampiamente fatto valere l'opinione che non solo nessuna educa­ zione può venire dalla semplice trasmissione delle regole e delle loro vicende all'in­terno della tradizione musicale europea anche se accompagnate da qualche estrinseco ammonimento relativi­ stico; ma nes­suna, nemmeno dalla pura e semplice asser­zione della molteplicità e dell'idea conseguente di gramma­tiche particolari che 285 determinano le validità interne a questo o quel sistema linguisti­ co. Come si è già notato a suo tempo, al di là di ciò che in queste affermazioni è ormai pura e semplice ovvietà, in esse ciascun sistema viene prospettato in linea di principio come un univer­ so chiuso fluttuante nel vuoto e sul vuoto. Come sarà possibile allora stabilire un modo di approccio dall'uno all'al­tro sistema, se viene escluso ogni legame? In che modo possono essere rea­ lizzati quei confronti che sono necessari per fissare le differenze e il loro senso? Ci troviamo qui nella condi­zione di avere a che fare ogni volta con "categorie" interamente nuove, con regole così radicalmente scaturite dal nulla da fare diventare problematica la stessa possibilità della comprensione. Si impone così, ogni volta che l'attenzione viene attirata sul­ la molteplicità dei linguaggi della musica, e dunque sul tema della loro particolarità, la necessità di disporre di nozioni che proprio in forza della loro generalità siano in grado di fornire un criterio per apprezzare la novità e la differenza. Si impone il problema di una teoria generale della musica. Così e semplicemente: solo una teoria generale della musica può fornire un'introduzione e una preparazione effettiva alla molte­plici­tà, solo attraverso di essa la particolarità può essere dispiegata nella sua effettiva ricchezza di senso [111]. Parlare di una teoria generale non significa tuttavia postulare un'astratta essenza unitaria, una sorta di nucleo identico che ogni linguaggio musicale dovrebbe possedere, e dunque nemmeno si pensa a un'esposizione sistematica compiuta, il cui oggetto appari­ rebbe subito indeterminato. Si pensa invece alla possi­bilità di di­ sporsi di fronte ai casi sempre determinati in cui consiste la mu­ sica dal punto di vista di una teoria generale. La questione di una teoria generale, che affiora e non può non affiorare ovunque all'inter­ no della teoria e della filosofia della musica e persino all'interno delle tematiche analitiche, per quanto quella stessa espressione venga accuratamente tenuta lontana dal dibattito, consiste essen­ zialmente nel riconoscimento della possibilità di un punto di vista. 286 Ma questo riconoscimento può essere effettivamente realizzato solo se questa tematica viene liberata da tutti quei fraintendi­ menti che la renderebbero impraticabile. Tutti i nostri svilup­ pi precedenti possono ora essere riconsi­derati, in uno sguardo retrospettivo, come sviluppi che illustrano questa possibilità. Il tema del regresso ad un piano prelin­guistico, della necessità di disporsi ai margini della musica considerata nella varietà delle sue manifestazioni, che è presente fin dall'inizio della nostra trat­ tazione, riceve, nel nostro tentativo di caratterizzazione fenome­ nologica dello spazio sonoro, un più pre­ciso profilo problematico e ci consente di formulare con chiarez­za l'idea dell'esistenza di regole di base e dunque di una grammatica di base - un'espressione questa che si presta anche a essere applicata al di fuori del campo del linguaggio per indicare la presenza sul piano dell'esperienza di forme strutturali fondamentali. Muovendoci in questa direzione, a ben pensarci, non fac­ ciamo altro che prospettare da una diversa angolatura un'i­dea che si impone con evidenza già in una considerazione della modi­ ficazione delle regole all'interno dell'unità di una tradizione. Una nuova regola, nell'ordine storico, non può proporsi in altro modo se non come una sorta di negazione attiva di una vecchia regola oppure come un mutamento del rapporto di questa con le altre regole, come un modo diverso di impiegarla e di integrarla. Ma ciò suggerisce appunto una riflessione su un terreno più ampio. Quando ci installiamo all'interno di un linguaggio e nella particolarità delle sue regole dobbiamo sapere che esse non sono escogitazioni arbitrarie che si sostengono a vicenda nella loro pura e semplice coesione sistematica. Esse risultano invece da affermazioni e negazioni, da modi peculiari di impiego, da scelte e decisioni. Prima di esse vi sono infatti quelle regole fe­ nomenologiche che costituiscono una grammatica di base che è sempre implicitamente presupposta. Cosicché dobbiamo dire: dal gioco con queste regole derivano le regole di questo gioco. 287 Capitolo quarto Simbolo 288 289 §1 Chiunque si accinga oggi ad aprire una discussione sul problema del senso del musicale deve attendersi da una buona par­te dei suoi ascoltatori una subitanea caduta dell'attenzione, come di fronte ad un argomento che è stato certamente di fondamentale impor­ tanza nei dibattiti di estetica musicale, ma che ha raggiunto ormai una sorta di definitivo assestamento. Intanto si prospetta subito già fatto e bene delineato lo schema dell'alternativa entro cui quella discussione dovrebbe necessariamente svilupparsi, così da togliere ogni incertezza in­ torno al modo dell'impianto, un'incertezza che peraltro può a malapena essere mantenuta in rapporto al suo andamento suc­ cessivo, essendo anche l'esito scontato fin dall'inizio. L'al­ter­ nativa consiste infatti in una considerazione che ricerca il sen­ so del musicale nei dinamismi che hanno origine al di fuori del brano musicale e, sul lato opposto, nella tesi secondo cui questo senso sarebbe invece tutto giocato al suo interno, cosicché da esso fuorvierebbe ogni richiamo a circostanze esterne, non diretta­ mente afferrabili nel brano stesso, per quanto possano risiedere nelle sue vicinanze. In rapporto a questa im­ma­nenza del senso si usa parlare di formalismo, mentre appartiene all'altro polo dell'al­ ternativa il riconoscimento di un "contenuto" che viene plasmato e rappresentato nelle forme musicali. Secondo un'analogia spesso ricorrente: l'alter­nativa sta tra una concezione del musicale come un dipinto che si com­piace del puro gioco di forme e di colori che nulla raccontano intorno al mondo oppure come un dipinto che, rappresentando volti e pae­saggi, sa narrare eventi. Ma l'atten­zione si è già di molto allentata se fin dall'inizio la questione sembra essere ormai decisa a favore del versante che, adattandoci alla terminologia corrente, anche noi chiameremo formalistico. Alla domanda se nella musica si esprimano pensieri e sen­ timenti, se essa possa essere paragonata sotto questo riguardo 290 all'immagine poetica, alla raffigurazione pittorica o all'azione drammatica, la tendenza della risposta, comunque poi essa ven­ ga articolata e variamente approfondita, sarà per lo più negativa. Al punto che la stessa parola "espressione" - in se stessa così innocua quando non sia ancora integrata in una filosofia - può essere considerata sospetta e particolarmente indesiderata. "L'espressione non è mai stata la proprietà immanente della musica" - afferma perentoriamente Stravinsky in una frase fa­ mosa [112]. A sua volta Schönberg ribadisce in varie occasioni che un'idea nella musica consiste essenzialmente nella "relazione reciproca delle note" [113] , il musicista non essendo altro che una sorta di filosofo i cui pensieri hanno forma musicale [114]. La musica basta a se stessa. Quindi non devi andare alla ricerca di qualcosa che sta al di sotto o al di là della superficie sonora. Quando odi uno sviluppo tematico, non devi chiederti quale sia il pensiero che sta alla sua base e che esso porta all'espressione, dal momento che lo sviluppo tematico stesso è quel pensiero. Ciò che dal musicista è stato pensato sono proprio questi suoni - i suoi pensieri sono appunto pensieri musicali, cioè pensieri fatti di suoni. Affermazioni come queste meritano di essere accompagnate da qualche parola di commento così da coordinare a esse alcuni motivi capaci di consolidare il nostro consenso. Ad esempio: esse negano forse che sentimenti o pensieri possano in qualche modo essere "fonti di ispirazione" per il mu­ sicista, che vi siano suggerimenti o suggestioni prima del­l'o­pera e che in qualche modo sono connessi, nella mente del composi­ tore, all'origine dell'opera? Riprendendo quella frase tanto citata e rincrescendosi anche un poco della sua forse immeritata for­ tuna, Stravinsky osserva che per nulla affatto intendeva in essa negare che il compositore si esprima nell'o­pera, quanto piuttosto affermare che questa circostanza è irri­levante rispetto alla realtà della composizione musicale, dal momento che "una nuova com­ posizione musicale è una nuova realtà" [115]. L'accento deve dun­ que cadere sulla dimensione d'es­sere dell'opera, su questo suo trarsi 291 fuori dalla concatenazione dei vissuti nella quale essa è stata ge­ nerata, potendo così pre­tendere di essere considerata nella sua pura oggettività. Schönberg narra una volta come un proprio brano di mu­ sica strumentale sia per lui costantemente associato ad un or­ rifico dipinto, che gli era rimasto impresso nella mente sin da bambino, nel quale la ciurma ammutinata di una nave inchioda­ va per la testa il proprio capitano. Egli narra questo certamente per sottolineare - come del resto si precipiterebbe a sottolineare qualunque commentatore - che proprio nulla ha a che fare con il brano musicale quella visione, per quanto ad essa, per qualche misteriosa ragione, quel brano sia strettamente vincolato nella vita affettiva del compositore [116]. Sullo sfondo del problema vi è dunque anzitutto una presa di posizione antipsicologistica, che intende determinare l'opera nel suo essere più che nella sua origine e nella sua destinazio­ ne. Una presa di posizione che naturalmente non vale solo nella direzione della produzione, ma anche in quella dell'esecuzione, dell'ascolto e del discorso critico. "Ciò che vorrebbero sapere - a parlare è qui ancora Stra­ vinsky - è se le note ripetute del clarinetto basso alla fine del pri­ mo movimento della mia Sinfonia in tre movimenti possano essere interpretate come una 'risata'. Supponiamo che io concordi a intendere che sia una 'risata', che differenza fa per l'esecutore? Le note non ne vengono toccate. Esse non sono simboli, ma segni" [117]. Qui si concede addirittura che il compositore abbia proprio voluto conseguire l'effetto espressivo di una risata, abbia voluto "imitarla". Ma le note, i suoni anzitutto scritti sul foglio di carta, restano con ciò esattamente quello che erano e il bravo clarinettista resta con il suo specifico problema esecutivo, che è anzitutto un problema tecnico. Dovrebbe dun­que pensare ad una risata? Forse è meglio che non lo faccia. All'ascoltatore invece si raccomanderà di mettere da parte tutte quelle indicazioni che gli vengono dal di fuori del brano 292 musicale come tale, e soprattutto da titoli di sapore descritti­ vo, raffigurativo, narrativo che così spesso i musicisti (o altri per loro) propongono in rapporto alle loro opere, quasi volessero imporre a forza ai segni sonori una capacità simbolica che essi non sono in grado di sopportare. Benché in realtà la questione del simbolismo sia tutt'altro che superata nelle teorie di esplici­ ta inclinazione formalistica, l'opposizione tra simbolo e segno, ri­ chiamata da Stravinsky, è quanto mai pertinente dal momento che una sorta di repugnanza nei confronti del tema del simbolismo si trova indubbiamente alle radici dell'istanza formalistica. L'acco­gliere da parte dell'ascol­tatore la provocazione "simbo­ lica" che può provenire da un titolo o da un suggerimento esterno non significa altro che rinnovare la negazione della dimensione ontologica dell'opera, una negazione che non si realizza soltanto nel mantenere il vincolo con i motivi della sua produzione, ma anche in una modalità dell'ascolto che la annienta. In luogo di mantenere l'opera nella autonomia della sua dimensione d'essere, noi la impastiamo nel flusso dei nostri vissuti, facendo dell'ascolto una fonte di ispirazione per le nostre più svariate fantasticherie. Infine, seguendo un simile orientamento, il discorso critico tenderà ad assumere il carattere di un'illustrazione del modo in cui il brano musicale è fatto, quindi di un'analisi di esso che sia capace di lumeggiarne la struttura e di mettere in evidenza le tecniche impiegate, piuttosto che indugiare sulle "impressioni" che il brano può generare nell'ascoltatore. Ed è subito il caso di richiamare in proposito, per opposizio­ ne, e senza voler spingere lo sguardo troppo oltre, quanto diver­ samente si presentasse l'intero problema nel secolo XIX, quando la relazione al contenuto sembrava essere spesso esplicitamente ricercata, e così anche appariva naturale che la tecnica composi­ tiva non fosse altro che un veicolo attraverso il quale pensieri e sentimenti potevano giungere all'espressione. Era allora possibile, con molta semplicità, indicare una fonte letteraria come origine di un brano senza ritenere di dover subito correre ai ripari pre­ 293 gando l'ascoltatore di non tenerne conto. È noto che Beethoven invitava alla lettura di Shake­speare chi gli chiedeva una chiave per la comprensione delle sue sonate; e così Liszt non esitava a proporre esplicitamente come fonte per la propria ispirazione sonetti del Petrarca o a rievocare al pianoforte la lettura di Dante con riferimento ad una poesia di Victor Hugo. È del resto cosa risaputa: una tendenza formalistica nel senso molto ampio nel quale assumiamo qui questo termine, può essere considerata come in qualche modo connaturata all'atteggiamento musicale novecentesco, e si trova in ogni caso in concordanza con quell'inclinazione antiromantica che è indubbiamente di quell'at­ teg­giamento uno dei tratti caratteristici, o più propriamente, uno dei modi fondamentali della sua autorappresentazione. Come dice efficacemente Jankélévitch: "La volontà di non esprimere nulla è la grande civetteria del ventesimo secolo" [118]. Questo motivo polemico è, almeno alla superficie, tanto violen­ to da far spesso dimenticare che la parola "romantico" rimanda ad una straordinaria stagione della cultura, per far valere invece il suo significato incolto, quasi che essa evocasse chissà quali svene­volezze, chissà quali atmosfere da romanzetti rosa. D'altra parte, potremmo forse prendere a tal punto sul se­ rio Beethoven da ricercare nelle articolazioni delle sue sonate le scene della Bisbetica domata o della Tempesta, come se il pensiero del compositore fosse stato guidato da esse passo per passo? [119] Oppure lasciarci guidare nell'ascolto, passo per passo, dalle effusioni immaginifiche che caratterizzano così spesso i "program­ mi" della musica romantica? In realtà vi è un'aned­dotica così ricca sugli eccessi, o anche, se si vuole, su quelle che potrebbero es­ sere presentate come semplici conseguenze dell'assunzione del punto di vista del contenuto, che essa, di per sé sola, basterebbe a scoraggiare chiunque nutra qualche dubbio in proposito. 294 §2 E tuttavia qualche dubbio può pur essere sollevato, anche se certamente non riguarderà quella scontata critica della psico­ logizzazione dell'azione creativa e della ricezione delle opere che sembra essere al centro delle preoccupazioni. Essa del resto non riguarda specificamente la musica, ma i prodotti del­l'arte in ge­ nere. Il problema sorge invece da ciò che si ritiene che questa critica debba comportare, dal quadro teorico che essa mette in movimento. Vi è un'effettiva e necessaria implicazione tra una critica antipsicologistica e una presa di posizione forma­listica, tra essa e una distruzione del "contenuto" che riduca quest'ultimo, quando in qualche modo reclama la propria esistenza, a pura fin­ zione estrinseca? In particolare ci sem­bra utile esaminare un poco più da vicino fino a che pun­to possano essere spinte affer­mazioni genericamente formalistiche quando si pretende che esse valgano invece come nuclei di teorie coeren­temente sviluppate. Un conto infatti è un'opinione formulata su spezzoni di problemi, per di più espressi in modo più o meno chiaro, e un altro è un'assunzione che voglia effettivamente misurarsi con l'intero arco di questioni che si affollano sotto il titolo, apparen­ temente elementare, di "problema del senso". Ad un esame più attento potrebbe apparire profondamente erroneo ricondurre all'unicità di una soluzione un'effettiva molteplicità di problemi che non sono affatto dominabili in un colpo solo. Con ciò vogliamo attirare l'attenzione soprattutto sul fatto che questa nostra discussione ha senso solo se intendiamo con punto di vista formalistico una presa di posizione abbastanza forte, nella quale non ci si limita a contestare l'impiego di pure cita­ zioni letterarie o pittoriche che sono in ogni caso enunciate al di fuori del brano musicale e che possono evidentemente trovarsi in una relazione più o meno lenta con esso. Nemmeno si tratta soltanto di mettere da parte "fonti di ispirazione" con tutte le 295 loro accidentalità soggettive o di stigmatizzare una modalità di ascolto che si perde in distratte fantasticherie. Si tratta invece di proporre l'idea secondo la quale il brano deve essere consi­derato come semanticamente chiu­so, se è lecito esprimersi in questo modo, e ciò significa che nulla può essere ammesso come "senso" in rapporto a esso che porti oltre il puro fatto sonoro. Si sosterrà allora che in esso non vi è memoria che non sia quella necessaria per seguire lo sviluppo temporale - una memoria dunque pura­ mente interna, che rappresenta una condizione per l'afferramento delle relazioni in cui esso è strutturato. Così non vi sarebbe im­ maginazione che sia qualcosa di diverso dall'immaginare possibili forme di collegamento tra i suoni. Quanto ai pensieri, sappiamo già che essi non potranno essere altro che pensieri musicali. Per illustrare in che senso abbiamo bisogno di fare riferi­ mento ad una concezione abbastanza radicale da non risolversi in prese di posizione del tutto ovvie, converrà fare riferimento al rapporto con il significato verbale - quando, ad esempio, in un brano di musica vocale, si propone un orizzonte di senso esplicitamente definito da significati verbali. Si tratta in realtà di un caso che può essere considerato come particolar­mente rap­ pre­sentativo di tutti quei casi in cui la musica interviene come momento di una situazione globale in cui essa è integrata, e ciò si­ gnifica: dal cui senso essa è determinata e il cui senso contri­buisce a determinare. Si pensi al rapporto tra musica e un'azione dram­ matica oppure all'im­piego della musica in una circostanza rituale o cerimoniale. In questi casi, tra la musica e gli altri momenti costi­ tutivi della situazione deve esservi quell'aderenza reciproca, quel re­ ciproco interscambio che ci consente di parlare di un'integrazione. Ora, il punto di vista formalistico spiega quell'orizzonte di senso nel quale il brano è integrato come una pura finzione che trae la sua legittimità al più dall'accordo sociale, dalla convenzione, dall'associazione abituale delle idee. In se stessa la musica non può aderire ad un significato verbale, e nemmeno dunque può integrarsi in un contesto più 296 ampio e ai sensi di cui esso è portatore perché in tal caso si con­ travverrebbe certamente l'assunzione di principio della chiusura semantica e alle spalle dei rimandi interni si potrebbe pro­spettare l'idea di una capacità simbolica che invece deve rimanere esclusa. Una simile capacità, laddove ci sembra di poterla cogliere, deve es­ sere illustrata come pura apparenza, per quanto essa possa essere tenace. Il suo sorgere non è dovuto ad altro che all'asso­ciazione estrinseca tra uno stilema musicale e una più o meno determina­ ta area di senso, un'asso­ciazione che la stessa pratica musicale si incarica di fissare nella nostra mente. Abbiamo già accennato come una simile considerazione debba valere anche, e anzi in primo luogo, per la questione del nesso tra musica e affettività. Già nella nostra discussione sulla temporalità abbiamo fatto notare che non siamo affatto obbli­ gati a stabilire una connessione necessaria tra musica e vissuti, come se questa connessione fosse insita nella stessa natura tem­ porale della musica. Ma una cosa è negare la necessità di questa connes­sione, un'altra è negare la sua possibilità. In quest'ultimo caso l'intero edificio della musica appare ricoperto da cartoni raffi­ guranti fantasmi inconsistenti, che debbono certamente essere tol­ ti per cogliere l'oggetto che essi rac­chiudono. Questo problema sembra assumere la sua forma cruciale là dove si pretende di attribuire valori affettivi particolari a moduli elementari, a strutture intervallari come tali, se non addirittura a suoni presi nella loro singolarità. Il problema delle caratterizzazio­ ni emotive delle tonalità e della differenza tra modo maggiore e minore nella tradizione europea rappresenta soltanto un limitato episodio all'interno di una tematica vastissima che ha forse il suo punto culminante nella teoria e nella pratica della musica indiana e della musica orientale in genere. Certamente si potrà osservare che proprio di qui si possono trarre argomenti a favore, piuttosto che contro, la direzione che si vorrebbe rendere problematica. Proprio nelle descrizioni indiane dei sentimenti associati ai raga sembra raggiungere la sua massima 297 evidenza l'insussistenza di una qualche reciproca aderenza tra le strutture sonore e i momenti emotivi che sono a esse attribuiti. Quando ad esempio si dice di un raga che esso è "come l'ape che raggiunge l'orecchio degli uomini alla fine della pri­ mavera", oppure di un altro che esso piace "a chi desidera l'in­ telligenza" oppure ancora quando si parla di un modo che resti­ tuisce il pudore ai ciechi (tanto in esso vi è la gioia), si propone forse un pensiero poetico intorno alla musica, si tra­sfigura poe­ ticamente il "pensiero musicale", ma non si può pretendere che questa trasfigurazione, che si avvale di simbolismi tanto aperti, sia da considerare come effettivamente inerente al pensiero musicale stesso [120]. Sembra anzi che qui il senso simbolico si sovrapponga com­pletamente al fenomeno sonoro e ci affascini in se stesso. Altrimenti, in che modo si potrebbe arrivare a vedere in una sin­ gola nota la figura del pavone oppure l'immagine dell'au­tunno o dell'inverno? E anche noi, pure affascinati da queste poetiche trasfigurazioni, potremmo forse arrivare a considerare un inter­ vallo più erotico di un altro? [121] Proprio attraverso questi esempi si potrebbe documentare quanto sia arrischiato aprire una breccia in questa direzione: la più prudente ammissione di una portata simbolica apre un processo di cui non possiamo segnare il limite. Eppure siamo tentati, anche in rapporto a questi casi estre­ mi, ad evitare il primo commento che potrebbe affiorare sulle nostre labbra, cominciando invece con il dire: non è tanto im­ portante segnare un limite al processo di produzione dei sim­boli e stabilire fino a che punto questo limite si allontana dal suo ini­ zio, quanto lo è il riconoscere che questo processo può in qualche modo avere inizio. 298 §3 Alle istanze di principio di un punto di vista formalistico appar­ tiene indubbiamente non solo la rescissione della relazione con l'affettività, ma anche la pura e semplice espulsione del problema del simbolismo. È interessante tuttavia notare che non appena il punto di vista formalistico cresce sino ad assumere l'aspetto di una teorizzazione relativamente compiuta, queste istanze non vengono per lo più realmente soddisfatte e i temi che in esse sono implicati si ripresentano con una singolare ostinazione. A questo proposito, la classica esposizione di Hanslick [122] è esemplare proprio perché la critica della rappresentativi­ tà non viene affatto sviluppata sino alle sue ultime conseguenze. Ciò che viene preso di mira è infatti soltanto una nozione forte della rappresentazione, cosicché non è la relazione al sentimento come tale ad essere contestata, ma la possibilità di determinare il sentimento, che si ammette come "espressivamente" presen­ te nelle forme musicali. Non sono i contenuti del sentimento, e dunque le sue concrete varietà e le loro differenze a dare senso allo sviluppo musicale, sono invece i suoi dinamismi interni, anzi, ancor più, le forme di questi dinamismi. Si delinea così un nucleo tematico che resterà in realtà per lo più invariato nelle sue nume­ rose riprese più recenti, benché naturalmente esso possa essere inserito in un quadro teorico molto diverso e sottoposto ad un più ampio approfon­dimento. Prendiamo sommariamente in esame la posizione e­spressa da Suzanne Langer che può indubbiamente essere considerata come un'elaborazione filosofica approfondita di premesse for­ ma­listiche [123]. Soprattutto l'idea che il sentimento abbia una forma sembra fornire un chiarimento decisivo e indicare la giusta strada. In essa dovrebbe consistere la chiave per spiegare in che modo una pura oggettività governata da regole interne e che cer­ tamente non dice nulla, sia tuttavia in grado di apparire ricca di 299 significato e attrarre così il nostro ascolto. Nelle forme musicali si coglierebbero i nessi della vita interiore, il sentimento stesso nel­ la sua fluente indeterminatezza. Ciò avverrebbe - spiega Suzan­ ne Langer - per via del fatto che "le strutture sonore che noi chiamiamo musica hanno una stretta somiglianza logica con le forme del sentimento umano" [124]. Cosicché la relazione con l'affettività si impone non tanto come una pura possibilità a di­ sposizione dell'e­spres­sione musicale, ma come una caratteri­stica essenziale della musica stessa. Per la Langer la musica e senz'al­ tro "un corrispondente sonoro della vita emotiva" [125]. Sullo sfondo di affermazioni come queste vi è anzitutto un'impostazione semiologica del problema. Beninteso, la musica, per la Langer, non è un linguaggio - e ciò significa propriamente che il linguaggio verbale rappresenta essenzialmente un punto di confronto negativo, un riferimento che può essere interessante per stabilire un'opposizione. Tuttavia la musica è in ogni caso un siste­ ma di segni - cosicché viene chiamata in causa la nozione generale di segno. Questa nozione si specifica nei segni che sono segnali dell'esistenza di qualcosa e nei segni che non esplicano una si­ mile funzione e che la Langer chiama simboli. I simboli linguistici - che vanno distinti dai simboli non lingui­stici - saranno infine i simboli in uso nel linguaggio verbale ed essi esemplificano solo una delle possibili modalità di esplicazione della funzione simbo­ lica. Ed è appunto per rendere conto di una concezione della sim­ bolizzazione capace di evitare il rimando rappresentativo caratte­ ristico del linguaggio verbale che entra in azione l'idea della forma del sentimento. Questa idea suggerisce immediatamente la possibilità che fra sentimento e strutture sonore vi siano isomorfismi - vi sia, come dice la Langer, una stretta so­miglianza "logica". Ciò sod­ disfa intanto le istanze filosofiche più generali della Langer, che intende certamente mantenere un legame con una considerazio­ ne "razionale" anche, e in particolare in un campo che deve es­ sere sottratto al simbolismo discorsivo [126]. Il parlare di forma 300 logica comune, di analogia formale fa subito pensare ad un grafico funzionale e al modo in cui esso ci pone sotto gli occhi l'andamen­ to di uno sviluppo senza che sia implicato, almeno in apparenza, alcun rimando denotativo. Se il simbolo musicale potesse essere concepito così, allora alla rappresentazione che ci porta al di fuori dell'opera potrebbe subentrare la presentazione che ci fa restare in essa. In generale i critici della Langer sono rimasti così impres­ sionati dalla pesantezza con cui, in un simile contesto, si ripre­ senta il tema del sentimento, dai toni apertamente organicistici e infine vagamente vitalistici che lo accompagnano, da trascurare ampiamente le difficoltà che sorgono già nelle prime mosse del­ l'im­postazione del problema, ed anzitutto proprio nel modo in cui si parla di simbolo e di isomorfismo strutturale. Le due nozio­ni, come abbiamo visto or ora, sono strettamente collegate ed è pro­ prio questo collegamento che sembra consentire l'attri­buzione di un "significato" in un contesto che esclude la denotazione. Eppure proprio qui sta il nodo della questione. Parlando di corrispondenza e insistendo su questo modo di rapporto sembra si tagli corto con una concezione "rappresentativa" del significato, anzitutto per il fatto che nella corrispondenza è implicata la sim­ metria che è invece esclusa dal rapporto denotativo. Se parlia­mo di simbolizzazione, volendo mantenere l'applicazione del termine a condizioni di isomorfismo strutturale, allora dovremo ammet­ tere non solo, ovviamente, la possibilità di distinguere tra ciò che opera la simbolizzazione e ciò che viene simbolizzato, ma che gli elementi in relazione possano scambiarsi questa funzione. Nel nostro caso ciò sarebbe del tutto privo di senso. Abbiamo biso­ gno di dire che le strutture sonore simbolizzano sentimenti, fis­ sando questa relazione nella sua asimmetria: appare allora chiaro che non vi è alcun passaggio conseguente tra il fatto che due strutture siano isomorfe e l'interpretazione che fa dell'una - e proprio di questa - il simbolizzante dell'altra. In tutta evidenza si ripresenta, con la distinzione tra simbolizzante e simbolizzato 301 intesa in questo modo, il problema del rapporto rappresentativo che si era cercato di scongiurare con il tema della corrisponden­ za. L'esempio del grafico funzionale ci insegna anche questo: ci debbono essere degli indicatori esterni al grafico affinché esso possa essere inteso come "simbolo". Questi indicatori stabilisco­ no quei legami denotativi su cui si fonda la presentazione simboli­ ca che il grafico realizza. Questa difficoltà cruciale, che avrebbe dovuto certamen­ te imporre una revisione radicale dell'impostazione problemati­ ca, viene avvertita dalla Langer, ma la soluzione platealmente e grossolanamente pragmatica che essa propone non fa altro che confermare la sua portata: "Ci deve essere un motivo - si osser­ va quasi di passaggio - per decidere fra due entità o due sistemi che uno è simbolo dell'altro (e non inversamente). In genere, la ragione decisiva sta nel fatto che uno è più facile dell'altro da percepire e da usare". Ecco dunque come stanno le cose: se diciamo che i suoni simbolizzano sentimenti e non inversamen­ te, ciò dipende dal semplice fatto che è molto più facile pro­ durre suoni, manipolarli e combinarli a piacere, piuttosto che sentimenti [127]. Ma se può essere sottoposto a critica questo modo di porre il problema della simbolizzazione nell'ambito del musicale, perplessità non minori sono generate dalla nozione di forma del sentimento, considerata in se stessa. Non già che si possa negare che anche nell'ambito della vita affettiva vi siano delle forme, quindi delle relazioni e dei nessi strutturali - al contrario si tratta di un'idea della massima importanza sotto più riguardi, che rimanda ad un'articolazione dell'esperienza affettiva, e quin­ di anche ad una sua possibile dominabilità conoscitiva. Come abbiamo rammentato in prece­denza, questo motivo non è af­ fatto estraneo alla posizione della Langer: si può notare tuttavia come esso tenda a impoverirsi proprio nei suoi lati di maggiore interesse, arrivando addirittura a tradursi nel suo opposto, nel puro contenuto inarticolato. L'idea della forma si riduce anzitutto a quella di. un mero "andamento" - che può certamente essere 302 comune, ad esempio, alla gioia come al dolore: la gioia infatti cresce a poco a poco, e poi si sviluppa tumultuosamente, fino ad un punto culminante per andare poi via via decrescendo sino ad estinguersi. Ma così anche il dolore. E ciò non vale forse anche per l'ira, e ovunque nella vita dei sentimenti? Dove trovi un sen­ timento il cui movimento non possa essere descritto proprio in questo modo? È come se potessimo parlare di una forma gene­ rale della vita emotiva, e potessimo dire: questa è la forma generale della vita emotiva. Abbiamo dunque buone ragioni per parlare di un impo­ verimento, e proprio nella direzione di una perdita di artico­la­ zione e di differenze. La preoccupazione di evitare la deter­mina­ tezza del sentimento che era già propria di Hanslick non rie­sce a trovare un'effettiva sistemazione teorica, e la nozione di forma del sentimento diventa tanto priva di differenze interne da conver­ tirsi infine nel più indifferenziato e oscuro dei sen­timenti - un senti­mento, oltre tutto, che non siamo nemmeno sicuri se ci sia veramente o se sia invece una pura invenzione dei filosofi: si trat­ ta, naturalmente, di quel sentimento della vita di cui infine ci parla la Langer come qualcosa di non molto diverso dalla forma del sentimento. Tutta la musica avrebbe nel sentimento della vita il suo unico senso simbolico: questa è la conclusione a cui si per­ viene coerentemente, ed essa non è certo in grado di suscitare i nostri entusiasmi. 303 §4 Considerando questi esiti, può apparire singolare l'accento che noi abbiamo voluto porre sul fatto che essi giungano al termi­ ne di uno sviluppo presieduto da premesse formalistiche. Non si può forse osservare che quelle premesse debbono essere ben deboli se lasciano un così largo spazio a tematiche caratterizzabili, non senza qualche giustificazione, come "irrazionalistiche"? Pensiamo del resto alle nostre considerazioni iniziali. L'in­ ten­to perseguito da una considerazione formalistica è anzitutto quello di fissare l'opera nella sua esistenza obbiettiva - la critica del "contenuto" è anzitutto una critica che mira a metterci di fronte l'opera così come essa è, liberandola dalle accidentalità psicologiche che la circondano da ogni parte. Proprio per questo è giusto connettere strettamente una consi­derazione formalistica con le istanze di un'analisi autentica del brano musicale, cioè di un'analisi capace di individuare la sua struttura interna, le sue regole immanenti, dunque di dire ciò che in esso propriamente accade. A tale scopo è naturalmente necessaria una precisa sapien­ za che non abbia affatto timore di pas­sare per burocratica o inge­ gneresca, ma che anzi di ciò possa menare vanto. Per mostrare che cosa è veramente una costruzione musicale è necessario anzitutto levare quei cartoni che la nascondono, così che possa apparire il modo in cui essa è realmente fatta. Assumendo questo punto di vista, non solo si metteranno subito da parte i simbolismi più o meno espliciti, ma si assumerà fin dall'inizio una posizione di difesa nei confronti delle componenti soggettive nascostamente affioranti nelle stesse pieghe della terminologia, che dovrà essere il più possibile depurata dall'insidia delle espressioni "qualitative" e delle tensioni affettive in esse presenti. Questo è tuttavia solo un aspetto del problema. In real­ tà nelle ingenue psicologizzazioni, nell'adesione sprovveduta a titoli e programmi, nell'idea che l'ira e la gioia possano pene­ 304 trare, e proprio nella loro determinatezza, nel musicale, in bre­ ve in tutto ciò che una considerazione formalistica respinge in via di principio - e certamente con buone ragioni - si fa valere una concezione della musica indubbiamente troppo elementare, troppo grossolana, ma che è caratterizzata dal fatto non tanto di associare alla musica i sentimenti nelle loro con­crete differenze, quanto piuttosto di richiamare, proprio per il fatto che essi sono altrettanto concretamente inerenti alla vita del mondo, questa stessa vita in tutta la ricchezza delle sue molte­plici forme. La mu­ sica ci appare così non più legata all'inte­riorità di quanto lo sia all'esteriorità, talora essa "parla" di grandi cose, ma non disdegna le piccole, e può persino lasciare intravedere attraverso i suoni un paesaggio e il passare di una stagione. La musica viene così trattenuta terra terra, nella sua dimensione terrestre. Altrimenti stanno le cose se ci muoviamo all'interno di un orizzonte formalistico. Appare infatti ben presto chiaro che il parlare di un senso puramente interno o addirittura, nel con­ fronto con il linguaggio verbale o con il linguaggio pittorico, di un'assenza di senso non rappresenta certo una soluzione soddi­ sfacente del problema posto dal fatto che un brano musicale non può in ogni caso essere considerato come una pura sequen­ za di eventi fisici. Quegli inizi che richiamano l'atten­zione sulla necessità di una considerazione positiva, di una piena aderen­ za alla cosa stessa, possono perciò proporsi in modo inatteso e certamente non obbligatorio, ma non senza una giustificazione profonda, come l'avvio di un processo di subli­ma­z ione. Il senso interno del musicale può essere concepito come qualcosa che supera o sta al di là di ogni struttura di riferimento oggettivo e dunque al di là delle possibilità del linguaggio in genere e che la musica riesce in qualche modo a portare all'espressione. Il pro­ blematico rapporto tra musica e linguaggio può essere elaborato fino al punto di attingere il tema dell'ineffabile. È bene sottolineare subito: vi sono moltissime cose che meritano di essere chiamate ineffabili nell'accezione letterale del 305 termine. E sono tutte quelle cose in rapporto alle quali non ha senso chiedere una traduzione verbale. È ineffabile, ad esempio, l'aroma del caffè [128]. Ma una simile ineffabilità che riguarda in generale i dati della sensazione non mette affatto in questio­ ne la capacità del linguaggio verbale, come se questa ineffabilità corrispondesse ad un suo limite: al contrario, il lin­guag­gio verbale assolve adeguatamente il compito che gli è assegnato significando con parole l'aroma del caffè. È invece compito della percezione conferire pienezza al significato delle parole. Ma vi è anche un impiego esaltato del termine "ineffabile", un impiego cioè che supera di gran lunga l'acce­zione letterale implicando fin dall'inizio l'idea di un limite intrin­seco dell'espres­ sione verbale - essendovi forse cose tanto grandi, tanto tremen­ de, tanto sublimi, da non poter essere comu­nicate nello stesso modo in cui si comunicano i messaggi di ogni giorno. Ciò che è ineffabile è ora un contenuto troppo grande per il contenente della parola, cosicché siamo qui alla presenza di una sovrabbondan­ za del senso, di un suo straripamento. Ora, per quanto un atteggiamento formalistico possa ini­ zialmente sembrare lontano dal connettere la musica all'i­nef­ fabile in questa accezione esaltata, tuttavia vi è certamente una via che conduce dall'uno all'altro polo, che stabilisce tra essi una sorta di singolare solidarietà. Forse più precisamente: quanto più si esaspera il tema dell'oggettività e della sintassi, quanto più si sottolinea l'essere in sé dell'opera come un essere in sé che si se­ para da ogni legame con il mondo, tanto più nettamente l'impo­ stazione del problema tende ad un completo ribaltamento non appena si avanza nuovamente la pretesa dell'espressione. Nella musica non vi è spazio per ninne nan­ne. Ma nemmeno essa parla delle cose grandi. Essa parla di nulla, o semplicemente non parla. Eppure in queste negazioni vi è l'af­fer­mazione di tutte le cose troppo grandi che essa fa trasparire proprio in questo suo non-dire. L'assenza di senso deve avere come contraccolpo l'eccesso di senso, l'insistenza su una nozione di segno il cui rapporto designativo si 306 propone fin dall'inizio come un oscuro enigma prepara il balzo all'en­fasi della cifra indecifrabile. Del resto, anche sul piano della pratica musicale novecen­ tesca, la tensione verso il puro materiale sonoro così come ver­ so la pura sintassi non ha affatto cancellato una volta per tutte non solo l'idea del grande messaggio, ma nemmeno quella del mes­sag­gio troppo grande, così come il richiamo all'a­spetto tecni­ co, l'assidua frequenza con pratiche di manipolazione fisica del suono non è sempre in grado di risparmiarci gli ammiccamenti al dire che non dice o al detto nel non detto da tempo diventati stucchevoli persino nella filosofia. Annotazione Che ineffabile sia persino l'aroma del caffè - e che una simile questio­ ne sia richiamata da Wittgenstein stesso, va rammentato soprattutto tenendo conto delle tante interpretazioni del tema wittgensteiniano dell'ineffabile che ne raccolgono soltanto la retorica, disperdendo in­ vece la complessità problematica che gli è propria, sia nel Tractatus logico-philosophicus sia nelle opere successive. Sulla questione vale del resto la pena di soffermarsi anche perché nell'osservazione delle Ricerche filosofiche che è qui in questione (os­s. 610) la musica viene direttamente chiamata in causa. Ecco la citazione completa: "Descrivi l'aroma del caffè! - Perché non si rie­sce? Ci mancano le parole? E per che cosa ci mancano? - Ma da dove viene l'idea che una descrizione debba essere possibile? Non hai mai sentito la mancanza di una descrizione del genere? Hai cercato di descrivere l'aroma del caffè senza riuscirci? (Vorrei dire: 'Queste note dicono qualcosa di grandioso, ma non so che cosa'. Queste note sono un forte gesto, ma non posso affiancare loro nulla che le spieghi. Un grave cenno del capo. James: 'Ci mancano le parole'. Perché allora non le introduciamo? Che cosa dovrebbe accadere perché potessimo intro­ durle?)" (tr. it., Einaudi, Torino 1967, p. 209). Che cosa deve essere qui subito messo in evidenza? Certamente il fatto che non abbiamo mai 307 sentito la mancanza di una descrizione verbale dell'aroma del caffe e perciò non abbiamo mai tentato di realizzare una simile descrizione e non abbiamo avvertito lo scacco conseguente. Il compito proposto è privo di contesto, esso è senza scopo (o serve al massimo alle nostre esercitazioni filosofiche). Che l'aroma del caffè sia ineffabile non si sa perché lo si dica. Ma lo stesso vale anche in rapporto alla musica: anche in rapporto ad essa sembra sia giusto dire "ci mancano le parole". Ma il fatto è che prima di ciò dobbiamo costruire il contesto entro cui la domanda a cui quella formula dà una risposta possa ricevere un senso: "Ci mancano le parole? E per che cosa ci mancano? Ma da dove viene l'idea che una descrizione siffatta debba essere possibile?". Può darsi il caso che proprio mai abbiamo avvertito il bisogno di una descrizione in parole di un brano musicale. L'ineffabilità della musica riportata a quel­ la dell'aroma del caffè contiene così un momento ironico che molti in­ terpreti non sono nemmeno in grado di scorgere, per quanto sia vistoso e caratteristico dell'intera produzione più tarda di Wittgenstein. Na­ turalmente la questione si presenta in modo diverso nel Tractatus, nel quale trova un'espressione esemplare proprio una forma di sublimazio­ ne che non esita a dichiararsi "mistica", come contraccolpo di un atteg­ giamento di radicale Sachlichkeit. Inoltre, nonostante la specificità delle problematiche in esso discusse (specificità che sarebbe profondamente sbagliato trascurare), la questione musicale è qui presente di scorcio, e non già per una pretesa quanto irrilevante costruzione "musicale" dell'opera, quanto per il fatto che l'analogia musicale interviene a carat­ terizzare la nozione cruciale, per la filosofia della logica del Tractatus, di tautologia: "I temi musicali sono, in un certo senso, proposizioni. Co­ noscere l'essenza della logica porterà quindi a conoscere l'essenza della musica. - La melodia è una specie di tautologia, è conclusa e compiuta in sé; basta a se stessa" (Quaderni 1914-1916, annotazioni del 1.2.15 e del 4.3.15, tr. it., Einaudi, Torino 1964, p. 132). Nella tematica musicale può così essere proiettato il problema dell'ineffabilità secondo le enfasi che caratterizzano gli sviluppi filosofici che prendono le mosse dalla concezione formalistica della logica e della matematica nella particola­ re angolatura proposta da Wittgenstein nel Tractatus. 308 §5 In tutte le nostre considerazioni precedenti - dobbiamo ammet­ terlo - non emerge alcuna chiara linea di discorso, e ciò mostra certamente che è necessaria una revisione profonda dei termini del problema e una rimessa in gioco dei modi possibili del suo sviluppo. Soprattutto genera disagio l'impo­sta­zione di un'alter­ nativa rispetto alla quale si sarebbe obbligati a prendere una de­ cisione: essa può avere un'utilità provvisoria per fare intravedere l'arco dei problemi che sono in discussione, ma l'attenersi ad essa al di là di questa limitata funzione introduttiva genera un crescen­ te imbarazzo. D'altra parte, tenendo conto dell'im­postazione di principio che abbiamo dato ai nostri pro­blemi, non stenteremo a liberarci da essa non appena sia messa in evidenza la sua origine. Non è difficile infatti rendersi conto che il cosiddetto "problema del senso", nella forma che abbiamo presupposto in queste con­ siderazioni iniziali, non è un problema, per dir così, che c'è già fin dall'i­ni­zio, ma è un problema costruito e che per la sua costruzio­ ne dobbiamo almeno essere sfiorati dall'idea della musica come sistema di segni - qualunque cosa poi si decida sulla sua natura linguistica e non linguistica, sulla sua capacità espressiva, sulla relazione al sentimento, sulla sua possibile portata simbolica e così via. In altri termini, un modo di pensare semiologicamente orientato deve essere presupposto per la costruzione del pro­ blema, ed esso determina anche il suo primo sviluppo. Cosicché non dobbiamo fare altro che riprendere quelle istanze critiche che abbiamo avanzato fin dall'inizio. Si comincia con il dire che la musica è un sistema di segni come se si trattasse di una patente ovvietà, di un'afferma­zione chiara e distinta, e si passa poi tutto il proprio tempo a capire come faccia la musica a essere ciò che abbiamo or ora dichiarato con evidenza che sia - quell'evidenza è diventata subito una sor­ ta di insolubile enigma. 309 Segni-di-che? Segni-come? - ci si va chiedendo. Occorre­ rebbe invece fissare subito l'attenzione sul fatto che, in se stes­ sa, la parola "segno" non indica affatto una cosa, ma un modo dell'intendere, e di conseguenza il suo senso è deter­minato solo quando questo modo dell'intendere sia a sua volta sufficiente­ mente determinato, almeno sul piano esem­plificativo. Il proble­ ma non si pone affatto come se ci fossero i segni e si trattasse soltanto di decidere quanti tipi di segni ci siano e quali diversi modi della designazione. Detto in una formulazione un poco più drastica, ma che chiarisce il punto della questione, potrem­ mo senz'altro affermare che se non sappiamo rispondere alla domanda che chiede di che cosa qualcosa sia segno, fornendo esempi intorno al tipo di designazione, dunque mostrando il "gio­ co linguistico" entro cui quel termine trova, nel caso in esame, un' applicazione, allora la parola è certamente una ruota che gira a vuo­ to [129]. Per questo se qualcuno dice che la musica è un sistema di segni, una simile affermazione in se stessa non accende alcuna luce nel nostro cervello. La grammatica della parola "segno" è del tutto affine a quella della parola "mezzo" - e si sa che non ha certamente senso dare un elenco dei mezzi, istituire somiglianze e differenze, senza far parola degli scopi; e così la terminologia e la problematica ad essa connessa comincia a dare i suoi servigi e nello stesso tempo a specificarsi nella sua portata nel momento in cui siamo in grado di localizzare il suo impiego. Vogliamo allora senz'altro prescindere da una simile impo­ stazione del problema. E anziché tentare un'interpre­ta­zio­ne dei suoni da subito considerati come segni - interpretazione che si mostrerebbe ben presto piena di problemi e di difficoltà - volgiamoci a essi per quello che propriamente sono, come puri materiali percettivi, disponendoci dunque in quella dimensione dell'ascolto che certamente esclude, come abbiamo notato a suo tempo, una ricezione del suono come mediazione subito oltre­ passata verso esistenze che stanno al di fuori di esso. I suoni in se stessi ci stanno ora dinanzi, essi sono alla nostra presenza. 310 Ma anche questa pura dimensione del­l'a­scolto deve certamente essere superata, e ciò accade quan­do, a partire da essa, sorge lo stimolo all'azione che si concretizza nella domanda: "Che cosa posso fare con i suoni?". Proprio per una reimpostazione complessiva della nostra problematica dobbiamo richiamare l'attenzione su questo pas­ saggio. Anzitutto occorre notare che il "fare" di cui qui si par­ la non ha certamente il senso comune del compiere questa o quell'azione in vista della realizzazione di uno scopo. E nemme­ no il "con" è impiegato in modo tale da porre i suoni come mez­ zi. Si tratta invece di un fare che mira all'essere stesso dei suoni e che è mosso dall'idea di un dispiegamento delle loro possibilità intrinseche. Che cosa posso fare con i suoni? Ebbene, ecco che cosa posso fare! Guarda che cosa faccio! Ora faccio risuonare un suono dopo l'altro - i suoni si possono mettere in fila. E vi sono molti modi di metterli in fila. Eccone alcuni. Fra essi è possibile stabilire diversi tipi di relazioni - al­ cune sono molto semplici e colpiscono subito l'orecchio, altre invece sono più lontane e difficili da cogliere. E poi potrei far risuonare molti suoni tutti insieme, e variando i suoni ora otte­ niamo un risultato, ora un altro, e molto diverso. Alla domanda che sorge intorno al fare con i suoni si ri­ sponde ricercando intorno a essi, provando e riprovando, e in questo ricercare non si ha di mira qualcosa che sta al di là di essi, ma si bada soltanto alle loro possibilità d'essere che, dispiegandosi, fanno anche da guida. Potremmo dire: in questo ricercare con i suoni sono i suoni stessi a essere messi alla prova. Già in consi­ derazioni tanto elementari si suggerisce che la musica e anzitutto un insieme di possibilità: qualcosa che potremmo già chiamare un "pensiero musicale" comincia ad apparire quando mettiamo in agitazione il campo dei suoni in modo che essi si mostrino, e mostrino come sono fatti e che cosa si può fare con essi. In tutto ciò affiora l'immagine delle pratiche di gioco più 311 elementari. Il bambino gioca con i suoi cubetti - e poi ti tira per il braccio: guarda che cosa ho fatto! E che cosa ha fatto? Ha fatto delle prove - ha scoperto che i cubetti si possono mettere in fila, si possono sovrapporre l'uno all'altro e in più di un modo, che si può costruire un ordine e che con il semplice gesto di una mano è possibile cancellare quest'ordine e godere del suo improvviso e totale cedimento. È come se il gioco stesso non fosse altro che un modo di rispondere alla domanda: vediamo che cosa posso fare con i miei cubetti. Ora, il bambino che prima giocava con i cubetti è entrato in una stanza dove c'è un grande organo, e comincia, per la prima volta, a toccarne i tasti alla cieca - ma ciò significa: attrat­to dai suoni che vanno via via emergendo e assorto in essi, sperimenta un cammino lungo il quale generano incanto e sor­presa la pura qualità timbrica, la successione più lenta o più veloce, la possibi­ lità dell'indugio, la differenza del grave e dell'a­cuto, e dell'acuto che diventa ancora più acuto - dunque lo stesso accadere dei suoni e la molteplicità dei modi di questo accadere. All'interno di un simile sperimentare vi è un venire a cono­­ scere, uno scoprire che non ha tuttavia la forma della scoperta autentica di ciò che prima non era noto, ma dell'av­vert­i­re qual­cosa che in precedenza era inavvertito nella sua irrilevanza; e in questo modo si prepara la conversione da una dimen­sione in cui la do­ manda sul fare affiora appena e le possibilità del materiale vanno semplicemente dispiegandosi alla dimensione in cui quelle pos­ sibilità vengono interrogate all'in­terno di un interesse ad esse esplicitamente rivolto. Si sarà certamente notato che ciò che stiamo proponendo è in realtà un'ulteriore variazione sul tema dell'origine, e in essa si mostra anzitutto quanto siamo lontani dal prospettare il problema come se ci fosse in primo luogo una soggettività che ha da dire qualcosa o come pervasa da sentimenti che premono verso la loro manifestazione. La domanda "Che cosa posso fare con i suoni?", e natural­ mente anche con i punti, con le linee, con i colori, con le parole, 312 dice che prima di tutto è necessario accorgersi, ad esempio, che un punto è un punto e una linea una linea; oppure, più semplice­ mente, che ci sono punti e ci sono linee, e che le linee possono essere di forma molto varia, che esse si possono accostare in vari modi l'una all'altra, o allontanare, sovrapporre, intersecare, far convergere o divergere. Prima di tutto è neces­sario che venga realizzata una simile scoperta ontologica - che i suoni, le parole, le linee vengano scoperti per ciò che essi sono in se stessi, così che si possa generare un interesse puramente rivolto alle pos­ sibilità costruttive, dunque alle tecniche svilup­pate nel gioco e alle produzioni che ne risultano. Di questo interesse può essere sottolineata la dimensione attiva per il fatto che in esso non si tratta soltanto di sperimentare ciò che accade, ma di interrogarsi sperimentando intorno a ciò che con i suoni potrebbe accadere. Forse si potrebbe obiettare che il proporre un simile atteg­ giamento all'"origine" della musica sia essenzialmente il frutto di una considerazione astrattamente filosofica, considera­zione che per altro sembra assorbire anche l'immagine del fan­ciullo che gio­ ca. Perché mai, quando un bambino ci mostra il suo disegno, non potremmo pensare che in esso abbia forse tentato di raffi­ gurare qualcosa - tenendo conto del resto che la raffigurazione appartiene all'ambito di ciò che si può fare con le linee? E non è forse vero in generale che qualunque disegno infantile potrebbe essere assunto come un grafico che rivela, talvolta con particolare chiarezza, ansie, inquietudini, emozioni? Dove si è mai visto un simile interesse tecnico rivolto alla cosa stessa? In realtà, benché non sia il caso di indugiare più di tanto sull'immagine dal momento che, come ogni immagine, essa vie­ ne richiamata unicamente per il lato che è in grado di illustrare, e per il resto può essere messa da parte, non vorrem­mo tuttavia nemmeno su questo punto dare senz'altro partita vin­ta al piatto psicologismo (ancora così diffuso) latente in quell'osservazione, per il quale, poiché un disegno in genere può essere la documen­ tazione di un sentimento e il gioco assolvere funzioni psicologi­ 313 camente determinate, allora non vi sarebbero affatto disegni, ma solo documentazioni di sentimenti, così come non vi sarebbero condi­ zioni caratteristiche del gioco che non si risolvano interamente nelle funzioni psicologiche esplicate. Cosic­ché saremmo tentati di ribadire testardamente: il bambino che disegna sperimenta anzitutto con le linee, e così sui tasti del grande organo scopre per la prima volta un'autentica dimen­sione del reale. Ma non è questo il punto importante. Ci si chiede se le nostre considerazioni non siano astratte. Lo sono certamente! Esse hanno anzitutto l'astrattezza che spetta alla nostra finzio­ ne sull'origine. Tuttavia occorre subito notare: questa astrattezza cesserebbe certo di essere innocua se si pretendesse di fare pro­ prio di questa l'unica origine. Della nostra filosofia della musica fa parte invece l'affermazione di principio che la musica ha molte origini; e ciò significa, ad esempio, che vi è più di una dimensio­ ne profonda a cui essa può attingere, e anche che tu puoi, per illustrare il rapporto a queste dimensioni, per mostrare quante siano le potenze del musicale, narrare come essa abbia origine dalla voce dei sentimenti oppure dai canti degli uomini al lavoro, dalle pratiche della danza o da quelle del rito, puoi narrare persi­ no come essa sia sorta dall'imita­zione del canto degli uccelli. In tutte queste origini non può non essere presente il motivo che abbiamo cercato di illustrare or ora - "che cosa posso fare con i suoni" - e che resta come motivo permanente al centro della musica stessa. Per questo nella nostra ripresa del problema abbiamo pre­ so le mosse proprio di qui. E con ciò abbiamo certamente co­ minciato con il rendere giustizia ad ogni formalismo, mo­strando dove si trovi il suo senso e nello stesso tempo il suo errore. Una cosa è infatti riconoscere una premessa essenziale, e un'altra è ritenere di poter dedurre da questa premessa la negazione della molteplicità di dimensioni del musicale, così come dal fatto che la musica abbia un centro, che tutto sia da ridurre a esso. 314 §6 Ma subito si presenta spontaneamente la domanda: per quale via possiamo sperare di riacquisire questa molteplicità del musi­ cale? In che modo, dopo che abbiamo cominciato anche noi con l'affer­ma­re che la musica è eminentemente arte della sintassi, pos­siamo pensare di ristabilire un contatto con il problema del senso, dal momento che certamente a questo problema è legato a fil doppio la pluralità delle dimensioni? Se vogliamo davvero muoverci in questa direzione dobbiamo po­ter ammettere che in qualche modo nella chiusura "tautologica" del pensiero musi­ cale irrompa la stessa empiria del mondo, e non soltanto del mondo interiore, come spesso si preten­de riduttivamente, ma del mondo intero nella totalità e nella ricchezza delle sue forme di manifestazione. Ma è possibile far valere una simile istanza senza rimettere in gioco il tema del simbolismo e senza imbat­tersi in fastidiose e prevedibili difficoltà? Dobbiamo ammettere che ogni perplessità non può che essere giustificata. Le ragioni di queste perplessità sono per l'es­ senziale già tutte presenti nel dibattito che ha preceduto e intro­ dotto queste nostre considerazioni: non possiamo affatto essere attratti dall'idea di ricadere nell'alternativa a cui si è già fatto cen­ no tra la cifra e il segno - cioè tra una concezione che enfatizza il simbolo come manifestazione di una trascendenza altrimenti inattingibile e lo svuotamento, caratteristicamente "semiologico", che fa del simbolo null'altro che un segno a cui le associazioni e le abitudini hanno in qualche modo attribuito un ambito di re­ ferenza più o meno determinato. Se può essere ritrovata una via che consenta una ripresa del problema del senso e in particolare della tematica del simbolismo, essa non soltanto deve essere in grado di superare di colpo quell'al­terna­tiva, ma anche riuscire a proporre l'intero problema in modo tale da operare un'effettiva messa da parte del modello rappresen­tativo che affiora irremo­ 315 vibile al fondo di concezioni per il resto anche molto diverse e diversamente orientate. In particolare, è un errore ritenere che si sarebbe al di fuori di una concezione rappresentativa del simbo­ lo per il solo fatto di portare l'atten­zione sull'indeterminatezza del simbolizzato ovvero sull'allusi­vità del simbolo, sulla sua equi­ vocità o sulla sua funzione puramente "evocativa". Naturalmen­ te con simili e­spres­sioni, che così spesso ricorrono nell'ambito della riflessione sul musicale, si avverte la presenza di un proble­ ma effettivo, senza tuttavia che si riesca ad afferrare il suo centro e permanendo all'interno di una concezione fondamentalmente statica che non può fare a meno di confermare la solidità di un rapporto nel quale deve essere comunque possibile operare una netta distin­zione di principio tra ciò che opera la simbolizzazio­ ne e ciò che viene simbolizzato. Siamo qui evidentemente alla presenza di una tematica ge­ nerale a cui possiamo accennare attenendoci il più stretta­mente possibile all'angolatura particolare dei nostri problemi e avendo di mira lo scopo di rendere interamente espliciti presup­posti che sono sempre stati attivi nel corso di tutta la nostra esposizione. Se vi è una critica che può essere rivolta al nostro modo di porre il problema della "scoperta ontologica", come ci siamo espressi, da cui scaturisce la domanda intorno al fare con i suoni, questa non consiste tanto nella sua astrattezza, quanto piuttosto nel fatto che non abbiamo speso nemmeno una parola per moti­ vare il sorgere dell'interesse nei confronti dell'u­niverso sonoro e il suo tradursi in una pratica attivamente diretta ad esso. Forse su di ciò non vi è proprio nulla da dire? Non vi è nulla da dire sull'in­ dugiare "senza scopo" presso i suo­ni, nello sviluppo e nella conti­ nuazione di un gioco che possiamo supporre cominciato per caso? Ripen­sando, a partire da queste domande, alla nostra esposizione prece­dente, forse avvertiamo ora che in essa si dava per presup­ posto un fascino del suono che essa tuttavia suggerisce soltanto senza giusti­fi­care. Dovremmo forse dire, ancora una volta, che i suoni sono attraenti? 316 Intanto vogliamo rammentare quando lo abbiamo detto per la prima volta e il contesto che determinava il senso che abbiamo attribuito a questa frase. Esprimendoci così noi non intendevamo dire, ad esempio, che essi sono gradevoli e attraggono per questo la nostra attenzione all'ascolto. Avevamo invece liberato quella frase da ogni senso spicciolo, cercando di conferire ad essa la dignità di una vera e propria proposizione fondamentale di una filosofia della musica. E tanto poco era il gradevole o il piace­ vole ad essere chiamato in causa che il problema era posto in realtà mettendo da parte ogni differenza qualitativa. Quella frase non doveva essere interpretata facendo riferimento alla materia sonora, quanto piuttosto alla sua forma temporale, assumendo un senso rarefatto e connesso alla durata e alla modificazione temporale del suono. Il suono si muove ed è proprio per questo che esso attrae, nello stesso modo in cui l'occhio è attratto da ciò che si muove nel campo visuale. Naturalmente, giustificare l'attrazione esercitata dai suo­ni e la tensione che essi generano nell'ascolto sulla base di conside­ razioni temporalistiche può essere considerato riduttivo, eppure vi è qui uno spunto di fondamentale importanza che può essere ripreso al nuovo livello problematico nel quale ora ci troviamo. In questione è ora proprio la materia sonora, le sue diffe­ renze qualitative, il suono come esso è nelle sue determinazioni concrete - il suono nella sua dimensione d'essere che si apre al ri­ cercare. Ciò significa anche che nella stessa struttura del problema è presente un'intenzione propriamente conoscitiva. Questo è un motivo importante che merita di essere messo in rilievo. Tuttavia era già implicito nelle nostre considerazioni precedenti che l'in­ teresse conoscitivo non è qui in ogni caso dominante, cosicché non si pongono affatto in opera quelle procedure di oggettiva­ zione, di delimitazione e di fissazione che preparano le condizio­ ni per il dispiegamento di un effettivo processo conoscitivamente orientato, che deve puntare oltre la superficie fenomenologica per raggiungere il terreno delle spiegazioni autentiche. 317 Al contrario, ora siamo trattenuti proprio presso questa su­ perficie, e se parliamo di scoperta ontologica dobbiamo anche, dopo aver chiarito le prime ragioni di quella espressione, correggere il tiro e attenuarne la portata; e non solo perché l'ente di cui si trat­ ta è comunque sempre afferrato su quella superficie, ma anche per una ragione più profonda. Il suono non è ora tenuto fermo come identità soggiacente alle sue de­terminazioni, ma ogni sua determinazione rappresenta un possibile punto di innesto per le operazioni valorizzanti del­l'immaginazione. Ciò significa che il suono, entrando nei dinamismi delle sintesi imma­ginative, tende a diventare esso stesso, in ogni sua determina­zione, un vettore dell'imma­gi­na­ zione. Che cosa ciò propriamente significhi vogliamo cercare di spiegarlo con la massima concisione. Sullo sfondo vi è la grande distinzione che deve essere proposta in rapporto alla for­ma fe­ nomenologica delle produzioni immaginative. Una cosa sono in­ fatti scene, paesaggi, azioni, personaggi, eventi e conca­tenazioni di eventi che possono essere liberamente immaginati e un'altra è tutto ciò che può cadere nel campo dell'immaginoso, in rapporto al quale si parla di produzione di immagini in un'ac­cezione fon­ damentalmente diversa. Destreggiandoci nella terminologia troppo povera ed esposta a numerosi equivoci che ha da sempre complicato la rifles­sione sull'immaginario, potremmo riservare il termine di fantasia a quel­ la particolare modalità dell'operare immaginativo che, pur in una variazione a piacere delle forme degli eventi e dei nessi degli eventi immaginati, mantiene in ogni caso la presa su "figure", su "fantasmi" che hanno i loro contorni e le loro determinazioni fittizie, in parte rilevando alcuni aspetti dell'im­piego corrente del termine, in parte andando ampiamente al di là di esso. Nel caso dell'immaginazione immaginosa, la "figura" sorge invece dall'indeterminatezza dei contorni, da uno sconfina­mento che segnala la presenza di procedure unificanti che dissolvono, an­ ziché confermarla, l'oggettività stessa. A queste procedure si deve 318 la transizione che conferisce all'oggettività il carattere di valore immaginativo. La cosa che è stata valorizzata attraverso le sintesi dell'immaginazione si è risolta, come cosa, in queste sintesi: e poi­ ché esse non debbono essere concepite staticamente, come mere giustapposizioni di contenuti, il carattere di valore im­maginativo consiste essenzialmente in un'inclinazione dina­mi­ca, in una ten­ denza al movimento, nella manifestazione di una direzione. Ed ecco dunque in che modo ci imbattiamo nuovamen­ te nel problema del senso: si dimentica in realtà troppo spesso che questa parola può essere intesa in un'accezione, ampiamente presente nei suoi impieghi correnti, secondo la quale essa non è affatto vincolata a strutture linguistiche, ma significa sempli­ cemente: direzione. Cosi talvolta ci è accaduto di usare l'espres­ sione di direzione di senso, che dovrà dunque essere intesa come una sorta di espressione rafforzativa. Parlando di un operare va­ lorizzante dell'immaginazione, che interessa i suoni come i feno­ meni percettivi in genere, non si intende un operare che condu­ ce senz'altro alla formazione di immagini ed eventual­mente alla posizione di espliciti rapporti di rappresentazione simbolica: il modo in cui esso si esplica può anzi essere colto alle sue radici proprio nel momento in cui si innesta sui dati del­la per­cezione, sui fenomeni sonori, conferendo a ogni loro determinazione un'in­ terna inquietudine immaginativa. Nel mo­men­­to in cui indugiamo presso di essi prestando il nostro ascolto, avvertiamo così il ger­ minare di un senso attraverso le determinazioni dell'essere. Per questo motivo riteniamo di poter parlare, per quanto ciò possa forse apparire singolare, di un senso in rapporto, ad esempio, ad una qualità timbrica come tale, volendo con ciò signi­ ficare che a partire da essa viene puntata una regione dell'im­ma­ ginazione, che da essa ha inizio un movimento che conduce verso quella regione. In ciò è implicito che quelle aggettivazioni che eventualmente la descrivono - il parlare di una qualità timbri­ ca come cupa o chiara, velata o trasparente, limpida o densa, e così via - non sono affatto da considerare solo come vaghe e 319 imprecise caratterizzazioni di proprietà altrimenti determinabili in modo oggettivo, ma come qualificazioni sog­gettive nelle quali resta una traccia di quel senso che ogni deter­minazione oggettiva non potrebbe non cancellare senza residui. Ecco dunque in che modo possiamo dire ancora una volta che i suoni sono attraenti. Al movimento dovuto alla pura forma temporale si aggiunge ora l'attrazione esercitata dalla materia so­ nora concreta in quanto essa rappresenta l'inizio di un mo­vi­mento dell'immaginazione. Ciò che attrae è il senso stesso, ed esso attrae nello stesso modo di una strada in discesa. Annotazione Per la nozione di valorizzazione immaginativa e la sua connessione con la tematica del simbolismo e in generale per la teoria dell'immagina­ zione qui presupposta si rimanda a G. Piana, Elementi di una dottrina dell'esperienza, Il Saggiatore, Milano 1979, La notte dei lampi. Quat­ tro saggi sulla filosofia dell'immaginazione, Guerini e Associati, Mila­ no 1988, Le regole dell'immaginazione, Internet, Lulu.com, 2012. §7 Se una problematica del senso può essere sollevata in rapporto alla musica, essa non chiama in causa la sua pretesa natura lin­ guistica o non linguistica, quanto piuttosto il modo in cui avvie­ne l'incontro tra l'immaginazione e l'universo dei suoni. Lo stesso termine di senso può essere introdotto solo nel momento in cui si sono cominciati ad apportare intorno a questo problema i primi chiarimenti. E il primo chiarimento è indubbiamente questo: l'im­ ma­ginazione musicale non ha anzitutto a che fare con la fantasia. Come abbiamo detto, il termine fantasia non viene ora da noi utilizzato in un'accezione generale, ma come una modalità dell'operare immaginativo nella quale si dànno "immagini" nel senso di cose, azioni ed eventi proposti al di fuori di ogni con­ 320 testo reale. Rammentando vecchie formule, potremmo parlare della fantasia come un'attività di libera riproduzione del reale, una ca­ ratterizzazione nella quale si fa notare che alla nozione di fantasia è in ogni caso essenziale un elemento riproduttivo, dal momento che proprio questo elemento deve rappresentare la base neces­ saria sulla quale si esplicano quelle procedure di fantastizzazio­ ne che, inducendo modificazioni, deformazioni, alterazioni del genere più vario, pongono in essere le oggettività fantastiche. In questo senso, le produzioni della fantasia mantengono sempre un qualche legame con il concreto, con il mondo reale, anche quando da esso prendono la massima distanza. Il dire che l'immaginazione musicale non ha a che fare con la fantasia significa allora sot­ tolineare in primo luogo che manca in essa proprio l'elemento riproduttivo, che essa ha a che fare fin dall'inizio con materiali percettivi considerati come tali e il suo operare si esplica perciò nella realizzazione di "figure" che sono propriamente figurazioni sonore: è dunque un'imma­ginazione, vorremmo quasi dire, esem­ plarmente compositiva, combinatoria, un'imma­gina­zio­ne "mate­ matica" che ha di mira il gioco dei puri rapporti strutturali e le forme che sorgono da questo gioco. Ma dopo che abbiamo introdotto una nozione di senso che può aderire alla materia sonora come a queste stesse forme, la nostra frase, secondo la quale l'immaginazione musicale non ha anzitutto a che fare con la fantasia, assume anche un altro senso, che ne estende la portata: essa intende rammentare quan­ to profon­damente l'immaginario musicale, col­to al limitare della musica stessa, nella pura materia sonora che è stata scoperta nel­ la molteplicità delle sue possibilità strutturali, sia animato dalle funzioni valorizzanti dell'imma­ginazione. Vi è qui una connessione particolarmente stretta che non porta soltanto dai suoni all'immaginazione, ma anche, inversa­ mente, dall'immaginazione ai suoni, in un singolare gioco di ri­ mandi interni. Come abbiamo spiegato in breve, ciò che cade sotto la presa di una funzione valorizzante si apre ad una mol­ 321 teplicità di relazioni possibili che sono essenzialmente relazioni di senso: e il carattere di valore immaginativo non consiste tan­ to nella determinazione della molteplicità, quanto piuttosto nel mantenimento dell'apertura. Si prenda, ad esempio, la differenza tra il piano e il forte. Questa è una differenza che viene incontrata ogni giorno e che si intromette in vari modi nelle nostre pratiche quotidiane: ogni giorno viene, in queste pratiche, intesa come segnale e direttamente interpretata come tale. Ma quando essa viene infine scoperta come una deter­minazione dei suoni e, nello stesso tempo, come una possibilità che si offre al nostro fare, al­ lora essa comincia ad arricchirsi di richiami che sono per altro da intendere come sconfinamenti, fusioni, transizioni. Il piano può ricevere il senso del lontano, richiamando l'ambito della spazia­ lità e in questa lontananza spa­ziale può trasparire la dimensione temporale del passato, così come nella maggiore intensità del suo­ no, l'urgenza, l'immi­nenza, lo stare-per-avvenire; e tutto ciò può assumere una coloritura emotiva - non beninteso, una coloritura emotiva qualunque, ma quella coloritura che spetta proprio a quel­ le differenze: intimità, segretezza, solitudine, nostalgia. Così dicendo vogliamo forse dire che questa determi­nazione del suono significa queste cose, ed eventualmente tutte insieme? Avvertiamo subito che in una simile formulazione vi è qualcosa che non va: non solo per l'impiego del verbo "signifi­care", che richiederebbe certo qualche spiegazione, ma anche per il resto: non si può dire "tutte queste cose" perché non si tratta di cose, ma di sensi; e non è possibile dire "tutte" dal momento che esse non possono essere enumerate ad una ad una, districandole l'u­ na dall'altra, ma l'una è data nelle trasparenze dell'altra. Il dire che il suono significa tutte queste cose è infine inappropriato anche per il fatto che orienta l'at­tenzione su una pretesa attualità del "significato", laddove vi è soltanto un dinamismo immaginativo latente. È certamente motivo di riflessione il notare che talvolta questo dinamismo immaginativo latente viene indicato proprio 322 con un'immagine tratta dall'ambito sonoro. Di una cosa che sta per diventare un valore immaginativo possiamo dire che essa è ricca di risonanze. E in questa parola "risonanza" vi è sia il tema di una messa in movimento a distanza di ciò che è affine - sugge­ rito dai diapason vibranti "per risonanza" - sia il motivo di una presenza diffusa e rarefatta, priva di determinatezza e di contor­ ni, motivo che viene tratto invece dallo stesso modo di essere del suono. Il suono c'è quando risuona. È questo esserci risonante che può diventare metafora dello stesso valore immaginativo. Cosicché saremmo tentati di dire, giocando sull'ambi­valenza del termine che abbiamo or ora messa in rilie­vo: il suono è ricco di risonanze. La musica consta di suoni risonanti. In questo gioco con le parole nel quale il suono sembra rac­ chiudersi circolarmente su se stesso, diventa invece evidente che la pretesa di mantenere la presa sul problema del senso vinco­ landolo ad una dimensione puramente sintattica non può trovare sviluppo in una teorizzazione coerente. Abbiamo bisogno invece, a questo scopo, di un modo di concepire il senso che, connetten­ dosi all'operare dell'immaginazio­ne, consenta la riapertura su un nuovo terreno della tematica del simbolismo. Per mostrare questo nesso non è in realtà affatto necessario immergersi nelle diffi­ cili e interminabili controversie sulla no­zione di simbolo, nella varietà di accezioni in cui questa parola può essere impiegata in generale e nello stesso ambito musicale. È sufficiente invece ri­ conoscere che la problematica del sim­bolismo può prendere le mosse dal tema della valorizzazione e che dunque essa si annuncia nella stessa nozione di valore immaginativo. Per questo motivo questa nozione può es­ sere portata a coincidenza con quella di simbolo, in un'accezione fon­damentale del termine. La concezione del senso di cui abbiamo anzitutto bisogno nell'ambito musicale ha dunque già nel suo interno il problema del simbolismo. 323 §8 Abbiamo cominciato con il dire che alla musica spetta uno strut­ turalismo di principio - ed è questo problema che stava alla base dell'affermazione che i pensieri della musica sono null'al­tro che pensieri musicali. In essa infatti non si richiama solo l'attenzione sul fatto che nella musica abbiamo a che fare in primo luogo con la "sensibilità", con sequenze di suoni concre­tamente proposte alla percezione e dunque, in fin dei conti, sul fatto che i pensie­ ri musicali non sono affatto pensieri; in quell'affermazione si dice anche che queste sequenze sono strutturate, che in esse si tratta di costruzioni che hanno dunque le loro relazioni e arti­ colazioni interne, che si reggono nel gioco di pesi e di contrap­ pesi, che le figure musicali sono sempre essenzialmente figure relazionali. Qui è il caso di rievocare ancora una volta la sfera della matematica, che è stata in precedenza appena sfiorata nelle nostre considerazioni sull'im­ma­ginazione musicale. E non tanto per l'idea di una corrispon­denza segreta tra il numero e il suono, che attraversa tutta la tradizione della riflessione musicale dalle sue origini, ma per una connessione più direttamente comprensibile e certamente priva di impegni speculativi troppo forti, una con­ nessione che d'altronde ha certamente contribuito a tener vivo l'interesse di questo rap­porto. Si tratta del fatto che le strutture che la matematica è in grado di generare, spesso la musica può mostrare nella pienezza e nella concretezza della percezione. Il pensiero della formula si dissolve allora senza residui nell'idea musicale che consegue alla sua applicazione. Ciò che resta è in­ vece, vorremmo quasi dire, il piacere della struttura sensibile, il piacere della struttura che si manifesta nella percezione, che è poi, ad esempio, il piacere dei fuochi di artificio che piacciono come piacciono i fiori disegnati dal ghiaccio sui vetri in inverno. Questo piacere è, ad un tempo, interamente sensibile ed eminentemente matematico. Ci si compiace allora del modo in cui l'identità gioca con la differenza, 324 della varietà delle forme relazionali, della molteplicità degli ordini possibili e dei loro rapporti, di ogni possibile schematismo com­ binatorio - quindi di tutto ciò che può appartenere all'ambito del "pensiero puro" e d'altro lato può trapassare direttamente nelle forme della sensibilità e in esse essere colto. Questo strutturalismo non chiama in causa né l'interno né l'esterno, esso passa certamente al di sopra dei tuoi sentimenti, delle tue fantasie, dei tuoi pensieri. Se vuoi parlare di pensiero, allora è della regola che genera strutture ciò di cui si tratta. E non vi è memoria se non nell'afferramento dell'iden­tità con ciò che prima era decorso e in generale delle relazioni che si mostrano nello sviluppo temporale, così come l'imma­ginare è un antici­pare, all'interno dello sviluppo, ciò che sta per avvenire. Ma, come abbiamo già notato, non vi sono motivi per rite­ nere che il riconoscimento di questo strutturalismo debba essere considerato al tempo stesso come una soppressione implicita di ogni altra possibile dimensione del musicale. Così, nella proble­ matica del senso nel modo in cui è stata or ora riproposta, si rendeva conto di motivi e temi certamente non nuovi e che sono sempre emersi in modo più o meno insistente nella riflessione fi­ losofica sulla musica, e in particolare dell'inde­ter­minatezza seman­ tica che pure denuncia la presenza del senso, della poli­semia, delle tensioni allusive. Nelle nostre considerazioni tuttavia si portava in primo piano l'idea che queste tensioni siano da ricondurre ad una processualità immaginativa che sta per avvenire. La musica è un serbatoio di immagini inesplose. Forse proprio per questo così spesso si è imposta la sensazione che ad essa spetti uno statu­ to particolare, che essa sia un'arte essenzia­lmente incompleta, che non sta accanto alle altre arti, ma prima di esse, come se in essa si preparasse e avesse inizio ciò che nelle altre arti arriva in qualche modo a compimento. Tutto ciò significa naturalmente rivendicare che alla musica spetta, accanto e insieme alla componente strutturale, un sim­ bolismo di principio. Come in precedenza, l'intento di una simile 325 formulazione è quello di sottolineare che la simbolizza­zione - intesa anzitutto nel senso che abbiamo fissato richiaman­doci alla nozione di valore immaginativo - è da considerare come una possibilità originaria della musica, possibilità che è insita nel fatto stesso che i suoni in genere, considerati nelle loro distinzioni elementari e nei rapporti che, in forza di queste distinzioni, essi possono intrattenere tra loro, sono attraversati da dinamismi im­ maginativi latenti. Questi dinamismi interessano proprio quelle differenze che siamo andati via via proponendo alla discussio­ ne, a cominciare naturalmente dalle nostre prime determinazioni della materia sonora sino alle caratterizzazioni della nozione di timbro e alle distinzioni che si sono rese necessarie nell'elabora­ zione della tematica temporale e di quella dello "spazio" sonoro. Tutto ciò che sta a fondamento di configurazioni e di arti­ colazioni possibili dei suoni sta anche a fondamento di possibili direzioni di senso: volgendo lo sguardo indietro ci rendiamo conto che ovunque nella nostra esposizione è già presente questo proble­ ma. E alla luce di esso si comprende forse anche meglio la nostra ostinazione nel tentare di istituire ogni nozione e ogni differenza importante sul piano strettamente qualitativo: in questo modo nelle nostre descrizioni si è spesso già fatta avanti un'inclinazio­ ne metaforica che ora può essere riconosciuta non già come un limite evitabile, ma come una necessità intrinseca dell'argomen­ to che rende fin dall'ini­zio manifesto un aspetto che non può in alcun modo essere eluso. Naturalmente non vogliamo andare oltre la delineazione della questione generale. E tuttavia siamo tentati ancora, alla luce di queste considerazioni, di gettare un rapido sguardo retrospetti­ vo ad un unico problema sul quale abbiamo a lungo indugiato a suo tempo. Si rammenterà certamente quale importanza abbia rivestito all'interno della nostra trattazione la differenza tra con­ tinuità e discontinuità, e in particolare quella tra suono "pun­ tuale" e suono inteso come sostanza trasmutante. Ora possiamo certo richiamare l'attenzione sul carico immaginativo che subito 326 grava su quella distinzione. Nemmeno nella nostra distinzione precedente si è del resto potuto tacere il fatto che la disconti­ nuità è connessa con la nitidezza e la pulizia del disegno - con grafemi che delineano forme. Essa ha anzitutto a che fare con il punto, e dove ci sono linee, queste si intersecheranno tra loro in nodi chiaramente localizzati, al passaggio si preferirà il salto, così come alla varietà dei colori e all'oscura sottigliezza dei loro rapporti, la chiarezza inequivoca del bianco e del nero. In breve: all'area di senso a cui rinvia il vettore immaginativo della discon­ tinuità appartiene l'ordine, la differenziazione, l'arti­co­lazione, la struttura, dunque la "razionalità" stessa in quanto questi termini ne caratterizzano certo alcuni tratti fondamentali. L'opposizione tra il discreto e il continuo diventa allora da subito un'opposizione di vettori immaginativi, cosicché la conti­ nui­tà sarà invece connessa con l'assenza di rigidi contorni o con forme dai contorni molli e flessuosi, e anche con l'elemento in­ differenziato e tendenzialmente caotico, con l'af­fet­tività in genere nella tenerezza delle sfumature di cui è fatta. Quando dunque la pratica musicale converge nel sottolinea­re in vari modi la fermezza e la puntualità del suono, abbiamo buoni motivi per cogliere in essa la presenza di idee di ordine e di orga­ nizzazione, mentre la mobilità fluente del suo­no sarà certamente più vicina alle indeterminatezze di un universo sonoro non ancora compiutamente strutturato ovvero alle tensioni e alle ambiguità di un'affettività per essenza instabile, in cui la sfumatura prevale sulla definitezza della forma e sulla precisione del punto. E viene certamente subito fatto di pensare alla musica orientale in genere, e indiana in particolare, nella quale, a differenza della musica di tradizione europea che non tollera nemmeno un autentico glis­ sando, il colpire il centro della sostanza sonora e il tenerlo fermo potrebbe essere ritenuto come un'offesa al buon gusto, una sorta di rigidezza ostile all'e­spressione che si concentra invece proprio sull'inquietudine di questo centro, che fa di tutto per renderlo mobile e instabile realizzando una sorta di apoteosi dei glissando, 327 dei vibrato, dell'"ornamento", che è un'apoteosi del suono inteso anzitutto come sostanza transmutante. In tutto ciò è naturalmente ancora in questione la differen­ za tra il grande e il piccolo intervallo: noi abbiamo già notato che questa differenza non può essere intesa come una differenza pu­ ramente quantitativa e ora dobbiamo ribadire questa annotazione sottolineando che essa può stare a fondamento di vettori imma­ ginativi differenti. Ecco dunque che ci si presentano all'improv­ viso le nostre vecchie domande: arriveremo forse ad attribuire un rimando simbolico determinato a questo o a quel rapporto di intervallo, e ciò addirittura al di fuori di un contesto linguistico e di un progetto espressivo? Si narra, ad esempio, che nelle corti della Cina e del Giappone, così come nei templi, melodie fonda­ te su una determinata scala modale fossero rigorosamente vietate perché contrarie al pudore che deve regnare in quei luoghi [130]. E rammentando indirettamente una simile stravaganza ci siamo chiesti: potremmo forse ammettere che un tipo di intervallo o di sequenza di intervalli possa essere considerato più "erotico" di un altro? Queste domande sembravano fatte apposta per riceve­ re una risposta negativa: e se esse fossero qui riprese alla lettera e intese esattamente per ciò che chiedono, una simile risposta andrebbe certamente ribadita. Il nostro scopo non è quello di riproporre ingenuamente l'idea dell'esistenza in sé di relazioni simbolico-rappresentative il cui fondamento è da ricercare chis­ sà dove nelle sicuramente infondate fantasticherie degli uomini. Ma il fatto e che queste nostre vecchie domande ci vengono ora incontro sotto un nuovo aspetto, ora esse ci sembrano, alla luce di ciò che abbiamo poco fa sostenuto, interessanti non tanto come domande che chiedono una risposta al sì e al no, ma in quanto ad esse può essere data una risposta più ampia, ricca di implicazioni, che impone delle prese di posizione su questioni di principio. Il nostro scopo è quello di insegnare la complessità del pro­ blema. Questo scopo lo si rende evidente non già con una ragio­ nevole risposta negativa, ma con la provocazione della risposta 328 apertamente affermativa: ebbene sì, il piccolo intervallo è certamente più erotico del grande intervallo, questo è del tutto evidente. Sappiamo già che questa evidenza non è una questione di matter of fact. Essa appartiene invece all'ambito delle relations of ideas - quindi in qualche modo all'ambito della "logica", ben­ ché di una logica dell'immaginazione. Il misconoscimento della differenza tra questi due piani e la pretesa di sottoporre a veri­ fica empirica il sussistere di relazioni "ideali" è il grande errore della semantica musicale come disciplina psicologica: ad essa si potranno indubbiamente affidare compiti importanti e legittimi, ma non in ogni caso quello di giudice ultimo della sussistenza o insussistenza di connessioni immaginative fonda­men­tali. Annotazioni 1. È un fatto che tra musica e parola intercorre un gioco complesso di interazioni, una dialettica estremamente ricca e varia nella quale la musica può "aderire" al significato della parola, dunque in qualche modo assecondarlo, rafforzarlo, enfatizzarlo, così come anche indebolir­ lo, smentirlo, attenuarlo, ironizzarlo. Ma per rendere conto in via di principio di queste possibilità abbiamo in realtà bisogno della nostra teoria dei vettori immaginativi che ha certamente tra le sue conseguen­ ze anche quella di stabilire una mediazione tra i puri fenomeni sonori e l'ambito dei significati verbalmente espressi. In base ad essa possiamo ammettere che tra suoni e significati verbali sussiste la possibilità di una forma importante di integrazione. I richiami al descrittivismo, alla capacità imitativa o illustrativa della musica sono sempre fuorvianti, in qualunque modo vengano proposti, per il fatto che essi distolgono l'attenzione dal centro autentico della questione: questo centro sta, da un punto di vista generale, nel problema dei rapporti tra il fantastico e il simbolico. Infatti, solo se oggettività fantastiche e direzioni immaginative giacessero interamente le une al di fuori delle altre si potrebbe sostene­ re che le parole - attraverso cui certamente si esplica l'immaginazione liberamente riproduttiva di cose e di eventi, l'immaginazione dunque 329 intesa come fantasia - si aggiungono al "pensiero musicale" mettendo in moto associazioni che gli sono estranee. L'intera questione va invece riconsiderata tenendo conto del fatto che non vi è forse oggetto fanta­ stico che non si trovi all'interno di una fitta trama di direzioni imma­ ginative e che non tenda dunque a sfumare nelle indeterminatezze del valore immaginativo, così come non vi è valore immaginativo che non inclini ad assumere i contorni di un'oggettività fantastica. Perciò è certamente incontestabile che il significato verbale sia un significato indotto, che esso faccia apparire qualcosa che nella musica non è affatto contenuta. Ma una simile affermazione deve essere accom­ pagnata dal riconoscimento del fatto che la parola, con i suoi rimandi narrativi e descrittivi, con i suoi "fantasmi", retroagisce sui dinamismi immaginativi della compagine sonora conferendo ad essa i propri con­ torni. Attraverso la parola, le tensioni simboliche dei suoni vengono integrate in una scenografia fantastica. Per questo motivo fa parte dello spirito della nostra esposizione che essa possa qualche volta raccogliere la provocazione del contenuto, assecondando il maestro di musica che sollecita l'allievo ad alleggerire la mano sulla tastiera, quando esegue i Feux Follets di Liszt, perché di fuochi fatui si tratta, e che d'altro? - piuttosto che la chiosa trita e ritrita che rammenta come il titolo sia stato aggiunto a cose fatte, suggerendo una descrizione che proprio nul­la ha a che fare con il brano musicale. L'errore sta qui già nel parlare di descrizione, e anche nel fatto di non avvedersi che, se questo titolo non ci fosse, lo si potrebbe inventare sul momen­ to proprio per sollecitare l'impiego di una particolare tecnica esecutiva piuttosto che di un'altra, così da mostrare nell'esecuzione la direzione immaginativa verso cui il brano inclina. E in che modo si può pretendere, come accade tipicamente in Wa­ gner, che un motivo possa avere un titolo? Anche un caso come questo va naturalmente annoverato tra i problemi del rapporto con la parola. Un significato verbale viene qui assegnato ad una semplice sequenza di suoni, e quel significato verbale potrà rimandare a cose, eventi, perso­ naggi, concetti astratti. Potrebbe esserci esemplificazione più efficace per mostrare che simili unioni sono tenute insieme solo perché è stato 330 stabilito così? Come è possibile pretendere che possa esservi una qual­ che relazione tra il nome proprio di un personaggio - Freia, ad esempio - e la sequenza di suoni che gli è stata assegnata oppure tra il significato della parola "patto" e il motivo musicale che gli corrisponde? Sappia­ mo ormai che non siamo disposti ad assecondare l'inclinazione retorica di queste domande: una volta che abbiamo distinto tra ciò che sta fuori e ciò che sta dentro il brano musicale, dobbiamo essere subito disposti a mettere in rilievo l'instabilità di quella distinzione come un'instabi­ lità ricca di senso. Nessuna relazione intrinseca può esistere tra una sequenza di suoni e ciò che è indicato da un nome proprio. Ma ciò lo si può dire solo all'inizio - come apertura del problema e non come se con ciò si chiudessero i conti. Restano infatti alcune cose abbastanza importanti da dire. Resta da dire, ad esempio, che è possibile caratteriz­ zare musicalmente un personaggio: ma ammettere questa possibilità significa ammettere che un personaggio possa essere considerato come concrezione fantastica di una direzione immaginativa. Inversamente, il ri­ chiamo alla figura mitica di Freia, con le sue connotazioni che sono ad un tempo connotazióni di valore, retroagisce sul motivo operando una determinazione ulteriore, un rafforzamento di quella direzione. Il motivo del patto è una semplice sequenza di suoni in gradua­le discesa verso il grave, una discesa che inizia già nella regione grave e di qui scende ancora più in basso. Nessuno può certo pretendere che il "significato" del patto possa esse­ re tratto dal suo semplice ascolto. Occorre tuttavia considerare ciò che accade dopo che la parola è stata proposta. Prima di essa vi è il motivo, il tema con il suo senso - il senso di una pesantezza che si appesantisce. Ma dopo che la parola è stata proposta, dopo che questa "convenzione" è stata istituita, questa discesa verso il grave può essere colta come se essa contenesse un richiamo alla necessità del vincolo che il patto isti­ tuisce, alla sua ineluttabilità, come una sorta di minaccia che grava su 331 chi viola i patti. La dinamica della retroazione rende dunque conto della componente suggestiva dell'integrazione fantastica, mostrando nello stes­ so tempo che questa integrazione avviene sul fondamento delle tensio­ ni simboliche preesistenti. 2. La connessione tra erotismo e cromatismo si impone con singolare vivacità e con esiti per molti versi rischiosi e sorprendenti nell'analisi proposta da Lévi-Strauss del mito dell'origine del veleno da pesca (cfr. "Composizione cromatica", in Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano 1966, parte IV, cap. IV, pp. 334 sgg.). In riferimento ad esso viene fatto giocare lo schema dominante del rapporto natura-cultura; e poiché in questa opposizione si rispecchia quella tra continuo e discontinuo, e poiché in quel mito e nelle sue varianti viene proposta, da un lato, una condizione di ambiguità tra natura e cultura e dall'altro un'irruzione del naturale nel culturale, Lévi-Strauss ritiene di poter individuare qui una "dialettica dei piccoli e dei grandi intervalli o, per attingere al lin­ guaggio musicale due termini confacenti, una dialettica del cromatico e del diatonico..." (p. 363), arrivando a ricollegare il tema del veleno con quello della seduzione e della morte, e dunque alla conclusione sorpren­ dente, ma che merita certo una riflessione, secondo cui il fatto che il veleno e la seduzione amorosa ci possano apparire nel mito come "due modalità del regno dei piccoli intervalli" ci deve convincere del fatto che "il filtro d'amore e il filtro di morte sono intercambiabili per motivi che esulano dalla semplice opportunità e ci invita a riflettere sulle cause profonde del cromatismo del Tristano" (p. 365). §9 L'affiorare di figure al limitare delle strutture musicali - questo è il tema principale che si è imposto nel tentativo di rintracciare una strada per riproporre quella tematica del simbolismo che di con­ tinuo si impone nella riflessione filosofica intorno alla musica e che appare nello stesso tempo così difficile da teorizzare in modo realmente compiuto e coerente. 332 Al senso di questa riproposta del tema del simbolismo come un tema che appartiene alle radici dell'espressione musicale è tut­ tavia profondamente estraneo il problema di determinare che cosa attraverso la musica debba essere espresso e come - e dunque l'idea stessa di compiti e obbiettivi espressivi privilegiati. Struttura e sim­ bolo sono ora parole che delimitano lo spazio di gioco della mu­ sica stessa ed alla musica, e dunque ai musicisti, che della musica sono i padroni [131] , spetta di decidere che cosa debba di volta in volta accadere in questo spazio. Come abbiamo ripetuto più volte, l'accento deve essere posto da parte nostra sul tema della possibilità, e proprio per questo è per noi importante dare il massimo rilievo all'idea della molte­plicità di dimensioni del musicale, un'idea la cui giustifi­cazione e teorizza­ zione va certamente oltre la semplice presa d'atto della molteplicità dei linguaggi musicali. Il tema del simbolismo è inoltre connesso per noi con il modo di concepire il rapporto della musica con la realtà, ed è proprio su questo punto che vogliamo far convergere queste no­ stre considerazioni conclusive. Di fronte alla tendenza a impoveri­ re la ricchezza di questo nesso operando livellamenti di differenze che apparterrebbero unicamente alle finzioni sovrap­poste al brano musicale, così come di fronte alla teorizzazione di un simbo­lismo che esaspera e fraintende l'indeter­mi­natezza seman­tica fino a farla ricongiungere all'idea del messaggio troppo grande, noi faccia­ mo notare che nelle distinzioni elementari del rapido e del lento, dell'alto e del basso, del salire e dello scendere, del continuo e del discontinuo, dell'aspro e del dolce, del leggero e del pesante, del concordante e del discor­dante, e così via, si fa avanti la com­ plessità della realtà stessa in tutta la varietà e la ricchezza delle sue determinazioni. La musica ha molte dimensioni perché molti sono i mo­di d'essere e i modi di pensare degli uomini. E sono certamente i modi d'essere e i modi di pensare degli uomini che determinano l'orizzonte di motivi che consente all'immagina­zione musicale 333 di avviare il suo corso, mettendo in moto quella dialettica da cui sorgono le sue opere. Nessun pensiero musicale potrebbe sorgere se non ci fossero altri pen­ sieri. E sarebbe certamente sbagliato ritenere che questi altri pen­ sieri non possano in alcun modo penetrare all'in­terno del brano, contribuendo a determinare il suo senso. Il tema del simbolismo così come è stato proposto sembra indicare la via per una teo­ rizzazione coerente. In esso non si parla soltan­to della memoria interna alla sequenza sonora, non si parla di un immaginare che si esaurisce nell'anticipazione di nessi struttu­rali, e nemmeno di una pura presenza percettiva di un'oggetti­vità sonora in sé de­ finita e chiusa. Ma si avanza l'idea di una memoria del mondo pro­ fondamente immersa nel­le risonanze dei suoni e che attraversa dunque le operazioni va­lorizzanti dell'im­ma­ginazione. Ed è cer­ tamente compito della ricerca storica e analitica portare alla luce questa memoria mostrando in concreto la stupefacente ricchez­ za di forme con le quali la musica si misura con la realtà. 334 Note [1] E. Varèse, Il suono organizzato, Ricordi-Unicopli, Milano 1985, p. 105. [2] Ivi, p. 106. [3] Ivi. Ancora recentemente K. Stockhausen: "Purtroppo debbo ancora ade­ guarmi all'uso dei violini e delle viole sebbene siano strumenti di cui mi servo sempre meno. Penso ai poveri violinisti, ai violisti che di solito se ne stanno se­ duti in trenta a fare la stessa cosa, tutti insieme" (Intervista sul genio musicale, a cura di Mya Tannenbaum, Laterza, Bari 1985, p. 48). [4] E. Varèse, op. cit., p. 115. [5] Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, oss. 491. [6] I. Xenakis, Musica. Architettura. Spirali Edizioni, Milano 1962. [7] R. Francés, La perception de la musique, Vrin, Paris 1984, p. 364. [8] Almeno nei fatti. Per ciò che riguarda la teoria, le cose stanno un po' diversa­ mente. Si vedano le precisazioni contenute nelle Annotazioni a questo paragrafo. [9] Boringhieri, Torino 1979, p. 224. [10] Ivi, p. 234 e p. 236. [11] G. Berkeley, Teoria della visione, tr. it. a cura di P. Spinicci, Gue­rini, Milano 1995. Cfr. par. 147. [12] C. Sachs, op. cit., p. 234. [13] Ivi. [14] Ivi, p. 237. [15] Ivi, p. 238. [16] Ivi, p. 234. [17] N. Goodman, I linguaggi dell'arte, a cura di F. Brioschi, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 19. L'espressione "occhio innocente" è tratta di qui, p. 13, e viene im­ piegata con riferimento esemplificativo alla posizione empiristica espressa da E. Gombrich in Arte e illusione, Einaudi, Torino 1965. Goodman per altro ritiene che il convenzionali­smo di Gombrich non sia abbastanza radicale, in particolare proprio sul problema della prospettiva (cfr. pp. 15 sgg.). [18] N. Goodman, op. cit, p. 38. [19] Ivi, p. 47. 46 [20] Ivi, p. 19 in nota. [21] Ivi, p. 47. [22] Ivi, p. 48. [23] Ivi. [24] Ivi. [25] Ne parla V. S. Propp nel saggio "Il riso rituale nel folclore", in Edipo alla luce del folclore, a cura di C. Strada Janovic, Einaudi, Torino 1975, p. 59. 335 [26] Ivi, p. 59: "L'espressione 'riso sardonico' attualmente è usata come sino­nimo di riso crudele e maligno. Ma alla luce del materiale esaminato la cosa assume un signifi­cato diverso. Abbiamo visto che il riso crea la vita e favorisce la nascita. Se così stanno le cose, il riso durante l'atto dell'uccisione trasforma la morte in una nuova nascita e annulla l'omici­dio. Di conseguenza questo riso è un atto di pietà che trasforma la morte in una nascita nuova". [27] "Conferenza su niente", in Silenzio, tr. it. a cura di R. Pedio, Feltrinelli, Mi­ lano 1971. [28] C. Sachs, Le sorgenti della musica, Boringhieri, Torino 1979, p. 71. [29] Ivi. [30] La questione è discussa da R. Casati e J. Dokic, Sounds, in The Stan­ ford Encyclopedia of Philosophy, Ed. 2005, http://plato.stanford.­edu/­­archives/ fall2005/entries/sounds/. [31] M. Schneider, Il significato della musica, Rusconi, Milano 1970. [32] Ivi, p. 275. [33] Ivi. [34] Ivi, p. 274: "Che cosa sono dunque queste acque primordiali? Nul­l'altro che i rit­mi dello scorrere del tempo. Il mondo primordiale non ha spazio, esiste cioè unicamen­te nel tempo e, nel tempo primordiale, il suono sostanziale presente più o meno percetti­bilmente in ogni oggetto creato è l'unica dimensione esi­ stenziale dell'oggetto stesso; di conseguenza le stesse acque primordiali - così spesso definite protoelemento della creazione - non possono essere acque reali bensì unicamente un mormorio". [35] Ivi, pp. 119-120 [36] Ivi. [37] Ivi, p. 119: "Il suono sacrificale non è però ciò che noi intendiamo comunemen­te per suono, bensì una 'eco', cioè il sacrificio del suono stesso quale si può percepire particolarmente bene da una campana oscillante". Ivi, p. 121: "Si dice anche che gli dei sonori cominciarono, dormendo, a sognare un corpo concreto, vollero cioè, in contra­sto con la loro natura di eco, diventare visibili e acquistare rilievo plastico". Ivi, p. 171: "... il ritmo sonoro creatore non risiede nella parola comune bensì nella 'parola', e che non oscilla nella parola espressa, bensì nell'eco". [38] Ivi, pp. 79 sgg. [39] Ivi, p. 86. [40] La molteplice e complessa simbologia del tamburo è illustrata alle pp. 231243. [41] Ivi, p. 119. [42] Ivi, p. 24. [43] Ivi. [44] Cfr. p. 41 e p. 53. [45] Ivi, p. 22. [46] Ivi. Cfr. anche, sul senso del tamburo come cavità vuota, p. 242. 336 [47] Ivi, p. 151. [48] Ivi, p. 82. [49] Ivi, p. 140. [50] Ivi, p. 91. [51] Ivi, p. 92: il simbolo "non è che un mezzo di esteriorizzazione, che permette ad una forza, non raffigurabile sensibilmente e come nascosta nell'om­bra, di rendere palese la sua attività, così come l'anima umana, ad esempio, può manife­ starsi nel corpo o nel linguaggio. Poiché tale forza possiede un carattere attivo, il simbolo è l'autorealiz­zazione di tale essere in un altro essere. Ora, questa auto­ realizzazione determina una presenza; e in base a tale presenza si istituisce una relazione tra le due componenti del simbolo. Non si tratta dunque mai di una identificazione, perché entrambi, il campo e l'energia che si irradia in tale campo, conservano la loro natura propria. La realtà sim­boleggiata non si confonde mai con la materia che ne è veicolo. Ma in tale incontro la forza spirituale simboleg­ giata si esterna sensibilmente, mentre il campo della sua azio­ne, come purificato, tende all'universalità dell'astrazione. Ovviamente, tale trasparen­za non dipende dalla percezione umana. La sua esistenza è autonoma, e importa poco che l'uo­ mo sia capace o incapace di discernerla". [52] Ivi. [53] Ivi, p. 95. [54] Ivi. [55] Se dobbiamo credere al prefatore, E. Zolla, p. 87. [56] Ivi, p. 58. [57] Ivi, p. 62. [58] Ivi, pp. 205 sgg. [59] Ivi, p. 97. [60] Ivi, pp. 138 sgg. [61] Ivi, p. 109. [62] Ivi, p. 97 e p. 109. [63] In rapporto a questo problema, che ha anche un particolare rilievo dal pun­ to di vista metodologico, si possono trovare indicazioni un poco più diffuse in G. Piana, La notte dei lampi, Guerini e Associati, Milano 1988, pp. 167-172. [64] J. Chabade: "L'elettronica e gli strumenti sono estensioni differenti di noi stessi. Gli strumenti sono un'estensione delle braccia e della voce e l'elettro­nica è un'estensione del pensiero", in La musica elettronica, a cura di H. Pousseur, Feltrinelli, Milano 1976, p.284. [65] L. Berio, Prefazione a La musica elettronica, cit., p. VII. [66] H.Pousseur, La musica elettronica, cit., p. 120. [67] Ivi, p. 245. [68] Ivi. [69] Ivi. [70] Leonardo, Trattato della pittura, Le Bibliophile, Neuchâtel 1970, par. 20, p. 20. 337 [71] Ivi, par. 12, p. 14 [72] Ivi, par. 25, p. 24 [73] Ivi. [74] Ivi, par. 27, p. 25. [75] Ivi, par. 26, p. 25 [76] Ivi, par. 28, p. 26 [77] J. Cage: "Un suono non possiede nulla, non più di quanto io lo possieda. Un suono non ha il suo essere, esso stesso non è certo di sopravvivere, se così si può dire, al secondo che seguirà. Ciò che è strano, è precisamente che sia apparso, adesso, in questo preciso secondo. E che dopo sia sparito. L'enigma è il proces­ so" (Per gli uccelli, tr. it. di W. Marchetti, Multhipla Edizioni, Milano 1977, p. 156). [78] C. LéviStrauss, Il crudo e il cotto, tr. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 32. [79] B. de Schloezer, Introduction à J. S. Bach, Gallimard, Paris 1947, p. 31. [80] C. Sachs, Rhythm and Tempo, New York 1953, p. 12. Cfr. anche J. J. Nattiez, Il discorso musicale, Einaudi, Torino 1987, p. 113. Sullo stato del problema dal punto di vista storico: W. Seidel, Il ritmo, il Mulino, Bologna 1976. [81] Si veda esemplificativamente il Trattato di forma musicale di Giulio Bas che risale al 1913 e che è stato fino a oggi continuamente ripubblicato dall'Editore Ricordi. Per un breve aggiornamento in rapporto a questa problematica, si veda J.J. Nattiez, op. cit. , p. 123 [82] E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, tr. it. di M.V. Giuliani, Il Saggia­ tore, Milano 1971, pp. 390-399 [83] Ivi, p. 391. [84] W. Jaeger, Paideia, tr. it. di L. Emery, La Nuova Italia, Firenze 1953, vol. I, pp. 239-241. [85] Ivi, p. 239. (Le parole di Archiloco nel frammento 67a, sono gi/gnwske dÚoi(=ouj r(usmo/j a)nqrw/pouj e/)xei) [86] Ivi, p. 240 [87] Ivi. Aesch. Prom. 241 (e)rru/qmismai); Pers. 747 ( po/ron metqmze). [88] Ivi, p. 241. [89] E. Benveniste, op. cit., p. 391. [90] Ivi, p. 393. [91] Ivi, p. 394. Si noti che la frase precedentemente citata di Archiloco viene resa da Benveniste: "Impara a conoscere le inclinazioni che dominano gli uomi­ ni". E gli esempi precedentemente citati tratti da Eschilo vengono intesi in modo tale da far cadere l'accento sulla tematica della forma (cfr. Ivi, p. 394). [92] Ivi, p. 395-96. [93] Ivi, p. 396. [94] Ivi, p. 398. Secondo Benveniste, da un lato è ancora presente in Platone l'impiego della parola nel senso di "forma distintiva", dall'altro egli opera un'in­ novazione "applicandola alla forma del movimento che il corpo umano compie nella danza e alla disposizione delle figure nelle quali si risolve il movimento". 338 [95] G. Rouget, Musica e trance, Einaudi, Torino 1986, p. 108: "Nelle regioni in cui si parlano le lingue toniche, il linguaggio tambureggiato permette al tamburo di servire da strumento melodico e di sostituirsi al canto. Indipendentemente da questo caso particolare, lo si può suonare in modo così espressivo che il tambu­ reggiamento può divenire... melodia di timbro, di accento e di intensità. D'altro canto, se il tamburo appare come lo strumento maggiormente utilizzato per la musica di possessione, è perché può essere tanto melodico quanto ritmico...", G. Kubik, "Capire la musica nelle culture africane", ne Il senso in musica, Clueb, Bologna 1987, p. 285: "Se il punto di vista è quello della cultura musicale del ricercatore, si tenderà a vedere nelle altre culture soprattutto quegli aspetti che trovano un equivalente in essa. Così la musica di tamburi africana è stata a lungo studiata nell'ottica del 'ritmo', trascurando le sequenze timbriche e tutto ciò che esse comportano". [96] G. Rouget, op. cit. , p. 167: "La musica indica che qualcosa sta succedendo; che il tempo è occupato da un'azione in svolgimento, oppure che un certo stato regna sugli esseri. Ne è un esempio il rullo di tamburo che risuona nel circo men­ tre il trapezista esegue un salto mortale". [97] Nella terminologia musicale si usa preferibilmente il termine di pausa in modo generale, mentre sarebbe forse opportuno riservare questa parola a quei casi in cui l'ascolto mantiene la presa sulla scansione. Nelle pause il tempo con­ tinua a camminare e questo cammino lo puoi avvertire nel processo stesso del­ l'a­scolto. Con "silenzio" invece si può intendere la mera durata silenziosa, nella quale il tempo puramente fluisce. [98] La figura che segue è tratta da W. Kandinsky, Punto, linea e superficie, Adelphi, Milano 1968. [99] Cfr. A. Wellek, "Farbenharmonie und Farbenklavier. Ihre Entstehungsge­ schichte im 18. Jahrhundert", Archiv für die gesamte Psychologie, 94, 1935, pp. 347375. [100] Questa terminologia risale a G. Révész (cfr. Psicologia della musica, Giunti Barbera, Firenze 1954, p. 54). [101] G. Révész, op. cit., p. 67. [102] Quest'ultima espressione - atroce dissonance - è di Vladimir Jankélévitch, La Musique et l'Ineffable, Seuil, Paris 1983, p. 55. [103] J. Tenney, A History of "Consonance" and "Dissonance", Excelsior Music Pu­ blishing Company, New York 1988, p. 43: "Nel corso del XIX e del XX secolo naturalmente queste connotazioni sono diventate sempre meno prevalenti, ed anzi per molti compositori le associazioni di una volta si sono invertite. Ciò tuttavia non dovrebbe farci dimenticare (come è accaduto in teorici recenti) che queste connotazioni sono state le connotazioni affettive prevalenti di consonan­ za e dissonanza nella cultura occidentale per un migliaio di anni e più". [104] Platone, Repubblica, VII, 530d-531d. Facciamo qui riferimento alla tradu­ zione italiana, a cura di F. Sartori, Opere complete, Laterza, Bari 1971, vol. VI, pp. pp. 254-55. 339 [105] Ivi, 531b [106] Ivi, 530a [107] Ivi. [108] Ivi, 530c [109] Ivi, 530b. [110] Cfr. ad es. P. Righini e G.U. Righini, Il suono, Tamburini, Milano 1974, p. 247. [111] Alla scarsa attenzione alla problematica musicale da parte della riflessione estetica e filosofica in genere, fa riscontro sul versante musicologico un profon­ do disinteresse - e alludo qui naturalmente in modo esclusivo alla situazione italiana - nei confronti della questione di una teoria generale della musica, disinteresse che non ha conseguenze solo su maggiori o minori profondità spe­ culative, ma che ha generato una relativa arretratezza nel campo delle indagi­ ni più strettamente analitiche che esigono in via di principio opzioni di ordine teorico e metodico spesso apertamente sconfinanti nell'ambito delle questioni filosofiche. Tra le poche eccezioni a questo quadro merita di essere segnalato il lavoro condotto da Marco de Natale, a cominciare dal volume Strutture e forme della musica come processi simbolici (Morano, Napoli 1978) fino al più recente Analisi della struttura melodica (Guerini, Milano 1988). La necessità di un punto di vista di una teoria generale si impone qui con particolare evidenza in stretta connessione con problematiche analitiche specifiche e con la consa-pevolezza del suo raggio di azione che raggiunge il problema della costruzione di un apparato categoriale capace di offrire strumenti per la comprensione delle strutture musicali di cul­ ture non europee, così come quello di un rinnovamento della presentazione dei "concetti fondamentali" che non può non avere conseguenze importanti sulla didattica musicale. [112] I. Stravinsky, Cronache della mia vita, Feltrinelli, Milano 1981, p. 52. La frase continua così: "La ragion d'essere di questa non è in alcun modo con-dizionata da quella. Se, come quasi sempre accade, la musica sembra esprimere qualcosa, si tratta di un'illusione e non di una realtà. È semplice-mente un ele-mento addizio­ nale che, per una convenzione tacita e inveterata, le abbiamo prestato, imposto, quasi un'etichetta, un protocollo, insomma un'esteriorità, e che, per abitudine e incoscienza, abbiamo finito per confon-dere con la sua es-senza". [113] A. Schönberg, Analisi e pratica musicale, Einaudi, Torino 1974, p. 67. [114] A. Schönberg, Stile e idea, Feltrinelli, Milano 1975, p. 11. [115] I. Stravinsky e R. Craft, Colloqui con Stravinsky, Einaudi, Torino 1977, p. 299: "Quella battuta superpubblicizzata sull'espressione (o non espressione) era semplicemente un modo di dire che la musica è soprapersonale e superreale e come tale va oltre i significati verbali e le descrizioni verbali. Era diretta contro il concetto che un brano di musica sia in realtà un'idea trascendentale 'espressa in termini musicali' con l'implicazione da reductio ad absurdum che tra i sentimenti di un compositore e la loro trascrizione musicale debbano esistere esatti corre­ lativi. Era un parere improvvisato e fastidiosamente incompleto, ma persino i 340 critici più ottusi avrebbero potuto vedere che non negava l'espressività musicale, ma soltanto la validità di un certo tipo di asserzione verbale circa l'espressività musicale. Incidentalmente sostengo ancora quell'osser-vazione, anche se oggi la rivolterei così: la musica esprime se stessa. Il lavoro di un compositore sta proprio nell'incarnazione dei suoi sentimenti e naturalmente si può pensare che li esprima o li simboleggi (anche se la consa-pevolezza di questo atto non riguar­ da il compositore). Più importante è il fatto che la composizione è qualcosa di completamente nuovo al di là di quelli che si possono chiamare i sentimenti del compositore... Una nuova composizione musicale 'è' una nuova realtà". [116] Cfr. G. Manzoni, Arnold Schönberg, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 109-110 (si fa riferimento al Quartetto n. 3 op. 30 per archi). [117] I. Stravinsky e R. Craft, op. cit., p. 85. [118] V. Jankélévitch, La Musique et l'Ineffable, Seuil, Paris 1983,p. 57 [119] Si vedano i commenti alle Sonate op. 31, n. 1 e 2 nel Catalogo cronologico e tematico delle opere di Beethoven, a cura di G. Biamonti, Ilte, Torino 1968, pp. 371-378 in cui si citano casi estremi di questo atteggiamento. [120] Gli esempi sono tratti da Bharata, Gitalamkara, Retorica musicale, tr. franc., a cura di A. Danielou, Institut Franrais d'Indologie, 1959, cap. VI e cap. XIII. [121] C. Sachs, La musica nel mondo antico, Sansoni, Firenze 1963, p. 127: "La mu­ sica di palazzo e di tempio, sia in Cina che in Corea e in Giappone, ha respinto il semitono infisso, poiché invece di placare le passioni, riempiva l'animo di brama sessuale". [122] E. Hanslick, Il bello musicale, Martello, Milano 1971. [123] A S. K. Langer è dedicato il quinto capitolo del volume di E. Fubini, Mu­ sica e linguaggio nell'estetica contemporanea, Einaudi, Torino 1973 [124] S.K. Langer, Sentimento e forma, Feltrinelli, Milano 1975, p. 43. [125] Ivi. [126] Cfr. Ivi, pp. 45-46. [127] Ivi, p. 43. [128] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, oss. 610. [129] L. Wittgenstein, in Ludwig Wittgenstein und der Wiener Kreis, Colloqui, a cura di F. Waismann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967, p. 48: "Il nostro linguaggio è in ordine, purché ne comprendiamo la sintassi e riconosciamo le ruote che girano a vuoto" . [130] Cfr. nota 121. [131] "Sono io il padrone di questo fiume che scorre" (Prospero, in Un re in ascolto, di L. Berio e I. Calvino, Parte II, Aria IV, Universal Edition, 1983, p. 52). 3 Giovanni Piana Opere complete Volume settimo Intervallo e cromatismo nella teoria della musica 1. L'intervallo, p. 5 2. Il cromatismo, p. 97 Appendice: La fiaba del suono della campana gialla e l'origine dei dodici lyu, p. 193 2013 4 ISBN 978-1-291-26376-3 Copyright Giovanni Piana Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Uniform Resource Identifier Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT In questo testo la scritta (Es. x*) indica l'esistenza di un esempio sonoro presente nella versione PDF. Tale versione è reperibile nel sito Internet dell'Archivio di Giovanni Piana, Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. L'assenza dell'esemplificazione sonora non pregiudica in nessun modo la comprensione del testo. L'immagine a fronte è tratta dal volume di Barbara Muxelhaus, Pythagoras musicus, Bonn 1976 5 Giovanni Piana L'intervallo 2003 6 7 Indice Introduzione Parte I 1. L'intervallo intelligibile 2. L'intervallo visibile 3. L'intervallo udito Parte II 1. Fenomenologia dell'intervallo 2. Matematica dell'intervallo 8 9 Introduzione Il termine italiano di intervallo è un calco del latino intervallum - ed esso mostra in modo molto diretto l'immagine da cui ha origine. Vallus significa "palo" - il palo con cui si reggono i vitigni della vite, ad esempio, oppure quello con cui si realizza una palizzata (vallum significherà poi in generale proprio una fortificazione, it. vallo): intervallum è letteralmente ciò che vi è tra i pali, lo spazio compreso tra essi, la distanza dall'uno all'altro. Nella trattatistica latina del resto, accanto ad intervallum, per indicare l'intervallo tra i suoni, vengono nor­malmente impiegate, come sinonimi di esso o per introdurne il concetto, espressioni come spatium, interspa­ tium, interstitium, latitudo, distantia. Ad esempio: "spatium seu intervallum" (Engelbertus Admon­tensis) "intervallum vel interspatium" (Bonaventura da Bre­ scia); "Intervallum vero est soni acuti gravisque distantia" (Boe­ zio); " intervallum, quasi interstitium sive distantia" (Jacobus Leodiensis); "latitudo seu intervallum" (Johannes Boen). Del resto anche in Rameau troviamo l'intervallo definito così: "Si chiama intervallo la distanza (distance) tra un suono gra­ ve ed un suono acuto" (Traité, cap. I.). L'immagine della spazialità, così trascurata in larga parte della filosofia e dell'estetica musicale, mostra invece la sua pre­ senza ovunque nei fondamenti dell'esperienza musicale e del­ la sua teoria. Una presenza multiforme, dal momento che varie sono le direzioni di senso in cui la nozione di spazio può es­ sere richiamata. In questo caso, questa nozione viene messa in questione soprattutto con riferimento alle cose distribuite nel­lo spazio, allo spazio come essere-tra, come ciò che c'è tra una cosa 10 ed un'altra, ed il fatto che si possa anche dire che tra una cosa ed un'altra non c'è nulla rappresenta naturalmente l'ini­zio di un problema per la filosofia dello spazio in genere. È inte­ressante inoltre il fatto che si parli di distantia - questo è un ter­mine parti­ colarmente ricorrente. L'intervallo è allora pro­posto come una linea cui estremi sono i suoni che lo delimitano. Ed ovviamente non come una linea che vada divagando tra essi, ma come una li­ nea rettilinea, come il percorso più breve tra due punti. L'analogia è in tal caso specificamente geometrica. Eppure, nonostante questa antica tradizione terminologica, vi è chi potrebbe osservare che alla domanda intorno a che cosa sia l'intervallo tra suoni oggi dovremmo rispondere - con mi­ gliore conoscenza di causa e con aderenza alla realtà delle cose - che "intervallo tra i suoni è il rapporto tra le frequenze che li ge­ nerano"; mentre il parlare di distanza tra una nota e l'altra, come se le note fossero dei paletti, ci potrebbe sembrare una risposta grossolana e approssimativa. Le cose tuttavia non stanno affatto così. Tutta la nostra di­ scussione seguente vorrebbe dare la massima evidenza al fatto che alla teoria dell'intervallo appartengono sia la distanza che il rapporto secondo intrecci problematici assai ricchi ed inte­ressanti, che tuttavia richiedono, per essere chiaramente compresi che si tenga ben ferma la differenza di piani che essi presuppongono. Questa differenza è stata sintetizzata felice­men­te da un tratta­ tista dicendo che ciò che i musici chiamano intervallum, inteso come distantia tra un suono più acuto ed uno più grave, gli arit­ metici chiamano invece proportio [1] . 11 Parte I 1. L'intervallo intelligibile In realtà, l'introduzione iniziale dei concetti fondamentali della teo­ ria musica non può che avvenire attraverso una esem­plificazione di­ retta, cioè attraverso l'esibizione di casi pertinenti e di pratiche ten­ denti a rafforzare ed a confermare la nozione introdotta. Tra queste pratiche non vi è solo la presen­tazione di esempi, ma anche la loro variazione accorta, che mira ad evitare fraintendimenti, così come anche prati­che verbali che in vari modi - spesso con immagini e riferimenti analogici - chiariscano in che modo gli esempi debbano essere intesi. Solo in un secondo tempo, quando la nozione è sta­ ta in questo modo ostensivamente insegnata ed appresa, ha senso proporre carat­terizzazioni verbali di stile definitorio - e solo attra­ verso un'in­da­gine conoscitiva che conduca a risultati soddi­sfacenti è infine pos­sibile proporre una determinazione che si richia­mi al sostrato fisico del livello fenomenologico a cui inizialmente è inevi­ tabile attenersi. Ciò vale naturalmente anche per la nozione di intervallo - ed è anche subito chiaro che la sua definizione in termini di rapporto tra frequenze ha come contesto di riferimento proprio il sostra­ to fisico, e quindi può intervenire solo ad un grado evoluto di ela­ borazione teorico-conoscitiva del problema. Si tratta propriamente di un sapere che riguarda la pura produzione oggettiva dell'evento sonoro. Occorre allora essere in chiaro su questo punto: quando un suono viene prodotto attraverso operazioni dirette su uno stru­men­to musicale, si ha una produzione oggettiva di frequenze 12 in deter­minati rapporti tra loro, ma è appena il caso di notare che il sapere corrispondente non appartiene senz'altro a questo modo di produ­zione così come è estraneo al senso dell'ascolto. Naturalmente possiamo senz'altro dire, a buon diritto, che nella per­cezione di un intervallo si percepiscono rapporti tra note, ma le note saranno in tal caso il fatto uditivo stesso, mentre il ter­ mine di rapporto non ha, in questo caso, il senso aritmetico ben determinato che esso detiene quando si parla dell'intervallo come rapporto tra frequenze, e dunque tra i numeri corrispondenti. Il senso della parola va invece riferito alla relazioni che si istituiscono tra le note in quanto fatti sonori specifici, relazioni che sono a loro volta date alla percezione - ad esempio, la relazione di maggiore o minore gravità dell'un suono rispetto all'altro oppure la relazione consonantica o dissonantica che può sussistere tra essi. Diversamente stanno le cose per quanto riguarda la produ­ zio­ne tecnica del suono: se intendo produrre un certo inter­val­lo me­diante un calcolatore, la definizione dell'intervallo come rap­ porto tra frequenze ci insegna l'essenziale, e di questo sapere non pos­sia­mo certo fare a meno. Sappiamo che si dovranno inse­rire, in entra­ta, a titolo di parametri, certi determinati numeri di frequenza che stanno tra loro in un certo rapporto, per ottenere, in uscita, un determinato intervallo. Ora, dobbiamo subito richiamare l'attenzione sul fatto che l'intervallo udito si presenta proprio secondo l'analogia geometrica del segmento, come linea, distanza tra "punti sonori". L'intervallo come spatium non è dunque affatto un modo improprio e appros­ simativo di definirlo, ma, come noi diremmo, un'illu­strazione imma­ ginativa adeguata del suo concetto, come concetto costi­tuito sulla base dell'esperienza uditiva. Questa differenza tra l'intervallo inteso come rapporto e l'intervallo inteso come distanza rimanda in realtà a dispute molto antiche. Potremmo dire che esse cominciano ad affiorare e ricevono pieno sviluppo già agli albori della riflessione teo­rica sulla musica. Occorre infatti notare che, per arrivare a formula­ 13 re l'idea dell'intervallo come rapporto, non si deve attendere lo sviluppo di un pensiero scientifico evoluto fino al punto di poter formulare la nozione di frequenza e di essere in grado di padro­ neggiarla con i necessari apparati tecnici. Già nella fase più antica del pitagorismo, attraverso le misurazioni con il mono­cordo, gli intervalli consonantici di ottava, di quinta e di quarta erano noti nei loro rapporti aritmetici di 2:1, 3:2 e 4:3; e così anche l'inter­ vallo di tono come intervallo differenziale tra quinta e quarta era riconosciuto corrispondente al rapporto di 9:8. Queste co­ gnizioni tuttavia non vengono acquisite sulla base di una precisa consapevolezza intorno ai processi fisici che gene­rano i suoni. In realtà, l'idea che il suono abbia origine da un qualche movimen­ to è tutt'altro che estranea alla speculazione greca, ed anzi essa viene esplicitamente teorizzata. Si arriva anche a prospettare una stretta connessione della maggior velo­cità del movimento con i suoni acuti e della minore con i suoni gravi. Questi primi inizi di una teorizzazione fisica poggiano sulla semplice osservazione: in circostanze particolari, ad esempio nel caso dell'emissione del suono da strumenti a corda, vi è la consapevolezza immediata del gesto che provoca il suono - il pizzicare la corda - come un gesto che dà corso ad un movimento. La vibrazione della corda è del resto un fatto che sta letteralmente sotto i nostri occhi. Tuttavia una cosa è il vedere tutto questo, un'al­tra è riuscire a fornire un'a­ nalisi coerente che sappia chiara­mente distinguere le componenti essenziali dell'evento comples­so che qui ha luogo. La semplice os­ servazione non basta nemmeno a identificare con chiarezza il tipo di movimento, dove propria­mente esso si verifichi, che cosa sia esattamente ciò che si muove - né si riesce a distinguere chia­ ramente la produzione del suono dalla sua propagazione. Per arrivare a capire che tipo di movimento avviene in una corda vibrante occorre attendere i secoli XVII-XVIII, e per ottenere una chiarezza autentica anche oltre. La teoria greca si spinge sino a cogliere una possibile connessione tra maggiore o minore ve­ locità del movimento e il grado di maggiore o minore acutezza 14 del suono emesso, ma il senso di questa connessione non può che rimanere oscuro in assenza di una precisa determinazione del tipo di movimento che è qui in questione. Nella Divisione del canone, attribuito ad Euclide, si spiega fin dall'inizio che il suono è causato da un urto e questo da un moto. E che la maggiore o minore acutezza dipende dalla frequenza o minore frequenza del moto. "In caso di quiete e di assenza di moto si ha si­lenzio; se c'è silenzio e non si danno corpi in mo­ vimento, non si ha percezione uditiva: per poter udire qualcosa è dunque ne­ces­sario che si siano prima verificati urto e moto. Ne discende: sicco­me ogni suono è causato da un urto e questo è im­ possibile se non è preceduto da un moto e siccome i moti posso­ no essere di maggiore o minore frequenza e ai primi si debbono i suoni più acu­ti, ai secondi i più gravi, saranno necessariamente più acuti i suoni risultanti da moti di maggiore entità e frequenza più gravi gli altri". Si noterà subito che a partire di qui non è affatto facile a partire di qui effettuare il passaggio al rapporto numerico. Esso avviene infatti piuttosto faticosamente sulla base di un poco convincente ragionamento sulla composizione del moto e sulla riconduzione del problema alla nozione di intero e di parte. Poi­ ché il moto può essere accresciuto o diminuito, queste operazioni possono essere considerate come un'aggiunta o una sottrazione di parti cosicché il moto può essere concepito come composto di parti. "Ma tutte le cose che si compongono di parti si dice che sono in reciproco rapporto numerico, e perciò necessariamente diremo che anche i suoni stanno in reciproco rapporto numerico" [2] . Il riferimento esemplare alle corde ci libera da queste in­ certezze sulla fisica del suono e consente, attraverso le misure delle lunghezze e i loro rapporti, di passare direttamente e coe­ rentemente al versante aritmetico. Il monocordo con il suo pon­ ticello mobile: 15 ponticello mobile ponticelli fissi chiavi consente di prescindere da differenze fisiche difficilmente control­ labili, come lo spessore delle corde, il materiale da cui sono fatte e il grado di tensione, proponendo una prima astrazione che fa della cosa risuonante una pura lunghezza che può essere misurata. Con vari accorgimenti, potrà essere agevolata la pratica della misu­ra­ zione - si potranno apporre tacche per facilitare i confronti, e le limitazioni e le complicazioni derivanti dall'impiego di una sola corda potranno essere tolte dall'impiego di più corde accor­date all'unisono e di più ponticelli mobili. Quando si parla di canone o di monocordo non bisogna affatto pensare al fatto che que­ sto strumento speri­men­tale debba necessariamente consistere in un'unica corda, nonostante il nome. Il punto importante in ogni caso è che in tutte queste sue possibili varianti, il monocordo pro­pone la corda, sarei quasi tentato di dire, come segmento che risuona - dunque non come entità geometrica vera e propria e nemmeno come entità fisica piena e completa. L'attenzione del­ l'osserva­to­re viene così distolta dai fenomeni vibratori, ed il suo interesse si dirige in modo esclusivo alle lunghezze delle corde ed ai loro rapporti. In questo modo si potrà realizzare una stretta correlazione tra fenomeni uditivi rilevanti come sono gli interval­ li consonantici fondamentali e determinate relazione nu­meriche che valgono in primo luogo come misure di lunghezze. Nello stesso tempo si prepara una seconda importante astrazione rispetto alla quale ancora l'osservazione fornisce fino ad un certo punto una guida. In proposito va notato che, mentre il 16 monocordo era lo strumento in cui la pratica della misurazione poteva realizzarsi nel modo più agevole, e non vi è da dubi­ tare che di fatto esso fosse al centro delle sperimentazioni pita­ goriche, esso non rappresenta affatto il protagonista dei racconti delle prime sperimentazioni pitagoriche. Nella storia del "fabbro armonioso" narrata da Nicomaco di Gerasa [3] - si trat­ta invece di martelli, di pe­si e di rapporti tra i pesi. Le corde intervengo­ no anche in questo racconto, ma ciò che si tenta di misurare è la loro tensione media­nt­ e pesi. Ippaso di Metaponto sperimentò con dischi metal­lici, a quanto sembra, realizzando dischi di eguale diametro e di spes­sore regolato secondo i rapporti consonantici, mentre di Laso di Ermione si racconta che egli sperimentasse con vasi riempiti d'acqua in varie proporzioni [4]. Non stiamo qui a discutere sui dettagli di queste sperimentazioni leggendarie: con i pesi non si ottengono gli stessi risultati che con le corde tese e d'altra parte non sembra affatto facile costruire vasi che possano essere accordati in ottava o in quinta variando la proporzione di acqua nel loro interno. Il punto importante che mostrano queste storie è che non appena si pone il problema dell'esistenza di un rapporto, vi è anche la consapevolezza che sia possibile variare totalmente il mezzo (il "corpo sonoro") di produzione del suo­ no ottenendo lo stesso risultato uditivo, a patto di mantenere identico il rapporto numerico. Così nella sperimentazione di La­ so una consonanza di quinta verrà ottenuta con vasi contenenti rispettivamente 3 e 2 parti di acqua. Il rapporto numerico resta costante - tutto il resto può variare. Dunque non è questione di corde, di vasi o di pesi [5]. Corrispondentemente, passa in secondo piano il fatto che il numero interviene normalmente come misura di una grandezza, ad es. nel caso delle corde come lunghezza relativa delle corde tra loro. Quelle storie, nella loro varietà, ed in assenza di una spiegazione causale soddisfacen­ te, mostrano la possibilità di una generaliz­zazione che tende a dare la massima enfasi al rapporto numerico come tale, renden­ dolo del tutto indipendente da ogni riferimento alla cosa ma­ 17 teriale. È dunque il rapporto numerico in sé che viene correlato al feno­meno uditivo. Laddove vi sia una conso­nanza di ottava dobbiamo assumere che da qualche parte sia attivo il rapporto 2:1. A titolo di causa? In realtà per quanto riguarda le spiega­zioni propriamente causali la risposta prevalente andrà sempre in dire­ zione del tema del movimento, senza che questi spunti per una teoria fisica riescano ad incontrarsi con la teoria aritmetica, come se la spiegazione degli eventi sonori e la problematica relativa ai rapporti intervallari potessero procedere su cammini differenti. La teoria aritmetica a sua volta non propone una vera e propria spiegazione, ma deve cercare un contesto, piuttosto che nella fisica del suono, in una concezione della musica nella quale si cominciano a distinguere due versanti: il versante della pura sen­ sibilità, che si arresta al piacere immediato che la musica è in grado di suscitare (delec­tatio), e il versante più profondo (veritas), che può essere attinto solo in un afferramento intellet­tuale, nel quale è dominante il rapporto numerico. Si tende così a stabilire una cor­ relazione secondo la quale il livello sensibile tende a rispecchiare quello intellettuale, correlazione che diventa tanto più pregnante quanto più essa mette in questione la struttura profonda della real­ tà. La teoria dell'intervallo come rapporto si afferma sullo sfondo di concezioni filosofiche che enfatizzano l'essenza numerica del reale. D'altra parte l'intervallo che si propo­ne all'interno di queste considerazioni come rapporto numerico non è l'inter­vallo che si dà alla percezione, ma è piuttosto è l'interval­lo udito in quanto viene reso intelligibile dal rapporto numerico. Queste idee, che cominciano a delinearsi sul terreno nell'an­ tico pitago­rismo, orientavano dunque l'attenzione sull'inter­­vallo concettua­lizzato come rapporto aritmetico. Il termine greco per indicare il rapporto - merita rilevarlo - è una parola assai impe­ gnativa per la storia della filosofia e della scienza: si tratta della parola logos (lo/goj). L'intervallo aritmeticamente interpre­tato è l'intervallo colto nella sua ratio. La parola latina è altrettanto ambi­ valente quanto quella greca. Al significato matematico speciale si 18 aggiunge certamente una valenza di senso che mira ad un orizzon­ te più ampio. La possibilità di porre un rapporto a fondamento di un fenomeno rappresenta una condizione di intel­ligibilità. Diventa così possibile formulare l'ipotesi che il signi­ficato primario di logos fosse proprio quello matematico, il quale poi, nell'orizzonte di un atteggiamento intellettuale come quello pitagorico, assume il suo più ampio senso filosofico [6] . Se, come talvolta è stato sostenuto, la scoperta dei rapporti aritmetici corrispondenti alle consonanze è stata una delle scoperte primarie intorno alla quale poteva cominciare a prendere corpo l'idea stessa della "legge", si comprende l'importanza, non solo per la musica, di questo primo passo: così come l'entusiasmo pitagorico per essa: non si trattava solo di una bella scoperta per filosofi che erano an­che musici e cantori, ma di una conferma della possibilità di per­venire ad un'au­ tentica conoscenza della natura delle cose [7] . Sul versante propriamente musicale questo orientamento aveva come conseguenza il fatto di riportare ogni problema ri­ guardante la teoria degli intervalli ad un problema puramente aritmetico. Tutta la teoria musicale è attraversata da tentativi di far prevalere risposte di ordine aritmetico a domande che dovrebbe­ ro interessare in realtà il puro livello dell'esperienza u­ditiva. Un intervallo è una consonanza autentica? Occorrerà considerare i numeri della frazione corrispondente ad essa. Si può "dimezza­ re" un certo intervallo? In luogo di dare senso all'espressione "metà dell'intervallo" tentando di individuare un qualche corri­ spondente percettivo ad essa ovvero una situazione percettiva in cui sembrerebbe giustificato il suo impiego, ci si chiede se l'ope­ razione di "dimezzamento" conduce ad un intervallo esprimibi­ le come rapporto tra numeri interi. Nella teoria greca gli esempi più clamorosi, che suscitarono vivaci discussioni nella trattatisti­ ca, sono in effetti la "divisibilità" in due metà esatte dell'interval­ lo di tono determinato in 9/8, negato dai pitagorici sulla base di considerazioni aritmetiche [8] e il carat­tere consonantico dell'undicesima (ottava+quarta), negato dai pitagorici sulla base 19 del carattere non epimorio (super­particolare) [9] e non mul­ti­ plo del rapporto che sta alla sua base (8/3). Quest'ultimo caso è interessante per il fatto che presso il pitagorismo più antico l'evidenza percettiva del carattere con­sonantico della ottava+­ quarta veniva negato sulla base di un pregiudizio matematico, mentre veniva pacificamente ammesso il carattere consonantico dell'ottava + quinta il rapporto che lo carattterizzava (3/1) era un multiplo di un rapporto epimorio (3/2) [10]. Il superamento di questa negazione avviene peraltro attra­verso aggiustamenti dello schema matematico di base cercando di mantenere il quadro essen­ ziale dell'impo­stazione teorica. Di fronte a problemi concernenti la "qualità" degli intervalli, si cerca si cerca di conferire ad essi una for­ ma tale da poter essere decisi da un calcolo, tenendo conto, più che dell'intervallo udito, dell'intervallo intelli­gibile. La piena intelligibili­ tà è poi data anzitutto dalla possibilità di esprimere un intervallo in termini di rapporto tra numeri interi. Questo atteggiamento si mantiene in tutta la tradizione teorica fino in età moderna. Ancora oggi sono in molti ad essere convinti che il nostro se­ mitono temperato, per quanto invalso nell'uso, non sia in ogni caso "legittimo" per il solo motivo, che non riguarda evidentemente alcun aspetto propriamente musicale, che esso ha alla sua base un numero irrazionale. L'origine di questo pregiudizio deve essere certamente ricercata in questa remota fondazione della teoria. 20 2. L'intervallo visibile Vi è da chiedersi se la concezione dell'intervallo come spatium piuttosto che come ratio sia rimasta del tutto estranea al pita­ gorismo. Tanto più che nella teoria musicale greca in genere per indicare l'intervallo si usa normalmente la parola diasthema (di‡suhma) che è correlata ad un verbo il cui senso prevalen­ te sembra essere "separare, dividere, divaricare", richiamandosi quindi ad un'area semantica non troppo diversa da quella della parola latina intervallum. I dizionari suggeri­scono in proposito, come traduzione italiana, oltre che intervallo, anche interstizio, distanza, lontananza. Nel senso di "distanza" questo termine viene impiegato negli Elementi di Euclide [11]. In realtà la rispo­ sta deve essere affermativa - in effetti quella concezione rimane estra­nea al pitagorismo - ma questa risposta può venire solo dopo aver seguito un percorso piuttosto tortuoso ed assai ricco di interesse. Potrebbe sembrare che una concezione come quella pitago­ rica tendente a fare del numero la sostanza del reale - e quindi orientata in una direzione che riduce le manifestazioni sensibili a pure apparenze - sia caratterizzata da una valorizza­zione del "pensiero puro" piuttosto che di un pensiero che si appoggia a dati dei sensi o a elementi immaginativi. L'im­por­tan­za che riceve l'associazione simbolica nella teoria del numero del pitagorismo mostra invece che ciò è vero solo in minima parte. In una diversa direzione vanno anche altri aspetti signi­ficativi dell'elaborazione pitagorica, come la rappresenta­zio­ne dei numeri mediante confi­ gurazioni di punti (yh=foi), i cosiddetti numeri figurati. Su di questi è necessario soffermarsi almeno un istante come una sorta di 21 introduzione alla problematica che intendiamo ora trattare sotto il titolo singolare di "intervallo visibile". Spesso si sostiene che scopo dei numeri figurati sia quello di proporre una "geometrizzazione" dell'elemento arit­me­tico. Io credo piuttosto che sia più corretto parlare di essi come di un vero e proprio metodo di notazione tendente a rendere evidenti (visibili) relazioni interne tra numeri e la loro costituzione inter­ na [12] . Un esempio di numero figurato particolarmente interes­sante per le implicazioni di ordine musicale è una delle configu­razioni simboliche più famose del pitagorismo, che valeva anche, insieme al pentagono stellato, come una sorta di em­blema della scuola, la tetractys (tetra/ktuj). I pita­go­rici si resero conto molto presto che nei rapporti degli intervalli consonantici fonda­men­tali 2/1, 3/2, 4/3 compa­rivano ordinatamente i pri­mi quattro numeri naturali, il cosiddetto "quaternario": 1 2 3 4 Quanto all'intervallo di tono (9/8), prodotto in stretta con­ nes­sione con i rapporti conso­nantici, in quanto risultante dal­­la determinazione della quarta e della quinta, essi si avvidero che anch'esso poteva essere ricondotto facilmente al quaternario es­ sendo 9= 32 e 8 = 23. Non solo dunque questo intervallo disso­ nantico, veni­­­va prodotto attraverso le consonanze, ed era in certo senso annidato tra esse [13], ma esso era anche il risultato di un rap­porto che conte­neva in sè i numeri della consonanza più com­ pleta. Tut­ti questi rap­porti ave­vano poi questo in comune: il nume­ ratore era sempre maggiore di una unità rispetto al denominatore. I pitagorici furo­no colpiti da queste circostanze. Faceva certamen­ te parte dell'at­teg­­gia­­men­to intellettuale che abbiamo or ora schiz­ 22 zato il ritenere particolarmen­te significativo questa ricorrenza del rapporto epimoro - come se si fosse trovata una legge nella legge, una legge comune alle leggi dei rapporti consonantici - al punto da ritenere che in questo carattere del rapporto fosse racchiuso il segreto del buon intervallo, ovvero di un intervallo in sé intrinsecamente giustificato. Inoltre essi furono colpiti dal fatto che un fenomeno come la consonanza - così denso di risonanze rispetto ad una possibile immagine del cosmo - fosse ricondu­ cibile ai primi numeri della serie infinita dei numeri naturali. In una prospettiva che considera la sua costruzione secondo una inclinazione immaginativa, i primi numeri della serie non posso­ no in realtà essere considerati alla stregua di altri numeri qualun­ que appartenenti ad essa. Essi hanno invece un carattere che gli altri numeri non hanno: non tanto di primi elementi nel senso dell'ordine, ma di elementi primi nel senso di elementi che stan­ no alla base della costituzione e della generazione. Più pre­­cisa­ mente: questa particolare pregnanza di significato doveva essere riconosciuta ai primi dieci numeri, e dunque al numero dieci, che d'altronde fornisce la base del sistema notazionale. Il dieci a sua volta può essere raggiunto mediante la somma successiva dei primi quattro numeri. In questo modo ci si ricollega al tema del quaternario. Tut­to questo intreccio di motivi di ordine aritmetico, immaginativo, musicale e speculativo si trova mirabilmente sinte­ tizzato nella configura­zio­ne della tetractys. Essa si presenta come una figura costituita di punti disposti nel modo seguente: 23 I punti sono dieci, ogni lato è formato da quattro punti e, co­ minciando da uno qualunque dei tre vertici, possiamo trovare il "quaternario" nell'ordine suo proprio: 1, 2, 3, 4. Ciascuno di questi numeri rimanda poi ad un'interpretazione "geometrica" di ordine generale: l'1 ovviamente al punto e il 2 alla linea; il 3 al triangolo come la prima figura bidimensionale producibile e il 4 al tetraedro (con allusione ai suoi quattro vertici) come il più semplice di solidi regolari. La totalità dell'ordine spaziale è em­ blematicamente presente in essa così come la totalità della serie aritmetica che viene prospettata appunto attraverso il numero dieci. La figura ha poi un punto centrale nel quale si può puntare un compasso e tracciare un cerchio - da sempre immagine di compiutezza e di perfezione - che sia circoscritto al triangolo. Si comprende dunque quale pregnanza di significato potesse assumere, integrata in questo contesto, la scoperta dei rapporti consonantici elementari e la possibilità conseguente di interpretare la tetractys in senso musicale. Tuttavia il porre semplicemente l'emblema sotto i nostri oc­ chi come una forma triangolare compiuta è del tutto fuor­viante. 24 Fuorviante è soprattutto l'interpretazione di questa figu­ra­zione come una sorta di rappresentazione geometrica del nume­ro. Una soverchia insistenza su questo punto ci priva di cogliere l'effet­ tivo orientamento intellettuale che sta alla sua base. In effetti, i pitagorici parlavano, con analogia geometrica, di numeri triango­ lari, quadrati, rettangolari ecc. e talvolta si sottolinea che si ma­ nifesterebbe qui una visione "geometriz­zante" di rapporti aritme­ tici che sarebbe tipica della matematica greca in genere. In realtà questo commento è già tendenzialmente erroneo per l'aspetto generale: certo, non vi è dubbio che negli studi dei matemati­ ci greci prevalga il pensiero geometrico. Ma occorre comunque tener conto che, in linea di principio, la disciplina matematica per eccellenza resta l'aritmetica, e non la geometria - e questo per­ ché nella geometria si sospetta sempre una contaminazione con la realtà da cui l'aritmetica sembra immune, avendo una genera­ lità che manca alla geometria [14]. Inoltre è sbagliato considera­ re il numero figurato come una mera rappresentazione geometri­ co-spaziale del numero. Che qui esista un problema ci dovrebbe mettere già sull'avviso il fatto che la figura è costruita di punti: essi certamente vengono disposti secondo una configurazione caratte­ ristica, una Gestalt, si sarebbe tentati di dire, in base alla quale essi possono essere visti ad esempio, in uno sguardo d'insieme, come un triangolo. Ma in questo sguardo d'in­sie­me ciò che finisce con l'avere importanza sono le linee "virtuali" che collegano i punti, e precisamente i punti più esterni attraverso i quali dobbiamo vedere i lati della figura. Con ciò viene deviata l'attenzione dal problema principale: ciò che importa è il modo di costruzione della figura che proprio nel punto (e quindi nell'1) ha la sua origine e il suo sviluppo, ed è da questo modo di costruzione che dobbiamo trarre il suo senso. Come nasce dunque un numero figurato? Nasce da una pro­ cedura che assume un punto o eventualmente due punti come ele­ mento di base e si sviluppa secondo una regola resa subito evidente dall'esempio. Il suo scopo è quello di proporre una nota­zione per 25 i numeri - ovvero, se non vogliamo usare il termine di notazione ritenendolo troppo impegnativo - un metodo diagram­matico di presentazione dei numeri tale da rendere visibili, attra­verso di esso, proprietà e relazioni interne, rendendo anche possibili classifica­ zioni, calcoli, dimostrazioni. Una notazione per il numero 3 può essere naturalmente la seguente: Ma in luogo di cogliere, in uno sguardo sintetico, i tre punti in quanto prospettano linee, occorre analizzare la figura come ri­ sultato di due passi operativi: il primo consiste nella posizione del punto più a sinistra come elemento iniziale; il secondo nel­ la posizione dei due punti che stanno alla sua destra. Potrebbe forse essere utile tracciare linee tratteggiate di congiunzione tra i punti, non già per evidenziare forme geometriche, bensì per mostrare la successione dei passi attraverso cui la figura viene costruita. In questo modo non solo risulta chiara la regola di costruzione, ma anche la possibilità di iterarla a piacere in modo ricorsivo [15] . 26 Tenendo conto di ciò la nozione di "numero triangolare", più che rimandare ad una figura geometrica, e quindi ad una tipolo­gia meramente descrittiva che chiama in causa la pura e forma ester­ na, rappresenta invece un "concetto" operativamente fondato. Diciamo che un numero è triangolare quando può esse­re otte­ nuto attraverso l'applicazione iterata della regola corri­spondente e quindi quando appartiene alla serie ordinata dei numeri trian­ golari: (1), 3, 6, 10, 15, ecc. In margine si noti anche, che guar­ dando i numeri triangolari crescere dall'1 da sinistra verso destra, vediamo anche dipanarsi la serie ordinata dei numeri naturali. La rappresentazione per punti dunque ci fa sempre mantenere sul terreno di considerazioni aritmetiche; ma non meno impor­ tante è richiamare l'attenzione sul fatto che, sulla base di questo modo di intendere la figura, risulta meglio chiarita la funzione fondamentale che l'elemento geometrico-figurale assolve sia per operazioni di concettualizzazione (e quindi per la realizzazione di classificazioni e tipologie) sia per la visibilizzazione delle rela­ zioni aritmetiche rendendo possibili forme di calcolo altrimenti difficili da realizzare. Naturalmente non siamo qui interessati ad entrare all'in­ter­ no della complessa tematica che gravita intorno ai numeri figurati ed ai modi del loro impiego. Questo cenno ci serviva soprattutto mostrare l'orizzonte di idee entro cui si af­ferma nel pitagorismo una concezione "lineare" dell'inter­val­lo. Questa concezione tut­ tavia, come subito vedremo, man­tiene uno legame strettissimo con l'idea del rapporto ari­tme­tico, e dunque anche con il mono­ cordo. In effetti la via attraverso la quale è fin dall'inizio presente nel pitagorismo l'elemento lineare è quella della corda del mo­ nocordo. Oltre i vantaggi offerti dalla semplicità delle verifiche, soprattutto nelle sue varianti a più corde, attraverso il mono­ cordo veniva suggerito anche un modo piuttosto sem­plice di ve­nire a capo delle relazioni numeriche corrispondenti. La linea­ rizzazione del rapporto rappresenta gli inizi arcaici in cui non 27 esiste alcun calcolo frazionario vero e proprio, ed i numeri non sono ancora considerati come entità astratte, ma come attributi concreti di qualcosa, ed in primo luogo, nel nostro caso, delle lunghezze delle corde. Vogliamo vedere di che si tratta. Occorre anzitutto porta­ re l'attenzione sul fatto che, nei vari racconti sulla scoperta di Pitagora, si giunge invariabilmente a formulare i rapporti non nei termini del quaternario puro e semplice, ma con numeri che messi in rapporto tra loro riconducevano al quaternario. Questi numeri che potremmo caratterizzare come forma modificata del qua­ ternario erano propriamente: 6 8 9 12 Anche nella favola del fabbro armonioso, nella versione di Nico­ maco [16] , alla fine sono questi i numeri che vengono proposti. Questa possibilità è data naturalmente dal fatto che 12 è il mini­ mo comune multiplo dei numeri 1, 2, 3, 4 e i rapporti di 12/6, 12/8, 12/9 sono dunque riducibili a 2/1, 3/2, 4/3 essendo na­ turalmente 12/12 = 1, la corda intera. Resta sottinteso che questi numeri si riferiscono ad una divisione del monocordo in dodici tacche. Non è facile per noi oggi, abituati sin dall'inse­gnamento scolastico elementare, a considerare la "frazione" come una que­ stione puramente aritmetica ed a trattare con essa con regolette che diventano ben presto precetti per una pura mani­polazione dei simboli, ritrovare il significato concettuale della "frazione"- che è originariamente legato all'idea dell'intero e della parte ed alla problematica del­la misurazione. Nell'implacabile svuo­tamento di contenuto intervenuto nell'insegna­mento moderno dell'aritmetica elementare, che nella frazione sia in questione un'intero, il numero delle parti in cui esso viene suddiviso e il numero delle parti che vengono prese in considerazione è un pensiero che deve essere riconquistato con un certo sforzo. Agli albori del pensiero arit­ metico nel pitagorismo, non solo questo nesso è in primo piano, 28 ma la riflessione sui rapporti e sulle proporzioni si sviluppa in stretta inerenza agli interrogativi che sorgono intorno agli in­ tervalli musicali. Nulla sembra rivelare questo fitto rintreccio di piani meglio del passaggio alla forma modificata del quaternario e dei suoi motivi. Il testo fondamen­tale per questo problema, sul quale è interamente basata l'esposizione di questo paragrafo, è lo splendido libro di Arpad Szabò, The Be­ginnings of Greek Mathe­ matics (1978), che mostra fino a che punto agli inizi della mate­ matica greca osser­vazioni empiriche, considerazioni epistemologi­ che, filoso­fiche, matematiche e mu­sicali facciano parte di un unico straor­dinario fascio di idee. Una delle tesi forti sostenute da Szabò è che "il concetto di logos, nel senso di 'ratio tra due numeri' non esisteva prima della introduzione del canone" [17] e che sia pos­ sibile tracciare un percorso che prende le mosse dal rapporto visto attraverso il diasthema - inizialmente concepito come segmento con stretto riferimento alle corde del monocordo - al logos inteso come rapporto numerico vero e proprio che si autonomizza ri­ spetto all'elemento osservativo prendendo sem­pre più il profilo di un cal­colo puramente numerico. Da questo complesso per­ corso noi e­strapoleremo, all'interno del quadro complessivo che intendiamo tracciare, solo il nucleo essenziale che riguarda la line­ arizzazione del rapporto. Si consideri dunque il monocordo suddiviso in dodici tacche numerate. Sulla base di questa suddivisione si individueranno nelle posizioni indicate dai numeri 6, 8, e 9 i punti in cui deve essere disposto il ponticello per ottenere nell'or­dine note che si trova­ no ad intervallo di ottava, di quinta e di quarta rispetto alla nota emessa dalla corda intera che chiameremo "nota di riferimento". Intenderemo le corde pizzicate sempre sul lato sinistro - questo è un dettaglio importante - disinteressandoci del tutto di ciò che avviene pizzicando la corda sul lato destro [18]. Il lato destro sarà invece la parte che non solo non viene pizzicata, ma viene eventualmente tenuta ferma per impedirle di vibrare, se a ciò non bastasse la presenza del ponticello. 29 Consideriamo con attenzione questo semplice diagramma, che può essere considerato come una raffigurazione del mono­ cordo suddiviso in dodici tacche e delle posizioni possibili del ponticello mobile. 0 6 8 9 12 Notiamo dunque che, tenendo conto dello zero, possiamo con­ trassegnare un tratto della corda con la coppia di numeri che stanno ai suoi estremi (o(/roi), ad esempio (0,6) indicherà il tratto di corda interessato dalla posizione del ponticello in 6, (0,8) il tratto di corda interessato dalla posizione del ponticello in 8, e così per gli altri casi. I numeri 6, 8, 9, 12 rappresentano evidente­ mente la misura di questi tratti in dodicesimi [19] . Va da sé che possiamo dimenticarci provvisoriamente del monocordo e ba­ dare unicamente alla linea ed ai segmenti in cui è ripartita. Avre­ mo così i segmenti (0,6), (0,8), (0,9) oltre alla linea intera (0,12). Vogliamo ora interessarci alla parte a destra della linea, leggendo i numeri a partire dall'estremo destro come in prece­denza dall'e­ stremo sinistro. In particolare notiamo i segmenti contrassegna­ ti da (12,6), (12,8) e (12,9). Questi segmenti hanno come estremi l'estre­mo destro della linea intera e l'estremo destro dei segmenti precedenti. In forza del fatto che si trovano in una relazione ben definita con questi ultimi, essi possono essere con­siderati come rappresentativi lineari dei rispettivi rapporti, ad esempio il segmen­ to (12,8) come rappresentativo lineare del rapporto intercorrente tra (0,12) e (0,8). Vediamo in che modo. Anzitutto otteniamo la lunghezza di (12,8) mediante la semplice operazione di conteggio in figura dei dodicesimi. Si tratta appunto di quattro parti dodicesime. Ora 30 non parleremo per il 4 di massimo comun divisore tra i due nu­ meri, perché l'operazione or ora effettuata non è una operazioni aritmetica vera e propria. Il 4 vale piuttosto come unità di misura di secondo ordine, indicando la grandezza della parte, espressa in dodicesimi, in cui deve essere ripartito l'intero. Nello schema che segue il segmento rappresentativo del rapporto viene indicato dalla graffa superiore: 0 6 8 9 12 Le lunghezze dei segmenti indicate dai numeri (0,8) e (0,12) (di cui deve essere mostrato il rapporto) vengono indicate dalle graffe disposte al di sotto del monocordo, mentre l'ultima linea mostra la partizione in tre della corda intera, ciascuna di quattro dodicesimi, che rende evidente il rapporto di 3 a 2 ovvero di 2 a 3: diremo dunque che (0,8) sta a (0,12) come 2 sta a 3 oppure (0,12) sta a (0,8) come 3 sta a 2. Naturalmente abbiamo suppo­ sto il ponticello posto in 8: pizzicando a sinistra di esso risuo­ nerà una nota che si trova ad un intervallo di quinta (all'acuto) rispetto alla corda intera. Analogamente il segmento (12,9) sarà rappresentativo dei due segmenti corrispondenti (0,12) e (0,9). Il ponticello sarà po­ sto in 9 e l'unità di misura di secondo ordine sarà 3, cosicché il rapporto tra i due segmenti sarà pari a 4 : 3 ovvero a 3 : 4. Come 31 è mostrato nel diagramma seguente, che deve essere interpretato nello stesso modo del precedente: 0 6 8 9 12 Naturalmente questa procedura può essere estesa per realizzare confronti più ampi introducendo le modificazioni opportune. Se ad esempio vogliamo mostrare il rapporto tra (0,6) e (0,8), pos­ siamo assumere come "capotasto" il punto 8 in luogo del punto 12, assumendo dunque come nota di riferimento per la posizio­ ne del ponticello in 6 la corda (0,8). Come mostra il diagramma si tratterà una quarta sopra questa nota di riferimento, essendo il rapporto linearmente considerato rappresentato dal segmento (6,8), di lunghezza è pari a 2 e le partizioni dei seg­menti (0,6) e (0,8) rispettivamente pari tre e quattro. 32 0 6 8 9 12 L'interesse di una simile ingegnosa escogitazione sta proprio nel­ la possibilità di mettere in relazione intervalli, o per dir meglio, i rapporti che li caratterizzano, senza ricorrere a calcoli frazionari veri e propri e con un'evidenza che la presentazione puramente aritmetica non consentirebbe. Ad esempio, stando a puri rap­ porti tra numeri come tali può non essere affatto semplice deter­ minare se un rapporto è maggiore o minore di un altro, mentre in questa riduzione alla linearità la soluzione è immediata. La quarta risulta minore della quinta per il fatto che il segmento rappresentativo della quarta (12,9) è contenuto nel segmento rappresentativo della quinta (12,8). Come sappiamo, una "diffe­ renza" tra intervalli va realizzata come una divisione dei rapporti corrispondenti, e una "som­ma" come una moltiplicazione. E ac­ cade spesso nella trattatistica antica che si usi la terminologia della differenza e della somma pur fornendo risultati corretti. Questa circostanza si spiega con l'impiego del metodo di "linearizza­ zione" or ora illustrato. Ad esempio, che il tono possa essere definito come "differenza" tra quinta e quarta e che sia pari, come tale, a 9/8 lo si legge direttamente dal grafico: secondo lo schema lineare precedente, (9,8) è in effetti il segmento che risul­ ta dalla differenza tra (12,8) e (12,9) [20] . Scrive Szabò: "Così, se nella teoria greca delle proporzioni il quoziente di due rapporti è descritto come una differenza, la spiegazione storica per questo 33 fatto notevole è che l'operazione che oggi è intesa come divi­ sione di una frazione con un'altra, era ori­gi­nalmente concepita come una operazione su un canone con do­di­ci partizioni ed era semplicemente la sottrazione di una linea più breve da una più lunga" [21] . Il caso della "somma" è particolarmente notevole perché comporta il riconoscimento della complementarità della quin­ta e della quarta nell'ottava. In effetti possiamo "vedere" direttamente sul diagramma, senza compiere alcuna operazione aritmetica vera e propria, che il segmento (12,9) (quarta superiore alla nota di rife­ rimento) "sommato" al segmento (9,6) (quinta inferiore all'ottava della nota di riferimento) ha come risultato (12,6) (l'ottava del­ la nota di riferimento) ed a questo stesso risultato si perviene "sommando" il segmento (12,8) e il segmento (8,6). Ciò che qui viene detto "somma" tra segmenti, naturalmente rappresenta una moltiplicazione fra le "frazioni" corrispondenti [22] . Metodi li­ neari di questo tipo erano probabilmente alla base di calcoli più complessi, e certamente queste procedure vennero generalizzate al di là degli interessi puramente musicali. Il richiamo alla linea rappresenta dunque una "geome­triz­ zazione" che conduce ad una vera e propria visibilizzazione del­ l'in­tervallo, il quale peraltro non cessa nemmeno per un attimo di essere inteso come rapporto. E solo per un attimo possia­ mo dimenticarci del richiamo all'entità concreta, la corda tesa al monocordo, le tacche incise su di esso, i ponticelli mobili da cui tutto questo modo di impostare il problema ha origine. Ciò che passa del tutto in secondo piano è invece proprio l'interval­ lo udito. Quando si istituiscono tra intervalli relazioni di mino­re/ maggiore, di essere contenuto dell'uno nell'altro, della "differen­za" o della "somma" tra essi si intendono sempre e soltanto i rapporti tra numeri istituiti come mi­sure della lunghezza di corde. Cosicché di fronte alla domanda se la quarta sia "con­tenuta" nella quinta, si dovrebbe rispondere di non sa­per­ne nulla fino a quando non sia stata decisa, in un modo o nell'altro, la questione relativa ai rappor­ 34 ti che stanno alla loro base. In certo senso non c'è altra gramma­ tica per i termini relazionali che quella fornita dal riferi­mento ai rapporti o ad una loro possibile rappresentazione lineare. Ma vi è anche un'altra conseguenza importante che inci­ de profondamente, in via di principio, sul modo di concepire l'intervallo. Ogni intervallo infatti viene preso in se stesso, in quanto il rapporto numerico è sufficiente a caratterizzarlo, ed è eventualmente ricucito con l'altro sempre sulla base di con­ siderazioni aritmetiche. Vi sono molti intervalli: l'ottava è uno di questi - essi avranno eventualmente tra loro e con l'ottava determinate relazioni. Attenendosi strettamente a questo ordine di considerazioni non avrebbe molto senso pro­porre gli intervalli come partizioni dell'ottava. Ovviamente gli intervalli considerati lo sono oggettivamente, ma non derivano proceduralmente da una simile partizione. Non vi è anzitutto l'ottava, eventualmente in­ dividuata a sua volta come segmento rappresentativo dello spazio sonoro concepito come continuo dei suoni, e poi la sua partizio­ ne e discretizzazione in intervalli. Naturalmente l'intervallo risulta comunque dalla partizione di un intero. Tuttavia l'intero è la corda stessa, ed essa emette, se pizzicata, niente altro che la nota singola di riferimento. Restando all'interno del quadro fin qui delineato non potremmo affermare che le partizioni effettuate sulla corda sono partizioni della ottava. L'idea dell'ottava come "la madre di tutti gli intervalli" (Zarlino) [23] si afferma in ambito pitagorico attra­verso una riformulazione dell'intero problema degli intervalli fondamentali che rappresenta un nuovo importante contributo della matematica pitagorica. Si tratta del problema delle medie, che resterà per secoli l'ossatura della problematica intervallare. Di questo problema vogliamo dirne solo quel tanto che può servirci da completamento alle considerazioni precedenti - tanto più che esso può essere sinteticamente trattato proprio approfittando liberamente dei nostri diagrammi, quindi ancora attraverso un'aritmetica "figurata". Riconsideriamo dunque la nostra prima partizione della 35 corda: 0 6 8 9 12 Abbiamo detto or ora che vi è qui partizione di una corda, non parti­ zione dell'ottava. Ma naturalmente l'ottava all'acuto della nota di ri­ ferimento risuona pizzicando sulla sinistra con il ponticello nella posizione 6. Possiamo dunque dire che il segmento (12, 6), corri­ spondente alle corde (0,12) e (0,6) può essere considerato come rappresentativo dell'ottava. Cosicché nelle sue partizioni possia­ mo anche vedere, non semplicemente la partizione della corda, ma la partizione dell'ottava. Questo aspetto risulta con particolare chiarezza se teniamo conto del fatto che il diagramma ci insegna non soltanto a stabilire i rapporti ma anche a confrontarli, ov­ vero a istituire eguaglianze tra rapporti, ad istituire dunque delle proporzioni (analogi/a). Da esso infatti sappiamo subito che 12 : 9 = 8 : 6 essendo a) il segmento (12,9) costituito di tre parti, come unità di misura di secondo grado e che in base a questa unità di misura a (0,12) va attribuito la misura di 4 e a (0,9) la misura di 3; b) ma analogamente il segmento (8,6) è costituito di 2 parti come unità di misura di secondo grado, cosicché in base a questa unità di misura a (0,8) va attribuita la misura di 4 e a (0,6) la misura di 3. Il punto di vista da cui ora guardiamo all'insieme sta dunque per mutare. Ed è proprio in base a questo mutamento di punto di vista che i pitagorici, formulando l'intera problematica in termini di pro­ porzioni, si avvidero di un'altra circostanza notevole della quale alla fine fecero in larga parte dipendere la perfezione di questa sud­ 36 divisione. Di fronte ad una proporzione come la precedente che mo­ strava già una forte coesione tra i quattro numeri presi in consi­ derazione, sorse ben presto la domanda se vi fosse una ulteriore relazione non solo tra le coppie 12, 9 da un lato e 8,6 dall'altro, ma tra gli estremi delimitanti lo spazio dell'otta­va 12, 6 e il nume­ ro 9, e tra gli stessi estremi e il numero 8, dunque tra gli estremi della proporzione e i suoi termini medi. Per rispondere a questa domanda servendoci ancora del no­ stro diagramma che vogliamo estendere sommando il segmento (0,6) al segmento (0,12): Il segmento (0,9) rappresenta dunque la metà del segmento (0,18). I numeri possono riprendere così il loro significato pura­ mente aritmetico e il 9 appare come media aritmetica degli estremi che caratterizzano l'ottava, essendo la media aritmetica di due numeri a e b definita da (a+b)/2. Si noti che (9,6) rappresenta un rapporto di quinta, cosicché la media aritmetica divide l'ottava in una quarta (12,9) ed in una quinta (9,6). La media armonica sta in una particolare relazione con la media aritmetica. Essa è infatti definita, su due numeri a e b 37 come segue: e quindi nel caso nostro: Rispetto alla media aritmetica vi è dunque una duplice inver­ sione. Vorrei notare come possa risultare difficile associare un senso a queste inversioni, ad esempio alla "somma degli inver­ si" dei due numeri tra cui si effettua la media armonica -un'as­ sociazione di cui beninteso non vi è alcun bisogno in una con­ siderazione puramente aritmetica. In ogni caso la formula si il­ lumina, si "riempie di significato" - sono tentato di dire - non appena riprendiamo il nostro monocordo diviso in dodici parti, o comunque la sua figura diagrammatica. Le "frazioni" assumo­ no subito, come in precedenza, il significato di lunghezze ben definite. Così 1/12 non è altro che l'unità di misura dell'intero segmento; mentre 1/6 sarà pari a 2/12. Ovviamente si possono ignorare i denominatori e la somma di questi due valori darà 3. Essendo 1 l'intero, il 2 al numeratore dovrà essere interpretato come il doppio dell'intero e quindi pari a 24, cosicché la formula precedente diventa 24/3 = 8. Poiché 8 individua l'intervallo di quinta, il punto che contrassegna questo intervallo rappresenta la media armonica dell'intervallo di ottava. Inoltre (8,6) rappre­ senta un intervallo di quarta, cosicché si può dire che la media armonica suddivide un intervallo di ottava in un intervallo di quinta e in un intervallo di quarta. 38 Attraverso il diagramma, il calcolo frazionario viene riportato ad un calcolo con numeri interi e questi a misure di lunghezze, senza che venga persa la presa sulla tematica dei rapporti delle proporzioni [24] . Uno dei punti importanti di questa individuazione della quinta e della quarta come media armonica e media aritmetica sta, a mio avviso, proprio nel fatto che in questo modo si propo­ nevano gli intervalli fondamentali come articolazioni interne, matematica­ mente significative, dell'ottava. I numeri del "quater­nario" venivano non solo strettamente collegati tra loro, ma in particolare si po­ teva mostrare l'esistenza di una relazione intrin­seca tra lo spatium dell'ottava e gli spazi consonantici fondamen­tali che formavano la sua articolazione interna. Cosic­ché veniva per questa via recupe­ rata quella potenziale frantu­mazione dello spazio sonoro che era implicita nel puro punto di vista dell'in­tervallo come rapporto. L'ottava è appunto la "madre di tutti gli inter­valli". Questa con­ cezione dell'intervallo come derivante dalla partizione dell'ottava verrà seriamente messa in crisi nel passaggio da una fondazione ma­te­matizzante ad una fondazione fisicalistica, quindi agli albori della teoria della tonalità che si innesta in questa svolta. Il mono­ cordo tenderà allora a perdere progressivamente di importanza e ad essere impiegato e "inter­pretato" in modo diverso [25]. E si 39 comincerà a prestare attenzione a ciò che accade pizzicando nella parte destra della corda del monocordo... Nello stesso tempo, si comprende come la rete di relazioni messe in evidenza tra i quattro numeri del quaternario era di­ ventata talmente imponente da rendere conto della meraviglia che essa poteva suscitare e che assicurò ad una simile fonda­ zione aritmetica un successo secolare [26] . Questa meraviglia si saldava certamente all'idea di un sapere profondamente nasco­ sto, all'idea di qualcosa di simile alla rivelazione di un segreto che affondava le sue radici in lontananze leggendarie. Il nome di "proporzione babilonese", sovente attribuito alla proporzione 12 : 9 = 8 : 6 o a sue varianti è presumibilmente dovuto, più che ad una concreta origine storica, ad una forma di nobilitazione che deriva dal fatto stesso di attribuire quella conoscenza a tempi remoti e ad un'antichissima saggezza [27] . 40 3. L'intervallo udito Tenendo conto dell'intreccio or ora esposto tra considerazio­ ni aritmetiche e schematismi visivi per rendere chiari rapporti e proporzioni, assume subito una significativa vivacità la critica di Aristosseno [28] verso coloro che si affidano, in questo genere di problemi, ad un marchingegno dell'occhio (o)fqalmoeidej e)r / gon) [29] (Meib. 40.31). Un marchingegno dell'occhio è cer­ to il monocordo, ed a maggior ragione lo sono eventuali dia­ grammi costruiti su di esso. Uno degli assi polemici della po­ sizione di Aristosseno può essere considerato proprio il tema della "visibilizzazione" del rapporto, cosa che fa tutt'uno con la sua "linearizzazione". "Quando si parla di intervalli -- non si possono adoperare frasi che si è soliti adoperare per i dia­ grammi (diagr‡mmata), dicendo ad esempio: "sia questa una linea rettilinea" [30] (Meib, 33-10). Bisogna restituire all'udito l'impor­tanza che esso non può non avere per un ma­teriale così carat­teristicamente rivolto verso l'esteriorità sensibile come è quello musicale. Anche in questo campo deve essere fatta valere una presa di posizione epistemologica del tutto generale, che ci ri­ porta all'aristotelismo di Aristosseno: anzitutto bisogna afferrare bene i fenomeni (Meib. 43.30). Ovun­que questo principio risuona nel trattato aristossenico - ovunque viene ribadito e concretamen­ te applicato. Ma per comprendere realmente il senso di questa negazione della linearizzazione dell'intervallo - e proprio in un autore che si appresta a contrastare in modo intransigente un'u­ nilaterale in­ter­pretazione dell'intervallo come logos, ed a rivendi­ care di conseguenza l'intervallo sensibile di fronte a quello intel­ 41 ligibile - occorre sottolineare con particolare forza ciò che del resto abbiamo in precedenza più volte ribadito: la linearizzazione pitagorica deve essere considerata come una sorta di trasposizione del monocordo come strumento concreto per la misura degli in­ tervalli intesi come rapporti. Si può inoltre escludere, vorrei qua­ si dire, a lume di buon senso, che Aristosseno negasse l'esistenza di rapporti numerici caratteristici rispetto alle consonanze e che il monocordo fosse uno strumento appropriato per studiare l'in­ tervallo sotto il profilo del rapporto. A lume di buon senso, per il semplice fatto che anche queste teorizzazioni e strumentazioni poggiavano integralmente nel campo dei percettibili [31]. Per quan­ to riguarda l'aspetto matematico, la validità di queste pratiche era presumibilmente per lui fuori discussione - e ciò spiega anche perché sia possibile ritrovare anche in Aristosseno risonanze del matematismo pitagorico [32] . Il problema è invece un altro: ciò che ci si propone di met­ tere a fuoco è il versante sensibile, rispetto a quello "intelli­gi­bile", il versante che del resto è quello con cui abbiamo diret­tamente a che fare da musici autentici, prima ancora che da teorici. Si tratta dunque di interrogare l'intervallo con l'orecchio. Ora, non appena ci accingiamo a farlo senza pregiudizi, appare subito chiaro che la linea si impone come immagine adeguata dell'intervallo così come appare alla percezione - come immagine! questa è la la drastica dif­ ferenza rispetto alla tematica pitagorica. Molto giustamente osser­ va Szabò che Aristosseno "intendeva privare il concetto pitago­ rico di diastema del suo significato concreto originario" [33] attri­ buendo alla parola un significato metaforico. Questo mutamento è di grandissima importanza. In base ad esso è possibile proporre una concezione dell'intervallo come "di­stan­za" e "spazio" senza essere costretti ad assumere tutte le implicazioni precedenti, e mettendo nettamente da parte l'aritmetica interna all'intervallo come logos. E potremo persino servirci, come elemento rappre­ sentativo dell'intervallo, di una linea - di un segmento considera­ to nei suoi estremi. Una simile rappresenta­zione visiva concreta 42 dell'intervallo in luogo di ri­man­dare alla corda del monocordo non sa­ rebbe altro che figura di quell'immagine. L'intervallo ridiventa "visi­ bile", ed anche nei nostri ragionamenti e nelle nostre argomen­ tazioni potremo approfittare di questa "visibilità" [34] - ma l'ac­ cezione del termine e l'orientamento delle argomentazioni sono ora completamente diversi. In un colpo solo ci siamo liberati del monocordo e delle misure ottenute per suo mezzo. È chiaro al­ lora che ponendo su quella figura dei segni di suddivisione, essi potranno essere interpretati proprio come partizioni dell'inter­ vallo udito, e non come indicazione di una partizione della corda. L'immagine e la sua figura non ci porta oltre il dato fenome­ nologico specifica­mente uditivo. Certamente questa differenza di piani non è netta­mente formulata in Aristosseno - ma essa sembra rappresentare una cornice necessaria della sua teorizzazione [35]. Per confermare e consolidare queste nostre affermazioni, ed arricchire il quadro dei problemi in discussione, è necessario indugiare, sia pure per poco, sulla posizione di Aristosseno. Lo spazio - come riferimento concettuale e immaginativo insieme - diventa centrale in Aristosseno, e dunque anche i temi ad esso connessi, il luogo e il movimento. Nello stesso tempo, e con­ seguentemente, si delinea una concezione che porta l'ac­cento sul senso contestuale e relazionale degli intervalli, piuttosto che sulla determinazione misurativa della loro grandezza. Il suono stesso, non appena viene introdotto, richiede l'idea del movimento, e precisamente il movimento secondo il luogo (attraverso lo spazio) (k›nesiw katˆ t¦pon): la voce si muove: si tratta del movimento dal grave all'acuto, dal­l'acuto al grave. Il primo passo che deve essere compiuto all'inizio dell'esposizio­ ne teorica, deve essere quello di stabilire i modi di questo mo­ vimento, che sono fondamentalmente due: il movi­mento continuo (sunexh/j) ed il movimento per intervalli (diasthmatik-w) (Meib. 8.15). La voce continua è caratteriz­zata da un movimento che non si arresta in alcun punto e che termina solo nel silenzio; nel secondo caso invece la voce procede da una posizione all'altra, 43 oltrepassando lo spazio che vi è fra esse. Nel primo caso si dice che essa parla, nel secondo che essa canta. Così l'intervallo appare (fai/netai) alla fantasia della perce­ zione (fantasi/a th=j a)isqh/sewj) (Meib. 8.24). Questa for­ mulazione merita di essere considerata attentamente - ed a mio avviso la traduzione può benissimo essere letterale, anche se sono certamente necessari alcuni commenti giustificativi. Anzi­ tutto vi è nell'italiano "fantasia" un'accentuazione dell'ele­men­to di arbitrarietà, da cui è necessario subito prendere le distanze. "Fantasia" nelle sue origini greche è legato, come appare anche in questo testo (fai/netai), all'apparire, al mostrarsi di qualco­ sa. Quindi questo termine, riferito alla per­cezione, può sempli­ cemente indicare la cosa stessa in quanto viene rappresentata nella percezione. Ma difficilmente in questo contesto esso si­ gnifica soltanto questo. Il mostrarsi di qualcosa è in ogni caso un'immagine - un "fantasma" (fa/ntasma). Questo senso è su­ bito inerente al termine di fantasia e consente giochi di senso molto sottili. L'apparire di cui si parla in rapporto al percepire può essere relativo-soggettivo, ed essere privo di un autentico valore conoscitivo. Può essere mera apparenza. In questo senso Platone stringe a sua volta insieme fantasia e percezione: quando si tratta delle sensazioni di caldo o di freddo o di altre simili cose, fantasia (fantasi/a) e percezione (a)/isqhsij) fanno tutt'uno -"quale sente, ciascuno, una data cosa, tale è anche codesta cosa per ciascuno"(Teeteto, 152c). E non è questo certamente il senso dell'unione dei due termini in Aristosseno. Infatti il "fai/netai" - l'apparire - qui è detto nell'accezione forte dell'evidenza. In Aristotele il termine ha un impiego più ampio e controverso. Da un lato la fantasia differisce sia dalla percezione che dall'in­ telletto, ed in particolare essa si distingue dalla percezione per il fatto che le cose possono apparire senza che vi sia vista e vi­ sione "come avviene nel caso dei sogni" (De Anima, 428 a 5); dall'altro essa, pure essendo diversa da tutte le facoltà, parteci­ pa ad esse ed "è molto difficile dire a quale di queste parti sia 44 identica e da quale sia diversa" (ivi, 432 b). "L'anima non pen­ sa mai senza un'immagine (fa/ntasma)"(ivi, 431 15); ma nello stesso tempo la fantasia è così prossima alla percezione che si può parlare di una ai)sqhtikh/ fantasi/a (ivi, 434 a 5) di una "immagina­zione sensitiva", come talora si traduce. A mio avviso l'espres­sione aristossenica è prossima a questo ambito di idee, pur inclinando in direzione non tanto dell'immagine intesa come riproduzione di una cosa sensibile, quanto dell'imma­gine come un velo attraverso cui viene colta la cosa e che dun­que si propone insieme alla percezione della cosa stessa. Per que­sto si parla senz'altro di fantasia della percezione: non si tratta di so­ gni; ma nemmeno di rappresentazioni percettive pure e sem­plici. Forse è qui inclusa l'idea di una elaborazione immaginativa che resta tuttavia aderente al fenomeno nel suo modo di mani­festarsi. Questa idea non è esplicitamen­te teorizzata, essa è tuttavia con­ cretamente praticata: l'adesione di Aristosseno ai fenomeni non rifugge certamente da descrizioni che contengono sensi traslati. Traducendo "fai/netai" con "sembra" e "fantasi/a th=j ai) sqh/sewj" con "rappre­sen­tazione della percezione" o con "le impressioni della percezione", o altre espressioni che tolgano di mezzo un qualche riferimento all'im­ma­ginazione, si opererebbe uno svuotamento della pos­sibile ricchezza di senso del testo: nel primo caso vien tolto di mezzo il richiamo all'evidenza percetti­ va e nel secondo il fatto che nel caratterizzare il suono come mo­ vimento - e quindi nel parlare di direzioni di esso, di posizioni in cui la voce indugia, di spazio che vi è tra l'una e l'altra, ecc. - ci avvaliamo appunto della fantasia della percezione [36]. Quanto al tipo di movimento che è propriamente "canto" - e quindi che appartiene alla musica e che viene considerato dalla teoria del me/loj - va subito notato che Aristosseno, che per altri versi può essere giustamente considerato come un sostenitore della continuità, prende le mosse da una premessa nettamente "discretistica". Peraltro in questo contesto si fa riferimento ad una nozione negativa e indiretta di continuità che, a suo avviso, 45 è caratteristica del linguaggio parlato: non si attira dunque l'atten­ zione su una idea di continuità fondata sulla variazione continua delle altezze, ma piuttosto sulla difficoltà, che è appunto carat­ teristica del linguaggio parlato, di cogliere un'altezza determi­nata per il semplice fatto che in esso non vi sono momenti di arresto su questa o quella posizione. Nel canto invece si procede da una posizione all'altra oltrepassando l'intervallo che vi è tra esse. È es­ senziale qui che siano identificate delle posizioni, e dunque che siano dati degli intervalli. Il canto è un movimento attraverso intervalli. Anche in questa descrizione è importante soffermarsi sui termini e sottilizzare un poco su di essi. Abbiamo parlato della posizione dei suoni. Il termine greco è tasis (ta/sij). Taluni tra­ ducono senz'altro "altezza". Altri "grado". "Grado" richiama la scala e la disposizione scalare se non addirittura il movimento di tono in tono, "altezza" semplicemente la nota come entità pun­ tualmente definita. Entrambe le traduzioni dunque fanno capire di che si tratta - e delle due è senz'altro preferibile "altezza". Ma né l'una né l'altra, come del resto "posizione", riescono a con­ servare le implicazioni che sono presenti nel conio della parola greca, ed anzi distraggono da esse in modo irrimediabile. Essa rimanda al verbo tendere (tei/nw) - cosicché è talora presente anche, nelle traduzioni, l'espressione "ten­sione" [37] . Ma dal­ le spiegazioni di Aristosseno si comprende subito che rendere questo termine con un richiamo diretto ed esplicito alla tensione non sarebbe soddisfacente. All'origine del riferimento musicale del termine - secondo del resto antichi suggerimenti [38] - vi è la tensione delle corde: il movimento del tendere e dell'allentare una corda corrisponde al passaggio al suono più acuto o più gra­ ve. Inoltre vi è il movimento della voce, che può essere descritto come un movimento di tensione crescente (e)pi/tasij) quando passa dal grave all'acuto e di tensione decrescente (†nesiw) nella direzione inversa [39]. Ari­stos­seno pensa certamente all'uno ed all'altro caso, ma è difficile che usi il termine unicamente con relazione ad un puro dato di fatto concernente l'emissione fisica 46 del suono. Tensione crescente e tensione decrescente rappre­ sentano infatti una buona descrizione del modo in cui il grave e l'acuto appaiono, per usare la sua terminologia, alla fantasia della percezione, e quindi vanno intese come caratterizzazioni quali­ tative dell'andare verso l'acuto o verso il grave. Nel canto questo movimento, nell'una o nell'altra direzione, ha un punto di arresto - ed è qui che troviamo la "posizione" - ta/sij. La posizione è dunque un luogo che viene raggiunto e in cui il suono prosegue in modo uniforme, e precisamente il luogo in cui termina la tensione crescente o decrescente (Meib. 11.12). Zarlino, che riprende, traduce e com­ menta i passi a cui facciamo riferimento, precisa che "L'acutezza è quella, che si fa per il tiramento; e la gravità, per lo rilascia­ mento", ma proprio per questo acutezza e gravità si distinguono dal "tiramento" e "rilasciamento" "come è differente l'agente dall'effetto". Per quanto riguarda la traduzione di ta/sij Zar­lino propone "estensione" da intendersi, io credo, come un ricordo del latino extentio che ha il senso di una dilatazione che è anche un prolungamento nel tempo, quindi come un "distendersi" del suo­ no. In effetti in senso strettamente equi­valente si propone anche "distendimento" - "il quale è chiamato tenore [40] … perciò che per cotale s'intende, e è quasi come un certo stato e permanentia di Voce; cioè, una equalità di moto d'una voce, ò suono istesso, fatto senza mutatione (dirò così) di luogo, nel luogo istesso" [41]. Il canto è un cammino da una posizione all'altra, e tra l'una e l'altra vi è l'intervallo che rappresenta "qualcosa di limi­tato da due suoni che non hanno la stessa posizione" (Meib, 15-25). Nel passare da un limite all'altro, nota Aristosseno, è neces­sario che la voce nasconda tensioni ed allentamenti, nasconda dunque le possibili note intermedie, per manifestare con chiarezza i limi­ ti dell'intervallo come posizioni chiaramente determinate (Meib. 10.10). La voce - come dice Zarlino ripren­dendo piuttosto lette­ ralmente questo passo - dovrà dare il luogo dell'intervallo "asco­ samente" e nello stesso tempo rendere "evidenti e fermi" "i suoni 47 che distinguono gli intervalli" [42]. Nello stesso momento in cui Aristosseno raccomanda implicitamente di evitare i glissandi, te­ orizza una nozione di intervallo come un plenum, come un tratto di posizioni possibili - come "la differenza delle posizioni e il luogo capace di accogliere note più acute del più grave delle po­ sizioni che limitano l'intervallo, e più gravi del più acuto (Meib. 15.25) [43]. Si tratta dunque di uno spazio pieno di suoni (pos­ sibili). È necessario rendersi chiaramente conto del punto di vi­ sta che qui si fa valere, di ciò che esso implica e di ciò che esso esclude. Affermare che il suono si ferma agli estremi dell'inter­ vallo non è affatto ovvio; o meglio non lo è se tutta la nostra attenzione è rivolta sul versante fisico e se proiettiamo su quel­ lo fenomenologico l'idea del suono come movimento reale del "corpo sonoro", ad esempio, come vibrazione. Allora ci può venire chiesto: come fa il suono ad arrestarsi, se il suono è movi­ mento? L'arresto equivarrebbe al passaggio al silenzio. Una buona risposta aristossenica potrebbe essere: Vieni ed ascolta! Lasciati guidare nell'ascolto dalla fantasia della perce­zione, e non lasciarti indurre in errore da obiezioni che provengono da una confusio­ ne di piani; e nemmeno da grovigli e da contraddizioni apparenti nelle quali potremmo anche imbatterci, a causa dell'impiego di espressioni verbali che potremmo peraltro anche mutare, se ne trovassimo altre più appropriate. "È manifesto (fai/netai) che la voce fa questo nel cantare : si muove nell'intervallo, si arresta nella nota". "Non lasciamoci turbare dalle opinioni di coloro che riducono i suoni a movimenti e che affermano che il suono in generale è movimento, cosicché ci accadrebbe di dire che, in certi casi, il movimento potrà non muoversi ma rimanere fisso e immobile. Per noi è lo stesso indicare la posizione con egua­ glianza o identità di movimento oppure, se si trovasse, con un altro termine più chiaro di questo" (Meib, 12,5) [44] . Non vi potrebbe essere una formulazione più netta della messa da parte del terreno delle considerazioni e spiegazioni fi­ 48 siche: esse possono seguire la loro strada senza sovrapporsi alla nostra, ed occorre rammentarsi che proprio da questa sovrappo­sizione possono sorgere confusioni e falsi problemi. Ma non meno netto è l'abbandono di una concezione dell'in­tervallo come rapporto. Al logos si sostitu­ isce il topos, al rapporto il luogo - anche in questo caso si tratta di una sostituzione che non comporta una contrapposizione, ma piuttosto una modificazione radicale di punto di vista. La tematica del­l'intervallo deve essere sottratta ad un modo di approccio che comporta la sua totale riduzione aritmetica, ed essere ricondotta nell'al­veo dei problemi strettamente attinenti all'esperienza sensi­ bile ed eventualmente ad un'attività intellettuale che opera in stret­ to rapporto con essa. Una delle conseguenze più importanti di questa presa di posizione sta nel fatto che la grandezza (me/geqoj) dell'inter­vallo e le pratiche corrispondenti di misurazione cessano di stare al centro dell'attenzione, che ora viene occupato piuttosto significa­ to dell'intervallo come un significato che dipende dall'articolazione complessiva dei sistemi in cui esso è integrato - quello che Ari­ stosseno chiama il suo "valore" ovvero la sua "funzione" (du/ namij). "Sistema" è parola utilizzata da Aristosseno per indicare un'organizzazione di più intervalli. Si comprende certamente meglio la concezione di Aristos­ seno dell'intervallo se si prende come riferimento esem­plare l'in­ tervallo di quarta e l'interpretazione che egli stesso ne offre, in stretta relazione con la pratica musicale greca. Esso rappresen­ ta anche, al tempo stesso, un caso paradigmatico di sistema. Ai suoi estremi troviamo, in direzione discendente, la mese (me/sh) e l'hypate (u(pa/th), che si conviene di associare rispettivamente a La e Mi. Questi saranno i punti fissi del sistema. All'interno di questo intervallo, le due posizioni carat­terizzate dai nomi lichanos (lixano/j) e parhypate (parupa/th) non sono esattamente deter­ minate, ma fluttuano entro un ambito piuttosto ampio. 49 Mese Hypate lichanos parhypate Secondo gli spostamenti effettuati dalla lichanos, la parypate cam­ bia la propria posizione in modo corrispondente. Le differenze tra i generi e le loro possibili "sfumature" dipendono da questi sposta­ menti. Tuttavia per i nostri scopi attuali le complesse arti­colazioni del problema non interessano [45]. Interessa invece il fatto che la lichanos (e conseguentemente la nota che le è prossima) possa oc­ cupare una qualunque posizione all'interno di un certo ambito - ed in via di principio queste posizioni potrebbero essere infi­ nite. Dice precisamente Aristosseno che "il numero delle lichanoi deve essere considerato illimitato". Infatti "in qualunque punto si fermi la voce, si avrà una lichanos, e nel luogo della lichanos non vi è nessun vuo­to intermedio tale da non poter accogliere una lichanos" (Meib. 26.10). Ed ecco subito le obiezioni. Qui si usa il termine anche al plurale. Ma se vi sono molteplici posizioni, perché chiamarle con lo stesso nome? Non dovremmo, per ogni posizione, asse­gnare un unico nome che la individui con chiarezza? In realtà anche in questo caso, non ci dobbiamo lasciar con­ fondere da considerazioni che riguardano il puro livello lingui­ stico. Se vogliamo parlare delle lichanoi al plurale, tenendo conto dell'illimitato numero di posizioni possibili, sia­mo liberi di farlo, purché sia chiaro che ciascuna di esse verrà riconosciuta come lichanos per il semplice fatto che occupa una posizione relazional­ mente definita nel sistema tetracordale a cui appartiene ed assolve la fun­ zione che gli è propria. La lichanos è relazionalmente e funzional­ mente una sola in quanto è la nota che segue la mese e che sta prima della parhypate e che deter­mina la differenza dei generi. Il suo luogo 50 è rappresentato dalla distanza minima e da quella massima che essa può prendere dalla mese - dal suo ambito di variazione possibile. Aristosseno non esita così ad affermare che "i nomi hanno si­ gnificato solo in relazione l'uno con l'altro" (Meib. 50.5) e che "il ritenere che intervalli eguali debbano essere definiti con lo stesso nome ed i disuguali con nomi diversi è lottare contro l'e­ videnza" (Meib. 49.25). Il nome si separa così dalla particolarità della posizione e la grandezza dell'intervallo dal suo significato (valore, funzio­ne). Non sono necessari più nomi per indicare posizioni diffe­renti, se questa differenza introduce solo una variante all'in­ter­no della stessa struttura. Ed è d'altronde erroneo concepire la percezio­ ne degli intervalli della musica come se essa fosse tesa a fissare quantitativamente la loro grandezza ed a fare di questa determi­ nazione quantitativa, esattamente determinata, un discri­mine tra essi. La fantasia della percezione (Meib 48.23) - non bada tanto alla grandezza esattamente determinata degli interval­li, quanto alla somiglianza delle strutture [46]. Per questo un genere viene ad esempio riconosciuto come cromatico nonostante nono­stante il mutamento di grandezza degli intervalli nelle diverse sfumature: "Perché ciascuno dei generi, secondo la percezione sensibile, si muove con un movimento ad esso proprio, benché si serva non di uno solo, ma di molti modi di divisione del tetracordo" (Meib, 48.32). In effetti alle spalle di questa presa di posizione vi è cer­ tamente la pratica musicale greca, alla quale Aristosseno cerca di fornire una cornice teorica adeguata. Per quanto riguarda la concezione dell'intervallo, essa trae spunto dalla pro­ble­matica inerente alla differenza tra i generi e dalla possibilità di accorda­ ture differenti che riguardavano le note intermedie e che conduce­ vano a differenti "sfumature" all'interno dei generi. Ora, occorre richiamare l'attenzione che in un modo di approccio come quel­ lo pitagorico che mira soprattutto all'inter­vallo come rapporto, si fa valere una tendenza alla fissazione univoca dell'intervallo ed 51 alla sua giustificazione attraverso la "validità" del rapporto nu­ merico. È tuttavia anche vero che questa tendenza non si trova in contraddizione con una pluralità possibile di "sistemi". Gli stessi pitagorici non hanno certo esitato nel proporre strutture scala­ ri differenti. Tuttavia gli assunti di ordine generale prevedono, da parte pitagorica, che ciascun sistema debba essere intrinseca­ mente giustificato e la giustificazione consisterà nella partico­ lare forma numerica del rapporto propria di ciascun intervallo singolarmente preso. Ciò dà a questa linea di tendenza anche un orientamento prescrittivo. Non tutte le scelte potranno essere ammesse, ed anzi si possono prevedere restrizioni molto forti (ed anche forse una tendenza riduttiva ad un modello migliore di tutti). Ad una simile impostazione problematica nulla sarebbe più estraneo dell'idea di uno spazio di gioco che in via di principio [47] renda possibile un numero illimitato di scelte differenti, nessuna delle quali richiede una qualche "fondazione", ma che possono essere giustificate soltanto come scelte di ordine espres­ sivo. Questa idea sorge invece di fronte ad una pratica musicale che già fa uso di una ampia libertà di scelta senza preoccuparsi di giustificazioni teoriche particolarmente forti. In Aristosseno di ciò si prende anzitutto atto, e nello stesso tempo si coglie spunto di qui per un ripensamento dei concetti musicali fondamentali, a partire da un assunto metodico che punta in direzione della su­ perficie fenomenologica. Assume allora subito rilievo l'inter­vallo come "segmento", come distanza tra una posizione e l'altra e nello stesso tempo come un plenum di posizioni possibili. Questa analogia geometrica propone nello stesso tempo il problema della continuità, di cui Aristosseno si farebbe so­ stenitore di fronte al discretismo della posizione pitagorica. Si intravvede infatti, sullo sfondo della teoria aristossenica dell'in­ ter­vallo, l'idea di un continuo dei suoni a titolo di spazio sonoro nel quale si ritagliano punti e intervalli secondo svariati possibili criteri, che non avranno comunque alcun fondamento assoluto. In realtà, un mutamento di questo tipo a proposito della nozione 52 di spazio sonoro nell'orizzonte di idee nel quale si situa l'ela­ bora­zione aristossenica, è certamente ipotizzabile; ma per evitare possibili fraintendimenti sono necessarie alcune precisazioni. Secondo la concezione aristossenica, la mobilità della nota viene affermata come pura e semplice possibilità di scegliere accorda­ ture differenti per quanto riguarda le note intermedie del tetracordo, variando in questo modo il genere e la sfumatura di esso. Il nu­ mero illimitato di lichanoi rivendicato da Aristosseno non implica di per sé nessun particolare apprezzamento per le sonorità glis­ santi o per le successioni di intervalli molto stretti. È vero invece il contrario: come molti altri teorici greci, egli manifesta dubbi e persino ostilità nei confronti dell'uso dei piccoli intervalli. Così egli sembra stabilire come regola di una buona condotta melo­ dica il porre in successione al massimo due dieseis (Meib. 27.28) [48]. Anche dal punto di vista teorico, egli respinge nettamente l'idea di considerare intervalli molto piccoli come fondamento della partizione concreta del tetracordo [49] . In questa stessa dire­ zione vanno interpretati i dubbi intorno alla sonorità dell'aulos. Proprio la possibilità di realizzare suoni glissanti rende questo strumento sospetto [50]. Non vi è dunque in Aristosseno nessuna legittimazione della continuità come un fatto percettivo concreto. Del resto la distinzione cardinale tra linguaggio parlato e canto, con la sua netta affermazione della necessità delle posizioni come punti di arresto e della necessità conseguente di "nascondere" le possi­ bili posizioni intermedie, esprimeva una linea di discorso molto chiara sotto questo riguardo. La continuità si trova invece in quel numero illimitato di lichanoi di cui si ammette la possibilità: ed è una continuità che riguarda evidentemente lo spazio in cui può giocare la nota come un "intervallo" inteso come "segmento". L'analogia è qui con l'in­fi­nità dei punti del segmento geometrico pensato all'in­ter­no di una operazione idealizzante. È sufficiente tutto ciò per ritenere che in Aristosseno vi sia una netta opzione per l'accet­tazione della matematica degli irrazionali e di intervalli con valori numerici irrazionali? Dal punto di vista concettuale 53 una presa di posizione su entrambi i versanti non è obbligatoria. E vi è il dubbio che, quando si risponde in modo nettamente affermativo a questa domanda da parte dell'interprete si faccia valere ancora l'idea pregiudiziale che ogni presa di posizione sul terreno degli intervalli debba avere necessariamente una con­ troparte matematica. L'ipotesi che Aristosseno portasse la pro­ pria impostazione sino alla piena consapevolezza anche di que­­ sti aspetti resta certamente molto suggestiva - anche se questo, come altri punti della teorizzazione di Aristosseno difficil­mente potranno uscire dal loro cono d'ombra [51] . Una precisazione va fatta anche per la tematica della gran­ dezza. In precedenza abbiamo notato che la grandezza dell'in­ tervallo non occupa più il centro dell'attenzione, nel quale si fa avanti piuttosto la nozione del suo significato e della sua fun­ zione. Occorre tuttavia tener presente che questa afferma­zione è strettamente connessa ad una critica di una concezione della grandezza presa isolatamente e considerata come misurata dal rapporto. Questa critica è dunque ben lontana dal togliere di mezzo il problema della grandezza come grandezza percepita: questo è anzi un aspetto che colpisce vivamente l'o­rec­chio e che sta alla base delle differenze strutturali e funzionali di un sistema. Quando Aristosseno osserva che "per mezzo dell'orecchio (a)koh/) noi giudichiamo le grandezze degli intervalli, per mezzo dell'in­ telletto (dia/noia) ci rendiamo conto del loro valore (du/namij)" (Meib, 33), è cer­tamente difficile interpretare questo riferimento all'intel­letto come una funzione nettamente separata dall'espe­ rienza sensibile o addirittura contrapposta ad essa. Il richiamo all'in­tel­letto è un richiamo ad una capacità di afferrare i nessi e ampie strutture relazionali a partire dai dati fenomeno­logici [52]. Ed è anche difficile sottovalutare il peso dell'affer­ma­zione che la grandezza viene giudicata per mezzo dell'orecchio - non si trat­ ta di cosa di poco conto messa a confronto con una concezione monocor­dista. Con questa affermazione Aristosseno in­ten­deva proprio la possibilità di stabilire uditivamente una misura, di po­ 54 ter com­parare anche quantita­vamente gli intervalli, di poter sta­ bilire eguaglianze e differenze come evidenze fenomeniche. Se così stanno le cose, dividere in due o in tre o in quattro il tono non aveva in Aristosseno il senso di "di­videre" in due in tre o in quattro il rapporto aritmetico di 9/8 (ovvero estrarre le radici corrispondenti), ma quello di in­di­viduare delle posizioni che all'orecchio potessero apparire tali. Su questa base egli formula anche delle valutazioni quantitative ben determinate sulla grandezza degli intervalli. Ma quale validità possono avere simili valutazio­ ni e misurazioni? È possibile in generale avanzare la pretesa di misurare gli intervalli in modo puramente uditivo? In che modo un simile problema può essere corret­tamente impostato? 55 Parte II 1. Fenomenologia dell'intervallo Proprio le ultime considerazioni relative alla posizione di Ari­ stosseno e le domande lasciate aperte, indipendentemente dai difficili problemi di interpretazione che esse propongono, ci sti­ molano ad occuparci più direttamente, al di là del dibattito della tradizione storica, di questioni attinenti ad una possibile fenome­ nologia dell'intervallo. Ovunque infatti abbiamo impli­citamente o esplicitamente presupposto l'eguaglianza e la dif­ferenza di in­ tervalli, la possibilità di valutare la loro grandezza, di stabilire se un intervallo sia maggiore e minore di un altro, e così via. Ora, considerando l'intervallo come rapporto queste nozioni appaio­ no senz'altro applicabili, sia pure con qualche difficoltà e usando qualche via traversa, tenendo conto di un calcolo frazionario re­ lativamente non ancora evoluto. Nel­le valutazioni delle grandez­ ze abbiamo subito a che fare con numeri e con calcoli aritmetici. Ma come stanno le cose in rapporto all'intervallo "udi­ to"? In realtà non appena ci disponiamo su questo terreno e ci chiediamo in che modo si possano effettuare operazioni di confronto tra intervalli scopriamo con una certa sorpresa che né le domande né le risposte sono troppo ovvie. Con sorpresa: per il fatto che siamo ben consapevoli che sia nella pratica musicale sia nell'ascolto, queste relazioni di grandezza sono chiaramen­ te afferrate - altrimenti ne andrebbe di mezzo la stessa nostra capacità di afferrare i nessi interni del brano musicale e dunque l'intero suo senso. Nello stesso tempo avvertiamo un certo im­ 56 barazzo di fronte a quelle domande, che ci possono apparire in certo senso forzate, artificiose. Si tratta di una sensazione ben fondata. Consideriamo an­ zitutto ciò che accade nell'ascolto. È certamente innegabile che ogni nota venga colta nel suo "luogo" e così vengano colte tutte le relazioni che si istituiscono su questa base. Un semplice svi­ luppo melodico descrive un percorso che può essere seguito solo nella misura in cui siamo in grado di afferrare le altezze dei suoni, le loro relazioni, le durate reciproche, le direzioni di movimento. Tuttavia occorre subito richiamare l'attenzione sul fatto che que­ sto "afferrare" non fa tutt'uno con un atto di valuta­zione esplicita. Tocchiamo qui uno dei problemi di carattere generale di una teoria della percezione fenomenologicamente orientata. Giudicare non è la stessa cosa che percepire, anche se il giudizio concerne proprio uno stato di cose percettivo. Nel percepire come tale, nella "sem­ plice percezione", intervengono "sintesi" e quindi connessioni re­ lazionali passive. Se ad esempio ci vengono proposti quattro suoni in successione [53] (Es. 1*) udiamo dipanarsi il profilo del motivo che esse propongono in modo del tutto chiaro, seguendo sem­ plicemente il percorso dei suoni che si succedono l'uno dopo l'altro. Supponiamo ora che ci venisse chiesto inattesamente - dopo l'ascolto - quale sia la posizione del terzo suono rispetto al primo ed al secondo dal punto di vista dell'altezza. La risposta potrà anche essere piuttosto facile, ma essa richiede un caratteri­ stico ritorno intenzionale sull'appena udito: il motivo deve essere in qualche modo riattualizzato e nel corso di questa operazione dobbiamo anche riordinare mentalmente le altezze ponendole in ordine scalare. Solo in questa riattualizzazione rimemorativa si può parlare di un "giudizio" vero e proprio, e non invece in rapporto al semplice afferramento della successione come tale. Quando il motivo si è concluso la nostra attenzione ha sotto la propria pre­ sa l'ultima nota - ed anche se il decorso appena passato è ancora ritenuto, l'ordine scalare dell'ultima nota con le precedenti non è affatto immediatamente a portata di mano. Questa differenza 57 può essere messa in rilievo anche prendendo in considerazione la modificazione che interviene nel modo dell'ascolto qualora siamo resi avvertiti che, dopo di esso, ci verrà richiesto di stabili­ re quale posizione occupi la terza nota rispetto alle altre due che la precedono. Da questa richiesta preven­tiva viene modificata l'inte­ ra struttura intenzionale dell'a­scolto: esso non si abbandonerà più al puro decorso temporale, ed al ritenere, che avviene in ogni caso, si associa un trattenere, che è precisamente un trattenere per confron­ tare. Così, non appena risuona il secondo suono, il primo suono trattenuto verrà subito confrontato con esso per accertare se esso sia più o meno grave. Questo confronto non ha bisogno di essere verbalmente espres­so, ma ha già in ogni caso la forma di un giudizio: "il secondo suono è più acuto del primo"; e con l'ar­ rivo del terzo suono, esso dovrà essere a sua volta confrontato con entrambi che saranno stati "trattenuti" proprio in vista del confronto: il terzo suono è più grave del secondo, ma più acuto del primo. Nel giudizio conclusivo secondo cui il primo suono è il suono più grave, a cui seguono nell'ordine il terzo e il secondo, si può vedere addirittura qualcosa di simile ad un ragionamento - essendo il terzo suono più grave del secondo ma più acuto del primo, allora… - che è tutto estraneo all'afferramento percet­ tivo puro e semplice della successione dei suoni. Dalla richie­ sta verbale preventiva è dunque stata riorientata l'intera strut­ tura dell'ascolto, che in luogo di aderire passivamente al decorso per­cet­tivo afferrandone in ogni caso tutti i momenti relazionali, viene attraversato da "intenzioni" attive che non appartengono ad esso e che procedono in senso opposto al puro deflusso tem­ porale, imponendogli le "forzature" necessarie per il confronto. In generale nell'ascolto di un brano musicale eguaglianze e differenze debbono essere udite, e dunque chiaramente afferrate, e non an­ che giudicate. Un ascolto "anali­tico" che non lascia vivere le forme delle sintesi passive così come si offrono nel processo sarebbe un ascolto forzato e rischierebbe di avere conseguenze distruttive sul­ la capacità di afferrare il movimento musicale. 58 In questo senso le domande intorno alla grandezza degli in­ tervalli ci possono sembrare parzialmente artificiose, e le rispo­ ste eventuali in ogni caso niente affatto a portata di mano. Esse pongono il problema dell'effettuazione di giudizi, oltre­passan­do il piano della semplice percezione. Lo stesso proble­ma, ed in forma particolarmente netta, si presenta nel caso delle pratiche esecutive. Se consideriamo le modalità di appren­di­mento della musica, si può addirittura arrivare a sostenere che il problema di una valutazione giudicativa au­tentica della gran­dezza degli in­ tervalli e delle relazioni che intercorrono tra essi in forza del­ la loro grandezza forse non entra nemmeno in linea di conto. Infatti non si tratta di apprendere in via preli­minare a valutare correttamente la grandezza degli intervalli attribuendo ad essa eventuali valori numerici, ma se mai di imparare a ripro­durre correttamente una determinata struttura intervallare che ha ca­ rattere fondamentale relativamente ad un determinato linguaggio, ad esempio una scala nel modo mag­giore o minore; oppure ad in­ tonare correttamente intervalli significativi, sempre relativamente ad un determinato linguaggio - ad es. una ottava, una quinta, una settima, una seconda ecc. - quindi a riconoscere l'intervallo nel modo in cui esso "suona", nella sua peculiare "fisionomia" lega­ ta ad aspetti qualitativi assai più che "quantitativi"; e comunque sempre nel presupposto di un "sistema" in cui essi occupano una posizione ben determinata. Chiedere di eseguire una quinta è cosa assai diversa che chiedere di eseguire un intervallo grande sette semitoni. Così, se chiedessimo ad un musicista se, quando esegue due note che si trovano ad un intervallo di semitono, sia veramente sicuro che l'intervallo eseguito sia grande esattamente la metà di un tono, come dovrebbe essere secondo la scala tempera­ ta corrente, egli tenderà probabilmente a ritenere la domanda del tutto fuori luogo, vorrei quasi dire: caratteristica di un non musicista. E certamente in questo egli ha le sue buone ragioni. Ma per comprendere a fondo queste ragioni, ed anche per chiarire meglio il senso di questa discussione ed le questioni che 59 essa solleva, non ci si può limitare a questi rilievi. Conviene inve­ ce esaminare un poco più da vicino il problema della valu­tazione uditiva della grandezza degli intervalli, considerata intanto come uno dei possibili problemi di una fenomenologia dell'intervallo. Cosicché riproponiamo le domande iniziali: Come è possibile stabilire se un intervallo sia maggiore, minore o eguale ad un altro? O addirittura se esso sia la sua metà o il suo doppio? E persino - perché no - i due terzi di esso? Ha senso stabilire una "unità di misura" delle grandezze intervallari e in che modo ciò può essere fatto? Queste domande non ven­gono tuttavia qui proposte come se dessero l'avvio ad un'in­dagine empirico-psi­ cologica, ma come stimoli ad una riflessione tendente a mettere evidenza gli aspetti di ordine concettuale in esse implicate. Da questo punto di vista potrebbe essere interessante cer­ care le condizioni in cui la valutazione potrebbe essere netta­ mente favorita. Se consideriamo il caso nel quale gli estre­mi ap­ partengono a regioni sonore molto differenti (Es. 2 *) potrem­ mo forse dire che essi ci appaiono uditivamente abba­stanza simili in rapporto alla grandezza, ma forse al primo ascolto potremmo esitare per quanto riguarda il problema se essi siano eguali tra loro o eventualmente quale dei due sia maggiore. Come abbiamo nota­ to or ora, il nostro non è uno spunto di indagine rivolto alla capaci­ tà soggettiva dei singoli di confrontare correttamente la grandezza degli intervalli, e quindi non siamo interessati a sentire diverse pos­ sibili opinioni in proposito. Ci interessa accertare invece se esistano condizioni favorevoli in cui il problema della valutazione non si pre­ senti, per così dire, semplicemente campato in aria. Proviamo allora, mantenendo identiche le grandezze dei due precedenti intervalli, a riportarli l'uno sull'altro, ad esempio, il secondo sul primo, in modo da far coincidere uno dei suoi estremi. Nel caso seguente l'estremo sinistro (ovvero la nota che risuona per prima) del se­ condo esempio precedente viene fatto coincidere con l'estremo sinistro del primo - ferma restando la grandezza degli intervalli e l'ordine in cui essi vengono proposti (Es. 3*). 60 A B C D La situazione è ora interamente mutata: il secondo interval­ lo appare all'orecchio senz'altro come minore del primo. Questo mutamento è dovuto al fatto che facendo coincidere l'estremo sinistro abbiamo stabilito una condizione di sintesi molto forte tra i due intervalli in modo tale che il secondo sembra essere con­ tenuto nel primo. Forse potremmo arrivare a dire che è come se si trattasse dello stesso intervallo, che si è tuttavia accorciato. Da un punto di vista oggettivo, questo modo di esprimersi non avrebbe certamente alcun senso, eppure esso è tutt'altro che estraneo ad un modo possibile di intendere e quindi di afferrare il contesto percettivo. In effetti, non ci si trova, dal punto di vista percettivo, di fronte ad una semplice giustapposizione di "luo­ghi", ma ad una relazione dinamica nella quale l'iden­tità di uno degli estremi conferisce alla struttura l'an­damento di un movimento di con­ trazione che risulta particolarmente accentuato se si aumenta il numero degli intervalli che diventano sempre più piccoli. Lo spazio si va via restringendosi, come se fosse fatto ad imbuto (Es. 4*). Analogamente si potrebbe parlare di un allargamento progressivo dell'intervallo adattando oppor­tu­na­­mente l'esempio (Es. 5*). La tipicità di questa situazione consiste nel fatto che gli intervalli nel loro succedersi non presentano uno spostamento da luogo a luogo, ma appunto un unico luogo che va via restringen­ dosi o allargandosi. Se ora ci chiediamo in quali condizioni potrebbe essere ap­ prezzata uditivamente l'eguaglianza di due intervalli, ci rendiamo subito conto che nelle considerazioni precedenti è contenuto un suggerimento che vale anche per questo caso: in luogo di consi­ derare intervalli disparati, presi in regioni lontane tra loro, stabi­ liamo tra essi una qualche forma di collegamento. Ovviamente, nel caso dell'egua­glianza non possiamo contare su una condi­ 61 zione come quella di cui ci siamo avvalsi or ora (i due estremi risulterebbero coincidenti), ma essa suggerisce una diversa inte­ ressante possibilità. Consideriamo il caso seguente nel quale in­ tervalli di eguale grandezza si succedono in modo che l'estremo destro del precedente coincida con l'estremo sinistro del succes­ sivo (Es. 6 *). A B C D E F In tal caso avremo la sensazione di un cammino che procede in modo molto regolare. La sensazione di regolarità è ancora messa più in risalto dal confronto con l'esempio successivo nel quale è stato invece effettuato lo spostamento di una sola nota, e di con­ seguenza di due intervalli successivi - l'uno è divenuto più largo, l'altro più stretto (es. 7*). A B C D E F La differenza fra queste due sequenze risulta nettisima, e in par­ ticolare risulta nettissimo il punto del divario. Vi è tuttavia da chiedersi se sia lecito, sulla base di esempi come questi parlare ve­ ramente di un'eguaglianza percepita e valutata in modo pura­mente uditivo. In realtà resta il fatto che se diciamo "gli intervalli che abbiamo udito sono eguali" non intendiamo riferirci ad ogni in­ tervallo preso ciascuno per conto suo e messo a confronto con ogni altro, quanto piuttosto proprio all'anda­mento regolare della successione. Per riprendere i termini della problematica prece­ dente, potremmo dire che questo andamento è ciò che è afferra­ to sinteticamente nella semplice percezione, ed esso rappresenta la base per un'esplicitazione analitico-giudicativa. In particolare, 62 va richiamata l'attenzione che in tutto ciò una valutazione quan­ tativa non entra in linea di conto. Non abbiamo effettuato alcuna misurazione per giudicare eguali gli intervalli interessati. Mentre diventa importante, affinché il problema della valu­tazione assu­ ma un profilo sufficientemente determinato, il fatto che gli inter­ valli non vengano considerati isolatamente ma in u­na struttura unitaria. Nel caso precedente, l'estremo comune ci consentiva di parlare di accorciamento o eventualmente, nel caso opposto, di allungamento, quasi che avessimo a che fare con una sola unità intervallare che si estende o si contrae. Ora gli estremi in comu­ ne propongono un cammino unitario, e questa forma di unità viene afferrata come regolarità del cammino. Parlare di regolarità di un cammino è come parlare della sua "fisionomia", di un "aspetto" - alludendo dunque ad una qualità complessiva, alla quale si può appoggiare un giudizio di eguaglianza, come se fosse una sorta di spie­ gazione razionale della regolarità percepita del cammino. La presenza di un'in­tento giudicativo esplicito stabilisce una differenza netta rispetto all'a­ scolto ed alla pratica musicale - questo è un punto che va ribadito. Ma si deve anche prendere atto del fatto che il problema del giu­ dizio assume una sua determinatezza solo in una considerazio­ ne dinamica ed in pre­cise condizioni di contesto. Inoltre, quando vi è questa de­ter­mi­natezza, l'aspet­to quantitativo tende a sfumare di fronte a carat­terizzazioni di ordine qualitativo. Ciò significa che il pro­blema propriamente mu­si­cale si annun­cia con chiarezza già sul terreno fenomeno­logico. Anzi a partire proprio da considerazioni fenomeno­ logiche comprendiamo le buone ragioni dei sospetti musicali di fronte alle richieste di giudizi sulle grandezze. Ciò che importa sono le rela­zioni considerate all'in­terno di un sistema, sono i caratteri che gli inter­ valli ricevono nel contesto di una struttura più ampia. Se un intervallo sia o non sia la metà di un altro è una questione che sappiamo ormai come potrebbe essere affrontata, essendo strettamente legata ad una valutazione di eguaglianza. Essa può infatti assumere la forma di una domanda relativa alla suddivisione di un intervallo in due parti eguali. Si pensi esemplificativamente ad una valutazione "a 63 occhio" relativamente ad un segmento suddiviso da una sbarret­ ta verticale. Se il segmento non è troppo grande, è facile notare anche solo un piccolo spostamento della sbarretta verticale verso destra o verso sinistra. Così, nell'esempio probabilmente avvertiamo subito che la sbar­ retta verticale nella figura a destra è troppo spostata verso sini­ stra. Nel caso dei suoni ci potremmo riferire ad una situazione analoga. Tra i due estremi di un intervallo inseriamo una terza nota. Nel­l'esempio seguente, si propone 1. un intervallo AB 2. tre esempi di inserimenti di una nota all'interno di quell'interval­ lo (Es. 8*): A A BB A A BB A A BB A A BB Nel primo caso il secondo suono è troppo vicino al primo e troppo lontano dal secondo; nel secondo vale l'inverso; mentre l'ultimo caso ci appare come una suddivisione equilibrata del­l'in­ tervallo. Questa parola "equilibrata" ha naturalmente lo stes­so senso della parola "regolare" che abbiamo utilizzato in prece­denza, e d'altra parte i casi sono strettamente affini. Anche in questo caso 64 siamo alla presenza di una valutazione che potremmo caratterizza­ re come "qualitativa" in quanto viene valutato anzitutto il tipo di andamento della successione. Questi problemi di giudizio e di valutazione possono anche essere convertiti in problemi di produzione dei casi corrisponden­ ti. Ad esempio il problema di valutare se un certo intervallo sia eguale o meno ad un altro può essere convertito nel problema di produrre, dato un certo intervallo, un intervallo eguale, maggiore o minore, ricorrendo a procedure di accordatura. Si tratterà allora, di decidere mediante l'orecchio, quando, date due corde accordate su A e B, la tensione di una terza corda raggiunge una nota C tale che l'intervallo A-C passando attraverso B appaia suddiviso in modo equilibrato, decidendo così nello stesso tempo sull'eguaglianza de­ gli intervalli ovvero sul fatto che l'intervallo A-C rappresenta il doppio dell'intervallo A-B. Va da sé che queste valutazioni potranno essere accompa­ gnati dal dubbio o dalla certezza - "mi sembra…, ma non ne sono del tutto certo" oppure "sono certo, sembra ombra di dub­ bio…" - ed è chiaro anche che né la certezza soggettiva può essere confermata né il dubbio può trovare soluzione restando all'interno del campo fenomenologico. Ma questo è un altro problema. La certezza oggettivamente fondata non sta dalla parte del dato, ma dalla parte della sua costruzione, quando questa costruzione è una costruzione "tecnica" - come nel caso dei nostri esempi, che sono stati costruiti al calcolatore. Dunque sappiamo benis­ simo come stanno le cose poiché sappiamo che cosa abbiamo voluto fare e così abbiamo fatto. Di questa discussione si apprezzerà forse meglio il senso non appena si affronta il problema della misurazione. Parlare, come abbiamo fatto in precedenza, di valutazioni "qualita­tive" significa in particolare che esse sono "senza numero", ovvero che alla loro base non vi sono misurazioni. Ma se è abbiamo dato senso alla possibilità di dire, ad esempio, che un intervallo è maggiore di un altro, allora sembra ovvio poter chiedere "di 65 quanto?"; e dunque sembra ovvio che si possa anche realizzare una misurazione, sempre restando nel campo dei dati percepiti. In realtà proprio su questo punto occorre la massima cau­ tela. A partire da un'ovvietà apparente, si rischia di precipitare in una situazione particolarmente confusa. Intanto, se si parla di misurazione ci si richiamerà all'impiego di un'unità di misura che andrà "riportata" sull'intervallo da misurare. Ma si comprende subito che l'idea di unità di misura e di riporto è tutt'altro che a portata di mano nel caso nostro, anche se le considerazioni pre­ cedenti hanno preparato il terreno a questo passaggio. General­ mente non si scorge in tutto ciò alcuna difficoltà proprio perché alla problematica "soggettiva" si fa subentrare, più o meno con­ sapevolmente, la problematica oggettiva corrispondente. Noi sappiamo, ad esempio, che il nostro semitono è la dodicesima parte di una ottava. Lo sappiamo perché lo abbiamo costruito così. Di conseguenza possiamo usare il semitono come unità di misura ovvero come unità di conto per indicare la grandezza di qualunque intervallo del nostro sistema musicale. Così potremmo misurare in cinque semitoni la grandezza della quarta, ed in sette la gran­ dezza della quinta. I numeri cominciano ad apparire. In tutto ciò sembra implicata una naturale conseguenza in ordine al proble­ ma della semplicità e della composizione degli intervalli. Potremmo infatti affermare che - nel nostro sistema musicale - il semitono rappresenta un intervallo semplice in quanto essa è l'unità minima del sistema, e in questo senso è una unità indivisa, o meglio assunta come indivisibile. Composti, invece, e in ultima analisi composti di semitoni, tutti gli altri intervalli. Ciò sembra funzionare dal punto di vista logico-concettuale. Funziona invece assai poco ed assai male in rapporto alla tematica concreta e musicale dell'intervallo. Non a caso la questione della semplicità e della composizione è particolarmente contro­versa nella trattatistica musicale, ed a ben vedere alla base di tutte le discussioni vi sta proprio una confu­ sione tra l'idea di una semplicità oggettivamente fondata e l'idea di una semplicità che invece faccia riferimento al dato percettivo. 66 D'altra parte, la distinzione tra semplicità e composizione è sempre stata di imba­razzo, per motivi analoghi, nel dibattito filosofico, nel quale essa si presenta sia nel quadro della logica o dell'epistemologia come in quello della metafisica generale. Un modo di approccio fenomenologico sembra riportare subito un po' di ordine. Si considerino le due seguenti figure di rettangoli A e B. A B Non vi è certamente nulla da obbiettare se si dicesse che il rettangolo A è privo di suddivisioni, a differenza del rettangolo B che è invece suddiviso in dodici parti eguali. Se parliamo di semplicità e di composizione, sembra giusto attribuire la prima al rettangolo A piuttosto che al rettangolo B. Sembra tanto giusto che ci si può meravigliare che si dia enfasi filosofica ad un simile rilievo. Eppure esso è particolarmente importante perché mette in evidenza la necessità di distinguere tra ciò che vi è nel dato attuale e ciò che al più può essere attribuito ad esso come pura potenzialità pensata. Così il rettangolo B può essere detto suddiviso in quindici parti perché così attualmente appare; mentre il rettangolo A appare attualmente indiviso, anche se possia­mo pensarlo come divisibile in più parti. Si comprende subito quali siano le conseguenze di questa nozione della semplicità e della composizione in rapporto alla problematica degli intervalli. Aristosseno ci è maestro anche in rapporto a questo pro­ 67 blema: il problema della semplicità - egli insegna - non deve essere ricercato nella pura indivisibilità assoluta, quindi nel mi­ni­mo intervallo percepibile, ma piuttosto nel modo di "in­ten­dere" l'inter­ vallo considerando la sua integrazione al­l'in­­ter­no di un sistema. Egli definisce infatti come semplice un intervallo caratterizza­ to da due estremi fra i quali non è interposta alcuna nota. Ma, in coerenza con la concezione relazionalistica e fun­zio­nalistica, l'assenza di una nota interposta riguarda il dato attuale. Cosicché si può affermare senza contraddizione che il ditono è semplice "quando limitato dalla mese e dalla lichanos, composto quando è limitato dalla mese e dalla parhypate (Meib. 60.30)". In quest'ulti­ mo caso tra l'una e l'altra nota risuona effettivamente una nota intermedia, la lichanos stessa [54]. Questo rilievo è realmente notevole. Il ditono sembra dal suo stesso nome essere condannato ad essere un intervallo com­ posto. Ma la distinzione tra una considerazione di ciò che è un intervallo integrato all'interno di un brano e ciò che esso può essere in una considerazione astratta da esso è decisiva. In un quadro di discorso più ampio: se, dopo che un inter­ vallo è risuonato all'interno di un brano, esso viene nuovamente ribadito e messo in evidenza, ma questa volta con note intermedie comunque disposte, allora è come se l'inter­vallo stesso declinasse la propria partizione, una partizione ben determinata che appartiene a sua volta all'attualità. La suddivisione dell'intervallo si mani­festa nell'avvicen­da­mento delle strutture intervallari che debbo­no es­ sere fatte in modo da rendere la suddivisione concre­tamente percepita. Inversamente, anche la semplicità di un inter­vallo deve essere esibita, ad esempio con la sua costante ricorrenza senza note intermedie all'interno del brano: come accade nel caso dell'inter­ vallo di "terza minore" in una melodia pentatonica nettamente delineata. Questo intervallo, che è abbastanza ampio, non viene declinato in qualche sua possibile partizione interna, ed è questa circostanza che lo rende, nel contesto dato, un intervallo sempli­ ce e che stabilisce la fisio­nomia di quell'intervallo all'interno di 68 quel determinato brano musicale e contribuendo a sua volta in modo decisivo alla fisionomia del brano musicale stesso. Così la teoria musicale tenderà, anche indipendentemente da una riflessio­ ne approfondita sull'argomento, a parlare di "composizione" solo quando si met­tono in questione le articolazioni intervallari signi­ ficative relati­vamente ad un certo linguaggio. Ha senso, relativa­ mente al linguaggio tonale, parlare della quinta come composta da terza maggiore + terza minore, e non ad esempio da quarta + tono o addirittura, secondo l'esempio proposto in precedenza, come composta da sette semitoni. Forse sembrerà che a questo punto il problema della misu­ razione ci sfugga nuovamente. Ma in realtà le nostre con­sidera­ zioni precedenti servono anche ad una sua impo­sta­zione cor­ retta, in quanto propongono indirettamente la loca­lizzazione di questo problema sul versante del pensiero dell'in­ter­val­lo piutto­sto che su quello dell'intervallo percepito. Vogliamo spiegare questo punto. In precedenza abbiamo richiamato l'attenzione sul fatto che non solo è possibile dare giudizi sull'eguaglianza o meno degli intervalli, ma anche che è possibile produrre i casi corrispondenti attraverso operazio­ ni di accordatura. Ciò ci consente di comprendere il senso che potrebbe ricevere la nozione di unità di misura e quella, ad essa intrin­secamente connessa, del suo riporto sull'entità da misurare quando questa entità è una entità così evanescente come un inter­ vallo udito. Sia ad esempio l'intervallo da misurare un intervallo di quarta. E si voglia assumere come unità di misura il tono pitagori­ co - la cui grandezza è percettivamente ben definita come distan­ za tra quinta e quarta: occorrerà allora semplicemente duplicare, triplicare, ecc. questo intervallo nel senso e secondo la procedura preceden­temente illustrata, valutando il risultato di volta in volta ottenuta con l'intervallo da misurare. In questo e niente altro con­ siste l'operazione di riporto. Arriveremo così all'afferma­zione secon­do cui la quarta consta di due toni e di un resto inferiore al tono. Essa ha esclusivamente un sostegno fenome­no­logico, che con­ 69 siste in questo: realizzando una suc­cessione di tre toni è possibi­ le constatare uditivamente che l'intervallo così ottenuto eccede l'intervallo di quarta. Si noti che qui non inter­vengono i numeri dei rapporti corrispondenti e nemmeno calcoli su di essi. Tutta­ via i numeri entrano attraverso l'unità di mi­sura. Quando parliamo di due toni e un resto parliamo del risultato di una misurazione - sia pure inesatta nel senso che lascia un resto. La "suddivisio­ ne" della quarta così considerata non viene esibita all'interno di una struttura musicale, ma è una par­tizione esplicitamente orien­ tata a quantificare la grandezza dell'in­ter­­vallo e quindi a realizzare una mi­surazione. In certo senso men­tre per le suddivisioni attua­li avremmo potuto dire che l'inter­vallo si suddivide oppure che esso si presenta come suddiviso, ora invece possiamo dire che siamo noi stessi che proponiamo una sua suddivisione nei termini di un'altro che vale come unità di conto, ed è a questo punto che entriamo nel­l'am­bito di una valutazione quantitativa vera e propria. Ma è anche a questo punto che il legame con l'intervallo attualmente percepito si allenta e si fanno avanti semmai le pure possibilità di partizione alla cui base vi è piuttosto il pensiero di un intervallo come grandezza misurabile. Naturalmente, nel nostro esempio, il tono è un interval­ lo autentico, cioè un intervallo che non solo può essere effet­ tivamente percepito, ma è presente nella pratica musicale ed è giustificato da considerazioni sistematiche. Tuttavia, in quanto unità di misura, esso dipende da una nostra scelta in via di principio arbitraria, da una nostra decisione che non ha bisogno di partico­ lari giustificazioni anche se potrebbe avere i propri buoni motivi. Il vero senso dell'intervallo come unità di conto, e il suo presup­ porre il pensiero dell'intervallo, si comprende dunque meglio se si sottolinea che esso può anche non essere un intervallo autentico, ma una entità teorica che viene riferita al pensiero astratto dell'in­ tervallo come una grandezza esattamente misurabile. In effetti la teoria musicale si è spesso avvalsa di "intervalli" che non sono intervalli autentici, e la cui natura meramente teorica di unità di 70 conto diventa del tutto esplicita. In realtà l'intervallo come unità di conto e l'intervallo come unità effettivamente interveniente in un sistema musicale sono cose radicalmente differenti. Quando esso vale musical­mente non vale come unità di conto e inversamente. A questo proposito è interessante un riferimento conclusivo su Aristosseno. Nell'antichità le misure aristosseniche degli inter­ valli erano obbiettivi polemici privilegiati - a cominciare dall'idea di semitono che Aristosseno intendeva letteralmente come metà di un tono. Questa possibilità era contestata ovviamente dal sosteni­ tore pitagorico dell'intervallo come rapporto, non essendoci lo­ gos corrispondente alla radice quadrata di 9/8. Secondo le nostre consi­derazioni, naturalmente Aristosseno avrebbe avuto tutte le sue buone ragioni per controbiettare che una simile negazione era con­traria all'evidenza della percezione. Il dimezzamento di un inter­vallo concepita come operazione puramente uditiva è possi­ bile relati­vamente ad intervalli qualsivoglia. In questa direzione si è subito orientati dall'analogia con il segmento. Contestata - sempre con riferimento a calcoli relativi all'inter­ vallo inteso come rapporto - era anche la sua tesi secondo cui la quarta fosse esattamente divisibile in due toni ed in un semitono. In realtà, vi sono difficoltà interpretative, lacune e apparenti incon­ gruenze che non ci consentono di procedere con troppa sicurezza su questo punto, ma pur lasciando margini di incertezza laddove vi sono, è per noi interessante - perché in certo senso ci consente di ricapitolare numerosi problemi discussi in precedenza - intrattener­ ci proprio su questa misurazione. Nell'Armonica, Aristosseno tenta una vera e propria dimo­ strazione della tesi secondo cui la quarta consta di due toni ed un semitono - ed essa è caratteristica sia dell'impiego dell'analogia geometrica, sia della tendenza all'argomen­tazione logica che non è certo estranea a questo autore, nel quale il richiamo alla sensi­ bilità (ed ad una sensibilità che in cui si lasciano agire le compo­ nenti immaginative) si unisce ad un tempo la tendenza alla siste­ 71 mazione razionale ed il gusto dimostrativo-deduttivo. Intanto la rappresentazione dell'in­ter­vallo come "segmento" suggerisce di argomentare in rapporto all'interval­lo come si potrebbe argomen­ tare in rapporto ad un segmento, istituendo eguaglianze e diffe­ renze. Di ciò è effet­tivamente un bell'esempio la dimostrazione in questione. Essa può essere schematizzata [55] proponendo un segmento AB come figura dell'intervallo di quarta A B Ovviamente questa linea non ha nulla a che vedere con la rappre­ sentazione della corda, caratteristica dei nostri diagrammi prece­ denti, ma rappresenta appunto il plenum potenziale di suoni che vi è tra gli estremi A e B. Ora si determini la posizione di un di­ tono più grave di B e di un ditono più acuto di A: l'unica condi­ zione che deve essere rispettata, nella rappresentazione grafica, è che i punti C e D siano disposti in modo che AC=DB, essendo entrambi il risultato di una sottrazione dallo stesso segmento di segmenti di eguale grandezza. Si prenda ora D e si prenda la quarta inferiore ad essa, individuando il punto E, e così si indivi­ dui il punto F che contrassegna una quarta al di sopra di C. B quarta A ditono sopra A ditono sotto D quarta sotto D quarta sopra C A E C D quinta? B F 72 Poiché AD è eguale ad un ditono, l'intervallo EA deve essere eguale a DB, e dunque ad AC, ed analogamente il segmento BF sarà eguale ad AC, cosicché saranno DB=BF e EA=AC. Fin qui non vi è assolutamente nulla da eccepire. Il punto cruciale della dimostrazione è il seguente: occorre verificare udi­ tivamente se l'intervallo EF è una consonanza. A questo punto dunque ciò che era in effetti un'argomentazione puramente geo­ metrica, ha bisogno di un appoggio nella sensibilità. Se EF è una consonanza, e ammettiamo che lo sia, essa sarà una consonanza di quinta [56] . Ora essendo ED una consonanza di quarta per co­ struzione, DF ha necessariamente la grandezza di un tono essendo questo definito come differenza quinta e quarta, e ovviamente DB e BF dividono esattamente in due questa grandezza. La conclusione è che la quarta AB, da cui avevamo preso le mosse, è suddivisa in un ditono AD ed in un semitono DB che è la metà di un tono. Questa dimostrazione ha un punto cruciale: ed è esattamente quello in cui si abbandona il piano della riflessione sui segmenti che può perfettamente igno­rare quello degli intervalli e deve ri­ correre ad una verifica empirica: se l'intervallo EF sia o non sia una quinta. Tutto dipende di qui. Naturalmente, affinché si possa dare una risposta a questa do­ manda è necessario che si pervenga a questo punto cruciale, non solo ragionando in termini di segmenti, ma attraverso un cammino da perseguire con l'orecchio. In effetti, poiché ogni passo ha a che fare con una consonanza di quarta o di quinta, l'intera procedura può essere riportata ad operazioni di accordatura, quindi utilizzando il monocordo, non già per valutare i rapporti di lunghezza tra le corde, ma per accertare uditivamente gli intervalli consonantici. Nello schema seguente le linee rappre­sentano corde di un eptacordo, che sono indicate dalle stesse lettere che nel caso precedente per rendere più semplice il confronto. Le corde A e B saranno accordate in inter­ vallo di quarta. Per ottenere da una quarta un ditono, e quindi per determinare l'accordatura delle corde C e D Aristosseno stesso indica una procedura su/giù alternando quarta e quinta che richie­ 73 de l'impiego di una corda aggiuntiva, quella mediana che abbiamo indicato tratteggiata. Il resto non pone problemi [57] . E A C D B F Ma è finalmente il tempo di chiedersi: l'intervallo raggiunto se­ condo questa procedura è realmente una quinta? Lichtfield ha sperimentato su un monocordo ad otto corde, ed è giunto ad un risultato abbastanza prevedibile [58] : le differenze in questione sono così piccole che talora si ha persino la sensazione di sentire una discreta quinta, soprattutto se nel corso della procedura si accumulano errori anche minimi. Ma compiendo l'esperimento in modo molto accurato, non vi è dubbio che non si tratta di una "quinta giusta", si dovrebbe anzi pervenire ad una vera e propria quinta del lupo [59] ! (Es. 9 e 10*) La dimostrazione viene dunque a cadere sulla base di que­ sta verifica empirica, e non sulla base di calcoli. Per coloro che contestarono la tesi di Aristosseno, invece, questa era già falsa prima di ogni verifica empirica - per ragioni puramente calco­ listiche [60] . Nello stesso tempo, risulta chiaro il fatto che il tono di disgiunzione assume in questa dimostrazione un ruolo de­ 74 cisivo, e che il ditono di cui egli parla all'interno della quarta sia considerare come consistente di due toni "pita­gorici". Lichtfield conclude da tutto ciò che Aristosseno non fosse uno sperimen­ tatore eccelso, se non notò il problema, oppure se lo notò, non ne tenne in alcun conto nell'ela­borazione teorica di­mo­strando un atteggiamento teorico-speculativo poco interes­sato alle veri­ fiche empiriche [61] . Da parte nostra abbiamo premesso di non voler entrare in questa disputa, tollerando incertezze che ci sembrano difficili da risolvere. Ci interessa piuttosto rilevare come in Aristosseno vi sia una vera e propria seconda via per l'elabo­razione di que­ sto problema, che conduce ad un risultato molto differente e forse persino meno contestabile. Come abbiamo già notato è assai probabile che Aristosseno ammettesse la partizione pitago­ rica e i rapporti intervallari corrispondenti per quanto riguarda la teoria della consonanza. Ciò comportava che si facesse vale­ re come to­no per l'appunto la "differenza" tra quinta e quarta - come Aristosseno afferma anche definitoriamente [62] - e poiché quinta e quarta dovevano essere considerate come po­ sizioni fisse, il tono di disgiunzione resta, anche in Aristosseno, il tono pi­tagorico. Questo vale in particolare nell'ambito della teoria dei generi, come viene attestato da Aristosseno stesso quando scri­ve: "Nella varietà dei generi, si muovono solo le parti dell'in­tervallo di quarta, ma l'intervallo proprio della disgiun­zio­ne è fisso. Ogni melodia armonizzata, formata da più di un solo tetra­ tcordo, è divisa in congiunzione e disgiunzione. La congiun­zione è composta solo delle parti semplici della quarta, così che, almeno nella congiunzione, le parti della quarta dovranno neces­sariamente muoversi. La disgiunzione ha, oltre alle parti delle quar­ta, un inter­ vallo suo proprio, il tono. Se è stato dimostrato che questo tono, proprio della disgiunzione, non si muove nella varietà dei generi, evidentemente il movimento si avrà soltanto nelle parti della quar­ ta" (Meib. 61.5) [63] . Ma non è certo contrario allo spirito della posizione aristos­ 75 senica l'assumere sotto il termine di tono, anche grandezze diffe­ renti dal "tono di disgiunzione". In effetti Ari­stosseno propone una suddivisione della quarta in trentesimi - ecco un bellissimo esempio, forse il primo, di unità di misura puramente teorica [64]. Come intervalli più piccoli del semitono Aristosseno ammette ancora il terzo e il quarto di tono, e ritiene che quest'ultimo fosse l'unità minima musicalmente utilizzabile - tutti gli altri intervalli più piccoli vengono considerati "amelodici". Di conseguenza un intervallo che sia realmente un trentesimo di quarta non appar­ tiene al linguaggio musicale vigente. Si tratta dunque di un modo di concepire la partizione, che prende ancora le mosse dall'im­ ma­gine del segmento: se posso suddividere un intervallo in tre o quattro parti, nulla mi può impedire di "pensarlo" suddiviso in cinque, quindici, trenta, cento o mille parti. In via di principio l'unità di conto non ha bisogno di alcuna giustificazione mu­ sicale, e dunque può essere puramente convenzionale, presa a piacere - esattamente come posso proiettare su un rettangolo che mi appare privo di parti un'unità di misura piccola a piacere, e dunque una partizione sempre più fine. Non importa se questa unità non viene impiegata o addirittura sfugge alla possibilità di essere percepita. Il limite ed il criterio dell'a piacere - se trenta o trentamila - sara forniti da criteri di utilità in vista degli scopi che ci prefiggiamo. Per quanto riguarda Aristosseno è lecito ritenere che la sua proposta di divisione della quarta in trentesimi fosse in­ tesa a stabilire un qualche criterio di quantificazione del dato feno­ menologico in opposizione all'intervallo-rapporto dei pita­gorici, un criterio che fosse abbastanza fine da poter operare la differenza tra i generi e le loro sfumature [65] . Questo problema è del tutto assente nel caso della dimostrazione precedente. In base a questa suddivisione risulta interessante (ed anche elegante) determinare il "tono" a 12/30 di quarta ottenendo come "resto" il semitono a 6/30. Peraltro la scelta del trentesimo di quarta ha la sua origi­ ne e la sua motivazione da una riflessione sui piccoli intervalli. La differenza tra il terzo e il quarto di tono esibisce infatti un 76 intervallo che rappresenta la dodicesima parte del tono. L'unità teorica resta dunque agganciata agli intervalli vigenti nel sistema musicale pur non appartenendo ad esso (Es. 11 *). tono tono semitono semitono terzo tono terzo diditono quarto tono quarto didi tono Naturalmente va da sé che l'intervallo di quarta è qui corret­ tamente concepito come formato da due toni e un semi­tono, ma la grandezza del tono, determinata in questo modo, risulta leggermente inferiore al tono di disgiunzione [66]. Il tono di Ari­ stosseno indicato in 12/30 di quarta non è un tono "pita­gorico". In realtà, secondo lo spirito delle nostre ultime consi­derazioni questa circostanza potrebbe essere irrilevante, per il fatto che mentre il tono di disgiunzione è un intervallo "au­tentico" del sistema, il tono come 12/30 di quarta, così come il semitono a 6/30 ed anzitutto i trentesimi di quarta sono unità di conto la cui utilità sta fondamentalmente nel tentare una quanti­ficazione della fluttuazione della lichanos e della fluttua­zione conseguente della parhypate, e quindi delle differenze tra i generi e tra le loro sfumature. Ciò non toglie­rebbe l'incon­gruenza con la via prece­ dente che diffi­cilmente si riesce a con­ciliare con questa [67] . Ma mentre la prima via potrebbe essere considerata erronea sia sotto il profilo calcolistico, sia sotto quello "osservativo", la seconda - se la lettura che abbiamo proposto è corretta - sembra essere esente da errori e incon­gruenze interne. Stando a questa impo­ stazione risulta una conseguenza notevole: l'intervallo di quarta risulta suddiviso in modo "equalizzato" - come è ovvio; ma se si volesse tentare di giustificare a partire di qui l'idea secondo cui Aristosseno avrebbe anticipato di secoli il temperamento equa­ 77 lizzato dell'ot­tava si commetterebbero due errori: anzitutto, la suddi­visione equalizzata riguarda qui solo l'intervallo di quarta e non si estende all'intera ottava [68] ; il secondo errore, assai più grave, sarebbe la confusione tra un fatto che dipende da ragioni squisitamente musicali come è il temperamento equalizzato e un problema che riguarda invece la pura e semplice misurazione della grandezza degli intervalli [69] . 78 2. Matematica dell'intervallo Concludiamo questa nostra esposizione ritornando alla nozione oggettiva dell'intervallo - dunque all'intervallo come rap­­porto. Risulta da tutta la nostra esposizione che questi due modi di con­ cepire l'intervallo possono perfettamente coesistere l'uno con l'al­ tro per il semplice fatto che si pongono su terreni differenti, e tanto più lo possono quanto più questa differenza viene chiara­ mente tenuta ferma. Ora che abbiamo es­plo­­rato a sufficienza il versante fenomenologico, converrà aggiungere poche cose sulla matematica dell'inter­vallo, anche se esse si potrebbero dare per note. Vorrei infatti indicare i passi per l'introduzione del "cent" come unità di misura intervallare ormai diventata da tempo di impiego comune. Di essa si possono trovare spiegazioni nei ma­ nua­li. Tuttavia credo che sia opportuno ricapitolare questi passi in modo da mostrare come questo problema si possa situare nella cornice dei temi emersi nel corso della nostra discussione. Come abbiamo visto il numero entra nelle considerazioni intervallari attraverso la lunghezza delle corde. E così il rapporto tra numeri come rapporto tra queste lunghezze. Abbiamo anche notato che, nella teoria greca, il rapporto numerico non si incon­ tra con la teoria fisica - questo incontro è molto tardo e diventa possibile solo quando la teoria fisica è giunta ad un grado suffi­ cientemente avanzato di evoluzione e la nozione di frequenza può essere concettualmente formulata con chiarezza e dominata prati­ camente per gli scopi sperimentali. Quando ciò avviene, il numero conta le oscillazioni del corpo sonoro - e si invertono le direzioni: a numero maggiore corrisponde suono più acuto, a numero mi­ nore suono più grave, mentre in precedenza a lunghezza maggiore 79 suono più grave, a lunghezza minore suono più acuto. Ma per quan­­to riguarda la "grandezza" degli intervalli essa è sempre mi­ surata dai rapporti, ora precisamente dai rapporti tra le frequenze che, per quanto riguarda gli intervalli consonanti, ci riportano alle proporzioni pitagoriche alle quali dànno una definitiva conferma. Cosicché l'ottava più acuta di un la pari a 440 Hz sarà pari a 880 Hz, l'ottava più acuta di questa a 1660 Hz, ecc. Infatti ogni numero deve trovarsi con il precedente nel rapporto di 2:1. La quinta all'acuto dello stesso la sarà pari a 660 Hz essendo 660/440 = 3/2 ecc. In generale si otterrà una successione di intervalli eguali mantenendo per ogni elemento della successione il rapporto carat­ teristico dell'intervallo con l'elemento immediatamente preceden­ te. Avendo di mira la nozione di intervallo, potremmo parlare anche, in luogo di successione, di ciclo di intervalli, dunque ciclo di ottave, ciclo di quinte, di quarte, ecc. Quando il rapporto tra ele­ menti successivi di una successione resta costante, la successione è per definizione una successione (o progressione) geometrica. Poiché la particolarità dei casi è priva di interesse, possiamo prescindere dal numero di frequenza iniziale, sostituendo ad essa il puro rapporto intervallare. Così per un ciclo di ottave si avrà la successione 2 4 8 16 32 .......... Notiamo allora subito che ogni elemento di una simile progres­ sione può essere interpretato sia come derivato dall'ele­mento precedente con una operazione di raddoppio sia come risulta­ to dell'elevazione della "ragione" della progressione (il rapporto costante, in questo caso pari a 2) alla potenza del suo numero di posizione. 2, 4, 8, 16, 32... risultato della elevazione a potenza 1, 2, 3, 4, 5.... esponente (numero di posizione) 2, 2, 2, 2, 2.... base 80 In generale: la formula generatrice di una progressione geome­ trica sarà dunque rappresentata da una funzione espo­nenziale di forma Rx essendo R la ragione e x una variabile che varia sull'insieme dei numeri naturali. Per ottenere un ciclo di ottave a partire da una determinata frequenza, si moltiplicherà tale frequenza per cia­ scun elemento della successione 2x. Così per ogni altro interval­ lo. Si noti che la serie degli esponenti è una progressione aritmeti­ ca di ragione 1 (la differenza tra un elemento e il precedente è pari ad 1). A partire da questa impostazione del problema sotto il pro­ filo matematico dobbiamo chiarire che cosa debba significare suddividere un intervallo o moltiplicarlo, che cosa sommare un intervallo all'altro oppure fare la differenza tra essi. Ora non si tratta più di cercare dei metodi per realizzare uditivamente inter­ valli, ma di effettuare calcoli. Ad es. avendo un intervallo carat­ terizzato dal rapporto R, il suo raddoppio occuperà la seconda posizione nella serie, la sua triplicazione la terza posizione, ecc., e di conseguenza il raddoppio sarà pari alla R2, la triplicazione ad R3, ecc. La suddivisione in due, tre, ecc. corrisponderà alla opera­ zione inversa, ovvero all'estra­zione della radice corrispondente. Così, come abbiamo già mostrato discutendo della linearizza­ zione pitagorica dell'inter­vallo, la "somma" tra intervalli andrà realizzata calcolisticamente come moltiplicazione e la "differen­ za" come divisione tra i rapporti corrispondenti. Si noti come le espressioni "rad­dop­piare, triplicare ecc." così come "suddividere in due, in tre, ecc.", "sommare", "detrarre" riferiti agli intervalli non abbiano significato matematico diretto, cioè non si riferiscano alle operazioni su numeri - in quanto si riferiscono proprio agli intervalli, mentre non avrebbe senso parlare di estrazione di radice facendo riferimento ad un intervallo se non indirettamente, dal momento che si tratta piuttosto di un'o­perazione compiuta sul nu­ 81 mero caratteristico del rapporto inter­vallare. Ciò mostra come sia importante mantenere ferma la differenza tra il versante fenome­ nologico e il versante matematico, e nello stesso tempo correlarli correttamente. A questo punto tutto è predisposto per introdurre la mo­der­ na unità di misura degli intervalli. Come abbiamo visto nella considerazione dell'intervallo come logos il problema di una "linearizzazione" dell'intervallo sotto il profilo calcolistico si era imposto fin dal tempo del pi­ tagorismo antico, soprattutto al fine di superare la difficoltà dei calcoli frazionari e della possibilità di condurre agevolmente dei confronti. Questo stesso problema si è posto anche in tempi moderni seguendo una via predisposta dall'affina­mento dei me­ to­di di calcolo e in particolare dall'introduzione del concetto di logaritmo. Il punto di approdo è rappresentato dalla proposta da parte di Ellis nel 1884 dell'unità di misura che egli chiamò "cent" e che si è andata imponendo sempre più, anche rispetto ad altre alternative, concettualmen­te analoghe, come il "savart". Una discussione come la nostra che ha voluto mettere al centro dell'attenzione l'idea del­l'intervallo come percorso lineare da un punto ad un altro punto e l'idea di intervallo come rapporto può concludersi pro­prio nella considerazione del cent come unità di misura delle grandezze intervallari. Vediamo dunque di che si tratta. Anzitutto potremmo sem­ plicemente dire che il cent è la centesima parte del semitono temperato e dunque la milleduecentesima parte dell'ot­ta­va. In realtà, stando alle nostre considerazioni precedenti, potremmo introdurre questa nozione come uno pseudo-intervallo, ovvero come una unità teorica esattamente come nel caso del trentesi­ mo di quarta di Aristosseno. Si tratterebbe allora senz'altro di una unità che presupporrebbe la concezione lineare dell'intervallo, ignorando totalmente l'intervallo come logos - e sulla quale si po­ trebbe far di conto con semplici operazioni aritmetiche cor­ren­ ti. La metà dell'ottava risulterebbe essere pari a 600 cents, così 82 come un tono temperato a 200 cents ed una quinta tem­perata a 700 cents. In realtà questo sarà alla fine il risultato, ma esso viene conseguito collegando strettamente questa misura lineare all'idea dell'intervallo come rapporto. Il modo di questa connes­ sione è concettualmente piuttosto semplice. Anzitutto siamo in grado calcolare la milleduecentesima parte dell'ottava intesa come rapporto 2/1, considerando così il cent non solo come unità di misura teorica, ma anche come riconducibile calcolisticamente all'inter­vallo inteso come rapporto aritmetico. Sapendo infatti che per ottenere il rapporto dell'n_esima parte di un intervallo I, si dovrà fare la radice n_esima di I, essendo I = 2, il numero cercato sarà pari a Ora, questo numero, come ogni altro numero caratteristico di un intervallo, può essere assunto come base di una funzione espo­ nenziale Kx e dunque come elemento generatore della pro­gres­ sione geometrica corrispondente. Nella centesima posizio­­ne di questa progressione troveremo il numero K100, che è anche il numero caratteristico dell'intervallo del semitono temperato. Ogni intervallo dell'ottava può essere espresso in questo modo, ad esempio la quinta temperata da K700, ed ovviamente qualun­ que intervallo possibile all'interno dell'ottava (o superiore ad essa superando 1200). Si noti che il numero corrispondente ai cents compare in esponente al numero K. Di conseguenza per ottenere un certo rapporto intervallare I (che qui esprimeremo in numeri decimali per comprendere indifferentemente numeri razionali e irrazionali) espresso in cents occorrerà stabilire quale esponente deve essere attribuito a K per ottenere quel rapporto. È a questo punto che entra in scena la nozione di logaritmo. Il logaritmo di un numero I per una determinata base K è il nu­mero che deve essere dato in esponente alla base K per ottenere quel numero. 83 Dunque l'intervallo I espresso in cents è dato dal logaritmo di I su base K: LogK I Esemplificativamente: volendo calcolare il valore in cents di 1.5 (ovvero della quinta 3/2) si dovrà determinare LogK 1.5 = 701.967 Inversamente, se dati i cents vogliamo trovare il rapporto inter­ vallare corrispondente basterà elevare K al numero corrispon­ dente ai cents: K701.967 = 1.5 Naturalmente si useranno per lo più le cifre arrotondate quando non è necessaria una precisione maggiore. Poiché è sempre pos­ sibile passare dai cents ai rapporti intervallari espressi in numeri decimali, possiamo fare costante riferimento ai cents per indicare le grandezze intervallari, e poiché con i cents abbiamo a che fare con gli esponenti degli elementi di una progressione geometrica, che sono a loro volta in progressione aritmetica, po­tremo som­ mare, dividere, moltiplicare intervalli nel senso arit­me­tico consueto del termine, ed ogni intervallo sarà imme­diatamente confrontabile con l'altro per quanto riguarda la sua grandezza. In certo senso, dunque, con i cents ritorniamo all'inter­vallo linearmente inteso. L'introduzione dei cents ha avuto un notevole effetto libera­ torio per quanto riguarda lo studio dell'intervallistica musicale ve­ nendo a cadere proprio in un periodo in cui la musicologia euro­pea si apriva alle civiltà musicali extraeuropee e si diffondeva la consa­ pevolezza della necessità di evitare di appiattire le varietà scalari sui modelli di tradizione europea. Il cent naturalmente viene costrui­ to non solo con riferimento all'ottava ma anche al tempe­ramento 84 equalizzato - il nome stesso rimanda al semitono temperato. Ma ciò non implica nessun pregiudizio nel suo impiego - trattandosi se mai di una semplificazione in più in quanto con­sente di sta­bilire confronti immediati con intervalli del sistema temperato. Per concludere: abbiamo voluto indugiare in una spie­gazione del problema anche perché sull'intera questione si è for­se specu­ lato più del dovuto. C'è chi ha sostenuto che essen­do l'intervallo per la percezione una grandezza che si somma, divide, ecc., allora la percezione stessa lavora con i logaritmi, quasi che avessimo nella nostra testa delle tavole pronte alla consultazione o che di volta in volta nell'ascolto dei suoni e dei rapporti intervallari si effettuassero calcoli diretti, a quanto sembra, piuttosto complicati. Talvolta si è arrivati ad affermare che gli intervalli con rapporti irrazionali sono più difficili da afferrare proprio per la difficoltà dei calcoli da effettuare che finiscono con l'affaticare la mente. Posizioni come queste sono solo il frutto di un'ingenua episte­ mologia. Il sommare e il dividere inter­valli sul piano fenomenolo­ gico non implicano nessuna ope­razione aritmetica vera e propria, cosicché non ha nessun senso assumere che nella percezione degli intervalli vi sia una trasformazione calcolistica da una progressione geo­metrica ad una progressione aritmetica. Il logaritmo c'è solo quando viene effettivamente impiegato nei nostri calcoli. Esso è, in particolare, il mezzo essenziale per introdurre una unità di mi­ sura come il cent che si affaccia su entrambi i versanti: anzitutto rimanda ad una conce­zione lineare dell'in­ter­vallo che rispecchia il dato fenomeno­logico. Come abbiamo notato or ora, si potreb­ be introdurre il cent come unità teorica minima di suddivisione dell'ot­tava esattamente come nel caso del trentesimo di quarta di Aristos­seno. Si assume un intervallo per­cepito - l'ottava, nel no­ stro caso - e lo si pensa come suddiviso in milleduecento parti. Il milleduecentesimo di ottava non solo non ha alcuna realtà musi­ cale, ma nemmeno una qualche consistenza percettiva. Ciò non toglie che possa assolvere, anche concepito in questo modo, una certa funzione quantificatrice. Se parliamo di un intervallo di 80 85 cents, posso almeno farmi un'i­dea della sua grandezza, e questo non in forza di calcoli, ma dal fatto che 100 cents ha ricevuto un significato intuitivo essendo una quantificazione del semitono temperato a noi uditivamente ben noto. Analogamente se parlo di 704 cents oppure di 1150 cents - i numeri insegnano subito qualcosa intorno alla gran­dezza dell'inter­vallo, anche se un'idea concreta della grandezza può essere suggerita solo dal riferimento ad intervalli che hanno per me un significato uditivo specifico, come la quinta o l'ottava. Ma soprattutto il cent, come misura costruita calco­listi­ camente a partire dal rapporto, diventa il tramite che introdu­ ce al terreno in cui il suono è anzitutto frequenza e l'intervallo rapporto tra frequenze, che è anche il terreno di quei calcoli che sono necessari se vogliamo non solo contemplare il fenomeno, ma anche conoscerlo e costruirlo. 15 10 5 10 20 30 40 50 86 Note [1] Regino Prumiensis, De Harmonica institutione: "Et hanc differentiam appellant musici intervallum, arithmetici vero sesquioctavam proportionem. Di­ citur autem intervallum soni acuti gravisque distantia". In questo passo si parla anzitutto dell'intervallo di tono, considerato come inter­vallo di base; operando poi una generalizzazione ad ogni differenza di altezza tra suoni. Cfr. Thesaurus Musicarum Latinarum, TML, http://www.­music.­indiana.­edu/tml/start.html. In questo sito è presente anche un efficiente motore di ricerca sui testi in esso pubblicati. [2] L. Zanoncelli, La manualistica musicale greca, Guerini, Milano 1990, p. 39 (in seguito indicato con L.Z.). Luisa Zanoncelli ha arricchito la traduzione dei trattati con un commento assai denso al quale si rimanda per spiegazioni più dettagliate. [3] L. Z., p. 155. [4] Teone di Smirne, Esposizione delle conoscenze matematiche utili per la lettura di Platone. Si può leggere questo testo nella trad. franc. con testo a fronte di J. Dupuis, Paris, 1892, p. 97. [5] E. A. Szabò, The Beginnings of Greek Mathematics, Reidel, Boston 1978: "Clearly the Pythagoreans wanted to show that other kinds of expe­riments led to the same proportional numbers for the consonances as did those origi­ nal experiments with the monochord and canon. This explains why these same Pythagoreans could subsequently hold the view that the empirical method used to ascertain the proportional numbers of the consonances was a secondary matter. The actual numerical ratios of consonances which had been established once and for all were important to the Pythagoreans, not the empirical method used to ascertain them" (p. 121). [6] Secondo quanto sostiene A. Szabò, op. cit., il termine logos aveva ori­ ginariamente nel linguaggio corrente il significato di "una serie di cose", "una collezione di certi oggetti o di numeri" e di qui assume un significato più tecnico come "relazione tra due numeri", venendo a far parte del linguaggio matema­ tico e musicale. L'ambivalenza con il significato di "ragione", "pensiero" e simili, sorge nel contesto della filosofia pitagorica sorge. "There are innumerable passages from the literature on the theory of music which could be quoted to show that on some occasions it is not at all easy to distinguish sharply between these two meanings (logos as 'numerical ratio' and logos as 'understanding' or 'reason')"(p. 169). "This ambiguity in the meaning of the word logos (relation between two numbers, and rational thought or reason) was naturally of considerable impor­ tance for those Pythagoreans who wanted to view the 'rationale' of the universe in terms of number" (p. 170). [7] T. Gomperz, Pensatori greci, I, trad. it. Nuova Italia, Firenze, p. 159: "È questa una delle imprese più fortunate che conti al suo attivo la storia della scienza" 87 (corsivo mio). "Poiché mentre in altri casi - si pensi alla legge della caduta dei gravi e a quella del movimento - le leggi fondamentali rimangono profonda­ mente nascoste… qui bastò l'esperienza più semplice che si possa immaginare per mettere in piena luce un principio al quale è sottoposta un'immensa cerchia di fatti della natura. Gli intervalli tra i suoni (di quarta, di quinta, di ottava, ecc.) distinti fino ad allora con sicurezza soltanto dall'orecchio fine ed esercitato del musicista, senza poterli ricon­durre a cause intelligibili ed esattamente identifica­ bili, venivano ora legate a rapporti numerici stabili e chiari. Era posta la base di una meccanica dei suoni: quale altra meccanica poteva, dopo ciò, apparire inac­ cessibile? Grande fu l'entusiasmo provocato da questa meravigliosa scoperta..." (p. 160). [8] In termini moderni: la radice quadrata di 9/8 è un numero irrazionale. Il dimezzamento di un rapporto era affrontato attraverso considerazioni sulla media geometrica dei suoi termini. Nella Divisione del canone attribuito ad Euclide si dimostra al punto 3 che "di un intervallo espresso da un rapporto superparti­ colare non si dànno né uno né più medi in proporzione geometrica" ed al punto 16 si ribadisce che per questa ragione "il tono non è divisibile in due o più parti equali". Cfr. L.Z. p. 43 e p. 53. [9] Venivano chiamati epimori, secondo la terminologia greca, oppure superparticolari, secondo la terminologia latina, i rapporti di forma (n+1)/n. Il modello era appunto rappresentato dalle consonanze di base. [10] Cfr. André Barbera, The consonant eleventh and the expansion of the musical Tetractys: a study of ancient Pythagoreanism, Journal of Music Theory, vol 28, 1984 pp. 191-223. Molto indicativa anche la teoria dei gradi di consonanza di cui par­ la Tolemeo fondata su trasformazioni calcolistiche dei rapporti intervallari. Su questa teoria come sul problema del carattere consonantico della ottava+quarta prende posizione Tolemeo, La scienza armonica, 1.6, ora finalmente nella bella traduzione italiana curata da Massimo Raffa (ed. Edas, Messina 2002), che ha fatto opera meritoria nel corredare questa traduzione con un vasto commento. Ad esso si rimanda, in particolare pp. 302 seg., per un più diffuso esame delle teorie indicate. [11] Terzo postulato: "Che si possa descrivere un cerchio con qualsiasi centro e distanza (di‡suhma)". Cfr. André Barbera, Arithmetic and geometric divi­ sions of the tetrachord, "Journal of Music Theory", 1977, n. 21, p. 300. [12] Ho accennato a questo problema in Numero e figura. Idee per un'episte­ mologia della ripetizione, reperibile in Internet, Archivio di Giovanni Piana, Dipar­ timento di Filosofia, Università di Milano. [13] Nella figura, tratta da B. Münxelhaus, op. cit, fig. 11, il martello levato in alto allude appunto al tono tra la quarta e la quinta. [14] Questa posizione è tipica proprio del pitagorismo ed è formulata con chiarezza da Giamblico: l'aritmetica sta prima di ogni altra disciplina matematica perché è la più lontana della realtà empirica, mentre la geometria ha un presup­ posto nella corporeità sensibile delle cose. Cfr. Sulla introduzione all'aritmetica di 88 Nicomaco, trad. it. con testo a fronte a cura di Francesco Romano, in Giamblico, Il numero e il divino, Rusconi, Milano 1995, p. 213 [15] L'interesse dei pitagorici per strutture ricorsive spesso non è nemme­ no accennata in celebrati sommari di storia della matematica - ad es. M. Kline, Storia del pensiero matematico, Einaudi, Torino, 1991. [16] L. Z. p. 155-156 [17] op. cit., p. 133. [18] Ad essere precisi: il lato da pizzicare è quello sinistro nella misura in cui la suddivisione avviene a partire da sinistra, ad es. 2/3 sono contati da sini­ stra. Altrimenti varrebbe l'inverso. Si tratta dunque di pizzicare la parte più estesa della suddivisione, che nei nostri esempi si trova a sinistra. [19] Per rendere chiaro il problema ci siamo permessi alcune sem­ plificazioni, in particolare l'impiego dello zero. A. Szabò (op. cit. p. 127) sottolinea che, non essendoci un simbolo corrispondente allo zero, la lunghezza dei seg­ menti veniva indicati da un solo numero. Nostra è in effetti anche la indicazione mediante coppie di numeri, oltre che le rappresentazioni grafiche. [20] Nel calcolo con le frazioni: 12/8 : 12/9 = 9/8. [21] A. Szabò, op. cit., p. 141. Viene così a cadere l'opinione espressa da L. Laloy, Aristoxène de Tarente et la musique de l'antiquité, Parigi 1904, pp. 49-50, secondo cui il pitagorismo più antico non avrebbe potuto essere in grado di riconoscere come 9/8 il rapporto differenziale tra la quinta e la quarta, non es­ sendo in chiaro sul fatto che una differenza di intervalli si esprime attraverso un quoziente di rapporti. [22] Nel calcolo con le frazioni: 12/9 * 9/6=2 e 12/8 * 8/6=2. [23] Istituzioni Harmoniche, Venezia 1589, libro III, cap. III. Edizione in Cdrom: Gioseffo Zarlino, Music Treatises, Thesaurus Musicarum Italicarum, sotto la direzione di Frans Wiering, Università di Utrecht. Tutti i riferimenti a Zarlino sono tratti da questa edizione digitale. [24] Va da sé che il numero e i calcoli puri e semplici possono sostituirsi interamente ai diagrammi ed al monocordo che essi richiamano. Ad esempio, in Gaudenzio, Introduzione all'armonica, L.Z., p. 327, la forma modificata del quater­ nario viene estesa mediante raddoppi cosicché essa diventa - come nei nostri diagrammi sulle medie - 6 8 9 12 16 18 24. Questa estensione ha di mira il pro­ blema di un aggiustamento dello schema di base per "legittimare" la consonanza di undicesima (8/3) - a questo problema abbiamo accennato in precedenza. Egli formula infatti le consonanze fondamentali mettendo in rapporto ciascun nume­ ro con 24 cosicché il carattere consonantico di 24/16 ovvero di 8/3 veniva ad es­ sere giustificato essendo inserito, mediante una struttura coerente di calcolo, nella serie delle consonanze. Ma un punto rilevante dell'esposizione di Gaudenzio è quello di un utilizzo delle quantità numeriche indipendentemente da riferimenti diagrammatici e in ultima analisi monocordisti. In effetti egli, per determinare la grandezza del limma pitagorico, non fa altro che fissare un numero scelto a piacere - ma naturalmente in modo conveniente in vista del risultato - costruendo, a par­tire da esso, una 89 successione i cui numeri vengono determinati nell'ordine secondo il rapporto con il numero che precede. La quarta, a partire da un suono iniziale qualsivoglia convenzionalmente rappresentato dal numero 64, sarà costituita da 72, 81, x da determinare, 255/3 in quanto 72 con 64, 81 con 72, 255/3 con 64 stanno rispet­ tivamente nel rapporto 9/8, 9/8, 4/3. Il problema di determinare la x è in questo modo cosa fatta essendo pari al rapporto tra 255/3 e 81. Il passaggio ad un puro aritmetismo è qui del tutto chiaro. Non vedo invece come si possa sostenere che questa modificazione implichi un passaggio da una concezione causalistica del rapporto numerico propria del pitagorismo più antico ed una concezione secondo la quale il numero sarebbe "metafora" come dice André Barbera, art. cit.: "By admitting the eleventh into the category of consonance, Gaudentius apparently aknowledges the empirical fact of eleventh's consonance. By creating the numerical heptactys that accomodates the eleventh, he provides a numerical metaphor for apparent acoustical truth. In so doing, he relies on those same nu­ merical quaternaries that had excluded the eleventh by their causal nature. Thus the characterization of the consonant eleventh as 24/9 indicates the demo­tion of numerical ratios from cause to metaphor in Pythagorean harmonics" (p. 207). Come abbiamo cercato di spiegare fin dall'inizio, il rapporto numerico non vale tanto come "causa" quanto come condizione di intelligibilità. Questa è la prima obiezione che si può fare al passo citato. Non si vede poi su che cosa si possa sostenere l'idea dell'impiego metaforico del numero e resta persino dubbio che abbia senso in questo contesto parlare di metafora in genere. [25] Thomas Christensen, Rameau and musical Thought in the Enlightenment, Cambridge University Press, 1993, p. 85: "Whereas it was easy for canonists to show on the monochord how the octave when divided could generate subse­ quent intervals, no such demonstration was available when intervals were under­ stood only as ratios of frequencies". [26] Quando Zarlino si pose il problema di una giustificazione teorica come consonanza della terza maggiore e della terza minore e della determina­ zione del rapporto, assunse il rapporto di quinta come intervallo da ripartire de­ terminando in rapporto ai numeri 1 e 3/2 come estremi dell'intervallo la media armonica e la media aritmetica. In altri termini propose la proporzione seguente 1 : a = b : 3/2 determinando a=terza maggiore=media aritmetica= 5/4 e b=ter­ za minore= media armonica = 6/5 ottenendo così la proporzione 1 : 5/4 = 6/5 : 3/2. La struttura dell'argomentazione era ancora nettamente pitagorica. Il mo­ dello della partizione dell'ottava attraverso le medie veniva strettamente riporta­ to sull'intervallo di quinta. E così facendo si otteneva ancora un risultato a suo modo straordinario: i rapporti si mantenevano "epimori", e dal "quaternario" si passava al "senario" per aggiunta del 5 e del 6. - In via di principio nessuna giustificazione di ordine percettivo-musicale avrebbe dovuto essere ricercata per questa estensione, così come per la determinazione della grandezza dei rispet­ tivi intervalli. La bontà dell'intervallo dovrebbe risultare garantita a priori dalla procedura del calcolo. E tuttavia vi è chi ritiene che la terza "zarliniana" sia, in 90 se stessa e al di fuori di ogni preciso contesto musicale, migliore per l'udito di qua­ lunque altra terza… - G. Zarlino, ed. cit., Dimostrationi harmoniche, Ragionamento I, Proposta XX: "Diviso l'intervallo Sesquialtero da un mezano termi­ne harmoni­ co, ne nasce un Sesquiquarto & un Sesquiquinto". [27] Giamblico, Introduzione all'aritmetica di Nicomaco, trad. it. cit., p. 349: "Si dice che essa sia stata scoperta dai Babilonesi e che sia giunta in Grecia per la prima volta attraverso Pitagora…". Così comincia un'ampia esposizione della proporzione - pp. 349-357. [28] I passi citati da Aristosseno si attengono in linea di massima alla tra­ duzione italiana curata da Rosetta Da Rios, Aristosseno, L'armonica, Roma 1954, introducendo senza particolare avviso le modificazioni che ci sono di volta in volta sembrate opportune. [29] Credo che la traduzione proposta sia accettabile: to\ e)/rgon può valere infatti anche come prodotto, manufatto - con marchingegno si accentua l'elemento di artificiosità. In Meib. 40.31 questa espressione viene tradotta da Rosetta Da Rios con "un fatto che colpisca gli occhi". [30] L'espressione diacr‡mmata viene resa da Rosetta Da Rios con "figure geometriche". [31] A. Bélis, Aristoxène de Tarente et Aristote: le Traité d'harmonique, Klicksieck, Paris 1986, sottolinea che "le 'canon harmonique' donne une lecture visuelle de phénomènes auditifs… Dans cette experience, la vue donne d'une certaine manière les 'semences du savoir', comme dit Boèce" (p. 68). Teone di Smirne parla di intervalli "sensibili e visibili" (trad. franc. cit. p. 114) - e la visibilità di cui qui si parla è quella delle misure dei rap­ porti visti sul monocordo, quindi in un'accezione interamente diversa da quella di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. [32] Aldo Brancacci, Aristosseno e lo statuto epistemologico della scienza armonica, in Le scienze ellenistiche, a cura di G. Giannantoni e M. Vegetti, Na­ poli 1984. Brancacci critica una interpretazione di Aristosseno che tenda ad esasperare gli aspetti sensistici empiristici, mentre porta l'accento sul fatto che, come soprattutto risulta dal Terzo libro del­l'Armonica, la sua teo­ rizzazione della scienza armonica "risulta incon­cepibile in un'ottica pura­ mente sensualista". [33] Szabò, op. cit. 113. Secondo Szabò, la parola diastema nel senso di "a real and concrete straight lines which was measurable in length" per indicare il rapporto intervallare precede presso i pitagorici l'impiego della parola logos: ciò spiegherebbe anche per quale motivo si parlerà di estremi (oroi) di un rapporto aritmetico. Il termine è in effetti appropriato anzitutto alle linee ed ai segmenti. È in ogni caso Aristosseno ad aver dato alla parola un significato metaforico (p. 112). [34] L'argomentazione di Aristosseno relativa alla grandezza della quarta, 91 di cui tratteremo in seguito, ha indubbiamente la rappresentazione dell'interval­ lo-segmento come filo conduttore. [35] La scarsa chiarezza sulla differenza tra livello concreto (la corda del monocordo) e livello metaforico (l'intervallo "figurato" come segmento) talora rende confuso il dibattito teorico. A mio avviso, un esempio di questa confu­ sione è presente nella discussione di Tolemeo contro gli aristossenici, quando obietta che le grandezze lineari possono essere diverse per lo stesso intervallo osservando che "nella costruzione degli stumenti non si baderà neppure che le distanze che producono l'ottava siano sempre le stesse, ma anzi si baderà che siano più brevi nelle tessiture più acute" (Scienza armonica, 1.9, ed. cit. p. 120). Una simile obiezione non può evidentemente toccare la posizione di Aristosse­ no. Analogamente la dimostrazione, che segue immediatamente, sulla differenza di grandezza tra quinta ascendente da una nota e quinta discendente dalla sua ottava acuta riguarda unicamente gli spostamenti del ponticello sul monocordo e non ha nessun senso in rapporto ad una rappresentazione lineare dell'intervallo. [36] Vi è una sorta di singolare resistenza nelle traduzioni a rilevare in questo termine di fantasi/a qualcosa che abbia a che vedere con l'immagina­ zione. A. Bélis parla semplicemente di "représentation sensibile", op. cit., p. 194. Nella traduzione di R. Da Rios, il richiamo alla "fantasia" viene soppresso e sostituito con "le impressioni della percezione". Questa stessa formula compare subito dopo "kat‡ t-n t"w a™su-sevw fantas›an" in 9.2 reso ancora con "le impressioni della percezione". Nel luogo in cui Aristosseno afferma che le considerazioni delle grandezze eguali o diseguali "non sono nulla "pr¦w t-n t"w a™su-sevw fantas›an" (Meib. 48.23) il termine viene tradotto con "rappre­ sentazione della percezione". - A sua volta, Gogava con il suo "videtur sensui" (per il passo 9.2) nella traduzione latina di Aristosseno pubblicata a Venezia nel 1562, sopprime semplicemente la parola (Aristoxeni Musici antiquissimi Harmoni­ corum elementorum libri III,… Omnia nunc primmum latine conscripta et edita ab Ant. Gogavino Graviensi. Venetiis, aput Vincentium Valgrisium, 1562,p. 10). [37] Gogava traduce con "tensio": "cessat in una tensione, deinde rursus in altera..." (op. cit. p. 10). Forse più interessante la traduzione che di questo termine propone Giorgio Valla nella traduzione latina di Cleonide. Egli lo rende con "tenor" che indica piuttosto un movimento che persiste nella stessa direzio­ ne. Cleonidae Harmonicum introductorium / interprete Georgio Valla (…), Venetiis : per Simonem Papiensem dictum Bivilaquam, 1497, p. 5. [38] Ad es. Cleonide, Introduzione all'armonica, in L. Z., p. 79. [39] Rispettivamente intensio e remissio nella traduzione di Cleonide di Giorgio Valla. In Platone questi due termini sono esplicitamente utilizzati con riferimento alle corde della lira. Cfr. Repubblica, I, 349e. [40] Si tratta dello stesso termine ("tenor") impiegato dalla traduzione di Valla in Cleonide, cfr. supra n. 37. [41] Sopplimenti musicali, Libro II, cap. I, Venezia 1588, p. 45. Cfr. anche Dimonstrationi harmoniche, Definitione prima: "Il suono è cadimento di Voce atta 92 alla modulatione, fatto sott'una estensione". Riferendosi ad Aristosseno, Zarlino contrappone esplicitamente questa definizione a quella di Boezio, più orientata in direzione fisica, secondo la quale il suono è "ripercussione d'aria che vien fino all'udito", osservando che "il Musico considera 'l suono in un'altra maniera, di quel che lo definisce Boetio". [42] ivi. [43] Si comprende perciò che l'espressione to/poj possa essere impiegata sia per l'intervallo tra posizioni sia per le posizioni che stanno ai suoi estremi. Gaudenzio usa to/poj per indicare "l'altezza nel senso di luogo come posizione nello spazio sonoro" L.Z. p. 355. [44] Gli fa eco Zarlino: "Non dico già, che la Voce non si faccia per il Moto, accioche alcuno non credesse, ch'io volessi inferire che'l Moto alcuna fiata non si muouesse, ma stesse & riposasse; dico bene, che con questa voce Tensione, ò con qual si voglia altro nome, che fusse più convenevole à questa cosa, s'intende l'Equalità o (per dir cosi) l'Identità del Moto; percioche allora diciamo laVoce stare & esser ferma, quando udimo che ella non passa ne verso l'acuto ne verso'l grave; ma rimane in una qualità istessa" - Sopplimenti musicali, op. cit., p. 45. [45] Per esse si rimanda in particolare al testo di Annie Bélis, Aristoxène de Tarente et Aristote: le Traité d'harmonique, op. cit., ed all'articolo della stessa Bélis, Le "nuances" nel Trattato di Armonica di Aristosseno di Taranto, in "De Musica", Internet, Anno III (1999). [46] A. Bélis, op. cit., p. 178: "Or, l'oreille est sensibile à la forme que prend un système, bien plus qu'à l'étendue d'un intervalle: ou plutôt, l'oreille in­ teprète synthétiquement les intervalles qu'elle perçoit en le rattachant à une sèrie particulière, ou à une structure ; perception plus qualitative que quantitative, qui depasse la seule considération des grandeurs". Per Aristosseno "il est clair que les dénominations sont relatives, et qu'une note n'est pas baptisée dans l'absolu, mais en function des relations qui la lient à un autre note, dans une structure harmo­ nique donnée" (p. 180). [47] Di fatto la posizione di Aristosseno è molto articolata, tende a fissare in ogni caso con esattezza i limiti di movimento delle note mobili all'interno del tetracordo e in particolare nel terzo libro dell'opera prevede regole ben definite per realizzare una "buona" organizzazione scalare. [48] Diesis (d›esiw) indica in Aristosseno gli intervalli più piccoli (il terzo e il quarto di tono). [49] Una parte consistente della polemica che Aristosseno rivolge agli "ar­ monisti" riguarda la cosiddetta teoria della katapyknosis (katap´knvsiw). In che cosa consistesse questa teoria, è difficile dire, ma sembra in ogni caso certo che i sostenitori di quella teoria assumessero la possibilità concreta di una suddivisione del tetracordo in piccolissimi intervalli, apprezzabili all'udito ma non "misurabi­ li" al monocordo, essendo ottenibili solo con la tensione della corda e non con un movimento apprezzabile del ponticello. Così spiega Flora R. Levin, Synesis in 93 Aristo­xenian Theory, Transactions and Proceedings of the American Philological Association, CIII - 1972, pp. 211- 234, in particolare p. 220. [50] Louis Laloy, Aristoxène de Tarente et la musique de l'antiquité, Paris 1904, p. 178: "Il disprezzo con il quale Aristosseno parla dell'aulos dipende appunto dalla facoltà che possiede questo strumento di alterare a volontà, in una misura abbastanza larga, l'altezza dei suoni; l'aulos è per lui uno strumento falso per natura, indegno a servire all'insegnamento della musica". [51] Sul problema si veda Richard Crocker, Aristoxenus and Greek Mathe­ matics, in Aspects of Medieval and Renaissance Music, New York 1961, pp. 96-110. Il dubbio or ora formulato mi sembra valga in particolar modo per questo saggio che talora sembra far sospettare che tutta la elaborazione di Aristosseno derivi da una riflessione sui numeri irrazionali. [52] Andrew Barker, Music and Perception: A study in Aristoxenus, "Jour­ nal of Hellenic Studies", 1978, p. 13: Barker rammenta anche l'imnportan­ za conferita da Aristosseno alla memoria e così sintetizza la sua posizione: "Speculatively, we might reconstruct his position as being that perception identifies intervals, and memory stores their sequence, thus creating the material for the sort of 'context' mentioned above; while the role of dia­ noia is to identify the sequences not merely as sequences of intervals, whi­ ch would be musically meaningless, but as forming or implying structures which the notes stand in functional relationships to each other". Nel più ampio saggio del 1984, Aristoxenus' Theorems and the Foundations of Harmonic Science, ("Ancient Philosophy"), 4, 1984, Barker ribadisce che "Thought must be applied to the data given to our hearing. It is therefore no sur­ prise to find him asserting that it is by hearing that we judge the sizes of intervals, and by dianoia that we investigate dynameis; this suggests that start by setting out the ear's findings about sizes of intervals and their regular successions, and go on to interpret and explain them in term of the dyna­ meis which thought (dianoia) reveals as their causes and principles", p. 55. [53] Con la designazione (Es. x*) si indicano gli esempi sonori corrispon­ denti che sono presenti nella versione pdf del presente testo reperibile nel sito Internet dell'Archivio di Giovanni Piana (Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi di Milano). [54] In effetti, secondo le partizioni aristosseniche, nel genere enarmonico l'intervallo tra mese e lichanos arriva al ditono, mentre ad es. nel cromatico tonico a due toni dalla mese vi può essere la parhypate, comprendendo quindi la lychanos. Cfr. A. Bélis, Le "nuances" nel Trattato di Armonica di Aristosseno di Taranto, art. cit. [55] Cfr. Malcolm Lichtfield, Aristoxenus and empiricism. A Reevaluation ba­ sed on his Theories, "Journal of Music Theory", 1988, n. 32, p. 63. [56] Aristosseno cerca anche di fornire anche un'argomentazione logica per escludere che possa trattarsi di consonanza di ottava. 94 [57] Per ottenere il ditono in direzione ascendente Aristosseno indica il percorso: - quarta, +quinta, - quarta, + quinta; e il percorso inverso per ottene­ re il ditono in direzione ascendente (Meib. 55.10). Una corda in più è necessaria per effettuare questi passaggi. [58] Malcolm Lichtfield, Aristoxenus and empiricism. A Reevaluation based on his Theories, "Journal of Music Theory", 1988, n. 32, p. 64. [59] Si otterrebbe infatti una quinta pari a 678 cents che differisce di un comma di 24 cents rispetto alla quinta giusta di 702 cents. Nell'es. 9 si effettua il percorso di accordatura sino alla quinta ottenuta da Aristosseno; nell'es. 10 si fanno seguire nell'ordine la quinta di Aristosseno e la quinta "giusta". [60] Tolemeo nella sua critica ad Aristosseno su questo punto teorizza esplicitamente che il criterio razionale "è ben più degno di fede dell'udito negli intervalli così piccoli" (Scienza Armonica, 1.10, op. cit. p. 122). Sulle critiche di Tolemeo ad Aristosseno cfr. nel commento di Massimo Raffa, pp. 326 sgg. [61] Lichtfield, art. cit., pag. 64. - Nell'Es. 9 si realizza il percorso fino alla quinta EF, mentre nell'Es. 10 si fa udire prima la quinta EF e poi la quinta "giusta". [62] "Il tono è la differenza secondo la grandezza delle prime consonan­ ze" (Meib. 21.20). [63] Nella tabella riportata nell'Armonica di Tolemeo sulla differenza tra i generi il tono di disgiunzione resta fissato anche per Aristosseno nel rapporto di 9/8. Cfr. Tolemeo, La scienza armonica, 2.14, cit. [64] Questa partizione è presupposta nell'Armonica, cfr. Meib. 25-26 ed è rammentata da Cleonide, L.Z. p. 71 sgg. [65] Cleonide parla della partizione in trentesimi della quarta proprio in rapporto al problema di rendere conto della "sfumature" dei generi anche arit­ meticamente. Cfr. L.Z. p. 91. [66] Il tono pitagorico è pari a 204 cents. Assumendo la quarta pitagorica a 498 cents, il trentesimo di quarta diventa 16.6 cents, cosicché il tono diventa pari a 199.2 e il semitono a 99.6. [67] Anche Lichtfield, cit. p. 64, parla di "definizioni conflittuali" di tono. Tuttavia non contempla la possibilità che, almeno nel caso di quella che abbia­ mo chiamato seconda via, la parola tono possa avere un senso e, del resto, un impiego differenti. [68] Estendendo la suddivisione sulle due quarte la differenza con l'ottava temperata è realmente minima. Ma non è questo il punto. [69] L'ipotesi che in Aristosseno sia presente una divisione equalizzata dell'ottava, affacciata già in età rinascimentale, è assai controversa. Malcolm Li­ tchfield, art. cit. p. 60, la ritiene infondata: "A close examination of Aristoxenus's theories offers no evidence to support the notion of an equal-tempered octave. It has been shown that Aristoxenus referred only to the fourth in discussing the genera. No attempt was made to expand this to the octave. No consonant interval was shown or implied to be tempered. Moreover, no ancient author 95 has described Aristoxenus's ideas in such a way that they seem to indicate equal temperament". - Analoghe perplessità manifesta R. P. Winnigton-Ingram, Ari­ stoxenus and the Intervals of Greek Music, "Classical Quarterly", 1932, n. 26: "The term 'equal temperament' is often used in connection with Aristoxenus; ad in a sense by dividing the octave into six and the tone into two he has produced equal temperament. But the difference between his procedure and the temperament of modern theory and practice is more important than their ressemblance. Our equal temperament is dictated by practical convenience in the matter of modu­ lation. The modern theorist knows that the intervals are distorted upon a tem­ pered instrument and by how much. But Aristoxenus did not live in an age when temperament in the modern sense was either necessary or desiderable" - p. 198. 96 97 Giovanni Piana Il cromatismo 2004 98 In copertina "Dessin Chromatique" di Ivan Wyschnegradsky 99 Indice Parte I L'alterazione traspositiva 1. La nozione di alterazione 2. L'alterazione traspositiva 3. L'alterazione traspositiva in un sistema non equalizzato Parte II Il cromatismo 1. La nozione di cromatismo introdotta attraverso esempi 2. L'alterazione cromatica 3. Esempi tratti dall'esecuzione di un raga 4. Cromatismo e ornamentazione 100 101 Parte I L'alterazione traspositiva 102 103 1. La nozione di alterazione Una riflessione introduttiva sul cromatismo non può che pren­ dere le mosse da un chiarimento preliminare sulla nozione di altera­zione. Su di essa anzi conviene indugiare piuttosto a lungo. Questa nozione fa parte dei concetti elementari di una "teoria del­ la musica" in genere, per quanto poco la teoria musicale corrente tenti di metterla a fuoco proprio sotto il profilo concettuale e del­ le sue importanti differenze interne - e non di rado addirittura la pro­ponga in modo equivoco. Di con­troversie possibili sulla nozione non si ha troppo sentore e nelle spiegazioni talora non ci si allontana molto dalle semplici indi­cazioni del maestro di clavicembalo o di pianoforte che alla fine può contare sulla dif­ ferenza tra tasti neri e tasti bianchi. "Il Diesis posto accanto alla nota la fa avanzare di un mez­ zo tono; vuol dire, che in vece del tasto bianco, si tocca il suo più vicino negro per salire. Il b molle ¥, fa il contrario effetto, e il b quadro ¤ ripone la nota nel suo posto naturale" [1] . D'altra parte, forse conviene anche da parte nostra cominciare la nostra discussione mettendo sul tappeto proprio le prime ov­ vietà scolastiche, facendo crescere quei problemi che sono inter­ ni alla nozione di alterazione, e poi di cromatismo, che in realtà sono assai poco avvertiti. Il primo passo deve dunque essere quello di metterli in evidenza. Una nota può essere alterata, e precisamente lo può in direzio­ ne ascendente e in direzione discendente. Nel primo caso par­ leremo di diesizzazione, nel secondo di bemollizzazione - ter­mini che derivano dai nomi di segni da apporre alle note, intese a loro 104 volta come segni, per indicare la modificazione corrispon­dente nel suono, e precisamente il segno diesis ¦ e il segno bemolle ¥. L'attenzione nei confronti dei nomi può sempre fornirci qualche utile suggerimento. Deve essere anzitutto rammentato che il termine diesis (d›esiw), nella teoria greca della musica non indica un segno, ma il piccolo intervallo in genere. Così il terzo di tono viene detto da Aristosseno diesis cromatica minima ed il quarto di tono diesis enarmonica minima [2] . L'origine del ter­ mine non è facile da determinare. I dizionari lo connettono al verbo diœhmi e va notato che tra i vari sensi di questo verbo ve ne sono alcuni che richiamano l'elemento liquido - lo sciogliere, il far dissolvere, il diluire - e, come vedremo, questo riferimento non è estraneo all'im­piego del termine in ambito musicale. Il ter­ mine diesis mantiene questo suo senso greco fino in età rinasci­ mentale e oltre [3] e talora il segno, nella forma ©, viene in­ter­­ pre­tato come derivante da una rappresentazione della suddi­visione del semitono in piccoli intervalli, e precisamente come se ciascuna delle sue quattro linee rappresentasse un quarto di semitono [4]. Nel suo Terminorum Musicae Diffinitorium, Tinc­toris definisce diesis sempre con riferimento ai piccoli intervalli: "Diesis, secondo alcu­ ni è la stessa cosa che semitono minore (limma); secondo altri, la metà di questo semitono minore. Taluni voglio­no che la diesis sia la quinta parte del tono, altri la terza, la quarta e l'ottava" [5] . L'origine del termine bemolle è invece di ordine stretta­mente semiografico e ci riporta ai tempi della solmi­sazione, ed in par­ ticolare alla designazione delle note mediante lettere. In rapida e sommaria sintesi: la lettera b indicava la nota si, che era alterabile in modo discendente. Si rendeva perciò necessaria una differen­ te scrittura per indicare la nota non alte­rata e la nota a cui era stata tolta l'alterazione. Essa era a portata di mano: la lettera b può essere scritta senza arrotondamenti (b quadrum, durum) - il segno originario era dunque ¨ poi divenuto ¤ - oppure in modo arrotondato (b rotundum o molle): il b "molle" venne riservato alla nota alterata, il b quadro alla nota non alterata. Abbiamo così il 105 segno ¥ che, separato dalla nota singola, verrà utilizzato in seguito per indicare l'alterazione di­scen­dente in genere, come il segno ¤ per indicare la soppressione di un'altera­zione precedente [6] . Tra le ovvietà che vogliamo ammettere per facilitare il no­ stro inizio vi è naturalmente il riferimento al sistema a tempera­ mento equalizzato. In esso l'alterazione ha sempre la gran­dezza di un semitono (100 cents). Va da sé allora che vi è coincidenza obbiettiva dal punto di vista sonoro tra una nota diesiz­zata e la nota bemollizzata superiore, una doppia diesizzazione o una doppia bemolizzazione riportano alla nota superiore e, rispetti­ vamente, inferiore, a distanza di un tono. Si tratta delle cosid­ dette coinci­den­ze "enar­moniche", nell'accezione oggi usuale del ter­mine. Data questa situazione - strettamente dipendente dal temperamento equalizzato - si comprende subito che vi è un livello del problema che riguarda la forma nota­z i­onale che è go­ vernata da regole che riguardano la logica interna della frase in cui compare il segno di alterazione. Questa stessa logica interna fa percepire - ad un orecchio musicalmente educato - tra equiva­ lenti "enarmonici" una differenza, motivata a seconda dei conte­ sti, che non ha alcuna sussistenza obbiettiva. Si tratta di una delle tante attestazioni di quanto sia importante nella ricezione della musica l'elemento fenomenologico e come l'ascolto musicale sia un ascolto orientato pronto a registrare ogni variazione necessa­ ria del modo di intendere suggerita dalla struttura "super­ficiale", anche quando questa variazione non ha nessun riscontro a livel­ lo "profondo". È opportuno inoltre richiamare l'attenzione sul fatto che, in tutto quanto precede, presupponiamo una ben determinata partizione dell'ottava - ed è proprio questo presupposto che stabilisce la grammatica corrente della parola alterazione. Secondo questa grammatica vi è un impianto di note da con­siderare "na­ turali" - l'idea di alterazione assume eviden­temente senso dal fatto che vi siano note in sé non alterate e che appunto sono soggette ad alterazione. Già qui comincia ad affio­rare qual­che problema. 106 In che senso si usa questo termine tanto impegna­tivo? Ha esso a che vedere con l'idea di una scala privilegiata, in quanto data in qualche modo "in natura"? In realtà vorremmo evitare persino di cominciare una discussione su un simile argomento: tanto più che essa non è necessaria e probabilmente ci porterebbe fuori strada. Cosicché l'espres­sione "naturale" in questo contesto in­ dicherà per noi semplicemente quel sistema di intervalli che, in un determinato linguaggio musicale e con riferimento ad una nota data come inizio, individua delle posi­zioni che verranno assunte come non alterate. Si converrà dunque che una determinata scala rappresenti lo schema intervallare di base. Essa consterà di note non altera­ te per il semplice fatto che è essa stessa che fissa le posizioni a partire dalle quali saranno eventualmente possibili delle altera­ zioni. Nota "natu­rale" significherà dunque semplicemente nota "non-alterata" - ed in fin dei conti è proprio questa l'accezione vigente nella pratica musicale, quando in essa si parla di la natu­ rale, mi naturale, ecc., a meno che non intervengano considerazioni teoriche che pretendano di attribuire a quell'ag­gettivo ben altro peso. Il richiamarsi alla convenzione - un richiamo che spesso è fonte di equivoci - credo sia in questo caso appropriato perché ci mette subito di fronte a diversi possibili sistemi musicali con le loro differenti scale di base. Per spie­garci potremmo fare notare che è perfet­tamente possibile imma­ginare una partizione dell'otta­ va interamente diversa dalla no­stra assumendola come costituita di note naturali (non-alterate) che sono eventualmente passibili di alterazione. Ma che cosa significa mai essere passibili di alterazione? La domanda non è affatto ingenua come potrebbe sembrare. In fin dei conti tra note alterate e non alterate, si dispone sempli­ cemente di un insieme di note distinte - esse potrebbero dunque aver nomi distinti e non essere caratterizzate da segni modificativi come ¦ e ¥. Questo problema esplode in tutta chiarezza nella do­ decafonia schoenberghiana, nella cui teoria è sottintesa la richie­ 107 sta di cancellare finalmente questa incongruenza anche sul piano terminologico. Si tratta di una possibilità che può essere presa in seria considerazione, ma occorre nello stesso tempo rendersi con­ to delle sue implicazioni. Il suo presupposto è in effetti che la nozione di alterazione - nell'accezione del termine che rimanda ad una modificazione interna - risulterebbe essere una nozione fittizia, priva di fondamento nel materiale sonoro e legata uni­ camente a metodi ed a convenzioni notazionali [7] . Ma le cose stanno veramente così? Cerchiamo ancora di sviluppare la questione, destreg­ giandoci fra ovvietà ben conosciute e il tentativo di romperne il guscio e fare intravvedere quanto sia intricato il gheriglio. Intanto diciamo più precisamente, con riferimento al no­ stro sistema musicale, che il sistema intervallare di base è il se­ guente: T T S T T S Ma subito è necessario aggiungere: assumendo come naturale la prima nota di inizio della scala, che nel nostro caso sarà il do 3 (ovvero il do centrale su una tastiera pianistica), tutte le altre note che si trovano nelle posizioni indicate dagli intervalli saran­ no assunte a loro volta come naturali, e saranno dunque sogget­ te a possibili alterazioni. Il fatto che l'altezza obbiettiva di questa nota sia normalizzata in rapporto ad una determinata frequenza e che quindi siano normalizzate tutte le sue ottave inferiori e su­ periori è un fatto relativamente secondario. Il punto essenziale è che "si decida" o "sia stato deciso" quale schema debba valere come sistema intervallare di base e quale nota (frequenza) debba avere la nota iniziale della scala. Secondo quanto abbiamo os­ servato or ora, non vi sarebbe da mutare una virgola se lo sche­ ma scalare fosse differente, sia per quanto riguarda la grandezza degli intervalli sia per quanto riguarda la loro distribuzione ed anche il loro numero. Lo schema sopra introdotto è un esempio di possibile "sca­ 108 la diatonica". In realtà non possiamo dare per scontata una no­ zione come questa, così come quella corrispondente di "scala cromatica" - e nemmeno possiamo fidarci troppo della manua­ listica corrente. Anche la teoria musicale evoluta tende a non occuparsi di questo livello "infimo" della concettualità musicale, cosicché non possiamo subito, come ci piacerebbe fare, procedere con sicurezza a cavallo di una buona definizione già bell'e pronta. "Diatonico" (di‡tonow), nella teoria musicale greca, è il nome di uno dei tre generi, caratterizzato dallo schema TTS in direzione discendente nel tetracordo. Ma questo ricordo storico ha anche un significato interno: di‡tonow è letteralmente "attra­ verso il tono" ovvero "passando da un tono all'altro" [8] : si allude dunque ad una struttura in cui l'intervallo di tono è dominante e più ampiamente ad una struttura in cui sono predominanti intervalli piuttosto grandi. Naturalmente in TTS è presente il semitono, e non a caso la terminologia musicale parla, in questo caso, di "se­ mitono diatonico". Il semitono qui in questione merita di essere chiamato diatonico, anche se la sua grandezza fosse eguale al se­ mitono di alterazione (come è appunto il caso del temperamento equalizzato), per il fatto che esso è integrato in una struttura a pre­ dominanza del tono, ed assolve del resto una funzione essenziale nel profilo della scala diatonica. Il semitono di alterazione dunque non ha di principio nulla a che vedere con il semitono diatonico. Esso non appartiene alla sca­ la diatonica - si potrebbe osservare: l'enunciazione di questa scala non lo nomina. Parleremo allora senz'altro in rap­porto al semito­ no di alterazione, e dunque nella materializ­zazione pianistica della struttura, in rapporto ai tasti neri, di semitono cromatico? Secon­ do gli insegnamenti usuali, dovremmo proba­bil­mente risponde­ re affermativamente. In base ad essi la scala formata dai dodici semitoni che risulta mettendo in successione le note diatoniche con le note alterate si chiamerà "scala cromatica" - e questa dizio­ ne sarà giustificata di norma con la presenza in essa, tra gli altri, di "semitoni cromatici". La scala cromatica sarebbe dunque defini­ 109 ta come un misto di semitoni diatonici e di semitoni cromatici? A noi una simile caratterizzazione ci sembra subito piuttosto stra­ vagante. Ed abbia­mo anche la sensazione che non si tratti di una questione di pura teoria, ma che, malamente impostata, essa possa oscurare rapporti musicali di fondamentale importanza. Anche se per il momento si tratta di una sensazione che sulla base delle cose dette non potremmo certo motivare. Il termine di cromatismo deriva a sua volta dal genere greco detto "cromatico", ma il richiamo ai generi è qui, come del resto in precedenza per il "diatonico", meno significativo di quanto lo sia l'idea del chroma (xr±ma) contenuta nel termine. Chroma si­ gnifica colore, ed anche sfumatura di colore. Ci troviamo così ancora una volta nell'area di senso della parola diesis, del piccolo inter­ vallo e dell'elemento tendenzialmente fluido. Del resto il genere cromatico greco si chiama così per una progressiva riduzione di grandezza degli intervalli con­clusi­vi del tetracordo (ed un au­ mento corrispondente del tono iniziale); nel genere enarmonico questi intervalli arrivano sino ai quarti di tono, cosicché il genere enarmonico può essere consi­derato una sorta di cromatico spin­ to. Si intravvede qui una problematica che le definizioni sco­ lastiche tendono a cancellare, dando forza invece all'idea di due forme scalari distinte, la scala cromatica e la scala diatonica, che sarebbero l'una sovraordinata all'altra. La scala diatonica infatti sembra per così dire "ritagliata" sulla scala cromatica e derivata o derivabile da essa. Una simile impostazione appare piuttosto evidente. Po­ trem­mo infatti proporre il rapporto tra scala cromatica e la scala diatonica secondo lo schema seguente: S S T S S T S S S S T S S T S S T S S 110 Esso presenta le cose come se ci fosse una partizione primaria dello spazio sonoro, la suddivisione semitonale, ed una partizione secondaria che rappresenta una selezione operata su di essa. Ecco che cosa scrive l'autorevole trattato di armonia di Walter Piston sull'argo­mento: "Il totale delle altezze comunemente usate, considerate nel­ l'in­sie­me, costituisce la scala cromatica, formata interamente di semitoni, l'intervallo più piccolo della musica occidentale". Il che è persino fattualmente corretto. E per quanto riguarda la scala diatonica: "Ogni scala diatonica è un sottosistema formato da sette delle dodici note della scala cromatica" [9] . Ed ancora: "Si definisce cromatismo l'uso di note estranee alla scala maggiore o a quella minore". Tacendo sul fatto che non per ogni uso di note estranee alla scala si può parlare di croma­ tismo, la "definizione" in questione è legata intrinsecamente al lin­ guaggio tonale, come se non esistesse cromatismo al di fuori di esso e la parola non potesse abbracciare fenomeni presenti in ogni linguaggio musicale. Vero è che Piston avverte che "le note cro­ ma­tiche cominciarono ad apparire in musica molto prima del periodo dell'armonia tonale", ma non si vede come ciò possa conciliarsi con la sua definizione o che cosa si possa intendere in questa precisazione con "nota cromatica" [10] . Il peggio sta tutta­via nel fatto che in questa definizione si fa strage di tutti i possibili impieghi funzionalmente differenti dei "tasti neri", rife­ rendo il termine di cromatico proprio, sto per dire, soltanto alla nerezza del tasto. Per Stefano Lanza "diatonico" significa non tanto attraverso "toni", o addirittura, come noi saremmo propensi a ritenere, attra­ verso intervalli piuttosto grandi, quanto attraverso "gradi" e, come subito vedremo, questa scelta non è priva di conseguenze. Inoltre questo termine, a suo avviso, andrebbe riservato alla scala epta­ tonica quando "gli intervalli fra i gradi sono solo toni e semitoni disposti come fra le note naturali (2 semitoni separati alternati­ vamente da 2 e 3 toni)", che sono appunto "gli intervalli 'norma­ 111 li' della nostra musica". Sembra dunque che anche in rapporto al termine diatonico ci si attenga ad un mero dato di fatto, impo­ nendogli la restrizione alla scala eptatonica esattamente corrispon­ dente al nostro "normale" sistema intervallare. Perciò non saranno chiamate diatoniche, ad esempio, le scale pentatoniche oppure le scale esatoniche; e naturalmente nemmeno la scala "dodecafoni­ ca" - "cioè di dodici gradi (tutti naturalmente a distanza di un semitono) detta anche cromatica perché alcuni di quei semitoni sono cromatici" [11] . Vi è addirittura una piccola domanda a scopo di esercizio per l'allievo: "Quanti semitoni cromatici vi sono in una scala cromatica?" E la risposta, con­cettualmente al­ quanto preoccupante, è la seguente: "In qualun­que modo la si scriva, una scala cromatica contiene sempre 5 semitoni cromatici e 7 diatonici. Infatti si ha un semitono dia­tonico quando fra un grado e l'altro cambia il nome della nota, un semitono cromatico quando non cambia. Una scala cromatica percorre tutte le note: vi sono perciò sette cambiamenti di nome" [12] . Se un allievo ingenuo, pur provvisto di un ottimo orec­chio, avesse risposto con il numero di dodici si sarebbe preso una brutta bacchettata sulle dita. Queste affermazioni che sembrano essere, al più, "prese d'atto" sono tuttavia accompagnate da un dubbio che dà luogo ad una riflessione più interessante e sostanziosa. Se diatonico significa un procedere per gradi, perché non chiamare diatoni­ che anche le scale pentatoniche ed esatoniche? E perché non addirittura la scala cromatica? Non procede forse essa stessa per gradi? Così ogni differenza viene tolta e "diatonico" verrebbe a significare al più "scala ordinata per gradi" ovvero "scala". Dice precisamene Stefano Lanza: "Se diatonico, come abbiamo visto, significa etimologicamente 'per gradi', e 'gradi' si chiamano le note che costituiscono una scala, tutte le scale sono diatoniche per definizione, dato che tutte procedono per gradi" [13] . La spiegazione della restrizione precedentemente introdotta non può che essere, a sua volta, di ordine storico-fattuale: "Poiché al 112 tempo degli antichi greci, quando fu coniata la parola, le uniche scale conosciute erano di 7 gradi, solo quelle erano considerate successioni 'diatoniche', ad esclusione di qualsiasi altra. Il termi­ ne è così rimasto riferito alle sole scale di 7 gradi, al punto che le altre si chiamano, in modo a rigore improprio, 'non diatoniche'" [14]. In realtà l'argomento storico sarebbe tutto da ve­rificare, dal momento che è molto improbabile non vi fosse l'uso quanto meno di scale pentatoniche nella musica greca [15] - ma non è il caso dare troppa importanza a questo rilievo. Molto più interes­ sante è il motivo effettivo, di carattere tutto teorico, che conferisce all'intero discorso una simile singolare inclinazione. Esso affiora già nella risposta alla domanda intorno al numero dei semitoni cromatici in una scala cromatica. Questo motivo riguarda pro­ prio la dissoluzione "nomi­na­listica" della nozione di alterazione che Stefano Lanza teorizza in modo del tutto espli­cito e che, se valida, rende pienamente conto dell'impianto de­fini­torio pro­ posto e delle osservazioni corrispondenti. Vi sono dunque set­ te note dette naturali ed altre cinque dette alterate. Queste ultime "non avendo un loro nome proprio, lo prendono a prestito da una nota naturale vicina. Vengono perciò chiamate Alterazioni o Note alterate perché il nome che portano è stato ricavato 'alteran­ do' cioè cambiando il significato di quello di un'altra nota" [16] . Ciò che viene alterato è dunque il nome. E per­ciò si ammonisce: "Non si dica dunque che le alterazioni 'innalzano' e 'abbassa­ no' i suoni: l'intonazione delle note, cioè il loro suono, è fisso e prestabilito, anche quello delle note non naturali. Si alterano le note, o, meglio, i loro nomi, facendoli cambiare di significato: i suoni in quanto tali non sono né naturali, né alterati, né dunque alterabili" [17] . Cosicché il parlare di alterazione ascendente o discendente diventa a sua volta una mera faccenda linguistica: se una nota prende il nome dalla nota precedente l'alterazione ver­ rà detta ascendente, se invece prende il nome dalla nota seguente l'alterazione si dice discendente. Come ho già osservato in precedenza, la possibilità di 113 un'eli­minazione della nozione di alterazione può emergere nella riflessione su di essa ed appartiene ai problemi che essa solleva. Ma in quali condizioni questa possibilità sia una possibilità sen­ sata, questo resta ancora argomento di una discussione che deve essere compiuta fino in fondo. E così va discusso fino in fondo il problema se dobbiamo considerare la distinzione tra diatonico e cromatico come una distinzione particolare che ap­par­tiene inte­ ramente ai dati di fatto della nostra musica e di cui possiamo fare in via di principio fare a meno, e non piuttosto come saremmo orientati a ritenere, una distinzione che tocca due grandi temi generali della teoria della musica. Annotazione Nell'uso dei termini diatonico, cromatico ed enarmonico ha pesato particolarmente, lungo tutta la tradizionale medioevale, rinascimentale ed oltre, il riferimento ai generi della teoria musicale greca. Non senza pesanti equivoci. A questo proposito occorre notare che considerando la problematica greca dei generi, non avrebbe alcun senso concepire le note intermedie che compaiono nel tetracordo cromatico ed enar­monico come alterazioni di altre, ed in particolare di note diatoniche. In questione è invece una nozione di mobilità degli intervalli corri­spondenti che vanno addensandosi verso la parte grave del te­tracordo (tematica del pycnon). Quando invece, nel rina­scimento, ci si appella alla teoria greca come teoria che avrebbe dovuto contenere i fondamenti della musica, la tematica dei piccoli intervalli dei generi cromatico ed enarmonico finisce con il confluire ambiguamente con la tematica delle alterazioni nelle loro diverse possibili funzioni. Caratteristica da questo punto di vista è la posizione di Zarlino che si pone il problema, del tutto privo di senso per la teoria antica, di "inspessare" il tetracordo diatonico con il tetracordo cromatico ed enarmonico, cioè di ottenere un sistema intervallare in grado di unificare i tre generi (Istituzioni harmoniche, Parte II, cap. 41). Su questo problema si può vedere l'accurata esposizione di Roberto Airoldi, La teoria del temperamento nell'età di Zarlino, Ed. Turris, Cremona 1989. In questo modo, pur nel mantenimento della termi­nologia greca e di ricordi della teoria corrispondente, l'impiego dei termi- 114 ni cromatico ed enarmonico diventa sempre meno stringente. Si continua a parlare di generi, ammettendo soltanto come desueto il "genere enarmonico", mentre l'espressione "genere cromatico" tende ad assumere un'accezione abbastanza estesa da poter essere attribuita semplicemente a scritture dense di alterazioni non giustificate dal modo (o dalle sue trasposizioni). Del resto lo stesso Zarlino che, per quanto riguarda la distinzione dei generi nella teoria greca è assai preciso (come mostrano le sue caratterizzazioni in Dimostrazioni, Ragionamento Quarto, Definizioni III, IV e V), quando polemizza con i "cromatisti" lamenta che essi non si attengano affatto all'intervallistica del genere cromatico "autentico" ma aggiungono alterazioni a piacere "di maniera che nelle loro Canzoni non si vedono altro che Diesis ¦, e ¥ molli", cosicché "non osservano Modo, ò Tuono alcuno nel loro comporre; di modo che si possa dire, questa cantilena è composta nel modo Dorio, Ionico, over Frigio, ò sotto un'altro Modo; come dicevano gli Antichi; ma sono composte di confusione" (Dimostrazioni, Proposta XI). Nel Traité di Rameau (1722) le parole diatonico e cromatico vengono ormai usate per indicare delle partizioni dell'ottava (Cfr. I, cap. V). Siamo dunque lontani dalla teoria dei generi, anche se la terminologia resta in qualche modo legata ad essa, e si parla ancora di diatonico, cromatico ed enarmonico come generi. Così ci si esprime nella Démonstration du principe de l'harmonie, 1750. Nel Nouveau Système de musique theorique (1726, riedizione anastastica nelle Èditions Zurfluh, 1996) l'attributo di diatonico riferito a sistema, vie­ne spiegato con il fatto che la successione di suoni in questione "procede attraverso i toni e i semitoni naturali per la voce". Qui dun­que l'accento cade sulla "naturalezza" della scala diatonica, natu­ralezza che poi è fondata nell'ordine oggettivo della loro derivazione dai "suoni fondamentali" e dai suoni "che compongono i loro accordi" (p. 32); con sistema cromatico invece si intende un sistema che procede per semitoni (p. 35). Così anche Rousseau nel suo Diction­naire de musique, TFM, voce Chromatique: "Genre de musique qui procède par plusieurs semi-tons consécutifs". Egli invece manifesta qualche incertezza sul richiamo al colore: "Ce mot vient du grec (Chroma), qui signifie couleur, soit parce que les Grecs marquaient ce genre par des caractères rouges ou diversement colorés; soit, disent les auteurs, parce que le genre chromatique est moyen entre 115 les deux autres, comme la couleur est moyenne entre le blanc et le noir; ou, selon d'autres, parce que ce genre varie et embellit le diatonique par ses semi-tons, qui font dans la musique le même effet que la variété des couleurs fait dans la peinture". 116 2. L'alterazione traspositiva Riprendiamo ora lo schema precedente riportandolo sulla tastiera del pianoforte, più volte evocata, che rappresentiamo in figura allun­­gando i tasti neri per maggiore chiarezza. Ci pren­diamo an­ che la licenza di assumere che ad ogni tasto corri­sponda una sola corda. S S S T T DO S S S RE MI T T S FA S S S S S SOL S S T LA SI DO Apriamo ora il coperchio superiore del pianoforte, in modo da poter dare un'occhiata nel suo interno. In esso vediamo solo un susseguirsi di corde, corde e dappertutto corde - dove è dunque andata a finire la differenza tra i tasti bianchi e i tasti neri? Non vi è proprio nulla, nell'interno del pianoforte, che faccia sospettare come è fatta la tastiera, ed in particolare proprio quella distinzione tra il bianco e il nero che subito ci colpisce. Potremmo allora com­ mentare: l'esterno del pianoforte ci mostra come stanno le cose secondo le convenzioni del nostro sistema musicale, una sorta di sua vivida materializzazione; ma l'interno del pianoforte ci insegna come stanno le cose oggettivamente. Da un punto di vista oggettivo, sembra proprio che una nota valga l'altra e per questo ciascuna potrebbe o addirittura dovrebbe avere un nome distinto da ogni altra. Così le frequenze di 466.16 e di 440, il cui rapporto 117 corrisponde all'intervallo di semitono temperato, sono due nu­ meri per­fet­tamente distinti. L'uno è diverso dall'altro, il numero maggiore è semplicemente un altro numero rispetto al numero minore. L'im­piego stesso del termine di "alterazione" diventa qui alquanto dubbio. Esso indica infatti una modificazione, e precisa­ mente un diventare-altro della stessa cosa. E non ha alcun senso dire che la frequenza 466.16 sia un'alterazione della fre­quen­za 440, o che 440 diventi 466.16. Dovremmo forse a partire di qui concludere che il parlare di alterazione, diesizzazione e bemollizzazione sia pura fin­zione? Io credo invece che la prima conseguenza che dobbiamo trarre è questa: se vogliamo vederci chiaro intorno al problema dell'alte­ razione non dobbiamo rivolgerci al lato oggettivo, ma piuttosto a quello soggettivo, dobbiamo in altri termini assumere il punto di vista del musicista. Non possiamo sperare di venirne a capo né guardando l'interno del pianoforte, né il suo esterno, così come esso appare alla vista, con i suoi cinque tasti neri e sette tasti bianchi. La nozione di alterazione comincia a vivere solo nella misura in cui riusciamo a rintracciare i motivi musicali che la pon­ gono in essere. Questi motivi sono più d'uno, e di conseguenza il ter­ mine di alterazione non è univoco, ma ha più di un senso. Questo è il primo accertamento che siamo tenuti a compiere. Tra questi sensi, ve ne sono due che meritano di esse­re trattati per primi, perché hanno un carattere fondamentale e sono indipendenti da questo o da quel linguag­gio musicale ed appartengono perciò ai con­ cetti elementari della musica. Si tratta dell'alterazione traspositiva e dell'alterazione cromatica. Consideriamo anzitutto l'alterazione che dipende dalla ne­ cessità della trasposizione. Nella nozione di trasposizione entra in gioco la differenza elementare tra suono e intervallo. I suoni posso­ no cambiare, senza che vengano toccati da questo cambia­mento i rapporti intervallari. Naturalmente questa possibilità può diven­ tare un potente mezzo di espressione musicale, ma qui ci interessa considerare la trasposizione alla luce di un semplice muta­mento di 118 registro da realizzare su un'intera melodia. In ciò che ora diremo sem­brerà forse che si insista più del necessario su cose arcinote, ma credo che la discussione che a poco a poco cerche­remo di sviluppare a partire di qui giustifichi un inizio così pedantesco. Cominciamo dunque con l'osservare che le note dei tasti neri ci sono come una sorta di apparato predisposto nel caso che si voglia spostare verso il grave o verso l'acuto una struttura musicale. Sia questa struttura la nostra consueta scala di base. È facile mostrare che realizzando una trasposizione dello schema inter­ vallare della scala si rende necessario l'impiego di tasti neri. S S S T T DO RE S MI FA S S S SOL S S S S S T T LA T SI DO S S RE Il grafico illustra la trasposizione di un tono verso l'acuto dello schema degli intervalli della scala di do maggiore. Il suo inizio sarà dunque re, ma come mostrano le frecce, per mantenere lo schema intervallare TTSTTTS, è necessario l'impiego di due "ta­ sti" neri. Il fa e il do debbono essere "diesizzati". Passiamo così da do maggiore e re maggiore - tutte le tonalità maggiori, nel lin­ guaggio tonale, sono niente altro che trasposizioni della sca­la di do maggiore. Questo riferimento al linguaggio tonale non è qui in se stesso vincolante, trattandosi di un riferimento particolare che ha un senso illustrativo rispetto all'idea generale dell'altera­ zione traspositiva. 119 Ora chiediamoci ancora una volta: in che senso è giusto parlare in rapporto alle note "nere" di note alterate - e dun­ que di note diesizzate o bemollizzate? In realtà la nota alterata è qui effettivamente un'altra nota così come lo è il re rispetto al do. Non vi è dunque nessuna alterazione nel senso di un diventare-altro: si può invece parlare di alterazione solo in rapporto al fatto che ogni nota fa della struttura precedente verrà modificata nella nota fa ¦ nella nuova struttura. Alterare non allude ad una trasformazione, ma al puro e semplice subentrare di una nota al­­­­l'al­­tra. Di conseguenza l'al­terazione potrà essere detta ascen­ dente unicamente sulla base del dato di fatto ovvio secondo cui la nota subentrante è più acuta rispetto alla nota a cui subentra. Analogamente se lo spostamento av­venisse da do a fa, si avreb­ be un alterazione del si che potrebbe es­sere chiamata alterazione discendente (e contrassegnata con il segno ¥) per il fatto che la nota subentrante è più grave della nota a cui subentra. Queste di­ zioni non hanno dunque in se stesse una qualche giustifica­zione percettiva, all'interno dello svolgimento del brano musica­le, ma si può dire al massimo che siano giustificate al suo ester­no, nel ricordo della struttura che è stata trasposta nella sua trasposi­ zione, ma è appena ovvio dire che questo ricordo è del tutto inessenziale e niente affatto obbli­gatorio. È poi importante sotto­ lineare il fatto che la nota alterata subentra alla nota "natu­rale", e ciò significa che l'una esclude l'altra, nel senso che l'una si presenta nella struttura trasposta, l'altra nella struttura da trasporre. Questi sono i caratteri dell'alterazione a scopi di trasposi­ zione. In base a questi caratteri ci possiamo rendere conto della parte di verità contenuta in un possibile atteggiamento "nomina­ li­sta", che si è presentato in precedenza in modo confuso e con prevalente riferimento ad un'orientamento "oggetti­visti­co". In­ fatti si potrebbe ora parlare di eliminabilità nominale delle alte­ razioni traspositive, intendendo con ciò uno spostamento del sistema dei no­mi che toglie appunto la necessità di impiego dei segni di alterazione. 120 Questa possibilità la si comprende sulla base del nostro gra­ fico illustrativo: il problema dei segni di alterazione viene elimi­ nato spostando il sistema dei nomi ovvero utilizzando la parola "do" non per indicare una posizione assoluta, ma un luogo da determinare di volta in volta ("do mobile"). Lo stesso grafi­ co naturalmente allude alla possibilità dello spostamento della tastiera, che consente la trasposizione facendo uso unicamente di tasti bianchi - ferma restando naturalmente l'assunzione del temperamento equalizzato. Ed infine una simile trasposizione può essere realizzata attraverso una pura e semplice riaccor­ datura dello strumento. Abbiamo detto poco fa che nella trasposizione l'alterazione non è uditivamente avvertita come tale per il semplice fatto che nota non alterata e nota alterata non coesistono all'interno del brano. Ciò vale naturalmente nei limiti del caso elementare con­ siderato in cui, come abbiamo detto, si tratta semplicemente di uno schema intervallare che viene interamente "spostato" verso il grave o verso l'acuto. Ma una volta che si dispone di note al­ terate anzitutto a fini traspositivi, esse possono essere impiegate per svolgere altre funzioni. Ad esempio, l'alterazione modulante ha lo scopo di annunciare un divenir-altro dello spazio tonale nel suo insieme, ed è dunque un'altera­zione effettivamente percepita, cosicché il ricordo della nota "naturale" che precede nello svi­ luppo fa interamente parte della dimensione dell'ascolto ed essa ha naturalmente un valore e­spressivo che la semplice alterazione traspositiva non possiede. Ma come vi è una simile alterazione transtonale, potrebbe anche esservi una alterazione transmoda­ le, oppure alterazioni utilizzate a scopo espressivo che non im­ plicano variazione del modo o del tono - alterazioni intramodali o intratonali - che si presentano come varianti possibili della struttura tonale o modale. Si tratta di differenze che una teo­ ria dell'alterazione dovrebbe studiare sistematicamente tenendo conto della molteplicità di possibilità esplorate dai linguaggi del­ la musica. 121 3. L'alterazione traspositiva in un sistema non equalizzato Per chiarire meglio la natura dell'alterazione traspositiva dando così maggior risalto alla sua differenza dall'alterazione croma­ tica e dalla problematica del cromatismo, penso che sia oppor­ tuno far riferimento allo stesso schema intervallare TTSTTTS, interpre­tato tuttavia in una suddivisione non equalizzata dell'ot­ tava. Assu­miamo dunque valori pitagorici, e precisamente il tono a 204 cents (9/8) e il semitono diatonico (limma, lei=mma) a 90 cents (256/243) che chiameremo nel seguito semitono piccolo (stp). In cents la successione sarà dunque: 204, 204, 90, 204, 204,204,90. Se ora pensiamo ad una possibile trasposizione di questo schema sul re, il problema è ovviamente lo stesso che nel caso precedente: dobbiamo porre un tono là dove vi è invece un se­ mitono, e ciò significa, come già sappiamo, che dobbiamo alte­ rare il fa e il do in senso ascendente: e poiché dobbiamo rag­ giungere 204 cents a partire da 90, l'alterazione deve essere pari a +114 cents (90+114=204). Se invece vogliamo trasporre sul fa, dobbiamo porre un semitono là dove vi è un tono, e dunque si tratterà di alterare il si in direzione discendente, e poiché il semitono che dobbiamo ottenere per trasporre correttamente è pari a 90 cents, l'alterazione deve essere pari a -114 cents (204- 114=90). Si propone così - sulla base delle esigenze della traspo­si­z ione - un intervallo di "semitono grande" (stg) di 114 cents che i greci chiamavano apotome (a)potomh/). Ma occorre prestare attenzione al modo in cui si parla qui di intervallo. Il valore di 114 è anzitut­ to un puro valore di incremento e di de­cremento, e non compare affatto come intervallo autentico nella trasposizione. Come è ovvio, in 122 essa compare sempre e soltanto l'intervallo di 90 cents, dal mo­ mento che scopo della trasposizione è nient'altro che ripristinare l'ordine dei toni e semitoni della struttura non trasposta, e dunque nella tra­sposizione risuoneranno solo intervalli di 204 o 90 cents. Zarlino attribuisce il suo stesso nome, che è connesso con a)pote/mnw (tagliare), al fatto che esso è "tagliato fuori dal Tuo­ no" (ovvero dalla "scala modale"). "- Per qual cagione lo chiamavano con tale nome? diman­ dò il Viola. - Perché dicevano, risposi io, che è quasi tagliato fuori del tuono, come superfluo; essendo che gli antichi non adoperavano tal semituono nei loro tetracordi. Onde Apotome appresso di loro significa Tagliamento" [18] . È importante qui ribadire che nel caso della pura e sempli­ ce trasposizione, nota alterata e nota non alterata non coesistono: o più precisamente risuona la nota alterata, ma non l'intervallo di alterazione. Potremmo sintetizzare la funzione dell'apotome nel seguente schema: 0 204 204 +114 90 90 -114 0 123 L'apotome diventa così l'intervallo chiave ai fini della trasposizione - alla quale deve del resto la sua origine [19] . Si noti inoltre che in questo modo risulta un intervallo differenziale (114-90 = 24 cents) che è contrassegnato dalle due linee verticali centrali. Si tratta del cosiddetto comma pitagorico. Tenendo conto di ciò, si possono riproporre gli schemi pre­ cedenti, con le variazioni opportune: stg stp stp stp stg DO S T T 0 stp RE 90 114 204 MI 294 318 T T FA 408 498 SOL 588 612 702 S T LA 792 816 SI 906 DO 1110 1200 996 1020 tasto grigio = diesis tasto nero = bemolle La trasposizione potrà dunque essere rappresentata nello stesso modo di prima, tenendo conto del fatto che, se si deve sostituire semitono con tono (e quindi aumentare la grandezza dell'inter­ vallo) si ha alterazione ascendente (tasto grigio), mentre se si deve sostituire tono con semitono (e cioè diminuire la grandezza dell'in­tervallo) si ha alterazione discendente (tasto nero). 124 stg stp stp stg T T DO RE stp stp MI FA S SOL T T LA T SI DO S RE In questo esempio non temperato si comprende anche mol­ to bene l'esigenza di distinguere tra diesizzazione e bemolliz­ zazione, dal momento che proprio alla decisione rispetto all'una o all'altra spetta la conservazione della struttura intervallare. La distinzione non è dunque puramente nominale, come potrebbe forse sembrare considerando in modo superficiale il caso tempe­ rato, nel quale il diesis di una nota coincide obbiet­tivamente con il bemolle della nota superiore. Le ragioni della distinzione sono pe­ raltro identiche, nei due casi: si parla di alterazione ascendente o di diesizzazione per il fatto che la nota subentrante è più acuta della nota a cui essa subentra, e inversa­mente per la alterazione di­ scendente o bemollizzazione. Resta inoltre vero ciò che abbiamo prima osservato a proposito della loro eliminabilità nominale. Ma ora, a differenza che nel caso precedente, le due note non sono coincidenti, ma accade che non valgono le cosiddette coincidenze enarmoniche, e precisa­mente la nota bemollizzata è più grave della nota diesiz­zata inferiore - ad es. il si ¥ si trova al di sotto del la ¦, ed è dunque più vicino al la di quanto sia il la ¦. Accade così: ma non si tratta affatto di una qualche singolare "convenzione" o di una pura casualità difficile da comprendere; come se vi fosse una posizio­ne chiamata si ¥, che tuttavia potrebbe essere spostata qui e là, pri­ma o dopo il la ¦, o in coincidenza con esso, senza nessu­na re­go­la. Accade così per una precisa necessità interna, che è quella della possibilità di una trasposizione corretta di un modello sca­ lare determinato. L'esistenza di una differenza tra diesis e be­molle 125 non dipende da un qualche riferimento ad una scala naturale in un senso più forte da quello, meramente negativo, che abbiamo in precedenza enunciato. Questa dif­fe­renza si trova in dipen­ denza delle scelte effettuate in rapporto alla scala diatonica. Ciò mostra anche una circostanza particolarmente rile­vante: una sud­ divisione "fine" dell'ottava non precede la scala diatonica, ma è un risultato che consegue ad essa, e precisamente è una conseguen­ za della neces­sità della sua trasposizione. Ovvero: data una certa suddi­visione diatonica dello spazio sonoro (ottava), da essa viene determinato un sistema necessario di alterazioni traspositive. Ciò vale naturalmente anche per la suddivisione dell'ottava in dodici semitoni eguali. E dunque fino a questo punto non vi è la minima esigenza di evocare una pretesa "scala cromatica". Ed anzi: occor­ re mettere in guardia dal farlo. Appare infatti subito chiaro quanto sia equivoco consi­derare in successione l'altera­zione ascendente e l'altera­zione discendente e inversamente. Il fatto che il la ¦ "supe­ ri" il si ¥ ha solo un significato oggettivo che rimanda al confron­ to tra le frequenze corrispondenti. Dunque questa circostanza è molto semplicemente vera. Ma sotto il profilo della problematica musi­cale affermare che il si ¥ preceda il la ¦ non sembra affatto sensato. Non bisogna infatti dimenticare che le due serie dei die­sis e dei bemolle camminano su sentieri diversi, come indicano le frecce di direzione nel nostro grafico: chiedere se il diesis preceda il be­ molle o inversamente sarebbe come ritenere lecito interrogarsi intorno a quale, tra due corridori che corrono su piste adiacenti, ma in direzioni opposte, l'uno preceda l'altro. Cosicché restando all'interno di questo ambito di conside­ razione, e prima di aver introdotto il tema del cromatismo, la se­ quenza 0, 90, 114, 204, 294… , ovvero la disposizione in ordine scalare delle note alterate e non alterate non ha alcun senso e non merita di essere chiamata scala cromatica, trattandosi di un sistema per trasposizioni possibili proposto equivocamente in formata scalare [20]. Di conseguenza è anche denso di equivoci il tentativo di derivare per ciclo delle quinte tutti i gradi di una pretesa scala 126 cromatica pitagorica. Va infine notato che stando al nostro schema che vi sono due punti critici che limitano la possibilità delle trasposizioni: si tratta della posizione occupata dai due semitoni diatonici. Per chiarire questo punto riprendiamo ancora il primo schema proposto ag­ giungendo ad esso nella parte superiore le righe che rappresen­ tano le corde interessate. ? stg stp stp stp stg S T T DO stp RE MI FA T T SOL S T LA SI DO Supponendo che una trasposizione richieda un mi ¦, si vede su­ bito che questo mi ¦ non può coincidere con il fa naturale, essen­ do l'intervallo tra mi e fa di un semitono piccolo; per ottenere un semitono grande bisogna aggiungere un comma (90+24=114). Ciò richiederebbe l'aggiunta di un tasto e della corda corrispon­ dente nel luogo contrassegnato dal punto interrogativo. Ma nel nostro schema questa corda non c'è. Analogamente per il si ¦ che supererebbe do naturale di un comma; e non è difficile ren­ dersi conto che questo stesso pro­blema si presenterebbe nella direzione discendente per il fa bemolle e per il do bemolle. Tutto ciò non è affatto misterioso ma dipende strettamente dalla strut­ tura scalare di base e dai suoi valori che sono ottenuti, nel caso della scala pitagorica, attraverso il ciclo delle quinte. Nello stesso 127 tempo ciò crea un problema musicalmente rilevante: ammettendo le nuove posizioni per mi ¦ e si ¦, sarebbe impos­sibile impedire la moltiplicazione indefinita di corde e tasti, e dunque delle note, ed uno spostamento progressivo degli intervalli; vietandole - e proponendo dunque mi#=fa e si#=do - si incorre in una modi­ ficazione della grandezza degli intervalli che, in particolare, por­ ta a quarte ed a quinte "false". Dilemmi analoghi sorgono anche per altri tipi di accordature, e per trovare soluzioni ad essi sorge il problema dei vari possibili "tempe­ramen­ti". Nella tradizione europea la soluzione conclusiva è ap­pun­to quella del temperamen­ to equalizzato. Annotazioni 1. L'accordatura pitagorica resta in vigore fino al tardo cinquecento. Ma il doppio tasto necessario per ottenere tutte le alterazioni è sostituito normalmente da un unico tasto - cosa che naturalmente impone limitazioni nel numero dei diesis e dei bemolle utilizzabili. Nell'accordatura pitagorica maggiormente in uso le note alterate si limitano al fa ¦ do ¦, sol ¦, mi ¥ si ¥ dove i valori delle diesizzazioni e delle bemollizzazioni sono appunto quelli pitagorici, cosicché la differenza tra diesis e bemolle viene sostanzialmente mantenuta pur limitando il numero delle alterazioni [21]. Nella nostra rappresentazione va dunque mantenuta la differenza tra tasti neri e tasti grigi. 128 stg DO S T T stp stp stp RE MI T T FA SOL S T LA SI DO Claudio Tuzzi, in Clavicembali e temperamenti, Bologna 1989, p. 17, mostra come una simile accordatura sia ottenibile attraverso una ordinata sequenza di passaggi di quinta e di ottava. Anche in questo caso l'impro­prietà di un ordinamento delle dodici note in successione scalare diventa particolarmente patente. Una simile distribuzione di diesis e bemolle deve essere spiegata come una semplificazione dello schema precedente, che è ancora ad essa soggiacente, e non come una partizione preliminare dell'ottava (anche se entrambe possono essere considerate oggettivamente tali). 2. La scala diatonica proposta da Zarlino come TG "scala TPnaturale" ha laTP seguente ST TG TG ST struttura 0 204 204 386 182 498 112 702 204 884 182 1088 204 1200 112 essendo il tono grande ("maggiore" nella sua terminologia) pari a 9/8= 204 cents, il tono piccolo ("minore") pari a 10/9=182 cents, il semitono ("semituono maggiore") pari a 16/15= 112 cents. Per determinare le alterazioni di trasposizione in rapporto ad una simile struttura occorrerà garan- 129 tire che il ST sia sostituibile con il TP e con il TG e che questi ultimi siano scambiabili tra loro. Si vede subito allora che per passare da ST a TP è necessario un incremento di +70, da ST a TG un incremento di 92 (ovvero di 70+22), e che per passare da TP a TG un incremento di + 22 (il cosiddetto comma sintonico). Ovviamente valgono anche i decrementi corrispondenti per lo scambio inverso. La conseguenze che deriverebbero qualora si volesse realiz­zare il sistema delle alterazioni di trasposizione relativamente ad una simile scala diatonica sono facili da immaginare: e sarebbe un sistema del tutto impraticabile. In ogni caso Zarlino non procedette per questa via, ma volle anzitutto rendere conto di questa scala diatonica non solo su base matematica, ma anche sulla base della tradizione della teoria greca, facendo riferimento al tetracordo di base del diatono sintono di Tolemeo (Istituzioni harmoniche, II, cap. 41). Il passo successivo non è tuttavia rappresentato dall'inserimento dei toni di trasposizione, che condurrebbe ad un risultato del tutto inaccettabile, ma dalla difesa di tre possibili forme di temperamento, tutte tendenti a preservare al massimo le "consonanze imperfette" temperando in modo più o meno pronunciato l'intervallo di quinta [22]. E nelle prime due forme viene meno la distinzione tra TG e TP. In rapporto alla prima forma di temperamento, si procede anche ad introdurre le note "cromatiche". Questa introduzione avviene ancora sulla base del riferimento alla teoria greca - e Zarlino rappresenta esemplarmente la tendenza a riportare la tematica dei generi cromatico ed enarmonico dentro il quadro delle alterazioni di trasposizione. Ciò è già stato rilevato in precedenza parlando della procedura di "inspessazione" del genere diatonico mediante i generi cromatico ed enarmonico. Prescindendo da ciò il risultato lo possiamo prevedere assumendo i dati che alla fine risultano dalla struttura della scala nel suo primo temperamento. Questa struttura è ora rappresentata da un unico T=191,6 e da ST=121. Così stando le cose, la condizione della trasposizione è che da ST si possa passare a T e 130 inversamente, cosa che richiede un incremento di 70,6 cents (25/24 che Zarlino chiama semituono minore, ovvero diesis maggiore enarmonico) o un corrispondente decremento. Incremento e decremento sono dunque eguali e il diesis della nota inferiore precede nell'ordine scalare il bemolle della nota superiore. Tra diesis e bemolle vi sarà inoltre una distanza di 50.4 cents. Di qui deriva una partizione dell'ottava in conformità a questi piccoli intervalli, partizione che dipende strettamente dalle scelte fatte sul piano diatonico. Che cosa siano le note "cromatiche" è talvolta così poco chiaro che si è potuto commettere l'errore, invero piuttosto rilevante, di considerare questa partizione come riferita al diatonico non temperato, senza nemmeno accorgersi del fatto che il valore di 70.6 cents sarebbe del tutto privo di significato in rapporto a quel sistema che è caratterizzato da una differenza tra tono maggiore e minore di un comma sintonico (22 cent). Un'alterazione di 70.6 cents non permetterebbe infatti lo scambio tra l'uno e l'altro - cosicché essa non servirebbe proprio a nulla, oltre al fatto che non si vede come essa possa essere giustificata. Questo errore a me sembra dovuto, più che ad inaccuratezza, ad una scarsa comprensione del problema. Così Lorenzo Fico, Zarlino, Consonanza e dissonanza nelle Istitutioni Harmoniche, Adriatica Editrice, Bari 1989, p. 125 presenta una tabella con i valori della "scala secondo il genere diatonico sintono inspessato con corde cromatiche ed enarmoniche", con i suoi + e - 70 cents (come arrotondamento di 70,6), calcolando bravamente i valori delle alterazioni, senza rendersi conto che l'"inspessazione" viene effettua­ta da Zarlino solo sul suo primo temperamento, e che ad esso soltanto può essere sensatamente riferito quel valore di incremento e di decremento. La stessa tavola, e dunque lo stesso errore, si ritrova in P. e G. Righini, Il suono, Milano 1974, p. 217. Zarlino fece costruire un clavicembalo sulla base dell'accor­ datura del suo primo temperamento [23] . Della sua tastiera vi è un'immagine nelle Istituzioni Harmoniche, Parte II, cap. 47. 131 Osservandola si noterà che vi è una singolare distribuzione dei tasti neri e dei tasti bianchi indicanti le note alterate. Essi non si alternano regolarmente gli uni agli altri, come ci si dovrebbe aspettare. In effetti tenendo conto della distribuzione degli intervalli prevista in questo sistema, nel­l'or­dine da sinistra a destra tutti i tasti diesis precedono i tasti bemolle, cosicché il bianco dovrebbe trovarsi in alternanza con il nero. Invece accade qui che possano trovarsi tasti bianchi in successione immediata, cosa che indica che la differenza di colore non rispecchia la differenza nella specie di alterazione. Questa circostanza ha una sua precisa motivazione. In effetti essi non sono utilizzati, come noi abbiamo fatto in precedenza con il nero e con il grigio, per differenziare i diesis dai bemolle, ma per "tener me­moria" del­la loro origine concettuale nel complicato percorso esco­gitato da Zarlino per pervenire ad essi, che 132 passa attraverso il tentativo di integrare nel genere diatonico i generi cromatico ed enarmonico (l' "inspessazione" a cui abbiamo già fatto un rapido richiamo). Cosicché i tasti bianchi segnalano la loro origine dal genere enarmonico ed i tasti neri dal genere cromatico (cfr. Airoldi, op. cit., p. 98 sgg.). Asso­ciazione fortemente equi­voca, perché unisce insieme cose diffe­renti, ed a maggior ragione per il fatto che quel complicato percorso era perfettamente dispensabile per l'otteni­mento di quel risultato. Ma quanta dottrina e piacere della teoria vi è in questa distribuzione del bianco e del nero! Il tasto bianco e il tasto nero di Zarlino mostrano quanta cultura e quanto pensiero si possa concentrare in cose tanto mo­deste. Essi sono un omaggio alla grecità, una rimessa in gioco del­l'an­tico nello stesso istante in cui si sperimentano nuove vie [24]. In margine a tutto ciò non si può non notare che proprio Zarlino, che è considerato il teorico per eccellenza della "scala naturale", si volga subitaneamente verso la problematica del tempe­ramento che egli teorizza non solo come necessario ma anche, in certo senso, assecondato dalla "natura". Cosicché da un lato si sottolinea l'utilità di tener conto del comma per ottenere buone consonanze - "esso non è però nato senza utile: conciosia che col suo mezo si viene all'acquisto di molte consonanze"; dall'altro "questo intervallo si minuto darebbe molta noia all'udito, quando si volesse adoperare: massimamente negli strumenti arteficiali". E la natura ci viene in aiuto per il fatto che piccolissime differenze non vengono colte dall'udito, e d'altra parte quello stesso intervallo può essere reso inavvertibile distribuendolo su più intervalli: "però la Natura primie­ra­mente e da poi l'Arte, hanno trovato rimedio (dirò così) ad un tanto disordine: conciosia che questo intervallo nelle Voci, che per loro natura in ogni parte si piegano si accomoda di maniera, che non si ode; e ne gli Istrumenti arteficiali è diviso per la sua distributione, che si fa in molti intervalli, tra Otto chorde"(Istituzioni harmoniche, II, cap. 40). 133 Parte II Il cromatismo 134 135 1. La nozione di cromatismo introdotta attraverso esempi Forse il tema del cromatismo si può annunciare osservando che, mentre nel caso delle alterazioni traspositive sono in questione strutture o sistemi intervallari e l'esattezza dei loro rapporti reci­ proci, cosicché ci troviamo di fronte ad una problematica che riguarda regole e misure, nel caso dell'alterazione cromatica e del cromatismo in genere in questione è la pratica concreta del musicista, che nell'atto concreto di produrre suoni, fa vivere il suono. Il fatto che le alterazioni traspositive possano assolvere anche la funzione di alterazioni cromatiche - come del resto al­ tre funzioni - non toglie naturalmente la profonda differenza dei problemi. La vita del suono sta nella possibile mutazione nei para­ metri che lo costituiscono: un suono vive, ad esempio, se cresce di intensità, oppure se diminuisce di grado in grado, oppure se si ripresenta all'interno di configurazioni temporali differenti… Naturalmente non si può pretendere che simili afferma­ zioni siano senz'altro comprensibili. Perciò è opportuno prende­ re le mos­se, come abbiamo fatto in precedenza dalle sacrosante ovvietà che insegna la scuola, con qualche commento che co­ minci a mostrare le questioni implicate. Di fronte al problema di spiegare a giovani studenti che cosa si intenda per cromatismo si ricorrerà probabilmente ad esempi, proponendo configurazioni di suoni che si possano considerare tipiche, come le seguenti spiegando che si chiamerà cromatismo ascendente la configu­razio­ne A e cromatismo discendente la configurazione B. Queste confi­gura­ zioni propongono semplicemente due semitoni in succes­sione. 136 Se ci venisse richiesto in quale tonalità ci troviamo, po­trem­mo ri­ spondere: questo non ha affatto importanza. La confi­gurazione resta cromatica qualunque sia la tonalità in cui essa si trova. In ogni caso, se assumessimo di trovarci nella tona­lità di do maggiore potremmo affermare che le configurazioni precedenti potrebbero essere intese come risultati dell'interpola­zione di un'al­terazione nel passaggio diatonico do-re e inversa­mente. Questa alterazio­ ne, prodotta in un simile contesto, verrà appunto alte­ra­z ione cro­ matica. Nell'ultimo tempo del quartetto di Mozart K. 464, un cro­ matismo molto semplice funge da elemento tematico del brano intero. Ecco le prime otto battute nella parte del primo violino: Nel seguente Menuetto di Beethoven dell'op. 31, n. 3 il croma­ tismo si presenta invece come un dettaglio in battuta 6 e 7: (Es. 001 *) Nel seguente esempio bachiano [25] , nella narrazione dell'evan­ gelista, il pianto di Pietro - " e pianse amaramente" (und weinete 137 bitterlich) - nel momento in cui rammenta il proprio tradimento, si realizza musicalmente attraverso l'impiego di una frase inte­ ramente caratterizzata da transizioni cromatiche che sembrano girovagare senza mèta e che toccano i dodici suoni della scala cromatica. Ampi segmenti di scala cromatica ascen­dente e di­ scendente rappresentano poi la linea del basso. In un caso come questo ogni impalcatura diatonica viene meno, ed anche le co­ siddette note diatoniche fanno interamente parte del cromati­ smo, prescindendo naturalmente dal completamento, e quindi dell'interpretazione armonica proposta dallo sviluppo del basso continuo. (Es. 002 *) Va subito fatto notare, in rapporto a questi esempi, che occor­ re distinguere chiaramente il sussistere di un cromatismo dalla presenza di questo o quel segno di alterazione. Come gli esempi mostrano, i segni seguono una sintassi che dipende dal linguaggio utilizzato. Questo è apparentemente un rilievo banale, eppure an­ che su questo equivoco è fondata l'identificazione dell'alterazione cro­matica con la nota come tale, se non addirittura con il tasto. Il cromatismo è invece una configurazione, e l'alterazione assolve una funzione cromatica in rapporto ad essa. Essenziale a questa configurazione è il semitono, o meglio, più in generale il piccolo intervallo. In base alla configurazione, il semitono ovvero l'in­ter­vallo in questione è un intervallo cromatico. 138 In linea generale la configurazione cromatica ha il carat­tere di una transizione, di un passaggio - cosicché è naturale pensare ad un intervallo i cui estremi siano punto di partenza e punto di arrivo della transizione. Così nel primo esempio, ed in particolare se lo consideriamo nel contesto di una scala diatonica, il cromatismo viene avvertito come una transizione tra due gradi di essa. Questa situazione si verifica naturalmente anche in cromatismi più este­ si. Così nell'esempio mozartiano l'intera configurazione cromatica è formata da tre semitoni, e si può dire che in essa si stabilisce una transizione tra due note, quella iniziale e quella finale, che formano appunto i poli diato­ nici tra cui avviene la transizione. Ciò dipende natural­mente dal "peso" che le due note hanno sia per la posizione che occupano all'interno della battuta che in rapporto alla tonalità. Le note re ¦ e re ¤ sono qui per l'appunto note di passaggio. Tut­ta­via se vari­ assimo questo esem­pio nel modo che segue (disin­teres­sandoci della tonalità) il cromatismo continuerebbe a sussistere, ma non vi sarebbe nes­ suna nota di partenza e nemmeno, nel senso precedente, una nota di arrivo. Forse si dovrebbe parlare di un cromatismo che introduce la nota con cui si conclude questa configurazione, che è la nota più "pesante", sia per la posizione che occupa nella battuta sia per la durata. Potremmo dire che si tratta del modo in cui la nota "arriva" o entra in scena. La nota ora non c'è sempli­cemente, ma 139 arriva dall'alto - saremmo tentati di dire. Così come potrebbe, attraverso un cromatismo ascendente, arrivare dal basso. Un cro­ matismo è un percorso di piccoli intervalli che conduce da un luogo ad un altro luogo, oppure che porta ad un luogo; ma che potrebbe anche non aver nessuna mèta, come ci sembra som­ mariamente giustificato dire in rapporto all'esempio bachiano, a parte la formula cadenzale conclusiva e prescinden­do dalla rea­ lizzazione del basso con­tinuo. Ma bisogna prestare attenzione, nell'impiegare l'imma­gine del luogo, a porre l'accento più sulla fluidità del mo­vimento, che sulla fissità dei luoghi - come appa­ re molto bene soprattutto dall'esempio vo­cale. Da quest'ultimo esempio pos­siamo estrarre anche que­st'altra possibile configu­ razione cromatica, in rapporto alla quale possiamo dire che essa conduce da un luogo allo stesso luogo attraverso un passaggio discendente ed ascendente. (Es. 003 *) Già gli esempi mostrano dunque una varietà possibile di casi. Ed altri ne potremmo immaginare operando variazioni a partire da questi. Vi è poi un altro problema importante che va messo in ri­ lievo e che è già implicito nelle considerazioni precedenti. Nella terminologia musicale i segni ¦ e ¥ vengono detti acci­den­ti, e i manuali ribadiscono talora con singolare ostinazione che questo termine non va attribuito alla nota stessa, ma appunto ai segni di alterazione. Abbiamo tuttavia già notato che su tutta la tematica del­l'al­terazione pesa il rischio di una dissoluzione nomi­nalistica, e questa insistenza è orientata esattamente in questa direzione. 140 Io ritengo che le cose stiano diversamente [26]. Di fronte alla parola "accidente" un filosofo drizza le orecchie. Accidente è la proprietà priva di necessità interna, che si contrappone alle "sostanze" a cui eventualmente inerisce. Si tratta della termino­ logia aristotelica passata nella filosofia scolastica; e nell'agget­tivo "accidentale" del linguaggio comune. Ecco un punto di con­ trapposizione fortissima: di fronte alla rigida necessità dell'alte­ ra­zione traspositiva vi è l'acci­dentalità dell'alterazione croma­tica. Che il cromatismo sia "acci­den­tale" significa che esso non fa parte della struttura portante del brano, e che pertanto si può aggiungere e, talora, togliere senza che il profilo della melodia si modifichi in modo significativo. Così i cromatismi nell'esempio beethoveniano possono es­ sere soppressi senza che l'orecchio venga colpito da una mo­ dificazione "sostanziale". Certo, ci rimettiamo qualcosa, e se qualcuno ci chiedesse esattamente che cosa, saremmo tentati di rispondere così: ci rimettiamo una sfumatura espressiva. È inutile dire che daremmo una certa importanza a questa risposta. Nel campo del cromatismo siamo anche nel campo delle sfumature, la nota cromatica non è una nota vera e proria - si sarebbe tentati di dire - ma la sfumatura di una nota. E del resto questo termi­ ne si rivela soprattutto appropriato alle gradazioni dei colori. Il termine di "accidente" riferito alla nota ci porta indubbiamente nell'ambito di simili considerazioni. Ma anche in rapporto a questo problema vi è una moltepli­ cità di situazioni differenti che dipendono dal modo di impiego espressivo delle configurazioni cromatiche e quindi dai contesti in cui esse sono inserite. Se nel brano beethoveniano il cromati­ smo rappresenta un dettaglio, nel finale del quartetto mozartiano esso è al centro dell'invenzione tematica, cosicché l'eliminazione dei cromatismi corrisponderebbe ad una perdita di senso della composizione nel suo complesso. L'esempio ba­chiano mostra un altro aspetto del problema di particolare importanza. In rappor­ to ad esso, l'eliminazione del cromatismo è semplicemente priva 141 di senso per il fatto che non vi è una struttura diatonica di soste­ gno. Ciò fa riflettere sul senso di que­sta "accidentalità". Zarlino dice una volta che in una figura è la forma "quella che veramente dà l'essere alla cosa" mentre "il colore non è altro che accidente" [27] - ma è anche vero che, nel contesto del nostro problema, se il colore non dà l'essere alla cosa, è tuttavia in grado di toglier­ lo, sopprimendo la forma. L'accidente minaccia la sostanza, il cromatismo non soltanto si trova fuori dalla struttura, ma tende anche alla sua dissoluzione. Nel caso di una struttura tonale, ciò che viene minacciata è appunto la tonalità. Del resto se prendiamo una scala diatonica e utilizziamo tutte le note alterate disponibili in funzione cromatica non otterremo, così facendo, una scala diatonica ricca di sfumature cromatiche, ma appunto niente altro che la scala cro­ matica che della scala diatonica non conserva nemmeno un frammento. Ed è certo il caso di dire che essa è interamente fatta di semitoni cromatici - essendo diventati tali, in un simile contesto, anche i semitoni diatonici. 142 2. L'alterazione cromatica In questi nostri primi esempi abbiamo realizzato una sorta di in­ troduzione al problema, e forse siamo persino riusciti a suggerire una direzione complessiva in cui orienteremmo la discussione sulla tematica del cromatismo. Tuttavia non si può certo affermare che si sia realmente portata chiarezza su di essa. Per cercare di arrivare a questo risultato dobbiamo riprendere spunti prima emersi e por­ tarli ad effettivo sviluppo. Anzitutto dobbiamo chiarire il senso del richiamo al pic­ colo intervallo. In effetti in precedenza abbiamo attirato l'at­ten­ zione sul fatto che il cromatismo non è identificato da questo o quel segno modificativo apposto sul segno della nota, ma dal fatto che essa si trova all'interno di una configurazione alla qua­le è essenziale il piccolo intervallo [28] . Ma questa affermazione deve essere associata all'idea che, attraverso il piccolo inter­vallo, si possa parlare di alterazione nel senso di una vera e propria modi­ ficazione interna, di un divenire-altro. La configu­ra­zione cromatica viene percettivamente intesa come un muta­mento - le note non vengono afferrate come oggetti sem­plicemente distinti, separati da un intervallo, ma come momenti di uno svilup­po fluente. Dietro la distinzione tra cromatico e diatonico vi è la distinzione fonda­ mentale tra continuità e discre­tezza percet­tiva - ed il cromatismo va considerato come una confi­gurazione che si trova tendenzial­ mente sul versante della conti­nuità. Per cominciare a far valere una simile impostazione del pro­ blema, dobbiamo regredire un poco rispetto al piano musicale vero e proprio, nel quale è sempre d'obbligo il riferimento im­ plicito o esplicito ad un linguaggio musicale, verso il terreno della fenomenologia della percezione. Si tratta di "osservare" più da vi­ 143 cino i piccoli intervalli, ponendoci interrogativi come questi: che cosa accade riducendo progressivamente l'intervallo? Fino a che punto possiamo operare questa riduzione ottenendo uditivamente suoni distinti? Che cosa accade esattamente nel punto in cui questa distinzione tende a venire meno? [29] Per rispondere a queste domande è necessario costruir­ si una successione [30] nella quale si prendono le mosse dalla diffe­renza di un tono (200 cents) e si procede per passi suc­ cessivi sino alla soppressione dell'intervallo alternando la direzione ascendente alla direzione discendente nell'ordine, dunque: la + 200, la-200; la +100, la - 100; la +50, la -50, la + 25, la - 25; la + 15, la - 15; la + 6, la - 6; la. Si noterà allora che la distinzione tra le note decresce mano a mano che ci si avvicina ai piccoli interval­ li. Ovviamente nettissima nel caso del tono ed ancora piuttosto netta nel caso del semitono tono, ed anche nel caso del quarto di tono, tende poi a venire meno con la progressiva riduzione dell'intervallo. Naturalmente non stiamo dicendo che non avver­ tiamo una differenza di altezza, ma piuttosto che dovrebbe mutare la descrizione fenomenologica dei primi casi della serie rispetto agli ultimi: nei primi, potremmo parlare due suo­ni distinti, negli ultimi sembra invece più appropriato parlare di un unico suono che si flette verso l'alto o verso il basso. Dal punto di vista oggettivo delle frequen­ ze naturalmente non interviene nessun cambiamento. Si tratta di frequenze nettamente distinte. Ma ciò che viene udito è ora una modificazione interna di un unico suo­no, come se esso si flettesse in misura maggiore o minore nel­l'una o nell'altra direzione. Non vi è più dunque percezione di un intervallo, ma di una flessione del suono che può essere descritta come una sua mutazione interna che non ha tanto un carattere quantitativo, ma qualitativo, come se vi fosse uno schiarimento nella direzione ascendente ed un incupi­ mento nella direzione discendente - come un mutamento di colore [31]. Questa constatazione fenomenologica è per noi della massima im­ portanza. Essa ci mette di fronte a ciò che l'altera­zione cromati­ 144 ca è nel suo fenomeno originario - come potremmo dire - ovvero la situazione fenomenologica nella quale parole come l'alterarsi del suono, il suo divenire-altro trovano un effettivo riempimento nella cosa stessa. È in rapporto a questa situazione che il senso del problema musicale del croma­tismo assume la sua massima chia­ rezza, un chiarezza esemplare (questo era anche il significato che l'espressione di fenomeno originario aveva in Goethe, anche se essa si arricchiva di implicazioni che non siamo obbligati a fare no­ stre). In questi intervalli minimi diesizzazione e bemollizzazione han­no dunque un senso che rimanda ad un'autentica esperienza percettiva. Non bisogna tuttavia ritenere che questa esperienza sia possibile solo entro i limiti che abbiamo suggeriti, e quindi al di sotto del quarto di tono. Entro questi limiti la percezione del divenire-altro del suono ha un carattere per così dire let­terale, manifestando con evidenza la pertinenza della proble­matica del cromatismo al versante del continuo. Tuttavia questi limiti possono estendersi in forza dei contesti. Del resto gli esempi seguenti, nei quali abbiamo realizzato in sequenza gli stessi intervalli preceden­ ti in direzione ascendente e discen­dente, sembrano mostrare la possibilità che la percezione della "flessione" del suono si esten­ da persino oltre il semitono. La sensazione di una separazione veramente netta tra i suoni si ha soltanto quando l'intervallo di­ venta di un tono (Es. 011 * - 012*). Un intervallo vero e proprio, ovvero uno "scalino", viene avvertito appunto soltanto nel momento in cui vi è il passaggio dal semitono al tono. Ma a parte questi casi particolari, quando il problema vie­ ne giocato musicalmente, ciò che importa sono considerazioni di contesto. Sono esse che infine decidono il modo dell'intendere. Il contesto deve essere tale da consentire un rimando alla situa­ zione della continuità, una sorta di ricordo di essa, e che questo rimando-ricordo non sia in qualche modo ostacolato o impedi­ to. Naturalmente l'intervallo deve essere comunque abbastanza piccolo e in effetti il semitono a 100 cents si presta ad assolvere la 145 parte di valore di soglia: esso è abbastanza grande da consentire un afferramento dei suoi estremi come suoni nettamente distinti, ma abbastanza piccolo per poter ancora consentire, in certe condizio­ ni, la percezione di alterazione. Secondo la nostra impostazione, la tematica del cromatismo deve dunque essere riportata a quella dei flussi sonori ed alla con­ cezione dello spazio sonoro come flusso, e proprio in questo rin­ vio può essere proposta una nozione interamente nuova di altera­ zione. Come abbiamo visto in precedenza, nell'am­bito della pro­ blematica della trasposizione si parla di alterazione di una nota in un senso piuttosto ovvio: la nota che subentra nella trasposizione è più acuta o, rispettivamente, più grave della nota a cui suben­tra. Il piccolo intervallo, che fa da incremento o da incremento, serve soltanto a ristabilire il tono o il semitono diatonico. Qui invece non vi è un subentrare di una nota ad un'altra, ma l'una e l'altra si manifestano in una successione concreta ed in modo tale che si possa dire che l'una trapassa nell'altra ovvero che l'una diventa l'al­tra. Il mutamento di altezza prende il senso di un processo di trasformazione interna del suono. Così, mentre l'alterazione tra­ spositiva mantiene la sua relazione con la situazione oggettiva, in quanto la nota alterata è semplicemente un'altra nota, la nota alterata nel senso del cromatismo va intesa dinamicamente come momento di un processo del diventare-altra - e va intesa così non in forza di qualche decisione speculativa, ma perché viene intesa così. Qua­ lunque musicista, e qualunque semplice ascoltatore, intende una configurazione cromatica in questo modo, e di ciò dobbiamo prendere atto. La situazione normativa per le alterazioni traspo­ sitive, dove la nozione di alterazione è lontanissima dall'avere queste implica­zioni ed in rapporto alla quale va mantenuto fer­ mo il legame tra le note e la distinzione oggettiva delle frequen­ ze, fa velo al­l'ac­coglimento nella teoria di ciò che sta a portata di mano sul piano fenomenologico e che fa parte della più schietta esperien­za mu­sicale. Dall'ambito del suono-oggetto passiamo così a quel­ 146 lo del suono-processo. Il cromatismo è una manifestazione che riconduce alla processualità del suono. Ritroviamo così ciò che sta nelle pieghe del senso antico della parola diesis che, come abbiamo ricordato all'inizio, contiene un'allusione all'elemento liquido. Diesizzazione e bemollizzazione perdono il significato di un'operazione di spostamento di altezza, resa necessaria per il mantenimento di una identità di struttura, per indicare invece un processo percepito di alterazione concreta. La bemollizzazione può apparire come un vero e proprio cedimento del suono, un suo tendenziale oscuramento. Come se potessimo dire: ora il suono si è incupito! Mentre nella diesizzazione siamo in presenza di una enfatizzazione del suono; come se vi fosse ora una sorta di rafforzamento e di espansione del suono, mentre nel caso della bemollizzazione poteva sembrare vi fosse contrazione e immi­ serimento. Se dovessimo mimare questi passaggi con il nostro corpo forse nel primo caso tenderemmo a porre il petto in fuori, nel secondo invece a ripiegarlo verso l'in­terno, a incavarlo. Ma non vi è in tutto ciò una componente di ordine immaginativo? Lo ammetteremmo senz'altro. Ma ciò non significa che siamo qui unicamente affidati a mutevoli umori soggettivi. L'inclina­ zione immaginativa può agire solo trovando un aggancio nelle cose stesse. E queste non sono semplicemente, ma sono intese. Tra l'oggettività dei fatti e il puro arbitrio delle impressioni soggettive vi è la varietà ben fondata dei modi di intendere. Tutto ciò ci consente naturalmente di aggiungere un qualche perfezionamento alla precedente caratterizzazione della differenza tra semitono diatonico e semitono cromatico ed in generale della differenza tra scala diatonica e scala cromatica, tra diatonismo e cromatismo. Indipendentemente dalle considerazioni precedenti si rischia di brancolare nel buio, per quanto queste distinzioni possa­ no arrivare a chiarezza nella pratica musicale. In particolare per quanto riguarda il semitono diatonico e il semitono cromatico non ci possono aiutare riferimenti alla gran­ dezza pura e semplice degli intervalli. Nel sistema tempe­rato la 147 grandezza è esattamente la stessa. In altri sistemi, e riferiamoci ancora a titolo di esempio alla scala pitagorica, assumendo che si attribuiscano alle alterazioni di trasposizione la funzione di alterazioni cromatiche, avremmo il caso singolare secondo cui il semitono cromatico (funzione ora assunta dall'apotome = 114 cents) sarebbe più grande del semitono diatonico (limma = 90 cents). In generale l'intera questione è resa oscura proprio dalla coincidenza tra alterazioni cromatiche e alterazioni traspositive, più precisamente dal­l'im­piego delle alterazioni traspositive nella funzione di alterazioni cromatiche. Ciò mette in ombra la com­ pleta autonomia in cui deve essere sviluppata la tematica del cro­ matismo. In precedenza abbiamo riferito il livello diatonico ad un "si­ stema" in cui sono predominante intervalli piuttosto grandi. Ora siamo in grado di precisare che un "sistema" potrà essere detto diatonico quando consista di intervalli la cui grandezza consen­ ta la chiara individuazione di suoni distinti. Il piccolo intervallo può naturalmente trovarsi in una scala diatonica, il "semitono diatonico" appunto, ed in precedenza abbiamo reso conto di questo appellativo limitandoci ad osservare che si trat­tava di un semitono integrato in una scala diatonica. Ora pos­siamo dire me­ glio, precisando che esso appartiene ad una confi­gu­razione che è tale da ostacolare la sua apprensione come cromatismo. Esso si trova infatti tra toni. La semplice presenza di due semitoni successivi potrebbe rappresentare un incidente cromatico all'interno di una struttura diatonica. Ed è appena il caso di dire che l'intervallo cro­ matico verrà ora caratterizzato come un intervallo che è abbastan­ za piccolo affinche i suoni successivi possano essere percettivamente intesi come momenti di un processo di trasformazione unitario. Un chiarimento riceve conseguentemente l'idea di scala cro­ matica. Come abbiamo osservato fin dall'inizio, si può conce­pire la scala cromatica come derivante da una suddivisione pri­maria del­l'intervallo di ottava, sulla quale vengono ricavate le possibili scale diatoniche. In questa concezione i gradi semitonali vengo­ 148 no considerati come note distinte allo stesso titolo dei gradi della scala diatonica. Si tratta naturalmente di una possibilità - giocata soprattutto su come stanno oggettivamente le cose. Scala diatonica e scala cromatica verrebbero dunque proposte all'interno di un'u­ nica considerazione sistematica. Occorre tuttavia notare che in tal caso si deve rinunciare a vedere nella scala cromatica proprio il cromati­ smo, considerandola essenzialmente come un risultato che con­ segue dall'aggiunta alla scala diatonica dei semitoni di trasposi­ zione. La successione dei semitoni, in quanto fenomeno sonoro concreto, sta tuttavia al limite di questa possibilità: difficilmente la si può udire senza avvertire la forza di attrazione del croma­ tismo, e cioè senza avvertire il trapassare dell' un grado nell'altro. Come abbiamo osservato in precedenza, già due semitoni succes­ sivi creerebbero un incidente cromatico in una scala diatonica. Tanto più per una successione di dodici semitoni: essa rappre­ senta una condizione particolarmente favorevole perché venga sollecitato quel modo di intendere che propone la relazione con il flusso sonoro. Per questa ragione il passaggio al "metodo di composizione con le dodici note" non poteva che prevedere il divieto, nella costruzione della serie dodecafonica, di due semi­ toni successivi, ed a maggior ragione più di due [32]. Tenendo conto dell'effetto cromatico, la scala cromati­ ca va dunque considerata non tanto come una successione di note, quan­to piuttosto come un unico movimento sonoro risul­ tante dell'ap­pli­cazione iterata di un'operazione diesizzante nella dire­zione a­scen­dente e bemollizzante nella direzione discendente. Questa idea dell'al­te­ra­zione cromatica iterata sta del resto alla base della regola scolastica, peraltro non sempre seguita dai musicisti, come mostra il precedente esempio beethoveniano, secondo cui in un cromatismo ascendente è obbligatoria la notazione diesis, in un cro­ma­ti­smo discendente la notazione bemolle. In questa rego­ la, che può sembrare una pedantesca sopravvivenza del passato che la coincidenza tra diesis e bemolle indotta dal temperamento renderebbe inessenziale, ridotta ad un mero fatto notazionale 149 provvisto al massimo di una consistenza puramente mentale, mantiene invece nella scrittura il riferimento ad una direzionalità del movimento, che resta in ogni caso viva nella concretezza del fatto musicale - anche, certamente, nel regno del temperamento equalizzato. Si comprende allora già in queste considerazioni elementari e indipendentemente da ogni più complessa questione "gramma­ ticale" relativa a questo o a quel linguaggio determinato, come il cromatismo possa essere distruttivo del livello diatonico. Nel­ la sca­la cromatica, intesa in senso proprio, tutto è alterazione e mutazione sonora: per questo possiamo affermare che nessuna nota del livello diatonico sopravvive nella scala cromatica. Nulla è dunque più cieco, dal punto di vista della concettualità pro­ priamente musicale, che presentare la scala cromatica come una semplice somma di note naturali + note alterate, come se la scala cromatica fosse nient'altro che una scala diatonica a cui si sono aggiunte le alterazioni di trasposizione. Va infine sottolineato che un cromatismo non presuppo­ ne l'esistenza di alcuna considerazione sistematica. Questo è un punto di particolare importanza perché riguarda intanto l'as­sen­ za di vincoli in linea di principio per ciò che riguarda la grandezza dell'inter­vallo. Anche da questo punto di vista il rife­rimento ad una divisione equalizzata dell'ottava ci può indurre in errore. In re­ gime equalizzato la grandezza del semitono cromatico è ovviamente tanto esat­ta quanto lo è quella del semitono di trasposizione essendo l'uno coincidente con l'altro. Ma anche nel caso di suddivisioni non equalizzate, qualora le alterazioni traspo­sitive fossero impie­ gate come alterazioni cromatiche, ci troverem­mo di fronte in ogni caso a grandezze fisse e determinate. Questa determinatezza ed esattezza è una condizione ovviamente ineli­mina­bile della nozio­ ne di alterazione traspositiva. Scopo dell'al­tera­zione traspositiva è infatti quello di mantenere l'identità della struttura, e questo scopo vincola nel modo più stretto la grandezza dell'intervallo. Unico vincolo del semitono cromatico è invece che esso sia 150 abbastanza piccolo - ma è opportuno ribadire che esso può essere piccolo a piacere e può arrivare ad essere tanto piccolo da portare il cromatismo fino al glissando. Il fenomeno originario del croma­ tismo ci riporta infatti indietro a questa origine nei suoni glissanti, quindi allo spazio sonoro inteso originariamente come flusso. 151 3. Esempi tratti dall'esecuzione di un raga Se vogliamo trovare buone illustrazioni di ciò che intendo dire, dobbiamo prendere le distanze dalla musica europea, e ricorre­ re a materiali di altra origine. In linea generale i suoni glissanti, ma in generale tutte le manifestazioni che mettono in causa la fluidità del suono, la sua instabilità, la sua liquidità sono rarità nella tradizione eurocolta, oppure rimandano, come nel caso del gregoriano, a modalità esecutive che debbono essere riportate alla luce e ricostruite attraverso la ricerca storico-filologica, o a ipotesi difficili da verificare. Ciò è vero almeno fino alla fine del secolo XIX. Nel secolo XX, la ricerca di nuove possibilità so­nore, la sperimentazione elettronica che ne ha fatto largo e li­ bero uso, insieme a molte altre possibilità direttamente deri­vanti dalla produzione calcolistica del suono, così come per certi versi l'influenza del jazz, hanno condotto ad un impiego di que­ste so­ norità anche nella musica strumentale, quando la possi­bilità era consentita dallo strumento utilizzato. In realtà si sarebbe forse tentati ad affermare che la musi­calità europea, a differenza della musica orientale in genere, sareb­be at­ traversata dal predominio del suono considerato come oggettività chia­ramente individuata e quindi di una linea sonora capace di trac­ ciare un disegno chiaramente articolato, di una architettura il cui impianto sia sempre chiaramente visibile: e ciò corrisponderebbe certamente ad un orientamento intellettuale prevalentemente indi­ rizzato verso la chiarezza e distinzione, piuttosto che verso gli oscu­ ri tremori del sentimento. Il suono sarebbe dunque concepito come qualcosa che c'è già e che deve essere chiaramente fissato nel suo essere - nel luogo deter­minato che esso, come una cosa, occupa. E lo spazio sonoro sarebe sempre tendenzialmente ca­ ratterizzato da vuoti e pieni, da intervalli e da suoni, dal bianco 152 e dal nero, piuttosto che dalla "sfumatura", da una processualità che procede da punto a punto piuttosto che "scivolare" tra essi, e facendo dei "punti" momenti provvisori e instabili di una ma­ teria sonora in movimento. Ma in realtà occorre sempre mettere in guardia da simili generaliz­zazioni che possono suggerire visio­ ni semplicistiche: ovunque vi sia musica, vi è anche un suono che vive e vi sono mille modi diversi di manifestare questa vitalità. Tuttavia se insistiamo su una vitalità della materia sonora che il musicista si propone di evocare traendola dalle sue fibre più profonde, mettendo questa vitalità piuttosto che la ricchezza co­ struttiva al centro dell'e­spres­sione musicale, indubbiamente il ri­ ferimento alla musica orientale e indiana in particolare facilita se non altro l'esempio. E fa subito comprendere per quali ragioni abbiamo osservato in precedenza che, in rapporto alla tematica del cromatismo, è in questione il musicista nell'atto concreto di produrre suoni e che suonando fa vivere il suono, e non il musi­ cista che dà le regole e stabilisce le misure. Consideriamo un esempio di raga, eseguito al flauto da Ha­ riprasad Chaurasia. Si tratta del raga Asavari [33] che è carat­ terizzato da una struttura pentatonica in direzione ascendente ed eptatonica in direzione discendente [34]. Le sue note, gli oggetti sonori di cui è costituito sono i seguenti: Tuttavia il Sa (do) è sempre concepito in senso relativo e l'into­ nazione effettiva di Chaurasia sembra essere la seguente [35] : 153 (Es. 013 *) (Es. 014*) L'esempio di esecuzione di Hariprasad Chaurasia mostra fino a che punto l'inflessibile omogeneità e rigidità della successione de­ gli oggetti sonori possa essere superata da una fluida processualità che collega suono a suono, riempiendo gli intervalli e nello stes­ so tempo animando il suono dall'interno ottenendo un risultato intensamente espressivo anche nella semplice enunciazione della struttura scalare (Es. 015*). Conviene esaminare ciò che qui accade con una certa ana­ lisi di dettaglio, in una sorta di esercizio fenomenologico con­ cre­to. Abbiamo parlato in precedenza del fatto che la nota non soltanto c'è, ma in forza del cromatismo, "entra in scena" oppure "esce di scena". E che può entrare in scena dal basso o dall'alto. Di queste formulazioni questo raga fornisce un'illu­strazione so­ nora estremamente significativa. La prima nota vie­ne introdotta dal basso, con un passaggio appena avvertibile, che noi possia­ mo rendere più avvertibile attraverso una operazione di esten­ sione della durata - un artificio che è molto utile in casi come questi per facilitare l'analisi. Essa ha anche un proprio modo di chiudersi con una lieve ondulazione (Es. 016, 017, 018, 019, 020, 021*): In modo all'incirca analogo viene proposta la terza nota Ma che 154 chiude tuttavia dal basso sulla stessa nota: L'ultima nota viene raggiunta con un glissando piuttosto esteso: Un bell'esempio di entrata dall'alto è la nota Da, la quinta nell'ordi­ ne, che conclude dolcemente oscillando con la sfumatura superio­ re, con una raffinata ripetizione in pianissimo al suo termine [36] (Es. 022, 023 *): La seconda nota Ri viene si impenna leggermente all'inizio e poi viene raggiunta con una leggera flessione discendente (Es. 024, 025*): La variazione interna della nota Pa è affidata invece alla dinamica e ad un vibrato piuttosto ampio (Es. 026, 027*). 155 Anche nella direzione discendente, le note costitutive del raga in successione tra loro sono proposte in modo che l'una tra­ pas­si nell'altra, e nello stesso tempo nessuna si muove in modo rettilineo se non nei momenti di indugio che confermano la nota raggiunta e che nello stesso tempo preparano nuovi fermenti. Lo stesso ordine della discesa scalare viene reso inquieto dagli attacchi dal basso o dall'alto, e dalle sottili inflessioni che passano al di sopra ed al di sotto della nota principale. Il flettersi del suono è ora entrato a far parte di una dimensione propriamente musicale, e non è più da considerare soltanto come un tema relativo alla feno­ me­nologia dei piccoli intervalli. Il testo da cui abbiamo tratto questo esempio propone an­ che un tentativo di trascrizione dell'esecuzione di Chaurasia, nel­ la quale, per indicare le varie figurazioni, oltre a ricorrere alle lettere tipiche della notazione indiana che sono abbreviazioni dei nomi corrispondenti, si cerca di impiegare alcuni segni per indicare le flessioni del suono. Così il segno di apostrofo diritto e inclinato a destra sulla nota indica un approccio dal basso e il se­ gno inverso un approccio dall'alto. Una linea obliqua / oppure \ tra due note indica un glissando lento dall'una all'altra nelle due direzioni, un segno ondiforme un fluttuare del suono, una linea rettilinea il perdurare del suono senza modificazioni, un apo­ strofo una breve pausa, ecc. Oltre a ciò si cerca di o­perare una trascrizione in notazione europea, peraltro utilizzando do, inteso come do mobile, come Sa e cercando di rendere le flessioni del suono mediante "notine". La direzione ascendente e discendente (Es. 015, 027*) ver­ ranno dunque rese nel modo seguente: 156 Tutto ciò è interessante per varie ragioni. Intanto è necessario attirare esplicitamente l'attenzione sul fatto che le "notine" non sono note affatto - le note "vere" sono le "grandi note", sono le note costitutive del raga. I suoni indicati da queste notine sono suoni che sfuggono via, spesso appena percettibili, quasi ombre di suoni, momenti di transizione - al punto che la scrittura delle pic­ cole note sembrano attagliarsi assai poco a ciò che effettiva­mente viene udito, e forse non molto di più degli stessi approssi­mativi segni diacritici o addirittura dei tentativi di tracciati lineari che ab­ biamo proposto come grossolana imi­tazione grafica del flusso sonoro. Si consideri ad esempio la conclusione del­l'e­spo­sizione del raga nella sua direzione discendente. Nella trascri­zione viene riportata una notina nel modo seguente: Essa si avverte appena come una sorta di tremore interno della nota Ri (Es. 028, 029*). Qui la notina rappresenta un momento di cedimento di Ri, che anticipa e fa presentire l'ulteriore vera e 157 propria caduta in Sa. Essa rappresenta dunque non già una nota in senso proprio ma un momento di un divenire, che è qui un venir cadendo del suono iniziale sino alla conclusione. Questa scrittura può dunque essere considerata utile perché rende più afferrabili all'ascoltatore occidentale le sottigliezze di un simile modo di eseguire una "scala", ma essa in certo senso è impropria per il fatto stesso che propone "note" là dove si tratta invece di momenti di un processo. Nello stesso tempo essa ha il vantaggio di suggerire un'assimilazione, questa assolutamente appropriata, con i nostri abbellimenti. Questi momenti di pas­ saggio sono in effetti per il musicista indiano alankara - orna­ mentazioni [37] . Naturalmente la tipologia degli alankara è molto vasta, e la terminologia varia e non sempre omogenea. Ma ciò dipende dalla natura stessa della cosa: l'ornamento così inteso fa parte della mo­ bilità del suono, della sua fluidità, delle sue interne evane­scenze: ed è legata quindi a moduli esecutivi variabili e difficili da codificare che dipendono dallo strumentista così come del resto dalla natura dello strumento. I nomi con cui queste "mutazioni" del suono vengono chiamate sono spesso suggestivi proprio in rapporto a questa situazione: troviamo così, nei nomi, rimandi a fiocchi di neve, palpiti, dondolii, mormorii, scivolamenti, fusioni, vibra­ zioni... [38] . Ma attraverso questa varietà vi è un tratto che ac­ comuna tutte queste modificazioni espressive del suono: esse riportano al suono-processo, al suono come flusso. Ed è in base a questa circostanza che possiamo affermare che cromatismo e ornamentazione hanno una radice comune. 158 4. Cromatismo e ornamentazione La stretta relazione tra cromatismo e ornamentazione è già sta­ ta ampiamente annunciata nella nostra prima introduzione del problema del cromatismo, quando ci siamo attenuti a caratteriz­ zazioni scolastiche. Questo problema era subito affiorato non appena abbiamo mostrato, passando attraverso l'idea del pic­ colo inter­vallo, il legame tra cromatismo e transizione, e dunque tra cromatismo e processualità del suono, e soprattutto quan­ do ab­biamo citato alcune possibili varianti della situazione della transizione, varianti che erano già proponibili come "ornamen­ tazioni". Naturalmente nella musica l'importanza che riceve l'e­ lemento temporale, il fatto che si abbia sempre comunque a che fare con il succedersi di suoni, stabilisce un vincolo in­scin­dibile con la forma del processo. Ma questa forma può essere riempita in una grande quantità di modi. Ed è al suo interno che si giocano le differenze che riportano al polo della discretezza ed a quello della continuità, e vi riportano secondo modi molte­plici realiz­ zando una straordinaria varietà di forme espressive. Nulla sareb­ be più sbagliato che fare di una simile opposizione uno schema rigido ed astratto - di qui l'oggetto, di là il processo; proprio la dia­ lettica complessa tra questi due poli, all'interno di un percorso temporale che sempre avanza, rappresenta invece uno dei mezzi più potenti dell'espressione musicale. Tutto ciò trova una notevole illustrazione nel tema del croma­ tismo e dell'ornamentazione. Con il termine di cromatismo pos­ siamo intendere strutture che dal piano della discretezza possono raggiungere quello del flusso. La scala cromatica nel senso che ci è familiare è fatta di "scalini" abbastanza distinti da poter essere appresa anche come una possibile articolazione di base dello spa­ zio sonoro. Ma non vi è dubbio che, in determinate condizioni di 159 contesto, sulla molteplicità dei punti sonori prenda il sopravvento l'unità di un processo di alterazione che viene con­cretamente af­ ferrato in un'esperienza di transizione nella qua­le i punti, even­ tualmente ancora avvertibili, sono intesi come suoi momenti, sue fasi. Come abbiamo sottolineato più volte, ciò che importa non è il dato come tale, ma il modo in cui esso è inteso. Nello sviluppo del nostro tema, la questione dell'ornamen­ tazione, appena affiorata all'inizio, si è imposta con particola­ re evidenza soprattutto con i riferimenti esemplari alla musica india­na. Ornamentazione, tematica dei piccoli intervalli, suono fluente finiscono nel nostro esempio con il fare tutt'uno. L'ornamentazione come il cromatismo deve d'altronde esse­ re trattata all'interno di una tematica che ha di mira le categorie ge­ nerali ed elementari della musica - liberando il termine da inclina­ zioni di senso verso esteriorità irrilevanti. Neuman [39] , all'inizio della sua monumentale opera sull'ornamen­tazione nel barocco, osserva che "la storia dell'orna­mentazione è presumi­bil­­mente tanto antica quanto il canto stesso. L'impulso a giocare con ma­ teriali musicali, a manipolare piacevolmente (playfully) una me­ lodia cambiando il suo ritmo interno e aggiungendo nuo­vi suo­ ni deve scaturire da un istinto umano profondamente ra­dicato perché noi troviamo le sue manifestazioni in tutte le età ed in tutte le culture" [40]. Affermazione assai giusta, ma che forse potrebbe essere fraintesa come se in questione sia qui solo il piace­ re dell'arricchimento e dell'efflorescenza per così dire sopra il suo­ no: come uno svolazzo che si aggiunge al suono, come un detta­ glio che lo abbellisce. Se tuttavia andiamo all'origine del problema, forse dovremmo mettere l'accento sul fatto che essa va ricercata nella vitalità interna della materia sonora, richiamando l'attenzione sull'inten­sifi­cazione espressiva ed emotiva, piuttosto che sull'este­ riorità suggerita dal termine di abbellimento. "Una melodia senza ornamentazione sarebbe simile ad una notte senza luna, ad un fiume senza acqua, …" [41] . Si comprende allora come la stessa parola "ornamen­tazio­ 160 ne" possa essere circondata da qualche cautela. È sintomatico a questo proposito che l'importante volume di McGee sull'ornamentazione nella trattatistica musicale del me­ dioevo usi questo termine solo nel sottotitolo, mentre pre­ferisca impiegare nel titolo il termine di "Sound": The Sound of Medieval Song [42]. Talora egli sottolinea anche che il parlare di ornamen­ tazione non deve far pensare a integrazioni accessorie alla linea del canto, ma ad un vero e proprio "stile vocale che include un ampio numeri di suoni che sono estranei alla pratica occidentale più tarda. Se noi osserviamo la quantità di forme di neumi 'or­ namentali' nei canti dei manoscritti più antichi, l'estensione di questi suoni 'ornamentali' in uso li rimuove dalla categoria dell' 'ornamentale' [43]. Fin dell'inizio McGee afferma che "ciò che noi oggi chiamiamo 'ornamenti' erano in realtà una parte inte­ grante del concetto di linea musicale" [44] . Nei trattatisti medio­ evali del resto non vi è un preciso corrispondente al termine di ornamentazione. Si parla piuttosto di "colore" (color), mentre il termine di "fioriture" (flores) viene spesso riservata a melismi veri e propri che possono assumere una particolare ampiezza [45] . In realtà si tratta di una distinzione importante all'interno della te­ matica dell'ornamentazione proprio perché nel primo caso siamo più prossimi alla materia sonora, nel secondo al disegno melodico. Mentre nell'ultimo capitolo del libro McGee si occupa dei flores, i primi quattro sono dedicati al colore, ed in essi soprattutto si pro­ pone ed argomenta la tesi generale generale del volume secondo la quale il Sound del canto me­dioevale è caratterizzato soprattutto da sonorità fluide, da ondeg­giamenti appena percepibili dell'altezza, da impennate del suono e dai suoi cedimenti - dunque dal gioco tra il suono "solido" e il suono "liquescente" (liquescens) [46] . I suoni possono flettersi (inclino), piegarsi (plico), incurvarsi (curva­ tio), serrarsi (premo) l'uno all'altro. I nomi dei neumi contengono spesso rimandi a questi modi d'essere dei suoni. Anche la grafia dei neumi è allusiva alla distinzione tra suoni solidi e liquescenti: "Mentre le forme non-liquescenti sono fatti di puncti, tractuli e 161 virgae, le forme liquescenti hanno linee ricurve o indefinite. Nelle forme liquescenti la nota rappresentata da un contrassegno cur­ vo va cantata con una sonorità che si flette e come un glissando, piuttosto che con un suono stabile e pieno" [47] . Nella Summa musice [48] si osserva che il suono "punto" (punctus) è "formato nella maniera di un punto" - punctus ad mo­ dum punti formatur: la stabilità e la solidità è ben rappresentata dal punto quadrato f. Della clivis, ~, di so­lito indicata fra le forme non liquescenti, si segnala il cedi­men­to del suono sulla seconda nota. Clivis "si dice da cleo che significa 'inclino', e si compone di una nota e dalla metà di una nota, indicando che la voce deve flettersi (Clivis dicitur a cleo, quod est "inclino", et componitur ex nota et seminota, et signat quod vox debet inflecti)" [49] . Questo aspetto è anche messo molto efficacemente in versi dall'autore: Vult notulis binis semper descendere clivis Obscurumque sonum notat illius nota finis. Vuole la clivis sempre discendere di due piccole note e la nota con cui termina contrassegna un suono oscuro [50] . Si può dire, stando a McGee, che per lo più una forma "solida" ha una forma liquescente che corrisponde ad essa. Così, sem­ pre la Summa musice, nella descrizione del pes o podatus, s, dopo aver semplicemente osservato che "Podatus continet notas duas quarum una est inferior et alia superior ascendendo", pone poi nei versi l'accento sulla dissolvenza verso l'acuto dove la nota si spegne, come nel caso dell'epiphonus che è appunto un podatus liquescente nel cui segno, i, la notina superiore indica appunto la sfumatura ascendente della nota solida: Pes notulis binis vult sursum tendere crescens; Deficit illa tamen quam signat acuta liquescens. 162 Il pes vuole tendere in alto crescendo attraverso due piccole note; e tuttavia quella acuta dissolvendosi liquidamente manca la nota di cui è segno Così il quilisma, che nel suo segno h sembra proporre un pas­ saggio ascendente da una nota all'altra attraverso una sorta di tremolo intermedio, poteva forse essere inteso anche come un passaggio vibrante e glissante ad una nota superiore come i neu­ mi più antichi fanno sospettare: San Gallo: Benevento: In ogni caso è interessante notare che per questa figura viene talora evocata la solidità della terra e la fluidità dell'acqua: "I qui­ lismi sono detti per similitudine, quilos infatti significa in greco umore e mus terra, quasi che si trattasse di terra umida per aver ricevuto acqua" (Quilissimi dicti ad similitudinem, quilos enim graece humor et mus terra, quasi humida terra a receptione aquarum") [51] . Questa problematica tocca anche il caso dei neumi riper­ cussivi. Del resto la ripetizione di una nota singola, se eseguita in un certo modo, si può presentare come la stessa nota attraversata da interne pulsazioni. In rapporto alla bivirga }} e della trivirga }}} - ripetizioni della stessa nota su un unica sillaba -SI parla talora di una "leggera ripresa della voce sullo stesso suono evitando però la completa interruzione del suono prima di ripercuotere la nota" [52]. Un altro esempio di neuma ripercussivo che poteva essere anche letto in modo liquescente è il pressus, t. La ripe­ tizione della nota può essere seguita da un cedimento dell'into­ nazione verso il basso, cosicché questa figurazione sembra im­ plicare sia l'articola­zione ripercussiva, sia la flessione dell'altezza che la conclude [53]. Significative, in rapporto al problema del rapporto tra cro­ matismo e ornamentazione, sono anche le considerazioni sulle variazioni di altezza: in taluni casi il mutamento di altezza poteva 163 non superare il quarto di tono. L'uso dei quarti di tono era del resto generalizzato nel gregoriano più antico. "Un ele­mento im­ portante della pratica di canto medievale implica la libertà nell'al­ tezza - sia la libertà di sostituire un intervallo con un altro sia la scelta di altezze differenti dal tono e dal semitono standard" [54] . Credo che di fronte a queste descrizione, nell'irrimediabi­ le mancanza di attestati sonori sicuri, si sia portati a ripensare proprio agli esempi tratti dalla musica indiana - questo non è certamente un riferimento inappropriato. Ed è notevole il fatto che a questo riferimento alla fine pensi anche McGee. Così egli scrive nelle sue conclusioni: "Poiché il suono vocale occidentale del giorno d'oggi non assomiglia a quello del Medioevo, noi do­ vremo cercare altrove per avere una immagine del suono che si adatti alle descrizioni precedenti. Ed il modello che viene imme­ diatamente alla mente è quello che è ancora comune nei paesi del Mediterraneo orientale e nella musica dell'India…" [55] . Ci si può chiedere tuttavia se una simile impostazione della questione, che tende a ricondurre cromatismo e ornamentazio­ ne sotto un unico titolo o, meglio, ad approssimare l'una tematica all'altra considerandole entrambe nel quadro dei fenomeni della continuità, possa arrivare ad estendersi al punto di abbracciare anche l'età per noi classica dell'ornamentazione, ovvero il periodo barocco. In realtà, ciò potrebbe suscitare immediate perplessità. L'or­na­mento barocco - soprattutto se pensiamo agli strumen­ ti a tasto ed agli strumenti in genere piuttosto che alla vocalità - è certamente lontanissimo dagli esempi indiani e da ciò che si può ipotizzare sull'antico Sound del cantare medievale. Ma il problema che si può porre non è tanto quello di assimilare discu­ tibilmente stili linguistici profondamente differenti, che hanno alle loro spalle orientamenti intellettuali e immaginativi che pro­cedono in direzioni del tutto diverse, quanto piuttosto di co­gliere aspetti che riguardano in certo senso un'origine ideal­mente comu­ne: come se ci fosse un processo che conduce dalle oscure e interne inquie­ 164 tudini del suono a figurazioni chiare e distinte, a partire dalle quali di quelle inquietudini possa essere evocato il ricordo. Assumendo questo punto di vista la questione assume un aspetto del tutto diverso. Naturalmente, per far valere questa linea di discorso, dovremo prestare attenzione soprattutto alle forme più elementari che sono in grado di dare subito un corpo alle no­ stre considerazioni, escludendo le ampie digressioni improvvisa­ tive che vanno sotto il nome di "diminuzioni" - così come del resto ab­biamo fatto in precedenza nel caso delle digressioni meli­ smatiche del canto gregoriano. Esse infatti presentano una proble­ matica a parte - rappresentando il lato dell'ornamentazione che è destinato, in certo senso, ad autosopprimersi nella forma dello sviluppo melodico. Pensiamo invece al trillo. Questo termine potrebbe essere definito sommariamente come rapida alternanza tra due note vicine [56] . Ma si vede subito che in questa formula c'è qualcosa che non va. La definizione, in certo senso, rispetta l'obiettività delle cose. Ma il parlare di due note tradisce l'aspetto musicale e fenomenologico della cosa, per quanto una simile affermazione possa sembrare a tutt'a prima sorprendente. La nota è invece una sola - l'altra è una sua modificazione, una sua coloritura. Molto efficacemente la trattatistica parla di questa come una nota falsa, cioè di una nota che non è una nota vera e propria, ma una sorta di nota-fantasma rispetto alla nota trillata, che è propriamente il nucleo dell'orna­mento e che sarà invece spesso chiamata nota reale. Ed essa viene chiamata così perché è la nota che appartiene al decorso motivico, mentre il gioco del trillo è un evento che appartiene strettamente ad essa, una sorta di suo tremito interno che è inessenziale allo sviluppo del motivo. Talora si incontrano anche raccomandazioni a non oscurare con l'orna­mento l'andamento melodico. Ad esempio, tra gli ornamenti proposti da Geminiani nel suo The art of playing on the violin ve ne è uno in cui la nota reale viene tenuta prima o dopo il trillo, con l'intento esplicito di evitare che essa possa non essere chiaramente individuata: 165 Il commento è infatti "È necessario usare questo ornamento spesso; poiché se facessimo continuamente mordenti e trilli sen­ za lasciar udire di tanto in tanto la nota autentica (pure), la melo­ dia risulterebbe essere troppo diversa" [57] . Incontriamo qui un aspetto caratteristico dell'ornamento musicale - da un lato la nota o le note che fanno parte di esso non sono note autentiche ma appartengono alla nota che orna­ no; dall'altro, e conseguentemente, esse non debbono ostacolare il disegno complessivo del percorso a cui appartengono. Il fatto che esse compaiano come notine o vengano contrassegnate con segni speciali è naturalmente significativo di questa circostanza. Così come lo è il fatto che venga lasciato un margine di aleatorietà esecutiva, che riguarda sia il modo di realizzare l'ab­bel­limento sommariamente contrassegnato, sia le durate e i loro rapporti. Neumann sottolinea lungo l'intero corso del suo vo­lume sull'or­ namentazione barocca che la pratica dell'or­namento era assai più libera di quanto si teorizzò in seguito. Forse si può arrivare a sostenere che il disordine semiografico che dà ancora oggi filo da torcere a studiosi ed esecutori di musica barocca fosse allora tollerabile, per il fatto che l'esecutore non era vin­colato dal segno stesso ad un'esecuzione strettamente deter­minata. L'idea che gli ornamenti come sfuggono al sistema, così si sottraggono anche in via di principio ad una precisa notazione è spesso ribadita dai trattatisti, puntualmente citati da Neumann che si esprime anche piuttosto duramente contro la pretesa di determinare in modo "oggettivo" le modalità esecutive dell'or­namen­tazione barocca. "Questa letteralità nell'esecuzione non è una virtù ma un vizio che cresce in proporzione all'età della musica. Questo vale già per i più solidi elementi strutturali. E le implicazioni di questo 166 fatto crescono alla seconda potenza in rapporto agli ornamenti che sono predestinati per loro natura alla flessibilità improvvi­ sativa" [58] . Ed ancora: "Molti ricercatori moderni, comunque, separati da secoli dall'esperienza viva di quei tempi, sono cadu­ ti vittima dell'errore di considerare le ta­vole contenenti modelli di ornamenti come rigorosamente normative… Questo fatale fraintendimento ha avuto come risul­ta­to di produrre un'imma­ gine distorta dell'ornamentazione sto­rica esaltando una rigida disciplina che contraddice la natura effettiva degli ornamenti" [59] . "Ne segue che nulla è più falso storicamente e al tempo stesso non vi è nulla di più anti-artistico che quei specimen di trilli metricamente misurati o della loro con­troparte in altri ornamenti che spesso vengono presentati come modelli che si pretendono 'definitivi' di autenticità storica" [60]. Da questo errore proprio i trattatisti d'epoca mettono in guardia. Quando si fanno avanti esigenze di fissazione scritta e quindi di determinazione esatta dell'ornamento, si può essere certi che questo non venga più visto come tale, ma cominci con il cam­biare natura allontanandosi dalla nota singola per integrarsi nel movimento reale del brano. Ma vogliamo indugiare un poco sull'esempio molto sem­ plice e nello stesso tempo particolarmente illustrativo, del trillo. Abbiamo parlato in precedenza di esso come un tremito interno della nota. Il riferimento al tremare si trova del resto nella ter­mi­ no­logia musicale dell'età barocca: Bebung, in tedesco - da beben, tremare; Shake in inglese, che come forma verbale può tradurre beben. Un equivalente in lingua francese è tremblement. Nella ter­ minologia musicale italiana, oltre a trillo, vi è anche la parola tre­ molo (tremoletto) [61] . Ma si può anche rammentare il tremamento di Feyertag [62] oppure la definizione del tremolo di Praetorius come "ein Zittern der Stimme ober eine Note" [63] . Certamente né il trillo nel senso consueto del termine è un tremar della nota, né questi termini possono essere considerati come letteralmente appropriati. Per questo in precedenza abbiamo parlato piuttosto di una "origine" e di un "ricordo" di questa origi­ 167 ne. In effetti non è certo difficile scorgere alle spalle del trillo qual­ cosa di diverso da esso, ma da cui esso può "sorgere" - esso può essere considerato come una sorta di proiezione sul terreno della discretezza di qualcosa che sta anzitutto sul piano della continuità. Stringendo la distanza tra le due note il trillo si approssimerà sempre più al "vibrato". Ed il vibrato non ammette una descri­ zione in punti di suono, ma rappresenta piuttosto un ondeggia­ mento interno, una "ondulazione" del suono. Dal punto di vista obbiettivo sono in gioco soltanto altezze (frequenze) differenti, mentre dal punto di vista fenomenologico è lo stesso suono che vibra, alterandosi nel suo corso. È notevole del resto il fatto che nella terminologia medioevale quel che noi chiamia­mo trillo, sa­ rebbe stato chiamato vibratio: "La grazia più spesso discussa nei trattati è l'ornamento che oscilla da un'altezza ad un'altra: la deco­ razione che chiameremmo "trillo" quando interessa l'intervallo di un semitono o più ampio, o 'vibrato' se occupa un intervallo più piccolo di un semitono. Benché la parola 'trillo' non sia usata dagli scrittori medievali, le parole vibro e tremolo si trovano spesso in connessione con la descrizione del modo in cui questo ornamento viene eseguito" [64] . Gerolamo di Moravia, nel Tractatus de mu­ sica, propone come "fioritura" di una nota all'organo di tenere la nota reale mentre si fa risuonare ad intermittezza (vibrare) la nota superiore. "Di qui sorge una bellissima armonia e ornamenti, che chiamiamo fiore armo­nico" [65] . Lo stesso Gerolamo descrive la possibilità di aumen­tare la velocità della vibratio, ed eventual­ mente aumen­tarla progressivamente come nell'esempio c. 168 Nel caso della voce, dove naturalmente la nota tenuta verrà so­ stituita con la sua ripetizione, è possibile anche stringere l'inter­ vallo al di sotto del semitono: si ottiene così quella che Gero­ lamo chiama una vibratio procellaris, dove la procellaris nota sugge­ risce l'immagine dell'onda del fiume appena mossa da un'aura leggera, senza che vi siano vere e proprie fratture sulla sua super­ ficie: "così la nota procellaria deve avere nel canto l'apparenza di un moto senza che tuttavia vi sia interruzione del suono o della voce" [66]. Osservazioni come queste non hanno solo un interesse storico relativo alle prassi esecutive, ma mettono in evi­ denza un nesso fenomenologico interno tra "trillo" e "vibrato": "diventa chiaro che Gerolamo include all'interno della categoria della 'fioritura' l'oscillazione di qualunque intervallo, da intervalli più piccoli di un semitono a intervalli di un tono, abbracciando in termini moderni sia il trillo che il vibrato" [67] . Ritornando all'èra barocca, sotto il nome di tremolo, Gemi­ niani indica proprio il vibrato come appare dal passo seguente: "Questo non può essere descritto da note... Per eseguirlo dovete premere fortemente il dito sulla corda dello strumento e muo­ vere il polso avanti e indietro in modo lento e uniforme..." [68] . Lo stesso nome di tremolo serve talora a caratterizzare una stessa nota ribattuta con durate molto brevi - anche in questo caso la descrizione obbiettiva non riesce certo a rendere la si­ tuazione uditiva specifica, nella quale la molteplicità numerica dei "punti" di suono viene superata dalla sensazione dell'identità perdurante della nota: cosicché si forma una sorta di equivalen­ te del vibrato sul piano temporale piuttosto che su quello delle altezze. La nota, anche in questo caso, trema. Siamo naturalmente sul terreno della vibratio suggerita da Girolamo di Moravia. Anche in ciò che Caccini chiama trillo, come nella vibratio di Gero­lamo, vi può essere un'accellerazione del movimento della ripetizione: 169 Osserva Neumann che "l'esecuzione di questa grazia doveva ab­ bracciare le varie possibilità da una chiara e netta separazione delle note sino a lievi accentuazioni dinamiche senza interru­ zione del fiato. Si potrebbe parlare di stile esecutivo staccato o legato (e quest'ultimo come forma di un vibrato intenso). In­ dub­biamente erano utilizzati entrambi gli stili." Neumann ram­ menta anche, come esempio di stile "staccato", il trillo utilizzato da Monteverdi nel Ritorno di Ulisse, per imitare il riso, in un passo in cui è specificata sia la parola "trillo" che quella di "riso natu­ rale" [69] . Naturalmente non si tratta per nulla di negare la differenza tra trillo e vibrato - nelle accezioni consuete dei termini. Una dif­ ferenza significativa è già rappresentata dal fatto che il vibrato, come dice Geminiani, "non può essere descritto da note". Men­ tre il trillo sì. Ciò vuol dire che il trillo comincia ad appartenere all'ambito delle figurazioni musicali vere e proprie - mentre il vibrato riguarda piuttosto il modo concreto di risuonare della nota come materia sonora. Tenendo conto di ciò ci possiamo persino sorprendere del fatto che si parli del vi­bra­to, come fan­ no Geminiani e altri, come se si trattasse di un orna­mento come un altro [70] . Ad esso talora ci si riferisce, nella terminologia francese, come Plainte - gemito, lamento. Eppure, che il vibra­ to possa essere considerato un ornamento potrebbe non essere considerato affatto ovvio. Se ci chiediamo il motivo per una si­ 170 mile classificazione tuttavia le nostre considerazioni ci offrono subito una buona risposta. Come abbiamo detto in precedenza, l'"ornamento", non solo non appartiene alla linea melodica prin­ cipale ma, nelle sue forme elementari, non può essere conside­ rato nemmeno come una figurazione aggiuntiva: la sua funzione è fondamentalmente una funzione espressiva - in un'accezione del termine che rimanda alla zona affettiva, ai richiami emotivi. Il suono puro, puramente lineare, che perdura in una identità inesorabile affidata alla pura durata ininterrotta ed all'esattezza e univocità dell'altezza potrebbe essere consi­derato come caratte­ rizzato da un'inespressiva rigidità. L'orna­mento ha proprio il compito di far ridere o piangere il suono. Nella terminologia di Geminiani, gli ornamenti non sono solo ornamenti, ma precisamente Ornamen­ ts of Expression. A mio avviso l'accento dovrebbe essere posto sull'Expression piuttosto che sugli Ornaments - questo vale for­ se per l'intera ornamentazione barocca. Ed allora si comprende come nella stessa classe delle "notine" - ovvero come ornamen­ ti - possano presentarsi anche il piano o il forte, ovvero il puro e semplice accrescimento o la diminuzione della forza del suono singolo e, appunto, il tremolo inteso come vibrato [71]. Il tril­ lo a sua volta può essere considerato come una proiezione sul piano della chiarezza e della distinzione delle oscure vibrazio­ ni interne della materia sonora - dalle quali peraltro può anche prendere la massima distanza. Il vibrato può diventare una pratica esecutiva riprovata, mentre la chiarezza e distinzione del trillo può essere oggetto di raccomandazione: un buon trillo deve essere ben discri­minato, deve essere eseguito, si potrebbe quasi dire, "analiti­ca­ mente", e presentare la massima regolarità e nitidezza. Quantz sug­ gerisce persino di regolare la velocità del trillo secondo l'ambiente in cui viene eseguito: "Se il luogo dove si suona è di una certa ampiezza, tale da avere un forte riverbero - egli scrive - un trillo più lento avrà un effetto migliore di un trillo veloce; questo per­ ché un alternarsi troppo rapido viene facilmente a confondersi a causa del riverbero stesso, rendendo indistinto il trillo" [72] . 171 Il fattore esterno della configurazione ambientale che ge­ nera riverbero fa sì che le due note in rapida alternanza possano impastarsi tra loro, il trillo diventa "indistinto" - il suono si im­ pasta, e ciò deve essere evitato. Per la stessa ragione la trattatistica sconsiglia spesso l'ese­ cuzione di trilli nelle regioni gravi. La "pesantezza" del suono si scontrerebbe con la necessaria leggerezza e distinzione dell'or­ namento. Un bell'e­sempio ex contrario ci è offerto da Beethoven, nell'ultimo tempo della sonata n. 29 op. 106: in battute 369-380 il trillo sul mi ¥ e poi sul si ¥ nella regione grave del pianoforte, dove è destinato ad impastarsi quanto mai, e per di più in fortis­ simo, rappresenta una sorta di conferma musicale indiretta. Qui Beethoven riscopre l'origine del trillo come una vibra­ zione della materia sonora e realizza, attraverso il trillo, una sorta di vero e proprio mastodontico vibrato di pianoforte (Es. 030 *). 172 Ma di norma, in epoca barocca, l'ornamento deve sembrare un fine ricamo, ed il maggior rischio sta proprio nel macchiarne il disegno. In questo stesso spirito analitico si pretende la massima precisione ed esattezza nelle durate. Nella seguente riscrittura per esteso proposta da C. P. E. Bach, la trascrizione è tanto pun­ tigliosa da arrivare a note con cinque e sei tagli: [73] Il riferimento alla vocalità tende invece a rammentare il versante opposto. Occorre sottolineare vivacemente questo punto. Vi è una differenza profonda, che tocca proprio questo problema, tra la produzione del suono attraverso la voce ed attraverso lo stru­mento - anche quando lo strumento può approssimarsi in qualche modo ad essa, come nel caso degli strumenti a fiato, e tanto più quando il suono viene emesso in tutt'altro modo, come nel caso di una corda che viene pizzicata da un dito o da un pen­ nino. Credo che si possa affermare che lo "staccato" sia vocal­ mente un artificio: il canto si sviluppa tra i suoni, tende a stabilire legami piuttosto che ad analizzare nota per nota, come farebbero le dita sulla tastiera di un cembalo o sulle corde di un liuto. Ri­ sulta così particolarmente interessante, soprattutto in rap­porto al 173 nostro intento di mostrare la connessione tra orna­menta­zione e cromatismo, il fatto che si possa spesso o forse per lo più attri­ buire l'origine di un ornamento, in apparenza caratte­ristica­mente strumentale, all' "imitazione" da parte dello strumento di una mo­ venza vocale, di cui può risultare talvolta difficile una traduzione articolata in note. Per illustrare il trillo inteso come ribattitura della nota, talvol­ ta si fa riferimento alla tecnica di apprendimento consistente nel cantare una nota e nel premere contemporaneamente e alterna­ tivamente sulla gola, accennando anche a "quel suono interrotto in gola che gli uomini adoprano per richiamare i falchi"[74] . Il trillo è un vero "tremor di voce" - un virtuosismo canoro che potrà essere anche oggetto di reprimenda, come un "cantar come i grilli", un "rider cantando" o un "cantar come le galline che han­ no fatto l'ovo" [75] : si tratta di formulazioni critiche ed ironiche che comunque fanno pensare più ad una modificazione timbrica che ad una voluta ornamentale su un nota. Il trillo stru­mentale, verrebbe voglia di dire, il "trillo analitico" man­tiene certo una relazione con questo "tremor di voce", ma è diventato anche tutt'altra cosa. Proprio in rapporto al problema che fa da filo conduttore alle nostre considerazioni, è necessario richiamare l'attenzione sul fatto che l'intonazione della nota "falsa" non è affatto critica. Il che significa che essa può essere considerata, come ci espri­ me­vamo in precedenza, fuori dal sistema. L'intervallo può anche essere preso molto stretto, e talora anzi questa possibilità è espli­ citamente segnalata. Ecco una illustrazione notevole di questa possibilità, in cui il trillo stretto viene chiamato Close Shake [76] : 174 La scrittura di due punti all'interno dello stesso spazio, intende certamente alludere ad un intervallo piccolo a piacere al di sotto del semitono. Anche Neumann richiama l'attenzione sul fatto che gli intervalli potevano essere "out of tune" [77] . Problemi ri­ guardanti l'intonazione sono presenti nell'osservazione di Tosi secondo cui vi è talvolta una certa difficoltà a stabilire se un cantante effettui un trillo a distanza di un tono o a distanza di un semitono, attribuendone la causa "alla poca forza che ha l'ausi­ liario nel farsi sentire" - ma la spiegazione più probabile sembra tuttavia essere quella di un' intonazione libera tra questi interval­ li. Lo stesso Tosi parla di un "trillo cresciuto" e di un "trillo ca­ lato", il primo consistente "nel far ascendere imper­cettibilmente la voce trillando di Coma in Coma senza che si conosca l'au­ mento", mentre il "trillo calato" "consiste nel far discendere in­ sensibilmente la voce a Coma per Coma col Trillo in forma che non si distingua il declivo". Questi due trilli "da che s'introdusse il vero buon gusto non sono più in voga, anzi bisogna scordarsi di saperli fare. Chi ha l'orecchio dilicato egualmente aborre le seccaggini antiche, e gli abusi moderni" [78] . Questa descrizione di Tosi non è chiarissima potendo essere interpretata sia come un trillo in cui la nota trillante aumenta insensibilmente la pro­ pria distanza dalla nota trillata verso l'alto o la diminuisce verso il basso sia come un movimento di entrambe le note nell'una o nell'altra direzione. È invece for­mulata con chia­rez­za l'idea di mu­ tamenti intervallari tanto pic­coli da produrre l'impressione uditiva di un movimento continuo. Se fino a questo punto ha assunto una funzione esemplare il vibrato, considerazioni analoghe possono essere sviluppate anche per figurazioni che possono invece essere ricondotte al flusso so­ noro vero e proprio, al glissando. Anche questo pos­sibile sviluppo era stato annunciato nella nostra introduzione sull'altera­zione cromatica, in particolare quando abbiamo par­lato del modo in cui una nota può entrare in scena o uscire da essa. Nel riprendere questo tema, vogliamo limitarci a poche osservazioni utili ad il­ 175 lustrare la linea di discorso che abbiamo fin qui seguito, che non è certo orientata nel senso di decidere intorno a questa o a quella modalità esecutiva o a sopprimere differenze chiare ed impor­ tanti: si tratta piuttosto di mostrare che anche nell'ornamentazio­ ne barocca possiamo trovare importanti ele­menti per illustrare la relazione tra ornamentazione e croma­tismo. Assumendo que­ sto punto di vista non possiamo anzitutto non essere colpiti dalla frequenza con cui nei nomi e nelle descrizioni delle figurazioni si presentano riferimenti all'acqua, all'elemento fluido, allo scorrere, allo scivolare, al cadere… Nel caso dell' "appoggiatura"[79], la pratica strumentale rinvia indubbiamente al versante vocale, e precisamente al Port de voix - al "portamento". E sul versante vocale è altrettanto in­ dubbio che il port de voix non ha affatto il senso di proporre due note distinte, scandite l'una dopo l'altra. Scrive in proposito Neu­ mann: "Il termine port de voix sarà usato per indicare una grazia ad una nota che ascende alla sua nota originatrice. Come indica il nome, la sua origine era vocale e il suo significato primario una connessione tra altezze attraverso uno scivo­la­mento (gliding) graduale. Come designazione per una grazia spe­cifica, il termi­ ne si riferisce ad una nota aggiunta dalla quale l'ascesa glissante (gliding) della voce deve cominciare. Nel trasferimento di questa grazia al campo strumentale, lo scivo­lamento era spesso impra­ ticabile; in ogni caso, per gli ar­chi, la coulé de doigt dei gambisti francesi (un lieve scivo­lamento di un dito da un tasto all'altro) o il son glissé di Montéclair erano equivalenti effettivi della grazia vocale" [80]. Il termine di Coulé (couler, scorrere, scivolare, colare) era in par­ticolare applicato all'appoggiatura discendente (benché questo termine possa avere anche altri sensi). Molto notevole la descrizione di Mersenne che parla della voce che "se coule et passe de ré à mi come si elle tiroit le ré après soy qu'elle continuast à remplir tout l'intervale.." [81] - la voce "scorre e passa da re a mi come se essa tirasse con sé il re fino a riempire l'intero intervallo". La saturazione dell'inter­vallo è, come 176 sappiamo, ciò che caratterizza in modo eminente la figurazione cromatica. Si potrebbe così parlare del portamento come di un modo di attacco di una nota che non viene afferrata esattamen­ te nel luogo in cui si trova, ma muovendo da un luogo che sta un po' più in basso o un po' più in alto. Come se la nota non fosse semplicemente un punto, ma piuttosto un punto di arrivo. E va da sé che essa avrà tanto più questo carattere quanto più questo mo­ vimento verso la nota sarà un movimento fluido, glissante, uno sci­ volare ed un cadere su di essa. La notina (petit son) di appoggia­ tura - detta talvolta "nota posticcia" (note postiche) - rappresenta dunque un modo fluente di raggiungere la nota reale (note forte). Quella notina non è una vera nota, perché deve rappresentare piuttosto un movimento verso la nota. Quindi potrebbe anche non essere scritta, mentre si potrebbe scrivere unicamente un'allusio­ ne ad un movimento-verso. Ad esempio così: Questa scrittura, si potrebbe spiegare, deve essere intesa come se sul foglio di carta fosse scritto: come se l'una fosse un semplice segno per l'altra, una sorta di scrittura abbreviata [82]. Vedendo quel tratto ascendente prima della nota, so che cosa debbo fare. Come se si trattasse soltan­ to di stabilirne la lettura corretta. Questo può forse bastare dal punto di vista dell'esecuzione. Di fronte a convenzioni d'epoca attinenti alla scrittura, l'unico problema sembra essere quello di sapere come debbano essere decifrate affinché possano essere correttamente eseguite. Sulla base delle nostre considerazioni precedenti, invece, 177 cominceremmo con il dire il primo segno non è affatto una sorta di scrittura abbreviata del secondo, sottolineando che si affaccia una questione che non può essere ridotta a quella di una sem­ plice decifrazione ed alla conseguente riscrittura. Si tratta invece anzitutto di comprendere il senso dell'appoggiatura, e su di ciò ci può insegnare qualcosa l'attirare l'attenzione su un possibile rapporto con il portamento. La prima notazione ci appare allora, persino graficamente, come se accennasse al versante della con­ tinuità e della coloritura del suono, la seconda a quello dell'ar­ ticolazione e della figurazione sonora. Ora potremmo commen­ tare la relazione tra i segni in questo modo: il secondo segno è una spiegazione del primo, ma anche il primo, nel quale compare soltanto un movimento e la nota che è la sua mèta, è una spiega­ zione del secondo. La prima notazione dice anche che potrebbe non essere troppo importante il punto da cui inizia il movimento. Ciò si­ gnifica che, anche in questo caso, l'intonazione non è affatto cri­ tica, e non lo è tanto più quando ci si approssima alla situa­zione alla situazione di un effettivo glissando. Diversa­mente stanno le cose quando l'appoggiatura viene integrata nel per­corso melo­ dico e armonico del brano. La "notina" assurge al rango di una nota autentica, assolvendo un ruolo armonico importante nel gioco dell'in­troduzione della dissonanza e della sua risoluzione. Questo impiego dell'appoggiatura talora viene proposto dai te­ orici come funzione caratteristica che l'appog­giatura è destinata ad assolvere. In rapporto a questa evoluzione del problema le cose cambiano di molto. Se por­tiamo l'accento su quest'ultimo modo di impiego ci allon­taniamo evidentemente dalla funzione "ornamentale" nel senso fin qui inteso. È appena il caso di dire che questo richiamo ad un impiego armonico esige per la nota di appoggiatura un'into­nazione coerente [83] . Va inoltre sottolineato che il "piccolo suono" non deve necessariamente risuonare più debolmente della nota di arrivo. Talora ciò viene raccomandato [84] : ma può accadere anche l'in­ 178 verso. Così nella tecnica liutistica e chitarristica, la nota di appog­ giatura veniva talora pizzicata, risuonando vivacemente, mentre la nota di arrivo veniva raggiunta premendo soltanto il dito sulla corda senza pizzicarla [85], cosicché la nota di appoggiatura di­ venta assai più forte di quella reale - che avrà invece, all'a­scolto, il senso di una nota in eco. In questo caso viene particolarmente esaltato il carattere di "accento" della nota di appoggiatura, con un'enfatizzazione che si trasferisce sulla nota di arrivo: proprio in quanto si tratta di un movimento verso una mèta, tanto più questo movimento diventa insistente, tanto più si accentua an­ che l'attesa della sua conclusione nella mèta. E se la nota reale giunge come un sospiro lontano, attraverso un processo di trasfor­ mazione, non per questo essa ci apparirà meno pregnante, essendo stata anticipata con tanto vigore. Credo che non sia necessario sviluppare oltre la nostra di­ scussione, che è giù stata sufficientemente ampia da documentare il tema trattato soprattutto se si tiene conto che gli "abbellimenti" nella loro stragrande varietà, sono spesso strettamente imparentati tra loro e si possono considerare, dal punto di vista concettuale, come varianti di alcune poche situazioni fondamentali. Ad es. il "gruppetto" - nelle sue molteplici forme - nel suo ascendere e salire rispetto alla nota reale può essere inteso come un decadere ed un riprendersi della nota reale, come una sua evoluzione piut­ tosto che come una figurazione di note in successione. Impor­ tante è anche, sotto questo riguardo, il tema già richiamato della saturazione dell'intervallo. Per caratterizzare una delle possibili accezioni di "groppo" o "gruppetto" Neumann cita la seguente figurazione: e parla in proposito di "riempimento" degli intervalli [86]. Infine 179 il termine coulé o coulade che abbiamo incontrato in precedenza per indicare l'appoggiatura, ricorre di continuo anche per figu­ razioni che possono essere considerate come buoni esempi pro­ prio per illustrare la funzione saturante delle ornamentazioni. La seguente tavola di esempi è in proposito particolarmente indica­ tiva [87] : Qualcosa di più va detto tuttavia per precisare meglio gli accen­ ni precedenti - che sono stati lasciati privi di sviluppo e di giu­ stificazione effettive - sulla pratica della diminuzione. Più volte abbiamo ribadito la riserva secondo cui le nostre consi­derazioni non possono essere estese a forme di melismi che rappresen­ tano vere e proprie ampie evoluzioni e digressioni sonore, e dunque in particolare alle diminuzioni. Naturalmente si può ben pensare che simili "fioriture" siano formate da nuclei riportabili ad ornamenti centrati su una nota singola, e quindi rientranti nei casi che abbiamo precedentemente considerati. Così il primo Essemplo del diminuir simplice generale presen­tato da Ganassi nella sua Fontegara propone appunto di svolgere ciascuna nota della successione in un 180 gruppetto gravitante su di essa. Ma da questo inizio elementare si va poi molto oltre. Uno schema motivico "scritto intenzionalmente in maniera molto scarna e lineare" - e scritto così appositamente, come osserva Quantz, "per dare all'esecutore la libertà di variarlo a suo piacere e secondo le sue capacità e il suo giudizio al fine di sor­ prendere continuamente gli uditori con nuove invenzioni" [88] , viene riempito da un percorso assai vario, dove tuttavia il riem­ pimento non ha affatto il senso della saturazione nell'acce­zione che abbiamo presupposto in precedenza, strettamente connessa al singolo intervallo, ma piuttosto quello che richiama da vicino l'analogia architettonica di un ornamento che arric­chisce una struttu­ ra - analogia che in precedenza, non a caso, non aveva nessun appiglio su cui far presa. A questo titolo si parla ancora a buon diritto di ornamentazione, proprio in forza di quell'analogia, tanto più che in queste improvvisazioni musicali svolgono una parte rilevante fioriture ed abbellimenti nel senso consueto; ma si avverte subito che vi è qui qualcosa di differente, dal punto di vista concettuale, qualcosa dunque che non riguarda solo una con­ venzione compositiva ed una pratica esecutiva corrispondente. Nel dipanarsi della diminuzione, viene implicato il disegno mu­ sicale nel suo complesso, in essa si delinea un percorso melodico vero e proprio, e da questo punto di vista è indifferente che essa sia creata al momento dal­l'interprete oppure sia scritta nota per nota dal compositore. In realtà considerata da questo lato, l'or­ namentazione è destinata sempre più a far parte del "sistema", e quindi a dissolversi come pura ornamentazione. Essa vive di una vita ambigua, sospesa come è tra il riferimento alla nota, di cui rappresenta l'abbel­limento, e lo sviluppo del brano in cui la nota si trova. Cosicché dapprima essa si può contentare di un segno che vorrebbe es­sere ad un tempo allusione ad una modali­ tà esecutiva e pura convenzione segnica per uno stilema dato per noto. Ma quando si avverte il bisogno di vincolare fortemente l'esecu­zione sotto tutti gli aspetti, preferendo così, in luogo della notazione abbreviata la notazione per esteso, l'ornamenta­zione 181 tende a presentarsi come una configurazione di note vere e pro­ prie all'interno del pezzo - i segni più o meno curvilinei, i riccio­ li, le sbarrette, le ondine, i piccoli zig zag diventano "notine", ma infine anche le "notine" vengono scritte come note autentiche, per il semplice fatto che esse sono ormai diventate tali. Nel momento in cui l'ornamento viene scritto per esteso, è chiaro che si intende negare l'elemento aleatorio e a-siste­matico, per far valere invece la sua piena appartenenza al discorso musicale che il brano va sviluppando [89] . L'ornamento comincia come coloritura del suono ed arriva alla figurazione sonora; ed a sua volta la figurazione sonora tende a separarsi dalla nota singola o dall'intervallo da saturare per integrarsi sem­pre più nel disegno melodico e armonico. In particolare essa conferisce alla strut­ tura quell'apporto espressivo che è essen­ziale al suo senso. È note­vole il fatto che ciò avvenga in modo tanto più pronunciato quanto più l'andamento melodico si modella sull'armonia tona­ le. Ciò ha una sua precisa ragione. Che l'andamento melodico si modelli sull'armonia tonale signi­fica infatti che in esso si faranno valere come suoi architravi gli elementi qualificanti della tonali­ tà, ed anzitutto le sue triadi ca­rat­teristiche e gli inter­valli che la stabilizzano e la confermano. Ma ciò comporta evidentemente un rischio di rigi­dità e gene­ricità, che può essere superato proprio dall'im­portanza che assumono, per stabilire il profilo melodico ed espressivo, proprio quegli elementi che non appartengono alla struttura portante della tonalità, ed in parti­colare quegli elementi che in altro contesto potrebbero apparire co­me "ornamenti". Essi assolvono allora una funzione essen­ziale di individualizzazio­ ne di quel profilo. Si considerino le prime cinque battute del violino dell'Ada­ gio dalla Sonata III per violino e cembalo BWV 1016: 182 Queste battute esemplificano molto bene ciò che intendiamo dire perché rappresentano in certo senso un momento di transizione: da un lato è evidente la presenza di volute ornamen­tali che hanno il carattere di "diminuzioni", dall'altro è altrettanto evidente che esse si muovono sugli assi portanti della tonalità di mi maggiore - la architettura è qui rappresentata dalla triade sulla tonica e sulla dominante. Quegli ornamenti non sono dunque riferiti alla nota singola o al singolo intervallo ma allo spazio sonoro caratte­ristico del brano; non tanto a quegli assi, ma proprio a queste volute è do­ vuto il profilo melodico. Consideriamo l'inizio della sonata n. 5 op. 24 per violino e pianoforte di Beethoven (Es. 031 *). Si potrebbe commentare, usando a viva forza la terminologia del­l'or­na­men­ta­zio­ne barocca, che in questo inizio vi è un grup­ 183 petto e una coulade che porta da la a do, struttura che si ripete nel­ la seconda battuta dove la coulade termina su fa appoggiato da sol, delineando un percorso che si conclude sul si, appoggiato da do. Nelle prime tre battute, viene dunque pro­spettata la triade di to­ nica di fa maggiore, del resto proposta nell'accompagna­mento. Ma in realtà né quel gruppetto né quel tipo di movimento han­ no un puro carattere accessorio, bensì co­stituiscono essi stessi il percorso della melodia, così da rappre­sentare un arricchimento rispetto agli elementi strutturali della tonalità. Nel passo seguente della sonata n. 11 op. 22 per pianoforte ancora di Beethoven (Adagio con molta espressione, batt. 31 sgg.) (Es. 032*) troviamo insieme acciaccatura, gruppetto, appoggiatura e passaggio cromatico - cromatismo e ornamentazione giocano strettamente insie­me - in una figurazione che "canta". Queste sommarie indicazioni accennano soltanto all'inizio di ulteriori e svariati sviluppi [90]. Sia il tema dell'orna­mentazione che quello del cromatismo sono destinati ad un'evoluzione di grandissima importanza nella musica successiva. Tuttavia il no­ stro scopo non era quello di spingerci troppo lontano, ma piut­ 184 tosto di gettare uno sguardo indietro per cercare di scorgere i loro nessi profondi. Annotazione Al termine di questo lavoro, desidero rammentare e ringraziare l'orga­nista e clavicembalista Marco Doni, profondo e appassionato cono­scitore del barocco musicale, per il tempo passato insieme ad eseguire al violino musica barocca, non di rado accompagnando le esecuzioni con conviviali discussioni teoriche. Ma come non ricordare con lui tutti gli altri amici musicisti per le belle serate trascorse insieme ai nostri strumenti? Proprio tutti non è possibile nominarli qui. Ma vorrei almeno rammentare i clavicembalisti Giuliana Fumagalli e Michelangelo Lapolla, il pianista Alessandro Comellato, il violoncellista Alessandro Ferrari, i flautisti Giu­seppe Montrucchio e Corrado Parrella, i violisti Roberto Mazzone, Mauro Mantegazza, Massimo Gallini, il violinista Luca Zendri, il clarinettista Ezio Pirovano, la soprano Gaiane Tapacian, la plurien­ nale esperienza con l'orchestra Il Capriccio diretta da Roberto Zam­bonini, e le indimenticabili lezioni serali al Conser­vatorio di Milano (1979) organizzate e dirette da Emilia Fadini, in tempi di entusiasmi musicali strettamente legati a fervide idee sulla profonda democraticità della cultura. 185 Note [1] Francisco Gasparini, L'armonico pratico al cembalo, Venezia 1708, p. 28. Peraltro in questo testo si affida al segno ¥ anche la possibilità di "levare il diesis alla nota che prima ne era occupata". [2] Aristosseno, L'armonica, 21.27, testo e trad. it. a cura di Rosetta Da Rios, Roma 1954. [3] In realtà, ancora Christian Huygens che propone una divisione equa­ lizzata dell'ottava in trentun parti usa il termine diesis per indicare l'intervallo minimo . Cfr. Cycle harmonique par la divisione de l'octave en 31 dieses, intervalles egaux. Oeuvres complètes, vol. 20, Musique et Mathématique (La Haye: Martinus Nijhoff, 1940), 155-164 reperibile in Internet in Traités Français sur la musique (TFM) all'in­ dirizzo http://www.­music­.in­diana.edu/tfm/index.html. [4] Questa spiegazione, dovuta a Stefano Vanneo e che rimanda alla sud­ divisione del tono proposta da Marchetto da Padova, viene definita "piuttosto fantasiosa" da Karol Berger, Musica ficta. Theories of accidental inflections in vocal polyphony from Marchetto da Padova to Gioseffo Zarlino, Cambridge University Press, Cambridge, 1976, p. 29, dal momento che è possibile piuttosto che il segno derivi da una evoluzione del bequadro, che a sua volta, riferito ad un bemolle antecedente, poteva essere inteso come segno di un'alterazione ascendente. [5] J. Tinctoris, Terminorum Musicae Diffinitorum (ca. 1475), Paris 1951, p. 21. [6] Per una spiegazione di dettaglio, che mostra la complessità dell'intera questione, si veda K. Berger, op. cit. e J. Chailley, La musique et le signe, Ed. Ren­ contres, Lausanne 1967, pp. 48 sgg. ("Le roman de la note 'si'"). [7] "La parola alterare, derivando dal latino alter (=altro), può essere intesa nel senso di modificare (verändern); meglio però supporre che "alterare" significhi prendere un altro suono che non quello proprio della scala; e questo ci fa pensare alla sostituzione dei modi maggiore e minore con la scala cromatica…"; "oggi come oggi", la questione dell'ortografia è "divenuta oziosa": A. Schönberg, Ma­ nuale di armonia, trad. it. a cura di G. Manzoni, Milano 1963, p. 441 e p. 443-444. [8] Molto bene J. J. Rousseau, Dictionnaire de musique, reperibile in Internet in Traités Français sur la musique (TFM) all'indirizzo http://www.­music­.in­diana. edu/tfm/index.html, alla voce diatonico: "Ce mot vient du grec (dia), par, et de (tonos), ton, c'est-à-dire passant d'un ton à un autre". [9] W. Piston, Armonia, ed. it. a cura di G. Bosco, G. Gioanola, G. Vinay, EDT, Torino 1991, p. 4. [10] ivi, p. 63. [11] Introduzione alla musica. Manuale ragionato di teoria musicale, Zanibon, Padova, 1987, p. 45. [12] ivi, p. 218. [13] ivi, p. 46. 186 [14] ivi. [15] Basti rammentare che si è fatta l'ipotesi che il "modo" dorico deri­ vasse da una scala pentatonica (cfr. Baud Bovy, Le dorien était-il un mode pentatoni­ que?, in "Revue de musicologie", 1978, n. 64, p. 154 sgg.). [16] ivi, p. 29. [17] ivi. [18] Dimostrazioni Harmoniche (1589), Ragionamento Secondo, Definizione XXII. Zarlino osserva in questo luogo che il proprio "semituono maggiore" - pari a 16/15 (ovvero 112 cents) non coincide esattamente con l'apotome greca (114 cents). - Tutte le citazioni da Zarlino sono tratte dalla edizione digitale in Cdrom: Gioseffo Zarlino, Music Treatises, Thesaurus Musicarum Italicarum (TML), sotto la direzione di Frans Wiering, Università di Utrecht. [19] Talora si parla dell'apotome pitagorica come semitono cromatico, per differenziarlo dal limma come semitono diatonico. Si tratta naturalmente di una formulazione che non è per nulla raccomandabile. [20] Questo problema risulta con la massima chiarezza nella tematica dei dodici lyu nella musica cinese. I dodici lyu sono infatti ottenuti attraverso una procedura di accordatura su/giù con passaggi alternati di quinta e di quarta, fino ad ottenere dodici note: esse tuttavia non vengono interpretate come se fossero distribuite in un ordine di successione scalare, quindi come "scala cromatica", rappresentando appunto niente altro che un sistema traspositivo. Cfr. Lawrence Picken, Cina in Musica antica e orientale, a cura di Egon Wellesz, Feltrinelli, Milano 1987. [21] La scala assume perciò i seguenti valori in cents: do =0, do ¦=114, re= 204, mi ¥=294, mi=408, fa=498, fa ¦=612, sol=702, sol ¦=816, la=906, si ¥=996, si=1110, do =1200. Si noti che in questa accordatura si accetta una "quin­ ta del lupo" che cade tra sol ¦ e re ¦ (la cui parte deve essere assolta da mi ¥). [22] Sull'argomento ha svolto un lavoro accurato R. Airoldi, La teoria del temperamento nell'età di Gioseffo Zarlino, Editrice Turris, Cremona 1989. Desi­dero inoltre rammentare l'ottimo lavoro di tesi di laurea di Leonardo Piseri, I presup­ posti filosofici della teoria della musica di Gioseffo Zarlino, di cui sono stato relatore nel 1998. [23] "…uno de tali Istrumenti feci fare l'Anno di nostra Salute 1548. in Vine­­­gia, per havere nella Musica una cosa, che fusse quasi simile al­la Pie­tra, che si esperimenta l'oro e l'argento; acciò potesse conoscere, e vede­re, in qual maniera potessero riuscire le harmonie Chromatiche, e le En­har­­mo­ni­che, ­­ e ogni sorte di harmonia, che si potesse havere da qualsi­voglia Di­visi­o­ne; e fù un Gravecembalo, ch'è anco appresso di me; il quale fabricò Maestro Dominico Pesarese, raro e eccellente fabri­ca­tore de simili Istru­men­ti…" Istituzioni Har­ moniche, II, cap. 47. [24] R. Airoldi, op. cit., p. 100, nota anche che Zarlino aggiunge fra i cro­ matici e gli enarmonici anche note non riconducibili al tetracordo cromatico ed enarmonico tenendo conto delle esigenze musicali del suo tempo. 187 [25] Passione secondo Giovanni, BWV 245, n. 18 (Recitativo). [26] Zarlino usa il termine "accidentale" in opposizione a "naturale", in rapporto alle "corde" e quindi alle note; ad esempio quando raccomanda che, qualora si sia costretti ad impiegare il tritono, "dovemo almeno haver riguardo, che tale diffetto si commetta nelle chorde diatoniche, e in quelle, che sono propie e naturali del Modo, e non tra quelle, che sono accidentali, cioè tra quelle, che nel mezo delle cantilene si segnano con questi segni ¤, ¦, e ¥: percioche allora non generano tanto tristo effetto"(Istituzioni Harmoniche, 1558, III, Cap. XXX). [27] Istituzioni Harmoniche, III, Cap. LXVIII. [28] Nel saggio di Chailley, Saggio sulle strutture melodiche, si legge, al § 18, che nella concezione antica "Il grande intervallo appartiene al cromatismo allo stesso titolo di quelli piccoli" e addirittura che "Per il Medioevo il cromatismo è il trionfo del grande intervallo". Ci troviamo naturalmente di fronte ad equivoci tormentosi. Ovviamente Chailley può aver ragione per quanto riguarda l'impie­ go della parola, facendo riferimento al linguaggio dei generi. Al tetracordo cromatico come a quello enarmonico appartiene anche il grande intervallo - che è anche maggiore di quello che si presenta nel genere diatonico. Ma un conto è l'impiego di una terminologia, un altro è il problema di una concettualizzazione - che è lo scopo che qui ci proponiamo. Nello stesso paragrafo, sia pure all'interno di un quadro che non possiamo condividere, vi sono in ogni caso alcune formulazioni inte­ ressanti, come quando si parla, a proposito di passaggi cromatici in Mozart, di "traduzione ornamentale sulla tastiera del glissando delle musiche antiche" e si sottolinea che "Il cromatismo non ha nulla a che vedere con la continuazione del circolo delle quinte, quale i fisici lo hanno stabilito in a­strat­to" e che "È solo per l'aspetto materiale della tastiera e per il compro­messo del temperamento che l'ottava si divide in dodici semitoni. Nella realtà musicale, l'ottava si divide in sette gradi diatonici". Nuoce peraltro all'interesse di queste affermazioni sia un contesto da cui non sono sostenute a sufficienza sia una sottintesa polemica musicale, del tutto fuori luogo, nei confronti della dodecafonia. - Il Saggio sulle strutture melodiche di Chailley è stato pubblicato in traduzione italiana con intro­ duzione e note a cura di Carlo Serra in "De Musica", Internet, Anno IV (2000), http://www.lettere­.unimi.it/­Spazio_Filosofico. [29] Si tratta di domande da intendere come domande puramente feno­ me­nologiche. Domande di questo genere intorno alla discernibilità uditi­va po­ trebbero essere intese anche come domande di psicologia fenome­no­­lo­gica, o semplicemente di psicologia empirica della percezione. [30] Questa successione è stata realizzata negli esempi Es. 004-010 *. [31] È possibile che proprio da questa circostanza dipenda il fatto che Aristosseno ritenesse che il quarto di tono fosse il minimo intervallo percepibile. Al di sotto del quarto di tono si percepiscono differenze interne, ma non qual­ cosa di simile ad un intervallo vero e proprio. [32] A. Schönberg, Composizione con dodici note, in Stile e idea, trad. it. di M. G. Moretti e L. Pestalozza, Milano 1975, pp. 110: Il metodo di composizione 188 con dodici note "consiste innanzi tutto nell'uso costante ed esclusivo di una serie di dodici note differenti. Ciò significa naturalmente che nessuna nota viene ripetuta nella serie, e che questa usa tutte le dodici note della scala cromatica disponendole però in ordine diverso. Essa non deve essere in nessun grado identica alla scala cromatica". [33] The raga guide. A Survey of 74 Hindustani Ragas, a cura di J. Bor, Nim­ bus Records with Ritterdam Conservatory of music, 1999, p. 24. A questo testo si rimanda per ulteriori informazioni su questo raga. Asavari è anche il nome di un That, con il quale non va confuso. [34] È appena il caso di notare che le alterazioni qui presenti non sono alterazioni traspositive - ma sono alterazioni che determinano lo schema inter­ vallare del modo, rispetto ad un modello standard di base assunto come privo di alterazioni. [35] Nella riga superiore viene indicato il divario in cent rispetto all'altez­ za delle note nel temperamento equalizzato; in quella inferiore i valori in Hz (as­ sumendo come valore di riferimento do=261.6) ed i nomi corrispondenti delle note. Si tratta naturalmente soltanto di un tentativo un po' azzardato che ha dei limiti ovvi. Dato il tipo di esecuzione proposto da Chaurasia ogni tentativo di esattizzazione è problematico in via di principio. - L'individuazione delle altezze è stata realizzata tenendo conto dei risultati ottenuti con il programma Wtune (www.cipoo.net). [36] J. Bor, op. cit., p. 24 nota che "Dha is the most outstanding note in Asavari, and is usually performed with a slow oscillation". [37] Alankara è il nome generico per gli abbellimenti. Forse, a titolo di altro nome generico si può citare gamak (che potrebbe però essere anche esse­ re utilizzato per abbellimenti speciali). In Indian Classical Music And Sikh Kirtan by Gobind Singh Mansukhani (http://www.sikh­net.com/sikhnet/gurbani.nsf/­ Table+of+Contents) si trova la seguen­te definizione di Alankar: "Alankar: It literally means an ornament or decoration. It is the repetition of the musical no­ tes of a raga in a sequential pattern. So alankar is the specific pattern of certain group of notes of a raga. While vocalising alankar, the arrangement of notes should touch the heart and evoke the mood. It should be done in accordance with the rules of the raga. Alankars are regarded as combinations of several melodic movements. They fall under four categories: (a) Asthai alankar: vocali­ sation which returns to the initial note or S; (b) Arohi alankar: ascending vocali­ sation going up; (c) Avarohi alankar: descending vocalisation which goes lower; and (d) Sanchari alankar: consolidated vocalisation which uses all the three types mentioned above". [38] cfr. il testo di Mansukhani, citato nella nota precedente. Si parla qui di palpito (Sfurita), dondolio (andolita), gorgoglio (vali), scivolata (Gasit), il turbine di neve (Tripura)... [39] F. Neumann, Ornamentation in Baroque and Post-Baroque Music, Prince­ ton University Press, Princeton 1978. 189 [40] ivi, p. 17. Questa citazione continua così: "Oggi ciò può non essere troppo evidente nell'arte musicale poiché una simile tendenza viene ripresa dalle nostre prevalenti convenzioni esecutive. Ma l'istinto è vivo come sempre, e ogni volta che le restrizioni sono messe da parte, come nel jazz, esso si manifesta con intatto vigore". [41] Bharata (Natyasastra) cit. nel commento a Sarngadeva, Sangitaratna­ kara, testo sanscrito e traduzione inglese e commento di R. K. Shringy, vol. I, Varanasi 1978, p. 237. [42] T. J. McGee, The Sound of the Medieval Song. Ornamentation and Vocal Style according to the Treatises, Clarendon Press, Oxford 1998. [43] ivi, p. 60. [44] ivi, p. 1. [45] cfr. ivi, p. 88. [46] ivi, p. 49. [47] ivi. [48] La Summa musice (XIII sec., attribuita a Petrus e Perseus, citata da McGee come anonima), la puoi trovare in Internet presso il Thesaurus Musicarum Latinarum, TML, http://www.music.indiana.edu/tml/start.-html. [49] ivi, 153. Il suggerimento etimologico dal greco dovrebbe essere sem­ mai kli/nw. [50] Summa musice, 540-54. Il "suono oscuro" viene reso da McGee con "indistinct sound". [51] Walter Odington, Summa de speculatione musice, cit. in McGee, p. 53, testo latino p. 182. Il trattato è datato tra il 1280 e il 1320. L'etimologia greca è priva di fondamento. [52] L. Agustoni, Elementi di Canto Gregoriano, Edizione Cartotipografica Moderna, Padova 1959, p. 33. [53] cfr. T. J. McGee, p. 58. [54] ivi, p. 79. McGee sottolinea che in Girolamo di Moravia si parla in particolare di questa variabilità delle altezze e dell'impiego di quarti di tono e di triemitoni. Sull'uso dei quarti di tono nel gregoriano più antico cfr. anche Leo Schrade, De scientia musicae studia atque orationes, Haup, Bern-Stuttgart 1967, pp. 537 sgg. [55] T. J. McGee, cit., p. 120. [56] F. Neumann, Ornamentation in Baroque and Post-Baroque Musica, Prin­ ceton University Press, Princeton1978, p. 241: "The trill involves a whole family of graces in which the basic pattern is the rapid alternation of a tone with ist upper neighbor". [57] F. S. Geminiani, The art of playing on the violin, opera IX, London 1751, XVIII, 5. trad. it. Opere didattiche e teoriche, a cura di Luca Ripanti, III, Polyhymnia, Torino 1996, p. 153. [58] F. Neumann, op. cit. p. 9. [59] ivi, p. 10. 190 [60] ivi, p. 12. [61] Occorre peraltro rammentare che, come nel caso della semiografia, anche in quello della terminologia vi sono numerose ambivalenze e usi equivoci. [62] F. Neumann, op. cit., p. 302. [63] ivi, p. 296. [64] T. J. McGee, cit., p. 61. [65] ivi, p. 62. Puoi trovare il Tractatus de musica (databile tra il 1272 e il 1304) di Gerolamo di Moravia (Ieronimus de Moravia) in Internet presso il The­ saurus Musicarum Latinarum. [66] Cfr. McGee, pp. 68-9: "Procellaris autem dicitur, eo quod sicut procella fluminis aura levi agitata movetur sine acquae interruptione. Sic nota procellaris in cantu fieri debet cum apparentia quidem motus, absque tamen soni vel vocis interruptione". [67] ivi, p. 63. [68] F. Geminiani, The art of playing on the violin, opera IX, London 1751, es. XVIII. [69] F. Neumann, cit, p. 288. [70] Cfr. A. Dolmetsch, The Interpretation of the Music of the XVII and XVIII Centuries (1915), trad. it. a cura di L. Ripanti, Milano, 1994, p. 163. [71] Cfr. F. Geminiani, cit., es. XVIII. [72] Citato da A. Dolmetsch, cit., p. 145. [73] Versuch über die wahre Art das Clavier zu spielen, 1753, cap. II, § 29. Di quest'opera esiste una traduzione francese (Essai sur la manière véridique de jouer d'un instrument à clavier) a cura di Jean-Pierre Coulon (coulon@obs-nice.fr) ritira­ bile liberamente in Internet. Trad. it. di G. Gentili Verona, Milano 1978, p. 113. [74] Playford, citato in Dolmetsch, cit., p. 161. [75] Pierfrancesco Tosi, Opinioni sul canto figurato, TML (Sezione della trat­ tatistica in lingua italiana), p. 105-106. [76] Traggo la figura da A. Dolmetsch, p. 161, che cita a sua volta da Playford, A breefe Introduction to the Skill of Music for Song and Viol, 1654. [77] Si fa riferimento a Silvestro Ganassi, Opera intitulata Fontegara, cap. 24-25 (1535) notando che "egli distingue trilli con terze, toni interi e semitoni. Gli intervalli sono soggetti a deviazioni in entrambe le direzioni, in altri termini, essi potevano essere suonati fuori intonazione" - Neumann, cit., p. 287. [78] P. Tosi, cit., p. 26-27. [79] Come termine generale, Neumann preferisce usare Vorschlag, e defi­ nisce l'appoggiatura in questo modo: "Vorschläge da entrambe le direzioni che ca­ dono in battere. Gli scrittori italiani antichi, tra gli altri Tosi, Tartini, Geminiani, usavano il termine per Vorschläge di tutti i disegni ritmici." (Glossario, p. 578). Per la direzione discendente Neumann usa il termine di Coulé, osservando in ogni caso la varietà di uso di queste espressioni. Dolmetsch segnala per l'appoggiatu­ ra, oltre lo stesso termine italiano di Portamento, anche i termini inglesi Forefall, Backfall, Beat, Half-Fall, i termini francesi Cheute, Chute, Coulé, Accent; e te­ 191 deschi, Vorschlag, Accent Steigend, Accent Fallend. [80] F. Neumann, cit., p. 49. [81] Mersenne, Harmonie universelle, pp. 355-356. Riprendo la citazione da F. Neumann p. 53. [82] Questa notazione la si può trovare in Purcell, cfr. A. Dolmetsch, cit., p. 82 [83] Talvolta le appoggiature sono assimilate senz'altro ai ritardi: Quantz: "Le appoggiature sono un ritardo della nota precedente" (cfr. A. Dolmetsch, cit., p. 104). Anche C. Ph. E. Bach: "...(le appoggiature) portano varietà all'armonia che altrimenti sarebbe troppo semplice. Alle appoggiature è possibile far risali­ re tutti i ritardi e le dissonanze, e che mai sarebbe l'armonia senza queste due cose?" (ivi, p. 110). [84] Loulié, cit. in F. Neumann, cit., p. 62. [85] Cfr. A. Dolmetsch, p. 79-80. [86] F. Neumann, cit., p. 584. [87] La tavola è tratta da Loulié, cfr. ivi, p. 205. [88] Cfr. A. Dolmetsch, cit. p. 267 [89] Su questo argomento, Simone Zacchini ha scritto un saggio ricco di idee intitolato "La leggerezza dell'inessenziale. Studio sulla raziona­lizzazione dell'abbelli­ mento nel linguaggio della musica occidentale", Dipartimento di Studi Storico-sociali e filosofici, Università degli Studi di Siena, Arezzo 1998. La sua tesi, già proposta nel titolo, è che il processo di scrittura degli abbellimenti faccia parte di un pro­ cesso di assorbimento dell'elemento soggettivo-irrazionale, che tuttavia è desti­ nato a fallire preparando nuovi esiti sul piano del linguaggio musicale. [90] Sergio Lanza, nel suo bel lavoro intitolato Il concetto di ornamento in mu­ sica. Tensioni ed estensioni, pubblicato nella rivista on line De Musica, 2003 propone un'ampia riflessione sul­la nozione di ornamento che giunge con scorci fino al sec. XX, in un'esposi­zione molto ricca di interessanti spunti anche in direzione dell'architet­tura e dell'arte decorativa in genere. 192 193 Giovanni Piana La fiaba del suono della campana gialla e l'origine dei dodici Lyu 2013 194 Il disegno degli strumenti cinesi è tratto da Joseph Amiot (1718-1793) Mémoires concernant les Chinois, vol. VI, Parigi 1779. 195 Indice 1. Premessa 2. La fiaba del suono della campana gialla 3. Commenti 4. Che cosa rappresenta la serie dei dodici Lyu 5. La musica, l'ordine sociale e cosmico e i dodici lyu. 6. L'estensione da dodici a sessanta lyu 7. Glissando, vibrato e i suoni inudibili 196 197 1 Premessa In una lezione tenuta nel 1998 mi sono azzardato ad esporre il problema dell'origine e del senso musicale di base dei dodici lyu nella musica cinese. La questione è carica di simbolismi a cui qui si accenna solo per alcuni aspetti fondamentali. La mia digressione era infatti interna al problema dell'alterazione e della distinzione tra alterazione cromatica e alterazione per trasposizione, come è illustrato nel saggio L'intervallo. In particolare ero interessato a mostrare come fosse facile fraintendere i dodici lyu come una scala cromatica, mentre tutto il problema sorge nel quadro del concetto di alterazione traspositiva - anzi può essere considerato esemplare proprio per illustrare questo concetto. In questo saggio che riprende il contenuto di quella lezione io mi sono limitato a prendere in considerazione le seguenti opere: Curt Sachs , La musica nel mondo antico, Sansoni, Firenze 1963 (Abbr. Sachs) Egon Wellesz (a cura di), Musica antica e orientale, Feltrinelli, Milano 1987 - Cina, di Lawrence Picken (Abbr. Picken). Alain Danielou, Introduction to the study of musical Scales, Published by The India society, London 1943 (prima edizione indiana 1979) (Abbr. Danielou) Naturalmente, per estendere il problema, in particolare in direzione del ricchissimo simbolismo dei dodici lyu, si dovrà ricorrere al fondamentale volume di M. Granet, Il pensiero cinese (1950), trad. it.. Milano 1971 (Abbr. Granet). Ovviamente in questo volume il problema appare più mosso e complicato di quanto pos- 198 sa apparire in questa nostra sintesi. Nello stesso tempo in esso si dà molta importanza agli aspetti numerologici, e si presta assai poca attenzione agli aspetti musicali. In particolare è singolare che in esso non si accenni alla tematica della trasposizione. Le prime ampie informazioni sulla musica cinese sono giunte in Europa tramite il missionario Joseph Amiot (1718-1793) che tratta l'argomento nel vol. VI delle sue Mémoires concernant les Chi­ nois pubblicato anche in volume a parte a Parigi nel 1779. L'argo­ mento dei Lyu viene trattato fin dall'inizio della prima parte (pp. 27 sgg.) , ma viene sviluppato nella seconda parte (pp. 85. Sgg) Recentemente Antonio Gatti ha dedicato un denso lavoro sulla musica cinese intitolato "Il Tao della musica. La concezione del­ la musica e del suono nell'antica Cina e altrove" che egli ha avuto la cortesia di farmi leggere in bozze. In questo libro si propone una panoramica degli sfondi teorici, filosofici e simbolici della musica cinese con notevoli riferimenti alla musica occidentale antica e moderna. L'argomento qui trattato è sviluppato nel ca­ pitolo 3.1 della parte I intitolato "La definizione della gamma delle dodici note nella musica cinese". 199 1 La fiaba del suono della campana gialla Il problema della costruzione della scala attraverso il circolo delle quinte, che è uno dei problemi importanti della teoria pitagorica delle scale, si ritrova anche presso l'antica civiltà cinese, ed in una forma che è interessante prendere anche solo sommariamente in considerazione. Si tratta infatti di un esempio molto vivo di come una stessa struttura, che è ad un tempo formale e musica­ le, possa essere considerata secondo angolature molto diverse, e noi dobbiamo essere preparati a cogliere affinità e differenze. La nostra discussione ha fra i suoi presupposti l'esistenza di una struttura fenomenologica dello spazio sonoro. Ma nel mo­ mento in cui questa struttura fenomenologica entra all'interno di intenzioni artistiche, essa non viene soltanto passivamente riconosciuta, ma attivamente elaborata secondo direzioni che seguono sia intenti conoscitivi che intenti immaginativi, e che richiamano in generale i nessi storici e sociali. Inoltre vorrei riuscire a rendere particolarmente evidente il fatto che intorno alle nostre distinzioni e discussioni su dettagli, che stiamo per avviare, si riflettano atteggiamenti spirituali di grande ricchezza e complessità. Non si tratta per nulla di mi­ nutaglie tecniche sulle quali la riflessione filosofica in genere e quella filosofico-musicale in particolare non dovrebbero affatto indugiare. L'importanza della scoperta da parte della cultura gre­ ca delle proporzioni che stanno alla base della consonanza, con tutte le problematiche che le stanno intorno, rappresesenta già sotto questo riguardo un notevole esempio. Ora, questo sapere, era certamente già noto nulla cultura cinese, in un'epoca difficile da determinare perché affidata alla leggenda. Anche in Cina vi è un racconto in certo senso parallelo alla fiaba del "Fabbro armonioso". E anche ad essa potremmo attribuire di nostra iniziativa un nome poetico, potremmo inti­ 200 tolarla "Il suono della campana gialla". La sua versione scritta più antica risale III sec. a. C. , ma la narrazione stessa ha l'anda­ mento di un racconto leggendario che affonda le sue radici nel passato ultraremoto dei miti. Il suono della campana gialla "L'imperatore Huan Ti ordinò un giorno a Ling Lun di costruire strumenti a fiato. Ling Lun partì ad ovest di Ta Hia e giunse a nord del monte Yuan Yu. Là egli colse bambu nella valle di Hia Hi, scelse quelli che avevano la superficie tra i nodi spessa e liscia e ne ritagliò gli spazi compresi tra i due nodi. Erano lunghi tre pollici, corrispondenti a nove righe. Vi soffiò e fece del suono che ne uscì la nota huang chung, cioè la nota della campana gialla, da cui tutte le altre promanano. Vi soffiò e disse: "Va bene". Quindi fece dodici zufoli. Non appena udì il maschio e la femmina dell'uccello Roc cantare ai piedi del monte Yuan Yu fece, in conformità, una di­ stinzione in dodici note. Ne trasse sei dal canto del maschio Roc e le altre sei dal canto della femmina Roc, tutte derivate dalla nota principale, il suono della campana gialla" [1]. L'antico testo da cui è tratta questa storia [2] aggiunge una ulteriore preziosa indicazione sul modo in cui Ling Lu fece i dodici zufoli a partire dallo zufolo che emetteva il suono della Campana Gialla. Egli spiega che per ottenere questi zufoli occorre 1. suddividere (non tagliare!) in tre la canna che genera il primo suono, e poi togliere una parte, tagliando la canna, otte­ nendo così una nuova canna; 2. questa verrà poi suddivisa (non tagliata!) per tre e si con­ 201 tinuerà realizzando una nuova canna che sarà più lunga esatta­ mente una parte della precedente; così si continua, di canna in canna, fino alla dodicesima canna di bambu. Immagino che al mio lettore una simile procedura non ap­ parirà subito chiara. Ma prima di fornire le necessarie spiega­ zioni facciamo notare alcuni dettagli interessanti della storia: ad es. il nome di Ling Lun, protagonista della storia, rende questo personaggio una sorta di concretizzazione simbolica, dal mo­ mento che Ling significa "musica" o anche "musicista" , e lun (o luen) è l'azione del regolare, o il regolo stesso, quello che proba­ bilmente i greci avrebbero chiamato canone. Si tratta dunque del problema della "sezione del canone". Il nome significa perciò "il musicista che dà la regola, che fornisce le misure". Siamo alle origini della musica, e Ling Lu è il musicista originario. Ed il problema che egli affronta per pri­ mo è un problema di misurazione subordinato fin dall'inizio alla costruzione di strumenti che forniscono nel loro insieme dodici note, e le forniscono a partire da un suono scelto come fonda­ mentale, la nota della Campana Gialla ("questo va bene" - dice Ling Lu, e la sua azione non può che cominciare così, cioè nella scelta di una nota fondamentale di riferimento). Si chiederà: ma perché questo suono viene chiamato così, essendo poi il suono emesso da un flauto? Risponderemo presto a questa domanda. Intanto attiriamo l'attenzione sul fatto che il suono della campana gialla è il suono generatore, e tutti gli altri suoni sono concepiti come generati da questo. Nello stesso tempo, questo è l'altro aspetto interessante, i suoni generati vengono concepiti come nettamente differenziati in due serie, essendo riferiti all'uccello Roc maschio e all'uccello Roc femmina. Sei suoni sono dunque in qualche modo maschili, sei suoni sono in qualche modo femminili. La formulazione della storia è abbastanza ambigua da far intendere che i suoni escono dai flauti ma nello stesso tempo sono anche voce dell'uccello Roc. 202 L'uccello Roc è un uccello mitico di proporzioni enormi, di cui si narrava che rapiva gli elefanti per nutrire i suoi piccoli [3]. Esso compare anche nelle Mille e una notte nelle storie di Sinbad il Marinaio. Illustrazione di G. Doré per l'uccello Roc nelle Mille e una notte 2 La procedura di realizzazione dei dodici lyu Consideriamo ora più da vicino l'importante integrazione del racconto che contiene l'indicazione della procedura di costru­ zione dei dodici flauti. Qui è racchiuso il segreto dei rapporti pi­ tagorici, che i cinesi naturalmente scopersero per proprio conto. Si parte da una prima idea di una canna suddivisa in tre parti eguali. Userò nel seguito sempre la parola suddivisione per indicare una operazione di assegnazione di tacche, e non di "ta­ glio". 203 Nel disegno successivo vengono illustrati i primi tre passi. Schema di derivazione dei dodici Lyu dal suono della campana gialla FA DO SOL La prima canna che assumiamo per pura comodità di discorso come Fa viene suddivisa in tre parti. E su queste tre parti viene effettuata la misurazione di una seconda canna, che sarà tagliata in modo da essere lunga due parti della prima. 204 Ciò significa che le prime due canne si trovano nel rapporto 3 : 2 o di 2 : 3. Naturalmente la seconda canna, essendo più corta della precedente, emetterà un suono più acuto. Rammentiamo che anche in questo caso vale il principio delle corde. A parità di condizioni, le corde più brevi hanno un suono più acuto. Di conseguenza, se abbiamo chiamato Fa la prima nota chiamere­ mo DO la seconda, e si intende la nota che sta una quinta sopra il fa. Quindi operiamo una suddivisione per 3 della canna che emette il DO e realizziamo una canna che sia più lunga di essa di una parte, in modo tale che tra la seconda e la terza canna ot­ teniamo un rapporto di 3 : 4 cioè passiamo alla quarta inferiore. Di conseguenza, seguendo sempre la nostra terminologia parleremo di SOL per la nota ottenuta dal terzo flauto, e si trat­ terà del SOL sotto il DO. Si osservi bene il grafico precedente. In esso sono messe in evidenza le suddivisioni per tre. In altri termini le operazioni di assegnazione di tacche è sempre una operazione di suddivisione per tre. Poi si realizzano con dei tagli le canne lunghe due o lunghe quattro, rispetto alla canna precedentemente ottenuta. Natural­ mente dal punto di vista di una procedura di accordatura si tratta del metodo talvolta chiamato "su e giù" - una quinta sopra e una quarta sotto, che è una procedura equivalente al giro delle quinte. Ma avverto che è qui opportuno fare questi rimandi ana­ logici anche per apprezzare le differenze assai significative che a poco a poco vedremo emergere. Se abbiamo capito bene questo modo di rappresentare que­ sta procedura possiamo rappresentare agevolmente tutti e do­ dici i passi, tenendo conto del fatto che possiamo semplificare la rappresentazione evitando di ripetere le righe, e operando le suddivisioni sopra e sotto la riga che rappresenta la nota ovvero il flauto. 205 Potremmo allora proporre un grafico come il seguente: FA DO SOL RE LA MI SI FA# DO# SOL# RE# LA# I dodici suoni così ottenuti si chiamano Lyu, abbiamo dunque costruito la serie dei dodici lyu. In effetti si tratta di una costruzione alquanto straordinaria anche se si tratta in fin dei conti solo del metodo su e giù, quindi dell'alternanza tra quarta e quinta. Soprattutto mi sembra interessante il modo in cui si inca­ strano tra loro i numeri 2, 3, 4 essendo l'1 naturalmente la prima 206 linea. La costruzione è fatta in modo tale che ogni linea oriz­ zontale più corta sia 2/3 della riga precedente e tre 3/4 della riga successiva, e inversamente per le righe più lunghe il 4/3 della riga precedente e i 3/2 della riga successiva. Ora questa differenza tra righe più corte e righe più lunghe sta­ bilisce anche la differenza tra le due serie di Lyu, e il metodo rappresentativo in questione mi sembra interessante anche per questo. Le righe più corte rappresentano le quinte ascendenti, le righe più lunghe le quarte discendenti. Un significativo dettaglio terminologico riguarda la distin­ zione tra le quinte ottenute in modo ascendente, che vengono chiamate Lyu della generazione inferiore, e le quarte ottenute in modo discendente, che vengono chiamate Lyu della generazione superiore. Stando a Granet per la caratterizzazione della gene­ razione superiore o inferiore vale la lunghezza del tubo, preci­ samente si parla di generazione superiore "quella in cui il tubo prodotto è più lungo (chang: superiore) del suo produttore" e di generazione inferiore nel caso inverso. "Si ha generazione in­ feriore quando la lunghezza diminuisce di un terzo rispetto alla misura del tubo precedente"[Granet, p. 167]. Io credo che si possa avanzare l'ipotesi che questa singolare terminologia abbia le sue ragioni nella parola generazione. Ciò che importa non è il luogo in alto o in basso in cui le note si trovano, ma il luogo da cui derivano e da cui sono state generate. Evidentemente vi è qui in particolare una sottolineatura che tutti i Lyu sono generati da una unica nota, e di conseguenza il loro nome dipende dal modo della generazione: se vengono generati dal basso, come è appun­ to il caso delle quinte ascendenti, vengono chiamate delle gene­ razione inferiore, - ed inoltre associate all'uccello Roc femmina; se vengono generati dell'alto, come è il caso delle quarte discen­ denti, vengono chiamate della generazione superiore, e associate all'elemento maschile. Nella terminologia nostra, cominciando per comodità dal Fa, abbiamo dunque come sistema dei dodici Lyu 207 generazione superiore FA → SOL → LA → SI → DO# → RE# generazione inferiore DO → RE → MI → FA# → SOL# → LA# Occorre poi notare che la scala tipica cinese è pentatonica e il suo modello più usuale è T T T+S T T+S Con T+S intendiamo un intervallo di tono più semitono, che tuttavia deve essere considerato come un intervallo "sem­ plice"[Sachs , pp. 117-118]. A volte si parla di questo interval­ lo come intervallo di "terza minore", che è evidentemente una espressione che si può usare per comodità unicamente per sta­ bilire un nesso con la nostra terminologia, ma che sarebbe prefe­ ribile non usare. Benché talvolta si possa sostenere l'opportunità di un uso generalizzato della terminologia, per poter stabilire confronti e differenze, questo uso non può mai essere acritico e parlare di terza minore richiama l'opposizione maggiore-minore che è certamente estraneo a questo linguaggio musicale. Nella scala pentatonica non esistono, secondo questo mo­ dello, che non è certamente il solo nella cultura cinese, ma che ha carattere di modello tipico, è dunque priva di semitoni. Va da sé che operando sui rapporti 2/3 e 3/4 si ottengono naturalmente intervalli "pitagorici" - ovvero la quarta a 498 cents, la quinta a 702 cents, il tono a 204 cents e T+S a 294 cents. Gli intervalli della scala standard è dunque 204 204 294 204 294 Nella scala pentatonica non esistono, secondo questo mo­ 208 dello, che non è certamente il solo nella cultura cinese, ma che ha carattere di modello tipico, è dunque priva di semitoni. 3 Commenti Il problema che ora dobbiamo discutere è che tipo di nesso vi sia tra i dodici lyu e il sistema delle scale. Intanto appare subito chiaro ciascuna serie rappresenta una scala esatonale per toni interi. E sembrerebbe suggestivo inter­ pretare questa divisione proprio in questo modo. generazione superiore FA → SOL → LA → SI → DO# → RE# 204 204 204 204 204 generazione inferiore DO → RE → MI → FA# → SOL# → LA# 204 204 204 204 204 Tuttavia Picken ci informa che "non vi sono testimonianze che il musicista cinese, in ogni epoca, si sia espresso con melodie riferibili alle scale di toni interi" [Picken, p.89] . Nella musica cinese vera e proprio non vi sono scale a toni interi - questo è il parere degli esperti. E di conseguenza questa concezione scalare che sembra suggerita da questa sistemazione e da questa deriva­ zione non può essere accettata. Ma esiste anche un altro modo di vedere la doppia serie che risulta con chiarezza se facciamo quattro calcoli relativamen­ te agli intervalli in cents, attribuendo, come è logico, il valore 0 al FA. Seguendo il grafico proposto in precedenza, addizioneremo o o sottraremo alternativamente i valori 702 e 498, e aggiunge­ remo 1200 qualora vi sia un risultato negativo dell'operazione mentre sottraremo 1200 se il risultato supera 1200, in modo da 209 contenere tutti i valori ottenuti nell'ambito dell'ottava. Come se­ gue: 0+702=702 792-498 =204 204+702=906 906-498 = 408 408+702 = 1110 110-498 =612 612+702 = 1314-1200 =114 114-498=-384+1200= 816 816+702 =1518-1200= 318 318-498 =-180+ 1200= 1020 Otteniamo dunque la serie 0 , 702, 204, 906, 408, 1110, 612, 114, 816, 318, 1020 che posta in ordine di grandezza diventa 0, 114, 204, 318, 408, 498, 612, 702, 816, 906, 1020, 1110, (1200) che è esattamente la scala "pitagorica" con le alterazioni ascen­ denti ad eccezione del mi diesis e del si diesis e con l'aggiunta dell'ottava (1200). Dobbiamo concludere che i dodici lyu non siano altro che una successione scalare, e quindi una scala "cromatica", costrui­ ta con il ciclo delle quinte come la scala pitagorica? Niente sarebbe più sbagliato. I Lyu non debbono essere intesi in generale in modo scalare e soprattutto non debbono essere intesi come una successione di note da riordinare scalar­ mente in modo da generare una scala cromatica. Il fatto che ponendo le note in ordine scalare otteniamo le note della scala pitagorica, esattamente con i rapporti intervallari 210 da essa previsti, potrebbe essere assai fuorviante. Ciò è connesso con il fatto che nessuna delle note qui con­ siderate va ritenuta alterazione di un'altra. In questo caso l'uso della terminologia europea è partico­ larmente nefasta, perché introduce una nozione che qui risulta essere completamente assente. La nozione di alterazione ha sen­ so soprattutto in relazione al cromatismo e in questo caso siamo lontani proprio di questo problema. In realtà nella terminologia cinese, del tutto coerentemente, ogni lyu ha, come il Lyu della campana gialla, un nome proprio, o quanto meno un aggettivo qualificativo immaginativo, ma nulla di simile ad un collegamen­ to che richiami all'alterazione ovvero alla modificazione di una nota. Tanto meno dunque sarebbe lecito distinguere qui sette note diatoniche e cinque alterazioni. La ragione di ciò è abbastanza semplice. Abbiamo già detto che la scala cinese - ed orientale in genere - è fatta di cinque note, e non di sette e ne abbiamo già indicato il modello più usuale nella sequenza intervallare T T T+S T T+S Si ammettevano poi naturalmente i vari modi, ottenuti per spostamento rotatorio ottenendo così cinque possibilità, compresa ovviamente quella di base. Talora le note della scala poteva essere portata a sette, ma le due note in più (che nella forma normale erano il si e il fa#) erano considerate come note aggiuntive ed avevano carattere au­ siliario. 211 4 Che cosa rappresenta la serie dei dodici Lyu? Abbiamo dunque da un lato la scala pentatonica con un certo numero di possibili varianti (modi e trasposizioni); dall'altro la serie dei dodici lyu. Ma che cosa rappresenta allora questa serie? In realtà la risposta non è troppo difficile. La serie rappresenta semplicemente tutte le note utilizzabili da parte di una scala pentatonica considerata anche nelle sue possibili trasposizioni e ne fissa nel modo sperabilmente più esat­ to possibile l'intonazione. Forse i dodici lyu servono anche ad escludere certe trasposizioni e precisamente quelle trasposizioni che toccano i punti critici della scala "pitagorica". Naturalmente non voglio insistere troppo su questo lato del problema, sul qua­ le del resto vi è incertezza da parte dei critici. Le linee essenziali sono in ogni caso sufficientemente chiare. Vogliamo riassumere il risultato che abbiamo ottenuto. LYU DELLA GENERAZIONE INFERIORE DO FA RE SOL MI LA FA# SI SOL# DO# LA# RE# LYU DELLA GENERAZIONE SUPERIORE La scala standard può essere rapresentata con inizio nel FA in coerenza con la scelta fatta in precedenza mentre gli schemi sen­ za alterazioni inizieranno con do o con sol: 1. fa 204 sol 204 la 294 do 204 re 294 fa 2. do 204 re 204 mi 294 sol 204 la 294 do 3. sol 204 la 204 si 294 re 204 mi 294 sol 212 ti". Queste prime tre forme presentano tutti i Lyu "non altera­ Proseguendo con il re dobbiamo ricorrere invece al fa #, e così di seguito, 4. re 204 mi 204 fa# 294 la 204 si 294 re 5. la 204 si 204 do# 294 mi 204 fa# 294 la 6. mi 204 fa# 204 sol# 294 si 204 do# 294 mi 7. si 204 do# 204 re# 294 fa# 204 sol# 294 si 8. fa# 204 sol# 204 la# 294 do# 204 re# 294 fa# Si ottengono così, seguendo l'ordine degli Lyu sette possibili tra­ sposizioni, arrestandosi sul fa#. E perché non andare oltre visto che disponiamo ancora come possibili note iniziali di quattro lyu? Perché - questa è tuttavia una mia ipotesi - cominciando da una qualunque di queste note ci si imbatte inevitabilmente o nel mi diesis o nel si diesis: come sapevano i pitagorici e come sapevano evidentemente anche i cinesi, qui incontriamo il pro­ blema dell'eccedenza del mi diesis rispetto al fa naturale e del si diesis rispetto al do naturale (comma) che costringe ad una accordatura imperfetta. Se si accettassero queste eccedenze, esse si riverserebbero su tutte le note successive. Il mi # verrebbe incontrato anche cominciando con il lyu re # mentre il si # verrebbe incontrato cominciando con il sol# e con il la#. La seguente tabella mostra la situazione or ora descritta. 213 fa 204 sol do 204 re 204 la 204 mi 294 do 204 re 294 sol 204 la sol 204 la re 204 mi 204 si 294 re 204 fa# 294 la la 204 si 204 do# 294 mi mi 204 fa# 204 sol# 294 si si 204 mi 204 si 294 fa=0 294 do=204 294 sol=702 294 re=204 204 fa# 294 la=906 204 do# 294 mi=408 204 do# 204 re# 294 fa# 204 sol# 294 si=1110 fa# 204 sol# 204 la# 294 do# 204 re# 294 fa#=612 do# 204 re# 204 mi# T T do#=114 T+S T T+S Cominciando da do# = 114 cents si perviene ad un mi# =522 cents che supera fa = 498 cents di 24 cents (comma pitagorico). Questo valore è escluso dalla tavola dei dodici lyu, così come è escluso il si # a 1224 cents che eccede di 24 cents l'ottava. Quin­ di queste trasposizioni, ovvero queste tonalità (se volete usare questo termine), verranno escluse. Uno degli aspetti notevoli dei dodici lyu è appunto quello di escludere il mi # e il si #, e quindi di stabilire una tavola di note che sono tutte le note utilizzate nella trasposizione della scala pentatonica - nel nostro caso si trattava della modalità tipo, con inizio in fa. In una parola sono legittime quelle trasposizioni che cominciando con uno dei dodici lyu contengono unicamen­ te delle note appartenenti ai dodici lyu, cosa che si verifica, nel nostro esempio con le scale fa, do, sol, re, la, mi, si, fa#. Nota­ te infine come tutto questo discorso abbia senso in un legame strettissimo con la nozione di scala pentatonica. In questo modo la tavola assume un essenziale significato descrittivo e prescrittivo. Alla sua base vi è l'esclusione della possibilità di operare aggiustamenti per estendere l'ambito dello spazio tonale, vi è 214 dunque l'esclusione del "temperamento". Tutte le quinte debbono es­ sere quinte "giuste". Tutti gli intervalli debbono essere ovunque eguali. L'idea, del "temperamento" e dell'aggiustamento degli in­ tervalli, idea così tipica dell'atteggiamento di tradizione europea viene rigorosamente esclusa all'interno di questo modo di pen­ sare. Se vogliamo estendere lo spazio tonale dobbiamo aumen­ tare il numero dei Lyu - si tratta di un tema che riprenderemo tra poco. 5 Il suono della campana gialla, i dodici lyu e l'ordine sociale Prima di riprendere questo punto vorremmo soffermarci alme­ no sommariamente su alcuni aspetti simbolico-immaginativi che stanno alla base di questo atteggiamento. In certo senso dobbiamo ritornare alla fiaba del suono della campana gialla estraendo alcune implicazioni che non poteva­ no essere anticipate prima. Non comprenderemmo il senso di quella fiaba se non lo connettessimo intanto ad una fortissima esigenza di ordine e di stabilità - il musicista cerca regole in un senso particolarmente forte, ed anzitutto lo cerca proprio nella struttura scalare fondamentale. Questa scelta è presente già nel pentatonismo, o meglio dal tipo di intepretazione che si dà del pentatonismo nella tradizione musicale cinese. Secondo l'antica concezione cinese della musi­ ca, la musica si situa in una regione intermedia tra cielo e terra, e stabilisce il contatto necessario tra il mondo terrestre e il mondo celeste. In particolare essa preserva e garantisce l'ordine del co­ smo, sia naturale che sociale. Questo legame tra musica e ordine non è certo solo tipica­ mente cinese, lo troviamo ovunque nelle culture musicali evo­ lute, ma ogni volta assume connotazioni peculiari, ed in Cina soprattutto è l'ordine sociale che sta al centro del problema mu­ 215 sicale. Questa esigenza di stabilità insieme alla concezione del rap­ porto cielo-terra, e persino la concezione generativa dei suoni è espressa assai bene dal simbolismo caratteristico della scala pentatonica come una piramide a base quadrata. Al vertice si troverà il suono più importante della scala - con cui in genere termina la melodia - la nota Kung (hung chung). La nota Kung è anche da intendere come una sorta di rea­ lizzazione sensibile della nota della campana gialla, che appartie­ ne invece al mondo del mito e delle idealizzazioni immaginative. Essa è una sorta di duplicazione sul piano reale del suono mitico della campana gialla. La piramide è però concepita ad un tempo dinamicamente e staticamente. Dinamicamente, è intesa in certo modo come prodotta dal suo vertice superiore dal quale fuoriescono i lati della piramide che termina nel quadrato che sta alla base. La nota Kung naturalmente punta verso il cielo mentre le altre quattro note che sono i vertici del quadrato della base rap­ presentano l'elemento terrestre. Considerata dinamicamente si ripete dunque, dal punto di vista immaginativo e simbolico, l'idea della generazione da un unico generatore. La nota Kung, il vertice della piramide, genera la scala stessa, e questo ha naturalmente il suo corrispondente per così dire letterale nel fatto che gli intervalli vengono determinati a partire da essa, quindi nella sua funzione di tonica. Considerata staticamente, dobbiamo invece naturalmente pensare alla base quadrata ed alla sua stabilità. La pregnanza che assume il problema della stabilità dipen­ de anche in larga parte dalle implicazioni sociali della musica. Disordine nella musica è equivalente a disordine nella società, ed inversamente un disordine nella società attesta un disordine nella musica. Qui troviamo anche la ragione del nome "suono (o nota) 216 della campana gialla" - su cui ci siamo interrogati all'inizio e che abbiamo lasciato in sospeso. Questo suono non può certo essere lasciato fluttuare - deve essere in qualche modo definitivamente fissato e custodito. E ciò vale naturalmente per i lyu che da esso si generano. Da questa fissazione dipende l'ordine nella musica e nella società. Così il suono del flauto si solidifica concretamente in una campana. È molto probabile che i lyu fossero effettivamente realizzati in risuonatori metallici, come campane o gong, ma va anche notato che risuonatori di questo tipo sono poco adatti a fornire una intonazione perfetta e che dunque questa "solidifica­ zione" avesse anche un forte valore simbolico. Ciò manifesta un'esigenza, anche dal punto di vista musi­ cale, di riferimento ad un diapason "assoluto", esigenza che si è imposta nella musica europea in modo molto tardivo e come una questione essenzialmente di buon senso. Il poter disporre di un diapason comune avvantaggia sia strumentisti che cantanti oltre che costruttori di strumenti la cui intonazione deve essere predisposta nella fase di costruzione. Sicuramente l'importanza che viene data a questo problema nell'antica Cina deriva invece da un insieme di significati che ri­ manda alla relazione tra la musica e l'ordine sociale. La determinazione del diapason e di conseguenza della po­ sizione delle note non poteva essere lasciata alla libertà del mu­ sicisti, ma occorreva ufficializzare un diapason inamovibile. E questo era compito da affidare ad un ufficio statale. Vi sono vari documenti che attestano come lo stato si occu­ passe dei dodici lyu esattamente come si occupava del problema della coniazione della monete, della determinazione dei pesi e delle misure. È certo ad esempio che un centinaio di anni prima di Cristo fu istituito un Ufficio imperiale della musica [Picken, p. 104] che aveva il compito di sorveglianza sugli avvenimenti musicali e in particolare aveva come compito di mantenere la giusta altezza dei metallofoni dei Lyu. In certo senso si fa di tut­ to per "scolpire" i suoni del sistema, come garanzia di stabilità 217 non soltanto per il sistema musicale, ma per l'ordine sociale e naturale. Scrive Sachs: "L'esattezza della musica non era, in ultima analisi interesse precipuo del campo musicale, ma investiva in modo essenziale la realtà del cosmo. Tempo e spazio, sostanza e forza erano al di là del controllo dell'uomo, ma il suono era creazione sua. Con la musica egli si assunse la grave responsabilità di raf­ forzare o di mettere in crisi l'equilibrio del mondo; la sua respon­ sabilità comprendeva infatti le più vere immagini del mondo, la dinastia e il paese. Il benessere dell'impero si fondava sull'e­ sattezza delle altezze sonore e delle scale. Conseguentemente la riorganizzazione della musica rappresentava uno dei primi atti dell'imperatore di una nuova dinastia" [Sachs , pp. 117-118] . E questo sulla base del pensiero che la dinastia precedente non sa­ rebbe certo stata eliminata se la sua musica fosse stata in accordo con l'armonia universale. Il primo punto di consolidamento di un nuovo regime era normalmente rappresentato dal riordino all'interno della musica stessa. Non si pensi tuttavia che si tratti di un atteggiamento ap­ partenente ad un ingenuo magismo. Io penso che l'atto di con­ solidamento del sistema musicale avesse per i suoi stessi autori un valore essenzialmente rituale ma di particolare pregnanza e profondità, e questo è qualcosa di diverso da una credenza ma­ gica. Per quanto riguarda le valenze simboliche varrebbe la pena di studiare meglio la questione della suddivisione dei dodici lyu in due serie. In questo mio rapidissimo excursus sulla questione non ho trovato un corrispondente musicale realmente significa­ tivo - se dobbiamo realmente escludere la scala a toni interi - tanto che ciò può far pensare che il valore simbolico prevalga su considerazioni di carattere musicale, anche se io dubito in linea di principio di questa possibilità. In generale un valore simbolico 218 è tanto più pregnante quanto più dà origine idee musicali. Non sono affatto convinto dall'idea di simboli appesi per così dire a mezz'aria. In questo caso comunque va notata l'importanza per la cultura cinese dell'opposizione maschile/femminile che ripor­ ta poi all'opposizione tra il principio chiamato Yang e il principio Ying, che sono i nomi di due forze opposte, ma anche comple­ mentari che reggono l'universo, lo Yang con carattere maschile e Ying con carattere femminile. Che la distinzione tra le due serie di lyu avesse implicazioni direttamente musicali a mio avviso è suggerito anche da una in­ formazione che traggo da Sachs secondo il quale la distinzione tra le due serie di lyu veniva in qualche modo mantenuta anche nella pratica strumentale e nelle denominazioni corrispondenti [Sachs, p. 111]. Tuttavia questa informazione non è accompa­ gnata da altre indicazioni interessanti da questo punto di vista. Si rammenti poi la portata che aveva nella procedura dei dodici zufoli il numero 3 e il numero 2 proprio ai fini della generazione dei suoni. Ora i numeri 2 e 3 corrispondevano rispettivamente al cielo ed alla terra. Ed è chiaro il legame con la concezione della musi­ ca come punto di mediazione tra cielo e terra . Questo punto di mediazione si concentrerebbe per così dire nell'intervallo conso­ nantico per eccellenza, l'intervallo di quinta. 6 L'estensione da dodici a sessanta lyu Concludo la mia esposizione riprendendo il problema della pos­ sibile estensione dello spazio "tonale". Uno dei punti interessanti della questione è che tutta questa problematica dell'ordine e della stabilità viene proposta appunto con riferimento essenziale al ciclo delle quinte, sia pure conside­ rato secondo una particolare angolatura, cioè come generatrice non tanto della scala, quanto del sistema dei dodici lyu. 219 Ora proprio il ciclo delle quinte contiene da questo punto di vista un principio di disordine, di crisi. Si tratta del fatto che il ciclo non è in grado di richiudersi sull'ottava. La produzione di nuove posizioni sonore, di nuovi punti sonori è in via di princi­ pio, per ragioni matematiche interne, infinita. Abbiamo già visto un primo modo di affrontare questo problema. I Lyu hanno anche la funzione di inibire quelle posi­ zioni in cui questo problema farebbe per così dire esplodere la scala, o quanto meno introdurrebbe il disordine in essa. Ma questa soluzione contiene anche delle forti limitazioni proprio per quanto riguarda i toni possibili di trasposizione. Prima di concludere questa nostra esposizione, è interes­ sante accennare al modo in cui viene affrontato il problema di togliere queste limitazioni. Avviene qui qualcosa di effettivamen­ te inatteso. Come abbiamo già accennato è esclusa l'idea di aggiusta­ menti, di "temperamenti" eventuali. Ed è credo impensabile ammettere una quinta falsa - una quinta del lupo - come av­ venne nella tradizione europea come male minore. Ammettere un "lupo" dentro le armonie che debbono mediare i rapporti tra cielo e terra, è appunto impensabile in questo quadro. D'al­ tro lato, la teoria cinese compie una operazione che a sua volta potrebbe apparire impensabile dal punto di vista europeo e pe­ culiarmente greco. Si tratta della possibilità di continuare il ciclo, con l'implicita accettazione del movimento aperto, a spirale che ne consegue. Il cerchio è l'immagine del chiuso e del finito, la spirale l'immagine dell'aperto e dell'infinito. E indubbiamente l'idea del movimento sta più dalla parte della spirale che da quel­ la del cerchio. Ora la teoria musicale cinese non esita a porsi sulla via della spirale, il che significa nella sostanza: se aumentiamo il numero dei Lyu, aumenteremo le possibilità di trasposizioni tonali man­ tenendo il rigore della buona intonazione. Proprio nel periodo in cui venne istituito l'Ufficio imperiale 220 della musica (I sec. a. C) o poco oltre è datato un primo tentativo ad opera del teorico King Fang, mentre l'istituzione dell'Ufficio imperiale risale all'imperatore Wuudih, 141-87 a. C. [Danielou, p. 74]. La catena delle quinte viene portata fino a 60 cicli. I Lyu diventavano di conseguenza sessanta, e l'ottava ve­ niva suddivisa in 60 intervalli molto piccoli, dell'ordine dei 20 cents e quindi molto vicini al comma pitagorico (24 cents). Naturalmente la catena non poteva chiudersi e l'assillo si ripresentò nuovamente all'interno della teoria musicale cinese. Seicento anni dopo Cristo una nuova riforma portava i lyu addirittura a 360 [12] . Questo sistema rimase tuttavia solo sulla carta, mentre sem­ bra che si fece qualche tentativo di tradurre la suddivisione in 60 in un fatto più concreto. Che cosa significa questo? Significa varie cose, a seconda anche dei punti di vista da cui può essere considerato. Molti storici e musicologi riferiscono la cosa come una pura curiosità, di scarso o nessun peso - una jonglerie del tutto inuti­ le. Come una pura curiosità lo considera certamente Picken [ p. 150] . Più duramente Sachs osserva: "Sarà risparmiato al lettore il grottesco rapporto che risulta dalla trecentosessantesima poten­ za di 3/2; questa minuziosità era sproporzionata rispetto ad un procedimento che non può venir in ogni caso capo all'esattezza e privo altresì di ogni efficacia. Non illustreremo tutti gli inutili tentativi che seguirono. È sufficiente dire che la natura del huang chung (suono della campana gialla) fu incerta fin da principio, e il dissenso che lo accompagnò non ebbe mai tregua. La storia del diapason cinese è la storia di venti secoli di confusione, di equivoci e di insucces­ si; mutarono le formule e conseguentemente i relativi risultati" [Picken, p. 111] .. Come si vede da questa citazione, l'esigenza teorica di ordi­ 221 ne era appunto solo una esigenza.... In giudizi come questi, che sono sommariamente accettabi­ li, si rischia però di rimetterci alcune ragioni interessanti. Ci sono molte apparenti irragionevolezze nella teoria della musica, ma da filosofi noi sappiamo che tutta la storia della filosofia è spesso fatta di apparenti irragionevolezze, e tuttavia ricche di senso. È invece sempre necessario trarre, da quelle che appaiono delle pure speculazioni teoriche, il loro senso teorico, o anche più largamente ideologico o immaginativo. Insomma "venti secoli di confusione, di equivoci e di in­ successi", come dice Sachs, non sono cosa da poco: e se ci sono stati, forse non ci sono stati in virtù di semplice stupidità. In particolare io non penso che questo proseguimento sia dovuto ad una sorta di impari lotta per vincere un dato mate­ maticamente incontestabile, cioè per cercare di chiudere il ciclo delle quinte. È più ragionevole pensare che l'atteggiamento mentale che trova qui espressione non tema l'andamento a spirale della cate­ na delle quinte - e decida dunque di proseguire ancora per un tratto di esso. Mi sembra che Sachs pensi che il proseguimento sia dovuto al tentativo di arrivare a chiudere il ciclo delle quinte, cosa che è appunto matematicamente impossibile. Io credo più probabile che si scelga esplicitamente per la spirale, che non la si tema. E' in ogni caso molto difficile che chi vede una spirale pos­ sa pensare che prima o poi si ricongiungerà con il punto iniziale. In questo senso sarei d'accordo, almeno in parte, con un autore che si è acquisito molti meriti nello studio della musica orientale in genere e della musica indiana in particolare - le cui posizioni peraltro io sono lontanissimo dal condividere. Si tratta di Danielou che appunto insiste su un pensiero dominato dall'immagine della spirale. In particolare Danielou sostiene che l'immagine statica della scala pentatonica, con la nota Kung sulla cima e le altre note ben piantate sulla base della piramide, è in certo senso integrata e completata sul piano del modello dei Lyu 222 dall'idea dinamica di un movimento a spirale potenzialmente in­ finito [Danielou, p. 65]. In realtà anche l'immagine della pirami­ de, come abbiamo mostrato in precedenza aveva una compo­ nente dinamica, accanto a quella statica, ma questa precisazione conferma la compresenza di questi due momenti; e in partico­ lare l'idea di una divisione sempre più fine dell'ottava, implicata dall'aumento del numero dei Lyu sembra implicare l'accettazio­ ne dell'andamento spiraliforme. Ma è anche opportuno sottolineare più volte - come fanno tutti i commentatori più recenti e lo stesso Danielou - che que­ sta suddivisione sempre più fine non significa assolutamente un cromatismo sempre più fine. Il problema del cromatismo con­ tinua a non essere toccato da tutta questa faccenda del numero dei Lyu. Le melodie continuano ad essere melodie pentatoniche per quanto grande sia il numero dei Lyu. Il suo scopo è quello in certo senso di rendere disponibile un numero sempre più grande di suoni possibili nella nostra ta­ bella in modo che, dato un suono sia sempre reperibile la sua "quinta giusta" così da togliere, ad esempio, le limitazioni che in prece­ denza dovevano essere imposte alle trasposizioni. È chiaro infatti che quanto più l'intervallo di ottava è denso di lyu, tanto più sarà possibile che data una certa nota vi sia ap­ punto lo lyu corrispondente alla sua quinta "giusta". Detto in altro modo: un motivo potrà essere liberamen­ te trasposto senza incontrare problemi per quanto riguarda gli intervalli di quinta. Naturalmente si possono alzare le spalle di fronte ad un simile problema. Esso ha una valenza prevalente­ mente teorica, piuttosto che musicale e deriva dalla preoccupa­ zione che tutte le note che io ottengo in questa modificazione di accordatura siano legittimate dalla loro preesistenza in una tavola precostituita di intervalli leciti. L'enfasi cade sulla giusta intonazione in un senso diverso da quello in cui se ne parla anco­ ra oggi, trattandosi di una giusta intonazione in termini di quin­ te. Alla base di tutto vi è una ossessione della quinta giusta, una 223 sorta di orrore della quinta del lupo. Detto questo tuttavia l'affermazione di Danielou secondo cui la scala basata su sessanta lyu sarebbe "perfetta per la traspo­ sizione a causa della sua estrema accuratezza" [16], è un'afferma­ zione veramente peregrina! Una scala perfetta per una qualche ragione intrinseca è in realtà una nozione priva di senso. Ci si può chiedere: perché proprio 60 giri? In generale anche in questo caso gli studiosi sono divisi in due partiti. O si fa notare appunto che, data l'inconsistenza del problema, l'un numero vale l'altro oppure ci si affanna a ricerca­ re quasi esclusivamente delle ragioni simboliche. In particolare in ambito cinese e proprio in rapporto alla teoria degli Lyu si possono raccogliere simbolismi a piene mani. In realtà una certa ragione c'è, e riguarda probabilmente il fatto che la catena procede in ogni caso per cicli di dodici "anelli" (giri) e che la scala con cui abbiamo a che fare è una scala pentatonica. Essendo sessanta eguale 12 X 5 è possibile che volendo cercare una giustificazione interna si sia voluto fare riferimento a questi due numeri. In ogni caso si può anche tener conto che intorno a valori tra 50 e 60 giri ci si aggira intorno al comma pitagorico. Detto questo, e cioè dopo aver accennato ad alcune possibili ragioni di questa scelta, indubbiamente i simbo­ lismi ed i significati extramusicali si addensano intorno a tutta questa costruzione che è interessante, ma che certamente non va sopravvalutata. Anch'io penso che non sia il caso di tediare il lettore con la lista di tutti i sessanta Lyu con i vari calcoli - come fa invece Danielou che propone appunto la tabella corrispondente. I motivi di interesse li abbiamo già segnalato ed una simi­ le tabella non aggiunge nulla ad essi. La ragione per la quale in Danielou si sottolinea tanto questo punto è da ricercare nel ri­ presentarsi di questi problemi nella sua stessa teorizzazione delle scale. 224 7 Glissando, vibrato e i suoni inudibili Non possiamo non fare conclusivamente una brevissima precisazione sul cromatismo. Una scala pentatonica senza semitoni evidentemente ac­ centua l'elemento discreto, più che quello continuo. Gli intervalli successivi sono solo due e piuttosto ampi, uno di 204 cents ed uno di 294 cents. Come abbiamo notato i lyu non sono da considerare dal punto di vista dell'alterazione "cro­ matica". Ciò non significa tuttavia che nella musica cinese non vi sia­ no "cromatismi", soprattutto se pensiamo al senso autentico che deve essere attribuito a questo termine. Dobbiamo allora pen­ sare alle finezze possibili che derivano dall'impiego di forme di vibrato e di glissando. In queste finezze si affaccia anche l'idea di un legame con significati trascendenti che possono essere colti solo attraverso la musica e per di più non veramente afferrati ma solo suggeriti. Cosicché si fa avanti un raffinatissimo rapporto tra suono e silenzio - e quindi anche il tema, così frequente nei pensieri intorno alla musica, della musica "inudibile". Scrive Picken che la musica del salterio a sette corde (qin) "tende costantemente verso suoni immaginari: il vibrato viene prolungato a lungo dopo che tutti i suoni udibili sono cessati; la corda non pizzicata, ma messa in vibrazione da un glissando, che si arresta repentinamente, produce un suono difficilmente per­ cepibile anche dall'esecutore stesso. Nelle mani di un esecutore della vecchia generazione uno strumento inclina ad essere usato per suggerire più che per produrre suoni" [Picken, p. 93]. Forse si tratta di una osservazione eccessiva o di una for­ mulazione non troppo felice perché ogni musicista vuole sugge­ rire suoni producendoli - e l'espressione musicale non può fare a meno di essere tutta volta alla produzione del suono, e non 225 all'impercepibile. Ma è certo che il qin suonato con il semplice pizzicato, senza i colori che derivano dai glissando, dalle note di passaggio a loro volta glissate, dalle code dei suoni della corda lasciata vibrare il più possibile a lungo, darebbe suoni timbrica­ mente poco interessanti, mentre nelle mani del musicista esper­ to, che sa produrre suoni suggeriti, diventa uno strumento che ha un fascino straordinario*. * L'autore di questo testo, in qualità di compositore, ha osato comporre un brano per qin e voci segrete (in realtà canti di uccelli in risintesi) intitolato "Pre­ ludiando alla notte" che può essere ascoltato e ritirato dal suo Archivio presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Giovanni Piana Opere complete Volume ottavo Alle origini della teoria della tonalità 2013 4 ISBN 978-1-291-26714-3 Copyright Giovanni Piana Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Uniform Resource Identifier Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT In questo testo la scritta (Es. x*) indica l'esistenza di un esempio sonoro presente nella versione PDF. Tale versione è reperibile nel sito Internet dell'Archivio di Giovanni Piana, Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. L'assenza dell'esemplificazione sonora non pregiudica in nessun modo la comprensione del testo. 5 Giovanni Piana Alle origini della teoria della tonalità 2005 6 7 Indice 1. Teoria della tonalità e fondazione fisicalistica 2. Spazio tonale e il principio di consonanza 3. La critica di Rameau alla concezione zarliniana dell'ottava come "madre degli intervalli" 4. Dimostrazione monocordista del suono fondamentale e dei suoni che esso genera 5. "Udire" gli armonici 6. Il passaggio alla fondazione fisicalistica e le sue implicazioni di ordine generale 7. La teoria del basso fondamentale e la deduzione della scala diatonica 8. Teoria della tonalità, scala naturale, temperamento equalizzato 9. Basso continuo e Basso fondamentale 10. Guardando un poco oltre 8 Abbreviazioni bibliografiche Per numerosi dei testi citati ci siamo avvalsi delle edizioni digi­ tali realizzate dalla School of Music Indiana University che sta svolgendo, sotto la direzione di Tho­mas J. Mathiesen, un'ope­ ra altamente meritoria comprendente sia i trattati latini (TML) che quelli italiani (TMI) e francesi (TMF). L'indirizzo per il re­ perimento dei testi, che sono liberamente a dispo­sizione degli interessati, è il seguente: http://www.­mu­sic.­­­indiana.­edu/­tml/ start.html. Si forniscono i titoli interi del­le opere citate e le abbre­ viazioni utilizzate nelle note. Le indicazioni di pagina sono quelle riportate in parentesi quadre nelle versioni digitali, relative alle edi­ zioni utilizzate in esse. J. Le Rond d'Alembert, Élémens de musique, theorique et pratique, Paris 1752. Ristampa anastatica, Slatkine, Ginevra 1980 (Abbr.: Éléments) J. Ph. Rameau, Traité de L'Harmonie Reduite à ses Principes naturels, Paris 1722. Ristampa anastatica a cura di J. F. Kre­mer, Meridiens Klincksieck, Paris 1986 (Abbr. Traité). J. Ph. Rameau, Nouveau Systême de Musique Theorique, Où l'on découvre le Principe de toutes les Regles necessaires à la Prati­ que, Pour servir d'Introduction au Traité de l'Harmonie, Paris 1726. Ristampa anastatica, Zurfluh, Bourg-la- Reine 1996 (Abbr. Nouveau Système). J. Ph. Rameau, Génération Harmonique, ou Traité de Musique Théorique et Pratique, Paris 1737 (Abbr. Génération). J. Ph. Rameau, Démonstration du Principe de L'Harmonie, Servant de base à tout l'Art Musical théorique et pratique, Paris 1750 (Abbr. Démonstration). J. Ph. Rameau, Code de Musique Pratique, ou Méthodes Pour ap­ prendre la Musique, Paris 1760 (Abbrev. Code). J. Ph. Rameau, Nouvelles Réflexions sur le Principe Sonore, pubblicato in appen­dice al Code de Musique Pratique, ou Méthodes Pour apprendre la Musique, Paris 1760 (Abbr. Nouvelles Réflexions). 9 J. Sauveur, Principes d'acoustique et de musique ou système general des intervalles des sons et de son Application à tous les Systèmes et à tous les Instrumens de Musique, Paris 1701 (Abbr. Principes d'acoustique). J. A. Serre, Essais sur les Principes de l'Harmonie, Paris 1753 (Abbr. Essais). 10 11 1. Teoria della tonalità e fondazione fisicalistica Nell'anno 1722 John Sebastian Bach porta a termine il suo Clavicembalo ben temperato. Come si sa quest'opera aveva lo scopo di mostrare non solo l'opportunità di un "buon" tem­pe­ramento, non importa se si tratti del temperamento equa­lizzato o di una delle molteplici proposte d'epoca [1], ma anche la sua necessità per poter bene eseguire brani scritti in tutte le tonalità. Per que­ sto motivo essa si presenta, nello stesso tempo, come una sorta di clamorosa affermazione del­l'i­ntero universo tonale che viene in essa percorso da cima a fondo. La musica celebra in essa il lin­ guaggio della tonalità come il linguag­gio da consegnare al futuro. Forse questa celebrazione è più importante della dimostrazione del tem­peramento. Naturalmente la parola "tonalità" può avere un senso così generico da rendere improponibile qualunque tenta­ tivo di datazione. Tut­tavia si può convenire sul fatto che parlan­ do di "linguag­gio della tonalità" ci si richiama ad uno sviluppo che ha una precisa determinazione storica, e proprio questa gran­ de opera bachiana potrebbe essere considerata, non certo come inizio, ma come la soglia esemplare di uno stile destinato a se­ gnare gli sviluppi musicali di tradizione europea sino allo scorcio del secolo XIX. Allo stesso anno 1722 appartiene un altro evento altrettanto importante per la teoria del linguaggio tonale: in quella data veni­ va pubblicato il Traité de l'harmonie réduite à ses prin­cipes naturelles di Jean-Philippe Rameau (1683 - 1764), un'opera di straordinario respiro tendente a fornire una fondazione teorica alla musica dei tempi nuovi. In essa in realtà, sulla base di considerazioni mono­ cordiste, era ampiamente preparato il passaggio dalle spiegazioni matematizzanti, che riconducevano le relazioni musicali a relazioni numeriche, alle spiegazioni che ten­dono invece a riportarle alla fisi­ cità del suo­no, ed a riconsi­derare le relazioni numeriche in rappor­ to a quella fisicità. Que­sto pas­sag­gio viene realizzato da Rameau 12 pochi anni dopo nel Nouveau Système de musique theorique del 1726 e ri­con­fer­mato e varia­mente riformulato nelle opere suc­cessive. Così nel 1753 Jean-Adam Serre sintetizza la posizione di Ra­ meau, Mu­sicien Ami de la Philosophie, come egli lo definisce: "Ra­ meau, questo illustre compositore, musicista amico della filo­sofia, ha sentito fortemente la necessità di fondare la teoria del­l'armonia su una conoscenza più esatta della natura del suono, e del modo in cui esso stimola l'organo acustico; egli ha compreso quale im­ portanza rivestiva a questo proposito la scoperta della risonanza (Resonnance) armoniosa che accompagna ogni suono emesso da un corpo musicalmen­te sonoro; scoperta ben consolidata, che di­ mostra che il suono musicale non è un suono assolutamente sem­ plice ed unico, ma il risultato di un gran numero di suoni partico­ lari che colpiscono l'orecchio con forza maggiore o mi­nore, ma di cui il più grave è di gran lunga il più avvertibile. - È a favore di questo principio fisico che Rameau ha gettato luce sull'ar­monia, sull'influenza che essa ha nella melodia e sul legame che concatena ordinariamente le successioni degli accor­di, e di ciò ci si può con­ vincere mediante una lettura attenta dell'ope­ra che egli ha pubbli­ cato sotto il titolo di Génération Harmonique" [2] . L'età di Rameau è anche l'età di nascita dell'acustica come di­ sciplina scientifica autonoma. Essa è rivendicata da Sauveur nel saggio Principes d'acoustique et de musique del 1701 nel quale si so­ stiene la necessità di non occuparsi soltanto di sistemi musicali che possono cambiare con il mutare del gusto, ma di dar vita ad una scienza più generale che abbia come tema il suono stesso. In quel saggio si riferisce nitidamente intorno alla scoperta della comples­ sità del suono singolo, ovvero della compresenza di vibrazioni concomitanti nella vibrazione di un "corpo sonoro" che più di­ rettamente colpisce l'udito - facendo del fenomeno degli armonici [3] , già ben noto ma per lo più considerato marginale se non relegato tra le tante cose curiose difficili da spiegare dei fatti acu­ stici, uno dei punti fondamentali da cui l'acustica come disciplina scientifica avrebbe dovuto prendere le mosse. 13 Sia pure tardivamente rispetto a questa data, Rameau si rende conto del fatto che una simile scoperta avrebbe potuto essere integrata all'interno della teoria che egli aveva già propo­sto nel suo Traité, collegandola strettamente all'idea di Note to­nique e di Basse fondamentale, ritenendo in questo modo di conferire alla propria teorizzazione una solida giustificazione scientifica. Sem­ bra così rinnovarsi, in questo momento cruciale in cui una prati­ ca compositiva ormai entrata largamente nell'uso riceve un primo imponente tentativo di fondazione teorica, la felice congiunzione e interazione tra musica e scienza che era già stata propria degli inizi della teoria musicale in Grecia. Nello stesso tempo, nel momento in cui il linguaggio tonale riceve una prima approfondita elabora­ zione teorica, esso appare fortemente segnato da una netta istanza di "fisicalizzazione" - ovvero da un tentativo di giustificare le sue strutture fondamentali attraverso le proprietà fisiche del suono. Questo tema benché con alterne vicende, e con valutazioni diffe­ renti ed in mezzo a mille con­troversie, accompagna la storia intera della sua teoria. Noi vorremmo gettare uno sguardo su questo momento di svolta, quindi sulla teoria della tonalità ai suoi inizi, guidati non tanto da interessi di descrizione e di interpretazione sto­rica, quanto piuttosto per trarre da questa vicenda motivi per una riflessione sui problemi teorici che essa solleva. Mi sem­bra perciò opportuno dichiarare in via preliminare il terreno su cui ci attestiamo ed il punto di vista di massima che inten­diamo adotta­ re: tanto più che si tratta di un terreno e di un punto di vista per il quale la stessa idea di una fondazione fisicalistica di una forma di espressione musicale appare immediatamente fuor­viante per una ragione di ordine filosofico generale. La musica è, come ogni altra arte e forse in misura eminente, legata al campo dell'esperienza sensibile. Essa elabora in forme differenti, nelle diverse epoche storiche e nelle diverse culture, i materiali sonori, giocando soprat­ tutto sulle loro combinazioni e relazioni possibili e sulla varietà dei modi del­la loro possibile organizza­zione temporale. La ricerca fenomenologica può perciò trovare in essa un campo privilegiato 14 ed estremamente fecondo per il proprio esercizio. Ma proprio per il fatto che essa è interamente rivolta alle strutture della percezione, una simile ricerca prenderà fin dall'inizio le distanze da fondazioni teoriche che vogliano oltrepassare il piano dell'e­sperienza per an­ dare a ricercare oltre di esso quelle spie­gazioni che possano confe­ rire oggettività e certezza alle relazioni colte dall' "orecchio", ma di cui l'orecchio stesso non sarebbe in grado di rendere conto. Non c'è probabilmente bisogno di ram­mentare quanto la critica del fisicalismo su un piano del tutto generale appartenga alle tradizioni del pensiero fenomenologico. E tuttavia per la ricer­ ca fenomenologica, la musica rappresenta una sorta di sfida, dal momento che la teoria musicale è costantemente accom­pagnata da una tendenza ad oltrepassare non solo il piano dell'esperienza percettiva, ma quello della stessa esperienza propriamente musica­ le - anche se questa tendenza si manifesta in mezzo a tensioni ed a conflitti che investono sia l'intensità delle istanze teoriche sia quella delle istanze musicali. Talora esse giocano insieme promuo­ vendosi reciprocamente, talaltra esse si trovano in un durissimo contrasto. Parlando di fenomenologia in un contesto di proble­ mi musicali e in par­ticolare in rapporto alla teoria della tonalità, è necessaria un'importante precisazione. In ambito musicologico, il termine di fenomenologia ha avuto un impiego singolare, che non è sempre facile ricollegare alla fenomenologia filosofica - tenendo conto della difficoltà aggiuntiva dovuta alla varietà delle cor­renti che si rico­noscono sotto questo titolo e che spes­so si trovano in contrasto tra loro non solo sul modo di interpre­tare i concet­ ti di base ma anche dal punto di vista dell'orien­tamento intellet­ tuale generale. D'altronde il legame con l'elabo­ra­zione filosofica è spesso al­quan­to generico ed in taluni casi largamente equivoco. Con orientamento "feno­menologico" in ambito musicologico si è inteso talora un mo­do di approccio "oggettivistico" in rappor­to alla letteratura musicale, dove il pon­te per il passaggio da un agget­ tivo all'al­tro è dato della critica dello psicologismo: l'aper­tura della tematica fenomenologica in Edmund Husserl è in effetti caratte­ 15 rizzata da una critica molto vasta ed appro­fondita delle tendenze psicologizzanti nella logica, e questa critica che venne estesa dal­ le correnti di ispirazione fenome­nologica all'am­bito della filosofia dell'arte, e in particolare al­l'am­bito musicale. Dal punto di vista della critica musicale il richiamo alla fenomeno­logia così intesa poteva servire per porre l'accento sull'im­por­­tanza della struttura musicale come tale, e sulla necessità di disporre di precisi stru­ menti analitici per la sua chiarificazione, mettendo da parte le descrizioni di stile psicologizzante. Forse questa tensione verso uno schema­tismo strutturale soggiacente, a cui non è certo estra­ nea una prospettiva oggettivistica, fa talora caratterizzare come "fenome­nologica" la posizione originaria di Schenker - ma in que­ sto caso si aggiunge se mai un equivoco in più dipendente dalla posizione di Schen­ker sul linguaggio tonale: ad un orientamento fenomenologico in campo musicale si attribuisce, come una sor­ ta di corollario, l'apologia del linguaggio tonale come il migliore dei linguaggi possibili. Tutti questi elementi confluiscono in modo, vorrei quasi dire, catastrofico nella filo­sofia della musica di Ernst Ansermet, che rivendica il titolo di fenomenologia per la propria posizione oltrepassando, a nostro sommesso parere, tutti i limiti del lecito, anche intendendo questi limiti nel senso più lato pos­ sibile. Solo un fenomeno­logo che sia andato fuori di senno può inventare un proprio personalissimo sistema di calcolo logarit­ mico per provare che nella tonalità sta l'essenza della musica [4] ! In rapporto ad un punto di vista fenomenologico come noi lo intendiamo, si può forse parlare di "oggettivismo" nel senso del "ritorno alle cose stesse" secondo la formula così spesso ricordata, ma senza perdere mai di vista il fatto che queste "cose stesse" - e tanto più se si tratta di cose delle percezione - sono inevitabilmen­ te correlate ad una soggettività percettiva. Cosicché mentre si mira ad attenersi il più strettamente possibile al piano di ciò che viene effettivamente sperimentato, non si può nello stesso tempo non tener conto delle "intenzioni soggettive" che appar­tengono a quel piano pro­­prio in forza della sua correlazione con l'esperienza sog­ 16 gettiva. Il cosiddetto oggettivismo fenomeno­logico va strettamen­ te riportato alla sua matrice antipsico­logisti­ca. La soggettività in questione infatti non sarà questa o quella soggettività determinata con le sue inevitabili particolarità psi­colo­giche, più o meno cultu­ ralmente mediate: si tratta invece di una sog­gettività in generale senza la quale non avrebbe nem­meno senso parlare di cose della percezione. Detto in altro mo­do: ogni oggetto è un oggetto "in­ tenzionale", ovvero esso è sempre sotto la presa di un "modo di intendere", per usare un'e­spres­sione che sembra essere subito im­ mediatamente com­prensi­bile. Ciò vale in modo eminente nell'am­ bito delle forma­zioni sonore e musicali. In rapporto ad esse, ed a cominciare dalle formazioni più elementari, è possibile illustrare esemplarmen­te il fatto che il senso che un determinato fenomeno sonoro può assumere dipende dall'incontro tra inten­zioni sogget­ tive e con­testi fenomenologici entro cui esso si presenta. Il modo di intendere non può far nulla se non vi è un contesto che sia in grado sostenerlo; e inversamente un deter­minato contesto rap­ presenta una pura possibilità di senso, se non vi è un'in­tenzione capace di attualizzarla. Su questo pecul­iare rapporto si fonda l'at­­ teg­giamento fenomenologico nei confronti della molteplicità dei linguaggi della musica. Nulla potrebbe essere più lontano dall'i­ postatizzazione di questo o di quel linguaggio musicale - e sulla base di quale possibile argomen­to? Ciascun linguaggio rappresen­ ta un modo di organizzazione del materiale sonoro secondo istan­ ze espressive e creative che si propongono all'in­terno di orizzonti culturali differenti, anzi che sono di questi orizzonti vere e proprie emanazioni: come tali esse fanno in­tegralmente parte della pola­rità soggettiva della relazione inten­­zionale e quindi dell'ele­mento sog­ gettivo integrato in un'in­ter­sog­gettività stori­camente deter­minata. Questa moltepli­cità verrà anzitutto ap­prez­zata come una manife­ stazione della ricchezza della musica. Si tratta di una ricchezza che verrebbe pesan­te­mente impoverita da qualunque tentativo di gerarchizzazione tra i diversi linguaggi, di sta­bilire tra essi scale di valori o segrete teleologie. Anzitutto bisogna lasciar convivere le 17 sublimità ba­chiane con i canti pig­mei della foresta pluviale. Poi si vedrà. Questo apprezzamento non è tuttavia, nelle nostre inten­ zioni, qualcosa di simile ad una presa d'atto, ad un ricono­sci­mento di puro e semplice un dato di fatto. Tanto meno ci sem­brerebbe giusto correlare il dato di fatto ad un conven­ziona­lismo delle rego­ le, dove solo il fattore storico-intersoggettivo sarebbe dominante ed ogni giustificazione andreb­be ricercata in esso. L'interesse di una posizione fenomenologica sta nella reazione alla retorica del plurale - a quella retorica che ritiene che sia in azione un chissà quale ese­crabile pregiudizio ogni volta che si dice "la musica" piut­ tosto che "le musiche" - quante volte abbiamo letto esortazioni come queste! Invece, quel che più interessa è il ricono­scimento dell'esistenza di un terreno comune dei diversi linguaggi e nella posizione del problema di quanto in essi possa essere ricondotto a questo terreno comune, e precisamente a differenti modi di intenderlo. I ma­teriali della musica hanno le proprie regole interne, e le forme strutturali dei brani musicali - che sono a loro volta go­ vernate da regole, indipendentemente dal fatto che siano o meno messe nero su bianco dalla teoria - sorgono dal gioco con quel­ le regole. Cosicché avrà sempre senso cercare di rendere conto di esse interrogandosi su questo gioco. Ciò richiede da un lato che si tenga d'occhio, in questo campo di problemi, la dimensione storica, ma dall'altro che si sappia cogliere al suo interno una concettualità che non può che essere modellata in prima istanza sui materiali e sulle strutture esibite dalla percezione. Ciò spiega per quale motivo un punto di vista feno­menologico pur non potendosi associare a prospettive fonda­zio­nali di carattere fisicalistico, non può nemmeno aderire a quel­lo che sembra essere il suo contraltare unico e necessario: l'idea che ogni giustificazione debba essere ricercata nella vicenda storica, e che non vi sia nulla da aggiungere e nulla su cui riflettere se non su dati interni a que­ sta vicenda. Occorre richiamare l'attenzione sul fatto che il punto di vista storicizzante talora prende viva­cemente posizione contro 18 le fondazioni fisicalistiche proprio in quanto esse pretendono di riportare la concettualità musicale a circostanze che si trovano al di fuori del flusso storico della musica, e che possono pertanto essere caratteriz­zate come extra­musicali. Dal punto di vista stori­ co vi è la tendenza più che giustificata a narrare il passaggio che porta alla stabilizzazione del linguaggio della tonalità come una progressiva trasformazione linguistica che conduce alla graduale riduzione del numero dei modi, motivata dal movimento delle sen­ sibili, al graduale imporsi all'interno delle costruzioni polifoniche di un interesse prevalente per le strutture accordali conseguenti, all'affer­mazione dell'accordo triadico, all'imporsi di determinate soluzioni caden­zali, ecc. Purtroppo molto spesso questo proces­ so viene pro­posto attenendosi ai canoni del vecchio storicismo, e quindi secondo una prospettiva pronunciatamente finalistica, inge­nuamente teleologica, come se l'età dei modi fosse un mero "stadio anteriore" e la sua massima aspirazione fosse quella di ri­ solversi nella tonalità finalmente conquistata. Cosicché si va a ri­ cercare le origini della tonalità spingendosi al­l'età rinasci­mentale se non al Medioevo, vedendo al primo baluginare di una triade, di una cadenza perfetta, ecc., mirabili premonizioni e anticipazioni profetiche. Ma a parte questo, la narrazione storica ci parla in ogni caso di un processo che avviene all'interno della musica stessa, di trasformazioni che hanno una logica musicale loro propria. Si attira invece raramente l'attenzione sul fatto che, con la fondazione fisi­ calistica della tonalità, avviene una radicale rottura con tutto ciò: del passato si fa una implicita tabula rasa. Che il modo maggiore o minore possano rappresentare una sorta di residuo di un processo storico di riduzione è del tutto indifferente, e forse persino fuor­ viante, rispetto al problema della loro giustificazione assoluta, al di fuori di qualunque processo. Stando a questo punto di vista, un orientamento teleologico continua a persistere, ma vòlto in tutt'al­ tra dire­zione: il graduale affermarsi di un'armonia triadica non rap­ presenterebbe altro che un rivelarsi dapprima incerto, e poi sempre più sicuro, di una struttura che giace oltre il mondo fenomenico, 19 tra le legalità immanenti del suono nella sua fisicità. La critica rivolta da parte storicista, tutt'altro che priva di buone ragioni, è che la fondazione fisicalistica tende ad ignorare le spiegazioni propriamente musicali per sostituirle con spiegazioni tutte con­ dotte su un terreno extramusicale, mentre sarebbe necessario marcare la distinzione e la netta differenza di piani tra la musica e l'acustica, piuttosto che por­re l'accento sulla loro convergen­ za. Ma in realtà questa critica risulta spesso troppo sbrigativa e conduce a volte implici­tamente, a volte in modo del tutto esplicito a conse­guenze assai discutibili. Fondazione matema­tizzante, per la storia più antica del problema, e fondazione fisicalistica vengo­ no de­scritte come pure aberrazioni, come fuorvianti deviazioni dal cammino della musica verso regioni di sterile speculazione filo­ sofica - che peraltro sono destinate ad essere lasciate a se stesse come morta zavorra da cui la pratica musicale non si lascia co­ munque appesantire. Sullo sfondo si intravvede una ostilità verso la teoria anche quando essa è più prossima alla pratica musicale. Eppure proprio la storia della musica insegna quanto sia rilevante la presenza, insieme alla musica e come compe­netrata in essa, di una elaborazione teorica quanto mai ricca, che in parte deriva da una riflessione sulla pratica musicale, in parte invece guarda ad altri territori del sapere, intrecciandosi in modo vario e complesso con la riflessione scientifica e filosofica. Questo intreccio e la fitta rete di legami che si vengono a creare in esso debbono essere colti e compresi a fondo. La difesa delle ragioni "musicali" del­­la musica non può arrivare a sopprimere quelle ragioni che collegano la musica ad un universo di ragioni che sono radicate nella cultura di un'epoca e che costituiscono a loro volta una parte importan­ te delle valenze che la musica ha per la storia della cultura. A. Machabey, nell'introduzione al suo volume Genèse de la tonalité musicale classique des origines au XVe siècle, in cui espone in breve la sua opposizione alle fondazioni fisicalistiche, scrive: "La musica non coincide con l'acustica: quando essa è aggiustata a de­ stra, deborda a sinistra" [5] . Questo è molto ben detto. Come 20 vedremo, fin dall'inizio questo rapporto vive di "aggiustamen­ ti". Ma il contesto complessivo in cui si svolgono i condivisibili argomenti dell'autore è tale da portare alla massima accentuazione l'oppo­sizione tra teoria e pratica musicale: "Gli scienziati deter­ minano le loro cifre in vista di una acustica razionale; e i musicisti continuano ad accordare le loro lire per il piacere dell'orecchio, e senza preoccuparsi dei filosofi e dei loro calcolià" [6] . "Da un lato vi sono dei matematici, degli acu­stici che, osservando i risultati delle loro esperienze, determi­nano un certo numero di nozioni incontestabili e permanenti, somiglianti per certi aspetti ai fenomeni musicali; questi prin­cipi acustici sono presi allora per leggi musicali; ma poiché la musica quotidiana non quadra affatto con queste pretese leggi, le si ammette pro forma, come dei limiti, e si continua a descrivere la musica come si ama inten­ derla nei paesi e nelle epoche considerate..." [7]. Affermazioni di questo tenore mi­rano, da un lato, ad una critica nei confronti di un determinato modo di impostare il problema dei rapporti tra musica e acustica, ma dall'altro non nascondono affatto di ritenere lo stesso teorizzare sulla musica e nella musica come del tutto superfluo. Ciò che importa è unicamente la pratica musicale, la musica effettiva­ mente esercitata dai musicisti di una determinata epoca o di una determinata cultura. Non è affatto un caso che, dopo questa in­ troduzione critica, la ricerca di Machabey abbia senz'altro inizio, senza sprecare nemmeno una parola per delimitare in qualche modo, dal punto di vista teorico, quello che è il suo stesso oggetto - ovvero ciò che egli chiama nel titolo "tonalité musicale classique" e che, a suo parere, si può ritenere acquisita nel XIV secolo. Lo storico non cede il passo nemmeno a quel minimo di teoria che dovrebbe consentire di stabilire ciò di cui intende parlare. A tutto ciò si aggiunge anche, come motivo di per­plessità, il fatto che l'insistenza sulla storicità della musica e sulle spiega­ zioni fondate unicamente nella vicenda storica, fanno interamente trascurare le implicazioni dell'espe­rienza pura­mente uditiva nell'esperienza musicale - e quindi la dimen­sione fenomenologica del problema 21 - orientando l'intera atten­zione in direzione di spiegazioni sociologizzanti. Ancora Machabey può essere citato come esempio efficace: "Riassu­mendo, la 'natura' ci propone una infinità di materiali e l'essere umano, sociale, sceglie alcuni di questi materiali; e li ordi­ na secondo altre formule e conformemente a imperativi che sono estranei all'acustica"; "Se dunque l'ele­men­to umano è inter­venuto per selezionare tra mille la sca­la di do maggiore, ciò è accaduto sotto la forma sociale. Le tonalità sono i risultati di elaborazioni collettive: sono dei fenomeni sociologici. Ed in quanto tali obbedisco­ no a leggi, ed in questo sono finalmente oggetti di scienza"[8]. Di fronte ad un possibile "assolutismo" di origine fisicalistica, si contrappone senz'altro una forma di "relativismo" storico, even­ tualmente moderato e forse peg­gio­rato da una prospettiva teleo­ logica, a partire dal quale in realtà tutti i temi di connessione tra esperienza musicale e strutture fenomenologiche della percezione non possono essere nemmeno intravisti. 2. Lo spazio tonale e il principio di consonanza Proprio da questa connessione tra esperienza musicale e strut­ture fenomenologiche della percezione noi vogliamo invece pren­dere le mosse, proponendo una sorta di introduzione intesa a dare una delineazione elementare della tematica della tonalità, fa­cendo uni­ camente riferimento a circostanze che riguardano l'e­sperienza del suono. Essa potrà fare utilmente da sfondo alle nostre discussioni future. E va da sé che il primo gesto da com­pie­re sarà il gesto ti­ picamente fenomenologico di una messa in parentesi che riguarda proprio la fisica del suono, ed in parti­colare la problematica degli armonici. In questa introduzione le nostre pretese sono in ogni caso minime: forse si potrebbe ridurre l'intero nostro pro­posito come se, da maestri di scuola, volessimo offrire ad allievi ignari di tutto questi primi elementi con la massima semplicità, senza impe­ gnarci sulle giustificazioni fisicalistiche, ma anche senza accon­ 22 tentarci di un approccio puramente pratico, che non vede l'ora di approdare all'esercizio di armo­nia. Quale potrebbe essere allora il punto zero da cui pren­de­re l'avvio e come muoveremmo i nostri primi passi proponendo all'allievo un primo abbozzo di orienta­ mento teorico? Io penso che una buona idea potrebbe essere quel­ la di portare anzitutto l'attenzione sul fatto che il linguaggio tonale è eminentemente caratterizzato dall'assunzione della conso­nan­za come criterio fondamentale della propria strutturazione. All'inter­ no di questo criterio riceve conseguentemente il mas­si­mo rilievo la consonan­za più forte, ovvero la consonanza di quin­ta, che potrà perciò rappresentare il filo conduttore per introdurre le di­stinzioni ele­ mentari. In seguito ci riferiremo a questo criterio parlando sem­ plicemente di principio di conso­nanza, ma è importante sottolineare che in questo principio è strettamen­te implicato il riferimento alla consonanza "più forte". Ciò può sembrare un'affermazione del tutto ovvia, e dun­ que potrebbe apparire assai singolare il fatto che si voglia sot­ tolineare questo punto con particolare energia. In realtà le cose non stanno così, e da più di un punto di vista. Uno degli aspetti su cui dobbiamo subito attirare l'attenzione è che, facen­do poggia­ re la costruzione teorica sugli armonici, la consonanza diventa in certo senso una mera conseguenza ed il richiamo alla consonanza in quanto tale non interviene a deter­minare l'appa­rato concettuale elementare della teoria. Secondo quel punto di vista la consonanza è semmai una condizione da "fondare", e dunque non può essere impiegata come un "ultimo fonda­mento". Il richiamare l'attenzione sull'importanza che la conso­nanza assume nell'isti­tuire questo apparato rappresenta così una rivendi­ cazione caratteristicamente fenomenologica, pro­prio in quanto la consonanza è un fatto percettivo specifico, ed il porla in primo pia­ no significa chiamare in causa anzi­tutto l'esperienza del suono, e non l'ambito delle spiegazioni relative al suono come evento fisico. Quell'affermazione iniziale diventa poi ancora più impegna­ tiva da un punto di vista teorico se si fa osservare che essa non 23 riguarda una nozione generica di conso­nanza fondata sul comu­ ne consenso, e con le possibili per­plessità teoriche conseguenti, ma deve essere invece intesa nel quadro della con­­cezione dello spazio sonoro come flusso continuo, in cui la nozione di conso­ nanza muta di senso, essendo riferita non ai rapporti intervallari singolarmente presi, ma alla struttura conso­nantica-dissonantica dell'ottava considerata come segmento rappresentativo dell'intero spazio sonoro. Solo attenendosi ad una simile concezione - che non appartiene certo alla manua­listica corrente e che è ovviamente esposta alla discussione - è possibile far cadere l'obiezione relati­ vistica che potrebbe essere sollevata contro l'affermazione che la consonanza di quinta sia la consonanza più forte. Si potrebbe allora esigere, quanto meno, che essa sia docu­ mentata sul piano del­la psicologia della percezione; ma soprat­ tutto si avanzerà subito il sospetto che una simile affer­mazione sia fondata circolarmente sull'impiego che della quin­ta si fa nel linguaggio tonale stesso. Le cose cambiano invece se riportiamo l'intero problema del­ la differenza tra consonanza e dissonanza alla struttura feno­me­ nologica dello spazio sonoro come flusso. Allora il parlare della quinta come consonanza più forte non è obiettabile come un pregiudizio dovuto a consuetudini uditive eventual­mente appog­ giate da elementi di teoria legate alle particolarità di un linguag­ gio musicale, e nemmeno ha bisogno di trovare una qualche giu­ stificazione empirica nella ricerca psicologica, ma si ricollega al dato di fatto fenomenologico secondo cui la quinta rappresenta il punto di volta dello spazio sonoro (ottava), ovvero il punto culminante della sua regione consonantica, cosicché l'espressione di consonanza più forte trae il suo senso, nello spirito delle nostre considerazioni, non tanto da un con­fronto con altri punti consonantici, ma dal fatto che la quinta rappresenta propriamente l'unico punto conso­ nantico dello spa­zio sonoro [9] . Beninteso, ciò non implica di per sé alcuna regola o alcun vincolo per l'impiego di questo intervallo. Ciò che determina la 24 molteplicità possibile dei suoi impieghi non è certo il dato feno­ menologico come tale, ma istanze di ordine e­spressivo. Come abbiamo già sottolineato, una conside­razio­ne fenomenologica della musica lascia convivere l'idea della mol­teplicità dei linguag­ gi della musica con quella di un terreno comune in cui essi affon­ dano dialetticamente le loro radici. In questo terreno comune c'è certamente la quinta come punto di volta dell'ottava - ma i modi di impiego espressivo di questo intervallo non è affatto deciso una volta per tutte. Nella musica greca, ad esempio, è determinante l'intervallo di quarta, prima ancora che quello di quinta e di ottava; nella musica india­ na la quinta fa da bordone negli accom­pa­gna­menti del tampura, oltre ad avere spesso, ma non sempre, carattere di Samavadi - se­ conda nota per importanza - nella struttura melodica di nume­ rosi raga. Parlare di principio di consonanza nel caso del linguaggio tonale ha senso solo precisando in che modo esso diventa ope­ rante. A questo proposito è necessario subito distinguere chiara­ mente tra un ordine statico-architettonico che riguarda la partizione dell'ot­tava e un ordine dinamico-temporale che riguarda il cammino del suono nel tempo, sotto­lineando anzitutto il fatto che l'intervallo di quinta è determinante sotto entrambi i profili. Dal punto di vista del cam­mino del suono nel tempo, l'inter­vallo di quinta assume il ca­ rattere di un passo privilegiato: il procedere del suono, go­ver­nato dal principio di conso­nanza, sarà anzitutto un procedere di quinta in quinta, quindi da un determinato suono alla sua quinta superiore o alla sua quinta inferiore. Dal punto di vista architettonico, inve­ ce, l'intervallo di quinta rappresenta l'arti­colazione primaria del­ l'ottava che, come sappiamo, verrà inte­grata dalla terza mag­giore o minore, secondo il modo. Di questa duplice possibilità di integra­ zione si può in realtà ren­dere conto facendo ancora riferimento al principio di conso­nanza. Naturalmente si tratta di un rendere conto che da un lato prescinde, come fanno del resto i tentativi di spiegazione fisi­calistica, dal divenire storico dei modi e, dall'altro, 25 non ha bi­sogno di sospettare nemmeno alla lontana la necessità di una giustificazione nella costituzione fisica del suono, ma si fonda unicamente sui rapporti strutturali in gioco. Se ci disponiamo dal punto di vista del continuo dei suoni, non vi è qualcosa come una terza maggiore o minore, mentre ha senso parlare dei bordi della regione consonantica, cioè della zona in cui la regione dissonantica trapassa in quella consonan­ tica: questi bordi tuttavia non sono luoghi e­sattamente deter­ minati, ma si può parlare piuttosto di un tratto della curvatura consonantica dello spazio sonoro in cui si effettua la transizione dalla regione dissonantica a quella con­sonantica. La situazione può essere illustrata nel modo se­guen­te: nella figura seguente la linea orizzontale indica un do tenuto (261.6 Hz), la linea obliqua un flusso continuo da do a sol (392.4 Hz) che avrà la caratteristica di un andamento dapprima dissonantico rispetto a do, dopo l'u­ nisono, e poi sempre più consonantico. La durata è e­spressa in secondi. (Es. 1*) Tenendo d'occhio la teoria musicale abbiamo indicato la posi­ zione della terza minore a 6/5 (313,963 Hz) per indicare il confi­ ne tra la zona dissonantica e quella consonantica, ma il tratteggio sta ad indicare che questo confine deve essere inteso come mo­ mento di una transizione. Con questa stessa postil­la, assumendo 26 come nota tenuta il sol si assumerà la posizione della terza mag­ giore a 5/4 (326.955 Hz) rispetto a do (ed ovviamente di terza minore rispetto a sol) come confine tra la regione consonantica e quel­la dissonantica rispetto a sol. L'an­damento del flusso, a parti­ re dalla quinta, sarà inizialmente consonantico e poi sempre più dissonantico per terminare nell'unisono (Es. 2*). Ora, se facciamo risuonare insieme il do e il sol e facciamo scor­ rere un flusso che procede dall'uno all'altro, si avrà una fascia di transizione consonantica tra due regioni dissonan­tiche, l'una rispetto al do e l'altra rispetto al sol (Es. 3*). Si tratta della fascia delimitata dalla terza minore e dalla terza maggiore che, nella determinazione che ricevono sul versante musicale, 27 dove al punto di vista del flusso subentra quello de­gli intervalli, possono essere considerati come relativamente consonanti con entrambi gli estremi dell'intervallo di quinta, e va da sé che que­ sta caratteristica non può essere condivisa da nessun'altra posizione compresa nello stesso intervallo. Potremmo dire che sono posizioni di mediazione consonantica tra quegli estremi, e forse si può avanzare il sospetto che originariamente il termine di mediante non abbia il senso di una pura indica­zione locale, ma intenda caratterizzare piuttosto la nota di mediazio­ne tra l'uno e l'altro estremo. Si noti di passaggio, ma su questo punto ritorneremo in seguito, che la terza deve essere concepita come interpolata nell'intervallo di quinta, e che sarebbe fattualmente corretto, ma concettualmente erroneo par­lare della triade come risultante da una sovrapposizione di terze. Occorre poi tener conto dell'intervallo di quarta tra la quin­ta e l'ottava superiore : in esso non troviamo nessuna posi­zione che possa essere ad un tempo consonante con entrambi questi estre­ mi. Non vi è dunque nessuna zona consonantica co­mu­ne, ma si sovrappongono le regioni consonantiche e disso­nan­­tiche relativa­ mente all'uno ed all'altro estremo dell'in­ter­vallo (Es. 3*). Il flusso da sol (392.4 Hz) a do (523.2 Hz), esibisce la conso­ nanza solo ai suoi estremi - il flusso dissonantico prende le 28 mosse dall'unisono per terminare con la consonanza di quar­ta. Cosicché non può essere individuata nessuna posizione di media­ zione consonantica. Tuttavia può essere interessante con­siderare la possibilità di chiamare in causa ancora il principio di consonanza, al fine di ammettere l'interpolazione di una nota consonante con l'estremo inferiore e di una nota consonante con l'estremo supe­ riore - note che saranno dissonanti rispetto agli estremi opposti. Le linee verticali indicano ora la terza minore (436 Hz) rispetto al do in ottava e la terza maggiore (490.5) rispetto al sol ; ad esse si potranno aggiungere le linee rappresen­tative rispettivamente della variante maggiore e minore. Si ottengono così l'accordo di settima e di "sesta aggiunta" [10] e le varianti minori. In questo modo la dissonanza entra a far parte degli elementi basilari della teoria. Sulla base di tutto ciò comincia a profilarsi l'idea di spazio tonale, considerato anzitut­to dal punto di vista statico-architettonico. In effetti è possibile un'unica partizione triadica dell'ottava secondo il principio di consonanza, con due varianti "modali" secondo che la terza sia maggiore o minore. Poi­ché queste nostre considera­ zioni non pretendono di andare oltre una traccia di riferimento per le discussioni successive, non è affatto necessario entrare in ulteriori dettagli. Occorre soltanto aggiungere che siamo liberi di assu­mere che questa partizione riguardi l'ottava considerata come intervallo non ancora ripartito, cosicché ad essa si aggiun­ geranno dei gradi intermedi secondo un qualche metodo, op­ pure che essa rappresenti una partizione di secondo livello che si sovrappone ad una scala già costituita, in rapporto alla quale vengono mar­cati come strutturalmente importanti il terzo e il quinto grado. In entrambi i casi si comprende subito la possibilità di distinguere tra gradi forti e gradi deboli, essendo "forti" quei gradi che fanno parte dell'ossatura architettonica e deboli quei gra­ di che fanno da transizione tra i gradi forti ovvero che non sono "marcati" come strutturalmente importanti. Così come si com­ prende il carattere di stabilità che rivestono i gradi "forti" in quan­ to sono legati l'uno all'altro da rapporti conso­nan­­tici e il carattere 29 transitorio dei gradi deboli. Possiamo così arrischiare una prima definizione di spazio tonale: si dice "spazio tonale" l'ottava ripartita triadicamente secondo il principio di consonanza. Naturalmente il parla­ re di ripartizione, sugge­rendo l'im­ma­gine della suddivisione di un segmento, non deve pesare più di tanto su questa definizione. In particolare non si tratta né di qualcosa di simile ad un'operazione materiale di suddivisione né ad un pensiero astratto di articola­ zione del­l'in­ter­vallo. Ci troviamo piuttosto nell'ambito dei modi di inten­dere. In questo ambito il pensare è in qualche modo implicato, ma si tratta di un pensare che non va concepito come una sorta di attività intellettuale che aggiunge alla cosa qualcosa che essa in sé non possiede, ma piuttosto come la rilevazione di un senso che la struttura data propone e che eventualmente impone rafforzando i contesti che orientano in quella direzione. Parlan­do di partizione triadica realizzata secondo il principio di consonanza vogliamo richiamarci ad un modo di intendere lo spazio sonoro (ottava), e dunque ad un'artico­lazione che c'è solo se viene fatta valere. Ed è la musica stessa che deve provvedere a questo - senza avere in proposito alcun obbli­go. Ma se ci siamo arrischiati a proporre una definizione di spazio tonale, non possiamo esimerci dal fare altrettanto per la nozione di tonica. Una definizione elementare per essa è ora a portata di mano, dipendendo strettamente dalla precedente. Ogni discorso sulla consonanza richiede che sia de­ terminata la nota di riferimento rispetto alla quale viene proposto il rapporto consonantico. Potremmo allora convenire di chia­ma­re tonica la nota che, oltre a delimitare l'ottava ovvero a determinare gli estremi dello spazio sonoro, rappresenta il punto di vista da cui l'ottava viene prospettata triadicamente secondo il principio di consonanza. In breve: tonica è la nota costitutiva di uno spazio tonale. Osserveremo poi, come una sorta di corollario, che la triade può essere considerata come rappresentativa dell'intero spazio to­ nale essendo in essa presenti i suoi assi portanti; ma ciò vale anche per la tonica in quanto, se una nota è intesa come to­nica, allora è 30 intesa anche la triade consonantica, e dalla nota soltanto è dun­ que determinato lo spazio tonale corrispondente. Spazio tonale e tonica definite in questo modo riguar­dano peraltro unicamen­ te quello che abbiamo chiamato l'or­dine sta­tico-architettonico: ed in nessun caso il limitarsi ad esso può render conto di queste due nozioni in rapporto al lin­guag­gio della tonalità. L'aspetto real­ mente rilevante è infatti l'intreccio tra l'ordine statico-architettonico e l'ordine dinamico-temporale. Arrestarsi ad una considerazione statica signi­fiche­rebbe proporre lo spazio tonale come uno spazio chiu­so tra gli estremi in ottava, ed una simile concezione sarebbe del tutto fuorviante. È necessario perciò completare in qualche modo que­ sto nostro schizzo volgendo la nostra attenzione in questa nuova direzione. Come abbiamo osservato in precedenza, il riferimento al prin­cipio di consonanza come criterio guida delle nostra esposi­ zione fa dell'intervallo di quinta una sorta di passo privi­legiato nel momento in cui il suono si mette per la prima volta in cammino. Ma per considerare il senso di questo passo occorre anzitutto attirare l'attenzione su una circostanza che in prece­denza è ri­ masta in ombra. Parlando di ripartizione del­l'in­­ter­vallo di ottava, la dimensione temporale non veniva semplicemente in questione, e tuttavia il richiamo alla conso­nanza non può che suggerire, se lo consideriamo sotto un pro­filo temporale, la dimensione della si­ multaneità nella quale la consonanza mani­festa più direttamente la propria peculiarità come feno­me­no uditivo. Ciò assume par­ ticolare significato se si tiene conto che la teoria classica della tonalità si apre con l'affermazione della priorità dell'ordine armonico su quello melodico, ed occorre rendersi chiaramente conto delle nume­rose implica­zioni che quest'affer­mazione reca con sé. No­tiamo intanto che è la stessa parola armonia che muta di senso. Per gran tempo essa ha indicato la coerente connes­sione delle parti in un tutto, senza una particolare propensione per la dimensione verticale, ed anzi semmai con una propensione per quella orizzon­ tale. Nel passaggio alla tonalità, la parola armonia comincia invece con l'assumere nella ter­minologia musicale un orientamento esclu­ 31 sivo verso la dimen­sione della simultaneità o più precisamente, sot­ to il profilo del cammino del suono, verso l'idea di una successione di accordi triadici. Il dominio dell'armonia sull'ele­mento melodico si manifesta soprattutto in due direzioni: da un lato la triade deve rappresentare in via di principio anche l'ossatura dello sviluppo melodico, dall'altro ogni sviluppo lineare dei suoni an­drà inteso all'interno di un percorso di accordi e strettamente integrato in esso. Nella sua forma astrattamente semplificata e resa confor­ me a istanze puramente teoriche potrem­mo arri­vare a dire che un brano tonale consisterà semplicemente in una successione di accordi triadici organizzata secondo determinate regole. La prima considerazione che va avanzata passando ad un punto di vista temporale è dunque che lo spazio tonale andrà inteso anzitutto armonicamente - quin­ di come un accordo nell'ordine della simultaneità e come un percorso di accordi nell'ordine della successione. Forse potrem­ mo parlare di spazio armonico per caratterizzare lo spazio tonale considerato in una prospettiva temporale. Ma ciò non lascia le cose come stan­no. Tutt'altro. L'intera problematica riceve in questa prospettiva il suo senso più autentico. Per dare evidenza a questo mutamento potremo avvalerci di un'altra semplificazione estrema. Ciò che prima abbiamo chia­mato tonica, si presenta ora propria­ mente come tonica di un accordo: essa "muove" verso la prima quinta sotto, e poi ancora verso la quinta successiva proseguen­ do nella direzione discendente oppure nella direzione ascendente, verso la quinta sopra e poi oltre. Ognuna di queste note sono da intendere come costitutive di uno spazio tonale, come toniche di accordi. Ma che tipo di succes­sione può mai essere questa, si consideri indifferentemente l'una o l'altra direzione, proprio in relazione alla nozione di tonica e di spazio tonale? Infatti quella nozione, che nella considerazione statica ci sembrava tan­to rigidamen­ te stabilita, sembra ora sfuggire nel succedersi di toniche tan­ to momen­tanee e precarie da essere considerate puramente latenti. Utiliz­zando la termi­nologia musicale cor­rente, potremmo dire che in una simile successione ogni nota è dominante della precedente 32 e sottodo­minante della successiva, cosicché la nozione di tonica rappre­senta una sorta di comparsa momentanea ed evanescente in questo scambio tra dominante e sottodominante. Ciò che ora è tonica, subito non lo è più. Mentre è subito o dominante rispet­ to alla quinta inferiore o sotto­dominante rispetto la quinta supe­ riore. Occorre poi richia­mare l'attenzione sul fatto che la nozione di dominante è fondamentalmente una sola e riassume in sé anche la sottodominante, essendo questa espressione da interpretare, in conformità alla sua origine, non già come "nota sotto la dominan­ te", ma come "dominante di sotto", in simmetria con la "domi­ nante di sopra" [11]. Una successione di quinte potrebbe perciò essere chiamata una successione di dominanti - ed io credo che in questo ambito di idee sia da intendere la scelta terminologica di Rameau di parlare di Dominante-Tonique nel caso in cui la quinta sia quinta di una nota che si è stabilizzata come tonica, lasciando il termine di Dominante senza altri aggettivi a significare dominante di una dominante [12]. Altrettanto notevole ci sembra il fatto che an­cora in Rameau e in d'Alembert si affacci l'idea - di cui parle­ remo un poco più diffusamente in seguito [13] - che la tonalità possa essere intera­mente caratterizzata non tanto dal riferimento alla triade sulla tonica, ma da una tonica disposta tra dominante di sotto e dominante di sopra. Nello spirito di queste nostre considerazioni il termine di dominante non rimanda tanto al "dominio" sulla tonica, quan­­to piuttosto a quello della consonanza "più forte" nella sintassi del linguaggio tonale. Questo dominio si fa sentire sia come princi­ pio statico di stabilizzazione tonale nella cadenza sia come prin­ cipio di dinamismo nella modulazione. Del resto proprio l'im­ piego del termine di dominante è stato spesso oggetto di contro­ versie. Ci si è chiesti infatti come mai, essendo la tonica la nota di maggior peso, vi possa essere una posizione chiamata dominante, e proprio rispetto ad essa. Spiega Rameau, nel Traité: "Si chiama dominante la pri­ma delle due note che nel basso formano la cadenza perfetta perché essa deve precedere sempre la nota finale 33 e di conseguenza la domina" [14]. Il richiamo è dunque alla caden­ za. Tuttavia non pos­siamo passare facilmente dalla precedenza temporale a quel "di conseguenza la domina" se non ponessimo le cose come se la quinta imponesse la tonica di apparire. La tonica obbedisce, ed in questo senso sarebbe dominata dalla quin­ ta. Sull'impor­tan­za della struttura cadenzale per il termine di do­ minante Dahlhaus concorda, trovando tuttavia un'in­con­gruen­za rispetto alla fondazione del problema negli armonici. Poiché la quinta superiore come armonico viene "generata" dalla tonica, in una fondazione fisicalistica si dovrebbe porre la tonica come ele­ mento fon­dante e la dominante come elemento dipendente, argo­ menta Dahlhaus, e nell'affermazione di Rameau vi sarebbe perciò una contraddizione che "Rameau lascia senza soluzione"[15]. Se­condo Schönberg, l'espressione di dominante non è affatto cor­ retta, ed egli la sostituirebbe volentieri - conservandola soltanto "per non creare confusione con una terminologia nuova". Il suo argomento in proposito è tutto fondato sugli armonici: "Na­ turalmente, si tratta forse solo di un'immagine, ma come tale non mi sembra giusta, perché il quinto suono, quinta della fon­ damentale, nella serie degli armonici appare ovviamente dopo la fondamentale, ed è dunque per l'accordo di tonica di importanza minore rispetto alla fondamentale, che si presenta prima e pertan­ to più spesso. Per il rapporto tra i suoni è semmai più logico che la quinta dipenda dalla fonda­mentale e non che, al contrario, la quinta predomini sulla tonica. Se qualcosa predomina, può essere solo la fonda­mentale, e questa fondamentale può a sua volta, essere domi­nata dal suono che sta una quinta sotto, poiché essa appare come secondo nella serie degli armonici superiori di quel suono. Per rendere esatta l'immagine, non bisognerebbe indi­ care come predominante un suono che invece è subordinato, e il nome di 'dominante' dovrebbe essere dato alla fonda­mentale" [16] . Anche Schenker si affida interamente alla spiega­zione fisicali­ stica, giungendo ad una conclusione differente, dal momento che arriva ad affermare (del resto coeren­temente) che va consi­ 34 derata come "naturale" la progressione ascendente I - V, mentre V - I deve essere considerata come una "inversione artificiale", proprio perché è la direzione ascendente ad essere prefigurata negli armonici. Dahlhaus si pronuncia contro Schenker, in nome dell'esperienza musicale, ricollegandosi ai diritti della cadenza "a dispetto di ogni spiegazione fisica" [17] . Anche Zuckerkandl si interroga sulle ragioni di impiego di questo termine e risponde di­ cendo che l'accordo sul quinto grado è l'unico che porta "audibly" sul primo - e quindi si ricollega ancora alla struttura cadenzale. Poiché è in virtù di quell'accordo che il primo grado può essere tale, "sembra abbastanza appropriato che il V sia chia­mato accor­ do di dominante" [18] . Ciò che qui viene opportu­namente sottolineato è il richia­ mo al piano uditivo. Proprio l'impo­sta­zione fisicalistica, tentan­do una fondazione indipen­dente dal piano fenomeno­logico, ten­de ad indebolire forte­mente le eventuali giustificazioni percettive che possono ren­dere conto di regole "gram­ma­ticali" carat­teristiche del lin­guag­gio tonale, ed al tempo stesso ad attenuare fortemente il carattere funzionale delle sue nozioni basilari. Al contrario, l'aspet­ to funzionale deve essere partico­larmente ac­cen­tua­to così come va messo l'accento sui fattori di contesto che rendono possibile l'affer­ramento della funzione. Funzione e contesto confluiscono insieme ed insieme contri­buiscono a dare una base al modo di intendere. In luogo di ciò si suggeriscono immagini che depri­ mono fortemente gli aspetti funzionali e contestuali. Si parla ad esempio di "attra­zione" esercitata dalla tonica, si dice che essa è il centro verso cui convergono tutte le altre, come se essa fosse in se stessa una forza, mentre è necessaria la forza convergente di tutte le altre note per fare di una nota la "tonica". A forza di parlare di gerarchie interne alla tonalità e di porre la tonica al culmine di esse come sovrana di ogni cosa si tende a dimenticare che la tonica è suddita dei suoi sudditi, che essa, quando c'è e nei modi in cui essa c'è, è posta in essere dai contesti mu­sicali concreti. A questi aspetti contestuali e funzionali subentrano invece pro­ 35 prietà misteriose, enigmatiche forze attrattive, aspirazioni - misteri ed enigmi la cui soluzione si ritiene alla fine debba essere cercata al di là del suono come puro fatto percettivo. Considerare lo spazio tonale sotto il profilo temporale, ov­ vero come spazio armonico, significa considerare non tanto un ambito sonoro precisamente delimitato quanto piuttosto un cam­ mino attraverso spazi tonali latenti, più o meno provviso­riamente e pronunciatamente attualizzati. A seconda dei con­testi, le triadi corrispondenti potranno avere il senso di gradi armonici di una tonalità divenuta attuale, chiaramente affer­mata, che potrà assu­ mere un carattere di centralità e di pre­minenza: rispetto all'intero rappresentato dal brano musicale, potremo allora indicare come tonica del brano la tonica costitutiva di quello spazio. In questo modo si farà subire a que­­sto termine una modificazione di senso del resto del tutto coerente e si potrà riservare questa parola, come è nell'uso comune, a questo senso modificato, parlando invece della no­ta gra­ve dell'ac­cordo, quando essa è la sua tonica, di nota fonda­mentale del­l'ac­cordo stesso. Per arrivare a questa decisione dob­­biamo in ogni caso prendere le mosse dalla prima acce­zione, strettamente legata alla nozione statica di spazio tonale, mentre ciò che caratterizza eminentemente l'i­dea di tona­lità è la nozione dinamico-processuale, che è quan­to dire la nozione di modulazione. Come la parola armonia, anche la parola mo­dulazione assume ora un nuovo senso, distaccandosi nettamente dal melos a cui essa era strettamente collegata per assumere piuttosto il senso di transizione armonica, in cui il melos è strettamente integrato. Nulla tuttavia sarebbe più erroneo che interpretare il cammino tra spazi tonali, in un gioco tra latenza e attualizzazione, come un viaggio attraverso regioni distinte, dai confini esattamente de­ finiti e con varchi dal­l'una all'altra altrettanto determinati, come se il brano tonale fosse costituito da una somma di tonalità differenti. Si com­ metterebbe in tal caso l'errore di proporre lo sviluppo del brano come una giustapposizione di spazi tonali staticamente intesi. Lo spazio sonoro caratteristico del linguaggio tonale è invece 36 uno spazio che è diventato plastico, flessibile, nel quale suoni, relazioni intervallari e processualità temporale formano un'unità e si modificano unitariamente in un continuo muta­mento pro­ spettico, ora deciso e nettamente appariscente, ora più sfumato, appena avvertibile, tanto indeciso da apparire dubbio. La storia della musica tonale sta a dimostrare con quanta ricchezza e sot­ tigliezza può essere giocato l'intero arco delle possibilità che sono qui messe in questione; ed anche con quanta arte e varietà di modi si possano delineare percorsi che portano verso altri orizzonti linguistici. 37 38 3. La critica di Rameau alla concezione zarliniana dell'ottava come "madre degli intervalli". È possibile che il lettore si chieda a che cosa puntino le con­ siderazioni precedenti e quale sia propriamente il loro scopo. Egli potrebbe manifestare vivacemente qualche perplessità, e non potrei dargli senz'altro torto. Esse infatti riprendono cose note, assumendo tuttavia una piega qui e là un po' insolita. Fin dal­l'inizio abbiamo peraltro messo in chiaro che non si tratta in nessun modo di proporre gli spunti iniziali di una teoria della to­ nalità, di cui non si sente davvero il bisogno. La nozione di tona­ lità e il linguaggio che gravita intorno ad essa sono stati fin dall'i­ nizio proposti all'interno di un apparato teorico partico­larmente forte. La riflessione teorica si è poi sviluppata inces­santamente, secondo svariati punti di vista, con una proli­ferazione di teorie che davvero non ha eguali, sia in rapporto alla musica che ai lin­ guaggi dell'arte in genere, al punto da generare un certo senso di saturazione. A chi si avventuri a passare attra­verso di esse è forse opportuno consigliare da un lato di attivare al massimo le antenne degli interessi teorici, ma dall'altro anche di mantener­ si ben saldo al pro­prio buon senso musicale. E proprio ad una questione di buon senso musicale io vorrei ricollegare la nostra precedente discussione: la mu­sica è in primo luogo cosa della percezione. L'arte intera appartiene alla sensibilità, e la musica ha con essa un rapporto particolarmente intenso che coinvolge non solo l'udito, ma anche il corpo intero, il gesto, il movimento cor­ poreo. Il suono incorporeo può av­volgere la corporeità al punto di trascinarla nelle sue spire. Non vi è dunque nulla di strano se ci si chiede fino a che punto possiamo rendere conto, restando strettamente nell'ambito della percezione, delle nozioni che la reggono. Questa domanda è tanto più neces­saria per il fatto che uno degli aspetti più stimolanti e straor­dinari che caratterizza la riflessione musicale fin dai suoi remoti inizi è il suo intreccio con istanze di ordine conoscitivo, il suo rap­porto con il pensiero 39 astratto, filosofico e scientifico. Questo rap­porto si ravviva e si rinnova assumendo nuove direzioni proprio con l'affermazione della pratica musicale tonale: ci è sembrato allora che qualche chiarimento preliminare sul terreno delle considerazioni feno­ menologiche potesse dare risalto ed evidenza ai problemi che ci accingiamo ora a discutere ritornando alle origini della teoria della tonalità. Proprio questo sfondo, con l'accento posto sulla nozione di spazio sonoro e dunque sull'ottava e sulla sua partizione, ci suggerisce intanto di prendere l'avvio da una critica che Rameau conduce contro Zarlino - una critica che può sem­brare quasi inappariscente e che invece ci porta al nocciolo di tutte le que­ stioni. Oserei affermare che in essa si concentri la svolta concettuale che interviene con la teoria della tonalità. Gioseffo Zarlino 40 41 Rameau osserva che secondo Zarlino l'ottava è la "ma­dre, la sorgente e l'origine di tutti gli intervalli, ed è per divisione di questi due termini che si generano tutti gli accordi armoniosi" [19] . Ma a suo avviso questa opinione può essere convalidata solo se si aggiunge che "il suono fondamentale si serve della sua ottava come di un secondo termine a cui debbono rispondere tutti gli in­ tervalli generati dalla sua divisione per meglio sottolineare che esso stesso è di essi il principio e la fine" [20] . Ovvero: rendere l'ottava, in quanto intervallo, madre degli intervalli, poiché essi sarebbero generati per divisione esso, è un errore dal momento che questa generazione è da attri­buire al suono fondamentale che è "principio e fine" di ogni intervallo, ed è dalla divisione di questo che essi sorgono. Il ri­chia­­­mo al suono che sta in intervallo di ottava rispetto al suono fondamentale (si tratta dunque proprio del suono, e non dell'intervallo tra l'uno e l'altro) può essere giustificato come un rafforzamento, essendo questo suono niente altro che una "replica" (replique) del suono fondamentale. L'affermazione di Zarlino deve dunque essere corretta e reinterpretata secondo questa angolatura. Ma si tratta ben più di una correzione o di un piccolo spostamento di punto di vista [21] . Il problema dell'origine degli intervalli viene invece radical­ mente reinterpretato, mettendo in questione tutta una tradizione teorica che d'altronde risale ben oltre a Zarlino e che rimanda alle più antiche origini della teoria greca. Questa messa in questione è tanto netta da mettere in dub­ bio che l'ottava stessa sia da considerare un intervallo autentico. Quando Rameau sottolinea che il suono in ottava è una pura "replica" del suono fondamentale, egli intende approssi­mare il più possibile l'ottava all'unisono, e poiché nel caso dell'unisono non vi è intervallo, così l'appros­simazione della consonanza di ottava all'unisono tende ad indebolire il carattere di intervallo dell'ottava stessa. L'attenzione viene attirata sul fatto che due suoni in otta­ va si distinguono a malapena dall'unisono (se distinguent a pèine de 42 l'unisson), che l'ottava viene intesa più come un supplemento ad un accordo, che un accordo esso stessa, e che voci maschili e femmi­ nili cantano all'ottava senza rendersene con­to e infine che "talu­ ni parago­nano allo zero" un simile intervallo. Tutte afferma­zioni diret­ta­mente puntate ad indebolire il carattere intervallare dell'ot­ tava riportandolo al caso di "accordo improprio" dell'unisono. È opportuno notare fin d'ora che questa insistenza di Rameau, che verrà ovunque ribadita, è dovuta anche all'idea di riportare ogni intervallo superiore all'ottava entro l'ottava stessa, evitando una moltiplicazione a piacere degli intervalli distinti possibili, idea che vorrebbe trovare una vera e propria giusti­ficazione non me­ ramente formale o calcolistica, ma uditiva. Secondo Rameau vi sarebbe una tendenza dell'udito ad operare una riduzione degli intervalli al loro grado minimo [22] che ci consente di afferma­re che gli intervalli significativi sono tutti all'interno del­l'ottava. Cosicché un intervallo come quello di dodicesima dovrà essere considerato come otta­va+quinta, e poiché l'ottava si distingue uditivamente a malapena dalla prima, dodicesima e quinta sono sostanzialmente lo stesso intervallo. È necessario rendersi conto fino in fondo di quale importante partita teorica si giochi su questo dettaglio appa­ rentemente minimo. Va notato intanto che per un certo tratto le posizioni di Zarlino e Rameau appaiono assai vicine: in particolare anche in Zarlino si insiste a lungo sulla somiglianza dei suoni in ottava, che è tale da ravvicinarla uditivamente all'unisono. Essi hanno tra loro una sorta di "amicitia" che fa sì che "quasi all'istesso modo è mosso l'Udito dai suoni della Diapason (ottava), si come è mosso da quelli dello Unisono. Et ciò aviene primieramente dalla simiglianza, come ho detto, che hanno insieme"; benché l'ottava sia costituita da "due suoni diversi per il sito", essi paio­ no nondimeno al senso un solo: percioche sono molto simili" [23] . Ma questo tema della somiglianza a Zarlino non basta; esso stesso deve essere a sua volta motivato e i motivi debbono essere cercati in maggiori profondità filosofiche. All'osserva­zione del 43 fenomeno deve subentrare lo spirito dell'argomen­tazione. Tutta la teoria della musica è attraversata dal problema di ricercare altro­ ve le ragioni di ciò che appare al piano dell'esperienza percettiva. Perciò viene chiamata in causa la filosofia del numero. L'unisono sta all'u­nità come la diapason sta al "binario" ovvero al numero due, e di qui si traggono ana­logie. Il binario è una derivazione im­me­diata dell'unità in quanto è costituita dalla somma di u­nità, dunque da nessun altro numero che non sia l'uno: perciò il bina­ rio è la forma numerica più prossima all'unità. A partire da questo retroterra aritmetico si comincia ad affacciare l'idea della genera­ zione che ritroveremo lungo l'intero arco di svilup­po del proble­ ma e che raggiungerà la sua formulazione appa­rentemente più convincente nella tematica degli armoni­ci, che per il momento è ancora del tutto fuori campo. Poiché il due è un'"unità replica­ ta", possiamo dire che il due viene generato dall'uno. Riportando questo problema sul piano musicale sembra a Zarlino di poter sostenere che la diapason è generata dall'unisono, che questo è causa di quella, e poiché l'effetto imita la sua cagione, si spiega la somiglianza tra l'ot­tava e l'unisono, e dunque il fatto che "li detti due suoni della diapason parino uno solo" [24] . Anche in Zarlino la prossimità dell'ottava viene fatta valere in rapporto al problema degli intervalli più ampi del­l'ot­tava ed alla loro ridu­ cibilità all'interno di essa. Questi intervalli vengono chiamati da Zarlino intervalli "replicati". Lo scopo principale dell'insistenza sulla prossimità tra ottava e unisono sembra esse­re proprio quel­ lo di sostenere l'idea della "replicazione": "La onde vedemo, che la Diapason diapente muove l'udito quasi allo istesso modo, che fa la Diapente: cosi la Diapason col Ditono, come fa il Ditono solo. Et tanto udimo esser dissonante la Diapason col Tuono, quanto è il Tuono, e quasi allo istesso modo l'uno, e l'altro muo­ vere il sentimento; il che si potrebbe dire delle altre ancora: Et ciò non può accascare in alcuna delle altre consonanze, come è manifesto" [25] . E tuttavia, nonostante l'affinità tra questi temi con quelli di Rameau, il quadro complessivo in cui essi vengono 44 prospettati è completamente diverso e sfocia proprio nell'idea avversata da Rameau dell'intervallo di ottava come madre di tutti gli intervalli. La questione degli intervalli "replicati" deve esse­ re infatti collocata all'interno del problema della distinzione tra sem­plicità e composizione, che viene affrontata da Zarlino da una angolatura piuttosto inconsueta e mirata con evidenza ad ottenere un risultato determinato. In effetti egli caratterizza come intervalli semplici tutti gli intervalli compresi all'interno dell'otta­ va e l'ottava stessa; e come composti tutti gli intervalli "replicati". Stando a questa sola enunciazione, ciò può apparire singolare per il fatto che l'affermazione della semplicità dell'ot­tava sembra mal conciliarsi con il fatto che tutti gli intervalli semplici derivano da essa. Come possiamo tener insie­me l'idea della semplicità e quella di una suddivisione possibile? In realtà, per venirne a capo dobbia­ mo riprendere proprio la conside­razione precedente sul rapporto tra diapason e unisono ed in particolare sulla generazione della diapason dall'uni­sono, facen­do notare che per Zarlino il criterio della semplicità non sta nella possibilità oggettiva di una partizio­ ne, quanto nel modo in cui l'intervallo può essere generato, nel mo­do in cui esso nasce. Semplice non ha il senso di qualcosa che non può es­ sere suddiviso e correlativamente composto non rimanda alla pura possibilità della suddivisione. Si dirà invece semplice l'intervallo che non sorge necessariamente per compo­sizione di intervalli preesistenti. Se consideriamo le cose da questo lato ci rendiamo allora subi­ to conto del fatto che la generazione della diapason dall'unisono, in precedenza richia­mata essenzialmente per ap­pros­simare l'una all'altro, diventa ora una circostanza decisiva per sostenere la sem­ plicità di questo intervallo, e nello stesso tempo la sua priorità su tut­ti gli altri intervalli. Infatti l'unisono non è un intervallo affatto, e poiché la diapason deriva di qui essa rappresenta un intervallo sem­plice, ed è anzi il primo degli intervalli semplici. Essa non ha bisogno, per nascere, di altri intervalli, non è il risultato di una somma di intervalli (anche se potrà poi essere concepita così). Gli intervalli interni all'ottava saranno detti semplici sulla base di 45 una analoga ragione. Essi pos­sono essere ottenuti direttamente per suddivisione della ottava, e non dunque per composizione di inter­ valli preesistenti. Ecco dunque che seguendo questa via, che comincia con assunti non distanti da quelli di Rameau, si perviene a rendere conto della frase che a Rameau non piaceva affatto: se gli inter­ valli che superano l'ottava sono da intendere come replicazioni degli intervalli che stanno al suo interno e se questi ultimi sono ottenuti come suddivisione dell'ottava stessa, si può dire dell'ot­ tava che "essendo adunque prima tra gli altri intervalli musica­ li, e non si potendo comporre di unisoni, ne di altri intervalli quantunque minimi, si può concludere, che ella sia semplice, e senza compositione: e essendo prima, che ella sia madre, geni­ trice, fonte, e princi­pio, dal quale deriva ogn'altra Consonanza, e ogn'altro Intervallo: conciosia che quello che è primo, sempre è cagione di quello, che vien dipoi, e non per il contrario" [26] . 46 4. Dimostrazione monocordista del suono fondamentale e dei suoni che esso genera. Il punto importante nella critica di Rameau è natural­men­te la so­ stituzione dell'intervallo di ottava con il Son fondamental. L'accezio­ ne in cui viene utilizzato questo termine è ancora, nel Traité del 1722, strettamente legata alla corda ed alla speri­men­tazione mo­ nocordista, e quindi anche, per questa via, alla tradizione aritme­ tizzante. L'approccio fisico-naturalistico, pur essendo dal punto di vista cronologico perfettamente possibile al momento della composizione del Traité, è ancora del tutto estraneo a quest'ope­ ra; e tuttavia è interessante mettere in evidenza fino a che punto questa svolta sia preparata da ciò che in essa si dice sul Suono fondamentale. In realtà nel momento in cui si chiamano in causa gli armonici del suono, la teoria ha ormai tutti gli elementi per essere riformulata in termini fisici, senza modificazioni realmen­ te importanti, ma assumendo in apparenza una solidità scienti­ fica che in precedenza non avrebbe potuto pretendere di avere. D'altra parte, anche dal punto di vista fisico-acustico, il proble­ ma degli armonici si annuncia in gran parte proprio a partire da esperimenti sulle corde, ed in particolare sulla base dei fenomeni di "riso­nanza" [27] (vibrazione per simpatia) a cui le corde si prestano in modo particolare. Tra un modo di pensare aritmeti­ co-monocordista e un modo di pensare fisicalistico non vi è un brusco stacco, ma al contrario una transizione; e ciò spiega an­ che come il punto di vista matematizzante non cessi di affiorare arrivando talvolta a rivendicare i propri diritti per una spiegazio­ ne alternativa fino a tempi recenti [28] ; ma il consolidamento indotto dal punto di vista fisicalistico è così intenso da determi­ nare una vera e propria nuova epoca nella storia della riflessione sui fonda­menti della musica. Vediamo dunque anzitutto come si affer­ma in Rameau l'idea di Suono fondamentale. La speri­menta­ zione intervallistica al monocordo viene molto facilitata dall'im­pie­ go di più corde, anziché di un'unica corda con pon­ticello mobile: 47 ma la situazione esemplare è naturalmente rap­pre­sen­tata dal fatto che il suono emesso dalla corda intera rap­presenta il suono a cui tutti gli altri suoni ottenuti per divisione di essa vengono commisu­ rati. Utilizzando più corde vi sarà una corda di riferimento che non viene suddivisa e che serve come termine di confronto. Rispetto al suono emesso dalla corda non suddi­visa si stabiliscono i rap­ porti che caratterizzano i diversi intervalli ottenuti così come i loro caratteri consonantici o dissonantici. Già per questo quel suono potrebbe meritare il titolo di suono fondamentale. Tuttavia illustran­ do l'uso di questo termine solo in questo modo, esso avrebbe un senso assai più debole di quello che ora sta per ottenere. Ad esso si deve associare infatti l'idea di una "implicazione" nel senso più forte: il suono di riferimento deve "implicare" gli altri suoni ottenuti attraverso il monocordo, deve in qualche modo "conte­ nerli" e l'opera­zio­ne che dipana intervalli e suoni deve poter es­ sere con­side­rata come una sorta di operazione di esplicitazione. L'i­dea che si aggiunge è dunque quella del "contenere", e nel­lo stesso tempo del "generare" e dell' "essere generato". In Zarlino, come abbiamo visto, l'idea della generazione è presente nel fatto stesso di parlare dell'ottava come "madre" de­ gli intervalli: ma in quel contesto l'inclinazione è prevalen­temente metaforica ed al più legata al senso che simili espressioni possono ottenere all'interno di una filosofia del numero. Ora invece l'ele­ mento metaforico tende ad attenuarsi, a tradursi in una sorta di dato di fatto - anche se ciò non può avvenire fin d'ora se non al prezzo di forzature. Ed una forzatura io credo sia certamente il famoso pas­ so cartesiano che viene ri­preso da Ra­meau pro­prio all'inizio del Trai­té. Dice Descar­tes: "Il suono sta al suono come la corda sta alla corda: ora ciascuna corda contiene in sè tutte le altre corde che sono più brevi di essa, e non quelle che sono più lunghe; di con­ seguenza an­che in ciascun suono, tutti gli acuti sono con­tenuti nel grave, ma non reciprocamente tutti i gravi in quello che è acuto; donde è evidente che si deve cercare il termine più acuto mediante 48 la divisione del più grave; divisione che deve essere aritmetica, cioè in parti eguali, come segue dalle osservazioni precedenti" [29] . Per lo più si cita questa frase senza avvertire il lettore che in re­ altà essa è assai più problematica di quanto potrebbe sembrare in prima lettura. Suono e corda sono realtà etero­genee: il suono è una qualità percettiva; la corda una cosa materiale, un corpo - il corpo sonoro, come potremmo cominciare a dire. In che modo possiamo allora stabilire quella equiparazione, oppure: che senso essa può assumere? Evidentemente essa è del tutto compren­ sibile se intende fissare soltanto il fatto che, a parità di tutte le altre condizioni, a corda più breve corrisponde suono più acuto, a corda più lunga suono più grave. Ma questo è un dato di fatto dell'osservazione, che non dice più di quello che dice. Mentre in quella frase si vuol dire qualcosa di più e di diverso. Anche ammesso che bene o male si possa comprendere che cosa voglia dire che una corda più corta sia contenuta in una corda più lunga, sia pure con qualche dubbio sull'impiego di quel verbo, difficil­ mente si può dar senso all'affermazione secondo cui un suono più acuto sarebbe contenuto in un suono più grave. Senza contare che quello "sta come" consente lo scambio ingiustificato, un vero e proprio qui pro quo, tra corda e suono quando si dice, alla fine del­ la citazione, che si deve "cercare il termine più acuto mediante la divisione del più grave": la corda si può certo dividere, ma come si fa a dividere un suo­no? Si tratta dunque di un'affermazione tutt'altro che esente da possibili obiezioni [30] . Eppure, in essa, ancora incertamente, nuove idee bussa­no alla porta. Da un lato si fa nettamente riferimento al mono­cordo ed al rapporto tra le corde, alle loro misura e quindi ai rapporti aritmetici corrispondenti. Tuttavia per Des­cartes le corde e l'e­missione del suono vengono considerate come cose ed eventi fisici descritti da rapporti numerici, e non come in Zarlino e in tutta la tra­ dizione platonico-pitagorica, come pure immagini di rapporti numerici. Conseguente­mente il modo di considerare i rapporti letti al monocordo tende a mutare, proprio in forza di questa 49 idea del contenere e dell'essere contenuto, che sembra rimanda­ re ad una qualche relazione interna tra i suoni così "generati", ad una qualche affinità e somiglianza che sussiste tra essi in forza di questa generazione. Ma quel che più conta e che fa inclinare l'in­ tero discorso in una nuova direzione è che in alcuni casi questa relazione interna può essere rilevata osservativamente, cioè in modo direttamente uditivo, cosicché risulta naturale pensare che i motivi che la pongono in essere siano da ricercare nel suono come evento fisico reale. 50 Così in Descartes troviamo, come rafforzamento di questa idea, il richiamo a due temi che fanno da apripista per la tematica degli armonici: 1. la produzione di suoni nei fiati; 2. il fenomeno della risonanza tra corde tese. Poco oltre il passo citato, Descar­ tes osserva che la relazione interna dell'ottava con la nota grave "la si può provare sperimentalmente così: se dentro un tubo sonoro che emette una data nota soffia­mo con maggior violenza, il suono prodotto risulterà più acuto di un'ot­tava. Ora non c'è alcuna ra­ gione per cui venga fuori immediatamente un'ottava piuttosto che una quinta o altre con­so­nanze, se non quella che l'ottava è la prima di tutte e che di tutte è quella che differisce dall'unisono in minor misura; su tale minima differenza poggio questa mia convinzione: non si può udire alcun suono senza che al nostro orecchio non sembri contemporaneamente risuonare anche l'ottava superio­ re" [31] . Altri indizi nella stessa direzione vengono ricer­cati nei feno­meni di risonanza, che potevano essere apprezzati sia uditiva­ mente che visivamente o tattilmente. Vi sono condi­zio­ni in cui una corda si pone in vibrazione come effet­to manifesto di un'al­ tra corda che abbiamo noi stessi messa in vibrazione: anzitutto è necessario, affinché si produca questo effetto, che la seconda corda sia accordata una ottava, una dodicesima (ottava+quinta) o una diciassettesima (ottava + terza) sopra la corda che induce la risonanza. La vibrazione è una circostanza constatabile tattilmente e visivamente; e natural­mente è una constatazione anche la corre­ lazione tra la vibrazione e il suono udito. Spiega ancora Descartes: "Quanto sosteniamo circa la divisione dell'ottava che genera pro­ priamente solo la quinta e il ditono, e per accidente le altre, non è mero frutto di immaginazione, perché l'ho constatato anche con una verifica pratica sul liuto come su qualsiasi altro strumento a corde; facendone vibrare una, la forza del suono metterà in moto tutte le corde più acute di un qualsiasi genere di quinta o di ditono. Ciò non avverrà invece per quelle a distanza di una quar­ ta o di un'altra consonanza. Questa forza delle consonanze non può discendere certo se non dalla loro perfezione o imperfezione, 51 vale a dire dalla circostanza che le prime sono consonanze per sé, le altre invece per accidente, dato che derivano per necessità dal­ le prime" [32] . Anche a questo caso sembra adat­tarsi l'idea di una relazione interna - come relazione che riguarda il fenomeno fisico vero e proprio. Anzitutto ciò che qui si annuncia, benché non sia ancora al centro dell'atten­zione non è più la relazione del suono al numero, ma quella del suono al corpo sonoro, e dunque il suono viene concepito anzitutto nella sua causa fisica, la vibrazione. Riprendendo questi spunti cartesiani, Rameau nel Traité re­ sta in ogni caso assai fermo ad una sperimentazione al mono­ cordo. Egli intende dare una dimostrazione dell'origine delle con­ sonanze e dei loro rapporti con il suono di riferimento, e questa dimostrazione, come accade assai spesso in Rameau, ha in realtà un carattere visuale, ovvero viene proposta figuralmente attraverso uno schema che può essere considerato come l'immagine di un canone a sette corde e nello stesso tempo come un rigo musicale [33]. 52 Si immaginino tutte le corde inizialmente accordate all'uni­sono. Questa è una ovvia condizione preliminare per un uso del cano­ ne a più corde. Ma vi sono due punti notevoli su cui richiamare l'attenzio­ ne: uno riguarda le tacche e dunque il numero delle parti, l'altro riguarda invece il lato in cui la corda deve essere pizzicata, tenen­ do conto del fatto che i ponticelli verranno sistemati sull'ultima tacca sulla destra. In effetti il numero delle parti - che è segnato sulla sinistra della figura - segue l'ordine progressivo 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 e di conseguenza ogni parte rispetto alla corda di riferimen­ to rappresenterà rispettivamente 1, ½, 1/3,1/4, 1/5,1/6, 1/8 (si noterà la man­canza della corda divisa in sette parti). Si tratta di una successione armonica, essendo i suoi ele­ menti i reciproci degli elementi della successione dei numeri na­ turali L'altro fatto notevole è che la corda deve essere pizzicata alla destra dei ponticelli disposti come si è detto, cosicché i suoni risultanti saranno correlati nell'ordine alla successione armoni­ ca. Così facendo si ottengono le note il cui nome è indicato alla sinistra del­la figura. Le scritte interne a destra (ottava, quinta, quarta, ecc.) mo­ strano la relazione intervallare intercorrente tra una nota e la nota immediatamente succes­siva nell'ordine mentre le scritte all'esterno (dodicesima, sesta maggiore ecc.) indicano ulteriori distanze intervallari tra gli estremi delle graffe. Se poi ci si interroga sulle righe orizzontali disposte a si­ nistra che ora sono prolungamenti delle corde ora no, l'unica interpretazione sensata che si può dare di esse è quella di un rigo musicale formato da dodici righe - interpretazione suggerita in effetti dai segni di chiave di do e di fa disposti al punto giusto: e 53 Ne risultano due righi costituiti da sei linee, l'una in chiave di do sulla seconda linea, l'altro in chiave di fa sulla sesta. Ovvero, in disposizione orizzontale: Una simile rappresentazione del rigo non ha tuttavia parti­colare significato, se non quello di proporre un gioco ana­logico tra il rigo musicale e e il monocordo, quasi che il rigo musicale po­ tesse essere considerato un prolungamento delle corde del mo­ nocordo: gioco che poi può riuscire assai a stento considerando l'utilizzo degli spazi intermedi nel rigo musicale. Riprendiamo la stessa "dimostrazione" con qualche no­stra modifica tendente consentire di rilevare meglio i rapporti "a vi­ sta". 54 Il ponticello è indicato nell'ultima barretta a destra con mag­ giore spessore e così anche la parte della corda che deve essere pizzicata. Sul grafico si leggeranno dunque i rapporti interval­ lari individuati pizzicando a destra del ponticello: così ½, ¼ e 1/8 saranno rispettivamente ottava, doppia ottava e tripla ottava della corda di riferimento che conveniamo di chia­mare do0; 1/3 equivale alla quinta superiore a do1, essendo pari a 2/3 del tratto di corda che emette do1, come risulta subito dal confronto con la riga 6. Per rendere chiaro che tipo di intervallo si presenta nelle righe 5 e 6, l'ultimo quarto della riga 4 è stato suddiviso sia in 3 parti (tratti sotto la riga) sia in 5 (tratti sopra la riga). Si vede dunque subito che 1/6 è pari a 2/3 del tratto che produce do2 e quindi trattasi di una quinta rispetto ad esso; e 1/5 è pari a 4/5 dello stesso tratto, cosicché si tratta di una terza maggiore di do2. Se prescindiamo dai rapporti di ottava, ciò che otteniamo in 55 questa divisione del monocordo è null'altro che la triade maggiore. Ciò che dunque insegnerebbe, secondo Rameau, la nostra figura dimostrativa è che la triade maggiore sarebbe generata direttamen­ te dalla corda di base in quanto i suoni che la compongono sono emessi da corde che risultano dalla divisione diretta della corda di riferimento nei rapporti ½, 1/3, 1/5; essi si trovano perciò in rapporto immediato con il suono emesso dalla corda di riferi­ mento che merita il nome di Suono fondamentale, in quanto sta al loro fondamento, ed in forza di questo rapporto la triade mag­ giore può rivendicare il carattere di armonia più perfetta. L'esse­ re contenuto fa tutt'uno con l'essere generato. Con le parole di Rameau: "Primo: Le differenti divisioni marcate su tutte le corde eguali alla prima, e determinate dal numero corrispondente, pro­ vano evidentemente che ciascuna parte di queste corde proviene dalla prima, poiché queste parti sono contenute in questa corda prima e unica; dunque i suoni che debbono emettere queste cor­ de divise, sono generati dal primo suono, che è di conseguenza di essi il principio e il fondamento" [34] . Invece gli intervalli che sorgono tra le note così prodotte, ad esempio la quarta oppu­ re la terza minore, le seste maggiori e minori, hanno rapporto con la corda di riferimento attraverso la mediazione delle note direttamente prodotte e "di conseguenza" un grado minore di perfezione armonica; ma nello stesso tempo, sia pure media­ tamente, anch'esse sono produzioni del Suono fonda­mentale. Continua Rameau: "Secondo: Dalle distanze differenti che si tro­ vano tra questo suono fondamentale e quelli che esso ha generato mediante la sua divisione, si formano intervalli differenti, di cui di conseguenza questo suono fondamentale è il principio. Terzo: e infine, dall'unione di questi intervalli diffe­ren­ti si formano con­ sonanze differenti, la cui armonia non può essere perfetta, se questo suono primo non regna al di sotto di essi, come base e fondamento, così come appare nella dimostrazione; dunque questo primo suono è ancora il principio di queste consonanze e dell'ar­ monia che esse formano" [35] . 56 Forse volendo subito entrare in un rapporto vivo con una discussione così remota, saremmo subito tentati di chie­dere: bi­ sogna pizzicare le corde sul lato destro dei ponticelli: e perché non a sinistra di essi? Dettaglio minimo, in apparenza, eppure di importanza decisiva. Se pizzicassimo sul lato alla sinistra dei ponticelli, tutta la problematica rischierebbe di assumere un'in­ clinazione ben diversa. Tutti i suoni ottenuti non supererebbero l'ottava del suono fondamentale e si avrebbero rapporti musical­ mente interes­santi secondo la successione ½, 2/3, ¾, 4/5 e 5/6 che sono i rapporti caratteristici degli intervalli di ottava, quinta, quarta, terza maggiore e terza minore - in figura essi sono rap­ presentati nella colonna a sinistra. Persino il rapporto 7/8 (pari a 231 cents) è presente nella teoria musicale. Lo ritroviamo infatti sia nel genere diatonico secondo Archita, sia nei generi diatoni­ co tonia/ion e diatonico malako/n secondo Tolemeo [36] . Ma considerando que­­sta serie, in cui è tra l'altro presente anche l'in­ tervallo di quarta, tutta l'argomentazione precedente verrebbe cancellata con un tratto di penna. È difficile evitare di ipotizzare che ciò che ci fa drizzare l'attenzione verso il lato destro del monocordo sia proprio l'intenzione di "trovare" la triade. Cer­ to l'aspetto puramente matematico svolge la sua parte - come abbiamo già notato questo motivo si fa sentire anche in questi nuovi sviluppi. Sulla destra abbiamo il richiamo alla successione armonica e dunque anche alla successione dei numeri naturali. Il fascino della necessità aritmetica lo si avverte anche in Rame­ au quando assimila la corda che emette il suono fondamentale "all'unità che è principio di tutti i numeri" [37] - ed in questa parola si intravvede la possibilità che gli intervalli possano essere dedotti, e perciò intrinsecamente giustificati esat­tamen­te come dall'1 si "deduce" il 2, dal 2 il 3 ecc. Ma da questo punto di vista, anche il lato alla sinistra dei ponticelli non è molto da meno e potrebbe avere a sua volta il suo fascino matematico: la succes­ sione che troviamo da questo lato non è una successione qua­ lunque ed è strettamente corre­lata alla successione armonica dal 57 momento che ogni suo ele­mento è complemento a 1 di ciascun elemento della suc­ces­sione armo­nica. D'altronde è proprio questa successione che invece aveva attirato soprattutto l'attenzione del­ la teoria greca: intanto per la presenza in essa dell'intervallo di quarta che rappresenta per essa l'intervallo di base, ma poi più in generale per il fatto che si tratta di una successione di rapporti epimori: della peculiarità aritmetica dell'intervallo con rappor­to n/ (n+1) la trattatistica antica aveva fatto una caratteristica di eccellenza musicale dell'intervallo stesso. Proprio in forza di questa caratte­ ristica compare nell'elaborazione tolemaica sia l'intervallo di terza maggiore che quello di terza minore secondo i rapporti 4/5 e 5/6. Il primo interviene nella determinazione di Tolemeo del genere enarmonico, il secondo del genere cromatico malako/n [38] . Potremmo arrivare a dire che a sinistra ed a destra dei ponticelli, nel nostro schema trova espressione la differenza tra il vecchio modello e quello nuovo che ora si annuncia; e nell'uno e nell'al­ tro caso è l'orien­tamento musicale che determina la via. Così il mo­ tivo effettivo per cui ci si attiene al tratto a destra dei ponticelli è assai semplice. Solo in questo modo si trova anzitutto ciò che si cerca: una giustifi­cazione per l'affermazione della perfezione della triade mag­gio­re e della sua immanenza nel suono fonda­ mentale. Tuttavia una simile giustificazione resta per il momento ap­ pesa alla fragile argomentazione cartesiana secondo cui "il suo­ no sta al suono come la corda alla corda" - e non può che restare misterioso l'espressione essere contenuto ed ancor più il passaggio da essere contenuto a essere generato. Sullo sfondo di quella frase vi sono tuttavia anche i fenomeni di risonanza - questo vale sia per Cartesio sia per Rameau - e quindi, anche se incertamente, come una sorta di presentimento, si avverte la possibilità di un discorso orientato in un senso che mette in questione la natura del suono. In effetti solo effettuando la riformulazione dell'inte­ ro problema in termini di armonici sem­bra che si possa approda­ re su un terreno solido e sicuro conferendo un senso tangibile a 58 quelle formulazioni. Per ciò che riguarda il motivo per il quale la divisione in sette della corda viene senz'altro evitata, Rameau ci fornisce una duplice risposta: da un lato, andare oltre la sesta divisione della corda equivarrebbe a produrre suoni tanto acuti da sovrastare la capacità dell'orecchio; dall'altro, il numero 7 non può portare ad alcun intervallo gradevole "come è evidente ai conoscitori" [39]. Per il momento questa risposta può essere considerata tanto legit­ tima, quanto innocua. Ma di fatto si comincia già ad intravvedere il primo significativo "aggiu­sta­mento". La teoria può procedere per un buon tratto, purché di tanto in tanto sia lecito intervenire, in assenza di giustificazioni fisiche, per introdurre le modificazioni necessarie con giustifi­cazioni unicamente musicali. 59 § 6. Udire gli armonici Narra Sauveur all'inizio della sua Mémoire del 1701: "Meditando sui fenomeni dei suoni, mi accadde di notare che, soprattutto la notte (sur tout la nuit), nel caso di corde lunghe, si odono, oltre il suono principale, degli altri piccoli suoni (petits Sons) che si tro­ vano alla dodicesima ed alla diciassettesima di que­sto suono; e che oltre quei suoni le trombe ne hanno degli altri, il cui numero di vibrazioni è multiplo del numero delle vibrazioni del suono fonda­ mentale" [40]. Piccoli suoni: che si odono soprattutto nel silen­ zio della notte [41], appena udi­bili, dunque, appena afferrabili. Così comincia l'avvincente vi­cen­da scientifica di quelli che Sauveur chiama Sons harmoni­ques. Naturalmente ogni storia ha la propria preistoria, e Sauveur non è certamente il primo a notare la pre­ senza di questi piccoli suoni - ma è probabilmente il primo a non considerare questo fenomeno come relativamente marginale, dif­ ficile da spiegare, "bizarre", come lo definisce Diderot ancora nel 1748 [42] , talora considerato addirittura contradditorio e quindi sospettato di essere un inganno dei sensi [43]. Sauveur ne parla invece all'interno di un saggio che rivendica la necessità di dar vita ad una nuova scienza "che io ho chiamato Acustica, che ha per og­ getto il suono in generale, mentre la musica ha per oggetto il suono in quanto esso è gradevole all'udito" [44] . All'interno di questo quadro, la Mémoire è dedicata fonda­men­tal­mente a due grandi ar­ gomenti. Nella sua prima parte ci si impegna a fondo per trovare un metodo di partizione del­l'ottava che fornisca i mezzi per misu­ rare ogni tipo di inter­vallo [45], un problema che si associa ad una singolare proposta di rinnovamento della terminologia musicale che si attenga ad un criterio di massima trasparenza, in base al qua­ le i nomi debbono rispecchiare nella misura del possibile le pro­ prietà degli inter­valli. A questa parte, di carattere prevalentemente metodo­logico, segue una seconda parte in cui si entra nel merito dei suoni armonici, fornendo da un lato un primo resoconto del­ la que­stione, dall'altro introducendo la distinzione fondamentale 60 tra nodi e ventri della vibrazione e tentando una spiegazione com­ plessiva del fenome­no. Non vi è dubbio che in questa cornice generale, agli armonici venga data una posizione fondamentale in rapporto al­la nascente acustica come disciplina scientifica: viene richiamata l'attenzione sugli armonici del suono come una stra­da per penetrare nel suo interno, che nel momento in cui comincia comincia con l'essere afferrato esibisce una struttura che ha ormai assunto una particolare importanza nella musica dell'epoca e nel­ la sua teoria. Non meno significativo può subito apparire il fatto che questa struttura si imponga anzitutto in una dimensione "ver­ ticale". La stessa nozione di suono singolo sembra essere messa nettamente in questione dal punto di vista fisico. Alla luce della considerazione della presenza di armonici in esso, la singolarità ov­ vero la semplicità potrebbe essere pura apparenza che nasconde la natura "composta" del suono; questa circo­stanza a sua volta po­ trebbe apparire come una sorta di conferma della priorità della dimensione armonica su quella melodica. Come abbia­mo già os­ servato, si rinnova così formidabile intreccio tra interessi artistici, scientifici e filosofici che caratterizza la storia della teoria musicale fin dai suoi inizi. Questo intreccio tuttavia va colto con tutta la sua densità problematica, con le sue complicazioni epistemologiche, con le controversie che in esso si agitano, e non limitandosi ad un ingenuo compiacimento per i buoni rapporti tra le arti e le scienze. Un primo problema riguarda naturalmente lo statuto feno­ menologico degli armonici. In che senso possiamo dire di "u­d­ ire" gli armonici, di avere dunque una esperienza di essi? Fino a che punto essi appartengono all'ambito delle spiega­zioni fisiche e in che misura gioca in rapporto ad essi l'ambito delle gene­ ralizzazioni matematiche? Di fatto la teoria musicale ha spesso insistito, in particolare ai primi inizi, sugli armonici come fatti di esperienza uditiva; e naturalmente anche i primi passi della teoria nella Mémoire di Sauveur sono volti in questa direzione. Ma il bell'inciso "soprattutto di notte" ci rende subito avvertiti: non si tratta di un'esperienza come un'altra, ma di un'esperienza che ha 61 le proprie singolari peculiarità su cui è opportuno soffermarsi. Tromba marina In proposito occorre subito fare una precisazione appa­ren­temente ovvia, che tuttavia mostra subito che sull'argo­mento ci si potrebbe facilmente ingarbugliare. Vi sono diverse vie che fini­scono con il confluire insieme nell'iden­tificazione del problema degli armo­ nici: una di queste - lo si è già notato - è l'emissione dei suoni negli strumenti a fiato, nei quali la forzatura del soffio conduce a suoni che sono armo­nici del suono fondamentale. Ma natu­ ralmente si tratta di suoni la cui intensità e dunque percettibilità non ha niente da invidiare a quella del suono fondamentale. L'a­ spetto che qui colpiva era il fatto che in questo modo di emissio­ ne suggeriva l'idea che il suono più acuto ci fosse già nel suono più grave e che la maggior potenza del flusso d'aria immesso nel tubo fosse in grado di estrarre questo suono e farlo udire come tale. Si poteva di qui sospettare un'affinità con i "piccoli suoni" e­messi dalle corde. Uno stru­mento a corda che cominciò a de­ stare l'attenzione in rapporto a questo problema è la cosiddet­ ta "tromba marina", un semplice strumento a una o due corde che produceva suoni con un archetto, essendo le dita tenute in pressione molto leggera sulle corde, dunque in modo non molto diverso dalla produzione dei "flautati" producibili con gli stru­ 62 menti ad arco (a parte la posizione dell'archetto che nella tromba marina sta oltre le dita). A questo strumento si richiama lo stesso Sauveur nel passo immediatamente successivo a quello or ora citato, quando osserva: "Non ho mai trovato nulla che mi po­ tesse soddisfare nelle spiegazioni delle trombe marine (trom­pettes marines)". Anche in questo caso i suoni delle trombe marine era­ no suoni piuttosto potenti, resi più intensi da corde di risonanza poste nella cassa dello strumento che era alto fino a due metri, ed anche in questo caso l'acume del ricercatore sta nel sospettare una stretta relazione tra questo modo di produrre i suoni con i "petits sons" che si odono nel­la semplice vibrazione di una cor­ da trovando poi una spiegazione omogenea per gli uni e per gli altri. Ma quando ci chiediamo se abbia senso parlare di armonici uditivamente colti, questa domanda riguarda eviden­temente solo i "piccoli suoni" che si odono in inerenza al suo­no fondamentale, essendo gli altri, per l'udito, suoni pieni e completi. La difficoltà ad afferrare uditivamente gli armonici è sempre stata in vari modi sottolineata, ma anche in questa sottolineatura si può annidare qualche equivoco. Quando si parla di difficoltà, in certo senso ci si rincresce implicitamente che essa non possa essere senz'altro superata. Ma qui è vero l'esatto opposto. Gli armonici in quanto suoni nettamente individuati non si dovrebbero proprio mai udi­ re, ed in effetti nell'ascolto ordinario non si odono affatto [46]. Quando parliamo di una nota suonata da uno strumento come di una nota singola o di un accordo come un suono complesso costi­ tuito di due o più note singole, sappiamo perfettamente quel che diciamo. Questo è ciò che appare alla percezione, e questa non è pura e ingannevole apparenza. Eppure sappiamo che questa nozione della semplicità e della composizione che vale sul piano fenomenologico si presenta in ben altro modo dal punto di vista fisico - questo potrebbe essere anzi un ottimo esempio per illu­ strare in generale la non corri­spondenza tra piano fisico e piano fenomenologico. Il suono singolo, la nota ottenuta premendo un tasto al pianoforte, è costituita di parti, di elementi costitutivi che 63 hanno una fondamentale importanza per stabilire la qualità uditiva della nota, il carattere con il quale ci appare all'udito, oltre che per l'istituzione di relazioni tra esse. Gli armonici assolvono una molte­ plicità di funzioni in rapporto al risultato fenomenologico - in par­ ticolare, essi incidono in modo determinante sulla qualità timbrica - ma possono assolvere queste funzioni solo in quanto, saremmo tentati dire, il loro essere parti costitutive del suono prevale sul fatto di essere suoni pieni e completi, netta­mente individuabili come tali. Gli armonici sono i componenti semplici di un'unità sonora che, per quanto possa apparire semplice sul piano fenomenologico, è in realtà complessa sul piano fisico-acustico. Il risultato di questa sintesi di componenti è il suono singolo che percepiamo - che vive in forza di essi, ma che verrebbe letteralmente disintegrato dal loro afferramento analitico. Fin dall'inizio si avvertirono delle pos­sibili analogie con ciò che si andava allora scoprendo intorno al colore: vi sono colori semplici dalla cui composizione risulta ogni colore che appare alla percezione; ma essi non sono a loro volta perce­ piti in questo risultato, ed anzi sono totalmente nascosti al di là di esso. Così nella luce bianca nulla traspare delle luci colorate in cui essa è analizzabile. Ma proprio su questo punto l'analogia - che può essere appro­priata per molti versi - non riesce a reggere fino in fondo. Premiamo il tasto di pianoforte, pizzichiamo la corda di un violoncello, eventualmente ri­corriamo ad alcuni artifici di rinforzo, ed ecco che l'udito riesce a cogliere alcune di quelle piccole note acute che sono parti del suono "principale", co­me se si riuscisse, dal terreno dell'espe­rienza diretta, ad aprire uno spiraglio, una piccola finestra attraverso la quale pos­siamo getta­ re uno sguardo nella costituzione fisica interna del suono stesso. Uno sguardo appena, e poi la finestra subito si richiude, ma intanto siamo stati messi sull'avviso e cercheremo di penetrare in essa con altri mezzi. L'armonico udito sta, in certo senso, sulla soglia tra fisica e fenomenologia. La difficoltà dunque non è una difficoltà qualunque, ed afferrare uditivamente l'armonico di un suono che non è affatto la stessa cosa che afferrare uditivamente la nota di un 64 pianoforte o di un violino: si tratta invece di un udire fortemente orientato, che richiede un'attenzione uditiva estre­ma­mente tesa ed esplicitamente diretta ad un simile affer­ra­mento analitico. "Chiunque si accinga per la prima volta a indagare intorno agli iptertoni dei suoni musicali - osserva Helmholtz - troverà di solito considerevoli difficoltà anche soltanto ad udirli" [47] ; ed aggiunge che l'esperienza musicale non aiuta, e che anzi proprio i musicisti incontrano particolari difficoltà: "Noto in proposito che un orecchio musicalmente esercitato non necessariamente ode con maggior facilità e sicurezza gli ipertoni di un orecchio non esercitato. Ciò che qui più importa non è tanto l'esercizio musicale, ma una certa forza di astrazione dello spirito, una certa capacità di dominare l'atten­zione" [48] . In effetti questa capaci­ tà di dominare l'at­ten­zione, che è in realtà una capacità di orientarla verso le frange del suono, piuttosto che verso il suo centro, non è certamente tipico di un ascolto musicale, ma forse più simile a quello, altrettanto amusicale, dell'accor­datore che tende l'orec­ chio per cogliere i battimenti tra due suoni al fine di ottenere una buona accordatura. L'ascolto è in quest'ultimo caso così teso che spesso viene raccomandato di non esasperare l'atten­zione uditiva per non provocare ottundimenti e danni fastidiosi. Per questo mo­ tivo anche la più semplice sperimentazione si avvale di artifici e di accorgimenti che tendono a facilitare quest'affer­ramento analitico. Ad esempio si potrà ricorrere a rinforzi utilizzando le vibrazioni "per simpatia". Se, prima di eseguire un do2 sul pianoforte si abbassa il tasto del mi5 senza per­cuo­terlo e quindi senza farlo ri­ suonare, il quinto armonico del do2 che corrisponde a mi5, si farà sentire in modo piut­tosto netto insieme a sol4 [49]. Ciò è dovuto al fatto che abbas­sando il tasto senza percuoterlo ci si limita a sollevare l'am­mor­tizzatore consentendo alla corda di vibrare per riso­nanza con l'armonico corrispondente. Un altro accorgimento è quello di far udire all'ascolta­tore la nota che egli dovrà cogliere come armonico nel suono che gli verrà proposto successivamente, prevenendo in questo modo 65 fortemente l'ascolto e indicando in via preventiva ciò che deve essere ritrovato. Ciò sembra addirittura contrario alla regola di una buona sperimentazione in genere - almeno secondo un ca­ none molto diffuso. Eppure non tutti su di esso sono concordi. Così John Tyndall sostiene che è possibile fare una certa analisi uditiva degli armonici "soprattutto quando si sa in anticipo ciò che l'orecchio deve accingersi ad udire", quindi in un ascolto "possibilmente prevenuto". A difesa di questa eresia sperimen­ tale egli narra che un giorno Faraday, presente ad una sua prova sperimentale, poco prima del­l'inizio dell'espe­rimento "mi mise una mano sulla spalla e mi chiese: 'Che cosa debbo guardare e che cosa debbo vedere?' Nell'insieme delle impressioni che deve far nascere un'e­spe­rimento, questo principe degli sperimentato­ ri, proprio lui, sen­tiva che si può trarre un grande vantaggio dal fatto che l'attenzione sia diretta sul punto particolare in questio­ ne. Questo soccorso è necessario soprattutto quando si tratta di un fenomeno tanto complesso e così intimamente fuso qua­ le è quello dei suoni che compongono ciò che noi chiamiamo timbro" [50]. Anche Helmholtz del resto propone di suggerire l'ar­monico da udire, ad esempio, facendo risuonare debol­mente come nota reale il sol3 prima di far risuonare il do2, invitando l'ascoltatore a trattenere l'attenzione sul sol in mo­do da riusci­ re a risentirlo come armonico dentro il do. Helm­holtz sa bene che questo modo di procedere potrebbe raffor­zare il sospetto che ha accompagnato gli armonici fin dagli inizi, e che si spinge­ va evidentemente fino ai tempi suoi, a ritenere che gli armonici fossero entità immaginarie o quanto meno che essi avessero una realtà psico-fisiologica piuttosto che fisica [51], perché l'ascolta­ tore, suggestionato in questo mo­do, potrebbe sostenere di sen­ tire qualcosa che nel suono reale non c'è. La con­trobiezione di Helmholtz non difende tuttavia il metodo, come in Faraday e in Tindall, ma si appoggia alla possibilità di poter afferrare, ad es. nel caso del quinto armonico di do fatto risuonare al pianoforte (mi5), una differenza di into­nazione tra il suono udito in armoni­ 66 co e il corrispondente suono reale dovuta al fatto che il primo è in intonazione "naturale"(386 cents) e il secondo in intonazione "tem­perata" (400 cents). La realtà dell'armonico sarebbe garanti­ ta dall'e­sistenza di questa stessa differenza [52]. Il problema della difficoltà di analizzare uditivamente gli armonici del suono senza appositi apparati, come gli stessi risonatori inventati da Helm­ holtz, viene da lui ricondotta ad una problematica che coinvolge in un modo o nell'altro tutti i nostri organi di senso [53] . In linea generale - osserva Helmholtz - noi riteniamo di essere in grado, di fronte ad un complesso di sensazioni che si presentano simultaneamente, di essere in grado di "orientare la nostra atten­ zione a piacere verso ogni singolo componente separatamente". Vi è tuttavia una condi­zione af­fin­ché questo possa avvenire, una condizione che Helm­­­­holtz formula in termini di filosofia empiri­ stica dell'e­spe­rien­za: è necessario infatti, egli dice, che "attraverso esperien­ze con­cordanti spesso ripetute" siamo divenuti certi del fatto che "la sensazione presente abbia origine attraverso l'a­zione simultanea di più stimoli indipendenti l'uno dal­l'altro, di cui ogni singolo preso singolarmente suole richiamare una sola sensa­ zione altrettanto ben conosciuta". Ma non sempre questa condizione si verifica. Cosicché è necessario introdurre una distinzione per la quale Helmholtz si richiama esplicitamente a Leibniz: un conto è il "grado inferiore del prendere co­scienza" (Bewusstwerden), il perzi­pieren di cui parla Leibniz, nel quale non arriva alla cono­scenza "a quale parte par­ ticolare della nostra sensazione noi siamo debitori dell'intuizio­ ne di questo o quel rapporto nelle nostre percezioni"; ed un altro è quel grado di ordine superiore nel quale "distinguiamo immedia­ tamente la sensa­zione in questione come una parte sussistente nel­ la somma di sensazioni attualmente eccitata in noi" - l'appercepire (apper­z ipieren) nel senso di Leibniz. Essendo la percezione degli armonici fuori discussione in quanto la loro presenza determina il "carattere" del suono, il problema è se si possa dare "apperce­ zione" degli armonici ovvero se essi possano essere colti "nella 67 loro esistenza separata, se quindi l'orecchio, anche senza il sup­ porto di risonatori o di altri apparati ausiliari fisici che modifichi­ no la stessa massa sonora che arriva ad esso, possa distinguere, attraverso un adeguato orienta­mento e tensione dell'attenzione, se e con quale forza sia presente nel suono dato la sua ottava o la dodicesima, ecc."[54]. La questione, continua Helmholtz, è presente an­che in rapporto agli altri sensi - ed anzitutto in rap­ porto al gusto, all'odorato ed al tatto. Così "gli ingredienti dei nostri cibi e le spezie che noi siamo soliti aggiungere ad essi, non sono affatto tanto numerosi da rendere impossibile a ciascuno di ricono­scerli rapidamente. E tuttavia sono solo pochi gli uomini che, senza aver esercitato essi stessi praticamente l'arte della cu­ cina, siano in grado di rintracciare, rapidamente e correttamente, i componenti mescolati ai cibi attraverso il gusto"; ed è persino difficile ai più notare quanto il gusto debba all'odorato; così nel caso del tatto, nel toccare inavverti­tamente un pezzo di metallo freddo e liscio, abbiamo la sensazione tattile del bagnato, cosa che mostra che questa sensazione è composta da sensazioni dif­ ferenti [55]. Nel caso della vista si hanno vari esempi che mostra­ no, da un lato, la possibilità di operare una distinzione tra com­ ponenti sensoriali differenti, dall'altro la difficoltà di districarli. Così ci possiamo rendere conto che l'af­ferramento intuitivo della dimensione pro­fonda dello spazio visivo è dovuta alla "percezione simultanea di due immagini prospettiche un po' differenti nell'uno e nell'altro occhio dello spettatore", e questa circostanza può esse­ re a sua volta data intuitivamente "se noi fissiamo un oggetto lon­ tano e spingiamo avanti una delle noste dita": "vedremo allora ap­ parire due immagini del dito di fronte allo sfondo, di cui una viene meno se chiudiamo l'occhio destro, mentre l'altro pertiene all'oc­ chio sinistro". A parte questa particolare condizione tut­tavia, "an­ che in questo caso, come in quello degli ipertoni, la facilità e l'esat­ tezza dell'appercezione (Apperzeption) resta assai indietro rispetto a quella della percezione (Perzeption)"[56]. Nel contesto di questa discussione viene infine richiamata l'ana­logia con i colori. Come 68 abbiamo osservato in precedenza, quest'analogia per certi versi ha avuto una forza propulsiva anche in rapporto all'ambito sonoro: questo aspetto si è impresso anche nella terminologia, quando si parla di "spettro" per la composizione armonica del suono. Vi è uno spettro del suono come vi è uno spettro del colore. L'analo­ gia sta nella riduzione a componenti semplici - "solo che nel caso del colore il numero delle sensazioni fondamentali si riduce a tre e la separazione delle sensazioni composte nei loro elementi semplici è ancora più difficile e incompleta che nel campo dei suoni"; ed anche se l'idea che tutti i colori possano essere consi­ derati come combinazioni di tre colori fonda­mentali, da tempo formulata, è stata confermata con la sperimentazione, non più sui colori come pigmenti, ma sulla luce colorata, tuttavia - osser­ va ancora Helmholtz - "non esiste nessuna specie di luce colorata che ci porti alla sensazione esclusivamente e puramente di uno solo dei colori fondamentali". "Di qui segue che non possiamo mai, o solo per breve tempo con singoli e­speri­menti particolar­ mente adatti allo scopo, portare all'in­tuizione gli elementi sem­ plici di tutte le nostre sensazioni di colore, e quindi anche non possiamo portare nel nostro ricordo alcuna immagine memorativa esatta e sicura, come dovremmo averla per risolvere intuitivamen­ te con sicurezza o­gni sensa­zio­ne nelle sue sensa­zio­ni elementari. Di qui dipende i fatto che abbiamo occasione relativamente di rado di os­ser­vare il processo di una compo­sizione di colori e il suo risul­ tato conclusivo imparando così a riconoscere nuovamente nel composto le sue parti costi­tu­tive". Si accenna dunque ancora all'argomento, in realtà assai dubbio, dell'esperienza passata e dell'immagine memorativa di un processo di costruzione, che faci­ literebbe la possibilità della scomposizione. Nel caso dell'udito, l'esperien­za della combinazione di più suoni in un unico agglo­ merato sonoro è frequente, basti appunto pensare a più stru­ menti che risuonano insieme in un brano musicale che non pre­ senta alcuna difficoltà nella distinzione delle voci; e tuttavia la difficoltà della discriminazione si ripresenta, in quanto "gli ultimi 69 elementi semplici della sensazione sonora, i suoni semplici, ven­ gono uditi di rado", ed altrettanto rara è l'apprensione di un pro­ cesso che mostri il processo attraverso cui si perviene al suono at­ traverso l'agglomerazione dei suoni semplici; cosicché risulta mol­ to limitata "l'occasione di assor­bire (einverleiben) un'imma­gine memorativa esatta e sicura di questi elementi semplici del suo­ no"[57]. Di con­seguenza, "anche i modi di scomposizione della somma debbono diven­tare incerti in modo corrispon­dente. Se non sappiamo con sicurezza che cosa sia da aggiun­gere alla par­ te del suono da considerare come suono fonda­men­tale, saremo anche incerti su ciò che appartiene agli ipertoni. Perciò dobbia­ mo almeno all'inizio rendere udibili anticipatamente e singolar­ mente i singoli elementi che debbono essere distinti, per avere un ricordo del tutto fresco della sensazione che corrisponde ad essi, e l'intera faccenda richiede tranquilla e totale attenzione. Man­ca ap­ punto la facilità che possiamo ottenere attraverso l'esperienza spesso ripetuta, mentre nella distinzione degli accordi musicali nel­ le loro singole voci una simile esperienza ci è d'aiuto. In rapporto ad essi noi udiamo i singoli suoni sufficientemente spesso singo­ larmente, e osserviamo come essi si unificano in un insieme so­ noro (Zusammen­klang), mentre di rado perce­piamo (vernehmen) i suoni semplici e quasi mai la costruzione di suoni complessi a par­ tire da essi" [58]. Come si vede, alla fine l'argomento empiristico della passata esperienza diventa nettamente do­minante, ed esso fuorvia dal punto veramente importante che do­vrebbe essere mes­ so in evidenza. Esso infatti mette concet­tualmente sullo stesso pia­ no gli armonici con i suoni singoli e gli agglomerati sonori come si dànno nell'esperienza musicale e nell'espe­rienza corrente. Solo che vi fosse un'immagine memo­rativa opportuna fondata su espe­rienze iterate, l'ascolto analitico non richiederebbe nessuno sforzo e l'udi­ to non avrebbe bisogno di alcun apparato di supporto: questo è il risultato a cui si perviene nella discus­sione precedente. A me sembra invece che non si tratti del fatto che manchi un'espe­ rienza iterata di suoni complessi costruiti a partire dai compo­ 70 nenti semplici, ma piuttosto che una simile esperienza sarebbe priva di senso, e inversamente che non sarebbe nemmeno ipotiz­ zabile, e persino difficile da imma­gi­nare, un'espe­rien­za uditiva ca­ pace di analizzare ogni suono nei suoi armonici. Ciò che consente quella equiparazione è, da un lato, l'esistenza di uno "spi­ra­glio" fenomenologico verso la struttura fisico-acustica del suono, dall'al­ tro il fatto che si parli comunque di frequenze in entrambi i casi. Ma il Zusammen­klang dei suoni in un accordo non ci può insegna­ re proprio nulla - come nota del resto lo stesso Helmholtz - sul Zusammenklang di tutt'altro genere degli armonici nel suono sin­ golo. Ciò su cui si deve essere in chiaro è che - a parte i casi speciali che abbiamo precedentemente rammentato in cui gli ar­ monici sono suoni pieni e completi e che quindi valgono come tali dal punto di vista percettivo - i suoni colti nelle frangie del suono sono essenzialmente dei "parziali". Saremmo tentati di dire: essi sono essenzialmente parti del suono e non suoni veri e propri, e proprio per questo non possono essere scis­si dall'in­tero di cui sono parti, e di cui contribuiscono a determinare la qualità timbrica, se non in particolari condizioni e mediante artifici. In base a queste considerazioni non può certo sorprendere il fatto che, una volta che l'udito ha trovato una strada verso lo spettro del suono, la sperimentazione acustica si sviluppi non solo cercando rafforzamenti per l'analisi uditiva, ma avvalendosi anche di elementi tattili e soprattutto visivi. Che il suono abbia la sua fonte nella vibrazione di una cosa materiale lo si è sempre saputo proprio attraverso il tatto e la vista. Le vibrazioni di una campana non si vedono, ma si sen­ tono tattilmente. Nel caso delle corde, la vibrazione ha la massi­ 71 ma evidenza visiva, e ciò che si vede è il carattere oscil­lato­rio del movimento, il suo "va e vieni". Sauveur nota che gli ar­mo­nici si fanno "sentire all'orecchio, ed anche alla vi­­sta"("sentir à l'oreille, et même à la vue"), e per indicare le vibrazioni si serve del termine di ondulation specificando in un'anno­­tazione al margine che "un'ondulazione di una corda è la figu­ra a somiglianza di un fuso che fanno le vibrazioni di questa corda" [59] . La famosa esperienza dei "cavalierini" apposti sui ventri e sui nodi della corda che vengono disarcionati se si trovano sui ventri, mentre non si muovono se si trovano sui nodi, rappre­ senta un modo di verifica dell'ipotesi di vibrazioni se­condarie tutto affidato alla vista [60] . La corda è destinata dunque a mantenere ancora per un bel tratto di tempo un certo privilegio nella sperimentazione fisica, cosicché il buon vecchio monocordo stenta ad andare in soffitta. Esso ri­ compare nel secolo XIX come "sonometro" [61] . Tyndall cita anche un attrezzo che "supera in bellezza e delica­ tezza ciò che si può ottenere con il sonometro [62] ". Si tratta di un diapason a cui è collegato attraverso una piccola vite un filo 72 di seta che viene assicurato sulla destra ad un pa­letto con una caviglia che si possa girare in modo da tendere il filo. Sfregando con un archetto il diapason il filo si mette in vi­bra­zione e tendendo sempre più il filo esso "si espande in un magnifico fuso setoso che arriva a più di 15 centimetri nella parte più lar­ ga, notevole per via del suo splendore perlaceo": diminuendo poi gradualmente la tensione, si otterranno fino a venti parti visibilmente vibranti. Tyndall ha l'audacia di entusiasmarsi - da autentico sperimentatore - sia per il risultato conoscitivo che per la bellezza del fenomeno visivo che ne risulta. "Quando si fanno vibrare in questo modo delle corde di seta bianca, la loro loro bellezza è estrema. I nodi appaiono come dei punti assoluta­ mente fissi, mentre i ventri si dispiegano in fusi così delicati che li si direbbe formati da una seta opalescente". E con altrettanto entusiasmo egli cita gli esperimenti di Young "che fu il primo ad usare la luce per l'analisi dei suoni". In uno di questi esperimenti viene proiettato un raggio di sole su un punto di una corda di un pianoforte cosicché "quando la corda cominciava a vibrare questo punto descriveva una linea luminosa simile a quella che fa nascere nell'aria la rotazione rapida di un carbone ardente, e la forma di questa linea di luce rivelava i caratteri del movimento vibratorio della corda" [63] . Utilizzando metodi di questo tipo "al movimento generale della corda si sovrappone una molte­ plicità di movimenti più piccoli, la cui combinazione genera dei reticoli di una complicazione meravigliosa e di uno splendore indescrivibile" [64] . 73 6. Il passaggio alla fondazione fisicalistica e le sue implicazioni di ordine generale Nel 1722, al tempo del Traité, Rameau ignora la scoperta di Sau­ veur, sulla quale attira la sua attenzione Castel nella recensione a quell'opera [65]. Castel porta l'accento sul punto essenziale: l'ordine dei suoni armonici indicati da Sauveur si sovrappone esattamente a quello indicato da Rameau nella sua dimostrazio­ ne "mono­cordista". Questa sovrapposizione sembra rendere questo passag­gio assai morbido dal punto di vista teorico, come se ci si limitasse a confermare dal punto di vista fisico, ciò che era già chiaro da quello matematico; ma in realtà si tratta di una svolta nettissima e che al di là di una pura conferma, è invece portatrice di un radicale mutamento di punto di vista. Cambia in primo luogo il modo di concepire la relazio­ne tra il suono e il numero. Il numero riferito anzitutto alla lun­ ghezza della corda tendeva a liberarsi anche da questo riferimen­ to concreto, ed il rapporto numerico finiva con il diventare un rapporto astratto che si proponeva esso stesso come causa ed essenza profonda del suono. Ora il numero viene invece riferito alla frequenza ed il rap­ porto numerico al rapporto tra frequenze, mettendo in que­stione il modo concreto di produzione del suono. La meta­fisica del numero e le speculazioni numerologiche nella teoria della musica vengono conseguentemente indebolite: anche se, come abbiamo già nota­ to, l'aspetto numerico (e numerologico) resta sempre sullo sfondo, pronto a ripresentarsi in primo piano. Questa persistenza rappresenta una caratteristica di tutta la storia del problema della fondazione fisicalistica della teoria della tonalità, ed è già presente nelle traversie delle sue prime origini. Ma intanto è sulla novità che deve essere richiamata l'atten­zione. Vi sono almeno tre punti che debbono essere in proposito chiaramente sottolineati. 74 1. - Anzitutto il richiamo alla natura sembra ora diventare particolarmente stringente. La triade è ormai letteralmente con­ tenuta nel corpo sonoro, si ode in esso: la natura stessa mostra che il suono singolo contiene un'armonia nascosta. Cosicché si parlerà anzitutto di armonia, restando alla superficie dei feno­ meni, per indicare "l'unione di due o più suoni da cui l'orecchio è gradevolmente colpito" [66] ma questa armonia sarà fonda­ ta in profondità sulla struttura interna del suono fondamentale: "Ogni corpo sonoro, preso in particolare, porta con sé la stessa armonia che esso fa risuonare, esso ne è il generatore, così io lo chiamo ovunque" [67]. È dunque la natura che stabilisce la priorità dell'armonia sulla melodia, una priorità che è sempre stata fino ad ora misconosciuta. Ed è ancora la natura che stabilisce la giusta in­ tonazione dei suoni - in particolare essa conferma puntual­mente la misura zarliniana dei 5/4 per la terza maggiore (386 cents), mi­ sura che in Zarlino, dal punto di vista teorico, è una pura que­ stione di estensione dei "numeri sonori" dal "quaternario" pi­ tagorico al "senario" - estensione ancora guidata e motivata dal pensiero della perfezione dei rapporti epimori. È infine ancora la natura che stabilisce l'ordine dei rapporti consonantici, privilegiando la quinta subito dopo l'ottava. L'ordine degli armonici appare infatti subito - in realtà senza alcuna giustificazione effettiva - come un ordine significativo in rapporto ai gradi di consonanza, in quanto la maggiore o minore prossimità dell'armonico al suono fonda­mentale viene interpretata come maggiore o minore affinità ad esso. Se giustificazione vi è di una simile signi­fic­ atività, que­ sta è vincolata al passaggio dall' essere contenuto dell'armonico nel suono fondamentale, che ora diventa espres­sione perfettamente intelligibile, all'imma­gine della generazione - come se il suono fon­ damentale fosse "pregno" dei suoi armonici, e questi possano dunque essere considerati come "generati" da esso. L'idea della generazione e della struttura necessaria del processo generativo dà alla teoria della tonalità ai suoi inizi un'impronta decisiva, e ad essa in particolare si può far risalire l'idea che ciò che precede 75 nell'or­di­ne della generazione rappresenta anche un grado di affi­ nità maggiore al generatore rispetto a ciò che segue. Si coglie in tutto ciò con molta chiarezza ciò che abbiamo an­ ticipato fin dall'inizio. In una fondazione fisicalistica, la no­zione di consonanza come uno specifico dato di fatto uditivo assume una funzione subordinata, ed ha invece una sua pre­cisa giusti­ ficazione il porla al centro di un approccio fenome­nologico al problema: infatti la valutazione della maggiore o minore distanza dal suono fondamentale nella quale consi­ste­reb­be, secondo questo primo abbozzo teorico, il grado di maggiore o minore consonan­ za, non può che essere rimandata ad un ordine fisico oggettivo, ed in ultima analisi alla formula mate­ma­tica elementare che stabilisce questo ordine. Né l'orecchio con le sue relatività soggettive, né la struttura fenomenologica dello spazio sonoro possono avere in proposito qualcosa da dire o da ridire. Va da sé che la nozione di Suono fondamentale che in prece­ denza valeva anzitutto come pura corda di riferimento per l'i­ stituzione dei rapporti, sembra solo ora poter sostenere tutte le valenze di significato che si tendeva in ogni caso ad attribuire ad essa. Queste valenze, che noi abbiamo visto agire già nella esposizione del Traité, sembrano ora inerire a quella nozione ob­ biettivamente, ed in modo del tutto indipendente dal discutibile principio enunciato da Cartesio secondo cui "Il suono sta al suo­ no come la corda sta alla corda". Questa stessa espressione di suono fondamentale ha biso­gno di essere precisata: in rapporto ad un brano musicale, suo­no fonda­ mentale è anzitutto la note tonique, ovvero, come si esprime spesso Rameau, le Son principal du mode, o semplicemente Son principal, la finalis, secondo la vecchia terminologia modale [68]. Ma entram­ bi i termini di Son fondamental e di Note Tonique debbono poter essere impiegati anche per indicare il suono come generatore dei propri ar­monici e quindi dell'accordo corrispondente [69] . Tra queste due possibilità di impiego vi è in realtà una signi­ficativa diffe­renza. La tonica come Son principal du mode si costituisce mu- 76 sicalmente nel decorso del brano musicale - e questa costituzione è strettamente subordinata alle relazioni tra i suoni di cui esso è composto - mentre la tonica nel senso di suono fondamen­ tale dei suoi armonici è una nozione che appartiene anzitutto ad un terreno extramusicale, al terreno fisico-acustico. Essa c'è non appena c'è un suono, essendo questo inteso, non tanto in relazione ad altri suoni, quanto alle parti armoniche di cui esso è costituito. Si potrebbe arrivare a dire che questa nozione di tonica prescinde dalla sintassi del linguaggio tonale, se non fosse - e qui è tutta la complicazione del problema - che questa costruzione teorica è, a sua volta, una proiezione di quella sintassi ed un tenta­ tivo di render conto di essa "a livello profondo". 2. - Dall'idea del "suono generatore" si può passare age­ volmente al grande tema di un'esposizione della teoria musicale fondata su un unico principio che da un lato ha di mira la tema­ tica della scientificità della teoria e dall'altro una semplificazio­ ne che riguarda piuttosto la pratica musicale. Talora, di fronte all'accentuazione degli aspetti filosofico - speculativi della posi­ zione di Rameau, si è fatto notare quanto egli fosse interessato ad aspetti tendenti a facilitare l'esercizio della pratica del basso continuo, contrapponendo il "filosofo" al "mae­stro di scuola" [70]. In realtà si tratta di aspetti che possono benissimo coesi­ stere come aspetti complementari [71]. Si cerca di pervenire alla massima comprensibilità nella teoria, alla sua massima concen­ trazione, alla sua riduzione a pochi principi, anzi ad uno solo, sapendo che in questo modo si farà ordine e chiarezza anche sul terreno delle pratiche com­positive. In ogni caso sarebbe un erro­ re spingere questa con­trap­­posizione sino al punto di suggerire la tesi che l'intera complessa costruzione teorica ramista non sareb­ be altro che una facciata esteriore per una sostanza di pura pratica musicale. La componente razionalista, in particolare, è essenziale non solo per intendere Rameau, ma anche aspetti rilevanti della teoria del linguaggio tonale che si ripresenteranno di continuo, con diverse inclinazioni, anche nel futuro. 77 Parlando di unicità del principio è il quadro della filo­sofia cartesiana che viene in questione. Agli inizi della Démon­stration du principe de l'harmonie (1750), il cui titolo peraltro prosegue ram­ mentando che tale principio deve servire di base all'arte musicale teorica e pratica, non solo il Discorso carte­siano sul metodo viene esplicitamente citato, ma la narrazione introduttiva rammenta da vicino il suo anda­mento. L'autore parla, come Cartesio, in prima persona e, come Cartesio, manifesta la propria insoddisfazione rispetto all'edu­cazione musicale del proprio tempo, alla disper­ sione delle conoscenze ed alle difficoltà da superare nella com­ posizione e nella pratica musicale. Di qui il desiderio di ottenere un chiarimento, una certezza anzitutto in rapporto ai principi, gui­ dato dalla convin­zione che "i progressi nella scienza dei suoni sa­ rebbero certa­mente meno lenti se i suoi principi fossero più certi" [72]. Cartesio insegnava: ritorna in te stesso, mettendo da parte ogni sapere acquisito nelle scuole, e in te stesso troverai la fonte della certezza. Questo è l'insegnamento che Rameau si propone inizialmente di seguire. Ma che cosa potrebbe signi­ficare per un musicista ritornare in se stessi? Forse, posto di fronte a questa do­ manda, potrei intonare un canto, più sempli­ce­­mente ancora, po­ trei intonare una nota tentando poi, mettendo da parte ogni dottrina, di accertare che cosa mi si impone, nella massima spontaneità, come passo successivo. Il dubbio cartesiano si ripresenta come tabula rasa della musica, come un tentare di rompere con il passa­ to ed anzi con il linguaggio musicale tout court: il musicista adulto si mette nei panni di un bambino che tenta di intonare il suo primo canto: "J'essayai des chants, à peu près comme un enfant qui s'exercerait à chanter". Ma è questo realmente possibile? - si chiede Rameau. Da un lato, esaminando ciò che avviene dentro di me mentre tento di fare questo mi rendo conto di non essere in possesso di ragioni per far succedere, di fronte alla moltitudine dei suoni, uno di essi piuttosto che qualunque altro; dall'altro av­ verto nello stesso tempo che sia la voce sia l'orecchio hanno delle predilezioni per compiere un certo passo, piuttosto che un altro. 78 Avverto così una predilezione verso un passaggio alla quinta o alla terza, piuttosto che ad altri intervalli. E tuttavia come posso esse­ re certo che questa predilezione "non sia una pura faccenda di abitudini" (une pure affaire d'habitude)? "Immaginavo dunque che in un altro sistema musicale diver­so dal nostro, con una diversa abitudine di canto, la predile­zione dell'organo e del senso avreb­ be potuto essere ri­volta ad un altro suono; concludendo che non trovando in me stesso alcuna buona ragione per giustificare questa pre­dilezione e per poterla considerare come naturale, non avrei dovuto né prenderla come principio delle mie ricerche, e neppure supporla in altri uomini che fossero privi dell'abitu­dine di cantare o di udire canti". Il mettersi nello stato di chi non ha mai cantato e neppure ha esperienza del canto è dunque importante; come è impor­tante ri­ correre ad "esperienze estranee" (expériences étran­gères), per evitare di essere vittime delle proprie abitudini. Ma ecco la grande novità rispetto a Cartesio: nel tentare di realizzare l'e­sigenza che egli stesso pone, non dovremo in ogni caso seguire il filosofo cer­ cando il "principio" in se stessi, ovvero nel­l'esperienza soggetti­ va della nostra stessa voce e delle sue inclinazioni, ma dovremo piuttosto volgere la nostra attenzione verso l'esterno, autour de moi, verso il mondo naturale che ci circonda. Occorrerà dunque anzitutto volgersi all'ascolto del suono così come accade naturalmente. "La mia ricerca non fu affatto lunga. Il primo suono che colpì il mio orecchio fu un lampo di luce (un trait de lumière)". Il "lampo di luce" è naturalmente rappresentato dalla scoperta, nel suono singolo, dei suoni "molto acuti e fuggitivi" (très aigus et très fugitifs) - e dunque l'idea di suono fondamentale "come principio unico, generatore e ordinatore di tutta la musica" che propone senz'altro, nella sua "risonanza" (résonance), la dodicesima e di­ ciassettesima [73] : 79 L'idea della prossimità dell'ottava all'unisono, di cui abbiamo già discusso in precedenza, diventa opportuna anche nella conside­ra­ zione degli armonici, perché la "riduzione al grado mi­ni­mo" con­ sente di tagliare le ottave contenute negli armonici e di considerare la quinta e la terza come gradi direttamente imma­nenti nel suono fondamentale. A partire di qui potranno essere giustificate le inclinazioni che avvertiamo nell'esperienza soggettiva del canto: la sensazione di una propensione a realizzare, a partire da un suono, un certo 80 intervallo, ed anzi: proprio anzitutto l'intervallo di quinta [74] - sen­ za alcun presentimento della musica, senza pensarci (sans aucun pressentiment de Musique, sans y penser) - è soltanto il lato psicologico del problema, mentre la circostanza oggettiva è che il nostro stes­ so corpo è un corpo sonoro, cosicché nel canto, fin dai tempi di Adamo, si è guidati dall'ar­monia del generatore [75]. L'esistenza di questo fenomeno naturale ci libera dal sospetto che quelle incli­ nazioni siano indotte dalla cultura. Se ci deve essere fondazione, questa non può essere cercata all'interno del linguaggio, ma al di fuori di esso, nella natura. L'extramusicalità della fondazione deve essere rivendi­cata come un requisito essenziale del suo metodo. Al rafforzamento del momento naturalistico è stretta­mente connessa l'idea di una razionalità che trae la sua forza dall'esi­ stenza di un unico principio, a partire dal quale si possano ef­ fettuare dimostrazioni e deduzioni: nello spirito di questa impo­ stazione, tutta la teoria musicale deve poter essere esplicitata a partire da esso. In rapporto a questa razionalità ne va dell'idea stessa della scienza. Questa non può nascere se ci si limita a "compilare fatti" o a "moltiplicare i segni" [76] . Dob­biamo in­ vece poter contare su un principio ordinatore che è anche nello stesso tempo il principio da cui ogni regola deve poter trovare giustificazione. Il parlare del suono fonda­mentale come "gene­ rateur" non riguarda solo l'immagine di una filiazione, contiene anche l'idea dell'esistenza di nessi necessari che debbono rendere conto di ogni passo del percorso musicale. È in questa idea filosofica che si radica l'atteggiamento alla giustificazione di ogni minimo dettaglio che è così caratteristi­ camente inerente a questo linguaggio. Nulla, proprio nulla, può essere lasciato al caso. E come potrebbe? La teoria della tonalità nasce sotto il segno del cogito cartesiano: la note tonique è un "ergo sum" musicalizzato. 3. - La presenza di una forte componente razionalistica non impedisce peraltro che l'accento cada anche sull'elemen­ to empirico-osservativo - questo è il terzo punto che merita di 81 essere messso in rilievo. Di esperienze che rendono conto di questi sviluppi teorici, parla spesso Rameau. In particolare nel­la Génération egli prende le mosse dalla discussione di sette espe­rien­ze che vengono poste alla radice di ogni ogni considerazione teori­ ca successiva[77]. Nell'im­portante ripresa della tematica ramista da parte di d'Alembert, le esperienze fondamentali diventano tre. La prima riguarda naturalmente la possibilità di "udire" in un suono la sua dodicesima e la sua diciassettesima. La questio­ ne del "suono fondamentale" e dei suoi armonici viene dunque proposto nettamente come un fatto di osservazione. La terza espe­ rienza riprende letteralmen­te l'idea ramista dell'ottava come qua­ si-unisono ed ha essen­zialmente lo stesso scopo di operare una riduzione degli intervalli al loro grado minimo [78] . La seconda esperienza ci consente invece di aprire un nuovo sviluppo della teoria e nello stesso tempo di cominciare a mettere in luce alcuni dei suoi problemi cruciali. Essa si serve ancora di un monocordo, ma ciò a cui si presta ora attenzione sono i fenomeni di risonanza. Si consi­derino dun­ que tre corde, una delle quali, sia AB, fornirà la "fondamentale" di riferimento, e si accordino le altre due ad una dodicesima ed a una diciassettesima sopra la fondamentale. Facendo risuonare quest'ultima, le altre due "fremeranno e risuoneranno insieme ad essa". Fin qui nulla di nuovo. La novità sta nel passo successi­ vo: si prendano altre due corde e le si accordino una dodicesima ed una diciassettesima al di sotto della corda assunta come fon­ damentale, sia essa do. Queste corde saranno accordate rispetti­ vamente sul fa della seconda ottava inferiore e su la ¥ della terza ottava inferiore. Ora facendo risuonare la corda fondamentale, entrambe queste corde accordate al di sotto della fondamentale fremono senza risuonare - questo è quanto osserva d'Alembert - cosicché la distinzione precedente tra frémir e resonner avanza la pretesa di diventare assai significativa. Si noti inoltre come in questo punto viene fatta valere la testimonianza della vista e del tatto, che sono in grado di accertare il frémir, in assenza di una 82 testimonianza dell'udito [79]. A partire di qui si ritiene di poter argomentare che se queste corde fremono, si comport­ano in parte come le corde accordate superiormente; e dunque le note a cui sono accordate manifestano in questo modo un'"affi­nità" con il suono fondamentale. Ma poiché le corde non risuonano, e quin­ di poiché il fenomeno della risonanza per simpatia non avviene completamente, questa affinità sarà in qualche modo più debole rispetto alle note emesse dalle corde accordate superiormente. D'Alembert ipotizza poi che il "fremito" delle corde sia rap­ presentabile secondo una suddivi­sione rispettivamente in tre e cinque vibrazioni secondo lo schema seguente: Egli può così asserire che, sia nel caso della corda CF che in quello della corda LM, poiché vibrano rispettivamente 1/3 e 1/5 della corda, se esse oltre a "fremere" anche "risuonasse­ ro", la nota che esse emetterebbero sarebbe in entrambi i casi la nota fondamentale. Ciò è in realtà una pura conseguenza di quelle premesse. Questa circostanza sembra a d'Alembert rap­pre­­­sen­tare un ulteriore argomento per confermare l'"affinità" con la fonda­ mentale della quinta e della terza nella direzione discendente, essendo applicabile anche in questo caso la ridu­zio­ne dell'intervallo al suo grado minimo. Nella direzione a­scen­­dente si ottiene natural­ mente la triade minore fa la ¥ do. Al di là di una discussione sul fondamento di queste osser­ vazioni e delle argomentazioni che vi sono connesse, è impor­ 83 tante rendersi conto di ciò che qui propriamente si persegue, e quale importanza possa avere per la teoria della tonalità e per la sua giustificazione fisicalistica. Appare intanto chiaro che si cer­ ca anzitutto di estendere la tematica della "riso­nan­za", e dunque degli armonici che si trovano al di sopra della fondamentale, an­ che al di sotto di essa, come in una sorta di inversione speculare. Da un lato questa estensione, e in particolare proprio questa secon­ da esperienza che d'Alembert riprende da Rameau [80], rappre­ senta una tra le varie soluzioni proposte per rispondere ad una delle difficoltà che si profilano fin dall'inizio e della quale fino ad ora non ab­biamo fatto cenno per evitare di intrecciare da subito l'in­tera problematica con le difficoltà nelle quali essa sin dall'ini­ zio si imbatte. Si tratta della giustificazione della terza minore, e dunque del modo minore in genere. Come abbiamo già fatto notare, la teoria della tonalità ope­ ra una vera e propria rottura con la tradizione storica: non in questa e nei momenti evolutivi del linguaggio musicale debbono essere cercate le sue ragioni. Balzando al di fuori della tradizio­ ne storica, nel suono considerato nella sua strut­tura fisica, essa trova anzitutto, con il suono fondamentale e i suoi armonici, anche il modo maggiore. Ciò mostra quanto l'angolatura teorica si sia spostata rispetto ad una concezione del modo come articola­ zione possibile dello spazio sonoro - per di più melodicamente orientata e in via di principio affidata alla libertà dell'invenzione musicale. In effetti ora potremmo dire che il modo viene dedotto dal tono, una formu­lazione che potrà forse sembrare singolare ma che è tuttavia del tutto pertinente se si tiene conto naturalmente del muta­men­to di senso dei termini. Ora il tono ha il senso di suono fondamentale nell'accezione fisico-acustica che abbia­mo illustrato. Ma non appena questo processo di fisicaliz­zazione è stato avviato, la musica comincia ad avanzare le proprie istan­ze. Il modo minore assolve nel linguaggio tonale un ruolo espressi­ vo essenziale. Ed allora una simile deduzione deve potersi esten­ dere anche ad esso. 84 A dire il vero, nel Traité, questo problema non viene av­ vertito come cruciale - ed anche in seguito si avverte in Rame­ au l'oscillazione tra il ritenere soddisfacente e conclusivo il dato musicale-uditivo e la ricerca di una giustificazione ex principiis. In fin dei conti la quinta è formata da una terza maggiore e da una terza minore, e l'accordo minore differisce da quello maggiore solo per l'ordine in cui si presentano le terze. "Poiché la quinta è la più perfetta di tutte le consonanze (a parte l'ottava) e poiché essa può essere composta dalla terza maggiore e dalla terza mi­ nore, l'ordine di queste terze deve essere indifferente: o almeno è così che l'orecchio decide, e non vi è bisogno di apportare altre prove" [81] . "Il fondo dell'armo­nia non ne soffre affatto, ed anzi tutta la sua bellezza dipende di qui, la terza maggiore e la terza minore essendo entrambe altrettanto gradevoli"[82] . In fin dei conti qui ci richiama come ultima spiegazione al fat­ to stesso che le due terze, nel contesto dell'intervallo di quinta, sono entrambe buone con­so­nanze. Ma si tratta manifestamente di un'osservazione troppo debole, ed in ogni caso appartenente ad un diverso ordine di considerazioni, rispetto all'assunto forte da cui tutta la teoria prende l'avvio: questo assunto chiede che vi sia una vera e propria generazione dal suono fondamentale della tria­ de mi­no­re, in stretta analogia con quella della triade maggiore, e questo assunto non può essere certo soddisfatto dal richiamo alla presenza di una terza minore nella composizione della quin­ ta, e in generale nei rapporti degli armonici tra loro. Il tentativo effettuato è quello di trovare la triade minore nel­l'im­­ma­­gine spe­ culare della triade maggiore assumendo come asse di simmetria il suono fondamentale. È appena il caso di dire che si tratta di una soluzione tirata per i capelli, sulla cui bontà del resto dubitano i loro stessi autori: in particolare, si è qui lontani dalla pratica musicale che in connessio­ ne con do maggiore propone la minore, e non certo fa minore. Que­ sto motivo musicale è all'origine di un'ulteriore spiegazione che cerca di sistemare alla meglio il problema. Questa via, proposta da 85 Rameau nella Démonstration, consiste essenzialmente nel tentati­ vo di rendere significa­tivo il fatto che il suono fondamentale (do) diventi terza minore di un suono che viene posto come nuovo suono fondamentale, prestando la sua terza maggiore come quin­ ta di esso - quasi che tutto ciò fosse qualcosa di simile ad una generosa concessione del do, che rimarrebbe "prin­cipio" di tutta l'o­pera­zione "cosicché questo nuovo suono fondamentale (la), che si può considerare conseguentemente come generatore del suo modo, lo è soltanto per subordinazione, ed è forzato a segui­ re, in tutto e per tutto, la legge del primo generatore, che gli cede soltanto il proprio posto in questa seconda creazione, per occu­ pare quella che è la più importante". Qui ci si arrampica sempli­ cemente sui vetri, abbandonandosi alla cieca alle metafore. Riprendendo questa pretesa spiegazione d'Alembert si rende perfettamente conto del problema rappresentato dal fatto di aver tentato una giustificazione naturalistica del modo minore e di non tenerla ora in nessun conto. "Noi abbiamo osservato che do mi sol propone il modo maggiore, fa la ¥ do il modo mino­ re; e ciononostante il modo minore fa la ¥ do non è affatto affine (analogue) al modo maggiore di do; d'al­tron­de sembrerebbe che noi abbandoniamo questo modo fa la ¥ do per sostituire ad esso quello di la, la do mi, che la natura non propone (que la nature ne donne pas)"[83]. In risposta a queste rilevanti obiezioni, d'A­ lembert gioca anzitutto la carta dei riferimenti musicali diretti in rapporto alla prima di esse: "Il modo minore di fa non è così estraneo quanto sem­brerebbe al modo maggiore di do. È del tutto possibile fare seguire imme­diatamente, e gradevolmente per l'oreccho, due arie di cui l'una appartenga al modo maggiore di do, l'altra al modo mi­nore di fa. Rameau ha fatto ciò nella bel­ la Sarabanda del Pigmalion, e nel Rigaudon precedente"; mentre per la seconda obiezione cerca di collegare in qualche modo la prima spiegazione con la seconda: "La natura non fa altro che indicare il modo minore attraverso il fremito delle corde fa e la ¥, o meglio delle loro ottave: ma per il modo in cui queste corde 86 fremono, essa ci riporta, nella misura del possibile, al suono do, come abbiamo già osservato; cosicché essa ci forza per così dire, a dare a do nel nuovo modo la posizione di terza minore che è la principale di tutte quelle che potrebbe occupare" [84] . Queste spiegazioni così forzate sono significative sia del fatto che il dato musicale finisce con l'imporsi, sia del fatto che si tenta comunque di sostituire anche semplici nessi riscontra­ bili non solo nella pienezza dell'elaborazione musica­le, ma anche sul terreno fenomenologico con spiegazioni mani­festa­mente ar­ tificiose pur di mantenere un qualche legame con la fondazione naturalistica. Così l'affinità tra do maggiore e la mi­no­re è leggibile nel semplice dato di fatto fenomenologico della condivisione nell'accordo sul suono fondamentale di due suoni su tre, come del resto mette in rilievo lo stesso d'Alem­bert. Una nozione di affinità istituita su questa base, e quindi facendo sulle intersezioni possibili tra spazi tonali, è imme­dia­tamente comprensibile e per­ cepibile. Eppure anch'es­sa vie­ne in ogni caso connessa alla miste­ riosa chiamata del do che sarebbe implicita nelle corde frementi e non risuonanti, stando alle spie­ga­zioni della seconda esperienza. Quanto poi al fatto che la natura qui non sia troppo espli­ cita e ci consegni un messaggio che va opportunamente decifra­ to, questa stessa circostanza diventa a sua volta un argomento per giustificare la posizione subordinata del modo minore nella pratica musicale: così il risuonare concreto delle note costitutive della triade maggiore mostrerebbe la sua maggiore perfezione in quanto "opera della natura", mentre il fatto che le corde, nel secondo caso, si limitino a fremere senza risuonare sarebbe se­ gno del fatto che "il modo o genere minore è dato dalla natura meno immediatamente e meno direttamente che il modo mag­ giore" [85] . Di tanto in tanto, riemerge anche l'idea che in fin dei conti, la natura non deve fare proprio tutto [86], e che l'impiego del modo minore potrebbe ben essere un prodotto dell'arte - una scappatoia a cui, in un simile quadro problematico, è sempre possibile ricor­rere in caso di difficoltà. 87 Nel contesto di questa discussione è in ogni caso stata solle­ vata la questione di un contraltare verso il grave di ciò che accade verso l'acuto nel campo degli armonici, ed essa non è affatto esclu­ sivamente legata al problema del modo mi­nore, ma ha un raggio di azione assai più ampio che coinvolge i punti nodali della teoria della tonalità alle sue origini, ed in primo luogo proprio la teoria del basso fonda­mentale a cui ora dobbiamo dedicare qualche cenno. Jean D'alembert 88 89 7. La teoria del basso fondamentale e la deduzione della scala diatonica Nella sua simulazione narrativa della scoperta del suono fonda­ mentale e dei suoi armonici Rameau accenna ad una sorta di messa in parentesi dell'intera conoscenza musicale, dopo la quale ci si dispone all'ascolto del suono che rivela la sua strut­tura composita. Conviene ora prendere assai alla lettera questa sorta di condizione "primitiva" dell'ascolto riprendendo nello stesso tempo lo spun­ to che in quella simulazione era presente: a quel primo suono ne dovrà seguire certamente un altro affinché cominci a profilarsi il cammino di un brano musicale; a quell'inizio dovrà seguire un primo passo, e questo dovrà essere suggerito, se non imposto dalla natura stessa. Accade come se noi lasciassimo libera una palli­ na su un piano inclinato. Essa non si muoverà in una direzione qualunque. Anche nel campo dei suoni vi sarebbe qualcosa di simile ad una forza di gravità. Cosicché siamo in grado di pre­ vedere quale passo compirà un suono, una volta che lo lasciamo libero di muoversi, ovvero una volta che ci affidiamo alla natura stessa come regola del suo movimento. Si tratterà anzitutto natu­ ralmente dell'in­ter­vallo di quinta, a cui la composizione armonica del suono assegna un privilegio fondamentale. E secondariamente del­l'in­tervallo di terza, che partecipa all'ordine degli armonici, ma a maggiore distanza dal suono fondamentale [87] . Ad un determinato suono non può seguire un suono qua­ lunque. "È solo l'impressione ricevuta dall'armonia di un certo suono che può nascere in noi il sentimento del nuovo suono che può succedergli" [88] . Si noti come qui armonia assume un nuovo senso in quanto questa parola è ormai strettamente con­ nessa con gli armonici. Perciò si può parlare, come si fa qui, di "armonia di un suono". Ed il principio or ora enunciato assume particolare chiarezza ed evidenza "se noi dimentichiamo per un momento tutto ciò che l'esperienza può suggerire in musica". Al­ lora ipotizzare che ad un do segua un re o un'altra nota qualsiasi 90 presa a piacere sarebbe sarebbe ammet­tere un'arbitrarietà che è del tutto estranea ad una simile impo­stazione teorica. Va da sé che, al di là della problematica del "primo inizio", si potrà poi tro­ vare una giustificazione per un progresso su qualsiasi grado. Ma ora è evidentemente impor­tante attenersi alla logica che la teoria esige. Questa stessa logica richiede che l'idea del Basso fon­damentale venga introdotta subito a ridosso delle considera­zioni di principio, come "primo percorso" che la natura impone. Questa introdu­ zione avviene attirando l'atten­zione sul fatto che se il primo passo è determinato dall'armonico più vicino, questo non interviene a titolo di armonico, ma a sua volta a titolo di suono fondamen­ tale. Se intervenisse armonico, argomenta Ra­­meau, allora non vi sarebbe nessun autentico passo successivo perché esso esige­ rebbe come fondamentale lo stesso suono precedente. Ciò che rende un poco aggrovigliate formulazioni come queste è la ne­ cessità contradditoria di far valere l'armonico come suono pieno e completo - per usare la nostra terminologia precedente - e nello stesso tempo di man­tenere invece la differenza. Il sol è un armo­ nico di do? Lo è, e ciò giustifica il passo di quinta; ma non deve esserlo quando questo passo viene effettuato, altrimenti non sa­ rebbe un passo affatto. Ancora nella Génération: "Ma quale sarà dunque la qualità del suono che succederà al fondamentale? Sarà fon­damentale o armonico? Qui è ancora il grande nodo; se esso fosse armonico, non vi sarebbe successione, esso dipenderà sem­ pre dallo stesso fondamentale, senza il quale non possono esservi suoni armonici; dunque deve essere fondamentale" [89]. A parte il groviglio, il senso di tutta la questione sta nel suo punto di arrivo: in esso si sancisce che il percorso che si sta avviando è un percorso di fondamentali. Si tratta appunto del­l'idea del Basso fondamentale. E poiché questa idea viene introdotta come percorso di quinte si comprende che si possa affermare che esso rappresenta anche un percorso di armonie differenti: "Ciascuno dei suoni è portato­ re della sua particolare armonia", "tanti nuovi suoni fondamentali, 91 altrettante nuove armonie" [90] . Il passo di quinta è dunque il primo passo. E dovremo ammettere - altrimenti non andremmo da nessuna parte - che la possibilità del passo di quinta non riguardi solo la direzione ascendente, che ha una giustificazione immediata nel­la posizio­ ne dell'armonico corrispondente, ma anche la direzione discen­ dente, che non ha alcuna giustificazione in termini di armonici, essendo questi tutti al di sopra dei suoni fondamentali. Si affaccia nuovamente, e in modo partico­lar­men­te cruciale, l'esigenza già in­ contrata in precedenza in rapporto al problema del modo minore, di poter disporre di "armonici inferiori" specularmente disposti rispetto agli armo­nici superiori. Solo in questo caso vi potrebbe es­ sere una giu­stificazione forte del passaggio di quinta discendente, giusti­ficazione che ora non riguarda l'esistenza del modo minore, ma l'impianto stesso della teoria della tonalità. Quando Rameau propone lo schema seguente [91] : sa benissimo che il generatore dovrebbe generare sia la quinta al di sopra che quella di sotto. Naturalmente anche in questo caso ci si può aggrappare, come fa lui stesso seguito da d'Alembert, ancora a quel "frémir sans resonner" - il do fa risuonare il sol e fa fremere il fa inferiore - che ci aveva già reso utili servigi per le pseudo­ spiegazioni sul modo minore e che viene inter­pre­ta­to come una sorta di segnale dell'esistenza di una situa­zione analoga, dal pun­ to di vista fisico-acustico, a quella degli armonici superiori. In un modo o nell'altro si arriva alla conclu­sione che una volta posto il do, "si può procedere indif­feren­temente al suono sol o al suono 92 fa" [92] . Rameau riesce tuttavia ad escogitare anche una via di mezzo tra una giustificazione fisicalistica ed una giustificazione musica­ le. Da un lato egli non può non riconoscere che "il più perfetto progresso del suono fondamentale consiste nel passaggio alla sua quinta di sopra" [93] e tuttavia egli considera que­sto pro­blema non astrattamente, ma in un concreto sviluppo musicale: la nota in­ ziale, "en debutant", ovvero quando il brano comincia il proprio cammino, proprio in quanto occupa la posizione dell'inizio, avrà da subito carattere di tonica, cosicché procederà verso la quinta su­ periore; ma "en finissant", ovvero in chiusura del brano, quando quella stessa nota dovrà essere confermata come tonica, il passag­ gio conseguente sarà proprio un passaggio di quinta discendente, dalla quinta sopra la tonica, che potrà essere interpretato come un ritorno dell'armonico alla fondamentale da cui esso è stato gene­ rato, in modo da ritrovare anche per questo passaggio un qualche fondamento di ordine fisicalistico [94] . La distinzione tra il debutto del cammino e la sua conclu­sio­ne nel mantenimento dell' "armonia" iniziale consente una spiega­ zione che riesce a mettere un qualche accordo tra le esigenze mu­ sicali e quelle della spiegazione teorica. Ma oltre que­sta struttura fondamentale che procede da tonica a tonica, e che apre e chiude il discorso musicale sulla stessa tonalità, a cui noi abbiamo fatto ri­ ferimento parlando di aspetto statico-archi­tettonico, fa parte della teoria sin da questi suoi primi inizi il porre la tonica nella dia­ lettica tra la sua dominante di sopra e la sua dominante di sotto ovvero, secondo la nostra termino­logia, l'aspetto dinamico-pro­ cessuale. Nella nostre considerazioni fenomenologiche introdut­tive [95] avevamo già richiamato l'atten­zione sull'interesse che rive­ ste il fatto che sia in Rameau che in d'Alembert la struttura fa ← do →sol 93 viene proposta come in grado di caratterizzare interamente il modo di do, dove la parola "modo" può certamente essere sostituita con quella di "tonalità". Osserva d'Alembert: come "la progres­ sione o basso fondamentale fa, do, sol , in cui do tiene il mezzo, può essere considerata come rappresentativa del modo di do", così "la progressione o basso fondamentale do, sol, re può essere considerata come rappresentativa del modo di sol; e sib, fa, do del modo di fa" [96]. In questo stesso senso va intesa anche la definizione più astratta pro­posta da Rameau di Son principal o Note tonique come un suo­no che è sempre "ter­mine medio di una proporzione tripla" [97] . Come abbiamo già notato in precedenza non possiamo che trovare una simile affermazione assai ricca di senso, indipenden­ temente dai problemi generati dai tentativi di giustificazione fisi­ calistica. In luogo di "chiudere" la tonalità sulla triade di tonica, e quindi nell'ambito dell'ottava da essa determinata, un brano musicale viene considerato piuttosto come un processo tonal­ mente "aperto" lungo la catena delle dominanti, e va da sé che le più diverse armonie possono su­ben­trare a quella del suono principale, che potrà mantenere il proprio privilegio solo attra­ verso processi di riconferma. Già agli inizi della teoria, la possibilità della modulazione è dunque proposta come inerente al concetto stesso di tonalità. Per rafforzare la caratterizzazione della tonalità unicamen­ te attraverso la tonica e le sue dominanti di sotto e di sopra, d'Alembert aggiunge anche la considerazione secondo cui "i tre suoni fa, do, sol e gli armonici di ciascuno di questi tre suoni, cioè le loro terze maggiori e le loro quinte, compon­gono l'intero modo maggiore di do" [98]. Ciò è letteralmente vero dal momen­ to che considerando la triade sul fa, troviamo il la, e sul sol il si e il re, cosicché riordinando scalarmente le note si ottengono le sette note della scala di do maggiore. Ma occorre guardarsi dal considerare questo rafforzamento argo­men­tativo, come se esso rappresentasse una vera e propria "dedu­zio­ne" della scala diato­ 94 nica. In realtà si tratta di un'af­fermazione ricorrente [99], di fronte alla quale occorre far notare che se il "suono fondamentale" deve valere come principio da cui tutto proviene, non solo la scala diato­ nica non può essere assunta come un dato, ma deve essere estratta dallo stesso suono fondamentale. Volendo difendere quella dedu­ zione, con l'ar­gomento che la quinta inferiore e la quinta superiore sono generati dal suono fondamentale, ci si imbatterebbe in una duplice difficoltà: in primo luogo la quinta inferiore non ap­par­­ tiene agli armonici del suono fondamentale; in secondo luogo, anche tacendo di questa prima difficoltà, si dovrebbe effettuare la falsa assunzione dell'esistenza armonici di secon­do livello. Più coerente sarebbe il tentativo di operare un'e­strazione diretta del­ la scala dagli armonici del suono fonda­men­tale, come si cercherà del resto di fare in seguito [100] , ma questa via non può ora essere proposta per il semplice fatto che in Rameau ci si rifiuta di oltrepassare i primi sei armo­nici: quindi tutto ciò che si può trarre dagli armonici è proprio soltanto la triade maggiore. Resta un'altra via, che è meno diretta, ma che mantiene uno stretto legame concettuale con la tematica del suono fon­damentale e dei suoi armonici e che è molto significativa in rap­porto all'o­ rizzonte di idee in cui ci si muove. Si tratta di una "deduzione" singolare ed ingegnosa, che si avvale proprio del­l'idea del Basso fondamentale. Come abbiamo visto or ora con Basso fondamentale si deve intendere anzitutto un percorso di "toniche" per inter­val­li di quinta, e secondariamente di terze, intendendo qui con tonica non tanto il "suono principale di un modo" ma il suono fonda­ mentale di un accordo costituito dai suoi armo­nici (o meglio, costituito da note corrispondenti ai suoi armonici [101]. Ora, una scala in quanto successione di suoni può essere considerata come un percorso melodico, e potrem­mo forse dire che essa ha un fondamento naturale se riuscis­simo a costruirla di passo in passo attraverso gli armonici proposti da un percorso di Basso fondamentale. Detto in breve: dato un suono fondamentale, al 95 di sopra di esso saremo legittimati a proporre la sua terza mag­ giore, la sua quinta o la sua ottava, ovviamente il suono fonda­ mentale stesso - e niente altro. Il percorso melodico che può esse­ re così delineato al di sopra di esso è rigorosamente governato da una simile regola e quindi vincolato nel modo più stretto al Basso fondamentale. Il "deduzionismo" continua dunque implacabilmente a farsi valere. E così l'idea della necessità di ogni momento dello sviluppo: esso deve essere giustificato secondo regole che ri­con­ ducano al principio dei principi. Potremmo affermare che i primi passi della musica, quando in essa la natura prevale ancora sull'ar­ tificio, debbono muoversi nei modi che la natura impone, e dun­ que, nel basso, il cammino deve essere per quin­te ascendenti o discendenti, nell'acuto entro le alternative della terza, quinta ed ottava rispetto alle note che stanno al basso. Inutile dire quanto poi questo discorso si incontri a meraviglia con la priorità dell'e­ lemento armonico su quello melodico. È importante notare che, nello spirito di questa costruzione, vi è l'idea che qualora una simile scala risuonasse con­cretamente senza il sostegno del basso fondamentale, essa venga sentita come giusta ed adeguata proprio in forza di un richiamo tacito al percorso per quinte dei suoni fon­ damentali corrispondenti da cui si può supporre essa debba la sua origine e che in essa debbono essere considerati in qualche modo sottintesi. È opportuno a questo proposito indugiare sugli esempi proposti nell'esposizione particolarmente chiara di d'Alem­bert, che riprende in ogni caso le indicazioni di Rameau della Démonstration [102]. Anzitutto si cerca di rendere conto di quella che qui viene chiamata "scala diatonica dei greci" [103]. Non è il caso qui di sottilizzare su questa denominazione - di greco vi è qui ben poco: ma ciò non toglie la capacità illustrativa del­l'esempio. Ciò che viene chiamata così è la successione sca­la­re seguente: si do re mi fa sol la 96 Si tratterà allora di proporre un percorso di "fondamentali" al basso che sia tale da poter assegnare a ciascuna fondamentale ognuna di queste note, considerate nel loro ordine, come sua terza, quinta o ottava. Naturalmente considerando queste no­te strettamente come armonici, si dovrebbe tener conto del­l'ot­tava in cui essi vengono a cadere, ma è possibile prescin­dere da ciò sempre in forza della "riducibilità" dell'ot­tava, così da ottenere un corretto andamento scalare. Tale percorso potrebbe essere la seguente: sol do sol do fa do fa Va da sé che il fatto che debba trattarsi un percorso di quinte, stabilisce se l'intervallo in questione debba essere inteso come ascendente o discendente. ovvero: Osserva d'Alembert che comunque i greci siano pervenuti ad una simile forma scalare, il basso fondamentale su cui è costruita 97 questa scala è "il vero canto primitivo, quello che guida l'orec­ chio e che esso sottintende nel canto diatonico si, do, re, mi, fa, sol, la" [104] . Poiché il basso fondamentale di questa scala è formato sol­ tanto dalle note fa do sol, il "modo" (tonalità) su cui si basa è quello di do [105] - affermazione coerente con l'idea che la note fa, do, sol sono tali da individuare la tonalità di do, ma non troppo facile da capire dal punto di vista musicale. Tuttavia la difficoltà vera che si propone già in questo primo esempio sta altrove. Ap­ pare subito chiaro che qualsiasi tentativo di chiudere l'ottava con il si è destinato a fallire. Infatti al fa grave può seguire soltanto la sua quinta superiore do o la sua quinta inferiore si ¥ - ed il si non è contenuto nella triade costruibile su queste note. D'Alem­ bert se la cava alla bell'e meglio facendo notare che per questo motivo i greci anteponevano una nota alla scala, cosicché essa aveva inizio con la, ed in questo modo essa veniva chiusa con un richiamo di ottava. In realtà la questione è un po' più complicata a cominciare dal fatto la scala greca era anzitutto intesa come discendente; inoltre l'unità fondamentale era il tetracordo e nel caso che i tetracordi fossero "congiunti", si otteneva un epta­cordo, cosicché l'ottava rispetto alla nota iniziale poteva essere acquisita solo tramite una nota aggiunta (pros­lamba/menoj) al termine del doppio tetracordo, e dunque al grave. La stesso problema si ri­ presenta per la chiusura in ottava del "sistema completo". Tutta­ via non è il caso di insistere più di tanto su questo punto essendo poco impor­tante ai fini esemplificativi il riferimento particolare alla "scala greca". Sono invece significative delle difficoltà che si incon­tra­no seguendo questa via le spiegazioni forzate che comin­ ciano con l'essere proposte. Un problema del tutto analogo si presenta infatti per la "scala diatonica dei moderni, o scala ordinaria". Il basso fonda­ mentale da cui può essere operata questa deduzione è il seguen­ te: 98 ovvero Ma perché il sol si ripete due volte? - ci si chiederà certa­mente. La spiegazione è ancora una volta un aggiustamento di fronte ad una difficoltà perfettamente analoga al caso prece­dente: giunti nel basso fondamentale al do in quinta battuta si può solo propor­ re nuovamente o sol o fa. Si sceglierà allora di porre fa, per poter inserire nella scala il la. Ma giunti a questo punto il percorso si blocca, perché dopo fa si può porre, come nel caso precedente, solo si ¥ oppure do. Il si nella scala richiede il sol nel basso e non si può - il n'est pas permis [106] - passare dal fa a sol. Cosicché, facendo seguire il sol al do nel basso, si propone la ripetizione del sol - che consente di saltare a pié pari il problema. Sembra quasi che ogni via conduca ad un vicolo cieco, da cui si possa uscire solo con qualche trucco ingegnoso, su cui, facendo di necessità virtù, si possono persino ricamare commenti di un certo interes­ se. Così d'A­lembert fa esplicitamente notare che in questo modo di proporre la scala essa si presenta suddivisa in due sezioni, la prima delle quali si trova sotto il segno del "modo" di do, es­ sendo il basso caratterizzato da fa←do→sol, mentre la seconda sezione viene posta sotto il segno del "modo" di sol , essendo il basso caratterizzato da do←sol→re. Si verrebbe così a giustificare persino la ripetizione del sol, dal momento che il primo giunge 99 come quinta di do, andando così a ricollegarsi al modo di do, mentre il secondo apre, come ottava di sol, la nuova sezione. Il fatto che la tonalità della dominante stia potenzialmente all'in­ terno della tonalità determinata dal suono principale viene così nuovamente sottolineato. Ma si arriva a rendere conto di questa ripetizione persino ricorrendo a sottigliezze di ordine psicologi­ co: sempre d'Alembert rileva la tendenza, nell'intonare la scala, a stabilire una cesura che sareb­be indizio proprio di questa suddi­ visione: "Del resto questi due sol consecutivi sono perfettamente all'unisono: ed è per questo che ci si contenta di dirne uno solo quando si canta la scala do, re, mi, fa, sol, la, si, do: ma ciò non im­ pedisce che si pratichi un riposo espresso o sottinteso, dopo il suono fa. Non vi è alcuno che non si renda conto di ciò quando intona egli stesso la scala" [107] . In questo modo ci si rende conto della struttura nascosta del basso fondamentale. Non vi è bisogno di entrare in molti altri dettagli per com­ pletare un quadro che è ormai sufficientemente chiaro nelle sue linee generali e nelle sue conseguenze. Anche per la scala diato­ nica minore, la metodologia precedente viene riba­dita per essere subito tradita. Occorre indicare un percorso di basso fondamen­ tale appropriatamente scelto "mettendo al di sopra di ciascuno dei suoi suoni uno dei loro suoni armonici" - "con la sola diffe­ renza che noi sovrapporemo la terza mino­re ai suoni re e la del basso fondamentale per caratterizzare il modo minore": questa sola differenza è che nei luoghi op­portuni ci riserviamo di non mettere affatto al di sopra del basso un suono armonico, non es­ sendo tale la terza minore [108] . La relativa artificialità del modo minore potrà farci da scudo in caso di possibili obiezioni [109] . L'inserimento delle alterazioni richiede passaggi di terza maggiore nel percorso del Basso fondamentale [110]. Su un Bas­so fondamentale do→mi è possibile infatti costruire un pas­ saggio sol→sol#, rispettando le regole, mentre l'intro­du­zione dei bemolli esige l'ammissione di un Basso fondamen­tale per terze minori ed in aggiunta occorre consentire che si possa sovrap­ 100 porre al basso la terza minore, in luogo della terza maggiore: Questo modo di introdurre le alterazioni cromatiche rappre­senta un buon esempio per mostrare che il passaggio ad un livello ex­ tramusicale che, come abbiamo messo in evidenza in preceden­ za, è inerente al metodo stesso della fondazione, è tutt'altro che privo di conseguenze sul piano della concet­tualità musicale, che in luogo di ricevere chiarezza - e questo dovrebbe essere il com­ pito primario di un discorso rivolto ai principi - ne risulta invece oscurato e confuso. Giustificare l'alterazione riconducendola ad un basso di cui sarebbe un "armonico" vero o presunto, significa allentare al massimo fino a sopprimerlo il legame dell'alterazione con la tematica pro­priamente musicale della trasposizione e con quella del cro­­matismo. In una simile prospettiva, esse risultano intera­mente fuori campo; e nello stesso tempo si comincia a pro­ spettare l'idea che una nota alterata sia anzitutto una nota come ogni altra, e che ciò che passa per "alterazione" non rimandi ad una questione musicalmente rilevante, ma si riduca ad una pura questione di nomi. La conseguenza secondo cui lo stesso impiego dei segni diesis e bemolle sia dovuta ad un'im­perfezione della ter­ minologia musicale che può essere man­tenuta al più per ragioni meramente pratiche è tratta apertis verbis da Rameau: "Non si vede abbastanza bene - egli scrive - che questi segni di diesis e di bemolle servono soltanto a supplire altri nomi che si dovrebbero dare ai suoni ai quali li si associa, ma dai quali si è giudicato giu­ 101 stamente di astenersi per evitare la confusione e per facilitare la pratica, mentre essi sono assolutamente inutili nell'ordine natu­ rale" [111] . È importante richiamare l'attenzione sul fatto che una simile affer­mazione è strettamente dipendente dalla fonda­ zione fisi­ca­listica e rappresenta un esempio di come essa possa por­tare a pesanti fraintendimenti della realtà musicale. 8.Teoria della tonalità, scala naturale, temperamento equalizzato Nello stesso periodo in cui il linguaggio tonale si sta affermando sul piano musicale e comincia a prendere forma la sua teoria, mentre l'acustica muove i suoi primi passi di scienza nuova, l'i­ dea della necessità di adottare un qualche temperamento nell'ac­ cordatura degli strumenti a tasto che aveva dato luogo in passato a proposte innumerevoli si va sempre più orientando verso la netta prevalenza del tem­pe­ramento ad eguaglianza di semitoni ("tem­ peramento equaliz­zato"). Rameau finisce con l'optare per esso [112]. Con gran­de meraviglia, ed anzi scandalo di alcuni inter­ preti. Ma come? Il teorico della naturalità finisce con il racco­ mandare l'im­piego di quello che è stato ritenuto il più innaturale dei tem­peramenti, con un rapporto intervallare di base, il semi­tono temperato, caratterizzato niente di meno che da un numero irra­ zionale, e quindi contraddicendo anche le più antiche teorie ma­ tematiche intorno ai buoni rapporti interval­lari sulla base dei quali si riteneva di poter di sostenere la naturalità dei sistemi scalari ad essi conformi? Vi può essere maggiore incoerenza di questa? Così Dominique Devie, dopo aver qualificato come "tradi­mento" il passaggio di Rameau al fronte del tempe­ramento equa­lizzato arriva ad affermare che "trattandosi di una posizione irraziona­ le, logicamente insostenibile, essa evoca, per il suo carattere im­ provviso, un fenomeno di 'possessione'" - dice proprio così: un phénomène de 'possession'. Rincarando ancor più la dose: "La Francia profonda è restata fedele al­l'ine­guaglianza. Tuttavia, se 102 l'adesione di un teorico del calibro di Rameau è un'eccezione, essa ha valore di segno. Il suo caso, presenta, sotto certi riguardi, il carattere di una 'possessione' accompagnato da un fenomeno caratteristico di amnesia brutale. Non ho trovato niente di simile altrove" [113] . Vi è qui un problema che merita di essere discusso abba­ stanza a fondo. Notiamo intanto che la dizione di "scala naturale", in gene­ rale assai equivoca, può ricevere un senso sufficien­temente pre­ ciso se facciamo riferimento appunto alla teoria de­gli armonici. Così potremmo definire come "nota ad intonazione naturale" una nota la cui intonazione trova un corrispon­dente nella strut­ tura di armonici di un suono assunto come fondamentale. La nota corrispondente al setti­mo armonico è un esempio di nota ad intonazione naturale [114], non meno della nota corrispon­ dente al terzo armonico. "Scala naturale" potrà essere detta quel­ la scala le cui note sono tutte ad intonazione naturale. Una simile caratterizzazione non è affatto priva di problemi [115] ma a tutta prima sem­bra sbarazzare il terreno sia da determinazioni vaghe ed equivo­che, sia da una pretesa naturalità rivendicata sulla base di pregiudizi matematizzanti, stando ai quali si dovrebbe attri­bui­ re un particolare privilegio a intervalli caratterizzati da certe forme di rapporti numerici. In effetti stando alla precedente de­finizione di nota ad intonazione naturale, l'aggettivo "naturale" è interamen­ te giustificato dal riferimento alla struttura fisica del suono. La scala diatonica prodotta da Rameau attraverso il Bas­so fondamentale non si trova certo come tale fra gli armonici ma può avanzare la pretesa di essere detta "scala naturale", se si considera la sua naturalità come assicurata unicamente dal­l'in­ tervallo di terza e di quinta, e dunque dal fatto che essa viene costruita con note che sono la terza e la quinta di un percorso di fondamentali che si susseguono ad intervalli di quinta. L'inter­ vallistica risultante è perfettamente leggibile dallo schema pre­ cedente aggiungendo ad esso i valori intervallari prodotti [116] 103 misurati in cents. Gli intervalli relativi si otterranno mediante sottrazione. Lo sche­ ma scalare risulta dunque il seguente: intervalli rispetto alla nota iniziale: 0, 204, 386, 498, 702, 906,1088, 1200 intervalli relativi: 0, 204, 182, 112, 204, 204,182,112 Ora non è necessario un esame particolarmente approfondito di questa struttura scalare - assai simile del resto a quella già proposta da Zarlino seguendo tutt'altra via [117] - per notare quante difficoltà si celino al suo interno, non solo in rappor­ to alle modulazioni ma anche nel caso di semplici sequenze di note nelle quali possono presentarsi quelle che Rameau chia­ma "consonanze alterate" o addirittura problemi relativi al soddi­ sfacimento di una "condizione di identità" che è eviden­temente irrinunciabile per la coerenza stessa del discorso mu­si­cale. Nel seguente schema di Rameau [118] è chiaramente se­ gnalato il fatto che la scala ha nel suo interno due terze minori e una terza maggiore "alterata", cioè non riconducibili al rappor­ to di 5/6 e di 4/5: 104 È possibile rendersene conto in modo semplice e diretto facendo riferimento al precedente schema in cents. Da esso le terze minori re - fa e la - do risultano pari a 294 cents (rispettiva­ mente 498 - 204 e 1200 - 906), corrispondendo approssimativa­ mente al valore frazionario 32/27, in luogo di 6/5 (316 cents); e la terza maggiore fa-la risulta pari a 408 cents (906 - 498), pari a 81/64 in luogo che 5/4 (386 cents). Quanto a ciò che abbiamo chiamato condizione di iden­tità, essa consiste semplicemente nel fatto che come posso ripetere immediatamente la stessa nota senza che essa, nella ripetizione, perda la propria identità, così deve accadere che quella nota si possa ripresentare identica, nella ripetizione a distanza, all'inter­ no di un percorso intervallare. Ancora Rameau, nella Génération, richiama l'attenzione su questo punto ricollegandosi ad un interro­ gativo proposto da Huygens: questi aveva avanzato il quesito se in una sequenza come la seguente, considerando i rapporti interval­ lari ritenuti "giusti", 105 il sol conclusivo sarebbe stato all'unisono con il primo. In realtà ci si rende subito conto, calcolisticamente, che se la terza minore discendente rispetta il rapporto di 5/6 (ovvero 316 cents) come "viene suggerito dalla risonanza del corpo sonoro", "l'ultimo sol verrebbe a trovarsi un comma più basso del primo" [119] ; mentre l'unisono si ottiene soltanto se si usa una ter­za minore "alterata" (27/32 ovvero 294 cents) [120] . Il commento che Rameau propone a quest'ultimo caso è particolarmente interessante perché comincia a mostrare la di­ rezione in cui si orienterà la discussione sul temperamento: di fronte alla sequenza precedente in ogni caso non vi sarà nessun musicista - strumentista o vocalista - che approdando sull'ul­ timo sol lo intonerà calante rispetto al primo, e questo perché l'orecchio mantiene memoria del primo suono e della sua armo­ nia, e pertanto tenderà a riportare alla giusta altezza il sol con­ clusivo attuando un temperamento spontaneo ed in­consapevole dell'ultimo intervallo o forse di tutti gli inter­valli precedenti per arrivare a questo risultato [121] . I calcoli sono cosa della Raison; ma l'orecchio è guidato dall'armonia dei suoni fon­damentali, e per at­ tenersi ad essa attua dei tempe­ramenti spontanei e irriflessi: esso tempera, senza riflessione, "tutto ciò che può opporsi ai giusti rapporti di questi suoni fondamentali". La successione fonda­ mentale è l'"unica bus­sola dell'orec­chio" ed è perciò "la nostra sola ed unica guida in tutte le operazioni armoniche, senza la­ sciarsi imbarazzare dalle piccole alterazioni che essa può intro­ durre" [122] . Il primo punto da fissare con chiarezza è il ricono­scimento della necessità di un temperamento. Questa neces­sità è fuori di­ scussione: non appena abbiamo deciso di affidarci agli armonici del suono e costruiamo su questa base la scala diatonica che, a quanto sembra, può a buon diritto chiamarsi naturale, ci trovia­ mo avvolti da mille problemi che ci inducono a sostenere che è necessaria una manipolazione diretta di quelli che sono valori sacrosanti sanciti dalla natura. Ma mentre questo riconoscimen­ 106 to è esplicito e chiaro, il con­trasto con l'impianto naturalistico rigoroso viene tenuto il più possibile nascosto, ed invece si fa strada un complesso di consi­derazioni che cercano di riportare l'intero problema del tempe­ramento in coerenza con le impostazioni di principio. A tale scopo l'argomento precedente della correzione spontanea degli intervalli operata dall'orecchio non basta. Questa correzione fa parte dell'istinto musicale ma sulla sua base non si può operare quella razionalizzazione che è necessaria alla teoria. In particolare essa non ci insegna nulla su quale tipo di temperamen­ to si possa considerare ottimale dal punto di vista teorico. Per Rameau è chiaro che una volta riconosciuta la necessità del tem­ peramento, non ogni temperamento è altrettanto buo­no. Ancora una volta è un'istanza forte di fondazione che si fa avanti: "Non basta trovare un tempe­ramento possibile, è necessario che esso sia fondato" [123] . E il temperamento fondato per eccellenza è proprio il tempera­mento equalizzato. Una simile affermazione potrà forse sembrare sconcer­ tante, eppure essa si appoggia su un argomento che è coeren­ te proprio con l'impostazione proposta, ed in parti­colare con il radicamento dell'intera teoria nella struttura de­gli armonici. L'interesse di questo argomento sta nel fatto di spostare net­ tamente l'attenzione dalla direzione nella quale corre subito il pensiero quando si parla di temperamento equalizzato. In linea generale si tenderà infatti a pensare ad una partizione fatta a tavolino con la formula matematica della radice dodicesima di due - radice che ci fornisce il valore decimale del rapporto del semitono equalizzato in una suddivisione dell'ottava in dodici parti - disinteressandoci completamente del modo in cui que­ sta partizione può essere concretamente realizzata. Spostiamo invece l'attenzione ad un problema concreto di accordatura e di formazione degli intervalli di cui è costituita la scala, e precisa­ mente al classico metodo di accordatura del ciclo delle quinte. Essendo consa­pevoli delle difficoltà in cui si va incontro con questo metodo, e quindi della necessità di un qualche tempera­ 107 mento, potremmo pensare di temperare fin dall'inizio verso il basso la quinta che "gira" nel ciclo, un "temperamento" minimo, appena avvertibile - accettando i valori intervallari conse­guenti. Ebbene, così facendo arriveremmo ad un tempera­mento equa­ lizzato! Il punto essenziale, all'interno di questa considerazione, non è affatto l'equalizzazione dei semitoni, ma è il temperamento minimo della quinta, perché l'equalizzazione dei semitoni è una pura conseguenza di esso. Non è certo difficile rendersi conto che la proposta di temperare la quinta da 702 e 700 cents ovvero di abbassare la quinta di un dodicesimo di comma pitagorico, per dirla all'antica, comporta il temperamento ad eguaglianza di semi­ toni di una scala costruita attraverso cicli di quinte [124]. Questo abbassamento sta ai limiti dell'avvertibilità, e Rameau può soste­ nere, e su questo non gli si può dar torto, che il temperamento equaliz­zato è quel temperamento che lascia sostanzialmente inalterata la quinta, mente i temperamenti ineguali sacrifica­vano per lo più la quinta a favore delle terze. Ora, è la quinta, e non la terza che rappresenta l'intervallo fondamentale della teoria della tonalità, cosicché risulta chiara - e del tutto plausibile - la ragione per cui Rameau possa vedere nel temperamento equalizzato da un lato il temperamento "mi­gliore", dall'altro un temperamento che la natura stessa sugge­risce. Lo stesso motivo che propone la quinta come la conso­ nanza più perfetta dopo l'ottava e prima della terza per via della sua maggiore prossimità come armonico al suono fondamenta­ le, e che induce a prospettare il percorso del basso fondamentale anzitutto come un percorso per quinte, è anche il motivo che fa affermare a Rameau senza indugi: "Possiamo dire, senza temere di sbilanciarci troppo, che il temperamento è naturale, o alme­ no necessario, e noi dobbiamo operare di conseguenza. Poiché tutto deve essere fondato sulla suc­cessione fondamentale, cosa di cui non si può più dubitare, è su questa successione che noi dobbiamo stabilire il nostro temperamento"[125]. Nel caso del temperamento equalizzato "l'alte­ra­zione delle quinte è così pic­ 108 cola che l'orecchio se ne accorge appena, ed è proprio questo che occorreva trovare poiché l'o­recchio ha la propria guida so­ prattutto nella successione fondamentale di queste quinte; e di conseguenza il loro rapporto deve essere il più perfetto di tutti, dopo quello dell'ottava, che non può essere toccato a causa della sua equisonanza e dei limiti che essa prescrive ovunque. Poco importa, dopo di ciò, che le terze, le seste, i toni e i semitoni si­ ano più o meno alterati, l'orecchio vi fa poco attenzione poiché esso è sostenuto dalla propria guida: tutti questi intervalli non sono che passeggeri; mentre i fondamentali esistono sempre e fanno sempre sottintendere in essi la per­fezione che manca a ciò che si intende" [126]. Non vi è dubbio che argomentando in questo modo si coglie assai bene come possa la teoria del­ la tonalità alle sue origini far corpo con la tematica del tempera­ mento equalizzato. Va poi da sé che, proprio nella misura in cui la modulazione diventa un mezzo espressivo fondamentale, il temperamento ad eguaglianza di semitoni rappresenta un'ac­cor­ datura che si può considerare ottimale proprio per rendere il più agevole possibile il movimento interno lungo l'inte­ro arco delle tonalità possibili. Ma questo argomento non può essere propo­ sto per primo tenen­do conto dell'im­pianto teorico, perché stan­ do ad esso dobbiamo in ogni caso seguire il filo conduttore delle intona­zioni che derivano dalla costruzione della scala dia­tonica a partire dal basso fondamentale. Il richiamo all'aspetto fondazionale è tanto importante per Rameau che egli rivendica l'originalità della propria pro­po­sta proprio per il fatto che essa era stata avanzati da altri senza questo sostegno teorico: "Il modo in cui questo temperamento è stato sco­ perto, e l'autorità che noi riprendiamo dalla natura stessa per fon­ darlo, debbono chiudere la bocca a coloro che vorrebbero ancora trattarci da plagiari: ciò che il caso, il solo sentimento ha potuto dettare ad altri in relazione a ciò che è contenuto in quest'opera, non può essere paragonato ad esso: io ho avuto ovunque il mio principio per guida, fingendo addirittura di ignorare, nelle mie 109 operazioni, le cose che l'esperienza mi ha insegnato sino ad oggi, e io non mi richiamo ad esse se non nella misura in cui questo principio me le presenta come una nuova scoperta" [127] . Pur confermando la preferenza per il temperamento equa­ lizzato, d'Alembert non insiste sulla sua dipendenza dal "prin­ cipio", rimettendosi piuttosto al giudizio dei musicisti [128]; e pone l'accento, nella difesa della scelta del tempe­ramento equaliz­ zato, sulla problematica della modula­zione, del resto strettamente connessa con quella della quinta come principio di organizzazio­ ne: "Il temperamento è necessa­rio soprattutto per passare da un modo all'altro senza che l'orecchio ne sia urtato; ad esempio dal modo di do al modo di sol, e dal modo di sol al modo di re, ecc.". Il passaggio al nuovo stile è in d'Alembert particolarmente sensibile per il fatto che si rammenta come fino ad ora l'ine­ guaglianza del temperamento sia stata considerata più come un pregio come un difetto. Infatti, non potendosi certo operare una riaccor­datura dello strumento ad ogni modificazione di tonalità, le tonalità stesse non potevano essere considerate come traspo­ sizioni esatte l'una dell'altra. Di conseguenza le intonazioni assolute restavano fisse, mentre risultavano piccole differenze nella grandezza degli in­ tervalli della scala di base, le quali, almeno per le tonalità affi­ ni, contribuivano a conferire a ciascuna di esse un particolare carattere espressivo. "Ma dopo tutto ciò che abbiamo detto in quest'opera sulla formazione del genere diatonico, si deve essere convinti che, seguendo l'intenzione della natura, la scala diato­ nica deve essere per­fetta­mente la stessa in tutti i modi (tonalità). Il carattere di un'aria proviene principalmente dall'intreccio dei modi (to­ nalità)" [129]. Il mutamento dei mezzi dell'e­spres­sione, che è tale da caratterizzare la fine di un'epoca e l'avvento di un'epoca nuova, è formulato qui con esemplare chiarezza. 110 9. Basso continuo e Basso fondamentale In tutte le nostre considerazioni sul basso fondamentale abbia­mo trascurato di considerare il problema da cui musicalmente l'intera questione ha origine, e che probabilmente avrebbe dovu­to essere trattata per prima se la nostra esposizione non fosse stata tutta orientata dal filo conduttore della fondazione fisica­listica della te­ oria della tonalità. Si avrebbe in effetti ragione di dire che, dopo tutto, la teoria del basso fondamentale deriva da una riflessione sul basso continuo ed ha di mira una sua riforma che tenga ormai conto della compiuta affermazione del linguag­gio della tonalità. Da questo punto di vista l'idea del basso fondamentale è legata a fil doppio all'in­tro­duzione della nozione di rivolto ed all'idea di uno sviluppo del discorso musicale attraverso gradi armonici. Generalmente si riconosce carattere di accordo nell'am­bito del linguaggio tonale a formazioni che si presentino come costi­ tuite senz'altro da terze sovrapposte oppure che siano riconducibili ad una simile struttura attraverso un opportuno riordinamento, in entrambi i casi scontando i salti di ottava e considerando come "omesse" le note intermedie eventual­men­te mancanti. Si tratta di un modo di presentare il problema che va considerato come una sorta di espediente, che ha una sua utilità discriminatoria, ma che è del tutto privo di consistenza teorica. Non è infatti possibile stabilire una connessione effettiva tra la regola di formazione degli accordi per sovrapposizione di terze e l'impianto della teoria della tonalità. Benché taluni vogliano riconoscere in Rameau l'origine di u­na simile nozione di accordo [130] , questa opinione non ha alcun fondamento già per ragioni di ordine generale. Non può essere certo tipico di un autore che sottolinea di continuo l'importanza primaria della quinta rispetto alla terza, fare della terza il principio di costruzio­ ne degli accordi. Naturalmente può accadere - come è ovvio - che Rameau parli di sovrapposizione di terze, perché tali sono di fatto gli accordi che egli chiama "fondamentali" e che si riducono a due sol­tanto, l'accordo di triade maggiore e l'accordo di settima 111 - tenendo conto della funzione subordinata che egli attribuisce alla triade minore [131] . Questa presa di posizione dipende dal­l'as­sun­ zione dell'ottava come limite degli intervalli e conse­guentemente degli accordi [132] . Tutto ciò lo porta ben lontano da un preteso concetto di accordo tonale come pila di terze sovrapposte. E va da sé che anche in rapporto alla triade la terza viene concepita come una interpolazione nell'intervallo di quinta. In rapporto a questo problema è del resto particolarmen­ te significativa l'introduzione della dissonanza attraverso l'accor­ do di settima. Anzitutto va notato che, considerando so­lo i primi sei armonici, Rameau può sostenere che non vi sono dissonanze nel corpo sonoro e che di conseguenza queste sono un prodotto dell'arte, piuttosto che della natura [133] . Ma ciò non significa che si debbano lasciare le cose come le troviamo nella pratica e nell'esperienza musicale. Anche su questo punto Rameau fa pesare l'istanza forte di una giustificazione teorica: il problema è in ogni caso quello di "vedere chiaramente il principio su cui il tutto deve essere fondato" [134] . Questo principio è ancora il modo di costruzione dell'accordo consonantico per eccellen­ za. Esso rappresenta il modello anche per la costruzione della dissonanza fondamentale. In questo modello la quinta rappresenta l'oggetto principale, le terze i suoi componenti, l'ottava i suoi limiti; cosic­ ché, si esprime letteralmente Rameau "se noi ora notiamo che vi è un vuoto tra la quinta e l'ottava in cui è possibile inserire (inserer) una nuova terza, senza distrug­gere alcuna delle conseguenze precedenti; e se il suono di questa terza aggiunta fa appunto un intervallo di settima con il suono fondamentale dell'accordo, e per rivolto un intervallo di seconda con l'ottava di questo suono fon­ damentale, tutto ciò non deve forse invitarci ad aggiungere que­ sta terza?" La terza aggiunta alla quinta è dunque da intendere come una terza inserita tra la quinta e l'ottava, e viene inoltre fatto esplici­tamente notare che essa produce con la terza dell'accordo, una quinta ulteriore - "dunque, il principale oggetto degli accordi regna qui, esattamente come nell'accordo perfetto" [135]. Evi­ 112 dentemente una cosa è parlare di sovrapposizione di terze per la costruzione di accordi tonali, ed un'altra è proporre l'accordo di settima come formato per inserimento di una terza nel vuoto tra la quinta e l'ottava: il fatto poi che si sottolinei nella costruzione dell'accordo la presenza del "prin­cipale oggetto degli accordi", ovvero dell'in­tervallo di quinta, ci consente di stabilire un nesso con le nostre considerazioni fenomenologiche ed in particolare con ciò che abbiamo chiamato principio della consonanza più forte. Questa stessa impostazione viene ribadita anche in rappor­ to all'accordo che Rameau chiama di sesta aggiunta (sixte ajoutée), nel quale si aggiunge alla triade una sesta rispetto al suono fonda­ mentale dell'accordo. Anche in questo caso si tratta di riempire il vuoto tra la quinta e l'ottava dell'"accordo perfetto", aggiungen­ do, ad esempio, la all'accordo do - mi - sol. Commenta Rame­ au: questa nota aggiunta non fa naturalmente terza con la quinta dell'accordo, bensì con la sua ottava. Questo caso particolare può essere in ogni caso riportato alla struttura dell'accordo di settima di cui non è altro che un rivolto, come nota egli stesso [136] . Il punto interessante è tuttavia il fatto che Rameau non ponga senz'altro avanti il carattere di rivolto di questo accordo, ma lo consideri in una relativa autonomia. Ciò ha a che vedere - io credo - con il parallelismo costruttivo rispetto all'accordo di settima, indicato dal riempimento del "vuoto" con una terza rispetto alla quinta dell'accordo o rispetto alla sua ottava. La regola della formazione dell'accordo per sovrapposizione di terze, eventualmente associata alla possibilità di ipotizzare "note omesse" a piacere porta, sovrapponendo terza a terza ad una moltiplicazione in via di principio indefinita degli accordi che si possono pretendere "tonali". Così nel passo seguente di Ravel (Le tombeau de Couperin, n. 4 Rigaudon), Piston ritiene che si possa parlare di un accordo di undicesima sul secondo grado e di un accordo di tredicesima sul quinto grado sulle note sol - re - do - mi, confortato dalla "classica successioni di fondamentali": 113 mentre lo stesso autore esita in ogni caso a considerare come ac­ cordo di ventisettesima di sopratonica il grattacielo di terze sovrap­ poste sul secondo tempo della terza battuta del seguen­te passo da Petruska di Strawinsky: "È chiaro infatti che il basso non è altro che un componente qual­ siasi a cui è successo di diventare la 'fondamentale'" [137]. Piston avverte giustamente che, benché il titolo di ar­mo­nia per terze "do­ vrebbe includere anche tutta l'armonia tradizionale", tuttavia in si­ mili esempi si va oltre la tonalità classica. Ed il fatto che vengano virgolettati alcuni dei gradi armonici rappresenta un segno che l'autore è attraversato dal dubbio che, in passi come questi, non sia il caso di insistere troppo con i numeri romani. Il punto del problema sta tut­tavia nel fatto che non è possibile stabilire quale sia il limite della pila di terze in cui l'interpretazione tonale di­ venta priva di senso; e che questi stessi esempi potrebbero forse suggerire qualche dubbio ulteriore anche sul modo di considera­ re l'armonia per terze nella "tonalità classica". Ciononostante va anche detto che la concezione dell'ac­ cordo tonale come formato da terze sovrapposte ha comun­ que una qualche utilità pratica almeno nel senso che consente ai 114 manuali di formulare in maniera non compromessa con la teoria degli armonici della differenza, essenziale per la teoria, di accordo in posizione fondamentale e accordo in posizione di rivolto o rivoltata. In­ fatti può essere considerata come fonda­mentale dell'ac­cordo, la nota a partire dalla quale si effettua il conteggio, verso l'alto, del grappolo di terze. Se questa nota occupa la posizione più grave allora si parlerà di accordo in posizione fondamentale. Se ciò non accade, e l'ac­cordo è in ogni caso riducibile ad un grappolo di terze, si parlerà di accordo in posizione di rivolto. Ma ci si può contentare di una formulazione di questa dif­ ferenza basata su una concezione teoricamente incon­sistente del­l'ac­cordo tonale? Quanto meno occorrerà fornire qualche chiarimento aggiuntivo. In primo luogo è opportuno richiamare l'attenzione sulla necessità di non confondere la nozione musicale vera e pro­pria di rivolto con una nozione meramente formale. Que­st'ul­tima può essere ricondotta a quella di una permutazione ciclica. Così da una struttura di oggetti ABC è possibile ottenere le strutture BCA e CAB per spostamento successivo del primo elemento in ultima posizione (o inversamente). Un ulteriore spostamento riporta alla disposizione iniziale ABC. Ciò vale naturalmente anche se gli oggetti sono solo due - AB, BA - oppure un numero qual­ sivoglia. Ciò che cambia è solo il numero dei "rivolti" possibili. Peraltro l'uso a scopo illustrativo delle lettere alfabetiche, fuorvia proprio sul punto essenziale: infatti la prima formazione citata, ABC, fa riferimento all'ordine dell'alfabeto che rappresenta per le lettere un ordine "oggettivo" di base, anche se convenzionale. Ma se non ci lasciamo fuorviare da ciò, è chiaro che la nozione formale di rivolto è una nozione relativa e non prevede affatto che si dia una disposizione "fondamentale", ovvero non rivoltata, in senso assoluto. Si può illustrare la questione semplicemente con­ siderando gli oggetti della struttura come se fossero disposti sul­ la circonferenza di un cerchio, cosicché tutte e tre le disposizioni sono leggibili, restando im­mu­tato il verso e mutando a piacere il 115 punto di inizio. B A C Se supponiamo che la struttura formale da prendere inizial­mente in considerazione sia CAB , allora i suoi rivolti saranno nell'ordi­ ne, ABC e BCA. La posizione ABC non ha dunque nessun par­ ticolare privilegio, ed ognuna delle disposizioni rivolta­te può valere come disposizione da cui ha inizio l'opera­zione di spostamento. Se ora consideriamo la nozione musicale di rivolto saltano agli occhi alcune importanti differenze. In primo luogo, essendo note gli oggetti in questione, nella rotazione, con la disposizione delle note muta la struttura intervallare. La rotazione consiste inoltre in un salto di ottava della nota spostata. Quindi non si tratta di un puro spostamento dello stesso oggetto: la nota resta la stessa solo quanto alla specie, non dal punto di vista della sua altezza. Le lettere alfabetiche che abbiamo usato in precedenza traggono in inganno anche sotto questo riguardo perché sug­ geriscono che il mutamento riguardi solo l'ordine degli oggetti. Intervengono dunque nozioni specificamente musicali che non possono essere semplicemente riportate sulla nozione formale. In particolare occorre distinguere chiaramente quando la strut­ tura è a soli due termini e quando invece ha più di due termini. Come abbiamo visto nel caso della nozione formale, questa dif­ ferenza determina unicamente un diverso numero dei rivolti pos­ sibili. Ma ora dobbiamo tener conto del fatto che la rotazione ha 116 il senso concreto di un salto di ottava. Di conseguenza, nel caso di due termini, l'intervallo risultante nel rivolto è l'intervallo complementare nell'ottava dell'intervallo non rivoltato. Nel ca­so delle strutture a più termini, potrebbe sembrare che ci troviamo di fronte ad una situazione del tutto differente, dal momento ciò che più importa ora è il mutamento dei rapporti intervallari tra le note che appartengono alla struttura, mentre il tema della com­ plementarità sembra non assolvere alcun ruolo. Ma questo non è esatto. Anche nella struttura a più termini il salto di ottava assolve il ruolo essenziale per realizzare la rotazione. Cosicché è possibile considerare la formazione del rivolto di una struttura a più termini alla luce del rapporto di complementarità, rendendo il primo caso fondamento del secondo. In effetti il salto di ottava della prima nota ha come risultato il fatto che viene soppresso il primo intervallo, mentre gli estremi della struttura così modifica­ ta individuano l'intervallo ad esso complementare. Se ci arrestiamo a queste considerazioni, avremmo già a che fare con una nozione musicale di rivolto, ma attraverso di esse non potremmo certo formulare la nozione musicale di rivolto specificamente attinente al linguaggio tonale. Ciò riguarda il problema della relatività. Come abbiamo osservato or ora questo proble­ ma ha una soluzione ovvia nel caso della nozione formale. Se CAB è un rivolto possibile di ABC, ABC è un rivolto possibile di CAB. La nozione di una disposizione fondamentale sempli­ cemente non si dà. Ciò vale anche per le considerazioni che ab­ biamo compiute fin qui sulla nozione musicale di rivolto. Non vi sono ragioni per ritenere, nel caso delle strutture a due termi­ ni, che l'una sia essenzialmente in posizione fondamentale e l'altra essenzialmente in posizione di rivolto. Sembra chiaro, ad es., che terza e sesta possono essere considerata l'una il rivolto dell'altra. E così nella struttura a più termini, rammentando che anch'essa gioca su intervalli complementari, se l'una può essere conside­ rata come rivolto dell'altra attraverso salto di ottava in direzione ascendente, l'al­tra può essere considerata come rivolto della pri­ 117 ma attra­verso salto di ottava in direzione discendente. Al di là di ogni impiego particolare, tra accordi modificati attraverso salto di ottava resta una precisa relazione formale. Deve dunque essere dato il massimo risalto al fatto che la nozione di rivolto, nell'ambito del linguaggio tonale, è invece legata a fil doppio alla possibilità di una disposizione assoluta - all'idea dunque di una disposizione "fonda­­mentale". E quin­ di non è né una nozione senz'altro ovvia, né una nozione pu­ ramente oggettiva. Mentre in precedenza era sufficiente far agire nozioni musicali generali, ora dobbiamo richiamarci a nozioni che riguardano specificamente il linguag­gio tonale. Abbiamo del resto già notato che la discutibile concezione dell'accordo tonale come sovrapposizione di terze può servire allo scopo di stabilire una net­ ta differenza tra posi­zione fondamentale e posizione rivoltata. Ma anche la nozione di spazio tonale da noi introdotta può servirci allo scopo. Sulla base di essa, quella differenza è facile da istituire dal momento che vi è una sola disposizione delle note appartenen­ ti all'accordo che rappresentino l'articolazione triadica del­l'ot­tava secondo il principio della consonanza più forte, ed in questa dispo­ sizione la tonica dell'accordo si trova necessariamente al basso. Le forme rivoltate dell'accordo potranno essere intese come forme pro­spet­ticamente modificate di uno stesso spazio tonale. Anche in rapporto a questo problema, così almeno sembra ad un primo sguardo, non non vi è bisogno di abbandonare il terreno feno­me­ nologico-musicale per rendere conto di questa nozione così im­ portante in rapporto al linguaggio della tonalità. In una teoria della tonalità fisicalisticamente orientata la via privilegiata per istituire questa differenza è naturalmente tutt'al­ tra. Essa trova subito una disposizione fondamentale in senso assoluto nel modo stesso in cui il suono stesso si propone con i suoi armonici. Nell'ordine degli armonici non troviamo, ad esempio, terza e quarta oppure quarta e sesta, ma troviamo terza e quinta. Si noti che ciò ha una precisa conseguenza anche sulle strutture a due termini perché si tenderà ad assumere la sesta 118 come rivolto della terza e la quarta come rivolto della quinta, piuttosto che l'inverso. Alla luce di questa impostazione teorica la distinzione tra posizione fondamentale e posizione di rivolto diventa nettamen­ te una distinzione oggettiva: ed è interessante notare come, ben­ ché, come si è detto, essa non sia affatto obbligatoria e sia legata a fil doppio con la sintassi del linguaggio tonale, tuttavia, proposta in questo modo può avanzare la pretesa di essere del tutto indi­ pendente da quella sintassi, essendo la disposizione fondamen­ tale la disposizione propriamente na­tu­rale mentre le disposizioni rivoltate saranno considerate mez­z i dell'arte per rendere più gra­ devole e vario il movimento musicale. Attraverso l'impiego de­ gli accordi rivoltati, il compositore ha la possibilità di "variare il basso a suo gradimento e di renderlo più cantante di quello che io chiamo basso fondamentale" [138] . Benché J. A. Serre non condivida completamente le posi­ zioni di Rameau, su questo punto egli fornisce una for­mu­lazione quanto mai chiara: "Per poter determinare la direzione (Direction) [139] o l'inversione (Inversion) di un inter­vallo, occorre necessa­ riamente ricorrere ad un Principio fisso e capace di determinare quali delle due qualità si debbano attribuire ad un intervallo. Tale Principio è, senza possibilità di venir contraddetti, il Principio della Risonanza. È soltanto questo principio che ci fa conosce­ re l'ordine più naturale, l'ordine diretto dei differenti suoni che compongono i diversi accordi, a considerarli in se stessi, cioè indipen­demente da qualunque melodia, e da tutto ciò che può precederli o seguirli" [140] . Rameau da parte sua dà per scontata l'esistenza di una di­ sposizione naturale, e dunque "fondamentale", ed è interes­sato soprattutto a far valere l'idea che nel rivolto (Renverse­ment) non avvengono mutamenti essenziali rispetto all'accor­do nella sua disposizione fondamentale. A tal scopo fa agire sia l'idea del sal­ to di ottava come origine dei rivolti, sia quella dell'ottava come quasi-unisono che si dimostra in realtà assai più ricca di impli­ 119 cazioni di quanto si potesse pensare inizial­mente. Egli richiama l'attenzione anzitutto sul rivolto nel caso degli "intervalli" (strut­ ture a due termini), in cui è subito evidente, non solo il salto di ottava, ma anche il fatto che l'ottava "raddoppia" gli intervalli, come egli dice: "Si prenda, per esempio, un suono intermedio tra i due suoni di una ottava, e lo si paragoni a ciascuno dei suoni dell'ottava; se esso forma la quinta da un lato, come Do e Sol, esso formerà una quarta dall'altro, come Sol e Do; e così accade per gli altri intervalli in proporzione" [141]. L'idea dell'ottava come qua­ si-unisono tende ovviamente a rafforzare la relazione tra quinta e quarta: "Ma se l'ottava è quasi un unisono, e se la differenza tra quar­ta e quinta consiste semplicemente nella differenza tra i due suoni dell'ottava, il cui estremo grave fa la quinta con un suono medio, e il cui estremo acuto fa la quarta con questo stesso suo­ no medio, ciò ci deve rendere avvertiti che la quarta ha molto a che fare (a beaucoup de rapport) con la quinta" [142] . Questa stessa circostanza può essere riferita agli "accordi" (strutture a più di due termini), essendo il rivolto negli accordi fondato sul rivolto degli intervalli, ovvero sul salto di ottava: "Questo rovesciamen­ to (Renversement) degli intervalli che è egualmente applicabile agli accordi diversamente combinati nasce dall'ot­tava" [143] ; cosic­ ché "Il rivolto degli accordi si può riconoscere già in quello degli intervalli" [144] . Da tutto ciò consegue che l'accordo non muta essenzialmente nel suo rivolto: "Quanto al rivolto degli accordi, è abbastanza evidente che esso è soltanto il prodotto di un mu­ tamento di ordine tra le note che lo compongono; mutamento che non è motivato da altro che da note portate alla loro ottava, al disopra o al di sotto del luogo che esse occupano nell'accordo fondamentaleà Se questi accordi cam­biano di nome nel loro rivol­ to, è in realtà il basso che cambia, non l'accordo, il cui fondamento e costruzione sono sempre gli stessi" [145]. Si noti come in questa argomentazione, dove pure assolve un ruolo importante anche la tesi dell'ottava come quasi-unisono, si ha tuttavia la sensazione che si mantenga ancora la presa sull'idea degli intervalli come parti­ 120 zioni dello spatium dell'ottava. L'ottava tende in questo contesto, nonostante tutto, a riprendere il suo carattere di intervallo "im­ portante" che assolve una funzione armonica decisiva: "Questa ottava, imponendo dei limiti all'armonia, le procura al tempo stesso un possibile rovesciamento, mediante il paragone recipro­ co che si deve fare naturalmente tra l'uno e l'altro dei suoi estre­ mi con un suono contenuto tra essi, da cui si forma il cerchio dal quale hanno origine tutti i raggi" [146]. Una volta istituita la nozione di rivolto l'idea del basso fon­ damentale è già interamente presente. Come osserva d'Alem­ bert: "Il basso continuo è un basso fondamentale i cui accordi sono stati rivoltati per renderlo più cantante" [147] . Natural­ mente possiamo anche concepire basso continuo e basso fon­ damentale come due percorsi connessi, ma anche distinti: il basso continuo come percorso reale delle note al bas­so, con gli accordi corrispondenti in forma fondamentale o rivoltata, il secondo come un percorso "virtuale"di fondamentali che segnala quale sia il per­ corso armonico effettivo. E qui si annunciano nuovi problemi. Considerando l'in­tera questione sotto un profilo puramente fenomenologico, dovrem­ mo subito sottolineare che queste distinzioni appar­ tengono all'ambito dei modi di intendere. Come abbiamo notato, vi è una precisa relazione formale tra strutture che stanno tra loro in un rapporto di rivolto, e questa relazione c'è indipendentemente da ogni particolare impiego espressivo possibile. Ma bisogna di­ stinguere tra l'esistenza della relazione e il fatto che essa ven­ ga afferrata come appartenente al senso del­la configurazione percettiva. L'intendere è qui afferrare secondo un senso. Un accordo formato da un intervallo di terza minore a cui si sovrappone un intervallo di quarta è esatta­mente quello che è, nulla più e nulla meno che un accordo formato proprio così. Ma esso sarà inteso come un rivol­ to in una sequenza costruita in un determinato modo. I "gradi armonici" sono dunque presenti nella linea del basso, essi ap­ partengono al suo senso percettivo e vengono intesi man mano che essa 121 si sviluppa. Ma questa appartenenza esige soltanto che vi siano nella sequenza le condizioni affinché siano effettuate quelle sintesi che consentono l'apprensione della rete di relazioni che si vanno affermando nel suo corso. Essa non richiede in nes­sun modo che si dia qualcosa di simile ad una quasi-percezione di una nota grave che non c'è. Di fronte a questo intendere, nell'accezione che una con­ siderazione fenomenologica suggerisce, si presti attenzione in­ vece al sottintendere di cui così spesso parla Rameau proprio in rapporto al basso fondamentale. Il basso fondamentale, egli dice più volte, è sous-entendu. Nelle intenzioni di Rameau, ed in coeren­ za con il proprio impianto teorico, questa espressione non ha cer­ to il senso di un "sottinteso" di ordine intellettuale, un sottinteso puramente pensato, da esplicitare attraverso operazioni analitiche. Ma non ha nemmeno il senso di un risul­tato di sintesi che avvengono nel corso di un processo. Si tratta invece di qualcosa che ha a che fare con l'afferramento uditivo come tale. Entendre del resto significa non soltanto capire o comprendere, ma anzitutto udire. E sous-entendre, in realtà, è un udire-sotto o un sotto-udire, quindi non un udire aperto e schietto, ma un udire in esso nascosto. È un fatto che i due cardini della teoria della tonalità - triade e basso fondamentale - facciano entrambi riferimento a suoni marginali e fantomatici. Nelle intenzioni di Rameau questi due cardini dovrebbero essere innestati in un unico stipite. Questo problema si profila in forma nettissima già nel Traité in una critica che Rameau rivolge a Descartes e che in preceden­ za abbiamo passato sotto silenzio. Descartes aveva notato che pizzicando un corda del liuto, vibrano anche le corde accordate una quinta ed un'ottava all'acuto [148] . Ed anche un'ottava al grave - aggiunge Rameau: "A proposito dell'ottava, Descartes è stato ingannato dalla prova che trae da un liuto". Questo è un punto da Rameau vivacemente sotto­lineato. Su di esso egli chie­ de soccorso persino ad una curiosa affermazione dello Pseu­ do-Aristotele nella quale si afferma che "se si tocca la corda nete che fa l'acuto dell'ottava, si udirà anche la corda hypate che fa la 122 nota grave, perché la fine languente del suono acuto è l'inizio del suono grave che somiglia all'eco o all'immagine del suono acuto": come se tra acuto e grave vi fosse una sorta di circolarità. Rameau aggiunge che "non vi è forse un musicista che non si serva di questa espressione: un tale suono, una tale nota o un intervallo è sottinteso (sous-entendu) aggiungendo talvolta 'nel basso'" [149] . In realtà quest'insistenza dell'ottava bassa è essenziale per Rameau proprio al fine dell'istituzione di una nozione con­creta di rivolto e quindi per l'idea stessa di Basso fonda­men­tale. Questo nesso è dichiarato nel Traité in modo del tutto esplicito: "Poi­ ché le ragioni armoniche ci offrono soltanto l'ac­­cordo perfetto, non si possono tuttavia ammettere gli accor­di di sesta e di sesta e quarta che ne derivano senza supporre che il suono fondamentale di questo accordo perfetto sia sottinteso nella sua ottava, altrimen­ ti bisogna distruggere ogni principio"; "in seguito questa ottava messa al di sopra di questa terza e di questa quinta, con le quali forma dunque una sesta e una quarta, ci fa udire nondimeno un accordo che è sempre buono, benché il suono fondamenta­ le non abbia più luogo; dunque questo suono fondamentale è trasposto o sottinteso (transposé ou sous-entendu) nella sua ottava; e da ciò deriva che quest'ultimo accordo è meno perfetto che il primo, benché sia composto degli stessi suoni; così questi diffe­ renti modi di esprimersi, 'il principio è rivoltato (renversé), esso è confuso (confondu), trasposto (transposé) o sottinteso (sous-entendu) nella sua ottava' tornano tutti a dire la stessa cosa" [150] . Certamente al tempo del Traité la tematica degli armonici non era ancora implicata. Tuttavia non vi è dubbio che quan­ do essa entra a far parte dell'apparato della teoria, si rinnova in rapporto anche a questo problema l'esigenza di postulare un raddoppiamento degli armonici verso il basso. In questa dire­ zione può essere forzata anche la nozione di rivolto introdotta attraverso il salto di ottava. Abbiamo notato poco fa che Rame­ au sottolinea che il rivolto nel caso degli "inter­valli" rende conto anche del rivolto nel caso degli "accordi" e che in tutta l'argo­ 123 mentazione si fa valere anche l'idea dell'ot­tava come situazione prossima all'unisono: tutto ciò può essere riletto, oltre che per rendere conto dell'inessenzialità delle modificazioni introdotte dal rivolto, anche alla luce dell'inten­zione di far valere il bas­ so fondamentale come un basso quasi-percepito. Considerando l'ottava come prossima all'unisono si indebolisce la differenza tra grave ed acuto, e questo indebolimento potrebbe essere in­ terpretato come se nella nota grave vi fosse la nota acuta, ed an­ che inversamente come se nella no­ta acuta ci fosse la nota grave - cosa che sem­bra anche un modo di dar un senso alla ripresa da parte di Rameau della citazione aristotelica. Quanto al rapporto di complementarità tra gli intervalli, esse viene talora spiegato da Rameau proprio come una faccenda dell'udito "perché quando si crede di udire solo una terza, come do-mi, si ode anche una sesta tra questo mi e l'ottava che sta al di sopra di do"[151]. Ciò deve necessariamente valere anche nella dire­zione opposta, ed è particolarmente importante che possa vale­re anche in questa direzione, dall'acuto al grave, perché in tal caso il rivolto farebbe realmente udire-sotto il basso fonda­mentale. In realtà nello sviluppo della nostra discussione appare sem­­pre più chiaro che una teoria fisicalistica della tonalità non può fare a meno di "armonici inferiori". Fu probabilmen­te la consapevolezza della necessità di un sostegno nella regione dei suoni gravi che condusse Tartini a tentare la via di una fon­da­ zione dell'ar­mo­nia tonale che avesse il suo punto focale nei suo­ ni differenziali di cui egli rivendica la scoperta e che propongono una tematica di suoni generati al di sotto dei generatori. Io credo inoltre che si possa avanzare l'ipotesi interpretativa che questa stessa consapevolezza, unitamente alla difficoltà di farla valere sulla base della tematica degli armonici, sia la motivazione prin­ cipale, in Rameau, del riemergere di una forte componente mate­ matizzante nelle opere più tarde, soprattutto nella Démonstration. In quest'opera la teoria si riveste in mo­do particolarmente netto di panni matematici, a cominciare dalla sua riformulazione in 124 termini di relazioni numeriche proposte nel quadro della teoria delle progressioni e delle medie. Ricompare allora il fantasma del monocordo, da sempre un ponte privilegiato verso consi­derazioni puramente matematiche. In effetti, benché si continui a far riferi­ mento alla nozione di fisica di frequenza, tuttavia il sistema nume­ rico prescelto come rappresentativo delle note con­­sente di lasciare aperta anche una interpretazione in termini di lunghezze, natural­ mente invertendo le direzioni del grave e dell'acuto - così ad es. la sequenza 3, 1, 1/3 potrà essere espressa da 1,3,9 "senza che si debba provare imbarazzo del luogo che occupano i multipli e i sottomultipli" - senza cioè dar peso all'inver­sione che avvie­ ne a questo proposito - "dal momento che ciò dipende soltanto dall'oggetto al quali vengono applicati, si tratti delle grandezze op­ pure delle vibrazioni" [152] . In realtà, se dovessimo tornare a ragionare in termini mono­ cordisti le difficoltà precedenti non si porrebbero nem­meno. Ri­ pensiamo in proposito allo schema di mono­cordo del Traité, sul quale ci siamo a lungo intrattenuti in prece­denza: esso può esse­ re coerentemente esteso verso il basso moltiplicando la lunghez­ za della corda, invece che dividerla. Si ottiene così verso il basso la successione dei numeri naturali (successione "aritmetica"), verso l'alto la successione dei loro reciproci (successione "armonica"), dove i numeri rappresen­teranno naturalmente le lunghezze relative delle corde rispetto al corda di riferimento posta come eguale a 1. Nel numero riconfluiscono lunghezza relativa della corda e la nota stessa che essa emette [153] , cosicché si potrà continuare a parlare ancora della corda di riferimento ovvero del suono fon­ damentale come "generatore" avendo di mira un punto di vista puramente matematico. 6 5 4 3 2 ←1 → ½ 1/3 ¼ 1/5 1/6 All'interno di queste due successioni si darà rilievo ad 1, 1/3, 1/5 sulla destra ed a 1, 3, 5 sulla sinistra, riscoprendo in essi la 125 possibilità di definire i rapporti intervallari attraverso l'antichis­ sima tematica delle medie come garanzia di buona formazione. Nella prima 1/3 ha carattere di media armonica tra gli estremi di 1 e 1/5 e nella seconda 3 ha carattere di media aritmetica tra gli estremi 1 e 5 - e poiché la prima è rappresentativa del modo maggiore e la seconda del modo minore, il rango musicalmente inferiore che si pretende abbia la media aritmetica rispetto alla media armonica rappresen­terebbe un argomento ulteriore per il rango inferiore del modo corrispondente. Se poi consideriamo i tre numeri 3, 1, 1/3, come carat­ terizzanti per la tonalità, ad esempio fa←do→sol, che de­lineano nello stesso tempo un cammino per quinte, ci rendiamo subito conto che il "generatore" 1 è media geometrica della dominan­ te di sotto e della dominante di sopra; ed 1 è media geometri­ ca anche in rapporto ai numeri 5 e 1/5 che delineano invece un cammino per terze: "Ciò che io chiamo Basso fondamentale non è altro che la successione dei termini dell'uno o dell'altra del­ le due proporzioni geometriche, successione da cui si traggono nuove conseguenze per variarla ancor più di quanto sia consentito da queste due proporzioni" [154], cosicché - si afferma perento­ riamente - "tutta la musica teorica e pratica proviene da queste tre proporzioni, l'armonica, l'aritmetica e la geometrica, senza alcuna riserva né per la ragione, né per l'orecchio" [155]. In quel­ la semplice serie di numeri, nel cui cuore non vi è nient'altro che il numero 1, sarebbero dunque compresi i fondamenti ultimi dell'intera teoria musicale. Nella Démonstration appare forse più nitido che nelle opere precedenti il richiamo agli armonici del suono come presenti direttamente nel corpo sonoro, ma si ha anche nello stesso tempo la netta sensazione che questo richia­ mo venga inserito su un supporto matematico che assume alla fine il carattere del sostegno vero e autentico, ultimo e sicuro, dell'intera teoria. 126 10. Guardando un poco oltre Dopo aver esaminato l'inclinazione che assume il problema di una fondazione fisicalistica della musica nella teoria della tona­ lità ai suoi primi inizi, si sarebbe forse tentati di commen­tare: in nessun'altra arte questo problema si è posto con una simile intran­ sigenza. E questo anzitutto avrebbe bisogno di essere spiegato. Altrimenti si potrebbe essere tentati di chiudere in un battibaleno qualunque dibattito: come per le arti in genere, così per la musica. Si tratta di una conclusione che naturalmente siamo lontani dal condividere. È vero che fin dall'inizio abbiamo scoperto le nostre carte mostrando tutt'altro orientamento di ordine gene­ rale, ma nella nostra esposizione non resta affatto celata la no­ stra ammirazione per un progetto così inten­samente perseguito e che forse era inscritto nel destino di un'ar­te che fin dai suoi primi passi si era associata alla ma­tematica per rendere conto dei propri concetti elementari. In realtà io credo che si possa conside­ rare questo inizio e questo rapporto con la matematica, insieme a tutti i motivi che esso porta con sé, ed anzitutto l'esigenza forte di una giustificazione "ete­ronoma" di ciò che la musica porta a realizzazione sul pia­no delle manifestazioni percettive, come ciò che conduce la teoria della musica ad un punto determinato del proprio svi­luppo, all'interno della tradizione europea, a tentare di scoprire un preteso radicamento assoluto nella fisica del suono, e per di più avendo di mira un linguaggio musicale particolare, stori­ camente transeunte. Come abbiamo visto questa pretesa poggia tutta, all'ini­zio, sul dato di fatto innegabile che i primi armonici del suono sono proprio quelli che sono, e non altri. In seguito, nel progresso dell'acustica, numerosissimi altri dati di fatto sono stati messi in evidenza e sono stati correlati alla musica, e più precisamen­ te alla musica tonale. Ma il problema sta appunto nel modo in cui si stabilisce questa relazione. Diciamolo pure: in fin dei conti per il musicista, ma anche per il fisico [156], il fatto che nei primi ar­ 127 monici sia leggibile la triade maggiore potrebbe rappresentare una semplice curiosità, una pura coincidenza. Affinché si possa scorgere qualcosa di pro­fondamente diverso è necessario il sostegno di un intero appa­rato concettuale. E poiché si è spontaneamente portati a ritenere che, chiamando in causa la fisica del suono, l'ele­mento scientifico prevalga su quello filosofico, è bene ribadire più e più volte che la questione di una fondazione fisicalistica della musica tonale è eminentemente una questione filosofica: essa ha le sue motivazioni in decisioni di ordine filosofico, che a loro volta possono essere discusse e contestate anzitutto a partire da prese di posizioni filosofiche. Del resto anche dal punto di vista storico il problema di una fondazione fisicalistica della musica si impone sulla base di altre importanti e significative coincidenze. La filosofia carte­siana con l'enfasi sull'unicità del principio così come il rinnovato interesse sperimentale nei confronti degli eventi sonori non possono cer­ to essere ritenuti un puro sfondo indifferente. Al contrario essi sono in primo piano e rap­presentano un indicatore di direzione per il pensiero. Non meno importante, ed anzi decisivo, è l'accen­ to posto sull'idea di natura che si afferma in tutte le sue possibili risonanze di senso in età illuministica. Entro questo contesto si afferma il linguaggio tonale, entro questo contesto la sua teoria. Così la triade maggiore negli armonici, da pura curiosità che, una volta notata, potremmo gettare alle nostre spalle, diventa iper­significativa, e di qui comincia quel formidabile rovello del pensiero che vuol fare del riferimento agli armonici il fondamento di tutto. Solo assumendo l'intero contesto filosofico-culturale in cui la problematica della fondazione naturalistica si inserisce, essa assume interesse e fascino. Al di fuori di esso essa rappresenta invece un fascio di questioni malposte, non solo nella sua versio­ ne originaria - le cui carenze potrebbero certo essere giustificate con le imperfezioni e le incertezze in cui versa ancora all'epoca la teoria degli armonici - ma anche nelle sue versioni successive assai più evolute. 128 Le difficoltà di ordine generale, che riguardano l'impo­ stazione del problema e quelle di ordine più specifico restano fondamentalmente immutate, anche se tutta la discussione si ar­ ricchisce di nuovi elementi e di nuove angolature. Intanto non risulta mai sufficientemente chiaro che una volta scelta la via di una fondazione fisicalistica, essa deve essere percorsa coeren­ temente fino in fondo, e questo non perché si voglia fare della coerenza un principio obbligatorio del tutto a­stratto. Il fatto che fin dall'inizio l'attenzione del teorico sia orientata da riferimenti fenomenologici e musicali, e su di essi egli non allenta la presa nel momento in cui si addentra nel territorio dell'acustica, può essere certamente ritenuto un pre­gio, piuttosto che un difetto. Occorre tuttavia essere consa­pevoli che si tratta di un pregio che parla contro l'intero progetto di fondazione fisicalistica. Il pro­ blema della coerenza sorge nel momento in cui si vuol fare del riferimento fisico un riferimento fondazionale. Se ci si avvia su una simile strada non si può allora scegliere fior da fiore - questo sì, quest'altro no - facendo criterio di questa scelta proprio il si­ stema musicale di cui si intende sostenere la naturalità. Altrimenti ciò che deve essere fondato fonda il proprio fondamento. Questo problema è stato incontrato, appena si sono mossi i primi passi, in rappor­ to alla questione del settimo armonico, che assume il carattere di un caso semplice ed esemplare. Come abbiamo notato, l'unica accezione realmente comprensibile di "intonazione naturale" è proprio quella che trae riferimento dalle intonazioni reperibili negli armonici del suono. Il settimo armonico propone un interval­ lo che, nell'accezione indicata, è altrettanto naturale quanto lo è quello di quinta o di terza. Tartini lo sapeva bene, e lo rivendica come un suono musicalmente valido [157] . Ma si tratta di una soluzione che ha il senso di un escamotage equivalente a quello di escludere il suo impiego in musica. Non trovandolo nella musica, Rameau lo esclude, e per la stessa ragione, Tartini teorizza la sua inclu­sione. In certo senso, nel primo caso la musica sembra preten­ dere di insegnare qual­cosa alla fisica, nel secondo invece è la fisica 129 che sembra voler insegnare qualcosa alla musica. Fisica e musica in questo modo si parlano, ma un simile dialogo finisce con l'essere uno stravagante dialogo tra sordi. Negli sviluppi successivi di questa problematica tuttavia non solo i progressi dell'acustica propongono problematiche sempre più ricche nell'esplora­zione della composizione dei suo­ ni e delle relazioni che sorgono in forza di questa compo­sizione, ma il senso della problematica fondazionale rispetto alla musica tende a mutare, in particolare in rapporto alla teoria della tona­ lità che in quella problematica è fin dall'inizio strettamente invi­ schiata. E tende a mutare in modo che a tut­ta prima potrebbe sembrare sorprendente. In realtà che il linguaggio tonale fosse da considerare come linguaggio della musica tout court era una sorta di importante ovvietà d'epoca: non c'erano ragioni musicali per pensare altrimenti, e la fondazione fisicalistica fa dunque tutt'u­ no con la teoria della tonalità. L'a­spetto apparentemente sorpren­ dente sta nel fatto che man mano che sorge la consapevolezza sul piano direttamente musicale della relatività delle regole, e l' "ergo sum" della tonica arretra sempre più sul piano del dubbio, la teoria fisicalistica diventa sempre più impegnativa ed ostinata, cer­ cando conferme anche attraverso l'istituzione di correlazioni con il versante fisiologico, cosicché il linguaggio tonale viene prospettato come innestato tanto nella fisica del suono quanto nelle "nostre" capacità di ricezione cerebrale. Si tratta di un rafforzamento e di un appesantimento che sembrano estranei al naturalismo della teoria classica. Ma forse quel che più meraviglia è che la questione sia tutt'altro che chiusa nel pieno del secolo XX in cui gli interessi per una giustificazione così radicale del linguaggio tonale sono del tutto venuti meno dal punto di vista della pratica musica­ le. Naturalmente ci sono ancora bellissimi esempi di innesto di una simile problematica all'interno di questa pratica. Basterà ri­ cordare il nome di Hindemith che tenta di riproporre una visione naturalistica di ampie pretese: la parti­colarità di questo progetto 130 sta tuttavia nel fatto che questa riflessione comporta una revisio­ ne profonda del concetto classico di tonalità, e certamente esso merita considerazione più per questo motivo che per la pretesa fondazione fisica. È possibile inoltre mostrare che in Hindemith il complicato percorso che egli tenta di realizzare fra gli armonici per "dedurre" l'uno dopo l'altro tutti e dodici i gradi della scala cromatica, rappresenta una sorta di mascheramento di un modo di pensare puramente matematizzante, secondo un'alternativa che è sempre rimasta viva nella storia del problema e che, come abbia­ mo visto, è presente anche in Rameau. In certo senso il tentativo di Hindemith attesta ancora una volta, e forse per l'ultima volta, come possa essere produttivo misurarsi su questo terreno anche dal punto di vista della concettualità e dell'esperienza musicale - come era certamente il caso della problematica originaria. Ma il tentativo di fondare fisicalisti­camente la teoria della tonalità continua inesora­bilmente nel secolo ventesimo anche indipendentemente da qualunque inte­resse musicale diretto, quando le ovvietà d'e­ poca hanno intera­mente mutato di segno. Esso diventa allora in certo senso ancora più insidioso, perché, privato di questo interesse, il suo unico scopo diventa quello di attestare il pri­ vilegio su basi fisiche e fisiologiche del linguaggio della tonalità rispetto ad altre modalità di organizzazione musicale del mondo dei suoni. E sia pure in forme coperte e prudenti si suggerisce la tesi che la pretesa naturalità del linguaggio tonale significhi in particolare che esso è fatto a misura del "nostro" cervello, che esso avrebbe una "com­prensibilità" maggiore di qualunque altro modo di organizzazione - e ciò per ragioni in cui spie­gazioni fisico-acu­stiche si ricongiungono a spiegazioni di fisiologia del sistema neuro-cerebrale. Anche in questo caso lo stimolo viene dall'avanzamento e dalle nuove scoperte realizzate nella acustica. In particolare ritorna in primo piano il tema tartiniano del "terzo suono", e quindi in generale dei "suoni di combinazione", e il singolare fe­ nomeno delle altezze virtuali, in parte riconducibile a quello dei 131 suoni di combinazione. Ai suoni di combinazione lo stesso Hin­ demith aveva fatto riferimento per poter teorizzare l'esi­stenza di una fondamentale anche in rapporto agli accordi diadici - una delle novità importanti delle sua teoria è proprio il fatto che egli prende mosse proprio dalla diade. Ma a parte la particolare te­ orizzazione di Hindemith, per la quale andrebbe fatto, come per Tartini [158], un discorso a parte, si è stati indotti a pensare che il problema della teoria della tonalità, soprattutto per ciò che con­ cerne il basso fondamentale avrebbe potuto trovare un sostegno proprio in quel terzo suono generato da parte di due suoni, la cui frequenza è pari alla differenza delle loro frequenze. Questo fe­ nomeno, per lo più appena avvertibile e mettendo in opera par­ ticolari artifici, può assumere anche un carattere particolarmente vistoso. Utilizzando suoni sinusoidali si può avere una semplice esemplificazione. Associando due suoni sinusoidali di fre­quenza pari a 660 Hz (mi) e a 880 Hz (la) in canali distinti, nel suono risultante si ode anche una frequenza pari a 220, ovvero un la due ottave sotto il la acuto, naturalmente con la caratteristica di un suono-ombra (Es. 5, 6*). Nella costruzione del suono la fre­ quenza 220 Hz è del tutto assente, essa sorge nella "combinazio­ ne" tra due suo­ni. Come possa sorgere, se esso abbia una realtà fisica o meno, questa è una questione tuttora dibattuta. Discussa è anche la formazione di altezze virtuali - se sia riconducibile ai suoni di combinazione (differenziali) ed even­ tualmente in che misura. In effetti se si prendono le frequenze 600, 800, 1000, 1200, a parità di intensità, ope­rando sempre con suoni sinusoidali, il loro ascolto simultaneo propone anche un suono grave pari a 200 Hz (Es. 7, 8 *). Si sarebbe qui tentati di parlare di questa altezza "virtuale" di 200 Hz come di una "fon­ damentale", di cui le frequenze realmente immesse sarebbero i parziali armonici [159] . Come resistere alla tentazione di vedere in questi "suoni gravi" proprio quegli aspetti della teoria della tonalità che, richie­ 132 dendo un rimando verso il grave, erano in precedenza rimasti assai dubbi? E non sembra qui di essere proprio alla presenza del basso fondamentale in carne ed ossa, di quel suono che non c'è, eppur si ode? È naturalmente fuor di dubbio il fatto che queste tematiche siano di grandissimo interesse dal punto di vista conoscitivo ed anche sotto il profilo delle tecniche di produ­zione del suono all'altezza dei tempi nostri; ma l'intento di fare di esse una nuo­ va leva per rilanciare il radicamento del linguaggio tonale nella fisica del suono è soltanto frutto di una profonda confusione. Il basso fondamentale è una no­z io­ne sistematica che riguarda un particolare linguaggio musicale e che appartiene organicamente ad un impianto teorico coe­rente che la fondazione fisicalistica alle sue origini ha in parte contribuito a rafforzare, in parte ad incrina­ re. Il raffor­za­mento sta nel fatto che la fondazione fisicalistica, condotta man­tenendo la presa sugli aspetti fenomenologici e mu­ sicali, aggiunge elementi "forti" di sostegno a strutture relazionali di cui era ampiamente possibile rendere conto indipendentemente da essi. L'incrinatura sta invece in tutti quegli aspetti che tendono a sciogliere i vincoli contestuali e funzionali che stanno all'ori­gine delle formazioni tonali di senso, per cercare il fondamento altrove, sul piano extramusicale. Nel basso sot­tinteso di Rameau si può ac­ centuare la relazione con l'impianto sistematico, quindi la relazione con l'idea di uno spazio tonale triadico e con quella di rivolto, ed infine con il principio di consonanza, oppure portare tutta l'atten­ zione sull'ambiguità del termine sottintendere, che chiama in causa non già l'idea di un'organizzazione sintattica, ma una semplice circostanza udi­tiva. In questi tardi sviluppi, si mantiene solo quest'ul­ timo aspetto, rendendo irrilevante il rapporto tra rivolto e basso fondamentale e dando invece la massima enfasi al semplice dato di fatto del suono grave che si ode-sotto, e proprio nell'esisten­ za di questo suono si ritiene di indicare la prova provata che i rivolti hanno un unico basso fondamentale e che costituiscono lo "stesso" accordo. In breve, ci si comporta come se, udendo 133 (in qualche modo) quella nota grave, potessimo dire: questo è il Basso Fondamentale vagheggiato da Rameau e che ora puoi veramente udire [160]. Ma il Basso fondamentale è tutto meno che una nota udita. La situazione peggiora pesantemente quando si arriva a indicare il basso fondamentale come suono differenziale, pretendendo di "inter­pretare" Rameau. Un conto è proporre una teoria interamente rinnovata all'interno della quale svolgono un ruolo importante i suoni differenziali (come è il caso di Tartini o di Hindemith), ed un altro è sostenere che il basso fondamentale di Rameau, sia niente altro che un basso generato per differenza. Una simile idea ha effetti devastanti sulla questione centrale del "generatore". Lo stesso vale per le "altezze virtuali" in genere e sulle pro­ blematiche ad esse collegate. In realtà, una cosa è l'evidenziazione sul terreno della fisica del suono di questa o quella circostanza interessante, e che non ha bisogno per esserlo di essere convali­ data da problematiche di ordine musicale, un'altra è pretendere di irrompere nell'impianto teorico di un particolare modo di organiz­ zazione dei suoni senza nemmeno porsi il problema di quali con­ seguenze abbia questa irruzione sulla coerenza di quell'impianto. Di fronte all'affer­mazione secondo cui "in realtà" Rameau sa­ rebbe stato legato alla "generazione del basso fondamentale come suono differenziale" [161], sarebbe legittimo chiedersi se allora si debbano ipotizzare due modelli esplicativi del tutto differenti, l'u­ no fondato su una nozione di suono fondamentale relativamente ai suoi armonici di cui esso è il "generatore", l'altro su una no­ zione di suono fondamentale che sarebbe esso stesso prodotto da coppie di suoni che assolverebbero insieme la parte del gene­ ratore, se non addirittura di suono fondamentale genera­to dai suoi armo­nici. Che ne sarebbe poi nel caso in cui i "bassi" generati per differenza siano più di uno, come può benissimo accadere [162] ? Le risposte a domande come queste domande faranno irrimedia­bilmente parte degli aggiustamenti, degli escamotages. Ad esem­pio: se i bassi generati sono più d'uno, allora l'accordo avrà 134 una "diversa coloritura armonica differente" [163]. Il che possia­ mo dar per concesso. Ma non stavamo parlando del basso fonda­ mentale? Accade così che con evoluzioni di ogni genere che met­tono in questione armonici e subarmonici, suoni di combi­nazione e altezze virtuali, all'interno di considerazioni che dal fatto fisico sconfinano di continuo e spesso tacitamente nella pura contabilità matematica, destreggiandosi tra ipotesi fisiche e ipotesi fisiologi­ che, talvolta malsicure e ambiguamente proposte come tesi univer­ salmente acquisite - barcheggiando dun­­que tra le secche in cui ci si potrebbe arenare in ogni mo­mento, si riesce alla fine a rendere conto di un sacco di cose fino ad arrivare al dettaglio realmente infimo di fornire spiegazioni fisiche per l'aurea regola del contrap­ punto che riguarda il divieto delle quinte parallele [164] . Purtroppo in tanta dovizia di conferme, non si riesce più nemmeno ad intravedere una teoria della tonalità degna del nome. A differenza della fondazione fisicalistica ai suoi inizi in cui l'impianto della teoria musicale riceve proprio dal riferimento fisi­ calistico anche un impulso all'unità ed alla coe­renza, queste versioni tarde sembrano essersi preso l'incarico di ampliare smisuratamente le incrinature, cosicché alla fine re­stano tra le mani nient'altro che brandelli di teoria musicale associati alla meglio a brandelli di teoria fisica. Peraltro un tema unitario tende ad affermarsi a gran voce; e si tratta proprio di quel­l'ovvietà d'epoca che può essere ripetuta oggi irrimedia­bilmente fuori tempo: il linguaggio della tonalità sarebbe il linguaggio più adeguato alla nostra - alla nostra, di chi? sarebbe finalmente il caso di chiedere - struttura cerebrale oltre che alla natura fisica del suono. Lo straordinario interesse che hanno oggi tutte le questioni che riguardano la fisica del suono, sia intrinsecamente per il loro apporto conoscitivo, sia per il musicista dei tempi nostri che, più che nel passato, è fortemente motivato ad en­trare in contatto vivo 135 con la materia sonora padroneggiandola anche nei suoi parametri fisici, non sarebbe certo compromesso dalla consapevolezza della differenza dei terreni su cui si muovono musica ed acustica: esse possono interagire l'una con l'altra in moltissimi modi, senza avan­ zare la pretesa di convalidarsi reciprocamente. 136 Note [1] Le opinioni su questo punto sono divise, e non sembra che la questio­ ne possa essere decisa. Dopo aver esaminato le varie alternative D. Devie (Le tempérament musical. Philosophie. Histoire. Théorie et Pratique, Beziers 1990, p. 282) arriva alla seguente conclusione: "Si l'on désire s'abstenir en faveur de l'inégalité, il faut se résoudre à confesser notre ignorance quant à l'hypothèse inverse et s'en tenir à ce constat frustrant". [2] J. A. Serre, Essais, p. 14. [3] C'è chi preferisce usare il termine al femminile (armonica, armoniche), mentre qui verrà usato sempre impiegato il maschile, come sostantivazione del­ l'ag­gettivo armonico riferito al suono. Sauveur parlava di "Sons harmoniques". E così anche Rameau. Il termine di "ipertoni" ha un'accezione più generale, comprendendo anche i suoni concomitanti la cui frequenza non è multipla della frequenza fondamentale. [4] Si può trovare una valutazione meditata, ma altrettanto critica, della posizione di Ansermet, in L. Fichet, Les Théories scientifiques de la musique, Vrin, Parigi, 1995, "Ansermet et la Phénoménologie" pp. 145 sgg. [5] A. Machabey, Genèse de la tonalité musicale classique des origines au XVe siècle, Paris 1955, p. 25. [6] ivi, p. 17. [7] ivi, p. 21. [8] ivi, pp. 25 e 26. [9] Non mi è possibile qui illustrare e giustificare nel dettaglio il senso di questa presa di posizione. Per essa rimando alla mia Filosofia della musica, cap. III. [10] Con questa espressione Rameau indica il primo rivolto di un accordo di settima. Come vedremo in seguito, non siamo qui troppo distanti dal modo in cui Rameau introduce la "dissonance harmonique". Cfr. § 9. [11] J. L. d'Alembert, Éléments: "Per distinguere le due quinte l'una dall'al­ tra si chiama dominante la quinta sol al di sopra del generatore, e sottodominante la quinta fa al di sotto dello stesso generatore" - § 42. [12] Génération, p. 171: "Il n'y a que trois Sons fondamentaux, la Tonique, sa Dominante, qui est sa Quinte au-dessus, et sa Soudominante, qui est sa Quin­te au-dessous, ou simplement sa Quarte. Nous distinguerons la Dominante d'u­ne Tonique par l'épithéte de Dominante-tonique; de sorte qu'autrement, le mot seul de Dominante signifiera simplement une Dominante d'une autre Dominante". [13] Cfr. § 7. [14] J. Ph. Rameau, Traité, p. 56. [15] C. Dahlhaus, Untersuchungen über die Entstehung der harmonischen Tonalität, 1967. Cito dalla traduzione francese La tonalité harmonique. Ètude des origines, trad. franc. di A-E. Ceulemans, Liège 1993, p. 36. - In realtà la posizione di Rameau sulla quinta ascendente e discendente è più articolata di quanto appaia 137 in questa osservazione di Dahlhaus. Cfr. § 7 del presente saggio. [16] A. Schönberg, Manuale di armonia, trad. it. di G. Manzoni, Il Saggia­ tore, Milano, 1963, I, p. 41 - 42. [17] C. Dahlhaus, cit., p. 37. [18] V. Zuckerkandl, The Sense of Music, Princeton 1959, p. 195. [19] Traité, p. 7. [20] ivi. - Ho accennato alla frase di Zarlino anche nel mio scritto L'intervallo reperibile in Internet e in queste Opere complete, Vol. VII. [21] T. Christensen, Rameau and musical Thought in the Enlightenment, Cam­ bridge University Press, 1993 p. 76 accenna a questa critica di Rameau a Zarlino, ma non sembra avvertire la sua rilevanza in rapporto al problema generale. [22] Démonstration, p. 17: "nous sommes tous portés à réduire les interval­ les à leurs moindres degrés". [23] Istitutioni Harmoniche, Venezia 1589, libro III, cap. III. Edizione in Cdrom: Gioseffo Zarlino, Music Treatises, Thesaurus Musicarum Italicarum (TMI), sotto la direzione di Frans Wiering, Università di Utrecht. Tutti i riferi­ menti a Zarlino sono tratti da questa edizione digitale. [24] ivi. La citazione completa di Zarlino è la seguente: "Et è in tal ma­ niera semplice la Diapason, che se bene è contenuta da due suoni diversi per il sito, dirò cosi, paiono nondimeno al senso un solo: percioche sono molto simili: e ciò aviene per la vicinità del Binario alla Unità, che sono contenuti negli estremi della sua forma, che è la Dupla: Onde tal forma contiene due principij, cioè la Unità, che è principio dei Numeri, e è quella tra loro, che non si può dividere; e il Binario, che è il principio della congiuntione delle unità, e è il minimo numero, che si possa dividere, e dalla unità è misurato due volte solamente: ma non si può dividere in due numeri; perche non contiene in se altro numero, che l'Unità replicata. Onde si come il Binario hà quasi la istessa natura, che hà l'Unità, per esserle vicino; cosi la Diapason hà quasi la natura istessa dello Unisono; si per essergli vicina; come si scorge ne i termini delle loro forme; come etiandio, per­ che gli estremi delle lor proportioni non sono composti di altri numeri, che della Unita: Di modo che imitando lo effetto la natura della sua cagione; e essendo i numeri harmonici cagioni degli harmonici suoni; è cosa ragionevole, che il suono imiti anco la natura loro; e che li detti due suoni della Diapason parino un suono solo". [25] ivi. Con diapason diapente si intende ottava + quinta. [26] ivi. [27] Il termine di "resonance" viene spesso usato in ambiente francese per indicare gli armonici in genere. Se non esplicitamente notato, invece useremo il termine di "risonanza" per indicare le vibrazioni "per simpatia". [28] Ciò accade esplicitamente in Danielou, ma anche, copertamente, in Hindemith. Sull'argomento cfr. i miei due saggi: La composizione armonica del suono e la serie delle affinità tonali in Hindemith, in "Sonus. Materiali per la musica moderna e contemporanea", n. 21-22 dic. 2002 e La scala universale dei suoni di Daniélou, in 138 "Rivista Italiana di Musicologia" XXXVI, 2001, n. 2. Entrambi i saggi sono repe­ ribili in Internet o in edizione a stampa in Opere Complete, vol. XII, Ed. Lulu.com [29] R. Descartes, Musicae Compendium, Utrecht 1650: "Sonus se habet ad Sonum ut nervus ad nervum, atqui in quolibet nervo omnes illo minores conti­ nentur, non autem longiores, ergo etiam in quolibet sono omnes acutiores con­ tinentur, non autem contra graviores in acuto, unde patet acutiorem terminum esse inveniendum per divisionem gravioris: quam divisionem debere esse Arith­ meticam, hoc est in aequalia, sequitur ex praenotatis" - § 5 (De Consonantiis); Frankfurt am Main, 1695, p. 10. Trad. it. Breviario di musica, a cura di L. Zanoncel­ li, Passigli, Firenze 1990, p. 78. - Rameau cita questo passo in Traité, p. 3. [30] In E. Bensa e G. Zanarini, La fisica della musica. Nascita e sviluppo dell'acustica musicale nei secoli XVII e XVIII, Nuncius, XIV, 1 (1999), pp. 69 - 111, si definisce "vago" questo tentativo di spiegazione di Descartes. [31] trad. it. cit, p. 80. [32] R. Descartes, trad. it. cit., pp. 84 - 85. [33] Traité, p. 4. [34] Traité, cit., p. 5. [35] ivi. Dopo tutto ciò mi sembra alquanto difficile sostenere come fa Dahlhaus (La tonalité harmonique. Ètude des origines, trad. franc. di A. E. Ceulemans, Mardaga, Liège 1993, p. 36) che nel Traité, Rameau si affiderebbe unicamente alla divisione dell'ottava secondo la tematica delle medie, mentre l'idea del suono fondamentale interverrebbe solo più tardi. I riferimenti alle medie ed all'appara­ to aritmetico restano del resto importanti per Rameau lungo l'intero corso della sua speculazione, e quindi non soltanto nella fase iniziale. Ma la sperimentazione monocordista, sostenuta dal ragionamento cartesiano, consente già la formu­ lazione dell'idea di un suono fondamentale che prepara la sua interpretazione fisicalistica. [36] C. Tolemeo, La scienza Armonica, a cura di M. Raffa, Ed. Sfamemi, Messina 2002, cfr. § 1.13, p. 132 e § 1.15, p.138 [37] Traité, p. 5. [38] Cfr. Scienza armonica, trad. Raffa, cfr. 1.13. [39] Traité, p. 4. [40] Principes d'acoustique, p. 3. [41] Mersenne parla di petits sons delicats che si afferrano giovandosi del silenzio notturno e attraverso la concentrazione dell'attenzione ( Cfr. E. Bensa, G. Zanarini, cit.). [42] J.J. Diderot, Mémoires sur différents sujets de Mathématiques, Première Mémoire (Principes généraux de la science du son), par. X, Oeuvres Complètes, IX, 1875, p. 120. [43] Quasi due secoli dopo, Helmholtz (Die Lehre von den Tonempfin­dungen, VI ed., Braunschweig 1913) poteva ancora scrivere: "Con la nostra ricerca sia­ mo pervenuti ad un apprezzamento degli ipertoni, che devia abbastanza dalle opinioni finora sostenute da musicisti ed anche da fisici, e dobbiamo perciò 139 contrapporre ad esse delle opinioni che le contraddicono. Certo gli ipertoni sono stati riconosciuti, ma quasi soltanto in singoli tipi di suoni, e precisamente in quelli delle corde, dove vi erano condizioni favorevoli per la loro osservazione; essi appaiono tuttavia, nelle opere precedenti fisiche e musicali, come un fe­ nomeno accidentale, raro, di scarsa intensità, una specie di curiosità che si può citare talvolta incidentalmente per sostenere l'opinione secondo cui la natura avrebbe prefigurato la costruzione del nostro accordo maggiore - un fenomeno che è stato tuttavia nel suo complesso abbastanza trascurato" (p. 99). [44] J. Sauveur, cit.: "J'ay donc crû qu'il y avoit une science superieure à la Musique, que j'ay appellée Acoustique, qui a pour objet le Son en general, au lieu que la Musique a pour objet le son en tant qu'il est agréable à l'ouïe" - Que­ ste parole rieccheggiano in J. Ozanam, Récréations mathématiques et physiques, Paris, 1778, p. 329: "Gli antichi non sembra abbiano considerato i suoni da altro punto di vista che da quello della musica, cioè come capaci di colpire gradevolmente l'orecchio; è egualmente molto dubbio che essi abbiano conosciuto qualche cosa di più che la melodia, e che abbiano avuto qualcosa di simile a ciò che noi chia­ miamo arte della composizione. Ma i moderni, avendo considerato i suoni dal lato puramente fisico ed avendo fatto in questo campo, trascurato dagli antichi, numerose scoperte, hanno dato vita ad una scienza nuova alla quale si è dato il nome di acustica. L'acustica è dunque la scienza dei suoni considerati in generale sotto punti vista matematici e fisici; ed essa comprende sotto di sé la musica, che considera i rapporti tra i suoni in quanto essi sono gradevoli all'udito, sia nella loro successione, attraverso cui si costituisce la melodia, sia nella loro simulta­ neità, attraverso cui si forma l'armonia". [45] Sauveur pensa di suddividere l'ottava in 43 parti eguali che egli chia­ ma meridi; una meride verrà suddivisa in 7 parti chiamate eptameridi (volendo una precisione ancora maggiore, si potrà distinguere ogni eptameride in dieci decameridi). Si tratta in realtà della suddivisione ripresa da Savart in 301 parti, a cui egli impose il proprio nome. [46] A. Laugel, La voix, l'oreille et la musique, Paris 1867, p. 24: "Si nous avionz acquis à force d'attention le privilège de décomposer tous les sons, ce morcellement perpétuel nous empêcherait de percevoir aussi aisément che le faisons par l'ouïe les phénomènes du monde externe". [47] op. cit., p. 84. [48] ivi. [49] Per utile convenzione il conteggio degli armonici comincia dalla nota fondamentale. L'indice numerico attribuito al nome della nota riguarda invece la sua localizzazione nell'ordine delle altezze, e qui viene seguito il metodo di asse­ gnazione che attribuisce il numero 4 al do centrale del pianoforte. [50] J. Tyndall, Le son, trad. franc. di A. Moignò, Parigi 1869, p. 125 [51] Ciò che faceva propendere in questa direzione era la difficoltà di comprendere come uno stesso corpo sonoro potesse avere vibrazioni di ciclo differente - ciò poteva apparire, in assenza di qualche plausibile spiegazione, 140 come contradditorio. J. Ozanam, op. cit., p. 364 : "Ciò che mi sembra a questo riguardo più verosimile è che queste vibrazioni esistano solo nell'orecchio", dal momento che sembra dubbio che lo stesso corpo sonoro possa dare vibrazioni differenti. [52] op. cit., pp. 84 - 86. [53] op. cit., I, 4, pp. 106-112. [54] ivi, p. 108. [55] ivi, p. 109. [56] ivi. [57] ivi, p. 111. [58] ivi, p. 112 [59] op. cit. p. 54. [60] La figura seguente è tratta da J. Tyndall, op. cit., p. 108. [61] La figura seguente è tratta da B. Dessau, Manuale di fisica, II, Milano 1915, p. 19. [62] op. cit., p. 109. [63] ivi, p. 128. [64] ivi, p. 114. Lo stesso Tyndall un esperimento utilizzando un filo di platino arroventato dalla corrente elettrica, ivi, p. 114. [65] Cfr. T. Christensen, op. cit., p. 133. Per tutti gli approfondimenti di ordine storico si rimanda a questo volume ed all'ampia discussione sull'estetica musicale illuministica nel volume di A. Arbo, La traccia del suono, ed. La Città del Sole, Napoli 2001. [66] Nouveau Système, p. 1. [67] Démonstration, Préface, p. VIII. [68] Génération, TMF, p. 170: "Note Tonique, ou Finale ou premier Son fondamental du Mode, dit autrement, Son principal". In certi luoghi Son fondamental viene contrapposto a Son principal intendendo il primo in relazione all'ac­ cordo, il secondo in relazione al "modo" - cfr. ad es. Nouveau Système, p. 56 dove si parla di " Son fondamental qui n'est pas Principal". [69] Nella Démonstration, p. 32, note tonique è considerata anche come si­ nonimo di generateur: "Générateur, ou son principal, ou encore, note tonique". - Sauveur utilizza l'espres­sione di "suono fondamentale" per indicare 1. per indicare il Son fixe, cioè il suono di riferimento per scopi di accordatura e di de­ terminazione dei rapporti intervallari, che Sauveur propone di determinare a 100 vibrazioni al secondo; 2. il Son principal emesso dalla corda, per contraddistin­ guerlo dai suoi armonici ("petits sons"), cosicché si specifica anche "suono fon­ damentale della corda"; 3. la "finalis" di una melodia. - In Helmholtz, Grund­ton è espressione usata nel contesto della problematica degli armonici: essendo il suono nel suo complesso (Klang) formato da suoni parziali (Teiltöne, Partialtöne) il primo di questi suoni parziali è il Grundton des Klanges e indica il suono "se­condo la cui altezza noi giudichiamo l'altezza del suono intero nel suo insieme"(I, p. 37-38). 141 [70] Questi interessi didattici sono attestati dal Code de Musique pratique del 1760. Questo stesso testo, in ogni caso, è accompagnato da un'appendice teorica, Nouvelles Réflexions sur le Principe sonore. [71] E sono sempre coesistiti nella tradizione, fino alla Harmonielehre di Schönberg ed alla Unterweisung di Hindemith. [72] Démonstration, p. 7. [73] In figura il segno ¦ indica il carattere "maggiore" dell'intervallo e ¥, nella figura successiva, il carattere "minore". [74] Démonstration, p. 24: "d'où il est évident que la seule quinte constitue l'harmonie, et que les tierces la varient". [75] Nouvelles Réflexions, p. 217. [76] Demonstration, p. 6. [77] Questa discussione è peraltro inficiata dall'adozione da parte di Ra­ meau delle teorie di De Mairan. Cfr. T. Christensen, op. cit., p. 140. [78] Éléments, p. 18. [79] Nelle Nouvelles Réflexions di Rameau, il problema della collabo­razione della vista e del tatto con l'udito assume un significato particolarmente am­ pio, quasi che la natura stessa con questa collaborazione intendesse facilitare la comprensione dei rapporti matematici, indicandoci una strada che supe­rerebbe l'ambito strettamente musicale, per riguardare ogni oggetto di interesse per la scienza. Cfr. in part. pp. 229 e 236. Si tratta in ogni caso di quelle impennate speculative di Rameau di cui qui non intendiamo occuparci. [80] Cfr. Génération, Deuxième Experience, pp. 8 - 9. [81] Nouveau Système, p. 21. [82] Traité, p. 36. Va notato che, per quanto riguarda la giustificazione della terza minore, Rameau non rinuncia alla giustificazione puramente matema­ tica delle medie. Così viene fatto notare che la terza maggiore a 4/5 è la media armonica degli estremi dell'intervallo di quinta (1, 2/3), e la terza minore a 5/6 la media aritmetica (cfr. in particolare Génération, cap. XII). [83] op. cit. pp. 57-58. [84] ivi, p. 58 [85] d'Alembert, op. cit. p. 21. [86] Proprio in rapporto al problema del modo minore, Rameau nella Démonstration, p. 63 osserva che la natura talora si limita a dare delle semplici indi­ cazioni: "La nature n'offre rien d'inutile, et nous voyons le plus souvent qu'elle se contente de donner à l'Art de simples indications, qui le mettent sur les voyes". [87] Démonstration, p. 30 - 31: "A présent que l'harmonie est connue, il ne s'agit plus que de lui donner une succession; succession qui ne peut s'imaginer qu'entre les sons qui composent cette harmonie, puisqu'on n'en connoît point d'autres; de plus, chacun des sons de cette succession pris dans un corps sonore particulier, sera, de même que le premier, principe de son harmonie". [88] Génération, Cap. IV, p. 39 sgg. [89] ivi, p. 41 142 [90] ivi. [91] Démonstration, pp. 30 - 31. [92] d'Alembert, Éléments, p. 22, § 34. [93] Nouveau Système, cap. IV, p. 30. [94] ivi: "Si le plus parfait progrès du Son fondamental est de passer à sa Quinte au-dessus en débutant; celui de cette Quinte doit être de retourner à ce Son fondamental en finissant; car retournant pour lors comme à sa source, on n'a plus rien à desirer après un pareil progrès, qui naît du renversement du premier. Lorsque le fondamental est en marche, il peut passer tantôt à sa Quinte au-dessous, tantôt à sa Quinte au-dessus, et celles-ci peuvent y retourner, parce que tous ces progrès ne sont qu'une suite les uns des autres; mais lorsqu'on finit, la Quinte au-dessus doit absolument passer au Son qui l'a engendrée, pour les raisons précedentes". [95] Cfr. § 2. [96] Éléments, p. 25. [97] Table Alphabetique des Termes nella Génération Harmonique. Il senso di questa affermazione può essere illustrato dalla figura precedente nella quale si attribuisce a do il numero 9. Cosicché si può leggere la proporzione: 3:9=9:27. [98] ivi, p. 25. [99] Essa viene ripresa persino da Anton Webern (Il cammino verso la nuova musica, trad. it. di G. Taverna, Milano 1989, p. 21), in un modo particolarmente significativo per il fatto che egli ribadisce la naturalità della scala maggiore, il suo sostegno negli armonici, con una inclinazione nettamente eurocentrica. Dopo aver sommariamente osservato che i suoni in uso sono "un derivato della serie degli armonici" e che "nell'ordine della serie, la quinta è il suono più in eviden­ za e quindi quello che ha la più forte affinità con il suono fondamentale" e che "un tale suono fondamentale sta in ugual rapporto con il suono che si trova una quinta più in basso", si conclude che "fra gli armonici di questi tre suoni affini e imparentati fra di loro si trovano i sette suoni della scala". E si continua così: "Vedete dunque che si tratta di un materiale particolarmente conforme alla natura. La nostra scala di sette suoni si spiega in questo modo; ed è da credere che precisamente questa sia stata la sua origine. Esistono anche musiche di altri popoli, oltre a quella occidentale (io non ne capisco molto): ad esempio la musica giapponese e quella cinese, sin dove non diventano un'imitazione della nostra. Tali musiche hanno altri generi di serie, non quella dei sette suoni. Ma il fatto che alla nostra musica sia tracciato un cammino particolare, sembra dimostrare la logicità e la profonda fondatezza del nostro sistema". [100] Fino a Hindemith, che tenterà di derivare dagli armonici l'intera scala cromatica. [101] In effetti occorrerebbe mantenere anche terminologicamente la distinzione tra l'armonico di un suono e la nota che "corrisponde" ad esso in un accordo, non essendo evidentemente la stessa cosa. [102] Prestando comunque attenzione alle differenze di sfondi generali 143 che non sono da poco. Ad esempio cfr. p. 9 nota dove d'Alembert fa una preci­ sazione importante che sembra anche essere un'implicita critica a Rameau (che in effetti ama sostituire ai suoni i numeri): "Occorre notare particolarmente che mediante queste espressioni numeriche, non si pretende affatto di paragonare i suoni in se stessi; poiché i suoni, in se stessi, non sono che sensazioni e non si può dire che una sensazione sia tripla o doppia di un'altra: così le espressioni 1, 2, 3, ecc. impiegate per designare un suono, la sua ottava superiore, la sua dodice­ sima superiore, ecc., significano soltanto che se una corda fa un certo numero di vibrazioni in un secondo, per esempio, la corda che è all'ottava superiore ne fare il doppio nello stesso tempo, la corda che è alla dodicesima ne farà il triplo, ecc.". [103] ivi, cap. V, p. 27. [104] ivi, p. 28. [105] p. 36. [106] d'Alembert, p. 22. [107] ivi, p. 36. Rameau, da cui d'Alembert riprende queste spiegazioni, parla di "repos" - come una cadenza intermedia - al termine del primo tetra­ cordo e di un duplice "repos absolu" nella struttura cadenzale conclusiva re-sol- do. Démonstration, p. 51 - In Rameau vi è anche un altro metodo, più artificioso che mai, per realizzare un basso fondamentale che renda conto della scala dia­ tonica corrente, senza raddoppio di sol, che viene ripreso da d'Alembert, ivi, p. 68. Si veda in proposito L. Fichet, Le langage musical baroque, Vrin, Parigi 1995, pp. 104 - 105. [108] Démonstration, p. 76. Tav. IV e d'Alembert, Éléments, pp. 59 sgg. e tav. H, p. 173. [109] d'Alembert, op. cit., p. 72. [110] Nouveau Système, cap. VI. [111] Génération, p. 43-44: "Ne voit-on pas bien que ces signes de Diézes et de Bémols ne servent qu'à suppléer à d'autres noms qu'on devroit donner aux Sons auxquels on les associe, mais dont on a jugé à propos de s'exemter, pour éviter la confusion et pour faciliter la pratique, d'autant plus qu'ils sont absolu­ ment inutiles dans l'ordre naturel". - Su questo problema mi sono soffermato nel saggio Il cromatismo, 2004. [112] Ciò avviene nella Génération harmonique (1737). In precedenza (Nouveau Système de Musique Theorique, 1726) aveva optato per due varianti di tempera­ mento ineguale in uso all'epoca (il cosiddetto Temperament ordinaire), che vanno sotto il suo stesso nome. Cfr. D. Devie, op. cit., p. 96 sgg. [113] D. Devie, op. cit., p. 101 e p. 283 n. 2. Peraltro va anche detto che per D. Devie il temperamento equalizzato è da annoverare tra i peggiori mali della modernità: "Ainsi, j'affirme que la généralisation du tempérament égal est analoghe à la multiplication des pylones électriques, des antennes et des auto­ routes: ces innovations ont apporté des facilités mais ont également contribué à gâcher le paysage et à 'mécaniser' notre univers. C'est pourquoi je m'oppose à toute justification du témpérament égal, lequel n'a strictement rien apporté sur 144 le plan musical. Là come ailleurs, le point de vue quantitatif qui régit la société moderne s'est imposé par de faux raisonnements" (p. 9). [114] Talora si parla di questo settimo armonico come di un si bemolle ca­ lante, essendo l'intervallo rispetto alla fondamentale di 969 cents. Natu­ralmente tale formulazione incrocia ambiguamente il dato fisico con quello musicale. L'al­ tezza di un armonico non può essere né calante né crescente. [115] Se ammettiamo di poter salire a piacimento nella successione degli armonici - come si è autorizzati almeno dal lato matematico - la nozione di intonazione naturale risulta assai poco selettiva. Riducendo gli armonici via via ottenuti all'interno dell'ottava, si ottiene la sua saturazione dal punto di vista per­ cettivo. Considerando le cose in questo modo la nozione di intonazione naturale è del tutto irrilevante. [116] Ponendo a 0 la nota iniziale, la distanza da essa di ogni nota del basso fondamentale sarà espressa da +702 cents se si tratta di una quinta ascen­ dente e da - 702 cents se si tratta di una quinta discendente. Per evitare inutili complicazioni la scala prosegue in modo conseguente al suo insizio senza tener conto della distanza effettiva dell'armonico corrispondente. Per calcolare la di­ stanza di ciascuna nota della scala dal basso corrispondente basterà addi­zionare al valore assegnato al basso con 386 o 702 se si tratta rispettivamente di una terza ovvero di una quinta, aggiungendovi le ottave eventuali. - I numeri in piccolo nella riga inferiore sono naturalmente i numeri da aggiungere al numero asse­ gnato al basso, mentre i numeri sopra di essi sono i risultati di queste somme. Su questi risultati opera la riduzione al grado minimo, sottraendo a ciascuno di essi il valore di 1200, ottenendo i valori intervallari relativi alla nota iniziale della scala, scritti sopra la riga tratteggiata. [117] La scala di Zarlino è caratterizzata dai seguenti intervalli rispetto alla fondamentale: 0, 204, 386, 498, 702, 884,1088, 1200. Gli intervalli relativi sono di conseguenza: 0, 204, 182, 112, 204, 182, 204,112. Vi è dunque una differenza nell'intonazione della sesta a 884 cents anziché a 996, con conse­guente inversio­ ne del tono grande e del tono piccolo in quella posizione. [118] Démonstration, Tav. scala C. [119] Rameau, Génération, cap. VII prop. IV. [120] Infatti: 702+498-316+498-702=680 mentre 702+498-294+498702 =702. Anche Hindemith attira l'attenzione su questo problema, come ho notato nel saggio citato in nota n. 28. [121] Génération, Cap. VII, quarta proposizione: "Sans doute que l'im­ pression reçue du premier sol, comme fondamental, et de son Harmonie, reste à l'Oreille jusqu'au dernier, et qu'en conséquence elle conduit la Voix, qui tempere d'elle-même la Consonnance en question, ou peut-être toutes, pour arriver à l'Unisson du premier". [122] Génération, Cap. VII, pp. 93 - 95. [123] Génération, p. 80. [124] Rameau fornisce una indicazione di un'accordatura di tastiera per 145 quinte a temperamento minimo (Génération, pp. 101) che viene ripresa da d'A­ lembert (Éléments, p. 46, § 72: "Prenez telle touche du clavecin qu'il vous plaira vers le milieu du clavier, par example UT; accordez en la quinte SOL d'abord fort juste, puis diminuez-la imperceptiblement; accordez ensuite la quinte juste de cette quinte ainsi diminuée, puis diminuez imperceptiblement cette seconde quinte…". Il risultato (se siamo stati abbastanza abili ed anche un po' fortunati) sarà una buona accordatura a semitoni eguali. [125] Rameau, Génération, p. 94. [126] Génération, pp. 95 - 96. [127] ivi, p. 100. [128] Éléments, cit., p. 49: "Noi abbiamo dato questa regola per il tempe­ ramento secondo Rameau, ed il giudizio tocca agli artisti disinteressati". [129] ivi. Corsivo mio. [130] Spesso questa attribuzione a Rameau della concezione delle "terze sovrapposte" è data senz'altro per scontata. Cfr. ad es. L. Rognoni, Introduzione al Manuale di armonia di A. Schönberg, trad. it. a cura di G. Manzoni, Milano 1963, p. XXXI. [131] Nouveau Système, p. 6: "Ces deux Accords renferment tous ceux qu'on peut employer dans l'Harmonie; et l'on doit, pour cette raison, les appeller Fondamentaux. S'il y a d'autres Accords que ces deux premiers, ils ne peuvent naître que de leurs differentes combinaisons". - Questa posizione viene quasi letteralmente ribadita da Victor Zuckerkandl, op. cit., p. 182: Triade maggiore e minore e accordo di settima, con i loro rivolti, "costituiscono l'intero materiale dell'armonia". [132] ivi: " donc l'Octave doit servir de bornes aux Accords, de même qu'aux Intervales; puisque tout ce qui en excede l'étenduë n'est que la Replique de ce qui s'y trouve déja contenu" (ivi, p. 6) . [133] Nouveau Système, cap. XI (De la Dissonance harmonique), p. 55. [134] ivi, p. 56. [135] ivi, p. 58. - E quindi manifestamente erronea l'affermazione di J. Chailley secondo cui Rameau proporrebbe di costruire l'accordo di settima con una terza dissonante "arbitraria­mente aggiunta alla consonanza dell'accordo perfetto". Ed è veramente al limite del tollerabile il fatto che, dopo questo sva­ rione di lettura, egli aggiunga che "tous les harmonistes savent qu'aujourd'hui encore on appelle sans rire 'harmonie dissonante' celle où apparaissent les plus inoffensifs accords de septième". Éléments de philologie musicale, Paris 1985, p. 159. Una simile presa di posizione è inserita in un discutibile apparato teorico in base al quale gli armonici nella loro successione stabilirebbero i passi di una sorta di una sorta di "filosofia della storia" della musica. Anche l'interesse della sua affer­ mazione secondo cui la concezione dell'accordo tonale come sovrapposizione di terze può essere considerata un metodo pedagogicamente semplice, ma con­ cettualmente falso, essendo la terza interpolata nell'inter­val­lo principale di quinta (ivi, p. 62) - affermazione alla quale presa in se stessa ci assoceremmo volentieri 146 - risulta largamente compromesso dal fatto che essa è strettamente integrata in quell'appa­rato teorico. [136] Nouveau Système, p. 61 sgg. [137] W. Piston, Armonia, trad. it, a cura di G. Bosco, G. Gioanola, G. Vinay, Torino 1989, p. 485. [138] Démonstration, p. 19. [139] Direction nel testo di Serre significa propriamente ordre direct in op­ posizione a Inversion. [140] J. A. Serre, Essais, op. cit. p. 54. [141] Nouveau Système, pp. 7-8. [142] ivi, p. 8. [143] ivi. [144] Code, p. 25. [145] Code, p. 29. - Nella Table alphabetique des termes contenuta nella Génération questa è la definizione di Renversement: "Renverser signifie changement d'ordre entre les Sons d'un Rapport, d'une Proportion, d'un Intervale, d'un Ac­ cord, de maniere que tel Son qui étoit au grave se trouve à l'aigu, ou au milieu." [146] Génération, pp. 35-46. [147] Éléments, § 209. [148] Descartes, Compendium, trad. it. cit.p. 78. [149] Traité, p. 8. [150] Traité, p. 8. [151] Démonstration, p. 18. [152] Démonstration, Preface, p. X. [153] Nella Démonstration si nota una netta propensione a sostituire il nome delle note con numeri, o comunque ad associarli strettamente. [154] Démonstration, p. XIV. [155] ivi. Per Rameau la musica sarebbe il luogo in cui anzitutto la natura rivela l'importanza di queste "proporzioni" per la scienza in genere. [156] Molte critiche alla posizione di Rameau vennero da parte dei fisici. Chladni, ad es., osserva: "Non è affatto conforme alla natura il pretendere, come fanno numerosi autori, di derivare l'intera armonia dalle vibrazioni di una corda, e soprattutto dalla coesistenza di alcuni suoni con il suono fondamentale. Una corda non è che una specie di corpo sonoro. In numerosi altri corpi le leggi ge­ nerali delle vibrazioni, che non erano note, hanno carattere differente; e di con­ seguenza non si può applicare le leggi di un corpo sonoro a ciò che deve essere comune a tutti. Un monocordo non può servire per stabilire i principi dell'armo­ nia; ma soltanto per farsi un'idea dell'effetto dei rapporti" - Traité d'Acoustique, trad. franc., Paris 1809, p. 11. Anche Bernouilli ritiene che "l'armonia dei suoni" prodotta da particolari corpi sonori "non è essenziale a questa materia e non deve servire da principio per i sistemi di Musica"" (cfr. E. Bensa, G. Zanarini, La fisica della musica. Nascita e sviluppo dell'acustica musicale nei secoli XVII e XVIII, Nuncius, XIV, 1 (1999), pp. 69 - 111). 147 [157] G. Tartini, Trattato di musica secondo la vera scienza dell'armonia, a cura di E. Bojan, Palermo 1996, p. 211: "Ho avvertito che questo intervallo è di fa­ cilissima intonazione sopra il violino, ed è voluto dalla natura armonica, perché si trova fatto dalla natura nelle trombe marine, e da fiato, e ne' corni da caccia: strumenti ne' quali non ha luogo l'arbitrio umano; ma la sola fisico-armonica natura". [158] La posizione di Tartini, sia per la parte che riguarda la teoria musi­ cale sia per gli aspetti di filosofia generale nella quale essa è inserita resta tuttora da valutare a fondo. Su di essa Giovanni Guanti ha richiamato l'attenzione con vari preziosi contributi, tra i quali segnaliamo: La Natura nel sogno platonizzante di Giuseppe Tartini, in Tartini Maestro delle nazioni, Atti del Convegno Internazionale di Pirano (7-8 aprile 2001), a cura di M. Kokole, Casa Editrice ZRC, Ljubljana (Slovenia), 2002, pp. 51 - 69; Giuseppe Tartini lettore di Platone, in Florilegium Musicae. Studi in onore di Carolyn Gianturco, a cura di P. Radicchi e M. Burden, 2 voll., Edizioni ETS, Pisa 2004, pp. 603 - 619; Chi ha paura della Scienza platonica fondata nel cerchio di Tartini?, in "Rivista Italiana di Musicologia", vol. XXXVIII, 2003 n. 1, pp. 41-73. [159] Per ogni più precisa informazione sui suoni di combinazione e sulle altezze virtuali si rimanda al testo di Andrea Frova, Fisica nella musica (Zanichelli, Bologna1999), che espone con chiarezza, ricchezza di dettaglio e con prudente, ma anche evidente simpateticità questa linea di discorso. [160] Cfr. J. Pierce, Le son musical, trad. franc, di F. Berquier, Paris 2000, in particolare il capitolo VI, Rameau et l'harmonie, pp. 83 sgg. dove si illustra in che modo venga generata attraverso gli armonici di una triade maggiore un'altezza virtuale che si trova due ottave sotto la fondamentale dell'accordo e ritiene di poter concludere che "Rameau ha dovuto udire questo basso fondamentale due ottave al di sotto della base dell'accordo quanto ascoltava accordi perfetti maggiori. Ciononostante, poiché egli considerava come essenzialmente identiche due note separate da un'ottava, egli ha chiamato basso fondamentale la base dell'accordo piuttosto che il do situato due ottave più in basso" (p. 90). Nel contesto di questo problema Pierce scrive che "L'orecchio ha evidentemente una forte tendenza ad attribuire una sola altezza ad una collezione di suoni le cui frequenze sono multipli interi di una frequenza comune, anche se questa frequenza è essa stessa assente o se sono assenti alcuni dei suoi multipli" (p. 89) [161] A. Frova, op. cit., p. 186. [162] Ad esempio, nel caso del primo rivolto. Cfr. ivi, p. 187. [163] ivi. [164] ivi, p. 180. Giovanni Piana Opere complete Volume nono Teoria del sogno e dramma musicale. La metafisica della musica di Schopenhauer 2013 4 Questo volume è stato pubblicato dall'Editore Angelo Guerini e Associati nel 1997. ISBN 978-1-291-27180-5 Copyright Giovanni Piana Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Uniform Resource Identifier Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT La fotografia nella copertina esterna è di Giovanni Piana 5 Teoria del sogno e dramma musicale La metafisica della musica di Schopenhauer Giovanni Piana 6 L'immagine della copertina interna è liberamente ispirata all'acquaforte di Max Klinger intitolata Psiche sulla roccia, 1880. 7 Indice Parte prima Introduzione alla filosofia della musica di Schopenhauer 1. La musica e la rappresentazione (p. 11) 2. Il carattere di mondo della musica (p.18) 3. L'udito e il pensiero (p.20) 4. Le giustificazioni matematiche (p. 27) 5. Il basso fondamentale e la teoria dei quattro regni (p. 33) 6. Metafisica e basso continuo (p. 40) 7. La melodia e i segreti della volontà (p. 47) 8. La musica come canto del mondo (p. 51) 9. La musica e la vera filosofia (p. 56) 10. La melodia e il desiderio (p. 59) 11. La musica e la gioia della volontà (p. 66) Parte seconda La teoria del sogno di Schopenhauer nell'interpretazione di Wagner 1. Ripresa (p. 73) 2. L'idea dell'unità della natura e la sua realizzazione nella musica (p. 81) 3. La musica e la passione dell'essere (p. 84) 4. Affettività e musicalizzazione della natura in Wagner (p. 86) 5. La teoria del sogno di Schopenhauer (p. 92) 6. L'interpretazione wagneriana (p. 100) 7. Una notte sul Canal Grande (p. 108) 8. Musica, dramma e mito (p. 113) 9. L'ultimo paradosso (p. 116) 8 9 Parte prima Introduzione alla filosofia della musica di Schopenhauer 10 11 1 La musica e la rappresentazione hi ffrontasse in prima lettura le pagine che Scho­penhauer dedica alla musica nel § 52 del Mondo come volontà e rappresentazione [1] , avendo in mente i grandi riferimenti a Wagner, e poi a Nietzsche, potrebbe avvertire non solo che questi riferimenti appaiono remoti e difficili da cogliere a partire da questo testo, che pure è centrale per la filosofia della musica del filosofo, ma anche che esso mostra dei limiti piuttosto vistosi e forse inattesi - tenendo conto della fama da cui è circondato. Può sorprendere il semplice dato di fatto che le pa­gine dedicate alla musica non superino significativamente, quanto al loro numero, quelle dedicate alla poesia o alle arti visive; e destare imbarazzo la scarsità e genericità dei rimandi esemplificativi a musicisti, rimandi che peraltro sono marginali anche rispetto al dibattito teorico che qui viene condotto. Molte osservazioni potrebbero apparire grossolanamente dipendenti da connessioni associative assai dubbie; e si avverte subito uno scon­certante alternarsi di impennate speculative di respiro anche troppo ampio con un non so qual piattume in cui si sospet­­ta la presenza di un aspetto scolastico, imparaticcio. Si tratta di una prima impressione che ci mette sull'av­viso: non vi è dubbio infatti che ad una simile posizione filosofica sulla musica sia legata un'avven­tura spirituale particolarmente ricca e complessa, ma per rendere conto di essa dobbiamo procedere con la massima cautela, cominciando ad individuare una giusta prospetti­va di lettura, perché da essa dipende in massima parte la capacità di cogliere correttamente ombre e luci. È facile intanto essere fuorviati nella valutazione di queste pagine se non teniamo chiaramente presente lo scopo effettivo che 12 Schopenhauer si propone. Va infatti subito chiarito che ciò che preme al filosofo non è il dispiegamento effettivo di una teoria dell'arte che si mo­stri capace di fornire suggerimenti, prospettive e criteri di interpretazione per le sue produzioni. Non si tratta dunque di mettere a punto strumenti concettuali capaci di venire a capo della complessità dell'arte come fenomeno culturale. Il problema è invece quello di aprire una discussione che abbia di mira la portata filosofica del­l'attività artistica; e non in una vaga generalità, ma nel quadro del sistema metafisico che Schopenhauer stesso propone. È necessario perciò anzitutto installarsi saldamente al­l'in­ terno del sistema, ed a partire di qui porre la domanda sul "luogo" che l'arte "occupa" in esso. Il mondo nelle sue forme visibili e percepibili è apparenza, fenomeno, rappresentazione. Nello stesso tem­po in esso si proietta e trova realizzazione un supremo principio metafisico a cui attribuiamo il nome di Volontà. La scelta di questo nome indica che in rapporto a tale principio possiamo già conoscere qualcosa, forse l'essenziale, nell'esperienza che abbiamo di noi stessi in quanto soggetti del volere. L'artista, insegna poi Schopenhauer, si volge al mondo circostante con l'intento di cogliere in esso la componente idea­le, che verrà fissata nell'opera. In quanto manifestazione delle idee, il mon­do stesso può fare da modello [2] dell'opera e questa assumere il carattere di immagine-copia [3] , benché in un senso che e­sclude la pura imitazione esteriore. L'artista non imita la natura, ma in certo senso la "anticipa" proprio per il fatto che il suo sguardo è puntato anzitutto sulle "idee". Il materiale sen­sibile viene dunque oltrepassato, anche se - ed è questo naturalmente il punto importante - esso assolve una fun­zione essenziale di mediazione, in modo analogo al caso del­l'af­­ferra­mento delle verità essenziali della geometria. Come la figura concreta tracciata sulla sabbia costituisce il veicolo per cogliere un'universalità che 13 sta oltre di essa, così gli eventi della vita nella loro particolarità costituiscono la base per quel­la visione essenziale che si traduce nell'opera. Idea e rappresentazione sono i motivi filosofici fondamentali a cui si richiama una filosofia del­l'arte - mentre la volontà, che a sua volta arriva alla rappresentazione per il tramite dell'idea, nell'opera traspare appena. Naturalmente si tratta di un nesso che può presentarsi secondo direzioni anche molto diverse. Ad e­sem­pio, nel caso della pittura, che riproduce in imma­ gine cose del nostro mondo, si può parlare di un'arte che opera con rappresentazioni di rappresentazioni. Nel caso del­l'ar­­chitet­tura o dell'arte dei giardini o delle fontane, invece, l'ite­razione del rapporto rappresentativo non avrebbe senso per il fatto che i loro prodotti non sono im­magini. Tuttavia il punto importante è che anche que­sti prodotti vengono considerati opere dell'arte in quanto sono visibilizzazione di un'i­dea. Essi appartengono al cam­ po delle ma­nifestazioni. Tuttavia non si tratta di manifestazioni immediate della volontà, ma piuttosto di un'i­dea. L'ar­chitettura, ad esempio, secondo Schopenhauer, assolve la propria funzione artistica ed espressiva rendendo manifesta l'idea della materia e dei conflitti che si agitano nel suo interno. In ogni opera architettonica viene dun­que reso visibile qualcosa, essa appartiene al regno delle immagini ed è in questo modo correlata al mondo in quanto presenta, nella particolarità dell'og­getto, una struttura ideale costitutiva del mondo stesso. Ora, questo schema che ci orienta e ci guida nelle considerazioni generali sul produrre artistico e che si specifica in vari modi nella discussione sulle singole arti, non è in grado di fornirci alcuna indicazione nel caso della musica. Il presupposto fondamentale di ogni discussione futura è infatti il carattere essenzialmente non-rap­pre­sentati­vo del­la musica, il fatto che "in essa non riconosciamo la copia [4] , la ripetizione di alcuna idea de­gli esseri del mondo" [5]. Una simile affermazione è da intendere anzitutto come il 14 risultato di una riflessione preliminare che riguarda determinatamente la musica stessa - una riflessione che non è ancora integrata nel sistema e nemmeno in una concezione generale dell'arte a partire dalla quale essa possa essere motivata. Questo primo indizio entra anzi subito in urto proprio con quella concezione dei prodotti delle arti in genere che si è andata in precedenza delineando. Si crea così una situazione del tutto singolare sotto il profilo teorico: mentre in rapporto alla musica ci accingiamo ad assumere una posizione che in realtà apre la strada al "formalismo" nell'estetica musicale, in rapporto alle altre arti l'ac­cen­to cade con una pesantezza persino urtante proprio sul­l'im­portanza del conte­ nuto. Ciò accade con particolare chiarezza nel caso della pittura. Secondo Schopenhauer il soggetto del dipinto, ed il "gene­re" a cui appartiene, diventa ipersignificativo proprio rispetto alla possibilità di sta­bilire un nesso con il sistema metafisico. Ad esempio, è la pittura di animali - i cani scatenati alla cac­cia del cervo o della volpe, il leone che sbrana la zebra, ecc. - che può rappresentare al meglio la ferinità della volontà, l'istin­tualità nelle sue più semplici forme di manifestazione così come i sentimenti più elementari e diretti - l'ag­g ressività o la paura. In nessun caso possiamo ritenere indifferente, rispetto al significato metafisico, il fatto che il dipinto presenti dei semplici oggetti o eventi della vita quotidiana, un paesaggio montano o un evento storico. La nettezza con cui viene riven­dicata l'impor­tanza del contenuto fa risaltare il fatto che nel caso della musica è lecito persino dubitare che abbia senso la domanda intorno al contenuto, e di conseguenza diventa un difficile problema in che mo­do la musica possa riferirsi al mondo, alla realtà, alla vita stessa. La famosa for­mulazione secondo la quale la musica potrebbe continuare "ad esistere anche qualora il mondo non ci fosse" è in real­tà la formulazione di un enigma [6]. Eppure di fronte ad esso vi è l'insupe­rabile chiarez­za [7] espressiva della musica, una chiarezza di cui Schopenhauer tesse 15 l'elogio. Quest'arte "sublime e meravigliosa" ha una pro­fonda efficacia "sui sentimenti più intimi dell'uomo" ed è tanto facile da comprendere da poter essere considerata una "lingua universale che oltrepassa persino in chiarezza la chiarezza del mondo intuitivo" [8]. Vi è dunque qualcosa che collega nel profondo musica e mondo, qualcosa che, quando siamo in ascolto della musica, ci fa sentire presso di essa così come ci sentiamo presso il mondo e presso noi stessi. Annotazione Per ciò che riguarda i riferimenti esemplificativi, nel­l'in­tero § 52 ci imbattiamo soltanto in una citazione di Rossini (WWV, I, p. 365 (379)), che viene rammentato elogiativamente per la sua capacità di scrivere musica d'opera senza lasciarsi dominare dal testo letterario, ed in una citazione di Haydn di tono aspramente critico per le "imitazioni" presenti nelle sue Stagioni e nella Creazione (ivi, p. 368 (381)). Nei Supplementi compaiono ancora ad abundantiam il nome di Beethoven, di Mozart e di Bellini. Di Beethoven si parla nel cap. 39 (Metafisica della musica) (WWV, II, p. 576 (1326)) mentre il nome di Mozart compare nel cap. 31 (Il genio) (ivi, p. 510 (1256)) e nel cap. 43 (L'eredita­rietà delle qualità) (ivi, p. 667 (1419)) in contesti in cui il riferimento musicale è del tutto secondario. Una singolare analogia tra lo stupore come inizio della filosofia e l'inizio in modo minore del Don Giovanni viene proposta nel cap. 17 (Del bisogno metafisico dell'uomo) (ivi, p. 222 (954)), mentre nel cap. 34 (Intima essenza dell'arte) quest'o­pe­ra viene indicata tra i "capola­vori dei massimi mae­stri" (ivi, p. 256 (1273)). Su Mozart e Schopenhauer, cfr. H. Horn, Mit Goethe und Mozart, "Dreissigstes Jahrbuch der 16 Schopenhauer-Gesell­schaft", Heidelberg 1943, pp. 3-81 (in part. pp. 33 sgg.). Un elogio della Norma di Bellini è invece presente nel cap. 37 (Estetica della poesia), soprattutto come "vero modello di disposizione tragica dei motivi, di progressione tragica dell'a­zio­ne e di sviluppo tragico" e "prescindendo completamente dal­la sua musica impareggiabile" (WWW, II, p. 559 (1308)). Sul­la comune ammirazione di Bellini da parte di Schopenha­uer e Wagner, cfr. A. Fauconnet, La Nor­­ma de Bellini com­mentée par Schopenhauer et Richard Wagner, "Dreissigstes Jahrbuch der Schopenhauer-Gesellschaft", Heidelberg 1943, pp. 82-109. 17 18 §2 Il carattere di mondo della musica i questo legame dobbiamo ora rendere conto e converrà perciò riconsiderare in breve il senso della parola "rap­pre­sen­ta­zio­ne" che svolge evidentemente, an­che in rapporto al nostro problema particolare, un ruolo decisivo. In realtà si tratta di un senso che, da un lato, è assai prossimo agli usi correnti, dall'altro invece si riconnette alla terminologia filosofica, e proprio in questa duplicità viene strettamente legato al sistema da cui assume tutta la sua pregnanza. L'espressione "rappre­sentazione di rappresentazioni" che abbiamo rammentato in precedenza come una caratterizzazio­ ne della pittura gioca proprio su questa duplicità. Nella prima comparsa della parola abbiamo a che fare con il rapporto di immagine. Un dipinto rappresenta un paesaggio, un albero, un volto. In esso vengono raffigurate e cose del nostro mondo. Ma il mondo stesso può essere detto rappresentazione in un'ac­cezio­ne essenzialmente diversa che rammenta il fatto che il mon­do ci appare, che esso con­sta di fenomeni, nel senso in cui Kant usava l'espressione Erscheinung. Nel passaggio dal pensiero critico al pensiero metafisico schopenhaueriano la cosa in sé kantiana, di cui nulla si può dire, diventa invece il principio della volontà che ha nel mondo come rappresentazione una sua estrinsecazione oggettiva. In questa seconda accezione non è più in questione il rapporto di immagine, ma piuttosto il prendere corpo e figura, nella molteplicità delle cose che ci appaiono, di un principio che è la stessa potenza ed energia del­l'universo. Questa energia, in quanto tale, è peraltro nascosta nel­ l'apparenza delle cose - mentre possiamo avvertirne la prossimità nelle inquietudini degli istinti e degli affetti. Che il mon­do stesso 19 sia una rappresentazione significa allora soprattutto che esso è una concrezione "visiva" della volontà. In questo quadro filosofico, le "idee" forniscono una trama per un tessuto che deve poter esibire i dettagli per la particolarità e l'individualità che caratterizzano la ricchezza fenomenica del mondo. Ora, non solo si è detto che la musica non potrebbe tol­ lerare una caratterizzazione in qualche mo­do simile a quella della pittura - nella quale entrambe le accezioni del termine vengono in questione - ma si è negato anche che essa possa rendere sensibile-percepibile una qualche idea, come nel caso dell'architettura, i cui singoli prodotti possono essere concepiti come illustrazioni molteplici di un'identità ideale. Il rapporto è dunque esclusivamente da stabilire con la seconda accezione, metafisicamente pre­gnante, del termine di rappresentazione. Anche la musica deve essere una concrezione della volontà, e pre­cisamente una concrezione "sonora" così come il mondo ne è una concrezione "visiva". Anch'essa deve essere intesa come un modo di estrinsecarsi e di oggettivarsi del principio metafisico: "La musica è un'og­get­tivazione immediata ed un'immagine [9] della volontà intera così come lo è il mondo stesso, anzi come lo sono le stesse idee, che apparendo in modi molteplici costituiscono il mondo delle cose singole. La musica non è dunque affatto, come le altre arti, immagine delle idee..." [10]. Si parla dunque ancora di immagine, copia, riproduzione - ma in un'accezione che non può aver a che fare con la nozione di immagine-copia nel senso comune, con il suo riferimento prevalente ad un rapporto raffigurativo. E nello stesso tempo si cercano parole che rendano meglio conto del rapporto che intercorre tra musica e mondo. Proprio in base alle considerazioni or ora compiute, questo rapporto non potrà essere concepito come un legame di somiglianza [11]. Si parla invece di un parallelismo [12] o di un'analogia [13] - e con questi termini si vorrebbe indicare qualcosa di diverso da ciò che potrebbe risultare in un confronto tra due 20 cose che sono l'una accanto all'altra: la relazione che sussiste tra musica e mondo è una relazione intrinseca che si stabilisce in forza della loro radice comune e del modo in cui si riferiscono ad essa. §3 L'udito e il pensiero n precedenza abbiamo richiamato l'atte­ n­zione sul fatto che sarebbe possibile sostene­re la natura non rappresentativa della mu­sica, senza bisogno di assunzioni metafisiche particolarmente forti, ed anzi prendendo le mosse da semplici osservazioni che riguardano i materiali di cui essa si serve. I colori o in generale le figure tracciate su un foglio di carta tendono ad apparire come puri veicoli per un rinvio raffigurativo che sta oltre i segni: persino uno scarabocchio casuale sem­bra imporre domande sull'ogget­to che in esso potrebbe trasparire. Mentre questo non accade in rapporto ai suoni. Più precisamente: nella percezione normale il suono verrà colto per lo più come correlato a contesti reali e dunque in varie forme di interdipendenza che gli potranno conferire un carattere di segno, ma non in ogni caso nel senso di immagine o copia di qualcos'altro. Al più un suono può essere "inteso" co­me "imitazione" di un altro suono, ma affinché si dia questa possibilità debbono essere soddisfatte condizioni piuttosto particolari. In Schopenhauer simili notazioni fenomenologiche svol­ gono certamente un ruolo: il riferimento ai suoni come fat­ti acustici con le loro potenzialità espressive, con i loro caratteri specifici, emerge in più di un punto in modo estremamemente significativo. Solo che quando ciò accade si mette subito in moto la tendenza ad una re­interpretazione del dato fenomenologico 21 entro una cornice filosofica che è stata ampiamente elaborata al di fuori di esso e proprio da questa reinterpretazione viene fat­to dipendere il suo effettivo interesse. Per questo è possibile che dal dato fenomenologico si trag­ gano suggerimenti e qualche premessa, ma è e­scluso che esso possa fare da autentico filo conduttore. In realtà si ripete in rapporto alla musica ciò che accade forse in modo ancora più pronunciato anche nel caso della pittura. Benché Schopen­hauer si sia occupato a fon­do di una teoria dei colori, proseguendo, sviluppando e modificando le impostazioni goe­thiane, nelle considerazioni sulla pittura non vi è accenno rile­vante e significativo a quella teoria, neppure alla sua proble­ma­tica di base - quasi che non vi fosse tra l'una e l'altra una qualche relazione. La teoria dei colori sta semplicemente al di fuori dell'orizzonte di una filosofia della pittu­ ra. Questa circostanza è un tratto che caratterizza l'intera problematica scho­­penhaueriana dell'arte: da un lato essa non trascura le com­ponenti estetiche, nel senso etimologico del termine che implica il rimando alle forme ed ai materiali percettivi; dall'al­ tro un'effetti­va valorizzazione teorica di queste componenti è dovuta soprattutto alla loro subordinazione a considerazioni di ordine metafisico. Non di rado un simile orientamento può persino far sorgere l'impres­sione di una vera e propria separazione tra una filosofia del­l'arte, interamente situata sul piano inclinato della metafisica, e il campo dell'estetica intesa come disciplina che si avvia anzitutto sugli itinerari della percezione. A riprova di ciò si considerino le osservazioni sul­l'udito e sui fenomeni uditivi nel capitolo terzo dei Supplementi dedicato ai sensi [14]. In esse la musica viene sfiorata un paio di volte. Una prima volta quando si attira l'attenzione sul fatto che le percezioni uditive, a differenza di quelle visive "sono esclusivamente nel tempo". Da questa circostanza conseguirebbe che "l'intera essenza della musica consiste nella misura del tempo" [15]. Ed una seconda volta quando si fa dipendere l'effetto "così penetrante, immediato e immancabile" della musica dalla natura passiva 22 dell'udito. Di questa passività non si propone poi solo la spiegazione secondo la quale l'udito ha in misura minore che ogni altro senso la capacità di distogliersi dai suoni che lo colpiscono, ma si tenta, per ciò che riguarda gli effetti della musica, una singolare intepretazione in termini fisico-cerebrali, secondo una ten­denza del resto caratteristica del tardo Schopenhauer. Le vibrazioni da cui sorgono i suoni determinerebbero egua­li vibrazioni nelle "fibre cerebrali" [16] , istituendo tra l'a­scol­tatore e il brano musicale una sintonia in cer­to sen­so obbligatoria. Si tratta di osservazioni piuttosto insignificanti che suggeriscono una considerazione del nesso udito-suoni-musica tut­­ta spostata verso il versante psicofisico. Anche l'affer­ma­zione sul­ la temporalità implica questo spostamento, per il fatto che in essa si mette in questione non solo l'elemento ritmico, ma anche l'altezza che può essere considerata come un fattore implicante definitoriamente l'elemento temporale solo se viene intesa come fre­quen­za, piuttosto che come puro fenomeno uditivo. Ma a parte questi accenni che non sono certamente in grado di attingere un livello di generalità e di interesse per lo stesso quadro filosofico di Schopen­hauer, singolare è soprattutto ciò che viene detto per caratterizzare l'udito rispetto alla vista. A questo proposito si cerca di trarre profitto dalla distinzione tra intelletto e ragione nell'ac­cezione che Schopenhauer conferisce a questi ter­mini. La vista viene allora caratterizzata come un organo strettamente connesso all'attività del­l'intel­letto - e quindi sia con la capacità di cogliere le componenti propriamente sensibili delle cose, sia i risultati dell'azione delle forme del­lo spazio, del tem­po e della causalità nella strut­­tura­zio­ne del campo percettivo. L'udito invece deve essere caratterizzato come il "senso della ragione, che pensa e apprende" [17]. Si tratta di un'affermazione che può essere compresa solo se si considera l'udito anzitutto da un punto di vista pragmatico, cioè dal punto di vista della sua utilità in quanto veicolo della co­ municazione verbale. Vi sono allora degli oggetti dell'udito che più 23 di altri sono conformi al suo scopo, ed essi non saranno semplici suoni, ma parole provviste di significato. E poiché le parole provviste di significato sono anche tramiti del pensiero, l'udito può essere estensivamente caratterizzato come "senso della ra­gione". Vi è dunque un legame tra l'orec­chio e il pensiero. Inversamente i suoni senza significato, i suoni che non sono parole e che colpiscono le nostre orecchie senza che ad essi ci si possa sottrarre, si interporranno nel corso dei no­stri pensieri come qualcosa di totalmente estraneo, come un ostacolo e un disturbo. In contrapposizione alle parole, vi sono dunque soprattutto i rumori. È sorprendente che Schopenhauer non avverta quanto sia grande il contrasto tra simili considerazioni e la tematica musicale come egli stesso la prospetta; o almeno: che egli non si renda affatto conto di dover qualche spiegazione aggiuntiva intorno ai fenomeni sonori che appartengono alla musica e alla funzione del­l'udito in rapporto ad essi. Al contrario egli prosegue coerentemente in questa direzione rendendo sintomatica la reazione del sordo che acquista la capacità di udire: il quale, a detta di Schopenhauer, che cita del resto resoconti scientifici d'epoca, a differenza del cieco che riacquistando la vista non si sazierebbe mai di guardarsi intorno godendo della bellezza del mondo che finalmente gli si squaderna dinanzi, al primo suono che ode impallidisce mortalmente per la paura [18]. È appena il caso di dirlo: chi ha più da rimetterci con i rumori trasmessi dall'udito sono le nature meditative ed i filosofi in modo particolare: "La vista è un senso attivo, l'udito un senso passivo. Perciò i suoni esercitano un'azione fastidiosa e ostile sul nostro spirito, e ciò tanto più quanto più lo spirito è attivo e sviluppato: i suoni scompigliano tutti i pensieri e fiaccano momentaneamente l'energia mentale. Con gli occhi non abbiamo invece nessun disturbo analogo, nessun effetto immediato del dato visivo come tale sull'attività del pensiero...". Perciò "lo spirito pensante vive con gli occhi in un'eter­na pace e con le orec- 24 chie in una eterna guerra" [19]. E come non ram­mentare a questo proposito l'amo­­­­re per il silenzio di grandi spiriti come Kant e Goethe [20] ? L'ostilità del filosofo verso i suoni-rumori diventa ira fiammeggiante nel penultimo saggio (cap. XXX) dei Parerga e Paralipomena, intitolato appunto Del chiasso e dei rumori [21]. Si tratta di uno scritto per molti versi straordinario nel quale Scho­penhauer dà libero sfogo alla propria animosità contro il rumore che è stato, egli dice all'inizio, "una tortura quotidiana" [22] per tutta la vita - aggredendo i produttori di rumori con una tale violenza e apparente serietà da far pensare che nella sua stesura non sia estraneo il gusto della costruzione di una bella pagina letteraria. A dire il vero tutto lo scritto è dedicato ad un unico rumore "im­per­donabile e infame" la cui tolleranza dà, più di ogni altra cosa, un concetto chiaro dell'"ottusità e sbadatezza degli uomini": si tratta dello schioccare della frusta dei carrettieri che attraversano le strade della città [23]. Non vi è rumore peggiore di questo, e soprattutto per il pensatore "questo rumore penetra nelle meditazioni con dolore così micidiale come quando la spada del boia s­t­ac­­­­­ca la testa dal tronco" [24]. "Martellate, abbaiare di cani e strilli di bambini sono orribili: ma l'unico vero e proprio assassino dei pensieri è lo schioccare delle fruste" [25]. Gli argomenti e i suggerimenti più svariati vengono introdotti per abolire questo flagello. Intanto lo schioc­co della frusta non è necessario, dal momento che i cavalli si abituano a quel rumore e non vi fanno più caso; ed anche se lo fosse basterebbe un rumore cento volte più debole, essendo noto quanto gli animali siano sensibili ai rumori. Non potrebbe la polizia obbligare i carrettieri a fare un nodo in cima alla frusta per impedire lo schiocco? Un provvedimento tanto semplice abolirebbe il problema. E che dire poi di quei carrettieri che se ne vanno in giro per le strade con la frusta in mano, senza né cavallo né carret­to, e che di tanto in tanto 25 schioccano la frusta per abitudine e riflesso condizionato? Bastonarli si dovrebbe... Ogni mezzo è buono per impedire questo burlarsi insolente "da parte dei lavoratori manuali di coloro che lavorano con la testa" [26]. Ad essi - "animali da soma della società umana" [27] - non si dovrebbe consentire di diven­tare un impedimento alle "espressioni più alte del genere umano" [28]. Ci troviamo così di fronte ad un singolare documento d'epoca, che ci appare come una fotografia stinta, una vecchia stampa; mentre la sua seriosa asprezza e il suo plateale reazionarismo ne fanno un autentico capolavoro di ironia letteraria, tanto riuscita da sembrare a tratti persino involontaria. Schopenhauer non avrebbe potuto sospettare certo che una frustata da carrettiere avrebbe potuto aprire un concerto per pianoforte e orchestra, come accade in Ravel; ma nemmeno, per citare un caso al passato rispetto ai tempi suoi, che la "frusta del cocchiero" potesse trovare posto in una raccolta iconografica di strumenti musicali, come accade nel Gabinetto Armonico di Filippo Bonanni (1716) [29]. Schopenhauer ritiene invece di potersi attestare su una caratterizzazione dell'udito come "senso della ragione" in quanto tramite di significati, e dunque come una minaccia per i filosofi quando i significati vengono meno e resta solo la crosta sensibile, senza che una simile discussione arrivi a sollevare qualche interrogativo sul versante musicale. Questo è un altro significativo indizio del­­l'in­teresse principale che guida le considerazioni intorno alla musica. In esse si tratta soprattutto di mostrare il vincolo che sussiste tra la musica e il principio metafisico e, portando tutta l'attenzione su questo vincolo, l'am­bito dei fenomeni uditivi come tali non può che passare del tutto sullo sfondo. La filosofia della musica di Schopenhauer è una metafisica della musica, così come tutta la sua filosofia dell'arte può trovare nella dizione di "metafisica del bello" il titolo generale in cui deve essere inscritta. 26 27 §4 Le giustificazioni matematiche n tutto ciò Schopenhauer si ricollega ad una tradizione che attribuisce alla musica una funzione che oltrepassa nettamente la dimensione mondana e che sottolinea invece la sua prossimità all'essenza del reale. La linea maestra di questa tradizione, che a partire dai Pitagorici e da Platone si spinge sino a Leibniz, ha per lo più fatto valere questa prossimità portando l'accento sul rapporto matema­tico come fondamento dell'espres­sione mu­si­ca­le e nello stesso tempo come trama e nucleo profondo della realtà. Stando alla posizione complessiva di Schopenhauer è lecito attendersi che egli prenda le distanze da questa tradizione, e così di fatto avviene proprio all'inizio del § 52, quando viene esemplarmente citata la famosa frase lei­bniziana secondo la quale la musica sarebbe un "exer­citium aritmeticae occultum nescientis se nume­ rare animi": un "occulto esercizio dell'arit­me­­tica da parte dell'a­ nimo che calcola inconsciamente" [30]. Ma non bisogna pensare ad una semplice e stereotipa contrapposizione. Per Schopenhauer il legame tra musica e matematica è fortemente presente, ed egli non è affatto disposto a lasciarlo semplicemente cadere come irrilevante e non pertinente. A questo proposito è assai indicativo dell'interesse con cui Schopenhauer guarda alle giustificazioni matematiche il fatto che proprio la tradizionale spiegazione degli intervalli musicali attraverso rapporti aritmetici sem­plici rappresenti un appiglio a cui egli tenta di collegare la propria teoria della corrispondenza tra colori e rapporti frazionari. Questi esprimerebbero l'attivazione "qua­lita­tiva" della retina, secondo quanto egli espone in 28 Über das Sehen und die Farben [31]. Mentre al verde e al rosso viene attribuita la frazione 1/2, e quindi un'attiva­zione di pari intensità della retina, al viola e al giallo vengono attribuite le frazioni rispettivamente di 1/4 e 3/4, ed al­l'azzurro ed all'a­rancio rispettivamente di 1/3 e 2/3, essendo il bianco pari ad 1 (massima attivazione) e il nero pari a 0 (attivazione nulla). Ma quale giustificazione possono ricevere questi rapporti ed il fatto stesso che si ponga il problema in termini di rapporti? La risposta di Schopenhauer si richiama allora alla musica: "Il fatto che noi possiamo giudicare questo rapporto aritmetico soltanto con il sentimento è confortato, a sua volta, dalla musica, la cui armonia si fonda sui rapporti numerici, assai più grandi e complicati, delle vibrazioni contemporanee, i cui suoni tuttavia noi possiamo giudicare semplicemente ascoltandoli con estrema esattezza e anzi aritmeticamente; sicché ogni persona normale è in grado di dire se un suono sia veramente la terza, la quinta o l'ottava di un altro. Come i sette suoni della scala si distinguono dagli innumerevoli altri che stanno tra essi soltanto per la razionalità del numero delle loro vibrazioni, così anche i sei colori cui è attribuito un nome proprio si distinguono dagli innumerevoli colori che stanno tra essi soltanto per la razionalità e semplicità della frazione di attività della retina che in essi si rappresenta" [32]. Questa stessa analogia era già stata fatta valere poche pagine prima: "Par­tendo dall'ipotesi di un tale rapporto, esprimibile mediante i primi numeri interi, ed anzi soltanto così, si spiega perfettamente perché giallo, arancione, rosso, verde, azzurro, violetto sono punti fissi e ben distinti nel cerchio cromatico - altrimenti affatto costante e infinitamente sfumato - qual è rappresentato dall'equatore della sfera cromatica di Runge, e perché in ogni luogo e da sempre questi colori sono stati conosciuti e hanno ricevuto nomi particolari. Ma forse tra loro non esistono infinite sfumature di colore, delle quali ognuna potrebbe con altrettanta ragione avere un proprio nome? E allora su che cosa si fonda il privilegio di quei sei? Sul motivo detto sopra, che cioè 29 in essi la bipartizione dell'attività della retina si presenta nelle frazioni più semplici: proprio come nella scala musicale - che può anch'essa essere dissolta da un suono continuo ascendente dall'ottava inferiore a quella superiore con passaggi impercettibili - i sette gradini sono ben determinati (e perciò essa è una scala) e hanno ricevuto un nome proprio, in astratto come prima, seconda, terza, eccetera, in concreto come do, re, mi, eccetera, semplicemente per il motivo che proprio le vibrazioni di queste note si trovano in un rapporto numerico razionale tra loro. È notevole il fatto che già Aristotele abbia intuito che alla base della differenza dei colori, come di quella della note, debba esservi un rapporto numerico, e che, secondo che questo rapporto sia razionale o irrazionale, i colori riescano puri o impuri" [33]. Si cercano così nel rapporto aritmetico, sia nel caso dei colori che in quello dei suoni, le presunte ragioni ultime della rottura del continuo e della evidenziazione in esso di punti "eminenti", di intervalli che si impongono alla nostra attenzione percettiva senza che naturalmente possiamo immediatamente renderci conto di queste ragioni. In che senso siamo qui realmente lontani dalla posizione leibniziana? In realtà la frase famosa di Leib­niz dice indubbiamente che la ricezione della musica consisterebbe soprattutto in un afferramento intuitivo di rapporti e di proporzioni aritmetiche che non si rivelano come tali, ma resta aperto il modo in cui debba essere interpretata questa circostanza. Stando alla visione leibniziana d'insieme si potrebbe sostenere che l'elemento di oscurità, connesso all'inconsapevolezza, si associa ad una componente razionalistica, essendo la matematica rappresentativa di quell'idea assoluta di razionalità che si ritrova in dio stesso. Nella musica vi è perciò una scintilla divina e tuttavia, in questa variante dell'an­tico problema, la musica non riceverebbe per questo una particolare dignità, almeno sotto il profilo epistemologico, in quanto essa può presentare solo oscuramente ciò che invece può presentarsi in piena chiarezza nel nostro calcolare aritmetico cosciente. Questa inclinazione interpretativa non è tuttavia diretta- 30 mente derivabile dalla pura e semplice formulazione di quella frase. E sarebbe certo sostenibile uno spostamento di accento capace di conferire alla musica particolare dignità proprio in quanto essa effettua una traduzione sul piano del materiale sensibile di rapporti matematico-ideali, operando così una fondamentale mediazione tra valori "estetici" e valori "ra­zio­nali". Per Schopenhauer in ogni caso la matematica non può assolvere una funzione mediatrice rispetto ad una concezione della musica che sottolinea la sua portata metafisica, proprio per il fatto che il principio metafisico sta in ogni caso oltre l'idea di una legalità esprimibile mate­matica­mente. Si fa valere perciò anche in questo caso un principio che ha carattere del tutto generale all'interno della concezione schopenhaueriana: ogni legalità di ordine fisico-natu­rale deve essere sottoposta ad una interpretazione metafisica che ne renda esplicito il suo senso più profondo. Per questo motivo la frase di Leibniz è vera, ma solo per ciò riguarda il livello che sta appena al di sotto della superficie percettiva. Bisogna poter andare oltre l'idea dell'esercizio inconscio di calcolo, per arrivare ad attribuire alla musica un "signi­ficato più serio e profondo, che si riferisce all'es­senza intima del mondo e di noi stessi, in rapporto al quale i rapporti numerici nei quali la musica si può risolvere si comportano come segni e non come ciò che viene designato" [34]. E per raggiungere questo scopo è necessario in particolare dare sviluppo al tema del parallelismo tra mu­sica e mondo, riuscendo a rintracciare nella musica gli stessi momenti, le stesse fasi di sviluppo che sono attraversate dalla realtà che si dispiega come oggettivazione della volontà. Detto in breve: dobbiamo ritrovare, nella musica, i quattro regni in cui si articola la natura, certamente seguendo un percorso analogico, che tuttavia non vorrebbe affatto ridursi ad una vicenda interna alla pura dinamica psicologica dell'"asso­ciazione delle idee". 31 Annotazioni 1. Lawrence Ferrara, nel suo saggio Schopenhauer on music as the embodiment of Will, in Schopenhauer, philosophy, and the arts, ed. by D. Jacquette, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 183 sgg., dà particolare spazio alle due basi "non metafisiche" della filosofia della musica di Schopenhauer, e precisamente alla base acustica ed alla base teorica della concezione di Rameau. All'apparato metaforico si riconosce "on­ly a superficial insight into nature and music" e la discussione sui fondamenti acustici mostrerebbe infine "his inability to transform the physical side of music into a logical basis for his metaphysical view of music". L'interesse in direzione delle giu­stificazioni fisiche e scientifico-naturali è di per sé assai in­dicativo di un atteggiamento generale che caratterizza profondamente la personalità filosofica di Schopenhauer. Non sono tuttavia sicuro che vi sia l'intento di fornire in questo modo giustificazioni al sistema metafisico, e quindi in particolare alla metafisica della musica. Nello spirito della concezione di Schopenhauer mi sembra che il problema sia soprattutto quello di proporre un primo livello di conoscenze che dovranno poi essere sottoposte ad un'interpretazione di secondo livello. E qui ci si incontrerà con la metafisica e, ovviamente, con la metafora. Naturalmente l'osservazione di Ferrara è perfettamente legittima come presa di posizione critica nei confronti della posizione Schopenhauer, e così credo anche che debba essere intesa. 32 2. Sarebbe il caso di riflettere se la posizione di Leibniz in relazione alla musica e più in generale all'estetica non sia da riconsiderare, piuttosto che sulla base di questa o quella citazione particolare, sulla base dello spirito generale della sua filosofia e dei suoi concetti fondamentali, ed in primo luogo, per quanto riguarda la musica, del concetto di "armonia" che assolve in essa un ruolo così rilevante. In questa direzione ci sti­mola il volume di Elio Franzini, Arte e mondi possibili. Estetica e interpretazione da Leibniz a Klee, Guerini, Milano 1994, nel quale la figura di Leibniz viene ripensata in un fecondo intreccio di considerazioni storiche e teoretiche. In rapporto a questa linea di discorso si veda Livia Sguben, Leibniz e la moderna pratica musicale, "Pratica Filosofica 7", Cuem, Milano 1995, pp. 83-88 ed ora anche in "De Musica", I, 1997, Internet. Sul rapporto di Leibniz con la musica cfr. A. Luppi, Lo specchio dell'ar­monia universale. Estetica e musica in Leibniz, F. Angeli, Milano 1989 e P. Bailache, Leibniz et la théorie de la musique, Klincksieck, Paris 1992. 33 §5 Il basso fondamentale e la teoria dei quattro regni questo punto prende l'avvio lo sviluppo più arrischiato del discorso di Schopenhauer. D'al­tra parte è proprio questo sviluppo che conferisce senso e pregnanza alla posizione iniziale. In esso intervengono, in un intreccio certamen­te discutibile, nessi istituiti immaginativamente ed elementi concernenti la pratica musicale più o meno sublimati filosoficamente. Al grado inferiore di oggettivazione della volontà nella natura vi è la materia inerte, la natura inorganica. Ci incontria­mo qui nella prima grande analogia, anzi nel­l'analogia prin­cipale da cui ha origine tutto il resto: alla natura inorganica corrisponde nella musica ciò che Schopenhauer chiama Grundbass, implicando in questa espressione, senza troppo distinguere, tre nozioni concettualmente molto diverse, anche se tra loro connesse: anzitutto la nozione di basso profondo ovvero semplicemente la nozione di suono grave, in secondo luogo la nozione più impegnativa dal punto di vista teorico e più nettamente legata al linguaggio tonale teorizzata da Rameau come bas­ so fondamentale; ed infine quella di basso continuo [35]. L'analogia riguarda dunque intanto i suoni gravi in genere considerati nella loro specificità espressiva. In questo caso assume particolare rilievo, per la posizione dell'analogia, il riferimento al dato percettivo, che peraltro viene subito sottoposto ad una trasvalutazione metafisica. I suoni "gravi" non si chiamano forse così per il fatto che essi suggeriscono, nella loro qualità sonora, immagini di pesantezza, di voluminosità, di spessore? Naturalmente si tratta di un nexus idearum, di un'"associazione di idee", ma non vi è dubbio che per Schopenhauer - e su questo punto non ha affatto torto - si tratta di un'associazione fondata nella 34 cosa stessa, e non di un nesso arbitrario, soggettivo o dovuto a investimenti interpretativi di senso. A questo nesso vengono anche ricondotte alcune note regole codificate dalla teoria musicale per quanto riguarda la condotta del basso. Se riconosciamo ai suoni gravi pesantezza e voluminosità, potremo attribuire ad essi "modi di comportamento" caratteristici di cose di grandi dimensioni, pesanti e voluminose: ad esempio il movimento piuttosto lento, a larghi passi, secondo intervalli piuttosto ampi. Facendo riferimento alla manualistica corrente, Schopenhauer rammenta perciò come par­ticolarmente significativa la raccomandazione di far salire o scendere il basso per terze, quarte o quinte, evitando successioni troppo estese di intervalli di un solo tono [36]. Analogamente andranno evitati movimenti trop­po rapidi essendo difficile persino immaginare "una rapida corsa o un trillo nella regione grave" [37]. Vi è in certo senso una predisposizione dei suoni gravi a resistere alla velocità del movimento, come se avessero i piedi incollati sul pavimento. Qua­lo­ra si tentasse di farli muovere velocemente a piccoli passi, essi si im­pasterebbero gli uni negli altri: un trillo nella regione acuta, invece, pren­derà subito il volo. Tuttavia il senso prevalente nell'impiego dell'e­­­­­s­­pres­­­sio­ne basso fondamentale va ben oltre la generica nozione di suono grave, ed è naturalmente quello che si ricollega alla sistemazione teorica del linguaggio tonale realizzata da Rameau che è anche colui che ha coniato il termine [38]. Questa sistemazione teorica viene da Schopenhauer semplicemente presupposta senza richiami espliciti realmente significativi [39] e senza intervenire nel merito effettivo di quella tematica. Particolare importanza riceve per lui anche la giustificazione dei rapporti tonali attraverso la teoria degli armonici. La possibilità di considerare i suoni che appartengono alla triade tonale come "contenuti" nella tonica dell'accordo in quanto essi sono reperibili nei suoi armonici "più vicini", rappresenta per Schopenhauer un'ulte­riore occasione per le proprie elaborazioni analogiche. A differenza che nel caso precedente tuttavia egli 35 non può trovare una giustificazione significativa nell'e­sperienza. Naturalmente con particolari artifici è possibile isolare gli armonici più vicini rendendoli accessibili all'udito, ma ciò non senza difficoltà e con scarsa immediatezza fenomenologica. Cosicché le associazioni, che nel caso precedente poggiavano in qualche modo sul materiale percettivo, si ricollegano ormai prevalentemente all'im­pian­to concettuale del sistema metafisico. Poiché il "basso fondamentale" è assimilato alla natura inorganica - più precisamente alla materia intesa ai limiti dell'indifferenziazione originaria - esso rappresenta nella musica ciò "da cui tutto nasce e si sviluppa"; sussistendo tra "i suoni superiori" e il suono grave che li sostiene la stessa relazione che sussiste tra gli organismi viventi della natura e la massa che è l'origine [40] e il sostegno [41] da cui essi si sono gradualmente evoluti [42]. Ma allora dovremo coerentemente assimilare agli altri regni i suoni più acuti "che nascono tutti, come si sa, da vibrazioni concomitanti del suono fondamentale" [43]. Schopenhauer non esita a compiere anche questo passo. Così alla terza corrisponderà il mondo vegetale, alla quin­ta il mondo animale, all'ottava - che raddoppia la nota fondamentale e che si trova peraltro, almeno per quanto riguarda la regione sonora, alla massima distanza da essa - il mondo umano: mondo animale e mondo vegetale scaturiscono dalla materia la cui inerzia contiene in ogni caso una vita latente e preparano a loro volta il mondo umano, secondo uno sviluppo dei gradi di oggettivazione della volontà che procede dal basso verso l'alto ed a cui corrisponde un continuo progresso nella visibilità del principio metafisico. Inversamente, a partire dal mon­do umano, gli altri mondi della natura possono essere considerati un graduale allontanamento dalla visibilità, una penombra crescente, una sorta di eco che sempre più si allontana. È difficile dire se questa problematica si formi in Schopenhauer anzitutto nell'ambito delle considerazioni sulla musica o non piuttosto, ancor prima, in quello della filosofia del­la natu- 36 ra. L'idea che l'animale stia all'uomo come la quinta alla tonica mentre la pianta come la terza alla tonica - dove sono scrupolosamente rispettati i rapporti di somiglianza tonale [44] - è già espressa nel § 28 del Mondo, all'interno di una discussione che riguarda proprio la concezione della natura e si è ancora lontani dai problemi di una metafisica della musica. La parola importante qui per Schopenhauer è proprio quella di armonia [45] , nel senso di concordanza, equilibrato rapporto tra le parti, teleologia interna, totalità in cui ogni parte aderisce organicamente ad ogni altra. L'intero mondo naturale viene così assimilato alla triade maggiore, alla consonanza più perfetta. Di ciò non bisogna dimenticarsi nemmeno in una valutazione di insieme della posizione di Schopenhauer. Il suo "pessimismo" non esclude affatto una prospettiva di rasserenamento nel quadro della concezione di una natura materna, certamente non nel senso della protezione e della cura del­l'individualità singola, ma in quello di una perenne generazione e rigenerazione della vita. La maternità della natura sta nel suo essere il grembo che genera e accoglie, e il rasserenemento sorge da una visione che sappia cogliere la morte come un ritorno, e dunque la vita individuale, nel suo nascere e nel suo mo­rire, come momento del continuo rinnovarsi della totalità vivente, come foglia caduca di un albero eterno [46]. Per questo si può parlare di armonia, di interne concordanze, ed infine della natura come di una consonanza immensa. Una simile visione coesiste conflittualmente con il proprio possibile ribaltamento. È sufficiente infatti una modificazione di accento perché in questa immensa consonanza serpeggino le inquietudini delle dissonanze, e la totalità si mostri tanto ricca di vita quanto di contrasti e di conflitti: la generazione eterna è anche eterna insoddisfazione, è desiderio che non ha mai fine, pace irraggiungibile, quiete sempre rinviata. L'armonia del tutto coesiste con una conflittualità diffusa ed esasperata degli elementi che di esso fanno parte. 37 Temi di carattere generale, attinenti alla concezione della vita che prende forma nel sistema metafisico, si riflettono anche nell'impostazione del problema musicale, e vi si riflettono facendo leva su analogie che talvolta pretendono di arrivare a cogliere il dettaglio tecnico ed a proiettarlo su uno sfondo più ampio. Un esempio che si ricollega alle considerazioni pre­ce­denti sulla compresenza di un elemento intensamente conflittuale dentro l'immagine di una natura intrinsecamente consonantica è rappresentato da ciò che egli dice sul temperamento. Si tratta di osservazioni che potrebbero essere considerate marginali e tuttavia esse forniscono una chiara indicazione intorno al modo in cui opera la fantasia speculativa di Schopenhauer, che non si ritrae nemmeno di fronte ad evidenti forzature purché siano coerenti con l'impostazione di principio. Alla base del problema del temperamento vi è un dato di fatto fisico, che dunque chiama in causa la natura: un percorso di consonanze "ma­ te­matiche" conduce a rapporti dissonantici. Ciò mostra che nella consonanza matematicamente perfetta è annidata la dissonanza. Il temperamento non fa altro che prendere atto di questa circostanza e tenta nello stesso tempo di neutralizzarla distribuendo le differenze su tutti i gradi della scala. Ma questo per Schopenhauer manifesta la presenza nella musica di quell'"in­­terna contraddizione" che attraversa tutta la natura e che fa del mondo "il teatro di una guerra perpetua fra le varie manifestazioni della volontà" [47]. Annotazione La fonte esplicitamente indicata da Schopenhauer nella seconda edizione del Mondo per i riferimenti a problemi acustici sono i testi di Ernst Chladni, Akustik, Leipzig, 1802 e Kürz Uebersicht der Schall- und Klanglehre, Mainz 1827. Cfr. WWV, I, p. 371 (384). Nelle lezioni berlinesi (Metaphysik des Schönen, Philosophische Vorlesungen, III, a cura di V. 38 Spierling, Piper, Mün­chen 1985, p. 217) oltre all'Akustik di Chladni, si cita J.G. Sulzer, Allgemeine Theorie der Schönen Künste, Leipzig 1786, e si fa genericamente il nome di Raimond. Secondo il curatore delle lezioni, si potrebbe trattare di George Marie Raymond, Lettre a M. Villoteau Touchant ses vues sur la possibilité et l'utilité d'une théorie de la musique, Paris 1811 oppure, dello stesso autore, Essai sur la détermination des bases physico-mathématiques de l'art musical, Paris 1813. 39 Sperimentazione di Chladni con archetto e lastre metalliche 40 § 6 Metafisica e basso continuo el contesto di questi sviluppi analogici viene fatto esplicito cenno alle "quattro voci di ogni armonia ossia basso, tenore, contralto e soprano" [48]. Si tratta di un cenno interessante, perché mostra un altro riferi­ mento allo studio scolastico dell'armonia che viene presupposto da Schopenhauer nelle sue regole e nelle sue convenzioni elementari. Egli sembra anche volersi addentrare nelle regole inerenti al trattamento delle sequenze accordali, tentando di fornire di esse - e come ovvio, piuttosto faticosamente - una vera e propria giustificazione metafi­ sica nei ter­­mini della grande analogia con i "regni della natura". Talvolta questa giustificazione è preceduta da una spiegazione fisica ricercata nella teoria degli armonici. Di ciò basti citare un esempio. Vi è una regola che autorizza il basso a tenersi sotto le altre voci ad una distanza molto più grande della distanza che queste intrattengono tra loro [49]. Questa regola, osserva Schopenhauer, "non è affatto arbitraria, ma ha le sue radici nell'origine naturale del sistema dei suoni, in quanto i gradi armonici più vicini risuonanti nelle vibrazioni concomitanti sono l'ottava e la quinta dell'otta­va" [50]. Ovvero la nota fondamentale si trova più lontana dai suoi primi armonici più di quanto questi siano lontani tra loro. Così Schopenhauer ritiene pertinente il notare a questo proposito che la voce di soprano può trovarsi sopra il basso sino ad un intervallo di tre ottave [51] , una possibilità che avrebbe appunto 41 una sua prima giustificazione fisica nella disposizione degli armonici. La giustificazione metafisica sta invece nel fatto che "in questa regola riconoscia­mo l'analogon musicale della strut­­tura fondamentale del­la natura, in virtù della quale gli esseri organici sono tra loro molto più affini tra loro che non con la massa inorganica, priva di vita del regno minerale: tra quest'ul­timo e gli esseri organici vi è il confine più netto e l'abisso più grande che è dato trovare in tutta la natura" [52]. Peraltro le osservazioni di Schopenhauer sulla distribuzione delle voci e quindi sui loro compiti all'in­terno dell'in­tero attirano l'attenzione sulla presenza, non troppo esplicita, e tuttavia chiaramente leggibile nel testo, di un'altra specifica pratica musicale: si tratta della pratica del basso continuo, del Generalbass, una pratica caratteristica della musica barocca e in realtà del tutto obsoleta ai tempi di Schopenhauer [53]. In più luoghi Schopenhauer sottolinea che la melodia sarà affidata in generale al registro acuto, ed anche in questo caso non tanto per decisione arbitraria, quanto per una sorta di nesso intrinseco che riguarda l'essen­ziale linearità della me­lodia. È proprio la "sottigliezza" della voce acuta che fa sì che ad essa debba essere riconosciuta una sorta di "diritto naturale ad eseguire la melodia" [54]. Si tratta di un diritto che intanto rimanda a circostanze uditive concrete - in particolare alla tendenza dei suoni acuti ad isolarsi rispetto agli altri, vincendo le masse sonore che dovrebbero sovrastarli [55]. Ma questo dato di fatto si riveste di significati che vanno ampiamente oltre di esso. Infatti le precedenti considerazioni sulla voluminosità e lo spessore dei suoni gravi e inversamente sul­­la leggerezza e sulla capacità di movimento dei suoni acuti possono essere riprese in questo contesto e collegate in generale all'at­titudine melodica dei suoni acuti. Proprio in forza di queste caratteristiche le note acute possono flet­tersi, incurvarsi nelle forme più raffinate e sottili, fino a produrre un disegno melodico. Alle voci gravi invece - ai violoncelli o a strumenti affini, ad esempio, nell'or­chestra d'archi sei-settecentesca 42 - sarà affidata la "linea" del basso, che è una "linea" in un senso del tutto diverso dal momento che essa ha il compito di tracciare il percorso armonicamente soggiacente alla melodia, cosicché le note singole qui eseguite saranno integrate dagli accordi che su di esse propone - spesso improvvisando, ma in base a regole ben determinate - il clavicembalo. A questa pratica del Generalbass fa indubbiamente riferimento Schopenhauer assumendola peraltro come una pratica esemplare per la musica intera. È opportuno richiamare l'attenzione sul fatto che senza questo riferimento ciò che dice Schopenhauer sulla distribuzione delle voci, con il basso che traccia il percorso armonico, il registro acuto che "canta" e i registri intermedi che svolgono regolarmente una funzione intermedia sarebbe di una rigidezza e di una gratuità a malapena comprensibile. È invece una caratteristica del­lo stile fondato sul basso continuo una rigidità di struttura nella distribuzione delle parti a cui si attaglia pienamente la descrizione di Schopenhauer. Sottolineare la consistente presenza di questo riferimento consente di dare il giusto peso alle affermazioni più volte ripetute da Schopenhauer secondo le quali il basso "per sua natura non può mai eseguire una melodia" [56]. Si tratta di un'affermazione molto decisa che è stata spesso indicata come un'attestazione o del prevalere del­le preoccupazioni metafisiche sulla realtà musicale o della scarsa competenza musicale di Schopenhauer - e naturalmente anche dell'una e dell'altra cosa insieme. "Ciò che colpisce soprattutto - scrive Fauconnet - è la singolare opinione che egli professa sul ruolo e l'impiego del basso. Già nella prima edizione del Mondo egli commette il grave errore di confondere la melodia e la voce alta" [57]. L'opi­nio­ne contenuta in questo vecchio libro è stata poi mille volte ripetuta senza che si ritenesse opportuno ritonarci sopra, tanto il "grave errore" si presenterebbe evidente. 43 Sempre secondo Fauconnet si tratta di un errore che è confutato dalla semplice esibizione di configurazioni musicali dove il basso ha tutt'altro che una funzione puramente armonica, ma gioca punto contro punto con le voci più acute - co­me accade in Bach, del cui nome si lamenta l'assenza; oppure di esempi tratti da Beethoven che mostrano il passaggio della melodia dal registro acuto al registro grave, in rapporto ai qua­li invece si ritiene di dover segnalare lo scarso acume di ascoltatore che Schopenhauer dimostrerebbe anche rispetto ad opere che, come la Sesta sinfonia beethoveniana, egli avrebbe dovuto conoscere molto bene [58]. E tuttavia il fatto che gli esempi siano a portata di mano in tutta la loro evidenza e che si potrebbero moltiplicare senza difficoltà dovrebbe forse far sospettare che Schopenhauer non intendesse affatto dire che il violoncello o la viola non sappiano "cantare" come il flauto o il violino; oppure che ignorasse l'esistenza di arie per basso oltre che per soprano. Egli opera invece un ribaltamento non troppo legittimo, certo, dal punto di vista logico, ma non privo di una portata immaginativa e di un buon fondamen­ to nella pratica musicale. Non privo di una portata immaginativa, per il fatto che se si cercasse una qualche immagine dell'elemento melodico non la si cercherebbe probabilmente nel contrabbasso - come il Flauto di Mozart del resto insegna [59]. E non privo di un buon fondamento nella pratica musicale per il fatto che in fin dei conti ciò che qui si sostiene è anzitutto che, qualora una funzione armonica debba essere assolta, essa possa esserlo assai meglio attraverso l'u­ti­liz­zo dei registri gravi piuttosto che dei registri acuti. Il senso autentico delle formulazioni schopenhaueriane intorno alle "de­fic­ ien­ze" melodiche dei bassi sta dunque ancora una volta nell'insistenza sul loro ruolo armonico, e questa insistenza riconduce il preteso "grave errore" ad una circostanza piut­tosto plateale che oltre ad essere insegnata da tutti i manuali, corrispondeva ad una pratica musicale, nella quale il trattamento del basso come sostegno armonico era particolarmente accen- 44 tuato [60] e i ruoli melodici erano per lo più affidati a stru­menti di registro acuto. È appena ovvio sottolineare che per Schopenhauer non è affatto importante che il riferimento musicale al basso continuo venga reso esplicito. Al contrario, è importante che esso venga tenuto nascosto, ed il fatto che il lettore lo metta sen­z'altro allo scoperto può sembrare persino inopportuno. Scho­penhauer avanza infatti la pretesa di non parlare di questa o quella forma musicale particolare, di questa o quella pratica legata alle determinatezze di uno stile - ciò sarebbe assai riduttivo - ma della Musica in grande, ed anzi della sua essenza metafisica. Ed il fatto che ci si muova in questa prospettiva generale pog­giando su una pratica musicale particolare e per di più del tutto obsoleta, è una circostanza piuttosto imbarazzante. Tuttavia la strada da percorrere è ancora piuttosto lunga, e non è questo certamente il momento di tirare le fila. Annotazioni 1. Si sa che Schopenhauer suonava il flauto (e più raramente la chitarra) e che egli dedicava a questo strumento con regola­rità un'ora al giorno, a quanto si dice nei Colloqui (p. 209), tra mezzogiorno e l'una. È noto anche che egli possedeva una ver­sione delle opere di Rossini in una riduzione per flauto. Ed ecco allora la tentazione di stabilire una connessione causale tra questo dato biografico - la frequenza quotidiana con questo strumento, tipicamente acuto, tipicamente "melodi­co" - e la teoria che assegna alla melodia la voce di soprano e che pone la melodia al vertice dell'e­spressione musicale esaltando i suoni del registro acuto come quelli che manifestano la spiritualità al suo grado più alto. Ma perché non ritrovare la "vera origine" dell'atteg­giamento di Schopenhauer verso il problema del rapporto tra 45 musica e testo proprio in questa sua consuetudine esecutiva? Il dato di fatto biografico che Schopenhauer amava eseguire brani rossiniani al flauto, i quali certamente gli sembravano belli anche così, senza parole, sembra incontrarsi a meraviglia con l'esem­plarità che Rossini assume in rapporto a questo problema, essendo la musica rossiniana giudicata da Schopenhauer come del tutto indipendente dall'azione scenica ed indifferente alle seduzioni dei significati verbali (cfr. PP, II, p. 571). Così esclama Fauconnet, ancora sul problema della valutazione schopenhaueriana in rapporto alla capacità melodica dei bassi: "Mais n'est pas en jouant la partie de flûte d'une symphonie, ni même la réduction d'un opéra pour flûte seule qu'on s'éduque l'oreille et l'habitude à l'exacte appréciation des basses. Bien autrement instructives serait la moindre fugue pour piano!(...)" (A.Fauconnet, L'Esthétique de Schopenhauer, cit., p. 438). In questo autore l'idea che una buona parte dei giudizi di Schopenhauer derivi dal fatto che egli suonasse il flauto piuttosto che il pianoforte è formulata in modo del tutto esplicita. Tanto varrebbe - visti gli intrecci tra la filosofia della musica e la posizione filosofica generale - far dipendere dal flauto di Schopenhauer l'intera teoria della volontà, dei suoi gradi di oggettivazione, il pessimismo, e tutto il resto. Assumiamo spesso come punto di riferimento critico il vecchio volume di Fauconnet per il fatto che alcuni atteggiamenti presenti in quest'opera, ed in particolare la separazione delle considerazioni estetico-musicali dal contesto filosofico complessivo dell'autore, sono tutt'altro che superati, ma continuano a ricorrere nella letteratura anche se in modi più sofisticati. 46 2. Ulteriori chiarimenti sulla questione del rapporto tra melodia e registro acuto si possono trovare nel cap. XIX dei Parerga e Paralipomena (PP, II, pp. 574-75). Qui si ribadisce il parere che "le arie dei solisti, con accompagnamento dell'or­chestra, siano adatte soltanto al contralto o al soprano; e che perciò le voci maschili dovrebbero essere impiegate soltanto in duetto con quelle oppure in pezzi a più voci; tranne il caso in cui esse cantino senza alcun accompagnamento o col solo accompagnamento del basso". Ma si insiste su alcune motivazioni tecniche che riguardano anzitutto la tendenza spontanea ad afferrare come linea melodica i suoni che si succedono nella regione acuta: può accadere così che, in un accompagnamento realizzato in un registro più alto della voce melodica, l'orecchio sia indotto a seguire l'accompagnamento piuttosto che la melodia. Naturalmente Schopenhauer sa benissimo che vi sono arie appositamente scritte per basso, ma osserva che una buona scrittura esige che si mettano in campo particolari accorgimenti proprio per evitare quegli "inconve­nien­ti". Che dunque esistono. "Il fatto che grandi maestri, come Mozart e Rossini, sappiano mitigare, anzi superare gli inconvenienti delle arie per basso, non vale a eliminarli" (ivi, p. 575). 47 §7 La melodia e i segreti della volontà ogliamo elaborare un poco il problema della melodia che è affiorato a partire da considerazioni relative al versante armonico. Esso si sviluppa seguendo la traccia dell'associa­ zione analogica con il mondo umano. Questo mondo si trova, musicalmente, nelle regioni in cui risuonano me­lo­die, alla massima distanza dalla gravità della materia. Il Convitato di pietra nel Don Giovanni di Mozart canta in voce di basso: ma egli è appunto di pietra, e la melodia gli è appropriata in quanto la pietra è qui in figura umana [61]. E come nel mondo umano la volontà riceve la sua massima visibilità, specificità e differen­ziazione, così nella melodia è possibile ricono­scere "il grado supremo dell'ob­biet­­tivazione della volontà, la vita e le aspirazio­ni coscienti dell'uomo" [62]. Un unico percorso armonico può stare a fondamento di molteplici sviluppi melodici, cosicché la melodia può essere considerata ciò che nella musica rappresenta l'elemento propriamente indivi­duale: essa è simile ad un volto, nei cui lineamenti, schematicamente comuni a tutti gli uomini, si imprime invece ciò che caratterizza ciascun uomo nella sua individualità inconfondibile: "Il numero inesauribile delle melodie possibili corri­sponde all'inesauribile varietà di individui, di fisionomie, e di esistenze che produce la natura" [63]. "All'ine­sau­ri­bi­lità della natura in fatto di individualità umane corrisponde l'inesauribilità della mu­sica in fatto di melodie" [64] Nella melodia diventa "visibile" la volontà stessa, essa è, in modo peculiare, espressione della volontà. Talora Schopenhauer giustifica questa affermazione ricollegandosi all'elemen­to "figurale" della melodia, alla linea che traccia un disegno, cosicché 48 potremmo dire di vedere nella melodia "i moti della volontà trasferiti nel dominio della pura rappresentazione, che è la scena esclusiva per le produzioni di tutte le arti belle" [65]. Ma una simile spiegazione, che richiama il concetto di rappresentazione diventato di dubbia applicazione nel­l'am­­bito della filosofia della musica, deve essere compresa sullo sfondo di un'altra spiegazione più profonda che è anche più coerente all'impianto di principio del problema musicale. Più volte abbiamo ribadito che la concezione schopenhaueriana della musica si può comprendere solo se si colgono le intenzioni metafisiche che sono ad essa sottese. La musica deve essere riportata nel quadro del sistema metafisico. Ciò non significa tuttavia, proprio per il carattere che assume questo sistema, che essa venga allontanata dal mondo umano, come una sorta di messaggio proveniente da incomprensibili lontananze. Tra l'o­ scuro abisso della volontà intesa come forza motrice della vita stessa e la volontà di cui ciascuno può attingere la nozione in se stesso non vi è alcuna differenza di principio - Schopenhauer ha spesso insistito su questo punto. Inoltre con "volontà" non intendiamo il puro atto del volere con le sue decisioni e le sue realizzazioni, ma più ampiamente il luogo in cui si agitano gli affetti, i timori e gli odi, le gioie e le angosce. La volontà diventa un altro nome per indicare la dimensione più profonda del desiderio. Ed è proprio il movimento del desiderio, nella sua struttura fondamentale e nelle sue più varie e sottili coloriture emotive che si manifesta nello sviluppo melodico. Ad un primo sguardo la posizione che riceve la melodia in Schopenhauer sembra dipendere da astratte esigenze sistematiche. Ma un esame più approfondito ci fa comprendere che le stesse esigenze sistematiche sono in certo senso già predisposte allo scopo di dare una nuova formulazione ed un nuovo fondamento alla teoria dei legami profondi tra musica e vita affettiva. La melodia ci racconta la storia più segreta della volontà, "dipinge ogni impulso, ogni slancio, ogni movimen­to della volontà, tutto 49 ciò che la ragione abbraccia sotto il va­sto e negativo concetto di sentimento e che essa non riesce a riassumere nelle sue astrazioni" [66]. In questo modo il motivo del rapporto tra musica e sen­ timento, così importante nell'ambito della cultura ro­mantica, riemerge in Schopenhauer secondo inclinazioni direttamente suggerite dalla sua impostazione filosofica generale. Annotazione Secondo Lawrence Ferrara l'importanza che assume Rameau in Schopenhauer corrisponde al fatto che l'approccio analitico di Rameau era dominante nella sua epoca, ma sarebbe stato più opportuno, e proprio in rapporto al rilievo dato da Schopen­hauer alla melodia, fare riferimento al Gradus ad Parnassum (1725) di Johann Fux. Da un lato infatti Schopenhauer erediterebbe da Rameau una visione troppo restrittiva delle regole per il trattamento delle quattro voci, dall'altro, secondo la prospettiva teorica di Rameau, "music analysis should move up and down, building chords on thirds based on the root, in a serie of 'now' points", cosicché la partitura "can be likened to a cloth sewn only of vertical threads, disconnected by a horizontal texture" (L. Ferrara, op. cit., p. 191). Nella concezione teorica di Fux, più attenta alla scrittura contrappuntistica, si renderebbe invece maggiormente conto degli sviluppi orizzontali. "Had he embraced Fux rather than Rameau, Fux's system would have supported Schopenhauer's propensity for melody as Rameau's harmonically based system could not". "Scho­ pen­hauer's embrace of Rameau approach, instead of that of Fux, causes significant damage to his understanding and explanation of musical syntax as a foundation for his metaphysi- 50 cs of music" (ivi). Si tratta di un'osservazione assai sottile che è da intendere ancora, a mio avviso, in chiave critica rispetto all'impostazione complessiva di Schopenhauer. In effetti il richiamo a Rameau ed al basso fondamentale mal si concilia con la posizione che la melodia occupa nell'impianto filosofico di Schopenhauer. Ma a questo impianto si concilierebbe forse assai meno un accento posto sul contrappunto, mettendo in secondo piano l'ordine armonico e dunque anche il rapporto armonia-melodia. 51 §8 La musica come canto del mondo a subito notato Schopenhauer non concepisce affatto la relazione tra musica e sentimento come una relazione di corrispondenza puntuale che ci obblighi a indicare per ogni brano musicale un sentimento particolare ad esso cor­rispondente. La musica "non esprime la tal gioia, la tal afflizione, il tal dolore, il tal raccapriccio, il tale giubilo, la tale allegria, la tale calma di spirito, bensì la gioia, l'af­­flizione, il dolore, il terrore, il giubilo, l'allegria, la calma di spirito, tali quali sono in sé, nella loro universalità in abstracto; ce ne dà l'essenza priva di ogni accessorio e, di conseguenza, non ce ne indica neppure i motivi" [67]. Ciò che la musica esprime è la quintessenza [68] di uno stato emotivo, il suo senso più intimo e autentico: ad esempio, il senso generale della gioia, e non uno stato gioioso determinato con i suoi motivi altrettanto determinati. Questa tendenza all'espressione della generalità suggerisce a Schopenhauer un'analogia con le funzioni razionali, con lo statuto dei concetti. Il concetto sussume sotto di sé i suoi casi particolari, ma non è in alcun modo riducibile ad uno di essi. Le differenze e le particolarità scompaiono nella generalizzazione concettuale. "Al pari dei concetti universali, le melodie sono in certo modo astrazioni dalla realtà. La realtà, cioè il mondo delle cose particolari, fornisce l'intuiti­vo, lo speciale, il singolo caso per la generalizzazione tanto dei concetti quanto delle melodie..." [69]. Naturalmente c'è anche una profonda differenza: le universalità date musicalmente sono universalità intuitive, cioè sono decorsi sonori concretamente percepiti che, come nel caso delle idee nel campo delle altre arti, possono essere intesi come univer­ salia ante rem, mentre i concetti sono formati per generalizzazione 52 a partire dalle cose, e meritano quindi di essere chia­mati universalia post rem. I concetti sono enti astratti, "quasi la spoglia esterna delle cose", mentre la musica dà "l'intimo nucleo che precede ogni formazione, il cuore delle cose" [70]. Si tratta di considerazioni importanti anche per delineare e giustificare la presa di posizione di Schopenhauer su un altro classico problema della riflessione filosofica sulla musica: il problema del rapporto con la parola, e quindi in genere con i significati in essa espressi. Da questo problema in realtà abbiamo preso le mosse ed ora arriviamo ad introdurre nuovi chiarimenti e precisazioni. Poiché la musica (a differenza della pittura) non sta di fronte al mondo, e dunque non lo presuppone, allora la peggiore pretesa di un musicista sarà quella di "dipin­gere" con i suoni, di "imitare" la natura. Nella condanna della musica "descrittiva" o "imitativa" viene coinvolto Haydn per le sue Stagioni e per la Cre­ azione proprio per il fatto che in quelle opere sono spesso "imitati direttamente i fenomeni del mondo intuitivo": "roba tutta da buttare via" [71]. La stessa impostazione si farà valere per ciò che concerne il rapporto con il testo letterario, poetico o drammatico. Sullo sfondo vi è naturalmente la questione così a lungo dibattuta in rapporto alla natura del melodramma: se il testo debba avere la prevalenza sulla musica oppure se, inversamente, il testo rispetto alla musica debba essere considerato come relativamente indifferente e liberamente sostituibile entro margini piut­tosto ampi. L'analogia con i concetti e gli esempi che cadono sotto di essi risulta ora particolarmente opportuna: tra una scena d'opera, considerata dal punto di vista drammatico, e la musica corrispondente "non vi è altra relazione che quella intercorrente tra un esempio scelto a caso e un concetto universale: gli elementi associati con la musica rappresentano, con determinatezza della realtà, ciò che la musica enuncia nella universalità della pura forma" [72]. Rossini viene rammentato proprio perché, a detta di Scho- 53 penhauer, seppe mantenersi immune dall'"assur­da pretesa" di adattare la musica alle parole ed agli avvenimenti. Cosicché se togliessimo alla musica di Rossini le parole, ad esempio, riproducendola con "semplici strumenti", nulla del suo effetto verrebbe perduto [73]. La musica è dunque un'arte interamente autonoma, interamente indipendente. Essa "non ha alcun bisogno delle parole del canto o dell'azione di un'opera" [74]. La stessa voce umana non vale per essa come suono significante, ma allo stesso titolo di un suono strumentale. L'effetto espressivo del suono è del resto maggiore di quello del significato delle parole e la musica è capace di farci conoscere "la più intima a­nima degli avvenimenti e delle situazioni di cui la scena offre soltanto il corpo e la veste" [75]. "La musica di un'opera come si presenta nella partitura, ha un'esistenza per sé, completamen­te indipendente, separata, quasi astratta, alla quale sono estranee le vicende e i personaggi del dramma, e che segue le sue proprie regole immutabili; perciò essa è perfettamente efficace anche senza il testo" [76]. Sarebbe sbagliato tuttavia intendere queste affermazioni in una direzione accentuatamente "formali­stica" (anche se il formalismo futuro non si dimenticherà affatto di queste teoriz­zazioni schopenhauriane). Più interessante è richiamare l'at­­ten­zione sul fatto che questa astrazione dal mondo è in realtà motivata dal fatto che la musica è già mondo essa stessa. Il rapporto con il sentimento, dunque, è strettamente subordinato al tema dell'oggetti­va­zione che conferisce alla musica carattere di mondo: proprio in quanto il mon­ do è permeato di affettività e la musica ha carattere di mondo, essa è a sua volta espressione della vita delle emozioni e dei sentimenti. Cosicché la musica si presenta da subito come impregnata di mondo, senza bisogno di alcun testo, di alcuna azione drammatica che faccia da mediazione per istituire un rapporto. In questo senso mi sembra sia da interpretare la frase seguente, che si trova in un manoscritto del 1817: "La musica nella sua totalità è la melodia di cui il mondo è 54 il testo" [77]. La melodia con un testo è un canto. Questa frase vorremmo parafrasarla così: la musica nella sua totalità è il mondo che canta. La musica è il canto del mondo. In questa frase, forse più che altrove, si coglie l'autentico spirito e il senso della posizione complessiva di Schopenhauer. In base ad essa si rende anche conto del motivo per il quale viene così spesso associato un testo a ciò che è puramente musicale: si tratta di una circostanza che richiede certo qualche spiegazione, dopo che abbiamo deciso per la piena autonomia della musica rispetto al linguaggio delle parole. In realtà l'associare parole e musica rappresenta una tendenza del tutto naturale, così come è naturale l'inclinazione della nostra fantasia a dare una forma visibile al mondo spirituale, invisibile e tuttavia così "ricco di vita", che "ci parla con tanta im­me­diatezza" attraverso la musica [78]. Questa tendenza è appunto giustificata dal fatto che la musica è espressione del mondo [79] - cosicché gli eventi del mondo possono essere "commentati" dalla musica in modo tale che dal com­mento venga esaltato il loro senso più profondo. "Sulla base dell'intima relazione che la musica intrattiene con la vera essenza delle cose, riceve anche spie­gazione il fatto che, quando in presenza di una scena qualsiasi, di un'a­zione, di un avvenimento, di un ambiente, risuona una musica adatta, essa sembra ce ne di­schiuda il senso più profondo e ce ne dia il commento più chiaro e preciso" [80]. Di conseguenza l'estraneità più volte ribadita tra la musica e l'azione drammatica non toglie che tra l'una e l'altra vi possa essere uno strettissimo legame. La musica può essere l'anima dell'azione "giacché, nel suo legame con gli avvenimenti, i personaggi e le parole, essa giunge ad esprimere l'in­timo significato, nonché la necessità ultima e segreta di tutti quegli avvenimenti che su quel significato si basano" [81]. 55 Annotazione Mi sembra che si debba dare evidenza, più di quanto non si faccia di solito, al fatto che la posizione di Schopenhauer sull'opera non ha solo alla propria base il motivo teorico del modo di intendere il rapporto con il testo, ma anche il rifiuto delle forme esteriori e più spettacolari del melodramma, così come si presentavano in particolare nel melodramma francese. Questo riferimento mi sembra risulti con particolare chiarezza nel § 220 dei Parerga e Paralipomena (II, cap. XIX) (pp. 571-73) dove il grand-opéra è chiamato direttamente in causa: "Il grand-opéra (il riferimento all'opera francese sfugge interamente se si traduce 'la grande opera' come accade qui) non è, in realtà, un prodotto del puro senso artistico, ma piuttosto del concetto alquanto barbaro secondo il quale il godimento estetico sarebbe intensificato dall'accu­mulo dei mezzi, dalla contemporaneità di impressioni del tutto differenti, dall'ef­fetto rafforzato aumentando la massa e le forze che operano...". In questo modo risulta difficile "afferrare completamente il linguaggio così straordinariamente interiore della musica"; "lo sfarzo più sgargiante, le scene più fantastiche e le impressioni di luce e di colore più vivaci" impegnano l'oc­chio, più che l'orecchio: "Lo spirito inoltre è occupato dalla trama dell'opera. Tutto questo lo sottrae, lo distrae, lo stordisce e lo rende meno di tutto sensibile al linguaggio misterioso e intimo delle note; perciò in tal modo si opera in senso opposto al raggiungimento del fine musicale. Inoltre vi sono ancora i balletti, spettacolo calcolato spesso per soddisfare la lascivia piuttosto che per il godimento estetico, e che inoltre, dato l'am­bito ristretto dei suoi mezzi e la monotonia che ne deriva, diventa ben pre- 56 sto estremamente noioso, e contribuisce così ad esaurire la pazienza, soprattutto perché, a causa della noiosa ripetizione, spesso per interi quarti d'ora, della stessa melodia ballabile, che è qui secondaria, la sensibilità musicale si ottunde, di modo che non le rimane più la capacità di ricevere le susseguenti impressioni musicali di genere più serio ed elevato". §9 La musica e la vera filosofia a famosa affermazione di Schopenhauer secondo la quale saremmo in possesso della vera filosofia se potessimo esprimere in concetti ciò che la musica esprime attraverso i suoni [82] è una pura e semplice conseguenza di ciò che siamo andati fin qui esponendo. La filosofia infatti, in quanto metafisica, pretende di essere nulla più e nulla meno di un'esplicitazione, realizzata at­­tra­verso la rifles­ sio­ne, dell'essenza profonda degli eventi, del loro senso ultimo. 57 Ed è proprio questo senso che permea la musica stessa. La frase di Leibniz precedentemente citata potrebbe potrebbe perciò essere parafrasata dicendo che "la musica è l'esercizio occulto della metafisica da parte dell'animo che filosofa senza saperlo" [83]. Se la musica ha radici metafisiche, allora il filosofo che va alla ricerca di queste radici non potrà che trovarsi assai vicino al musicista, ed anzi potrà riconoscere nella musica quel­ l'inafferrabile mèta che egli persegue e che resta peraltro nella sua inafferrabilità, affidata com'è a suoni che non sono traducibili in parole. Proprio per que­sto la musica è per Schopenhauer un'arte tremendamente seria: in essa non vi è spazio per il riso, per la comicità, come vi può essere invece nel caso del­la poesia, della letteratura e delle arti figurative. Ciò è quanto sostiene un ammiratore di Rossini! Ma basterà a togliere ogni possibile incoerenza il richiamo, da un lato, alla relativa indifferenza della musica per il contenuto, dal­l'altro al fatto che anche nel comico vi è un elemento u­ni­ver­sal­mente umano che rimanda all'irrimediabile serietà della vita, e a questo elemento bada soprattutto la musica. Cosicché "anche quan­do accompagna le burle più ridicole e più sfrenate dell'opera comica, essa conserva la sua essenza bella, pura e sublime e il suo mescolarsi a quegli avvenimenti non ha il potere di farla scendere dalla sua altezza, alla quale è assolutamente estraneo tutto ciò che è ridicolo. Così, al di sopra della farsa e delle infinite miserie della vita umana, si libra il significato serio e profondo della nostra esistenza, dal quale essa non si separa nemmeno per un attimo" [84]. Così, se vi è un lato del discorso di Schopenhauer che autorizza a vedere nella musica la varietà che è propria del mondo stesso, è possibile anche pervenire ad accentuazioni nelle quali la musica viene proposta come gravitante su un unico argomento, che è anche il più serio di tutti gli argomenti. Il laico Schopenhauer, anzi l'ateo convinto quale egli era, nelle lezioni berlinesi in cui egli riprende letteralmente il § 52 del Mondo, avviandosi verso una più libera conclusione, arriva a lamentare la relativa man- 58 canza di musica da chiesa nella produzione più recente, essendo essa la base migliore "per cogliere e penetrare nell'essenza della musica". E conclude con un'e­­sortazione agli studenti a coltivare quest'arte che egli chiama "sacra" ed a spendere il proprio denaro e il proprio tempo per andare all'opera ed ai concerti lasciando il gioco e il bere ai filistei: poiché "è incomparabilmente più nobile e conveniente per quattro persone accingersi ad eseguire un quartetto piuttosto che giocare una partita di whist" [85]. Annotazione Alla serietà della musica Schopenhauer ricollega, di passaggio, la tolleranza della musica verso la ripetizione. Mentre nel discorso verbale la ripetizione genera subito sazietà e risulta ben presto insopportabile, nella musica invece la ripetizione sembra essere un vero e proprio mezzo espressivo "conveniente e utile" e ciò proverebbe "quanto sia ricco di contenuto e di significato il suo linguaggio" - quasi che la ripetizione fosse necessaria per consentire di afferrare meglio la pregnanza del suo senso (WWV, I, p. 368 (382)). Appare evidente da una simile osservazione la facilità con la quale Schopenhauer passa al di sopra dei problemi strutturali legati alla forma, facendo riferimento piuttosto al "contenuto". La ripetizione - che è un fondamentale mezzo di strutturazione formale in ambito musicale - viene invece motivata con la nobiltà del contenuto, cosicché essa si giustifica come nel caso di un discorso particolarmente "elevato". 59 § 10 La melodia e il desiderio a questione della melodia è ripresa nei Supple­­ men­ti [86] e in essi si aggiunge indubbiamente qualcosa rispetto alla trattazione del Mondo. Il filo conduttore principale è sempre rappresen­ tato dall'idea della me­lodia come manifesta­ zione eminente, all'interno della musica, della volontà. Ma sappiano che questo termine rimanda in Schopenhauer all'intero campo degli affetti, ed in particolare al nucleo intorno a cui essi gravitano e da cui essi sorgono: il desiderio. Tra melodia e desiderio vi deve dunque essere un legame interno, e ciò significa che nella struttura della melodia dobbiamo essere sempre in grado di ritrovare la struttura del desi­ derio. Questa si dispiega in due fasi fondamentali - la tensione del desiderio inappagato e la distensione dell'appaga­mento. Ecco un altro motivo che si ripresenta di continuo nella teoria e nell'estetica musicale e che, d'altro lato, si rivela singolarmente aderente alla cornice filosofica scho­penhaueriana. All'interno di essa peraltro questo motivo si presta ad un'ela­borazione non consueta soprattutto per il tentativo che viene effettuato di realizzare un legame assai stretto non solo tra armonia e melodia, ma tra entrambe e la componente ritmica. La premessa di questo tentativo sta nella riconsiderazione del rapporto tra consonanza e dissonanza. È subito chiaro in che modo questo rapporto potrà essere sovrapposto alla dinamica del desiderio: la consonanza con i suoi valori espressivi legati alla quiete ed al riposo sarà riferita alla dimensione dell'appagamento, a quella dimensione verso cui le tensioni della dissonanza cercheranno di scaricarsi. La regola tecnico-compositiva che richiede la "risoluzione" della dissonanza ha qui un'in­terpretazione che le conferisce senso. Inoltre la dissonan­za non solo appartiene di pieno diritto alla musica, ma rappresenta anche un fattore 60 fondamentale di dinamismo: una melodia che si sviluppasse unicamente per intervalli consonantici, cioè come pura ripetizione sul piano orizzontale delle note che costituiscono la triade, non sarebbe in realtà una "buona" melodia per il fatto che si resterebbe sempre nel­lo stesso luogo, presso la nota fondamentale, in cui le altre sono "contenute". Si tratterebbe così di un movimento solo apparente. Va poi notato che parlando di struttura del desiderio non si intende un unico arco concluso che procede dalla mancanza, che caratterizza lo stato del desiderio, alla sua saturazione. Nella saturazione vi è infatti un nuovo desiderio risorgente - cosicché subito si riapre un vuoto che attende di essere riempito. Vi è dunque un'apertura infinita, un continuo ripresentarsi di intenzioni non soddisfatte che cominciano a diventare attive non appena lo stato di soddisfazione è stato rag­giunto. Rispetto a questo movimento, che caratterizza la vi­talità stessa della vita, la posizione di Schopenhauer è in real­tà ambivalente: talora egli ne esaspera i tratti angosciosi, riportando il desiderio eternamente rinascente ad un'insop­por­tabile condizione di inquietudine e di ansietà. Non manca tut­tavia l'idea che proprio in questa forma di movimento, in questo desiderio inappagato e inappagabile consista ciò che ci fa aderire alla vita stessa nell'immediatezza che è propria della vita comune. Si tratta di un'adesione che Schopenhauer, nonostante il suo pessimismo filosofico, è ben lontano dal condannare. Nell'appagamento vi è invece una vita che langue [87], la condizione della noia [88] che rispecchia sul piano superficiale della psicologia individuale uno stato di abbandono e di distac­co dalla vita che non rappresenta in nessun caso una risposta autentica alle sue inquietudini. Musicalmente questo problema si ripercuote nel ristagno melodico sugli intervalli consonantici. Pensiamo ad un unico suono tenuto indefinitamente. Esso sta al limite del concetto della melodia ed è null'altro che una possibile immagine dell'appagamento, della condizione di quella noia dalla quale la vita non 61 riesce più a riaversi. Vi abbiamo accennato poc'anzi: una melodia che si muovesse solo per intervalli consonantici sarebbe, in senso stretto e pregnante, una melodia monotona, secondo l'eti­mo del termine, una melodia con un solo suono, molto prossima a quel caso limite [89]. Accanto all'elemento consonantico-razionale [90] deve dunque assolvere un ruolo di particolare importanza anche l'elemento dissonantico-irrazionale [91]. All'interno di queste considerazioni si innesta una riflessione sulla tematica del ritmo. Questa riflessione non ha in realtà il suo punto di forza nel fattore temporale, che del resto resta in ombra nell'intera filosofia della musica di Schopenhauer ed è oggetto di considerazioni disperse e piuttosto marginali [92]. Il richiamo al fattore tem­porale, in quanto sembra attirare l'attenzione sugli aspetti propriamente "metrici", e in generale sulle partizioni di diverso grado di cui consta il brano musicale, fa pensare piuttosto ad una possibile corrispondenza con la spazialità, e quindi alla ricorrente analogia tra musica e architettura - analogia che risulta particolarmente urtante per Schopenhauer per il fatto che essa si trova in diretto contrasto con la posizione che l'interpretazione metafisica assegna ad esse. Rammentando un'osserva­zione di Goethe riferita da Eckermann secondo cui l'architettura potrebbe essere definita una "musica irrigidita" [93] , e dun­que inversamente la musica una architettura disciolta in forme temporali, Schopenhauer osserva che in effetti questa analogia potrebbe essere fatta valere proprio in rapporto alla problematica ritmica. Infatti il ritmo assolve nella musica quella funzione ordinatrice e di coesione interna che è assolta nell'architet­tura dalla simmetria [94]. "Vediamo dunque come la composizione musicale, grazie alla ripartizione simmetrica e alle ripetute suddivisioni che si estendono sino alle battute e alle loro parti, subordinando e sovra­ordinando e coordinando tutti i suoi elementi, diventi un intero unitario e concluso, tale quale diventa l'edificio grazie alla simmetria che gli è propria" [95]. Estendendo l'ana­logia: "quan­do la musica, presa per così dire da 62 un impulso all'indi­pendenza, approfitta di una corona per abbandonarsi, senza i vincoli del ritmo, al libero fantasticare di una cadenza figurata, un simile spezzone musicale, privo di ritmo, è analogo ad una rovina, priva di simmetrie, rovina che si potrebbe definire, impiegando l'audace linguaggio di quel motto, una cadenza raggelata" [96]. Ma il punto realmente importante - aggiunge Schopenhauer - sta nel fatto che questa analogia "da me ricondotta al suo unico fondamento, ossia all'analogia tra il ritmo e la simmetria, si applica soltanto alla forma esteriore e in nessun caso all'intima essenza delle due arti", e questo perché su di essa deve prevalere la profonda differenza prestabilita dallo schema del­l'interpretazione metafisica. In esso l'architettura è eminentemente arte della materia cosicché dovrà essere caratterizzata "come la più debole di tutte le arti" di fronte alla musica che sarebbe invece "la più estesa e potente" [97]. Per ristabilire la differenza occorrerà guardare allora, più che al versante temporale, alla possibilità di reperire anche nel ritmo, come in ambito armonico, un'al­ternanza di fasi di tensione e di distensione, e soprattutto di avvalersi di questa possibilità per istituire un rapporto tra livello ritmico e livello ar­monico, facendo infine confluire l'intero problema in quello della struttura della melodia. La tesi di Schopenhauer, formulata con le sue parole, è la seguente: "L'essenza della melodia consiste nella sempre nuova sepa­ razione e conciliazione tra il suo elemento ritmico e quello armonico" [98]. Per comprendere agevolmente il senso di questa frase converrà parlare, con terminologia nostra, di fasi di tensione e distensione armonica e fasi di tensione e distensione ritmica. Gli andamenti che vengono descritti con queste espressioni possono entrare in vari tipi di relazione tra loro, e precisamente una fase di tensione armonica può coincidere con una fase di tensione oppure con una fase di distensione ritmica. Risulta naturale allora parlare di concordanza tra le fasi quando una fase di 63 tensione (ovvero di distensione) armonica si sovrappone temporalmente ad una fase di tensione (ovvero di distensione) ritmica: ed inversamente di discordanza tra le fasi quando la tensione su uno dei due versanti si incontra con una fase di distensione sull'altro. Una dissonanza in levare rappresenta un esempio di concordanza tra le fasi, mentre una consonanza un esempio di discordanza. Vi è qui l'idea ricca di interesse di un luogo ritmico "na­tu­rale" della consonanza e della dissonanza - idea implicata dal tema della concordanza tra le fasi. Nello stesso tempo è chiaro che il dinamismo interno del brano richiede la di­scordanza, mentre la concordanza tende a produrre monotonia. Stando a questi presupposti la melodia viene proposta da Schopenhauer come una vera e propria risultante dell'in­con­tro tra l'elemento ritmico e l'elemento armonico, cosicché l'idea dell'unità tra questi tre momenti fondamentali della composizione viene ad essere fortemente consolidata. Abbiamo detto in precedenza che la costruzione melodica trae vantaggio dall'impiego di intervalli non con­sonantici. Possiamo ora aggiungere che un buon andamento melodico si deve avvalere anche della discordanza tra le fasi. Da tutto ciò consegue la possibilità di una semplice sche­­ matizzazione, che non va intesa in senso normativo ma come un'indicazione di una struttura astrattamente generale, secondo la quale la melodia deve cominciare con la nota fondamentale ed in uno stato di concordanza tra le fasi e terminare con la stessa nota fondamentale, ancora in uno stato di concordanza. Dal punto di vista ar­monico, il percorso conduce da una consonanza ad una consonanza e dal punto di vista ritmico da una situazione di riposo ad un'altra situazione di riposo, passando attraverso uno stato di discordanza tra le fasi che si troverà al centro dell'arco melodico. In questa schematizzazione ci si attiene naturalmente all'idea scolastica della dissonanza come stato transitorio, come tensione interna che viene rafforzata dal contrasto con la componente ritmica: la dissonanza è infatti qui "in battere", 64 l'accento ritmico rafforza l'effetto di un' energia compressa che preme per la sua estrinsecazione. Si tratta di una descrizione di un processo che si apre e che si chiude nell'appagamento, e che ha al suo interno, come momento indispensabile di dinamismo, il desiderio riemergente dalla condizione stessa dell'ap­pa­gamento. È interessante notare che, per quanto riguarda la problematica musicale, l'accento cade sulla chiusura del processo, mentre stando allo spirito della concezione filosofica complessiva di Schopenhauer, interamente dominata dall'insaziabilità della volontà e dalla perenne insorgenza del desiderio, l'enfasi dovrebbe posarsi sull'apertura e sull'inesauribilità del movimento, prospet­ tando l'idea di una melodia già da sempre iniziata e che non può avere mai fine. Una simile idea si trova nel terreno in cui questa filosofia della musica ha le sue radici, nelle concezioni generali che la sorreggono, non invece nel modo in cui essa viene effettivamente elaborata. Secondo questa elaborazione infatti la struttura della melodia viene proposta come una struttura fermamente chiusa. Il filosofo che si è dato la pena di imparare dalla scuola i rudimenti dell'arte non vuole discostarsi troppo da essi, e ad essi si attiene anche quando la sua filosofia potrebbe suggerire qualcosa di profondamente diverso, essendo soddisfatto di poterli almeno in parte riconfermare nei termini delle proprie istanze filosofiche [99]. Annotazione Rispetto allo schema teorico come tale, l'esemplificazione pro­posta nel capitolo 39 dei Supplementi rischia di essere troppo concreta e apparire conseguentemente piuttosto semplicistica. Nell'esempio la tonica si viene a tro­vare anzitutto sul tempo forte della battuta, ma poi an- 65 che sul tempo debole cosicché vi è prima concordanza a cui segue una fase di discordanza. La discordanza viene poi confermata all'inizio della seconda battuta dove una nota dissonante con la tonica viene proposta sul tempo forte. Le prime due battute rappresentano dunque il passaggio dalla condizione del­l'ap­­pa­ga­­­mento a quella dell'inappagamento. Nelle due battute successive si prendono le mosse da una condizione di discordanza, dove la nota dissonante con la tonica è ancora sul tempo forte, a cui segue una condizione di concordanza (il si sul levare) che viene confermata nell'ultima battuta. Poiché il riferimento alle note non è affatto importante e ciò che interessa è l'idea di una struttura di carattere generale si potrebbe suggerire illustrativamente uno schema come il seguente: In questa figura l'andamento armonico è descritto dalla linea superiore e l'andamento ritmico dalla linea inferiore.La distanza che intercorre tra le due linee potrebbe essere presa ad indicare la maggiore o minore prossimità tra le fasi. Di conseguenza in un andamento monotono di 66 fasi concordanti le due linee coincideranno, situazione rappresentata dalla linea intermedia. § 11 La musica e la gioia della volontà orse vi è un'altra ragione per la quale l'ac­cento cade soprattutto sul desiderio appagato piuttosto che sul suo infinito movimento. Essa ha a che vedere con il tema del piacere che la musica genera in noi, del­la gioia dell'ascolto musicale. In rapporto a questo problema Schopenhauer sembra voler ripresentare il motivo catartico secondo la classica idea che la ripetizione dell'af­fet­to, attuata dal­l'arte, deve essere fittizia. Questo motivo vale per le arti in genere, e dunque anche per la musica. Cosicché "non si devono stimolare le affezioni della volontà in se stesse, ossia il vero dolore e il vero piacere, ma soltanto i loro sostituti, ciò che è gradito all'intelletto, quale immagine del soddisfacimento della volontà, e ciò che più o meno gli ripugna, quale immagine di un dolore più o meno grande. È solo in questo modo che la musica non ci fa mai soffrire davvero, ma è sempre gradevole anche nei suoi accordi più dolenti: ci piace ascoltare, narrata nel suo linguaggio e perfino espressa nelle melodie più malinconiche, la storia segreta della nostra volontà, di tutti i suoi moti e di tutte le sue aspirazioni, con la varietà dei loro rinvii, dei loro ostacoli e delle loro angosce" [100]. Affermazioni come queste sono tuttavia mal sopportate dal contesto generale in cui viene proposta la problematica musicale. Proprio la mancanza di un carattere "rappre­senta­tivo" rende assai poco ovvio il parlare di una riproduzione, di un sostituto dell'affetto, e quindi di una funzione catartica nel senso consueto. Schopenhauer avverte chiaramente il pro­blema che si presenta a questo punto, nonostante lo sfor­zo evidente di mantenere 67 un'omo­­geneità nell'impo­sta­zione di principio. Fin dall'i­nizio abbiamo notato che vi è un conflitto latente tra la tesi generale che pone l'arte nel campo della rappresentazione e la natura stessa della musica. Questo conflitto non può che manifestarsi anche in rapporto al piacere dell'a­scolto: esso ha probabilmente una spiegazione abbastanza diversa rispetto a quella che potrebbe essere proposta in rapporto alle altre arti. Se la musica è una manifestazione immediata della volontà, le fonti del piace­re del­ l'ascolto musicale debbono risiedere non già nelle regioni della rappresentazione, ma della volontà stessa. Ed allora si comprende che questa spiegazione non sia affatto a portata di mano e debba essere enuncia­ta in termini quasi enigmatici. Di fronte alla domanda che chiede donde sorga questa gioia, Schopenhauer risponde misteriosamente con una citazione vedica: "Essi chiamano il sommo Atma 'ananda­sroup' che significa forma della gioia perché ovunque vi sia gioia, questa è una particella della sua gioia" [101]. Come si sa, le citazioni "indiane" di Schopenhauer sono sempre già di per se stesse molto dubbie, oltre a ricollegarsi ad una bizzarra traduzione latina a sua volta assai poco attendibile [102]. A maggior ragione esse debbono essere considerate strettamente all'interno del suo discorso filosofico e intese secondo l'inclinazione che è presente in esso - anche se certamente esse manifestano un interesse non certo secondario verso quella tradizione di pensiero. Il richiamo all'Atman è da intendere come un richiamo alla presenza interna del principio metafisico della volontà, che la musica riesce a ridestare. Ma ciò che colpisce in questa frase è soprattutto il fatto che alla volontà si attribuisca la gioia, e che alla gioia della volontà venga connesso il piacere che ci procura la musica [103]. Questo piacere non deriva per nulla dal fatto che essa eleverebbe il nostro spirito facendoci sognare "mondi diversi e migliori dal nostro"; la musica ci tiene presso il mondo. Come abbiamo detto prima: essa è il suo canto. Nel suo movimento questo canto che sgorga dalla volontà ammalia la 68 volontà stessa, che da esso viene lusingata in quanto rappresenta la promessa permanente del­l'appagamento. La gioia che la musica produce in noi deriva da questa immagine continuamente riproposta del desiderio appagato. Ma se è fuorviante il richiamo ad una catarsi fondata sulla finzione rappresentativa, anche il riferimento alle lusinghe della volontà appare incompleto, e quella citazione allude in modo cifrato ad una necessaria integrazione. La gioia che ci viene comunicata attraverso la musica è in realtà una particella della gioia della volontà stessa, nella quale si agitano i drammi infiniti delle esistenze singole, dram­mi che di continuo vengono trascesi in un gesto di affermazione perennamente rinnovato. Si tratta dunque della gioia ambivalente della vita stessa che con­tinuamente si ricrea e può farlo soltanto attraverso il dolore, la distruzione, la morte. In essa vi sono le lusinghe dell'appagamento, ma sono proprio queste lusinghe che ci mantengono invischiati nel desiderio. La musica ci in­vita a cantare, insieme ad essa, il canto del mon­do. La gioia che essa genera non è dunque soltanto un risultato della finzione artistica, ma deriva dal fatto che attraverso la musica ci sentiamo partecipi della vita cosmica. Per questo motivo una spiegazione del piacere in termi­ni di disinteresse e di distacco contemplativo sembra incontrare, nel caso della musica, dei limiti invalicabili. Annotazione Nei Parerga e Paralipomena, cap. XIX (PP, II, pp. 548 sgg.) Schopenhauer individua con molta chiarezza come un problema fondamentale della propria estetica proprio il far valere fino in fondo il principio della separazione dalla volontà nel piacere estetico. "Il problema specifico della metafisica del bello - egli dice - si può esprimere, molto semplicemente, così: come è possibile che un oggetto ci procuri appagamento e gioia senza che vi sia una relazione fra esso e il nostro volere?" (ivi, p. 549). Ci troviamo qui 69 di fronte ad un problema per il fatto che "una gioia senza l'eccitamento della volontà sembra essere una contraddizione" (ivi). Naturalmente il superamento di questa contraddizione è legato alla sottolineatura della volontà come fonte di dolore e all'inter­pretazione dello sta­to di gioia nella fruizione estetica come una condizione puramen­te negativa di temporanea sospensione del dolore. Il mon­do come rappresentazione viene allora in primo piano come un mondo che costituisce "uno spettacolo degno di essere visto" e nel "godimento di questo spettacolo consiste la gioia estetica" (ivi). In coerenza con ciò l'accento cade sull'idea di conoscenza pura e sull'attività dell'intel­letto - che riceve così una "anormale preponderanza" (ivi, p. 554). Non può sfuggire tuttavia come tutta la discussione venga sviluppata con riferimento prevalente alle arti figurative. Nel momento in cui si perviene alla musica, si afferma con decisione che "essa non parla di cose, ma solo di gioia e di dolore, che sono le uniche realtà per la volontà: perciò essa parla così intensamente al cuore, mentre nulla ha da dire direttamente alla testa, ed è un abuso pretenderlo da essa" (ivi, p. 568). Il rifiuto del descrittivismo musicale, che qui viene ribadito, avviene su questo fondamento: "Una cosa, infatti, è l'espressione delle passioni, un'altra dipingere le cose" (ivi, p. 569). Ci si dovrebbe allora chiedere se le spiegazioni precedenti sul piacere dell'arte fondate sulla capacità del prodotto artistico di presentarsi come "spettacolo" possano essere riferite senza modificazioni anche alla musica. Questo problema viene affrontato in Schopenhauer solo obliquamente, e viene lasciato sostanzialmente irrisolto, anche se, a nostro avviso, esso viene chiaramente avvertito e orientato nella direzione che ab­biamo or ora suggerita. 70 71 Parte seconda La teoria del sogno di Schopenhauer nell'interpretazione di Wagner 72 73 §1 Ripresa e ripercorriamo la via che abbiamo seguito fino a questo punto nel tentativo di fornire un'im­magine sufficien­temente completa del­la metafisica della musica di Scho­pen­hauer, non potremo probabil­mente negare che vi siano alcuni aspetti singolari e non facili da valutare. Si potrebbe intanto sostenere che la prima impressione di lettura con la quale abbiamo aperto la nostra discussione abbia ricevuto qualche motivazione per poter essere fondatamente sostenuta. Ci era sembrato infatti subito difficile stabilire un raccordo con la musica e la riflessione musicale del suo tempo e quindi a rendere conto delle ragioni per le quali la filosofia della musica di Scho­penhauer ha fatto epoca. Questa difficoltà sembra almeno in parte risultare confermata. Pensiamo naturalmente anzitutto a Wagner che eb­be a dichiararsi discepolo di Schopenhauer e che potrebbe essere considerato il primo dei suoi discepoli più illustri. Come si sa, non si tratta di un richiamo generico, ma di una relazione profonda. A Schopenhauer Wagner fa risalire l'atteggia­mento spirituale di alcune sue gran­di opere come il Tristano, la Tetralogia nibelungica, il Parsifal [104]. La posizione cruciale che Wagner occupa nelle vicende musicali del secolo XIX esige non solo che una riflessione sulla filosofia della musica di Schopenhauer spo­sti prima o poi la propria attenzione in questa direzione, ma anche che la domanda intorno alle ragioni per le quali essa ha fatto epoca possa essere considerata come una do­manda intesa soprattutto a chiarire il senso di questo rapporto. L'esistenza del legame tra Schopenhauer e Wa­gner è tanto notoria, e del resto in apparenza facilmente comprensibile stando a temi filosofici molto generali, da mettere in secondo piano i suoi aspetti problematici: in effetti se realiz- 74 ziamo una ricostruzione attenta della filosofia della musica di Schopenhauer, mettendo in evidenza il modo in cui essa prende forma - tra le necessità del sistema filosofico e le maggiori o minori minuzie della pra­tica musicale - questo legame non rien­ tra affatto tra le prime ovvietà da cui si dovrebbe essere subito colpiti. Al contrario tutta la nostra esposizione, a parte qualche cenno, sembra quasi preordinata ad escludere un incontro, piuttosto che a preludere ad esso. 75 Chiamare in causa Wagner significa chiamare in cau­sa un grande innovatore che, profondamente immerso nel­l'atmosfera del romanticismo, guarda ad un futuro utopico, dominato dal progetto di un dramma musicale pen­sato sullo sfondo di una concezione nuova dell'ope­rare artistico e delle relazioni tra le arti. Se guardiamo invece all'elaborazione filosofica di Schopenhauer specificamente dedicata alla musica molti aspetti ci appaiono legati al passato, a tendenze in via di superamento o già di fatto largamente superate. Quale altro commento potremmo fare per la questione del "basso continuo" e del "basso fondamentale" che assume una così grande importanza nella sua filosofia della musica? L'or­ chestra d'archi sei-settecentesca risuona nelle pagine di Schopenhauer - ed abbiamo già richiamato l'attenzione sul fatto che l'enfasi posta sulla fondazione dei rapporti consonantici nel suono fondamentale, che consente tutti gli sviluppi metaforici rammentati in precedenza, si richiama alla teorizzazione di Rameau. Inoltre solo facendo riferimento alle pratiche del basso continuo, che erano ormai faccenda di un passato ormai remoto all'epo­ ca in cui scrive Schopenhauer, cer­te sue osservazioni diventano comprensibili ed in qualche modo accettabili. Anche se consideriamo il gusto musicale puro e semplice non è certo facile trovare significative sintonie tra la sua concezione filosofica e l'opera rossiniana alla qua­le egli riservava la massima ammirazione. Annotazione Rammenta un amico che quando Schopenhauer parlava di Rossini "volgeva piamente lo sguardo al cielo"; ed una volta ebbe a dichiarare che "quando si è udito molto Rossini, tutto il resto ci appare pesante" - alludendo niente meno che a Mozart ed a Beethoven (Colloqui, pp. 208-09, 76 testimonianza di Robert von Horn­stein). Si tenga conto in ogni caso che le valutazioni di Schopenhauer su Rossini non rappresentano certo un caso isolato ma fanno parte di una temperie culturale; e non derivano certamente dalla sua consuetudine con il flauto come sostiene ancora Fauconnet ("La passion de Schopenhauer pour Rossini s'explique; car c'est un des compositeurs qui ont utilisé le bois avec le plus de fréquence et de bonheur", L'Esthétique de Schopenhauer, Alcan, Paris 1913, p. 436). Hegel era un entusiasta ammiratore di Rossini non meno di quanto lo fosse Schopenhauer [105]. 77 Ogni no­vità importante nella produzione musicale della sua epoca sembra sfuggire a Schopenhauer, e nume­rosi esempi potrebbero essere addotti per mostrare quanto fossero limitate le sue capacità di valutazione critica. Mentre Schopenhauer apprezzava Reichardt come compositore di Lie­der, "per Schubert non aveva alcuna comprensione"; riteneva le composizioni di Mendelssohn "graziose, ma non geniali"; "noiose" le sue sinfonie; "graziosa" ma "un'opera molto piccola" il Franco Cacciatore di Weber [106]. Per la musica wagneriana e per la persona stessa di Wagner - che parlava di Schopenhauer come di un maestro impareggiabile e di una guida - egli manifestò sempre un atteggiamento di freddezza. Questa espressione è anzi troppo debole: nelle frasi di Schopenhauer che riguardano Wagner si avverte, oltre che una boria certamente malposta, una sfumatura di autentico disprezzo. Così quando Wagner gli mandò il testo dell'Anello egli raccomanda ad un amico di portargli i suoi ringraziamenti per questo invio, ma aggiunge subito, "che egli dovrebbe gettare la musica alle ortiche, poiché ha più genialità come poeta" [107]. In un'altra occasione ribadisce: "Mi ha man­dato la sua Trilogia. Quel tipo (der Kerl) [108] è un poeta, non un musicista. Accadono qui certamente cose del­l'altro mondo (tolle Dinge). Una volta (Walkiria, fine atto I) si dice: 'Il sipario cala rapidamente'. E se non calasse rapidamente ce la vedremmo brutta" [109]. Sarebbe tuttavia un grave errore ritenere ritenere che il nucleo essenziale della teoria derivi da questioni di gusto musicale o da incomprensioni e incompetenza tecnica. Anche il dettaglio biografico è ben lontano dal poter chiudere un discorso appena aperto [110]. Tutti gli elementi raccolti pongono dei problemi. Se la questione dell'"epocalità" della filosofia della musica di Schopenhauer non può che risolversi in una riflessione sul rappor­to tra Wagner e Schopenhauer, queste nostre prime con­siderazioni sembrano suggerire che non si potrà realizzare un percorso sem- 78 plice che conduce dalla metafisica della musica di Schopenhauer alla musica di Wagner. La verità è che tutte le osservazioni svolte fino a questo punto, così attente a segnalare i riferimenti che stanno alla superficie e tra le righe del testo, non sono ancora in grado di cogliere il senso globale, lo spirito del­la concezione di Schopenhauer. Ci consentono soltanto di intravvederlo, ed esigono in ogni caso un'inte­grazione orientata in una diversa direzione. Rischiamo infatti di commettere un errore non trop­po lontano da quello della riduzione psicologico-bio­grafica. Questo errore è sempre sulla soglia quando l'ana­lisi storico-filoso­fica si mostra preoccupata unicamente di andare alla ricerca di "in­fluenze", di "letture" determinanti, di fonti "fattuali" come se si potesse e si dovesse sempre rendere conto dei tornanti del pensiero con rapporti "cau­sali" empiricamente documentabili e in questa ricerca consistesse il compito principale dell'in­ter­preta­zione. È tempo invece di ritirare la lente di ingrandimento da questo o quel dettaglio, di distogliere l'attenzione da tutti quei richiami che potrebbero suggerire l'idea di essere in presenza di null'altro che di una sublimazione filosofica di pratiche musicale desuete. Deve anche essere considerato con un certo distacco il procedere metaforizzante, che è esposto alla più facile delle critiche, in particolare quando lo si consideri fine a se stesso e lo si separi dal discorso complessivo che prende forma a partire da quelle metafore. Se costruissimo una tabella di cor­rispondenze metaforiche e la proponessimo come una sin­tesi della posizione di Schopenhauer sulla musica, essa potrebbe essere esibita per mostrare la sua inconsistenza fino alla ridicolaggine. Dobbiamo invece, ripensando a cose già dette, pun­tare tutta la nostra attenzione su ciò che sta al centro della scena, sul pensiero fondamentale intorno alla musica che si dispiega seguendo diverse vie. Rammentiamo anzitutto come la musica venga consi­derata in rapporto alle altre arti: la prima presa di po­sizione è stata la proposta di una netta separazione. La musica, a differenza di 79 tutte le altre arti, è una manifestazione diretta della volontà, essa non ha il mondo di fronte a sé, ma ha essa stessa carattere di mondo. Essa assume perciò uno statuto ontologico privilegiato, che rende pos­sibile un elogio della musica, che non è dato trovare in nessuna filosofia anteriore, almeno nell'età moderna. Lo stesso problema di un sistema delle arti viene di fatto superato, benché rimanga di esso qui e là qualche ricordo. Si tratta di un elogio profondamente filosofico, più chiaramente, di un elogio che riguarda la filosoficità della musica - ed allora non solo siamo lontanissimi dalle estetiche settecentesche, ma siamo anche andati oltre una posizione come quella hegeliana, che pure conferisce par­ticolare importanza alla musica nel sistema delle arti. Nella concezione hegeliana è infatti ancora predominante una visione gerarchica nella quale la musica occupa un gradino inferiore di una scala che culmina nella "poesia" - e dunque che procede ancora verso l'epica, la lirica e il dramma. In Hegel l'elogio conclusivo spetta alla parola intesa come parola significante, al logos, al discorso; e infine alla filosofia stessa, ad una filosofia eloquente, lontana dalla musica, che dovrà perciò realizzare il superamento dell'arte in genere. Tutt'altro senso ha lo stesso tema del superamento della dimensione estetica in Schopenhauer, superamento che si annuncia nel Mondo proprio a conclusione della trattazione sulla musica. Il lettore che vuol afferrare le ragioni per le quali si rende necessario questo oltrepassamento, che è un passaggio dalla dimensione del gioco a quella della serietà, viene senz'altro rimandato alla Santa Cecilia di Raffaello che, come "imma­gine sen­sibile [111] di questo passaggio", è in grado di far lampeggiare il suo senso. 80 In questo dipinto gli strumenti musicali giacciono ammucchiati a terra, negletti, malmessi, incrinati, dimenticati. 81 La santa - protettrice della musica - volge gli occhi al cielo là dove risuona l'inudibile musica celeste. In realtà si tratta di una rappresentazione profondamente ambigua e tanto più am­bigua se la guardiamo con gli occhi di Scho­penhauer: la musica che contiene il segreto filosofico del mondo cede di fronte al silenzio dell'ascesi come suprema esperienza vissuta di questo segreto. Su questo sfondo l'insistenza sul valore e sul significato della musica proprio in quanto essa non ha bisogno di parole assume un senso che riporta la metafisica della musica di Scho­penhauer nel nucleo più interno della sensibilità romantica, stabilendo un distacco invalicabile rispetto all'area di idee in cui si sviluppa invece la musica barocca. §2 L'idea dell'unità della natura e la sua realizzazione nella musica eve essere così ribadito non solo che la concezione della musica proposta da Schopenhauer è strettamente determinata dall'impianto com­plessivo della sua filosofia, ma anche che l'at­teg­giamento spirituale che sta alla sua base non può in alcun modo essere estrinsecamente dedotto dai riferimenti di teoria musicale ed anche di gusto, con i quali egli pensa di poter appoggiare la propria esposizione. Tutti i temi toccati in predenza meritano perciò una rinnovata riflessione, ed anzitutto l'idea fondamentale della musica come manifestazione immediata della volontà - ciò che abbiamo chiamato il suo carattere di mon­­do. Occorre anzitutto sottolineare che questa idea assume il suo significato effettivo solo se la intendiamo riportandola strettamente all'interno della concezione di Scho­penhauer del rapporto uomo-natura. Il pro­blema di questo 82 rapporto fa tutt'uno con una metafisica del­la volontà, che riconduce infine la volontà stessa a volontà di vivere e che dunque propone la natura vivente in generale come concetto pregnante della natura. 83 Il tema dei gradi di oggettivazione della volontà deve essere interpretato sotto questa angolatura. In base ad essa l'uo­mo si trova in cima alla scala degli esseri, ma non vi si trova come colui che supera e trascende l'ele­mento puramente naturale, come una manifestazione dello spirito che di qui in avanti potrà svilupparsi nella sua storicità essenziale. La posizione eminente che l'uo­mo assume tra gli esseri sta piuttosto in questo: egli può diventare internamente consapevole del fatto che la forza che egli riconosce anzitutto in se stesso è quella stessa che determina lo sbocciare di un fiore, il maturare di un frut­to, la caduta delle foglie dagli alberi, il comportamento di uno scoiattolo o di un serpente. Potremmo dire che egli si trova proiettato in avanti per questa sua capacità di volgersi indietro. La coscienza dell'unità del tutto è ciò che vale a contraddistinguerlo. Nello stesso tempo, fra tutti gli esseri viventi, l'uo­mo è il solo capace di sottrarsi alla volontà attraverso la rinuncia. Tuttavia quanto più questa rinuncia assume le connotazioni esasperate dell'ascesi, tanto più viene ribadita la sua "innaturalità"; quanto più essa appare riservata a personalità individuali e incomparabili, alle figure dell'eroismo etico e della santità - figure che l'imma­gi­nario assegna alle vette più alte e solitarie - tanto più assume risalto il fatto che l'umanità nel suo insieme scende invece a valle nel fiume della natura che scaturisce dalle fonti della volontà. Molto spesso Schopenhauer viene letto, negli esiti conclusivi della sua filosofia, senza tener con­to di questo possibile ribaltamento, che è peraltro coerente con la sua impostazione e che mostra certo sotto una luce diversa il suo "pessimismo". Di conseguenza l'idea dei gradi di oggettivazione non deve affatto suggerire una pura e semplice ascesa, l'immagine di una piramide al cui vertice sta l'essere umano - luogo comune di cui peraltro anche Schopenhauer fa uso [112] - ma quella di un duplice movimento attratto da un unico centro: la natura vivente, animale e vegetale, come polarità verso cui muovono entrambe le regioni contrapposte dell'es­sere materiale e dell'essere umano. 84 Non vi è dubbio che uno degli aspetti che più attrassero Schopenhauer verso la tradizione upanisadica fosse proprio la possibilità di rivolgersi simpateticamente verso pietre, piante, animali, verso tutti gli esseri del mondo come attraversati da una comunità d'essenza. Egli rammenta più volte la frase "Que­­sto sei tu!", pronunciata nelle pratiche iniziatiche presentando una cosa qualunque agli adepti, come contenente un insegnamento particolarmente profondo e ricco di significato [113]. In questo naturalismo ed in questi rimandi ad una cultura lontana da quella europea, e quanto mai lontana dagli ambienti in cui risuonavano una volta clavicembali e violoni, dobbiamo ritrovare il senso effettivo della filosofia della musica di Schopenhauer. Parlare del carattere di mondo della musica significa soprattutto parlare di un'u­nità interna tra la musica e la natura, cosicché nella musica può rinnovarsi uno scenario in cui una immensa varietà di forme, che vivono già nascostamente nella materia inerte, si dispiegano in una creazione e ricreazione della vita che non ha mai fine. §3 La musica e la passione dell'essere bbiamo notato in precedenza che la riconduzione della musica alla volontà deve essere intesa anche come un modo di riproporre il tema ricorrente nella riflessione estetico-musicale del­la relazione tra la musica e la vita affettiva. La volontà richiama in Schopenhauer non solo l'idea del­l'"a­zione", ma anche quella della "pas­sione". Tuttavia non si tratta di una ripresa generica. Essa appare infatti caratterizzata da un motivo che non può essere colto limitandosi a rammentare, come anche noi abbiamo fatto, l'osservazione secondo la 85 quale la musica non presenta la particolarità dei sentimenti ed i motivi particolari che li determinano. La posta in gioco è più ampia, più impegnativa. Ancora una volta giova il confronto con la posizione hegeliana. Anche in essa riceve evidenza la relazione tra la musica e il sentimento, ma questa relazione viene proposta a partire da considerazioni che hanno il loro filo conduttore nella forma temporale della musica. In questo modo viene direttamente implicata la soggettività nella temporalità dei suoi vissuti. Altrimenti stanno le cose in Schopenhauer. Non solo il tema della temporalità ha una scarsa rilevanza nel complesso della concezione schopenhaueriana della musica, ma quel poco che se ne dice non consentirebbe certo facilmente il passaggio ad una teoria della soggettività. Si tratta di una circostanza che merita di essere messa a fuoco in questo contesto dal momento che essa è connessa con il fatto che la questione dell'affettività in Schopenhauer non mette senz'altro al centro dell'atten­zione l'elemento soggettivo, ma viene raggiunta a partire dal peculiare statuto ontologico della mu­ sica, quindi come una questione che chiama in causa il suo carattere di mon­do, ed anche, in certo senso, subordinatamente ad esso. L'incli­nazione psicologica, che è in realtà sempre presente in ogni determinazione del nes­­so tra musica e affettività attraverso i vissuti soggettivi, viene qui fortemente indebolita essendo prevalente la determinazione metafisico-ontologica di questo nesso. U­san­do una terminologia che sembra particolarmente adat­ta per illustrare questo punto - pur non essendo impiegata da Schopenhauer - potremmo dire che poiché l'essere stesso è attraversato da parte a parte dalla "pas­sione", allora anche la musica, considerata come una modalità di autorealizzazione dell'essere, è essa stessa so­prattutto passione. Ma allora cambia interamente il modo in cui si presenta il nesso tra musica e sentimento. Non solo il sentimento non è individualmente de­terminato, ma non rappresenta nemmeno una vicenda puramente umana. L'af­fettività di cui parla Schopenhauer è un'af­fettività diffusa, di cui è partecipe ogni 86 cosa del mondo, che appartiene in generale alla vita della natura. Per questo motivo siamo molto lontani dalla ripresa delle vecchie formule sulla musica come espressione degli affetti. Si tratta invece di portare in primo piano la relazione tra la musica e il desiderio in cui si radica ogni passione del mondo, tra la musica e la cosmicità del desiderio, tra la musica e la gioia della volontà, e dunque anche tra la musica e l'angoscia che in quella gioia è da sem­pre intessuta. La rimozione del desiderio si presenta come estremo raggiungimento spirituale che l'arte è in grado di garantire solo transitoriamente e provvisoriamente - e meno di tutte le arti la musica stessa. La musica deve dunque essere a sua volta rimossa - ecco il senso degli strumenti musicali infranti ai piedi di Cecilia nel quadro di Raffaello - perché in essa, e proprio nel punto culminante della vicenda spirituale dell'arte, ritorna quel desiderio struggente che sta nel cuore inquieto di tutte le cose. Per liberarsi da questa inquietudine è necessario volgere lo sguardo altrove, verso un nulla senza mondo, guardare - come fa Cecilia - verso il silenzio musicale del cielo. §4 Affettività e musicalizzazione della natura in Wagner questo punto è possibile ritornare a Wagner. Entrambi i motivi di cui abbiamo parlato or ora sono estremamente rilevanti per comprendere il senso di un rapporto che in precedenza ci poteva apparire a malapena possibile. Naturalmente si potrebbe osservare che ciò che colpì il Wagner musicista non fu lo Scho- 87 penhauer filosofo della musica, ma il teorico della volontà, fu l'atmosfera profondamente ambigua in cui era immersa la sua filosofia morale - l'erotismo tanto esasperato quanto lo era la sua negazione ascetica, il cristianesimo ateistico riletto sullo sfondo della cultura indiana, e tutto un complesso di altri mo­tivi a questi collegati che non sembrano trovarsi in prossimità con la speculazione teoretica sulla musica. Nel suo memorabile saggio intitolato Dolore e grandezza di Richard Wagner, Thomas Mann, insistendo sul­l'e­­sistenza di un preciso raccordo tra il filosofo e il musicista, contro coloro che tendono invece a rilevare l'e­strin­secità di questo rapporto, prospetta in una sola frase un'angolatura di lettura di Schopenhauer di per sé estre­mamente interessante e che segnala direttamente il punto di incontro: "La negazione della volontà nella filosofia di Schopenhauer è la componente etico-intellettuale poco decisiva, anzi secondaria. Il suo sistema è una filosofia della volontà a base erotica; ed appunto in quanto lo è, il Tristano ne appare del tutto impregnato" [114]. Stando al senso di questa affermazione, nella quale - con grande acume e penetrazione interpretativa - il pessimismo viene indicato come un aspetto che non coglie il senso effettivo del sistema schopenhaueriano, il punto di incontro con Wagner non va cer­ tamente cercato nella metafisica della musica, alla quale del resto Thomas Mann non dedica nemmeno un cenno. In effetti, avendo di mira una considerazione d'insieme, è certamente giusto richiamare l'attenzione sul fatto che Wagner è stato attratto soprattutto dalla metafisica di Schopenha­uer, dalla sua etica, dai temi dunque di carattere generale [115]. Tuttavia le nostre ultime considerazioni vorrebbero suggerire che vi è qualcosa nello spirito della filosofia della musica di Scho­­penhauer che va oltre la lettera della sua esposizione. E che questo spirito possa essere colto, più che da una lettura attenta ai dati di fatto che appartengono alla superficie del testo, da un'angolatura che 88 ne faccia emergere quei tratti che sta­bi­liscono nessi sotterranei con una temperie culturale che, stando a quella superficie, sembra non appartenerle. Qui è forse la musica stessa che può insegnarci qualcosa. Vorrei spiegarmi in modo semplice e diretto proprio con un esempio musicale. Quando comincia a risuonare, a partire dai fagotti e dai contrabbassi, il grande pedale dell'ac­cordo di mi be­molle maggiore all'inizio dell'Oro del Reno, quando i suoni dell'abusata triade maggiore si sviluppano di qui, dalla tonica, te- 89 nuta per ben centotrentasei battute, come dispiegandosi da essa, irraggiandosi da sonorità profondissime sino al canto lieto e dispiegato, in voce di soprano, delle figlie del Reno, l'intera tematica di Schopenhauer viene strappata di colpo dal contesto che la filologia deve assegnare ad essa per assumere una direzione che in realtà non le è affatto estranea, ma le appartiene proprio in forza dei legami di significato che la metafisica schopenhaueriana della musica mantiene con il sistema nel suo complesso. Il pensiero musicale getta i suoi bagliori sulla metafora filosofica mostrandone il senso più autentico. Eccoci dunque di fronte al grande tema dell'unità tra musica e natura, che si ripresenta nell'impresa e­spres­­siva wagneriana come una tendenza ovunque presente di un farsi musica delle forze della natura, di una vera e propria musicalizzazione della na­ tura. È importante sottolineare che con questo aspetto del­la musicalità wagneriana è strettamente connesso il ri­ferimento al mito. Su questo punto è opportuno ricollegarsi al secondo motivo sul quale abbiamo condotto poco fa una riflessione rinnovata. Come abbiamo visto, la prospettiva entro cui si muove la concezione della musica di Schopenhauer propone il rapporto con l'affettività in una direzione accentuatamente an­ti­psicologistica. Si evita così un punto di vista nel quale questo nesso verrebbe sostenuto ponendo l'accento su una nozione di affettività essenzialmente legata alla determinazione di un carattere. Questa parola ha in realtà un duplice senso: da un lato allude a determinazioni strettamente individualizzanti, dall'altro ad un elemento di tipicizzazione, che chiama in causa un'inclinazione prevalente, comune a molti, e che può dun­­que definire un tipo. Pensiamo esemplificativamente al tea­tro musicale: disponendoci da una simile angolatura - dalla quale il problema dell'affetti­vità viene colto come un problema eminentemente psicologico - potremmo affermare che alla musica spetta il compito, proprio in quanto essa è capace di esprimere gli affetti, di operare la caratterizzazione del 90 personaggio, il quale sarà appunto soprattutto una figura caratte­ ristica, cioè tipicamente definita da una passione fondamentale o da un'inclinazione psicologica prevalente. Questo problema si ripresenta, ovviamente in una grande ricchezza e differenza di forme, non solo nell'opera buffa che contiene ancora il ricordo, nei suoi personaggi, della Commedia del­l'Ar­­te, ma si spinge sino al melodramma ottocentesco e al melodramma verista. Nei personaggi dell'"o­pe­ra" - si tratti di Bartolo o di Rosetta, di Rigoletto o di Turiddu - si agitano le passioni, e la musica, potremmo sostenere, è da esse compenetrata poiché ha il compito di mostrarle nella particolarità della vicenda narrata e nel loro lato universalmente umano. Ora, la difesa schopenhaueriana della musica assoluta e la tesi conseguente dell'irrilevanza del rapporto con la parola hanno le loro radici proprio nel rifiuto a porre il problema del rapporto tra musica e affettività secondo un approccio psicologico: e la giustificazione metafisica di quel rapporto rappresenta una premessa teorica le cui ragioni vanno ricercate anche in questa presa di posizione critica. La musica è "passione" in quanto è essa stessa autorealizzazione dell'essere, il "sentimento" di cui essa è portatrice non solo non è nulla che si determini in rapporto agli individui, ma non rappresenta nem­me­no, come ci siamo precedentemente espressi, una vicenda puramente umana. Perciò non vi è bisogno della mediazione di un'azione scenica, di caratteri e in generale di personaggi. L'elogio di Rossini deve separarsi dall'elogio dell'ope­rista, ed il giudizio su Wagner, secondo il quale egli sarebbe soprattutto un poeta, potrebbe derivare soprattutto dall'impor­tanza, avvertita da Schopenhauer, che Wagner attribuisce al libretto ed al sospetto, astrattamente conseguente, della subordinazione del musicista al poeta. Vi è tuttavia un punto di cui Schopenhauer non fu evidentemente in grado di tener conto e che stabilisce invece un raccordo in profondità tra posizioni che appaiono superficialmente inconciliabili. In Wagner muta interamente il mo­do di intendere 91 il personaggio e la natura stessa dell'azione dram­­ma­tica. Qui non abbiamo più a che fare con figure caratteristiche nel senso molto ampio, ma anche sufficientemen­te delimitato, del termine che abbiamo fissato or ora, ma piuttosto con figure simboliche che sono portatrici di un senso affettivo che è tutto meno che un'inclinazione psicologica: è inve­ce qualcosa di si­mile ad una forza cosmica, ad una manifestazione del­l'af­fettività diffusa che appartiene alla totalità del reale. Il mutamento corrispondente sul piano dell'azione drammatica non può che essere il passaggio alla narrazione mi­tica. Solo la narrazione mitica infatti ha il carattere di una vicenda che non è puramente umana, che è una vicenda cosmica. Detto in una parola: il legame tra musica e mito che fa parte essenziale della riforma wagneriana del dramma musicale (anche se certamente non ne esaurisce il senso) - un legame che si ripresenta interamente libero dalle vecchie astrazioni allegorizzanti della tradizione classicista - e dunque la stessa critica condotta da Wagner contro il "melodramma" a cui si accompagna una nuova progettazione del "dramma in musica", ha bisogno della me­ diazione di una teoria dell'affet­tività e del rapporto tra musica e affettività fondata metafisicamente. L'approccio ontologico di Schopenhauer è in grado di offrire a questo progetto musicale un significativo sostegno filosofico. Wagner, che era forse miglior filosofo di quanto Schopenhauer fosse musicista, se ne avvide raccogliendo il filo di una tra­ma che in realtà non apparteneva alla superficie del­ l'e­sposizione schopenhaueriana della musica. Questo filo a sua volta riconduceva al tema centrale della volontà e del desiderio, cosicché ci si può ricongiungere, a partire dalla concezione della musica, ai temi filosofici essenziali della metafisica schopenhauriana nel suo complesso. 92 §5 La teoria del sogno di Schopenhauer on è dunque soltanto la concezione filosofica generale di Schopenhauer ad attrarre gli interessi di Wagner, ma anche la sua concezione della musica, ed il nesso tra l'una e l'altra. Ciò è confermato dallo scritto a cui possiamo attingere punti di vista wagneriani esplicitamente formulati. Si tratta del saggio che Wagner volle dedicare a Beethoven (1870) [116] per celebrare il centenario della sua nascita, nel quale, a modo di introduzione, egli illustra le ragioni del­l'importanza che ha avuto per lui la concezione di Schopenhauer, e per di più in un contesto che si propone in realtà come una riflessione di carattere generale sulla musica. Questo scritto, oltre a confermare le linee secondo le qua­li abbiamo condotto la nostra discussione precedente, ci riserva tuttavia una sorpresa che mostra fino a che punto il rapporto tra il musicista e il filosofo sia ad un tempo particolarmente ricco e particolarmente controverso. In esso l'atten­zione viene attirata proprio sulla concezione schopenhaueriana della musica, sul rapporto tra musica e natura e sull'idea fondamentale secondo la quale la musica si distingue dalle altri arti per la peculiarità del suo rapporto con la volontà. A questa idea fondamentale, che trova la sua formulazione più ampia nel Mondo come volontà e rappresentazione, viene associata in maniera assai singolare e ricca di fascino la teoria del sogno esposta da Schopenhauer in un saggio pubblicato nei Parerga e Paralipomena. E il fatto sorprendente sta nel fatto che in questo saggio, a cui Wagner si ricollega esplicitamente per fornire un contributo alla filosofia della musica, non vi è la minima traccia, ed anche il minimo sospetto, da parte di Schopenhauer stesso, di una possi­ bile connessione con la problematica musicale. Lo scritto schopenhauriano si intitola Saggio sulle vi­sioni di 93 spiriti e su quanto vi è connesso, ed in esso si parla pro­prio di spettri, visioni a distanza, ipnosi, sonnambulismo, chiaroveggenza ed altre cose del genere. In esso si possono trovare tutti i pregi e soprattutto i difetti dello Schopenhauer più tardo. L'esposizione è, come sempre, letterariamente pregevole, ma dal punto di vista teorico di valore ineguale, con digressioni non sempre pertinenti e con qualche cedimento di tensione speculativa. Sotto il profilo filosofico è particolarmente insistente il tentativo, caratteristico appunto dello Schopenhauer maturo, di tra­durre l'apparato filosofico di origine trascendentalistica in un'impostazione naturalistica in cui le funzioni trascen­­dentali di costituzione del mondo sono interpretate soprattutto come funzioni cerebrali. Schopenhauer si getta sull'argomento, che suscitava allora tanto interesse, in parte animato dalla passione per l'os­ser­ vazione empirica da cui non è mai stato abbandonato, ma in parte anche sotto l'attrazione che i fenomeni paranormali possono esercitare in chi è profon­damente convinto che al di là dei fatti osservati ci sia un segreto da portare alla luce, e che la natura debba essere considerata come un geroglifico [117] che la scienza non riesce a decifrare pienamente e a cui forse la filosofia può in qualche modo offrire un accesso. Questa attrazione, questo fascino - è appena il caso di dirlo - è anche un'attrazione nei confronti delle zone che ci inquietano proprio perché ci mettono di fronte ad una forma del mondo che non ci è familiare, ben diversa da quella che ci appare alla luce piena del giorno: l'at­trazione per l'oscuro e l'inquietante, che viene apertamen­te denunciata sotto il titolo del saggio, nel motto trat­to dalle parole di Oreste dall'Ifigenia in Tauride di Goethe che dice: "Segui il mio consiglio - non ti sia troppo caro il sole e non le stelle, vieni, seguimi giù nell'oscuro regno!" [118]. Schopenhauer, comunque, non è filosofo da buttarsi nel­­ l'o­scuro regno a capofitto. Cosicché, lungo l'in­te­ro scritto, egli continua ad argomentare, a formulare ipotesi, ad avanzare pro- 94 blemi, sviluppandoli da vari lati, proponendo tesi e conseguenze. All'interno delle discussioni sulla possibilità delle "visioni" - questo è il punto di avvio - vi è un profondo malinteso di principio. Spesso si pensa di poter confutare chi afferma di avere delle "visioni" esibendo le prove che nelle immediate vicinanze non c'è nessun corpo che sia in grado di provocarle. Il malinteso sta qui: ciò che sostiene il visionario è per l'appunto di avere delle visioni in assenza di corpi capaci di provocarle. Cosicché non lo si confuta certamen­te dimostrando che simili corpi non sono presenti. Il vero problema è piuttosto se siano in generale possibili "impressioni eguali a quelle di un corpo" senza che ciò presupponga la sussistenza effettiva di un corpo. Come si comprenderà, nel campo di simili cose il filosofo del "mondo come rappresentazione" non può che trovarsi perfettamente a suo agio. La questione non è per nulla, secondo Schopenhauer, una questione empirica, ma eminentemente filosofica: se il responsabile di ogni costituzione oggettiva è l'intelletto, come egli avrebbe detto una volta, ovvero molto semplicemente il cervello, come preferisce dire ora, allora una simile funzione di costituzione oggettiva ha bisogno, per entrare in opera, unicamente di essere in qualche modo stimolata. E nulla impedisce di ritenere che vi siano sti­moli provenienti dal­l'in­ter­no dell'organismo, oltre che stimoli provenienti dal­­l'e­­sterno. Cosicché - tacendo intorno alle difficoltà che questa differenza tra esterno e interno potrebbe certamente generare - è possibile formulare l'ipotesi che dall'interno dell'organi­smo partano stimoli in direzione del cervello sulla cui base, come nel caso degli stimoli sensoriali, il cervello esplicherebbe la funzione che gli è propria: quel­la di costituire oggettività ed eventi disposti nel­ lo spazio e nel tempo, causalmente connessi tra loro. Le "visioni" sono dunque perfettamente possibili. Ma questa impostazione del problema apre subito, in modo del tutto naturale e diretto, la questione del sogno. Infatti se ci chiediamo se sia possibile la formazione, ad opera del nostro cervel- 95 lo, di "immagini perfettamente indistinguibili" da quelle determinate dai corpi, la risposta si trova a portata di mano nei sogni di cui ciascuno ha esperienza continua e diretta. I problemi delle visioni, del sonnambulismo, dell'ipnosi, i casi di chiaroveggenza ovvero di visione a distanza nel tempo e nello spazio, ed anche numerose manifestazioni della follia appartengono ad un'unica famiglia di problemi, anzi di enigmi: ma Schopenhauer si rende conto che alla stessa famiglia appartiene anche il sogno ed egli è convinto che la spiegazione dei meccanismi di formazione del sogno possa rappresentare un primo passo verso la soluzione di quegli enigmi. Si tratta, è appena il caso di notarlo, di uno spunto geniale, che tuttavia Schopenhauer non riesce certamente a sviluppare in modo realmente significativo proprio per via della coerenza rispetto alla propria impostazione filosofica entro cui egli elabora questo problema. L'idea fondamentale, più volte ribadita, è che sarebbe del tutto erroneo considerare il sogno come una pu­ra fantasticheria nel senso in cui questo termine è im­pie­gato in rapporto alle nostre fantasie diurne e consapevoli. Il punto importante è in­vece il fatto che il sogno possa essere considerato come una vera e propria duplicazione della realtà. Un oggetto può essere sognato nella sua corporeità effettiva, ad esempio come un oggetto che pro­iet­ta un'ombra se esposto ad una fonte luminosa, oppure che cade a terra se io nel sogno apro la mano che lo trattiene: ma allora possiamo anche dire che il vedere un oggetto nel sogno è un autentico vedere, che nel sogno esiste qualcosa che potremmo chiamare una "seconda vista" [119]. Vi saranno peraltro delle cause del sogno: Schopenhauer insiste particolarmente su questo punto secondo concezioni che risalgono alla problematica della motivazione così come era stata trattata nella prima edizione della Quadruplice radice del pricipio di ragione sufficiente [120]. Tuttavia l'inclina­zione complessiva che assume il discorso di Schopenhauer è determinata dal fatto che si 96 esclude che queste cause siano di ordine eminentemente psicologi­ co, ad esempio che esse siano da ricercare nell'associazione delle idee. Non per questo si accettano le spiegazioni allora correnti secondo cui alla base del sogno vi sarebbero delle stimolazioni esterne avvertite dal cervello durante il sonno e più o meno ampiamente rielaborate. Le cause del sogno sono di ordine fisiologi­ co, e precisamente, come abbiamo osservato poco fa, il sogno è prodotto da stimolazioni provenienti dall'interno dell'organismo. Queste stimolazioni metterebbero in a­zione l'organo del sogno, la cui esistenza viene assunta in via ipotetica [121]. Qualunque cosa ne sia di questa ipotesi, è certo che una spiegazione del sogno deve passare, secondo Schopenhauer, at­ traverso una fisiologia del sogno - e questa via viene contrappo­sta scientemente ad un modo di approccio psicologico, nonostante il riconoscimento del­l'im­portan­za psicologica dei sogni. Si potrebbe pensare che una simile scelta teorica sia dovuta ad un'istanza di "positività", all'idea di impostare il problema in modo che esso possa essere sottoposto a procedure di verifica. Ma in realtà le cose non stanno così. La via psicologica viene invece rifiutata in quanto essa non po­trebbe far altro che considerare il sogno nei suoi aspetti più super­ ficiali e meno profondi, cioè negli a­spetti che sono più strettamente connessi con la personalità individuale, con la soggettività particolare che sogna, nella sua empiricità e nella sua singolarità. Il richiamo alla dimensione fisiologica è invece un richiamo ad una dimensione più profonda, che sottrae il sogno ai suoi legami con la soggettività particolare per riallacciarsi invece alle forze della natura. In questa rivendicazione di una fisiologia del sogno che si oppone in modo tanto esplicito ad una teoria psicologica si ripropone così il tema centrale della corporeità come manifestazione diretta della volontà [122]. Nella corporeità la volontà lascia anzitutto la propria impronta. In coerenza con questa impostazione di principio l'intera vita affettiva potrà essere ricondotta agli istinti 97 primari e fondamentali della sessualità e dell'alimen­tazione, che si trovano sulla linea di confine tra l'elemento fisiologico e quello psicologico. Nello stesso tempo l'ele­mento fisiologico viene proposto come un nodo che collega il piano della psicologia con quello della metafisica e che consente così la transizione dall'uno all'altro. Accade così che nel vedere ad occhi chiusi che caratterizza i nostri sogni si possano riprodurre le situazioni caratteristiche del mondo fenomenico senza che debbano essere necessariamente soddisfatte tutte le loro condizioni: si tratta infatti di un vedere che si effettua in prossimità della fonte da cui quel­le condizioni scaturiscono. In particolare esso è in grado di oltrepassare i limiti imposti dalle forme spazio-temporali e dal riferimento all'individua­lità psicologica. Ciò spiega per quali motivi i sogni che più interessano Schopenhauer sono sogni che la casistica onirica ha catalogato, ma che non sono certo consueti: si tratta anzitutto dei casi in cui "si sogna il vero" - cioè dei casi in cui una persona pro­fondamente addormentata sogna la realtà stessa da cui è circondata e gli avvenimenti che effettivamente accadono. "Noi vediamo allora la nostra camera da letto con tutto ciò che vi è contenuto, ci accorgiamo anche eventualmente del­le persone che vi entrano, sappiamo che noi stessi siamo nel letto, vediamo cioè tutto rettamente e con precisione". È come se "il nostro cranio fosse divenuto trasparente tanto che il mondo esterno ormai può giungere direttamente e immediatamente nel nostro cer­vello, invece di allungare la strada attraverso la stretta porta dei sensi" [123]. Questa possibilità di percepire cose ed eventi che avvengono senza che la sensibilità intesa come organo dell'este­rio­rità venga interessata sarebbe poi confermata dal sonnambulismo e dalle azioni effettuate in stato di ipnosi. Il sonnambulismo in particolare è, ad un tempo, un dormire profondamen­te ed un sognare il vero, quindi un vedere che non si avvale della mediazio- 98 ne della sensorialità. L'ipnotismo illustra a sua volta, soprattutto nei casi di scomparsa delle sensazioni tattili e di dolore, la neutralizzazione completa della sensibilità e dunque u­na condizione che, come nel caso del sogno e del sonnambulismo, può essere interpretata e descritta come "un diventare svegli nel sonno stesso" [124]. Siamo così ad un passo dal problema della chiaroveggenza. Il chiaroveggente è colui che può "vedere" e riferire su ciò che ha "visto" accadere in luoghi o tempi lontani da quelli in cui si trova. Egli può preannunciare "ciò che non esiste ancora, ma giace nel grembo dell'av­venire e si realizzerà soltanto nel corso del tempo, attraverso infinite cause intermedie" [125]. A sua volta il tema della chiaroveggenza ci riporta al sogno, e precisamente al sogno profetico. Un'antica tradizione attribuisce al sogno virtù profetiche, e Schopenhauer aderisce ad essa chiamando a testimoni, ad un tempo, i sogni della propria fantesca [126] e i massimi principi della sua filosofia. I sogni che Artemidoro chiamava teorematici sono i sogni in cui viene "vi­sto" ciò che non è ancora accaduto. Le difficoltà concettuali della preveggenza vengono abbastanza agevolmente superate in un contesto schopenhaue­riano sia in forza della concezione deterministica dell'ac­ca­de­re sia della concezione dell'illusorietà della dimensione temporale. Di tutto ciò sarebbe appena il caso di parlare se non fosse per il fatto che, portando la propria attenzione in direzione del sogno profetico, Schopenhauer formula una distinzione che rappresenta uno spunto che ci riavvicina, in certo senso, ad un'atmosfera pre-psicoana­litica dalla quale invece le considerazioni precedenti tendevano ad allontanarsi. Più volte Schopenhauer tiene a sottolineare la differenza tra il sogno che avviene durante il sonno profondo e i sogni che si verificano in prossimità del risveglio o dell'addor­mentamento. Potremmo dire, semplicemente: tra sogni pro­fondi e sogni superficiali. Que­sti ultimi sono sogni che meglio si ricordano poiché vengono effettuati in una 99 con­dizione prossima all'essere desti, ed inoltre sono anche sogni vicini alla dimensione del reale quotidiano, del mondo della rappresentazione. I sogni profondi sono invece lontani dall'io della veglia e particolarmente vicini alla realtà metafisica profonda. Di qui naturalmente deriva la possibilità della chiaroveggenza onirica perché so­lo in prossimità di quella realtà possono essere oltrepassati i limiti del principium individuationis. I sogni profondi sono lontani dall'io anche in un altro senso: essi non potrebbero in alcun modo aprirsi una strada verso la dimensione della veglia, e quindi di essi l'io cosciente non potrebbe mai arrivare a sapere qualcosa, se non vi fosse un qualche segreto meccanismo psico­ logico in base al qua­le il contenuto del sogno profondo, quando è particolarmente importante per il sognatore [127] , viene "assunto nel sogno leggero, donde è possibile svegliarsi immediatamente: ciò però non può avvenire senz'altro, ma si verifica solo attraverso la traduzione del contenuto originario in un'allegoria, cosicché il sogno profetico, rivestito ormai di questo mantello, può giungere nella coscienza sveglia, dove naturalmente avrà bisogno ancora di un chiarimento e di un'interpre­ta­zione" [128]. Abbiamo così quello che ancora Artemidoro chiamava sogno allegorico: in generale sono allegorici i sogni superficiali, dunque in realtà tutti i sogni che riusciamo a ricordare. Essi contengono un messaggio che deve essere decifrato e che proviene dallo strato più profondo dell'io e che può rivelarsi solo in forma velata attraverso la modificazione allegorica. Si propone così l'idea di una triplice stratificazione del­l'io. Vi è infatti l'io della veglia, l'io del dormiveglia e l'io del son­no profondo. In rapporto a que­st'ulti­­mo sottostrato della vita soggettiva in realtà parliamo di un io solo impropriamen­te: ci si avvicina infatti al terreno in cui cessa l'azione del principio di individuazione e dunque l'io non è più un vero io ma saremmo quasi tentati di rammentare, in rapporto ad esso, non tanto la nozione freudiana dell'Es quanto, se non altro, l'impiego del ter­mine neutro. Formulata con particolare nettezza è poi l'idea di una trasformazione metaforica che ha lo scopo 100 di rivelare contenuti che altrimenti non potrebbero raggiungere l'io della veglia. Il sogno superficiale ha il compito fondamentale di rivelare velando, così da stabilire una co­mu­nicazione tra l'io del sonno profondo e l'io della veglia. §6 L'interpretazione wagneriana ello scritto commemorativo su Beethoven del 1870, Richard Wagner si propone di "accom­ pagnare il lettore attraverso una profonda indagine sull'essenza della musica offrendo alla meditazione della persona colta un saggio di fi­losofia della musica (che tale sot­to un certo aspetto il presente lavoro può essere considerato)" [129]. Esso si muove interamente sotto il segno di Schopenhauer, di uno Schopenhauer riletto ed anche genialmente reinventato che consente a Wagner di sintetizzare da nuovi punti di vista la propria concezione della musica e in particolare del­la relazione tra musica e dramma. Naturalmente non dobbiamo cercare in questo scritto di Wagner, e proprio nella par­te più "filosofica", un'effet­tiva coerenza argomentativa ed un'e­stesa giustificazione teorica. È invece indubbio che questa concezione appog­gia piuttosto solidamente su assunti ben de­ter­ 101 minati ed è su di essi che conviene subito attirare l'at­tenzione. Il primo assunto mette in questione il rapporto tra la musica e le altre arti - le arti figurative e la poesia in particolare. Questo rapporto viene affrontato anzitutto secondo un stile tipicamente schopenhaueriano, mettendo l'accento soprattutto sulle differenze. Queste deb­­bono essere fatte risalire all'unico motivo centrale del rapporto rappresentativo: mentre le arti in genere sono rappresentative del mondo, e quindi delle sue tipicità ideali, la musica è essa stessa "un'idea del mondo", cosa che significa: una diretta emanazione della volontà come è il mondo stesso. Perciò Wagner rammenta il detto di Schopenhauer secondo il quale, se fosse possibile trasporre la musica in concetti, saremmo in possesso di una spiegazione piena e completa del mondo stesso. E rammenta anche la conseguenza che da questa posizione di principio deve essere tratta: la musica, in conformità alla sua essenza non deve mirare alla spettacolarità e neppure deve essere giudicata sulla base di criteri che possono invece essere applicati alle arti visive in genere. La stessa nozione della bellezza, nel senso corrente del termine, che ha appunto un'e­semplare applicabilità nell'ambito dei fenomeni visivi, non è realmente adatta alla musica. Del resto la parola tedesca per indicare la bellezza (Schön­heit) presenta nel proprio eti- 102 mo un riferimento all'apparire (schein) che rivela la sua distanza dall'es­senza della musicalità. La musica non ha a che fare con la visibilità, e dunque con le apparenze in genere [130]. La musica ha a che fare con l'essenza del mondo - e questa essenza è la volontà. Il tema della volontà si articola, secondo Wagner, in tre punti. In primo luogo l'attenzione viene attirata sull'ele­mento soggettivo. Poiché il versante dell'appa­renza riguarda soprattutto la visibilità e la rappresentazione, esso è anche il versante dell'esteriorità oggettiva e della conoscenza ad esso rivolta. In opposizione a ciò vi è la soggettività stessa. Tuttavia la soggettività intesa come volontà è anche - questo è il secondo punto - luogo della passione, del sentimento, delle apprensioni e delle tensioni affettive. Entrambi questi aspetti trovano la loro essenziale integrazione e compiuta interpretazione nel terzo punto, attraverso il quale si prendono le distanze da un'in­clinazione interpretativa puramente psicologica: la soggettività che si riconosce come soggettività volitiva e quindi come soggettività passionale si riconosce anche come parte della natura, e quindi come coincidente con il mondo stesso colto nelle sue radici più profonde [131]. La soggettività singola, con i suoi sentimenti, con i suoi vissuti particolari, è del tutto fuori questione. Le passioni del mondo si agitano nelle sue passioni. Per questo nessuna notizia esterna può rendere con­to di una produzione musicale, e ciò che sappiamo su Napoleone e l'Eroica non riesce a spiegare nemmeno una battuta della terza sinfonia beethoveniana [132]. Potremmo dire ancora più incisivamente che non c'è alcun rapporto tra l'uomo Beethoven e il musicista Beethoven. Beethoven ha dato voce al dolore del mondo [133]. Ma ecco il passaggio decisivo che porta Wagner ad una riconsiderazione, in chiave filosofico-musicale, della teoria scho­­ penhauriana del sogno: la lontananza della mu­sica dai territori della visibilità, di ciò che è in via di principio chiaro e distinto e 103 che si presenta alla luce del giorno, ha delle conseguenze anche sul terreno del modo di intendere l'attività crea­tiva. Questa attività non può avvenire sul terreno della piena consapevolezza che è invece caratteristica dell'operare conoscitivo, tut­to rivolto alle oggettività esterne. L'io che si volge verso l'in­terno e scopre la propria unità, nel principio del­la volontà, con tutte le cose, appartiene ad un piano interamente diverso. La creatività scaturisce soprattutto da­gli stra­ti inconsci della vita soggettiva nei quali le determinatezze individuali si attenuano sempre più sino a confondersi nella totalità della vita vivente. Ciò su cui occorre portare l'attenzione è allora proprio la teoria schopenhaueriana del sogno. È interessante notare che per Wagner assume scarsa rilevanza il contesto globale nel quale il sogno viene situato in Schopenhauer. In particolare, la possibilità di preveggenza del futuro e i problemi che vi stanno intorno nel testo di Schopenhauer e che hanno un ruolo così significativo per delimitare il modo in cui si sviluppa la sua discussione sul sogno teorematico e sul sogno allegorico vengono toc­cati solo marginalmente, e questo è tanto più notevole se si tiene conto della presenza significativa di sogni "premonitori" nei libretti wagneriani [134]. Ciò che invece colpisce Wagner nell'esposizione schopenhauriana è soprattutto la teoria di una vita interna che è in grado di produrre un mondo - l'idea dunque di una produttività stimolata internamente e nello stesso tempo l'idea che tale produttività si sviluppi nel sonno profondo e che abbia addirittura quasi come condizione (come avviene nel sonnambulismo) una soggettività profondamente "ad­dor­mentata". Wagner avverte in questo problema, così come nella differenza tra sogno teorematico e sogno allegorico, uno spunto di fondamentale importanza che può essere connesso a considerazioni filosofico-musicali. Questo spunto può valere intanto come una sorta di modello analogico. Ciò che ci fa riflettere è qui la possibilità di un vedere, e precisamente di un chiaro-vedere, proprio in una con- 104 dizione di totale oblio del mon­do, che è anche una condizione assimilabile a quella del sonno profondo. Il musicista non potrebbe essere assimilato al chiaroveggente - e proprio in questo senso? Forse non sarebe sbagliato sostenere che le considerazioni precedenti sulla musica, gli assunti generali che abbiamo enunciato in via preliminare debbano trovare una loro integrazione necessaria proprio nell'idea che le regioni in cui diventa possibile la chiaroveggenza siano anche le regioni in cui la musica stessa comincia a germinare. La musica appartiene anzitutto al sogno profondo, essa erompe di lì. Non vi è dunque solo il mondo visibile, e nemmeno quell'altro mondo che è il mondo onirico, e che è in fin dei conti ancora un mondo visibile. Vi è anche un mondo sonoro (Schallwelt) "che sta al mondo della luce (Lichtwelt) come il sogno sta alla veglia". "Un'esperienza non meno determinata è questa: accanto al mondo che ci appare visibile tanto nel sogno che nella veglia esiste per la nostra coscienza un mondo percepibi­le soltanto attraverso l'udito e che si manifesta attraverso il suono [135] : dunque un mondo sonoro che sta al mondo della luce come il sogno sta alla veglia. Esso è infatti egualmente chiaro per noi benché dobbiamo riconoscere che è completamente diverso" [136]. L'idea schopenhauriana del sogno profondo e della sua produttività suggerisce l'idea di un mondo sonoro che giace nelle profondità di quel sogno. Il mondo sonoro viene anzitutto sognato, ed inversamente il sogno è, in certo modo, silenziosamente pieno di suoni. Più di una volta Wagner ricorda che molto spesso dai sogni ci risvegliamo con un grido. Questo grido può essere solo superficialmente interpretato come una reazione a qualche evento pauroso che è stato sognato: esso è piuttosto quasi una concrezione di ciò che c'è nel sogno profondo, la manifestazione sensibile di un contenuto latentemente sonoro, come se questo contenuto non potesse più essere mantenuto nella latenza e si mostrasse finalmente in primo piano. Esso è un grido carico di 105 angoscia - certamente. Ma lo è proprio perché la scena onirica non manifesta altro che un travaglio della volontà, un'agitazione della passione, ed è questo travaglio che si manifesta nel grido. La nostra coscienza desta può solo intravvedere il potente sfondo [137] dei nostri affetti: nel sonno questo sfondo si fa sentire irrompendo nella vita desta nella forma di un grido. Quando "la coscienza volta verso l'interno giunge ad una vera chiaroveggenza, cioè a vedere là dove la nostra coscienza desta, volta verso il giorno, avverte oscuramen­te solo il potente sottostrato dei nostri affetti volitivi, allora anche il suono si sprigiona da questa notte ed entra nella percezione realmente desta come manifestazione immediata della volontà" [138]. "Dai sogni angosciosi noi ci destiamo con un grido nel quale si esprime immediatamente la volontà angosciata che, per manifestarsi all'esterno, entra subito decisamente attraverso il grido nel mondo sonoro" [139]. A partire di qui l'elaborazione prosegue tenendo d'oc­­­chio il filo conduttore fornito da Schopenhauer, ma mostrando al tempo stesso in che modo questo filo conduttore possa essere duttilmente sviluppato e persino arricchendo i nessi tra considerazioni filosofiche generali e considerazioni filosofico-musicali. Il grande tema del venir meno dei vincoli istituiti dal principio di individuazione, con le risonanze morali che esso ha nell'ultima parte del Mondo, può essere ripor­tato proprio sul motivo del grido come un fenomeno esterno nel quale risentiamo direttamente l'origine interiore avvertendone la tonalità affettiva. Quando esso risuona non possiamo fare a meno di entrare con esso in un rap­porto simpatetico, non possiamo non consentire al grido e alla tonalità affettiva che lo caratterizza, cosicché nel grido la distanza così rigidamente mantenuta nel mon­do della rappresentazione tra me e gli altri e tra me e le cose, si attenua fino ad essere del tutto soppressa. Con autentico acume ermeneutico Wagner coglie proprio su questo punto la difficoltà che serpeggia nel testo di Schopenhauer senza ricevere un'effettiva soluzione: "Se consideriamo il grido in tutte le sue gradazioni, 106 dal grido in tutta la sua violenza sino al tenero lamento dell'im­ plorazione, come elemento fondamentale di ogni manifestazione uditiva umana, e se troviamo che esso è la più immediata espressione della volontà attraverso il quale essa si volge verso l'esterno nel modo più rapido e sicuro, dobbiamo meravigliarci meno della sua immediata intelligibilità che non dell'origi­nar­si di un'arte derivata da tale elemento dal momento che è evidente che sia la creazione che l'intuizione artistica possono sorgere solo dal distogliersi della coscienza dalle eccitazioni del volere" [140]. Ciò che deve destare un'autentica meraviglia non è tanto la comprensibilità del senso del grido, ma il fatto che ad esso possa essere ricollegata una grande arte come la musica: infatti, se è proprio dell'essenza dell'arte, come sostiene Schopenhauer, il prendere le distanze dalla volontà, essendo a questo distacco, in quanto allontanamento dalle fonti delle emozioni in genere, legato il piacere che ci offrono i suoi prodotti, nel caso della musica ci troviamo di fronte ad una situazione paradossale. A partire da essa possiamo infatti risalire al grido che è un concentrato espressivo dell'emozione stessa. "Abbiamo imparato da Schopenhauer che il puro elemento della musica (come un'idea del mondo) non è da noi contemplato, bensì sentito nel più profondo della nostra coscienza, e noi comprendiamo quest'idea come una manifestazione immediata dell'unità della volontà, che risalendo dall'unità dell'essere umano alla nostra coscienza, si presenta innnegabilmente anche come unità con la natura, che noi percepiamo egualmente a mezzo dei suoni" [141]. Si tratta di una riflessione che ci induce ad un significativo mutamento di accento. La verità è che se supponessimo che ad un prodotto artistico in genere venisse tolto realmente e radicalmente ogni legame con gli affetti e le passioni, la sua forza di suggestione verrebbe totalmente meno. Andrebbe invece sottolineato che il distacco dalla volontà riguarda unicamente il piano psicologico-individuale. In tal caso questo distacco potrà 107 essere riferito senza difficoltà alla musica come ad ogni altra arte senza entrare in contrasto con il riconoscimento che la volontà sia presente ed attiva ovunque nel campo dell'arte: benché in gradi diversi - ora in primo piano ora soltanto come sfondo. Le differenze notate all'inizio debbono infatti essere ribadite: a differenza della musica, le arti visive hanno di mira soprattutto l'apparenza delle cose, e quella bellezza che rimanda all'apparenza: il mondo come spettacolo. Molto efficacemente Wagner cita dal Faust di Goethe: "Quale spettacolo! Ma purtroppo solamente uno spettacolo! Dove mai potrò afferrarti infinita natura?" [142]. L'efficacia di questa citazione sta soprattutto nel richiamo alla natura. Solo la musica supera il limite della spettacolarità del mondo - spettacolarità dietro la quale si na­sconde la natura come infinito movimento della volontà intesa come principio cosmico. Mentre nelle arti figurative in genere, la volontà individuale deve essere soppressa e superata nella contemplazione pura, essa invece "si desta nel musicista come volontà universale, e si riconosce come tale, e proprio in un atto di autocoscienza, al di so­pra e al di fuori di ogni intuizione. Da ciò le diversissime condizioni del musicista che concepisce e del pittore che progetta; da ciò gli effetti radicalmente diversi della musica e della pittura. In questa, la quiete più profonda; in quella la massima eccitazione della volontà - e ciò non significa altro se non che nella pittura la volontà viene pensata nell'individuo come tale, prigioniero dell'illu­sione della sua distinzione dall'es­sen­za delle cose fuori di lui - cosicché essa si eleva al di sopra dei suoi limiti solo nel­l'intuizione pura e disinteressata degli oggetti; mentre nel musicista la volontà si sente subito in unità con se stessa al di sopra di tutti i limiti dell'individualità: infatti attraverso l'udito si è aperta per lui la porta attraverso la quale il mondo penetra in lui ed egli nel mondo" [143]. 108 §7 Una notte sul Canal Grande i si può chiedere ora in che modo venga affrontato il punto nodale che separa Wagner da Schopenhauer - punto nodale che è certamente la preminenza, di cui si fa sostenitore Schopenhauer, della "musica assoluta" rispetto alla relazione della musica con l'azione scenica che rappresenta in ogni caso un legame con la spettacolarità. Ed è proprio su questo punto nodale che Wagner si impossessa della differenza tra so­ gno profondo e sogno allegorico per riportarla interamente sul terreno della propria problematica filosofico-musicale. Si comincia allora con il rammentare il fatto che il sogno profondo secondo la teoria di Schopenhauer "può trasmettersi alla coscienza solo se tradotto nel linguaggio di un secondo sogno allegorico che precede immediatamente il risveglio (...) Così la volontà si crea per l'imme­diata immagine della sua autocontemplazione, un secondo organo di comunicazione, il quale, mentre da una parte è rivolto verso lo spettacolo interno, dall'altra entra in contatto con il mondo esterno che si fa nuovamente avanti con la veglia mediante la manifestazione immediata e simpatetica del suono..." [144]. Ripensando tutto ciò in termini musicali, potremmo forse dire che la musica germina nelle tenebre più profonde. In queste tenebre il musicista, come il chiaroveggente, riesce a cogliere qualcosa che va oltre i limiti del mondo delle apparenze e che ha invece a che fare con l'essenza segreta delle cose. Tuttavia nulla di questa apprensione, nulla dunque di questa musica profonda potrebbe assumere qualche consistenza per noi se non vi fosse qualche mediazione capace di ricondurre tutto ciò alle soglie della veglia, e dunque di ristabilire un rapporto con la visibilità e con l'esteriorità in genere. L'e­sem­pio del grido che irrompe dal 109 sonno ha, anche sotto questo riguardo, un significato esemplare. Il grido manifesta una musicalità che resterebbe per sempre muta: il sottofondo affettivo di cui parlavamo in precedenza è infatti nient'altro che questo: musica germinante, ed anche nello stesso tempo, musica muta, musica che si trova ancora al di fuori di un nesso comunicativo e che cerca nello stesso tempo questo nesso. Nel grido è come se la volontà chiamasse se stessa - e la musica stessa esiste in quanto si chiama e rinnova di continuo questo richiamo. È qui formulata, benché solo in immagini, l'idea assai notevole di una sorta socialità intrinseca che fa parte della stessa essenza della musica: una volta uscita dalla sotterranea solitudine da cui essa ha origine la musica prende subito forma di un dialogo. Ogni suono è qualcosa di simile ad una doman­da a cui risponde un altro suono - a cui io stesso rispondo come ascoltatore entrando in un rapporto simpatetico con esso. Il momento catartico, liberatorio, che certo anche nella musica non può mancare benché essa sia così prossima ai travagli della volontà, sta in questa essenza comunicativa della musica, in questo dialogo che partendo dall'interno del brano arriva a implicare ed a coinvolgere l'ascoltatore. "La volontà chiama, e nella risposta riconosce se stes­sa; e così la chiamata e la risposta diventano in essa un gioco con se stessa pieno di incanto e consolatore" [145]. Wagner narra di sé, in una notte veneziana, insonne, affacciato sul Canal Grande: "Giaceva innanzi a me nell'ombra, come un profondo sogno, la favolosa città della laguna. D'un tratto si levò dal più silenzioso dei silenzi (lautlosestes Schweigen) il grido lamentoso, semplice e potente, di un gondoliere, che si destava allora nella sua gondola; così egli si appellava, a tratti, alla not­te, fino a quando di lontano un grido simile gli rispose lungo il canale notturno (...). Dopo qual­che pausa solenne, finalmente il dialogo risonante di lontano si animò e sembrò poi fondersi all'u­ni­sono, finché, 110 da vicino e di lontano, le risonanze dolcemente si spensero in un nuovo sonno. Che cosa mai poteva dirmi di sé la splendida e variopinta città del giorno, sfavillante al sole, che non avesse portato alla mia coscienza, e in modo infinitamente più profondo e immediato, quel sogno notturno fatto di suoni?" [146]. Il legame tra il sogno, la notte e la musica non poteva essere meglio espresso da questa narrazione che è in re­altà, ad un tempo, una pagina autobiografica ed una fantasia romantica. La musica germina nella notte veneziana di Wagner, anzitutto come canto solitario che sembra dar voce all'anima del­la notte, ma anche come canto che chiama un altro canto, in un dialogo che porta all'u­nisono non solo le voci, ma anche colui che le ascolta. Il giorno è alto invece nella seconda narrazione e­sem­pla­ re di Wagner. Siamo ora nella valle di Uri, è giorno fatto, ma la solitudine è sublime: "Quando da un alto pascolo alpino mi giunse il grido di danza acuto e gioioso che un pastore gettava per l'ampia vallata; presto, attraverso l'immenso silenzio, gli rispose di lontano lo stesso baldanzoso grido di altri pastori; a quelle voci si mescolò l'eco delle rupi maestose e così la valle silenziosa risuonò giocosamente di una gara di suoni" [147]. La notte ritorna infine come metafora di una vita nascente nell'esempio del "grido di desiderio" con cui il neonato "esce dalla notte del grembo materno e gli risponde la carezza rasserenante della madre". I suoni peraltro non sono soltanto suoni umani, e nemmeno sono voci respinte dall'eco delle rupi come nella narrazione della valle montana, ma sono anche "il seducente canto degli uccelli del bosco" a cui aderisce l'ap­pas­sionato ado­lescente, oppure "il lamento degli animali, lo spirare del vento, l'ululo rabbioso degli uragani" che pure parlano all'"uomo pensoso" [148]. In tutte queste immagini vi è l'idea di uno scaturire della musica da uno sfondo silenzioso latentemente musicale: da esso la musica comincia e poi prorompe per­vadendo con la propria pienezza sonora l'intero mondo circostante. 111 Il tema principale e conclusivo di questo abbozzo di "filosofia della musica" è proprio quello dell'impe­rio­sa necessità della musica di entrare in contatto con l'e­sterno, di diventare comunicativa e veicolo della comunicazione. Ma ciò significa anche che deve essere ritrovato un rapporto con l'ambito della spettacolarità. Al sogno profondo deve seguire un sogno allegorico, il suo contenuto de­ ve trapassare in esso per poter arrivare alla manifestazione. Poiché il musicista, nell'impiego dei mezzi e­spressivi che trova a sua disposizione, "viene determinato in certo modo dalla spinta verso una comunicazione comprensibile dell'immagine interna del sogno, egli si approssima, come il sogno allegorico, alle rappresentazioni del cervello desto, attraverso le quali esso può infine ritenere in sé l'immagine sognata" [149]. Annotazione Di grande interesse per i temi trattati in questo paragrafo sono le considerazioni svolte da C. Dahlhaus nel capitolo Dialogo e "silenzio sonoro" in La concezione wagneriana del dramma musicale, cit., pp. 48-56. Esse mostrano, sia pure indirettamente, come il racconto veneziano di Wagner (che peraltro non viene rammentato da Dahlhaus in questo contesto) non sia mera aneddotica, ma sia ricco di teoria. Il tema del dialogo viene qui connesso con l'idea del dramma così come si va profilando a partire dal XVI secolo. "La tecnica del dramma può addirittura essere definita come il tentativo di scoprire in un complesso di eventi una struttura che renda possibile esprimere, in modo dotato di senso, tutto ciò che è decisivo attraverso dialoghi - attraverso discorsi e repliche, il cui principio stilistico sia l'antitesi" (ivi, p. 48). La polemica nei confronti dell'opera dipende anche dal fatto che essa appare "a numeri", e in essa il dialogo "è secondario e serve esclusivamente come par- 112 te di collegamento". Il proposito diventa allora quello di "realizzare musicalmente, 'a partire dallo spirito della musica', il dramma fondato sul dialogo e, all'inverso, di 'dialo­gizzare' la musica" (ivi, p. 50). Nello stesso tempo in Wagner emerge con forza il tema dell'ineffabilità, e dunque un motivo che va in direzione dell'impotenza del linguaggio ad esprimere gli affetti e le conflittualità più profonde. Di qui una tensione tra questi due elementi: tra l'elemento linguistico-dialo­gico e l'elemento che attiene invece ad un silenzio gravido di suoni, elemento quest'ultimo che spinge Wagner a caratterizzare una volta la musica come arte del silenzio risonante (tön­en­des Schweigen) (ivi, p. 52). 2. All'interno della musica, la differenza e la connessione tra profondità e superficie si può ritrovare rispettivamente, secon­do Wagner, nell'armonia e nel ritmo. Una struttura armonica come tale non ha a che vedere né con l'elemento spaziale, in quanto in essa sono determinanti soprattutto i rapporti di somiglianza piuttosto che quelli di contiguità, né con quel­lo temporale, per via dell'importanza che assume già la dimensione della semplice simultaneità. Poiché spazio e tempo sono forme del mondo della rappresentazione, questa osservazione tende a situare l'armonia sul versante della profondità piuttosto che su quello della superficie. Invece il riferimento temporale è essenziale al ritmo - perché non vi sarebbe ritmo senza differenze di durata. Nel ritmo è inoltre coimplicata un'al­­lu­sione ad un movimento corporeo, alla forma di un gesto di cui esso "esprime l'intima essenza". Vi è dunque un legame tra la componente ritmica e l'intero campo della visibilità: "attra­verso la successione ritmica delle sue comunicazioni, il musicista che crea porge 113 in certo senso la mano, ai fini della comprensione, al mondo desto dei fenomeni (...). Con la disposizione ritmica dei suoni il musicista entra in contatto con il mondo plastico visibile in virtù della somiglianza delle leggi secondo le quali il movimento dei corpi visibili si manifesta intelligibilmente alla nostra intuizione" [150]. §8 Musica, dramma e mito er completare l'immagine della musica proposta da Wagner vi è un altro passo importante che deve essere compiuto e che poggia ancora sulla teoria scho­penhaueriana del sogno. Si tratta di una ulteriore elaborazione della tematica del grido considerata in rapporto all'idea del sogno allegorico. Parlare del grido significa anche parlare in generale della vocalità, e dunque delle parole nella musica. In uno dei punti culminanti, ed anche più noti, dello scritto wag­ neriano su Beethoven una particolare enfasi viene posta sulla grande innovazione beethoveniana nella Nona Sinfonia: per la prima volta, in una produzione di stile sinfonico, si innesta un possente brano di musica vocale - il coro si intromette nella musica strumentale dominando su di essa. Si tratta di un "inaudito procedimento artistico", osserva Wagner, che lasciò perplessi i critici dell'epoca, nel quale musica vocale e strumentale assumono un significato interamente nuovo rispetto alla tradizione [151]. Questo significato deriva da un nesso strettissimo che qui viene posto: la musica vocale - il grido del coro prorompe dalla musica strumentale, ed è in certo senso il suo compimento e la sua realizzazione necessaria. Eccoci dunque di fronte ad un ulteriore impiego della teoria di Schopenhauer. La musica senza parole, la musica strumentale 114 appare assimilata allo strato più profondo del musicale. Questo strato ha tuttavia bisogno di essere portato alla superficie. L'"inaudito procedimento artistico" messo in opera da Beethoven nella Nona Sinfonia "assomiglia in verità allo svegliarsi improvviso del sogno", mentre nei suoni puramente orchestrali dobbiamo vedere la notte della musica, il luogo di origine, ma anche quel luogo che potrebbe rimanere per sempre nascosto. Solo attraverso il coro avviene il balzo "nella nuova luce del mondo" [152]. In questo contesto si ribadisce che il rapporto tra musica e poesia potrebbe essere posto in modo falso e illusorio: soprattutto è sbagliato pensare ad una giustapposizione estrinseca dell'una sull'altra, il libretto da un lato, la musica dall'altro e poi musica e libretto insieme. La condanna dell'Opera sul modello italiano e francese viene riconfermata secondo questa angolatura critica. Vi è invece una relazione interna tra la musica e quel­ la poesia che è anzitutto dramma. Questo concetto può certamente essere illustrato proprio facendo riferimento alla teoria schopenhaueriana della volontà: dramma è, nella sua essenza, il conflitto interno della volontà, è il travaglio della passione e del desiderio, è l'angoscia di quell'e­ter­no stato di conflitto di sé con se stessa che caratterizza la volontà. Proprio la prossimità con la volontà stringe la musica e il dramma in una stretta unità. Ma non si tratta solo di una unità che scorge valori musicali nel dramma e inversamente valori drammatici nella musica. Quel che realmente interessa in tutto ciò è che si possa parlare di una stratificazione. La musica rappresenta il sogno profondo, il dramma invece il sogno allegorico. La musica sta al limitare dell'inconscio, il dramma ha invece oltrepassato la sua soglia verso la coscienza. In questo modo musica e dramma si implicano reciprocamente. "La musica, che non presenta le idee contenute nei fenomeni del mondo, ma è essa stessa una idea comprensiva del mondo, include il dramma in se stessa, perché il dramma esprime a sua volta la sola idea del mondo adeguata alla musica" [153]. 115 La teoria del sogno ci insegna dunque che la musica ha bisogno del dramma - poiché solo in questo modo può erompere all'esterno, facendo valere la propria vocazione comunicativa. Ciò rappresenta per la musica una vera e propria necessità che probabilmente è quella stessa "necessità che negli eventi della vita comune produce il grido di angoscia di colui che si desta repentinamente a causa di un'oppressiva visione onirica appartenente al sonno profondo" [154]. È il caso di notare che necessità è qui Not - parola che non indica la necessità in senso logico o concettuale, ma la necessità come uno stato di indigenza e di mancanza. In questo modo attraverso la teoria del sogno di Schopenhauer, Wagner riesce a fornire ad un tempo una conferma e una reinterpretazione della propria teoria del dramma musicale. In questa reinterpretazione gioca un ruolo determinante il rapporto tra sogno teorematico e sogno allegorico, anche se ovviamente il termine di "al­le­goria" è particolarmente inadatto per il fatto che sug­gerisce l'idea di un'attribuzione a freddo di estrinseche corrispondenze di senso. Se badiamo invece alla sostanza del problema, queste considerazioni conclusive ci consentono di ricongiungerci al tema del rapporto tra mu­sica e mito. Nel dramma musicale non dobbiamo intendere gli eventi che in esso vengono presentati per ciò che essi letteralmente sono, ma come esplicitazioni immaginative che debbono ricevere un'interpretazione. Una storia soltanto può interessare in se stessa, e nei valori uni­versalmente umani che essa manifesta in modo esplicito e diretto. Invece, una storia mitica deve essere sempre interpretata. Essa ci parla delle passioni del mondo, e proprio in questo va ritrovata la sua inerenza alla cosmicità essenziale della musica. 116 §9 L'ultimo paradosso a Wagner che ha meditato su Schopenhauer e che riferisce i risultati delle proprie conclusioni più ma­ture vogliamo fare un balzo indietro a Wagner che ignora Schopenhauer, per illustrare un ultimo e singolare episodio che fa parte della storia di questo rapporto. A questo proposito si è parlato molto spesso del Tristano, della Tetralogia o del Par­sifal, e dunque di opere nelle quali Wagner lascia liberamente intrecciare il proprio genio inventivo con ele­menti e spunti che potevano essere esplicitamente suggeriti dalla lettura di Schopenhauer. Molto meno si ritiene di poter implicare in questa vicenda l'Olandese Volante - e non solo perché esso si trova ancora al limitare delle grandi innovazioni musicali wagneriane, ma soprattutto per un motivo assai più netto e apparentemente decisivo. La lettura di Schopenhauer da parte di Wagner è datata con precisione nell'anno 1854 [155]. L'Olandese volante fu eseguito per la prima volta a Dresda, oltre dieci anni prima, nell'anno 1843: a quell'epoca Wagner ignorava presumibilmente la stes­­sa esistenza di Schopenhauer. Non resterebbe dunque altro da dire - a quanto sembra. Eppure l'intera vicenda dei rapporti Schopenhauer-Wagner secondo l'angolatura da cui la abbiamo considerata che mette in questione il senso effettivo della filosofia della musica di Schopenhauer, sembra insegnare che nello stabilire un nesso culturale entra talvolta in opera una dialettica più complessa e più difficile di quella che poggia sulla pura causalità delle influenze documentabili. Esistono pur sempre, all'inter­no di un momento culturale, pensieri, atmosfere, esperienze, atteggiamenti intellettuali comuni. Occorre dunque variare mo­­bilmente il nostro punto di osservazione mettendo in rilievo diverse possibili tensioni 117 dell'interpretazione. La pura e semplice ovvietà del prima o poi cronologico potrebbe in qualche caso non insegnarci nulla. Wagner legge creativamente Schopenhauer - non vi sono dubbi in proposito: lo legge a partire da un autonomo atteggiamento spirituale, tutto determinato da un gran­de progetto artistico; ma nel momento in cui prendiamo atto di ciò ci rendiamo conto che questa lettura creativa non è una lettura arbitraria, scopriamo che essa contiene dei suggerimenti che ci fanno scoprire delle inclinazioni interpretative possibili, attraverso di essi ci vengono proposti accostamenti ed immagini capaci di mostrare un senso possibile di aspetti importanti della speculazione filosofica schopenhaueriana. Perciò val la pena di attirare l'attenzione sull'O­landese Volan­ te e proprio per il fatto che una relazione re­a­le è qui sicuramente esclusa [156]. Ciò che Wagner vi immette dal punto di vista filosofico non può derivare da Schopenhauer. Eppure si potrebbe proporre quest'o­pera come una sorta di efficace commento dell'imma­gina­zione musicale intorno ad alcuni temi schopenhaueriani fondamentali, e soprattutto intorno al tema dell'a­mo­recompassione, di quel Mitleid, che trova la sua teorizzazione nel quarto libro del Mondo come introduzione al tema conclusivo della negazione della volontà. Si tratta del versante altruistico dell'amore, l'amore come agape, come pietas, di fronte al versante egoistico che è l'amore sessuale, l'amore come eros. La compassione, volgendosi verso l'altro, e non solo verso l'altro essere umano, ma verso ogni essere vivente che è partecipe del dramma della volontà, è un sentimento che tende a superare il piano psicologico-indi­viduale per assumere le forme di un compianto nei confronti dell'eterna sventura di una vita condannata ad agitarsi nel ciclo di una volontà tanto famelica quanto insaziabile. Proprio perché questo è lo sfondo del problema con­verrà andare cauti di fronte ad una troppo rapida assimilazione del tema schopenhaueriano dell'amore-com­passione con gli analoghi temi di tradizione cristiana. Naturalmente in Schopenhauer 118 proprio nell'e­spo­si­zione di questo tema si moltiplicano i riferimenti al cristianesimo ed alle sue figure esemplari. Si pensi a Francesco di Assisi ed al senso che egli può assumere nel quadro della "metafisi­ca del costumi" di Schopenhauer, sia per il tema dell'asce­tismo, sia per il sentimento dell'unità tra uo­mo e natura [157]. Eppure sarebbe giusto non essere troppo sicuri di poter cogliere, in questa reinterpretazione filosofica della caritas, quella ieraticità elementare che sembra essere al tempo stesso la serena manifestazione di una razionalità intrinseca, che possiamo cogliere negli affreschi di Giotto, di Simone Martini, nella pittura italiana due-trecentesca in genere. Al contrario: sullo sfondo vi sono le inquietudini del romanticismo, le sue ansie, le sue passioni oscure, i suoi umori torbidi. Ed è proprio a questo punto che saremmo tentati per com­ prendere Schopenhauer di servirci di un Wagner che non sa nulla di lui. L'Olandese volante è il capitano di un vascello che tenta più e più volte di doppiare il capo di Buona Speranza e che, sempre respinto dai flutti, giura di persistere in una simile impresa sino alla vittoria. Questo giuramento viola sacrilegamente un divieto divino, e perciò l'O­lan­dese, con tutto il suo equipaggio, viene condannato a non poter morire ed a vagare in eterno per i mari: unica redenzione gli potrà venire dall'a­mo­re di una donna disposta ad essergli fedele fino alla morte. Il mare inquieto e tempestoso con cui l'opera si apre fa da sfondo all'opera intera come uno scenario sem­pre presente, come un'immagine della forza cieca e indominabile della vita: quel "mare furioso - diamo qui la parola a Schopenhauer - che da ogni parte dell'oriz­zonte sconfinato solleva e inghiotte con urlo spaventoso immense montagne di acqua" e nel quale possiamo solo illuderci di poter navigare al sicuro nella nostra fragile imbarcazione [158]. L'Olandese, uomo del mare, è anzitutto una figura della volontà di vivere, anzi una figura esasperata della volontà di vivere. Ed è proprio questa esasperazione, questa mancanza di rassegna­ 119 zione che rappresenta la colpa ed esige la condanna. Questa figura della volontà di vivere viene condannata ad un'e­ sistenza senza la morte. Colui che avanzava la pretesa di dominare il mare diventa la sua preda e gli viene assegnato come destino quello di non poter sfuggire al continuo e tormentoso rinnovarsi della vita, di non poter sottrarsi al ciclo inesauribile della sua produzione e riproduzione. "Quante volte mi sono precipitato nei più profondi abissi del mare, pieno di desiderio [159] , senza trovare la morte! E la mia nave ho spinto contro gli scogli là dove vi è la terribile fossa dei navigli, e tuttavia la mia tomba, ahimé, non si è richiusa (...). In nessun luogo una tomba! E non mai la morte! Questo è l'ordine orrendo da cui sono dannato" [160]. Riprendendo il motivo indiano della reicarnazione, Schopenhauer ricorda una volta che "la più alta ricompensa spettante alle azioni più nobili ed alla rassegnazione più completa" e che viene destinata all'uomo che non ha mai profferito una menzogna o alla donna "che in sette vite successive sia morta sul rogo del marito", consiste nella promessa di non ricevere un'esistenza ulteriore, entrando finalmente in quel nulla in cui è tolta la differenza del nascere e del morire, dove non c'è più "nascita, vecchiaia, malattia, morte" [161]. "Annientamento eterno, prendimi", dice l'Olan­dese al termine della sua prima comparsa nel primo atto [162] : egli attende l'ultimo giorno dell'universo perché solo quando i mondi finiranno la loro corsa egli potrà a­vere pace. Ciò che prima era volontà di vivere è diventata ora brama di morte, di annientamento totale, di negazione della volontà. E naturalmente la figura del­l'O­lan­dese è una figura torbida, maledetta, come torbidi e maledetti sono i marinai del suo vascello. La sua vita è in realtà una vita spettrale, forse egli non è propriamente un vivo, ma un morto che non può morire. Vogliamo con ciò forse suggerire che l'Olandese na­sca in realtà in Transilvania, nel regno di Dracula, che le origini più re- 120 mote della leggenda ci riportino ad una storia di vampiri, come del resto farebbe sospettare l'ap­pellativo "volante", che è assai strano per un marinaio? Effettivamente non avremmo esitazione ad affermare che il racconto venga elaborato da Wagner proprio secondo questa chiave - al di là di quelle che potrebbero essere le origini della storia, che è problema in via di principio dai confini assai incerti. Credo dunque che si debba guardare con approvazione - e perfino con qualche ammirazione - il dipinto che Salvador Dalì realizzò nel corso di una collaborazione con il coreografo Léonide Massine nel 1944 [163] per uno spettacolo su soggetti e musiche wagneriane. In esso il vascello, che è indiscutibilmente un "va­scello fanta- 121 sma", è accompagnato nel suo viaggio da un vampiro nella sua classica forma aerea di pipistrello. Ed il fatto che il quadro si intitoli "Le Bateau - Mad Tristan" è tanto più interessante tenendo conto del fatto che l'Olandese Volante era opera sentita da Wagner come strettamente affine al Tristano [164]. Si tratta di un aspetto sul quale val la pena di spendere qualche parola per il fatto che è stato assai poco sottolineato dalla critica. Essa si attiene per lo più alle dichiarazioni di Wagner il quale parlando di quella leggenda nella Comunicazione ai miei amici nota che si tratta di un "poema di un popolo di navigatori sorto nel­l'epoca storica dei viaggi di scoperta e di esplorazione" nel quale si trova "realizzata nello spi­rito popolare una singolare mescolanza del carattere dell'E­breo Errante e di quello di Odisseo" [165]. In questa dichiarazione, così spesso ripetuta dalla critica, Wagner, piuttosto che accentuare l'ele­mento fantastico-tenebroso, sottolinea invece una componente storico-romantica, che del resto rappresenta una componente importante nella sua produzione [166]. È noto anche, per quanto riguarda la storia esterna del problema, che Wagner trasse il primo spunto dal racconto di Heine Dalle memorie del signor von Schnabelewopski [167] - parliamo di primo spunto perché il racconto di Heine è caratterizzato da un'in­cli­nazione ironico-grottesco-paro­di­stica al cui centro sta la maggiore o minore fedeltà di donne e marinai, e si tratta, sembra appena il caso di dirlo, di un'inclinazione che lo rende quanto mai lontano dallo spirito e dal senso in cui Wagner lo riprende. Eppure ancora Wagner dichiara il proprio debito rispetto a Heine - si potrebbe forse desiderare di più? Carta canta. Lo stesso Carl Dahlhaus nel capitolo dedicato all'Olan­dese Volante nel suo volume sulle opere di Wagner non solo non sfiora nemmeno una possibile interpretazione "vampiristica" dell'opera, ma mostra di tenere in gran conto come "fonte" il racconto di Heine al punto da affermare che in esso sono "raccolti pressoché al completo i motivi costitutivi del testo drammatico wagneriano". Quanto all'inclinazione narrativa ed al senso prevalente del rac- 122 conto di Heine, la cosa "non ci deve disorientare. Il procedimento della nobilitazione poetica di vecchie leggende decadute al rango di canzoni di piazza è tutt'altro che raro nel XVIII e XIX secolo, nello Stur­m und Drang e nel romanticismo" [168]. Informazione del tutto insignificante per la sua genericità, e tuttavia corrispondente ad uno schema storiografico di cui fornisce un'illustra­zione in certo senso esemplare. Il discorso si apre infatti sulle "fonti" documentali e si chiude a meraviglia sulla "convenzione storica". Avendo stabilito questi precisi referenti non troveremo nulla di strano nel fatto di conferire all'Olandese Volante, come fa appunto Dahlhaus, il profilo di un marito regolarmente tradito ogni set­te anni dalle sue innumerevoli mogli, facendo dipendere il suo pessimo umore dalla sacrosanta e più che com­prensibile diffidenza derivante dall'"ec­ces­­so di e­spe­rienze infelici" [169]. Ciò che più sconcerta in simili affermazioni, già in se stesse sorprendenti, è che non bisogna nemmeno andar troppo lontano per trovare delle "fonti" o "interessanti antecedenti", cercando nella direzione che testo e partitura chiaramente indicano. In un volume di Stefan Hock pubblicato nel 1900 e dedicato alle saghe vampiristiche nella letteratura tedesca [170] si dà uno spazio piuttosto ampio anche alle realizzazioni musicali documentando la significativa presenza di questa tematica in età romantica [171]. In questo contesto assume particolare risalto la grosse romantische Oper intitolata Der Vampyr di Marschner, eseguita a Lipsia nel 1828. Scrive Hock: "L'in­fluen­­za drammatica e musicale di quest'o­pera fu straordinaria e può al meglio essere misurata considerando fino a che punto il primo capolavoro di Wagner L'Olandese Volante ne abbia seguito le orme" [172]. L'autore si sofferma su numerose analogie e somiglianze che riguardano sia il profilo dei personaggi sia alcuni significativi aspetti drammatico-musicali come la comparsa del vampiro, in entrambe le opere, dopo una ballata che racconta di lui. Cosicché, conclude Hock, "Der Vampyr di Marschner con le opere di Weber e di Spohr, sia 123 dal punto di vista drammatico che da quello musicale, rappresenta il punto di avvio di una direzione dell'opera tedesca che ha raggiunto il suo culmine nei drammi musicali di Wagner" [173]. Comunque ne sia di questa valutazione, in realtà il trat­ta­ mento drammatico-musicale di questo tema narrativo in Wagner è inequivocabile: i tratti vampiristici vengono ovunque nettamente accentuati. L'Olandese è detto più volte bleicher Seemann - marinaio pallido, di quel pallore che si addice soprattutto ai morti. Ogni sette anni gli è concesso riprendere terra, alla ricerca della redenzione, ma le donne che si incontrano con lui sono in ogni caso votate alla morte (vv. 780-784). Erik lo descrive "ammantato di nero, pallido in volto" (mit schwarzem Wams, die bleiche Miene, Atto II, Scena II); "nero capitano" viene detto nel coro dei suoi marinai, v. 692. Non mancano qui e là i richiami a Satana (cfr. vv. 323, 417, 708, 772). Pallidi, spettrali, cavernosi sono i marinai che formano il suo equipaggio [174]. "Sembrano morti!" (v. 624). "Non hanno bisogno né di mangiare né di bere" (v. 625). Da questo letargo, sollecitati dai preparativi festosi delle nozze, riemergono all'im­prov­­viso esplodendo in una cupa e paurosa canzone. Neri sono gli alberi del vascello le cui vele sono descritte di color rosso-sangue [175]. Ma mentre le donne del villaggio tremano al solo udire il nome del­l'Ol­an­dese, in Senta nasce un amore sconfinato verso il marina­io pallido di cui ella narra la storia nella Ballata del secon­do atto, uno dei punti musicalmente culminanti del­l'opera. L'amore della donna è ad un tempo amore profondissimo e profondissima compassione (Mitleid, Mitgefühl). La stessa parola, insieme a redenzione (Erlösung) e salvezza (Heil), rieccheggiano nel dialogo d'amore [176]. Alla fine Senta si getta in mare - non suicidio, ma gesto altruistico supremo - per attestare la sua fedeltà all'Olan­dese e liberarlo dalla maledizione. Entrambi potranno così ricongiungersi nel nulla a cui aspirano. È difficile dire se in questa rapida sintesi abbiamo fatto un 124 commento schopenhaueriano all'opera wagneriana oppure se ci siamo serviti dell'Olandese Volante come commento immaginifico di temi schopenhaueriani. In ogni caso significativa è proprio questa duplice possibilità: dietro l'opera di Wagner è possibile vedere uno Schopenhauer che non c'è, così come è possibile cogliere temi e motivi schopenhaueriani secondo suggerimenti interpretativi che provengono da una simile illustrazione musicale apparente. Un suggerimento importante ci viene tra l'altro proprio per l'interpretazione del tema fondamentale della compassione e della negazione della volontà. Se questo suggerimento è buono, allora è giusto raccomandare cautela nell'associare il tema schopenhaueriano del­la compassione a quelli cristiani della pietas e della caritas. Vorremmo quasi dire: altro che santi che ci guardano con l'occhio tranquillo e sapiente dalle loro nicchie dorate in un polittico trecentesco! Attraverso l'amore-com­passione intravvediamo piuttosto le forme funeste e il destino senza speranza di un vampiro. L'a­more che redime non si trova poi in una pura e astratta contrapposizione con l'elemento erotico, ma questo elemento sta sempre alle sue radici, in un complicato e ambiguo rapporto con esso. L'intensità della compassione rivela in realtà la potenza dell'e­ros. Ed essa è una compassione grondante dell'an­goscia di una vita condannata ad agitarsi tra nuove burrasche che seguo- 125 no ad ogni naufragio e la disperata speranza di un riscatto dalla colpa della volontà di vivere che può venire soltanto dall'eterna sosta nel nulla. A titolo di ultimo paradosso rammenterò ancora che l'Ola­ n­dese volante fu l'unica opera di Wagner che Schopenhauer poté ascoltare dal vivo: ed in essa egli non si riconobbe [177]. 126 Note [1] Per le citazioni da quest'opera e dai cosiddetti Supplementi si farà riferimento ad A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Sämtliche Werke, Bd. I (si­gla: WWV, I) e Ergänzungen, Sämtliche Werke, Bd. II (si­gla: WWV, II), Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986 Tra parentesi quadre si darà indicazione della traduzione italiana a cura di Ada Vigliani, Mondadori, Milano 1989 (in questa edizione confluiscono la traduzione del Mondo di N. Palanga riveduta dalla curatrice, la traduzione della Critica della filosofia kantiana, a cura di G. Riconda, e i Supplementi nella traduzione della curatrice). Mi sem­­bra doveroso segnalare l'in­atten­dibi­lità della traduzione del Mon­do e dei Supplementi di P. Savj-Lopez e G. Di Lorenzo, la cui prima edizione risale al 1914 e che l'editore Laterza non ha esitato a ripubblicare nel 1986 senza alcuna revisione. Per Parerga e Paralipomena si farà direttamente riferimento alla traduzione italiana a cura di G. Colli e M. Carpitella, 2 voll., Adelphi, Milano 1983 (sigla: PP). Per il Nachlass: Der handschri­ ftliche Nachlass in fünf Bänden, hrsg. von A. Hübscher, Deut­scher Taschenbuch Verlag, München 1985 (in­dicato con: Nachlass). Per le testimonianze biografiche, A. Schopenhauer, Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Rizzoli, Milano 1982 (indicato con: Colloqui). Una pregevole raccolta antologica degli Scrit­ti sulla musica e le arti di Schopenhauer è stata pubblicata da Franco Serpa, Discanto Edizioni, Fiesole 1981. [2] Vorbild. [3] Nachbild. [4] Nachbildung. [5] WWV, I, p. 357 (370). [6] ivi, p. 359 (373). Va in ogni caso segnalata una certa esitazione in Scho­ penhauer a rompere lo schema generale che ha orientato le sue considerazioni estetiche. Anche la terminologia mostra qui e là qualche incertezza. Si dice così che tra la musica e il mondo deve esserci in qualche modo una relazione di rappresentante a rappresentato (WWV, p. 358 (371)), deve essere possibile parlare di un modello e di una immagine-copia, perché in questa direzione ci orientano le considerazioni relative a tutte le arti. Ma si tratta di affermazioni che risultano significative proprio per le difficoltà incontrate nel tentare di rendere conto di esse. [7] Deutlichkeit. [8] ivi, p. 357 (370). [9] Abbild. Stesso termine nella frase successiva. [10] WWV, I, p. 359 (373). [11] Ähnlichkeit. [12] Parallelismus. [13] Analogie. [14] WWV, II, pp. 39 sgg.(767). 127 [15] ivi, p. 41 (770). [16] ivi, p. 45 (774): "La natura passiva dell'udito, di cui si è detto, spiega anche l'effetto così penetrante, così immediato, così incontestabile della musica sullo spirito e insieme la riper­cussione che essa provoca, consistente in uno stato d'animo di particolare esaltazione. Le vibrazioni sonore, che hanno luogo in rapporti numerici razionalmente combinati, si trasmettono identiche alle fibre cerebrali". [17] WWV, I, p. 42 (770). [18] ivi. [19] ivi. [20] Schopenhauer rammenta, a proposito di Goethe, che nei suoi ultimi anni di vita "acquistò una casa che cadeva in rovina e che era accanto alla sua, solo per non sentire il rumore che si faceva nel ripararla. Invano dunque, già in gioventù, aveva seguito da vicino il tamburo per temprarsi al rumore. Non è infatti questione di abi­tudine" (ivi, p. 44 (772)). [21] PP, II, pp. 869 sgg. [22] ivi, p. 869. [23] ivi, p. 870. [24] ivi. [25] ivi, p. 871. [26] ivi, p. 872. [27] ivi. [28] ivi. [29] Cfr. pagina a fronte. Si trova in Antique Musical Instruments and Their Player - 152 Plates of Bonanni's 18th-Century "Gabi­net­to armonico", Dover, New York 1964. Il libro di Bonanni è stato esposto alla mostra "Evaristo Baschenis e la natura morta in Europa", Accademia Carrara, Bergamo, 4 ott. 1996-12 genn. 1997. [30] WWV, I, p. 357 (371). [31] A. Schopenhauer, La vista e i colori, trad. it. a cura di M. Montinari, Boringhieri, Torino 1959. [32] ivi, p. 71. [33] ivi, p. 68. [34] WWV, I, p. 357 (371). [35] Generalbass [36] WWV, I, p. 361 (375). Si vedano del resto le citazioni che Rameau trae dalle Istitutioni Harmoniche di Zarlino (III, cap. 58) all'inizio del libro secondo del suo Traité de l'Harmonie (riedito a cura di J. F. Kremer, Meridiens Klincksieck, Paris 1986, p. 49). [37] ivi. [38] Basse fondamentale [39] Il nome di Rameau viene citato genericamente e incidentalmente, all'interno di una similitudine, in WWV, I, p. 84 (88); inoltre in PP, II, p. 569. Secondo Serpa è probabile che, piuttosto che i testi teorici di Rameau, "Scho- 128 penhauer avesse letto e studiato il testo di D'Alembert, Eléments de musique théor­ ique et pratique, suivant les principes de M. Rameau (scritto con entusiasmo nel 1752 quando d'Alembert e Rameau erano ancora amici) nella traduzione tedesca, uscita a Lipsia nel 1757" (A. Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, cit., p. XXXV). [40] Quelle. [41] Träger. [42] WWV, I, p. 360 (373). [43] ivi. [44] Il testo dice: "Tier und Pflanze sind herabsteigende Quint und Terz des Menschen, das unorganische Reich ist die untere Oktav" (WWV, I, p. 227) e N. Palanga (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano, 1964 ripubblicata a cura di G. Riconda nel 1985) così come A. Vigliani (ivi, (233)) traducono "herabsteigende Quint und Terz" alquanto improbabilmente con "quinta e terza minore"! (L'espressione "quinta minore" non esiste nella terminologia musicale; e non si vede perché in questo contesto si faccia un richiamo proprio alla terza minore). In realtà si parla qui di terza e quinta "discendenti", espressione a sua volta usata in mo­do improprio da Schopenhauer stesso che tenta di forzare la metafora al di là dello stretto necessario. Tenendo conto della tematica che Schopenhauer intende far valere sul piano filosofico, è necessario parlare di "tonica" facendo riferimento all'ottava superiore per poterla riferire al mondo umano, nella stessa misura in cui abbiamo bisogno di parlare dell'ottava inferiore come rappresentativa del "regno inorganico". La terza e la quinta diventano "discen­ den­ti" per il semplice fatto che il regno vegetale e animale debbono essere considerati sussistenti tra il regno inorganico e il regno umano, quindi sotto ciò che qui si chiama tonica. Ma si tratta comunque della terza e della quinta sopra l'ottava inferiore. Inutile dire che Schopenhauer maneggia con una certa imperizia le nozioni musicali (non meno dei suoi traduttori italiani). [45] Cfr. A. Schopenhauer, Metapysik der Natur (1820), Piper Verlag, Mün­­ chen 1984, p. 188. [46] Si veda soprattutto il § 54 del Mondo dove si parla più volte della "vita immortale della natura" e il cap. 41 dei Supplementi intitolato Della morte e del suo rapporto con l'indistruttibilità del nostro essere in sé: la natura può ricevere qui ancora l'antico appellativo di Grande Madre e la foglia può essere detta "stolta" se non riconosce, quando cade a terra, la propria identità con tutte le altre foglie che rinascono perennamente sull'albero della vita. [47] WWV, I, p. 371 (384). [48] WWV, II, p. 573 (1322): "Le quattro voci dell'armonia, ossia basso, tenore, contralto e soprano, oppure suono fondamentale, terza, quinta e ottava, corrispondono ai quattro gradini nella scala degli esseri, ossia ai regni minerale, vegetale, animale e all'uomo". [49] ivi. [50] ivi, II, p. 574 (1323). [51] ivi, II, p.573 (1322). Vale la pena di citare alcuni esempi di traduzioni 129 di termini musicali tratti dalla traduzione laterziana di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo: in luogo di triade (Dreiklang) si legge "accordo triplo" , in luogo di successione di suoni (Tonfolge) si legge "successione tonica", in luogo di modi (To­ narten) si legge "toni" cosicché "modo minore" diventa "tono minore", in luogo di "tem­peramento equabile" (gleischwebende Temperatur) si legge "tem­pra equamente fluttuante", e così via straparlando. [52] WWV, II, p. 574 (1323). [53] Come riferisce J. Frauenstädt, Schopenhauer dichiara e­spli­ci­tamente di aver studiato il basso continuo in connessione con la propria "metafisica della musica" (Colloqui, p. 96). Richiamiamo l'attenzione sul fatto che ovviamente non vanno confusi i concetti es­senzialmente diver­si di basso continuo e basso fondamentale. La prima nozione precede la teorizzazione di Rameau e in generale l'af­fermazione dei principi tonali. La nozione di basso fondamentale presuppone invece, come si esprime assai giustamente Bukofzer, la "sco­perta" dei rivolti, ovvero l'idea di un basso effettivo che non è necessariamente quello notato - idea che pone l'accento sulla tria­de e sulla direzione armonica. Osserva Bukofzer che il basso fondamentale di Rameau "ridus­se tutte le concatenazioni armoniche a una linea teorica che è indipendente dal basso effettivamente scritto. Con la determinazione funzionale dei collegamenti degli accordi e l'eman­cipa­zione del basso fondamentale dal basso continuo, Rameau fece saltare il sistema del basso continuo che non conosceva né rivolti né la costruzione per terze degli accordi e che non conosceva altresì alcuna direzione armonica degli accordi" (M. Bukofzer, La musica barocca, trad. it., Rusconi, Milano 1982, p. 554). [54] WWV, II, p. 579 (1328). [55] ivi. [56] WWV, II, p. 580 (1329). L'osservazione che precede immediatamente questa frase "il basso non può mai salire di un tono, ad esempio dalla quarta alla quinta, poiché con ciò si produrrebbero nelle voci superiori sequenze false di quinta e di ottava" sembra ricollegare, alquanto forzatamente e con una formulazione del resto piuttosto imprecisa, l'inadeguatezza melodica del basso ai vincoli a cui è legato il suo movimento, vincoli sanciti dalle regole scolastiche della composizione (divieto delle quinte e delle ottave parallele). [57] A. Fauconnet, L'Esthétique de Schopenhauer, Alcan, Paris 1913, p. 437. [58] ivi, p. 438. Fauconnet si richiama puntigliosamente alle batt. 67-84 del primo tempo dove un unico elemento motivico passa dai violini primi ai violini secondi, ai violoncelli ed ai contrabbassi. [59] È assai singolare che Fauconnet citi il seguente passo tratto dal Nouveau Traité d'Instrumentation di Gevaert senza rendersi conto che forse esso suggeriva una riflessione diversamente orientata sul "grave errore" di Schopenhauer: "Comme la harpe et le cor, elle (la flûte) a un caractère poétique très marqué: temoin l'un de chefs-d'oeuvre dramatiques de Mozart où elle symbolise le pouvoir surhumain des sons (...) Lorsque ses notes limpides sont illuminées par le mode majeur, elles aiment à traduire les voix de la nature (...) La flûte magique de Tamino dompte les 130 forces brutes de la création (...) Mais par la simple substitution du mode mineur au mode majeur, le timbre lumineux de la flûte pâlit et prend une teinte morne; ce changement de coloris est surtout frappant dans les tons à bémols; c'est la flûte élégiaque (...) D'ailleurs le registre grave dont la sonorité est si pénétrante n'a été employé par aucun de trois grands symphonistes" (ivi, pp. 434-35). [60] In linea generale i riferimenti musicali di Schopenhauer hanno bisogno, più che di essere contestati (cosa che è molto facile fare), di essere compresi all'interno del quadro complessivo della concezione che attraverso di essi si va delineando. [61] WWV, II, p. 580 (1329). [62] WWV, I, p. 362 (375). [63] ivi, p. 364 (378). [64] Nachlass, I, p. 206 (oss. 329, ms. del 1814). [65] WWV, II, pp. 578-79 (1328). [66] WWV, I, p. 362 (376). [67] WWV, I, p. 364 (378). [68] Quintessenz. [69] WWV, I, p. 367 (380-81). [70] ivi. [71] ivi, I, p. 368 (381). [72] ivi, pp. 366-67 (380). Ed ancora: "Al significato universale della melodia che viene associata con una poesia possono corrispondere, nello stesso grado, altri esempi scelti a caso dell'u­ni­versale in essa espresso" (ivi). Si noti che mentre si afferma qui la libera sostituibilità del contenuto, si stabilisce anche - come insegna l'analogia con i concetti - il limite entro cui può avvenire questa sostituzione. Per esemplificare un concetto dobbiamo comunque sce­gliere un caso adatto allo scopo. [73] ivi, p. 365 (379). Naturalmente in questo riferimento ai "sem­plici strumenti" è giusto cogliere una sfumatura biografica, un' al­lu­sione al flauto, senza con ciò essere costretti a vedere in essa una circostanza "causale". Cfr. Annotazione n. 1 al § 6. [74] WWV, II, p. 574 (1323). [75] WWV, II, p. 574 (1324). [76] ivi, p. 575 (1325). [77] Nachlass, I, p. 485, oss. 698 (datata 1817): "Die Musik im Ganzen ist die Melodie zu der die Welt der Text ist". Questa frase compare anche nelle lezioni berlinesi, cfr. A. Schopenhauer, Metaphysik des Schönen, III, cit., 1985, p. 222 e viene ripresa in PP, II, cap. XIX, p. 569. [78] WWV, I, p. 365 (378). [79] Ausdruck der Welt , ivi, p. 365 (379). [80] ivi, p. 366 (379-80). [81] WWV, II, p. 576 (1325). [82] WWV, I, p. 368 (382): "se si riuscisse a dare della musica una spie- 131 gazione completa, esatta e capace di spingersi nei dettagli, se si riuscisse, cioè, a dare in concetti una ripetizione accurata di ciò che la musica esprime, questa ripetizione sarebbe immediatamente anche una soddisfacente spiegazione e ripetizio­ne in concetti del mondo o sarebbe equivalente ad essa, sarebbe in altri ter­mini la vera filosofia". [83] WWV, I, p. 369 (382). Per quanto riguarda il rapporto tra musica e filosofia si fa valere anche il paragone tra melodia e filosofia morale, cosicché il nesso tra melodia e armonia, assimilata que­st'ul­tima alla filosofia della natura, diventa anche un simbolo del­l'unità sistematica del pensiero filosofico. [84] WWV, II, pp. 576-77 (1325). [85] A. Schopenhauer, Metaphysik des Schönen, cit., p. 228. - Una delle ragioni di questa valutazione della "musica da chiesa" sta nel fatto che in essa la nobiltà del contenuto può essere separata dalla sua particolarità, rendendo le parole associate un puro pretesto. In questo senso essa può essere contrapposta all'opera: "Un godimento musicale assai più puro di quello dell'opera ci è procurato dalla messa cantata, in cui le parole, che di solito non afferriamo, nonché gli alleluia, i gloria, gli eleison, gli amen e così via, ripetuti senza fine, diventano semplicemente solfeggio, nel quale la musica, conservando soltanto un generico carattere ecclesiastico, si espande liberamente, e nella sua sfera non viene danneggiata come nell'o­pera, da miserie di ogni genere..." (PP, II, cap. XIX, Metafisica del bello ed estetica, p. 575). [86] Cap. XXIX. [87] Languor. [88] Langeweile. [89] WWV, I, p. 363 (377). [90] Die Konsonanz oder das Rationale (WWV, II, p. 578 (1327)). [91] Das Irrationale oder die Dissonanz (ivi). I termini razionale e irrazionale vengono impiegati qui anzitutto con riferimento ai rapporti numerici, ma naturalmente Schopenhauer intende alludere al significato più ampio di questi termini. Si ha qui un'ulteriore conferma della tendenza di Schopenhauer a insistere sui fondamenti aritmetici, in quanto essi si prestano ad una reinterpretazione metafisica: "Il collegamento tra il significato metafisico della musica e questa sua base fisica e aritmetica è possibile perché ciò che si oppone alla nostra apprensione, ossia l'irrazionale o la dissonanza, diventa l'immagine naturale di ciò che si oppone alla nostra volontà; e viceversa la consonanza, o il razionale, facilmente dominabile dalla nostra facoltà di apprensione, diventa l'immagine di ciò che soddisfa la volontà" (ivi). [92] Nel Mondo si accenna appena ad esso osservando addirittura che è opportuno tacere intorno alle molte cose che andrebbero dette sull'aspetto temporale della musica per il fatto che "a qualche lettore il presente libro sembrerà forse già prolisso" (WWV, I, p. 371(385)). Di quest'argomento dunque non è il caso di parlare e del resto, a ben pensarci, l'im­po­­sta­zione proposta non esige che se ne parli. 132 [93] Eine erstarrte Musik: WWV, II, p. 582 (1331). [94] ivi, p. 581 (1330). [95] ivi, II, p. 582 (1331). [96] ivi, p. 583 (1332). [97] ivi. [98] ivi. [99] Nella sospensione della risoluzione della dissonanza nel Tristano, questa idea trova una sua straordinaria, e straordinariamente semplice (come aveva osservato lo stesso Wagner), concretizzazione musicale. Nota B. Magee che la procedura qui messa in opera, "is one of the standard procedures of harmony, often used at the end of a work to produce a feeling first of surprise and then of heightened satisfaction; but what Wagner has done, incredibly, is to extend it over an entire work" (The Philosophy of Schopenhauer, Appendice VI, Clarendon Press, Oxford-New York 1983, p. 356). [100] WWV, II, p. 579 (1328). Cfr. anche WWV, I, p. 368 (381): "Ciò che nella musica vi è d'ineffabilmente intimo, che ci attrae come un paradiso familiare, e pur eternamente lontano, che è così comprensibile, eppure così inspiegabile, sta nel suo riprodurre tutte le commozioni della nostra intima natura, ma senza la loro tormentosa realtà". [101] La citazione conclude il cap. 39 dei Supplementi, WWV, II, p. 586 (1336) e conviene riferire il passo per intero: "Forse qualcuno potrebbe scandalizzarsi nel vedere che la musica, la quale solleva spesso così in alto il nostro spirito da farci credere che essa parli di mondi diversi e migliori del nostro, non faccia altro di fatto, secondo la presente metafisica, se non lusingare la volontà di vivere, in quanto ne rappresenta l'essenza, ne illustra e le illustra il futuro suc­ cesso e, alla fine, ne esprime l'appagamento e la soddisfazione. Per tacitare simili dubbi sarà forse utile il seguente passo dei Veda: 'Et Anandasroup, quod forma gaudii est, ton (sic) pram Atma ex hoc dicunt, quod quocunque loco gaudium est, particula e gaudio ejus est'" [102] A. Anquetil Duperron, Oupnek'hat, Strasbourg, 1801-02. Si tratta di una raccolta di Upanisad effettuata su una traduzione persiana, che contiene anche rimaneggiamenti, interventi e manipolazioni che rendono difficile se non impossibile il rimando agli originali testi sanscriti. [103] La parola Ananda ha il senso di "beatitudine" (cfr. Tattiriya Upanisad in Upanisad Vediche, a cura di C. Della Casa, Tea, Milano, 1988, pp. 225-46), mentre la "gioia" che Schopenhauer trova nel latino gaudium ha un'accentua­zione in senso dinamico ed attivistico. [104] Naturalmente non è compito di questo scritto intervenire sul rapporto tra Wagner e Schopenhauer, nella grande varietà dei suoi aspetti e delle sue possibili interpretazioni. Particolarmente ricco di informazioni sull'argomento è E. Sans, Richard Wagner et la pensée schopenhauerienne, Klincksieck, Paris 1969. [105] Come osserva F. Serpa, nell'intro­duzione ad A. Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, Discanto Edizioni, Fiesole 1981, p. XXXV, nota 8 "non è 133 possibile circoscrivere e deprimere la stima e l'amore di Schopenhauer (e di Hegel) per Rossini a una transitoria reazione personale, a un fenomeno irrilevante di gusto privato". [106] Colloqui, pp. 210-11, testimonianza di Robert von Hornstein. Indagare su questi limiti nei gusti musicali di Schopenhauer sarebbe forse utile per aggiungere qualche commento di dettaglio e per rendere conto di qualche stravaganza del testo, di qualche sua caduta di tono, di qualche autentica banalità (ma per null'altro scopo, al di là di questo). Si vedano, ad esempio, quei punti in cui Schopenhauer scrive che i "motivi facili e brevi di un ballabile sembrano parlarci di una felicità volgare" oppure che l'Allegro Maestoso, essendo maestoso, "con i suoi ampi motivi, con i suoi lunghi periodi e con le sue lunghe deviazioni, ci descrive le grandi e nobili aspirazioni verso un fine lontano e insieme la loro realizzazione finale" (WWV, I, 364 (377)), ed altri passi dello stesso tenore sull'Adagio, sul modo maggiore e minore, ecc. [107] Colloqui, p. 182. [108] Questa espressione è in tedesco inequivocabilmente spregiativa. [109] ivi, p. 199 (testimonianza di Robert von Hornstein). Un quadro completo degli episodi che concernono i rapporti tra Wagner e Schopenhauer è offerto da E. Sans, op. cit., pp. 18 sgg. È interes­sante rammentare ancora il fatto che K.L. Kossak, proprio nel 1854, si richiamava alla filosofia della musica di Schopenhauer, ed in particolare al tema della melodia e del rapporto tra parola e testo per polemizzare contro Wagner, con la piena approvazione del filosofo (cfr. ivi, p. 28). Wagner, a cui queste valutazioni erano ben note, mantenne invece sempre un atteggiamento di pacato distacco (ivi, p. 30). [110] Naturalmente il discorso non avrebbe nemmeno bisogno di essere aperto se si sostenesse, come fa Clément Rosset, L'Esthé­tique de Schopennhauer, PUF, Paris 1969, pp. 98-99, che "en réalité, l'esthétique de Schopenhauer ne répond nullement aux vues de Wagner sur la musique" e "ce accaparement de Schopenhauer par le wagnérisme a dénaturé en profondeur la pensée musicale de Schopenhauer". [111] Sinnbild. Questo dipinto è esposto nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Sulla sua complessa simbologia cfr. B. Cerchio, Il suono filosofale. Musica e Alchimia, LMI, Lucca 1993, pp. 65-72. [112] "L'idea dell'uomo, per apparire secondo il significato che è ad essa inerente, non può presentarsi isolatamente e separatamente; essa deve invece essere accompagnata dalla stratificazione che sta alle sue spalle, che passa attraverso le formazioni degli animali, attraverso il regno delle piante fino all'elemento inorganico: solo queste formazioni, tutte insieme, si integrano nell'oggettiva­ zione completa della volontà: esse vengono tutte presupposte dall'idea dell'u­o­mo così come i fiori dell'albero presuppongono le foglie, i rami, il tronco e le radici: esse formano una piramide il cui vertice è l'uomo" (Metapysik der Natur (1820), Piper Verlag, München 1984, cap. XIII, p. 188). Il luogo comune della piramide è qui associato all'im­ma­gi­ne, molto più efficace e pertinente, che rappresenta l'uo­ 134 mo integrato nella natura come un fiore sull'albero su cui fiorisce. [113] WWV, I, § 63, p. 485 (499): "Nei Veda l'esposizione diretta è frutto della più alta dottrina e della più profonda saggezza umana, il cui nocciolo, le Upanisad, giunto finalmente a noi come il dono più prezioso di questo nostro secolo, viene espresso in forme diverse, delle quali la più notevole è questa: sotto gli occhi del discepolo si fa sfilare tutta la serie degli esseri, animati e inanimati, e davanti a ciascuno si pronuncia una parola che ha il valore di una formula e che come tale è della Mahavakya: Tatoumes, o, più correttamente, Tat twam asi, che vuol dire: 'Questo sei tu'". Ivi, p. 509 (526): "Chi sappia ripetere a se stesso questa formula con piena coscienza e con salda intima convinzione di fronte ad ogni creatura con cui venga in contatto, è sicuro di possedere la virtù e la beatitudine, di essere sulla via diritta della redenzione". "La formula Tat twam asi, 'Tu sei il Tat' - spiega Carlo Della Casa nel suo commento alle Upanisad Vediche (Chandogya Upanisad, Sesto Prap†#haka, Tea, Milano 1988, p. 185) - ossia l'Essere indifferenziato causa materiale ed efficiente di tutto ciò che esiste, esprime efficacemente il pensiero fondamentale che tutto si riconduce all'unica realtà del­l'Es­sere". [114] T. Mann, Dolore e grandezza di Richard Wagner, trad. it. di L. Mazzucchetti, Discanto Edizioni, Fiesole 1979, p. 35. [115] Sul fatto che "nella ricezione di Schopenhauer da parte di Wagner a partire dal 1854 il significato dell'estetica musicale sia secondario" si esprime C. Dahlhaus, La concezione wagneriana del dramma musicale, trad. it. di M. C. Donnini Macciò, Discanto, Fiesole 1983, p. 169, che nota in particolare che "della metafisica della musica - del § 52 del Mondo come volontà e rappresentazione, che divenne successivamente un testo canonico dei wagneriani - non si parla mai nelle lettere a Liszt ed a August Röckel che costituiscono i primissimi documenti del turbamento procuratogli dalla filosofia di Schopenhauer" (ivi). Aggiungendo che "tuttavia, la tesi che la ricezione dell'estetica musicale di Schopenhauer dopo il 1854 sia un segno di profonde modificazioni nel pensiero musicale di Wagner non deve essere ritrattata" (ivi, p. 172). [116] Citiamo dalla traduzione italiana contenuta in R. Wagner, Scritti su Beethoven, Passigli, Firenze 1991 che riprende la traduzione di A. Ulm e G. della Sanguigna pubblicato da Rinascimento del Libro, Firenze 1930, ma abbiamo apportato a questa traduzione tutte le modifiche ritenute necessarie. L'edizione tedesca di riferimento è R. Wagner, Beethoven, Insel-Verlag, Leipzig 1870, di cui si riporta in parentesi quadre il numero di pagina corrispondente. [117] "L'intera natura è un grande geroglifico che ha bisogno di una interpretazione (Deutung)" (Metapysik der Natur (1820), op. cit., cap. II, p. 65. Cfr. anche WWV, I, § 17). [118] Cfr. trad. it. di R. Fertonani, Garzanti, Milano 1985, Atto III, scena I, vv. 1232-34. [119] PP, II, p. 326. [120] A. Schopenahauer, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, 135 trad. it. di A. Vigorelli, Guerini e Associati, Milano 1990, § 47. [121] PP, II, p. 327. [122] WWV, I, § 18. [123] PP, II, p. 327. [124] ivi, p. 328. [125] ivi, p. 344. [126] ivi, pp. 346-47. [127] "Già Omero parla (Od., XIX, 560) di due porte di ingresso per i sogni, l'una di avorio, attraverso cui entrano quelli senza importanza, e l'altra di corno, attraverso cui passano quelli fatidici" (ivi, p. 346). [128] ivi, p. 348. [129] R. Wagner, op. cit., p. 93 (3). [130] ivi, p. 107 (15). Cfr. PP, I, p. 560. [131] "Solamente in quanto ogni soggetto conoscente è al tempo stesso un individuo e, come tale, parte della natura, gli è aperto l'accesso all'interno della natura nella sua propria coscienza, nel punto in cui essa si manifesta nel modo più immediato, e quindi come volontà", R. Wagner, op. cit., p. 102 (11). [132] ivi, p. 99 (7). [133] ivi, p. 153 (55). [134] Su di ciò cfr. E. Sans, op. cit., pp. 200-01. [135] Schall. [136] R. Wagner, op. cit., p. 104 (11). [137] Grund. [138] ivi, p. 104 (12). [139] ivi, p. 105 (14). [140] ivi, p. 106 (corsivo mio) (14). [141] ivi, p. 109 (17). [142] ivi, p. 108 (16). "Welch Schauspiel! Aber ach! ein Schauspiel nur! Wo fass ich dich, unendliche Natur!". Cfr. Faust, trad. it. di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1980, p. 24. [143] R. Wagner, op. cit., p. 110 (corsivo mio) (18). [144] ivi, pp. 111-12 (19). [145] ivi, p. 112 (19). [146] ivi. - L'episodio viene narrato (ma in modo assai meno denso di significati) anche nell'Autobiografia (Mein Leben), trad. it. di S. Varini, Dall'Oglio Editore, Milano 1983, p. 579. Nello stesso luogo si rammenta un altro episodio che merita di essere riportato qui: "Rincasavo a tarda ora in gondola per gli oscuri canali; a un tratto la luna si levò, illuminando gli indescrivibili palazzi e il mio gondoliere che maneggiava lentamente l'enorme remo, ritto a poppa della barca. In quello stesso momento egli cacciò un grido, quasi un urlo inumano: era un profondo gemito, che salì in un crescendo fino ad un 'Oh!' prolungato e sfociò in una semplice esclamazione musicale: 'Vene­zia!'. Seguì ancora qualcosa; ma io avevo ricevuto da quel grido una commozione così violenta che non potei 136 ricordare il resto". [147] R. Wagner, Scritti su Beethoven, cit., p. 113 (20). [148] ivi. [149] ivi, p. 115 (22). [150] R. Wagner, Scritti su Beethoven, cit., p. 115 (22). [151] ivi, pp. 153 sgg. (55). [152] ivi, pp. 153. [153] ivi, p. 159 (corsivo mio) (61). Si veda anche il riferimento a Shakespeare "visionario" e a Beethoven "sonnambulo chiaroveggente" ivi, p. 166 (67). [154] ivi, p. 166 (68). [155] Precisamente nel settembre del 1854, come risulta dal­l'Au­to­biografia, cit. p. 509. La questione è discussa dettagliatamente da E. Sans, op. cit., pp. 18 sgg., che fa risalire ad un paio di anni indietro un primo approccio, sommario e indiretto, a Schopenhauer. [156] Anche L'oro del Reno venne terminato prima della lettura di Schopenhauer da parte di Wagner, come si riferisce in Autobiografia, cit., p. 509 ("Il 26 settembre terminai la copia molto accurata della partitura dell'Oro del Reno. Poi, nella tranquilla solitudine della mia casa, feci conoscenza di un libro il cui studio doveva avere per me la massima importanza. Intendo parlare del Mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer..."). Cosicché si potrebbe ritenere improprio il riferimento che abbiamo fatto in precedenza a quell'opera. Del resto Wagner stesso si compiaceva talvolta di sostenere di aver "anticipato" Schopenhauer in alcuni aspetti fondamentali della sua filosofia (E. Sans, op. cit., p. 31), cosa che può anche voler dire che Wagner fu tentato di rileggere le proprie opere precedenti secondo un punto di vista schopenhaueriano (ivi, p. 110). Tutto ciò infine non attenua certamente l'impatto su Wagner della lettura di Schopenhauer, lettura che, oltre ad agire direttamente sul piano della creazione artistica, indusse modificazioni rilevanti nelle posizioni teoriche del musicista soprattutto sul problema del rapporto tra musica e testo (ivi, pp. 135 sgg.). [157] Cfr. WWV, I, § 68. [158] ivi, § 63, p. 482 (496). [159] Sehnsucht. [160] Atto I, Scena II. [161] WWV, I, § 63, p. 486 (501). [162] "Ewige Vernichtung, nimm mich auf!" - Atto I, Scena II. [163] Cfr. G. Metken, Richard Wagner und die bildende Kunst, in U. Müller e P. Wapnewski, Richard-Wagner-Handbuch, Kröner Verlag, Stuttgart 1986, pp. 743-44. [164] "Dopo aver scritto la suprema trasfigurazione di Isolde, ho trovato anche il finale giusto per l'ouverture del Vascello Fantasma", lettera a Mathilde Wesendonk del 10 aprile 1860 (R. Wagner, Lettere a Mathilde Wesendonk, trad. it. di G. Agabio Archinto, Milano 1988, p. 141). - Su questo rapporto v. C. Dahlaus, op. cit., p. 24. [165] R. Wagner, Comunicazione dei miei amici, trad. it. di F. Gallia, Studio 137 Tesi, Pordenone 1985, pp. 43-44. [166] Queste due componenti coesistono anche in quest'opera - nella differenza di piani in cui si situano Senta, l'Olan­dese e l'equipaggio della sua nave, da un lato, e tutti gli altri personaggi dell'opera, dall'altro. [167] Si può leggere nella pubblicazione dedicata all'edizione scaligera dell'opera del 1988, Edizioni del Teatro alla Scala, Milano 1988, pp. 75-77 insieme al testo di R. Fertonani, Heine, Wagner e l'Olandese Volante, pp. 71-73. In nessuno dei testi presenti in questa pubblicazione sono contenuti riferimenti ad una possibile interpretazione vampiristica della vicenda. [168] C. Dahlhaus, I drammi musicali di Richard Wagner, trad. it. di L. Bianconi, Marsilio, Padova, 1984, pp. 19-20. [169] ivi, p. 22. [170] S. Hock, Die Vampyrsagen und ihre Verwertung in der deutschen Litteratur, Duncker, Berlin, 1900. Questa opera viene citata da G. Manacorda nella bibliografia annessa alla sua traduzione del­l'Olan­dese Volante, Sansoni, Firenze 1948, ma non vi è traccia che essa sia stata consultata dal momento che nell'in­tro­­duzione non si fa il minimo cen­no ad una possibile origine vampiristica del racconto o ad una relazione con questa tematica. Quanto all'altro testo citato in bibliografia da Manacorda, J. Wolff, Der fliegende Holländer. Eine Seemansage, Berlino 1892, esso non è pertinente, in quanto trattasi di un'opera poetica. [171] ivi, pp. 97-108. [172] ivi, p. 101. [173] ivi, p. 102. [174] Cfr. Coro dei marinai e delle ragazze, Atto III, Scena I. [175] "Traft ihr das Schiff im Meere an, blutrot die Segel, Schwarz der Mast?" ("Avete mai incontrato sul mare un vascello, rosso-sangue le vele, nero l'albero maestro?"): così comincia la ballata di Senta, vv. 306-307. [176] Atto II, Scena III. [177] Cfr. E. Sans, op. cit., pp. 28-30: "La seule oeuvre du compositeur qu'il ait pu voir est Le Vaisseau Fantôme, et encore dans des conditions très certainement mauvaises (...). S'il lui avait été donné de voir quelques bonnes représentations de Wagner - il manifeste devant Carl Hebler l'intention d'aller voire d'autres oeuvres que Le Vaisseau Fantôme - il eût probablement modifié son opinion dans un sens plus favorable. Mais les circumstances ne l'ont pas voulu ainsi". Giovanni Piana Opere complete Volume decimo Mondrian e la musica 2013 4 ISBN Copyright Giovanni Piana Questo volume è stato pubblicato dall'Editore Angelo Guerini e Associati nel 1995. In copertina: Jazzband sovrapposta a "Broadway Boogie-woogy" 5 6 Copertina interna: libera rielaborazione di un particolare di P. Mondrian, Autoritratto, 1908. 7 Indice 9 1. INTRODUZIONE 20 2. LA COSA E LA FORMA 26 3. SOSTANZA E RELAZIONE 32 4. IL COLORE 40 5. IL FASCINO DEL RAPPORTO 51 6. TRAGICITA' E NATURA 61 7. SULLA MUSICA 71 8. RUMORI 80 9. IL JAZZ E LA CITTÀ ORTOGONALE 91 10. APOLOGIA DEL DESERTO 94 11. DIGRESSIONE SU EDGAR VARÈSE 99 12. CONCLUSIONE 8 9 §1 Per introdurre le idee fondamentali dell'astrattismo, nella forma che esso assume in Mondrian, e precisamente nella sua fase più rigorosa che va dal 1922 all'anno della sua morte (1944), è opportuno attirare l'attenzione su due configurazioni tipicamente diverse che solo in apparenza potrebbero essere descritte all'incirca nello stesso modo richiamando le figure geometriche corrispondenti. La figura: presenta un rettangolo ed un quadrato - e precisamente secondo una disposizione di copertura parziale che ci consente di poter dire: il rettangolo sta dietro il quadrato. Invece nel osso seguente, che potremmo considerare rappresentativo di un modulo ricorrente nei dipinti di Mondrian sarebbe del tutto improprio parlare di figure geometriche affiancate. In particolare, mentre nel primo caso era necessario proiettare le due figure in una profondità latente, nel secondo il perimetro esterno della figura non fa altro che delimitare un tratto di superficie che viene internamente suddivisa. Questo perimetro esterno potrebbe anche non esistere, così come non deve esistere la cornice per i quadri di Mondrian - cosicché saremmo di fronte non già propriamente a "figure", ma al puro rapporto ortogonale, come un rapporto che attraversa tutto lo spazio, anche se ce ne viene proposta solo una delimitata porzione. 10 Mentre questo rappresenta un modulo ricorrente, variato in mille modi, nella pittura di Mondrian si dànno solo rari esempi di configurazioni del primo tipo. Ad esempio, una configurazione come questa, che compare in un dipinto di Mondrian del 1917 (Cat. 298, part.), propone figure elementari che si sovrappongono parzialmente. L'effetto latentemente tridimensionale della sovrapposizione è tuttavia attenuato, nell'originale, dal fatto che la delimitazione delle figure non è grafica, ma solo cromatica, proponendo piuttosto un confronto tra sfumature cromatiche (come suggerisce il titolo: Composizione con piani di colore puro su fondo bianco) piuttosto che un rapporto tra forme nella terza dimensione. 11 Talora la sovrapposizione è tolta, e le figure sono appunto affiancate, come nel caso seguente (Cat. 301, Composizione con piani di colore, 1917). Ma si tratta comunque di esempi che appartengono ad una fase che precede, sia pure di poco, la scelta dell'astrattismo più stretto. Una riflessione su Mondrian può allora prendere le mosse proprio dal richiamare l'attenzione su questa circostanza che naturalmente ha bisogno di diventare significativa: una configurazione del primo tipo non deve assolutamente verificarsi. Possono darsi invece solo configurazioni del secondo tipo. Ecco alcuni schemi possibili, tra infiniti altri, tratti da dipinti di Mondrian: 12 Di fronte ad una simile esposizione, uno spettatore ingenuo 13 potrebbe ben chiedere: perché mai tutti questi "quadrati", tutti questi "rettangoli", perché mai questa ripetizione dell'ortogonalità che si ripresenta ovunque con variazioni che potrebbero forse essere considerate del tutto insignificanti? Intanto va sottolineato che siamo qui alla presenza di una precisa decisione artistica - che dobbiamo ovviamente assumere come del tutto esplicita e consapevole: d'ora in poi non più ritratti, alberi, paesaggi, edifici, fabbriche o fattorie. D'ora in poi solo linee orizzontali e linee verticali, il rapporto ortogonale, il più rigido dei rapporti geometrici, ripetuto e ribadito mille e mille volte. Una importante decisione. Ma per quali motivi è stato deciso così? Sulla base di quali pensieri? Forse di domande come queste ci potremmo subito sbarazzare. I dipinti stanno di fronte a noi, ci presentano esattamente quello che ci presentano - a che scopo andare alla ricerca di qualcosa che non è subito tangibilmente presente in essi? Un dipinto, come un brano musicale, potrebbe essere considerato unicamente per quello che propriamente è nella sua pura immediatezza di fatto percettivo, come "composizione" di linee e di colori, eventualmente nel suo riferimento rappresentativo, quando sussiste, oppure senza di esso. Analogamente un brano musicale sarà anzitutto una composizione di suoni - in entrambi i casi l'opera si appella anzitutto alla percezione. Da questo punto di vista il dipinto di un albero non differisce affatto dall'albero stesso, entrambi sono formazioni più o meno complesse di dati percettivi. E nella ricezione dell'opera potremmo dunque mettere l'accento soprattutto su questo aspetto, e dunque sui rapporti interni all'opera come rapporti che ne determinano interamente il senso. Tanto più ciò sembra valere per una pittura "astratta", che si impone anzittutto nei suoi valori formali, in quanto valori concretamente percepiti. Eppure la domanda che non si sofferma anzitutto am- 14 mirata di fronte ai sottili equilibri delle linee tese e degli spazi cromatici riempiti, ma che al contrario si meraviglia, forse ingenuamente colpita dall'apparente monotonia della forma compositiva, non è affatto da considerare fuori luogo. Essa pone indirettamente la richiesta che si apportino chiarimenti sul contesto creativo di cui l'opera è un risultato. Il riferimento ad esso è essenziale per comprendere il senso dell'opera - o più precisamente: per cominciare a penetrare nella molteplicità di strati di senso che si trovano a diversi gradi di profondità rispetto alla superficie ed anche a diversi gradi di distanza dall'opera stessa intesa come quell'oggetto che sta ora di fronte ai miei occhi. Questi strati non sono lì, a portata di mano, quasi che bastasse guardare per afferrarli. Ciò va detto anche avendo di mira criticamente quei richiami all'ingenuità così frequenti nei fenomenologi che vengono falsamente intesi come richiami ad una pura visione che esclude il pensiero. Al contrario l'ingenuità che ci può realmente interessare è quella che, sollevando un problema, sollecita una ricerca. La nozione di strato di senso ha vari legami con quella di contesto creativo e questo contesto non è affatto senz'altro leggibile sulla superficie percettiva dell'opera. Alla domanda: perché questa decisione, perché tutte queste linee ortogonali? non si può dare una risposta esibendo altri dipinti di Mondrian con altre linee ortogonali. Occorre invece tentare di ripercorrere gli strati di senso del dipinto, tentando di ristabilire il nesso con il contesto creativo che sta alle sue spalle ed al quale appartengono i pensieri che forniscono all'immaginazione pittorica proprio questo orientamento piuttosto che un altro qualsiasi. Di conseguenza non si potranno certo considerare gli scritti teorici di Mondrian come pure speculazioni estranee al progetto pittorico e addirittura fuorvianti rispetto ad esso. Talvolta si pretende, orientati da intenti interpretativi anche diversi, che le concezioni esplicitamente enunciate dal pittore 15 siano una sorta di elaborazione intellettuale estrinseca di istanze creative che stanno altrove e che potrebbero essere profondamente nascoste al pittore stesso, di filosofemi estranei alla cosa stessa. A me non sembra che le cose stiano così. Naturalmente in rapporto agli scritti teorici si possono commettere diversi errori. Sarebbe ad esempio del tutto sbagliato considerarli come autentici trattatelli filosofici - cosa che essi manifestamente non sono. Perciò essi non hanno affatto bisogno di essere giudicati e valutati come buoni o cattivi, superficiali o ingenui sotto questo riguardo o addirittura confutati con tanto di argomenti e controargomenti. Ciò che li distingue da esposizioni filosofiche effettive è la loro radicale mancanza di autonomia. È del tutto ovvio, eppure va detto esplicitamente: essi sfociano in un progetto pittorico, alla cui delineazione sono strettamente inerenti, e proprio nessuna opera filosofica ha il carattere di una transizione verso un fine simile a questo. Altrettanto fuori luogo sarebbe lo stabilire una connessione meccanica tra riflessione teorica e l'opera - come se questa fosse una conseguenza di quella, e dunque fornisse una chiave esclusiva per la determinazione del suo senso. Tenendo dunque d'occhio gli scritti teorici con queste necessarie cautele, possiamo cominciare con il chiedere: che cosa significa "astratto" per Mondrian? Che cosa significa astrarre in rapporto alla pittura, ed anzi, come è negli intendimenti di Mondrian, all'arte in genere? Quale relazione vi è tra l'astrazione che potremmo far valere in un simile contesto che ha di mira soprattutto le vicende del dibattito artistico e una nozione di astrazione filosoficamente elaborata? 16 Annotazioni 1. Quanto sia importante richiamare l' attenzione sul contesto creativo è indirettamente dimostrato dal saggio di D. Gioseffi, La falsa preistoria di PietMondrian e le origini del neoplasticismo [Gioseffi, 1957]. Occorrerà intanto stendere pietosamente un velo su ciò che fa di questo saggio un caso realmente esemplare di impotente livore verso la creatività artistica. Mondrian viene in esso caratterizzato irosamente non solo come un pittore mediocre, un "piccolo maestro" [p. 29], ma soprattutto come un plagiatore che non fa altro che riproporre sul piano pittorico strutture e configurazioni che si ritrovano tipicamente nella tradizione architettonica giapponese - di cui si forniscono esempi e confronti. Si riproducono qui a titolo indicativo due immagini proposte dall' autore che rappresentano particolari dell' ingresso di un tempio di Kyoto, il cui impianto architettonico risale al sec. XVII. Mondrian avrebbe poi astutamente nascosto questa " vera preistoria" mantenendo in sordina, nel periodo " astrattistico" , i propri interessi per la cultura orientale al fine di depistare le indagini e godere senza inopportune rivelazioni sulle fonti il successo accortamente fiutato. "E con lo stesso animo con cui ha impreso a rifare (non senza imprimere alla loro voce un modesto accento personale) i Rembrandt e i Ruysdael dapprima, e i Van Gogh e i Signac e i Toorop, e poi i Braque e i Picasso, s' è messo, a un certo punto, a rifare i Giapponesi. Ed era - pare - il momento buono" [p. 291]. Naturalmente respingere questa misera storia, non significa per nulla negare 17 l' interesse di un simile rapporto, dal cui approfondimento, libero da meschinità mentali, ci si possono ripromettere interessanti motivi di riflessione. Tuttavia il punto su cui vorremmo attirare l' attenzione, in rapporto alle nostre considerazioni precedenti, è un altro. L' autore ci invita a munirci di un' opportuna mascherina, di una "finestra" con la quale "ci si potrà divertire a ricavare tanti Mondrian quanti si voglia" [p.9] facendola scorrere sulle immagini delle pareti degli edifici giapponesi. E non ha il benché minimo sospetto che ciò sig- nifica né più e né meno che adottare lo sguardo di Mondrian stesso, senza il quale non si può vedere in essi nessun "Mondrian". Nemmeno ha il minimo sospetto che ponga qualche problema il fatto che strutture architettoniche-figurali appartenenti al secolo XVII, che rimandano per di più ad una tradizione millenaria e che investono l' intera cultura e forma di vita del Giappone, possano essere riprese nel secolo XX con una pregnanza di senso che chiama in causa l' idea stessa della modernità. Vi è qui un viluppo di questioni che possono essere trascurate solo a patto di azzerare l' intero sfondo di idee, di concezioni e di prese di posizione che stanno alle spalle della creazione pittorica e che forniscono ad essa il contesto necessario. - Il problema dei nessi tra Mondrian e le forme architettoniche giapponesi viene delineato con ben altro spirito da Ragghianti, 1963, nel capitolo intitolato "Il contenuto storico della sintesi matura: architettura dell' Estremo Oriente", pp. 345-362. Vorrei rammentare che già Worringer, 1908, aveva affermato in completa generalità: "Ai fini del graduale affinarsi della nostra concezione storica dell' arte grande merito va ascritto alla scoperta di quell' eccezionale fenomeno che è l' arte giapponese. Il suo studio da parte degli europei dev' essere considerato uno dei principali passi avanti nella storia della progressiva riabilitazione dell' arte a entità puramente formale, cioè volta a sollecitare il nostro senso estetico elementare. L' arte giappone- se d' altro canto ci ha salvati anche dal pericolo, molto 18 prossimo di individuare la possibilità della forma pura solo nell' ambito dei canoni dell' arte classica" [p. 721]. 2. Un esempio di netto rifiuto nei confronti della produzione teorica di Mondrian è fornito dai saggi - per molti versi così pregevoli e così ricchi di idee - di G. Morpurgo-Tagliabue, Mondrian e la crisi dell' arte moderna (I) e Significato dell' astrattismo di Mondrian (Il) [1972a, 1972b]. Questo rifiuto è dovuto intanto ad una valutazione di questi scritti come scritti filosofici di bassa lega ed a una mediocre cultura da autodidatta che si lascia affascinare da autori ciarlataneschi. Ma è dovuto anche, e forse soprattutto, alle tesi interpretative generali dell' autore che propone un impegnativo collegamento di Mondrian al formalismo in sede di estetica filosofica così come era stato anzitutto teorizzato da Herbart - collegamento che ha come corollario la necessità di tagliare netto con gli sfondi "metafisici" e "simbolici" presenti negli scritti del pittore. Questo collegamento si conclude con una teorizzazione dell' arte di Mondrian come arte eminentemente "decorativa" in un' accezione che non ha a che vedere con l' ornamentalismo, ma con l' idea del bello funzionale. "Le composizioni di Mondrian, in forma di quadri da cavalletto, sono campioni decorativi, capaci di imporre uno stile, ossia una certa regola compositiva agli oggetti del vivere. Questo è appunto il compito della decorazione" [1972b, p. 328]. In un simile contesto interpretativo, che ha peraltro alcune buone ragioni da far valere, gli scritti teorici di Mondrian meritano il titolo di pure "grullerie", e sarebbero ispirati unicamente dalla sua "vanità di pittore". Per "vanità di pittore" - che non sa stare al suo posto e si permette di filosofare senza avere la preparazione necessaria - Mondrian attribuisce ai propri motivi stilistici "anche un significato metafisico. Le righe orizzontali indicheranno la stasi, le verticali il vigore, il femminile e il maschile, e il loro incontro l' equilibrio cosmico, ossia il materiale e lo spirituale, l' espressione universale della vita in noi; le linee isolate e prolungate significheranno l' inquietudine, la 19 sofferenza, il tragico e altri simili grullerie" [p. 348]. "L' invenzione metafisica di Mondrian inerisce al suo produrre quanto meno come ambizione programmatica, simultanea o successiva all' operare dell' artista; è invece eterogenea e superflua al godimento e all' apprezzamento del pubblico. Neanche lo spettatore più avvertito è in grado di vedere il maschile e il femminile, l' inconscio e la coscienza, nelle linee e nei rettangoli di Mondrian, a meno di proporselo come un esercizio di criptografia convenzionale. Nessun preavviso critico farà riconoscere in quella sintassi astratta tali contenuti semantici. Laddove constateremo che altri concetti dottrinali e programmatici (ma non metafisici) si possono "vedere" talvolta nelle sue composizioni geometriche. L' unica cosa quindi che possa fare un critico rispettoso del pubblico è di ridimensionare quella paccottiglia metafisica" [1972a, p. 212]. 3. L' anno 1922 è indicato da Mondrian stesso nell' intervista a James Johnson Sweeny come un anno cruciale per la propria produzione pittorica: "Nei dipinti posteriori al 1922 sentii che stavo avvicinandomi alla struttura concreta che considero necessaria". "Nelle mie tele successive al 1922 i colori sono diventati primari-concreti" [Mondrian, 1943 pp. 397-398]. 4. Per i riferimenti illustrativi a Mondrian, si riporta (impiegando come abbreviazione: Cat. n.) il numero di catalogo realizzato da Maria Grazia Ottolenghi, 1974, nel quale si potrà trovare anche una descrizione più precisa dei dipinti. 20 §2 Si dice talvolta che un dipinto astratto è un dipinto non figurativo, cioè un dipinto in cui non è riconoscibile un oggetto determinato, una cosa del tipo di quelle che ci circondano nella vita quotidiana, un tavolo, una sedia, un mazzo di fiori, oppure un uomo, un volto, ecc. Si noti che nell'aggettivo "figurativo" manca il riferimento rappresentativo che sembrerebbe essere il punto essenziale. In fin dei conti la parola figura può essere impiegata per indicare un qualunque tracciato su un foglio di carta, mentre se parlassimo di raffigurazione, in questo termine il riferimento rappresentativo sarebbe subito coimplicato. Qualcosa - qualcosa che appartiene al mondo - viene raffigurato nelle figure del dipinto, e ciò non accade nel dipinto "astratto". Ma è abbastanza facile rendersi conto di quanto siano generiche queste determinazioni iniziali. Intanto, un tracciato qualunque su un foglio di carta, due linee ortogonali o meno, delle linee curve variamente intrecciate fra loro, sia in modo confuso che secondo un qualche ordine, non meritano affatto, in se stesse, di essere chiamate astratte - sono semplicemente linee di varia foggia e conformazione, e dunque anche oggetti come tutti gli altri, sia pure con le loro peculiarità. Solo nel momento in cui viene proiettata su di essi l'idea di un possibile rapporto raffigurativo, possiamo mettere in rilievo la mancanza di questo rapporto. Ma questo basta forse a farci parlare in modo significativo di "astrazione"? Di fatto si può rilevare la mancanza del rapporto raffigurativo anche nel caso delle "pure decorazioni". Talora esse ricordano la forma di un foglia o di un fiore, ma ciò non è affatto obbligatorio. Nella pura decoratività l'elemento raffigurativo potrebbe essere del tutto assente, senza che per questo abbia realmente senso il parlare del decorativismo come astrattismo, facendo coincidere l'astrazione pittorica con la mancanza obbiettiva di un rapporto raffigurativo. 21 È appena il caso di dire che la generica mancanza di un riferimento raffigurativo non ci è di alcun aiuto per contraddistinguere l'astrattismo di Mondrian da altre interpretazioni, molto diverse, dell'astrattismo pittorico, e nemmeno dal puro decorativismo. In rapporto ai suoi dipinti dobbiamo far valere con particolare forza il principio, che ha importanza ovunque nelle cose dell'arte, secondo il quale dobbiamo sempre sapere cogliere nelle posizioni che le opere effettuano le negazioni in esse implicate. A questo principio si appella del resto, a modo, suo, lo stesso Mondrian ogni volta che rivendica l'importanza non solo di ciò che il "neoplasticismo" costruisce, ma anche di ciò che esso distrugge. "La neoplastica è altrettanto costruttiva che distruttiva. Essa viene chiamata abusivamente "costrutttivismo"" [Mondrian, 1930, p. 258]. "Penso che nell'arte l'elemento distruttivo sia troppo trascurato" [Mondrian, 1943, p. 400]. L'elemento distruttivo in Mondrian è rivolto alla cosalità della cosa intesa nella sua corporeità e fisicità, ed anzitutto al presupposto di questa corporeità e fisicità: la "solidità" della cosa nel senso geometrico del termine che rimanda alla tridimensionalità, e dunque allo spazio profondo nel quale essa si trova, e che rappresenta una sorta di condizione fenomenologica della materialità e della solidità in senso fisico-corporeo. Non meno importante è poi il riconoscimento che tra le caratteristiche interne della cosalità vi è anche la forma della cosa. Tra la nozione della forrna e la nozione della cosa vi è una sorta di solidarietà interna: la cenere, la sabbia, l'acqua, hanno caratteristiche della materialità, ma non sono cose e non lo sono proprio in quanto non hanno una forma. Così di un pezzo di legno che brucia e diventa cenere possiamo dire che esso perde la sua forma nella stessa misura in cui perde le sue caratteristiche di cosa, diventa, per così dire, mera materia. La materia, a sua volta, potrebbe essere intesa come po- 22 tenzialità di ridiventare cosa in un processo di solidificazione che presuppone la ripresa di una forma. Se dovessimo introdurre la nozione della forma proponendo i passi della sua costituzione primaria dovremmo da un lato presupporre una materialità fluida, senza limiti (contorni), e dall'altro un processo di solidificazione che opera una delimitazione della materia, dando origine ad un tempo al corpo ed alla sua forma come momento ad esso essenzialmente inerente. In questa storia ideale del concetto della forma appare chiaro che essa non è affatto in un'opposizione pura e semplice con il corpo, ma al contrario fa tutt'uno con esso: la nozione della cosa e la nozione della forma si presuppongono a vicenda. Nello stesso tempo, in quanto la forma opera una delimitazione, essa fa parte dei momenti inerenti alla cosa che la individualizzano e particolarizzano, facendo sì che la cosa sia esattamente quella che è, differente da ogni altra. Il problema dell'individualità e della connessione tra individualità e differenza non si pone nemmeno per l'elemento puramente materiale: per la cenere, ad esempio, o per la lava. Qui non c'è forma, quindi non c'è nemmeno individualità e differenza. Prendiamo invece due pietre - ed esse saranno chiaramente differenziabili e riconoscibili nelle loro differenze, che saranno, tra le altre, differenze di forma. Naturalmente considerazioni come queste potrebbero essere sviluppate indipendentemente dal problema dell'astrattismo di Mondrian, dal momento che esse riguardano la genesi fenomenologica del concetto della forma, i passi della sua costituzione primaria. Ma è interessante richiamare questi passi in rapporto alla posizione di Mondrian poiché in essa questi passi sono presupposti con straordinaria lucidità immaginativa e concettuale. Notevole è soprattutto il fatto che Mondrian attiri l'attenzione proprio sull'interdipendenza delle nozioni della cosa e della forma. Ciò è quanto dire, in termini genetico-fenomenologici: la forma è anzitutto contorno, le forme sono originariamente sagome di cose. Ed allora comin- 23 ciamo ad intravvedere in che modo le nostre considerazioni precedenti possano riversarsi in un progetto espressivo. Ritorniamo infatti agli esempi da cui abbiamo preso le mosse. Quando abbiamo notato che una configurazione fatta in modo da poter essere descritta in termini di figure sovrapposte non deve presentarsi nell'"astrattismo rigoroso", la ragione di ciò non sta solo nel fatto che la copertura parziale tende a far apparire la terza dimensione, ma soprattutto nel fatto che, proprio per questo, in essa si annuncia l'elemento corporeo: Nella figura noi vediamo due "forme" proprio nel senso or ora illustrato - due possibili sagome di cose. Vi è dunque ad un tempo la presenza sia della spazialità tridimensionale, sia della cosalità corporea. Ma ciò non basta. Una nozione della forma come sagoma e contorno, e dunque illustrata a partire dall'idea della cosa, ha una importante conseguenza: se nella tridimensionalità il "contorno" è rappresentato dalle pure superfici delimitanti, nella bidimensionalità, il contorno è invece lineare, e possiamo concepirlo immaginativamente come se esso fosse costruito da una linea che si chiude su se stessa. L'idea della chiusura appartiene in realtà alla nozione della forma - tra l'una e l'altra vi è una reciproca inerenza. A ciò si può tuttavia obbiettare che la nozione di forma è abbastanza generale da poter comprendere forme chiuse e forme aperte. Ci dovremmo forse precludere di parlare di 24 forme aperte quando ce ne sembra il caso? Al contrario. Per confermare l'essenzialità del rapporto tra la chiusura e la forma, nulla è più istruttivo che riflettere sulle configurazioni caratteristiche alle quali noi applicheremmo l'espressione di forma aperta. Parlare di forme aperte in casi come questi appare più che giustificato, ma si avverte subito che ciò è possibile solo in quanto noi cogliamo in queste configurazioni la possibilità della chiusura (si noti di passaggio che, come si mostra nell'esempio, una forma aperta può stare dentro un'altra). Cosicché si parlerà in generale di forma aperta in rapporto ad una linea che "tende a chiudersi", ovvero in rapporto ad una linea in cui la tendenza alla chiusura è visibile nel suo stesso tracciato. Potremmo addirittura enunciare la regola fenomenologica secondo la quale quanto meno si coglie questa possibilità, tanto meno sarà sensato parlare, non tanto di forma aperta, quanto in generale di forma. Si consideri in proposito la sequenza: Abbiamo anzitutto una forma chiusa, e poi via via delle forme sempre più aperte. Al di là di un certo limite tuttavia non parleremo più né di forme aperte né di forme chiuse, ma semplicemente di linee. Per questo forma chiusa e forma aperta non costituiscono affatto un'opposizione, e non vi sono gene- 25 ricamente forme chiuse e forme aperte come specie subordinate al titolo generale della forma. Possiamo dunque considerare la chiusura, attuale o possibile, come una proprietà inerente al concetto della forma: ogni forma è essenzialmente una forma chiusa. Anche le forme che è giusto caratterizzare come aperte hanno la chiusura come propria condizione. Naturalmente nulla ci impedisce di parlare della "forma" delle linee volendo con ciò indicare la loro foggia, il loro andamento caratteristico, il loro stile. Si tratta di un altro possibile significato dell'espressione di forma, che ha un'area semantica assai ampia. Stando invece alla nozione or ora introdotta, la linea sta al polo opposto della forma - o, più precisamente, tra la linea e la forma intercorre una precisa relazione: forma è linea che diventa sagoma e contorno, quindi linea che si chiude, mentre la forma si srotola nella linea e in questo modo in essa si dissolve. 26 §3 Ciò che vorremmo mostrare è che la pittura di Mondrian è una pittura di linee e nello stesso tempo che essa ha lo spazio come proprio tema fondamentale. Nei dipinti di Mondrian non troviamo mai forme, ma linee, e precisamente linee che debbono essere intese come forme negate. Nell'immagine della linea dobbiamo sempre cogliere la controimmagine della forma. Questa relazione-opposizione tra l'una e l'altra diventa ancora più pregnante e ci porta al centro della nozione dell'astratto in Mondrian se prendiamo le mosse dal problema della particolarità. Volendo fornire una caratterizzazione semplice dell'astrarre potremmo dire che astrarre significa null'altro che "prescindere dalla particolarità". In rapporto alla concretezza dell'immagine, questo prescindere dalla particolarità può assumere il carattere di una operazione di progressiva perdita del dettaglio, di una progressiva schematizzazione. In un volto gli occhi possono essere ridotti ad una fessura, ed infine ad un piccolo tratto, cosicché solo la sequenza intera può rammentare l'origine raffigurativa della configurazione conclusiva. E noto anche che spesso questo processo di semplificazione e schematizzazione comincia nella raffigurazione per terminare nell'ornamento [Acanfora, 1960, p. 197]. È interessante notare che un simile percorso non ha affatto 27 bisogno di misurarsi con la nozione della forma-contorno e anzitutto per questo la via di Mondrian è interamente diversa. Infatti, il "prescindere dalla particolarità" delle cose è concepito nella fantasia pittorica di Mondrian, avendo di mira la funzione particolarizzante e individualizzante della forma, in termini immaginativi concreti. Se la forma è contorno, noi possiamo tagliare questo contorno, aprire la forma e divaricare sempre più questa apertura operando una graduale rettificazione: apriamo la linea chiusa e la distendiamo sempre più fino alla linea retta. Mondrian si esprime proprio così nel saggio sul neoplasticismo del 1917. "Se nell'espressione plastica della forma, i confini di questa devono essere definiti linea chiusa (contorno) è necessario che questa venga tesa nella linea retta" [Mondrian, 1917, p. 43]. Le linee rette sono contorni rettificati. Nello stesso tempo, operando questa rettificazione, ci rendiamo conto che raggiungiamo anche l'elemento che tutti i contorni, in tutta la loro varietà e in tutte le differenze, hanno invariabilmente in comune. L'idea dell'astrarre come mera semplificazione schematizzante passa interamente in secondo piano, mentre viene afferrato quasi in un balzo l'elemento universale ovvero l'elemento comune a tutte le cose. Ogni contorno può essere ridotto ad una retta, dunque l'espressione dell'universalità che supera ogni particolarità è null'altro che la linea retta. Conclusione per molti versi sorprendente, e sorprendente soprattutto per la lucidità con la quale si effettua la proiezione sul piano pittorico di quelle operazioni astrattivo-riduttive che sono caratteristiche delle razionalizzazioni matematizzanti e geometrizzanti della realtà. Si tratta beninteso di un riferimento che è ben presente in Mondrian. 28 In altri termini, ciò che si viene a dire, con una scelta tanto drastica sul piano pittorico, è che la realtà fenomenologica con i suoi corpi e con tutte le differenze che li caratterizzano, con la loro molteplicità e varietà, è pura apparenza. Se guardiamo invece all'elemento universale queste differenze si dissolvono interamente e in questa dissoluzione ciò che viene meno è l'idea dei corpi come sostegni del reale stesso - in termini filosofici: viene meno l'idea della sostanza in uno dei possibili sensi del termine che trovava, già in Aristotele, la propria esemplificazione più pregnante proprio nei corpi. Potremmo dire: non è particolarmente importante il fatto che la pittura della tradizione fosse "figurativa". Più significativo è invece notare che tutta la pittura tradizionale era pittura di sostanze. Il requisito dell'astrazione richiede invece che alle sostanze subentrino le pure strutture relazionali. L'abbandono del mondo fenomenologico, così come il passaggio dalla sostanza alla relazione, l'idea stessa dell'astrazione intesa come una soppressione della differenza qualitativa a cui subentra un punto di vista relazionale, è uno dei passaggi più insistiti della logica moderna e della sua filosofia - ed è un passaggio che viene avvertito in tutt'altra sfera, ma con altrettanta decisione e precisione dalla teorizzazione di Mondrian. Sinteticamente potremmo dire: non oggetti ma relazioni. Ed è proprio questo che si mostra alla vista nei dipinti di Mondrian. Il tema della linea come forma negata deve tuttavia congiungersi con quello dello spazio. Ciò non si trova affatto in contrasto con le nostre considerazioni precedenti. Al contrario esse formano un'indispensabile premessa. In precedenza abbiamo messo in rilievo una vera e propria negazione della spazialità. La spazialità negata era tuttavia quella legata alla tridimensionalità geometrica subito concepita come condizione per la solidità fisico-corporea delle cose, dunque come insieme di luoghi occupati da cose. La spazialità negata è la spazialità costituita secondo il percorso aristotelico che prende le mosse anzitutto dal problema del nesso e della differenziazione tra la 29 cosa e il luogo. In quanto ci sono cose, appaiono luoghi. Vi è dunque una stretta solidarietà tra la cosa (il corpo) e lo spazio. I luoghi vengono allora pensati come possibili contenitori di cose. A questa costituzione aristotelica della nozione di spazialità, si può tuttavia contrapporre la costituzione platonica - che ha un'inclinazione interamente diversa: in essa lo spazio non si costituisce a partire dalla particolarità del luogo, ma il pensiero dello spazio si impone da subito come totalità infinita. All'idea del luogo subentra quella della parte e dunque di uno spazio ripartito. Seguendo questa inclinazione, il riferimento alla cosa, alla tridimensionalità ed al corpo non assolve nessuna funzione, costitutivamente significativa - mentre diventano fondamentali l'articolazione e la relazione tra le parti. Questo è l'autentico platonismo profondo di cui Mondrian si riappropria seguendo la pura coerenza delle idee. Le rette di Mondrian suddividono lo spazio, e per questo creano parti in relazione reciproca, e non forme e nemmeno luoghi destinati ad accogliere cose. E naturalmente esse proseguono al di là del dipinto, così come la retta geometrica accennata sulla lavagna attraversa l'intero spazio infinito. I reticoli di Mondrian debbono essere intesi come reticoli immensi - le linee di partizione non coincidono mai con i bordi del dipinto e danno luogo a regioni marginali manifestamente aperte che esigono di essere proseguite e sviluppate oltre la superficie del dipinto. Con tutto ciò si rende conto anche del fatto che le linee di partizione debbono essere rigorosamente rettilinee, così come del dominio necessario del rapporto ortogonale. Rammentiamo di passaggio che vi fu una rottura tra Mondrian e Van Doesburg proprio per il fatto che questi aveva introdotto nei suoi quadri delle linee oblique. 30 Van Doesburg, Controcomposizione di dissonanze (1929) Osserva Mondrian nell'ultima sua intervista concessa a Sweeny: "Doesburg, nelle sue opere più tarde, tentò di distruggere l'espressione statica mediante una disposizione diagonale delle linee della composizione. Ma a causa di una tale insistenza sulla diagonale va perduto quel senso di equilibrio fisico che è necessario per il godimento estetico di un'opera d'arte. Il rapporto con l'architettura e con le sue dominanti verticali e orizzontali è spezzato" [Mondrian, 1943, p. 398]. Questo rigorismo inesorabile deve essere compreso come qualcosa che fa parte del senso e dello spirito del problema teorico-artistico di Mondrian. In particolare il divieto della linea curvilinea ha una sua prima motivazione proprio nel tema della chiusura della forma. Una qualunque modificazione in senso curvilineo di una linea rettilinea sarebbe già un inizio verso la chiusura, e dunque verso la forma. D'altra parte la rotondità compare più volte negli scritti di Mondrian come una caratteristica che richiama direttamente la corporeità. La sfera è una figura della corporeità così come il cerchio il modello della forma chiusa. A questa considerazione se ne aggiunge un'altra che 31 riguarda il rifiuto della particolarità: la differenza deve essere radicalmente soppressa dal momento che occorre mostrare l'essenza comune di tutte le cose. Ciò che sta immobile e sempre eguale e che può essere inteso come origine di tutte le differenze esercita qui tutto il suo fascino. Mentre vi sono infiniti modi di tracciare delle curve, ed ogni curva ha un suo "carattere", ha un suo "stile", e così anche infiniti rapporti di inclinazione, un numero illimitato di angoli ottusi e di angoli acuti, vi è invece un solo angolo retto. E quando Mondrian caratterizza l'ortogonalità come "relazione primordiale" suggerisce che ogni "inclinazione" abbia origine per scostamento da questa posizione fondamentale. Particolare importanza ha poi il fatto che linea verticale e linea orizzontale formino una vera e propria opposizione, ma anche una opposizione che ha raggiunto il suo punto di equilibrio. La relazione ortogonale può così essere assunta come espressione estremamente concentrata dell'opposizione fondamentale dei rapporti, capace di rappresentare al tempo stesso la massima unità e il massimo equilibrio. Annotazione La collaborazione di Mondrian al periodico De Stijl, fondato e diretto da Van Doesburg dal 1917, "ebbe termine dopo il 1924 quando Van Doesburg introdusse nei suoi dipinti e nei suoi interni l' elementarismo, che dava grande rilievo alle linee oblique: un elemento che Mondrian considerò inconciliabile con il principiò fondamentale dell' opposizione ortogonale e dell' equilibrio orizzontale verticale" [Mondrian, 1975, p. 27 e p. 201]. 32 Composizione n. 3 (1927) §4 In una concezione come questa - in cui assumono una così grande importanza l'eguaglianza, la semplicità, l'ordine, ecc. - il colore, e quindi il mezzo espressivo fondamentale della pittura, rappresenta indubbiamente una sorta di difficile punto critico. Si potrebbe anzi fondatamente sospettare che ad essa spetti 33 un'espressione puramente grafica, poiché risulta subito difficile pensare che il colore possa esservi introdotto senza introdurre al tempo stesso la varietà, la ricchezza, la molteplicità e la differenza. Nei dipinti di Mondrian (parliamo sempre della produzione posteriore al 1922), il colore c'è: ma non c'è in un modo qualunque. Esso appare accuratamente disteso tra i riquadri determinati dalle intersezioni tra le rette - e impiegati spesso su superfici relativamente piccole rispetto al dipinto nel suo complesso. I colori effettivamente usati sono pochi - pochissimi, al massimo tre. Anche in questo caso un'importante decisione è stata presa. Essa si trova in stretta coerenza con l'esigenza di mettere in opera delle pratiche per neutralizzare la naturalità del colore, cioè il rapporto del colore con la dimensione della realtà data nella concretezza dei processi dell'esperienza. Il colore fa eminentemente parte delle apparenze visive del nostro mondo. Ma è possibile anche sostenere - facendo valere considerazioni pittoriche che peraltro, anche in questo caso, si intrecciano con considerazioni fenomenologiche - che il colore è strettamente connesso con la nozione della cosa e la nozione della forma. Addirittura potremmo rendere il colore stesso l'elemento per così dire primario, facendo della forma un risultato di cromatismi. Ciò è quanto sosteneva Goethe nella sua ricerca sui colori. Per quanto ciò possa sembrare singolare, osserva Goethe nell'introduzione alla sua Teoria dei colori, "noi affermiamo che l'occhio non vede alcuna forma, in quanto soltanto chiaro, scuro, colore stabiliscono insieme ciò che distingue un oggetto dall'altro e la parte di un oggetto dalle altre. Sulla base di questi tre momenti costruiamo il mondo visibile" [Goethe, 1979, p. 11]. Le forme sorgono dal colore, e sorgono già nella loro connessione con la cosa corporea e tridimensionale. Attraverso pure variazioni chiaroscurali può essere fatta apparire la tridimensionalità e la pura circolarità può trasformarsi in sfericità. Pos- 34 siamo ricorrere a variazioni chiaroscurali per dare profondità ad un dipinto, e ciò non è naturalmente una pura questione di tecnica pittorica, ma è anzitutto una circostanza fenomenologica che si traduce in una questione di tecnica pittorica. Per Mondrian il colore resta il "mezzo espressivo" fondamentale della pittura [Mondrian, 1917, p. 40], ma questo mezzo deve essere in certo modo riscoperto e reinventato - meglio ancora: esso deve essere nuovamente prodotto e nuovamente generato dalla pittura, la pittura deve superare la naturalità del colore reinventando i modi del suo impiego a partire da se stessa. Che cosa possono mai significare simili affermazioni? In realtà per dare una risposta a questa domanda conviene ripensare ancora al progetto goethiano di una teoria dei colori. Questo progetto, formulato in due parole, era orientato a mostrare l'esistenza di connessioni sistematiche tra i colori e nello stesso tempo a giustificare questa esistenza attraverso considerazioni relative al colore come fenomeno naturale. Si trattava dunque di riprendere l'antica differenza tra colori primari e colori derivati, e dunque anche della possibilità di dare ai colori un ordinamento intrinseco, sottoponendo tale differenza ad un'elaborazione capace di dare ad essa una effettiva dignità teorica. Occorre ora notare che i due problemi - quello delle connessioni sistematiche tra i colori e quello del loro fondamento naturale - sono in via di principio differenti. Ed il fatto che le connessioni sistematiche possano avere un fondamento nella "natura" del colore non significa per nulla che queste connessioni si trovino a portata di mano in natura (nelle apparenze della natura). Si può così affermare che il "cerchio dei colori" o una qualsiasi altra costruzione rappresentativa del sistema deve essere considerata come una costruzione artificiale, realizzata attraverso considerazioni relative ad una pura sintassi del colore. L'arcobaleno è un fenomeno eccezionale anche per il fatto che un fenomeno natu- 35 rale ci mostra la struttura del sistema dei colori nella sua massima purezza (e lo stesso si può ovviamente dire in rapporto ai colori "prismatici"). Questa eccezionalità conferma che le strutture del sistema non possono trovarsi alla superficie, nel campo della visibilità immediata. La richiesta che la pittura utilizzi il colore come un mezzo espressivo autonomo, che essa lo rigeneri a partire da se stessa fa allora tutt'uno con l'istanza che il cerchio cromatico inteso come costruzione altamente artificiale assuma una esemplarità normativa, in una sorta di rivendicazione particolarmente radicale di una fisica del colore che, a differenza di quella goethiana, sia il più possibile lontana dalla fenomenologia. Talvolta Mondrian dice anche che la pittura deve fare del colore un impiego "matematico" [p.40] : essa non deve essere una "imitazione del colore naturale", ma deve invece appoggiarsi unicamente su quella "matematica del colore" che viene posta in essere dal riferimento al sistema. Più precisamente si dovranno esorcizzare la molteplicità e l'indefinita varietà cromatica riportandosi ai fondamenti del sistema: dunque ai colori "primari". In realtà, quando abbiamo detto che i colori dei dipinti del periodo astrattista sono al massimo tre, avremmo dovuto precisare che si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, del blu, del rosso e del giallo, considerati così come si presentano nel cerchio cromatico senza tener conto di possibili gradazioni chiaroscurali. Ad essi si aggiungeranno, a titolo di non-colori, il bianco, il nero e il grigio. Questa riduzione ha manifestamente lo stesso senso della riduzione di ogni rapporto fra le rette al rapporto ortogonale. In certo modo il rapporto ortogonale rappresenta una delimitazione ed un'individuazione dello spazio (si pensi agli assi cartesiani), mentre i tre colori fondamentali operano una delimitazione ed un'individuazione dello spazio cromatico. Anche in questo caso ha la netta prevalenza un punto di vista relazionale, accentuata in particolare da un impiego presta- 36 bilito all'interno dei riquadri istituiti dalle intersezioni delle linee. "II colore perde il suo aspetto naturale apparendo definito dal piano rettangolare che esso occupa e che si forma inevitabilmente attraverso l'opposizione delle linee rette. Questi piani non sono altro che mezzi: sono soltanto i rapporti ad esprimersi di per se stessi" [Mondrian, 1930, p. 259]. Soprattutto si eviterà di avvalersi della possibilità di stabilire differenze chiaroscurali che dànno profondità spaziale al dipinto. Il colore deve essere piano, piatto, omogeneo: le sfumature debbono essere evitate, anzitutto per il fatto che attraverso le sfumature è possibile si formino apparenze di rotondità. Ci si oppone così alla visione comune "che non vede piano il colore in natura: essa vede le cose (il colore) come corporeità, come rotondità"[Mondrian, 1917, p. 22]. Ma le sfumature debbono essere evitate anche per il fatto che attraverso di esse è possibile dare espressione agli affetti, alle emozioni individuali, agli stati emotivi, quindi all'individualità soggettiva, che rappresenta il versante opposto a quello della cosa materiale, ma che si trova nello stesso tempo ad esso strettamente correlato. Alla soppressione del mondo esperito deve corrispondere la soppressione della soggettività che esperisce il mondo. Con l'affacciarsi del tema della soggettività tocchiamo un altro aspetto della questione. In rapporto ad esso vogliamo limitarci a richiamare l'attenzione sul punto essenziale. Talvolta una concezione astrattistica viene sostenuta in nome di un ritorno all'elemento soggettivo, come un ritorno all'interiorità, spesso anche con connotazioni spiritualistiche del tutto esplicite (si pensi alla polemica antimaterialistica di Kandinsky). Ciò che consente questa direzione è la contrapposizio- 37 ne semplice tra interiorità ed esteriorità: una pittura che si rifiuta di rappresentare l'oggettività esteriore del mondo e che si serve di puri grafemi "privi di significato", cioè privi di relazione rappresentativa, può essere intesa come una pittura che staccandosi dal mondo esterno raggiunge l'interiorità, la vita affettiva ed emotiva - quindi come una pittura che più di ogni altra fa dell'interiorità il centro e il nucleo della propria espressività. Secondo Mondrian, invece, la pittura non solo non deve essere una imitazione del mondo esterno, ma nemmeno una pittura dell'anima. Il presentarsi di una simile direzione di discorso non può certo sorprenderci: l'antipsicologismo rappresenta una sorta di corollario di una prospettiva razionalizzante che riceve ovunque la massima esasperazione. Un'idea di astrazione che teorizza il passaggio all'universale non può che ipotizzare una sorta di al di là del rapporto soggetto-oggetto, una sorta di iperoggettivismo in cui c'è semplicemente, sto per dire, l'ordine del quadrato, o meglio: l'ordine del rapporto ortogonale, un'ordine che viene contemplato da una soggettività da esso affascinata e che si annulla in questa stessa fascinazione contemplativa. Gli sviluppi che riceve la tematica del colore sono una dimostrazione notevole del punto al quale Mondrian è disposto a spingere questa prospettiva razionalizzante. Infatti non dobbiamo solo mettere in evidenza il fatto che il rinvio al sistema cromatico è da intendere fondamentalmente come un rinvio ad una "matematica del colore", un'espressione che contiene indubbiamente, nell'accentuazione della componente puramente sintattica e relazionale, un accenno al linguaggio del colore come un calcolo; ma essa ha anche il senso di un'effettiva contrazione della molteplicità dei colori ed in ultima analisi di una tensione del colore verso la propria soppressione. Potremmo forse anche dire che questa matematica del colore annuncia paradossalmente la stessa soppressione del cromatismo. A questo proposito è interessante richiamare l'attenzione 38 sul modo in cui Mondrian riprende il tema, anch'esso molto antico, dell'armonia dei colori in rapporto al cerchio cromatico, capovolgendone interamente il senso. Ancora Goethe affermava che la configurazione armonica per eccellenza di coppie di colori era rappresentata dai colori complementari - ma il fondamento di questa affermazione stava nel fatto che in questa coppia si contraggono i tre colori "fondamentali", il giallo, l'azzurro e il porpora secondo la terminologia di Goethe; e questi a sua volta possono essere considerati rappresentativi dell'intero cerchio cromatico. In questo modo il tema dell'armonia veniva strettamente ricondotto a quello della totalità - la sensazione di armonia essendo interpretata come una sorta di sensazione interna che può sorgere soltanto dove vi sia pieno equilibrio delle parti. Questo equilibrio richiede a sua volta che l'intero sia dato, che non si avverta una mancanza, una lacuna, un qualche bisogno di integrazione. Il fatto che la totalità fosse richiamata nel sistema dei colori fondamentali aveva poi per Goethe un senso molto vivace e concreto. Come se si dicesse: se questi tre colori sono dati allora l'intero universo cromatico zampilla da questa struttura originaria in tutta la sua incommensurabile ricchezza e vivacità. Per Goethe il colore simbolizza la molteplicità, la varietà, la dinamicità, la ricchezza della vita. Ed il sistema dei colori come pura struttura grammaticale è l'astrazione che si concretizza riversandosi nella molteplicità fenomenologica dei colori della natura, nella quale del resto è essa stessa fondata. Ora anche in Mondrian ritorna il tema dell'armonia dei colori e solo in apparenza nel senso goethiano, secondo il quale certamente armonia significa anzitutto un rapporto di contrasto che giunge all'equilibrio. Le numerose affermazioni di Mondrian che riecheggiano esplicitamente il tema romantico, così presente in Goethe, di una totalità che sempre si ricostituisce attraverso il gioco dialettico delle opposizioni, non debbono trarci in inganno. Mondrian infatti, nel trattare del tema dell'armonia cromatica, si rammenta, più che di Goethe, 39 proprio della teoria fisica newtoniana che Goethe aveva avversato. L'equilibrio raggiunto nella percezione della totalità viene interpretato infatti come una neutralizzazione reciproca - l'un colore neutralizza l'altro, e i tre colori insieme propongono non già la totalità del mondo cromatico, ma la loro contrazione estrema nella luce, ovvero nel bianco. Ecco una citazione significativa: "I tre colori fondamentali si neutralizzano a vicenda fino all'unità; in tal modo esprimono la luce in maniera diversa di quanto abbia fatto la pittura tradizionale" [p. 41 nota 6]. Come fa la pittura tradizionale a esprimere la luce? Si pensi ad un quadro di Caravaggio, di Savoldo o di Gherardo delle notti, alla pittura impressionista. Si tratta di dipinti in cui il mezzo pittorico è applicato in modo da mostrare, nella rappresentazione, come un fascio di luce spiove da una finestra o una candela illumini un volto, come dal buio emerga una figura illuminata; oppure come appare la luce in un pomeriggio estivo in un bosco o sulle rive di un fiume. Vi sono molti modi d'essere della luce, molti modi di apparire delle cose secondo la luce. Per Mondrian invece tutto ciò appartiene appunto alla sfera delle apparenze: per lui la luce c'è veramente con la semplice esibizione dei colori primari. E il motivo è dato dal semplice fatto che questi colori sono sufficienti a ricostruire il cerchio cromatico e la luce può essere concepita fisicamente come fusione di tutti i colori che appartengono ad esso. La loro "somma" dà il bianco. I colori si elidono così a vicenda. "Il colore primario può essere inteso come ridotto all'assenza del colore (il bianco)" [p. 43, nota 1]. Frase da intendere così: il colore primario, considerato nei suoi rapporti con gli altri colori primari, può essero inteso come ridotto al bianco. In luogo di vedere nei pochi colori del cerchio cromatico la molteplicità del mondo cromatico concreto, come accadeva nel "fenomenologo" Goethe, dobbiamo cogliere in 40 essi un equilibrio che annuncia l'annientamento dei colori nel vertice cromatico dell'astrazione, il bianco, la pura assenza di colore. Per Goethe il bianco era invece, e proprio nella sua "astrattezza", negazione del mondo e negazione della vita. "Ogni essere vivente tende al colore, al particolare, alla specificazione, all'effetto, alla non trasparenza, fino agli ultimi dettagli. Ogni ente privo di vita si muove verso il bianco, verso l'astrazione, verso la generalità, verso la trasfigurazione, verso la trasparenza" [Goethe, 1979, pp. 144-145]. Johannes Itten riprende questo motivo quando scrive: "Colore è vita, poiché un mondo senza colori sarebbe un mondo senza vita" [Itten, 1965, p. 12]. "Quando l'uomo muore diventa pallido. Non appena si spegne la sua luce vitale vengono meno i colori del viso e del corpo. La materia morta e inanimata del corpo non irradia più colori" [p. 31]. Annotazione Per ciò che riguarda la difficoltà di reperire in natura i colori nel loro ordine sistematico Goethe arriva a sostenere che nemmeno l' arcobaleno o i colori visti attraverso il prisma sono in grado di fornirci una visione globale del sistema dei colori: "in realtà, la natura non ci presenta alcun fenomeno generale in cui la totalità dei colori sia interamente disposta insieme". Pertanto "come l' intero fenomeno si componga nel cerchio dei colori è reso comprensibile nel modo migliore servendoci di pigmenti su carta" [Goethe, 1979, p. 194]. §5 In Mondrian vi sono dunque alcune idee dominanti, anzi un'unica idea dominante che si ripete e rinnova in varie forme: ovunque cerchiamo ordine, rigore, chiarezza, perfezione, calcolo. E questa idea può diventare il fulcro di un progetto espressivo proprio in quanto viene assunta con la massima 41 esasperazione: in certo senso i dipinti di Mondrian diventano possibili proprio in quanto siamo disposti a lasciarci affascinare da quel fascino che sta anche alla loro origine: il fascino dell'ortogonalità, il fascino del bianco. Come abbiamo visto, a questi temi non può che accompagnarsi una tensione essenzialistica: ciò che importa non sono le apparenze fenomenologiche del mondo, il mondo effettivamente esperito - ma è ciò che nelle cose possiamo trovare di eguale, di costante, di irrimediabilmente, ma anche mirabilmente fermo. È qui in azione la meraviglia di fronte all'immobilità, a ciò che è assolutamente fermo e stabile. Ad un primo sguardo la produzione pittorica di Mondrian ci appare come una sorta di razionalismo matematizzante riportato sul piano pittorico. Ed è senz'altro giusto e interessante considerarla sotto questo profilo. A loro modo i quadri di Mondrian sono dei calcoli pittoricamente esibiti. Anche per questo motivo l'astrazione pittorica può ricollegarsi all'idea della fruizione artistica come rasserenamento. La percezione dell'opera è una contemplazione che rasserena. Questa idea antica viene ripresa da Mondrian esplicitamente nella forma che riceve in Schopenhauer: nella fruizione artistica prendiamo finalmente le distanze dal principio della volontà, dalle agitazioni del desiderio, dalle cure dell'esistenza in genere per rimirare le cose nell'universalità della loro essenza. In questa concezione si ripresenta nuovamente lo spirito del platonismo: non la cosa nella sua individualità, ma il significato universale della cosa, l'idea che in essa si manifesta è ciò che, secondo Schopenhauer, l'arte ci pone di fronte agli occhi. Nell'afferramento di questa universalità ogni interesse legato all'individualità dell'io tende almeno provvisoriamente a venir meno. Solo che il mondo artistico di Mondrian non ha la pluralità di forme archetipiche che caratterizza in ogni caso il mondo platonico delle idee e l'universalità di cui egli parla non è affatto quella di cui parla lo stesso Schopenhauer. L'idealità sta, secondo Schopenhauer, nel significato 42 del dipinto quando esso sa raccontare, nel dettaglio che esso propone, saremmo quasi tentati di dire, una storia eterna o un affetto generalmente umano, ed a ciò si addicono spesso semplici rappresentazioni della vita di ogni giorno, ancor più che delle vicende dei grandi eroi della Storia. Ora, anche mettendo da parte l'assenza di riferimenti raffigurativi, il punto della questione sta nel fatto che sarebbe del tutto improprio affermare che in Mondrian l'universalità sia colta attraverso il dipinto, come se questo fornisse una sorta di mediazione per un significato che lo oltrepassa secondo un simbolismo più o meno ovvio. La pretesa in certo senso inaudita che viene qui avanzata è invece che questa universalità sia direttamente esibita dal dipinto stesso, per quanto ovviamente nelle valenze simboliche del rapporto ortogonale e della semplificazione estrema delle coordinate cromatiche. In certo modo non vi è una figura particolare del mondo che funge da sostegno per un rinvio all'universale, ma il rapporto ortogonale è già esso stesso figura dell'universale. Appartiene già all'al di là a cui allude. Di conseguenza il disinteresse estatico e rasserenante dovrebbe essere assicurato obbiettivamente, non essendoci proprio nulla, nel dipinto, che possa fuorviare la nostra attenzione verso particolarità capaci di ridestare impulsi e tensioni individuali e soggettive. Ma finalmente è il caso di notare: un'idea dominante - e dominante in questa forma estrema - ha alle sue spalle un rifiuto altrettanto estremo: quella linea obliqua non voglio vederla! E così la tortuosità di una curva. Come se nella visione dell'obliquità avvertissimo dentro il nostro corpo l'angoscia di una caduta o di fronte alla tortuosità di una curva ci sentissimo da essa avvolti come dalle spire di un serpente. Possiamo tanto intensamente essere sotto il fascino dell'ortogonalità solo se siamo stati e continuiamo ad essere nell'ossessione della diseguaglianza e della differenza, se siamo turbati dalla molteplicità del dettaglio - se, ad esempio, guardandoci intorno nella stanza nella quale abbiamo sempre abitato scopriamo improv- 43 visamente intollerabili ridondanze: i mobili che abbiamo sempre visto in essa ci sembrano ora troppi e troppo arzigogolati, e così ci accingiamo a levarli ad uno ad uno; e poi anche le mensole, i quadri in parete, e la tappezzeria, con tutta quella inquietante molteplicità di piccoli disegni: a poco a poco, con sollievo crescente, togliamo tutto. In mezzo alla stanza finalmente spoglia ci abbandoniamo alla visione che ci acqueta dell'ordine necessario della parete bianca che si incontra con la massima precisione con la linea del pavimento. In questo modo potrebbe forse cominciare la storia di una follia. Con simili considerazioni si vuole forse assumere inattesamente un punto di vista psicologizzante? Si tratta invece di mostrare che dal contesto creativo entro cui prende forma il progetto artistico di Mondrian dobbiamo essere in grado di risalire ad un contesto più ampio in modo da mettere in evidenza la dimensione storica di quel progetto e dunque i suoi legami profondi con i problemi cruciali dell'epoca. Quando Mondrian scrisse il suo saggio intitolato Il neoplasticismo e la pittura, a cui abbiamo fatto più volte riferimento diretto e indiretto, era l'anno 1917. In questo saggio vi è un'elaborazione teoricamente matura, la produzione complessiva subisce a partire di qui una svolta che culmina con la decisione artistica dell'astrattismo estremo. Era l'anno 1917 - e non era un anno qualunque che ricordiamo soltanto per il saggio di Mondrian sul neoplasticismo! Era l'anno della rivoluzione russa. Erano anni in cui si accumulavano, negli sviluppi della Grande Guerra, montagne di morti. Erano gli anni di quella crisi di cui parla Husserl, di una crisi immensa di una cultura e di un'intera tradizione storica. 44 Ludwig Wittgenstein In quegli anni Mondrian ci parla della linea orizzontale e della 45 linea verticale, dell'equilibrio del rapporto ortogonale, dell'unità di tutte le cose, dell'essenza immutabile del mondo, della funzione rasserenante dell'arte: della Grande Quiete [Mondrian, 1919, p. 89 e p. 94]. Negli stessi anni, nel pieno della guerra, nel 1918, poco prima della prigionia a Montecassino, Wittgenstein portava a termine il suo Tractatus logico-philosophicus, che veniva pubblicato qualche anno più tardi, nel 1922. Singolare coincidenza delle date! Ed essa assume un'inattesa pregnanza se prestiamo attenzione, superando le angustie di certa critica d'arte che sembra darsi come massimo scopo il rinchiudere il proprio oggetto intorno a se stesso e che si azzarda a stabilire nessi solo là dove essi possono essere fattualmente documentati, alle affinità dell'atteggiamento spirituale. Anche il Tractatus è stato scritto - e non può essere compreso se di ciò non si tiene conto - sotto il fascino dell'ortogonalità, anche nel Tractatus la realtà viene interamente negata nelle sue apparenze fenomenologiche e riproposta secondo l'idea di un ordine immutabile, l'ordine della logica che ne descrive l'essenza. Il linguaggio diventa specchio del mondo. Ma non si tratta del linguaggio di ogni giorno, che parla delle cose e delle loro proprietà: in quel "grande specchio", come si esprime Wittgenstein, noi cogliamo soprattutto delle forme relazionali. Alla parola scritta e al nesso tra le parole di cui sono fatti i nostri discorsi subentrano il segno e il nesso tra segni, i quali a loro volta sono soprattutto grafemi, dunque segni visibili che descrivono il mondo senza significarlo. Attraverso di essi l'essenza del mondo si presenta nella possibilità stessa del calcolo. Logica, calcolo e linguaggio si concentrano infine nell'idea della tautologia. Prima dicevamo che i dipinti di Mondrian sono calcoli pittoricamente esibiti. Ora potremmo forse parlare della loro vuotezza tautologica: i quadri di Mondrian sono, a loro modo, "tautologie", essi dicono tutti la stessa cosa, e cioè nulla. In essi si rispecchia, come nel linguaggio-calcolo di Wittgenstein, il mondo stesso nella sua immutabile struttura logica. Nello stesso tempo siamo qui ai limiti del- 46 l'espressione pittorica così come in Wittgenstein "tautologia e contraddizione sono i casi-limite del nesso segnico, ossia la sua dissoluzione" [Wittgenstein, 1964, prop. 4.466(d)]. In Wittgenstein come in Mondrian l'ortogonalità ci affascina in un mondo di rovine. Sullo sfondo di un ordine tanto esasperato vi è il precipitare del reale nella piena caoticità, di fronte all'istanza di una chiarezza piena e completa, fondata su un elementarismo condotto agli estremi, vi è la complessità incomprensibile degli eventi. La gravità e l'insopportabilità del turbamento che si agita nella soggettività individuale genera il sogno di una dimensione di imperturbabilità nella quale la soggettività stessa viene trascesa. Al solipsismo senza soggetto di cui parla Wittgenstein, che riduce la soggettività ad un grande occhio che non può vedere se stesso e si contrae a "punto inesteso" [prop. 5.634] lasciando apparire il mondo stesso nel suo puro ordine oggettivo, corrisponde in Mondrian l'esibizione pittorica dell'universalità dello spazio ripartito di fronte alla quale la soggettività nella sua particolarità non può nemmeno avere una presa. Considerata sotto questa luce tutta la tematica proposta tende ad assumere un senso più inquietante e profondo. Uno dei motivi per i quali la curva deve essere rifiutata - dice una volta Mondrian - è la sua "capricciosità". Questo aggettivo deve essere rammentato perché esso stabilisce una connessione immediata con un altro grande tema sul quale finora abbiamo taciuto, ma che rappresenta il riferimento fondamentale che sta alle spalle della discussione che abbiamo svolto fin qui. La capricciosità è una caratteristica che spetta eminentemente alla natura, essa è in certo modo curvilinea, e dunque anche complessa, intricata, e segue tracciati tortuosi, difficili da seguire, che coprono con la loro complessità l'essenza semplice delle cose. 47 "L'universale che è presente nell'artista gli consente di riconoscere nell'individuale che è fuori di lui un ordine che si manifesta libero da ogni individalità. Quest'ordine è velato. L'aspetto naturale delle cose è per lo più cresciuto capricciosamente: sebbene la realtà palesi un certo ordine nella sua divisione e molteplicità, questo ordine generalmente non emerge con chiarezza ma viene respinto indietro dall'insieme delle forme c dei colori" [Mondrian, 1917, p. 35]. L'area di senso del "capriccio", legata com'è ai piccoli cambiamenti di umore dei bambini, o anche ai nostri piccoli desideri tanto forti quanto immotivati, evoca alcunché di tenero, e forse per questo il suono stesso della parola può sembrarci dolce e capriccioso. Eppure non avremmo potuto sviluppare i motivi precedenti, in tutto quello che hanno di eccessivo e che conducono all'eccesso della pittura più elementare che si sia mai osato proporre come prodotto dell'arte, se avessimo seguito questa tenerezza verso cui la parola inclina. I capricci della natura sono tutt'altra cosa - sono alluvioni, mareggiate, eruzioni vulcaniche. Ma vi è anche la natura dentro di noi come pura istintualità, emotività fragilissima che può tuttavia deflagrare con la forza di una eruzione vulcanica. "Soggettivamente è il dominio della natura dentro di noi, oggettivamente il dominio della natura fuori di noi a causare il tragico" [Mondrian, 1919h, p. 102]. Natura è infine certamente anche lo scatenamento dell'irrazionalità nella stessa storia degli uomini, la sempre possibile comparsa, nel suo sviluppo, di una caoticità primitiva e indominabile. Natura, e storia dominata dalla natura, è dunque conflittualità tragica: il tema del capriccio non fa altro che introdurre quello del tragico. Il radicale rifiuto della complessità è anzitutto un rifiuto 48 dell'elemento naturale, dentro di noi e fuori di noi ed al tempo stesso un tentativo di superamento della tragicità. La tragicità è presente intanto ovunque sia presente un sentimento grezzo, legato alla particolarità delle nostre vicende individuali: qui si mostra il motivo più profondo dell'antipsicologismo di Mondrian. In quanto la pittura del passato voleva essere espressione dei sentimenti, essa "era una pittura dell'anima, e quindi del tragico" [Mondrian, 1921, p. 168]. Ma il tragico è presente anzitutto ovunque sia presente l'elemento naturale: "In natura il tragico si manifesta plasticamente per mezzo della corporeità, la quale si esprime a sua volta plasticamente attraverso la forma e il colore naturali, attraverso la corporeità, il plasticismo naturale, la curva, la capricciosità e le irregolarità della superficie"[p. 168]. Vengono così richiamate tutte le categorie fondamentali su cui è strutturata la tematica precedente, in particolare l'opposizione tra individuale ed universale ed il possibile squilibrio interno tra l'uno e l'altro come squilibrio che genera il tragico. "Lo squilibrio tra l'individuale e l'universale crea il tragico e si esprime in una plastica tragica. In ciò che è, tanto nella forma quanto nella corporeità, domina il naturale: da questa situazione scaturisce il tragico" [Mondrian, 1920,p. 145]. 49 Annotazioni 1. Nel saggio "Le antinomie romantiche e l' arte contemporanea (in una correlazione di Surrealismo e Astrattismo)" Dino Formaggio, 1991, collega la tendenza al bianco al tema della "morte dell' arte": "E quanto più puro e più vicino a certe sue finalità scientifiche si manterrà il movimento astrattista, tanto più rigide, ferme, in un' immobilità che è presentimento di morte si fisseranno le strutture di ogni sua concreta esperienza. La tela bianca è il suo limite ideale. Anche questo movimento, dunque, mentre tenta di cogliere proprio quest' ultimo fine di un' assoluta oggettività (verso la quale il moto ondoso del Romanticismo l' aveva sospinta), cammina verso estreme spiagge: un passo ancora, ed è l' immobile terra delle cose spente, il silenzio dell' espressione, la morte dell' arte" [p. 122]. 2. Sul tema della contemplazione disinteressata Mondrian si richiama direttamente a Schopenhauer: "È ovvio che non potremo vedere la manifestazione chiara dell' universale finché dominerà in noi il soggettivo e anche che l' universale non si rivelerà finché l' individuale - fuori di noi - continuerà a dominare; l' universale si manifesterà solo quando sarà abolito l' individuale - fuori di noi; esso risulterà visibile solo quando la nostra universalità interiore si sarà affrancata dalla limitazione soggettiva (la contemplazione disinteressata di Schopenhauer)" [Mondrian, 1917, p. 73]. "La contemplazione disinteressata, come la descrive Schopenhauer, innalza già l' uomo al di sopra della sua natura. Secondo questa natura tutto quello che egli fa, lo fa per migliorarsi, per mantenere la sua individualità. Anche le sue aspirazioni spirituali non sono rivolte verso l' universale... perché non lo conosce. Ma nel momento estetico della contemplazione l' individuale come individuale sparisce" [Mondrian, 1919, p. 95]. 50 3. Un accenno ad un possibile rapporto tra Wittgenstein e Mondrian è contenuto nel saggio di Ragghianti, La mente di Mondrian, annesso a Ragghianti, 1963. Si tratta di un accenno notevole, tenendo conto dell' anno in cui fu scritto (1956) - anche se questo rapporto risulta troppo debolmente motivato, rendendo unilateralmente significativa la tematica del "misticismo" in Wittgenstein che viene ricollegata agli interessi teosofici di Mondrian. 51 §6 Vogliamo ora fare un balzo indietro risalendo ai primi inizi: il tema ovunque dominante è qui proprio quello della natura. E d'obbligo rammentare a questo proposito i legami con la tradizione del paesaggismo olandese e con la scuola dell'Aia. Tuttavia il superamento di questi inizi non avviene certo con l'astrattismo, e nemmeno con le più varie sperimentazioni in collegamento con le avanguardie europee e in particolare con il cubismo. Questo superamento è già presente nell'accendersi del paesaggio secondo un itinerario che può essere descritto come una drammatizzazione crescente dell'elemento naturale. Un rosso sanguigno e sanguinolento comincia a diffondersi ovunque, nella nuvola in cielo, nelle acque dei fiumi, fra gli alberi del bosco, sulle mura dei mulini a vento. Questo processo di drammatizzazione culmina nei disegni e negli oli che rappresentano alberi. Si è parlato molto degli alberi di Mondrian e per lo più per illustrare il processo di semplificazione che condurrebbe all'astrattismo: la sequenza presentata nella pagina seguente (cat. 248.1, cat. 248, cat. 249, cat. 255 realizzati tra il 1911 e il 1912) è stata proposta più volte come capace di fornire una esemplificazione particolarmente seducente della procedura di astrazione pittorica. Noi la proponiamo per l'ennesima volta per sottolineare al contrario che vi è qualcosa di fortemente equivoco nell'attirare l'attenzione esclusivamente in questa direzione. Ciò che rende questi alberi realmente esemplari non è affatto la descrizione di un itinerario di semplificazione interna e di graduale perdita del riferimento raffigurativo. Abbiamo già notato che non è questa la via attraverso la quale Mondrian perviene all'"astrattismo rigoroso". Non si tratta di un percorso che prende le mosse dalla cosa e ne mantiene lo scheletro secondo una semplificazione che rende la cosa raffigurata irriconoscibile. L'idea centrale è invece la soppressione della forma attraverso la sua rettificazione. 52 53 La sequenza proposta va considerata dunque come una delle tante sperimentazioni che caratterizzano questa fase della produzione di Mondrian e non particolarmente rappresentativa della sua via verso l'astrazione. Vi è invece un aspetto che collega gli alberi "naturalistici" all'astrattismo futuro e che costituisce la loro autentica esemplarità. Si tratta della loro capacità di fornire una viva rappresentazione del nesso tra tragicità e naturalità. Questo nesso ci viene qui posto direttamente sotto gli occhi. Agli alberi, di cui non si intravvede nemmeno la chioma, ridotti alla verticalità dei loro tronchi come compaiono talora nel periodo paesaggistico, subentrano tra il 1907 e il 1912 alberi enormi, carichi di violenza espressiva, dalla ramificazione fitta, contorta, tentacolare. Ecco un esempio in un disegno datato intorno al 1908 [Mondrian, 1975, p. 147]: In rapporto ad esso, avendo di mira i futuri sviluppi "astrattistici" e forse anche dimenticando che la curva non fa proprio parte dell'astrazione così come la concepisce Mondrian, potremmo forse far notare una tendenza all'organizzazione 54 geometrizzante della figura mettendo in evidenza che la "diramazione e il movimento ritmico sono fondati su curve regolari o paraboliche" [Ragghianti, 1963, p. 125]. Ma potremmo forse anche esclamare, da profani, come il personaggio che recita appunto la parte del profano nel Trialogo del 1919: "Che aspetto capriccioso!" [Mondrian,1919, p. 91]. a cui fanno eco il pittore naturalista e il pittore astrattista: "Che maestosità!" - "Infatti... capriccioso e maestoso insieme. In questi contorni grandiosi si mostra chiaramente il lato casuale della natura" [p. 91]. Lo stesso principio curvilineo dell'organizzazione ci potrebbe allora sembrare significativo non solo e non tanto come una sorta di conferma di una tendenza all'astrazione presente già nel paesaggismo di Mondrian, ma per tutt'altri motivi. E per scorgerli suggerirei allo spettatore di distogliere lo sguardo dall'insieme e di guardare il disegno sempre più da vicino, entrando nei particolari, nei dettagli quasi addentrandosi nella tormentosa complessità della ramificazione. In questo processo di approssimazione progressiva ovvero di graduale ingrandimento del dettaglio essa ci apparirà sempre più labirintica, impenetrabile, inesauribile. 55 Nulla è più sorprendente e più significativo che accostare questi oscuri grovigli, che certamente fanno della natura esterna un'immagine delle inquietudini della vita interiore, allo spazio 56 ordinatamente suddiviso della produzione futura. ll legame che sussiste tra il Mondrian dell'astrattismo più rigoroso e il periodo che lo precede non sta soltanto in una ricerca che avanza in direzione dell'astrattismo sperimentando molte vie: esso va ricercato soprattutto nella presenza di quei motivi che l'astrattismo stesso sarà chiamato a esorcizzare. L'albero tragico si trova nella più dura contrapposizione con l'ordine del rapporto ortogonale e nello stesso tempo vive forse ancora all'interno di esso come la negazione fondamentale implicata nella sua posizione. L'astrattismo di Mondrian è un espressionismo rifiutato - una circostanza che non va affatto intesa in un senso ovvio: vi è un'esasperazione del rifiuto che connette dall'interno la decisione per l'astrazione e le ossessioni espressioniste. Con ciò tocchiamo un problema che non è solo di Mondrian ma di tutta la produzione artistica del periodo. Naturalmente non è affatto il caso di estendere la discussione, e tuttavia vorrei almeno richiamare, a proposito di questo argomento, una singolarità della produzione pittorica di un musicista come Arnold Schönberg. Ciò che colpisce anzitutto in questa produzione, al di là di una più meditata riflessione sui valori pittorici, è indubbiamente il grande numero di autoritratti. Il soggetto privilegiato di Schönberg è Schönberg stesso. Schönberg ha prodotto un numero sterminato di autoritratti. E non è affatto sbagliato chiedere: perché mai tutti questi autoritratti? (Così come non lo è, nel caso di Mondrian, la domanda: perché mai tutte queste linee diritte?) Sarebbe facile dare una risposta psicologizzante piuttosto ovvia: il fatto di rendere se stesso tema dominante della propria produzione pittorica è certamente segno di una personalità egocentrica, di un'inclinazione al compiacimento narcisistico. Ma questa risposta ci fa perdere di vista un altro aspetto, che in realtà è quello importante. Persino in rapporto agli autoritratti è talvolta utile interrogarsi intorno ai pensieri dei dipinti. In questo caso si 57 tratta di pensieri che riguardano la nozione stessa di espressione, ed infine il concetto di espressionismo, considerato proprio nella forma che risulta per opposizione nella delimitazione concettuale dell'astrattismo secondo la concezione proposta da Mondrian. L'elemento "espressivo", nell'accezione che diamo ora a questo termine, è legato all'individualità, alla particolarità, all'"anima": ma certamente ad un'anima che appare fisicamente nel corpo stesso, nelle linee del volto, nel modo dello sguardo. Il legame con l'individualità è dunque in primo luogo un legame con la soggettività. L'estremizzazione di una simile tendenza particolarizzante non può che essere la riconduzione della soggettività all'io stesso che io stesso sono, all'"io e nessun altro", all'io come questa persona determinata e particolare nelle inesauribili forme dei suoi particolari mutamenti. La molteplicità di autoritratti di Schönberg non è dunque mera manifestazione di egotismo psicologico, ma implica piuttosto il pensiero fondamentale dell'espressionismo. Essi sono, in quanto autoritratti e in quanto autoritratti continuamente iterati, una manifestazione particolarmente tesa, particolarmente esasperata del tragico stesso. Ciò che sta agli antipodi delle ortogonalità infinitamente iterate di Mondrian sono gli autoritratti infinitamente iterati di Schönberg. E di essi è giusto parlare proprio quando si parla degli alberi di Mondrian. Ma gli autoritratti di Schönberg pittore si trovano anche nello stesso tempo agli antipodi di quello che potremmo chiamare l'astrattismo dodecafonico che fa seguito all'atonalismo: anche di questo astrattismo forse si può dire che in esso vi sono calcoli musicalmente esibiti, ed 58 in ogni caso esso appare dominato da una concezione dell'ordine e dell'unità strutturale interna del brano musicale che mai si è presentata in forme così estreme in tutta la storia della musica occidentale. La soggettività è qui del tutto neutralizzata di fronte alle meraviglie degli ordini seriali che traggono da se stessi la legittimità del loro esserci. Guardando al versante filosofico, è il caso di ritornare ancora per un istante al Tractatus di Wittgenstein: abbiamo già notato che in esso vi è una negazione dell'aspetto fenomenologico del mondo tanto intensa quanto lo è in Mondrian la riduzione di ogni rapporto al rapporto di ortogonalità. Questa negazione è già tutta compresa nella definizione del mondo proposta all'inizio dell'opera: il mondo è tutto ciò che accade. Sulla sua base il "mondo" viene proposto come una immensa matrice matematica. Le differenze qualitative non sono importanti, le sostanze debbono essere ridotte a relazioni e queste ultime sono nella loro essenza relazioni logiche. Ma alla fine dell'opera ritroviamo una definizione interamente diversa: il mondo è la vita, e non vi è dubbio che ci muoviamo ora verso regioni oscure, razionalmente non dominabili, dove la parola muore. Di fatto quella "definizione" può essere considerata come una frase di apertura della tematica del misticismo. Con la tendenza astrattistica concresce la tendenza opposta, come se il centro stesso del "quadrato", il punto di intersezione delle sue forme perfette, venisse alla fine lacerato da quel silenzio mistico che ha in realtà in Wittgenstein la stessa valenza di senso dell'urlo espressionistico. Quanto a Mondrian una simile tensione sembra tuttavia risolta: l'astrattismo nel modo in cui ne abbiamo parlato fino a questo punto ci può forse apparire come una posizione solidamente acquisita su cui ci si è attestati una volta per tutte. Che la questione sia invece assai più movimentata e ricca di implicazioni ce lo mostra il rapporto di Mondrian con la musica del quale è ormai tempo di parlare. 59 Annotazioni I. G. C. Argan parla di un "legame segreto" tra Mondrian e Van Gogh: "Nello sviluppo di Mondrian, lo studio diretto e impegnato della pittura di Van Gogh è tardo: il quadro più palesemente vangoghiano è L' albero rosso del 1910 e precede immediatamente l' esperienza cubista. La razionalità di Mondrian è dunque una difesa contro la disperazione di Van Gogh" [Argan, 1956, pp. 137-1381 - Questo dipinto è datato 1908, cfr. Ottolenghi, 1975 ]. Albero rosso 2. A proposito delle stilizzazioni e delle geometrizzazioni di van der Leck e di Doesburg, Ragghianti, 1963, osserva che "il lettore che ha seguito sin qui non ha bisogno che gli siano indicate le profonde differenze tra questa stilizzazione e le ricerche di Mondrian ed i loro fondamenti" [p. 291]. Si tratta del resto di una distinzione sottolineata chiaramente dallo stesso Mondrian che contrappone la " stilizzazione" dell' elemento naturale con l' " astrazione" da questo aspetto: "Mentre, poco prima della guerra, a Parigi era al suo apogeo il cubismo, in Olanda alcuni artisti si orientavano verso una pittura più appropriata alle superfici piane del quadro o della parete: una pittura piana nel piano. Questa pittura restò nondimeno ancora naturalistica. Essa "stilizzava" l' aspetto naturale ma questa 60 stilizzazione non conteneva l' astrazione di questo aspetto" [Mondrian, 1926b, p. 225]. Ed ancora: "L' elemento fondamentale della forma non viene conseguito attraverso la semplice stilizzazione. Una chiara espressione plastica sorge dal processo di astrazione, attraverso la scomposizione, ossia attraverso l' annullamento della forma chiusa: la dualità delle linee rette in un rapporto ortogonale fra loro"[Mondrian, 1929, p. 247]. 3. Della produzione pittorica di Schö nberg si è potuto avere un' idea compiuta in una notevole mostra organizzata da Ritter Verlag e proposta anche a Milano nel 1992. Si veda il catalogo della mostra Zaunschirm, 1992. Gli autoritratti di Schö nberg proposti nel testo corrispondono ai n. 44, 166, 188. 4. Per una dettagliata documentazione delle relazioni tra Mondrian e la musica si veda il saggio di von Maur, 1981. 61 §7 Nell'aprire il problema del rapporto con la musica non prenderemo senz'altro in considerazione le formulazioni di Mondrian intorno ad esso. E forse più opportuno prendere una via un poco più contorta. Vorremmo infatti anzitutto, quasi a modo di una breve introduzione, porre domande sulle prese di posizione che ci potremmo aspettare nel momento in cui il quadro teorico precedente viene prospettato sul terreno musicale. Naturalmente il presupposto da cui prendiamo le mosse è quello da cui prende le mosse Mondrian stesso - e precisamente l'idea dell'unità profonda della produzione artistica: un principio della creatività riconosciuto in un campo non può non manifestarsi, sia pure in forme affatto peculiari, anche in ogni altro campo. "Lo spirito nuovo deve manifestarsi in tutte le arti senza eccezione. Il fatto che ci siano differenze nelle arti fra loro non è una ragione perché l'una valga meno dell'altra; tale fatto può condurre ad una manifestazione diversa, ma non ad una manifestazione opposta. Dal momento che un'arte è l'espressione plastica dell'astratto, le altre non possono più essere nello stesso tempo l'espressione plastica del naturale" [Mondrian, 1920, p. 152]. La nozione di astrazione così come è stata precedentemente teorizzata deve dunque avere delle conseguenze anche sul terreno della musica. Ma quali conseguenze? Questa domanda assume allora la forma: quali conseguenze ci sembrerebbe giusto fossero coerentemente tratte dall'impostazione di carattere generale che abbiamo fin qui delineato? Che cosa potremmo aspettarci dalle nostre formulazioni sull'astrattismo pittorico quando esse venissero proiettate sul piano musicale? Non sembra dubbio, ad esempio, che dovremmo attenderci che quella linearità che si impone con tanta forza nella pratica artistica e nella teorizzazione corrispondente possa tro- 62 vare un qualche analogo sul terreno musicale, e che su questo terreno la tendenza "razionalistica", quindi la tendenza all'esattezza ed alla chiarezza, si imponga anche nella specificità dei mezzi musicali. L'importanza del tema dell'ordine e del rapporto ortogonale ci potrebbe far pensare a costruzioni esemplarmente semplici, a pure intersezioni di "linee sonore" - qualunque cosa ciò possa significare. E naturalmente anche ad un uso estremamente parco della varietà timbrica: la riduzione della molteplicità cromatica e il rifiuto della sfumatura dovrebbero certo svilupparsi in questa direzione. Pensando alla qualità del suono indirettamente suggerita dalle considerazioni pittoriche, non sarebbe probabilmente fuori luogo citare suoni poveri di armonici - che è quanto dire, suoni di struttura particolarmente semplice dal punto di vista fisico che manifestano questa loro semplicità anche sul piano percettivo per la loro scarsa "corposità". Naturalmente un suono "puro" nel senso del suono sinusoidale emesso da un calcolatore non poteva essere a disposizione di Mondrian. Il suono di un diapason, tuttavia, che è un suono nitido ma anche vuoto, trasparente e privo di spessore, avrebbe potuto fornire un suggerimento; e in ogni caso Mondrian avrebbe potuto udire quei suoni "senza corpo" prodotti da strumenti elettrici che venivano già allora progettati e che suscitavano un certo interesse tra i compositori dell'epoca - penso in particolare alle Onde Martenot, la cui invenzione risale al 1928 e che emette suoni continui vagamente stratosferici. E appena il caso di dire che vi sono diversi motivi per ritenere che una musica nello spirito di questo astrattismo dovrebbe comprimere nella misura del possibile quei momenti che riportano troppo direttamente all'"anima", all'"emotività"; come la pittura, anche la musica dovrebbe superare l'elemento individuale, elevandosi ad un astratto oggettivismo, in cui il brano, come il dipinto, viva di vita propria cogliendo lo strato profondo ed essenziale del mondo stesso. 63 Come subito vedremo questi temi assumeranno ben presto rilievo all'interno della nostra discussione, ma in una forma particolarmente complessa e controversa che mostra come la problematica musicale inserisca nel quadro concettuale dell'astrattismo in Mondrian, apparentemente pago di se stesso e delle proprie realizzazioni sul piano pittorico, un elemento di movimento e di inquietudine. Di fatto dobbiamo in primo luogo prendere atto del fatto che i modelli e i riferimenti musicali corrispondenti proposti da Mondrian sono essenzialmente due ed essi, almeno di primo acchito, non sembrano affatto confermare queste nostre attese. Per Mondrian infatti assumono un'importanza esemplare gli esperimenti rumoristici del futurismo italiano e il jazz afroamericano, ed in genere la musica da ballo più recente come il tango, il fox-trot, lo shimmy, il boogie-woogie. E il caso di aggiungere informativamente che un rapido accenno a Schönberg mostra che Mondrian non aveva interesse per gli sviluppi dell'espressionismo viennese. Nonostante il suo talento, così si esprime letteralmente, Mondrian, Schönberg "non è riuscito a esprimere nella musica il nuovo spirito" [Mondrian, 1921, p. 170]. Il jazz e il neoplasticismo invece "appaiono come espressioni di una nuova vita. Essi esprimono la gioia e insieme la serietà che sono praticamente assenti dalla nostra esausta cultura della forma" [Mondrian, 1927, p. 239]. "I più non comprendono che lo spirituale si esprime in modo più intenso in una qualche moderna musica da ballo che in tutti i salmi presi insieme" [Mondrian, 1921, p. 166]. Si tratta certamente di una circostanza singolare che non è certo dovuta ad una pura ed irrilevante questione di gusto. Al contrario vi sono motivi e argomenti che rendono conto di una simile direzione proprio tenendo conto dell'impianto generale che prima abbiamo illustrato. Consideriamo anzitutto l'attrazione di Mondrian verso 64 il rumorismo. Questa attrazione è determinata da diversi fattori, ma va anzitutto ricollegata al rifiuto della forma, questo tratto così caratteristico della posizione di Mondrian. L'elemento "formale" nella musica, dove la parola "formale" riguarda proprio la capacità di proporre delle figure, quindi delle linee chiuse, può essere fatto consistere nell'elemento melodico, cosicchè il rifiuto della forma si traduce subito in un rifiuto dell'elemento melodico. La musica ipotizzata nello spirito dell'astrattismo è anzitutto una musica non-melodica. La melodia è caratterizzata talora come pura descrizione e contrapposta all'elemento costruttivo. "Come nella plastica delle altre arti, anche nella musica del passato vediamo la confusione dell'attivo e del passivo, benché qui e là ci sia una costruzione più evidente, un'opposizione più marcata (ad esempio nelle fughe di Bach). Per lo più, però, la plastica costruttiva è velata dalla melodia descrittiva" [Mondrian, 1920, p. 157]. In coerenza con l'impianto generale del discorso la melodia è detta descrittiva non già perché in essa venga raffigurato qualcosa, ma perché attraverso di essa si delinea una forma. Occorre a questo proposito richiamare l'attenzione sul fatto che, nel modo di approccio di Mondrian alla questione della musica, è del tutto assente quell'esemplarità che spesso viene attribuita alla musica rispetto all'astrattismo pittorico per via della sua mancanza di principio di un riferimento raffigurativo alla realtà. Assumendo questo punto di vista la musica, e naturalmente anzitutto la musica della tradizione, è già un'arte "astratta", semplicemente per via dei suoi materiali e dei suoi mezzi compositivi. La pittura "astratta" può allora trovare nella musica una sua prima giustificazione, proponendosi come una pittura eminentemente "musicale" e assumendo dunque come modello un'altra arte che è da sempre non raffigurativa o almeno essenzialmente non raffigurativa. 65 Mondrian è molto lontano da una simile posizione e sarebbe perciò equivoco, inversamente, riportare la sua impostazione del problema entro l'alveo delle concezioni che attribuiscono ad un'arte pittorica astratta una musicalità di principio. Per questo motivo si può dubitare che il termine di Composizione accompagnato da un numero, che ricorre così spesso nei titoli dei dipinti di Mondrian, sia da considerare come un'allusione a questa musicalità ed alla pratica tradizionale dei musicisti di indicare i propri lavori con un numero d'opera. "Ho chiamato sinfonie le sue composizioni perché riesco a vedervi la musica (...), ma non la natura" - osserva il pittore naturalista nel Trialogo del 1919; ma Mondrian non sembra accogliere come particolarmente significativa questa osservazione ribattendo che "si potrebbe vedere la musica altrettanto bene nella pittura naturalistica. Anch'essa ha il suo ritmo, anche se non è così evidente come nella pittura astratto-reale" [Mondrian, 1919b, p. 87]. In Mondrian infatti è la pittura che apre la strada, e non solo rispetto alla musica, ma persino rispetto all'architettura, con la quale è destinata a unificarsi nel modo più stretto. L'architettura arriva infatti, secondo Mondrian, alle soglie della nuova bellezza soprattutto "attraverso l'influenza delle mutate richieste, di tecnica e materiali. La necessità sta già conducendo a un'espressione plastica più pura dell'equilibrio, e quindi ad una bellezza più pura. Ma senza una nuova visione estetica, questa bellezza rimane fortuita, incerta. Oppure va perduta a causa di concetti impuri, a causa del concentrarsi su elementi secondari. - La nuova estetica per l'architettura è quella della nuova pittura" [Mondrian, 1923, p.192]. "La pittura, essendo l'arte più libera, era in grado di presentare questa nuova bellezza. Fu così la pittura a creare una nuova estetica. - L'architettura, pur seguendo le medesime linee, si è preoccupata troppo di esigenze che non avevano nulla a che fare con la "plastica"" [Mondrian, 1926a, p. 212]. 66 A maggior ragione questa funzione di guida dovrà essere riconosciuta da parte della musica che dovrà trarre le dovute conseguenze nel proprio campo dall'esperienza pittorica del "neoplasticismo". Sulla musica pesa persino il sospetto che essa non possa nemmeno realizzare pienamente gli obbiettivi di soppressione della forma rivendicati dall'astrattismo: la nuova realtà che l'uomo vuol creare, intanto sul piano dell'arte, si manifesta nel campo dell'udito come "una poesia e una musica nuova. L'espressione puramente plastica vi resterà nondimeno assai relativa, in quanto la parola e il suono rimangono forme" [Mondrian, 1930a, p. 256]. Ciò determina un'attenzione particolare non per ciò che la musica è sempre stata, ma soprattutto per ciò che essa sta per essere o potrebbe essere. Ciò che deve essere ostacolato ed avviato ad un superamento è quella figuralità della musica che sembra essere immanente a questa modalità dell'espressione artistica. Ed anche in questo nuovo ambito di discorso, dove cambiano gli stessi materiali per le produzioni delle opere, il rifiuto della forma si propone in stretta connessione con il rifiuto della dimensione corporea. Il fatto a tutta prima singolare è che questo problema viene sollevato proprio in rapporto alla qualità sonora dei suoni che costituiscono le melodie, quindi ai suoni degli strumenti della nostra tradizione. Questi suoni sono, dice una volta Mondrian, "ondulazioni arrotondate" [Mondrian, 1920, p. 157]. Questa espressione è assai caratteristica proprio perché risulta da una sorta di mistura di concetti. In essa si rammenta la caratteristica fisica del suono come "onda" riportandola tuttavia sul piano percettivo: così si parla talvolta di "rotondità del suono" [p. 158] per indicare i suoni così come vengono emessi dagli strumenti musicali tradizionali - da una tromba, da un flauto o da un violino. Il suono dà allora un'im- 67 pressione di perfezione, di "rotondità" appunto, figura che, come sappiamo, richiama non solo la linea chiusa, ma soprattutto il corpo che essa circoscrive. La negazione della forma dunque si traduce, o si dovrebbe tradurre sul piano musicale non solo in una negazione della melodia, ma anche in una negazione del suono musicale tradizionale, dunque dal suono dei nostri strumenti. "Anche nella musica si dovranno dunque cercare la riduzione al piano, al puro, al nettamente delimitato (...) nella misura in cui il suono lo permette: la nuova musica dovrà preoccuparsi di procurarsi mezzi per la produzione di suoni che eliminino nei limiti del possibile la forma curva e chiusa e che esprimano l'opposizione per mezzo del rettilineo e dell'aperto. Ciò richiederà la costruzione di nuovi strumenti" [Mondrian, 1922, p. 180]. Di fatto Mondrian non fa altro che estendere anche in rapporto a questo tema il motivo antinaturalistico. Il suono degli strumenti della tradizione può essere considerato naturale per il fatto che gli strumenti, pur essendo degli artefatti, sono stati realizzati, per quanto riguarda il tipo di suono in essi ricercato, assumendo come modello la voce umana che è il suono naturale per eccellenza. La voce umana è anche un suono essenzialmente individuale, dal momento che essa può essere considerata quasi un contrassegno sensibile della differenza individuale. Per questo la voce è il suono caratterizzato dalla massima intensità espressiva. Infine tra vocalità e forma melodica vi è un preciso nesso - come indica il fatto stesso che la parola "canto" ha finito con l'indicare nella terminologia corrente la componente melodica come tale. Ma vi è anche un secondo motivo per esigere materiali sonori nuovi per una musica nuova. Questo motivo assume come ovvio quel fondamento naturalistico che la musica della tradizione ha sempre implicitamente o esplicitamente presup- 68 posto, e cioè l'idea che le regole della musica tradizionale, sia in rapporto alla costruzione melodica che a quella armonica, abbiano un fondamento nella natura fisica del suono, ed è proprio per questo che vi è, secondo Mondrian, un legame interno tra la stessa struttura scalare della tradizione e il concetto di una plastica fondata sull'idea della forma, di una morfoplastica, che si contrappone, nella terminologia di Mondrian, al neoplasticismo. "La scala musicale con i suoi sette suoni era fondata sulla morfoplastica. Come i sette colori del prisma si fondono nel fenomeno naturale, così i sette suoni della musica si fondono come unità apparente. Nel loro ordine naturale, i suoni come i colori esprimono l'armonia naturale" [p. 180]. Vi è dunque un ordine naturale dei suoni, così come vi è un ordine naturale dei colori. Mondrian è disposto addirittura a prendere per buone le vecchie teorie di una corrispondenza tra i colori dello spettro e i sette suoni della nostra scala non esitando nemmeno di fronte alle variazini astrologiche su questo tema. "Noi abbiamo una tendenza ad applicare nell'arte la concezione antica, ossia naturale, dell'armonia. È questa concezione a farci dipendere dalla successione e dalla relazione naturali dei sette colori dello spettro e dei sette suoni corrispondenti" [Mondrian, 1920, p. 160]. "In musica ci si è fondati su una forma che si stabilisce plasticamente e che ha prodotto la scala tonale. Benché questa forma sia purificata, essa ha un carattere del tutto naturale, cosa che è dimostrata dalla possibilità di ritrovarla in altre manifestazioni dello spazio, come ad esempio nell'arcobaleno. Nel suo libro Retour à l'univers des anciens, Hoyak ammette che lo zodiaco degli astrologi è una serie di dodici intervalli uguali, ossia i diapason delle stelle fisse formano una sorta di scala cromatica" [Mondrian, 1930a, p. 258]. 69 Questa insistenza su una giustificazione naturale del sistema musicale della tradizione merita di essere notata per il fatto che siamo qui alla presenza di una traccia di discorso del tutto inconsueta. Infatti mentre la linea prevalente all'interno della tematica musicale per affermare l'idea della sperimentazione di nuove sonorità e di nuovi metodi compositivi è in generale quella della convenzionalità del sistema tonale tradizionale, e quindi di una critica delle concezioni che tentavano una giustificazione naturalistica di quel sistema, nel contesto di discorso di Mondrian accade proprio l'inverso: la naturalità del sistema tonale diventa una sorta di presupposto indiscusso e una giustificazione importante per la necessità di prendere definitivamente le distanze da esso. Proprio l'affermazione di questa naturalità rende particolarmente chiaro e necessario il passaggio ad un'altra musica. Per quanto riguarda poi il problema delle costruzioni compositive, in realtà si ha l'impressione che il filo conduttore rappresentato dalla problematica pittorica sia più d'impaccio che di giovamento per l'articolazione di una tematica realmente ricca di senso. Rischiamo infatti di muoverci di continuo tra analogie forzose dalle quali non si riesce certo facilmente a intravvedere le possibili concretizzazioni in ambito musicale. Intanto è l'idea di armonia naturale che va contrastata per far subentrare ad essa una armonia reinventata dall'arte. "La nuova armonia non può dunque mai esprimersi come la natura; essa è l'armonia dell'arte" [p. 159]. La parola armonia non ha peraltro subito significato musicale. Per intendere ciò che dice Mondrian in proposito, conviene pensare piuttosto alla tematica pittorica e in particolare al cerchio cromatico. Da esso possiamo trarre leggi dell'armonia che saranno leggi naturali ovvero leggi capaci di realizzare un'armonia naturale proprio in quanto il cerchio cromatico è un'astrazione che ha tuttavia un fondamento nella natura. 70 Come già sappiamo nella pittura non ci si attiene esattamente a queste leggi, ma si realizzano nuovi equilibri tendenti a neutralizzare le opposizioni. Ora, qualcosa di simile dovrebbe accadere anche nella musica. Tuttavia affinché questa analogia assuma una qualche concretezza dobbiamo forzarne in qualche modo i termini. Come si distingue tra colori e non-colori si dovrebbe anche distinguere tra suoni e non-suoni. Ma i non-suoni non sono affatto il silenzio, le "pause". Mondrian sembra oscuramente pensare ad una musica senza pause - ad una sorta di pienezza sonora, una concezione che si trova in singolare accordo con il suo modo di concepire la spazialità che è appunto una spazialità continua, senza buchi o lacune, una spazialità che non è affatto il vuoto in cui transitano corpi. "La limitazione del suono sarà trovata nel suono stesso" - cioè nella sua qualità sonora intrinseca ed ogni suono "verrà seguito immediatamente da un altro... che è realmente un "altro" (questo non può essere una "pausa", poiché questa non può essere espressa plasticamente)" [Mondrian, 1922, p. 180]. L'alterità qui sottolineata deve essere intesa in un senso abbastanza forte da alludere ad un'opposizione - al suono deve seguire un non-suono, che sarà a sua volta qualcosa che appartiene al campo dei fenomeni uditivi così come il bianco, il nero e il grigio a quello dei fenomeni visivi: ed a quanto sembra in questo nodo il discorso può cadere qui nuovamente sul rumore come polarità necessaria alla musica nuova ed all'armonia artificialmente ricreata e intesa come equilibrio raggiunto nella neutralizzazione di una opposizione. "Come nella pittura neoplastica il non-colore si oppone al colore, così nella musica neoplastica il suono deve contrapporsi al "non-suono". Il "non-suono" dev'essere un "suono", ma non un "suono musicale". Esso dev'essere formato da 71 suoni (rumori) che, senza essere suoni musicali siano portati alla più profonda purezza (interiorità) e determinazione dal timbro e dal modo in cui esso è prodotto... Il nuovo elemento della musica, il "non-suono", sarà un suono che sostituirà la "pausa" tradizionale e ne diventerà equivalente come elemento interiore" [p. 180]. Il giudizio su Schönberg che abbiamo citato in precedenza era esplicitamente motivato con l'idea - a tutta prima stravagante - secondo la quale sarebbe l'uso della "pausa" che stabilirebbe un legame tra Schönberg e la musica del passato e che avrebbe impedito al musicista di farsi realmente portatore della nuova musica nello spirito del "neoplasticismo". "La vecchia musica esprime la contrapposizione per mezzo della ripetizione o per mezzo di un'interruzione nell'espressione, una "pausa". Nella nuova musica questa "pausa" non ci sarà più. Essa è un vuoto che viene riempito immediatamente dall'individualità dell'ascoltatore" [Mondrian, 1921, p. 170]. Questo giudizio diventa ora un poco più comprensibile dal momento che in esso, oltre ad avanzare il sospetto di un'inclinazione psicologizzante, si dice, in particolare, che in Schönberg manca una valorizzazione dell'elemento rumoristico. Ma ciò non toglie che il contesto di discorso nel suo insieme risulta troppo forzato soprattutto per una tendenza a trasporre schematicamente e rigidamente la problematica pittorica in quella musicale. Così si dovrà parlare di suoni primari e nonsuoni primari e si dovrà probabilmente arrivare ad impiegare al massimo tre suoni primari e tre non-suoni primari, né più né meno che nel caso della pittura [p. 180]. Ma se questi riferimenti ad una musica possibile possono apparire, almeno ad un primo sguardo, il risultato di un puro esercizio analogico, ben altrimenti stanno le cose con i riferimenti alla musica reale che secondo Mondrian annuncia la musica possibile - 72 che contiene i germi del "neoplasticismo" musicale anche se ancora imperfettamente e incompletamente, oppure, come nella danza, in forme che non meritano ancora di essere annoverate tra i prodotti dell'arte. L'opposizione di cui così spesso parla Mondrian come premessa per una ricomposizione in una nuova armonia artistica può addirittura essere esemplificata con "l'opposizione duale tacco-punta" nello shimmy oppure con le figure del tango; così come il complicato ed oscuro discorso sul nonsuono ha modo, non tanto di chiarirsi, ma almeno di assumere vivacità e concretezza quando Mondrian ne sospetta la presenza nella musica del jazzband, nella quale "abbiamo udito talvolta suoni il cui timbro e attacco si oppongono più o meno al suono "armonioso" dimostrando chiaramente la possibilità di costruire un "non-suono"" [p. 181]. Ma tutto ciò manifesta la presenza di più di un nodo problematico che ha certamente bisogno di essere dipanato in tutte le sue implicazioni. Annotazioni 1. Come abbiamo notato, è possibile vedere in Mondrian e in Schö nberg la presenza di un terreno problematico comune che consiste proprio nella tensione tra l' elemento espressivo e il formalismo costruttivo. Il giudizio negativo che Mondrian formula su Schö nberg mostra tuttavia che, per quanto riguarda il problema di un nuovo progetto musicale, Mondrian guarda in tutt' altra direzione: e di fatto un elogio del jazz e del rumorismo non ha proprio nulla da spartire con la direzione schoenberghiana. Perciò non si può consentire all' idea suggerita da Ragghianti secondo cui la posizione di Schö nberg sarebbe "prefigurata" da Mondrian, e vi sarebbe nel rapporto Mondrian-Schö nberg addirittura un "anticipo del pensiero 73 del primo sul secondo" [Ragghianti,1963, p 281]. Il punto cruciale che deve essere colto - e che è invece assente dalle pagine dedicate da Ragghianti a Mondrian e la musica [pp. 2782831] - è l' effetto d' urto che hanno l' opzione rumoristica e l' elogio del jazz in rapporto al problema di una generalizzazione dell' astrattismo in campo musicale. 2. Per illustrare l' idea di opposizione neutralizzante nella musica Mondrian cita Jakob van Domselaer: "Non è forse apparso nella musica " un altro colore" , un colore meno naturale, un altro ritmo, più astratto? Non esiste un inizio di opposizione neutralizzante (per esempio in alcuni saggi di "stile" del compositore olandese van Domselaer)?" [Mondrian, 1920, p. 157]. Si possono trarre notizie su van Domselaer e dei suoi rapporti con Mondrian da Seuphor, 1979. Seuphor riferisce che nel 1912 a Parigi Mondrian frequentava spesso il compositore olandese arrivato da poco a Parigi e che i due amici frequentarono insieme lezioni di francese nell' inverno 1912-13[p. 691]. Si ritrovano insieme in Olanda nel 1916 [p. 1291], anno nel quale Van Domselaer pubblicò una serie di piccole opere per piano sotto il titolo Proeven van Stijlkunst, che rimasero peraltro uno dei pochissimi esempi della sua attività compositiva [von Maur, 1981, p. 2881: "Questi sette pezzi che costituiscono questo album erano tutti ispirati a dipinti di Mondrian. In una nota introduttiva l' autore chiede che essi siano suonati in modo tale da accentuare l' elemento statico (l' armonia), mentre il movimento (la melodia) resta rasserenante e fluente... " Ho tentato di tradurre in musica la mia impressione di Mondrian, sia come uomo sia in rapporto alle sue opere - mi disse Van Domselaer - Io mi trovavo interamente sotto la sua influenza. Ora più che mai mi rendo conto di quanto fosse essenziale per me incontrare Mondrian. Egli era un uomo straordinariamente radicato nel suo tempo, e molto superiore ai suoi compatrioti, che erano troppo borghesi. Alla fine del 1916 vi fu disaccordo fra noi. Mondrian si avviava verso un certo dogmatismo nel quale non lo potevo seguire. Il nostro ul- 74 timo incontro si verificò a Parigi nel 1922"" [Seuphor, 1979, p. 134]. Karin von Maur rammenta, accanto al nome di Domselaer, anche quello del compositore e pianista olandese Daniel Ruyneman, che Mondrian conobbe a Parigi dopo la prima guerra mondiale e con il quale egli poté forse continuare il dialogo sul rinnovamento della musica iniziato con Domselaer. Ruynemann, interessato alla musica giavanese, praticava uno stile compositivo fondato su forti contrasti e sulla ricerca di nuove combinazioni sonore [von Maur, 1981, p. 288]. Vanno ricordati inoltre gli interessi verso la musica di Doesburg e i rapporti di Mondrian con George Antheil. Anche con questo compositore americano, vissuto a lungo a Parigi, Mondrian fu in contatto intorno al 1925 ed ebbe probabilmente modo di udire i concerti rumoristici e forse anche di assistere al Ballet Mecanique che Antheil compose nel 1927 il cui organico comprendeva incudini, eliche d' aereoplano, campanelli elettrici, trombe di automobile e pianole. Antheil ipotizzava utopisticamente una "nuova dimensione musicale", intendendo con ciò un modo nuovo di produrre i suoni, di proiettarli e di farli rimbalzare nello spazio. A tale scopo fantasticava su grandi macchine da installare nelle città, immaginando questi apparati come "monumenti ritmici risonanti capaci di produrre mille nuovi suoni" [von Maur, 1981, p. 292]. §8 Nelle considerazioni precedenti abbiamo intanto cominciato a comprendere meglio come mai nella ricerca di conseguenze sul piano musicale delle posizioni fatte valere in sede di teoria e prassi pittorica, ci vediamo spostati sul versante del rumore, in parte in maniera inattesa, ma non senza seguire un filo conduttore relativamente coerente. Il rumore è privo di forma, il rumore si contrappone alla voce umana, quindi si contrappone anche alla melodia, al "canto". Se i suoni di cui ci serviamo sono rumori, allora certamente ogni melodizzare risulta impossibile. 75 Di qui l'interesse di Mondrian per gli esperimenti futuristi. Uno dei temi importanti agitati in sede di problematica musicale dal gruppo futurista era proprio la rivendicazione del rumore nella musica. Ed è interessante notare che su questa strada insiste particolarmente più che il musicista ufficiale del gruppo, Balilla Pratella, un pittore con interessi musicali, Luigi Russolo che si fece promotore attivo del rumorismo con il manifesto intitolato L'arte dei rumori (1913) e soprattutto con la sua impresa più nota: la costruzione di un apparato meccanico associato a megafoni e ad "amplificatori" del suono capace di produrre sfrigolamenti, ululati, stropicciamenti, ronzii ecc. secondo i nomi che lo stesso Russolo attribuì ai rumori così prodotti. La macchina venne battezzata, in realtà assai ambiguamente, intonarumori e non ebbe una lunga storia nonostante qualche sporadico interesse dimostrato da compositori anche autorevoli che tuttavia non la utilizzarono. Così vengono descritti da Mondrian: "Gli intonarumori furono inventati nel 1910 da Luigi Russolo, pittore, musicista e fisico. Nel 1913 tre intonarumori furono presentati al pubblico. Nel 1914 Russolo tenne dodici concerti a Londra con intonarumori ancora imperfetti. La sua attività fu interrotta dalla guerra. Dopo la guerra col- 76 laborò con il futurista Ugo Patti nella costruzione di trentacinque intonarumori, di cui venticinque furono perfezionati. Gli intonarumori di varie dimensioni e proporzioni hanno la forma di parallelepipedi muniti di una tromba per l'amplificazione, di una leva per la regolazione e di una manovella per poter essere ruotati. Questi strumenti, dipinti nei colori primari, visti in fondo alla scena durante l'esecuzione, formavano un vivo contrasto con i vecchi strumenti che erano di fronte ad essi" [Mondrian, 1921, p. 173]. L'ambiguità del nome non è poi solo una questione terminologica. Anche in questo campo alle gesticolazioni futuriste non corrispondeva un'effettiva sostanza. Il tentativo di rivalutare questa "invenzione" tecnico-musicale come un'anticipazione della futura sperimentazione concretistica ed elettronica in realtà si scontra con le idee che la sorreggevano e con i risultati esemplificativi che vennero prodotti. Per Russolo il fare musica con i rumori non voleva dire affatto rinunciare alle strutture portanti della musica tradizionale, nonostante tutte le proteste contro di essa. In effetti la macchina era fatta in modo tale da produrre suoni relativamente controllabili per quanto riguarda le altezze, così da poter generare qualcosa di simile se non proprio a melodie, ad andamenti melodici rumoristici. Ecco ciò che scriveva in proposito Luigi Russolo nell'Arte dei rumori: "Noi vogliamo intonare e regolare armonicamente e ritmicamente questi svariatissimi rumori. Intonare i rumori non vuoi dire togliere ad essi tutti i movimenti di vibrazioni irregolari di tempo e d'intensità, ma bensì dare un grado o un tono alla più forte e predominante di queste vibrazioni. Il rumore infatti si differenzia dal suono solo in quanto le vibrazioni che lo producono sono confuse e irregolari, sia nel tempo che nella intensità. Ogni rumore ha un tono, talora anche un accordo che predomina nell'insieme delle sue vibrazioni irregolari. 77 Ora, da questo caratteristico tono predominante deriva la possibilità pratica d'intonarlo, di dare cioè a un dato rumore non un solo tono ma una certa varietà di toni, senza perdere la sua caratterisstica, voglio dire il timbro che lo distingue. Così alcuni rumori ottenuti con un movimento rotativo possono offrire una intera scala cromatica ascendente o discendente, se si aumenta o si diminuisce la velocità del movimento" [Russolo, 1913, p. 132]. La possibilità di riproporre rumori in qualche modo "intonati" nelle intenzioni futuriste non sfugge certamente a Mondrian e questo è uno dei punti (non il solo) da cui egli prende le distanze. "Luigi Russolo dice che con i suoi intonarumori si possono realizzare melodie diatoniche e cromatiche in tutti i toni possibili della scala e in ogni ritmo. Ma in tal modo si conserva il vecchio tipo di espressione e ciò rende impossibile la nuova musica poiché questa richiede al contrario una costante abolizione, ossia un annientamento della ripetizione" [Mondrian, 1921, p. 170]. Ci troviamo così di fronte a considerazioni che possiamo ancora ricollegare all'impianto generale del problema dell'astrattismo in Mondrian. All'interno di questi sviluppi si cominciano a profilare momenti irrisolti di tensione e di contrasto. Anche ammesso che si possa sostenere la naturalità dei suoni e delle strutture musicali della tradizione, non è affatto ovvio che una simile presa di posizione si riversi coerentemente in un'opzione rumoristica. Non sembra forse subito assai singolare che il tema del rumore debba fornire la guida principale per indicare la direzione dell'astrazione portata in ambito musicale? Dove è qui l'ordine rarefatto che oltrepassa le differenze fenomeniche? Al contrario, il rumore sembra alludere alle regioni immaginative della caoticità, della pura materialità dispersa. Infine: il rumore non appartiene forse esso stesso alla natura? 78 Dappertutto nella natura ci sono rumori, e non è affatto impresa facile districare da essi i suoni nel senso musicale usuale, i suoni di altezza determinata. Il vento non fischia un la bemolle e nemmeno la pioggia fa semicrome e biscrome, anche se talvolta ascoltando la pioggia ci piace pensare che faccia così. La districazione, all'interno del nostro universo uditivo, di suoni di altezza determinata e del resto anche la ritmica musicale, sembrano opere dell'arte, nel senso di produzioni autonome dello spirito, piuttosto che dati della natura. Di fatto il richiamo al rumorismo in ambito musicale tende ad essere giustificato solo in funzione di un'opposizione che peraltro ha bisogno di essere rafforzata, secondo direzioni che non possono più essere assecondate, come era invece possibile in precedenza, da un percorso fenomenologico. Si profilano nuovi problemi, nuove inclinazioni e implicazioni che prima erano solo sullo sfondo e che ora tendono a venire vivacemente in primo piano. Il filo conduttore principale comincia ad essere rappresentato dall'opposizione tra naturalità e artificialità, ed alle spalle di questa opposizione se ne delinea un'altra che effettua uno spostamento tematico e tende nello stesso tempo ad allontanarci dalla rarefazione delle speculazioni artistico-filosofiche, o meglio a ricollegare queste speculazioni ad una realtà che ci è molto vicina. Fra i vari sensi implicati dalla parola "natura", certamente distinti tra loro, ma che si possono anche intrecciare istituendo delle transizioni problematiche, vi è anche la "natura" come "campagna", parola che ha un significato tanto più ricco quanto più la si intende in relazione alla "città". E la natura concepita così, come campagna, e dunque nel contrasto con la grande città metropolitana, è sicuramente anzitutto silenziosa oppure piena di rumori "rotondi", che è quanto dire anche morbidi, ondulati, quindi di suoni più che di rumori [Mondrian, 1920, p. 160]. A questo proposito è ancora il caso di ricordare Russolo ed una sua osservazione contenuta nell'Arte dei rumori. La 79 natura, dice Russolo, è originariamente silenziosa. Gli uragani, le valanghe, le cascate, ecc. sono eventi straordinari, eccezionali - mentre l'atmosfera fondamentale della natura è calma e silenziosa. Così noi immaginiamo la vita dei primitivi: immersa soprattutto nel silenzio. "La vita antica fu tutta silenzio. Nel diciannovesimo secolo, coll'invenzione delle macchine, nacque il Rumore. Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini. Per molti secoli la vita si svolse in silenzio, o per lo più in sordina. I rumori più forti che interrornnpevano questo silenzio non erano né intensi né prolungati, né variati. Poiché se trascuriamo gli eccezionali movimenti tellurici, gli uragani, le tempeste, le valanghe e le cascate, la natura è silenziosa" [Russolo, 1913, p. 129; G. R. Nazzaro, 1984, p. 271] Ciò non toglie che Russolo possa poi indugiare in un elogio del rumore che comincia dai rumori della natura - dal tuono e dal vento, alla pioggia ed alle onde del mare, interessato spesso a metterne in rilievo la musicalità in un senso che richiama la musica della tradizione: "Accennerò solo al famosissimo effetto che le onde fanno nella grotta di Fingal, nella quale fu riscontrato un tono fondamentale con la sua quinta, la decima e la settima minore della seconda ottava. E noto che molte cascate danno un rumore profondo in cui sono nettamente sensibili le note di un accordo perfetto. In alcune è stato riscontrato l'accordo: fadomisol. - E quali piccoli e diversi rumori non reca il gorgogliare d'una sorgente o di un ruscello? Voi vi accorgete, analizzandoli che lì vicino a quel grosso ciottolo l'acqua fa un rumore più basso, che è in quel punto come la nota fondamentale di un accordo di cui altri ciottoli, più piccoli e poco più lontani, danno molte volte la terza, la quinta e l'ottava" [Russolo, I rumori della natura e della vita in Maggina, 1978, p. 143]. 80 In Mondrian discorsi come questi non sono possibili e la contrapposizione suono-rumore diventa più dura: gli strumenti umani non fanno altro che imitare la voce umana, il canto degli uccelli. I suoni degli strumenti sono legati a fil doppio all'animalità, alla corporeità, sono suoni carichi di elementi espressivi. I rumori della natura a loro volta sono episodi del capriccio così come il silenzio della campagna non ha nulla di idilliaco, non è la pace campestre delle fantasie arcadiche, ma è un silenzio su cui pesa l'elemento tragico, come la calma di mare che non esclude l'uragano e che talvolta anzi lo preannuncia. L'attenzione è dunque tutta puntata sul rumore artificiale e quindi sul rumore prodotto dalla macchina. Ciò che interessa Mondrian nel progetto futurista è la pura e semplice idea di affidare la produzione del suono ad una macchina. Il fatto poi che questa macchina sia capace di imitare i rumori naturali e addirittura di "intonarli" mostra che siamo ancora lontani dalla realizzazione di un astrattismo musicale che sia, in conformità alla sua vocazione, un autentico antinaturalismo [Mondrian, 1921, p. 173]. Annotazione Per la musica nel futurismo si veda Nazzaro, 1984. §9 Il problema del rumorismo in Mondrian ha dunque delle implicazioni più ampie che il puro e semplice rifiuto della forma trasferito in campo musicale. Il modo in cui questo tema viene discusso mostra chiaramente che i motivi che avevamo in precedenza trattato come pensieri che aprono la via verso un progetto pittorico e che sembravano rendere conto delle scelte strettamente interne a questo progetto si ricollegano ad una riflessione che aggredisce ormai il livello sociale. Quello che abbiamo chiamato contesto creativo dell'opera si rivela più am- 81 pio e più profondo di quanto in precedenza avremmo potuto sospettare. Ad esso appartiene anche il motivo del macchinismo e in stretta connessione con esso quello della città metropolitana. È evidente che Mondrian è fortemente tentato di realizzare un'apologia, un'esaltazione dell'uno e dell'altra, un'esaltazione della tecnologia, e quindi dell'industria in genere così come della città, l'una e l'altra intese come una sorta di denaturalizzazione, di liberazione dell'elemento naturale. Un discorso che poneva astrattamente l'accento sui rapporti e sulla loro matematica chiarezza mostra di guardare alle forme dominanti della vita sociale, alla modernità, all'epoca, ai suoi problemi centrali. "La luce del sole, così spesso oscurata, è integrata ora da ogni sorta di luce artificiale. L'uomo ha già adattato le forze della natura a suo beneficio. La scienza consolida sempre più la salute. La tecnica rende il mondo sempre più abitabile. L'intero progresso della civiltà è a nostra disposizione: abbiamo bisogno solo di sviluppare i suoi risultati e usarli nel modo giusto" [Mondrian, 1931, p. 300]. Talvolta questa apologia assume toni fortemente urtanti, fortemente provocatori. "L'essere umano veramente evoluto non cercherà più di proteggere, rendere igieniche o abbellire le strade e i parchi della città per mezzo di alberi e di fiori. Egli costruirà città sane e belle contrapponendo edifici e spazi vuoti in un modo equilibrato" [Mondrian, 1926c, p. 230]. Seguendo la spinta stessa della modernità, l'elemento "pittoresco" verrà prima o poi completamente sostituito dall'elemento "matematico": e così anche "il canto degli uccelli dal frastuono della macchina" [Mondrian, 1921, p.168]. I suoni realmente adeguati alla musica del futuro saranno 82 "suoni e rumori che non derivino da una materia animale. Il rumore di una macchina (come timbro) susciterà più simpatia del canto di uccelli o di esseri umani. II ritmo di una pressa gli sarà più familiare del canto dei salmi" [p. 169]. Quanto alla città metropolitana l'elogio è altrettanto ricorrente, e proprio per la sua "rumorosità" non solo in senso effettivo, ma soprattutto in senso metaforico. "Benché squilibrata la città dà già l'illusione di un ritmo universaale. Esso è abbastanza forte da soppiantare il vecchio ritmo. Le cattedrali, i palazzi e le torri non costituiscono più il ritmo della città. Il rumore dei veicoli ecc. contiene relazioni di opposizione, mentre le campane delle chiese hanno soltanto il ritmo della ripetizione" [Mondrian, 1927, p. 244]. Il rumoreggiare della città è anche il rumoreggiare dell'attività che caratterizza la vita stessa. Dire che la città rumorosa significa dire la stessa cosa che essa palpita di vita. Il mondo è la città. E la città è la vita. Nelle frasi che abbiamo or ora citato vi è una parola che risuona con particolare insistenza: quella di ritmo. La vitalità stessa della pittura astratta è legata a ciò che più precisamente Mondrian chiama ritmo aperto e che rappresenta una nozione costitutiva fondamentale del suo progetto pittorico. Ed è subito interessante notare come questa nozione si presenta qui come una nozione fluttuante fra la dimensione spaziale e quella temporale. Naturalmente sarebbe sbagliato andare alla ricerca in Mondrian di una qualche precisa definizione di questa nozione sui vari terreni in cui essa può essere applicata. Si può dire invece che parlando di ritmo aperto - e talora anche di ritmo libero e ritmo dinamico - non si intende l'assenza di qualunque schematismo, qualcosa di simile all'idea di un libero fluire 83 di eventi. Ritmo aperto è invece uno schema che si ripete e ripetendosi si rinnova. Talvolta si parla di rapporto costante per indicare l'immutabilità del rapporto ortogonale. Questa immutabilità ha tuttavia come contrappeso le diverse dimensioni e i loro rapporti che sorgono dalle varie possibilità di suddivisione dello spazio. "Attraverso l'opposizione ortogonale, il rapporto costante, l'arto ha stabilito la dualità universale-individuale: l'unità. Nella composizione neoplastica, il rapporto costante esprime l'immutabilità. Esso è l'espressione universale, in opposizione al rapporto di dimensione, il quale è vario ed è l'espressione individuale dell'opera neoplastica. Il rapporto costante è dunque vivo e reale per una mentalità che tenda verso l'equivalenza universale-individuale, perché le varie proporzioni della dualità fondata sull'opposizione della linea retta producono un ritmo sempre diverso attraverso i rapporti di dimensioni e nello stesso tempo costante in virtù dei rapporti costanti" [Mondrian, 1930a, p. 259]. "La posizione ortogonale esprime plasticamente l'immutabile; il ritmo della composizione esprime il relativo" [Mondrian, 1924, p. 198]. Si fa così avanti qui un'integrazione essenziale al tema dell'eguaglianza e dell'ordine di cui abbiamo trattato in precedenza. Quei temi debbono essere animati dall'interno da un elemento di dinamismo ed anche per questo riguardo può poi essere ribadita l'istanza antinaturalistica. L'eguaglianza inerte consiste nella pura ripetizione e questa caratterizza eminentemente il falso movimento della natura. È appena il caso di dire che la nozione di ritmo aperto è di fondamentale importanza nella determinazione delle strutture di suddivisione spaziale dei dipinti di Mondrian. In essi lo schema di fondo è sempre uno schema variato - si tratta di piccole variazioni che assumono tuttavia, data l'elementarità della costruzione, un significato particolarmente rilevante proprio ai fini della determinazione della dinamicità interna del 84 dipinto. L'ortogonalità è proposta in modo da non produrre regioni di simmetria rigorosa ed eguaglianze di superfici - e regole che sembrano ormai divenute stabili considerando intere serie di dipinti possono essere improvvisamente contraddette. E così anche la distribuzione dei colori da un lato deve rispettare rigorosamente la scelta di riduzione cromatica imposta dal riferimento al sistema dei colori, dall'altro si presenta come una continua trasgressione delle leggi di equilibrio fondate su di esso. Ad un peso cromatico può anche non corrispondere un contrappeso. Di un simile "equilibrio dinamico" si è molto discusso nella letteratura specializzata, fornendo un'amplia esemplificazione nella costruzione delle opere di Mondrian. Sullo sfondo del problema del "ritmo aperto" diventa comprensibile l'altro riferimento musicale fondamentale, il riferimento al jazz ed alle forme di danza ad esso più o meno strettamente collegate - dal charleston o al boogie-woogie. E anzi proprio al jazz a cui Mondrian rinvia per avere un'idea, sia pure imperfetta, di ciò si deve intendere con ritmo aperto. "Che cosa il neoplasticismo intenda con questo ritmo libero, che è contrapposto al ritmo naturale, lo si capisce un po' ascoltando il "jazz americano" in cui ci si avvicina considerevolmente ad esso, senza però realizzarlo, dato che la melodia, ossia la forma limitata, non vi è ancora del tutto distrutta" [Mondrian, 1930b, p. 270]. Letture e interpretazioni che non tengono in nessun conto dell'impianto teorico di Mondrian tenderanno a vedere nell'interesse verso il jazz niente altro che un fatto di gusto del tutto insignificante o addirittura una circostanza che rivelerebbe il vero Mondrian in contrasto con l'immagine severa che Mondrian avrebbe fatto valere di sé a scopi meramente pubblicitari [Morpurgo-Tagliabue, 1972b, p. 368]; se non addirittura fatta dipendere dal fatto che egli era molto amante del ballo. 85 Naturalmente non staremo affatto a discutere se ciò che Mondrian osserva sul jazz sia realmente corretto sotto il profilo musicale. Parlare di ritmo libero e aperto per il jazz di quegli anni non è in realtà troppo pertinente. Ma ciò ha solo una relativa importanza. Più significativo è notare che Mondrian, nei confronti del jazz, tende ad appoggiarsi a tutti quegli spunti che con maggiori o minori forzature, sembrano consentirgli di riprendere e ribadire le tematiche di ordine generale. L'importanza che assume nel jazz la componente ritmica gli suggerisce di parlare di un'opposizione tra ritmo e forma. Ed il fatto che egli veda nel jazz una possibile esemplificazione di ritmo "aperto" - attribuendo ad esso una distanza dalla mera ripetizione [Mondrian, 1927, p. 239] - è dovuto presumibilmente alla possibilità di una libera concatenazione dei brani fra loro e dunque alla rottura tendenziale di un'effettiva chiusura formale così come alla forte presenza di una componente improvvisativa. Particolarmente valorizzato da Mondrian è poi il suono percussivo, che ha una parte così importante nel jazz, proprio perché il suono percussivo rompe nettamente con la morbidezza del suono, e dunque, come sappiamo, con la sua rotondità [Mondrian, 1920, p. 160]. Bisogna richiamare l'attenzione sulla jazzband perché essa "osa demolizioni brusche della melodia", opponendosi "alla rotondità del suono e pur non avendo ancora abbandonato i vecchi strumenti oppone loro nondimeno altri, più moderni" [p. 158]. Il tema del jazz può così ricongiungersi con il tema del rumorismo, delle sonorità nuove - e soprattutto con quello della città metropolitana, da cui esso è inscindibile. La musica jazz risuona nel cuore della città, essa è propriamente una sua manifestazione espressiva, una vibrazione musicale della sua essenza. La città e il jazz: questi sono i due poli che annunciano una cultura nuova: e se vuoi andare sulle sue tracce e avvertirne l'annuncio - sia pure ancora incerto e forse rozzo - devi recarti non già nelle sale da concerto, ma nei "bar" in un senso 86 del termine che comprende l'intrattenimento musicale in qualunque forma, nei locali dove risuona la jazzband, nel café chantant, nei cabaret, nei locali notturni - in tutti quei luoghi dove si canta, si suona e si balla per puro gioco, dentro la città, ma anche lontani dalle preoccupazioni che assillano la vita del giorno. "L'orchestra lavora come se stesse giocando. Nel "bar" abbiamo già l'illusione di ciò che la nuova cultura può apportare in modo diverso e sublimato... Nel bar felicità e serietà sono tutt'uno. Qui c'è equilibrio, poiché ogni cosa segue il ritmo. Non ci sono vuoti, non c'è noia: il ritmo riempie ogni cosa senza creare una nuova oppressione: non diventa mai forma" [Mondrian, 1927, p. 245]. In questa apologia del jazz ha un improvviso e inatteso risalto l'elemento corporeo, inteso non più dal lato meramente oggettivo, in rapporto dunque alla nozione della mera cosa tridimensionale, ma in rapporto al lato soggettivo - quindi l'elemento corporeo come vita corporea prorompente, come sensualità liberata. "Nel bar non c'è alcun legame con il vecchio, poiché qui si vede e si ode solo il charleston. La costruzione, l'illuminazione, le scritte pubblicitarie, anche nel loro squilibrio, servono a completare il ritmo del jazz. Tutto ciò che è brutto viene sublimato dal jazz, dalla luce. La sensualità stessa è sublimata. Libera dalla forma limitante, la sensualità si apre" [p. 245]. Mondrian trova così modo di far convergere a tratti tutti i suoi discorsi sulla retta e la curva, sulla ortogonalità e sull'obliquità, ecc., ma anche di richiamarsi a motivi nuovi, immersi nel sociale - dove l'obliquo, il tortuoso e per ciò stesso angosciante appartiene alle ansietà affaristiche, al mondo del denaro, al mondo del potere. "È soprattutto il jazz a creare il ritmo aperto del bar. Esso distrugge. Ogni cosa che apre esercita un'azione distruttiva. 87 Questa rottura libera il ritmo dalla forma e quindi da molte cose che sono forma ma non vengono, mai riconosciute come tali... Un'azione continua tiene in scacco la passione. Le bottiglie e i bicchieri sugli scaffali stanno fermi, eppure si muovono nel colore e nel suono e nella luce. Sono meno belli delle candele sull'altare?... Nel bar la tendenza alla particolarità cessa; ci sono soltanto suoni e donne. E tutti ballano bene: tutti sono parte di un ritmo... Qui non c'è spazio per gli affari, per la politica, per il denaro. Questi hanno infatti un altro ritmo, un ritmo chiuso; il loro ritmo è espresso mediante una molteplicità di linee oblique: teso ma squilibrato, privo di pause di quiete, accidentale. Nel bar il ritmo naturale assume un nuovo aspetto: senza i capricci della linea curva..." [p. 246]. Naturalmente in questo contesto non possono non essere rammentati i due dipinti Broadway Boogie-Woogie (1942-43) [Cat. 464] e Victory Boogie-Woogie (1943-44) [Cat. 473]. Il Broadway Boogie - Woogy 88 è un quadro che potremmo realmente definire variopinto - eppure contiene ancora null'altro che i tre colori fondamentali e in più il bianco e il grigio - cosicché l'ostinato rigorismo del primitivo impianto teorico viene qui ancora ribadito. Il nero è tuttavia interamente scomparso dalle linee di suddivisione: ed i colori si distribuiscono variamente sulle linee stesse piuttosto che all'interno dei riquadri da essi determinati, mentre compaiono brevi tratti di superfici colorate e riquadrate ad es. secondo i colori giallo-blu giallo-rosso, rosso-giallo, ecc. Le linee sono particolarmente numerose - elemento di dinamismo anch'esso presente nei dipinti del periodo, e numerosissime sono le superfici colorate sulle linee: cosicché nell'insieme viene proposta una composizione caratterizzata da una regolarità irregolare, che rappresenta un vero e proprio modello per l'idea del ritmo "dinamico". In Victory Boogie-woogie, realizzato poco prima di morire, 89 troviamo concentrati tutti gli elementi di dinamismo presenti in Broadway - dinamismo che viene accentuato dalla rotazione di quarantacinque gradi del dipinto. L'evocazione augurale della vittoria sul nazismo contenuta nel titolo connette al jazz un motivo liberatorio di universale respiro. "Concepisco il vero Boogie-Woogie - osserva Mondrian nell'intervista a Sweeny - come omogeneo nell'intenzione al mio obbiettivo in pittura: distruzione della melodia, che è l'equivalente della distruzione dell'apparenza naturale, e costruzione attraverso l'opposizione continua di mezzi puri. Ritmo dinamico. Penso che nell'arte l'elemento distruttivo sia troppo trascurato" [Mondrian, 1943, p. 400]. Si tratta di dipinti che vanno considerati in stretta unità con i quadri di costruzione affine dell'ultimo periodo della produzione di Mondrian - e soprattutto con i quadri che richiamano nel titolo la città per antonomasia: New York [Cat. 457,458,459,460]. Il seguente è del 1941 (Cat. 458). 90 Non si dica che qui diamo ai titoli un'importanza che essi non hanno - che essi fanno parte delle accidentalità esterne al dipinto. Queste sono cose che si sanno. Si può perciò ritenere in linea di principio irrilevante che il titolo di questi dipinti sia esattamente questo - potrebbe ben essere un altro qualunque. Ciò che invece non può essere ritenuto irrilevante e che chiama in causa l'intero senso della produzione astrattistica di Mondrian sta in questo: in quei rari casi in cui egli decide di conferire un rimando di significato nel titolo, questo rimando chiama in causa o il jazz o la città (cosicché anche una riflessione sul titolo può non essere affatto irrilevante). Il riferimento alla musica cessa così di rivestire il senso di una pura speculazione sulle estensioni possibili dell'astrattismo dal piano pittorico a quello musicale per entrare invece a far parte della riflessione che attraversa il progetto pittorico stesso. Annotazione Il charleston era stato proibito in Olanda per la sua sensualità e lo scritto di Mondrian sul jazz è in particolare anche una difesa del charleston e della sensualità nella danza. "Se il bando al charleston sarà fatto osservare - commenta Mondrian - sarà questa per me una ragione sufficiente per non tornare in Olanda" [Mondrian, 1975, p. 239]. - Oltre al Broadway e al Victory vi sono altri titoli che richiamano la musica da ballo nella produzione di Mondrian risalenti a molti anni prima, ad es. il Fox-trot B (cat. 386, 1929) e il Fox-trot A (cat. 393, 1930). 91 § 10 Cerchiamo ora di tirare le fila, ripensando all'impostazione che abbiamo precedentemente delineata. L'essenziale in quella impostazione era un'operazione di riconduzione dell'immensa ricchezza fenomenica delle cose alle pure coordinate della spazialità. La pittura di Mondrian è una pittura dello spazio: in essa le cose e le loro forme si ritraggono per lasciare vedere unicamente lo spazio stesso. Anche da questo punto di vista vi è qualcosa che collega in profondità la produzione astrattistica di Mondrian e quella preastrattistica. Si pensi ai paesaggi che fanno da scenario al Trialogo del 1919 - alla "Pianura. Sconfinato orizzonte. In alto, la luna" o alle "stelle che brillano in un cielo sereno sopra una distesa di sabbia" - luoghi della Grande Quiete. Oppure all'evocazione di una spazialità desertica nella serie delle dune. Si tratta certo di spiagge che hanno di fronte il mare. Ma queste spiagge - in cui terra cielo e mare fanno tutt'uno - fanno pensare al deserto. E dov'è la natura nel deserto? Paesaggio con dune (1910) Il tema evocato è invece quello di un'immensità, di una vastità incommensurabile. Il mobile profilo delle dune - curvilineo certamente, ma anche destinato a cedere alla linea retta - accenna ad un'immensità orizzontale, ad un orizzonte che contrassegna la realtà stessa nel suo limite irraggiungibile. 92 Nel Dialogo sul neoplasticismo alla domanda intorno alla predilezione per la linea retta, Mondrian risponde: "L'anelito ad esprimere la vastità mi ha portato a ricercare la massima tensione: quella della linea retta. Poiché ogni curva deve risolversi nella linea retta, non poteva esserci più posto per la curva" [Mondrian, 1919a, p. 79]. Vi sono qui due elementi da mettere in particolare rilievo. Da un lato l'"anelito verso la vastità": questo motivo era rimasto in ombra nelle nostre considerazioni precedenti sulla formacontorno. La linea rettilinea allude ad un'immensa lontananza, allo spazio come l'Immenso - che tenderemmo a scrivere con la maiuscola proprio per indicare che si affaccia qui un consistente spunto metafisico: spunto tutt'altro che estraneo a tutta la tematica sviluppata in precedenza. Il problema di un'approssimazione all'essenza del reale, l'insistenza sull'universalità e sul superamento della particolarità possono certamente avvolgersi di una atmosfera religiosa, e così anche l'accento posto sull'immenso. Del resto talora Mondrian è fin troppo esplicito in proposito. Ancora nel Dialogo sul neoplasticismo egli dice, ad esempio, senza troppe tergiversazioni: "...l'arte ha per fine di interpretare il soprannaturale. Essa è intuizione. È espressione pura di quella forza incomprensibile che agisce universalmente e che quindi possiamo chiamare l'universale" [p. 83]. E non vi è chi non vede che un conto è parlare dell'universale come pura astrazione dalla particolarità delle cose e dalle soggettività individuali; e un'altro è parlare di esso come una "forza incomprensibile che agisce universalmente". Il fatto è che la metafisica qui in questione va d'accordo con il charleston, è una metafisica che danza al ritmo del boogiewoogie! La spazialità desertica può coesistere con la città metropolitana. Tra questi due estremi vi è una sorta di relazione interna e profonda. 93 Prestiamo allora attenzione al secondo elemento presente nelle citazioni che abbiamo appena riferito. Si ricerca la massima tensione - ed è la linea retta che la esprime. Ogni curva tende ad appiattirsi in una retta come delle dune viste alla massima lontananza. L'idea così spesso espressa da Mondrian di un "appiattimento" rischia di nascondere il punto essenziale. La parola stessa sembra alludere ad una estenuazione, ad una perdita di energia. Ed invece questa immagine intende essere rivolta nella direzione opposta. Non solo la curva si appiattisce nella retta, ma la retta che ha questa origine può in qualunque momento ritrovare forma curvilinea - come se le nostre linee fossero fortemente elastiche e perciò fortemente tese. Noi abbiamo compiuto uno sforzo per rompere la chiusura della forma, abbiamo preso per così dire il contorno della cosa tra le nostre mani ed abbiamo teso questo contorno sino alla retta, ed ora questo contorno rettificato è come una striscia metallica elastica che in un colpo solo potrebbe riprendere la sua forma. La linea dell'orizzonte può allora essere concepita come una linea che contiene una enorme forza esplosiva. Da quella orizzontalità desertica potrebbe forse improvvisamente prorompere la verticalità della città metropolitana. 94 § 11 Vi è una singolare relazione a distanza, interamente sfuggita, a quanto posso giudicare, alla critica, tra un pittore come Mondrian e un musicista come Varèse, europeo naturalizzato statunitense profondamente partecipe dell'esperienza culturale americana che è simpateticamente vissuta anche da Mondrian negli ultimi anni della sua vita. Si tratta di una coincidenza anzitutto in alcuni atteggiamenti mentali fondamentali. Come il razionalismo di Mondrian non lo preserva dalla fascinazione dei misteri della teosofia, così la passione scientifica di Varèse non esclude né Paracelso, né l'interesse verso le matematiche esoteriche [Varèse, 1985, p. 59 e p. 162]. Ed è naturalmente la vivace critica contro la "melodia" che attrae Varèse verso il rumorismo ed i suoni percussivi e che lo induce a contrapporre l'elemento ritmico a quello melodico. La melodia è puro aneddoto, futile elemento narrativo che deve essere superato proprio attraverso l'esaltazione della componente ritmica: "Ho lavorato con le percussioni perché non volevo strumenti che insinuassero aneddoti melodici mentre io mi stavo concentrando sul ritmo puro. Volevo ottenere pure differenziazioni di ritmo attraverso variazioni di densità". "Le melodie non sono altro che pettegolezzi musicali" [p.101]. E il vantaggio delle percussioni sta nel fatto che esse "non sanno raccontare una storia" [p. 107]. Il jazz può essere citato da Varèse come segno dei tempi nuovi come in questa icastica contrapposizione tra l'orchestra tradizionale e la jazzband: "L'orchestra tradizionale è un elefante idropico. L'orchestra jazz una tigre" [p. 107]. 95 Edgar Varè se 96 Sull'obsolescenza dei vecchi strumenti strettamente connessa all'idea dell'avvento della macchina le corrispondenze di opinione sono quasi letterali. Mondrian: "Quanto più la musica vorrà pervenire all'espressione pura di un rapporto equilibrato, all'espressione plastica determinata dell'universale, tanto più si sentirà limitata dagli strumenti esistenti. Si dovranno cercare altri strumenti o... la macchina" [Mondrian, 1919b, p. 125]. Varèse: "Personalmente, in base alle mie concezioni, io ho bisogno di un mezzo d'espressione completamente nuovo: una macchina produttrice (e non riproduttrice) di suoni" [Varèse, 1985, p. 116]. Mondrian: "Quanta tensione è necessaria da parte dei suonatori e del direttore d'orchestra per evitare la diminuzione di forza espressiva durante un concerto! Non sarebbe meraviglioso e molto più sicuro se si potesse inventare una macchina a cui il compositore, il vero artista potesse affidare il lavoro?" [Mondrian, 1919b, p. 125]. Varèse: "Con le attuali possibilità di amplificazione del suono, è stupido mettere venti primi violini in un'orchestra" [Varèse, p. 105]. Mondrian:"Pensi per esempio a un violino. Il migliore violino, quando è nuovo, non ha quel suono che ha un violino vecchio, usato da molto tempo!". "Ciò che lei dice vale forse per la vecchia musica. M'intendo poco di vecchia musica e di violini ma mi piace di più la musica del jazzband: qui almeno è spezzata la vecchia armonia"" [Mondrian, 1919b, p. 126]. Varèse:"Nel jazz, niente violino: è troppo sdolcinato. Al giorno d'oggi non si è più per le sdolcinature" [Varèse, 1985, p. 106]. 97 Nei confronti del futurismo Varèse è forse più critico di quanto lo sia Mondrian, ma la direzione della critica è strettamente coincidente con la valutazione conclusiva di Mondrian: "Non ho mai avuto alcun rapporto con il movimento Futurista e, pur ammirando lo spirito attivistico di Marinetti e il talento di Boccioni, ho sempre dissentito dai loro punti di vista e non ho mai nutrito alcun interese per il loro intonarumori. Nel numero del giugno 1917 della rivista "391" chiarii la mia posizione nei loro confronti nonché le mie aspettative riguardo alla musica del futuro; scrivevo allora: "Perché i futuristi italiani imitano pedissequamente solo gli aspetti più superficiali e ovvi della nostra vita quotidiana? Dal canto mio, sogno degli strumenti docili al pensiero che, rendendo possibile timbri finora insospettati, si aprano a qualsiasi combinazione io proponga loro e soddisfino le richieste che provengono dal mio ritmo interiore". Come sapete, col progresso dell'elettronica il mio sogno sta diventando realtà" [Varèse, 1985, p. 145]. Infine anche in Varèse si prospetta la grande contrapposizione tra città e campagna, e con connotazioni del tutto analoghe. "Non mi piace la campagna. Se è solo per il rumore dei ruscelli o dell'acqua, mi lascia del tutto indifferente" [p.91]. "A New York ci sono dei ragazzini che non hanno mai visto un ruscello, che non hanno mai sentito il canto degli uccelli, che non hanno mai sentito, che ne so, tutto quello che ci può essere in campagna, certi silenzi della campagna; ma che hanno familiarità con il rombo degli aerei, col rumore delle automobili, con i suoni industriali, con tutto quello che succede in una metropoli come New York" [pp. 90-91]. "Intere sinfonie di nuovi suoni sono sorte nel nuovo mondo industriale e costituiscono per tutta la nostra vita una parte della nostra esperienza quotidiana. Sembra impossibile che un uomo che si occupi esclusivamente di suoni possa rimanerne 98 indifferente" [p. 135]. "Preferisco la città alla campagna e ai suoi insetti e preferisco il bagno di casa mia al ruscello della Pastorale" [p. 143]. Ma forse la circostanza che colpisce di più è il fatto che anche in Varèse l'elogio della città si possa ribaltare in un inatteso elogio del deserto. Al di là di tutte le doverose dichiarazioni di principio sul fatto che "il titolo salta fuori a stesura terminata" [p. 50] oppure che "non è il caso di cercare teoremi e pianeti nella mia musica" [p. 53], essendo la musica "una forma speciale di pensiero" che "non può esprimere altro che se stessa" - Varèse non esita ad illustrare il titolo della sua opera Déserts in questo modo: "Ho scelto il titolo Déserts perché questa è per me una parola magica che suggerisce corrispondenze all'infinito. Déserts significa per me non solo i deserti fisici, sabbia, mare, montagne, neve, spazio esterno, strade vuote in città, non solo gli aspetti spogli della natura, ma anche quel remoto spazio interiore che nessun telescopio può raggiungere, dove l'uomo è solo in un mondo di mistero e di solitudine essenziale. Non mi aspetto certo che la musica trasmetta tutto questo a chi la ascolta. Comunque sia, se le idee possono costituire la genesi di un'opera in via di composizione, la musica si incarica di assorbire tutto ciò che non è puramente musicale... Il deserto è un turbine rovente che trascende ogni atteggiamento umano. Lei non può immaginare quanto io lo ami" [p. 143]. Annotazione Secondo von Maur, 1981, p. 292, che riferisce un' opinione a lei comunicata oralmente da Seuphor, Mondrian potrebbe aver incontrato Varè se dopo un concerto tenuto nel 1925 in Francia. Tuttavia il nome di Varè se non compare in Seuphor, 1979, e tutto sembra ridursi ad una congettura. 99 § 12 Nulla è più singolare che constatare come le speculazioni metafisiche di Mondrian che appaiono a taluni tanto fuori luogo da essere interamente messe da parte, non solo si riversino nel progetto pittorico delineandone il profilo e traducendosi in precisi problemi di organizzazione e di costruzione, ma consentano anche di mostrare il più ampio contesto culturale entro cui il progetto pittorico si situa individuando i nodi che lo collegano strettamente ai problemi dell'epoca. In nessun caso l'andamento della nostra discussione intende suggerire una lettura in chiave simbolistica e allegorizzante dei dipinti astrattisti - cosa che sarebbe apertamente priva di senso. Anche stando allo spirito degli scritti di Mondrian nei quali così spesso vengono proposte connessioni simboliche esplicite, che hanno del resto un'antica tradizione, deve essere escluso che queste connessioni debbano essere lette piattamente come tali all'interno dei dipinti. In essi non si vedono deserti, non si vedono città - e nemmeno si intravvedono. Non vi sono neppure allusioni visive a simili cose. Parafrasando l'efficace formulazione di Varèse: La pittura si incarica poi di assorbire tutto ciò che non è puramente pittorico. Degli schemi di articolazione spaziale che essi propongono possiamo approfittare per realizzare una cancellata, la copertina di un libro, l'arredamento di un ambiente: e deve essere motivo di riflessione il fatto che queste svariate possibilità di utilizzazione facciano parte del loro senso. Vorrei notare in proposito che lo stesso Mondrian ammette che il "neoplasticisrno" può apparire, più che come prodotto della creatività individuale, come "stile"[Mondrian, 1919b, p. 124]. Ma dopo aver chiaramente riconosciuto tutto questo dobbiamo anche aggiungere: come ogni dipinto, anche i dipinti di Mondrian, che non raffigurano nulla, che propongono puri schemi di suddivisione dello spazio, non debbono essere guardati alla cieca. E certamente li si guarda alla cieca se 100 non si tiene conto del contesto creativo che spetta ad essi. La trama di idee che siamo andati esaminando ha certamente una forte coerenza immaginativa. Tuttavia l'apertura del problema musicale non solo ci ha consentito di mostrare che nel cuore di questa "metafisica" apparentemente astorica vi sono i problemi della modernità, ma ha anche inserito all'interno di questa coerenza un momento di incertezza e di instabilità. Il riferimento alla musica ha reso l'intero discorso più inquieto e più movimentato di quanto poteva forse apparire all'inizio della nostra esposizione. La stessa analogia con le posizioni di Varèse, a tratti sorprendente, riceve un particolare significato anche per la divaricazione radicale quanto al modo di intendere il materiale e il compito dell'arte: vi è qui una sorta di conferma a rovescio delle sintesi immaginative elementari proposte da Mondrian. Anche in rapporto alla musica di Varèse infatti si può certamente affermare che essa ha lo spazio come uno dei suoi centri - e tuttavia proprio su questo punto le due strade, quella del pittore e quella del musicista, divergono poi profondamente proprio in un punto essenziale. La musica, secondo Varèse, deve essere concepita come "qualcosa di spaziale", e precisamente "come un insieme di corpi sonori in movimento nello spazio" [Varèse, 1985, p: 154]. Ma allora è la "fisicità" del suono che deve essere messa in particolare rilievo: il suono è sentito e musicalmente praticato da Varèse in tutta la sua corporeità, il suo volume, la sua densità materiale; come un evento fisico, come una "turbolenza atmosferica" [p. 185]. Ed è certamente in coerenza con ciò la ricerca, nella musica, di "un'arte che vi prenda allo stomaco" [p. 19]. La spazialità deve allora essere concepita "aristotelicamente" come insieme di luoghi occupati da cose, e dunque anche come attraversata da movimenti da luogo a luogo. Una simile concezione si connette direttamente in Varèse con l'attribuzione alla musica del compito di scuotere visceralmente - in senso addirittura più fisiologico che psicologico - l'ascoltatore, proponendo una 101 concezione che si trova esattamente sul lato opposto di quella che chiede il rasserenamento in una rinnovata ripresa della teoria della "contemplazione disinteressata". Ma il fatto che un simile contrasto si manifesti sulla base di una comunanza di orientamento complessivo può essere considerato come un indizio che segnala all'interno del percorso di Mondrian la presenza di una sorta di disagio a cui è necessario dare rilievo in queste nostre considerazioni conclusive. Ripensiamo dunque all'esito conclusivo, al punto di approdo immaginativo, che appare nonostante ogni buona volontà così urtante, al "bar", al cabaret indicato come luogo nuovo della nuova cultura, come nuova chiesa per culto di una umanità liberata. Ma non è proprio questo il luogo esemplare delle angoscie espressioniste, il livido specchio di un'umanità derelitta e sfruttata? Mondrian non lo ignora. Ciò è mostrato dal fatto che tutte le affermazioni che abbiamo in precedenza citato non hanno un carattere così nettamente assertorio come potrebbe apparire da una lettura che le separi dal contesto. Più precisamente: non sono mai affermazioni che vengano fatte valere nel qui e nell'ora. Le "apologie" che vengono compiute non sono mai apologie del presente, di un presente realizzato. Ogni asserzione subisce prima o poi una modificazione, un differimento dal presente al futuro - dunque uno spostamento in una direzione utopica. Questo spostamento rappresenta una sorta di movimento necessario affinché i conflitti interni affioranti vengano neutralizzati e la loro possibile azione distruttiva nei confronti della coerenza complessiva del discorso fin qui condotto venga in qualche modo impedita ed ostacolata. Per evitare di espandere la discussione al di là dei nostri intenti, vogliamo ancora attenerci al filo conduttore della problematica musicale. E riproponiamo la domanda che ci siamo posti all'inizio: quali sonorità? quali armonie? La sicurezza con la quale obiettiamo al canto melodioso degli uccelli nel silenzio della campagna è in realtà solo appar- 102 ente. Ha il senso di una prima apertura polemica. Dobbiamo o non dobbiamo anzitutto aderire ai tempi nuovi? Questa sicurezza polemica sa tuttavia di non poter procedere un passo oltre, anzi sa di dover fare subito un passo indietro. La contrapposizione tra i salmi e il rumore di una pressa ha in realtà il fiato corto, stando del resto strettamente all'interno dei termini della posizione che è stata teorizzata. Fino a che punto infatti l'artificialismo può rappresentare una risposta all'antinaturalismo? In realtà vi sono suoni che pur non essendo prodotti dalla natura sono caratterizzati dal "contenuto del ritmo della natura" [Mondrian, 1927, p. 241]. L'elogio della pressa non può certo mantenere lo slancio del suo inizio perché non possiamo affatto permetterci di ignorare che il suo suono non fa altro che ripetere la ripetizione. Le nostre istanze precedenti possono dunque essere rivendicate solo all'interno di uno sguardo rivolto al futuro. Il macchinismo stesso tende dunque a diventare controverso - talvolta lodato, talvolta respinto come aberrante. Dobbiamo distinguere tra il modo in cui la macchina è impiegata ora e il modo in cui essa potrebbe essere impiegata. "La macchina, soprattutto, è un mezzo necessario al progresso umano. Essa può sostituire la forza bruta e primitiva dell'uomo: una forza che nel corso dell'evoluzione umana dovrà trasformarsi... La macchina può liberare l'uomo dal suo stato di schiavitù. Ciò non potrà però avvenire in un giorno. Evidentemente - così oggi come in generale - a causa della cattiva organizzazione della produzione la macchina rende l'uomo di nuovo schiavo" [Mondrian, 1931, p. 297]. L'uomo deve vivere come parte del mondo, ma non come un suo ingranaggio. "L'uomo non vive più in un mondo in sé e per sé bensì nel mondo; egli ne è veramente una parte, separata eppure attiva. Non è più macchina ma consapevolmente e pienamente 103 "umano". Egli si serve della macchina e non è più al suo servizio, come avviene attualmente" [Mondrian, 1927, p. 241]. Non si rammenta dunque soltanto che "il ritmo della macchina è quello della ripetizione" [p. 241]; ma anche, assai più gravemente e pesantemente, che "la macchina non contiene la nuova cultura. La macchina livella, come il militarismo" [ivi]. E quanto all'individualità essa non deve essere "uccisa" ma superata - ed è proprio questo superamento che la macchina, nei modi attuali del suo impiego, non è in grado di realizzare. "Essa può ridurre l'individualità, e può anche ucciderla. Come è usata attualmente, la macchina non abolisce l'individualità" [p. 241]. Infine, inequivocabilmente: "Il naturalismo nel senso di riproduzione dei suoni naturali (compresi i rumori dei macchinari) è all'origine della degenerazione nella musica" [Mondrian, 1921, p. 173]. Si noti come al riferimento naturale subentri ora un preciso riferimento sociale: la macchina livella, come il militarismo. Si tratta di un passaggio importante, al quale peraltro siamo preparati da tutte le nostre considerazioni precedenti. Dietro la polemica antinaturalistica è latente, ad un tempo, l'apologia della modernità e la critica utopica di un modello sociale. Nel testo del 1931 intitolato L'arte nuova, la nuova vita (La cultura dei rapporti puri) nel quale Mondrian manifesta più nettamente le proprie idee in rapporto alla società nuova, egli mostra una cauta propensione verso un socialismo utopico e tenta una vera e propria traduzione dei concetti base della propria poetica, e in particolare della forte insistenza sul tema relazionale, in termini sociali. 104 "I piani rettangolari di dimensioni e colori variabili dimostrano che l'internazionalismo non implica un caos governato dalla monotonia bensì un'unità ordinata e nettamente divisa. Nella neoplastica ci sono di fatto limiti assai pronunciati. Questi limiti non sono però realmente chiusi; le linee rette in opposizione ortogonale si intersecano costantemente, cosicché il loro ritmo continua nell'intera opera. Analogamente nell'ordine internazionale del futuro i vari paesi, pur essendo reciprocamente equivalenti, avranno il loro valore proprio e diverso. Ci saranno frontiere giuste, proporzionate al valore di ogni paese in relazione all'intera federazione. Queste frontiere saranno nettamente delimitate ma non "chiuse"; non ci saranno dogane né carte di lavoro. Gli "stranieri" non saranno più considerati come meteci" [p. 307]. Nello stesso saggio ci si esprime con particolare durezza contro il militarismo, "per non parlare del patriottismo che lo genera", e sulla "cultura infernale" che sta alla sua base a cui la scienza e la tecnica non debbono prestarsi per essere indirizzate piuttosto "per vie che conducano alla felicità dell'uomo" [p. 305-306]. E tuttavia è sempre stato chiaro, fin dalle prime teorizzazioni, che "per ora, la nuova società non è altro che un ideale" [Mondrian, 1919b, p. 129]. Un sogno della società nuova si intravvede persino nella descrizione degli ambienti ipotizzati per la musica del futuro, in contrapposizione alla sala da concerto tradizionale, ambienti che ci riportano inaspettatamente alle discoteche dei nostri giorni, ma a discoteche immerse in un'atmosfera ricca di civiltà e di cultura. "La sala, in quanto luogo in cui saranno ammessi spettatori in piedi, dovrà facilitare i movimenti, la visibilità e l'ascolto; dovrà essere possibile andare e venire senza disturbare gli altri. L'apparecchiatura elettrico-musicale dovrà essere collocata senza essere visibile, in tutti i punti in cui ce ne sarà il bisogno. Quanto all'acustica, la sala dovrà soddisfare le nuove richieste del suono (anche "non musicale"). In breve 105 la sala non dovrà più essere né una sala di teatro né una chiesa, bensì uno spazio aperto e fresco che soddisfi tutte le nuove esigenze di bellezza e di utilità, della materia e dello spirito. Non ci sarà personale a vigilare o servire durante gli intervalli..." [Mondrian, 1922, p. 181]. Se ora ci chiediamo ancora una volta: quali suoni, in luoghi come questi? dovremo anzitutto riconoscere che le considerazioni da cui avevamo preso l'avvio, quel nostro tentativo di "indovinare" la direzione del discorso di Mondrian sulla musica, non erano affatto fuori luogo e i temi che avevamo messo in evidenza, così come i possibili riferimenti esemplificativi, in qualche modo si ripresentano e proprio nel momento in cui il tema del rumorismo manifesta la sua doppiezza e le sue complicazioni interne. Ciò che resta in ogni caso fermo è l'istanza artificialistica: si tratta tuttavia di un artificialismo utopico, che affida alle capacità tecnologiche del futuro la produzione di nuove possibilità sonore che sono e debbono essere lasciate in una relativa vaghezza, appese all'esile filo delle suggestioni immaginative. Si dovrà cercare il suono esatto, perfettamente determinato, come nella pittura il colore puro. La composizione dovrà utilizzare suoni "fissi, piani e puri". Queste caratterizzazioni sono riempite solo provvisoriamente da riferimenti concreti: ad esempio, vi è un simpatizzare per gli strumenti percussivi in genere - per la loro durezza; e tra essi per gli strumenti percussivi possibilmente piatti, perché Mondrian trasferisce un poco rozzamente anche alla musica la richiesta di bidimensionalità che si fa valere anzitutto nella pittura. Ma in ultima analisi che cosa siano la determinatezza, l'esattezza, la planeità, la fissità, la purezza, ecc. - tutte queste cose debbono restare necessariamente in una vaghezza utopica, in attesa che gli sviluppi tecnologici siano in grado di dare ad esse una effettiva concretezza. La stessa terminologia del brano seguente rivela questa significativa incertezza: 106 "Come il colore nella pittura, così il suono nella musica deve essere determinato, e in virtù della composizione e in virtù del mezzo plastico, se il suono vuole operare come mezzo plastico esatto dell'universale. La composizione vi perverrà utilizzando suoni che siano fissi, piani e puri. Ogni tono fondamentale deve essere nettamente delimitato, ad opera tanto del suo opposto quanto della sua propria natura, poiché ogni strumento, per sua natura e in conseguenza della sua costruzione, possiede un timbro che causa, ben più delle vibrazioni, il carattere più o meno "naturale" del suono. Gli strumenti a corda, i fiati, gli ottoni, ecc. debbono essere sostituiti da una batteria di oggetti duri. La costruzione e la materia dei nuovi strumenti avranno la massima importanza. Così il "cavo" e il "bombato" saranno sostituiti dal "piatto" e dal "piano" poiché il timbro dipende dalla forma e dalla materia usata. La realizzazione di un tale programa richiederà molte ricerche. E quanto al mezzo di produzione del suono sarà preferibile usare l'elettricità, il magnetismo, la meccanica in quanto essi escludono più facilmente l'intromissione dell'individuale" [Mondrian, 1920, p. 160]. Lo scritto da cui è tratta questa citazione è dedicato "Agli uomini del futuro". Ed anche per ciò che riguarda il ritmo aperto, di esso il jazz e la città contengono solo un annuncio. Il jazz - che "è ora nel bar" - "non conosce l'oppressione, del lavoro" [Mondrian, 1927, p. 245]. Eppure poco dopo, nello stesso scritto: "L'individuo viene sfruttato. Il bar è uno sfruttamento" [p. 246; Mondrian 1931, p. 288]. Nella città metropolitana "si è raggiunta un'abolizione della forma che è la causa del ritmo aperto che la pervade" [p. 244]; e tuttavia la città è il luogo in cui l'oppressione del lavoro e la lotta per l'esistenza assumono la massima visibilità, cosicché in essa ricompare quella polarità del tragico che viene ormai esplicitamente vincolata all'elemento sociale, piuttosto che a quello meramente naturale. 107 "Il ritmo della metropoli esprime però in modo visibile e udibile l'oppressione del lavoro. Si avverte l'opposizione disuguale tra lavoro forzato ed esistenza libera. Si avverte la lotta per l'esistenza: la tragicità del rapporto squilibrato materiale e morale" [pp. 244-45]. Di fronte a ciò l'elogio della città non può che essere rilanciato in una prospettiva sempre più lontana. La "nuova cultura" è ormai un'espressione che richiede in linea di principio un verbo al futuro. "... la nuova cultura creerà una metropoli totalmente nuova, usando gli stessi mezzi che la vecchia cultura usa ora nel modo opposto. Ne seguirà un diverso ritmo, visivo e uditivo: il tragico sparirà" [p. 245]. New York è ora soltanto un mito. E l'astrattismo stesso diventa un'arte transitoria verso un nuova cultura che, forse, verrà. La formula che forse meglio può essere richiamata conclusivamente è quella che Mondrian impiega nel saggio del 1930, L'arte realistica e l'arte superrealistica, nel quale le dimensioni temporali vengono assimilate alle fasi giorno: il passato alla notte, il pieno giorno al futuro. Ed allora il presente all'alba non ancora uscita dalla notte ed ancora dominata dalla notte e dunque dall'oppressione del tragico che si fa ancora sentire e dalla speranza del suo superamento che si annuncia. "All'alba domina ancora la notte. La fievole luce cerca di vincerla. Si sente l'oppressione dello squilibrio notte-giorno, chiaro-scuro. E l'aspirazione verso l'equilibrio. La speranzadisperazione. L'assenza di certezza. E l'attesa del pieno giorno. Pieno giorno: unità per equivalenza di luce e di ombra. La notte: il passato. Pieno giorno: il futuro: l'uomo e la natura unificati. Il presente: l'alba, la fine della notte. L'alba: l'evoluzione"[Mondrian, 1930a, p. 254]. 108 Ma in questo momento di attesa del giorno pieno - questo è il punto importante in questa assimilazione immaginativa di Mondrian - non si situa solo l'atteggiamento artistico proiettato verso il futuro che genera il progetto astrattistico, ma anche quel sentimento della natura che è proprio del pittore paesaggista nel quale si fa ancora sentire il peso della notte: "l'oppressione di questo tragico, un sentimento di sofferenza senza fine, viene da noi subita all'alba; è questa un'emozione provata da ogni artista ed è espressa, in pittura dal paesaggista" [p. 254]. È come se qui, in un lampo, si volesse cogliere il senso di un lungo itinerario che proprio nel paesaggismo aveva avuto i suoi inizi. "Attendiamo così il pieno giorno: il futuro. Attendiamo la nostra maturità. Ma per attenderla bisogna amarla. E per amare il pieno giorno occorre avere amato la notte, aver conosciuto l'alba e amarla ancora: per detestare il tragico occorre aver molto vissuto" [p. 255]. 109 TESTI CITATI ACANFORA, M. O. 1960, Pittura dell'età preistorica, Società Editrice Libraria, Milano. ARGAN, G. C. 1953, Mondrian, in Argan, 1964, pp. 122-130, 1956, Mondrian: quantità e qualità, in Argan, 1964, pp. 131-138. 1964, Salvezza e caduta dell'arte moderna, Il Saggiatore, Milano. FORMAGGIO, D. 1991, I giorni dell'arte, Franco Angeli, Milano. GIOSEFFI, D. 1957, La falsa preistoria di Piet Mondrian e le origini del neoplasticismo, Università degli Studi di Trieste, Istituto di Storia dell'arte antica e moderna, Trieste. GOETHE, J. 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La serie delle serie dodecafoniche e il triangolo di Sarngadeva, p. 179 2013 4 ISBN 978-1-291-27912-2 Copyright Giovanni Piana Tutti gli esempi musicali presenti in questo libro sono reperibili anche come files sonori nella versione pdf del saggio corrispondente presente nell'Archivio di Giovanni Piana, Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi di Milano. In ogni caso la loro assenza non pregiudica la comprensione del testo. 5 Giovanni Piana I compiti di una filosofia della musica brevemente esposti 1998 6 Il contenuto di questo testo è stato proposto nel corso della Giornata di Studio sul tema "Estetica musicale e Filosofia della musica: passato, presente, futuro" promossa in data 30 aprile 1996 da "Il Saggiatore Musicale", a cura di Giuseppina La Face Bianconi e Osvaldo Gambassi in collaborazione con il Dipartimento di Musica e Spettacolo dell'Università degli Studi di Bologna. Questo saggio è stato pubblicato on line in "De Musica", 1997. La versione inglese è stata pubblicata in "Axiomathes", n. 1-2 1998, pp. 213-222. 7 Parte prima (Illustrativa) Vi è un qualche vantaggio nei tempi drasticamente brevi assegnati, talvolta per necessità, ai relatori di incontri e di convegni. Si favorisce in questo modo o la scelta di argomenti nettamente delimitati e specializzati, oppure, in alternativa, il proposito di fornire una fulminea sintesi di impostazioni e di prese di posizione anche molto generali, imponendo una drastica semplificazione nei sostegni argomentativi e nell'illustrazione mediante esempi. In questo secondo caso si corrono naturalmente molti rischi, esponendo il fianco alle critiche che si possono appuntare proprio sugli impoverimenti inevitabilmente indotti dalla semplificazione. Il vantaggio che se ne trae è tuttavia quello di stringere i propri pensieri intorno ai nodi che si ritengono realmente essenziali, rendendo possibile una valutazione della loro consistenza "a grandi linee". Una parte importante della riflessione filosofica sulla musica deve oggi essere sviluppata, io credo, in stretta connessione con il problema di una teoria della musica: ma naturalmente una simile affermazione non può pretendere di avere un significato ben determinato se non è indicata almeno la direzione secondo cui si impiega l'espressione di "teoria della musica". Le prime perplessità potrebbero essere sollevate intanto sull'impiego del singolare. Non si dovrebbe anzitutto, come è suggerito da molti, ritenere che l'espressione "la musica" sia impropria, e che ad essa si dovrebbe sostituire sempre il plurale "le musiche"? In corrispondenza alla riconosciuta molteplicità dei linguaggi musicali occorrerebbe allora fare riferimento ad una molteplicità di sistemazioni teoriche. Io vorrei invece subito sottolineare con chiarezza e senza ambiguità questo punto: il riconoscimento di una molteplicità di linguaggi, e quindi eventualmente, di teorie corrispondenti - in un'accezione più o meno forte del termine - non interferisce in alcun modo o tanto meno preclude una prospettiva di discorso che, ponendo il problema di una teoria della musica voglia puntare l'attenzione su aspetti di ordine generale. Si tratta di una questione che richiederebbe una discussione di grande respiro - certo, e tuttavia, una volta che abbiamo deciso di andare dritti allo scopo, essa può forse essere delimitata e circo- 8 scritta sulla base di pochi esempi. Si possono presentare le cose come se si trattasse di una semplice riflessione terminologica, che tuttavia, nonostante le prime apparenze, è in grado di fare intravvedere direzioni di sviluppo non troppo ovvie e consuete. Primo esempio Nell'ambito della teoria del linguaggio tonale sappiamo che la parola "tonica" ha un'accezione assai chiara e ben determinata: essa è una nota che ha una "importanza centrale" all'interno di un brano ed è questa importanza centrale che conferisce ad essa una funzione strutturante. Sappiamo tuttavia anche che, se ci limitassimo ad una simile caratterizzazione, non potremmo certo pretendere di aver delimitato in modo adeguato la nozione di tonica nel linguaggio tonale per il semplice fatto che non abbiamo specificato condizioni importanti che riguardano i mezzi in cui questa "importanza" viene messa in rilievo e i modi specifici secondo i quali essa assolve una funzione decisiva nel conferire al brano musicale la sua unità e la sua articolazione. Per dirla in breve, la tonica non è nulla senza la triade, e senza determinati modi di trattare la triade. Quanto meno sono dunque implicate determinate relazioni di consonanza e di dissonanza, e lo sono secondo un complesso piano di regole. Una simile osservazione è assai più ricca di motivi di riflessione di quanto potrebbe a prima vista apparire. A prima vista infatti sembrerebbe che ci limitassimo a constatare quanto sia generica la caratterizzazione della nozione di tonica proposta - sollevando nello stesso tempo l'esigenza di una caratterizzazione più precisa. Ma non è difficile rendersi conto che quella prima caratterizzazione potrebbe essere considerata, non già come un mero indebolimento privo di interesse, della nozione pregnante e pertinente di tonica, ma come una caratterizzazione che, proprio per via della sua debolezza, pone il problema di un impiego più generale del termine e dunque della nozione corrispondente. Il fatto è che possiamo se non altro immaginare diverse alternative possibili per far valere l'importanza di una nota e per dare ad 9 essa una funzione strutturante. Ci potremmo chiedere se in presenza di una nenia elementare o di una cantilena articolata su tre o quattro note, nella quale viene fatta notare l'importanza di una nota attraverso la pura e semplice ripetizione, saremmo autorizzati a parlare di tonica oppure l'impiego di questo termine sarebbe da respingere come una pura proiezione di un quadro di idee del tutto estraneo all'oggetto musicale considerato. A ciò credo si possa rispondere che la questione è per così dire nelle nostre mani. In effetti nessuno ci impedisce di usare il termine in una accezione più generale, non vincolata al linguaggio tonale. E d'altra parte si può parlare di proiezioni o di ingiustificate interpolazioni interpretative solo se queste sono dimostrabilmente presenti. A mio avviso dopo circa un secolo in cui la musicologia stessa ha fatto una critica a fondo dei "pregiudizi" e degli "atteggiamenti proiettivi", sembra il caso di temere questo rischio meno di quanto giustamente lo si temeva una volta, e di vedere invece alcune giustificazioni per un impiego "esteso" dei termini. Secondo esempio A titolo di secondo esempio potremmo far notare che certe relazioni che hanno un significato musicale ben determinato quando siano integrate in un complesso di condizioni aggiuntive, hanno comunque un significato anche fuori da quel contesto. Così si parla di legame armonico tra due triadi, quando esse abbiano almeno una nota in comune. Ci si deve allora concedere che se tra due triadi vi è un legame armonico, allora questo legame vi sarebbe comunque, anche se non vi fosse in generale qualcosa come il linguaggio tonale e le sue complesse regole di successioni delle triadi. Relazioni come queste non sorgono in virtù di un riferimento linguistico, non sorgono cioè per il fatto di essere state oggetto di una regolamentazione in un linguaggio storico della musica. Va la pena anche di notare che un simile legame è concretamente percepito, è un dato di fatto percettivo - e ci mancherebbe altro che non lo fosse! Questa osservazione è portatrice di altri problemi rispetto all'esempio precedente, ma si ricongiunge con esso rafforzandone il senso per il fatto che anche in questo caso enunciamo una possibilità 10 generale che riguarda ora la connessione tra gruppi di suoni in successione. Il fatto che si tratti di una possibilità elementarissima non può naturalmente rappresentare una obiezione. Anzi si potrebbe considerare questa "riduzione al caso elementare" come un vero e proprio metodo argomentativo: esso consiste nel ridurre un grande problema ad un caso minuto a cui l'interlocutore darà facilmente e un po' distrattamente il proprio assenso data la pochezza del caso, senza rendersi conto che sta contraendo un impegno forse indesiderato rispetto alla catena di ammissioni che a partire da quell'inizio potrebbe essere costretto a fare. Terzo esempio Analogamente, ciò che chiamiamo ad esempio "nota vicina" oppure "nota di passaggio" sono da considerare delle semplici configurazioni percettive prima ancora di diventare nozioni significative rispetto a determinati contesti teorico-analitici. Si può anche avanzare l'idea che tali strutture abbiano una ricchezza di significato che tende a superare la particolarità di quei contesti. Forse, con la nozione di nota vicina e con quella di nota di passaggio non siamo obbligati a seguire una strada che ci conduce infallibilmente al linguaggio tonale, se non addirittura ad un modo particolare di analizzarlo. È come se si indicasse, con parole come queste - forse con tutte le parole importanti della teoria musicale - un sentiero che tuttavia assai presto si trasforma, di biforcazione in biforcazione, in un labirinto di strade. Quarto esempio Con la parola accordo, nel quadro della teoria del linguaggio tonale, si intende inevitabilmente la triade. In un'accezione un poco più ampia, e non senza qualche problema, una formazione di terze sovrapposte. In questo linguaggio non vi sono comunque diadi. Soltanto attenendosi strettamente a questa nozione speciale di accordo si può parlare di "note omesse". Ecco un'altra nozione che assolve una funzione la cui importanza è difficile da sottovalutare nella teoria del linguaggio tonale e proprio a fini di mantenerne la 11 compattezza e la coerenza. Val la pena di richiamare l'attenzione su questo punto per il fatto che l'impiego di questa espressione viene proposto spesso senza alcuna discussione critica preliminare al punto da far sospettare che ci si renda ben poco conto di quanta teoria sia in essa implicata. Al contrario sembra quasi che si enunci un semplice dato di fatto. Qui manca una nota. Una nota è stata omessa. Analogamente talvolta potrebbe non essere facile spiegare ad un normale studente di conservatorio che senza Rameau non ci sarebbero i rivolti (se non in un'accezione del tutto diversa e riguardante unicamente la struttura formale dei rapporti intervallari). Si avverte in casi come questi la necessità di un consolidamento epistemologico delle nozioni appartenenti alla teoria della musica. L'esigenza di un'epistemologia corrispondente alla teoria, che indaghi lo statuto dei concetti in uso, che sappia districare le componenti di ordine storico-linguistico da quelle di ordine propriamente concettuale, si fa sentire appena nell'affiorare di interrogativi subito messi da parte. All'interno di interessi epistemologici la questione di una possibile generalità delle nozioni, che può prendere l'avvio anche soltanto da una semplice riflessione sulla terminologia, avrebbe subito particolare rilievo. Così potremmo decidere di impiegare la parola "accordo", come certamente siamo liberi di fare, per indicare un raggruppamento qualsiasi di suoni simultanei. Se badiamo alla musica del Novecento, questa nozione potrebbe sembrare la più appropriata, anche se ovviamente, si cercheranno poi ulteriori differenziazioni ed eventuali tipologie - come fa Persichetti nella sua Armonia del ventesimo secolo [1] . Sarebbe tuttavia del tutto sbagliato ritenere che ci troveremmo qui di fronte ad un' altra nozione speciale di accordo. Non vi è qui particolarità contro particolarità, ma piuttosto un impiego del termine nella sua accezione più ampia, che ci lascia liberi di fronte a possibili particolarizzazioni e specificazioni. Che poi questa esigenza di generalità si presenti proprio all'interno ed a partire da una considerazione delle vicende della musica del nostro secolo è a sua volta significativo: queste vicende, infatti, ci propongono di continuo, secondo diverse angolature, l'invito a ripensare, non solo al problema della molteplicità linguistica, 12 ma anche alla vecchia idea di una grammatica generale. Riportata entro un ambito musicale, questa idea sembra fare tutt'uno con il problema di una sintassi della percezione che è in qualche modo presupposta dalle sintassi dei linguaggi storici della musica. Quinto esempio Forse l'osservazione precedente può essere un poco chiarita dal nostro quinto ed ultimo esempio. Una serie dodecafonica è anzitutto una serie di suoni; ma una serie di suoni è anche la scala di la maggiore, un modo gregoriano, un murchana o un raga. Ora, una serie di suoni, considerati intanto nei loro rapporti di intervallo, non è una delle tante cose che si incontrano per caso rovistando nella storia della musica. Una serie di suoni è anzitutto una serie - ed alle serie in genere spettano determinate possibilità di strutturazione e di organizzazione. Dobbiamo allora distinguere due punti di vista che non sono affatto tra loro in contrasto. Da un lato, badando alla storia della musica - dizione con la quale mi permetto di intendere la storia universale della musica, e non solo la storia della musica europea, come in genere si sottintende - possiamo scoprire in che modo gli uomini abbiano utilizzato le serie dei suoni per scopi espressivi; dall'altro, badando invece alla nozione di serie come tale, possiamo studiare le possibilità che sono inscritte nella nozione stessa di serie come nozione generale (o se vogliamo anche: matematico-formale), considerando nello stesso tempo quelle limitazioni, ma anche quelle possibilità aggiuntive, che derivano dal fatto che le serie che ci interessano sono costituite di suoni, cosicché saranno da considerare le relazioni peculiari che essi pongono in essere e i loro potenziali impieghi espressivi. Questi due punti di vista non solo non sono tra loro in contrasto, ma si richiamano a vicenda. Da considerazioni come queste sorge infatti l'invito a indagare le scelte espressive anzitutto nei loro contesti specifici e specificamente storico-linguistici, ma anche a correlare tali scelte a campi aperti di strutturazioni sonore possibili. A mio avviso sono proprio questi campi il tema effettivo sulla quale una filosofia della musica è chiamata anzitutto a riflettere. 13 Parte seconda (Polemica) Naturalmente non è possibile pretendere che l'idea qui sommariamente abbozzata sia realmente chiara nella sua portata e nelle sue implicazioni. Qualcosa di più si può dire tuttavia sull'atteggiamento che sta alla sua base, cercando di riproporla, sempre con la massima schematicità, nei suoi impliciti risvolti critico-polemici. Contro che cosa dunque si rivolgono le considerazioni precedenti (e naturalmente anche: da quale parte è lecito aspettarsi delle critiche consistenti al punto di vista che stiamo sostenendo)? In esse si è fatta soprattutto notare, secondo diverse angolature, la possibilità di operare delle generalizzazioni terminologiche, e quindi, inversamente, di riunire sotto titoli unitari nozioni che possono poi ricevere specificazioni all'interno di linguaggi musicali essenzialmente diversi. È dunque possibile considerare eventuali stilemi storico-linguistici a titolo di esempi di strutture sonore che hanno le loro possibilità logiche e fenomenologiche determinatamente indagabili come tali. Ciò non significa che si possa pretendere di togliere le differenze che fanno parte della specificità storica di quelle strutture: ma che ci si può avvalere, nella loro analisi, di criteri e categorie concettuali che non debbono essere obbligatoriamente dipendenti da questa specificità. L'accento posto sulla possibilità è anche un accento tolto al dato di fatto. Non si deve però troppo frettolosamente concludere che una simile affermazione ci metterebbe senz'altro sotto il dominio di un ingiustificato apriorismo, e conseguentemente del puro e semplice pregiudizio. È certo invece, per dirla con una immagine, che non ci piace più il gioco della mosca cieca; e tanto meno ci piace il fingere di giocare a questo gioco. Vi sono libri di teoria della musica che cominciano in effetti ad occhi bendati. La "musica" - qual è mai il significato di questa parola? Chi ne sa nulla intorno ad esso? Dobbiamo andare ad interrogare la gente, ed essere pronti a qualunque risposta. Della quale bisognerà semplicemente prendere atto. Sembra peraltro che si sia ormai accertato "che non è possibile parlare di musica senza riferirsi, anche in maniera sottintesa, al sonoro"; e quindi possiamo ammettere, "senza troppe preoccupazio- 14 ni", che "il suono è la condizione minimale del fatto musicale" [2]. Il punto più importante di questa frase è, in tutta evidenza, l'inciso: "senza troppe preoccupazioni". Esso è la sintesi di una forma mentis. Guai a perdere la vigile coscienza che "qualsiasi tratto presentato come universale lo è sempre per ipotesi, poiché la conoscenza delle civiltà musicali del mondo non è mai conclusa" [3]. E persino in quell'affermazione, in effetti piuttosto modesta, dobbiamo scorgere la presenza di un "universale musicale". Tuttavia, poiché si concede l'improbabilità di una sconfessione fattuale dell'ipotesi in essa formulata, possiamo almeno su questo punto lasciar da parte le nostre ansietà metodiche. Si trae così un respiro di sollievo. Almeno di questo non mi preoccupo "troppo". Questo è appunto il gioco che non ci piace più: il far finta di non sapere ciò che si sa, il presentare delle ovvietà, di per se stesse assai poco significative, come se fossero inauditi reperti della ricerca empirica, ritenere che il pensiero sia realmente libero solo quando sia stato soppresso: tutto ciò ci sembra sbagliato, e ci sembra sbagliato proprio dal punto di vista di chi ha cuore la ricerca empirica e l'apprendere da questa ricerca. (Un esploratore non sa nulla del continente in cui approda, eppure, per quanto possa sembrare strano, egli ha sempre in mente già da prima qualcosa e non se ne va in giro a caso, scegliendo qualunque strada o un itinerario qualunque). Un conto è del resto la ricerca empirica, un altro è la filosofia empiristica. A volte si avverte una certa incapacità a distinguere tra queste due cose. Un attacco alla filosofia empiristica viene preso erroneamente come un attacco alla ricerca empirica, e questo è naturalmente un errore che genera fastidiosi fraintendimenti. Le nostre considerazioni precedenti perseguono in effetti lo scopo di sottrarsi a quello che potremmo chiamare il circolo empiristico: a differenza del circolo ermeneutico che conduce da senso a senso senza che si riesca a vedere su quali fatti i sensi siano innestati, il circolo empiristico conduce invece da dato di fatto a dato di fatto senza che fra l'uno e l'altro si possa intravvedere un'effettiva relazione di senso. Non si pensi che questo problema, in particolare nell'ambito della riflessione musicologica, sorga solo regredendo ad una èra preidealistica e pre-storicistica, come il termine di empirismo farebbe sospettare. La questione è in realtà più complessa proprio per il fatto che lo storicismo nella fase della sua decadenza, quanto più rinuncia al sostegno ideale di una "filosofia della storia", tanto più si 15 avvia a riscoprire, con maggiore o minore consapevolezza, i luoghi comuni delle filosofie empiristiche. In Theodor Wiesengrund Adorno una filosofia della storia sorregge ancora, e con particolare pesantezza, l'interpretazione dei fatti che vengono risucchiati e dissolti in quella interpretazione. Anche il giudizio estetico si sente qui sicuro di sé e si abbatte sulla produzione musicale come una mannaia. Invece, una posizione come quella di Carl Dahlhaus prende giustamente le mosse dal riconoscimento dell'insostenibilità di un simile orientamento intellettuale, ma sfocia in una sorta di compromesso tra storia e teoria in cui ciò che ho chiamato il circolo empiristico si ripresenta in tutta la sua evidenza ed esemplarità. Due parole in proposito possono essere dette con riferimento al volume Analisi e giudizio di valore (Analyse und Werturteil) (1970), tradotto in italiano con il titolo di Analisi musicale e giudizio estetico, in cui la posizione dell'autore appare formulata con particolare chiarezza [4]. Naturalmente accennando alla tematica sviluppata in questo testo l'angolatura delle nostre considerazioni si sposta fortemente, poiché passiamo dalla problematica di una filosofia della musica intesa come una riflessione sulle sue nozioni costitutive alla questione della valutazione estetica che ha indubbiamente una rete di riferimenti concettuali diversamente orientati. Il punto di collegamento, al quale siamo qui interessati, è il modo in cui può presentarsi anche su questo terreno il problema di una fondazione teorica, e quindi quello del rapporto tra il "giudizio" ed una "teoria" del giudizio. Carl Dahlhaus infatti si rende perfettamente conto della necessità di fare riferimento ad un qualche impianto teorico, tanto più nel momento in cui si vuole accedere al campo dell' estetica musicale intesa come luogo di emissione di giudizi di valore: il concetto stesso di giudizio di valore sembra imporre un simile riferimento. Nello stesso tempo egli ritiene di non poter più ricercare questo impianto in una direzione idealistica perché ciò significherebbe ricadere in una forma di apriorismo estraneo alle cose stesse. Ed anche su questo punto non gli si può dare torto. Ci si avvia allora alla formulazione di un insieme di criteri e di categorie generali del giudizio di valore, capaci di fornire nel loro insieme il profilo di una vera e propria teoria. Si tratta di criteri quali 16 quello dell'originalità, della ricchezza di collegamenti motivici e di articolazioni, di buona qualità nella tecnica compositiva, di differenziazione, di integrazione, di compensazione e di qualche altro ancora. Il punto importante è in ogni caso il seguente: ciascun criterio viene proposto solo in quanto è possibile fornire una documentazione fattuale del suo impiego, anzi esso è in primo luogo e niente altro che un "documento storico". I meriti che sanciscono la sua dignità stanno di conseguenza tutti nella frequenza con cui esso ricorre nelle valutazioni e nell'esercizio effettivo della critica nel passato. In base a considerazioni relative alla frequenza, Dahlhaus è persino disposto a riconoscere ad alcuni di essi un qualche grado di generalità che induce una vaga coloritura sovrastorica. Così accade, ad esempio, per ciò che egli chiama compensazione, quando osserva che la tendenza a compensare la complessità in una dimensione musicale con la semplicità in un'altra sembra dominare in ogni epoca. Anche questa generalità va dunque considerata come una mera circostanza di fatto (alcuni criteri sono più ricorrenti di altri). Talora si cerca addirittura di rendere conto di essa attraverso considerazioni di ordine psicologico e biologico - come quando si legge che "la differenziazione e l'integrazione, il diversificarsi molteplice delle parti di un tutto e la loro coesione funzionale, sono due aspetti del medesimo sviluppo che si intrecciano e completano: si tratta di una legge biologica che tende a estendersi alle opere d'arte, senza che tuttavia si possa stabilire se in campo estetico si tratti di una regola empirica o di un postulato, né se la sua sfera di validità sia storicamente illimitata ovvero compresa entro limiti precisi" [5]. Al di là di tutto, vi è in questa frase lo sdrucciolamento dall'esistenza di una legge biologica - che viene avvertita evidentemente come un buon trampolino per effettuare il rischioso salto ad una generalizzazione - a quella pretesa tendenza della legge stessa "ad estendersi alle opere d'arte", che è pura fantasia speculativa dell'autore. Va da sé infine che questi criteri che, in una considerazione autenticamente storica, riceverebbero senso, determinatezza e differenziazione secondo i contesti filosofici in cui sono di volta in volta inseriti, sono invece assunti in modo tale da renderli il più possibile indipendenti da questi contesti. Questo indebolimento della loro consistenza storica è naturalmente connesso con l'esigenza di poter contare su qualche cosa di simile ad una teoria. Ma si potrà mai soddisfare questa esigenza seguendo un per- 17 corso così contorto? In realtà, alla fine tra le nostre mani non vi è altro che un centone di oggetti trovati, di cose raccattate per istrada, ed anzi ci si deve fare un vanto di averle raccattate proprio di lì. Dopo di che ci si avvia in modo del tutto conseguente a mostrare che ad ogni criterio può essere contrapposto il criterio che gli fa da esatto contraltare (qualunque cosa può essere raccattata dalla strada). Questa circostanza è tanto insistita da concretizzarsi in un vero e proprio stilema espositivo caratteristico, nello stilema "ciò non significa che...". All'enunciazione di ciascun criterio segue inevitabilmente la frasetta "ciò non significa che..." - frasetta che introduce la formulazione del criterio opposto. Spesso anzi tali stilemi si susseguono l'uno all'altro formando urtanti catene di affermazioni subito contraddette [6]. Beninteso Dahlhaus non si fa per nulla sostenitore di una forma di relativismo scettico di fronte al giudizio di valore in ambito musicale. Quest'opera intende anzi mostrare un possibile radicamento oggettivo del giudizio estetico in dati di fatto rilevabili analiticamente anche se naturalmente ciò non significa che.... i principi e i metodi dell'analisi stessa non si trovino già sotto qualche preconcetto di ordine estetico, come viene ammesso fin dall'inizio. Un simile andamento altalenante è la vistosa manifestazione di uno storicismo e di un empirismo che hanno smarrito la via. Alla fine, tutto si riduce - indipendentemente dalle raffinate osservazioni di dettaglio, di cui, come sempre, anche questo volume di Dahlhaus è ricchissimo - ad una pura e semplice esibizione della varietà di risposte che sono state date al problema della valutazione estetica dell'opera musicale. Queste risposte sono state in effetti molto varie. Ma una simile osservazione potrebbe essere solo l'inizio di una riflessione teorica, certamente non il suo punto di arrivo. Nulla garantisce infine che questo modo di porre il problema, essendo libero da dogmatismi, rappresenti un atteggiamento di autentica apertura nei confronti della molteplicità linguistica. Talora può essere vero l'esatto contrario. Può accadere infatti che, qualora non si reperiscano nessi storicamente documentati e veicoli materiali di comunicazione tra culture diverse, se ne decreti la reciproca inaccessibilità, essendo ogni nesso ideale interpretato in chiave di filosofia della storia di 18 stampo idealistico e rifiutato come tale. Si tenderà quindi a sostenere, implicitamente o esplicitamente, che ciò che è estraneo alla nostra tradizione può essere da noi rispettato e tollerato come qualcosa di essenzialmente altro, ma non autenticamente compreso. Così la dichiarazione di Dahlhaus secondo cui "tra le culture giapponese, indiana ed europea occidentale non si può né stabilire un rapporto esteriore, empirico, né ideare un nesso interiore in base alla filosofia della storia" [7] - sembra, se è stata da me correttamente intesa, escludere qualsiasi nesso: ed in particolare all'interno della cultura italiana che, nel corso di un secolo intero di rinnovamento delle idee intorno alla pratica ed alla teoria della musica, non ha saputo produrre nulla o quasi nulla di significativo sulle culture musicali extraeuropee, non solo dal punto di vista dell'analisi teorica, ma nemmeno dal punto di vista storico ed ancora più semplicemente informativo, queste parole suonano purtroppo come legittimazione di una situazione di arretratezza che io penso invece che possa e debba essere superata. 19 Note [1] V. Persichetti, Armonia del ventesimo secolo, trad. it. a cura di F. Jegher e Luca Cerchiari, Guerini, Milano 1993. [2] J.J. Nattiez, Musicologia generale e semiologia, trad. it. a cura di R. Dalmonte, EDT, Torino 1989, p. 35. [3] ivi, p. 49. [4] C. Dahlhaus, Analisi musicale e giudizio estetico, trad. it. a cura di A, Serravezza, Il Mulino, Bologna 1987. [5] ivi, p. 50. [6] Ad esempio: l'originalità, il nuovo è certamente un criterio di apprezzamento estetico; ma ciò non significa che "la dipendenza di opere musicali da modelli da imitare o emulare" non possa essere apprezzata esteticamente come espressione di un saldo senso della tradizione; d'altra parte, che questa dipendenza possa essere apprezzata in questo modo non significa che"non possa essere criticata come atteggiamento epigonale che tenta di sottrarsi alle esigenze estetiche del proprio del tempo" (p. 40). Oppure, in una citazione letterale: la "differenziazione materiale, vale a dire la ricchezza del lessico musicale costituito da modelli ritmici, accordi, figure dissonanti e raggruppamenti melodici, è senza dubbio un criterio superficiale, ma non per questo inutilizzabile. Esso non basta a fondare un giudizio estetico, ma non è giusto sottovalutarlo..." (p. 51). Gli esempi si potrebbero moltiplicare. [7] C. Dahlhaus - H.H. Eggebrecht, Che cos'è la musica, trad. it. a cura di A. Bozzo, Il Mulino, Bologna 1988, p. 11. 20 21 Giovanni Piana Fenomenologia dei materiali e campo delle decisioni. Riflessioni sull' arte del comporre 1995 22 Questo testo è stato pubblicato nel volume Autori Vari, Il canto di Seikilos. Scritti per Dino Formaggio nel suo ottantesimo compleanno Guerini e Associati, Milano 1995, pp. 45-55 23 1 Vorremmo avviare, nelle pagine seguenti, alcune considerazioni che hanno di mira la musica come arte del comporre. Certamente ogni arte potrebbe essere caratterizzata così. Ma già il linguaggio corrente, che talvolta contiene implicitamente preziosi indizi per un'analisi, ha ritenuto di dover riconoscere il comporre come un'azione eminentemente musicale: si dice compositore soprattutto il compositore di suoni. Ciò dipende forse dal fatto che un narratore o un pittore vanno - o sembrano andare - subito oltre i materiali di cui si servono, le parole o i colori, per mirare a ciò che per mezzo di essi viene visivamente o verbalmente rappresentato; e noi a nostra volta siamo attenti a cogliere nel dipinto quella parte del mondo che in esso, attraverso i colori, viene rappresentato oppure viviamo, ascoltando il narratore, le vicissitudini e le peripezie che fanno parte del suo racconto. Lo stesso non si può dire invece nel caso della musica. Nel brano musicale non si rappresenta nessuna parte del mondo, e se vi sono peripezie queste sono peripezie dei suoni. Per il musicista i suoni non si presentano come mezzi che debbono essere utilizzati per uno scopo che li oltrepassa in misura più o meno ampia, ma come materiali che sono essi stessi il fondamento della sua pratica artistica. Già per questo motivo questa pratica è eminentemente una pratica compositiva, una pratica del comporre: cioè una pratica del mettere insieme, del dare ordine, dello stabilire relazioni - una pratica il cui risultato è una costruzione sonora che pretende di essere considerata anzitutto esattamente per quello che è, per i rapporti e per le forme di connessione che essa manifesta. 2 In realtà, a vedere questo problema più da vicino sorgerebbero subito diverse complicazioni e forse qualche motivo di contesa. Ma qui non siamo interessati a chiarire fino a che punto sia ben fondata la differenza tra la musica e le altre arti, mentre ci è utile far riferimento ad essa nella sua forma meno sottile e più vistosa. 24 Di fronte al musicista ci sono già da subito i materiali sonori. Essi stessi rappresentano un problema. Di fronte ad essi il musicista deve prendere delle decisioni. Potremmo dire che la nostra riflessione sull'arte del comporre deve svolgersi interamente nello spazio determinato da questi due titoli: i materiali da un lato, la decisione dall'altro. Una simile affermazione sembra inizialmente piuttosto ovvia. Eppure non appena cerchiamo di esaminarla più da vicino essa si mostra carica di problemi. Il suo senso è assai meno univoco di quanto possa sembrare ad un primo sguardo, e secondo l'una o l'altra interpretazione proposta possono avere inizio di qui itinerari divergenti. Intanto è il caso di chiedersi: che cosa si intende con materiali e che cosa con decisioni? La prima parola sembra opporsi alla seconda anche dal punto di vista delle aree di senso che esse sembrano inevitabilmente ridestare. La parola materiale evoca senza dubbio un'oggettività inerte - che non ha alcun ordine intrinseco, che attende una qualche messa in forma; mentre la parola decisione sembra addirittura contenere la quintessenza dell'attività, dell'azione volontaria: il momento dell'attività, il momento eminentemente soggettivo non sta, in fin dei conti, nella pura e semplice esecuzione di un'azione, nel puro e semplice fare - che può comportare una certa meccanicità o che si svolge comunque sotto l'imperativo dello scopo perseguito - ma sta piuttosto proprio nel momento della decisione: potremmo dire: l'io stesso è messo in questione nelle sue decisioni. Io voglio, e così faccio: io decido. Pensiamo ora alla proiezione di una simile concezione al problema del comporre. Essa suggerisce indubbiamente un'immagine dell'attività compositiva che si rivela subito, per molti versi, discutibile: da un lato forse troppo semplice, dall'altro non corrispondente a ciò che il compositore effettivamente fa. Secondo questa immagine la soggettività del compositore si erge di fronte al materiale come una soggettività creativa, capace di insuflare nel materiale inerte, quindi senz'anima e senza vita, quella forma di cui esso avrebbe bisogno e in base alla quale essa vivrebbe come opera. Concepite in questo modo sia la decisione che il materiale diventano pure astrazioni. Sembra invece il caso di obiettare che dovremmo richiamare l'attenzione anzitutto sul fatto che la soggettività creativa è sempre immersa in una dimensione storica - cosa che 25 chiama naturalmente in causa anche il modo di intendere le sue decisioni, che soggiaceranno necessariamente ai vincoli determinati dalla relatività storica. Sul lato opposto: non vi è una nozione di materiale come mero materiale sonoro, ma il materiale sonoro ha sempre una mediazione linguistica, e ciò significa che non è mai dato in sé e per sé, ma è sempre proposto al musicista all'interno di una tradizione musicale. Parlare di mediazione linguistica significa anche parlare di mediazione storica - l'un problema sembra essere incapsulato nell'altro. Forse è già addirittura sbagliato parlare di "materiale": dovremmo parlare invece di "linguaggio". Ciò che il compositore trova di fronte a sé non è mero materiale, ma è anzitutto linguaggio e lo è, al di là di ogni considerazione più precisa su questo termine il cui uso può essere molto ampio e controverso, già per il fatto che il compositore si inserisce in ogni caso in una tradizione del comporre. Quando si parla di tradizione - è opportuno notarlo - non occorre spingere lo sguardo indietro, lontano lontano. Ciò che è appena stato nuovo diventa, quasi in un soffio, già tradizione. 3 Vogliamo ora riflettere proprio su questo punto. Infatti, quest'obiezione, che sembra del tutto ragionevole, può essere sviluppata in una direzione da apparire non solo come un aggiustamento critico della posizione precedente, ma come un suo totale ribaltamento. Che cosa si intende dire infatti parlando di una immersione in una dimensione storica, oppure quando si accenna ad una tradizione del comporre con la quale propriamente ha a che fare il compositore misurandosi con essa, in varie forme di accettazione o di rifiuto? A seconda delle risposte che noi diamo a queste domande si imboccano strade molto diverse. Supponiamo, ad esempio, di porre l'accento sulla continuità dello sviluppo: allora ne potrebbe risultare indebolito il momento della decisione, il momento dell'intervento soggettivo. Tenderemo invece a considerare ogni passaggio, ed anche ogni momento autenticamente innovativo, persino i momenti di rottura, come fasi dello sviluppo del linguaggio musicale - uno sviluppo che ha una sua logica 26 interna, collegata o addirittura dipendente da una più ampia logica storico-sociale, e che ha dunque anche una sua direzione necessaria. Soggetto e tema effettivo di questo modo di considerazione è il linguaggio musicale stesso, considerato dinamicamente, come un linguaggio che si evolve, che si modifica di continuo. Un esempio assai significativo di questo atteggiamento è rappresentato proprio dalla scuola di Vienna: per mostrare la profondità della rottura con il passato musicale che essa viene ad operare è necessario disporsi in un atteggiamento che è in realtà ad essa estraneo. A cominciare da Schönberg fino a Webern si è infatti sempre insistito piuttosto sulla necessità e sulla naturalità dell'evoluzione che conduce al superamento della tonalità, e quindi non tanto sulle decisioni prese sul linguaggio, ma sullo sviluppo del linguaggio stesso come uno sviluppo necessario - proponendo uno schema di discorso che sopravvive in una misura sorprendentemente larga ancora oggi tra teorici, storici e musicisti. Che senso può avere, all'interno di un simile punto di vista parlare di decisioni compositive? In realtà sarebbe possibile sostenere che il momento della scelta non è altro che un dettaglio psicologico, una vera e propria apparenza psicologica, secondo la duplice inclinazione - negativa, positiva - del termine di apparenza: la decisione è il luogo in cui appare (si manifesta) sul piano psicologico-individuale qualcosa che appartiene ad una tendenza che sopravanza questo piano e che fa parte piuttosto della storicità profonda dell'esperienza musicale. È in questa storicità profonda che andrebbe ricercata la dimensione reale rispetto alla quale la decisione in senso psicologico è mera apparenza, dunque irrilevante finzione. Questa prospettiva di discorso ha in realtà una sua giustificazione filosofica - anzi forse più di una, dal momento essa rimanda ad una concezione idealistica, e più in generale storicistica della realtà e delle vicende della cultura, ma può anche essere formulata in termini sociologizzanti che potrebbero appoggiarsi su sfondi metodici di carattere empiristico. E naturalmente il richiamare l'attenzione sul fatto che una simile impostazione ha una giustificazione filosofica o addirittura più di una, non significa affatto che essa sia teoricamente ineccepibile, ma al contrario che essa è esposta alla discussione, alla controversia, come sempre accade appunto nell'ambito della filosofia. In nessun caso siamo obbligati ad accoglierla come tale - come talvolta si pretende. 27 Per mostrare come una simile impostazione possa diventare problematica proviamoci a proiettarla sul presente, che rappresenta la dimensione originaria della storicità. La storia non è affatto qualcosa che comincia nel passato, che attraversa il presente e prosegue poi nel futuro. Il presente, a sua volta, non è uno stato meramente transitorio: esso è invece la dimensione temporale primaria nella quale si svolge tutta la nostra vita e dalla quale prendiamo le mosse per ricostituire l'orizzonte del passato e costituire quello del futuro. La storia ha un centro ed un'origine e noi, nella nostra vita al presente, ci troviamo in questo centro e in questa origine. A questa considerazione bisogna aggiungerne un'altra non meno importante: lo sguardo verso il passato - che appartiene ovviamente in via di principio ad un' intenzione storiografica - tende a trasformare in una sorta di necessità ciò che una necessità non era, tende, come ci siamo espressi, ad indebolire il momento della scelta e della decisione. Ciò accade già nella nostra vita personale. Se guardiamo alle nostre vicende passate - contrassegnate da passaggi cruciali che hanno orientato la nostra esistenza in una direzione piuttosto che in un'altra - tenderemo certo ad indebolire il momento della decisione e ad accentuare piuttosto quello della necessità. Ci sono diverse circostanze che agevolano e facilitano questa inclinazione. Ad esempio: la decisione con la sua caratteristica apertura ad una molteplicità di strade possibili, è diventata dopo la sua realizzazione un dato di fatto irrevocabile. E forse non è nemmeno privo di interesse il rilevare quanto sarebbe gravoso, sul piano dell'esperienza personale, avere la permanente consapevolezza dell'apertura delle decisioni avvenute in passato. Considerazioni come queste non possono naturalmente essere trasportate di peso dentro il nostro contesto di discorso, ma esse non si trovano tuttavia nemmeno del tutto al di fuori di esso. Abbiamo detto: proviamo a proiettare un simile modo di vedere, ed anche di sentire il passato, sul presente stesso ed allora avvertiremo subito che in luogo di installarci nel presente inteso come dimensione originaria da cui ha origine la storicità e di vivere direttamente le sue tensioni interne, dovremo invece assumere in rapporto a questa dimensione un atteggiamento in qualche modo "storico" (e dunque anche paradossalmente storico). In rapporto al nostro problema ciò significa ritenere che anche 28 ora, nel mio presente, ci sia una logica interna dello sviluppo del linguaggio musicale. L'unica differenza sta nel fatto che questa logica potrebbe non essere per me del tutto chiara. Ma quel che importa è l'idea che ci sia nel mio presente una tendenza necessaria, una via maestra dello sviluppo, anche se posso essere incerto su quale sia questa via maestra, su quale - tra le varie tendenze in gioco - sia la tendenza a cui il futuro del linguaggio musicale è consegnato. Allora il problema del decidere si converte nel problema di raggiungere chiarezza su questo destino storico - in quanto questa chiarezza rappresenta una condizione affinchè il comporre si integri all'interno di quella tendenza, si consegni a sua volta a quel destino. Prima dicevamo che, secondo una simile concezione, le decisioni compositive non sono importanti come decisioni, ma in quanto in esse si concretizzano direzioni necessarie dello sviluppo. La trasposizione di un simile atteggiamento sul piano del presente è anche una trasposizione dal piano dell'essere a quello del dover essere: è come se la decisione compositiva fosse strettamente subordinata all'idea di una tendenza necessaria del divenire della musica e il problema compositivo fondamentale fosse quello di scoprire questa tendenza e di adeguarsi ad essa. Si potrà parlare di decisione autentica in un simile contesto di implicazioni teoriche? Certamente no. Posto in questi termini il problema compositivo si propone nella forma di un allineamento ad un ipotetico destino del linguaggio musicale. E si conferma ciò che abbiamo osservato in precedenza sull'appiattimento della decisione a mero veicolo dello sviluppo del linguaggio, a mero dettaglio psicologico privo di importanza. Per questi motivi in precedenza abbiamo notato che la critica nei confronti della pura e semplice contrapposizione tra materiali e decisioni in nome della dimensione storica può portare ad un ribaltamento vero e proprio dell'immagine contenuta in quella contrapposizione. E proprio per questo si rivela altrettanto insoddisfacente. L'enfasi posta sulla creatività originaria del compositore, sulle sue capacità di plasmare una materia inerte, non ci convince; ma non ci convince nemmeno, inversamente, la concezione della decisione artistica come mera adeguazione ad una tendenza dello sviluppo. Anch'essa sembra, quanto l'altra, lontana dalla realtà effettiva dell'atteggiamento che caratterizza dall���interno la dimensione dell'arte del comporre. 29 Tra l'una e l'altra concezione sembra inoltre esservi una sorta di solidarietà segreta - la solidarietà che stringe in modo indissolubile tra loro le simmetrie oppositive, le immagini speculari: le polarità sono radicalmente invertite, ma l'una immagine si coglie nell'altra come riflessa in uno specchio. 4 Io credo che il cercare di comprendere che cosa vi sia di sbagliato in questa duplice impostazione della questione abbia diverse e interessanti conseguenze non solo sugli aspetti più remoti di ordine teorico o filosofico ma anche su problemi strettamente inerenti alle pratiche compositive, o più precisamente sugli atteggiamenti che sono alle spalle di queste pratiche e che non sono conseguenze di esse, ma piuttosto loro premesse. Sono infatti gli orientamenti ideali che imprimono un senso al nostro modo di percorrere l'arsenale delle pratiche compositive. Cominciamo allora con il dire che il nostro primo inizio che considerava l'arte del comporre come disposta fra il tema del materiale e quello della decisione deve essere vivacemente riproposta, benché essa abbia bisogno di una critica preliminare che imbocca una strada del tutto diversa dalla precedente. Questa critica deve infatti colpire anzitutto il modo in cui questa contrapposizione viene proposta, come una polarità rigida, priva di un movimento interno; ed il primo passo di questa critica non è affatto l'evocazione immediata di una dimensione storica che non può avere altro risultato che operare quel ribaltamento che abbiamo prima rammentato. Si tratta piuttosto di rendersi conto di quanto siano fuorvianti le idee che sembrano subito accompagnare quei titoli: il materiale, la decisione. Dunque, dal lato del materiale: l'inerzia, l'assenza della forma, il puro contenuto di cui ha sempre parlato l'estetica idealistica nelle sue diverse varianti; l'attività plasmatrice, creativa, dal lato della soggettività che decide. Di fronte a chi ci proponesse questa antitesi noi faremmo notare anzitutto che vi è una fenomenologia del materiale, e che la nozione determinante non è tanto la nozione della decisione come tale ma piuttosto quella di campo delle decisioni la cui delimitazione è realizzata proprio da questa fenomenologia. 30 Che vi sia una fenomenologia dei materiali vuol dire in primo luogo che i materiali, dunque, nel nostro caso i suoni in genere, hanno caratteri molteplici, che essi si diversificano e si differenziano in molti modi e che queste differenze e diversità stanno a fondamento di possibili forme di articolazione e di conseguenza di possibili tensioni espressive. Ma questo - si può forse obbiettare - non lo sanno tutti? Forse lo sanno tutti. Meglio di tutti, io credo, lo sanno i compositori. Un po' meno i teorici, gli storici, i critici, i filosofi. Ed in ogni caso c'è bisogno di rammentarlo e di attirare l'attenzione proprio su questo punto. Riflettendo su di esso ci rendiamo subito conto che questa avrebbe dovuto essere stata la prima evidenza da mettere sul terreno della discussione, perché questa prima evidenza mostra subito che è del tutto sbagliato parlare dei materiali come meri contenuti privi di forma attribuendo ogni attività di messa in forma all'attività soggettiva; e così anche se parliamo di tensioni espressive che stanno all'interno dei materiali alludiamo indubbiamente ad un elemento di attività che contraddice la loro pretesa inerzia. Potremmo arrivare a dire: affermare che vi è una fenomenologia dei materiali significa, tra le altre cose, affermare che, a loro modo, i materiali hanno già preso le loro decisioni. Ma naturalmente il senso effettivo di una simile formulazione è quello di mostrare che ciò che caratterizza questa polarità non è la pura e semplice contrapposizione fra i due poli (con le vecchie risonanze dell'estetica della forma e del contenuto) ma piuttosto lo slittamento dall'uno all'altro polo. Vi è attività sul lato dei suoni, e vi è anche, conseguentemente, in un'accezione peculiare, passività sul lato opposto. In certo senso non dobbiamo fidarci troppo dall'accentuazione in senso attivistico che la parola "comporre" ha in se stessa, o più precisamente non dobbiamo ritenere che questa accentuazione copra la sua intera area di senso. Forse potremmo rappresentarci il compositore anzitutto come un grande ascoltatore, come qualcuno che ode suoni a tal punto che li ode anche quando non ci sono, un visionario dei suoni, se così si può dire. Questo grande ascoltatore ascolta, intanto, le decisioni dei suoni. Ma dire questo non basta: nello stesso tempo, deve essere rivalutato, in un contrasto solo apparente, proprio il momento soggettivo della scelta, secondo un ordine di considerazioni che ripropone ine- 31 vitabilmente in modo nuovo il tema della sua dimensione storica. Una simile rivalutazione comincia dall'osservazione che le peculiarità e le differenze tra i suoni, le differenze nei rapporti di intervallo e nelle forme di ordinamento scalare, le differenze tra consonanza e dissonanza, ed anche naturalmente ancora prima, le differenze timbriche con le loro latenze espressive, e così via, sono in grado soltanto di delineare puri ambiti di possibilità, e precisamente ambiti di possibilità alternative che determinano il campo entro cui possono esplicarsi le decisioni compositive. Non c'è decisione, non c'è scelta se non entro un campo di decisioni e di scelte possibili. Naturalmente anche noi prendiamo atto del fatto che i materiali sonori in quanto materiali del comporre sono in ogni caso di fronte al compositore sotto la presa di una tradizione compositiva, si presentano già come un linguaggio - e questa espressione allude qui indubbiamente ad una dimensione specificamente storico-culturale. Ma questo problema, che potrebbe essere sollevato polemicamente nei confronti della posizione che vado esponendo, è appunto un problema, non è un dato di per se stesso significativo. Una qualunque costruzione musicale può essere concepita come un oggettività stratificata, secondo strati che si trovano a livelli diversi di profondità e di accessibilità. Ma non dobbiamo concepire la stratificazione come una semplice giustapposizione orizzontale di piani. È invece opinione corrente il considerare una costruzione musicale come se essa fosse costruita semplicemente su uno strato di pure sonorità a cui si sovrappone uno strato di sensi musicali, il quale peraltro tende a corrodere, a risucchiare ed a dissolvere lo strato su cui esso poggia. In questa linea di discorso si sottintende che questi sensi musicali siano in tutto e per tutto un portato della dimensione storico-culturale, ed è una ovvia conseguenza di ciò il fatto che l'ascolto debba essere per principio un ascolto "storico". Ma ciò non significa forse che l'ascolto dovrebbe cogliere ogni momento del decorso musicale come uno stilema riconoscibilmente appartenente ad un linguaggio di cui sono note tutte le regole? Questa storicità dell'ascolto, ovvero questa apprensione della struttura musicale come struttura linguistica, sarebbe dunque una condizione imprescindibile della comprensione stessa. A ben pensarci una simile idea viene fatta valere anche per rendere conto della difficoltà di approccio nei confronti della musi- 32 ca più recente - ad esempio, quando ci si appella ad una consuetudine non ancora acquisita nei confronti delle nuove timbriche e della nuove sintassi. Ci si appella evidentemente, anche in questo caso, alla "storicità" dell'ascolto come condizione della comprensione, condizione che, in questo caso, non è ancora venuta a maturazione. Contro di ciò potremmo osare di affermare che un accordo di settima diminuita è anzitutto un fatto sonoro qualitativamente determinato che può essere esibito qui ed ora come un fatto sonoro senza storia e senza nome, e già così può essere trovato musicalmente interessante. Esattamente la stessa cosa potremmo dire, avvicinandosi ai tempi nostri, per il violino suonato dietro il ponticello oppure con l'arco dalla parte del legno, per i suoni prodotti con le più svariate tecniche strumentali che in realtà hanno ormai storia, nome, tradizione e grafia nella musica novecentesca. Evidentemente stiamo cercando qui di erodere il terreno ad un'altra falsa contrapposizione che fa parte di opinioni correnti: musicale e sonoro tendono a fissarsi come due poli rigidamente contrapposti l'uno all'altro, secondo una prospettiva che tende ad allontanare il più possibile il sonoro dall'orizzonte della musica. Anche in rapporto a questa nuova contrapposizione tenderemo piuttosto a far valere l'idea di intrecci molto più complessi, così come l'idea di possibili slittamenti, di complicate intersezioni tra il piano "linguistico" e quello "prelinguistico". Occorre infatti anzitutto sottolineare che le legalità di ordine fenomenologico non stanno semplicemente prima della costruzione musicale, ma interagiscono in molteplici modi nella percezione e proprio in quanto essa è percezione di una costruzione musicale. Non vi è da un lato l'oggetto sonoro - puramente percepito, con le sue strutture percettive tipiche - e dall'altro l'oggetto musicale come oggetto culturale. Ma vi è una interazione tra i diversi strati di senso e lo strato puramente percettivo che tutti li attraversa. Ciò mostra naturalmente anche quanto sia semplificatorio il parlare di una pura e semplice storicità dell'ascolto nell'accezione a cui accennavamo in precedenza. Lo stesso processo dell'ascolto si muove infatti tra la tradizione storica e i suoi margini, oscilla ambiguamente tra l'elemento tradizionale ed acquisito e l'elemento percettivo come tale. Togliere questa oscillazione equivarrebbe in realtà a sopprimere la vitalità interna, il fascino musicale del brano. In generale non c'è alcun autentico ascolto musicale che sia un ascolto di puri stile- 33 mi, e nessun fatto sonoro può avere interesse musicale solo in quanto convenzione espressiva, quindi come puro fatto linguistico, così come del resto come puro fatto percettivo. Nello stesso tempo l'afferramento della presenza di stilemi, la conoscenza delle loro vicende come vicende che appartengono alla storia di un linguaggio, è condizione imprescindibile affinché l'opera musicale possa essere penetrata nella complessità dei suoi strati significativi. 5 Considerazioni analoghe che esigono un ripensamento del problema della musica come linguaggio e quindi anche del modo di concepire la sua dimensione storica si ripropongono con evidenza forse anche maggiore nell'altra direzione del nostro problema. All'interno del nostro contesto di discorso, il fatto che vi sia un linguaggio normale della musica - e con ciò si deve intendere un linguaggio prevalente, l'esistenza di regole riconosciute come valide che formano nel loro insieme la norma in un senso che allude certamente anche ad un aspetto prescrittivo - significa essenzialmente che molte decisioni sono già state prese, che sono già state operate delle scelte tra le alternative possibili proposte dallo spazio sonoro nei suoi caratteri fenomenologici eminenti. E lo sono state in base a motivazioni, a prese di posizioni, in base ai pensieri che orientano l'immaginazione musicale quando essa si attiva in direzione di un progetto espressivo. Naturalmente vi potrebbero essere altre motivazioni, altri pensieri, altri orientamenti immaginativi. Molte decisioni sono già state prese, ma noi potremmo prendere una nuova decisione. Questa mi sembra essere la struttura della situazione - e siamo qui lontanissimi sia dall'idea di un atto dello spirito che soffia nella materia imponendo ad essa l'anima che le è necessaria sia da quella della decisione artistica come un puro dettaglio psicologico che si dissolve di fronte alle tendenze necessarie di una temporalità in cammino. Ma se questa è la struttura della situazione allora assume risalto anche da questo versante, dal versante del campo delle decisioni, il fatto che il campo fenomenologico non si dissolve affatto dietro le forme e le convenzioni linguistiche, ma rimane sempre sullo sfondo, e si fa più vicino o più lontano a seconda dei modi in cui noi ci localiz- 34 ziamo rispetto al linguaggio stesso. Potremmo anzi dire che esso si fa particolarmente vicino quando si mutano le regole, quando in luogo di aderire alle decisioni già prese, si prendono nuove decisioni. È della massima importanza comprendere che non si passa affatto da una vecchia regola ad una nuova regola come se si passasse da un capitolo all'altro di una grammatica della musica in divenire. Questo non è altro che un modo di considerare la storicità avendo come modello uno sguardo rivolto al passato. Dobbiamo dire invece che in questi passaggi ci avvaliamo della possibilità di avviarci verso i margini del linguaggio, quindi ai margini della sua stessa storicità, per riattualizzare il campo delle possibilità fenomenologiche riproponendo le alternative espressive che sono in esso contenute. Io penso che tutto ciò abbia una consistente esemplificazione proprio nelle tendenze della musica novecentesca. Fra queste tendenze si può forse annoverare una vera e propria tendenza alla destorificazione del materiale musicale: o almeno mi sembra interessante adottare un punto di vista dal quale le molteplici istanze negatrici, i reiterati richiami all'innovazione ed al superamento delle norme sul piano della sintassi della musica e dei suoi materiali possano essere interpretati come conseguenze di un atteggiamento di radicale messa in questione della componente storico-linguistica e come un'esplicita e radicale riattualizzazione dello sfondo delle possibilità fenomenologiche che è implicita in ogni mutamento delle regole. Ma se possiamo effettivamente adottare un simile punto di vista è subito chiaro che dobbiamo metterci sulla via di una critica di quelli che io vorrei chiamare i pregiudizi più recenti - di una critica cioè di quei pregiudizi che si sono andati insensibilmente accumulando in un secolo intero che ha sempre ritenuto di dover praticare, sul piano della teoria e della pratica musicale, una sorta di permanente critica del pregiudizio. Ma un secolo è lungo, molto lungo. In un secolo di musica, alle vecchie e più volte condannate consuetudini se ne aggiungono delle nuove, che non sono affatto riconosciute come tali. Si accumulano "convenzioni" e "stilemi". E si consolidano senza critica opinioni pregiudiziali, in realtà assai poco innocue dal punto di vista teorico, che diventano talvolta veri e propri luoghi comuni attraverso la mediazione di metafore correnti. 35 Si pensi alla metafora del logoramento, del consumo di un linguaggio musicale come se esso, con il passar del tempo, si consumasse come si consuma una sedia sulla quale siamo stati troppo a lungo seduti. In questa metafora del logoramento va richiamato in particolare l'attenzione sull'inclinazione obbiettivistica, quasi che i processi della musica non fossero dipendenti dall'ambito degli investimenti e dei disinvestimenti di significato che mettono in questione il campo delle decisioni e l'orizzonte di pensieri che determinano l'immaginazione musicale, e fossero invece processi obbiettivi, di cui sarebbe possibile rendere conto unicamente nei termini di considerazioni di sociologia empirica o filosofica. La stessa inclinazione obbiettivistica è d'altronde presente anche nell'idea così diffusa che l'ampliamento dei mezzi di espressione musicale sia una sorta di necessità ineluttabile che faccia parte del progresso stesso della musica. Spesso questo ampliamento è inteso in termini grossolanamente quantitativi, mentre è importante sottolineare, che la semplicità e la relativa povertà dei mezzi sono appunto conseguenze di decisioni e non hanno nulla a che vedere con una nozione sensata di progresso nell'arte. Altrimenti dovremmo considerare l'avvento del melodramma come un regresso rispetto alle anteriori strutture polifoniche, o una cattedrale gotica più progredita di una chiesa romanica per via del numero dei suoi pinnacoli. È possibile che siano in molti a convenire che una simile idea di progresso nel campo dell'arte è inaccettabile; ma spesso non ci si avvede che coerentemente con una simile posizione va respinta anche l'idea che esistano in modo ovvio tendenze regressive e progressive nella musica e che queste tendenze possano essere valutate con un criterio elementarmente temporale, anzi più precisamente con un criterio che rimanda ad una concezione troppo elementare della stessa dimensione temporale. 6 Proprio su questo punto vorrei condurre la mia considerazione conclusiva. La critica all'idea della tendenze necessarie - e quindi di una concezione del linguaggio musicale e della sua storicità secondo forme che appiattiscono il momento della decisione e dei pensieri che la motivano - può essere riformulata e sintetizzata in un'interpretazione della temporalità, dunque anzitutto della dimen- 36 sione temporale fondamentale del presente. Il problema a cui abbiamo già accennato in precedenza merita di essere brevemente ripreso. Quando diciamo "ora", questa paroletta sembra indicare un luogo temporale altrettanto certo e sicuro quanto la paroletta "qui" che indica inequivocabilmente il luogo nel quale mi trovo. Ma diversamente stanno le cose se la dimensione del presente non viene considerata come una dimensione astrattamente e vuotamente temporale, ma come una dimensione ricca di senso, e dunque nella pienezza della sua storicità. Al presente così inteso spetta un'indeterminatezza e un'instabilità essenziale. Esso non deve dunque essere concepito "ferroviariamente", come un luogo puntualmente determinato tra due stazioni. A questo modo di concepire il presente, che può essere sintetizzato in una metafora ferroviaria, si è tentati di contrapporre una metafora aerea: mentre sul treno in corsa possiamo sempre dire di essere lungo una via e in un luogo precisamente determinato tra due stazioni, nella visione dall'alto abbiamo a che fare con una spazialità aperta, indeterminata, in cui si intersecano molte vie che formano una rete di luoghi, verso i quali mi volgo non tanto guardando avanti o indietro - espressioni che tendono quasi a perdere di significato - ma volgendo lo sguardo tutt'intorno. Ma che cosa ha tutto ciò a che fare con i casi e le vicende della musica? Possiamo rispondere proprio richiamandoci ad esse. La musica novecentesca ci ha proposto nei cento anni del suo sviluppo un orizzonte straordinariamente vasto di possibilità creative, di scoperte, di invenzioni, di progetti. Eppure si può avere la giustificata sensazione che questa vastità, questa ricchezza di esperienza musicale sia costantemente minacciata proprio da una idea troppo elementare della storicità, concepita come un filo che sta dietro le nostre spalle e di cui dobbiamo afferrare il capo e in questo dovrebbe consistere in certo modo la norma assoluta delle nostre decisioni. Questa idea elementare assume poi forma concreta nell'individuazione di pretese tendenze necessarie, nell'indicazione di pretese vie maestre dello sviluppo, anzi - questa espressione può essere a stento usata al plurale - della via maestra dello sviluppo. La complessità del presente, il fatto che noi ci troviamo sempre in un intrico di strade, che ogni direzione non c'è già ma deve essere sempre di nuovo costruita, tutto ciò scompare di fronte ad uno sguardo per così dire bloccato, irrigidito, che non sa affatto "volgersi intorno". 37 È evidente che tutto ciò ha molte altre conseguenze che, a mio sommesso parere, non sono affatto desiderabili: l'idea di una via maestra è un'idea riduzionista per eccellenza, non vi è bisogno di insistere particolarmente su questo punto. Ma il riduzionismo implicato in questa idea non riguarda solo le potenzialità espresse dalla musica novecentesca: esso ha come conseguenza anche una tendenziale riduzione della multidimensionalità su cui si è sempre giocata l'espressione musicale. In questa multidimensionalità consiste quella che io chiamerei semplicemente l'umanità della musica: il suo poter aderire al sonno del bimbo in culla nella ninna nanna, il suo poter accompagnare tutte le manifestazioni umane: dalla Tafelmusik sino alle grandi meditazioni sul senso ultimo della vita e della morte. A questa multidimensionalità tende a subentrare una sorta di ossessione monodimensionale, che naturalmente non può che tagliare fuori dall'ambito della musica "autentica" tutto ciò che si approssima alla dimensione quotidiana, per assegnare alla musica unicamente il compito di manifestare il Sublime, il compito del Grande Messaggio, sia esso il Grande Messaggio fortemente connotato in senso politico, sia esso l'Indicibile Messaggio metafisico, a cui la musica sembra per così dire predestinata. Ma la catena delle conseguenze non si ferma affatto a questo punto. All'idea del Grande Messaggio non è certo associato, per esprimerci così, il semplice compositore, colui che possiede l'arte del comporre, un possesso che in ogni epoca, anche nella nostra, richiede lavoro, esperienza e conoscenza - colui che padroneggia con maestria questa arte, dunque il padrone della musica. Questa sembra una dizione particolarmente ambiziosa: eppure essa ci appare subito estremamente modesta se la paragoniamo alla figura del portatore del Grande Messaggio. Questa figura è infatti la figura del Genio. Beninteso: i geni esistono veramente, e sono esseri molto misteriosi. La figura del genio invece non è alcunché di reale, ma è una costruzione filosofica e immaginativa insieme, ed anche una costruzione datata storicamente, una costruzione romantica. Questa figura, nel nostro secolo che ha così spesso amato atteggiarsi da spregiatore del romanticismo, è forse stata dimenticata? Tutt'altro. Questo tema che qui richiamiamo per ultimo ci consente di riagganciarci agli inizi del nostro discorso. Forse potrebbe sembrare che la figura del genio renda conto della creatività nel senso del soffio divino sulla materia inerte di cui abbiamo parlato in precedenza. 38 Invece, assai più profondamente, occorre rendersi conto della solidarietà tra questa immagine della creatività e quella del suo ribaltamento, tra l'enfasi posta sull'astratta libertà dell'intervento creativo e l'appiattimento del motivo della scelta e della decisione. Sarebbe infatti un grave errore ritenere che in questa figura del genio il tema della decisione assolva un ruolo significativo. È vero invece il contrario. Il genio è in via di principio una figura passiva, è mero tramite e portatore di decisioni - che avvengono altrove: nelle profondità anonime dell'inconscio, più o meno arricchite di sapori metafisici, nello spirito assoluto di cui parlava Hegel, nella teleologia della storia - non importa dove! Il genio è comunque puro tramite, puro veicolo. La discussione e la delimitazione della nozione di decisione che abbiamo voluto proporre fin dall'inizio rappresenta dunque una sorta di premessa necessaria strettamente collegata con questi nostri esiti critici. 39 Giovanni Piana Annotazione sull' origine e sull' impiego dei termini " modo" e " tono" 1. Modulazione 2. Modo 3. Esempi 4. Tono 1998 40 Questo testo è tratto da lezioni tenute nel 1998 nel corso di Filosofia Teoretica presso l'Università degli Studi di Milano sul tema "Problemi filosofici ed epistemologici nella teoria greca della musica. Con una introduzione alle nozioni generali di fenomenologia dello spazio sonoro". 41 § 1. Modulazione È noto che, in passato, le espressioni tono e modo sono state talora usate come sinonimi - secondo un'equivocità talvolta criticata, talvolta tollerata - insieme al termine di tropo più presto caduto dall'uso. Con modo siamo rimandati al medioevo latino, mentre tono e tropo sono ricordi greci. Zarlino, che preferisce il termine di modo, ammette comunque entrambi gli usi - "Modo o Tuono che lo vogliamo dire"1 - propone una spiegazione sull'origine del termine che rimanda a modus nel senso di regola e di misura: "Si debbe adunque avertire, che questa parola Modo (oltra d'ogn'altra sua significatione, che sono molte) significa propriamente la Ragione; cioè, quella Misura, ò Forma, ch'adoperiamo nel fare alcuna cosa, la qual ne astrenge poi a non passar più oltra; facendone operar tutte le cose con una certa mediocrità, ò moderatione (…). Imperoche tal mediocrità, ò moderatione non è altro, che una certa maniera, over ordine terminato e fermo nel procedere, per il quale la cosa si conserva nel suo essere, per virtù della proportione, ch'in essa si ritrova; che non solo diletta; ma etiandio molto giovamento apporta. De qui viene, che se per caso, over'à bello studio tal ordine da essa si allontana, non si può dire, quant'offendi; e quanto il sentimento abhorrisca. Havendo adunque i Musici e i Poeti Antichi considerato tal cosa; perche gli uni e gl'altri erano una cosa istessa (…) chiamarono le loro compositioni Modi; nelle quali sotto varie materie per via del Parlare accompagnate l'una all'altra con proportione esprimevano diversi Numeri, ò Metri, e diverse Harmonie"2. L'idea è dunque quella di una ragione interna del canto, che mantiene ad esso coerenza ed ordine, conferendogli la propria identità ("una certa maniera, over ordine terminato e fermo nel procedere, per il quale la cosa si conserva nel suo essere"); una "forma", come anche si dice, che pone dei limiti che non possono essere oltrepassati ("la quale ne astrenge a non passar più oltra"). La "moderazione" consiste proprio nel fatto che sono stabiliti questi limiti. In particolare, si pensa qui al metro poetico, sottolineando l'unità tra poesia e musica. Poco oltre tuttavia lo stesso Zarlino completa questa spie1 2 Istitutioni harmoniche, 1589, Parte II, Cap. IV. ivi, Parte IV, Cap. I. 42 gazione connettendo modus al verbo modulor che associa senz'altro la misura e la regola al canto: "Sono anco detti Modi da questa parola latina Modus, che deriva da questo verbo Modulari, il quale significa Cantare; over sono detti Modi dall'ordine moderato, che si scorge in loro; imperoche non è lecito, senz'offesa dell'udito passar'oltra i loro termini, e di non osservar la proprietà e natura di ciascuno"3. In effetti la parola modo, nella sua accezione musicale, deve essere strettamente connessa con parole come modulare o modulazione. Quest'ultima - che nella terminologia del linguaggio tonale ha finito per indicare il passaggio di tonalità - ha in realtà in tutta la tradizione antica un significato che rimanda in modo molto generale all'andamento melodico, all'uso "armonioso" della voce4, al cantare puro e semplice. Ancora in Zarlino: parlando degli "strumenti naturali" - e quindi delle parti del corpo interessate all'emissione della voce - "come sono la Gola, il Palato, la Lingua, le Labbra, i Denti, e finalmente il Polmone, formate dalla natura; le qual parti essendo mosse dalla Volontà; e dal movimento di esse nascendone il Suono, e dal Suono il Parlare; nasce poi la Modulatione, overo il Cantare…"5. Più precisamente egli dice, sottolineando il problema della discretezza, che: "Le voci discrete, ò sospese con intervallo adunque sono quelle, che sono principalmente considerate dal Musico; dopoi li Suoni applicati ad esse; percio che da questi e da quelle senza differenza alcuna si forma ogni nostra Cantilena. Questa ogn'uno la chiama Canto, dal Cantare; il quale è Modulatione, che nasce principalmente dalla voce humana"6. È interessante notare che Zarlino caratterizza come improprio l'impiego della parola modulazione in rapporto al canto fermo, mentre questo termine verrebbe usato propriamente in rapporto al canto figurato. Ciò ha il senso di richiamare l'attenzione sull'idea del movimento come essenziale alla melodia. La modulazione è infatti "un movimento fatto da un suono all'altro per diversi intervalli, il 3 ivi, Parte IV, Cap. II. La voce "modulazione" del Vocabolario dell'Accademia della Crusca (vol. III, p. 1048, ed. Firenze 1691) è molto povera ma anche molto espressiva: "Modulazione. Misura armonica. Lat. modulatio. Come voce, sanza modulazione, è quasi voce di Pica, così orazione, senza divozione, è quasi muggito di bue". Pica è la gazza. 5 Istitutioni, Parte I, Cap. V. 6 ivi, Parte II, Cap. XIV. 4 43 quale si ritrova in ogni sorte d'harmonia e di melodia". Ma laddove non c'è "varietà di tempo", "procedendo equalmente da un intervallo all'altro per il medesimo tempo come si fa nei Canti fermi, e questa è detta modulatione impropriamente", mentre nel canto figurato, "nel qual cantiamo non solo con semplici suoni e semplici elevationi e abbassamenti de voci; ma si muoviamo ancora da un intervallo all'altro con veloci e tardi movimenti; secondo il tempo mostrato nelle sue figure cantabili; e questa è detta modulatione propriamente"7. Il modo diventa dunque la specificità del canto - il suo andamento melodico caratteristico8. Si tratta di ambiti di significato che risalgono alle fonti della trattatistica medioevale. Il termine modulatio può assumere un significato così generale che numerosi trattati lo riprendono nella stessa definizione della musica. A cominciare dalla definizione agostiniana: "Musica est bene modulandi scientia" (De Musica, I). "La musica è una perizia consistente nella modulazione nel suono e nel canto, cioè una scienza nella quale si è esperti nel modulare, cioè nel cantare dolcemente" (Musica est peritia modulationis sono cantuque consistens, id est scientia, qua quis peritus est modulare, id est dulciter cantare) scrivono Johannes de Muris (Speculum musicae) e Jacobus Leodiensis (Speculum musicae) riprendendo queste definizioni da Isidoro Ispanicus (De Musica). Ancora da Isidoro viene ripetuta da numerosi trattati la caratterizzazione della musica come "modulatio vocis et concordia plurimorum sonorum". Anche l'idea che la musica sia anzitutto"peritia modulationis" nel suono e nel canto, o semplicemente "ars modulationis" si ritrova in molti trattati (ad es. Rabano Mauro, De universo). Il canto (cantus) a sua volta "est inflexio vocis et modulatio" (Ieronimus de Moravia, Tractatus De Musica e Johannes Ciconia, Nova Musica). In Adam De Fulda (Musica) si distingue un'"emissione vocale usuale", che è canto derivante dal puro istinto della natura, che è comune agli uomini ed agli animali, dalla "emissione vocale re7 ivi. In molti casi questa espressione di "andamento melodico" potrebbe essere sostituita a modulazione senza variazione di senso: Ad es.: "Et se bene il Tenore venisse à finire in altra chorda, che nella finale, questo non sarebbe di molta importanza; pur che si habbia proceduto nella sua modulatione secondo la natura del Modo della cantilena" (ivi, Parte III, cap. LIX) 8 44 golata" che è invece "modulatio dulcissima"9. Attraverso questo nesso con la modulatio, canto, melodia e modo vengono così strettamente legati tra loro. Nel Nouveau Système de musique théorique, cap. VI, Rameau osserva che "la modulazione non è altra cosa che il progresso dei suoni fondamentali e quello dei suoni compresi nei loro accordi" (la Modulation n'est autre chose que le progrès des Sons fondamentaux, et celui des Sons compris dans leurs Accords). Questa nozione diventa così sottilmente ambigua per quanto riguarda il riferimento al canto (melodia) ed all'armonia. Da un lato ci si riferisce ancora, come nell'uso antico, ad una successione lineare di suoni, dall'altro questa successione riguarda anzitutto il basso fondamentale e le note degli accordi costruiti su di essi, e dunque un percorso armonico che può restare all'interno della tonalità ma anche realizzare un movimento da tonalità a tonalità: del resto, secondo Rameau, il movimento primario del basso fondamentale è un movimento per quinte. Si vede così, in questa semplice osservazione sul termine di modulazione, il profondo mutamento di senso che esso è destinato a ricevere in rapporto al linguaggio della tonalità. § 2. Modo Naturalmente venendo ad una nozione più specifica di modo dobbiamo essere un poco più precisi. Conviene allora prendere le mosse dalla semplice alternanza di toni e semitoni nell'ottava che potremmo chiamare schema intervallare di base, ovvero schema intervallare della scala del modo. Si tratta di una suddivisione di base dello spazio sonoro (ottava, ma anche eventualmente un intervallo di grandezza inferiore), che rappresenta un'impalcatura sulla quale si presenta una suddivisione di secondo livello che riguarda, per dirla in breve, la distribuzione del "peso" delle note attribuito a questa o a quella posizione della suddivisione di base. Va da sé che la costanza dello schema intervallare di base è una condizione di "ordine interno"; quanto all'articolazione di secondo livello, essa conferisce allo spazio il carattere di uno "spazio 9 Per i riferimenti alla trattatistica medioevale si veda il Thesaurus Musicarum Latinarum, TML, http://www.music.indiana.edu/tml/start.htm 45 architettato", cosicché non vi è solo una differenza nell'ordine di successione, nell'alternanza regolare di toni e semitoni, ma anche una sorta di regolare marcatura di questo o quel momento della costruzione musicale. La parola "modo" può essere riferita ad entrambi i livelli di articolazione considerati nella loro unità - restando aperta la possibilità di restringere il significato di questa parola al semplice schema intervallare di base. Conviene allora distinguere, nell'impiego del termine modo, anzitutto un'accezione propria da un'accezione impropria (ovvero ristretta e riduttiva). Il puro e semplice schema intervallare di base istituisce infatti nulla più che una successione di intervalli e riguarda unicamente l'idea di un ordine scalare. In rapporto ad esso sarebbe opportuno parlare di scala piuttosto che di modo. "Modi e scale non sono affatto identici, e se uno desidera imparare qualcosa di più della natura dei modi gregoriani non deve fermarsi alle note, ma deve arrivare a comprendere le leggi melodiche che governano il loro uso"10. È infine opportuno introdurre un'accezione estesa. In effetti, mentre nella nozione propria vengono chiamati in causa modi di intendere gli schemi intervallari di base, ed eventuali "regole" conseguenti, vi possono essere anche elementi che la pratica musicale propone come caratteristici del modo in quanto associati ad esso da consuetudini legate all'esecuzione, che possono avere una grande importanza nella riconoscibilità del modo. Si può trattare di elementi di carattere strettamente musicale, ad esempio tipi particolari di ornamentazioni, volture motiviche caratteristiche, scelte di registro, scelte ritmiche o timbriche che possono essere legate prevalentemente ad un modo piuttosto che ad un altro. Tuttavia si può arrivare a includere nelle caratteristiche del modo anche elementi che si allontanano dagli aspetti propriamente musicali e che appartengono piuttosto al contesto socio-culturale, come l'esecuzione riservata a particolari occasioni di incontro sociale, a determinate celebrazioni, riti religiosi ecc. Tra questi elementi va incluso anche il possibile riferimento ai contenuti delle canzoni, in generale alla loro "destinazione". L'idea di un etos dei modi si radica certamente nella nozione estesa, piuttosto che in quella propria, e trae da queste "estensioni" le proprie motivazioni e ragioni d'essere. La discussio10 K. Jeppesen, Counterpoint. The polyphonic Vocal Style of the Sixteenth Century,New York 1992, p. 63. 46 ne sul suo buon fondamento è spesso fuorviata dal fatto di non tener conto di questa circostanza. In rapporto alla nozione estesa va indubbiamente consideratio quanto osserva Henri Potiron sull'impiego della parola modus in Boezio: "...Occorre dissipare un equivoco. Boezio dice in effetti a proposito delle arie lidie e frigie 'Lydius modus et Phrygius'. Si sarebbe tentati di tradurre con "modo" nel senso attuale, cioè "armonia" nella terminologia greca. Ma modus ha preso questo senso solo nel Medioevo. Mai Boezio, e nemmeno il suo predecessore Marziano Capella hanno inteso il termine così... Qui esso ha il suo significato più ampio, cioè: maniera, carattere, come tropos in greco. Altrimenti bisognerebbe ammettere che le arie lidie e frigie sono lascive o dure in ragione della loro ottava modale, cosa che è manifestamente assurda. Si può veramente pensare che la struttura di una ottava (natura degli intervalli, divisione per quarta e quinta, o per quinta e quarta) sia sana o lasciva, dolce o dura, e che i fanciulli debbano essere educati solo ad alcune tra esse? Non si può trattare che del carattere (modus=maniera) dato a certi cantim e non dell'ottava modale che viene loro attribuita, abbastanza artificialmente d'altrondem dalla nomenclatura teorica: il modo stesso (in senso moderno) ha un carattere solo per via dell'uso che si fa di esso"11. 3. Esempi Per illustrare la differenza tra scala e modo nella modalità di tradizione europea, si consideri il nono modo di Zarlino (secondo la classificazione della prima edizione delle Istitutioni del 1558), e lo si metta a confronto con il secondo. Entrambi iniziano dalla nota la. La scala del nono modo è del tutto identica a quella del secondo, entrambi hanno la stessa suddivisione di base. Ma il secondo modo è ripartito in diatessaron + diapente (la-re-la) e va considerato come il corrispondente "plagale" del primo modo (re-la-re) , mentre il nono modo è ripartito in diapente + diatessaron (la-mi-la), cosicché è differente il modo di intendere la suddivisione di base. Naturalmente una simile differenza deve essere "fatta notare" all'interno della composizione concreta, cosa che avviene negli esempi citati dallo stesso Zarlino nelle prime battute della composizione. Così 11 H. Potiron, Boèce theoricien de la musique grecque, Paris 1954, p. 39. 47 nel caso del secondo modo: il tenore scende da re a la, mentre il soprano tiene il la. La nota finale in entrambe le voci è il re, essendo il secondo modo da considerarsi come "plagale" del primo. Si presti attenzione anche alle cadenze intermedie (fini mezani). Ad es. in batt. 11 il soprano conclude su re e riprende con la, mentre il tenore riprende con re. Ed ancora il la chiude sia nel soprano che nel tenore in battuta 22, ecc. Nel caso del nono modo 48 sia soprano che tenore entrano in mi che, dopo un gruppo, scende a la a partire dal quale la scala modale viene enunciata per esteso in entrambe le voci. L'architettura dello spazio sonoro si presenta prima della pura successione scalare degli intervalli come una sorta di orientamento per le intenzioni di ascolto. Nel trattare ciascun modo, Zarlino accenna anche all'atmosfera affettiva, ma riferendo costantemente ad altri le opinioni sull'argomento mostra un certo scetticismo in rapporto a questo lato della questione. Inoltre egli richiama l'attenzione sul fatto che la stessa pratica musicale, aderendo a quelle opinioni, contribuiva a consolidarle. Ad esempio per il secondo modo egli osserva che "volevano alcuni, che 'l Secondo modo contenesse in se una certa gravità severa, non adulatoria; e che la sua natura fusse lagrimevole, e humile; di maniera che mossi da questo parere, lo chiamarono Modo lagrimeuvole, humile, e deprecativo. La onde si vede, che havendo gli Ecclesiastici questo per fermo, l'hanno usato nelle cose meste, e lagrimose; come sono quelle delli tempi Quadragesimali, e di altri giorni di digiuno; e dicono, che è Modo atto alle parole, che rapresentano pianto, mestitia, solicitudine, cattività, calamità, e ogni generatione di miseria; e si trova molto in uso ne i loro canti". Nel caso del nono modo invece "alcuni l'hanno chiamato aperto, e terso, attissimo ai versi lirici; la onde se li potranno accommodar quelle parole, che contengono materie allegre, dolci, soavi, e sonore: essendo che (come dicono) hà in sè una grata severità, mescolata con una certa allegrezza, e dolce 49 soavità oltra modo"12. Facendo riferimento ai raga, è possibile illustrare assai bene le tre nozioni di modo che abbiamo distinto parlando di nozione propria, impropria ed estesa. Uno standard di classificazione dei raga ormai largamente affermato è esemplificato da una "scheda" che contiene le seguenti indicazioni: That - >ovvero scala di base Aroha - >indicazione delle note caratteristiche in direzione ascendente Avaroha - >indicazione delle note caratteristiche in direzione discendente Vadi - >indicazione della nota "più importante" Samavadi - >indicazione della seconda nota per importanza Pakad->indicazione di una figurazione melodica caratteristicamente impiegata dal raga in questione. Talvolta viene indicato l'orario di esecuzione, orario che sottintende il riferimento all'atmosfera affettiva, all'occasione di esecuzione, ecc. 13 Nel caso del That si ha dunque la nozione riduttiva del modo. Ad un unico That sono riportabili un'amplissima molteplicità di raga. Perciò un raga assume il proprio profilo dalla forma della direzione ascendente e discendente così come dalla indicazione delle due note strutturalmente più importanti, oltre che nel numero delle note che può eventualmente essere diverso nell'una o nell'altra direzione. Il pakad e l'orario di esecuzione appartengono invece alla nozione estesa, l'uno rappresenta un elemento di riconoscibilità del raga strettamente musicale, mentre il secondo riguarda il "senso" del raga in un'accezione ampia del termine e sarà inteso normalmente secondo un'inclinazione simbolica piuttosto che prescrittiva. Ad esempio nel caso del raga Marwa si indicherà l'appartenenza al That omonimo (in generale i That prendono nomi da raga) e si specificherà che il raga è eptatonico in direzione ascendente ed esatonico in direzione discendente: 12 Istitutioni (1558), IV, cap. 19 e cap. 26 - I corsivi sono miei. Per un ampia rassegna di raga secondo questo standard di classificazione, che può prevedere qualche indicazione aggiuntiva, cfr. http://www.aoe.vt.edu/~boppe/MUSIC/RAGA/hraga.html#17 13 50 Vadi è rappresentata dalla nota Re ™™e Samavadi dalla nota La, mentre il Pakad dal seguente motivo: Si tratta infine di un raga del calar del sole. - In rapporto ai raga risulta anche con particolare chiarezza il carattere astrattamente teorico dei sistemi dei modi. Prima di tutto vi sono le melodie. Prendendo l'avvio da esse, risulterebbe naturale pensare che si possano dare i più disparati schemi intervallari e che essi non siano senz'altro raccolti in un sistema unitario o che sia già dato in via preliminare un metodo per raccoglierli insieme. Tuttavia uno dei compiti che la teoria musicale si è proposta sotto ogni cielo è quello di individuare tipologie, di realizzare classificazioni - cosa del resto tipica di ogni compito di riflessione teorica in genere - arrivando a veri e propri "sistemi di modi". Naturalmente vi saranno delle affinità tra i modi e dunque diverse possibilità di raggruppamento. A loro volta queste sistemazioni teoriche non potevano che interagire con la pratica stabilendo per essa un ambito di riferimento ed eventualmente un campo di regole più o meno nettamente definite (e talora anche imbrigliando la pratica). Per quanto riguarda gli aspetti teorici occorre distinguere tra puri raggruppamenti effettuati con criteri empirici, da quelli che derivano da considerazioni strutturali interne, tendenti a prospettare un vero e proprio corpo sistematico realizzato da un lato tenendo sempre d'occhio la realtà musicale, dall'altro non esitando a ricorrere a schematismi concettuali. Un esempio di questo secondo tipo è naturalmente il sistema 51 dei modi di tradizione europea, che poggia sulla possibilità a priori di generare altri schemi da uno schema secondo una regola di rotazione. Ogni elemento del sistema ottenuto per rotazione sarà relativamente omogeneo ad ogni altro formando per così dire una "famiglia" di modi. Ad esempio, nel sistema modale di tradizione europea non vi saranno mai due semitoni consecutivi, o un intervallo di ditono, ecc., e questo in stretta dipendenza dal modo della loro costruzione. Una simile regola di rotazione è presente anche nell'organizzazione dei murchana nell'antica musica indiana. Essendo fondato su una regola, il numero dei "modi" possibili è strettamente determinato una volta che si sia data una scala di base. Ma ciò vale appunto solo per le scale di base e dunque per la nozione impropria di modo. Come abbiamo visto in precedenza, una stessa scala può sostenere più di un modo ed il numero dei modi in senso proprio può essere soggetto a discussione. Nel caso dei dieci That di Bathkande (1860-1936), essi non sono derivabili per rotazione l'uno dall'altro: ma la loro individuazione deriva da una riflessione empirica, ovvero dall'idea che - tollerando eccezioni e con un po' di buona volontà - la grande varietà dei raga possa essere ricondotta, per quando riguarda la struttura scalare di base, ad uno di questi dieci tipi. § 4. Tono Uno schema intervallare è in sé qualcosa di astratto, che può essere considerato anche indipendentemente da qualche specifico fatto sonoro. Ci possiamo allora chiedere come uno schema intervallare possa concretizzarsi, e la risposta, del tutto a portata di mano, ci 52 fornirà una prima introduzione della nozione di tono. Si tratterà infatti di determinare la "nota" iniziale a partire dalla quale potranno essere fissate tutte le altre secondo la distribuzione degli intervalli proposti nello schema. La parola "tono" usata in questo contesto ha un senso che abbraccia sia il riferimento ad una nota determinata sia al fatto che, risuonando concretamente, essa rende possibile la traduzione dello schema astratto in un evento sonoro concreto. A. Auda, Le modes et les Tons de la musique, Bruxelles 1931, p. 19: "Nel senso più ristretto la parola tono (ton) designa semplicemente il grado della scala che serve di base al modo, il grado nel quale si fissa il punto di partenza della sua ottava o della sua 'armonia' per parlare come gli Antichi". - "Il modo regge in un modo astratto, teorico, i rapporti mutui degli intervalli; il tono traduce questi stessi rapporti sensibilmente situandoli nella scala dei suoni", ivi, p. 20. Sullo sfondo vi è pur sempre un'accezione della parola "tono" che, nelle sue origini greche, può indicare semplicemente il timbro della voce, e dunque il suono (questa accezione si è mantenuta ad esempio nel tedesco Ton ed anche per certi usi correnti dell'italiano tono). Ma per questo impiego si può pensare soprattutto alla parola "intonazione" (intonatio) non solo nel senso della correttezza dei rapporti intervallari in un'esecuzione, ma soprattutto in un senso che richiama l' "intonare un canto" ovvero il dar voce ad esso. Tono è dunque anzitutto quella che potremmo chiamare la "nota di intonazione", la nota su cui lo schema intervallare viene intonato - con una duplice sfumatura di senso del termine: l'intonare come "dar voce" e l'intonare come stabilire correttamente gli intervalli, cosa che richiede in via di principio una nota di intonazione. Bononcini dice esplicitamente: "Si chiama tuono dal verbo intuonare". Così come modo dal verbo modulare14. Naturalmente la nota di intonazione assume, proprio in quanto è il suono sul quale il canto viene messo in voce, il carattere 14 G. M. Bononcini, Musico prattico, Parte II, cap. XV, Bologna 1673, p. 121. Peraltro nel testo di Bononcini, a parte la diversa etimologia, modo e tono sono impiegati in un senso affine. Si stabilisce solo una preferenza per l'uso di tono per il canto fermo e di modo per il canto figurato, forse un'eco un po' distorta dell'osservazione di Zarlino secondo cui l'espressione modo sarebbe usata improriamente nel caso del canto fermo. 53 di riferimento a partire dal quale viene commisurato l'intervallo di ogni singola nota. Secondo Danielou la nota assunta come nota di riferimento, che egli chiama impropriamente "tonica", nella musica modale risuona molto spesso e tende ad assumere carattere di pedale, e questo non per una ragione meramente pratica, per facilitare l'intonazione dei cantanti, ma anche per mantenere la presenza di una relazione intervallare fissa per ogni nota della melodia, oltre le relazioni mobili degli intervalli tra loro15. Questo pedale peraltro non ha bisogno di essere la nota caratteristica della struttura melodica del brano. Talora "strumenti a percussione, come tamburi, cimbali, ecc. possono essere sufficienti a determinare questa tonica" (p. 29). Con ciò si comprende anche il fatto che, nonostante la netta differenza tra le due nozioni, tra esse possano sorgere equivocità. Infatti, in presenza di una standardizzazione della suddivisione di base dell'ottava, il modo nella sua forma non trasposta può essere per così dire solidamente riferito ad un determinato "tono", cosicché questo è in grado di indicarlo. Di qui sorgono le dizioni comuni che indicano il modo attraverso il tono, come modo di re, modo di mi, ecc., dizioni che naturalmente sono equivoche, ma di una equivocità non priva di giustificazioni. Questa possibilità non ha in ogni caso nessun senso in rapporto al linguaggio tonale, dove il modo maggiore o minore diventano una sorta di attributo del "tono", che sembra aggiungersi ad esso come una sua specificazione particolare. Il modo può naturalmente anche essere trasposto mediante l'impiego di alterazioni, ed in particolare i modi possono essere ordinati all'interno di un unico tono, come fa Vincent nel suo volume The diatonic modes in modern music16.In questo caso risulta particolarmente chiara la differenza rispetto al rapporto modo/tono nel linguaggio della tonalità. Vincent, a dire il vero, parla ancora di tonality, in un'accezione estesa del termine, cosa che a mio avviso sarebbe meglio evitare, tanto quell'accezione è diversa da quella consueta. Si tratta infatti, assumendo ad esempio, come modo privo di alterazioni il modo di re, di introdurre via via le alterazioni fa#, do#, sol#… passando così, tenendo conto della terminologia medioevale, dal modo dorico al modo misolidio, al modo ionico, al modo lidio, ecc. 15 Introduction to the study of musical Scales, Published by The India society, London 1943, p. 27. 16 Curley Music Publishers, Hollywood, 1974, p. 255. 54 In questa sistemazione le alterazioni in questione meritano di essere chiamate modulanti in un'accezione del tutto diversa da quella corrente in quanto in esse non si passa da una tonalità all'altra, ma da un modo all'altro restando all'interno dello stesso "tono". Si noti come possiamo trarre di qui esempi quando mai persuasivi dell'importanza che ha nella musica il modo dell'intendere: così una sequenza come può essere intesa come un segmento di tonalità di la maggiore, ma anche come un modo lidio trasposto nel tono di re, e la differenza è assai più profonda - rimandando a contesti musicali ed a "grammatiche" interamente differenti - di quanto normalmente si sia disposti ad ammettere. In linea generale si ha la sensazione che la modalità sia considerata uno stadio anteriore e preparatorio destinata a sfociare nella tonalità, cosicché anche la musicologia più severa non esita ad usare la terminologia della tonalità in direzione retroattiva. Nello stesso tempo proprio questo intreccio di possibilità e la molteplicità dei giochi che è possibile elaborare su di esse rappresentano un sorgente a cui hanno potuto attingere a piene mani i linguaggi musicali. Questo gioco dell'espressione fa naturalmente parte della vicenda storica. Invece la distinzione tra tono e modo, che è concettualmente del tutto chiara, rimanda alla differenza tra qualcosa che si sente o qualcos'altro che non si sente, ovvero che si sente solo per il tramite dei suoni: la differenza tra tono e modo può essere infatti ricondotta alla differenza fondamentale tra suono e intervallo. Ciò che rappresenta, come pura grandezza, un che di astratto se non viene determinato dai suoni che lo delimitano, è anzitutto l'intervallo. L'intervallo in sé è un nulla. Esso diventa qualcosa sotto il profilo fenomenologico, cioè come entità effettivamente udita, solo attraverso i suoni concepiti come suoni che, delimitando l'intervallo, lo pongono in essere. Questa possibilità di intravedere alle spalle della distinzione tra modo e tono quella tra intervallo e suono mostra che quella distinzione non appartiene a questo o a quel linguaggio della musica, ma a quel sottostrato di nozioni che dobbiamo attribuire ad una teoria della musica considerata da un punto di vista generale, ai suoi concetti elementari - esattamente come vi appartengono le nozioni di suono e di intervallo tra i suoni. 55 Giovanni Piana Figurazione e movimento nella problematica musicale del continuo 56 Questo testo è stato pubblicato in Autori Vari, La percezione musicale, a cura di L. Albertazzi, Edizioni Guerini e Associati, Milano 1993, pp. 11-35. 57 1 La distinzione-opposizione tra continuità e discontinuità, che io vorrei considerare qui soprattutto dal punto di vista dell'idea del movimento e della figurazione musicale, ha indubbiamente un'importanza fondamentale tra le questioni di principio che una filosofia della musica è chiamata ad elaborare. Ciò merita di essere sottolineato tanto più per il fatto che parole come continuo o discontinuo potrebbero essere avvvertite dal critico, dal musicologo o dal musicista come parole appartenenti ad altri contesti, che poco o nulla avrebbero a che fare con la terminologia musicale. In realtà non è affatti facile reperirle nei testi di teoria musicale, nella manualistica corrente. Ciò non riguarda tanto, io credo, la natura dei problemi in gioco, ma una tendenza alla quale occorre reagire con particolare energia a contenere ed a delimitare la riflessione teorica sulla musica in modo da non implicare gli sfondi di carattere generale che indubbiamente debordano sia dalla dimensione propriamente storica sia da quella analitico-testuale. Infatti, con questi sfondi si debbono intendere non solo riferimenti storico-culturali, ma anche tutte le tematiche che riguardano le strutture generali dell'esperienza percettiva che formano il presupposto della musica stessa, che stanno alle sue fondamenta. Queste tematiche sono da un lato un oggetto di studio della psicologia e della fenomenologia della percezione, ma dall'altro sono anche il veicolo di problemi che consentono di spingere lo sguardo molto oltre, verso questioni filosofiche di ampio respiro. Il procedere in questa direzione sembra essere oggi un'esigenza particolarmente sentita sia nell'ambito della cultura filosofica sia in quello della cultura musicale. Nell'ambito della cultura filosofica è diventata ormai particolarmente evidente la ristrettezza di un punto di vista della riflessione estetica nel quale resta dominante il riferimento alle arti della parola e la necessità conseguente di dare alla musica ben altro spazio di quello che è stato ad essa concesso nel passato. Dal punto di vista della cultura musicale agisce da stimolo soprattutto il crescente interesse verso i problemi dell'analisi musicale, in particolare in un periodo di crisi profonda dell'orientamento semiologico che pure questo interesse ha contribuito in misura rilevante a suscitare ed a tener 58 vivo. La stessa molteplicità di vie e di modelli che vengono proposti, con i loro consistenti rimandi ad elaborazioni che non hanno direttamente origine in problematiche musicali, richiedono che l'attenzione si sposti sempre più da un teoria della musica intesa nel senso più elementare e scolastico della "teoria e solfeggio", alla quale si affida per lo più il compito di fornire un'esposizione di nozioni ben sperimentate e della terminologia specializzata corrispondente, assunte nella loro pura rilevanza tecnico-descrittiva e con una delimitazione indefettibile alla tradizione musicale europea, ad una nozione di teoria della musica considerata in un'accezione più ampia, più "filosofica", che non può non coimplicare la riflessione critica sui concetti costitutivi della musicalità stessa. Ma forse lo stimolo più ricco, più vivace e più pressante viene proprio dalla musica novecentesca, dagli interessi che in essa si fanno avanti e che si impongono con la concretezza e l'immediatezza dell'espressione musicale. Proprio in rapporto al tema che vorremmo mettere a fuoco, sono in realtà numerosissimi i brani che potrebbero essere citati come modi di mettere alla prova le possibilità della continuità e della discretezza, esibendo connessioni interne con l'idea della stasi e del movimento e i diversi intrecci con le dimensioni della temporalità e della spazialità considerate come dimensioni della musica stessa. Si pensi, per fare solo qualche esempio fra i molti, ad Artikulation o ad Atmosphères di Ligeti, che naturalmente possono essere citati in una significativa opposizione; oppure a Kontrapunkte di Stockhausen ed in generale alle opere "puntilliste" del periodo; ma anche, su tutt'altro versante, agli interessi per la musica percussiva delle prime opere di Cage, di cui fanno certamente parte i brani per pianoforte preparato; oppure a Winter Music dello stesso Cage, in cui si susseguono ampi cluster pianistici separati da pause immense; a Extension Three di Feldmann, nel quale si sviluppa un elementare e raffinato gioco tra continuità in senso temporale e discontinuità nell'ordine delle altezze. Con particolare pregnanza va poi certamente citata la produzione di Iannis Xenakis, che ha teorizzato esplicitamente e in modo ricco di interesse l'importanza di questo problema. Basti qui citare una composizione come Metastaseis; oppure la composizione per sedici strumenti a fiato intitolata Akrata titolo che significa all'incirca "cose non mescolate", "distinte", "non fuse insieme" - nella quale con ammirevole semplicità viene co- 59 struita un'architettura a strati fatta di punti e linee, di pulsazioni puntiformi e di semplici sviluppi lineari. Composizioni come queste, a cui se ne potrebbero affiancare altre più recenti e recentissime, possono essere citate come vere e proprie riflessioni direttamente musicali sul problema del continuo e del discreto; e poichè questa opposizione viene spesso proposta in certo senso nella sua forma più grezza e immediata, è suggestivo pensare che, esponendola come tale all'ascolto, si intenda anche sottolineare la sua radicalità, cioè la sua appartenenza alle radici dell'espressione musicale. 2 Vogliamo avviare la nostra riflesssione ribadendo che le nozioni del continuo e del discreto andranno assunte come nozioni costituite anzitutto sul terreno della percezione - e ciò va subito detto perchè la tentazione di cominciare dall'alto, e cioè da concetti formalmente elaborati, sembra essere sostenuta e sollecitata da una garanzia di scientificità che non seduce solo i filosofi, ma si associa ad un abito mentale molto diffuso anche fra i teorici e musicisti con interessi teorici. Di questo abito mentale fa parte l'idea secondo la quale l'elaborazione matematico-formale rappresenterebbe la vera essenza del rapporto costituito intuitivamente. In questa elaborazione verrebbe proposta la spiegazione di questo rapporto nel senso del dispiegamento, dell'esplicitazione di nessi interni, dapprima oscuri. Noi sosteniamo invece la necessità di prendere le mosse dal basso, cioè da concetti prossimi alla percezione, da nozioni modellate sull'esperienza, come potremmo dire con una formulazione efficace. Ciò comporta l'idea che vi sia già un'intrinseca ricchezza di significato delle nozioni proposte all'interno di "giochi linguistici" nei quali gli interessi matematico-formali e in generale propriamente conoscitivi non svolgono ancora alcuna parte, e nello stesso tempo che vi sia qualcosa di profondamente sbagliato nel modo di intendere la spiegazione razionale nel senso in cui ne parlavamo poco fa. La spiegazione razionale non è un dispiegamento dell'essere vero, ma è piuttosto una vera e propria operazione di razionalizzazione, che da un lato riprende fili e tracce già presenti nella costituzione primaria, dall'altro riannoda questi fili e queste tracce in un nuovo reticolo, ed 60 in questo modo rimodella quei concetti e li ripropone in una nuova forma. Quando si fanno valere interessi propriamente conoscitivi, interviene dunque un' elaborazione di secondo grado nella quale diventano operanti nuove regole della costituzione concettuale, nuove tendenze e nuovi orientamenti, cosicché la tenatica originaria riceve una complessiva e radicale riconfigurazione[1]. Noi vorremmo dunque indugiare un poco sul limitare di queste operazioni razionalizzanti, allo scopo di esplorare e portare alla luce la ricchezza di senso delle nozioni del continuo e del discontinuo colte in prossimità della loro origine percettiva, effettuando una vera e propria analisi del loro contenuto. Per certi versi si potrebbe presentare il nostro problema - anche se una simile formulazione si presta forse ad interpretazioni troppo riduttive - come se si trattasse di introdurre il senso delle parole continuo/discontinuo facendo riferimento a situazioni descrittive che siano in grado di illustrare questo senso. La nostra ricerca non potrà dunque che assumere l'andamento di un'esibizione e di un commento di esempi - ciò dipende dalla natura stessa dell'argomento e dall'orientamento metodico adottato in rapporto ad esso. È opportuno tuttavia sottolineare che non si tratta di fornire un elenco di casi di applicazione e di impiego delle parole, con il rischio che si realizzi una dispersione del tema in discussioni di cui non si riuscirebbe a cogliere un autentico filo conduttore. Gli esempi non possono essere scelti alla cieca, ma debbono essere in grado di "riempire" il senso delle parole nel modo migliore. L'esemplificativo deve essere soprattutto esemplare. L'illustrazione del significato deve valere anche come illustrazione della costituzione del concetto. 3 Un buon esempio per illustrare la nozione della continuità richiamandosi ad una situazione che possa essere intesa come una base attraverso cui quella nozione viene forgiata e plasmata primariamente è indubbiamente rappresentato da una superficie il più possibile omogenea a vedersi. Ma certamente non il solo: un esempio altrettanto buono potrebbe essere quello della percezione di un movimento - anche se naturalmente si tratterà ancora di decidere, tra i vari tipi di movimenti, quale si presti ad assolvere questa funzione esemplificativa 61 nel modo migliore. Dalla necessità di prendere in considerazione per i nostri scopi situazioni esemplicative tanto diverse possiamo in realtà trarre subito un'indicazione preziosa: se tentiamo un'analisi del concetto del continuo riportandolo alla sua origine nel mondo di esperienza, non ci troviamo affatto di fronte ad un'origine unitaria, ma al contrario dobbiamo cominciare con il prendere atto di una duplicità dei processi della costituzione. Ad una costituzione statica dobbiamo contrapporre una costituzione dinamica, anche se è prevedibile che l'una e l'altra possano riconfluire insieme in modo variamente complesso già sul piano di una considerazione intuitiva. Cominciamo dunque con qualche prima annotazione sui temi proposti dalla costituzione statica. Abbiamo parlato di una superficie visibilmente omogenea - in essa, potremmo dire per cercare di spiegare che cosa si intenda con omogeneità, domina la piena similarità delle parti: nessuna parte è distinguibile per qualche speciale caratteristica da ogni altra. Formulazioni come queste sono tuttavia imprecise: forse dovremmo anzi dire anzitutto che la superficie appare come indivisa, che essa non mostra divisioni nel suo interno; ovvero che in essa non è data attualmente alcuna parte. Naturalmente ciò non significa che non si possano operare suddivisioni: al contrario. È sempre possibile tracciare delle linee su un foglio bianco o su una lavagna, operando in questo modo un'evidente ripartizione (dove "evidente" significa che la si vede). In un'accezione della parola "continuo" modellata su una simile situazione esemplificativa l'idea dominante sarà quella dell'assenza di differenze: ma in realtà anche quella di parte, anche se solo in modo indiretto. Potremmo dire infatti che, quando parliamo di una superficie che appare indivisa, in una simile formulazione è incluso soltanto il pensiero della parte, cosicché la nozione della parte è richiamata indirettamente come diseguaglianza potenziale e come possibilità della suddivisione. Queste sono anzitutto le idee contenute nell'omogeneità considerata come condizione della continuità. Tuttavia in un'illustrazione del senso della parola "continuità" si parla talora anche di "assenza di lacune", ed è importante sottolineare che le parole "lacuna" e "differenza" non hanno affatto lo stesso significato benchè siano formalmente riducibili l'uno all'altro: tracciando linee su una superficie, realizzando un disegno potremmo indubbiamente affermare di aver operato in questo modo una 62 ripartizione, di aver fatto apparire delle parti, mentre il nostro interlocutore si sorprenderebbe se affermassimo che nella superficie vi sono ora delle lacune - come se in essa avessimo praticato dei fori. Se dunque di fronte ad una superficie priva di parti distinguibili facessimo notare l'"assenza di lacune", evocando così, come caso contrapposto, una superficie tutta piena di buchi, in realtà ci richiameremmo ad un aspetto della questione di cui non riusciremmo a rendere conto a sufficienza sulla base delle considerazioni precedenti. Una lacuna è qualcosa che manca (il mancare di qualcosa); l'assenza di lacune allude allora ad una condizione di completezza. Come se dicessimo: vogliamo farvi notare che qui, dopo tutto, non manca proprio nulla. Cosicchè mentre in precedenza veniva in primo piano l'idea della parte e di una partizione possibile, ora ad assumere il massimo risalto è se mai l'idea di una saturazione completa. Alla nozione di continuità costituita staticamente appartengono dunque le condizioni dell'omogeneità e della completezza - condizioni che tengono naturalmente conto anche della polarità opposta della discretezza e della discontinuità. È interessante notare a questo proposito che forse nessuno, dovendo proporre una situazione fenomenologica di discontinuità, farà riferimento ad un foglio di carta millimetrata, o comunque all'immagine di una partizione molto fine e regolare. E questo perchè un simile esempio - pur rientrando sotto la nozione del discontinuo in quanto è in esso comunque presente una suddivisione attuale in parti - potrebbe essere considerato troppo debole per due buone ragioni. Anzitutto si tratta di una partizione regolare, e l'espressione di omogeneità può certamente abbracciare un caso come questo; in secondo luogo la finezza della partizione fa sì che la superficie possa apparire come continua, se la guardiamo ad una distanza tale da non poter appunto distinguere l'una parte dall'altra. Forse si avverte già, in queste prime considerazioni, che ci troviamo su un terreno scivoloso: da un lato diciamo di voler mantenere la presa su una forma di concettualizzazione che si modella sugli esempi dell'esperienza, dall'altro, non appena, come non possiamo non fare, cominciamo a commentare questi esempi - si tratti di una lavagna, di una superficie tutta bucherellata, oppure di un foglio di carta millimetrata - ci rendiamo conto che i pensieri che sono in certo senso annidati in essi stanno per "spiccare il volo". Si sta 63 mettendo in opera la forza dell'argomentazione e noi non possiamo fare a meno di assecondarla per qualche qualche tratto. 4 Abbiamo parlato di possibilità della suddivisione, di potenzialità che deve essere attualizzata. Ed è naturalmente della massima importanza stabilire in che modo debba essere intesa una simile attualizzazione. La suddivisione potrebbe essere concepita come un operazione iterativa che trae parti dalla parte e che termina negli indivisibili, negli atomi di cui parlava Democrito. È chiaro che qui siamo tentati di riprendere in una rapida sintesi i termini di un antico dibattito: il progresso che conduce dalla possibilità della suddivisione alla discretezza, la quale viene così caratterizzata eminentemente attraverso l'indivisibilità, ha come conseguenza un'operazione di soppressione dell'opposizione tra continuo e discontinuo che deve assumersi il compito di ridurre la nozione di continuità fondandola sulle entità atomiche e puntiformi. In Democrito questa operazione avviene naturalmente all'interno di una prospettiva metafisica che chiama in causa le componenti ultime del reale. Le condizioni della continuità - l'omogeneità e la completezza - dovranno infatti essere in qualche modo ricostruite a partire unicamente dagli atomi: ma ciò significa soprattutto relegare queste condizioni al regno delle pure apparenze. Una superficie omogenea e priva di lacune sarà da considerare come puramente apparente, essendo in realtà costituita da parti indivisibili, separate oltretutto da piccolissimi interstizi. In effetti questa negazione della continuità è accompagnata dalla difesa del vuoto: e ciò è significativo sia perchè in precedenza abbiamo parlato della completezza come pienezza e saturazione, sia perchè il vuoto viene difeso come condizione di possibilità del movimento, cosicché l'intera operazione riduttiva della nozione di continuità sembra poter essere giustificata proprio dall'istanza di rendere conto del movimento. Ciò rappresenta naturalmente, dal nostro punto di vista, mettendo da parte la questione metafisico-ontologica, una conferma dell'orientamento statico di questo livello della costituzione della nozione del continuo. Una conferma che ci viene poi, con forza raddoppiata, dall'ob- 64 biettivo polemico principale dell'atomismo democriteo. È suggestivo pensare che l'intero stile di pensiero eleatico, che culmina con i paradossi di Zenone, non sia subito e anzitutto determinato da considerazioni astrattissime e generalissime sul modo di concepire l'Essere, ma abbia piuttosto, più concretamente e significativamente, il suo nucleo e la sua origine in una riflessione sulla continuità e sulla possibilità della suddivisione, una riflessione che ha di mira proprio la custodia e la difesa della continuità come un dato originario e irriducibile. Nello spirito dell'atomismo, il prendere le mosse dalla possibilità della suddivisione per giungere agli indivisibili rappresenta un puro percorso argomentativo che non corrisponde alla realtà delle cose: ciò che sta prima, ciò che è realmente originario non è l'indiviso inteso come continuità pura che può essere suddivisa, ma l'indiviso in senso attuale ed assoluto che esclude ogni possibilità di suddivisione. La negazione della continuità nella prospettiva atomistica ha al suo fondamento l'idea dell'originarietà di ciò che è essenzialmente indivisibile perché è essenzialmente senza parti. Cosicchè si può invertire il ragionamento: se dobbiamo rendere conto dell'effettività del continuo dobbiamo illustrarlo come pura possibilità della suddivisione, e precisamente come pura possibilità della suddivisione infinita. Ciò significa a sua volta semplicemente: non esistono atomi. Una difesa del continuo si può dunque configurare come una difesa dell'originarietà dell'indiviso inteso come come una totalità senza parti, il cui concetto è tuttavia fornito dall'idea di una possibile suddivisione infinita. Naturalmente non è affatto il caso di pretendere che una simile prospettiva filosofica si trovi alla lettera nei frammenti parmenidei. È invece interessante notare che almeno alcune linee portanti di una delimitazione fenomenologica della nozione della continuità, affrontata dal punto di vista della sua costituzione statica, sembra riflettersi, in una sorta di ribaltamento e di trasfigurazione metafisica, nella teoria parmenidea dell'Essere. L'importanza esemplare che noi abbiamo attribuito in questo contesto alla superficie la si ritrova qui proprio in quegli aspetti che sono sempre parsi più incomprensibili, più difficili da accettare, più arbitrari: la si ritrova appunto nell'idea che l'Essere possegga la proprietà dell'estensione, senza che con questo sia deciso il suo carattere corporeo. 65 Proprio questo aspetto, al quale talvolta ci si riferisce, per così dire, alla cieca, senza riuscire a trovare per esso sufficienti spiegazioni, diventa invece chiaramente comprensibile alla luce e nel contesto delle nostre considerazioni: l'estensione rappresenta infatti un possibile "fondamento" per la costituzione del pensiero del continuo. Si tratta di un'estensione che si oppone radicalmente al vuoto, essa possiede dunque al massimo grado omogeneità e completezza. Ed in questo stesso quadro diventa comprensibile la famosa affermazione della sfericità dell'Essere, questa figura che l'Essere assume è una figura necessaria, quando l'Essere è pensato attraverso il pensiero della continuità. Ci piace a questo proposito rammentare le vecchie pagine di Theodor Gomperz, nelle quali - qui come ovunque - egli, con un atteggiamento che sentiamo oggi così lontano dalle nostre consuetudini storiografiche, discute con i suoi autori come se li avesse di fronte e consente così a noi stessi di discutere ancora con lui. Nell'affermazione parmenidea secondo cui l'Essere sarebbe un "indivisibile tutto, unico, continuo, in ogni parte eguale a se stesso, non avente più d'essere qui e meno là", così da assomigliare "alla massa di una sfera tutt'intorno bene arrotondata, perfettamente equilibrata in tutte le sue parti" [2], in questa affermazione Gomperz vede addirittura una caduta del livello di astrazione al quale Parmenide vorrebbe attenersi, una caduta in un'immagine troppo concreta, troppo tangibile e palpabile, che ci riporta dai pià alti livelli delle astrazioni logico-metafisiche alle "consuete bassure" del mondo di esperienza (per il quale del resto Gomperz parteggia). Ecco come egli commenta la citazione precedente: "A queste ultime parole, il lettore prova una brusca scossa, simile a quella con la quale a volte ci si sveglia da un etereo, alato sogno; or ora ci libravamo, liberi da ogni impedimento, al di là delle stelle, ed ecco che all'improvviso ci ha riaffferrati l'angusta realtà. Anche Parmenide, così pare, ha osato, novello Icaro, il volo che doveva trasportarlo, oltre il regno dell'esperienza, nell'eterea regione del puro essere; senonché le forze gli sono venute meno a metà strada e si è di nuovo trovato giù, nelle consuete bassure dell'esistenza corporea. Ed effettivamente il suo Essere non ha fatto altro che preparare le analoghe concezioni degli ontologi posteriori, senza peraltro giungere ad eguagliarle; emana da lui un ancora troppo forte sentore terreno; ci conduce nel vestibolo, non nel sacrario della metafisica"[3]. 66 In realtà, nella fantasia sulla sfericità non si concretizza malamente un pensiero che tenta le vie dell'astrazione e che resta invece appigliato ai corpi con la concretezza e la varietà delle loro forme tangibili. Al contrario, attraverso quell'immagine si ribadisce proprio il livello di astrazione logico-metafisica a cui si è pervenuti, benchè in modo tale da mantenere il ricordo degli inizi fenomenologici di quel tragitto speculativo. Nella posizione parmenidea la negazione del movimento diventa un puro corollario. Ma un corollario ad un tempo ovvio e profondamente enigmatico. Così gli argomenti di Zenone sembrano anzitutto poter esser interpretati come rafforzamenti argomentativi della riduzione del movimento a mera apparenza, secondo lo spirito della prospettiva filosofica parmenidea. Ma la forma del paradosso nella quale essi vengono formulati invita a scavare più a fondo ed a sospettare un senso che non è subito afferrabile alla superficie. In essi si parla della suddivisione che procede all'infinito, questo è certo. Ma è altrettanto certo che il movimento venga "negato", che esso sia posto come pura apparenza, come un'antica tradizione esegetica ha sempre sostenuto? Seguendo il filo conduttore teorico delle nostre considerazioni precedenti saremmo invece fortemente tentati dall'idea che in Zenone assuma in ogni caso risalto proprio la differenza tra suddivisione possibile (puramente pensata) e suddivisione realizzata piuttosto che l'impensabilità (e quindi "irrealtà") del movimento. Il discorso filosofico implicato da quelle argomentazioni potrebbe allora riguardare proprio le condizioni di pensabilità del movimento, condizioni che avrebbero il loro centro nel pensiero della suddivisione infinita[4]. Come se si dicesse: il movimento esige quel pensiero, ma appunto soltanto come pensiero: non appena la pura possibilità della suddivisione infinita viene intesa come concretamente realizzata - e gli argomenti di Zenone poggiano tutti sull'assunzione di questa realizzazione concreta - la negazione del movimento si mostra con necessità ed evidenza. Ma allora si può sostenere che quegli argomenti mirino a stabilire un legame indissolubile tra continuità e movimento, ribaltando radicalmente le assunzioni atomistiche. Gli argomenti di Zenone "contro il movimento" esibiscono con tale energia la realizzazione e l'attualizzazione della suddivisione infinita da far pensare che il loro obbiettivo effettivo debba essere ricercato proprio in questa direzione. Ogni suddivisione realizzata - infinita o finita che 67 sia - non può che comportare un elemento di discretezza che sopprimendo la condizione di pensabilità del movimento non può rendere conto della sua realtà e della sua consistenza fenomenica. Questa condizione è appunto la continuità, la cui idea può essere formulata nei termini del puro pensiero della possibilità di una suddivisione infinita [5]. Seguendo una simile suggestione interpretativa, la posizione parmenidea, nella quale questa connessione non viene esplicitata e che resta legata al "modello" dell'estensione, potrebbe essere assunta come rappresentativa della costituzione statica della continuità, mentre Zenone potrebbe contrassegnare per noi il punto di passaggio ai problemi della costituzione dinamica. 5 Abbiamo notato in precedenza che la situazione del movimento percettivo potrebbe rappresentare una base per una diversa via della costituzione del concetto del continuo, ma abbiamo anche subito aggiunto che resta comunque da decidere quale, fra i diversi tipi di movimenti che hanno aspetti percettivamente diversi, possegga l'esemplarità necessaria. Difficilmente si citeranno movimenti zigzaganti, per il semplice fatto che in questa forma del movimento vi sono punti di discontinuità nettamente individuati, che sono precisamente quei punti in cui il movimento muta direzione. Il fatto che il tragitto di un movimento zigzagante si possa disegnare senza levare la matita dal foglio non ci fa, in proposito, cambiare opinione[6]. Tuttavia le nostre considerazioni possono senz'altro cominciare di qui, perchè già nelle parole che abbiamo usato or ora emergono alcuni motivi di particolare importanza per delineare i passi di una costituzione dinamica della nozione di continuità. Intanto abbiamo parlato di forma del movimento, e possiamo pensare a questa forma come ad una linea ipotetica che un punto in movimento lascia lungo il suo percorso, come la sua scia. Naturalmente dovremo guardarci dall'operare, attraverso questa nozione, una fissazione del movimento cogliendolo nel suo risultato spaziale, come movimento interamente trascorso, piuttosto che come movimento che si va facendo. 68 In realtà, la forma del movimento è qualcosa che si va annunciando e variamente modificando lungo il movimento stesso. Cosicchè il tema della forma del movimento può essere riportato a quello di una tendenza interna del movimento in ogni fase del suo decorso. Più precisamente, volendo mettere in evidenza la connessione tra il movimento e la continuità, dovremmo dire: il movimento è caratterizzato in ogni suo punto dall'unità di una direzione. Questa formulazione può essere illustrata per opposizione pensando al caso precedente in rapporto al quale si parlava di mutamento di direzione e di punti di discontinuità per quei punti in cui questo mutamento si manifesta. Abbiamo così la possibilità di stabilire una prima e interessante connessione con i temi precedentemente sviluppati. Anche ora infatti stiamo proponendo un problema di somiglianza e di differenza, ma questi termini sono ora caratteristicamente riferiti a nozioni dinamiche come sono quelle di tendenza e di direzione. In precedenza la condizione di omogeneità consisteva essenzialmente nella pura somiglianza delle parti, nell'indifferenza di una parte rispetto all'altra, mentre ora ciò che caratterizza l'omogeneità nella costituzione dinamica è propriamente la persistenza di direzione. L'esempio più pregnante sarà allora certamente fornito, sotto questo riguardo, da un movimento rettilineo. Esso si muove sempre nella stessa direzione. E tuttavia parlando di un movimento caratterizzato in ogni suo punto dall'unità di una direzione fornivamo evidentemente una condizione più ampia, rispetto alla quale il movimento rettilineo rappresenta solo un caso particolare. Pensiamo in proposito all'uso corrente dei termini: dalla nozione di continuità non vengono esclusi i mutamenti in genere, ma i bruschi mutamenti di direzione, i mutamenti inattesi, le interruzioni nelladirezione del movimento. Saranno invece inclusi i mutamenti graduali. Per la prima volta nell'ambito delle nostre considerazioni si fa avanti il concetto del grado. Ed allora ci dobbiamo chiedere: che cosa significa propriamente parlare di un mutamento graduale di direzione? In realtà l'unità di direzione rappresenta ancora la nozione fondamentale - solo che questa unità di direzione deve essere riferita non al movimento nel suo complesso, alla forma globale del suo percorso, ma a fasi abbastanza brevi del suo sviluppo. Alla luce di ciò va forse anche corretta o almeno più ampiamente commen- 69 tata la nostra formulazione, in particolare là dove si parla di punti. Nel movimento non vi sono punti, ma sempre soltanto tratti o fasi. Possono essere considerati come punti, se mai, solo gli estremi di questi tratti. In rapporto al nostro problema, ciò che interessa è poi la piccola differenza tra l'uno e l'altro estremo, poichè il mutamento graduale di direzione consiste proprio nel fatto che all'interno di questa piccola differenza, tra l'uno e l'altro estremo, la direzione può essere considerata come all'incirca la stessa. La formulazione precedente potrebbe quindi essere corretta, sostituendo all'idea del punto quella della piccola differenza tra punti. Ma questo non è che un altro modo di dire che i punti del movimento non sono propriamente dei punti, ma degli indicatori di una tendenza, essi sono rappresentativi di una direzione. Si sarebbe quasi tentati di dire: non sono punti, ma frecce - cosicché l'affermazione che stiamo discutendo potrebbe essere riformulata immaginosamente, ma non del tutto impropriamente, dicendo che il movimento è caratterizzato dal fatto che ogni suo punto è una freccia. Tendenza, direzione, grado e piccola differenza fanno parte di un'unica area tematica che gravita intorno alla nozione della continuità costituita dinamicamente. Notiamo in margine che anche in questo caso, come in precedenza, vengono messe in questione le piccole parti, anzi le parti sempre più piccole, tuttavia non nel quadro di un problema di partizione o di suddivisione, bensì in stretta conessione con il tema dinamico della persistenza di direzione. Il richiamo alla piccola differenza, anzi alla differenza sempre più piccola diventa necessario proprio per far valere l'idea di unità di direzione. La nostra illustrazione della costituzione dinamica del continuo non può tuttavia arrestarsi a questo punto. Vi è infatti una condizione della continuità ancora più elementare della persistenza di direzione, una condizione che avremmo dovuto forse citare per prima e che riguarda la pura temporalità del movimento, il suo essere ininterrotto dal punto di vista temporale. Si potrà pertanto parlare, per indicare questa condizione, di persistenza temporale del movimento. È interessante richiamare l'attenzione sul ripresentarsi, proprio a questo punto, nell'ambito delle considerazioni dinamiche, dell'idea della lacuna e dunque anche, corrispondentemente, di una totalità "piena", di una totalità priva di lacune. Del resto potremmo dire che nel suo svolgersi un movimento occupa un certo tratto di tempo, e questa espressione dell"occupare" segnala che, anche in sede di co- 70 stituzione dinamica, si possono evocare immagini di saturazione e di pienezza, facendoci così intravvedere un possibile parallelismo proprio con la condizione della completezza che abbiamo formulato in sede di costituzione statica. In questo contesto sorge peraltro la questione, di cui non è affatto facile sbrigarsi in poche parole, di ciò che può valere come un movimento unitario, eventualmente più volte interrotto oppure come una molteplicità di movimenti distinti. Si tratta di argomenti sui quali non è qui il caso di soffermarsi. Vorremmo invece segnalare un modo di ritrovare il tema "atomistico" con un'inclinazione di senso interamente differente proprio per ciò che riguarda il tema del movimento - un modo che, pur essendo non poco artificioso, non è affatto privo di interesse tenendo conto dell'intero andamento della nostra discussione precedente. In effetti, potremmo immaginare livelli crescenti di discontinuità temporale a partire da un movimento inizialmente ininterrotto che va poi frantumandosi e segmentandosi progressivamente. Aumenta dunque la durata delle lacune, diminuisce la durata dei tratti di tempo riempiti: ma certo non indefinitamente dal momento si dovrà infine pervenire, potremmo dire, a segmenti di movimento temporalmente puntiformi - espressione che non può che alludere ad una condizione di totale assenza di movimento. L'artificiosità di questo modo di presentare le cose può passare ampiamente in secondo piano di fronte all'efficacia con cui si riesce a mostrare in questo modo le traversie della dialettica tra continuo e discontinuo in rapporto al tema del movimento. Mentre in precedenza l'atomo e il vuoto erano proposti in un contesto che mirava a rendere conto della possibilità del movimento, ora al contrario si mostra vivacemente in che modo l'assenza del movimento possa essere fatta dipendere dalla discontinuità e inversaamente in che modo proprio la continuità rappresenti la sua condizione autentica. In certo senso, abbiamo nuovamente "dedotto" l'idea di atomo, ma lo abbiamo fatto in modo da rendere l'immobilità un attributo essenzialmente inerente ad essa. Si mostra infatti che l'atomo può essere introdotto come ciò che resta al venir meno della persistenza temporale, come un vero e proprio ultimo residuo del movimento. Là dove la condizione della persistenza temporale cessa di essere operante, cessa in generale ogni movimento possibile. I segmenti del movimento, come ci siamo espressi in precedenza con espressione che rasentava il paradosso, sono diventati temporalmente punti- 71 formi. Vogliamo dire: sono proprio punti, e non frecce, e non piccole differenze. I termini del problema si sono così caratteristicamente rovesciati: l'atomo e il movimento stanno l'uno di contro all'altro. Gli atomi sono come chiodi piantati nel vuoto, del tutto incapaci di operare quel riempimento dinamico del puro decorso temporale che è condizione affinchè possa darsi qualcosa come un movimento. 6 Ma finalmente: che cosa ha tutto ciò a che vedere con i nostri interessi orientati verso la riflessione teorica intorno alla musica? È ormai tempo di cercare di fornire qualche indicazione in proposito. Come filo conduttore vogliamo assumere il problema del modo in cui diventa operante l'opposizione tra continuità e discontinuità nella determinazione del "carattere di movimento" delle figurazioni musicali[7]. Per lo più il dibattito filosofico sulla questione ha portato unilateralmente l'attenzione sul fattore temporale quasi che unicamente da esso dipendesse questo carattere, considerando poi la continuità come un'ovvia condizione aggiuntiva, strettamente connessa con il fattore temporale. In ciò vi è indubbiamente un fondo di verità, come vedremo fra breve, che tuttavia non riesce mai a venire ad una chiara formulazione e che anzi rischia di dar luogo a imprecisioni ed a fraintendimenti. L'affermazione secondo la quale il movimento nella musica sarebbe dovuto eminentemente alla componente temporale è anzitutto esposta al rischio di misconoscere l'importanza che rivestono, proprio ai fini dell'attribuzione del carattere di movimento ad un brano musicale, elementi he riguardano propriamente la materia sonora e le molteplici forme di articolazione e di organizzazione che sono in essa fondate e che in nessun modo possono essere fatte dipendere dalla pura forma temporale delle figurazioni musicali. Tutta la nostra discussione precedente mostra la necessità di un approccio al problema da un'angolatura interamente diversa per il fatto stesso che è stata mostra la possibilità di un duplice percorso nella formazione del concetto percettivo del continuo. In particolare va certamente messa da parte l'idea ricorrente, di origine bergsoniana ma la cui diffusione ha largamente superato l'ambito dei seguaci di Bergson, secondo la quale la distinzione tra continuo e discontinuo 72 debba essere proposta subordinatamente alla distinzione tra tempo e spazio, ed in una sorta di parallelismo rispetto ad essa. In un simile contesto la continuità temporale, la dimensione della "durata" nel senso bergsoniano del termine, alla quale attingerebbe in modo esclusivo la musica stessa, viene contrapposta al cosiddetto "tempo degli orologi", la cui caratteristica fondamentale sarebbe appunto quella della discretezza. Ma è significativo a questo proposito che spesso si alluda a questo tempo degli orologi parlando di tempo spazializzato, cosicchè lo spazio - per motivi che si stentano a comprendere - viene assunto come uno sorta di campo privilegiato della discretezza e della discontinuità in generale. Volendo reimpostare la tematica del movimento nella musica secondo le indicazioni emerse nella nostra discussione, converrà certamente non tenere affatto conto del preteso parallelismo tra tempo/spazio da un lato e continuo/discontinuo dall'altro, considerando come sovraordinata e più generale se mai proprio quest'ultima opposizione. Potremo allora forse subito intravvedere che quella tensione tra continuo e discontinuo, quel gioco e quello scambio delle parti che si verifica in rapporto al problema del movimento e della stasi e che caratterizza in modi talvolta sconcertanti la vicenda fenomenologicospeculativa che abbiamo narrata poco fa debba ritrovarsi anche nell'impianto di un discorso diretto alla musica. 7 I nostri primi commenti potrebbero prendere le mosse dal tema del movimento fissato nella sua forma. Quando ne abbiamo parlato avremmo forse già dovuto mettere in rilievo che - trattandosi di un movimento concretamente percepito - esso si manifesta su una superficie che fa da sfondo: rispetto ad essa, il movimento stesso, come la forma che ne risulta, rappresenta indubbiamente un elemento di discontinuità. Il tema del continuo e del discontinuo - è appena il caso di notarlo - raccoglie in sè quello del rapporto tra figura e sfondo nel senso che gli psicologi della Gestalt dànno a questi termini. Se ora dovessimo rispondere in breve alla domanda intorno al modo in cui la temporalità interviene in rapporto al problema della figurazione musicale, potremmo indubbiamente affermare che essa assume anzitutto carattere di sfondo. Si parlerà dunque di temporalità 73 di sfondo ovvero di sfondo temporale. E si tratta proprio di una temporalità che rammenta la superficie del nostro primo esempio (ed anche il vuoto). La continuità va dunque intesa nel senso delle condizioni dell'omogeneità e della completezza che caratterizzano la costituzione statica del concetto. Naturalmente, ciò non significa misconoscere la presenza di un dinamismo latente: il tempo è qui in ogni caso il tempo del flusso, il tempo che passa, ed il fatto che i suoni, in quanto oggetti temporali, riempiano questo vuoto fluire rappresenta naturalmente una caratteristica di fondamentale importanza per la fenomenologia dell'oggetto sonoro. In particolare va notato che lo sfondo temporale può anche ricevere un'articolazione schematica, che pur operando un frazionamento ed una partizione del continuo temporale, mantiene tuttavia, per via della regolarità delle parti della suddivisione, un carattere di relativa omogeneità, stabilendo così una sorta di texture temporale, di "impianto metrico" che ha ancora, rispetto alle figurazioni musicali, carattere di sfondo. Si tratta dunque di qualcosa di analogo al nostro esempio della carta millimetrata. Vi è dunque la figurazione che si svolge sullo sfondo temporale; ma vi è anche una dialettica interna della figurazione che considerata sotto il profilo puramente temporale, è una dialettica interna delle durate reciproche. Vogliamo spiegare quest'ultimo punto. Abbiamo accennato poco fa che il carattere di movimento all'interno di una figurazione è dato da molteplici fattori, che sono comunque riconducibili alla componente temporale ed alle tensioni generate dai rapporti tra i suoni in forza delle loro differenti qualità materiali. Ora, se prescindiamo da queste ultime per cogliere l'azione che svolge la componente puramente temporale, osserveremo indubbiamente che il movimento comincia ad entrare nella figurazione con l'alternanza di suoni e di silenzi, e più precisamente, con l'alternanza di suoni e di pause di durata differente. La diseguaglianza delle durate rappresenta evidentemente una condizione di particolare importanza affinchè si possa parlare di un autentico dinamismo interno che eventualmente può prendere forma emergendo da una temporalità fluente o da una temporalità scandita. Ora, proprio in questa diseguaglianza va ricercato il senso in cui abbiamo parlato di una dialettica tra continuità e discontinuità come condizione del movimento nella figurazione. Ma questo senso 74 resterebbe in ogni caso incompreso se non si riuscisse a dare alla differenza delle durate (e quindi al puro dato di fatto che i suoni possono essere più o meno lunghi o più o meno brevi) una pregnanza di significato che non si lascia certamente cogliere al primo sguardo. È necessario invece rammentarsi di quel tratto caratteristico di un pensiero prossimo all'esperienza di cui abbiamo già avuto occasione di avvalerci e che consiste nella tendenza ad esasperare le opposizioni piuttosto che a ridurle, cosicché la breve e la lunga durata non sono affatto intese come determinazioni meramente relative e rese insignificanti proprio da questa relatività, ma possono essere "polarizzate", e cioè proposte, in quanto colte alla luce di un possibile "sempre più", come estremi di un'opposizione irriducibile. Si prospetta così la polarità di un suono infinitamente perdurante e la polarità di un suono istantaneo, del suono-colpo - e dunque ancora una volta, in una nuova forma, l'opposizione tra continuità e discontinuità che è dunque subito prospettata nella pura e semplice posizione della differenza delle durate. Forse si obietterà che si può parlare di un suono di durata infinita soltanto nella forma di una idealizzazione. E ciò è naturalmente giusto. Ma questa idealizzazione prende comunque le mosse dal fatto che la percezione di una durata, attraverso un "oggetto temporale" come è il suono, non contiene necessariamente il senso della finitezza, cioè della sua fine e del suo inizio. Una considerazione analoga potrà essere proposta per il suono istantaneo. Affermare che non esiste alcun suono realmente istantaneo è in parte vero e in parte falso. L'idealizzazione sta qui appena un poco oltre il concreto dato percettivo. Sia il suono perdurante come il suono puntuale avvengono entrambi sullo sfondo temporale continuo, ma è completamente diverso il rapporto che istituiscono con esso, cosicché propongono questa temporalità di sfondo secondo sensi profondamente diversi. Al suono perdurante sono associate idee di completezza e di saturazione: il polo della continuità è qui evocato proprio secondo un punto di vista parmenideo, come estensione e pienezza. Nessuno, io penso, ascoltando gli antichi racconti intorno all'armonia delle sfere si è mai immaginato questa armonia come varia e mutevole, e meno ancora come una successione di suoni che punteggiano uno spazio vuoto. Con l'armonia delle sfere si accede invece nel 75 regno della pura continuità. Non a caso il mito ha posto quell'armonia come inudibile. Questo pensiero sembra suggerito dall'appartenenza di questa musica celeste alla sfera delle cose sacre e sovrumane; ma particolarmente interessante è far derivare questo pensiero da una riflessione sulla completezza del continuo. La totale saturazione non può lasciar apparire alcun autentico evento sonoro. Sul lato opposto, il suono istantaneo, l'atomo sonoro propone lo sfondo temporale continuo come puro vuoto, ma un vuoto in cui è accaduto qualcosa: il suono stesso. E ciò basta a conferire al suono un carattere rappresentativo della forma stessa dell'accadere. Possiamo allora dire che il suono puntuale contiene il principio della figurazione musicale. Ma anche la negazione potenziale di ogni movimento. Mentre in rapporto al suono che perdura possiamo affermare l'esatto inverso: che esso contiene il principio del movimento, ma anche la negazione potenziale di ogni possibile figurazione musicale. Questa duplice formulazione ribadisce e illustra l'idea che movimento e figurazione non possono risiedere negli estremi della contrapposizione polare tra continuo e discontinuo, ma nella dialettica tra quei due poli. 8 La linea di discorso che stiamo tracciando riceve un'integrazione di particolare importanza e può avviarsi ad una conclusione mettendo in questione i suoni in quanto si identificano e differenziano entrando tra loro in relazioni di vario genere sul fondamento delle qualità percettive concrete che li caratterizzano. Mettendo da parte le differenze timbriche e quelle relative all'intensità, avremo di mira soprattutto le differenze di altezza. Mentre dal punto di vista fisico la nozione di altezza richiede il riferimento a quella di frequenza, volendo attenerci il più strettamente possibile al piano fenomenologico dovremo invece parlare del suono come di una individualità percettivamente identificabile, cosicché ci troviamo senz'altro di fronte ad una nozione della puntualità del suono, nettamente distinta dalla puntualità in senso temporale. La stessa grafia musicale di tradizione europea contrassegna le altezze dei suoni e le differenze di altezza mediante punti, ed una simile convenzione non è affatto priva di tratti che riportano alla cosa 76 stessa. Eccoci dunque nuovamente di fronte ad uno dei poli della nostra opposizione, al polo della discontinuità, agli atomi sonori ai suoni che hanno carattere di oggetti. Tuttavia appare subito chiaro, sulla base dell'intero andamento della nostra esposizione, che a partire di qui, dai suoni-oggetti, l'attenzione teorica verrà richiamata anche sulla polarità opposta, e cioè sui suoni che hanno invece carattere di processi, dove questa espressione non ha affatto un senso puramente temporale, ma ha il senso di un'evoluzione e di una trasformazione concreta, di una vera e propria continua e graduale metamorfosi del suono. Di fronte ai suoni-oggetti, che potremmo certamente porre in parallelismo con i suoni temporalmente puntuali, vi sono i suoni glissanti, che potremmo invece porre in parallelismo con i suoni temporalmente persistenti, cosicché l'opposizione tra continuo e discontinuo può essere riproposta anche su questo terreno con conseguenze che la nostra esposizione precedente lascia ampiamente prevedere. Naturalmente, i suoni glissanti non hanno avuto alcuna presenza significativa - in quanto tali - nella nostra tradizione musicale, anzi essi sono stati esplicitamente messi da parte e talvolta anche aspramente condannati dal punto di vista estetico. Schopenhauer, ad esempio, li paragona a fastidiosi miagolii, anzi più precisamente ad ululati che debbono essere esclusi dall'arte. Ma è interessante anche ricordare il contesto in cui Schopenhauer si esprime in questo modo. Egli non ne parla in un discorso che ha di mira direttamente la musica, ma per stabilire un'analogia architettonica. Secondo Schopenhauer, l'intera architettura si muove tra due polarità che hanno in realtà soprattutto valore simbolico: il semplice muro, liscio, interamente privo di aperture, ed il colonnato. Quest'ultimo contiene in qualche modo la quintessenza dell'architettura: e ciò naturalmente può essere citato come un esempio di nostalgia classicistica, continuamente riemergente in èra romantica. Ma questa nostalgia ha una motivazione teorica per noi particolarmente interessante: il colonnato va celebrato come nucleo del pensiero architettonico in particolare per via dell'alternanza tra vuoto e pieno, che è anche un'alternanza tra luce e oscurità, tra trasparenza ed opacità. L'architetto è ad un tempo maestro della materia e della luce. E proprio ripensando al muro ed al colonnato a Schopenhauer 77 viene in mente come efficace similitudine il glissando sonoro dal grave all'acuto, assimilato naturalmente al muro, mentre la scala diatonica verrà nessa in rapporto con il colonnato[8]. Si tratta dunque di una presa di posizione che ha a che vedere proprio con il problema del continuo e del discontinuo, benché Schopenhauer non si serva di questi termini. Nella continuità si vede sopratutto la mancanza di articolazione, che richiede necessariamente punti di snodo, una pura pienezza - il muro, la superficie liscia che non lascia trasparire la dinamica interna delle forze presenti nella costruzione architettonica ovvero nella costruzione musicale. C'è comunque, nel paragone di Schopenhauer, qualcosa che non va: se volessimo cercare un'analogia nell'ambito spaziale per il glissando non dovremmo infatti pensare alla pura e semplice superficie omogenea, ma se mai alla sfumatura cromatica. Questa rappresenta un bell'esempio di proiezione di sensi dinamici in una condizione globale di staticità. Nel caso della sfumatura cromatica si fanno infatti valere le idee della piccola differenza, del grado e dell'unità di direzione, cosicché possiamo indubbiamente dire che un rimando interno al movimento appartiene in ogni caso al senso della situazione percettiva. È inutile dire che questo senso sarà ancora più accentuato nel caso del suono glissante che è un autentico processo che ha bisogno della temporalità come condizione primaria del suo sviluppo. Inversamente, il suono glissante come fatto percettivo concreto potrebbe essere proposto tra le situazioni esemplari della costituzione dinamica del continuo: esso sarebbe in grado di illustrare con molta efficacia l'idea di una processualità come trasformazione materiale, come metastasis, per rammentare ancora una volta, ed esattamente nel luogo giusto, il titolo della composizione di Xenakis che abbiamo già citato nelle nostre considerazioni introduttive. Il brano di Xenakis - vogliamo ricordarne rapidamente i tratti crea una superficie musicale densa e piena, nella quale non vi sono buchi, non vi sono pause o silenzi; e nello stesso tempo, benché non si possa dire che questa superficie sia attraversata da movimenti, dal momento che è priva di vere e proprie figurazioni sonore, essa è anche permeata da un dinamismo magmatico - un risultato che viene complessivamente ottenuto attraverso l'impiego generalizzato di suoni glissanti. Fin dall'inizio e qui e là lungo il brano alcuni colpi secchi rammentano il discontinuo dando risalto a questa contrappo- 78 sizione. Ed è anche il caso di citare la sirena inserita da Varèse in Ionisation, forse il più famoso dei suoni glissanti della produzione novecentesca: un esempio che va ricordato non solo per il fatto che questo suono continuo prende risalto in un brano interamente affidato alle percussioni, ma anche per la motivazione espressiva che lo stesso Varèse gli aveva assegnato: esso doveva proporre la condizione percettiva di un vero e proprio movimento spaziale del suono, di un suono che, invece di apparirci di fronte, attraversa lo spazio nella sua terza dimensione avvitandosi in esso[9]. 9 A parte questi esempi, i suoni glissanti hanno intanto per noi una grande importanza teorica che si ricollega al rapporto che non può non sussistere tra i suoni oggetti e i suoni glissanti: qui l'opposizione tra continuo e discontinuo raggiunge la sua massima tensione in quanto i suoni oggetti debbono essere considerati come parti dei suoni glissanti, o meglio come momenti del movimento sonoro continuo che è lo "spazio sonoro". In effetti noi possiamo concepire lo spazio sonoro, ovvero la totalità dei suoni considerati dal punto di vista delle loro altezze, come un unico suono glissante, o meglio come un glissando del suono che si estende lungo l'intero arco delle frequenze udibili. E di conseguenza possiamo assumere che i suoni abbiano origine dal continuo, derivino da esso attraverso un'operazione di selezione e di suddivisione. In realtà, una teoria della musica che voglia avere una portata sufficientemente generale non può affatto dimenticarsi di tutto ciò come se si trattasse di una circostanza di dettaglio; e nemmeno è giusto ritenere che essa possa al massimo interessare le speculazioni dei filosofi. Certo, vi è qui qualcosa che attrae in modo affatto particolare la riflessione filosofica. Il modo ovvio in cui abbiamo parlato prima del suono come di un'individualità percettivamente identificabile viene meno. Gli oggetti sonori hanno loro radici in un processo, la molteplicità dei suoni presuppone l'unità di un processo, così da implicare la grande contrapposizione dell'uno e dei molti, nella quale si avvertono, come in tutta la nostra discussione precedente, le riso- 79 nanze di antichi dibattiti. In che senso propriamente sia giustificato parlare di molti suoni piuttosto che di un unico movimento sonoro, ciò rappresenta indubbiamente un problema su cui non possiamo evitare di interrogarci. E altrettanto giusto sarebbe il chiedersi che cosa propriamente significhi dire, in rapporto ad un suono, che esso resta lo stesso, in che cosa consista dunque l'identità di un suono, in che modo si possa parlare della differenza e della distinzione tra l'uno e l'altro suono. Eppure proprio in rapporto a questi temi apparentemente così astratti l'uno e il molteplice, l'identità e la differenza, l'essere lo stesso e l'essere altro - ci troviamo ancora una volta impegnati su un terreno in cui tutte le risposte debbono essere ricercate nella concretezza dell'esperienza. L'intera questione infatti è stata proposta come una questione di fenomenologia della percezione, e non in una forma astrattamente argomentativa. Essa consiste soprattutto nel dare la massima importanza ad una delle circostanze più caratteristiche della percezione musicale - a quella che potremmo chiamare percezione di alterazione. Con questa espressione non intendiamo la percezione di un altro suono e nemmeno, banalmente, la percezione della modificazione di un oggetto, pensata secondo il modello della cosa materiale: non si percepisce l'alterarsi del suono, per dirla in breve, così come si percepisce la modificazione della legna che brucia nel caminetto. Si tratta invece di una possibile modalità della percezione che è connessa con la continuità dinamica ed è esemplificata con evidenza proprio dal glissando: diventa allora importante l'afferramento della piccola differenza ovvero della differenza posta attraverso il piccolo intervallo, come una differenza che è in grado di spostare il senso della situazione percettiva dal campo del discreto a quella del continuo, dalla molteplicità dei suoni oggetti all'unità del movimento sonoro. A questo proposito risulta certo naturale - tutta la nostra esposizione punta ora in quella direzione - fare riferimento a fatti specificamente musicali, alla modificazione dei suoni attraverso la diesizzazione e la bemollizzazione, alle "piccole" note che si possono inserire tra le "grandi" note, alla distinzione tra diatonico e cromatico, al fatto stesso che nella terminologia nusicale si parli proprio di alterazioni. Di fronte a questi fatti possiamo scegliere due vie: o ritenere che essi appartengano ai modi di intendere il materiale sonoro, e quindi riguardino la sua messa in forma ad opera di un linguaggio musicale partico- 80 lare; oppure ritenere che le innegabili particolarità linguistiche abbiano comunque il loro fondamento di possibilità nella fenomenologia del materiale sonoro. Naturalmente tutta la nostra discussione si è sviluppata avendo come sottinteso questa seconda via. Seguendo la prima dovremmo ritenere ritenere ad esempio che il parlare di alterazione in rapporto ai suoni non avrebbe alcun fondamento nella cosa stessa [9]; oppure che l'unico problema che verrebbe sollevato dalla proposta di un'origine dei suoni-oggetti dalla continuità dello spazio sonoro sia quello della sua suddivisione come una suddivisione che cade più o meno arbitrariamente su alcuni punti piuttosto che su altri. Secondo questa prospettiva di discorso si riterrà che non vi sia alcuna differenza qualitativa tra il grande e il piccolo intervallo e che quindi anche le differenze tra note principali e secondarie, tra note più importanti e meno importanti, tra cromatico e diatonico appartengano in ogni caso all'ambito delle scelte linguistiche[10]. Ed è proprio in rapporto a questo atteggiamento che potremmo, ricollegandoci alle nostre considerazioni generali, parlare di errore atomistico. Questo non riguarda, evidentemente, l'idea della finitezza della suddivisione, dal momento che ogni suddivisione in quanto operazione realmente e concretamente esercitata consterà ovviamente di un numero finito di passi. Si potrà invece parlare di errore atomistico proprio in rapporto all'idea che al grande ed al piccolo intervallo spetti una differenza meramente quantitativa; è infatti proprio questa idea che comporta un effettivo misconoscimento della continuità e che ci riconduce ai suoni-oggetti come entità assolute. Con tutto ciò si coglie anche di scorcio in che modo vi sia in realtà una profonda connessione tra continuità e movimento nella musica, una connessione che l'estetica musicale ha spesso proposto, ma anche altrettanto spesso in forme contorte e fuorvianti, e soprattutto in modo unilaterale, misconoscendo attraverso il riferimento ad un unico modello, la molteplicità delle forme dell'espressione musicale. Occorre sottolineare con particolare forza che è inconsistente la pretesa che sempre e ovunque nella musica ci sia passaggio e transizione, che in essa ci sia in generale "movimento", oppure che il senso "dinamico" del musicale faccia tutt'uno con il sentimento del legame tra i suoni. Le generalizzazioni filosofiche, quando sono buone generalizzazioni, non dovrebbero affatto farci perdere di vi- 81 sta le differenze, ma dovrebbero anzi contribuire a renderle evidenti ed a metterle in risalto. Ma una volta ammesso tutto ciò ed una volta riconosciuto anche che dalla continuità può venire solo il principio del movimento e che la figurazione musicale pone la discretezza come sua condizione ed esige poi la tensione tra continuo e discreto nell'intero arco di possibilità che essa mette in gioco, si potrà senza equivoco riconoscere anche che il fondamento elementare del nesso tra movimento e continuità sta nel fatto stesso che il senso del dinamismo è tanto più debole quanto più sono operanti condizioni che istituiscono distanze tra i suoni - distanze temporali, ad esempio, così come distanze di regione sonora. Nella terminologia musicale, che è spesso molto più attenta alle determinazioni fenomenologiche di quanto talvolta si pensi, si parla giustamente di passaggi e di salti in situazioni caratteristicamente differenti che mettono in causa la grandezza dell'intervallo. Ma la parola salto contiene ancora, nello slancio che ogni salto richiede, un elemento di dinamismo che verrà accentuato se si stabilisce una qualche forma di legame (si pensi al "portamento" appena avvertibile nella tecnica violinistica attraverso il quale il salto viene in qualche modo ammorbidito e lo slancio reso più sensibile). Questo dinamismo tenderà in ogni caso ad attenuarsi se viene esasperata la distanza della regione sonora e se ad essa si aggiunge, ad esempio, l'azione segregante della distanza temporale, separando i suoni con una lunga pausa. Inversamente, il suono glissante può valere come fenomeno in cui la continuità temporale si salda con la continuità nell'ordine delle altezze cosicché il nesso tra movimento e continuità può assumere la massima evidenza. Un autentico suono glissante si impone come una sorta di manifestazione di movimento puro, assoluto, privo di ogni sostegno nella cosa materiale, come movimento che non è il movimento di una cosa che si muove. 82 Note [1] È il caso di notare in questo contesto che a partire da considerazioni "intuitive" la nozione di continuo in senso propriamente matematico, che presuppone il concetto di numero reale, resta in via di principio inaccessibile. [2] T. Gomperz, Pensatori greci, I, trad. it. di L. Bandini, La Nuova Italia, Firenze, 1967 p. 261. Il testo a cui fa qui riferimento Gomperz viene così tradotto da G. Reale nella recente notevole edizione dei frammenti parmenidei realizzata in collaborazione con L. Ruggiu:" Inoltre, poichè c'è un limite estremo, esso è compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, nè in qualche modo più grande nè in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un'altra". (Parmenide, Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze indirette. Present., trad. e note di G. Reale, Saggio introduttivo e commentario filosofico di L. Ruggiu, Milano, Rusconi, 1991, p. 105). L'interpretazione proposta, sulla quale si veda in part. p. 309 e la nota p. 505, è tuttavia orientata in altra direzione e non dà particolare rilievo al tema della continuità. [3] T. Gomperz, ivi, p. 261 [4] M. Untersteiner rammenta, citando Mondolfo (Problemi del pensiero antico, Bologna 1935, p.94) che "continuo" si gnificherebbe per Zenone la pura e semplice "indivisibilità", mentre la concezione del continuo come "divisibile in parti sempre divisibili" sarebbe caratteristica di Aristotele. (Zenone,Testimonianze e frammenti, Introd. trad. e comm. a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze, 1961, p. 135). La domanda che noi ci rivolgiamo è tuttavia se non si possa ancora distinguere tra la divisibilità come realmente effettuata e il pensiero della divisibilità. Perciò non ci sembra del tutto inappropriata la dislocazione dell'intero problema posto dai paradossi di Zenone su un piano epistemologico. Nell'interpretazione di Untersteiner prevale invece la preoccupazione di integrare la posizione di Zenone nell'ontologia parmenidea. - Un' interessante discussione sulla nozione di continuità, prendendo le mosse da Aristotele, forma la premessa del volume di M. Panza, La statua di Fidia. Analisi filosofica di una teoria matematica: il calcolo delle flussioni, Milano, Unicopli, 1989, cap. II (Ordine e continuità), pp. 39 sgg. 83 [5] Tutte le nostre considerazioni assumono il loro senso dal contesto metodico delineato all'inizio, e ciò ha naturalmente delle conseguenze anche sulla terminologia che non va, ad esempio, messa direttamente a confronto senza riflessione critica con la terminologia matematica. [6] Parlando di dinamismo delle figurazioni musicali avremo qui sempre di mira il loro "carattere di movimento" (e non le differenze relative al grado di intensità). [7] A.Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, Milano, Mondadori, 1989, Suppl. al terzo libro, cap. 35: "... il tema unico e costante dell'architettura è costituito dal nesso di sostegno e carico... La realizzazione più pura di questo tema è il rapporto tra colonna e trabeazione : per questo l'ordine delle colonne è diventato il basso continuo di tutta l'architettura... Naturalmente anche un muro perfettamente liscio racchiude già sostegno e carico: solo che, nel muro essi sono ancora fusi insieme. Qui tutto e sostegno e tutto è carico: perciò non si ha alcun effetto estetico... Il rapporto tra un colonnato e un muro completamente liscio è paragonabile a quello che potrebbe incorrere tra una scala musicale ascendente secondo intervalli regolari e un suono che partendo dallo stesso suono grave raggiungesse lo stesso suono acuto a poco a poco e senza salti (ohne Abstufungen) suono che produrrebbe soltanto un ululato (ein blosses Geheul). Infatti il materiale è il medesimo in tutti e due i casi, mentre l'enorme differenza tra loro deriva solo dalla netta separazione tra gli intervalli" (p. 1273-75) (Con Abstufung si intende il "grado" nel senso musicale del termine, espressione che in questo contesto potrebbe risultare equivoca). [8] L'impiego delle sirene nei lavori di Varèse è legato alla sua nozione di "proiezione del suono nello spazio", quindi ad un "vero e proprio" spostamento spaziale del suono. Ed è interessante che questo problema sia per Varèse strettamente connesso con il glissando. E. Varèse, Il suono organizzato, a cura di L. Hirbour, Milano, Ricordi-Unicopli, 1985: "Ascoltavo il trio dello scherzo della Settima Sinfonia di Beethoven nella sala Pleyel, una sala ricca di sorprese sonore a causa della sua mal calcolata progettazione acustica, quando divenni cosciente di un effetto interamente nuovo che quella musica tanto familiare stava producendo. Mi pareva di sentire la musica staccarsi da se stessa e proiettarsi nello spazio, al punto che presi coscienza di una quarta dimensione in musica. Questa sensa- 84 zione poteva essere dovuta al punto della sala in cui stavo andando a sedermi, un punto eccessivamente ricco di risonanze. Non so esattamente per quale ragione, ma questo fenomeno costituì per me una prova vivente di ciò che molti anni prima avevo concepito, e cioè quel che io chiamo la proiezione del suono organizzato" (p. 138). "Il mio primo tentativo di dare alla musica una maggiore libertà fu l'uso di sirene in alcuni miei lavori (Amériques, Ionisation) e penso che siano state queste triettorie paraboliche e iperboliche di suono che hanno portato alcuni scrittori a impadronirsi della mia concezione della musica, fin dal 1925, come movimento nello spazio" (pp. 151-52)."...io ho sempre sentito il bisogno di una specie di curva continua e fluente che gli strumenti non potevano fornire. Ecco perché ho utilizzato delle sirene in parecchi lavori. Oggi effetti del genere possono essere facilmente ottenuti elettronicamente. A questo proposito è curioso osservare come sia proprio questa discontinuità di flusso nella nostra musica occidentale a risultare sgradita, a quanto pare ai musicisti orientali. Per le loro orecchie la nostra musica non scorre, risulta traballante, fatta di contorni, di intervalli, di buchi e - per usare le parole di un mio allievo indiano - saltellante come un uccello di ramo in ramo (p. 164-165)". "Helmholtz per primo mi ha portato a pensare alla musica come a una serie di masse sonore che si sviluppano nello spazio, più che come ad una serie di note disposte in qualche ordine prescritto come mi avevano insegnato. Dovevo avere circa ventidue anni quando lessi degli esperimenti di Helmholtz con le sirene nella sua Teoria fisiologica della musica. Più tardi feci qualche modesto esperimento io stesso e mi accorsi di poter ottenere delle splendide curve di suono paraboliche e iperboliche, che mi parevano l'equivalente delle parabole e delle iperbole nel campo visuale. Molto più tardi utilizzai le sirene come strumenti musicali in tre mie partiture: nel 1922 in Amériques, nel 1923 in Hyperprism e di nuovo, nel 1932, in Ionisation. Nel Poème electronique del 1958 c'era lo stesso effetto, prodotto però questa volta interamente con mezzi elettronici"(p. 178). [9] Il musicista che assai giustamente parla, adeguandosi ad un tempo a ciò che odono le sue orecchie ed alla terminologia corrente (che in questo caso non è affatto in errore), di suoni che "si abbassano" e "si alzano" deve talvolta sentirsi rimbrottare dal teorico per l'impiego di simili espressioni. Non sono forse tutti i suoni - cosiddetti "naturali" o cosiddetti "alterati" - appunto niente altro che 85 suoni singolarmente identificati dalla frequenza corrispondente? Ed è naturalmente del tutto chiaro che non avrebbe senso parlare del numero 441 come di un'alterazione del numero 440. [10] Con esemplare chiarezza, P. Righini-U. Righini (Il suono, Milano, Tamburini, 1974), p. 196: "Le scale musicali, considerate dal solo punto di vista fisico, non sono nè diatoniche, nè cromatiche, ma sono semplicemente scale". Questo è verissimo (forse è anche vero che, dal punto di vista fisico, le scale non sono nemmeno scale). Il senso effettivo di questa affermazione non sta tuttavia in ciò che essa letteralmente afferma ma nell'idea, formulata poco dopo, secondo la quale "la distinzione in cromatiche e diatoniche, che interviene nella nostra pratica musicale, dipende dal tipo di semiologia che viene assunto". E ciò significa che ci sono tanti suoni distinti quante sono le frequenze; tutto il resto è soltanto una questione di nomi. 86 87 Giovanni Piana Ripetizione, musica, magia. Conversazione intorno a "Musica e magia" di Jules Combarieu 1994 88 Questo testo riproduce il contenuto di una lezione di un corso sul tema "La ripetizione" tenuto nel 1994 presso l'Università degli Studi di Milano. Si segnala che nella versione PDF di questo testo, nell'Archivio Internet dell'autore, Dipartimento di Filosofia, gli esempi musicali sono proposti anche come files sonori. 89 I "L'organizzazione delle forme in musica obbedisce ad una legge fondamentale: la ripetizione". Questa frase di Jules Combarieu (1859-1916) si trova in un testo del 1909, intitolato, La musica e la magia, tradotto in italiano nel 1982 [1]. Essa va intesa in un senso del tutto generale, ma rappresenta anche la premessa per un'amplissima discussione sui rapporti tra musica e magia. L'atmosfera positivista si risente nel corso dell'opera e nella sua impostazione, ma in forma attenuata e priva di rigidità, come è giusto che sia nell'èra del positivismo al suo tramonto. Tuttavia, nonostante il molto tempo passato dalla sua prima pubblicazione, nonostante il fatto che, come subito vedremo, le tesi presentate in essa non siano affatto accettabili, la sua lettura può essere ancora stimolante da vari punti di vista. Va notato in particolare che l'autore appartiene solo indirettamente all'antropologia musicale - egli piuttosto è un musicologo interessato non solo agli aspetti storici della musica (egli è autore di una Storia della musica in tre volumi), ma anche, e forse soprattutto, agli aspetti teorici [2] . Questa presenza di un forte interesse teorico, quindi per domande quali quelle sull'essenza e sulla natura della musica, sulle sue leggi e sulla loro evoluzione deve essere sottolineata proprio per non equivocare sul carattere del volume. Non si tratta infatti di una ricerca antropologica vera e propria, e tanto meno di una ricerca antropologica di prima mano, ma di un'indagine che, sfruttando materiale etnomusicologico, tenta di affermare la tesi secondo la quale musica e magia hanno, all'origine, una stretta unità, anzi che la musica deriva dalla magia. Si tratta dunque di una discussione che riguarda l'origine della musica. Ciò che si sostiene più volte e secondo varie formulazioni è che la musica non è sempre stata quella che conosciamo, e precisamente una produzione artistica, realizzata per il godimento estetico: 90 questa sarebbe una trasformazione che la musica ha subito nel suo sviluppo. L'idea di una produzione finalizzata alla pura fruizione estetica apparterrebbe in via di principio ad una una cultura particolarmente avanzata. Regredendo invece sempre più indietro nel passato, risalendo addirittura ai primordi della civiltà e della cultura, troveremmo un'unità strettissima tra le manifestazioni musicali e le pratiche magiche al punto di poter parlare della musica come il risultato di una evoluzione che comincia dalla magia. L'intero testo di Combarieu intende illustrare questa tesi, cercando anche di mostrare come, ponendosi su questa strada, si riesca ad apportare chiarimenti anche su questioni dibattute e irrisolte sul piano della riflessione estetica e di teoria musicale. Vorrei intanto subito farvi notare che vi è una certa differenza di significato, e non solo di sintassi, tra il parlare dell'origine della musica oppure della musica alle sue origini. In questo secondo caso si alluderebbe unicamente ad una dimensione di primitività culturale e temporale: il tema sarebbe anzitutto quello di indagare che ne è della musica nelle sue manifestazioni che possono essere considerate particolarmente primitive sulla base di qualche criterio esplicitamente enunciato. Si tratterà allora di considerare le forme che assume la musicalità in genere, la vocalità o l'impiego degli strumenti, il modo in cui la musica è integrata nella vita del gruppo sociale, nelle pratiche di lavoro o nelle pratiche domestiche, nelle condizioni festive, nella danza, e dunque anche nel rituale e in particolare nei rituali magici. Naturalmente può essere che sullo sfondo di una simile indagine aleggi l'idea che considerando la musica in queste condizioni si colga anche qualcosa che appartiene essenzialmente alla musica, anche se non è vistosamente presente o è addirittura assente nella musica di età più colte, o inversamente che certe caratteristiche della musica di età più colte abbiano la loro "giustificazione" proprio in queste pratiche musicali primitive. Origine e giustificazione finiscono in questo contesto ad approssimare il loro significato, e ciò certamente non a caso. Se di un certo comportamento mi è ignoto il senso, un'indagine sull'origine può apportare un chiarimento e nello stesso tempo una giustificazione. Lo scopo principale dell'indagine resta comunque quello di accertare empiricamente ciò che ne è della musica in uno stadio primitivo del suo sviluppo. Parlando invece dell'origine della musica la direzione principale 91 diventa proprio la questione della giustificazione: ci occupiamo della musica alle sue origini, della musica "primitiva", come potremmo dire in breve evitando di tormentarci subito sulla metodologia d'impiego di questo concetto, soprattutto per dare una risposta alla domanda sull'origine della musica, domanda che poi non ha una sostanza storica, ma eminentemente teorica. Essa infatti vuol sapere qualcosa sulla natura profonda della musica, sulla sua essenza, sulle ragioni che fanno della musica quella che essa è, sulla sua funzione espressiva. In Jules Combarieu l'inclinazione principale del discorso sta indubbiamente in questa seconda direzione. Ed uno dei fili conduttori principali, benché non sia il solo, riguarda proprio il problema della ripetizione. Come illustrazione dell'affermazione che abbiamo citato all'inizio, Combarieu cita un breve brano del XIII secolo [3] : Si tratta di un brano dalla struttura molto semplice suddiviso in quattro sezioni: un motivo A viene seguito da un motivo B e questo a sua volta da un motivo che differisce da B per l'inversione di solo due note e che potremmo indicare proprio per questo con B'. Lo schema ABB' viene ripetuto due volte: l'unica particolarità sta nel fatto che il motivo A viene ripetuto due volte dopo tra l'una e l'altra ripetizione di quello schema. Con un balzo vertiginoso, ma del resto giustificato proprio dal problema che Combarieu si appresta a discutere, egli cita subito dopo l'Andante su cui si apre la sonata op. 26 di Beethoven [4] : 92 Questo Andante, che sta alla base delle successive variazioni, è naturalmente molto più complesso del brano precedente, e tuttavia la sua impalcatura è, non meno della precedente, fondata sulla ripetizione: un motivo A ed un motivo B sono ripetuti per tre volte in successione, mentre un motivo C fa da cerniera per l'ultima ripetizione di A e B. Lo schema è dunque AB; A'B'; C; A"B". Inutile dire fino a che punto gli esempi si possano moltiplicare. Questi due casi sono comunque abbastanza distanti tra loro nel tempo ed abbastanza differenti perché si imponga la domanda sulle ragioni per le quali la ripetizione riveste una importanza così grande nella musica. "Donde deriva nella musica questo gusto per la ripetizione?" [5]. La risposta non sembra essere immediatamente a portata di mano. Combarieu rammenta, in particolare, fino a che punto nel linguaggio verbale la ripetizione venga accuratamente evitata sottolineando che laddove, come nella poesia, la ripetizione assume 93 importanza, ciò è dovuto proprio all'interesse per la sonorità dell'espressione verbale, quindi ancora all'aspetto musicale. Dovremmo allora parlare di una sorta di istinto della ripetizione che nella musica arriva a manifestarsi? Si tratterebbe di una spiegazione che non spiega nulla. Combarieu rifiuta anche possibili spiegazioni naturalistico-causalistiche. La ripetizione è particolarmente importante negli eventi della natura: a livelli più o meno profondi della legalità naturale, ci troviamo spesso alla presenza di fenomeni di ricorrenza più o meno rigorosa. Ma come potremmo stabilire un nesso percepibile e significativo tra questi fenomeni ed il problema della ripetizione nella musica? Lo sfondo positivistico non basta a far sì che Combarieu simpatizzi con posizioni come queste. È interessante notare che egli non simpatizza nemmeno per le possibili spiegazioni retorico-pedagogiche del problema. La ripetizione riveste una particolare importanza nel linguaggio verbale quando è in questione una qualche forma di pregnanza espressiva quindi nel quadro degli impieghi "retorici". La ripetizione, ad esempio, è in grado di far notare l'importanza dei concetti e delle nozioni, può servire per ribadirli ed enfatizzarli. Si tratta perciò di un mezzo ben noto ai predicatori: attraverso la ripetizione, così spesso si sostiene, lo stesso sentimento religioso può risultare potenziato e la musica religiosa in particolare può assecondare una simile tendenza, che non avrebbe dunque una origine propriamente musicale, ma piuttosto retorico-pedagogica in senso lato. Dalla musica religiosa, che è essenzialmente musica vocale, la ripetizione sarebbe poi penetrata nella musica strumentale. Contro spiegazioni di questo genere Combarieu ribatte che i musicisti non sono né predicatori né retori - adducendo anche vari esempi per mostrare che le ripetizioni nella musica vocale non necessariamente seguono la logica concettuale del testo. Ad esempio non necessariamente sottolineano le parole "importanti" sotto un qualche profilo etico o religioso, anche se ciò naturalmente può anche accadere. Ma può accadere anche che ripetizioni che fanno parte del testo non trovino affatto un corrispondente musicale e inversamente: spesso si presentano ripetizioni che non sono affatto suggerite dal testo poetico. Ciò mostra secondo Combarieu che "le espressioni verbali si dimostrano semplici materiali nelle mani del compositore, il quale costruisce in assoluta autonomia..." [6], talora seguendo le suggestioni del testo talora distaccandosi da esso. 94 Queste critiche preparano naturalmente una tesi positiva: la ripetizione entra nella musica e fa parte della sua sostanza perché fa parte della sua origine. Quando noi osserviamo che la musica deriva dalla magia allora sembra ottenere un'improvvisa chiarezza anche il problema della ripetizione: "una delle regole universalmente seguite nell'uso delle formule magiche è la ripetizione" [7]. La formula magica è per principio una formula ripetitiva. Il medico, ad esempio, prescrive di cantare tre volte una certa formula e "il numero faceva parte del rimedio" [8]. In questa tesi della relazione tra musica e magia vi sono naturalmente diverse implicazioni che converrà mettere chiaramente in luce prima di accingerci ad una riflessione critica. Intanto va da sé che alla base di queste considerazioni vi è una distinzione piuttosto netta tra magia e religione. Tutta la cura che era stata posta in precedenza nel distinguere la musica dalla perorazione religiosa dipendeva soprattutto, non tanto dall'intento di segnare un distacco tra musica profana e musica religiosa, quanto piuttosto da quello di fare arretrare il problema delle origini dalla religione alla magia. Per quanto riguarda questa distinzione Combarieu riprende idee che erano già state formulate in ambiente positivista, in particolare da Frazer nel suo Ramo d'oro. Nella magia si esprime una nozione di natura come animata da forze interne che sono dominabili da parte di uomini con capacità eccezionali - i maghi, appunto mentre nella religione la natura dipende da una volontà superiore, da un dio o da una pluralità di divinità a cui ci si deve rivolgere nella forma della preghiera e del culto. Si tratta in realtà di una concezione che va ampiamente oltre l'ambiente positivista e che, in forme fortemente modificate e più complesse, si ritrova in un autore come Cassirer [9]. Lo stesso Combarieu del resto non condivide alcuni tipici pregiudizi sulla magia che sono ancora presenti in Frazer (come l'idea che il mago sia in realtà un astuto mentitore che riesce a convincere il gruppo dei suoi poteri) [10]. Posta questa differenza, il problema musicale viene spostato, secondo un punto di vista evoluzionistico elementare, dalla musica profana alla musica religiosa, e dalla musica religiosa alla musica legata alla magia - quindi anche dalla musica strumentale alla musica vocale, che acquista di conseguenza una priorità di principio. "Il canto profano proviene dal canto religioso. Il canto religioso proviene dal canto magico" [11]. Ciò richiede anche una precisa presa di posizione nei confronti 95 della natura della pratica magica: ogni pratica magica, che prevede aspetti gestuali e manipolatori di vario tipo, ha una componente sonora, e in particolare vocale, ineliminabile. Questo è un aspetto che gli studi hanno in realtà fortemente trascurato e che ha invece ha la massima importanza per l'azione magica in genere. La pratica magica consta di azioni concrete che lo stregone realizza, ma queste azioni concrete sono sempre accompagnate da aspetti orali. Le formule magiche erano originariamente cantate, e poi recitate [12] . Questa "degradazione" di una pratica canora a una pratica verbale è caratteristica del resto anche del rito religioso, in cui l'aspetto canoro cede sempre più il passo a quello della semplice recitazione. Questa evoluzione corrisponde anche ad un processo di razionalizzazione: la parola parlata assume un significato intelligibile e questo in particolare lo si comprende in rapporto alla preghiera: in essa si deve entrare in un rapporto comunicativo con la divinità e chiedere ad essa una grazia o un favore. La preghiera deve allora avere carattere di comprensibilità esattamente come nel caso del discorso comune. Nel caso del canto magico invece il problema è quello di esercitare un potere insinuandosi all'interno delle forze stesse della natura. La potenza della parola è tutt'altra cosa dalla sua capacità significativa. Per questo motivo il canto magico consta per lo più di parole "prive di senso" [13], che sono prese per il loro puro valore musicale, ovvero per la loro capacità fonico-espressiva. L'estraneità ad ogni preoccupazione di ordine estetico nella musica delle origini è una conseguenza ovvia di questa impostazione. Il primitivo non deve "essere granché disposto alla teoria dell'arte per l'arte! Per trarsi fuori dal pericolo il primitivo dispone di un'arma difensiva ed insieme offensiva: il canto" [14]."...la concezione del canto come gioco, ricreazione e ornamento è concezione tardiva e niente affatto originaria" [15]. Anche il canto religioso propriamente detto è lontano dalla musica d'arte ed è prossimo, almeno per quanto riguarda lo scopo, al canto magico:"... il canto della chiesa non è affatto un'opera d'arte e una pratica di affezionati e amatori; esso ha un ruolo e uno scopo pratici. Rappresenta un mezzo e non un fine; si canta di fatti per ottenere dei benefici e questo - che si voglia o no - coincide con la magia" [16]. L'accento cade dunque anzitutto sui motivi di sopravvivenza - in quanto incorporata nella magia la musica diventa una delle tecniche importanti di sopravvivenza del primitivo; nello stesso tempo 96 la concezione della magia che qui viene proposta rende a suo modo conto dell'antica idea della partecipazione della musica all'essenza del reale, della concezione "metafisica" della musica. Attraverso il canto magico si evocano infatti le forze che governano la realtà stessa. II La tesi di Combarieu è certamente non poco impegnativa, proprio per il fatto che l'autore intende farla valere anche ed in particolare in rapporto a questioni specificamente musicali, a questioni di teoria e di organizzazione dei fatti musicali. Come abbiamo sottolineato fin dall'inizio, Combarieu non si limita a raccogliere materiali sui rapporti tra musica e magia - rapporti certamente esistenti ed importanti - ma avanza la pretesa più ampia che questi rapporti abbiano molte cose da insegnarci sugli sviluppi futuri della musica, nei quali questo rapporto è a malapena riconoscibile o non lo è affatto. Così fin dalle prime pagine del saggio troviamo un'affermazione come la seguente: "Pur estranei a quelli che noi denominiamo teoria musicale, i canti della magia contengono allo stato embrionale tutto quello che più tardi costituirà l'arte propriamente detta" [17]. Dopo aver indugiato sulle forme di espressione tipiche della magia, Combarieu si propone esplicitamente di esaminare "come gli usi della magia abbiano determinato l'organizzazione del linguaggio musicale" [18]. Si stabilisce così una connessione interna tra l'origine della musica dalle pratiche magiche con la grammatica del linguaggio musicale. Combarieu cerca di fornire vere e proprie spiegazioni relative alle forme musicali a partire dalle forme elementari delle formule magiche - e con il diventare sempre più esplicito questo intento si accrescono i dubbi sulla bontà ed efficacia della via intrapresa. Vogliamo considerare questi sviluppi proprio a partire dal tema particolarmente vistoso della ripetizione così come viene trattato nel ca- 97 pitolo sul ritmo [19] . Occorre subito richiamare l'attenzione sul fatto che parlando di ritmo, Combarieu intende in generale una nozione che riguarda propriamente l'organizzazione interna del brano - la possibilità della sua suddivisione in sezioni nel senso già illustrato dai due esempi che abbiamo rammentato in precedenza. Si tratta perciò di una nozione molto ampia che è assimilabile a quella di "forma". In sostanza un'analisi "ritmica" nel suo senso è un'analisi che descrive il brano "avendo cura di porre nei punti convenienti (senza lasciarsi influenzare dalla presenza ingannatrice delle stanghette di battuta) le cesure principali e le cesure secondarie" [20], quindi un'analisi che tende ad evidenziare la struttura complessiva del brano considerato. Va da sé che si potranno distinguere raggruppamenti di ordine inferiore e di ordine superiore: ad es. con ABA potremo indicare una forma molto ampia in cui sono distinguibili tre sezioni che potranno a loro volta essere segmentate in vari modi. Attenendosi alla terminologia scolastica in uso ai suoi tempi ed in parte ancora oggi, per indicare questi segmenti Combarieu fa riferimento ad unità linguistico-letterarie: così egli parla di una sequenza di motivi musicali che formano una frase o anche un verso, di una sequenza di frasi che formano un periodo o anche una strofa, ecc. Nonostante le critiche delle analogie retorico-linguistiche, i riferimenti al livello linguistico si impongono nuovamente - e ciò non deve in ogni caso sorprendere, tanto più che ci troviamo sul piano della parola magica che sta in certo senso prima della poesia e prima della musica e che è, nello stesso tempo, poesia e musica.Val la pena di citare qualche esempio di formula magica, su cui Combarieu si sofferma traendolo soprattutto da un trattato di medicina (De medicamentis) di Marcello di Bordeaux [21] . In queste formule, secondo Combarieu, dobbiamo cogliere i "ritmi" nel senso che abbiamo precedentemente definito e che sono particolarmente rilevanti non già nella musica primitiva, ma nella musica in genere. Ecco un esempio di "ritmo" che Combarieu chiama tripartito (o ternario): Alam Bedam Alam Betur Alam Botum 98 Benché non si tratti di poesia nel senso comune del termine trattandosi di parole prive di senso, tuttavia la formula esemplifica ciò che prima abbiamo chiamato motivo (la parola singola come alam o betur), verso e strofa. È appena il caso di rilevare la quantità di ripetizioni letterali e di rapporti di somiglianza che si presentano qui. Non solo vi è il motivo ALAM ripetuto tre volte, ma vi sono anche le ripetizioni interne BE BE BO; ed ancora TUR TUM, nonché la finale M, la rima interna nel primo verso ALAM BEDAM e, del resto - perché no? - la ripetizione della A in ALAM. Una vera folla di ripetizioni! Ed è chiaro che Combarieu pensa di poter cavare da queste formule quelle strutture che si fanno poi valere anche sul piano puramente musicale. Nel testo si dànno numerosi altri esempi altrettanto chiari per quanto riguarda lo scopo. In essi si tratta normalmente di formule in cui la ripetizione è dominante, come nel caso precedente. Viene tuttavia anche citato un esempio che ha un carattere per così dire puramente prosastico - un carattere "narrativo", come dice l'autore; ma ci si affretta ad osservare che esso deve essere cantato tre volte e proprio per questo esso "aquisisce con la ripetizione quel ritmo che altrimenti gli mancherebbe" [22]. Si tratta di un'affermazione che collega nella forma più stretta l'idea della ripetizione con quella di "ritmo" nell'accezione dell'autore. Qualcosa che è "senza ritmo" acquista ritmo anche solo nella misura in cui viene semplicemente ripetuta. Per illustrare meglio in che modo Combarieu pensi di poter passare dalla formula magica al brano musicale è il caso di soffermarsi su un esempio particolarmente chiaro che del resto viene più di una volta richiamato dall'autore [23] . Si tratta della formula: Kyria Kyria Kassaria Surorbi a quanto sembra, efficacissima per guarire gli orzaioli dell'occhio. Si tratta naturalmente di un "verso" che possiamo considerare avente la struttura AAB: Kyria / Kyria / Kassaria Surorbi Essa potrebbe essere considerata come un caso particolare di una forma più generale AA'B, con la seconda sezione non esattamente identica alla prima. Il secondo motivo B è caratterizzato poi 99 dal fatto di essere più lungo del primo motivo e di formare rispetto ad esso una sorta di prolungamento; da notare naturalmente il legame tra i due motivi formato dalle lettere comuni K(...)RIA. Ed ora possiamo spiccare il volo verso la Passione bachiana secondo San Giovanni (n. 32) [24]: dove ad un primo elemento motivico A segue una variazione A' di A; e poi ancora un elemento motivico un poco più ampio in corrispondenza appunto all'elemento B. Ci troveremmo qui in presenza, secondo Combarieu, di un corrispondente musicale della formula magica precedente. Ecco altri due esempi tratti da Mozart che secondo Combarieu illustrerebbero la stessa situazione (sonata in sol magg. KV 283 e in fa magg. KV 533) Sonata KV 283 Sonata KV 533 L'esposizione di Combarieu è ricchissima di esemplificazioni che toccano anche vari aspetti della costruzione musicale; ma questi pochi esempi sono sufficienti per chiarire come venga effettuato il raccordo tra formula magica e forma musicale, cosicché ci possiamo senz'altro avviare a tirare le fila fornendo qualche elemento per una discussione. 100 Naturalmente si potrà fin dall'inizio manifestare un certo sconcerto di fronte ad un'impostazione di principio che ha come conseguenza la riconduzione di passi della Passione bachiana secondo San Giovanni, un brano di Mozart o di Beethoven a formule per la cura dei foruncoli o degli orzaioli degli occhi! Forse potremmo citare questa sola circostanza come in grado di invalidare l'intera impostazione di Combarieu. Ma questo sarebbe un atteggiamento non solo ingiusto, ma anche vagamente ottuso. Combarieu è un teorico della musica molto raffinato, particolarmente interessato alla struttura del linguaggio musicale considerato anzitutto nella sua autonomia, ed è lontanissimo da lui una impostazione riduttiva del significato e della portata della musica [25] . Inoltre sembra interessante, se riteniamo che la posizione di Combarieu sia insostenibile, cercare di indicarne le ragioni. III Vi è un punto in cui Combarieu sottolinea la molteplicità di forme che la ripetizione presenta nella musica: "La ripetizione in musica assume molte forme. Può aver luogo in una tonalità diversa (trasposizione) o in una parte diversa (imitazione); può essere melodica (riproduzione delle stesse note), o ritmica (riproduzione delle stesse durate ma assegnate a note differenti); e può essere infine integrale o frammentaria. Quando è integrale, essa mantiene l'ampiezza del tema base (verso, frase o periodo), ma può anche essere limitata alle note essenziali della formula tralasciando abbellimenti, raddoppi, note di passaggio; oppure può succedere che, inversamente introduca queste note accessorie dove prima non esistevano. Quando è frammentaria, la ripetizione si limita alla testa, o alla parte mediana, o a quella finale, della formula o tema: riproduce integralmente il frammento scelto, pur dandogli uno sviluppo più o meno ricco" [26]. Ora il riconoscimento di questa molteplicità avrebbe dovuto 101 forse suggerire anzitutto l'idea di una possibile funzione interna svolta dalla ripetizione in rapporto alla formazione di quel particolare "oggetto" che è un brano musicale - o anche di una possibile molteplicità di funzioni. Se dovessimo impostare per nostro conto questo problema, prenderemmo proprio questa strada e cominceremmo probabilmente con il chiederci se vi sia una relazione tra la forma temporale di un brano musicale e la rilevanza che può assumere in esso la ripetizione. Naturalmente tocchiamo qui una questione di ampio respiro che non può essere risolta in quattro parole. Tuttavia si possono forse indicare in breve alcuni lineamenti del problema. Le affermazioni sull'importanza della ripetizione nella musica generalmente non sono accompagnate da osservazioni su una tensione latente che esiste con la forma temporale. Forse questa tensione traspare dal fatto che talora, se da un lato si sottolinea la rilevanza musicale della ripetizione, dall'altro si afferma che, nonostante tutto, in rapporto ad un brano musicale non si può parlare di ripetizione autentica proprio in forza del fatto che esso si sviluppa temporalmente. Una simile affermazione potrebbe essere illustrata molto semplicemente facendo notare che se risuona prima un suono A e poi un altro suono A, il suono A successivo è diverso dal suono A precedente per il semplice fatto che è successivo. Così se consideriamo cinque ripetizioni di A, il primo A non è preceduto da alcun A, il secondo A da un suono A, il terzo da due, ecc. Ciò determina una differenza contestuale che impedirebbe di parlare di ripetizione autentica [27]. Seguendo questa argomentazione si potrebbe quasi dire (e lo si è detto) che nella musica il principio di identità non ha alcuna applicazione e pertanto che non si può nemmeno parlare di ripetizione. "Nella musica A non è mai eguale ad A". [28]. La musica incarnerebbe, in una parola, quell'idea del fiume eracliteo, nella cui acqua non è mai possibile bagnarsi due volte. In realtà siamo qui alla presenza di un'affermazione nella quale vi è una parte di ragione e una parte di sofisma. La parte di ragione consiste nel sottolineare l'importanza del contesto, ed in particolare del puro contesto temporale per la qualificazione di un evento sonoro nel suo senso percettivo. Per mettere in evidenza il suo lato sofistico basta fare riferimento al caso elementare su cui quell'osservazione è costruita ed immaginare che la sequenza continui a piacimento: il suono A viene ripetuto non tre o quattro volte, ma dieci, venti, trenta... Ed allora 102 ciò che appare alla percezione è proprio niente altro che ripetizione, sulla quale la temporalità non è in grado minimamente di incidere: se la successione è abbastanza lunga anche la differenza di contesto temporale sarà percettivamente irrilevante, essendo da un punto di vista percettivo irrilevante che un A sia preceduto da venti suoni invece che da ventuno. Diventa invece dominante l'identità del suono che nell'argomentazione precedente sembrava quasi essere assorbita e negata dalla differenza nella successione temporale - e questo predominio è tale da attenuare il senso del flusso temporale e ricondurre il movimento dei suoni ad una condizione di stasi. Affermare che il suono successivo A differisce dal precedente per il semplice fatto che è successivo, che poteva sembrarci persino plausibile, ci porta in realtà alle soglie del non-senso. Sarebbe la stessa cosa se dicessimo che non posso parlare dell'eguaglianza di due quadrati che mi stanno di fronte l'uno a fianco dell'altro per il fatto che l'un quadrato ha un quadrato alla sua sinistra e l'altro ha un quadrato alla sua destra. In questa nostra prima osservazione tuttavia permane, sia pure nella direzione inversa, l'idea di una sorta di contrapposizione tra ripetizione e temporalità. Prima si diceva che la ripetizione è ingoiata dal flusso, ora diciamo che è la ripetizione che ingoia il flusso. Consideriamo del resto il problema in modo del tutto generale. È un fatto che se cerchiamo esempi pregnanti per illustrare l'idea della ripetizione e della sua apprensione, non faremo riferimento ad eventi temporalmente piuttosto lontani tra loro ed inframmezzati da altri eventi, ma piuttosto ad eventi elementari in successione immediata: il ticchettio di un orologio, un inesorabile sgocciolio, una sequenza di note eguali... È importante qui che si affermi l'idea di una successione regolare di eventi, che è cominciata prima e che potrebbe continuare poi, indefinitamente. Nella ripetizione, ciò che si ripete è un evento già stato, ma affinché si dia esperienza della ripetizione, il richiamo al passato non basta. Così per dare il senso della ripetizione, non batterei solo due volte con le nocche della dita su un tavolo, ma più e più volte, e questo non come se questo senso dipendesse banalmente dal numero di volte in cui l'evento si ripete, ma per il fatto che dovrei suggerire anche la possibilità che la successione di eventi prosegua ancora indefinitamente. Cosicché forse, nel momento in cui smettessi di tamburellare, con un vago gesto della mano alluderei alla possibilità di una continuazione. Due battiti isolati 103 potrebbero essere appresi semplicemente come una coppia di suoni eguali, che formano una configurazione unitaria e chiusa esattamente come due quadrati eguali che io potrei disegnare alla lavagna. Mentre una successione di battiti eventualmente accompagnati ad un gesto allusivo ad una possibile prosecuzione ci appare immediatamente sotto l'insegna della ripetizione. La successione dei battiti deve proporre dei puntini di sospensione che alludono alla proseguibilità e questi puntini di sospensione promettono non solo che la successione continuerà ma continuerà esattamente nello stesso modo di prima. Già fin d'ora si intravvede chiaramente una sorta di ambivalenza e di possibile conflittualità: la ripetizione, intesa così, ci fa percepire l'avanzare del tempo. I battiti segmentano il suo flusso, e quindi in certo senso ne tradiscono la natura, ma nello stesso tempo lo fanno avvertire. Con i battiti posso simulare un andamento, più lento... più veloce... Quindi un movimento. La ripetizione non chiama in causa soltanto il passato, ma anche il futuro. La ripetizione si spinge oltre l'ultimo evento ripetuto annunciando che il prossimo evento sarà eguale agli eventi fin qui trascorsi. In questo annuncio è certamente compresa la possibilità di cogliere le cose da una diversa angolatura: la ripetizione avanza sulla linea del tempo: ma questo avanzare contiene l'anticipazione di un evento futuro come un evento coincidente con l'evento passato. Saremmo tentati di dire: di nuovo A nel futuro, e dunque, nel futuro, nulla di nuovo - sempre A. Appare così, all'interno della nozione, una conflittualità latente. Le dimensioni della temporalità vengono connesse le une alle altre, ma in modo tale da farle implodere nell'unica dimensione del presente - di un presente immoto in cui è contenuto tutto ciò che è già stato e tutto ciò che è a-venire. Ma un presente così concepito nel quale il passato e il futuro si contraggono è un presente autentico? Ancora una volta si prospetta una sorta di opposizione tra la fluidità dello scorrere e la rigidità della ripetizione. La ripetizione sembra stare dalla parte dell'elemento statico piuttosto che dalla parte del dinamismo del movimento; e ciò sembra valere in generale e forse anche, si sarebbe tentati di sostenere, sul piano musicale. In realtà che la ripetizione possa essere "giocata" musicalmente per creare condizioni di rigidità, di arresto del movimento, di congelamento del flusso temporale, questo è certo; ma altrettanto certo è che vi sono anche possibilità volte in tutt'altra di- 104 rezione e che in ogni caso il porre l'accento sulla contrapposizione ci porterebbe fuori strada. Intanto è opportuno sottolineare che il concetto stesso di ripetizione non può che costituirsi sulla base di un riferimento temporale. Di esso non si può rendere conto in termini della sola eguaglianza o somiglianza, ma ci si deve richiamare ad azioni (operazioni) ed eventi. Di questi si dice anzitutto che "si ripetono". Di quattro quadrati come questi si potrebbe parlare di quattro quadrati eguali oppure di un quadrato ripetuto più volte: si tratta di due espressioni che si attagliano alla stessa configurazione, ma esse contrassegnano una differenza nel modo di intendere. Nel secondo i quadrati sono colti in una sequenza, come se ogni quadrato "precedesse l'altro" in un senso quasitemporale. Si attribuisce allora alla configurazione nel suo complesso un "inizio" e una "fine" oppure la possibilità della sua indefinita prosecuzione. Si noti come il punto di vista della ripetizione suggerisca l'idea di un ordine [29] , mentre parlando della semplice eguaglianza si ha a che fare con una pura molteplicità. Quest'ultima possibilità è invece esclusa nel caso della semplice eguaglianza di suoni - ad esempio di eguale altezza. Essi non si possono dare in un unico sguardo, come nel caso dei quadrati, cosicché parlando di molteplicità in questo caso si intende certamente dire che, in un certo lasso di tempo, lo "stesso suono" è risuonato più volte. Il suono è un oggetto che ha carattere di evento. E come tale è consegnato alla possibilità della ripetizione. La ripetizione ha nella temporalità le sue radici e con essa intrattiene una dialettica complessa, che non è decisa una volta per tutte e che sta alla base della multiformità delle sue possibili funzioni. Un primo e generale problema che si porrebbe approfondendo questo ambito di considerazioni riguarda il fatto che la ripetizione agisce in rapporto alla temporalità inducendo ordine ed articolazione. Le esposizioni manualistiche del divenire eracliteo spesso non mettono in sufficiente evidenza il fatto che, nella concezione complessiva di Eraclito, assume particolare importanza l'idea di un ordi- 105 ne costituito attraverso l'opposizione, e che questo tema si associa direttamente a quello della ripetizione. Certo, egli dice che "Il sole è nuovo ogni giorno" (fr. 6); ma dice anche che esso non può oltrepassare la sua misura, altrimenti "Le Erinni, ministre del giusto, lo scopriranno" (fr. 94); ed egli parla del fuoco che governa l'ordine del mondo come un fuoco che secondo misura si accende e secondo misura si spegne (fr. 30). Nel termine di misura è certamente presente un richiamo al metron della poesia e della musica, che è ciò che in esse continuamente si ripete. Che sia lecito ipotizzare una origine musicale della riflessione eraclitea, è forse già suggerito proprio da questo rapporto tra flusso e ripetizione [30]. La direzionalità del fiume che non può che scendere a valle, a partire da una origine e dirigendosi verso una mèta, si contrappone ma anche può coesistere con un ordine fondato sulla ripetizione che ha nel cerchio la sua rappresentazione esemplare: "Comune è infatti sulla circonferenza del circolo l'inizio e il termine" (fr. 103). In rapporto alla musica ordine e articolazione sono le funzioni della ripetizione su cui dovremmo anzitutto attirare l'attenzione. Il divenire fluente è anche inarticolato, manca di punti di articolazione. La semplice ripetizione di una nota dà luogo certamente ad un livello di articolazione molto basso. Se ci venisse proposto di operare una partizione nella seguente successione: in essa non potremmo trovare appigli di sorta che in qualche modo la giustifichino. Cosicché potremo apporre segni di partizione ovunque, arbitrariamente, oppure scegliere semplicemente di far valere come parti i singoli elementi della successione. Ciò corrisponde in realtà ad una mancanza di un'autentica articolazione interna. Tuttavia rispetto al tempo del flusso una simile partizione elementare rappresenta già una condizione per un ordine possibile. La ripetizione è naturalmente alla base del tempo scandito. Andando un solo passo oltre si può notare che una successione di note viene percepita come articolata per il solo fatto che nell'avvicendamento di note differenti risuona occasionalmente la stessa nota, che funge come punto di articolazione. Si fa allora subito sentire una tendenza che può essere variamente rafforzata o indebolita da altri fattori - al 106 raggruppamento dei tratti che le note ripetute delimitano, tendenza che rende possibile una partizione che non è del tutto arbitraria ma che ha qualche fondamento nella struttura della successione. Si tratta di casi elementarissimi, che tuttavia sono sufficienti a far presentire l'importanza che può assumere la ripetizione nel conferire un'ordine, vorrei quasi dire, una "figura" ad una successione di suoni. Il "sempre diverso" non dà forma, mentre il ritorno dell'eguale, nelle molteplici forme che esso può assumere, dalle più semplici alle più complessamente stratificate, fa parte della costruzione musicale in quanto è un'architettura di suoni. Il termine di architettura rimanda alla solidità delle strutture portanti ed in ultima analisi a quella del mattone, della calce, del cemento; ma il suono è un materiale evanescente, e se ne va con il tempo scorre. A questo proposito possiamo accennare ad un'altra funzione importante della ripetizione nella musica strettamente legata al precedente: essa contribuisce ad evidenziare una configurazione una volta che è stata posta in essere. La ripetizione può infatti anche rappresentare una "mossa" in un gioco i cui poli essenziali sono il tempo e la struttura: essa può agire in favore di una memoria che tenta di arrestare il passare del tempo e il consumo delle forme che avvengono nel suo corso. Non solo i suoni, ma anche le figurazioni che si sono formate attraverso di essi se ne vanno con il tempo che scorre. E la ripetizione è una forza che agisce contro questa evanescenza. Vi è poi la capacità della ripetizione di contribuire a far avanzare il brano musicale - dunque una funzione di movimento piuttosto che di stasi. Ciò vale persino per la semplice ripetizione di un'unica nota - il caso che abbiamo rammentato in precedenza più di una volta per tutt'altri motivi. In passi come i seguenti, tratti dal quartetto di Haydn, op. 20 n. 5 (I tempo - batt. 13-17 e batt. 76-80)) 107 si avverte subito l'effetto di movimento generato dalla ribattitura delle stesse note. Questo effetto è dovuto al carattere di pulsazione temporale che in un simile contesto ricevono le note ribattute - esse camminano con il tempo e fanno camminare il tempo. Analogamente le linee ascendenti descritte da violini e viola nel passo seguente, sempre tratto da un quartetto di Haydn (op. 74, n. 2, ultimo tempo, batt. 195-204) vengono fortemente drammatizzate dalle note ribattute al basso, drammatizzazione rafforzata dalle dissonanze che esse introducono. È il caso di notare che nessun esempio di questo tipo ricorre nelle pagine di Combarieu - essi sarebbero effettivamente difficili da riportare alla sua impostazione del problema. Si rammenta spesso, quando si parla della ripetizione nella musica che essa è, in senso ampio, anche ripetizione del "simile", e non soltanto dell' "eguale". Si comprende allora come si possa estendere a dismisura il suo campo di azione. La varietà ha a che fare 108 con la ripetizione esattamente come il simile ha a che fare con l'eguale. La nozione stessa di ripetizione assume una sorta di plasticità interna nella stessa misura in cui la variazione entra nel suo interno, operando in direzione opposta agli elementi di staticità e di rigidità. Immaginiamo che un motivo venga via via ripetuto ma ad ogni passo con una modificazione rispetto al passo immediatamente precedente. Seguendo questa via potremmo allontanarci a tal punto dal motivo originario da non consentirci più di associare il motivo di arrivo a quello da cui avevamo preso le mosse. Ma allora in rapporto al percorso che conduce tra questi estremi si può parlare di una graduale trasformazione, addirittura di una processualità, di uno sviluppo - nozioni che sembrano trovarsi sul versante opposto a quello della ripetizione. Tra ripetizione e variazione vi è una dialettica che ha vari gradi di complessità: la ripetizione e la modificazione possono stare l'una nell'altra, in varie forme possibili di tensioni interne. Talora la ripetizione musicale può avere origine dall'imitazione di un gesto o un evento. Combarieu stesso rammenta alcuni di questi casi, ad esempio, l'imitazione del salto del canguro, in una melodia australiana destinata alla danza [31]: Oppure l'imitazione del cadere della pioggia in un canto messicano di invocazione della pioggia [32] : 109 Commenta Combarieu: "Questa melodia, dal punto di vista del ritmo e della forma del disegno melodico sembra molto appropriata al suo scopo: è una magia, un carmen o aoidé. I salti di ottava all'inizio, con le loro corone, valgono da richiamo, seguito da attesa e da angoscia, alle cose dell'alto. La prima idea melodica, ripetuta tre volte (nella magia il numero tre riveste capitale importanza) è una sorta di preghiera ostinata, quasi imperativa. La seconda idea - un arpeggio discendente - possiede quello che oggi si dice valore descrittivo o imitativo. Questa parola però non ha per il primitivo lo stesso senso con il quale noi la intendiamo. Il musicista offre qui uno schema molto rudimentale della cosa che egli vuole ottenere. Desiderando la pioggia, egli fa un arpeggio discendente, ossia un gesto che significa una cosa che cade. Questo gesto il cantore lo ripete due volte, poi riprende la formula della preghiera iniziale, per tre volte come dapprincipio. Si tratta di un linguaggio molto espressivo e molto chiaro, con forme le quali, nell'ambito della magia, hanno sempre avuto uso principalissimo: esso è inteso ad agire sul simile con il simile" [33]. Queste osservazioni corrono sul filo dell'equivoco: intanto il riferimento alla magia in rapporto alla costruzione di una forma ha qui un senso nettamente differente dai casi per lui eminenti della ripetizione nella formula magica, differenza che forse non è abbastanza avvertita. Così in rapporto al fatto che la prima forma melodica viene ripetuta tre volte, da un lato Combarieu ricorda che "nella magia il numero tre riveste capitale importanza", ma dall'altro anche fa riferimento ad una motivazione "retorica", dal momento che parla di "una sorta di preghiera ostinata, quasi imperativa": e non necessariamente l'una spiegazione sta nell'altra. Ma soprattutto risulta chiaro anche solo da questo passo che egli ha una concezione della magia che mette in ombra gli aspetti rituali, che darebbero risalto all'elemento simbolico-espressivo, per dar valore invece ad una concezione pratico-utilitaristica. Un conto è in effetti considerare, ad esempio, una danza per la caccia come un vero e proprio momento della caccia, che cerca di garantire il suo successo quanto lo è un'accurata preparazione del veleno da porre sulla punta delle frecce; un altro è considerare la danza come un'azione rituale che ha a che fare con il successo della caccia, ma non in modo meccanico, cosicché il rituale propiziatorio prevale su un'interpretazione meramente pratica [34]. La sottovalutazione dell'elemento simbolico- 110 espressivo conduce nello stesso tempo a non cogliere nell' "imitazione" musicale l'interesse per l'aspetto formale. Questo problema viene appena sfiorato, laddove Combarieu parla, nel passo or ora citato, di "schema molto rudimentale" della cosa che il musicista vuole ottenere. Ora, non si tratta tanto della "rudimentalità" dell'imitazione, quanto piuttosto di uno stimolo che viene dal mondo esterno il modo caratteristico di camminare e di saltare di un canguro, il volo di una cicogna, il cadere della pioggia, ecc. - che viene colto nella sua tipicità formale e che come tale colpisce l'immaginazione musicale. In luogo di ciò si cita il principio magico dell'azione del simile attraverso il simile, cosicché all'interesse per la forma subentra una imitazione duramente motivata dallo scopo puro e semplice di far piovere. Analogamente - per fare un altro esempio, tratto invece dall'ambito dei "canti di lavoro" - un uomo accompagna con una sorta di nenia l'andirivieni di un bue per attingere acqua da un pozzo, con un movimento di allontanamento per tirare la corda seguito da un movimento di avvicinamento per rilasciarla. Vi è dunque un'azione suddivisa in due fasi: nella prima l'animale tira la corda e l'azione subisce un arresto ma resta incompiuta, nella seconda la corda viene rilasciata e l'azione si compie. L'uomo canta dunque due frasi strettamente simili ma in modo tale da stabilire una sospensione sulla prima fase ed un effetto di chiusura sulla seconda. Una forma musicale in miniatura ha così "origine" da un movimento e in un'azione reale. Parlare di pura imitazione o di descrizione sarebbe del tutto fuori luogo, così come lo sarebbe l'intendere questa "origine" come se essa consistesse nel puro e semplice movimento di un bue. 111 IV È appena il caso di dire che queste nostre poche osservazioni su un problema così ampio e così multiforme come è quello della ripetizione nella musica sono puramente indicative, ma una particolare importanza ha ciò che con esse viene indicato: la ripetizione fa originariamente parte dei mezzi espressivi intrinsecamente propri della musica, proprio nella misura in cui essa consta di eventi sonori distribuiti nel tempo. I nostri pochi esempi indicano anche che i modi e le forme in cui la ripetizione può entrare in un brano musicale sono molteplici e che sarà, come sempre, il musicista a prendere intorno a ciò le proprie decisioni, fra le quali va certo compreso anche quella di tentare di evitare la ripetizione o di contrastarla nella misura del possibile [35] . L'errore principale che Combarieu commette sta nel fatto che egli, da un lato, manifesta un interesse assai vivo per le forme di articolazione del brano musicale, per gli aspetti della sua "grammatica" che chiamano in causa la ripetizione, dall'altro tenta di dare di essi una giustificazione esterna di cui non si sente affatto il bisogno. La musica ha origine dalla ripetizione, cosicché risulta quanto mai sbagliato anche solo il chiedere da dove ha origine la ripetizione nella musica. In Combarieu invece tutte tutte le possibili e molteplici motivazioni interne che renderebbero conto della presenza della ripetizione nella musica vengono messe da parte. Accade come se "il gusto della musica per la ripetizione" si presentasse anzitutto come un insolubile enigma; ma poi, non appena si è indicata la derivazione della musica dalla magia, tutto diventasse improvvisamente chiaro. Un dato di fatto, la ripetizione nella magia, illuminerebbe un altro dato di fatto, la ripetizione nella musica, essendoci tra l'uno e l'altro un legame: la musica ha le proprie origini nella magia. Verrebbe voglia di chiedere: dunque, se la musica avesse avuto origine da qualche altra cosa, in essa la ripetizione potrebbe non avere nes- 112 suna importanza o quasi nessuna? E non vi sarebbero in essa le forme ABA, ABB o quant'altre si possano immaginare? La singolarità di queste domande mostra il rischio che stiamo correndo. All'interno dell'impostazione di Combarieu, forme che fanno parte della tipologia della ripetizione in generale, e che dunque hanno un interesse musicale diretto, esigono, per essere giustificate, il reperimento empirico di una formula magica che corrisponda ad esse. Ad esempio, in una tipologia delle forme della ripetizione rientrerebbe certamente la "retrogradazione" di una successione: ABC CBA. Ora Combarieu fa notare che nel gioco verbale della formula magica questa struttura si presenta con una certa frequenza [36] . Per lui non vi è da dubitare che questa forma di trattamento del materiale musicale abbia origine proprio dalla formula magica di analoga struttura. Dovremmo di conseguenza assumere che in assenza di un qualche corrispondente nel formulario magico, una forma non potrebbe avere nessuna giustificazione in ambito musicale. Combarieu esita di fronte a questo passo, come è ben comprensibile, e lo mitiga osservando che "vi fu incontestabilmente un'età in cui la musica mutuò tipi di composizione dalla magia riproducendoli fedelmente, ma vi è stato un momento nel quale, pur conservando il principio generale della ripetizione, la musica lo ha liberamente interpretato" [37]. Resta comunque del tutto estranea alla sua impostazione l'idea che la ripetizione nelle sue varie forme, e naturalmente la dialettica interna tra esse, possa essere considerata nella sua autonomia espressiva, senza che si cerchino spiegazioni sul terreno della magia o altrove [38] . Combarieu cita di continuo brani musicali per mostrare che in essi c'è la ripetizione; invece dovrebbe servirsi degli stessi esempi per mostrare ciò che la ripetizione fa [39] . Occorre infine notare che la tematica dei rapporti tra musica e magia in Combarieu intende rispondere ad una domanda alla quale fino a questo punto non abbiamo dato la necessaria evidenza mentre la discussione avrebbe forse potuto cominciare da essa. Si tratta di una domanda di ordine estetico. Man mano che si sviluppa la lettura del libro, si rafforza sempre più il dubbio che l'intera discussione condotta dall'autore abbia come scopo soprattutto quello di rendere conto del fascino della musica, della sua capacità attrattiva. La musica ci incanta. La musica è incantevole. In questi aggettivi, secondo Combarieu, dobbiamo essere in grado di risentire ancora il riferimento originario alla magia. "Il verbo incantare ha indicato 113 dapprincipio l'azione specialissima che si esercitatava sopra un oggetto o una persona con l'aiuto del canto" [40]. La stessa parola "canto" ha a che vedere con incantesimo, così come cantare con incantare, nel senso di una pratica incantatoria. Incantesimo in francese si dice anche charme. A sua volta questo termine ci riporta al latino carmen ed ai suoi molteplici significati tra i quali vi è anche quello di indicare un brano suonato con un flauto o una cetra [41]. Il fascino della ripetizione nella musica dovrà dunque essere ricercato nella fascinazione esercitata dalla magia. Ma in realtà, anche se avessimo deciso fin dall'inizio di seguire questo percorso nella nostra esposizione, ben presto ci saremmo imbattuti nei nodi della impostazione metodica di Combarieu e nelle conseguenze che abbiamo cercato di mettere in evidenza. La fascinazione magica, infatti, secondo Combarieu, non è tanto legata al cerimoniale magico, alla sua misteriosa gestualità, ai suoi singolari vocalismi, quindi alla sua forza immaginificoevocativa, ma proprio alla sua efficacia, al possibile successo dell'azione magica, all'idea di un dominio della natura che la magia renderebbe possibile. Uno spiraglio volto in altra direzione sembra aprirsi quando Combarieu, in luogo di insistere sulla derivazione della musica dalla magia, porta l'attenzione sul rapporto della magia con l'immaginazione in generale. Sullo sfondo della magia e della musica vi è l'uomo stesso come immaginazione e sentimento [42] - e proprio per questo egli può divenire da mago, poeta e musicista [43]. Per Combarieu la magia è uno straordinario e grandioso, per quanto primitivo, prodotto dell'immaginazione umana; ma ciò vale anche per la musica, e per l'arte intera, nella quale invece l'immaginazione si manifesta nelle sue capacità più raffinate. Considerato da questo lato, il modo dell'incontro tra musica e magia potrebbe assumere un'inclinazione interamente diversa. 114 Note [1] J. Combarieu, 1982, La musica e la magia, Ed. it. a cura di Maurizio Papini, Mondadori, Milano, p. 170. Tutte le citazioni fanno riferimento a questa traduzione italiana. [2] Tra le sue opere: La musique, ses lois, son évolution, Paris, Flammarion, 1907, Histoire de la musique, 3 voll. , Paris 1913-1919. [3] p. 169. [4] p. 170. [5] p. 170. [6] p. 173. [7] p. 172. [8] ivi. [9] Cfr. G. Piana, La notte dei lampi, II, L'immaginazione sacra. Saggio su Ernst Cassirer, § 9. [10] Egli sostiene invece che lo stregone "è sincero e convinto di quello che fa almeno quanto uno scienziato che nel suo laboratorio crei un contatto tra due conduttori elettrici e se ne aspetti lo scoccare di una scintilla. Il rituale e il formulario cui egli si conforma assumono ai suoi occhi il medesimo valore che hanno per noi i trattati tecnici"(p. 23). Altrove Combarieu prende posizione contro coloro che giudicano pregiudizialmente ridicole e rozze le posizioni dei primitivi (cfr. p. 140). [11] p. 13. [12] p. 16. [13] p. 17. [14] p. 24. [15] p. 6. - Poiché Combarieu cita "l'arte per l'arte" fa leva su un equivoco nemmeno troppo sottile, trattandosi effettivamente di una teoria piuttosto recente! Sulla tesi che vorrebbe sostenere vi sarebbe invece molto da discutere. [16] p. 11. [17] p. 17. [18] p. 165. [19] Parte IV, cap. I, Il ritmo nella magia e nella musica. [20] p. 178. [21] p. 175. [22] p. 180. [23] p. 178. [24] p. 181. [25] Sulle posizioni di Combarieu sulla teoria e sull'estetica musicale: E. Fubini, Il linguaggio musicale nel pensiero di Jules Combarieu in "Rivista di Estetica", VII, 1962, pp. 423-441. [26] p. 194. [27] F. Escal, Ostinato, in "Corps Écrits", 15, 1985 (dedicato a Répétition et Variations), 1985, p. 46. 115 [28] Val la pena a questo proposito citare un episodio narrato da Ruwet e il commento che egli fa di esso: "Je me souviens d'avoir assisté il y a quelques années à une confèrence de Michel Philippot à Royaumont. Philippot, au nom d'une exigence de renouvellement perpétuel, avait fait grief à Webern d'avoir introduit une reprise dans la Symphonie op. 21. A quoi André Souris, si j'ai bonne mémoire, avait repondu qu'étant donné que la musique se déroule dans le temps, une reprise ne peut jamais être considérée comme une pure et simple répétition. En musique, A n'est jamais égal à A. Or, nous dirons que, sur le plan de la langue, du système, A est égal à A, et que sur le plan de parole, il ne l'est pas. Mais les deux aspects s'impliquent mutuellement. Et, notamment la reprise de A par A' ne peut être sentie come différente dans la dynamique de l'oeuvre, que parce que, sur le plan de la langue, A et A' sont identiques. C'est seulement s'il y a des identités sur le plan de la langue qu'il peut y avoir des différences sur le plan de la parole, c'est-à-dire un mouvement, un devenir" (N. Ruwet, Langage, musique, poésie, Paris 1972). [29] Nel considerare la connessione tra ordine e ripetizione in rapporto alla nozione di calcolo il riferimento alla temporalità diventa del tutto inessenziale. Su questo punto rimando al mio lavoro Numero e figura. Idee per una epistemologia della ripetizione in part. I, § 11. [30] Queste origini musicali del pensiero eracliteo sono esplorate a fondo, con grande ricchezza e finezza di analisi, da Carlo Serra in Intendere l'unità degli opposti: la dimensione musicale nel concetto eracliteo di armonia, reperibile in Internet, http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico. [31] p. 155. [32] p. 45. [33] p. 46. [34] Vi è un punto in cui Combarieu richiama i disegni preistorici nelle caverne dei Pirenei facendo notare che essi rappresentano solo animali commestibili (p. 153), e questo proprio in forza del magismo inerente a quei disegni: ciò significa per lui che essi non hanno all'origine alcun carattere estetico, ma eminentemente pratico - ed il disegnarli avrebbe lo scopo diretto del possesso, dal momento che, dal punto di vista del pensiero mitico-magico, possedere l'immagine e già il possedere la cosa stessa. Combarieu afferma inoltre che proprio questa ipotesi interpretativa su quei dipinti "ha suscitato l'idea del presente libro" (ivi). Si ha così la sensazione, detto in breve, che Combarieu pensi che il primitivo dipingeva gli animali sulle pareti della sua caverna solo per il fatto che voleva mangiarli - né più e né meno, anzi forse persino perché si illudeva, così facendo, di averli quasi già mangiati. [35] Questa è anche la ragione per la quale proposizioni come "non c'è musica senza ripetizione" oppure "la ripetizione è essenziale solo a questo o quel linguaggio musicale" non ci aiutano certamente ad approfondire la varietà dei modi e dei significati in cui la ripetizione si può presentare nella musica. [36] Cfr. in particolare pp. 198-199, dove ci si sofferma sulla formula "Laki Laki Laki /Mu // MU / Kila Kila Kila". [37] p. 193. 116 [38] Pensiamo alla vecchia teoria formulata nel 1896 da Bücher in un libro famoso il cui titolo suonava significativamente Arbeit und Rhytmus. In esso si sosteneva appunto che la musica, in cui è fondamentale la componente ritmica, deriva dai canti di lavoro svolte in comune; ed anche in questo caso si potrebbe insistere sulla funzione eminentemente pratica del canto, sulla sua subordinazione e funzionalizzazione al lavoro. Attraverso questa teoria sembra anche che riusciamo a dare una risposta più che persuasiva alla questione della ripetizione: le attività a cui comunemente si pensa sono naturalmente attività essenzialmente ripetitive e richiedono una precisa scansione temporale per poter essere eseguite adeguatamente in gruppo. Anche in questo caso, come in quello del nesso con la magia, sembra importante al teorico sottolineare che "agli inizi" non si canta mai soltanto per cantare. La teoria dell'origine della musica dal lavoro è stata contestata da vari punti di vista, talvolta anche con argomenti fattuali: ad esempio, con l'osservazione che il lavoro comune in un senso stretto e rigoroso come quello qui richiesto non ha un grado di arcaicità sufficiente per sostenere un discorso sull'origine della musica (K. Sachs, La musica nel mondo antico, Firenze 1963, p. 5:"Il lavoro comune condotto ritmicamente non è mai esistito nei più antichi consorzi umani"). Ma questi argomenti fattuali sono persino troppo deboli di fronte all'autentica obiezione che si dovrebbe rivolgere qui: sbagliato è anzitutto porre il problema come problema di una derivazione da questo o da quello. [39] E. Fubini, art. cit., p. 435 rileva come una "contraddizione, forse apparente" il fatto che dopo aver impostato tutto il suo discorso teorico sull'autonomia del linguaggio musicale, con la definizione della musica come "art de penser avec des sons", Combarieu ha tenuto poi "a mostrarne, accanto alla sua indipendenza e alla sua autonomia, anche l'indipendenza ed eteronomia", poiché secondo lui il fatto che la sintassi musicale sia "un procedimento formale per regolare la combinazione di un complesso di suoni" non toglie che "il linguaggio musicale lo si comprende solo se visto in una prospettiva più ampia, che tenga conto dei complessi fattori sociologici da cui in definitiva dipende la sua vita e la sua evoluzione; per cui le caratteristiche tecniche e formali della musica 'sont tributaires de la vie sociale: elles lui doivent leur habitus e leur intelligibilité" (La musique, ses lois et sono évolution, Paris 1907, p. 213). In realtà la contraddizione è in effetti solo apparente perché verso una soluzione sociologizzante tende già l'orientamento strettamente convenzionalistico assunto dall'autore in rapporto al linguaggio musicale. Dalla tesi generale secondo cui le caratteristiche tecniche e formali della musica debbono la loro intelligibilità alla vita sociale dipende l'intera impostazione dei rapporti tra musica e magia. [40] p. 32. [41] p. 34. - Un'eco di questi temi che legano insieme musica, ripetizione, charme e magia si ritrova in un autore tanto lontano da Combarieu come è Jankélévitch. In realtà Jankélévitch propende a considerare l'idea che il parlare di ripetizione nella musica è reso problematico per via del nesso con la temporalità sulla scorta di uno spunto di Bergson secondo il quale "ogni successivo 117 ritorno del pendolo, per il solo fatto che è successivo ai precedenti nell'ordine della durata, modifica qualitativamente il passato di colui che ascolta"(La musique et l'Ineffable, Parigi 1961, trad. it. a cura di E. Lisciani-Petrini, Tempi moderni Ed., Napoli 1985, p. 31). A ciò si dovrebbe secondo Jankélévitch ciò che egli caratterizza come "insensibilità della musica alla ripetizione", cioè il fatto che le ripetizioni sono ampiamente tollerate nella musica. L'accento posto su questa "insensibilità" rappresenta a sua volta un mezzo per ribadire la debolezza della metafora del linguaggio riferita alla musica e la distanza dello sviluppo musicale da un "discorso" nel senso corrente del termine - ed in particolare per sottolineare che la componente architettonica del brano tende a stemperarsi nel decorso temporale del brano fino addirittura a sottrarsi alla percezione ("senza la visione retrospettiva del cammino percorso il puro ascolto non noterebbe il piano della sonata, giacché il piano è cosa concepita, non cosa udita né tempo vissuto" - p. 24). Si tratta di un modo di impostare il problema della ripetizione nella musica che segue tutt'altra via da quella che abbiamo cercato di tratteggiare. Jankélévitch infatti non sembra rendersi conto dell'importanza che la ripetizione ha nella musica proprio in rapporto con l'elemento strutturale-architettonico; e la formulazione relativa all'"insensibilità della musica alla ripetizione" è evidentemente, dal nostro punto di vista, una formulazione troppo debole. Nemmeno egli si sofferma sulla ripetizione come un possibile mezzo espressivo. La ripetizione invece ridiventa particolarmente importante quando Jankélévitch si sofferma sul fascino della musica, sul suo charme, sulla forza ammaliatrice della musica nel quale vi è qualcosa che ricorda il fascino incantatorio della magia. Peraltro la distanza con la posizione di Combarieu resta molto marcata, cosicché vi è un punto in cui si precisa: "L'operazione musicale, come l'iniziativa 'poetica' è un'azione sorgiva, ed è per questo che merita l'appellativo di charme piuttosto che quello di magia: lo charme è infatti magia in senso figurato, essendo operazione mistica e non magica..." (p. 171). [42] p. 13. [43] p. 407. 118 119 Giovanni Piana Linguaggio, musica e mito in Lévi-Strauss 1987 120 Questo testo deriva da un gruppo di lezioni di un corso sul tema "Linguaggio ed esperienza nella filosofia della musica" tenuto all'Università di Milano nel 1987. - I testi principali di riferimento sono C. Lévi-Strauss, Le cru e le cuit, Plon, Parigi 1964, trad. it. a cura di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1966 (abbr. Cc); L'homme nu, Plon, Parigi 1971, trad. it. a cura di E. Lucarelli, Il Saggiatore, Milano 1971 (abbr. Un); Myth and meaning, University of Toronto Press, 1978, trad. it. a cura di C. Segre, Il Saggiatore, Milano 1960 (abbr. Ms); Anthropologie structurale, Plon, Parigi 1958, trad. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1966 (abbr. As). Le citazioni sono tratte da queste traduzioni italiane. 121 Indice 1. Alla musica 2. Il mito tra natura e cultura 3. L'analogia tra analisi del mito e partitura musicale 4. Implicazioni filosofiche 5. In che modo si pone il rapporto tra musica e mito 6. La smentita del tempo nella musica e nel mito 7. Il tempo viscerale e la veemenza della musica 8. Il piacere dell'ascolto musicale, tra pianto e riso. 9. La musica come immagine della vita 10. I suoni musicali e il canto degli uccelli 11. Musica, pittura e il problema della doppia articolazione 12. Contro la "musica concreta" 13. Forme musicali e forme del mito 14. La musica come erede del mito 15. Contro la "musica seriale" 16. Wagner e l'analisi strutturale del mito 17. Cromatismo e veleni 122 1. Alla musica I testi a cui faremo riferimento nella nostra esposizione appartengono alla grande opera progettata in quattro volumi da Lévi Strauss sotto il titolo generale di Mytologiques - si tratta propriamente del testo di apertura e di quello di chiusura di essa: Il crudo e il cotto (1964) e L'uomo nudo (1971). E subito si chiederà: che cosa hanno a che vedere con la musica l'antropologia culturale in genere, e in particolare il problema del mito? Tanto più questa domanda si impone per il fatto che, è bene subito precisarlo, Lévi- Strauss non si occupa né qui né altrove della musica presso le culture "selvagge": non ha mai fatto ricerca etnomusicologica. Ma non appenma cominciamo a sfogliare il primo volume della Mitologica, l'occhio cade subito sulla dedica, posta dopo il titolo. Si tratta di una dedica alquanto particolare, perché non è rivolta a un famigliare, ad un amico, o a qualche illustre antropologo - ma proprio "Alla musica". Questa dedica è, asua volta, una citazione, e precisamente essa è tratta da un brano musicale del musicista francese Emmanuel Chabrier. Si tratta di un brano per coro femminile e voce solista su testo del poeta Edmond Rostand, intitolato appunto "Alla musica": "Madre del ricordo e nutrice del sogno: sei tu che oggi a noi piace invocare sotto questo tetto". Questo lavoro fu composto da Chabrier in occasione dell'inaugurazione della casa di un amico, e il musicista invita la musica ad entrare in essa ed a soggiornarvi. Ma naturalmente, ora che il brano viene fatto risuonare all'inizio della Mitologica, questa frase assume un senso diverso: A noi piacere ora invocare la musica affinché essa entri ed abiti nella casa del mito che è la sua casa. Quest'opera monumentale, dedicata ad una difficile, severa analisi del mito, comincia dunque, direi quasi, cantando - le note del brano di Chabrier vengono puntigliosamente riportate sul rigo musicale. Dalla dedica passiamo ora all'indice. Ci rendiamo subito conto allora che quel riferimento musicale nella dedica si concretizza nell'impostazione globale del volume. Così, il primo capitolo si intitolo Canto bororo, ed esso consta di un'aria, di un recitativo, di una 123 prima e di una seconda variazione, terminando infine con una coda. Le titolature musicali si trovano ovunque, a volte piuttosto generiche, come Sinfonia breve oppure Divertimento su un tema popolare; a volte invece piuttosto precise, cioè allusive a forme musicali ben determinate come Invenzione a tre voci, Toccata e fuga, Doppio canone rovesciato. Persino l'ultimo capitolo, intitolato Nozze allude probabilmente alla composizione di Strawinsky che Levi Strauss ben conosceva. Quanto all'introduzione, essa si chiama coerentemente Ouverture. Naturalmente, reagiremo spontaneamente a queste titolature pensando che esse abbiano il carattere di puro divertimento letterario, tendente a rendere più vivace l'esposizione, e certamente in parte le cose stanno così. Così in generale si è dato scarso peso ad esse, essendo ritenute un puro artificio espositivo. Eppure di ciò talvolta Levi Strauss si lamenta, come quando dice di essere stato largamente frainteso proprio sul problema posto dall'istituzione di questo rapporto tra musica e mito. Questo rapporto, egli scrive, "è probabilmente l'argomento che ha generato i fraitendimenti maggiori, specie nei paesi di lingua inglese, ma anche in Francia, perché si è pensato che questo rapporto fosse affatto arbitrario" (Ms, p. 57). Per Lévi-Strauss dunque si tratta di un rapporto particolarmente profondo e ricco di interesse - e del resto come vedremo nel corso della nostra esposizione, anche se non potremo condividere le tesi proposte, tuttavia passeremo attraverso una notevole massa di problemi che quell'accostamento ha indubbiamente il merito di sollevare. Di fatto nell'Ouverture e nel Finale della Mitologica, Lévi-Strauss ci offre alcune pagine notevolissime nelle quali è contenuta, in forma di abbozzo, se non una vera e propria filosofia della musica, certamente un complesso di spunti estremamente stimolanti per la riflessione filosofico-musicale. Questi spunti sono stati anche variamente ripresi e discussi sia da parte filosofica, sia in rapporto a problematiche più strettamente musicologiche. Il compito che ci proponiamo non è quello di una lettura riga per riga dell'Ouverture e del Finale, quanto piuttosto di realizzare un tentativo di raccogliere questi spunti e di riferire intorno ad essi mostrando che essi scaturiscono da una posizione generale unitaria e 124 chiaramente orientata. 2. Il mito tra natura e cultura Intanto: qual è lo scopo che si propone Lévi-Strauss ne il Crudo e il cotto così come nelle altre opere progettate dentro lo stesso quadro? In realtà si tratta di dare un consistente avvio ad una vera e propria scienza del mito (p. 16) - parola che ha in Lévi-Strauss il senso prevalente di racconto mitico - superando pregiudizi concettuali e metodologici che, a suo avviso, sono presenti un po' ovunque nella letteratura anteriore sull'argomento. Agiscono naturalmente in quest'opera tutta una serie di prese di posizioni che avevano già avuto ampia teorizzazione nelle opere precedenti, sia nei saggi di carattere prevalentemente metodologico, raccolti in Antropologia strutturale (1958), sia nelle prime e fondamentali ricerche sulle Strutture generali della parentela (1947) o sul Totemismo oggi (1962). In particolare è caratteristica di Lévi-Strauss la critica dell'idea, variamente sostenuta negli studi etnologici e antropologici anteriori, del pensiero primitivo o del pensiero selvaggio (come egli si esprime), come un pensiero per così dire improprio, essenzialmente privo di razionalità e fondamentalmente incapace di stabilire nessi logici. Contro di ciò Lévi-Strauss documenta l'enorme quantità di sapere empirico che caratterizza il pensiero selvaggio. Questo sapere è fondato essenzialmente sulla sensibilità, ma la rivendicazione della sensibilità e della sua portata conoscitiva avviene non solo in quanto essa è capace di accumulare un sapere e cognizioni autentiche, ma anche come veicolo attaverso cui si stabiliscono tipologie, classificazioni e nessi che meritano di essere caratterizzati come propriamente logico-intellettuali. Già nei lavori precedenti a Mitologica, Lévi-Strauss illustra ampiamente questo punto di vista che tende a mostrare come il pensiero selvaggio sia un pensiero effettivo, ma nello stsso tempo anche un pensiero concreto, in quanto è un pensiero che si avvale di elementi tratti dall'azione, dalla sensibilità, dall'immaginazione. Questo punto di vista è dominante anche nella ricerca sul mito: il mito è una costruzione dell'immaginazione, ma nel mito dobbiamo saper cogliere le componenti di ordine intellet- 125 tuale o più in generale le componenti che presiedono ad una vera e propria organizzazione del mondo: esse si presentano come immagini, figure, storie, ma vanno considerate come concrezioni di momenti e di relazioni intellettuali generali. Potremmo dire, usando la vecchia terminologia: il mito rappresenta un punto di incontro tra sensibilità e intelletto - ed è questo un punto da sottolineare con particolare forza perché ha a che vedere anche con il problema musicale. Nel mito si deve vedere un modo di prospettare la realtà, ma anche di sopravanzarla, cioè di dominarla intellettualmente, superando l'elemento naturale e effettuando il passaggio al piano della civiltà e della cultura. Questa tensione tra natura e cultura è uno dei temi generali di Lévi-Strauss, che naturalmente è già fissato nel titolo del primo volume della Mitologica, Il crudo e il cotto: il mito sembra situarsi nel punto di passaggio dalla natura alla cultura, dal livello animale al livello umano, e spesso sembra tradurre sul piano immaginativo i problemi che risultano dalla necessità di questo passaggio. La parola "natura" si trova in Lévi-Strauss al centro di un'area di significati in cui vi è l'informe, la continuità indifferenziata; mentre la cultura implica l'istituzione di nessi e rapporti che possono essere istituiti solo se quella continuità è stata interrotta. Così la ragione analitica - cioè la ragione in quanto attività che suddivide, ripartisce, classifica - è concepita come un unire, un connettere, un porre in relazione, ma in ciò è presupposta la capacità di discriminare e di separare: per questo la discontinuità è il momento nel quale si prendono le distanze dalla pura naturalità, per entrare nel mondo della civilizzazione. Si tratta di una distinzione fondamentale che fa pensare che l'analisi del mito assuma un punto di vista volto alla generalità, piuttosto che alla particolarità. Ciò pone certamente subito un problema: l'indagine del mito deve essere, secondo Lévi-Strauss, un'indagine positiva che dunque non solo si attiene ai fatti, ma considera il mito stesso come un fatto, come un "reperto". Ciò comporta che il mito venga coordinato con altri fatti - il racconto mitico non deve essere considerato come avulso da un contesto sociale e geografico, ma deve essere integrato nel materiale etnografico disponibile. Un simile punto di vista tende dunque alla particolarità. Lévi-Strauss non si mette sulla via di una analisi comparativistica, 126 ma prende le mosse, nel Crudo e il cotto, da un racconto mitico particolare, opportunamente ambientato dal punto di vista etnologico. Tuttavia il problema fondamentale di Lévi-Strauss non è quello di vincolare l'interpretazione di un racconto mitico ad un ristretto contesto socio-culturale. Si fa invece sentire l'esigenza di una considerazione autonoma del racconto mitico, un'esigenza che si associa direttamente alla tematica strutturale. Il fatto che nell'Ouverture si sottolinei l'importnza del contesto etnografico, e dunque degli eventuali "nessi reali di ordine storico o geografico" (p. 14), non toglie che ciò a cui tende Lévi-Strauss sia invece l'individuazione di schematismi strutturali che fanno parte dell'impalcatura del racconto mitico. Questa impalcatura rimanda a sua volta - si sarebbe tentati di dire - alla struttura stessa della mente oppure a dati di fatto permanenti della natura umana in generale. Il compromesso tra queste due esigenze sta appunto nel prendere le mosse da un mito particolare, muovendosi con la massima prudenza possibile in direzione di altri miti che presentino con esso delle affinità in un movimento di costante e progressiva estensione che è anche un movimento di approfondimento e di chiarificazione interna. Cosicché il vecchio problema proprio del punto di vista comparativista non viene affatto cancellato. Secondo quel punto di vista si riteneva di poter puntare sulla somiglianza dei contenuti dei racconti mitici appartenenti di fatto ad aree culturali e geografiche molto diverse, per sviluppare una tematica generale del mito proposta come "forma generale della vita dello spirito". Si tratta di una posizione respinta da Lévi-Strauss. Ma nello stesso tempo si afferma che: "il nostro scrupolo di limitarci ad una regione geografica e culturale non impedisce che, di tanto in tanto, questo libro assuma l'aspetto di un trattato di mitologia generale" (Cc, p. 18). La differenza sta nel fatto che in Lévi-Strauss ciò che importa non è la somiglianza dei contenuti, e quindi la comparsa di questa o quell'associazione di idee contenutisticamente determinata; e così il punto del problema non è rappresentato dalla ricorrenza dei simboli. Al contrario viene apertamente criticata una nozione di simbolo 127 come fornito di per se stesso di un significato generale - tipicamente la posizione da Jung. Contro di ciò si fa valere invece un punto di vista relazionale: il simbolo non è un'entità, ma una relazione, e il significato della relazione può essere compreso solo quando essa sia situato in un intero sistema di relazioni. La ricerca di Lévi-Strauss è dunque puntata in direzione della evidenziazione di sistemi di relazioni soggiacenti ad una determinata classe di racconti mitici. Questo sistema di relazioni è la struttura, l'identità soggiacente a racconti mitici che possono alla superficie apparire molto diversi. 3. L'analogia tra analisi del mito e partitura musicale Il problema di un'analisi del mito tendente a individuare schematismi strutturali interni si pone peraltro molti anni prima, come uno dei problemi centrali di una antropologia strutturale. Nel volume che ha questo titolo la questione viene posta con estrema chiarezza (Cap. XI, La struttura dei miti). E la musica comincia a fare capolino, anche se in linea estremamente subordinata, cioè come semplice paragone da impiegare per il suo valore ilustrativo. Nell'analisi strutturalista del mito non è tanto importante il racconto mitico come successione di eventi, ma piuttosto la ricerca di affinità interne tra gli eventi di cui esso consta, in modo tale da stabilire relazioni, che possono anche non essere visibili alla superficie, per riuscire ad isolare uno schema capace di fare da struttura portante di una intera classe di racconti mitici. Proprio sviluppando questa riflessione a Lévi-Strauss viene in mente una analogia illustrativa con una partitura musicale. Egli immagina che "alcuni archeologi del futuro caduti da un altro pianeta quando ogni vita umana sarà scomparsa dalla superficie della terra" scoprano, a forza di scavare, una delle nostre biblioteche. Supponiamo che essi si accingano ad una complessa opera di decifrazione che sia coronata da successo: naturalmente anzitutto dovranno accertare che la scrittura deve essere letta da sinistra a destra. Ma ecco che essi si imbattono nella sezione delle partiture d'orchestra. Le parti suonate simultaneamente da strumenti diversi sono poste in colonna, cosicché la lettura deve seguire sia un ordine 128 orizzontale che un ordine verticale. Semplificando per amore dell'uso analogico, potremmo dire che le parti incolonnate verticalmente hanno una qualche affinità, dal momento che debbono essere suonate simultaneamente. E gli archeologi del futuro potranno con successo decifrare anche questi testi se saranno tanto sagaci da sospettare che "certi contorni melodici, apparentemente lontani tra loro presentano analogie" (As, 238) e che non debbono essere letti nella loro successione, ma nella stessa colonna, secondo un ordinamento verticale. Il problema è dunque quello di notare affinità eventualmente disposte in punti lontani tra loro e di ricondurre queste affinità all'interno di una considerazione unitaria. Così il mito come racconto di eventi successivi deve essere assimilato ad una "partitura trascritta da un dilettante perverso una riga dopo l'altra" e il compito dell'analista sta nel tentare di ricostruire la partitura originale. Vi è qui una tendenziale svalutazione dell'ordine "diacronico" rispetto all'ordine "sincronico" - una tendenza che in seguito ritroveremo in altre forme e con svariate conseguenze. Nello spirito del discorso di Lévi-Strauss lo sviluppo orizzontale dello spartito risulta in fin dei conti quasi del tutto privo di interesse. Resta così l'idea dell'incolonnamento dei segmenti del racconto mitico che hanno fra loro un'affinità di qualche sorta. Questa analogia musicale per illustrare una procedura di analisi del mito - che si potrà ritenere più o meno forzata - è stata poi nuovamente riproiettata sul brano musicale, suggerendo un metodo di analisi musicale. Questa possibilità è teorizzata da Nicolas Ruwet in un saggio del 1966 intitolato Methode d'analyse en musicologie, con esplicito riferimento a Lévi- Strauss ed al passo citato dell'antropologia strutturale (N. Ruwet, Langage, musique, poésie, Ed. du Seuil, Paris 1972, in particolare pp. 116 sgg.). In ogni caso, nel momento della formulazione del progetto della Mitologica, questo esempio ha cessato di essere un esempio vagamente illustrativo, ed in generale il rapporto tra musica e mito si è ormai sviluppato in una grande molteplicità di direzioni. 129 4. Implicazioni filosofiche Nell'Ouverture si comincia con lo spiegare il modo in cui l'analisi viene condotta: essa comincia da un mito assunto come "mito di riferimento" - il racconto Bororo della snidatore di uccelli - e si sviluppa estendendo il campo di indagine verso miti delle culture più vicine e poi sempre più lontane. Il problema è quello di individuare alcuni nuclei principali intorno ai quali i temi inizialmente individuati in modo frammentario cominciano a coagularsi. Nell'itinerario che si va sviluppando attraverso i racconti mitici "filamenti sparsi si saldano, certe lacune si colmano, nuove connessioni si stabiliscono, qualcosa che assomiglia ad un ordine traspare dietro il caos" (Cc, 15). Tuttavia man mano che l'analisi procede diventa sempre più chiaro che essa si situa in una cornice più ampia, più "filosofica" - nonostante tutte le proteste di Lévi-Strauss contro la filosofia. L'interpretazione del mito punta al di là del mito stesso, e la struttura di cui si parla non è soltanto la struttura del mito: o meglio, parlando della struttua del mito si pensa di poter raggiungere il terreno "profondo" delle regole e delle leggi che governano il pensiero, e quindi l'agire degli uomini. Nell'Ouverture si sottolinea che, nonostante la differenza dei problemi, vi è nell'opera un programma profondamente unitario: "A partire dall'esperienza etnografica, intendiamo sempre redigere un inventario di recinti mentali, ridurre dei dati apparentemente arbitrari ad un ordine, raggiungere un livello in cui si rivela una necessità immanente alle illusioni della libertà" (Cc, p. 24). In questa frase sono concentrate alcune delle più caratteristiche prese di posizioni di Lévi-Strauss, che non toccano la specificità dell'argomento, ma, volenti o nolenti, proprio questioni di filosofia 130 generale. Esse si avvertono nelle stesse sfumature dello stile. Così ci impuntiamo subito sull'espressione "recinti mentali": la mente, la facoltà di pensare e quindi di dare un ordine alla realtà è fermamente delimitata, vi sono delle legalità nella strutturazione della realtà che forse non appaiono alla superficie, ma che "operano ad un livello più profondo" (Cc, p. 25). Ciò fa pensare che il regime necessario del pensiero compenetra la realtà stessa - ed a questo proposito Paul Ricoeur ha parlato di "kantismo senza soggetto trascendentale", una caratterizzazione qui rammentata e che Levi Strauss accetta pienamente: "La nostra problematica si ricongiunge a quella del kantismo" - afferma Lévi-Strauss senza mezzi termini nell'Ouverture (Cc, p. 26) Se una simile affermazione debba essere giudicata troppo forte, dipende in gran parte dal modo in cui si intende il progetto kantiano: porre l'accento su un aspetto "antropologico" è certamente una possibilità. In tal caso il "recinto mentale" ricorda da vicino - in modo ovviamente generico - la tavola kantiana delle categorie. In realtà l'approssimazione tra le due posizioni si rivela possibile in particolare per la polemica che le accomuna contro le classificazioni meramente empiriche. Il "recinto mentale" ha subito anche una inflessione deterministica, ha il senso di una "costrizione" - e questo elemento necessaristico viene ribadito in particolare nel campo della produzione mitica. Qui lo spirito "sembra perfettamente libero di abbandonarsi alla sua spontaneità creatrice", ed invece "leggi che operano ad un livello più profondo sono sempre presupposte" (Cc, p. 25). A sua volta questo determinismo è stettamente connesso con un'altra cornice filosofica generale, e precisamente con un atteggiamento materialistico di vecchio stampo, che viene assunto in tutta serietà filosofica come una sorta di corollario necessario di un atteggiamento scientifico. Alle spalle di Lévi-Strauss si intravvedono vecchie idee positivistiche: le spiegazioni ultime dovranno essere cercate a livello fisiologico e possibilmente fisico, che è l'ambito della necessità, cosicché qualunque discorso sulla libertà risulta in ultima analisi illusorio. Dentro simili cornici, il tema della struttura è ben lontano dall'avere un carattere essenzialmente metodologico o di indicare l'orientamento prevalente di un'indagine, ma appare evidentemente gravato e appesantito da implicazioni filosofiche particolarmente 131 impegnative. Tra queste implicazioni dobbiamo certo annoverare il richiamo alla nozione di inconscio. Parlare di un livello più profondo a cui operano le legalità di ordine strutturale implica, secondo Levi Strauss, che questo livello sia inconscio. Una trattazine approfondita di questa problematica la si può trovare nel libro di Sergio Moravia, La ragione nascosta (Laterza, Bari 1969, cap. VI); a noi basta mettere in rilievo un punto che del resto lo stesso Moravia sottolinea giustamente con particolare insistenza. Il riferimento all'inconscio è dovuto in Lévi-Strauss in parte ad un problema che riguarda la produzione del racconto mitico: questo racconto non si presenta mai come prodotto di un'immaginazione individuale, ma come espressione di un pensare e di un immaginare collettivo che segue regole e modi di operare che debbono essere necessariamente inconsapevoli per il singolo. Ma ciò rappresenta solo un aspetto del problema. L'altro aspetto, forse più importante, sta nell'insistenza sull'oggettività dell'indagine. Proprio il riferimento all'inconscio rappresenterebbe una garanzia per l'indagine oggettiva, una garanzia della sua scientificità. Potremmo dire addirittura che questo riferimento rappresenta una sorta di condizione di possibilità della conoscenza oggettiva. Questa presa di posizione è in realtà appesa ad un filo fragilissimo. L'argomentazione che la sostiene è infatti la seguente: là dove sono in gioco operazioni inconscie, la soggettività sarebbe, per questo stesso fatto, neutralizzata in quanto soggettività, così il loro carattere inconscio sarebbe la garanzia più sicura della possibilità di una conoscenza obbiettiva. D'altra parte il suo senso effettivo sta nel modo in cui la questione dell'inconscio si integra nell'insieme dell'impostazione di Levi-Strauss, in particolare nella tematica della struttura. Stabilire una relazione tra struttura e inconscio significa approfondire quella differenza tra superficie e profondità che si ripresenta di continuo e in varie forme. Ciò che sta alla superficie è il vario, il mutevole, il diverso, l'accidentale, ciò che appare alla coscienza individuale, e che è dunque intrinsecamente soggettivo - e di cui non vi è scienza. Mentre un atteggiamento rivolto alla struttura deve raggiungere ciò che sta sotto la superficie, l'identico, l'immutabile, il necessario - ciò che è intrinsecamente oggettivo in quanto appartenente all'inconscio. 132 5. In che modo si pone il rapporto tra musica e mito Ma in che modo all'interno di una simile impostazione incontriamo il problema della musica? Questo incontro avviene attraverso la mediazione della problematica del linguaggio. Occorre ora rammentare che fin dall'inizio della propria attività - nell'opera intitolata Le strutture elementari della parentela (1947) - Lévi-Strauss si appella all'esemplarità della linguistica strutturale anche per gli studi antropologici e in generale sociologici, e questa esemplarità viene sostenuta sulla base di una vera e propria comunanza di campo di indagine, che poggerebbe su una generalizzazione concettuale. Si prendono le mosse da una definizione del linguaggio come sistema di comunicazione: ed allora anche le istituzioni sociali, ad es. permessi e divieti che regolano i matrimoni, sono un sistema di comunicazione, sono un linguaggio in una nozione generalizzata del termine. Un linguaggio sarà il mito stsso - il quale poggia del resto sulla possibilità del linguaggio verbale. Le considerazioni sviluppate sino a questo punto debbono essere riconsiderate in questa ottica. Nell'Ouverture si fa notare che le leggi e le regole "coercitive" operano nell'inconsapevolezza esattamente come nel caso delle regole grammaticali che sono attive per il parlante senza che egli abbia bisogno di fare di esse una tematizzazione esplicita: "Ciò che vale per il linguaggio, vale anche per i miti: il soggetto che nel discorrere applicasse coscientemente le leggi fonologiche e grammaticali, ammesso che egli possieda la scienza e la capacità necessarie, perderebbe quasi subito il filo delle sue idee. Allo stesso modo l'esercizio e l'uso del pensiero mitico esigono che le sue proprietà rimangano celate…" (Cc, 27). Osservazioni come queste hanno la loro ovvietà considerate in rapporto all'uso del linguaggio verbale, ma la loro trasposizione analogica non è affatto altrettanto ovvia. Al contrario esse sono tutt'altro che prive di problemi: le giustificate perplessità intorno alle inter- 133 pretazioni di Levi-Strauss non solo sulla tematica dell'inconscio, ma anche in generale sul modo di proporre il rapporto tra antropologia e linguistica sono messe in documentata evidenza dal testo di Moravia (in particolare pp. 199 segg.). Musica e mito sono a loro volta accomunati dall'essere entrambi linguaggi. Ma naturalmente questa affermazione non dice nulla se considerata nella sua genericità. Per cogliere meglio le specificazioni di questo rapporto in Levi Strauss conviene volgere lo sguardo dall'introduzione della prima opera di Mitologica al Finale dell'Uomo nudo che la conclude. Qui troviamo una nuova tematizzazione del problema che ha il pregio di fornire alla nostra esposizione un inizio abbastanza ordinato. In essa si richiama anzitutto l'attenzione sul fatto che vi sono alcuni campi privilegiati per l'applicazione della nozione di struttura, e questi campi sono la matematica, il linguaggio verbale, la musica e il mito. Ciò che qui è interessante sono le correlazioni e le differenze che vengono stabilite tra essi. Ad esempio, la matematica e il linguaggio verbale vengono considerati come opposti polarmente sulla base dell'osservazione che le strutture nella matematica sono forme relazionali del tutto astratte, puramente intellettuali, in linea di principio pensabili al di là di un concreto supporto simbolico (un'affermazione, quest'ultima, di cui lasciamo interamente la responsabilità a Lévi-Strauss). Al contrario le strutture linguistiche sono forme relazionali concrete, e sono impensabili senza riferimento alla concretezza del rapporto tra suono e senso. Ora, per comprendere il rapporto e la differenza tra musica e mito dobbiamo proprio fare riferimento alla concretezza del linguaggio verbale: notiamo allora subito che i momenti del suono e del senso che sono congiunti nel linguaggio verbale rappresentano la linea discriminante che lo separa musica e mito. La musica è "staccata dal senso" ed è invece aderente al suono; all'inverso, nel caso del mito, che in quanto narrazione effettiva è anzitutto discorso, le costanti strutturali non debbono essere ricercate essenzialmente nell'elemento sonoro del discorso in cui la narrazione si realizza, ma proprio nella sua pura componente di senso (Un, p. 610). Ciò può essere formulato più chiaramente osservando che per ciò che concerne il racconto mitico, a differenza dal racconto letterario, il modo in cui il racconto è raccontato, l'impiego di una particolare lingua, ed all'interno di essa, di certe parole piuttosto che di altre, quindi in generale la sintassi, lo stile, ecc., 134 può essere considerato irrilevante. Ciò che importa è appunto solo il contenuto del racconto come tale. Questa posizione è spesso ribadita da Lévi-Strauss ed era formulata con chiarezza anche nella Antropologia strutturale: "Si potrebbe definire il mito come quel modo del discorso in cui il valore della formula traduttore, traditore tende prticamente a zero. Sotto questo profilo. il posto del mito, nella scala dei modi di espressione linguistica è opposto a quello della poesia, indipendentemente da quanto si è potuto dire per avvicinarli. La poesia è una forma di linguaggio estremamente difficile da tradurre in una lingua straniera, ed ogni traduzione comporta molteplici deformazioni. Al contrario, il valore del mito inquanto mito persiste, a dispetto della peggiore traduzione. Per grande che sia la nostra ignoranza della lingua e della cultura da cui lo abbiamo raccolto, un mito viene percepito come mito da ogni lettore, in tutto il mondo. La sostanza del mito non sta né nello stile, né nel modo di narrazione…" (As, p. 235) "La sostanza del mito non si trova né nello stile, né nel modo di narrare, né nella sintassi, ma nella storia che viene raccontata" (Un, 608). Lo schema rei rapporti potrebbe allora essere indicato in questo modo: Matematica Linguaggio verbale Suono Senso Musica Mito In base a questo schema le strutture matematiche sono "affrancate dal suono e dal senso", le strutture linguistiche invece sono unità di suono e di senso. Ma non appena veniamo a caratterizzare, all'interno di questo quadro, la posizione della musica e del mito, avendo in 135 mente l'idea di entrambi come linguaggi, allora ci rendiamo conto che la musica è dalla parte del suono ed il mito dalla parte del senso, ma anche che la musica può essere intesa come un linguaggio a cui sia stato tolto qualcosa, e così anche il mito. Il musicale deriva dal verbale attraverso la sottrazione della conponente di senso, mentre il mito attaverso la sottrazione dell'elemento sonoro. Un simile modo di vedere contiene alcune conseguenze abbastanza rilevanti che non sono certo elaborate a fondo da Lévi- Strauss, ma non per questo sono meno significative. Queste conseguenze si possono ridurre ad una duplice dipendenza della musica dal linguaggio verbale. In primo luogo potremmo parlare di una dipendenza "storica" o più generalmente "genetica": la musica deve avere origine dal linguaggio verbale; in secondo luogo si potrà anche parlare di una dipendenza in certo modo concettuale, dal momento che proprio in forza di questa origine la musica continua ad appartenere, sia pure in senso privativo, al linguaggio stesso. Secondo Lévi-Strauss prima della musica c'è la parola, e questo non è un semplice dato di fatto, ma una necessità intrinseca; è infatti il linguaggio naturale che offre alla musica il suo primo materiale sonoro. Si vorrebbe dunque insegnare che il materiale sonoro primario della musica non è il suono stesso, ma il suono verbale. La musica può perciò essere caratterizzata come un linguaggio "senza senso" dove senza significa privato di (e non semplicemente privo di): "… non vi può essere musica senza un linguaggio preesistente, da cui essa continua a dipendere come un'appartenenza privativa" (Un, p. 610) Proprio in virtù di questa appartenenza verrebbe mantenuta nella musica una tensione verso il senso, come una sorta di ricordo della sua origine linguistica. Questa preesistenza della parola, e quindi della vocalità come primo fondamento della musica, delinea un atteggiamento ben definito sia rispetto a ciò che deve essere il materiale sonoro, sia rispetto alla stessa modalità dell'ascolto. L'ascoltatore infatti, che è anzitutto soggetto parlante, si protenderà in ogni caso verso il suono alla ricerca di un senso, essendo modello originario del suono la parola stessa. Quest'affermazione viene formulata in modo del tutto esplicito: 136 "…L'ascoltatore… si sente irresistibilmente portato a supplire questo senso assente…" (Un, p. 610). In realtà siamo qui di fronte a null'altro che a "deduzioni" che si pensa di poter trarre dalla schematizzazione iniziale. Che cosa sia e come sia l'ascolto ci può essere insegnato solo da una fenomenologia concreta. Il parlare di senso assente o addirittura di tendenza all'integrazione risulta del tutto privo di fondamento. L'ascolto musicale viene presentato come un ascolto da sordastri, che afferrano confusamente il suono della parola e propongono dunque iteratamente la domanda sul suo senso. D'altra parte proprio così deve essere posto il problema se si insiste su una nozione di comunicazione che ha il suo modello nel rapporto linguistico intersoggettivo. Chi tende l'orecchio per afferrare il senso? Colui che ci sente poco. Ciò che viene udito sarà afferrato come linguaggio - ad es. perché vedo qualcuno che mi parla, che si rivolge a me - e le parole giungono confusamente al mio orecchio. Una simile situazione non ha nulla a che vedere con l'ascolto di un brano musicale. Nel caso del mito, si verfica una situazione per molti versi simmetrica e opposta a quella della musica. In generale il mito non può in via di principio liberarsi interamente dal linguaggio verbale, proprio in quanto esso è racconto e deve dunque trovare espressione in parole. Per questo "non si può sostenere che il mito sia affrancato completamente dal linguaggio come lo è la musica" (Un, p. 611). Ciò non toglie che debba essere ribadita la tesi secondo la quale il mito può essere considerato come "pura realtà semantica", e dunque il legame al "supporto linguistico" non è particolarmente stretto. Per questo esso può essere narrato in una lingua qualunque senza rimetterci nulla. Lévi-Strauss sembra voler mettere in rilievo che, come il mito si adatta a qualunque supporto linguistico, così la musica si adatta a qualunque senso si voglia ad essa attribuire, "si adatta alla serie infinita di cariche semantiche di cui i successivi ascoltatori cercano di investirla" (Un, p. 612). Così quella tensione verso il senso, da un lato ha una sua giustificazione interna nell'origine del materiale musicale, dall'altro è in via di principio una tensione irrisolta ed insolubile. In particolare Lévi-Strauss non vuole rinunciare a sostenere il luogo comune se- 137 condo cui l'attribuzione di un senso ad un brano musicale sarebbe in fin dei conti una questione solo soggettiva e che qualunque senso può essere tollerato dal momento che nessuno di essi è in grado di rendere realmente conto del brano musicale stesso: "La funzione significante della musica appare irriducibile a tutto quello che sarebbe possibile trarne fuori o tradurre in forma verbale" (Un, p. 612). In questo quadro trova spiegazione la frequente presenza di elementi riconducibili al momento musicale nella realizzazione della narrazione mitica. Essa, ed in particolare quando è integrata nel rituale, viene spesso cantilenata, salmodiata, cantata. Anche certi dettagli di ordine stilistico, come la ripetizione di formule verbali stereotipe, hanno un senso prevalentemente sonoro-musicale, piuttosto che appartenere al contenuto del racconto. Si tratta di caratteri della narrazione mitica che possono essere interpretati in modo simmetrico al problema del senso nel caso della musica. Nella musica vi è una carenza di senso, nel mito una carenza di suono: cosicché dalla parte del suono vi sarebbe un "vuoto" che il narratore sentirebbe il bisogno di colmare. Gli artifici di carattere musicale nella narrazione mitica concreta sarebbero così espedienti che tendono a compensare questa carenza ritrovando l'equilibrio linguistico tra suono e senso che assume evidentemente in Lévi-Strauss il valore di un equilibrio originario ed esemplare. 6. La smentita del tempo nella musica e nel mito Linguaggio, mito e musica hanno ancora questo in comune: essi sono strettamente legati ad una processualità temporale. Anzitutto è subito chiaro che la temporalità in senso proprio riguarda il linguaggio in quanto esso è concepito come discorso vivente, come parola parlata. Sullo sfondo vi è naturalmente la distinzione di De Saussure tra Langue, intesa come sistema di regola che può essere studiato 138 come tale, e Parole che è la lingua concretamente parlata dai singoli, alla quale appartengono anche tutti i tratti extragrammaticali. Si tratta di una distinzione che ha manifestamente lo scopo di determinare l'oggetto della linguistica in rapporto all'aspetto sistematico, distinguendo i tratti accidentali da quelli necessari e rafforzando una presa di posizione in senso anti-empiristico ed antistoricistico. Essa può essere formulata anche in termini temporali. Propriamente temporale è anzitutto la parola, ad essa spetta un qui ed un ora, un inizio ed una fine, essa passa attraverso il tempo. Questa dimensione temporale viene caratterizza come la dimensione diacronica. Invece una considerazione della lingua come sistema sembra che in linea di principio possa prescindere dalla temporalità, dallo sviluppo. Ciò non significa che un sistema linguistico non si sviluppi, che le regole di cui non si modifichino nel tempo. Si tratta invece di fissare con chiarezza che in una considerazione sistematica le considerazioni relative allo sviluppo sono escluse, appartenendo ad un'altra delimitazione problematica. Si parla in questo caso di dimensione sincronica, anche se forse questo termine non è del tutto felice perché si richiama alla simultaneità che è ancora una dimensione temporale. Il problema della temporalità del mito prende l'avvio proprio da questa distinzione linguistica. Anche il mito sarebbe infatti caratterizzato da questa duplice dimensione che è in realtà temporale e intemporale. Esso si riferisce sempre ad un passato lontano, ad un tempo dei primordi. Ma: "il valore intrinseco attribuito al mito dipende dal fatto che questi avvenimenti, che si ritiene debbano svolgersi in un momento preciso del tempo, formano anche una struttura permanente. Quest'ultima si riferisce simultaneamente al passato, al presente, al futuro" (As, p. 234). È interessante notare come questo stesso tema si ripresenti in rapporto alla musica. Il mito e l'opera musicale hanno in comune il fatto che essi "trascendono, ciascuno a modo suo, il piano del linguaggio articolato, pur richiedendo, come questo linguaggio,… una dimensione temporale per articolarsi" (Cc, p. 32) 139 Tuttavia l'accento cade qui con particolare vivacità proprio sulla componente atemporale: "Ma questa relazione al tempo rivela una natura abbastanza singolare: tutto avviene come se la musica e la mitologia non avessero bisogno del tempo se non per infliggerli una smentita. Esse sono entrambe macchine per sopprimere il tempo" (Cc, p. 32). Che cosa significhi ciò per il mito si è detto or ora. Ma per la musica? In che senso potremmo far giocare anche qui il paragone tra langue e parole? Per comprendere un'affermazione così recisa sulla soppressione della temporalità che la musica opererebbe, dobbiamo attirare l'attenzione sul fatto che un brano musicale ha una sua "organizzazione interna" (Cc, p. 32). Questa organizzazione non sembra avere in sé qualcosa di essenzialmente temporale. Così una melodia, che si sviluppa necessariamente nella successione, può essere analogizzata ad una linea con una determinata forma, che può essere esibita in un colpo solo. Che la musica si svolga nel tempo potrebbe essere considerata come una circostanza necessaria, per via della natura del materiale sonoro, ma anche inessenziale - per il fatto che, attraverso il medio temporale, ciò che importa è la presentazione di una struttura. Questo sembra il senso dell'osservazione di Lévi-Strauss sulla soppressione del tempo nella musica. In effetti si accenna qui ad una "immobilizzazione" del tempo che passa "in forza dell'organizzazione interna" dell'opera musicale. Il fatto che poi egli aggiunga che "ascoltando la musica e mentre l'ascoltiamo, noi accediamo ad una specie di immortalità" (Cc, 33) è frase a cui non so annettere alcun senso preciso. 7. Il tempo viscerale e la veemenza della musica La questione della temporalità ha tuttavia anche altri sviluppi. Occorre premettere che Lévi-Strauss rifiuta in via di principio qualunque considerazione relativa ad una fenomenologia della temporalità, e di conseguenza, accanto al tempo oggettivo, 140 potrà riconoscere al massimo una temporalità psicologica o meglio psico-fisiologica, cioè una temporalità intrecciata a processi psichici che hanno a loro volta fondamento in processi fisiologici. Ora, poiché nel racconto mitico non si tratta di cogliere un semplice sviluppo narrativo, ma i nessi profondi che formano il suo senso, le attività cerebrali connesse all'ascolto dovranno essere tali da consentire alla mente dell'ascoltatore di "spaziare in lungo e in largo" nel campo del racconto "man mano che esso si dispiega di fronte a lui": si assume, in altri termini, che l'ascolto del mito - quando si tratti di un mito vivente - non sia certo qualcosa di simile ad una analisi strutturale, ma sia comunque tale da sapere cogliere i nessi essenziali proposti dal mito. Si tratterà perciò di una capacità psicologica - e quindi di una temporalità dell'ascolto - di tipo particolare, che avrà a sua volta un fondamento fisiologico come ogni altro processo psicologico. Ciò vale fino ad un certo punto anche per la musica. Anche l'afferramento di un brano musicale è strettamente dipendente dalla capacità di stabilire nessi non nel semplice divenire successivo dei suoni, ma nella totalità del brano, cosicché dovranno essere istituiti collegamenti all'indietro così come anticipazioni rispetto a sviluppi successivi. Ma questo è ancora un livello superficiale. Secondo LéviStrauss le operazioni di collegamento effettuate all'interno del tempo psicologico - quindi attraverso atti psichici che implicano la memoria e l'attesa - non sono sufficienti, perché nella ricezione di un brano musicale viene messa in questione il livello propriamente corporeo: la musica chiama direttamente in causa il "tempo fisiologico", anzi addirittura, come egli si esprime, il "tempo viscerale". Quest'ultima espresssione è certo molto singolare, ma il suo impiego è d'altra parte significativo in rapporto all'impostazione problematica proposta. Non vi è dubbio che in questa discussione Lévi-Strauss ostenti una ripresa di temi positivistici, ed in particolare alluda alla vecchia tematica di una fondazione biologica della musica secondo schemi vetero-materialistici. Cosicché egli si compiace di parlare di onde cerebrali, di aspetti neuro-psichici ecc. La singolarità dell'espressione "tempo viscerale" sta invece nel fatto che essa prospetta questa tematica biologistica in altra direzione, e precisamente in quella di una forte accentuazione dell'elemento affettivo ed emozionale. Ne risulta un'inclinazione vitalistica. Lévi-Strauss è disposto anche ad ammette- 141 re una minore "vitalità" del racconto mitico rispetto al brano musicale: un racconto mitito può essere "palpitante", può dunque generare un'intensa partecipazione dell'ascoltatore - anche il mito non ignora dunque il "tempo viscerale". Ma esso non ha nel mito quella funzione essenziale che esso ha invece per la musica. L'azione della musica è caratterizzata da una veemenza di cui il mito offre soltanto un'imitazione affievolita (Cc, p. 49). "Ogni contrappunto assegna al ritmo cardiaco ed a quello respiratorio il posto di una parte muta" (Cc, p. 33). Dunque è come se questi momenti fisiologici appartenessero allo spartito, una vera e propria parte sottintesa che c'è sempre e in ogni caso. Il fatto che poi si alluda proprio al battito cardiaco ed al movimento respiratorio, anzi al ritmo dell'uno e dell'altro, va inteso anche in una contrapposizione implicita tra questo tempo viscerale, che è fatto di ritmi e scansioni, e il tempo continuo, come pura durata, nel senso bergsoniano del termine. Con tutto ciò si vorrebbe sottolineare la necessità di un fondamento naturalistico e nello stesso tempo anche una potenziale rottura della continuità che è già presente nei ritmi fisiologici. Questa discontinuità "viscerale" sembra infine essenziale per rendere conto dell'emozione musicale e del piacere estetico generato dalla musica. L'opera del compositore consiste infatti nell'intervenire liberamente sulla base di questo ritmo fisiologico creando situazioni di dinamismo che possono essere colte proprio nel presupposto della costanza di quel ritmo fondamentale. "L'emozione musicale proviene proprio dal fatto che, in ogni istante il compositore toglie o aggiunge più o meno di quanto l'uditore preveda sulla scorta di un progetto che egli crede di indovinare, ma che in realtà è incapace di penetrare autenticamente, a causa del proprio assoggettamento ad una doppia periodicità: quella della gabbia toracica che inerisce alla sua natura individuale, e quella della scala che dipende dalla sua educazione. Basta che il compositore tolga di più perché noi proviamo una deliziosa impressione di caduta; ci sentiamo strappati da un punto stabile del solfeggio e precipitati nel vuoto, non solamente perché il supporto che sta per esserci offerto non era al posto atteso. Quando il compositore toglie di meno, è il contrario: ci costringe ad una ginnastica più abile della nostra. Ora siamo mossi, ora costretti a muoverci, e sempre al di là di ciò 142 che, da soli, ci saremmo creduti capaci di compiere. Il piacere estetico è fatto di questa moltitudine di sussulti e di pause, attese deluse e ricompensate più del previsto, risultato delle sfide lanciate dall'opera…" (Cc, p. 34). L'ascolto musicale viene assimilato ad una sorta di corsa ansimante, piena di inciampi, di cadute, di fastidiosi impedimenti della nostra libertà di movimento - perché mai tutto ciò dovrebbe essere fonte del massimo piacere? In realtà, una spiegazione c'è. 8. Il piacere dell'ascolto musicale, tra pianto e riso. Le questioni or ora discusse, sulla base della Ouverture, vengono riprese e perfezionate nel Finale. Intanto va detto che quando LéviStrauss parla di "emozione musicale" e sottolinea la necessità di dare di essa un'interpretazione, sa quello che dice. Il termine di emozione non allude ad un generico sentimento che accompagna l'ascolto e il cui contenuto resta indeciso. L'ascolto musicale sarebbe invece proprio un ascolto emozionato, un ascolto commosso, ed il caso esemplare di questo ascolto, il caso limite ma proprio per questo esemplare, è quello di un ascolto di opere "capaci perfino di provocare le lacrime" (Un, p. 618). Il caso di questo ascolto piangente è citato più di una volta sempre per sottolinearne l'esemplarità. Qualunque tentativo di "comprendere che cosa sia la musica" deve spingersi sino alle radici di questa emozione profonda. Già nella Ouverture, Lévi-Strauss osserva che l'indagine riguarda certe proprietà delle cose, accettabili attraverso la percezione diretta, come il crudo, il cotto, il bagnato, il putrido, ecc. , cose che tuttavia si presentano come veicoli di relazioni di ordine intellettuale (Cc, p. 30). Anche soltanto per questo fatto la musica potrebbe essere chiamata in causa perché essa ha "sempre praticato una via mediana tra l'esercizio del pensiero logico e la percezione estetica" (Cc, p. 30). Questo tema si ripresenta nel Finale nel quadro del tema del "piacere musicale". Esso deriverebbe intanto da questo confluire di 143 elementi intellettuali entro l'alveo della sensibilità: "Sfuggendo all'intelletto che è la sua sede abituale, il significato va ad innestarsi direttamente sulla sensibilità" (Un, p. 619). "Attraverso la musica si compie quel prodigio per cui il più intellettuale dei sensi, l'udito, di solito asservito al linguaggio articolato, sperimenta quel tipo di condizione che il filosofo [Condillac] aveva giustamente riservato all'odorato, di tutti i sensi quello più profondamente radicato nelle penombre della vita organica" (ivi). "La gioia della musica è dunque quella del'anima che per una volta è stata invitata a riconoscersi nel corpo" (ivi). Nel Finale viene dunque ripreso il tema della corporeità; ma ora il problema dell'emozione musicale riceve indubbiamente una maggiore elaborazione. Come abbiamo detto, questa emozione ha il suo massimo esempio nel pianto, che è naturalmente una sorta di pianto di gioia, o quanto meno un pianto rasserenante. In certo senso l'emozione musicale si situa tra il pianto e il riso, tra il riso e l'angoscia. La chiave del piacere estetico risiede proprio nella dinamica che scatena il riso ed in quella che scatena l'angoscia. LéviStrauss si azzarda ad abbozzare uno schema di queste dinamiche ad un tempo opposte ed affini. In primo luogo occorre premettere che "lo spirito umano potenzialmente si mantiene sempre in tensione, in ogni istante dispone di una riserva di attività simbolica per rispondere ad ogni sorta di sollecitazione di ordine speculativo o pratico" (Un, p. 620). Questa riserva di attività simbolica è anche una riserva di energia che verrebbe consumata nell'adempimento di operazioni di coscienza, ad esempio nello stabilire nessi e relazioni. Così la situazione che genera il riso è quella in cui campi molto lontani ta loro, che richiederebbero per essere connessi una catena di mediazioni piuttosto lunga con un notevole dispendio di energia, vengono invece direttamente connessi da un fattore imprevisto. Vi è così un risparmio di energia che deve essere comunque spesa, il cui "fenomeno" è appunto il riso. "Inconsciamente mobilitata per ricostituire l'avvenimento e per comprenderlo, pronta al massimo sforzo per effettuare la sintesi delle due rappresentazioni, la funzione simbolica dello spettatore afferra di colpo il termine imprevisto che le consente, con la minima spesa, di ristabilire la concatenazione logica" (Un, p. 620). "Gli scoppi di riso adempiono a questa funzione e lo stato di beatitudine che li accompagna corrisponde ad una gratifica- 144 zione della funzione simbolica, soddisfatta ad un prezzo molto minore di quello che era disposta a pagare" (ivi). La dinamica dell'angoscia ha sostanzialmente lo stesso andamento. La situazione che scatena l'angoscia è ancora quella di connettere campi o situazioni lontane, la necessità di trovare la soluzione ad un problema o la via di uscita ad una difficoltà. Si tratta in qualche modo di effettuare una sintesi e nello stesso tempo si ha la sensazione di non avere i mezzi adeguati per effettuarla. Il riso sorge da una soluzione insperata, dunque dall'aver evitato un percorso faticoso avendo trovato inaspettatamente una scorciatoia; l'angoscia deriva invece ad un tempo dalla necessità della scorciatoia e dal non riuscire a scorgerne nessuna: "Invece della scorciatoia del comico, che evita un tragitto almeno teoricamente faticoso, allora proprio l'impotenza nel concepire una scorciatoia determina quella specie di dolorosa paralisi che attanaglia lo spirito atterrito dalle difficoltà del tragitto che le vicissitudini dell'esistenza gli impongono e dalle prove che ogni tappa gli riserva" (Un, p. 620). A differenza del riso che è suscitato da un tragitto fortemente abbreviato, l'ascolto musicale compie realmente un tragitto seguendo lo sviluppo e l'evoluzione dell'opera. In questo senso vi è semmai prossimità all'angoscia - di questo tragitto chi ascolta averte le difficoltà, i rallentamenti, le tensioni, gli impedimenti. Ritorna il tema dell'ascolto che noi abbiamo definito un ironicamente come ascolto ansimante - ma questa espressione è proprio di Levi Strauss, che la usa senza alcuna intenzione ironica (Un, p. 621). Tuttavia in questa corsa le difficoltà ed i problemi sono accompagnati dalle soluzioni che il compositore ha provveduto a proporre. Si torna così al versante del riso: la risposta c'è già e l'ascoltatore è proiettato verso di essa: "Trascinato ansimante su questo cammino, per ogni soluzione melodica o armonica, l'ascoltatore si trova come lanciato verso il possesso del suo risultato" (Un, p. 621). Ma il discorso procede oltre. Quando Lévi-Strauss dice che "ogni tragitto faticoso ha per l'uomo risonanze esistenziali" (Un, p. 621) suggerisce che l'idea stessa del tragitto può ricevere un forte investimento imaginativo - cosicché Lévi-Strauss riesce finalmente a dire che la musica in genere, il brano musicale può essere considerato 145 come un'immagine della vita stessa (cosa che, a mio sommesso parere, dice troppo e troppo poco). Tutta la tematica dell'emozione e del piacere estetico deve essere riconsiderata da questo punto di vista. La vita stessa è infatti un percorso faticoso che incontra scacchi e successi, la vita è peripezia ed avventura, e tutto ciò si ripresenta nella musica. Il vero percorso faticoso a cui l'ascoltatore commisura tutti gli altri "è la sua stessa vita con le sue speranze e le sue delusioni, le sue prove e i suoi successi, le sue attese e i suoi esiti. La musica gliene offre nel contempo l'immagine e lo schema, ma sotto forma di un modello ridotto, che non solo imita ma accelera tutte queste peripezie e le condensa in un lasso di tempo che la memoria può cogliere come un tutto e che inoltre - trattandosi di capolavori quale la vita ben di rado sa fare - le volge verso una conclusione positiva" (Un, p. 621). 9. La musica come immagine della vita Se rammentiamo il modo in cui il tema dell'emozione e del piacere musicale è stato avviato, sembra chiaro che questo tema sembra scaturire più da un intento di differenziazione che di analogia tra musica e mito. Avevamo preso le mosse dal "tempo viscerale", dalla "veemenza" dell'azione musicale sottolineando subito che si trattava di temi attinenti più alla musica che al mito. Negli sviluppi dell'argomento, ci siamo poi imbattuti in qualche forse inattesa enunciazione, che presa in se stessa, sembra ricondurre la posizione di Lévi-Strauss in alvei noti e talvolta persino piuttosto scontati, ma non per questo realmente produttivi sul piano di una riflessione sulla musica considerata nella complessità e nella molteplicità dei suoi aspetti. Si pensi all'idea della musica come immagine della vita oppure a quella di una omologia tra espressioni musicali e moti dell'anima che Lévi-Strauss formula esplicitamente: "Una frase melodica giudicata bella e commovente è veramente tale quando il suo profilo appaia omologo a quello di una fase esistenziale… pur riuscendo a risolvere agevolmente, sul piano 146 che le compete, certe difficoltà omologhe ad altre difficoltà contro le quali la vita, sul piano che le è proprio, verrebbe a cozzare, rimanendone sopraffatta" (Un, p. 622). Tuttavia, nonostante il presentarsi di simili affermazioni, in realtà troppo generiche, che vogliono dire tutto e nulla, la specificità della problematica di Lévi-Strauss che consiste appunto nel legame tra musica e mito non viene perduta all'interno delle digresssioni sui terreni dell'estetica musicale. Il tema del mito resta presente già per il fatto che l'excursus sulle motivazioni dell'emozione musicale intende anche confermare che queste motivazioni si trovano in profondità, ribadendo che musica e mito assolvono entrambi una funzione nelle dinamiche delle tensioni inconscie. Inoltre la musica assolve il compito di esibire all'individuo il suo "radicamento fisiologico"; ma una funzione analoga assolve il mito per ciò che concerne il radicamento dell'individuo nel sociale. "L'una ci prende per le viscere, l'altra, se così si può dire, per il gruppo" (Cc, p. 49). Il problema del mito si ripresenta anche in rapporto alle considerazioni della musica come immagine della vita, anzi queste considerazioni ricevono una loro determinatezza proprio da questo riferimento. L'opera musicale, in forza del senso della sua dinamica interna, fornisce "una griglia di lettura, una matrice di rapporti che filtra ed organizza l'esperienza vissuta". In questa frase potremmo senza dubbio sostituire ad "opera musicale" la parola "mito". Che cosa fa il mito se non stabilire una matrice di relazioni che filtra e organizza l'esperienza vissuta? E fa certamente parte di quest'opera di filtraggio e di organizzazione compiuta dal mito anche il fornire un quadro di soluzione dei contrasti e dei conflitti interni all'esperienza stessa. Ovunque, nell'intepretare il racconto mitico ci rendiamo conto che in esso si tratta sempre di dare una risposta ad un problema. Una simile osservazione può essere ribaltata direttamente nell'ambito del musicale: "Se quanto abbiamo detto finora è esatto, non è concepibile opera musicale che non abbia inizio con un problema e non tenda verso la sua risoluzione, dando a quest'ultimo termine un significato più ampio di quello che ha nel linguaggio musicale, ma sempre coerente con esso" (Un, p. 622). 147 Questa è una frase perentoria ed estremamente impegnativa. Essa è peraltro preceduta da una limitazione: "almeno per quel periodo della civiltà occidentale in cui la musica assume le strutture e le funzioni del mito". Questa limitazione - che peraltro abbraccia l'intera musica europea dall'età moderna fino ai nostri giorni - non può che apparirci per il momento piuttosto oscura. Si allude ad un nuovo livello del rapporto tra musica e mito, ad una sorta di dialettica tra l'una e l'altra - è un argomento che presto dovremo riprendere. Ma in che senso l'affermazione or ora citata è impegnativa? Il tipo di impegno lo potremmo mettere in rilievo prendendo le mosse dalla parola "risoluzione" nel suo significato musicale particolare. Questa parola, nella terminologia musicale, richiama la dissonanza. Secondo le regole compositive tradizionali, la dissonanza deve essere "risolta" - essa deve infatti essere considerata come un momento di passaggio verso una consonanza. La dissonanza "risolve" nella consonanza. Poiché Lévi-Strauss precisa che il termine viene preso in un senso più ampio che nella terminologia musicale, ma in coerenza con essa, possiamo assumere questo rapporto dalla dissonanza alla consonanza come significativo anch'esso su un piano più ampio. Assumendo questo punto di vista, l'opera musicale potrebbe essere descritta come un processo che va da una situazione conflittuale, da un contrasto, da una opposizione che via via verso la sua soluzione - un processo dalla dissonanza alla consonanza. Quanto Lévi-Strauss tenga a questa idea è dimostrato in particolare dall'analisi del Bolero di Ravel che egli inserisce direttamente nel testo e che si sviluppa inesorabilmente per pagine e pagine. Si tratta di mostrare che in un brano che si presenta come "un caso estremo di unidirezionalità ininterrotta e perfettamente continua", come dice Pousseur (Un, p. 622), agisce in modo variamente complesso lo schematismo precedentemente prospettato, schematismo che secondo lo spirito della problematica proposta deve essere inteso come un criterio orientativo anche nell'analisi di quell'opera. 148 10. I suoni musicali e il canto degli uccelli La discussione di Lévi-Strauss si incontra anche con il problema dei rapporti tra musica e pittura - e le considerazioni svolte in rapporto ad esso portano chiarimenti importanti sul senso e sulla portata della problematica musicale. Nell'Ouverture Lévi-Strauss si pone l'obiezione se il privilegio accordato alla musica in rapporto alla problematica strutturale del mito sia realmente giustificato. Perché non la pittura? La prima risposta chiama in causa la differenza tra musica e pittura in ordine al problema della raffiguratività, per spostare tuttavia immediatamente l'accento sui materiali di cui queste arti constano. Si rammenta in primo luogo che per contraddistinguere la musica dalla pittura si ricorrerà comunemente al rilievo della capacità della pittura di raffigurare qualcosa, una possibilità esclusa in ambito musicale. L'argomento secondo cui esiste una pittura non raffigurativa, una pittura "astratta" le cui opere sono un libero gioco di colori e di forme come nel caso delle pure costruzioni sonore della musica viene respinto da Lévy-Strauss: a suo avviso quest'analogia è fuorviante ed illusoria (Cc, p. 37) - a dispetto anche del dato di fatto che questa analogia musicale è ben presente nella storia e nella teoria dell'arte astratta. La ragione di questa contestazione è da ricercare nel fatto che i colori e suoni non sono entità dello stesso livello: i colori infatti si dànno in natura, essi si trovano tra le cose che ci circondano, di qui vengono rilevati dal pittore che ne fa un libero utilizzo. Non è dato invece, o è dato solo fortuitamente, trovare in natura suoni come appartenenti al mondo circostante: essi rimandano ad un livello di elaborazione culturale. Questa risposta è interessante perché scopre un'altra carta con cui è giocata questa impostazione. Con "suono" non si può intendere qui il puro fenomeno uditivo, ma il termine ha subito una forte restrizione. Evidentemente questa parola viene intesa in opposizione ai rumori nel senso quotidiano del termine, a ciò che appunto in natura si ode, fruscii, ticchettii, battiti, cigoliii e quant'altri che fanno parte, e quanta parte!, del nostro mondo circostante, naturale e non. È importante tuttavia per Lévi-Strauss far riferimento soprattutto ai suoni "naturali" - in modo tale da poter giocare sulla differenza tra 149 suoni e rumori la distinzione guida natura e cultura, che fa parte dell'impalcatura concettuale della Mitologica. I suoni di cui parla Lévi-Strauss come "suoni musicali" sono inevitabilmente i suoni di altezza determinata in rapporto ai quali è possibile costruire sistemi ordinati. Ed allora ci chiediamo: dove in natura troviamo un la a 440 Hz? Certo, può accadere che un merlo di passaggio emetta proprio un la a 440 Hz, e persino una sequenza che noi potremmo riuscire a trascrivere nella nostra corrente notazione musicale. Per questo non è affatto sorprendente che Lévi-Strauss si soffermi proprio sul canto degli uccelli (Cc, p. 56 n. 6). Qualunque cosa si pensi sul canto degli uccelli è difficile, almeno secondo l'uso consueto del termine, parlare di esso come di un "rumore". Del resto la parola "canto", anch'essa di uso comune, è in proposito molto indicativa. Dovremmo allora, con questo esempio, dubitare del livello culturale a cui si situano i suoni della musica? In realtà Lévi-Strauss è disposto a compiere piuttosto l'operazione inversa, a elevare un poco il piano degli uccelli, piuttosto che abbassare quello della musica. Il canto degli uccelli, egli dice, serve comunque "all'espressione ed alla comunicazione" e si situa "ai limiti del linguaggio". Esso è un "modo della società". Ciò implica che la nozione di cultura possa essere estesa anche a manifestazioni animali, e in particolare agli uccelli ed al loro canto. "Rimane quindi vero che i suoni musicali si trovano dalla parte della cultura. È la linea di demarcazione fra cultura e natura che non segue più così esattamente, come si credeva non molto tempo fa, il tracciato di una di quelle linee che servono a distinguere l'umanità dall'animalità" (Cc 56). L'amore per lo schema supera qui qualsiasi altra considerazione. E d'altra parte ammettere, anche su un caso così minuto, che si possa aprire una crepa nello schema è un rischio troppo grosso per la tenuta dello schema stesso. 150 11. Musica, pittura ed il problema della doppia articolazione Ancora la differenza tra musica e pittura può essere utilizzata per introdurre la distinzione tra prima e seconda articolazione. Il colore appartiene alla natura - abbiamo detto - ed in questo senso può essere messo sullo stesso piano dei rumori. Di fronte a colori e rumori "l'uomo osserva lo stesso atteggiamento in quanto non permette loro di svincolarsi da un supporto" (Cc, p. 37). Ciò significa che l'"organizzazione dell'esperienza sensibile in oggetti" è una sorta di presupposto della pittura stessa, una sorta di terreno a partire dal quale la pittura opera. Nel linguaggio di Lévi-Strauss si tratta di un "primo livello di articolazione" che forma la base di un secondo livello che è quello della creazione artistica vera e propria. Ciò significa: è anzitutto necessario che l'esperienza sia articolata, cioè che le impressioni sensoriali si aggreghino per formare oggetti, ad es. una sedia, un letto in una stanza, una finestra. Colori e forme ineriscono direttamente a questi oggetti, ed hanno anzitutto senso per noi all'interno di questo riferimento: essi formano delle unità di base per la prassi pittorica. Nella rappresentazione pittorica si gioca creativamente su queste unità di base: sedia letto e finestra si presenteranno in un dipinto secondo un nuovo modo di articolazione che contrassegna l'intervento creativo del pittore. Ma il pittore presuppone nel dipinto la realtà stessa, esattamente nel senso in cui il poeta presuppone il linguaggio corrente sul quale ed anche contro il quale interviene imponendo nuovi ambiti di rapporti significativi. Alla luce di questi sviluppi i cenni precedenti sulla pittura "astratta" tendono ad assumere un peso inaspettato. È chiaro infatti che se il problema prende questa piega alla pittura "figurativa" spetterebbe inevitabilmente una sorta di privilegio. L'accento cade sulla raffiguratività, non già come se la pittura figurativa fosse mera imitazione, ma per il fatto che l'opera costruisce un senso e questa costruzione ha bisogno di poggiare su elementi che, prima di essere inseriti dentro il dipinto, non sono pittoricamene significanti, pur essendo "articolati". Si tratta di una distinzione che a sua volta poggia su un modello linguistico: secondo questo modello le unità di senso, esem- 151 pio, una parola, il morfema, presuppone degli elementi ultimi che sono i suoni costituenti, i fonemi, i quali sono privi di senso, ma sono anche anche il risultato di una selezione rispetto alla totalità dei suoni a disposizione. Questo modello sembra chiaramente applicabile anzitutto alla pittura figurativa: le cose in genere sono unità pittoricamente non significanti e tuttavia solidamente costituite, per dir così, come oggetti. In Lévi-Strauss, che ha già contestato il fondamento dell'analogia tra pittura astratta e musica, si fa strada un vero e proprio rifiuto della pittura astratta, per quanto ciò susciti una certa sorpresa. Si tratta tuttavia di un rifiuto a cui occorre riconoscere una certa coerenza. Se infatti si prendono le mosse dall'assunto che i colori siano entità naturali, cosa che implica la loro altrettanto naturale inerenza all'oggetto, il pretendere, come fa l'astrazione pittorica, di riportare sulla tela unicamente un gioco di colori vuol dire rinunciare a quel primo livello di articolazione che è condizione per l'istituzione dei significati di secondo livello, vuol dire pretendere di "accontentarsi del secondo livello per sussistere" che è pretesa manifestamente assurda, se consideriamo la pittura secondo il modello linguistico proposto. Forse si dovrebbe dire che ci si accontenta del primo livello come se fosse il secondo, in quanto non si esibirebbe un dipinto, ma al più una cosa dipinta. Ciò vale secondo Lévi-Strauss non solo per i colori, ma anche per l'altro elemento che può essere giocato all'interno dell'astrazione pittorica, l'elemento delle forme. Anche la forma è data anzitutto in relazione alla cosa, ed un'arte di sole forme, di forme pure, sarebbe - dice testualmente Lévi-Strauss - "puramente decorativa"; ed addirittura "esangue" (Cc, p. 37). Una pittura che si affidi unicamente ai valori plastici proporrebbe forme che "non esistono già su un altro piano ove fruirebbero di un'organizzazione sistematica… nulla permette di identificarle come forme elementari: si tratta piuttosto di creature del capriccio grazie alle quali ci si abbandona ad una parodia combinatoria con unità che non sono tali" (Cc, p. 38). Anche in questo caso certo non si può evitare di sottolineare quanto poco il modello linguistico fornisca strumenti efficaci per un approccio adeguato in questo ambito di problemi, ed al contrario sia veicolo di puri e semplici pregiudizi. Le forme non possono essere identificate come "forme elementari" - cioè non possono essere identificate come "fonemi": ma che discorso è mai questo! E di conseguenza manca- 152 no di consistenza oggettiva… (Ma perché mai dovrei cercare nella pittura qualcosa di simile ai "fonemi"?). Le osservazioni sulla pittura calligrafica cinese conferma questo orientamento: in questo stile pittorico il materiale di base è fornito da ideogrammi, quindi da complessi segnici destinati alla scrittura, benché essi non intervengano come tali nell'opera grafica che ha carattere paesaggistico. Questi segni calligrafici sono un altro buon esempio di ciò che Lévi-Strauss intende con primo livello di articolazione: essi hanno infatti "un'esistenza propria in qualità di segni, destinati da un sistema di scrittura ad assolvere altre funzioni" (Cc, p. 39); si tratta dunque di unità oggettivamente prestabilite, e come tali le trova il pittore. Vogliamo ora considerare da questo punto di vista il problema della musica. Parlando dell'emozione musicale, abbiamo già messo in evidenza il rapporto con la corporeità. Ora, la nostra attenzione deve spostarsi verso il materiale della musica, i suoni, che, come sappiamo, nell'accezione di "suoni ad altezza determinata" appartengono secondo Lévi-Strauss all'ambito culturale, piuttosto che a quello naturale. Questa distinzione deve essere ora giocata all'interno del problema della doppia articolazione. Il primo livello di articolazione è rappresentato appunto dalla selezione dei suoni nelle scale e nella gerarchizzazione dei suoni nei vari ordinamenti scalari. Ciascun sistema scalare proprio in quanto ha un'articolazione può costituire da condizione di significato per una elaborazione di secondo livello, che è il piano vero e proprio dell'opera musicale. L'analogia sembra qui essere impiegata con particolare stringenza. Se prendiamo una lingua qualunque noteremo che i suoi fondamenti fonologici (fonemi) sono relativamente ristretti rispetto alle nostre possibilità di emissione sonora. L'apprendimento di una lingua nella prima infanzia consiste proprio in questa selezione dei suoni all'interno del balbettio infantile che è aperto ad un ambito molto ampio di possibilità. E come i fonemi anche i suoni come tali possono essere considerati relativamente senza significato, ma anche come condizioni del significato. Il tema della culturalità del primo livello di articolazione nel caso della musica subisce tuttavia alcune precise e significative limitazioni. È chiaro che insistendo fortemente su questa appartenenza 153 alla cultura si insiste anche sugli aspetti relativistici e convenzionalistici degli stessi fondamenti delle opere musicali, degli stili, dei sistemi musicali in genere. La stessa metafora del linguaggio in rapporto alla musica è spesso assunta proprio in funzione delle sue valenze convenzionalistiche. L'arbitrarietà del rapporto tra segno linguistico e cosa significato attraverso di esso - un tema antico ripreso e ribadito da de Saussure - avrebbe da questo punto di vista un valore esemplare. Su questo punto Lévi-Strauss fa valere una posizione più sottile, anche se non priva di ambiguità e di qualche oscurità. Egli sostiene infatti che una volta riconosciuto che, a differenza della pittura, il primo livello di articolazione nella musica è essenzialmente dovuto alla cultura, occorre anche riconoscere che, non appena lo si instaura, "questo ordine esplicita delle proprietà naturali" e che nonostante la relatività di ogni sistema scalare, "rimane pur vero che ogni sistema… si basa su proprietà fisiche e fisiologiche". Di conseguenza "la musica presuppone un'organizzazione naturale dell'esperienza sensibile", anche se "ciò non equivale a dire che la subisce" (Cc, p. 40). Affermazioni come queste tendono evidentemente a limitare una forma di convenzionalismo estremo. Vi sono determinate proprietà fisiche dei suoni - e questo è un fatto che riguarda appunto la natura: ma queste proprietà fisiche possono essere impieate in modi essenzialmente diversi all'interno di questo o quel linguaggio musicale, e questo riguarda la convenzione. Si tratta dunque di un tentativo - interessante, anche se rimane uno spunto scarsamente elaborato - di "superare la falsa antinomia tra l'oggettivismo di Rameau e il convenzionalismo dei moderni" (Cc, p. 40). Del resto già nell'Antropologia strutturale (p. 234) si accenna alla necessità di rivedere il problema dell'arbitrarietà dei segni linguistici. L'ancoramento della musica nel naturale, che era già stato affermato per l'aspetto ritmico-temporale, trova modo di essere ribadito anche per quanto riguarda il materiale sonoro. Il primo livello di articolazione contiene comunque una componente naturale, gli elementi resi significativi ad un secondo livello debbono essere già organizzati in un sistema che "ingloba talune proprietà di un sistema naturale… che istituisce le condizioni a priori della comunicazione" (Cc, p. 44). 154 12. Contro la "musica concreta" Questo riconoscimento peraltro non si spinge sino ai suoni naturali per eccellenza, ai rumori. Ciò riguarda un problema di coerenza teorica interna. Che il rumore debba essere escluso dalla composizione musicale è implicito nel modo in cui la nozione di rumore viene proposta all'interno della tematica della doppia articolazione. Proprio negli anni in cui Lévi-Strauss scriveva le proprie opere il dibattito intorno al rumore nella musica era molto vivo in particolare in ambito francese. Sotto il nome di "musica concreta" si sperimentava una pratica che consisteva essenzialmente nella registrazione di suoni tratti dall'ambiente che venivano poi variamente manipolati, tagliati, filtrati in laboratorio e riproposti in questa rielaborazione. Di norma in questa manipolazione il rumore originario risulta irriconoscibile, ovvero viene tagliato il rapporto "normale", "quotidiano" tra il fatto acustico come tale e la cosa o la situazione nella quale esso è stato generato. Alla musica concreta fa esplicito riferimento Levi Strauss quando osserva che essa "si assoggetta al confronto diretto con certi dati naturali", adoperandosi anzitutto a "disintegrare il sistema delle significazioni attuali o virtuali (cioè quotidiane) in cui questi dati figurano a titolo di elementi". Così facendo la musica concreta compirebbe, sul piano musicale, esattamente la stessa operazione che la pittura astratta compie sul piano pittorico. La pittura astratta infatti taglia in nodo tra forma e colore e le cose che hanno colori e forme, proponendo il dato naturale come tale sulla tela: in questo modo la pittura astratta cercava di fare a meno della "organizzazione dell'esperienza sensibile in oggetti" che funge nella pittura da primo livello di articolazione. Analogamente la musica concreta utilizza i rumori, ma li manipola in modo da renderli "insignificanti", in modo cioè da sottrarre il loro carattere di segno (segnale) - sopprimendo dunque ciò che potrebbe valere come primo livello di articolazione. Seguendo la logica del proprio discorso, Lévi-Strauss arriva ad affermare - in piena 155 antitesi che con le idee dei promotori della musica concreta - che attraverso il rumore si potrebbe raggiungere un livello di espressione sensata qualora si mantenesse l'elemento di segno, qualora cioè un determinato rumore fosse percpito come rumore di una frenata di un'automobile, come fischio di un treno ecc. In tal caso infatti si disporrebbe di una prima articolazione che consentirebbe forse di instaurare un sistema di segni "mediante l'intervento di una seconda articolazione". Si tratterebbe di un sistema poverissimo, ma che comunque rispetterebbe alcune condizioni importanti della musica come linguaggio. Di contro rinunciando al rapporto rappresentativo risulta "impossibile definire dei rapporti semplici che formino un sistema già significativo su un altro priano e che siano in grado di fungere da sostrato di una seconda articolazione. Per quanto si inebri dell'illusione di parlare, la musica concreta non fa altro che annaspare in prossimità del senso" (Cc, p. 42). In questa critica dell'impiego musicale del rumore, appare particolarmente evidente la fondamentale importanza del riferimento linguistico. Il rumore come tale non può essere all'origine ed al fondamento di un linguaggio. E la musica in generale deve essere linguaggio. 13. Forme musicali e forme del mito In rapporto ai titoli "musicali" delle intitolazioni del Crudo e il cotto, forse conviene mettere in evidenza il fatto che essi richiamano, con poche eccezioni, a forme, nel senso musicale del termine, a volte in modo un po' generico (ad es. Sinfonia breve), a volte invece in modo assolutamente stretto (ad es. Doppio canone rovesciato). In realtà proprio nella problematica della forma risulterebbe, secondo Lévi-Strauss, con particolare evidenza l'affinità profonda tra musica e mito: il 156 racconto mitico, quando sia messo in evidenza nelle sue componenti strutturali rivela caratteristiche analoghe con alcune importanti forme musicali. Cosicché: "il confronto con la sonata, la sinfonia, la cantata, il preludio, la fuga, ecc. permetteva di accertare facilmente che in musica erano sorti dei problemi di costruzione analoghi a quelli sollevati dall'analisi dei miti" (Cc, p. 31). Si noti come una simile affermazione ci impegni già di per se stessa ad una enfatizzazione della necessità della forma, così come in certo senso della sua profondità. Infatti viene condotta qui una duplice operazione. Da un lato si mostra che un determinato complesso di racconti mitici ha la stessa struttura, ad esempio, di un rondò (Cc, p. 147), il che non sembra affatto in linea di principio impossibile, visto che il rondò, come dice il termine, ha grosso modo una struttura circolare. Ma un simile rilievo sarebbe piuttosto insignificante se tutto ciò che abbiamo detto intorno al problema dei rapporti tra musica e mito e in genere sull'analisi strutturale del mito non facesse sentire su di essa tutto il suo peso. Pesano in particolare tutte le affermazioni sulla generalità del progetto analitico proposto, sul fatto che in questo progetto ne vadano di mezzo le operazioni della mente, i "recinti mentali", così come modi di organizzazione che affondano nell'inconscio. Con tutti questi pesi, il reperimento di una forma di rondò nel racconto mitico appare come una sorta di conferma del livello profondo a cui si spingerebbero sia la musica che il mito: la forma di rondò non è appunto unicamente una proposta di costruzione del materiale musicale, che ha le sue determinatezze storiche e le sue motivazioni formali e culturali - sulle quali a noi sembrerebbe giusto attirare anzitutto l'attenzione -, ma ha radici in quelle profondità strutturali a cui attinge anche il mito. Nel Finale questo tema viene ripreso, rivolgendosi al lato del problema che rinvia ad una dimensione storica, ma in modo tale, purtroppo, da aggiungere nuovi pesi ad uno sviluppo del problema già piuttosto greve. Intanto è ancora fermamente presente in questo testo l'insistenza sul rapporto tra musica e mito attraverso il problema della forma. 157 "Avevamo intitolato 'fuga' la sezione de Il crudo e il cotto dedicato ai miti sudamericani della vita breve, e questo accostamento (uno fra vari altri) della struttura dei miti a certe forme musicali doveva suscitare tante alzate di spalle. Eppure non vi era in questo niente di arbitrario e l'analisi delle versioni nordamericane non farebbero che confermare, se mai ce ne fosse bisogno, la tesi secondo cui la musica occidentale ha scoperto in ritardo e ripreso per conto suo, trasferendoli in un altro registro, certi tipi di costruzione che già da millenni i miti utilizzavano con forme pienamente elaborate" (Un, p. 167). A questo passo segue poi una descrizione piuttosto analitica di una struttura mitica in termini strettamente musicali, e precisamente nei termini dei momenti costitutivi che caratterizzano proprio la forma della fuga. Una spiegazione semplificata che però mi sembra illustri molto bene la natura del problema viene esposta in poche righe nello scritto Mito e significato in un passo che conviene citare per intero: "È davvero impressionante constatare come la fuga, quale venne formalizzata nell'epoca di Bach, sia una rappresentazione quanto mai realistica del funzionamento di alcuni particolari miti. Parlo dei miti in cui abbiamo due personaggi o due gruppi di personaggi che, semplificando molto, potremmo descrivere come uno buono e l'altro cattivo. La storia narrata nel mito è basata sui tentativi che un gruppo di personaggi compie per fuggire e salvarsi dall'altro gruppo; un gruppo quiindi dà la caccia all'altro e talvolta il gruppo A riesce a raggiungere il gruppo B, talvolta invece il gruppo B scappa - proprio come in una fuga musicale. Abbiamo quello che in francese si dice "le sujet et la reponse". L'antitesi continua per tutta la vicenda, finché i due gruppi sono quasi amalgamati e confusi - come avvie nello stretto della fuga. La soluzione finale o l'acme di questo conflitto è rappresentata dalla conciliazione dei due principi che erano contrapposti per tutta la durata del mito. Può trattarsi di un conflitto tra le potenze celesti e i poteri terreni, tra il cielo e la terra, o fra il sole e le forze degli inferi, e così via. La soluzione mitica della conciliazione assomiglia molto nella struttura agli accordi che risolvono e concludono il brano musicale, poiché anch'essi operano una conciliazione di estremi che vengono finalmente per una volta riuniti. Si potrebbe anche dimostrare che alcuni miti, o gruppi di miti sono costruiti come una sonata, o una sinfonia, o un rondò o una toccata o una qualsiasi delle forme musicali che la musica in effetti non ha inventato, ma 158 preso inconsapevolmente a prestito dalla struttura del mito" (Ms, p. 62). 14. La musica come erede del mito Posto in questo modo, il tema del rapporto tra musica e mito deve in ogni caso ricevere una qualche determinazione storica. Infatti qui non si dice soltanto che la musica si spinge sino alle profondità del mito, ma che il mito anticipa la musica nell'impiego di determinate forme e si suggerisce anche che la musica eredita dal mito queste forme quando lo spazio di azione e l'efficacia del mito tende ad indebolirsi. Mito e musica vengono così prospettate come due grandi modi di manifestazione dello spirito la cui connessione si rivela soprattutto nel senso dello sviluppo e dell'avvicendamento dialettico. Ora dobbiamo dire: la musica è erede del mito. Ed allora dobbiamo proporre qualcosa di simile ad una storicizzazione, dobbiamo parlare, ad esempio proprio di musica occidentale, dal momento che, a quanto sembra, le forme ereditate dal mito sono appunto le forme della musica occidentale, e non ad esempio quelle della musica indiana; e ciò non basta ancora, dal momento che solo alcune di queste forme sono per Lévi-Strauss particolarmente significative. In particolare, questo trapasso del mito nella musica corrisponde all'incirca all'età in cui si impone nella musica proprio questta forma, la fuga, una forma che "esiste pienamente costituita nei miti, nei quali la musica avrebbe potuto da sempre andare a cercarla" (Un, p. 615). Ci troviamo dunque tra la fine del cinquecento e il seicento pieno ed oltre. Questa è anche la grande epoca in cui avanza il pensiero scientifico e in cui regredisce il pensiero mitico. Ciò che prima era mito tende a diventare semplice produzione letteraria, romanzo e racconto. In quest'epoca dunque 159 "la musica assume le strutture del pensiero mitico… è quindi necessario che il mito in quanto tale morisse perché la sua forma uscisse fuori come l'anima che si separa dal corpo, e andasse a chiedere alla musica il modo per reincarnarsi". "… è come se la musica e la letteratura si fossero divise l'eredità del mito"(ivi). Questa visione del problema tende ormai a diventare tutta filosofica, rammentando addirittura, e molto da vicino, un modo di pensare hegeliano e spingendosi sino ad una sorta di tentativo di localizzazione storico-dialettica della propria grande impresa di interpretazione del mito stesso. Fin dall'inizio Lévi-Strauss aveva messo in evidenza che la propria indagine deve essere intesa come depurata da qualunque intromissione soggettiva, l'idea di un'indagine governata da un rigoroso oggettivismo ha quasi il carattere di una idea fissa. A maggior ragione fa un singolare effetto vedere come questo tema sia ingoiato, quasi come per una giusta legge del contrappasso, da questa apparentemente improvvisa impennata filosofica. Ciò che ora si sostiene, proprio nel ricordo di questo oggettivismo, non è affatto che Lévi-Strauss ha fornito una interessante interpretazione del mito, ma che è lo stesso pensiero mitico che ha avuto la compiacenza di pensarsi e di rendersi esplicito nella testa del Lévi-Strauss. "se il fine ultimo dell'antropologia è quello di contribuire ad una migliore conoscenza del pensiero oggettivato e dei suoi meccanismi, è in definitiva la stessa cosa che, in questo libro, il pensiero degli indigeni sudamericani prenda forma sotto l'azione del mio o il mio sotto l'azione del loro. Ciò che importa è che lo spirito umano, senza riguardo all'identità dei suoi messi occasionali, vi manifesti una struttura sempre più intelligibile a mano a mano che si sviluppa il procedimento doppiamente riflessivo di due pensieri che agiscono l'uno sull'altro o ognuno dei quali, di volta in volta può essre la miccia o la scintilla dal cui avvicinamento scaturirà la loro comune illuminazione" (Cc, p. 29-30) E sempre più oltre: come l'emergere della musica occidentale moderna dal mito ha richiesto la soppressione del mito, così la presa di coscienza attuale del mito attraverso l'opera di Lévi-Strauss richiede in qualche modo l'eclissi della musica, o quanto meno il divorzio tra musica e mito. Così la musica dei nostri giorni, secondo LéviStrauss - ed egli pensa soprattutto alla musica seriale tra gli anni cinquanta e sessanta - è certamente lontana dal mito, cosa che vuol 160 forse dire che la sua capacità di suscitare un'emozione musicale è diventata problematica. In ogni caso vi sarebbe per Lévi-Strauss "un rapporto di correlazione e di opposizione tra il mio tentativo di recupero dei miti e i tentativi della musica contemporanea che, dalla rivoluzione seriale in poi, si sarebbe definitivamente separata da essi" (Un, 616). E sulla musica seriale ancora: "Oggi stiamo assistendo alla scomparsa del romanzo. E può dirsi che quanto avvenne nel XVII secolo quando la musica rilevò la struttura e la funzione della mitologia, si stia verificando di nuovo, nel senso che la cosiddetta musica seriale ha sostituito il romanzo come genere nel momento i cui esso sparisce dalla scena letteraria" (MS, 67). 15. Contro la musica seriale I precedenti accenni al serialismo hanno un'inflessione tendenzialmente negativa. Ed in effetti proprio nella Ouverture, ma poi anche nel Finale, Lévi-Strauss ritiene di dover intervenire in direzione nettamente critica nei confronti del serialismo integrale - una linea di tendenza che trovava in Francia uno sviluppo sia sul piano teorico che su quello musicale proprio negli anni in cui Lévi-Strauss andava elaborando la propria posizione. E ciò è tanto più rimarchevole per il fatto che entro quest'area si muovono musicisti che sono influenzati direttamente dallo strutturalismo linguistico e dallo stesso strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss, o che si riconoscono comunqe in un ambito di idee molto prossimo ad esso. In Pensare la musica oggi, del 1963, (trad. it. di L. Bonino Savarino, Einaudi, Torino 1979, p. 27), Boulez ritiene di potersi richiamare proprio a Lévi-Strauss per ciò che riguarda la nozione di struttura. Fra le sorprese che ci riservano questi sviluppi della tematica di Lévi-Strauss vi è anche questa sua presa di posizione critica. Essa peraltro si inserisce in un'impostazione complessiva che denuncia una certa difficoltà a stabilire un approccio ad una buona parte dell'arte novecentesca in genere. Ad esempio, nell'anno 1964, anno di pubblicazione de Il crudo e il cotto, esprimersi nei confronti della pittura astratta come di una pittura degradata, come mera de- 161 corazione, mostra quanto meno una simile difficoltà di approccio se non una vera e propria cecità verso un aspetto così importante e significativo dell'arte novecentesca, che per di più in quegli anni era da considerarsi da tempo come storicamente acquisito. Per ciò che concerne la musica le ultime prese di posizioni confermano ciò che cominciavamo a sospettare, nel procedere della nostra esposizione: quando Lévi-Strauss dice "la musica" intende sempre la musica europea, anzi una determinata fase di sviluppo della musica europea. Ma il mettere in rilievo questo punto ha un'importanza tutt'altro che secondaria, tenendo conto del modo in cui si viene prospettando il problema del rapporto tra musica e mito. Basterà qui osservare come l'antropologo Levi Strauss che di tutto si potrà accusare tranne che di eurocentrismo, non avverta come una circostanza alquanto singolare il fatto che la struttura dei racconti mitici di antiche e primitive popolazioni sudamericane venga ereditata ed in certo senso anche rivelata da ignari organisti al servisio di signori o prelati importanti, nel cuore della cultura europea cinque-seicentesca. È anche degno di nota il fatto che un così fervido interesse per la musica non si traduca affatto in un interesse per la musica selvaggia - non vi è nemmeno l'ombra di una curiosità verso di essa, e quindi la dimostrazione eclatante di un profondo disinteresse. A questi problemi, si aggiunge certamente l'atteggiamento di Lévi-Strauss verso lo strutturalismo musicale. Va notato che, a sua volta, il musicista strutturalista ha un atteggiamento fortemente critico nei confronti della musica concreta - basti considerare la voce scritta da Boulez Musica concreta per l'Enciclopedia Fasquelle, pubblicata nelle Note di apprendistato (1966) (trad. it. di P. Thévenin, Einaudi, Torino 1968). Del resto egli concepisce l'attività compositiva come una realizzazione dentro i materiali musicali di modelli relazionali più o meno complessi, e ammette l'impiego musicali di suoni e rumori "in funzione delle strutture formali che li utilizzano" (Pensare la musica oggi, p. 38). E tuttavia Lévi-Strauss ritiene di poter obiettare anche nei confronti della musica seriale che essa si illude di poter operare su "un unico livello di articolazione" (Cc, p. 44), un' illusione che viene definita caratteristicamente l'utopia del secolo (ivi). La ragione di ciò sta nel fatto che il musicista strutturalista ritiene di poter operare in assoluta libertà sul materiale sonoro creando forme a piacere e pertanto prescindendo da un possibile 162 ancoraggio naturale che diventa nella musica seriale "precario, se non assente" (Cc, p. 45), e quindi da un ambito di presignificanze che è, come sappiamo, una condizione del senso. In particolare egli cita un passo di Boulez nel quale si dice che nella musica seriale "non c'è più scala preconcetta, non ci sono più forme preconcette, cioè strutture generali nelle quali si inserisce un pensiero particolare" (Boulez, citato in Cc, p. 43). E naturalmente Lévi-Strauss attacca proprio la negazione di forme che stiano al di là della particolarità del brano, l'accento posto negativamente sull'esistenza di "strutture generali". Per usare la terminologia a suo tempo introdotta, qui si tenderebbe a sopprimere la langue a favore della parole. Ma una parola senza lingua è un progetto assurdo: "Soprattutto ci si deve chiedere che cosa accada in una tale concezione del primo livello di articolazione, indispensabile al linguaggio musicale, come ad ogni linguaggio, e che consiste proprio in strutture generali le quali permettono, in quanto sono comuni, la codificazione e la decodificazione di messaggi particolari" (Cc, pp. 43-44). In queste considerazioni è anche implicita una richiesta di fondazione che lo strutturalismo musicale rifiuta in linea di principio. Questo rifiuto sembra a Lévi-Strauss bene illustrato da un'altra frase di Boulez: "Il pensiero tonale classico è fondato su un universo definito dalla gravitazione e dall'attrazione, il pensiero seriale su un universo in perpetua espansione" (Cc, p. 43). Nel caso della musica della tradizione, il materiale sonoro si muove secondo una dinamica di regole che lo fanno convergere verso un centro stabile, mentre nel caso della musica seriale, l'organizzazione è data di volta in volta dalla libera elaborazione del compositore, le strutture sono strettamente relative all'oggetto sonoro che di volta in volta il compositore pone in essere. Ed è proprio questa assenza, anzi questo rifiuto del problema della fondazione che risulta inaccettabile per Lévi-Strauss. Ciò è del tutto coerente con le considerazioni sull'ancoraggio naturale, che si ripresentano in questo contesto, e con le osservazioni orientate in direzione anticonvenzionalistica che assumono ora una particolare accentuazione e fanno sentire tutto il loro peso. Lo stesso rapporto tra musica e mito deve essere infine riconsiderato entro questo quadro. Le forme musicali della 163 tradizione non sono affatto arbitrarie, proprio in quanto "ciò che la musica e la mitologia chiamano in cuasa negli ascoltatori sono certe strutture mentali comuni" (Cc, 47). Strutture mentali che sono inconsce: "Il primo livello consiste di rapporti reali, ma inconsci, rapporti che debbono a questi due attributi il fatto di poter funzionare senza essere conosciuti o correttamente interpretati" (Cc, p. 44). Musica concreta e musica seriale soggiacciono così ad una critica comune benché l'una insista più sulla materia sonora, l'altra invece sugli aspetti essenzialmente formali dell'attività compositiva. Nella musica seriale in particolare i poli della natura e della cultura tendono a contrapporsi l'uno all'altro, invece che fondersi insieme, e questa contrapposizione entra anche nella produzione musicale con il suo duplice interesse per gli aspetti timbrici, che sono più strettamente connessi alla materialità, e per la vocalità, che è invece legata al linguaggio articolato ed all'origine stessa del suono. Ma della musica seriale si può dire in ogni caso ciò che si è già detto per la pittura astratta e per la musica concreta: "Solo in modo ideologico il sistema può essere paragonato ad un linguaggio" (Cc, p. 44). Ciò che caratterizza questo preteso linguaggio è il suo sradicamento. L'immagine di una nave senza vela che dovrebbe perciò restare in porto e che invece viene lanciata in alto mare illustra molto bene il senso di queste critiche: "Nave senza velatura, che il suo capitano, insofferente del fatto che essa serva da pontone avrebbe lanciato in alto mare, nell'intima persuasione che, sottoponendo la vita di bordo alle regole di un minuzioso protocollo, potrà distogliere l'equipaggio dalla nostalgia di un porto fidato e dal desiderio di una destinazione…" (Cc, p. 45). E dopo questa immagine, come in un lampo, si esclama: "Del resto non contesteremo che questa scelta sia stata dettata dalla miseria dei tempi" (Cc, p. 45). È un lampo che illumina l'atmosfera pessimistica che grava su queste pagine. Questo elogio dello sradicamento è dovuto alla miseria dei tempi. Ed anche se in questo viaggio in alto mare si approdasse su nuove sponde, più feconde di quelle del passato, tuttavia ciò sarà: 164 "all'insaputa dei naviganti e contro il loro volere"; infatti per costoro "non si tratta di vogare verso altre terre, anche se la loro posizione fosse ignota, e la loro esistenza ipotetica. Il rovesciamento che si propone è molto più radicale. Solo il viaggio è reale, non la terra, e le rotte sono sostituite dalle regole della navigazione" (Cc, p. 45). La nave che naviga sempre più lontano senza una mèta è una variante della metafora di Boulez dell'universo in espansione, con la differenza che essa è impiegata da Lévi-Strauss in senso negativo. Questa critica culmina poi con alcune considerazioni sul rapporto con l'ascoltatore. In fin dei conti questo modo di proporre il problema della composizione ha un tacito corollario che riguarda proprio l'ascoltatore, e più in generale il problema della comprensione. Questo tema è qui indirettamente presente, anche se non in primo piano. La domanda è: che cosa può voler dire comprendere quando si sia alla presenza di un prodotto che si presenti in linea di principio come risultato di un atto creativo rigorosamene individuale? Per comprendere, in questa condizione, si dovrebbe essere partecipi allo stesso atto creativo: sembra che la musica seriale in quanto nega all'ascoltatore "la facoltà di riferirsi inconsciamente ad un sistema generale", avanzi la pretesa che egli debba "riprodurre per proprio conto l'atto individuale di creazione", cosicché la differenza tra l'inventare la musica e l'ascoltarla non sarà più di natura, ma di grado" (Cc, p. 46). Ma si tratta di una pretesa assurda. È molto più probabile per Lévi-Strauss che l'ascoltatore non solo non entri dentro lo slancio creativo dell'opera musicale, ma perda ogni contatto con essa: la metafora della musica come "universo in espansione" potrebbe essere intesa in tutt'altro modo: la musica non trascina l'ascoltatore nella propria traiettoria, ma al contario essa si allontana progressivamente e definitivamente da lui. Fino a "perdersi sotto la volta notturna del silenzio ove gli uomini non la riconosceranno se non da brevi e fuggevoli bagliori" (ivi). Si prospetta così quella possibilità di una eclissi della musica, come un tema che era già emerso in connessione con quello dell'autocoscienza mitica. Lo strutturalismo filosofico - per caratterizzare in questo modo gli aspetti filosofici dello strutturalismo di Lévi-Strauss - prende così posizione contro lo strutturalismo musicale. Il richiamo dello strutturalista a strutture generali rappresenta anche un richia- 165 mo ad un "fondamento oggettivo al di qua della coscienza e del pensiero", mentre nel caso della musica seriale l'accento cade interamente ed escslusivamente sulla musica stessa come "opera cosciente dello spirito ed affermazione della sua libertà" (Cc, p. 47). Di conseguenza, nonostante tutti i meriti che si possono riconoscere alla musica seriale, lo strutturalismo musicale deve essere distinto dallo strutturalismo filosofico, a maggior ragione per il fatto che si può riconoscere qualche tratto comune: e precisamente "un approccio risolutamente intellettuale, la preponderanza degli ordinamenti sistematici, la sfiducia nei confronti delle soluzioni meccanicistiche ed empiristiche" (Cc, p. 48). Ma a parte questi tratti comuni, le posizioni sono addirittura agli antipodi (Cc, p. 48). Non manca una frecciata polemica, per così dire, tutta ideologica. Lo strutturalismo musicale è paragonabile al libertinismo settecentesco proprio per la polemica antifondazionalistica ed antidogmatica - con la differenza "che è il pensiero strutturale a difendere i colori del materialismo" (Cc, p. 48). In altri termini: l'antidogmatismo non preserva lo strutturalismo musicale da atteggiamenti misticheggianti o a sfondo religioso. Si può ipotizzare un'allusione a Stockhausen, e forse anche a Messiaen che, per certi aspetti (peraltro piuttosto limitati rispetto alla sua posizione complessiva), poteva essere rivendicato nell'alveo dello strutturalismo musicale. Il giudizio nei confronti dello strutturalismo musicale rimane invariato anche gli anni successivi a Il crudo e il cotto. Nel Finale si insiste tuttavia in particolare su un aspetto che nell'Ouverture aveva una presenza relativamente marginale. Evidentemente, quando Lévi-Strauss parla del capitano che, pur guardandosi bene dall'indicare una rotta, sottopone comunque "la vita di bordo alle regole di un minuzioso protocollo" oppure quando osserva che "le rotte sono sostituite dalle regole di navigazione", egli attacca lateralmente anche un rigorismo ed un formalismo fine a se stesso e privo di scopo. Proprio questo spunto polemico ora viene ripreso e precisato. Lévi-Strauss cominciare con l'osservare che i musicisti hanno sempre saputo che l'attività compositiva consiste essenzialmente nell'apprestamento e nella manipolazione di strutture. E Lévi-Strauss individua due modi in generale di operare su di esse: si possono 166 proporre strutture "giustapponendole" le une alle altre, intendendo con giustapposizione sia il puro affiancamento sia la sovrapposizione, entrambe prive di necessità interna; oppure si può dare ad una sequenza di strutture la forma di uno sviluppo. Secondo Lévi-Strauss la tendenza ad una pura giustapposizione ha finito con il sostituirsi all'idea dello sviluppo; ed a questa tendenza si è affiancata la tendenza che nella musica seriale appare particolarmente spinta e spesso apertamente teorizzata "a dissociare la fase dell'elaborazione delle strutture da quella fino a quel momento confusa con la prima in cui le strutture sono chiamate a ricevere un supporto sensibile" (Un, p. 614). Con ciò si attua una dissociazione di quell'unità che dà alla musica la sua autentica ragion d'essere: l'elemento "intellettuale" e "relazionale" appare proposto come un puro elemento "logico" che può crescere o essere proposto al di fuori del materiale sensibile nel quale riceve un abito puramente occasionale o fortuito: "si attenua il legame tra forma e suono, e lo stesso sistema sensibile diventa uno dei tanti mezzi possibili per codificare strutture intelligibili che non sono state precedentemente concepite dalla fantasia come sistema di suoni" (Un, p. 614). Ma se questa unità tra elemento intellettuale ed elemento sensibile viene a mancare, allora è il caso di chiedersi se possiamo ancora parlare di musica oppue se non sia il caso di parlare di antimusica, ovvero di contropartita di ciò che si chiamava una volta musica. Questa contropartita "consisterebbe quindi in certe strutture di significato lasciate in sospeso, non fosse altro teoricamente, in attesa che dei suoni si investano in esse. Formula questa che corrisponde abbastasnza esattamente a certi tentativi che, a torto o a ragione, dànno l'impressione di codificare con suoni certi sistemi di significato concepiti e organizzati prima della loro trasposizione in forma musicale" (ivi). Lévi-Strauss sottolinea che il fatto che si parli di antimusica non implica alcun rilievo valutativo, come se si dicesse: ci limitiamo solo a constatare che questi sviluppi propongono una nozione di musica che si trova agli antipodi di ciò che una volta, in passato, chiamavamo musica. Si potrebbe forse osservare che questo non sarebbe altro che un modo di mettersi al riparo dalle obiezioni più facili. 167 Tuttavia mi sembra più giusto segnalare che queste osservazioni di Lévi-Strauss sembrano almeno in parte indipendenti dalla cornice in cui sono inserite, e che oggi in cui le ovvietà avanguardistiche di una volta sono state sostituite da un atteggiamento più problematico e riflessivo, esse meritano di essere prese in considerazione come un dibattito d'epoca che può forse essere messo a fuoco oggi meglio di allora. Risulta certo particolarmente chiaro dalla nostra esposizione come Lévi-Strauss sia legato alla tradizione musicale di tradizione europea e come sia in ogni caso importante attenersi a questa tradizione per far valere il rapporto tra musica e mito nel modo in cui egli lo fa valere - e naturalmente senza che ciò implichi la sua validità anche sotto questo riguardo. Ma questa voce di dissenso, all'interno di un pensare comune, non può essere fatta semplicemente tacere con le solite accuse di nostalgia passatista e di rifiuto del nuovo, con cui si è così spesso semplicemente soppressa la produttiva fecondità del dubbio non solo nelle cose della filosofia. Critiche per molti versi simili nello spirito a quelle di Lévi-Strauss erano già state formulate fin dal 1959 da Nicolas Ruwet, un autore che, come abbiamo già notato è interessato allo strutturalismo ed alla semiologia in campo musicale, in un saggio intitolato Contradictions du langage sériel - anche se la critica principale di Ruwet è piuttosto quella secondo cui la musica seriale "rischia una ricaduta allo stadio indifferenziato della pura natura, come se la musica rinunciasse a creare un linguaggio…". Si tratta in ogni caso di fare agire contro i serialisti l'idea della musica come linguaggio: essi "non hanno avuto una coscienza abbastanza netta di che cosa significhi il fatto che la musica sia linguaggio" (op. cit. pp. 24-25). Sulla posizione di Ruwet e in generale sul serialismo musicale si rimanda al volume di Mario Campanino, Il martello e il maestro. Serialità e linguaggio musicale nella poetica di Pierre Boulez, Quaderni di M/R, LIM, 2000. 168 16. Wagner e l'analisi strutturale del mito L'ultimo capitolo di Mito e significato (1978), il quinto, è intitolato "Il mito e la musica". La sua utilità sta nel fatto che esso riprende e riassume in modo drasticamente abbreviato alcuni dei temi principli della posizone espressa nella Ouverture e nel Finale della Mitologica. Ribadita l'importanza del problema, LéviStrauss osserva che tra musica e mito vi è un rapporto di somiglianza e di contiguità temporale strettamente connessi tra loro. "Però - continua Lévi-Strauss - non lo compresi subito: quel che mi colpì innanzi tutto fu il rapporto di somiglianza" (Ms, p. 57); e rammenta in proposito l'esempio della partitura che si presenta nell'Antropologia strutturale. La prima idea, tenendo conto di quell'analogia, è che il significato fondamentale del mito "non è trasmesso dalla sequenza di eventi, ma di fasci di eventi, anche se questi eventi appaiono in momenti diversi della storia". L'aspetto che Lévi-Strauss indica come "rapporto di contiguità" tra musica e mito è in realtà niente altro che ciò che abbiamo chiamato alternanza dialettica tra musica e mito. Questo aspetto storico-filosofico è qui sottolineato in breve ma con particolare evidenza: "Non fu una musica genericamente intesa quella che rilevò la funzione tradizionale della mitologia, bensì la musica che comparve nella civiltà occidentale nel primo Seicento con Frescobaldi e nel primo Settecento con Bach e raggiunge il pieno sviluppo nei secoli XVIII e XIX con Mozart, Beethoven e Wagner" (MS, p. 59). "L'ho già detto, ma vorrei ribadirlo: il parallelo che ho cercato di tracciare si attaglia, per quanto ne so, esclusivamente alla musica occidentale sviluppatasi negli ultimi secoli" (ivi, p. 66). L'attenzione che merita questo breve saggio non sta tuttavia in questi sintetiche riprese di tematiche trattate più diffusamente altrove, 169 ma nel fatto che esso ci consente di attirare l'attenzione su una questione che, pur essendo presente sia nella Ouverture che nel Finale, non era del tutto facile da presentare sulla base solo di quei testi. Si tratta propriamente della presenza sullo sfondo di tutta la tetralogia antropologica di un'altra tetralogia, quella di Richard Wagner. Vi è certo qui un personale motivo di gusto - ciò non viene affatto tenuto nascosto, anzi questo aspetto personale si riflette apertamente e con qualche compiacimento sull'opera intera. In Mito e significato, Lévi-Strauss rammenta il proprio sogno infantile di diventare da grande un compositore o almeno un direttore d'orchestra (p. 66), e nell'Uomo nudo arriva ad affermare che l'intero progetto della Mitologica sorge da intenti musicali frustrati (Un, p. 612). Per quel che riguarda Wagner viene anche rammentato l'infatuazione giovanile che si mantenne come una sorta di "invariante nella propria storia personale", anche dopo l'ascolto di autori come Debussy e Strawinsky (Cc, p. 32). Ma al di là di questi dettagli biografici, il richiamo a Wagner ha delle ragioni interne alle tematiche sviluppate. Wagner - dice perentoriamente Lévi-Strauss nella Ouverture - "è il padre irrecusabile dell'analisi strutturale dei miti": e non sembra poco! "Quando dunque suggerivamo che l'analisi dei miti era paragonabile a quella di una grande partitura, ci limitavamo a trarre la conseguenza logica della scoperta wagneriana che la struttura dei miti si rivela per mezzo di una partitura" (Cc, p. 32). Nel Finale, in un'ottica filosofico- storica, si considera Wagner come una sorta di punto culminante dello sviluppo musicale nel quale la musica prende coscienza del proprio rapporto strutturale con il mito (Un, p. 616). Se a Wagner spetta una posizione così significativa dentro il proprio quadro problematico e di conseguenza dentro il quadro di sviluppo della musica occidentale, ciò non è dovuto certamente al puro e semplice dato di fatto dell'argomento mitico delle sue opere. Evidentemente il problema è più profondo, riguarda il modo in cui si realizza l'unità tra musica e mito. A tal fine abbiamo bisogno di qualche indicazione in più che ci vengono appunto dalle poche pagine di Mito e significato. Anzitutto si richiama l'attenzione, non a caso, sull'invenzione wagneriana del Leitmotiv, il cui scopo è quello di operare nessi musicali e di contenuto tra i diversi eventi delle narrazione mitica. Appare già di qui che il Leitmotiv ha anche caratteristiche che lo rendono 170 particolarmente adatto a rappresentare sul piano musicale quella funzione di raccoglimento degli eventi in fasci di eventi che è il compito dell'interprete del mito. A titolo di esempi Lévi-Strauss rammenta il tema della rinuncia all'amore Questo tema viene formulato per la prima volta ne L'oro del Reno quando l'ondina Woglinde rammenta la condizione per il possesso dell'oro - la rinuncia all'amore - e lo stesso tema si ripresenta naturalmente nella maledizione pronunciata da Alberich. Nella Valchiria questo stesso tema ricompare quando Sigmund dichiara il proprio amore alla sorella Sigliende e quando Wotan condanna la figlia Brunilde al lungo sonno da cui sarò destata solo da Sigfrido. In questo caso vi sono dunque quattro eventi differenti nel contenuto, e che tuttavia sono presentati da un unico motivo che è appropriato in nei primi due casi, del tutto inappropriato nel terzo caso, e di assai dubbia appropriatezza nel quarto, se non si vuol banalmente intendere l'azione di Wotan come una rinuncia all'amore nei confronti della figlia Brunilde. Questi eventi, la cui unità è sottolineata dal motivo, andranno in ogni caso disposti "in una unica colonna". Tra essi vi deve essere un'affinità strutturale che sfugge alla superficie. In questo caso l'affinità sta - spiega Lévi-Strauss - nel fatto che qualcosa deve essere "strappato da ciò a cui è legato" - l'oro, dunque, dalle profondità del Reno, la spada conficcata nell'albero, la stessa Brunilde che dovrà essere strappata dal sonno e dalle fiamme da cui è circondata. Esempio suggestivo, indubbiamente - anche se non è facile vedere quale senso possa avere al di fuori della sua capacità di illustrare l'idea di un'"analisi musicale" dei nessi mitici nella quale sono implicati tutti i presupposti della posizione di Lévi-Strauss. - Su Wagner, Levi-Strauss ritorna anche nella raccolta di saggi Le regard éloigné (trad. it. di P. Levi, Lo guardo da lontano, Plon, Parigi 1983), in particolare cap. XVII (Da Chrétien de Troyes a Richard Wagner) e nella Nota sulla Tetralogia, pp. 267 sgg. 171 17. Cromatismo e veleni. Vi è un altro interessante riferimento wagneriano nel Crudo e il cotto su cui vorrei conclusivamente soffermarmi. Esso si trova al termine del capitolo intitolato Composizione cromatica. Le ragioni di questo riferimento musicale nel titolo non sono subito evidenti, ma diventano chiare verso la fine del capitolo. Esso si apre e si sviluppa discutendo ed analizzando un complesso di racconti mitici il cui tema, variamente elaborato, è quello del veleno da pesca, con equalche riferimento al veleno da caccia - in generale dunque di un veleno utile per procacciare il cibo agli uomini. Occorre intanto sapere che i nostri selvaggi (siamo tra i Bororo) conoscono una tecnica piuttosto sofisticata di pesca, che consiste "nel soffocare i pesci gettando in acqua mozziconi grossolamente tritati di piante di specie diverse, per lo più liane… la cui linfa disciolta previene, per ragioni probabilmente fisiche l'alimentazione di ossigeno dell'apparato respiratorio" (Cc, p. 334). Sull'origine del veleno da pesca vi è tutto un complesso di racconti mitici che vengono attentamente analizzati e confrontati da Lévi-Strauss che mette in luce una serie piuttosto complicata di motivi, sui quali ovviamente non indugeremo. Ci basterà indicare quei motivi che sono per noi direttamente interessanti sulla base di un'unica variante, molto breve (indica con la sigla M144, Cc, p. 340). Una donna affida il proprio figlio ad una volpe affinché lo allevi; ma la volpe, urtata dai pianti del bambino, lo cede ad un tapiro femmina. Questa non solo alleva il bambino, ma quando è diventata grande se lo sposa. Rimasta incinta, essa chiede di essere uccisa dal marito, mentre il figlio viene salvato. Ora, il padre del bambino 172 scopre che ogni volta che il bambino viene lavato nel fiume, molti pesci muoiono, cosicché il veleno da pesca viene assimilato direttamente alla sporcizia del bambino ovvero al bambino stesso. In effetti il racconto narra anche che il bambino si trasforma nella pianta da cui si estrae il veleno. Questa breve storia contiene i temi essenziali che è opportuno mettere in evidenza. Intanto vi è il tema generale della natura e della cultura. Il racconto mitico riguarda anzitutto un modo di procacciarsi il cibo attraverso una pratica sociale in realtà precisamente regolamentata, dal momento che la pesca avviene secondo determinate regole che riguardano in particolare la suddivisione del lavoro tra maschi e femmine. Se consideriamo l'atto di procacciarsi il cibo da questo punto di vista ci troviamo sul piano della cultura. Il cibo è inoltre un animale, il pesce. Ma il mezzo di procacciarsi il cibo è un vegetale, un veleno - che rispetto alla tecniche normali (culturali) della pesca rappresenta un sovvertimento, per la violenza con cui opera. Ciò per Lévi-Strauss indica che il veleno appartiene al campo dei significati "naturali". In tutte le varianti del racconto un tema ribadito è la congiunzione tra uomo e animale. Il marito della femmina del tapiro è appunto un uomo. Questa congiunzione contiene il tema del contatto tra l'animale come elemento naturale e l'uomo in quanto produttore di cultura. Cosicché il veleno mortale è figlio dell'unione tra natura e cultura e nello stesso tempo dell'atto di seduzione che è presupposto di questa unione. Quest'ultimo aspetto è confermato da altre varianti, nelle quali l'assimilazione del veleno alla sporcizia ha un significato sessuale. Veleno e seduzione si ripresenta con chiarezza in un altro mito che riguarda l'origine del curaro, secondo il quale un uomo si innamora di una scimmia che ha assunto sembianze di donna. Ma egli riceverà poi da un'aquila le istruzioni per fare il curaro con il quale si vendicherà delle scimmie. Ma in che modo da queste storie di pesci, tapiri e veleni si giunge a Wagner o comunque ad un ambito connesso con il musicale? Vediamo dunque i commenti di Levi Strauss. Egli nota in primo luogo che in questo mito non si tratta semplicemente di illustrare il passaggio da natura a cultura, ma di mostrare un punto in cui il momento naturale come quello culturale sono quasi confusi tra lo- 173 ro, o comunque sono strettamente intrecciati, quasi aggrovigliati l'uno all'altro: "Si direbbe che, per giungere al veleno, i miti debbono tutti passare per una specie di varco, la cui angustia avvicina singolarmente la natura alla cultura, l'animalità e l'umanità" (Cc, p. 357) Spesso accade che in varianti del mito le parti siano invertite, ad esempio che l'uomo sia al servizio dell'animale in una sorta di inversione di ruoli: ma queste inversioni e modificazioni mostrano che: "la natura e la cultura, l'anmalità e l'umanità divengono reciprocamente permeabili. Si passa liberamente e senza ostacoli da una sfera all'altra… queste due sfere si mescolano a tal punto che ogni termine dell'una evoca immediatamente un termine correlativo nell'altra, in quanto essi sono in grado di significarsi reciprocamente" (ivi). Da un lato dunque il veleno richiede una prossimità tra natura e cultura, quindi un piccolo intervallo tra essi; dall'altro esso viene inteso dal mito come una sorta di "intrusione della natura nella cultura". "Esso è infatti una sosta sostanza naturale che viene ad inserirsi come tale in un'attività culturale… Il veleno è incomparabilmente più potente dell'uomo e dei mezzi ordinari di cui questi dispone, amplifica il suo gesto ed anticipa i suoi effetti, agisce più rapidamente e con maggiore efficacia" (ivi, p. 358). La natura dunque penetra momentaneamente nella cultura "per alcuni istanti si svolgerebbe un'operazione congiunta, nella quale le rispettive parti diverrebbero indiscernibili" (ivi). "Se abbiamo correttamente interpretato la filosofia indigena, l'uso del veleno apparirà come un atto culturale generato direttamente da una proprietà naturale… punto di isormofismo tra natura e cultura, risultante dalla loro compenetrazione" (ivi). A questo punto si dovrebbe comprendere anche la connessione con il tema della seduzione. "Il seduttore (nella misura in cui viene descritto unicamente come tale) è un essere privo di statuto sociale in rapporto alla sua condotta… un essere che agisce unicamente in virtù delle sue determinazioni naturali, come la bellezza fisica e la potenza sessuale, per sovvertire l'ordine sociale del matrimonio. Pertanto rappresenta anch'esso l'intrusione violenta dalla natura nel cuore stesso della cultura" (ivi). Nello stesso contesto viene considerata l'interpretazione mitica del- 174 l'arcobaleno - posto come una unità originaria (continuità) da cui hanno origine per frazionamento le specie viventi (mito contrassegnato con la sigla M. 145); ma che mostra anche una connessione con il veleno da pesca in quanto - attraverso mediazioni che qui non è il caso di riferire - fonte di malattie epidemiche. Siamo ormai prossimi al nucleo delle spiegazioni che stiamo cercando: il veleno si propone in una duplice prospettiva: da un lato come "piccolo intervallo" tra natura e cultura - "nella nozione che gli indigeni si fanno del veleno di origine vegetale, l'intervallo tra natura e cultura, che certo esiste sempre e ovunque, si trova ridotto al minimo". Dall'altro come intrusione della continuità che caratterizza l'elemento naturale, alla discretezza che è propria invece dell'elemento umano culturale, come intrusione, per dirla tutta, e - io confesso - con un certo sforzo, del cromatico nel diatonico. "Dietro questa giustapposizione di temi apparentemente eterocliti si percepisce confusamente all'opera una dialettica dei piccoli e dei grandi intervalli o, per attingere al linguaggio musicale due termini confacenti, una dialettica del cromatico e del diatonico. Tutto avviene come se il pensiero sudamericano… attribuisse al cromatismo una specie di nequizia originaria, e tale che i grandi intervalli - indispensabili alla cultura perché essa esista, ed alla natura perché essa sia pensabile per l'uomo - non possono risultare se non dall'autodistruzione di un continuo primitivo, la cui potenza si fa sempre sentire nei rari punti in cui esso è sopravvissuto…" (Cc, p. 363). "Continueremo a citare Rousseau per mostrare che la concezione sudamericana del cromatismo (pensato anzitutto in termini di codice visivo) non ha nulla di bizzarro e di esotico, giacché, a partire da Platone e da Aristotele, gli occidentali manifestano nei suoi confronti (ma questa volta sul piano musicale) una diffidenza simile, e gli attribuiscono la stessa ambiguità: associandolo come fanno gli Indios del Brasile nel caso dell'arcobaleno alla sofferenza ed al dolore: 'Il genere cromatico è ammirevole per esprimere il dolore e l'afflizione: ascendendo i suoi suoni rafforzati strappano il cuore. Esso è altrettanto emergico discendendo: si crede allora di udire dei veri gemiti… Del resto, più questo genere ha energia, meno deve essere prodigato. Simile a quelle vivande delicate la cui abbondanza ben presto disgusta, esso incanta se viene usato sobriamente, così come diviene stucchevole qualora si ecceda'" (Cc, p. 364). 175 Fa dunque parte della coerenza del discorso di Lévi-Strauss attribuire al cromatico musicale la manifestazione inconscia della naturalità e dell'animalità, della pura istintualità rinnovando il dramma che in varie forme si ripresenta nel mito. Giunti a questo punto si presenta infine sommessamente, ma anche energicamente, nuovamente il problema Wagner: dal punto di vista musicale il cromatismo ha una sua manifestazione espressiva culminante nel Tristano. Ma a quale storia è legata questo momento puramente musicale? Ad una storia che comincia dal veleno. Isolde vuole vendicarsi di Tristano e tenta di avvelenarlo e di avvelenarsi. Ma il veleno viene scambiato con il filtro d'amore dell'ancella Brangania: al tema del veleno subentra quello della seduzione, ed insieme ad esso il motivo della trasgressione. Ora, veleno e seduttore "ci sono apparsi come due modalità del regno dei piccoli intervalli" e ciò "sta appunto a convincerci che il filtro d'amore e il filtro di morte sono intercambiabili per motivi che esulano dalla semplice opportunità e ci invita a riflettere sulle cause profonde del cromatismo del Tristano" (Cc, p. 364). Anche questo tema ha una notevole efficacia illustrativa del modo di pensare di Lévi-Strauss, ed è stato qui citato soprattutto per fornire un altro esempio della sua concezione del rapporto tra musica e mito. Naturalmente io penso che il problema musicale del cromatismo debba essere indagato soprattutto ed anzitutto in inerenza al materiale sonoro e questo vale anche per le eventuali valorizzazioni immaginative che ad esso possono essere inerenti. Così io non credo che vi sia bisogno di trovare, né nel pensiero selvaggio sudamericano né nella tradizione della musica colta europea e nella sua teoria, una conferma che il cromatismo si trovi dal lato della continuità e che in questa, intesa nella sua concretezza di fatto uditivo, vi siano latenze espressive orientate verso le regioni notturne dell'emotività, dell'istintualità e dell'erotismo piuttosto che verso le regioni solari di una ragione che chiarifica, classifica e distingue. Si tratta di latenze non nel senso che siano celate allo sguardo, ma nel senso che sono da intendere come pure potenzialità che non sono nulla finché non sono determinatamente attualizzate e la cui attualizzazione può avvenire in un gran numero di modi, secondo contesti e progetti espressivi differenti. Questo sarebbe un modo assai diverso di porre l'intero problema, che qui viene invece affrontato mettendo subito le mani dentro profondità inaudite e facendo subentrare alle sintesi dell'im- 176 maginazione che sono qui in gioco l'operare per principio oscuro e inesplicabile di funzioni inconsce. Sorprende inoltre che, qui come altrove, si tenti di far valere relazioni simboliche tra forme espressive da un lato ed oggetti o eventi dall'altro. Lo strutturalismo linguistico di Lévy-Strauss, così impegnato a mostrare l'importanza delle relazioni e dei rapporti formali rispetto agli elementi contenutistici, riportato sul piano musicale trova l'interesse della forma solo se essa resta legata a contenuti particolarmente pesanti. Se si parla di cromatismo si parla necessariamente anche di veleni. In questa direzione del resto spinge fin dall'inizio uno strutturalismo che assume nel linguaggio verbale il suo modello. Da un lato l'esistenza di un elemento "grammaticale" sembra porre l'accento sull'elemento sintattico-formale, dall'altro gli scopi comunicativi del linguaggio tendono invece a spostarlo sul versante dei contenuti del discorso. In questo stile di analisi l'elemento propriamente narrativo, la sequenzialità della narrrazione viene certamente dissolta; ma al suo posto subentrano blocchi di oggetti o di eventi che vengono correlati direttamente alle forme dell'espressione musicale. Questi legami vengono inesorabilmente annodati nell'inconscio che resta in ultima analisi il responsabile della capacità espressiva e della coerenza interna dell'opera: e dall'inconscio essi riemergono, sulla base di leggi misteriose e in abiti differenti, ora nella foresta amazzonica nell'aura atemporale del mito ora nell'Europa ottocentesca in una fase determinata della storia della sua musica; ora come narrazione da decifrare, ora come opera musicale il cui autore ha peraltro il solo merito di essere stato, con la pretesa inconsapevolezza del genio, portatore di un'eredità che egli non sapeva nemmeno di possedere. Ciò non toglie certo che il percorso delineato da Levi Strauss sia seducente e ricco di pensiero - di questo ci auguriamo che la nostra esposizione sia riuscita, nonostante tutte le istanze critiche seminate nel suo corso, a rendergli giustizia. 177 Giovanni Piana La serie delle serie dodecafoniche e il triangolo di Sarngadeva 1 0 0 0 0 0 0 1 2 6 24 120 720 4 12 48 240 1440 18 72 360 2160 96 480 2880 600 3600 4320 2000 178 Parte prima 1. Che cosa è il "triangolo" di Sarngadeva 2. Commenti Parte seconda 1.La serie dodecafonica concepita a partire dal triangolo di Sarngadeva 2. Discussione 179 Parte prima 1. Che cosa è il "triangolo" di Sarngadeva Nel trattato intitolato Oceano della musica (Sangitaratnakara) [1] uno dei più importanti testi classici della tradizione teorico-musicale indiana, Sarngadeva propone un'interessante digressione matematica sulla quale ci vogliamo anzitutto soffermare[2]. Nella sezione quarta del capitolo primo [3] Sarngadeva si propone raccogliere in una un'unità tutte le permutazioni possibili delle sette note della scala sagrama illustrando anche un metodo pratico per il loro completo dominio. Precisamente si tratta di realizzare una duplice operazione: da un lato, ad ogni permutazione deve poter essere associato un numero, dall'altro deve essere possibile"estrarre" da un determinato numero - ovviamente compreso tra 1 e il numero massimo di permutazioni possibili - la permutazione ad esso associata. Volendo dare una idea della procedura proposta, faremo riferimento alla terminologia delle sette note della scala Sagrama i cui nomi sono: Sa Ri Ga Ma Pa Da Ni La grandezza degli intervalli è del tutto priva di importanza per il nostro problema, e da essa possiamo quindi prescindere. Data dunque una qualunque "variante" di queste sette note, ad esempio: Ma Pa Ri Ga Sa Ni Da dobbiamo essere in grado di assegnare ad essa un numero. E dovrà essere poi possibile "espandere" questo numero in quella "variante". Per indicare la direzione che procede dalla serie di note al numero Sarngadeva parla di una via o problema uddista [4] e di una via o problema nasta [5] per indicare la direzione inversa, dal numero alla serie. Lo schema teorico che sta alla base della soluzione di questi problemi non viene dichiarata, mentre ci viene insegnato un metodo pratico che conduce direttamente e semplicemente al risultato voluto, come una sorta di gioco da realizzarsi con dei gettoni da di- 180 sporre e da muovere su una apposita scacchiera numerica. La scacchiera altro non è che una matrice numerica triangolare - ciò che noi vogliamo chiamare in breve "triangolo di Sarngadeva" . Il suo vero nome è Khandameru, che viene tradotto con "permutation-indicator" . 1 0 0 0 0 0 0 1 2 6 24 120 720 4 12 48 240 1440 18 72 360 2160 96 480 2880 600 3600 4320 Nella prima riga, che è formata da sette caselle, la prima casella contiene 1 e tutte le altre 0. Le caselle della seconda riga sono riempite, nell'ordine, dai fattoriali dei numeri da 1 a 6. Tutte le altre righe sono riempite moltiplicando di volta in volta per 2, per 3, per 4, per 5 e per 6 il numero contenuto nelle caselle corrispondenti della seconda riga. Così il numero 4320 dell'ultima casella è 720 * 6. Sul modo di "giocare" su questa scacchiera, a dire il vero, Sarngadeva offre indicazioni piuttosto criptiche e più che succinte[6]. D'altronde le spiegazioni che troviamo nel commento alla traduzione inglese sono, al contrario, anche troppo prolisse e non fanno facilmente intravvedere lo schema costruttivo di base. In realtà per venirne a capo senza troppe difficoltà, credo sia invece opportuno schematizzare la procedura pensando ad una sua possibile formalizzazione. 181 Sia Seq una sequenza di note e NumSeq il numero corrispondente. Il punto essenziale è che il passaggio nelle due direzioni tra Seq e NumSeq Seq ↔ NumSeq è mediato dalla formazione di due liste che chiameremo, usando una terminologia nostra, la lista degli indici di spostamento di posizione, sia S, e la lista dei costituenti del numero della sequenza, sia C. Il processo uddista sarà dunque schematizzabile nel modo seguente: Seq → S → C → NumSeq Il processo nasta invece: NumSeq → C → S → Seq Tenendo presente questo schema potremo anche renderci facilmente conto del modo in cui si esegue il gioco con il "triangolo" . A questo scopo converrà prendersi qualche innocua libertà che renda ancora più agevole l'esecuzione. Sarngadeva suggerisce ad esempio di operare con dei gettoni o dei sassolini. Ma si potrebbe servirsi anche di anelli - che hanno il vantaggio di occupare le caselle della scacchiera lasciando visibile il numero che vi è scritto all'interno. I gettoni ci serveranno invece, una volta debitamente contrassegnati con i nomi delle note, per indicare la successione normale e le sue varianti combinatorie. Ne abbiamo dunque bisogno due serie di sette. Al di sopra della scacchiera triangolare, disporremo infine due righe di sette caselle che ospiteranno i nostri gettoni. Queste sono appunto alcune libertà che ci prendiamo La nostra scacchiera si presenterà nel modo seguente: 182 1 0 0 0 0 0 0 1 2 6 24 120 720 4 12 48 240 1440 18 72 360 2160 96 480 2880 600 3600 4320 Nella riga superiore porremo i gettoni nell'ordine della forma normale della sequenza di note, a partire dalla quale sarà possibile identificare gli spostamenti intervenuti nel passaggio alla forma modificata, che verrà invece proposta nella riga inferiore. Nella via uddista, il primo passo Seq->S, potrà essere realizzato operando sulle prime due righe. Sia la forma normale Sa Ri Ga Ma Pa Da Ni e sia la forma modificata, a titolo di esempio: Ri Sa Ma Ga Pa Da Ni SA RI GA MA PA DA NI RI SA MA GA PA DA NI 183 Per determinare la lista degli indici di spostamento si procederà prendendo in considerazione l'ultima sillaba delle forma modificata. Si conteranno i posti da destra a sinistra, includendo gli estremi, fino a raggiungere la stessa sillaba nella linea superiore, cancellando di volta in volta la sillaba raggiunta (ovvero: sopprimendo il gettone corrispondente). Il numero risultante dal conteggio rappresenterà un indice di spostamento di cui prenderemo nota a parte. Si sopprimerà poi il posto vuoto sulla riga superiore stringendo i gettoni sulla destra. Nel caso in cui non vi sia spostamento si attribuirà 1 come valore dell'indice di spostamento. Procedendo in questo modo sull'esempio si ottiene la seguente lista degli indici di spostamento di posizione S = {1, 1, 1, 2, 1, 2, 1} Questi numeri possono essere interpretati come indicatori di riga nella matrice triangolare: ad essi si può associare, da sinistra a destra, l'indicatore di colonna da 7 ad 1, ottenendo così coppie di numeri come indicatori di caselle. 1,7 1,6 1,5 2,4 1,3 2,2 1,1 Andando a leggere i valori contrassegnati nelle caselle corrispondenti da destra a sinistra otteniamo la sequenza di numeri C = {0, 0, 0, 6, 0, 1, 1} che abbiamo chiamato lista dei costituenti del numero della sequenza: in effetti il numero da assegnare alla sequenza modificata è pari al risultato della loro somma. NumSeq = 8 Dal punto di vista del gioco con i gettoni e gli anelli, risulterà comodo fondere insieme i due processi. Una volta ottenuto un certo indice di spostamento, ad es. 2, si scenderà di due passi sulla colonna della matrice triangolare che si trova sotto la lettera che è stata spostata e si porrà sulla casella così raggiunta un anello, con 1 si scenderà di un passo, ecc. Non vi sarà dunque bisogna di prendere nota degli indici di posizione perché questi vengono immediatamente utilizzati per identificare le caselle. Alla fine tutti i sette anelli saranno stati disposti sulle caselle dalle quali potranno essere letti i valori della lista dei costituenti. La posizione iniziale prevederà dunque solo i gettoni nelle prime due righe. Nella posizione finale i gettoni saranno ancora presenti nella seconda riga presentando la 184 forma modificata e gli anelli saranno stati distribuiti sulle caselle. 1 0 0 0 0 0 0 1 2 6 24 120 720 4 12 48 240 1440 18 72 360 2160 96 480 2880 600 3600 4320 Nel caso della via nasta, dovremo a partire dal numero della sequenza (NumSeq) trovare anzitutto la lista dei suoi costituenti (C): poiché si assume che questa lista sia stata tratta da quella degli indici di spostamento si potrà riottenere quest'ultima (S), e di qui la forma permutata della sequenza di note (Seq) corrispondente a quel numero. Converrà ora seguire una via direttamente esemplificativa. Sia 18 il numero dato. Il primo passo consiste nel togliere 1 da 18. Otteniamo il numero 17. Ricorriamo ora alla matrice triangolare e cerchiamo in essa, procedendo da destra a sinistra, un numero minore di 17. Naturalmente potrebbero esservi vari numeri minori di 17. Noi prenderemo il maggiore di essi. Verrà considerato maggiore dei minori anche il numero stesso qualora venisse trovato nella matrice. Nella casella identificata in questo modo porremo uno dei nostri anelli. Occorre poi tener conto della seguente regola: ogni colonna eventualmente saltata dovrà essere contrassegnata con un 185 anello disposto sulla casella corrispondente nella prima riga. Nell'esempio, il maggiore dei minori di 17 risulta essere il 12, sul quale porremo uno dei nostri anelli. Poiché tuttavia le prime tre colonne sono state saltate, sugli zeri delle colonne corrispondenti nelle prime righe avremo posto tre anelli. Si farà poi la differenza tra 17 e 12 (ovvero tra il risultato dalla differenza precedente (181=17) e il numero trovato in tabella), ottenendo 5 e poi si procederà nello stesso modo cercando nella matrice il maggiore dei minori di 5. Verrà così contrassegnato con un anello la casella che contiene il numero 4, e poi operando nello stesso modo (5-4=1) porremo un anello sulla casella della seconda riga che contiene un 1. L'ultimo passo consisterà unicamente nell'occupare con un anello la prima casella della prima riga che contiene 1. Abbiamo dunque contrassegnato con gli anelli sette caselle. Se andiamo a leggere i numeri nelle caselle contrassegnate dagli anelli otteniamo la sequenza C, che rappresenta una sorta di "analisi" di Numseq. Si tratta propriamente di C = {0, 0, 0, 12, 4, 1, 1} A questo punto il passaggio a S diventa semplice. Basterà raccogliere i numeri di riga in cui si trovano gli anelli. Questi numeri ci forniscono la lista degli indici di spostamento: S ={1,1, 1, 3, 3, 2, 1} Prendiamo ora i gettoni, e disponiamo la forma normale nella riga superiore. Procediamo su di essa considerandola a partire dall'ultima sillaba, mentre la lista degli indici verrà considerata da sinistra a destra. Alla sillaba Ni viene assegnato l'indice di posizione 1, cosicché non subirà alcuno spostamento e verrà trasferita nella riga inferiore. Analogamente per Da e Pa. Ogni volta si potrà per chiarezza stringere a destra i gettoni della riga superiore togliendo i vuoti. Trovando 3 come indice di posizione si conteranno tre posizioni da destra a sinistra nella riga superiore, si accosterà il gettone Ri ai tre gettoni già disposti sulla riga inferiore e così via. Alla fine si otterrà nella riga inferiore la forma modificata corrispondente al numero 18, ovvero 186 Ma Ga Sa Ri Pa Da Ni Come nel caso precedente, giocando con i gettoni e gli anelli, si fonderanno i due momenti. Dopo aver disposto i gettoni nella forma normale nella riga superiore si opererà di passo in passo, prima disponendo l'anello e poi operando lo spostamento richiesto dal numero di riga, riportando di volta in volta il gettone dalla riga superiore a quella inferiore, secondo la procedura spiegata or ora. Come abbiamo osservato, vi è qualcosa da guadagnare nel ripensare la procedura proposta da Sarngdeva nella prospettiva di una formalizzazione puramente calcolistica. Se poi realizzassimo questa formalizzazione, andremo naturalmente al di là di tutti i dettagli pratici relativi ad anelli ed a gettoni e avremo fra le mani niente altro che un calcolo, che nella sua versione informatizzata potrà fornirci i risultati in modo automatico. Si potrà allora vedere ancora meglio che la procedura Nasta, che fin qui abbiamo considerato come una sorta di "analisi" di un numero "rappresentativo" di un ordine da "estrarre" da esso, può invece essere intesa anche come una procedura di derivazione di tutte le permutazioni possibili di una lista di oggetti, nella quale ogni permutazione, come è necessario trattandosi di un calcolo, occupa una posizione esattamente determinata. Il numero d'ordine che una permutazione occupa in questa derivazione, e che quindi è in grado di identificarla univocamente, altro non è che ciò che abbiamo chiamato numero della sequenza. Se ad esempio attraverso la procedura Nasta produciamo gli ordini da 1 a 24, per una serie di quattro oggetti - si potrà naturlamente ancora trattare delle prime quattro note della nostra scala - sa ri ga ma - otteniamo appunto una lista che è la lista di tutte le sue permutazioni possibili. La prima nell'ordine (Numseq=1) avrà come indici di spostamento {1,1,1,1}, mentre l'ultima {4,3,2,1}. Alla base di tutta la questione vi è dunque l'idea di una successione ordinata di tutte le permutazioni possibili di una serie assunta come serie di base. E si può presentare il gioco con gettoni ed anelli sulla scacchiera triangolare come un modo per esplorarla [7]. 187 2. Commenti L'intera questione sembra avere più un interesse matematico che musicale. Così almeno ad un primo sguardo. Anzitutto, come abbiamo notato, la successione di note che abbiamo chiamato "normale" , non riveste una particolare importanza, ed abbiamo ritenuto di non dover neppure accennare all'eventuale struttura intervallare vera e propria. In luogo della scala sagrama potremmo benissimo porre la nostra scala di do maggiore. Abbiamo abbiamo anche suggerito che in fondo potremmo pensare piuttosto che alle note, ai loro nomi. Persino il significato musicale di questi nomi potrebbe non interessarci e in ogni caso non incidere sull'intera questione. In effetti si tratta di un problema posto per una successione di oggetti in genere, dove ciò che importa è solo l'ordine iniziale di successione, la forma della successione, dunque, e non la natura degli oggetti posti in successione. La presenza di questo algoritmo nel trattato di Sarngadeva sembra possa essere genericamente giustificata al più richiamandosi all'interesse che la filosofia e la scienza indiana mostrano ovunque per questo genere di problemi. Tuttavia io credo che occorra essere prudenti in questo genere di valutazioni. Nonostante la distanza che molto spesso la teoria musicale prende dalla pratica, vi è sempre una qualche dialettica interessante tra l'una e l'altra. La storia della musica è anche storia della teoria della musica, anche se si tratta di una circostanza che talvolta si tende a mettere molto in secondo piano. Per quanto la questione posta da Sarngadeva non sia in se stessa specificamente musicale, forse in essa potremmo scorgere alcuni aspetti che sono volti al versante della musica. In realtà., io sarei tentato di vedere questo interesse matematico per la permutazione del tutto coerente con una forma mentis che agisce in profondità anche sul terreno dell'immaginazione musicale. Anzi: forse siamo qui in presenza di un bellissimo esempio di come pensiero astratto e pensiero concreto - ovvero quel pensiero che si muove nei pressi della percezione e dell'immaginazione - siano fusi l'uno nell'altro, anziché essere reciprocamente indifferenti o addirittura ostili. A riflettere in questa direzione siamo stimolati da un bel libro scritto da Neill Sorrell in collaborazione con Ram Narayan - grande virtuoso del sarangi - intitolato Indian music in performance che si pre- 188 senta, come dice il sottotitolo come A practical introduction[8]. In realtà, anche in questo caso, la pratica ha molto da insegnare alla riflessione teorica. Apprendiamo così per l'apprendimento della tecnica del sarangi il maestro indica all'allievo "esercizi molto semplici con le istruzioni per praticarli giornalmente per un anno o più" [9]. Questi piccoli esercizi vengono chiamati palta e sono caratterizzati dall'impiego di un numero ristretto di note con eventuali ripetizioni del tipo La pratica vera e propria consiste nella variazione - da vari punti di vista (velocità, accentazione, legature, trasposizioni) - del motivo del palta considerato. È allora subito chiaro che i palta nella loro forma più semplice, senza ripetizioni di note, altro non sono che le permutazioni di un numero dato di note [10]. Questo riferimento al sistema completo delle permutazioni viene qui esplicitamente rammentato, e si fa notare che si si aggiungono le possibilità di modificazioni ritmiche, se si ammettono ripetizioni, varietà nei raggruppamenti e nelle accentazioni, ecc. si possono ottenere variazioni di un numero elevatissimo da un piccolo gruppo di note, anche da sole quattro note - "probabilmente la lunghezza e la complessità ideale per un palta di di questo tipo" [11]. Tutte le ventiquattro permutazioni corrispondenti alle prime quattro note della scala vengono indicate come una sorta di sistema di riferimento di base. La pratica con queste permutazioni consiste nella loro acquisizione completa attraverso l'esercizio, impiegandole anche nelle forme trasposte possibili nel registro dello strumento; quindi ciascuna permutazione viene modificata ammettendo la ripetizione di note appartenenti ad essa, ottenendo così elementi motivici un poco più ampi da riprendere anch'essi nelle loro trasposizioni. Nell'esempio seguente, un palta di tredici note viene ripetuto undici volte in trasposizioni ascendenti e discendenti di un grado. Come appare da questo esempio il termine di trasposizione non deve essere preso troppo alla lettera. 189 Esso potrà poi essere eseguito secondo una varietà di accentazioni, di legature e velocità secondo l'inventiva, l'estro e l'abilità del musicista. I palta potranno poi entrare all'interno di un particolare raga, o connettersi ad esso in varie forme, ed in questo modo ci si comincia a staccare dalla tecnica elementare ed ancora musicalmente indifferente per entrare senza soluzioni di continuità in un'elaborazione propriamente musicale. Ed è proprio la possibilità di questo passaggio dalla pratica di apprendimento dello strumento all'opera musicale eseguita in concerto - dalla practice alla performance - che rappresenta un elemento particolarmente ricco di significato per il concetto della musicalità che si va in questo modo profilando [12]. Si prendono le mosse da schemi motivici in certo senso "meccanici" e già dati in anticipo, da cui si potrebbe escludere il sospetto di qualunque creatività e apparentemente preordinati unicamente all'acquisizione di una pratica strumentale - ma ci si rende conto che il modo in cui questa pratica viene esercitata introduce direttamente a quella che qui viene definita "the essence of Indian performance" - essenza che consiste nella "costante variazione e nell'estensione di ciò che può sembrare un materiale relativamente esiguo" [13]. È in questa costante variazione che cresce e si sviluppa la capacità improvvisativa - l'apparente meccanicità è messa qui al servizio di un dominio del materiale su cui deve contare la genialità e la creatività musicale. Scrive ancora Neil Sorrell: "Il padroneggiamento di questo 190 genere di esercizio non solo migliora la tecnica, ma anche arricchisce il patrimonio di idee del musicista per l'improvvisazione, in quanto concentra la sua attenzione sull'abbondante potenzialità di un materiale tanto limitato... Non è un segreto per nessuno che la pratica di simili palta ha aiutato molti degli artisti più autorevoli a stabilire la loro fama come improvvisatori fluenti" [14]. Di qui possiamo anche trarre un'altra conseguenza interessante Proprio perché in ultima analisi è il musicista-interprete che prenderà ogni decisione, sulla base di strutture date, il pensiero che queste strutture siano in qualche modo precostituite, ed eventualmente addirittura pedantescamente numerate e distribuite in bell'ordine non disturba per nulla né il teorico né il musicista. Per il musicista si tratta infatti della delimitazione dello spazio entro cui si possono muovere le sue esplorazioni conoscitive e immaginative. Mentre il teorico potrà considerare come proprio compito precipuo il mettere ordine nell'esperienza musicale, operando classificazione e proponendo ordinamenti. In Sarngadeva è presente in particolare - facendo riferimento esclusivo al Kandhameru che in realtà deve essere considerato un dettaglio minimo all'interno della sua grande opera - l'idea di una sinossi compiuta e completamente dominabile di tutto ciò che è possibile fare, almeno a livello intervallare, con un tipo melodico di base, che è appunto fornito dalla scala sagrama. Come abbiamo visto or ora, sarebbe un errore ritenere che a partire di qui nulla si veda sul versante musicale. Ma resta naturalmente vero che, per quanto riguarda la precisa delimitazione del problema, l'aspetto calcolistico è prevalente. Ciò risulta chiaro se si confronta il Khandameru con altri progetti, di senso differente, in cui si fa tuttavia valere uno spirito sistematico altrettanto forte. Penso, ad esempio, al progetto di sistemazione dei raga proposto da Venkatamakhin nel XVII secolo, con riferimento alla musica carnatica. In effetti è ancora una forma mentis matematicocombinatoria, una forma mentis "aprioristica" , che presiede a questa sistemazione, ma scopo e problema sono interamente diversi. Nel caso di Venkatamakhin si tratta soprattutto di portare ordine nella molteplicità indeterminata dei raga di fatto impiegati nella realtà musicale dell'epoca, cercando di individuare un ristretto numero di raga a titolo di raga "fondamentali" . Ciò avviene attraverso una schematizzazione teorica della struttura dell'ottava in base alla 191 quale si determinano non più e non meno di settantadue raga, ciascuno dei quali riceverà un numero strettamente correlato all'ordine necessario della loro generazione. Ed anche in questo caso numero e forma di ordinamento sono connessi da un preciso algoritmo che consente l'associazione in entrambe le direzioni. In realtà il sistema non copriva affatto esaustivamente i raga effettivamente impiegati, ed anche per i raga in uso il punto importante è che potevano essere considerati, dal punto di vista teorico, come forme dedotte. Una simile sistemazione veniva proposta proposta per avere una sorta di metro della realtà empirica. Rispetto al Khandameru vi è dunque una significativa differenza. I settantadue tipi di raga di Venkatamakhin sono settantadue tipi melodici, e le loro differenze sono significative come tali. La schematizzazione teorica deve prendere le mosse da un modo di concepire l'ottava e da un pensiero di organizzazione delle varietà delle strutture intervallari conseguenti. L'ottava viene in effetti considerata come suddivisa in due tetracordi disgiunti, distinguendo poi tra raga con quarta "naturale" o quarta "diesizzata" . Poi si ragiona in modo puramente combinatorio individuando 6+6 possibilità di suddivisione per il tetracordo inferiore e 6 possibilità per il tetracordo superiore. A variare di posizione saranno naturalmente soltanto le due note intermedie dei tetracordi. Con ciò il numero complessivo dei raga è del tutto determinato (12 * 6 = 72) e non sarà difficile escogitare una procedura di associazione tra un numero ed una forma d'ordine. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una costruzione astratta, ma ciononostante non si può assolutamente prescindere da concetti musicali, quali sono le possibili differenze intervallari. Come abbiamo già notato invece, in rapporto al Khandameru, si può parlare di un unico tipo melodico, e poiché la questione è solo di permutazioni interne al tipo, si può arrivare ad astrarre dalla concettualità musicale per proporre la matrice come un metodo per il calcolo delle permutazioni per oggetti qualsivoglia. 192 Parte seconda 1. La serie dodecafonica concepita a partire dal triangolo di Sarngadeva Ma è tempo di passare oltre. Il titolo di questo saggio suggerisce di fare una sorta di salto mortale dal triangolo di Sarngadeva alle serie dodecafoniche. In realtà non appena viene operata una descrizione della matrice e delle procedure corrispondenti, la possibilità di una generalizzazione appare piuttosto evidente. Ed allora si è tentati dal chiedersi: non potremmo forse proporre la serie dodecafonica all'interno di una matrice allargata da sette a dodici posti? La sapienza storicistica respingerà forse questa tentazione quasi come una perversione, mentre io penso che a tentazioni di questo tipo ci si possa talvolta concedere per rimescolare le carte della teoria e come stimolo per una riflessione rinnovata. Il sistema di composizione con le dodici note è durato assai meno di quanto il suo autore avesse qualche volta osato sperare; mentre la teoria di quel sistema ci ha lasciato in eredità numerosi busillis sui quali è forse interessante continuare ancora un poco ad interrogarsi. Abbiamo detto che è indifferente utilizzare la matrice di Sarngadeva per la scala sagrama o per il nostro do maggiore. Non si dovrebbe in essa cambiare nemmeno una virgola. Per la serie dodecafonica occorre invece modificare qualcosa - ma soprattutto riflettere sui problemi che si affacciano non appena ci poniamo su questa strada. Vi è certo poco da dire sulle modificazioni da effettuare. Poiché abbiamo a che fare con dodici note, dovremo certo estendere corrispondentemente la nostra matrice e situare i valori nelle nuove caselle seguendo la regola generale della sua costruzione. Un primo problema tuttavia sorge subito per il fatto che la serie dodecafonica non è vincolata allo spazio dell'ottava - e il superamento dell'ottava non può in ogni caso essere previsto nel nostro sistema di conteggio. È dunque inevitabile che una qualunque serie dodecafonica venga considerata come "ridotta" entro l'ottava. La forma normale sarà di conseguenza rappresentata dalla "scala cromatica" ed ogni spostamento verrà misurato rispetto ad essa. Se accettiamo tutto ciò senza disscussione, allora potremo con i nostri 193 gettoni ed anelli, adeguatamente aumentati di numero, calcolare per ogni serie dodecafonica il numero ad esso associato ed inversamente. Inversamente, dato un numero inferiore al fattoriale di 12 potremo da esso cavare un ordine "dodecafonico" . Prendiamo ad esempio la serie che sta alla base del Quintetto per strumento a fiati op. 26 di Schönberg[15]: Operiamo anzitutto la riduzione entro l'ottava. A dire il vero, questa nozione non è affatto ovvia per il fatto che l'ottava entro cui operare la riduzione non è scritta per così dire nella serie stessa. Occorre perciò porsi su un terreno astratto, cosa che si può fare o utilizzando i nomi delle note nei quali non è contraddistinta nessuna altezza particolare oppure utilizzando numeri che contano le note e che indicano astrattamente la struttura intervallare. In tal caso si assumerà come innocua convenzione do = 1 (oppure do = 0). La forma normale potrà essere dunque rappresentata dalla lista di numeri {1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12) Di conseguenza la serie dell'op. 26 sarà rappresentata dalla lista seguente: {4, 8, 10, 12, 2, 1, 11, 3, 5, 7, 9, 6} A partire di qui, la matrice triangolare estesa a dodici posti (o una sua variante calcolistica), ci porta piuttosto speditamente, seguendo la via uddista, ad assegnare a quella serie dodecafonica il numero 252.026.617 come "numero di Sarngadeva" . Esso andrà poi inteso come indicante la posizione che quella serie occupa all'interno della serie delle 479.001.600 serie dodecafoniche possibili. Seguendo la via Nasta, si potrà poi ottenere dal numero 252.026.617 quella successione ordinata di numeri che rappresenta la serie stessa [16]. 194 2. Discussione A dire la verità, l'operazione che abbiamo or ora compiuta non è così innocua come sembra ad un primo sguardo. Si presentano subito diversi dubbi che a loro volta generano una discussione, non solo sul senso di ciò che abbiamo fatto, ma necessariamente sul senso di ciò che propriamente è una serie dodecafonica, come fatto musicale specifico e come "oggetto matematico" . Ed è appena il caso di dire che è questa discussione che ci interessa, non certamente la pura e semplice assegnazione di un numero ad una serie dodecafonica qualsiasi. Uno di questi argomenti lo abbiamo già sfiorato in precedenza nella questione della riduzione della serie entro l'ottava. Quando si parla di serie originale o di serie fondamentale nella terminologia dodecafonica si intende un "pensiero musicale" che sta a fondamento della composizione e che è esattamente quello che è. A partire da essa si determina in particolare quale forma della serie dobbiamo chiamare inversa, retrograda, o retrograda dell'inversa. Perciò difficilmente potremmo ancora parlare di serie originale se introduciamo una modificazione così notevole come quella della riduzione entro l'ottava, che naturalmente finisce con il modificare anche le direzioni degli intervalli. Nell'esempio precedente, il primo intervallo che era ascendente, diventa discendente nella riduzione entro l'ottava. D'altra parte, per quanto poco ciò venga notato, questa insistenza su una serie "originale" non ha senso dal punto di vista matematico formale. Ciascuno delle forme a specchio può essere assunta come base delle trasformazioni - trattandosi di una pura questione convenzionale che sta al di fuori del complesso strutturale da esse rappresentato. Le cose stanno all'incirca come è illustrato nei seguenti disegni: 195 A D B C forme inverse forme retrograde A D B C Se si considera A come come forma originale della serie, allora B sarà l'inverso e D sarà il retrogrado di A; C il retrogrado dell'inverso. Ma le determinazioni fondamentali sono il retrogrado e l'inverso. Formalmente il problema di una serie originale non sussiste. Una qualunque delle quattro forme tra loro collegate da queste relazioni può assolvere la parte di serie originale. Nello stesso tempo, l'operazione di riduzione entro l'ottava non può essere considerata del tutto illegittima, tenendo conto del modo in cui la serie stessa può essere impiegata all'interno della composizione. Infatti una delle regole del "metodo" include esplicitamente la possibilità del salto di ottava di qualunque nota della serie fondamentale e delle serie derivate. Accade così che, se parliamo di una serie come fondamento di un brano musicale, siamo 196 tenuti ad assumerla ed a proporla come immodificata; ma nella elaborazione compositiva della serie siamo invece liberi di proporre ciascuna nota indipendentemente dall'ottava nella quale si trova nella serie originale. Non è affatto escluso dunque che nella composizione si possa trovare la serie ricondotta entro lo spazio di un'ottava. In tutto ciò forse non si procede affatto "a rigor di logica" . In effetti si dovrebbe presentare la forma ridotta entro l'ottava come origine di varianti che contengono dei salti di ottava; ed a sua volta quella forma ridotta dovrebbe essere considerata a sua volta, non già come risultante di una "riduzione", ma come prodotta a partire dall'effettiva forma normale, che altro non è appunto che la scala "cromatica" . Se si è guidati dall'esprit de système si ragionerà indubbiamente così. Di conseguenza tutte le serie dodecafoniche si presenterebbero anzitutto come permutazioni della scala cromatica. Una delle prime considerazioni che viene fatto di fare seguendo il nostro singolare filo conduttore è che questo esprit - che è presente ovunque nel metodo compositivo dello Schönberg dodecafonico - in realtà ha su alcune questioni importanti una sorta di defaillance. Ma si tratta propriamente di una defaillance o di qualcosa di diverso, che non può essere chiamato così? È un fatto che considerare la serie come una mera permutazione della scala cromatica sembra piuttosto urtante, per non dire dell'idea di una serie delle serie dodecafoniche, nella quale ciascuna serie dodecafonica ha una sua posizione determinata in anticipo. L'idea di una derivazione algoritmica della serie si trova infatti nel contrasto più netto con la concezione della serie fondamentale come un pensiero musicale da cui il compositore si sente attratto e che rappresenta il germe della creazione musicale e dunque il luogo più segreto e più profondo da cui si dispiega la creatività. Questo modo di concepire la serie originale, insieme alla nozione di "senso della forma" a cui Schönberg tanto spesso si richiama come ad un vero e proprio "istinto" che non è in alcun modo riducibile a teoria, sono certamente nozioni di particolare importanza per comprendere la concezione della musica di Schönberg. E mentre per il musicista indiano le sistemazioni algoritmiche non introducono alcun turbamento all'interno della prospettiva entro cui egli si muove, e sono compatibili con un'idea "aperta" del comporre, l'inclinazione matematizzante che è indubbiamente caratteristica dello Schönberg do- 197 decafonico così come la sua esasperata tendenza all'unità si arresta di fronte all'idea di una precostituzione matematica che toglierebbe alla serie fondamentale il carattere di espressione diretta del vissuto del compositore - la fonte segreta e misteriosa da cui scaturisce l'opera, ciò da cui essa è "ispirata" . Per quanto riguarda invece il rapporto tra le serie e la scala cromatica, occorre intanto osservare che non tutte le serie generate come sue permutazioni verrebbero accettate sotto il profilo musicale. Vi sono delle limitazioni significative, a cominciare dalla regola esplicita che vieta più semitoni successivi oppure la regola implicita che vieta o "sconsiglia" le serie che contengono in successione suoni che formano triadi consonantiche. Limitazioni di questo tipo sono naturalmente della massima importanza per comprendere il senso della proposta teorica e musicale dodecafonica. Ma non sono tali da mettere realmente in crisi le considerazioni precedenti, per il fatto che si potrebbe semplicemente ammettere che la serie totale delle serie dodecafoniche è sovrabbondante rispetto alle serie "ammissibili" . Più interessante è invece mettere in risalto un altro aspetto che proprio il riferimento al triangolo di Sarngadeva aiuta a mettere a fuoco. Abbiamo detto che, in fin dei conti, nel Khandameru le permutazioni riguardavano un unico tipo melodico - una scala con un determinato schema intervallare - e che di conseguenza nella proposta di "enumerarle" era contenuto il pensiero del dominio di tutte le possibili configurazioni delle note all'interno di quel tipo. In certo senso potremmo dire che in ogni caso ogni configurazione è soltanto una permutazione. Lo stesso problema si pone in modo del tutto diverso in rapporto alla serie dodecafonica. Benché si possano considerare - con le limitazioni del caso - le serie dodecafoniche come permutazioni della "scala cromatica" , tuttavia quest'ultima non merita affatto di essere caratterizzata come "tipo melodico". In realtà l'insegnamento scolastico spesso non attira a sufficienza l'attenzione sulla netta differenza tra scala diatonica e scala cromatica, come se si trattasse di due "scale" allo stesso titolo e nello stesso modo - come se differissero soltanto per la grandezza e la distribuzione degli intervalli. Quest'errore è d'altronde, dal punto di vista teorico, rafforzato dalla tematica dodecafonica, che comporta la negazione del fenomeno autentico del cromatismo, nello stesso momento in cui richiede la 198 massima indipedenza delle dodici note l'una dall'altra, mentre il cromatismo richiede al contrario una forma particolare e particolarmente forte di "interdipendenza" connessa alla possibilità della transizione. La scala cromatica, che dovrebbe rappresentare, nel quadro delle nostre considerazioni, la "forma normale" , non è un tipo melodico proprio perché essa è riconducibile alla pura transizione, che può cominciare in un luogo qualunque e terminare in un altro luogo qualunque, senza modificare il proprio profilo, senza delineare alcun melos. Essa è, in certo senso, priva di carattere. Ed è invece proprio alle sue permutazioni, eventualmente variate attraverso dislocazioni di ottava, che sembra spettare il carattere di una molteplicità di tipi melodici. Siamo dunque tenuti a dire esattamente l'inverso di ciò che abbiamo or ora osservato in rapporto al Khandameru. Ma il groviglio di problemi non finisce qui. Abbiamo parlato or ora della serie dodecafonica come di un tipo melodico. Su di ciò credo che siano in molti ad obiettare. Intanto si continua a ripetere che con la dodecafonia viene meno la distinzione tra melodia e armonia. Di conseguenza non vi sarebbe motivo di considerare una serie orizzontalmente piuttosto che verticalmente. Il parlare della serie come tipo melodico sarebbe senz'altro erroneo. Si rischierebbe di fare di una serie qualcosa di simile ad un "modo" . Su queste affermazioni credo che sia lecito almeno parzialmente dissentire. Ciò che viene meno è naturalmente la distinzione tra melodia e armonia così come si presenta nell'ambito del linguaggio tonale. Più in generale l'ordine orizzontale della serie può, dal punto di vista della prassi compositiva, essere proposto anche "verticalizzato" . Ma di qui non si può affatto trarre come conseguenza che la serie possa essere considerata indifferentemente rispetto alla simultaneità ed alla successione. Si confonde qui l'impiego previsto dal metodo, che autorizza l'impiego simultaneo, con ciò che la serie è come fatto uditivo specifico; e questa confusione viene rafforzata dall'oscillazione tra un'idea astratta della serie come mera forma relazionale - e quindi come entità matematica - ed un'idea della serie come qualcosa che risuona concretamente e che risuonando ha un certo carattere piuttosto che un altro. Considerando la serie come un oggetto formal-matematico, quindi come un complesso di oggetti in genere che stanno fra loro in determinate relazioni, viene meno addirittura la sensatezza della distinzione tra 199 una dimensione verticale ed una orizzontale per il semplice fatto che in una simile considerazione non vi è in via di principio né contemporaneità né successione. Altrimenti stanno le cose dal punto di vista percettivo. La prova più persuasiva della differenza tra ordine verticale e ordine orizzontale, che continua ostinatamente a resistere ad ogni negazione teorica, sta nel semplice fatto che una serie qualsiasi somiglia anche troppo a qualsiasi altra se le sue note vengono fatte risuonare tutte insieme: come è più che ovvio! Eppure vi è chi, parlando della serie, afferma che essa viene proposta "melodicamente" per pure ragioni di "comodità". "Per comodità operativa il musicista fissa la "serie dodecafonica" nella successione orizzontale, al fine di stabilire i rapporti di altezza, cioè gli intervalli, tra suono e suono; ma la "serie" così fissata non rappresenta però un principio tematico, una sorta di Leitmotiv, sul quale la composizione è destinata a svilupparsi" [17]. Ma di quale "comodità" si tratta? La serie, proprio come pensiero musicale, che contiene certamente in quanto tale un rimando alla situazione percepita, è essenzialmente orizzontale, quindi è in senso ampio, melodia. E non mancano certo dichiarazioni assai significative da questo punto di vista: è lo stesso Schönberg, che proprio mentre illustra la possibilità di impiegare "il raggruppamento di alcune note in armonie" sottolinea che "la serie fondamentale funziona come se fosse un motivo" [18]; e lo scritto in cui si trova questa frase, e che rappresenta forse il suo scritto più impegnativo sulla teoria della tecnica dodecafonica, si chiude con questo icastico richiamo al Leitmotiv wagneriano: "Penso che quando Richard Wagner introdusse il suo Leitmotiv - con lo stesso scopo per cui io ho introdotto la mia Serie Fondamentale - deve aver detto: "Che l'unità sia fatta"". [19] Un altro elemento di conferma si può trovare nel fatto che Schönberg, negli esempi di serie che egli discute, propone cesure e segni di articolazione. Ad esempio, nella serie precedentemente citata dell'op. 26, viene fatta cadere una cesura nel mezzo. Anche se queste cesure sono giustificabili a partire dalla struttura formale, non sarebbe giusto affermare che esse siano derivabili da essa; così come che esse siano derivabili dalla conformazione percettiva come tale. È appunto un "pensiero musicale" che sceglie, all'interno di diverse possibilità, le articolazioni interne che debbono essere evidenziate. E naturalmente queste cesure sarebbero dei puri nonsensi se fossero proposte sulla serie proposta in forma di accordo. 200 È dunque abbastanza giusto considerare la serie anzitutto così come decorre nell'ordine temporale del prima e del poi - e quindi qualcosa di simile ad una melodia, ad un tema o ad un motivo. Ma questo aspetto si modifica profondamente sia se consideriamo il suo trattamento compositivo, sia se pensiamo alla forma astratta in cui la serie può essere "pensata" e che fa venire meno il problema stesso dell'ordine temporale. Vi sono diverse importanti ragioni, sulle quali non è il caso qui di soffermarsi, che non rendono assolutamente possibile l'assimilazione della serie ad un modo. Tuttavia è proprio facendo riferimento a questo aspetto della questione, che si spiega come mai Schönberg possa essere talora elogiato dalla musicologia indiana o come questa possa addirittura rivendicare improbabili anticipazioni nella propria tradizione musicale. In un testo che si propone esplicitamente di contribuire alla conoscenza reciproca della cultura musicale indiana e di quella europea, intitolato The structure of music in raga and western systems, Raja Ramanna osserva che, nella musica indiana, la dodecafonia schönberghiana sarebbe stata anticipata di alcuni secoli [20]. L'autore pensa qui al sistema di Venkatamakhin ed ai raga, concepiti come tipi melodici, come motivi di base di una costruzione musicale; e risulta a lui naturale considerare la serie dodecafonica secondo questa stessa angolatura. Il merito di Schönberg sarebbe stato dunque quello di superare la miseria dei due modi della musica tonale riportando nella musica europea un'autentica molteplicità. Ma questa molteplicità non è forse presente da secoli, attraverso i raga, nella musica indiana? I teorici europei alla fine dell'ottocento, osserva Ramanna "cominciarono a sottolineare che la stessa tonalità non era essenziale per la musica e non era basata su alcuna considerazione ragionale e le scale maggiori e minori non erano sufficienti per esprimeri i pensieri al di là di quelli dei compositori del XIX secolo. Fu a questo stadio l'armonia atonale venne proposta da Schönberg, che fa rivivere Venkatamakhin dopo quasi quattrocento anni. La modernità di Venkatamakhin dal punto di vista europeo è davvero sbalorditiva" [21]. Lo stesso autore fa notare che, quando verso la fine del secolo XIX si pose il problema di una "armonizzazione" dei raga, del resto sotto l'influsso della musica europea - non si andò in direzione delle triadi tonali, quanto piuttosto di una proiezione nella simultaneità 201 dell'ordine successivo delle note del raga, secondo una procedura che sembra essere l'esatto rovesciamento nel rapporto armonia-melodia caratteristico di un ambito linguistico tonale. Una simile proiezione può essere possibile solo se viene liberamente ammessa anche la presenza di dissonanze. Vi sono qui numerosi equivoci, che sono tutti per lo più da ricondurre ai due aspetti che abbiamo appena richiamati, alla pratica compositiva dodecafonica che certamente non va certamente in direzione di una valorizzazione dell'elemento melodico; ed all'idea di uno spazio sonoro, in rapporto alla serie, che probabilmente deve essere caratterizzato più che relativamente alla serie fondamentale considerata nella sua individualità concreta, ad una struttura relazionale astratta, che possa comprendere anche le forme modificate e le trasposizioni. Naturalmente la questione di un diverso rapporto con la consonanza e la dissonanza resta sul tappeto - ma alla comprensione di questa diversità giova assai poco confronti di questa natura. Ed ancor meno giovano le considerazioni sull' "armonizzazione" . Nel metodo dodecafonico la dimensione "armonica" viene in realtà soppressa per il fatto che non solo si sopprime l'impiego armonico della triade, ma anche perché gli accordi in genere assumono il carattere di eventi sonori in via di principio sullo stesso piano dei suoni singoli e non hanno in ogni caso carattere di armonizzazioni o di accompagnamenti. Il fatto che essi siano costituiti da segmenti della serie non modifica certo questo stato di cose. Ciò che sorprende nelle considerazioni di Ramanna è che si vada a citare con tanti equivoci Schönberg e la dodecafonia, e non si faccia invece il minimo cenno al modalismo che ha così grande importanza nella musica novecentesca e che in alcuni casi - penso naturalmente a Messiaen - ha anche un rapporto musicalmente concreto con la musica indiana. Se tanti sono i problemi emersi, non è stato forse inutile il gioco di estendere il Khandameru alle serie di dodici note. 202 Note [1] Sarngadeva, Sangitaratnakara, testo sanscrito e traduzione inglese di R. K. Shringy, vol. I, Varanasi 1978, p. 208. Talora il titolo viene reso con Oceano di gemme della musica. "Ratnakara" può essere tradotto con "mare, oceano" ; oppure con "miniera di gemme" (jewel-mine, sea, ocean M. Monier-Williams, A Sanskrit-English Dictionary, Oxford 1899 (1990)) - Sono debitore di molti stimoli per l'argomento di questo saggio, oltre che di un concreto aiuto bibliografico, a Francesca Dell'Acqua, che ha svolto nel 1994-95 una tesi di laurea intitolata "Teorie della musica e filosofia nel Sangitaratnakara di Sarngadeva" presso l'insegnamento di Filosofia Teoretica da me tenuto, con correlazione di Carlo Della Casa. - Una stesura preparatoria del presente lavoro è stata presentata al convegno organizzato dal Seminario Permanente di Filosofia della musica, Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano, svoltosi a Gargnano, Palazzo Feltrinelli, 29 settembre-1 ottobre 1997. [2] Siamo nel XIII secolo, in un'epoca che viene considerata di transizione tra la musica antica e la musica medioevale. M. R. Gautam propone di distinguere la storia della musica indiana in tre grandi fasi, la musica antica, medioevale e moderna. Le prime due possono essere considerate come concluse approssimativamente nel XIII secolo e nel XVIII secolo, mentre la terza arriva ai nostri giorni. M. R. Gautam, Evolution of Raga and Tala in Indian Music, New Delhi 1993, p. IX. Sarngadeva viene trattato nel cap. IV, pp. 61 sgg. [3] Sangitaratnakara, 63c-71, cit. p. 208-220. [4] "Uddista is literally the note-series indicated, and what is sought to be found out from the permutation indicator is its serial number" , ivi, p. 214. [5] "Nasta of the text literally means "that which is destroyed" , but the term is figuratevely employed in a technical sense. Nasta refers to that note-series (tana) the tonal form of which is lost sight of, but in respect of which the serial number and the type... is given in the order that its tonal form may be discovered with the help of the note-series indicator" - ivi, p. 218. [6] Riferiamo qui di seguito le spiegazioni di Sarngadeva nella traduzione inglese: IV. Khandameru (permutation-indicator) 1. The construction of the permutation-indicator (63c-66b): Let there be seven series of squares commencing with seven squares 203 and ending with one, arranged one below the other. Let no. 1 be written in the first square of the first serie among them and let there be zero in the other squares. Pebbles, corresponding to the number of tones in the note-series in question, may be placed in those very squares. (63c-64). Let the sum total of the numbers of the last squares of the antecedent serie be written below the zero in the subsequent series progressively in the respective squares, e. g. one (in the first instance); while in the squares below that in vertical order, let the sum be multiplied by the number of the square concerned and the resultant written below that. This is considered to be the "permutation-indicator" (khandameru). (65-66b) 2. The procedure for finding out the indicate note-serie (uddista): 66c-68b: Let the pebble be placed in the column-square below according to the number of the last note of the indicated note-series obtaining backwards with refernce to the last note of its original order. The pebble movement starts with the last note and is ordered by dropping the note ascertained progressively. The number of the indicated note-series would be obtained by adding up the figures (of the squares) covered by pebbles" 3. The procedure for finding out the missing note-series (nasta): (63c-70): Let the initial pebbles be placed in the respective squares, the sum of the figures of which would constitute the number of the 'missing note-series' inclusive of the figure1 in the first column square. The note-positions of the missing note-series are to be determined from the pebble-squares, the serial number of the squares down below being indicative of the relative backward position of the respective notes with reference to the last note of the original order; while the rule for dropping the ascertained note ecc. would apply as before. (68c-70). [7] Sarngadeva attua metodi analoghi al Khandameru anche per l'organizzazione sistematica delle possibilità ritmiche (tala). Sull'argomento: Subhadra Chaudhary, Time Measure and compositional types in indian music, A historical and analytical Study of Tala, Chanda and Nibaddha Musical forms, trad. ingl. di Hema Ramanathan, Aditya Prakashan, New Delhi 1997, pp. 85 seg. [8] Neil Sorrell e Ram Narayan, Indian music in performance, con pref. di Y. Menuhin, University Press, New York 1980. [9] ivi, p. 70. [10] ivi, p. 73. [11] ivi. 204 [12] ivi, p. 74: "The relationship between exercise and 'real' music is very interesting and of central concern to this chapter. As I have implied so far, there is not the separation between these categories in Indian music that we find in western Music" . [13] ivi, p. 70. [14] ivi, p. 74. Cfr. anche p. 91: "The increasing length and musical interest of these examples shows how simple exercises can be spontaneously transformed into something more sophisticated. The imagination of the musician and his skill in improvisation enable him to extend a small amount of material into longs sections of music. Practice becoms virtually indistinguishable from real performance and his creative process is at the heart of North Indian classical music" . [15] Questa serie viene discussa da Schönberg nella sez. VII Composizione con dodici note, in Stile e idea, trad. it. di M. G. Moretti e L. Pestalozza, Milano1975, pp. 116 sgg. [16] Per ciò che riguarda in modo del tutto generale i metodi combinatori in rapporto a successioni ordinate di suoni, cfr. Luigi Verdi, Organizzazione delle altezze nello spazio temperato, Treviso 1998. [17] L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna, Einaudi, Torino 1966 p. 90. [18] A. Schönberg, Composizione con dodici note, in Stile e idea, trad. it. di M. G. Moretti e L. Pestalozza, Milano1975, pp. 111. [19] ivi, p. 140. [20] Raja Ramanna, The structure of music in raga and western systems, Bombay 1993. p. 160. [21] ivi p. 160. Cfr. anche p. 167. Giovanni Piana Opere complete Volume dodicesimo Problemi di estetica e di teoria musicale 1. Considerazioni inattuali su Theodor Wiesengrund Adorno, p. 5 2. Il tema dell'ineffabilità nella filosofia della musica di Jankélévitch, p. 43 3. Intorno alla filosofia della musica di Susanne Langer, p. 71 4. La composizione armonica del suono e la serie delle affinità tonali in Hindemith, p. 95 5. La scala universale dei suoni di Daniélou, p. 153 6. Un percorso attraverso la filosofia della musica, p. 179 2013 4 ISBN 978-1-291-29285-5 Copyright Giovanni Piana 5 Considerazioni inattuali su Theodor Wiesengrund Adorno 1992 6 Questo testo è stato pubblicato in "Musica/Realtà", n. 39, dicembre 1992, pp. 27-53. 7 1 Vi sono, in realtà, moltissimi buoni motivi per i quali della concezione di Adorno della musica novecentesca non mette più conto di parlare: abbiamo ormai una chiara coscienza, che è diventata sempre più chiara proprio sul finire degli anni ottanta, del fatto che l'intera riflessione teorica, e non certamente soltanto in rapporto ai casi della musica, abbia bisogno di un rinnovamento così profondo, di uno sguardo così attento a cogliere le tracce del futuro, che discutere ancora intorno ad Adorno può sembrare attardarsi su un'epoca ormai definitivamente chiusa, può sembrare (e per certi versi lo è indiscutibilmente) una sorta di improduttivo esercizio delle rimembranze. Adorno appartiene ad un'altra èra. E poi non se ne è parlato in ogni caso anche troppo? Le sue tesi, così semplici da trasformare in slogans, predisposte come erano, nonostante la sofisticatezza letteraria dello stile, all'ottusità della ripetizione, non hanno forse finito per generare tacitamente quella saturazione che in realtà può sostituire adeguatamente la critica più severa? Eppure vi è almeno qualche motivo altrettanto buono per rendere in qualche modo desiderabile che se ne riparli ancora, almeno un poco, quel tanto che basta non già per riaprire un discorso, ma proprio al contrario: per chiuderlo meglio. Benché infatti si possa parlare di un declino dell'adornismo, sia dal punto di vista filosofico generale, sia rispetto alla problematica più propriamente musicale, già agli inizi degli anni settanta, tuttavia si è trattato di un declino sommesso, tanto inappariscente quanto era stata imponente la sua diffusione nel dibattito filosofico e teorico intorno alla musica novecentesca, la sua capacità di determinare orientamenti e linee di tendenza in ogni aspetto della vita musicale di quegli anni. Proprio questo non può essere considerato soddisfacente: un autore che ha cercato di imprimere così pesantemente il 8 proprio marchio all'intera vicenda musicale novecentesca, e che quasi riusciva in un simile intento, merita certamente un congedo più meditato. Tanto più che un'effettiva riflessione critica non può certo arrestarsi ad Adorno, ma è destinata a porre, prima lateralmente e poi sempre più direttamente, interrogativi intorno agli strumenti e ai modi di approccio rispetto a quella vicenda considerata nel suo passato più o meno lontano, ma anche e soprattutto nel suo futuro. Non c'è dubbio che ogni esigenza di rinnovamento nei modi di pensare deve recidere nettamente molti nodi alle proprie spalle, senza le supponenze del senno del poi, naturalmente, e con l'assoluto rispetto che ogni autentica vicenda intellettuale esige: ma questi nodi debbono in ogni caso essere sciolti. Ora ci chiediamo: il nodo che si chiama Adorno - "questo grande maestro al quale dobbiamo praticamente tutto" (1) - non è dunque già stato tagliato? Forse no. I maestri non debbono essere dimenticati troppo facilmente - altrimenti che ne sarà degli allievi? Del resto sembra ancora possibile accingersi a rivendicare una rinnovata attualità di Adorno alla luce di una "pregnanza teorica" che verrebbe messa in non cale dal "sorpasso delle mode culturali" più che dalla cosa stessa. È quanto sostiene, in realtà con molto equilibrio e acume e non senza apportare nuovi elementi di giudizio, Alessandro Arbo nel suo recente saggio su Adorno (2) . Questa presa di posizione è tuttavia particolarmente significativa per il fatto che la "pregnanza teorica" viene ricercata negli angoli più riposti, sconosciuti ai più - mentre su tutto ciò che ha fatto la fama di Adorno l'autore sorvola oppure dice cose che potrebbero ben figurare in un pamphlet di particolare pesantezza polemica. Questa tendenza a far valere l'Adorno minore, un Adorno piccolo piccolo, di fronte al mastodontico e protervo moralista della scuola di Vienna non è nuova: la si ritrova già nel noto e notevole intervento di Gioacchino Lanza Tomasi al Convegno sul tema "Adorno in Italia" che si tenne a Palermo nel marzo 9 del 1982, intervento che è specificamente dedicato alla "fortuna italiana degli scritti musicali di Adorno" (3), come si dice nel sottotitolo. Ma il titolo principale, nel quale si parla di "discepoli selvaggi", enuncia già la chiave che poi viene fatta valere nel testo. Una volta date per scontate le contingenze che suggerirono in mezzo a mille equivoci e manipolazioni (4) l'idea della Filosofia della musica moderna come "manifesto progressista", e così anche l'insostenibilità degli schematismi proposti da Adorno, è necessario in ogni caso, secondo Lanza Tomasi, distinguere tra Adorno e ciò che egli chiama, trasponendo il termine dalla sua prima applicazione alla psicoanalisi, "adornismo selvaggio". Ecco la valvola verso cui sfogare la critica: cosicché l'elogio di Adorno può continuare, ed addirittura assumere qui e là nuovamente toni apertamente apologetici. Tuttavia in questo caso non è affatto facile applicare meccanicamente lo schema del re e dei realisti più realisti del re. Di fatto Lanza Tomasi si avvia a reinventare l'immagine di Adorno di cui l'adornismo avrebbe appunto irrigidito i contorni, impietrito gli schemi, esasperato il moralismo. Ma è un'immagine che dobbiamo andare a cercare là dove Adorno non si vieta di contraddire Adorno, negli scritterelli più o meno d'occasione, "in alcuni brevi saggi postumi" - dove egli "si sottrae, quasi per dimenticanza alla propria griglia culturale". Dove non c'è più il sociologo, ma solo il musicista, Adorno si abbandona ad un ascolto addirittura edonistico, ai puri piaceri che sgorgano dalle debolezze del cuore: mentre i discepoli di Adorno non hanno concesso a quest'uomo "la tenerezza, la debolezza, non hanno scavato l'umanità nelle analisi dedicate ai figli preferiti, gli Herzgewächse che costellano i suoi saggi e rivelano l'esperienza culturale e artistica di un uomo che ha saputo amare" (5). Ora, la questione ha un suo lato estremamente semplice: nulla vieta di mettere da parte l'Adorno teorico e filosofo della musica moderna e della dialettica negativa, l'Adorno critico della cultura e della civiltà, per preferire ad esso gli scritti d'occasione del letterato e dell'elzevirista eccelso. Ma nel mo- 10 mento in cui questa preferenza viene proposta come un'immagine autentica che una vicenda culturale ha semplicemente occultato e nascosto, allora è giusto avanzare qualche timida rimostranza. I libri di Adorno, maggiori e minori, sono tutti là - con tutto il peso della tradizione culturale che sta alle loro spalle, con la teorizzazione esasperata della verità e dell'eticità dell'opera d'arte, con tutte le enfasi di una sociologia fondata su una filosofia della storia, con tutto il peso del pensiero dialettico: che non è mai stato, è il caso di ricordarlo?, un pensiero "debole". Alla luce di ciò saremmo quasi tentati di non tener in nessun conto la formula dell'" adornismo selvaggio" - che può certo avere qui e là qualche esemplificazione pertinente - e di rovesciare interamente i termini della questione. In tutta franchezza: non è affatto facile trovare un adornismo più selvaggio di quello che si trova in Adorno stesso. Mentre si possono citare a iosa frasi di studiosi influenzati dalle posizioni adorniane ed interessati alla loro diffusione che mostrano tuttavia imbarazzo di fronte all'adornismo di Adorno e cercano, in modi diversi, di limitarne la portata e le conseguenze. Cosicché l'adornismo "selvaggio" più che rappresentare qualcosa di simile ad una chiave interpretativa, diventa un pretesto per una difesa estrema e tardiva, che arriva a toccare aspetti critici ormai universalmente riconosciuti. La limitazione dell'intero discorso adorniano alla musica di tradizione tedesca, che in realtà sta profondamente all'interno dell'impostazione filosofica di Adorno, sarebbe una consapevole ed innocua restrizione di campo, dovuta all'umile consapevolezza di non poter pretendere "di svolgere un'analisi culturalmente policentrica"; così come sarebbe necessario distinguere l'" analisi" dalla "provocazione" - cosa che l'" adornismo selvaggio" non avrebbe saputo fare - e addirittura considerare la "provocazione" come consapevolmente legata al ruolo di "educatore che la grande cultura per diritto si arroga" (6). In questa frase, e proprio in un discorso che riguarda Adorno, ciò che colpisce come un lapsus rivelatore, è quest'ultima espressione, che avrebbe potuto certamente essere un'altra, ma che 11 intanto è proprio questa: si arroga. La grande cultura, se è veramente grande, non si arroga proprio nulla - io credo. In affermazioni come queste risulta con chiarezza quale funzione subordinata ed elusiva abbia il parlare di adornismo selvaggio o semplicemente di adornismo con connotazioni negative equivalenti. L'intera questione deve essere interamente reimpostata, e non so nemmeno se sia corretto porla secondo lo schema del pro e contro, come se si trattasse di fare una scelta tra coloro che propugnano le posizioni di Adorno e coloro che le hanno avversate fin dall'inizio e le continuano ad avversare. Come osservavo all'inizio, non ci occuperemmo di Adorno se non fossimo interessati ad una nuova riflessione sui modi di approccio alla musica dei tempi nostri; e ce ne vorremmo occupare almeno un poco perché di fatto Adorno ha voluto marcare la musica novecentesca e, a quanto sembra, dobbiamo ancora decidere con chiarezza se sia opportuno o necessario liberarsi definitivamente di questo marchio. Un breve sondaggio su scritti particolarmente autorevoli mostra che ciò non è affatto facile. Da un certo momento in poi le dichiarazioni di dissenso nei confronti di Adorno non si contano. Ma che tenore hanno queste dichiarazioni? Molto spesso esse sono circonvoluzioni, aggiramenti, classici scambi tra la porta e la finestra, nelle quali Adorno viene prospettato in tutte le posizioni possibili, ed anche impossibili. Ecco un altro esempio che mi sembra particolarmente eloquente e rappresentativo di una situazione molto diffusa: "Oggi penso di non condividere letteralmente, di non condividere molte cose di Adorno anche in tesi essenziali, ma ho l'impressione che - confrontando alcuni testi - finisse con il non condividerle nemmeno lui stesso" (7). Che dire? 2 In realtà se ci venisse richiesto di illustrare in breve le ragioni della "fortuna" di Adorno negli anni sessanta in Italia risponde- 12 remmo all'incirca così: un discorso filosofico come quello di Adorno specificamente mirato a valorizzare l'esperienza musicale della scuola di Vienna rispondeva alla necessità di superare un ritardo storico che in quegli anni rappresentava un' esigenza inderogabile della vita musicale (8). Ma particolarmente importante per rendere conto di questa fortuna era naturalmente anche il quadro filosofico in cui quella valorizzazione veniva realizzata: esso era infatti intessuto di motivi che erano sempre stati familiari alla cultura filosofica italiana: l'impianto hegeliano di Adorno non era certamente una cosa nuova! Un' analisi che prescinda da questa circostanza non può pretendere la minima attendibilità. A ciò si ricollega la questione marxista. La polemica adorniana contro un marxismo di stile positivistico e la ripresa più o meno esplicita di motivi lukacsiani, non stiamo qui a discutere in che senso e in che modo, si poteva incontrare in maniera relativamente spontanea con le tradizioni del marxismo italiano; ma nello stesso tempo poteva anche confluire con gli entusiasmi più recenti verso una rifondazione del marxismo (il "marxismo occidentale") certamente non privi di vivacità polemica non solo nei confronti del socialismo sovietico, ma anche nei confronti del comunismo italiano. Tutto ciò spiega quella che fu indubbiamente l' "attualità" di Adorno ed anche il fatto che la sua Filosofia della musica moderna potesse assumere a tratti il carattere di un "manifesto progressista": questo carattere poteva riceverlo proprio in forza della sua integrazione in un movimento di idee molto più ampio di cui essa sembrava coerentemente far parte (9). Ma le cose, che sembrano, dette in questo modo, così semplici, si complicano subito e di molto, non appena ci accingiamo anche solo a qualche modesto approfondimento. Vogliamo intanto rammentare qualche data, del resto ben nota. La Filosofia della musica moderna venne elaborata nella sua prima parte negli anni 1940-41, nel periodo americano, e compiuta nella sua seconda parte al ritorno di Adorno in Germania in vista della pubblicazione dell'opera che avvenne nell'anno 1949. La tradu- 13 zione italiana dell'opera, dovuta a Giacomo Manzoni, avvenne nel 1959 (10) - dunque dieci anni dopo la sua pubblicazione in Germania e quasi vent'anni dopo la sua prima elaborazione. Ed è certo anche il caso di aggiungere che Adorno, nella sua opera, fa riferimento ad una problematica musicale che risale all'inizio del secolo e ad un' elaborazione teorica che rappresenta il punto culminante di un'attività cominciata una ventina d'anni prima . Siamo di fronte dunque di fronte a divari temporali estremamente rilevanti e non certo privi di conseguenze che riguardano non solo la ricezione del discorso teorico come tale, ma soprattutto il rapporto tra il discorso teorico e la pratica musicale. Di fatto tra i paradossi che certamente occorre mettere in conto di un analisi più approfondita dell'intera questione sta indubbiamente il fatto che la notorietà e la diffusione di Adorno in ambiente italiano avvenne quando era il momento del suo declino. E si trattava di un declino non decretato da questo o da quel critico musicale, da questo o quel filosofo, ma dalle vicende stesse della musica. I memorabili saggi di Boulez - e si presti ancora attenzione alle date - "Schönberg è morto" (1952) e "Stravinsky rimane" (1953) rappresentavano obiettivamente la dimostrazione non solo dell'inadeguatezza degli strumenti adorniani ad affrontare la produzione più recente, ma anche della necessità di rifiutarne l'impostazione di principio e l'intero modo di approccio alla musica novecentesca (11). Per Boulez non si trattava infatti di capovolgere banalmente i termini della contrapposizione adorniana. Il problema era piuttosto quello di riacquisire senza paraocchi le molte cose che stanno dentro la musica novecentesca, di ripensare ad essa individuando nuove possibilità, diverse tradizioni, ridisegnando nuovi quadri possibili di riferimento per lo sviluppo della musica. E nemmeno si trattava soltanto di una ripresa della tradizione francese, di Debussy ad esempio, ma anche, sviluppando motivi certo ampiamente presenti in quella tradizione e, attraverso Messiaen, nella formazione del musicista, di aprirsi alle grandi civiltà musicali 14 extraeuropee - un'apertura che in realtà resta un compito assolutamente attuale, ed ancora irrisolto persino sotto i profili più semplici di una seria ed onesta informazione culturale. Ancora più semplicemente si trattava, per Boulez come per tutta la musica più giovane di allora, di proseguire le molte strade aperte, di sperimentare nuovi materiali sonori, nuove tecniche, di riformulare i progetti stessi del comporre alla luce delle nuove possibilità di produzione del suono che la tecnologia metteva a disposizione del musicista. Gli anni cinquanta si aprono dunque con alcune significative denunce dell'inadeguatezza delle posizioni adorniane. Ma si aprono anche con scritti di Adorno che non fanno altro che confermare questa inadeguatezza, convertendola naturalmente, a sua volta, in un rifiuto critico. Altrettanto memorabile degli scritti di Boulez prima citati è il saggio adorniano sull'Invecchiamento della musica moderna (1955, ma redatto come intervento radiofonico nel 1954). La traduzione italiana di questo saggio fu pubblicata a ridosso della traduzione della Filosofia della musica moderna, essendo compresa nel volume Dissonanze uscito in italiano, sempre a cura di Giacomo Manzoni, nel 1959 (12). La musica che pretende di apparire nuova, sostiene Adorno in quel saggio, è in realtà rapidamente invecchiata: ancora una volta si tenta di giocare la carta del progresso e del regresso. E se andiamo a vedere le ragioni di questo "invecchiamento" ci troviamo di fronte a niente altro che ad un'applicazione meccanica dei temi della Filosofia della musica moderna, soprattutto dei temi, tra loro strettamente connessi, dell'angoscia come motivazione necessaria dell'espressione musicale e della "società amministrata" che reprime ogni affermazione dell'individualità soggettiva generando angoscia come forma di una protesta condannata all'impotenza. Tuttavia questi temi si accompagnano ora coerentemente con due altri motivi che non sono altro che una versione sofisticata - una circostanza questa largamente sfuggita all'attenzione dei commentatori - del vecchio schema della valutazione estetica gravitante sulla reciproca esteriorità di 15 forma e contenuto o, come ovvia variante, sulla soppravvalutazione dell'uno o dell'altro polo. Oggetto della critica sono infatti, da un lato, gli interessi tecnologici legati all'impiego della macchina, e quindi in generale all'impiego di procedure matematico-formali nella prassi compositiva (il tutto ricondotto, è appena il caso di notarlo, sotto il devastante dominio della "razionalizzazione" tecnocratica), dall'altro l' "infatuazione per il materiale" e la "cecità per quel che ne risulta" (13). Come si sa, vennero poi parziali riconoscimenti, qualche rettifica e qualche valutazione generosamente gratificante verso autori ed opere che avevano ormai ricevuto un riconoscimento universale. Adorno più di ogni altro sapeva quanto poco potesse permettersi di restare isolato rispetto al movimento musicale. E nulla potrebbe essere più erroneo, o meglio più improduttivo sotto il profilo del progresso della riflessione teorica che sopravvalutare questi parziali riconoscimenti, queste modificazioni, come se in esse vi fossero elementi tali da indurre una revisione completa dei cardini del primitivo impianto filosoficomusicale (14). Contro tutta una tendenza che, come abbiamo visto, è ancora viva in tempi recenti a tenere in gran conto citazioni adorniane marginali, valutazioni strumentali, tentativi più o meno felici di correggere il tiro per ragioni di forza maggiore, in uno scritto che ha un'importanza grandissima proprio per la problematica della ricezione di Adorno in Italia, e in particolare per la sua accoglienza in ambiente marxista, Luigi Pestalozza richiamava l'attenzione, in stretta concomitanza con la pubbblicazione della Filosofia della musica moderna, non solo sulla profonda equivocità dell'inclusione di Adorno nell'area marxista, ma sulla coerenza tra l'incomprensione di Adorno nei confronti della "neoavanguardia" e le posizioni di ordine generale, mostrando in particolare di non ritenere affatto credibile il ripensamento che si annunciava già nella prefazione scritta da Adorno per presentare i saggi raccolti in Dissonanze (15). In quella prefazione Adorno "riforma" la propria condanna nei confron- 16 ti dei nuovi sviluppi postweberniani. "Sulla base di quali criteri non è detto: ma in forza di quali contraddizioni è ben chiaro" (16). Per la verità, questo saggio è costruito sulla base di categorie marxiste che possono apparire anche troppo massicce, ma sarebbe sbagliato ritenere che siano queste categorie a determinare l'intera valutazione. Persino la classica opposizione tra teoria e prassi viene qui giocata per rivendicare anzitutto i diritti del divenire della musica, e dunque di un'interpretazione teorica che non faccia violenza ad essa, come fa invece la posizione adorniana. Cosicché è possibile rileggerne le tesi, più che per la loro portata di ordine ideologico-politico, per le conseguenze che se ne traggono ai fini di schizzare un'immagine di Adorno come interprete della musica del nostro tempo. Un richiamo alla necessaria "aderenza alla storicità del reale" di cui parlava Banfi, il cui nome ricorre significativamente all'inizio del saggio, introduce l'"apriorismo" adorniano - il che è quanto dire: visione puramente pregiudiziale, che ha il suo fondamento in una pura costruzione concettuale. Di questa costruzione fa parte l'idea di un processo che va incontro ad "una situazione irrimediabilmente chiusa": il catastrofismo adorniano non è che una conseguenza di un' eternizzazione dell'angoscia che a sua volta corrisponde all'assolutizzazione di una condizione storicamente relativa. Deve dunque essere sottoposta a critica la concezione della "società amministrata" - almeno nella misura in cui la "massificazione del mondo moderno" rappresenta un'occasione per ribadire un'"aristocratica avversione all'uguaglianza" e per accreditare "il rilancio di una teoria delle élites"; ma anche deve essere messo in rilievo fino a che punto sia "angusta" la simpatia adorniana per l'espressionismo e sterile l'opposizione tra Schönberg e Stravinsky come chiave per una "filosofia della musica moderna". L'idea del possibile moltiplicarsi delle antitesi che Pestalozza propone chiude il cerchio della critica (17). Non vi è uno solo di questi temi che non debba essere ripreso in una riflessione critica effettiva intorno ad Adorno. Una simile riflessione sembra oggi ricca di interesse per il fatto 17 che essa tende fin dall'inizio a mettere in discussione un atteggiamento generale intorno alla musica novecentesca, ed anche, di scorcio, intorno alla musica stessa, di cui Adorno fornisce una versione in certo modo esemplare. Sullo sfondo di questo atteggiamento vi è indubbiamente la concezione, così caratteristica della tradizione storicistico-idealistica, secondo cui la storia è costituita da opposizioni polari fondamentali e nel gioco di queste opposizioni va ricercato a tutti i costi un filo conduttore strettamente unitario, una trama ideale i cui nodi sono tra loro concatenati: ogni passo rende esplicito ciò che era implicitamente contenuto nei passi precedenti seguendo un percorso che seguirà in ogni caso inesorabilmente il modello dell'ascesa, acme e decadenza. Il cammino dell'idea: nei termini della problematica musicale, a cui converrà prestare l'attenzione prima ancora che alla sua integrazione in un quadro socio-filosofico, l'idea che è qui in cammino è una concezione della temporalità del brano musicale come una temporalità organica, secondo l'accezione più forte dell'organicismo elaborata in èra romantica e sul cui terreno la nozione generale della dialetticità ha del resto le sue radici. Si tratta dunque dell'idea della variazione-sviluppo che raggiunge la sua massima pregnanza espressiva nella forma-sonata. Per Adorno questo cammino comincia con Bach (18), culmina in Beethoven, termina in Schönberg e nella scuola di Vienna (19). Queste sono circostanze mille volte ripetute nei commenti che hanno spesso analizzato a fondo e con ricchezza di dettaglio la centralità che assume in Adorno il riferimento al classicismo viennese. Così come si è anche più volte chiarito che questo riferimento non rimanda affatto a pure questioni di gusto e di preferenze musicali: in esso deve anzi essere ricercato il nucleo stesso della concezione adorniana della musica (20). Ma non sarebbe stato forse anche giusto manifestare almeno un poco di stupefazione di fronte al fatto che l'intera vicenda della musica novecentesca venisse affrontata con una forma mentis musicale la cui impronta decisiva veniva dalla forma-sonata? Sull'im- 18 portanza di quel nucleo della concezione adorniana occorre dunque richiamare ancora una volta l'attenzione, ma con la novità di questo stupore. Ed allora si comprendono subito il senso e la portata che assumono in Adorno i temi dello sviluppo e della ripetizione - sia in rapporto all'opera considerata nella sua struttura interna sia per ciò che riguarda il modo di intendere il divenire stesso della musica. Sviluppo e ripetizione non possono essere considerati, quali essi sono, come titoli generalissimi inscritti nella stessa essenza della musicalità e che possono essere giocati in un'imprevedibile molteplicità di modi dal punto di vista espressivo. Essi diventano invece gli estremi di una polarità relativa al modo d'essere temporale dell'opera intorno a cui si giocano tutte le valutazioni musicali più significative di Adorno, senza alcuna eccezione. In essi inoltre va ricercato il nodo elementare di raccordo con le interpretazioni socio-filosofiche. Contro la tendenza corrente a considerare la tematica musicale come subordinata ad una visione generale dello sviluppo sociale, si sarebbe invece tentati di considerare l'integrazione della tematica musicale in un contesto socio-filosofico come se le chiavi socio-filosofiche si aggiungessero a queste valutazioni come una sorta di loro naturale prolungamento. Nella stessa parola "ripetizione" non par già di avvertire il battito ostile della macchina in azione - il valore d'uso che diventa valore di scambio, la società amministrata, la perdita dell'identità soggettiva in una umanità massificata? Lo "sviluppo", d'altra parte, sembra definire il senso stesso dell'essere storico, dunque il divenire della musica, anche se dobbiamo prendere atto che si tratta di uno sviluppo che va decadendo nella "ripetizione". Il modello hegeliano, in realtà in una sua versione fortemente elementarizzata, resta a fondamento di questa "dialettica negativa": di essa fa parte anzitutto la concezione delle contraddizioni fondamentali, che rimandano peraltro ad una sola contraddizione fondamentale, l'unica realmente significativa che trova puntualmente le sue "figure" 19 rappresentative perfettamente adeguate. Naturalmente Schönberg e Stravinsky non sono altro che figure "fenomenologiche" nel senso hegeliano del termine, così come lo sono Schönberg, Berg e Webern che si ordinano meravigliosamente in una triade nella quale Webern non può fare altro che rappresentare la sintesi a rovescio di un processo nel quale, secondo la prospettiva adorniana, la contraddizione va sempre più approfondendosi sino al suo definitivo irrigidimento. Dal punto di vista soggettivo, ciò significa angoscia crescente, angoscia che diventa così grande da essere incommensurabile rispetto a qualunque forma di estrinsecazione. In rapporto al problema del divenire della musica si tratta di un processo destinato a sfociare in quella necessaria autonegazione che rappresenta per Adorno l'essenza stessa del percorso della scuola di Vienna. È necessario rendersi conto fino in fondo che tutto ciò comincia proprio dal fatto che la forma-sonata ha assunto carattere di modello in rapporto all'essenza stessa della musica, che a partire da questo modello si descriverà questa storia come un ineluttabile declino, nel quale il mortuum - la ripetizione - non potrà che prevalere sul vivo. Tutte le limitazioni e le attenuazioni imposte ad una simile impostazione ed alla sua interna coerenza in nome di una sua attualizzazione non fanno altro che immiserire la sua grandiosa drammaticità: al contrario questa viene interamente riguadagnata restituendo alle concezioni adorniane la loro giusta dimensione storica. Rammentiamo gli anni in cui il pensiero di Adorno ha preso forma: quegli anni potevano ben essere vissuti con il senso di uno sprofondamento in un abisso, dal quale solo una speranza molto simile ad una fantasia utopica avrebbe potuto intravvedere la possibilità di riemergere. Il tramonto della musica - il ripresentarsi in una nuova, in certo senso realistica, inclinazione del tema della morte dell'arte - rappresenta qualcosa di molto serio per Adorno: l'elogio della scuola di Vienna è di fatto l'elogio degli ultimi bagliori di questo tramonto, al di là del quale vi può essere soltanto il vagare del messaggio nella bottiglia in un oceano infini- 20 to. Ma lo schema elementare di cui ci siamo or ora serviti, e che sembra stia nel nucleo più profondo della complessità di Adorno, è particolarmente adatto non solo per comprendere i termini della sua impostazione, ma anche per fornire le linee iniziali di un orientamento critico. Se consideriamo il primo aspetto della questione, la temporalità interna all'opera, occorre attirare l'attenzione sul fatto che, se non facciamo agire fin dall'inizio scelte pregiudiziali, dal punto di vista musicale, e sotto il profilo della problematica temporale, il secolo si apre con una volontà artistica esplicitamente diretta contro l'idea di un modo di essere obbligatorio rispetto a qualunque modello di organizzazione temporale. Il tempo viene invece restituito alla forma originaria di mero flusso di fronte alla quale sta la capacità strutturante della creazione musicale rispetto alle molteplici possibilità di differenziazione e di articolazione. In certo senso, sviluppo e ripetizione vengono rimessi in gioco proprio nell'accezione generale a cui ci siamo richiamati in precedenza, come termini che delimitano un campo estremamente vasto per il libero gioco delle azioni espressive. Assumendo questo punto di vista si tenderà allora ad accentuare un atteggiamento di rottura caratterizzato in via di principio da una idea della musicalità interamente aperta, e in questo senso da una radicale messa in questione della sua essenza. Ora, una delle circostanze assai poco notate dalla critica è che in Adorno il motivo della rottura si prospetta soprattutto sul piano dell'interpretazione socio-ideologica, mentre dal punto di vista musicale prevale l'idea del passo necessario di uno sviluppo fondamentalmente coerente ed unitario, della degenerazione conseguente e ricca di senso di una forma dell'espressione musicale, che assume la massima pregnanza in rapporto a ciò che la musica è "nel suo concetto". Si tratta di un'idea che particolarmente presente nella stessa avanguardia musicale europea, con maggiore o minore coscienza delle sue implicazioni filosofiche, e al di là di differenze anche rilevanti nelle pratiche musicali. 21 Questa stessa idea caratterizzava d'altronde anche l'interpretazione data da Schönberg intorno al senso della propria attività creativa (21). Il problema dello "sviluppo", di portare un processo alle sue conseguenze necessarie ed estreme, esiste solo nella misura in cui ci si considera solidamente attestati all'interno della continuità di una tradizione concepita come se essa fosse fatta di tappe, ciascuna delle quali ha la forma del "passo avanti". Di qui la natura duplice e apparentemente contraddittoria del rapporto con la tradizione: ad un simile punto di vista appartiene un vero e proprio bisogno di tradizione, in esso vi deve essere la permanente consapevolezza di una dimensione storica, dove la storicità deve essere concepita in modo tale che la sua pluralità di dimensioni, la sua complicata stratificazione di piani temporali, possa sempre essere sottoposta ad una operazione di riduzione. Di conseguenza deve esservi una precisa localizzazione del passato, e un non meno precisa localizzazione del presente (22). Il passato deve trovarsi sempre esattamente alle nostre spalle. Ma proprio per questo nulla può ripugnare maggiormente ad un simile punto di vista di una ripresa di moduli compositivi appartenenti alla tradizione o in ogni caso di una creatività musicale che si manifesti, in un modo o nell'altro, anche attraverso una rinnovata riflessione sul passato musicale. Una simile creatività non può essere considerata creatività autentica, dal momento ogni sguardo verso il passato ha in via di principio un carattere regressivo, il carattere di un effettivo sguardo all'indietro, di una mera ripetizione del già stato. Ora le nostre considerazioni intorno alla temporalità interna all'opera possono essere trasposte anche in rapporto al "divenire" della musica: una simile concezione non è affatto obbligatoria, e la sua assunzione come una pura ovvietà è fonte di equivoci fondamentali. Questo divenire non deve essere affatto obbligatoriamente concepito secondo i canoni di una temporalità lineare, e nemmeno deve essere obbligatoriamente subordinato ad una idea di tradizione che, in rapporto a quei 22 canoni, è caratterizzata da un'unicità di principio. L'eurocentrismo e il disinteresse verso la musica popolare in genere che così spesso è stato segnalato come una carenza del punto di vista adorniano non è una carenza accidentale, che ci possiamo limitare a indicare come se nulla fosse, come se essa non si radicasse al centro della prospettiva filosofica di Adorno. Qui è in questione un diverso modo di concepire la dimensione temporale. Una volontà artistica che ha deciso di disporre liberamente della temporalità, forse ha anche deciso di disporsi liberamente in essa. E allora si prospetta immediatamente una molteplicità di tradizioni, facendo venire meno qualunque pregnanza al problema della "continuazione" e della "rottura nella continuazione": non vi sono più propriamente antecedenti e conseguenti. La storia in genere e la storia della musica in particolare non è una successione di stazioni - ed uno sguardo all'indietro può ben essere semplicemente uno sguardo altrove. Si presta attenzione alla varietà del paesaggio più che alla catena delle stazioni - cosicchè le cose possono anche stare esattamente all'inverso di quanto si pensa di solito: il divieto dello sguardo indietro non è affatto di per se stesso segno certo della rottura con la tradizione, ma al contrario dove vige questo divieto, perchè ogni sguardo verso il passato assume necessariamente il senso di uno sguardo indietro, proprio là vi è un legame tenace con il passato e la pregnanza della tradizione. 3 Una discussione intorno alle vicende di Adorno e dell'adornismo risulterebbe certamente priva di un significativo riferimento se non prendesse in considerazione il modo in cui queste vicende si sono intrecciate con la tematiche fenomenologiche nelle forme in cui venivano sviluppate in quegli anni in Italia. Desidero soffermarmi sull'argomento perché vi sono degli aspetti della questione che sono passati quasi inosservati e che 23 sono invece sintomatici di complicazioni inattese e ricche di spunti per una riflessione. Nel 1959, la traduzione della Filosofia della musica moderna veniva proposta con un saggio introduttivo di Luigi Rognoni (23), nel quale si delineava con chiarezza, e anche con una relativa ovvietà, la necessità di questo incontro. La fenomenologia a cui Rognoni faceva riferimento era quella mediata in quegli anni da Enzo Paci: si trattava di un'interpretazione delle problematiche husserliane che risentiva in modo significativo dei motivi filosofici che Paci aveva elaborato in precedenza, sotto i titoli dell'"esistenzialismo positivo" e del "relazionismo" e che si muoveva nello stesso tempo nella prospettiva di un incontro con il marxismo. Attraverso Rognoni, il problema appena aperto di che cosa avrebbe potuto significare una considerazione filosofica della musica nello spirito della fenomenologia, veniva fatto rifluire nell'area dell'adornismo e consegnato ai suoi caratteristici schematismi ed alle sue idiosincrasie. Ora, proprio nel 1959 Enzo Paci riteneva di dover intervenire sulla rivista "Il Verri" con un articolo "Sulla musica contemporanea" (24), il cui contenuto sostanziale rappresenta una polemica coperta, ma in realtà particolarmente aspra, nei confronti della posizione adorniana, e quindi dello stesso Rognoni. Del resto in un rapidissimo cenno autobiografico durante una tavola rotonda organizzata dalla rivista diretta da Dino Formaggio "Fenomenologia e scienze dell'uomo" in occasione del centenario della nascita di Banfi, Rognoni non solo rammenta le "accese discussioni" avute con Paci sulla questione Adorno, ma anche la reazione del tutto negativa di Antonio Banfi (25). Vogliamo rammentare i termini della discussione che Paci svolge nel saggio sulla musica contemporanea, in realtà assai suggestivo. Dopo una breve introduzione di carattere generale nella quale Paci richiama i temi dello schematismo kantiano e dell'irreversibilità temporale - che a loro volta si ricollegano all'idea di una "dialettica" necessaria capace di superare l'oppo- 24 sizione tra astrazione e concretezza e ad una concezione dell'esistenza caratterizzata dalla capacità di porre scopi e fini e di perseguirli in una libera progettualità - la discussione si apre come un tentativo di rispondere alla domanda che chiede in che modo nella musica contemporanea si esprima la condizione di crisi che caratterizza la cultura contemporanea nel suo insieme. E non può non essere sintomatico che, nel rispondere a questa domanda, Paci pensi anzitutto a Stravinsky (26). "Nella musica contemporanea - scrive Paci - la crisi non si esprime soltanto come conseguenza dell'esaurimento del linguaggio tonale" (27). Ciò che si cerca è un "nuovo contenuto, un fondo esistenziale originario, una dimensione empirico-materiale nuova, non precostituita dalla tradizione e dalla civiltà, una dimensione che affondi nella vita più segreta, più inafferrabile dell'inconscio, della natura, della storia" (28). Vi è una sorta di aspirazione ad allontanarsi dalla cultura, un "disagio della civiltà" che è stato indotto dalla civiltà stessa - naturalmente da una civiltà che ha obliato la propria teleologia interna. A questa civiltà ci si ribella, la musica stessa si ribella, operando un "annientamento del mondo" che ha anzitutto il senso di un annientamento della dimensione "colta" e del ritorno alla pura istintualità, alla pura vita corporea, ad una naturalità non ancora compressa e modificata dall'uomo. I richiami a motivi husserliani sono qui del tutto evidenti: il tema della crisi, la riduzione fenomenologica come Weltvernichtung, il tema del mondo della vita. Ma altrettanto evidenti sono le elaborazioni a cui Paci sottopone questi motivi facendoli rientrare nel proprio orizzonte teorico. In particolare Paci è portato a vedere il mondo della vita non solo come una articolata rete di strutture eidetiche, secondo la concezione prevalente in Husserl, ma anche come una variante dell'ingens sylva vichiana; cosicché questo tema risulta in Paci essenzialmente caratterizzato da una possibile doppia interpretazione, da un'ambivalenza ricca di senso. La stessa doppia interpretazione spetterà allora alla riduzione fenomenologica - alla Weltverni- 25 chtung - che da un lato assume il senso di una rigenerazione e di una radicale Erneuerung, e ciò appartiene certamente al pensiero dell'ultimo Husserl, dall'altro invece di una rischiosa "discesa nell'inconscio" che evoca dimensioni arcaiche ed angosciose. Il centro musicale di questo discorso filosofico è il Sacre di Stravinsky. In esso troviamo "la gioia dionisiaca" generata dall'inserimento "in una struttura esistenziale primitiva, arcaica, dirompente" (29). Ma troviamo anche l'angoscia dell'operazione negatrice che forma la sua premessa e la sua condizione. L'elemento ritmico dominante esalta il ritorno alle forze della terra e della natura, ma annuncia anche l'elemento demoniaco che esplode nell'atto culminante del sacrificio. Nella musica di Stravinsky si afferra ad un tempo "sia il fascino che l'orrore del fondo barbarico presente nell'uomo" (30). Attraverso di essa si vuole "far sentire ad una società cosiddetta civile che nel suo fondo è ancora attivo il senso del sacrificare delle vittime" (31). Ciò che è inquietante dunque, secondo Paci, nel Sacre non è il puro fatto del sacrificio umano come ricordo di un passato lontano, legato ad arcaiche pratiche rituali, ma è soprattutto il fatto che si tratta di una presenza barbarica che il processo di "civilizzazione" non è ancora riuscito a svellere. La reazione contro quest'opera ha il senso di una rimozione così come il cercare di addossare a Stravinsky "la barbarie trionfante nel mondo dopo il 1913". Il Sacre rappresenta dunque un vero e proprio viluppo di significativi contrasti. Ma il lato più originale della sua proposta interpretativa sta forse nel suggerimento che essa contiene di una riconsiderazione dello Stravinsky cosiddetto "neoclassico" e poi delle ultime produzioni di carattere religioso e spesso ispirate al "culto dei morti". Ciò su cui Paci richiama l'attenzione è proprio il percorso compiuto dalla produzione stravinskiana che sembra idealmente riproporre, a partire dalla dimensione della crisi, rivissuta come "disagio della civiltà", il percorso della cultura europea: i richiami a figure della mitologia classica assumono il senso di un cammino che deve essere nuovamente 26 compiuto dopo essere discesi nel profondo caos dell'originario, la necessità di porsi nuovamente sotto il segno di Apollo, dopo aver sperimentato la gioia e l'angoscia di Dioniso. Si tratta dunque di richiami che riguardano non tanto il passato, quanto un futuro che deve essere in grado di operare una nuova sintesi. Il passato, certo, è dominante nelle opere "funebri" di Stravinsky, ma ancora in stretta connessione con questo futuro possibile. Così Paci rammenta la prima esecuzione, avvenuta un anno prima a Venezia di Threni, id est Lamentationes Jeremiae Prophetae (1958), facendo notare come circostanza ricca di significato il fatto che nel corso dello stesso concerto erano state eseguite le Sinfonie per strumenti a fiato, dedicate alla memoria di Debussy, i canoni funebri In Memoriam Dylan Thomas, oltre che le Variazioni canoniche sul corale bachiano Von Himmel Hoch. Il tema funebre è dunque legato ad un ricordo che contiene l'intento di fare rivivere in modo nuovo le grandi opere del passato. Il principio dell'irreversibilità temporale insegna che il passato non può per principio essere ripetuto, che esso può essere soltanto ritrovato attraverso il rinnovamento: renovatio e innovatio formano un unico nodo, che è lo stesso nodo che ricongiunge la morte con la vita. L'intero percorso stravinskiano, sembra voler dire Paci, rappresenta un itinerario che, nel suo concludersi, ritorna sui suoi inizi portando alla luce ancora una volta, ma in un senso del tutto diverso, il motivo del sacrificio dell'Eletta che nel Sacre prepara e annuncia una nuova primavera. Più succinti (e meno interessanti) i riferimenti a Schönberg, nella seconda parte del saggio. Si nota qui la tendenza a mostrare la presenza di una problematica per molti versi affine, dal punto di vista generale, per quanto possano essere diverse le forme della realizzazione espressiva. Se l'atonalismo ci riporta al disordine espressionistico, la teoria dodecafonica contiene invece un'esigenza di ordine, di superamento della pura regressione all'istintualità originaria: in essa vi è tuttavia anche l'idea di una "disciplina assoluta", e dunque quell'"arbitrio dell'ordine" che, per "antitesi dialettica", può imporsi proprio a 27 partire dalla dimensione espressionistica del puro caos. Il problema di fondo di Schönberg è quello di aver vissuto sul piano musicale questa opposizione, nella quale si rispecchia la forma stessa della crisi, di essersi dibattuto in essa come di fronte ad un enigma che esige imperiosamente una soluzione. Dunque nulla sarebbe più erroneo che assolutizzare questa struttura antinomica: l'elemento della negatività non può in alcun modo essere irrigidito e fissato. E tanto meno possiamo cogliere questa vicenda musicale come una sorta di preannuncio della morte dell'arte. Il riferimento polemico alle posizioni di Adorno, e dunque all'equivoco connubio di queste posizioni con le tematiche fenomenologiche, presente ovunque nel saggio, diventa ora interamente esplicito: "Fissata nella sua insolubilità statica, l'opera di Schönberg viene imbalsamata come negativa, come se l'unica possibilità dell'uomo contemporaneo fosse quella di vivere il negativo per il negativo. Si tratta, in un'interpretazione di questo tipo, di un'incomprensione di base dovuta ad un eccesso di astrazione intellettualistica, interpretazione nella quale si nasconde il crollo della volontà estetica e filosofica" (32). Particolarmente dura è la conclusione di questa valutazione: "Questa caduta dell'intenzionalità si associa ad un sordo rancore verso l'opera d'arte e alla sfiducia totale nella razionalità della vita e del suo fine" (33). Ciò che colpisce in questa frase - a parte l'inclinazione in senso etico che del resto è propria della interpretazione di Paci dell'intenzionalità - è soprattutto l'espressione di "rancore verso l'opera d'arte" che concentra in modo efficacissimo una raffinata e durissima presa di posizione critica: l'insistenza adorniana sull'elemento della negatività finisce con l'avere il senso di un cupio dissolvi che l'artista novecentesco dovrebbe pronunciare su se stesso, sulla propria opera, così come sull'arte in genere. La morte dell'arte non solo non si aggiunge dall'esterno alla compagine del discorso adorniano, con tutto il suo corteo di pretese giustificazioni socio-filosofiche, ma è anche un motivo intensamente desiderato - in questo 28 l'espressione del "rancore" coglie realmente nel segno. Eppure nonostante una presa di posizione tanto dura, che dà un preciso corpo teorico alle "vivaci discussioni" rammentate da Rognoni, non vi è dubbio che non vi fu un effettivo interesse da parte di Paci ad esasperare la polemica antiadorniana. E le ragioni di ciò sono in realtà meno difficili da comprendere di quanto possa apparire ad un primo sguardo, benché esse siano tutt'altro che prive di complicazioni interne e abbiano un'inclinazione tendenzialmente paradossale. Nonostante le presupposizioni filosofiche fortemente contrarie alla fenomenologia da parte di Adorno e dell'intera scuola di Francoforte, la tematica husserliana della Crisi delle scienze europee mostrava aspetti che certamente potevano essere assorbiti nel quadro categoriale di quella scuola. Ora, l'interpretazione che Paci andava proponendo della fenomenologia faceva riferimento soprattutto alle posizioni dell'ultimo Husserl e alla tematica lukacsiana della reificazione e si iscriveva di conseguenza in un terreno al quale appartenevano anche Adorno e la scuola di Francoforte. Da questo punto di vista il connubio tra fenomenologia e adornismo operato da Rognoni non era affatto arbitrario, anche se non era provvisto di alcuna necessità intrinseca. Inversamente quella polemica che Paci sentiva come necessaria non poteva che incontrare dei limiti invalicabili. 4 Forse nulla si presta meglio per riprendere e riannodare insieme i fili della discussione proposta che fermare conclusivamente la nostra attenzione sul volume di Armando Gentilucci, Oltre l'avanguardia. Un invito al molteplice che risale al 1980, che è stato riproposto, dieci anni dopo la sua prima pubblicazione, nel 1991 (34). Di questo libro sono stati messi in evidenza soprattutto i grandi pregi sul piano della critica musicale, piuttosto che gli elementi di teoria che esso contiene (35). In realtà, 29 anche da quest'ultimo punto di vista, esso rappresenta un tornante estremamente significativo nella determinazione di un nuovo atteggiamento e nell'apprestamento di nuovi strumenti concettuali per l'approccio alla vicende musicali più recenti. Il suo nucleo teorico sta tutto nella connessione concettuale, enunciata nel titolo e nel sottotitolo, tra una critica della nozione stessa di avanguardia, sentita ormai come un' esigenza improrogabile, e la necessità di adottare un punto di vista "plurilinguistico", di superare quella che Gentilucci chiama "mentalità integralista" (36) e dunque l'intero apparato di categorie e di quadri concettuali di cui questa mentalità è costituita. Con particolare chiarezza viene colta la relazione che vi è tra l'idea di avanguardia ed una nozione di progresso concepito come movimento rettilineo, unidirezionale, provvisto di una sua precisa logica interna, che deve essere sviluppata e proseguita. Su questa relazione forse non si è riflettuto abbastanza. In essa vi sono assunzioni che possono talora rimanere inavvertite e solo latenti, ma che non sono per questo meno impegnative nella loro portata e nelle loro conseguenze. Non ci sarebbe avanguardia se non vi fosse l'unità di un sentiero, se non vi fosse cioè un movimento unitario di cui essa rappresenta appunto l'espressione più avanzata. Ma ciò comporta che l'idea della "rottura" rispetto al passato, che ad essa è sempre stata associata, ha in sé una precisa complicazione interna. Occorre comprendere infatti che essenziale all'idea di avanguardia è proprio quel bisogno di tradizione a cui abbiamo accennato in precedenza e che abbiamo riferito ad un determinato modo di atteggiarsi verso la dimensione temporale, ad un determinato modo di vivere la stessa dimensione del presente. Il tempo corre via - saremmo tentati di dire: noi ci troviamo sul treno del tempo. Ma questa metafora "ferroviaria" potrebbe essere profondamente erronea, profondamente fuorviante, in ogni caso non obbligatoria per ciò che riguarda il modo di intendere la nostra appartenenza alla temporalità. Pensiamo piuttosto ad un paesaggio visto dall'alto, ad una visione aerea: come se il presente fosse proprio 30 "quel luogo" che occupiamo in un viaggio aereo. Ma quale luogo? Se ha senso affermare che, a terra, in un viaggio ferroviario, ci troviamo sempre tra due stazioni esattamente determinate e quindi in un luogo esattamente determinato, il luogo del presente aereo diventa tanto indeterminato quanto lo diventa l'"essere tra". Persino ciò che sta davanti e ciò che sta dietro - ciò che sta prima e ciò che sta dopo, sembrano trasformarsi in orizzonti fluttuanti. Dov'è il sentiero? E lo sviluppo conseguente? Quale luogo, laggiù, appartiene al passato e quale al futuro? E molte sono le strade che si vedono di qui e che collegano in molti modi i luoghi. Ci rendiamo così finalmente conto che l'idea di una linea maestra dello sviluppo, così connessa con quella di avanguardia, non è qualcosa che c'è già, ma è anzitutto una costruzione concettuale. Certo, Gentilucci non dice le cose esattamente in questo modo: il primo capitolo del suo libro comincia con un vero e proprio elenco di fatti - di avvenimenti musicali profondamente differenti nella vita musicale dal 1949 al 1976, che certamente non persegue l'intento di ridurre il tema del "plurilinguismo" ad una pura e semplice presa d'atto. Si tratta di mostrare invece che la vocazione alla molteplicità linguistica è una vocazione interna delle pratiche musicali e deve diventare nello stesso tempo una fondamentale premessa teorica. Credo anche che si possa sostenere che per Gentilucci questo problema si presenta non solo per la produzione musicale successiva agli anni cinquanta, ma che valga in genere per lo stesso spirito della musicalità novecentesca. Questa estensione è evidentemente della massima importanza al fine di stabilire un nuovo atteggiamento nei confronti delle vicende musicali del novecento. È infatti particolarmente significativo il fatto che, secondo Gentilucci, la crisi della tonalità debba essere interpretata nella sua portata più generale "come sciogliersi dell'idea totalizzante che in un momento storico determinato debba esistere un modo ed uno solo di fare musica" (37). Ciò che è realmente importante, dunque, non è tanto il fatto che il secolo si apra con un gesto di dissoluzione 31 del sistema di regole che è la tonalità, quanto invece l'esemplarità di questo gesto: cosicché non viene contestato in esso soltanto la validità, in forza di pretesi motivi "naturalistici" di quel sistema di regole, ma l'idea che si dia in generale un modo del comporre per eccellenza. Ed è un ovvio corollario di ciò la negazione che sia possibile stabilire un coordinamento tra un'epoca storica determinata ed un modo del comporre che sia l'unico realmente all'altezza di essa. In coerenza con una simile posizione vi è certamente, non già la difesa di un ecclettismo senza idee, ma il rifiuto di vincolare la libertà compositiva attraverso una "scelta di sistema" effettuata una volta per tutte. "Le regole gioco si inventano giocando" (38) - afferma una volta Gentilucci con una formulazione non solo nello spirito, ma anche nella lettera prettamente wittgensteiniana, e del resto Wittgenstein, che nel testo non appare mai citato, merita certamente di essere richiamato in un simile "invito al molteplice". Si tratta di prese di posizione della massima importanza per le conseguenze che da esse si possono trarre - basti qui rammentare almeno la rimessa in questione del rapporto tra "musica sperimentale e ideologia politica" e il capitolo dedicato ad "estendere" la "tradizione" della musica novecentesca e a rivendicare l'interesse, contro la tendenza a ridurre i compiti della critica musicale alla realizzazione di intollerabili casistiche sulle pochissime persone veramente importanti, di una considerazione dell'esperienza musicale liberata finalmente dal problema dell'appartenenza o meno alla linea maestra. E in questo contesto che ne è di Adorno e della sua filosofia della musica moderna? Qui siamo sul punto di liberarci veramente di lui. Non vi è infatti aspetto delle problematiche contro cui si polemizza che non abbia in Adorno una sorta di riscontro e di documentazione esemplare. La critica di Gentilucci investe lo stesso atteggiamento intellettuale che presiede alla Filosofia della musica moderna e in generale alla produzione musicologica di Adorno come un atteggiamento incapace di rendere conto dell'intera vicenda musicale novecentesca: la sua 32 prospettiva è "troppo provocatoriamente semplificatoria", essa si è rivelata ormai "inagibile", unilaterale, addirittura "malata di eurocentrismo pangermanico" (39). Tuttavia, e qui ci imbattiamo in una nuova complicazione, sarebbe sbagliato sostenere che il bersaglio polemico centrale di Gentilucci sia la posizione adorniana. Il fulcro autentico a partire dal quale può cominciare ad agire l'"invito al molteplice" sta propriamente nella critica dello "strutturalismo musicale", e dunque si tratta di un fulcro che si trova sul terreno delle pratiche musicali più che su quello delle dispute filosofiche. Inoltre l'intera discussione di Gentilucci va localizzata strettamente all'interno delle vicende della musica italiana a partire dagli anni cinquanta ed oltre. Sullo sfondo vi sono gli interventi di Luigi Nono a Darmstadt nei quali Gentilucci rileva non solo l'affermazione della "necessità di guardare oltre i limiti di una problematica esclusivamente tecnica per collegare idealmente la ricerca musicale con i grandi processi di trasformazione sociale e politica", ma anche la presenza di un gesto di "esplicita ribellione nei confronti dell'asettica impostazione tecnocratica darmstadtiana, di una rivalsa dell''impuro' nell'ambito dei ben coltivati orticelli dello strutturalismo integrale" (40). Di qui vengono tratti i motivi per ricollegare in un unico nodo e con questa inclinazione polemica le tematiche teoriche precedenti, la critica stessa della nozione di avanguardia, il rifiuto del "mito risibile delle estreme conseguenze" (41), della concezione del nuovo come puro rovesciamento del vecchio (42), così come anche il problema dell'ampliamento della "genealogia" della musica novecentesca. Ma proprio perché l'angolatura è questa si colgono subito alcune caratteristiche complicazioni. Una critica che coinvolga simultaneamente e con particolare durezza Adorno e lo strutturalismo musicale non è evidentemente troppo facile da condurre coerentemente. La critica dello strutturalismo musicale infatti poteva essere sviluppata con motivi che in un modo o nell'altro ci riportano nell'area delle problematiche adorniane: si 33 pensi all'attacco nei confronti dello scientismo di facciata, o alla pretesa acquiescenza ai meccanismi della civiltà industriale, in generale ai temi anticonsumistici trasferiti nell'ambito musicale ed ai motivi strettamente interdipendenti riconducibili sotto il titolo della perdita della soggettività. All'interno di un simile orizzonte ideologico - sia pure con proprie peculiarità che andrebbero considerate più a fondo - vanno certamente situati gli interventi critici di Luigi Nono in quegli anni: ed allora ci rendiamo conto che la posizione di Gentilucci non è subito leggibile nella direzione che ci sembrava di poter imboccare con sicurezza e decisione fin dall'inizio (43). Vi è in Gentilucci la critica aperta di una "mentalità integralista" e vi è la chiara identificazione della figura di Adorno come un'illustrazione esemplare di questa mentalità. Vi è la posizione estremamente chiara della necessità di modi di approccio interamente nuovi ai problemi della musica del novecento nel suo insieme. Ma ad una lettura attenta si ha infine la sensazione che la critica nei confronti di Adorno non venga condotta fino al punto in cui le premesse lasciavano prevedere: anzi, addirittura che alcuni aspetti sia pure attenuati, e soprattutto liberati dalla presunzione dogmatica così caratteristica del pensiero e dello stile di Adorno, restino in qualche modo ancora attivi sullo sfondo. Mi sembra, ad esempio, si possa ancora scorgere nell'insieme delle valutazioni di Gentilucci un' inclinazione moralistica che è così tipica della cultura musicale di quegli anni, e di cui peraltro non vi è quasi traccia nella produzione del Gentilucci compositore. Si tratta di un' inclinazione del tutto priva di enfasi, ma avvertibile, per citare una circostanza di stile solo apparentemente marginale, nella ricorrenza di espressioni "gustative", come "contaminazione ghiotta", "attrazione golosa", "abbandono goloso al suono", "golosa seduzione", "delibare sonorità" (44) - tutte espressioni impiegate per lo più con un'ambigua inflessione negativa che suonano all'orecchio come varianti affievolite delle geremiadi adorniane contro la musica ga- 34 stronomica. Che vi sia un genuino piacere della musica, al di là di tutte le speculazioni sull'unità trinitaria del bello, del buono e del vero, Gentilucci come musicista lo sa meravigliosamente bene: come teorico mostra invece qualche esitazione (45). Ora, un'inclinazione moralistica è portatrice di altre che in essa sono quasi annidate come corollari inevitabili: ad esempio, la tendenza a ritenere che la musica debba essere portatrice, sempre e comunque, "se è vera musica", di grandi messaggi, del messaggio più grande di tutti, di un messaggio tanto grande da non potersi dire in parole, ma soltanto in suoni (vi è una singolare graduazione che conduce dall'enfasi politico-moralistica all'enfasi mistica). Quanto più l'accento cade sulla sublimità della musica, tanto più la musica sarà esposta ad un immiserimento rispetto alla molteplicità delle sue forme e modi di espressione ed è appena il caso di notare che una simile tendenza riduttiva è profondamente incompatibile con l'invito al molteplice di Gentilucci. Questa incompatibilità non manca certo di manifestarsi in molti modi in questo suo libro. Eppure inclinazione moralistica, di origine politico-ideologica, e preoccupazioni nei confronti di una concezione minimalista della musica affiorano talvolta inattese, limitando in modo piuttosto sensibile la capacità innovativa delle premesse teoriche anche sul piano delle valutazioni critiche. Un solo esempio: la giusta rivendicazione dell'importanza dell'esperienza musicale americana stabilisce una sorta di cesura tra i classici più lontani quali sono Ives e Varèse e i classici più vicini, come Morton Feldmann e John Cage. Ed eccoci dunque a ripetere - con mille altri - che le "paradossali proposte" di Cage sono "quietisticamente rinunciatarie"; che il suo interesse, che avrebbe dovuto meritare un elogio di principio, per le culture extraeuropee viene subito degradato come "misticismo zen made in USA"; che il suo "democraticismo di un'arte povera e casuale, non aristocratica, non intimidatoria" è una "cortina fumogena"; che il suo scandalismo è in realtà "un ilare e ambiguo conformismo, un acquietamento nell'alveo del capi- 35 talismo americano", ecc.(46). Questi giudizi su Cage, che sono quasi una velina della critica musicale italiana, richiamano inesorabilmente i giudizi adorniani su Stravinsky. Cosicché non desta più sorpresa - ma semmai stanchezza per un nodo che non si riesce a sciogliere - il fatto che questi giudizi vengano ripresi pari pari e con esplicita approvazione a proposito di un lavoro come l'Histoire du soldat, per il quale si evoca la categoria del neoclassicismo che, in quanto categoria critica, può oggi essere messa definitivamente da parte senza rimetterci nulla, anzi guadagnandoci qualcosa. "La storia del soldato (...) è inquadrata musicalmente nel secco, lineare linguaggio del primo neoclassicismo strawinskiano, veicolo ideale per una gestualità energica quanto ambigua, nella quale T. W. Adorno ha individuato quelle componenti regressive presenti in tutto ciò che vuole essere épatant e come tale disposto, sia pure in chiave di paradossale negazione ironica, ad un'intesa con i valori consacrati della cultura dominante, ossia della cultura borghese" (47). Le ragioni di questo adornismo di ritorno sono già state spiegate: esse sono da inquadrare in una critica allo strutturalismo musicale che ritrova, nonostante tutte le intenzioni critiche, le valutazioni adorniane su Stravinsky, avanzando naturalmente la pretesa senza speranza di separarle dal contesto filosofico generale di Adorno. Di fronte a tutto ciò occorre naturalmente rivendicare la validità delle premesse da cui prende le mosse Gentilucci, sottolineando nello stesso tempo la necessità di dispiegarle in tutta la loro portata. La folla di questioni emerse nel corso della nostra discussione - e che sono naturalmente esposte ad ogni possibile approfondimento - mostra, io credo, che avevamo qualche ragione nel chiedere, come ci siamo espressi all'inizio, un più meditato congedo dalle posizioni adorniane. D'altro lato, appare chiaro dall'andamento di questa discussione che non sono affatto in questione queste posizioni come tali e la loro corretta interpretazione. Si tratta invece di comprendere a quale profondità si trovino le valutazioni, gli atteggiamenti, gli orientamenti di pensiero che debbono essere rimessi in gioco. 36 Note (1) M. Bortolotto, Un'immagine culturale del viaggio di Adorno in Italia, in Adorno in Italia, a cura di A. Angelini, Siracusa, Ediprint, 1987. Questo libro raccoglie gli atti di un convegno che si è tenuto a Palermo nel 1982. (2) A. Arbo, Dialettica della musica - Saggio su Adorno, Milano, Guerini, 1991. (3) G. Lanza Tomasi, Adorno e i discepoli selvaggi. Un commento alla fortuna italiana degli scritti musicali di Adorno, in Adorno in Italia, op. cit., pp. 85 sgg. (4) Lanza Tomasi ricorda "i tagli di brani contrari ai regimi socialisti nella traduzione italiana dei Minima moralia", ivi, p. 86. (5) ivi, p. 92. (6) ivi, p. 88. (7) M. Bortolotto, art. cit. p. 9. (8) "Non meno che in Germania, la critica musicale italiana nel dopoguerra manifestava chiaramente i guasti gravissimi dell'asservimento al regime fascista, che aveva incoraggiato le manifestazioni del più retrogrado nazionalismo conservatore togliendo spazio ai tentativi di un movimento critico più avvertito, che pure tentò di affermarsi in sedi affatto marginali. Soprattutto risultava evidente la mancanza d'informazione sugli sviluppi recenti della musica di avanguardia, ma ancor più pesava la carenza di un retroterra storico, culturale e sociale che consentisse il dispiegarsi di una coscienza adeguata ai fenomeni di quella musica": G. Manzoni, Adorno e la musica degli anni '50 e '60 in Italia, in "Musica/Realtà", I (1980), n. 2, p. 72. - Proprio questo ritardo, tuttavia, impone certamente più di una distorsione nella ricezione di Adorno, facendo apparire nuovissimo ciò che in realtà era già vecchio. Adorno fu, in larga parte, la conseguenza di un ritardo culturale. (9) Lo schema interpretativo proposto da F. Juvarra, Die Wirkung Adornos im italienischen Musikleben, in Adorno und die Musik, a cura di O. Kolleritsch, Graz 1979, pp. 71 sgg., secondo il quale vi sarebbe stata una "bipolarità interpretativa" che avrebbe visto da un lato i sostenitori di Lukàcs (con esplicito e unico riferimento a La distruzione della ragione) sfavorevoli ad Adorno e dall'altro una linea di confluenza tra Adorno e le posizioni fenomenologico-esistenziali, promossa soprattutto da L. Rognoni, sotto la mediazione di Banfi, mi sembra priva di fondamento. La fortuna italiana di Adorno è accompagnata dall'interesse crescente per il Lukàcs, non già della Distruzione della ragione (trad. it. Einaudi, Torino, 37 1959), ma di Storia e coscienza di classe, (trad. it. Milano, Sugar, 1967) la cui traduzione francese, che ha immediata circolazione in Italia, esce a Parigi per Les Editions de Minuit nel 1960. (10) Einaudi, Torino 1959. (11) P. Boulez, Note di apprendistato, trad. it. di L. Bonino Savarino, Einaudi, Torino 1968. La stesura del saggio su Stravinsky era conclusa nel 1951. (12) Feltrinelli, Milano 1959. (13) ivi, p. 169. È estremamente indicativo delle ambiguità nelle quali avviene la ricezione italiana di Adorno il fatto che il saggio sull'"invecchiamento" non genera nulla di simile alla vivace discussione avvenuta invece in ambiente tedesco, di cui divenne portavoce H.K. Metzger con l'articolo - pubblicato un anno prima della traduzione italiana di Dissonanze - intitolato Das Altern der Philosophie der neuen Musik (in "Die Reihe" , 4, 1958, pp. 64-84). Si può anche affermare che quella stessa discussione non ebba in Italia alcuna eco. Per la traduzione italiana di un "documento" così significativo si dovrà attendere sino al 1985, quando esso venne tradotto da Marta Keller in Europa 50/80. Generazioni a confronto, Pubblicazione della Biennale di Venezia in occasione del 42 Festival Internazionale di Musica Contemporanea, 1985, pp. 41-62. Cfr. nota 43. (14) Per gli argomenti che potrebbero essere fatti valere in questa direzione si veda P. Gizzi, Stravinsky e la Nuova Musica nella musicologia filosofica di Adorno, in Adorno in Italia, op. cit. pp. 33-42. (15) L. Pestalozza, La contraddizione pratica di Adorno, in L'opposizione musicale - Scritti sulla musica del Novecento, a cura di R. Favaro, Milano, Feltrinelli 1991, pp. 75-90. Il saggio venne pubblicato per la prima volta su "La Rassegna musicale", XXX, n. 1, 1960, pp. 9-23. (16) ivi,p. 78. La presa di posizione intorno al saggio sull'Invecchiamento rappresenta indubbiamente un punto critico non marginale per ciò che riguarda il giudizio sull'"attualità" di Adorno. A fronte della valutazione di Pestalozza si può porre quella espressa da Manzoni, art. cit., dove si legge che "all'iniziale sospetto, diffidenza, in qualche caso ostilità verso la musica nuova - che va intanto imponendosi all'attenzione di tutti i giovani compositori dell'Europa Occidentale - segue la fase di avvicinamento che lo conduce ad aprirsi dialetticamente, con gli opportuni e in lui sempre imperativi processi di mediazione, alla problematica viva di quegli anni: come osservava Bussotti nel 1967, "Adorno ha punteggiato e continua a sottolineare l'attuale evoluzione del linguaggio musicale. Si salda così il cerchio che porta il pensiero adorniano nel vivo del dibattito musicale e nell'interno stesso della coscienza di tanti compositori anche italiani" (p. 75). 38 (17) ivi, p. 84-85. " (...) la verità o la falsità dei molteplici indirizzi in cui s'è manifestata e si manifesta la decadenza egemonica occidentale non si valuta in sè ovvero in rapporto a una metafisica soggettivistica, ma nella concretezza e praticità dei rapporti fra sovrastruttura e struttura che escludono di assorbire negli estremi la 'natura' e il 'contenuto' di verità della musica moderna. Appunto perché la dialettica della musica moderna si sconta nella reale storicità umana, e non nell'ideale ipotesi di una crisi eternizzata. Soltanto a questo patto gli estremi possono essere presi in considerazione.In effetti sono gli estremi di una situazione e di un momento particolare in divenire, non assorbono gli intermedi che, a loro volta (e si pensi a Hindemith, a Prokof'ev, a Bartok, a Weill e così via) sono gli estremi di un'altra situazione e di un'altro momento particolare (corsivo mio) (...) ". Non è possibile tuttavia - e questo fa parte della densità dei problemi suscitati da una riflessione su Adorno - fare a meno di risentire un'eco delle valutazioni adorniane su Stravinsky nell'intervento che Pestalozza proponeva nel Convegno internazionale di studi svoltosi a Milano nel 1982 (Stravinskij oggi, a cura di A. M. Morazzoni, Unicopli, Milano 1986) e ripubblicato con il titolo "Trascrizione e comunicazione nell'opera di Stravinskij" in L'opposizione musicale, op. cit. pp. 193-203. (18) Su Bach visto da Adorno, cfr. A. Arbo, op. cit., p. 21-26. Secondo Adorno, si può riconoscere "nella tecnica della 'variazione progressiva' di Bach il fondamento dei criteri costruttivi che saranno poi alla base del classicismo viennese" (ivi, p. 25). (19) Per tutta la problematica relativa all'importanza del classicismo viennese e la centralità di Beethoven, ma anche in generale per un'effettiva riflessione critica sulla sociologia adorniana della musica, si veda A. Serravezza, Musica, filosofia e società in Th. W. Adorno, Dedalo Libri, Bari 1976. Questo libro va considerato come il più importante contributo italiano sull'argomento ed è in realtà una critica tanto pacata quanto serrata delle posizioni teoriche di Adorno e delle loro conseguenze sul terreno della riflessione filosofico-musicale. (20) "La musica, in quanto arte che si svolge nel tempo, è legata, attraverso il suo puro mezzo alla forma della successione (...) Appena incomincia si assume l'impegno di andare avanti, di diventare qualcosa di nuovo, di svilupparsi (...) il fatto di procedere sempre oltre se stessa non è un imperativo metafisico ad essa imposto, bensì è inerente alla sua costituzione, contro la quale non può nulla (corsivo mio)": questa nettissima formulazione di Adorno (tratta da Quasi una fantasia, Frankfurt a. M. 1963, p. 208) è opportunamente rammentata da C. Dahlhaus ( La polemica di Adorno contro Stravinskij e il problema della "critica superiore" in Stravinskij oggi, Atti del Convegno Internazionale di studi, Milano 28-30 giugno 39 1982, a cura di Anna Maria Morazzoni, Unicopli, Milano 1986) per sottolineare come le valutazioni adorniane su Stravinsky siano strettamente dipendenti da una concezione dell'essenza della musica (questa espressione impiegata da Dahlhaus è qui del tutto pertinente) che ha il suo modello in Beethoven. Naturalmente con questa concezione della musica è strettamente connessa quella della sua natura essenzialmente linguisticodiscorsiva. P. E. Carapezza, Adorno a Palermo, in Adorno in Italia, cit. p. 14: "Questa concezione logica, discorsiva, della musica era radicata così profondamente in Adorno che egli non poteva ammetterne altre". (21) Sulla battaglia di Adorno "in difesa di Schönberg e della 'Scuola di Vienna', sulla sua rigorosa dimostrazione della necessità di non adagiarsi nel già noto, pena l'impossibilità di produrre in musica qualcosa di sensato, non è il caso di tornare; così come ci è ben presente la sua convinzione - che lo fa quasi più schönberghiano di Schönberg - che il nuovo debba scaturire dalla storia e della tradizione, come quando per esempio scrive che 'gli elementi e le problematiche della musica nuova hanno tutti tratto origine dalla musica tradizionale', o che 'la musica nuova rimane pur sempre musica, perché tutte le sue categorie, pur non identiche a quelle tradizionali, sono nello stesso tempo identiche ad esse'" (corsivo mio): G. Manzoni, art. cit., p. 78. Affermazioni come quelle qui citate hanno come importante presupposto la decisione sull'essenza della musica nella direzione or ora indicata (con l'inevitabile corollario implicito dell'unicità della tradizione), e traggono da questo presupposto il loro senso effettivo. (22) "A dar vita ad un'opera d'arte non è mai l'ubbidienza a un principio schematico (sia esso scientifico o matematico), bensì solo la sintesi - intesa come risultato dialettico - tra un principio e la sua realizzazione nella storia, cioè la sua individuazione in un momento storico assolutamente determinato, non prima e non dopo". Così diceva molto efficacemente per illustrare il proprio punto di vista Luigi Nono in un intervento tenuto a Darmstadt nel 1959 (edito ne "La rassegna musicale", XXX, 1 (marzo 1960), pp. 1 sgg. con il titolo Presenza storica nella musica d'oggi. Il corsivo è nostro). - In apertura della frase si può naturalmente cogliere uno spunto polemico nei confronti di Stockhausen e di Boulez (benché l'obbiettivo critico principale di questo intervento sia Cage). È tuttavia necessario da parte nostra mettere in rilievo il fatto che il "serialismo integrale" non avrebbe potuto neppure essere immaginato se alle sue spalle non vi fosse l'idea del "passo avanti" che "continua" e porta alle necessarie conseguenze un passato che sta immediatamente alle nostre spalle. Cfr. nota 41. (23) Il saggio intitolato "La musicologia filosofica di Adorno" venne poi ripubblicato nella raccolta Fenomenologia della musica radicale, Garzanti, Milano 1974 40 (24) Esso compare con questo titolo in Relazioni e significati, iii, Lampugnani Nigri, Milano 1966, pp. 80-93 a cui facciamo riferimento nelle citazioni seguenti, mentre ne "Il Verri", 1959, n. 1, p. 3-11 esso era intitolato Per una fenomenologia della musica contemporanea. A partire dall'articolo di Paci si sviluppò, sotto il titolo di "A proposito di una fenomenologia della musica contemporanea", un dibattito a cui presero parte, G. Gavazzeni, L. Pestalozza, B. Rondi ("Il Verri", III, 1959, n. 3, pp. 109 sgg.), F. D'Amico e P. Santi (IV, 1960, n. 2, p. 104 sgg.). Tuttavia nessuno degli intervenuti dà un qualche rilievo alla polemica antiadorniana che rappresenta invece il nucleo effettivo del saggio di Paci e di conseguenza non viene avvertito il fatto che era in realtà in discussione un modo di "applicare" le tematiche fenomenologiche in campo musicale. (25) "Dirò soltanto - dichiara Rognoni - che negli ultimi anni della sua vita Banfi fu piuttosto perplesso e contrariato dal mio vivo interesse per la sociologia di Adorno e la Scuola di Francoforte che giudicava deviante e pericoloso (del resto lo fu anche Paci, col quale ebbi accese discussioni). Ed era logico per Banfi, proprio perché la sua 'ragione teoretica' mirava sempre al positivo": Ricordo di Antonio Banfi, in "Fenomenologia e scienze umane", 1986, n. 3, p. 247. Mi sembra peraltro che il riferire l'atteggiamento di Banfi ad una generica tendenza ottimistica sia troppo riduttivo. Banfi aveva le proprie idee sui rapporti tra arte e società, e proprio pensando ad Adorno, è assai istruttivo rileggere, per apprezzare la profondità del contrasto, il saggio intitolato Arte e socialità (1956) pubblicato in A. Banfi, Vita dell'arte. Scritti di estetica e filosofia dell'arte, Opere, v, a cura di E. Mattioli e G. Scaramuzza, Istituto Antonio Banfi, Bologna 1988, pp. 254-272. - Per le "accese discussioni" tra Paci e Rognoni su Adorno, si può vedere anche l'affettuosa rievocazione dello stesso Rognoni intitolata Ascoltando Schönberg, in "Aut Aut", Luglio-Ottobre 1986, n. 214-216, pp. 21 sgg. (26) Certamente significativi sono anche i richiami a R. Vlad, anche se uno di essi è parzialmente critico (cfr. ivi, p. 85). (27) ivi, p. 83 (28) ivi. (29) ivi, p. 83 (30) ivi, p. 82 (31) ivi, p. 84 (32) ivi, p. 90 (33) ivi. (34) A. Gentilucci, Oltre l'avanguardia. Un invito al molteplice, Fiesole, Discanto Edizioni 1980. Ristampa con Prefazione di A. Guarnieri, Ricordi-Unicopli, Milano 1991. (Le nostre citazioni si riferiscono alla ri- 41 stampa). (35) Ciò è confermato dalla recente nota a firma di P. Petazzi uscita sulla rivista "Sonus" (n. 3, Luglio-Agosto 1991, pp. 86 sgg.) sotto il titolo "Ripubblicazione di Oltre l'avanguardia di Gentilucci". Non si fa qui alcun cenno alla rilevanza teorica che riveste questo libro, operando di esso un'evidente sottovalutazione. (36) ivi, p. 22. (37) ivi, p. 21. E si aggiunge: "anche se non subito si colse la portata decisiva di una tale motivazione, oggi chiarissima". (38) ivi, p. 23. (39) ivi, p. 20. L'"estraneità di Adorno a tutto ciò che, in musica, non sia germanico o fortemente apparentato con la storia musicale germanica" era già stato uno dei motivi vivacemente polemici dell'articolo di F. D'Amico "Adorno e la 'nuova musica'" edito nel 1959 e ripubblicato ne I casi della musica, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 491 sgg. (40) ivi, p. 27. (41) ivi, p. 31. Si allude qui a P. Boulez e in generale agli "alfieri della serialità". Val la pena citare qualche passo di questa critica: "Concretamente, l'operazione linguistica radicale voluta dagli alfieri della serialità, andava tutta nell'ordine di una subalternità per rovesciamento, di tipo negativo, rispetto alla tradizione musicale europea, alla tonalità. Anche le prime opere della scuola darmstadtiana sono, come sempre era stato per la musica occidentale, fondate sulla priorità nettamente egemonica di una dialettica delle altezze di natura dunque intervallare (...) E questo, non dimentichiamolo, molti anni dopo che un musicista come Varèse (e prima di lui, Charles Ives) aveva dimostrato la possibilità di comporre musica nuova, fatta di suoni anche indeterminati o di materiali acustici vari, direttamente sperimentati, senza passare per la via obbligata del rovesciamento dall'interno del sistema linguistico precedente, caro al pensiero idealistico o ad una malintesa dialettica informata al mito risibile delle 'estreme conseguenze'" (ivi). (42) ivi. (43) Proprio per la linea di discorso che stiamo cercando di tracciare è importante richiamare l'attenzione sul fatto che l'atto di "rispettosa contrizione" (come lo chiama F. Evangelisti in Dal silenzio ad un nuovo mondo sonoro, Semar, Roma 1991, p. 23) recitato da Heinz-Klaus Metzger con il saggio "Das Altern der jüngsten Musik" (in "Collage", n. 2 (8), marzo 1964, ora anche in H.K. Metzger, Musik wozu. Literatur zu Noten, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1980, pp. 113 sgg.) è strettamente ricollegato da Metzger, a torto o a ragione, al nome di Nono: "Quei moniti di Cassandra lanciati da Adorno potevano difficilmente trovare conferma nella 42 situazione musicale. Buon gioco polemico, fin troppo facile, aveva contro di lui chi metteva sul tappeto le ultime partiture, purché evitasse di andare a cercare proprio quelle di Nono, che già allora gli davano ragione (corsivo mio)" (ivi, p. 113). Sulla posizione di Metzger si veda anche l'articolo intitolato Adorno und die Geschichte der musikalischen Avantgarde, in Adorno und die Musik, op. cit, pp. 9 sgg. (44) Cfr. ivi, pp. 63, 64, 80, 136, 88. (45) Mi sembra giusto segnalare che in un notevole intervento al Seminario internazionale di musica contemporanea tenutosi nel corso dell'VIII Cantiere Internazionale d'Arte di Montepulciano 29 luglio-6 agosto 1983, intitolato Attraverso i sentieri del comporre, che ho potuto leggere per la cortesia di Anna Maria Morazzoni, Gentilucci mostra un atteggiamento parzialmente autocritico rispetto a Oltre l'avanguardia che risaliva a soli tre anni prima, richiamandosi anche alla difficoltà di mettere d'accordo il critico e teorico con il musicista: "(...) in un libro che, ancor recente, mostra già agli occhi dello stesso estensore profonde rughe: croce/delizia del musicista che scrive di critica, il non sapere o potere mai annotare osservazioni definitive, neppure per se stesso (...)". (46) ivi, p. 26. (47) ivi, p. 123. 43 Il tema dell'ineffabilità nella filosofia della musica di Jankélévitch 1987 44 Materiali di lavoro per un corso sul tema "Linguaggio ed esperienza nella filosofia della musica" tenuto nel 1987 (Università di Milano, Insegnamento di Filosofia teoretica I). Il testo di riferimento è La musique et l'Ineffable, ed. du Seuil, Parigi 1983, I ed. Colin, Parigi 1961, trad. it. a cura di E. Lisciani-Petrini, Tempi moderni Ed., Napoli 1985. I numeri di pagina delle citazioni si riferiscono a questa traduzione italiana. - Accurate informazioni sulle opere di Vladimir Jankélévitch e sulla bibliografia si possono trovare nel sito internet: http://utenti.lycos.it/jankelevitch/. Radio France, con lodevole iniziativa, mette a disposizione le interviste di Jankélévitch contenute nei propri archivi all'indirizzo http://www.radiofrance.fr/chaines/franceculture2/ete2003/jankelevitch/archives.php. 45 Indice 1. Premessa 2. Osservazioni sull'impiego del termine "ineffabile" 3. La doppiezza della musica 4. L'idea di ineffabilita'contro la metafisica della musica 5. Sviluppi musicali e ragionamenti 6. La musica e la ripetizione 7. "Espressione" e reazione antiromantica 8. Impressionismo e oggettivismo 9. Quante cose la musica riesce a dire!… 10. Ciò che la musica non dice 46 47 1. Premessa Secondo un aspetto caratteristico del suo atteggiamento filosofico complessivo Jankélévitch, nel suo libro del 1961 intitolato La musica e l'ineffabile (1961 - trad. it. a cura di E. Lisciani-Petrini, Napoli 1985) - non intende impegnarsi in una discussione provvista di una forte base sistematica, ma sviluppare invece considerazioni che funzionano da semplici tracce che in nessun modo impediscono sviluppi divaganti - in un senso che non intende essere peggiorativo. Al contrario! Questa scelta lascia intravvedere alcune prese di posizione generali che conferiscono unità all'insieme, ma nello stesso tempo libera il pensiero a spunti stimolanti - e non importa se alla fine non potremo forse lodare quest'opera per la sua "profondità". Ci basta la ricchezza delle idee che essa mette a nostra disposizione. E nemmeno è da intendere in senso peggiorativo il notare che in questo libro le preferenze musicali dell'autore hanno un particolare rilievo - il modo in cui l'autore si appoggia ad esse contiene la rivendicazione implicita e sacrosanta ad avere un gusto ed a farlo valere nei propri ragionamenti, nelle proprie valutazioni che assumono un respiro così ampio da arrivare a fornire interessanti prospettive da cui guardare alla musica del nostro tempo: molto spesso al di fuori di luoghi comuni assai più solennemente annunciati. In questo libro si parla della musica, e non si vuole pretendere di sentenziare intorno a ciò che la musica del nostro tempo è, o non è, o dovrebbe essere. Questo senso della misura - insieme all'intelligenza delle osservazioni e alla bellezza dello stile - è uno dei pregi non secondari di questo lavoro. 2. Osservazioni sull'impiego del termine "ineffabile" Per la nostra formazione e per le nostre inclinazioni filosofiche 48 - diciamolo subito - il titolo ci appare sospetto. La musica e l'ineffabile - l'ineffabilità della musica. Prima di avventurarci nella lettura conviene rendere esplicite alcune nostre perplessità. Tutti forse siamo convinti che la musica debba dire qualcosa. Un brano musicale non si presenta come un muro di suoni al di là del quale non c'è null'altro. Nello stesso tempo un poco di riflessione insegna subito che non può darsi nessuna traduzione verbale di ciò che viene detto musicalmente. Se dunque la musica è un dire, essa dice ciò che non può essere detto in parole. Ma ciò che non può essere detto in parole è ancora un dire? Cosicché si affaccia subito una possibile relazione interna tra la musica e l'ineffabile. Ma sul modo in cui questa relazione viene posta cominciano i dubbi e le perplessità. Intanto vi sono almeno due modi di impiegare parole come questa queste - l'ineffabile, l'indicibile: un modo strettamente letterale che sembra poter aderire a contesti del tutto quotidiani; ed un modo che esalta il senso letterale e che dunque riporta il loro impiego a contesti eccezionali. Sarei tentato di dire: vi è un senso calmo ed un senso esaltato. L'indicibile in senso esaltato si riferisce ad un senso nascosto che tuttavia in qualche modo viene comunicato, senza tuttavia uscire dal nascondiglio in cui si trova; vi è perciò un'allusione al mistero, a cose tanto sublimi oppure tanto tremende da non poter trovare espressione nelle parole di cui è costituito il nostro linguaggio. Ineffabile sarà dunque un'esperienza eccezionale, tanto eccezionale da non poter essere trasmessa con parole o contenuta in esse. L'ineffabilità esaltata è dovuta ad una sorta di sovrabbondanza di senso: ciò che è ineffabile è un contenuto troppo grande per il contenente della parola. Ma vi è anche un possibile impiego del termine che potremmo generalizzare a piacere in rapporto a circostanze affatto comuni. Prendiamo dunque quella parola alla lettera. Ed allora ci avvediamo subito di quante siano le cose che ci circondano che possono essere caratterizzate come ineffabili! Possiamo forse dire in parole che cosa sia la ruvidità della superficie di un 49 oggetto? Oppure il profumo di un fiore? E chi se la sentirà di esporre in parole il senso della parola "rosso"? Ineffabili sono le sensazioni in genere; ed anche i sentimenti - possiamo pretendere forse di porgere all'interno delle parole la sostanza effettiva dei nostri sentimenti? In questa ineffabilità non vi è nemmeno l'ombra, o almeno non sembra che vi sia, di quello straripamento di senso a cui abbiamo accennato in precedenza: il senso straripa da un contenente inadeguato. E nemmeno vi è da rincrescersi particolarmente di questa "impossibilità" di dire, o almeno la gente comune non se ne rincresce: a differenza, talvolta dei filosofi. Il fatto che il linguaggio non sappia "dire" l'aroma del caffè, secondo un esempio proposto da Wittgenstein, potrebbe non essere per nulla considerato come un suo limite. Il fatto stesso che possa sorgere un simile problema è singolare. In certo senso un'affermazione sull'ineffabilità si svolge in due passi: il primo passo pone il compito della verbalizzazione, il secondo passo rappresenta una sorta di verifica della sua impossibilità. Ma la domanda è: che cosa rende giustificato anzitutto il primo passo? E ciò equivale a chiedere: a chi mai potrebbe venire in mente di tentare una traduzione verbale dall'aroma del caffè? E se a qualcuno viene in mente una cosa simile, non dovrà forse anzitutto rendere conto dei motivi che lo spingono a questa impresa? Così se qualcuno afferma che ogni tentativo di tradurre in parole un motivo musicale va incontro ad un fallimento, una simile affermazione poggia sulla sensatezza del compito della traduzione verbale, sensatezza di cui si può dubitare. Alla richiesta di tradurre in parole possiamo rispondere che ciò non è possibile (come se prima avessimo a lungo tentato di farlo) oppure possiamo respingere la sensatezza del compito. In questo secondo caso ci rifiutiamo di effettuare il primo passo, e quindi non possiamo pervenire al secondo. Tra l'una e l'altra risposta vi è una grossa differenza - nel primo caso la questione dell'ineffabilità viene costruita, nel secondo si impedisce in via di principio la sua costruzione. 50 Queste considerazioni inviterebbero a una sorta di minimalizzazione del tema dell'ineffabilità in rapporto alla musica, ad evitare il suo surriscaldamento. Ciò che sospettiamo è che il legame tra musica e ineffabilità conduca non tanto ad una concezione sbagliata della musica, quanto piuttosto ad una concezione unilaterale, come se tutta la musica - o anche tutta la musica vera - dovesse contenere allusioni a qualcosa di sublime. 3. La doppiezza della musica Tanto il nostro interesse viene ravvivato non appena scopriamo nelle pagine di Jankélévitch una più ricca articolazione del problema. Non vi è dubbio infatti che il tema dell'ineffabile sia in questo autore ricco di risonanze metafisiche, di rimandi alla lontana ad una componente religiosa: eppure, se leggiamo con attenzione questo testo si rimane stupiti nel constatare quanto poco venga enfatizzato questo tema dell'ineffabilità, quanto poco esso venga surriscaldato, cosicché quel senso della misura che prima avevo richiamato in via generale per l'insieme dell'opera vale anzitutto proprio per questo suo tema centrale. Nel primo capitolo, largamente introduttivo, si comincia con il sottolineare la doppiezza della musica. La musica è sempre stata intesa secondo caratterizzazioni fortemente contraddittorie: come un'arte frivola e marginale, legata alla danza, al piacere, alla sensualità, alla corporeità; ma altrettanto spesso essa è stata invece intesa come un'arte che si appella all'intelletto piuttosto che alla sensibilità, all'interno delle cose piuttosto che all'esteriorità in genere. Tenendo conto di questa doppiezza, si comprende per quale motivo si siano manifestate nel corso del tempo perplessità nei confronti della musica che chiamano in causa il piano dell'etica e della morale; ma vi è anche tutta una tradizione (forse la tradizione dominante) che porta l'attenzione sugli aspetti conoscitivi, sulla relazione con strutture astratte, sulla relazione della musica con l'essenza stessa della realtà. 51 In rapporto al primo aspetto J. rievoca un problema molto antico che è presente nel mito e che è esemplarmente rappresentato dalla posizione platonica: ciò che Platone teme nella musica è proprio la sua potenza, la sua capacità di incantare - e ciò significa soggiogare, impedire, frenare l'esercizio della razionalità. La musica si collega così alla magia, a quella che Jankélévitch chiama "causalità nera". "Se si vogliono schiavi, ci vuole quanto più è possibile musica" - sembra dicesse Tolstoj - sicuramente grande amante della musica - come riferisce un suo biografo, frase che Jankélévitch cita a sua volta. Il potere della musica è un potere "scabroso", proprio perché questo potere è fondato sul fascino, sullo charme (una parola che potrebbe essere tradotta forse con "incanto"). E perciò essa può essere anche intesa come l'"oggettivazione della nostra debolezza". Il mito delle Sirene che attraverso il canto portano gli uomini alla perdita di sé è in proposito assai significativo. Questo tema della capacità seduttiva della musica ricorre di continuo, con intonazione diverse, ma con un fondamento comune. Jankélévitch rammenta anche la posizione di Nietzsche, il suo "rancore" contro quegli aspetti della musica che tengono ad affascinare morbosamente e che fanno affiorare l'elemento mistico, l'elemento notturno. La posizione vera e propria di Jankélévitch comincia a prospettarsi nel momento in cui egli passa dal problema etico al problema metafisico. Cominciamo allora ad intravvedere i primi segnali intorno al modo in cui Jankélévitch intende far giocare il tema dell'ineffabilità all'interno delle proprie considerazioni. Questo tema si annuncia nella tesi secondo cui "la musica direttamente e in se stessa non significa niente se non per associazione o convenzione" (ivi, p. 17). Un'affermazione come questa in realtà può essere proposta da punti di vista diversi e il suo senso dipende fortemente dal contesto in cui essa è inserita. Dal punto di vista filosofico dobbiamo anzitutto richiamare l'attenzione sul fatto che anche sullo sfondo di questa frase, 52 come in generale nella riflessione di Jankélévitch, vi è la posizione di Bergson. Questa presenza è avvertibile in almeno due momenti: il cadere dell'accento sulla tematica temporale secondo inclinazioni che esamineremo tra breve e l'atteggiamento nei confronti del linguaggio e quindi del rapporto tra musica e linguaggio. In Bergson il momento della manifestazione linguistica viene in generale considerato come una sorta di fissazione e quindi anche di irrigidimento e di impoverimento della ricchezza e della fluidità dell'esperienza vissuta. Ciò determina un sorta di connotazione negativa sul linguaggio che viene considerato incapace di restituire sul piano verbale ciò che accade nella realtà della vita spirituale, quando addirittura questa realtà non viene tradita ed esposta al fraintendimento dal linguaggio stesso. Questo accenno negativo investe anche le metafore, le espressioni figurate in genere, che appaiono come artifici con i quali il linguaggio tenta, in realtà senza successo, di dare espressione adeguata ai contenuti dell'esperienza vissuta. Per Jankélévitch, la frase sulla mancanza di "significato" della musica non ha tanto il senso di una tesi "formalistica", quanto piuttosto intende attrarre l'attenzione sulla profonda equivocità che consiste nel considerare il fenomeno musicale dal punto di vista linguistico. 4. L'idea di ineffabilità contro la metafisica della musica La prima conseguenza di questa posizione sta in un netto rifiuto di istituire un rapporto tra musica e ontologia - un rapporto che fa parte dal tempo dei tempi degli intrecci tra musica e metafisica. Ci troviamo così intanto a prendere atto che un libro che si propone di trattare della musica e dell'ineffabile prende le mosse da una polemica che sembra orientata proprio contro questi intrecci. La tendenza metafisica nella filosofia della musica attraversa tutta la tradizione storica e, ad avviso di Jankélévitch, la sua 53 origine deve essere ricercata nel fatto che l'uomo è da sempre "amante delle allegorie", e quindi è stimolato a ricercare significati al di là del puro fenomeno sonoro, in ciò guidato indubbiamente dal riferimento linguistico: "Decifrare nel sensibile non si sa qual messaggio criptico, auscultare dentro e dietro un cantico qualcosa d'altro, percepire nei canti un'allusione ad altro, interpretare una cosa ascoltata come allegoria di un significato inaudito e segreto: ecco i tratti permanenti di ogni ermeneutica applicabili anzitutto all'interpretazione del linguaggio…" (ivi, p. 16). Questo modello ermeneutico potrà tanto più agevolmente, e tanto più erroneamente, essere applicato al musicale proprio perché "la musica non significa niente, dunque significa tutto…"; si può far dire alle note ciò che si vuole, prestare loro qualsiasi potere anagogico: "esse non protesteranno". "La musica ha le spalle larghe! (La musique a bon dos!) con essa tutto è plausibile: le ideologie più fantastiche, le ermeneutiche più insondabili… Chi mai ci smentirà?" (ivi). Si tratta certo di osservazioni cariche di senso polemico. Si critica qui la tendenza a considerare il brano musicale come un testo, forse più precisamente come un testo sacro: i riferimenti alle interpretazioni misticheggianti (Plotino, Clemente di Alessandria, Agostino) o di stile teosofico (Fabre d'Olivet) sono espliciti; ed è significativo anche, da questo punto di vista, l'uso del termine "ermeneutica", originariamente riservato all'esegesi biblica come del resto del termine "anagogico", che si richiama ad un significato allegorico, ed anch'esso riferito in prima istanza ai testi sacri. Vi è dunque una critica della sacralità della musica, e proprio in nome della sua ineffabilità. Di questa critica fa parte il sottolineare come all'interno di questa posizione si finisca con lo svalutare la fenomenicità, la concretezza percettiva della musica, quasi che essa potesse essere considerata come una manifestazione imperfetta di una musica sovrasensibile che appartiene 54 appunto al livello metafisico del reale. Ecco dunque che Jankélévitch si fa sostenitore di questa fenomenicità, e di conseguenza assume un atteggiamento fortemente critico contro ogni "metamusica" - ogni al di là della musica che non può che essere considerata come una pura fantasticheria "arbitraria" e "metaforica". Perché mai, si chiede Jankélévitch, "unico fra tutti gli altri, il senso dell'udito avrebbe il privilegio di aprirci l'accesso alla cosa in sé e di sfondare così il tetto della nostra finitezza? In virtù di quale monopolio certe percezioni, quelle dette uditive, sarebbero le sole a sfociare nel mondo dei noumeni?" (ivi, pp. 17-18). La metafisica della musica, ribadisce Jankélévitch, si può edificare solo "sulla base di analogie e trasposizioni metaforiche" - e quando parla di analogia e di metafora Jankélévitch, ricordandosi di Bergson, intende queste espressioni in senso fondamentalmente negativo. Questa sua critica delle "trasposizioni metaforiche" arriva a rendere del tutto estrinseche le qualificazioni dei suoni che contengono riferimenti spaziali, come il parlare di suoni alti e bassi, di uno scendere e di un salire della linea melodica (ivi, p. 20). Con una simile posizione non possiamo certo concordare per il semplice fatto che è possibile una concezione della metafora e delle immagini in genere che si muove in un orizzonte e con conseguenze del tutto differenti. Una simile concezione è il risultato di una filosofia dell'immaginazione inadeguata, che non arriva a formulare l'idea di un momento immaginativo interno alla percezione. Tenendo conto di questa idea ci verremmo a trovare molto lontani dalle posizioni bergsoniane. Stando ad esse, Jankélévitch non può che sottolineare che quelle qualificazioni semplicemente non esistono nel mondo sonoro: si tratterebbe di metafore totalmente estranee al materiale musicale che vengono invece suggerite dalla scrittura musicale, dalla "trasposizione grafica e spaziale" - "è il pentagramma che proietta nello spazio la distinzione tra il grave e l'acuto". 55 Accanto al tema del linguaggio che fa sostenere a Jankélévitch che "il pregiudizio metafisico riposa sull'idea che la musica è un linguaggio, una sorta di lingua cifrata, il cui alfabeto è costituito dalle note della scala musicale" (ivi, p. 23), si coglie qui un altro tratto tipicamente bergsoniano - cioè il riferimento alla spazialità come un momento essenzialmente contrapposto alla temporalità, e perciò anche all'esperienza vissuta. 5. Sviluppi musicali e ragionamenti L'atteggiamento critico verso un'idea della musica modellata su quella del linguaggio viene sviluppata in una notevole varietà di direzioni. Nel secondo capitolo si rammenta fin dall'inizio che il riferimento linguistico, ed in particolare retorico, ha pesato sulla tradizione musicale, proponendo di continuo immagini di provenienza linguistica sui decorsi musicali. Naturalmente occorre prestare attenzione a non confondere i piani di discorso, altrimenti le obiezioni a J. sarebbero realmente troppo facili. Non si tratta di contestare il dato di fatto storico dell'enorme varietà di interrelazioni tra la parola e la musica, e nemmeno l'importanza, ad esempio, che i riferimenti alla retorica hanno avuto nelle pratiche compositive. Si tratta di invece di cogliere le conseguenze che tutto ciò può avere nella sua proiezione sul piano della musicalità in genere, diciamo pure: sul modo di concepire l'essenza della musica. Infatti le immagini di provenienza linguistica hanno avuto tanto peso da far ritenere che esse portino sull'essenza del musicale - ed è questo il punto che viene contestato da Jankélévitch. In particolare ciò vale secondo Jankélévitch per la nozione di sviluppo. Talora si pensa a questa nozione come qualcosa di assai simile ad un puro dispiegamento di un pensiero, di un ragionamento, come esposizione di una idea che poi viene discussa con l'obbiettivo, ad esempio, di convincere un uditorio della sua giustezza. L'esempio richiamato è quello del conferenziere che si rivolge ad un pubblico e che "sviluppa" il tema annuncia- 56 to nel titolo della conferenza esplicitandone il contenuto e arricchendolo variamente al fine di ottenere il consenso dei propri ascoltatori. Questi a loro volta presteranno un ascolto teso a cogliere i passi dell'argomentazione: se da un lato il brano viene proposto come uno "sviluppo", dall'altro l'ascolto assume la forma del "seguire". Quest'ultima espressione non ha in questo contesto un senso propriamente temporale, ma assume coerentemente il senso del non perdere il filo, del seguire un ragionamento, nel senso di comprendere un passo dopo l'altro e naturalmente il legame tra l'uno e l'altro. Ed è proprio questo modo di impostare il problema che viene sottoposto ad una critica, peraltro coraggiosa - tanto è diffuso quel modo di concepire le cose. Inteso così lo sviluppo non è altro che un "miraggio". Sono miraggi lo scoprire in un brano musicale un preambolo ed una conclusione, qualcosa di simile in genere ad un discorso, ad una perorazione. Questa preclusione di Jankélévitch nei confronti dell'impiego di metafore tratte dal riferimento linguistico in taluni casi potrà sembrare eccessiva, perché non è detto, io credo, che l'uso di simili analogie comporti una nozione linguistica "forte" del brano musicale. Ma per Jankélévitch è importante sottolineare che "questi sono solo modi di parlare, metafore, analogie dettate dalle nostre abitudini oratorie e discorsive" (ivi, p. 24), volendo con ciò sottolineare proprio il carattere fittizio, irreale del rapporto istituito. Ciò vale anche per la ricorrente immagine del "dialogo". Talora si parla di dialogo in rapporto ad un duetto, oppure per il rapporto tra uno strumento solista e l'orchestra, o per le imitazioni nel senso tecnico del termine. Jankélévitch rileva allora che si tratta solo di metafore, che siffatte conversazioni sono fittizie. "Nei quattro dialoghi di Bartok le due mani non dicono niente l'una all'altra! Né i due violini nei 44 duetti… Nella musica a quattro mani o a due pianoforti… le imitazioni sono dialoghi sono in senso metaforico… La musica conosce l'eco, che è il riflesso speculare della melodia su se stessa, e 57 conosce l'imitazione del canone, ma non sa niente del dialogo" (ivi, pp. 27-28). Così se vogliamo comprendere realmente il rapporto particolare che si instaura tra gli esecutori e il pubblico, occorre marcare la differenza tra il rivolgersi a qualcuno di un conferenziere rispetto al suo uditorio e la condizione dell'esecuzione e dell'ascolto di un brano musicale: "La cantante ha un bel guardarmi con la sua bocca spalancata: non parla a me.. e quel grido rauco, nella seconda Chanson Madécasse di Ravel non apostrofa nessuno in particolare di coloro che ascoltano" (p. 29). Questa differenza è efficacemente sottolineata quando Jankélévitch fa notare che "per il conferenziere che lo guarda, l'ascoltatore è seconda persona, cioè l'indispensabile correlato dell'invocazione o dell'allocuzione; mentre per il pianista seduto al piano è terza persona" (ivi, p. 29). Si tratta infine di una differenza che rimanda poi a quella tra parola e canto: "Chi parla da solo è pazzo; ma chi canta da solo, come un uccello, senza rivolgersi a nessuno, è semplicemente allegro" (ivi, p. 29). 6. La musica e la ripetizione Il rifiuto dell'elemento discorsivo mette inoltre in causa l'elemento temporale. Nella nozione di sviluppo, lo si è visto or ora, non si dà particolare rilievo alla componente temporale. Su questo punto Jankélévitch intende far valere una tesi particolarmente forte. Ogni discorso presuppone un piano - pensiamo all'esempio del conferenziere ed alla "scaletta" che egli prepara. Un piano è anche quello dell'architetto che deve costruire un edificio. In questa idea del "piano" Jankélévitch ritiene di cogliere un rimando spaziale importante, che sarebbe a dànno dell'elemento temporale, prossimo alla dimensione del vissuto, 58 ed a vantaggio di una strutturazione che in ultima analisi è di ordine intellettuale. In certo senso Jankélévitch sostiene qui una posizione simmetrica e opposta a quella che Lévi Strauss suggella nella frase secondo cui "tutto avviene come se la musica e la mitologia non avessero bisogno del tempo se non per infliggergli una smentita. Esse sono entrambe macchine per sopprimere il tempo" (Il crudo e il cotto, trad. it. di A. Bonomi, Milano 1966, p. 32). Secondo Jankélévitch invece il momento temporale ha le netta prevalenza su quello strutturale. (Bergson è naturalmente sempre sullo sfondo). "Là dove l'intelligenza associativa e spazializzante, sorvolando sul divenire, distingue più parti inquadrate fra un esordio ed una perorazione, l'orecchio, aderendo con genuina immediatezza alla successione vissuta, non si accorge di niente; senza la visione retrospettiva del cammino percorso il puro ascolto non noterebbe il piano della sonata, giacché il piano è cosa concepita, non cosa udita né tempo vissuto"(ivi, p. 24). Si tratta di un'affermazione piuttosto energica nella quale si suggerisce che la "visione retrospettiva" necessaria per cogliere la struttura derivi da un atteggiamento intellettuale e che essa non sia conforme ad un puro ascolto: un "puro ascolto" si lascerebbe andare alla processualità temporale; anche in questo caso viene portata l'attenzione sulla distanza rispetto all'atteggiamento dell'ascolto di un discorso. In quest'ultimo caso è essenziale proprio il non lasciarsi andare al puro succedersi l'una dopo l'altro delle parole, dal momento che deve essere afferrato un senso che si va dispiegando dalla prima all'ultima parola. In margine Jankélévitch giustifica con questo fatto la possibilità di "amare" autori molto diversi e persino stilisticamente contrapposti, dal momento che non vi è una "ideologia" da cui dobbiamo essere convinti nell'ascolto e dunque nemmeno un problema di "coerenza ideologica" (ivi, p. 30). Ma è forse marginale una simile osservazione? A mio avviso, si tratta invece di un grande ammaestramento! 59 In questo quadro rientra quella che Jankélévitch chiama insensibilità alle ripetizioni. La musica è insensibile alle ripetizioni (ivi, p. 26). Il riferimento al linguaggio parlato ancora una volta chiarisce il senso di una simile affermazione. Basti pensare alle ripetizioni nel discorso. Il limite di tolleranza alla ripetizione del discorso è molto basso: in questo senso il discorso è sensibilissimo alle ripetizioni. "Le ripetizioni sono proscritte perché il discorso, sia che sviluppi un significato, sia che esponga o dimostri una tesi, procede sempre avanzando con progressione dialettica e cammina diritto senza voltarsi né tornare indietro. Qui ciò che è stato detto non deve essere più detto: una sola volta basta e ogni nuovo inizio è ozioso…" (ivi, p. 32). Naturalmente nella lettura può essere che di continuo torniamo sui nostri passi per comprendere più a fondo un pensiero o uno sviluppo argomentativo: "Ma la necessità di rileggere non implica necessariamente il permesso di ripetere" (ivi, p. 33). La ripetizione invece non solo è lecita nella musica, ma assolve spesso una funzione di primaria importanza. Occorre però mettere subito in rilievo il fatto che l'attenzione di Jankélévitch non va primariamente alle possibili funzioni strutturanti assolte dalla ripetizione, come a me sembrerebbe giusto fare, quanto piuttosto sulla connessione con il momento magico della musica - sulla musica come charme, come incanto (ed incantesimo). La ripetizione fa parte della formula magica, delle pratiche di incantamento. Ed essa chiama in causa la "forza ammaliatrice" della musica. Jankélévitch si domanda anche se nella musica il parlare di ripetizione sia realmente appropriato, se la ripetizione sia ripetizione autentica (capace dunque di generare monotonia!). Si tratta di una domanda che sorge sullo sfondo della tematica temporale e di un preciso riferimento bergsoniano: "Non ha mostrato Bergson come ogni successivo ritorno del pendolo, per il solo fatto che è successivo ai precedenti nell'ordine della durata, modifichi qualitativamente il passato di 60 colui che ascolta?" (ivi, p. 32). Così la ripetizione di un tema, il suo riapparire ha una funzione non meramente ripetitiva, ma ricreativa (ivi, p. 34). 7. "Espressione" e reazione antiromantica Su questi temi di carattere generale si inseriscono riferimenti musicali, in parte con significato puramente esemplificativo, in parte delineando ed indicando precise scelte sugli sviluppi della musica novecentesca. Il discorso filosofico generale si salda così con valutazioni musicali ricche di interesse in quanto mostrano uno dei modi possibili di "guardare" alla musica del novecento. Sul piano speculativo tendiamo a mostrare lo "sviluppo" come un miraggio: ed allora saremo particolarmente interessati a quelle musiche che rendono difficile l'applicazione della metafora, che in qualche modo la bloccano: le musiche che Jankélévitch chiama "stazionarie", "brachilogiche", "stagnanti" (ivi, p. 27) che manifestano nel loro stesso stile la volontà di "strangolare l'eloquenza" - e le citazioni spaziano da Dvorak, Ciakovsky, Mussorgsky, per spingersi sino a Strawinsky, Debussy, Ravel, Satie e altri. Un miraggio è peraltro anche l'idea che la musica "esprima" qualcosa, benché ora la discussione di Jankélévitch diventi più tesa, più densamente problematica. Il titolo contraddittorio del capitolo secondo L'espressivo inespressivo (L'Espressivo inexpressif) annuncia ampiamente questa problematicità. Occorre subito notare che lo scetticismo sull' "espressione" è determinato in Jankélévitch dall'intenzione di reagire al romanticismo musicale a cui egli ritiene che quella parola sia strettamente vincolata. D'altra parte la parola "espressivo" nel titolo del capitolo è intesa come indicazione esecutiva (e per questo è lasciata in italiano), e come tale si tratta certo di una parola caratteristica della musicalità romantica. Ma questa critica dell'"espressivo" piuttosto che tradursi in un dibattito astrat- 61 tamente teorico che dovrebbe decidere se la musica possa esprimere sentimenti piuttosto che idee astratte o qualunque altra cosa, assume il proprio contenuto dello stesso piano musicale, cioè dai modi di reazione musicale all'espressionismo romantico. Secondo Jankélévitch vi sono almeno due forme importanti di questa reazione. Vi è una reazione che potrebbe essere chiamata "impressionistica" e una reazione che invece potrebbe essere caratterizzata come un oggettivismo che pone l'inespressività come oggetto esplicito della propria ricerca. Per comprendere questo modo di impostare la questione, occorre tenere presente che la parola "espressione" viene intesa specificamente come manifestazione di sentimenti e passioni: una concezione della musica che sottolinea la sua capacità di esprimere diventerebbe allora una concezione secondo la quale attraverso la musica verrebbero trasmesse "confidenze o confessioni sull'intimità affettiva del creatore" - i suoi umori. L'espressione è dunque per principio in questo contesto un'espressione umorale. Tenendo conto di questo uso ben delimitato (e in sé, desidero sottolineare questo punto, niente affatto obbligatorio del termine) si comprende come si possa far giocare in contrapposizione il termine di "impressione". L'impressione è stata talora interpretata - si pensi a Hume - come una sorta di entità intermedia o almeno neutra rispetto alla distinzione tra soggettività e oggettività. Così del resto ne parlavamo i pittori impressionisti. Mentre l'espressione nell'accezione or ora illustrata è "esibizionistica e soggettiva" - l'impressione invece, pur essendo legata alla soggettività, non intende portare alla luce la sua vita interiore, ma dissolvere la soggettività verso l'esterno, ad esempio, nell'esteriorità atmosferica di un paesaggio. "La coscienza introversa si libera grazie all'impressione atmosferica" - "…uno dei mezzi che l'uomo ha per non raccontare se stesso è quello di parlare delle colline di Anacapri, del vento della pianura o delle campane attraverso le foglie" (p. 43). 62 A questa forma "impressionistica" di reazione antiromantica, si affianca una reazione più netta, più esplicita e più dura: una tendenza cioè ad escludere l'espressione attraverso una rappresentazione del reale come tale: dunque di un reale che non sia colto attraverso il sentimento o l'impressione, ma nemmeno in qualche modo trasfigurato dagli ornamenti e dalle elaborazioni dell'arte. Il canto degli uccelli, il canto dell'usignolo è stato mille volte imitato nella tradizione musicale: ma come è realmente il canto dell'usignolo? Esso è sempre stato trasfigurato musicalmente. Nel Chant du Rossignol di Strawinsky - osserva Jankélévitch - l'usignolo canta con il suo canto - e lo stesso si può dire per il riferimento agli uccelli nei Quadri di Mussorgsky o per il Catalogo di Messiaen, in contrasto con il Francesco di Assisi di Liszt oppure con Saint-Saëns. Naturalmente si è subito tentati di contestare esempi come questi e l'idea che sta alla loro base; ma essa non va presa, a mio avviso, alla lettera, bensì vista alla luce di una reazione "antiespressiva" teorizzata rivendicando una forma di Sachlichkeit, di aderenze alle cose pure e semplici. Ciò che importa non è il risultato - che ovviamente è in ogni caso plasmato dalla soggettività artistica - ma l'intento, e questo intento conduce del resto ad evitare "musicalizzazioni" secondo mezzi correnti e convenzionali. "Nei Quadri di un'esposizione di Mussorgski il balletto dei pulcini con le sue sonorità acidule e stridenti, con il suo realismo un po' aspro, contrasta con la melodiosa musicalità dei concerti di uccelli che si sentono nel Francesco d'Assisi di Liszt, proprio come l'usignolo di Stravinskij contrasta con gli armoniosi usignoli di Rimskij Korsakov. E il Catalogue d'oiseaux di Messiaen vuol essere la registrazione fedele di veri canti d'uccelli, senza le onomatopee letterarie e le convenzioni imitative di un Daquin o di un Saint-Saëns" (ivi, p. 47). È interessante notare come questo motivo oggettivistico, questo iperrealismo sia impiegato da Jankélévitch anche per rendere conto dell'avanzare nella musica del novecento di so- 63 norità dure, di dissonanze, di sonorità prossime al rumore, sino all'introduzione del rumore direttamente "trovato" nella vita di ogni giorno. "L'oggettivismo acuto, che rifugge la vita patica sempre malata di espressione (la vie pathique en mal d'expression), si approssima a quella zona amelodica, amusicale, paramusicale e premusicale che è, come l'oceano, l'universo del rumore amorfo e del brusio caotico" (ivi, p. 52). 8. Impressionismo e oggettivismo Proprio nel riportare il tema dell'espressione nel quadro della cosiddetta "reazione antiromantica", Jankélévitch propone un proprio punto di vista su alcuni aspetti importanti della musica novecentesca - sia pure sommessamente, secondo il suo stile. Egli suggerisce che questo momento reattivo penetra a fondo negli sviluppi della musica novecentesca determinandone in larga parte il suo senso interno. Più precisamente: da un lato vi è un intenso bisogno di espressione, un "istinto espressionista", dall'altro un'altrettanto intensa volontà di repressione, vi è il "rigore della musica che lo respinge". Perciò egli ritiene di poter riconoscere all'interno di questi sviluppi un momento di "violenza" che sorge nel gioco di questo contrasto. Per ragioni certamente profonde, che dovrebbero essere indagate a fonto, tutta la musica del novecento sembra svilupparsi soggiacendo ad una vera e propria fobia dell'espressione (ivi, p. 56). Ecco dunque i due volti possibili della musica novecentesca: il volto come grimace - una smorfia, un ghigno irrigidito; oppure il volto come maschera, dove il volto per il fatto stesso di perdere la propria mobilità cessa di essere espressivo per diventare "volto immobile dell'inespressione". La violenza si accanisce contro l'espressione del volto - essa "si diverte a torturare ed a tormentare la tonalità, l'intonazione e tutte le determinazioni espressive del canto" (ivi, p. 57). "La violenza crocifigge la forma" - dice Jankélévitch con una formula molto efficace; ed altrettanto efficace è il par- 64 lare della dissonanza atroce (l'atroce dissonance) (ivi, p. 55) oppure della "straziante volontà di bruttezza" (la poignante volonté de laideur) (p. 57). Di fronte a queste frasi occorre guardarsi dal ritenere che ci troviamo di fronte a condanne o a nostalgie. La violenza di cui si parla non è del resto una violenza puramente distruttiva, ma una violenza che sa essere geniale, che "ritorna all'informe in quanto sorgente di tutte le forme" e che sa scoprire "una poesia inusitata ed un piacere musicale più raffinato" (pp. 57- 58). In effetti io credo che quando si parla di atrocità della dissonanza o della straziante volontà di bruttezza si abbia a che fare non tanto con una valutazione, quanto piuttosto con un suggerimento interpretativo. Esso fa leva sull'idea di un intenso conflitto interno proprio sulla coppia espressivo-inespressivo per mostrare poi le varietà di atteggiamenti che si muovono al suo interno. Tutti gli sviluppi successivi del capitolo consistono in una sorta di rassegna di queste diverse modalità di "rimozione" dell'istinto di espressione. Qualche cenno in proposito, senza entrare nel dettaglio, basterà a rendere conto della cosa. Come abbiamo notato or ora, al ghigno come manifestazione diretta della violenza si affianca, ed anche si contrappone, la maschera (ivi, p. 60). La rimozione dell'espressione può assumere la forma della semplice impassibilità, dell'indifferenza espressiva, del "non voler esprimere niente": "La volontà di non esprimere niente è la grande civetteria del ventesimo secolo" (p. 60). Ma naturalmente questa civetteria può manifestarsi in più modi: ad esempio attraverso il riferimento diretto o indiretto all'elemento meccanico nei quali si dà manifestazione alla "fobia per l'esaltazione lirica o lo slancio patetico": "Gli stridenti meccanismi di Satie, gli organetti di Barberia di Séverac, i 65 marchingegni automatici e gli orologi di Ravel, i burattini di Stravinskij e di De Falla, il rumore delle macchine in Prokofiev rivelano tutti un'identica fobia per l'esaltazione lirica e lo slancio patetico; pianole meccaniche e uccelli automatici, ridicole marionette e automi rimontati: tutte queste musiche artificiose, con le loro sacrileghe contraffazioni, sembrano ironizzare sulla tenerezza e il languore dell'Appassionato" (ivi, p. 61). Oppure con richiami animaleschi che hanno la stessa direzione di senso, e sono conseguentemente privi di valenze naturalistiche. "In una certa misura il bestiario moderno risponde alla medesima diffidenza: in Satie e Ravel gli animali, con il loro balbettio, i loro tic e i loro farneticamenti, rappresentano come una scimiottatura delle passioni umane - instancabilmente rimuginata, la cacofonia delle volpi, delle civette e delle rane, in La volpe astuta, è una delle forme dell'antiretorica che caratterizza sia il genio di Janácek sia il genio di Musorgskij" (ivi, p. 61). A questi momenti contenutistici si aggiungono elementi appartenenti piuttosto al lato formale. È il caso qui di richiamare l'attenzione sulle acute osservazioni di Jankélévitch sull'impiego del pedale nella tecnica pianistica, sulle variazioni agogiche, sullo staccato e sul pizzicato. Il pedale, prolungando la risonanza dei suoni, provoca una sorta di sfondo sonoro, di bruma sonora, accentuando l'enfasi espressiva. Nel caso dello staccato o del pizzicato si rafforza invece il carattere puntiforme dei suoni, un modo d'essere dei suoni che richiama l'idea della burla, dello "scherzo", del sarcasmo o dell'ironia piuttosto che gravi momenti di pathos. L'aspetto tecnico-esecutivo è dunque subito associato ad una inclinazione di significato: "Lo staccato corrisponde, nell'ordine dell'istantaneo, come la brachilogia nell'ordine dello sviluppo, alla fobia per l'indugio patetico… Lo scherzo proscrive la vibrazione che, generando approssimazione e continuità, prolunga i suoni anteriori nei successivi e realizza quella fusione fra presente e passato, quella sopravvivenza o risonanza del passato attraverso il presente, in una parola quell'immanenza il cui nome è il divenire" (ivi, p. 63). 66 Così il ritardando e l'accelerando sono già di per sé segni di un momento emotivo emergente, un richiamo alle irregolarità che caratterizzano l'uomo rispetto alla macchina e la reazione a ciò sarà naturalmente una "cronometria implacabile": "Non attardatevi dunque, continuate a marciare! Non stringete, ma soprattutto non rallentate: si potrebbe credere che vi siate commossi…" (ivi, p. 64). Vi sono naturalmente anche altri modi di indossare la maschera che ci difende all'espressione: ad esempio, il dire il contrario di ciò che si dovrebbe dire, eventualmente suscitando un effetto umoristico così come il parlare d'altro oppure il dire di meno. Jankélévitch rammenta l'indicazione esecutiva di Ravel "senza espressione" proposta in rapporto ad una frase particolarmente patetica; oppure l'indicazione di Satie di "jouer comme une bête" proprio in un punto in cui la musica "si fa più teneramente commossa". (Si trova nei Tre pezzi in forma di pera di Satie il cui titolo rappresenta a sua volta un buon esempio di reazione ironica all'espressione). Con le formule del dire altro o del dire di meno Jankélévitch si richiama ai vari modi in cui è possibile attuare attenuazioni espressive sia giocando su fatti musicali specifici, sia sul rapporto tra musica e testo. In questo quadro ritorna il problema della "brachilogia". La brevità è certamente da intendere come una reazione al fluire del sentimento. 9. Quante cose la musica riesce a dire!… Richiamiamo ora vivacemente l'attenzione su questo punto: tutte queste osservazioni hanno senso solo se si ammette che la musica possa proporre canti di uccelli, gracidar di rane, così come narrare del vento della pianura o di campane attraverso le foglie. Togliete questi riferimenti contenutistici e l'intera discussione perderà il proprio oggetto. Eppure abbiamo comin- 67 ciato a parlare della relazione della musica con l'ineffabile. Ma quante cose riesce a dire la musica secondo Jankélévitch! Il contenuto non compare naturalmente mai ingenuamente come contenuto determinato, ed anzi di continuo viene sottolineato in modo particolare la presenza di un momento di pura evocazione e di allusione. La musica è persino capace di descrivere e di narrare. Jankélévitch non lo nega: ma essa può fare questo solo "a grandi linee" ("en gros"). Come Jankélévitch riesca a mantenere la propria polemica contro il carattere discorsivo della musica, senza rinunciare alla problematica del contenuto, lo si vede con chiarezza in rapporto alla nozione di senso del senso che riceve un' illustrazione particolarmente chiara in rapporto alla musica a programma. Il programma - eventualmente esplicitamente esposto - fa precedere un senso alla musica che segue ad esso. E così anche un titolo descrittivo eventuale. Ora, nota con grande acume Jankélévitch la musica non esprime questo senso e nemmeno lo illustra, ma esprime ed illustra il senso di questo senso. "Nelle melodie e nei poemi sinfonici a programma è il senso che precede e la musica dispiega secondariamente il senso di questo senso" (ivi, p. 78). Che cosa si vuol dire con un'espressione così misteriosa? Io tenderei a commentarla così: il senso dell'espressione "vento della pianura" rinvia a qualcosa di relativamente ben determinato. Ma quante cose possono essere fantasticate in esso! E in questo orizzonte immaginativo più ampio che in questo modo si dischiude consiste il senso di quel senso. Ma si tratta di una nostra accentuazione interpretativa coerente forse più con la nostra filosofia dell'immaginazione che con quella di Jankélévitch. Quanto più si procede nella lettura e nell'analisi degli esempi, ci si rende conto che il titolo apparentemente contraddittorio del capitolo L'espressivo inespressivo indica una presa di posizione che consente di giocare con particolare duttilità proprio in rapporto al problema semantico. Così è possibile oscillare tra rilevanza e irrilevanza del momento descrittivo per il 68 fatto che in fin dei conti sosteniamo che l'oscillazione tra determinatezza e indeterminatezza del contenuto fa parte dell'essenza stessa del musicale. Tuttavia si sente qui come altrove la mancanza di una teoria dell'immaginazione che sia in grado di sostenere l'intera tematica, cosicché finisce con il prevalere il richiamo alla "forza dell'abitudine, dell'associazione e delle convenzioni" - nonostante considerazioni che suggeriscono una possibile differente direzione di discorso. 8. Ciò che la musica non dice… Forse, proprio per quanto riguarda il problema semantico, tutte le idee sembrano convergere verso l'idea dell'ambiguità di principio della musica. A mio avviso si tratta di una idea non del tutto soddisfacente. Un conto è affermare, ad esempio, che serietà e gioco sono due possibilità della musica che richiedono, per essere attualizzate, l'impiego di mezzi e di tecniche di organizzazione del materiale musicale differenti. Un altro è affermare che questo duplice senso può convivere nel musicale in forza di un'ambiguità di principio che non consente di decidere per l'una o per l'altra direzione, e che la musica vive propria di questa oscillazione. Alcune affermazioni di Jankélévitch sembrano presupporre la prima affermazione, ma poi prevale indubbiamente la seconda: l'ambiguità viene considerata come polisemanticità, e questa viene poi intesa come ricchezza inesauribile del senso: "La musica è dunque inespressiva, non perché non esprima niente, ma perché non esprime questo o quel paesaggio privilegiato, questo o quello sfondo ad esclusione di tutti gli altri; è inespressiva in quanto implica innumerevole possibilità interpretative tra le quali lascia una completa libertà di scelta" (ivi, p. 104). Ciò che qui non va è il pretendere che la libertà di scelta sia realmente e totalmente "completa". E ci possiamo avvalere in 69 questa critica degli stessi spunti che ci offre a mani piene lo stesso Jankélévitch. Ad esempio: che senso ha distinguere, come si è fatto, tra la direzione di significato di un legato o di uno staccato se poi si dichiara che all'interpretazione - e quindi al modo di intendere il senso, va attribuita una completa libertà? Coerentemente si dovrebbe ammettere che, a piacere, ad un legato si dovrebbe poter attribuire la stessa nuance espressiva che ad uno staccato. Si risentono qui, al di là di Bergson, i vecchi adagi della teoria dell'associazione: ad un qualunque contenuto può essere associato un contenuto qualunque, purché abitudine ed associazione diano una mano. Inevitabilmente i luoghi comuni "formalisti" tendono a ripresentarsi piatti piatti. Ad esempio si ripete che "uno stesso testo si presta ad una infinità di musiche radicalmente imprevedibili" (ivi, p. 89); "è impossibile cercare di ricostruire il testo" a partire dal brano musicale, ed inversamente "indovinare la musica a partire dal testo" (ivi, 89). Ovviamente: si tratta di compiti privi di senso. Ma il punto del problema non sta per nulla nel dedurre un testo dalla musica o la musica da un testo. Nessuno ha mai tentato di fare una cosa simile. Bensì: dato un testo ed una musica considerare in che modo l'uno giochi con l'altra. Questo gioco può avvenire soltanto in forza della capacità di simbolizzazione. Il parlare di ambiguità fuorvia dal problema autentico che è quello della simbolizzazione. Si dovrebbe sostituire il tema dell'ambiguità come qui viene proposto con quello del simbolismo. Nel simbolo certamente l'ambiguità - ovvero la molteplicità di sensi - è certamente contenuta, ma non lo è in una forma tale da far inclinare l'intera impostazione in una direzione in cui la molteplicità diventa infinita e completamente indeterminata. In effetti seguendo un simile ordine di idee, ci si ricongiunge con un'idea dell'ineffabilità che riconduce ad una indominabile sovrabbondanza di senso. L'ineffabile è "inesprimibile perché su di esso vi è infinitamente da dire" - la vita stessa, e come la vita, la musica stessa, rappresenta un modello di questo 70 ineffabile straricco di senso. L'espressione "senso del senso" - al di là dell'interpretazione che abbiamo or ora proposta, si ricollega alla fine proprio a questa concezione dell'ineffabile. È superfluo sottolineare che, giunti a questo punto, il tema dell'ineffabilità propende per l'accezione "esaltata" del termine - ineffabile non è soltanto la musica o la vita, ma anzitutto l'"insondabile mistero di dio" (ivi, p. 102). Ed a questo punto non sembra più possibile considerare le tematiche filosofico- musicali di Jankélévitch, come abbiamo tentato di fare finora, in modo relativamente indipendente dal quadro della sua posizione filosofica complessiva. È giusto dunque che il nostro commento si fermi qui, al termine del secondo capitolo del libro, dove cominciano a risuonare le campane: le campane che par di risentire nell'Andante del secondo Quartetto di Fauré - "brusio delle campane lontane portato dal vento dell'ovest in un villaggio dell'Ariège" - e che tuttavia Fauré stesso riconduce ad un "desiderio di cose inesistenti"(ivi, p. 105); così come le campane dell'invisibile città di Kitiez in Rimsky-Korsakov, che "fanno sentire delle armonie udibili" forse perché "la musica del bronzo ha già in sé qualcosa di sovrannaturale" (ivi, p. 106). 71 Intorno alla filosofia della musica di Susanne Langer 1986 72 Materiali di lavoro per un corso sul tema "Fenomenologia dell'espressione e filosofia della musica" tenuto nel 1986 (Università di Milano, Insegnamento di Filosofia teoretica I). Il testo di riferimento è Feeling and Form, Routledge & Kegan Paul, New York, 1953. Trad. it. Sentimento e forma, a cura di Lia Formigari, Feltrinelli, Milano 1975 (I ed. 1965). Le citazioni e le indicazioni di pagina sono relative alla traduzione italiana con le modificazioni ritenute opportune. Elementi biografici e collegamenti a siti internet relativi a Susanne K. Langer si possono trovare in http://www.bsu.edu/classes/bauer/hpmused/langer.html. 73 Indice 1. Segni, segnali, simboli 2. Musica e simboli non linguistici 3. La musica come corrispondente sonoro della vita emotiva 4. Arte e illusione 5. Temporalità 6. Digressione bergsoniana 7. La musica e l'esperienza di un passaggio 8. Considerazioni conclusive 74 1 Segni, segnali, simboli - La musica non occupa una posizione significativa all'interno del pensiero novecentesco, nemmeno nell'ambito delle filosofie orientate verso tematiche di ordine estetico. Il caso di Susanne Langer rappresenta una delle poche eccezioni. Da un punto di vista generale, il suo progetto filosofico, esposto nel volume Filosofia in una nuova chiave (Philosophy in a New Key, 1942), consiste nel tentativo di far convivere istanze filosofiche di provenienza diversa: vi è anzitutto la presenza del neoempirismo, con i suoi interessi linguistici; ma questa presenza si incontra con temi cassireriani, prossimi dunque alla tradizione idealistica europea. La nozione che mostra con maggiore chiarezza questa intersezione è quella di simbolo, che da un lato può essere applicato ai segni del linguaggio scritto o verbale, dall'altro può essere estesa, come accade appunto in Cassirer, all'ambito dell'arte o del mito. - Nella Filosofia in una nuova chiave l'idea di un "nuovo stile filosofico" si specifica già in direzione della filosofia dell'arte, e precisamente di una filosofia dell'arte che ha nella musica il suo centro. Questo progetto viene sviluppato in Sentimento e forma (Feeling and Form. A theory of Art, 1953) nel quale si cerca di elaborare una compiuta filosofia dell'arte a partire da un discorso orientato anzitutto sulla musica. - Alla parola simbolo dobbiamo prestare particolare attenzione perché essa ricorre di continuo e in una grande varietà di sensi nell'ambito della filosofia della musica. Per ciò che riguarda l'impiego che di essa fa la Langer diremo subito che questa nozione è tanto centrale quanto poco pregnante. - L'accezione di simbolo qui in questione si illustra unicamente in contrapposizione a segnale. Segnale è ciò che indica l'esistenza di qualcosa. Segnale è il ruggito di un leone, che indica l'esistenza di un leone nelle nostre immediate vicinanze. 75 Segnali della mia ira sono le vampe di rossore che salgono al viso, la concitazione della mia voce. Ora, per Susanne Langer tutto ciò che ha carattere di segno, ma non di segnale, deve essere annoverato nell'ambito dei simboli. Ed allora saranno simboli le parole del linguaggio verbale o scritto - le parole "presentano" un'idea. Presentando un'idea si connettono insieme formando una frase, un discorso. La nozione di simbolo può essere attinta dal linguaggio verbale o scritto - ma esempi tratti soltanto di qui implicherebbero secondo la Langer una indebita restrizione. La sua "scoperta" è che vi sono anche simboli non discorsivi. In essa si riprendono temi di origine cassireriana, che peraltro affondano le loro radici molto lontano. 2 Musica e simboli non linguistici - Tra i simboli non linguistici annovereremo anche i simboli della musica. La musica consta di simboli, nella musica si operano simbolizzazioni. Questa la tesi di ordine generale. Una tesi che trae tutto il suo senso dalla distinzione tra due specie fondamentali di simboli: quelli linguistici e quelli non linguistici. Per chiarezza potremmo ridurre tutto ciò al seguente schema argomentativo: a - I suoni nella musica non valgono di per se stessi. Dunque, essi sono segni. b - Tuttavia essi non indicano o segnalano l'esistenza di qualcosa. Dunque essi sono simboli (ovvero non-segnali). c - I simboli musicali non dicono nulla intorno al mondo, non discorrono intorno ad esso, come le parole del linguaggio verbale o scritto. Dunque essi non sono simboli linguistici. - Siamo peraltro alla presenza di determinazioni puramente negative. In ogni caso il simbolo non linguistico simbolizza; in che modo deve essere concepita questa simbolizzazione? In 76 realtà nella Langer non si trova una posizione esplicita di questa domanda e tanto meno una risposta teoreticamente elaborata. Vi sono comunque nel testo alcune indicazioni chiaramente orientate. - In primo luogo se c'è simbolizzazione, c'è anche un simbolizzato. La coppia simbolo-simbolizzato è esplicitamente enunciata dalla Langer ed illustrata attraverso l'idea della comunanza di "forma logica" tra l'uno e l'altro. Ciò che essa chiama significanza o portata significativa del simbolo si risolve in questo rapporto. Cosicché quando la Langer differenzia il simbolico-musicale dal simbolico-linguistico intende soprattutto differenziare un modo del rapporto simbolico, che peraltro si articola nei due poli del simbolizzante e del simbolizzato come poli chiaramente differenziati. - La forma del simbolico-linguistico a cui pensa è fondamentalmente il rapporto denotativo, ovvero il rapporto tra un nome - o addirittura tra un nome proprio - e la cosa denominata. Di fronte ed anche in opposizione a ciò vi sarebbe un rapporto che si stabilisce in quanto il simbolizzante è caratterizzato da uno schema strutturale analogo a quello del simbolizzato. Sembra alla Langer che questo tema, pur ponendo la musica al di fuori del simbolismo discorsivo (cosa che per la tradizione neopositivistica rappresenta sempre un sospetto di irrazionalità), mantiene invece un legame con una considerazione razionale in un senso ampio del termine che rimanda in generale ad un ordine e ad un'articolazione possibile. "Ogni consapevolezza di strutture dell'esperienza è ragione" (Sentimento e forma, pp. 4546) e perciò vanno rifiutati i richiami all'ineffabilità o all'intuizione, così frequenti nelle considerazioni filosofico-musicali. In questa stessa direzione va interpretata l'insistenza con la quale la Langer parla, per indicare il rapporto di simbolizzazione, di analogia formale o di forma logica comune. Se possiamo porre una differenza tra simbolizzante e simbolizzato allora dobbiamo anche poter dire qual è il simbolizzato dei simboli musicali, decidendo una volta per tutte quale 77 sia il "significato" della musica. Se poi la parola "significato" dovesse comportare equivoci nel senso della denotazione possiamo usare termini tendenti ad evitare questo equivoco, come "portata significativa" (import), "significanza" (significance), "forma significante" (significant form). Ed ecco la chiara risposta che Susanne Langer ritiene di poter dare alla domanda intorno alla portata significativa della musica. "La musica è un corrispondente sonoro della vita emotiva" (ivi, p. 43). ("The music is a tonal analogue of emotive life" - evidentemente è assai poco opportuno tradurre "tonal" con "tonale", come avviene normalmente nella traduzione italiana). 3 La musica come corrispondente sonoro della vita emotiva - Se qualcuno afferma che la musica è il corrispondente sonoro della vita emotiva, non siamo affatto obbligati a credergli sulla parola! In realtà si tratta di una risposta che, oltre a non essere troppo nuova, è piuttosto abborracciata nel modo in cui viene proposta ed argomentata. Parlando di "corrispondenza" sonora si evita di porre il rapporto con il simbolizzato come un rapporto di rappresentazione, cosa che richiamerebbe da vicino una nozione denotativa del significato. Tuttavia sorge subito un problema. Nella rappresentazione in genere così come nella denominazione vi è una disparità tra i due poli. Il ritratto di Pietro rappresenta Pietro, ma Pietro non rappresenta il suo ritratto. Ponendo invece il problema in termini di corrispondenza tra strutture, la relazione diventa simmetrica. Il simbolizzato può valere come simbolizzante, il simbolizzante come simbolizzato. Ed è piuttosto imbarazzante accettare la conseguenza che se parliamo dei suoni come simboli dei sentimenti, dovremmo anche poter parlare di sentimenti come simboli dei suoni. La Langer avverte la difficoltà ma la risolve in modo 78 grossolano, platealmente pragmatico. Essendo la relazione di simbolizzazione simmetrica, ci deve "essere un motivo per decidere fra due entità o due sistemi che l'uno è simbolo dell'altro (e non inversamente). In genere la ragione decisiva sta nel fatto che l'uno è più facile dell'altro da percepire e da usare" (ivi, p. 43). I suoni diventano simboli dei sentimenti e non i sentimenti dei suoni per il fatto che i suoni sarebbero molto più facili da dominare (produrre, combinare, percepire, identificare) di quanto lo siano i nostri sentimenti. Da una falsa impostazione del problema, non si possono che trarre soluzioni stravaganti. - Parlando di corrispondente sonoro si intende anche negare che il significato della musica sia da ricercare nella molteplicità disparata dei sentimenti considerati nel loro contenuto determinato. Ciò che importa non è il contenuto del sentimento, ma la sua forma. Già il titolo del libro Sentimento e forma dice questo, e lo dice anche la nozione di simbolo nel modo in cui è stata proposta. Siamo dunque nell'ambito di quella tendenza "formalistica" che si può far risalire a Kant e che ha ricevuto popolarità nel volumetto di Hanslick Il bello musicale (1854). Molte affermazioni sembrano tratte di peso dal testo di Hanslick ed è soltanto sorprendente che questo autore riceva solo un paio di citazioni non molto significative. Peraltro il lavoro di Hanslick, che era critico musicale piuttosto che filosofo e speculatore, si inseriva in un movimento di reazione ad una critica "sentimentalistica" e trae di lì gran parte del suo senso. 4 Arte e illusione - Da Hanslick in particolare deriva l'idea della musica-arabesco. Il problema che propongono i disegni che vengono chiamati "decorativi" e che appartengono alle fasi più antiche della civiltà, è anche nello stesso tempo il problema della musica stessa. Un brano musicale può essere assimilato ad disegno puro, ad un 79 disegno senza oggetto, a figure che non raffigurano nulla. E tuttavia esse hanno una direzione di insieme che le caratterizza. La decorazione esibisce percettivamente una parvenza di movimento. Essa ha infatti normalmente la forma di una sequenza, spesso costituita di elementi eguali o molto simili tra loro, e proprio in questa forma sequenziale essi sembrano riprodurre l'andamento di qualcosa che si muove. - Che si parli di parvenza di movimento è da un lato piuttosto ovvio - nulla infatti si muove realmente; ma questa parola "parvenza" (semblance) per la Langer ha un significato meno banale e chiama in causa l'intera sua impostazione. È l'arte in genere che ha a che fare con oggetti illusori, con oggetti virtuali. Si pensi ad un dipinto: nella stanza che in essa viene rappresentata noi non possiamo addentrarci. Così come non è mai entrata in quella stanza la mosca che vediamo in essa. Quella stanza è una stanza illusoria - ed anche il dipinto più schiettamente raffigurativo consta di combinazioni di linee e di colori che hanno lo scopo di far sorgere in noi - così sostiene la Langer l'illusione di una stanza. Esempi di oggetti virtuali sono per la Langer cose come l'arcobaleno, i miraggi in genere, eventi e cose che compaiono in sogno. Compito dell'arte in genere - la Langer ci insegna - è quello di produrre illusioni. - Ma che cosa c'è di vero in una simile affermazione - che sembra a tutta prima persuasiva e che è stata così spesso autorevolmente sostenuta? A tutta prima verrebbe voglia di contestarla così: compito dell'arte in genere è quello di produrre opere dell'arte. Nessuno guarda un paesaggio dipinto così meditando: ora è come se guardassi una mera evanescenza, questo paesaggio è fantomatico nello stesso senso in cui potrei dire che è fantomatico l'arcobaleno. Di quegli alberi laggiù non potrò mai godere l'ombra tranquilla. - Vi è tuttavia un'altra via per rendere conto della possibilità di parlare di parvenze prodotte dall'immaginazione artistica. Susanne Langer si avvale anche di essa, senza tuttavia avvertire la profonda differenza qui in questione. Vi passa accanto quando nota, ad esempio, che un quadro appe- 80 so alla parete di un museo viene considerato in se stesso senza integrarlo con gli altri quadri e in genere con le altre cose presenti in sala (ivi, p. 51). E così anche quando sottolinea che l'impressione più immediata che una opera d'arte "ben riuscita" (successful) ci fa "è una impressione di alterità" (ivi, p. 61) rispetto al reale (The most immediate impression it creates is one of "otherness" from reality). Ma che queste formulazioni non siano orientate nel giusto senso lo si comprende proprio da alcune loro singolarità. Che bisogno mai vi è della precisazione della bontà dell'opera, del suo essere "ben riuscita"? Forse che una stanza dipinta in modo mediocre si integrerà con il reale meno di altre riuscite meglio? E perché parlare di "impressione di alterità" come se nella fruizione dell'opera questo fosse il primo dato che ci colpisce? Tanto peggio poi se si afferma che in forza di questa impressione di alterità l'opera acquista una sorta di "atmosfera di illusione" (aura of illusion). Susanne Langer non ha la minima idea del senso autentico dell'alterità dell'opera in quanto oggetto dell'immaginazione. E confonde l'illusorietà come contraltare di un'effettiva posizione d'essere e la situazione nella quale la posizione d'essere è semplicemente neutralizzata. Solo se mi dirigo verso il ritratto di Pietro per stringergli la mano, dovrò poi rendermi conto che in quel ritratto vi è un Pietro "illusorio". Perciò non vi è nessuna ragione di definire "illusoria" la figura di Pietro nel dipinto. - Tornando alla decorazione: l'illusione suscitata dalla decorazione, ovvero dal puro disegno, è quella del movimento. Tanto più ciò potrà essere detto per quei disegni ornamentali che sono disegni sonori. Questi, a differenza delle sequenze visive, che sono in ogni caso statiche, sono sequenze temporali. "Essenza della musica è il movimento" - scrive senz'altro Susanne Langer (p. 127). E con ciò entra in questione la tematica della temporalità che è necessaria per rendere conto dell'affermazione secondo cui la musica sarebbe il "corrispondente sonoro della vita emotiva" - affermazione che fino a questo punto non è ancora stata giustificata. 81 5 Temporalità - La tematica del tempo può essere richiamata in un discorso sulla musica da un lato come un momento che fa parte della sua costituzione intrinseca, dall'altro come un momento che può essere giocato sul piano espressivo in una grande molteplicità di modi. Nella Langer questo problema dell'uso espressivo della temporalità non entra in linea di conto. Il richiamo al tempo intende unicamente rafforzare e integrare le idee generali che sono state prospettate. In particolare l'accento cade sulla "parvenza" nel senso or ora illustrato, sull' immagine del tempo che si intreccia necessariamente con quella del movimento. Ci si chiede dunque: di che cosa è immagine il tempo (image of time) nella musica, qual è l'originale rispetto al quale il tempo nella musica è pura parvenza ? - Nel rispondere a questa domanda gli sviluppi della Langer precipitano rapidamente verso semplicismi bergsoniani. In primo luogo converrà distinguere il tempo presentato nella musica dal tempo reale, cioè dal tempo "in cui si svolge la nostra vita comune e pratica" (ivi, p. 129) - il cosiddetto "tempo degli orologi". Ed è inutile dire che questa distinzione serve anche a sottolineare con insistenza l'illusorietà della temporalità nella musica. Questa temporalità non è reale, il suo tempo non è "tempo del mondo", ma non è nemmeno l'immagine del tempo nel mondo. Si tratta invece del tempo-durata nel senso di Bergson, del tempo come puro flusso che si contrappone al tempo "obbiettivo" pensato come giustapposizione di istanti. Il fatto che per questa via si pervenga ad affermare che l'esperienza del musicale è essenzialmente esperienza della transizione, e non dunque esperienza di un punto sonoro e di un altro punto sonoro, ma del passaggio che porta da un suono ad un altro suono potrebbe attirare fortemente la nostra attenzione - ma si tratta di uno spunto che per crescere avrebbe bisogno di ben al- 82 tro contesto. Qui esso si riduce a consentire il passaggio dalla musica all'esperienza vissuta. Infatti - così argomenta la Langer noi abbiamo originariamente esperienza della durata, intesa come puro flusso, anzitutto nella percezione del fluire dei nostri stessi vissuti. Questo tempo vissuto è appunto l'originale di cui il tempo musicale è l'immagine. "La parvenza di questo tempo vitale, di questo tempo esperito è l'illusione primaria della musica" (ivi, p. 129) (The semblance of this vital, experiential time is the primary illusion of music). 6 Digressione bergsoniana - Il riferimento a Bergson affiora così insistentemente nei dibattiti filosofici sulla temporalità musicale, che sembra quasi diventare obbligatorio ogni volta che quel tema viene appena sfiorato. Invece bisognerebbe sottolineare anzitutto l'intrinseca povertà dei temi che possono essere tratti da Bergson in direzione di una filosofia della musica - cosa che naturalmente non impedisce un uso creativo e geniale di essi in questo campo (si pensi a Jankélévitch). In particolare questa sottolineatura andrebbe fatta all'interno di un orientamento fenomenologico che sembra condividere alcuni aspetti importanti proprio con la posizione bergsoniana. È opportuno allora riferire in una rapidissima sintesi sulle differenze. - Il "tempo vissuto" di Bergson si contrappone al "tempo degli orologi", al tempo obbiettivo. Il tempo obbiettivo è d'altronde un'astrazione operata proiettando categorie statiche di natura spaziale sulla nozione "autentica" della temporalità vissuta. Per Bergson il punto importante è proprio quello di fissare questa grande distinzione, anzi quest'opposizione come un'opposizione che forma in certo senso la guida per la fissazione di una vera e propria catena di opposizioni dalla quale è atttraversata tutta la sua filosofia. Da una parte vi è il tempo 83 come flusso, quindi la mobilità, la flessibilità, il passaggio, la transizione. Da questo stesso lato vi è la vita stessa nella sua concretezza che non può essere colta mediante astrazioni intellettuali, ma soltanto afferrata interiormente. Sul lato opposto vi è invece lo spazio - l'astrazione intellettuale e concettuale si trova da questo versante. E così anche il linguaggio in quanto attraverso di esso si tenta in qualche modo di irrigidire nella parola ciò che è invece per essenza mobile e fuggevole. È appena il caso di dire che su questo versante si troverà la scienza stessa. All'interno di queste opposizioni, Bergson tende a riproporre una filosofia intesa come metafisica, cioè come indagine sulla dimensione profonda della vita che deve avvalersi in linea di principio di facoltà "intuitive" dal momento che l'esercizio dell'argomentazione comporta astrattezza e rigidità. - Il contesto entro cui la tematica temporale viene proposta da un punto di vista fenomenologico è tanto diverso da rendere le somiglianze pure assonanze estrinseche. Il problema centrale qui non è in alcun modo quello di pervenire ad una metafisica di carattere intuizionistico, ma piuttosto di individuare una metodologia di indagine sulle strutture dell'esperienza che sappia rendere conto della molteplicità delle formazioni di senso che in essa vengono operate. Certo, da un punto di vista fenomenologico la tematica temporale comincerà con l'opporre il tempo dato nell'esperienza e la nozione obbiettiva del tempo. Le Lezioni sulla coscienza interna del tempo di Husserl cominciano con la "messa da parte" del tempo obbiettivo. Ma questa messa da parte è soltanto una operazione metodica di isolamento tematico - in base ad essa isoliamo il tema che intendiamo mettere a fuoco. La domanda è: "che cosa è il tempo nella coscienza interna che abbiamo di esso?". Questo tema dovrà poi essere esplorato in tutte le sue stratificazioni secondo una descrizione positiva che non rifugge per nulla da momenti di astratta schematizzazine. Del resto ciò è connesso con il fatto che queste lezioni che pure hanno nel titolo il riferimento alla "coscienza interna" non vengono realizzate attraverso un'indagine introspet- 84 tiva. Nell'insieme questa tematica andrà poi considerata nel quadro più generale delle sintesi dell'esperienza, dove il tempo si presenta come come "forma" delle sintesi (e dunque anche loro condizione) sia in rapporto alle formazioni che rinviano al mondo stesso, sia a quelle che rimandano invece alla strutture della vita soggettiva. L'intuizione infine - a cui ci si può ben giustamente richiamare anche da un punto di vista fenomenologico - non è nulla di simile ad una sorta di partecipazione alla sostanza intima delle cose, ma questa parola trae il suo senso dalla tensione descrittiva che caratterizza la ricerca fenomenologica. Da un punto di vista fenomenogico non vi è nessuna intuizione del tempo vissuto, ma niente altro che una descrizione dell'esperienza del tempo che può muoversi in una grande molteplicità di direzioni. - La ripresa di Bergson in direzione delle tematiche musicali è generalmente tutta giocata sul tema della "durata", nel quale si è subito tentati di intravvedere una sorta di importante suggerimento per ciò che riguarda la temporalità nella musica. Sul piano puramente esemplificativo questa connessione è del resto già proposta da Bergson. Ecco come in che modo viene proposto il tema della durata nel Saggio sui dati immediati della coscienza: "La durata assolutamente pura è la forma che assunta dalla la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e gli stati anteriori. Esso non ha bisogno per questo di immergersi interamente nella sensazione o nell'idea che passa, altrimenti cesserebbe di durare. E nemmeno ha bisogno di dimenticare gli stati anteriori: è sufficiente che, ricordandosi di questi stati, non li giustapponga allo stato attuale come un punto ad un altro punto, ma li organizzi insieme, come accade quando ci ricordiamo fuse insieme, per così dire, le note di una melodia fuse - per così dire - insieme. Non si potrebbe forse dire che, sebbene queste note si succedano, noi le percepiamo nondimeno le une nelle altre e che il loro insieme è 85 paragonabile ad un essere vivente le cui parti, benché distinte, si compenetrano per effetto stesso della loro solidarietà? La prova di ciò è che se noi rompiamo la misura insistendo più del necessario su una nota della melodia, ciò che ci avverte del nostro errone non è tanto la lunghezza eccessiva in quanto tale, ma il cambiamento qualitativo che in questo modo abbiamo apportato all'insieme della frase musicale"(Opere 1889-1996, a cura di P. A. Rovatti, trad. it. di F. Sossi, p. 59). - Questo passo letto con attenzione critica è in grado di insegnarci svariate cose. Intanto, per cogliere la durata nella sua purezza dobbiamo disporci in un particolare atteggiamento nel quale l'io, piuttosto che essere intento in questo e quello, "si lascia vivere" e in questo lasciarsi vivere si auto-osserva, cercando di afferrare in che modo i suoi stati interni si succedano l'uno all'altro. In che cosa consista propriamente questo "lasciarsi vivere" che è una premessa così importante per tutto il resto? A dire il vero, non è così facile capirlo. L'io si lascia vivere e nello stesso tempo non si fa assorbire interamente dalla sensazione o dal ricordo da cui esso viene eventualmente colto: altrimenti la sensazione, con il suo contenuto o il ricordo verrebbe in primo piano, attirerebbe su di sé l'attenzione dell'io, mentre il momento temporale passerebbe in secondo piano inavvertito. In queste condizioni l'io avvertirà che uno stato succede all'altro, ma questa successione non verrà intesa come una "giustapposizione", ma come un trapassare di uno stato nell'altro. Mi sembra che Bergson dica all'incirca questo, facile o difficile che sia da capire. - A questo punto cade l'esempio "musicale". Nello stesso modo noi ci rammentiamo di una melodia, l'un suono sembra compenetrarsi con l'altro formando un intero organico nel quale un elemento non può essere variato se non variando nello stesso tempo la struttura melodica. Analogia musicale generica ed equivoca. In che senso si parla qui di melodia? Evidentemente non si tratta di una successione sonora qualunque e nemmeno di una sequenza di note qualunque - ma di una sequenza di 86 note per le quali si possa parlare sensatamente di organicità interna. E qui sono implicite, e sottaciute, scelte musicali di un certo peso. Ma a parte questo, la strutturazione e l'organizzazione delle note poste in sequenza non dipende certamente solo al momento temporale, ma anche - ed in modo determinante - ad altri fattori che attengono piuttosto alla "sostanza" sonora - all'altezza, al timbro, ecc. Restiamo poi debitori di una spiegazione in rapporto al senso dell'affermazione secondo la quale le note di una melodia sarebbero fuse insieme, benché rimangano distinte. Certamente, forse ci potremmo anche esprimere così. O addirittura potremmo far riferimento, da fenomenologi, alla dinamica ritenzionale e protenzionale - la quale tuttavia renderebbe del tutto dispensabile il porre l'accento sull'"organicità" della melodia, dal momento che questa dinamica agisce per una sequenze di suoni qualunque, anzi agisce per ogni formazione di esperienza in genere; l'esempio della melodia diventerebbe così poco pregnante da poter essere soppresso senza problemi. Se poi poniamo l'accento sulla strutturazione della melodia, l'esempio diventa addirittura assai poco calzante. Infatti la tematica bergsoniana della durata pone la massima enfasi sul tema della continuità, sul fluire indistinto e indeterminato, sulla mobilità, mentre è certamente sostenibile che la strutturazione e l'articolazione richiedano differenza e discontinuità, sia pure dentro l'ovvia condizione di una percezione sintetizzatrice. Si tratta dunque di una esemplificazione in parte ovvia, in parte insignificante, in parte profondamente equivoca. Eppure questa concezione della durata e proprio questa esemplificazione ha in qualche modo colpito la fantasia speculativa degli interpreti. 7 La musica e l'esperienza di un passaggio - Il caso della Langer ci fornisce un esempio certamente 87 significativo. A partire dai suoi presupposti tuttavia la posizione di Bergson non può che essere parzialmente criticata. In particolare viene respinta la diffidenza caratteristicamente bergsoniana nei confronti del linguaggio in genere, e quindi anche di ogni attività di simbolizzazione che, nel contesto della filosofia bergsoniana, viene intesa come un'attività di irrigidimento e di fissazione. Giustamente poi Susanne Langer mette in rilievo che la concezione bergsoniana della durata intesa come un "fluire assolutamente privo di forma" (ivi, p. 136) è la concezione del tempo meno adatta per rendere conto del modo effettivo di presentarsi del problema della temporalità nella musica. Si tratta di rilievi critici molto forti. E tuttavia la Langer ritiene Bergson un riferimento obbligato per due motivi essenziali: in primo luogo perché trova teorizzato nel quadro della tematica temporale ciò che essa chiama l'esperienza diretta del passaggio. In secondo luogo per il fatto che questa esperienza, introspettivamente avvertita nella nostra stessa vita psichica, rappresenterebbe l'originale di cui la musica stessa, nella sua temporalità sarebbe l'immagine (il simbolo): un'immagine che ripresenta la transizione caratteristica della vita psichica in una forma ad un tempo esaltata e depurata, proprio per il fatto che in essa vengono neutralizzate tutte quelle ansie, preoccupazioni, tensioni concrete che sono elementi ineliminabili della vita psichica reale. -"L'esperienza diretta del passaggio (direct experience of passage), come esso si verifica nella vita di ciascun individuo, è naturalmente qualcosa di effettivo... esso è il modello del tempo virtuale creato dalla musica. Qui noi troviamo la sua immagine completamente articolata e pura; ogni sorta di tensione è trasformata in tensione musicale; ogni contenuto qualitativo, in qualità musicale; ogni fattore estraneo è sostituito da elementi musicali. L'illusione primaria della musica è l'immagine sonora del passaggio, astratto dalla realtà effettiva per farsi libero e plastico e interamente percepibile" (ivi, p. 133). (In margine: in rapporto a questo tema, la Langer critica il tentativo della fenomenologia di 88 "descrivere in termini discorsivi questa complessa esperienza", ottenendo come risultato "una tremenda complicazioni di 'stati'" (a tremendous complication of 'states'). - Ogni sorta di tensione, si dice qui, è trasformata in tensione musicale. Ciò ha naturalmente ancora a che vedere con la temporalità. Il tempo "vissuto" è in ogni caso un tempo riempito di tensioni di ogni genere, e delle distensioni che sempre subentrano ad esse. "I fenomeni che riempiono il tempo sono tensioni: tensioni psichiche, emotive o intellettuali. Il tempo esiste per noi perché sentiamo le tensioni e le loro risoluzioni" (ivi, p. 132). Ora, queste tensioni debbono essere liberate dalla loro particolarità, e ciò accade nella loro sublimazione nel tempo "virtuale" prodotto dalla musica, che diventa così immagine della vita "come tale". Già in rapporto al disegno decorativo, la Langer osserva che il motivo profondo dell'attrazione esercitata da esso sta nel movimento in quanto esso è "una diretta proiezione del sentimento vitale in forme visibili e colori" (ivi, p. 79). La decorazione sarebbe l'espressione di "ritmi vitali fondamentali" (ivi, p. 79). Il movimento che appare nella decorazione "è una illusione artistica del tutto elementare (di illusione, e non di inganno perché, a differenza di quest'ultimo, essa sopravvive all'analisi), che noi chiamiamo 'forma vivente'. Questo termine, a sua volta, è giustificato da una connessione logica che esiste fra il dato parzialmente illusorio e il concetto di vita per cui il primo è un simbolo naturale del secondo: con 'forma vivente' infatti si enuncia direttamente quella che è l'essenza della vita, moto incessante, o processo, che articola una forma permanente" (ivi, p. 82). Ciò che l'arte è, diventa poi compito che l'artista deve perseguire cosicché "compito dell'artista è di produrre e alimentare l'illusione essenziale, separarla in modo netto dal circostante mondo reale, e articolarne la forma al punto che essa coincida inequivocabilmente con forme di sentimento e di vita" (p. 85). - Tutto ciò avrebbe la sua massima evidenza nella musica. Si comincia dalla considerazione secondo cui "la musica rende 89 udibile il tempo e sensibili la sua forma e continuità" in quanto immagine sonora del passaggio per poi proporre in modo sempre più accentuato il legame tra la musica e il sentimento della vita, tra la musica e la vita stessa - legame che supera a sua volta le particolarità delle espressioni musicali. Questo legame, a forza di ribadirlo, diventa per la Langer semplicemente evidente: "Qualunque sia la modalità particolare del pezzo o la sua portata emotiva, il ritmo vitale del tempo soggettivo (il tempo "vissuto" che Bergson ci invita a cogliere nell'esperienza pura) permea il simbolo musicale complesso, pluridimensionale, come sua logica interna, che lega intimamente e in modo evidente la musica alla vita (ivi, p. 148). È appena il caso di dire che il modo in cui in questa frase si presenta la parola "ritmo" fa presagire che nella Langer non sarà dato trovare alcuna effettiva penetrazione della problematica specificamente musicale del ritmo - e che essa verrà richiamata soprattutto per accentuare la componente "vitalistica", che diventa via via sempre più greve. Essa permea anche l'idea di matrice musicale (musical matrix), espressione con la quale la Langer intende una sorta di nucleo fondamentale, di idea musicale che starebbe alla base della composizione musicale e da cui l'opera stessa sorgerebbe per estensioni e variazioni successive. Si tratta di una nozione che la Langer tiene a differenziare dalla Urlinie di Schenker, e che peraltro è priva di qualunque interesse in rapporto ad un approccio analitico di un testo musicale, sembrando piuttosto il frutto di una rozza psicologia della creazione musicale. 8 Considerazioni conclusive - La filosofia della musica della Langer, e così in generale la sua filosofia dell'arte, cerca di stabilire ciò che l'arte, e in particolare la musica, essenzialmente è - una domanda a cui occorrerà 90 dare una risposta univoca e inequivoca. La musica è proprio questo e niente altro. E di conseguenza anche cerca di fornire dei criteri per la discriminazione tra cià che è opera d'arte e ciò che non lo è. In essa è strettamente implicata - anche se non affrontata in maniera diretta ed esplicita, ma lasciata come un presupposto tacito ed irrinunciabile - una problematica relativa ai criteri di una valutazione. Cosicché non vi è da sorprendersi se talvolta si parla di vera opera d'arte, oppure se si deriva dall'essenza della musica il compito del musicista, oppure se si parla di una qualità specificamente estetica (ivi, p. 49) che sarebbe presente nell'opera; oppure se si pone l'esigenza di entrare in possesso di un "criterio atto a decidere che cosa sia o che cosa non sia importante nel giudizio delle opere d'arte" (ivi, p. 40). Si tratta naturalmente di problemi che da sempre sono stati presenti all'interno della riflessione estetica, talora hanno anzi occupato il suo centro. Eppure, io penso che sia possibile avviare una riflessione filosofica sulla musica senza subito essere preoccupati dal problema della valutazione, che è forse meno centrale di quanto spesso si pensi e che richiede in ogni caso una corretta delineazione metodica nella quale l'idea che il problema della valutazione dipenda da una decisione sull' essenza della musica dovrebbe essere preliminarmente esclusa. - Il modo più ingenuo di proporre il problema della valutazione è forse proprio quello di pretendere che vi sia una "qualità specificamente estetica" che l'oggetto in esame dovrebbe possedere per essere ammesso nel novero delle "opere d'arte". Procedendo in questo modo è inevitabile un'inflessione normativa e prescrittiva, che renderà a sua volta inevitabile la proiezione di modelli e dunque di un insieme di concezioni pregiudiziali. Ciò accade naturalmente nella Langer, benché essa in apparenza tenti di mostrare che la propria concezione della musica non presuppone alcun modello. - In realtà, la questione del simbolismo dovrebbe essere affrontata in primo luogo in rapporto al materiale sonoro come 91 tale, tenendo conto delle sue potenzialità espressive. Nella Langer invece essa viene proposta presupponendo già la musica come prodotto spirituale, come modalità della creazione artistica. È significativo da questo punto di vista che la separazione di cui essa parla rispetto alle cose circostanti sia riferita alle opere in quanto "opere d'arte", ed è lontano di qui persino il sospetto che questa separazione possa essere intesa come una condizione per fare emergere una direzione espressiva che è anche una direzione simbolica, senza che per questo si debba implicare l'arte, l'opera d'arte o addirittura l'opera d'arte ben riuscita. - Ciò che fuorvia da questo problema è del resto proprio la nozione langeriana di simbolo. Essa è strettamente modellata sul rapporto rappresentativo, per quanto la Langer lo neghi. Ciò che qui risulta effettivamente negato è soltanto che si possano assegnare ad un suono o ad una sequenza di suoni significati che portano su cose o stati di cose nello stesso modo in cui ciò accade nel linguaggio verbale. Ma è essenziale per la Langer che nella nozione di simbolo sia mantenuta la distinzione tra simbolizzante e simbolizzato - e dunque il rapporto rappresentativo viene di fatto mantenuto. Ciò che la musica è, quindi il significato della musica ci viene insegnato da ciò che è il simbolizzato dei simboli musicali. Come abbiamo già notato, questo simbolizzato non presenta i sentimenti nella loro particolarità, ma la forma del sentimento. - Noi ci chiediamo allora con grande serietà filosofica che cosa sia propriamente la forma del sentimento. Ci chiediamo ad esempio: l'ira ha una forma? Proviamoci a rispondere affermativamente. E se qualcuno ci chiedesse di fornire delle spiegazioni, potremmo tentare di rispondere così: "Guarda non tanto a ciò per cui sei adirato, e nemmeno alle manifestazioni concrete della tua ira, a ciò che fai quanto sei adirato; e nemmeno a come ti senti nell'ira. Bada piuttosto al fatto che l'ira ha un andamento. Prima vi è una certa agitazione, poi a poco a poco questa agitazione cresce sempre più, finché raggiunge un punto culminante - e 92 quando sei giunto nel punto culminante certamente non starai irrigidito nell'ira: nel punto culminante l'ira esplode, e dopo che è esplosa tenderà a decrescere, a sbollire, e infine tornerà nuovamente la calma". Ecco che cosa si potrebbe intendere con forma dell'ira e questa forma la potresti descrivere con un grafico non troppo difficile da immaginare. Ma la forma della gioia non sarà dal più al meno eguale a quella dell'ira? Vi è un punto culminante della gioia, ed allora un crescere verso quel punto ed un decrescere a partire da esso - e lo stesso si può dire del dolore, per non dire del desiderio sessuale... Del resto se vi fosse più di una forma del sentimento, se ciascuno avesse la sua forma particolare, allora tanto varrebbe affermare che la musica esprime sentimenti determinati, ora la gioia, ora il dolore. Mentre la Langer afferma (secondo del resto lo spirito del formalismo): "Non gioia e dolore, ma forse ciò che nell'una e nell'altro è in grado di toccarci " (Not joy and sorrow perhaps, but the poignancy of either and both (ivi, p. 43) - Che nella musica vi siano tensioni e distensioni è fuori discussione. Ma l'interessante non è affatto attestarsi su questa affermazione generale - essa può servire come semplice inizio, a cui molto deve seguire, mentre nella Langer a questa affermazione non segue nulla. Essa è un punto di arrivo. - Quanto all'illusorietà di una stanza o di un paesaggio dipinto, chi vorrà negarla? Ma il punto importante è che questa illusorietà non fa parte dell'apprensione del paesaggio o della stanza dipinta. Questo problema affiora nel testo quando si fa notare che all'illusione artistica non è un vero e proprio inganno dal momento che l'inganno non sopravvive al suo svelamento, mentre l'illusione artistica sì. Ma in realtà dovremmo dire che lo svelamento dell'illusione artistica come illusione è un problema privo di senso. L'illusione di cui si parla infatti non illude, il carattere fittizio, ad esempio, degli eventi che vengono messi in scena in un teatro "va da sé", ovvero non fa parte dell'apprensione, ma delle condizioni dell'apprensione. 93 - È singolare come nella Langer ciò che essa chiama forma del sentimento si sposti tanto facilmente in ciò che essa chiama sentimento della vita. Questo passaggio non è affatto ovvio. È suggerito tuttavia dal modo in cui si presenta in questa filosofia della musica la tematica del tempo. Nella "durata" musicale apparirebbe nella sua forma più pura la durata vissuta che soggiace ai dinamismi del sentimento ed è permeata da essi. Attraverso questi dinamismi noi diventiamo partecipi del movimento della vita. Per questo, forma del sentimento e sentimento della vita sono espressioni che si possono sostituire l'una all'altra. Di qui l'accentuazione vitalistica presente ovunque, e naturalmente in particolare nei luoghi in cui viene enfatizzata l'"organicità" dell'opera. - Infine: che cosa apprendiamo quando ci viene insegnato che tutta la musica è espressione del sentimento della vita? Non sapremmo se calcare la mano più sulla vuotezza intrinseca di quell'espressione che sul fatto di attribuire a tutta la musica un unico senso simbolico. Entrambe le cose sono insopportabili - e ciò che a noi sembra insopportabile è qui invece uno scopo tenacemente perseguito. - Una filosofia dell'arte, ed in particolare una filosofia della musica non dovrebbe affatto sentirsi obbligata a proporre una definizione semplice e generale. Non dovremmo mai essere costretti a dire: la musica è.... - Ad una filosofia della musica noi chiederemmo ciò che chiediamo alla filosofia in genere: che aguzzi la nostra capacità di distinguere; che attiri la nostra attenzione su questo e quello, che ci fornisca strumenti svariati e criteri, guide ed orientamenti per discutere problemi che sorgono sul terreno, e soprattutto che sappia insegnarci la complessità e ci fornisca alcune tracce per penetrarla. 9 95 La composizione armonica del suono e la serie delle affinità tonali in Hindemith 2001 96 Una breve sintesi di questo testo è stata proposta nel corso della Giornata di Studio sul tema "Musica e natura" promossa in data 15 marzo 2001 dal Seminario Permanente di Filosofia della musica in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano, Scuole Civiche di Milano e Centre Culturel Français de Milan. Questo saggio è stato pubblicato in "De Musica", Internet, 2002. 97 Indice 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 1. Introduzione Il progetto di Hindemith La procedura di riduzione La procedura di spostamento di grado Le tre fasi della deduzione della Serie 1 Soppressione del fisicalismo La nozione di affinità tonale Tonalità e scala cromatica Introduzione 98 99 1. Introduzione Considerando le vicende musicali del secolo XX, si potrebbe essere indotti a pensare che esse hanno come contraccolpo, dal punto di vista della teoria musicale, il definitivo tramonto dei tentativi di fondazione oggettiva-assolutistica dell'espressione musicale: ciò vale già naturalmente per la produzione musicale della prima metà del secolo, ed a maggior ragione per la seconda metà. La grande varietà di percorsi che la musica del secolo XX ha tracciato e perseguito tende ad assumere il carattere di un gigantesco dato di fatto che sommerge l'idea stessa di una possibile giustificazione oggettiva delle regole del comporre o degli ordinamenti predisposti dei suoni, degli intervalli e delle loro relazioni. Si potrebbe arrivare ad affermare che viene meno persino l'oggetto stesso da fondare e da giustificare, e questo per il semplice fatto che la nozione di "regola del comporre" è diventata sempre più evanescente e la prevalenza dell'interesse verso il timbro tende a mettere in secondo piano ogni problematica relativa al suono-nota, al suono come altezza ed ai suoi ordini possibili. Ha forse senso oggi discutere sugli intervalli buoni e cattivi, giusti o sbagliati, perfetti o imperfetti? Oppure sulle consonanze o le dissonanze e sui loro gradi, sulle strutture scalari e sui modi di generarle, sulle regole possibili di una "buona" melodia o di una buona concatenazione armonica? A maggiore ragione dunque sembra venire meno l'interesse delle fondazioni oggettive, delle fondazioni assolute. Questo venir meno è tutt'altro che cosa di poco conto nella storia della musica e della sua teoria! Questa storia è stata fin dall'inizio segnata proprio dall'idea che la musica non sia affatto soltanto un'estrosa pratica di manipolazione dei suoni, regolata al più dal piacere che si può trarre da essa, ma che in questa pratica si facciano valere dei nessi profondamente giustificati. Questo problema si orienta anzitutto in direzione dei rapporti tra musica e matematica, tra relazioni musicali e relazioni numeri- 100 che, come se le prime fossero in grado di manifestare sul piano della percezione rapporti astratti, afferrabili solo intellettualmente. Un simile orientamento si può dire nasca con la nascita stessa della riflessione sulla musica, quindi dal tempo dei tempi, in Europa, ma anche in Oriente, in Cina e in India. Nella tradizione europea esso si mantiene immutato nei suoi termini fino almeno alla fine del XVII secolo: poi subentra la scoperta che determina la svolta che ci consente di parlare non più soltanto di una fondazione oggettiva, ma propriamente di una fondazione "naturalistica". Si tratta della scoperta degli armonici e della legge interna che li regola: è questa scoperta che segna il passaggio da una problematica fondazionale tutta volta al versante matematico ad una problematica fondazionale volta invece su un versante fisico. Il suono che appare all'orecchio come suono semplice è costituito in realtà da un viluppo di suoni, l'altezza con cui noi lo udiamo e lo identifichiamo è correlata ad una frequenza, che tuttavia va considerata solo come una frequenza dominante all'interno di un fascio di frequenze di intensità decrescente. Un suono, considerato dal punto di vista fisico, è un evento complesso, e si fa subito strada l'idea che analizzando questo evento ed in particolare districando le sue componenti si possano strappare al suono i suoi segreti, si possano svelare le ragioni delle affinità e delle differenze tra essi e rendere conto dei loro ordinamenti privilegiati, e quindi anche dei loro possibili "valori" musicali. Vi è una assai significativa differenza tra giustificazione aritmetica e giustificazione fisica, che viene spesso trascurata nelle esposizioni correnti e sulla quale invece è opportuno richiamare vivacemente l'attenzione. Il numero può essere proprietà comune di cose molto differenti. Si può attribuire un numero a cose concrete, a dei "corpi", ma anche a entità incorporee, a nozioni che non hanno nulla a che vedere con la corporeità. Nella grecità la relazione al numero era stata posta con chiarezza dal pitagorismo in rap- 101 porto agli intervalli fondamentali della consonanza di quinta, di quarta e di ottava, anzitutto indubbiamente attraverso l'osservazione empirica e quindi con riferimento a corpi risuonanti. Non era stato tuttavia possibile ancorare il rapporto numerico al corpo sonoro, al contrario tutto sembrava suggerire e rafforzare l'idea che il corpo sonoro fosse indifferente e l'intera responsabilità del risultato sensibile fosse dovuto al rapporto numerico come tale, ad una sua peculiare virtù. Un flauto è una cosa assai diversa da un corda tesa, eppure la validità del rapporto non teneva conto di questa diversità. Cosicché da un lato veniva ritenuta significativa la relazione numerica in se stessa, dall'altro questa significatività doveva essere riferita non ad una proprietà strettamente dipendente dal modo concreto di produzione del suono, ma al contrario il rapporto numerico si arricchiva di senso per il fatto che esso puntava al di là del suono verso cose rispetto ad esso eterogenee, ed anzi verso il mondo nella sua totalità. La comunanza nel numero è una comunanza che non riguarda la materia di cui sono fatte le cose, ma rimanda piuttosto alla loro comune appartenenza alla totalità stessa del mondo. Inversamente, al di là della varia superficie delle cose, della disparatezza e della possibile dispersione, il numero sembra prestarsi alla funzione di fornire l'impalcatura necessaria per tenerle insieme e vincolarle in una stabile unità. Si comprende dunque che il movimento in questa direzione tenda ad assumere valenze metafisiche: la relazione tra musica e numero rappresenta allora la via maestra per asserire una legalità interna del musicale che avrebbe le sue radici nella legalità del mondo stesso. La scoperta degli armonici si annuncia già sulla base dell'osservazione delle corde vibranti, soprattutto in connessione con i fenomeni di risonanza, per poi consolidarsi sempre più ed assumere un profilo teoricamente ben determinato con la consapevolezza, definitivamente acquisita, intorno all'origine del suono dalle vibrazioni di un corpo ed in particolare con la raggiunta capacità tecnica di "contarle", istituendo così una pre- 102 cisa relazione tra altezza percepita del suono e frequenza delle vibrazioni del corpo che lo emette. Tutto ciò conduce ad uno spostamento teorico estremamente significativo: l'idea di una fondazione oggettiva del musicale tende a liberarsi da un impianto metafisico, per riproporsi come una idea che deve svilupparsi avendo di mira l'interno del suono stesso, la sua costituzione fisica, la sua natura come oggetto fisico. In questo senso dunque, con stretto riferimento alla fisica del suono, si può parlare in questo contesto di naturalismo e, in particolare, di fisicalismo. Il suono viene riportato alle sue cause naturali, alle vibrazioni dei corpi sonori; ed i numeri assumono asssumono allora un significato non in quanto rappresentativi di forme relazionali astratte, ma come numeri che contano la frequenza di queste vibrazioni. Finché il rapporto numerico viene istituito sulla base di osservabili (come nel caso dell'osservazione e della misurazione della lunghezza delle corde), senza che tuttavia sia possibile collegare solidamente il fenomeno percettivo a precisi eventi che si verificano nel corpo che lo genera, quel rapporto fluttua in certo senso a mezz'aria arrivando a sostituirsi a quegli eventi come se il numero stesso avesse peculiarità "sonore". La dizione di "numeri sonori" (Zarlino) rende conto con grande efficacia di questo orientamento del pensiero. Ma esso non può che indebolirsi ed attenuarsi quando la relazione numerica diventa una pura e semplice relazione tra frequenze, e quindi tra eventi fisici chiaramente circoscritti. Senza scomparire del tutto. Di fatto attraverso la misurazione delle frequenze vengono confermate ed in certo senso portate alla massima evidenza le antiche proporzioni pitagoriche per le consonanze fondamentali; e nella considerazione degli armonici vengono persino convalidate innovazioni ottenute esclusivamente sul filo di considerazioni formal-aritmetiche, completamente immerse nello spirito del pitagorismo antico, come nel caso della "terza zarliniana". Un pitagorismo nascosto può sempre riaffiorare in una concezione fisicalistica, che in via di principio dovrebbe aver lasciato interamente alle proprie spalle la metafisica del numero e 103 le speculazioni numerologiche. Ma ancora più rilevante, dal punto di vista musicale e in rapporto alla storia del problema, è il fatto che la scoperta degli armonici avviene - all'inizio del secolo XVIII - simultaneamente all'affermarsi del linguaggio della tonalità e che questa affermazione può sostenersi, dal punto di vista della fondazione teorica proprio su di essa: i primi armonici squadernano sul tavolo del teorico proprio la "triade maggiore" che rappresenta la vera e propria articolazione fondamentale dello spazio sonoro considerato dal punto di vista del linguaggio tonale. La divisione dell'ottava sui pilastri della triade sembra rappresentare la proiezione della struttura interna del suono singolo. Il punto di vista dell' "armonia" triadica che si è già affermato ampiamente sul piano musicale sembra così trovare garanzia permanente di validità nella "natura fisica" del suono. Non vi è certo da meravigliarsi se per un paio di secoli un possibile fondamento dei fenomeni musicali negli armonici abbia affascinato musicisti, teorici della musica e scienziati interessati alle problematiche fisiche e musicali. Ma proprio questa relazione con il linguaggio della tonalità è destinato alla fine ad indebolire la tenuta complessiva del problema fondazionale posto in questo modo. Anzitutto esso rischia rimettervi la propria generalità. Secondo una simile prospettiva, infatti, non vi è da un lato l'ambito dei fenomeni fisici e delle loro legalità e dall'altro l'intero universo delle possibili manifestazioni musicali. La fisica del suono si assume invece la responsabilità di farsi garante di un particolare linguaggio musicale; e ciò implica che quel linguaggio debba essere considerato come il linguaggio migliore, nel senso del linguaggio più adeguato alla vera essenza 104 del suono come oggetto naturale. Ed allora va da sé che quando, seguendo le proprie logiche di sviluppo interne, che sono di ordine espressivo, quel linguaggio giunge al suo tramonto, la relazione fondazionale con la fisica del suono si possa presentare come un grave errore e come fonte di confusione. La "crisi" del linguaggio tonale sembra coinvolgere anche il problema di ogni fondazione naturalistica della musica, un problema dunque che - dovremmo sospettare - varcherebbe appena la soglia del secolo XX, quando quella crisi giunge ormai alle sue più vistose manifestazioni. Le cose tuttavia non stanno esattamente così. Intanto non vi è dubbio che l'interesse per la fisica del suono è stato grandissimo nell'intero corso del secolo XX, stimolato anche dai grandi progressi scientifici che sono stati realizzati in questo campo e dal corteo di straordinarie applicazioni tecnologiche che da questi progressi sono derivate. Anche i musicisti si sono lasciati coinvolgere da questo interesse indubbiamente in misura straordinariamente più ampia che per il passato per ragioni spesso strettamente inerente alle nuove pratiche musicali ed all'uso consapevole dei nuovi mezzi tecnici di produzione e di ricezione del suono. L'idea del suono come un complesso da analizzare e dalla cui analisi possa in qualche modo derivare la musica stessa ha continuato ad esercitare il proprio fascino ed ha conosciuto, in tempi abbastanza recenti, persino una concretizzazione musicale, nel cosiddetto "spettralismo" che inserisce questo aspetto fisico - la composizione armonica dei suoni - in un progetto espressivo, considerandolo come una fonte possibile di organizzazione del brano musicale1. Se poi guardiamo alla questione propriamente teorica, si può dire che sia definitivamente tramontata l'idea che vi possa essere un legame tra natura e linguaggio tonale tanto forte e 1 Si veda sull'argomento Quaderni della Civica Scuola di Musica di Milano, n. 27, giugno 2000 dedicato a Gérard Grisey, a cura di Andrea Melis. Inoltre: L. Fichet, Les Théories scientifiques de la musique, Vrin, Parigi, 1995, Musiques spectrales, pp. 313 sgg. 105 tanto semplice come sembrava suggerito dalla presenza negli armonici della triade maggiore. Tuttavia l'intera questione di una fondazione naturalistica è stata ripresa in molteplici direzioni e con scopi e motivi diversi. Tra queste riprese una posizione in certo senso estrema è quella di Paul Hindemith - ed è di essa che ci occuperemo in questo saggio. 2. Il progetto di Hindemith Il titolo dell'opera teorica di Hindemith Unterweisung im Tonsatz, datata 19372 si potrebbe forse tradurre in italiano con "Istruzioni per il comporre". In esso viene messo in rilievo soprattutto l'aspetto "didattico" che è proprio della seconda parte dell'opera e che questo trattato ha in comune con l'altro grande trattato novecentesco, l'Harmonielehre di Arnold Schönberg. Ma come nei trattati degli antichi maestri, anche in Hindemith la parte pratica è preceduta da una parte speculativa nella quale si presenta un tentativo di riportare le relazioni fondamentali della musica a fatti di ordine fisico-acustico. Si tratta di un tentativo realmente massiccio, che forse non ha eguali nella storia della teoria musicale, vorremmo quasi dire, per ostinazione e complessità della procedura proposta. Esso riprende la riflessione sulla composizione armonica del suono, effettuando il tentativo di derivare di qui (e quindi giustificare), i dodici suoni della "scala cromatica" unitamente alla derivazione e giustificazione dei gradi di affinità tonale. Questo progetto si realizza con la esibizione di quella che Hindemith chiama Serie 1. Non meno importante è la sperimentazione e la riflessione sui suoni differenziali o suoni di combinazione, che assumono rilevanza in funzione di un nuovo modo di considerare l'intervallo, da 2 P. Hindemith, Unterweisung im Tonsatz, B. Schött's Söhne, Mainz 1937. Abbreviazione utilizzata nelle citazioni: U, I o II vol. È stata considerata anche l'edizione americana realizzata sulla edizione del 1940 (Craft of musical composition, New York, 1942-45). 106 cui consegue un radicale rinnovamento della concezione dell'accordo e dell'idea di nota fondamentale. Anche questo aspetto della ricerca hindemithiana mette a capo ad una serie che egli chiama Serie 2. L'intera ricerca avviene nel quadro dell'apprestamento dei principi elementari di una teoria analitica che aspira alla massima generalità e che assume le vesti modeste di un trattato di contrappunto; e nello stesso tempo essa può essere interpretata anche come volta a definire il metodo compositivo dell'autore. Come si vede, c'è molto su cui riflettere! I nostri interessi, sul cui sfondo vi è il problema della partizione dello spazio sonoro, si possono tuttavia limitare ad una illustrazione e ad una discussione sul percorso che conduce alla formazione della Serie 1. 3. La procedura di riduzione Ciò che va in primo luogo messo in rilievo è la novità nel modo di considerare la composizione armonica del suono per scopi fondazionali. Una tesi naturalistica molto forte potrebbe pretendere di ritrovare negli armonici non soltanto i tre suoni della nostra scala diatonica che formano la triade maggiore e che sono del resto a portata di mano, ma anche gli altri quattro suoni di cui essa consta, in modo tale che la validità già confermata musicalmente ed eventualmente rafforzata da considerazioni di ordine matematico, sia confermata anche dal punto di vista della fisica del suono. Non è difficile tuttavia rendersi conto che il compito potrebbe aver senso solo a patto che vi sia una qualche procedura ben definita che consenta il raccoglimento sistematico degli armonici "validi" (va da sè che in questo genere di considerazioni si cerca ciò che per altra via si è già trovato). In effetti la legge elementare degli armonici insegna che la frequenza dell'n_esimo armonico sarà pari alla frequenza del suono assunto come base moltiplicato per n. Ciò che interessa, in rapporto al nostro problema, non è naturalmente lo sviluppo degli armonici come 107 tale, ma la partizione che risulta proiettando questo sviluppo entro l'ottava il cui estremo inferiore è il suono-base. Tale proiezione si ottiene attraverso la divisione per 2 iterata sino ad ottenere un valore compreso tra 1 e 2, corrispondendo ogni passo allo spostamento di un'ottava verso il basso. Conveniamo di chiamare questa operazione "procedura di riduzione" (entro l'ottava). Ovviamente, operando in questo modo, si troveranno tra gli armonici valori già trovati in precedenza, ma il punto importante è che procedendo sempre più oltre nello sviluppo degli armonici si otterranno valori sempre nuovi e ciò significa che si avrà una partizione dell'ottava sempre più fine, gli intervalli diventeranno sempre più piccoli fino a riportare l'ottava di base, considerata dal punto di vista percettivo, all'unità "continua" del flusso. Va da sé che prima o poi si incontreranno anche i valori cercati, ma proprio questa circostanza rende una simile procedura del tutto insignificante. Infatti vi sono valori che debbono essere scartati, e non vi è alcun preciso criterio per questa selezione che non sia quello del confronto con i valori ritenuti musicalmente validi. Il fatto che poi, proseguendo a piacere verso gli armonici superiori, si arrivi ad una divisione sempre più fine dell'ottava, significa nello stesso tempo che seguendo una simile via qualunque modello scalare potrebbe essere giustificato3. La giustificazione di tutto equivale alla giustificazione di nulla. Affinché il ricorso agli armonici possa dare il risultato fondazionale che si ricerca attraverso di esso, è necessario dunque che il reperimento degli armonici musicalmente validi abbia il carattere di una "deduzione" e cioè avvenga secondo una regola rigorosamente determinata che sia in grado di operare essa stessa una selezione di valori "coincidenti" con quelli a cui si è già 3 Un accenno a questa circostanza vi è anche in Hindemith quando dice che "la serie degli armonici im Rohzustande - allo stato grezzo - non è utilizzabile a causa delle distanze che diventano sempre più piccole dei singoli elementi" (U, I, p. 42). 108 riconosciuto una validità musicale. Naturalmente questa coincidenza di per sé non prova ancora nulla. E tuttavia quanto più forte sarà la coincidenza tanto più forte potrà essere considerata l'ipotesi che essa non sia casuale, ma che vi sia invece una relazione effettiva tra le due serie di valori - e precisamente che la seconda sia "fondata" nella prima, e che quindi la scala musicale sia l'affiorare alla superficie sensibile della struttura fisica profonda del suono. Come sarebbe bello allora se la regola fosse la stessa che sviluppa gli armonici dal suono ovvero se accadesse che le note della scala fossero dispiegate dai primi armonici ottenuti, l'uno dopo l'altro, eliminando eventuali raddoppi; e addirittura se l'ordine secondo cui essi vengono ottenuti fosse a sua volta indicativo di una "distanza" crescente rispetto alla nota-radice, come sembra accadere almeno nei primi passi, dove la quinta precede la terza nell'ordine di acquisizione! L'ambito delle giustificazioni si estenderebbe allora dagli intervalli puri e semplici alle loro relazioni. Ma come abbiamo detto non accade affatto così: fino al sesto armonico possiamo forse compiacerci di aver soddisfatto entrambe le condizioni, ed il risultato, è notevole perché squaderna la triade maggiore. Purtroppo basta fare un passo oltre per avere un dura smentita alle nostre speranze. Il settimo armonico - anzi "il funesto settimo armonico", per usare l'espressione di Hindemith4 - si trova in un rapporto di 7/4 (pari a 969 cents) con la nota-radice, un rapporto che non è considerato valido "nel nostro sistema musicale (Tonsystem)"5. Hindemith nota che si tratta di un si bemolle fortemente "calante"6, ma rende subito avvertiti della improprietà di simili espressioni riferite agli armonici. Proprio mentre ci si accinge a fare incontrare considerazioni musicali con considerazioni fisiche occorre prestare attenzione nel non confonderle l'una con l'altra. Gli armonici non ne sanno nulla delle nostre decisioni 4 unheilvoll - U, I, 61. U, I, p. 41. 6 Nel sistema temperto il si bemolle è pari a 1000 cents. 5 109 musicali, il settimo armonico è esattamente quello che è ed in rapporto ad esso, come in rapporto a tutti "i suoni naturali degli ipertoni", non possiamo affatto dire che essi siano "troppo alti" o "troppo bassi"7. È giusto invece affermare che vi sono suoni naturali che non trovano posto nel nostro sistema. Occorre inoltre considerare che quanto più si sale nella successione degli armonici, tanto più evanescente diventa la nozione di armonico dal punto di vista fisico, per quanto possa restare chiara da quello matematico8. Queste osservazioni di Hindemith mostrano che egli non è affatto disposto ad abbandonare un riferimento normativo alla pratica musicale - e questo gli può essere imputato come un merito o come un elemento di incongruenza metodica. Come un merito, perché sembra abbastanza giusto che l'astrazione teorica in questo campo non debba perdere di vista la concretezza dell'esperienza musicale; ma anche come una incongruenza metodica per il fatto che una esigenza stretta di non arbitrarietà richiederebbe l'esclusione di qualunque elemento normativo tratto dall'esperienza musicale. È certo in ogni caso che per Hindemith sono considerazioni musicali che determinano i limiti esterni del campo di azione del metodo e che, come vedremo, tendono anche a penetrare al suo interno ed a intevenire nella sua azione. 7 U, I, p. 41. "Nessuna teoria della musica che si possa prendere sul serio ha fino ad oggi oltrepassato la serie da 1 a 16 e noi vedremo nel corso delle nostre ricerche che è sufficiente una sezione ancora più piccola della serie degli ipertoni per presentare tutti i rapporti tra i suoni che servono al lavoro musicale" (U, I, pp. 41-42) 8 110 4. La procedura di spostamento di grado La procedura di riduzione è dunque riconosciuta come impraticabile. E proprio la consapevolezza di questa impraticabilità, associata ad una inaudita ostinazione con cui viene perseguito il fine di una fondazione fisicalistica, che non si contenta dei risultati dei primi sei armonici e quindi di una mera giustificazione della triade maggiore e della tonalità nell'accezione tradizionale del termine, induce Hindemith ad escogitare una propria via per realizzarlo. Come in una favola, egli dice9 , immaginiamo di regredire ai tempi in cui le "note" non sono state ancora inventate e che si disponga soltanto del suono singolo e dei suoi armonici. - Come in una favola: postulando questo inizio immaginario Hindemith pensa forse di realizzare una sorta "epoché", di "messa in parentesi" delle conoscenze già acquisite, nello stile dei fenomenologi. Questa idea è certamente presente in Hindemith e viene ribadita nel volume Komponist in seiner Welt10 quando ci si accinge ad introdurre la tematica del "materiale di lavoro". Si sottolinea allora che mentre i musicisti tendono a considerare questo materiale come qualcosa di dato, senza scorgere in esso alcun problema oppure a considerarlo sotto il profilo delle loro conoscenze apprese dalla scuola e dall'esercizio della loro professione, è necessario invece "indagare questo materiale e i suoi modi di applicazione come osservatori disinteressati, come farebbe un dilettante intelligente: non impediti dai paraocchi del musicista.. Noi procederemo come se dovessimo apprestare il materiale per il musicista - senza esperienza precedente, per così dire, dal nulla"11. E poco dopo sottolinea con insistenza: "Togliendo di mezzo i paraocchi del musicista, ci rendiamo liberi dai suoi vincoli al modo di pensare tradizionale, 9 U, I, p. 51. Ediz. americana: A Composer's World, Cambridge Mass., 1952. Ediz. tedesca, Zurigo 1959 (Abbr. qui utilizzata: Komponist) 11 Komponist, p. 91. 10 111 dalle sue preferenze personali, dai suoi binari stilistici e (questo è la cosa più importante) dalla sua difesa di tutto ciò di cui egli si è già appropriato attraverso l'esercizio, i suoi ragionamenti e riflessioni. In possesso di questa libertà noi possiamo considerare con occhi critici quei legami tradizionali e professionali. Forse potremo trovare addirittura dei metodi più convincenti e attendibili da applicare al materiale sonoro"12. Le espressioni qui ricorrenti - lo spettatore disinteressato, il paraocchi come immagine di conoscenze pregiudiziali che impediscono di cogliere la "cosa stessa", l'apprestamento di una situazione che ponga i problemi "senza esperienza precedenti, per così dire dal nulla" sono espressioni ricorrenti nella letteratura fenomenologica. Si tratta tuttavia di una epoché ben singolare, questa, che riporta, anziché, come dovrebbe, al mondo sonoro non ancora attraversato da apparati esplicativi, al suono singolo ed ai suoi armonici, che certamente sono un punto assai critico di passaggio dall'esperienza percettiva alla spiegazione fisica! Questa intenzione di regresso ad un ipotetico primo inizio resta tuttavia interessante per un fatto che è stato finora assai poco messo in evidenza dalla critica: essa fa tutt'uno con l'idea che questa attesa fondazione fisica ci metta nelle condizioni della tabula rasa facendo da preludio ad una radicale riformulazione dei concetti musicali di base. Ma per il momento cerchiamo di sintetizzare la procedura proposta da Hindemith, che nella lettura del testo può presentarsi faticosa ed aperta a possibili equivoci. Il suono singolo da cui prendiamo le mosse sia il do grave a 64 Hz13. La numerazione degli armonici comincia naturalmente di qui ed esso varrà quindi come primo armonico. Il secondo armonico presenta il do a 128 Hz. Data l'identità della 12 ivi, p. 92. Per ottenere un la a 440 Hz occorrerebbe prendere un do a 65,40 Hz. La scelta è spiegata da Hindemith dicendo che la misura di 64 Hz è la "la misura normale per le richerche fisiche" benché musicalmente si usi un do un po' più acuto (U., I, p. 34). 13 112 nota, a parte la differenza di altezza, "essa potrà diventare suono fondamentale di una nuova serie di ipertoni che non mostrerà alcuna differenza rispetto alla prima, al di là della trasposizione di ottava. In virtù di questa proprietà, essa forma il limite superiore della nostra scala"14. Questo primo passo dello sviluppo degli armonici viene dunque interpretato come un passo che delimita uno spazio che dovrà essere via via riempito da nuovi suoni. Il terzo armonico di do_64 - corrispondente a 64*3=192 Hz - non appartiene a questo spazio e non può essere accolto come tale. Tuttavia noi sappiamo già che il secondo armonico si trova in una relazione di ottava con il primo. Potremmo allora considerare il terzo armonico come secondo armonico di una fondamentale da ricercare. Questa verrà ottenuta dividendo la frequenza del terzo armonico per 2. Si ottiene allora un valore di 96 Hz, che è compreso tra 64 e 128 e che sarà dunque il primo intervallo con cui comincia l'articolazione dell'ottava di base. Si tratta di una quinta misurata dal rapporto di 3/2 (702 cents). Si noti che non si tratta per nulla - come si continua ripetere nelle esposizioni frettolose - di una procedura di riduzione all'interno dell'ottava nel senso in cui ne abbiamo parlato in precedenza, da farsi in ogni caso quando un armonico supera l'ambito dell'ottava di base. In questo caso la divisione per due è infatti determinata unicamente dalla decisione di considerare il terzo armonico come secondo di una fondamentale da ricercare. "Con questo accertamento - sottolinea Hindemith - abbiamo in mano la chiave per tutti i calcoli sucessivi. Chi ha compreso il cammino or ora descritto da do_64 al di là di sol_192 verso sol_96 potrà seguire senza fatica l'origine del nostro sistema planetario dei suoni"15. In effetti se si è ben compreso il modo in cui avviene quel passaggio, si avverte anche subito la possibilità di una estensione procedurale. Potremo in altri termini interrogarci ad ogni 14 15 U., I, p. 51. "tonales Planetensystem", U, I, p. 52. 113 grado, seguendo di passo in passo la serie degli armonici, se l'armonico in questione possa essere produttivo di una nuova nota all'interno dell'ottava di base qualora il suo ordine venga spostato e si ponga il problema della fondamentale corrispondente a questo spostamento. Ad esempio, in rapporto al quarto armonico do_256 ci si potrà chiedere che ne è della rispettiva fondamentale considerandolo come terzo e secondo. E si vede subito che come secondo armonico si ottiene come valore della fondamentale un valore già acquisito (128), mentre considerandolo come terzo armonico si ottiene un valore nuovo (256 : 3 = 85,33), compreso nell'ottava di base e che si trova in un rapporto di 4/3 con la fondamentale do_64 - una bella quarta a 498 cents. Di conseguenza questo valore verrà acquisito nel Tonleiter che stiamo costruendo. Naturalmente la giustificazione di questo intervallo starà tutta nell'esistenza nella serie degli armonici di una doppia ottava rispetto alla fondamentale, e non nell'esistenza effettiva di un intervallo di quarta. Ovvero: la doppia ottava è in grado di giustificare l'intervallo di quarta per il fatto che questo può essere calcolata da quella. Potremmo chiamare questa procedura, differenziandola nettamente dalla precedente, "procedura di spostamento di grado". Essa sembra possedere un automatismo sufficiente a porla al riparo dal problema dell'arbitrarietà delle selezioni. Infatti si possono formulare due regole per gli scarti da effettuare - regole che dovrebbero potersi caratterizzare come obbiettive, poggiando il loro utilizzo su criteri puramente numerici che potrebbero avere un'applicazione interamente automatica, senza che intervengano valutazioni mediate da un sistema musicale esistente. Una nota verrà scartata 1. se si tratta di una nota già trovata 2. se la sua frequenza risulta superiore a 128, e quindi fuori dal margine superiore dell'ottava {64,128}. Se risulta inferiore a 64, e quindi fuori del margine inferiore dell'ottava, se ne farà 114 il riporto all'interno di essa attraverso la moltiplicazione per due della frequenza e verrà esclusa se ricade nella prima regola. Si vede subito tuttavia che nella formulazione della seconda regola vi è qualcosa che non convince. La prima non pone certamente alcun problema dal momento che si limita ad escludere i raddoppi. Ed anche le ragioni della seconda sarebbero altrettanto evidenti se stabilisse in generale l'esclusione di qualunque trasposizione, sia dall'alto che dal basso. Il metodo della riduzione entro l'ottava verrebbe così interamente bandito e al suo posto subentrerebbe il metodo dello spostamento di grado. Invece si stabilisce che la "riduzione entro l'ottava" sia consentita per le frequenze inferiori a 64. Naturalmente dal punto di vista strettamente calcolistico, si possono fissare le convenzioni che si vogliono: l'automatismo viene in ogni caso conservato e il criterio della selezione resta puramente aritmetico. Ma è certo lecito il sospetto che quella convenzione sia effettuata per prevenire un risultato indesiderato. Di fatto sembra difficile trovare nel testo osservazioni sufficienti per giustificare questa disparità. 4. Le tre fasi della deduzione della Serie 1 I. Nell'illustrare la procedura, abbiamo già percorso un certo tratto della prima fase della deduzione della Serie 1. In effetti, abbiamo "dedotto", con riferimento ai primi quattro armonici, nell'ordine, l'ottava, la quinta e la quarta. Procedendo oltre, si passerà in esame il quinto armonico (che è un mi_320) e si otterrà, attraverso la procedura indicata e l'applicazione delle regole di selezione, un la_106,66, che è una sesta a 884 cents (5/3), e un mi_80, ovvero una terza a 386 cents (5/4)16. Si cominciano 16 Il quinto armonico viene considerato rispettivamente come terzo (320:3) e come quarto (320:4). - E. Costère, Mort ou transfiguration de 115 a dipanare gli intervalli considerati "giusti". La bontà del procedimento sembra ancora clamorosamente confermato dal sesto armonico (sol_384) che, considerato come quinto, esibisce un mi bemolle_76,8 che è una terza minore a 315,6 cents (6/5). A questo punto le possibilità di derivazione legate direttamente ai primi sei armonici sembrano esaurite. A parte le considerazioni già compiute sul settimo armonico come tale, esso si rivela "improduttivo" qualora sia sottoposto alla procedura di spostamento di grado. Ciò significa che "se tentiamo di maneggiarlo così come abbiamo fatto con i suoi predecessori arriviamo a risultati terrificanti"17. Applicando quella procedura otteremmo dei risultati "calanti", che dovremmo includere nella partizione della nostra ottava perché non possono essere filtrati dalle due regole che abbiamo enunciato. Ciò significa peraltro che i risultati della procedura dello spostamento di grado applicata al settimo armonico sono altrettanto validi quanto lo sono quelli ottenuti nella sua applicazione agli armonici precedenti. Intervengono invece considerazioni estranee al calcolo per confermare l'opportunità di arrestarsi al sesto armonico. E naturalmente si contravviene all'assunzione di essere prima di l'harmonie, PUF, Parigi 1962, nota a questo proposito: "Ensuite intervient le La comme son fondamental de la succession ayant le Mi comme 3e son; et l'on est dejà en droit de se demander par quel mystère le Mi n'intervient qu'après, bien que le La n'entre en ligne de compte qu'en fonction de lui" (p. 33). Se Costère si sente in diritto di fare una domanda simile ciò significa che non ha compreso il metodo di spostamento di grado utilizzato da Hindemith. Ciò del resto è dimostrato da altri aspetti alquanto grossolani della sua critica: come quando indica come un arbitrio l'aver inserito il mi b "che è estraneo ai primi intervalli naturali della fondamentale do" oppure rileva una contraddizione nella posizione assegnata al si b che può essere spiegata "solo come una approssimazione del settimo suono di cui egli pretenderebbe di non tener conto" (p. 33) - per non dire del fatto che si fa confusione tra Serie 1 e Serie 2, presentando quest'ultima come se essa presentasse "l'ordre de parenté avec Do" (p. 32) ed ignorando bellamente che essa non è fondata negli armonici! Si tratta di errori inammissibili in una critica di carattere stroncatorio. 17 U. I, p. 54. 116 ogni sapere musicale, "come in una favola". Se quell'assunzione fosse rigorosamente mantenuta continueremmo la deduzione proseguendo i calcoli sul settimo armonico e oltre. Allora si prospetterebbe certamente la situazione che si prospetta nella procedura di riduzione semplice degli armonici all'ottava di base - ovvero il progressivo riempimento completo di essa, il venire meno della sua "discretezza" e la perdita di senso del problema della partizione ed a maggior ragione della sua legittimità. Ci si deve dunque arrestare di fronte al settimo armonico: qui comincia il caos, e su questa frontiera del numero sette si fa avanti anche la tentazione numerologica: "Nell'antichità i numeri e le relazioni numeriche dicevano di più di quanto dicano agli uomini di oggi che hanno dimenticato il senso segreto del numero per via della loro familiarità con liste di prezzi, statistiche e bilanci. Il segreto del numero sette era ben noto: chi fosse riuscito a impadronirsene sarebbe potuto diventare signore del mondo o suo distruttore. È comprensibile che un simile numero mistico e inafferrabile fosse considerato sacro. Ed anche per la sensibilità ai suoni il sacro recinto è inaccessibile"18. È dunque definitivamente deciso che occorre limitare la procedura proposta ai primi sei armonici19 sviluppandola eventualmente a partire dai suoni che attraverso di essi vengono prodotti. In effetti vi sono due possibilità di estensione del metodo di spostamento di grado che consentono di proseguire nella deduzione. Se è lecito considerare questo spostamento verso il basso dovrebbe essere altrettanto lecito riferirlo anche ai gradi superiore della nota considerata. Cosicché si potrà cominciare dal terzo armonico20 considerandolo come se fosse quarto, 18 U, I, p. 56. E non ai primi cinque, come gli fa dire ancora Costère: "Hindemith commence par poser un principe très sage: il ne tiendra compte que des cinq premiers, constitutifs de l'accord parfait majeur" - op. cit. p. 32. 20 Non è necessario considerare il secondo armonico perché da esso, per la ragione già esposta, non possiamo attenderci nulla di nuovo. 19 117 quinto e sesto armonico, proseguendo poi con il quarto (considerato come quinto e sesto) e con il quinto (considerato come sesto). I calcoli mostrano che, rispettando le nostre due regole di selezione, da questa estensione della procedura possiamo acquisire solo una nuova nota: dal quarto armonico, do_256, considerato come quinto, possiamo trarre il la bem_102,4, e quindi un nuovo intervallo pari 813.704 cents (8/5). Con questo passo viene considerata chiusa la prima fase di costruzione della serie che ci ha portato alla seguente sequenza: II. Abbiamo accennato ad una seconda possibilità di proseguire la successione. Il suo impiego dà luogo alla seconda fase della deduzione: avendo esaurito tutti i calcoli possibili entro il sesto armonico a partire dalla frequenza do_64, sembra coerente utilizzare come frequenza di base ciascun suono precedentemente prodotto considerato nell'ordine. "La forza produttiva del suono origine do_64 si è esaurita. I suoni che sono nati da esso do_128, sol_96, fa_85,33 la_106,66, mi_80, mi bem_76,8, la bem_102,4 lo circondano come un numero orgoglioso di figli. Essi cominceranno un giorno una vita indipendente quando essi avranno abbandonato la casa del padre - questo processo nella famiglia dei suoni si chiama modulazione. Essi possono tuttavia fondare la loro propria famiglia quando si trovano ancora sotto la protezione paterna e possono rallegrare il loro genitore con una frotta di nipoti. Per noi ciò significa che possiamo trattare gli armonici dei suoni da Sol_ 96 a la bem_ 102,4, in quanto si trovano nella cerchia dei primi sei armonici di C_64, così come abbiamo fatto per questi ultimi"21. Come si vede, si 21 U, I, p. 57 118 cerca di motivare questo passaggio con un riferimento musicale, la modulazione: se chiamiamo tonica il suono generatore della serie, possiamo dire che ogni suono può assumere carattere di tonica e generare la propria serie; ma può anche assumere il carattere di tonica subordinata, generando i propri figli "quando si trova ancora sotto la protezione del padre". Del resto lo stesso metodo di spostamento di grado potrebbe in qualche modo essere giustificato con il fatto che una stessa nota può essere indifferentemente, secondo i contesti e le funzioni, quinta, terza, quarta ecc. di una tonica da determinare. Analogie, è appena il caso di dirlo, arrischiatissime dove si gioca proprio su un ambiguo intreccio tra livello fisico e livello musicale ed indicative soltanto di una direzione complessiva del discorso verso un tentativo di ridiscussione del concetto di tonalità a partire dal suo radicamento dentro la struttura fisica del suono. In realtà, l'unica giustificazione possibile di questo passaggio è di carattere matematico-formale, e riguarda il fatto che poiché i valori precedenti sono stati ottenuti attraverso un calcolo, si può ammettere che essi possano rappresentare basi per applicazioni dello stesso tipo di calcolo, preservando l'unità del processo. Procedendo in questo modo, si cercheranno dunque nuovi valori cominciando a prendere il terzo armonico di sol_96, e effettuando lo spostamento di grado sia sopra che sotto di esso. Proseguendo poi consequenzialmente. Il numero dei calcoli cresce, ma la procedura resta nell'essenziale la stessa. Non è il caso di tediare il lettore riproducendola passo per passo, ma possiamo limitarci a riferirne i risultati. A partire da sol_96 si ottiene un re_72 (ovvero un tono grande o pitagorico a 204 cents, 9/8). Considerando gli armonici di fa, possiamo acquisire un si bem_113,78 (996 cents, 16/9) ed un re bem _68,27 (112 cents, 16/15); attraverso gli armonici di mi si ottiene un si_120 che è pari a 1088 cents ovvero al rapporto 15/8.. Così la serie che stiamo sviluppando si arricchisce dei nuovi valori indicati dopo la seconda doppia barretta: 119 Ma questa volta, in questa seconda fase della deduzione, le cose non sono andate così liscie come erano andate nella prima. In effetti nella prima fase tutti i valori erano stati ottenuti o rifiutati in stretta osservanza delle due regole.Ora invece è accaduto che nel corso della procedura alcuni valori siano stati rifiutati sulla base di considerazioni del tutto estranee alla procedura calcolistica. In sostanza accade che si ottengano, esattamente come nel caso della derivazione dal settimo armonico, intervalli troppo piccoli rispetto a quelli già ottenuti, cosicché vengono scartati dei valori, perfettamente legittimi dal punto di vista calcolistico, ma "non adatti al nostro scopo"22. III. Questa situazione si aggrava nell'ultima fase della derivazione. Nella prima fase abbiamo derivato nuovi valori prendendo come base dei calcoli i primi sei armonici di do_64, con spostamento di grado sotto e sopra. I primi sei armonici, per impiegare la metafora hindemithiana, possono essere considerati i "figli" di do_64. Nella seconda fase le note generatrici sono proprio questi "figli" e le note da esse generate possono dunque essere dette "nipoti". Ora, osserva Hindemith, "i figli di do_64 hanno fatto il loro dovere, e tuttavia la nostra scala non è com22 "für unseren Zweck nicht geeignet", U, I, p. 58. Vengono respinti in particolare i valori 92,16 e 122,88. Accade addirittura che nell'edizione del 1937 si accetti come buono il valore 115,2 per il si bemolle e si rifiuti invece come "inadatto allo scopo" il valore 113,78 e che nell'edizione del 1940 questa valutazione venga esattamente invertita. Questa correzione ha certamente il vantaggio di rendere più omogenea la scala risultante, ma nulla forse più di questa correzione mostra come Hindemith intenda pilotare il calcolo verso un risultato voluto. 120 pleta. Se ordiniamo in ordine crescente le note finora ottenute tra do_64 e il suo secondo armonico do_128, tra fa_85,33 e sol_96 si apre una lacuna"23. Fra queste due note sussiste un intervallo più ampio di quello che sussiste tra le altre note. In sostanza dobbiamo ancora "dedurre" il tritono e la via più ovvia per farlo, ad imitazione del passaggio dalla prima alla seconda fase, è quella di passare ad una terza fase che consisterà nell'assumere come base dei calcoli i "nipoti" e nell'applicare la procedura di spostamento di grado agli armonici di essi. Ma questa deduzione risulta assai più controversa: valori falsi, ma calcolisticamente validi, spuntano da ogni parte, in particolare ricreando proprio quegli intervalli minimi che erano generati dal settimo armonico. Non è un caso se in questa fase Hindemith evita una ricerca sistematica limitandosi a individuare un valore "passabilmente" intermedio tra fa_85,33 e sol_96. Ma questa ricerca non va a buon fine: in effetti ci veniamo a trovare di fronte a tre valori molto vicini tra loro compresi tra 85,33 e 96 Hz: 92,16 Hz (pari a 631), 91 Hz (pari a 609 cents) e 90 Hz (pari a 590 cents). Più esattamente: il primo era già stato trovato nella fase precedente e scartato perché se ne sarebbe potuto trovare un altro migliore, essendo questo troppo alto!24 In questa 23 U, I, p. 59. Dal terzo armonico di mi bem_76,8 considerato come quinto. Secondo L. Fichet, Les Théories scientifiques de la musique, Vrin, Parigi, 1995, p. 108 il rifiuto di questo valore, già nella seconda fase, è condizionato dall'intenzione di dare al tritono una posizione del tutto a parte: "Hindemith est très influencé par la façon dont est considéré le triton dans la musique traditionelle. Il cite même encore cette fameuse expression "Diabolus in musica" qui le désigne dans tant de théories. Il n'est don pas question pour lui de le laisser sur le même plan que d'autres intervalles beaucoup plus innocents comme les tons ou les septièmes. C'est sans doute pour cela qu'il rejette un Sol b issu directement des fils de Do_64. Il préférait que le triton ne soit pas un ordinaire "petit fils" mais plutôt un arrière petit fils, un 'Urenkel' du Do_64 pour pouvoir établir une très nette difference hierarchique entre le Fa#/Sol b et les autres notes qui viennent d'arriver dans sa gamme". Si tratta di un'ipotesi interessante che mostra ancora, se fosse necessario, un filo conduttore preordinato in queste 24 121 situazione non vi è che l'arbitrio, che tien d'occhio la prassi musicale, che può prendere qualche decisione. Hindemith decide di accettare in via di principio entrambi i due valori 91 e 90 a titolo rispettivamente di sol bemolle e fa diesis e di fatto optando per il valore 90 come fa diesis. In via di principio la differenza deve essere mantenuta per il fatto tra l'uno e l'altro valore, separati da solo 1 Hz, intercorrono in questa regione di frequenza circa venti cents - un divario chiaramente percepibile. Proprio al termine della deduzione - mentre abbiamo incontrato già in precedenza situazioni di difficoltà risolte alla bell'e meglio - dobbiamo prendere atto di questa situazione piuttosto imbarazzante. "A quanto pare nell'intervallo tra fa diesis e sol bemolle abbiamo riottenuto ciò che volevamo evitare nel calcolo del settimo armonico. Ciò vale tuttavia soltanto per questa singola nota, le note della scala finora ottenute non vengono toccate da ciò. Con questo piccolo disturbo possiamo arrivare alla fine; al "crepuscolo degli dei" dei suoni che sarebbe subentrato se avessimo incluso il funesto settimo armonico, non avremmo potuto opporre difesa. Nella nostra posizione (l'ottava grave) il comma misurato dalla grandezza di una oscillazione, è tuttavia ancora così grande che l'orecchio percepisce la differenza. Essa è comunque pur sempre la più piccola percepibile e in ogni caso più accettabile che quella che sarebbe sorta dall'inserimento di un sol bemolle a 92.16 derivato dal mi bemolle"25. Naturalmente, dal punto di vista matematico nulla osta a proseguire oltre con i pronipoti - ma " poiché già i pronipoti sono affetti dalla tensione del comma, tutti i suoni da essi derivati scelte. Il testo di Fichet tuttavia suggerisce che anche qui vi sarebbe un aspetto tradizionalista di Hindemith, mentre la concezione che Hindemith ha del tritono va ben oltre la frase fatta del Diabolus in musica: esso occupa una posizione chiave nel sistema che non ha alcun riscontro con la tradizione. Del tutto arbitraria ci sembra la critica di Fichet di una pretesa ed impossibile divisione dell'ottava in intervalli semitonali pari a 16/15 che è estranea all'impostazione di Hindemith. 25 U, p. 61. 122 peggiorerebbero quanto a purezza e perderebbero la connessione armonica con il suono originario. Per giunta la nostra scala è completa e noi non abbiamo bisogno di alcuna altra nota"26. Riordinata scalarmente la Serie 1 esibisce le dodici note della "scala cromatica". Si noti che la scelta dell'impiego del bemolle o del diesis è in questo contesto pura convenzione. Si tratta anzi di un impiego equivoco, non essendovi alcuna idea di innalzamento o di abbassamento - gli armonici sono esattamente quello che sono. Oltre che le distanze dalla nota iniziale vengono qui indicati, nella riga inferiore, i tipi di intervalli che intercorrono tra l'una e l'altra posizione. Come si vede, vi sono tre tipi di intervalli semitonali, un semitono piccolo a 70 cents, medio a 92 cents e grande a 112 cents. In realtà si tratta di misure ben note nella tradizione europea. In rapporti: 70 cents = 25/24; 92 cents = 135/128; 112 cents = 16/15. Come differenza tra 92 e 70 si ottiene il comma sintonico (81/80) a 22 cents. Poiché questi sono i numeri è facile scorgere sopra questa scala cromatica, la scala diatonica zarliniana: 26 U, p. 61 123 Non è difficile pensare che questo modello pesi nel corso della deduzione della serie 127. 6. La soppressione del fisicalismo Nelle considerazioni precedenti è già stato fatto valere come elemento di critica il fatto che il metodo proposto non viene ovunque coerentemente seguito, e ciò significa che nel corso della "deduzione" intervengono scelte che appaiono giustificate al di fuori di esso. Non solo l'obiettivo da raggiungere è predelineato, ma si fanno valere opzioni al solo scopo di non mancarlo. All'automatismo subentra un elemento di arbitrarietà. La "messa in parentesi" della normatività di modelli conosciuti non viene rispettata con il necessario rigore. Solo tenendo d'occhio la pratica musicale e partizioni ben note dell'ottava possiamo precluderci di continuare a dedurre anche dal settimo armonico ed oltre; ed è sempre questa stessa pratica che suggerisce di non acquisire valori che sono stati, nel senso che abbiamo spiegato, legittimamente dedotti, oppure di operare delle scelte tra valori intervallari troppo vicini. Questi argomenti sono del resto correntemente usati nelle critiche della posizione di Hin27 Non mi sembra perciò di poter condividere l'opinione espressa da C. Deliège, "Nature <->culture: choix de parcours... De la théorie de Hindemith aux fondaments présumés de l'harmonie atonale", in"Ostinato rigore - Revue internationale d'études musicales, 6-7, 95/96, pp. 69-100, secondo il quale "l'illogisme de cette présentation provenait évidemment du recours au système de la résonance acoustique pour obtenir une échelle chromatique aussi proche que possible du témperament égal" (p. 77). 124 demith. Io credo tuttavia che per comprendere che cosa veramente accade in questa deduzione sia più interessante, riportare l'attenzione più a monte, e quindi sulla procedura dello spostamento di grado e sulla ricerca di una "posizione" attraverso l'identificazione della fondamentale del grado che è stato spostato. Questa procedura è in realtà assai imbarazzante proprio in rapporto ad una tesi forte delle radici fisiche della partizione. Riflettiamo su questo punto. Gli armonici di un suono sono un fatto fisico concreto, e persino entro certi limiti, nella regione più prossima al suono-origine, un fatto fisico che arriva ad una manifestazione fenomenologica. In circostanze particolari favorevoli, l'armonico lo si sente effettivamente risuonare dentro il suono più grave. Ed è questo punto - l'immanenza effettiva degli armonici nel suono singolo - che è sempre stato il motivo principale del fascino teorico che essi hanno da sempre così fortemente esercitato. Ora, proprio questo punto viene in questo caso del tutto a cadere. Nel metodo proposto da Hindemith, ciò che importa non è il fatto di ritrovare concretamente l'armonico dentro il suono. Questo è anzi in linea di principio escluso. Se si considera il quarto armonico di un suono A come terzo o quinto armonico di un altro suono B e si trova significativo proprio questo suono B in rapporto ad A, si deve certo dare per scontato che il suono B non ha nessun rapporto fisico con A e tanto meno avremmo ragione di dire che è contenuto in esso. Sembrerebbe quasi un paradosso che si cerchi la giustificazione di un rapporto relativamente ad una fondamentale nei suoi armonici considerati come armonici di un'altra fondamentale! Questo paradosso viene tuttavia meno se si considera che la condizione richiesta è unicamente la derivabilità calcolistica, la calcolabilità del suono B a partire da un armonico di A. Occorre avere chiaramente presente che ciò che si cerca non è una entità in qualche modo concreta, ma niente altro che un numero per il quale si richiedesoltanto che sia derivabile da altri numeri secondo un unico metodo che riporta tutti i risultati ad una base comune: 64 rappresenta l'inizio, i 125 numeri da 1 a 6 fungono da moltiplicatori (per raggiungere gli armonici) e da divisori (per raggiungere le fondamentali corrispondenti). In fin dei conti è soltanto quel 64 e l'ostinato richiamo agli Hz che ci ricorda il riferimento alla frequenza28. Peraltro Hindemith non si è reso conto che questo riferimento, nella sua procedura, potrebbe essere neutralizzato a tutto vantaggio, tra l'altro, della chiarezza del risultato e della semplificazione dei calcoli. Il lettore è infatti di continuo portato a chiedersi, mentre è costretto a far di conto, se non vi sia una qualche via per liberarsi di questo impiego dei valori assoluti essendo lo scopo quello di raggiungere dei rapporti intervallari del tutto indipendenti da essi. Di fatto questi calcoli in Hz sono alquanto fastidiosi e in ultima analisi non appropriati alla natura del problema proposto. Ora, a ben pensarci, vi è un modo per operare solo con rapporti, sia pure utilizzando un piccolo trucco: poiché il numero di base in via di principio può essere qualsivoglia, è sufficiente scegliere per esso il numero 1 perché l'aspetto fisico risulti del tutto neutralizzato di fronte a quello matematico-calcolistico. In tal caso infatti la serie degli armonici, compresa la fondamentale, risulterebbe costituita dai numeri da 1 a 6 e tutto verrebbe costruito con essi. Il vantaggio di ciò consisterebbe nel fatto che l'operazione di divisione richiesta per ottenere la fondamentale ricercata nello spostamento di grado non avrebbe bisogno di essere eseguita e rappresenterebbe di per se stessa, presentata in forma frazionaria, la misura matematica degli intervalli. Ad esempio: il terzo armonico della frequenza di base 1 è rappresentato dal numero 3. Ma se questo viene inteso come secondo armonico, allora esso andrà diviso per 2. Ora, 3/2 può essere già considerato il rapporto intervallare da acquisire. Così parlare di quarto armonico considerato come terzo significa 28 Dice giustamente Fichet, op. cit., p. 103: "Mais cette façon de voir les choses est totalmente artificielle, elle ne correspond à aucun phénomène acoustique réell malgré l'emploi de la notion d'harmoniques. C'est un pur jeu sur les nombres..." 126 niente altro che proporre già l'intervallo di quarta (4/3). Nel caso della seconda e della terza fase della procedura, ovviamente, si assumerà, come base, ottenuto nella prima o, rispettivamente, nella seconda fase. E si proseguirà coerentemente, mettendo in opera le regole di selezione opportunamente riformulate. In questo modo si otterrebbero i risultati ottenuti da Hindemith in modo assai più agevole, più generale ed elegante. I Fase I numeri da 1 a 6 in verticale indicano gli armonici (oppure, se si preferisce, i moltiplicatori della frequenza di base), in orizzontale rappresentano i divisori. Così il 5/4 presente in tabella rappresenta l'intervallo di terza maggiore ottenuto attraverso il quinto armonico considerato come quarto. La tabella potrebbe essere completamente (e agevolmente) riempita dai valori corrispondenti, facendo agire poi le regole di selezione. La seconda fase richiede una rappresentazione leggermente più complicata, perché debbono essere indicati i valori già acquisiti, cosa che si può fare come è mostrato dalla tabella seguente. In essa, sulla sinistra si leggono gli armonici corrispondenti - ad es. 9/2 come terzo armonico di 3/2; sulla destra invece i valori acquisiti attraverso lo spostamento di grado - ad es. 9/8 come risultato 127 della divisione di 9/2 per 4 (terzo armonico di 3/2 considerato come quarto) II fase Analogamente per la terza fase, che porta all'acquisizione di due valori, di cui uno viene comuque "scartato". III fase Naturalmente per ottenere i valori in frequenza di Hindemith basterà moltiplicare 64 per i rapporti ottenuti. Ma il punto in- 128 teressante è che con questo metodo di presentazione risulta con un'evidenza che salta agli occhi il fatto che l'elemento fisico si è volatilizzato. Il fisicalismo di Hindemith è un fisicalismo che si autosopprime. È invece il "senario" che celebra qui un proprio estremo e tardivo trionfo: il primo piano è ora tutto occupato dal "numero sonoro", è soprattutto dall'antica teoria dei rapporti semplici come quelli che garantiscono in via di principio gli intervalli "migliori". 7. La nozione di affinità tonale C'è chi ha scritto che la costruzione di Hindemith sugli armonici è una pura mostruosità29. Ma credo che si debba intanto ammettere che la procedura è ingegnosa e il risultato della sua applicazione potrebbe apparire persino stupefacente. Perché non cedere ad un primo entusiasmo provvisorio, dimenticandoci per un attimo le obiezioni che abbiamo già tracciato per via ed in particolare le ultime considerazioni che ci fanno apparire le cose sotto una luce ben diversa? Un veritable monstre, in effetti, una vera meraviglia! Accade infatti che, nel nostro andirivieni tra gli armonici, salendo e discendendo di grado, non solo abbiamo cavato i dodici suoni della "scala cromatica", ma assume un significato peculiare addirittura l'ordine in cui ogni suono è stato ottenuto, esprimendo quello che Hindemith chiama il grado di affinità tonale (Tonverwandschaft) di ogni suono con il suono generatore. Così egli scrive sottolineando vivacemente questo punto: "La successione nella quale i suoni della scala entrano nel mondo 29 J. Chailley parla di délire spéculatif e di veritable monstre in Eléments de Philologie musicale, Paris 1985, pp. 64-65). La critica è presente anche in Expliquer l'harmonie, Paris, 1967, pp. 62 -63. Si tratta di una valutazione che si potrebbe arrivare persino a condividere, se non fosse realmente delirante l'esposizione che Chailley compie della posizione di Hindemith. Di essa non mette conto di parlare. 129 sonoro a partire dal suono che li ha prodotti, ha la massima importanza per la concezione presentata in questo libro. Essa non dimostra soltanto che i suoni appartengono ad una famiglia, appartenenza che si manifesta nel legame con il suono principale, ma essa presenta soprattutto una lista d'ordine inequivoca delle affinità tonali. Essa dice: una certa nota e quella che risuona una ottava più in alto stanno in un rapporto di affinità così stretto che non si può quasi tra esse rilevare una differenza. Dopo l'ottava, la nota più acuta di una quinta è l'affine più prossimo, e poi seguono note che si trovano dalla nota fondamentale (Grundton) a distanza di una quarta, di una sesta maggiore, di una terza maggiore, di una terza minore e così via. Questa misura del valore delle affinità ha una validità incondizionata. Ogni volta che dei suoni vengono messi insieme debbono esserci sempre dei suoni che dominano sugli altri e suoni che sottostanno ad essi. Per quanto la loro sovranità possa estendersi per lunghi tratti oppure durare solo poche pulsazioni, in ogni caso ad essi si associano sempre i loro compagni secondo l'ordine di valore depositato nella serie dei gradi decrescenti di affinità"30. Inoltre Hindemith tiene a sottolineare che la questione non dipende da fatti di ordine linguistico (questione di stile, egli dice) e che essa appartiene alle basi elementari della musica stessa: "Nel campo delle relazioni tra i suoni non valgono questioni di stile e neppure può esservi progresso, esattamente come non possono esservi questioni di stile nella tavola pitagorica e progresso nelle leggi più semplici della meccanica" 31. E tuttavia... Vogliamo prendere per buona tutta la deduzione di Hindemith - in ultima analisi il giudizio non va dato solo sulla perfezione o le imperfezioni dei conteggi, ma sui problemi che in qualche modo vengono sollevati e per le motivazioni che stanno alla loro base, per i concetti a cui si cerca di dare un profilo. Qui in particolare abbiamo a che fare con questa nozione di affinità tonale. Possiamo essere certi di aver compreso con chiarezza di che si tratta? O meglio: al di là del metodo della deduzione che fornisce una determinazione astratta del rappor30 31 U, I, pp. 72-73. U, I, p. 73. 130 to con lo Stammton - con il suono generatore - ci dobbiamo chiedere in che cosa consista questa nozione di "affinità" dal punto di vista percettivo. Deve infatti trattarsi di qualcosa che si può udire, come una sorta di distanza avvertibile indipendentemente dalla conoscenza del sussistere di un'effettiva possibilità di derivazione. Naturalmente si comprendono molto bene le intenzioni che stanno alla base della sua teorizzazione. La tematica dei gradi di affinità contiene l'idea del mondo sonoro come un mondo che ha un centro ed una periferia, e quindi un ordine intrinseco, una relazionalità interna. In essa è contenuta l'immagine di un "sistema planetario" 32 - un sole centrale con i suoi pianeti - che è anche nello stesso tempo un'immagine di armonia che rimanda dal mondo dei suoni al mondo stesso: oltre che un'immagine di unità, che diventa realmente molto forte se i pianeti vengono intesi come emanazioni del sole stesso. Particolarmente indicativa è da questo punto di vista la rappresentazione della Serie 1 che viene proposta una volta anche torcendo il rigo in una spirale, dove la spirale è utilizzata non tanto per indicare una proseguibilità della serie, che viene anzi respinta, quanto piuttosto per indicare che la distanza dal centro aumenta progressivamente: 32 U, I, p. 52. Un'altra immagine impiegata da Hindemith è quella del nucleo dell'atomo e del suo corteo di elettroni. p. 72 131 Ma con tutto ciò resta la nostra domanda. Vi è qualcosa che riempie, nella percezione del suono, questa nozione di affinità? Hindemith di ciò non parla affatto. Se dovessimo andare alla ricerca di una risposta per conto nostro certamente saremmo tentati di richiamarci al problema della consonanza e la dissonanza. Proprio in rapporto al primo passo della serie si rileva che "una certa nota e quella che risuona una ottava superiore stanno in un rapporto di affinità così stretto che non si può quasi tra esse rilevare una differenza"33. Sembrerebbe allora giustificato l'assumere questo rapporto come una sorta di modello per rendersi conto del significato concreto dell'affinità. Se poi si esamina la serie, rispetto al suono di provenienza, le note successive sembrano presentarsi bene o male in un ordine di dissonanza crescente. Se consideriamo le cose sotto questa angolatura non mancano nessi ed analogie di ordinamenti con le "scale di consonanza" della trattastica del passato34. Ma vi è più di una ragione che ci impedisce di avviarci in questa direzione. In primo luogo deve essere notato quanto poco, nel testo di Hindemith venga impiegati termini come consonanza e dissonanza. Essi non si incontrano in tutta l'esposizione della Serie 1. E se ne possono comprendere le ragioni. L'idea della relazionalità interna del mondo sonoro, del suo ordine immanente ha un evidente risvolto positivo e un altrettanto evidente risvolto polemico. Si tratta, come progetto positivo, di avviare un ripensamento sulla nozione di "tonalità" che tende, non già alla ripresa pura e semplice del linguaggio tonale, ma ad una generalizzazione della nozione che superi la particolarità di quel linguaggio ponendosi, almeno in via di principio, al livello del ma33 U, I, 72. Anche la posizione della sesta che precede qui la terza non è estranea alla teoria musicale del passato. Ad esempio, la seconda tavola proposta da Mersenne dei gradi di consonanza presenta la sesta prima della terza; ed in Eulero sesta e terza maggiore vengono disposte ad un unico livello dei gradi di consonanza. Cfr. P. Bailhache, Une histoire de l'acoustique musicale, Paris 2001, p. 81 e p. 121. 34 132 teriale dei linguaggi della musica. Dal punto di vista polemico vi è certamente la critica di tutte quelle tendenze che fanno dell'arte del comporre un pura questione di esercizio del libero arbitrio, nel completo misconoscimento dell'esistenza di strutture relazionali immanenti al suono stesso: "A tal punto la sensibilità naturale si è oggi intorbidata che modi di comporre che fanno conto sull'assoluta mancanza di relazioni dei suoni tra loro possono diventare di moda! A nessun falegname verrebbe in mente di non prestare attenzione alle proprietà del suo legname da costruzione e di incollarlo per diritto e per traverso senza riguardo alla sua struttura. L'unica giustificazione di questi nuovi tentativi sta nell'orecchio che, nella sua struttura raffinatissima, è tuttavia ancora tanto robusto che, rispetto a complessi sonori messi insieme senza istinto ed a caso, non si comporta in modo da rifiutarli con tanta forza quanta ne metterebbero vista e tatto di fronte ad una sedia miserabilmente messa insieme"35. Ora il problema è: volendo condurre questa critica a fondo, è possibile servirsi della distinzione grezza tra consonanza e dissonanza così come si propone sul piano percettivo? In realtà questa distinzione potrebbe non essere lasciata agli incidenti di ordine storico ed alla particolarità psicologiche qualora fosse riconsiderata ed elaborata alla luce di una impostazione fenomenologica. Ma questa via è fondamentalmente estranea all'ambito del discorso hindemithiano, anche se non si può negare che esso sia attraversato da spunti significativi anche in questa direzione. Per ciò che concerne la distinzione tra consonanza e dissonanza Hindemith pensa certamente che, servendosi di essa, si presterebbe il fianco a critiche che avrebbero buon gioco nel sottolineare che una simile distinzione è esposta ad ogni possibile controversia. Inoltre la sua utilizzazione potrebbe far pensare alle antiche remore sull'impiego della dissonanza che sono, anche dal punto di vista di Hindemith, da respingere. Egli stesso, quando ne parla prudentemente, rievoca i consueti 35 U, I, p. 73. 133 argomenti contro la portata di questa distinzione: "Quesi concetti hanno mai ricevuto un chiarimento completo, nel corso di un millennio le definizioni sono cambiate: prima le terze erano dissonanti, più tardi divennero consonanze; si distinse tra consonante perfette e imperfette; attraverso un uso massiccio dell'accordo di settima, alle nostre orecchie la seconda maggiore e la settima minore sono quasi diventate consonanze; la posizione della quarta non mai stata chiarita in modo univoco; i teorici a partire da fenomeni acustici sono pervenuti più volte a spiegazioni interamente diverse da quelle dei musicisti pratici"36. Da un lato dunque è necessario fare un impiego assai parco di questa stessa terminologia, dall'altro rimettersi invece, per quanto riguardo le tematica ad essa sottesa, al punto di vista "fisicalistico" che sembra essere l'unica via che consente determinazioni oggettive. Questa tematica non è tuttavia contenuta nella Serie 1, ma piuttosto nella Serie 2, come viene esplicitamente sottolineato37. Serie 2 Ed anche a proposito di quest'ultima Hindemith sottolinea che pur essendo qui presente il problema della distinzione tra consonanza e dissonanza, la serie, considerata da questo punto di vista non indica alcun luogo preciso in cui l'una nozione si contraddistingua dall'altra, potendosi far valere queste designazioni con certezza solo sui limiti estremi - intervallo di ottava e di settima. "I suoni consonanti sarebbero di conseguenza localizzati sul lato sinistro della serie 2, le dissonanze sul lato destro. In quale grado tuttavia la consonanza venga meno negli inter36 U, I, p. 100. U, I, p. 100 ("La successione dei valori disposta nella serie 2 solleva la questione del significato consonante o dissonante degli intervalli"). 37 134 valli disposti a sinistra e la dissonanza cresca sulla destra non è accertabile con dei dispositivi di misura"38. Si cercano inoltre degli altri termini da sostituire a quelli di Konsonanz e di Dissonanz - ad esempio si parla, in questo stesso contesto, di Wohlklang e di Missklang. Si noti di passaggio che il tritono "non può essere ordinato nè nella regione del Wohlklang né essere considerato come Missklang; esso sta anche in questo caso nuovamente a parte come intervallo particolarissimo"39. Come abbiamo già rapidamente osservato, la Serie 2 ha una origine ed una costruzione interamente diversa dal punto di vista fisico, facendo riferimento ai suoni di combinazione. Il risultato è tuttavia innegabilmente simile - per quanto riguarda la pura forma della successione - alla Serie 1, se si sceglie un'unica nota come nota di riferimento. Come si vede l'unica differenza riguarda gli intervalli di terza e di sesta che ricevono una diversa collocazione nella successione. Tuttavia Hindemith giustamente ribadisce la netta differenza, che è da ricercare sia nel modo della costruzione delle due serie, sia nel loro significato che non è affatto leggibile dalla pura e semplice presentazione grafica delle due serie. Nel primo caso, viene indicata la relazione di "affinità" rispetto ad un'unica nota assunta come nota "generatrice". Nel secondo caso invece ab38 39 U, I, p. 101. U, I, p. 101. 135 biamo uno studio degli intervalli come tali - e la distribuzione dell'ordine avviene sulla base di considerazioni riguardanti la posizione che assume il suono fondamentale (Grundton) dell'intervallo stesso, secondo una nozione di suono fondamentale che è una creazione originale di Hindemith e che ha una importanza decisiva per comprendere la sua idea di "tonalità". L'impiego di una unica nota di riferimento non è qui rilevante, perché è rilevante soltanto il tipo di intervallo. Per riprendere la metafora del sistema planetario: in precedenza si considerava l'organizzazione dei pianeti rispetto al sole, ora si considerano i rapporti dei pianeti tra loro. Resta infine da notare che se considerassimo la Serie 1 sotto il profilo del problema della consonanza e della dissonanza verremmo a rimetterci proprio l'elemento della "filiazione" che rappresenta il punto su cui è giocata tutta la sua costruzione. Ma questa conclusione ci riporta alla domanda iniziale. Ci siamo chiesti infatti se questa nozione di affinità tonale avesse un qualche "corrispondente intuitivo": e le nostre precedenti considerazioni ci lasciano senza aiuto, non sappiamo né come né dove possiamo cercarlo e trovarlo. Vi è forse qualcosa di simile ad un volto delle note nel quale possiamo scorgere la somiglianza con il padre o qualcosa di simile ad un'aria di famiglia? Se non possiamo contare per stabilire queste somiglianze sulla relazione di consonanza e di dissonanza e se dobbiamo strettamente mantenere l'idea della "filiazione", sembra proprio che questo concetto di affinità debba restare un concetto vuoto, ovvero affidato unicamente alla procedura di deduzione dagli armonici nei termini in cui è stata descritta. La nozione di relazione tonale, concepita così, minaccia in tal caso di appartenere più al regno del pensiero che a quello delle strutture musicali concrete. Credo che Hindemith avverta questo problema ed anzi se ne assuma la responsabilità quando è indotto ad una singolare riflessione che associa le idee che stanno alla base della Serie 1 alla musica mundana, all'armonia delle sfere che non può essere udita da orecchie umane e la cui traduzione in per- 136 cezioni concrete potrebbe apparire come una degradazione ed una profanazione: "Un unico suono come radice della scala corrispondente, la serie dei dodici suoni cromaticamente ordinata nata dalle tensioni che sorgono attraverso la contrapposizione di unità vibranti in rapporti di grandezza dei numeri semplici da 1 a 6 - non suona tutto ciò come una sommessa eco della musica mundana degli antichi, di quelle armonie delle sfere che troneggiava sopra gli altri due tipi di musica terrestri - la musica humana e quella "quae in quibusdam constituta est instrumentis"? Quelle armonie sono così perfette che gli organi di senso insufficienti degli uomini non le percepivano, ed anzi esse non avevano bisogno di una realizzazione attraverso i suoni, poiché i rapporti numerici come fondamento e senso di ogni movimento e di ogni suono sono, per lo spirito pensante, qualcosa di più che l'elemento esteriore della musica, il suono, attraverso il quale esse sarebbero profanate e riportate dentro la sfera umana del percepibile. Una differenza essenziale tra musica humana e instrumentalis non sussiste oggi più per noi grazie alla conoscenza del loro fondamento fisico comune, ed anche tra musica mundana e humana oggi possiamo prestare attenzione più a ciò che hanno in comune che a ciò che le distingue. Noi non faremmo come facevano gli antichi, che proiettavano i rapporti terrestri nello spazio cosmico, ma sentiamo estendersi fino nelle più minute particelle costruttive musicali forze che sono le stesse di quelle che mantengono in movimento il cielo fino alle nebulose più lontane"40. Si tratta di una citazione assai caratteristica dell'atteggiamento e dell'atmosfera che circonda l'impresa di Hindemith: essa non ci illumina solo su ciò che sta sullo sfondo, ma indica anche che, in ultima analisi, la Serie 1, mantiene un carattere di oggetto mentale piuttosto che di una realtà musicale concreta. Tutto ciò fa riflettere sulla nozione di tonalità qui in gioco. Saremmo tentati di dire che la decisione di non passare attraverso la nozione di consonanza per la costituzione del concetto è una decisione presa, in realtà, a ragion veduta. Infatti, scegliendo quella via non si potrebbe arrivare a stabilire una nozione di tonalità tanto forte come quella a cui Hindemith 40 U, I, p. 71. 137 pretende di dare fondazione. Le nozioni di consonanza e di dissonanza non contengono affatto quella di tonalità, anche se si potrebbe sostenere che la nozione di tonalità possa essere posta attraverso di esse. Facendo uso di determinate regole, il gioco delle consonanze e dissonanze, insieme certo ad altri elementi, "pone in essere" un centro tonale, "fa esistere" tonica, dominante, sottodominante e tutto il resto. Ma se questo è vero, allora la nozione di tonalità non può essere sottratta al livello linguistico, mentre è proprio questo che si pretende di fare nella forma che il problema assume in Hindemith. Stando alla sua posizione si deve poter parlare di relazioni tonali in un senso tale da poter essere riferito al "materiale di lavoro", che rappresenta un livello indipendente rispetto grammatiche musicali particolari e precisamente il livello con cui ogni grammatica non può che avere a che fare. L'idea della "filiazione" ha esattamente questo senso e questa portata, e il suo scopo è quello di sottrarre la nozione di tonalità dal livello fenomenologico - perché a partire di qui non si potrebbe fare altro che rendere più evidente la sua appartenenza al piano dell'elaborazione linguistica del materiale - tentando di riportarla ad un livello prelinguistico che qui non può che significare altro che il livello di considerazioni fisicalistiche. Ma allora le osservazioni che abbiamo compiuto per la Serie 1 e per l'idea di affinità tonale che viene teorizzata sulla sua base si riflettono ovviamente sulla nozione di tonalità. Leggiamo dopo queste considerazioni il passo seguente: "La forza dell'affinità che promana da un tono fondamentale comune e che costringe insieme gli intervalli di tutte le grandezze e specie, che regola il corso dei suoni senza che essa debba venire necessariamente udita, non è essenzialmente eguale né alla forza armonica né a quella melodica, che agisce nelle connessioni tra le note, e nemmeno essa è da intendere come una somma di tutte le tensioni che sono richiamate da queste forze - benché spesso essa sia scambiata in particolare con la forza armonica e di fatto esso può essere scambiata facilmente con essa. Sopra tutte le altre forze domina la forza del tono fondamentale comune, in tutti i decorsi sonori si avverte l'azione di un fermento se- 138 greto, nascosto: quello del legame tonale. Esso è ovunque presente a tal punto che non ci riuscirà mai di reprimerlo. Noi potremo trovare delle successioni di note nelle quali esso appare respinto, potremo nasconderlo, applicarlo in modo falso o bistrattarlo, ma non potremo dissolverlo. Se riusciamo a renderlo inavvertibile in un luogo, esso eserciterà tanto più fortemente il suo dominio in un altro. Per quanto possiamo volare in alto con palloni o aereoplani e dire a noi stessi di volar via dalla terra, tuttavia la forza dell'attrazione terrestre ci costringe sempre di nuovo al suolo. La forza del legame tonale non è altro che la forza di gravità nella sua forma più raffinata"41. Quello che ci colpisce di più in questa frase non è tanto l'analogia conclusiva con la forza di gravità, in cui il naturalismo di Hindemith fa sentire tutto il suo peso, quanto l'inciso secondo il quale la forza della affinità (parentela) che promana da un tono fondamentale non ha bisogno di essere realmente udita. L'errore di considerare il tono fondamentale una origine piuttosto che un risultato è qui compiuto in modo realmente esemplare. E nello stesso tempo si accetta di pagare lo scotto di una possibile tonalità nascosta. Essa naturalmente può essere manifesta e comparire in primo piano: "Tutti i suoni di questa serie, in qualunque modo possano susseguirsi gli uni agli altri, vengono sempre riferiti dall'orecchio al suono dominante principale do, nella misura in cui gli si dà l'occasione di far sentire la sua forza vincolante. Noi non udiamo più soltanto intervalli e accordi, ma abbiamo la sensazione di una sorta di forza magnetica che stabilisce un orientamento secondo un punto medio comune"42. La precisazione che l'attrazione della "tonica" si fa udire "nella misura in cui si dà l'occasione di far sentire la sua forza vincolante" non è in grado di spostare di molto l'asse principale di questo discorso, perché si dice qui soltanto non già che il modo in cui è costruito un pezzo pone in essere questa relazione, ma piuttosto se ne fa una questione di latenza che viene attualizza41 42 U, II, 112-113. U, II, p. 114. 139 ta: questa relazione vi è comunque, può accadere poi che nel brano - secondo le sue regole linguistiche - possano esservi circostanze più o meno favorevoli alla sua manifestazione. Ma l'idea di una tonalità nascosta, che scorre come una sotterranea melodia43 finisce con l'affermarsi anche nell'elaborazione più compiuta dell'idea di tonalità che non poggia solo sulla Serie 1, ma anche sulla nozione di Grundton introdotta in rapporto alla Serie 2. È interessante notare a questo proposito che facendo riferimento a Rameau, Hindemith è disposto a salvare unicamente l'idea di basso fondamentale come idea di una linea musicale che non è effettivamente risuonante ma "che esiste solo nella rappresentazione del compositore e del fruitore". Precisamente egli scrive: "Ma Rameau andò anche oltre. La sua teoria della tonalità nascondeva germi che nelle loro conseguenze erano destinati a crescere arditamente e direttamente sino alle nostre più recenti vedute. Secondo lui, le progressioni tonali vengono regolate attraverso il cosiddetto basso fondamentale. Questa è una linea del basso che esiste solo nella rappresentazione del compositore e del fruitore, non si tratta di una voce inferiore effettivamente risuonante. Con ciò viene dato al decorso musicale una base spirituale, in luogo di una base esclusivamente tecnica.... Stranamente tuttavia proprio questa idea così gravida di futuro venne dimenticata dai contemporanei di Rameau alla suo debutto. Ci si attenne agli aspetti più vistosi delle sue innovazioni e si trascurò quella che era realmente una geniale creazione. Solo ai nostri tempi essa rivive nuovamente come una delle idee guida della teoria della musica" 44. Di questa idea del "basso fondamentale" che diventa qui l'idea di una struttura del pezzo che potrebbe non arrivare ad una effettiva manifestazione uditiva, Hindemith rivendica di essere erede nella propria proposta di rinnovamento della teoria musi43 Komponist, p. 106: " la tonalità va compresa come una melodia proiettata in grande". 44 Komponist, p. 125. 140 cale. In effetti, la "tonalità" di un brano secondo Hindemith va ricostruita portando alla luce un percorso di fondamentali (nel nuovo senso da lui proposto), attraverso una ricostruzione analitica che è tanto più è una produzione "spirituale" - per usare questa sua terminologia - quanto più ci muoviamo all'interno di unità linguistiche non riportabili direttamente al linguaggio tonale nell'accezione ristretta e storicamente determinata del termine. Se rammentiamo l'intero percorso che abbiamo compiuto e la discussione che abbiamo via via sviluppato ci sembra di risentire anche in rapporto a questo problema quella oscillazione tra oggetti mentali e realtà musicale concreta che serpeggia un poco ovunque; quel contrasto che induce Hindemith da un lato a raggiungere, con la fisica, l'armonia delle sfere, dall'altro ad ammonire: "Per il musicista, che nella sua opera (Handwerk) nonostante l'inafferrabilità corporea del materiale, è un sano realista, i numeri e gli intervalli hanno valore soltanto quando li sente risuonare. Egli prende in considerazione il calcolo con proporzioni e curve solo se vede di poterne trarre vantaggi per il suo esercizio musicale pratico"45. 8. Tonalità e scala cromatica Il risultato dell'applicazione della procedura di spostamento di grado alla composizione armonica del suono è stato duplice: non solo siamo pervenuti ad una scala dei gradi di affinità, ma attraverso la sistemazione delle loro frequenze in ordine progressivo, abbiamo estratto dall'unico suono fondamentale una scala di dodici note che è (nelle intenzioni di Hindemith) l'unica a poter rivendicare a buon diritto il nome di scala "naturale". Noi abbiamo trovato - rivendica Hindemith - "il metodo più semplice e più conseguente" che ci consente di trarre dalla successione degli armonici "la scala cromatica di dodici 45 U, I, p. 83. 141 suoni"46. Questo punto di approdo non esclude la consapevolezza della molteplicità delle strutture scalari esistenti nella pratica musicale. L'esposizione di Hindemith si apre proprio mettendo in evidenza questa molteplicità: "Un musicista intelligente, esperto nel suo mestiere, provvisto di conoscenze teoriche sufficienti, a cui chiedessimo quale ambito dei suoni percepibili, quali successioni ordinate di suoni egli ritenga costituire la più naturale, la più semplice e utilizzabile materia grezza su cui si esercita il lavoro tecnico di un compositore, indicherebbe senza dubbio, dopo breve riflessione, una scala, dal momento che senza scala non è pensabile alcuna musica secondo regole. In proposito egli penserà alle scale maggiori e minori, che sono l'inesauribile serbatoio per tutti i complessi sonori nei quali si possono ordinare tutte le melodie che gli sono note. Egli dimentica tuttavia che i nostri predecessori si servivano di altre scale e che anche oggi, presso popoli di altre culture, sono in uso serie di suoni che mostrano per molti riguardi ben poche somiglianze con le nostre"47. La pluralità linguistica è dunque data per acquisita. Ma viene anche da subito richiamata l'attenzione sul fatto che vi sono intervalli - come l'ottava e la quinta - che appaiono "inamovibili" (unverrückbar) all'orecchio in ogni cultura e questo fa pensare che la partizione determinata dall'ottava all'interno dell'intera fascia dei suoni musicalmente utilizzabili e la partizione dell'ottava attraverso la quinta, faccia parte del materiale sonoro grezzo (Tonrohstoff)48. Per Hindemith questo materiale non rimanda semplicemente al livello fenomenologico - al materiale sonoro concretamente percepito e non ancora musicalmente elaborato - ma al suo possibile sottostrato fisico. Certo, nel caso dei primi armonici questo sottostrato è anche, in certo senso, a portata di mano della percezione. A partire da questo spunto, ci si accinge allora ad un tentativo di trovare ne46 U, I, p. 62. U, I, p. 31. 48 U, I, p. 32. 47 142 gli armonici una giustificazione per una partizione ben più ampia. La scala ottenuta, essendo l'unica deducibile secondo il metodo proposto è anche l'unica ad essere radicata negli armonici e dunque a poter essere anche caratterizzata come "naturale". Di fronte ad essa, tutte le altre scale sono da caratterizzare come "artificiali" - senza che questo peraltro pregiudichi la validità del loro impiego nell'espressione musicale o implichi una valutazione negativa su di esso. La scala naturale avrebbe il privilegio della "purezza" degli intervalli - ma nello stesso tempo questa purezza non è obbligatoriamente richiesta per ogni scopo espressivo. Le scale arabe, ad esempio, che si discostano liberamente dagli intervalli "naturali" sono "un materiale eccellente (vorzüglich) per la musica monofonica, puramente melodica"49. E vale in generale che nel caso di sviluppi melodici la deviazione dai rapporti naturali hanno spesso una forte connotazione espressiva. Entrando nel regno della polifonia e dell'armonia diventa invece importante la "purezza" dell'intervallo, anche se occorre contemperare con le esigenze armoniche, quelle melodiche che continuano a rivendicare i diritti ad una maggiore libertà: "Non ogni scala che è stata escogitata in primo luogo per il lavoro melodico si piega facilmente alle esigenze dell'ordinamento armonico. Se una scala deve ubbidire ad entrambi gli scopi, allora gli intervalli debbono mostrare misure tali da porgere all'orecchio i suoni nella massima purezza (cioè, nella forma normale che la natura ci propone come modello nella regione inferiore della serie naturale dei suoni); d'altro lato la disposizione degli intervalli non deve essere così rigida da non ammettere tutte le piccole deviazioni dalla purezza naturale, deviazioni che per noi rappresentano gli stimoli principali dell'espressione melodica" 50. Vengono così rammentate le "note intenzionalmente crescenti o calanti" come "esempio estremo di suono impuro utilizzato da sempre come mezzo artistico", "la forma più lieve di devia49 50 U, I, p. 45. p. 42. 143 zione dell'altezza, il vibrato", oltre un gran numero di "piccoli effetti melodici" come gradi intermedi51. L'inevitabile esattezza delle misure intervallari "dedotte" dalla serie degli armonici non deve dunque rispecchiarsi inesorabilmente nei fatti musicali. Al contrario è possibile che, per una ragione o per l'altra non vi sia mai una vera aderenza ad esse. Nel volume Komponist in seiner Welt Hindemith non esita a richiamare l'attenzione sul fatto che persino la scala naturale ha un gravissimo inconveniente, che è quello di non garantire nel caso del ritorno di una nota nominalmente identica l'identità dell'altezza. L'esempio seguente che egli propone illustra ciò che egli intende dire: Se si attribuisce a do il valore 0 e si calcolano gli intervalli assunti nei loro valori "naturali" è facile rendersi conto che il do che chiude il motivo "cresce" di 22 cents52. Questo scarto potrebbe poi cumularsi in un eventuale sviluppo successivo, conducendo a risultati di intonazione intollerabili anche in un brano monofonico53. Rilievi di questo genere ed altri nella stessa direzione conducono Hindemith ad ammettere senz'altro che "Con ciò non dobbiamo concludere che le misure delle nostre quinte, quarte, terze siano false - il dato di fatto della loro cantabilità è già una dimostrazione forte della loro giustezza - ma noi facciamo la singolare esperienza che nell'armonia e nella tonalità l'impiego di intervalli puri conduce immancabilmente a impurità"54. 51 p. 42. 0 + 204 + 702 - 498 + 112 -498 = 22. 53 Komponist, p. 109. 54 ivi. 52 144 A rendere accettabili queste "impurità" inevitabili intervengono le tolleranze dell'orecchio, che sono, secondo Hindemith, particolarmente ampie. Ma queste considerazioni sono evidentemente aperte alle soluzioni più varie dal punto di vista musicale concreto: compreso il temperamento, che pur rappresentando un rischio, tuttavia viene caratterizzato come "una delle più geniali invenzioni dello spirito umano"55. Queste precisazioni sono opportune per evitare fraintendimenti, ma il punto più interessante sta nello stabilire il senso effettivo del fatto che il punto di arrivo sia rappresentato dalla scala cromatica. Come abbiamo osservato all'inizio, in passato era soprattutto il linguaggio tonale che veniva ad essere fine e tema di una giustificazione fisicalistica. Ma allora una "deduzione" - se non vuol limitarsi a richiamare l'attenzione sulla presenza della triade maggiore nei primi armonici - potrebbe tuttavia contentarsi del progetto di raggiungere le sette note della scala diatonica. La pretesa, qui perseguita con tanto accanimento, è invece stata quella di snocciolare tutti i dodici suoni - ed occorre rendersi chiaramente conto che questa circostanza non lascia le cose come sono proprio in rapporto al concetto stesso di "tonalità". Al lettore che ha seguito pazientemente l'intero sviluppo e di cui si ode ora la sotterranea protesta: "Perché tutto questo? La scala cromatica non è per noi nulla di nuovo: non sarebbe forse stato più semplice considerarla come un dato di fatto fondamentale universalmente noto e risparmiarci calcoli che sono in ogni caso sgradevoli per un musicista?"56, si replica appunto facendo notare che la deduzione delle dodici note, e non delle tre note della triade maggiore o delle sette della scala maggiore, ha il significato di attribuire alle alterazioni cromatiche, in precedenza considerate soprattutto come fioriture ed ornamenti relativamente marginali, lo statuto di note vere e proprie, allo stesso titolo di ogni altra, avendo anch'esse origine, secondo 55 56 U, I, p. 45. U, I, pp. 62-63. 145 una unica regola, dallo stesso "genitore". Si tratta dunque di contestare la loro natura di alterazioni, ovvero di mere modificazioni espressive, per accoglierle sotto il dominio e le regole della "tonica". "Tutte le teorie precedenti prendono le mosse dalla scala eptatonica diatonica maggiore e minore come materiale da costruzione (Baustein) delle creazioni musicali, esprimendo con ciò un' opinione molto diffusa. Per mia esperienza l'annuncio di una diversa convinzione urta contro una dura resistenza da parte di musicisti ed amatori. Solo il compositore sa che le scale diatoniche da tempo hanno ceduto il dominio alla scala cromatica (...). Questa modificazione è ormai compiuta nel lavoro pratico, mentre manca ovunque ancora la comprensione di tutto ciò. La scala cromatica è certamente conosciuta, ma finora soltanto come ornamentazione o indebolimento della scala eptatonica. Ma chi si avvede della ricchezza del materiale sonoro offerta dalla scala cromatica e di quante goffe e poco chiare spiegazioni vengano a cadere con la sua assunzione come serie fondamentale per la teoria della musica, a lui dovrebbe accadere come ad uno che da sempre possedeva nella sua casa un estintore come un attrezzo inutilizzato e trascurato; solo nel caso di un incendio, quando le scale bruciano e non resta ormai altra possibilità che buttarsi dalla finestra, il valore dell'attrezzo sottovalutato viene riconosciuto e perciò apprezzato per il futuro. Noi abbiamo avuto esperienza nella musica di un simile incendio e siamo pieni di soddisfazione per aver riconosciuto come una salvezza la scala cromatica"57. Le modificazioni che intervengono a questo punto non sono facili da valutare in tutta la loro portata soltanto sulla base delle cose che abbiamo detto fin qui: è possibile tuttavia almeno segnalare gli aspetti principali. Se viene meno l'articolazione diatonica, la distinzione tra modo maggiore e minore non ha più carattere di architrave strutturale - ed una pratica compositiva che prenda le mosse di qui può contare su un impiego incondizionato delle dodici note che, sotto questo riguardo, hanno pari dignità. Ci troviamo così di fronte ad una sorta di "dodecafonia 57 U, I, p. 63. 146 tonale" che fa da esatto contraltare alla "dodecafonia atonale" di Schönberg58. Peraltro vi sono tra l'una e l'altra alcune rivendicazioni comuni non irrilevanti: in particolare l'idea della "scala cromatica" come una sorta di frame sovraordinato o sottoordinato alle suddivisioni diatoniche e quindi provvisto di un carattere di maggiore generalità, la rivendicazione dei dodici suoni come punto di arrivo di uno sviluppo, il richiamo al cromatismo del Tristano come importantissimo antecedente59, a cui si aggiunge, da parte di Hindemith un rimando significativo a Gesualdo da Venosa60. Sia Hindemith sia Schönberg non hanno alcun interesse per la musica etnica e per la musica extraeuropea in genere, ed entrambi non sono interessati ad una ripresa della 58 Si tratta di designazioni forse discutibili, ma comunque efficaci per indicare sia l'opposizione che la relazione. Di dodécaphonisme tonale parla J. Viret, Hindemith et la musique ancienne, in "Ostinato rigore - Revue internationale d'études musicales, 6-7, 95/96, pp. 147-162: "Dans ces conditions le "tonalisme" de Hindemith me saurait apparaître autrement que comme une réaction face à l' "atonalisme" schönbergien (p. 155)... L'appellation de "dodécaphonisme tonal" que l'on pourra employer pour résumer la démarche de Hindemith met bien en évidence cette double motivation. D'un côté c'est un dodécaphonisme comme celui de Schönberg: Hindemith estime qe'au XXe siècle la gamme régnante n'est plus l'échelle diatonique à sept degrés ma bien celle des douze demi-tons chromatiques. Néanmoins il récuse, d'un autre côté, l'amalgame effettué par Schönberg entre le dodécaphone et le concept atonal" (p. 158). 59 "Nel Tristano di Wagner il dominio del maggiore-minore è messo da parte. In luogo della scala diatonica subentra inequivocabilmente la scala cromatica come fondamento di tutte le linee e i complessi sonori. Ma la rivoluzione venne troppo presto. La decisione e la consequenzialità con la quale questo passo audace venne fatto rimase allora senza seguito. Per decenni il Tristano rimase l'unica opera su base cromatica, nemmeno il suo creatore ha intrapreso una seconda volta una così potente avanzata nel nuovo territorio. Solo a cavallo del secolo comincia a realizzarsi il nuovo e più ampio mondo sonoro mostrato nel Tristano... Se noi oggi, riconsiderando la situazione, assumiamo definitivamente la scala cromatica come materiale di costruzione (Baumaterial), così facendo proseguiamo ciò che è stato cominciato ottanta anni fa " (U, I, p. 63 e 66). 60 U, I, p. 65. 147 problematica legata alla musica modale61. Un elemento comune deve essere indicato anche nel fatto stesso di considerare il cromatismo puramente sotto il profilo dell'azione disgregante che esso esercita sull'ordine diatonico e nello stesso tempo di prevedere una determinazione rigida di ogni grado, e quindi anche delle note cromaticamente alterate. Nella prospettiva di entrambi cessa in realtà di aver senso la nozione stessa di alterazione cromatica, che è legata ad una struttura diatonica relativamente stabile rispetto alla quale i cromatismi debbono essere caratterizzati da una mobilità di principio. Naturalmente fa parte della tradizione colta europea la fissazione delle alterazioni cromatiche che si sono andate a sovrapporre alle alterazioni per trasposizione, che hanno una natura ed una funzione completamente diversa. Le posizioni di Hindemith e di Schönberg si situano sulla scia di questa tradizione; e per 61 Osserva ancora molto bene J. Viret, cit., pp. 154-155: "Il est curieux toutefois de constater que le lien très fort que Hindemith a voulu conserver et entretenir avec les musiques d'un passé largement conçu, et englobant notamment toute la musique médiévale depuis le grégorien, n'est jamais allé jusqu'à ce rétour au modal et donc au diatonism qui a eu lieu presque partout ailleurs à la même époque... Hindemith entend pour sa part opérer un compromis à première vue surprenant entre le langages passés (modalité, tonalité, monodie, polyphonie, harmonie) et le chromatisme dodécaphonique, compromis qu'il est le seul, il faut bien le dire, à avoir tenté et réussi grâce à son propre génie créateur. Or si Hindemith et Schönberg, par delà l'antagonisme de leurs démarches respectives, se rejoignent dans leur position commune fase à l'actualité revendiquée de l'échelle chromatique - alors que partout ailleurs les échelles modales sont à l'ordre du jour -, cela tient peut-être au fait que la tradition modale était morte depuis longtemps en terre germaniques tandis qu'en d'autres pays elle vivait souterrainement grâce au folklore ou au chant sacré, et pouvait donc y être revivifiée le moment venu". p. 159: "Son horizon musical, s'il s'étendait aux chants populaires allemands, n'allait point jusqu'à englober les musiques ethniques ou d'autres folklores musicaux"; benché, si aggiunga poco dopo, ricordi pentatonici e modali restino presenti in Hindemith per via dell' "astuzia" consistente nel porre come principi primi "ad un tempo la scala cromatica in semitoni e le consonanze primordiali di quinta e di quarta" (p. 160). 148 questo non viene avvertito nessun problema nel "dedurre" i luoghi delle alterazioni cromatiche come luoghi fissi come nel caso di Hindemith oppure, come nel caso di Schönberg, nel reperirli come tali dalla scala temperata. In coerenza con ciò, Schönberg prescrive che la serie "non deve essere in nessun grado identica alla scala cromatica"62, e di conseguenza essa può avere al massimo uno o due semitoni in successione; a sua volta Hindemith ammonisce che assumere "la scala cromatica come fondamento (Grundlage) non significa che l'armonia e la melodia debbano abbandonarsi ad un eterno su e giù di lamentosi scivolamenti semitonali"63, prendendo una posizione molto decisa contro l'impiego dei piccoli intervalli. Nel corso stesso della deduzione della Serie 1, quando ci si imbatte in una misura molto prossima ad un valore già ottenuto, ci si rifiuta di accettarla con l'argomento che un intervallo molto piccolo tende a presentarsi come ausiliario (Ableger) di un altro (osservazione in realtà assai acuta). Ma, obbietta Hindemith, se riteniamo ammissibile attribuire un ausiliario ad una nota singola, allora aprireremmo la strada ad una moltiplicazione a piacere di simili note ausiliarie, arrivando ad una suddivisione dell'ottava che sarebbe impraticabile64. Dubbi e perplessità vengono corrispondentemente mosse all'esperienze coeve di quartitonalismo65. Ci si può chiedere tuttavia se muovendoci in questa direzione non scivoleremmo da un piano di discorso rivolto a questioni di ordine generale ad enunciazioni iniziali di un progetto espressivo che ha la sua naturale realizzazione nell'opera stessa di Hindemith. È indubbio che quando ci si richiama all'incendio che è intervenuto nella casa della musica ed alla possibilità di porre riparo ad esso attraverso la scelta dei dodici suoni si fa riferimento a nuove possibilità compositive - ed in 62 A. Schönberg, Composizione con dodici note, in Stile e idea, trad. it. di M. G. Moretti e L. Pestalozza, Milano1975, pp. 110. 63 U, I, p. 63. 64 U, I, p. 56. 65 U, I, § 13, p. 66 sgg. 149 rapporto ad esse non possiamo certo dire: qui le questioni di "stile" non entrano in linea di conto. Questo del resto, come si è già accennato in precedenza, è stato anche l'aspetto secondo cui è stata prevalentemente considerata la "parte speculativa" della Unterweisung di Hindemith. Più precisamente: questo è stato anche l'alibi per sentirsi autorizzati a voltar pagina, non solo sulla parte speculativa ma anche sugli elementi teorici ovunque affioranti nella parte didattica. Se si riducono le premesse teoriche a enunciazioni programmatiche rispetto ad uno stile compositivo, allora non vi è bisogno di riflettere più di tanto intorno ad esse, le si accettano come postulati, utili eventualmente a rendere conto dello stile compositivo hindemithiano. Ora, non vi è dubbio che le considerazioni teoriche siano intrecciate con idee che riguardano possibili tecniche compositive. Ma in questo intreccio si deve saper anche cogliere un progetto che punta in direzione di un rinnovamento delle problematiche di principio di una teoria della musica e dell'apprestamento di nuovi strumenti analitici e di un ripensamento dei concetti musicali di base. Questo vale in particolare proprio per la nozione di "tonalità". Giudizi estremamente superficiali sono stati talora enunciati sulla base della semplice citazione di belle frasi di forte tensione polemica come quella che parla della triade maggiore che deve apparire "sia per le persone colte che per quelle semplici come uno dei grandiosi fenomeni della natura; semplice e potente come la pioggia, la neve, il vento"66. Il fatto è che proprio la triade maggiore non assolve da nessuna parte nel sistema teorico di Hindemith la funzione che essa assolve nella teoria classica della tonalità67: questa teoria viene semplicemente sconvolta 66 U, I, p. 39. J. Viret, cit., p. 160: "Les deux 'séries' (Reihen) structurales, l'une mélodiques et l'autre armonique, accumulent les douze sons chromatiques, mais ici come là c'est la quinte qui est en tête et le demi-ton et le triton en queue de leur ordonnance hiérarchique respective. Ainsi l'instabilité tonale des demi-tons chromatiques se voit résorbée dans le 67 150 dalla nozione di Grundton così come viene elaborata nel corso della discussione intorno alla Serie 2. L'intenzione esplicita è qui quella di una identificazione del significato degli intervalli considerati come tali all'infuori di un nesso linguistico-funzionale precostituito. Si perviene così al progetto di una tipologia - o come anche si dice ad una "fenomenologia di tutti gli accordi"68 - che può servire come riferimento per una caratterizzazione che si estende ad ogni combinazione intervallare possibile. Indipendentemente da un giudizio sulla sua realizzazione, si tratta di un progetto che è motivato dalle esigenze della musica novecentesca e dall'enorme ampliamento della tavolozza degli accordi possibili che non sono più dominabili attraverso nozioni mediate dalla teoria classica della tonalità. Alla sua base vi è l'idea dell'esistenza di un Grundton riferito al semplice intervallo. "Non ho mai trovato in alcun manuale - dice Hindemith - l'affermazione secondo cui gli intervalli hanno un suono fondamentale"69 - e questo è certo, perché questa affermazione contraddice tutta la concettualità che in un modo o nell'altro è legata a fil doppio al linguaggio tonale. Anzitutto viene soppressa la concezione dell'accordo come sovrapposizione di terze; viene rimessa in discussione la nozione di rivolto e quindi la distinzione tra accordo in posizione fondamentale e in posizione rivoltata; cambia infine il modo di concepire la nota fondamentale dell'accordo. La stessa terminologia dovrebbe essere profondamente modificata, così come ogni classificazione degli accordi e le spiegazioni relative ai loro rapporti. Non si tratta dunque dunque di una pura e semplice ripresa del linguaggio tonale e della sua teoria. Piuttosto si potrebbe parlare di un rilancio della nozione di tonalità che si trova réseau stabilisateur des relations omniprésentes de quintes et de quartes, dont les combinaisons harmoniques jouent chez Hindemith un rôle structurateur plus important que le superpositions de tierces sur lesquelles se fonde l'harmonie classique". 68 U, I, p. 121. 69 U, p. 86. 151 all'altezza dei tempi: esso viene compiuto a partire dall'interno della crisi del linguaggio tonale, e il suo primo gesto consiste proprio in una rimessa in questione della nozione di tonalità consolidata dalla tradizione. Come abbiamo già notato, dal punto di vista della teoria musicale siamo in presenza di un tentativo di smantellare l'impianto teorico fornito da Rameau al linguaggio tonale70 per proporre un sistema teorico capace ancora di rendere conto di esso, ma anche di forme di espressione musicale che lo precedono storicamente o che lo seguono71. 70 Il passo precedentemente citato sulla valutazione di Rameau da parte di Hindemith continua così: "Perciò si trascurarono generosamente le manifeste debolezze delle teorie ramiste, e da questa negligenza si sviluppò una teoria della composizione stranamente distorta. Essa si mantenne lungo l'intero diciannovesimo secolo ed è ancora oggi, con poche modificazioni, la base per l'insegnamento della composizione e delle discipline associate ad essa (Armonia, contrappunto, fuga e così via), rappresentando così, per via dei tempi mutati, una fonte di costante inquietudine per tutti gli insegnanti di teoria" (Komponist, 71 In effetti Hindemith non ha esitato a mostrare esemplificativamente l'applicabilità del metodo analitico suggerito dalla propria impostazione a brani appartenenti ad autori ed a epoche molte differenti (Guillaume de Machault, Bach, Stravinsky e Schönberg). Questa circostanza è interessante anzitutto perché mostra gli intenti di generalità del metodo, intenti che non sono affatto disprezzabili, come talora vengono presentati. Essa rappresenta anzi uno dei motivi di interesse del progetto hindemithiano, che riceve dalla fondazione fisicalistica ad un tempo uno stimolo ed una falsa giustificazione. Come le nostre orecchie possono ascoltare un brano di Machault ed apprezzarlo (sia pure questo apprezzamento soggiacente alle relatività storiche), così non è affatto privo di senso ritenere che si possano apprestare strumenti utili per la comprensione di linguaggi musicali di epoche anche molto distanti tra loro. Naturalmente si tratta di valutare in che misura la tematica hindemithiana nel suo insieme e nei suoi assi portanti, e quindi nel suo essere così ostinatamente imperniata sul concetto di tonalità sia pure in una nuova riformulazione, possa risultare efficace - e di questo è perfettamente lecito dubitarne. A questa questione in ogni caso nessuna critica di dettaglio intorno alla pertinenza di questo o quell'esempio può dare una risposta soddisfacente. Ciò vale in particolare per la critica che E. Costère, op. cit., p. 30-31 rivolge all'analisi di Hindemith dell'esempio schönberghiano (op. 33a batt. 19-29). 152 La vecchia teoria armonica viene spesso indicata nel testo di Hindemith con il termine generico di Harmonielehre72.Non è certo un caso che questo sia anche il titolo del trattato di Schönberg. Va in effetti segnalato un sorta di curioso e ignorato paradosso della teoria musicale del novecento: Schönberg che appare dal punto di vista musicale più radicale di Hindemith scrive l'ultimo grande trattato di armonia tonale; dal punto di vista della riflessione teorica, egli guarda alla tradizione prevalentemente con gli occhi della tradizione, anche se questo stesso trattato intende apprestare le motivazioni evolutive che portano al superamento di essa. È invece il "conservatore" Hindemith che si volge alla tradizione con una fortissima istanza di rinnovamento dell'apparato dei concetti interpretativi e con una denuncia esplicita dell'inadeguatezza degli strumenti tradizionali di fronte ai nuovi sviluppi della musica novecentesca. 72 cfr. U, I, p. 122. 153 La scala universale dei suoni di Daniélou 2002 154 Questo testo è stato redatto nel 2002 e pubblicato dalla "Rivista Italiana di Musicologia" nel 2003 con la seguente indicazione: XXXVI, 2001, n. 2 155 Indice 1. L'idea di scala naturale e la critica di una fondazione negli armonici 2. La partizione degli intervalli primitivi come metodo per la formazione di una "scala universale" 3. Scala "ciclica" e "scala universale" 4. Digressione neopitagorica e la mente come calcolatore 5. La derivazione calcolistica della scala universale 6. La formula che sta alla base della scala universale 156 157 1. L'idea di scala naturale e la critica di una fondazione negli armonici Non vi è dubbio che uno degli argomenti considerati immediatamente probanti contro le istanze di fondazione naturalistica possa essere rappresentato dalla semplice esibizione della molteplicità di strutture intervallari che possiamo trovare in culture musicali evolute lontane dalla tradizione musicale europea - come quella indiana, cinese, giapponese o araba. Si potrà allora subito porre l'accento sul relativismo culturale e sulla necessità di adottare un punto di vista convenzionalistico in rapporto al problema delle possibili suddivisioni dell'ottava. Un simile punto di vista è dato spesso per scontato proprio su questa base. Sembra che si debba dare come altrettanto scontato il nesso tra linguaggio tonale e fondazione naturalistica, cosicché se il linguaggio tonale cessa di essere difeso come il linguaggio "migliore", verrebbe a cadere ogni problema di fondazione naturalistica, o più in generale oggettivistica. Eppure proprio la teoria novecentesca della musica non conferma ovunque e in modo unanime questi luoghi comuni - la controversia sulla "naturalità" va ben oltre le soglie del secolo ventesimo e arriva a ricomprendere anche la molteplicità linguistica che può essere considerata uno dei punti solidamente acquisiti [1] . Così, se andiamo a vedere come stanno le cose presso uno studioso come Alain Daniélou, che si è guadagnato grandissimi meriti come critico di una concezione eurocentrica della musica e come promotore della musica orientale in genere e indiana in particolare, troviamo una posizione assai diversa, assai più articolata. 158 Certamente ci tratta di un autore che può suscitare accese idiosincrasie - ed è facile disfarsi di lui con un'alzata di spalle: tuttavia forse è tempo, proprio ora che guardiamo al novecento come al nostro passato, di disfarsi invece proprio delle nostre idiosincrasie per tentare pacatamente di comprendere quali siano i pensieri e gli umori che hanno attraversato la ricchissima vicenda della musicalità novecentesca. Anzitutto per Daniélou non vi è alcun problema nell'ammissione della molteplicità delle scale. Basta, egli dice ad un certo punto nel suo volume Introduction to the study of musical Scales [2] con la storia del buon selvaggio che raccoglie la canna da terra e che scopre così la scala diatonica che Zarlino supponeva fosse "la scala naturale". Invece bisogna rendersi conto che vi sono "migliaia di scale che sono possibili, espressive, piacevoli all'orecchio e perfettamente naturali e legittime" [3] . Ma questa affermazione non è orientata in senso relativistico e prepara anzi una complicata elaborazione per mostrare che vi è una unica possibile suddivisione dello spazio sonoro dell'ottava che possa essere chiamata "naturale": essa rappresenta una sorta di trama fondamentale di intervalli che vengono variamente selezionati dando luogo appunto ad un'amplissima molteplicità di scale, che sono "piacevoli all'orecchio e perfettamente naturali e legittime" proprio per il fatto che poggiano su di essa. Da queste scale si distingueranno poi strutture scalari "artificiali" - dipendenti da suddivisione arbitrarie (innaturali) - che saranno appunto prive di giustificazioni, ed assai dubbie dal punto di vista musicale. L'idea guida piuttosto semplice è la seguente: quanto più è fine una suddivisione dell'ottava che si possa chiamare naturale, tanto più numerosi saranno i sistemi linguistici che, fondandosi su di essa, potranno essere caratterizzati a loro volta come naturali. Così come assumendo un'ottava divisa in dodici parti potremmo rendere conto di un numero molto ampio di sistemi scalari possibili, molto al di là dei modi maggiore e minore, questa possibilità di giustificazione si estenderà a dismisura, 159 aumentando la finezza della suddivisione. In questo modo si toglie subito di mezzo l'equivoco che considera immediato il passaggio da una molteplicità di sistemi musicali ad una posizione accentuata di relativismo culturale. Sullo sfondo vi è l'idea dell'unità profonda soggiacente alla molteplicità dei linguaggi della musica. La tesi di Daniélou è infatti che "i differenti sistemi musicali non si oppongono l'un l'altro, ma al contrario si completano vicendevolmente, in quanto essi scaturiscono necessariamente dalle stesse leggi fondamentali di cui sfruttano aspetti differenti" [4]. Ma il problema è evidentemente: secondo quale procedura potremo aumentare la finezza della suddivisione tenendo conto della condizione essenziale che qualunque proposta debba essere non-arbitraria, e quindi debba essere realizzata secondo un metodo che ne garantisca la "naturalità"? Forse in luogo di "naturalità" si potrebbe anche dire "naturalezza" - che certamente presenta una diversa inclinazione di senso. La prima la potremmo riservare per un richiamo alla natura fisica in senso forte, mentre la seconda, come nell'uso comune, riguarda piuttosto l'assenza di forzature, come quando parliamo di una posizione naturale del corpo contrapponendola ad una posizione forzata. Nel caso di Daniélou, potrebbero essere impiegati entrambi i termini, tenendo conto tuttavia che parlando di naturalità e dunque anche di naturalismo ci si orienta verso un tentativo di fondazione psico-fisiologica, piuttosto che fisicalistica. Da questo punto di vista è significativa la presa di posizione molto chiara da parte di Daniélou contro l'idea ogni tematica fondativa debba ricorrere agli armonici dei suoni, e in particolare che essi siano da chiamare in causa per fornire una partizione "valida" dello spazio sonoro. Già per questo motivo la sua posizione assume un proprio inconsueto profilo. Partecipando ad un Colloquio intitolato "Gli elementi della formazione delle scale al di fuori della 'risonanza' - le deformazioni espressive" [5] - dove il termine "résonance" sta appunto ad indicare il fenomeno degli armonici, in apertura del proprio 160 intervento, egli protesta vivacemente nei confronti del titolo, proposto da Chailley, organizzatore del colloquio. In esso - e su questo Daniélou ha perfettamente ragione - vi è una tesi implicita secondo la quale esisterebbe uno schema intervallare "normale", "naturale", che è quello fondato negli armonici, e tutte le altre scale dovrebbero essere interpretate come deviazioni da quello schema, come sue "deformazioni" dovute ad intenzioni di enfatizzazione, di accentuazione e di esasperazione espressiva. Ho la sensazione di trovarmi - comincia a dire Daniélou - all'interno di un "coro di virtuosi omaggi agli armonici" (dans un concert des vertueux hommages aux harmoniques), ma nei panni di un accusato sospettato di deviare l'attenzione verso intervalli minori - forse si può tradurre in questo modo il vivace gioco di parole dell'espressione Détournements d'intervalles mineurs, essendo détournement des mineurs la "corruzione di minorenni". In altri termini: non mi adeguo ad una interpretazione nella quale la virtù della musica sta nella virtù degli armonici, e di fronte a ciò preferisco fare la parte del corruttore, attirando l'attenzione proprio verso quegli intervalli che negli armonici non hanno necessariamente una giustificazione, mentre la hanno nella pratica musicale. Non vi è dubbio infatti che la posizione di Daniélou voglia essere una posizione che comincia a mettersi dalla parte dei musicisti, con un certo scetticismo per le fondazioni fisiche ed aritmetiche quando queste siano puramente "speculative" e lontane dalla pratica musicale. Ricollegandosi al titolo del colloquio egli osserva ancora che "Il termine di deformazioni espressive fa pensare a vecchie accuse contro i musicisti che si ostinano a tirare le corde per ottenere suoni differenti dalle giuste intonazioni" [6] . Nello studio degli intervalli musicali - continua Daniélou - si sono per lo più cercate giustificazioni fisico-aritmetiche proponendo sistemi per rendere conto delle pratiche musicali sugli intervalli, e "tuttavia noi osserviamo sempre presso i teorici la stessa irritazione davanti al fatto che i musicisti, e soprattutto i migliori, 161 non sembra si conformino esattamente agli intervalli di alcun sistema". Non è il caso allora di chiedersi se queste variazioni possano essere realmente caratterizzate come "deformazioni" oppure esse non siano "al contrario degli elementi fondamentali del vocabolario musicale"? [7] . Vi sono del resto dei motivi strettamente musicali alla base di questa presa di posizione di Daniélou che riguardano proprio la sua attenzione verso la musica orientale e verso la musica indiana. Una delle differenze particolarmente importanti rispetto alla tradizione del linguaggio tonale europeo sta nell'elemento armonico, nel senso particolare che questo termine detiene in riferimento a questo linguaggio: armonia vuol dire armonia triadica, vuol dire rilevanza della relazione con la quinta e suo speciale uso, vuol dire tendenziale compressione dell'elemento melodico, riduzione e restrizione del modo a favore del tono, vuol dire dominio del modo maggiore. Le propensioni musicali di Daniélou sono invece dirette verso una rivalutazione della modalità - e quindi verso una considerazione che mette l'accento sulla libertà e sulla varietà del melos. In questa prospettiva è semmai l'elemento verticale che deve subordinarsi a quello orizzontale piuttosto che inversamente. L'idea che siano le figure melodiche - e quindi un determinato schema intervallare - a determinare l'armonia, è esplicitamente formulata da Daniélou [8] . Ora una concezione tutta puntata sugli armonici porterebbe indubbiamente ad una valorizzazione indebita dell'armonia tonale e del modo di configurare il rapporto armonia-melodia tipico del linguaggio tonale. Proprio su questo punto si può notare quanto sia mutato, nella sua ripresa novecentesca, il problema di una fondazione oggettiva, che nelle sue formulazioni ottocentesche difficilmente riusciva a liberarsi da una relazione intrinseca con il linguaggio tonale. Possiamo dare per incontestabile il fatto che l'armonia tonale abbia come architettura fondamentale la triade maggiore; ed altrettanto incontestabile è il fatto fisico che i primi armonici del suono singolo diano evi- 162 denza ad essa. Ma non necessariamente questi due fatti si trovano in connessione tale per cui il secondo - il dato di fatto fisico-acustico - stia a fondamento e quindi a giustificazione del dato di fatto musicale. Daniélou propone invece un geniale rovesciamento di punto di vista. È possibile infatti interpretare la semplificazione dei modi nella musica occidentale e il prevalere del modo maggiore come una scelta anzitutto di ordine musicale: questa scelta tuttavia attrae l'attenzione uditiva sugli armonici del suono e viene al tempo stesso da essi accentuata, stimolata e promossa. Fatto fisico e fatto linguistico interagiscono tra loro e si rafforzano l'un l'altro. Man mano che si attenua la sensibilità per l'afferramento delle strutture modali, l'orecchio musicale tende in certo senso a fisicalizzarsi: e ciò significa corrispondentemente che si rafforza la sensibilità verso i primi armonici del suono con la formazione di attese conseguenti sul piano musicale. Ora è chiaro che se interpretiamo le cose in questo modo la funzione fondazionale della teoria degli armonici rispetto alla teoria della tonalità viene quasi completamente meno, e il momento fisico-acustico diventa un momento interno ad una scelta linguistica. In breve potremmo dire che la tonalità è quel linguaggio nel quale assumono importanza i primi armonici del suono. Da questa formulazione tuttavia non possiamo assolutamente trarre la conseguenza che il linguaggio tonale, e la struttura scalare che sta alla sua base, sia l'unico linguaggio fondato dal punto di vista oggettivo e "naturale". L'orecchio è divenuto particolarmente sensibile alla struttura fisica del suono e l'occidente, per affermare l'accordo che riproduce i primi armonici, ha sacrificato "tutte le possibilità dei modi, tanto differenti l'uno dall'altro nella loro struttura e nella loro possibilità quanto lo è un quadrato da un circolo, da un triangolo o da un poligono stellato" [9]. Purtroppo la genialità di questo spostamento di accento è alquanto guastato dalla paccottiglia teorica che fa dire a Daniélou non solo che il modo maggiore non è affatto più "naturale" di altri ed è meno gradevole ed espressivo (e fin qui si potrebbe addirittura convenire!), ma anche che "quando stu- 163 diamo il simbolismo e le corrispondenze emozionali secondo la teoria indiana, ci rendiamo conto che gli intervalli del modo maggiore sono quelli che indicano egoismo, vanità, materialismo e ricerca di piacere, formando così un contesto in cui la mentalità dei nostri tempi si trova interamente a casa" [10] . Ma nell'occuparci di Daniélou, abbiamo deciso una volta per tutte di chiudere tutti e due gli occhi su questi aspetti, in realtà proprio nel tentativo di rendergli la massima giustizia. Un altro spunto interessante che si può trovare formulato chiaramente nell'intervento al Colloquio è l'importanza data anche in rapporto a questo ordine di problemi alla distinzione tra produzione vocale e produzione strumentale del suono, e quindi tra una riflessione che faccia prevalentemente leva sull'una o sull'altra. Ciò che Daniélou suggerisce è che vi è presumibilmente una differenza tra una melodia cantata o comunque pensata vocalmente ed i suoi intervalli caratteristici e la stessa melodia che si cerca di riportare su uno strumento che avrà un'accordatura necessariamente standardizzata. La maggior "naturalezza" sarà certamente dalla parte della melodia vocale perché sarà priva di adattamenti e compromessi che si rendono necessari [11] . Ma il senso di questa osservazione - che in se stessa appare un po' generica [12] - sta invece nel fatto che se la riflessione sulla scala si orienta sugli strumenti e sui metodi di accordatura, si darà particolare importanza a certi intervalli piuttosto che a certi altri - si pensi solo all'intervallo di quinta, di quarta e di ottava. Se tuttavia pensiamo ad una melodia così come si sviluppa "vocalmente" nella nostra mente (Mélodie purement vocale ou mentale) - osserva Daniélou - allora le cose cambiano. Alla domanda "se quegli intervalli abbiano la stessa importanza in una melodia vocale o mentale" si risponderà "enfaticamente: no!". "Una quinta giusta non è ad alcun titolo un intervallo melodico più importante che una seconda maggiore o una terza minore, e il fatto che la seconda sia una quinta della quinta non si riflette nel carattere melodico ed espressivo proprio delle seconde" [13] . Queste considerazioni in realtà 164 possono essere ricongiunte a quelle sugli armonici per due ordini di ragioni: la quinta e l'ottava sono gli armonici più forti del suono; in una pratica di accordatura è richiesta una attenzione particolarmente tesa nei confronti degli armonici. Come conclusione del problema potremmo assumere questa citazione di Daniélou: "Gli armonici certo sono importanti" - ma in realtà come "fenomeno secondario, una curiosa proprietà dei corpi sonori tanto utile quanto lo sono i battimenti per accordare gli strumenti, ma che non basta, senza far intervenire altre proprietà dei suoni, a giustificare la struttura delle scale e dell'espressione melodica" [14]. 2. La partizione degli intervalli primitivi come metodo per la formazione di una "scala universale" Con tutto ciò non abbiamo ancora speso nemmeno una parola intorno al metodo per produrre una partizione fine dell'ottava secondo il progetto precedentemente enunciato. La verità è che se ci attenessimo strettamente ai testi di Daniélou, difficilmente potremmo ottenere qualche indicazione soddisfacente proprio sotto il profilo metodico. Se si è interessati, come noi siamo, più che ai risultati, alle ragioni che conducono ad essi, ci si trova indubbiamente di fronte ad esposizioni che non aiutano ad individuarle con chiarezza. I preliminari sono ben pochi e ci si 165 trova troppo presto di fronte a conteggi ed a tabelle. Eppure, a mio avviso, è possibile almeno ipoteticamente, ma con buon fondamento, ricostruire un percorso che è particolarmente significativo proprio nel modo in cui si dipana. A questo tentativo di ricostruzione vogliamo ora dedicarci, sottolineando due volte il fatto che esso non si trova tal quale nei testi di Daniélou ma che si tratta di una ipotesi interpretativa tutta nostra. Anzitutto è stato escluso il ricorso agli armonici; ma le ultime considerazioni fanno presagire anche qualche dubbio in rapporto al ciclo delle quinte. Anche attraverso il ciclo delle quinte è possibile ottenere una partizione fine dell'ottava. Come vedremo subito, questa possibilità è destinata ad assolvere una funzione importantissima nell'impostazione di Daniélou, ma non come "via maestra" e nemmeno come via da percorrere fin dall'inizio. Questo per la ragione che abbiamo già segnalato nelle nostre ultime considerazioni: dal punto di vista musicale il ciclo delle quinte è collegato ai metodi di accordatura che possono essere sospettati di introdurre un elemento di artificiosità (rammentiamo che lo strumento, rispetto alla voce, è esso stesso un artificio); inoltre essi conferiscono particolare importanza alla quinta, importanza che viene confermata dal riferimento agli armonici. Ma vi è anche una ragione di ordine generale, che peraltro rappresenta uno dei motivi di forte tensione all'interno dell'impostazione di Daniélou. Dobbiamo notare che, almeno stando alle prime apparenze, mentre Daniélou non ama una fondazione fisica, così anche sembra prendere le distanze da procedure di derivazione puramente matematica. Cosicché il ciclo delle quinte, pur essendo per un verso in stretta connessione con la pratica musicale attraverso le tecniche di accordatura, per un altro verso assomiglia ad una procedura di puro calcolo matematico, trattandosi dell'applicazione di una inflessibile procedura ricorsiva. È certo in ogni caso che in Daniélou vi sia un forte interesse empirico, strettamente legato alle problematica della conoscenza della musica extra-europea e della sua trascrizione e riproduzione corretta. 166 In particolare, quella che proporrei come prima via verso la partizione dell'ottava potrebbe essere considerata come una via del tutto empirica: se vogliamo stare dalla parte dei musicisti dobbiamo andare a vedere gli intervalli che essi utilizzano, cercando poi di realizzare una partizione che segua un metodo che non si distanzi troppo dalla pratica musicale diretta. Ciò è presto detto, ma tutt'altro che facile da farsi e soprattutto non è facile da farsi senza qualche assunzione pregiudiziale. Ad esempio, non avrebbe affatto senso prendere in considerazione tutti i tipi di intervalli utilizzati: questo sarebbe un compito indeterminato. Ed anche un catalogo di intervalli molto ampio sarebbe insignificante se non fosse realizzato seguendo qualche idea-guida. Piuttosto che girovagare tra una infinità di intervalli possibili, si tratta come primo passo di identificare delle ricorrenze, delle costanze intervallari che si presentano in linguaggi musicali evoluti. Daniélou pensa prevalentemente oltre che alla tradizione europea precedente all'era del temperamento, alla cultura indiana, araba, cinese e giapponese. E ritiene di poter individuare grandezze intervallari che presentandosi in culture musicali differenti con grandezze sostanzialmente omogenee meritino di essere considerate come "primitive" al fine dell'identificazione di una partizione di base. Si tratta degli intervalli che potremmo indicare con Tono Grande, Tono Piccolo e Semitono Grande. È peraltro sottinteso che la loro presenza in pratiche musicale differenti rappresenta un indizio forte, se non una garanzia della loro "naturalità". Queste designazioni sono accompagnate da una precisa indicazione quantitativa in termini di rapporto. Il Tono Grande (TG) viene indicato con il rapporto di 9/8 che è l'antica proporzione pitagorica corrispondente a 204 cents, e quindi un po' più grande del tono temperato. Il Tono Piccolo (TP) è indicato con il rapporto di 10/9 corrispondente a 182 cents e quindi un po' più piccolo del tono temperato; infine il Semitono Grande (STG) è indicato con il rapporto di 16/15, corrispondente a 112 167 cents, e quindi un po più grande del semitono temperato. Naturalmente, mentre abbiamo appena detto che la loro presenza sarebbe attestata in pratiche musicali differenti, non possiamo evitare di sottolineare che si tratta ad ogni buon conto di intervalli ben noti anzitutto alla pratica musicale di tradizione europea. Il termine di intervalli primitivi che adottiamo attinge naturalmente il suo senso solo all'interno dei nostri scopi. A mio avviso, nello spirito di Daniélou, essi vengono proposti anzitutto come un reperto empirico. È possibile ora proporre una partizione del Tono Grande, che si serva sia degli altri due intervalli primitivi (che sono "contenuti" in esso) sia di intervalli ottenibili come differenze tra intervalli e che potremmo chiamare perciò intervalli differenziali. Si tratta in particolare del comma (cma), del limma (lma) e del semitono piccolo (stp)- secondo terminologie e valori anch'essi ben noti nella tradizione europea. In particolare con comma viene assunto il rapporto 81/80 (ottenibile come differenza tra TG e TP, pari a 22 cents) e con semitono piccolo il rapporto 25/24 (differenza tra TP e STG pari a 70 cents). Come limma viene indicato il rapporto pitagorico 256/243 (differenza tra quarta e ditono pitagorico, pari a 90 cents) [15] . Per quanto riguarda ciò che Daniélou chiama doppio comma, non possiamo far altro che prendere atto di due possibili misure, una che corrisponde a (81/80) (43 cents) ed un'altra che corrisponde a 128/125 (41 cents) (caratterizzeremo quest'ultima con 2cma). Di questa differenza, per quanto minima, è necessario tener conto nell'effettuare i calcoli. Fatte queste premesse la divisione proposta da Daniélou del Tono grande che contiene implicitamente anche la divisione degli altri intervalli primitivi risulta essere la seguente: 168 Tono Grande * * A cma 2cmap stp lma lma stp 2cma B cma STG TG -stp TG -2cma TP La parte superiore del grafico illustra la suddivisione degli intervalli primitivi realizzata contrassegnando dei punti all'interno dell'intervallo che "distano" dall'uno o dall'altro estremo di un intervallo differenziale secondo un'ordine di simmetria speculare [16] . Per ciò che riguarda l'aspetto calcolistico tuttavia conviene far riferimento alla parte inferiore che integra nello schema il semitono grande e il tono piccolo. Risulta allora la seguente partizione del TG, e conseguentemente del TP e del STG, che qui proponiamo per chiarezza e semplicità in cents: TG = 22, 41, 70, 90, 112, 134, 161, 182, 204 TP = 22, 41, 70, 90, 112, 134, 161, 182 STG = 22, 41, 70, 90, 112 Le differenze tra intervallo e intervallo risultano essere allora le seguenti: TG = 22, 19, 29, 20, 22, 22, 27, 21, 22 TP = 22, 19, 29, 20, 22, 22, 27, 21 STG = 22, 19, 29, 20, 22 Si tratta di divisioni ineguali in cui in ogni caso prevale il "comma" (usando questo termine in senso abbastanza ampio da 169 comprendere intervalli compresi tra 19 e 24 cents), con "buchi" (disgiunzioni) ovvero intervalli un po' più ampi contrassegnati con un asterisco nel nostro grafico - due nel Tono Grande e nel Tono piccolo ed uno nel Semitono Grande [17] . Si tratta dunque di una divisione relativamente omogenea, anche se non costituita di parti eguali. Il passo seguente alla partizione degli intervalli primitivi richiede una seconda importante assunzione. Come in precedenza abbiamo scelto tre intervalli a titolo di intervalli primitivi su cui operare la partizione, così ora dobbiamo scegliere una scala-tipo in cui questi intervalli sono organizzati. La scala-tipo scelta da Daniélou prevede tre Toni Grandi, due Piccoli e due Semitoni grandi - che è in realtà non è altro che la scala zarliniana. TG TP STG TG TP TG STG Daniélou ne parla come "scala diatonica naturale" o "scala delle proporzioni" "considerata come la scala fondamentale della musica europea" [18] . Poiché questa scala copre tutta l'ottava e poiché ogni intervallo che compare in essa è stato già suddiviso, la partizione completa dell'ottava è ormai diventata cosa ovvia. Il numero delle parti dipende dalle partizioni dei singoli intervalli, ovvero 9, 8 e 5 rispettivamente per il TG, il TP e STG. Di conseguenza, facendo le somme, arriviamo al numero 53. Quanto alla distribuzione degli intervalli essa risulta dalla distribuzione delle parti negli intervalli primitivi nella scalatipo. 170 "Scala universale dei suoni" ottenuta mediante partizione degli intervalli primitivi Distanza tra un grado e l'altro: 22, 19, 29, 20, 22, 22, 27, 21, 22, 22, 19, 29, 20, 22, 22, 27, 21, 22, 19, 29, 20, 22, 22, 19, 29, 20, 22, 22, 27, 21, 22, 22, 19, 29, 20, 22, 22, 27, 21, 22, 19, 29, 20, 22, 22, 27, 21, 22, 22, 19, 29, 20, 22 Distanza dalla fondamentale: 22, 41, 70, 90, 112, 134, 161, 182, 204, 226, 245, 274, 294, 316, 338, 365, 386, 408, 427, 456, 476, 498, 520, 539, 568, 588, 610, 632, 659, 680, 702, 724, 743, 772, 792, 814, 836, 863, 884, 906, 925, 954, 974, 996, 1018, 1045, 1066, 1088, 1110, 1129, 1158, 1178, 1200 Ecco dunque quello che, a nostro avviso, è un primo percorso che conduce alla "scala di Daniélou", cioè alla scala divisa in 53 intervalli. Essa viene chiamata in vari modi: semplicemente scala dei suoni, oppure scala armonica, scala modale [19] , scala degli intervalli; ed anche scala universale delle misure e scala universale dei suoni [20] . Come si vede, non interviene nessuna considerazione sul ciclo delle quinte; ed inoltre va notato che non è l'ottava l'oggetto vero e proprio della partizione, ma piuttosto intervalli che non appartengono alla sua articolazione fondamentale in quinta e quarta. È poi indispensabile assumere un modello di distribuzione degli intervalli primitivi nell'ottava, e quindi un modello diatonico della sua partizione. Il punto di vista dominante è manifestamente un punto di vista discretistico, e ciò è naturalmente più che confermato dall'idea di determinare gli intervalli fino all'ultimo cent. Più precisamente, diciamo subito che in Daniélou non di rado accade di imbattersi in impieghi del tutto disinvolti di tolleranze ed arrotondamenti anche piuttosto vistosi: e tuttavia il profilo teorico del suo discorso è dato soprattutto dall'accanimento verso la determinazione esatta degli intervalli. Non è probabilmente sba- 171 gliato vedere in questa passione calcolatoria e misurativa un tratto caratteristicamente "europeo", nonostante i numerosi riferimenti indianistici. La quantificazione esatta del piccolo intervallo, ed in generale un punto di vista che non riesce a cogliere la presenza della continuità come fattore espressivo mi sembra quanto mai lontano dallo spirito della musica indiana. Ma prima di tirare le fila e di tentare una nostra valutazione abbiamo ancora una strada piuttosto lunga da compiere. Anzitutto sono necessarie alcune precisazioni. Abbiamo detto che la scala che abbiamo or ora ottenuta viene chiamata da Daniélou anche scala armonica. Quest'ultimo termine non ha nulla o quasi nulla a che vedere con il significato musicale corrente della parola armonia, con i suoi rimandi alla dimensione delle consonanze e degli accordi. È anzi da sottolineare che non viene fatta nessuna considerazione e nessun impiego dei rapporti consonantici - questi non intervengono in nessun modo nel determinare la partizione dell'ottava. La parola "armonia" rimanda piuttosto ad un uso antico, ad un uso greco quando con questa parola si intenda una struttura intervallare ben disposta, bene ordinata, in cui ogni elemento si innesta nell'altro come parte di un tutto - un ordinamento "armonioso", dunque [21]. L'aggettivo "modale" che talvolta, anche se più di rado, viene utilizzato da Daniélou per caratterizzare questa scala, potrebbe sembrare alquanto improprio e soltanto indicativo dell'interesse verso la modalità che orienta nell'insieme tutta questa problematica, ma forse vi è per esso una spiegazione più sottile, che vedremo tra breve. Daniélou evita invece di parlare di scala cromatica, come avrebbe potuto essere tentato di fare. Molti dubbi possono essere sollevati sul fatto di parlare di scala. Naturalmente è possibile realizzare una simile successione di suoni scalarmente ordinati. Ma, dal punto di vista di Daniélou, si tratta di una partizione dell'ottava che è una pura costruzione teorica priva di carattere musicale diretto. Essa intende presentare uno schema generale ed assoluto a cui riportare le scale effettivamente usate - e che consente di valutare il loro 172 grado di naturalità o di artificialità. Possiamo concepire le scale come regoli graduati - dove le lineette dei gradi contraddistinguono gli intervalli. Una scala sarà da considerarsi "naturale" se tutti i suoi intervalli coincidono con alcune delle 53 lineette della "scala armonica". Si comprende subito allora che la divisione è abbastanza fine da legittimare una enorme quantità di strutture scalari, e tuttavia la scala armonica non giustificherà affatto tutte le scale possibili o tutte le scale musicalmente impiegate. Vi saranno scale le cui lineette coincideranno solo in parte oppure per nulla affatto con le lineette della scala armonica - e tra queste vi è la naturalmente la nostra scala temperata. 2. Scala ciclica e scala universale Se ci arrestassimo a questo punto la fragilità di questa costruzione sarebbe piuttosto evidente. Di fatto tutto si sostiene sulla pretesa "naturalità" degli intervalli primitivi e differenziali e sulla scala scala-tipo sulla quale essi vengono riportati. Questa pretesa è fondata fino a questo punto unicamente sul dato di fatto del loro impiego nella pratica musicale e sulla loro ipotizzata presenza in linguaggi musicali appartenenti a culture differenti (anche se si può effettuare questa costruzione senza allontanarsi di un passo dalla vecchia Europa). Ora non c'è dubbio che questo fondamento sia piuttosto fragile e non spiega a sufficienza in che senso debba essere inteso il riferimento alla "naturalità" o, se vogliamo, alla "naturalezza". Abbiamo dunque bisogno di qualche rafforzamento. A questo punto il discorso cade sul ciclo delle quinte che, come abbiamo già osser- 173 vato, assume un ruolo importantissimo nell'impostazione di Daniélou, benché non prioritario. Questo modo di "produzione delle note" e quindi di partizione dell'ottava si avvale degli intervalli consonantici fondamentali di quinta, quarta e ottava ed è quindi strettamente connesso con fatti uditivi concreti. Al tempo stesso esso può essere considerato anche come una sorta di algoritmo che può essere messo in movimento ben al di là delle esigenze della pratica musicale. Esso consiste a) nella iterazione successiva dell'intervallo di quinta realizzando ogni volta, se necessario, b) la riduzione all'interno dell'ottava che si intende suddividere [22] . Ciò che rappresenta il problema di questo metodo di partizione sta nel fatto che, per quanto ci si inoltri nell'iterazione, non si otterrà mai un valore coincidente con l'ottava - questo per ragioni puramente matematiche. E nemmeno si otterrà un valore coincidente con un punto già acquisito: ciò significa che nell'iterazione e nella riduzione all'interno dell'ottava si realizzerà una partizione progressivamente più fine dell'ottava stessa. Ed ecco ora la circostanza che colpisce Daniélou: se realizziamo 53 cicli di quinte ed operiamo la riduzione necessaria otteniamo un punto che si approssima moltissimo all'ottava. Quell'insignificante numero 53, che sembrava appunto ridursi ad un mero dato di fatto, a qualcosa che dovevamo accettare perché avevamo trovato che le partizioni erano appunto quelle - e che sembrava quindi un dato alquanto accidentale, tende ad assumere un significato più pregnante una volta che lo si incontra in una partizione ottenuta secondo un metodo del tutto diverso, e per giunta puramente matematico. E ciò non basta ancora: a questa prima circostanza singolare si aggiunge la circostanza, che può sembrare ancora più straordinaria, rappresentata dal fatto che le partizioni ottenute con questo metodo coincidono talvolta esattamente talvolta approssimativamente con le partizioni ottenute secondo il metodo precedente: la scala "ciclica" coincide dal più al meno con la scala "armonica". 174 Scala Ciclica espressa in Cents 23, 47, 70, 94, 114, 137, 161, 184, 204, 341, 365, 388, 408, 431, 455, 478, 502, 635, 659, 682, 702, 725, 749, 772, 796, 929, 953, 976, 1000, 1020, 1043, 1066, 1180, 1204 227, 251, 274, 298, 318, 522, 545, 568, 592, 612, 816, 839, 863, 886, 906, 1090, 1110, 1133, 1157, Daniélou ripete più volte che gli intervalli realmente corretti sono quelli fissati nella scala armonica [23] , e che non vi è identità tra i gradi della scala armonica e i gradi ottenuti per iterazione della quinta nella scala ciclica. E tuttavia "questi rapporti sono così prossimi l'uno all'altro che è quasi impossibile distinguerli direttamente" e che "nella pratica musicale... la questione della differenziazione sorge raramente" [24] . Ma che importanza può avere questa relativa corrispondenza tra le due scale? In realtà, noi che abbiamo guardato con un certo scetticismo già la scala "armonica", saremmo tentati non tanto di rispondere a questa domanda ma di smontarla, smontando le due circostanze che dovrebbero suscitare la nostra meraviglia. Tutto dipende infatti da che gioco vogliamo lasciare a quel dal più al meno. Fino a che punto - dopo tanti calcoli - intendiamo spingere le nostre tolleranze nei confronti delle misure delle grandezze intervallari? Come abbiamo detto, in Daniélou talora si fa valere come significativa una micidiale esattezza nella caratterizzazione degli intervalli, talora invece si mostra la massima tolleranza, la massima disponibilità ad effettuare arrotondamenti ogni volta che possano per qualche ragione tornare utili. Ed in questo passaggio per certi versi cruciale sembra proprio giunto il momento della massima tolleranza. Nel caso dell'intervallo determinato dalla 53a iterazione della quinta, la differenza per eccesso rispetto all'ottava è di 3,64 cents. Non siamo obbligati, ma siamo padroni di considerare questa differenza tanto piccola da poter ritenere che l'ottava sia pratica- 175 mente raggiunta dall'iterazione della quinta - prima condizione essenziale per meravigliarci della "coincidenza" sul numero 53. Siamo anche padroni di tollerare discrepanze quasi per ogni grado, e in particolare su gradi "importanti". Ma se siamo disposti a passar sopra a simili differenze, allora potrebbe sembrare piuttosto ovvio e niente affatto straordinario che due divisioni dell'ottava relativamente equilibrate e abbastanza fini, ed anzi finissime come è quella prodotta da 53 parti, conducano a risultati che si possono considerare affini [25] . Tutta la questione perderebbe così di interesse. Né la prima né la seconda circostanza sono in grado di provocare in noi il benché minimo entusiasmo. Ma le cose stanno molto diversamente per Daniélou. A partire dalla convinzione dell'esistenza di scale naturali, e quindi dell'esistenza di un fondamento assoluto per esse, questa (pretesa) coincidenza tra l'apriori - rappresentato dalla scala ciclica che genera la partizione "matematicamente" - e l'empiria rappresentata dalla scala armonica il cui fondamento sarebbe insito nella stessa pratica musicale, viene considerata di fondamentale importanza proprio perché apporta alla "scala armonica" quel rafforzamento di cui essa ha bisogno. Tutto il problema sembra qui fare un salto di qualità ed assumere la sua reale fisionomia: la scala armonica "garantisce" per così dire, dal punto di vista musicale l'astratto matematismo del ciclo delle quinte, facendo venire meno le remore rispetto alle derivazioni puramente matematiche; mentre la scala ciclica finisce con il prestare l'alone del proprio matematismo alla scala armonica. Si consolida dunque il rapporto con il mondo del numero, che era già fortemente presente nella scala armonica che richiedeva essa stessa i nostri bravi calcoli. Questo consolidamento significa soprattutto in Daniélou la ripresa delle antiche tematiche filosofico-metafisiche che facevano del numero principio del reale, e della musica la manifestazione sul piano della sensibilità di questo principio. L'unità tra scala armonica e scala ciclica è da considerare come una manifestazione sul piano feno- 176 menico dei "principi metafisici dei suoni", cioè di quei principi che riportano al nucleo più profondo della realtà stessa [26] . La posizione di Daniélou è esemplare per il fatto che si regredisce, in rapporto al problema di una fondazione oggettivistica, dal fisicalismo all'aritmetismo, compiendo in certo senso a ritroso il cammino che conduce dal punto di vista aritmetizzante che si era affermato a partire dalla cultura greca fino al tardo rinascimento ed oltre, alle fondazioni nella fisica del suono. Il punto di vista aritmetizzante tende a separare il numero dalla realtà corporea, e proprio per questo a considerare il numero in se stesso come principio del reale, aprendosi ad ogni sorta di speculazione filosofica sulle virtù dei numeri come tali. Quando invece il rapporto numerico viene attribuito alle vibrazioni di un corpo elastico ed avviene così la ricongiunzione del numero con l'elemento fisico, le considerazioni metafisiche regrediscono sullo sfondo, la numerologia interessa assai meno di quanto interessi una possibile analisi della costituzione interna del suono come evento della natura. E l'intero problema tende a particolarizzarsi, allentandosi i legami con i fenomeni non appartenenti alla musica che in precedenza potevano essere tenuti stretti con analogie numerologiche. Ora, in Daniélou, la critica di una fondazione della scalarità negli armonici e quindi il rifiuto di un naturalismo a base fisicalistica, non comporta il rifiuto di una concezione naturalistica in genere, ma piuttosto lo spostamento dell'attenzione verso il versante della "natura umana", quindi verso un versante psico-fisiologico. In questo ambito vanno ricercate le giustificazioni ultime. Nello stesso tempo si torna a guarda con interesse ad una fondazione puramente "aritmetica" che riprende gli interessi metafisici di un tempo. Si ripresentano così le speculazioni numerologiche di sapore antico, in un vero e proprio soprassalto neopitagorico in pieno secolo ventesimo. C'è chi ha osservato che la passione numerologica non è una malattia, ma quasi [27] . E questo può essere vero. Eppure, di fronte ad affermazioni come queste è anche il caso di diffidare. La storia 177 della scienza e dell'arte insegnano che non sempre il pensiero cammina con i piedi di piombo e che non è in generale vero che l'enfasi sulla "positività" spalanchi senz'altro le porte ad intelligenza e comprensione. La vicenda del pensiero ha le proprie complicazioni, e in particolare le ha la teoria della musica che è una straordinaria mistura di scienza, esperienza diretta, tecnica, riflessione e immaginazione. Attraverso stravaganze, ostinate idee fisse, giri traversi - se si ha la pazienza e, vorrei anche dire, l'umiltà di adeguarvisi provvisoriamente - si viene in chiaro sulle motivazioni che stanno alla loro base, e sono proprio queste motivazioni che meritano spesso di essere portate alla luce. 4. Digressione neopitagorica e la mente come calcolatore Il tentativo di tenere insieme aritmetismo e naturalismo psico-fisiologico è realizzato da Daniélou soprattutto nella Semantica musicale. L'idea dell'essenza numerica del reale viene elaborata qui in primo luogo dal punto di vista soggettivo, cioè dal lato della ricezione e dell'elaborazione dei dati percettivi [28] . La forma numerica dà la sua impronta ai nostri processi mentali: questa idea che ha radici così antiche si incontra inaspettatamente - e vorremmo quasi dire nello stesso tempo genialmente e ingenuamente - con la "scienza del calcolatore", con la "cibernetica". Questo libro contiene in effetti una grande quantità di citazioni di Norbert Wiener e di altri autori dello stesso ambito. Di qui deriva l'idea principale, sulla quale ha lavorato la psicologia cognitiva, secondo la quale il calcolatore 178 può rappresentare una sorta di modello per lo studio dei processi mentali: "Il nostro apparato mentale funziona come una macchina da calcolo..." [29] - Daniélou ripete più volte; ma derivano di qui anche le idee-guida che gli consentono di fornire un'impostazione della propria problematica in un quadro di insieme. In particolare l'idea che nella mente (memoria) vi siano delle "figure-tipo" (patterns) e che la percezione consti di continui "ritorni" (feedbacks) ad esse come norme a cui confrontare il materiale percepito [30] . Ecco allora che, per quanto riguarda il nostro problema, gli intervalli percepiti sono costantemente riportati a modelli interni e viene sempre effettuato il tentativo di farli coincidere con essi, cosa che costa più o meno sforzo a seconda della prossimità o della distanza degli intervalli uditi rispetto ai modelli. Qui si risente aria di platonismo. Le figuretipo sono in effetti come le idee di Platone a cui i materiali empirici vengono commisurati e interpretati. Attraverso un cerchio impreciso della percezione intravediamo il cerchio ideale di cui parla la geometria. Ma come sono costituiti questi intervalli ideali che fungono da modelli? Il richiamo al calcolatore serve a Daniélou per dar corpo a qualcosa di simile ad una teoria. Ciò da cui egli è colpito è il fatto che i calcoli effettuati dal calcolatore, sono fondati su un sistema numerico peculiare che, in luogo di essere, come quello che utilizziamo correntemente, a base dieci è a base due. Naturalmente la base, in questo caso, non è indifferente al funzionamento del calcolatore, ovvero c'è una relazione tra il modo in cui il calcolatore "pensa" e il sistema numerico a base binaria. Ora proprio questa relazione interessa a Daniélou: la "mente musicale" - che va concepita come parte di un "calcolatore" certamente molto più complesso delle nostre macchine - funzionerebbe a sua volta su tre sistemi numerici, precisamente a base 2, 3 e 5 [31] . "Sembra che il nostro meccanismo mentale funzioni come una macchina calcolatrice che combini circuiti che lavorano in binario, ternario e quinario. Questa sembra essere la sola spiegazione, applicabile in tutti i casi 179 conosciuti, dell'importanza di certi intervalli, del valore relativo di altri e dell'esclusione di alcuni, nei diversi sistemi musicali" [32] . È inutile dire che né il calcolatore né i sistemi numerici sono responsabili dei discorsi che di qui in avanti vengono sviluppati dal nostro autore. Dal punto di vista musicale questi tre numeri ci riportano naturalmente all'ottava, alla quinta ed alla terza - e propongono in generale un ritorno alla tematica della semplicità dei rapporti come sinonimo di naturalità e perfezione. Ciò potrebbe sembrare strano per il fatto che, sia nella formazione della scala armonica che in quella della scala ciclica sono presenti rapporti tutt'altro che semplici e persino vertiginosi dal punto di vista delle grandezze numeriche interessate: ma viene qui avanzata l'idea della possibilità di riportare tutti i rapporti validi della "scala universale dei suoni" ("scala armonica") proprio a queste radici elementarissime dei primi tre numeri primi - argomento che riprenderemo tra poco. Inoltre essi sarebbero portatori, secondo Daniélou, di classi (o tipologie) affettive che avrebbero poi il loro puntuale riscontro nell'intervallistica musicale. Per convincerci di ciò, Daniélou fa spesso riferimento, nel più classico stile pitagorico, a rappresentazioni figurative dei numeri, a qualcosa di simile al loro corrispondente visivo-figurale: rappresentazioni che dovranno essere colte con l'occhio dell'immaginazione, naturalmente, anche se su questa partecipazione determinante della facoltà immaginativa non si potrà troppo calcare la mano per evitare una svalutazione dell'intera questione. Dunque, il 2 sarà rappresentativo della staticità, di un'idea di spazialità per così dire solidamente impostata e riposante su se stessa: naturalmente si può ben pensare a figure quadrate o rettangolari. Il 3 sarà invece rappresentativo di dinamismo e di movimento - e penseremo in tal caso a figure triangolari, mentre il 5 sarà rappresentativo della crescita organica, del momento vitale ed affettivo [33]. Per l'idea della crescita come incremento e sviluppo, Daniélou riesce a proporre con il pentagono un'analogia, sarei tentato di dire, quasi persuasiva [34] . Egli cita il problema della tassellatura di una superfi- 180 cie con figure geometriche. Mentre è possibile operare una tassellatura con rettangoli o triangoli senza variazione di grandezza, con il pentagono ciò è possibile solo ampliandone sempre più le proporzioni, come è mostrato dalla seguente figura [35] : La crescita e lo sviluppo sembra dunque ben rappresentata dal punto di vista immaginativo. La vita emozionale è poi parte della vita stessa cosicché il cinque conterrebbe anche di essa il segreto. L'idea che ad un intervallo sia associato un "senso" e che questa associazione riguardi il numero che sta alla base del rapporto è continuamente ribadita in modi spesso sconcertanti. Dalla combinazione (prodotto) delle tre basi numeriche sorgerebbero intervalli "significativi", ovvero caratterizzati da una tonalità affettiva "mista" dipendente dalla combinazione considerata. Ad es. il 10, quando interviene nella determinazione di un rapporto intervallare, avrà carattere spaziale-emotivo essendo inteso come prodotto di 2 e 5, il 6 spaziale-dinamico (2*3), il 15 dinamico- emotivo (3*5) [36] . Il problema delle possibili valenze affettive è così ricondotto ad una questione di pura contabilità. Di una 181 ricondotto ad una questione di pura contabilità. Di una sconfinata ingenuità filosofica è poi il tentativo di trovare particolari significatività degli intervalli quando i numeri che costituiscono i loro rapporti siano riscritti nella notazione binaria, ternaria o quinaria [37] . Ma a parte queste belle fantasie, vi è una circostanza che ci colpisce. Daniélou non accenna nemmeno alla possibile derivazione delle tipologie generali che egli propone per i primi tre numeri primi da circostanze di ordine musicale. In fin dei conti avremmo qualche buona ragione di ritenere che l'intervallo di ottava sia, come l'unisono, piuttosto statica. E non ci trova impreparati nemmeno l'idea che la quinta abbia carattere dinamico - così certamente questo intervallo è stato assai spesso usato! Quanto al fatto di attribuire valore emozionale al 5, si tratta - vedi caso - del numero caratteristico dell'intervallo di terza, sia maggiore (5/4) che minore (6/5): e la presenza dell'uno o dell'altro nell'impalcatura scalare determina una coloritura di variazione emotiva molto forte. A ben vedere si tratta di luoghi comuni del linguaggio musicale di tradizione europea - mi sembra il caso di sottolineare questo punto: ma si tratta di un punto che deve rimanere ben nascosto per il fatto che l'intero problema si capovolgerebbe, suggerendo che simili tipologie siano semmai proposte dal materiale musicale, ed anzi da un particolare linguaggio musicale, e proiettate sul numero, mentre per Daniélou le cose stanno esattamente all'opposto. Cosicché le analogie con le figure geometriche, facendo riferimento ad un materiale eterogeneo rispetto a quello musicale, sono certamente più produttive ai fini di quell'aggancio alla generalità che fa parte da sempre delle fondazioni aritmetiche della musica. 182 5. La derivazione calcolistica della scala universale A partire da questo impianto, possiamo ora tornare sui nostri passi per rendere conto dell'ultimo importante sviluppo che abbiamo annunciato poco fa. In realtà avremmo dovuto forse riferire su di esso fin dall'inizio, in rapporto all'introduzione della "scala armonica". Infatti, mentre noi abbiamo illustrato il percorso che conduce ad essa passando attraverso la partizione degli intervalli che abbiamo chiamato primitivi, sia nell'Introduzione, sia nella Musicologia comparata sia infine nella Semantica musicale si presenta un modo di accesso essenzialmente differente che manifesta un clamoroso ritorno alla "teoria dei rapporti semplici", forzando al massimo il legame con le considerazioni aritmetico-numerologiche nello spirito delle premesse di ordine generale che abbiamo illustrato or ora. Ciò che si tenta di fare è una derivazione dei gradi della scala armonica che è in realtà riportabile ad un modello puramente calcolistico, anche se Daniélou preferisce tenere questa circostanza alquanto nascosta, proponendo una descrizione dei passi da compiere per giungere al risultato e questo stesso risultato sotto la forma di una tabella descrittiva, piuttosto che metterci senz'altro sott'occhio un algoritmo come sua origine. Come abbiamo detto in precedenza, in questa nostra esposizione abbiamo seguito un percorso tutto nostro nel tentativo di mettere ordine nella trattazione di Daniélou, sostanzialmente priva di 183 indicazioni metodiche ed in realtà niente affatto perspicua. Attraverso questo nostro riordinamento forse si riescono a fare emergere i fili conduttori interni così come elementi per una critica che non si contenti - come spesso è accaduto - di attaccare aspetti vistosi, ma di superficie, senza arrivare nemmeno a percepire il senso complessivo dell'operazione compiuta. Ci accingiamo così ad illustrare quella che potremmo chiamare la seconda via di accesso alla scala universale dei suoni. Essa ha come scopo di dare la massima evidenza al dominio dei tre numeri fondamentali - 2, 3, 5 - sull'intero mondo sonoro-musicale; e vi è forse modo migliore di raggiungere questo scopo che quello di mostrare che dall'impiego di questi soli tre numeri si può rendere conto di tutti gli intervalli della scala armonica? "Rendere conto" non può qui che voler dire: mostrare che tutti questi intervalli sono derivabili, nella loro esatta determinazione, a partire da una formula che contiene unicamente questi tre numeri. Impresa apparentemente disperata! Eppure... L'idea che sta alla base di tutta la costruzione è quella di un utilizzo, per così dire, accorto del ciclo delle quinte. Poiché si tratta di tentare una vera e propria derivazione calcolistica della scala, è naturale che si pensi ad un utilizzo del ciclo delle quinte, per via dell'automatismo che lo caratterizza. Sappiamo tuttavia già che questo utilizzo dà solo valori approssimativamente simili a quelli della scala armonica. Tuttavia Daniélou nota che per i primi giri di quinte - e precisamente per i primi quattro - si ottengono rapporti sostanzialmente coincidenti con i rapporti "armonici" [38] . Si tratta allora di realizzare dei segmenti di cicli delle quinte, ciascuno che prenda le mosse da un inizio differente, ottenendo così delle "serie" di intervalli. Ogni serie sarà costituita mediante quattro quinte ascendenti e quattro quinte discendenti, ciascuna ridotta entro l'ottava, e consterà quindi di otto intervalli. Gli elementi della serie saranno di conseguenza nove. Sola eccezione è rappresentata dalla cosiddetta Serie di base 184 in rapporto alla quale Daniélou ritiene di dover utilizzare cinque cicli di quinte sia in direzione ascendente che discendente. Si otterranno dunque undici elementi. Precisamente Daniélou propone di generare sette serie, che verranno poi combinate insieme riordinando gli elementi in ordine crescente. Il risultato finale sarà una successione di intervalli sovrabbondante rispetto ai 53 intervalli della scala armonica. Questa lista andrà dunque depurata dagli intervalli eccedenti - mentre il punto essenziale è che essa contiene tutti i 53 intervalli, e questa volta secondo rapporti esatti. Per scendere appena in qualche dettaglio necessario per comprendere meglio la procedura adottata: anzitutto produrremo una serie che chiameremo serie di base con inizio nella "tonica" - cioè nella nota di base. Poiché si tratta di determinare una scala relativa di intervalli, possiamo dare valore 1 a questo inizio ed assumerlo come do. Si otterrà la serie di base realizzando, come abbiamo detto or ora, cinque cicli di quinte sia nella direzione discendente che in quella ascendente [39] . Si scelgono poi due nuovi rapporti come inizi e precisamente il rapporto di 6/5 (terza minore, 316 cents) e di 5/3 (sesta maggiore, 884 cents). La ragione di questa scelta, spiega Daniélou, è che si tratta dei rapporti più semplici in cui il numero cinque appare al denominatore ed al numeratore. Così sia. Ciascuno di questi due numeri può essere elevato alla seconda ed alla terza potenza generando ciascuno due nuovi rapporti, ciascuno dei quali verrà considerato come primo elemento da cui dare origine ad una nuova serie. Di conseguenza abbiamo tre serie che hanno alla loro base l'intervallo 6/5 (e che vengono chiamate da Daniélou Serie +, Serie ++, Serie +++ ) i cui inizi saranno rispettivamente 6/5, 36/25 e 216/125) e tre serie che hanno alla loro base l'intervallo 5/3 (e che vengono chiamate da Daniélou Serie -, Serie - - , Serie - - - ), i cui inizi saranno rispettivamente 5/3, 25/9 e 125/27, questi due ultimi riportati, nella riduzione entro l'ottava, a 25/18 e 125/108. Ciascuna serie verrà generata nello stesso modo descritto sopra per la serie di 185 base, ma con solo quattro cicli di quinte. Non sorprenderà, date le considerazioni precedenti sul rapporto tra numeri ed espressività, che a parere di Daniélou, "tutte le note di una serie corrispondono ad uno stesso genere di espressione, mentre ciascuna delle serie corrispondenti a tipi di espressione differenti. Queste serie possono dunque essere chiamate 'categorie d'espressione' (shruti-jati-s)" [40]. Questa affermazione è interessante, non tanto per l'allusione al concetto indiano di una connotazione affettivo-emotiva delle strutture scalari, che è troppo generico per avere particolare significato, quanto per il fatto che essa mostra che queste sette serie sono, nelle intenzioni di Daniélou, qualcosa di simile a dei "modi". È possibile che la dizione di "scala modale" per la scala universale dei suoni derivi proprio da questo spunto - cioè dal fatto che essa poggerebbe su sette sequenze assimilabili a modi. 186 In questo grafico sono riportate le sette serie, considerando quattro cicli di quinte. I valori sono ridotti entro l'ottava e riordinati scalarmente. Daniélou intende tuttavia acquisire nella scala il rapporto 243/128 e il rapporto 256/243 (limma pitagorico), pur ritenendolo equivalente a 135/128, ed entrambi si possono ottenere solo con un quinto ciclo di quinte sulla serie di base che presenta dunque due valori in più. Le caselle barrate contengono i valori non considerati da Daniélou perché ritenuti non utilizzati nella pratica musicale: debbono perciò essere "spuntati" [41]. Per pervenire alla scala universale, si tratterà soltanto di associare in una unica lista tutti i valori dei rapporti ottenuti nelle sette serie riordinandoli in ordine di grandezza. Scala universale generata mediante le sette serie 1, 81/80, 128/125, 25/24, 256/243, 16/15, 27/25, 800/729, 10/9, 9/8, 256/225, 144/125, 75/64, 32/27, 6/5, 243/200, 100/81, 5/4, 81/64, 32/25, 125/96, 320/243, 4/3, 27/20, 512/375, 25/18, 45/32, 64/45, 36/25, 375/256, 40/27, 3/2, 243/160, 192/125, 25/16, 128/81, 8/5, 81/50, 400/243, 5/3, 27/16, 128/75, 125/72, 225/128, 16/9, 9/5, 729/400, 50/27, 15/8, 243/128, 48/25, 125/64, 160/81 Conversione in Cents della scala universale [42] 0, 22, 41, 71, 90, 112, 133, 161, 182, 204, 223, 245, 275, 294, 316, 337, 365, 386, 408, 427, 457, 477, 498, 520, 539, 569, 590, 610, 631, 661, 680, 702, 723, 743, 773, 792, 814, 835, 863, 884, 906, 925, 955, 977, 996, 1018, 1039, 1067, 1088, 1110, 1129, 1159, 1179 Se si confronta questo risultato con quello ottenuto attraverso il metodo di partizione degli intervalli primitivi 187 tivi Partizione ottenuta con la partizione degli intervalli primi- 0,22, 41, 70, 90, 112, 134, 161, 182, 204, 226, 245, 274, 294, 316, 338, 365, 386, 408, 427, 456, 476, 498, 520, 539, 568, 588, 610, 632, 659, 680, 702, 724, 743, 772, 792, 814, 836, 863, 884, 906, 925, 954, 974, 996, 1018, 1045, 1066, 1088, 1110, 1129, 1158, 1178 si noterà che essi sono sostanzialmente equivalenti, essendo dovute le piccole discrepanze al diverso modo di approccio ed alle approssimazioni inevitabili della misura in cents. Unica eccezione il quarantesettesimo grado che presenta 1045 cents contro 1039. In effetti si tratta di due scelte egualmente possibili dal punto di vista calcolistico, dal momento che il primo intervallo corrisponde a 4000/2187 (ed appartiene alla Serie - - -) mentre il secondo corrisponde a 729/400 (ed appartiene alla serie + +). 6. La formula che sta alla base della scala universale Giunti a questo punto ci si potrà chiedere se non sia possibile operare una semplificazione che riporti la costruzione dell'intera scala universale ad un'unica formula di calcolo. Questa possibilità è suggerita dal fatto che alla base di ciascuna delle sette serie vi sono formule strettamente affini tra loro. 188 La Serie di base può essere generata da 1. Si assumerà che y possa variare tra -4 e +4, prendendo sia valori positivi che negativi. Rammentando che ogni numero con esponente 0 è, per convenzione, eguale a 1, per y=0 si otterrà il primo elemento della serie. I valori positivi di y produrranno le quattro quinte ascendenti, mentre i valori negativi le quattro quinte discendenti [43] . Le tre serie prodotte a partire da 6/5 saranno generate dalla formula 2. dove x varierà tra 1 e 3, per ottenere i tre valori iniziali di esse, essendo y =0, mentre per y che varia da 1 a 4 e da -1 a -4 si otterranno quattro quinte ascendenti per i valori positivi e quattro quinte discendenti per i valori negativi. Le tre serie prodotte a partire da 5/3 saranno generate dalla formula seguente che ha ovviamente le stesse spiegazioni. 3. Queste tre formule possono essere riunite in una sola. Risulta anzitutto chiaro che la seconda formulasi riduce alla prima per x = 0, e quindi la "contiene". Nel caso della terza formula occorre tener presente che 5/3 è eguale all'inverso di 6/5 moltiplicato per due. L'inversione di 6/5 si ottiene ipotizzando nella seconda formula un esponente x negativo e integrando in essa una variabile z che ha la sola funzione di introdurre un molti- 189 plicatore 2 nel caso in cui x abbia valore negativo. Di conseguenza la formula seguente [44] : 4. può sostituire le tre formule precedenti. In essa, come abbiamo spiegato, x potrà variare tra -3 e +3, y tra -4 e +4 (oppure tra -5 e +5 volendo ottenere cinque cicli di quinte), z tra 1 e 2 essendo posta la condizione che z = 1 se x è positivo o pari a 0, altrimenti z = 2. Dunque x positivo è rappresentativo delle serie "+", x negativo delle serie "-", x =0 della serie fondamentale; mentre y positivo è rappresentativo delle quinte ascendenti e y negativo delle quinte discendenti, y=0 del primo elemento di ciascuna serie. Si intende che tutti i valori prodotti, se necessario, dovranno essere ridotti entro l'ottava, e le serie ottenute andranno unificate e riordinate in ordine di grandezza. Ma non basta: la formula 4. può essere sottoposta ad una trasformazione algebrica, che è assai meno trasparente di essa, ma illustra a meraviglia il tema della riduzione di tutti gli intervalli musicalmente validi (secondo Daniélou) ai numeri 2, 3 e 5. Questa formula può essere considerata finalmente il nostro punto di approdo: 5. Attribuendo correttamente i valori delle variabili x, y, z si possono ottenere tutti i cinquantatré rapporti della scala universale di Daniélou [45] . Anche se nella nostra esposizione abbiamo fatto il possibile per portare di passo in passo a questo esito conclusivo, esso 190 probabilmente apparirà in ogni caso sorprendente. Se la "scala universale dei suoni" è in qualche modo una superscala, questa formula è certamente una superformula. Essa dovrebbe celare il segreto della divisione perfetta dello spazio sonoro e formare il quadro di riferimento per giudicare intorno alla perfezione di ogni scala possibile. Il punto che mi sembra anzitutto di dover sottolineare è che la "teoria dei rapporti semplici", giocata ora sui tre più piccoli numeri primi, si separa nettamente dalla nozione di consonanza a cui in realtà quella teoria è per lo più stata legata - e ciò è particolarmente significativo, dal momento che il vincolo di quella teoria agli intervalli consonanti fondamentali rappresenta un vincolo al piano della percezione. Operando questa separazione questo legame viene semplicemente tolto. L'idea delle "virtù" musicali dei numeri come tali riceve qui la sua massima esaltazione. Con particolare chiarezza si insegna poi che la semplicità non è da ricercare tanto nei rapporti numerici che caratterizzano gli intervalli come tali (che sono per lo più tutt'altro che semplici) ma nelle loro radici esibite dalla formula con cui possono essere costruiti. In quella superformula compaiono esclusivamente i numeri 2, 3, e 5 come costituenti la base dell'intervallistica musicale in generale. Non può sfuggire infine in che misura in quella formula il ciclo delle quinte venga nuovamente celebrato. L'intera produzione degli intervalli "possibili" è affidata al ciclo delle quinte - essendo sempre il moltiplicatore 3/2 che determina gli elementi di ciascuna serie. Alla luce di ciò appare assai singolare che questa superformula non venga apertamente esibita, ed anzi posta in apertura di tutto il discorso sulla scala universale, ma venga soltanto lasciata trasparire e suggerita tra le righe. È il lettore attento che deve rendersi conto della sua presenza. In luogo di questa enorme semplificazione formale, Daniélou preferisce ricorrere a descrizioni verbali della procedura affidandosi a tabelle e grafici non sempre di facile decifrazione. Nel grafico seguente si cerca di dare rappresentazione all'intero sistema delle sette se- 191 rie, ai loro valori intervallari, con una puntigliosa ripresa dei nomi delle note che vengono differenziati secondo la loro appartenenza a ciascuna serie. Ma si tratta solo di un esempio. Tabelle e grafici abbondano dappertutto. Tutto viene considerato per così dire nota per nota, intervallo per intervallo. Nulla dunque di più distante dalla sinteticità della nostra piccola formula - di cui il lettore non viene da nessuna parte chiaramente informato. Io credo che di tutto ciò vi sia una ragione tutta interna all'impostazione proposta. Come abbiamo notato fin dall'inizio Daniélou vuole attenersi il più possibile alla concretezza dell'esperienza musicale. Egli è stato indubbiamente un grande "osservatore" e "misuratore" di intervalli - a lui spettano meriti importanti per quanto riguarda la necessità da parte della musicologia di rispettare le grandezze intervallari realmente utilizzate da altre civiltà musi- 192 cali [46]. Ma il modo in cui imposta il problema di una fondazione oggettiva della divisione dell'ottava, oltre che, naturalmente, lo sfondo filosofico generale entro cui si muove, lo spingono in direzione di una forte ripresa della tradizione matematizzante e nel risultato finale, in cui vediamo i cinquantatré gradi della sua "scala universale" per così dire emessi da un giocattolo meccanico, la concretezza dell'esperienza musicale rischia di essere spazzata via. Sorge il dubbio che proprio di essa si sia tenuto conto solo in apparenza, che fin dall'inizio, essa sia stata irregimentata in modo da adeguarla a questi esiti. Un equilibrio tra questi due momenti non può certo essere facilmente mantenuto. Meglio dunque un grande tabella da cui si intravveda appena la possibilità di una formula generale, piuttosto che una formula generale messa in prima pagina che toglie in un colpo solo la necessità di una tabella. Mettiamo un po' in ombra la formula generale per evitare che questa schiacci le nostre intenzioni di attenerci in prossimità dell'esperienza musicale e le renda in certo senso improbabili. D'altra parte questa esperienza finisce con il non essere altro che il rispecchiamento della struttura matematica necessaria della realtà e della struttura della nostra mente. Cosicché alla fine, al di là delle oscillazioni che sono un ulteriore sintomo di incertezza metodica in cui si muove l'intera impostazione, non ci si può esimere dall'assumersi l'intera responsabilità della formula generale, che rappresenta il pilastro effettivo che sostiene tutta questa costruzione. Il percorso che abbiamo descritto può essere considerato esemplare proprio per il fatto che presenta una forma estrema di fondazione metafisico-aritmetica della musica riprendendo un'istanza teorica che sembrava definitivamente superata dal prevalere delle fondazioni a orientamento fisicalistico. Elementi per una critica sono presenti dappertutto nella nostra esposizione - e sono elementi che non si contentano di una levata di spalle, come si potrebbe anche fare rispetto alle prese di posizioni più squilibrate di Daniélou. Volendo riportarli ad un uni- 193 co punto focale, credo si debba attirare l'attenzione soprattutto sul modo di atteggiarsi nei confronti dell'ottava come spazio sonoro e naturalmente sul modo di concepire l'intervallo. L'ottava viene considerata come se avesse già in sé un numero determinato di comparti. Essa consta semplicemente di intervalli più grandi costituiti da intervalli più piccoli. L'ottava non è altro che una punteggiatura di intervalli, una sorta di asse sul quale debbono essere sistemati dei chiodi. Ciò che si deve scoprire è soltanto il luogo esatto in cui deve essere alzato il martello. Il punto di vista del "discreto" è ovunque dominante; e nonostante il gioco delle tolleranze che il buon senso musicale suggerisce, non è possibile fare a meno di avanzare ovunque un'esigenza di estrema esattezza. L'intervallo viene considerato qualificato dal rapporto numerico - e questo deve individuare una posizione assolutamente determinata. Ciò è richiesto dalla "razionalità" del rapporto. In via di principio si insiste perciò su determinazioni esatte - ed alle differenze impercettibili si affida spesso un differente valore semantico [47] ; nello stesso tempo dall'esattezza di quelle determinazioni si è sempre pronti a recedere quando vi sia un qualche motivo per non insistervi troppo. In rapporto all'attribuzione di significati emotivi particolari agli intervalli, risulta con particolare chiarezza la separazione dell'intervallo dallo spazio sonoro. L'intervallo viene preso in se stesso, indipendentemente dalla sua integrazione in uno "spazio" e indipendentemente dal profilo fenomenologico che gli può essere attribuito in forza di questa integrazione; e si pretende che esso abbia un significato unicamente in base al rapporto che lo determina e quindi al fattore numerico che lo caratterizza. Il considerare l'intervallo come qualificato dal rapporto numerico significa effettuare il passaggio ad un livello transfenomenologico. L'aritmetica deve sostituirsi alla fenomenologia. L'aritmetica interviene come calcolo delle posizioni, la numerologia provvederà nella misura del possibile a stabilire le premesse del calcolo e nello stesso tempo a dar senso all'insieme. Senza l'enfasi numerologica sul 2, 3 e 5, non avrebbe nemmeno senso 194 il mettersi alla ricerca di formule. Nello stesso tempo senza una metafisica del numero non può esservi alcuna enfasi numerologica. Ne deriva una costruzione sistematica che sta tutta dentro questo cerchio e che piuttosto che richiedere di essere compresa, avanza la pretesa inaccettabile che vi si salti nel mezzo. Mi sembra infine che un risultato non secondario della nostra ricostruzione sia quello di aver mostrato quanto poco la posizione di Daniélou possa rappresentare un buon riferimento per una teoria delle strutture scalari di origine extraeuropea e quanto poco su di essa siano determinanti gli stimoli provenienti da tali tradizioni. Esito a dire una cosa simile per un autore come Daniélou, ma mi sembra proprio di doverlo dire. Note [1] Le cose dette nell'Introduzione al mio saggio La composizione armonica del suono e la serie delle affinità tonali in Hindemith, pubblicato in "Sonus", n. 21-22, 2002, pp. 118-153 e disponibile anche in "De Musica", Internet 2002, possono valere come premessa generale anche per il presente lavoro. [2] Il volume è stato pubblicato da The India Society, London 1943. In seguito indicato come Introduction. [3] ivi, p. 6. [4] ivi, p. 22. [5] Colloque La Resonance dans les échelles Musicales. Paris 9 -14 Mai 1960, éd. C.N.R.S. 1963: études rèunies et présentées par Edith Weber. [6] ivi, p. 208 [7] ivi. [8] Introduction, p. 23. [9] ivi, p. 216. [10] ivi. [11] Secondo Daniélou il compositore spesso tenderà a "pensare vocalmente", cioè a cantare mentalmente il movimento melodico che poi "cercherà di trascrivere in una scala riferendosi a intervalli strumentali che sembrano loro essere approssimativamente gli stessi di quelli pensati vocalmente", ivi, p. 208. [12] Che la voce tenda cantare su intervalli "naturali" è in realtà di un luogo comune, in rapporto al quale sembra difficile escogitare un me- 195 todo attendibile di verifica, spesso ripetuto dai sostenitori dell'esistenza di una scala naturale. [13] ivi, p. 209. [14] ivi. [15] Il comma e il semitono piccolo derivano direttamente da differenze che interessano quegli intervalli che abbiamo chiamati primitivi. Anche il limma potrebbe essere introdotto usando questi intervalli, e precisamente come differenza tra tono grande e semitono grande ottenendo in tal caso un valore in rapporto pari a 135/128 (92 cents). Daniélou segnala anche questo rapporto, ma si serve nella suddivisione degli intervalli "primitivi" del rapporto 256/243 (90 cents). [16] Secondo questo tipo di divisione anche il tono piccolo e il semitono vengono ripartiti simmetricamente (Cfr. Introduction, p. 43). [17] Viene proposta anche una suddivisione delle disgiunzioni in due parti, ma di essa poi non si tiene conto nella numerazione dei gradi della scala universale. [18] A. Daniélou, Traité de musicologie comparé, Herman, Parigi 1959, p. 59. (Abbr. Musicologie). Questo libro è in realtà un rimaneggiamento di Introduction. [19] Introduction, pp. 229, 153. [20] Musicologie, pp. 59, 60, 166. A p. 172 si parla anche di "divisione proporzionale dell'ottava". [21] Talora Daniélou usa il termine di "armonia" (harmonie) per indicare "les rapports agréables des sons", Sémantique Musicale, Essai de psychophysiologie auditive, Hermann, Paris 1967 (I ed.) e 1978 (II ed.) p. 24. Abbr. Sémantique. Le citazioni sono tratte dalla seconda edizione. 196 [22] Dal punto di vista calcolistico, le operazioni da compiere sono dunque due: ragionando in cents, si somma 702 a partire da 0, e si detrae iterativamente 1200, se dalla somma risulta un numero superiore a 1200; ragionando in rapporti, si moltiplica iterativamente per 3/2 a partire da 1, e la riduzione all'interno dell'ottava si ottiene dividendo il risultato per 2, finché non si è raggiunto un valore compreso tra 1 e 2. [23] Introduction, p. 237. [24] ivi. [25] È stato anche osservato che tanto varrebbe ricorrere ad una scala equalizzata di 53 gradi. Cfr. P. e U. Righini, Il suono, Milano 1974, p. 198. [26] Introduction, p. 236. [27] P. e U. Righini, op. cit., p. 197 - proprio a proposito della "scala universale" di Daniélou. [28] "Per la musica gli elementi che sono la sorgente delle sensazioni di piacere non possono che essere di natura numerica poiché noi non percepiamo altro che dei rapporti di frequenza, dei rapporti di tempo, dei rapporti di intensità e combinazioni di questi rapporti.", ivi, p. 24. [29] ivi, p. 15. [30] "I meccanismi con i quali noi critichiamo e valutiamo le nostre percezione utilizzano sia elementi nuovi della percezione, sia degli elementi già classificati. Il principale apparato critico del nostro cervello è ciò che si chiama meccanismo di feedback" ivi, p. 18. "Quasi tutti i nostri gesti sono regolati da feedback. Quando vogliamo prendere un oggetto, la precisione del nostro gesto dipende da un impulso regolato da una serie di feedback. Quando a seguito di danni in certe parti del cervello il meccanismo di feedback si inceppa il nostro gesto va troppo a destra o troppo a sinistra ..." . ivi, p. 19. [31] I numeri 2, 3 e 5 come fondamento della suddivisione dell'ottava hanno una loro storia nella teoria della musica, basti rammentare Eulero (cfr. Patrice Bailhache, Une histoire de l'acoustique musicale, CNRS Ed., Paris 2001). Eulero a sua volta cita da una lettera di Leibniz: "Nella musica non sappiamo contare al di là di cinque, simili in questo a quei popoli che non vanno oltre il numero tre e che sono all'origine del detto tedesco sull'uomo semplice: 'Non sa contare al di là di tre' "(ivi, p. 125). Del resto anche Descartes osserva, nel suo Compendium Musicae: "advertendum est tres esse dumtaxat numeros sonoros, 2, 3 et 5, numerus enim 4 et numerus 6 ex illis componuntur, atque ideo tantum per accidens numeri sunt sonori..." (cfr. trad. it. Breviario di musica, Passigli, Firenze 1990, p. 87). [32] ivi, p. 24. 197 [33] "Il numero 5 'umanizza' la musica. Esso la rende strumento dell'espressione non più di astratti prototipi ma di una realtà tangibile" (Introduction, p. 231). "Il fattore cinque è il fattore più importante nella musica perché è esso che serve nel nostro meccanismo mentale ad esprimere la sensazione, l'emozione, il sentimento" (Sémantique, p. 46). [34] ivi, p. 47. [35] R. Penrose, La mente nuova dell'imperatore, Rizzoli, Milano 1992, p. 180: "Ci chiediamo se sia possibile ricoprire completamente il piano, senza vuoti e senza sovrapposizioni, usando solo queste forme e non altre. Una tale disposizione di forme è chiamata tassellatura del piano. Sappiamo bene che tali tassellature sono possibili usando solo quadrati o solo triangoli equilateri, o solo esagoni regolari, ma non usando pentagoni regolari". [36] Sémantique, ivi, p. 49. [37] ivi, p. 53. [38] Musicologie, p. 59: "Nella serie delle quinte gli intervalli al di là della quarta quinta (81/64) non sono musicalmente accettabili e tendono a confondersi con gli intervalli armonici vicini che corrispondono a relazioni più semplici". [39] Per ottenere un ciclo in direzione discendente si opera la moltiplicazione iterata per 2/3 e si riporta il valore ottenuto all'interno dell'ottava come quarta ascendente mediante moltiplicazione per 2. [40] Musicologie, p. 60. [41] Il confronto va fatto con la Tav. IX, della Musicologie (p. 172 segg.), che rappresenta la sistemazione definitiva data da Daniélou alla questione. Inutile aggiungere che queste scelte non potranno mai essere realmente giustificate e sono destinate a restare del tutto arbitrarie. Si noti che la tabella di p. 62 è solo in parte depurata dei valori ritenuti non utilizzati, in parte contiene valori che poi non entrano nella scala universale. [42] Nella Musicologie, p. 172, Daniélou propone anche le misure in cents operando un arrotondamento del comma a 20 cents e delle disgiunzioni a 32 cents. Purtroppo così facendo il tono piccolo diventa di 184 cents e la somma complessiva degli intervalli risulta essere 1204, anziché 1200.... [43] Si rammenti che le quinte discendenti si otterranno iterando la moltiplicazione per 2/3 e che [44] Uno spunto non elaborato per questa formula si trova nell'introduzione di F. Escal alla Sémantique, p. 8. [45] I passi della trasformazione algebrica sono i seguenti: 198 [46] A questo proposito è il caso di segnalare che uno schema abbastanza simile a quello della derivazione delle sette serie di Daniélou è presente anche nello schema di accordatura del suo "clavier universel" che aveva lo scopo "studiare tutti gli intervalli impiegati nei diversi sistemi musicali e per abituare l'orecchio ad intenderli". Cfr. Musicologie, App. III, pp. 176 sgg., e Sémantique, App. II, pp. 119 sgg. [47] Può valere in proposito a titolo di esempio la differenza tra i due limma a 90 (256/243) e 92 (135/128) cents, che viene dichiarata sostanzialmente inavvertibile dal punto di vista uditivo. Ma nello stesso tempo si dichiara la differenza di significato funzionale tra i due intervalli, peraltro con motivazioni diverse, in Sémantique, p. 230 e in Musicologie, p. 169. 199 Giovanni Piana Un percorso attraverso i problemi della filosofia della musica 2009 200 Questo testo è stato alla base di un seminario tenuto presso l'Università della Calabria il giorno 11 dicembre 2008 per il ciclo "Ai margini dell'estetica" organizzato a cura di Silvia Vizzardelli e Carlo Serra nel quadro delle attività del Colloquio Permanente di Estetica. 1. 201 Desidero anzitutto ringraziare tutti voi che siete venuti a questo incontro e che vi accingete ad un paziente e spero generoso ascolto. Un ringraziamento particolare va a tutti i colleghi di questo Dipartimento, agli amici che hanno voluto invitarmi qui sottraendomi alle mie meditabonde solitudini e facendomi ancora una volta rivivere la bella atmosfera che si respira nell'Università di Calabria e, in particolare, nel Dipartimento di Filosofia. Lo voglio dire rivolgendomi soprattutto agli studenti più giovani qui presenti: alla fortuna di compiere i vostri studi in una Università bellissima dal punto di vista architettonico e magnificamente ambientata nei declivi collinari che circondano la città di Cosenza, se ne aggiunge un'altra: non pensiate che ovunque, nelle Università italiane, si avverta percettibilmente, come accade qui, un'atmosfera di dialogo e di dibattito sereno e spregiudicato dei docenti tra loro e tra docenti e studenti, al cui centro stanno gli argomenti filosofici che rappresentano la passione che tutti ci unisce. Quest'atmosfera non nasce da sola, ma deve essere ricercata e perseguita e di essa tutti noi, aspiranti alla filosofia, abbiamo bisogno come l'aria che ci circonda. In questo spirito è certamente nato il Colloquio Permanente di Estetica ed il ciclo di conversazioni a cui quella odierna fornisce il primo avvio. Essa ha per oggetto la filosofia della musica, ed altre ne seguiranno nella cornice del titolo "Ai confini dell'estetica". Proprio da questo titolo generale vorrei prendere le mosse. "Ai confini dell'estetica" può avere più di un significato. Si può pensare, ad esempio, a qualcosa che sta dentro l'estetica, ma anche ai suoi margini, e che di qui guarda un poco al di là di essa. Credo intanto che la musica in genere sia ai margini di molte cose in un senso un po' particolare: pensiamo alla ricchezza dei modi in cui essa può essere impiegata e di conseguenza alla ricchezza delle relazioni che essa intrattiene con le altre arti; oppure ai rapporti interni che lungo l'intero corso 202 della sua storia intercorrono con la teoria e la metodologia della conoscenza, con le teorie aritmetiche e più in generale matematico-formali. La riflessione sulla musica appartiene certamente all'estetica, ma per certi versi - così almeno io credo - con delle inquietudini più accentuate, rispetto alle altre arti, proprio per via di quegli aspetti sfuggenti, che la trascinano verso territori differenti, ora in posizione eminente, ora marginale, oppure che la sospingono al di là dell'estetica stessa verso i campi della teoria della conoscenza e della filosofia in genere. Di queste inquietudini approfittano ampiamente anche le pratiche musicali, in particolare in tempi recenti: per illustrarle si potrebbe estendere a piacere il discorso, ma attirerò ora la vostra attenzione soprattutto sul modo in cui taluni musicisti giocano spesso in modo assai accorto ed efficace sul rapporto con il teatro, che è già esso stesso punto di incontro di momenti artistici differenti. In realtà non penso qui tanto al caso ovvio del melodramma, quando piuttosto ad un concetto di teatralità e spettacolarità più ampio che comincia già con la semplice esecuzione di un brano musicale in un concerto: tale esecuzione, da parte di un pianista, di un violinista, di un'orchestra intera, ha un carattere fortemente "spettacolare". Si va al concerto non solo per ascoltare la musica, ma per vederla. Si vogliono vedere le mani di un pianista, la sua mimica visiva, i suoi gesti. La musica tende ad essere teatrale per il semplice fatto di essere eseguita. Su questo tema si potrebbe intrattenersi a lungo proprio facendo riferimento ai modi svariatissimi, e con valenze di senso spesso assai differenti, secondo cui molti compositori novecenteschi hanno tratto profitto da questa possibilità, talora dettagliando in partitura gesti e comportamenti all'esecutore che ne ampliavano il raggio di azione. Molti anni fa ero stato colpito dall'ascolto radiofonico di un brano per arpa dell'autore francese Georges Aperghis in cui l'arpista interloquiva e rideva in alcuni momenti dello sviluppo 203 del brano, con un risultato assai gradevole. Non potevo sapere, come so invece ora avendo visto la partitura messa a disposizione dallo stesso Aperghis nel suo sito Internet (http://www.aperghis.com), che la situazione era ancora più complessa. Il titolo del brano, che è del 1982, è infatti "Fidélité pour harpiste seule regardée par un homme", e lo spartito si apre con una dettagliata descrizione del comportamento dell'uomo con il quale l'arpista entra in scena mano nella mano, e che andrà a sedersi un poco più lontano e "sembrerà ascoltare restando indecifrabile per tutto il brano. E non la guarderà mai". In partitura i momenti del riso dell'arpista sono naturalmente chiaramente contrassegnati: In tempi più recenti lo stesso autore ha prodotto un Chaperon Rouge che è un brano strumentale, ma gli esecutori mimano il racconto in modo da fondere musica e azione scenica in una unità strettissima. In un caso come questo siamo vicinissimi allo spettacolo vero e proprio. 204 Negli eventi proposti da Mauricio Kagel all'azione mimata si uniscono spesso incrementi di senso ricercati con vari mezzi - talora ad esempio facendo riferimento alla forma degli strumenti ed ai possibili riferimenti simbolici di quella forma, talaltra mettendo in questione il concetto stesso di strumento attraverso l'invenzione di strumenti alquanto particolari, ad esempio un foglio di plexiglas accostato alla bocca e picchiato con un martelletto - tutto accuramente disegnato in partitura - nel quale il suono cambia a secondo del modo di aprire la bocca e di stringere i denti: uno strumento percussivo di nuovo genere una parte del quale �� la cassa di risonanza - è rappresentata da una parte del corpo dello strumentista. 205 Ma si tratta di esempi tra mille e mille - tra i quali non bisognerà certo dimenticare la teatralizzazione musicale dello strumentista nel jazz. Nella musica di consumo poi l'elemento spettacolare può diventare parossistico e sovrastare sul significato musicale. La "musica da vedere" sta poi al centro delle regie musicali-cinematografiche di Adrian Marthaler, nelle quali si mostra anche come si possa talora attraverso immagini realizzare vere e proprie analisi musicali dei brani, e non banali descrizioni esteriori. Oppure dare evidenza alla dimensione psicologica dell'ascolto, realizzare inserti ironici e tante altre cose ancora. C'è spazio dunque per discorsi molto ampi. Tuttavia la ragione per cui richiamo l'attenzione su questi aspetti è ora un poco particolare. Ciò che mi interessa notare è che dove c'è musica, ci sono spesso anche altre cose, altri tipi di eventi. La musica è fra essi. Ma dove esattamente si trova? Di fronte a questa domanda potremmo provare qualche esitazione. Ed è questa esitazione che in fondo dà corpo a quella che ho chiamato le inquietudini della musica, alla sua irrequietezza - entrambe le parole evocano la mancanza di quiete. Forse si potrebbe dire che la musica non conosce ancora bene il luogo della sua quiete, il suo ubi consistam - e questo non come una circostanza provvisoria, come una conoscenza che ora non c'è e prima o poi ci sarà, ma come qualcosa che è ad essa 206 coessenziale. Non sappiamo nemmeno bene quali siano i suoi strumenti, o quali potrebbero essere e se il violoncellista debba proprio soltanto stare al suo posto e non mettersi a danzare con il violoncello o l'arpista mettersi a ridere mentre suona. Certo, voi direte che anche un dipinto può essere qualcosa di molto vario, può essere fatto di colori, ma anche di pezzi di giornale, di tele variamente incollate l'una sull'altra: ma il punto è che fin dall'inizio si delimita uno spazio in cui rinchiuderlo e alla fine lo si appende in parete e se ne sta lì quieto quieto. Questa osservazione è un po' troppo semplice, ma per il momento mi sembra che possa essere sommariamente accettata. Un brano musicale si presenta fin dall'inizio come qualcosa che potrebbe improvvisamente cambiare. Anzitutto perché perché esso stesso è un processo: e come in ogni processo ad un brano musicale appartiene l'attesa, ma anche la sorpresa. E non è detto che le sorprese avvengano tutte dentro il brano come fatto uditiva, qualcosa di sorprendente potrebbe accadere anche al di fuori degli eventi sonori. Si cominciano ora a sentire le note di un flauto, e noi ci accingiamo all'ascolto; ma ecco che entra in scena una danzatrice. Quelle stesse note sembrano assumere un senso che prima non avevano. Potremmo dire che il brano si trova ora in un altro luogo. La musica è un'arte vagabonda, un'arte zingara. Ora se ne sta per conto proprio senza rispondere a nessuno - la musica basta a se stessa come Wittgenstein dice della logica; ora invece se ne va di qui o di là entrando nel paesaggio delle altre arti e girovagando fra esse. Proprio per via di questo girovagare talvolta il suo stare ai margini si ribalta in una sorta di singolare centralità. Dico questo non certo per ridare vita al vecchio discorso sulla gerarchia tra le arti, quanto piuttosto per richiamare l'attenzione sull'importanza che potrebbe rivestire una riflessione filosofica che abbia la musica come proprio oggetto. 2. Qualcuno di voi forse si chiederà: c'è forse veramente bisogno 207 di richiamare l'attenzione su questa importanza? Al giorno d'oggi forse non più - anche se non dobbiamo dimenticare che i conservatori restano istituzioni nettamente separate dall'Università - ed a mio avviso questo è un segnale di quanto poco sia apprezzato l'apporto culturale che la musica è in grado di produrre; e di quanto poco si sia coscienti dell'interazione tra la musica e le altre arti così fortemente attestata anche sul piano storico. Esistono dunque ancora delle remore e dei ritardi significativi; ma in ogni caso una trentina di anni fa le cose stavano assai peggio, per ragioni fortemente radicate nell'orizzonte filosofico-culturale di quei tempi che qui non sto nemmeno ad accennare. Oggi le cose sono cambiate, si sono fatti congressi e convegni di argomento filosofico-musicale, si è ricominciato a studiare i grandi testi di teoria musicale, si sono istituiti insegnamenti specializzati, si sono scritti libri importanti. Credo che la presenza qui tra noi di Silvia Vizzardelli e di Carlo Serra attesti quanto profondo sia stato questo cambiamento. Ma io vorrei confrontare quei tempi con i nostri, allo scopo di fornire alcune tracce per un percorso attraverso i problemi di una filosofia della musica, approfittando di questa occasione per ripensare con voi alcuni momenti del mio personale percorso personale in questo campo. Credo che riordinare un poco le idee serva anzitutto a me, ma spero che possa offrire spunto di discussione e di riflessione critica anche per voi. La mia Filosofia della musica - che io sappia, unico testo in lingua italiana con questo titolo nel secolo XX - è del 1991. Essa iniziava con un paragrafo intitolato: Considerazioni sulla musica del secolo scorso. Intendevo naturalmente alludere al secolo che non era affatto ancora trascorso. Si trattava di una provocazione, naturalmente: come se si dicesse: guardiamo avanti, chiediamoci che cosa potrebbe accadere d'ora in poi; ma anche: possiamo porci questa domanda sul futuro della musica solo se poniamo un qualche punto fermo sul passato, e soprattutto se consideriamo il passato veramente passato. 208 Questa presa di posizione aveva varie implicazioni ma certamente intendeva anche aggredire la posizione di coloro che continuavano a parlare del "nuovo", senza rendersi conto del fatto che ormai il "nuovo" in senso pregnante, il "nuovo" come tema della musica moderna, era già allora, e da tempo, acqua passata. A mio avviso occorreva intanto cominciare a fare i conti sulla storia della musica novecentesca, sulle teorie o anche soltanto sui frammenti di teoria, sulle opinioni e sugli atteggiamenti da cui quella storia è permeata, cercando di scavare al di sotto e al di là degli schemi che erano stati su di essa sovrapposti: basti pensare agli schemi adorniani che tanta importanza hanno avuto nel deformare le vicende musicali del novecento. Ma non solo ad essi: anche al campo di idee e di opinioni formulate nel campo dell"avanguardia" nella seconda metà del secolo. Anche quelle opinioni tendevano a trasformarsi in schematismi ed in dogmatismi che potevano rivelarsi degli ostacoli frapposti al libero sviluppo della creatività musicale. Era dunque necessario un profondo riesame. Nel quadro di questo riesame emerge nitida l'idea che gli elementi teorici enunciati esplicitamente oppure soltanto impliciti nella pratica musicale e di qui direttamente esplicitabili, in parte riguardavano le vicende musicali del novecento, ma in parte mettevano in questione il concetto stesso di musica, lo rendevano problematico come forse non lo era mai stato prima. Era come se l'irrequietezza, nel senso in cui ne abbiamo parlato poco fa come una proprietà della musica in genere, fosse diventata consapevole ed anzi fosse diventata essa stessa oggetto di sperimentazione. Questa circostanza apriva al filosofo la possibilità di una riflessione a tutto campo. Quelle considerazioni sulla musica del secolo scorso finivano con l'avere una portata introduttiva rispetto ad un discorso che poteva immergersi, come è vocazione primaria della filosofia, in una trama tutta - o quasi tutta - "concettuale", lasciando da parte il dettaglio storico e l'elemento narrativo. 209 Quel mio libro si presenta infatti come una sorta di trattato che tenta di essere bene ordinato, chiaramente suddiviso in quattro grandi sezioni, ciascuna dedicato ai temi riferibili alla musica di ogni tempo: materia, tempo, spazio, simbolo. Si tratta di quattro grandi temi filosofici che potrebbero ben figurare in un trattato di metafisica. Chi avesse avuto occasione di leggere questo libro o anche soltanto di prenderlo fra le mani avrà notato che l'esemplificazione musicale concreta è veramente ridotta al minimo e dalle sue pagine non è facile desumere se vi siano preferenze verso questo o quello stile musicale particolare del presente o del passato. Il suo scopo principale è infatti quello di tracciare almeno una trama su cui poter tessere le problematiche musicali più generali. 3. Ora, come in alcuni vecchi film, sullo schermo che sta dietro le mie spalle, appare la scritta "Vent'anni dopo". Dal 1991 al 2008 vi è qualche anno di meno, ma naturalmente l'opera del '91 ha avuto una gestazione precedente abbastanza lunga. Vent'anni dopo, e forse più, e quindi molto recentemente ho redatto un volume intitolato Barlumi per una filosofia della musica. Naturalmente alcuni amici hanno manifestato una certa sorpresa per questo titolo: prima scrivi un libro che, in qualche modo, rammenta un trattato, e poi dei modesti "Barlumi per...": come se ti muovessi ancora al lume di candela, come se tu stessi ancora brancolando nel buio. Che io stia ancora brancolando nel buio, questo è abbastanza vero. Sorgono sempre nuovi problemi e nuovi dubbi sul modo in cui si sono affrontati i vecchi. Questi dubbi e queste perplessità pesano comunque sempre su ogni ricerca filosofica in corso. D'altra parte questo titolo non allude solo ad essi ma anche allo stile di questo testo che è fatto di frammenti, pensieri rapidi, analogie, citazioni di altri autori, talora commentate, talaltra no. E vi sono naturalmente dei motivi che mi hanno spinto a raccogliere in questo modo un materiale tanto dispara- 210 to. Si trattava intanto di ribadire le tematiche della Filosofia della musica, ma anche di arricchirle secondo varie direzioni. Occorreva in particolare dare spazio a discussioni che restavano sottintese con un certo dànno per un'effettiva comprensione. Di fronte a questi compiti, che avrebbero potuto estendersi a vista d'occhio, mi è sembrato giusto lasciare le cose ad uno stato relativamente grezzo, proponendo suggerimenti e spunti, piuttosto che tentare nuovamente un'esposizione organica. Ho pensato che in questo modo avrei potuto dire più cose proprio per via di una forma spesso assai sintetica e talvolta quasi aforistica; ed anche azzardare più facilmente opinioni un poco imprudenti ed a volte impudenti senza darsi la cura e la pena di appoggiarle su solidi e dotti sostegni. Nei confronti del lettore credo che la comprensione risulti più intuitiva ed immediata ed inoltre che egli sia stimolato nel corso della lettura a raccogliere questi spunti, a discuterli, a svilupparli per conto proprio. A questo lavoro accenneremo ancora al termine di questo intervento. Per il momento vorrei solo sottolineare che, nonostante questa scelta di stile, continua piacermi un pensiero fortemente organizzato. In altre parole, ho una certa nostalgia per il "sistema filosofico" - non esito a confessarlo. E lo confesso proprio all'inizio di questa mia ultima opera, insieme a poche altre affermazioni che vorrei riferire perché mi sembra che rendano abbastanza bene lo spirito del mio lavoro nel suo complesso. Sotto il titoletto: Che cosa dovrebbe essere una filosofia della musica? si dà questa prima semplice risposta: "Una filosofia della musica dovrebbe aspirare ad essere anche un'introduzione alla musica" (p.3) Mi piacerebbe richiamare fortemente la vostra attenzione sul senso di questa affermazione. Essa vorrebbe suggerire che una filosofia della musica non dovrebbe essere anzitutto un'opera dotta, dedicata per così dire 211 agli "studiosi del ramo" che alla musica, si immagina, sono già stati introdotti, ma dovrebbe invece servire ad aprire il campo della musica stessa. Le argomentazioni e le discussioni che una filosofia della musica inevitabilmente contiene dovrebbero stimolare ad un interesse direttamente musicale. Fingendo una possibile prefazione ad una filosofia della musica subito dopo si dice: "In una prefazione ad una filosofia della musica si potrebbe scrivere così: "Il compito di questo libro potrà ritenersi raggiunto se tu, o lettore, al suo termine, ti sentirai tentato di entrare nel merito di un'opera musicale. Se vorrai sapere altre cose oltre quelle che sapevi già o che in qualche modo hai potuto apprendere di qui. E se sarai tentato ad ascoltare tipi di musiche che non fanno parte del tuo orizzonte culturale e delle tue abitudini di ascolto, oppure se ti sembrerà di dover riascoltare brani musicali che già ben conosci con nuovi interrogativi". Qui invece l'accento cade sullo stimolo ad un approfondimento a cui una riflessione filosofica sulla musica deve indurre - così come ad un rinnovamento dell'interesse verso la musica che riguardi le nostre conoscenze abituali ma che sappia estendersi anche al di là di esse. Quanto all'aspetto sistematico, ecco un'ultima citazione: "Non è affatto il caso di guardare con sospetto i 'sistemi filosofici' del passato proprio perché essi non erano altro che modi, spesso mirabili, di realizzare quell'esigenza sistematica che fa parte del pensiero stesso. D'altra parte, scoprirai prima o poi che ogni sistema, considerato da vicino si frantuma in una infinità di problemi di dettaglio, e che autori che vengono lodati per la libertà intrinseca che sarebbe concessa da uno stile frammentario, nei mille e mille pensieri che propongono, hanno alcuni pochi pensieri fondamentali che formano i centri intorno a cui gravitano tutti gli altri. - Una filosofia della musica, 212 come io la intendo, è tale quando trae il suo orientamento da presupposti filosofici di ordine generale". In queste affermazioni viene formulato un atteggiamento generale da cui avevo preso le mosse vent'anni fa, ma che condivido ancora oggi. In realtà si tratta di affermazioni piuttosto forti. Lo erano in particolare in un tempo in cui sembrava che, fin negli angoli più riposti, si fosse ormai diffuso e definitivamente affermato lo spirito di uno specialismo disciplinare scevro da intrusioni filosofiche. Finalmente! Ed invece ecco farsi avanti una filosofia della musica che in realtà pretende di avere carattere sistematico, che si rifiuta di utilizzare il plurale liberatorio "le musiche" - rimettendo ogni discorso all'etnologo, allo storico, all'analista esperto di quel determinato linguaggio, di quel determinato stile, mettendo l'accento proprio su una filosofia della musica al singolare, arrivando addirittura ad affermare che essa deve trarre il suo orientamento da presupposti filosofici di ordine generale. Certamente, va subito detto che l'orizzonte fenomenologico nel quale mi muovo, ripensato alla luce di temi che derivano da Wittgenstein, è probabilmente sufficiente a segnalare che la sistematicità che si pretende è soprattutto l'unità di un punto di vista, l'assunzione di un'angolatura che invita a ricercare radici comuni. Alla base dell'esperienza musicale vi è l'esperienza umana in genere, ed in particolare l'esperienza percettiva e l'esperienza immaginativa con tutto il suo carico emotivo. Tutto ciò, come avevano ben visto e teorizzato in forme diverse Kant e Hume, non è privo di regole. L'impostazione che io ho cercato di far valere è fondata proprio sull'idea della regola, e precisamente sull'idea dell'esistenza di regole di base, di regole che riguardano l'esperienza stessa. La pluralità dei giochi linguistici, nella musica, che è naturalmente un indiscutibile dato di fatto, deriva dalla possibilità di un impiego vario e mutevole delle stesse regole - questo è il punto importante che deve essere compreso a fondo. In queste 213 regole di base, fondate nei caratteri interni degli eventi sonori, non vi sono né obblighi né divieti. Ma non vi è nessun percorso obbligato che porta da questi caratteri interni ad un determinato "gioco linguistico" della musica, non vi è nessun obbligo di esaltarli in questa o quella direzione simbolica - ed è sempre il musicista che decide che tipo di impiego fare, nel proprio gioco linguistico, di quelle regole di base che egli trova nella struttura stessa dell'universo sonoro. Ogni musicista potrebbe dire di sé: "Dal gioco con queste regole derivano le regole del mio gioco". 4. Ora la scritta sullo schermo che sta dietro le mie spalle diventa qualcosa di simile a: "In questi venti anni"... In questi venti anni ho cercato di dare sostanza a queste tesi generali, mostrando quali vie si potessero diramare da esse. All'opera del 1991 si può in realtà muovere l'obiezione di essere troppo astratta, di volare troppo alto rispetto alle vicende concrete della musica, tanto alto da perderle alla fine di vista. La musica come fatto storico concreto, come vivamente partecipe delle vicende della storia della cultura, sembrava essersi semplicemente dissolta o non avere alcuna rilevanza. Del resto essa muoveva da una polemica del tutto esplicita contro le considerazioni storicistiche e sociologizzanti dei fatti della musica, a cui conducevano in realtà vie diverse, non solo l'adornismo, ma anche le tendenze a riprendere in campo musicologico categorie e concetti tratti dalla linguistica, dalla semiologia, dall'antropologia. Tuttavia, una volta assolto questo compito critico-polemico, mi è sembrato necessario mostrare come l'impostazione teorizzata a quel livello di astrazione non fosse affatto priva di strumenti capaci di ricondurci con i piedi in terra e di affrontare problematiche culturalmente rilevanti. Inoltre era necessario mostrare che cosa potesse accadere se, con l'orientamento generale proposto, si fosse entrati nel merito di questioni squisitamente tecniche. Per quanto riguarda il primo aspetto, nel suo ambito rica- 214 de certamente il lavoro sulla metafisica della musica di Schopenhauer intitolato Teoria del sogno e dramma musicale (1997) così come quello su Mondrian e la musica (1995). Toccando il problema della musica in Schopenhauer, problema centrale nell'ambito della sua filosofia, ma che riveste una posizione importante all'interno della filosofia della musica in genere, si riesce a fornire nello stesso tempo un esempio straordinario di interazione tra speculazione filosofica e creatività musicale che chiama in causa un musicista che ha le dimensioni di Richard Wagner. Questa relazione ha dei caratteri speciali, raramente messi in rilievo: ho cercato di mostrare infatti come elementi nettamente schopenhaueriani si rivelino prima che Wagner conoscesse e leggesse gli scritti di Schopenhauer. A sua volta il musicista stesso si fa filosofo in uno scritto straordinariamente suggestivo dedicato ad una commemorazione di Beethoven (1870) che Wagner stesso propone esplicitamente come uno scritto di filosofia della musica e nel quale egli approfitta genialmente di uno scritto schopenhaueriano sul sogno che non ha nulla a che fare con la musica. Ecco un bell'episodio di storia della musica e della filosofia della musica che peraltro ha la singolare caratteristica di non poter essere affrontato "carte alla mano" - ovvero attraverso una documentazione fattuale. Detto di passaggio, Schopenhauer non apprezzava affatto la musica di Wagner. Il grande pessimista (o creduto tale, in effetti io nutro qualche dubbio in proposito) - apprezzava invece un musicista che per tanti versi può rappresentare esemplarmente sul piano musicale la gioia di vivere, e cioè Rossini. In Mondrian e la musica si parla di un pittore che può essere assunto come simbolo della modernità e del suo incontro con uno stile musicale che ha radici antiche, ma che è anch'esso fortemente rappresentativo dei tempi nuovi - alludo naturalmente al jazz. Tuttavia forse il dato più rilevante è la relazione tra Mondrian e Edgar Varèse, a sua volta grande messaggero del Novecento musicale. È un dato rilevante perché la pittura di Mondrian della fase matura è un'immagine di perfezione e di 215 ordine - a cui il jazz non sembra troppo adattarsi, ed ancora meno sembra adattarsi la musica "rumoristica" di Varèse. Eppure Mondrian e Varèse hanno idee strettamente comuni su ciò che la musica del novecento dovrebbe essere - ci sono affermazioni atteggiamenti e prese di posizioni che sorprendono per la loro affinità. Anche in questo caso credo sia interessante precisare che non è documentato alcun incontro o scambio di opinioni tra i due artisti. Ciò mostra ancora una volta che non sempre e non necessariamente la trama dei rapporti storici si costruisce su puri e semplici dati di fatto, su influenze documentate di un autore sull'altro. La storia della cultura, e quindi la storia delle idee, hanno particolarità che non sempre vengono tenute nel debito conto. In un caso come questo credo che si debba attirare fortemente l'attenzione sulla potenza dell'orizzonte storico comune, perché è proprio questa potenza che si fa sentire in rapporto a progetti espressivi che si elaborano l'uno indipendentemente dall'altro e in ambiti artistici differenti. 5. Sono venuti poi gli anni della Calabria - dalla fine del 1998 in poi. E qui, sotto questi magnifici cieli e sulle rive del mare ho avuto agio di sviluppare tematiche più direttamente connesse alla teoria della musica ed ai suoi aspetti più specifici, più particolari, prima ho parlato anche di aspetti tecnici. Ho scritto così, fra le altre cose, un testo sulla nozione di intervallo, un'altro sulla tematica del cromatismo, un altro ancora sulle origini della teoria della tonalità. Si tratta in effetti di temi di carattere specialistico, e tuttavia sarebbe falso ritenere che in essi vengano in questione solo problemi particolari che possono interessare lo studioso ed il musicologo - ed assai poco il filosofo della musica, ed ancora meno l'appassionato ascoltatore. In realtà, le cose stanno assai diversamente. Intanto vorrei farvi notare che l'intervallo - cioè quella "distanza" che vi è tra un suono più acuto ed un suono più grave - non non è una no- 216 zione speciale di questo o quello stile musicale. Suono e intervallo, è appena il caso di dirlo, fanno parte dei concetti generali della musica, oppure, come io non esito a dire, dell' "essenza" della musica. Se consideriamo concetto di cromatismo, ci rendiamo conto che spesso viene fatto passare o come un concetto inconsistente o come una sorta di stilema che è proprio di un determinato linguaggio. Niente di più falso. Basti notare che esso ha invece ancora a che fare con il concetto di intervallo, tanto da essere inscindibile da esso. Infatti si parla di cromatismo nella musica, detto in una parola, quando si è in presenza di sequenze di piccoli intervalli. E proprio una considerazione fenomenologicamente orientata deve subito mettere l'accento sul fatto che la differenza tra grande e piccolo intervallo, non è una differenza meramente oggettiva che riguarda la quantità, ma al contrario la qualità sonora, il modo ed il senso in cui la sequenza di suoni raggiunge il nostro udito. Dal punto di vista uditivo una sequenza di piccoli intervalli tende ad assumere la forma di flusso sonoro, tende quindi a presentarsi non più come una successione di note concepite come chiodi piantati nello spazio sonoro, ma come un movimento che ha del movimento la caratteristica fondamentale della continuità. Nella problematica dell'intervallo e del cromatismo si prospetta dunque la grande differenza tra discreto e continuo. In questa opposizione possiamo quasi toccare con mano le forti oscillazioni della musica tra ambiti apparentemente molto lontani tra loro. Da un lato questa differenza ci porta sul terreno delle distinzioni aritmetiche e geometriche; dall'altro essa è decisiva per introdurre nozioni specificamente musicali, pensiamo alla nozione di melodia oppure alla problematica dell'ornamentazione. Inoltre essa è in se stessa ricchissima di valenze simboliche ed immaginative interne. La verità è che ad un primo approccio a questi temi presuntivamente tecnici si apre un panorama inattesamente vasto che investe tutti i livelli e la ricchezza di relazioni di cui la musica è portatrice. 217 Per la nostra tradizione musicale, la discussione sull'intervallo comincia naturalmente nella filosofia greca: comincia con il primo pitagorismo e permane in tutta la tradizione pitagorica fino al pitagorismo platonizzante più tardo. Ma non è solo questo versante che viene toccato: il maggior teorico greco della musica è Aristosseno, e con questo nome entrano nella teoria musicale i grandi insegnamenti di Aristotele. Vengono così messi in questione gli orientamenti fondamentali della filosofia greca. Non meno importanti sono gli intrecci con la speculazione aritmetica e geometrica: la teoria musicale greca dell'intervallo di origine pitagorica, essenzialmente fondata sull'idea del rapporto numerico, fu stimolo e fondamento della teoria delle proporzioni. A partire di qui l'argomento deborda da ogni lato: non vi è solo l'intervallo intellettualizzato nel rapporto numerico, ma l'intervallo concretamente percepito che in nessun caso viene colto come un rapporto tra due numeri, ma piuttosto come una distanza tra due punti, forse anche come un vuoto tra essi; oppure come un segmento che li collega o li separa. L'intervallo concretamente percepito è poi - come del resto la percezione in genere - ricco di immaginazione. L'astratta differenza tra discreto e continuo, tra numero naturale e numero reale, riportata alla concretezza del piano uditivo, scivola sul piano inclinato dell'immaginazione. Vi prego ora di tendere l'orecchio: non udite forse risuonare di lontano un suono simile a quello di un oboe? Forse il suono dell'aulós dei greci era più simile all'oboe che al flauto. Ora lo udiamo distintamente e siamo attratti dalla sua morbidezza, dalla sua fluidità acquorea, dalla sua sensuale mollezza, dal trapassare delle note l'una nell'altra in modo continuo. La percezione fantasizza in quel suono e attraverso questa fantasia raggiunge il mito: ora udiamo anche i suoni netti e decisi, che spaccano il capello in quattro, della cetra: sotto quell'albero laggiù, si svolge la gara tra Marsia ed Apollo. Questa gara, che 218 la tradizione spesso presenta come una gara tra grecità e barbarie, tra cultura ctonia e cultura solare, è invece una gara tutta interna al senso della grecità, è la rappresentazione plastica e musicale di un conflitto che sta dentro di essa. Al frigio Marsia si contrappone Apollo - certo, divinità solare portatore non solo della luce sulla terra, ma anche della luce della ragione. Ma forse qualcuno di voi rammenterà che Apollo era protettore di Troia, e Troia si trova in Frigia, nella patria di Marsia. E che la pizia delfica formulava i suoi vaticini assisa su un manto di serpente. Ecco che la cultura greca in alcuni suoi contorni e conflitti essenziali balza in primo piano proprio a partire da considerazioni musicali, addirittura a partire da questione tecniche sull'intervallo - anzi potremmo dire ancora di più: a partire da queste considerazioni vediamo da una nuova e inattesa angolatura la cultura greca nel suo insieme. Mentre Apollo scende dall'Olimpo, procedendo agilmente, a grandi passi", "avvolto da una luce fulgente" "e la sua cetra sotto il plettro d'oro, dà un suono meraviglioso" gli dei dell'Olimpo, come sempre assisi in un sontuoso e divino convito, balzano in piedi prorompendo in un grande canto, e "le Grazie dalle belle trecce, e le Ore serene, e Armonia, ed Ebe, e la figlia di Zeus Afrodite, danzano tenendosi l'una all'altra per mano; e fra loro canta..., stupenda nella figura, Artemide arciera.." Negli Inni omerici (a cura di F. Cássola, III. Inno ad Apollo, Milano, 1994, p. 125), da cui ho tratto queste citazioni vi è anche un inno a Pan - divinità "dal piede caprino, bicorne, amante del clamore": una figura di Marsia, dunque - il quale "talora, al tramonto, solitario tornando dalla caccia, suona modulando con la siringa una musica serena; non riuscirebbe a superarlo nella melodia l'uccello che tra il fogliame della primavera ricca di fiori effonde il suo lamento, e intona un canto dolce come il miele. Con lui allora le ninfe montane dalla limpida voce girando con rapido batter di piedi presso la sorgente dalle acque cupe cantano, e l'eco geme intorno alla vetta del monte" (i- 219 vi, XIX, p. 367). Forse i nostri insegnanti di greco di un tempo, del resto spesso assai volenterosi, ci hanno tolto qualcosa quando ci hanno tenuto nascosto che, come dicono ancora gli inni omerici, "Cantano gli dei beati e il vasto Olimpo". 6. All'inizio di questo mio intervento si era parlato della musica del secolo scorso e vorrei riparlarne ancora con riferimento ad alcune cose dette nel mio ultimo lavoro terminato nel 2007. Nei Barlumi per una filosofia della musica si può leggere: "La musica del novecento nel suo insieme è una festosa esplosione delle possibilità della musica, è una straordinaria festa del suono" (p. 224). Le immagini talora parlano più di molti discorsi e possono essere simili ai lampi, dopo i quali torna immediatamente il buio, ma che almeno per un istante hanno illuminato il paesaggio, e lo hanno illuminato tutto intero. A me sembra che parlare di "festa del suono", di "festosa esplosione delle possibilità della musica" sia un modo appropriato per cogliere lo spirito della musica del novecento nel suo insieme, senza distinzione di stili, di scuole, di scelte espressive. Proprio soltanto nel secolo da poco trascorso le tensioni espressive seguendo mille vie anche molto differenti si sono orientate ad una esplorazione del mondo sonoro nella sua totalità e nella sua globalità. Non si è trattato solo di mettere in questione il linguaggio della tonalità; anzi, si può dire che questa messa in questione possa essere considerata come una delle tante vie all'interno di un movimento di riappropriazione musicale che riguarda l'intero universo sonoro. Diventano oggetto di interesse musicale i rumori della città e della campagna, il canto degli uccelli, lo scrosciare della pioggia o lo scorrere dei ruscelli. Gli strumenti della nostra antica tradizione a loro volta vengono consi- 220 derati secondo una nuova luce, si esplorano nuove possibilità di emissione del suono, nuove tecniche per il loro impiego. Cresce inoltre l'interesse per gli strumenti di altre tradizioni culturali e per gli strumenti della musica popolare sotto ogni cielo. Strumenti che avevano una portata marginale - pensate alle percussioni nell'orchestra classica - assumono una nuova importanza. A questa festa straordinaria non partecipano soltanto natura e cultura; in primo piano vi è anche la scienza e la tecnica. L'acustica fa passi giganteschi e li fa insieme al progredire degli apparati di elaborazione e di produzione elettronica - eccoci dunque a quelle meraviglie che sono i sintetizzatori. Nello stesso tempo si perfezionano sempre più gli strumenti informatici per il dominio di questi apparati; ed anzi lo strumento informatico tende a sostituire, per ciò che concerne la sintesi del suono, i sintetizzatori hardware di una volta. Infine si ha uno straordinario perfezionamento delle tecniche di registrazione e di campionamento del suono, che possono naturalmente essere applicate anche alla voce ed agli strumenti tradizionali con risultati fino a poco tempo fa letteralmente impensabili. Si tratta di un processo che ha investito sia la musica da concerto che la musica da consumo. Ed anzi per molti versi la musica da consumo ha anticipato la musica da concerto - ad esempio, nell'elettronica applicata agli strumenti. Penso agli organi hammond, alla chitarra elettrica, ai sintetizzatori a tastiera. È come se ad una tavola poveramente imbandita, anche se assai bene ordinata, comparissero all'improvviso delle nuove e ricche portate - e la festa che cominciava a languire, si ravvivasse e riprendesse con una vivacità straordinaria. Una festa del suono - abbiamo detto. Una festosa esplosione delle possibilità della musica. Sarebbe tuttavia un errore, ed un errore che a mio parere si continua a commettere, il ritenere che questa festosità sia spensierata. Dobbiamo invece subito aggiungere che essa è tormentata e controversa. Vorrei quasi dire che quella inquietudine della musica di 221 cui abbiamo parlato a suo tempo viene manifestata in modi diversi in tutto il corso del Novecento dai suoi tre attori principali: l'ascoltatore, l'interprete, il compositore. L'ascoltatore ai tempi del novecento storico protestava vivacemente. Oggi l'ascoltatore non protesta più, qualunque cosa gli si faccia sentire; e tuttavia il dubbio, resta - un dubbio che è diventato taciturno. Il pubblico si tiene per sé il proprio dissenso; oppure si trova nella situazione imbarazzante di non sapere esattamente se consente o se dissente. Anche l'interprete è talora disorientato. Ciò è dovuto per lo più al fatto a cui alludevo in precedenza: gli strumenti di antica tradizione sono trattati secondo pratiche del tutto inconsuete, spesso estranee, sto per dire, alla loro natura. Anzi lo dico senz'altro. Ogni strumento, per il modo in cui è fatto, per la sua forma, per il modo in cui emette il suono, ha una sua psicologia, un suo carattere. Beninteso questa psicologia ora può piegare in una direzione ora nell'altra e quindi proporre "caratteri" anche molto differenti. Ma fino a che punto queste possibilità possono essere ampliate e quest'arco di diverse "psicologie" può essere esteso? Fino a che punto può resistere l'idea stessa del "suonare uno strumento" di fronte a quella del puro e semplice "produrre suoni attraverso uno strumento"? I due concetti non sono affatto equivalenti. E forse anche si dovrebbe riflettere su quanto si indebolisca il concetto di interpretazione quando vengono richieste (beninteso, del tutto legittimamente da parte del compositore) pratiche che sono contrarie alla sua natura. L'estetica musicale ha spesso trattato il problema dell'interpretazione. Non so invece se esista una discussione che riguardi la possibile caduta del concetto di interpretazione in quello della semplice abilità nel produrre suoni. Questo problema non si pone per la musica del passato, si pone invece nettamente per una parte della musica novecentesca. Un rapporto controverso vi è anche nei confronti del passato musicale. Il mutamento di atteggiamento nei confronti del 222 suono, l'enfasi posta sul timbro, l'ostracismo nei confronti dell'elemento melodico che sembra talvolta essere la logica conseguenza di questa enfasi vuole indubbiamente promuovere un rinnovamento radicale, una sorta di ritorno alle origini pre-musicali, alla gioventù della musica, dove un linguaggio musicale forse non c'è ancora, ma il mondo sonoro è già là. Questo ritorno alle origini è, a mio avviso, un motivo assai importante e significativo - rappresenta la tabula rasa che anche la riflessione filosofica sulla musica deve fare. E tuttavia tanto più questo tema si fa sentire, tanto più si avverte il peso del passato: lo si avverte sia nei momenti più aspri della sua denuncia e del suo rifiuto, sia quando il musicista sente, al contrario, la necessità di legittimare le sue "audacie sonore" pretendendo legami con elementi della tradizione antica, che si rivelano in realtà spesso assai fragili ed a volte puramente pretestuosi. "Nella musica novecentesca vi è un richiamo alla gioventù della musica, ma esso avviene certamente nella piena consapevolezza di una tradizione plurimillenaria, cosicché la sua conflittualità interna è leggibile anche come una conflittualità che oscilla tra i poli della gioventù e della vecchiaia. Nel tema del nuovo, così ribadito, si risente il mito della fontana della giovinezza, ma intorno ad essa si aggirano, come è giusto che sia, soltanto dei vecchi decrepiti" (ivi). In realtà oggi vi è la tendenza a dimenticare il fatto che elementi di conflitto sono seminati lungo tutta la storia della musica del secolo scorso, che in essa vi è invece la consapevolezza di una problematicità profonda. Erano i tempi, e parlo di una cinquantina di anni fa, in cui si parlava anche di "musica sperimentale" e questo senso dell'esperimento, della prova era particolarmente vivo, soprattutto nell'ambito della musica elettronica, nonostante la povertà dei mezzi di allora e la difficoltà di manovrarli. Povertà di mezzi ed entusiasmo nella sperimentazione. Rammento ancora che in una trasmissione radiofonica per mostrare quali meraviglie si potessero ottenere dalle nuove tecnologie una persona particolarmente autorevole in questo 223 campo proponeva all'ascolto un capriccio di Paganini eseguito a rovescio - cioè dalla fine all'inizio - servendosi dei famosi "beep". Ma quel che mi preme sottolineare di più ora è che la piena consapevolezza che ciò che si andava facendo fosse un "esperimento" poneva il dubbio non solo dalla parte dell'ascoltatore o dell'interprete ma anche da quella del compositore. Si sapeva di sperimentare l'irrequietezza della musica divenuta consapevole. Ai nostri giorni mi sembra che si stia attraversando un periodo di incertezza, di esitazione. Talvolta sembra farsi avanti un atteggiamento nei confronti della musica della seconda metà del secolo scorso che tende a considerare queste prove come modelli, se non addirittura come capolavori inauditi. All'Experimentum è subentrato il Monumentum, e si gioca a confondere tra l'importanza storica e il valore musicale. Questo atteggiamento a me sembra implicare una deformazione che riguarda la musica del passato recente, ma anche un orientamento intellettuale che può diventare di ostacolo alla creatività musicale. Analogamente è singolare lo spostamento di accento che è avvenuto in rapporto alle nuove possibilità aperte dai progressi della produzione tecnica del suono. Nell'indagare in questa direzione mi sono reso conto, debbo dire, con una certa meraviglia, che anche da parte di musicisti che alla fine fanno ampio uso del calcolatore, vi sia comunque una sorta di ritegno e di sospettoso timore nell'affidarsi "troppo" ad esso. Gli antichi entusiasmi si sono spenti, e questo è singolare perché solo ai nostri giorni le scoperte di una cinquantina di anni fa possono dare veramente i loro frutti. La mia impressione è che vi sia tra i musicisti chi dichiara già finita un'èra che è appena cominciata. Io sono invece in grado di entusiasmarmi di fronte a semplici esempi dimostrativi di ciò che sanno fare gli strumenti "virtuali" assai più di quanto mi entusiasmasse molti anni fa sentire i beep di un capriccio di Paganini suonato al contrario. Ritengo che le possibilità aperte dall'impiego a fondo di questi nuovi mezzi, secondo le loro peculiarità e specificità, sia- 224 no uno straordinario incentivo all'immaginazione musicale. E così mi sembra assai positivo che proprio ai giorni nostri stia ritornando il dubbio: esso fa parte degli insegnamenti più importanti della pratica musicale novecentesca. Ciò significa in particolare la caduta dei dogmatismi nei quali la vecchia avanguardia era finita anch'essa con il ricadere - oggi è diffusa la consapevolezza che ciascuno debba e possa fare la musica che vuole senza alcuna remora. Di conseguenza prima o poi l'ascoltatore riprenderà appieno i propri diritti di primario compartecipe delle vicende della musica. Certamente, tutti sappiamo che l'ascolto non è solo vincolato all'abitudine, come per lo più si lamentava in passato, ma che esso può essere manipolato, che i mezzi di comunicazione di massa sono in grado di frastornare la capacità di giudizio - rischio ancora maggiore! Ma questo rischio deve essere corso. Ed io sono convinto che, alla fine, la cultura autentica vinca sempre. 2 3 Giovanni Piana Opere complete vol. tredicesimo Introduzione alla filosofia 2013 4 ISBN 978-1-291-57326-8 Copyright Giovanni Piana (2013) Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT Fotografia di copertina e disegno nella copertina interna di G. P. Pubblico qui, in versione resa leggibile, alcune note redatte in preparazione ad un corso tenuto nell'inverno 1983-84 all'Uni­ versità di Milano che si proponeva di realizzare una "intro­ duzione alla filosofia". 5 Giovanni Piana Introduzione alla filosofia 1983 6 7 INDICE Parte I, p. 9 I. Gli edifici delle scienze e la filosofia II. Generalità della filosofia III. La filosofia e la confusione IV. Filosofia e modo di pensare V. Le ragioni della filosofia VI. Che cosa è un problema filosofico VII. Che cosa sono le questioni ultime VIII. Metafisica e Grandi Eventi Parte II, p. 40 I. Logica e metafisica nella "Monadologia" di Leibniz II. Il principio di non contraddizione e di ragione sufficiente III. L'idea della possibilità IV. Impiego fisico e metafisico del principio di ragione sufficiente V. La nozione di monade VI. Il principio degli indiscernibili VII. Anime e corpi VIII. Piccole percezioni IX. Prospettivismo X. Armonia Parte III, p. 70 I. Heidegger: domanda metafisica e conoscenza scientifica II. Il nulla come tema del pensiero metafisico III. Il nesso tra metafisica e totalità IV. Rimando agli stati affettivi V. L'angoscia VI. L'esistenza umana come trascendenza VII. Perche' qualcosa piuttosto che nulla? VIII. Enfatizzazione della domanda IX. Problema metafisico e problema religioso X. L'essere delle cose ed il loro senso XI. Metafisica e decadenza XII. Come Heidegger concepisce la filosofia 8 9 I. Gli edifici delle scienze e la filosofia 1. Introdurre alla filosofia non dovrebbe essere molto diverso, né molto più facile né molto più difficile, che introdurre ad una disciplina scientifica qualsiasi - la matematica o la fisica, la psico­ logia o la sociologia. In ogni caso è questo il modello a cui subito si pensa. Una disciplina scientifica ci sta di fronte come un gran­ de edificio che noi ora vediamo solo dall'esterno, dalla strada. Si tratta di un edificio - lo sospettiamo già dalla sua mole - che certamente deve avere un numero enorme di stanze e di stanzi­ ne, di corridoi, di scale e scalinate che portano in ogni dove; un numero enorme di soffitte e di cantine. Per qualche motivo in questo edificio desideriamo entrare. Anche soltanto per dare un occhiata al suo interno. Per avere un'immagine sommaria di esso. 2. Mediante un'introduzione ci attendiamo di essere condotti dentro il grande atrio; e che ci vengano mostrate almeno alcune scale con qualche indicazione approssimativa dei luoghi a cui conducono. Ci auguriamo anche che ci venga proposta una sche­ matica piantina nella quale siano indicate le sale più notevoli e i modi di arrivarci. In ogni caso, la guida che ci accompagna farà bene, prima ancora di farci varcare l'uscio, ad invitarci a rimira­ re la facciata, che lascia intravvedere le suddivisioni interne; ed anche a condurci in giro intorno al grande edificio per mostrarci in che modo esso è delimitato e il luogo che occupa all'interno della città. 3. L'edificio e la città. Queste immagini potrebbero accompa­ gnar­ci per un certo tratto ed aiutarci a proporre i nostri pensieri. 4. Un edificio è un'organizzazione ed un'articolazione dello spa­ zio che viene più o meno ordinatamente suddiviso. Devi tut­ tavia pensare, in questo caso, ad un edificio la cui costruzione presumibilmente non avrà mai fine, ad un edificio in divenire, 10 nel quale intervengono sempre nuovi progetti che lo ampliano abbattendo o modificando le parti più antiche. Così una disci­pli­ na scientifica presenta una articolazione e organizzazione inter­ na delle conoscenze, che sono distribuite secondo connessioni di vario tipo ed il fatto che intervengano progetti teorici sempre nuovi ha come conseguenza una mobilità nella disposizione del­ le conoscenze e dei loro contesti, benché in questo sviluppo si mantenga pur sempre un ordine interno. Devi notare anche che in questa continua riedificazione, in questa progettazione che sempre si rinnova e che riprospetta il quadro delle conoscenze in un costante aggiornamento, le cianfrusaglie del passato vengono portate nelle soffitte e cantine dove potranno essere dimenticate - senza rimetterci troppo, forse. Il passato è consumato, porta­ to via. Le conoscenze acquisite sono a disposizione finché non saranno modificate e corrette, e non importa nulla, o ben poco, quando siano state acquisite e quale sia la vicenda che ha portato alla loro acquisizione. La scienza è sempre scienza del giorno. Be­ ninteso: le vicende narrate dalla storia della scienza non sono aneddoti: esse mostrano i difficili percorsi di una conoscenza in cammino. Solo che quando si manifesta un interesse per esse, possiamo sospettare la presenza di impulsi filosofici. In una pro­ spettiva storica si infrange la rigidità dei concetti manualizzati ed è come se in essi si ricominciasse a pensare. 5. Il rapporto della filosofia con il tempo è molto più intricato. Essa è sempre invischiata con il presente e con il passato: trac­ cia i propri cammini trascorrendo dall'uno all'altro, disordina­ta­ mente. E li percorre sognando il futuro. Talvolta sembra giocare con la dimensione temporale. La storia di un problema è per essa della massima importanza. E tuttavia può a buon diritto proporre un problema come se esso fosse senza storia. Accade anche che si faccia carico delle urgenze del presente, intervenen­ do in esso aggressivamente. Ma talora sembra di esse del tutta dimentica, come perduta in un dormiveglia senza tempo. 11 II. Generalità della filosofia 1. Un'introduzione alla filosofia dovrebbe cominciare con una definizione di essa? La definizione potrebbe essere più d'una. Anzi, si potrebbe andare a caccia delle definizioni che potrem­ mo eventualmente trovare negli scritti dei filosofi. Ma è chiaro che, all'inizio, da principianti qual siamo, non potremmo com­ prenderle e valutarle nel loro senso effettivo, e d'altra parte esse traggono questo loro senso dall'integrazione in orientamenti di pensiero profondamente differenti. Forse sarebbe come andare in giro a chiedere alla gente l'indirizzo di un palazzo la cui esi­ stenza è fin dall'inizio molto dubbia. Potremmo allora ricevere le risposte più varie. Qualcuno ci manderà dalla parte dei palazzi delle scienze. Altri invece suggeriranno di ricercare in prossimità della zona dei templi; altri ancora in prossimità dei giardini delle arti. Oppure verremo rinviati tra le rovine dimenticate della città antica. Può persino darsi che in questo girovagare ci imbattiamo in un edificio con una grande scritta sulla facciata - Filosofia - con stanze, scale e uffici, e tanto di funzionari affaccendati nel suo interno. In tal caso suggerirei la massima prudenza. Po­ trebbe trattarsi di un grosso imbroglio. O quanto meno: non vi è nessuna garanzia di essere arrivati al posto giusto, tutto resta ancora sfuggente, la filosofia forse qui una volta c'era, forse c'è ancora, chissà - forse è presente di passaggio, qui e là, e bisogna essere molto lesti per coglierla al volo. 2. Una definizione della filosofia non deve essere nemmeno cercata. Dobbiamo invece prendere posizione. Le definizioni dei filosofi sulla filosofia sono anzitutto prese di posizione; ed anche chi ha la pretesa di introdurre alla filosofia deve fare altrettanto. Deve esporre la propria presa di posizione intorno a ciò che egli ritiene siano gli scopi e i limiti della riflessione filosofica. Quindi non vi è un'area tematica riconosciuta e chiaramente delimitata e circoscritta che potremmo indicare come area di competenza di 12 questa "disciplina". 3. Tutta la tradizione del pensiero filosofico è permeata dall'idea della generalità della filosofia. Molti reagiscono con fastidio a que­ sta vecchia idea, che è diventata per lo più un bersaglio polemico. Dunque al filosofo si può consentire di parlare di tutto? È forse un esperto in tuttologia? Oppure egli si trova così in alto da po­ ter vedere - e giudicare - ogni cosa da un punto di vista superio­ re? Molti filosofi a loro volta ambirebbero passare per specialisti e farebbero l'impossibile per sembrare tali. 4. Io penso invece che questa idea della generalità della filoso­ fia debba essere apertamente rivendicata. Per riprenderla sensa­ tamente occorre tuttavia tagliare il nodo con la pretesa che at­ traverso la filosofia si possano ottenere conoscenze "vere e pro­ prie", dello stesso tipo di ogni altra disciplina scientifica, e tanto meno conoscenze di ordine superiore. Il filosofo deve rivendi­ care la propria libertà di spaziare nella riflessione in lungo e in largo: la generalità della filosofia fa tutt'uno con questa libertà. Ma ciò non significa che ai suoi discorsi corrisponda un appor­ to conoscitivo effettivo. Essi potranno poi essere persino senza metodo oppure potranno forgiarsi un metodo proprio, del tutto par­ ticolare, o ancora avvalersi di una pluralità di metodi. Anche nella scienza si fa valere una pluralità di metodi, ma la questione del metodo si pone comunque in modo differente per il solo fatto che l'obiettivo della ricerca scientifica è in ogni caso delimitato a sufficienza dal titolo "conoscenza". 5. Un problema filosofico ed un problema scientifico si pos­ sono certamente trovare l'uno nell'altro. Storia della scienza e storia della filosofia fanno parte di un'unica storia del pensiero. E tuttavia in una considerazione di principio occore mantenere una distinzione piuttosto netta. In ogni disciplina scientifica si tende ad uno scopo conoscitivo, e non in una vaga generalità, 13 ma all'interno di un campo ben determinato e circoscritto. Que­ sto campo non ha bisogno di essere concepito come un campo chiuso: può ben trattarsi di un campo che si estende sempre più, che entra in forme di relazioni particolarmente complesse con altri campi, in una continua mobilità dei confini. Si tratta tuttavia di una mobilità che può sempre essere fissata nella sua più re­ cente configurazione. Detto in modo ancora più semplice: se ci accingiamo ad entrare nell'edificio di una scienza sappiamo già fin dall'inizio in che senso ci dobbiamo considerare principianti, sap­piamo che dovremo apprendere l'impiego di svariate tecni­ che, acquisire cognizioni ed informazioni, imparare a conoscere le teorie più aggiornate che sono state proposte per fornire spie­ gazioni ed operare connessioni all'interno di quel campo. Tutto ci deve essere insegnato, e noi siamo lì per apprendere. Invece la filosofia non ha da insegnarci nulla. III. La filosofia e la confusione 1. Qual è dunque la tua presa di posizione intorno alla filoso­ fia? Con delimitazioni puramente negative si comincia certo a intravedere qualcosa, ma in modo indeterminato e largamente equivoco. Il loro senso effettivo può essere frainteso. Comincia­ mo dunque ad abbozzare una risposta avviando una riflessione su una duplice opposizione molto elementare, che è tuttavia in grado di mostrarci una via. 2. Noto si oppone ad ignoto, chiaro si oppone a oscuro. Nell'uso comune di questi termini può accadere che i loro significati si sovrappongano. Tavolta si dice: "Io sono all'oscuro di questo", e ciò significa "la tal circostanza mi è ignota". Quando diciamo: "Questo mi è noto", "Questo lo so" può essere che vogliamo dire la stessa cosa che "Sono perfettamente in chiaro su questo punto". Ma vi sono anche contesti in cui queste coppie di ter­ mini stanno distintamente l'una di fronte all'altra. La soluzione 14 di un problema o la procedura per risolverlo non mi è nota, ma i suoi termini potrebbero essere per me perfettamente chiari. Potrebbe tuttavia accadere che i termini del problema siano con­ fusi e che si richieda una loro chiarificazione preliminare per la ricerca di un metodo per la sua soluzione. 3. Parlando di qualcosa di oscuro si intende un oggetto in pe­ nombra che si intravede appena, i cui contorni appena afferrati subito si perdono. La possibilità di uno scambio tra oscuro e ignoto è data dalla possibilità di considerare l'oscuro come se fosse semplicemente il buio. Il buio è mancanza completa - e così "non so" indica la mancanza di un'informazione. Per mar­ care la differenza potremmo pensare alla condizione del non sapere qualcosa ed a quella del confondersi intorno a qualcosa. Nel primo caso è come se andassimo alla ricerca di un oggetto in una stanza e non lo trovassimo affatto. Vi è una situazione più chiara e distinta di questa? La cosa ricercata non c'è. Nel secon­ do è come se, entrando in una stanza ricercando un oggetto, la trovassimo immersa nella penombra ed in un disordine tale da rendere difficile la sua identificazione. Noi lo cerchiamo con gli occhi, ma le cose che ci stanno di fronte ci appaiono sfuggenti, l'una rifluisce ambiguamente nell'altra ed in questa situazione ci sentiamo profondamente implicati. La confusione può comin­ ciare dalle cose, ma poi ci investe, ci avvolge, ci trascina. Come quando, entrando in una stanza tutta sottosopra, ci sentiamo a disagio come se noi stessi fossimo sottosopra. 4. Io credo che la filosofia abbia a che fare anzitutto con la con­ fusione. E mi approprierei, facendola tutta mia, di una frase di Wittgenstein che perentoriamente dice: "Un problema filoso­ fico ha la forma: non mi ci raccapezzo". (Ein philosophisches Problem hat die Form: "Ich kenne mich nicht aus" - Ricerche Filosofiche, oss. 123). 15 5. In questa frase mi sembra di poter cogliere anche un versante che riguarda una profonda inquietudine soggettiva, come se essa descrivesse uno smarrimento che può investire la nostra stessa esistenza. All'improvviso ci troviamo per strada e ci rendiamo conto di non riuscire più a ritrovare la via di casa, di essere incerti sulla direzione verso cui proseguire il cammino - la città in cui abbiamo sempre abitato ci appare ora come una "selva oscura". 6. Supponiamo ora che ci si pari dinanzi il grande edificio della Filosofia. Di fronte alla porta, il Guardiano della Filosofia ci interroga e chiede: - Perché mai desideri entrare qui? - Il fatto è che, giunto a questo punto della mia esistenza, non riesco più a raccapezzarmi. - Allora sta bene. Puoi entrare. Conclude il Guardiano. (L'edificio subito scompare) 7. La scomparsa dell'edificio serve soprattutto da ammonimen­ to. Non pensare che vi sia una dottrina che ti ammaestri intor­ no alla via, che la filosofia sia illuminante e che là dentro ci sia la luce. O che vi possa essere un segreto che ti verrà rivelato. Voglio solo sottolineare ciò che a me sembra giusto esigere dalla filosofia, e che nello stesso tempo corrisponde, io credo, alla sua vocazione più profonda. IV. Filosofia e modo di pensare 1. Questa è intanto una nostra prima presa di posizione. Sullo sfondo di quell'inquietudine, di quella possibilità di perdita e di smarrimento di cui abbiamo parlato or ora, la filosofia vorrebbe mostrarti una strada. 2. Prima dello smarrimento c'era peraltro un solido "modo di 16 pensare". Questa espressione ci può certamente interessare in queste considerazioni iniziali sulla filosofia. Ad essa vorremmo dare la massima pregnanza possibile. 3. La nostra esistenza è fatta di esperienze del genere più vario, di stili di comportamento, di azioni e di decisioni. E dietro ogni nostra mossa - di questa unica personale partita a scacchi di cui non possiamo per principio conoscere la tecnica - vi è un "modo di pensare". L'interesse di questa espressione sta nel fatto che quando la si impiega non si allude affatto a qualche pensiero determinato. Meno ancora ad un pensiero che si pensa sul momento, a qualcosa che sia il risultato di una riflessione. 4. "Io non la penso così!". Ciò può semplicemente significare: "Su questo punto non sono della tua opinione". Ma il senso potreb­be essere più ampio e fondamentalmente differente. Forse vogliamo dire: una simile opinione è esclusa dal mio modo di pensare. 5. È come se il mio cervello avesse una certa inclinazione, qui e là qualche avvallamento, piuttosto che una piccola gobba. Io sono fatto così. Il modo di pensare non è dunque un piccolo sistema di idee secondo il quale la mia testa è organizzata, un complesso di opinioni dal quale viene di volta in volta estratta una opportuna norma del giudizio. Il mio modo di pensare c'è, così come ci sono io stesso. Da dove venga non me lo sono mai chiesto, nè mi sono mai chiesto di quali pensieri esso consti. 6. Un modo di pensare lo possiamo cogliere non solo da un giu­ dizio o da un'opinione esplicitamente formulata, ma anche da un modo di agire, da un modo di parlare, da un comportamento. Il modo di pensare trova mille strade per manifestarsi, ed un unico modo di pensare si può manifestare non solo in occasione delle grandi decisioni, ma in tutte le minuzie della vita corrente. 17 7. Ma donde viene il mio modo di pensare? Il modo di pensare viene inculcato. Devi sapere che, mentre credi sia esattamente il tuo, strettamente collegato con la tua personalità al punto da fare corpo con essa, esso proviene invece dall'esterno - e da dove altrimenti se non dal costume, dall'educazione ricevuta, dalla tradizione, dalla religione? Attraverso vari mezzi viene inculcato un orientamento. Le motivazioni, la precisione dei pensieri, la loro validità o non validità - tutto ciò ha ben poca importanza rispetto al fatto che, con le buone o con le cattive, ti verrà inse­ gnato a camminare. Vi è una necessità in tutto questo. Si deve superare lo smarrimento originario del venire al mondo - devi imparare a reggerti sulle tue gambe, e poi nell'età adulta devi de­ cidere dove andare. A questo ti aiuta per qualche tratto la cultura della tua gente. Un modo di pensare si ricollega ad una cultura, ed in questa c'è etica, morale, religione, storia, sapere, tradizione. 8. Come filosofi principianti abbiamo deciso di abbandonare la casa in cui siamo nati, ed anche il quartiere in cui essa si trova, con le sue vie, e le sue abitudini ben note; ed ora vaghiamo nella grande città, nella quale corriamo il rischio di smarrirci. Nessuno può diventare principiante della filosofia se non si allontana dalla sua gente, per intraprendere il cammino nel vasto mondo. 9. La filosofia ha a che fare con il modo di pensare. Nella crisi del modo di pensare, mostra delle possibili vie di uscita. Ma pro­ prio per questo propone poi, a sua volta, dei modi di pensare. Si dice anche, talora, che la filosofia propone una "concezione del mondo" - la parola tedesca spesso utilizzata è Weltanschauung: letteralmente "visione del mondo". Forse anche si potrebbe tradurre meno letteralmente con "ideologia" - se questo ter­ mine non fosse fortemente reso equivoco dalla molteplicità dei suoi impieghi. In ogni caso, modo di pensare, modo di vedere, concezione o visione del mondo, ideologia sono termini che si richiamano l'un l'altro. 18 10. Filosofia è anzitutto critica delle ideologie inculcate. Nasce di qui. Dall'esigenza di un modo di pensare autonomo. Dalla critica del preconcetto - di ciò che è stato concepito prima di te e senza che fosse sentita la tua opinione. Ed alla fine ti proporrà un modo di pensare - una ideologia, se vuoi usare questa parola nel senso di un patrimonio di idee che è necessario per uno stare al mondo provvisto di senso. 11. Se con ideologia intendi una dottrina già fatta, da mandare a memoria, allora essa appartiene per principio al passato. In essa nulla può essere nuovamente ricreato o ripensato. Tutto è già stato pensato. Tutto è garantito dalle quattro parole della dottrina. Nulla può essere rimesso in questione. Filosofia e ideologia stanno qui l'una contro l'altra. 12. Ma come patrimonio e movimento di idee che risulta da un'attività filosofica in corso, la filosofia si pone in relazione - attraverso questo versante - con la vita stessa, con l'esistenza individuale e dunque, da subito, con l'esistenza sociale - e con la sua determinatezza che si esprime in precise coordinate storico-temporali. Considerare le filosofie del passato dal punto di vista "ideologico" significa aver di mira l'obbiettivo di una comprensione che sia anche in grado di cogliere, oltre il contenuto teoretico, anche quei punti che rivelano una curvatura ideologica. Attraverso di essi è il rapporto con l'epoca che viene in primo piano. V. Le ragioni della filosofia 1. La nostra discussione deve in ogni caso essere un poco più affinata. Sembra infatti che volendo difendere un aspetto dell'attività filosofica che è rivolto, in negativo ed in positivo, al modo di pensare, e negando ad essa una portata conoscitiva autentica, si finisca con il privare questa attività di qualunque dignità teore- 19 tica vera e propria. Si potrebbe pensare che la filosofia avrebbe come unico compito quello di costruire visioni del mondo, per il fatto che queste assumono una funzione indispensabile di orien­ tamento degli uomini - e che l'attività filosofica nel suo insieme, anche laddove presenta elaborazioni di particolare complessità, si dissolverebbe nell'assolvimento di una simile funzione. Le ela­ borazioni filosofiche come "teorie" sarebbero pure apparenze mentre potrebbero valere al più come maschere di concrete istanze storiche. - Ma non è questo che intendo dire. 2. Spostiamo dunque leggermente l'angolatura da cui cogliere il nostro problema. Se, a partire dalle considerazioni precedenti, prendessimo in esame questo o quel progetto filosofico partico­ lare, la nostra attenzione sarà attirata anzitutto dalla forma mentis che in esso si esprime. Forma mentis è un'altra bella espressione particolarmente adatta al nostro contesto. Ogni filosofo impor­ tante ha dato forma ad un modo di pensare. Se puntiamo l'attenzio­ ne in questa direzione allora non baderemo tanto agli ultimi det­ tagli, quanto piuttosto all'orientamento che risulta dall'insieme. Anzi, per raggiungere questo scopo, i dettagli potrebbero essere addirittura fuorvianti. In presenza di un'elabora­zione particolar­ mente complessa, potrebbe essere necessario operare una sem­ plificazione che sappia porci di fronte con nettezza le direzioni che essa indica. Queste direzioni non si annunciano dappertutto all'interno di un progetto filosofico, ma diventano evidenti in alcuni luoghi che assumono un carattere cruciale per la loro ca­ pacità di rivelarle. Sarà dunque necessario ricercare questi luoghi. Notiamo in margine che la stessa efficacia di una filosofia, cioè la sua capacità di esercitare la propria influenza in ambiti relati­ vamente ampi, è legata alla forma mentis che risulta dall'insieme, piuttosto che derivare da una conoscenza di dettaglio dell'opera di un autore. Nel complesso disegno di un'elaborazione filosofi­ ca si coglie essenzialmente la sagoma, ed è a questa sagoma che dobbiamo prestare atten­zione se vogliamo cogliere in che modo 20 avvenga l'integra­zione di un'elabo­razione filosofica con la cultu­ ra e quindi con le forme di esistenza di un'epoca. 3. Che vi sia una complessità, una ricchezza di articolazione possibile è dunque sottinteso: un progetto filosofico non ha solo una sagoma. La silhouette esteriore è riempita da un disegno che può essere fatto da una fittissima trama di linee. In rapporto a ciò può trovare persino un buon utilizzo l'immagine dell'edi­ficio che in precedenza ci sembrava ben poco applicabile in rapporto alla filosofia. La sagoma è ora la facciata, ciò che appare del suo contenuto dal di fuori. Ma se riducessimo l'intera elaborazione filosofica alla proposta di un modo di pensare, allora questo con­ tenuto sarebbe relativamente poco importante - e se così fosse diventerebbe dubbia la stessa funzione orientativa della filosofia. Superare il disorientamento non significa semplicemente deci­ dersi in un modo qualunque per una direzione qualunque. 4. Ora ci troviamo all'interno di un labirinto. Si svolta a destra oppure a sinistra. Per quale motivo? La domanda stessa non è lecita. Decido per questa strada, per non stare fermo nel punto in cui mi trovo. Tuttavia potrei tentare - girando di qui e di là - di farmi una idea della struttura del labirinto in modo poi da imboccare una strada, non certo sapendo se essa è quella giusta, ma almeno a ragion veduta. 5. Nella filosofia, la direzione intrapresa deve avere le sue ragioni. Intravediamo la possibilità di un cammino come una possibilità che ha un buon fondamento. 6. Non appena si parla di validità, di fondamento o di ragioni si pensa subito all'opposizione tra vero e falso, o al più ad una no­ zione di probabilità che comunque può essere in via di principio esattamente soppesata. Si tratta di un modello che rimanda all'e­ lementarità delle constatazioni: "Qui di fronte a me c'è un foglio 21 bianco". Delle due l'una: o questo foglio c'è o non c'è. O è bianco o non è bianco. Ma questo modello non può valere per le "ragioni" della scienza e meno che mai per quelle della filosofia. 7. È importante che qui si parli di "ragioni". Se pensiamo anche soltanto ad un'espressione come "aver ragione" così come si usa correntemente, ci si rende conto subito di un divario rispetto all'opposizione vero/falso. 8. "Qui di fronte a me c'è un foglio bianco" - io dico. Ed un altro commenta: "Hai ragione!". Ciò suona strano. Avrebbe do­ vuto dire: "Questo è vero". Oppure, è falso. "Aver ragione" non significa dire una cosa vera. Non si tratta di determinare l'esi­ stenza di un oggetto, ma piuttosto di esprimere opinioni che hanno un buon fondamento. La ragione è il buon fondamento di un'opinione. 9. Così correggiamo e perfezioniamo le nostre affermazioni ini­ ziali. Un legame tra filosofia e le attività propriamente conosci­ tive vi è certamente. Quel che si negava allora era che la filoso­ fia possa insegnare qualcosa che debba essere semplicemente appreso. Ma ciò non significa che ogni posizione si trovi sullo stesso piano di ogni altra. La filosofia aspira a fornire un orienta­ mento ai nostri pensieri ed a dare ad esso un buon fondamento: perciò deve essere possibile esibire sostegni, mettere alla prova la loro fragilità o robustezza, si debbono poter effettuare confronti, mostrare un'intera costellazione di ragioni. 10. La filosofia non può affatto fare a meno della forza delle argomentazioni. Essa consta di argomentazioni: in un senso ampio che riporta all'addurre ragioni. 11. Il lavoro del filosofo sarebbe del tutto inutile se le ragioni non avessero differenze di peso, se non vi fosse un possibile pro­ 22 gresso dei modi di pensare, se l'uno fosse equivalente all'al­tro. Perciò si dibatte e si discute. La contestazione scettica di queste differenze fa ancora parte del gioco - nella stessa misura in cui interviene nel dibattito e lo anima vivacemente. Chi invece pre­ tendesse realmente di guardare le cose dall'alto vedendo sotto di sé solo un formicolare di ragioni indifferenti, tra le quali nessuna scelta è possibile, si eleva a tal punto al di sopra del dibattito da volar via. Esce definitivamente di scena e non è nemmeno il caso di tentare di richiamarlo al suo interno. 12. La convinzione della buona fondatezza delle proprie posi­ zioni è cosa interamente diversa da un atteggiamento dogmatico. Il vero dogmatismo si manifesta infatti quando a questa convin­ zione si associa un elemento di potere. L'affermazione di una posizione si può così trasformare in una imposizione - ed allora la discussione non serve a nulla, ma occorre apprestare armi ade­ guate per una difesa. VI. Che cosa è un problema filosofico 1. Che il filosofo argomenti è necessario ribadirlo, in particolare di fronte al nesso che abbiamo precedentemente stabilito tra fi­ losofia e Weltanschauung. Si può infatti interpretare questo nesso in modo da condurre ad una svalutazoine della portata teoretica della filosofia. A questo proposito è interessante far notare che tra le varie traduzioni possibili di quel termine vi è anche "intu­ izione del mondo" - questa è anzi la traduzione più letterale di tutte. Questa parola - intuizione - ha moltissime valenze di sen­ so. In questo contesto tuttavia ci interessa vincolarla soprattut­ to ad espressioni come "intuito", "agire per intuito", "egli ebbe l'intuizione di...". Esse alludono ad un lampo improvviso, che giunge ad afferrare qualcosa che forse resterebbe inattingibile al ragionamento, o a cui il ragionamento riuscirebbe ad avvicinarsi a stento, in modo incomparabilmente più lento. L'intuizione, in­ 23 tesa in questo senso, è vicina al sentimento, e una concezione del mondo come intuizione potrebbe avere il senso di un modo di sentire il mondo, di un sentimento della vita. È stato così sostenuto che tutte le elaborazioni teoretiche e speculative sarebbero dei puri e semplici travestimenti rispetto a questo nucleo affettivo. 2. Nonostante tutte le differenze, un'analoga sottovalutazione delle componenti teoretiche della filosofia è implicata anche quando si sostiene che la concezione del mondo è strettamente determinata dagli interessi presenti nel conflitto storico. Il filo­ sofo partecipa ad essi, nel senso che egli non può che prende­ re implicitamente o esplicitamente partito, cosicché la Weltanschauung che egli propone ad un tempo promuove e manifesta la propria parte. Ciò naturalmente può essere perfettamente giusto che accada. Non per questo l'interpretazione può ridursi a pura dietrologia, come se ogni idea espressa sia una maschera dietro la quale si debba cercare il vero volto. 3. L'uno e l'altro motivo - il sentimento della vita, la manifesta­ zione celata di un conflitto o di una condizione storica - fanno parte del nostro problema. La filosofia è anche tutto questo. C'è filosofia dove c'è un sentimento della vita e le filosofie talvolta mascherano i conflitti, talvolta li manifestano. 4. Nel dare rilievo all'incidenza della filosofia sui modi di pen­ sare, e dunque ad un campo di azione delineato dai grandi temi dell'esistenza e della cultura - ed all'interno di questa, certamen­ te, della politica - abbiamo aperto la via ad un punto di vista storicizzante. Ma sottolineando che un orientamento cercato at­ traverso le vie della filosofia deve essere ben fondato, ci si dirige anche in altra direzione. La filosofia consta di argomentazioni. Ad un'argomentazione se ne può contrapporre un'altra. Così sorge un dibattito vivente a cui anche tu sei invitato a parteci­ pare. Finalmente ora non vi sono più maestri! Nessuno ha da insegnarci 24 nulla! E sei proprio tu (e chi altri?) che alla fine devi decidere che cosa possa essere ritenuto valido e ben fondato, dopo aver con­ siderato a fondo l'intero ventaglio di ragioni. 5. Ciò rappresenta tuttavia una difesa ancora troppo debole della portata teoretica della riflessione filosofica. Si potrebbe infatti pensare alla filosofia non come se essa fosse un edificio vero e proprio, ma solo come una facciata ben disegnata, ed ancor più: come un grande manifesto che ha dietro di sé una impalcatura che lo sostiene validamente: ma che è pur sempre solo una im­ palcatura. Tutto quello che c'era da dire è detto solo sul manife­ sto. Ogni elemento dell'impalcatura ha una sua precisa funzione di sostegno: se tolgo questo o quel pezzo, la facciata comincia a traballare. Ma ciò non basta ancora. 6. Nel considerare le grandi elaborazioni filosofiche del passato con le quali manteniamo un dialogo vivente non ci imbattiamo senz'altro e da subito nelle linee di una concezione del mondo. Quando ciò accade è possibile che si tratti di elaborazioni piutto­ sto povere. Potremmo dire: qui vi è, al massimo, una concezione del mondo. Può anche accadere, inversamente, che il momento ideologico sia molto debole o che condivida luoghi comuni - e ciononostante l'edificio filosofico ci sia, e sia piuttosto robusto. La facciata è priva di originalità e di caratteristiche eminenti - una facciata d'epoca - mentre l'interno presenta interessanti ca­ ratteristiche. 7. È tempo dunque di volgersi verso questo interno. Abbiamo detto in precedenza che è importante, per certi scopi, afferrare la sagoma di un pensiero complesso, e per questo dobbiamo operare una semplificazione. Ma che cosa viene semplificato? Si tratta degli intricati meandri di cui è fatta una filosofia - essi potrebbero avere interesse in se stessi, cioè indipendentemente da un profilo sommario ed esteriore. 25 8. Non vi è dubbio che se vogliamo veramente difendere la con­ sistenza teoretica della filosofia dobbiamo spingerci sino al pun­ to di riconoscere uno spazio per la riflessione filosofica che non è e non deve necessariamente essere connesso con il versante della filosofia intesa come concezione del mondo. 9. Sembra un insignificante truismo affermare che questo spa­ zio è occupato dai problemi filosofici. Non saremmo tenuti allora a fornirne un elenco oppure a dire che cosa sia un problema filosofico? Questo compito ingrato ci è risparmiato da quella bella frase: Il problema filosofico ha la forma: "non mi ci raccapezzo". All'inizio la abbiamo interpretata in rapporto ad una condizione di smarrimento - nell'esistenza, nella cultura, nella politica. Ma essa può essere intesa anche come indicazione di un luogo particolare della confusione: qui, esattamente in questo luogo, vi è bisogno di un chiarimento. Tutto il resto viene posto da parte: le nostre personali inquietudini, il nostro rapporto con l'esistente, i nostri orientamenti e disorientamenti. In primo piano vi ora quel luo­ go, e l'istanza di sottrarlo alla confusa penombra. La filosofia si aggira nei luoghi della confusione e la chiarezza è il suo scopo. 10. Ancora una volta abbiamo a che fare con l'opposizione tra chiaro e oscuro. Dunque non è il contenuto che opera una de­ limitazione di campo - ne abbiamo parlato a proposito della generalità della filosofia, della difficoltà di configurare la filosofia come una disciplina. Un problema filosofico si chiama così in virtù della sua "forma". Perciò il campo resta indeterminato. Da questo punto di vista l'intersecarsi della via della filosofia con la via della scienza diventa ancora più profondo. Non vi è attività conoscitiva che non si imbatta di continuo in difficoltà che di­ pendono da confusioni di ordine concettuale il cui chiarimento è una condizione per il loro superamento. Filosofia e scienza possono così compiere ampi tratti dello stesso cammino. 26 11. Qualcuno ci potrebbe chiedere: in che modo ritieni che questo obbiettivo possa essere perseguito? Come farai ad apportare chiarezza e solidità? Ci pensi sopra? In effetti, in primo luogo ci penso sopra. Non si è parlato e non si parla della filosofia come esercizio della riflessione e di niente altro? Non si dice di un filosofo che è un pensatore? La filosofia è povera di mezzi. Non ha né microscopi né telescopi. D'altra parte non possiamo sperare di venire a capo di un problema filosofico con l'ausilio di qualche speciale apparato, di qualche speciale congegno. Dobbiamo certo andare alla ricerca di tutte le informazioni possibili, ma come materiali per approfondire la riflessione, non come mezzi per una soluzione. 12. Una volta sentii dire da un Maestro (con enfasi e con una certa violenza): "Credete forse che il filosofare consista nell'in­ tin­gersi la penna nel cervello?". Tacitamente risposi: si! - Prima di tutto devi fare questo. E poi saprai in quale direzione potrai cercare aiuto, e di quali congegni ed apparati potresti aver bisogno. Del resto è vero che i chiarimenti non possono proporsi nel vuoto. Anche il chiarire ha bisogno di un contesto da cui trae il suo senso. Il compito di chiarificazione non è un compito che si apre e si chiude da se se stesso e su se stesso, ma vi è bisogno di criteri, di strutture teoriche da cui trarre metodi e sostegni. Un chiarimento può venire solo dentro l'organicità di un pensiero. Il filosofo elabora teorie come impalcature della chiarificazione. VII. Che cosa sono le questioni ultime 1. Nel considerare il versante propriamente teoretico della filosofia dobbiamo parlare non solo dei luoghi della confusione, ma anche della regione delle questioni fondamentali, delle questioni di principio. Potremmo parlare anche di questioni ultime. E in forma di enigma: di questioni che vengono per prime, e proprio per questo possono essere dette questioni ultime. 27 2. Ma che significato possono avere mai questi vecchi termini? A tutta prima essi ci appaiono soprattutto enfatici, e sembrano alludere ad aree avvolte da fitti misteri. 3. Ecco dunque il filosofo: egli si fa avanti nel proscenio addi­ tando gravemente e vagamente, con gesto sacerdotale, la regio­ ne dei fondamenti. La filosofia indaga sui fondamenti di tutte le cose. Ma sul fondo della scena vi è una sorta di controfigu­ ra - anch'essa rappresentativa di un possibile atteggiamento nei confronti della filosofia - che mimando comicamente la prima dissolve questa enfasi in un gesto di soppressione ironica. 4. Né l'uno né l'altro personaggio, preso da solo, merita di atti­ rare la nostra attenzione, mentre l'uno e l'altro insieme - il fatto che sia possibile l'enfasi come l'ironia - questa circostanza può probabilmente insegnarci qualcosa intorno alla natura dei pro­ blemi della filosofia. 5. Io penso che sia del tutto giusto dire che il campo di azione della filosofia si attiva quanto più ci si avvicina alla regione dei fondamenti. Ma non appena entriamo in questa regione dobbia­ mo prendere atto del fatto che queste questioni fondamentali non sono affatto questioni che debbano essere urgentemente risolte. Non sono questioni che si trovano in un luogo obbligato di un cammino, un passaggio preciso in qualche suo punto, e nemmeno hanno il carattere di una mèta. Ciò che le caratterizza è il fatto che non hanno bisogno di essere decise affinché qual­ cosa abbia luogo. (Per questo all'enfasi può subentrare l'ironia). 6. Una diversa formulazione potrebbe essere: tali questioni non debbono essere necessariamente decise affinché qualcosa venga concretamente praticata. 7. Noi pratichiamo molte cose. Ad esempio, pratichiamo l'arit­ 28 metica. Essa ci è stata insegnata a scuola e ad essa ricorriamo quando ne abbiamo bisogno. Ma a scuola non ci siamo in realtà occupati delle questioni di principio che stanno al suo fonda­ mento, non ci siamo interrogati sulla natura del numero, sulle forme di validità delle espressioni aritmetiche, sulla natura dell'a­ ritmetica come disciplina scientifica. E non abbiamo nessuna ur­ genza di occuparci di questioni siffatte. 8. Noi pratichiamo la musica: come ascoltatori o come esecutori. Nell'uno e nell'altro caso abbiamo in questo le nostre soddisfa­ zioni. Ma non abbiamo nessuna urgenza di applicarci in rifles­ sioni sulla natura di quest'arte, sulle ragioni profonde dell'effet­to che essa fa su di noi, sui concetti costitutivi della sua teoria, e di tutto ciò potremmo non sentire nemmeno il bisogno. 9. Noi pratichiamo il tempo. Ciò significa che abbiamo di conti­ nuo a che fare con esso, non solo consultiamo i nostri orologi, ma il tempo è presente ovunque all'interno della nostra esperienza, vi sono attese, ricordi, aspettazioni che mostrano fino a che punto le nostre pratiche comuni siano invischiate nella temporalità. E lo spazio lo percorriamo in lungo e in largo, lo modifichiamo secon­ do i nostri bisogni, lo sperimentiamo nei modi più vari. 10. Vi sono anche modi diversi di queste pratiche. Il matematico praticherà l'aritmetica in modo diverso dal non matematico, e non tanto per questioni di competenza e di abilità, ma soprattut­ to per il modo diverso di atteggiarsi verso di essa. Così l'architet­ to in rapporto allo spazio. 11. Ora, nel corso di queste pratiche, non deve necessariamen­ te accadere che si pongano domande sulla natura del numero, del tempo, dello spazio, del colore.. - sui concetti dunque che stanno alla loro base. Può anche essere che questi concetti sia­ no lasciati nella loro apparente chiarezza. Ad essa del resto può 29 richiamarsi la dissoluzione ironica della fondamentalità delle questioni della filosofia: questa dissoluzione potrebbe sostenere che non ci sono affatto questioni fondamentali di cui la filosofia dovrebbe occuparsi. Nulla ha bisogno di essere discusso perché tutto è chiaro. L'intervento del filosofo è un'inutile intrusione nel disbrigo delle pratiche in corso. 12. Una delle circostanze singolari che si sperimentano intro­ ducendo ai problemi filosofici, è che spesso si deve comincia­ re proprio con un esercizio che mira a confondere l'argomento piuttosto che a chiarirlo, per il fatto che esso ha appunto l'appa­ renza della massima chiarezza. È come se la confusione dovesse essere creata ad arte, per poter poi intervenire su di essa. 13. Prima della frase socratica "So di non sapere", vi è la forma tipica del suo modo di interrogare. Socrate si aggira per le strade di Atene, come vagabondo e nullafacente, dove incontra praticanti di ogni genere di cose. Egli li interroga ostinatamente sulle questioni di principio che sono attinenti a ciò con cui essi hanno quotidianamente a che fare. A forza di argomenti e controargo­ menti li induce infine a dire: "Ora non riesco più a raccapezzarmi". 14. Così Socrate incontra Eutifrone, sacerdote e indovino, che si reca a denunciare per omicidio il proprio padre. Ed allora Socra­ te lo accerchia con le sue domande: tu certamente sai quale sia la distinzione tra azione empia ed azione santa. Certamente lo so - risponde Eutifrone, e come può non saperlo lui che è sacerdote e indovino? Ma nel giro delle domande e delle risposte, proprio alla fine del dialogo Socrate può riproporre immutata la propria domanda iniziale. Ed Eutifrone, anziché azzardare un'ennesima risposta ritorna alle sue pratiche: "Ora ho fretta di andare in un luogo, ed è ora che io vada" (15d). Vi prego di notare: egli ha fretta. Mentre il saluto dei filosofi è, come dice benissimo Wittgen­ stein, "Datti tempo!" (Pensieri diversi, 1949: "I filosofi dovrebbero 30 salutarsi dicendo: "Datti tempo! "). 15. L'interrogazione socratica che sembra, scetticamente, mirare solo alla confusione, rappresenta invece un tentativo di mostrare il problema che passerebbe inavvertito, mirando alla fissazione dei suoi termini e, possibilmente, ad un approdo su un terreno stabile e sicuro. 16. Socrate, il padre dei filosofi, aveva un padre che faceva lo scultore. E gli scultori in Grecia avevano un padre mitico che si chiamava Dedalo. Di Dedalo si racconta che egli avesse infuso una tale vitalità alle sue statue di pietra che queste non se ne stavano mai ferme e si dovette legarle per evitare che fuggissero via. - E così - dice Socrate a Eutifrone - "le cose che tu dici assomigliano alle figure di quel mio antico progenitore che fu Dedalo; e se codeste definizioni le dicessi e ponessi io forse avresti ragione di burlarti di me..." (Eutifrone,11b). E così io faccio, replica Eutifrone: sei tu e non io ad assomigliare a Dedalo: non appena mi sembra di poter contare su una precisa definizione, tu fai in modo che essa ci sfugga nuovamente via. Risponde infine Socrate: "A patto che i miei ragionamenti rimanessero fermi e fossero ben piantati senza più muoversi, sarei disposto a rinunziare non solo alla bravura di Dedalo, ma anche alle ricchezze di Tantalo" (11d). VIII. Metafisica e Grandi Eventi 1. In un'introduzione alla filosofia, e soprattutto là dove si par­la del­le questioni ultime di cui essa si occupa, puoi forse passare sotto silenzio l'idea di metafisica? Certamente no! Si avvertirebbe in tal caso un'enorme lacuna. Solo che non sono certo di essere adatto ad assolvere questo compito in modo adeguato. Non vi sono portato. Inclino infatti ad occuparmi delle oscurità che si può sperare possano essere chiarite, piuttosto che di quelle che si 31 presentano sin dall'inizio come insolubili enigmi. 2. Tuttavia potrei tentare, correndo molti rischi, di abbozzare una traccia che mostri in che modo si pervenga alla posizio­ ne del problema, cercando così di delinearlo secondo uno stile semplice e piano, come si richiede ad un discorso destinato ai principianti nella filosofia. Tuttavia per comprendere l'idea di metafisica, o meglio, le possibili idee che si possono riunire sotto questo nome, occorre soprattutto andare ai grandi testi: cosic­ ché la mia esposizione si completerà con due esempi importanti, con riferimento a due scritti molto brevi di cui cercheremo di illustrare sommariamente il contenuto. 3. A me sembra che se ci poniamo il problema dell'emergere degli interrogativi che portano ad un pensiero metafisicamen­te orientato, si possano individuare due percorsi, due strade appa­ rentemente diverse, che hanno tuttavia un significativo punto di congiunzione. 4. Il primo percorso prende le mosse dalla nozione di interesse conoscitivo. Non è affatto necessario, in rapporto ad essa, che si pensi subito a quell'organiz­zazione complessa di interessi co­ noscitivi e di metodi per la loro realizzazione che è la scienza stessa. È sufficiente rilevare le peculiarità dell'interesse conosci­ tivo rispetto agli interesssi nei quali siamo assorbiti nella vita di ogni giorno. Se consideriamo le cose che ci stanno intorno o gli accadimenti tra i quali si muovono le nostre azioni, dobbia­ mo anzitutto mettere in rilievo che non si tratta soltanto di cose, e nemmeno gli accadimenti sono accadimenti puri e semplici. Essi sono invece intessuti in una complicata rete di intenzioni dirette e indirette, di interessi espliciti o impliciti, che provengono dal nostro essere coinvolti nella situazione. 5. Le cose che ci stanno intorno. Gli eventi che accadono intorno 32 a noi. Forse dovremmo dare a questa espressione "intor­no" un senso molto ricco: non un senso soltanto locale o temporale, ma come un'espressione nella quale si addensa una vera folla di rimandi soggettivi. Noi siamo il centro di questo "intorno" - da esso si irraggiano tensioni che a questo centro poi fanno ritorno come riflessi da una superficie lucida, anzi: come se emanassero da essa. Vi è invece un interesse conoscitivo quando, nella misu­ ra del possibile, tutte queste tensioni passano in secondo piano, e nessun altro interesse è realmente attivo. Un "intorno" non esi­ ste più: non c'è più nemmeno un centro soggettivo. C'è soltanto qualcosa che accade ed anche il soggetto che si interroga su ciò che accade è - deve essere - dimentico di sé. 6. Quando l'interesse conoscitivo non è dominante, l'accadere è sempre un accadere per me. Non certo nel senso che accade a mio favore o per mia colpa: per me nel senso per cui io posso dire che in quell'accadere io sono coimplicato. Quando invece l'interesse conoscitivo diventa dominante, l'accadere tende a diventare un puro e semplice accadere. 7. Il puro e semplice accadere inteso come correlato di un inte­ resse conoscitivo vogliamo chiamarlo evento. 8. Nel senso di queste considerazioni vi è l'idea che un inte­ resse conoscitivo non solo si pone di fronte ad un evento e lo interroga, ma costituisce l'evento in quanto evento. L'interro­gazione assume poi la forma di una ricerca di connessioni. L'evento sarà anzitutto considerato nella sua singolarità, nei momenti di cui esso è composto. Possiamo descrivere ciò che accade così come descriviamo una cosa e le sue parti; in rapporto ad essa facciamo delle constatazioni. Ma poi l'interesse conoscitivo procede oltre: non si accontenta della constatazione. E comincia a chiedere: perché questo? Comincia a chiedere spiegazioni intorno all'accadere dell'evento. 33 9. Un evento è tanto più inesplicabile quanto più rimane privo di relazioni con altri eventi. Vi è una connessione tra lo spiegare e il porre in relazione. Spiegare lo possiamo intendere in senso più o meno forte. In senso particolarmente forte, il "perché" che chiede una spiegazione esige che si indichi una causa. Ma si può anche intenderlo in un senso più debole come richiesta di situare l'evento all'interno di una rete di relazioni, in un'accezione lata del termine. ���Non trovo la spiegazione di questo fatto" significa allora: non so stabilire alcuna relazione tra questo fatto ed altri, non so stabilire un contesto che riporti il fatto accaduto dentro la comprensibilità di una relazione. Un interesse conoscitivo co­ mincia con constatazioni ed accertamenti per spingersi poi verso le spiegazioni. Si tratta allora di connettere, collegare, concatena­ re. Alla lontana si intravvede il grande obbiettivo di fare del caso singolo l'esempio di una legge. 10. Ora, su questo terreno di astratta generalità, dobbiamo esse­ re disposti a fare un passo che ci porta al nostro obbiettivo. Nul­ la, beninteso, ci obbliga a questo passo. Si tratta di accettare che abbia senso la finzione di un interesse conoscitivo interamente soddisfatto, quindi di una conoscenza totalmente compiuta - una sorta di punto terminale dello sviluppo degli interessi conosciti­ vi. Il mondo stesso è ora una totalità interamente dispiegata delle connessioni degli eventi che lo costituiscono. A questo punto si pone con tutta la sua forza, con tutta la sua paradossalità, ciò che vogliamo chiamare "problema metafisico". 11. Abbiamo raggiunto la situazione nella quale tutte le domande hanno ricevuto una risposta. Il senso di questa finzione sta nel mostrare che dopo di ciò è forse possibile, o addirittura neces­ saria, una domanda ulteriore. Forse è possibile ancora riproporre, proprio nel momento in cui l'interesse conoscitivo sembra aver raggiunto la propria mèta, l'inter­rogativo: "Perché questo?" - Questo, che cosa? Ma il mondo: naturalmente. La totalità stessa. 34 12. In realtà ci troviamo di fronte ad un sorta di ingorgo intel­ lettuale da cui potremmo probabilmente sottrarci in un colpo solo. Ma ci diamo tempo, non abbiamo fretta, indugiamo un poco nel luogo della confusione, perché proprio nei luoghi della confusione ama indugiare la filosofia. L'ingorgo sta in questo: non sembra che vi siano difficoltà al pensare astrat­tamente ad un inizio assoluto del processo conoscitivo. Questo inizio consiste in quella prima volta in cui di fronte ad un fatto qualunque av­ viene quell'obbiet­tivazione che fa di esso un evento e che condu­ ce alla domanda "Perché questo?". Quando tuttavia il pensiero relazionante si è messo in moto, esso non incontra alcun punto in cui è costretto ad arrestarsi. Una risposta propone nuove do­ mande, ed ogni domanda sorge da risposte anteriori. L'ingorgo sorge dal postulare da un lato la possibilità di una conclusione assoluta del processo, dall'altro la possibilità di una domanda in più. Abbiamo la sensazione che vi sia qui qualcosa di simile ad un paradosso - e che comunque questo passo comporti una rottu­ ra piuttosto che una continuità. In realtà dovremmo richiamare l'atten­zione su questo punto: la domanda ulteriore, la domanda in più non avviene dentro il processo delle domande, non appar­ tiene alla loro concatenazione. Questa domanda che vogliamo chiamare "metafisica" viene dopo l'ultima domanda. Per il filo­ sofo orientato in senso metafisico non vi è alcun dubbio che vi sia, dopo l'ultima domanda, una domanda ulteriore. Questa è in certo senso la sua presa di posizione fondamentale. Il fatto poi che la domanda ulteriore rappresenti una rottura piuttosto che una continuità rispetto alla catena delle domande, consente al filosofo metafisicamente orientato di far notare che la finzione di un interesse conoscitivo interamente soddisfatto è appunto solo una finzione, al più utile a scopi illustrativi e introduttivi. Il punto essenziale non sta infatti nel negare che nella scienza si dia un progresso infinito, ma piuttosto nell'asserzione che qualun­ que siano i progressi compiuti in esso, non vi sia una risposta a quella domanda per il semplice fatto che, lungo questo percorso, 35 la domanda stessa non può affatto essere incontrata. 13. Perché questo? Ma questo, ora, non è affatto un evento. Tutti gli eventi avvengono nel tempo e nello spazio del mondo. E che cosa è allora? Io vorrei darvi una risposta, vorrei dire: ciò su cui si interroga la domanda metafisica è l'evento in grande: io lo chiamerei il Grande Evento - il Grande Evento del Mondo. 14. Non voglio dire che esistano dei piccoli eventi e dei grandi, come se "grande" significasse qualcosa di simile a "molto im­ portante". Intendo invece alludere ad un radicale mutamento di piani. Esso avviene con una continuità apparente, quasi si pro­ seguisse con naturalezza un filo conduttore che ci dovrebbe ne­ cessariamente portare a questo punto. Cominciamo con il porre le nostre domande conoscitive sugli eventi e le portiamo ide­ almente al loro completo sviluppo. Sembra poi che ci si debba coerentemente proporre il problema del "perché" della totalità. Seguendo questa via, il problema metafisico verrebbe proposto come un'integrazione necessaria del processo del conoscere, sembra cioè che esso tragga la sua legittimità dalle stesse istanze conoscitive. Nella tradizione filosofica talvolta questa relazione è assunta come ovvia: si tratta di procedere oltre la scienza, ma nello stesso tempo non in una sorta di gratuito distacco da essa, ma in una coerente prosecuzione degli interessi conoscitivi che stanno alla sua base. 15. Ma accade anche che venga accentuata la rottura. La parola "metafisica" che si è caricata di sensi tanto profondi, a quanto sembra, ha una origine piuttosto banale. Essa è dovuta all'ordi­ namento materiale delle opere aristoteliche, nel quale si chiama in questo modo l'opera che segue ( metà = dopo) quella intito­ lata "Fisica". Tuttavia questo "dopo" ha finito con l'assumere un senso concettuale, indicando un trovarsi "oltre" per quanto riguarda la scala dei problemi. Dunque - metafisica: ciò che sta 36 al di là della fisica, assumendo quest'ultimo termine come rap­ presentativo della scienza del mondo. Oltre la scienza del mondo - e quindi oltre la scienza tout court. Per accedere ad essa occorrono altri mezzi. Ed anche questi mezzi debbono comunque configu­ rare un sapere, qualunque sia il modo di caratterizzarlo. 16. Vi è in ogni caso un tema che permane lungo tutto questo percorso. Si tratta del tema del distacco della soggettività che deve liberarsi dalla propria coimplicazione con gli oggetti che debbono essere conosciuti - come ci siamo precedentemente espressi, la soggettività deve in qualche modo diventare dimen­ tica di sé come soggettività particolare e determinata. Tanto più questo tema si ripresenta, ed anzi si appesantisce in rapporto al Grande Evento del Mondo. La soggettività viene schiacciata dal Grande Evento proprio perché essa è costretta, per coglierlo, ad uscire dal proprio centro e diventare un'a­stra­zione evanescente. Il modo in cui prende forma il problema metafisico, secondo questa prima via, è coerente con il venire meno dell'"intorno" dell'io e dell'io stesso a partire dal quale si costituisce la nozione di evento. 17. Ma proprio a questo punto possiamo accennare ad una pos­ sibile seconda via, ad un diverso modo di approccio al proble­ ma metafisico. Ora dobbiamo infatti riconsiderare più da vicino proprio la centralità dell'io, il fatto che gli eventi del mondo si dànno anzitutto come eventi per me, con connotazioni sogget­ tive particolarmente intense. In realtà, l'io non può uscire dal proprio centro, per il fatto che la centralità non è un attributo che gli si aggiunge: l'essere-io coincide con il suo essere-cen­ tro del proprio intorno. Certo io potrei immaginare di guardare alla totalità del mondo dislocandomi fuori di esso, come se fossi salito molto in alto, al di là del mondo e sopra di esso… la mia vita mi apparirebbe allora, con tutte le mie personali vicende, un frammento trascurabile di cui è ben difficile trovare la mini­ 37 ma traccia nell'insieme degli eventi del mondo. Ma è certo che questo modo di concepire la mia vita, che esige dislocazione e decentramento, non appartiene certo all'esperienza vissuta che noi abbiamo di noi stessi. La seconda via di accesso al problema metafisico chiama in causa proprio la dimensione del vissuto: io stesso, non il mondo come totalità visto dall'alto e dal di fuori, ma il mondo visto dal di dentro, come orizzonte delle mie azioni, come circonferenza di un cerchio di cui occupo il centro. 18. Questa esperienza della centralità tuttavia non è sempre in primo piano. Quando esco all'aperto a passeggiare so benissimo che sono io che passeggio nel mondo, e non il mondo che mi passeggia intorno. Eppure mentre sono per istrada potrei dire a me stesso: ora il mondo mi ruota intorno. Potrebbe trattarsi di una sorta di esercizio filosofico per fare emergere quell'esperien­ za della centralità, per sperimentare l'i­dea che il mondo è sempre una "prospettiva di mondo" di cui io sono "punto di vista". Po­ tremmo allora forse avere la sensazione che quella frase, nono­ stante la sua stravaganza, in qualche modo abbia una sua tenuta. 19. La tematica della centralità dell'io potrebbe essere sviluppata in direzioni diverse. Essa non conduce affatto, obbligatoriamen­ te, alla posizione del problema metafisico. Affinché ciò avven­ ga occorre esasperare questa centralità, mettendola a confronto proprio con l'idea di una vita annegata nella totalità del mondo. Questo confronto è un urto: che relazione può esservi tra la mia vita, vista dal di dentro, in cui ogni momento minimo è parte in­ tegrante e significativa della mia storia, e l'idea di una vita come segmento infinitamente piccolo di una retta infinita? 20. Gli estremi di questo segmento rappresentano la mia nascita e la mia morte. Da un punto di vista decentrato che guar­da alla totalità degli eventi, questi estremi sono naturalmente dei punti di congiunzione. Essi congiungono gli eventi della mia vita con gli 38 eventi del mondo. Per me sono invece disgiunzioni assolute. Una volta sono sbucato al di dentro, e prima o poi sbucherò al di fuori. Fra gli estremi intesi così, la mia esistenza è una totalità compiuta e chiusa in un senso non troppo diverso da quello per il quale potevamo dire in precedenza che era una totalità chiusa e compiuta il mondo stesso. La visione della congiunzione ripor­ ta e dimensiona gli eventi della mia vita agli eventi del mondo, mentre la visione della disgiunzione può generare un completo ribaltamento e ripresentare l'evento infimo che io stesso sono nella totalità compiuta della storia del mondo, e fare apparire questo evento esso stesso come un Grande Evento. 21. La soggettività di cui si parla non è più la soggettività rarefat­ ta che contempla un mondo compiuto, ma è la soggettività di ciascuno, con le sue particolari determinazioni, che vive entro una spazio-temporalità definita, la soggettività che nasce e che muore. In questo modo si chiarisce anche la connessione tra la metafisica e la morte. Essa è mediata dal tema del Grande Evento. Infatti non si tratta soltanto dell'in­quie­tudine della scomparsa, dell'angoscia della morte come ciò che ci separa dalla luminosità della vita; ma ancora prima, del fatto che la disgiunzione proietta sulla vita stessa lo scioglimen­to da ogni legame e dell'accentua­ zione che deriva di qui dell'unicità e dell'irripetibilità di ogni suo istante. Questa irripetibilità e l'unicità assoluta che vi è connessa fanno parte della grandezza dell'evento. 22. Questo pensiero dell'irripetibilità, dell'assolutezza, dell'io stesso come Grande Evento non è certo un pensiero da cui sia­ mo assillati ogni giorno. Non appartiene ai pensieri delle quo­ tidianità. Esso sorge quando viene messo sotto il fuoco dell'at­ tenzione filosofica. Questo fuoco spesso surriscalda i problemi. Come in precedenza, anche questo percorso verso la metafisica richiede esasperazione ed enfatizzazione. Io so benissimo, sono asso­ lutamente certo che, a parte il mio nome che mi sta addosso per 39 puro caso e che potrebbe stare addosso a qualcun altro a mia in­ saputa, non c'è in nessuna altra parte dell'intero universo un al­ tro come me, un altro me. E di questo non mi dò affatto pensiero. Anche tu sai questo, e non te ne dài affatto pensiero. Se mai può diventare inquietante e conturbante proprio la circostanza che vi sia da qualche parte qualcosa di simile ad un mio doppio. Già l'idea di un altro che porti il mio stesso nome mi dà un leggero senso di fastidio e ancor più quella di incontrare per strada un tale che ha esattamente il mio aspetto: l'idea infine che questo sosia possa essermi tanto vicino da fare all'incirca le cose che faccio o che vorrei fare - l'idea dunque che un altro non sia veramente un altro, ma un altro me, è sconvolgente (ed avverto anche che si tratta di un'idea assurda). L'unicità ci rasserena, la doppiezza ci sconvolge - mentre dovrebbe forse essere rasserenante proprio l'esistenza di un doppio, di un triplo, di un quadruplo, anzi di una molteplicità infinita di me stessi, in modo da sentirsi affidati ad una molteplicità nella quale avremmo il vantaggio di non sentir­ ci troppo peculiari. A sua volta il solo pensiero che non esista nemmeno un altro me nell'immensità dell'universo, può diventare motivo di massima inquietudine filosofica. Quando siamo entrati in dilemmi come questi siamo ormai già immersi in una riflessio­ ne metafisica ai suoi inizi. 40 Parte II I. Logica e metafisica nella "Monadologia" di Leibniz 1. Nell'aprire il tema della metafisica ci eravamo ripromessi di concluderlo coraggiosamente con un breve commento a due grandi testi, a loro volta molto brevi. Il primo di essi è la Monadologia di Leibniz. Io credo che non appena ci si avventura in quest'opera straordinaria, appena compiuto qualche passo, for­ se ci arresteremo pieni di perplessità e di imbarazzo, ed anche di sorpresa. Già la forma ci sconcerta. Questi brevi capoversi l'uno dopo l'altro, in parte collegati, in parte apparentemente sconnessi, sembrano comunicare qualcosa di particolarmente importante e nello stesso tempo di molto misterioso. Questo libro ci appare anzitutto come pieno di enigmi. Già il titolo non è forse un enigma? Letteralmente significa: "discorso intorno alle monadi", o forse anche "teoria delle monadi". Ma che cosa sono poi le monadi? G. W. Leibniz, Principes de la Philosophie ou Monadologie, ediz. curata da A. Robinet, PUF, Paris, 1954; questa edizione contiene anche i Principes de la Nature et de la Grace fondés en raison. (Il titolo Monadologia non è originale di Leibniz). Questi due testi sono databili tra il 1713 e il 1715. Vi sono numerossissime buone edizioni di questo libro provviste di commenti assai ricchi e dettagliati a cui si rimanda per ogni approfondimento. Per le traduzioni si è tenuta presente G. W. Leibniz, Monadologia, Introduzione e commento di E. Boutroux, trad. it. di Y. Colombo, La Nuo­va Italia, Firenze 1970. 2. Pensando a questa prima impressione di lettura, e del resto rammentando l'impressione che ci fece l'esposizione del sistema leibniziano sui banchi di scuola, mi viene in mente una bellissi­ 41 ma osservazione di Witttgenstein sulla filosofia e sui filosofi: il filosofo è un tale che fa uno strano disegno su un foglio di carta, una specie di scarabocchio. Poi ce lo mette sotto gli occhi e ci chiede: questo cos'è? (dimmelo tu). 3. Siamo spesso portati a pensare che, quando ci arrovelliamo intorno ad un testo filosofico per cercare di capire, tutte queste nostre difficoltà dipendano da noi più che dall'autore, che certa­ mente aveva le proprie idee chiare e distinte in testa. L'immagine del filosofo che attende dagli altri che cosa rappresenti il suo scarabocchio suggerisce che le cose stanno ben altrimenti, che nella filosofia ci si aggira in strade difficili, ed anche il maggiore sforzo di chiarimento è sempre incompleto. Il lettore è un in­ terlocutore che non deve semplicemente registrare la mappa di un cammino che gli si presenta di fronte nitida e ben disegnata, ma deve, appunto, interloquire, accingendosi fin dall'inizio ad un'interpretazione. 4. A dire il vero l'immagine di Wittgenstein ha un contenuto an­ cora più ricco. Proponiamo dunque la citazione nel suo ordine e per intero: "Spesso i filosofi sono come bambini piccoli che prima scarabocchiano con la matita su di un foglio di carta dei segni qualsiasi e poi chiedono all'adulto: "Che cos'è?" - È andata così: l'adulto più volte aveva disegnato qualcosa per il bambini e gli aveva detto: "Questo è un uomo"; "questa è una casa", ecc. E ora il bambino fa anche lui dei segni e chiede: e questo cos'è?" (Pensieri diversi, trad. it. a cura di M. Ranchetti, Milano 1980, pp. 41 - 42). Storia ammirevole! L'adulto che fa disegni, che propone le fi­ gure delle cose e insegna il loro nome, che mostra quali cose ci sono e come esse sono fatte, intende addestrare il bambino, e precisamente addestrarlo ad un mondo che ha le sue forme, 42 i suoi nomi, le sue regole, il suo ordine già costituito. L'adulto mostra come è fatto il mondo e nello stesso tempo mostra il mondo come un mondo già fatto. In lui dobbiamo certo vedere l'opinione comune, la tradizione, la forza dell'abitudine e della convenzione. Il bambino che reagisce all'adulto in quel modo è invece il filosofo, che si sottrae a questo addestramento propo­ nendo il proprio scarabocchio - nel quale sono dissolte le figure a cui siamo abituati: non ha più disegnato case, alberi, uomini. Forse ha disegnato le monadi. 5. Certo è che procedendo nella lettura della Monadologia stentia­ mo a riconoscere il nostro mondo, le cose con le quali abbiamo direttamente a che fare, il mondo come ci appare, e nelle forme molteplici del suo apparire. La prima operazione che viene pre­ supposta prima ancora che la Monadologia abbia cominciato a re­ citare la sua prima frase è in effetti proprio questa: l'operazione di oltrepassamento dell'"immediatezza fenomenica", di ciò che ci sta più vicino. Ciò che appare è qualcosa che si manifesta - cosicché sembra che si possa porre un legame tra l'apparire e il concetto di verità. Ma basta una lieve modificazione di accento perché questo legame si allenti al punto da mutare interamente di segno. Così appare, ma così non è. Se vuoi cercare la verità devi andare oltre. Il trascendimento dell'immediatezza, posto in questo modo, è dunque motivato anzitutto da un'istanza conoscitiva. Il problema metafisico sembra qui trovarsi sul prolungamento del problema della conoscenza. La necessità di oltrepassare il piano dell'imme­ diatezza fenomenica deve essere sostenuta proprio nel momento in cui gli interessi conoscitivi raggiungono un punto abbastan­ za elevato nel loro sviluppo. Limitare questi interessi all'ambi­ to fenomenico significherebbe limitare gli strumenti di questo processo al puro e semplice uso dei nostri organi di senso, non potersi allontanare di un passo da ciò che possiamo toccare, ve­ dere, udire. Mentre dobbiamo ben presto renderci conto che la 43 realizzazione della conoscenza esige il ricorso a sempre più com­ plesse costruzioni intellettuali, richiede determinate astrazioni, la posizione di entità che non hanno alcun riscontro nell'esperien­ za diretta che abbiamo del mondo. 6. Sembra dunque che non ci discostiamo troppo dal terreno della scienza e della conoscenza se facciamo valere questa istan­ za in modo del tutto generale, ed a maggior ragione se il tema del superamento dell'immediatezza si accompagna, come in Lei­ bniz, e del resto in tutta la corrente della metafisica razionali­ stica, con l'idea che il mezzo con il quale il campo del sensibile può essere trasceso è la pura argomentazione logica, l'esercizio di un pensiero che si può chiamare puro perché è depurato da ogni componente che rimandi alle apparenze del mondo. Nella metafisica razionalistica, ed in Leibniz in modo particolare, è do­ minante l'idea della potenza del pensiero: potenza della logica, potenza dell'argomentazione. 7. Leibniz fu un grande matematico e un grande logico. Ciò che egli ha saputo produrre in questi campi ha profondamente se­ gnato la storia di queste discipline. Ma sarebbe certo un errore separare il logico e il matematico Leibniz dal Lei­bniz metafisico. In particolare, l'idea della potenza della logica la risentiamo an­ cora più vivacemente proprio nel considerare il Leibniz metafisi­ co. Alla logica è demandato il compito di delineare il profilo della vera realtà delle cose, e poiché a questa vera realtà appartengono anche quelle verità ultrasensibili che fanno parte della credenza religiosa, è ancora la logica che dovrà dare loro una conferma, facendole approdare al terreno della certezza e della fondazione ultima. 8. Nell'esempio del sistema leibniziano troviamo anche un mo­ dello possibile del rapporto tra problema metafisico e problema religioso. Dappertutto in questo testo di Leibniz è presente la 44 preoccupazione di dare una giustificazione argomentativa alle credenze religiose, a quelle credenze che in qualche modo offro­ no una soluzione pronta al problema metafisico. Ma questo scopo non deve essere interpretato come una sorta di adeguamento alle opinioni comuni quanto piuttosto come uno scopo che ri­ sponde ad un'esigenza di fondazione ultima e nello stesso tempo ad un'esigenza di autonomia. Si tratta dei grandi temi che stanno alla base del cogito cartesiano. Si assume implicitamente che la credenza religiosa co­me tale non basti; e nemmeno possa es­ serle di autentico so­stegno l'autorità che deriva dalla religione stessa in quanto Istituzione e dal rimando alla Tradizione. 9. Il filosofo trova direttamente a portata di mano nell'am­ biente culturale circostante l'intero ambito delle credenze re­ ligiose: esse fanno parte delle opinioni comuni e dell'imma­ gine comune del mondo, e benché pretendano di attingere al campo dell'invisibile, tuttavia per un altro verso sono da considerare all'interno di quell'imme­diatezza che deve essere oltrepassata. La richiesta conoscitiva deve essere portata fino in fondo: ciò che è semplicemente accettato, ciò che è solo passivamente ricevuto, ed è dunque mera opinione, e precisa­ mente opinione degli altri è privo in linea di principio di un au­ tentico fondamento. La ricerca di questo fondamento presuppone a sua volta una decisione per l'autonomia che arricchisce la tensione conoscitiva di una tensione etica. Decidersi per l'autonomia signi­ fica: io stesso voglio rendermi conto..., io stesso voglio raggiungere da me stesso il fondamento di questa o quella opinione comune - se ne ha veramente uno. Di essa voglio assumermi l'intera responsabilità. 10. Nella forma che questo pensiero dell'autonomia assume in Leibniz, l'io che rivendica questa responsabilità non è l'io psico­ logico, ma è soprattutto l'io raziocinante, l'io che ha in sé la ca­ pacità meravigliosa di argomentare. Facendo uso della potenza 45 della ragione, possiamo sperare di poter camminare sicuri anche al di là del campo del visibile, possiamo pensare di avventurarci nei più profondi misteri tramandati dalla credenza religiosa, e forse possiamo persino riuscire a carpire qualcosa dei fini, degli obiettivi e delle ragioni di dio stesso. Dio è infatti anzitutto ra­ gione - ragione infinita, certamente, e dunque immensamente più potente della nostra, ma pur sempre ragione. I principi che reggono la nostra ragione sono anche i principi della ragione di­ vina - e dunque sono i principi che reggono la totalità del mon­ do stesso come una totalità che da essa è stata posta in essere. II. Il principio di non contraddizione e di ragione sufficiente 1. Nell'esaminare questi principi cominciamo a fare qualche passo avanti verso la specificità della posizione leibniziana. Essi sono anzitutto il principio di (non) contraddizione ed il principio di ragione sufficiente (oss. 31 e 32). Essi sono anzitutto principi che regolano i nostri ragionamenti. Una forte enfasi cade sul primo principio. Ciò che è contradditorio viene senz'altro da noi giu­ dicato falso, e giudichiamo senz'altro vero ciò la cui negazione è contradditoria. Siamo qui nell'ambito delle verità di ragione, secondo la terminologia di Leibniz: esse non riguardano alcuna circostanza di fatto, e non hanno bisogno di alcuna verifica em­ pirica. 2. Tutte le forme delle nostre argomentazioni, per quanto varie e articolate possano essere, sono in ultima analisi riconducibili al principio di contraddizione. Attraverso l'argomentazione pos­ siamo pervenire a verità autentiche, installandoci direttamente sul piano puramente concettuale, saltando qualunque riferimen­ to alla concretezza del mondo, evitando interamente di misurar­ ci con essa. Ma il principio di contraddizione non è solo questo: in quanto vale anche per la ragione divina, da cui scaturisce il mondo stesso, esso riguarda lo stesso progetto del mondo: la 46 sua architettura interna. Perciò esso non è solo norma suprema dell'argomen­tazione, supremo principio logico, ma viene investi­ to da un'immensa portata ontologica. Esso si presta così ad un impiego metafisico, ovvero ad un impiego nella costruzione di una metafisica della realtà. Ed anzitutto offre il proprio contributo a confermare l'esistenza di dio. Si tratta della dimostrazione "a priori" la cui prima più chiara formulazione risale ad Anselmo (cfr. oss. 44 e 45). 3. In forza del principio ragione sufficiente, "noi giudichiamo che nessun fatto può ritenersi vero o esistente, né alcuna propo­ sizione essere veritiera, se non vi è una ragione sufficiente per la quale sia così e non altrimenti; quantunque il più delle volte queste ragioni non possano esserci note" (oss. 32). 4. Mentre in precedenza l'ambito dei fatti era posto esplicitamente fuori gioco, qui il riferimento ai fatti si presenta nella stessa for­ mulazione del principio. Ma quale è il suo senso effettivo e la sua portata? Sembra subito abbastanza ovvio intendere la ragione suf­ ficiente nell'accezione del nesso causale. Esso significherebbe allo­ ra: nulla accade senza una causa; ed esprimerebbe l'idea della conca­ tenazione causale degli eventi come un principio della ragione. Ma questa interpretazione copre solo una parte del suo senso, e del resto una parte che non è affatto primaria. In effetti, più che dalla nozione di causa e dall'idea di una causalità universale che prospet­ ta il mondo come concatenazione di eventi, dobbiamo prendere le mosse dall'idea della possibilità. III. L'idea della possibilità 1. Ogni grande filosofia ha in realtà alla propria base un ridotto numero di idee dominanti, tra loro correlate che, nel loro insieme, costituiscono un punto di vista per l'approccio ai problemi. Esse rappresentano un elemento di organicità interna e nello stesso 47 tempo caratterizzano lo spirito da cui quella filosofia è permeata. 2. L'idea della possibilità fa certamente parte delle idee dominan­ ti del sistema leibniziano. Essa rappresenta una sorta di trama da cui Leibniz guarda la realtà stessa: è come se, di fronte ad un evento, sorgesse di continuo il pensiero che ciò che accade avrebbe potuto non accadere, che la tal cosa che ha queste e queste altre proprietà, avrebbe potuto averne tutt'altre. La possibilità di essere altrimenti è ciò che caratterizza gli eventi. Ciò che di fatto accade è dunque da intendere soprattutto come una possibilità realizzata. Ma c'erano anche altre possibilità. 3. Dobbiamo riuscire a cogliere questa idea in tutta la sua in­ tensità, e non solo come un'astratta determinazione filosofica. Il mondo prima ancora che come concatenazione di eventi, ci appare, nel suo insieme, come mondo possibile: una nozione che è poi essenzialmente plurale. Ci sono altre possibilità - ciò signifi­ ca che ci sono molti, anzi infiniti mondi possibili. 4. La regola della possibilità è poi naturalmente ancora il prin­ cipio di non contraddizione: è possibile anzitutto ciò che non è contradditorio e la condizione affinché un evento sia possibile all'interno di un mondo è che esso sia compossibile (cioè non contradditorio) con gli altri eventi appartenenti a quel mondo. Quanto alla distinzione tra l'uno e l'altro mondo possibile, esso è fornito dalla loro reciproca incompatibilità. 5. Di fronte a questa infinità di mondi possibili, proprio questo mondo, quest'unico mondo si è realizzato - ecco il grande problema. Dalla contingenza dell'evento, intesa secondo la nozione del possibile, operiamo il passaggio alla contingenza del mondo in­ teso come totalità - e qui riceve inevitabilmente una fortissima pregnanza l'esserci stesso del mondo così com'è pro­prio per il fatto che esso rappresenta solo uno tra gli infiniti mondi possibili. 48 IV. Impiego fisico e metafisico del principio di ragione sufficiente 1. Proprio questo: e non un altro qualsiasi, altrettanto possibile. Di ciò ci deve essere una ragione. È solo all'interno del mondo che il principio di ragione sufficiente può ricevere l'interpretazione di un principio causale. La sua formulazione più pregnante può perciò essere considerata quella presentata nei Principi della natura e della grazia: "Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?" (oss. 7). 2. Questo interrogativo non mette in questione l'esistenza par­ ticolare di qualcosa. Se chiedessimo: perché accade questo, al­ ludendo ad un evento particolare, oppure perché questa cosa determinata ha queste o quelle altre proprietà, allora la risposta a quella domanda avrà sempre la forma del rinvio ad un qualche altro evento che rappresenta la sua causa. In questa formula­ zione invece si toglie ogni determinatezza e si chiede perché c'è qualcosa in generale, ci si interroga sulla ragione sufficiente della realizzazione del possibile in generale. Principes de la Nature et de la Grace fondés en raison (ca 1714), oss. 7:"Jusqu'icy nous n'avons parlé qu'en simples Physiciens: maintenant il faut s'elever à la Metaphysique, en nous servant du Grand principe, peu employé communement, qui porte que rien ne se fait sans raison suffisante, c'est à dire que rien n'arrive, sans qu'il soit possible à celuy qui connoitroit assés les choses, de rendre une Raison qui suffise pour determiner, pourquoy il en est ainsi, et non pas autrement. Ce principe posé, la premiere question qu'on a droit de faire, sera, Pourquoy il y a plustôt quelque chose que rien?" 3. Leibniz, da un lato attira l'attenzione sul fatto che il principio di ragione sufficiente quando si applica ai fatti in genere coincide con il principio causale (oss. 36). Questo è il suo impiego fisico. 49 Ma dall'altro sottolinea che in relazione ad ogni singolo evento, si sarebbe rimandati, quanto alle cause, di evento in evento, ad una concatenazione infinita (oss. 37). Dunque bisogna chiede­ re non: perchè questo? ma piuttosto: perchè qualcosa piuttosto che nulla? Con ciò approdiamo all'impiego metafisico del principio di ragione sufficiente. Segue di qui direttamente la dimostrazione a posteriori dell'esi­stenza di dio : per render conto, non tanto del legame di anello con anello nella catena degli eventi, ma della catena stessa, "bisogna che la ragione sufficiente ovvero ultima sia fuori dalla successione o serie dei contingenti particolari, per quanto infiniti possano essere" (oss. 37) - operando così il pas­ saggio dal contingente alla sostanza necessaria che è "ciò che chiamiamo dio" (oss. 38). V. La nozione di monade 1. Fin qui le grandi premesse. Con la nozione della monade en­ triamo nel cuore della metafisica leibniziana. Per venire a capo in qualche modo di questa nozione dobbiamo tener ben fermo il fatto che la monade (come dio stesso) giunge al termine di un'ar­ gomentazione. Essa prende le mosse da un'evi­denza iniziale. Ci sono in generale delle entità (cose) composte. Si dice composto qualcosa che "consta di parti". 2. Abbiamo dunque un concetto della composizione. Ma allo­ ra dovremmo avere anche un chiaro concetto della semplicità. Esso sorge infatti dalla negazione della idea della composizione. Semplice sarà detto ciò che non ha parti. Dunque, ci sono entità semplici. A queste diamo il nome di monadi. Questa origine ar­ gomentativa deve essere tenuta ben ferma per il fatto che essa ci indica in che modo la nozione di monade debba essere intesa. 3. Intanto è chiaro che, poiché la monade è una nozione posta dalla logica, non devi guardarti attorno per ricercarla, e tanto 50 meno devi cominciare a suddividere un composto per trovare le entità semplici di cui è composto. La monade è una nozione puramente intelliggibile. Con quel termine intendiamo una unità che non ha parti, e niente altro. Ciò che importa è unicamente il pensiero della semplicità. 4. Intorno a ciò si può discutere. Anzitutto, da un'evidenza che concerne cose concretamente esperite traggo un'idea chiara di compo­sizione, ma approdo poi ad un'idea del semplice che vie­ ne posta come un concetto del pensiero puro e non ha alcun corrispondente intuitivo. È realmente lecito questo passaggio? 5. E poi: che intelligibilità è mai questa se il pensiero dell'"uni­ tà che non ha parti" non ha alcun sostegno in qualcosa che mi sta intorno? Come posso affermare di comprendere una simile espressione? Saremmo tentati di dire che la nozione di monade è in certo senso una nozione cieca (ma era così anche quella di dio). E sarebbe dunque avanzare legittimamente la pretesa di andare oltre il cieco afferramento del significato delle parole. Si vuole intravedere qualcosa. Come se si dicesse: Anche la mente vuole avere un occhio. 6. Come filosofi leibniziani, forse, risponderemmo: anzitutto non puoi realmente affermare di non comprendere l'espres­sione "intero che non ha parti" - altrimenti non comprenderesti nem­ meno l'espressione "intero che ha parti". A questa frase è stato aggiunto un "non" - e tutto quello che vi è qui da comprendere è proprio soltanto questa negazione. L'occhio della mente è poi la mente stessa. Essa vede ciò che comprende. Quella nozione che hai chiamato cieca risplende invece in tutta la sua evidenza intellettuale. 7. Peraltro la semplicità di per sé sola è una determinazione trop­ po povera per caratterizzare la monade. Nuovi attributi vengono 51 immediatamente aggiunti seguendo seguendo il filo conduttore della semplicità. Si stabilisce così che la sostanza semplice non può né cominciare né finire "naturalmente", ovvero come una cosa della natura (oss. 4-5-6). Questo perché in rapporto ad una cosa naturale il nascere è un aggregazione di parti, il perire una di­ saggregazione. Di conseguenza il nascere e il perire apparten­ gono ai composti (corpi), mentre sono logicamente esclusi dalla semplicità della monade. Non si può infatti ammettere senza contraddizione la semplicità e l'idea di un cominciare e di un finire. A titolo di ulteriore conseguenza: ammesso che le mo­ nadi possano cominciare e finire, allora deve mutare il modo di intendere questo inizio e questa fine: inizio e fine non possono avere carattere processuale, ma debbono risolversi in un inizio ed in una fine istantanei. L'istanta­neità nega la processualità della natura - e già per questo si suggerisce che la monade abbia una origine sovrannaturale. 8. Procediamo dunque per rarefatte argomentazioni, ci muo­ viamo tra concetti ciechi che sembra non abbiano alcun cor­ rispondente nel mondo. Questi concetti contengono tuttavia delle significative allusioni. Prendiamo le mosse dall'idea della composizione, come idea pura (ciò che ha parti) ma anche come un'idea che trova i suoi esempi nelle cose materiali, nei corpi - come se essa fosse soprattutto attinta di qui. Questa origine resta appresa allo sviluppo dell'argomentazione, cosicché quel rimando esemplificativo affiora qui e là: il composto è ciò che puoi manipolare, fare concretamente a pezzi, è la cosa, il corpo in senso fisico-naturale. Ma allora in tutto questo percorso ar­ gomentativo vi è un'allusione parallela: la nozione della monade allude all'anima, alla spiritualità, all'incorporeo: il tema delle mo­ nadi come elementi ultimi delle cose prospetta in realtà il tema dell'elemento spirituale a cui ci si appresta a conferire la massima dignità metafisica. 52 9. Per lo stesso motivo per il quale deve essere negato per la mo­ nade il cominciare e il finire naturali, deve essere anche esclusa la possibilità del diventare altro all'interno della monade, del suo interno differenziarsi, quindi dell'altera­zione e del mutamento (oss. 7). A meno che non si possa, come nel caso precedente, operare una riformulazione del senso in cui parliamo di muta­ mento. Ciò che si esclude infatti è che possa darsi nella monade alterazione e mutamento intesi come processi materiali-naturali, poiché in tal caso il riferimento alle parti è inevitabile: si dovrà parlare di fusione tra una cosa e l'altra come fusione delle loro parti, di distacco, di aggiunta, di aumento e diminuzione di parti, di mutamento di disposizione interna o di modificazione delle forme di rapporto tra esse. 10. Nulla tuttavia è più estraneo allo spirito della concezione leibniziana dell'idea della Monade come unità statica, immobi­ le, che riposa su se stessa. Certo, il problema di fronte al quale subito ci si trova volendo sostenere il dinamismo della monade riguarda il fatto che sembra non possa esservi dinamismo senza che vi sia processualità, e quindi anche una mol­te­plicità di stati che si vanno processualmente diversificando. Come può esservi nell'unità monadica, intesa come unità senza parti, una qualche modalità del molteplice che consenta di parlare del suo dinami­ smo? D'altro lato, come potremmo concepire la differenza tra le monadi - che sono fin dall'inizio poste al plurale - se non ammettiamo aspetti qualitativi attraverso i quali esse possano differenziarsi? VI. Il principio degli indiscernibili 1. Riflettiamo sulla possibilità di differenziazione. Tra le cose in genere possiamo porre una distinzione qualitativa ed una distinzione quantitativa. Come modello della distinzione qualitativa potremmo proporre figure con forme e colori differenti: 53 B A C D Una sequenza di punti potrebbe essere invece il modello della distinzione quantitativa ovvero puramente numerica (solo numero): A B C D In questo caso il punto B si distingue dal punto A solo perché è un altro punto - la distinzione sembrerebbe dunque essere solo numerica. Essi sono in ogni caso due punti. 2. Ora, se la semplicità della monade fosse assimilabile a quella del punto, forse potremmo ammettere la pluralità delle monadi senza chiamare in causa una molteplicità di qualità interne. Per Leibniz tuttavia le cose non possono stare così. Vi è un altro gran­ de principio della logica leibniziana che deve essere ora richia­ mato: il principio degli indiscernibili. Questo principio che riguarda proprio la differenziabilità degli oggetti, stabilisce che se due cose sono numericamente distinguibili, allora la distinzione non può essere solo quantitativa (numerica), ma deve esserci anche una distinzione qualitativa. Inversamente due cose che non siano qualitativamente distinte, non possono essere distinte nemmeno numericamente (oss. 9). Una formulazione un po' più compli­ cata potrebbe essere: se due cose o stati di cose fossero indi­ scernibili, allora essi sarebbero un'unica cosa o un unico stato di cose. Tenendo conto di quest'ultima formulazione si comprende 54 perché Leibniz parli del principio come principio dell'identità degli indiscernibili. "Il n'y a point deux individus indiscernables. Un gentilhomme d'esprit de mes amis, en parlant avec moy en presence de Madame l'Electrice dans le jardin de Herrenhausen, crut qu'il trouveroit bien deux feuilles entierement semblables. Madame l'Electrice l'en defia, et il courut longtemps en vain pour en chercher. Deux gouttes d'eau ou de lait regardées par le Microscope, se trouveront discernables" - Streitschriften zwischen Leibniz und Clarke. 1715 - 1716, Gerhardt, VII, p. 372 (Quarto scritto di Leibniz). "Poser deux choses indiscernables, est poser la même chose sous deux noms" (ivi). - "J'avoue que si deux choses parfaitement indiscernables existoient, elles seroient deux. Mais la supposition est fausse, et contraire au grand Principe de la raison. Les philosophes vulgaires se sont trompés, lors qu'ils ont crû, qu'il y avoit des choses differentes solo numero, ou seulement parce qu'elles sont deux; et c'est de cette erreur que sont venues leur perplexités sur ce qu'ils appelloient le principe d'individuation. La Metaphysique a eté traitée ordinairement en simple doctrine des termes, comme un dictionnaire philosophique, sans venir à la discussion des choses". (ivi, p. 395) - "Au reste je suis si éloigné de la pluralité d'un même individu, que je suis même tres persuadé de ce que S. Thomas avoit déja enseigné à l'égard des intelligences et que je tiens estre general, sçavoir qu'il n'est pas possible qu'il y ait deux individus entierement semblables ou differens solo numero". Briefwechsel zwischen Leibniz, Landgraf Ernst von Hessen-Rheinfels und Antoine Arnauld. 1686-1690. IX. Leibniz an Arnauld, Gerhardt, II, p. 54. 3. Se vogliamo mantenere la pluralità delle monadi e la loro mu­ tabilità, e con ciò processualità e dinamismo, dobbiamo allora cercare nella monade l'elemento qualitativo come base di ogni differenza. Possiamo affidarci ancora ad argomentazioni logiche 55 per dimostrare che la monade deve necessariamente avere quali­ tà e possibilità di mutamento, cosicché dev'esserci "molteplicità nell'unità o nel semplice" (oss. 13 e 14) - ma in rapporto a que­ sto problema diventa fondamentale piuttosto il far emergere in modo sempre più esplicito il riferimento alla vita soggettiva che è implicato fin dall'inizio dalla nozione di monade, attirando l'atten­ zione sulla peculiarità di ciò che muta in essa (détail de ce qui change, oss. 12). 4. La monade è fatta di percezione (perception): la pluralità sor­ ge dal fatto che la percezione esiste solo come stato passeggero (état passager) (oss. 14), cosicché ogni stato trapassa di continuo in un altro, secondo un movimento il cui elemento propulsore sta in ciò che Leibniz chiama appetizione (appetition) (oss.15). Entrambi i termini - percezione, appetizione - debbono essere intesi in un'accezione molto generale. La percezione rimanda ai vissuti rappresentativi in genere, l'appetizione invece a quelle tensioni che spingono all'oltre­passamento continuo dei vissuti rappre­ sentativi verso altri: si addensano in questo termine istinto, pas­ sione, desiderio, volontà. Nell'osservare la peculiarità di quel che muta abbiamo scoperto che vi possono essere "parti" che non sono tuttavia "pezzi" - elementi divisibili dall'intero di cui sono parti; e che dunque vi può essere molteplicità anche in ciò che deve essere posto come rigorosamente semplice. 5. Qui vi è in nuce una intera teoria della soggettività di grande respiro. "Monade" sono intanto io stesso. Eppure converrà tene­ re sullo sfondo questo riconoscimento. E come non dobbiamo subito far coincidere la monade con la nostra soggettività, così la terminologia psicologizzante qui utilizzata non deve essere senz'altro intesa nel senso usuale dei termini e delle loro esem­ plificazioni correnti, anche se non possiamo fare a meno di ri­ correre ad esse. Infatti, mentre da un lato si vuole mantenere un legame con la nostra esperienza soggettiva - questo legame rap­ presenta anzi una condizione di comprensibilità dei concetti e 56 dei termini - dall'altro esso non deve essere spinto troppo oltre perché deve poter mantenere l'elasticità necessaria per piegarsi alle esigenze della costruzione sistematica. In rapporto alla mo­ nade deve restare dominante il tema dell'elemento ultimo delle cose, come qualcosa che sussiste indipendentemente dalla cor­ poreità e che ha in se stesso il principio del proprio movimento. VII. Anime e corpi 1. Si è proceduto a rigor di logica - e tuttavia a poco a poco ci rendiamo conto che in questo procedere assumono un rilie­ vo crescente considerazioni di altra natura, come se l'argo­men­ tazione fosse una veste che assumono pensieri maturati altrove. Inoltre, nello sviluppo della teoria delle monadi, si comincia a profilare una "visione del mondo", un "modo di vedere le cose" che dobbiamo riuscire a cogliere attraverso i difficili percorsi ar­ gomentativi che ci vengono proposti. 2. La soggettività può essere concepita come una macchina che produce pensieri, sentimenti, percezioni. Tuttavia se immaginia­ mo questa macchina come un grande mulino, penetrando in esso potremo scorgere "soltanto dei pezzi che si spingono gli uni con gli altri, e nulla che possa spiegare una percezione" (oss. 17). Si fa avanti sempre più esplicito il pensiero dell'essenza spirituale della realtà stessa e dell'irridu­ci­bilità delle anime rispetto ai corpi, come se le une e gli altri appartenessero a due sfere dell'essere regolate da leggi e principi autonomi. Questa differenza è mar­ cata anche dalla ripresa dell'antica distinzione tra cause efficienti e cause finali, quindi da due modi nettamente distinti di causa­ zione: un conto è un movimento generato dall'urto di due corpi, ed un altro è il perseguimento di un fine che determina i nostri comportamenti. 3. Esclama una volta Leibniz: quanto stupidi e imperfetti sono 57 gli atomi, e i corpi senza anima in genere, che sanno soltanto andare per moto rettilineo! La curva si addice invece ai corpi che sono anche anime. 4. A e B siano corpi in movimento, e B sia un corpo "anima­ to". A procederà in moto rettilineo nella direzione indicata dalla freccia. Urterà dunque contro l'ostacolo C e devierà da quella direzione di movimento avviandosi ancora in modo rettilineo in una nuova direzione. C A B C A B B invece si dirige verso l'ostacolo e lo aggira. C A B La curva è il movimento dello spirito. Tanto poco saprà il corpo anda­ 58 re in cerchio, richiedendosi una continua correzione del tragitto. 5. È assai bella la fantasia di Leibniz che descrive la difficol­ tà della materia di realizzare un moto circolare - essa man­ca di memoria, cosicché "si ricorda soltanto di ciò che è accaduto nell'ultimo istante", sfugge perciò nella direzione della tangente alla circonferenza, "senza avere il dono di ricordarsi della regola che ad essa è stata data di deviare da questa tangente per restare sempre nella circonferenza". "Il est bon de remarquer, avant qu'on passe plus avant, une grande difference entre la matiere et l'ame. La matiere est un etre incomplet, elle manque de la source des actions. Et quand une impression luy est donnée, elle ne renferme que cela precisement, et ce qui y est dans le moment. C'est pour cela que la matiere n'est pas même capable de garder par elle même un mouvement circulaire, parceque ce mouvement n'est pas assez simple pour qu'elle s'en puisse souvenir pour ainsi dire. Elle se souvient seulement de ce qui luy arrive dans le dernier moment ou plutot in ultimo signo rationis, c'est à dire elle se souvient de la direction selon la droite touchante, sans avoir le don de se souvenir du précepte qu'on luy donneroit de se detourner de cette touchante, pour demeurer tousjours dans la circomference. C'est pourquoy le corps ne garde pas le mouvement circulaire, quoyqu'il ait commencé de l'exercer, à moins que quelque raison ne l'y oblige. C'est pourquoy un Atome ne peut apprendre que d'aller simplement en ligne droite, tant il est stupide et imparfait; il en est tout autrement d'une Ame ou d'un esprit". Eclaircissement des difficultés que Monsieur Bayle a trouvées dans le système nouveau de l'union de l'ame et du corps, Gerhardt, vol. IV, p. 543. 6. Nell'immagine si fissa efficacemente quella capacità di tro­ vare la via verso il fine, che caratterizza un essere come essere spirituale. Il termine di derivazione greca di entelechia che Leib­ 59 niz attribuisce alle monadi sottolinea proprio questo punto: il principio del loro movimento è sempre uno scopo, il loro essere è essere per un fine. In realtà questa potenza del fine come mo­ tivazione dei nostri comportamenti fa parte dell'e­spe­rienza che noi stessi abbiamo delle nostre azioni. Ma Leibniz non si appella ad essa, anche se non può che presupporla tacitamente. 7. "Anima" (Âme) e "spirito"(Esprit) sono termini a cui Leibniz conferisce un'accezione molto precisa. Il primo andrà riservato non alle monadi in genere ma "soltanto a quelle sostanze sem­ plici la cui percezione è più distinta ed accompagnata da memo­ ria" (oss. 19). Il termine "spirito" invece sarà riservato a quelle monadi che, oltre alla percezione ed alla memoria, sono "anime raziocinanti", cioè in grado di elevarsi alla conoscenza delle ve­ rità necessarie ed eterne, che sono capaci di argomentare e di produrre la scienza e di giungere alla conoscenza di sé e di dio (oss. 29). Si contraddistinguono dunque tre livelli di possibilità conoscitive: il livello inferiore che riguarda la pura conoscenza sensibile di ciò che accade nell'immediatezza del presente, senza capacità di ritenere il passato e di progettare l'avvenire; il livello intermedio nel quale alla semplice percezione si aggiunge anche la memoria e quindi la formazione di abitudini (oss. 26-28); il livello della razionalità nel senso più ampio, nel quale è compresa la possibilità della scienza, della conoscenza di dio e di noi stes­ si. In realtà questa idea dei "gradi di perfezione" delle monadi, apparentemente così tradizionale, conferisce a tutto il tema un impulso ad uno sviluppo interamente nuovo. VIII. Piccole percezioni 1. La novità sta soprattutto nel modo di intendere le monadi pure e semplici (monades toutes nues, oss. 24), che non sono anime e nemmeno spiriti: le monadi che hanno soltanto percezioni. E si tratta di percezioni "di cui non ci si accorge" (perceptions, dont on 60 ne s'aperçoit pas, oss. 14) - di percezioni inconscie. Eccoci dunque di fronte ad un altro grande tema della filosofia leibniziana. In realtà potrebbe sembrare, ed è sembrato così ad una lun­ ga tradizione filosofica, che l'associazione di questi due termini, l'attribuzione alla percezione di un carattere di inconsapevolez­ za fosse intrinsecamente contraddittorio. In effetti come posso percepire - quindi afferrare con lo sguardo, con l'udito, ecc. - in modo inconsapevole? Come può accadere che mentre io guardo un albero non sia consapevole di vederlo? Ma questa volta Leibniz, prima ancora che alla "logica" del concetto, presta attenzione alla sua "psicologia", ovvero ai pro­ cessi concreti del percepire come possiamo sperimentarli diret­ tamente. Allora appare ben presto chiaro che il percepire non ha sempre e soltanto il carattere di un'azione soggettiva che ha direttamente di mira questo o quell'oggetto determinato come una freccia scoccata in direzione di esso. Ciò certamente accade quando la percezione è, secondo la terminologia di Leibniz, una percezione distinta, nella quale l'oggetto è afferrato in ciò che esso è e nelle sue articolazioni interne. Ma già una percezione distin­ ta è situata su uno sfondo di percezioni i cui oggetti sono solo confusamente presenti e ad essi non è diretto alcun atto dell'at­ tenzione. La percezione confusa è anche al tempo stesso una coscienza stordita: in presenza di "una grande moltitudine di piccole percezioni, dove non si può distinguere nulla", la coscienza è presa da vertigini, come quando giriamo più volte su noi stessi nello stessa direzione ed arriviamo sul punto di svenire, mentre ogni oggetto intorno a noi perde i suoi chiari contorni e va sfumando in un variegato ed inafferrabile scenario di immagini sfuggenti (oss. 21 e 24). 2. Il suono dell'onda marina che si infrange sulla riva, o del mare in lontananza fornisce un'immagine, spesso ripetuta da Leibniz, per intendere il senso del tema delle "piccole percezioni" e, nello stesso tempo, della "percezione confusa". 61 "Et pour juger encor mieux des petites perceptions que nous ne saurions distinguer dans la foule, j'ay coustume de me servir de l'exemple du mugissement ou du bruit de la mer dont on est frappé quand on est au rivage. Pour entendre ce bruit comme l'on fait, il faut bien qu'on entende les parties qui composent ce tout, c'est à dire les bruits de chaque vague, quoyque chacun de ces petits bruits ne se fasse connoistre que dans l'assemblage confus de tous les autres ensemble, c'est à dire dans ce mugissement même, et ne se remarqueroit pas si cette vague qui le fait, estoit seule. Car il faut qu'on en soit affecté un peu par le mouvement de cette vague et qu'on ait quelque perception de chacun de ces bruits, quelques petits qu'ils soyent; autrement on n'auroit pas celle de cent mille vagues, puisque cent mille riens ne sauroient faire quelque chose. On ne dort jamais si profondement qu'on n'aye quelque sentiment foible et confus, et on ne seroit jamais eveillé par le plus grand bruit du monde, si on n'avoit quelque perception de son commencement qui est petit, comme on ne romproit jamais une corde par le plus grand effect du monde, si elle n'estoit tendue et allongée un peu par des moindres efforts, quoyque cette petite extension qu'ils font ne paroisse pas". Nouveaux Essais, Preface, Gerhardt, V, p. 47. "Chaque Ame connoit l'infini, connoit tout, mais confusement; comme en me promenant sur le rivage de la mer, et entendant le grand bruit qu'elle fait, j'entends les bruits particuliers de chaque vague, dont le bruit total est composé, mais sans les discerner; nos perceptions confuses sont le resultat des impressions que tout l'univers fait sur nous. Il en est de même de chaque Monade. Dieu seul a une connoissance distincte de tout, car il en est la source". Philosophische Abhandlungen. 1702-1716. VIII. Principes de la Nature et de la Grace. Gerhardt, VI, p. 604. 62 3. Dalle stesse formulazioni proposte da Leibniz di questa im­ magine, potrebbe sembrare che l'accento cada sul fatto che la grande percezione abbia bisogno delle piccole, e che quindi l'una sia nient'altro che una somma di esse. In realtà si scorge il suo senso effettivo quando si insiste sul fatto che le piccole perce­ zioni, ognuna di per se stessa inudibile, si fondono insieme, ed in questa fusione, che è qualcosa di interamente diverso da una somma, esse sono confusamente percepite. Ma la percezione confusa, la coscienza stordita, il cui tema ha certamente origi­ ne dall'osservazione psicologica, viene da subito proiettata sul mondo stesso, sulla totalità della natura e questa totalità viene in certo senso trasfigurata da questa proiezione. 4. Di monadi stordite - si avvia a sostenere Leibniz - è fatta l'intera natura che ci appare inanimata: essa è dunque attraver­ sata da un principio di animazione. Monadi stordite sono la so­ stanza di cui è fatta la natura stessa, dalle sue forme inferiori a quelle superiori: la vita pienamente cosciente, la vita spirituale è un'emergenza che si realizza gradualmente e in modo continuo da questo sfondo indistinto di una vita stordita, che comunque è già una vita. 5. In questo ribaltamento metafisico del problema psicologico della percezione inconscia, la grande onda marina cessa forse di essere un semplice ausilio illustrativo di un concetto astratto: è come se a noi stessi, mentre vaghiamo meditabondi sulla riva del mare, all'improvviso la natura stessa apparisse come un'onda gran­ diosamente prorompente fatta di un'immensità innumerabile di onde infinitesime. Al di là di una natura che deve continuare a presentarsi allo sguardo della conoscenza come dominata dalle cause meccaniche e dalle loro leggi, al di là della fisica, il pensiero filosofico è in grado di delineare una metafisica nella quale si co­ glie la natura come una molteplicità infinita di viventi. 63 IX. Prospettivismo 1. Nell'idea del prospettivismo, si approfondiscono le considera­ zioni relative a quella teoria della soggettività che si annuncia fin dalle prime elaborazioni della nozione della monade. La mona­ de è percezione - si è detto. Ed il mondo è ciò che in essa è per­ cepito. Vi è perciò per essa una molteplicità di rappresentazioni del mondo - esattamente come vi è per me una molteplicità di rappresentazioni dello stesso oggetto; esattamente come vi è per uno stesso oggetto una molteplicità di "ombre" che una sorgen­ te luminosa, al variare della sua posizione, proietta su una parete bianca. Tutte queste "ombre" sono correlate le une alle altre, ed in questa correlazione possono manifestare l'identità dell'og­ getto, per il fatto che vi è un unico fascio di regole che sta alla base della loro produzione. Analogamente il mondo si presenta come uno ed identico nella molteplicità delle sue rappresenta­ zioni prospettiche per la monade singola. Questa identità non è semplicemente data, ma si va costruendo nel loro avvicenda­ mento: la cosa, e dunque il mondo stesso, si offre nell'alternanza secondo regole della percezione distinta e della percezione con­ fusa. Il lato della cosa che mi appare ora chiaramente allo sguar­ do comporta dei lati oscuri, che mi appariranno con chiarezza mutando opportunamente il punto di vista, mentre il lato prima chiaro ora si nasconde. 2. Questa dialettica si ripete nel rapporto tra monade e monade. Il mondo è per tutte lo stesso. Eppure ciascuna ha un mon­ do che è rigorosamente suo. La particolarità sembra dominare sull'elemento comune. L'identità del mondo diventa un proble­ ma; il rapporto tra monade e monade un nuovo enigma. Non dice forse Leibniz in una sua frase famosa, che "le monadi non hanno finestre attraverso le quali qualche cosa possa entrare o uscire"? (oss. 7: ""Les monades n'ont point de fenêtres par le­ squelles quelque chose y puisse entrer ou sortir"). Questa frase 64 sembra stabilire il totale isolamento della monade, e il frantu­ marsi del mondo nella molteplicità potenzialmente infinita delle sue rappresentazioni. Ma di essa io credo di poter dare un'inter­ pretazione piuttosto diversa. 3. Vi è anzitutto un senso particolare che è subito chiaramente il­ lustrato: "Gli accidenti non possono affatto distaccarsi e neppu­ re passeggiare fuori dalle sostanze, come un tempo facevano le specie sensibili degli scolastici. Così né la sostanza, né l'accidente può entrare dal di fuori in una monade". Leibniz ha qui di mira una vecchia teoria scolastica, ricorrente di continuo sotto varie forme, per spiegare la rappresentazione delle cose e in partico­ lare la loro percezione. In essa si cerca di rendere conto di come possano entrare in rapporto la cosa e la soggettività nella per­ cezione. Se consideriamo questo rapporto con attenzione filo­ sofica ci rendiamo conto che occorre spiegare in che modo due cose essenzialmente eterogenee - l'occhio da un lato e l'ogget­ to percepito dall'altro - possano "incontrarsi" nella percezione. Una soluzione piuttosto rozza del problema, che può tuttavia essere elaborata anche in forme sofisticate, è quella di assumere che dalle cose si stacchino delle immagini intese come entità intermedie in parte concrete, in parte fantomatiche, che penetra­ no attraverso l'occhio nell'animo umano. L'occhio verrebbe così reso analogo ad una finestra attraverso la quale penetrano dentro di noi frammenti del mondo. Gli accidenti che "passeggiano" fuori delle sostanze di cui si parla qui sono appunto queste im­ magini "corpose" che si staccano dalle cose e di cui parlavano gli scolastici usando il termine di "specie sensibili". 4. Ecco dunque il primo senso dell'affermazione secondo cui le monadi sono senza finestre. Stando ad esso, questa affermazio­ ne intende contestare polemicamente quella teoria, negando che il processo percettivo possa avere quel tipo di descrizione ed in particolare che il rapporto soggetto-oggetto nella percezione pos­ 65 sa essere inteso attraverso "immagini materiali" migranti da un corpo all'altro. Questo significato polemico particolare va tenuto ben fermo per rendere conto del significato più generale che con­ ferisce a quell'affermazione un respiro più ampio. A mio avviso, in essa non si vuole affatto asserire la chiusura della monade, ma al con­ trario la sua totale apertura. La monade non ha finestre per il semplice fatto che è essa stessa una finestra sul mondo - l'occhio non è un pertugio, in cui si insinuano immagini; attraverso l'organo corporeo la monade diventa essa stessa un grande occhio aperto sul mondo: un punto di vista che ha il mondo intero nel proprio orizzonte. L'idea di prospettiva e di punto di vista suggeriscono proprio una simile in­ terpretazione, anche se questa apertura della monade si arricchisce in Leibniz di numerose altre complesse implicazioni. Questa maggiore complessità è illustrata dalla citazione seguente: "Car nostre ame exprime Dieu et l'univers, et toutes les essences aussi bien que toutes les existences. Cela s'accorde avec mes principes, car naturellement rien ne nous entre dans l'esprit par dehors, et c'est une mauvaise habitude que nous avons de penser comme si nostre ame recevoit quelques especes messageres et comme si elle avoit des portes et des fenestres. Nous avons dans l'esprit toutes ces formes, et même de tout temps, parce que l'esprit exprime tousjours toutes ses pensées futures, et pense déja confusement à tout ce qu'il pensera jamais distinctement. Et rien ne nous sçauroit estre appris, dont nous n'ayons déja dans l'esprit l'idée qui est comme la matiere dont cette pensée se forme. C'est ce que Platon a excellement bien consideré, quand il a mis en avant sa reminiscense qui a beaucoup de solidité, pourveu qu'on la prenne bien, qu'on la purge de l'erreur de la preexistence, et qu'on ne s'imagine point que l'ame doit déja avoir sçeu et pensé distinctement autres fois ce qu'elle apprend et pense maintenant". II Abhandlung (Discours de Metaphysique), Gerhardt, IV, p. 451. 66 X. Armonia 1. Nel tema del prospettivismo convergono infine i due altri grandi temi dell'armonia e dell'ottimismo. Essi debbono essere colti nella loro reciproca connessione. Entrambi debbono essere considerati come due grandi temi metafisici, e sottolineare que­ sto punto è importante soprattutto in rapporto all'ottimismo, che si presta a interpretazioni psicologizzanti, come se si volesse con esso caratterizzare un sorta di atteggiamento mentale o di­ sposizione dello spirito. Entrambi riguardano invece anzitutto il mondo stesso inteso come totalità - e l'ottimismo mette in questione addirittura l'atto creativo con il quale il mondo viene in essere. 2. Prima di questo atto vi sono i "mondi possibili". L'atto di­ vino pone in essere questo mondo; e perché proprio questo? La ben nota risposta di Leibniz è: perché questo è di tutti i mondi il migliore. La struttura argomentativa elementare che consente questa risposta attira l'attenzione sugli attributi di dio - ricava­ ti analiticamente dal suo concetto: saggezza, bontà e potenza. Proprio perché dio per essenza ha questi attributi non può che scegliere il mondo migliore (oss. 55). 3. Il distacco da una visione empirico-quotidiana del mondo non potrebbe essere più netto. La risposta è - o tenta di essere - "puramente logica", chiamando in causa sia nella posizione del problema che nella sua soluzione il principio di ragione suffi­ ciente che tende a trasformarsi in questa sua applicazione estre­ ma - dove si cercano giustificazioni per la stessa azione di dio - in una sorta di principio del meglio. 4. Ma che cosa è il meglio? La risposta suona all'incirca così: il meglio è il più conveniente, ciò che più si adatta, che è più ade­ guato: in un'accezione che può essere spiegata rammentando 67 un gioco di incastri. In esso ogni pezzo "conviene" all'altro. Il principio di ragione sufficiente come principio del meglio met­ te in questione la convenienza (convenance) dell'insieme (oss. 54). Armonico è un intero le cui parti "convengono" le une alle altre, privo dunque di lacune interne, perché le lacune mani­ festerebbero una sorta di incompletezza, mentre l'idea dell'ar­ monia richiede una totalità interamente satura: ogni pezzo si incastra esattamente nell'altro. 5. Secondo Leibniz la scelta originaria del meglio che presiede alla creazione del mondo vale anche per ogni evento del mon­ do considerato nel suo senso metafisico. Se accade un certo evento, esso non può non "convenire" all'intero, inserendosi come un tassello nell'armonia del tutto. 6. Armonia e prospettivismo a loro volta entrano in relazione anzitutto come opposti che si richiamano a vicenda. La prospet­ tiva implica un punto di vista, quindi una visione unilaterale della cosa. Questa unilateralità può essere superata solo se un punto di vista viene "compensato" da un altro punto di vista. Da un certo punto di vista, alcuni aspetti della cosa sono chiari, altri sono invece oscuri e non chiaramente visibili. Ma in via di principio vi è un altro punto di vista, nel quale si invertono i rapporti della chiarezza e dell'oscurità. Se armonia significa equilibrio, incastro funzionale, compensazione, qui vediamo come si possa passare dal tema della prospettiva a quello dell'armonia. 7. Sarebbe dunque sbagliato ridurre il tema dell'armonia solo ad una sorta di soluzione artificiosa ed estrinseca ad una difficoltà interna al sistema leibniziano. Non si tratta solo di rendere conto della relazione tra le anime e i corpi posti come enti eterogenei. "L'anima segue le sue proprie leggi ed anche il corpo le sue; ed essi si incontrano in virtù dell'armonia prestabilita tra tutte le sostanze, poiché esse sono tutte rappresentazioni dello stesso 68 universo" (oss. 78). "Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali per appetizioni, fini e mezzi. I corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. E i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono tra loro armonici" (oss. 79). In effetti, ad una significativa difficoltà si risponde qui con l'idea di un accordo prestabilito ab aeterno. Tuttavia, portando l'atten­ zio­ne sul tema del prospettivismo, il problema dell'armonia si propone anche come problema della ricostituzione di una totali­ tà che superi le relatività dei punti di vista. Attraverso l'armonia il prospettivismo viene superato: ma questo superamento può essere colto solo se si vede profilarsi la totalità come emergente nella sua assolutezza al di là della relativizzazione prospettica, e ciò significa in ultima analisi che ci si deve dislocare nel luogo stesso di dio, nel suo grande occhio a-prospettico. L'armonia c'è solo per questo occhio, per questo luogo assoluto che coglie la totalità direttamente e in una volta sola: in rapporto ad esso, è improponibile anche la differenza tra percezione distinta e per­ cezione confusa: questo è infatti il luogo della ragione assoluta, della logica, della verità necessaria, della piena e compiuta chia­ rezza e trasparenza concettuale. 8. Il prospettivismo è infine in grado di rafforzare quella visio­ ne della natura che coglie ovunque la pulsazione del vivente. Il mondo "è come una medesima città, vista da diversi lati, quasi moltiplicata in prospettive, così avviene che, data la molteplicità infinita delle sostanze semplici vi sono come altrettanti universi differenti, i quali tuttavia non sono che le prospettive di un uni­ verso solo, derivanti dai diversi punti di vista di ogni monade" (oss. 57). Ma questo tema può moltiplicarsi in modo indefinito. Non solo ciascun abitante della città ha i propri punti di vista, ed io sono con tutte le mie immagini prospettiche, all'interno delle sue prospettive come egli è nelle mie, secondo quel movimento di piani e quella dinamica tra distinzione e confusione che è pro­ 69 pria della nozione di prospettiva. Ma ogni pietra della città, ogni essere inanimato è fatto di monadi stordite ed è dunque porta­ tore di un'immagine. Ovunque vi sono occhi aperti sul mondo. Ovunque vi sono percezioni. Ma ciò è quanto dire: ovunque vi è il vivente, ed ovunque la totalità stessa è rappresentata nel vi­ vente. 9. "Di qui si vede che nella più piccola parte di materia vi è un mondo di creature, di viventi, di animali, di entelechie, di anime" (oss. 66). In ogni goccia d'acqua di uno stagno vi è uno stagno; in ogni gemma di una pianta di un giardino vi è un giardino, in ogni corpo vivente vi è un vivente. Sono tutte famose immagini leibniziane, immagini seducenti ed anche in ogni caso misteriose, nelle quali il tema prospettivistico, con la sua tendenza interna alla moltiplicazione, si salda con quello dell'organismo vivente. In questa visione del mondo confluisce persino l'entu­ siasmo per la scoperta degli spermatozoi a cui Leibniz accenna una volta (oss. 75). Guardando al microscopio, ecco colti di sor­ presa, dentro il grande animale, i piccoli animali, alcuni dei quali, gli eletti, "passano a più grande teatro", aprendo una nuova pro­ spettiva sul mondo. La scoperta naturalistica genera entusiasmi metafisici: mediante il microscopio riu­sciamo a vedere sempre più a fondo nell'inesau­ribi­le intreccio che mostra la vita nella vita. 10. "Existere nihil aliud esse quam harmonicum esse". L'esser­ ci è null'altro che partecipare all'armonia del tutto. Questa pro­ posizione potrebbe essere letta come un puro corollario di una nozione astratta, puramente filosofica dell'esistenza. Il mondo è armonico solo da un punto di vista assoluto. Si tratta, si potreb­ be allora osservare, di un'armonia lontana ed estranea, di un'ar­ monia puramente pensata. Non può sfuggire tuttavia che il fatto stesso che questo pensiero possa essere formulato, e per di più con la pretesa di essere integrato in un sistema di pensieri protet­ 70 to dalle più forti garanzie della ragione, fa sì che nelle sue pieghe esso prospetti un modo di rapportarsi al mondo, o addirittura lo suggerisca. La metafisica diviene allora una tacita esortazione; e profonda saggezza. Riprendo la citazione di Leibniz da A. Gurwitsch, Leibniz: Philosophie des Panlogismus, De Gruyter, Berlin1974, p. 46. Parte III I. Heidegger: Domanda metafisica e conoscenza scientifica 1. Da un esempio classico, che appartiene ad un passato lontano ad un esempio, Heidegger, che appartiene certamente, anch'es­ so, al passato, ma ad un passato di cui forse sentiamo ancora l'eco. Un grande salto, in realtà, che si giustifica tuttavia con lo scopo che ci siamo proposti: dopo aver tentato di introdurre a modo nostro l'idea di un pensiero orientato in senso metafisico, vogliamo fornire di esso qualche esempio tratto dalla tradizione storica, facendo riferimento a testi brevi e densi di significato, che siano in grado di mostrare la ricchezza dei problemi che può svilupparsi in un concreto percorso di pensiero - ricchezza che va ben oltre lo schematismo elementare con cui abbiamo comin­ ciato la nostra discussione. 71 2. La Monadologia di Leibniz si prestava a meraviglia a questo sco­ po. Ma le realizzazioni del pensiero metafisico possono essere molto varie - e alle loro spalle vi possono essere concezioni del mondo e orientamenti intellettuali molto differenti. Heidegger sembra stare all'opposto di Leibniz, e proprio per questo voglia­ mo rivolgerci soprattutto ad un suo breve e famoso testo: Che cosa è la metafisica? che riproduce una conferenza tenuta il 24 lu­ glio 1929 presso l'Università di Freiburg. Di questo testo, come nel caso della Monadologia, intendiamo proporre non più di un sintetico indice degli argomenti. M. Heidegger, Was ist Metaphysik, Klostermann, Frankfurt am Main, 1955. - Si è tenuta presente, senza ritenerla vincolante, la traduzione italiana di A. Carlini, Firenze 1953 - ad essa rimandano le indicazioni di pagina. Si può vedere anche la traduzione di H. Kunkler, A. Martone, G. Rajo, Pironti, Napoli 1982. Entrambe queste traduzioni sono corredate da note e commenti. 3. Certo, ora siamo accompagnati dal fresco ricordo delle tema­ tiche leibniziane, la nostra mente è ancora tutta risonante dei grandi temi leibniziani della potenza della logica, dell'organicità del mondo, della vitalità che permea ogni particella della natura, dell'armonia del tutto, ed anche naturalmente dal vivo senso de­ gli interessi conoscitivi - ovunque debordanti in Leibniz in ogni direzione - di cui, nonostante la povertà della nostra esposizio­ ne, si risente la vivace presenza. Che in Heidegger ci muoviamo in tutt'altro orizzonte comincia ad annunciarsi nella prima po­ sizione del problema. Fin dall'inizio veniamo avvertiti del fat­ to che l'autore non intende spiegare che cosa sia la metafisica, come potrebbe far pensare il titolo; e tanto meno proporre una definizione del termine per poi illustrarla ed argomentarla. Ci si propone invece di esporre ed elaborare una questione metafisica 72 in modo da mettere sotto i nostri occhi che cosa la metafisica sia. Perché in realtà non si dànno questioni metafisiche particolari, ed ogni questione metafisica implica il problema metafisico nella sua totalità. Al più si può ammettere che possano darsi modi diversi di porre un unico problema, quindi diverse domande - ma il punto essenziale è che queste domande convergono verso un'unica domanda fondamentale. Quando si tratta di metafisica, non esistono i problemi, ma solo il problema. 4. La premessa che chiarisce fin dall'inizio la direzione del di­ scorso è che "Nessuna domanda [Frage] metafisica può essere posta se non in quanto colui che pone la domanda è tale da essere coinvolto coinvolto nella domanda, ossia è in questione [Frage] egli stesso" (p. 4). Ciò non significa che la domanda metafisica verta su colui che la pone, essa non è una domanda sulla soggettività - ma ciò che la caratterizza come tale è il fatto che la soggettività è in essa direttamente implicata. Vi un'ambivalenza caratteristica della parola tedesca Frage che in realtà è presente anche nell'espres­ sione italiana "questione", che indica una domanda che solleva un problema da discutere, ma che può essere impiegata in frasi come "essere messo in questione", "essere in questione", frasi che possono significare "andarne di mezzo". 5. Secondo Heidegger, ciò non si può certamente dire per do­ mande e problemi posti dalle scienze - la soggettività che le pone è qui, al contrario, "fuori questione". Le scienze sono esclusi­ vamente puntate sulle cose da conoscere, esse sono "rivolte al mondo", il loro obbiettivo è "l'ente stesso nel suo contenuto e modo di essere, per farne oggetto di indagine e di determina­ zione fondamentale". Perciò nella scienza noi diamo "espres­ samente ed unicamente alla cosa stessa la prima e l'ultima pa­ 73 rola", ed in questo modo "ci si sottomette, entro determinati limiti, all'ente stesso, allo scopo che questo si metta in grado di automanifestarsi" (p. 6-7). Vi è dunque una sudditanza all'ente, una sottomissione alle cose da conoscere - che peraltro mira, alla fine, ad un dominio su di esse. Si suggerisce dunque che la conoscenza abbia come scopo il dominio tecnico del reale e come presupposto un atto preliminare di sottomissione alla realtà stessa: le cose ci si debbono manifestare nella loro vera natura, e proprio in quanto ci adeguiamo ad essa - alle leggi che le regolano - possiamo riuscire a dominarle. 6. All'interno di questa linea di discorso, la specializzazione del­ le scienze è considerata con un'accentuazione negativa. Specia­ lizzazione significa frantumazione: le scienze sembrano essere tenute insieme da puri dati di fatto, o addirittura dalla pura e semplice esistenza di luoghi in cui esse vengono di fatto inse­ gnate insieme (come le università) o dall'esistenza di finalità pra­ tiche che le discipline particolari debbono assolvere. Poste così le cose, Heidegger si chiede se il senso della scien­za possa essere veramente ridotto alla risoluzione di problemi tecnico-pratici secondo questo rapporto di dominio sulla cosa che è anche, al tempo stesso (e prioritariamente) un rapporto di sottomissione. 7. Intanto vi è questo fatto: questo modo di rivolgersi al mondo per conoscerlo, e conoscendolo dominarlo, è un atteggiamento liberamente scelto dall'uomo che con la domanda conoscitiva "irrompe" nell'omogeneità del mondo di cose costituendolo come mondo da conoscere. Lo scopo della scienza si determina in rapporto a questa irruzione: secondo la formula di Heideg­ ger, questo scopo è l'ente stesso - e null'altro . Questa formula viene ripetuta più volte: … e null' altro; - …e, oltre questo, null'altro; - …e al di fuori e sopra questo null'altro (p. 8). 8. La ripetizione non ha qui solo lo scopo di enfatizzare il pro­ 74 blema, di drammatizzarlo, ma anche nello stesso tempo, di farlo esistere. Infatti, proprio attraverso questa iterazione viene propo­ sto il primo punto di arrivo di questo percorso: la domanda che ci fa accedere al problema metafisico riguarda proprio questo null'altro che compare nella delimitazione dello scopo dell'inda­ gine scientifica. 9. Vi sono, in questo inizio, alcuni temi che, pur in una forma differente, ci riportano alla metafisica della tradizione, e sareb­ be un errore non prestare attenzione ad essi. Il breve ma signi­ ficativo accenno alla critica della specializzazione, si conclude con l'osservazione: "la sorgente comune delle scienze, che ne dà l'essenza fondamentale, si è inaridita" (p. 5). In negativo, è qui certamente presente ciò che per la metafisica della tradizione era una sorta di indiscussa ovvietà: che le scienze avessero una "sor­ gente comune" e che in essa fosse da ricercare la loro "essenza fondamentale". 10. Ed ancora certamente non nuova è l'idea che la questione metafisica oltrepassi la dimensione della scienza - perché è que­ sto che dice Heidegger nella prima esposizione del problema. Tuttavia il modo in cui lo dice è del tutto singolare e inatteso. La scienza si occupa della realtà, e di null'altro - e con questo "null'altro" è la scienza stessa che chiude le porte in faccia alla metafisica. Ma implicitamente pone anche la domanda che la metafisica deve far propria. 11. Il tempo del razionalismo metafisico che vede una continuità tra scienza e metafisica e addirittura una identità metodologica fondamentale nel modo dell'approccio sono tramontati. Così come ha perso consistenza quell'orizzontre religioso precosti­ tuito che dava immediatamente un contenuto all'oltremondo - un contenuto che certo il filosofo razionalista riteneva di dover ripensare da capo e in certo modo rifondare razionalmente, ma 75 che comunque era là, a sua disposizione, con una certezza pri­ maria da riacquisire. Ora invece ci troviamo di fronte all'affer­ mazione che al di fuori ed al di sopra dell'ente non c'è null'altro che meriti l'attenzione di una indagine conoscitiva: per Heideg­ ger si tratta anzitutto di riguadagnare il problema contro questa polemica antimetafisica. Quell'af­ferma­zione viene perciò presa in parola: "Unica­men­te l'ente e al di fuori di questo - nulla" così da poter chiedere: "Che ne è di questo nulla?" Se come scienziati al di là dell'ente non c'è nulla da indagare, allora come filosofi, più precisamente come metafisici, vogliamo interrogarci proprio su questo nulla. II. Il nulla come tema del pensiero metafisico 1. Passaggio alquanto singolare. Non stiamo qui avviandoci ver­ so sbocchi di aperta paradossalità? Interrogarsi sul nulla non equivale forse a non interrogarsi affatto? Può semplicemente l'aggiunta di un articolo - il nulla - mutare questo stato di cose? 2. Domande più che legittime: ma a cui non vogliamo troppo frettolosamente dare il nostro assenso. Si deve riconoscere an­ che a Heidegger il diritto di presentarci il suo scarabocchio: e noi gli diremo cos'è. 3. Del resto, l'azzardo appartiene all'ideazione filosofica. E così Heidegger azzarda questo pensiero: "oggi più che mai" la scien­ za "deve affermare per la sua serietà e purezza che essa si occupa unicamente dell'ente", ed allora l'attenzione del filosofo deve ri­ volgersi sul versante opposto: il tema della filosofia sarà dunque il nulla stesso. Di ciò Heidegger accetta il rischio. Le obiezioni sono del resto a portata di mano. "Interrogarsi sul nulla - che cosa e come esso sia - converte ciò su cui ci si interroga nel suo contrario. La domanda si priva da se stessa del proprio oggetto" (p. 11). Una simile proposta chiama in causa la sua stessa possi­ 76 bilità logica, e Heidegger lo sa. Ed allora dovrà essere contestata la "supremazia della logica", viaggiando con il pensiero lungo una strada in cui sono disseminati segnali di permessi e di divieti, che noi non terremo in nessun conto. 4. È presente a Heidegger anche l'obiezione più forte: da un punto di vista logico, la parola "nulla" sarà presumibilmente considerata come una parola che deriva da una operazione di sostantivazione compiuta sulla negazione. La negazione è la nozione primaria, e rimanda ad una pura funzione intellettua­ le. Se vogliamo interrogarci sul nulla, saremo dunque rinviati da questo sostantivo alla funzione intellettuale soggiacente. Il nulla c'è soltanto perché c'è il non. Ma se le cose stessero così, il problema perderebbe tutta la pregnanza che Heidegger in­ tende attribuire ad esso. Perciò egli adombra la possibilità che valga piuttosto l'inverso, che "il nulla sia più originario del non e della negazione" (p. 12). 5. Su che cosa ciò possa significare peraltro Heidegger non of­ fre spiegazioni e naturalmente non possiamo essere costretti noi a produrle al suo posto. Tuttavia, per quanto una simile affer­ mazione possa essere misteriosa, anche in essa si può scorgere un tratto caratteristico che ci riporta alla metafisica del passato. Alla base del ribaltamento qui proposto vi è la tacita assunzione che le funzioni intellettuali in genere presuppongano un qualche stato dell'essere, che esse non siano autonome, ma che abbiano bisogno di una fondazione ontologica. Pensiamo al richiamo agli attributi divini effettuato in rapporto alle nostre funzioni intel­ lettuali e conoscitive superiori, richiamo così frequente nella me­ tafisica della tradizione. Tutte le nostre capacità spirituali, in una forma ovviamente attenuata, hanno la loro giustificazione nel nostro rapporto con dio, che è un rapporto di dipendenza d'essere. La posizione che Heidegger assume qui è il residuo che questa impostazione lascia dietro di sé una volta che sia stata privata di 77 tutto il suo contenuto positivo. Non vi è più dio (l'Essere con la maiuscola), non vi sono più gli attributi divini di cui le nostre facoltà intellettuali sono pallida ombra ed in cui esse si radicano, ma resta l'idea di un radicarsi delle funzioni intellettuali altrove. 6. È inutile, contro Heidegger, rivendicare i diritti della logica, proprio perché questi diritti sono negati in via preliminare. Che la questione sia formalmente impossibile è dato per ovvio. E di qui si trae come conseguenza che proprio da questa impossibi­ lità non dobbiamo lasciarci fuorviare; dobbiamo anzi decider­ ci una volta per tutte ad abbandonare il terreno argomentativo. Dobbiamo "mettere da parte l'intelletto" e rivolgerci in tutt'altra direzione. Se il nulla ha una consistenza che non può essere ar­ gomentata o semplicemente pensata senza imbattersi in contro­ sensi, esso deve comunque potersi manifestare. Heidegger dice: dobbiamo poterlo incontrare (begegnen) (p.13). Nella nostra vita emoti­ va, nella sfera delle manifestazioni affettive: qui forse ci accadrà, o forse ci è già più volte accaduto, di imbatterci nel nulla. III. Il nesso tra metafisica e totalità 1. È interessante notare come si presenti in Heidegger il nesso tra problema metafisico e problema della totalità. Una condizio­ ne necessaria per far valere il tema della priorità del nulla sulla negazione è certamente il fatto che la parola nulla venga impie­ gata in modo assoluto. Finché si tiene ferma la priorità della negazione, la parola nulla viene impiegata all'interno di relatività più o meno sottintese. Queste relatività presuppongono sempre una determinata positività che viene appunto negata. Se parlo di uno spazio vuoto - ad es. di un cassetto in cui non c'è nulla - la nozione positiva presupposta è quella delle cose che potrei attendermi di trovare nel cassetto. Ad esempio, cerco un quader­ no nel cassetto e rilevo che in esso non c'è. Il non è per così dire applicato al quaderno che era posto come esistente nel cassetto 78 nel momento in cui mi sono accinto a ricercarlo. Eventualmente posso dire: nel cassetto non c'è nulla - e la negazione riguarda ora sia quel quaderno, sia altre cose relativamente indeterminate che comunque ci si può attendere di trovare in un cassetto. Il modo in cui usiamo ogni giorno la parola nulla ha sempre questo carattere, mentre appare subito chiaro che se ci teniamo fermi ad esso non riusciremo certo a pervenire al tema del nulla nel senso di Heidegger. 2. Di passaggio vorrei attirare l'attenzione su questo rapporto con l'impiego corrente dei termini. Talvolta Heidegger ricorre a situazioni tratte dall'espe­rienza e dal linguaggio corrente. Ad esempio: "noi conosciamo il nulla, sebbene solo in quanto di esso, per un verso o per l'altro, parliamo ogni giorno" (p. 13): ma il nulla di cui si parla ogni giorno è un nulla volgare, "scolorito nell'incolore uniformità dell'ovvietà": il niente appunto dei no­ stri cassetti vuoti. Per Heidegger il linguaggio corrente annuncia il problema, ma nello stesso tempo lo appiattisce in modo da renderlo insignificante. Al linguaggio comune si contrappone il linguaggio metafisico, o meglio, l'impiego metafisico delle paro­ le, che sa cogliere il loro senso nascosto e presentarlo in tutta la sua potenza. 3. Dal nulla impiegato relativamente passiamo così al nulla im­ piegato in senso assoluto: ad un nulla che non nega l'esserci di questo o di quello e nemmeno l'esserci di un insieme più o meno vagamente delimitato di cose, ma nega appunto la totalità di ciò che è, la totalità delle cose che sono. E proprio perché si con­ trappone a questa totalità, il nulla stesso è un concetto totale. Le due nozioni si presuppongono l'un l'altra. La nozione di totalità dell'ente deve poter essere in qualche modo data, per consentire al nulla di manifestarsi, ma non può a sua volta essere concepita come una nozione intellettuale: essa non viene ottenuta in un passaggio che chiama in causa la nostra capacità di astrazione, 79 come se si trattasse di formulare il pensiero di tutte le cose possi­ bili a partire dalle cose che ci stanno intorno. Il nulla deve essere dato in un'esperienza e non in un pensiero, e questa esperienza del nulla deve poter essere vissuta anche come una esperienza della totalità, e quindi la totalità stessa deve essere colta nell'atto stesso di annientarsi. IV. Rimando agli stati affettivi 1. Questo richiamo alla totalità diventa particolarmente signifi­ cativo quando si passa a tracciare sommariamente l'ap­proc­cio al problema metafisico attraverso la via delle emozioni. Stati d'ani­ mo come la gioia, la tristezza, l'ansietà, la paura... sono momenti che fanno anzitutto parte della dimensione quotidiana della vita, che Heidegger caratterizza come una dimensione di costante "affaccendamento" (alltägliches Dahintreiben): in essa siamo sem­ pre volti a realizzare un qualche compito particolare, e questi stati d'animo, intrecciati nel­­l' "af­faccendamento", sono per questo le­ gati alla particolarità di un oggetto o di uno scopo. 2. La noia è l'esempio che Heidegger suggerisce per primo: come stato psicologico essa non è altro che una caduta di inte­ resse per qualcosa che prepara il rivolgersi dell'interesse ad altro, e va dunque considerata come uno stato transitorio, tra una fac­ cenda e l'altra. Mentre ti ascolto parlare ora mi annoio… allora la tua voce passa sullo sfondo diventando sempre più lontana, ed il mio occhio segue stancamente i riflessi che i raggi di sole creano entrando dalla vetrata cercando un qualche oggetto di interesse su cui posarsi. A questa noia legata alla dimensione della quotidianità ne può tuttavia subentrare un'altra che può anch'essa iniziare con il prendere sempre più le distanze da qual­ cosa di determinato, ma diviene poi sempre più profonda e non cerca nemmeno di riprendersi volgendo l'interesse in altra dire­ zione. L'oggetto a cui eravamo intenti fino a poco fa si allontana 80 nelle sue determinazioni particolari, ma nessun altro oggetto si fa avanti per rivendicare la nostra attenzione. Ogni particolarità tende a rifluire in una totalità che diventa sempre più indifferen­ ziata, una totalità che va dissolvendosi. La noia che raggiunge questa intensità, in luogo di mantenerci nella quotidianità, ci strappa ad essa - e in questo movimento, il nulla ci si fa incontro come una "totalità che si annulla". Nella noia profonda, cioè nella noia che comincia a perdere un significato puramente psicologico per rice­ vere un significato metafisico, si realizza un livellamento dei gradi di importanza che toglie senso al nostro stesso affaccendamento quotidiano. In essa la totalità c'è come un diffondersi su ogni cosa di un velo di nebbia sempre più fitta. (Si noti di passaggio che, come talora in Leibniz, anche se con senso differente, ci sia una sorta di trasvalutazione dal piano psicologico a quello me­ tafisico). 3. La gioia: l'esempio rimanda ora ad uno stato d'animo positivo. Su di esso tuttavia Heidegger si diffonde ben poco, accennando appena alla situazione dell'innamoramento. Non è difficile tut­ tavia trasferire alla meglio le considerazioni precedenti a questo sentimento. Anche in questo caso potremo infatti distinguere una gioia che punta in una direzione determinata, e un senti­ mento volto alla totalità, intesa come indeterminata e priva di articolazioni e differenze interne. Entrambi gli esempi sono in ogni caso sommariamente esposti e vanno intesi come esempi preparatori del passaggio alla situazione emotiva fondamentale, all'esperienza esemplare dal punto di vista metafisico. V. L'angoscia 1. Questa esperienza - o stato o disposizione dell'animo - è l'angoscia. Il punto essenziale della differenza tra l'angoscia e la paura sta nella determinatezza dell'oggetto della paura, nella dimensio­ ne specifica di pericolosità e di minaccia di ciò che fa paura, indi­ 81 pendentemente dal fatto che il pericolo sia reale o immaginario. Di fronte al pericolo, ci si agita per reagire ad esso, si cercano appigli per fronteggiarlo, e può accadere che "si perda la testa" nell'affanno di questa ricerca. L'angoscia invece - qui non faccia­ mo altro che seguire passo passo il testo heideggeriano - "porta con sé una caratteristica quiete" e può essere descritta come un distacco da tutto ciò che è, come un affondare delle cose e di noi stessi "in una specie di indifferenza": uno stato nel quale (e qui la descrizione è abbastanza simile a quella della noia) la totalità dell'ente si annuncia come una totalità che scompare. Quando ci ri­ solleviamo da questo sgomento e ci chiediamo "di che e perché ci siamo angosciati? Non c'era propriamente - nulla. Ed in realtà il nulla stesso - in carne ed ossa - era là" (p. 19). 2. In questo modo di impostare la questione, la vita corrente di ogni giorno occupa una importantissima funzione di sfondo. Nell'immagine dell'uomo che corre da una cosa all'altra, che è impegnato in questo e in quello, che parla e dice molte cose pie­ ne di senso - e che sono tali perché hanno sempre di mira qual­ che cosa - si ripresenta di continuo il tema della delimitazione, in contrapposizione a quello della totalità. Di fronte a me c'è sempre precisamente questa o quella cosa. Io stesso sono "così e così" - ho le mie determinatezze, compiti reali ed obbietti­ vi ben definiti. Il passaggio alla totalità come passaggio al nulla ci solleva proprio dall'impegno della determinatezza, e dunque dall'impegno della vita quotidiana. Anche i sentimenti sono per lo più sotto la presa di questa determinatezza, ma alcuni di essi talora riescono a bucare la superficie, ed a mostrare il fondo. 3. La metafisica deve prendere le distanze dall'ar­go­mentazione. In luogo di escogitare sempre nuove strutture argomentative, ci viene additata un'altra via, la via dell'espe­rienza. Occorre presta­ re la massima attenzione all'impiego di questa parola. Essa non ha una inflessione conoscitiva, non indica una conoscenza, ma 82 essenzialmente un modo di sentire. La vita è fatta di esperienze: vi è l'esperienza della gioia, della tristezza, del desiderare, del vo­ lere. Queste esperienze sono intrecciate nella vita di ogni giorno, e finché restano in questa rete non attingono certamente alle profondità della metafisica. E tuttavia, come abbiamo visto or ora, esse, e prima di tutto l'angoscia, possono avere una capacità rivelativa che si contrappone alla capacità argomentativa della lo­ gica, d'altronde esplicitamente messa da parte in questo ambito di problemi. 4. L'angoscia viene tuttavia costantemente - in modo consape­ vole o inconsapevole - rimossa. Anche se essa è sempre sullo sfondo, latente e viva; come se dormisse, ma sempre pronta a ridestarsi - per un nonnulla: "Alla profondità della sua potenza cor­ risponde l'inezia che basta ad occasionarla" (p. 27). Nell'angoscia non solo si incontra il nulla, ma si manifesta il problema dell'ente "im Ganzen" - ovvero, come Heidegger si esprime: "l'ente ricon­ dotto e ridotto alla totalità". 5. Il problema della totalità si ripresenta come totalizzazione dell'ente, come problema del farsi totalità dell'ente, e ciò signi­ fica: sprofondamento, sommersione, e quindi anche scompar­ sa dell'ente nella totalità e infine scomparsa della totalità stessa. Heidegger si industria non poco per illustrare questa situazione. Così egli sottolinea che, non solo non vi è una idea astratta della totalità, a cui si possa contrapporre una idea altrettanto astratta del nulla ottenuta per negazione, ma non vi è nemmeno un'e­ sperienza che abbia per oggetto la totalità a cui si contrapponga un'esperienza del nulla, esso stesso a titolo di oggetto. 6. Tutta la tematica viene giocata invece sul fatto che l'esperienza del nulla è, ad un tempo, l'esperienza dell'essere, e precisamente di un essere che scompare: cosicché può essere citata la formula hegeliana "il puro essere e il puro niente sono dunque lo stesso", che riceve tuttavia un senso interamente diverso. In Hegel que­ 83 sta identificazione avviene tenendo conto della totale vuotezza dei concetti. L'essere trapassa nel nulla e inversamente perché l'uno è altrettanto indeterminato quanto l'altro. Qui invece non si fa affatto questione di una simile vuotezza concettuale, ma di una esperienza che è ad un tempo manifestazione dell'essere e del nulla. VI. L'esistenza umana come trascendenza 1. Was ist Metaphysik? si conclude con passi che riconducono alla condizione umana. Come abbiamo osservato all'inizio, la do­ manda metafisica mette in questione colui che la pone, che è anche colui che fa esperienza dell'angoscia, colui che in essa in­ contra il nulla. Questi è l'uomo stesso, l'uomo nella sua esistenza concreta (Dasein). La domanda metafisica è anche una doman­ da che porta ad una caratterizzazione del mio esserci (Dasein), dell'esistenza umana in generale: l'esserci è caratterizzato dalla capacità di cogliere l'ente nel suo totalizzarsi, quindi di andare "al di sopra" e "al di là" del particolare e del determinato. An­ dare "al di là" e "oltre" si dice anche "trascen­dere". L'esistenza umana si caratterizza come trascendenza. 2. Il tema dell'esserci come trascendenza richiama, per un verso, la capacità umana di fronteggiare le cose, di non aderire passi­ vamente ad esse, di attuare decisioni, di atteggiarsi di fronte ad esse, di assumere un atteggiamento autonomo. In questo conte­ sto assumono il massimo rilievo gli atteggiamenti "nullificanti" - il respingere, il rifiutare, il proibire, il rinunciare. E naturalmente assume rilievo il tema della libertà, un tema che affiora in vari punti così come affiora l'idea che le sue radici stiano proprio nella prossimità dell'es­serci al nulla. 3. "Il fatto che l'esserci sia tenuto dentro al nulla, fondato sull'an­ goscia latente, fa dell'uomo la sentinella del nulla" (p. 27). La tra­ 84 duzione di "sentinella" nonh è affatto appropriata. Il testo dice Platzhalter letteralmente: colui che tiene il posto di un altro, cosicché l'immagine non è tanto quella del guardiano, quanto quella del "vicario", di una presenza che manifesta ed attesta un'assenza. Sullo sfondo vi è l'antico tema filosofico-religioso dell'effimero. L'essere dell'uomo vacilla tra l'essere e il nulla. 4. Questa è la rivelazione della metafisica, rivelazione che è assai meno una rivelazione filosofica di quanto non sia invece qualcosa che è dato in un'esperienza vissuta. In questo senso la metafisica è un "accadimento" e precisamente l'accadi­mento fondamentale nell'esserci. Nello spirito di queste considerazioni non vi è dun­ que nessuna metafisica filosofica. Vi sono invece accadimenti metafisici su cui la filosofia può rivolgere la sua attenzione riflessiva. VII. Perché qualcosa piuttosto che nulla? 1. In queste conclusioni la vecchia idea secondo cui la scienza trae dalla metafisica la possibilità della sua esistenza ha modo di essere riaffermata. Non certo nel senso antico del richiamo ad un'unità di ordine superiore, ad un completamento e ad un'inte­ grazione necessaria. Si tratta invece della possibilità di quel "per­ ché" che pone in moto l'indagine conoscitiva. In certo senso vengono qui contraddette le nostre considerazioni introduttive iniziali che ponevano la domanda metafisica come la domanda che può essere proposta dopo che ha ricevuto risposta l'"ultima domanda" del processo conoscitivo giunto al suo termine. Ora dovremmo dire che una domanda conoscitiva in genere non po­ trebbe nemmeno essere formulata, e quindi un processo cono­ scitivo non avrebbe potuto nemmeno avere inizio, se l'ente non ci apparisse estraneo, se non provassimo "meraviglia" intorno ad esso. Questa meraviglia può sorgere solo se il piano dell'ente come tale viene oltrepassato, cosicché condizione della scienza è la stessa condizione umana come trascendenza. C'è una scienza 85 in quanto c'è l'accadimento metafisico fondamentale che ci pone ad un tempo di fronte all'essere ed al nulla, che mostra l'esisten­ za umana come impregnata di nulla, come vacillante tra essere e nulla. Detto in un altro modo: tutti i perché particolari che ri­ cevono una risposta all'interno dello sviluppo delle conoscenze poggiano nella loro possibilità su un'unica grande domanda, con la quale si chiude questo saggio: "Perché c'è qualcosa piuttosto che nulla?" (Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts?) 2. Domanda leibniziana - certo. Ma essa giunge al termine di uno sviluppo che ne modifica radicalmente il senso. La doman­ da di Leibniz è una domanda autentica alla quale segue senz'al­ tro una risposta: esiste qualcosa piuttosto che nulla perché dio sceglie secondo il principio del meglio, e qualcosa è meglio che nulla…In modo ben diverso questa domanda si ripresenta qui: nel passaggio dalla parola "qualcosa" (ente) alla parola "nulla" dobbiamo scorgere quello scivolamento dall'essere al nulla, e ad un nulla che rivela l'essere, che caratterizza l'esperienza dell'an­goscia, come se in questa formulazione verbale si volesse imitare il sen­ so di quell'esperienza o sintetizzarlo. La domanda di Heidegger poi non è affatto un'autentica domanda, nel senso che essa non attende affatto una risposta. Naturalmente diciamo questo come cattivi interpreti (o anche come interpreti cattivi): infatti, dal punto di vista di un filosofo heideggeriano, questa è la più autentica di tutte le domande, proprio perché non attende alcuna risposta. Una discussione approfondita sui rapporti tra Heidegger e Leibniz, il cui principio di ragione sufficiente viene nuovamente tematizzato da Heidegger in Vom Wesen des Grundes (1929) e in Der Satz vom Grund (1955 - 56) ed altrove, viene realizzata da R. Cristin, Heidegger e Leibniz. Il sentiero e la ragione, Bompiani, Milano 1990. 86 VIII. Enfatizzazione della domanda 1. Uno sguardo un poco oltre, al primo capitolo del corso di lezioni tenute da Heidegger nel 1935 e pubblicate sotto il titolo di Introduzione alla metafisica è certamente opportuno per fornire qualche chiarimento aggiuntivo e qualche integrazione ai temi emersi. Vi sono peraltro alcuni significativi mutamenti di accen­ to. Il riferimento ad un'esperienza fondamentale che rivela il nulla viene qui appena sfiorato. Si accenna soltanto ai vissuti emotivi, non tanto come una vera e propria via di accesso alla questione metafisica, quanto piuttosto per sottolineare che una compren­ sione autentica di essa non può essere una comprensione astrat­ ta, ma richiede una partecipazione che sia in grado appunto di afferrare la sua "forza nascosta". Il centro del discorso è invece occupato proprio dalla domanda "Perché qualcosa piuttosto che nulla", che ha ora bisogno anzi di essere fortemente enfatizzata. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, trad. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1972. 2. Essa è la domanda più vasta, più profonda, più originaria: ci in­ segna Heidegger. È la più vasta perché non riguarda questo o quell'ente, ma la totalità stessa. La più profonda perché mira alle profondità per il fatto stesso che cerca il fondamento. "Tale domanda sul perché non ricerca, per l'ente, cause della stessa natura o poste sul medesimo piano di esso" (trad. it. cit. p. 15). Anche questo tema fa parte del bagaglio tradizionale di un orien­ tamento metafisico del pensiero. Se chiedo il fondamento di B - "Perché B?" - , potrei rispondere indicando A e mostrando la concatenazione causale tra A e B. In tal caso ci muoviamo sul piano omogeneo dei fatti. Questo è il Satz vom Grund della scien­ 87 za. Mentre il fondamento richiesto dalla filosofia si dirige dalla superficie verso il fondo, e d'altronde, essendo il Perché rivolto alla totalità stessa, la risposta non ammette in via di principio una concatenazione. La più originaria perché riguarda le nostre origini. In prece­ denza si diceva: mette in questione colui che la pone. Ma ora ciò viene detto in modo più complicato. Ursprung - origine, da springen, saltare, scaturire, emergere. Essa è la domanda più originaria perché presuppone un venir fuori, un emergere da (springen) ogni mia anteriore sicurezza d'essere (Geborgenheit, essere al sicuro, al riparo, protetto). 3. Proprio questa domanda sottrae l'uomo all'effimero. An­ zitutto guardiamo questo essere infimo da molto lontano, da un'altezza stellare. Citando Nietzsche, Heidegger al­lu­de a que­ sto sguardo dall'alto e da molto lontano come il modo in cui si annuncia il problema metafisico: "Raffigu­ria­moci la terra nell'universo, entro l'oscura immensità del­lo spazio. Al suo confronto, essa è un minuscolo granello di sabbia fra il quale e il più prossimo granello della stessa grandezza si estendesse un chilometro e più di vuoto: sulla superficie di questo minu­ scolo granello di sabbia vive un ammasso caotico, confuso e strisciante, di animali che si pretendono razionali e che hanno per un istante inventato la conoscenza". "E che cosa è ormai l'estensione temporale di una vita umana nel giro di tempo di un milione di anni? Appena uno spostamento della lancetta dei secondi, un breve respiro". Ma poi, attraverso la posizione della domanda "Perché qualcosa piuttosto che nulla", avviene il ribaltamento: essa ir­ rompe nella totalità insignificante e morta - "irrompe" nel senso che contiene una soppressione latente di questa insignificanza, rompe l'omogeneità della concatenazione. "Il porsi di questa do­ manda, nei confronti dell'ente come tale nella sua totalità non costituisce un fatto qualsiasi che si verifichi accidentalmente 88 nell'ambito dell'ente, come ad esempio il cadere delle gocce di pioggia". "Di conseguenza tale domandare non istituisce di per sé un fatto qualunque, ma un accadimento preminente, ciò che noi chiamiamo un evento (Geschehnis). " (p. 16). 4. La condizione della sicurezza d'essere (Geborgenheit) ci preserva dalla domanda stessa e dai suoi rischi, tenendoci lontani da essa: un tema che naturalmente si ricollega all' "af­faccendamento" della quotidianità. Come faremmo mai, con tutto quello che ab­ biamo da fare, con tutti gli assilli che derivano dai nostri bisogni pratici e dalle nostre minute passioni, dai nostri odi e dai nostri amori, a proiettarci nell'immensità interstellare e di qui essere riportati indietro a risentire il peso di quella domanda? Eppure queste passioni, questi bisogni, le inquietudini da cui essi sono accompagnati, fanno parte dello stato protetto - della Geborgenheit. Si tratta infatti di inquietudini ben localizzate, esse non sono inquietudini radicali, inquietudini originarie, che vanno alle radici della mia intera esistenza. Di questa condizione di prote­ zione fa parte anche l'intero universo delle opinioni comuni, a cui da sempre ci siamo adeguati, le tradizioni, le credenze religiose. IX. Problema metafisico e problema religioso 1. Nella tradizione filosofica del passato la connessione tra pro­ blema metafisico e problema religioso è del tutto esplicita. La re­ ligione è anzitutto un dato di fatto dell'ambiente culturale circo­ stante. La filosofia che giunge alle altezze della metafisica, deve solo effettuare una riappropriazione autonoma del contenuto della religione secondo mezzi propri. Nella riproposizione del­ la metafisica in Heidegger il problema religioso sta sempre alle porte. Si tratta infatti di proporre una nozione di esistenza tale da porre il problema metafisico-religioso nel suo stesso interno. Certo, Heidegger deve prendere le distanze dagli sviluppi posi­ tivi caratteristici della metafisica del passato. In esse le domande 89 hanno in ogni caso una risposta. La fede appartiene essa stessa alla Geborgenheit, è una componente essenziale di essa. E tutta­ via queste considerazioni non debbono farci perdere di vista il fatto che, in Heidegger, il nesso tra problema metafisico e problema religioso non è meno stretto che nelle elaborazioni metafisiche del passato. Solo che assume un'inclinazione diversa. La metafisica non può più essere sistema speculativo, non può più orientarsi secondo le credenze riconosciute, non può più parlare lo sciolto eloquio della persuasione e dell'argomentazione. La metafisica è passata da una metafisica del contenuto ad una metafisica istanziale, dallo sciolto eloquio dell'argomentare e del dibattere ad una forma di sapiente balbettio, ad un arrovellarsi del linguaggio per evitare la caduta dell'istanza nella posizione. Saremmo tentati di dire che la pura iterazione della domanda "Perché qualcosa piuttosto che nulla?" - che è ancora l'espe­dien­te let­te­rario per la sua enfatizzazione in questo testo come il "null'altro" in Che cosa è la metafisica? - sem­ bra essere ormai l'unica dimostrazione possibile dell'esistenza di dio. X. L'essere delle cose ed il loro senso 1. L'ente è ciò che è, dunque ad es. una cosa, un pezzo di gesso. Esso ha determinate proprietà, è leggero, friabile, bianco. Facen­ do riferimento ad esso possiamo descriverlo avvelendoci di pro­ posizioni predicative dove compare appunto il verbo essere. Ora in questa descrizione ciò che non viene ancora colto è proprio l'essere dell'ente, il fatto che questo pezzo di gesso anzitutto "è" - e questo "è" non coincide con la leggerezza, né con la friabilità o con qualunque altra proprietà. Non lo dico io. Lo dice Hei­ degger. E così egli si chiede: "Dove dunque è andato a cacciarsi l'essere? Qualcosa del genere deve pure appartenenere al gesso, in quanto questo gesso è". Se poi prescindiamo dalla particola­ rità dell'essere di questo ente ed operiamo una generalizzazione, ci troviamo di fronte alla domanda sull'essere stesso - "Che ne 90 è dell'essere?" (pp. 42 e 43). 2. Qui si gioca del tutto apertamente su un equivoco logi­ co-grammaticale, da tempo ben noto. Infatti si assume la "è" anzitutto come copula. In questa modalità di impiego, questa paroletta non fa altro che operare una connessione predicativa; ad una certa cosa viene attribuita questa o quest'altra proprietà. Ma poi si pone il problema come se l'essere fosse a sua volta una proprietà della cosa, da ricercare in qualche modo in essa o comunque attraverso di essa. E naturalmente questa "proprietà" non la si trova. 3. Heidegger approfitta espositivamente di un simile equivoco, ma non ne fa un impiego troppo ingenuo. Prima diamo ad inten­ dere di ritenere che l'essere sia una proprietà della cosa accanto alle altre - e così la ricerchiamo tra esse. Voltiamo e rivoltiamo la cosa senza venirne a capo: "Dove dunque è andato a cacciarsi l'essere?" Ma così facendo mostriamo invece che l'essere non può essere cercato così, ovvero: se la parola essere indica qual­ cosa, non indica qualcosa di simile ad una proprietà delle cose: "Importa prima di tutto attenersi costantemente all'esperienza del fatto che l'essere dell'ente non lo possiamo cogliere diret­ tamente, in senso proprio, né presso l'ente, né nell'ente, né da qualsiasi altra parte" (p. 43). 4. Eppure si resta perplessi. La parola "è" indica una connes­ sione predicativa oppure significa "esiste". Ma nel contesto pre­ cedente si toglie l'equivoco che fa dell'"essere" un predicato, e nello stesso tempo fin dall'inizio è chiaro che questa parola non significa "esistere". Ed allora quale è il significato che si vuole attribuire ad essa? È utile andare agli esempi. Essi rimandano tutti a modi di sentire la cosa, nei quali essa appare non tanto compresa e conosciuta nelle sue qualità oggettive, quanto "ricca di senso". 91 5. Si pensi all'immagine dei fanciulli che giocano all'ombra del portale di una chiesa romanica in un giorno di sole (p. 45) - in questa situazione l'essere della chiesa e della piazza è qualcosa di intrinsecamente diverso da ciò che può trovarsi nella descrizione della chiesa di una guida turistica. Come non concordare con questo? Ma si tratta di un essere della chiesa e della piazza per i fanciulli che giocano in essa oppure per chi li contempla. 6. Istruttivo è anche l'esempio dell'odore della scuola dell'infan­ zia. L'essere della scuola può essere addirittura fiutato "e questo odore dà l'essere di questo ente in maniera assai più immediata e veritiera di qualunque visita o descrizione" (p. 44). Ma perché l'essere? Se riteniamo di esprimerci così, possiamo naturalmente farlo, essendo in ogni caso chiaro che si tratta di un essere per me, dunque del modo in cui la scuola è stata presente nella mia espe­ rienza vissuta. 7. Di fronte ad esempi come questi, si dovrebbe mettere l'accen­ to sul fatto che in essi si tratta di investimenti di significato che hanno la loro origine e la loro fonte nella vita e nell'esperienza della soggettività. Ciò che è qui in questione non è l'essere della cosa, eventualmente integrato nella totalità delle cose, ma è la relazione tra la soggettività e la cosa. Queste esperienze derivano da "donazioni di senso" che hanno il loro fondamento in questa relazione. Un commento in uno spirito heideggeriano sarebbe invece profondamente diverso, anche se ci troviamo qui di fron­ te ad una sottile ambiguità. Infatti è necessario far inclinare la portata di questi esempi, che si potrebbe arrestare ad una dimen­ sione puramente fenomenologica, in modo che essi mantengano la presa sulla questione ontologica. 8. Anche ammesso che la donazione di senso derivi dalla sog­ gettività, il problema allora semplicemente si sposta: donde trae la soggettività questa sua capacità di dare senso? Gli esempi allu­ 92 dono ad una molteplicità di sensi dipendenti dalle relatività sog­ gettive. Ma fa parte dello spirito di queste considerazioni non già il limitarsi ad attestare questa molteplicità, ma ritenere che alla base di essa vi sia una sorgente unica ed assoluta. La parola essere se non indica esattamente questa sorgente, ne apre comunque il problema. 9. Le significazioni soggettive debbono fondarsi su una signi­ ficazione assoluta. "Se dio non c'è, io che capitano sono?" - esclama il capitano di Dostoevskij ne I demoni. (A lui non basta la fenomeno­lo­gia dei suoi galloni). 10. Una così esplicita chiamata di dio è esclusa in Heidegger. L'e­ laborazione filosofica di Heidegger altro non è che una me­ta­fisica degradata, una metafisica residuale. La costruzione sistematica cede di fronte alla pura evocazione. XI. Metafisica e decadenza 1. Heidegger rivendica l'inattualità della filosofia: "La filosofia è per sua essenza inattuale; essa appartiene infatti a quel genere di cose il cui destino è di non trovare mai un'immediata risonanza nel presente, e anche di non doverla mai incontrare" (p. 20). Meglio forse sarebbe stato se egli si fosse strettamente attenuto ad un'affermazione come questa. Invece egli effettua anche un tentativo di auto-storicizzazione. La riproposizione del proble­ ma dell'essere assume tanta più enfasi nel discorso heideggeria­ no quan­to più l'accento cade sull'epoca come del tutto sorda al richiamo evocativo di quella parola. Per questo la nostra epoca viene caratterizzata come una epoca di "decadenza" (p. 47). 2. E in che cosa si manifesta più vistosamente questa decadenza? La decadenza sta nella desolante frenesia della tecnica scatenata, nella massificazione dell'uomo, nella diffusione dei mass media 93 (p. 48), nella distruzione della terra prodotta dall'industrialismo; ed ancora nell'abbandono di ogni dimensione di profondità e nel livellamento di ogni valore; nel predominio della dimensione quantitativa; nel prevalere della mediocrità (p. 55): "l'invadenza di cose che attaccando ogni valore, ogni spiritualità capace di misurarsi con il mondo, la distruggono e la fanno passare per menzogna" (p. 56). Tutto ciò viene raccolto e sintetizzato dalla metafora dell'"oscu­ramento del mondo" (p. 55) oppure da quella della "fuga degli dei" (p. 48). 3. Nessuna di queste frasi trae senso esattamente da se stessa, e perciò non converrà sottoscriverle troppo frettolosamente. Il loro senso dipende dal contesto, da obbiettivi polemici deter­ minatamente individuati, dai modelli a cui si guarda per giudi­ care tecnica e industria. Così per puntare il dito sulla mediocrità bisogna indicare la direzione verso cui il dito si volte e per fare l'elogio dei valori perduti occorre indicare di quali valori si parla; e per tutto ciò occorre infine prestare la massima attenzione alla parte da cui esse vengono enunciate. Tanto meno ci si può lasciar troppo toccare dalle ultime metafore: esse non insegnano chi oscura e come, e quali dei siano fuggiti e quali debbano ritornare. Heidegger storicizza la propria filosofia, e dunque anche se stesso dentro l'epoca. La domanda metafisica non è, nemmeno da questo punto di vista storico, una pura accidentalità: in essa, è l'essere stesso che richiama l'epoca dalla propria decadenza. Ed il primo ad essere richiamato è il popolo tedesco. E perché mai il popolo tedesco? Risponde Heideg­ ger: perché esso è il centro dell'occi­dente, perché esso può rap­ presentare l'unica alternativa per una riscossa della spiritualità di fronte a Russia ed America che "rappresentano entrambe da un punto di vista metafisico, la stessa cosa" (p. 48). Perché è infine il popolo tedesco è il "popolo metafisico per eccellenza" (p. 49). Purtroppo, in quegli anni - siamo nel 1935 - Heidegger sta­ va in Germania dalla parte sbagliata. E questo modo di proporre 94 la redenzione attraverso la metafisica dà i brividi. XII. Come Heidegger concepisce la filosofia 1. La concezione che i filosofi propongono della filosofia è sem­ pre molto indicativa dell'atmosfera e dell'orientamento intellet­ tuale che sta alla base delle loro elaborazioni. Ad essa bisogna prestare particolare attenzione. In Heidegger la concezione della filosofia manifesta ovunque enfasi, sublimazione, surriscalda­ mento. La filosofia "è una delle poche cose grandi di cui l'uomo è capace" (p. 27). (A mio sommesso parere: forse sono molte le cose grandi di cui l'uomo è capace. E quando la filosofia è fra queste?). In quella frase di Heidegger in ogni caso si sancisce in ogni caso la distanza tra il pensare filosofico e il pensare comu­ ne; tra i problemi filosofici i problemi ordinari della vita e dell'e­ sistenza. Su questo forse si può anche d'accordo: certamente i problemi filosofici non sono esat­tamen­te problemi come tutti gli altri. Ed occorre prendere qualche distanza dalle nostre faccende quotidiane per provare interesse ad un problema filosofico. Ma quest'ultima affermazione può avere sensi differenti, e le frasi che seguono sono utili per rendere esplicito come Heidegger concepisca la filosofia: "Ci poniamo al di là di ciò che è all'ordine del giorno... Filosofare significa interrogarsi su ciò che è fuori dell'or­dinario" (p. 24). "Il fatto è che è proprio dell'essenza della filosofia rendere le cose non più facili, bensì più difficili... il compito vero della filosofia consiste in realtà piuttosto nell'appesantimento dell'esserci storico e in ultima analisi dell'essere stesso" (p. 22). "Un filosofo è un uomo che vive, vede, ascolta, sospetta, spera e costantemente sogna cose straordinarie" (p. 24). 95 2. Ma forse più di tutte è rivelatrice la citazione che Heidegger trae da Nietzsche e di cui si appropria: "La filosofia... è la scelta di vivere fra i ghiacci e le alte cime" (p. 74). 3. Wittgenstein, senza sapere di avere un tale interlocutore, con efficacia straordinaria risponde così: "Discendi sempre dalle nude alture dell'intelligenza nelle valli verdeggianti della stupi­ dità". "Nelle valli della stupidità per i filosofi cresce pur sempre più erba che sulle nude alture dell'intelligenza" (Pensieri diversi, 1948 e 1949). Giovanni Piana Opere complete Volume quattordicesimo Interpretazione del "Mondo come volontà e rappresentazione" di Schopenhauer I. Intuizione, intelletto, ragione, p. 5 II. Volontà e natura, p. 87 III. Introduzione alla metafisica del bello, p. 173 IV. L'affermazione e la negazione della volontà di vivere, p. 213 Appendice: Indicazioni di lettura per la "Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente", p. 311 2013 4 ISBN 978-1-291-29410-1 Copyright Giovanni Piana 5 Giovanni Piana Interpretazione del "Mondo come volontà e rappresentazione" 1 Intuizione, intelletto, ragione 1990 6 Questo testo è tratto da lezioni del corso di Filosofia Teoretica sul tema "Epistemologia e metafisica della natura in Schopenhauer" tenuto all'Università degli Studi di Milano nel 1990. Le traduzioni italiane citate sono le seguenti: La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, I ediz. 1813, a cura di A. Vigorelli, Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano 1990 (Abbrev.: Quad_1), II ediz. 1847, a cura di Eva Amendola Kuhn, Boringhieri, Torino 1959 (Abbrev.: Quad_2); Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. di N. Palanga, Mursia, Milano 1969 (Abbrev. : M.); Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, in Il Mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, Mondadori, Milano, 1989 (Abbrev.: Suppl.). Inoltre vengono citate le Lezioni berlinesi (1820), da Philosophische Vorlesungen, Teil I, II ecc., aus dem handschriftlichen Nachlass, hrsg. von Volker Spierling, München, 1986 (Abbrev.: Lez. I, II ecc.). Nel caso che il luogo della citazione sia del tutto chiaro dal testo, viene indicato solo il numero di pagina. Nell'impiego delle traduzioni ci siamo riservati la possibilità di introdurre le modifiche ritenute necessarie senza esplicita segnalazione. 7 INDICE 1. Il mondo come mia rappresentazione e la tradizione fenomenistica - Differenze e relazioni con Berkeley, Hume e Kant. 2. La revisione del trascendentalismo kantiano - Spazio, tempo e materia - Simultaneità e successione - Il temporale "puro" e lo spaziale "puro". 3. La semplificazione del problema kantiano delle forme a priori e delle categorie - Spazio, tempo e causalità come forme dell'esperienza - Avviamento della discussione sul tema della materia. 4. La materia come prodotto del tempo moltiplicato per lo spazio - Materia e relazione causale. 5. Un altro aspetto secondo il quale viene in questione la causalità in rapporto alla realtà materiale - Il problema della mediazione corporea - Il corpo come oggetto immediato - Tematica della sensazione - Passaggio dalla sensazione all'intuizione attraverso l'interpretazione causale delle sensazioni. 6. Critica del realismo ingenuo - Spiegazioni integrative intorno al problema dell'interpretazione causale delle sensazioni. 7. L'intellettualità dell'intuizione - La non razionalità dell'attività intellettuale - L'operare dell'intelletto - Il problema della "passività" delle operazioni causali. 8 8. Postilla sulla realtà del mondo esterno - Idealismo e realismo secondo lo schema delle Lezioni berlinesi. 9. Problematica della ragione - Concezione comune e concezione filosofica della ragione - Il rapporto con gli animali - In che senso gli animali hanno un intelletto - Ricordo riflessivo e ricordo intuitivo - Ragione ed errore - Il carattere riflesso del concetto - Gli inganni dell'intelletto e gli errori della ragione - Solo lo spirito e la conoscenza fanno l'uomo signore della terra. 10. Teoria del concetto - La rappresentazione astratta e la parola - Il significato della parola è qualcosa di interamente differente dalle eventuali immagini concomitanti - La parola come telegrafo perfettissimo dei concetti - Perché gli animali non parlano - L'astrarre inteso come isolamento di una proprietà, lasciando tutto il resto indeterminato - L'individualità può essere solo intuita, e non pensata. 11. Teoria della logica - Interesse di Schopenhauer per la logica formale - La logica non ha nessuna utilità pratica ma un grande interesse teorico - La logica deve essere insegnata nelle università - L'importanza conferita alla rappresentazione figurativa dei rapporti logici - Una significativa citazione di Lambert. 12. Digressione sulla teoria del riso e del comico in Schopenhauer - In che modo in essa sono implicati concetto e intuizione - La teoria della sussunzione paradossale - Esempi - La distinzione tra spiritosaggi e buffoneria - Sulle cause del riso - Il riso sorge dal piacere che genera lo scacco della ragione - Il buffone che sbeffeggia il pedagogo. 9 1. Il mondo come mia rappresentazione e la tradizione fenomenistica - Differenze e relazioni con Berkeley, Hume e Kant. È in realtà importante, proprio per assumere il corretto atteggiamento di lettori del Mondo come volontà e come rappresentazione, rendersi conto della struttura di questo libro e delle sue ragioni. Su di essa dice troppo poco un semplice sguardo all'indice: l'opera infatti si presenta suddivisa in quattro libri i cui titoli richiamano due volte la rappresentazione e due volte la volontà, imitando e raddoppiando il titolo principale: così il libro primo si intitola "Il mondo come rappresentazione" e il secondo "Il mondo come volontà" - e gli stessi titoli compaiono anche per il libro terzo e quarto con la sola precisazione che si tratta di una "seconda considerazione" rispetto ad una "prima considerazione". Inoltre vi è una suddivisione in settanta paragrafi che sono numerati progressivamente, quindi senza tener conto della suddivisione in libri, che vengono lasciati per di più privi di titolo, cosicché manca nell'indice una sorta di guida che fornisca al lettore un primo orientamento sul contenuto e sulla forma dell'opera. Questa relativa intrasparenza è del tutto intenzionale e vuole sottolineare l'unitarietà dell'opera che viene concepita come una discussione di una molteplicità di temi gravitanti intorno ad un unico centro piuttosto che come una successione di problemi che vanno via via integrandosi nel loro sviluppo in un sistema unitario. Questa concezione dell'opera non è tuttavia incompatibile con un'altra che appare sempre più evidente man mano che si procede nella lettura: essa ha in realtà la forma di un vero e proprio trattato di filosofia, con le sue classiche sudivvisioni interne. Il primo libro infatti può essere considerato come interamente dedicato al problema epistemologico, il secondo al problema metafisico, il terzo al problema estetico ed il quarto al problema etico. Troviamo così le grandi partizioni in cui potrebbe consistere un trattato scolastico di filosofia: epi- 10 stemologia, metafisica, estetica ed etica. Questa concezione dell'opera è pienamente confermata dalle lezioni che Schopenhauer tenne a Berlino nel 1820, lezioni che vengono per lo più ricordate per il fatto che esse segnarono l'inizio e la fine della carriera accademica del filosofo. Esse non poterono essere ripetute, benché fosser state annunciate anche per gli anni successivi, per mancanza di studenti, che preferivano a Schopenhauer colui che egli definiva maggior ciarlatano della filosofia del tempo - G. W. F. Hegel. A questo risultato fallimentare del resto aveva contribuito lo stesso Schopenhauer che, con un gesto un po' perverso ed in ogni caso sintomatico della sua personalità e del suo temperamento, aveva disposto le proprie ore di lezione in modo da farle coincidere perfettamente con quelle di Hegel. A queste lezioni con un esito così sfortunato Schopenhauer dedicò in ogni caso una grandissima attenzione, redigendo ad una una ogni lezione, così da proporre un vero e proprio commento di Schopenhauer a Schopenhauer. Queste lezioni - a qui faremo riferimento parlando per brevità di Lezioni berlinesi - vennero pubblicate nel 1913 e recentemente riedite. In esse, nel ridisegnare il proetto del Mondo, Schopenhauer scegli proprio la forma del trattato di filosofia: il titolo generale del corso si richiama infatti alla filosofia stessa nella sua generalità (Vorlesung über die gesamte Philosophie), mentre le sue articolazioni, in corrispondenza ai quattro libri del Mondo, sono intitolate nell'ordine: Teoria del rappresentare, del pensare e del conoscere; Metafisica della natura; Metafisica del bello; Metafisica dei costumi. Il suo primo libro assolve indubbiamente la parte di sviluppare le problematiche inerenti alla teoria della conoscenza. Dando uno sguardo di insieme al suo contenuto vediamo subito che esso prende le mosse dall'esperienza percettiva, e quindi dal modo primario di conoscere la realtà, per poi passare alla tematica di una sua apprensione propriamente razionale, in un'accezione che in seguito andrà precisata, tematica che si 11 conclude con i §§ 15-16 dove si tirano le fila intorno al concetto del sapere e della scienza ed alla differenza tra spiegazione scientifica e filosofica. La riflessione si apre naturalmente sul grande tema del mondo come "mia rappresentazione" che è, precisa S. un lato del problema; l'altro lato è quello per il quale posso dire: il mondo è la "mia volontà". Secondo S. dire che "il mondo è la mia rappresentazione" equivale a formulare una verità indiscutibile. La questione del resto era già presente nella Quadruplice radice della ragione sufficiente. L'impianto teorico di quest'opera era rappresentato da due tesi fondamentali: la tesi dell'identità di oggetto e rappresentazione e la tesi della relazionalità delle rappresentazioni. Mentre quest'ultima riguardava propriamente la "radice" del principio di ragione sufficiente, la prima faceva valere la possibilità di impiegare nello stesso senso le parole di oggetto e rappresentazione. Questa sinonimia era motivata dal fatto che la parola oggetto indica sempre il polo di una correlazione, che ha dunque sempre un necessario contropolo: il soggetto. Ciò spiega anche il senso fondamentale della parola "rappresentazione" in questo contesto: benché nel suo impiego sia sempre presente il rischio di considerare la parola rappresentazione nel senso di un atto o di un contenuto mentale, tuttavia, almeno per ciò che riguarda questo inizio del problema in Schopenhauer, questa parola significa anzitutto essere-un-oggetto-per-un soggetto. Nella Quadruplice radice la tesi dell'identità di oggetto e rappresentazione non sembrava andare molto oltre questa possibilità di stabilire una regola terminologica, o almeno non si effettuava nessun tentativo esplicito di andare oltre questa possibilità, mentre ora le cose stanno ben diversamente. Sviluppando coerentemente quella posizione possiamo arrivare a dire: il mondo intero è costituito da oggetti e da rapporti tra oggetti, gli oggetti in genere sono rappresentazioni, dunque il mondo intero è una rappresentazione. Inizialmente Schopenhauer non sembra particolarmente 12 preoccupato di difendere a fondo questa mossa iniziale, mentre in tutta la discussione successiva egli si impegnerà a fondo per mostrare l'efficacia di una simile presa di posizione, confermandone la validità. Ma all'inizio ci si contenta di fare leva su due considerazioni: 1. l'ovvietà ovvero l'evidenza della correlazione soggetto-oggetto 2. il fatto che in questa assunzione non facciamo altro che ricollegarci ad una tradizione filosofica in cui la questione del fenomenismo era stata variamente ripresa e approfondita. In effetti quella frase non è altro che una possibile formulazione di una presa di posizione fenomenistica, cosicché possiamo ritenere che essa sia sufficientemente convalidata nelle sue linee generali dalle concezioni fenomenistiche che si sono affacciate in modo ricorrente nella storia del pensiero filosofico. Conviene allora avviare alcune considerazioni proprio intorno al fenomenismo. Intanto è bene sottolineare con Schopenhauer che gli uomini nella loro pratica quotidiana con la realtà provano una vera e propria "intima ripugnanza" nei confronti dell'idea che il mondo sia null'altro che una loro rappresentazione. In effetti la realtà ci appare come pienamente indipendente da noi e le cose come sussistenti in se stesse indipendentemente sia dal nostro sussistere sia dal fatto che noi in qualche modo le rappresentiamo. Se guardiamo ad una posizione fenomenisitica a partire da queste nostre radici nella "realtà empirica" - ovvero nella realtà così come ci appare ogni giorno e nella pratica che noi abbiamo con essa, allora non possiamo che provare fastidio di fronte ad una formulazione fenomenistica come di fronte ad una sorta di sofisma inconsistente. Ciò che invece dovremmo subito mettere in chiaro è che lo scopo di una formulazione fenomenistica non è mai quallo di negare un simile modo di concepire la realtà empirica, ma è piuttosto quello - così almeno mi sembra di poterla intendere - di riscuotere noi stessi in quanto siamo immersi in essa, di operare dunque uno sradicamento che ci conduca su un nuovo terreno, e precisamente sul terreno della riflessione filosofica. Per questo 13 sarebbe senz'altro sbagliato far agire subito, come tutti forse saremmo tentati di fare, quella nostra interna ripugnanza, facendo invece valere la grezza realtà del mondo che ci circonda. Ciò ci viene insegnato già dai primi argomenti fenomenistici che vengano avanzati nella filosofia filosofia antica, da parte di scettici e sofisti. In questi argomenti si tende ad indebolire il "senso" della realtà proprio in direzione della sua riconduzione ad una mia rappresentazione, ma spesso questi argomenti hanno un carattere esplicitamente artificioso, esplicitamente paradossale: essi cercano di mettere in questione ciò che appare apertamente sotto i nostri occhi - ad esempio, si nega che esista il movimento, oppure che in generale esista qualcosa, ecc. Cosicché essi sembrano avere il loro scopo più che nell'effettivo contenuto che mettono in questione, nell'attivazione della riflessione filosofica, nell'invenzione e nell'impiego di strumenti dell'argomentazione, nella messa in luce di problemi e motivi teorici che in precedenza, senza quest'opera di sradicamento dalla realtà empirica sarebbero rimasti nascosti. Questo è un aspetto che, io credo, appartiene ad ogni presa di posizione fenomenistica. Essa ha sempre il carattere di uno stimolo che mette in moto domande, possibili risposte, difficoltà e tentativi di soluzione, veri e propri processi di pensiero che possono poi certamente divergere radicalmene nel loro sviluppo, che possono dar luogo a filosofie profondamente diverse. Così, se noi diciamo, ad esempio, che ci sono cose che si muovono, una simile affermazione non genererà in noi né interesse né curiosità, essendo niente altro che una verità banalmente accertata ogni giorno. Ma non appena in una raffinata argomentazione di cui è difficile a tutta prima scoprire il bandolo, si arriva alla conclusione che "nessuna cosa si muove", ecco che veniamo subito stimolati da mille interrogativi, da mille problemi - assumiamo senz'altro che quella conclusione sia errata, ma allora siamo spinti a chiederci dove sia l'errore all'interno dello sviluppo argomentativo ed in generale a riflettere sul concetto di movimento scoprendo problemi e difficoltà dove prima 14 non ne vedevamo alcuno. Così di fronte alla frase di Schopenhauer: "il mondo è la mia rappresentazione" dovremmo commentarla così: qui si sollevano dei problemi. A questi problemi, e non alla frase in sé e per sé, dovremmo rivolgere tutta la nostra attenzione. Ma come abbiamo osservato, Schopenhauer cerca anzitutto appoggio nella tradizione: egli nomina anzitutto Berkeley come colui che per primo enunciò con chiarezza ed in modo radicale la tesi del mondo come rappresentazione. Si tratta naturalmente della famosa enunciazione: esse est percipi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un'enunciazione dall'apparenza paradossale, dal momento che afferma che l'esistenza obbiettiva delle cose, quindi del mondo intero, dipende dal fatto che io, o meglio, qualcuno in generale, le percepisca. Il percipi sta dunque in luogo della rappresentazione, l'esse in luogo del mondo. Ma anche in rapporto a Berkeley va detto che il suo principio ci appare paradossale solo se ci manteniamo in quel realismo ingenuo che fa parte del nostro atteggiamento quotidiano nei confronti della realtà. Siamo invece invitati a cogliere le difficoltà di ordine concettuale che sorgono nel momento in cui quel realismo ingenuo cessa di essere una tesi puramente praticata e si tenta invece di renderla esplicita dando di essa un'effettiva elaborazione teoretica. Non appena muoviamo i primi passi in questa direzione, si manifesta subito la difficoltà rappresentata dall'idea di un nucleo sostanziale delle cose che sia capace di garantire il loro essere in sé. Si tratta di un'idea difficile da teorizzare, tanto più se vogliamo attenerci alla testimonianza dell'esperienza sensibile, dunque a ciò che ci appare sul piano dei fenomeni, come fonte primaria di ogni nostra conoscenza. Questa difficoltà era emersa con particolare forza, prima di Berkeley, in John Locke per il fatto che, da un lato, egli avanza l'istanza meodologica di un sapere tutto fondato sull'esperienza sensibile, dall'altro tenta di sostenere l'oggettività in sé del mondo con due assunzioni par- 15 ticolarmente impegnative: l'assunzione secondo cui vi sarebbero qualità primarie, cioè qualità appartenenti alla cosa come tale indipendentemente dal modo in cui essa viene appresa; e l'assunzione secondo cui tutte le qualità delle cose sarebbero tenute insieme da una unità soggiacente che tuttavia sfugge all'esperienza sensibile e dunque non può propriamente essere conosciuta. Nell'esse est percipi di Berkeley si dice anzitutto: non vi sono qualità primarie; e non vi è nessuna sostanza nel senso di Locke. Ma naturalmente queste tesi negative debbono dar luogo ad una costruzione filosofica positiva che sia in grado di mostrare la capacità di quel principio di rendere conto coerentemente della nozione di realtà così come la conosciamo e di superare del resto le obiezioni che possono essere rivolte alle sue possibili conseguenze. E proprio in rapporto a questa costruzione positiva. il giudizio di Schopenhauer è fortemente critico: al di là della sua formulazione esse est percipi, "il resto delle sue teorie non merita di vivere" (M., p. 39). Quel principio resta dunque soltanto una sorta di geniale intuizione priva di effettivi sviluppi. Gli sviluppi vi sono invece in Kant. In questo filosofo è indubbiamente presente una riduzione al fenomeno che gli proviene proprio dalla tradizione fenomenistico-empiristica, ed in particolare da Hume. Vi è effettiva conoscenza, secondo Kant, solo in ambito intrafenomenico. Ma a differenza della posizione empiristica, si ammette all'interno delle operazioni di esperienza di componenti a priori, che rendono necessaria un'accentuazione del rapporto soggetto-oggetto che è per Schopenhauer particolarmente importante. Mentre nell'esse est percipi di Berkeley la tematica della soggettività non può che essere implicata, ma la discussione sul fenomenismo non scaturisce da una riflessione della relazione tra soggetto e oggetto. Che i due momenti possano essere nettamente separati lo dimostra vistosamente la posizione di Hume. Poiché Hume è interessato a far valere un'istanza antimetafisica, la sua riduzione al fenomeno è tale da 16 frantumare non solo la nozione della cosa come nucleo sostanziale, ma anche quella della soggettività come sostanza spirituale. Così i fenomeni percettivi primitivi di Hume, le sue impressioni non sono affatto da intendere come date ad una soggettività, ma come atomi psichici vaganti, per così dire, in un universo mentale che non ha alcun centro fisso di riferimento. In Kant le cose stanno diversamente: proprio l'ammissione di compoenti a priori che agiscono nelle formazioni di esperienza sembra esigere che queste componenti vengano collocate da qualche parte. Cosicché un modo di concepire l'esperienza come unità di contenuti direttamente tratti dalla sensazione e di forme a priori corrisponde all'idea di una correlazione necessaria soggetto-oggetto, nella quale le forme a priori saranno appunto da considerare come attività della soggettività. Tutti gli oggetti dell'esperienza possibile sono dunque fenomeni, ma lo sono all'iterno di una correlazione che fa delle soggettività con le sue forme e categorie a priori una condizione necessaria di ogni unità di esperienza. Si noti che qui abbiamo operato una sorta di identificazione terminologica tra oggetti e fenomeni: in questa impostazione problematica troviamo il senso profondo della tesi dell'identità tra oggetti e rappresentazioni. Il fenomenismo di Schopenhauer è dunque attraversato dalla problematica kantiana delle forme dell'esperienza, e dunque dall'idea che esso possa essere in certo senso se non dedotto almeno giustificato a partire dall'idea della correlazione necessaria tra soggetto e oggetto. 2. La revisione del trascendentalismo kantiano - Spazio, tempo e materia - Simultaneità e successione - Il temporale "puro" e lo spaziale "puro". Tutto ciò ha un'importante conseguenza: l'idea di una realtà esistente in se stessa e verso la quale ci rivolgiamo come a qualcosa che possiede un'oggettività indipendente da noi, l'idea - 17 come ci siamo espressi - di una "realtà empirica" del mondo non è incompatibile con l'idea della sua "idealità trascendentale", cioè con l'idea che essa rimane "sempre sotto la condizione assoluta del soggetto". Questo punto è particolarmente messo in rilievo all'interno del Mondo (cfr. I, §4) nel quale si sviluppa una discussione molto ampia sul problema dell'idealismo e del realismo. In essa si afferma che l'"idealità trascendentale" del mondo non mette in questione il fatto che esso sia esattamente quel mondo nel quale viviamo la nostra vita. Si afferma perciò molto nettamente che "soltanto ad una mente rovinata da sofismi può venire l'idea di contestare la sua realtà" (M., p. 51). Eppure proprio in questo contesto viene toccato un problema che, pur essendo presente in ogni fenomenismo, assume in Schopenhauer un'inclinazione particolare che contribuisce in maniera determinante, più che ad arricchire di contenuto teorico il suo sistema filosofico, a delineare la sua "fisionomia", a istituire la tonalità complessiva nella quale esso si sviluppa. Ogni riduzione al fenomeno contiene sempre il problema della distinzione tra fenomeni che sono provvisti di un indice di realtà e fenomeni che sono invece sprovvisti di questo indice: in una parola, la distinzione tra ciò che è soltanto una rappresentazinoe mentale e ciò che è invece "reale", tra realtà e fantasticheria, dunque tra la veglia e il sonno. Già Cartesio, come egli racconta nelle sue Meditazioni metafisiche, in quella rigida notte di inverno, in cui serenamente addormentato nel proprio letto, sognava di essere essere sveglio a godere il calduccio del caminetto, traeva da questa esperienza la riflessione che tutto potrebbe essere esattamente come in questo momento ci appare, senza tuttavia poter essere realmente essere certi di essere svegli oppure addormentati. Nella riduzione al fenomeno sembra si giochi sull'equivocità che caratterizza il verbo italiano apparire - e quindi in generale la nozione di fenomeno: da un lato fenomeno significa letteralmente ciò che appare, così da farci pensare a qualcosa che si manifesta con chiarezza così come essa è; dall'altro ci può far 18 pensare invece ad un apparire che contrasta con l'essere vero, ad un'apparire come apparenza; ma dobbiamo anche prestare attenzione, in particolare in rapporto a Schopenhauer, ad un'inclinazione di senso che non coincide con la precedente, all'apparizione come qualcosa che è privo di consistenza, che è illusoria nel senso in cui possiamo dire illusoria una figura che ci sembra di intravvedere nella nebbia e che poi non riusciamo a raggiungere ad afferrare, ad identificare: alla apparizione proprio nel senso di un fantasma che ha una vita instabile e precaria. Tutto ciò interessa parole come fenomeno, apparenza, apparizione, parvenza; ma anche la parola rappresentazione. In effetti nel Mondo la differenza tra sogno e veglia, già accennata nella Quadruplice radice, viene nuovamente ridiscussa e riconfermata nei termini in cui veniva formulata in quell'opera: non si può sperare di venire a capo della distinzione tra sogno e veglia né con la pretesa di una differenza di qualità tra le immagini del sogno e le immagini della veglia, dunque la "minore vivacità e chiarezza del sogno rispetto alla percezione reale" dal momento che "nessuno ha potuto fino ad ora mettere a confronto le due cose" essendo questo confronto possibile solo se le une e le altre sono simultaneamente alla nostra presenza; e nemmeno con la risposta kantiana che ritiene di poter cogliere questa differenza nella connessione causale che sarebbe imperfetta e lacunosa nel caso dei sogni. Nulla infatti impedisce che anche un sogno abbia la stessa coerenza causale della realtà. Se mai il problema della causalità va considerato nel rapporto tra sogno e veglia: il sogno, che può essere stato internamente coerente, non arriva a connettersi coerentemente con la sequenza di eventi che comincia con il mio risveglio, ed anzi questa sequenza si integra coerentemente con gli avvenimenti che sono accaduti prima del sonno. Schopenhauer cita a riprova una stravagante osservazione di Hobbes secondo la quale quando ci siamo coricati vestiti, confondiamo più facilmente la realtà con il sogno: osservazione certo non molto persuasiva, ma che dobbiamo sforzarci di in- 19 tendere nel senso delle considerazioni or ora svolte: il fatto che quando mi sveglio vedo di essere vestito può farmi pensare di non essermi mai addormentato, e ciò certo complica le cose per ciò che riguarda gli eventi a cui ho assistito in sogno! Ma il punto fondamentale della distinzione è in ogni caso la discontinuità tra sogno e veglia, cosicché "l'unico criterio sicuro per tale distinzione è quello del tutto empirico del risveglio, il quale rompe in modo effettivo e palpabile la connessione causale fra gli avvenimenti del sogno e della veglia" (M., 53). Questa analisi ha in ogni caso di mira una tematica più generale ed impegnativa. Se le cose stanno in questo modo dovremo certo riconoscere l'esistenza di una stretta parentela tra la vita e il sogno. Così scrive in proposito Schopenhauer. "La vita e i sogni sono pagine dello stesso libro. La lettura successiva è la vita reale. Ma quando l'ora abituale della lettura (il giorno) è trascorsa, ed arriva il momento del riposo, noi continuiamo spesso a sfogliare oziosamente il libro, aprendo a caso questa pagina o quella, senz'ordine e senza seguito, imbattendoci ora in una pagina già letta, ora in una pagina nuova, ma il libro che leggiamo è sempre il medesimo. La singola pagina isolata, pur priva di connessione con l'ordinata lettura dell'intera opera, non ne differisce tuttavia gran che, quando si pensa che comincia e finisce all'improvviso anche la lettura regolare, e può quindi ritenersi come una pagina unica, sebbene un po' più lunga" (p. 54). Ora, il dire che "la vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro" significa certamente cogliere un'effettiva verità psicologica intorno ai nostri sogni. E può essere che Schopenhauer pensi anche a questa verità psicologica, ma certamente non solo ad essa; in realtà pensa anche e soprattutto a qualcos'altro che riguarda in certo modo il senso della nostra vita. Qui si dice: l'unica differenza è tra i sogni lunghi e i sogni brevi, e la nostra vita non è altro che un lungo sogno. Quindi vivendo ci muoviamo tra fantasmi sullo sfondo di un mondo fantasmagorico. La frase "il mondo è la mia rappresentazione" 20 dice dunque anche che il mondo è una fantasmagoria. Ed è appena il caso di rammentare che questo modo di intendere questa frase è uno dei motivi importanti che consentono a Schopenhauer quegli agganci con il pensiero indiano che egli ritiene di poter riconoscere come profondamente affini al proprio orientamento filosofico. Se consideriamo l'esposizione che Schopenhauer fa di questo problema nelle Lezioni berlinesi ci rendiamo conto che in fin dei conti gli accenni presenti nella Quadruplice radice, che ad un primo sguardo non sembrano contenere queste implicazioni, in realtà contengono già questa possibilità di intendere il principio del mondo come rappresentazione in modo da portare l'accento sulla sua fantasmagoricità. Non si tratta più soltanto di attirare l'attenzione sulla tesi dell'identità di oggetto e rappresentazione: ora si tratta invece di fare riferimento alla tesi della relazionalità di tutte le rappresentazioni. In realtà in quelle due tesi sono presenti i motivi interpretativi fondamentali del principio del mondo come rappresentazione. Parlando del principio di ragione sufficiente Schopenhauer insiste particolarmente sul fatto che in esso abbiamo a che fare con il problema della possibilità del sapere, della conoscenza, della scienza in genere. La scienza è sempre ricerca dei fondamenti e da questo punto di vista la frase secondo cui "ogni rappresentazione è una rappresentazione fondata" può essere proposta come un asserto che fissa la possibilità stessa di una considerazione scientifica della realtà. Ma ciò vale anche per la tematica dell'agire, e dunque per quella della volontà e dei motivi. In questo ambito avremo a che fare soprattutto con momenti della nosra vita psichica ed in particolare della vita affettiva. Parlare di una legge della motivazione significa allora la stessa cosa che parlare della possibilità che si dia di tutto ciò una scienza autentica: anche in rapporto ad ogni fatto della vita psichica si possono dare spiegazioni autentiche. Nelle Lezioni berlinesi Schopenhauer mostra un'altra pos- 21 sibile interpretazione della tesi della relazionalità, un altro modo di leggerla. Insistere su questo aspetto relazionale non potrebbe voler anche significare che l'accento viene posto sulla relatività di ogni cosa, sulla sua essenziale dipendenza da altro, e quindi - qui si interpola un nuovo pensiero - sulla sua essenziale inconsistenza? In quanto dipendente da altro ogni cosa è in se stessa precaria e instabile. Schopenhauer parla addirittura di nullità (Nichtigkeit) delle cose (Lez 1, p. 474). Una simile inclinazione del discorso potrebbe già essere colta nel fatto che la relazione temporale può essere considerata come una sorta di modello comune ad ogni forma del principio di ragione sufficiente, come una relazione semplice che illustra esemplarmente la sua radice, e che perciò può essere indicata come "lo schema (Schema) e il modello originario (Urtypus) di tutte le sue forme" (Lez. I, p. 471). Ma questo riferimento ci serve ormai per illustrare altrettanto esemplarmente il tema dell'instabilità e della nullità. "Quella instabilità di cui il principio di ragione sufficiente rende partecipe gli oggetti trova la sua manifestazione più chiara e che più salta all'occhio nella sua forma più semplice, il tempo: in esso ogni istante c'è soltanto in quanto ha soppresso l'istante precedente, suo padre, per venire esso stesso a sua volta nuovamente soppresso, altrettanto celermente: passato e futuro sono un nulla al pari di un qalunque sogno, il presente soltanto c'è realmente; ma esso è soltanto il limite privo di estensione tra passatto e futuro: ciò che era poco fa presente, è già passato. Questa nullità, che ci appare qui con tanta evidenza è tuttavia inerente al principio di ragione sufficiente in ogni sua forma e ad ogni classe di oggetto che esso domina..." (Lez. I, pp.. 474-5) Vogliamo considerare in questa stessa angolatura il problema dello spazio. In questo contesto, lo spazio di cui si parla non è lo spazio geometrico, e dunque non è in questione la ratio essendi di cui si parlava nella Quadruplice radice. Si tratta piuttosto della nostra esistenza nello spazio, e precisamente di uno spazio concepito come una catene di infinite posizioni che sono determinate solo relativamente l'una all'altra. Se allora ci inter- 22 roghiamo sul luogo in cui siamo, questa domanda in parte è ovvia, in parte è invece profondamente enigmatica: il luogo in cui ci troviamo è circoscritto da un confine: ma questo confine a sua volta ha intorno altri confini, e così all'infinito. Vi è allora una sorta di conflitto tra la finitezza (delimitazione dei confini) del luogo nel quale mi trovo e l'infinità (l'essere oltre ogni confine) dello spazio, cosicché il nostro essere in un luogo piuttosto che in un altro tende a perdere qualunque significato (Bedeutung) ed "il nostro essere in un qualche luogo non è molto più che essere in nessun luogo" (Lez. I, p. 475). Si noti in margine che con ciò si comprende anche per quale motivo Schopenhauer parli non solo della nullità, ma anche della finitezza dei fenomeni: si tratta infatti di una finitezza che, come in questo esempio, si misura con l'infinità e da questa viene "annientata". "Nello spazio il luogo è sempre soltanto relativo, è determinato da un altro. Noi non conosciamo mai il nostro luogo assoluto, ma solo quello relativo. Dove siamo? - in questo o quel luogo: i confini che anzitutto ci circondano li conosciamo; ma essi hanno altri confini, e così in infinito; infatti lo spazio è infinito; i rapporti del nostro luogo con lo spazio circostante li conosciamo; ma per quanto estendiamo la nostra conoscenza, questa parte dello spazio resta finita e limitata, lo spazio stesso infinito e illlimitato, cosicché rispetto ad esso il luogo e la posizione che noi occupiamo perdono di qualunque significato, scompaiono interamente, diventano qualcosa di infinitamente piccolo e il nostro essere in un qualche luogo non è molto più che essere in nessun luogo" (Lez. I, p. 475). Si noti come stia facendosi strada una sorta di rovesciamento paradossale in forza del quale immagini di sradicamento e di perdita si affollano proprio intorno al tema del fondamento. Ora si cerca di dire: ogni esistenza è un'esistenza presa a prestito (erborgte Existenz), ed è dunque priva di radici. Riflessioni analoghe riguardano anche la legge causale. Qui sembra che qualcosa in certo modo reagisca al puro flusso temporale. Si tratta della materia stssa. Ma la materia come qualcosa di costante e permanente è una pura astrazione. Ciò a cui inve- 23 ce assistiamo è un continuo sorgere e trapassare di forme materiali, proprio in forza della legge causale che è qui vigente: l'essenza stessa del mondo ci sembra, da questo punto di vista, null'altro che "un cambiamento ed una evoluzione continua" (ivi). Proprio stando alla tematica della causalità, possiamo dire che "nulla è in forza di se stesso; perciò nulla ha consistenza (Bestand): tutto scivola via tra le nostre mani: noi stessi non eccettuati" (ivi). Con altrettanto chiarezza che nell'osservazione precedente intorno allo spazio, anche in questa sulla causalità, il punto di vista è tale da implicarci: noi non siamo puri osservatori di relazioni causali, eventualmente da mettere in rilievo a scopi conoscitivi, ma siamo immersi e portati via dal fiume delle cause. Forse solo ora siamo realmente in grado di comprendere per qualche motivo Schopenhauer abbia indicato la legge causale come principio di ragione sufficiente del divenire. 3. La semplificazione del problema kantiano delle forme a priori e delle categorie - Spazio, tempo e causalità come forme dell'esperienza - Avviamento della discussione sul tema della materia. Il compito che ora ci attende è naturalmente quello di rendere espliciti quei molti problemi che la tesi del mondo come mia rappresentazione ha il merito di sollevare. Almeno nella loro impostazione iniziale essi non sono troppo lontani da quelli che Kant ha posto nella sua Estetica trascendentale e nella sua Analitica. Come nel caso di Kant, si tratta di rendere conto del fatto che c'è per noi un mondo - ed anzitutto un mondo di cose materiali, restando naturalmente strettamente sul terreno della rappresentazione del fenomeno e facendo valere nello stesso tempo la distinzione, di origine kantiana, tra i puri contenuti di esperienza attinti alla sensazione e le forme in cui questi conte- 24 nuti ricevono una strutturazione. Peraltro è bene sottolineare che il richiamo kantiano è utile soltanto all'inizio, dal momento che profondamente diverso è l'orientamento complessivo così come l'impostazione dei problemi particolari e la loro soluzione. Di conseguenza intervengono anche modificazioni terminologiche di non secondaria importanza. Potremmo anzi prendere le mosse proprio da una questione terminologica: si tratta di una semplificazione della terminologia kantiana che parlava di forme solo per lo spazio e per il tempo, mentre per le nozioni a priori "dedotte" dalla tavola dei giudizi parlava di categorie. Il termine di categoria dipende naturalmente dal modo in cui esse vengono ottenute - esso contiene il rimando alla "predicazione" e dunque alla struttura fondamentale della proposizione (giudizio). In realtà, il termine di categoria, così importante in Kant non trova in Schopenhauer alcuna effettiva legittimazione. Ma ciò accade naturalmente perché di fatto l'intera tematica kantiana delle categorie viene messa sottosopra, anzi, viene spazzata via da Schopenhauer come una costruzione fortemente artificiosa e inutilizzabile così come si trova. L'impressione che ogni lettore di Kant ha sempre avuto e continua ogni volta ad avere di fronte al modo in cui egli propone il tema delle categorie verrebbe ampiamente confermata da Schopenhauer. Di quella teoria viene conservata l'idea fondamentale dell'esistenza di condizioni a priori di strutturazione del reale; mentre delle dodici categorie resta soltanto la causalità, intesa come forma dell'esperienza accanto ed dello stesso tipo dello spazio e del tempo. Inoltre la forma causale non è affatto dedotta dal giudizio ipotetico, come accadeva in Kant, benché si ammetta ovviamente che il giudizio ipotetico possa dare espressione ad una relazione causale. Per quanto riguarda il suo carattere apriorico, questo è semplicemente garantito dalla apriorità del principio di ragione sufficiente di cui la causalità non è altro che un aspetto. Venendo meno il riferimento al giudizio, non ha più senso applicare alla causalità il termine di categoria (se non come un 25 ricordo di Kant); ed in conseguenza di ciò perde ogni ragion d'essere anche il modo caratteristicamente kantiano di impiegare il termine di intelletto (Verstand). Uno dei primi risultati interessanti di questa impostazione del problema consiste nel proporre una tematica strettamente unitaria per ciò che concerne la questione delle forme dello spazio, del tempo e della causalità. Dando per scontati gli argomenti intorno all'apriorità di queste forme, siamo ora soprattutto interessati a mostrare in che modo esse entrano in rapporto tra loro, cominciando così a rendere conto del problema della realtà del mondo: come si comprende su questo problema il principio del mondo come rappresentazione pone un grosso punto interrogativo. Questo cadrà anzitutto sulla nozione di materia. Già il fenomenismo di Berkeley aveva tra i suoi motivi ispiratori la convinzione che, se si fosse riusciti a fornire una giustifiazione soddisfacente della tesi dell'esse est percipi, sarebbe con ciò stato messa in questione la consistenza della nozione di materia e di conseguenza di sarebbe tagliata alla radice la mala pianta del materialismo, che Berkeley teme per le sue implicazioni ateistiche e irreligiose. Peraltro la dissoluzione della nozione di materia potrebbe assumere la forma di un'obiezione nei confronti della tesi fenomenistica alla quale si potrebbe imputare di non riuscire a venire a capo di essa. Analogamente per la nozione di sostanza: la tesi del mondo come rappresentazione sembra implicarne la pura e semplice soppressione. Ma di essa possiamo realmente fare a meno? Kant ritenne di dover rispondere di no, e poneva la sostanza tra le categorie. Ed anche Schopenhauer dà una risposta negativa, ma la soluzione è diversa. Realtà, materia e sostanza: appare subito chiaro che queste tre parole sono in qualche modo apparentate tra loro, al punto da proporsi come angolature diverse di un'unica questione. Le cose di cui è fatto il mondo nella sua "realtà empirica" possono essere caratterizzate come cose materiali e reali - queste due 26 qualificazioni sembrano fare tutt'uno: oltre naturalmente al fatto di essere "cose", cioè entità provviste di determinate proprietà, dunque: sostanze. Nell'affrontare questo nodo problematico, vogliamo mettere al centro dell'attenzione anzitutto il tema della materia. Ciò ci consente di avviare subito una discussione intorno alle forme del tempo e e dello spazio, che si dimostrerà ben presto ricca di implicazioni inattese. Il tema della materia si ricollega anzitutto a quello dello spazio e del tempo per il fatto che essa rappresenta la condizioni della loro percepibilità (M., p. 44). Ciò significa: spazio e tempo sono forme a priori, sono condizioni e presupposti dell'esperienza, essi dunque non derivano da essa. Esiste inoltre la possibilità di un'intuizione pura, la possibilità dunque di afferrrare proprietà del tutto generali che spettano a quelle forme come tali. Ma ciò non implica per nulla che si dia una percezione dello spazio e del tempo come tali. L'idea di un'intuizione pura è qualcosa completamente diverso dall'idea che lo spazio e il tempo siano dati alla nostra percezione. Affinché siano colte percettivamente queste forme debbono essere riempite e ciò che le riempie è appunto la materia: "Lo spazio vuoto e il tempo vuoto sono certamente oggetti di una costruzione matematica per mezzo della pura intuizione a priori, ma non di una percezione autentica: solo se riempiti essi diventano percepibili. La materia è qui la percepibilità (Wahrnembarkeit) dello spazio e del tempo: infatti essa li riempie entrambi nello stesso tempo, dà ad entrambi nello stesso tempo un contenuto" (Lez. I, 161). Si parte da una premessa che ha una sua evidenza: una temporalità vuota o uno spazio vuoto sono pure astrazioni, mentre lo spazio e il tempo vengono percepiti in inerenza alla cosa materiale. Naturalmente, se ci limitassimo a questa considerazione, la nozione di materia sembrerebbe presupposta. Tuttavia si suggerisce anche che la materia, in quanto rende percepibile lo spazio e il tempo possa essere considerata una loro manifesta- 27 zione: ciò significa che essa debba essere "analizzata" e quindi anche in qualche modo "tratta" da quelle forme. Tesi molto forte, il cui fondamento può apparirci alquanto dubbio. Vediamo allora come procede l'argomento di Schopenhauer. Egli propone una sorta di esperimento mentale. Proviamoci ad immaginare che dalla percezione che noi abbiamo della realtà venga meno la forma dello spazio. Quale immagine del mondo otterremo in questo caso? La risposta a questa domanda è strettamente correlata all'idea della temporalità che in realtà deve essere affrontata per prima. Abbiamo in precedenza parlato della successione degli istanti temporali e del fatto che l'istante attuale è destinato ad essere subito soppresso dall'istante successivo. Questa è la condizione che Schopenhauer caratterizza come un "puro essere l'uno dopo l'altro" (ein blosses Nacheinander); in questa condizione viene meno qualunque possibilità di permanere (Beharren), anzi di una durata (Dauer). In questo contesto "durata" è termine da intendere nel senso del perdurare, quindi come una sorta di sinonimo di permanenza. Si tratta di un'affermazione che è assai più controversa di quanto potrebbe sembrare ad un primo sguardo. In generale si parla di un permanere attraverso il tempo, cosicché viene sottintesa l'idea di qualcosa che mantiene la sua identità nel passare del tempo, che non passa con questo passare. Ma che cosa impedisce di ritenere che questa identità attraverso il tempo non si possa costituire restando per così dire totalmente all'interno del flusso temporale? Si consideri l'esempio di un suono che mantiene per un certo tratto di tempo la stessa altezza. Possiamo allora certamente dire che è lo stessso suono che si è mantenuto nella sua identità attaverso quel tratto di tempo, e questa identità si è a sua vuolta costituita per noi restando all'interno del flusso temporale. Ciò che ci impedisce di seguire questa via è l'assunto implicito in essa che viene apertamento negato da Schopen- 28 hauer: in questo esempio infatti la successione temporale è concepita come continua, ovvero il tempo non è inteso, secondo la tesi di Schopenhauer, come incessante inabissarsi di istanti, quindi come una variazione intesa in senso tanto forte da poter dire che il passare del tempo è un passare a qualcosa di sempre nuovo, di sempre diverso. Un mondo ridotto a pura temporalità sarebbe un mondo interamente dominato dal cambiamento e dall'assoluta variazione. Di qui si trae la conseguenza che in esso non sarebbe nemmeno possibile la simultaneità: ciò sempre implicato nell'idea del puro "essere l'uno dopo l'altro". L'argomentazione che sembra stare alla base di questo punto sembra ricollegarsi al problema dell'identità. Si argomenterebbe allora che si può parlare di simultaneità soltanto in rapporto a cose o eventi riconosciuti come distinti, solo di cose che sono almeno due si può dire che esse sono simultanee. Ma dove non c'è alcun criterio per l'identità non c'è nemmeno un criterio autentico della distinzione, cosicché viene meno anche la possibilità di parlare di simultaneità. In realtà non ho trovato in Schopenhauer una simile spiegazione: egli ribadisce più volte che nella riduzione al temporale puro non potremmo conoscere alcuna simultaneità, senza indugiare nei commenti, ma la spiegazione proposta mi sembra che corrisponda allo spirito dle problema che è quello di un'accentuazione estrema del cambiamento e del mutamento che comporterebbe l'impossibilità di qualunque operazione di identificazione. Veniamo ora alla finzione opposta, sempre suggerita da Schopenhauer: proviamoci ad immaginare lo spazio senza tempo, più precisamente uno mondo da cui via venuta meno l'intera forma temporale. In certo senso questa finzione ci dà meno problemi che nel caso precedente. Verranno meno tutti i cambiamenti, il mondo ci apparirà nei rapporti che vengono mantenuti nella condizione di una completa immobilizzazione. Gli stati di cui consta il mondo saranno fissati l'uno accanto 29 all'altro, senza naturalmente che vi sia alcuna altra possibile relazione. Avremo dunque a che fare con una assoluta permanenza. Ciascuna cosa semplicemente è, c'è dunque solo identità e nessum mutamento. Questa identità ammette peraltro anche la distinzione. La tal cosa è in un luogo, ed un'altra in un altro luogo - accanto ad essa, alla sua destra, alla sua sinistra... 4. La materia come prodotto del tempo moltiplicato per lo spazio - Materia e relazione causale. Lo scopo della finzione di un tempo senza spazio e di uno spazio senza tempo è ormai abbastanza evidente. Affinché ci sia per noi un'esperienza del permanenere e della modificazione è necessario che spazio e tempo confluiscano in una stretta unità. Il problema della permanenza, e quindi dell'identità, non può essere separato da quello del mutamento. Il permanere di qualcosa può infatti assumere risalto - così argomenta Schopenhauer - solo in rapporto a qualcos'altro che muta, e inversamente. Questo rapporto può essere istituito solo nella condizione della simultaneità di ciò che viene appreso come permanente o come mutevole, e la simultaneità a sua volta, pur essendo una condizione temporale, non può essere costituita sulla base della semplice temporalità, ma ha bisogno dell'intervento di una dimensione spaziale. La spazialità è in grado di fornire un criterio della differenza dal momento che già la differenza di luogo può bastare a porre quella distinzione delle cose che rappresenta un presupposto affinché abbia senso il parlare di simultaneità. Nelle Lezioni berlinesi Schopenhauer dice esattamente così: "Il permanere di un oggetto viene tuttavia conosciuto attraverso l'opposizione al mutamento di altri che sono ad esso simultanei. Questo essere simultaneo non è tuttavia possibile nel mero tempo per sé, ma è determinato in parte dallo spazio; perché nel tempo tutto è soltanto l'uno dopo l'altro, nello spazio invece l'uno accanto all'altro: affinché due cose siano nello stesso tempo, cia- 30 scuna deve essere in un luogo (Raum) diverso" (Lez. I, p. 161). A questo punto possiamo ritornare sul problema della materia. Questo problema si pone proprio in rapporto alla necessità di giungere ad una vera e propria unificazione della forma dello spazio con la forma del tempo: questa unificazione può avvenire, osserva Schopenhauer, solo se vi è un terzo elemento che "riempie entrambe le forme, e proprio in modo da essere nell'una e nell'altra, e da portare in sé essenzialmente e inseparabilmente le proprietà di entrambe, dunque in modo tale che esso sia permanente e senza variazione come lo spazio puro e semplice, e fugace, variabile e inconsistente come il tempo puro" (Lez. I, p. 162). Questo terzo elemento è appunto la materia: rispetto alla fugacità del tempo, la materia ha quella permanenza e stabilità che possono essere riconosciute allo spazio; mentre rispetto allo spazio "pensato senza tempo", privo di modificazione e di movimento, la "materia che riempie questo spazio e lo rende percepibile viene concepita come in continua modificazione (Veränderung), in continuo mutamento (Wechsel)" (Lez. I, p. 162). Mentre parliamo di materia, parliamo anche di sostanza. La questione della sostanza affiora infatti ogni volta che l'attenzione viene attirata sulla tematica del permanere come del resto su quella ad essa strettamente collegata dell'identità. Potremmo dire in una parola che la distinzione tra sostanza e "accidenti" (Substanz, Accidenzien), ovvero tra sostanza e predicati, può essere ricondotta rispettivamente al tema della permanenza e della variazione, secondo l'idea antica della materia come sostrato comune che tuttavia si trova in una continua modificazione di stato. Questa integrazione del problema della sostanza all'interno di questa impostazione avviene in un modo interamente diverso da quello kantiano: la sostanza non è qui una categoria, non è una produzione o una funzione del pensiero. In certo modo, se ci è consentito di considerare il livello dell'analitica trascendentale kantiana come un livello più elevato di quello su 31 cui si situa l'estetica trascendentale, potremmo dire che l'operazione compiuta da Schopenhauer sia quella di uno schiacciamento del livello superiore a quello inferiore, in quanto riporta quella tematica, per così dire, tra lo spazio e il tempo, essendo la nozione di sostanza preferibilmente riferita allo spazio e quella degli accidenti al tempo: e questa operazione è resa possibile dall'interpretazione della materia come unità mediatrice tra spazio e tempo. Ora, se sul problema non avessimo proprio null'altro da aggiungere, il nostro commento a questo punto potrebbe essere all'incirca il seguente: benché certamente ci siano ovunque qui motivi di interesse, tutto il problema sembra il frutto di un'argomentazione astratta, di una "speculazione" qui e là forse abbastanza artificiosa e non sempre particolarmente convincente. In particolare sembra poco convincente anche da un punto di vista puramente interno, proprio questa idea della materia come unificazione di spazio e tempo, come "prodotto del tempo moltiplicato per lo spazio" (Lez. I, p. 163), ovvero come prodotto i cui fattori sono il tempo e lo spazio. Sarebbe subito il caso di chiedersi: proprio il fatto che la materia viene considerata come pienezza, cioè come capace di riempire lo spazio e il tempo, come può risultare da queste due vuotezze? Il prodotto di zero con zero dovrebbe ancora dare zero. Io credo che questa impressione critica sia giustificata, anche se occorre subito aggiungere che essa è probabilmente destinata ad attenuarsi notevolmente non appena portiamo a completamento la nostra esposizione che in realtà non può interrompersi a questo punto. Nulla infatti finora abbiamo detto sull'aspetto del problema che può considerarsi come il coronamento conclusivo dell'argomentazione di Schopenhauer, e che peraltro va forse considerato come lo spunto fondamentale che sta, non tanto al termine, quanto all'inizio ed all'origine dell'intero sviluppo argomentativo. Quando Schopenhauer parla della materia come prodotto i cui fattori sono il tempo e lo spazio aggiunge esplicitamente 32 che ciò significa, tra le altre cose, che la materia "contiene" questi fattori e non può essere rappresentata senza di essi. In particolare la materia non è rappresentabile senza una forma: la parola usata è qui Gestalt (e non Form). Si tratta cioè della forma concretamente delimitata di una cosa che implica dunque un rimando alla spazialità. Inoltre essa non è rappresentabile senza qualità (Qualität). Il termine di qualità non si richiama tuttavia ad una proprietà qualunque della cosa - ad esempio al colore, che potrebbe anch'esso richiamare il lato dello spazialità. Si tratta invece di qualità che manifestano specificamente la materialità, come la durezza, la resistenza, l'elasticità, ecc. e che sono caratterizzate dal fatto di poter essere messe alla prova esercitando un'azione su di esse oppure facendo esercitare un'azione da parte di una cosa su un'altra (si pensi ad una prova della durezza attaverso ad un tentativo di scalfire). Questa precisazione non si trova in Schopenhauer ma mi sembra del tutto conforme al senso del problema. Se una simile interpretazione è corretta, è facile ritrovare il tema che si trova alla fine ed all'inizio di tutta la nostra interpretazione. Si tratta di un tema di origine descrittiva (e non di un'astratta speculazione): la materia - qualora non vogliamo subito adottare una caratterizzazione fisica o metafisica di essa - si manifesta in qualità caratterizzate dal riferimento all'agire. Nelle Lezioni berlinesi si parla di Wirkungsart (Lez. I, p. 163), ma la parola agire deve essere intesa nel senso del tedesco wirken, che significa propriamente agire provocando un effetto, effettuare nel senso più letterale possibile, realizzare: questo stesso agire come wirken è presente nella parola Wirklichkei (realtà). Ci troviamo così ad avere a che fare con l'altro termine che fa parte dell'area della discussione che stiamo conducendo. Il termine di realtà ci viene ora riproposto con un esplicito richiamo al produrre effetti e quindi alla connessione causale: "Meravigliosa è dunque la precisione del termine Wirklichkeit - esclama Schopenhauer - con cui i tedeschi designano l'insieme 33 delle cose materiali: termine ben più preciso che non quello di realtà (Realität). Ciò su cui la materia agisce è ancora e sempre materia: la sua intima essenza consiste dunque unicamente nella regolare modificazione che una parte di essa produce sull'altra; un'essenza, quindi, del tutto relativa, e di una relatività valida soltanto nei limiti del mondo materiale, proprio come il tempo e lo spazio" (M., §4, p. 45). Considerando l'intera questione da questo punto di vista essa riceve una nuova luce ed una particolare vivacità teoretica. Ciò che la doppia finzione che è servita come introduzione alla nostra esposizione fa venire meno - dobbiamo dire ora - è soprattutto la possibilità dell'apprensione di un rapporto causale. Quest'apprensione è certamente tolta nel "puro spazio" dove ogni cosa si trova semplicemente l'una accanto all'altra; ma è tolta anche nel caso del "puro tempo", dal momento che si ha qui al massimo una condizione di contiguità temporale che non va confusa con il nesso causale. Mancando l'apprensione di questo nesso, manca anche l'apprensione della materialità - l'un problema sta strettamente nell'altro (keine Kausalität; aber auch keine Materie). Tutta la tematica dell'unificazione dello spazio e del tempo conduce dunque alla riproposizione del problema della causalità, come problema nel quale riconfluiscono il tema della materia, della sostanzialità e della realtà stessa. Inversamente nel considerare la legge causale, dovremo tener conto che in essa è presente il rapporto spazio/tempo: "Ciò che viene determinato attraverso la legge della causalità, non è quindi la successione di stati nel tempo puro, ma la successione in rapporto ad un determinato spazio; e non l'esistenza di stati in un determinato luogo, ma in questo luogo in un determinato tempo... Qui non si conferma soltanto che la materia è ciò che unifica in sé lo spazio e il tempo; ma si mostra anche che la legge di causalità è connessa strettamente con l'essenza della materia: essa interviene insieme alla possibilità di questa e senza di essa non sarebbe nulla... Dove e come ci rappresentiamo la materia, ci rappresentiamo anche il suo "agire" (wirken): il suo essere è il suo agire: e non è possibile nemmeno pensare il suo essere diverso da questo" (Lez. I, p. 164). 34 5. Un altro aspetto secondo il quale viene in questione la causalità in rapporto alla realtà materiale - Il problema della mediazione corporea - Il corpo come oggetto immediato - Tematica della sensazione - Passaggio dalla sensazione all'intuizione attraverso l'interpretazione causale delle sensazioni. In una concezione del mondo come "mia rappresentazione" la nozione della realtà intesa come insieme di cose materiali si risolve dunque in quella del rapporto causale. L'esperienza della realtà è fondamentalmente esperienza di rapporti di causazione. Si tratta di una presa di posizione interessante, che sembra imporsi in particolare quando non si voglia per ragioni metodiche far riferimento ad un'idea precostituita di materia che potremmo trarre ad esempio dalla fisica o da qualche costruzione metafisica e si punti piuttosto ad una nozione di realtà che si sostenga unicamente sull'esperienza che noi abbiamo di cose materiali. Sembra allora che la via indicata da Schopenhauer, per quanto possa essere discutibile la struttura argomentativa complessiva, contenga spunti praticabili. L'intera discussione che abbiamo sviluppato può essere considerata come un'esplicitazione del nesso tra materialità e causalità che potremmo cogliere già nel quadro della problematica del principio di ragione sufficiente - e precisamente in rapporto alla prima classe di oggetti dove si discute appunto la forma causale del principio. Schopenhauer non manca di segnalare questo punto quando dice che "chi ha ben penetrato la forma speciale del principio di ragione che regge il contenuto delle forme... dello spazio e del tempo e la loro percepibilità, cioè la materia, e quindi la legge di causalità, ha con ciò stesso già colto l'essenza della materia come tale, non essendo la materia che mera causalità: verità questa di cui ognuno si rende immediatamente conto" (M., § 4. pp. 44-45). 35 Ma questo è solo uno degli aspetti secondo il quale il problema della causalità può essere richiamato in rapporto al tema della realtà materiale. Vi un secondo aspetto che riguarda piuttosto la funzione di apprensione del mondo attraverso l'esperienza nel suo esercizio concreto. Non si tratta allora di argomentare più o meno astrattamente sui rapporti tra le forme a priori dell'esperienza, ma di considerare la struttura della nostra percezione concreta del mondo. Ed il primo elemento che deve essere messo in risalto è che questa percezione è sempre mediata - cioè avviene sempre attraverso e per mezzo di qualcosa e questo qualcosa è il nostro corpo (Leib). In Schopenhauer il problema della corporeità, benché non venga portato ad effetti sviluppo, si pone comunque con notevole vivacità. Vi sono diverse ragioni interne al suo discorso che lo portano almeno a porre l'accento su questo problema che in Kant, ad esempio, nonostante si parli di continuo di sensazioni e di organi di senso, non trova una menzione realmente significativa. Una di queste ragioni, ma forse non quella di primaria importanza, è una certa propensione di Schopenhauer ad abbandonare la purezza della posizione trascendentalistica, riconducendo le strutture a priori a vere e proprie predisposizioni psicologiche, al modo in cui è fatta la nostra mente, se non addirittura alla nostra conformazione fisiologica, dove alla mente subentra il cervello. In realtà Schopenhauer ama parlare spesso del cervello dell'uomo quando il discorso verte sulle modalità di apprensione del mondo, facendo leva su un motivo naturalistico da cui Kant si tiene accuratamente lontano, ma forse più nella terminologia di cui si avvale che nella sostanza del problema. Vi è già in Kant un'inclinazione teorica che, nonostante tutto, non riesce ad elaborare difese sufficienti nei confronti di una possibile interpretazione psicologistica e naturalistica della problematica delle strutture aprioriche e Schopenhauer tende ad approfittare di questa inclinazione in misura crescente con il passare degli 36 anni. Ciò rappresenta uno dei motivi dell'accento che cade in Schopenhauer sul tema della corporeità. Ma vi è anche un altro motivo che è meno generico e più interno alla problematica da lui sviluppata. Si sarà forse notato che in tutta la nostra esposizione abbiamo evitato di commentare quell'aggettivo possessivo che è presente nel principio del mondo come mia rappresentazione. Abbiamo in certo senso tentato di "glissare" su di esso per il semplice fatto che avremmo avuto certamente difficoltà a renderne realmente conto. "Mia" rappresentazione - ma propriamente di chi? Qui certamente non si parla della soggettività individuale, io stesso, con una conseguente moltiplicazione monadologica dei mondi. Quell'aggettivo dunque rimanda alla polarità soggettiva del rapporto conoscitivo in genere, che peraltro è sottratta all'ambito della conoscenza. Nel Mondo (§ 2) si parla del soggetto in generale come "sostegno del mondo" e "condizione universale di ogni fenomeno" e si dice anche che ognuno "sente come tale soggetto se stesso". Ma bastano queste notazioni per giustificare l'uso di quell'aggettivo tanto impegnativo? Temo che si dovrà "glissare" un'altra volta. Quel che risulta realmente chiaro è la tendenza a ritenere che nell'esperienza in genere si ha a che fare soltanto con oggetti ovvero rappresentazioni. C'è tuttavia qualcosa che sfugge almeno in parte a questa generale oggettivazione: ed è appunto il corpo stesso - il mio corpo, il tal caso l'espressione "mio" sembra non porre problemi. Naturalmente il mio corpo è anch'esso una rappresentazione o un insieme di rappresentazioni, e ciò significa che io posso guardarlo come qualunque altra cosa, e con una mano posso toccare l'altra o afferrare un mio orecchio così come guardo e tocco una cosa qualunque. Ma a Schopenhauer non sfugge che non è sufficiente limitarsi a questa considerazione. Infatti, se è vero che per certi aspetti il mio corpo è una cosa materiale come tutte le altre (e dunque per essa vale il rapporto di causalità), 37 tuttavia il mio corpo è l'unico oggetto nell'intero universo di oggetti, l'unica rappresentazione che funge da mediazione rispetto all'apprensione di tutti gli altri oggetti, e proprio per questo esso merita di essere caratterizzato come oggetto immediato. Si tratta di una terminologia sulla quale vi sarebbe forse qualcosa da eccepire e lo stesso Schopenhauer mostra qualche volta di dubitare dell'effettiva opportunità di parlare di oggetto immediato, ovvero di oggetto colto senza mediazioni. Come abbiamo già notato, vi sono sensazioni di mediazione anche rispetto al mio corpo. Il vero punto della questione, che viene colta ma malamente impostata da Schopenhauer, sta nel fatto di stabilire il modo in cui io mi approprio del mio corpo riconoscendolo come il mio e quindi differenziandolo da ogni altra cosa materiale del mio mondo circostante. Questo problema viene eluso e Schopenhauer preferisce ricorrere ad una differenziazione di tipi di oggetti, parlando quindi di oggetto immediato e sorvolando su eventuali difficoltà. Il tema dell'oggetto immediato è già presente nella Quadruplice radice ed è proposto fin dalle prime battute del Mondo. Nel suo secondo paragrafo si dice: "Il nostro stesso corpo è già un oggetto e perciò noi sotto un tal punto di vista lo chiamiamo rappresentazione. Il nostro corpo infatti è un oggetto tra oggetti, sottoposto alle leggi degli oggetti: soltanto che esso è un oggetto immediato" (M., p. 41). Il corpo opera dunque una "mediazione". Esprimendoci così intendiamo dire anzitutto che la coscienza, la soggettività conoscitiva non è qualcosa di assimilabile ad uno specchio nel quale si riflettono le cose nelle loro proprietà obbiettive. Che vi sia una mediazione corporea significa ad esempio che una proprietà che viene percettivamente attribuita alla cosa - ad esempio la ruvidità della sua superficie - viene avvertita anzitutto come sensazione tattile, e ciò significa che viene avvertita non già sulla cosa, ma anzitutto sulla mia pelle, esattamente come avverto 38 sul mio corpo il dolore conseguente alla puntura di uno spillo. L'esempio della tattilità, e in particolare quello della puntura, ha una particolare efficacia illustrativa perché ci consente di distinguere chiaramente tra il momento puramente sensoriale e l'apprensione dell'oggetto come di un oggetto appuntito che avviene sulla base di quel momento sensoriale. Considerando gli altri organi sensoriali l'esemplificazione potrà forse essere meno chiara, ma una distinzione analoga dovrà essere ammessa in ogni caso. Ad esempio, una cosa è l'essere dolce come proprietà obbiettivamente riferita ad un frutto ed un'altra è la sensazione che avverto sulla lingua mentre la mangio. E così un conto è il colore come proprietà di una superficie che vedo di fronte a me ed un altro è la sensazione cromatica che non è riferibile ad alcuna oggettività determinata, come quella che può essere provocata da una leggera pressione di un dito sulle palpebre. A parte la maggiore o minore capacità illustrativa degli esempi, dobbiamo essere in grado di distinguere con chiarezza la sensazione (Empfindung) dall'intuizione (Anschauung): quest'ultimo termine, usato all'interno di questa opposizione, si riferisce alla percezione in quanto essa è in grado di porgere le proprietà di un oggetto come proprietà oggettivamente attribuite ad esso. Ma questa distinzione è un classico problema della riflessione filosofica. Esso si esprime nella domanda: in che modo è possibile effettuare il passaggio dalla sensazione all'intuizione, dall'impressione puramente sensoriale avvertita come qualcosa che accade sul proprio corpo (come una "modificazione dell'oggetto immediato") alla percezione piena e completa, all'intuizione che si avvale di sensazioni, ma unicamente come mediazioni che portano al di là del corpo verso il mondo obbiettivo? Si tratta di un passaggio necessario, dal momento che una coscienza che restasse sul piano della pura sensazione sarebbe una coscienza ottusa, in qualche modo simile a quella che può essere attribuita ad una pianta, una coscienza "vegetale" (pflanzenartiges) in quanto in essa verrebbero avvertite stimolazioni 39 di ogni genere che non sarebbero in grado di superare la loro immediatezza: in breve si tratterebbe di una coscienza senza mondo. Naturalmente un simile problema sorge tipicamente all'interno di una posizione fenomenistica. La riduzione al fenomeno può essere intesa come una riduzione alla sensazione, come una riduzione ad una coscienza vegetale, e diventa dunque obbligatorio rendere conto della possibilità del passaggio da una coscienza senza mondo all'intuizione di un mondo per la coscienza. Per Kant la chiave per venire a capo di questo problema era rappresentata dall'intero apparato delle categorie. Per Schopenhauer essa è invece rappresentata ancora una volta dalla tematica della causalità. Secondo lui, vi sarebbe in noi una tendenza ad interpretare causalmente le sensazioni e quando questa tendenza entra in opera avviene uno spostamento dalla sensazione come effetto all'idea della cosa come causa che lo produce, e proprio in questo spostamento consiste il passaggio dalla sensazione all'intuizione. Questa tendenza ad un'interpretazione causale della sensazione e più in generale ogni attività tendente ad istituire nessi causali viene chiamata da Schopenhauer attività intellettuale. Nell'impiego di questo termine vi è una sorta di meditato omaggio a Kant. Ma vi è anche un'intenzione polemica, perché sulla base di ciò che abbiamo detto or ora è possibile dire che "ogni intuizione è intellettuale", affermazione che non avrebbe nessun senso in un contesto kantiano. 40 6. Critica del realismo ingenuo - Spiegazioni integrative intorno al problema dell'interpretazione causale delle sensazioni. Fin dall'inizio abbiamo sottolineato che la formula del mondo come rappresentazione considerata nella sua generalità è soprattutto un modo di sollevare problemi che andranno poi considerati in tutta la loro portata e determinatezza. In essa è implicata la critica del realismo ingenuo - quella posizione che considera il mondo come qualcosa che esiste in sé e per sé - e poiché anche il realismo non può ignorare che questo mondo reale è dato per noi in una rappresentazione, questa potrà essere concepita soltanto come una sorta di duplicato in immagine del mondo stesso. Nel § 21 della seconda edizione della Quadruplice radice, dove la tematica dell'intelletto viene trattata più estesamente che nel Mondo, si osserva che "Bisogna essere abbandonati da tutti gli dei per credere che il mondo della percezione - che è al di fuori, così come esso riempie lo spazio nelle sue tre dimensioni, si muove con il cammino inesorabilmente rigoroso del tempo e ad ogni passo è regolato dalla legge di causalità. - che un simile mondo esista là fuori tutto oggettivo e reale e senza il nostro concorso, e poi per mezzo di una semplice impressione sensibile giunga nella nostra testa, dove esso ora esiste una seconda volta nello stesso modo che al di fuori" (Quad_2, p. 93). Non dobbiamo dunque supporre - come fa la posizione realistica - anzitutto la cosa come esistente in se stessa e poi eventualmente come data in una rappresentazione, ma rovesciare questo ordine: assumere la cosa come senz'altro data in una rappresentazione, e poi rendere conto del suo essere in se stessa. Facendo ricorso alla nozione di sensazione è possibile proporre la critica in forma più precisa. Alla posizione realistica si può infatti obbiettare che se guardiamo al lato soggettivo della relazione di esperienza non abbiamo affatto a che fare anzitutto con immagini nel senso di figure riflesse in uno specchio, ma 41 con sensazioni. Facendo riferimento esemplificativo alla tattilità, si comprende subito che mancano addirittura le condizioni essenziali affinché si possa parlare di un "rapporto di somiglianza" tra la sensazione e la cosa - tra la sensazione di ruvido sulla punta delle mie dita e la proprietà della cosa di avere una superfice striata. Tra l'una e l'altra vi deve essere certamente qualche relazione, ma non una relazione di somiglianza che possa essere valutata in un'autentica operazione di confronto. Proprio il fatto che la ruvidità viene accertata mediante una sensazione tattile esclude che io possa mettere l'una accanto all'altra la sensazione di ruvidità e la proprietà di una cosa di essere rugosa per effettuare un confronto. Anche là dove parliamo di immagini in un'accezione più plausibile - come nel caso della vista - non abbiamo a che fare con una corrispondenza semplice tra la cosa e la sua immagine retinica, ma con una relazione particolarmente complessa che richiede qualche speigazione aggiuntiva: in proposito basterà rammentare che nella retina l'immagine della cosa si presenta rovesciata, mentre nalla visione effettiva non vi è traccia di questo rovesciamento; oppure il problema posto dalla visione stereoscopica: noi vediamo le cose disposte nella terza dimensione mentre l'immagine della retina è priva di profondità, ma è come un dipinto le cui figure siano rappresentate prospetticamente. Peraltro, la sensazione rappresenta un problema non solo per la posizione realistica, ma anche per il punto di vista del mondo come rappresentazione. In generale, restando sul puro terreno della sensazione, nel cui concetto in senso esteso possiamo annoverare le "immagini retiniche" - non potremo mai pervenire alla posizione di qualcosa che "stia al di là della pelle, quindi fuori di noi" (Quad_2, p. 93). La sensazione si produce "all'interno del nostro corpo" (p. 94) e resta in esso come uno stato fugace che viene avvertito nella pura forma temporale del "senso interno". In certo senso il mondo intero si contrae sul nostro corpo - potremmo dire 42 addirittura: si dissolve in esso. Resta persino dubbio se in rapporto alle sensazioni si possa parlare di rappresentazioni e di coscienza rappresentativa in senso autentico. Dice in proposito Schopenhauer: "Le semplici modificazioni provate dagli organi dei sensi in virtù delle rispettive impressioni specifiche esterne possono già essere chiamate rappresentazini, in quanto l'impressione non produce né dolore né piacere, non ha cioè un significato diretto per la volontà e viene tuttavia percepita: e quindi non esiste che per la conoscenza. E tale è il senso in cui dico che il corpo è conosciuto immediatamente, cioè è oggetto immediato. Tuttavia non bisogna prendere la parola oggetto nella sua accezione più stretta..." (M., p. 56). In questo passo è avvertibile un certo imbarazzo che rimanda del resto a difficoltà irrisolte nell'impostazione del problema della mediazione corporea. Si dice qui che in rapporto alle sensazioni si può parlare di rappresentazioni, ma in un senso molto debole, per indicare la loro appartenenza all'area della problematica conoscitiva, piuttosto che a quella della volontà. Potremmo dire che le sensazioni possono essere dette rappresentazioni solo impropriamente, ed in ogni caso le sensazioni puramente corporee non riescono a coagularsi in un'oggettività come oggettività appartenente al mondo circostante. Ciò che manca in esse è l'azione dell'intelletto con la sua capacità di realizzare interpretazioni causali. Le sensazioni in genere non sono neutre per ciò che riguarda le distinzioni del gradevole e dello sgradevole, del piacevole o dello spiacevole. Possiamo anzi osservare che alcuni campi sensoriali sono meno neutri degli altri: si pensi ad esempio all'odorato: non è possibile nessuna sensazione olfattiva che non sia caratterizzata fortemente da un più o da un meno, che non sia accompagnata da una reazione di attrazione o di disgusto. Lo stesso si può dire per il gusto. Vi è una maggiore neutralità nel caso della vista e del tatto, e la massima neutralità va forse attribuita alla vista. Ma perché mai attiriamo 43 l'attenzione su un aspetto apparentemente così minuto e marginale? Ritorniamo allora sull'esempio della puntura. Noi afferriamo una cosa e ci pungiamo con essa: abbiamo dunque una sensazione di dolore da cui viene messo in questione non già il soggetto conoscitivo, ma il soggetto che ora reagisce rabbiosamente gettando lontano da sé la punta malefica da cui è stato ferito. Questo gesto richiama l'attenzione sul fatto che ciò che viene messo in agitazione è l'io come volontà che, come sappiamo, non si esprime soltanto negli atti espliciti del volere, ma in ogni comportamento ed in ogni rapporto affettivo e pratico- attivo con la realtà. Ma l'emergere in primo piano della volontà significa anche il passare in secondo piano del mondo come rappresentazione. Cerchiamo ora di introdurre una piccola variazione nell'esempio: pensiamo ad una puntura tanto lieve da non mettere in agitazione la volontà, ed allora potremmo dire di sperimentare la forma appuntita della cosa distinguendo, in questa esperienza, due momenti: il momento della sensazione e il momento intuitivo, essendo questo niente altro che la "percezione di una cosa di forma appuntita". Ma l'intuizione è data da una operazione intellettuale applicata alla sensazione e precisamente da un'interpretazione causale di essa. La puntura (sensazione) viene dunque interpretata come effetto, cioè viene intesa come risultato di un'azione, di un wirken, e di conseguenza viene posta una materia capace di esercitarla. La sensazione come effetto viene completamente superata, cosicché il risultato dell'interpretazione è semplicemente: c'è qui intorno qualcosa che ha una forma appuntita. Naturalmente, si presti attenzione a non invertire grossolanamente il problema: non stiamo dicendo che ci sono delle cose come cause delle nostre sensazioni! Stiamo invece dicendo che la posizione di qualcosa come una cosa esistente in se stessa nel mondo esterno è condizionata dall'interpretazione causale della sensazione. 44 7. L'intellettualità dell'intuizione - La non razionalità dell'attività intellettuale - L'operare dell'intelletto - Il problema della "passività" delle operazioni causali. La "possibilità di conoscenza del mondo esterno", che è uno dei temi centrali del primo libro del Mondo, richiede due condizioni che mettono entrambe in questione la causalità: la prima condizione riguarda la "facoltà che hanno i corpi di agire gli uni sugli altri"; la seconda condizione è invece rappresentatata dalla "sensibilità dei corpi animali" ovvero "la proprietà che hanno certi corpi di essere oggetti immediati del soggetto". In emtrambi i casi l'intelletto interviene nella sua funzione essenziale ed esclusiva di istituzione di nessi causali. L'intelletto può essere definito come "il correlato soggettivo della materia o della causalità" e la sua unica funzione ed "unica potenza" è "conoscere la causalità" (M., p. 48). In particolare l'intelletto interviene nella seconda condi- 45 zione, che è anche quella originaria in quanto si consente di effettuare il passaggio dalla sensazione alla cosa. "Se io premo la mano contro il tavolo, nella sensazione che ricevo non è affatto contenuta la rappresentazione della solida consistenza delle parti della massa, anzi di niente di simile; è soltanto quando il mio intelletto passa dalla sensazione alla causa che esso costruisce un corpo avente la proprietà della solidità, dell'impenetrabilità e della durezza" (Quad_2, pp. 98-99). In rapporto al movimento di qualcosa nello spazio si osserva che la rappresentazione del movimento non potrebbe mai sorgere su base sensoriale: "È invece l'intelletto che deve portare in se stesso, prima di qualsiasi esperienza, l'intuizione dello spazio, del tempo e della conseguente possibilità del movimento non meno che la rappresentazione della causalità per poter passare poi dalla semplice sensazione empirica ad una causa di essa e costruirsela come un corpo che si muove che possiede una determinata forma" (Quad_2, p. 100). Ci troviamo di fronte ad un'impostazione di cui è ancora nettamente avvertibile l'origine kantiana e che tuttavia si mostra particolarmente distante da Kant nel suo spirito ed anche nella problematica che da essa viene aperta. La distanza può essere messa soprattutto in rilievo facendo notare che nel contesto del problema così come è posto da Schopenhauer possiamo parlare dell'intellettualità dell'intuizione; ma possiamo anche sottolineare che l'attività intellettuale non è affatto un'attività razionale, cioè un'attività che procede per concetti e dunque attraverso argomentazioni. Infatti l'espressione ragione ritorna ad avere in Schopenhauer quel significato che aveva sempre avuto nelle filosofie prekantiane, rimandando alla produzione dei concetti ed alla loro connessione argomentativa. L'attività razionale è allora un'attività argomentativa, è un pensiero mediato: invece, dice letteralmente Schopenhauer: "l'intelletto, facoltà essenzialmente distinta dalla ragione... conserva in sé, anche nell'uomo un carattere non-razionale (Unvernunftig)" (M., § 6). Alcune 46 traduzioni italiane rendono quest'ultimo termine con "irrazionale" - ma "irrazionale" indica una sorta di opposizione attiva alla ragione, mentre qui si allude semplicemente ad un'attività che si svolge interamente al di fuori del campo di azione del pensiero mediato. Prestando attenzione al lato epistemologico della questione, l'idea della non-razionalità dell'attività intellettuale si traduce fondamentalmente nell'idea di una capacità di cogliere direttamente, ovvero senza mediazione riflessiva, un nesso causale e più in generale un nesso relazionale. Pensiamo a due stati che ci appaiono inizialmente come se l'uno non avesse nulla a fare con l'altro e poi all'improvviso, senza che io abbia compiuto intorno ad essi alcuna particolare operazione riflessiva ci appaiono l'uno determinatamente connesso all'altro: ad una figura abbastanza complessa e intricata che inizialmente ci sembra "priva di senso" e poi ci mostra invece, all'improvviso, una ben precisa strutturazione interna che in precedenza non eravamo riusciti a cogliere - come se le relazioni necessarie per questa strutturazione ci apparissero finalmente al nostro sguardo. È come se il disegno, dapprima opaco, si illuminasse dall'interno mostrando il suo senso. Oppure si pensi ad un puzzle - un esempio che illustra efficacemente la componente intuitiva come una componente legata allo sguardo. Lo sguardo deve essere in grado di vedere ciò che dapprima non si vede affatto, l'"inerenza" dell'una forma all'altra, la possibilità che l'una possa essere agganciata all'altra. Questo afferramento diretto della relazione viene chiamato da Schopenhauer intuitivo, ma in un'accezione in realtà diversa da quella con la quale abbiamo finora impiegato questo termine. E purtroppo vi è anche una differenza nell'espressione verbale tedesca che in italiano non è possibile mantenere: intuitivo è, in questo caso, intuitiv e non anschaulich; ed intuitiv è termine usato in esplicita opposizione alla coscienza riflessa (reflektiertes Bewusstsein), dunque alla mediazione razionale (mentre Anschuung si contrappone a sensazione). Cosicché si enuncia qui 47 un motivo che ritorna di continuo nelle pagine di Schopenhauer: il motivo secondo cui le scoperte fondamentali della scienza sono dovute in ultima analisi ad "intuizioni" nell'accezione or ora illustrata, quindi nell'afferramento diretto di nessi, di rapporti di somiglianza e infine di rapporti causali, e che il pensiero propriamente razionale abbia essenzialmente la funzione di dare a simili conoscenze intuitive stabilità e chiarezza, di formularle chiaramente in parole, così "da poterle esprimere e spiegare ad altri"; oltre che di conferire ad esse un'organizzazione sistematica. Una funzione di fondamentale importanza che tuttavia non potrebe nemmeno essere esercitata se non potesse contare su quelle idee che sono "opera di un momento" (Das Werk des Augenblick), che hanno carattere di aperçu, ovvero di idea improvvisa e illuminante (Einfall), dell'afferramento immediato ed evidente del sussistere di una relazione. In una simile posizione è chiara l'intenzione di dare la massima esaltazione ai momenti di creatività nell'attività scientifica che sarebbero da ricercare nelle grandi intuizioni geniali piuttosto che nelle più pazienti elaborazioni sistematiche: un problema che fa intravvedere l'intenzione di trasferire anche nel campo dell'attività scientifica l'immagine romantica del genio che si fa valere anzitutto nella filosofia dell'arte. Tuttavia della non-razionalità e dell'immediatezza dell'attività intellettuale, può essere anche proposta una diversa interpretazione. Anzitutto occorre sottolineare che all'interno del titolo di "teoria della conoscenza" spesso vengono confusi due versanti che debbono invece essere tenuti distinti: da un lato, vi è il problema del conoscere, quindi in generale quello della scienza e delle sue acquisizioni, dall'altro il problema della costituzione esperienziale del mondo. Potremmo utilmente distinguere tra conoscenza ed esperienza del mondo. Le due nozioni non sono affatto identiche: mentre sto parlando, ho esperienze di vario genere, ad esempio un'esperienza uditiva della mia voce e dei rumori dell'ambiente, un'esperienza visiva delle persone e 48 delle cose che si trovano in esso, anche se la mia attenzione prevalente è tutta tesa a dipanare il filo del mio discorso. Sarebbe una forzatura parlare di queste esperienze come di "conoscenze". Il conoscere ha relazione con un sapere e si mette in moto, per esprimerci così, a partire da un non-sapere. Ciò significa che se non so che cosa vi sia in un cassetto e voglio saperlo, allora lo apro e, guardando in esso, vengo a conoscere ciò che esso contiene. Questo guardare per sapere è del tutto diverso dal vedere ciò che accade intorno a me mentre sto parlando; ed ora la parola "conoscere" comincia qui a poter essere usata, sia pure in senso debolissimo dal momento non si trova integrata in un piano di ricerca ed in un sistema di conoscenze. Gran parte della nostra discussione si è svolta sul versante dell'esperienza del mondo. Ci siamo chiesti infatti come fosse possibile l'esperienza di un mondo una volta che il mondo stesso è stato ridotto a rappresentazione. Si è presentato così un compito ricostruttivo esattamente come si era presentato a Berkeley ed a Hume e, sia pure in modo diverso, anche in Kant. Per Schopenhauer questo compito è assolto dall'interpretazione causale delle sensazioni che diventa così un'interpretazione costitutiva dell'esperienza come esperienza di un mondo. Per Schopenhauer questa è in realtà la vera dimostrazione della natura apriorica della causalità. Stando così le cose, l'operare intellettuale si esplica in tutt'altro modo che nella forma di idee geniali, di intuizioni fulminee, di cui in ogni caso sono perfettamente consapevole anche se non lo sono necessariamente del processo che ha messo a capo ad esse, e che del resto posso sempre portare a maggiore chiarezza ed elaborazione nel pensiero riflessivo. Si tratta invece di un vero e proprio meccanismo interpretativo da sempre in opera che effettua incessantemente la metamorfosi dalla sensazione all'intuizione e che si trova come tale interamente al di fuori del mio controllo cosciente. Non è nelle mie facoltà sospendere temporaneamente quest'attività interpretante, anche se come esercizio filosofico posso cogliere la differenza sull'aspetto sen- 49 soriale piuttosto che su quello del riferimento all'oggetto. Si tratta dunque di un'attività intellettuale che, esercitandosi interamente alle nostre spalle, non è un'attività per me - piuttosto io sono suo tramite passivo: si tratta in qualche modo di una passività (benché Schopenhauer non usi questo termine) esattamente nel senso in cui potremmo parlare di passività nel caso della nozione di abitudine di Hume. Ed è interessante notare che questo tema humeano viene richiamato proprio a proposito della difficoltà di distinguere tra sensazione e intuizione: "Da principio ciò è difficile perché siamo tanto abituati a passare immediatamente dalla sensazione alla sua causa che questa ci si presenta senza che noi badiamo alla sensazione..." (Quad_2, p. 97). L'aspetto comune sta proprio nel fatto che sia l' "azione" delle leggi associative in Hume sia quella dell'intelletto in Schopenhauer avviene "alle mie spalle" senza che io possa disporre di essa. Proprio questo aspetto differenzia profondamente ancora una volta la posizione di Schopenhauer da quella di Kant. Questi parla infatti della spontaneità delle operazioni intellettuali - spontaneità che viene proposta non tanto tenendo conto della forma e della struttura effettiva dei processi di costruzione della realtà dei quali in generale Kant si interessa assai poco, quanto per via del riferimento all'attività giudicativa da cui le categorie sono "dedotte", dunque per una motivazione astrattamente filosofica, e non sulla base di un'analisi delle concrete procedure dell'esperienza. Proprio l'automatismo con cui opera l'intelletto consente secondo Schopenhauer di rendere conto delle illusioni percettive - egli pensa ai classici esempi del bastone nell'acqua, della luna che appare più grande all'orizzonte piuttosto che allo zenit, alle alte montagne che appaiono più vicine quando il cielo è terso, ecc. Esse sono sempre da riportare non già alla sensazione, che non può sbagliare, ma alla sua interpretazione, e quindi 50 ad un inganno dell'intelletto. Una prova di ciò è il fatto stesso che l'illusione percettiva continua a persistere anche se ne abbiamo svelato le ragioni. L'illusione percettiva "si genera quando un semplice ed unico effetto può essere prodotto da due cause completamente differenti, di cui l'una agisce frequentemente e l'altra di rado; l'intelletto non avendo alcun dato per decidere qualche delle due cause agisca nel caso presente, poiché l'effetto è identico ricorre sempre alla causa ordinaria, e siccome la sua attività non è riflessiva e discorsiva, ma intuitiva e diretta, questa falsa causa ci si presenta dinanzi come oggetto intuito; ed ecco la falsa apparenza... Tutte queste illusorie apparenze ci si presentano nell'intuizione immediata e nessun sillogizzare della ragione è capace di sopprimerle; la ragione non può che prevenire l'errore, e cioè un giudizio senza prove sufficienti, contrapponenendone un altro contrario e vero... però a dispetto di ogni conoscenza astratta, l'illusione resta e resterà sempre immutabile in tutti i casi riferiti" (M., p. 61) Naturalmente la spiegazione qui accennata della doppia causa non è troppo convincente - e nemmeno facilmente applicabile agli esempi. Nel caso del bastone che appare spezzato siamo indotti ad assumere che esso lo sia perché nella maggior parte dei casi bastoni che appaiono spezzati lo sono veramente, mentre è più rara l'esperienza di un bastone nell'acqua e del resto non facilmente attingibile la causa, che richiede che si sappia qualcosa delle leggi di rifrazione. Ma il punto interessante in questa discussione non è la spiegazione di dettaglio, ma il quadro generale del problema. Occorre aggiungere che vi sono aspetti del tema dell'immediatezza dell'intelletto e della sua caratterizzazione essenziale come facoltà di afferramento di nessi causali, che non riguardano nè la teoria della conoscenza, né la teoria dell'esperienza, ma piuttosto la vita pratica con i suoi interessi quotidiani. Osserva infatti Schopenhauer che quelle caratteristiche dell'intelletto fanno sì che noi, quando le riscontriamo in forma eminente in una persona, parliamo di assennatezza (Klugheit), acume (Scharfsinn), penetrazione (Penetration), sagacia (Sagazität). Si tratta certo di nozioni vaghe, e tuttavia rimandano tutte alla 51 capacità di stabilire connessioni causali e soprattutto motivazionali, quando sono in questione i comportamenti degli uomini. Un simile ingegno non si manifesta solo nella scienza e nella tecnologica, ma anche ad esempio nella capacità di "sventare intrighi e macchinazioni" oppure di esercitare il potere sugli altri uomini proponendo motivi opportuni, così da orientare la loro azione secondo i propri fini (M., p. 59). Al lato opposto dell'assennato e del sagace vi è, manco a dirlo, lo stupido (dumm), il quale è detto tale soprattutto per la difficoltà di operare nessi. Il mio lettore si chiederà perché sia il caso di soffermarsi su simili considerazioni apparentemente del tutto marginali e nelle quali forse si avverte anche un certo abbassamento di tono. Io credo in effetti che esse meritino due parole di commento: in primo luogo esse dànno una sorta di giustificazione dell'impiego del termine di intelletto non più nel pesante quadro della terminologia filosofica, e tantomeno con dotti riferimenti alla posizione kantiana, ma facendo riferimento piuttosto agli impieghi correnti di parole che in un modo o nell'altro riguardano intelligenza e stupidità nei sensi più consueti possibili dei termini. Si tratta dunque anzitutto di un modo di raccordarsi al senso comune, che rappresenta in realtà uno dei tratti caratteristici dell'atteggiamento intellettuale di Schopenhauer. Ma in queste osservazioni si annuncia anche un interesse che diventerà dominante in Schopenhauer nei confronti della vita quotidiana in genere, dunque verso i comportamenti della gente, verso la "psicologia" delle persone, verso le tipologie psicologiche, verso i "caratteri" in genere. Si tratta di un aspetto apparentemente molto lontano e per certi versi contrapposto alle ardite speculazioni teoretiche che troviamo nel Mondo, ma che tuttavia è profondamente radicato nella personalità di Schopenhauer. 52 8. Postilla sulla realtà del mondo esterno - Idealismo e realismo secondo lo schema delle Lezioni berlinesi. Alla luce della impostzione pospettata la questione del realismo e dell'idealismo riceve una sistemazione e una schematizzazione particolarmente semplice. Secondo Schopenhauer l'una e l'altra posizione sono caratterizzate anzitutto come posizioni dogmatiche, e ciò naturalmente significa che esse poggiano su pure e semplici assunzioni prive di un effettivo fondamento filosofico. Come tali esse sono esposte alle critiche scettiche che possono essere esercitate portando a conseguenze estreme quelle assunzioni di base e mostrandone in questo modo l'insostenibilità. Pur essendo contrapposte, esse hanno tuttavia un aspetto comune che riguarda il tema causale riferito al rapporto soggetto-oggetto. Rammentando che la relazione causale rappresenta la prima forma del principio di ragione sufficiente, nelle Lezioni berlinesi (p. 499) Schopenhauer propone il seguente schema: Princ ipio di ragione suffic iente Oggetto Soggetto Relazione c ausale La figura illustra il sussistere di una connessione causale tra i due termini dell'oggetto e del soggetto. Essa potrà agire in en- 53 trambe le direzioni, cosicché nell'una direzione, dall'oggetto al soggetto Princ ipio di ragione suffic iente Oggetto Soggetto Relazione c ausale verrà rappresentato il realismo che fa del soggetto un effetto, muovendo la produzione causale dall'oggetto. L'idealismo invece Princ ipio di ragione suffic iente Oggetto Soggetto Relazione c ausale viene schematizzato come posizione ciò che fa del soggetto ciò che produce causalmente l'oggetto - l'oggetto è per l'idealismo un "effetto del soggetto" (M., p. 50). A questi schemi Schopenhauer ne propone uno rappresentativo della propria posizione: Princ ipio di ragione sufficiente Oggetto Soggetto Con esso egli vuol sottolineare che l'idea del rapporto causale è applicabile solo fra oggetti, mentre non lo è tra oggetto e soggetto. Si noti di passaggio che il parlare del corpo come oggetto immediato è importante anche per ribadire che il corpo stesso deve essere annoverato tra gli oggetti e che le sensazioni, con il loro rimando ad azioni causali, non pongono affatto in questione una relazione causale tra soggetto e oggetto. Dire dunque che il mondo è la mia rappresentazione non significa dire che 54 esso è prodotto dalla soggettività (idealismo) e nemmeno che la rappresentazione abbia bisogno a sua volta di qualcosa di diverso da essa che possa valere come causa che la produce. In quest'ultimo senso mi sembra debba essere interpretata l'affermazione contenuta nel § 5 del Mondo secondo la quale l'origine del problema della realtà del mondo esterno sia dovuto, oltre che all'applicazione indebita della causalità al rapporto soggetto-oggetto, anche alla confusione, per usare ancora la terminologia della Quadruplice radice, tra ratio fiendi e ratio cognoscendi. Credo che questa affermazione si possa interpretare nel modo seguente: mentre ha senso nel caso dei giudizi cercare un fondamento al di fuori del giudizio da fondare (ciò fa parte del concetto di fondamento conoscitivo), non ha invece senso in rapporto agli oggetti della "prima classe" cercare un fondamento al di fuori del rapporto causale che li lega, utilizzando un criterio che ha appunto applicazione solo nell'ambito dei giudizi. Mentre stando alla ratio cognoscendi possiamo affermare che il fondamento può essere di natura diversa da ciò che viene fondato, il fondamento causale di una rappresentazione deve essere sempre un'altra rappresentazione. Se si afferma che vi sono cause di rappresentazioni che non sono rappresentazioni si fa valere nel campio della ratio fiendi ciò che può valere solo in quello della ratio cognoscendi. "La conoscenza del modo di agire di un oggetto di intuizione esaurisce l'idea di questo oggetto in quanto tale, cioè in quanto rappresentazione, poiché all'infuori di questa non resta nell'oggetto alcunché di inconoscibile. In questo senso il mondo percepito nel tempo e nello spazio e che si manifesta come pura causalità è perfettamente reale ed è proprio quello che ci si presenta: ovvero è rappresentazione regolata dalla legge di causalità" (M., p. 51). È importante sottolineare che in forza di queste considerazioni si può asserire la piena intelligibilità del mondo: "Esso si manifesta per quello che è ovvero come una rappresentazione, o meglio come una serie di rappresentazini aventi come legame comune il principio di ragione. Come tale esso è intelligi- 55 bile, fin nel senso più profondo, ad ogni sano intelletto e gli parla un linguaggio perfettamente chiaro" (M., p. 51). 9. Problematica della ragione - Concezione comune e concezione filosofica della ragione - Il rapporto con gli animali - In che senso gli animali hanno un intelletto - Ricordo riflessivo e ricordo intuitivo - Ragione ed errore - Il carattere riflesso del concetto - Gli inganni dell'intelletto e gli errori della ragione. Solo lo spirito e la conoscenza fanno l'uomo signore della terra. Il termine di ragione è già stato da noi introdotto: di esso avevamo bisogno almeno in negativo per caratterizzare l'intelletto. Abbiamo allora notato che quando con pensare intendiamo propriamente l'argomentare, allora viene in questione l'attività razionale vera e propria - la ragione, dunque. L'argomentare, d'altro lato, è un concatenare proposizione a proposizione, giudizio a giudizio e il giudicare può avvenire solo mediante concetti. Ala radice, l'attività della ragione è proprio il formare concetti e lo stabilire relazioni tra essi. La formazione del concetto - dice anzi drasticamente Schopenhauer - è l'unica funzione della ragione, così come la conoscenza della causa e dell'effetto è l'unica funzione dell'intelletto. Quanto alla domanda, che subito si pone, che chiede che cosa si intenda qui con concetto, cominciamo con il dire che esso è una rapprsentazione astrattamente generale che prende corpo nel significato di una parola, come "cavallo", "rosso", "giustizia"... In effetti Schopenhauer si avvale di una nozione di concet- 56 to così genericamente tratteggiata per sviluppare un insieme di considerazioni che riguardano un'idea piuttosto lata dell'attività razionale, manifestando esplicitamente l'intenzione di ricollegarsi più alla concezione comune della ragione (allgemeine Kenntnis der Vernunft) che alle elaborazioni filosofiche - un motivo che abbiamo già trovato in precedenza e che qui si presenta in modo particolarmente vivace. In fin dei conti, osserva Schopenhauer, tutti gli uomini sanno riconoscere molto bene le manifestazioni di questa facoltà, per quanto esse possano essere varie e differenziate, ed anche i filosofi in generale non possono che prendere le mosse da questa concezione comune, benché poi se ne distacchino e si perdano spesso in elucubrazioni forzate e non giustificabili. È invece necessario sapere riconoscere attaverso le molteplici manifestazioni che chiamiamo razionali un'unica funzione - quella del formare concetti - come capacità di astrarre dall'intuizione e quindi dalla presenza immediata degli oggetti, conservando tuttavia gli elementi conoscitivi e informativi intuitivamente attinti. Si tratta appunto di produrre rappresentazioni astratte, ma in questa capacità dobbiamo vedere il profilarsi di tutto un insieme di possibilità formidabili, che sono poi quelle possibilità che contraddistinguono gli uomini dagli animali, questi "nostri fratelli privi di ragione". (Noto di passaggio che in alcune traduzioni italiane Tiere - animali - viene tradotto con bruti. Lascio al mio lettore il giudizio su questa scelta). Vogliamo intrattenerci un poco su questo confronto che gioca del resto un ruolo piuttosto importante nelle discussioni di Schopenhauer, secondo il quale il modo in cui si costituisce per noi la vita animale è in grado di insegnarci, per affinità e differenza, molte cose sul modo d'essere dell'uomo stesso. Di ciò si parla, oltre che nel § 6 del Mondo, anche nel Capitolo Quinto dei Supplementi. In questo capitolo in particolare si formula la domanda: in che modo possiamo attribuire agli animali qualcosa di simile ad una coscienza? L'animale non è forse un essere che ci è completamente estraneo, benché sia 57 anch'esso un essere vivente? In realtà domande come queste si potrebbero porre anche in rapporto a soggettività diverse dalla mia, ma in questo caso possiamo in qualche modo identificarci nell'altro, possiamo metterci nei suoi panni, e perciò gli possiamo attribuire quella vita di coscienza che è da noi direttamente vissuta. Ma è possibile mettersi nei panni di un cane, di un cavallo o di un elefante - per stare solo agli esempi di animali "superiori"? Ha senso attribuire un'esperienza agli animali, quindi una coscienza? Domande che poi possono particolarizzarsi: è legittimo chiedersi se un cane spera oppure se sia capace di fingere? Schopenhauer pensa che simili domande abbiano perfettamente senso: e dunque anche che abbia senso parlare di una coscienza degli animali, anche se la conoscenza che potremmo avere di essa deriva da una vera e propria costruzione compiuta a partire da noi stessi; e sulle domande particolari che riguardano gli stati "psichici" degli animali occorrerà una riflessione apposita che chiama in causa appunto l'idea della razionalità. La mancanza di razionalità negli animali ovvero la presenza in essi del puro intelletto non razionale (come dice il titolo del Capitolo Quinto dei Supplementi) ha come conseguenza generale un diverso modo di rapportarsi alla dimensione temporale. L'animale manca di una memoria autentica, di un vero ricordo. Questo passaggio, apparentemente singolare dall'idea della razionalità a quella della capacità memorativa, è reso possibile in realtà già dal fatto che il ricordo (l'immagine memorativa) va inteso come rappresentazione di una rappresentazione, e quindi, pur non trattandosi di un vero e proprio concetto, in esso è inerente una componente di ordine concettuale. La premessa di questa argomentazione è obiettabile: si può infatti sostenere che la differenza indubbia tra percezione di una situazione presente e ricordo di una situazione passata non toglie che si tratti in entrambi i casi di atti di afferramento diretto, e non mediato, cosicché il parlare di rappresentazione di rappre- 58 sentazione in rapporto all'immagine memorativa è ingannevole altrettanto quanto lo è il parlare di immagini nel caso delle percezioni. Ma nonostante l'inclinazione erronea iniziale di questa impostazione, essa porta l'attenzione su una differenza effettiva. Una cosa è infatti il ricordo come un riandare con la memoria ad un determinato punto del passato (Rücherinnerung), come esplicita rievocazione di "scene" (Szene) singole del passato, un'altra è il ricordo inteso come presenza del passato appena trascorso o anche di un passato lontano nel senso del presente stesso. Il vero ricordo di cui si parlava in precedenza è appunto il ricordo come Rücherinnerung, e per Schopenhauer questa forma del ricordo è connessa più o meno direttamente con una capacità concettuale e astrattiva. Lo stesso fatto che si può dire di ricordare che cosa è avvenuto il tal giorno e la tal ora mostra la presenza di questa componente, dal momento che la data si richiama ad un sistema razionale di ordinamento del decorso temporale che non è certamente compreso nella situazione vissuta. Nell'assegnazione di date si ha in effetti un vero e proprio pensare il tempo. Ma accanto a questo ricordo che presuppone una capacità razionale vi è un ricordo puramente intuitivo (anschauendes Erinnerungsvermögen) che è null'altro che la sedimentazione di un'esperienza passata in un'esperienza presente: un'esperienza presente rinnova direttamente e senza alcuna mediazione un'esperienza passata che non viene puntualmente ricordata, dando luogo ad un'effettiva scena del passato, ma essa partecipa direttamente alla scena presente facendo sì che questa ci appaia come scena iterata, e con il senso che deriva da questa iterazione. Si pensi a circostanze che del resto ci sono ben note per diretta esperienza, dal momento che il nostro stesso comportamento è da esse determinato: ad esempio, all'atto di riconoscere una persona - cosa che non implica affatto che ci si ricordi dell'incontro che abbiamo avuto con essa in passato, oppure di una situazione che sentiamo come penosa, benché in essa non 59 vi sia alcun aspetto intrinsecamente penoso, ma che è stata tale per noi in un diverso contesto in passato. Così quando io levo minacciosamente il braccio e il cane si acquatta strizzando gli occhi in attesa del colpo, questa condotta è orientata da un ricordo del passato "che è partecipato sempre mediante ciò che ora è realmente presente" (Suppl., cap. V). Di qui deriva l'idea che la vita animale sia per lo più una vita immersa nella pura dimensione del presente: la mancanza del pensiero è anzitutto mancanza di un'autentica dimensione di passato e di futuro. Ciò comporta anche una profonda diversità nel modo d'essere del presente e nel rapporto con il mondo stesso. I nostri pensieri sono infatti per l'uomo adulto delle vere e proprie pareti nelle quali ce ne stiamo racchiusi, e queste pareti ci impediscono talora di raggiungere il mondo esterno, di coglierlo per quello che propriamente è: in certo modo il mondo si nasconde al di là dei nostri pensieri ed anche: noi stessi possiamo nasconderci dietro i nostri pensieri. Il fatto che l'uomo sia razionale vuole anche dire che egli può incorrere in errore, che può celare se stesso o celare la realtà, che può fingere o mentire. Al contrario, dice Schopenhauer, "gli animali giocano sempre a carte scoperte" - e il dire: un cane non può fingere significa ancora una volta dire semplicemente che la sua esperienza è puramente intuitivo-intellettuale. La "schiettezza e l'ingenuità dell'animale" in contrasto con la capacità di simulare è strettamente connessa con questo problema. Inoltre vi saranno differenze graduali nelle diverse specie di animali. La stessa capacità intellettuale sarà presente in gradi maggiori o minori. Alcune specie saranno mlto prossime a quella coscienza vegetale di cui abbiamo parlato a suo tempo come una coscienza priva di intuizione, e quindi priva di mondo. Ma a partire da questi gradi inferiori si sale verso capacità intellettuali sempre più elevate - il che vuol dire verso una forma di mondo sempre più evoluta ed articolata. Fino a casi in cui lo stesso limite intuitivo-intellettuale sembra quasi supera- 60 to, anche se incompletamente e imperfettamente, cosicché certi comportamenti animali si presentano a tal punto evoluti da farci sospettare almeno un barlume di ragione autentica. In questo contesto Schopenhauer - con un tratto assai caratteristico del suo stile - dà libero sfodo alle piccole curiosità del naturalista che non dimentica di registrare annedoti ed episodi minuti intorno alla vita degli animali, raccolti un po' dovunque, da libri di zoologia e di storia naturale, ma anche storie di viaggi e dalla lettura dei giornali e delle gazzette. Così nel Mondo si narra di quell'elefante "il quale, dopo aver attraversato nel suo viaggio in Europa un gran numero di ponti, si rifiutò un giorno di passarne uno che pure aveva visto traversare come al solido dal seguito di uomini e cavalli che erano insieme e ciò perché il ponte non sembrava poter reggere il suo peso" (M., p. 60). Oppure di quell'altro elefante che si vendicò di un sarto che l'aveva punto con un ago o di quell'altro ancora che schiacciò un custode due anni dopo essere stato da lui maltrattato (Suppl., V). Ma questi non sono altro che barlumi di quelle capacità che solo nell'uomo sono pienamente dispiegate. Si tratta di capacità che riguardano in primo luogo il sapere e il conoscere, che consentono la fissazione e la stabilizzazione delle conoscenze e che non possono in alcun modo essere operate dall'intuizione e sono d'altronde essenziali affinché si possa dare una conoscenza. Su questo punto Schopenhauer è molto chiaro: la nozione del sapere, e quindi della scienza in genere è necessariamente connessa con quella del giudizio, cosicché si può affermare che "solo la conoscenza astratta è un sapere" che sapere non vuol dire qualcosa di diverso dal "conoscere astrattamente" (M., § 10). Questa capacità di astrazione ha in ogni caso un raggio di azione molto ampio e conseguenze che vanno al di là di un problema di teoria della scienza o di epistemologia. Si tratta di una capacità che caratterizza l'uomo nella sua essenza antropologica. 61 Essa è legata al suo modo di essere nel tempo, al modo tipicamente umano di vivere nella temporalità. Alla ragione non dobbiamo dunque connettere solo il ricordo e la capacità di fare progetti, ma anche determinati sentimenti che hanno a che vedere in modo essenziale con la dimensione temporale, come il timore. Ed è del resto significativo di questa inclinazione del discorso il fatto che Schopenhauer rammenti per ben due volte il fatto che l'uomo può avere il pensiero della morte ed elaborarlo variamente: "può ad esempio prendere con la massima calma le opportune disposizioni riguardo alla sua morte" così come può "avvicinarsi alla morte ogni giorno con piena coscienza" (M., p. 74) - e d'altronde proprio da questa elaborazione del pensiero della morte, un pensiero che non può sussistere nell'animale - che "solo nella morte ha idea della morte" - sorgono le religioni e le filosofie. Alla ragione, organo indispensabile della scienza, spetta poi la possibilità dell'errore. Spesso dalle filosofie ci vengono opinioni "le più sorprendenti ed arrischiate" - per non dire delle religioni di cui Schopenhauer rammenta "i riti più strani, ed anche talvolta più crudeli, dei preti delle diverse religioni" (M., p. 75). Passare dalle intuizioni ai concetti - opera essenziale della ragione - è la stessa cosa che passare dalla luce diretta del sole alla luce riflessa della luna: vi è dunque un oscuramento, un indebolimento. Ad un atteggiamento immediatamente rivolto all'afferramento delle cose, delle loro proprietà e relazioni, subentra una nuova modalità della coscienza che il linguaggio quotidiano caratterizza "con meravigliosa e istintiva esattezza" (p. 73) con il termine di riflessione, cogliendo così il punto essenziale: in questa modalità della coscienza si presentano non già le cose in se stesse, ma i loro riflessi, cosicché se la presenza intuitiva di una cosa la chiamiamo rappresentazione, i concetti meritano certamente quel titolo di rappresentazioni di rappresentazioni secondo la caatterizzazione già presente nella Quadruplice radice. 62 Riemerge qui il ricordo della tradizione empiristica che ha sempre parlato - come accade in Hume nella sua contrapposizione tra idee e impressioni - di una sorta di indebolimento del concetto rispetto al contenuto intuitivo diretto, benché naturalmente con diversa terminologia, Si tratta di un'impostazione del problema che può soggiacere a critiche e che può essere fuorviante perché conferisce all'intero problema un'inclinazione psicologizzante, ma che tuttavia ha, almeno superficialmente, una singolare forza di convinzione. Pensiamo ad una qualunque parola di colore - rosso, azzurro. - ed alle percezioni corrispondenti; oppure ad una parola come "leone" che noi comprendiamo certamente nel suo senso: ma quale incolmabile differenza vi è fra la comprensione del significato della parola e la comparsa qui ed ora di fronte a me di un leone in carne ed ossa, con tanto di zanne e tutta la sua criniera! Tuttavia il motivo per cui viene rammentata questa vivacità dell'intuizione non è solo quello, anch'esso di origine empiristica, che tende a sottolineare che il contenuto ultimo della coscienza, o meglio, l'origine di ogni conoscenza è da ricercare nell'esperienza sensibile, ma soprattutto per sottolineare che la possibilità dell'errore sorge unicamente con la ragione. Ciò ha certamente bisogno di qualche spiegazione. Schopenhauer nota che stando nel campo dell��intuizione "tutto risulta chiaro, determinato e certo. Non ci sono problemi, non dubbi, non errori; non si vuole né si potrebbe andare più in là; si riposa nell'intuizione, in tutto paghi del presente. L'intuizione basta a se stessa: tutto quanto ne procede con purezza e con fedeltà (ad esempio, una vera opera d'arte) non può essere falso né smentito: infatti non c'è qui luogo per l'opinione (Meinung), avendosi la cosa stessa (die Sache selbst)" (M., p. 42). A tutta prima affermazioni come queste sembrano discutibili. Basti pensare al problema delle illusioni percettive a cui si è accennato nella nostra esposizione nel contesto della problematica dell'intelletto. Le formulazioni che abbiamo or ora citato 63 sembrano qui e là confondere le acque, come il rapido cenno all'opera d'arte, di cui non riusciamo qui a cogliere la pertinenza. Il vero nodo della questione si presenta invece proprio al termine del passo citato laddove si dice: "non c'è luogo per l'opinione, avendosi la cosa stessa". Il punto fondamentale, infatti, è dato dalla nozione di opinione. Quando parliamo dell'evidenza dell'esperienza intuitiva (perché di questa evidenza qui si tratta) non si intende per nulla negare l'esistenza di illusioni percettive, di errori nel senso ampio del termine. Si accenna invece ad un problema che era affiorato proprio nella discussione sulle illusioni percettive: in essa si distingueva tra la verità "che è ciò che la ragione ha correttamente riconosciuto" - e che si deposita in un giudizio, in una formulazione linguistica, e che si contrappone all'errore come inganno della ragione - e la realtà (Realität) come "ciò che è stato correttamente riconosciuto dall'intelletto", ed a ciò corrisponde sul versante opposto l'illusione o meglio la parvenza come inganno dell'intelletto. Ma anche una simile distinzione diventa realmente comprensibile solo alla luce del problema dell'opinione. C'è verità e dunque anche errore solo dove vi è una opinione. Ed una opinione vi è solo se un giudizio è stato effettivamente formulato, mentre nell'attività percettiva non si fa altro che percepire e il percepire non è affatto qualcosa di simile a formulare giudizi, nemmeno impliciti. Così vedere nell'acqua un bastone spezzato non significa per nulla essere dell'opinione che nell'acqua ci sia un bastone spezzato. Lo vedo, e nulla più, così come vedo di fronte a me un uomo o un albero. Naturalmente il bastone spezzato (come l'uomo o l'albero) è la cosa stessa - anche se possono incorrere in un inganno dell'intelletto. Invece, nel momento in cui formulo il giudizio "Vi è nell'acqua un bastone spezzato", esso mette in causa, nei significati generali ed astratti di cui è costituito, molto altre cose al di là di questa esperienza considerata nella sua singolarità e determinatezza: l'intero mio sapere intorno ai bastoni in genere, al comporta- 64 mento delle cose materiali, all'acqua, alle sue proprietà, alle azioni che possono generare la rottura di una cosa materiale, ecc.: tutto ciò ci rende avvertiti che quel giudizio è appunto una opinione, che dunque può essere vero, ma anche falso. È possibile che in questa nostra spiegazione siamo andati un poco oltre la lettera del testo di Schopenhauer, ma io credo che in questo modo si porti chiarezza ad una problematica che è comunque avvertita, sia pure in mezzo a qualche oscurità ed ambiguità. Con la ragione si apre la tematica dell'errore per il fatto che solo nell'astrazione dei concetti, solo nel pensiero, si possono formulare opinioni. Ma affermare questo è anche la stessa cosa che affermare la ragione stessa come organo della verità. Cosicché, l'ammonimento nei confronti dell'errore della ragione i cui effetti disastrosi anche in rapporto alla vita sociale degli uomini vengono brevemente e vivacemente descritti, termina nell'esortazione a combattere ogni errore "quand'anche non se ne veda danno", dal momento che "ogni errore porta nelle sue viscere un veleno" e "non ci può essere errore innocuo, e tanto meno rispettabile e sacro", essendo infine "solo lo spirito (Geist) e la conoscenza (Erkenntnis) che fanno l'uomo signore della terra" (M., p. 73). Parole forse un po' "retoriche", ma che meritano di essere ben sottolineate in rapporto ad un autore che viene per lo più considerato come un modello, sia esso deprecato o esaltato, di irrazionalismo. Ed esse possono essere rammentate anche per mostrare quanto Schopenhauer, sia convinto di una nozione di filosofia il cui compito deve essere proprio quello di una lotta contro l'errore, mantenendosi lontana da ogni indebolimento scettico della nozione della verità. 65 10. Teoria del concetto - La rappresentazione astratta e la parola - Il significato della parola è qualcosa di interamente differente dalle eventuali immagini concomitanti - La parola come telegrafo perfettissimo dei concetti - Perché gli animali non parlano - L'astrarre inteso come isolamento di una proprietà, lasciando tutto il resto indeterminato - L'individualità può essere solo intuita, e non pensata. Può forse essere considerata una delle caratteristiche del pensiero di Schopenhauer il fatto che l'interesse per l'insieme, e dunque per il sistema, prevalga nettamente sull'accurata ed approfondita elaborazione delle sue parti, talora con nostro rincrescimento nel vedere spunti ricchi di interesse abbandonati a loro stessi. Ciò accade in particolare, per la teoria del concetto che appartiene naturalmente all'ambito della tematica della ragione. Abbiamo già accennato al carattere riflesso del concetto così come al fatto che questo carattere contenga almeno il ricordo della tematica empiristica. Si coglie invece il peso della formazione kantiana nell'attenzione posta ad evitare le implicazioni psicologizzanti. In questo senso va rammentta l'idea che il soggetto conoscente non può essere conosciuto, idea che agisce anche nel senso di dare rilievo a ciò che viene prodotto piuttosto che alla forma del produrre. Più precisamente, la forma del produrre, dunque nel caso della ragione, l'astrarre viene introdotta a partire dai suoi prodotti. Ciò significa, ad esempio, che se venisse chiesto di dire che cosa è la ragione, ci potremmo accontentare di spiegare che "la ragione è il correlato soggettivo delle rappresentazioni astratte", evitando così qualunque riferimento alla mente ed a processi mentali che potrebbero risultare più o meno misteriosi. Analogamente non si sentiamo affatto impegnati, parlando di capacità di astrarre, ad illustrare in che modo si esplichi questa capacità, in che cosa consista il processo dell'astrazione. Anche per quanto riguarda la rappresentazione astratta, 66 per caratterizzarla si tenta di riportarla all'interno di considerazioni formali-strutturali, evitando il rischio di una caratterizzazione qualitativa. Mentre Schopenhauer è disposto a ribadire con Hume che una rappresentazione astratta è una copia (Nachbildung) ed una ripetizione (Wiederholung) di rappresentazioni intuitive, ed anche ad approfittare di questo carattere riflesso per contrapporre le une alle altre, non è invece disposto ad affermare, come accadeva in Hume, che le rappresentazioni astratte sono caratterizzate come tali dalla scarsa vivacità, dal loro "pallore", essendo questa indubbiamente una caratterizzazione qualitativa psicologizzante. Il problema della copia viene utilizzato in altra direzione. Già nella Quadruplice radice si era affermato che la forma del principio di ragione sufficiente dominante in una determinata classe costituisce l'essenza di quella classe. Ora, se chiediamo quale sia il fondamento di un concetto potremo certamente essere rimandati ad altri concetti, ma iterando la domanda dovremo infine pervenire a concetti il cui fondamento è la cosa stessa. Così potremmo illustrare il concetto di essere vivente con i concetti di vegetale o animale e il concetto di animale con i concetti di cavallo o di elefante, ma alla fine dovremo rinviare ad un cavallo o ad un elefante effettivamente "intuito". Tenendo conto di ciò la stessa nozione di rappresentazione astratta può essere definita come quella rappresentazione che esige in ultima analisi il passaggio ad una rappresentazione appartenente ad un'altra classe come proprio fondamento. Si aggira in questo modo una caratterizzazione qualitativa di impronta psicologistica. In questa stessa direzione agisce soprattutto il richiamo al versante del linguaggio. A questo proposito è il caso di mettere in guardia dal lasciarsi fuorviare da alcune formulazioni generiche nelle quali ci imbattiamo intorno al rapporto tra linguaggio e ragione: "Il linguaggio è la prima creazione e lo strumento necessario della ragione; così in greco e in italiano, linguaggio e ragione sono due concetti espressi da un'unica parola: logos, discorso (in italiano 67 nel testo). La parola tedesca Vernunft deriva da vernehmen (afferrare, comprendere) che non è sinonimo di hören (udire), ma vale: acquistare coscienza dei pensieri comunicati per via di parole... Soltanto con l'aiuto del linguaggio la ragione ottiene i suoi più grandi effetti, ad esempio l'azione concorde di più individui, la cooperazione di più migliaia di uomini per eseguire un piano prestabilito, l'incivilimento, lo stato; e inolte la scienza, la conservazione dell'esperienza precedente..." (M., p. 74). Affermazioni come queste non sono certo particolarmente nuove ed originali. Ma esse diventano subito assai più pregnanti se si tiene conto dell'impostazione che abbiamo esposta: parlare della ragione a partire dai suoi prodotti significa parlare dei concetti, i quali, concretamente considerati, niente altro sono che i significati della parole - e non dunque qualche particolare contenuto mentale. L'apprensione del significato di una parola è del tutto indipendente dal fatto che in concomitanza con la sua enunciazione si presentino immagini attinenti ad essa - ad esempio: la parola "leone" potrebbe evocare nella mia testa l'immagine di un leone, ma il significato della parola e questa immagine sono cose interamente indipendenti. Questo problema viene in certo senso risolto in un colpo solo quando Schopenhauer fa notare quale tumulto vi sarebbe nella nostra testa se, leggendo un libro, i significati delle parole non fossero altro che "immagini della fantasia che si succedono davanti a noi con la rapidità di un baleno", "che si incatenano, trasformano e si colorano diversamente, secondo l'affluire delle parole, secono le loro inflessioni grammaticali" (M., § 9, p. 77). La parola è invece veicolo diretto del concetto stesso, un "telegrafo perfettissimo" attraverso il quale "la ragione, senza uscire dal suo dominio, parla con la ragione" (ivi). Proprio in forza di questa relazione così stretta tra il momento della razionalità e il momento linguistico, assume un particolare rilievo il fatto che gli animali non parlino. Questa circostanza non deve essere ritenuta accidentale e nemmeno dipendente esclusivamente dalla mancanza di organi vocali sufficientemente evoluti. Gli animali non parlano per il fatto che 68 non sono capaci di operare astrazioni. Essi non hanno una ragione. Se l'avessero, parlerebbero. Un altro aspetto che merita di essere messo in evidenza è che, secondo Schopenhauer, la funzione essenziale della parola e quindi dell'astrazione operata dal concetto non è primariamente quella di riunire e di raccogliere insieme una molteplicità di oggetti singoli e individuali. Naturalmente questa è una funzione fondamentale - in base ad essa qualunque proprietà che viene predicata di un concetto viene attibuito anche ad ogni oggetto che viene da esso sussunto. Ma Schopenhauer tiene a sottolineare che questa funzione di "comprendere" nel senso di "abbracciare" una molteplicità di cose è secondaria, nel senso che essa è derivata da una caratteristica primitiva del concetto che è propriamente quella di lasciare sempre indeterminato qualcosa della singolarità individuale - ed è proprio in questa operazione del lasciare indeterminato che consiste la generalità che rende possibile la sussunzione di un molteplicità di oggetti sotto il concetto. In questo accenno sembra si voglia negare la teoria secondo la quale la procedura astrattiva consisterebbe nel cogliere, a partire da una molteplicità di oggetti, una caratteristica comune contrapponendo ad essa l'idea che la procedura astrattiva possa essere concepita come una procedura che isola una certa proprietà e rende indeterminata ogni altra. Si tratta di una differenza non da poco. La procedura di isolamento può essere applicata ad un solo oggetto, ed è perfettamente in grado di rendere conto, in modo diverso dalla precedente, dell'applicabilità del concetto ad una molteplicità di oggetti proprio in forza dell'indeterminazione rispetto alle altre proprietà che sta alla sua origine. Ancora una volta dobbiamo notare che Schopenhauer non approfondisce questo punto. Eppure egli tiene ad esso in modo particolare non esitando a trarre di qui quella che sembra essere una conseguenza necessaria: nel concetto abbiamo a che fare sempre con una generalità, persino quando ci serviamo di parole che rinviano a oggetti individuali. Così se affermo che "que- 69 sta cattedra è di legno", benché con il termine "questo" voglia intende proprio la cattedra su cui poggio le mani, l'espressione verbale "questa cattedra" contiene certamente meno determinazioni di quanto siano contenute nella mia percezione concreta di essa, cosicché essa sarebbe caratterizzata da una generalità di principio. Naturalmente non è qui importante decidere se una simile interpretazione dei "giudizi singolari" sia più o meno sostenibile. Più interessante è attirare l'attenzione sull'intento che la guida che è certamente quello di ribadire con particolare forza che l'individualità può essere solo intuita, e non pensata e che il carattere astratto del concetto deve essere inteso alla luce della sua minore ricchezza di determinazioni rispetto all'individualità intuita. Potremmo dire che questa minore ricchezza di determinazioni è la forma finale che assume il problema della fissazione della differenza tra concetti e intuizioni. Come ci si esprime chiaramente nelle Lezioni berlinesi: "... il giudicare è esclusivamente un'operazione del pensiero, non dell'intuire, e si mantiene perciò esclusivamente nel campo dei concetti astratti, non delle cose singole, e un concetto è sempre generale anche quando vi è una cosa sola che viene pensata attraverso di esso, anche se vi solo un'intuizione che dà ad esso un contenuto... Il mio concetto di questa cattedra non è mai questa cattedra stessa: esso rimane qualcosa di astratto, di universale... nel concetto non può mai essere contenuto tutto ciò che è contenuto nell'individuo" (Lez. I, p. 293). 70 11. Teoria della logica - Interesse di Schopenhauer per la logica formale - La logica non ha nessuna utilità pratica ma un grande interesse teorico - La logica deve essere insegnata nelle università - L'importanza conferita alla rappresentazione figurativa dei rapporti logici - Una significativa citazione di Lambert. Con le ultime considerazioni siamo ormai passati dal piano di una teoria del concetto a quello di una teoria della logica - piani che sono naturalmente l'uno la continuazione dell'altro. Va subito notato che intorno al problema della logica Schopenhauer ha alcune idee molto precise, maturate sulla base di un interesse per la logica molto maggiore di quello che l'immagine comune di Schopenhauer farebbe sospettare. A documentare questa circostanza è opportuno segnalare che alla decina di pagine dedicate all'argomento nel Mondo corrispondono non meno di centocinquanta pagine nelle Lezioni berlinesi, nelle quali risulta evidente una preparazione estremamente minuziosa ed accurata, e dunque un interesse certamente non marginale. La logica di cui parla Schopenhauer è sempre la sillogistica di tradizione scolastica, e questo va segnalato come uno dei tanti tratti violentemente anticonformistici di Schopenhauer. Infatti benché all'epoca continuasse ad essere essere insegnata nelle scuole e nei collegi, la sillogistica aveva ormai da tempo cessato di interessare i filosofi, e in primo luogo i filosofi della corrente idealistica. A cominciare da Kant con la sua logica trascendentale sino a Hegel con la sua logica dialettica, vi è tutto un affaccendamento intorno alla nozione di logica che tende a mutarne radicalmente il significato e la portata secondo una prospettiva in cui i problemi della logica formale propriamente detta, il cui nucleo era rappresentato appunto dalla teoria del sillogismo, venivano considerati come del tutto sterili e frutto di una mentalità pedantesca e di una concezione limitata delle reali procedure del pensiero. Di essasi parla come di un residuo 71 del passato che aveva avuto giustamente la sua massima fioritura in quel periodo considerato "oscuro" chiamato Medioevo e che non era certo il caso in qualche modo di rinnovare. Si tratta di una valutazione generalmente condivisa in tutto il corso del secolo XIX negli ambienti filosofici con pochissime eccezioni e che si modificherà soltanto verso la fine del secolo. Di questa linea di tendenza Schopenhauer sembra non accorgersi nemmeno. La logica formale appartiene di pieno diritto alla problema della ragione nell'accezione spiegata, e rappresenta, all'interno di questa problematica, un capitolo particolarmente importante. "La logica è la conoscenza generale dei modi di procedere della ragione, conosciuti attraverso l'osservazione di sé della ragione e attraverso l'astrazione da ogni contenuto ed espressa in forma di regole" (M., p. 83). Un simile riconoscimento è accompagnato da una importante presa di posizione. La logica non ha nessuna utilità pratica nel senso che l'apprendimento della logica non è una condizione del ragionare corretto. Quando si ragiona le regole logiche sono certamente operanti, ma lo sono nello stesso senso in cui sono operanti le leggi della meccanica quando compiamo i movimenti del nostro corpo. E come la conoscenza di queste leggi non è necessaria per imparare a camminare e in generale per muoversi, così la conoscenza esplicita delle regole logiche non è necessaria per argomentare correttamente. In una simile presa di posizione non si vuol affatto dire che le nostre argomentazioni siano sempre corrette. Sarebbe questa un'interpretazione ingenua e inconsistente. Si tratta invece di sottolineare che l'argomentare non va inteso come se da un lato ci fossero le proposizioni e dall'altro le regole, ed esso consistesse in null'altro che nell'applicare le regole alle proposizioni. Di fronte ad un simile modo di impostare il problema, S. è disposto a calcare la mano arrivando a sostenere, ad esempio, che "anche il logico più consumato, quando ragiona per ragionare, mette da parte 72 tutte le sue regole"; oppure ad approssimare l'attività razionale con un'attività istintiva simile a quella del castoro o addirittura ad un'attività fisiologica come quella di digerire il cibo. Ma l'accento che cade sull'inutilità pratica della logica, intesa in questo modo, è nello stesso tempo un accento posto sul suo interesse filosofico. Benché non sia vero che ragionare abbia come condizione l'apprensione di regole e la loro applicazione esplicita, tuttavia possiamo sempre dire, di fronte ad un qualunque ragionamento effettivamente effettuato che in esso sono state applicate queste e quelle regole, cosicché in ogni caso è giusto dire che attraverso la logica mettiamo in chiaro il funzionamento della ragione, così come sarebbe giusto dire che le leggi della meccanica rendono conto anche dei movimenti che io faccio con le mani e con i piedi. L'interesse filosofico della logica consiste dunque proprio nel fatto che essa rappresenta "una conoscenza speciale dell'organizzazione e dell'attività della ragione" che può essere considera "una scienza completa, autonoma, perfetta, ben costruita e assolutamente sicura". Essa deve essere trattata a sé, indipendentemente da ogni altra scienza,", anche se il suo reale valore può essere apprezzato soltanto "dalla sua connessione con l'insieme della filosofia, nello studio della conoscenza, e specialmente della conoscenza razionale e astratta" (M., p. 83), Per tutte queste ragioni essa "deve far parte dell'insegnamento universitario". "La sillogistica non ha né valore né utilità né interesse se essa viene esercitata superficialmente come oggi accade per lo più: invece essa ha il massimo valore per la conoscenza filosofica dell'essenza della ragione e diventa molto interessante, e persino attraente, se viene trattata veramente a fondo e se si penetra nei suoi dettagli. Quindi non dovrete passare oltre a nessuno dei nostri argomenti, ma darvi la pena di seguirli con attenzione: allora l'intero meccanismo che la ragione esercita nel dedurre (la sua funzione più alta) vi apparirà con la stessa chiarezza e distinzione con la quale vi appaiono gli oggetti che accadono sotto i vostri occhi" (Lez. I, p. 311). 73 Ma vi è un altro aspetto non secondario su cui dobbiamo richiamare l'attenzione. Nel § 9 del Mondo Schopenhauer rammenta l'idea di dare una rappresentazione figurativa ai rapporti tra concetti considerati nelle loro estensioni, che egli chiama talvolta "sfere dei concetti". Si tratta di un l'idea estremamente felice, ricordando in proposito Ploucquet che si serviva di quadrati, Lambert che invece impiegava semplici linee sovrapposte ed Eulero che ha fatto la proposta più appropriata servendosi di cerchi. La rappresentazione tramite linee e cerchi era impiegata anche da Leibniz in un saggio che non poteva essere noto a Schopenhauer, e che certamente gli sarebbe molto piaciuto, essendo stato pubblicato da Couturat all'inizio del nostro secolo e da lui intitolato Sulla prova della forma logica mediante grafici lineari (lo puoi trovare in Leibniz, Scritti di logica, a cura di F. Barone, Zanichelli, Bologna 1968, pp. 384 sgg,). Naturalmente ancora oggi, come sa chiunque abbia seguito qualche lezione di logica, può accadere che l'insegnante volendo illustrare una relazione insiemistica o anche volendo soltanto caratterizzare graficamente un insieme tracci un cerchio sulla lavagna. Ma nell'impiego di simili rappresentazioni è sempre sottinteso che esse esse sono prive di interesse dal punto di vista teorico, ed anzi esse vengono esplicitamente contrapposte come rappresentazioni "intuitive" ad una "formalizzazione" adeguata del rapporto che in esse viene proposto, cioè ad una formulazione in una notazione convenzionale appositamente escogitata a questi scopi. Proprio perché in questi nostri commenti a Schopenhauer tanto spesso ricorrono parole come "intuizione" e "intuitivo", è bene che si tenga presente anche questa accezione dei termini: intuitivo si contrappone qui a non-formale e significa per lo più, per il logico di oggi, qualcosa di simile ad approssimativo, non rigoroso, di senso comune, ed anche rozzo, grossolano, ecc. È chiaro che ci attenessimo a questi impieghi recenti del termine non vedremmo le ragioni dell'interesse di Schopenhauer a metterci sotto gli occhi queste grossolane rappresenta- 74 zioni delle "sfere" dei concetti, e tanto meno potremmo avvertire l'interesse dell'affermazione da cui sono accompagnate, secondo la quale con simili figurazioni è possibile "dedurre l'intera dottrina dei giudizi" (M., p. 81). Nelle Lezioni berlinesi si dedica peraltro il massimo sforzo proprio nell'operare una simile deduzione insistendo soprattutto sulla costruzione figurativa dei rapporti logici mediante cerchi. In realtà in rapporto a questa problematica dobbiamo rimandare all'esposizione contenuta nella Quadruplice radice, in particolare al modo in cui Schopenhauer affronta la questione della verità delle proposizioni geometriche. Questa verità era per lui connessa all'afferramento di relazioni funzionali tra le posizioni spaziali. Ora naturalmente abbiamo a che fare con un ambito interamente diverso, eppure, benché sarebbe improprio parlare ora di una sorta di "geometrizzazione" della logica, tuttavia vi è una un'unità di stile nell'approccio al problema perché anche qui si tratta di dare forma visiva concreta a relazioni astratte, in modo da poter cogliere visivamente nelle figure quelle relazioni. L'"intuizione" deve dunque essere ancora chiamata in causa, ma non come un modo di illustrare alla buona, per le teste incapaci di elevarsi al pensiero astratto, relazioni fra concetti, ma per sollevare tutto un complesso di interrogativi che riguardano la natura della logica, della dimostrazione e delle regole logiche. Se voglio illustrare la relazione tra animale e cavallo, potrei tracciare la seguente figura: A C Quel che ci interessa qui è il modo in cui determinate regole logiche sono direttamente esibite da questa semplice rappresenta- 75 zione. Ad esempio, dalla figura possiamo trarre senz'altro la regola secondo la quale soggetto e predicano non possono scambiarsi di posto oppure lo possono solo a partto di mutare la "quantità" del giudizio: in altri termini: mentre è vero che tutti i C sono A, è falso che tutti gli A sono C; ed è vero invece che alcuni A sono C. Diversamente stanno le cose se il rapporto fosse invece caratterizzato dalla figura seguente: B A Per quanto l'esempio possa sembrare troppo semplice, esso illustra il punto essenziale, e cioè il fatto che nella logica siamo interessati da un lato a caratterizzare formalmente i tipi di proposizione, dall'altro a mostrare la possibilità di trasformazione di una forma proposizionale nell'altra. Detto in altro modo: siamo interessati al tipo di rapporto che intercorre tra tutti e alcuni, al modo in cui i termini di cui è composta la proposizione possono scambiarsi il ruolo logico, a determinare che cosa accade di questi rapporti prendendo in considerazione la negazione, e così via. Così il seguente grafico: M U P può essere considerata come una rappresentazione del sillogismo di prima figura, ad esempio "se tutti gli uomini sono mortali e tutti i profeti sono uomini, tutti i profeti sono mortali", 76 ma in essa possiamo soprattutto cogliere con evidenza la legge logica secondo cui, come dicevano gli scolastici, nota notae est nota rei ipsius - la cosa stessa è naturalmente il profeta, il primo predicato è uomo e il predicato di questo predicato è la mortalità; o anche: la parte di una parte è parte dell'intero. Ed ancora: quidquid vale de genere, valet etiam de specie. Forse il modo migliore di rendere conto di ciò che è qui in questione è tracciare una qualunque configurazione di cerchi traendo da essa considerazioni sulle forme proposizionali conseguenti e sulle regole logiche che le concernono. Ad esempio: A C B Qui leggeremmo: Alcuni A sono C; tutti i C sono B ->Alcuni B sono A oppure Alcuni A sono B (Lez. I, p. 335). In breve: Schopenhauer, guidato certmente dal proprio intuizionismo, riesce a cogliere ciò che era indubbiamente un pensiero presente più o meno esplicitamente in Lambert, Eulero e Leibniz e che è andato perduto nelle elaborazioni future dell'idea di un linguaggio simbolico convenzionale per le strutture logiche e che affiora nuovamente nel Tractatus di Wittgenstein (almeno secondo l'interpretazione da me proposta). In quelle proposte di traduzione grafica dei rapporti logici non vi era certamente soltanto l'idea di facilitare la strada alla comprensione della logica, usando mezzi grossolani. Certamente vi è un motivo importante di semplificazione, ma questo motivo è profondamente immerso in una riflessione sul simbolismo capace in 77 certo modo di funzionare da sé. Questa capacità a sua volta sembra poter essere assicurata solo da una precisa corrispondenza strutturale tra la forma logica e la forma delle connessioni figurali. Questo problema è formulato in forma estremamente esplicita da Lambert nel presentare la sua proposta di designazione dei rapporti tra concetti mediante linee. Nel § 194 del suo Neues Organon si legge infatti: "Da tutto questo si vede che il modo di designazione qui addotto arriva, in verità, altrettanto lontano quanto determinata è la nostra conoscenza, e inoltre ci mostra ancora in modo evidente come, e dove, essa comincia ad essere indeterminata, e dove ancor prima dobbiamo ricavare l'ulteriore determinazione partendo dalla natura dell'oggetto stesso. Inoltre, da ciò vediamo pure che, se fosse possibile rendere complete queste determinazioni, la nostra conoscenza potrebbe diventare figurativa ed essere trasformata in una specie di geometria e di aritmetica. Notiamo qui solo occasionalmente che anche l'espressione un concetto è contenuto in un altro getta pure la base per una designazione dei concetti... D'altronde è per sé chiaro che mediante tali designazioni non si simboleggia niente altro che i rapporti più generali dei concetti, i loro collegamenti e le loro connessioni generali. Questo però non è proprio così irrilevante perché... tali designazioni ci indicano non solo i rapporti che noi in verità, senza pensare ad altri, volevamo simboleggiare, ma con uno sguardo anche gli altri che coesistono insieme nell'oggetto designato. Un pregio che finora solo l'algebra aveva" (trad. it. a cura di R. Ciafardone, Laterza, Bari 1977, p. 97). Se consideriamo l'intera questione da questo punto di vista cogliamo in essa una complessità che forse in precedenza non avremmo potuto sospettare. Nel presentare questi schemi intuitivi - come li chiama Schopenhauer - dovremmo subito dire che essi sono anzitutto simboli di relazioni astratte, e quindi qualcosa di completamente diverso da illustrazioni grossolane di esse - ed è inutile dire che il senso della parola simbolo è qui del tutto diverso da quello in uso nella logica moderna nella quale esso significa "segno per il quale è stata determinata una sintassi". La densità problematica sta poi nell'idea che, a partire da considerazioni come queste, si possa aprire sia il problema 78 della comprensione intuitiva delle regole logiche, sia il versante, apparentemente ad esso contrapposto, della riconduzione della tematica della dimostrazione al problema più generale del calcolo, come si legge già nella precedente citazione di Lambert. Di qui Schopenhauer coglie alcune importanti conseguenze che peraltro non approfondisce - ed in primo luogo l'idea che è in via di principio privo di senso tentare di dare una dimostrazione delle stesse regole logiche, dal momento che qualunque dimostrazione non può andare oltre o dire di più di ciò che è mostrato dallo schema intuitivo. "In particolare questi schemi intuitivi ci possono facilitare di molto la conoscenza delle regole della sillogistica e dispensarci dalla dimostrazione delle regole. Aristotele infatti diede sempre per ogni regola sillogistica una dimostrazione, cosa che in realtà è superflua, anzi, a rigore, impossibile; infatti, la dimostrazione stessa è una deduzione e presuppone conseguentemente le regole: ma queste regole possono al massimo essere rese chiare... Ciò che Aristotele faceva con le sue dimostrazioni possono fare i nostri schemi per noi, e molto meglio e più facilmente: infatti essi hanno una completa ed esatta analogia con l'estensione dei concetti: cosicché essi ci consentono di afferrare con evidenza i rapporti dei concetti tra loro e nel modo più facile, cioè in modo intuitivo e riusciamo a portare alla più facile comprensibilità le necessità che sorgono da questi rapporti. Già da tempo le dimostrazioni aristoteliche sono state messe da parte dalla logica; ma non si è ancora operata la loro completa chiarificazine e sostituzione con schemi intuitivi, così come mi accingo ora a fare" (Lez. I, p. 289). 12. Digressione sulla teoria del riso e del comico in Schopenhauer - In che modo in essa sono implicati concetto e intuizione - La teoria della sussunzione paradossale - Esempi - La distinzione tra spiritosaggine e buffoneria - Sulle cause del riso - Il riso sorge dal piacere che genera lo scacco della ragione - Il buffone che sbeffeggia il pedagogo. Vogliamo concludere la nostra discussione sul tema della ragione - concludendo in realtà questi nostri commenti intorno al 79 contenuto del primo libro del Mondo - prendendo in considerazione un'interessante e inattesa digressione che Schopenhauer compie nel § 13, quasi scusandosi di allontanarsi dall'argomento principale "ritardando così il nostro cammino". In questo paragrafo Schopenhauer abbozza una vera e propria teoria del riso, forse anzi dovremmo parlare più ampiamente di una teoria del comico. Si conferma qui - detto in margine - l'impressione che nel Mondo la preoccupazione dominante danneggi la portata di argomenti che vengono proposti quasi in sordina, mentre meriterebbero, se non una trattazione organica che certamente svierebbe dal filo conduttore principale, almeno una qualche più netta evidenziazione. Qui ci troviamo di fronte a tre paginette, nelle quali si condensa una proposta di teoria del comico, la cui sintesi occupa un paio di capoversi senza esempi illustrativi perché, spiega Schopenhauer, la mia teoria è così semplice e chiara che "i ricordi di ogni lettore in materia di riso bastano da soli a sostenerla ed a confermarla" (M., p. 97). Per fortuna possiamo invece disporre di un Supplemento a questo paragrafo (Cap. VIII) intitolato Sulla teoria del ridicolo che ci offre le integrazioni necessarie e gli esempi opportuni. Ad ogni teoria del riso si pone un duplice problema: quello di rendere conto del modo in cui il riso viene prodotto, dunque della struttura delle situazioni comiche, e quello di spiegare le cause che fanno sì che noi ridiamo di fronte a determinate situazioni. Questo duplice problema è presente anche in Schopenhauer, benché il primo sia più sviluppato del secondo. Ci chiediamo dunque: che cosa caratterizza una situazione come situazione comica? In questa domanda è già implicata l'idea - passibile in ogni caso di contestazioni - che tutte le situazioni che ci fanno ridere abbiano un tratto comune e che il nostro problema sia appunto quello di individuare questo tratto comune. Così la pensa anche Schopenhauer: la grande varietà delle situazioni comiche può essere ricondotta ad un'origine comune, che chiama in causa proprio il problema della ragione e della sua distinzione dall'intelletto e dall'intuizione. Ciò signi- 80 fica: se non ci fossero concetti, non vi sarebbe riso: al riso è necessaria la capacità di operare astrazioni e precisamente nel senso spiegato, secondo il quale l'astrarre è il lasciare indeterminato qualche aspetto dell'oggetto, consentendo in questo modo il passaggio alla generalità. Se è così, tra le determinazioni antropologiche significative, cioè tra quelle determinazioni che contraddistinguono l'uomo dall'animale, non dovremmo annoverare solo le facoltà del futuro, come la speranza, oppure la capacità del linguaggio. Diventa anche significativo il fatto di poter rilevare che un elefante o un cane non ridono. Queste singolari affermazioni derivano direttamente dall'idea che sta a fondamento della teoria di Schopenhauer. In base ad essa "l'origine del ridicolo è sempre la sussunzione, paradossale e perciò inaspettata, di un oggetto sotto un concetto che gli è estraneo per tutti gli altri aspetti: pertanto il fenomeno del riso indica sempre la percezione improvvisa di un'incongruenza tra quel concetto e l'oggetto reale che mediante esso viene pensato, quindi tra l'astratto e l'intuitivo" (Suppl., p. 852). Vi è dunque in questa teoria, che vogliamo chiamare senz'altro teoria della sussunzione paradossale, l'idea di un contrasto, di un conflitto interno, di un'incongruenza che caratterizza la situazione comica e questa incongruenza riguarda il rapporto tra pensiero e intuizione, tra rappresentazione astratta e rappresentazione concreta, tra il modo in cui una certa situazione viene prospettata nel pensiero e la sua realtà effettiva. Inoltre, la sussunzione è inaspettata, e dunque il conflitto ci appare improvvisamente come una sorta di corto circuito che non può essere controllato, ed ovviamente questo carattere improvviso ha una particolare importanza per lo scatenamento del riso. Veniamo ora agli esempi finalmente proposti nei Supplementi per quei lettori che non sanno fare da sé per la loro "prigrizia intellettuale". A dire il vero non tutti gli esempi sono egualmente felici ed efficaci per illustrare la tesi proposta. Cosicché converrà sce- 81 gliere quegli esempi che assolvono meglio il loro scopo. Tra questi vi è certamente l'esempio del predicatore noioso. Vi è un predicatore quanto mai noioso che ottiene il risultato di fare addormentare il pubblico dei suoi fedeli. Ecco dunque un esemplare buon pastore che, secondo a quanto dice la Bibbia, è il solo a vegliare quando tutto il suo gregge è addormentato! Se analizziamo la situazione troviamo in essa un concetto - essere un buon pastore - e la sussunzione sotto di esso di un caso particolare, e dunque concreto e reale: la sussunzione è manifestamente paradossale, essa genera sorpresa e ci fa sorridere. In riferimento al piccolo racconto si può anche costruire una sorta di stravagante sillogismo la cui conclusione - "allora il tale è un buon pastore" - sorge dalla premessa maggiore che caratterizza il buon pastore secondo la Bibbia ed una premessa minore che caratterizza il risultato che egli ottiene quando parla. Questo esempio può essere citato anche come esempio di una delle due grandi classi in cui secondo Schopenhauer si suddivide il comico e che naturalmente si potranno intersecare tra loro, avere articolazioni interne ecc. Per caratterizzarle Schopenhauer parla di spiritosaggine (Witz) e buffoneria (Narrheit). La spiritosaggine è legata soprattutto al linguaggio, mentre la buffoneria all'azione ed al comportamento. In effetti il nostro esempio riguarda propriamente l'impiego spiritoso dell'espressione "buon pastore" - siamo appunto nell'ambito del motto di spirito. Questa classe sarebbe anche caratterizzata, secondo Schopenhauer, dal fatto che in essa si procederebbe dal concreto all'astratto piuttosto che nella direzione inversa. Ciò significa, in rapporto all'esempio, che colui che crea il motto prende le mosse dalla situazione reale di un predicatore reale molto noioso a cui applica poi paradossalmente il concetto di buon pastore. Diversamente stanno le cose nel caso della buffoneria. Il termine tedesco Narrheit richiama in effetti il buffone di corte (Hofnarr) con i suoi comportamenti stravaganti, ma nel termine è anche implicata la follia, spesso del resto attribuita ai buffoni. 82 Il buffonesco deriva dunque dal fatto che viene prospettato un concetto - ad esempio si prospetta un comportamento secondo determinate norme oppure si genera l'aspettativa di un'azione caratterizzabile con un concetto astratto - mentre la realtà entra in conflitto con queste aspettative o con la normativa astrattamente presupposta. Il percorso è qui dunque dal concetto all' "intuizione" (ovvero al caso concreto). I comportamenti di Don Chisciotte possono vale come buon esempio di comico buffonesco proprio nel senso or ora illustrato. La comicità non riguarda qui il piano linguistico ma piuttosto quello dell'azione e l'esempio illustra anche il fatto che si tratta di un percorso dall'astratto al concreto. Don Chisciotte prende infatti le mosse da concetti, l'intero suo comportamento è determinato da una trama di rappresentazioni astratte sotto le quali - dobbiamo ammettere di poter esprimerci così - vengono sussunte situazioni concrete con esse apertamente in contrasto. Un altro esempio che sembra illustrare efficacemente l'idea della situazione buffonesca - peraltro in una direzinoe sensibilmente diversa dalla precedente - è quella di un attore che, nel bel mezzo di una tragedia, scoppiò a ridere per il fatto che uno spettatore per asciugarsi il sudore aveva temporaneamente posato la propria parrucca sulla testa di un grosso cane che guardava verso le scena con le zampe appoggiate al proscenio. L'analisi nei termini della teoria della sussunzione paradossale sembra qui particolarmente efficace purché si sia disposti ad intendere la nozione di concetto in un senso abbastanza lato, come del resto accadeva anche negli esempi precedenti. In particolare occorre notare che il concetto, e dunque l'attività razionale, è operante ogni volta in cui ci troviamo di fronte ad aspettative, e l'aspettativa ha una grande importanza per l'origine del riso. Ora, un attore ha evidentemente un'aspettativa in rapporto al proprio pubblico: potremmo dire allora, in base alle nostre precedenti considerazioni, che egli ha un concetto (rappre- 83 sentazione astratta) di spettatore. Ecco dunque che quando vede il cane con la parrucca guardare sul palcoscenico non può fare a meno di sussumerlo sotto il concetto di spettatore, e qui accade il cordo circuito tra l'astratto e l'intuitivo. La sussunzione è manifestamente paradossale e inattesa. Citando questo esempio S. accenna al fatto che certi animali come scimmie canguri, lepri, ecc. possono sembrarci ridicoli se più o meno consciamente intravvediamo nelle loro figure tratti umani - la comicità del cane che cammina su due zampe ha questa natura. Il "minimo incidente" - la classica caduta sulla buccia di banana - rappresenta un altro buon esempio: il riso di fronte alla caduta potrebbe essere spiegato attraverso aspettative dovute alla rappresentazione di un uomo normalmente camminante, nella quale sono comprese rappresentazioni di dignità e buon portamento che diventano incongruenti con la situazione che ci si presenta visivamente nel caso della caduta. Della pedanteria (Pedanterei) si parla per le sue possibili relazioni con il comico. D'altra parte che cos'altro è la pedanteria se non un comportamento governato da norme astratte che sono spesso incongruenti con la realtà delle cose? Ed intanto Schopenhauer ne approfitta per dare una stoccata piuttosto pesante in direzione di Kant che viene, sia pure cortesemente, annoverato tra i pedanti in rapporto alla sua teoria morale. Questi sviluppi sul comico suggeriscono alcune considerazioni conclusive intorno alla questione generale del rapporto tra attività razionale ed attività intuitiva. Come abbiamo detto, accanto al problema della struttura della situazione comica vi è anche quello di una spiegazione delle cause del riso. In effetti, anche se arrivassimo ad approvare la tesi della sussunzione paradossale, resterebbe da spiegare perché, di fronte alle situazioni in cui si verifica una simile sussunzione, noi ridiamo. Perché mai il contrasto tra intuizione e pensiero genera proprio questa reazione? La spiegazione proposta da Schopenhauer richiama i motivi filosofici di fondo intorno alla priorità del principio dell'intuizione, e quindi si integra 84 pienamente nell'impostazione complessiva data alla questione e merita di essere ricordata proprio per questo motivo. Che il riso sia riferito alla capacità razionale non significa che ci sia una relazione positiva tra il riso e la capacità di astrazione. Questa sarebbe un'interpretazione erronea della tesi di Schopenhauer. Ciò che egli propriamente sostiene è che il comico sorge da uno scacco della ragione di fronte all'intuizione - ciò che vedo non concorda con ciò che penso, anzi, ci appare subito incongruente con esso e questa incongruenza balza subito ai nostri occhi con la vivacità e la forza che spetta appunto alle rappresentazioni intuitive in genere. Anche qui accade ciò che accade nel caso delle illusioni percettive: esse sono tanto forti da permanere anche quando di esse abbiamo dato una spiegazione razionale e sappiamo dunque perfettamente che sono illusioni. Con questa stessa forza la situazione reale si impone nei confronti della situazione pensata, nella sua particolarità, nelle sfumature che la caratterizzano e che il concetto non è in grado di dominare. Proprio per via dell'indeterminazione del concetto, esso è necessariamente schematico e unilaterale, e non può rendere conto di ogni dettaglio; quando descrive la realtà non può che descriverla all'ingrosso, togliendo di mezzo quelle differenze graduali, quelle sfumature che invece l'afferramento diretto del reale ci pone di fronte agli occhi. La rappresentazione astratto-razionale è come un mosaico; la rappresentazione concreto-intuitiva è invece come la pittura, e non è in alcun modo possibile ricondurre il mosaico alla pittura, in alcun modo il mosaico può rendere quelle sfumature nelle quali eccelle invece la pittura. L'incongruenza si radica proprio in questa circostanza: il concetto nell'"universalità e rigidezza della sua determinazione" non riesce ad adeguarsi alle "fini sfumature", alle "svariate modificazioni della realtà". In questo sta propriamente lo scacco della ragione: la ragione può formulare il concetto di "spettatore" e poi un bel giorno ci accade di vedere un cane con la parrucca, e questo caso inaspettato porta lo scompiglio nel concetto. Di questo noi ri- 85 diamo - non tanto per il cane con la parrucca, ma per il concetto scompigliato. Ciò che ci rallegra è proprio questo scacco. In questa allegria vi è l'idea di uno sforzo risparmiato. L'esercizio del pensiero richiede sforzo in quanto la facoltà che istituisce mediazioni ci obbliga di continuo a prendere le distanze dall'immediatezza. Naturalmente qui il termine di pensiero, a partire da una simile teoria del concetto, tende a dilatare il suo senso. Ciò accade anche, corrispondentemente, per il termine di intuizione: il modo intuitivo di rapportarsi al mondo è il modo che richiede lo sforzo minore. In questa estensione del termine, l'intuizione è anche legata al piacere. In termini temporali: essa è legata al presente, mentre la ragione al passato ed al futuro. Alla ragione soprattutto appartengono dunque sentimenti come il rimorso, che contiene il rigurgito del passato, ed il timore, che anticipa il futuro. Si prospetta così un'immagine della ragione come una attività che pone freni e controllo al libero sviluppo dei nostri desideri - concetto e desiderio sono l'uno contro l'altro come Schopenhauer dice in una frase che apparirebbe certamente sibillina se non fosse preceduta dall'esposizione del suo contesto: "I concetti si oppongono alla soddisfazione dei nostri desideri" (Suppl., Cap. VIII). Diventa così chiara la natura del riso: nella percezione della situazione comica sperimentiamo inaspettatamente ed in modo irrefrenabile una condizione di adesione senza remore al reale, nella quale la ragione con i suoi ammonimenti, con le sue raccomandazioni, con il suo moralismo e la sua pedanteria viene finalmente posta a tacere: "Vedere una volta convinta di insufficienza questa rigida e instancabile precettrice della ragione deve perciò farci molto piacere" (Suppl., p. 861). Vi sono qui due parole nel testo tedesco che meritano di essere messe in evidenza: il convincere (überführen) è detto nel senso giuridico dell'adduzione di prove che mettono l'imputato con le spalle al muro: ciò che abbiamo qui tradotto nel modo più 86 letterale con precettrice (Hofmeisterin) - malamente tradotta in italiano talora con governante o addirittura con maestra di casa (De Lorenzo) - si richiama alla figura del "maestro di corte", quindi del pedagogo, del precettore a cui le famiglie aristocratiche affidavano i propri rampolli: figura che può certo facilmente diventare immagine di pedanteria e di moralismo. È notevole che dal termine Hofmeister si sia coniata l'espressione verbale hofmeistern che significa dare insegnamenti indesiderati (non richiesti) e che Hofmeisterei è un altro termine possibile per indicare la pedanteria. L'intuizione svolge qui la parte dell'Hofnarr che sbeffeggia l'Hofmeister - e vorremmo quasi dire che la sua teoria del comico sta tutta proprio in questa dialettica tra il buffone e il pedagogo. 87 II Volontà e natura 88 Le immagini inserite nel testo sono tratte da Histoire naturelle de serpens, Paris 1758. 89 INDICE 1. Passaggio alle considerazioni metafisiche - Illustrazioni sull'impiego del termine "metafisica" - La "catastrofe kantiana" e la ripresa del termine nel suo senso originario - La natura come tema fondamentale - Il versante esistenziale - Estraneità e spaesamento - La natura come grande geroglifico che richiede di essere interpretato. 2. Tre immagini illustrative: l'immagine del marmo, la strana compagnia, il castello - La via "interna" per accedere al di là della rappresentazione - Approfondimento dell'esperienza della corporeità - Interpretazioni delle azioni corporee in rapporto agli atti del volere. 3. Analisi dell' "io voglio" - Estensione della nozione di volontà - L'identità tra volontà e corporeità - Il corpo come massima realtà. 4. La pietra di Spinoza ed il commento di Schopenhauer - Il tema della libertà - L'elaborazione kantiana del tema della libertà e la distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile. 5. Discussione sulla distinzione kantiana tra carattere empirico e carattere intelligibile e sua rilettura di parte di Schopenhauer sulla base del mito platonico di Er. 6. Contro il libero arbitrio - Critica della posizione di Leibniz - Il problema della libertà ripropone la dimensione noumenica come dimensione della soggettività inconscia. 90 7. L'unità tra il corpo e il carattere - Il corpo come nome della volontà - La forma esterna del corpo come espressione del carattere - Esempi tratti dal mondo animale - Differenze nel caso della specie umana - L'uomo ha le mani perché ha la ragione. 8. La volontà come nozione metafisica è posta al di là delle determinazioni spazio-temporali e non può avere natura individuale - Spazio e tempo come principium individuationis - Gli orientamenti filosofici di Schopenhauer non sono favorevoli a conferire alla tematica della volontà un'aura religiosa - La parola volontà non è "segno di un'incognita" - La tematica dei gradi di manifestazione della volontà - Il mondo come stracarico di senso e le descrizioni immaginose di Schopenhauer dei fenomeni naturali 9. Legge naturale e forza naturale - Tentativo di fornire un qualche sostegno a questa distinzione - Discussione di un esempio: l'energia elettrica - In Schopenhauer è implicita l'asserzione dell'impraticabilità della nozione di forza naturale sul terreno propriamente scientifico, mentre essa è ammissibile e necessaria su quello della riflessione filosofica. 10. L'oggettivazione della volontà - La volontà non si frantuma nelle rappresentazioni in cui si oggettiva - Ripresa in questo contesto della tematica platonica delle idee - Breve sintesi della posizione platonica. 11. L'interesse di Schopenhauer per gli aspetti metafisici della teoria platonica delle idee - Esse fanno parte del processo di oggettivazione della volontà come le stesse forze naturali che sono da considerare a loro volta come "idee" - Elogio dell'occasionalismo di Malebranche. 91 12. Dialetticità della natura - Le forze naturali si contendono il possesso della materia - L'opposizione che caratterizza tutti i fenomeni della natura e la sua origine - Il significato della differenza tra gradi inferiori e superiori dell'oggettivazione della volontà - La morte come parziale regresso ad uno stadio inferiore e la sua appartenenza al ciclo della vita - La volontà come volontà di vivere. 13. La fame della volontà - Il gigantesco pasto - L'universo vagante nello spazio infinito - L'armoniosità della natura - Accenni conclusivi al tema del pessimismo e della compassione per l'esistente. 92 1. Passaggio alle considerazioni metafisiche - Illustrazioni sull'impiego del termine "metafisica" - La "catastrofe kantiana" e la ripresa del termine nel suo senso originario - La natura come tema fondamentale - Il versante esistenziale - Estraneità e spaesamento - La natura come grande geroglifico che richiede di essere interpretato. La tematica della volontà, già annunciata nelle pagine finali della Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente nella considerazione degli oggetti della quarta classe ed affiorata anche nel primo libro del Mondo come volontà e rappresentazione, viene affrontata estesamente nel suo secondo libro intitolato "Il mondo come volontà" e sottotitolato "L'oggettivazione della volontà". Si passa così da un ambito di considerazioni epistemologiche, che avevano di mira la nozione della conoscenza e del sapere in genere, ad un ambito di considerazioni che possiamo senz'altro caratterizzare come metafisiche. Nelle Lezioni berlinesi nelle quali ad intenti esplicativi della propria opera principale si aggiungono intenti didattici, Schopenhauer indugia su questa nozione tracciandone brevemente la storia. Secondo Schopenhauer, non è accettabile l'opinione che questo termine indichi semplicemente, come molti sostengono, la posizione dell'opera all'interno del complesso delle opere aristoteliche. Poiché meta in greco significa anche dopo si è pensato che con metafisica si indicassero i libri disposti dopo (nell'ordine) quelli di argomento fisico: un significato davvero freddo ed estrinseco (nüchtern) per un così bel nome! esclama Schopenhauer (Lez. II, 55). Tuttavia meta significa anche "al di là", e così metafisica può voler dire letteralmente "al di là delle cose della natura", ed a questo titolo si possono ascrivere così quei problemi ed interrogativi che in qualche modo possono essere ricondotti a questo significato primario. Questo è del resto il senso prevalente del termine nella tradizione filosofica. 93 In esso si dice: c'è qualcosa che sta al di là delle cose naturali, ma che nello stesso tempo non è privo di relazioni con esse: si può anzi sospettare che questo qualcosa che sta al di là sia anche l'essenza intima e nascosta della natura. Si propone allora la distinzione tra fenomeno ed essenza, tra ciò che appare e ciò che è: il problema metafisico è dunque propriamente il problema di ciò che è, e che non si dà senz'altro nell'esperienza, di ciò a cui l'esperienza eventualmente rimanda come un segno il cui designato non è senz'altro subito noto. A ciò si può certo ricongiungere la caratterizzazione aristotelica secondo la quale la filosofia si deve occupare dell'ente come tale e quindi del "concetto dell'ente in generale"- non dunque delle cose nella loro varietà e differenza, ma piuttosto in ciò che costituisce le cose nella loro essenza più profonda. Nel Medioevo e, oltre di esso, fino a Leibniz, questo rimane il significato comune del termine, mentre tutto cambia con quella che Schopenhauer chiama la catastrofe kantiana (Lez., II, p. 58): in essa l'indagine sul concetto dell'ente, sull'ens qua ens, viene meno per il semplice fatto che la conoscenza di ciò che è la cosa al di là delle manifestazioni di esperienza che si danno di essa, quindi la conoscenza della cosa in sé, è senz'altro dichiarata impossibile. Resta solo la possibilità, anche da Kant occasionalmente esercitata, di applicare il termine di metafisica e l'aggettivo corrispondente alle conoscenze che stanno al di là dell'esperienza nel senso kantiano delle condizioni a priori di essa, quindi come un sinonimo di "trascendentale". Del resto lo stesso Schopenhauer, nella Quadruplice radice, aveva parlato di verità metafisiche per indicare le proposizioni sintetiche a priori. Questa idea dell'impossibilità della metafisica nel senso antico che forma il nerbo del progetto kantiano viene sottoposto a critica da Schopenhauer: una posizione come quella delineata nel primo libro in sede epistemologica e che può essere ancora considerata come una posizione trascendentalistica, non è necessariamente incompatibile con la ripresa, non tanto di una pura istanza metafisica che, come istanza, sopravvive certamen- 94 te anche nel pensiero kantiano, ma di una metafisica esplicita e compiuta, quindi con l'idea di far penetrare lo sguardo filosofico al di là dei fenomeni ovvero delle rappresentazioni. Si tratta così di riprendere il termine di metafisica in un senso sostanzialmente conforme a quello originario: in essa si indaga "essenza interna del mondo" (Lez., II, p. 59), e poiché il mondo altro non è che la natura che tutto abbraccia, questa diventa il tema fondamentale della metafisica. In questo senso possiamo parlare di metafisica della natura, benché, osserva Schopenhauer, si tratti di un'espressione sovrabbondante, di una sorta di tautologia (ivi, p. 55). La natura è già implicata nello stesso termine di metafisica: ciò che sta al di là della natura è la sua stessa essenza. Vorrei far esplicitamente notare come già in questa apparentemente ovvia presa di posizione si manifesta invece una tendenza nettamente ostile ad una concezione di metafisica sconfinante nella teologia - e questo è uno degli importanti tratti di novità della metafisica di Schopenhauer. Questi chiarimenti tuttavia rendono conto solo superficialmente del modo in cui si pone in questo pensatore il problema della metafisica. Sembra quasi che questo problema venga posto come un astratto problema filosofico - come se la domanda intorno a ciò che vi è al di là delle rappresentazioni sorgesse unicamente in rapporto ad un'istanza puramente conoscitiva. Del resto in tutta la tradizione filosofica è spesso presente l'idea della metafisica intesa come un sapere filosofico che integra il sapere scientifico, come un ampliamento necessario del campo del sapere. Nel caso di Schopenhauer le cose non stanno in questo modo. Certamente, nel paragrafo di apertura del secondo libro del Mondo (§ 17), le considerazioni sulle scienze in genere e in particolare sulle scienze della natura sembrano a tutta prima rammentare il vecchio discorso sulle insufficienze del sapere scientifico e sulla necessità di una sua integrazione. Ma si avverte ben presto che l'accento del problema è nettamente spostato dal terreno propriamente conoscitivo ad un terreno essenzialmente diverso, che mette in questione piuttosto il nostro 95 modo di essere nel mondo, di riferirci alle cose ed agli eventi che accadono in esso - il nostro modo di vivere questo rapporto, o meglio ancora: di sentirlo. Naturalmente è possibile anche nella metafisica della tradizione cogliere questo aspetto come sfondo del problema metafisico, ma ora esso è nettamente in primo piano. Potremmo forse dire addirittura che in Schopenhauer l'accento si sposta esplicitamente sul versante esistenziale, mentre si attenua l'aspetto della metafisica come ingrazione del sapere, come una questione filosofica astratta. Per Schopenhauer si tratta invece di dare comprensibilità al significato che avvertiamo oscuramente inerente alle rappresentazioni. Siamo debitrici alla riflessione filosofico-metafisica "se le immagini offerteci dalla rappresentazione, invece di passarci davanti quasi estranee e insignificanti, ci parlano direttamente, ci diventano comprensibili ed acquistano un interesse che impegna tutto il nostro essere" (M., p. 133). In questa frase è implicato che siamo quotidianamente immersi in un mondo attraversato dal significato, in un mondo ricco di senso: nessuna delle cose che vediamo e degli eventi a cui assistiamo ci passa semplicemente davanti come qualcosa che ci è indifferente: al contrario, noi siamo di continuo sotto la presa di un interesse attivo nei confronti del mondo, "un interesse che impegna tutto il nostro essere", e dunque ovunque stabiliamo differenze di peso e di importanza, e per questo possiamo dire di essere immersi nel senso. Ma che cosa può rendere conto di questa pienezza di senso che viene da noi solo oscuramente avvertita? Ci basta per giustificarla richiamarci al puro concetto della rappresentazione? La risposta deve essere negativa. Proprio nel momento in cui abbiamo operato una riduzione del mondo a pura rappresentazione cessano di valere quei legami segreti che dànno senso al nostro rapporto quotidiano con le cose, viene meno quel sentimento che ci avverte della pienezza del senso, e ci troviamo infine di fronte a pure immagini che ci sono estranee (fremd), che non sono più in grado di dirci nulla (nichtsagend) (Lez., II, p. 61). 96 Forse la stessa idea di un mondo di pure rappresentazioni, genera in noi un certo di spaesamento. Questo tema dell'estraneità e dello spaesamento - come noi siamo tentati di dire - è particolarmente importante per comprendere lo sfondo del problema metafisico in Schopenhauer. Ritorna qui, ma in una diversa chiave, il tema del mondo come "sogno privo di essenza" (Lez., II, p. 66), delle rappresentazioni come fantasmi inconsistenti in rapporto al quale occorre riproporre il problema della "realtà". La nostra domanda è ora: "Che cosa è questo mondo oltre il fatto che esso è una nostra rappresentazione? Che cosa resta se si prescinde dal divenire rappresentazione, ovvero dall'essere rappresentazione? Che cosa significa l'intero mondo della rappresentazione? Che cosa è l'essenza di questo fenomeno, che cosa si manifesta in esso, che cosa è la cosa in sé? Questa domanda è il problema fondamentale della filosofia" (Lez., II, p. 61). Io credo che su questo sfondo di queste domande debbano essere interpretate anche le riflessioni sulle scienze che introducono il tema. Ad esse le scienze in genere, e in particolare le scienze matematiche e naturali, non sarebbero in grado di dare una risposta, e non per una sorta di insufficienza o di limite intrinseco, ma per una semplice ragione di principio. Esse si muovono interamente all'interno del mondo come rappresentazione. Il fenomeno (Erscheinung) è il loro concetto costitutivo e così il loro compito è di stabilire nessi fondazionali. La matematica in genere - l'aritmetica e la geometria - hanno a che fare con l'elemento formale dei fenomeni, con la forma del tempo e dello spazio, mentre la scienza della natura, con tutte le sue articolazioni interne, ha a che fare con il contenuto: ma nessuna di esse può abbandonare il piano dei fenomeni. In rapporto alle scienze delle natura, sulle quali Schopenhauer indugia più a lungo, egli tiene a distinguere un aspetto morfologico ed un aspetto etiologico. Vi è morfologia laddove l'indagine tende soprattutto a descrivere ed a classificare le forme: sia nella natura materiale sia in quella animale e vegetale 97 abbiamo sempre a che fare con forme e in particolare con somiglianze e relazioni tra forme. Vi è invece etiologia dove l'indagine è diretta alla spiegazione del mutamento delle forme, quindi là dove l'interesse è orientato sorpattutto in direzione dell'istituzione di nessi causali. Naturalmente su questa distinzione, ed in particolare sulla nozione di morfologia vi sono ricordi goethiani, e del resto la posizione di Schopenhauer in rapporto alla metafisica andrebbe ambientata nella filosofia romantica della natura. Noi vogliamo invece rimanere strettamente all'interno della sua posizione e limitarci a segnalare i punti principali: ed il punto principale di questa discussione è certamente l'osservazione che anche nella scienza traspaiono sensi che rimandano altrove ma che subito si oscurano. Ad esempio, nella morfologia resteremo colpiti dalle relazioni tra le forme materiali, dalle loro infinite sfumature e soprattutto dal fatto che "tutte quelle forme sembrano tante e diverse variazioni di un tema unico non espresso��� (M., p. 134). Intravvediamo dunque un'unità tematica, qualcosa di simile all'unità di un piano, ma questo senso, proprio nel momento in cui ci sembra di poter penetrare il suo segreto, subito ci sfugge, e le forme naturali ci sembrano estranee, come tanti geroglifici indecifrabili (M., p. 135). Lo stesso si può dire per il momento etiologico. La ricerca di spiegazioni causali fa tutt'uno con la ricerca di leggi che stabiliscono le condizioni alle quali deve verificarsi un determinato evento. Ma Schopenhauer ritiene di poter contrapporre alla nozione di legge naturale quella di forza naturale, e precisamente nel senso che la legge naturale ci avverte che quando accade un determinato evento siamo alla presenza del manifestarsi di una forza naturale: così quando una pietra si stacca da una roccia e cade a valle l'intero evento è chiaramente spiegato dalla legge di gravità, ma la legge stessa in qualche modo allude ad una forza sulla quale peraltro essa non è in grado di dire nulla. Non solo dunque le scienze non possono rispondere alla domanda fondamentale della filosofia, ma ciò che ci appare nel- 98 le scienze con la chiarezza di una conoscenza autentica, dal punto di vista di quella domanda ci appare invece come un autentico enigma. Le scienze propongono enigmi. Enigmatiche diventano le forme quando scorgiamo o crediamo di scorgere in esse il riferimento ad un piano; ed enigmi sono "la materia, il peso, l'impenetrabilità, la comunicazione del moto per mezzo dell'urto..." (M., p. 136), per non dire delle forze che stanno alla base della natura animata, dello sviluppo organico, della nascita e dell'accrescimento biologico, ecc. "La natura tutta è un grande geroglifico che richiede una interpretazione (Deutung)" (Lez., II, p. 64). 99 2. Tre immagini illustrative: l'immagine del marmo, la strana compagnia, il castello - La via "interna" per accedere al di là della rappresentazione - Approfondimento dell'esperienza della corporeità - Interpretazioni delle azioni corporee in rapporto agli atti del volere. Vi sono tre immagini che illustrano assai efficacemente quanto abbiamo or ora esposto (§ 17). Anzitutto l'immagine del marmo. Di fronte a noi vi è un blocco di marmo che noi possiamo osservare in tutte le sue venatura, in tutti i percorsi che si mostrano alla superficie, in tuti i loro intrecci, le loro convergenze e divergenze, i loro punti di intersezione. Ogni percorso può essere seguito in se stesso, e così possiamo anche richiamare l'attenzione su questo o quel nodo in cui le venature si incontrano. Ma il disegno che queste venature presentano non è altro che la manifestazione sulla superficie delle stratificazioni interne che sono nascoste al nostro sguardo e di cui avvertiamo l'esistenza, ma di cui non sappiamo nulla. Ciò che non possiamo scoprire è "il corso interno di queste vene fino alla superficie" (M., p. 136). Con questa prima immagine Schopenhauer vuole illustrare soprattutto il limite della conoscenza scientifico-naturale: o meglio, dal momento che l'espressione di "limite" è qui del tutto equivoca: il fatto che tale conoscenza rimane al di qua della domanda filosofico-metafisica. Ma forse lo spirito autentico del problema in Schopenhauer lo si comprende meglio nella seconda e nella terza immagine. La seconda in particolare, benché sia proposta come un paragone "scherzoso" è in realtà, come riconosce lo stesso Schopenhauer, più "incisiva", ed è molto seria nel suo fondo. Si narra qui di un tale che è capitato, senza sapere chiaramente come e perché, in una strana compagnia, che gli è del tutto sconosciuta: ma ciò che appesantisce l'atmosfera già po- 100 tenzialmente onirica di questa situazione è il fatto che ciascuno dei presenti gli si avvicina presentando a turno ciascun altro come amico, cugino o familiare, aggravando l'estraneità di quell'uomo che, quanto più viene ad apprendere l'esistenza di legami e di affinità tra coloro che lo circondano, tanto più si sente isolato rispetto ad essi, tanto più si sente assillato dalla domanda: "Ma come diavolo sono mai capitato tra costoro?" In questa immagine si presenta con particolare vivacità quel tema dell'estraneità e dello spaesamento a cui ho accennato parlando di un versante esistenziale, un versante che è in realtà - più o meno occultamente - presente nella posizione del problema metafisico in genere e che in Schopenhauer affiora con particolare chiarezza. Basta poco per trasformare questa analogia "scherzosa" in una scena onirica inquietante dalla quale vorremmo al più presto ridestarci. Ma la stessa cosa si può dire per la terza immagine, quella del castello di cui cerchiamo invano l'entrata per addentrarci in esso, mentre ci dobbiamo accontentare di fare solo uno schizzo dei suoi lati esterni. La durezza del marmo si traduce ora nell'impenetrabilità della rocca intorno alla quale mi aggiro nella vana ricerca di una porta che mi consenta l'accesso. Si noti che questa durezza e impenetrabilità è riferita proprio al mondo come rappresentazione, al mondo in quanto è costituito di pure parvenze fenomeniche. Talvolta si dice che siamo prigionieri di questo mondo, come se fossimo chiusi dentro di esso, mentre nello spirito dell'immagine del castello, ed anche certamente in quella del marmo e in quella della strana compagnia, che è un'immagine di esclusione, sarebbe più giusto dire che siamo chiusi fuori dalla realtà stessa. La questione della necessità di una considerazione metafisica è per Schopenhauer una questione che coinvolge il tema della realtà, con quelle peculiari difficoltà che dipendono dalla critica del realismo e dall'adozione del principio dell'identità di oggetto e rappresentazione. Secondo una prospettiva realistica è essenziale distinguere tra l'uno e l'altra - l'oggetto in se stesso sta a 101 fondamento delle nostre rappresentazioni: dagli oggetti si leverebbero delle immagini, delle species sensibiles, secondo la terminologia scolastica, che penetrerebbero nei nostri organi di senso e che sarebbero simili agli oggetti come un uovo ad un altro uovo. La critica al realismo ed alla sua teoria della conoscenza viene qui ribadita, così come viene ribadito il fatto che il tema di una realtà al di là dei fenomeni non viene posto in forza del principio di ragione sufficiente, cioè in forza forza di un'argomentazione causale. Sappiamo infatti che le cause delle rappresentazioni sono ancora rappresentazioni, cosicché, diversamente da ciò che potrebbe pensare un filosofo realista, la questione della realtà al di là dei fenomeni non può essere posta unicamente interrogandosi sulle cause di essi. Il problema del resto non solo non si pone a partire da un'argomentazione causale, ma non si pone nemmeno a partire da un'argomentazione in genere. Si pone invece sulla base di una sorta di sentimento, del fatto che noi avvertiamo (fühlen) la presenza di un significato "di cui non sappiamo rendere conto in abstracto" (Lez., II, p. 68) e nemmeno restando sul terreno delle pure rappresentazioni. Tutto ciò conferma che la questione metafisica non dipende da una carenza della conoscenza positiva, ma sorge invece come un tentativo di risposta ad un sentimento soggettivo che chiama in causa il nostro rapporto con la realtà stessa. Nello stesso tempo ci rendiamo conto della significativa difficoltà nella quale ci imbattiamo e che era naturalmente quella stessa difficoltà che aveva indotto Kant a dichiarare per sempre inesplorabile il terreno della cosa in sé. Con Kant del resto Schopenhauer condivide due punti fondamentale: 1. "tutta la nostra conoscenza è soltanto esperienza e quindi proviene dal fenomeno"; 2. quando essa non è conoscenza proveniente dal fenomeno ed è del tutto a priori, la sua validità è in ogni caso limitata ancora all'esperienza stessa (Lez., II, p. 69). Accennando a questi due punti non dovremmo concludere con Kant all'impossibilità di una considerazione metafisica? 102 Non ci troviamo qui di fronte ad una formidabile difficoltà di principio nel tentare di dare sviluppo teorico autentico al puro dato di fatto di quel sentimento soggettivo della ricchezza di senso che sta all'origine del problema? In realtà il modo in cui Schopenhauer ritiene di poter superare la difficoltà è un segno della spericolatezza e della rischiosità del suo modo di filosofare, una spericolatezza che lo espone naturalmente a obiezioni vistose e anche profondamente giustificate, ed in particolare alla critica di fare leva su pure analogie teoricamente irrilevanti, se non su veri e propri sofismi e su ragionamenti manifestamente infondati. Si tratta tuttavia di una rischiosità e di una spericolatezza capace di sollevare autentici problemi, interrogativi ricchi di interesse, angolature che stimolano ed eccitano la nostra attenzione filosofica. Del resto, proprio mentre ci accingiamo ad addentrarci all'interno del sogno metafisico di Schopenahauer non è fuori luogo far notare quanto sia importante l'imprudenza intellettuale nella filosofia in genere. Proprio nelle sue figure più significative, troviamo certo estrema sottigliezza nell'argomentare, straordinaria acutezza e capacità di osservazione: ma assai spesso tutto ciò coesiste con l'istituzione di nessi e costruzioni concettuali che sembrano pure fantasticherie, se considerate in se stesse e di cui può essere facilmente indicata la mancanza di fondamento in un errore logico, in un'analogia tirata troppo oltre, in una struttura argomentativa discutibile. Tuttavia ciò che sconcerta ancor più è che esse assumono interesse proprio in quanto pretendono di valere sulla base di argomentazioni e non possono essere separate da uno sfondo di problematiche autentiche; inversamente queste stesse problematiche fortemente argomentate trovano un sovrappiù di interesse in questa singolare solidarietà. Come Schopenhauer ritiene di poter venire a capo della difficoltà consistente nella pretesa di abbandonare il terreno della rappresentazione, cercando di trovare una via che comunque ci consenta di penetrare dentro il castello? Abbandoniamo 103 allora l'illusione di trovare una porta dentro le alte mura o un qualche segreto anfratto nel terreno che ci mostri un percorso sotterraneo, un cunicolo che ci conduca all'interno di esso. La considerazine metafisica è una considerazione che riguarda l'interno delle cose. A questo interno possiamo accedere soltanto da un altro interno, e quindi da noi stessi. Una simile premessa non deve tuttavia trarci in inganno. Essa non conduce affatto ad una considerazione "interioristica" - non va intesa come se dovessimo interrogare noi stessi come soggettività spirituali, in una parola come se dovessimo interrogare la nostra anima. Al contrario ciò che deve ora essere messa da parte è proprio la soggettività che ha soltanto un'anima, la soggettività puramente conoscitiva che potrebbe essere intesa come "una testa d'angelo alata senza un corpo" (M., p. 137, Lez., II, p. 70). L'attenzione deve invece essere attratta verso la soggettività corporea. Il corpo, veicolo delle sensazioni, resta esso stesso non tematizzato. Ciò che viene reso tematico è la cosa con le sue svariate proprietà, non le sensazioni che in qualche modo ce le indicano. Se poi volgessimo lo sguardo proprio sul nostro corpo, sulle sue azioni e movimenti, allora il esso stesso verrebbe estraniato tra le cose del mondo circostante - cosicché l'unica alternativa sembra essere tra il trarsi indietro della corporeità per esibire l'oggettività di cui essa media la manifestazione e l'apparire del corpo come una pura oggettività tra le altre oggettività di cui è costituito il mondo. Ma è sufficiente arrestarsi a questa alternativa per rendere conto dell'esperienza della corporeità? In realtà, proprio il richiamo ad una via interna verso il problema metafisico, richiede che questa esperienza venga approfondita. Consideriamo ad esempio l'atto di afferrare un oggetto, che può avvenire come una reazione ad un bisogno. Ad esempio, afferriamo una mela per mangiarla. Questo stesso afferrare viene viene dunque effettivamente realizzato, ma non è esso stesso tematico. Tematica è invece la cosa afferrata dal momento che l'afferrare non è che un momento interno di un atto 104 complessivo interamente dominato dallo scopo. Se invece effettuiamo una tematizzazione dell'atto stesso (nel linguaggio di Schopenhauer: se assumiamo un punto di vista conoscitivo- rappresentativo), allora il movimento del nostro braccio ci appare esattamente come un movimento di un oggetto del nostro mondo circostante. "Per il soggetto puramente conoscitivo il corpo è una rappresentazione come un'altra, un oggetto fra altri oggetti, i suoi movimenti e le sue azioni non sono per lui, sotto questo punto di vista, nulla di diverso dalle modificazioni di qualsiasi altro oggetto intuitivo..." (M., p. 138). "... per il soggetto i movimenti e le azioni del corpo non sarebbero conosciuti più da vivino che i movimenti e le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi, e resterebbero perciò come quelli estranei (fremd) e incomprensibili (unverständlich)" (Lez. II. p. 71). I movimenti del nostro corpo sarebbero dunque per noi stessi un autentico enigma. Noi sappiamo tuttavia, sulla base dell'esperienza del nostro corpo che le cose non stanno così. In ogni azione corporea la soggettività stessa è sempre messa in questione e sa di esserlo: non lo sa in maniera astratta, ma del tutto concreta: lo sa attraverso il piacere e il dolore che spesso si accompagnano alla sensazione, attraverso il fatto che io stesso non posso contemplare disinteressatamente la mia mano che brucia su un braciere nello stesso modo in cui posso invece contemplare un tizzone di legno che brucia nel caminetto. Ma che cosa intendo propriamente parlando dell'io stesso, quando dico che l'io stesso è attirato da questo o da quello o che fugge via da questo o da quello nei suoi comportamenti direttamente corporei? La volontà è la parola che scioglie l'enigma (enträtseln: Lez., II, p. 74) - quell'io stesso è l'io della volontà: "questa parola, questa sola offre al soggetto la chiave della propria esistenza fenomenica; gliene rivela il significato, e gli mostra il meccanismo interiore che anima il suo essere, il suo fare, i suoi movimenti" (M. p. 138). 105 È subito opportuno notare che questo impiego del termine "volontà" ha alcune peculiarità importanti. Da un lato si pensa certamente anzitutto al fenomeno della volontà nel senso usuale del termine, quindi come intenzione soggettiva a cui segue la sua realizzazione. Ad esempio, io voglio alzare il braccio e lo alzo - realizzando appunto il mio volere. La riflessione ha inizio proprio di qui: vi è una relazione interamente diversa con il proprio corpo rispetto ad una dimensione puramente rappresentativa e in particolare rispetto alla rappresentazione del braccio che si leva in alto. Ma già prendendo le mosse di qui, vi è una prima annotazione, in realtà assai acuta, che mostra la problematicità di questo rapporto. Noi abbiamo or ora distinto tra una intenzione volitiva e la sua realizzazione. Il rapporto sembra prospettarsi allora come un rapporto tra vuoto e pieno - la pura intenzione può essere assimilata a qualcosa di vuoto, mentre la sua realizzazione ad un riempimento. Questo modo di porre il problema viene subito contestato da Schopenhauer. Egli tende a togliere di mezzo la distanza tra l'atto del volere e la sua realizzazione, e certamente con qualche buona ragione. L'esempio riscritto così: prima io voglio alzare il braccio e poi lo faccio, mostra subito una certa artificiosità. È un esempio buono forse in una discussione sul libero arbitrio, ma non rappresenta una buona esemplificazione per il modo in cui normalmente io voglio e del modo in cui alzo o abbasso il braccio per afferrare qualcosa, oppure muovo le gambe per camminare, guardo a destra o a sinistra, ecc. Tutti questi atti sono certamente atti volontari - non sono qualcosa che semplicemente accade come quando involontariamente urto una persona per istrada. Ma se questo è vero allora la distinzione tra un'intenzione volitiva che precede temporalmente la sua realizzazione diventa assai dubbia. Riflettiamo su questo punto: che cosa è un'intenzione volitiva separata dalla sua diretta realizzazione? Essa sembra non essere altro che un puro pensiero di volere - il pensiero, ad esem- 106 pio, che domani prenderò il treno. Ma il volere vero e proprio non c'è già oggi e si realizzerà domani, ma ci sarà soltanto domani ed esattamente nell'istante della sua realizzazione. Ciò vale tanto più in rapporto a quegli atti elementari del volere che si realizzano in una semplice azione corporea. "Ogni atto reale della volontà è sempre infallibilmente anche un movimento del corpo..." (M., p. 138). "Le decisioni volontarie concernenti l'avvenire non sono atti di volontà veri e propri, ma semplici riflessioni della ragione su quello che si vorrà in un momento dato. Soltanto l'esecuzione dà il suggello alla decisione... Il volere e il fare sono separati soltanto nella riflessione: nella realtà fanno una sola cosa" (M., p. 139). Sulla base di queste considerazioni Schopenhauer può arrivare a fare delle azioni del corpo niente più e niente meno che delle manifestazioni della volontà: dunque non tanto "realizzazioni" di intenzioni interne, quanto piuttosto dei modi in cui la volontà stessa diventa visibile, delle oggettivazioni della volontà. Questo punto per Schopenhauer è così rilevante che egli ritiene di dover dare rilievo ad esso coniando un neologismo, una procedura assai rara in questo filosofo: egli parla infatti del corpo come obbiettità o oggettità (Objektität) della volontà. 3. All'analisi dell' "io voglio" - Estensione della nozione di volontà - L'identità tra volontà e corporeità - Il corpo come massima realtà. L'io che vuole è lo stesso io corporeo che agisce. La conoscenza del corpo come oggettità della volontà può essere indicata "come la più immediata delle nostre conoscenze" (M. p. 140): essa non può tuttavia trovare un luogo nella classificazione delle verità proposte a partire dal problema del principio di ragione sufficiente. In particolare occorre guardarsi dal ritenere che "l'atto volitivo e l'azione del corpo" siano "due stati differenti conosciuti in modo obbiettivo e collegati dal principio di causa- 107 lità" (M. p. 139). Si tratta di una verità che Schopenhauer indica come una verità filosofica per eccellenza - ed è importante mettere in rilievo queso punto poiché attraverso questa conoscenza immediata, attraverso questo sentire la volontà nell'azione e l'azione nella volontà, si opera il collegamento eccezionale tra elementi che appartengono all'ambito rappresentativo (le manifestazioni corporee in generale) con qualcosa che sta al di fuori della catena delle rappresentazioni, creando in essa la breccia di cui abbiamo assolutamente bisogno per superare quella difficoltà che abbiamo denunciato all'inizio in corrispondenza con l'impianto kantiano della problematica epistemologica. Tutta la questione della volontà è dunque orientata nel senso del problema metafisico. Tuttavia è della nostra volontà che anzitutto si parla, del nostro corpo e del modo in cui le nostre azioni possono essere riferite ad essa - sarebbe un grave errore dimenticarlo. L'inizio di questo sviluppo sta proprio in un'analisi dell'io voglio nel senso comune dell'espressione. Questo senso viene certamente elaborato ed anche problematizzato, ma in modo coerente, e per di più non privo di un fondamento descrittivo. Ciò vale per il problema del rapporto del volere e le azioni del corpo, ma vale anche per quell'estensione del termine così caratteristico di Schopenhauer (Cfr. Commenti a Schopenhauer, I, pp. 57-58) che è peraltro anch'essa collegata al tema della corporeità come oggettità della volontà. Avviene infatti anche per la nozione di volontà quella operazione generalizzante che era già stata effettuata nel caso della rappresentazione. Quest'ultimo termine è stato infatti impiegato in modo tanto ampio da poter annoverare cose eterogenee come fenomeni percettivi in genere, fantasmi onirici, rappresentazioni geometriche, concetti astratti ecc. Sembra allora che Schopenhauer, operando un'analoga generalizzazione in rapporto alla volontà, attribuisca ad essa tutto ciò che non cade sotto la nozione di rappresentazione, ogni momento che 108 può accompagnare una rappresentazione, ma che non può essere annoverato sotto il suo concetto - quindi l'intero ambito della vita emotiva ed affettiva, dell'istintualità, del desiderio ecc. Ma particoalrmente interessante è che, anche per la nozione di volontà in questo senso esteso, si faccia valere il rapporto con la corporeità. È qui presente l'idea che atti di forma evoluta, che quindi hanno un carattere particolarmente complesso e che sono partecipi di momenti riflessivi, abbiano le loro radici in atti più elementari, immediatamente corporei, che non hanno alcuna mediazione riflessiva e che possono dunque essere caratterizzati come irriflessi. Ad esempio, il mio rifiuto a realizzare un determinato compito che può essere considerato come il risultato di una meditata decisione sia differente solo nel grado, e dunque nella complessità, rispetto al gesto irriflesso, immediatamente corporeo, di distogliere la testa da qualcosa per via del cattivo odore che essa emana oppure dal chiudere gli occhi di fronte ad una scena che ci riempie di disgusto. Cosicché qualcosa di questo gesto di disgusto rimane forse ancora nella decisione di non fare qualcosa, così come una traccia di un piacere immediatamente sensibile resta ancora quando si fa qualcosa che si vuole. Si può dire così che il problema della volontà comincia già nell'ambito della pura sensibilità. La volontà è chiamata in causa proprio nei sentimenti di piacere e di dolore talora associati alla semplice impressione sensibile: "Ogni impressione esercitata sul corpo è ipso facto un'impressione diretta alla volontà; e come tale si chiama dolore o piacere a seconda che sia contraria o conforme alla volontà... dare il nome di rappresentazioni a piaceri e dolori è un grande errore; piaceri e dolori non sono rappresentazioni, ma soltanto affezioni immediate della volontà nella sua manifestazione fenomenica, ossia nel corpo: sono un subitaneo e necessario volere o non-volere..." (M.. p. 139). Solo nel caso in cui le sensazioni siano particolarmente neutre da questo punto di vista generando attrazione e repulsione in 109 modo così debole da poter quasi passare inavvertite, allora esse possono fungere da veicoli di rappresentazioni. Se siamo disposti a riconoscere la presenza del tema della volontà nel piacere e nel dolore esercitato dalle impressioni sensoriali, è facile comprendere che questa presenza dovrà essere riconosciuta in generale alla passioni, e proprio nel considerare questo aspetto troviamo un'altra conferma dell'identità della volontà con la vita corporea. Schopenhauer mette infatti l'accento sul fatto che "L'identità della volontà e del corpo si mostra inoltre nel fatto che ogni movimento violento ed eccessivo della volontà, cioè ogni affetto, ogni tempesta della passione scuote in modo del tutto immediato il corpo... e turba il corso delle sue funzioni vitali" (Lez., II, p. 75). In questo tema vediamo affiorare una delle tendenze caratteristiche del secondo libro del Mondo: nell'esterno si coglie una manifestazione diretta dell'interno, che trova qui una esemplificazione elementarissima e particolarmente persuasiva. Ad ogni mutamento, ad ogni stato interno non corrisponde forse una modificazione del corpo diventando così visibile su di esso? Qui l'idea di una volontà senza corpo sembra davvero una pura astrazione. Pensiano al pallore del volto provocato dalla paura, oppure al tremito, indotto dalla paura stessa e talvolta anche dall'ira, oppure al rossore che viene ritenuto segno manifesto della vergogna. Inoltre si possono rammentare quei veri e propri sconvolgimenti corporei che sono conseguenze di passioni particolarmente violente, come l'aumento della velocità delle pulsazioni cardiache, l'alterazione del tono della voce, la respirazione affannosa e così via. Tutti questi esempi vengono citati nelle Lezioni berlinesi (cfr. Lez., II, p. 75). Vogliamo ora mostrare in che modo avvenga in concreto il passaggio al piano propriamente metafisico e dunque nello stesso tempo ad una nozione di volontà che non può essere considerata - come è fin qui avvenuto per lo più - solo da un 110 punto di vista "psicologico". Proprio in questo punto cruciale, in cui deve essere effettuato il passaggio dal fenomeno alla cosa in sé, la discussione di Schopenhauer prende ancora le mosse da considerazioni che, utilizzando le nozioni nel loro significato usuale, aderiscono ancora per un buon tratto ad un piano di esperienze che ciascuno di noi può realizzare e rendere tema di una riflessione. Così si fa notare che potremmo sentire una forte resistenza interna ad ammettere la concezione del corpo come pura rappresentazione, una resistenza che il riconoscimento del corpo come oggetto immediato non è in grado di far venire meno. Questa resistenza si spiega ora con il fatto che, facendo del corpo una rappresentazione come tutte le altre si espone il corpo stesso, il mio corpo, e dunque io stesso, alla possibilità che esso sia ridotto a pura parvenza. Ma una simile riduzione entra in conflitto con l'esperienza che io ho di me stesso ed in particolare in quanto io costituisco me stesso come un io che vuole. Dobbiamo ora osservare che l'esperienza dell'io come un io che vuole è anche esperienza del reale al suo massimo grado - ecco come si ripresenta in rapporto alle considerazioni metafisiche il tema della realtà! Ciò che per me è soprattutto reale sono io stesso, quell'io stesso che si percepisce in una inscindibile unità con il corpo stesso - si sarebbe tentati di pensare di essere qui in presenza di una singolarissima e svisata ripresa, in un contesto e con esiti tanto diversi, del tema cartesiano dell'ego cogito. La "massima realtà da noi concepibile" è il nostro corpo. "Il proprio corpo è per ciascuno la cosa più reale" (M., p. 143, Lez. II, p. 81). La metafisica di Schopenhauer inizia proprio da questa affermazione tanto notevole. In essa è contenuta una conseguenza molto forte: se non vogliamo che il mondo intero che ci appare, con tutte le cose di cui esso è costituito, animali, vegetali, e le stesse altre persone da cui siamo cicondati sia ridotto a pura parvenza fenomenica, dobbiamo essere disposti ad attribuire ad ogni cosa quella stessa realtà che noi attribuiamo al nostro corpo. Ma ciò significa null'altro che fare di ogni cosa un fenomeno della volontà. O sostenere, detto in altri modi 111 equivalenti, che la volontà è l'essenza dei fenomeni, che essa è la cosa in sé di cui parlava Kant. 4. La pietra di Spinoza ed il commento di Schopenhauer - Il tema della libertà - L'elaborazione kantiana del tema della libertà e la distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile. Che cosa possa significare fare di ogni fenomeno una manifestazione della volontà dovremo spiegarlo senza troppa fretta. Intanto si potrebbe subito obiettare che in simili formulazioni non si fa altro che prospettare una sorta di ingenuo animismo filosofico. Con animismo si intende genericamente negli studi antropologici quelle concezioni tipiche delle culture più arcaiche nelle quale si attribuisce un'anima ad ogni cosa. Ed in effetti qui si tende a proiettare nelle cose in genere quel principio spirituale che chiamiamo volontà e che riconosciamo costitutivo dell'idea della soggettività in genere, cosicché si opera una sorta di soggettivazione dell'intero universo naturale, dell'intero ambito dell'oggettività. In questa direzione sembra a tutta prima orientato il discorso di Schopenhauer, e potremmo citare a conferma il famoso commento che egli fa ad un'altrettanto famosa osservazione di Spinoza. Questi diceva: se una pietra, cadendo dall'alto, rotolando a valle mossa dalla pura forza di gravità, avesse in qualche modo coscienza di sé riterrebbe di volare per virtù propria, dunque di muoversi per una decisione della propria volontà. E la pietra avrebbe ragione ! - questo è lo straordinario commento di Schopenhauer. Cosicché quella frase che aveva come scopo il mettere in evidenza la possibilità di un'illusione intorno al problema dell'azione volontaria e quindi della libertà delle nostre decisioni, assume un senso completamente diverso: ciò che ci appare come un moto interamente determinato è in realtà nella sua essenza un moto che ha al suo fondamento un principio spirituale. 112 E tuttavia il parlare di animismo con l'ovvia intenzione critica che accompagna quel termine - poiché non saremo così sciocchi da attribuire un'anima alle cose - è fondamentalmente sbagliata in rapporto a Schopenhauer, come del resto lo è anche in rapporto a quelle culture primitive per le quali il termine è sempre sembrato appropriato. Anche in rapporto ad esse, la qualifica di "animismo" è in realtà sommaria e generica, e si deve rinunciare in ogni caso a ritenere che esso possa caratterizzare una concezione infantile della realtà: in essa ci sono di solito troppe complicazioni per caratterizzarlo così! Converrà dunque evitare una critica troppo sbrigativa, dalla quale siamo certo subito tentati, rammentando che alla base della posizione di Schopenhauer non vi è solo una impegnativa discussione su ciò che si deve intendere con atto volontario, ma anche conseguentemente sul concetto di libertà. Tra volontà e libertà sembra esserci un preciso legame concettuale, cosicché ci si può chiedere se il parlare della volontà come essenza della soggettività, e poi ancora di un'essenza soggettiva dell'intero mondo fenomenico, contenga una sorta di enfasi posta sulla libertà. Come subito vedremo la questione non è affatto così ovvia come potrebbe sembrare ad uno sguardo di superficie, e ci sono alcune ambivalenze interne all'impostazione problematica su cui occorre attirare l'attenzione, tanto più che talora queste difficoltà e ambiguità sono spesso, nel testo di Schopenhauer, sfiorate appena. Pur volendo dare una delineazione molto concisa dell'intera questione, non è possibile evitare riferimenti alla teoria kantiana della libertà, come viene proposta nella Critica della ragione pura e e poi ripresa nella Critica della ragione pratica. In effetti Schopenhauer stesso fa dipendere la propria posizione da quella kantiana, anche se la sua impostazione ha una inclinazione sensibilmente diversa. Esiste tuttavia un forte legame che fa riflettere anche sulle possibili conseguenze dell'impostazione kantiana del problema. In Kant la questione della libertà si impone come un pro- 113 blema cruciale in quanto la nozione di libertà non può in linea di principio essere istituita sulla base dell'esperienza. E questo per un motivo che è interamente ripreso da Schopenhauer: ogni fenomeno soggiace alla legge causale e solo per questo esso si trova all'interno di un'esperienza possibile. Stando a questo assunto, qualcosa come un atto libero non può darsi come fenomeno. Le azioni debbono essere considerate nella prospettiva kantiana nei loro risultati concreti e questi, in quanto sono eventi reali, che si manifestano esteriormente, non possono che appartenere ad una concatenazione causale. Tuttavia noi possediamo l'idea della libertà ed è legittimo chiedersi donde essa provenga. Abbiamo or ora escluso l'esperienza esterna e, nello spirito dell'impostazione kantiana, che teme ogni riferimento introspettivo nel quale vede il pericolo di ricadere in una posizione di tipo psicologistico, non terremo in alcun conto nemmeno di eventuali dati dell'eseprienza interna. L'idea di libertà si forma invece in forza di un'esigenza generale della ragione, di una tendenza della ragione a formare concetti totalizzanti che, per la loro natura e la loro funzione, sono interamente distinti dai puri concetti di specie e di genere, che sono opera dell'intelletto. Come è chiaro, stiamo qui ripristinando la terminologia kantiana, mettendo provvisoriamente da parte quella di Schopenhauer. Tra questi concetti totalizzanti che Kant chiama idee, e precisamente idee trascendentali, dobbiamo annoverare, oltre l'idea di mondo e l'idea di dio, anche quella della libertà. Il senso di ciò risulta con sufficiente chiarezza da una semplice considerazione sulla nozione di causa. Questa nozione è costruita in modo tale che una causa deve essere sempre considerata come effetto di una causa anteriore: si ha così la forma di una catena che non ha né un inizio né una fine e che contraddice la tendenza totalizzante a cui abbiamo accennato or ora. Di una catena infinita di cause non può darsi nessuna totalità autentica, ed è proprio questa nozione di causalità che ci viene trasmessa dall'esperienza. Nel momento in cui la ragione 114 fa valere i suoi diritti, si impone invece l'idea di una causa senza una causa anteriore, cioè di un'operazione o di un evento che non è esso stesso causato da altre operazioni o da altri eventi. In questo consiste ciò che Kant chiama l'idea trascendentale di libertà che egli definisce come "facoltà di cominciare da sé una serie di fatti". Più estesamente, nella Critica della ragione pura (Dialettica trascendentale, Libro II, Cap. II, Sez. III) si dice che l'idea della libertà prodotta dalla ragione è "l'idea di una spontaneità che da se stessa possa cominciare ad agire senza che possa essersi innanzi verificata un'altra causa per determinarla all'azione conformememente alla legge del rapporto causale". Detto in altro modo: vi sono due orientamenti del pensiero, uno caratteristico dell'intelletto, l'altro della ragione. L'orientamento dell'intelletto è quello di pensare la causalità come una concatenazione ininterrotta, l'orientamento della ragione è quello di formulare l'idea di una possibile interruzione. Soltanto in questo secondo caso diventa possibile l'idea di un'azione libera. Ora si vede subito che qui ci imbattiamo nella difficoltà di rendere compatibile il primo orientamento con il secondo, il determinismo, richiesto dalle forme di ogni conoscenza possibile, con la nozione di libertà che si propone come un'istanza caratteristicamente razionale. Ma la soluzione della difficoltà, nell'impianto kantiano, sta a portata di mano. Nella Critica della ragione pura tutta la discussione sorge nella Dialettica trascendentale, a proposito della terza antinomia, che contrappone l'ammissione di quella che Kant chiama "causalità per libertà" (che appunto causa senza causa) alla tesi che "non c'è nessuna libertà, ma tutto nel mondo accade secondo leggi di natura". La soluzione della difficoltà sta invece nel distribuire questi due orientamenti sulla polarità del fenomeno e del noumeno. Ciò è abbastanza facile da dirsi, ma molto più difficile da capire, soprattutto se vogliamo renderci conto della portata e 115 delle conseguenza di questa impostazione della questione. Ciò che ci si accinge a sostenere è che se la realtà fosse soltanto quella fenomenica, se ci fossero dunque solo oggetti empirici, per la libertà non vi sarebbe alcuno spazio: essa sarebbe solo una nozione fittizia e illusoria. Se invece si potesse parlare di un fondamento dei fenomeni che sta al di là di essi, allora il problema della libertà potrebbe essere riproposto, ed il riproporlo significherebbe propriamente: vi è una giustificazione di principio che il fatto che io posso considerare come liberi i miei atti, nel senso di cause che non hanno causa che li determini necessariamente, benché questi stessi atti considerati come eventi reali appartengano alla catena infinita delle cause e degi effetti, e dunque da questo punto di vista essi debbano essere considerati come del tutto determinati causalmente. Si tratta di una soluzione che può essere considerata chiara solo se ci si contenta dello schema su cui si sostiene, sull'idea, in fondo persino troppo semplice, di un duplice punto di vista dal quale una stessa sequenza di eventi si presenterebbe ora in un modo ora in un altro. Ma che cosa vuol dire propriamente che io sono libero dal punto di vista noumenico, mentre non lo sono dal punto di vista fenomenico? E che cosa significa in particolare per me, in rapporto all'esperienza che io ho delle mie azioni affermare la possibilità di questa duplicità di punti di vista? D'altronde lo stesso Kant nella Critica della ragione pura propone un'elaborazione particolarmente complessa della questione che passa attraverso la nozione di carattere e la distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile. Questa distinzione interessa in modo particolare Schopenhauer che in essa vede espressa la quintessenza della dottrina kantiana della libertà. Il termine di carattere (Karakter) certamente ha la sua applicazione primaria alla soggettività umana, all'io personale. Io ho un carattere, ciascuno di noi ha un carattere, ed esso ha certamente a fare con le nostre azioni e con i nostri comportamen- 116 ti, quindi anche con ciò che vogliamo o non vogliamo. Ma non può non colpire che questa nozione appare nelle pagine kantiane applicata in modo del tutto generale, come una nozione relativa ad oggetti ed a cose in genere, e ciò è certamente una conseguenza della tendenza a mantenere l'intera discussione su un piano astrattamente concettuale, tenendosi il più possibile lontano da concessioni all'analisi psicologica. Ciò vale a maggior ragione per una nozione di inequivocabile origine psicologica come è quella di carattere. In luogo di fare riferimento fin dall'inizio a soggettività umane, la nozione di carattere viene introdotta in modo da connetterla strettamente a quella di causa. Ogni causa deve avere un carattere, dice Kant. Questa formula così singolare viene giustificata osservando che un evento può essere considerato come una causa produttiva di altri eventi solo se non è inteso come se fosse irripetibile nella sua singolarità, ma al contrario se rinvia ad una costanza, ad una regola. Nell'idea della causa è implicata quella della ripetizione, della costanza di un comportamento. Ora, il carattere non è altro che la costanza di un comportamento, ed affermare che la causa ha un carattere o lo presuppone significa sottolineare questa relazione del caso singolo ad una totalità di casi singoli che sono già pregiudicati nel carattere. Si noti che l'astrattezza nella quale ci muoviamo, così come la peculiare terminologia kantiana che continua ad usare il termine di causalità anche per l'atto libero, distinguendo tra causalità naturale o fenomenica e la causalità per libertà, ci autorizzano a ritenere che la causalità di cui qui si parla sia anche la causalità per libertà. La causa può dunque essere semplicemente la nostra azione libera, cosicché parlando della relazione tra causa e carattere parliamo anche del carattere in senso usuale come una sorta di presupposto della nostra azione. Potremmo commentare: una trattazione del problema dell'io voglio non può prescindere in nessun modo dal tema del carattere. Anche sulla nozione di carattere potremo allora riportare la distinzione tra fenomeno e noumeno, ed è 117 qui che cade la distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile. 5. Discussione sulla distinzione kantiana tra carattere empirico e carattere intelligibile e sua rilettura di parte di Schopenhauer sulla base del mito platonico di Er. Il fatto che in Kant si parli di carattere empirico e carattere intelligibile non ci deve far pensare che noi abbiamo due caratteri, e in base all'uno ci comporteremmo in un modo, in base all'altro in un altro. E non dobbiamo nemmeno lasciarci troppo impressionare dalla terminologia - e in particolare dall'aggettivo intelligibile, che applicato a carattere e contrapposto ad empirico, ci potrebbe sembrare, forse non a torto, profondamente inintelligibile! Questa differenza la potremmo ora illustrare in questo modo: come tutte le altre cose della natura, l'uomo deve avere un carattere, ciò significa che egli agisce sulla base di determinati stimoli e in conformità ad una regola. Il carattere è detto empirico in quanto soggiace a leggi empiriche: dato un comportamento, noi possiamo in via di principio rendere conto di esso nei 118 termini di circostanze obbiettive che lo hanno interamente determinato. Dai comportamenti possiamo così risalire al carattere e dal carattere ai comportamenti. Parlare di circolarità tra comportamento e carattere mi sembra esprima efficacemente il problema della determinazione causale dell'azione - il fatto che si debba escludere, restando su questo terreno, un'azione propriamente libera. Date determinate circostanze e dato il carattere (empiricamente noto) di qualcuno possiamo prevedere come quell'uomo si comporterà, e questa previsione può avere in via di principio la stessa certezza di una previsione di un evento naturale effettuata sulla base di una legge. Ecco l'esempio proposto da Kant: un tale pronuncia menzogne particolarmente dannose per coloro che gli stanno intorno. Il fatto che egli mente può naturalmente essere oggetto di un' indagine che ricerchi le cause di questo suo comportamento; e questo in ogni caso rimanda ad una inclinazione psicologica, ad un carattere. Così possiamo risalire alla sua infanzia, mettere in rilievo la cattiva educazione ricevuta, le cattive compagnie, le frustrazioni, ecc., delineando un quadro dal quale risulti spiegata la sua inclinazione a mentire. Si tratta di una spiegazione causale, in base alla quale, possiamo dire che in quel singolo caso particolare, il nostro mentitore non poteva fare altro che mentire. Ora, se ci limitassimo a considerare questo lato del problema non avrebbe senso biasimare l'autore della menzogna, quanto poco lo avrebbe biasimare una pietra per il fatto che essa precipita in basso. Il fatto che invece, per quanto si assommino spiegazioni causali esaurienti, si continui a biasimare il mentitore, rappresenta per Kant un indizio importante dell'esistenza di un altro livello problematico, di un diverso modo di considerazione. In particolare, riteniamo che questo biasimo sia giustificato, e non fondato su un abbaglio o un errore di ragionamento. Ma ciò che lo giustifica può essere solo il pensiero non già che, 119 nonostante tutte le circostanze indicate egli avrebbe potuto non mentire, ma che l'azione del mentire manifesti un tratto del carattere intelligibile, ovvero che essa rimandi ad un terreno che viene pensato come origine assoluta delle nostre azioni. Considerata da questo punto di vista la menzogna non è stata determianta da circostanze più vicine o più lontane, na è stata propriamente e puramente voluta. Il biasimo non può riguardare né le circostanze che hanno determinato il mentitore a mentire e nemmeno il fatto che il mentitore si sia lasciato determinare da quelle circostanze alla menzogna (egli infatti non poteva fare altrimenti); ma lo si biasima perché "si suppone che si possa mettere da parte come egli sia fatto e considerare la serie trascorsa di condizioni come non accaduta e questo fatto come incondizionato rispetto allo stato antecedente, come se l'autore coinciasse da se stesso una serie di conseguenze". Si comincia allora anche a comprendere l'impiego dell'aggettivo intelligibile: esso è dovuto sia all'esigenza di operare un rimando al piano noumenico verso il quale ora si sposta l'asse del problema, sia all'idea che questa esigenza di un inizio assoluto è posto dalla ragione stessa; sia infine al fatto che la ragione si pone a sua volta come "come una causa che poteva e doveva determinare altrimenti la condotta dell'uomo, indipendentemente da tutte le condizioni empiriche". Cosicché il biasimo non riguarda il dato di fatto che quell'uomo in quella data occasione ha agito come ha agito, ma al fatto che quell'azione può essere intesa ovvero pensata come da lui voluta indipendentemente da qualunque influsso esterno. Ciò che l'uomo liberamente vuole rappresenta appunto il suo carattere intelligibile, di cui il carattere empirico non è altro che la manifestazione concreta sul piano degli eventi di questo mondo, sul piano della temporalità - essendo il carattere intelligibile, proprio per il fatto che in rapporto ad esso si deve parlare di origine assoluta, da considerarsi intemporale. A dire il vero, parlare di una vera e propria manifestazione concreta è forse espressione troppo forte, poiché il carattere intelligibile deve 120 rimanere nascosto nelle trascendenze noumeniche. Restando nello spirito di Kant, potremmo dire invece che il carattere empirico è un indizio del carattere intelligibile, che quest'ultimo "ci è additato dal carattere empirico quale suo senso sensibile" (Dialettica trascendentale, Libro II, Cap. II, Sez. III, Spiegazione dell'idea cosmologica di libertà in rapporto con la necessità universale della natura). La conseguenza di tutto ciò è in realtà che si imputa a colui che ha mentito di essere fatto in modo tale da volere, in determinate circostanze, proprio quell'azione: e dunque di essere quello che è, un mentitore, di avere quel carattere piuttosto che un altro. Infatti si tratta di un carattere che egli stesso si è scelto. Se poi poniamo l'imbarazzante domanda sul perché un tale abbia operato una simile scelta, l'unica risposta può essere semplicemente questa: perché ha voluto proprio così. Questa risposta respinge anche la domanda come indebita. Infatti tutto ciò che abbiamo sostenuto esclude la possibilità di porre, sul terreno del carattere intelligibile, qualunque domanda, che, come la precedente, abbia un'intonazione causale. Viene così a poco a poco alla luce una sorta di profonda ambiguità nella trattazione kantiana. La discussione che aveva preso le mosse dal tema della libertà, che aveva come esplicito scopo la legittimazione di questa idea, assume un andamento che, nonostante i suoi toni volutamente ed accentuatamente astratti, è vagamente inquietante: l'accento posto sulla libertà del volere sembra finire con l'apparire come un accento posto nello stesso tempo sul tema del destino, quasi che libertà e destino fossero due temi cingolarmente solidali l'uno con l'altro. La libertà sembra essere qui la scelta di un destino. Non si potrebbe forse parlare di destino, e persino di predestinazione in rapporto all'idea di un carattere che viene posto come appartenente ad una dimensione intemporale e che determina in ultima analisi le azioni della nostra vita, i nostri comportamenti effettivi, le nostre reazioni alle circostanze con cui di volta in volta abbiamo a che fare? 121 Certamente la portata effettiva della tematica kantiana sta nel fatto che una simile "predestinazione" viene proposta a partire dall'idea di una decisione libera ed originaria, da un originario io voglio che è anche una globale scelta d'essere. Ma questa circostanza non contribuisce certo a rasserenare il quadro problematico delinato. In queste singolarissime e intricate pagine kantiane lo scopo è certamente quello di riportare l'intero problema sul piano di un'istanza razionale. Ma nello stesso tempo ci si aggira nell'ambito di ciò che appartiene al noumeno - espressione che da un lato contiene un riferimento all'intelligibilità, dall'altro il noumeno, nonostante il suo nome, è per Kant una regione profondamente oscura. Quell'originario io voglio da cui sorge il carattere intelligibile è comunque uno strato particolarmente profondo del mio vivere soggettivo, uno strato che in realtà mi sfugge, che io stesso non conosco, in quanto appartenente alle regioni del noumeno, o che vengo a conoscere indirettamente solo sulla base di ciò che io di fatto faccio, dalle scelte che io vado realizzando sotto l'impulso delle circostanze della mia esistenza. Questo aspetto, che non viene certo messo in particolare rilievo dalla manualistica corrente, è proprio ciò che colpisce Schopenhauer. Egli è infatti particolarmente attratto da questi problematici sviluppi kantiani, piuttosto che dai più noti, più edificanti e più retorici rimandi all'idea del dovere, dell'imperativo categorico, del cielo stellato sopra di me. Ogni volta che il discorso cade su questo punto, oggetto di elogio da parte di Schopenhauer è proprio la distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile con tutte le tensioni che sono presenti negli sviluppi kantiani. L'astratta esposizione kantiana sul carattere intelligibile richiama subito alla memoria di Schopenhauer il grande mito platonico di Er, con il quale si conclude la sua Repubblica. Er è un valoroso guerriero morto in battaglia, le cui spoglie restano intatte per dieci giorni dopo la sua morte. Egli riapre gli occhi proprio mentre le fiamme della pira stanno lam- 122 bendo il suo corpo. Gli dei gli hanno consentito di ritornare dal regno dei morti affinché egli possa riferire che cosa ha visto in esso. Er racconta allora come le anime ricevano nell'al di là premi e castighi secondo le azioni compiute in vita, ma rammenta anche che, trascorso un lungo periodo di tempo, di pena o di godimento, le anime possono nuovamente reincarnarsi. Esse vengono allora condotte di fronte alla Moire, le figlie di Ananke - la Necessità -, Lachesi, Cloto e atropo che rappresentano il passato, il presente e l'avvenire. Un araldo prende dei dadi e dei "paradigmi di vite" dal grembo di Lachesi, il passato, e riferisce anzitutto l'ammonimento di Lachesi che a tutti deve essere noto prima del sorteggio: "Anime effimere, ecco l'inizio di un altro periodo di vita del genere mortale, vita apportatrice di morte. Non voi un demone sorteggerà, ma voi stessi sceglierete un demone. E chi primo capita in sorte scelga per primo una vita a cui per necessità sarà congiunto. La virtù è libera a tutti, e ognuno ne avrà più o meno secondo che la pregia o la spregia. Responsabile è chi ha fatto la scelta, non la divinità" (Repubblica, X, 617 d-e). Ciò detto, l'araldo dispone a terra i paradigmi delle vite "assai più numerose dei presenti e svariatissime: vite di tutti gli animali e ogni sorta di vite umane". Ed il sorteggio ha inizio. I sorteggiati scelgono il loro paradigma, che è anche la scelta di un destino, e qualcuno sceglie dissennatamente, come quel tale che sceglie il modello di un tiranno "senza aver esaminato ogni cosa" e senza accorgersi che in quel modello "era racchiuso il destino di divorare i suoi propri figli e altre sciagure. Quando poi con calma lo esaminò, si batté in viso e si mise a piangere la scelta fatta non rispettando le norme che l'araldo aveva in precedenza bandite; infatti non accusava se stesso di quei mali, ma la sorte e gli dei, ed ogni altra cosa tranne che se stesso". Quando la scelta è stata compiuta, le anime si presentano a Lachesi che dà "a ciascuno come compagno il demone che si era scelto qual custode della vita e adempitore della sorte prescelta". Il demone che ormai si è impossessato dell'anima conduce que- 123 sta dalle altre due Moire, Cloto e Atropo, per far confermare il destino che essa si era prescelta nel sorteggio e per rendere quel destino immutabile: la cerimonia si conclude infine al cospetto della madre delle Moire, Ananke, e sulle rive del fiume dell'oblio le cui acque fanno dimenticare le esistenze anteriori. In realtà non potrebbe esservi commento migliore ai temi ed ai problemi precedentemente sollevati di questa straordinaria narrazione. La tensione tra l'elemento temporale e quello intemporale, l'oscillazione tra il tema della liberta e quello del destino, così come il tema dell'imputabilità dell'azione si ripresenta in varie forme in quesa grande fantasia mitica. L'intera scena si svolge al cospetto delle Moire, che rappresentano l'elemento temporale, dunque ciò che è in via di principio mutevole, imprevisto, l'elemento fluido e mobile: ma le dimensioni temporali sono figlie della necessità, dunque non sono altro che la manifestazione di qualcosa di fisso, di costante, che è dato una volta per tutte. Nell'azione che si svolge su questo sfondo è presente un singolare intreccio tra il caso e la scelta. Le anime debbono scegliere un paradigma di vita - possiamo ora ben dire: un carattere, ed anzi: un carattere intelligibile. Ma la scelta è preceduta da un sorteggio: le anime che debbono scegliere vengono tratte a sorte. Il sorteggio dunque non riguarda propriamente la scelta, ma l'ordine in cui essa viene effettuata. Eppure non può sfuggire che questo sorteggio getta la propria ombra sulla scelta stessa, come se l'elemento fortuito facesse in qualche modo parte della natura dell'atto libero, come una simile casualità non fosse del tutto estranea alla scelta. L'atto libero, proprio in quanto riguarda un paradigma delle azioni e non questa o quell'azione singola vincola l'anima ad un destino. Il "carattere intelligibile" viene proposto qui come una vera e propria sagoma rigida, come la forma di un corpo ritagliata nel legno. L'araldo delle Moire - "araldo" è qui profh=thj, ovvero colui che parla prima e davanti ad esse ed in loro vece - può disporrre queste sagome l'una accanto all'altra per terra 124 proponendole alla libera scelta. L'anima sceglie entrando in questa sagoma per poter poi essere proiettata "come una stella cadente" nella sua nuova vita, nella sua nuova esistenza empirica. Ciò che era intemporalmente nella sagoma dovrà ora svilupparsi e dispiegarsi inesorabilmente nella temporalità. Il paradigma è diventato un demone che è custode del destino e garante, insieme alle Moire ed alla loro madre, della sua realizzazione ineluttabile. Tutto il problema è sintetizzato nelle parole del "profeta" delle Moire: non è un demone che sceglie voi, ma siete voi che scegliete un demone. Ognuno può essere virtuoso se lo vuole: ma una volta scelto un modello ad esso la nostra esistenza sarà necessariamente congiunta. Dunque non potremo non fare le azioni che faremo, foss'anche la più aberrante delle azione come è quella di divorare i nostri stessi figli. Ma non per questo potremo ritenerci non responsabili di quelle azioni, imputandole alla sorte, al destino o agli dei. Il profeta delle Moire ci ha avvertiti: "Responsabile è chi ha fatto la scelta, non la divinità". 125 6. Contro il libero arbitrio - Critica della posizione di Leibniz - Il problema della libertà ripropone la dimensione noumenica come dimensione della soggettività inconscia. Il mito di Er è ricco di significato non soltanto in rapporto alla posizione espressa da Kant, ma soprattutto perché illustra l'atmosfera della ripresa di quella posizione che Schopenhauer intende operare. L'impostazione kantiana viene semplificata, estremizzata e drammatizzata. Vengono inoltre subito rese chiare e nette le sue implicazioni fatalistiche. Espressioni equivoche come "causalità per libertà" che troviamo in Kant sono interamente lasciate cadere. Già nel saggio sulla Quadruplice radice l'impostazione del problema è piuttosto nettamente delimitata. In rapporto alle azioni umane si parla propriamente, non tanto di cause, ma di motivi. I motivi tuttavia sono effettivi fondamenti: essi sono necessitanti esattamente quanto lo sono le cause, un termine quest'ultimo che ora riserviamo solo agli eventi che caratterizzano la natura inorganica. Sviluppando sino in fondo questa premessa non si può che pervenire ad una critica serrata di ogni concezione della libertà intesa come possibilità di operare una scelta priva di ragione sufficiente, ogni concezione della libertà dunque che riprenda il tema del libero arbitrio. Questa critica serrata viene condotta soprattutto nel saggio del 1838 sulla Libertà del volere umano: "Non è affatto né metafora né iperbole, ma secca e letterale verità che, come una palla di biliardo non può mettersi in moto prima di aver ricevuto un urto, nemmeno l'uomo può alzarsi dalla seggiola prima che un motivo lo attiri o lo spinga; allora il suo alzarsi è necessario e immancabile come il rotolare della palla dopo l'urto" (Lib., p. 89) Ecco un uomo che, alle sei di sera, dopo il lavoro, si ritrova per istrada a meditare, sotto il vigile sguardo di Schopenhauer che alle sue spalle lo segna a dito ironicamente: io sono libero perché ora posso fare quello che voglio: andare da un amico, salire 126 su un campanile a godermi il tramonto, andare a teatro , o addirittura potrei, in questo stesso istante, "andare fuori porta, andarmene per il mondo e non tornare mai più. Sono libero di fare questo e o quello. Ma altrettanto liberamente torno a casa da mia moglie" (p. 86) Commenta Schopenhauer: così potrebbe anche dire l'acqua di un lago tranquillo: io posso agitarmi in onde altissime (nella tempesta sul mare), oppure scendere a valle spumeggiando (nel torrente), balzare in alto (negli zampilli delle fontane), potrei bollire e dissolvermi in vapore acqueo (se posta sul fuoco): "ma di tutto ciò non faccio nulla e rimango volontariamente calma e limpida nel lago tranquillo" (p. 86). Il punto sta evidentemente nella presenza o nell'assenza dei motivi: se questi motivi sono troppo deboli non faccio nulla; se essi sono abbastanza forti non posso non fare ciò che essi esigono. E così, per riferire un ultimo e significativo esempio tratto ancora da questo testo: è inutile che l'aspirante suicida afferri la pistola carica e si esalti al pensiero di poter premere il grilletto sulla propria tempia purché lo voglia: dal momento che può sapere di volerlo solo se quel grilletto lo preme veramente e può premere quel grilletto solo se vi sono motivi abbastanza forti per fare quell'azione. Questo determinismo è strettamente connesso con un'esigenza di esplicabilità, con l'esigenza cioè di ottenere, anche in rapporto ai comportamenti, delle spiegazioni: "Presupponendo il libero arbitrio ogni azione umana sarebbe un miracolo inspiegabile, un effetto senza causa" (p. 90). È interessante notare che Schopenhauer rifiuta il tentativo di compromesso teorico suggerito da Leibniz. Leibniz aveva parlato dei motivi come capaci di fare inclinare la nostra volontà nell'una o nell'altra direzione, ma, egli aggiungeva, questa inclinazione avviene senza necessità. Potremmo rappresentarci la situazione come se la presenza di motivi facesse vacillare la nostra volontà: in base ad un certo motivo tenderemmo a fare una certa azione, ma in luogo di cedere al 127 motivo noi agiamo in un'altra direzione, o forse anche nella stessa direzione, ma non unicamente in forza del motivo, ma di una decisione soggettiva che si aggiunge all'inclinazione del motivo. Questa concezione di Leibniz viene criticata proprio in quanto è una soluzione di compromesso che in realtà è fondamentalmente incoerente. Se si ammette la capacità del motivo di fare inclinare la nostra volontà, allora dovremmo anche ammettere che ci sono motivi abbastanza forti da portare questa inclinazione fino alla necessità. Schopenhauer obietta dunque a Leibniz che tutta la questione si riduce ad una questione di grado: "Chi non si lascia corrompere con dieci ducati, ma vacilla, lo farà con cento" (Lib., p. 66). Dunque non vi è da un lato il motivo e dall'altro l'azione, eventualmente concepita come risultato di una libera decisione che tiene conto del motivo, ma vi è da un lato il motivo e dall'altro il carattere. Il motivo da solo non basta. In presenza degli stessi motivi uomini diversi agiranno in modo diverso, in dipendenza dalle differenze dei caratteri. Considerando il lato soggettivo di questo rapporto non viene dunque in questione l'azione nella sua singolarità, ma in quanto essa è coerente con le altre azioni dello stesso individuo esprimendo in questa coerenza il suo carattere. In questa modificazione di angolatura, sembra anzitutto che venga accentuato l'aspetto deterministico. Stando ad essa dovremmo forse dire che la libertà non consiste nel poter fare in determinate circostanze una certa azione piuttosto che un'altra, ma nell'essere fatti in modo tale da non poter fare altro, in quelle circostanze, di quello che abbiamo fatto. Una formulazione profondamente ambigua, persino dall'apparenza contradditoria. In che senso in base ad essa possiamo dirci liberi? L'idea stessa della libertà sembra esigere in via di principio la sensatezza del condizionale volto al passato - dell'avrei potuto comportarmi diversamente - mentre tutte le condizioni di Schopenhauer mirano apertamente ad escludere 128 la fondatezza filosofica di una simile formulazione verbale. Oppure a reinterpretarla in questo modo: avrei potuto comportarmi diversamente solo se fossi stato un altro, solo dunque se il paradigma fosse stato diverso, se questo demone non fosse stato il mio demone. Ecco una citazione inequivocabile: "Ogni uomo si crede a priori assolutamente libero in ciascuno dei suoi atti, e si immagina di potere ad ogni momento iniziare un nuovo tenore di vita, cioè diventare un'altra persona. Soltanto a posteriori, dopo l'esperienza, si accorge con sua meraviglia che non è libero, ma è soggetto alla necessità: che a dispetto di tutti i suoi propositi e di tutte le sue riflessioni non può cambiare in nulla la sua condotta, che dalla culla alla tomba è costretto a svolgere un carattere da lui stesso condannato, ed a compiere fino alla fine il compito che ha sopra le spalle" (M. p. 152). Negli scritti successivi al Mondo, quando la potenza speculativa che caratterizza quell'opera tende sempre più ad attenuarsi in un moralismo che non disdegna le dimensioni spicciole, egli non esista a chiarire le conseguenze, indubbiamente urtanti, di una simile posizione sul piano di una teoria della personalità. Al suo centro vi sarebbe appunto l'idea che nessun miglioramento o mutamento può essere indotto dall'esterno. Detto alla buona: ladri o mentitori si nasce, "non c'è Pestalozzi che tenga" (Parerga). Non vogliamo tuttavia escludere che, a parte queste formulazioni, si possano trovare elementi che ripropongano, dopo questa dissoluzione, la possibilità di una pedagogia che ne reinterpreti gli scopi e gli obbiettivi e che presumibilmente dovrà giocare sulla modificazioni delle condizioni esterne e dell'ambiente. Ciò che importa ora, evitando di allontanarci dal centro della questione, è riconoscere che questo centro consiste nel fatto che un simile determinismo può essere spinto tanto a fondo per il fatto che in esso è pensato il suo ribaltamento. Ripensiamo all'ammonimento dell'"araldo" delle Moire: non è un demone che ti ha scelto, ma sei tu stesso che scegli un 129 demone. Questa frase può fare da sfondo ad un nuovo sviluppo che ora si può cominciare ad intravvedere: ciò che chiamiamo carattere è certamente qualcosa di simile ad un demone da cui talvolta ci sentiamo posseduti. Un demone che forse non possiamo dire di conoscere realmente: anzi, il fatto che si parli dell'empiria del carattere ha strettamente a che vedere in Schopenhauer con la convinzione che noi veniamo a conoscere dall'esperienza il nostro stesso carattere, e non solo - come è naturale pensare - quello degli altri. Ciò significa: non ciò che io penso di fare o di poter fare, e nemmeno ciò che io penso di essere, sulla bae delle scelte che io ritengo fossero a mia disposizione e che non ho fatto, ma le azioni e le scelte che io ho effettivamente compiuto mi insegnano, anzi mi informano su ciò che io realmente sono, su quali siano le fattezze del mio demone, sulla sua forza e sull'energia di cui è capace. E le cose stanno così non già perché il demone sia estraneo all'io, ma al contrario perché esso chiama in causa l'io stesso nella sua dimensione più profonda. Kant avrebbe parlato di dimensione noumenica, ed io credo che sia notevolissimo il fatto che in Schopenhauer l'idea che questa dimensione stia oltre le evidenze che posso cogliere sul piano fenomenico suggerisca che la coscienza, proprio in quanto io che vuole, e dunque che desidera, odia, ama, prova piacere e dispiacere, non sia da concepire come pura trasparenza, ma contenga al contrario zone che sono profondamente oscure per l'io stesso. Si tende così ad effettuare il passaggio dall'idea kantiana di una realtà noumenica che naturalmente andrà riferita anche e soprattutto alla soggettività stessa all'idea di una sorta di retroterra inconscio dell'io stesso. Sullo sfondo della questione sta proprio questo problema, e vi sta esplicitamente. Così nella Libertà del volere umano si nota che l'uomo nasconde spesso i motivi delle sue azioni a tutti gli altri e "talvolta persino a se stesso", avendo egli "timore di scoprire che cosa lo muove a fare questo o quello" (p. 84); e si rammenta che l'auto- 130 coscienza, cioè la consapevolezza chiara e completa di se stesso, è "una parte molto limitata della nostra coscienza totale che, oscura nel suo interno, è tutta rivolta all'esterno... Là fuori dunque c'è una gran luce e chiarezza... Dentro invece è buio come in un canocchiale bene annerito" (pp. 63-64). Questa parte oscura, che può rendere conto del fatto che talora le nostre stesse azioni possano apparirci estranee, cionondimeno appartiene all'io stesso, anzi il carattere è null'altro che la soggettività nella sua singolarità e determinatezza, nella complessità della sua struttura, nei suoi momenti di chiarezza e di oscurità: si tratta dell'io che vuole, che non solo non è da considerare come frantumato nella molteplicità dei suoi atti del volere, ma che al contrario ha un centro in un volere fondamentale (Grundwollen, Lez. II, cap. V). Se alla luce di queste ultime considerazioni ripensiamo alla tematica kantiana del carattere empirico e intelligibile ed a quella del mito platonico di Er, se ripensiamo soprattutto all'enigmaticità che è presente in entrambe - nell'una nella forma della argomentazione filosofica che pretende di attenersi ad un livello di massima astrazione, nell'altra nelle forme tipiche di simbolismi che si esplicano nella fantasia mitica - possiamo rilevare che su questa enigmaticità la ripresa schopenhaueriana del problema ha un duplice contraccolpo: per un verso contribuisce a rendere in qualche modo più chiari i termini del problema e il senso complessivo della sua impostazione, per un altro essa sancisce questa enigmaticità fissandola in modo definitivo come appartenente in via di principio alla natura della questione. Del carattere non vi è motivo - non vi è motivo di quel volere fondamentale in base al quale l'io è ciò che è. Qui il tema della libertà si ripresenta nella sua forma più forte - l'atto libero sbuca dal nulla, è privo di connessioni ad altro, e dunque un atto senza fondamento (grundlos). I motivi "non determinano se non ciò che io voglio in un tal momento, nel tale luogo e nelle tali circostanze; ma non già il fatto che io voglia; né ciò che io 131 voglio in generale" (M., 145). Cosicché il tema del carattere, che in precedenza appariva soprattutto come connesso al determinismo, si rivela anche come una condizione per la stessa possibilità di introdurre la libertà del volere. La volontà in se stessa si trova fuori del campo di azione del principio di ragione sufficiente e "in questo senso essa si può dire priva di ragione". Ma se l'atto libero consiste proprio in questo volere, allora esso è in via di principio inesplicabile. Per questo abbiamo detto che vi è in Schopenhauer una sorta di sanzione dell'enigmaticità che è già presente in Kant e in Platone. La frase di Malebranche: "La libertà è un mistero", con cui si conclude la Libertà del volere umano e che viene proposta anche come motto di quel saggio sembra essere qualcosa di più di un espediente retorico, ma un vero e proprio punto di arrivo di una discussione che cerca di mostrare di essere costretta a proporre nello stesso tempo l'idea della concatenazione necessaria insieme alla rottura di quella concatenazione, operando il salto dal fenomeno alla cosa in sé. Peraltro nell'operare questo salto, siamo anche guidati dalla convinzione che, per quanto il buio di questo mistero non possa essere completamente diradato, addentrandoci in esso riusciremo in ogni caso a scorgere qualcosa. 7. L'unità tra il corpo e il carattere - Il corpo come nome della volontà - La forma esterna del corpo come espressione del carattere - Esempi tratti dal mondo animale - Differenze nel caso della specie umana - L'uomo ha le mani perché ha la ragione. Benché nella nostra ultima discussione ci siamo allontanati alquanto dal nostro punto di partenza, esso va tenuto ben presente e da esso dobbiamo riprendere la via. Uno degli aspetti notevoli dell'impostazione di Schopenhauer è rappresentato dal fatto che, di fronte ad un tema come quello della volontà e della 132 libertà, egli non mette in campo una nozione astrattamente generale dell'agire umano, ma lo affronta operando una riduzione all'elementare, ricollegandosi al caso delle azioni immediatamente corporee: il fatto che il mio braccio si alzi quando lo voglio non può essere considerato un puro accadimento naturale, per quanto io non abbia ragioni per ritenere che questo movimento non si adegui, come ogni altro, alle leggi della natura. Ma il problema sta proprio nell'esperienza che io ho di esso - l'esperienza nel senso dell'Erlebnis, l'esperienza vissuta di cui parlano i fenomenologi: l'azione del corpo viene vissuta come manifestazione diretta della mia volontà, non dunque come se fosse un effetto la cui causa sia l'atto del volere. Piuttosto di questo atto essa è l'espressione. Ma per Schopenhauer dire ciò è ancora troppo poco: limitarci a parlare di un'azione che rende visibile la volontà stessa non ci consente ancora di trovare il varco che conduce da una dimensione soltanto fenomenologica ad una dimensione propriamente metafisica. La volontà appartiene alla zona che sta al di là del fenomeno: l'azione che la manifesta deve allora subire una sorta di reinterpretazione metafisica proprio in quanto in essa si affaccia, nell'ambito dei fenomeni, la cosa in sé. Per questo la riflessione deve riprendere dal tema del corpo come oggettità della volontà. Usando questa espressione non si tratta soltanto di stabilire un nesso tra ogni singola azione e la volizione corrispondente, ma anche tra il corpo considerato nella sua forma esteriore e nelle sue stesse funzioni fisiologiche come "condizione preliminare necessaria di ogni azione" e la volontà stessa considerata "nel suo insieme" (M., p. 145), quindi in particolare tra corpo e carattere. Il mio corpo "deve trovarsi con la mia volontà nel suo insieme (cioè con il carattere intelligibile di cui l'empirico non è che la manifestazione nel tempo) nella stessa relazione in cui un atto isolato del mio corpo si trova con un atto isolato della mia volontà" (M.,pp. 145- 146). "I singoli atti esprimono lo stesso volere, ovvero lo stesso carattere intelligibile, che il corpo esprime in un colpo, nel suo essere, solo che lo esprimono in una successione" (Lez. II, p. 89). 133 "Come è la volontà di ogni animale, così è il suo corpo" (ivi, p. 91). La configurazione corporea generale dell'uomo, il suo portamento, il suo modo di camminare, la forma della testa, la disposizione degli occhi, del naso, della bocca, la forma delle mani o dei piedi: non vi è in realtà elemento del corpo che non contenga, per così dire, il rinvio espressivo alla sua funzione, e badando proprio a questa espressività possiamo portare l'attenzione al presentarsi di un motivo, almeno apparentemente, teleologico che qui si annuncia e che sarà certamente uno dei motivi dominanti di questo secondo libro del Mondo: si tratta della "dell'armonia perfetta che sussiste tra il corpo dell'uomo e dell'animale e la loro volontà rispettiva: armonia simile, ma di gran lunga superiore a quella che passa appunto come finalità, come esplicabilità teleologica del corpo" (p. 147). Di teleologia si parla nel caso della conformità ad uno scopo, quindi in presenza di un piano, di un disegno che è proposto in vista di un determinato fine. Potremmo ad esempio usare l'espressione di "esplicabilità teleologica" (teleologische Erklärbarkeit - Lez., II, p. 91) quando si rende conto della forma di un oggetto considerandola come adeguata allo scopo perseguito con quell'oggetto. Ma realtà in questo caso non si tratta di mettere in questione le nozioni di piano, progetto e conformità ad uno scopo, ma piuttosto di fornire di questa conformità una nuova interpretazione: vi è adeguatezza perché l'elemento corporeo - ed intendiamo ora proprio il corpo nei suoi organi che esplicano funzioni fisiologiche determinate, come l'ingestione e la digestione del cibo, le funzioni sessuali, le capacità concrete di afferrare, correre, strisciare e così via - non è altro che la concretizzazione della volontà e delle differenti tensioni che sono insite in esse, quindi si tratta di un "finalismo" che non rimanda tanto al fatto che ci sia uno scopo da assolvere, quanto al fatto che la fame e gli organi della fame non sono che due aspetti di un'unica istanza. Benché Schopenhauer impieghi una 134 terminologia che richiama la tematica finalistica, tuttavia egli sembra piuttosto voler rendere conto del finalismo sulla base della considerazione che il corpo non è altro che un nome della volontà. Questa formulazione tanto notevole si trova letteralmente formulata nelle Lezioni berlinesi - ed essa appare in certo senso ancora più notevole se pensiamo che sarebbe del tutto legittimo da parte nostra parlare della volontà come nome della cosa in sé: "... l'originario e primo è il volere; esso tuttavia, in quanto si obbiettiva, diventa rappresentazione, si chiama corpo" (Lez., II, p. 92). Sempre nelle Lezioni berlinesi queste considerazioni sono appoggiate su esempi che riguardano gli animali ed essi meritano di essere sommariamente riferiti per la schiettezza con cui illustrano ciò che qui si vuol dire. Nel caso degli animali il fatto che il corpo sia l'immagine visibile della volontà assume una particolare evidenza per il fatto che le azioni degli animali, nel loro essere volte ad uno scopo che è soprattutto quello dell'autoconservazione, non hanno mediazioni razionali. Allora "la forma e le fattezze di ogni animale sono null'altro che l'immagine (Abbild) del suo volere, l'espressione visibile delle tendenze del volere che costituiscono il suo carattere: ad esse la sua intera organizzazione corporea è esattamente adeguata; e la diversità delle forme delle specie animali è la pura e semplice immagine della loro differenza di carattere" (p. 91). Pensiamo ad esempio ad un leone, ad una tigre o ad un lupo - alle loro unghie, alle fauci, ai loro "terribili denti". Non appena li vediamo sappiamo subito quale è il loro Grundwollen! Si chiede Schopenhauer: "La dentatura del pescecane, gli artigli dell'aquila, la gola del coccodrillo non esprimono forse senz'altro che cosa essi vogliano e quale sia la loro origine?" 135 L'aspetto denuncia subito l'aggressività dell'animale - ma ciò che importa ed anche che in certo senso dà succo ad un simile arrischiato discorso è il fatto che l'aggressività sta per così dire prima dell'aspetto, dal momento che "ciò che è originario e primo è il volere" (p. 92). Vediamo così che animali timorosi, privi di armi di attacco e che possono salvarsi dagli animali predatori soprattutto con la fuga, sono provvisti di corpi snelli e di gambe veloci, come la volpe, la lepre, la gazzella, il camoscio. Ed altri animali sono armati da lunghe corna, ma queste armi sembrano più di difesa verso gli animali predatori che a procacciare prede. Tra "carattere" e forma esteriore sembra non potersi dare contraddizione: potremmo immaginare un leone tanto timoroso quanto un coniglio? L'animale non scopre di avere lunghi denti ed in conseguenza di ciò il suo carattere diventa aggressivo, ma al contrario è la sua natura aggressiva che gli mette a disposizione lunghi denti - o forse, per rendere un po' meno contestabile una simile affermazione: l'aggressività e lunghi denti sono un'unica e medesima cosa. Nel caso dell'uomo ci si trova invece di fronte ad una problematica più complessa. Infatti in rapporto all'uomo non possiamo parlare di un carattere dominante della specie, come nel caso degli animali. L'uomo non è soprattutto pauroso oppure aggressivo - ciò che importa sono le differenze dei caratteri individuali, che hanno invece poca o nessuna importanza nel caso degli animali. Ciò dipende, secondo Schopenhauer, dal fatto che vi è una mediazione razionale che interviene tra l'uomo e i suoi scopi. Così il corpo dell'uomo non è una obbiettivazione della volontà nello stesso senso in cui lo è il corpo di un animale, di una tartaruga, ad esempio: l'uomo non ha una corazza, una grande dentatura, gambe particolarmente veloci - non ha in genere "armi naturali": ma ha la testa e le mani, ed è con la testa e con le mani che si procura queste armi. Schopenhauer si 136 compiace a questo proposito di citare Galeno, non solo perché in Galeno trova esempi assai simili ai suoi, ma anche perché egli parla della mano come strumento degli strumenti e della ragione come arte delle arti, cosicché la volontà, anziché manifestarsi direttamente nel corpo ed attraverso il corpo si realizza attraverso una mediazione tecnica. Ma Galeno rammenta anche che Aristotele rimproverava Anassagora di aver detto che l'uomo ha una ragione perché ha le mani, mentre è vero invece che l'uomo ha le mani perché ha la ragione, affermazione questa che naturalmente incontra il pieno favore di Schopenhauer. Ma il problema resta quello del passaggio ad una considerazione metafisica. La via è già stata accennata: il riconoscimento del corpo come obbiettivazione della volontà si salda all'idea del corpo come "massima realtà da noi concepibile". E di qui dobbiamo operare una generalizzazione, proprio per preservare la realtà intera del mondo che ci circonda. Anch'essa deve essere garantita dal rapporto con la volontà. Il nostro stesso corpo rappresenta una sorta di modello per riportare ogni rappresentazione alle sue radici metafisiche nella volontà. In questo senso il sentimento del rapporto tra la soggettività e il volere, che ciascuno può attingere in se stesso assume una portata metafisica e rappresenta una chiave per la conoscenza dell'essenza intima della natura. La convinzione tratta da questo sentimento va riferita "a tutti quei fenomeni che ci sono noti, non in via immediata e mediata ad un tempo, come il nostro fenomeno [corporeo], ma soltanto in modo indiretto e unilaterale a titolo di semplici rappresentazioni". Cosicché si riconoscerà l'essenza della volontà "non soltanto nei fenomeni simili al proprio, negli uomini e negli animali "; ma si riconoscerà anche che "la totalità universale dei fenomeni, pur così diversi nelle loro manifestazioni, ha una sola e identica essenza": quella che da ciascuno "è conosciuta più direttamente, più intimamente e meglio di ogni altra: quella che nella sua più fulgida manifestazione prende il nome di volontà" (M., p. 148). 137 8. La volontà come nozione metafisica è posta al di là delle determinazioni spazio-temporali e non può avere natura individuale - Spazio e tempo come principium individuationis - Gli orientamenti filosofici di Schopenhauer non sono favorevoli a conferire alla tematica della volontà un'aura religiosa - La parola volontà non è "segno di un'incognita" - La tematica dei gradi di manifestazione della volontà - Il mondo come stracarico di senso e le descrizioni immaginose di Schopenhauer dei fenomeni naturali Il nostro primo commento a tutto ciò deve certamente sottolineare una volta di più che nel passaggio dall'esperienza di sé e dalla nozione di volontà istituita in questa esperienza alla nozione di volontà come essenza dei fenomeni e quindi del mondo stesso come rappresentazione, il termine di volontà riceve un senso più ampio e complesso. Di fatto, affinché il discorso che qui Schopenhauer tenta di fare mantenga la sua pregnanza è necessario anzitutto stabilire le distanze dalla volontà intesa come nome della cosa in sé e la volontà nell'accezione consueta del termine nella quale si rimanda appunto a quell'esperienza del volere che è ad ognuno ben nota. Detto in breve: occorre fissare una differenza tra nozione psicologico-fenomenologica della volontà e nozione metafisica. La volontà come nozione metafisica è la forza profonda, la forza di tutte le forze, l'energia che si esprime e si espande in ogni forma ed in ogni evento dell'universo. E come tale ha anche delle proprietà straordinarie, che gli sono attribuite sulla base di un preciso impianto filosofico, come conseguenze del tutto chiare di que- 138 sto impianto, per quanto possa poi essere misterioso il loro senso autentico. Così, il fatto che la parola volontà possa essere considerata come nome della cosa in sé implica subito che la volontà debba essere posta al di là delle determinazioni spazio-temporali, in quanto, come sappiamo, lo spazio e il tempo sono da intendere come forme della rappresentazione. Di qui si trae necessariamente un'altra conseguenza: la volontà come nozione metafisica non può avere natura individuale. Cerchiamo di spiegare questo punto. Potremmo dire che una cosa ha una natura individuale quando possiede determinate qualità in base alle quali può contraddistinguersi in quella che è, differenziandosi da ogni altra. Vi è dunque il problema di un'identità che deve essere tale nella differenziazione: la nozione di individuo e di individualità presuppone una molteplicità di individui entro la quale ogni individuo deve potersi contraddistinguere da tutti gli altri. Più precisamente: pluralità e differenza fanno tutt'uno, l'un concetto implica l'altro. E l'uno e l'altro rimandano - spiega forse troppo brevemente Schopenhauer (Mondo, § 28) - alle forme dello spazio e del tempo. Se pensiamo soppresse queste forme non potrebbe essere posta nessuna pluralità di cose, dal momento che ogni cosa si può differenziare da un'altra almeno attraverso un indice spazio-temporale. Se ad esempio prendiamo un insieme di palline, esse potranno essere ciascuna di colore diverso dall'altra, e dunque sarà possibile individuarle (identificarle). Questa caratteristica può dunque fungere da principium individuationis. Se poi tutte le palline fossero egualmente colorate, egualmente sferiche e di eguali dimensioni, ciascuna di esse sarebbe in ogni caso individuata da un indice della posizione spaziale e temporale. Se non potessimo contare nemmeno su una simile differenza di indice, verrebbe meno ogni differenza e quindi la molteplicità stessa. Schopenhauer parla così dello spazio e del tempo come principium individuationis. Porre la volontà come cosa in sé ha 139 perciò il senso di porre la volontà al di là del principium individuationis, ed è questo che si vuol dire sottolineando il fatto che la volontà nel senso in cui ora ne parliamo non ha carattere individuale. Tuttavia questo pensiero non è affatto facile da concepire. In esso è implicato il fatto che la volontà sia una unità, al tempo stesso dovremmo assumere una nozione di unità che non si contrapponga ad una molteplicità e quindi la presupponga, ma che si trovi in qualche modo al di sopra della stessa distinzione tra l'uno e il molteplice. Si tratta dell'unità originaria da cui scaturisce ogni differenza di cui del resto parla tutta la tradizione filosofica europea. In questa prospettiva va anche messo in rilievo il fatto che parlare dello spazio e del tempo come principium individuationis propone spazio e tempo come mediazione che a partire da quell'unità originaria ed extratemporale del volere rende possibile la sua frantumazione nella molteplicità delle cose di cui è costituito l'universo. Che cosa vi è di più lontano di questa forza incommensurabile che è la volontà nella sua accezione metafisica dalla volontà in senso psicologico di cui ciascuno di noi è chiaramente consapevole negli atti più minuti della propria vita quotidiana? Si potrebbe sostenere che la parola volontà, in questa estensione metafisica, non sia altro che uno dei nomi possibili per indicare la forza sconosciuta che regge l'universo, quindi essa potrebbe stare in luogo di dio stesso che non deve essere necessariamente concepito come una entità determinata e in qualche modo "personale": la caratteristica di essere una unità che si trova al di là del principium individuationis sembra confermare una simile direzione interpretativa. O quanto meno: non dovremmo riconoscere che una simile metafisica della volontà è avvolta da un alone di misticismo, di atmosfera religiosa? In realtà Schopenhauer non gradirebbe affatto una simile inclinazione interpretativa, e non solo per la sua nota ostilità verso le religioni istituzionali in genere e per il suo ateismo 140 apertamente professato, ma anche per una ragione connessa al modo stesso in cui egli concepisce i compiti della filosofia. Lo stile normalmente limpido e chiaro di Schopenhauer non rappresenta, come è stato così spesso ripetuto, un sintomo di superficialità, ma corrisponde ad una sua precisa convinzione: la filosofia, che pretende di riportare ordine nella testa degli uomini, non può che ricercare, nella misura del possibile, la massima trasparenza, stabilendo un effettivo rapporto comunicativo con il lettore. Questa trasparenza è tanto più necessaria quanto più la filosofia avanza la pretesa di procedere in profondità, quanto più essa pretende di dire la verità sul senso ultimo delle cose, in breve: quanto più essa si pone compiti metafisici. Schopenhauer rifiuta quello che era il principale punto di arrivo della filosofia kantiana, la critica della possibilità della metafisica: al contrario di quanto pensa Kant, possiamo andare oltre il fenomeno ed addentrarci nella sfera del noumeno. Essa deve poter dire che cosa è la cosa in sé. In questo senso Schopenhauer si pone il compito della costruzione effettiva di un sistema metafisico proprio nel senso dei grandi razionalisti del passato, come Leibniz o Spinoza, benché naturalmente con metodi ed esiti del tutto diversi. Per questo motivo non troviamo in Schopenhauer alcuna enfatasi sul tema dell'indicibile, del misterioso e dell'oscuro, di ciò che è linguisticamente impossibile da formulare e da afferrare. Naturalmente, è appena il caso di notarlo, nel tema della volontà vi è, come deve esserci in generale in ogni considerazione metafisica, un aspetto misterioso, uno sfondo di mistero - e questo sfondo peserà particolarmente negli esiti conclusivi del quarto libro. La parola "mistero" viene del resto impiegata da Schopenhauer in modo pregnante in rapporto al tema della libertà. In rapporto ad esso vi sono aspetti che sfuggono alla comprensione - la volontà stessa è essenzialmente inesplicabile. E tuttavia il punto importante sta nel fatto che la volontà, il cui concetto attingiamo comunque nella nostra esperienza vissuta, si presenta come l'essenza della cosa in sé finalmente rivelata 141 dalla speculazione filosofica, e proprio la volontà e nessuna altra cosa sta alle radici del reale. La metafisica di Schopenhauer è una metafisica esplicita, che vuol dire esplicitamente come stanno le cose, che non teorizza la necessità di un approccio obliquo, per vie traverse, e tanto meno teorizza la necessità di affidarsi a pure allusioni, se non addirittura ad un silenzio mistico nel quale si attendono illuminazioni del resto incomunicabili. Ma se ciò è vero, si avverte quanto sia importante mantenere la connessione tra la volontà nell'accezione metafisica e la volontà nel senso che abbiamo caratterizzato come fenomenologico-psicologico. Se questa connessione venisse meno allora avrebbe ragione "chi credesse che in fin dei conti sia indifferente designare l'essenza in sé di ogni fenomeno con la parola volontà o con un'altra qualsiasi (M., p. 149). Il nome non sarebbe allora altro che "segno di un'incognita" (M., p. 150). E così non è. Proprio l'esperienza soggettiva della volontà ci consente di porre la volontà come una nozione pienamente evidente, come "qualcosa di immediatamente noto: di noto in tal guisa che noi sappiamo e intendiamo l'essenza della volontà molto meglio che non quella di qualsiasi altra cosa" (M., p. 150). Anche l'estensione ad una nozione più ampia deve essere effettuata mantenendo la presa su questa evidenza. Ciò implica, in particolare, il riconoscimento della possibilità che esistano diversi gradi di manifestazione della volontà. Nell'uomo la volontà si manifesta nella sua forma più eminente, più esplicita, più ricca di connessioni. Il primo passo a cui la nostra considerazione metafisica ci invita è proprio quello di ammettere che possano darsi dei gradi inferiori di manifestazione. Il comportamento intuitivo degli animali, che mostra talvolta un sorprendente finalismo nel quale tuttavia è assente la conoscenza del fine, rappresenta di ciò un primo consistente esempio. Mentre ci è subito chiaro che per l'uomo la volontà è mossa dalla rappresentazione del motivo, le pratiche istintive degli animali - la costruzione del nido, la tela del ragno - mostrano che la volontà può agire senza conoscenza. Cosicché 142 "una volta ben capito che la rappresentazione del motivo non è condizione essenziale e necessaria per l'attività della volontà, ci sarà più facile riconoscere tale attività anche dove appare meno evidente" (M. p. 153). Ciò accade del resto anche in rapporto alle funzioni vitali del nostro corpo - circolazione del sangue, respirazione, battito cardiaco: questi movimenti non sono accompagnati da rappresentazioni, e tuttavia assolvono uno scopo e sono dunque in qualche modo voluti. In un simile contesto la distinzione tra causa, stimolo e motivo viene ad attenuarsi fortemente. Naturalmente si parlerà di motivi preferibilmente per le azioni umane ed animali, di cause nell'ambito della natura inorganica e di stimoli o eccitazioni per la natura organica in genere. Ma tra cause, motivi e stimoli vi è una profonda unità d'essenza ed una pura differenza di grado. Cosicchè la distinzione può diventare fluida e non presentare dei netti confini. Il passo più difficile è naturalmente il regresso dallo stimolo alla causa, cioè la considerazione della natura inorganica come un grado di manifestazione della volontà. Questo passo è compiuto con decisione da Schopenhauer, ed è significativo dell'idea ormai fortemente emergente di una profonda unità tra l'uomo e la natura in generale. Da questa idea la metafisica di Schopenhauer assume il suo profilo autentico. A questo punto meglio si comprendono anche le ragioni dell'insistenza sul tema deterministico nella discussione sul carattere: questa insistenza non era tanto motivata dall'intento di operare una naturalizzazione dell'umano, quanto inversamente un'umanizzazione della natura - anche se occorre riconoscere come ineliminabile una profonda ambiguità che avvolge l'intero problema. Ma l'intenzione di Schopenhauer è sicuramente questa: quanto più mostriamo la necessità dei motivi per la determinazione dell'azione, tanto più possiamo scorgere nella pura necessità causale una componente non troppo distante 143 dai motivi, tanto più possiamo riconoscere che "con la legge di motivazione dobbiamo arrivare a comprendere la legge di causalità nel suo significato più profondo" "Ciò che nell'uomo si chiama carattere, nella pietra si chiama qualità (Qualität)" ( M., pp. 164-5). La qualità di cui egli parla qui altro non è che la forza naturale, da distinguere dalla legge naturale, dal momento che questa esprime un puro legame funzionale tra i fenomeni e deve come tale essere intesa come manifestazione di una forza. È qui che ricorre la frase di Spinoza, che abbiamo già avuto occasione di citare, ed il commento di Schopenhauer sulle buone ragioni della pietra che, se avesse coscienza, immaginerebbe nel lancio in aria e nella sua caduta, di volare per volontà propria. "L'urto è per la pietra ciò che il motivo è per me; quello che appare nella pietra come coesione, peso, perserveranza nello stato acquisito, è nella sua essenza identico a quello che io riconosco in me come volontà, e che anche la pietra riconoscere come volontà se fosse dotata di conoscenza" (M. p. 164). Volendo prendere posizione su tutto ciò, tenderei a sottolineare che a ben vedere la questione della volontà, nonostante tutto, viene elaborata soprattutto dal lato del fenomeno. In altri termini: non siamo invitati a sprofondare nella cosa in sé ed a tentare in qualche modo un viaggio nei meandri del noumeno. Si tenta invece di mostrare che una simile considerazione metafisica induce ad una modificazione nel modo di afferrare i fenomeni, nel modo di intenderli, vorrei quasi dire: nel modo di guardarli. Di qui le espressioni immaginose di cui Schopenhauer si avvale in questi contesti nella descrizione di fenomeni naturali. Si parla così dell'"impeto violento e irresistibile con cui le acque si precipitano negli abissi", della "ostinazione con cui la calamita si rivolge sempre al polo nord", dell'"ansia con cui il ferro vola verso la calamita", della "violenza con cui i poli elettrici tendono a riunirsi l'uno contro l'altro e che si accresce se ostacolata 144 proprio come i desideri umani" (M. p. 158). Tutto ciò che accade intorno a me diventa così stracarico di espressione. E sorge il dubbio che questo straripare del senso, questo modo di intendere la realtà come una gigantesca manifestazione espressiva, sia non solo il punto di arrivo, ma anche il punto di partenza della metafisica di Schopenhauer. 145 9. Legge naturale e forza naturale - Tentativo di fornire un qualche sostegno a questa distinzione - Discussione di un esempio: l'energia elettrica - In Schopenhauer è implicita l'asserzione dell'impraticabilità della nozione di forza naturale sul terreno propriamente scientifico, mentre essa è ammissibile e necessaria su quello della riflessione filosofica. Forse qualcosa si può aggiungere persino a sostegno della tanto discutibile distinzione tra legge naturale e forza naturale. Intanto l'idea di forza naturale non è certo estranea al senso comune, di cui a sua volta non è privo nemmeno lo scienziato più avveduto e che probabilmente continua ad agire in lui, offrendo un sostegno immaginativo che non è obbligatoriamente di ostacolo alle sue ricerche. Tutti sappiamo che cosa accade se prendiamo un filo elettrico e congiungiamo i due capi del filo: si genera un corto circuito, e se siamo stati così imprudenti dal fare questa operazione senza le necessarie precausioni, rischiamo di restare folgorati dalla violenta scarica elettrica da cui siamo investiti. Ora questo sapere ha già per noi, uomini comuni, carattere di un sapere legale, anche se certamente molto povero. Per saperne di più, e dunque per venire a conoscere le effettive ragioni per le quali si produce un corto circuito e la scarica conseguente dovremmo naturalmente approfondire le nostre conoscenze sull'elettricità. Ora il punto che ci interessa è rilevare che questo approfondimento, benché possa condurci ad un sapere molto ricco e raffinato, sarebbe comunque una conoscenza di leggi - ovvero di proposizioni assunte come valide in generale - che asseriscono che in presenza di certi eventi x1, x2...xn accadrà un certo evento y. L'approfondimento avrebbe dunque il linea di principio lo stesso carattere della nostra prima conoscenza e si differenzierebbe da essa per la maggiore ricchezza delle connessioni legali e naturalmente anche dei concetti e dei quadri teorici che esse presuppongono. Continueremmo a stabilire - a livelli sempre 146 più complessi ed all'interno di una struttura discorsiva sempre più complessamente organizzata - che un determinato evento accade se sono date certe circostanze. Ed allora non sembra poi così irragionevole sostenere che seguendo questa via non riusciremmo a pervenire ad una conoscenza di che cosa sia l'elettricità in se stessa, l'elettricità intesa come una forza che si esplica ad esempio in una folgorazione. A ciò si obbietterà subito: ciò che tu chiami elettricità è interamente descritta dalle connessioni causali (ma meglio sarebbe dire: funzionali) che andiamo via via scoperndo, cosicché una forza naturale distinta dall'insieme delle connessioni causali-legali corrispondenti non è altro che una costruzione intellettuale inconsistente ed è dunque inutile ed improduttivo qualunque tentativo di considerarla "in se stessa". Questa è naturalmente la decisione presa dalla scienza moderna che ha cessato da tempo di occuparsi di qualità occulte - ed è anche la soluzione fatta propria dalla riflessione epistemologica. Per quanto vi possano essere concezioni diverse sulla nozione di causa e di legge, credo che si possa considerare acquisita l'idea che la nozione di forza naturale possa essere accettata solo se interamente risolta in quella di legge naturale. Da un punto di vista schopenhaueriano tuttavia una simile risoluzione potrebbe essere interpretata in certo modo a rovescio, come se in essa si riconoscesse implicitamente che restando sul terreno delle procedure legali-causali della scienza non si possa fare altro che operare la dissoluzione della nozione di forza naturale, cosicché resterebbe vera l'asserzione dell'impraticabilità della nozione di forza naturale sul terreno propriamente scientifico, ma essa potrebbe essere riproposta senza interferire con quel terreno sul piano della riflessione filosofica. Vi è del resto, appunto nel senso comune, una sorta di "concetto bastardo" dell'elettricità da cui è difficile liberarsi: si tratta del fluido misterioso, potente e temibile che scorre attraverso i fili; ed è alle presenza ed all'azione di questo fluido, che chiamiamo non a caso energia elettrica, che riteniamo siano dovuti questi o quegli effetti, benefici o malefici, in circostanze deter- 147 minate. Non è forse questa energia che si manifesta in quegli effetti? Possiamo del resto riferirci ad esempi meno vistosi. Una pietra cade a terra. Qui è in azione la legge di gravità - diciamo così. Questa legge ha la forma di un rapporto funzionale tra eventi, e sulla sua base posso prevedere che in presenza di determinati eventi si verificherà un altro evento determinato. Eppure si è tentati ancora di parlare di forza di gravità, questa terminologia è rimasta nell'uso, forse illegittimamente dal punto di vista epistemologico. E resta così ancora la tentazione di distinguere tra forza e legge di gravità, quindi tra la forza e la miriade di casi singoli che sono regolati dalla legge in cui questa forza si manifesta. Se si soggiace a questa tentazione evidentemente non ci si può contentare di considerare il peso di una cosa (come tutte le sue proprietà materiali, durezza, impenetrabilità ecc.) come una nozione interamente risolta nei comportamenti che ci attenderemmo da essa in base alla legge di gravità. L'idea di forza naturale è una delle idee fondamentali della metafisica della natura di Schopenhauer - ed è, come abbiamo già detto, una idea discutibile; tuttavia nel contesto della sua metafisica essa appartiene tutta alla speculazione filosofica, mentre l'idea di legge naturale appartiene all'ambito dei fenomeni e quindi interamente all'ambito della scienza della natura. Forse è proprio la nettezza di questa distinzione la novità introdotta da Schopenhauer in questa sua ripresa della vecchia idea delle forze naturali. Ciò che si evita è una equivoca commistione tra considerazioni metafisiche e considerazioni scientifiche. L'altro aspetto nuovo è naturalmente la loro riconduzione alla volontà teorizzata come principio metafisico. 148 10. L'oggettivazione della volontà - La volontà non si frantuma nelle rappresentazioni in cui si oggettiva - Ripresa in questo contesto della tematica platonica delle idee - Breve sintesi della posizione platonica. Vogliamo riprendere il tema del grado di oggettivazione della volontà che è già stato precedentemente introdotto. Questo tema si presenta nell'interpretazione del nostro corpo come oggettità della volontà e poi nella estensione della temativa dell'oggettivazione al mondo intero. Tutte le rappresentazioni sono da intendere come oggettivazioni della volontà. Con oggettivazione della volontà dobbiamo intendere da un lato un processo, che del resto non è certo facile da illustrare, dall'altro il fatto che le cose che possiamo vedere e toccare possono essere intese come la volontà stessa che viene resa visibile e tangibile. In questa nozione vi è certamente il tema del passaggio dal soggettivo all'oggettivo, ma anche soprattutto quello della concretizzazione e quindi della "realizzazione" del volere. Se del volere in senso proprio si può parlare solo in rapporto all'atto che lo realizza, il momento della realizzazione riguarda la volontà stessa in quanto essa non può esserci senza oggettivarsi. 149 L'oggettivazione della volontà rappresenta nello stesso tempo il passaggio dall'unità alla molteplicità, da una dimensione che deve essere posta come atemporale alla dimensione della temporalità. La volontà è essenzialmente una, ed in un senso che precede la stessa differenza tra singolarità e molteplicità; e così anche si è già parlato della sua intemporalità, del suo essere fuori dallo spazio e dal tempo come forme dei fenomeni. Per quanto simili considerazioni rimandino alle formulazioni più oscure delle metafisica della tradizione, il problema che sta alla loro base non manca di una motivazione comprensibile; non solo si tratta di affermare l'idea dell'unità profonda di ogni cosa, ma anche di escludere un'interpretazione che ponga questa unità come frantumata nella molteplicità delle cose, come se essa fosse divisibile in pezzi e fosse reperibile nelle cose pezzo a pezzo. Perciò si sottolinea che: "la volontà si manifesta con egual forza e tutta in una sola quercia come in un milione di querce; il loro numero, la loro moltiplicazione nel tempo e nello spazio non ha nessun significato in ordine alla volontà" (M. , p. 166). In questo senso la volontà può essere anche detta indivisibile: dunque non dobbiamo ritenere che "ce ne sia una piccola parte nella pietra e una parte più grande nell'uomo" (ivi), dal momento che nella volontà non ci sono parti e non possono darsi simili differenze qualitative. Tra la pietra e l'uomo vi è comunque una differenza di cui possiamo rendere conto senza contraddire queste nostre ultime osservazioni, ma ricollegandoci piuttosto alla nozione di grado di oggettivazione. L'ammissione di differenze di grado sottintende che la volontà non si oggettiva ovunque nello stesso modo, e che dunque essa sarà in taluni casi maggiormente visibile che in altri. Ma questa problematica comincia a diventare più complicata nel momento in cui si innesta su tutto ciò il problema di una ripresa della tematica platonica delle idee. Questo innesto 150 avviene in maniera assai brusca, nel momento in cui si afferma, quasi senza nessuna spiegazione, che "questi gradi di oggettivazione della volontà niente altro che le idee di Platone" (M. , § 25). In realtà ci imbattiamo qui in uno dei punti più controversi e più difficili da giustificare della posizione filosofica complessiva di Schopenhauer . Non solo non è affatto chiaro il modo in cui avviene questo innesto può essere teorizzato, ma nemmeno in che senso debba essere intesa, in questo contesto, l'espressione platonica di idea. Anche il modo brusco in cui la questione viene introdotta ha i suoi motivi in questa difficoltà nella quale, io credo, si imbriglia anche Schopenhauer, e non solo il suo lettore. Si avverte in questo punto qualcosa di simile ad un salto, ad una lacuna che non sembra poter essere facilmente riempita. Credo tuttavia che l'atteggiamento che si deve assumere come interpreti non sia tanto quello di tentare giustificazioni di dettaglio, ma di rivolgere piuttosto l'attenzione alle ragioni profonde di questa ripresa e dunque allo spirito complessivo che la suggerisce nel quadro del sistema metafisico fin qui elaborato. Assumendo questo punto di vista, dopo una breve riflessione, il richiamo alla tematica platonica delle idee non può apparirci del tutto inatteso. Di essa vogliamo rammentarne rapidamente alcuni tratti. La tematica platonica delle idee è fortemente radicata nell'ambito di una questione caratteristicamente epistemologica: in essa si tratta di rispondere in primo luogo ad una domanda intorno alla possibilità della conoscenza autentica delle cose. Con conoscenza autentica si intende in Platone soprattutto conoscenza oggettiva, una conoscenza che riguarda la cosa così come è in se stessa e può essere riconosciuta da ciascuno, al di là dei modi molteplici di apparire, delle modificazioni che appartengono ad essi ma non all'essenza di ciò che in essi appare. Per ottenere una conoscenza autenticamente obbiettiva, è necessario anzitutto prescindere da tutti gli aspetti empirici delle cose, 151 che sono mutevoli e accidentali, per badare invece a ciò che nelle cose può essere considerato fisso e immutabile. La conoscenza non si sofferma sul dettaglio, ma sulla generalità, non sulla differenza ma sull'aspetto comune. Ed è certamente esemplare per l'intera impostazione platonica del problema la posizione assunta dalla conoscenza geometrica: se disegnamo sul terreno o su una lavagna delle figure circolari, esse differiranno tra loro per mille dettagli empirici, ma in rapporto a quelle figure è possibile cogliere un aspetto comune formulando in rapporto ad esso delle regole che valgono per il cerchio in generale, e quindi anche per tutti i cerchi pensati secondo la loro pura essenza geometrica. Questo problema diventa in Platone esemplare per ogni cosa dell'universo. Non vi sono dunque idee solo per le figure geometriche, ma anche per ogni specie di animale e di vegetale, l'intera realtà empirica può essere conosciuta solo sulla base di una geometrizzazione generalizzata, di una geometria universale che riguarda tutti gli aspetti del reale: solo in questo presupposto è possibile individuare regolarità della realtà, formularne le leggi. In questo modo Platone con la sua teoria delle idee formula il grande compito di una conoscenza della natura come conoscenza eminentemente matematica - un compito che verrà ripreso da Galileo e che sta a fondamento della moderna scienza della natura. Questo è uno dei sensi profondi della tematica platonica delle idee. Ed è evidente che per far valere questo senso dobbiamo insistere soprattutto sull'origine strettamente epistemologica del problema. Ma già in Platone, ed ancor più nella tradizione filosofica successiva e nelle divulgazioni platoniche, questo problema essenzialmente epistemologico riceve una formulazione che deve essere caratterizzata più propriamente come metafisica per il fatto che l'idea diventa una vera e propria entità, e così il mondo delle idee un mondo vero e proprio, e precisamente l'unico mondo effettivamente reale, del quale il nostro mondo sarebbe solo un pallido riflesso. La cosa concreta diventa così una mani- 152 festazione sensibile che realizza per quanto imperfettamente un'idea, che è unica e identica nella molteplicità delle sue manifestazioni. Il problema epistemologico passa interamente sullo sfondo, mentre in primo piano troviamo la concezione di una duplice dimensione del reale, nella quale alla realtà empirica, puramente apparente, si contrappone la vera realtà del mondo delle idee, sottratto al divenire, alla temporalità e al mutamento. 153 11. L'interesse di Schopenhauer per gli aspetti metafisici della teoria platonica delle idee - Esse fanno parte del processo di oggettivazione della volontà come le stesse forze naturali che sono da considerare a loro volta come "idee"- Elogio dell'occasionalismo di Malebranche. Appare subito chiaro che Schopenhauer non può che essere molto lontano dall'origine epistemologica del problema delle idee in Platone. Nonostante l'interesse che egli mostra per alcuni aspetti della riflessione platonica sulla geometria, soprattutto in rapporto alla questione dell'intuizionismo, non vi è dubbio che il nesso tra il tema delle idee e l'ideale di una conoscenza oggettiva sia fondamentalmente estraneo all'impianto dottrinale di Schopenhauer. Altrimenti stanno le cose per la traduzione metafisica di questa problematica epistemologica. Ciò che qui attira subito la nostra attenzione di lettori di Schopenhauer è la questione dell'intemporalità dell'idea platonica che è strettamente connessa con quella della sua unità e identità sovraindividuale, di fronte alla quale sta l'infinita molteplicità delle sue manifestazioni temporali nel mondo fenomenico, e naturalmente anche il fatto che i fenomeni del nostro mondo rendono visibili queste tipicità ideali. Beninteso questa tematica, anche se colta prevalentemente sul versante metafisico, non può essere trasportata come tale nel contesto filosofico di Schopenhauer, ma non è difficile rendersi conto che essa, con opportuni adattamenti e modificazioni, sembra mostrare una via per uscire da una difficoltà di principio che ormai non può più essere elusa. Il mondo è volonta e rappresentazione - sta bene: ma prima o poi dovremo pur arrivare ad interrogarci su quella congiunzione, a chiederci in che modo il mondo possa essere l'una e l'altra cosa insieme. Il parlare di fenomeno e cosa in sé non basta. La difficoltà è costituita dal fatto che la volontà, considerata in se stessa, è interamente priva di componenti rappresenta- 154 tive, è pura energia, pura azione che di continuo si autoafferma. Ma questa autoaffermazione è anche un processo di oggettivazione e quindi implica un passaggio dall'attività alla visibilità. Saremmo tentati di dire: dopo aver afferrato l'unicità d'essenza delle rappresentazioni nel principio pratico-attivo della volontà, resta pur sempre da comprendere come questo principio possa autorealizzandosi rimetterci, come è necessario che accada, proprio questo carattere attivo, per assumere piuttosto la forma di cose da contemplare, vedere, toccare, ecc. A questo punto sembra offrire un aiuto il ricorso alla teoria platonica delle idee. Essa deve essere tuttavia reinterpretata in modo da attribuire alle idee una funzione metafisica decisiva, senza tuttavia mantenere la concezione di un mondo delle idee come essenza del mondo fenomenico che resta in ogni caso la volontà. Sembra allora interessante assumere che le idee platoniche facciano parte della volontà in quanto fanno parte del suo processo di oggettivazione. In una simile concezione l'idea, che nello stesso nome richiama il il tema della rappresentazione, non va considerata come un elemento rappresentativo interno alla volontà, ma come un momento della volontà in quanto essa sta riversandosi nel mondo delle rappresentazioni. Per questo, io credo, si parla delle idee nel quadro della tematica dei gradi di oggettivazione. Questa nozione di grado sembra attribuire alle idee quella funzione di mediazione tra volontà e fenomeni che appare necessaria affinché l'unità della volontà, essenzialmente oscura e priva di componenti visibili, si arricchisca dell'elemento della visibilità e si moltiplichi nel mondo delle rappresentazioni. Con ciò non pretendiamo certo di aver spiegato come stanno le cose, ma soltanto di aver reso almeno comprensibile questo innesto della tematica delle idee nella metafisica di Schopenhauer, che inizialmente poteva sembrarci privo di giustificazioni plausibili. Nello stesso tempo queste osservazioni di carattere generale ci forniscono ulteriori indicazioni intorno al modo in cui 155 questo problema si presenta concretamente nell'elaborazione di Schopenhauer. Ciò che caratterizza infatti questa ripresa della tematica delle idee è la sua ricongiunzione con quella delle forze naturali. Anch'esse sono intemporali e fanno parte dei gradi di oggettivazione della volontà: dunque hanno carattere di "idee". "La forza rimane in sé del tutto fuori della catena delle cause e degli effetti, che presuppone il tempo e non ha significato che in ordine al tempo: ma la forza è fuori del tempo" (M., p. 168). Sottolineare questo punto è particolarmente importante per Schopenhauer in primo luogo per evitare che ci si interroghi intorno alle cause delle forze stesse. Come nel caso del carattere umano, esse non ammettono alcuna ragione sovraordinata. In secondo luogo per impedire la considerazione della forza naturale come una causa che determina a sua volta questo o quel comportamento dei corpi. Con ciò Schopenhauer si libera anche della critica e dell'ironia nei confronti di un circolo vizioso che si presenta nella filosofia scolastica stando al quale si presenta come causa della proprietà di una cosa quella stessa proprietà ipostatizzata come una forza. È infatti Schopenhauer stesso che si impossessa della critica, e può farlo proprio per il fatto che assume l'intemporalità della forza naturale. Così nelle Lezioni berlinesi (Lez., II, p. 164) rammenta che, per mancanza di una autentica conoscenza della natura, gli scolastici si richiamano direttamente a forze in modo tale da rendere l'ironia pienamente giustificata: se si dice che il fatto che una cosa sia fluida è causata dalla sua fluiditas oppure il fatto che essa bruci dalla sua igneitas, si arriverà certo a sostenere che il ferro è tale a causa della sua ferreitas e il pane a causa della sua paneitas. Schopenhauer è invece interessato a sottolineare che la ripresa del problema della forza naturale non intende per nulla favorire un simile stile di pseudospiegazioni. Così va ribadito, come abbiamo detto in precedenza, che le spiegazioni autentiche per ciò che riguarda sono offerte dalla fisica mentre le considerazioni metafisiche sulla forza naturale come grado di oggettività del 156 volere non possono in alcun modo sostituire una spiegazione naturalistica e fare riferimento esplicativo all'oggettivazione del volere in luogo che ricorrere alla spiegazione naturalistica significherebbe la stessa cosa che pretendere di fornire una spiegazione ricorrendo per ogni evento alla forza creativa di dio (Lez., II, pp. 164-165). "Nulla è più contrario ai miei desideri che favorire il ritorno di questo abuso. Non bisogna mai, in luogo di una spiegazione fisica, ricorrere all'oggettivazione della volontà o alla potenza creatrice di dio"(M. , p. 178). È dunque falso affermare che "il peso è la causa per cui la pietra cade" mentre dobbiamo dire che questa causa è proprio la legge di gravità, e dunque la vicinanza della terra, quando gettiamo la pietra in alto. "Sopprimiamo la terra e la pietra non cadrà più". Ma Schopenhauer soggiunge: sebbene il peso rimanga, ovvero in inerenza alla cosa rimanga quella forza che qualora se ne ripresenti la condizione farebbe sì che la pietra cada ancora. Il peso diventa così una caratteristica della pietra "in idea". Ancora più indicative sono le considerazioni sull' "infallibilità" delle leggi di natura. Naturalmente, al di là di una riflessione apposita, noi non ci meravigliamo affatto della costanza delle leggi naturali, e quindi della costanza dei comportamenti delle cose. Una pietra sollevata in alto e lasciata libera cade a terra oggi come duemila anni fa. Questa infallibilità vale anche per casi che si verificano di rado in quanto sono rare le condizioni che consentono il prodursi di un determinato effetto. Ma quando queste condizioni si verificano, l'effetto viene prodotto immancabilmente. E non dovrebbe forse questa infallibilità suscitare la massima meraviglia, non vi qui qualcosa di sorprendente e forse persino di terrificante? "È meraviglioso che la natura non dimentichi mai neppure una volta le sue leggi" (M., p. 171). 157 Tentiamo di provare anche noi questa meraviglia, così contraria ai nostri comportamenti abituali! Ecco dunque che accade un complesso di rare circostanze, è forse un'infinità di tempo che un simile complesso non aveva luogo: eppure tra le innumerevoli forze naturali in campo viene in qualche modo attivata proprio quella forza che fa di quelle circostanze la causa per un determinato effetto. E siamo tentati anche, come Schopenhauer, di usare un linguaggio antropomorfico per rendere conto di una simile situazione: è come se quella forza naturale, nella propria lunga inattività spiasse tutti gli eventi del mondo per intervenire proprio in quell'istante... Come se le forze della natura fossero onnipresenti. È questa onnipresenza che dovrebbe suscitare la massima meraviglia. Le forze della natura sono paragonabili - qui è Schopenhauer che parla - al demone evocato dalla formula magica: nel momento in cui essa viene enunciata si presenta proprio lui e nessun altro, come se egli fosse perennemente in ascolto: "Ciò che allora ci sorprende è questa onnipresenza delle forze naturali, simile a quella degli spiriti... ci accorgiamo allora che la connessione tra causa ed effetto racchiude in sé tanto mistero quanto quella che passa tra la formula magica e lo spirito evocato" (M. p. 171). Questa meraviglia tuttavia può essere giustificata solo se ci disponiamo dal punto di vista dei casi presi nella loro singolarità, ma non avremmo ragione di sorprenderci se tenessimo conto del fatto che una forza della natura è un'idea. "Ogni forza naturale ed originaria non è dunque altro, nella sua intima essenza, che un'oggettivazione della volontà di grado inferiore; ciascuno di questi gradi è un'idea eterna nel senso di Platone. La legge di natura sarebbe la relazione tra l'idea e la forma del suo fenomeno. Questa forma è il tempo, lo spazio e la causalità, legati tra loro da connessioni e relazioni necessarie e indissolubili. Mediante il tempo e lo spazio l'idea si moltiplica in innumerevoli manifestazioni" (M. p., 172). 158 Concependo le cose in questo modo la molteplicità dei casi singoli distribuiti nella totalità temporale deve essere ricondotto all'unità ed all'identità dell'idea, in essi ciò che propriamente accade è, potremmo quasi dire, un unico evento assoluto, i casi singoli non sono altro che immagini infinitamente moltiplicabili di esso. La meraviglia " di fronte alla puntuale regolarità di azione delle forze naturali, alla perfetta uniformità della loro miriade di manifestazioni ed all'infallibilità del loro apparire, somiglia in realtà allo stupore di un ragazzino o di un selvaggio che, osservando per la prima volta un fiore attraverso un vetro sfaccettato, si trova innanzi innumerevoli fiori perfettamente uguali e se ne meraviglia, e si mette a contare ad una ad una le foglie di questi fiori" (M., 172). In un simile contesto Schopenhauer ritiene di poter trovare un sostegno apparentemente paradossale in Malebranche. L'intero tema del rapporto causale viene subordinato in Malebranche ad una prospettiva teologica: dio è il vero autore di tutto, è la soggettività effettivamente agente, l'unica ed autentica causa efficiente. Ciò che chiamiamo cause naturali sono, dice Malebranche, cause seconde, sono cioè unicamente circostanze che forniscono l'occasione per l'intervento dell'azione divina e vengono dunque chiamate da Malebranche cause occasionali. Ora Schopenhauer afferma decisamente e inaspettatamente "la piena concordanza tra le due dottrine, malgrado tanta divergenza nel corso dei pensieri. Anzi, mi meraviglio come Malebranche, imprigionato mani e piedi nei dogmi positivi che il suo tempo gli imponeva irresistibilmente, abbia saputo nondimeno con tanti vincoli e tanti pesi, cogliere così felicemente la verità..." (M. § 26, p. 175; cfr. anche Lez., II, pp. 158-159). Dov'è dunque la concordanza? Non certo nell'idea di dio come autentico ed unico agente, e nemmeno come causa di ogni modificazioni. "Non crediate che io voglia dire che ciò che io chiamo volontà come cosa in sé sia identica a ciò che Malebranche chiama dio: le 159 cose non stanno certamente così. Se io parlo della volontà, intendo null'altro che la volontà stessa che ciascuno porta in sé e che è nota a lui in modo più preciso e immediato di tutte le altre cose: non si tratta della volontà di un essere diverso da noi" (Lez., II, p. 160). L'accordo con Malebranche sta invece nell'idea che la "causalità riguarda il fenomeno" e che "la causa non produce propriamente l'effetto ma fornisce solo l'occasione... per il presentarsi delle manifestazioni delle forze naturali": cosicché "la causa determina solo il punto nello spazio e nel tempo in cui deve intervenire la manifestazione della forza, la forza stessa essendo indipendente da questa determinazione e appartenente per sua essenza ad un ordine di cose interamente diverso da quello a cui appartiene il corso della natura" (Lez., II, p. 160). Questo elogio di Malebranche è dunque pienamente coerente con l'impostazione teorica di Schopenhauer e forse potremmo sostenere che in fin dei conti il tema della occasionalità della causa è stato addirittura presupposto nel corso della nostra esposizione. 160 12. Dialetticità della natura - Le forze naturali si contendono il possesso della materia - L'opposizione che caratterizza tutti i fenomeni della natura e la sua origine - Il significato della differenza tra gradi inferiori e superiori dell'oggettivazione della volontà - La morte come parziale regresso ad uno stadio inferiore e la sua appartenenza al ciclo della vita - La volontà come volontà di vivere. Per la concezione della natura che si va profilando nella metafisica di Schopenhauer particolarmente importante è il tema della sua interna conflittualità, forse potremmo parlare, anche se questa espressione non viene impiegata dal filosofo, di una dialetticità della natura. Questa dizione è suggerita dall'idea di una conflittualità che è ad un tempo essenza e forza motrice della realtà stessa - idea che ha ricevuto certo la sua massima elaborazione filosofica in Hegel, ma non è di per se stessa un'idea specificamente hegeliana, dal momento che si trova ovunque, in varie forme, nella filosofia e nella cultura romantica in genere. Lo stesso Schopenhauer rammenta i meriti da questo punto di vista che debbono essere attribuiti a Schelling ed alla sua scuola, uno dei rari, e perciò tanto più notevoli, apprezzamenti positivi di Schopenhauer nei confronti della filosofia a lui contemporanea. Naturalmente nel riprendere questa idea d'epoca Schopenhauer la integra strettamente all'interno della propria impostazione filosofica. Le forze naturali sono in conflitto tra loro, più precisamente il conflitto sorge nella loro realizzazione effettiva, nei fenomeni che esse regolano causalmente. In questione è dunque la dimensione spazio-temporale, ed anzi la materia stessa la cui nozione è strettamente legata sia alla dimensione spazio-temporale sia al tema della causalità. Nell'introdurre il problema del conflitto, Schopenhauer riprede in effetti proprio il discorso condotto nel primo libro sulla materia come sostrato comune di ogni evento. 161 Egli argomenta così: prorio in quanto vi è un simile sostrato, uno stato della manifestazione della forza non può semplicemente coesistere con l'altro, ma deve entrare con esso in varie forme di contrasto. Inversamente: se non ci fosse alcun sostrato comune, le "idee eterne" si potrebbero forse manifestare mantenendosi in questa dimensione di eternità, senza entrare in conflitto tra loro. Invece il manifestarsi delle forze fa tutt'uno con il verificarsi effettivo di eventi naturali, ovvero di modificazioni della materia: di conseguenza non solo un evento deve ricevere una determinazione spazio-temporale, ma deve trovarsi in contrasto con altri eventi determinati da altre forze. È come se le forze si contendessero il possesso della materia (M., p. 172). Ogni forza, una volta che è entrata in possesso della materia tende a mantenere questo possesso e deve quindi esserne attivamente scacciata. Tutto ciò viene illustrato con l'esempio di un meccanismo - un orologio, ad esempio: esso viene mosso da forze meccaniche. Così una molla si allenta progressivamente mettendo in moto una ruota dentata che a sua volta ne mette in moto un'altra, ecc. Supponiamo ora che in prossimità di questo meccanismo venga posta una calamita abbastanza potente. Ecco che allora cambiano le occasioni dell'evento, è entrata in campo un'altra forza naturale, quella forza che sta a fondamento dei fenomeni di magnetismo. Analogamente il movimento di un peso lgato ad un tirante che determina altri movimenti meccanicamente concatenati tra loro viene ostacolato dall'azione esercitata dalla calamita: forza di gravità e magnetismo lottano tra loro per impossessarsi di quella porzione di materia. Qulunque modificazione ulteriore deve lottare contro le modificazioni precedenti, ogni forza per manifestarsi "deve impadronirsi di una data materia, per dominarla scacciando la forza che vi dominava prima" (M., p. 174). Quanto alla causalità "essa non fa altro che fissare i limiti secondo cui le manifestazioni delle forze naturali si dividono il possesso della materia" (p. 173): "... la legge di causalità ci dà la determinazione di questo diritto e il punto del tempo e dello spazio del 162 suo farsi valere" (ivi). Questo problema del conflitto viene coordinato con l'altro grande tema dialettico fondamentale, quello del costante superamento del contrasto in una sintesi superiore. Questo tema si congiunge del resto spontaneamente con quello dei gradi dell'oggettivazione. In realtà alla base di questa discussione vi è ancora la questione degli obbiettivi e degli scopi della scienza della natura e della compatibilità tra il punto di vista fisico e il punto di vista filosofico. Questa questione si sviluppa ben presto in una rinnovata critica del riduzionismo materialistico. I vari piani di esplicazione delle forze - dunque quello organico-fisiologico con le sue differenze interne che vede nell'uomo il suo grado più elevato, il piano in cui agiscono le forze chimiche, elettriche e magnetiche, fino a quello della meccanica che rappresenta il grado più basso - sono appunto gradi di oggettivazione della volontà, ed è un errore della scienza della natura "la pretesa di ricondurre i più alti gradi di oggettivazione della volontà verso i più bassi": una simile pretesa tende a togliere di mezzo proprio la fondamentale idea della differenza di grado; inoltre propone la concezione secondo la quale l'ascesa da un grado inferiore più povero ad un grado superiore essenzialmente iù ricco sia il risultato casuale del gioco della natura, e non invece la manifestazione di una determinata idea che a sua volta rappresenta una fase determinata all'interno del processo di autorealizzazione della volontà. Il tema metafisico della volontà insegna che c'è una unità profonda della natura, che vi è una radice unica di tutte le cose. Non bisogna perdere di vista il fatto che "in tutte le idee, cioè in tutte le forme della natura inorganica e in tutte le forme della natura organica, c'è una sola ed identica volontà che si manifesta e prende la forma di rappresentazione, oggettivandosi" (M., p. 181). Di qui deriva l'interesse che rivestono le varie forme di analo- 163 gia, le somiglianze di struttura, di funzioni che si possono notare con particolare evidenza all'interno di uno strato, ma che possono indurci a considerare anche strati diversi e che dunque suggeriscono la presenza di questa unità che sta alla radice di ogni cosa. All'interno di questo problema delle parentele tra fenomeni, rientra l'idea generale di una forma di rapporto oppositiva, di una polarità di forze, o meglio, di uno "sdoppiamento di una forza in due attività qualitativamente distinte, opposte e tendente alla riunione" che può forse essere considerato "il tipo fondamentale di quasi tutti i fenomeni della natura, dal magnete e dal cristallo fino all'uomo" (p. 182). Contro il riduzionismo meccanicistico è dunque il caso di avviare una polemica perché esso rappresenta un modo tipicamente erroneo di proporre il problema filosofico dell'unità della natura. Questa unità, che si manifesta in mille forme nelle analogie naturali, culmina nell'idea di una tensione oppositiva che rappresenta l'elemento dinamico che sospinge da un grado inferiore ad un grado superiore sviluppando i germi contenuti nella forma inferiore secondo un rapporto di autentico superamento, ma anche di conservazione. Ritorna così, secondo una nuova angolatura che è tuttavia in grado di ricomprendere la precedente, il tema del conflitto e del contrasto. Ovunque nella natura vi è lotta, vi è conflitto. "... dalla lotta scaturisce la manifestazione di un'idea superiore che supera tutte le precedenti più imperfette, ma in maniera da lasciarne sussistere l'essenza di uno stato subordinato" (M. p. 183). Nell'organismo, ad esempi, si troveranno "tracce di ogni sorta di attività fisiche e chimiche", cosa che potrebbe assecondare la possibilità di una tesi riduzionistica, che è tuttavia da respingere perché ciò che si afferma attraverso la lotta "non è un prodotto accidentale", "ma è un'idea superiore che ha soggiogato tutte le altre idee inferiori con un'assimilazione trionfante" (p. 184). 164 Questa dialettica peraltro non è sempre puntata verso l'alto, non esclude affatto regressioni e ritorni all'indietro: una battaglia vinta non è vinta una volta per tutte. Il fatto che si parli di gradi superiori, e tra essi troviamo naturalmente la vita stessa ed in particolare la vita umana, non significa che essi non debbano continuare a lottare contro quelle forze rispetto alle quali hanno riportato una vittoria in ogni caso provvisoria. L'inclinazione all'impiego di un linguaggio "antropomorfico", che è un'inclinazione di continuo emergente in queste pagine, diventa ora particolarmente pronunciata. Una calamita ha sollevato un pezzo di ferro, il magnetismo ha riportato una vittoria sulla forza di gravità, ma questa vittoria deve poter essere mantenuta, cosicché la calamita deve impegnarsi "in un'assidua lotta con peso", ed in questa lotta "il magnete si fortifica perché la resistenza del ferro lo aiuto a moltplicare i suoi sforzi" (p. 184). Il linguaggio è qui apertamente "animistico", e lo è in modo perfettamente consapevole dal momento che si tratta proprio di guardare al fenomeno come fenomeno della volontà. Dunque è giusto dire che il ferro resiste con il suo peso al magnete e che il magnete deve rinnovare i propri sforzi contro questa resistenza. La vicenda che qui si descrive non è diversa da una vicenda che potremmo sperimentare ogni giorno: alziamo un braccio per sollevare una cosa, ma al di là di un certo limite siamo poi costretti ad abbassarlo: anche qui come là vi è una lotta tra le forze, una vicenda minima che ci riconduce alla grande vicenda della vita e della morte, dal momento che anche questa può essere in parte interpretata come un prevalere delle forze elementari sulle forze più evolute. La morte a cui ogni essere vivente è inesorabilmente consegnato non è altro che il prevalere del meccanico sull'organico, della nateria inerte sulla materia vivente. Ma solo in parte: infatti ogni morte rientra nel ciclo della vita. Questo è un altro grande insegnamento che la metafisica della natura di Schopenhauer vuole tramandarci. La volontà in quanto volontà di autoaffermazione è essenzialmente volontà di 165 vivere, ed essa si autoafferma nuovamente nello stesso istante in cui viene sopraffatta. J. Vernes, Ventimila leghe sotto i mari, illustr. da Alphonse de Neville 13. La fame della volontà - Il gigantesco pasto - L'universo vagante nello spazio infinito - L'armoniosità della natura - Accenni conclusivi al tema del pessimismo e della compassione per l'esistente. Se ci chiediamo quale sia infine l'immagine della natura che Schopenhauer ci trasmette, alla luce del problema del conflitto, forse dovremmo cominciare a mettere in rilievo la sua inclinazione drammatica, persino truculenta. Nella natura si riversa 166 una volontà insaziabile: essa appare concepita come un gigantesco pasto, come un divoramento reciproco in cui "ogni individuo è nutrimento e preda dell'altro": noi stessi, noi uomini che in tutta la nostra vita abbiamo tanto divorato esseri ed organismi viventi finiremo a nostra volta divorati dai vermi; che verranno a loro volta divorati, perché "un essere vivente non può mantenersi in vita se non a spese di un altro: la volontà di vivere si nutre della sua propria sostanza e fa di sé in diverse forme il proprio nutrimento" (p. 185). Questo divoramento reciproco è perciò, in fin dei conti, una sorta di autodivoramento. Si comprendono così gli esempi estremi che Schopenhauer trae dal mondo degli animali con la sua consueta passione naturalistica: l'esempio degli insetti che depongono larve distruttive nel corpo di altri insetti; del polipo cresciuto su corpo di un altro al quale contende il cibo; o l'esempio della terribile formica-mastino che non appena la si taglia in due separando la testa dalla coda, testa e coda si impegnano in una lotta furibonda nella quale la testa cerca di azzannare la coda con le sue temibili mandibole e la coda di conficcare nella testa il suo mortale pungiglione. E così anche nel mondo vegetale (l'edera che soffoca il grande albero). Nel regno inorganico non si tratta più di morte e di vita, ma in ogni caso di ostacoli e impedimenti che si frappongono allo sviluppo dei processi. Se passiamo poi al macrocosmo, la lotta viene qui rappresentata soprattutto dalla contrapposizione tra forza centrifuga e forza centripeta, che è di fondamentale importanza per rendere conto del movimento dei corpi celesti. In questo passaggio speculativo in cui Schopenhauer diventa sempre più ardito, il tema del movimento nello spazio introduce un ulteriore motivo che illustra sempre meglio l'atmosfera che avvolge questa metafisica della natura. Sappiamo che la terra, insieme agli altri pianeti, girano intorno al nostro sole. E forse l'intero sistema solare gira intorno ad un altro sole, il sole centrale dell'universo stesso. Forse questo sole centrale si muove nello spazio infinito con tutti i sistemi che gravitano intorno ad esso. Ma comunque stiano le cose, si tratta di 167 un movimento senza significato perché non è un movimento che ci porta, per qualche scopo, da un luogo ad un altro luogo; e dunque esso diventa null'altro che espressione "di quel nulla, di quella mancanza di finalità" che caratterizza in ultima analisi la volontà stessa. Si annunciano qui temi che vanno oltre la tematica del primo libro del Mondo e che preparano la problematica trattata nel libro quarto e che di questo libro fanno presentire l'atmosfera dall'idea della volontà come "slancio cieco", come "impulso oscuro". Ma limitarsi a rilevare questi aspetti della concezione schopenhaueriana della natura non basta. Vi è in realtà una singolare tensione tra il motivo di un finalismo interno alla natura - che rappresenta indubbiamente uno dei motivi fondamentali della sua speculazione - e l'immagine che abbiamo visto or ora emergere di un universo vagante nello spazio infinito, che pone invece l'accento sull'assenza di scopi ultimi. Questa tensione si fa sentire particolarmente nei due paragrafi che concludono il primo libro del Mondo: il § 28, il cui centro è rappresentato dal tema teleologico, ed il § 29, che riprende invece quello dell'assenza di fini della volontà accennando al tema del pessimismo. Nel § 28, riprendendo l'idea dell'unità fondamentale di ogni fenomeno naturale, la volontà viene assimilata alla sorgente luminosa unica di una "lanterna magica" che è in grado di proiettare infinite immagini diverse. Questa unità si manifesta nelle relazioni complesse che i gradi di oggettivazione hanno tra loro. Vi sono qui differenze grandissime - non vi può essere una distanza maggiore tra una pietra e un essere vivente, ma anche tra un minuscolo insetto ed un grande animale. Eppure questi strati dell'essere sono integrati tra loro come un grande organismo, l'uno si sviluppa dall'altro secondo un processo che avanza dal basso verso l'alto - da livelli in cui la volontà non è affatto visibile a livelli in cui vi è un incremento di visibilità finché questo incremento raggiunge il suo massimo nell'uomo. 168 L'uomo come centro e vertice del creato è un'idea antica che riceve non solo in Schopenhauer ma nell'intero atteggiamento intellettuale romantico una nuova forma, specificamente legata al problema di una stratificazione dinamica della natura. Mondo vegetale e mondo animale non fanno altro che preparare il mondo umano, rispetto al quale, quando esso è sorto, sono come la penombra crescente che si allontana dalla luce, una sorta di eco del mondo umano. L'immagine sonora dell'eco e dunque dell'uomo stesso come un suono suggerisce a Schopenhauer un'altra e un poco più complessa metafora musicale la cui formulazione, a dire il vero, è un poco equivoca, ma il cui senso è piuttosto chiaro: l'animale sta all'uomo come la quinta alla tonica, la pianta come la terza alla tonica. La natura inorganica infine può essere intesa come ottava inferiore, ma è importante, secondo le intenzioni illustrative di Schopenhauer, non considerare il fatto che si tratti della stessa tonica ripetuta all'ottava basa, quanto che essa sia la nota più grave dell'accordo che ne risulta. L'intero mondo naturale verrebbe così rappresentato dalla triade fondamentale, e quindi assimilato alla consonanza più perfetta, alla più perfetta armonia, nella quale ciascuna parte non solo coesiste con l'altra, ma è coerisce ad essa in un incastro compiuto. Ecco un'immagine ben diversa da quelle relative alla conflittualità della natura sulle quali ci siamo soffermati in precedenza. Parole come armonia, accordo, coerenza ecc. rimandano tutte alla idea di una finalità interna, ad una "disposizione armonica delle parti in un organismo unico", mentre la finalità esterna è la corrispondenza, ad esempio, tra le caratteristiche dell'ambiente e le caratteristiche dell'animale o della pianta che vive in quell'ambiente, corrispondenza che offre ovviamente un "sostegno ed un aiuto esteriore" per la loro sopravvivenza. Anche la finalità esterna è peraltro da riportare all'unità della volontà ed alla sua unitarietà in quanto contribuisce a realizzare i fini interni. Questa presenza di un punto di vista teleologico assolve 169 una parte tutt'altro che marginale nella concezione della natura di Schopenhauer ed in particolare, come del resto abbiamo già notato in più di una occasione, esso fa tutt'uno con un atteggiamento nei confronti della realtà tale per cui essa ci si mostra come ovunque ricca di senso. Lo stesso stile di Schopenhauer si piega di continuo a mostrare questa ricchezza. Ovunque si propone una sorta di ipertrofia del senso che peraltro è anch'essa tipica della cultura tedesca dell'epoca, basti pensare a Goethe e persino a Hegel. Ed ogni senso diventa coerente con l'altro, sulla sua base si possono stabilire analogie e differenze, all'interno di una totalità che risuona armoniosamente come triade tonale. Di qui il grande significato che assume l'analogia con la consonanza più grande: ecco che ora guardiamo alla natura come traboccante di sensi che riconfluiscono in un immenso accordo musicale, in una immagine di coesione e di coerenza mondo. Eppure questo mondo vaga senza metà e senza scopo nell'universo infinito; la coerenza di un grado di oggettivazione della volontà è in ogni caso istituita su un divoramento reciproco, anzi sull'autodivoramento. La volontà è affamata (M., p. 193). Questa fame della volontà è probabilmente il centro del Capitolo ventottesimo dei Supplementi che possiamo senz'altro associare alle conclusioni del secondo libro del Mondo. Tutti gli esseri viventi, si dice qui del tutto brutalmente, si mangiano l'un l'altro. A questo divoramento universale Schopenhauer dà anche una figura particolarmente crudele in almeno due punti, ad esempio, là dove racconta dello sterminato campo di scheletri di tartarughe di mare osservato nell'isola di Giava approdate in quei luoghi per deporre le loro uova e che vengono divorate da cani selvatici; oppure quando viene riferito per intero, in una nota, il racconto raccolto in un giornale d'epoca, dello scoiattolo che dopo aver avvertito la presenza di un serpente viene come affascinato dal suo sguardo e finisce nelle sue fauci accettando una sorta di inevitabile destino. Questi racconti, nonostante la loro forma aneddotica, non 170 debbono affatto essere sottovalutati: in essi certamente c'è poca teoria, eppure sanno rendere in forma molto viva l'atmosfera che circonda il tema della volontà. Questo tema è assai ampio, e tuttavia non è da confondere, osserva Schopenhauer, con l'idea di un' "anima del mondo"e neppure con quella di una concezione panteistica nello stile di Spinoza, che egli vede invece rinascere nell'idealismo a lui contemporaneo e in particolare nella filosofia hegeliana a cui si fa una fugace ma significativa allusione, quando si accenna a quella "sbrigativa conclusione con la quale si attribuisce al mondo il titolo di dio oppure lo si spiega, con quella stupidità che solo la patria tedesca può vantare e sa gustare, come 'l'idea nel suo essere altro'" (Suppl., p. 1203). Quest'ultima frase è tratta dall'Enciclopedia hegeliana (parte II, § 247) ed è riferita in Hegel proprio alla natura - è la natura "l'idea nel suo essere altro": essa è dunque in ogni caso l'estrinsecazione di un principio assoluto, un principio che ha i tratti dello Spirito, e dunque di ciò che possiede al massimo grado pienezza razionale e ricchezza di senso, tratti che la natura stessa non può non condividere del momento che non è altro dall'idea, ma appunto l'idea nel suo essere altro. Contro di ciò, Schopenhauer fa valere piuttosto la demonicità della natura, rammentando il detto aristotelico secondo il quale la natura dovrebbe essere detta non divina, ma demoniaca. (Suppl., p. 1195 e nota p. 1203). Questa visione della natura propone certamente un modo di concepire e di vivere la nostra stessa esistenza, dal momento che l'esistenza umana non fa che riprendere il modo d'essere della natura. La volontà tende alla propria realizzazione, e ciò significa senz'altro che essa è volontà di vivere. Per questo, nel caso della natura organica, essa è dominata dalla conservazione della specie - ogni vicenda individuale è subordinata allo scopo di questa conservazione. Tuttavia nessuna precisa risposta potremmo dare alla domanda sul perché la specie debba essere 171 conservata. L'intero movimento della volontà è dunque un movimento incessante e insensato e noi, come ogni essere vivente, ne siamo coinvolti, non già perch�� siamo attratti da scopi ed obbiettivi che sono di fronte a noi, ma perché siamo spinti da una volontà cieca e insaziabile - spinti da dietro, precisa Schopenhauer, innestando in questo camminare spinti da dietro un riferimento al comico-buffonesco, trattandosi di un portamento assai diverso da quello che ci raffigureremmo come degno di noi (p. 1208). A questo "pessimismo" ormai compiutamente formulato si associa un'altra fantasia animale: la descrizione della vita della talpa. Questo lavoratore instancabile che scava per l'intero tempo della sua vita, questo animale cieco, che ha occhi embrionali solo per avvertire la presenza della luce e per rifuggire da essa, diventa nella sua vita "così faticosa e priva di gioie" una sorta di simbolo del "triste cammino" dell'esistenza stessa. E con queste storie di animali si annuncia indirettamente l'altro grande tema che, insieme a quello di pessimismo, troverà teorizzazione nel libro quarto del mondo. A quale scopo queste storie di animali sono riferite nei loro dettagli più crudeli? In effetti si descrivono i cani che, unendo i loro sforzi, rovesciano sul dorso le grandi tartarughe e dopo averle così ridotte all'impotenza strappano le scaglie più molli del ventre, divorandole 172 vive (ivi, p. 1202). Non meno dettagliata e impressionante è la descrizione della fascinazione dello scoiattolo che finisce nelle fauci del serpente. A quale scopo - se non a quello di suscitare quella compassione, che dal caso singolo è destinata ad investire la totalità dell'esistente? Gettiamo così un primo sguardo sull'origine di questi temi conclusivi. 173 III Introduzione alla metafisica del bello 1991 174 Questo testo è tratto da lezioni sul Terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione del corso di Filosofia Teoretica intitolato "Filosofia dell'arte e metafisica dei costumi in Schopenhauer" tenuto all'Università degli Studi di Milano nel 1991. Le indicazioni di lettura qui proposte si limitano alla "parte generale" del terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione, mentre non vengono prese in esame le considerazioni particolari sulle arti. Sulla musica posso rimandare al mio libro Teoria del sogno e dramma musicale. La metafisica della musica di Schopenhauer (Milano, 1997), che ora puoi trovare sia nella presente edizione a stampa presso Lulu.com sia in versione digitale all'Archivio on line presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Le traduzioni italiane citate sono le seguenti: La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, I ediz. 1813, a cura di A. Vigorelli, Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano 1990 (Abbrev.: Quad_1), II ediz. 1847, a cura di Eva Amendola Kuhn, Boringhieri, Torino 1959 (Abbrev.: Quad_2); Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. di N. Palanga, Mursia, Milano 1969 (Abbrev.: M.); Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, in Il Mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, Mondadori, Milano, 1989 (Abbrev.: Suppl.). Taccuino italiano, a cura di A. Landolfi, Passigli, Firenze 2000 (Abbrev.: Taccuino). Lezioni berlinesi (1820), parte terza da Theorie des gesammten Vorstellens, Denkens und Erkennens - Philosophische Vorlesungen, Teil III, aus dem handschriftlichen Nachlass, hrsg. von Volker Spierling, München, 1986 (Abbrev.: Lez. III). Inoltre: E. Kant, Critica del giudizio, trad. it. Gargiulo-Verra, Bari, 1960 (Abbrev.: CdG.). Nel caso che il luogo della citazione sia del tutto chiaro dal testo, viene indicato solo il numero di pagina. Nell'impiego delle traduzioni ci siamo riservati la possibilità di introdurre le modifiche ritenute necessarie senza esplicita segnalazione. Le figure inserite nel testo sono tratte da Description d'Egypte, ou Recueil des observations qui ont été faites en Egypte pendant l'expedition de l'armée française, publié par ordre du Gouvernement, T. XII, Paris 1817 175 INDICE 1. La dizione "metafisica del bello" - Osservazioni sull'articolazione complessiva del Mondo: approssimazione alla volonta e allontanamento dalla volontà - Riemergere del problema della tensione tra soggettività conoscitiva e soggettività volitiva. 2. Kant e i giudizi di gusto - Teoria della contemplazione disinteressata e breve illustrazione del suo senso - La critica del piacere "gastronomico" - Valutazioni sulla musica - L'importanza dei valori formali nel giudizio di gusto. 3. Significato del disinteresse in Schopenhauer - Il vedere le cose come segni - La visione disinteressata e la ripresa della tematica platonica delle idee. 4. Il silenzio della volontà - Tematica dell'estraneazione - Poeticità della luna. 5. Componenti tipico-ideali nella ricezione estetica - Tutto è bello fino a quando non ci riguarda - La fruizione estetica come atto conoscitivo. 6. Concetti e idee. 7. Nuova inclinazione del termine "intuizione" - Non lo so, ma lo sento - Le idee, la storia e la Commedia dell'arte - Storia e natura - Il chiaro specchio - Come è bella natura! 176 8. La volontà sospesa ed il piacere estetico - Lato soggettivo e lato oggettivo del piacere estetico - L'eccitante - La solitaria contemplazione della bellezza della natura - La bellezza di un fiore e la bellezza umana. 9. Il sublime - L'impostazione kantiana - Schopenhauer: il ricordo della volontà - I gradi del sublime - Esempi - Differenze rispetto a Kant. 177 1. La dizione "metafisica del bello" - Osservazioni sull'articolazione complessiva del Mondo: approssimazione alla volontà e allontanamento dalla volontà - Riemergere del problema della tensione tra soggettività conoscitiva e soggettività volitiva. L'espressione di Metafisica del bello con la quale Schopenhauer intitola le proprie Lezioni berlinesi sul terzo libro, allude ad una considerazione dell'arte dal punto di vista del sistema metafisico piuttosto che da quello di una estetica. Quest'ultimo termine si andava proprio nel primo ventennio del secolo affermando per indicare una scienza filosofica che aveva per oggetto il bello in generale e l'arte in quanto produttiva di opere belle, ed essa aveva tra i propri fini importanti quello di istituirne il concetto in modo da apprestare dei criteri valutazione capaci di farci contraddistinguere il bello dal brutto, l'opera d'arte valida da quella che si pretende soltanto tale. Benché il percorso di Schopenhauer sia disseminato di valutazioni estetiche - che manifestano predilezioni preferenze di gusto, pregiudizi - tuttavia la sua non è prevalentemente una estetica nel senso or ora indicato proprio per il fatto che non ha di mira propriamente lo stabilire dei criteri di valutazione. Anche in questo caso, come nelle problematiche etiche nel quarto libro, vi è una sorta di punto di partenza empirico più o meno tacito: in generale vi sono opere che noi giudichiamo belle, così come giudichiamo talvolta belle le opere della natura; e vogliamo indagare sul fondamento di questi giudizi, sulle radici dell'operare artistico, della produzione e della ricezione dell'arte. Questa indagine, e le domande in cui essa è destinata a sfaccettarsi, avviene nell'orizzonte di idee generali già proposte nel libro secondo dove la tematica della volontà come principio metafisico è stata ormai pienamente delineata. Le affermazioni sulla volontà come essenza non solo dell'uomo ma di ogni essere animato e inanimato, come nucleo in- 178 terno di ogni rappresentazione, si traduce in un giudizio sull'esistenza come inquietudine perenne. Il problema generale che Schopenhauer persegue ora è quello di illustrare i modi possibili di superamento di questa inquietudine, sottraendosi all'incessante impulso e movimento della volontà - un problema che prosegue e culmina nel quarto libro. Tenendo conto di ciò la struttura dell'opera è parzialmente ingannatrice. Essa alterna la rappresentazione alla volontà nel primo e secondo libro, e così anche rispettivamente nel terzo e nel quarto, quasi a voler sottolineare la ripresa dell'argomento ad un nuovo grado di approfondimento. Ma la cesura tra i primi due libri e i due ultimi può essere anche interpretata in altro modo: i primi due libri formano una unità in quanto presentano un cammino che conduce alla posizione della volontà, una sorta di progressivo impossessamento di questo tema, della sua compiuta elucidazione. Certo, si prendono le mosse dalla problematica della conoscenza di cui vengono messe in evidenza funzioni e strutture, ma possiamo concepire questo primo avviamento epistemologico anche come un modo di mostrare la necessità di passare dal punto di vista del sapere scientifico e quello del sapere filosofico che consente una reinterpretazione della nozione di legge e di forza naturale introducendo direttamente al tema della volontà. Si tratta dunque, nei primi due libri, di un cammino di approssimazione alla volontà. Il terzo e quarto libro invece possono essere considerati come un processo di allontanamento dalla volontà - come la descrizione di un processo di liberazione e di riscatto dalle negatività introdotte dalla volontà stessa. Detto in altro modo: i primi due libri sono una sorta di dimostrazione dell'integrazione dell'uomo nella natura, mentre i due ultimi presentano una tensione interna rivolta alla liberazione dell'uomo da questa integrazione, dando voce ad una sorta di intensa aspirazione alla violazione della naturalità dell'uomo. Questo modo di considerare l'impianto del volume, in 179 luogo di mostrare una pura reiterazione dei temi suggerendo l'idea di un approfondimento, mette piuttosto in evidenza una sorta di contrasto di fondo che rappresenta il senso effettivo dell'opera. Si tratta di un contrasto che io credo si possa leggere addirittura nel titolo. Esso parla del mondo come volontà e rappresentazione, e si potrebbe commentare dicendo che la rappresentazione sta alla volontà come la superficie di una cosa al suo interno, come il guscio al suo gheriglio. Il mondo è ad un tempo volontà e rappresentazione - la congiunzione "e" è appunto una congiunzione: l'una cosa e l'altra, insieme, nella loro complementarità necessaria. Tutto ciò è certamente giusto. Ma non c'è dubbio che questi stessi termini possono anche contraddistinguere un contrasto: mentre il termine della volontà allude alla prassi, all'azione, al movimento, ed a ciò che sta alle spalle delle nostre azioni, le passioni, i sentimenti, le angoscie, le inquietudine da cui le nostre azioni sono pervase e da cui sono motivate, il termine rappresentare (ed ancor più il tedesco vorstellen), allude invece al quieto ed inattivo porsi davanti a qualche cosa, ed eventualmente alla conoscenza che si trae da questo quieto contemplare. La parola rappresentazione non ha dunque solo il senso del fenomeno, della semplice apparenza. Essa può avere anche un'altra sfumatura di senso alludendo ad un atteggiamento nei confronti delle stesse apparenze che mira in certo senso al di là di esse, in quanto esse intrattengono tra loro e con noi stessi dei rapporti mediati dalla necessità e dai bisogni. La parola "conoscenza" muta poi in senso corrispondente: essa non deve più essere vincolata al principio di ragione sufficiente, e quindi considerata come un'attività di ricerca di nessi e legami causali, ma al contrario collegata piuttosto ad un'apprensione delle cose indipendentemente da questi nessi. In questo afferramento ci si disimpegna tendenzialmente dai vincoli della volontà, cosicché, in un senso interamente nuovo, potremmo di- 180 re che volontà e rappresentazione indicano un contrasto. Gli ultimi due libri potrebbero allora essere caratterizzati come un percorso che conduce la rappresentazione (la conoscenza) a prevalere sulla volontà. Dobbiamo infatti riscoprire la differenza, posta fin dall'inizio, tra soggetto conoscitivo e soggetto della volontà: negli ultimi due libri è proprio la soggettività conoscitiva a prendere il sopravvento, a sottrarsi in quanto tale al dominio della volontà ed a fondare in generale la possibilità della sua negazione. 2. Kant e i giudizi di gusto - Teoria della contemplazione disinteressata e breve illustrazione del suo senso. - La critica del piacere "gastronomico" - Valutazioni sulla musica - L'importanza dei valori formali nel giudizio di gusto. Tutto ciò ciò potrà chiarirsi meglio procedendo di passo in passo. Il nostro punto di partenza - lo abbiamo già detto - può ben essere il dato di fatto che noi enunciamo apprezzamenti intorno alla bellezza dei prodotti della natura o dell'arte. Questi apprezzamenti Kant li chiamava giudizi di gusto. È opportuno rammentare il punto essenziale della discussione che Kant sviluppa sui giudizi di gusto nella sua Critica del giudizio perché questa discussione rappresenta la premessa generica della problematica di Schopenhauer. Kant sottolineava intanto che tali giudizi, che possiamo riassumere nella forma semplice "la tal cosa è bella", si riferiscono 181 anzitutto ad oggetti della percezione, a complessi cromatici, figurali, visivi o uditivi. Proprio tenendo conto di ciò sorge subito una difficoltà: dire che una cosa è bella non significa determinare su di essa una proprietà che spetterebbe ad essa allo stesso titolo di ogni altra, come il suo colore o la sua forma? Sembrerebbe che ci potremmo liberare da questa difficoltà se riteniamo che il giudizio non sia tanto volto alla oggettività come tale quanto piuttosto ad uno stato della soggettività che percepisce l'oggetto, cosicché il giudizio "la tal cosa è bella" può essere riformulato dicendo "la tal cosa ci piace" ed in questa riformulazione enunciamo forse il suo significato autentico. Esso riguarda uno stato della soggettività, un sentimento di piacere ed è forse questo sentimento di piacere ciò a cui il giudizio "la tal cosa è bella" sembra dare espressione. Ma ciò non basta ancora. Molte cose ci piacciono, ma non per questo le chiameremmo belle. Ad esempio, ci piace il vino, ma non per questo diremmo che il vino è bello. Il problema di Kant è dunque quello di proporre una caratterizzazione dell'esperienza entro cui diventa legittimo il parlare della bellezza, e l'obbiettivo critico prioritario consisterà essenzialmente nel discriminare questa esperienza da ogni sentimento del piacere "gastronomicamente" inteso, più in generale da ogni sentimento di piacere connesso all'utilità. Saremo dunque in presenza di un giudizio "estetico" autentico quando diciamo "ci piace" in rapporto ad un oggetto prescindendo da qualsiasi scopo che potremmo realizzare mediante esso, quando dunque lo contempliamo in modo interamente disinteressato. Si noti che il tema della contemplazione disinteressata così come lo pone Kant può essere connesso al carattere fittizio della cosa contemplata. Ad esempio: di fronte ad un edificio, posso dire "mi piace" - ma questo piacere sta a fondamento di un autentico giudizio di gusto solo se posso assumere che l'edificio sia illusorio senza che il piacere venga meno. La soppressione dell'esistente toglie di mezzo qualunque riferimento anche im- 182 plicito ed inconsapevole all'utilità che potrebbe avere per me l'edificio come mia possibile abitazione. Questo tema kantiano del disinteresse riferito alla problematica dell'esperienza estetica ha indubbiamente una sua plausibilità: possiamo addurre buone ragioni per confermarlo almeno ad uno stadio iniziale di sviluppo e di approfondimento del problema. L'idea di un impiego "pratico" di un dipinto ci può apparire subito come qualcosa di simile all'acquisto di libri con il dorso rilegato di un determinato colore allo scopo di completare l'arredamento. La questione non è tuttavia così semplice, forse non lo è nemmeno l'impostazione della questione. Io credo, ad esempio, si potrebbe dubitare che abbia realmente senso il parlare di un' "esperienza estetica" specificamente caratterizzata come tale e chiaramente delimitabile; e non appena si cercasse di mettere a fuoco il tema del disinteresse, si rivelerebbero subito modi diversi di intenderlo, vie diverse di dare ad esso un effettivo sviluppo, approdando naturalmente a conseguenze assai più discutibili e meno ovvie di quello del nostro esempio di libri acquistati a metri oppure di un dipinto utilizzato per nascondere una porta o un buco nella parete. In Kant questa problematicità si manifesta nel fatto che la preoccupazione di non ricadere nel piacere "gastronomico" implicava una tendenziale svalutazione proprio della componente sensibile. In ciò si fa certo sentire l'atteggiamento intellettuale del Kant epistemologo: in sede epistemologica, Kant è naturalmente anzitutto il grande teorico delle forme: l'elemento sensibile è la pura componente materiale che è destinata ad operare il riempimento delle forme e che attende del resto da esse la propria organizzazione interna. Questo atteggiamento è presente anche nel modo in cui Kant interpreta il tema del disinteresse: questo potrà essere tanto maggiore quanto più gli elementi formali prevalgono su quelli sensibili: cosicché egli apprezzerà ad esempio nella pittura soprattutto il disegno, piuttosto che il gioco dei colori, dal momento che il disegno ha una capacità 183 strutturante fungendo da schema e da supporto schematico ai colori. Questi invece formano di per se stessi una massa caotica, e colpiscono tanto vivacemente la sensibilità da rendere il piacere che da essi deriva assai simile ad un piacere "gastronomico". Quasi interamente "gastronomica" è poi per Kant la musica, proprio per il fatto che i suoni sono materiale bruto che colpiscono duramente i sensi e di fronte ai quali è ben difficile quella condizione di distacco che caratterizza il piacere disinteressato. È noto del resto che Kant amava assai poco la musica, anche se il giudizio corrente secondo cui riteneva fondamentalmente un'arte per disturbare i vicini di casa e per impedire le quiete meditazioni dei filosofi è forse eccessivo. La frase spesso citata della Critica del giudizio (§ 53, trad. it. p. 192) secondo cui: "alla musica, bisogna rimproverare una certa mancanza di urbanità, soprattutto per la proprietà dei suoi strumenti, di spandere il proprio influsso al di là del richiesto (al vicinato), per così dire imponendosi e violando la libertà di quanti non partecipano al trattenimento musicale" può essere ricondotta ad un episodio biografico: Kant abitava vicino ad una prigione i cui occupanti spesso elevavano "canti spirituali" che egli giudicava "farisaici" e da cui soprattutto veniva molto disturbato. In tal caso quella formulazione, nonostantesia espressa in termini generali, perde di pregnanza. Più importante di quella dichiarazione resta comunque in effetti l'impostazione complessiva della sua tematica che è formulata senza possibilità di equivoco nello stesso § 53 della Critica del giudizio: Kant è consapevole di quanto siano importanti gli elementi formali e strutturali (quindi in generale "matematici") nel risultato musicale al punto da affermare che "solo da questa forma matematica, sebbene non sia rappresentata da concetti detemrinati, dipende il piacere che congiunge la semplice riflessione su tal equantità di sensazioni simultanee e successive con il loro gioco, come una condizione universalmente valida della sua bellezza, e solo per questa forma il gusto può at- 184 tribuirsi qualche diritto anticipato aul giudizio di ognuno" (pp. 190-191) Ma non meno netta è l'affermazione che, per quanto riguarda la ricezione del brano musicale, "certamente la matematica non ha la benché minima parte nell'attrattiva e nella commozine dell'anima prodotte dalla musica; è soltanto la condizione indispensabile (conditio sine qua non) di quella proporzione delle impressioni, nella loro unione e vicenda, che permette di abbracciarle tutte insieme impedendo che si distruggano reciprocamente..." (p. 191) cosicché deve essere ribadito che l'elemento determinante è proprio l'elemento sensuale, con la conseguenza che: "la musica avrà l'ultimo posto tra le arti belle, perché essa non fa che giocare con le sensazioni (nello stesso modo che forse è la prima quando le arti si valutino dal punto di vista del piacere)" (ivi). Va infine notato che ciò che Kant dice sul disinteresse del giudizio di gusto riguarda unicamente il giudizio stesso e l'esperienza che trova espressione nel giudizio, ma non dice esplicitamente nulla intorno alla bellezza, ovvero a ciò che dà origine al piacere estetico. Una teoria del bello, sulla quale non è qui il caso di soffermarsi, è in Kant affidata piuttosto all'idea dell'opera d'arte come di una totalità in cui domina una compiuta armonia delle parti tra loro. Ciò che ci reca piacere e di cui possiamo compiacerci "esteticamente", ad esempio nel caso di un dipinto, è l'ordine interno che domina nella configurazione grafica e cromatica, è l'equilibrio che mostra come il gioco dell'immaginazione sia libero, e tuttavia soggiacente a regole. Anche in questa concezione sono i valori formali piuttosto che quelli contenutistici che ricevono una particolare accentuazione, in coerenza con l'atteggiamento filosofico complessivo di Kant. 185 3. Significato del disinteresse in Schopenhauer - Il vedere le cose come segni - La visione disinteressata e la ripresa della tematica platonica delle idee. Abbiamo notato che la posizione kantiana può valere come una premessa per quella di Schopenhauer, ma anche come una premessa generica. Ciò significa che essa può ricevere specificazioni assai diverse, e rientrare, con sensi diversi, in quadri filosofici molto differenti. In Schopenhauer il tema della contemplazione disinteressata rimanda, da un lato, ad un approfondimento della situazione descrittiva dell'esperienza estetica, dall'altro può essere ricollegato alla problematica metafisica in una forma estremamente densa di significato, e per entrambi gli aspetti l'impostazione kantiana viene messa da parte sia dal punto di vista del quadro di insieme sia in rapporto alle conseguenze di dettaglio. Per comprendere in che senso si parli in Schopenhauer di disinteresse di fronte all'opera dell'arte o della natura, dobbiamo anzitutto rammentarci della condizione normale della nostra esistenza quotidiana: in essa noi siamo sempre sotto la presa di qualche bisogno, di un qualche desiderio che deve essere soddisfatto e quindi tutte le nostre azioni e le percezioni che sono in esse implicate sono sotto la presa di interessi pratici nel senso ampio del termine: cosicché noi non vediamo propriamente cose, ma mezzi in vista di una utilizzazione. Anche i processi conoscitivi in generale, quelli quotidiani che si effettuano in vista di scopi e di compiti immediati, così come i processi conoscitivi di più ampio respiro che confluiscono nel corpo delle scienze in continuo ampliamento, possono essere considerati come subordinati, attraverso la mediazione delle tecnologie applicative, ad interessi pratici. Impiegando la terminologia di Schopenhauer potremmo dire che la conoscenza è subordinata alla volontà, per quanto possa ed anzi debba prescindere da essa nei suoi singoli passi. 186 Dovremmo tuttavia precisare: si tratta della conoscenza nel senso usuale del termine, quella conoscenza che è stata indagata nel primo e nel secondo libro del Mondo, come una conoscenza che poggia sul principio di ragione sufficiente. Come tale essa mira soprattutto a conoscere gli oggetti, e la conoscenza degli oggetti significa soprattutto stabilire tra essi delle relazioni. Per questo possiamo istituire proposizioni che hanno forma "se... allora", e su questa base possiamo formulare quelle previsioni che rengono possibile l'applicazione delle conoscenze acquisite. È questa conoscenza eminentemente relazionale che possiamo considerare "subordinata alla volontà" (M., p. 215). "La conoscenza sorge sulla volontà come la testa sul tronco" (ivi). A maggior ragione ciò vale per l'esperienza quotidiana del reale: percepire significa soprattutto trovarci sotto il pungolo di sensazioni che ci stimolano ad avvicinarci a qualcosa, a distoglierci da essa, a ricercarla, desiderarla, respingerla. (Il tema heideggeriano dell'utilizzabilità ha le sue origini proprio in Schopenhauer). La nostra soggettività particolare, con i suoi desideri e passioni particolari viene così continuamente sollecitata e in questo modo si tiene abbarbicata alla realtà. Il vedere non è dunque solo un vedere, e l'oggetto visto non è l'oggetto semplicemente colto in se stesso. Il vedere non è un vedere di oggetti, ma di segni per oggetti che a loro volta ci appariranno come segni per altri oggetti in una catena dirimandi che costituiscono il concetto stesso della realtà. Aguzzo lo sguardo verso un albero frondoso per vedere baluginare un colore che mi annuncia un frutto - il rosso tra le foglie annuncia la mela, me ne segnala la presenza; esamino il tronco e la sua corteccia per rendermi conto se mi sarà possibile arrampicarmi su di esso: la ruvidità della corteccia e la forma del tronco sono per me dei segni che mi dànno via libera. Le proprietà visive e tattili della mela segnalano la sua commestibilità che io metto alla prova addentandola. Su questo sfondo si comincia a comprendere quale pre- 187 gnanza possa assumere il parlare di disinteresse ovvero di contemplazione (Kontemplation) pura e disinteressata. Con questo termine si tocca indubbiamente un problema di fenomenologia dell'esperienza estetica. Nessuno guarderebbe così un albero dipinto. E naturalmente anzitutto perché esso è dipinto. Osserva Schopenhauer in un appunto del suo Taccuino italiano: "L'arte del pittore, allorché egli riproduce perfettamente l'apparenza della realtà, consiste fondamentalmente in questo, che egli separa ciò che nel vedere è sensazione, ovvero il puro e semplice effetto immediato, l'affezione della retina, dalla sua causa, vale a dire dagli oggetti che ne sono causa e che sono riconosciuti dalla ragione; in tal caso egli coglie soltanto quel puro effetto staccato da tutto il resto riuscendo così a riprodurne un altro in tutto simile, originato però da tutt'altra causa, cioè dai colori usati" (Taccuino, oss. 85) Il fatto che l'albero sia dipinto significa soprattutto che esso è stato sottratto alla catena causale che gli è propria, ed in questo senso esso è un'oggettività fittizia. Ma questa condizione può agevolare una contemplazione disinteressata, senza essere una sua condizione necessaria. Anche di fronte all'albero reale con i suoi frutti, potrei assumere un simile atteggiamento, che è del resto l'atteggiamento del pittore nel momento in cui volge il suo sguardo all'albero come tema di un dipinto. Guardiamo dunque in questo modo l'albero dipinto oppure l'albero reale - e ciò significa: sospendendo ogni interesse che provenga da noi stessi e dalla realtà nella quale siamo quotidianamente immersi. Allora per la prima volta c'è di fronte a noi l'albero stesso, nella sua pura oggettività, libera da prensioni che derivano dalla soggettività e dalla rete di interessi che da essa provengono. La soggettività individuale si ritrae ai margini, mentre si fa avanti una soggettività che si può forse definire transindividuale, quella soggettività che per Schopenhauer è soprattutto la soggettività conoscitiva, il soggetto del conoscere nell'accezione prima delineata. Un passaggio analogo avviene 188 anche sul versante dell'oggetto. L'albero che ora semplicemente c'è ha le sue proprietà che lo caratterizzano in modo determinato: eppure esse non vengono considerate come proprietà individuanti che lo determinano come albero reale che si trova qui ed ora nel mio giardino o cinquecento anni fa nel giardino del pittore che lo ha dipinto, come se si dovessero ristabilire i nessi che sono stati tolti. Esso stesso viene invece considerato in modo transindividuale, come una possibilità di presentarsi della specie albero, come eidos o idea platonica. Nell'arte e nell'apprensione del bello in genere non si presenta mai l'individualità in quanto individualità che rimanda a nessi reali; persino nel caso dei ritratti, che hanno certamente anche il compito immediato di attestare le fattezze di una persona, in quanto opere dell'arte debbono essere considerati soprattutto nel significato che riescono a trasmettere, e tale significato deve superare il riferimento empirico-reale per richiamare invece una tipicità nella caratterizzazione della persona rappresentata. Vi è qui dunque una componente che potremmo chiamare eidetica, attingendo al linguaggio platonico (e fenomenologico). 189 Questo accenno ad una possibile fenomenologia dell'apprensione estetica - di cui peraltro non intendo qui discutere la validità in modo approfondito - rappresenta, io credo, l'unica giustificazione plausibile della ripresa esplicita della tematica delle idee platoniche come una tematica indispensabile alla filosofia dell'arte che sta per essere qui abbozzata. Tuttavia questa tematica, per quanto presente un po' ovunque, non è affatto elaborata a fondo e i suoi aspetti fenomenologici non sono in grado di fornire un effettivo sostegno al modo in cui Schopenhauer la propone e la sviluppa. In effetti la componente eidetica viene subito immessa in una corrente di pensieri che va oltre la pura dimensione fenomenologica per ricongiungersi ai capisaldi della metafisica schopenhaueriana. Rispetto a Kant vi sono almeno due passaggi che contraddistinguono una netta differenza: il tema del disinteresse viene fortemente riportato ad una visione oggettivistica; nello stesso tempo, la componente eidetico-ideale viene ricondotta ad una nozione di "idea platonica" concepita, come era già stato teorizzato in sede di filosofia della natura, nel quadro del tema dei gradi di oggettivazione della volontà, e dunque come una funzione che appartiene agli ingranaggi metafisici della produzione del reale. 4. Il silenzio della volontà - Tematica dell'estraneazione - Poeticità della luna. Il parlare di visione oggettivistica è certamente giustificato dal fatto che la visione disinteressata è proprio quella che taglia tutti i nodi che con la soggettività pratico-passionale, che è poi la soggettività reale e concreta, l'io stesso nella sua individualità empirica. Ciò che caratterizza l'esperienza estetica è il silenzio della volontà (das Schweigen des Willen - Suppl., Cap. XXX, p. 1223). Ma questo silenzio è anche subito e necessariamente afferramento delle cose nel loro puro essere obbiettivo: le cose ci 190 appaiono finalmente in ciò che esse sono in se stesse, indipendentemente dai legami che intercorrono tra loro e con noi stessi. Questo punto va particolarmente sottolineato in particolare perché è opinione diffusa che l'estetica romantica nel suo insieme sia una estetica "soggettivistica" e "sentimentalistica", come se scopo dell'opera fosse quello di eccitare le passioni: in Schopenhauer, la cui filosofia dell'arte deve essere certamente ambientata nell'orizzonte del romanticismo, abbiamo un esempio di come le cose siano assai più complesse, assai meno lineari e scontate. In Schopenhauer l'enfasi cade infatti sul versante opposto, sulla liberazione dall'elemento passionale, che conduce ad una radicale obbiettivazione. Credo che sia anche possibile parlare un effetto estraniante, usando il termine di estraneazione per indicare l'allontanamento e il distacco, nella visione dell'oggetto, delle tensioni dell'io. Ed in realtà gli esempi recati da Schopenhauer (Suppl., Cap. XXX) sono esempi che mostrano come la poetizzazione del reale cominci proprio dall'innesto di procedure di estraneazione. Suggerisce Schopenhauer: pensiamo ad un viaggiatore che giunge in una città che non conosce, ad uno straniero che giunge nella nostra città: essa ha per lui un senso interamente diverso che essa ha per noi, un senso che ha qualcosa di intrinsecamente gradevole, proprio per il fatto che, mentre noi siamo invischiati in essa, tra i suoi abitanti che hanno con noi determinate relazioni, tra le sue strade che ci portano sempre da qualche parte ben nota in funzione del conseguimento di determinati obbiettivi, lo straniero può invece guardare la città in maniera del tutto libera da questi legami, "in modo puramente obbiettivo", e quindi già tendenzialmente aperto alla rappresentazione poetica o pittorica. La capacità di realizzare un effetto estraniante in funzione di incremento di un'obbiettivazione che favorisce la ricezione estetica va attribuita anche a procedure messe spesso in opera dall'arte drammatica, quando ad esempio si trasferisce l'azione in 191 tempi o in luoghi molto lontani. A questo effetto estraniante è dovuta anche l'aura che circonda talvolta i ricordi personali di tempi molto lontani - tanto lontani da non poter più farci provare alcun turbamento. "È infine questa beatitudine della contemplazione esente da volontà che diffonde un incanto magico su tutte le cose passate e lontane, e che in virtù di un'illusione che facciamo a noi stessi, ce le fa vedere in una luce così bella. Quando ci ricordiamo dei giorni di un tempo trascorsi in qualche luogo lontano, la nostra immaginazione rievoca soltanto gli oggetti, ma non il soggetto della volontà, il quale, allora come oggi, portava la croce delle sue insanabili miserie; queste vengono dimenticate, perché d'allora in poi mille e mille altre vennero a prenderne il posto. L'intuizione oggettiva opera sul ricordo nello stesso modo con il quale opererebbe nel presente se fossimo capaci proporci come liberi dalla volontà. Per questo, quando un dolore ci angustia più dell'ordinario, il ricordo improvviso delle scene passate o lontane ci si presenta davanti agli occhi come l'immagine di un paradiso perduto. Di queste scene la fantasia rievoca soltanto la parte oggettiva, ma nulla della parte individuale e soggettiva; ci immaginiamo allora che la parte oggettiva ci si fosse presentata così pura e così incontaminata da relazioni con la volontà, nello stesso modo in cui di tale parte oggettiva ci si presenta oggi l'immagine, nonostante il fatto che la relazione di quegli oggetti con il nostro volere non ci creasse in quel tempo meno tormenti di ora.... Non resta più che il mondo come rappresentazione; il mondo come volontà è svanito" (M., § 38, pp. 237-8). A tutto ciò Schopenhauer vuole aggiungere un singolare e significativo riferimento autobiografico che ci consente di sottolineare ancor più il tema delle procedure di estraneazione come fondamento del piacere estetico. Quando ero giovane, egli racconta, in periodi di particolare affaticamento, mi sentivo sollevato dal considerare me stesso e le mie azioni come se le vedessi dal di fuori, come se fossero azioni di un altro. Si tratta di una notazione psicologica secondaria, che tuttavia fornisce un efficacissima sintesi del problema (Suppl., Cap. XXX). Notiamo infine che in questi esempi non abbiamo più bisogno di fare riferimento soltanto a prodotti artistici. Si tratta 192 invece di una forma generale di esperienza che si può produrre nell'immaginario, così come di fronte ad un paesaggio della natura. Un paesaggio diventa un oggetto pittorico (malerisch, qui certamente da non tradurre con "pittoresco", come accade di leggere, che significa tutt'altra cosa), cioè un oggetto che viene già vissuto pittoricamente, "esteticamente", e che è dunque predisposto alla rappresentazione pittorica, non appena venga colto nella sua piena e pura obbiettività. "Quando i poeti cantano il sereno mattino, la bella sera, la quiete notte lunare... il vero oggetto della loro magnificazione è il soggetto puro della conoscenza che viene provocato da quelle bellezze naturali... Come potrebbe altrimenti il verso di Orazio: Nox erat, et coelo fulgebat luna sereno Inter minora sidera "era notte e la luna rifulgeva nel cielo sereno tra astri minori" produrre su di noi un effetto così benefico, anzi incantevole?" (Suppl., p. 1222). Le atmosfere del romanticismo, le sue predilezioni si avvertono anche nelle pieghe di questi esempi. Si parla di poeti che cantano il mattino, la sera, la notte lunare, e si tace intorno alla chiara luce del giorno. In questo piccolo dettaglio possiamo vedere una predilezione d'epoca per la notte, per le luci intermedie dell'alba e del tramonto. Della poeticità della luna Schopenhauer riesce persino a darci una sorta di giustificazione filosofica: la luna è lontana, essa appare eternamente estranea alla vita terrena, "passa per il cielo e tutto vede, ma a nulla partecipa" (387). È la luna dunque che può affascinarci in questa sua sublime estraneità, e non invece il sole, con tutta la sua luce e il suo calore. Non appena volgiamo lo sguardo verso il sole, subito siamo costretti a stringere gli occhi in un atto immediato secondo uno stimolo istintivo di repulsione e di autodifesa. Non è possibile contemplare il sole. Per questo la luna può diventare oggetto prediletto nei sogni del poeta o del pittore. Ed anche la 193 filosofia dell'arte di Schopenhauer si pone fin dall'inizio sotto il segno della luna. 5. Componenti tipico-ideali nella ricezione estetica - Tutto è bello fino a quando non ci riguarda - La fruizione estetica come atto conoscitivo. Lo spunto fenomenologico presente nel richiamo ad un momento tipico ideale nella ricezione estetica si incontra ben presto con una opzione metafisica che assolve una fondamentale importanza nel sistema, benché sia difficile da integrare e giustificare pienamente nel suo interno. Si tratta del passaggio dalla volontà alla rappresentazione - il che è quanto dire: dal puro impulso della vita alla sua concretizzazione sul piano della visibilità, dunque il farsi mondo della volontà stessa. È del resto comprensibile che questo passaggio dal nucleo profondo del reale - che la parola "volontà" vorrebbe cogliere e che certamente non contiene nulla che assomigli alle cose di questo mondo, ma che è puro "slancio vitale", come dirà in seguito Bergson - al mondo visibile con la molteplicità infinita delle sue forme, rappresenti un punto difficile del sistema di Schopenhauer, anzi un autentico enigma. Questo enigma non viene certamente soppresso dalla ripresa del platonismo, ma in qualche modo attenuato. Le idee platoniche rappresentano il punto di transizione e di conversione della volontà nel mondo fenomenico: la volontà passa attraverso le idee. Forse potremmo dire che essa diventa anzitutto idea, prima di disperdersi nella molteplicità empirica dei fenomeni. Le caratteristiche che Platone attribuiva alle idee, la loro eternità, e quindi il loro essere fuori dal tempo e dallo spazio, in questo contesto di discorso segnalano l'appartenenza dell'idea al versante dalla volontà; mentre la possibilità dell'idea di essere colta ed afferrata intuitivamente, di essere dunque vista, segnala invece il fatto che la volontà, nell'idea, è già sulla via 194 della rappresentazione. L'idea non è dunque, in Schopenhauer, qualcosa che appartiene alle produzioni della mente o il correlato necessario di una funzione della ragione. È invece qualcosa che è innestato nel processo di realizzazione e di visibilizzazione della volontà. Schopenhauer è convinto anche che una simile concezione sia conforme allo spirito autentico del platonismo e che la tematica platonica delle idee, così concepita, debba essere considerata in stretto parallelismo con la tematica kantiana della cosa in sé. Egli rivendica a proprio merito l'aver mostrato la possibilità della confluenza di una posizione nell'altra. L'elemento comune sta nella contrapposizione di entrambe le nozioni - cosa in sé e idea platonica - al mondo fenomenico. Ma questa confluenza richiede che la cosa in sé non venga interpretata come un oggetto, bensì come la volontà stessa che trova nelle idee il percorso che conduce alla sua realizzazione nella molteplicità delle rappresentazioni. A Kant Schopenhauer obietta espressamente che avrebbe dovuto "espressamente rifiutare alla sua cosa in sé la proprietà di essere oggetto" (M., p. 213) Tenendo conto di una simile interpretazione pronunciatamente "ontologica" delle idee non è difficile vedere in che modo avvenga il raccordo con le considerazioni precedenti, così come non è difficile coglierne le conseguenze. In precedenza abbiamo sottolineato soprattutto l'elemento del distacco e dell'effetto estraniante ed abbiamo parlato in rapporto a ciò di visione obbiettiva. Questo aspetto è così insistente in Schopenhauer che - a differenza del tema kantiano del disinteresse che non contiene esplicitamente una teoria del bello che deve essere cercata altrove - siamo quasi indotti a pensare che la bellezza sorga proprio in funzione di questa obbiettivazione. Talora ci imbattiamo in formulazioni nettamente orientate in questa direzione, come quando si dice che la bellezza delle cose "dipende proprio dalla pura obbiettività... della loro intuizione (Suppl., Cap. XXX, p. 1227); ed ancora più incisiva- 195 mente "Tutto è bello fino a quando non ci riguarda" (ivi). Ma questo aspetto del problema deve essere coordinato al fatto che ciò che viene colto in questa visione obbiettiva è l'oggetto in specie, e ciò significa oltrepassare l'ambito fenomenico verso i luoghi di produzione metafisica del reale: per questo motivo Schopenhauer ritiene di poter considerare questa forma speciale di intuizione come un effettivo atto del conoscere, come una conoscenza autentica. A ciò naturalmente siamo già stati preparati dal collegamento posto tra il silenzio della volontà e l'emergere della soggettività puramente conoscitiva che può essere concepita come una soggettività transindividuale che diventa ora l'eterno occhio del mondo (das ewige Weltauge), ciò in cui il mondo si rispecchia. La coscienza diventa il limpido specchio dell'oggetto (M., § 34, p. 216). Di tutto ciò dobbiamo anche sapere apprezzare la portata ed anche la profonda ambiguità. Infatti non basta prendere atto che la fruizione estetica è caratterizzata dall'assenza di partecipazione affettiva, ma dobbiamo in qualche modo duplicare la nozione stessa di conoscenza, dobbiamo ammettere che si possa parlare di conoscenza non solo per quel complesso di procedure che conducono ad un sapere scientifico e tecnologico, ma anche di una specifica conoscenza ottenuta attraverso la produzione e la fruizione artistica. Questa duplicazione non è affatto ovvia e priva di problemi, così come non lo è la duplicazione conseguente, ovviamente necessaria, della stessa nozione di obbiettività. Conoscere - in un'accezione che ne vincola la nozione al mondo della rappresentazione ed al principio di ragione sufficiente - significa collegare un fenomeno all'altro secondo un rapporto di "fondazione". Nel conoscere così inteso assolvono una funzione importante sia l'afferramento intuitivo dei rapporti sia il ragionamento e l'argomentazione che si avvalgono di concetti, che sono necessari per assicurare alla conoscenza così ottenuta la generalità necessaria. Schopenhauer non può 196 poi non riconoscere che una funzione obbiettivante, e dunque il "disinteresse" inteso come prescindere da una partecipazione "passionale", è indispensabile per il progresso del conoscere. Solo che ora - nel passaggio dalle considerazioni epistemologiche e metafisiche alla filosofia dell'arte - tende a sottolineare più di quanto non avesse fatto in precedenza che questo progresso è subordinato al soddisfacimento dei bisogni umani. Cosicché il percorso della conoscenza scientifica viene considerato come un percorso che non fa altro che continuare le funzioni dell'intelletto strettamente subordinate, e negli animali in modo esclusivo, alla produzione e riproduzione della vita biologica. Certo, in rapporto all'uomo le cose stanno diversamente. Nell'analogia di cui si serve una volta Schopenhauer secondo cui la conoscenza si innesta sulla volontà come la testa sul tronco, vi è certo da un lato la connessione e la possibile subordinazione della conoscenza alla volontà, da dall'altro anche l'idea di una relativa indipendenza della prima dalla seconda. Del resto vi sono molti modi in cui la testa è innestata sul tronco. Guarda ad esempio un bue o una pecora! Con quel suo tipico atteggiamento tendente a scorgere significati interni nella forma esterna, Schopenhauer trova significativo che negli animali la testa e il collo possano fare tutt'uno, e che la testa sia strutturalmente rivolta verso la terra alla perenne ricerca di cibo. Lo sguardo non può guardare facilmente altrove che non il luogo in cui potrà trovare ciò di cui sfamarsi. Quale differenza rispetto all'immagine dell'uomo che trova una rappresentazione culminante nell'Apollo del Belvedere! Il collo separa la testa nettamente dal tronco e lo sguardo di Apollo è rivolto di fronte a sé e potrebbe volgersi in ogni direzione se non fosse una statua. La possibile indipendenza dalla volontà si annuncia dunque, secondo Schopenhauer, anche nella conoscenza scientifica. Ma solo nell'arte il nodo con la volontà viene realmente tagliato per la prima volta in modo netto, benché in maniera precaria, provvisoria, che dura quanto dura l'atto della fruizione estetica. Fare di questa esperienza un atto conoscitivo è certa- 197 mente coerente con questa impostazione. Si dovrà tuttavia parlare di conoscenza in tutt'altro senso, in un senso che tende ad approssimarsi alla conoscenza filosofica considerata in via di principio distinta dalla conoscenza scientifica in quanto il suo compito ultimo è quello di farci dare uno sguardo al di là dei fenomeni. Nel campo dell'arte si annuncia una presa di distanza dalla realtà, conseguente all'"intuizione" della sua essenza metafisica, che prelude ai temi morali del quarto libro del Mondo. 6. Concetti e idee Un sintomo di queste ambiguità sta nella necessità di mantenere una precisa distinzione tra concetti e idee (cfr. M., § 49 e Suppl., Cap. XXIX) e nello stesso tempo nella difficoltà che si incontrano per fissarla con chiarezza. Così nel § 49 del Mondo, dopo aver ribadito che "l'oggetto che l'artista ha il compito di rappresentare... è un'idea in senso platonico e null'altro" (p. 274), si aggiunge subito che ciò che intendiamo con la parola idea deve essere chiaramente distinto da ciò che intendiamo con la parola concetto. Di fatto nel primo libro del Mondo, a cui qui si fa riferimento, Schopenhauer ha sempre impiegato la parola concetto per indicare il risultato di una procedura astrattiva utile per passare dalla particolarità che è propria dell'esperienza concreta e dell'intuizione in genere alla generalità che è invece necessaria alla conoscenza scientifica. 198 Il concetto è strettamente collegato ad una nozione di ragione caratterizzata come facoltà di argomentare e dunque come facoltà connessa alla logica formale intesa come disciplina dell'argomentazione. Inoltre, già la caratterizzazione del concetto come rappresentazione di una rappresentazione, che troviamo nella Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente prospetta un modo di impostare il problema che si ricollega piuttosto alla tradizione empiristica che a quella razionalistica. Anzitutto vi sono per noi le cose, con le loro proprietà concretamente sperimentate, con le loro somiglianze e dissimiglianze; quindi vi è la capacità razionale di astrazione e di afferramento delle proprietà comuni che conduce alla formazione del concetto. Questo potrà così essere considerato come un'unità sotto cui possono essere riunite una molteplicità di cose particolari. Questa concezione del concetto come unitas post rem ci riporta indubbiamente ad un quadro nominalistico-empiristico: il concetto non ha alcuna esistenza in sé, ma è il significato di un nome che assolve un'utile funzione di associazione classificatoria. Ci troviamo dunque su un terreno molto lontano dal platonismo. Tuttavia anche per ciò che riguarda il riferimento di Schopenhauer a Platone occorre procedere con molta cautela, evitando di assumerlo troppo ingenuamente. Di ciò si è già parlato nei nostri commenti al secondo libro del Mondo (cfr. Volontà e natura, Commenti a Schopenhauer, III, § 10,). L'intera tematica platonica delle idee è dominata dal pensiero di identità ideali soggiacenti alle cose sensibilmente esperite per il fatto stesso che lo scopo perseguito è soprattutto quello di rendere conto della possibilità di una conoscenza obbiettiva della realtà. Questa conoscenza non può essere realizzata attraverso le indeterminatezze e le relatività dell'esperienza sensibile. La teoria platonica delle idee va dunque considerata all'interno di un orizzonte epistemologico. Da questo punto di vista la tematica platonica non corrisponde affatto agli interessi di Schopenhauer ed egli non può trovare in essa ciò che cerca. In particolare Schopenhauer 199 sottolinea che la distinzione tra idee e concetti in Platone non è affatto formulata con chiarezza ed anzi "molti dei suoi esempi e delle sue spiegazioni a proposito delle idee sono applicabili soltanto a semplici concetti" (M., p. 274). Per incontrare la tematica di Schopenhauer è necessario invece accentuare una possibile interpretazione metafisica delle idee platoniche. Mentre i concetti nell'accezione di Schopenhauer sono in fin dei conti dei puri contenuti mentali o in ogni caso nostre produzioni spirituali, le idee sono "le figure persistenti, immutabili, indipendenti dall'esistenza temporanea dei singoli esseri, le species rerum le quali propriamente costituiscono ciò che è puramente obbiettivo nei fenomeni" (Suppl., XXIX, p. 1214). Ed ancor più: le idee possono essere dette species, ma sopratutto species naturales. Esse infatti formano la mediazione necessaria per l'autorealizzazione della volontà come natura. Si comprende così per quale ragione Schopenhauer dia particolare valore ai passi di Aristotele in cui si osserva che i platonici ritenevano che non vi fossero idee per ogni cosa, ed in particolare che non vi fossero idee per le cose fatte dall'uomo, per gli artefatti come una casa o un anello. Affermazione certo singolare, che in ogni caso asseconda l'orientamento schopenhaueriano del problema ed in certo senso lo illustra efficacemente. Sarei tentato di commentarla così: qualunque cosa inventi e ponga in essere l'uomo non avrà mai, nell'ordine metafisico delle cose, la stessa dignità che spetta invece in via di principio ad un cavallo! (E forse in questo c'è persino qualcosa di vero). 7. Nuova inclinazione del termine "intuizione". - Non lo so, ma lo sento. - Le idee, la storia e la Commedia dell'arte - Storia e natura - Il chiaro specchio - Come è bella natura! Con la distinzione tra idee e concetti si intreccia infine la nuova inclinazione che assume il termine intuizione di cui abbiamo sottolineato in precedenza la tendenziale ambiguità. I concetti 200 sono pensati, le idee intuite - ripete più volte Schopenhauer. La parola intuizione è ora legata a fil doppio con l'idea: il modo di cogliere l'idea viene dunque in qualche modo assimilato all'atto di afferramento visivo di qualcosa di determinato. Ma si tratta solo di una assimilazione. Che cosa realmente si vuol dire? Ci viene spiegato che questa visione va oltre le forme fuggevoli delle nubi mosse dal vento, per raggiungere quelle leggi sempre identiche in base alle quali si realizzano quelle forme, quell'unica regola che sta alla base dei capricciosi percorsi dei ruscelli che scendono a valle o delle volute dei fiori di ghiaccio sulle finestre (M., § 35). E si ribadisce più volte che questo afferramento è un atto conoscitivo. Ma noi non possiamo a nostra volta ripetere queste espressioni come se esse si comprendessero da sé. Forse otteniamo qualche chiarimento se ci risolviamo a considerare le spiegazioni di Schopenhauer come se esse cercassero di circoscrivere qualcosa di simile ad una sensazione o ad un sentimento: ad un "modo di sentire". Pensiamo a come viene impiegato nel discorso comune il verbo sentire quando diciamo ad esempio: "Sento che le cose stanno così". Sentire ha qui un senso simile ad avvertire, e quindi si avvicina ad un atto conoscitivo, e nello stesso tempo potrebbe essere considerato un atto intuitivo - di questo sentire non riuscirei a rendere conto con qualche argomento o con l'esibizione di qualche dato di fatto. Non vedo che le cose stanno così, e nemmeno lo so. Ma lo sento. Eppure questo "lo sento" tende a diventare una sorta di equivalente di "lo vedo e lo so". Naturalmente non sto assumendo le difese di una simile nozione del conoscere, ma vorrei cercar di render conto della nozione di intuizione che tende ora a diventare dominante nella tematica di Schopenhauer. È come se, di fronte allo spettacolo di un ruscello che seguendo i percorsi più svariati scende a valle o delle forme delle nubi che spinte dal vento si vanno facendo e rifacendo, sentissi che in questa mutevole molteplicità si afferma una vicenda unica e immutabile. Questo "sentire" può 201 essere un'autentica "esperienza vissuta" e nello stesso tempo qualche cosa che mostra anche un vero e proprio modo di atteggiarsi di fronte alla realtà. In Schopenhauer questo aspetto lo si coglie con particolare evidenza non appena le immagini or ora citate diventano immagini del mondo umano, quando "il ruscello che scorre giù tra i sassi, i gorghi, le increspature e gli spruzzi, i caprici delle schiume" diventa immagine della storia umana, con tutta la ricchezza dei suoi eventi, la loro varietà e differenza. "Nelle molteplici forme della vita umana, e nell'incessante mutare degli avvenimenti non si può considerare come permanente ed essenziale se non l'idea" (M., § 35, p. 221). E ciò significa, più chiaramente: "Il significato vero degli avvenimenti è quello di essere un alfabeto che permette di leggere l'idea dell'uomo" (p. 211). In queste "molteplici forme della vita umana" la molteplicità è solo apparente, ci troviamo di fronte a varianti di uno stesso modello, ad un carattere immutabile. Il termine di carattere appare per molti versi appropriato per indicare l'identità dell'idea ed esso suggerisce a Schopenhauer un'espressiva analogia con la Commedia dell'arte. I personaggi della Commedia dell'arte - Pantalone, Arlecchino, Colombina - sono appunto caratteri, e questi si mantengono da una commedia all'altra: "Nonostante le esperienze dei drammi anteriori, Pantalone non è tuttavia né più abile né più generoso di prima. Tartaglia non ha uno iota in più di coscienza, né Brighella di coraggio né Colombina di moralità" (M., p. 222). La storia stessa viene presentata dunque come una grande commedia, gli uomini come maschere farsesche, come burattini mossi da un burattinaio ignoto. Questo è lo sfondo inquietante del tema della visione delle idee, che peraltro ha in se stesso un elemento di rasserenamento. La storia è una "grande commedia in cui è del tutto indifferente se ciò che mette in moto gli attori 202 siano delle noci o delle corone" (ivi, p. 221). E poiché nella storia si risolvono i nostri destini individuali, questo richiamo alla commedia è assai cupo. Sul versante opposto della natura è invece possibile ritrovare una rasserenata bellezza (Suppl., Cap. XXXIII): guardando il profilo delle montagne in lontananza, il loro aspetto massiccio e potente, riceviamo un'immagine di ciò che è realmente stabile e duraturo. La stessa tematica che collega "obbiettività" ed "esteticità" si può ricongiungere a temi caratteristici del sentimento romantico della natura: l'atto di cogliere "esteticamente" e quindi con la massima obbiettivit�� possibile un paesaggio, un albero o qualunque altra cosa, può essere proposto come una invasione dell'oggetto nel soggetto, cosicché il soggetto sembra perdersi in esso (sich gänzlich in diesen Gegenstand verliert, M., § 34, p. 216) e l'oggetto esistere da solo, senza che nessuno che lo percepisca. Si tratta di formulazioni molto forti in cui si potrebbe scorgere un contrasto con l'impostazione di principio di Schopenhauer che considera il soggetto conoscente come "sostegno del mondo" e dunque la polarità soggetto-oggetto come una polarità che non può mai venire meno. Ma si tratta di un contrasto solo apparente: sottolineare il risolversi della soggettività nell'oggettività può essere interpretato equivalentemente come un risolversi dell'oggettività in un soggetto puro (reines Subjekt) che è ormai diventato il chiaro specchio dell'oggetto (klarer Spiegel des Ojekts). Cosicché Schopenhauer può citare Byron, e proprio in versi che sottolineano questa reciprocità (ivi, p. 219): Are not the mountains,waves and skies a part of me and of my soul, as I of them? "Non sono i monti, i flutti e i cieli una parte di me e dell'anima mia, come io di loro?" Quando in Schopenhauer il discorso cade su questi temi, egli si dimentica degli aspetti brutali della volontà. La volontà che si manifesta come natura gli appare piuttosto come vita pura e 203 semplice che si afferma felicemente e candidamente, come un libero e felice dispiegamento di energie. "Wie aesthetisch ist doch die Natur!" - esclama una volta. Ed io sarei tentato di tradurre semplicemente: "Come è bella la natura!". E tanto più è bella quando è lasciata libera di svilupparsi come essa vuole - la natura non coltivata, selvatica, come nel giardino inglese, quando non è visibile la presenza del "grande egoista" - l'uomo stesso. La natura senza l'uomo, dunque. O meglio con l'uomo che, invece di affermare ovunque la sua proprietà sul giardino, si sente parte di esso e nel suo operare asseconda il suo sviluppo libero da costrizioni. 8. La volontà sospesa ed il piacere estetico - Lato soggettivo e lato oggettivo del piacere estetico - L'eccitante - La solitaria contemplazione della bellezza della natura - La bellezza di un fiore e la bellezza umana "Di fronte ad un quadro bisogna avere lo stesso atteggiamento che si ha al cospetto di un principe: aspettare senza sapere se ci parlerà e che cosa ci dirà. E come al principe, anche al quadro, non dobbiamo essere noi che rivolgiamo la parola: se lo facessimo udiremmo soltanto la nostra voce" (Suppl., Cap. XXXIV, p. 1269). Questa similitudine bellissima può essere presa come riepilogo dei temi che siamo andati illustrando. Il piacere estetico (ästhetische Wahlgefallen, § 37) comincia quando si arresta la ruota che gira eternamente a cui viene legato il gigante Issione; quando le Danaidi possono finalmente cessare di attingere acqua con un 204 vaso privo di fondo; o quando a Tantalo, condannato ad agitarsi tra l'acqua in cui è immerso e i frutti sopra di lui che si ritraggono al suo approssimarsi, è concessa una pausa nel suo supplizio: immagini del mito che sono per Schopenhauer immagini della volontà sospesa (§ 38). Questa sospensione della volontà fa tutt'uno con il piacere estetico che può essere analizzato in due polarità: in una polarità soggettiva, che rappresenta la riduzione della soggettività a puro soggetto del conoscere che deve lasciare che l'opera si mostri, e che deve regredire fino al punto di presentarsi come suo limpido specchio; ed in una polarità oggettiva che consiste nell'elemento puramente ideale. L'opera che si mostra può essere indifferentemente opera dell'arte o della natura: l'opera dell'arte favorisce la disposizione estetica per il fatto che essa è già passata attraverso il filtro dello sguardo puramente contemplativo dell'artista (§ 37), ma si tratta di una differenza non essenziale. La bellezza, a sua volta, può essere attribuita ad ogni cosa, sia tenendo conto del lato soggettivo che di quello oggettivo. "Ogni cosa è bella" - (M., p. 249) - non vi è cosa, per quanto insignificante, che non possa essere oggetto degno di rappresentazione, e questo perché ogni cosa può essere sottratta alla catena delle cause ed a quella dei motivi ed essere considerata "disinteressatamente"; ed ogni cosa è manifestazione della volontà in un qualche grado della sua obbiettivazione, ed esprime di conseguenza un'idea. Ma questa presa di posizione viene limitata da almeno due ordini di considerazioni, in corrispondenza ai due lati del problema: il primo, attinente piuttosto al lato soggettivo, è che le cose possono essere fatte in modo tale da favorire l'adozione di un atteggiamento estetico oppure da scoraggiarlo o in alcuni casi da renderlo impossibile; il secondo, attinente invece al lato oggettivo, riguarda il fatto che le idee non sono tutte sullo stesso piano, fra le une e le altre vi sono differenze di grado. Volendo illustrare il primo punto, basterà richiamarsi a tutti quelli elementi che tendono ridestare i nostri stimoli, sia positivamente che negativamente, elementi che Schopenhauer 205 riunisce sotto il titolo di eccitante (Das Reizende). Da qualcosa di nauseante, ad esempio, tenderemo certo a distoglierci con la massima energia - e ciò vale certamente anche nel caso della sua rappresentazione. Ma non particolarmente adatti all'arte saranno anche oggetti che ci attraggono, che stimolano i nostri desideri ed i nostri bisogni. Come si vede, il principio secondo cui qualunque cosa è bella purché non ci riguardi, contiene una autolimitazione forse più rilevante di quanto ci poteva sembrare in un primo tempo e nello stesso tempo attraverso quel principio assumono importanza gli aspetti contenutistici piuttosto che quelli formali. In realtà tutta la posizione di Schopenhauer nell'ambito della filosofia dell'arte è fondamentalmente disinteressata ai valori formali dell'opera. A titolo di esempio di eccitante nell'arte, si citano i grandi piatti di frutta e di cibarie che si possono ritrovare nella pittura olandese e fiamminga - ed è questo un esempio di come l'impostazione filosofica generale determini il giudizio: si può forse ammettere, osserva Schopenhauer, nel dipinto la presenza di frutta, per il nesso che vi è fra frutto e fiore. Il frutto è come un prolungamento, uno sviluppo del fiore cosicché potrebbe passare in secondo piano il suo lato commestibile, e passare in primo piano la sua appartenenza al campo della pura visualità. Sono inammissibili invece quelle rappresentazioni di tavole imbandite con ogni genere di vivande, ed il fatto che tali cose vengano dipinte con la massima oggettività, anzi con prodigiosa imitazione del vero rende la raffigurazione ancora più eccitante, qui ci sentiamo proprio stuzzicare l'appetito! (p. 247). Sembrerebbe trattarsi di una ripresa della polemica kantiana contro il piacere gastronomico, che assume qui un senso piuttosto letterale. Ma anche in un simile piccolo dettaglio si avverte la presenza dell'intera metafisica schopenhaueriana, e quindi di un piano di idee assai lontano da quello di Kant. Accanto al cibo come esempio di eccitante, la cui rappresentazione sarebbe tendenzialmente antiartistica, non manca un riferimento al nudo - quando, a differenza del nudo classico che esalta la pura forma, è rappresentato in modo da 206 eccitare la nostra fame sessuale come in precedenza la fame alimentare. Per quanto riguarda il secondo ordine di considerazioni, dobbiamo riparlare della bella natura: in realtà l'aggettivo, più volte ripetuto da Schopenhauer, deve essere caratterizzato come una sorta di epiteto, di attributo intrinseco della natura: la bellezza appartiene soprattutto alla natura. La bella natura di cui qui si parla, il paesaggio che invita alla contemplazione non è il paesaggio colto di sfuggita in una allegra scampagnata, non è un paesaggio chiassosamente condiviso. La situazione a cui pensa Schopenhauer è piuttosto quella in cui ci troviamo "da soli a soli di fronte alla natura" (M., p. 237) - quasi che in questa solitudine fosse avvertibile quel silenzio della volontà che caratterizza lo stato di contemplazione pura. Questo stato "si realizza con tanto maggiore facilità quando gli oggetti si prestano", e la bella natura è capace di rapire, almeno per un attimo anche l'uomo più insensibile all'ebbrezza del piacere estetico (§ 39). Ciò accade perché nella natura le idee si presentano nella varietà delle loro forme con la massima evidenza e la massima ricchezza. In particolare ciò vale per il regno vegetale - sembra quasi che le sue forme che sono prive di autocoscienza, e quindi incapaci di mostrarsi a se stesse, siano, quasi per una sorta di misteriosa compensazione, predisposte a mostrarsi ad altri: come se esse non potendo essere rappresentazioni per se stesse, desiderassero essere rappresentazioni almeno per altri. Singolare osservazione, davvero! Ma molto espressiva, in realtà. Dice letteralmente Schopenhauer: "... sentono quindi il bisogno di un individuo estraneo e intelligente per passare dal mondo della volontà cieca in quello della rappresentazione, e così aspirano ad effettuare questo passaggio, per ottenere almeno in via mediata quello che non è stato loro concesso immediatamente" (§ 39). Un pensiero audace - osserva ancora Schopenhauer - al limite della sensatezza, ma che può ben capire chi sia profondamente immerso in una visione intima e compartecipe della natura. La 207 bellezza di un fiore può essere tale da suggerire l'idea che esso si appelli ad uno sguardo! Su questa idea così arrischiata, Schopenhauer si compiace di poter citare a testimone Agostino: "Le piante presentano ai sensi, affinché siano percepite le loro molteplici forme, che abbelliscono la struttura di questo mondo sensibile: come se, non potendo conoscere, volessero quasi farsi conoscere" (De civitate Dei, XI, 27). Non deve poi sorprendere il fatto che, dopo tutto questo, si giunga all'affermazione secondo cui l'uomo è il più bello di tutti gli esseri: "L'uomo è bello al di sopra di ogni cosa bella e la rappresentazione della sua intima essenza costituisce il fine supremo dell'arte" (M., p. 250). Si tratta infatti di un'affermazione strettamente coerente con i principi: la bellezza di un oggetto dipende dal fatto che "l'idea che da esso si rivela esprime un alto grado di oggettità della volontà" e l'eccellenza dell'uomo sta nel fatto che nell'uomo la natura, a cui l'uomo stesso appartiene, prende coscienza di sé come manifestazione della volontà. 9. Il sublime - L'impostazione kantiana - Schopenhauer: il ricordo della volontà - I gradi del sublime - Esempi - Differenze rispetto a Kant. Quella che si potrebbe chiamare la parte generale della metafisica del bello, che precede ed introduce le considerazioni più particolari sulle arti, si conclude con il tema del sublime, che viene trattato estesamente nel § 39 del Mondo. Vogliamo anche noi concludere su questo tema questa introduzione alla metafisica del bello di Schopenhauer. Il dibattito sulla distinzione tra il bello e il sublime è uno dei centri dell'estetica romantica e volendo analizzarne le premesse, senza naturalmente spingerci alle fonti più antiche, dovremmo almeno prendere le mosse da Kant. Ma come in precedenza noi vogliamo limitarci ad uno schizzo della posizione di 208 Schopenhauer, che è del resto nitida e chiara ed è ancora interamente giocata sui concetti fondamentali della sua metafisica. Mentre la nozione del bello è definita da un atteggiamento nel quale la volontà è in qualche modo almeno provvisoriamente dimenticata, e potremmo così parlare di un vero e proprio oblio della volontà, la nozione di sublime viene invece in questione quando siamo in presenza di una condizione più complessa, nella quale l'oggettività considerata non solo non asseconda la pura contemplazione, ma in qualche modo chiama nuovamente in causa la volontà. Peraltro non si tratta certo di regredire al piano delle eccitazioni e degli stimoli legati ai nostri bisogni ed interessi. L'eccitante, sia positivo che negativo, è qualcosa di opposto al sublime, anche se proprio per questo contribuisce a rischiararlo. Mentre l'eccitante tende a richiamare la volontà ed a metterla in moto, nel caso del "sentimento del sublime" la volontà è invece in certo senso minacciata, e non tanto in forza di un pericolo autentico, quanto piuttosto dell'immagine di una grandezza e di una potenza tanto smisurata da far apparire lo stesso nostro essere, e dunque le istanze volitive in noi radicate, come un nulla. Già Kant aveva distinto tra la grandezza intesa come quantità misurabile ed una grandezza che egli chiama assoluta (CdG., § 25) che non può essere concepita come quantità suddividibile in parti più piccole una delle quali potrebbe in via di principio essere scelta come unità di misura stabilendo una precisa relazione tra essa e l'intero. La procedura della misurazione consiste nella istituzione di una relazione, e per questo la grandezza misurabile è può essere detta essenzialmente relativa. Vi sono cose grandi ed anche grandissime - ma se esse sono misurabili non hanno a che fare con il sentimento del sublime che sorge soltanto alla presenza di qualcosa che possa essere detta assolutamente grande. Kant si esprime anche dicendo che "sublime è ciò al cui confronto ogni altra cosa è piccola" (CdG., § 25, p. 98). 209 Questo spunto kantiano è certamente presente in Schopenhauer che parla appunto di oggettività capace di minacciare la volontà "con una strapotenza vittoriosa di ogni opposizione" o che riduce al nulla la volontà per via della sua "smisurata grandezza" (M., p. 240). Ma, come accade spesso in Schopenhauer, anche questa possibile relazione a Kant viene riletta in una chiave interamente nuova. Si avverte infatti subito che questo tema è subordinato all'idea di un conflitto tra l'elemento volitivo e l'elemento conoscitivo-contemplativo che finisce con il dominare. Aderendo più da vicino allo spirito dell'esposizione di Schopenhauer, potremmo dire che ciò che caratterizza il sentimento del sublime è il fatto che l'atteggiamento di pura contemplazione viene acquisito dopo una lotta, dopo un contrasto più o meno duro con la volontà e che il ricordo di questa lotta permane anche quando l'atteggiamento contemplativo è risultato vittorioso. Come in precedenza avevamo messo l'accento sull'oblio della volontà, così potremmo ora parlare proprio del ricordo della volontà (Erinnerung an den Willen) come elemento che caratterizza il sentimento del sublime (Das Gefühl des Erhabenen) rispetto al sentimento del bello. In esso vi sarà dunque una tensione interna che è invece assente nel sentimento del bello. Questo modo di impostare la questione consente a Schopenhauer sia di evitare l'idea che il sentimento del sublime si riduca fondamentalmete ad un'esperienza del carattere effimero dell'esistenza, sia di apprestare i termini di un'impostazione molto più duttile, secondo la quale è possibile parlare di gradi, di transizioni dal bello al sublime, cosicché il concetto di sublime nel senso dell'assolutamente grande, può essere considerato come una nozione forte, che coesiste con nozioni molto più deboli e sfumate. In realtà proprio questa idea dei gradi e questa maggiore duttilità del concetto di sublime può essere considerata come uno dei principali tratti di originalità della posizione di Schopenhauer su questo punto, oltre alla messa da parte di conside- 210 razioni morali che determinano in ultima analisi la concezione kantiana. Un bellissimo esempio di grado minimo è dato da una descrizione che possiamo considerare indifferentemente come descrizione di un paesaggio visto dal vero o di un paesaggio dipinto. Si tratta di un paesaggio invernale - dove si vedono spruzzi di neve sul terreno e arbusti irrigiditi dal freddo; ma il sole batte luminoso sulle rocce e la sua luce si riflette tutt'intorno. Commenta Schopenhauer: "Sul bello viene ad alitare un lieve soffio di sublime, che si manifesta in grado minimo" (M., § 39, p. 242). Questo commento è reso possibile dalle associazioni che si ricollegano a quei raggi solari che si riflettono sulle rocce e che rappresentano una sorta di contrasto interno con la rigidità dell'inverno. La luce "è la cosa più gaia che esista, è il simbolo di tutto ciò che è buono e salutare. In tutte le religioni la luce significa la salute eterna, e la tenebra, al contrario, la dannazione... Tutto ciò proviene dal fatto che la luce è il correlato, la condizione del più elevato grado della conoscenza intuitiva, dell'unico grado che direttamente non abbia nulla a che fare con la volontà" (M. ,§ 38, p. 238). Ma la luce del sole è una luce che riscalda, e riscaldando consente alle sementi di germinare, agli alberi di mettere le foglie e di produrre i loro frutti. La luce del sole è dunque connessa con la vita - e mentre la luce soltanto è simbolo del disinteresse conoscitivo, il calore può essere considerato come simbolo degli interessi della volontà. Nel paesaggio invernale i raggi del sole rammentano il calore che genera vita, e dunque la contemplazione pura deve lottare contro il desiderio che essi generano, ed alla fine nel paesaggio puramente contemplato traspare l'elemento volitivo, e su di esso alita "un lieve soffio di sublime". Altrettanto sottile e istruttivo è il secondo esempio che segue in buona parte lo schema del precedente. Si tratta ancora della descrizione di un paesaggio, questa volta di un paesaggio immenso. Si può pensare ad una pianura sconfinata, ad una pra- 211 teria il cui orizzonte è posto all'infinito; il cielo è senza nubi, l'atmosfera estatica, immobile e "dappertutto il più profondo silenzio". Dunque un paesaggio quanto mai adatto alla contemplazione più assorta, al più completo oblio della volontà. Eppure esso ci rammenta per opposizione gli interessi della volontà, proprio perché mostra qualcosa che non è in grado di soddisfarli. Gli altri esempi propongono un crescendo fino alle manifestazioni del sublime più esasperato. Alla grande pianura segue il deserto o un paesaggio roccioso privo di vegetazioni - il distacco della volontà, l'ostilità alla vita del paesaggio diventa più accentuata, e più difficile dunque il suo superamento; e poi ancora una scena tempestosa nella quale la natura si presenta senz'altro come nemica oppure come una forza indomita, sovrumana, strapotente che ci schiaccia e ci annienta, come una cascata impetuosa o il mare in tempesta. Ad immagini fondamentalmente statiche (come il deserto o la grande pianura) subentrano così immagini di un violento dinamismo. Questa duplicità viene caratterizzata in termini kantiani, ormai assai poco pertinenti, cosicché anche qui si parla di sublime matematico, che viene collegato all'idea della grandezza-quantità ed a immagini statiche, e di sublime dinamico, nel quale invece assume il massimo risalto la natura nelle sue sue forme più agitate e violente. Rispetto a Kant, Schopenhauer rivendica il merito di non subordinare l'intero problema a considerazioni morali. Per Kant infatti il contrasto è tra il senso di annullamento che provocano questi "paesaggi" e il senso di superiorità morale dell'uomo che finisce con l'imporsi con la massima vivacità. Questa superiorità rappresenta per Kant la superiorità di ciò che è interiormente libero rispetto a ciò che non può che soggiacere alla necessità naturale. Proprio nel momento in cui la natura mostra tutta la sua potenza, noi siamo spinti "a non riconoscere nella potenza naturale (a cui siamo sempre sottoposti relativamente a tali cose) un duro impero su di noi e sulla nostra personalità al quale dovremmo piegarci, quando si 212 trattasse dei nostri principi supremi, della loro affermazione o del loro abbandono. La natura non è dunque chiamata sublime se non perché eleva l'immaginazione a rappresentare quei casi in cui l'animo può sentire la sublimità della propria destinazione anche al di sopra della natura" (CdG, § 28, p. 112). Anche questo tema rieccheggia in Schopenhauer, ma come sempre con una radicale modificazione di senso: di fronte alla strapotente natura che si scatena così come quando volgiamo lo sguardo ad ammirare il cielo stellato "la nostra coscienza è penetrata dall'immensità dell'universo, noi ci sentiamo rimpiccioliti come minuscoli atomi: come individui, come corpi animati e come fenomeni passeggeri della volontà abbiamo la coscienza di svanire e di dissolverci nel nulla come una goccia nell'oceano" (M., § 39, p. 245). Ma contro questo "fantasma del nostro nulla", che è un fantasma menzognero, si eleva subito la consapevolezza che "tutti questi mondi esistono solo nella nostra rappresentazione"; e che noi stessi non appena siamo dimentichi della nostra individualità sentiamo di appartenere a questa immensità, anzi di essere tutt'uno con essa. "La grandezza del mondo, che prima ci turbava, ora riposa serena in noi...siamo tutt'uno con il mondo, e quindi la sua immensità in realtà non ci abbatte, ma ci risolleva" (ivi) Nel contesto della filosofia kantiana è certamente intollerabile che il senso di superiorità sia riferito alla "fenomenicità" del mondo ed alla soggettività in quanto polo necessario di essa: e se vogliamo poi spostare l'attenzione sul versante del noumeno non troviamo affatto le istanze morali kantiane quanto piuttosto il senso della unità d'essenza tra uomo e natura e dunque la partecipazione del singolo all'immenso. 213 IV L'affermazione e la negazione della volontà di vivere 1991 214 Questo testo è tratto da lezioni sul Quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione del corso di Filosofia Teoretica intitolato "Filosofia dell'arte e metafisica dei costumi in Schopenhauer" tenuto all'Università degli Studi di Milano nel 1991. Le traduzioni italiane citate sono le seguenti: La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, I ediz. 1813, a cura di A. Vigorelli, Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano 1990 (Abbrev.: Quad_1), II ediz. 1847, a cura di Eva Amendola Kuhn, Boringhieri, Torino 1959 (Abbrev.: Quad_2); Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. di N. Palanga, Mursia, Milano 1969 (Abbrev. : M.); Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, in Il Mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, Mondadori, Milano, 1989 (Abbrev.: Suppl.). Parerga e Paralipomena, vol. I-II, a cura di M. Carpitella, Milano 1983 (Abbrev.: Parerga). Inoltre vengono citate le Lezioni berlinesi (1820), parte quarta da Theorie des gesammten Vorstellens, Denkens und Erkennens - Philosophische Vorlesungen, Teil IV, aus dem handschriftlichen Nachlass, hrsg. von Volker Spierling, München, 1986 (Abbrev.: Lez. IV). Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Rizzoli, Milano 1982 (Abbrev.: Colloqui). Nel caso che il luogo della citazione sia del tutto chiaro dal testo, viene indicato solo il numero di pagina. Nell'impiego delle traduzioni ci siamo riservati la possibilità di introdurre le modifiche ritenute necessarie senza esplicita segnalazione. Le immagini inserite nel testo sono tratte da Thesaurus hieroglyphicorum, Ioannis Georgij ab Hoesburg, s.d. 215 INDICE 1. Breve sintesi del percorso seguito da Schopenhauer - La tematica epistemologica ed il tema del mondo come rappresentazione - L'inconsistenza e fantomaticità del mondo - L'immagine della natura - La sospensione della volontà che si annuncia nella filosofia dell'arte - Approdo al tema dell'ascetismo nel quarto libro del Mondo. 2. Significato del termine "metafisica dei costumi" in Kant e la modificazione del suo senso in Schopenhauer - L'esclusione di intenti prescrittivi nella filosofia morale di Schopenhauer - Critica di Kant - Si debbono descrivere i comportamenti degli uomini e di essi si cerca una interpretazione. 3. Il tema del tempo e della natura e il loro punto di intersezione nella riflessione intorno alla morte - Il presente come barriera alla corrente impetuosa del tempo - La ruota che gira - Teoria dell'eterno ritorno e suo senso - Il passaggio alla soggettività conoscitiva come "occhio eterno del mondo" - Riflessione sulla morte - L'intramontabilità della vita. 4. Il pensiero dell'effimero e dell'unità del tutto - La noncuranza della natura verso la morte - Maternità della natura - Il simbolismo del cerchio. 5. Contro il materialismo - Il nulla e la morte - La noncuranza della natura - La foglia caduta e l'albero perenne - Ulteriore impiego della teoria platonica delle idee - Il cane eterno. 6. Sul pessimismo di Schopenhauer - Dubbi su interpretazioni 216 unilaterali - Il dolore ha le sue radici nella metafisica della volontà - Nostri dubbi sulla consistenza filosofica dell'opposizione tra ottimismo e pessimismo. 7. L'affiorare del problema di una descrizione psicologicometafisica degli stati della vita affettiva - Esempio della noia - L'esistenza quotidiana tra tragedia e commedia - Ancora su pessimismo e ottimismo e sulla loro inconsistenza filosofica. 8. La volontà come "parafrasi del corpo" - La fame e il sesso - La fame alimentare - Lo sfruttamento come una forma di divoramento - La sessualità e la conservazione della specie - L'intonazione fallica della metafisica di Schopenhauer - Il Cupido di Schopenhauer - Il senso autentico della sua "metafisica della sessualità" consiste nella sottolineatura delle motivazione inconsce dei comportamenti - Cenno critico al riduzionismo biologico-fisiologico in essa implicato. 9. La filosofia morale di Schopenhauer - Il rifiuto dell'elemento prescrittivo e la critica della "voce interiore" di Kant - In che cosa consiste l'azione ingiusta - Ulteriore richiamo al tema della del rapporto tra il corpo e la volontà - Caratterizzazione dell'azione giusta come azione non-ingiusta - Rifiuto del convenzionalismo. 10. L'origine dello stato dall'egoismo - Il diritto di punire - La giustizia ed il simbolismo della bilancia - Solo lo stato ha diritto di punire - Il senso della pena - Illegittimità della vendetta - Scopo intimidatorio della pena comminata dallo stato - Netta distinzione tra condanna morale e condanna giuridica - "Mia è la vendetta, dice il Signore". 217 11. La giustizia eterna - Richiami alla cultura religiosa indiana - Teoria della virtù - Azione buona e azione cattiva - L'altruismo. 12. La compassione e la negazione della volontà - Tematica dell'ascetismo - Alcune considerazioni sulla personalità di Schopenhauer - Contro il suicidio - Tematica della rassegnazione. 13. L'ultima forma che assume il nesso tra il corpo e la volontà - Il tema della rinunzia e della sospensione della volontà ha il suo culmine nella mortificazione del corpo - Interpretazione dell'ascetismo - Le pratiche ascetiche hanno esattamente il senso che esse mostrano - Interpretazione della santità - L'ateismo è annidato nelle pratiche mistiche - Critica delle religioni istituzionali. 14. Nella religione si esprime una rivolta contro la vita - Sensatezza della vita comune e insensatezza del comportamento del santo? - Osservazioni sul nulla - Il nulla è sempre relativo - Il nulla non è un abisso - Noi vogliamo vivere! - Il santo e il saggio. 17. La comprensibilità della negazione della volontà - Il ripresentarsi del problema dell'atto libero - Libertà e carattere - Richiami alla "conversione" ed alla "grazia" - Schopenhauer intende fornire gli elementi per una filosofia della religione - Critica dello stereotipo dello Schopenhauer irrazionalista - Due cinesi a teatro. 218 219 1. Breve sintesi del percorso seguito da Schopenhauer - La tematica epistemologica ed il tema del mondo come rappresentazione - L'inconsistenza e fantomaticità del mondo - L'immagine della natura - La sospensione della volontà che si annuncia nella filosofia dell'arte - Approdo al tema dell'ascetismo nel quarto libro del Mondo. Nell'accingersi ad illustrare il contenuto del quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione, nelle sue Lezioni berlinesi Schopenhauer utilizza il titolo di Metafisica dei costumi, preferendolo a Etica, che era stato prescelto in un primo tempo e poi cancellato e sostituito (Lez., IV, p. 57). In questo quarto libro la teoria del mondo come volontà e rappresentazione giunge a compimento, essa si conclude in un senso che non ha nulla di estrinseco: come se non restasse null'altro di significativo e di importante da aggiungere. L'essenziale è stato detto. Il sistema è compiuto. Se gettiamo uno sguardo indietro al percorso seguito, anzitutto è stato necessario spiegare le idee sulla filosofia in genere, il metodo filosofico seguito, e ciò in realtà è stato fatto con le considerazioni in senso lato epistemologiche contenute nel primo libro. In esso ci siamo chiesti che ne è della conoscenza del mondo e del mondo stesso. Si è cercato di chiarire in che senso ciò che chiamiamo mondo deve essere subordinato al titolo di "rappresentazione" riprendendo un vecchio tema fenomenistico come si ritrova in Berkeley ed in Hume; ed anche in Kant alla cui impostazione Schopenhauer si dichiara inizialmente fortemente debitore. Parlare del mondo come rappresentazione aveva un duplice senso: da un lato attraverso questa formulazione si affermava la validità generale del principio di ragione sufficiente, quindi la possibilità stessa della conoscenza del mondo; dall'altro si faceva avanti un motivo interamente diverso, un motivo inquietante: la rappresentazione è anche apparenza nel senso in cui sono 220 apparenze i fantasmi dei nostri sogni. Il mondo nel suo aspetto fenomenico, così come noi lo vediamo, è inconsistente, e lo è proprio in forza della concatenazione causale degli eventi che relativizza ogni evento all'evento precedente ed all'evento successivo, in una catena che non può avere né inizio né fine. Questa inconsistenza non viene proposta per puro gusto argomentativo come era nello stile dello scetticismo e della sofistica antica. Vi è invece una sorta di profonda serietà, così come nella svalutazione platonica del mondo sensibile a cui Schopenhauer può pretendere di ricollegarsi solo a patto di rovesciare il senso autentico della filosofia platonica. Per Platone infatti quella svalutazione è correlativa alla messa in chiaro di un'impalcatura stabile del mondo che forma la condizione di possibilità della conoscenza del reale. In Schopenhauer invece le idee di Platone diventano pure emanazioni di un principio irrazionale, diventano, come egli si esprime, gradi di oggettivazione della volontà, cosicché la loro chiarezza e limpidezza si contrae in quel gorgo oscuro da cui scaturisce l'intera varietà delle cose di questo mondo. Il tema della volontà ci si presenta nel secondo libro, come un tema che deve essere raggiunto effettuando il passaggio dal fenomeno all'essenza. Esso appare strettamente legato ad un'immagine della natura: il principio della volontà è attinto anzitutto nell'esperienza soggettiva, ma non appena lo abbiamo attinto di qui, subito esso viene proiettato nella natura, nella totalità delle sue manifestazioni - da quelle inferiori che chiamano in causa la materia, a quelle via via superiori sino all'uomo. Mi sembra giusto parlare di un'immagine della natura perché di fatto ciò che ci viene proposto è un modo di vedere la natura, che mette al suo centro il vivente, e che propone poi di considerare il fatto stesso del vivere non già come un puro e semplice accadimento, ma come qualcosa che viene internamente promosso e perseguito: qualcosa che è voluto, sebbene secondo gradi diversi di consapevolezza. Con simili considerazioni di metafisica della natura muta 221 anche il senso in cui parlavamo in precedenza di mondo come rappresentazione. Il mondo non è più ora soltanto qualcosa che si offre al nostro sguardo, ma è il mondo nel quale siamo noi stessi implicati in quanto esseri viventi. Esso è allora semplicemente la vita stessa. ("Il mondo e la vita sono tutt'uno" - dirà Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus, prop. 5.621) Questo è del resto un punto ribadito con particolare forza proprio nei paragrafi iniziali del quarto libro, laddove in particolare si attira l'attenzione sul fatto che "ciò che la volontà vuole è pur sempre la vita" e che "la vita non è altro che la manifestazione della volontà per mezzo della rappresentazione" e per questo dire volontà di vivere invece che volonta è tutt'uno (M., p. 316). Vedremo tra breve quanto sia ricca di conseguenze una simile affermazione. Ma cià nell'esposizione del secondo libro il tema dell'inconsistenza del mondo come rappresentazione assumeva un nuovo carattere o meglio mostrava più chiaramente in che direzione fosse puntata fin dall'inizio. Nessuna manifestazione della vita ha un qualche valore in se stessa. Ciascuno è solo una precaria concretizzazione di quella forza cieca che è la volontà stessa; e la sua insignificanza può essere misurata mettendola a confronto con l'infinità di questo processo di costante autoriproduzione della vita. Alle spalle della fantomaticità del mondo prospettata nel primo libro si delinea il tema della natura effimera dell'esistenza. All'interrogativo sul senso della vita che tanto spesso viene ritenuto l'interrogativo filosofico privilegiato, la risposta di Schopenhauer è che lo si deve ricercare nella volontà: e questa è soprattutto inappagamento, tensione, desiderio, tormento, inquietudine, sofferenza e dolore. A questi temi già accennati nel secondo libro, potremmo ora ricongiungerci direttamente. Ma il terzo libro contiene in parte un arretramento rispetto a questi temi, in parte una premessa importante per la conclusione del sistema. Un arretra- 222 mento perché nella considerazione dell'arte ritorniamo al problema della rappresentazione, che tuttavia ora ci appare come una momentanea sospensione delle inquietudini della volontà: la produzione artistica fornisce immagini della vita, ma essa diventa possibile proprio in forza di una messa a distanza dalla vita stessa, e dunque costituisce una sorta di iniziale dimostrazione che l'azione della volontà può essere sospesa o addirittura soppressa. Questi sono i fili che il quarto libro del Mondo riprende sviluppa coerentemente. In esso troviamo elaborati forse i temi più noti della filosofia di Schopenhauer, quelli che hanno maggiormente contribuito a delinearne l'immagine non solo tra i filosofi e gli specialisti, ma anche nel pubblico colto, e sono anche i temi - ciò va subito detto - che possono soggiacere più facilmente da un lato allo svisamento, dall'altro ad una critica e persino ad una abbastanza facile ironia. Al centro del libro vi è naturalmente un'ampia elaborazione della componente pessimistica che pur essendo presente un po' dappertutto, solo in questo libro riceve un'esposizione realmente organica e approfondita. Qui soprattutto riceve la massima accentuazione l'idea che l'intero processo della vita abbia come stimoli fondamentali null'altro che gli istinti elementari della autoconservazione e della riproduzione della specie: la fame e il sesso. Essi sono puri istinti che agiscono incondizionatamente e irresistibilmente e che tuttavia non assolvono nessun altro scopo che quello di mantenere in essere la volontà di vivere, dunque il principio della sofferenza e del dolore. Altrettanto nota la soluzione che si trae da questo pessimismo portato all'estremo: è possibile sfuggire alla volontà, non tanto ostacolando e impedendo il processo della sua affermazione (cosa che accrescerebbe il dolore), quanto piuttosto "sospendendone" l'azione. Si tratta di quella negazione della volontà che non consiste affatto nel suicidio, come Schopenhauer spiega in alcune pagine divenute famose, ma nelle pratiche ascetiche di cui possiamo trovare esempi ovunque nelle religioni di ogni continente e in particolare nella religione indiana la cui presenza si fa 223 sentire in questo lirbro assai più che altrove. Ma assai più che altrove si fa sentire anche il richiamo al cristianesimo degli asceti, degli eremiti, degli anacoreti, agli ordini monastici più rigorosi che vengono considerati in una stretta solidarietà, che va oltre le differenze di ordine dottrinale e dogmatico, con le forme dell'ascetismo indiano ed orientale. Inaspettatamente l'ateo convinto, lo spregiatore di ogni religione istituzionale, il filosofo sempre pronto a rammentare i roghi dell'Inquisizione, e del resto tutt'altro che proclive ad allontanare da sé i piaceri della vita - ci parla convintamente della santità nella sua forma più esasperata e fanatica, intesse l'elogio dello stilita che passa la propria vita in cima ad una colonna, loda la rinuncia radicale al sesso, alla proprietà, al benessere sino al limite dell'autoflagellazione corporea. Proprio per il fatto che stiamo per avviarci su un terreno tanto scivoloso, dobbiamo far valere a maggior ragione i criteri che hanno orientato lo stile della nostra lettura dell'opera di Schopenhauer. I filosofi in genere traggono in realtà più svantaggi che vantaggi dall'essere considerati a grandi linee, nelle loro tesi riassuntive, anche se talvolta è necessario o anche solo opportuno considerarli proprio così; ed è anche vero che proprio la loro capacità di esercitare un'influenza più o meno duratura è legata proprio ad una visione per grandi linee, alle loro tesi più eclatanti considerate in se stesse che sono anche quelle più facilmente volgarizzabili. Non bisogna invece perdere di vista l'importanza che assume il percorso che conduce a questa o a quella tesi, nel quale del resto è spesso da ricercare il loro senso autentico. 224 2. Significato del termine "metafisica dei costumi" in Kant e la modificazione del suo senso in Schopenhauer - L'esclusione di intenti prescrittivi nella filosofia morale di Schopenhauer - Critica di Kant - Si debbono descrivere i comportamenti degli uomini e di essi si cerca una interpretazione. In apertura del quarto libro del Mondo, Schopenhauer ci avverte che il suo argomento riguarda il fare degli uomini e i principi di questo fare, che nella tradizione filosofica viene solitamente rubricato sotto il titolo di filosofia pratica, di etica o di filosofia morale. In realtà il suo raggio di azione è più ampio e abbraccia considerazione ascrivibili ad una teoria delle passioni, ad una filosofia del diritto ed anche ad una filosofia della religione. Come abbiamo osservato, in ogni caso, fra tutti Schopenhauer preferisce il titolo di metafisica dei costumi. In realtà si tratta tra tutti del titolo filosoficamente più compromesso per il fatto che esso è preso di peso da Kant la cui prima opera compiuta dedicata al problema della morale e pubblicata nel 1785 era appunto intitolata Fondamenti di una metafisica dei costumi. Si tratta dunque anzitutto di un omaggio a Kant, ma di un omaggio assai ambiguo: gli inizi di Schopenhauer sono certo kantiani, ma Kant è stato anche l'autore criticato da Schopenhauer in modo articolato e approfondito, e ciò vale in particolare proprio per la parte che riguarda la filosofia morale. Inoltre Schopenhauer spesso sembra riprendere le tesi kantiane ma per compiere una operazione di capovolgimento. Da Kant viene tratta la teoria della libertà trascendentale e la distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile, che vengono sottoposte da Schopenhauer ad una geniale e per molti versi straordinaria reinterpretazione: non appena poi il quadro teorico comincia a precisarsi, la posizione kantiana in sede di filosofia morale - con particolare riferimento ai capisaldi della tematica del dover essere e dell'imperativo categorico - diventa subito 225 oggetto di una critica, ed anzi di una polemica piuttosto aspra. Cosicché il titolo rappresenta un omaggio alquanto esteriore, dovendo esso stesso essere reinterpretato in senso non kantiano, se non addirittura antikantiano. Due parole intanto sul termine costume. I costumi, nel senso corrente, sono le usanze, le consuetudini, quindi anche in generale i comportamenti degli uomini i in quanto sono regolati da queste usanze e da queste consuetudini. In latino costume si dice mos, moris, e di qui trae origine il termine di morale. In greco costume si dice h=)qoj, termine che vuol dire tuttavia anche carattere e che è connesso, come rammenta Schopenhauer, con l'abitudine; di qui trae origine il termine di etica. Ciò mostra che la riflessione filosofica sui problemi morali - e dunque sulla distinzione del buono e del cattivo, del giusto e dell'ingiusto, dell'azione virtuosa e dell'azione malvagia - muove i suoi primi passi proprio da una riflessione sui comportamenti di fatto degli uomini in quanto queste comportamenti sono regolari dalle usanze che vigono entro un determinato contesto culturale. Al di là di ogni considerazione di principio, l'azione trova anzitutto nel costume la propria regola. Ma naturalmente, e qui cominciamo a metterci dal punto di vista di Kant ed a rendere conto in quale accezione venga da lui usata l'espressione di metafisica dei costumi, la filosofia si interroga se l'azione regolata dal costume possa anche essere ricnosciuta come buona o cattiva secondo determinazioni puramente razionali, quindi sul piano delle considerazioni di principio, ed è solo a questo punto che si puà cominciare a parlare di filosofia morale. Un conto è dunque la descrizione dei costumi degli uomini ed eventualmente l'identificazione dei principi che regolano l'azione come principi appartenenti alla natura umana così come noi la possiamo osservare attraverso l'esperienza, ed un altro è l'identificazione, che può avvenire solo attraverso la filosofia, dei principi che debbono reggere le azioni ed in rapporto ai quali può essere effettuata la distinzione tra l'azione in sé buona e 226 l'azione in sé cattiva. Questa identificazione puà avvenire solo attraverso una riflessione che si sviluppi in modo interamente apriorico, cioè senza sostenersi in alcun punto sull'osservazione empirica. Queste sono le idee contenute nell'uso kantiano di metafisica dei costumi. Il termine di metafisica viene impiegato da Kant in più di un'accezione, ed in quella formula esso significa propriamente: riflessione per concetti puri, puramente apriorici. Si allude dunque con metafisica dei costumi ad una riflessione tendente ad isolare le norme valide a priori per ogni comportamento. Come sappiamo, questa impostazione si sviluppa non già in direzione di proporre norme concretamente determinate, ma nel principio di un'etica formale, nella forma dell'imperativo categorico: "Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale" (Critica della ragione pratica, § 7). Ora, la metafisica dei costumi di Schopenhauer comincia proprio con il contestare questa caratterizzazine kantiana di quell'espressione. Metafisica non ha qui il senso di una riflessione attraverso concetti puramente apriorici, venendo così quasi a coincidere con la stessa idea kantiana della critica della ragione, ma ha proprio il senso di una dottrina dell'in sé, contro la cui possibilità di principio è rivolta la critica kantiana. Di conseguenza viene a mutare interamente il senso della connessione tra i due termini. Naturalmente anche Schopenhauer non è interessato ad una considerazione morale che si risolva in una pura e semplice presa d'atto dei costumi, ad una risoluzione "antropologica" della problematica etica. È interessato invece ad una considerazione delle azioni degli uomini e dei principi che le reggono alla luce dei principi metafisici del proprio sistema, alla luce dunque del pensiero fondamentale del mondo come volontà e come rappresentazione che viene ancora rammentato qui come unico pensiero di cui l'intera opera è solo un 227 dispiegamento ed uno sviluppo. Si comprende subito allora come la prima preoccupazione di Schopenhauer sia quella di prendere le distanze da ogni intento prescrittivo, ed anzi proprio quetsa preliminare presa di posizione è certamente una delle ragioni che inducono a preferire l'espressione di metafisica dei costumi. Una ragione analoga sta alla base dell'espressione di metafisica del bello, anche se questo assunto era mantenuto nel terzo libro assai poco rigorosamente. L'importanza di questo assunto soprattutto nel campo della filosofia morale è evidente: questo campo è in modo eminente il campo delle prescrizioni. Le usanze non sono altro che prescrizioni tacite, non esplicitamente formulate, e la stessa filosofia morale tende indubbiamente a tradursi in un insieme di regole dell'azione. L'idea di un giudizio morale implica un elemento normativo. E il filosofo tende ad assumere la figura di maestro della virtà, che è tale non solo perché insegna queste regole, ma anche perché egli stesso si attiene ad esse e ne fornisce l'esempio. Contro di ciò Schopenhauer fa valere anzitutto la propria concezione della ricerca filosofica in genere: la filosofia deve condurre le proprie indagini riferendesi al proprio oggetto, qualunque esso sia, rein betrachtend, cioè in modo puramente osservativo, con il distacco dato dalla pura osservazione (Mondo, § 53, p. 313), e di conseguenza se l'osservazione è il metodo privilegiato, allora la descrizione di ciò che è stato osservato sarà il suo scopo. Descrizione si contrappone qui naturalmente a prescrizione. Ciò che importa dal punto di vista filosofico è lumeggiare i dati di fatto. Si tratta dunque di una dichiarazione preliminare di positività che non deve affatto sorprendere: persino il passaggio alla nozione metafisica della volontà era effettuato nella convinzione che esso potesse contare su un fondamento fattuale: la volontà che noi troviamo operante in noi stessi. "La filosofia non può fare altro che chiarire e interpretare l'esistente (Das Vohandene), non può fare altro che portare alla 228 conoscenza astratta e distinta della ragione ed in ogni possibile rapporto, da ogni punto di vista, quell'essenza del mondo che in concreto, cioè come sentimento (Gefühl) si manifesta comprensibile ad ognuno" (ivi). Questo concetto della filosofia deve essere fatto valere in particolare nell'ambito delle questioni etiche. Anche qui dobbiamo restare, come si esprime Schopenhauer nel campo dell'immanenza (Immanenz) (Lez., IV, p. 59), al quale ci si è attenuti nell'intero corso del nostro lavoro. Ciò significa attenersi ai dati di fatto in quanto "costante oggetto e limite della ricerca resterà il mondo reale e visibile in cui viviamo e che vive in noi: troppo ricco perché le più profonde investigazioni dell'umano ingegno possa esaurirlo" (ivi, p. 314). La filosofia deve dunque limitarsi a "interpretare la condotta umane, e le massime così diverse, anzi contradditorie, di cui la condotta è la viva espressione", apportando intorno a ciò tutti i necessari chiarimenti. Di conseguenza non ci si deve attendere nessuna teoria dei doveri (Pflichtenlehre), nessun principio morale generale, nessuna regola, nemmeno nella forma del dover essere di Kant. Questa presa di posizione di carattere generale è d'altronde sostenuta anche da un assunto fondamentale che è già stato acquisito all'interno della nostra riflessione e che riguarda il tema della libertà. Si tratta dell'interpretazione proposta da Schopenhauer della distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile così come della ripresa da parte di Schopenhauer del mito platonico di Er. Ciò che guida le azioni in concreto sono le nostre scelte originarie, quel destino che ci siamo scelti noi stessi e che è comunque un destino, un demone che una volta che è stato scelto ci domina per sempre. Se così stanno le cose non ha senso pretendere di insegnare la virtù, non ha senso pretendere di insegnare che cosa si debba volere. Questa stessa espressione può essere considerata come 229 intrinsecamente contradditoria. Ciò che ciascuno fa e il modo in cui lo fa dipende unicamente da lui stesso e ciascuno risponde a se stesso delle proprie azioni. Ogni norma esteriore è una pura astrazione, una parola morta che non riesce nemmeno a raggiungere quella ragione profonda del nostro essere nella quale si operano le nostre scelte e nella quale forse tutto è già stato scelto. L'idea che ciascuno in ogni suo singolo atto sia libero - nel senso comune del poter fare questo o quest'altro - è del tutto illusoria. Ogni atto è invece determinato a parte subiecti dal mio carattere, a parte obiecti dai motivi che provengono dalle circostanze esterne del mio agire. Il carattere è da intende come nucelo fondamentale della persona, quel volere fondamentale (Grundwollen) che caratterizza ciascuno in profondità, forse potremmo parlare di un io profondo che che dobbiamo concepire, stando a Schopenhauer, come risultato di un atto interamente libero. Come ciò avvenga è un mistero, ma che ciò avvenga è attestato da quel sentimento di responsabilità per le nostre azioni che rappresenta uno dei dati di fatto importanti su cui poggia questa riflessione filosofica. Questo sentimento si contrappone alla certezza filosofica della determinazione necessaria di ogni azione, ed è esso che ci spinge a ricerca il fondamento della libertà nella volontà in se stessa, in certo senso prima della sua realizzazione fenomenica. Infatti nel momento in cui questa realizzazione ha inizio, abbiamo sempre a che fare con la catena necessaria delle cause. La libertà della volontà come cosa in sé "non si trasmette mai direttamene al suo fenomeno" (Mondo, § 55 p. 329). Ecco un altro buon motivo per respingere un'etica prescrittiva. Essa presupporrebbe quella che Schopenhauer chiama l'"illusione di una libertà empirica della volontà", che è appunto l'idea di senso comune secondo cui possiamo fare ciò che stiamo facendo oppure qualcosa di interamente diverso, purché lo si voglia. Possiamo liberamente aderire ad una determinata norma oppure alla norma opposta. Il rifiuto di un'etica pre- 230 scrittiva ha anche il senso di un rifiuto di una concezione astratta dell'agire secondo la quale vi sarebbero da un lato le mie potenzialità attive e dall'altro l'insieme delle norme tra le quali io opero una libera scelta. In coerenza con ciò deve essere respinta - come fa vivacemente Schopenhauer in più di un passo - l'idea che il filosofo moralista debba egli stesso fornire l'esempio delle virtù di cui tratta nella sua filosofia morale. Infatti in essa egli non prescrive nulla a nessuno, e dunque nemmeno a se stesso. Come chiunque altro, anch'egli ha il proprio demone e da esso dipende il suo modo di agire. L'importanza di queste premesse potrà essere apprezzata a fondo solo in seguito, ma fin d'ora se ne intravvede la portata: una considerazione che arriva a proporre come "ideale" la santità è certamente destinata ad assumere un senso particolare se questa idealità non ha alcun senso normativo, ma viene proposta all'interno di una problematica che ha la pretesa di fornire soltanto la descrizione e l'interpretazione di un comportamento. 3. Il tema del tempo e della natura e il loro punto di intersezione nella riflessione intorno alla morte - Il presente come barriera alla corrente impetuosa del tempo - La ruota che gira - Teoria dell'eterno ritorno e suo senso - L'indifferenza degli accadimenti singoli - L'arcobaleno sulla cascata - Il passaggio alla soggettività conoscitiva come "occhio eterno del mondo" - Riflessione sulla morte - L'intramontabilità della vita. 231 Dobbiamo ora cercare di dispiegare interamente lo scenario autentico dell'intera filosofia di Schopenhauer. Questo scenario può essere delineato facendo riferimento almeno a due temi fondamentali: il tema del tempo e quello della natura. Essi hanno inoltre il loro punto di intersezione in una riflessione intorno alla morte. Questi grandi temi rappresentano l'introduzione effettiva alla metafisica dei costumi. La concezione del tempo è bene illustrata dalle immagini a cui Schopenhauer fa ricorso. Anzitutto a quella, continuamente ricorrente nella tradizione filosofica, della corrente impetuosa (unaufhaltsamer Strom), che tuttavia incontra nel suo corso una roccia salda e inamovibile, che rappresenta null'altro che la dimensione del presente. Il presente non è - secondo Schopenhauer - una dimensione temporale come un'altra, non un tratto di tempo tra il passato e il futuro, ma è piuttosto l'unica dimensione temporale autentica e reale. Il tempo come passare è un perpetuo fluire: solo il presente è immobile, statico, permanente. Idea a tutta prima sorprendente: eppure potremmo sostenere che anch'essa è fondata su un dato di fatto, e precisamente un dato della nostra diretta esperienza del tempo: il tempo vissuto è sempre e soltanto il presente. Il passato è stato vissuto; il futuro deve ancora esserlo. Dell'uno e dell'altro non possiamo che avere immagini mentali, essi sono dunque puramente pensati o concepiti, e non vissuti. Ma questo dato di fatto è sottoposto ad un'interpretazione da cui risulta un senso che viene proiettato sullo stesso destino dell'uomo. A ciò accenna più chiaramente l'altra immagine proposta da Schopenhauer, che fa parte del resto anch'essa della tradizione: il tempo come una ruota che incessantemente gira sul proprio asse. In essa vi una parte che sale ed una parte che scende rispetto ad un punto che può essere inteso come idealmente immobile ed è il punto di contatto con la tangente che, per dare all'immagine un'effettiva capacità illustrativa, dobbiamo tentare di considerare per un verso come appartenente sia al cerchio 232 che alla tangente, ma per un altro come appartenente unicamente alla tangente. Su di essa quel punto non si muove. La metà ascendente puoi considerarla come rappresentativa dell'avvenire, la metà discendente come simbolo del passato. Considerando le cose in questo modo, il dato di fatto dal quale abbiamo preso le mosse viene nettamente superato in direzione di un'interpretazione che tende ad una vera e propria soppressione della dimensione del flusso. Il tempo non procede, non avanza - il tempo gira, e dunque fa parte della stessa essenza del tempo l'eterno ritorno di ciò che è già stato. Guardando la figura: il passato sprofondando diventa futuro. Alla domanda "Quid erit?" possiamo rispondere: "Quod fuit". Ed il presente considerato come momento di questo movimento è pura ripetizione. Peraltro il vero problema di Schopenhauer non è tanto quello dell'esterno ritorno, in senso per così dire letterale, benché si tratti di un tema comunque presente. Proponendo questa idea si tratta piuttosto di dimostrare l'indifferenza dell'accadimento come tale. Come se dicessimo: non c'è nulla di ciò che accade che sia realmente importante, nessun accadimento è più importante di qualunque altro, e perciò possiamo dire di ogni accadimento che esso può essere considerato come se fosse già accaduto un numero infinito di volte. Che questa sia la direzione principale della discussione viene in chiaro particolarmente laddove Schopenhauer attacca genericamente le filosofie storicistiche. Esse presupongono che "l'essenza del mondo si 233 possa conoscere storicamente"; il loro errore sta nello stesso concetto del divenire, e dunque nell'idea che si possa parlare di un punto di partenza e di un punto di arrivo, e di una via che conduce dall'uno all'altro. La radice elementare di questo errore sta semplicemente nell'attribuire "una sia pur minima importanza alla differenza del prima e del poi" (§ 53). Pensiamo allora all'infinità del tempo trascorso e che trascorrerà - di fronte a questa infinità paragonata all'evento singolo che ora accade possiamo ben dire "che tutto ciò che può e deve accadere, deve già essere accaduto". Il pensiero dell'eterno ritorno è dunque per Schopenhauer soprattutto il pensiero dell'irrilevanza dell'evento singolo in quanto proposto in un'attualità concepita come anello di congiunzione tra passato e futuro, quindi come punto sul cerchio; ed anche nello stesso tempo il pensiero di un presente che appartiene, piuttosto che al cerchio, alla sua tangente, che è ancora il presente nel quale viviamo, ma che è anche il presene metafisico (benchè Schopenhauer non usi questa espressione), il presente atemporale - il nunc stans come dicevano gli scolastici: ciò che permane nell'ora e per il quale non esiste la differenza tra l'ora e l'allora, tra il nunc e il tunc: il presente che è come l'arcobaleno sopra la cascata. Questo presente metafisico è anche l'unica dimensione temporale reale, ma anche l'unica dimensione della realtà stessa, o come Schopenhauer preferisce spesso dire qui, della vita stessa. Essere reale, vivere significa essere presente o essere nel presente. "Il nostro stesso passato, anche il passato più prossimo, quello di ieri, non è più che un vano sogno della fantasia" (M. p. 320). Lo stesso si può dire per l'immenso passato dell'umanità intera, per i millenni che sono trascorsi dalla preistoria a quel presente nel quale io li rievoco. Anche tutto questo è un vano sogno della fantasia. Vogliamo riflettere proprio sul passato, sugli uomini che sono stati una volta vivi e che poi sono morti, e che dunque 234 possono apparirmi solo - sarei proprio tentato di dire - come dei fantasmi - ovvero solo come evanescenze del ricordo o dell'immaginazione. In questa riflessione potremmo arrivare a chiederci sulla base di quale privilegio ora, in questo presente, proprio io sono vivo ed essi morti: "Perché mai io stesso non sono morto da tempo come loro" (Lez., IV, p. 61). Ecco una domanda assai strana, che solo un filosofo potrebbe proporre! Eppure per Schopenhauer, nonostante la sua stravaganza, essa può darci un insegnamento. In essa si esprime meraviglia di fronte alla coincidenza fortuita tra questo presente nel quale io vivo e il fatto che in esso proprio io viva. Non dovrei forse meravigliarmi del fatto che avrei potuto essere nato in un'altra epoca, ed essere io stesso un fantasma nel pensiero di un altro? Alla domanda filosofica risponde tuttavia una critica filosofica. In essa vi è di sbagliato che si parli di una coincidenza fortuita tra l'io e il presente in cui egli vive. L'errore sta nel fatto che chi argomenta in questo modo "considera il suo esserci e il suo tempo come reciprocamente indipendenti"; o detto in altro modo: l'errore sta nel ritenere che vi sia un "ora" per l'oggetto ed un "ora" per il soggetto e che questi due ora coincidano fortuitamente. Formulazione più difficile, che è propriamente quella di Schopenhauer, ma che illumina un altro aspetto importante della questione. Potremmo commentare: è sbagliato ritenere che vi sia un presente per me che guardo gli oggetti che mi stanno intorno ed un presente per questi stessi oggetti, e che questi due presenti coincidano nel momento in cui io-guardo-gli-oggetti. Invece vi un unico ora nel quale io sono rivolto osservativamente ad essi. In questo modo si ribadisce l'inerenza del presente alla vita, e dunque anche l'inerenza al presente dell'io che mostra la relazione interna, o se vogliamo, la "coincidenza", tutt'altro che fortuita, ma anzi essenziale tra la soggettività e il presente. Nell'immagine proposta del cerchio, il punto segnato in basso può essere assunto a rappresentare la soggettività stessa. 235 Naturalmente tutta la questione non è priva di complicazioni interne: il presente di cui si parla è un presente ambiguamente sospeso tra l'appartenenza al cerchio e l'appartenenza alla tangente, e ciò vale anche per la nozione della soggettività. Questa tende ad essere non tanto la soggettività empirica che agisce e che patisce e che a sua volta può essere oggetto di conoscenza da parte mia come una qualunque altra oggettività, ma la soggettività conoscitiva stessa, che è in via di principio infferrabile ed inconoscibile. Questa soggettività di cui Schopenhauer parla così di rado emerge qui quando guardiamo al presente dal punto di vista della tangente: si tratta, egli dice, della soggettività come "occhio eterno del mondo" (M., pp. 323-24) (ed anche in questo caso è difficile che Wittgenstein non si rammenti di Schopenhauer quando parla della soggettività come "limite del mondo" assimilandola all'occhio che guarda ma che non vede se stesso. Tractatus Logico-Philosophicus, oss. 5.632 e 5.633). Con questo riferimento alla soggettività conoscitiva si spiega forse la formulazione misteriosa di Schopenhauer secondo cui "come la tangente non è trascinata dalla rotazione, altrettanto immobile resta il presente, punto di contatto dell'oggetto, la cui forma è il tempo, con il soggetto il quale non ha nessuna forma in quanto non rientra nell'ambito del conoscibile, ma è bensì condizione di ogni conoscenza" (M. p. 321). Formulazione difficile ed oscura, ma la cui intenzione è abbastanza chiara: tra gli oggetti, "la cui forma è il tempo", occorre naturalmente inserire anche la soggettività empirica, mentre il soggetto che "non ha nessuna forma" è la soggettività conoscitiva. Si tratta di mostrare la possibilità di un passaggio dal presente fenomenologico della soggettività empirica ad una presente metafisico, da una dimensione temporale ad una dimensione intemporale, quindi di mostrare anche come nella soggettività empirica sussista in linea di principio la possibilità di operare questo passaggio che è anche il passaggio alla soggettività pu- 236 ramente conoscitiva. Se ci installiamo in questo presente assoluto a cui appartiene anche la soggettività conoscitiva, muta interamente il modo stesso di concepire il movimento della vita ed anzitutto il nostro atteggiamento nei confronti della morte. Abbiamo già notato che i temi del tempo e della natura hanno il loro punto di intersezione in una riflessione sulla morte. Questa riflessione può ben prendere le mosse dall'atteggiamento comune di fronte alla morte. È subito il caso di rammentare che l'atteggiamento di fronte alla morte verrà analizzato da Heidegger in alcune pagine famose di Essere e tempo. Heidegger parla in proposito di atteggiamento inautentico, ed anche se questo aggettivo viene interpretato in modo tale da attenuarne la portata svalutativa, tuttavia esso implica certamente un'opposizione ad un atteggiamento filosofico che trae la sua autenticità dal fatto che essonon tenta di eludere, come farebbe l'atteggiamento comune, l'angoscia che produce l'idea stessa della morte. In questa sua riflessione Schopenhauer segue un orientamento interamente diverso. L'atteggiamento comune nei confronti della morte è privo di qualunque effettiva consapevolezza filosofica ed è per lo più guidato da credenze e superstizioni infondate. Eppure in esso traspare l'effettiva natura filosofica del problema, traspare persino in quelle opinioni e in quelle credenze - come quella dell'immortalità dell'anima - che naturalmente debbono essere respinte da Schopenhauer come puramente illusorie. Secondo Schopenhauer ciò che caratterizza eminentemente l'atteggiamento comune nei confronti della morte sono anzitutto due circostanze notevoli. In linea generale possiamo ben dire che per ciascun uomo la morte sta sempre dietro l'angolo, in ogni istante essa può intervenire in modo più o meno fortuito, più o meno inatteso. Eppure noi non viviamo affatto come condannati a morte, ma al contrario ciascuno, nella misura del possibile, vive lietamente "come se la morte non ci fosse" (M. p. 324). La seconda circo- 237 stanza caratteristica è che una simile noncuranza si dissolve interamente nel momento in cui l'individuo si trova realmente faccia a faccia con la morte, o anche soltanto se la immagina: "quando la morte si presenta in realtà, o anche soltanto nell'immaginazione, così da costringerlo a guardarlo in faccia, egli è colpito dall'orrore che gli ispira e cerca ogni mezzo per fuggirla" (p. 324). Ora Schopenhauer si rifiuterebbe certamente di collegare la noncuranza con il terrore, come se la prima potesse essre una conseguenza del secondo, come se essa fosse un modo di rimuovere questo terrore sempre incombente; oppure come se la noncuranza fosse il risultato di un ragionamento implicito sull'ineluttabilità della morte. Egli nega poi esplicitamente anche che il terrore della morte sia dovuto al dolore fisico che così spesso la accompagna. Morte e dolore sono due mali eterogenei, tanté che talvolta "preferiamo sopportare le più atroci sofferenze pur di sottrarci ancora un istante ad una morte che pur sarebbe facile e giusta" (p. 325). In breve: non è una possibile spiegazione psicologica o razionale che interessa Schopenhauer, quanto piuttosto il fatto che questi due aspetti dell'atteggiamento comune nei confronti della morte fanno trasparire proprio quella che è la duplice essenza della morte, che corrisponde del resto alla duplicità della stessa soggettività individuale che è fenomeno della volontà e la volontà stessa, appartenendo ad un presente transeunte e ad un presente intemporale. Nell'orrore della morte si manifesta ciò che la morte è effettivamente, la totale dissoluzione dell'io individuale, la sua completa distruzione. Poiché l'individuo è una oggettivazione della volontà di vivere, la morte deve apparirgli terrificante e deve soprattutto rifuggire da essa. Ma l'io individuale è l'io fenomenico, l'io apparente, che deve precipitare nella corrente del tempo. La noncuranza quotidiana di fronte alla morte, a sua volta, 238 ha un significato più profondo di quello che apparirebbe da possibili ed apparentemente ovvie spiegazioni psicologiche. In questa noncuranza traspare l'idea, certamente non formulata esplicitamente, che "la morte dissipa l'illusione che separa la coscienza individuale dall'universale" (p. 324), l'idea dunque che la morte stessa sia un' "apparenza mendace", in quanto appartiene interamente al mondo delle apparenze. Essa fa ritornare nel mondo dei sogni quello che è sempre stato un sogno. Mostra che la mia vita non è che una manifestazione della vita, e la morte non fa altro che ricongiungere la mia vita alla vita della totalità vivente del mondo. Allora possiamo veramente essere noncuranti della morte, ed in un senso profondo, che può arrivare alla piena consapevolezza dell'intramontabilità del presente che è anche intramontabilità della vita. Il presente è paragonabile ad un "eterno mezzogiorno al quale non mai succede la sera, o come il vero sole che arde ininterrottamente benché sembri tuffarsi nel seno della notte". E subito si aggiunge: "L'uomo che teme nella morte l'annientamento di sé medesimo, è simile a chi si immagina che il sole, al tramonto, debba esclamare gemendo: 'Ahimé! discendo nella notte eterna!" (M., § 54, p. 322). Chi raggiunge invece la consapevolezza dell'eterno mezzogiorno vede con indifferenza la morte che gli viene incontro e "la considererebbe come un fantasma impotente, fatto per spaventare i deboli, ma privo di potere per chi sa di essere gli stesso quel volere di cui l'universo è l'oggettivazine... e che dunque la vita gli è assicurata in eterno, insieme con il presente, forma unica ed esclusiva di ogni manifestazione della volontà" (ivi, p. 325). Notiamo di passaggio - ma si tratta di una notazione certamente significativa - che Schopenhauer è disposto a riconoscere ed a 239 fondare in questo ordine di idee le credenze religiose sulla "persistenza dell'individuo dopo la morte". Anche qui abbiamo, in una diversa chiave, la ripetizione del contrasto precedente: da un lato ogni uomo di buon senso non può che riconoscere ciò che accade quando qualcuno muore. La natura, come sempre, "non ci inganna e non si inganna, ma rivela con ingenua franchezza quello che è e quello che fa". Dall'altro noi travisiamo questo operare della natura interpretandolo nel senso "che più sorride alle concezioni limitate del nostro spirito". Eppure in questi mitici travisamenti, in queste fantasie di una vita ultraterrena, nella capacità che essi hanno di fare presa, dobbiamo essere in grado di cogliere il messaggio dell'intramontabilità della vita. 4. Il pensiero dell'effimero e dell'unità del tutto - La noncuranza della natura verso la morte - Maternità della natura - Il simbolismo del cerchio. In questo contesto Schopenhauer può certo rammentare l'esortazione di Krisna ad Ajruna (Bhagavadgita): di fronte agli eserciti schierati in battaglia Ajruna viene preso da sgomento al pensiero delle migliaia di uccisioni che stanno per accadere: la l'esortazione di Krisna attrae l'attenzione sull'insignificanza di queste vite. Tutta la tematica temporale di Schopenhauer avviene indubbiamente sotto il segno dell'effimero. Ma il pensiero dell'effimero, che può diventare torbido e profondamente equivoco, se ne sovrappone un altro di orientamento profondamente diverso. Più precisamente: esso deve essere inteso alla luce e nello spirito di un altro pensiero che è quello dell'unità del tut- 240 to - ogni vita individuale rifluisce infine nella vita della natura. La serenità di fronte alla morte è allora conseguente all'idea di un ritorno verso l'accogliente totalità da cui siamo stati scissi. Ancora una citazione di origine indiana illustra questa idea. Nei Veda si legge che "quando muore un uomo, la sua vista si confonde con il sole, il suo odorato con la terra, il suo gusto con l'acqua, il suo udito con l'aria, la sua parola con il fuoco" (M., p. 324). Ritorniamo così ancora al tema centrale della natura. Le domande ultime intorno al senso del mondo e della vita vanno rivolte, non già anzitutto alle formazioni spirituali, ma alla natura stessa che mostra la realtà delle cose quei mascheramenti di cui proprio lo "spirito" è il massimo artefice. Nella scala degli esseri l'uomo ha una posizione privilegiata, ma ciò accade in quanto "l'uomo è la natura sesssa nel grado supremo di autocoscienza" (M., p. 318). Tutto ciò che in precedenza abbiamo detto avendo di mira soprattutto la problematica temporale può certamente essere ora ripetuto facendo rierimento alla natura come totalità vivente: in questa totalità la morte è, non meno della nascita, una vicenda interna della vita della totalità stessa, di quella che Schopenhauer chiama vita immortale della natura (M., p. 317). Questa vitalità della natura ha il modello elementare nella vita del mio corpo che diventa all'interno di queste considerazioni un punto di riferimento fondamentale. Il processo della vita, considerato sul piano corporeo è anzitutto una trasformazione continua della materia. Ciò avviene anzitutto attaverso la nutrizione. La vita poi si riproduce attaverso la generazione. Ma la nutrizione è a suo modo generazione - creazione e ricreazione continua di nuove cellule, di nuova materia plasmata nel movimento della vita. Nella nutrizione vi è poi anche il processo opposto alla generazione. Essa è infatti accompagnata dalla formazione di escrementi, che vengono espulsi dal corpo, e questa è una funzione altrettanto vitale quanto lo è quella della nutrizione: 241 "Tra nutrizione quotidiana e generazione, rispettivamente tra l'escrezione quotidiana e la morte non c'è che una differenza di grado" (p. 318). Rispetto al grande processo della vita, il cadavere non è dunque che puro escremento o qualcosa di assimilabile all'escremento, materia espulsa provvisoriamente dal quel processo, ma destinata a rientratre in esso. Nulla è più insensato dell'imbalsamazione che tenta di ostacolare il corso stesso della natura e che avrebbe lo stesso senso che una conservazione accurata dei propri escrementi. Timore della morte e noncuranza di fronte ad essa possono a loro volta essere riproposti e reinterpretati nel contesto del problema della natura. Su questo tema si insiste a lungo nel Cap. XLI dei Supplementi che conviene ora tener sott'occhio. La morte è per l'uomo "il maggiore dei mali, il peggio che possa essere minacciato è la morte; il terrore più grande è il terrore della morte". In questo timore parla in realtà la voce stessa della natura proprio perché la natura intesa come concretizzazione della volontà è essenzialmente volontà di vivere. Si può dire di più: questo stesso timore può essere assunto come una sorta di prova del fatto che "tutto il nostro essere in se stesso è già volontà di vita, e questa deve valere come il sommo bene, per quanto amareggiata, breve e incerta essa sia" (Suppl., XLI p. 1344). Poiché la volontà non è distribuita e spezzettata fra gli individui, ma è tutta in ciascun individuo, l'orrore della morte riguarda propriamente la distruzione del corpo che è oggettivaizone immediata della volontà. "Nel linguaggio della natura la morte significa annientamento", e precisamente annientamento concreto del corpo, a cui segue come mera conseguenza l'annientamento della coscienza, della "psiche". Ma poi vi è la noncuranza: la morte viene tenuta a distanza. Finora questa noncuranza veniva riferita agli individui sin- 242 goli presi nella loro singolarità. E tuttavia non dovremmo forse parlare anzitutto della noncuranza della natura nei confronti della vita e della morte di tutte le creature che essa genera? Abbiamo detto: le domande ultime che hanno per noi un profondo interesse metafisico le dobbiamo rivolgere alla natura. "La natura non mente". Essa ci dice come stanno esattamente le cose, e se vogliamo sapere che ne è della morte, dobbiamo "considerare come, in contrasto con gli esseri singoli, l'insieme della natura si comporta rispetto alla morte" (Suppl., p. 1354). Siamo così invitati ancora una volta a guardare al mondo animale, alla loro vita in realtà così simile alla nostra, ed a notare quanto essa sia esposta all'annientamento più improvviso e insensato. Basta un moto inconsapevole dei nostri piedi per schiacciare un piccolo insetto sul terreno; e così il pesce "gioca inconsapevolmente di fronte alla rete aperta" e gli uccelli si librano nell'aria senza accorgersi del falco che li guata. Si cura di tutto ciò la natura? Per nulla affatto. Essa mostra ovunque la propria sovrana indifferenza. La natura è dunque "matrigna"? È assai opportuno, per comprendere lo spirito dell'intera filosofia di Schopenhauer sottolineare il fatto che proprio in questo luogo egli usa appellativo di Allmutter, la madre di tutto - la Grande Madre, appellativo antico ed in realtà benevolo. La Grande Madre sa che questi figli caduti si ritroveranno nuovamente nel suo grembo, dove saranno sempre di nuovo eternamente rigenerati. "Se ora la Grande Madre espone con tale noncuranza i propri figli senza tutela a mille pericoli minacciosi, allora ciò può essere soltanto perché sa che, se essi cadono, ricadono nel suo grembo dove sono celati, dal momento che la loro caduta è solo un gioco" (Suppl., Cap. XLI, p. 1356). La natura è materna perché è generatrice e rigeneratrice, e proprio per questo non può non dare accoglienza alla morte. Il simbolismo del cerchio ritorna qui perché esso è lo "schema del ritorno". Questo schema è "nella natura la forma più generale che essa adopera in tutto, dal 243 corso delle stelle fino alla morte ed alla nascita degli esserci organici e per cui nell'incessante fluire del tempo e del suo contenuto è pure possibile una costante esistenza, cioè una natura" (ivi, p. 1360). 5. Contro il materialismo - Il nulla e la morte - La noncuranza della natura - La foglia caduta e l'albero perenne - Ulteriore impiego della teoria platonica delle idee - Il cane eterno L'ateo e miscredente Schopenhauer non vuole affatto limitarsi ad una considerazione laica della morte come pura e semplice fine della vita individuale, ed indicarne la naturalità in un senso relativamente ovvio, come potrebbe avvenire all'interno di una concezione materialistica corrente. Proprio in apertura del Capitolo XLI dei Supplementi vi è un esempio molto indicativo del reazionarismo di Schopenhauer, che ha talora tratti di teatrale e plateale provocazione, quando si scatena contro l'atteggiamento del "mangiate, bevete, post mortem nulla voluptas", atteggiamento che egli ritiene non solo di poter qualificare come bestiale, ma di poter attribuire - oltrettutto toccando il ridicolo anche dal punto di vista storico essendo quel detto da sempre tipico delle classi agiate - ai "degenerati operai delle fabbriche, ai socialisti", ai "degenerati studenti neohegeliani" - tutte "categorie" che quanto al mangiare ed al bere avevano tra l'altro ben poco da scialare. Al di là dell'aneddoto, l'attacco riguarda il fatto che costoro sono corrotti da opinioni materialistiche. E Schopenhauer vuol fare, intorno alla morte, un discorso più ricco e articolato di quello che potrebbe risultare da una 244 concezione materialistica troppo grezza e poco elaborata. Si potrebbe inoltre ritenere che in queste pagine Schopenhauer intenda mettere in evidenza unicamente la tragicità della morte, in conformità al suo pessimismo. Io credo invece che appartenga al senso della sua esposizione il fatto che questa tragicità debba essere superata in direzione di un naturalismo che, pur rilevando indubbiamente delle componenti materialistiche, tuttavia non perda la presa sull'idea della perennità della vita. Proprio la mitigazione di questa tragicità mi sembra essere lo scopo filosofico apertamente perseguiti. A ben vedere ciò che vuol sostenere Schopenhauer è che non vi è idea più falsa della morte che quella del puro e semplice annullamento. L'immagine del nulla, certamente, verrà di continuo evocata in una discussione sulla morte, ma si tratta di un nulla che non deve incutere timore, come non incute timore quel nulla che noi eravamo prima della nostra nascita. Su questa relazione tra nascita e morte in rapporto al problema del nulla, Schopenhauer dedica una riflessione approfondita il cui senso complessivo consiste fondamentalmente nell'idea che la nostra stessa vita non deve essere concepita come una sorta di emergenza tra due nulla. Questo sarebbe un modo superficiale e inconsistente di pensare l'idea della nascita e della morte. La verità sta invece nel fatto che noi stessi siamo natura, più precisamente che ciascuno di noi è tutta la natura, e che perciò condividiamo la sua vita perenne. Si tratta di una idea antica, ed anche particolarmente presente nella cultura romantica, ma essa ha in Schopenhauer alcuni tratti peculiari. Tra questi vi è l'insistenza non tanto sul tema della dissoluzione nella natura, quanto sul fatto che proprio io sono natura, e dunque vita perenne. Perciò a chi chiede, spingendo lontano lo sguardo nel futuro e prospettando di fronte ai propri occhi l'immagine di un'umanità immensa, di milioni e milioni di uomini che si succedono indefinitamente, chiedendosi "donde verranno tutti costoro? Dove essi sono ora? Dove è il ricco grembo del nulla, pregno di mondi delle stirpi futuri, che esso 245 tiene ancora celati", la vera e sorridente risposta (così dice letteralmente Schopenhauer) dovrebbe essere: questi mondi, futuri non meno dei passati, sono in te stesso: sono nello stolto interrogatore (Suppl., p. 1361). Quell'aggettivo "sorridente" conferma le nostre osservazioni precedenti sull'atmosfera di queste pagine: e potremmo senz'altro aggiungere che chi sorride nel rispondere è la natura stessa, e sorride proprio di fronte alla immagine dei nascituri e dei morenti (naturalmente il senso dell'aggettivo cambia completamente traducendo die lächelnde und wahre Antwort con "la risposta vera che noi daremmo sorridendo a questa domanda..." quasi che fosse Schopenhauer a mettersi a ridere...). Schopenhauer ripete più volte la frase latina che sembra sintetizzare con esrema efficacia l'intera impostazione del problema: natura non contristatur. La natura non si rattrista. Anzi: la natura sorride. Questo sorriso è una risposta nel modo in cui rispondono gli oracoli: la natura "non commenta le sue asserzioni; ma piuttosto le dice nello stile laconico degli oracoli". Chi non lo comprende è simile alla foglia che cadendo in autunno dall'albero "si duole della propria fine e non si vuole fare consolare dalla vista del fresco verde che in primavera rivestirà l'albero, ma lamentandosi esclama: 'Ma non sono io! Queste sono tutt'altre foglie!" - O foglia insensata! Dove credi di andare? e donde dovrebbero le altre venire? Dove è il nulla il cui abisso tu temi? (Suppl., p. 494). Si noterà che in queste pagine all'immagine del nulla si contrappongono immagini di "pienezza" - il nulla in realtà è un grembo gravido di vita - non un abisso che deve essere temuto (e sull'argomento dovremo ritornare). In questo contesto ciò è dovuto in particolare alla soppressione del divenire temporale a cui subentra un presente intemporale che richiama per ciò stesso una sorta di pienezza d'essere. Nell'esempio della foglia che cade dall'albero è in ogni ca- 246 so contenuto un altro elemento. Nell'albero la foglia deve riconoscere il suo proprio essere, la "sete di esistenza" che è propria della foglia deve essere riconosciuta nella "segreta, urgente forza dell'albero, la quale, sempre una sola e medesima in tutte le generazioni di foglie, resta immune dal sorgere e dal trapassare" (Suppl., p. 1362). Parlando della permanente identità dell'albero si suggerisce una ulteriore e singolarissima riflessione sul platonismo ed in particolare proprio sulla tematica platonica delle idee. Questa tematica è tenuta lontana da un'interpretazione puramente epistemologica, e viene invece integrata strettamente nel processo di realizzazione della volontà; inoltre essa assolve una funzione importante nell'ambito della filosofia dell'arte. Ora assistiamo ad un'ulteriore e sorprendente sua applicazione. L'identità dell'idea è qualcosa che noi cogliamo viva e palpitante nel caso singolo. L'idea non è una vuota astrazione, un'astratta essenza comune, qualcosa di puramente pensato nel caso singolo. Guardate intorno a voi, esorta vivacemente Schopenhauer che si lascia prendere dall'argomento, guardate ad esempio a quel profondo mistero che sta celato in ogni organismo vivente! Guardare il vostro cane che scodinzola "lieto e tranquillo" intorno a voi. "Molte migliaia di cani hanno dovuto morire prima che a questo toccasse di vivere". Ma la distruzione di quelle migliaia di cani non ha toccato la sua idea - e dove è mai questa idea se non proprio lì, resa tangibile nel vostro cane che "sta ora così fresco e forte, come se questo fosse il suo primo giorno e nessuno potesse essere il suo ultimo" (Suppl. p. 1368) - guardatelo dunque bene il vostro cane, guardatelo negli occhi perché "dai suoi occhi vedrete splendere il suo indistruttibile archetipo" (ivi). Il cane eterno è ora alla vostra presenza. Nei millenni non esso è morto, ma la sua molteplice ombra. La vertiginosa fantasia speculativa di Schopenhauer riconduce il platonismo interamente dentro l'alveo della sua filosofia, e nello stesso tempo 247 aggiunge ad essa qualcosa: la specie ha la priorità sull'individuo, potendo essa essere interpretata come l'idea che si estende nel tempo. Ma proprio il fatto che questo tema possa essere oggetto di una simile speculazione chiarisce ancor più che l'intento di Schopenhauer è quello di forzare il problema dell'eterno ritorno, del ricongiungersi della vita con la vita in modo da dargli come sfondo un modo di atteggiarsi verso l'esistenza stessa. Al centro vi è in realtà sempre il tema della morte e del nulla. In vari modi si cerca di sopprimere l'idea del nulla e nello stesso tempo a dichiarare la nullità della morte in forza di un discorso su un'immortalità che appartiene allo statuto stesso dell'esistenza. Dal fatto che noi esistiamo, dice una volta Schopenhauer, segue che dobbiamo esistere sempre (Suppl., p. 1376). Ed anche: "Ci è impossibile uscire dall'esistenza, così come ci è impossibile cadere fuori dallo spazio" (ivi). Nel tentativo di argomentare affermazioni come queste si giocherà indubbiamente sulla differenza tra livello metafisico e livello delle apparenze empiriche, ma il modo in cui questo gioco si realizza mostra costantemente una tendenza a saldare questi due livelli e nello stesso tempo a non accontentasi di una evocazione puramente retorica della Madre di Tutto. Ogni energia, ogni forza che noi vediamo operante tra le cose del mondo che ci circonda, a partire dalla nostra stessa energia muscolare, è in via di principio esistita da sempre: come potrebe infatti nascere dal nulla? Come potrebbe essere annientata? Se di ciò non siamo troppo convinti, allora pensiamo alla materia a cui la morte ci riconduce. La materia è indistruttibile, in rapporto ad esso la distruzione è infatti niente altro che trasformazione e mutamento; ed è forse il caso di chiedersi se il tema del superamento della morte non sia già tutto compreso in questa eternità della materia. Chi rifiuta ogni altra forma di immortalità, non potrebbe forse attestarsi su di questa? Di fronte a ciò sorge subito la protesta apparentemente ovvia: quando si parla di immortalità si intende il perdurare del mio essere dopo la morte, e come può questo perdurare ritro- 248 varsi nella cenere, nella polvere, nella terra a cui la morte ci riduce? Ed a questa protesta risponderemmo: che ne sai tu della polvere? O addirittura del tuo essere? "questa materia che ora è polvere e cenere, ben presto sciolta nell'acqua si consoliderà come cristallo, splenderà come metallo, sprizzerà scintille lettriche, estrinseche, con la sua tensione galvanica, una forza, la quale, scomponendo le combinazioni più salde, riduce le terre a metalli; anzi, essa si formerà da sé in pianta, ed in animale e svolgerà dal suo grembo misterioso quella vita della cui perdita voi nella vostra limitatezza siete così ansiosamente preoccupati" (Suppl., p. 1353). Non meno indicative sono infine le riflessioni sulla metempsicosi. Letteralmente intesa, come incarnazione della stessa anima in più vite, essa contiene certamente numerose assurdità, come ogni altro mito religioso. E tuttavia in essa vi è un senso profondo, un senso che può forse essere meglio rappresentato dall'idea della palingenesi, dunque di una origine costantemente rinnovata. Nelle considerazioni sulla metempsicosi e sulla palingenesi Schopenhauer sembra disposto a spingere la propria speculazione fino al punto di postulare un legame segreto tra i morti e i vivi, come se proprio la mia morte fosse per un altro la condizione della sua vita, esattamente come nella favola narrata da Grimm nella quale sono rappresentate le vite di tutti gli uomini come candele accese in una grande caverna: e solo se una candela si spegne, un'altra può accendersi. Come se la vita dell'uno trapassasse in quella dell'altro, e questo trapassare dalla vita alla vita fosse appunto la morte. "Così che le morti e le nascite, sempre e dappertutto aumentano a diminuiscono nello stesso rapporto" (Suppl., p. 1396). La "fresca esistenza" di ognuno è pagata con la vecchiezza e la morte di un defunto". Dice Lichtenberg, citato da Schopenhauer: "Io non posso liberarmi dal pensiero che ero morto prima di nascere". Su questa frase piena di enigmi possiamo concludere provvisoriamente l'argomento. 249 Annotazione 1. Il cane eterno... Già! Ma allora che ne è dell'ipotesi evoluzionistica e della mutazione delle specie oppure delle specie animali estinte? Forse anche in questi casi, nello spirito delle considerazioni di Schopenhauer occorrerebbe mantenere distinti piani delle domande che sorgono nell'indagine scientifica e quelle che si pongono sulla terreno della metafisica. Anche se Schopenhauer tenta di superare in qualche modo, qui e là, queste possibili obiezioni. Ad esempio: la volontà fa proprio quello che vuole, e quindi può anche cessare di realizzarsi in un'idea nella quale una volta si è realizzata. Ciò non vuol dire che l'idea sia perita. Per quanto riguarda le mutazioni delle specie nei Colloqui si accenna ad una rozza teoria sull'origine della specie fondata sui parti "mostruosi": da un serpente nasce una volta una lucertola, dallo scimpanzé l'uomo... (p. 113). 250 6. Sul pessimismo di Schopenhauer - Dubbi su interpretazioni unilaterali - Il dolore ha le sue radici nella metafisica della volontà - Nostri dubbi sulla consistenza filosofica dell'opposizione tra ottimismo e pessimismo. Se stiamo alla nostra precedente esposizione, non sembra affatto facile innestare su di essa uno sviluppo in direzione di una visione "pessimistica". In effetti l'esaltazione dell'unità della natura mette in evidenza temi che non possiamo che definire in altro modo che come rasserenanti: anche se certamente non verranno ritenuti tali da seguaci del cristianesimo. Ma è appena ovvio osservare che il mito dell'immortalità individuale non è sempre necessariamente rasserenante, o almeno non dovrebbe esserlo per colui a cui si garantisce, a causa dei suoi misfatti, la dannazione eterna. Esclama una volta Schopenhauer: "Per trent'anni di vita miserabile, la dannazione per tutta l'eternità! Quale assurdità!" (Colloqui, p.122). Alla soppressione di questo mito non corrisponde una pura e semplice accentuazione della tragicità della morte, che può essere attribuita solo a chi non sa cogliere la propria relazione con il tutto e non sa arrivare a concepire la propria vita come simile a quella della foglia caduta dal grande albero continuamente rifiorente. In quell'analogia vi è certamente un richiamo implicito al simbolo dell'albero della vita, che suggerisce poi un percorso che conduce all'idea della palingenesi e del trapassare del morto nel vivo che assume quasi il carattere di un mistero religioso. Del resto anche il tono e lo stile di Schopenhauer lascia talvolta trasparire una sorta di convinto entusiasmo per i meravigliosi equilibri della natura, per la meravigliosa perfezione delle sue operazioni. Tutto ciò non suggerisce temi negativistici. Naturalmente ancora una volta attiriamo l'attenzione su questo punto per sot- 251 tolineare una nostra inclinazione interpretativa. Il "pessimismo" non è, per così dire, scritto dappertutto nella filosofia di Schopenhauer e non è sempre una conseguenza logica di ogni sua presa di posizione. Ciò rende il suo pensiero ricco di tensioni interne che contribuiscono al suo interesse. Resta certamente il fatto che dalla nostra esposizione precedente è rimasto ai margini, come un tema da riprendere, l'idea che la vita in generale è soprattutto sofferenza, che essa è soprattutto dolore. "Wesentlich alle Leben Leiden ist" - Ogni vivere è per essenza un patire (§ 56). Si comprende allora che da questo giudizio sulla vita le considerazioni precedente possano assumere anche un'intonazione diversa, e lo stesso tema della morte possa mutare di senso. Vi è tuttavia una circostanza che deve essere subito messa in rilievo. Non si afferma mai in Schopenhauer una connessione tra la vita come sofferenza e la morte come liberazione da essa. Che la morte sia preferibile alla vita egli lo dice soltanto in quei casi speciali in cui il dolore è talmente atroce e la morte talmente sicura che il parlare della morte come preferibile alla vita diventa una pura e semplice frase di senso comune - ed io vorrei aggiungere ora (2006), a ricordo della tragica vicenda di Piergiorgio Welby: di quel senso comune dal quale talvolta solo i preti e il papa possono esserne crudelmente privi. In realtà il tema della morte resta sostanzialmente ancorato a quello della vita immortale della natura. La connessione tra la vita e il dolore non deve essere ricercata anzitutto nei dolori fisici e morali nei quali ci imbattiamo tanto spesso, quanto piuttosto deve essere proposta come una connessione essenziale che mette in questione ancora una volta l'essenza della volontà. Gli inizi del problema stanno proprio nella volontà in quanto comincia ad oggettivarsi nei gradi inferiori, nella natura materiale, nelle forze, nelle loro tensioni, nei conflitti interni alla materia stessa. Ciò che la volontà è per noi - tensione verso l'azione che esige il proprio appagamento - lo è anche come principio metafisico supremo. La volontà è sforzo, tensione 252 verso una realizzazione che nuovamente si supera in una nuova tensione. La volontà è streben, un verbo che unisce l'idea del tendere a quello della pena della tensione. Questo movimento della volontà si esprime ad ogni livello, a cominciare dalle azioni e reazioni all'interno della natura materiale. Le descrizioni di Schopenhauer non a caso diventano descrizioni "espressive", le attrazioni e repulsioni, i fenomeni magnetici ed elettrici vengono descritti in termini "psicologici", ma di una psicologia che ha bisogno di una giustifiazione metafisica - la forza di gravità è uno "sforzo incessante che tende verso un punto centrale inesteso" (M., p. 350), vi è una aspirazione allo stato gassoso... Tanto più descrizioni di questo genere saranno ritenute pertinenti nel caso della vita organica. Nel crescere di una pianta vi è "uno sforzo senza tregua e non mai appagato, un tendere perpetuo attraverso forme sempre più elevate, fino al punto di arrivo, che ridiviene punto di partenza; e tutto ciò si ripete all'infinito, senza uno scopo, senza un appagamento ultimo, senza riposo" (M. p. 350). Il soffrire di cui parla Schopenhauer ha dunque le sue radici nella natura stessa in quanto essa è attraversata da parte a parte da uno Streben nel quale possiamo già scorgere i carattere del desiderio (Begierde). Nel desiderio vi è tensione verso l'appagamento, vi sono gli impedimenti e freni che lo ostacolano e che debbono essere superati, vi è il riemergere del desiderio dopo l'appagamento, ogni volta esso rilancia le proprie istanze, vi è un eterno ritorno del desiderio che fa apparire l'impresa della natura come una immane fatica di Sisifo, imposta da una volontà tanto inesorabile quanto cieca: "Ogni tensione (Streben) sorge da una mancanza, ed è quindi sofferenza (Leiden), finché non è soddisfatta; nessuna soddisfazione è tuttavia permanente; essa è invece solo il punto iniziale di una nuova tensione. La tensione noi la vediamo ovunque frenata in molti modi, ovunque in conflitto: e così essa è sempre sofferenza: non vi è scopo alcuno della tensione; quindi nessuna misura e scopo della sofferenza" (Lez., IV, p. 111). 253 Il dolore di cui parla Schopenhauer ha dunque questa radice metafisica nella volontà come desiderio perennemente da soddisfare e perennemente inappagato. Nella capacità dell'uomo di soffrire vi è una implicita consapevolezza di questa sofferenza della volontà. Questo inizio fa presagire che l'elaborazione dell'intero tema del pessimismo non sarà affatto una sorta di lamento sui mali del mondo, una sorta di effusione verbale sui danni e i malanni dell'esistenza, più o meno enumerati secondo modelli ben noti della tradizione. Talvolta naturalmente l'esposizione sembra assumere proprio questo andamento. Ecco dunque l'affermazione che "il mondo umano è il regno del caso e dell'errore", che noi passiamo la vita sotto la frusta della stoltezza e della malvagità, che "ogni biografia è una storia di dolore", una "via crucis di grandi e piccole sciagure"; il più ostinato degli ottimisti dovrebbe essere obbligato a fare un pellegrinaggio attraverso "gli ospedali, i lazzaretti o gli ambulatori chirurgici; attraverso le prigioni, le camere di tortura, gli ergastoli; sui campi di battaglia e sui luoghi del supplizio; schiudiamogli i tetri tuguri dove la miseria si nasconde agli sguardi dei curiosi indifferenti, facciamolo entrare nella prigione del conte Ugolino, nella torre della fame..." (§ 59). Per Dante, molto più facile della descrizione del paradiso è quella dell'inferno, perché esso è sotto i nostri occhi. Ma queste pagine, che hanno proprio il carattere di un lamento sui mali del mondo, sono da considerare come una sorta di concessione letteraria e sono precedute dall'ammonimento a non rinunciare al "punto di vista dell'universalità proprio del filosofo", cosa che indubbiamente accadrebbe se, "procedendo a posteriori e discendendo nei particolari, presentassimo all'immaginazione i quadri e gli esempi delle miserie senza nome che ci offrono l'esperienza e la storia" (M.. p. 364): una simile descrizione corre sempre il rischio di essere parziale e potrebbe passare "per una semplice declamazione delle miserie umane fatta sul tipo delle 254 solite" (M., p. 364). Ad ogni tentativo di enumerare i mali può essere contrapposto un tentativo di enumerare i beni ed in una simile disputa dovremmo forse attribuire la vittoria a chi ha una maggiore perserveranza? Certamente non è questa la via per venire a capo della questione. L'enumerazione dei beni e dei mali si risolve in un puro discorso retorico, nella pura e semplice abilità nel dipingere le cose in modo più o meno fosco, a tinte più o meno rosee. Ciò naturalmente non accade in una pura deduzione da principi. Eppure, anche seguendo questa via, a me sembra non si riesca a superare l'inconsistenza filosofica dell'opposizione tra pessimismo ed ottimismo: si avverte un so quale imbarazzo nell'impiegarla. In fin dei conti Schopenhauer non è molto lontano dal modo in cui Leibniz teorizza il proprio ottimismo. Anch'egli infatti non avrebbe accetta la descrizione empirica come prova. Il suo ottimismo deriva da due premesse filosofiche fondamentale: l'infinità dei mondi possibili e la bontà di dio. Di qui si deduce come ovvia conseguenza che questo mondo in quanto scelto da dio è il migliore dei mondi possibili. Il sottinteso di ciò è: comunque stiano in realtà le cose, ovvero qualunque siano i casi che si possano citare pro o contro. Anche in Schopenhauer, a ben pensarci, vi è questo stesso sottinteso, anche se né Leibniz né Schopenhauer potrebbero accettare l'espressione in realtà. Si dovrebbe dire piuttosto: in apparenza, perché le enumerazioni empiriche dei casi riguardano appunto non l'essenza, ma l'apparenza. Ma per gli uomini comuni, che non stanno ragionando in termini metafisici, la realtà è quella che concretamente sperimentano, con i diversi casi, nel bene e nel male, che si avvicendano in essa, cosicché entrambe le vie aprioriche pretendono di essere vere indipendentemente da questo concetto di realtà. Da un lato dunque è inconcludente l'elencazione empirica, ma lo è anche la via che deduce da principi, dai quali otteniamo una conclusione, ottimistica o pessimistica che sia, che 255 avviene all'insegna del "tanto peggio per la realtà". Per questo io penso che questa opposizione sia filosoficamente assai poco produttiva, e ciò naturalmente indica una inclinazione nella nostra lettura. In effetti credo che, come sarebbe sbagliato ritenere che il centro del problema leiniziano sia l'idea del "migliore dei mondi possibili" interpretato come puro e semplice ottimismo, così sarebbe sbagliato ritenere che in Schopenhauer questo centro sia rappresentato dal pessimismo. 7. L'affiorare del problema di una descrizione psicologicometafisica degli stati della vita affettiva - Esempio della noia - L'esistenza quotidiana tra tragedia e commedia - Ancora su pessimismo e ottimismo e sulla loro inconsistenza filosofica. Parlare di pessimismo in Schopenhauer ha solo il senso di cogliere una sorta di punto di snodo nel quale diventano visibili molti altri problemi: esso non ha nessuna portata realmente si- 256 gnificativa considerato in se stesso (così come del resto per l'ottimismo di Leibniz). Il primo problema che viene sollevato è quello della necessità di un perfezionamento della problematica metafisica, consistente in particolare nella riconduzione di una metafisica dei costumi ad una metafisica del desiderio che a sua volta viene fatta regredire dal senso psicologico evoluto del termine sino agli istinti più profondamente radicati nella vita corporea. Come abbiamo visto, alla vita dobbiamo attribuire quell'"aspirazione senza scopo" che è propria della volontà e dunque anche quella "passione" che dipende da questa aspirazione, in quanto inappagata, ma anche dall'appagamento stesso che mette termine solo provvisoriamente termine all'ansietà riproponendo di continuo aspirazioni nuove. Qualora questa riproposizione non avvenga senz'altro, l'appagamento stesso genera, nella vita individuale una sorta di sensazione di vuoto, di languore (languor), potremmo dire di insoddisfazione passiva che normalmente viene indicata con il termine di noia (Langeweile). Si tratta di un tema sul Schopenhauer insiste in modo particolare (§ 57) così come su altri stati affettivi che incontreremo per ragioni non casuali lungo il nostro percorso. Ed è giusto anche dire le osservazioni di Schopenhauer talora sono assai acute, talaltra invece non sembrano certo il risultato di una meditazione particolarmente profonda, e nemmeno offrono il destro di un approfondimento che il lettore possa condurre per conto proprio. Della noia si dice, ad esempio, che essa è "il supplizio delle le classi superiori", mentre la plebe certamente avrà assai poco tempo a disposizione per arrivare ad annoiarsi, impegnata com'è a soddisfare la fame, che naturalmente l'opposto esatto della noia (M., p. 354); mentre nel caso della borghesia ovvero della classe media "la noia è rappresentata dalla domenica, il bisogno dagli altri sei giorni della settimana" (p. 355). Osservazioni disarmanti che abbondano nel Quarto libro del Mondo più che altrove e che mostrano uno Schopenhauer che conversa più o meno amabilmente, talvolta con spirito e 257 ironia, tavolta dando via libera alle proprie idisiosincrasie e idee fisse su argomenti minuti: così egli trova modo per manifestare disprezzo per il gioco delle carte o per rimproverare la pessima abitudine di apporre il proprio nome sulle mura dei luoghi visitati. Nella riflessione più tarda questa inclinazione diventerà nettamente dominante ed avrà modo di dispiegarsi interamente con risultati non sempre confortanti nei saggi raccolti sotto il titolo di Parerga e Paralipomena. È necessario allora avvertire una volta per tutte che se prestiamo orecchio a queste divagazioni, rischiamo di rimetterci il senso effettivo e la portata dei temi proposti, che sono spesso assai seri e la cui influenza ha un'onda particolarmente lunga, anche se spesso largamente misconosciuta. Così la chiamata in causa della noia, come stato psicologico quotidiano che tutti possiamo sperimentare nelle nostre giornate si affaccia l'idea che questo stato possa ricevere una interpretazione più profonda, che esso possa essere considerato come rappresentativo di una dimensione dell'esistenza stessa, di qualcosa che fa parte del suo senso, o meglio del suo nonsenso. Il vero nodo della questione non sta dunque in osservazioni come quelle or ora rammentate, ma nell'idea stessa di una interpretazione metafisica della noia, che peraltro richiederebbe una sua preliminare descrizione fenomenologica. Schopenhauer fornisce una caratterizzazione della noia come leeres Sehnen, come un bramare vuoto, senza oggetto, mettendo in evidenza che anche la noia è una tensione, ma senza una direzione verso cui mirare, una sorta di desiderio che non sa che cosa debba essere desiderato - cosicché da un lato si connette la noia al desiderio appagato, dall'altro si mostra come anche questo appagamento contenga un momento di intenso disagio. Ma vi è un altro aspetto che in certo senso queste considerazioni sulla noia preannunciano. Il quarto libro del Mondo può essere letto anche isolando - senza necessariamente rinunciare alla visione d'insieme - alcuni nuclei tematici, e fra questi dobbiamo annoverare l'idea, sia pure embrionale, di una interpreta- 258 zione filosofica di stati o condizioni emotive caratteristiche, cui la noia rappresenta un esempio. Sullo sfondo della discussione si intravvede dunque il problema di una teoria dell'affettività che si avvale di osserazioni fenomenologico-psicologiche, nel quadro tuttavia di un orientamento fornito da considerazioni di carattere generale che hanno naturalmente il loro centro nel problema della volontà e in generale dei rapporti tra volontà e conoscenza. Così in seguito dovremo riparlare del pentimento, del rimorso, della vergogna, dell'invidia, della compassione. La tematica "pessimistica" rimane certo sullo sfondo, nel senso e nei limiti che sono stati da noi precisati. Ciò che chiamiamo felicità non ha alcun contenuto positivo, ma si tratta di un concetto puramente negativo: esso si riduce alla liberazione da un dolore o da un bisogno. Dalla gioia eccessiva dobbiamo del resto guardarci per il fatto che essa non è che la premessa di una delusione che sarà tanto maggiore quanto sarà stata grande la gioia anteriore. La gioia è "una vetta scosesa da cui non si può che discendere a precipizio" (§ 57). Proprio perché la felicità è illusoria, l'arte che è "fedele specchio dell'essenza del mondo", e che è anche in grado di darci una gioia autentica, tuttavia non può assumere come tema "una felicità perfetta e durevole" (M., p. 361). Argomento dell'arte è piuttosto la vita stessa, e dunque le vicissitudini della vita, i conflitti, i pericoli, gli sforzi: e naturalmente anche le gioie che si incontrano tra le pene. Quando l'eroe del dramma o dell'epos ha effettivamente ottenuto ciò che perseguiva nelle sue peripezie, allora il poema ha termine, qui cala il sipario,perché non vi è più nulla di raccontare, comincia la noia. Anche il tema della morte viene talora evocato non già secondo il punto di vista, troppo elevato e inaccessibile ai più, della vita immortale della natura, ma proprio dal punto di vista dell'individuo singolo, come sbocco inevitabile e angoscioso della sua vita. La dimensione propriamente tragica - che richiede individualità potenti e grandi conclitti - viene tenuta a distanza. L'immagine dominante è quella di una umanità ano- 259 nima, del formicolare di questi uomini stupidamente laboriosi, la vita dei quali per uno spettatore esterno non può apparire che "come un'aspirazione vaga, una serie di tormenti sordi, un barcollare attraverso le quattro età sino alla morte, in compagnia di una folla di pensieri triviali" (M., pp. 362-3). È dunque la dimensione della vita comune a cui pensa soprattutto Schopenhauer, che si trascina di giorno in giorno con le sue piccole ansie, con i suoi timori e mediocrità quotidiane. Un punto di vista che Schopenhauer esprime splendidamente osservando che: "la vita di ciascuno di noi, considerata nell'insieme e nella sua generalità è una vera e propria tragedia; ma esaminata nei particolare assume il carattere di una commedia" (ivi). Tutto ciò che quotidianamente ci accade, anche ciò che ci può apparire momentaneamente molto importante, è rappresentato in realtà da fatterelli che possono essere visti come vere e proprie scene di commedia. E tuttavia: "i desideri non esauditi, gli sforzi frustrati, le speranze calpestate dall'empio destino, gli errori fatali di tutta la vita, le pene sempre crescenti, e in ultimo la morte, ci dànno la trama di una tragedia" (ivi). Qui trama ha il senso consueto quando viene riferita ad un dramma, cioè lo sviluppo delle vicende rappresentate, ma ha anche il senso di trama di un tessuto: quei fatterelli, quelle scene comiche hanno un tessuto tragico. Il destino ci schernisce, poiché "mentre ha tessuto la vita con i dolori della tragedia, ci volle fin dall'inizio negare la dignità del personaggio tragico, condannandoci nei particolari della vita ordinaria alla parte di buffoni cenciosi" (M. p. 363). 260 Queste formulazioni pessimistiche non vanno isolate dal contesto teorico complessivo in cui sono inserite e che conferisce ad esse una dignità filosofica. 8. La volontà come "parafrasi del corpo" - La fame e il sesso - La fame alimentare - Lo sfruttamento come una forma di divoramento - La sessualità e la conservazione della specie - L'intonazione fallica della metafisica di Schopenhauer - Il Cupido di Schopenhauer - Il senso autentico della sua "metafisica della sessualità" consiste nella sottolineatura delle motivazione inconsce dei comportamenti - Cenno critico al riduzionismo biologico-fisiologico in essa implicato. Torniamo dunque a ciò che dà nerbo al pessimismo di Schopenhauer, e dunque al tema della vita come autoaffermazione della volontà. In precedenza abbiamo affrontato l'argomento forse in modo troppo debole, perché parlando della volontà come aspirazione insoddisfatta sembra che ci si richiami ad una condizione evoluta dell'individuo, considerato nella totalità delle sue capacità psichiche, in grado di porsi obbiettivi e di conoscere la realtà operando in base a queste conoscenze - in breve come soggettività intesa nella pienezza delle sue determinazioni spirituali. Invece proprio a questo punto, quando procediamo ormai verso il completamento del sistema, dobbiamo far cadere l'accento con particolare forza in una direzione, che pur essendo presente dappertutto, solo ora può essere valutata ed apprezzata nelle sue conseguenze. Fin dall'inizio, il parlare della volontà significava non sol- 261 tanto evocare il piano dei vissuti psicologici, ma i livelli inferiori della vita istintiva, quelli dell'istintualità direttamente corporea, intesa come una sorta di fondamento su cui si sostiene la nostra stessa vita psichica. Tanto più andrà allora messo a distanza il tema dello "spirito" ovvero delle formazioni soggettive di ordine superiore. Lo spirito, dice una volta Schopenhauer "non è altro che una bolla di sapone che si stacca dalle nostre sensazioni, sale nell'aria, si fa ammirare dai bambini, e poi scoppia fra le loro mani" (Colloqui, p. 257). Quando Schopenhauer dice ciò sta certamente pensando a Hegel, alla sua filosofia dello spirito, ma un'affermazione così forte e così pregnante certamente non ha solo un significato polemico, ma è particolarmente rappresentativa del suo atteggiamento filosofico. Se ci vogliamo interrogare su ciò che è la vita, dobbiamo rivolgerci a ciò in cui la vita anzitutto si manifesta e questo non è l'io delle manifestazioni spirituali, ma nemmeno è l'io psicologico, l'io come compagine di vissuti, ma è invece l'io puramente vivente che coincide e si risolve nel suo corpo. Per questo va dato il massimo rilievo all'affermazione che la volontà, nel suo sviluppo temporale, è una parafrasi del corpo (Paraphrases des Leibes), espressione già assai forte che viene rafforzata e formulata ancora più nettamente quando si dice che "invece di affermazione della volontà (Bejahung des Willens) possiamo anche parlare di affermazione del corpo (Bejahung des Leibes)" (M., p. 368). Ed ora chiediamoci: in che cosa consiste l'affermazione del corpo? In null'altro che nella nutrizione e nella generazione. Ciò significa: la volontà è soprattutto fame e sesso. O anche soltanto e puramente: fame. Fame di cibo e fame sessuale. La volontà è famelica (Colloqui, p. 112). Questo aggettivo in parte è metaforico, in parte non lo è. Quando Schopenhauer si accinge a fare una perorazione del proprio pessimismo, a di- 262 mostrare che il nostro è proprio "il peggiore dei mondi possibili" (Colloqui, p. 271) si affaccia alla finestra e segna a dito la propria "prova irrefutabile": guardate quegli operai affaccendati laggiù, "curvi con i loro arnesi". Il pensiero "che attanaglia il loro cervello" è quello del cibo quotidiano. L'attendibilità di questo episodio è talora messa in dubbio, eppure esso è assai fedele allo spirito del pensiero di Schopenhauer. Il nutrimento è il grande problema, e tutto si ricollega ad esso in modo più o meno diretto, le scienze, le tecniche, l'industria, la diplomazia, la guerra - tutto ha a che fare con questo scopo "volgare e terribile nello stesso tempo, della nutrizione, stavo quasi per dire, della masticazione" (Colloqui, p. 272). Lo spirito del pensiero e dell'atteggiamento di Schopenhauer è presente persino nel fatto che il vecchio reazionario - per vocazione e provocazione - riesce questa volta a vedere la miseria operaia, così come del resto, come risulta da un'altra testimonianza dei Colloqui, a compatire la miseria degli emigranti - "Quando, durante la nostra passeggiata, incontrammo una volta famiglie di emigranti, in parte coperti di stracci, Schopenhauer, fermandosi e guardandoli, disse: "Se si vede questo, uno viene di nuovo preso da tutta la sofferenza della vita..." (Colloqui, p. 131); e persino a parlare di sfruttamento come una vera e propria forma di divoramento. La contesa per il cibo arriva al punto che le persone "non potendo ammazzarsi apertamente in una vera lotta, si assassinano per così dire mediante uno sfruttamento reciproco, in cui ciascuno cerca di vivere con la sostanza del suo simile" (Colloqui, p. 273) - ed a chiarimento si cita la Bibbia dove si dice: "Tra loro ci sono quelli che divorano gli uomini come si divora il pane" (Colloqui, p. 273). Naturalmente in tutto ciò Schopenhauer non vede la presenza di una condizione storica di penuria e di miseria che può essere superata, ma come una manifestazione della lotta universale della natura per la nutrizione. Ed anche in questo caso egli è tentato di cercare la verità del mondo umano facendolo regredire al mondo animale. Nel mondo animale la vita si presen- 263 ta appunto soltanto come vita, cioè ricondotta alla sua dimensione originaria puramente corporea. Allora il ciclo della via si presenta come "uccidere, mangiare, digerire, dormire" per riacquistare le forze e ricominciare ad uccidere (Colloqui, p. 273). Oltre la fame del cibo, vi è poi la fame sessuale. All'istinto di autoconsevazione del singolo si accompagna l'istinto di autoconservazione della specie, l'istinto sessuale. Dell'argomento si parla nel § 59 del Mondo e più diffusamente nel Capitolo XLIV del Supplementi, intitolato Metafisica dell'amore sessuale. L'importanza di quest'ultimo testo va sottolineata dal momento che esso è esposto ad essere fortemente sottovalutata, ed anche guardato dall'alto al basso mettendo in atto una critica tanto ironica quanto sbrigativa. Sulla sessualità in genere noi, uomini di oggi, la sappiamo lunga! Così è necessario nella lettura trasferirsi idealmente molti e molti anni prima di Freud; ed anche scontare la presenza nel testo di luoghi comuni e pregiudizi d'epoca, così come di teorizzazioni che non stanno realmente né in cielo né in terra, tenendo stretto il filo conduttore teorico che minaccia di continuo di essere sommerso da notazioni minori. È bene anche ricordarsi di una acuta valutazione formulata da Thomas Mann che, nel tentativo di dare una motivazione del rapporto tra Wagner e Schopenhauer, afferma a tutte lettere che la negazione della volontà e dunque la tematica ascetica di cui parleremo tra breve, è "la componente etico-intellettuale del suo sistema" che è, a suo avviso, del tutto secondaria, essendo la filosofia di Schopenhauer essenzialmente "una filosofia della volontà a base erotica" (T. Mann, Dolore e grandezza di Richard Wagner, trad. it. di L. Mazzucchetti, Discanto Edizioni, Fiesole 1979, p. 35) Se teniamo conto di tutto ciò, allora cominciamo a cogliere la novità dell'argomento all'interno di un testo filosofico e l'importanza che assume nel suo impianto. L'amore riempie la poesia, quella lirica come quella epica, il dramma e il romanzo - non vi è opera letteraria che non faccia dell'amore il suo centro o uno dei suoi centri e non vi dun- 264 que nulla da meravigliarsi se un filosofo "fa una buona volta suo questo tema costante di tutti i poeti", mentre vi è da meravigliarsi "che una cosa che ha una parte così importante nella vita umana non sia quasi affatto presa in considerazione, e si trovi allo stato di materiale grezzo". Qui non vi sono "predecessori da utilizzare o da confutare" (Suppl., p. 1452). Vi è dunque una rivendicazione dell'amore come argomento degno della riflessione filosofica, che è già di per se stessa nuova e importante: ma questa rivendicazione diventa ancor più significativa tenendo conto dell'aggettivo che precisa l'argomento e proprio in un'esposizione che si fregia addirittura del termine di metafisica: non si tratta dell'amore semplicemente, come pura dimensione affettiva, prevalentemente psicologica, ma dell'amore sessuale. Gli "esuberanti sentimentalismi", le "bolle di sapone sull'innamoramento degli spiriti ipersensibili" dovranno dunque essere messi da parte di fronte a questa considerazione metafisica che si annuncia in realtà posta sotto l'insegna di un "crudo realismo". Vi è dunque, secondo questa "metafisica", un significato interno dell'amore sessuale che non solo non deve essere ricercato nelle eteree fantasie degli innamorati, ma nemmeno nel puro e semplice piacere dell'atto sessuale. Esso consiste invece nel fatto che alla sessualità è affidato il compito della procreazione, restando inteso che ciò che importa non è la semplice procreazione di un altro individuo, ma il fatto che attraverso di essa si mantiene e si conserva la specie umana. Nell'istinto sessuale ha la sua manifestazione più clamorosa il dominio che la conservazione della specie esercita su quella dell'individuo. Perciò l'impulso sessuale è in generale vissuto come un problema così importante, così decisivo, come qualcosa di fronte al quale l'individuo può "perdere la testa". In fondo, dice Schopenhauer, si tratta solo del fatto che ogni Hans ritrovi la sua Gretel e in una noticina il benevolo lettore è pregato da Schopenhauer stesso di tradurre questa frase nel linguaggio notoriamente un 265 po' scurrile di Aristofane. Ed una tal piccolezza può scatenare tutto ciò che l'amore scatena? Disponiamoci invece dal punto di vista del significato interno della sessualità: allora essa si presenta come la più profonda ed originaria manifestazione della volontà come volontà di vivere, come affermazione della vita. Questa consiste soprattutto nell'affermazione della specie, poiché la vita individuale è destinata a venire meno, cosicché sessualità e volontà di vivere fanno tutt'uno. Si presti attenzione al modo in cui viene effettuato questo nesso: qui non si dice che la sessualità è importante perché attraverso di essa avviene la conservazione della specie: ciò sarebbe alquanto banale! Si dice invece che il principio metafisico del reale da cui scaturisce il mondo come sua oggettivazione, ha nella sessualità la sua massima manifestazione. "I genitali sono il vero punto focale (Brennpunkt) della volontà" - dice Schopenhauer senza mezzi termini; e la geometria è certo assai lontana da questo Brennpunkt: "Il piacere arde (brennt) di continuo in noi, perché è la manifestazione della base della nostra vita, di ciò che sta alle radici della nostra esistenza, alle radici del volere" (Lez., IV, p. 141). La metafisica di Schopenhauer assume dunque una imponente intonazione fallica. Il principio metafisico si realizza anzitutto nel corpo, e tende a perpetuare la sua vita nell'unico modo possibile: la procreazione. Proprio in questo sviluppo conclusivo del problema è necessario tener ben ferma la distinzione tra il mondo delle apparenze e il punto di vista filosofico che va oltre di esse: l'istinto sessuale in quanto rivolto al piacere deve essere considerato illusorio, in quanto il piacere è un mezzo di cui il genio della specie (Genius des Spezies), come si esprime pittorescamente Schopenhauer, attua i propri fini. Illusoria è dunque anche l'attrazione esercitata dall'altro sesso: essa non può essere ricondotta soltanto alla bellezza e spiegata attraverso di essa. Tutti i caratteri che ci fanno parlare della bellezza che è capace di farci innamorare sono in realtà ca- 266 ratteri che giovano alla migliore conservazione della specie, e che quindi sono atti a produrre la figliolanza migliore. Voi credete di essere attratti da un bel sorriso, da una bocca fine o da un ovale squisito? Da una caviglia molto sottile? Allora certamente Cupido, il fanciullino alato della mitologia greco-reomana, ha scoccato la sua freccia: ma ciò significa che ha segnalato la presenza, nel sorriso, di una buona dentatura atta ad assolvere manificamente la funzione masticatoria così importante per la sanità dell'individuo e nell'ovale del volto o nella sottigliezza della caviglia caratteristiche tipicamente proprie della specie umana (Colloqui, p. 295). Si tratta di un tema che che Schopenhauer svilupppa nei Supplementi con molti dettagli e con un estremismo che si trova al limite del buon senso. Sovente una persona di piccola statura si innamora di una persona di grande statura, il biondo cerca il bruno, e così si nota una tendenza alla compensazione... ecco in opera il genio della specie che attraverso il gioco delle attrazioni e repulsioni provvede ad evitare che l'umanità si scinda in alcune legioni di nani e di giganti, di bruni e di biondi... (Colloqui, p. 195). Che tutto ciò si presti ad una critica ironica è appena il caso di dirlo: questo Cupido schopenhaueriano, sempre acquattato alla nostre spalle, che cessa di essere un fanciullo sbarazzino e capriccioso diventando invece un freddo calcolatore, un tenace e implacabile custode della specie, il cui sguardo sta al fondo dei nostri sguardi da innamorati, suscita in effetti, nel caso più benevolo, un sorriso. Tanto più siamo stimolati all'ironia quando Schopenhauer cerca di usare il suo Cupido in chiave esplicativa, come quando cerca di rendere conto di un innamoramento incondizionato verso un'unica persona, che può dare luogo anche a comportamenti irragionevoli, con la pretesa di generare un individuo determinato, che può essere figlio solo di quella donna o di quell'uomo, cosicché il genio della specie deve far di tutto per obbligarli ad un incontro. Soddisfiamo pure il nostro gusto ironico, che in fin dei 267 conti ha qui, soprattutto nel dettaglio degli esempi, la sua legittimità. Ma poi tentiamo anche di scorgere quella che è l'idea di fondo di questa esposizione. In essa non si dice soltanto che la sessualità sta alla radice della nostra esistenza, ma si dice anche che i comportamenti governati dalla sessualità non possono che apparire profondamente inesplicabili ed in particolare che non possiamo in questo genere di argomenti affidarci solo a ciò che appare alla superficie, ma dobbiamo volgerci appunto ad un significato interno che è anche un significato nascosto, celato all'individuo. La duplicità di dimensioni in cui si sviluppa il problema allude qui più chiaramente che altrove alla dimensione metafisica come una dimensione dell'inconscio, che è in grado di rendere conto di certi nostri strani comportamenti sfuggendo in ogni caso alla consapevolezza dell'individuo. Questo tema dell'inconsapevolezza dal punto di vista individuale viene in questo contesto continuamente ribadito. Se mai al Cupido reinterpretato da Schopenhauer si potrebbe rimproverare di togliere di mezzo l'enorme diaframma delle motivazioni psicologiche cercando di operare la riduzione dell'intero problema dell'amore sessuale a livello puramente fisiologico e biologico. E questa critica mi sembra più interessante di una sbrigativa dissoluzione ironica. 9. La filosofia morale di Schopenhauer - Il rifiuto dell'elemento prescrittivo e la critica della "voce interiore" di Kant - In che cosa consiste l'azione ingiusta - Ulteriore richiamo al tema della del rapporto tra il corpo e la volontà - Caratterizzazione dell'azione giusta come azione non-ingiusta - Rifiuto del convenzionalismo. Fino a questo punto non sembra ancora realmente giustificata l'idea, che abbiamo formulata all'inizio, secondo la quale nel quarto libro del Mondo è formulata la filosofia morale di Schopenhauer. Anche se non ci possiamo attendere una dottrina di 268 carattere prescrittivo che formuli ordini e divieti, tuttavia dovremo pur imbatterci in qualche punto nei concetti costitutivi di questo ambito problematico, nelle distinzioni che riguardano il buono e il cattivo, la giustizia e l'ingiustizia, la virtù e la malavagità, il bene e il male, e naturalmente nei comportamenti che possono essere classificati in base a quelle distinzioni. In effetti in una simile problematica ci imbattiamo solo con il § 61, ed essa si estende sino al § 67 incluso, occupando quindi un gruppo piuttosto nutrito di pagine che formano un vero e proprio nucleo centrale dell'esposizione. A questo sviluppo problematico unitario farà seguito, nei §§ 68-70, la famosa conclusione sulla massima virtù, sulla santità, con la sua clamorosa rivendicazione dell'ascetismo che, nelle letture correnti, tende a mettere un poco in ombra la tematica dei paragrafi precedenti. Vogliamo qui, come sempre, attirare l'attenzione solo sui punti principali. Anzitutto proprio sul terreno della morale e in prossimità degli esiti conclusivi Schopenhauer vuole insistere sulla necessità di un pensare concreto fondato su fatti che affiora molto spesso in mezzo alle speculazioni più ardite, e talvolta addirittura in singolare coerenza con esse. Questi fatti possono naturalmente essere fatti dell'esperienza interna, anche se in proposito Schopenhauer invita in certo modo alla prudenza. La prudenza è messa in campo da Schopenhauer, nelle Lezioni berlinesi per una confutazione in via breve della posizione kantiana del dovere. Secondo Kant vi sarebbe una voce interna che ci ordina di comportarci secondo il modo previsto dall'imperativo categorico. Ma sentiamo tutti veramente quella voce? E se io non la udissi? E come faccio ad essere sicuro che altri la odano? Sorge così il sospetto che una simile esperienza non sia un'esperienza affatto, ma la proiezione di una concezione filosofica. Per sentire quella voce, bisogna già essere convintamente filosofi kantiani. Non è invece necessario in generale filosofeggiare per provare sentimenti come il pentimento e il rimorso. Queste 269 sono autentiche esperienze vissute che rimando all'ambito di una "coscienza morale", all'esistenza di una "signficatività etica dell'agire". Le considerazioni morali si aprono proprio nel presupposto di questa significatività: "La significatività etica dell'agire è un dato di fatto innegabile" (Lez., IV, p. 57). Essa si manifesta in particolare quando otteniamo un piacere o un vantaggio a grave danno di altri: la gioia del piacere o del vantaggio conseguito è sempre accompagnato da una sensazione di disagio, che deriva dal modo in cui quel vantaggio o quel piacere è stato conseguito. Si annuncia così una sorta di dialettica tra egoismo ed altruismo che rappresenta il vero fulcro, l'autentico centro della filosofia morale, Ma per comprendere questa dialettica dobbiamo essere in grado di fornire di questi fatti un'interpretazione metafisica: un sentimento, uno stato d'animo, un modo della coscienza ha certo valenze psicologiche importanti, genera determinati comportamenti che si svolgono tuttavia sul piano fenomenico. Tuttavia il senso delle nostre azioni non è per lo più quello che appare immediatamente e che ci sembra immediatamente ovvio, ma ad esse, così come agli stati emotivi che stanno alle loro spalle, corrispondono sempre sensi più profondi che superano in linea di principio l'orizzonte della nostra individualità. Ciò vale naturalmente anzitutto per il tema dell'egoismo. La tesi da cui si prendono le mosse è che la molla fodamentale delle azioni e dei comportamenti umani è l'egoismo. Tutti avvertiamo l'importanza di noi stessi, ed anche che questa importanza precede le cautele e i provvedimenti che riteniamo eventualmente di dover prendere per arginarla. Il compito dell'interpretazione metafisica è quello di chiarire che questo egoismo non è affatto una pura inclinazione psicologica, ma è una conseguenza diretta e necessaria della volontà. Come già sappiamo, la volontà si individua nei singoli, ma ciò non significa che essa si frantumi in essi. Nei singoli la vo- 270 lontà è presente tutt'intera, e ciò rende conto di una condizione di massimo accentramento della soggettività e nello stesso tempo di massima tensione conflittuale che è tensione degli individui tra loro e della volontà con se stessa. L'homo homini lupus di Hobbes, che Schopenhauer non può non rammentare, diventa un principio fondato nella metafisica della volontà. A rafforzare questo egoismo della volontà può contribuire il soggetto conoscitivo che si pone come polarità necessaria del mondo come rappresentazione. Il mondo c'è in quanto ci sono io stesso che lo rappresenta, e mentre io stesso posso cogliermi come soggetto della volontà, gli altri sono colti da me anzitutto soltanto come rappresentazioni (M., p. 373). Cosicché la soggettività individuale può pretendere di essere, in quanto polarità soggettiva della rappresentazione e nello stesso tempo come investita dalla volontà nella sua interezza, sostegno e condizione del mondo stesso. Io sono grande quanto è grande il mondo stesso, con me tutto comincia e tutto finisce. Il microcosmo non vale meno del macrocosmo. Ciò rende conto del fatto, apparentemente inesplicabile che ciascun individuo "benché infinitesimo al punto da sparire come un niente nell'immensità del mondo, pure si consideri come centro dell'universo e pensi alla propria esistenza ed al proprio benessere più che a tutto il resto; anzi, sin quando rimane nel punto di vista naturale, egli è pronto a sacrificare tutto il resto, ad annullare il mondo intero, pur di considerare un attimo di più il suo proprio io, minuscola goccia d'acqua nell'oceano" (M., p. 373). Una volta compiuto questo primo passo, tutto il resto segue con inflessibile coerenza, riprendendo con nuove implicazioni temi già noti. Il tema della corporeità, ad esempio, assume una importanza fondamentale nella filosofia morale, e persino nella filosofia del diritto nella quale la filosofia morale ben presto sconfina. Risulta subito chiaro che se l'affermazione della volontà è anzitutto affermazione del corpo, allora da un lato l'egoismo si 271 deve manifestare anzitutto come istanza di assoluto soddisfacimento del corpo e dei suoi bisogni ed istinti, dall'altra l'azione ingiusta sarà anzitutto quella che irrompe, nel soddisfacimento dei propri bisogni, nella sfera della corporeità altrui impedendole di affermarsi. In questo modo si perviene ad una caratterizzazione dell'azione ingiusta, prima ancora che a quella di un'azione giusta - della giustizia viene proposta una nozione anzitutto negativa piuttosto che positiva: può essere detta giusta l'azione che è semplice non-ingiusta. Il modo assolutamente letterale in cui va intesa l'affermazione del corpo risulta con la massima evidenza nella gerarchia delle azioni ingiuste che viene subito suggerita dall'idea che l'azione ingiusta sia in generale quella che irrompe nella sfera della corporeità altrui. L'azione più ingiusta sarà probabilmente l'omicidio, la soppressione pura e semplice della volontà dell'altro. Ma vi è in realtà - osserva Schopenhauer - un misfatto ancora più scellerato, un delitto più orrendo, e questo è il cannibalismo, il soddisfare la propria fame con il corpo dell'altro. Nell'azione cannibalica, l'egoismo celebra in certo senso il suo trionfo. Nello stesso tempo nel cannibalismo che troviamo così spesso nei miti delle origini si intravvede in controluce l'immagine dell'auto divoramento, che è un'immagine estremamente pregnante della volontà stessa. In ogni azione ingiusta vi è qualcosa come il ricordo dell'azione cannibalica, in ogni sopraffazione una sorta di eco di quella massima sopraffazione. Così l'omicidio, il ferimento e le lesioni del corpo dell'altro; quindi il soggiogamento degli altri per subordinarli ai propri scopi, dunque ogni forma di asservimento e di schiavismo; ed anzhe ogni attentato alla proprietà considerata come una sorta di prolungamento del proprio corpo. Sulla proprietà peraltro la posizione di Schopenhauer è più articolata, ed è meno conservatrice di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Infatti non si prendono le mosse dalla proprietà come dato di fatto, non si dice che essa, come tale, deve essere assimilata a quella proprietà originaria che è il mio 272 corpo. Si parla invece della formazione della pretesa della proprietà come una pretesa giusta ed il riferimento al corpo ed all'azione corporea serve a delineare l'estensione e i limiti di questa pretesa. In breve: possiamo legittimamente pretendere la proprietà solo per quelle cose che sono frutto del nostro lavoro, dove con lavoro si dovrà intendere anzitutto una attività di manipolazione concretamente corporea. Si tratta di un criterio molto restrittivo che potrà naturalmente essere esteso, ma sempre tenendo conto di questa origine del diritto alla proprietà. "Ogni diritto vero, ogni diritto morale di proprietà è dunque fondato in origine unicamente sul lavoro" (M., 376). "Quando una cosa fu elaborata, migliorata, difesa dagli accidenti esterni e custodita da un altro individuo mediante un lavoro anche minimo e limitato per ipotesi al semplice atto di cogliere e radunare frutti selvatici, tentando di impadronirci di quella cosa, togliamo evidentemente all'altro il frutto del suo lavoro e sottraiamo il suo corpo alla sua volontà per asservirlo alla nostra; in altre parole spingiamo l'affermazione del nostro volere al di là del nostro fenomeno fino a negare il fenomeno estraneo: commettiamo quindi un'ingiustizia" (M., p. 377). La frode, la menzogna, il contravvenire i patti, ecc., sono azioni ingiuste perché sono riconducibili ad una violazione della volontà altrui, a meno che esse non siano determinate dall'intenzione di opporre resistenza ad una ingiustifizia altrui. Poiché non è ingiusto opporsi ad una ingiustizia, le azioni che prima chiamavamo ingiuste possono in certi casi cambiare di segno. Solo in questo senso di può parlare di un impiego relativo dei termini di giusto e ingiusto. L'omicidio non è ingiusto se avviene per legittima difesa, e così non compio un'azione ingiusta se riesco con un'astuta menzogna a rinchiudere un ladro nella mia cantina (M., p. 381). Questa relatività tuttavia non rende quella distinzione il risultato di una "convenzione". È importante sottolineare questo punto in particolare perché poco fa abbiamo rammentato la posizione di Hobbes. Parlando inizialmente dell'egoismo non si voleva fare una "ipotesi" sul cosiddetto stato di natura, e tanto 273 meno si voleva affermare che la distinzione tra il giusto e l'ingiusto sorge solo con una legislazione positiva, riducendo questa distinzione a pura convenzione. Al contrario si vuol mostrare che dal fatto che si può definire un concetto originario di azione ingiusta, si può riconoscere altrettanta originarietà al concetto negativo di azione giusta derivato dal precedente. In questo senso si osserva che "chi ad un viandante che si è smarrito si rifiuta di indicare la strada giusta non si dimostra ingiusto con lui; ma è invece ingiusto chi lo indirizza per una strada falsa" (p. 379). Se non indico la strada al viandante smarrito, questa azione ha certamente delle conseguenze che possono svolgersi a suo danno, ma io non approfitto in alcun modo della sua volontà per affermare la mia: semplicemente non voglio avere nulla a che fare con lui, mi dissocio dal suo destino. Atto non altruistico, certo: ma di ciò riparleremo. Se invece lo indirizzo per una strada falsa, alla base di questo mio comportamento attivo vi deve essere un interesse mio proprio: con questa menzogna intendo rendere l'altro strumento della mia volontà. La distinzione tra il giusto e l'ingiusto può avvenire in ogni caso indipendentemene da determinazioni giuridiche positive, come una distinzione morale non convenzionale, che può sussistere nella coscienza morale anche nello "stato di natura" e che sta alla base di un insieme di norme di "diritto naturale" che dovrebbe formare la base del diritto positivo. Peraltro Schopenhauer usa una simile terminologia solo per stabilire un nesso con la discussione nella sua forma tradizionale. Egli preferisce parlare di un "diritto puro" come "capitolo della morale" richiamandosi ad un piano di considerazioni aprioriche, che riguardano l'essenza dell'azione ingiusta e conseguentemente dell'azione giusta. 274 10. L'origine dello stato dall'egoismo - Il diritto di punire - La giustizia ed il simbolismo della bilancia - Solo lo stato ha diritto di punire - Il senso della pena - Illegittimità della vendetta - Scopo intimidatorio della pena comminata dallo stato - Netta distinzione tra condanna morale e condanna giuridica - "Mia è la vendetta, dice il Signore". Come la filosofia morale sconfina nella filosofia del diritto, così la filosofia del diritto sconfina con quella dello stato. Schopenhauer non si sottrae al compito di accennare a questo possibile sviluppo (§ 62), ed anche in esso vi sono tratti che hanno una lunga tradizione, ma anche spunti ed elaborazioni originali che derivano dal peculiare contesto della sua impostazione generale. Tra i motivi di lunga tradizione dobbiamo naturalmente annoverare l'idea che lo stato sorga da un'intesa sociale implicita, da un patto. La coscienza morale che può far sorgere nei singoli la distinzione tra azione giusta e ingiusta non può certo di per sé sola istituire una condizione di giustizia. Questa condizione, per quel tanto che può essere raggiunta, 275 può essere conseguita soltanto attraverso un egoismo illuminato e giustificato dalla ragione, che diventa consapevole delle necessità di accettare una limitazione per la migliore realizzazione dei propri obbiettivi. In altri termini, l'egoismo senza regole rischia di ritorcersi contro l'egoista, poiché l'ingiustizia sofferta potrebbe essere maggiore dell'ingiustizia imposta agli altri per il nostro appagamento. L'egoismo diventa così in certo senso un "egoismo comune", "illuminato", ragionevole. Di qui lo stato trae la sua origine. "Lo stato è lontano dal combattere l'egoismo in generale e come tale; anzi, l'egoismo costituisce appunto la sua sorgente" (M., p. 388). Ciò naturalmente tende a differenziare fortemente i compiti dello Stato dall'ambito della morale. Lo Stato non ha funzione morali - un punto su cui Schopenhauer si trova nuovamente in netto contrasto con Kant "il quale deduce assai falsamente l'istituzione dello Stato, quasi come un dovere morale, dal suo imperativo categorico". La giustizia in senso statuale istituzionale, benché in certo modo presupponga la morale e debba donarsi in linea di principio su di essa ha un senso ed un fine interamente diverso. La legislazione non tende a rendere migliori gli uomini, ma ad assicurare il mdo migliore di esplicazione della volontà di ciascuno: "La legislazione trae dalla morale la sua teoria del diritto, cioè la teoria dell'essenza e dei limiti del giusto e dell'ingiusto; ma la fa valere a fini suoi propri, estranei alla morale, applicandola in senso contrario e fondando la legge positiva corroborata dalle necessarie sanzioni: edificando lo Stato" (ivi, p. 387). Morale è l'atteggiamento che evita l'azione ingiusta, cioè che non interferisce nella volontà altrui. Il diritto fa valere questo principio, quindi si appoggia alla morale, ma lo fa valere per motivi egoistici, ed in questo senso il legislatore è un moralista a rovescio. 276 Seguendo questo ordine di idee ci imbattiamo nei tratti più originali dell'esposizine di Schopenhauer. Essi si trovano certamente nella discussione sul diritto di punire che prepara l'impennata speculativa sulla giustizia eterna (§ 63) nella quale irrompe nuovamente la concezione del mondo e della vita di Schopenhauer. Vogliamo accennare ai termini di questa discussione notando anzitutto che tutta la nostra esposizione potrebbe assumere l'andamento di una riflessione sul senso o sui sensi di certe parole chiave - naturalmente anzitutto sulla parola giustizia, azione giusta e ingiusta, e quindi sulle parole che sono ad esse concettualmente collegate come la parola colpa. Il commettere un'azione ingiusta è una colpa; ed accanto all'ovvio risvolto morale di questa nozione, vi è in essa anche un richiamo a quella della pena - entrambe le parole colpa e pena fluttuano di continuo tra l'ambito della soggettività singola considerata nei suoi sentimenti e nelle sue passioni e l'ambito delle istituzioni sociali. Dobbiamo dunque intervenire in queste fluttuazioni chiarendo almeno una netta differenza. Lo stato ha diritto di punire, più precisamente: solo lo stato ha diritto di punire, ed ancora: solo con il sorgere dello stato sorge anche il diritto di punire. Questo diritto non ha dunque alcuna legittimazione nello stato di natura. Ma una simile affermazione va rammentata attirando l'attenzione su ciò che propriamente significa la pena, quando è lo stato a comminarla. Proprio su questo punto la confusione tra il piano delle considerazioni morali e quello delle considerazioni giuridiche può essere particolarmente grave. La giustizia è spesso rappresentata dalla bilancia, secondo un simbolismo apparentemente ovvio. L'idea generale in essa espressa rimanda ad una sorta di necessario punto di equilibrio, e dunque anche di compensazione. Il simbolismo della bilancia tuttavia non dice tuttavia soltanto che la pena deve essere equilibrata rispetto alla colpa (forse anzi non dice affatto questo), ma dice piuttosto che, laddove vi è una colpa, essa crea uno 277 squilibrio che deve essere compensato da una pena. Ogni colpa che abbiamo commesso, e quindi ogni sofferenza che abbiamo imposta agli altri, può essere espiata da una sofferenza di eguale peso che patiamo su noi stessi: quel simbolismo ci parla dunque anche del riscatto, della liberazione dalla colpa. Ma esso può essere inteso anche in un altro modo ancora, come se riguardasse unicamente la punizione: poiché hai fatto soffrire, tu devi soffrire, questa è la punizione meritata dalle tue azioni. Del resto la sofferenza eterna garantita ai malvagi dalla religione cattolica è null'altro che una punizione, privata da qualunque idea del riscatto, è una pena connessa puramente e semplicemente alla colpa. In questo contesto cade anche una notevole osservazione sulla vendetta: non solo infatti si sottolinea in questo modo la profonda differenza tra il diritto di punire dello Stato dalla vendetta, ma anche la totale illegittimità morale della vendetta. Colui che si vendica ritiene di avere una sorta di diritto morale alla vendetta, un diritto che non a caso fa valere anche contro la legislazione positiva. In effetti qualcosa della bilancia della giustizia si intravvede ancora nella vendetta, solo in modo deformato, dal momento che si pretende che un torto subito possa essere controbilanciato da un altro torto, ed è invece chiaro che l'idea della compensazione è solo apparente. Ciò che di fatto si fa è accrescere la quantità di azioni ingiuste, di torti subiti, quando a ciò non si aggiunge la componente propriamente malvagia, cioè il godimento che dovrebbe venirci "dallo spettacolo di un dolore imposto da noi a chi ci fece soffrire" (M., p. 389). Al di fuori dello stato il preteso diritto di punire non è che vendetta, e del resto la stessa pena inflitta dallo stato deve essere nettamente separata dall'implicazione morale or ora illustrata. Ciò significa che dobbiamo liberare l'idea della giustizia nel senso giuridico istituzionale del termine da ogni implicazione rispetto all'idea della compensazione, e dunque proprio dal simbolismo della bilancia, che vale al massimo nel suo senso più povero a ricordare che la gravità della pena deve essere 278 commisurata alla gravità del reato. Dall'idea della pena, in particolare, deve essere esclusa l'idea della espiazione, così come quella della pura e semplice punizione, e tanto meno essa potrà essere intesa come una sorta di vendetta che diventerebbe legittima in quanto trasferita dal piano privato a quello istituzionale. Deve invece essere fatta valere un'idea puramente strumentale della giustizia, coerente con lo scopo fondamentale dello stato che è quello di limitare le ingiustizie subite. Da questo punto di vista la pena non ha tanto a che vedere con una ingiustizia commessa ed irreparabile, ma deve servire a scoraggiare un reato analogo che potrebbe essere commesso in futuro, dal condannato stesso o da chiunque altro. Lo scopo della pena è dunque unicamente intimidatorio e riguarda non tanto la persona che viene condonnata e il reato per cui viene condannata, ma possibili reati futuri. Ciò può sembrare paradossale, ma solo se si confonde il piano giuridico istituzionale con quella propriamente morale. La legge "non può avere che un fine, quello di distogliere chiunque, con l'intimidazinoe, dalla violazione del diritto altrui" (p. 389). "Il fine della pena, o meglio della legge morale, è dunque la prevenzione della colpa mediante l'intimidazione" (p. 390). "La preoccupazione per l'avvenire è il carattere che distingue la pena dalla vendetta" (p. 390). In questa concezione tuttavia non dobbiamo solo cogliere il tema strumentale che tende a fare dello stesso condannato - come riconosce Schopenhauer - un mezzo per l'esecuzione dello scopo dello stato, ma anche una presa di posizione contro il moralismo, identificato in particolare con Kant, al quale non si risparmiano precisi riferimenti polemici. Si avverte da parte di Schopenhauer una vera e propria ripugnanza nei confronti di chi ritiene di potere, sulla base dei propri principi, esprimere condanne morali nei confronti dei comportamenti altrui, con un atteggiamento che tende poi a fare della condanna giuridica niente altro che una sorta di realizzazione conseguente della condanna morale. Ed anche in questo caso non si tratta per nulla di una posizione 279 dipendente da una concezione relativistica della morale. Un determinato comportamento può essere ritenuto fondatamente un misfatto, un'azione moralmente esecrabile, ma un conto è questo riconoscimento di principio ed un'altro è una condanna morale considerata come implicante la richiesta della pena rivolta specificamente a quell'individuo che ha commesso il misfatto. Un conto è ritenere moralmente esecrabile l'omicidio, e ritenere anche giustificata la pena inflitta all'omicida, ed un altro è ritenere esecrabile l'omicida stessso, come individuo determinato. Vi è qui un discorso sottinteso in realtà importante ed impegnativo che tende a dissociare il giudizio sull'azione considerata in se stessa, e quindi astrattamente, dal giudizio sulla persona che ha commesso quell'azione. Si tratta di una distinzione non esplicitamente formulata ma, a me sembra, implicitamente presupposta. La pretesa di passare da un giudizio all'altro non è affatto così ovvia come forse si potrebbe pensare. Essa invece è una pretesa insostenibile, è una pretesa troppo grande. È difficile non scorgere in simili considerazioni la consapevolezza così viva in Schopenhauer della complessità sconosciuta della vita interiore degli uomini, così come la presenza dell'idea della costellazione di motivi che stanno alla base dei comportamenti e l'idea del carattere che ha, nell'accezione proposta da Schopenhauer, connotazioni che affondano nelle regioni più oscure e profonde del nostro essere. Potremmo dire che mentre per la condanna morale dell'azione come tale ci basta una considerazione di superficie, per la condanna di colui che ha commesso l'azione dovremmo essere in grado di spingerci sino ai segreti disegni della volontà. Si intravvede così una problematica che oscilla tra un aspetto psicologico ed uno metafisico. Ecco dunque la ragione per la quale Schopenhauer resta colpito da una frase di Paolo nella lettera ai Romani e che egli ripete più di una volta: "Mia è la vendetta, dice il Signore: io mi incarico di punire" (p. 390). Questa frase dà una forma straordinariamente pregnante al 280 pensiero che Schopenhauer intende esprimere. Pregnante è proprio l'impiego della parola parola vendetta (Rache) in quanto riferita proprio a dio, e certamente non in quanto modello da riportare sui comportamenti umani! Questa parola ha a che fare con il versante morale del problema, e qui si dice che la pretesa del giustiziere, del vendicatore, è una pretesa troppo grande per l'uomo - cosicché "nessuno ha il diritto di ergersi a giudice e vendicatore nel senso morale, di punire con il dolore i misfatti altrui, di imporre delle pene" (p. 389). Solo dio può farlo! E dunque nessuno. 11. La giustizia eterna - Richiami alla cultura religiosa indiana - Teoria della virtù - Azione buona e azione cattiva - L'altruismo. La coscienza religiosa di tradizione cristiana, per rendere conto della giustizia e del suo senso profondo, si appella in ultima analisi alla giustizia divina, quando la giustizia umana non arriva a punire il malvagio, a ricompensare la vittima ed a infliggere ai colpevoli la giusta condanna. In realtà, nota Schopenhauer, vediamo costantemente "il malvagio, dopo misfatti e crudeltà di ogni specie, vivere fra i piaceri e uscire dal mondo senza soffrire il minimo disturbo", ed al contrario "l'oppressso trascina alla fine una vita di dolori senza che un vendicatore o un giustiziere si faccia avanti" (M., p. 395). Di fronte ciò egli non può certo cercare risposte nella mitologia della religione di tradizione ebraico-cristiana. Con c'è nessuna giustizia in un dio personale che giudicherà, alla fine dei tempi, le azioni degli uomini assegnando i malvagi all'inferno per tutta l'eternità, idea che, come abbiamo notato, egli giudica semplicemente aberrante. E tuttavia Schopenhauer tenta di parlare di una giustizia eterna, di una giustizia che riguarda la totalità del mondo come manifestazione della volontà e che può essere colta solo se ci si dispone dal punto di vista della conoscenza finalmente raggiunta della reale essenza del mondo. 281 Questo tema, trattato estesamente nel § 63, riprende il grande tema dell'unità di tutti gli esseri, il carattere apparente della molteplicità degli individui, benché questa molteplicità sia la forma necessaria di manifestazione e di realizzazione della volontà. Ripreso a questo punto, questo tema assume il senso di una sorta di solidarietà, si sarebbe tentati di dire, tra l'oppresso e l'oppressore, tra la vittima e il suo carnefice: l'uno e l'altro sono figure di un'unica e di una stessa volontà, che in esse certamente è destinata a lacerarsi. Ritorna anche l'immagine dell'autodivoramento della volontà, la quale, cercando in uno dei suoi fenomeni "un accrescimento di benessere, produce nell'altro un eccesso di dolore", e così facendo "conficca i suoi denti nella propria carne, senza sapere di lacerare se stessa" (p. 396). Perciò il carnefice dovrebbe riconoscersi nella propria vittima e far proprio il suo dolore: ma la vittima dovrebbe inversamente sentire pesare su di sé come propria colpa la colpa del carnefice. La vittima, non meno del carnefice, affermano in ogni istante la loro volontà di vivere, e quindi affermano e riaffermano in ogni istante la legge in base alla quale debbono sempre esservi vittime e carnefici. È proprio questa "legge", dall'apparenza così paradossale, che Schopenhauer chiama giustizia eterna. In essa si dà la massima enfasi possibile a quell'elemento che in precedenza avevamo reso quasi irrilevante in rapporto alla considerazione della giustizia nel senso istituzionale e statuale del termine. La giustizia eterna è soprattutto rappresentata dalla bilancia in equilibrio, e quindi dall'idea della compensazione. La sofferenza è ora la pena, ed ogni sofferenza è il risultato di una colpa. "Se fosse possibile mettere in uno dei piatti della bilancia tutte le fosserenze del mondo e sull'altro tutte le sue colpe, l'indice resterebbe certo perpendicolare" (M., p. 393). Sarebbe facile fraintendere cià che Schopenhauer intende dire. Egli non dice che il male compiuto va comunque punito, e non 282 importa se la punizione giunge a chi ha commesso il male o ad un altro qualunque, purché in generale vi sia compensazione tra colpe e pene! Egli dice invece che tu stesso espierai le tue colpe, perché non c'è nessuna alterità autentica e tu stesso e l'altro non siete che una vicenda interna di una soggettività che si dilania. Certo un'identità mantenuta attraverso l'alterità, e per di più nel contesto di questo problema, è un vero e proprio enigma. Di esso Schopenhauer ritiene di poter trovare una formulazione esemplare nel mito indiano della metempsicosi, inteso nel suo significato e nella sua portata morale. Occorre notare che proprio in questo paragrafo dedicato alla "giustizia eterna" il richiamo alla cultura indiana in contrapposizione a quella europea diventa particolarmente appassionato, e la contrapposizione è particolarmente dura. Nella cultura religiosa dell'antica India, dice Schopenhauer, è deposta "la saggezza originaria del sapere umano" (M., p. 398) ed a nulla serve tentare di evangelizzare quel popolo mandare presso di esso clergymen inglesi e fratelli moravi: sarebbe come tirare una palla contro una roccia. Lo stesso paragrafo si conclude con uno sferzante sarcasmo nei confronti del cristianesimo e con l'affermazione dell'importanza crescente che la cultura religiosa indiana sarebbe destinata ad avere per l'Europa. "La saggezza originaria del genere umano non si ritira dinanzi ai fatterelli che accaddero in Galilea. La saggezza indiana rifluisce invece verso l'Europa e vi produrrà una trasformazione radicale nella nostra scienza e nel nostro pensiero" (M., p. 398). Tornando al tema della reincarnazione, essa può essere ricollegato proprio al tema della giustizia: essa ha infatti anche il senso di una ricompensa e di una remunerazione oppure di una pena che deve espiare una colpa. Tu stesso che hai provocato sofferenze, soffrirai nella prossima vita che ti è destinata, e se hai ucciso un animale, allora rinascerai "nella forma di quello stesso animale per soffrire la stessa morte". Ed i tormenti che vengono 283 promessi come pene sono proprio quei tormenti che la realtà stessa ci mette sotto gli occhi "senza bisogno di ricorrere ad un altro inferno". Alla base di tutto ciò vi è in ogni caso una colpa originaria - che è l'affermazione stessa della vita. Per questo Schopenhauer può fare propria l'idea di Calderon della nascita come colpa che trova nella morte la sua ultima pena. La colpa, naturalmente, non sta nel dato di fatto di essere nato, ma nell'atto sessuale di cui la mia nascita è il prodotto, sta dunque nella sessualità stessa nella quale io mi accingo con altre nascite a riconfermare la mia nascita. Non si tratta di una semplice ripresa dalla maledizione della vita, del "non vorrei essere mai nato", proprio perché rimanda alla sessualità come affermazione della volontà. Il "peccato originale" "consiste manifestamente nell'aver gustato le gioie carnali" (p. 369): questo mondo noi lo abbiamo voluto e continuiamo a volerlo. Con ciò si annuncia con prepotenza il tema fondamentale della negazione della volontà, ma prima di trattare di esso abbiamo bisogno di perfezionare un poco la tematica morale. Due parole vanno dette sul buono e il cattivo, e soprattutto sulla virtù. Si può forse in una filosofia della morale non dedicare nemmeno un accenno all'impiego di queste parole? Schopenhauer comincia a trattare l'argomento con un rinnovato attacco al moralismo: parlare della bontà e della cattiveria o addirittura della virtù, si corre il rischio di fare la figura della "pecora ispirata"! Ma ci si può sentire sufficientemente protetti dall'impostazione d'insieme che certamente moralistica non è. Del resto si prendono le mosse dal fatto che uno dei significati correnti dei termini "buono" e "cattivo" non ha alcuna implicazione morale. Buono si dirà qualunque oggetto, ed eventualmente una persona, che soddisfi "una tendenza determinata della volontà" (p. 401), quindi un nostro desiderio, uno scopo o intento perseguito, qualunque cosa sia in generale utile o gradevole, cattivo nei casi contrari. Accanto a questo impiego ve ne è un altro propriamente 284 morale che chiama in causa proprio l'essenza della virtù. Degli sviluppi del problema proposti da Schopenhauer noi vogliamo mettere in luce solo il modo assai semplice e persuasivo con cui egli trae una teoria della virtù dai presupposti generali e di principio della sua filosofia, e in particolare dal tema dell'egoismo che per contrapposizione ci indica subito la via per tracciare una chiara linea di demarcazione tra l'azione buona e l'azione cattiva. L'azione buona sarà infatti essenzialmente l'"azione altruistica", che verrà interpretata come ispirata dalla cognizione, che non ha affatto bisogno di arrivare al piano della consapevolezza filosofica, della distinzione tra me stesso e l'altro come una distinzione apparente, appartenente all'ambito delle apparenze fenomeniche. Nell'altruismo vi è dunque latentemene il superamento del principium individuationis e quindi anche il riscatto dell'esistenza come esistenza lacerata. Schopenhauer sottolinea che si ha un'azione realmente altruistica solo se al suo fondamento vi è proprio questo sentimento: il risultato esteriore dell'azione certamente non basta. Se, ad esempio, un tale fa una generosa elemosina per esserne "compensato al decuplo nella vita futura" una simile azione ha il valore di un buon investimento e non ha nessun valore morale. L'intenzione che sta a fondamento dell'azione è dunque determinante per giudicare del suo valore morale e proprio per questo "non possiamo mai giudicare con certezza del valore morale degli atti altrui" e "raramente di quello dei nostri" - aggiunta quest'ultima che mostra la consapevolezza costantemente ribadita da Schopenhauer della intricata complessità della vita psichica, della possibilità di cadere in un autoinganno e in ultima analisi dell'azione potente delle motivazioni inconscie. Si noti di passaggio che il giusto si limita a non recare ingiustizia agli altri, mentre il buono va oltre, dal momento che può arrivare a sopportare delle privazioni per recare sollievo agli altri - dal giusto al buono si fa un passo ulteriore verso la consapevolezza dell'unità e dell'indistinzione. Si ripensi al caso del vian- 285 dante che ha smarrito la via: indicargliela è un atto di bontà, non indicargliela è un'azione semplicemente priva di ingiustizia. Ma si comincia ad intravvedere qui un aspetto di particolare importanza: se nell'altruismo vi è latentemente il superamento del principium individuationis, in esso si annuncia anche il tema di un freno alla volontà ed alla sua affermazione, dal momento che il principium individuationis è sulla strada della sua realizzazione. La malvagità e la cattiveria saranno inversamente essenzialmene caratterizzati dal massimo egoismo, da quell'egoismo che trae dall'illusoria apparenza degli altri la conseguenza della loro possibile subordinazione ai propri fini. In tutta questa esposizione si risente anche l'insistenza di Schopenhauer sull'idea che determinate situazioni affettive abbiano una sorta di struttura tipica che può essere messa in evidenza attraverso un'analisi che non è puramente introspettiva, ma che cerca piuttosto di determinarne la direzione di senso. Su questo punto basti accennare al tentativo di dare una spiegazione dell'invidia, del sadismo ed in generale della crudeltà come massima malvagità, del rimorso che viene collegato all'oscuro presentimento dell'identità con l'altro, della compassione. Le considerazioni su quest'ultimo stato affettivo ci introducono ormai al tema della negazione della volontà. 286 12. La compassione e la negazione della volontà - Tematica dell'ascetismo - Alcune considerazioni sulla personalità di Schopenhauer - Contro il suicidio - Tematica della rassegnazione - Conoscenza e negazione della volontà. Il termine tedesco per compassione è Mitleid, che taluni traducono in italiano con pietà, ma compassione ha la stessa struttura del termine tedesco: entrambi significano letteralmente patire insieme, dunque partecipare alle sofferenze altrui facendole proprie. Questa nozione, come rileva Schopenhauer, richiama la nozione cristiana della caritas, ed anche naturalmente della pietà e dell'amore. All'amore come eros si contrappone l'amore come agápe (a)ga/ph) - e il nucleo affettivo di quest'ultimo è proprio la compassione. In questa opposizione si fa sentire naturalmente quella tra egoismo e altruismo. Eros è il versante egoistico dell'amore, mentre la compassione è il versante altruistico, l'uno è legato al momento individuale, l'altro al superamento dell'individualità. L'interpretazione del pianto, non priva di sottigliezza psicologica, che Schopenhauer propone ribadisce questo aspetto. In ultima analisi, egli dice, 287 "finiamo sempre per piangere su noi stessi, noi stessi siamo oggetti della nostra compassione" (p. 419). Ciò non significa tuttavia che alla base di questa condizione effettiva vi sia l'egoismo. Al contrario: il pianto è possibile sulla base di uno sdoppiamento in cui io mi rappresento come guardato da un altro, ed è dunque l'altro che piange e piange di compassione per me. Inversamente, se io mi identifico in colui che piange, colui che viene compianto è un altro rispetto a me. Si tratta di una spiegazione che ha il suo fulcro nel fatto che si piange non tanto per un dolore vivamente sentito, ma per una rappresentazione, ed è appunto questo elemento che genera la situazione dello sdoppiamento e quindi l'implicazione dell'altro. In altri termini, si piange quando "il nostro stato ci appare così compassionevole da sentirci profondamente persuasi che se un altro si trovasse nella nostra condizione, lo soccorreremmo con il più fervido slancio della compassione e dell'amore" (p. 419). In questo compiangersi nella quale la presenza dell'altro è determinante e il rapporto tra l'io e l'altro tende ad essere trasceso come rapporto di distinzione, la compassione diventa un sentimento che supera il piano psicologico-individuale e tende a diventare un sentimento cosmico: il sentimento di pena per il destino comune a tutti gli esseri viventi che sono fin dall'inizio condannati ad entrare nel ciclo di una volontà tanto famelica quando insaziabile. Proprio perché lo sfondo del problema è questo, converrà andare cauti di fronte ad una troppo rapida assimilazione del tema dell'amore-compassione di Schopehauer alla caritas e pietas cristiana. Certo, proprio in queste parti conclusive dell'opera i riferimento al cristianesimo si moltiplicano, e figure esemplari all'interno della tradizione cristiana mantengono anche in questo contesto la loro esemplarità. Si pensi soltanto a Francesco di Assisi che può essere certamente citato fin d'ora non solo per l'esperienza ascetica, ma per il sentimento 288 dell'unità tra uomo e natura a cui egli seppe dare una voce tanto potente. Ma si tratta pur sempre di una reinterpretazione filosofica di alcuni temi importanti della tradizione cristiana e della stessa figura di Cristo. In essa confluiscono sia motivi tratti dalla tradizione religiosa indiana e buddistica sia la ripresa romantica del cristianesimo. Nella cultura dell'epoca di Schopenhauer in Germania il cristianesimo viene risucchiato all'interno di motivi e di temi caratteristicamente romantici diventando nello stesso tempo una sorta di campo privilegiato per elaborazioni e manipolazioni filosofiche. Il rischio di fraintendere lo sfondo e di conseguenza il senso autentico della compassione di cui parla Schopenhauer è particolarmente presente. Così sarebbe profondamente erroneo intravvedere nell'amore-compassione di Schopenhauer l'atmosfera di Fioretti di San Francesco: vi sono invece in esso le inquietudini del romanticismo, le sue ansie e le sue tensioni esasperate, le sue passioni oscure, i suoi umori torbidi. Questo tema poi trova il suo naturale sbocco nella conclusione ascetica, che non riguarda solo una parte della costruzione filosofica di Schopenhauer, ma che la chiama in causa nella sua totalità. Si tratta di una conclusione preparata alla lunga, strettamente coerente al punto da apparire quasi obbligatoria. Se mai la sorpresa e la singolarità sta nel rapporto tra queste pagine conclusive del Mondo e la personalità dell'autore, di cui converrà tener conto proprio per evitare di fraintendere pesantemente queste conclusioni. Non è infatti sempre del tutto giusto ignorare aspetti biografici e psicologici come elementi che possono aiutarci a capire. L'immagine di Schopenhauer tramandata da amici e nemici, conoscenti e visitatori è ben lontana dal lasciar scorgere la benché minima inclinazione non dico verso l'ascetismo, ma anche verso quelle virtù che ne preparano la via. Si tratta infatti di un'immagine in cui appaiono i tratti, certo probabilmente appesantiti dalle mentalità bigotte dei narratori, della provocazione mefistofelica: tratti a cui venne da sempre riferito l'ateismo professato fin da giovane età, 289 tanto apertamente ed esplicitamente da fare pensare che Schopenhauer ci tenesse a far sentire attorno a sé un certo non so qual odor di zolfo e che egli provasse piacere e divertimento di fronte alle reazioni scandalizzate da parte delle persone pie che si trovavano intorno. I Colloqui, che raccolgono le testimonianze più disparate sulla sua personalità, sono pieni di aneddoti, talora anche stupefacenti che documentano questo atteggiamento, e più in generale il gusto ad un sarcasmo esasperato, che talvolta sembra coscientemente perseguito con lo scopo di mettere a dura propria i propri interlocutori ed a provocare autentiche crisi di rigetto nei propri confronti. Così vediamo descritto il ventiquattrenne Schopenhauer mentre si accinge "ad una dotta dimostrazione dell'inesistenza di dio" (Colloqui p. 64) di fronte ad un pubblico scandalizzato. "Molto incline al frizzo - così dice di lui un amico - spesso di una rusticità veramente umoristica, mentre la sua testa bionda con gli sfavillanti occhi grigio-azzurri, la lunga piega della guancia ai lati del naso, la voce un po' stridula e i rapidi, violenti gesti delle mani, acquistava non raramente un'aria addirittura terribile" (ivi, p. 70). Ci viene ancora raccontato che amava comparire nei luoghi pubblici, nei caffè dove si riunivano gli intellettuali del luogo allo scopo esplicito di seminare scompiglio e malumore: "Faceva il guastafeste con i sarcasmi più mordaci, dava senza soggezione libero sfogo al suo umore critico... e ciò facendo rideva con le gambe accavallate vicino al loro tavolo da whist, cosicché essi facevano un errore dopo l'altro. Perciò appariva loro come un orco; tutti lo temevano senza che mai qualcuno osasse renderli la pariglia" (p. 71) Durante il suo soggiorno romano è noto che egli se ne andava in giro negli ambienti frequentati da tedeschi, piuttosto inclini al nazionalismo, dicendo ai quattro venti che si vergognava di essere tedesco e che riteneva la Germania la più stupida di tutte 290 le nazioni (pp. 74-75). I dodici apostoli venivano da lui chiamati "i dodici filistei di Gerusalemme" (p. 74), e ride beffardamente quando Ludwig Tieck parla di dio, una risata - così riferisce testualmente il narratore dell'episodio "che Tieck non poté dimenticare fino alla fine dei suoi giorni" (p. 78). Lo stesso narratore dice di aver incontrato "il suddetto individuo" e di essere rimasto "inorridito" (ivi). In questi racconti la repulsione generata da Schopenhauer è un tema ricorrente e normalmente connessa con il gusto della dissacrazione volto in ogni direzione. Durante un pranzo "un giovane pieno di rispetto" lamenta la morte dell'illustre prof. Bouterwek avvenuta da poco a Gottinga, e Schopenhauer interviene fra la stupefazione degli astanti esternando la preoccupazione per la "moria di bestiame" che affligge quella università. Ed alle proteste del "giovane pieno di rispetto" rincara la dose qualificando il morto con il nome di un animale dall'odore piuttosto sgradevole. Forse la violenza della provocazione viene raggiunta da Schopenhauer quando, recatosi a visitare un malato, gli assicura che la sua malattia era sicuramente mortale. L'episodio è raccontato dallo stesso infermo Theodor Benfey: "Solo due volte rimasi alzato più a lungo, ed una mi costò cara. Una persona dotta e intelligente, ma mezza matta, il prof. Schopenhauer, mi spiegò con grande calma e disinvoltura che la mia malattia era mortale e mi disse quando e come sarei morto" (ivi, p. 89). Credo che in questo contesto sia anche il caso di rammentare la riconosciuta abilità narrativa di Schopenhauer nei colloqui diretti, ed in particolare il fatto che nella narrazione egli mimava spesso con grande maestria gli avvenimenti narrati. E credo particolarmente significativo il fatto che egli non solo fosse perfettamente consapevole di questo suo "talento nel rappresentare le cose", ma soprattutto che egli ritenesse "che sarebbe stato molto adatto a fare l'attore" (p. 107). Forse se si tenesse conto di questo dettaglio biografico si comprenderebbero altri aspetti della sua personalità, e persino del suo notorio rea- 291 zionarismo. Si racconta ad esempio che durante una sollevazione popolare nel 1848, ad un soldato entrato in casa sua con l'intenzione di sparare sui dimostranti Schopenhauer offrì un binocolo da teatro per prendere meglio la mira. Ancora ai giorni nostri l'episodio viene riferito in tutta serietà da critici avveduti, come prova mostruosa del suo spirito reazionario. Quando io a mia volta nel corso di una lezione universitaria raccontai l'aneddoto facendo notare come fosse facile sparare con un fucile prendendo la mira con un binocolo da teatro, tutti gli astanti risero comprendendo come stavano in realtà le cose. Si trattava manifestamente di un'azione canzonatoria - di un coup de theatre - ed alquanto provocatoria. Ora questo Schopenhauer è appunto lo stesso che si accinge ad un'apologia dell'ascetismo e dunque ad un'ulteriore ripresa ed approfondimento delle tematiche cristiane ("la più vicina a noi tra tutte queste dottrine è il Cristianesimo") unitamente a motivi tratti dalla mistica indiana; lo stesso che ci raccomanda la lettura delle biografie di santi, anacoreti, asceti e penitenti - molto più significativa, a suo dire, delle storie di Livio e di Tacito. Tuttavia abbiamo già avanzato una premessa di metodo che mette un poco le cose al loro posto. La metafisica dei costumi non ha carattere normativo. Ed in particolare il filosofo della morale non ha affatto bisogno di condurre una vita "esemplare", di attenersi ad una precettistica che del resto egli non dà né per sé né per nessun altro. Pretendere da un moralista "che insegni solo quelle virtù che pratica egli stesso" sarebbe la stessa cosa che sostenere che un "bell'uomo debba di necessità essere un grande scultore e che un grande scultore debba essere un bell'uomo" (p. 420). Fatta questa premessa è necessario ovviamente venire in chiaro sul senso che ha nel contesto della filosofia Schopenhauer il tema dell'ascetismo. Come sempre vogliamo limitarci a fornire un quadro sommario della questione. Abbiamo già sottolineato che il passo immediatamente successivo al tema della compassione è 292 quello della negazione della volontà, che è anche in certo senso l'ultimo passo: colui che perviene alla negazione della volontà perviene alla massima virtù: Egli sa allora "riconoscere in tutte le creature se stesso, il più intimo, il più vero se stesso, riterrà come sue le pene infinite di tutti gli esseri viventi, e farà suo tutto il dolore dell'universo" (p. 421) Colui che ha la massima virtù è naturalmente il Santo: la teoria della virtù culmina dunque in una vera e propria teoria della santità. Perfettamente coerente con l'insieme è anche il modo in cui deve essere intesa la negazione della volontà. Anzitutto essa non ha affatto il senso della negazione della mia vita, quindi non si realizza affatto con il suicidio (§ 69). Il suicidio è una pura negazione della vita individuale, è l'espressione del naufragio dell'individuo nella quale tuttavia si annida ancora la volontà di vivere. L'interpretazione di Schopenhauer del suicidio mostra ancora una volta il suo acume e la sua sottigliezza psicologica. Ciò che nel suicidio viene rifiutata è la sofferenza - ciò che manca al suicida è la rassegnazione. Cosicché l'atto suicida finisce con l'essere un'estrema affermazione della volontà: "Il suicida cessa di vivere appunto perché non può cesare di volere; la volontà si afferma in cui con la soppressione del fenomeno, perché non le resta più altro modo di affermazione" (p. 442). Dal punto di vista metafisico nel suicidio si esprime "la contraddizione della volontà di vivere con se stessa" (p. 441), un conflitto che si manifesta ad ogni grado di oggettivazione della volontà (il tema è già presente nel secondo libro del Mondo), ma che nell'uomo arriva alla sua massima esasperazine poiché il singolo può scatenarsi contro se stesso ed autosopprimersi. In forza di questa natura profondamente contradditoria del suicidio, Schopenhauer può parlare di esso come il "capolavoro di Maia", ovvero il capolavoro dell'illusione: ciò che appare come negazione della volontà di vivere è in realtà la sua più accanita 293 affermazione. In tutto ciò vi è una sorta di importantissimo corollario che meriterebbe di essere messa in testa all'intero quarto libro del Mondo come suo motto. Proprio nel quadro di un discorso volto a sostenere l'idea della negazione della volontà di vivere, Schopenhauer ammonisce che "bisogna fare di tutto per assicurare l'esistenza agli esseri che la cercano e che vi aspirano" ed ancora che "bisogna favorire in ogni modo i fini della natura, non appena il voler vivere, che ne è l'intima essenza, si sia deciso a manifestarsi" (M. § 69, p. 442- 443) La vita laddove si manifesta prepotentemente va assecondata e soprattutto è vano cercare di spezzarla con la violenza, perché la violenza è espressione dell'intensità della volontà stessa ed in ogni caso essa non è in grado di effettuare una negazione della volontà alla sua radice. Solo la rassegnazione ci introduce all'autentica negazione della volontà. Tuttavia, non meno della compassione, la rassegnazione di cui qui si parla ha un senso piuttosto particolare. Essa non indica lo stato del passivo soggiacere ai colpi del destino, ma piuttosto una condizione di acquisita consapevolezza dell'essenza della vita, che supera l'ambito del fenomeno per attingere a quello del suo fondamento metafisico. Ora la volontà guarda se stessa, ed in conseguenza di questo sguardo può avvenire la negazione della volontà. È opportuno usare proprio questa terminologia, richiamandosi al guardare ed allo sguardo. Infatti, la rassegnazione che conduce alla negazione della volontà è opera soprattutto della conoscenza - e quindi non di un'azione, ma di una contemplazione. Questo è un passaggio di fondamentale importanza: la soggettività conoscitiva che, dopo essere stata dichiarata polarità fondamentale per il mondo come rappresentazione, sembrava essere passata definitivamente sullo sfondo come un presupposto generale che si faceva da parte di fronte all'io della volon- 294 tà, ora balza prepotentemente in primo piano. La conoscenza è qui, più che mai, conoscenza intuitiva. Qui vi è un cogliere, un afferrare ciò che c'è al di là delle limitazioni dei fenomeni, vi è quell'oltrepassamento intuitivo (Durchschauung) del velo di Maia che ci consente di afferrare che cosa sia in se stessa la volontà di vivere. Questa conoscenza ora ci illumina e ci induce alla negazione della volontà. 295 13. L'ultima forma che assume il nesso tra il corpo e la volontà - Il tema della rinunzia e della sospensione della volontà ha il suo culmine nella mortificazione del corpo - Interpretazione dell'ascetismo - Le pratiche ascetiche hanno esattamente il senso che esse mostrano - Interpretazione della santità - L'ateismo è annidato nelle pratiche mistiche - Critica delle religioni istituzionali. È dunque la conoscenza del mondo che induce quella rassegnazione che è a sua volta la premessa della autentica negazione della volontà, che non è rappresentata dal suicidio, ma dalla rinunzia (Entsagung), dall'astenersi dal fare in genere, dall'inazione in genere, piuttosto che dall'azione. La negazione della volontà ha il senso della sospensione tendenzialmente completa dell'intero ambito delle motivazioni che ci spingono all'azione e la determinano. Si noti in proposito l'impiego frequente di un neologismo coniato da Schopenhauer: Quietiv, che è quasi giocoforza tradurre letteralmente con quietivo: "La conoscenza perfetta della propria natura diventa per l'uomo un quietivo di ogni volere" (p. 425). L'espressione è coniata per analogia con la parola Motiv, avendo di mira la radice latina, da motus e movere: motivo è ciò che mette in moto; quiescere indica invece uno stato quiete e di riposo. Si tratta dunque di un termine che attira l'attenzione sulla natura eminentemente passiva della negazione della volontà, sul fatto che essa è soprattutto un'astensione dall'azione, e più precisamente da quelle azioni che hanno il compito di soddisfare le brame più radicali della volontà che sono i desideri immediatamente corporei. Ci troviamo così alla presenza dell'ultima forma che riceve il problema centrale del rapporto tra il corpo e la volontà: come questo problema assumeva la massima importanza nel quadro della tematica dell'affermazione della volontà, così essa è destinata ad assumere un ruolo determinante nella caratterizzazione 296 della negazione della volontà. Questa deve anzitutto consistere nello smentire il corpo, nella sua massima mortificazione in quanto oggettivazione visibile della volontà. Colui che nega la volontà pratica "il digiuno, la macerazione e giunge a flagellare la propria carne per abbattere sempre più, con e le privazioni e le sofferenze continue, quella volontà di cui ravvisa e detesta l'origine della travagliata esistenza sua e del mondo" (M., p. 424) Questo è il modo in cui incontriamo il problema dell'ascetismo: le pratiche della negazione della volontà le vediamo messe in opera da anacoreti, eremiti, monaci di ogni specie, stiliti, fachiri, penitenti di ogni epoca e di ogni religione. Le pagine del Mondo si vanno così riempiendo di citazioni tratte dai testi Veda, dalle Upanisad, dal buddismo, dai testi sacri del cristianesimo, dai Vangeli, dalle lettere di San Paolo; e poi in particolare dalla tradizione mistica germanica. Ovunque vengono proposte reinterpretazioni di luoghi noti secondo la chiave ateistica della metafisica della volontà. Sul Cristo in particolare, considerato nella sua portata simbolica, Schopenhauer ritiene di poter proiettare lo schema della propria posizione filosofica, mantenendo intatti alcuni termini di origine religiosa di particolare importanza. Mentre Adamo è il "peccatore" ed il suo peccato è l'atto sessuale, cosicché egli diventa il rappresentante della volontà nel momento della sua affermazione e dell'umanità stessa in quanto compie questa affermazione, Cristo è appunto il "redentore". Ma ora la redenzione (Erlösung) assume il senso della consapevolezza finalmente acquisita non solo della necessità dell'annientamento, ma del del fatto che in esso consiste il Sommo bene. Cristo rappresenta dunque la negazione della volontà di vivere e la redenzione trova la propria massima e crudele evidenza nella crocifissione - questo orrendo supplizio del corpo che rappresenta una sorta di compendio di tutte le sofferenze imposte ad esso dalle pratiche ascetiche. Cristo diventa così una sorta di 297 messaggero del nulla e ciò che insegna agli uomini è la beatitudine della morte. Le citazioni evangeliche, i richiami teologici e addirittura alle biografie ed autobiografie dei santi non possono ormai trarci in inganno sulla natura autentica di questo cristianesimo ascetico di Schopenhauer. Non si tratta affatto - come accadeva talvolta nelle revisioni filosofiche che avevano per oggetto il cristianesimo, particolarmente in auge negli ambienti hegeliani vecchi e nuovi - di trovare un modo più o meno artificioso di mettersi in accordo con la religione o addirittura con la chiesa istituzionale, ma al contrario di condurre fino in fondo l'operazione di trovare il germe dell'ateismo nelle più riposte pieghe del pensiero cristiano. Peraltro in questione non è soltanto il cristianesimo. Una lettura che mettesse in evidenza solo questo riferimento sarebbe molto riduttiva. Da un punto di vista più generale queste pagine hanno per oggetto propriamente la religione stessa, come se al termine di Mondo Schopenhauer avesse voluto, dopo aver enunciato i principi della propria filosofia morale, del diritto e dello stato, enunciare anche quelli di una possibile filosofia della religione. La particolarità di questa esposizione sta allora nel fatto di tentare di fornire una interpretazione della figura del santo deducendola da questi principi. Si tratta di una figura che ritroviamo in ogni religione evoluta, e la ritroviamo con caratteristiche assai simili in religioni che per il resto sono profondamente diverse. I santi si assomigliano tutti. Vi è "un accordo meraviglioso tra gli asceti dell'India e i santi cristiani, reso manifesto dalla lettura delle loro vite". E se vogliamo conoscere l'essenza della religione dobbiamo indagare su questi tratti comuni, senza lasciarci fuorviare dalle spiegazioni a cui i santi stessi ritengono di dover ricorrere per rendere conto dei loro comportamenti. In queste spiegazioni si deposita un sapere estrinseco, astratto, derivante da dogmatiche istituzionalmente imposte. Esse sono estranee all'esperienza concreta del santo 298 così come sono estranee ad essa quelle dogmatiche che servono soltanto a dare una sorta di razionalizzazione o di giustificazione a pratiche che hanno il loro senso esattamente in ciò che esse mostrano. Insieme alle dogmatiche andrà considerata come estrinseca rispetto al nucleo profondo della religione ogni pratica rituale - e questo rappresenta un rifiuto di ogni religione istituzionale. "I mistici cristiani e i filosofi del Vedanta si accordano anche in un altro punto: ritengono che il saggio arrivato alla perfezione sia esente da ogni opera esteriore e da ogni pratica esteriore" (p. 430). La filosofia della religione di Schopenhauer comincia dunque con l'isolare come inessenziale l'aspetto dogmatico-dottrinale della religione e l'aspetto rituale per dare invece la massima evidenza al solo elemento morale di cui il santo fornisce il modello. Le virtù che caratterizzano la santità considerate in ciò che appaiono come tali convergono nell'unico grande tema della negazione della volontà della vita, che è il messaggio fondamentale di cui non solo la filosofia, ma anche la religione stessa è portratrice. Dunque non solo Budda o Gesù Cristo, ma la religione in generale è messaggera del nulla. Essa contiene l'annuncio, sia pure formulato nelle lingue più diverse, della vanità e dunque della nullità di tutte le cose. 14. Nella religione si esprime una rivolta contro la vita - Sensatezza della vita comune e insensatezza del comportamento del santo? - Osservazioni sul nulla - Il nulla è sempre relativo - Il nulla non è un abisso - Noi vogliamo vivere! - Il santo e il saggio Se dunque l'ascesi mistica rappresenta il nucleo effettivo della religione, un nucleo colto nel suo senso interno e in ciò che essa nelle sue pratiche mostra apertamente, vi sono pochi dubbi sul fatto che nella religione si esprima una sorta di rivolta contro la 299 vita che l'impianto filosofico di Schopenhauer sembra particolarmente adatto a spiegare. Nell'intento descrittivo e non prescrittivo che egli attribuisce alla sua metafisica dei costumi, vi è un punto di inizio che si potrebbe quasi tentati di chiamare empirico: fra i modi di comportamento degli uomini vi è anche quello dell'ascesi. Questo è il dato di fatto - raro, ma sufficientemente ricorrente in epoche storiche e in culture diverse da poter essere ritenuto portatore di un significato nascosto. Compito della filosofia è mettere in luce questo significato. Nello steso tempo, poiché l'interpretazione proposta implica i concetti fondamentali del sistema di Schopenhauer, essa assume il carattere di un esito conclusivo del sistema stesso. Questo esito sembra essere "nichilistico". Alla fine il nulla non appare solo dalla parte del mondo fenomenico, che è sogno, illusione, mera apparenza; ma anche dalla parte del principio metafisico, per il fatto stesso che questo principio, in realtà fortemente positivo, fortemente affermativo, può essere negato. Il comportamento ascetico mostra la "nullità" (forse potremmo dire più debolmente: l'irrilevanza) del mondo fenomenico, di tutto ciò che è mondano, e lo fa questa volta negando la volontà nel suo costante movimento di autoproduzione. Si noterà subito che in questo esito si manifesta una sorta di conflitto interno che minaccia di incrinare fortemente il sistema proprio nel momento in cui esso giunge a compimento. Si tratta di un conflitto tra una componente naturalistica ed una componente antinaturalistica in un'accezione un po' particolare di questi termini. L'affermazione della volontà è certamente naturale, da essa ha origine la vita stessa della natura, mentre il comportamento ascetico è caratteristicamente contro-natura, non innaturale ma antinaturale. Perciò abbiamo messo in evidenza la frase in cui si dice che in ogni caso la natura non deve essere ostacolata nella sua esplicitazione positiva; ed anche che la negazione della volontà può intervenire solo in seguito ad una sorta di illuminazione conoscitiva. Accade così che il com- 300 portamento ascetico antinaturale venga connesso al momento conoscitivo, e di conseguenza il conflitto tende a diventare un conflitto tra volontà e conoscenza. La questione si complica ancor più se ripensiamo al modo in cui viene propopsto il tema metafisico: il passaggio alla volontà è un passaggio necessario in forza del problema del senso stesso dell'esistenza e della vita. Dovremmo allora sostenere che ogni azione che avviene nel campo dell'affermazione della vita è sensata in quanto è in ogni caso conforme ad uno scopo, mentre è proprio la prassi ascetica, frutto eminente della conoscenza, che si trova ai margini del nonsenso. Vi è dunque una profonda ambiguità che sembra insinuarsi in queste pagine conclusive e che permane e viene anzi fissata e confermata nel paragrafo che chiude il libro (§ 71). Si tratta di una ambivalenza che io trovo estremamente significativa e che credo possa addirittura essere proposta come una ambivalenza nascosta nei comportamenti comuni e che nello stesso tempo non è priva di portata filosofica. L'ultimo paragrafo del libro è dedicato al nulla e tende tende nel complesso, almeno così può sembrare, ad attenuare l'esito nichilistico del sistema. L'idea del nulla - osserva Schopenhauer - genere in noi una "impressione lugubre", e sembra proprio che il filosofo voglia congedarsi dal lettore senza lasciargli una così brutta impressione. La questione è trattata come se si trattasse di rispondere ad un'obiezione relativa proprio all'esito nichilistico del sistema. Certo, si comincia con il riconoscere una simile obiezione ha una "ragione d'essere nella natura delle cose" e non si può contestare il fatto che la tematica della negazione della volontà abbia come risultato logico "il passaggio nel vuoto del nulla" (p. 451). Ma Schopenhauer vuole evidentemente limitare la portata di questa conseguenza. Intanto vi è un fatto che Schopenhauer sottolinea con particolare forza: parlare del nulla come sostantivo, quindi in un 301 senso non relativo, ma assoluto, è privo di significato, o come egli dice testualmente "non è concepibile da parte della ragione" (ivi). La parola "nulla" deve essere infatti riferita sempre a qualcosa di positivo che viene negato. "Ogni nulla può infatti essere come tale solo in relazione con qualche altra cosa, il nulla presuppone questa relazione, implica dunque la cosa" (ivi). Un altro modo di esprimere lo stesso problema è dire che il concetto del nulla è derivato dalla negazione, e non inversamente: vi è anzitutto l'atto del negare, e la forma sostantiva "nulla" indica il risultato di quell'atto. Considerazioni come queste potrebbero essere proposte come rispondenti all'impiego della parola nel linguaggio corrente - ed è anche il caso di notare che il problema del nulla in Heidegger in Che cosa è la metafisica? prende posizione proprio contro questa originarietà della negazione rispetto alla nozione del nulla. Ciò premesso, la positività che è richiesta dalla nozione puramente relativa del nulla è quella del mondo stesso come rappresentazione. Il tema del nulla sorge in quanto la negazione della volontà è anche negazione del mondo che è specchio della volontà. Così tutto, volontà e mondo, sembrano inghiottiti dal vuoto: dal nulla, appunto. Ma è proprio questa immagine del nulla, come un vuoto che inghiotte ogni cosa che è priva di fondamento, ed è essa, sottolinea Schopenhauer, che genera un'impressione lugubre. È vero invece che non possiamo avere nessuna idea giustificata del nulla in questo senso assoluto: questa espressione deve restare legata alla negazione della volontà che vediamo concretamente esemplificata nelle pratiche ascetiche ed agli stati di estasi e di visioni mistiche beatificanti, così spesso descritte in rapporto a queste pratiche, ma delle quali noi, che non siamo santi, non possiano averne nemmeno un vago sentore. Nello stesso tempo vi è una conseguenza logica a cui non vogliamo sottrarci - aggiunge ancora Schopenhauer: soppres- 302 sione del volere significa soppressione del suo fenomeno, e quindi del mondo stesso. E soppressione del mondo vuol dire soppressione del tempo e dello spazio e dunque della stessa distinzione tra soggetto e oggetto. Il commento inevitabile è: "Non resta che il nulla" (das Nichts) (p. 452). " Con la volontà svanisce anche il mondo e non ci resta dinanzi che il nulla" (p. 454). Questo inevitabile commento va inteso tuttavia nel quadro delle considerazioni precedenti, nonostante l'uso sostantivato del nulla. Intendere questo nulla come un abisso non ha alcun fondamento, il nulla ci fa orrore non perché è l'assoluto vuoto, ma perché va riportato alla negazione della volontà, che è essenzialmente volontà di vivere e noi siamo espressione di essa: noi vogliamo vivere! L'inclinazione complessiva di quest'ultimo paragrafo è dunque quella di evitare che il tema del nulla assuma una qualche consistenza ontologica. Quanto alla negazione della volontà, anche se la sua attuazione piena può essere realizzata solo dal santo, possiamo farci un'idea positiva di essa come uno stato di serenità profonda, "un oceano di quiete, una profonda calma dell'anima" - "non resta più che la conoscenza, la volontà è scomparsa" - questo semmai è il nulla! E possiamo farcene una idea per il fatto che anche noi, uomini comuni possiamo raggiungere una simile imperturbabilità, almeno ai suoi livelli più semplici, perché si tratta di un sentimento da cui siamo presi ogni volta che guardiamo le cose con un sereno distacco, con la rassicurante serenità di un punto di vista superiore. Vorrei quasi dire che sullo sfondo del santo che addita la nullità di tutte le cose e che si va flagellando in cima ad una colonna, si profila la figura più umana del saggio (figura qui non considerata, ma di cui avvertiamo la presenza) che ci invita a non lasciarci trascinare dal flusso travolgente della vita, dalle "passioni": l'idea della nullità è qui ancora presente, benché meno drammaticamente, anzi come un suggerimento diretto 303 all'acquisizione nella vita stessa di un stato di benessere interiore. Nella vita stessa: proprio in queste ultime pagine Schopenhauer manifesta la propria ostilità in una forma che non era mai avvenuta prima, non solo nei confronti dell'oltremondo cristiano con il suo paradiso e il suo aberrante inferno, ma anche nei confronti delle idee della cultura religiosa orientale come l'assorbimento in Brahma o la nozione del Nirvana: si tratta, dice decisamente Schopenhauer, di miti, di parole vuote di senso. Questa attenuazione del problema in direzione del tema di come vivere saggiamente (e dunque felicemente) rappresenta un aspetto, a mio avviso, ben presente all'interno della problematica di Schopenhauer in questi suoi esiti ma anche nelle oscillazioni ovunque avvertibili nella sua esposizione tra un atteggiamento di esasperazione del conflitto ed una visione di conciliazione. 17. La comprensibilità della negazione della volontà - Il ripresentarsi del problema dell'atto libero - Libertà e carattere - Richiami alla "conversione" ed alla "grazia" - Schopenhauer intende fornire gli elementi per una filosofia della religione - Critica dello stereotipo dello Schopenhauer irrazionalista - Due cinesi a teatro. Benché si sia ormai trattato il contenuto essenziale dell'ultimo paragrafo del Mondo, abbiamo solo accennato ad un tema che in apparenza si presenta come un ulteriore tentativo di interpretazione filosofica di nozioni di origine religiosa, ma che dall'altro denuncia invece una difficoltà teorica interna del sistema, una incrinatura che rappresenta in realtà una crepa profonda che minaccia di creare una reazione catena all'interno della costruzione filosofia di Schopenhauer nel suo complesso. Si tratta di un'obiezione che chiama in causa la comprensibilità di quella negazione della volontà che è il tema dominante 304 del quarto libro. Infatti se il principio metafisico del reale è la volontà, come può essa rivolgersi contro se stessa, ovvero come posso io, soggetto individuale che sono comunque sua manifestazione, operare la sua negazione? Non si confonda la questione qui sollevata con il tema della conflittualità interna della volontà dal momento che essa fa parte del dinamismo della sua realizzazione. La stessa questione può essere più chiaramente proposta badando all'aspetto di filosofia morale, piuttosto che a quello metafisico. Il problema della libertà, con cui abbiamo aperto la nostra discussione, è un concetto particolarmente difficile nel contesto teorico di Schopenhauer così come era particolarmente difficile nel contesto teorico di Kant. In un mondo determinato dal principio di ragione sufficiente non vi è posto per una nozione empirica della libertà, per una scelta tra alternative che non abbia altra determinazione dell' "io voglio" questo e non quest'altro. Ogni azione è determinata ad untempo dai motivi e dal carattere, che si intrecciano e si incotrano determinando l'azione con la stessa inesorabilità di una legge naturale. La libertà diventa allora una sorta di imputazione, di attribuzione in linea di principio che noi effettuiamo nei confronti dei soggetti agenti, senza che essa possa essere mai in qualche modo empiricamente verificata. Un modo singolare ma molto significativo di esprimere questa circostanza è quello di affermare che le cose stanno come se noi avessimo scelto liberamente il nostro carattere, tutto in una volta, e per questo motivo possiamo essere ritenuti responsabili di tutte le nostre azioni in quanto conseguenze necessarie di quel carattere e dei motivi. Un altro modo ancora di formulare lo stesso problema, questa volta in termini kantiani, è affermare che la libertà appartiene alla volontà intesa come cosa in sé e come tale essa "non si trasmette mai nei suoi fenomeni" - non è leggibile nei comportamenti concreti del soggetto. Mettiamo ora alla prova questa impostazione con il tema della negazione della volontà. Quest'ultima è essa stessa un'a- 305 zione. Dobbiamo dire che anch'essa è determinata dal carattere e dai motivi? Ci rendiamo subito conto che ci troviamo ora in gravi difficoltà: il motivo è qualcosa che muove la volontà, e necessariamente nella direzione della sua autoaffermazione. Quanto alla nozione di carattere esso rimanda all'insieme delle inclinazioni e delle passioni che ci fa agire in un certo modo piuttosto che in un altro in presenza di determinati motivi. Ma allora non ha certamente senso inserire fra le inclinazioni del carattere quella negazione della volontà che contiene nel suo senso la negazione stessa di ogni inclinazione, il superamento della passione e che ha addirittura nella sua realizzazione ideale l'inattività più completa. Carattere e negazione della volontà stanno l'uno contro l'altra, come è subito evidente dal fatto che il carattere è un elemento essenziale di individuazione e di differenziazione, mentre la negazione della volontà tende al superamento della soggettività individuale e della differenza tra le soggettività. Naturalmente, in senso corrente possiamo parlare di un carattere "altruistico", ma in un'accezione filosoficamente impegnativa (ovviamente nel quadro della filosofia schopenhaueriana) vi è una tensione tra carattere e altruismo. Ma allora la negazione della volontà deve essere concepita non solo come atto libero, ma anche come atto la cui libertà si manifesta direttamente ai nostri occhi, a differenza di ogni altro. A chi muoveva obiezioni di questo tenore Schopenhauer soleva alzare le spalle e rimandare ad una rilettura più attenta del proprio libro, nel quale ogni cosa - egli diceva - era spiegata a puntino (Colloqui, p. 102). Nel § 70, in effetti, l'intera questione è discussa abbastanza a fondo. Ma con quale andamento e quale risultato? Schopenhauer ammette senz'altro che tra tutte le azioni, quella che in un modo o nell'altro possono essere ricondotte alla negazione della volontà hanno un carattere assolutamente peculiare e non possono essere considerate alla stregua delle altre decisioni correnti nella nostra vita. Su di ciò hanno qualcosa 306 da insegnarci alcune tipiche nozioni di derivazione religiosa, filosoficamente reinterpretate. Anzitutto quella di conversione (Bekehrung). Il punto critico del passaggio dall'affermazione alla negazione della volontà è una "svolta" nel senso più radicale del termine ed è qualcosa di descrivibile in termini assai simili a quelli in cui viene descritta una conversione religiosa. Ciò che determina la conversione non sono motivi esteriori determinatamente riscontrabili e nemmeno argomentazioni più o meno complesse a favore o contro qualcosa. Generalmente si parla invece di un'illuminazione improvvisa - anzi della grazia come un essere investiti dalla verità, illuminati da essa. Ricorre anche spesso l'idea di una nuova nascita, come un mutamento radicale che sopprime il vecchio uomo e dà origine ad un uomo nuovo. È interessante notare che Schopenhauer parla addirittura di "una completa soppressione del carattere" (p. 446) - formulazione che conferma le nostre precedenti osservazioni. Risulta allora chiaro in che modo questo tema può riconfluire nella tematica che stiamo trattando. La grazia con la sua virtà illuminante non è altro che la conoscenza - una conoscenza non mediata, non riflessiva, quella conoscenza intuitiva che appunto può essere descritta come una illuminazione. Si tratta di un tema preparato alla lunga. Fin dall'inizio Schopenhauer aveva chiaramente distinto l'io della volontà e l'io della conoscenza. L'io conoscitivo viene mantenuto in un profondo mistero, dal momento che esso non può per principio essere conosciuto - eppure è esso, di cui così poco si parla nella metafisica di Schopenhauer, che prevale sulla volontà stessa. La negazione del volere non consiste in un non-volere, ma piuttosto in una soppressione del volere, in una pura contemplazione, che trova la sua massima espressione nella vita degli asceti che tanto spesso viene caratterizzata come "contemplativa". Naturalmente occorrerà prestare attenzione alla rischiosa duplicità di senso che il termine di conoscenza assume qui. Anche il sistema filosofico di Schopenhauer pretende di essere una 307 conoscenza, e precisamente la conoscenza di quella verità ultima sull'essenza del mondo che conduce alla teoria della negazione della volontà. Ma si tratta appunto di una conoscenza puramente filosofica, che non è affatto in grado di produrre la somma virtù che appartiene alla santità. Ciò che manca qui è quell'illuminazione che Schopenhauer avvicina al tema della grazia. Posso leggere e rileggere questo libro senza "convertirmi", anzi senza provare nessun desiderio di conversione. Ci vuole appunto la grazia! che quando viene viene, e tocca a chi tocca! In questo modo Schopenhauer spera anche di poter venire a capo del quesito posto intorno al problema della libertà. La "grazia" (se possiamo ancora chiamarla così) irrompe nella catena dei motivi entro cui si svolge l'intera nostra esistenza, provocando la svolta, ma allora questa svolta deve essere concepita come un atto libero, e precisamente come un atto la cui libertà si manifesta direttamente sullo stesso piano fenomenico. Il principio precedentemente enunciato secondo cui la libertà non si trasmette mai nel suo fenomeno conosce un'unica eccezione, che è appunto quello della Bekehrung, della svolta, della conversione. In questo punto, il piano noumenico-metafisico si apre un varco nella superficie dei fenomeni - questa è l'unica "manifestazione immediata della libertà del volere" (p. 446). Più che soluzioni alle obiezioni proposte, queste considerazioni sembrano appropriarsi semplicemente del loro contenuto inserendolo stabilmente nel sistema a titolo di "misteri" insondabili che ripropongono pari pari sul piano filosofico i misteri della religione. Eppure bisogna prestare bene attenzione al senso complessivo della problematica che Schopenhauer sviluppa nel quarto libro. Ciò che egli intende fare è fornire gli elementi per una filosofia della religione - che è profondamente atea nel suo fondo - e non indicare gli esiti della propria impostazione filosofica. E tanto meno fornire raccomandazioni di qualunque sorta. La volontà di vivere va assecondata - la negazione della volontà non è una faccenda che riguardi l'uomo 308 comune e nemmeno il filosofo che tenta di costruire la propria metafisica sul tema della volontà. Persino in rapporto a questi esiti occorre ribadire come sia fuorviante l'immagine di Schopenhauer consegnata dai manuali come quella del filosofo risolutamente irrazionalista, il teorico del pessimismo che riprende da antiche fonti, dalla mistica europea, ma anche dalla antica sapienza del pensiero filosofico e religioso indiano, i temi del distacco ascetico dal reale. Questo stereotipo si riflette naturalmente anche sull'atteggiamento dei suoi lettori. Vi saranno certamente, fra questi, coloro che saranno presi da un interesse acritico verso questo autore proprio per queste tematiche conclusive, come se in esse si potesse godere appieno il fascino dell'irrazionale. Ora, io penso che per godersi il fascino dell'irrazionale non è affatto necessario fare la professione del filosofo, anzi che vi è fra quella professione ed un simile godimento una sorta di profondo contrasto. Ed a me sembra in ogni caso che questa espressione - godersi il fascino dell'irrazionale - sia del tutto inapplicabile a Schopenhauer per la tenacia con la quale egli persegue il progetto di una costruzione filosofica fortemente sistematica e che pretende ovunque di essere rigorosamente argomentata; per la convinzione che traspare di continuo in mille modi di poter raggiungere attraverso la riflessione filosofica la verità delle cose. È inapplicabile persino tenendo conto del suo stile - spesso esaltato per la sua chiarezza e la sua limpidezza come un esempio di perfezione letteraria e altrettanto spesso citato denigratoriamente come manifestazione di un pensiero superficiale e inconsistente. Questo stile si adegua invece ad una precisa volontà filosofica di comunicazione e di dialogo ed è denso di umori polemici nei confronti di ogni filosofia vaticinante, di ogni fumosità terminologica ed artificio linguistico che miri a confondere il lettore ed a metterlo fuori gioco proprio nella sua capacità di comprendere e di giudicare. L'immagine della filosofia che compare nelle prime pagine della Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente nella quale Schopenhauer critica le filosofie torrentizie, che corrono a valle 309 torbidamente e rovinosamente, trascinando con sé ogni detrito, contrapponendo ad esse la calma e la trasparenza di un lago svizzero di cui si può intravvedere l'effettiva profondità resta in certo senso normativa per l'intero atteggiamento di Schopenhauer nei confronti dell'attività filosofica. Tutto ciò non significa certo che, come abbiamo visto or ora, non accada di incorrere in difficoltà cruciali e che una chiave che sembra capace di aprire la porta del grande castello si infranga nella serratura. Racconta una volta Schopenhauer: "Due cinesi in Europa si trovavano per la prima volta in un teatro. Uno si preoccupò di studiare i congegni del macchinario e infatti riuscì nel suo intento. L'altro cercò di penetrare il senso dell'opera, benché non conoscesse la lingua del paese. - L'astronomo somiglia al primo, il filosofo al secondo" (Parerga, II, p. 877). In questo bell'apologo, attirerei soprattutto l'attenzione sul fatto che la frase "ed infatti riuscì nel suo intento" non viene purtroppo ripetuta per il filosofo. È certo tuttavia che non possiamo non dire: molti motivi di riflessione, e forse persino qualche prezioso insegnamento, ci sono stati proposti lungo il nostro cammino... 310 311 Appendice Indicazioni di lettura per la "Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente" 1990 312 Questo testo è tratto dalle lezioni del corso di Filosofia Teoretica sul tema "Epistemologia e metafisica della natura in Schopenhauer" tenuto all'Università degli Studi di Milano nel 1990. Le traduzioni italiane citate sono le seguenti: La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, I ediz. 1813, a cura di A. Vigorelli, Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano 1990 (Abbrev.: Quad_1), II ediz. 1847, a cura di Eva Amendola Kuhn, Boringhieri, Torino 1959 (Abbrev.: Quad_2); Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. di N. Palanga, Mursia, Milano 1969 (Abbrev. : M.). Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, voll. I - II, a cura di G. De Lorenzo, Laterza, Bari 1986 (Abbrev.: Supp.). Inoltre vengono citate le Lezioni berlinesi (1820), parte prima, da Theorie des gesammtenVorstellens, Denkens und Erkennens - Philosophische Vorlesungen, Teil I, aus dem handschriftlichen Nachlass, hrsg. von Volker Spierling, München, 1986 (Abbrev.: Lez. I); La libertà del volere umano, trad. it. di E. Pocar, Laterza, Bari 1970 (Abbrev.: Lib.) Nel caso che il luogo della citazione sia del tutto chiaro dal testo, viene indicato solo il numero di pagina. Nell'impiego delle traduzioni ci siamo riservati la possibilità di introdurre le modifiche ritenute necessarie senza esplicita segnalazione. La fotografia del tempio di Segesta è di Marina Piana. 313 INDICE 1. Premessa 2. Osservazioni sulla prima e sulla seconda edizione della Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente 3. I molti modi in cui si può parlare di fondamento 4. La tesi dell'identità di oggetto e rappresentazione 5. La tesi della relazionalità delle rappresentazioni 6. La prima classe di oggetti e il principio di ragione sufficiente del divenire 7. Gli oggetti della seconda classe: i concetti 8. Il principio di ragione sufficiente in rapporto ai concetti 9. Gli oggetti della terza classe e la ratio essendi 10. Serie dei numeri, successione temporale e ratio essendi 11. La critica del metodo deduttivo nella geometria. Cognitio e convictio 12. La ratio essendi in rapporto alle posizioni spaziali 13. Tre esempi per illustrare della ratio essendi 14. La quarta forma del principio di ragione sufficiente. La tematica della motivazione 15. L'affiorare della tematica dell'inconscio 314 315 1. Premessa Nella prefazione alla prima edizione del Mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer rivolge al lettore tre raccomandazioni che sono quasi tre veri e propri ammonimenti. La prima è quella di leggere il libro due volte, ed essa non viene proposta in termini generici quasi una sorta di ovvietà - almeno due volte, avrebbe forse potuto dire! - ma con particolare attinenza alla natura ed alla struttura del libro. Esso, dice Schopenhauer, deriva da un unico pensiero fondamentale, non comunica propriamente null'altro che quell'unico pensiero che in realtà è esplicitamente formulato nel titolo: il mondo è, ad un tempo, volontà e rappresentazione: e proprio per questo motivo non è costruito come un sistema di pensieri (System von Gedanken) che richiederebbe in via di principio la forma dunque di un edificio che ha le proprie fondamenta a partire dalle quali esso viene innalzato. In una simile forma architettonica vi è un primo anello, le fondamenta, ed un ultimo anello, la sommità: le fondamenta sostengono tutto e la sommità non sostiene nulla, mentre ciò che è compreso tra le fondamenta e la sommità sono anelli intermedi ognuno dei quali sostiene ed è ad un tempo sostenuto. Non è affatto improbabile che facendo riferimento ad una simile struttura architettonica Schopenhauer pensi, e con una certa inclinazione critica, a Kant, di cui talora rammenta non favorevolmente come una caratteristica negativa della sua dottrina, l'eccessiva passione per l'elemento sistematico-costruttivo, ed in particolare per la simmetrie che inducono Kant a cercare corrispondenze concettuali là dove non ve ne sono oppure a realizzare partizioni e suddivisioni artificiose all'interno della propria esposizione. Di fronte a ciò si fa valere invece un modo di proporre la problematica filosofica che può suggerire piuttosto l'immagine di una sfera che ha il suo centro in quell'unico pensiero fondamentale - tutti i punti della superficie della sfera riconducono a questo centro, cosicché in quell'immagine vi è l'idea di una forte unità, di 316 una forte coesione, ma anche, nello stesso, quella della differenza e della varietà del punti, del loro divergere l'uno dall'altro come divergono i raggi che promanano da questo centro. In particolare, una sfera non ha né un inizio né una fine, mentre un libro, lamenta Schopenhauer, deve avere una riga iniziale ed una finale, ed in ciò non somiglia affatto ad un organismo, nel quale ciascuna parte deve reggere il tutto ed anche essere retta dal tutto "sicché anche la sua più piccola parte non può appieno comprendersi se già non è stato in precedenza compreso il pensiero nel suo insieme" (M, p.19). Di questa sfericità, che forse manderebbe in visibilio i più o meno recenti fautori dell'ermeneutica, si viene semplicemente a capo - suggerisce saggiamente Schopenhauer - leggendo il libro due volte. Kant è oggetto di un'altra raccomandazione: la conoscenza dei "principali scritti di Kant" è indicata da Schopenhauer come un presupposto importante per la comprensione della propria dottrina. Si suggerisce così di dare lettura dell'Appendice critica sulla filosofia kantiana prima di affrontare la lettura del testo come una sorta di introduzione ad esso, in modo da aver chiarito in via preliminare in che rapporto si trovi la problematica kantiana con la posizione elaborata nel testo, sia nei suoi aspetti ritenuti positivi sia in quelli che Schopenhauer ritiene debbano essere respinti. Ma non meno peso viene dato alla conoscenza delle altre due brevi opere che precedono il Mondo come Volontà e rappresentazione, e precisamente La Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente e lo scritto Sulla vista e i colori. La loro lettura rappresenta una sorta di condizione per una buona comprensione dell'opera maggiore. Noi aggiungeremmo: la Quadruplice radice rappresenta, in particolare, una sorta di porta di accesso proprio al pensiero fondamentale che sta al centro di quella sfera. I nostri commenti a Schopenhauer prendono le mosse di qui, e precisamente dalla prima edizione dell'opera, alla quale vanno tutte le nostre preferenze. 317 2. Osservazioni sulla prima e sulla seconda edizione della Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente Va detto anzitutto che la prima versione del 1813 rappresenta un autentico piccolo capolavoro filosofico che contiene embrionalmente, in una breve e limpidissima sintesi, le idee portanti del Mondo. Molto più tardi, nel 1847, Schopenhauer ne realizzò una seconda versione che rappresenta in realtà un complessivo rifacimento. Basti pensare che il numero delle pagine viene raddoppiato - le integrazioni riguardano dunque non solo la forma, ma anche la sostanza, e in particolare diventano frequenti i richiami alle dottrine sviluppate nell'opera maggiore. Con ciò viene del tutto meno ciò che rende preziosa la prima edizione, e cioè il fatto che essa rappresenta l'antefatto teorico più rilevante del Mondo come volontà e rappresentazione cosicché essa risulta particolarmente utile per cogliere l'impianto elementare dei pensieri che conducono ad esso. Per lungo tempo è invece stata a disposizione del lettore italiano solo la seconda edizione, la cui traduzione venne realizzata da A. Coiazzi nel 1880 e da E. Amendola Kuhn nel 1915 (poi riproposta nel 1959). Ciò è tanto più singolare per il fatto che, a mio avviso, vi sono altri elementi che peggiorano l'opera dal punto di vista stilistico, guastando la straordinaria nitidezza della prima versione, la sua compattezza e stringatezza, con digressioni e pesantezze polemiche che sono tipiche dell'ultimo Schopenhauer: il quale vedendo riconosciuti troppo tardi i propri meriti non perde occasione di lamentarsene, talvolta con fastidiosa e senile acrimonia. Del resto lo stesso Schopenhauer molto lucidamente coglie il risultato di un simile rifacimento osservando nell'introduzione che "a molti sembrerà quasi di sentire un vecchio che legge il libro di un giovane, ma spesso lo fa tacere, per abbandonarsi alle sue digressioni sul tema"; notando ancora che vi è una grande differenza tra il tono del giovane "che pieno di fiducia espone le sue opinioni, giacché è ancora abbastanza candido da credere seriamente che tutti coloro i quali si occupano di fi- 318 losofia niente abbiano più a cuore della verità" e "la voce ferma, ma talvolta anche ruvida del vecchio che finalmente ha dovuto scoprire in mezzo a quale nobile congrega di mestieranti e di servili piaggiatori è venuto a trovarsi" (p. 21). Solo nel 1990, su mia personale sollecitazione, Amedeo Vigorelli ha egregiamente realizzato la prima traduzione italiana della prima versione dell'opera, a ben centosettantacinque anni dalla data della sua pubblicazione. 3. I molti modi in cui si può parlare di fondamento Il titolo di questo primo scritto di Schopenhauer - Üeber die vierfache Würzel des Satzes vom zureichenden Grunde. Eine philosophische Abhandlung - richiama certamente il nome di Leibniz, ed in particolare alla distinzione caratteristicamente leibniziana tra principio di non contraddizione che sta alla base delle verità razionali (a priori) e il principio di ragione sufficiente che sta invece alla base delle verità empiriche (a posteriori). Tuttavia, benché nel corso della discussione Leibniz venga implicato, proprio questo riferimento tende a fuorviarci rispetto al modo in cui Schopenhauer intende l'espressione di principio di ragione sufficiente. Credo perciò che sia opportuno mettere tra parentesi questo riferimento leibniziano, affidandoci piuttosto a qualche osservazione sull'impiego del termine ragione, anzitutto nell'originale tedesco che è, in questo caso, Grund: fondamento, base, terreno. Ciò che qui chiamiamo principio di ragione soprattutto tenendo conto dell'espressione latina ratio e in generale della terminologia tradizionale, potrebbe essere detto meglio, e più chiaramente, principio del fondamento (Satz vom Grunde). Va notato, tra l'altro che nelle Lezioni berlinesi nelle pagine in cui si ripete la tematica di questo saggio, l'aggettivo sufficiente viene a cadere del tutto. Parlando di ragione abbiamo dunque di mira la distinzione tra il fondato e l'infondato, tra ciò che ha un fondamento e ciò che ne è privo. La parola fondamento, ed anche naturalmente la parola ragione 319 o ratio intesa secondo l'inclinazione qui suggerita mantiene l'apertura, anzi la genericità che in questo caso è esplicitamente richiesta per una corretta impostazione del problema. Perciò, se ci venisse richiesta una formulazione del principio, dobbiamo scegliere, tra le diverse formulazioni possibili, quella che più ci sembra lasciare impregiudicata la natura degli enti tra cui sussiste la relazione di fondazione così come la specificità che questa relazione riceve in dipendenza dagli enti tra cui viene posta come sussistente. Potremmo dire ad esempio: ogni cosa ha sempre un fondamento. E ciò significa che in rapporto all'esserci di ogni cosa possiamo interrogarci sul perché. Schopenhauer suggerisce da parte sua di adottare in via provvisoria la formulazione di Wolf che all'incirca può essere resa così: "Nulla è, nel suo esserci piuttosto che non esserci, senza fondamento" (Nihil est sine ratione cur potius sit quam non sit"). Schopenhauer passa in rassegna diverse formulazioni che in qualche modo possono essere ricollegate al problema posto da questo principio, ma una simile rassegna ha essenzialmente lo scopo di mostrare che vi sono diverse accezioni in cui esso può essere inteso ed ogni formulazione mostra, peraltro oscuramente, la propensione verso un'interpretazione piuttosto che verso un'altra. Nello stesso tempo si avverte anche una sorta di inclinazione a rendere quel principio in certo senso unilaterale. Ad esempio: parlando dell'esserci di una cosa si sarà propensi a pensare alle cose "empiriche", e l'esserci verrebbe inteso nel senso in cui dell'esistenza effettiva di cose e di eventi. In tal caso, il dire "ogni cosa ha un fondamento" sembra voler dire che l'esistenza di qualcosa ha sempre una causa. Il principio del fondamento assume così la forma del principio di causalità e potrebbe essere formulato in modo conforme dicendo: "ogni evento ha una causa". Tuttavia vi sono anche cose come triangoli, rettangoli, figure geometriche di ogni genere, numeri e relazioni tra numeri, che non sono cose empiriche e che non esi- 320 stono nello stesso modo di tavoli e sedie. In che senso si parlerà allora in rapporto ad esse di principio del fondamento? Inoltre le proposizioni, i giudizi, le conoscenze in genere possono essere fondate e infondate, ad esempio posso dire che la proposizione "Socrate è mortale" è vera sul fondamento della verità delle proposizioni "tutti gli uomini sono mortali" e "Socrate è uomo". Anche in questo caso si parla di fondamento in un senso ancora diverso dai precedenti. Infine vi sono le nostre azioni, i nostri comportamenti. Qui la distinzione tra il fondato e l'infondato si propone come distinzione tra azione motivata e immotivata: il Grund di cui si parla è semplicemente il motivo, e questa parola ha presumibilmente un senso che va tenuto distinto quello di causa; e quelle ragioni che rendono conto delle mie azioni sono certo di diversa natura dalle ragioni che venivano riferite al rapporto ai premessa e conseguenza. Da queste prime sommarie considerazioni si fa avanti la necessità di una riflessione che risponda a due domande fondamentali: 1. quale è il senso del principio di ragione sufficiente considerato nella sua generalità? 2. in quanti e quali forme il principio di ragione sufficiente arriva a specificarsi e quali formulazioni potremmo proporre per caratterizzare queste forme? In questa impostazione del problema si esemplifica quella che secondo Schopenhauer è una vera e propria regola del "metodo di ogni filosofare, anzi di ogni sapere in generale". Questa regola è in realtà duplice. Da un lato essa invita a tener conto dell'omogeneità tra i concetti, cioè a cogliere gli aspetti comuni, le affinità tra concetti procedendo alla loro unificazione, in modo da evitare l'inutile moltiplicazione di concetti affini. Di fronte a questo problema dell'omogeneità, vi è il problema opposto della specificazione. Questa consiste nell'operare le distinzioni necessarie all'interno di un certo concetto che, se impiegato in una generalità che ignori le sue diffe- 321 renze interne, condurrebbe ad equivoci di ogni sorta. È questa la considerazione metodologica con cui si apre l'intero saggio. 4. La tesi dell'identità di oggetto e rappresentazione Una volta esposti i termini del problema e fornite le indicazioni storiche e terminologiche strettamente necessarie, Schopenhauer avvia la propria analisi con l'enunciazione di due tesi che ci offrono da un lato la risposta alla prima domanda, dall'altro il filo conduttore per l'impostazione della risposta alla seconda domanda. La prima tesi può essere presentata come una considerazione sull'impiego del termine oggetto. Anche in questo caso è bene attirare l'attenzione sulla terminologia tedesca. In rapporto ad "oggetto", in tedesco abbiamo a disposizione due termini: Objekt e Gegenstand. Fra essi vi è una significativa differenza nel modo d'impiego: Gegenstand risulta da una composizione tra l'avverbio gegen che significa di fronte, contro, e il verbo stehen, stare. Vi è dunque un rimando allo stare di fronte ed all'essere contrapposto. In questa accezione si diranno oggetti, in particolare, le cose materiali che ci stanno di fronte e da cui siamo circondati. Si tratta dunque di un'accezione ristretta rispetto al termine di radice latina Objekt che indica invece qualunque cosa sia data, ed in qualunque modo, ad un soggetto. In certo senso si caratterizza con il termine di Objekt la pura relazione formale con il soggetto, cosicché i termini soggetto-oggetto vengono assunti come strettamente correlativi. Ciò premesso la prima tesi afferma che essere un oggetto ed essere una nostra rappresentazione fanno tutt'uno. Potremmo chiamare questa tesi come tesi dell'identità di oggetto e rappresentazione. Secondo la formulazione di Schopenhauer: "essere oggetto per il soggetto ed essere una nostra rappresentazione è la stessa cosa. Tutte le nostre rappresentazioni sono oggetti del soggetto, e tutti gli oggetti del soggetto sono nostre rappresentazioni" 322 (Quad_1, p. 18) Aderendo allo spirito dello scritto che stiamo commentando vogliamo evitare di accompagnare queste grandi enunciazioni di principio con discussioni esplicative ed estensioni problematiche che ci prenderebbero ben presto la mano. Ci basta invece far valere l'assunzione che il termine di rappresentazione verrà da noi impiegato per qualunque oggettività, e dunque per qualunque cosa sia data ad un soggetto ed in una qualunque modalità dell'essere dato. Ad esempio ci sono date percettivamente, attraverso la vista, il tatto e gli organi di senso in genere, le cose materiali del nostro mondo circostante - esse verranno dunque dette rappresentazioni; ma verranno dette rappresentazioni anche numeri, concetti astratti, eventi di ogni genere, non meno delle nostre fantasticherie o dei nostri ricordi, perché in tutto ciò si dànno per noi delle oggettività in genere. 5. La tesi della relazionalità delle rappresentazioni Possiamo ora effettuare il passaggio che ci conduce alla seconda tesi. Tutte le rappresentazioni che hanno certamente, come è già mostrato dai nostri esempi, delle forme profondamente differenti, sono in ogni caso caratterizzate da una proprietà comune: nessuna rappresentazione può presentarsi interamente isolata, in un'assoluta singolarità. Si parla così di un collegamento (Verbindung) o di una connessione tra tutte le rappresentazioni. Questa tesi della relazionalità delle rappresentazioni - come vogliamo chiamarla - può essere formulata così: "Non esiste alcuna rappresentazione assolutamente indipendente". La negazione dell'indipendenza assoluta implica naturalmente l'affermazione della relatività e dipendenza di ogni rappresentazione. Ed è naturalmente riflettendo su questa relatività e dipendenza che ritroviamo il problema del principio del fondamento nella sua accezione generale. La connessione tra le rappresentazioni è "quella specie di relazione che esprime il princi- 323 pio di ragione sufficiente assunto in generale" (Quad_1, p. 18). Nelle Lezioni berlinesi si spiega più accuratamente che "ogni oggetto del soggetto, di qualunque specie, si tratti di una rappresentazione astratta o intuitiva, si trova relativamente ad un altro oggetto, e quindi ad un'altra rappresentazione, in un rapporto di dipendenza, cioè esso non potrebbe essere come è se non ci fosse un altro oggetto che è come è: e questo altro oggetto si chiama il fondamento (Grund), il primo conseguenza (Folge)" (Lez. I, p. 443). Ogni rappresentazione è dunque in relazione con un'altra, ma questa parola non indica un puro e semplice rapporto estrinseco, un puro e semplice accostamento. Dovremmo dire invece che ogni rappresentazione è relativa ad un'altra, e lo è nel senso che ne dipende nel suo essere. Se la rappresentazione che fa da fondamento fosse diversa, sarebbe diversa anche la rappresentazione che consegue da quel fondamento. L'espressione conseguenza così come anche il verbo seguire sono peraltro espressioni che potrebbero indurre in equivoco: essere rimandano al rapporto premessa e conseguenza inteso come rapporto logico - deduttivo, mentre ora abbiamo di mira un'accezione più generale. In luogo di conseguenza, dovremmo parlare piuttosto di rappresentazione fondata. La tesi della relazionalità delle rappresentazioni potrebbe dunque essere formulata dicendo: "Ogni rappresentazione è una rappresentazione fondata", e questa è manifestamente una formulazione del principio di ragione sufficiente nella sua accezione generale. In base ad essa dunque nessun oggetto "può mai essere qualcosa che sta assolutamente per se stesso, qualcosa di indipendente o anche di singolo o di separato… tutti gli oggetti stanno essenzialmente come tali in un collegamento conforme a legge e determinabile a priori secondo la loro forma. Questo collegamento è quella relazione che esprime il principio del fondamento preso nella sua generalità" (Lez.I, p. 444). 324 6. La prima classe di oggetti e il principio di ragione sufficiente del divenire Dobbiamo ora rispondere alla nostra seconda domanda che riguardava le specificazioni del principio di ragione sufficiente, dunque i modi diversi in cui possiamo parlare di dipendenza di una rappresentazione dall'altra, i tipi di relazione tra le rappresentazioni che si possono contraddistinguere in generale. Come abbiamo già sottolineato fin dall'inizio, vi sono varie forme del principio di ragione sufficiente, e precisamente vi sono quattro forme che possono essere considerate come sue specificazioni. La radice del principio di ragione sufficiente è quadruplice - si dice nel titolo dell'opera: cosa che non significa che vi sono di esso quattro radici, come se queste fossero, in certo senso, prima di principio, ma che esso assume quattro "aspetti" - Gestalten, come si dice nelle Lezioni berlinesi. In che modo tuttavia possiamo procedere per una ordinata identificazione di queste forme? In realtà, le nostre sommarie considerazioni con le quali abbiamo introdotto l'argomento ed in particolare i riferimenti esemplificativi di cui ci siamo già avvalsi, ci offrono un orientamento abbastanza preciso sulla procedura da mettere in atto. Di qui appariva già chiaro che vi è una correlazione tra i tipi di relazioni fondamentali e i tipi differenti di oggetti (rappresentazioni). Il compito di identificare le varie forme del principio di ragione sufficiente si può allora tradurre in un compito essenzialmente classificatorio che tenda ad operare una distinzione in classi degli oggetti in genere così che, dato un oggetto qualunque, lo si possa annoverare all'una o all'altra classe. A dire il vero, Schopenhauer non si mostra affatto preoccupato (come si sarebbe certamente preoccupato Kant) di giustificare a fondo la propria classificazione, magari con una qualche complessa deduzione filosofico-trascendentale, limitandosi ad enunciare una suddivisione in quattro classi di oggetti e ad assumerla come valida a meno di controesempi in grado di in- 325 validarla: si rimanda dunque ad altri il compito di proporre esempi di oggetti che non rientrano in nessuna delle quattro classi - nel quale caso la classificazione si dimostrerebbe incompleta - oppure che possono rientrare all'interno di due classi, nel qual caso la classificazione si dimostrerebbe sovrabbondante o comunque difettosa. Nella prima classe di oggetti debbono essere annoverate tutte le rappresentazioni complete (vollständig) che costituiscono l'intero di un'esperienza (Quad_1, p. 21). Si tratta di una formulazione un po' astratta che richiede certamente qualche spiegazione per essere correttamente compresa. Anzitutto si parla di completezza delle rappresentazioni. Questa nozione contiene un rimando a Kant. Questi aveva distinto in un'esperienza, ad esempio nella percezione di una cosa materiale, un elemento formale ed un elemento materiale. L'elemento materiale è costituito dal contenuto sensoriale come tale, dalle sensazioni come stati della soggettività percettiva, che non si sono ancora organizzati in una formazione oggettiva unitaria. L'unità e l'oggettività è opera invece dell'elemento formale, che è costituito dalle forme dello spazio e tempo così come dalle categorie. Ora Schopenhauer parla di completezza proprio per sottolineare che nel caso degli oggetti di questa prima classe sono presenti sia l'elemento formale che l'elemento materiale. Non si tratta dunque di semplici sensazioni, che sarebbero dette incomplete in quanto da esse manca l'elemento formale, ma nemmeno, ad esempio, di oggettività geometriche ideali in rapporto alle quali l'esempio intuitivo è inessenziale, e che sarebbero perciò dette incomplete, inversamente, per la mancanza (o l'inessenzialità), dell'elemento materiale. Il fatto che poi che si aggiunga che tali rappresentazioni complete "costituiscono l'intero di un'esperienza (Das Ganze einer Erfahrung) significa semplicemente che esse fanno parte di quella totalità di rappresentazioni nella quale consiste l'esperienza stessa del mondo. Nella seconda edizione dell'opera si dice più semplicemente che "la prima classe dei possibili oggetti 326 della nostra facoltà rappresentativa è quella delle rappresentazioni intuitive, complete ed empiriche"(p. 59). L'intuitività si contrapppone alle "rappresentazioni solamente pensate", mentre si parla di empiricità per indicare che le rappresentazioni empiriche sono suscitate da sensazioni che ne attestano la realtà e appartengono infine "a quel complesso senza fine e senza principio in cui consiste tutta la nostra realtà empirica". La condizione dell'appartenenza degli oggetti della prima classe all'intero di una esperienza intende escludere da essa le rappresentazioni fantastiche, ad esempio gli oggetti che compaiono nei nostri sogni, dal momento che anch'essi possono presentarsi con le caratteristiche di concretezza con cui ci appaiono nella vita quotidiana, ma non possono essere compiutamente integrati in quella totalità che è il mondo esperito. Le rappresentazioni della fantasia "sono indubbiamente complete… ma non appartengono all'intero dell'esperienza, perciò esse non si trovano sotto la legge qui dominante della causalità ma, come azioni di puro arbitrio, sotto la legge della motivazione che domina nella classe che verrà in seguito menzionata degli oggetti della facoltà rappresentativa" (Quad_1, p. 27). Si tratta dunque, detto semplicemente, ma anche in un modo più povero e insignificante, delle cose materiali, delle cose che costituiscono la natura: nella formulazione più pregnante di Schopenhauer comincia invece ad affiorare una vera folla di problemi, alcuni dei quali trovano anche un primo, sia pure minimo, abbozzo. Ad esempio, la tematica della temporalità e della spazialità messa in questione dalla completezza della percezione viene sottoposta ad una discussione rapida, ma già estremamente significativa; e così anche il tema della distinzione tra cose reali e cose puramente sognate, che ha un raggio di azione molto più ampio di quello che può apparire fin d'ora. Inoltre, un'importante riflessione che verrà ripresa nel Mondo viene dedicata alla posizione peculiare che detiene il corpo soggettivo nell'ambito degli oggetti di questa classe, un problema che si impone a partire dalla considerazione della tematica delle 327 sensazioni e del fatto che ogni rappresentazione appartenente a questa classe, proprio in quanto ha carattere intuitivo, può esser realizzata solo attraverso la sensazione. La forma del principio di ragione sufficiente corrispondente a questa prima classe di oggetti non è altro che la legge di causalità. Fondamento significa allora semplicemente causa. E ciò che viene fondato da questo fondamento da esso si dice effetto. Naturalmente non diremo che il rapporto causale sussiste tra cose, ma tra stati-di-cose (Zustand): da una certa configurazione delle cose ne consegue un'altra e da questa un'altra ancora in una catena infinita, sul cui primo anello è privo di senso interrogarsi. Un modo appropriato di formulare questo rapporto è il parlare di divenire: uno stato di cose diviene sempre da un altro. Perciò Schopenhauer parla di questa forma del principio di ragione sufficiente come principio di ragione sufficiente del divenire (principium rationis sufficientis fiendi). In questo caso la ratio potrà essere detta ratio fiendi. 7. La seconda classe di oggetti: i concetti Alla seconda classe di oggetti (rappresentazioni) appartengono tutti i concetti e naturalmente tutte le loro forme di connessione. Ma che cosa intendiamo con concetti? Prestiamo attenzione a questo punto. Parlando della prima classe di oggetti in realtà parliamo del mondo stesso, anzi dell'esperienza del mondo e quindi delle cose e delle relazioni concretamente sperimentate. In questa esperienza del mondo sono implicate 1. le sensazioni; 2. la forma del tempo e dello spazio; 3. la relazione causale. È ora opportuno sottolineare che l'apprensione del sussistere di una relazione causale è, secondo Schopenhauer, altrettanto diretta e immediata quanto lo è l'apprensione della forma spaziale di una cosa e della forma temporale di un evento. Ciò 328 significa che noi cogliamo senz'altro l'urto tra due oggetti e il movimento causato da questo urto nella visione complessiva che abbiamo della situazione, anche se in questa visione distinguiamo un elemento materiale ed un elemento formale. Seguendo la posizione di Kant, questo elemento formale, ed in particolare la relazione causale, verrà riferito ad un'attività intellettuale: tuttavia, secondo Schopenhauer, un simile richiamo all'intelletto ha solo il senso di differenziare una forma di organizzazione soggettiva, la causa, appunto, da ciò che si impone ai nostri sensi, e non ha invece il senso di implicare la mediazione di qualche rappresentazione astratta. Non dobbiamo in altri termini concepire la relazione causale, che pure possiamo annoverare tra le relazioni intellettuali non derivabili dall'esperienza, come un vero e proprio pensiero della relazione causale che viene applicato ai contenuti dell'esperienza sensoriale. La connessione causale è invece immediatamente operante nella stessa esperienza intuitiva del mondo. Detto in altro modo: anche gli animali hanno un'esperienza intuitiva del mondo, della quale fa parte l'apprensione della connessione causale tra gli eventi. Per questo gli animali possono andare a caccia delle proprie prede oppure fuggire di fronte ad un'aggressione, evitare i pericoli, ripararsi dal freddo, ecc. Nessuno di questi comportamenti sarebbe possibile se essi non sapessero connettere causalmente gli eventi, se non sapessero cogliere lo stile causale che caratterizza la realtà stessa. Ora, se decidiamo di impiegare la parola intelletto per indicare l'attività di afferramento di questo stile causale, non c'è dubbio che possiamo senz'altro affermare che gli animali hanno un intelletto. Ma non per questo diremo che essi hanno pensieri, che essi pensano. Che cosa significa allora pensare ed avere dei pensieri? Appare chiaro che pur avendo preso le mosse da uno spunto kantiano - e in particolare dalla nozione di relazione causale come relazione intellettuale - da Kant ci siamo rapidamente e irrimediabilmente allontanando ed in maniera più 329 radicale di quanto potrebbe apparire ad uno primo sguardo. Ciò appare chiaro proprio in rapporto alla domanda intorno a che cosa significa pensare. La risposta di Schopenhauer è questa: pensare significa produrre concetti, connettere i concetti in giudizi (proposizioni); connettere le proposizioni in strutture argomentative, in ragionamenti. Concetti sono allora semplicemente rappresentazioni astratte e la facoltà di produrre concetti giudizi e inferenze è ciò che si chiama ragione. Le caratterizzazioni kantiane dei termini "intelletto" e "ragione" debbono dunque essere messe interamente da parte. Per caratterizzare il concetto, Schopenhauer risale alla tradizione prekantiana, alla tradizione empiristica. Egli parla infatti dei concetti come di rappresentazioni di rappresentazioni, una dizione che rammenta molto da vicino la concezione empirista secondo la quale le rappresentazioni astratte sono da considerare come copie delle rappresentazioni intuitive, benché egli distingua poi nettamente fra fantasma (rappresentazione mentale) e concetto evitando l'errore empiristico. Ad esempio, il concetto di cavallo, che possiamo identificare con alcune poche caratteristiche definitorie, è una rappresentazione generale che presuppone rappresentazioni intuitive di cavalli effettivamente dati nella nostra esperienza: il questo senso esso può essere detto "rappresentazione di rappresentazioni". Va da sé che la generalità del concetto va a scapito della ricchezza di determinazioni concrete che sono proprie del caso singolo dato nell'intuizione e che dunque i concetti sono intrinsecamente più poveri delle rappresentazioni intuitive. Ma proprio questa loro maggiore povertà è ciò che li rende utili, anzi indispensabili per lo sviluppo dei processi conoscitivi e in generale per i processi della scienza. Seguendo un simile corso di idee, Schopenhauer arriva - contro Kant - ad una vera e propria rivalutazione della logica generale, un'espressione con cui Schopenhauer come del resto Kant non intende altro che la logica formale, la logica "sco- 330 lastica". Questa rivalutazione - è bene sottolinearlo - urta non soltanto contro la posizione di Kant, ma contro l'intero sviluppo idealistico che ha sempre manifestato contro la sillogistica del passato un vero e proprio disprezzo. I concetti di cui parla Schopenhauer non si situano dunque ambiguamente, come accadeva in Kant, all'interno di quella logica trascendentale che aveva come compito di individuare le forme fondamentali di unificazione dell'esperienza. In rapporto a questa problema kantiana, Schopenhauer realizza una drastica semplificazione che è, a mio avviso, profondamente giustificata. Di tutta la complessa problematica delle categorie, Schopenhauer lascia vivere unicamente quella della causalità, e naturalmente quella della sostanza, ma considerata in un nesso inscindibile con la causalità; nello stesso tempo, come abbiamo visto, essa viene attribuita ad una facoltà intellettuale che è qualcosa di interamente diverso dalla facoltà di produrre concetti, dalla facoltà di pensare. Questa si esplica attraverso concetti e connessioni tra concetti, ma ora con questa parola dobbiamo intendere proprio ciò che intendevano i cultori della logica formale. Essi sono fondamentalmente i significati generali delle parole, dal momento che - è Schopenhauer stesso a sottolinearlo - il linguaggio è lo strumento effettivo del pensiero concettuale, i concetti possono essere fissati e conservati solo attraverso il linguaggio e indipendentemente dal linguaggio essi si dissolvono. 8. Il principio di ragione sufficiente in rapporto ai concetti Da tutto ciò non è difficile intravvedere in quale direzione si orienteranno le nostre considerazioni successive. Il problema del principio di ragione sufficiente non andrà evidentemente proposto in rapporto ai concetti come tali, ma alle loro connessioni, quindi ai giudizi, alle proposizioni che possono essere concepite come operazioni di unificazione tra concetti. Riportare il problema del principio di ragione sufficiente alle proposizioni significherà poi evidentemente interrogarsi sul fonda- 331 mento di ciò che esse dicono. "Un giudizio vero significa: esso ha una ragione sufficiente" (Quad_2, p. 52). E subito Schopenhauer precisa: "la ragione sufficiente" ovvero il fondamento deve "essere qualcosa di diverso dal giudizio a cui si riferisce. La verità è dunque la relazione di un giudizio a qualcosa che sta fuori di esso" (ivi, p. 52). Così, in rapporto ad una verità empirica come "questo cavallo è nero" il fondamento starà nell'atto percettivo a cui la proposizione implicitamente rimanda, atto che sta fuori della proposizione. Non ogni verità è tuttavia senz'altro una verità empirica secondo un modello così semplice. Il fondamento di una proposizione può anche essere un'altra proposizione. Così io so che Socrate è mortale non già perché lo ho visto morire, ma sulla base delle due ben note premesse. Le premesse sono ora il Grund, mentre la proposizione fondata può essere detta conseguenza nel senso usuale del termine che rimanda al rapporto deduttivo. Si parlerà in tal caso di verità logiche, che saranno definite dal fatto che la loro verità è fondata su altre proposizioni, assunte come vere. La verità di queste premesse sarà a sua volta fondata empiricamente (nell'esperienza) oppure logicamente (in altre proposizioni). In realtà anche nel caso delle verità ottenute consequenzialmente vale la formulazione generale secondo cui "la verità è la relazione di un giudizio a qualcosa che sta fuori di esso", dal momento che questa formulazione, piuttosto forte, va intesa nel senso della formulazione più debole secondo cui il fondamento "deve essere qualcosa di diverso dal giudizio a cui si riferisce" e non vi è dubbio che le premesse siano proposizioni diverse rispetto alla conseguenza che da esse si trae. Ciò vale anche per il terzo tipo di verità che Schopenhauer segnala e che chiama verità metafisiche nella prima edizione dell'opera e, forse meno equivocamente, verità trascendentali nella seconda edizione. Con queste espressioni egli non intende altro che le proposizioni sintetiche a priori di cui parlava Kant, 332 con particolare riguardo alle proposizioni aritmetiche e geometriche. L'ultimo tipo di verità che dobbiamo rammentare sono le verità che Schopenhauer chiama metalogiche: con questa espressione si intendono in generale quelle proposizioni che formulano le condizioni dello stesso pensiero logico, sono dunque verità che le stesse regole della deduzione presuppongono. Esse dunque stanno alla base delle argomentazioni - come il principio di non contraddizione, il principio di identità, il terzo escluso ecc. In rapporto alle verità metalogiche non può valere il requisito dell'esteriorità del fondamento rispetto alla proposizione fondata. Ad esempio, la verità del principio di non contraddizione non può consistere in un'altra proposizione né in qualche intuizione ad essa esterna. Ciò non significa che sia priva di fondamento, ma piuttosto che non ha senso, in rapporto ad essa, porre il problema del fondamento. Il principio di non contraddizione vale in quanto condizione del pensare in genere, e proprio per questo si sottrae ad una domanda sulle sue condizioni. In realtà non manca nel testo un cenno ad un'interpretazione psicologizzante, secondo la quale la verità di una proposizione metalogica sarebbe riconosciuta "per mezzo di una riflessione" nella quale tentiamo invano di pensare in modo contrario a verità di questo tipo, ma su questa interpretazione introspettiva prevale indubbiamente l'idea di considerare queste "leggi" come condizioni di possibilità del pensare in rapporto alle quali non ha senso porre il problema del fondamento. Tra esse andrà allora annoverato lo stesso principio di ragione sufficiente e proprio nella formulazione secondo la quale "la verità è la relazione di un giudizio con qualche cosa fuori di esso, che è la sua ragione sufficiente" (Quad_2, p. 174). Del resto fin dall'inizio (Quad_1, § 13) si era affermato che il principio di ragione sufficiente deve essere assunto come indimostrabile in quanto è esso stesso principio di dimostrazione. In quanto in tutte queste considerazioni ciò che è in discussione è il problema del verità di un giudizio, quindi del suo 333 valore conoscitivo, Schopenhauer parla di questa forma anche come principium rationis sufficientis cognoscendi. Si noti come corollario che, potendo un fatto essere formulato in una proposizione, una proposizione che enuncia il sussistere di una condizione causale può essere assunta come ratio cognoscendi per la verità della proposizione che enuncia l'effetto conseguente. 9. Gli oggetti della terza classe e la ratio essendi A dire il vero parlando di fondamento del divenire (ratio fiendi) e di fondamento del conoscere (ratio cognoscendi) ci imbattiamo in una distinzione ben nota e più volte ribadita nella tradizione filosofica - nonostante una certa novità dell'impostazione di principio. Diversamente stanno le cose per la terza e la quarta classe di oggetti - ed intanto per la terza classe di cui vogliamo ora occuparci. Certo, anche in questo caso si tratta di problemi non nuovi e variamente proposti in precedenza. In particolare vi è una netta e per certi aspetti piuttosto fedele ripresa di alcuni momenti fondamentali dell'estetica trascendentale kantiana. Realmente nuova è tuttavia l'integrazione di questi temi nell'orizzonte del problema del fondamento; inoltre il modo del loro sviluppo contrassegna l'originalità di uno stile e di un atteggiamento filosofico. La terza classe di oggetti è costituita "dalla parte formale delle rappresentazioni complete" - una formulazione che dovrebbe apparirci abbastanza chiara se rammentiamo che cosa intendevamo con completezza delle rappresentazioni. Illustrando quella nozione ci eravamo richiamati alla posizione kantiana ed all'idea che nella percezione di una cosa si deve distinguere il puro contenuto sensoriale dalle determinazioni spaziali e temporali che costituiscono la parte formale della percezione stessa. Il problema kantiano dello spazio e del tempo come forme a priori dell'intuizione ed il modo in cui si configurano in rapporto ad esso l'aritmetica e la geometria rap- 334 presenta per Schopenhauer uno dei punti fermi acquisiti da Kant, ed a partire dall'impostazione kantiana Schopenhauer ritiene di poter individuare nei numeri e negli enti geometrici e nelle loro relazioni una vera e propria nuova classe di oggetti accanto a quelle dei prodotti delle intuizioni concrete e dei concetti. Il motivo di ciò sta anzitutto nel fatto che una forma geometrica non va confusa con la figura che possiamo disegnare sulla lavagna ed alla quale possiamo fare eventualmente riferimento nel corso delle dimostrazioni. La figura concretamente disegnata, con tutte le sue imprecisioni, è oggetto di un'intuizione empirica, come ogni altra cosa del nostro mondo circostante. Una figura geometrica è invece qualcosa di interamente diverso dall'oggetto di un'intuizione empirica. Tuttavia ciò non significa - questo è il passaggio gravido di conseguenze - che essa sia da considerare come una pura rappresentazione astratta, come un concetto sul quale sia lecito intervenire solo con gli strumenti della costruzione e della deduzione logica. Se ammettiamo con Kant che spazio e tempo ineriscono alle oggettività dell'intuizione in quanto essi rappresenterebbero la componente formale, dovremmo poter ammettere la possibilità di uno sguardo esplicitamente diretto a queste forme - la possibilità, dunque, di una intuizione pura, dove l'aggettivo puro trae il suo senso, come in Kant, dalla contrapposizione ad empirico. Questa idea di un'intuizione pura è la soluzione che Kant propone all'antica questione della fonte della certezza delle proposizioni geometriche e aritmetiche. Se da un lato va respinta in via di principio la natura empirica di questa certezza, dall'altro sembra anche difficile ritenere che essa possa essere giustificata per via puramente argomentativa. L'idea che lo spazio e il tempo siano forme dell'intuizione e che si dia una intuizione pura ci consente di affermare che le relazioni geometriche possono essere colte direttamente nella loro certezza attraverso il caso singolo nella misura in cui attraverso di esso si colgono le determinazioni aprioriche che caratterizzano la spazialità e la temporalità. 335 Questa soluzione forma la premessa della tematica schopenhaueriana. Come sappiamo ogni classificazione di oggetti è vincolata ad una forma speciale del principio di ragione sufficiente. Perciò affermare che gli oggetti in questione formano una classe distinta da ogni altra significa ammettere che fra essi intercorra una forma peculiare di relazione fondazionale. Essa viene chiamata da Schopenhauer fondamento d'essere (Seinsgrund) ovvero ratio essendi. Su di essa ci dobbiamo soffermare un po' più a lungo che nei casi precedenti. 10. Serie dei numeri, successione temporale e ratio essendi Chiunque rifletta anche superficialmente sulla problematica or ora accennata, avvertirà fin dall'inizio, pur senza entrare nel merito della questione, che mentre è del tutto chiara l'attinenza della geometria alla spazialità, molto meno lo è l'attinenza dell'aritmetica alla temporalità. La geometria può essere considerata come una scienza che esplora lo spazio, che ne mette in luce le caratteristiche essenziali, che studia le figure spaziali e le loro possibili relazioni. Nulla del genere invece possiamo affermare sul rapporto tra aritmetica e temporalità: ciò ci fa sospettare che nell'istituire questo nesso agisca qualche mediazione filosofica pregiudiziale. Se stiamo alla posizione kantianeggiante di Schopenhauer possiamo stabilire questo nesso a partire da una premessa che egli non elabora più di tanto, ma che comunque enuncia con particolare chiarezza nel § 15 del primo libro del Mondo. Si dice qui che "tutto il contenuto dell'aritmetica e dell'algebra non è che un semplice metodo di abbreviazione del contare" (M, p. 114). Vogliamo chiudere un occhio sul fatto che si fa di aritmetica ed algebra un solo fascio, assai impropriamente: tenendo conto del solo riferimento all'aritmetica qui si sostiene che le procedure aritmetiche, anche particolarmente complesse, e così le nozioni, talvolta molto astratte fondate su queste procedure, 336 sono fondamentalmente elaborazioni simboliche che hanno lo scopo di abbreviare il conteggio, inteso elementarmente come enumerazione di unità in successione. Naturalmente il fatto che si parli di abbreviazione non deve far pensare che si tratti di cose da poco: le "abbreviazioni" in questione infatti sono per lo più tali da realizzare effettivamente procedure che non potrebbero in altro modo essere eseguite. Resta invece l'assunzione della riducibilità di principio al conteggio. Di questa riducibilità possiamo farci un'idea pensando ad esempio al modo in cui la moltiplicazione può essere considerata un'abbreviazione di addizioni e l'addizione stessa come un modo di abbreviare un conteggio. Il conteggio in effetti non deve essere inteso come una serie di addizioni successive come se contare significasse nient'altro che addizionare 1 ad 1. Così in luogo di realizzare l'addizione 15+5 secondo le ben note regole, potrei semplicemente, impiegando la notazione a tratti, semplicemente contare i tratti - e così nessun segno di addizione e di operazione corrispondente sarebbe necessaria. 15 + | | | | | | | | | | | | | | | + 5 | | | | | | | | | | | | | | | | | | | | | | | | | A partire da questa considerazione è possibile effettuare in qualche modo il passaggio al problema temporale. Nel contare, un'unità succede all'altra, il contare sembra essere niente altro che un seguire l'ordine di unità in successione. È questa parola "successione" che dovrebbe suggerire senz'altro una relazione intrinseca tra il contare e la temporalità, e dunque tra il numero e il tempo. D'altronde il tempo, obbiettivamente considerato, non è altro che una successione di istanti. Il contare sembra così in certo senso presupporre la successione temporale. Forse potremmo affermare che la configurazione di tratti 337 considerata non già come una configurazione compiuta, ma come una successione che percorriamo dall'uno all'altro tratto, può rappresentare un buon simbolo sia della successione temporale, sia della successione numerica: cosa che potrebbe rappresentare un buon indizio per l'esistenza di una relazione. Io credo peraltro che il condizionale debba essere d'obbligo. Un simile indizio non ci sembra affatto buono, ma saremmo disposti a sostenere che si tratta invece di una relazione discutibile e forzata, per quanto ricorrente nella filosofia della matematica dopo Kant. Ma naturalmente questa nostra opinione, in un contesto in cui siamo impegnati a rendere comprensibile la posizione di Schopenhauer, è del tutto secondaria. In effetti proprio quell'indizio ci fornisce un primo esempio che ci fa capire che cosa Schopenhauer intenda con ratio essendi. "Ogni numero presuppone i numeri precedenti come ragioni del suo essere: io posso giungere al numero dieci solo attraverso tutti i precedenti e solo grazie a questa conoscenza della ratio essendi so dove sono dieci, e dunque otto, sei, quattro" (Quad_1, p. 117) Ciò vale anche per gli istanti di tempo: ogni istante non è semplicemente, ma è tra un determinato istante ed un altro istante altrettanto determinato, ed il pensiero di un istante isolato, avulso dalla successione temporale complessiva è privo di senso. Si chiederà allora: che tipo di relazione sussiste in questo caso? Possiamo forse ritenere che fra un istante ed il successivo sussista un nesso causale? Certamente no. Ma nemmeno si potrebbe parlare di una relazione logica già per il fatto che una simile relazione sussiste tra proposizione e né gli istanti né i numeri sono proposizioni. Di qui la necessità di individuare una diversa forma del principio di ragione sufficiente. Sorge tuttavia subito il dubbio che questo esempio sia troppo debole, che esso non sia in grado di esibire una relazione in qualche modo intrinseca tra elemento fondante ed elemento fondato. Si prospetta invece l'idea di una forma relazionale ge- 338 nerale, elementarissima e particolarmente stringente. Tanto che una successione come quella dei numeri naturali o di quella degli istanti di tempo sembrano valere forse meglio che come specificazione del principio di ragione, come caso esemplarmente rappresentativo del principio di ragione sufficiente inteso nella sua generalità. In un'aggiunta alla seconda edizione della Quadruplice radice, lo stesso Schopenhauer nota che "il tempo è lo schema semplice con il contenuto essenziale di tutte le forme della ragione sufficiente" (p. 235). Lo stesso naturalmente deve dirsi per l'aritmetica. Il principio di ragione sufficiente è il principio su cui si fonda la scienza stessa, poiché vi è scienza e indagine scientifica ovunque vi siano ragioni da ricercare, fondamenti da portare alla luce. "Scienza, infatti, significa un sistema di conoscenze, cioè una somma di conoscenze collegate, in contrapposizione al semplice aggregato delle medesime. Ma che altro mai se non il principio di ragione sufficiente lega fra loro le membra di un sistema?" (p. 27). Ora, la serie di numeri presenta nella forma più semplice ed anche più rigorosa, proprio questa forma di connessione: "Grazie a questa perfetta semplicità, perché niente rimane da parte, né ci sono relazioni indefinite, tale serie non lascia niente a desiderare in precisione, apoditticità e chiarezza" (p. 235). Tuttavia proprio per questo motivo - per la sua capacità di illustrare la tematica generale del principio di ragione sufficiente - il riferimento all'aritmetica non è in grado di fornirci una chiara via di accesso al problema della ratio essendi. A tale scopo dobbiamo piuttosto rivolgerci sul versante della geometria. 339 11. La critica del metodo deduttivo nella geometria. Cognitio e convictio L'impresa fondamentale di Euclide fu quella di organizzare sistematicamente il sapere geometrico acquisito nel passato in modo tale da poter dedurre ogni proposizione geometrica come conseguenza di altre proposizioni. Ciò richiede che insieme alla validità delle regole inferenziali, sia assumano alcune proposizioni come primitive e dunque, come si è detto per secoli, come in se stesse evidenti. Con Schopenhauer ci chiediamo: di fronte alla geometria considerata nell'orizzonte del problema del principio di ragione sufficiente dovremmo soltanto prendere atto di questa forma deduttiva, facendo rientrare l'intera tematica nel quadro della ratio cognoscendi? In realtà tutta la discussione sviluppata da Schopenhauer prende le mosse dal rifiuto di orientarsi in questa direzione: le proposizioni geometriche vertono su entità geometriche e ciò a cui siamo interessati è il tipo di rapporto che sussiste tra queste entità. Questo rapporto viene senz'altro colto ed afferrato nelle dimostrazioni corrispondenti? Schopenhauer non risponde a questa domanda in modo senz'altro affermativo, ma sottopone la comprensione della relazione attraverso la dimostrazione a forti limitazioni. Ciò che viene proposto all'interno di una dimostrazione geometrica è una conseguenza che dobbiamo riconoscere come vera e della cui verità possiamo dirci convinti per il fatto che abbiamo riconosciuto la coerenza logica di ogni passo che abbiamo compiuto, ma questa convinzione non è la stessa cosa di una comprensione autentica, non è la stessa cosa che possedere l'evidenza della connessione che in quella dimostrazione è stata effettuata. Occorre qui prestare molta attenzione alla terminologia impiegata: per indicare la convinzione che deriva dalla dimostrazione Schopenhauer si serve del termine latino convictio che viene indicato come termine esplicativo per il tedesco Überführung. Ma il termine latino convictio non indica in realtà 340 un'opinione di cui in un modo o nell'altro abbiamo acquisito una certezza soggettiva (Überzeugung): esso è invece tratto dal linguaggio giuridico per indicare quel complesso di considerazioni, che possono diventare vere e proprie stringenti argomentazioni con il quale un giudice istruttore mette con le spalle al muro un imputato, e in questo senso lo "convince" della sua colpa. Lo convince, nel senso che gli mostra che non vi sono per lui vie di uscita, che tutto confluisce coerentemente, logicamente, nell'indicarlo come autore del delitto. Come sappiamo, l'imputato potrà protestare la propria innocenza, e del resto il giudice incorrere in un errore. Analogamente nelle dimostrazioni geometriche noi possiamo dire di essere convinti in questo stesso senso: le dimostrazioni ci mettono con le spalle al muro, non possiamo dire di no, anche se forse non riusciamo a vedere la connessione realizzata nella proposizione dimostrata. Di fronte alla convinzione intesa così, sta invece la cognitio, ciò che Schopenhauer chiama Einsicht - un termine che rimanda al vedere (sehen). Nel linguaggio quotidiano einsehen significa in particolare vedere dentro, riconoscere, ammettere, capire. Sarei propenso a tradurre questo termine con comprensione evidente o addirittura con cognizione intuitiva. Si tratta naturalmente di quella comprensione evidente che abbiamo (o dovremmo avere) per gli assiomi. Se vi mostro questa figura: a b t B. Ma in luogo di B può può accadere dopo A un qualunque evento C. Se ogni modo di ordine dell'esperienza fosse riportabile a questo modello, allora la tesi dell'occasionalità varrebbe nel senso più forte del termine. Che le cose non stiano così lo si vede invece già se spostiamo la nostra attenzione sulla contiguità spaziale, ed in particolare se questo tema viene posto nei termini della percezione della contiguità. Due oggetti "vicini" possono essere colti come una "coppia" e la "coppia" è una "formazione di senso" nella quale la temporalità non esplica alcuna funzione, così come non la esplica l'esperienza iterata. Questo problema risulta ancora più evidente nel caso dell'associazione per somiglianza. Mentre per la contiguità (e in particolare la contiguità puramente temporale) è possibile prescindere dai contenuti connessi, e quindi l'associazione può avvenire per contenuti qualsivoglia, nel caso della somiglianza il contenuto viene in primo piano e sarebbe puro controsenso pretendere che qualunque contenuto possa essere associato per somiglianza con un altro contenuto qualsiasi. A Hume sfuggì questa differenza tra le "leggi associative" o meglio questa differenza non viene esplicitamente tematizzata e soprattutto non vengono tematizzate le sue conseguenze. Così da un lato egli parla delle leggi associative come di una "dolce forza" che attira le idee, e dunque anzitutto le impres- 70 sioni le une alle altre, alludendo così ad un'attrazione interna che certo si addice in modo particolare alla somiglianza; dall'altro il modo in cui si articola l'intero impianto del suo discorso presuppone tacitamente la relazione di contiguità come una sorta di modello. 11. Tentativo di ricondurre la somiglianza alla contiguità Questo problema si ripresenta lungo lo sviluppo successivo della psicologia che eredita dall'empirismo classico l'idea dell'associazione. All'interno di questo sviluppo si affaccia di continuo l'esigenza di un'ulteriore ed ancora più drastica semplificazione delle leggi associative, una semplificazione che è orientata nel senso delle nostre considerazioni precedenti. L'impianto teorico proposto da Hume potrebbe essere reso in qualche modo più coerente - così si argomenta - se fosse possibile fare a meno della tematica della somiglianza, che non può che indebolire la componente temporale e rafforzare la relazione di contenuto. Molto significativi risultano a questo proposito i tentativi di ridurre il concetto di somiglianza a quello di contiguità attraverso un'argomentazione che val la pena di riferire. Che cosa significa, ci si chiede, parlare di due cose che sono tra loro simili? Sembra subito chiaro che il rapporto di somiglianza richieda che le cose poste come simili siano composte di parti. La somiglianza è somiglianza di una parte. Due oggetti rossi hanno una parte in comune - il colore. Se questa premessa è corretta, allora si può "ridurre" la somiglianza ad una sorta di doppia contiguità. Siano ad esempio simili la cosa A e la cosa B. Questa somiglianza la potremmo illustrare in questo modo. A S B A S B Si procederà così anzitutto dall'intero A alla parte S che saranno associati per contiguità; quindi verrà effettuato il passaggio da S 71 all'intero B ancora per contiguità. In questo modo A verrà associato a B secondo una concatenazione che passa attaverso la parte S come anello intermedio. Il rapporto di somiglianza verrebbe così ridotto ad una catena di elementi contigui. In apparenza si compie una sorta di "analisi logica" del concetto di somiglianza dalla quale dovrebbe risultare la riduzione del simile al contiguo. Eppure si vede subito che qui si commettono errori su errori, non solo dal punto di vista fenomenologico, ma anche, e direi soprattutto, dal punto di vista logico. Dal punto di vista fenomenologico siamo tenuti in effetti ad accertare la netta distinzione della condizione percettiva della contiguità rispetto a quella della somiglianza. Lo stesso progetto di risolvere argomentativamente l'una nell'altra si presenterà come un progetto privo di senso. In linea generale verranno escluse, assumendo un punto di vista fenomenologico, quelle riduzioni che avanzano la pretesa di logicizzare il rapporto esperienziale come se la dimensione fenomenologica dovesse essere depurata e purificata dai suoi rinvii alla concretezza e ripresentata secondo uno schematismo puramente razionale. Quel modo di ricondurre la somiglianza alla contiguità potrebbe dunque essere respinto già in via di principio, tenendo conto delle delimitazioni tematiche implicate dall'assunzione di un punto di vista fenomenologico. Ma a ciò si aggiungono veri propri errori logico-analitici. Il primo errore sta nel passaggio che viene effettuato dall'idea che la somiglianza sia una parte alla rappresentazione della parte come se essa fosse semplicemente il pezzo della cosa. Una cosa può essere fatta a pezzi, ma non vi sarà certamente un pezzo che è il suo colore. Su questo equivoco che gioca sull'ambivalenza della parola parte - che viene presa in un primo tempo come "aspetto" che concerne la totalità della cosa stessa, e poi invece, tacitamente, come un suo frammento - si innesta l'altro equivoco fondamentale che consiste nel riportare il rapporto di contiguità (quindi di vicinanza) al rapporto tra intero e parte. Dovrebbe essere chiaro infatti che non ha nessun senso parlare di una vicinanza della cosa al suo colore, come non ha senso il parlare di un colore come un pezzo comune tra una cosa e l'altra, come se due cose, essendo rosse, per questo solo fatto fossero "attaccate" insieme. Questa argomentazione tuttavia, nonostante la sua erroneità, resta estremamente interessante, perché mostra in certo senso cla- 72 morosamente almeno due circostanze che sono per noi di particolare interesse: in primo luogo la motivazione che sta alla sua base è proprio quella di operare un'effettiva riduzione dei complessi fenomenologici alla componente puramente temporale, e quindi ad una tesi particolarmente forte dell'occasionalità e della relatività delle connessioni associative. Naturalmente è sempre possibile in rapporto alla somiglianza mettere l'accento sull'aspetto relativistico. La somiglianza non è una sorta di proprietà obbiettivamente inerente alle cose, ma è una relazione che viene in qualche modo proposta da un qualche punto di vista e dunque rimanda alla relatività soggettiva dei punti di vista. Nello stesso tempo, il fatto stesso che si tenti la strada di una pretesa "soppressione logica" della somiglianza mostra che si teme che questa relatività sia in qualche modo vincolata, che vi sia un vincolo intrinseco che opera - rispetto alle possibili "interpretazioni" - una sorta di delimitazione necessaria. Infine quell'argomentazione mostra anche che per far valere una tesi particolarmente forte della "contingenza", è necessaria una concezione dell'intero come aggregato di pezzi, che non hanno nulla in comune l'uno con l'altro, ma che sono tenuti insieme dal puro e semplice dato di fatto del loro essere insieme. Traggo l'argomentazione sulla riduzione della somiglianza a contiguità da Paul Guillaume, Manuale di Psicologia, a cura di A. Marzi, Giunti, Firenze 1946. Guillaume fornisce come motivo di simili tentativi il seguente: "La teoria sembra guadagnare in chiarezza e in semplicità quando riduce la somiglianza (e il contrasto) ad una forma particolare di contiguità, o più in generale, quando riconduce ogni unità di un tutto, ogni coesione fra i suoi elementi a un effetto della loro sovrapposizione nella percezione, indipendentemente dal loro contenuto" (p. 206). 12. La teoria dell' astrazione in Locke e la critica di Berkeley Una prima interessante applicazione dei principi che siamo venuti formulando la troviamo nella teoria delle idee astratte con la quale si conclude la prima parte del primo libro del Trattato (sez. VII). La natura del problema può essere direttamente illustrato considerando le cose dal lato linguistico. Probabilmente nessuno avrà 73 dubbi su ciò che designano le parole Socrate e questa lavagna che compaiono come soggetti nelle proposizioni "Socrate è saggio" e "Questa lavagna è nera". Nel caso della lavagna si tratta di una cosa che mi sta di fronte, che potrei indicare a dito, che posso vedere e che potrei eventualmente toccare. Nel caso di Socrate si tratta di una persona ben determinata che qualcuno in passato avrebbe potuto indicare a dito, vedere e toccare. Sulle differenze tra i due casi si potrebbe naturalmente sottilizzare a lungo, ma per i nostri scopi è sufficiente notare che nell'ambito della tematica humeana dovranno essere considerati oggetti di un'impressione possibile e quindi di una rappresentazione mentale più o meno vivace di essa. Si considerino ora gli esempi "L'uomo è un essere razionale" oppure "Il triangolo è una figura geometrica". Se proponiamo la stessa domanda di prima intorno ai soggetti di queste proposizioni, ci troviamo in qualche difficoltà - per quanto possa esserci chiaro il loro senso. Gli oggetti designati non si potranno indicare, in via di principio, a dito. Non si tratta dunque di cose particolari. La via per una soluzione potrebbe allora essere cercata ammettendo che accanto a cose particolari, vi siano anche cose generali - che potremmo chiamare concetti, o in qualche altro modo: anche il termine di idea potrebbe rivelarsi appropriato, purché si sia consapevoli del senso differente che deriva ora a questo termine dagli esempi attraverso i quali esso è stato introdotto. Potremo allora dire che termini come "l'uomo" o "il triangolo" designeranno delle idee, in una nuova accezione. Essi potranno essere considerati come nomi di idee: nomi generali o universali. È subito chiaro tuttavia che da un punto di vista empiristico non si potrà in ogni caso ammettere che simili idee siano da considerare veri e propri oggetti appartenenti ad un mondo differente da quello delle cose particolari; inoltre tali "oggetti" dovranno essere costituiti in qualche modo attraverso atti di esperienza. E si vede subito anche che sorgono in questo caso particolari difficoltà. L'esperienza, per quanto lato sia il senso in cui decidiamo di usare questa parola, sembra esigere in ogni caso un riferimento alla possibilità dell'osservazione, e dunque un legame assai stretto con la particolarità. Per istrada potremo imbatterci in questo o quell'uomo, ma non nell'uomo in generale. Nell'affrontare questo problema Locke aveva preso le mosse dalla premessa che se chiamiamo idea ciò a cui si riferiscono i nomi 74 generali, questa sarà in primo luogo una rappresentazione mentale. Caratteristica eminente e apparentemente ovvia di questa rappresentazione mentale è che essa non potrà contenere nessuna determinazione individualizzante. "L'uomo" non è nessun uomo particolare, non Pietro, Socrate, Paolo… e nemmeno è tutte queste cose insieme. Così quando ci rappresentiamo il triangolo in generale, non ci rappresenteremo nessun altezza determinata, nessuna determinata proporzione tra angoli e lati, ecc. Per Locke è importante spiegare in che modo si pervenga a simili rappresentazioni generali, ed è qui che interviene la tematica dell'astrazione. All'inizio della storia dell'esperienza avremo certo a che fare solo con cose particolari, e non vi sarà nella nostra testa nessuna idea generale. Da queste cose particolari si otterrà un'idea generale attraverso un'operazione astrattiva consistente nel considerare separatamente l'aspetto comune di un insieme di cose. Astrarre significherebbe dunque anzitutto separare: da Pietro, Socrate, Paolo… isoliamo l'attributo comune uomo rappresentandolo separatamente da ogni altra determinazione individualizzante. Questa rappresentazione verrà appunto chiamata idea astratta. Contro questa soluzione prese acutamente posizione Berkeley, ed a questa critica egli annesse una tale importanza da dedicare ad essa l'intera introduzione al Trattato sui principi della conoscenza umana. Riassumiamola schematicamente: 1. Se cerco di formare nella mia mente un'idea astratta nel modo in cui la concepisce Locke, ad es. l'idea di un triangolo sprovvisto di determinazioni particolari, che non sia dunque né equilatero, né isoscele, né scaleno fallisco continuamente in questo mio intento. Può essere che ciò dipenda da una mia particolare incapacità psicologica, ma si può anche dubitare che la difficoltà sia più di ordine logico che psicologico. È inconcepibile che si possa percepire un triangolo sulla lavagna che abbia simili caratteristiche; e sembra altrettanto inconcepibile che esso possa essere dato in una rappresentazione mentale. 2. L'errore di Locke deriva dal fatto che egli ritiene che ogni nome, se ha un significato, debba designare qualcosa. Dal fatto che vi sono nomi generali egli trae perciò senz'altro che vi siano idee generali. Di passaggio osserviamo che respingere quel principio lockiano ha per Berkeley anche implicazioni di ordine religioso: di molti termini teologici non è spesso affatto facile dire che cosa essi 75 designino… 3. Non vi sono dunque idee astratte nel senso di Locke. Ogni idea è particolare. Essa "diventa generale quando la si usa per rappresentare ovvero sostituire tutte le altre idee particolari della medesima specie" (Trattato, p. 15). Accade qui proprio come per il triangolo disegnato alla lavagna. Noi possiamo considerarlo nelle sue caratteristiche individuali oppure come segno di tutti i triangoli, come rappresentante di una determinata classe di oggetti. Analogamente per l'idea. Astrarre significa allora, nel contesto di questa teoria, assumere l'idea in questa funzione rappresentativa. 13. La posizione di Hume sulle idee astratte e la teoria del nome comune Hume riprende la posizione di Berkeley e la indica come una delle più importanti scoperte "che siano state fatte in questi ultimi anni nella republica delle lettere" (p. 29). Ma la riprende a modo suo, rafforzandola e riformulandola all'interno del proprio apparato concettuale. Analizzata da vicino, come subito vedremo, la posizione di Hume è molto diversa da quella di Berkeley. Se ammettiamo che esistano idee astratte o generali come rappresentazioni ci troviamo di fronte ad un dilemma: o l'idea astratta contiene tutte le determinazioni individuali o nessuna di esse. La prima soluzione deve essere senz'altro respinta come assurda. Si tratterebbe infatti di un'idea infinitamente complessa cosicché implicherebbe "una capacità infinita della mente". Occorrerà allora mostrare che va respinta anche la seconda alternativa in modo tale che in questo modo viene respinta la tesi dell'esistenza di idee astratte in quanto rappresentazioni mentali distinte da quelle particolari. Si tratta dunque di attaccare la posizione di Locke. Stando alla sua teoria si deve ammettere che si possa dare una rappresentazione di qualcosa senza alcuna determinazione individualizzante. Dunque che si possa rappresentare una qualità o una quantità senza determinazione di grado oppure che si possa, come osservava polemicamente Berkeley, rappresentare il corpo di un animale "senza una forma o figura specifica, perché non c'è una forma o una figura comune a tutti gli animali. E questo corpo non sarebbe coperto né di pelo né di penne né di scaglie e tuttavia non sarebbe nemmeno 76 nudo: perché il pelo, le penne, le scaglie, la pelle glabra sono caratteri peculari a certi animali e quindi non possono entrare nell'idea astratta di animale" (Berkeley, Trattato, p. 17) Contro di ciò Hume adduce tre argomenti. Il primo argomento mette in questione il principio di separabilità, che appartiene alle premesse generali della sua teoria. Saremmo quasi tentati di dire che esso appartiene all'apparato logico di essa, anche se forse questa formulazione potrebbe sembrare non troppo appropriata (in realtà ovunque sono presenti nel Trattato principi e strutture tipicamente argomentative). Esso diceva che laddove sia possibile operare una distinzione (ovvero dove vi è in generale una differenza) è possibile anche operare una separazione e inversamente. Rammentiamo ancora che con "distinzione" intendiamo la discernibilità di due cose; con separazione l'effettivo pensare o immaginare separatamente qualcosa. Il primo argomento di Hume riguarda la spiegazione che sta alla base della teoria delle idee astratte, ovvero l'astrazione come separazione. Basterà in tal caso far notare che la nozione di grado di qualità o di quantità non è distinguibile da quello della qualità stessa, per concludere senz'altro, in base al principio di separabilità, che essa non è separabile da essa. Non si può dunque parlare di astrazione in questo senso. Se in una certa sensazione di rosso potessimo in qualche modo sottrarre gradualmente la sua intensità, toglieremmo anche quella sensazione di rosso. Analogamente per la linea e la sua lunghezza, ecc. Il secondo argomento poggia invece sul principio di derivabilità delle idee semplici dalle impressioni, nel quale era anche inclusa la concezione secondo cui le idee semplici forniscono una rappresentazione esatta delle impressioni corrispondenti. Questo principio "deve essere applicato nei nostri ragionamenti" - sottolinea Hume (p. 17): da esso possiamo trarre un preciso criterio dimostrativo. Così, se vi è da dimostrare qualcosa intorno alle idee, noi cerchiamo di realizzare la dimostrazione anzitutto in rapporto alle impressioni, e se questa riesce potremo, in forza di quel principio, ritenerla valida anche in rapporto alle idee. L'argomentazione di Hume applica questo criterio incrociandolo con il principio di separabilità, e costruendo una sorta di dimostrazione per assurdo. Si ammetta infatti che una cosa sia rossa, ma non determinata nel grado. Poiché come si è or ora osservato, la sottrazione del grado sottrae la qualità stessa, essa sarà non-rossa. Cosicché la cosa dovrebbe essere ad un 77 tempo rossa e non-rossa incorrendo "nella più grossolana di tutte le contraddizioni". Ne consegue la falsità della premessa - ogni cosa deve essere determinata nel grado. E se ciò vale per le impressioni deve valere anche per le idee. Vi è un altro principio generale che va annoverato nell' "apparato logico" della teoria humeana e che viene frequentemente utilizzato sia nel Trattato che nelle Ricerche. Esso può essere formulato così: "Nessuna cosa della quale possiamo formarci un'idea chiara e distinta è assurda e impossibile" (p. 31) che vale, secondo Hume, anche nella sua variante inversa: "Una cosa di cui non possiamo formarci un'idea chiara e distinta è assurda e impossibile". La concepibilità dell'idea è connessa alla sua non contradditorietà, e con concepibilità intendiamo la rappresentabilità dell'idea provvista di chiarezza e distinzione. Inutile sottolineare che tutti questi termini sono intesi secondo un'inflessione psicologizzante che caratterizza l'intera impostazione filosofica di Hume. Si dia dunque, a titolo di esempio, l'idea di "quadrato rotondo". Che questa idea sia contradditoria lo desumiamo dal fatto che, per quanto sforzi possiamo fare, non riusciamo ad avere di essa una rappresentazione chiara. Possiamo invece rappresentarci mentalmente senza problemi un cavallo alato, che dunque rientrerà nel novero delle idee non contradditorie. Ma ciò significa anche che esiste la possibilità di principio che questa entità immaginaria si presenti realmente alla mia vista. Concepibilità, rappresentazione chiara e distinta, possibilità di riferimento dell'idea a qualcosa di reale sono per Hume nozioni che si richiamano a vicenda. In particolare possiamo concludere intorno all'assurdità non solo attraverso la mancanza di chiarezza e distinzione, ma anche attraverso l'impossibilità di riferire l'idea ad alcunché di reale. E le idee astratte nel senso di Locke sono certamente prive di un referente reale, cosicché esse sono assurde non meno dei quadrati rotondi. Si tratta di argomentazioni indicative del modo di procedere di Hume, ma sulla cui bontà non è il caso di indugiare. Vi è alla loro base una mancanza di chiarezza sul livello a cui si situano i principi dell'argomentazione e sul modo in cui si concatenano tra loro i passi di cui essa è costituita. Hume fa ogni sforzo per dare un fondamento logico alla critica delle idee astratte, ma l'elemento psicologizzante resta in ogni caso dominante. In base a questi argomenti si ritiene dimostrata la tesi secondo 78 cui "la mente non può formarsi una nozione di quantità o di qualità senza insieme formarsi una nozione precisa del loro grado" (p. 30); cosicché risulta completa la critica dell'esistenza di idee astratte in genere. Naturalmente né Berkeley né Hume intendono affermare che nel pensiero siamo vincolati alla particolarità - ciò equivarrebbe ad un'autentica negazione del pensiero. Si tratta invece, come aveva già proposto Berkeley, di rendere conto della generalità come una funzione della mente, che non richiede di per sé che le idee stesse siano intese come dei dati per così dire paralleli alle idee particolari. La tesi berkeleyana viene ripresa da Hume assumendo una inclinazione conforme al quadro teorico complessivo che egli traccia. Noi percepiamo le cose e l'eventuale somiglianza che intercorre tra esse. Alle cose diamo dei nomi, ed accade che lo stesso nome venga utilizzato per indicare cose tra loro simili. Si tratta di una sorta di abitudine che si va formando a poco a poco. Dovremmo allora dire che la designazione del nome comune è ambigua e indeterminata? La spiegazione è in realtà più complessa. Anzitutto si impone, in certo modo inavvertitamente, l'uso di designare cose diverse ma simili per certi aspetti con lo stesso nome. Non appena il nome risuona e noi lo udiamo, allora è una determinata idea particolare che viene mente, una qualsiasi idea di quelle cose particolari che abbiamo incontrato in precedenza. Il nome designa dunque anzitutto, e in modo non ambiguo, un'idea particolare. Tuttavia in questa idea particolare "viene ridestata anche l'abitudine che è ad essa associata", l'abitudine cioè ad usare il nome non solo in riferimento a questa idea, ma a molteplici altre. Queste non sono attualmente presenti nella mia rappresentazione, altrimenti l'idea astratta sarebbe rappresentata come un'idea che contiene tutte le determinazioni individualizzanti possibili, ricadendo nel primo corno del dilemma di cui si diceva all'inizio. Le altre idee sono presenti alla coscienza, ma solo in potenza. Questa circostanza conferisce all'idea particolare designata dal nome un'esistenza in certo senso precaria, potendo essere sostituita, e forse potremmo ammettere anche in questo caso inavvertitamente, da un'altra idea particolare qualsiasi che sia designabile con lo stesso nome. Secondo l'esempio di Hume: quando parliamo del triangolo ed argomentiamo su di esso, nella nostra mente non vi un'idea generale di triangolo, ma un'idea particolare, dunque, ad esempio, quella di un triangolo 79 equilatero. Ma se mi accingo a dimostrare che i tre angoli di un triangolo in generale sono eguali tra loro "le altre idee individuali di scaleno e di isoscele che avevamo trascurato, farebbero ressa immediatamente su di noi per farci cogliere la falsità di quella proposizione, per quanto vera in relazione all'idea che ci eravamo formata" (p. 34). Accade qui qualcosa di realmente straordinario! Stiamo effettuando una dimostrazione su un triangolo particolare e stiamo per essere indotti in errore dalla sua particolarità, ed ecco che un altro triangolo particolare si avvicenda al precedente senza che noi ce ne accorgiamo, e si tratta proprio di quel triangolo che "l'occasione richiede". Forse ciò è ancora più difficile da accettare di quanto sia l'idea che il nome comune designi un'idea particolare intorno alla quale sta acquattato un intero corteo di idee particolari latenti, pronte a farsi avanti quando sia il caso. Ma prima ancora che discutere il dettaglio della spiegazione humeana occorrerebbe riflettere se la strada giusta da battere sia proprio quella di tentare una spiegazione dell'astrazione tramite il ricorso ad un processo psicologico, in rapporto al quale, tra l'altro, non è chiaramente stabilita la via di accesso. Hume avverte la presenza di difficoltà, cercando di trarre profitto da situazioni ben note che presentano rispetto al nostro problema almeno certe analogie. Ritengo che il ricorso ad analogie possa essere annoverato tra i metodi argomentativi messi in opera da Hume. In tutta la discussione si presuppone che non solo non si possa dare la rappresentazione generale di triangolo, ma neppure la rappresentazione della classe infinita di tutti i triangoli. Ciò non significa tuttavia che di essa non abbiamo proprio nessuna rappresentazione. Un caso analogo può essere ritrovato nella rappresentazione di una quantità abbastanza elevata di cose. Così, se penso a mille cose, l'idea che mi formo non è una idea adeguata (adequate) e nemmeno un'idea chiaramente distinta, ad esempio, dalla rappresentazione mentale mille e una cosa. Di contro ho un'idea molto chiara del segno numerico 1000 come un'idea perfettamente distinta da quella del segno numerico 1001. Il caso non è lo stesso, ma analogo a quello dell'idea astratta. Se non posso rappresentare chiaramente una quantità molto grande di cose, posso tuttavia rappresentare chiaramente il loro segno. Un'idea particolare nella sua funzione generalizzante - dunque l'idea astratta - opera in modo simile a questo. 80  Per rendere plausibile la funzione di riattualizzazione di una molteplicità di idee particolari da parte di un'idea particolare, l'analogia potrebbe essere rappresentata dal caso in cui una parola o un frammento di frase richiama alla memoria una poesia intera che ci sembrava di aver dimenticato. Questa situazione molto comune, di cui ciascuno può avere esperienza diretta, non è né più né meno straordinaria della riattualizzazione operata dalle idee particolari nella loro funzione di idee astratte. Quando ragioniamo con idee astratte ci troviamo di fronte a qualcosa che non è effettivamente "distinto e completo", si tratta piuttosto di una situazione di ambiguità, poiché intorno all'idea particolare attualmente data si affolla una molteplicità di altre idee latenti. Si potrebbe allora obiettare che una simile situazione favorisce l'errore, piuttosto che la corretta argomentazione. Una risposta a questa obiezione viene ricercata da Hume nell'analogia con i termini collettivi, come governo o chiesa oppure con termini a cui non corrisponde nulla di esattamente determinato come commercio o conquista. Si tratterà in generale di idee complesse e nello stesso tempo relativamente "confuse" dal momento che anch'esse rimandano ad un fascio difficile da determinare di altre idee. Eppure non per questo risulta impossibile argomentare correttamente con queste nozioni. Un richiamo analogico ad una circostanza di ordine generale serve infine anche per illustrare la capacità più straordinaria che deve essere ammessa nella teoria: la capacità di attualizzare idee latenti proprio secondo che "l'occasione richieda". Eppure, osserva Hume, cose di questo genere accadono di continuo nel corso abituale del pensiero, nella riflessione e nella conversazione comune. "L'immaginazione corre da un capo all'altro dell'universo per accogliere quelle idee che appartengono a ciascun argomento: si direbbe che il mondo intellettuale delle idee fosse già tutto esposto nella nostra vita e che noi non avessimo fatto altro che scegliere ciò che più si adattava al nostro intento" (pp. 36-37). 8 14. La "distinzione razionale" nella reinterpretazione di Hume Un ulteriore sviluppo di notevole interesse della teoria humeana dell'astrazione è costituita dalle conclusioni che, sulla sua base, possiamo trarre a proposito della cosiddetta teoria della distinzione razionale, che Hume attribuisce genericamente all'insegnamento tradizionale. In essa si osserva che pur non essendo possibile separare o distinguere un corpo dalla sua figura oppure il movimento dal corpo che si muove, questa distinzione o separazione può ben essere operata dalla ragione. Il movimento può essere pensato in- dipendentemente dal corpo che si muove, una sfera indipendentemente dal suo colore, ecc. Sembra a Hume che qui si presenti come soluzione quello che invece è un problema. L'aggiungere alla parola distinzione l'aggettivo razionale non rappresenta di per sé una spiegazione. Ma come sappiamo con "pensiero" o "ragione" Hume non intenderà di norma qualcosa di diverso da una facoltà che opera con idee: l'intelletto o la ragione non sono per lui facoltà che si aggiungano alla memoria o all'immaginazione. Perciò alla distinzione razionale nel senso illustrato si contrappone il principio di separabilità che sostiene che "tutte le idee che sono diffe- renti [distinte] sono anche separabili" e inversamente (p. 37). Eppure Hume non nega che la questione implicata dalla teoria della distinzione razionale esista realmente. Prendiamo il caso della somiglianza. Quando parliamo di cose simili non dobbiamo ritenere che esse siano dette tali perché hanno alcune in parti in comune e sono dunque necessariamente separabili in parti. Certamente ciò può anche accadere, ma probabilmente non è il caso più generale. Questo problema è presente in particolare quando si parla di somiglianza tra le impressioni. Hume precisa esplicitamente che intendere la somiglianza come vincolata a complessi di parti distinguibili rappresenta una concezione interamente erronea. Noi parliamo di somiglianza anche in casi in cui non vi è distinzione di parti. Ad esempio, diciamo che due sfumature di rosso - una più intensa e l'altra meno sono tra loro simili, più di quanto lo sia una certa sfumatura di rosso e una certa sfumatura di blu. In questo caso non facciamo alcuna considerazione relativa a parti comuni - anzi possiamo supporre di essere in presenza di im- 82 pressioni semplici. Nello stesso modo si possono confrontare odori, suoni, ecc., senza che sia necessario postulare la composizione in parti. (Come è chiaro da queste considerazioni Hume stesso sarebbe lontanissimo dall'argomentazione in precedenza riferita sul tentativo di ricondurre la somiglianza alla contiguità) Ciò in rapporto a cui due impressioni si dicono simili non sono dunque necessariamente parti di esse, ma meglio parleremmo di aspetti (aspect) o circostanze (circumstance) rispetto alle quali esse posssano essere confrontate. Questa premessa è importante per ciò che ora ci apprestiamo a sostenere. In realtà assumiamo senz'altro che corpo e figura, movimento e corpo, colore ed estensione ecc. non siano distinguibili o separabili. Qual è allora il nucleo di verità che pur siamo disposti a riconoscere alla teoria della distinzione razionale? Disponiamoci in una considerazione di ordine genetico, elaborando l'esempio della relazione tra forma e colore di un corpo. Supponiamo dunque di vedere per la prima volta una sfera di marmo bianco. Il bianco e la forma sferica formeranno allora una unità indissolubile. In seguito tuttavia ci imbattiamo in una sfera di marmo nero e in un cubo di marmo bianco. Ecco che queste nuove esperienze avranno un'azione retroattiva sull'esperienza precedente - oppure, che è la stessa cosa, se ancora una volta la sfera di marmo bianco ci si presentasse alla vista, non la vedremmo nello stesso modo di prima. La differenziazione avviene in forza dell'azione della somiglianza. La sfera di marmo bianco ci appare simile nella forma alla sfera di marmo nero e simile nel colore al cubo di marmo bianco. Nell'evoluzione della nostra esperienza succede che la stessa cosa sia distinta secondo gli aspetti per i quali essa può essere simile ad altre. Distinguere e separare tuttavia in casi come questi non implicano una distinzione ed una separazione effettiva, o anche soltanto immaginata. "Se uno mi invitasse a considerare la figura di marmo bianco, senza pensare al suo colore, ci chiederebbe una cosa impossibile" (p. 38). È possibile invece considerare questo oggetto secondo l'aspetto per il quale esso è simile ad una classe di altri oggetti, ad esempio, alla classe degli oggetti sferici. Anche in questo caso Hume cerca spiegazioni nella ricostruzione di processi psicologici, che avvengono in realtà sotto la soglia della coscienza. All'inizio nessuna "distinzione razionale" è possibi- 83 le. Sono necessari l'arrichimento dell'esperienza e la sedimentazione di certe abitualità. Il processo dell��associazione secondo la somiglianza è un processo "inavvertito", qualcosa di simile ad una riflessione inconscia. Vedendo nuovamente la sfera di marmo bianco, l'attenzione si fissa sulla forma, mentre il colore passa in secondo piano, nella misura in cui "il nostro occhio corre inavvertitamente alla somiglianza con la sfera di marmo nero" (p. 38). 15. La nozione di causa Nella teoria delle idee astratte abbiamo avuto un'importante esempio di applicazione della metodologia proposta da Hume oltre che della particolare angolatura del suo "empirismo". Ora vogliamo cercare di schematizzare da quest'angolatura quello che Hume stesso considerava uno dei punti focali della propria problematica gnoseologica del Trattato: l'analisi critica della nozione di causa. Per ragioni di semplicità, faremo qui riferimento, in luogo che al Trattato, in cui questa analisi occupa l'intera terza parte, la brevissima riesposizione che Hume volle dare di essa nell'Estratto, uscito anonimo nel 1740 ed al quale anche in precedenza ci siamo richiamati in qualche punto. A ben vedere, l'assunzione delle impressioni come materiali di base e il frequente ricorso all'esperienza della "prima volta" implicava una sorta di dissoluzione del mondo nelle forme in cui esso ci appare, cosicché il problema fondamentale di Hume diventa quello di indicare in che modo il mondo stesso possa essere ricostituito in queste sue apparenze quotidiane, facendo ricorso sia a quei materiali di base sia alle facoltà della mente ed alla loro azione. La strada per affrontare questo problema è naturalmente già tracciata dal riconoscimento dell'esistenza di regole dell'associazione delle idee come regole che guidano l'immaginazione e la cui azione omogenea fornisce ai contenuti delle nostre rappresentazioni quella costanza relativa che normalmente riconosciamo ad esse. Tra queste regole vi è anche, accanto alla somiglianza ed alla contiguità spaziale o temporale, il rapporto di causa e di effetto. Intorno a queste due ultime nozioni tuttavia non si forniva alcuna indicazione nella prima enunciazione delle regole. Esse venivano date per ovvie, nell'accezione comunemente intesa dei termini. "Ognuno riconoscerà 84 - così si sarebbe potuto dire - che vi è una propensione ad associare l'idea di un certo evento che è causa di un altro all'idea di quest'altro; e con causa ed effetto io intendo ciò che voi stessi intendete con questi termini". Ma che cosa noi intendiamo con "causa" ed "effetto"? L'analisi critica di queste nozioni si risolve nel tentativo di descrivere ciò che noi effettivamente intendiamo quando affermiamo che un certo evento è la causa di un altro, quindi l'esperienza - ammesso che di ciò vi sia esperienza - nella quale qualcosa mi si presenta come effetto, qualcos'altro come sua causa. Per far ciò basterà appoggiarci ad un esempio molto semplice di situazione in cui noi effettuiamo questa attribuzione di significato. Si tratta del famoso esempio del biliardo: una cosa in movimento ne urta un'altra in quiete, mettendola a sua volta in movimento: ad un simile evento - questa è una sottolineatura importante - noi dobbiamo supporre di assistere come spettatori diretti. Cosicché ci possiamo accingere a descrivere che cosa effettivamente vediamo. Anzitutto vediamo il fenomeno dell'urto: una cosa in movimento entra in contatto con l'altra e nello stesso istante ha inizio il suo movimento. Ciò che accertiamo è qui la contiguità sia spaziale che temporale. Fra gli eventi connessi in questo modo non ci è alcun "buco" o lacuna. Ciò significa intanto che secondo Hume non è possibile nessuna azione a distanza della causa sull'effetto. Qualcosa che accade qui non può essere causa di qualcosa che accade là - e ciò vale anche in rapporto alla successione temporale. Se ci esprimiamo in questo modo, bisogna in ogni caso supporre una catena di cause, nello stesso modo in cui posso dire, in rapporto ad una colonna di cubetti sovrapposti, che lo spostamento del primo cubo è la causa dello spostamento dell'ultimo, essendo causa dello spostamento del secondo, e questo del terzo e così via. Vediamo subito tuttavia che questa condizione è troppo debole. Il sussistere di questo nesso non viene attribuito a qualsiasi coppia di eventi contigui. Se ora io guardo l'orologio ed entra il bidello per annunciare la fine della lezione, nessuno penserebbe che guardando l'orologio ho causato l'entrata del bidello. La condizione della contiguità è considerata come necessaria, ma non sufficiente per l'istituzione tra due eventi di un nesso causale. Ritorniamo allora all'esempio del biliardo: notiamo che il movimento causante è temporalmente precedente al movimento causato, e attribuiamo senz'altro la condizione della precedenza temporale 85 come un'altra circostanza che si richiede per ogni causa. Tuttavia contiguità spaziale e temporale e precedenza temporale della causa non sembrano ancora essere condizioni sufficienti, poiché vi sono eventi che le soddisfano senza che per questo si attribuisca ad essi il sussistere di un rapporto causale. Il fatto è che, se ci atteniamo alla nostra esperienza attuale non sembra vi sia null'altro da aggiungere, la situazione sembra essere in questo modo completamente descritta. Spieghiamoci meglio: che cosa significa attenersi alla nostra esperienza attuale? Significa attenersi a ciò che possiamo osservare qui ed ora, a ciò che è contenuto soltanto in questa osservazione. Ma forse nemmeno questa formulazione risulta chiara. La direzione della critica sta essenzialmente nel sottolineare che se noi attribuiamo ora alla sequenza di due fatti il carattere di una connessione causale, questo stesso carattere non avrebbe potuto essere attribuito se questa stessa sequenza fosse stata osservata per la prima volta o, come potremmo dire brevemente, in una situazione temporale primitiva. In realtà questo rinvio metodico ad una possibile situazione temporale primitiva merita qualche riflessione aggiuntiva. L'espressione "se per la prima volta ci accadesse di osservare…" ricorre molte volte in Hume, e la relativa ovvietà con cui Hume propone una simile situazione ci impedisce forse di valutare appieno il peso ed il rilievo che ha un avvio come questo. Forse non ci rendiamo conto che si tratta di un vero e proprio artificio metodico, di una vera e propria forma di argomentazione. È chiaro che non si dà mai per noi una situazione ben determinata nella quale vediamo per la prima volta qualcosa. Naturalmente può accadere che vi siano prime esperienze: ad esempio un certo giorno, recandoci allo zoo, vediamo per la prima volta un rinoceronte. Ma quando si parla di esperienze temporalmente primitive intendiamo esperienze prive di passato, e questa formulazione deve essere illustrata con esempi di tutt'altro tipo: come "vedere per la prima volta il colore rosso senza avere mai avuto esperienza di altri colori" oppure "udire per la prima volta un agglomerato di suoni che risuonano simultaneamente". E' chiaro che ci troviamo di fronte a condizioni ipotetiche che potrei bensì immaginare, ma difficilmente realizzare. La domanda avrà allora la forma: "Che cosa sperimenterei se vedessi il colore rosso per la prima volta, senza aver avuto prima esperienza di altri colori?". Oppure: "In una simile situazione iniziale un agglomerato di suoni 86 mi si presenterebbe come agglomerato di una molteplicità di suoni insieme oppure come un suono singolo?". A ciò si potrebbe obiettare che il problema è privo di senso, poiché "per la prima volta" diventa una nozione del tutto indeterminata non essendovi nessuna situazione concreta che possa rappresentare il riferimento per una risposta. Di fronte a questa obiezione si potrebbe notare che in quelle domande non si vuole realmente sostenere la possibilità che si dia concretamente una simile situazione, ma piuttosto proporre una sorta di ragionamento, forse meglio: una sorta di esperimento mentale. L'obbiettivo dell'esperimento è il tentativo di scindere nell'esperienza attuale ciò che appartiene all'esperienza stessa in quanto è attuale, e ciò che invece appartiene ad essa solo nella misura in cui rinvia a contenuti passati che sono ora in qualche modo ancora presenti. Ora, nella sua riduzione ad una situazione temporalmente primitiva intesa in questo modo, l'esperienza del nesso causale perderebbe proprio la sua specificità, saremmo in presenza di movimenti contigui, mentre verrebbe a cadere l'idea della produttività della causa rispetto all'effetto, così come quella della connessione necessaria tra i due eventi. Queste idee possono aggiungersi soltanto se una simile esperienza di unione costante tra i due eventi si è ripetuta più e più volte, se dunque questa unione si è stabilmente depositata nella memoria. Si forma così un'abitudine che si rafforza al punto di generare quell'idea di legame intrinseco che caratterizza l'esperienza del nesso causale e che la contraddistingue dall'esperienza di una pura contiguità tra eventi. Essa deve dunque essere considerata come una costruzione fittizia, che peraltro ha un fondamento in un meccanismo di ordine psicologico. 16. Problematica della credenza e dell' abitudine Occorre situare questa argomentazione da un lato nel contesto dell'esperienza quotidiana del mondo, dall'altro in una discussione sui fondamenti di quelli che Hume chiama "ragionamenti di probabilità" e che poggiano su inferenze causali. Un'inferenza causale consiste nell'indurre da un evento presente ad un evento futuro, quindi dalla causa presente all'effetto che non si è ancora realizzato oppure inversamente, da un evento pre- 87 sente ad un evento passato - dall'effetto alla causa. In entrambi i casi, da ciò che è attualmente sperimentato a ciò che non è dato nell'esperienza attuale. Nella terminologia di Hume: dall'impressione all'idea. Mentre siamo alla presenza di un certo evento, ci raffiguriamo un evento futuro, potremmo anche dire: lo anticipiamo immaginativamente. Qual è, in questo caso, la funzione dell'immaginazione e della memoria? In che modo esse cooperano in questa operazione peculiare? L'immaginazione opera l'anticipazione, ma può farlo solo sulla base della memoria: in essa vi è il ricordo dell'unione costante, da cui l'immaginazione trae l'anticipazione. Senza questa base nella memoria l'immaginazione non può far nulla: "…L'impressione presente non ha questo effetto per proprio potere ed efficacia e considerata per sé sola, come singola percezione limitata al momento presente. Un'impressione della quale nella sua prima apparizione non posso trarre nessuna conclusione, può in seguito diventare fondamento di una credenza, quando io abbia avuto esperienza delle sue abituali conseguenze" (p. 125). Qui la tematica dell'esperienza in Hume presenta un risvolto che la mostra ben lontana da un'impostazione atomistica. Viene infatti presupposto che lo sviluppo dell'esperienza abbia un carattere di costante aggregazione e integrazione: cosicché le cose non stanno come se esperienza venisse aggiunta ad esperienza e conservata nel grande serbatoio della memoria. La situazione ora descritta è ben diversa: l'esperienza passata pesa sull'esperienza attuale e ne modifica il senso. L'accezione in cui si parla ora di memoria ha bisogno poi di essere precisata. Essa non non è una semplice facoltà del ricordare, come se essa consistesse e si risolvesse in atti memorativi espliciti e coscienti. La memoria compare qui invece nella forma dell'abitudine. L'abitudine è qualcosa di simile ad una memoria inconscia, è una metamorforsi della memoria, nella quale la memoria diviene istinto. Tante volte è accaduto così, tante volte ho osservato un certo evento associato ad un certo altro, cosicché alla presenza dell'uno la mia mente corre immediatamente all'altro. Immediatamente: cioè senza nessuna riflessione, senza nessun ricordo esplicito. Un uomo giunge sulle rive di un fiume - e si arresta. Forse ricorda qualcosa? "Dobbiamo credere che in questo caso egli rifletta sopra tutte le esperienze passate, ed abbia bisogno di richiamare alla memoria i casi che ha veduto e di cui ha sentito parlare per scoprire gli effetti dell'acqua sui corpi animali?" In certo senso viene compiuto un ra- 88 gionamento, ma un ragionamento inconscio. "L'abitudine agisce prima che abbia il tempo di riflettere". Avvengono qui "operazioni segrete" della mente (p. 127). Ad una simile operazione segreta è dovuto anche il sorgere di una credenza. Hume si chiede: che cosa contraddistingue una certa proposizione a cui diamo il nostro assenso, da una proposizione sulla cui verità sospendiamo il giudizio? Che cosa contraddistingue la semplice concezione di un'idea dalla credenza nell'idea? È un merito importante di Hume l'avere sollevato questo problema, indipendentemente alla soluzione deludente che egli propone. Hume vide ciò che costituiva una speciale difficoltà nel tentativo di spiegare in che cosa si differenzi una proposizione come "Cesare morì nel suo letto" quando viene da me enunciata come una opinione altrui sulla quale non prendo posizione, dalla stessa proposizione quando viene da me enunciata come una mia opinione, quindi come una proposizione nella quale io credo. La proposizione non resta la stessa. Non è facile tuttavia stabilire che cosa cambi nell'uno e nell'altro caso? A quanto sembra, dall'analisi della proposizione non posso decidere se essa è creduta o no. Debbo concludere che la credenza sta fuori della proposizione, fuori dall'idea espressa. Questo stesso problema era in realtà sorto anche in rapporto alla distinzione tra idee della memoria e idee dell'immaginazione. Uno stesso contenuto è un evento reale o fittizio a seconda se viene dato nel ricordo o nell'immaginazione. Là come qui la risposta è deludente: essa rieccheggia infatti il vecchio motivo della maggiore vivacità - questa chiave magica che apre tutte le porte. Si ripresenza in questo contesto anche il motivo del sentimento (feeling), che poi non è troppo lontano da quello della vivacità. Si pensi all'uso della parola sentire in esempi come questi: in questo ritratto sento la sua presenza. L'immagine arriva quasi alla forza della realtà. 17. L' inferenza causale come una specie di sensazione Vi è tuttavia un aspetto del tema della credenza che riguarda proprio l'inferenza causale. Infatti, l'idea dell'evento futuro suscitata da un evento presente è provvista del carattere della credenza. Per 89 spiegare questa circostanza dobbiamo ricorrere all'immediatezza dell'inferenza causale, quindi alla sua natura irriflessa ed istintiva. Questa immediatezza significa che nessun'altra idea viene interposta tra l'impressione presente e l'immagine che essa suscita. Ricevo l'impressione e l'immagine viene suscitata. È come se l'impressione si prolungasse nell'immagine, e in questo prolungamento prestasse ad essa buona parte della propria vivacità. L'intera inferenza causale in fondo non è altro che una "specie di sensazione" (p. 126). Questi ultimi esiti fanno riflettere sul vero senso dell'analisi humeana del nesso causale e di ciò che egli intende con inferenza causale. Il problema generale di indicare il modo in cui si costituisce sul materiale delle impressioni semplici la concezione quotidiana del mondo, sembra prendere il sopravvento su questioni che toccano in modo più ristretto la teoria della conoscenza. La concezione quotiana del mondo è caratterizzata da un lato dal riconoscimento di mutamenti, ma dall'altro, e forse soprattutto, da certe strutture di coesione, coerenza ed uniformità. In queste strutture ha un peso determinante la funzione dell'attesa. Noi ci muoviamo in ogni istante della nostra vita di ogni giorno anticipando costantemente, in modo esplicito o implicito, ciò che sta per avvenire. Se cammino per le strade della città di continuo mi aspetto che accadano certe cose, o che altre non accadano, in modo del tutto implicito, senza riflessione o un esplicito pensiero o atteggiamento di attesa. Se apro una finestra su una strada, non mi attendo nulla; ma mi sorprenderei se sull'altro lato della strada non vedessi i soliti edifici (segno dunque che mi attendevo di vederli). In questa molteplicità di attese normalmente confermate vi è una parte consistente del senso della realtà, che dunque vive su elementi di coesione. Questa coesione non ha bisogno di garanzie che vadano oltre i fenomeni, i dati osservabili, l'esperienza. La tematica di Hume sembra nettamente orientata in questa direzione di ricostituzione dell'esperienza quotidiana del mondo, ed in particolare quando definisce il nesso causale "una specie di sensazione". Eppure vi è nell'insieme della sua discussione una confusione di fondo che va attentamente districata. Infatti Hume pensa di poter dare un unico fondamentato a queste "specie di sensazione", che accadono di continuo nella nostra vita quotidiana, ed ai ragionamenti causali veri e propri, che pure intervengono come giudizi esplicitamente formulati oppure che 90 sono effettuati nelle scienze per istituire verità di ordine generale relative a determinati campi di conoscenza. Inoltre le strutture di attesa che assolvono una parte così importante nella coesione della realtà, tanto da essere ineliminabili dal concetto della realtà stessa, vengono senz'altro subordinate al titolo generale dell'inferenza causale. Un esempio di ragionamento causale della vita quotidiana è stato già citato in precedenza: "La stufa fa fumo. Dunque il camino è di nuovo otturato" (Wittgenstein). Ci chiediamo allora se tra queste proposizioni è interpolata e sottintesa la frase: Ogni volta che il camino è otturato, la stufa fa fumo". Hume negherebbe nettamente questo punto, riportando questo caso a quello della "specie di sensazione": "Noi inferiamo una causa dal suo effetto immediatamente, e questa inferenza non soltanto è una vera specie di ragionamento, ma è più forte delle altre e convince di più proprio perché tra le due idee estreme non se ne interpone un'altra per connetterle" (p. 117). Ma non potremmo egualmente sostenere che quella frase sia comunque presupposta implicitamente in quel passaggio? In realtà il vero problema sta nel dare una spiegazione di questa presupposizione implicita, cercando di allontanare il più possibile questo modello di ragionamento, dal momento deduttivo. Spieghiamo così che, nel contesto del nostro discorso, la presupposizione implicita si risolve nel fatto che nello sviluppo della nostra esperienza la connessione tra causa ed effetto si è talmente sedimentata da associare senz'altro quell'impressione a quella rappresentazione: subordinando quel ragionamento come ogni "ragionamento probabile" (cioè, fondato sul nesso causale) all'idea che esso non sia altro che una "specie di sensazione". Un caso un po' diverso è quello di un puro comportamento immediato, senza alcuna esplicita enunciazione giudicativa. Ritraggo la mano che è tesa per afferrare un ferro che mi appare arroventato. Il caso dell'inferenza quotidiana esplicita e quello del comportamento immediato hanno qualcosa in comune: in entrambi i casi possiamo richiamarci ad esperienze passate. Quindi all' "abitudine". Eppure il fatto stesso che l'elemento istintivo ed abituale ci sembra essere meglio esemplificato dal secondo esempio piuttosto che dal primo dovrebbe metterci sull'avviso sulla necessità di cogliere anche le differenze. Tanto più poi se consideriamo le inferenze nell'ambito della 91 ricerca scientifica. Se si vuol istituire una certa verità generale all'interno di una scienza empirica, si procederà sulla base di produzione di esperimenti che verranno più volte ripetuti e variati - utilizzando nell'ideazione e nell'apprestamento di tali esperimenti opportuni strumenti teorici. In nessun caso potremmo accettare che la proposizione generale così istituita sia a sua volta fondata su una "specie di sensazione". Attenendoci ad una nostra terminologia, potremmo sintetizzare ciò che vogliamo dire osservando che la trattazione di Hume oscilla tra considerazioni di dottrina dell'esperienza e considerazione di dottrina della scienza, senza avere chiara la netta distinzione che deve essere operata tra esse. Le spiegazioni di Hume appaiono estremamente interessanti per illustrare i meccanismi delle aspettazioni induttive immediate, nel quadro di un problema di costituzione esperienziale del mondo; la sua attenzione non è tanto rivolta a penetrare nei moduli argomentativi delle scienze empiriche e dei loro metodi, quanto piuttosto ad illustrare la struttura e le funzioni messe in gioco nella costituzione della concezione quotidiana del mondo. 18. Riflessioni sull' analisi humeana della nozione di nesso causale Di fronte all'argomentazione critica di Hume, condotta sull'esempio del biliardo, non si può non avvertire, almeno ad un primo approccio, che essa ha una grande forza di convinzione. Essa ci sembra soddisfacente sia perché mostra che l'intrinsecità del legame e la capacità produttiva della causa non sembra avere un fondamento effettivo, sia perché rende in ogni caso ragione del modo in cui queste idee si formano, fornendo una spiegazione della loro origine. Ma se la riconsideriamo più da vicino vedremo ben presto sorgere delle difficoltà. Esse non riguardano soltanto il suo senso effettivo, ma anche le sue conseguenze sul terreno della teoria della conoscenza. Sorge inoltre il dubbio che vi sia in essa uno scivolamento dal terreno epistemologico vero e proprio verso un orizzonte di altri problemi. Cerchiamo dunque di avviare sull'intera argomentazione una riflessione un poco più approfondita. Il primo punto da mettere in rilievo riguarda l'aspetto che è ef- 92 fettivamente maggiormente convincente nella critica di Hume. Tutta la discussione potrebbe essere intesa come orientata dal tentativo di mettere in rilievo la distinzione tra necessità empirica che è propria del nesso causale e in generale delle leggi della natura e la necessità logica, tra nesso causale e nesso razionale. Il parlare di connessione necessaria o di legame intrinseco per eventi causalmente connessi rappresenta la premessa per confondere l'una forma di legame con l'altra. Hume insegna così che la questione del sussistere tra due eventi di un legame causale è una questione di fatto, cosicché una legge formulata sul fondamento di nessi causali ammetterà in via di principio delle eccezioni - in questo senso può essere inteso l'intero tentativo di mostrare come il nesso causale sia fondato sulla constatazione di una congiunzione costantemente sperimentata di eventi. D'altra parte per far valere questa tesi non vi è bisogno di sviluppare l'intera argomentazione humeana, ma è sufficiente proporla nel quadro della distinzione tra questioni di fatto (matter of facts) e relazioni tra idee (relations of ideas). Del resto Hume per dimostrare che il nesso causale non è necessario nel senso della necessità logica ricorre anche ad una argomentazione di natura completamente diversa. La parola "conseguenza" viene spesso usata per indicare non solo la deduzione logica - come quando diciamo che da certe premesse consegue una certa conclusione - ma anche per indicare il nesso causale: da un certo evento A consegue l'evento B. Si tratta allora essenzialmente di mostrare che questo termine è usato equivocamente, chiarendo la differenza: nessuna contraddizione sorgerebbe se immaginassimo che ad una certa causa non segua il suo effetto; mentre vi sarebbe contraddizione se dalle premesse "Tutti gli uomini sono mortali", "Socrate è uomo" traessimo a titolo di conclusione "Socrate non è mortale". Nel caso del nesso logico dall'analisi delle premesse possiamo estrarre la conclusione, mentre si può analizzare fin che si vuole un evento che chiamiamo causa senza ritrovare in esso l'idea del suo effetto. Ma se proponiamo le cose in questo modo ci limitiamo ad operare una chiarificazione che riguarda la forma logica delle inferenze causali e non abbiamo nessun bisogno di intervenire sull'esperienza della causalità e sul modo in cui essa può essere descritta. Che cosa accade invece in Hume? Il problema logico- epistemologico di una spiegazione della legge viene fuso con quello di 93 una spiegazione dell'esperienza di una connessione causale, anzi questo nesso tende ad essere stabilito in modo così stretto dà dar luogo ad una vera e propria relazione fondativa. In altri termini la dissoluzione della necessità del legame causale sul piano epistemologico sembra essere fondata sull'interpretazione del meccanismo psicologico di formazione dell'esperienza della causa. Tant'è vero che l'argomentazione di Hume sembra convincerci simultaneamente non solo della non necessità del nesso causale, ma anche dell'assenza di un'effettiva e genuina esperienza della causalità. Dobbiamo invece richiamare l'attenzione sul fatto che il primo è un problema epistemologico, il secondo un problema "psicologico". Fondare il primo sul secondo significa fraintendere psicologisticamente il senso della chiarificazione epistemologica. Perciò potremmo a nostra volta ritenere che, anche se sostenessimo qualcosa di diverso da quanto Hume sostiene in rapporto al problema dell'esperienza della causalità, non per questo dovremmo abbandonare la chiarificazione epistemologica relativa alla differenza tra nesso causale e nesso razionale. Vogliamo dunque procedere per qualche tratto per conto nostro. Nella vita quotidiana noi effettuiamo di continuo valutazioni causali e ragionamenti che rinviamo all'esistenza di un nesso causale tra i fatti. Istituendo una relazione tra il fumo e l'otturazione del camino, viene effettuato un ragionamento (un'inferenza) causale nel senso che in esso un certo fatto attualmente percepito viene connesso come effetto ad un altro fatto come sua causa. Il ragionamento è dunque dall'effetto alla causa. Se d'altronde otturassimo il camino, potremmo prevedere che la stufa farà fumo. Su che cosa si fondano in generale ragionamenti come questi? Sull'esperienza - naturalmente, e precisiamo che qui si intende l'esperienza nel senso dell'osservazione. Ed ancora dovremmo aggiungere: sull'esperienza passata. Sulla sua base quella inferenza viene giustificata con un grado molto elevato di probabilità. La stufa in effetti potrebbe far fumo per qualche altra causa, ad esempio per via dell'umidità della legna, il camino potrebbe non essere fatto come si deve, la pressione atmosferica o il vento potrebbero impedire il normale deflusso del fumo, ecc. L'inferenza è solo probabile per il fatto che la causa del fumo della stufa potrebbe essere diversa dall'otturazione del camino. E tuttavia il senso effettivo della posizione di Hume non è adeguatamente colto da questa osservazione. Essa è in certo senso troppo debole. 94 Stando allo spirito dell'impostazione humeana dovremmo essere disposti ad ammettere non solo che vi sia una netta differenza tra nesso causale e nesso razionale, ma anche che non vi siano "ragioni" oltre quelle della contiguità e dell'unione costante per l'istituzione di un nesso causale tra eventi, cosicché potremmo liberamente immaginare un mondo governato da regolarità interamente diverse da quelle che regolano il nostro mondo. Nel nostro mondo constatiamo questo nesso, in un altro il contenuto delle nostre constatazioni potrebbe essere diverso. Constatare significa all'incirca: vedere e prendere atto. La constatazione, nel nostro caso, non riguarda mai una qualche relazione interna tra gli eventi. Interpretata nel senso di Hume una simile affermazione significa che possiamo concepire che "un qualsiasi effetto tenga dietro una causa qualunque" (Estratto, p. 88) - ovvero che qualunque evento possa essere connesso causalmente con qualunque altro, purché si dia l'esperienza di una unione costante tra essi. Se dunque constatassimo che ogni volta che lanciamo una pietra in alto, si oscurasse il sole, finiremmo con il ritenere che il lancio della pietra sia la causa dell'oscuramento del sole. Vogliamo addirittura spingerci oltre: noi abbbiamo costantemente sperimentato nel passato delle uniformità nel decorrere degli eventi, e perciò si parla di natura e di leggi di natura. Su questa base riteniamo di poter assumere che in futuro si daranno ancora queste uniformità - che il futuro sia simile al passato. Prendiamo dunque atto che nel nostro mondo vale in generale il principio dell'uniformità della natura. Ma può essere che capitiamo in un mondo in cui, a differenza del nostro, le connessioni tra gli eventi siano molto precarie: ora B segue ad A, ora non lo segue, in modo del tutto capriccioso, e così in generale. Gli esseri che incontriamo in questo mondo non avranno alcuna nozione di causa, e dunque di fronte ad alcun evento si pongono il problema delle sue cause, sono, per dir così, abituati all'irregolarità e non si sorprendono di nulla. Ammesso che tra noi e loro sia possibile un dialogo, essi ci spiegherebero: qui è tutto a posto. È regolare che sia irregolare. Ciò che voi chiamate straordinario, è ciò che qui regolarmente accade. Anche di tutto questo non potremmo far altro che prendere atto. Una conferma ci viene anche dall'esemplificazione caratteristica di Hume: l'urto delle palle del biliardo. Si tratta di una esemplificazione che mostra in realtà molto bene il nodo del problema che 95 in realtà deve essere sciolto. Richiesti di descrivere ciò che si vede in quella situazione, forse saremmo tentati di esprimerci così: l'oggetto A si dirige verso l'oggetto B, lo urta generando così il suo movimento. Ma uno spettatore reso sapiente dalle spiegazioni humeane, potrebbe rimproverarci per una simile descrizione. "Bada realmente a quello che vedi! Vedi forse veramente l'oggetto A dirigersi verso B, come se avesse un'anima e fosse animato da una simile intenzione? Dovresti dire invece di vedere il movimento di una cosa da un luogo nello spazio ad un altro luogo, occupato da B. E vedi forse un urto e addirittura una generazione, come se il movimento di una cosa potesse tramutarsi nel movimento dell'altra? Certamente no! Puoi dire di vedere soltanto due movimenti del tutto indipendenti e una condizione di contatto tra l'una cosa e l'altra. Dire urto è già dire troppo!". Che la reazione dello spettatore humeano debba essere questa lo sappiamo già. Ciò che ora dobbiamo notare è che, in realtà, ad essere in primo piano non è, in questo esempio, la chiarificazione concettuale, che fa tipicamente parte di una considerazione di teoria della conoscenza, della nozione di legge causale, di inferenza causale, ecc. Il problema qui posto è invece: come spiegare la differenza tra movimenti contigui effettivamente percepiti come tali e movimenti contigui che percepiamo come causalmente connessi? In questo problema possono essere messi del tutto tra parentesi tutte le questioni epistemologiche, dal momento che si tratta unicamente di effettuare un chiarimento intorno alla struttura dell'esperienza della causalità - cioè della struttura di un complesso percettivo che ha il senso: "nesso causale". Il problema di determinare la sussistenza di un rapporto causale può essere caratterizzato come un problema fisico, mentre il problema della chiarificazione di ciò che significa in generale l'accertamento del sussistere di un rapporto causale può essere caratterizzato come problema epistemologico. Dall'uno e dall'altro si contraddistingue il problema di indicare i caratteri dell'esperienza del rapporto causale, cioè della percezione della causalità, e questo problema può essere caratterizzato come un problema di filosofia dell'esperienza e, secondo il punto di vista adottato in essa, come un problema psicologico oppure come un problema fenomenologico. Come abbiamo visto or ora la questione proposta da Hume, considerata nella sua esemplificazione, non riguarda l'aspetto epistemologico, o più esattamente in Hume il problema epistemologi- 96 co si presenta erroneamente come fondato su quello psicologico. È importante tuttavia rendersi conto che essa non ricade naturalmente nemmeno tra le questioni di ordine fisico. Hume non si interroga evidentemente sulla circostanza se tra due palle che si urtano in un biliardo sussista o non sussista un rapporto causale. Che cosa sia propriamente oggetto dell'indagine può forse essere illustrato nel modo più chiaro supponendo che i movimenti in questione vengano ripresi cinematograficamente. Nella proiezione del filmato noi vediamo ancora un nesso causale, pur essendo chiarissimo che tra le immagini dello schermo non sussiste nessun nesso di questo genere. Sarebbe inoltre del tutto erroneo ritenere che la visione del nesso causale tra le immagini sia determinato dal fatto che esse sono immagini di eventi realmente connessi in modo causale. Infatti, se stiamo ai puri dati visivi, non vi è nessuna differenza di principio tra ciò che ci viene presentato sullo schermo e gli eventi reali di cui quelle immagini sono immagini. La scena percettiva è esattamente la stessa. Del resto si può anche far riferimento ad un cartone animato. Accade invece che i movimenti abbiano delle caratteristiche - afferrabili nella percezione - in base alle quali essi si manifestano o ci appaiono come causalmente connessi (causalità fenomenica). Si tratta allora di fornire una descrizione della scena percettiva che sia tale da evidenziare in che modo, i dati in essa presenti, conducano alla manifestazione di una connessione causale, indipendentemente sia dall'accertamento se questa connessione esista realmente o meno sia da una qualsivoglia interpretazione epistemologica di un nesso causale in generale. 97 19. La percezione della causalità secondo Michotte Ci si può chiedere se, anche relativamente a questa più ristretta delimitazione del problema, le spiegazioni humeane siano realmente soddisfacenti. A questo proposito anche soltanto un cenno alle ricerche condotte proprio su questo problema da Albert Michotte in un libro famoso intitolato La percezione della causalità basterà a mostrare un modo di approccio del tutto differente ed a chiarire meglio il senso di tutta la nostra discussione. A. Michotte, La percezione della causalità, trad. it. Giunti, firenze 1972. Le ricerche di Michotte risalgono agli anni 1935-40. Sul problema della causalità da un punto di vista fenomenologico e ghestaltistico vedi soprattutto: P. Bozzi, Unità. Identità. Causalità. Un'introduzione allo studio della percezione, capp. V - VI, Edizione digitale Internet, Spazio Filosofico - "Il dodecaedro", 2001 Lo sfondo del problema in cui si presenta in Michotte la tematica della percezione della causalità è quello della percezione dell'azione. Anzitutto dell'azione delle cose tra loro. Noi vediamo un coltello tagliare il pane. In certo senso vediamo che una cosa agisce sull'altra. È proprio questo che vediamo oppure soltanto il movimento di un coltello ed una fessura che si apre nel pane? Che il caso del biliardo di Hume sia da annoverare tra esempi come questi appare chiaro. E ciò che viene proposto come tema di indagine è proprio quell'aspetto di attività dell'una cosa sull'altra che aveva resa così sospetta questa situazione agli occhi di Hume. Quanto all'impostazione preliminare dell'indagine essa presuppone una chiara distinzione dell'aspetto epistemologico da quello psicologico-fenomenologico: si individua dunque con chiarezza la nozione di causalità fenomenica e ci si appresta ad analizzarla attraverso esperimenti. Le ricerche di Michotte sono ricerche sperimentali e se in rapporto ad esse si parla di ricerche fenomenologiche - come talora si esprime lo stesso Michotte - è opportuno precisare che si tratta di ricerche di fenomenologia sperimentale o di fenomenologia psicologica. Naturalmente non è qui il caso di entrare nei dettagli per ciò che concerne l'apparato sperimentale messo in azione. Basterà notare che, in conformità a ciò che abbiamo già notato, non abbiamo 98 nessun bisogno di operare con situazioni reali, essendo sufficienti figure elementari in movimento. Si opera dunque con immagini. Figure e movimenti saranno sotto il controllo dello sperimentatore, cosicché le une e gli altri potranno essere variati a piacere nei loro diversi parametri possibili, in modo da poter creare una grande varietà di movimenti di vario tipo. Si può benissimo pensare a qualcosa di simile ad un cartone animato che si possa manovrare interattivamente. Tali sequenze di immagini verranno proposte a degli osservatori che hanno il compito di fornire descrizione verbali delle situazioni percepite.Tra queste sequenze alcune di esse proporranno il comportamento delle palle da biliardo di Hume: gli osservatori lo descriveranno dicendo che A si muove verso, B, lo urta e lo mette in movimento. Ora, poiché le sequenze sono sotto il nostro controllo, potremo variare la velocità relativa dei movimenti, la pausa tra il primo e il secondo movimento, la traiettoria del secondo oggetto rispetto al primo, ecc. In questo modo si ottengono rafforzamenti della manifestazione della causalità oppure sue attenuazioni sino alla sua completa scomparsa. In alcuni casi il risultato dell'esperimento è facilmente prevedibile. Pensiamo all'ampiezza della pausa tra il primo e il secondo movimento. È chiaro che se questa pausa, restando immutate le altre condizioni, è abbastanza lunga, i movimenti saranno colti come interamenti indipendenti tra loro. Beninteso qui non abbiamo a che fare con un ragionamento, ma come una pura questione percettiva. Si parla di urto e non di semplice contatto, solo se la pausa tra i due movimenti contigui e praticamente impercettibile. Ecco una precisa condizione distintiva tra movimenti solo contigui e movimenti causalmente connessi che appartiene alla configurazione complessiva dei due movimenti nel loro decorso attuale. Supponiamo ancora che la scena percettiva sia tale da presentare una boccia che si avvicina molto lentamente ad un'altra e questa, urtata, scatti in un movimento rapidissimo. Ecco un altro buon esempio di allentamento del legame causale che potrebbe anche suggerire la totale indipendenza dei movimenti e quindi la loro mera contiguità. Anche una determinata relazione tra la velocità dei movimenti rappresenta una condizione per l'apprensione causale. Il risultato complessivo della ricerca di Michotte - che è vastissima e molto approfondita e solleva una notevole quantità di 99 questioni di metodo e di contenuto - può essere considerato il seguente: per operare la distinzione tra movimenti contigui e movimenti causalmente connessi è decisiva la configurazione complessiva dei due movimenti nei loro vari elementi costitutivi e nei loro rapporti. Secondo la configurazione data vi saranno momenti interni ad essa che agiranno da fattori di aggregazione o di disaggregazione. Sul piano fenomenico con nesso causale intendiamo una modalità di manifestazione integrata dei movimenti che si verifica quando sono date determinate condizioni chiaramente specificabili. In questo modo la percezione della causalità è fondata dalla parte degli oggetti. In Hume invece lo è essenzialmente dalla parte del soggetto. La spiegazione di Hume dovrebbe convincerci che l'esperienza passata e un determinato meccanismo di rafforzamento immaginativo sarebbe in grado di effettuare il passaggio da movimenti percepiti come contigui a movimenti percepiti come casualmente connessi. Ma come potrebbe una configurazione di movimenti tale per cui essa appare disaggregata, venire aggregata nella ripetizione dell'esperienza? Inversamente, se sono date le condizioni fenomenologiche per una apprensione di causalità, questa apprensione è da subito data e la finzione di una ipotetica prima volta non sarebbe in grado di sopprimerla. Tra gli esperimenti di Michotte ve ne è anche uno nel quale si mostra come una pallina di legno urti contro un raggio luminoso e lo metta in movimento. L'impressione causale si impone nettamente contro ogni possibile esperienza passata, e l'eventuale giudizio relativo al sussistere o meno di un nesso causale si separa nettamente dalla descrizione di ciò che effettivamente viene percepito. 20. Se esista il mondo esterno Il problema dell'esistenza di cose fuori dalla mente, di corpi materiali indipendenti dalla percezione mostra le conseguenze conclusive dell'impostazione di Hume, e ci introduce alla tematica dello scetticismo, elaborata nella quarta parte del primo libro del Trattato. Questo problema può essere in ogni caso impostato in uno sviluppo lineare con la tematica generale che fa da sfondo all'illustrazione critica della nozione di causa. Il mondo di esperienza, nel quale i nessi causali assicurano 100 coesione e uniformità, è anche un mondo che si presenta come indipendente da noi e dalle nostre percezioni. Noi siamo circondati da cose che continuano ad esistere - tutti la pensiamo in questo modo - anche se chiudiamo gli occhi; e la loro esistenza è distinta dalla mia esistenza in quanto soggetto che le percepisce. "Se gli oggetti dei nostri sensi continuano ad esistere anche quando non sono percepiti, indubbiamente la loro esistenza è indipendente e distinta dalla percezione; e viceversa, se la loro esistenza è indipendente e distinta dalla percezione, essi debbono continuare ad esistere anche se non sono percepiti" (p. 218). Ciò aveva rappresentato un problema cruciale anche per Locke che lo aveva risolto assumendo ad un tempo l'esistenza della sostanza e la sua inconoscibilità. Non meno cruciale lo era stato per Berkeley che, postosi sulla via di una radicale dissoluzione dell'idea della sostanza, aveva poi proposto una soluzione di ordine teologico: l'esistenza continua delle cose, quindi la loro indipendenza da noi, è garantita dalla permanente percezione divina. Nel caso di Hume, sembra difficile sfuggire ad una posizione fenomenistica di tipo berkeleyano, ma nello stesso tempo una soluzione teologica è certamente esclusa. Rispetto a Berkeley ci sono in ogni caso significative differenze anche rispetto all'impostazione del problema. In conformità a tutta la sua impostazione complessiva, Hume richiama subito l'attenzione sul fatto che il vero problema non è quello di stabilire se i corpi esistano o no, ma quali sono le ragioni che ci inducono a credere alla loro esistenza. Della prima questione non possiamo venire a capo: su di essa si possono escogitare varie ipotesi, senza riuscire a pervenire ad argomenti realmente conclusivi. Ma è un fatto che noi crediamo all'esistenza di corpi, e rendere conto di questa credenza non solo è un problema accessibile alla riflessione filosofica, ma ci farebbe fare un ulteriore passo avanti, dopo la spiegazione del nesso causale, in direzione di una ricostruzione immanente della nostra nozione di mondo. Intanto questa credenza deriva o dai sensi o dall'immaginazione o dalla ragione (reason). Altre fonti non vi sono. Notiamo come qui Hume parli di ragione come una facoltà accanto all'immaginazione. In realtà il termine di immaginazione viene impiegato di norma in un'accezione molto generale per indicare qualunque operazione compiuta con le idee, quindi anche quegli atti che si potrebbero chiamare atti del pensiero. Tuttavia, quando egli 101 si serve del termine di ragione, intende di solito la facoltà di operare dimostrazioni razionali, deduzioni logiche. Il primo passo consisterà allora nel tentativo di escludere, con vari motivi, che la credenza nell'esistenza di cose esterne possa essere derivata dalla ragione o dai sensi. Escludiamo senz'altro la ragione con l'osservazione molto semplice che tale credenza è fatta propria da bambini e contadini e in genere da persone non acculturate, e non possiamo certo supporre che essi siano pervenuti ad una simile convinzione mediante sottili argomenti logici e filosofici, che anzi sono "noti a pochissimi". Più complicata risulta la confutazione che tale credenza possa sorgere dai sensi. Questa origine sembra a tutta prima molto plausibile: "La carta sulla quale scrivo in questo momento è al di là della mia mano; il tavolo al di là della carta; i muri della camera sono al di là del tavolo; e guardando dalla finestra vedo una grande estensione di campi e di cose al di là della mia camera. Se ne potrebbe concludere che non c'è bisogno di altre facoltà oltre i sensi per convincerci dell'esistenza esterna dei corpi" (p. 220). Rammentiamo ora che il problema consiste di due aspetti, da considerare separatamente: l'esistenza continua e l'esistenza distinta. Che dai sensi possa derivare un'esistenza continua, questo è senz'altro escluso. Se stiamo unicamente ai sensi, la cosa c'è quando viene percepita e cessa di esserci quando cessa di essere percepita. Ammettere che la credenza nell'esistenza continua sorga di qui significa ammettere "che i sensi continuino ad agire, quando non agiscono più affatto" (p. 218). Quanto alla distinzione delle cose dalla mente, se si ammette che essa sia data dai sensi allora essa sarà proposta nell'originale o in una sua rappresentazione. In entrambi i casi incorreremmo in difficoltà. Supponiamo infatti che le nostre impressioni siano rappresentazioni di qualche cosa di esterno. Questa tesi potrebbe essere suggerita da ciò che tendiamo a pensare spontaneamente. La cosa è infatti là, nella sua oggettività. Nel mio occhio dunque non vi è la cosa stessa, ma una sua immagine. Attraverso questa immagine io vedo la cosa. Con ciò spiegheremmo anche eventuali distorsioni della percezione. Così quando premiamo un dito sull'occhio avvengono delle modificazioni che noi riferimento all'immagine della cosa e non alla cosa stessa. Tuttavia nonostante l'apparente chiarezza di questo modo di porre il problema, vi sono oscurità proprio nella 102 proposta di considerare il vedere come "vedere attraverso un'immagine". In un disegno di una montagna, posso dire di vedere attraverso un'immagine una certa montagna solo se la montagna stessa mi è data nell'originale, cosicché io possa effettuare un confronto. Analogamente dovremo sostenere che se la cosa mi è data attraverso una sua rappresentazione, insieme alla rappresentazione deve essere data la cosa stessa. Se d'altra parte prendiamo in esame l'altra possibilità, che la cosa mi sia data nell'originale, e dunque, stando all'esempio, che la montagna stessa sia presente, ci imbattiamo in una difficoltà simmetrica alla precedente: la montagna è comunque data in un'impressione ed è dunque interna alla mente; ma nella misura in cui l'impressione coincide con l'oggetto stesso, deve essere esterna ad essa. L'impressione deve avere così una "doppia esistenza" - come percezione e come oggetto, deve essere ad un tempo qualcosa di interno e di esterno. Questi argomenti escludono dunque che la fonte della credenza nell'esistenza di oggetti esterni siano i sensi. Essa non è un "dato immediato". E poiché abbiamo già escluso anche la ragione, la ricerca deve volgersi verso il lato dell'immaginazione. Occorre premettere che ogni giorno operiamo di continuo la distinzione tra due specie di impressioni, secondo che le attribuiamo a cose esterne o a fenomeni psichici interni. Presupporre questa distinzione non implica alcuna circolarità, perché ciò che noi dobbiamo spiegare sono soltanto i motivi per i quali, ad esempio, un desiderio ci si presenta come un fenomeno interno, e quindi privo di un'esistenza continuata e distinta, ed attribuiamo invece queste caratteristiche alle impressioni di una casa o di una montagna. Se ora esaminiamo ciò che l'esperienza comune caratterizza come esperienza di oggetti esterni, possiamo rilevare almeno due circostanze su cui è necessario riflettere. Anzitutto all'oggetto esterno attribuiamo un maggiore grado di costanza rispetto ai sentimenti. Paragoniamo l'intermittenza di un desiderio con la visione intermittente di una montagna. Io apro e chiudo gli occhi alternativamente e la montagna è sempre là - identica, immobile. Nel caso di un desiderio che mi si presenta oggi e poi fra un mese, la situazione è interamente diversa. Il problema dell'identità e della permanenza ha in questo caso ben poco interesse. La seconda circostanza riguarda la coerenza: ad esempio, la coerenza di un mutamento oppure la coerenza di un fenomeno con i fenomeni con cui esso è normalmente 103 associato. Il rumore che ora odo sarà ritenuto un fenomeno esterno se è connesso con altri fenomeni con cui è abitualmente intessuto; altrimenti sarà da me considerato come un'allucinazione uditiva. Ad esempio, sono solo nella stanza e sento una voce a me vicina che mi chiama. Vi è, in questo caso, un'incoerenza con le circostanze attuali e in generale con le circostanze che abitualmente accompagnano un simile evento. A proposito della coerenza Hume propone il bell'esempio della porta che si apre alle mie spalle. Ora me ne sto seduto nella mia camera con spalle rivolte alla porta. Per me esistono gli oggetti che ho di fronte. Naturalmente la memoria mi rammenta molti altri oggetti; vi è un "ricordo" - peraltro implicito - che certi oggetti in precedenza, quando ero rivolto alla porta, esistevano ed io li vedevo come tali. La porta stessa si trova ora alle mie spalle? Questo non posso saperlo. Ora non la vedo e "la testimonianza della memoria non si estende oltre la loro precedente esistenza" (p. 226). Ora odo un cigolio che ho sempre sperimentato essere associato alla porta che si apre e improvvisamente mi appare il portiene che mi consegna la lettera di un amico. Ciononostante non ho ragioni effettive per ammettere che la porta continui ad esistere. Tuttavia se non lo ammettessi "il presente fenomeno sarebbe in contraddizione con tutte le precedenti esperienze" (p. 226). A questo punto interviene l'immaginazione: noi "fingiamo" che la porta continui ad esistere in modo tale che il suono che io odo, che sarebbe in altro modo inesplicabile, riceva un'interpretazione usuale. A tutta prima sembrerebbe che tutto ciò rientri nell'ordine di idee della concezione del nesso causale, vi sarebbe un'inferenza dall'effetto (cigolio) alla causa (porta che si apre). Poiché siamo abituati ad osservare i due fenomeni insieme, la presenza dell'uno ci fa indurre la presenza dell'altro. Ma le cose stanno realmente così? Hume lo nega. Ed il suo argomento è assai sottile ed interessante. La funzione qui compiuta dall'immaginazione, nota Hume, serve non già a mantenere ed a riprodurre una regolarità osservata, ma a rafforzare una regolarità che minaccia di continuo di cadere in un'irregolarità. L'immaginazione in questo caso produce qualcosa di realmente nuovo: nell'altro caso invece essa si limita ad una funzione riproduttiva. Noi osserviamo due eventi in un'unione costante, e di qui sorge un'abitudine. Se invece si considerano le percezioni che ho avuto della porta ed i fenomeni eventualmente connessi ad essa, 104 ho una costanza relativa, che tuttavia è di continuo interrotta: "un volger della testa, un chiuder di occhi basta per romperla" (p. 228). Il problema che deve essere risolto ora è proprio la fissazione e il rafforzamento delle regolarità osservate, e ciò non può essere opera dell'abitudine dal momento che "nessuna abitudine può eccedere il grado di regolarità" da cui è fondata. Perciò vi è un intervento attivo dell'immaginazione che è il fenomeno primario, mentre la base dell'abitudine è secondario - e si tratta di un intervento attivo di nuovo genere rispetto che abbiamo finora riconosciuto ad essa. Essa va al di là dei limiti dell'immediatamente percepibile "come una galea messa in movimento dai remi prosegue nel suo corso senza il bisogno di un nuovo impulso" (p. 228). Il criterio della costanza solleva una nuova difficoltà. Noi apriamo e chiudiamo alternativamente gli occhi di fronte ad una montagna. Che cosa vi è nel contenuto effettivo di questa esperienza, che cosa vediamo propriamente? La risposta di Hume è: vediamo due montagne indubbiamente molto simili tra loro. Eppure per noi si tratta della stessa montagna - la stessa montagna è sempre là. Ma come posso realmente parlare di una identità dell'oggetto se ho a che fare con una molteplicità di impressioni? Il dato di fatto dell'esperienza mi insegna che in effetti in questa molteplicità si costituisce per me l'idea di un unico oggetto, di un oggetto che resta identico. Il nostro scopo non è certo quello di rifiutare questo dato, ma di renderlo "intelligibile". Occorre insistere un poco su questo punto. Il problema appare "paradossale", ed anche Hume lo sa. Tuttavia val la pena di prenderlo in attenta considerazione. Esso non si presenta in termini molto diversi dalla questione della causalità. La prima azione di Hume è sempre un'azione disaggregante. Essa prende le mosse da un'esperienza preventivamente scompaginata. Nel caso del nesso causale un unico movimento che trapassa da un oggetto all'altro viene interpretato in primo luogo come due movimenti nettamente separati tra loro. Ora tu dici di vedere una sola montagna, ed invece ne vedi due - per il semplice fatto che due sono le impressioni. Potremmo allora obiettare: Hume si trova aggrovigliato in questo paradosso perché il suo orientamento e la sua impostazione rifiutano la via di un sano realismo. Non si dovrebbe prendere le mosse dal fatto che vi sono impressioni, e poi montagne, ma dal fatto che vi sono montagne, e poi impressioni di montagne. Poiché le montagne sono piuttosto pesanti 105 e non è facile spostarle, tanto meno in un batter d'occhi, è chiaro che la molteplicità delle impressioni non pone alcun problema di molteplicità di montagne. Nonostante il buon senso di una simile obiezione, essa non tocca il problema di Hume. Prendendo l'avvio dalle impressioni piuttosto che dalle montagne, Hume non voleva dire che le montagne si risolvono in impressioni, ma piuttosto rispondere alla domanda: in che modo, a partire da dati sensoriali, si arriva ad una nozione di mondo in quanto si presenta con una consistenza assai diversa da quella dei dati sensoriali? In Hume non ci si pone il problema della struttura della realtà, ma della struttura dell'esperienza nella quale la realtà si manifesta. Ciò che va criticato non è il problema stesso, quanto eventualmente il modo della sua soluzione, che peraltro ci riporta all'impianto di principio della filosofia dell'esperienza di Hume. È lecito allora chiedersi come possa darsi un oggetto identico nella molteplicità delle impressioni, cominciando ad interrogarsi in che cosa consista anzitutto l'idea dell'identità. Questa domanda di chiarificazione assume un'inclinazione genetica. Donde sorge questa idea? Si esclude senz'altro che essa possa sorgere da una molteplicità di oggetti - come è ovvio. Di qui sorge appunto l'idea della quantità, del numero. Ma si esclude anche che un unico oggetto possa rappresentare la base dell'idea dell'identità. Come da una molteplicità di oggetti otteniamo l'idea della quantità, da un unico oggetto otteniamo quella dell'unità - e questa non è ancora l'idea dell'identità. In certo senso, abbiamo bisogno di qualcosa di intermedio tra unità e molteplicità, benché ciò possa sembrare a tutta prima assurdo. Ma questa apparenza di assurdità viene meno se pensiamo all'esperienza di un oggetto in un tratto di tempo: l'oggetto resta quello che è nel variare del tempo. In senso stretto vi è, in questo caso, una molteplicità di percezioni; ma l'unità dell'oggetto non viene intaccata dal variare del tempo, cosicché questa situazione potrebbe essere assunta come base per la formazione dell'idea dell'identità. Diciamo che l'oggetto è lo stesso quando esso non subisce variazioni in un decorso temporale. Nella terminologia di Hume: quando l'oggetto è invariabile e ininterrotto. Si tratta allora di vedere in quali circostanze, nella percezione, si dànno queste condizioni dell'oggetto. Come abbiamo già notato, essendo vincolati alla molteplicità delle impressioni, possiamo al più 106 affermare che esse sono simili tra loro, ma ciò non basta per effettuare una valutazione di identità numerica. Se ciononostante una simile valutazione viene effettuata, anche in questo caso diremo che ciò è dovuto ad un intervento dell'immaginazione che "finge" qualcosa, che ci fa commettere un errore di cui peraltro abbiamo bisogno. La fonte dell'errore è la somiglianza tra le impressioni. Tra impressioni simili può avvenire facilmente lo "scivolamento" dall'una all'altra. A questa prima confusione se ne aggiunge un'altra tra l'atto di percepire una successione di impressioni e l'atto di percepire ininterrottamente lo stesso oggetto in un determinato decorso temporale. Il primo atto "scivola" nel secondo. L'oggetto viene così appreso come se fosse dato in una percezione continua e non intermittente. Analogamente al caso precedente, l'immaginazione interviene per sanare un conflitto. Da un lato siamo convinti che ciò che percepiamo siano le cose stesse, nella loro identità e permanenza; dall'altro di fatto abbiamo soltanto delle impressioni intermittenti. L'immaginazione interviene a sopprimere il "disagio" che sorge a questo punto. 21. Discussione In rapporto alla problematica or ora discussa, di cui ciascuno avverte l'importanza per la tenuta dell'intera impostazione humeana, ci vogliamo concedere qualche libera riflessione aggiuntiva rammentando sinteticamente il percorso compiuto. Abbiamo preso le mosse da una distinzione molto elementare. Ci sono le impressioni e le idee; e le idee derivano dalle impressioni. Già all'inizio si poteva porre il problema: e le impressioni donde derivano? La risposta era: questo non ci riguarda. Puoi assumere che esista un mondo esterno che sia causa delle impressioni o qualunque altra possibile ipotesi. Il nostro problema non è quello di indagare su queste ipotesi, ma mostrare come l'intero campo della nostra esperienza possa essere fondato sulla base delle impressioni e delle idee. Ciò non esclude che si possa ripresentare il problema di un mondo esterno. Anzi, esso deve ripresentarsi, benché in una nuova forma, dal momento che esso rappresenta per il metodo proposto 107 una sorta di prova del fuoco. Tale metodo può essere caratterizzato come un metodo di analisi immanente: ma la sua teorizzazione non è vincolata ad un'assunzione teorica secondo la quale l'essere è ciò che viene percepito. Forse qui sta tutta la profonda differenza tra Berkeley e Hume. Per Berkeley il principio metodico si converte senz'altro in un principio ontologico. Ciò non accade in Hume: e la ragione per cui il problema del mondo esterno assume carattere di prova del fuoco dipende dal fatto che si deve mostrare come si possa, nella considerazione pura dei dati della mente, costituire qualcosa che è posta come al di là della mente stessa, quindi come si possa attraverso un'analisi immanente costituire una trascendenza. Fino a che punto si può considerare questo compito assolto o comunque in via di soluzione? Quali sono, portati ad un'effettiva chiarezza, gli esiti conclusivi? La tesi centrale del Trattato potrebbe essere formulata così: l'intera nostra concezione del mondo può essere ricostruita richiamandoci ai dati sensoriali ed a certe peculiari funzioni o operazioni della mente. L'esito della nostra discussione sull'esistenza di un mondo esterno è questa: l'esteriorità è comunque una finzione. Ed ancora va ribadito: non si tratta di un'affermazione intorno all'essere o al non essere delle cose. L'interrogativo riguarda la credenza, e ciò che si vuol dire è che la credenza nell'esteriorità poggia in ogni caso su una finzione. Hume ripete più volte che l'idea che le cose continuino ad esistere anche quando non sono attualmente date è un'idea falsa; che l'identità che attribuiamo ad impressioni molteplici è un inganno ed un errore. L'immaginazione interviene per spiegare l'origine di queste falsità ed errori - essa non ha per Hume evidentemente soltanto, come avrebbe potuto apparirci all'inizio, la funzione di associare le idee, ma l'immaginazione trae profitto dalla sua peculiare libertà rispetto ai materiali immediati, trascorrendo secondo regole e principi al di là di questi materiali, colmando lacune, fungendo da momento di unificazione e di organizzazione dell'esperienza. Diciamo di più: mediante il richiamo all'immaginazione e considerando questa tematica nell'ampiezza che essa a poco a poco finisce con il ricevere, viene riscattato fino ad un certo punto l'"atomismo psicologico" del Trattato. Stando alle indicazioni che incontriamo inizialmente intorno alla funzione associativa dell'immaginazione, si potrebbe pensare che all'immaginazione fosse attri- 108 buito solo il compito di formare "molecole" a piacere, a partire da idee "atomiche". Tutta la nostra discussione mostra invece che all'immaginazione spettano ben altre funzioni. In particolare in rapporto al problema del mondo esterno emerge vivacemente la capacità dell'immaginazione di istituire una coesione producendo qualcosa di effettivamente nuovo. L'assunzione immaginativa della continuità non avviene per via puramente associativa connettendo impressione ad impressione, idea ad idea; e vi sono differenze anche rispetto all'intervento dell'immaginazione nel caso del nesso causale. Anche in questo caso l'immaginazione inventa qualcosa come soluzione di un conflitto irrimediabile. Il nodo con la memoria viene tagliato. Niente altro ricordo se non di aver più volte aperto gli occhi e ritrovato di fronte a me l'impressione di montagne molto simili. La memoria non mi dice altro. E sulla base della memoria non posso operare il passaggio al punto essenziale. Le soluzioni proposte da Hume appaiono certo assai dubbie, ma l'interesse che proviamo nella lettura sta piuttosto nel fatto che, una volta che si sia chiaramente compreso il senso dell'analisi immanente e la natura delle domande che in essa si pongono, si è portati a riconoscere l'effettiva sussistenza dei problemi che vengono toccati: e da quelle soluzioni vengono sollecitati nuovi e fecondi interrogativi e nuovi problemi. Hume ci provoca alla riflessione proprio per le difficoltà che incontriamo nell'accogliere le sue soluzioni. Riconsideriamo nuovamente il problema dell'esteriorità. Nel suo sviluppo procediamo argomentativamente secondo un metodo di esclusione: escludiamo che la nozione di esteriorità dei corpi possa essere derivata da una qualche argomentazione razionale e così anche dalla sensazione. Di qui concludiamo che essa debba essere derivata dall'immaginazione. Dobbiamo allora supporre che l'immaginazione intervenga in questo o quel modo se vogliamo dare una spiegazione della credenza in una realtà esterna. Ma da che cosa attingiamo la conoscenza che l'immaginzione opera proprio così? La soluzione di Hume non può che essere puramente congetturale. Ed ha il sapore di una congettura anche troppo ad hoc. Da un lato, vi è l'interruzione continua delle impressioni, dall'altro la convinzione dell'esistenza ininterrotta della cosa: l'immaginazione interviene a sistemare le cose. Ma vi è forse una qualche esperienza 109 nella quale possiamo cogliere che l'immaginazione opera proprio in questo modo? Il frequente rimando all'operare inconscio equivale ad una risposta negativa a questa domanda. Nel caso del problema dell'identità, dal punto di vista in certo senso rovesciato nel quale ci disponiamo, non vi è l'oggetto identico e le qualità sensoriali ad esso riferite. Ma vi sono certe qualità sensoriali e quindi un qualche processo della loro sintesi nell'unità e nell'identità dell'oggetto. In realtà anche questo è un problema effettivo, che potrebbe essere affrontato tentando di ricostruire questo processo documentandolo attraverso dati di esperienza. Come procede invece Hume? Egli pone senz'altro come erronea questa identificazione e si accinge a congetturare il meccanismo psichico di questo errore. Si tratterà dell'associazione del simile con il simile, attraverso la quale Hume non fa altro che tentare di dare un fondamento di plausibilità all'errore nei termini delle regole molto semplici e generali a suo tempo enunciate. Certamente è importante che Hume riconosca che nell'esperienza non è solo il dato immediato che si fa valere, ma che agiscono anche importanti componenti immaginative. Tuttavia queste non sono assunte come componenti effettive dell'esperienza attuale. Esse intervengono per così dire dal di fuori per illustrare una situazione altrimenti inintelligibile. Hume pone il problema delle componenti immaginative come se vi fosse la componente percettiva attuale e una componente immaginativa che si aggiunge dall'esterno, rendendo conto della situazione che si viene a creare, ma anche prospettandola come fittizia. Se il problema era quello di dare una ricostituzione della trascendenza all'interno dell'analisi immanente, questo compito non si può dire giunto a buon fine. La trascendenza deve comunque rimanere in Hume una finzione. L'intera analisi non fa che confermare questo punto, anche se spieghiamo l'origine di questa finzione così come il fatto che essa assuma i caratteri della credenza. Questo finzionismo comprende anche il problema del rapporto di causa e di effetto. La costituzione dell'esteriorità e quindi dell'identità della cosa deve precedere quella del rapporto causale. Affinché io possa riconoscere il ripetersi di un evento, la costante unione, ecc., deve esserci già per me un mondo come mondo di cose "identiche a se stesse", che possano appunto ripresentarsi ed essere riconosciute in questa ripresentazione. Perciò anche il problema dell'istituzione del 110 nesso causale, benché si fondi in se stessa su una funzione meramente proiettivo-riproduttiva dell'immaginazione, deve alla fine rinviare alla sua funzione produttivo-finzionistica. A questo punto non può che aprirsi una duplicità irriducibile tra la coscienza ingenua, irriflessa, che crede senz'altro, in certo senso, d'istinto, nell'esistenza di un mondo esterno, e la coscienza riflessiva, filosofica che offre queste piegazioni e che porta alla luce la finzione e spiega il suo meccanismo. Questo contrasto risulta fissato e inconciliabile nell'impostazione di Hume. Sul piano della riflessione filosofica siamo spinti ad effettuare una negazione, su quello dell'esperienza comune un'affermazione: ciò che crediamo spontaneamente entra in duro conflitto con ciò che dobbiamo ritenere come filosofi. 22. Lo scetticismo di Hume Forse, se ripensiamo al percorso compiuto, il presentarsi nelle conclusioni di una tematica scettica potrebbe trovarci abbastanza impreparati. Fin dall'inizio abbiamo sottolineato che l'impostazione di Hume è "positivamente" orientata essendo essa guidata dal proposito esplicito di edificare una nuova scienza o almeno di far valere all'interno degli argomenti "morali" lo stile di una ricerca capace di arrivare, come accade nelle scienza della natura, a conoscenze ben fondate. Essa non ha, in particolare, come scopo quello di determinare i limiti della conoscenza umana. In che modo allora si presenta il problema dello scetticismo nel Trattato? Quali sono gli aspetti che conferiscono all'empirismo humeano la forma di uno scetticismo? Come abbiamo visto, la credenza in una realtà esterna può sopravvivere solo in quanto seguiamo "il modo di vedere volgare" (p. 249), cioè quando ci comportiamo in modo immediato e diretto, e non siamo invece impegnati nell'esercizio della riflessione filosofica. Altrimenti essa si rivela essere una finzione dell'immaginazione. Questo risultato può essere generalizzato, e l'intera quarta parte del Trattato è una costante riconferma di questa scissione tra l'immediatezza preriflessiva e il risultato nelle nostre riflessioni filosofiche. Questo è il realtà il punto di origine dello scetticismo di Hume. 111 Noi argomentiamo, ragioniamo, riflettiamo, ed in questo esercizio della riflessione, nelle nostre argomentazioni più sottili, entriamo in un contrasto irrimediabile con le nostre convinzioni più radicate. Di fronte alla "ragione", ovvero alla riflessione filosofica, vi sta la "natura" ovvero l'istinto, l'abitudine, la forza immediata delle convinzioni che sono diventate per così dire una sorta di abito attraverso il quale noi consideriamo le cose e il mondo. Per Hume in questo contrasto deve avere sempre il sopravvento la natura, e ciò proprio sulla base dei principi generali a cui fin qui ci siamo attenuti. Le opinioni che sono diventate per noi un abito hanno quei caratteri di vivacità e di immediatezza che non possono pretendere di possedere le opinioni che invece abbiamo acquisito attraverso un'indagine filosofica paziente e faticosa. Così le argomentazioni sull'origine della credenza in un mondo esterno non hanno nessuna efficacia sulle nostre naturali convinzioni. Se ci limitassimo ad una simile considerazione, non ci trovereremmo ancora nell'ambito della teorizzazione di una posizione scettica. Potremmo arrestarci a questa rilevazione del contrasto. Ma indubbiamente ci troviamo su un terreno inclinato verso una soluzione scettica, e Hume si addentra sempre più su questa china. Nel procedere della ricerca siamo costretti ad attribuire all'immaginazione come facoltà produttiva di finzioni un'importanza crescente, e nello stesso tempo cresce sempre più il peso che vengono ad assumere le abitualità, e quindi il peso delle opinioni "istintive". Alla fine ogni legalità deve essere risolta nel suo fondamento e nelle sue giustificazioni in legalità concernenti processi di ordine psicologico che sono quello che sono e che seguono regole che non hanno in sé nulla di intrinsecamente razionale. A questi aspetti interni all'impostazione humeana, si aggiungono tutte le classiche argomentazioni scettiche. Vi sono scienze nelle quali il metodo dell'acquisizione di nuove conoscenze a partire da conoscenze già assodate appare del tutto certo come l'aritmetica o la geometria - le scienze che Hume chiama dimostrative. Eppure si tratta solo di una certezza in linea di principio. Il fatto è che siamo noi ad applicare queste procedure e questi metodi e noi possiamo sempre cadere in errore: "In tutte le scienze dimostrative le leggi sono certe e infallibili ma, quando le applichiamo, le nostre facoltà incerte e fallaci tendono ad allontanarsene ed a cadere nell'errore" (p. 209). 112 Dobbiamo dunque considerare puramente probabili anche le opinioni che noi acquisiamo all'interno delle scienze dimostrative. Così in generale: noi sappiamo di incorrere spesso in errori. Ed allora, quando abbiamo acquisito una certa conoscenza, dobbiamo indebolire la sua forza tenendo conto di questa consapevolezza. Benché Hume in tutta la sua esposizione dimostri una amplissima fiducia in argomentazioni di ogni genere, ora avverte ad ogni passo che ogni conoscenza e argomentazione può essere messa in dubbio sulla sola base dell'esperienza degli errori passati. Si potrebbe a questo proposito osservare che dichiarazioni di questo genere, più che ad una forma di scetticismo, siano il corollario dell'atteggiamento "sperimentale" di cui il Trattato vuol essere portatore e promotore: come se si trattasse di un criterio di prudenza scientifica, come un antidogmatismo che ci preavverte della possibile rivedibilità di ogni tesi considerata anche sicura. Per un verso le cose stanno proprio così, e ciò vale in particolare se consideriamo la formulazione che Hume diede del proprio scetticismo nelle Ricerche sull'intelletto umano. Come molti altri aspetti del Trattato, anche questo riceve nelle Ricerche una considerevole attenuazione. In esse si dice che lo scetticismo è una posizione puramente teorica, sostenibile anche in forme estreme (pirronismo), ma uno scetticismo estremo è in ultima analisi un'esercitazione intellettuale che non reca nessun giovamento alla società. Noi sosteniamo invece uno scetticismo moderato - sottolinea Hume - il cui senso è in ultima analisi quello di renderci sempre avvertiti che le nostre capacità intellettuali hanno dei limiti molto precisi. Questo non è tuttavia il discorso condotto nel Trattato. Anche in quest'opera si insiste sul fatto che lo scetticismo è una posizione puramente teorica e che gli scettici sono in realtà una "setta fantastica"; ma si aggiunge che il risultato dell'intero lavoro sta proprio nella ricongiunzione con questa setta, pur sapendo che, come uomini se non come filosofi, noi continueremo ad essere profondamente convinti delle comuni opinioni. La lettura delle ultime pagine del primo libro del Trattato (Parte IV, sez. VII) non lascia dubbi su questo esito distruttivo. Il risultato della riflessione filosofica è quella di isolarci dal resto degli uomini, di porre in questione tutte le credenze e le certezze più radicate senza proporre alcuna alternativa che possa prenderne il posto. La ragione ci fa entrare in una sorta di "delirio filosofico" dal quale è 113 possibile uscire soltanto con il tornare a immergersi ciecamente nella vita quotidiana: "Ecco, io pranzo, gioco a tric-trac, faccio conversazione, mi diverto con gli amici: quando, dopo tre o quattro ore di svago, ritorno a queste speculazioni esse mi appaiono così fredde, così forzate e ridicole, che mi viene meno il coraggio di rimettermici dentro" (p. 304). L'unico modo di uscire dai dubbi sempre rinascenti è questo: "Non curarsene, non badarci: ecco l'unico rimedio" (p. 250). Nello stesso tempo Hume arriva a dichiarare che la propria dedizione alla filosofia deriva unicamente da un fatto emotivo; l'origine della mia filosofia è il piacere - il piacere che io provo nelle argomentazioni astratte, piacere che, come abbiamo visto, dura quello che dura. Eppure dopo avere seguito con tanta cura i passi della costruzione humeana, non si può certo non sottolineare come Hume mostri un impegno quanto mai intenso e approfondito nella propria costruzione teorica. Nel discorso scettico di Hume va riconosciuto l'esito di un conflitto che nei termini della sua filosofia non è possibile sanare, ma anche molto autocompiacimento e autoironia. Lo scetticismo di Hume è il punto di approdo in una situazione senza vie di uscita, che viene ironicamente drammatizzata, sapendo di poter sempre balzar fuori da essa ritornando al piacere della speculazione. L'indagine può così proseguire. 114 Giovanni Piana Opere complete Volume diciannovesimo I problemi della fenomenologia 2013 4 ISBN 978-1-291-28466-9 Copyright Giovanni Piana Prima edizione a stampa: Editore Mondadori, Collana BMM, Milano 1966 - Seconda edizione elettronica con integrazioni e aggiornamenti bibliografici di Vincenzo Costa : 2000 5 Giovanni Piana I problemi della fenomenologia II edizione con integrazioni e aggiornamenti bibliografici a cura di Vincenzo Costa 1966/2000 6 Desidero ringraziare vivamente Vincenzo Costa per la cura che ha dedicato a questo mio libro. Il suo intervento, sia nell'aggiornamento bibliografico sia nell'arricchimento della discussione, è stato preziosissimo e nello stesso tempo rappresenta per me una grande attestazione di amicizia. * g.p. * Gli aggiornamenti bibliografici di Vincenzo Costa sono disposti tra i segni <> e le integrazioni sono contrassegnate dalla sigla VC tra parentesi rotonde. 7 Indice Introduzione, p. 9 1. Esiste un movimento fenomenologico? 2. La formazione del pensiero husserliano 3. Dalle Ricerche logiche alle Idee per una fenomenologia pura 4. La svolta esistenzialistica 5. Il significato della Crisi 6. Il linguaggio della fenomenologia I. Le argomentazioni scettiche, p. 45 1. Una premessa 2. Il dubbio scettico 3. Assurdità e verità dello scetticismo 4. Il dubbio cartesiano II. La riduzione fenomenologica e l'idea di intenzionalità, p. 69 1. L'esperienza fenomenologica 2. Il il significato della riduzione 3. Il rapporto intenzionale 4. Il concetto fenomenologico della coscienza 5. Descrizione e costituzione fenomenologica III. Il tema della soggettività, p. 93 1. Impostazione del problema del soggetto 2. Il soggetto come centro dei suoi atti 3. Il soggetto come facoltà di riflessione e il presentarsi del problema del tempo IV. L'esperienza del tempo, p. 111 1. L'idea naturale del tempo 2. La teoria di Brentano 3. L'analisi dell'oggetto temporale 4. Soggetto, riflessione, tempo V. La concretezza del soggetto, p. 129 8 1. Il soggetto corporeo 2. L'esperienza soggettiva del corpo 3. Corporeità e percezione VI. Il problema di una fenomenologia della percezione, p. 151 1. L'oggetto "culturale" e la cosa "materiale" 2. La costituzione della cosa 3. Il tema della passività in Esperienza e giudizio 4. Il carattere temporale della percezione 5. Percezione e linguaggio VII. Il problema di una fenomenologia del bisogno, p. 173 1. Il privilegio dell'esperienza percettiva e la sua problematicità 2. Il soggetto come corpo vivente 3. Idea di una fenomenologia del bisogno 4. Nota conclusiva 9 Introduzione 1. Esiste un movimento fenomenologico? 2. La formazione del pensiero husserliano 3. Dalle Ricerche logiche alle Idee per una fenomenologia pura 4. La svolta esistenzialistica 5. Il significato della Crisi 6. Il linguaggio della fenomenologia 10 11 1. Se si considerano i principali punti di riferimento della discussione filosofica negli ultimi anni, non è difficile notare che la fenomenologia è uno dei centri intorno ai quali il dibattito è più vivo ed interessato. Ciò non è vero soltanto per la situazione italiana: l'interesse per la fenomenologia è diffuso ed è crescente un po' dovunque in Europa, e non soltanto in Europa. La letteratura fenomenologica è ormai tanto vasta da essere di difficile dominio e l'ambito culturale entro il quale vengono dibattuti i problemi posti dalla fenomenologia va spesso oltre il terreno propriamente filosofico, coinvolgendo i campi di indagine più diversi. Tuttavia, sembra che, nella stessa misura in cui si sviluppa questo interesse in una molteplicità di direzioni, divenga sempre più difficile cogliere ed individuare i nodi problematici reali che sono messi in questione, in modo da raggiungere qualche valido criterio di orientamento e di giudizio. Questa circostanza è diventata oggi cruciale per il fatto che, in realtà, la ripresa degli studi husserliani di questi ultimi anni va considerata, più che una semplice ripresa, come una vera e propria riscoperta di Husserl in gran parte determinata dal fatto che, soltanto negli anni cinquanta - ed in particolare con l'inizio della pubblicazione delle opere complete di Husserl (Husserliana) avviata sotto la direzione di H. L. Van Breda si è creata la possibilità effettiva di conoscere alcune opere fondamentali di Husserl e nello stesso tempo di ottenere una migliore interpretazione delle opere già edite ed una loro più adeguata localizzazione all'interno del pensiero husserliano. Tuttavia, le ragioni delle difficoltà che incontriamo non appena cerchiamo di intervenire nel dibattito attuale sulla fenomenologia sono da ricercare molto più indietro nel tempo. Quando nel 1950 veniva pubblicato il primo volume della Husserliana, le Meditazioni cartesiane, mai edite prima nell'originale tedesco, la fenomenologia aveva ormai mezzo secolo di storia. E si può dire che tutti i problemi e tutte le difficoltà di orientamento e di valutazione si trovino già all'interno di questa storia - all'interno di quel "movimento fenomenologico" che si è venuto delineando intorno al pensiero husserliano o nella confluenza di questo pensiero con istanze filosofiche di altra origine. 12 Del resto, se non ci si contenta di fare un'apologia della concordia discors, le prime difficoltà le incontriamo proprio nel riconoscimento di questo "movimento" e nell'accertamento del suo significato. Se guardiamo agli altri grandi indirizzi teorici e filosofici che caratterizzano in modo preminente i primi cinquant'anni del nostro secolo, è abbastanza riconoscibile un qualche filo conduttore o quanto meno un'evoluzione progressiva che non sarà certo priva di una sua interna complessità e potrà essere anche valutata in modo diverso, ma che comunque rende possibile una considerazione relativamente unitaria. Naturalmente, anche qui non si può prescindere dall'assunzione di un certo punto di vista: ogni designazione di questo genere, come si sa, è estremamente problematica di per se stessa. Questa problematicità si trova decuplicata nel caso della fenomenologia. Se diamo una rapida scorsa all'unico volume che tenta di rintracciare un "movimento fenomenologico" e di farne la storia - l'opera di Herbert Spiegelberg The Phenomenological Movement [1] - ci rendiamo conto immediatamente che la molteplicità degli autori presentati in questo volume, la profonda eterogeneità delle loro filosofie è così grande che non è facile comprendere come essi possano trovarsi insieme in un unico libro e, se ciò che consente di riunirli in questo modo è la "fenomenologia", si intuisce che diventerà poi un vero problema stabilire che cosa essa sia. D'altra parte, H. Spiegelberg è del tutto consapevole di questa difficoltà e le sue settecentocinquanta pagine - peraltro, per molti aspetti, utilissime - vengono consapevolmente presentate come un insieme di monografie separate, come una raccolta di materiale utile per un'eventuale "storia" del "movimento fenomenologico". È certo invece che il pensiero di Husserl ha avuto un'influenza vastissima su una parte considerevole del pensiero contemporaneo, e di ciò il volume di Spiegelberg è una testimonianza eloquente. Il problema del "movimento fenomenologico" si sposta allora in quello del modo in cui questa influenza si è esercitata, del senso che essa ha avuto di volta in volta per questo o quel pensatore, per questo o quell'indirizzo filosofico. Senza naturalmente voler dare risposte su questo punto, credo tuttavia che esaminare in quale contesto si formi il pensiero di Husserl e in quale direzione esso si sviluppi possa presentare utili indicazioni orientative per cogliere almeno alcune delle ragioni che hanno determinato la situazione così caratteristica della fenomenologia come "movimento" filosofico. 13 2. Già alcuni dati semplicemente cronologici sono, a questo proposito, molto significativi. Edmund Husserl giunse alla filosofia dalla matematica. Furono le lezioni di Brentano che egli ascoltò a Vienna negli anni 1884-1886 a convincerlo che, anche in filosofia, era possibile svolgere un lavoro serio e produttivo. A quel tempo egli aveva ormai compiuto i propri studi matematici a Lipsia, Berlino e Vienna. A Berlino aveva avuto come maestro uno dei grandi nomi della scienza matematica dell'ottocento, Karl Weierstrass, di cui fu anche assistente per un breve periodo, dopo la Doktorarbeit del 1882. Questa prima esperienza di matematico non fu mai dimenticata dal filosofo Husserl. "Ancora nel 1930, in occasione della festa per il suo settantesimo compleanno, Husserl si compiacque di citare Karl Weierstrass tra i suoi maestri. Allo stesso modo come Weierstrass aveva definitivamente eliminato ogni residuo di oscurità dai concetti dell'infinitamente piccolo, così egli, diceva, aveva cercato di fare nella filosofia. Il suo ideale era stato ed era di sostituire all'oscurità profonda delle grandi metafisiche tradizionali la chiarezza e l'evidenza di una filosofia come metodo integrale" [2]. La preparazione matematica e l'incontro con Franz Brentano determinano il primo orientamento di Husserl verso ricerCarl Stumpf che concernenti i fondamenti della matematica. Nel 1887 presenta il suo scritto di abilitazione Sul concetto di numero [3] che costituisce il primo nucleo della sua Filosofia dell'aritmetica ed abbandona Vienna per giungere all'Università di Halle con il titolo di Privatdozent. A Halle Husserl si incontra con Stumpf, allievo di Brentano e Lotze, che gli diventa amico e verso il quale Husserl manterrà sempre un atteggiamento di 14 stima. L'influenza di Stumpf, di cui Husserl cita spesso le opere maggiori, come la Psicologia del suono (1883), non fu certo estranea alla formazione del primo concetto husserliano di fenomenologia, anche se in seguito - e soprattutto quando Husserl venne elaborando la tematica della riduzione - egli tenne a precisare le differenze tra la propria impostazione filosofica e quella di Stumpf [4]. Se inoltre teniamo presente che all'insegnamento di Stumpf si ricollega la nuova psicologia della forma otteniamo un'altra interessante indicazione dell'ambito culturale con il quale Husserl si trova direttamente a contatto in quegli anni. Nel 1890 usciva, oltre al secondo volume della Psicologia del suono, un saggio che gli psicologi gestaltisti riconosceranno come decisivo per l'elaborazione di questa nuova concezione psicologica. Si tratta dello scritto di Christian von Ehrenfels Sulle qualità formali. Von Ehrenfels faceva parte della scuola di Meinong, operante a Graz, e Meinong a sua volta era allievo di Franz Brentano. L'indirizzo di ricerca psicologica sviluppato da Benussi, per molti aspetti vicino alla psicologia della forma, si ricollega direttamente all'insegnamento di Meinong [5]. Il nome di Brentano dunque lo si ritrova in rapporto a tre grandi nomi degli studi scientifico-filosofici di fine ottocento: Stumpf, Husserl e Meinong. D'altra parte, è anche vero che non è facile stabilire fino a che punto quest'uomo geniale abbia esercitato sui suoi maggiori allievi un'influenza veramente decisiva e duratura. Vi è qualcuno che dubita - credo con buone ragioni - che si possa vedere in Franz Brentano Brentano il precursore della fenomenologia husserliana [6]. Del resto Brentano non riconobbe mai come uno sviluppo delle proprie idee le ricerche condotte sia da Husserl che da Meinong. In una lettera del marzo 1907 diretta ad Hugo Bergmann, Brentano riferisce ironicamente su una visita che Husserl gli aveva fatto in quel tempo: "Mi ha subissato di assicurazioni della sua gratitudine e della sua stima, dicendo che gli avrei fatto torto se avessi creduto alle malelingue. Ha detto anche che rassicura sempre la gente che in realtà io non sono da annoverare tra gli psicologisti - con la qual cosa si di- 15 rebbe che egli pensi di togliermi di dosso un vergognoso sospetto" [7]. In un'altra lettera allo stesso Bergmann dell'ottobre 1908 egli trova le teorie di Husserl "astruse" ed osserva che "non in ogni punto gli è chiaro che cosa voglia propriamente Husserl" [8]. L'incontro con Brentano, con Stumpf e con tutta quella problematica che doveva condurre alle nuove concezioni della psicologia contemporanea non rappresenta una svolta in senso proprio negli interessi scientifici di Husserl. Egli ha sempre presente il dibattito, che in quegli anni assumeva un'importanza decisiva per gli sviluppi futuri, intorno ai problemi della logica formale e dei fondamenti della matematica. Lo stesso anno in cui viene pubblicato il saggio di von Ehrenfels, usciva il primo volume dell'opera di Schröder Lezioni sull'algebra della logica che Husserl recensirà l'anno seguente [9]. Nel 1891, che è anche l'anno di pubblicazione della Filosofia Alexius Meinong dell'aritmetica, Husserl scrive un saggio sui problemi della logica intitolato Calcolo deduttivo e logica del contenuto [10]. Molti sono poi i manoscritti che attestano nel decennio successivo un interesse vivacissimo per questo ambito di ricerca [11]. Le posizioni assunte da Husserl in questo periodo sia verso i problemi della psicologia sia verso quelli dei fondamenti della matematica e della logica sono decisive per tutta la sua evoluzione futura. Da un lato l'assunzione della psicologia così come si andava elaborando negli ambienti intorno a Brentano lo dispone in un atteggiamento critico verso le tendenze psicologiche di chiara impostazione positivistica: dall'altro le prese di posizione rispetto al senso di una ricerca sui fondamenti della matematica e la valutazione che egli dà della "algebrizzazione" della logica predelineano già il punto di vista generale che viene maturato soltanto più tardi e che per essere compiutamente sviluppato richiedeva la delimitazione di una nuova disciplina filosofica, la "fenomenologia", ed infine una piena riformulazione del concetto stesso di filosofia e di ricerca filosofica. Ciò che qui ci interessa notare è che il pensiero husserliano si viene formando non soltanto nello stesso periodo in cui prendono forma i più importanti indirizzi teorici e filosofici del nostro secolo, ma anche in un dibattito diretto con essi, in un continuo scambio e 16 confronto di idee. Se si volesse approfondire questo quadro riprendendo le discussioni e le letture che Husserl compie in questo periodo e che contribuiscono in modo diverso alla sua formazione e in particolare all'elaborazione di quella metodologia che troverà una prima, estesa applicazione nelle Ricerche logiche, avremmo a che fare con una tematica estremamente fertile, che si trova all'origine dei principali indirizzi della filosofia contemporanea. Basterà qui ricordare ancora qualche nome: come quello di Frege, spesso citato e discusso nella Filosofia dell'aritmeErnst Mach tica e che recensirà criticamente quest'opera nel 1894 [12]. Non meno importanti sono i nomi di Mach e Avenarius [13]. Nel libro di Avenarius Il concetto umano del mondo (1889) viene elaborato un concetto di esperienza pura nel quale si può forse scorgere la tematica sviluppata molto più tardi da Husserl dell'esperienza antepredicativa e del mondo della vita [14]. I Contributi per un'analisi delle sensazioni di Mach furono letti da Husserl l'anno stesso della loro pubblicazione (1886) ed è interessante notare che ad una inconsapevole influenza di questo libro Husserl fa risalire l'elaborazione del concetto di momento figurale nella Filosofia dell'aritmetica che presenta molte analogie con il concetto di qualità formale di von Ehrenfels [15]. Le posizioni di Mach e Avenarius vengono ampiamente dibattute da Husserl nei Prolegomeni alle Ricerche logiche, una discussione che generò, oltre che una risposta di Mach nella seconda edizione della sua Meccanica, anche uno scambio epistolare fra i due [16]. Penetrare nel senso reale di queste discussioni ha indubbiamente una certa importanza per cogliere alcuni dei punti nodali del dibattito filosofico novecentesco nei suoi momenti più avanzati. Del resto, proprio questo ricco humus di discussione in cui vengono formandosi le linee - del discorso husserliano è uno dei motivi che spiegano la molteplicità delle direzioni verso le quali può essere rivolta la ricerca fenomenologica e la sua caratteristica apertura verso la problematica epistemologica e in generale verso i problemi della psicologia gestaltistica, della filosofia della scienza, della logica, dei fondamenti della matematica. Per cogliere questi aspetti è 17 necessario non sottovalutare proprio quel periodo della formazione husserliana che viene talora detto "prefenomenologico" e che conduce dalla Filosofia dell'aritmetica alle Ricerche logiche. È in quegli anni che in certo senso tutto viene deciso, tutti i problemi sono portati alla luce. Le istanze che allora vengono poste riceveranno una diversa formulazione, assumeranno una diversa profondità di senso, ma lo sviluppo successivo sarebbe incomprensibile senza quel confronto, quel dibattito che conduce a un'opera casi impegnativa come le Ricerche logiche. 3. Nell'ambito della cultura tedesca dei primi anni del secolo le Ricerche logiche rappresentano indubbiamente un momento fondamentale: quest'opera contribuì in maniera determinante a liquidare l'eredità filosofica del passato, a spianare il terreno per un nuovo campo e un nuovo stile di ricerca. Naturalmente ciò che allora fu accolto immediatamente fu più la pars destruens di questo lavoro che quella costruttiva. Dalla critica di Husserl venivano colpiti i maggiori nomi della cultura accademica del tempo o di coloro che avevano esercitato in Germania una influenza che sembrava ormai definitivamente acquisita. Un filosofo come Wundt, come Sigwart o come Stuart Mill venivano direttamente coinvolti nella critica dello psicologismo che Husserl sviluppa fino in fondo e con grande dovizia di argomenti nei Prolegomeni. La reazione di una parte della giovane cultura tedesca di fronte a quest'opera può essere efficacemente esemplificata dal modo in cui si viene formando intorno a Husserl, passato nel 1901 da Halle a Gottinga, un primo nucleo di studiosi. Nel momento in cui furono pubblicate le Ricerche logiche, all'università di Monaco esisteva già intorno a Theodor Lipps un attivo gruppo di ricerca psicologica che operava in modo organizzato sotto il nome di Akademisch Psychologischer Verein. Ora, la critica di Husserl che coinvolgeva direttamente anche l'indirizzo di Lipps, gettò lo scompiglio all'interno del gruppo. Lipps fu costretto a difendersi, ma lo fece con scarso successo. L'episodio cruciale di questa crisi fu il viaggio che Johannes Daubert, uno dei più promettenti allievi di Lipps, compì da Monaco a Gottinga, a quanto pare, in bicicletta. Il colloquio avuto con Husserl in questa occasione fu decisivo per le sorti 18 del gruppo di Monaco: "Fu probabilmente in seguito a questo colloquio che Husserl stesso nel luglio 1904 si recò a Monaco, rivolgendosi al circolo riunito. Da questo momento in poi, con crescente disappunto di Lipps, le Ricerche logiche diventarono il principale testo di riferimento del gruppo. Nel 1905 iniziò l'andirivieni di studiosi e di visitatori da Monaco a Gottinga e viceversa. Solo dopo il 1906, Scheler, proveniente da Jena dalla scuola di Rudolf Eucken, si unì al gruppo, non limitandosi a subirne l'influenza, ma anche esercitando un'influenza sua propria, tanto più che questi furono per lui gli anni più formativi. Tra i primi membri si annoverano Adolf Reinach (che si stabilì poi definitivamente a Gottinga, dove divenne il centro del circolo che si costituì solo più tardi), Theodor Conrad, Moritz Geiger, Aloys Fischer e August Gallinger, insieme ad altri allievi di Lipps meno influenzati dalla fenomenologia, come Ernst von Aster e il positivista Hans Cornelius. Tra i membri più giovani che si ispiravano a Scheler, il più eminente era Dietrich von Hildebrand. Si può dire che tra i membri del circolo di Monaco fosse maggiormente vivo il senso della comunità: oltre alle riunioni 'psicologiche', essi si incontravano spesso, regolarmente o anche occasionalmente, per compiere discussioni di gruppo. D'altra parte, il circolo di Monaco era caratterizzato dall'interesse primario verso la psicologia analitica e descrittiva e, in parte sotto l'influsso del clima artistico di Monaco, da un interesse verso i problemi del valore e dell'estetica più profondo di quello che fosse dato trovare nella più austera atmosfera matematica e scientifica di Gottinga" [17]. Sappiamo da H. Spiegelberg, al quale debbono essere ben note le vicende di quegli anni dal momento che egli compi i suoi studi con Pfänder a Monaco, che solo dopo il 1907 si può parlare di un vero e proprio circolo di Gottinga. Il primo impulso venne da Monaco. Solo più tardi intorno a Husserl si forma un gruppo di studiosi provenienti da varie parti, come Koyré, Hering, Ingarden, Fritz Kaufmann e Edith Stein, che appunto intorno al 1907 cominciano a riunirsi regolarmente, spesso in assenza di Husserl e in ultima analisi con la sua disapprovazione. Lo spirito di indipendenza che il circolo di Monaco aveva dimostrato verso Lipps e più tardi verso Husserl stesso, è anche una delle caratteristiche del circolo di Gottinga, e d'altra parte, come abbiamo visto, quanto più il numero dei fenomenologi di Monaco e di Gottinga si allarga, tanto più viene meno il carattere della "scuola". Accanto e insieme all'orientamento hus- 19 serliano, ritroviamo, all'interno dei circoli di Monaco e di Gottinga, impostazioni sostanzialmente diverse, influenze eterogenee (come quella di Max Scheler), tendenze di sviluppo dell'idea della fenomenologia tracciata nelle Ricerche logiche che implicavano una presa di posizione critica verso lo sviluppo propriamente husserliano. È su questo terreno comunque che prese forma l'idea di un "movimento fenomenologico" e di una rivista che in qualche modo ne fosse l'espressione. Nasce così nel 1913 lo "Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung" (Annuario di filosofia e di ricerca fenomenologica) [18]. È interessante notare che proprio nel primo volume dello "Jahrbuch" veniva pubblicata l'opera di Husserl Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (Ideen I) che era, dopo la Filosofia dell'aritmetica e le Ricerche logiche, la terza opera di vasto impegno pubblicata da Husserl. Proprio su questo volume si accese un vivace dibattito e anche se allora tutti i dissensi non vennero alla luce nella loro realtà di fondo, Ideen I rappresentò indubbiamente un banco di prova, che diede un risultato negativo, dell'effettiva convergenza sull'impostazione husserliana degli studiosi di Monaco e di Gottinga. Se nel fondare lo "Jahrbuch" si era pensato in qualche modo ad un "movimento", per ciò che concerne la fenomenologia così come la intendeva Husserl, questo movimento si può dire finisca nello stesso momento in cui si è iniziato. Oggi, quando abbiamo la possibilità di cogliere retrospettivamente l'intero sviluppo del pensiero husserliano e di mettere a confronto i vari aspetti della sua ricerca, non solo edita ma anche inedita, possiamo affermare che, per ciò che riguarda Ideen I, non è possibile parlare di alcun mutamento di indirizzo della ricerca husserliana. Del resto, anche per coloro che si trovavano a più diretto contatto con Husserl, Ideen I fu soltanto l'espressione più matura di uno sviluppo iniziato molto tempo prima, fin dal 1907. E sino a quel tempo deve essere fatto risalire il dissenso interno della "scuola husserliana". La maggior parte degli studiosi di Gottinga disapprovavano quell'approfondimento dell'idea dell'analisi intenzionale nel corso della quale Husserl doveva imbattersi nel problema del soggetto ed incontrarsi così con la tematica trascendentalistica. Per noi questo fu uno sviluppo coerente, necessario e ricco di significato. Ma il destino del movimento fenomenologico, iniziato tra Monaco e Gottinga in seguito alla pubblicazione delle Ricerche logiche, non si può comprendere se non si tiene conto di questo giudizio netta- 20 mente critico nei confronti di Husserl che ebbe modo di esprimersi soprattutto in occasione della pubblicazione di Ideen I sullo "Jahrbuch" [19]. Ciò è vero anche per la storia dell'influenza di Husserl. Anche da questo punto di vista l'anno 1913 è un anno cruciale. Parve allora che il pensiero di Husserl raggiungesse la sua massima influenza e notorietà. Più di vent'anni più tardi, Jean-Paul Sartre non esiterà a definire la pubblicazione di Ideen I sullo "Jahrbuch" "il fatto più saliente nella filosofia dell'anteguerra" [20]. Ma in realtà proprio in quell'anno comincia il lungo periodo al termine del quale Husserl si ritrova come una voce estranea ed isolata all'interno di quel movimento filosofico di cui egli sembrava all'inizio essere il centro. 4. Quando Husserl, nel 1916, passa da Gottinga a Friburgo, viene seguito soltanto da Edith Stein e la situazione che egli trova di fronte a sé è completamente diversa. Già in quell'anno vi fu probabilmente il primo incontro di Husserl con Martin Heidegger, che aveva compiuto i suoi studi a Friburgo con Rickert e che era già attivo presso l'università come Privatdozent. Ma un rapporto vero e proprio tra Husserl e Heidegger si stabilirà soltanto con il 1919, con la fine della guerra ed il congedo di Heidegger dal servizio militare [21]. I tempi erano allora molto mutati - anche per il clima delle università tedesche - rispetto ai primi quindici anni del secolo. Ed il nome di Martin Heidegger dà a questo mutamento un'impronta che sarà duratura. L'opera Essere e tempo fu pubblicata sullo "Jahrbuch" solo nel 1927, ma la lira heideggeriana aveva cominciato ad affascinare molto tempo prima. Nulla è più caratteristico a questo proposito della testimonianza di Karl Löwith, che si riferisce proprio all'anno 1919: "Quando nella Edmund Husserl primavera del 1919, per consiglio 21 dei miei insegnanti M. Geiger e A. Pfänder, passai da Monaco a Friburgo per compiere la mia formazione con Husserl, feci conoscenza del suo assistente M. Heidegger. Se ora, dopo quattro decenni, mi chiedo che cosa ho imparato da Husserl durante quei tre anni friburghesi, la risposta lo soddisferebbe ancora meno di quanto soddisfi me stesso. Ricordo che egli già allora mi chiese un giorno per quali ragioni avessi fatto nei primi semestri tanti 'progressi', mentre ero giunto ora ad un punto morto. Il motivo di ciò - un motivo che non poteva che sfuggire alla semplicità della sua indole - era che io, come molti miei coetanei, mi sentivo attirato molto più fortemente dal H. Wimmer: Maschera di Martin Heidegger giovane Heidegger. La teoria di Husserl della 'riduzione' alla coscienza pura aveva per noi perduto d'interesse nella stessa misura in cui sempre più ci affascinavano i problemi con i quali ci stimolava il più giovane ed attuale Heidegger" [22]. Alla luce di questa testimonianza, assumono ancora più risalto le parole che Husserl scrive allo stesso Löwith inviandogli la prima parte della Crisi nel febbraio del 1937: "Forse Lei comprenderà che Scheler, Heidegger e così tutti gli 'allievi' di una volta, non hanno compreso il senso vero e profondo della fenomenologia - il suo senso trascendentale che è l'unico possibile - e tutto ciò che esso implica. Certo, non è facile impossessarsi di questo significato, ma io credo che valga la pena di tentare. Forse Lei riuscirà a comprendere che io, non per ostinazione, ma seguendo un'intima necessità, ho percorso da solo il mio cammino per così tanti anni - un cammino che io sostengo in una nuova dimensione di domande e di risposte - e per quale motivo abbia ritenuto che l'oscuro misticismo della filosofia esistenziale alla moda e del relativismo storicistico, con la sua pretesa superiorità, sono il fiacco fallimento di un'umanità divenuta priva di forze, che si è sottratta all'enorme compito che il crollo dell' 'età moderna' nella sua totalità poneva ad essa e che ancora pone: a noi tutti!" [23]. In realtà, i rapporti tra Husserl e Heidegger si mantennero buoni per molti anni, anche quando Heidegger nel 1923 ebbe 22 l'ordinariato e passò all'Università di Marburgo. Vi fu certamente un tempo in cui Husserl pensò ad Heidegger come al proprio più degno successore. Solo più tardi si rese conto che con Heidegger nasceva una filosofia del tutto nuova, che già nelle sue prese di posizioni di principio si opponeva radicalmente a quella impostazione della ricerca filosofica che per Husserl era indicata dal termine di "fenomenologia". Ancora una volta si ripeteva in forma nuova, ma in modo ormai decisivo per la cultura tedesca fra le due guerre e fino ai nostri giorni, ciò che era accaduto negli anni di Gottinga. Ma mentre allora alla polemica antihusserliana corrispondeva per così dire la moltiplicazione delle tendenze fenomenologiche, fra loro non sempre compatibili, la forte personalità di Heidegger è in grado di determinare un'atmosfera filosofica nella quale si riconosce immediatamente una intera schiera di studiosi. Dobbiamo tuttavia giungere alla pubblicazione di Essere e tempo nel 1927 ed al tentativo di collaborazione per l'articolo sulla fenomenologia per l'Enciclopedia Britannica, che risale allo stesso anno, per trovare il primo reale confronto di opinioni tra Husserl ed Heidegger [24]. Fu in quell'anno che Husserl ripeté ciò che aveva già detto anche nei confronti dei suoi antichi allievi di Gottinga: "Heidegger non ha afferrato l'intero significato della riduzione fenomenologica" [25]. Dietro questa osservazione, per Husserl non vi è soltanto il rilievo dell'incomprensione di un aspetto della fenomenologia. Vi è piuttosto il fraintendimento radicale di tutto il discorso filosofico che egli aveva cercato di sviluppare dal 1907 in poi. Nella stessa misura in cui Heidegger rifiuta come problema centrale e fondamentale per la fenomenologia la questione della soggettività costituente o trascendentale, riproponendo invece - sia pure in termini nuovi - il problema di una dottrina dell'essere o di un' ontologia fondamentale, non soltanto esce completamente al di fuori di un orizzonte fenomenologico, ma ripropone una impostazione filosofica che la fenomenologia aveva inteso superare e criticare fino in fondo e fin dall'inizio. Perciò, dinanzi alla nuova filosofia che vede sorgere, in fondo inaspettatamente, di fronte ai propri occhi, Husserl ne sottolinea immediatamente l'arretratezza. In ultima analisi, l'esistenzialismo ricade in quelle posizioni antropologistiche e psicologistiche che egli aveva criticato nelle Ricerche logiche [26]. Nel 1928, Husserl si ritira dall'insegnamento e nello stesso anno all'università di Friburgo gli succede Heidegger. Da questo mo- 23 mento in poi, nei suoi ultimi dieci anni di vita - gli anni in cui matura la Crisi - l'attività filosofica di Husserl si svolge in una atmosfera di incomprensione: ciò spiega gli accenti spesso amari che risuonano in alcune sue pagine di quegli anni, sempre accompagnati dal rifiuto di scendere in una polemica diretta e dalla ribadita convinzione della giustezza della propria prospettiva filosofica. La fine dello "Jahrbuch" nel 1930 non viene ostacolata da nessuno. Ma è significativo che, proprio in quest'ultimo numero, l'undicesimo, venga pubblicata quella Postilla alle "Idee", da Husserl scritta per la traduzione inglese di quell'opera, che assume un significato esemplare per il giudizio che egli dà sull'intero movimento filosofico che si era formato intorno a quella rivista. "In questa sede" scrive Husserl "non posso diffondermi in una discussione con le correnti avverse, correnti che sono in un contrasto estremo con la mia fenomenologia, e che distinguono tra scienza rigorosa e filosofia. Vorrei soltanto affermare espressamente che non ritengo affatto fondate le obiezioni che da esse mi sono state mosse - obiezioni di intellettualismo, di unilaterale astrattezza del mio procedimento metodico, di incapacità di raggiungere, per principio, la soggettività pratica e attiva ed i problemi della cosiddetta esistenza, oltre che i problemi metafisici" [27]. In realtà, anche la tematica concernente la praticità e la concretezza può essere efficacemente sviluppata ed indagata da un punto di vista fenomenologico, e questo punto di vista, quando sia conseguentemente elaborato in tutte le sue implicazioni metodologiche e filosofiche, non può non condurre al terreno della soggettività trascendentale ed alla problematica della costituzione. Perciò, per Husserl, la "fenomenologia" reinterpretata nel senso di Heidegger non ha saputo compiere questo passo decisivo e nel riproporre il problema del soggetto di fatto, della concretezza e dell'esistenza, è ricaduta in una posizione psicologistica, proiettando sulla fenomenologia trascendentale un insieme di critiche ingiustificate. Il problema di una filosofia che proceda sistematicamente e rigorosamente e che al tempo stesso non si presenti come un sistema dottrinario chiuso viene ripreso e sottolineato di fronte alla "scepsi scientifica del nostro tempo". Ma questa idea non può essere separata dalla problematica della riduzione fenomenologica e dalla conseguente impostazione della trascendentalità delle operazioni soggettive. I fraintendimenti di un'opera come Ideen I vengono spiegati 24 da Husserl anche con la sua incompletezza. Non si vide che la soggettività di cui in essa si trattava non era affatto la soggettività del vecchio idealismo psicologistico: che essa era da intendere come una soggettività trascendentale concreta, corporea-sociale per essenza. E di conseguenza non si comprese che la terza parte di Ideen I, nella quale si introduce la questione della costituzione, è determinante per comprendere il senso nuovo nel quale il termine di trascendentale compare all'interno del discorso fenomenologico. Tutto ciò, osserva Husserl, sarebbe apparso più chiaro se fosse stato possibile pubblicare le ricerche successive sulla costituzione, nelle quali il carattere costitutivo dell'idealismo fenomenologico appare in tutta la sua chiarezza. A maggior ragione Husserl ribadisce la validità dell'impostazione data in Ideen I, la quale è "inattaccabile in tutto ciò che è essenziale" [28], e sottolinea che possiamo parlare di "idealismo fenomenologico" proprio e soltanto nella misura in cui la fenomenologia è l'unica reale risposta al problema storico dell'idealismo [29]; ma nello stesso tempo si oppone un netto rifiuto a una interpretazione di questo idealismo che riproponga i termini della "disputa infeconda e non filosofica" [30] tra l'idealismo ed il realismo. "È però necessario chiarire la fondamentale ed essenziale differenza tra l'idealismo fenomenologico trascendentale e quell'idealismo che viene combattuto, quale proprio opposto esclusivo, dal realismo. In particolare: l'idealismo fenomenologico non nega l'esistenza reale del mondo (e innanzitutto della natura) quasi pensando trattarsi di una mera apparenza a cui, anche se inavvertitamente, il pensiero naturale e scientifico positivo soggiaccia. Il suo unico compito, il suo unico merito, è quello di chiarire il senso di questo mondo, precisamente quel senso secondo cui vale per chiunque, conformemente a una reale legittimità, come realmente essente. Che il mondo esista, che sia dato come un universo essente nell'esperienza che di continuo converge verso la concordanza, è perfettamente indubbio. Una cosa completamente diversa è cercare di capire questa indubitabilità, che sostiene la vita e le scienze positive, e di chiarirne il fondamento di legittimità" [31]. L'ultimo scritto di Husserl pubblicato sullo "Jahrbuch" si ricollega così agli inizi dell'attività di questa rivista, respingendo le critiche alla propria posizione filosofica che erano diventate esplicite con la pubblicazione di Ideen I. Ma, come abbiamo notato, Husserl rifiuta la polemica diretta. Anche se l'allusione alla "filosofia 25 della vita che lotta per il predominio, con la sua nuova antropologia, con la sua filosofia dell''esistenza" [32] non poteva essere più trasparente, gli esponenti maggiori di questi indirizzi filosofici che sì trovano in un contrasto estremo con la fenomenologia, non vengono nominati; e neppure si prendono in considerazione in modo particolareggiato e approfondito le obiezioni e le critiche che da questa parte venivano rivolte alla fenomenologia. Una reale risposta è da Husserl affidata interamente al lavoro di ricerca, poiché "nelle faccende della scienza, non tanto la critica importa quanto il lavoro compiuto, quel lavoro che in definitiva resiste sempre, per quanto possa essere frainteso e per quanto le argomentazioni che lo concernono possano eluderne il senso" [33]. "Chi, per decenni, non è stato a speculare su una nuova Atlantide, ma si è mosso realmente nelle foreste ancora impraticate di un nuovo continente, chi si è accinto alle prime coltivazioni, non si lascerà confondere dalle obiezioni dei geografi che ne giudicano i resoconti secondo le loro abitudini di esperienza e di pensiero, senza addossarsi la fatica di intraprendere un viaggio nelle nuove terre" [34]. 5. Fu destino di Husserl di iniziare la propria attività con un'opera come le Ricerche logiche che metteva in questione la filosofia universitaria del tempo e di ritrovarsi negli ultimi anni della sua vita in una polemica, forse meno appariscente, ma non meno tenace, verso quella filosofia che stava ormai negli anni trenta per assumere il crisma dell'ufficialità. Nel 1933 Heidegger diventava rettore dell'università di Friburgo e pronunciava il suo famoso discorso inaugurale di adesione al regime. Ma a parte il giudizio che è possibile dare di questa adesione, del resto non priva di ambiguità, quel che più ci interessa osservare è che Husserl si rende conto con sempre maggiore evidenza che il riapparire di quelle istanze filosofiche che egli aveva combattuto molti anni prima ha un suo preciso significato di ordine sociale in generale e in diretto rapporto con lo sviluppo storico dagli ultimi vent'anni del secolo sino ai giorni dell'ascesa del nazismo. Quando Husserl riporta la filosofia dell'esistenza allo psicologismo ed all'antropologismo da lui criticato nelle Ricerche logiche intende dare una precisa interpretazione dell'intero sviluppo ideolo- 26 gico di quei primi trent'anni del secolo di cui egli era stato, anche se spesso in modo paradossale, uno dei principali protagonisti. Per questo ritornano nella Crisi delle scienze europee tutti i classici temi del suo discorso filosofico, ma proiettati su uno sfondo per molti aspetti nuovo. Come è noto, il nucleo della Crisi è costituito da una conferenza tenuta nel maggio del 1935 a Vienna e ripetuta a Praga nel novembre dello stesso anno. Husserl elaborò in seguito questa tematica e nel 1936 poté pubblicare la prima e la seconda parte del libro nella rivista "Philosophia" di Belgrado. Il testo che venne edito nel 1954 dalla Husserliana a cura di Walter Biemel comprende, oltre La conferenza di Vienna, la prima e la seconda parte dell'opera, anche il materiale elaborato per la terza parte e l'insieme di manoscritti relativi a quest'opera in forma di appendici ai singoli paragrafi. Nella Crisi, il problema originario che si trova alla base della ricerca filosofica husserliana - quello di una fondazione rigorosa del sapere scientifico - viene ancora una volta riproposto, ma sotto una luce completamente nuova. Al centro del discorso husserliano vi è infatti la crisi dell'umanità europea, la disperazione per la missione dell'occidente. Erano gli anni in cui l'ottimismo nello sviluppo progressivo e benefico della società, già scosso dai catastrofici eventi della prima guerra mondiale, si era ormai dimostrato illusorio e menzognero, si era anzi rovesciato nel buio di un futuro senza speranza. All'idea di un graduale e progressivo benessere si sostituisce l'idea di un precipitare sempre più a fondo e senza scampo nella crisi. Ma la voce di Husserl della Conferenza di Vienna non è la voce di questa illusione perduta. Egli non l'aveva mai condivisa. Per Husserl questa presa di coscienza non fa altro che aggiungere un anello essenziale al lavoro iniziato molto tempo prima, quando la crisi pareva tanto lontana da non poter essere ancora neppure percepita. La discussione che Husserl conduce nelle Ricerche logiche contro la riduzione della logica alla psicologia, cioè contro la riduzione di una "scienza delle idee" ad una "scienza di fatti", è tutta compiuta ancora sul terreno delle istanze puramente filosofiche. Lo psicologismo sviluppato coerentemente non può che condurre a una posizione scettica. E lo scetticismo va contestato sul terreno teorico come una assurdità teorica. Per l'autore delle Ricerche logiche la questione dello psicologismo non ha ancora uno sfondo sociale, non concerne ancora il problema dell'uomo stesso e del suo destino. Molto più tardi, 27 nel 1935, Husserl sa che non si tratta più soltanto di muoversi sul terreno della contestazione dell'idea positivistica come idea che, sviluppata coerentemente, porta all'assurdo. Ora, l'assurdità è entrata nella vita stessa e lo "scetticismo" si e manifestato in ciò che esso era in realtà sin dall'inizio: non una semplice posizione teorica, ma crisi dell'uomo stesso nella sua stessa vita. Questa crisi, che è ormai venuta alla luce all'interno della scienza e della filosofia, ha le sue radici nell'esclusività "con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell'uomo moderno accettò di venire determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla 'prosperity' che ne derivava" [35] La rivendicazione di un concetto della scientificità non modellata sull'idea della positività, l'affermazione della priorità di principio della ricerca filosofica e del suo carattere fondante, e lo stesso configurarsi di questa idea della filosofia come scienza della soggettività costituente - che sono stati i temi costanti della ricerca husserliana - vengono qui ricompresi come una denuncia della disumanizzazione scientifica della società borghese. Per questo Husserl sente il proprio atteggiamento come un atteggiamento di opposizione e di protesta e dichiara in modo appassionato il proprio radicalismo: "Sono convinto che io, il presunto reazionario, sono molto più radicale e molto più rivoluzionario di coloro che oggi si bardano di un radicalismo puramente verbale" [36]. Su questo "radicalismo" si sono più appuntate le critiche verso Husserl e la fenomenologia nel suo insieme, soprattutto quelle provenienti da parte marxista. Non è difficile infatti rilevare questo limite, che appare anzi del tutto evidente. Quanto più Husserl si rende conto della situazione sociale del suo presente storico, tanto più egli si appella alla filosofia stessa, ad una ragione divenuta eroica e che assume su di sé il compito della liberazione dall'oggettivazione sociale. La coscienza che Husserl ha del suo tempo non passa mai direttamente attraverso le vicende della lotta sociale. Benché non sia facile rilevare prese di posizioni esplicite sul terreno di una filosofia della storia, già l'impostazione generale della critica dell'oggettivazione nella Crisi offre indicazioni del tutto chiare dei limiti di coscienza nei quali questa critica necessariamente si mantiene. Solo in alcuni manoscritti più tardi si fa strada l'idea che la realtà dell'oggettivazione è lo sfruttamento materiale dell'uomo da parte dell'uomo. 28 E nonostante l'eccezionale significato che questi accenni possono assumere per noi, in generale il problema dell'oggettivazione viene costantemente riproposto essenzialmente come un problema giuridico e morale: "'Trattare gli uomini e gli animali come mere cose': una simile espressione ha, certo, un duplice senso: giuridico e morale da un lato e scientifico dall'altro. Ma c'è un elemento comune ai due casi. Da un punto di vista pratico-morale, io tratto un uomo come una mera cosa quando non lo prendo come una persona morale, come membro dell'associazione morale delle persone, di quell'associazione in cui si costituisce il mondo morale. Così io tratto un uomo non come soggetto giuridico, quando non lo considero membro della comunità giuridica di cui entrambi facciamo parte, bensì come una mera cosa, agiuridica, come un semplice oggetto" [37]. Tuttavia la consapevolezza di questi limiti, non toglie certamente che si possa guardare a questi esiti husserliani con grande interesse. È opportuno rammentare, a questo proposito, che "lo storico che considerasse l'errata coscienza come un fenomeno accessorio o casuale, o che la eliminasse come menzogna e falsità che non ha nulla a che fare con la storia, altererebbe la storia stessa" [38]. Per ciò che concerne in particolare la Crisi, la sua ricchezza tematica, la possibilità di una ripresa dei problemi che essa pone in un nuovo contesto di discorso, diventa più evidente quanto più sì e saputo localizzarla storicamente all'interno dell'ideologia complessiva del particolare momento storico nella quale essa fu scritta. L'accento posto sulla Crisi, che è uno degli aspetti che possono essere indicati per caratterizzare la ripresa degli studi fenomenologici in Italia, è dunque un fatto ricco di implicazioni. A questo proposito bisogna tuttavia aggiungere subito che questa particolare attenzione rivolta a quest'opera di Husserl non ha affatto il senso, come si sarebbe inclini a pensare, di un privilegio dato all'ultimo Husserl rispetto al primo o al secondo o eventualmente alla fase prefenomenologica. Si potrebbe fino ad un certo punto tracciare a grandi linee lo sviluppo delle varie tendenze fenomenologiche e delle varie interpretazioni della fenomenologia proprio sulla base del privilegio accordato a questa o a quell'opera husserliana, a questo o a quel periodo del pensiero di Husserl. Ma quanto più procedono gli studi sulla fenomenologia e sulle opere husserliane, tanto più appare evidente l'illegittimità delle periodizzazioni che sono state finora se- 29 guite, al punto che esse, anziché servire unicamente a fini puramente espositivi, finiscono con l'essere vere e proprie interpretazioni, per lo più non sufficientemente fondate. Per questo motivo, la Crisi non deve essere considerata come l'opera caratteristica di un certo "periodo" dell'evoluzione husserliana, nettamente distinto dai precedenti, quanto piuttosto come l'opera più matura nella quale confluisce l'intero complesso di temi e di problemi sviluppati da Husserl nel corso della sua attività filosofica. Abbiamo ricordato or ora un punto di vista a partire dal quale diventa visibile una stretta connessione tra la posizione del problema della scientificità filosofica così come si presenta nella Crisi e la critica dello psicologismo nella logica sviluppata nei Prolegomeni alle Ricerche logiche. Ma vi è un altro aspetto per il quale la Crisi si ricongiunge idealmente con l'inizio dell'opera husserliana. In rapporto alla logica si andò sempre più assicurando, nello sviluppo del pensiero husserliano, l'idea della necessità di mostrare in che modo la sfera logica - e in genere ogni formazione ideale di senso - si costituisce nella sua idealità a partire dall'esperienza che "precede" la sfera stessa delle idealizzazioni. Questa direzione di ricerca culmina, per ciò che concerne la logica, nell'opera Esperienza e giudizio, mentre la troviamo generalizzata nella Crisi sotto il titolo di mondo della vita. Tuttavia, questa tematica, che richiedeva un'adeguata elaborazione metodologica - la teoria della riduzione e la chiarificazione del senso della soggettività - è in realtà anteriore alle stesse Ricerche logiche, e può essere fatta risalire sino alla Filosofia dell'aritmetica. In quest'opera non vi è ancora alcun consapevole accenno alla tematica della riduzione e della soggettività, ma vi è già l'idea che per fondare il concetto di numero dobbiamo prescindere metodologicamente dalle varie teorizzazioni (le analisi contenute in essa vengono presentate da Husserl come "indipendenti da tutte le teorie e utili per tutte") e risalire all'esperienza del fenomeno concreto dell'insieme di cose. Questa ricerca, incerta nel suo significato metodologico, viene caratterizzata da Husserl come ricerca psicologica e logica e già con le Ricerche logiche essa verrà da Husserl criticata per la presenza in essa di elementi psicologistici. Eppure quest'opera di Husserl continua a mantenere in tutta la sua ricerca futura un significato esemplare. La preoccupazione che trova espressione nella Filosofia dell'aritmetica non solo non sparirà dall'ampliamento dell'orizzonte filosofico di Husserl, ma resterà in modo permanente alle sue 30 radici. "Tra la Filosofia dell'aritmetica e la Crisi c'è uno sviluppo innegabile. Il pensiero di Husserl ha avuto, nella lunga ricerca, il modo di dirigersi verso vie molteplici e diverse e di trasformarsi in forme imprevedibili. A prima vista, tra le forme imprevedibili, saremmo tentati di porre i rapporti tra fenomenologia e psicologia. Nella Filosofia dell'aritmetica Husserl sembra gettare i fondamenti psicologici dell'aritmetica ma, di fatto, anche se crede il contrario, indaga proprio le operazioni precategoriali e soggettive come, in forma completa, farà nella Logica, in Esperienza e giudizio e nella Crisi. Nella Filosofia dell'aritmetica si parla di un 'osservatore unificante' e di 'esperienza interna'. Husserl ignora ancora tutto il cammino che dovrà percorrere ma la sua analisi partirà proprio dalla scoperta, già presente nella Filosofia dell'aritmetica, delle operazioni soggettive" [39]. Porre l'accento sulla Crisi significa dunque tentare una ricostruzione e una ricomprensione unitaria del pensiero husserliano, cogliendo essenzialmente il suo sviluppo e la sua evoluzione, prima ancora di ipotizzare inesplicabili fratture. Si tratta, certamente, di un tentativo non facile, che si scontra ancora con la struttura degli scritti huserliani e con le complicazioni legate alla loro stesura. Come è noto, Husserl non aveva il pregio della sistematicità. Di rado l'esecuzione di una certa opera corrispondeva alle intenzioni originarie. I suoi libri hanno quasi sempre il carattere di un primo volume che difficilmente conoscerà un secondo, oppure quello ancora più disarmante di "introduzioni". La Filosofia dell'aritmetica reca in frontespizio la scritta Erster Band e la Crisi era stata progettata come un'introduzione alla filosofia fenomenologica. L'opera pubblicata sullo "Jahrbuch" nel 1913 era stata pensata in tre volumi: il volume pubblicato avrebbe dovuto essere soltanto un'introduzione generale alla fenomenologia. Ma il piano dell'opera muta con il passare degli anni ed il secondo e terzo volume pubblicati dalla Husserliana nel 1952, a parte la loro incompiutezza, sono qualcosa di completamente differente dal progetto originario. Neppure le Ricerche logiche riescono ad essere un'opera scritta una volta per tutte. Nel 1913, nel dare alle stampe la seconda edizione, non solo Husserl vi apporta diverse correzioni, ma promette una redazione completamente nuova della sesta ricerca, affermando che essa era già nelle mani del tipografo. Ma sette anni dopo, questa nuova redazione è diventata sempre più problematica, ed alla fine Husserl decide di ripubblicare la prima versione, migliorandone soltanto alcuni passi: 31 "Ancora una volta" commenta Husserl in questa occasione "si conferma il vecchio detto: i libri hanno il loro destino" [40]. Questa caratteristica incapacità di Husserl di giungere all'opera finita ha del resto uno stretto legame con la sua posizione filosofica. Per Husserl, la filosofia esiste solo come ricerca permanente del filosofo ed il filosofo stesso si definisce soltanto in ed attraverso questa ricerca. Perciò, in Husserl, la forma del libro filosofico entra in crisi: il libro stesso non ha più un inizio sicuro e nemmeno una fine, i risultati della ricerca di volta in volta avviata rimangono sospesi in una sfera di incertezza per il loro sviluppo e il loro senso. Ciò che permane è la ricerca attiva su un tema, una ricerca presentata nella sua immediatezza, così come viene eseguita sul momento con tutte le sue possibili diramazioni, alcune delle quali restano implicite o oscure. Di qui l'importanza che va attribuita all'eredità husserliana manoscritta. A parte gli aspetti realmente nuovi che emergono, anche se frammentariamente, in alcune ricerche più tarde, si può dire tuttavia che l'importanza del materiale inedito husserliano consiste essenzialmente nel fatto che esso presenta nel modo più esplicito e al di là di qualsiasi preoccupazione formale il fondamento di ricerca, di analisi effettive su cui si sostiene l'elaborazione che egli poi presenta in forma più accurata, ma quasi sempre unilaterale, nelle opere edite. In questa riflessione costante e immediata, che si svolge senza preoccupazione alcuna - talora anche con pieno disprezzo delle categorie sintattiche del discorso - è spesso più facile cogliere i nessi effettivi della ricerca, i punti in cui lo svolgimento di un tema conduce a un tema nuovo. Cosicché si potrebbe quasi dire che laddove Husserl compie il tentativo di facilitare la strada al lettore presentandogli un'esposizione graduale e ordinata, questi è ancora più esposto agli equivoci e alle oscurità che di fronte all'opera manoscritta, dove, senza aiuti di sorta, dovrà trovare da sé il bandolo per uscire dal labirinto. Il tentativo di ricomprendere la tematica husserliana nella sua interezza e l'idea della fenomenologia così come è stata elaborata da Husserl stesso, e quindi indipendentemente dalle stratificazioni di giudizio che sono maturate nel corso della formazione e della dissoluzione del "movimento fenomenologico", può essere indicato come uno degli elementi che contraddistinguono la ripresa degli studi fenomenologici in Italia. Ma questa ripresa, proprio perché 32 viene consapevolmente condotta come un ritorno alla tematica husserliana originaria, è strettamente connessa con una precisa presa di posizione rispetto ad alcuni nodi realmente critici del discorso husserliano. E anche da questo punto di vista l'accento cade sulla Crisi, che si presenta non solo come l'opera che porta al massimo approfondimento i principali temi fenomenologici, ma anche - e per la stessa ragione - come l'opera in cui l'impostazione husserliana rivela alcuni dei suoi limiti cruciali. Per questo motivo acquista particolare significato il fatto che l'opera fenomenologica più impegnativa pubblicata finora in Italia, Funzione delle scienze e significato dell'uomo di Enzo Paci, sia nata come commento alla Crisi e abbia poi preso la forma di una estesa discussione con il marxismo. Se da un lato infatti la Crisi consente una complessiva ricomprensione del pensiero husserliano e nello stesso tempo rappresenta il livello massimo della presa di coscienza del filosofo Husserl, dall'altro la vera realtà dei problemi posti in quell'opera si coglie soltanto se si compie rispetto ad essa un nuovo passo decisivo: se ci si dispone consapevolmente sul terreno del marxismo. 6. Vorremmo concludere questa esposizione introduttiva con alcune considerazioni su un aspetto molto discusso della fenomenologia: il suo linguaggio. Ogni libro che tratti problemi fenomenologici presenta una immediata difficoltà per la terminologia che esso usa. Le difficoltà non diminuiscono quando il lettore incontra in esso termini ben noti della tradizione filosofica. In tal caso accade molto spesso che il reale significato che quei termini ricevono in un contesto fenomenologico venga equivocato o frainteso. È necessario perciò tentare di illustrare brevemente quali siano le caratteristiche di questo linguaggio e per quali motivi esso presenti alcuni elementi del tutto particolari. Le difficoltà di un'adeguata traduzione linguistica dei contenuti della ricerca fenomenologica è sottolineata fin dall'inizio da Husserl e sembra essere una delle preoccupazioni di fondo che accompagnano in modo costante lo sviluppo del suo pensiero. Il primo problema è quello di ritrovare un linguaggio che sia realmente in grado di riprodurre le "cose stesse" e che sia il più possibile privo dell'equi- 33 vocità che caratterizza il discorso comune. Tuttavia, questo linguaggio intende esprimere situazioni descrittive e deve perciò essere esso stesso descrittivo: questo problema non può essere semplicemente risolto attraverso l'introduzione puramente convenzionale e definitoria di termini nuovi. Anche in questo caso infatti ciò che è veramente importante per il fenomenologo è il linguaggio usato nella definizione, il quale deve descrivere la situazione che il nuovo termine deve semplicemente indicare. Tutte le difficoltà relative all'istituzione di un linguaggio fenomenologico hanno origine da questo carattere descrittivo, dal fatto cioè che esso deve riprodurre e rispecchiare situazioni materiali, che spesso sono per essenza relativamente indeterminate e che comunque si presentano in primo luogo in questa relativa indeterminatezza. Ciò che in ogni caso non possiamo fare è stabilire le norme di rigorosità del nostro linguaggio prima ancora di impegnarci in una ricerca, così come non possiamo stabilire alcun criterio di rigorosità in generale al di fuori e indipendentemente dai contenuti descrittivi, dalla peculiarità degli oggetti tematici. Potremmo esprimerci dicendo che il linguaggio fenomenologico e - per Husserl - il linguaggio filosofico tout court ha un carattere necessariamente materiale, proprio perché è un linguaggio descrittivo. Ma ciò significa anche che esso, almeno nelle situazioni iniziali della ricerca, non può prescindere da una dimensione storica e cioè dal vincolo con il discorso comune e con il linguaggio elaborato nella tradizione scientifico-filosofica. Di qui il rifiuto della formalizzazione del linguaggio filosofico, che non deve essere inteso come un rifiuto dei linguaggi formali in generale - cosa che sarebbe palesemente priva di senso. "I fondamenti della filosofia" scrive Husserl in Ideen I "non possono essere fissati per mezzo di concetti stabili e controllabili intuitivamente in qualunque momento, ché anzi lunghe ricerche devono generalmente precedere la loro chiarificazione e fissazione; d'altra parte, non si può ricorrere a espressioni artificiose ed estranee al linguaggio filosofico storico; pertanto si rendono spesso inevitabili locuzioni combinate, che riuniscono parecchi termini del discorso comune, usati ciascuno secondo una particolare determinazione terminologica. In filosofia non si può definire come in matematica; qualsiasi imitazione del procedimento matematico a questo riguardo è non soltanto infruttuosa ma anche assurda e conduce alle peggiori conseguenze" [41]. Poiché è il procedere della ricerca che definisce con precisione 34 sempre maggiore i concetti tematici e corrispondentemente i termini che li indicano, la situazione nella quale il fenomenologo inizialmente si muove è relativamente fluida. "Del resto va osservato in linea generale che agli inizi della fenomenologia tutti i concetti, e quindi tutti i termini, devono rimanere in certo modo fluidi, sempre pronti a differenziarsi secondo i progressi dell'analisi di coscienza e della scoperta di nuove stratificazioni fenomenologiche nell'ambito di ciò che inizialmente è intuito in indistinta unità. Tutti i termini che si possono scegliere hanno le loro tendenze di connessione, accennano a diverse direzioni di rapporti, che poi risultano spesso non avere la loro origine in un solo strato essenziale; onde l'opportunità di delimitare meglio o comunque di modificare la terminologia. Pertanto, solamente in un grado di sviluppo molto avanzato della scienza si può fare assegnamento su terminologie definitive. Applicare le misure esteriori e formali di una logica della terminologia ad esposizioni scientifiche in piena elaborazione e pretendere sin dall'inizio terminologie della specie in cui si fissano soltanto i risultati conclusivi dei grandi sviluppi scientifici, è assurdità gravida di errori. Per cominciare, ogni espressione è buona, specialmente se è un'espressione immaginosa opportunamente scelta, che sappia dirigere il nostro sguardo su di un accadimento fenomenologico chiaramente afferrabile. La chiarezza non esclude un certo alone di indeterminatezza" [42]. Di tutto ciò occorre essere chiaramente consapevoli, sia per evitare giudizi di antiscientificità semplicisticamente attribuiti al linguaggio fenomenologico, sia per sbarazzare il terreno dal manierismo linguistico di quei fenomenologi che fanno i saputi verso le scienze con quattro parole male apprese. A questo proposito Husserl è molto esplicito e si esprime con insolita durezza: "Coloro che, non soddisfatti delle indicazioni intuitive che loro si offrono, esigono 'definizioni' come nelle scienze 'esatte', oppure credono, con concetti fenomenologici ricavati con una presunzione di solidità da un paio di rozze analisi di esempi, di poter liberamente fare alto e basso in un pensiero astrattamente scientifico e di dare con ciò incremento alla fenomenologia, sono tanto principianti che non hanno ancora afferrato l'essenza della fenomenologia e la metodica che essa per principio esige" [43]. La questione del linguaggio fenomenologico si complica ancor più se prendiamo in considerazione aspetti metodologici più deter- 35 minati della ricerca fenomenologica ai suoi vari livelli. Di particolare importanza, come vedremo, è la ricerca effettuata in una finzione solipsistica nella quale io stesso che compio la ricerca mi comporto come se non esistesse nessun altro all'infuori di me. Avremo modo di accennare in seguito alle ragioni di questa impostazione metodologica. Rileviamo qui soltanto il fatto che questa finzione, possibile per principio, ci conduce in una situazione paradossale, non appena ci disponiamo sul piano della traduzione linguistica dei dati descrittivi. Il linguaggio infatti è sociale per essenza. Di fronte a questa difficoltà Husserl si trova ben presto, prima ancora di avere elaborato la tematica della riduzione, nelle Ricerche logiche. Più tardi, in Esperienza e giudizio troviamo scritto che nella descrizione del mondo puramente percettivo - che deve essere compiuta nella finzione solipsistica e che deve porre in luce una sfera anteriore ad ogni idealizzazione - "sorgono certamente delle difficoltà per il fatto che le espressioni del nostro linguaggio hanno un senso generale, comunicativo, in modo tale che, usando qualsiasi designazione di oggetto, viene già comunque proposta una prima idealizzazione - quella della validità per una comunità linguistica e sono necessari sempre nuovi sforzi per tener lontano questo senso comunicativo, che necessariamente si impone, delle espressioni. Si tratta di una difficoltà che inerisce per essenza ad ogni ricerca sul soggettivo nel senso più radicale, nella misura in cui essa ricorre ad espressioni che hanno senso mondano e significato comunicativo-mondano" [44]. Vi è infine la questione dell'invenzione di termini nuovi, che è talvolta così ricca da sconcertare e scoraggiare il lettore. Questa invenzione, presente costantemente nelle opere edite, assume talora un ritmo vertiginoso soprattutto nei manoscritti più tardi e in particolare in quelli dedicati all'analisi del tempo. Ora, è necessario notare che questa invenzione raramente è superflua o arbitraria. Più spesso si tratta di una costante ricerca di un termine più adeguato. Come abbiamo visto, "per cominciare, ogni espressione è buona", ma il perfezionamento della ricerca richiede una sempre maggiore aderenza del linguaggio alla situazione descritta. Vi sono casi in cui né il linguaggio comune, né il linguaggio scientifico-filosofico già disponibile possono venirci in aiuto, neppure quando siano opportunamente reinterpretati. Quando già nelle Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo Husserl perviene al problema della connessione tra soggettività e tempo, osserva che "per tutto ciò ci 36 mancano i nomi". Ciò non significa che, a questo punto, siamo riusciti a gettare un'occhiata sull'ineffabile, ma molto più semplicemente, appunto, che "ci mancano i nomi", e perciò dobbiamo inventarli. Tuttavia, come si sa, nulla è più facile che scambiare i nomi con le cose e trasformare l'uso puramente strumentale del linguaggio in un feticcio. Questo del resto non è rischio che corra soltanto il fenomenologo. Sembra anzi che questo sia il destino di molte delle discussioni odierne tra le filosofie, quando l'unico problema sembra essere quello di controllare se una certa filosofia abbia le carte in regola con un'altra filosofia. Sarà questa, nel caso migliore, una verifica tra principi veri o presunti, ma per lo più, quando si resta sul piano delle filosofie e non si scende sul terreno dei loro problemi reali, si tratterà di una verifica di linguaggi e di terminologie. Si finisce così di parlare delle parole delle filosofie, invece che di ciò di cui parlano le filosofie. Va da sé che si tratta, quasi sempre, di parole al vento. Annotazioni 1. Per indicazioni relative al "movimento fenomenologico", oltre al volume citato di H. Spiegelberg, The phenomenological Movement, L'Aia 1960, si può vedere l'articolo di G. Gadamer, Die phänomenologische Bewegung, in "Philosophische Rundschau", 1963-64 (11), pp. 1-45. 39 4. Tra gli studi italiani di carattere complessivo sul pensiero di Husserl si segnalano G. Pedroli, La fenomenologia di Husserl, Torino 1958; E. Melandri, Logica ed esperienza in Husserl, Bologna 1960; S. Catucci, La filosofia critica di Husserl, Milano 1995; R. Lanfredini, Husserl. La teoria dell'intenzionalità, Bari 1994 - Come letteratura introduttiva alla tematica fenomenologica si può vedere C. Sini, Introduzione alla fenomenologia come scienza, Milano 1965 e dello stesso autore la raccolta antologica La fenomenologia, Milano 1965. [20] J.-P. Sartre, L'immaginazione, trad. it. a cura di A. Bonomi, Milano 1962, p. 121. [21] H. Spiegelberg, op. cit., pp. 276-277. [22] K. Löwith, Eine Erinnerung an Husserl, in Edmund Husserl, 1859-1959, L'Aia 1959, p. 48. [23] ivi, pp. 49-50. [24] . 68 Note al Capitolo primo [1] E. Husserl, Ricerche logiche, vol. I, cit., p. 126 [2] E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, trad. it., Torino 1958, p. 77. [3] E. Husserl, Storia critica delle idee, trad. it. a cura di G. Piana, Guerini, Milano 1989, pp. 73-74 [4] ivi., p. 74. [5] R. Descartes, Meditazioni metafisiche, trad. it., Milano 1953, p. 32. [6] ivi, p. 35. [7] ivi, p. 36. [8] ivi, p. 37. [9] ivi, p. 41. [10] Husserl, Storia critica delle idee, trad. cit., p. 79. [11] E. Husserl, Kritik zu den beiden Stufen, in E. Husserl, Erste Philosophie. Theorie der phänomenologischen Reduktion, Husserliana, vol. VIII, a cura di R. Boehm, Nijhoff, Den Haag 1959, p. 432. Sul rapporto tra Husserl e Cartesio si veda, tra gli altri, L. Landgrebe, Il distacco di Husserl dal cartesianesimo, in Itinerari della fenomenologia, trad. it. di G. Piacenti, Marietti, Torino 1974. [12] E. Husserl, La crisi delle scienze europee, op. cit., p. 182. [13] E. Husserl, Erste Philosophie. Theorie der phänomenologischen Reduktion, op. cit., p. 87. [14] ivi, p. 126 [15] ivi. 69 II. La riduzione fenomenologica e l'idea di intenzionalità 1. L'esperienza fenomenologica 2. Il il significato della riduzione 3. Il rapporto intenzionale 4. Il concetto fenomenologico della "coscienza" 5. Descrizione e costituzione fenomenologica 70 71 1. Potremmo indicare brevemente il passaggio dalle argomentazioni precedenti all'impostazione generale del discorso fenomenologico affermando che l'idea del fenomeno, messa in evidenza dallo scetticismo classico, deve essere ricollegata con l'idea dell'apoditticità dell'esperienza soggettiva affermata da Cartesio. Ciò equivale naturalmente ad assumere l'atteggiamento scettico per rovesciarlo in un atteggiamento completamente nuovo, dal momento che l'affermazione che l'esperienza del fenomeno è apodittica implica evidentemente il rifiuto di qualsiasi conseguenza scettica. E ciò che qui cade, come residuo di un atteggiamento realistico ingenuo, è l'idea che la realtà stessa sia sempre al di là di questo sapere, e quindi inaccessibile. Diremo invece, stravolgendo direttamente i termini del problema così come lo considera lo scettico, che non ha senso parlare di qualcosa che sta al di là di ciò che io vedo e di conseguenza non ha senso neppure indicare nella conoscenza del fenomeno un limite imposto alla conoscenza in generale. Affinché io possa affermare la realtà di questo oggetto che ho di fronte non ho bisogno di ritenere che vi sia, dietro le sue manifestazioni, un nucleo sostanziale che costituisca in qualche modo la loro struttura oggettiva di supporto. Questo oggetto mi si dà come "reale", mentre l'immagine del centauro mi si dà come prodotto della mia attività fantastica. Ma per accertare questa differenza non ho bisogno di nessun controllo che vada al di là dei dati fenomenologici. Le distinzioni tra il vero e il falso, tra il reale e l'irreale, cadono sempre all'interno della sfera fenomenologica. Si dirà che questa sfera è comunque una sfera soggettiva. Su di ciò non vi sono dubbi: l'oggetto mi appare come una cosa reale che è nel mondo - oppure come una mia immagine fantastica. Gli atti di verifica che io compio per accertare se ciò che io vedo è una pura e semplice illusione oppure una cosa reale sono in grado di esibire una distinzione tra "reale" e "immaginario", ma questa distinzione non ha altra garanzia oltre questi stessi miei atti di verifica. Perciò si tratta di una distinzione soggettiva. Ma - ed è questo il punto essenziale - questo carattere soggettivo non ottiene il suo senso dalla contrapposizione con una oggettività già data. Posso dire che il dato fenomenologico vale come reale anzitutto per me: ma in ciò non è ancora implicito il fatto che questa validità sia una validità solo per me 72 o anche per tutti. È su questo terreno che si pone in modo legittimo la questione della distinzione tra oggettivo e soggettivo in senso comune. Quando parliamo di una verità soggettiva contrapponendola a una verità oggettiva, intendiamo in realtà affermare che un determinato oggetto è valido solo per me e non per tutti.. Ma in entrambi i casi vi è un riferimento soggettivo che diventa visibile nel momento in cui formulo il problema in termini di validità: questa validità è sempre una validità per qualcuno. Ciò che muta è il senso del soggetto per il quale qualcosa è valido, non il riferimento soggettivo in quanto tale. Perciò vi è una sottile quanto decisiva differenza di senso tra il carattere soggettivo dell'esperienza fenomenologica e il carattere soggettivistico di una esperienza scettico-fenomenistica. Se si accetta questa impostazione non si chiederà in che modo l'oggettività del sapere sia garantita dall'essere in sè della realtà, ma piuttosto: in che modo a partire dall'esperienza che anzitutto è mia e che vale anzitutto per me si costituisce una esperienza che non sia soltanto mia, ma anche di altri, così da dare origine a una validità per tutti, a un dato che può essere riconosciuto da tutti come valido e che quindi è oggettivo? È naturale che scompaia allora la questione della possibilità della conoscenza: essa era agitata dallo scettico sulla base del presupposto fondamentale del realismo teorico. O più precisamente: questo problema assume un significato completamente diverso, dal momento che esso non dà più luogo a insolubili aporie ma si traduce semplicemente in un compito, solubile per principio, di descrizione sistematica del processo soggettivo nel quale qualcosa si dà a me come conosciuta nella sua verità oggettiva, e cioè valida per tutti. Perciò ha ragione il senso comune quando rifiuta le argomentazioni scettiche come vuoti sofismi. Soltanto che per cogliere il senso e le motivazioni di questo rifiuto occorre fare un giro molto più lungo, passare attraverso e oltre la teorizzazione della tesi latente dell'esistenza di una realtà oggettiva, accettare la provocazione scettica e superarla dall'interno. Allora non avremo la semplice conferma acritica di una credenza o l'accettazione dogmatica di una filosofia - la filosofia del "senso comune" o un'altra forma di realismo filosofico più compiutamente elaborato - ma si porrà piuttosto il problema di un'esplorazione del terreno di questa credenza che sia in grado di portare alla luce le sue motivazioni. All'interno di questa impostazione complessiva ritroviamo alcuni dei classici problemi dello scetticismo, ma con un significato del tutto nuovo. Ritroviamo an- 73 zitutto la questione del solipsismo. Tuttavia esso non si presenta ora come una posizione teorica e neppure come una situazione aporetica. L'esperienza fenomenologica è in primo luogo solipsistica e non può essere che solipsistica. Se ci riferiamo ai termini del discorso cartesiano, è evidente che la certezza del cogito non ha bisogno di alcuna mediazione che passi attraverso gli altri: questa certezza rimane intoccata anche supponendo che non esista nessuno all'infuori di me. Ma il solipsismo non è che una conseguenza del dubbio ed anch'esso ha una pura e semplice funzione metodologica. Per questo motivo si tratterà di vedere in che modo a partire da questa esperienza solipsistica, si costituisca un'esperienza più ampia, un'esperienza che non è soltanto mia, ma di altri, e infine di tutti, in modo tale che ciò che prima avevamo chiamato semplicemente "soggettività" assume gradualmente il senso di una comunità soggettiva di soggetti o, secondo un termine caratteristico della fenomenologia, di un'intersoggettività. Se riflettiamo sulla posizione di questo problema ci rendiamo conto che esso è, per motivi non casuali, del tutto estraneo al "realismo ingenuo" o alla critica che lo scetticismo tenta di esercitare nei suoi confronti. Per una posizione ingenuamente realistica esso non sussiste perché il carattere di oggettività di una conoscenza dipende unicamente dal fatto che essa rispecchia un essere in sè reale. Proprio per questo - poiché è oggettiva in questo senso - una simile conoscenza sarà valida per tutti. La validità assume dunque, rispetto all'oggettività, un senso logicamente secondario. La stessa impostazione di fondo si può ritrovare nello scetticismo: esso riproduce la stessa situazione, ma soltanto "a rovescio". Poiché non vi è nessuna adeguazione tra questa conoscenza e la realtà che essa deve rispecchiare, ogni conoscenza può essere valida solo per me, e per nessun altro. Anche qui il significato dell'essere valido è subordinato alla questione dell'adeguazione e del rispecchiamento della conoscenza della realtà. Il momento essenziale della proposta husserliana è invece quello di riportare la questione dell'oggettività del sapere alla sua validità intersoggettiva. Perché ciò possa essere pienamente chiaro è necessario ridurre l'essere stesso all'apparire, considerando ogni distinzione tra realtà e parvenza come fondata ancora una volta nell'apparire. Non diremo dunque che dell'essere in sè non c'è scienza, perché siamo racchiusi nel limite del fenomeno; diremo invece che anche dell'essere in sè c'è scienza perché anche l'essere in 74 sè è una nozione fondata nel fenomeno. Perciò il "fenomenologo" non indaga soltanto sul fenomeno, ma anche "su ciò che si dice intorno al fenomeno": anche questo ha infatti la sua ultima giustificazione nel fenomeno stesso. 2. Tutto ciò richiede una precisa reinterpretazione del dubbio, dal momento che questo "dubbio fenomenologico", benché riassuma in sè alcuni motivi essenziali propri della tradizione filosofica, ha tuttavia un senso peculiare, che deve essere chiaramente fissato - tanto più che questo è il luogo di molti equivoci in rapporto a una corretta valutazione del discorso husserliano. La "sospensione del giudizio", la famosa "epoché" degli scettici antichi, coincide qui direttamente con la trasvalutazione della realtà in un campo fenomenologico di verità apodittica. Come per Cartesio, anche per Husserl, questa trasvalutazione è una pura finzione, è "cosa di nostra piena libertà", che lascia eventualmente intatto ciò che noi crediamo e di cui siamo profondamente convinti. Ma, a differenza di Cartesio, questo dubbio non è un vero dubbio nemmeno sul piano della finzione, perché non contiene in sè alcuna istanza di negazione. Nel dubbio invece vi è sempre questa possibilità di negare la tesi su cui si dubita: "In Descartes ciò prevale al punto che il suo tentativo di dubbio universale può dirsi propriamente un tentativo di negazione universale" [1]. Il "dubbio" di Husserl invece non asserisce e non nega. Egli parla di "messa fuori circuito" (Ausschaltung) o di "messa in parentesi" e l'idea espressa in queste metafore è che ogni tesi già data, a cominciare dalla tesi generale dell'atteggiamento naturale, va considerata per quella che è, con i predicati di validità che le ineriscono, senza tuttavia assentire immediatamente e direttamente ad essi. Perciò io ho di fronte quest'oggetto come oggetto reale, ma il predicato di "realtà", senza scomparire, è per me soltanto un indice che l'analisi di ciò che effettivamente vedo dovrà chiarire nel suo senso. In questo modo, lo stesso predicato di realtà diventa un dato fenomenologico, anche se per ora non risolto nei momenti fenomenologici che lo costituiscono. Il "dubbio" dunque è propriamente una riduzione e il dubbio sulla tesi generale dell'atteggiamento naturale non è altro che la riduzione della "realtà" e di tutti i suoi conte- 75 nuti di senso a un campo di dati fenomenologici. Anche su questo punto va criticata l'idea cartesiana. Certamente, il risultato a cui conduce l'esercizio metodico del dubbio è l'assoluta certezza del cogito, ma questo processo non va interpretato come l'acquisizione della verità assiomatica dell'esistenza del soggetto pensante come tale; e neppure come l'acquisizione di un principio - il principio assoluto della scienza. L'idea cartesiana va ripresa e reinterpretata alla luce della considerazione del dubbio come riduzione al fenomeno: nell'esercizio dell'epochè ciò che io ottengo non è il primo principio della scienza, ma un campo di verità apodittica che comprende la totalità di ciò che mi si presenta nel modo in cui mi si presenta. Non dunque ego cogito, ergo sum ma semplicemente: ego cogito cogitata qua cogitata. Questo mutamento di formulazione indica una concezione ben diversa del senso e dei compiti della ricerca filosofica. Questa formula diventa infatti significativa solo nella misura in cui svolgo una ricerca effettiva su determinati cogitata considerandoli solo in quanto tali, escludendo qualsiasi ipotesi metafenomenologica e cercando anzi di mostrare come le tesi che io trovo già inerenti ad essi abbiano la loro origine, e quindi la loro spiegazione, nel fenomeno stesso. Soltanto se mi accingo ad una ricerca fenomenologica, questa formula che è di per se stessa vuota, si riempie di significati, che possono anche essere di volta in volta diversi a seconda dell'oggetto che io prendo in considerazione. Ci muoviamo quindi sempre sul terreno delle indicazioni di metodo e sarebbe un errore confondere queste indicazioni con una filosofia fenomenologica che ha sul suo portone d'ingresso la scritta "ego cogito". Non è senza significato il fatto che, in Husserl, l'idea della ricerca fenomenologica venga messa in atto prima di un'adeguata elaborazione della problematica della riduzione; ed è d'altra parte naturale che l'approfondimento dell'aspetto metodologico conduca a un approfondimento dell'orizzonte complessivo della ricerca. Ciò significa anzitutto che la fenomenologia non è e non può essere una pura metodologia. E, nello stesso tempo, che i suoi contenuti filosofici si esauriscono interamente nell'esercizio di una ricerca descrittiva e solo all'interno di essa l'indicazione della considerazione del fenomeno in quanto tale può assumere un senso concreto e determinato. 76 3. Nell'atteggiamento fenomenologico, ogni cosa, ogni oggetto nel senso più ampio possibile del termine, non è altro che un cogitatum che rimanda a sua volta ad un cogito. Fra l'uno e l'altro vi è una correlazione necessaria, la stessa correlazione che intercorre tra l'atto del vedere e il dato che viene visto, tra il percepire e il percepito, tra il volere e l'oggetto voluto: che sono appunto specificazioni del rapporto cogito-cogitatum. La cosa che io vedo e che nomino come "questo fermacarte" è anzitutto un dato del mio vedere, e quindi non si presenta mai nella totalità dei suoi aspetti. Io la colgo sempre in questa o in quella prospettiva: io posso girare con lo sguardo intorno ad essa, cogliere di volta in volta ognuno dei suoi lati sino ad averne un'immagine compiuta. Potrei dire allora che io sono costituito in modo tale da non poter percepire questo fermacarte in un atto solo, nella sua totalità, così come esso è, al di là di ogni prospettiva. In tal caso la vera realtà del fermacarte non sarebbe mai nelle diverse prospettive in cui lo vedo, ma al di fuori e al di sotto di esse. In breve, al di fuori di ogni sguardo. E in questo modo pensiamo del tutto naturalmente se riflettiamo sulla nostra percezione delle cose che ci circondano. Ma nell'atteggiamento fenomenologico il problema si capovolge: non vi è una cosa in sè e un soggetto che per caso la guarda e non può non coglierla se non attraverso prospettive. Vi è anzitutto un soggetto che opera costantemente una sintesi delle prospettive fino al momento in cui la cosa - il fermacarte - si presenta come cosa in sé. Nell'atteggiamento fenomenologico la correlazione tra l'atto soggettivo e il dato a cui questo atto si rivolge precede e spiega la separazione tra la cosa ed i modi di manifestarsi della cosa, gli atti soggettivi della percezione spiegano l'apparire della realtà indipendente della cosa e non viceversa. La correlazione tra cogito e cogitatum non è più un fatto accidentale che venga spiegato nei suoi modi dalla separazione tra il soggetto e l'oggetto, ma è viceversa una correlazione necessaria che deve spiegare l'emergere di questa separazione: oltre che la sua teorizzazione. Ci si può chiedere allora quale sia la natura di questa correlazione. La risposta a questo problema può essere tratta molto semplicemente analizzando una modalità qualsiasi del rapporto cogitocogitatum, ad esempio l'atto del percepire e il dato percepito in esso. Evi- 77 dentemente il percepito non coincide con il percepire, non si risolve nell'atto soggettivo del percepire. Se ho un'impressione percettiva di rosso, il rosso che io percepisco resta sempre oggetto della percezione e non soltanto un suo momento interno. Altrettanto evidentemente il dato percepito non assorbe in sè l'atto del percepire. Proprio perché vi è una relazione secondo la quale vi sono dei dati di fronte a un soggetto che li assume come tali, non vi è alcuna identificazione o coincidenza. Dal punto di vista nel quale ci disponiamo questa relazione è necessaria, nel senso che se viene meno uno dei suoi momenti, viene meno anche il momento opposto. Nell'atteggiamento naturale non ho alcuna difficoltà ad ammettere che l'oggetto continua ad esistere, anche se viene meno il soggetto che lo guarda e, viceversa, che il soggetto esiste anche se non si rivolge a nulla, se non ha di fronte a sè alcun oggetto. Entrambi infatti esistono nel mondo come cose indipendenti e reciprocamente accidentali, la cui esistenza è garantita dall'esistenza stessa del mondo. Ma è palesemente assurdo ritenere che possa esserci un dato percepito senza un corrispondente atto percettivo. Perciò, se viene meno il polo oggettivo, viene meno anche il polo soggettivo, e viceversa. L'immagine della polarità illustra chiaramente il senso di questa relazione: il polo negativo è separato, anzi opposto al polo positivo: ma l'uno non può esistere senza l'altro. Essi sono opposti e correlativi. Riprendendo un vecchio termine della tradizione filosofica, Husserl parla, per indicare questo rapporto, di intenzionalità. Restando all'interno della sfera fenomenologica noi ci troviamo sempre nella considerazione del fenomeno in rapporto al soggetto a cui esso si presenta e del soggetto in rapporto ai fenomeni che esso si rende presenti. È necessario fin dall'inizio sottolineare che si tratta di un rapporto essenzialmente attivo. Il presentarsi del dato fenomenologico è possibile nella misura in cui vi è un atto che lo rende presente e la considerazione di questo rapporto tende sempre a mettere in luce proprio il carattere dell'atto nel quale un determinato oggetto si presenta. Per questo motivo si parla dell'oggetto come qualcosa che viene intenzionato e del polo soggettivo come un'attività intenzionante. Il rapporto stesso è infatti un intenzionare l'oggetto da parte del soggetto. La struttura intenzionale del rapporto indica che io sono sempre rivolto a qualcosa di esterno, ma anche che questa esteriorità ot- 78 tiene la configurazione che le è propria solo in rapporto a questo mio rivolgermi attivo verso di essa. 4. Da questo punto di vista va compresa la ben nota formula: "La coscienza è sempre coscienza di qualche cosa". Affermare ciò non significa riprodurre in una formula la staticità di un rapporto nel quale il dato fenomenologico si riflette nello specchio della coscienza. Il vedere stesso, come atto della "coscienza", è un attivo costituire l'oggetto visivo, un attivo provocare l'emergenza di una forma dall'indistinzione dei dati. Il vedere non è un ricevere nella passività, ma un continuo mettere a fuoco l'amalgama indistinto del campo visivo. La formula or ora citata si presta tuttavia a numerosi equivoci soprattutto per il fatto che l'uso del termine "coscienza", con la molteplicità di significati che gli derivano sia dal linguaggio comune sia dalla tradizione filosofica, è di per se stesso fuorviante. La prima idea da cui occorre sbarazzare il terreno è che, nella fenomenologia, si ripresenti, con la reintroduzione della tematica soggettiva, anche la vecchia idea interioristica della coscienza, quella sorta di sgabuzzino nel quale io posso in ogni momento chiudermi dentro per cercare riparo. Su questo punto infatti non è possibile equivocare, e la nostra formula lo dice chiaramente. Come non esiste un in sè dell'oggetto, non esiste neppure un in sè della coscienza, dal momento che - appunto - la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa. Se si interpreta la coscienza in senso comune o in senso tradizionale, possiamo dire anzi che non esiste in Husserl alcuna teoria della coscienza. Non bisogna cioè credere, che data una certa idea della coscienza, si aggiunga l'affermazione della sua struttura intenzionale. Al contrario: l'indicazione dell'intenzionalità toglie di mezzo qualsiasi idea presupposta della coscienza. Pertanto ogni volta che parliamo di coscienza, ci serviamo di questo nome unicamente per indicare gli atti soggettivi nella loro totalità indeterminata. Della natura specifica di questi atti la nostra formula non dice assolutamente nulla. Quando diciamo che "la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa", indichiamo indubbiamente che ogni atto soggettivo è intenzionale, ma non vogliamo affatto privilegiare, tra 79 la molteplicità degli atti che io compio, un determinato complesso di atti comunemente definiti "spirituali", "mentali" o in altro modo, distinti in quanto tali dagli atti propriamente corporei. Intenzionale è ogni atto soggettivo - e quindi sia l'atto semplice del guardare la cosa senza intervenire in essa, sia l'atto della sua manipolazione concreta. La generalità della formula consiste proprio nel fatto che essa non dice nulla sulla struttura effettiva degli atti e sulle loro differenze ma si limita ad enunciare la necessità di cogliere la correlazione intenzionale, qualunque sia il dato fenomenologico considerato. Perciò bisogna aggiungere che ogni correlazione intenzionale è reale solo in quanto è una modalità specifica della coscienza intenzionale. Così il percepire è una modalità intenzionale specifica che si differenzia, ad esempio, sia dal punto di vista soggettivo sia da quello oggettivo, dall'utilizzare, dal volere, dal desiderare, e così via. Si potrebbe addirittura convenire con chi affermasse che nella fenomenologia si fa un uso distorto del termine di coscienza. Questa distorsione appare chiara se si pensa che sia la percezione che l'utilizzazione potrebbero essere definite entrambe come "atti di coscienza"; entrambe sono coscienza di qualche cosa": ma la semplice percezione dell'oggetto differisce dalla sua utilizzazione, e questa differenza va chiarita descrittivamente considerando la modalità intenzionale specifica nella quale l'oggetto è dato nel primo caso come un percepito e nel secondo come un utilizzabile. Dopo quanto si è detto non è difficile rendersi conto della necessità di distinguere da un simile concetto della coscienza la nozione della consapevolezza. Infatti, l'atto soggettivo esprime sempre una modalità di questa "coscienza": il fatto che questo atto sia consapevole è una qualità nuova, che esso può possedere o non possedere. Anche da questo punto di vista l'uso del termine "coscienza" differisce da quello normale. Naturalmente in più di un caso negli scritti di Husserl il termine di coscienza indica non il puro e semplice atto soggettivo, ma anche l'atto soggettivo consapevole. Tuttavia, è importante rendersi conto della differenza che intercorre tra queste nozioni. Per restare sempre nella interpretazione della nostra formula, il suo senso sta nell'asserzione dell'intenzionalità degli atti soggettivi, ma essa non dice affatto se questi atti siano anche consapevoli o inconsapevoli. Del resto Husserl cerca talvolta di differenziare queste nozioni, quando introduce il termine di "essere-desto" per indicare inequivocabilmente la caratteristica di consapevolezza che può 80 essere inerente agli atti intenzionali. Se consideriamo l'"esserecosciente" come "essere-desto" introduciamo una tematica del tutto nuova, che è molto complessa e ricca di implicazioni e di diramazioni problematiche. Per il momento notiamo soltanto che, quando diciamo che ogni atto soggettivo ha una struttura intenzionale, intendiamo comprendere anche gli atti che io compio "inavvertitamente", "senza rendermene conto", e così via. Naturalmente, dovremo distinguere tra diversi gradi di consapevolezza, ad esempio tra la consapevolezza immediata che accompagna il mio fare attivo, mentre io sono direttamente impegnato nella realizzazione di uno scopo e la consapevolezza che viene invece prodotta nel momento in cui - per restare nel nostro esempio - ritorno nella riflessione sul processo del mio fare dopo che lo scopo stesso è stato realizzato: sino al punto di considerare il pieno "automatismo" di certi atti, che non essendo accompagnati da alcuna consapevolezza non possono essere rievocati nella riflessione. Tuttavia questa ricerca è possibile solo situandosi dal punto di vista della consapevolezza: solo a partire da uno stato pienamente consapevole posso ottenere una descrizione dei diversi gradi della consapevolezza per giungere sino al limite di un operare pienamente inconscio. 5. Anziché tentare fin d'ora di sviluppare alcuni dei temi a cui abbiamo accennato e che del resto dovranno essere ripresi in seguito, cerchiamo di precisare un po' più da vicino i termini del discorso fenomenologico che sembra comincino ora a delinearsi con una certa chiarezza. Vi è anzitutto il fatto che la fenomenologia non si propone come una filosofia o meglio come un sistema filosofico che presupponga determinati principi in base ai quali si debba operare, in modo più o meno deduttivo o argomentativo, un'organizzazione del sapere; e neppure essa si presenta come una "concezione del mondo" che possa offrire precetti di comportamento pratico o morale. Noi otteniamo anzitutto alcune indicazioni preliminari di metodo e nello stesso tempo l'esibizione di un intero campo di ricerche che non possono essere pregiudicate nei loro risultati e per le 81 quali non sussiste, inizialmente, alcun problema di unificazione e di organizzazione: sarà questo un problema che si imporrà, per così dire, da sè, nell'esecuzione e nell'approfondimento dell'indagine. Di qui l'importanza che assumono preliminarmente concetti come atteggiamento naturale, riduzione, intenzionalità, atteggiamento fenomenologico. All'inizio noi non troviamo un'idea dell'uomo, una concezione della storia o qualsiasi altro insieme di idee ricche di contenuti e che possano per questa ragione offrire un primo e immediato orientamento filosofico-ideologico. Si offrono qui soltanto alcune indicazioni che concernono in generale ed in modo relativamente - e necessariamente - indeterminato il concetto della ricerca filosofica in quanto tale. La posizione centrale che la delimitazione del senso dell'atteggiamento fenomenologico occupa all'interno del discorso husserliano è correlativa alla soppressione, che esso presuppone, di una concezione essenzialmente costruttivistica della filosofia. Nel momento in cui la filosofia cessa di voler costruire il mondo a modo suo e di andare alla ricerca dei principi da cui esso potrà essere agevolmente dedotto, passa in primo piano il problema dell'atteggiamento a partire dal quale io posso tentare una esplicitazione effettiva dei significati di ogni genere che io trovo intorno a me. Naturalmente, tutto ciò è ben lontano dall'essere privo di problemi. Che cosa significa descrivere il fenomeno in quanto tale? In che modo questa descrizione può essere esplicativa? Abbiamo detto che di fronte agli oggetti che mi circondano - intendendo questo termine nel senso più ampio possibile - non debbo far altro che descriverli nel modo in cui mi si presentano, così da raggiungere, attraverso la scoperta delle connessioni che intercorrono tra i diversi fenomeni, la conoscenza della loro struttura. Ad esempio, io ricerco nel complesso oggettuale che ho di fronte le connessioni tra i diversi fenomeni visivi, tattili e di altro genere sino ad arrivare a individuare le proprietà fenomenologico-strutturali che fanno di questo complesso una "cosa materiale", quindi - procedendo nell'analisi - un "oggetto d'uso", ed infine "questo fermacarte". Nello stesso modo posso procedere nella ricostruzione della struttura di certi complessi sonori che io assumo dal mio mondo circostante con il significato "opera d'arte musicale": anche qui io posso ricostruire questo significato, stando unicamente ad un'analisi delle manifestazioni sonore, un'analisi che giunga a localizzarle in modo determinato nell'insieme delle manifestazioni sonore da cui 82 sono aggredito ogni giorno, e che arrivi quindi a precisare quell'ordine sonoro interno che mi fa assumere questo complesso sonoro come "opera d'arte". Non c'è dubbio che procedendo in questo modo io compio un'analisi che non va al di là del campo fenomenologico: ma in essa mi muovo sempre con lo sguardo volto all'oggetto, ed anche quando considero fattori soggettivi, questo avviene soltanto in funzione della ricostruzione dell'essenza del complesso fenomenologico. Ciò che qui importa è, per così dire, la discriminazione, nel fascio dei dati fenomenologici, di unità distinte, di strutture oggettuali tipiche: di essenze o eide secondo la terminologia husserliana. L'analisi eidetica ricostruisce così quell'ordine tra gli oggetti che la riduzione fenomenologica aveva, per così dire, temporaneamente sospeso. Tuttavia, sviluppando l'analisi fenomenologica unicamente in questa direzione, si ottengono almeno due conseguenze particolarmente significative. Anzitutto si giunge all'ipostatizzazione delle essenze. L'essenza, intesa come struttura fenomenologica, sostituisce qui la sostanza della filosofia tradizionale. Essa viene posta come esistenza ideale, come una trama che connette e sostiene idealmente i dati fenomenologici. Si ripresenta così l'idea sostanzialistica, questa volta sotto la forma dell'idealismo dell'essenza. In secondo luogo, e di conseguenza, la descrizione fenomenologica perde qualsiasi funzione esplicativa. In questo caso non c'è nulla da spiegare: si tratta soltanto di ripresentare le cose come sono, nella loro struttura ideale. Perciò il complesso fenomenologico "opera d'arte musicale" ritorna al termine della descrizione con questo stesso attributo significativo, e il risultato dell'analisi sarà stato soltanto quello di aver stabilito delle discriminanti strutturali tra questo complesso sonoro e altri complessi sonori, come "rumori" , "suoni casuali", ecc. La struttura "opera d'arte musicale" diventa un'essenza rigida, ideale e immutabile. Perciò è necessario ricomprendere i risultati di un' analisi che tende unicamente alla ricostruzione delle essenze alla luce della considerazione del rapporto intenzionale. Ciò significa che dobbiamo vedere come, alla successione e alla connessione dei dati fenomenologici, "corrisponde" una successione e una connessione di atti intenzionali. Ma si può parlare di "corrispondenza" solo in un senso molto improprio, dal momento che non si vuole soltanto rilevare che a questo o a quel dato visivo o tattile corrisponde questo o 83 quell'atto del vedere o del toccare. Il toccare e il vedere sono atti che pongono in rilievo alcuni aspetti del complesso fenomenologico che ho di fronte e che quindi, in certo senso, separano e unificano nella "materia" fenomenologica, così che alla fine da essa emerge una "forma", quella forma che io comprendo come "questo fermacarte". Più che di "corrispondenza" si tratta dunque di un'operazione strutturante del soggetto sui dati fenomenologici. Se la descrizione fenomenologica cerca realmente di riferirsi alla correlazione intenzionale, essa deve rivolgersi alla polarità oggettuale nel modo del suo configurarsi in una "forma", "struttura" o "essenza" (termini che qui vogliamo considerare come equivalenti) in rapporto agli atti strutturanti del soggetto. Potremmo dire in breve che, nella considerazione intenzionale, l'essenza si presenta come costituita dal soggetto e l'analisi fenomenologica deve ripercorrere la via di questo processo di costituzione. Se si trascura questo aspetto, che per noi è fondamentale, si corre il rischio di elaborare una tipologia astratta delle strutture essenziali priva di elementi che contribuiscano alla loro interpretazione e comprensione. Del resto questo rischio è stato corso fino in fondo da numerose ricerche "fenomenologiche" compiute nei campi più diversi. Sciogliendo il nodo che lega la descrizione del fenomeno alla considerazione del rapporto intenzionale, il "fenomenologo" si limiterà - rispetto al campo che egli indaga - a mettere in evidenza dei tipi costanti che egli peraltro si rifiuta di interpretare, come cosa che non è di sua competenza. Una "fenomenologia della religione" intesa in questo senso, non solo si manterrà "neutrale" di fronte alle posizioni che si esprimono nelle varie forme religiose, ma affiderà ogni compito interpretativo ed esplicativo ad altre "discipline", siano esse la "filosofia della religione", la "teologia", ecc. È evidente che noi saremmo fortemente critici di fronte a questo modo di intendere la ricerca fenomenologica - un modo che d'altra parte spesso si ricollega solo molto indirettamente alla posizione di Husserl. Per noi è infatti impossibile considerare il fenomeno in quanto tale, senza cogliere nello stesso tempo il suo carattere intenzionale. Ciò vale naturalmente anche per l'essenza che si costituisce nella sua idealità attraverso l'esperienza fenomenologica. Solo in questo modo si evita l'ipostatizzazione delle strutture essenziali e la descrizione che ricostruisce il processo fenomenologico nel quale si costituisce il significato - qualunque esso sia - ac- 84 quista per questo stesso fatto, cioè in quanto è appunto una descrizione costitutiva, una portata esplicativa. Si comprende qui, invertendo i termini del nostro discorso, anche che cosa voglia dire spiegazione all'interno di una impostazione fenomenologica. Spiegare una certa unità di significato vuol dire chiarire descrittivamente il processo intenzionale, nel quale essa si è costituita, poiché ogni unità di significato, anche quell'unità che si presenta come un in sè totalmente astratto o puramente ideale, è in ogni caso il punto terminale di un processo: essa si è costituita in una genesi. Alla riduzione dell'essere all'apparire, della "realtà in sè" al fenomeno, corrisponde dunque l'idea che ogni dato e ogni validità presuppone una genesi che la descrizione fenomenologica deve riuscire a ripercorrere e a riportare alla luce. Questo è, oltre che un modo di spiegare l'oggetto, anche di verificarlo nella sua validità. Porre il problema della genesi del significato "opera d'arte musicale" per ricollegarci all'esempio precedente - chiedere in che modo esso si sia formato per noi equivale anche a mettere in questione la sua validità, richiedere la verifica dei suoi fondamenti, i quali non si trovano tutti inclusi nella configurazione di quel complesso sonoro, nell'ordine che esso in se stesso possiede, ma piuttosto nell'intenzionalità (che ha, in questo caso, un carattere storico-intersoggettivo) in cui esso ha preso forma, assumendo quell'ordine e con quell'ordine la validità che ora possiede per noi. Io credo che stabilire, sia pure in termini così generali, il senso esplicativo che la descrizione fenomenologica deve possedere in quanto si presenta come ricostruzione di un processo geneticocostitutivo sia sufficiente a caratterizzare un concetto di fenomenologia, in modo tale da tracciare una precisa linea discriminante sia rispetto a certe comuni interpretazioni della fenomenologia husserliana sia rispetto alle ricerche che, pur definendosi "fenomenologiche", hanno una diversa origine storica. 85 Annotazioni 1. . Si potrà vedere inoltre: Idee, trad. it., Libro I, Sez. II (La considerazione fenomenologica fondamentale), pp. 57-136. - Tuttavia Husserl propone diverse vie per l'introduzione della tematica della riduzione, in particolare, nella Crisi, la riduzione appare come ritorno all'esperienza anteriore ad ogni teoria e ad ogni predicazione e l'esperienza fenomenologica si pone così essenzialmente come esperienza antepredicativa. Nello stesso tempo, questo ritorno viene anche interpretato come tematizzazione dell'atteggiamento naturale. Nella misura in cui il mondo di questo atteggiamento, inteso come vivere intenzionale diretto, viene reso esplicito nel suo carattere di presupposto, viene indicato nella Crisi con il termine di mondo della vita. Alla fine, noi scopriamo come nostro tema più peculiare, quel terreno della credenza da cui abbiamo preso le mosse, non certo come un ritorno al "senso comune" oppure come il limite necessario di fronte al quale si arresta lo scettico, ma come una struttura intenzionale che può essere estremamente complessa e sulla quale noi dobbiamo dirigere la nostra attenzione. Da questo punto di vista la fenomenologia può presentarsi come una scienza di genere del tutto particolare, come una scienza dell'opinione o, per riprendere il termine platonico, della doxa. Ma per quanto qui si apra, indubbiamente, una nuova direzione di discorso, l'idea della doxa o dell'esperienza antepredicativa comprende in sè tutti quegli elementi e quelle indicazioni che abbiamo ottenuto seguendo altre vie. È necessario perciò sottolineare che l'idea del mondo come sfera fenomenologica, il tema della correlazione intenzionale tra cogito e cogitatum e infine il tema della soggettività e dell'esperienza antepredicativa sono in realtà soltanto aspetti di un'identica impostazione di principio o, meglio, elementi di uno sviluppo conseguente e unitario dell'idea che si trova alla base della riduzione fenomenologica.. 2. Nell'impostare la tematica della costituzione, la fenomenologia intende dare una risposta a quell'ambito di problemi che da Kant in poi appaiono sotto il titolo di trascendentale. Nella misura in cui appaiono costituite e non puramente in sè, le formazioni oggettive rimandano a una fondazione "trascendentale", che non è altro se non il processo fenomenologico della loro costituzione. Corrispondentemente si parla anche della soggettività costituente come di una soggettività trascendentale. - Si comprende inoltre che il concetto di trascendentale, fenomenologicamente reinterpretato, contiene in sè il problema della genesi. Possiamo a questo proposito riferirci esemplificativamente alla questione della "logica trascendentale". La logica "trascendentale" non è un'altra logica rispetto a quella formale, ma è il titolo di quel complesso di ricerche fenomenologiche che sono dirette alla ricostruzione della genesi fenomenologica della logica formale (si veda Esperienza e giudizio, trad. it. p. 48). Nella misura in cui ha un senso più esteso, che non comprende solo le formazioni logiche, essa si identifica con la fenomenologia in generale. . Sulla valutazione di Kant da parte di Husserl si vedano soprattutto i testi seguenti: Kant e l'idea della filosofia trascendentale, trad. it. di C. La Rocca, Il Saggiatore, Milano 1990. Sono qui compresi La rivoluzione copernicana di Kant ed il senso di una tale svolta copernicana in generale (1924), pp. 93-118; Kant e l'idea della filosofia trascendentale (testo di una conferenza tenuta a Friburgo il 1 maggio 1924 e rielaborato per essere pubblicato nello "Jahrbuch"), pp. 119186. Nello stesso volume sono pubblicati alcuni manoscritti molto 89 anteriori che discutono la posizione di Kant, pp. 3-92 (scritti del 1903, 1908 e 1915). Per la discussione husserliana su Kant sono infine fondamentali i §§ 28-32 della Crisi, trad. it., pp. 133-150 e l'appendice XV (al § 28), pp. 474-480. Sul problema Husserl-Kant si veda: I. Kern, Husserl und Kant. Eine Untersuchung Ÿber Husserls Verhältnis zu Kant und zum Neukantianismus, L'Aia 1964; T. Seebohm, Die Bedingungen der Möglichkeit der Transzendentalphilosophie, Bonn 1962; P. Ricoeur, Kant et Husserl, in "Kant-studien", 1954-55 (46), pp. 4467; H. Dussort, Husserl juge de Kant, in "Revue philosophique de la France et de l'Etranger", 1959 (84), n. 4, pp. 527-544; . 3. . 91 Note al Capitolo secondo [1] Idee, I, trad. it., p. 64 [2] E. Husserl, Persönliche Aufzeichnungen, in Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie, Husserliana, vol. XXIV, a cura di U. Melle, Nijhoff, Lancaster 1984, p. 445. [3] tranzendentale Phänomenologie Wissenschaft von der transzendentalen Subjektivität und der Konstitution aller Objektivität der Erkenntnis und Werte in ihr, in E. Husserl, Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie, op. cit., p. 425. [4] E. Husserl, Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie, op. cit p. 230. [5] ivi, p. 231. [6] E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie, Fünf Vorlesungen, Husserliana, Vol. II, a cura di W. Biemel, Martinus Nijhoff, Den Haag 1950 (tr. it. di A. Vasa, a cura di M. Marino, L'idea della fenomenologia, Il Saggiatore, Milano 1981]. [7] E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie, op. cit., p. 9 - tr. it. cit. p. 49. In un altro passo Husserl chiarisce con più forza: "La riduzione fenomenologica non significa limitazione della ricerca all'immanenza reale, o alla sfera di ciò che è realmente incluso nell'assoluto questo della cogitatio; essa non significa affatto limitazione alla sfera della cogitatio, ma limitazione alla sfera delle pure datità dirette" (Ivi, p. 60; tr. it., p. 92). [8] E. Husserl, Ding und Raum. Vorlesungen 1907, Husserliana, vol. XVI, a cura di U. Claesges, M. Nijhoff, Den Haag 1973. [9]"Der transzendente Gegenstand, konstituiert durch Apperzeption, - was ist das? Die 'Konstitution' - darunter können wir verstehen den genetischen Prozess, in dem stufenweise die Apperzeptionen und, genauer besehen, ein unendliches apperzeptives System als Habitus wird" (Ms. D 13 IV/73a). [10] Lettera a A. Metzger (4. IX. 1919), Philosophisches Jahrbuch der Görres-Gesellschaft, 1953 (62), p. 198. 92 93 III. Il tema della soggettività 1. Impostazione del problema del soggetto 2. Il soggetto come centro dei suoi atti 3. Il soggetto come facoltà di riflessione e il presentarsi del problema del tempo 94 95 1. Nei capitoli precedenti abbiamo cercato essenzialmente di chiarire alcune delle nozioni che definiscono l'atteggiamento nel quale ci si dispone per effettuare una ricerca fenomenologica. Ciò non significa che ci siamo mossi su un terreno puramente metodologico, come se il nostro discorso non imponesse fin dall'inizio prese di posizione che non andassero oltre il chiarimento di una metodologia astratta - una metodologia seguendo la quale si dovrebbero ottenere, con assoluta sicurezza, risultati rigorosamente scientifici. È vero piuttosto che la determinazione dei concetti di fenomeno, di rapporto intenzionale, di riduzione e di costituzione è stata ottenuta soltanto in modo molto generale. Approfondire questi concetti, che hanno già una loro portata propriamente filosofica, non significa passare dal piano del metodo a quello dell'analisi filosofica, ma piuttosto ottenere indicazioni nuove rivolgendo la nostra attenzione in modo più determinato su alcuni dei temi che la nostra discussione preliminare ha portato alla luce. Fra questi temi assume particolare importanza il problema della soggettività. Abbiamo visto che nel distinguere il dubbio scettico dalla riduzione fenomenologica, abbiamo dovuto nello stesso tempo distinguere, in linea di principio, il riferimento soggettivo del fenomeno dalla sua interpretazione soggettivistica; e abbiamo poi ritrovato il problema della soggettività discutendo i caratteri del rapporto intenzionale. Infine, è evidentemente essenziale, per il senso che può assumere il processo costitutivo che la descrizione fenomenologica deve ricostruire, accertare quali siano i caratteri della polarità soggettiva del rapporto intenzionale dal momento che - da questo punto di vista - essa si presenta come soggettività propriamente costituente. Perciò il fatto di riprendere il nostro discorso da questo punto non è casuale: tutte le questioni di fondo e di principio che sono state finora sollevate debbono ricevere ulteriori chiarimenti dal tentativo di precisare il senso in cui parliamo di "soggetto" o di "soggettività". La domanda a cui ora cerchiamo una risposta sarà dunque semplicemente: che cosa è il soggetto da un punto di vista fenomenologico? È caratteristico dell'intero nostro stile di ricerca che questa domanda ponga soltanto un compito descrittivo: per rispondere ad essa non dovremo far altro che assume- 96 re il soggetto stesso come nostro tema di indagine. Si tratta peraltro, come ognuno ben sa, di un tema un po' particolare, dal momento che esso non si trova fuori di me o di fronte a me. Il tema di questa ricerca sono anzitutto io stesso e la nostra domanda iniziale deve perciò essere convertita dalla terza alla prima persona. Nella tradizione idealistica si è molto insistito su questa particolare coincidenza tra l'oggetto di questa ricerca e il soggetto che la compie. Di qui deriva tutta una complessa problematica concernente la possibilità di eseguire un simile compito e, nella sua esecuzione, l'esasperazione di certi aspetti peculiari che in essa emergono. Ciò che rende fin dall'inizio sospetto un discorso sul soggetto è quel non so che di miracolistico con il quale si suole spesso circondare questo tema. (È strano, sia detto per inciso, che fra i filosofi vi siano taluni che non ne vogliono sapere di essere dei soggetti e altri che, non appena si accorgono di esserlo, prorompono in clamori trionfali, del tutto sproporzionati alla realtà della cosa.) Di fronte a tutto ciò, occorre sbarazzare il terreno da ogni illazione artificiosa, e senza lasciarsi affascinare dai giochi di linguaggio, affermare la totale possibilità di sottoporre il soggetto stesso - come qualsiasi altro oggetto - a una ricerca descrittiva: rilevare in questo un paradosso - osserva Husserl - significa presupporre un concetto troppo ristretto di oggetto, limitandolo unicamente alla designazione degli enti che stanno di fronte all'io, delle cose, degli oggetti reali, nel mondo. I problemi che vengono sollevati in questa ricerca sono molti, ma non hanno in sè nulla di sublime, e per di più si pongono soltanto nel corso dell'esplicitazione di questo tema che è, in effetti, estremamente complesso. L'inizio, invece, è molto semplice. Si tratta di rivolgere lo sguardo su me stesso e tentare una descrizione di ciò che io sono in quanto sono un soggetto. Quest'ultima precisazione va sottolineata perché indica la necessità di operare una prima distinzione del senso in cui parliamo del soggetto. Si chiede infatti che cosa sono io stesso, ma con una limitazione: non si tratta di me stesso, in quanto sono questa persona, con tutti i dati che mi costituiscono per quello che propriamente sono, come soggetto personale che ha questi o questi altri caratteri, che agisce fra gli altri in un mondo umano, che ha una sua storia inscindibile dalla storia degli altri uomini che vivono con lui o che lo hanno preceduto nel tempo. Nella legittima conversione della nostra domanda dalla terza alla prima persona può inserirsi questo equivoco: che l'oggetto da descrivere sia io stesso in quanto 97 uomo determinato nella mia determinatezza. Se così fosse la mia descrizione dovrebbe rendere progressivamente espliciti tutti gli attributi personali che mi caratterizzano. In realtà, il senso della domanda "che cosa sono io stesso?" è sempre dato dalla richiesta di definire descrittivamente che cosa è il soggetto. Potremmo perciò riformularla mettendo chiaramente in evidenza la limitazione che essa contiene: "Che cosa sono io stesso in quanto sono soltanto un soggetto?". Si tratta di una limitazione del tutto chiara che rende ragione a sufficienza di una differenza che può essere a questo punto senz'altro introdotta: la distinzione tra il concetto di io puro ed il concetto di io personale. Puro significa qui: soltanto. Il soggetto che considero in primo luogo è soltanto un soggetto e niente altro: l'io è puramente un io. Perciò la distinzione tra soggetto personale e soggetto puro si impone a prima vista come legittima, purché la si intenda come distinzione concettuale e tematica. La descrizione che io compio prescinde dal mio essere di fatto questo io personale determinato, e quindi non è diretta all'esplicitazione di contenuti specifici, della mia storia di uomo fra gli uomini. Ogni mio attributo deve essere qui considerato come un attributo puramente possibile, che può essere liberamente sostituito da qualsiasi altro. Il soggetto di cui parlo è un soggetto vuoto di contenuti rispetto al quale io stesso, come io personale concreto, non sono che un contenuto possibile. Perciò esso è un soggetto indeterminato, senza un nome, un soggetto che, in senso comune, non esiste, dal momento che è il prodotto di un atto puramente immaginativo. Si tratta dunque di un soggetto che può essere definito eidetico, e cioè non propriamente del soggetto ma dell'essere del soggetto in quanto tale: della soggettività come generalità eidetica. È interessante notare che per pervenire a questo eidos, io prescindo anzitutto dal mio essere corporeo, prescindo cioè da qualsiasi idea che richieda la costituzione anteriore del significato "corporeità materiale" attenendomi unicamente al soggetto come centro di atti intenzionali puramente possibili, come centro di un flusso di esperienze vissute (Erlebnisse). Ciò significa che, per porre il problema del soggetto come tale, non ho bisogno di definire anzitutto il significato della materialità del mio corpo, in rapporto alla materialità di ogni altra cosa "naturale". Indubbiamente il "corpo proprio materiale e la psiche vanno per noi necessariamente congiunti nell'idea di un uomo reale. Ma questa necessità è soltanto di ordine empirico. In sè sarebbe pensabile il caso di 98 un essere psichico reale per quanto privo di un corpo proprio materiale, di una cosa materiale normale come supporto delle determinatezze psichiche" [1]. Pertanto anche la corporeità va considerata come una mera apparenza, prescindendo dalla materialità eventuale del "corpo proprio" del soggetto: "In questo caso noi troviamo noi stessi come un io spirituale in riferimento al flusso delle esperienze vissute - ove il termine spirituale significa semplicemente e in generale che l'io non ha la sua sede nella somaticità; per es. io 'penso' (cogito), cioè: percepisco, immagino in un certo modo, giudico, sento, voglio, e facendo tutto questo, mi trovo un io uno e medesimo pur nella vicenda di queste esperienze vissute, mi trovo come il 'soggetto' degli atti e degli stati" [2]. Così, anche in Cartesio, la riduzione della corporeità non toglieva la vita intenzionale del soggetto, con tutti i suoi atti. L'operare questa astrazione dalla corporeità rientra nell'ambito delle mie possibilità attuali; io sono libero di prescindere dalla mia determinatezza e di concentrare tutta la mia attenzione su questa forma non pregiudicata nei suoi contenuti. Ma non appena dimentico questa operazione astrattiva che io, nella pienezza dei miei attributi personali, compio su questa stessa pienezza, il soggetto di cui parlo si trasforma immediatamente in un soggetto mitologico. Finche sono cosciente del senso di questa mia argomentazione, il soggetto appare come una struttura che non esiste mai come tale, ma che io posso considerare puramente come tale. Nel momento in cui questa consapevolezza viene meno, questa forma soggettiva si trasforma in un ente reale, in un misterioso e mitico soggetto assoluto: ed è questo il nodo che l'impostazione idealistica del problema del soggetto non è riuscita a sciogliere. La realtà effettiva da cui l'idealista prende le mosse per operare le sue astrazioni viene alla fine inghiottita dalle astrazioni stesse. La stessa cosa accade quando, da un insieme concreto e determinato di cose, astraggo l'idea di numero, considerando ogni cosa dell'insieme non nella sua determinatezza e necessità, ma come puramente possibile e sostituibile con qualsiasi altra. Non appena questo processo non è più oggetto di attenzione, si pone il falso problema di un mondo di numeri come una realtà separata e in sè. Inversamente, ritenere illegittima questa operazione astrattiva che conduce alla forma soggettiva dovrebbe implicare anche la negazione di un atto che conduca all'evidenziazione di un eidos qualsiasi, quindi anche, ad esempio, degli atti di astrazione che conducono all'eidos numerico. Il frainten- 99 dimento idealistico della problematica eidetica porta necessariamente ad un oscuramento della razionalità delle nozioni che in essa emergono: e si giunge così, nelle forme. più estreme di questo fraintendimento, nel primo caso alla mistica del soggetto, nell'altro alla mistica dei numeri. 2. L'idea di considerare il soggetto puramente in quanto tale va tuttavia precisata meglio. Abbiamo detto che questo soggetto esprime soltanto una struttura vuota rispetto alla quale io stesso, in quanto sono questo uomo determinato, sono soltanto un contenuto possibile. Ciò non significa che io posso considerare il soggetto stesso indipendentemente dagli atti soggettivi, ma solo che questi atti sono essi stessi indeterminati: ognuno di essi è un atto qualsiasi. In realtà per chiarire il senso della forma soggettiva dobbiamo considerare proprio il rapporto che intercorre tra il soggetto ed i suoi atti (o, in generale, esperienze vissute). "Da questo suo caratteristico intrecciarsi con tutte le sue esperienze vissute l'io che li vive non è qualcosa che possa diventare, preso in se stesso, oggetto di una particolare ricerca" [3]. Infatti, questo io puro è qualcosa solo nella misura in cui esso rappresenta il punto verso cui convergono tutti i suoi atti. In rapporto ad essi, il soggetto è unico, "indiviso e numericamente identico", ma lo è soltanto nella molteplicità degli atti nei quali esso si dirige verso i suoi oggetti: "In termini più precisi: l'io puro è in riferimento con gli oggetti in modi molto diversi, a seconda del genere dell'atto che compie. In un certo senso, rivolgendosi verso uno stesso oggetto, esso è sempre libero; d'altra parte l'immagine del 'rivolgersi verso' l'apparizione è utilizzabile soltanto in parte. In un certo senso, molto generale, l'io si rivolge sempre verso l'oggetto, ma in un senso particolare, dall'io puro procedono raggi egologici che tendono verso l'oggetto, e nello stesso tempo dall'oggetto emanano raggi in direzione contraria. Così, quando desidero qualcosa, mi sento attratto dall'oggetto desiderato; sono rivolto verso di esso, ma in modo tale da tendere verso di esso, senza pertanto raggiungerlo nel mero desiderio. Nell'amore mi sento spinto verso chi amo, mi sento attratto, eventualmente mi sento completamente dedito, mi risolvo completamente in lui. Nell'odio invece io sono sì diretto 100 verso chi odio, ma nello stesso tempo ne sono respinto. Perciò, cedendo ora all'attrazione ora alla ripugnanza, oppure resistendo loro, mi comporto, riguardo agli atti, ora in modo 'movimentato', ora in modo tranquillo; ora sono qualcuno che 'si' muove attivamente, ora sono qualcuno che non si muove affatto. Così, per es., io 'sprofondo' in un lutto passivo, in un dolore rigido, immoto, in una pura passività. Oppure mi sento riempito da un dolore appassionato, da un 'moto dell'animo' e tuttavia sono passivo; oppure mi muovo attivamente dominando il dolore, ecc. Nell'azione invece io sono praticamente presso la cosa; quando decido l'azione, quando pronuncio il 'fiat', sono colui che prende un'iniziativa pratica; l'azione, che da ciò procede, si costituisce come un'azione che avviene nel 'senso della mia volontà, e che avviene per virtù mia, in quanto sono un soggetto di libera volizione; in tutti questi casi io sono sempre colui che cerca di raggiungere il perseguito, che cerca di conseguirlo per una decisione volontaria. Ciascuna fase del conseguimento stesso è tale per cui in essa il soggetto, il puro soggetto della volontà 'raggiunge' il voluto come tale. L'io puro non vive soltanto in singoli atti, in quanto li compie, in quanto è attivo, in quanto patisce; libero e tuttavia obiettivamente attratto, esso procede di atto in atto, subisce l'attrazione degli oggetti che sono costituiti sullo 'sfondo'; senza ubbidire loro immediatamente, si lascia stimolare da essi, lascia che essi battano alle porte della coscienza, cede loro ed eventualmente cede 'senz'altro', passando da un oggetto all'altro. Facendo questo, nella vicenda dei suoi atti, compie particolari cambiamenti e si costruisce liberamente queste o quelle unità plurigraduali di atti. Così, in quanto soggetto teoretico, agisce nell'ambito di un contesto tematico, stabilisce relazioni, connessioni, pone un soggetto e un predicato, adotta dei presupposti, trae delle conseguenze; mantiene il proprio tema nell'ambito dell'unità di un interesse teoretico, si lascia distrarre, poi riprende il filo tematico, ecc. Così, studiando gli atti multiformi attraverso i quali l'io puro vive, troviamo di fatto strutture di tutti i generi, che vanno descritte per ogni settore di atti, strutture che concernono i modi peculiari della partecipazione soggettiva e del modo della correlativa partecipazione obiettiva; e, da quest'ultimo punto di vista, i modi in cui l'oggetto viene incontro al soggetto puro che è in riferimento con esso, attraendolo o respingendolo, favorendolo o impedendolo, stimolandolo o comunque 'determinandolo' in un modo o nell'altro" [4]. 101 Tutti questi modi nei quali il soggetto vive nei suoi atti possono essere resi oggetti di ricerche esplicite e approfondite. Ma ciò che qui ci interessa notare è che, comunque il soggetto viva in essi, esso costituisce sempre il centro rispetto al quale gli atti stessi trovano la loro unificazione. La metafora dell'irraggiamento illustra proprio questo aspetto. Il soggetto è l'origine dei suoi atti, e in virtù di questo riferimento all'origine un complesso di atti soggettivi deve essere considerato come una unità nella quale ogni atto è funzione dello stesso soggetto. Potremmo anche parlare del soggetto come di un io-polo, che ha ora tuttavia un senso diverso da quello della polarità soggettiva di cui abbiamo discorso a proposito della relazione intenzionale in generale. Qui infatti non intendiamo richiamarci unicamente a un senso non ancora precisato della soggettività come polarità contrapposta a un campo di oggetti fenomenologici. L'iopolo è il punto da cui irraggiano e a cui ritornano gli atti intenzionali diretti al campo degli oggetti, il centro verso cui convergono gli "stimoli" che provengono dall'oggetto e che il soggetto riceve passivamente oppure ai quali esso reagisce. "L'io è il soggetto identico della funzione di tutti gli atti di uno stesso flusso di coscienza, è il centro di irradiazione, oppure il centro. di convergenza di tutti i raggi della vita della coscienza, di tutte le affezioni ed azioni, di ogni rendersi conto, di qualsiasi afferramento, di qualsiasi relazione, di qualsiasi connessione, di qualsiasi presa di posizione teoretica, valutativa, pratica, di qualsiasi gioia e di qualsiasi turbamento, di qualsiasi speranza e di qualsiasi timore, di qualsiasi azione e di qualsiasi patimento, ecc. In altre parole: tutte le multiformi particolarizzazioni del riferimento intenzionale con gli oggetti, particolarizzazioni che si dicono atti, hanno necessariamente il loro terminus a quo, il punto-io da cui irradiano. Spesso, se non sempre, l'irradiazione è anzi duplice: in avanti e in dietro: da un lato, un'irradiazione che procede dal centro, attraverso gli atti, verso gli oggetti, dall'altro, in senso opposto, raggi che dagli oggetti tendono verso il centro. Tutto ciò con caratteristiche in senso fenomenologico multiformemente mutevoli. Così, nell'esperienza teoreticamente interessata può avvenire un intervento sugli oggetti: ci si appropria degli oggetti, si penetra in essi, ma nello stesso tempo si è costantemente stimolati, attratti, interessati, determinati dall'oggetto. La coincidenza di tutti gli atti nel centro-io numericamente identico sta dalla parte noetica" [5]. 102 3. In questa prima esplorazione del senso del soggetto, che ognuno può eseguire e che non contiene alcuna interpretazione riconducibile ai principi di una filosofia, ci rendiamo conto che la questione essenziale è quella della unitarietà degli atti della coscienza: proprio per il fatto che questi atti sono riferiti allo stesso soggetto, essi si presentano unificati tra loro, formano un complesso unitario. E correlativamente la nostra attenzione è richiamata sul soggetto come polo identico di riferimento dei suoi atti. Potremo compiere qualche passo avanti in questa direzione, se cerchiamo di vedere quale sia il senso di questa identità. Nella molteplicità degli atti di coscienza, il "soggetto" - ciò a cui questi atti sono riferiti - resta identico. Poiché questa identità esprime il rapporto che il soggetto ha con se stesso, dobbiamo considerare anzitutto la natura di questo rapporto. Si badi che ciò non contraddice l'assunto che abbiamo in precedenza enunciato, secondo il quale il soggetto "puro" è sempre necessariamente intrecciato con i suoi atti. Infatti considerando il rapporto del soggetto con se stesso non facciamo altro che soffermare la nostra attenzione sull'atto semplice del rivolgersi a se stesso dell'io, un atto che rappresenta in certo senso la caratteristica comune di ogni atto soggettivo determinato. Ogni atto soggettivo, abbiamo detto, è riferito al soggetto come al suo centro; e viceversa il soggetto è sempre nei suoi atti. Se dunque io considero l'atto della riflessione, nel quale il soggetto è puramente rivolto a se stesso, io non faccio altro che considerare da un punto di vista più generale questo duplice rapporto tra il soggetto e i suoi atti. La riflessione intesa in questo senso è qui riferita esplicitamente al soggetto e la vita del soggetto viene qui considerata puramente come vita nella riflessione. Riteniamo opportuno reimpostare il nostro problema in questi termini proprio per il fatto che vogliamo rendere esplicito il senso dell'identità del soggetto come polo permanente dei suoi atti e questa ricerca è chiaramente impossibile se continuiamo a restare nella considerazione della molteplicità degli atti, tanto più che anche in precedenza, così come non avevamo mai considerato il soggetto in quanto concretamente determinato, non avevamo mai neppure assunto questa molteplicità in una possibile determinatezza. Se si vuole, tutto ciò può essere interpretato come una ulteriore operazione astrattiva 103 nella quale io considero unicamente l'atto della riflessione inteso come atto del rivolgersi a se stesso del soggetto. Ritorniamo così al nostro problema iniziale, al fatto cioè che la risposta alla domanda sul soggetto richiede che io stesso diventi tema di me stesso. Soltanto che ora questo rapporto viene riproposto sul piano della riflessione pura e dopo aver attirato l'attenzione sul problema dell'identità. Un primo elemento molto semplice che possiamo notare è che vi è una differenza di principio tra il soggetto che riflette e il soggetto che è tema della sua riflessione. Il soggetto che ora riflette è extra-tematico, mentre il soggetto che è ora tema della mia riflessione è il soggetto che era riflettente poco fa. Il soggetto riflettente può essere definito fungente ed è chiaro che esso resta tale, e quindi fuori dal campo dell'attenzione, solo fino a quando si mantiene attuale nella riflessione. Il soggetto su cui rifletto non è più attuale, proprio in quanto non è più fungente, ma tema della mia riflessione. Questa differenza è unicamente temporale, e infatti nella riflessione io mi identifico, in quanto sono ora riflettente, con il soggetto che era riflettente e fungente poco fa e che ora non lo è più - che ora è tematico. Io scopro dunque l'identità tra il soggetto fungente e il soggetto tematizzato come identificazione temporale. L'idea del fungere che abbiamo or ora introdotto merita forse qualche chiarimento. Quando sono impegnato in un'attività qualsiasi, nel raggiungimento di un fine determinato, il mio "sguardo" è, per così dire, fuori di me. La mia attenzione è tutta assorbita dall'oggetto di cui ora mi occupo. E nel momento in cui sono intento nel compimento di certi atti per raggiungere un certo fine, io stesso sono "fuori campo". Ma certamente io posso arrestarmi, posso sospendere questa mia attività e, appunto, riflettere su di essa - posso cioè renderla tematica. Questa tematizzazione è a sua volta un'attività che, nel momento in cui viene compiuta, resta essa stessa fuori campo. Sotto il raggio della mia attenzione sono io stesso che poco fa ho compiuto quegli atti determinati nel tentativo di conseguire un certo scopo. La cosa naturalmente non muta se riferiamo questo discorso al soggetto che riflette su se stesso. Il soggetto attuale è sempre extratematico, mentre il "se stesso" su cui esso riflette, è il soggetto che era poco fa attuale, che era poco fa riflettente. Il fatto che in ogni caso vi sia un'anteriorità di principio dell'attualità, non vuol dire che il fungere stesso non sia tematizzabile. Se così 104 fosse un compito di descrizione intenzionale non avrebbe senso. Infatti è possibile rifare l'intero discorso sulla "riduzione" proprio da questo punto di vista. L'intenzionalità fungente in tutte le sue modalità è il rapporto intenzionale stesso non ancora tematizzato: per cogliere tematicamente, cioè per rendere oggetto della mia descrizione, questa attività diretta nell'esecuzione di uno scopo, io debbo "sospenderla" ed attuare corrispondentemente un rivolgimento dello sguardo dall'oggetto nel quale termina il mio fare al soggetto da cui il mio fare ha inizio. Il rapporto intenzionale non è una invenzione del fenomenologo: questi si limita a scoprirlo, a portarlo alla luce e a descriverlo nella sua struttura. Dobbiamo perciò sottrarci alla vita fungente immediata, "sospendere" i nostri interessi immediati, assumere un atteggiamento e un interesse nuovo nel quale quella vita fungente diventa descrivibile. Per questo potremmo dire, in termini ancora più semplici, che la "riduzione" non è altro che un'operazione tematizzante e se questa operazione ci appare di volta in volta con caratteri diversi, ciò dipende dal fatto che ogni oggetto ha un suo modo specifico di essere raggiunto dalla nostra attenzione, di essere portato alla luce da un fondo indistinto, di essere separato dal contesto a cui appartiene per essere considerato per ciò che esso è in se stesso. Naturalmente non intendiamo qui riprendere l'idea del fungere da questo punto di vista, che del resto è già stato ampiamente discusso. Noi consideriamo ora soltanto il fungere riflessivo del soggetto nella autotematizzazione. Si tratta di una delimitazione che fin dall'inizio abbiamo chiaramente fissata, e perciò non deve sorprendere che l'identità soggettiva costituita riflessivamente comporti nello stesso tempo un concetto del soggetto come pura riflessione. Nella misura in cui mi dispongo sul terreno dell'io puro, non c'è dubbio che sussista una connessione tra soggettività e riflessione secondo la quale il soggetto si costituisce riflessivamente come una identità puramente riflessiva: "L'io è caratterizzato in primo luogo dal fatto che esso può tornare su se stesso, sempre di nuovo e a un grado sempre più alto, esso può cioè esercitare la riflessione e può sempre rendere la propria riflessione tema di un'altra riflessione. L'io è anzitutto facoltà di riflessione" [6]. Di qui anche il fatto che il soggetto deve essere concepito, se non come un essere in permanenza nella riflessione, come riflessione possibile o riflessione all'inizio [7]. Un altro aspetto di particolare importanza che emerge da que- 105 ste considerazioni è il fatto che, nello stesso momento in cui consideriamo la costituzione puramente riflessiva del soggetto, abbiamo immediatamente a che fare con il problema del tempo. Uno dei risultati che raggiungiamo proprio in forza del nostro modo di procedere è quello di mettere in luce che l'identità dell'io-polo non è già data come una identità permanente, ma come una identità che si mantiene identica in un processo di identificazione, anche se questo processo è cosa che riguarda la riflessione pura. Questo risultato ha per noi un particolare rilievo proprio per il fatto che esso non è immediatamente evidente. Non è per nulla evidente che nel concetto del soggetto sia già contenuta una connotazione temporale. Soltanto nella costituzione fenomenologica di questo concetto appare chiaro che l'identità che lo caratterizza è costituita riflessivamente, ed è perciò necessariamente temporale. Abbiamo dovuto così, partendo dal soggetto concreto che io sono, operare tutta una serie di astrazioni. Anzitutto abbiamo fatto astrazione dalla corporeità, limitandoci a considerare il soggetto stesso nella molteplicità dei suoi atti. Poi abbiamo, per così dire, ridotto questa molteplicità all'attività puramente riflessiva. Al di là di ciò non è possibile andare senza perdere il soggetto stesso. Perché io possa parlare di soggetto, debbo considerare questo soggetto almeno come attività riflessiva. Ma non è questa la sola determinazione del soggetto formale: in essa è contenuto per essenza un carattere temporale. Eppure, tutto ciò rappresenta per noi soltanto un indizio. Quale è il senso di questa connessione essenziale tra il soggetto e il tempo? Il soggetto è temporale in quanto vive nel tempo? Ma prima ancora: che cosa il tempo? 106 Annotazioni 1. La questione della soggettività è uno dei nodi più complessi della filosofia husserliana e non deve perciò sorprendere che le interpretazioni di questo aspetto siano numerose e spesso discordi. Husserl stesso si serve di nomi diversi per indicare i vari concetti possibili del soggetto e d'altra parte si può dire che non esista, in Husserl, una trattazione sistematica di questo tema. Senza diffonderci in un'analisi che renda conto fino in fondo di questa molteplicità di significati - un'analisi che dovrebbe avere un carattere prevalentemente esegetico - ciò che vorremmo sottolineare è che il soggetto fenomenologicamente considerato non può condurre ad una "costruzione filosofica o mitologica". "Ciò è tanto più necessario in quanto lo stesso Husserl, in molti manoscritti inediti, che prima o dopo verranno alla luce,... sembra cadere egli stesso nella costruzione intellettualistica e categoriale" (E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell'uomo, op. cit., p. 140). Anche per questo motivo, come si vedrà meglio in seguito, noi distinguiamo, tra i diversi sensi del soggetto inteso fenomenologicamente, tre significati che ci sembrano fondamentali: il soggetto riflessivo, il soggetto percettivo ed il soggetto personale. L'idea della monade, introdotta in particolare nella Quarta meditazione cartesiana (alla quale si rimanda anche per i temi trattati in questo capitolo), contiene in sè tutte queste possibili determinazioni e indica già come la problematica della soggettività sia per principio orientata verso la posizione di una pluralità di soggetti. 2. . 109 Note al Capitolo terzo [1] Idee, II, trad. it., p. 491. [2] ivi, p. 494. [3] ivi, p. 179 [4] ivi, pp. 495-496. [5] ivi, p. 502. [6] G. Brand, Mondo, io e tempo negli inediti di Husserl, trad. it. a cura di E. Filippini, Milano 1960, p. 128. [7] ivi, p. 143. [8] E. Husserl, Ricerche logiche, Volume II, trad. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, p.150. [9] ivi, p.151. [10] ivi, p. 368 tr. it., p. 154. 110 111 IV. L'esperienza del tempo 1. L'idea naturale del tempo 2. La teoria di Brentano 3. L'analisi dell'oggetto temporale 4. Soggetto, riflessione, tempo 112 113 1. "Naturalmente, cosa sia il tempo, lo sappiamo tutti: è la cosa più notoria di questo mondo" [1]. Ma non appena tentiamo di rendere esplicito quel che sappiamo del tempo, le nostre idee si presentano oscure, piene di difficoltà. Come nel caso dello spazio, noi pensiamo al tempo come qualcosa di obiettivo, ma mentre per lo spazio possiamo anche avere un immagine abbastanza definita, non così accade per il tempo. Lo spazio, possiamo dire - lo spazio obiettivo non è altro che ciò che comprende in sè ogni cosa estesa, il luogo di tutti i luoghi. Ma in che modo può essere resa esplicita l'idea che noi abbiamo del tempo? E ancora, l'idea dell'obiettività del tempo? Possiamo pensare che le cose, accanto alla dimensione spaziale, posseggano anche una dimensione temporale, e come la loro dimensione spaziale si realizza nel loro essere nello 'spazio' così la loro dimensione temporale si realizzerà nel loro essere nel tempo. In questo modo, servendoci dell'analogia dello spazio, possiamo immaginare il tempo come una unità obiettiva che contiene ogni durata. Nella riflessione ingenua, è l'idea dello spazio che ci offre un'immagine del tempo. Alla successione spaziale tra questa cosa che precede quest'altra, corrisponde la successione temporale tra questo e quest'altro evento. E se le distanze spaziali sono misurabili, lo saranno anche quelle temporali, naturalmente in entrambi i casi mediante la scelta di un opportuno strumento di misurazione. Il tempo appare qui come un succedersi di punti temporali, di atomi di tempo che si dispongono secondo una linea che dal passato attraversa il presente e "punta" sul futuro. Questo è l'insieme di idee che emergono spontaneamente nel momento in cui siamo, per così dire, costretti a riferire ciò che sappiamo del tempo, a rendere esplicita l'idea naturale del tempo. Ora, è evidente che questo insieme di idee, per quanto poco possano essere elaborate, rappresenta già una teoria, un'interpretazione. Il nostro problema sarà quello di controllarla a partire dalla sua base puramente fenomenologica. Perciò "mettiamo tra parentesi" questa teoria così come ogni altra, anche quando non si presenta come semplice esplicitazione di un'idea "naturale", ma come risultato di una complessa elaborazione scientifica. Val la pena qui di sottolineare che non bisogna interpretare ingenuamente la neutralizzazione delle "scienze dell'atteggiamento 114 naturale" di cui parla Husserl. Proprio in quanto le scienze sono esse stesse nella storicità di un continuo autosuperamento, il discorso scientifico è ben lontano da non rivolgersi ai propri presupposti e quindi dal non rimettere costantemente in questione i propri fondamenti. Ciò significa che, per la scienza stessa, nel suo operare vivente, non è normativo il patrimonio di conoscenze acquisite nel passato. Esso rappresenta la sua premessa di fatto: ma le conoscenze e le nozioni elaborate nel passato vengono riprese e verificate nel presente, nella ricerca delle basi sulle quali esse si sono costituite e sono state tramandate come un saldo patrimonio di sapere. Ma per la stessa ragione, per la ricerca filosofica, nel momento in cui riconosce il proprio compito essenziale e il proprio campo di indagine nella costituzione delle formazioni oggettive, non può essere normativo il patrimonio scientifico positivo. O ancora più in generale: nell'idea di filosofia che la fenomenologia propone non è implicita soltanto la critica di una concezione costruttivistica della filosofia, ma anche di una concezione della filosofia che propone le proprie illazioni teoriche sulla base delle nozioni emerse nel corso dello sviluppo scientifico. In rapporto al nostro problema, tutto ciò significa che il fine perseguito da un'analisi fenomenologica dell'esperienza del tempo non è né quello di elaborare una "filosofia" del tempo e tanto meno quello di inventare una concezione del tempo da contrapporre a quella scientifico-positiva: essa tenta soltanto di riportare descrittivamente alla luce le basi di esperienza a partire dalle quali una teoria del tempo diventa possibile. È evidente peraltro che un confronto diretto con le teorie del tempo elaborate dalle scienze richiede a sua volta ricerche costitutive specifiche, dal momento che non basta riportarle alla pura e semplice matrice dell'"ingenuità", come se esse rappresentassero uno sviluppo semplice dell'idea naturale. È questo un ambito di problemi che noi non prenderemo in considerazione - è opportuno precisarlo per evitare gli equivoci che possono nascere su questo terreno. 2. Dovendo procedere a una ricerca sull'esperienza del tempo, porremo anche qui il nostro interrogativo sul tempo così come ci appare, sul 115 fenomeno "tempo". Ma fin dall'inizio ci imbattiamo in una difficoltà: non vi è alcuna esperienza nella quale il tempo ci sia dato come tale. Se, ad esempio, considero questa cosa materiale che ho di fronte, prescindendo da qualsiasi teorizzazione relativa al suo senso di "cosa" o al senso della sua "materialità", vi è tuttavia ancora un presentarsi della cosa stessa: la cosa stessa è ora un complesso di dati fenomenologici. Nel caso del tempo, invece, esso si presenta anzitutto come una durata delle cose o degli eventi, come una loro qualità. Perciò la nostra attenzione deve rivolgersi al fenomeno dell'oggetto che dura, all'analisi dell'esperienza dell'oggetto temporale, secondo l'espressione che Husserl usa nelle sue Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo del 1904-1905. L'interesse per questa problematica risale molto indietro negli anni, almeno sino al 1886, quando Husserl aveva potuto seguire un corso universitario sul problema del tempo tenuto da Franz Brentano[2]. Ed alla teoria brentaniana, così come era stata presentata in quegli anni, Husserl si riferisce nelle proprie lezioni del 1904 sia in senso positivo - come la più notevole e matura elaborazione data in quegli anni sull'esperienza del tempo - sia in senso critico, dal momento che è dalla discussione della teoria di Brentano che prende forma l'analisi husserliana del tempo. In seguito si è molto discusso, soprattutto da parte degli allievi di Brentano, sulla legittimità di questa critica, e spesso anche in tono vivacemente polemico. In quegli anni, infatti, Brentano aveva già dato una nuova elaborazione della sua teoria - un fatto che, ignoto a Husserl nel 1904, doveva essergli noto più tardi e in particolare nel 1928, quando le lezioni husserliane furono pubblicate da Heidegger nello "Jahrbuch". La teoria brentaniana criticata da Husserl nel 1904 si impernia sul concetto di associazione originaria e rappresenta un tentativo di illustrare in che modo si forma per la coscienza il senso della durata dell'oggetto. Questo problema può essere proposto anche in questi termini: in che modo, nella percezione dell'oggetto, io ho anche la sensazione del suo durare, del suo permanere nel tempo? In certo senso, dunque, nel complesso di caratteri che definiscono l'oggetto percepito, io voglio cercare di cogliere essenzialmente il suo carattere temporale, e quindi l'oggetto percepito mi interessa unicamente come oggetto temporale. Secondo Brentano, l'oggetto attualmente percepito mi si dà come oggetto che perdura in quanto alla percezione è originariamente associata l'immagine, trattenuta nella memoria, dell'oggetto 116 stesso precedentemente percepito. L'oggetto che ora non è più dato in una percezione attuale è tuttavia attualmente mantenuto come ricordo dell'oggetto, come immagine. Si può avere una coscienza della successione e della durata nella quale l'oggetto resta identico, proprio per il fatto che la percezione è produttiva di immagini - e le immagini sono originariamente associate alla percezione attuale. Secondo Brentano, la percezione attuale sì mantiene nella coscienza, ma si modifica, diventa essa stessa immagine. "Lo stimolo produce il contenuto di sensazione presente. Se cessa lo stimolo anche la sensazione dilegua. Ma, a questo punto, è la sensazione stessa che diventa creativa: e si fabbrica una rappresentazione di fantasia di uguale o quasi uguale contenuto, arricchita dal carattere di temporalità. Questa rappresentazione ne risveglia a sua volta una nuova che si aggancia alla prima, e così via di continuo. Questo costante collegamento di una rappresentazione temporalmente modificata a quella già data, Brentano la chiama 'associazione originaria'. In conseguenza della sua teoria Brentano è indotto a negare la percezione della successione e del mutamento. Noi crediamo di udire una melodia, e quindi anche di udire ancora qualcosa che è passato, ma è solo un'apparenza, derivante dalla vivacità della associazione originaria" [3]. L'elemento positivo che Husserl rileva da questo discorso è l'idea che la percezione della temporalità richieda una modificazione della percezione attuale. "Il presente passa, si modifica, diventa rappresentazione fantastica, mentre risuona la nuova nota. Se il presente non si modificasse così, non potrei avere la percezione della successione temporale e non potrei rappresentarmi il tempo. Se io sento il tempo come un succedersi è perché la nota che ora sento produce una rappresentazione fantastica di sè, perché il sentire 'ora' può 'creare' una rappresentazione fantastica. Questa crea una nuova rappresentazione fantastica, ed è così che sento la successione temporale. Questa la teoria di Brentano che contiene un 'nucleo fenomenologico'" [4]. Ma l'interpretazione di questa modificazione come passaggio all'immaginario viene da Husserl nettamente respinta. In Brentano, infatti, l'unica dimensione reale è il presente nel quale percepisco l'oggetto. Ma questo presente si trova tra le dimensioni temporali del passato e del futuro come dimensioni puramente immaginarie: il presente si irrealizza costantemente sia verso il passato, nella memoria, sia verso il futuro, nell'aspettazione Ma se questo è vero, il presente stesso si contrae nell'istante e non 117 si vede come questa sua modificazione irrealizzante possa aver luogo. Per questo Husserl finisce con il riportare la stessa teoria brentaniana ad un'impostazione generale del problema che egli fa risalire sino a Herbart, secondo la quale ogni esperienza di successione presuppone una apprensione istantanea. L'atto che rappresenta la temporalità dell'oggetto non è esso stesso temporale. Esso non dura con il durare dell'oggetto, ma deve unificare istantaneamente la successione, perché solo in questa unificazione la successione stessa si può presentare come durata dell'oggetto o dell'evento. Ai sostenitori di questa concezione "sembra evidente, anzi inevitabile ammettere che l'intuizione di un'estensione di tempo avvenga in un 'ora', in un punto del tempo. Sembra, in generale, cosa ovvia che ogni coscienza diretta su un qualche intero o pluralità di momenti distinguibili (quindi: ogni coscienza di relazione e di complessione) abbracci il proprio oggetto in un punto indivisibile di tempo; ogni volta che una coscienza è rivolta a un intero, le cui parti sono successive, può essere una coscienza intuitiva di questo intero solo se le parti si raccolgono, in forma di rappresentanti, nell'unità dell'intuizione istantanea" [5]. Nella seconda sezione delle lezioni del 1904-1905, la discussione riprende l'avvio proprio da questo punto, che evidentemente non coinvolge più soltanto la teoria brentaniana. Richiamandosi implicitamente alla posizione espressa da William James nei suoi Principi di psicologia (1890) - un'opera che ebbe un 'influenza notevole nella formazione del pensiero di Husserl - egli rifiuta questa interpretazione dell'esperienza della temporalità dell'oggetto, nella quale è del resto già implicita una teoria del tempo riconducibile alla concezione naturale. "È peraltro evidente che la percezione di un oggetto temporale ha essa stessa una temporalità, che la percezione della durata presuppone essa stessa una durata della percezione, che la percezione di una struttura temporale ha essa stessa la propria struttura temporale. E se prescindiamo da tutte le trascendenze, alla percezione rimane pur sempre, secondo tutte le sue componenti fenomenologiche, la propria temporalità fenomenologica, che fa parte della sua ineliminabile essenza. Poiché la temporalità obbiettiva si costituisce di volta in volta fenomenologicamente, e solo grazie a tale costituzione essa ci appare come oggettività o momento di un'oggettività, un'analisi fenomenologica del tempo non può chiarire la costituzione del tempo senza riferirsi agli oggetti temporali" [6]. 118 3. L'esempio su cui più si sofferma Husserl, perché meglio atto a indicare la situazione descrittiva dell'oggetto temporale, è quello del suono. Del resto questo esempio rappresenta anche uno dei casi più semplici di esperienza di un oggetto nel suo durare. Un suono, una nota musicale - anche considerata in se stessa, al di fuori e indipendentemente da un contesto melodico - ha un inizio e una fine. Una nota rompe ora il silenzio ed io la percepisco come un suono all'inizio, la nota continua a risuonare, ora io la sento ancora, come un suono che perdura, come un inizio che permane come durata. Infine il suono si spegne, ora io non lo sento più, intorno a me vi è di nuovo silenzio, ed esso ha per me il senso di un silenzio che è stato rotto da un suono - un suono che permane ancora nel mio ricordo e poi scompare anche da esso. In tutto il suo durare, io avevo presente il suono stesso: io ero sempre nell'ora. Ora, io sento un suono all'inizio, ora io sento il suono iniziato che dura, ora il suono finisce, ed io ho coscienza di esso come di un suono alla fine, come un suono che è terminato. Ciò non significa che questo ora sia un istante nel quale unifico immediatamente l'intera successione delle fasi temporali del suono in un'unica durata temporale Al contrario: "Il suono è dato, cioè è dato alla coscienza come 'ora'; è però dato alla coscienza come 'ora' 'per tutto il tempo in cui' è data alla coscienza come 'ora' una qualunque delle sue fasi" [7]. Ma non accade neppure che all'istante iniziale si aggiunga un secondo istante, al secondo un terzo e così via, sino all'ultimo istante, e che io percepisca questo succedersi degli istanti l'uno dopo l'altro, ricomponendoli poi in un'unità: questo processo di ricomposizione apparirebbe evidentemente impossibile. Se considero come io realmente ho esperienza del suono, mi rendo conto che, nell'intera durata del suono, non ho la sensazione di un succedersi di istanti sonori che si dispongono l'uno dopo l'altro, sino all'ultimo frammento sonoro. Ma io ho esperienza del suono come di un unico suono, di una totalità che dura ed ho esperienza di questa totalità e di questa durata in un presente che permane costantemente presente. "Anche all'istante finale, io ho coscienza di esso come di un punto-ora, ed ho coscienza di tutta la durata come di una durata trascorsa (o comunque così è all'istante iniziale del nuovo tratto temporale che non è più 119 un tratto-di-suono). 'Durante' tutto questo flusso di coscienza, io sono cosciente di uno solo e di uno stesso suono in quanto suono che perdura, che perdura ora" [8]. L'istante finale, dunque, coincide con l'istante iniziale e viceversa l'istante iniziale si ricongiunge con l'istante finale, viene trattenuto o ritenuto per tutta la durata del suono; ma è evidente che questa coincidenza non è una sovrapposizione di "istanti" intesi come momenti analitici di una totalità temporale divisibile in parti: essa presuppone un flusso continuo. Solo in questa continuità è possibile avere la percezione di un suono. La stessa cosa si può dire per l'inizio e la fine del suono stesso. Sia il momento iniziale che il momento finale debbono essere concepiti come fasi di una continuità sonora. Il suono rompe il silenzio, ma il silenzio stesso è una estensione temporale sonora: esso stesso viene ritenuto nell'inizio del suono e il suono terminato viene ritenuto nel nuovo silenzio. Naturalmente il suono che irrompe nel silenzio e che poi scompare, emerge, per così dire, nella sua individualità, ma questa individualità è caratterizzata dal fatto che la nota or ora risuonata è appunto una fase di un continuum sonoro. Tutto ciò indica che è necessario rivedere e reinterpretare il significato del presente, cioè di quella dimensione temporale che indichiamo con i termini di "ora" o "adesso". Esso non può essere inteso come un semplice punto del tempo, un presente atomico tra altri atomi temporali passati e futuri. E neppure si può pensare che la percezione attuale si modifichi direttamente in immagine, in ricordo dell'oggetto percepito o nella sua aspettazione. L'ora stesso è durata, è un flusso, un continuum temporale. Il presente è reale, ma questa realtà è essa stessa un movimento, una progressiva modificazione. Certamente, Brentano ha intuito questo problema, proprio nella misura in cui ha richiamato l'attenzione sul fatto che il senso del passato nasce dalla modificazione del presente. Ma il presente modificato era per lui semplicemente il passato concepito come rappresentazione immaginativa trattenuta nel ricordo. Fra le altre obiezioni che Husserl rivolge a Brentano vi è anche la scarsa chiarezza sulla distinzione tra il ricordo come rievocazione di un evento completamente trascorso, nel quale effettivamente l'evento si dà in una rappresentazione immaginativa, e quella forma speciale di "ricordo" che è il mantenere nell'attualità della percezione la fase anteriore appena passata - in cui vi è bensì una modificazione, ma que- 120 sta avviene all'interno della percezione attuale stessa e non implica il passaggio immediato dalla realtà del presente all'irrealtà del passato. Nel concetto brentaniano di "associazione originaria" erano ambiguamente fusi i concetti di ricordo in questo senso, che nelle Lezioni Husserl definisce anche "ricordo primario" e che più tardi indicherà sempre con il termine meno equivoco di ritenzione, e il concetto di ricordo in senso comune. In quest'ultimo senso, il ricordo presuppone un passato già costituito che nel presente attuale viene reso presente in quanto passato. Così, nel caso del suono, ora che il suono è già definitivamente trascorso, posso ricordarmi di esso, come di un suono che prima ho udito, posso nuovamente renderlo immaginativamente presente nelle sue varie fasi, e così via. Il fenomeno della ritenzione è invece qualcosa di completamente diverso in quanto ciò che si vuol cogliere in esso è il passare stesso dell'oggetto temporale e non l'oggetto temporale in quanto passato. Perciò, la ritenzione concerne il presente stesso come processo costitutivo di un passato. Ora io sento risuonare una nota, come un suono all'inizio. Questa impressione originaria permane, ma proprio per questo essa si modifica costantemente sino al punto in cui è impressione originaria di un suono alla fine. è questa modificazione dell'impressione originaria che noi chiamiamo ritenzione: l'impressione del suono iniziale passa, ad essa si sostituisce una nuova impressione, ma l'impressione passata permane in quella presente come l'impressione di un suono or ora udito. Nel caso di una successione di suoni, la nota che io odo ora, si ricollega ritenzionalmente alle note passate, non nel senso che io ora le ricordo rivolgendomi liberamente ad esse come note passate, ma nel senso che esse permangono come impressioni originarie modificate nell'impressione originaria attuale. Un'analisi analoga dovrà essere compiuta naturalmente anche per il fenomeno corrispondente della protenzione, cioè dell'anticipazione in cui si costituisce una dimensione temporale futura [9]. La continuità dell'impressione originaria del suono, nella quale il suono stesso è dato come oggetto temporale, richiede che il presente nel quale il suono è percepito venga compreso come un continuo fluire in avanti - perché l'impressione originaria anticipa sempre una nuova impressione originaria - e all'indietro, poiché ogni impressione passa e nel suo passare viene ritenuta dalla nuova impressione originaria: "Questa coscienza è in preda ad un costante mutamento: l' 'ora' vivo del 121 suono si modifica continuamente (s'intende, coscienzialmente, 'nella coscienza') in un 'già stato'; continuamente un suono-ora sempre nuovo prende il posto di quello trapassato nella modificazione. Se tuttavia la coscienza del suono-ora, l'impressione originaria, trapassa in ritenzione, questa ritenzione è essa stessa a sua volta un 'ora', qualcosa che c'è attualmente. Questa, finché è essa stessa attuale (ma non suono attuale), è ritenzione di suono passato. Un raggio intenzionale può dirigersi sull''ora', cioè sulla ritenzione; ma può anche dirigersi su ciò che è cosciente nella ritenzione, cioè sul suono passato" [10]. L'idea di un passato e di un futuro come dimensioni temporali distinte e separate dal presente si costituisce dunque solo a partire dal presente stesso concepito come una continuità ritenzionale e protenzionale. Questo presente contiene in sè attualmente le ritenzioni e le protenzioni nelle loro forme continuamente modificate, ma solo fino a un certo limite. Al di là di esso, i contenuti ritenzionali si sciolgono, per così dire, dalla catena del processo complessivo attraverso il quale sono mantenuti attuali nell'impressione originaria attuale, si inabissano in una completa inattualità. Il suono trascorso viene ancora ritenuto ma viene anche costantemente sospinto indietro dalle nuove fasi sonore fino al punto in cui perde qualsiasi nesso con l'impressione che è stata finora attuale. Resta solo il fatto che io posso rievocare nel ricordo questo passato trascorso, ma il senso di questa rievocazione - nella quale un presente dimenticato, che si trova al di fuori del campo temporale del presente attuale, viene riprodotto - è evidentemente ben diverso dal passare dell'esperienza attuale e dal suo essere intenzionalmente trattenuto in una nuova esperienza attuale. 4. Nel considerare l'esperienza della temporalità dell'oggetto ci siamo resi conto che questo problema era strettamente collegato con il carattere temporale dell'atto nel quale l'oggetto viene percepito. Come abbiamo visto, la descrizione del modo in cui un oggetto mi si presenta come oggetto che ha una durata non può essere realmente esplicativa se non mette in luce la struttura temporale dell'atto percettivo. 122 Naturalmente l'esemplificazione del fenomeno sonoro che abbiamo finora costantemente seguita non deve trarci in inganno. Si tratta appunto soltanto di un esempio: la percezione del suono non è che un atto intenzionale determinato, ma la struttura temporale che noi abbiamo rilevato in esso deve valere per qualsiasi atto intenzionale, e quindi per la coscienza in generale. L'analisi di ogni rapporto intenzionale tra cogito e cogitatum, deve essere in grado di mettere in evidenza questa connessione tra la temporalità del polo soggettivo e la temporalità del polo oggettivo nel rapporto intenzionale. Ma la temporalità così come l'abbiamo intesa, come attualità "fluente" dell'impressione originaria, ha anche una funzione unificante rispetto a tutti gli atti intenzionali. La "coscienza" - se vogliamo esprimerci in questo modo - è un flusso temporale, un unico flusso che si distingue in molteplici momenti o fasi che hanno, a loro volta, il carattere del fluire come continuità temporale. Perciò: "la proprietà essenziale, che è rappresentata dal titolo 'temporalità' per i vissuti in generale, indica non soltanto qualcosa che universalmente appartiene ad ogni singolo vissuto, ma anche una forma necessaria che unisce i vissuti fra loro" [11]. Così anche "troviamo molteplici flussi in quanto sono molte le successioni di sensazioni originarie che cominciano e finiscono. Ma troviamo anche una forma che li connette, non solo perché, per ciascuno di essi agisce la legge della trasformazione dell' 'ora' in un 'non più ora' e, d'altro lato, del 'non ancora' in un 'ora', ma anche e soprattutto perché c'è qualcosa come una forma comune dell''ora', c'è un'eguaglianza nel modo del flusso" [12]. E ancora: "In un gruppo di sensazioni originarie, una sensazione originaria si distingue dall'altra per il contenuto, solo che l''ora' è lo stesso. La coscienza, quanto alla sua forma, come coscienza di sensazione originaria, è identica" [13]. La forma che unifica la molteplicità degli atti intenzionali, che li riporta ad un'identica struttura è dunque il tempo stesso concepito come attualità, come l'adesso dell'impressione originaria: "L'attuale adesso necessariamente è e permane qualcosa di puntuale, una persistente forma per sempre nuove materie. Egualmente accade per la continuità del dianzi: esso è una continuità di forme per sempre nuovi contenuti. Ciò significa che il vissuto perdurante della gioia è dato nella coscienza in un continuum di questa costante forma: cioè, una fase 'impressione' come fase-limite di una continuità di ritenzioni, che però non stanno l'una accanto all'altra, ma sono da riferire intenzionalmente 123 l'una all'altra - un continuativo concatenarsi di ritenzioni di ritenzioni. La forma riceve sempre un contenuto nuovo, ossia, ad ogni impressione, in cui è dato l'adesso del vissuto, si aggiunge una nuova impressione, corrispondente a un punto continuativamente nuovo della durata; ininterrottamente l'impressione si volge in ritenzione, quest'ultima in ritenzione modificata, ecc." [14]. Solo ora possiamo cogliere il reale significato della connessione tra soggettività e temporalità che ci era parsa, in precedenza, come un semplice indizio. Noi ci eravamo posti allora il problema della chiarificazione del soggetto in quanto tale, abbiamo riconosciuto il suo carattere di polo identico di riferimento degli atti intenzionali, come forma della loro connessione. Seguendo un'altra via, abbiamo colto questa forma nell'identità dell'ora che permane come un fluire. Ma questo era in realtà anche il risultato che abbiamo raggiunto nella considerazione della pura autoriflessione del soggetto, nella quale si prescindeva dal contenuto degli atti, dalla loro "materia", oltre che dalla materialità e dalla determinatezza del soggetto stesso. Ci si è presentato allora, direttamente, il carattere temporale dell'identificazione riflessiva del soggetto con se stesso. Potremmo esprimere la stessa cosa dicendo che se il soggetto è puramente riflettente, la riflessione è un operare puramente temporale. Questo è il concetto sul quale Husserl insiste in modo particolare in alcuni manoscritti più tardi che fanno parte del gruppo contrassegnato dalla lettera C. In essi egli parla della riflessione come temporalizzazione. L'uso di questo termine potrebbe generare l'equivoco di considerare la riflessione come un atto di produzione o di creazione reale del tempo. Noi parliamo invece della riflessione come operare temporalizzante solo in senso costitutivo. "La riflessione non produce la temporalità, la esplicita soltanto come tale" [15]. Nel momento in cui riflette, l'io è già temporale. Ciò significa che esso è già nell'attualità del fungere: nella riflessione, questa attualità viene scoperta come un flusso il quale costituisce, nel movimento della ritenzione e della protenzione, le dimensioni temporali. Quindi il problema è ancora quello della "coscienza interna del tempo", ma questo tempo è ora essenzialmente il presente del soggetto stesso in quanto tale. È evidente che la descrizione di questo presente non può differire nei suoi termini essenziali dalla descrizione dell'attualità dell'impressione originaria alla quale abbiamo già accennato. Ciò che nelle lezioni del 1905 Husserl definisce Quell-punkt o "punto 124 sorgivo", che è l'ora dell'impressione originaria, appare molto più tardi, nei manoscritti C, con il nome di presente che vive e che fluisce. Solo che ora viene ampiamente sviluppato un aspetto che nelle lezioni del 1905 era già presente, ma non era stato sufficientemente elaborato: il problema della connessione tra la tematica del tempo e quella del soggetto. In qualsiasi esperienza o in qualsiasi attività intenzionale, sia teoretica che pratica, io stesso non "esco" mai da questa dimensione di costante attualità. Sono sempre presente a me stesso e alle cose. Questa costante presenza non può essere concepita come una somma di presenti, di unità temporali chiuse. Ciò che caratterizza questa mia esperienza viva del presente è appunto la sua continuità. L'immagine che più si presta per rappresentare e descrivere questa struttura dell'attualità è quella del flusso, che già nel pensiero quotidiano è associata all'idea di un passare nella continuità. Nella temporalizzazione riflessiva, io ho l'esperienza di un fluire che procede in due direzioni opposte: ciò che mi è attualmente presente sfuma nell'inattualità: passa. Oppure tende ad un'attualità possibile, assume il carattere di una potenzialità che potrà essere eventualmente attualizzata. Nella reiterazione della riflessione, la temporalità originariamente attuale si fissa nelle dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro. Il presente appare allora come punto intermedio tra il passato ed il futuro, e il tempo stesso si trasforma in una connessione discreta di punti temporali, sino a perdere, attraverso vari gradi di obiettivazione, ogni carattere soggettivo, e quindi ogni intenzionalità e direzione; sino a diventare suscettibile di misurazione e di calcolo. La genesi fenomenologica dell'obiettivazione del tempo richiede naturalmente analisi specifiche e complesse. Tanto più che noi non abbiamo a che fare con un'unica idea del tempo oggettivo, e quindi dovremmo parlare, più che di genesi, di un intero complesso di processi genetici differenziati e corrispondenti alle vane forme dell'obiettivazione temporale e al loro senso. Il richiamo al carattere originariamente soggettivo del tempo non deve dunque far perdere di vista questa articolazione del problema, che per essere sviluppato richiede, ben più che l'arditezza del pensiero speculativo, la pazienza e la penetrazione descrittiva dell'analista. 125 Annotazioni 1. Nel corso del capitolo ci siamo unicamente occupati del problema dell'esperienza del tempo e della connessione della tematica temporalistica con la tematica della soggettività. È in particolare da quest'ultimo punto di vista che si coglie la fondamentale importanza, all'interno del discorso husserliano, del problema del tempo. Infatti la soggettività stessa, in quanto tale, si costituisce in primo luogo come forma temporale e ogni operare soggettivo deve essere considerato come un processo temporale. L'indicazione del carattere fondamentale della struttura fenomenologica del tempo - non sempre riconosciuto dalla letteratura fenomenologica - è uno degli elementi più significativi dell'interpretazione husserliana di Enzo Paci, il quale porta così ad ulteriore elaborazione un discorso già iniziato nella riflessione sulla filosofia platonica ed in particolare sul Parmenide (si veda, E. Paci, Il significato del "Parmenide" nella filosofia di Platone, Milano 1938). Nel I capitolo di Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl si prendono le mosse proprio dal problema del tempo in Platone ed Husserl e si sviluppa poi la tematica fenomenologica nei suoi vari aspetti mostrando come al suo fondo sia costantemente presente la questione della struttura temporale. 2. (VC). 3. Lo studio più impegnativo sul problema del tempo nei manoscritti più tardi resta tuttora la ricerca di G. Brand che abbiano già avuto occasione di ricordare. . Sul problema del tempo in Husserl: G. Eigler, Metaphysische Voraussetzungen in Husserl Zeitanalysen, Meisenheim am Glan 1961; R. Sokolowski, Immanent constitution in Husserl's lectures on time, in "Philosophy and phenomenological Research", 1963-1964 (24), pp. 530-551. Su Brentano e Husserl: H. Dussort, Brentano et Husserl, "Revue philosophique de la France et de l'Étranger", 1959 (84), n. 4, pp. 553-559. 127 Note al Capitolo quarto [1] Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, in "Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung", Halle a. d. S. 1928, IX, p. 368 sgg., trad. a cura di A. Marini, E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano 1985, p. 43. Le lezioni del 1904-1905 si possono leggere anche nella traduzione francese curata da H. Dussort (Leçons pour une phénoménologie de la conscience intime du temps, Parigi 1964), il quale ha anche confrontato il testo pubblicato dallo "Jahrbuch" con il manoscritto, apportandovi alcuni miglioramenti. [2] Il problema della temporalità è sempre stato presente nella riflessione husserliana, e tuttavia esso ha subito delle modificazioni profonde che possono adesso essere ripercorse sulla base delle appendici di Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo. Già nel 1893-95 Husserl pone il problema della costituzione dell'unità di un processo temporale, ma individua la condizione di possibilità di questa unità in un atto particolare, in un atto del giudizio, contrapposto agli atti intuitivi veri e propri, il quale avrebbe la funzione di abbracciare unitariamente l'insieme dei singoli atti, costituendo in questo modo la loro unità. Ciò significa però che le sintesi dell'esperienza avrebbero la loro radice in un'attività del giudizio e che quindi non vi sarebbe alcuna autonomia dell'esperienza rispetto al giudizio. Si tratta di un'impostazione che permane anche nel periodo immediatamente precedente la pubblicazione delle Ricerche logiche. In un appunto che, secondo un'annotazione posteriore di Husserl, dovrebbe risalire al 1898-1900 - quindi contemporaneo alla stesura delle Ricerche logiche - si afferma che ogni frazione di suono "è qualcosa a sè stante", per cui "l'identità della durata riguarda soltanto il contenuto concettuale" (VC). [3] E. Husserl, op. cit., p. 51 della traduzione italiana. [4] E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bari 1961, p. 213. [5] E. Husserl, op. cit., p. 57. [6] ivi, p. 59. [7] ivi, p. 60. [8] ivi, pp. 60-61. [9] Bisogna osservare che rispetto alle lezioni del 1905 nei Ber- 128 nauer Zeitmanuskripte (1917) Husserl nota infatti che "il diagramma, che era un mero diagramma delle ritenzioni, degli originari dati iletici e delle loro modificazioni, e che segnalava solo questo aspetto della coscienza, era incompleto, ed anche rispetto alle ritenzioni l'interna costruzione intenzionale non era descritta compiutamente", poiché esso non chiariva il ruolo dell'"attesa" protenzionale nella costituzione del tempo fenomenologico. Nè del resto questo poteva avvenire. Al contrario delle ritenzioni che sono nonintenzionali, le protenzioni sono intenzioni dirette oggettualmente che scaturiscono, sulla base dell'associazione, dalla dinamica interna al materiale sensibile. A partire da ciò che è già decorso scaturiscono delle attese dirette verso il futuro, e queste sono già delle attese intenzionali passive che richiedono un riempimento o una smentita. Allorchè il soggetto segue attivamente queste intenzioni passive siamo in presenza di un atto intenzionale vero e proprio (VC). [10] ivi, pp. 64-65. [11] Idee, trad. it., I, p. 181. [12] E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, trad. it., p. 104. [13] ivi, p. 105. [14] Idee, I, trad, it., p. 182. [15] G. Brand, op. cit., p. 135. 129 V. La concretezza del soggetto 1. Il soggetto corporeo 2. L'esperienza soggettiva del corpo 3. Corporeità e percezione 130 1. La ricerca che abbiamo appena avviata nelle pagine precedenti può certamente essere approfondita sempre più, in modo da ottenere ogni possibile indicazione sul carattere della soggettività come polarità identica verso cui confluiscono tutti i miei atti intenzionali. La sua stessa struttura temporale può rivelare aspetti nuovi o, in questo approfondimento, possiamo fermare la nostra attenzione su aspetti appena intravisti. Tuttavia, al fondo di questa analisi vi sarà sempre l'idea del soggetto come riflessione e la sua temporalità mi dovrà sempre necessariamente apparire come un carattere costituito nell'operare riflessivo. Ciò che resta del tutto fuori questione è il carattere di determinatezza e di concretezza del soggetto stesso. Distinguendo tra ciò che abbiamo chiamato io puro e l'io personale e delimitando il campo della nostra indagine all'io puro, ci siamo attenuti alla sfera della semplice possibilità e su questo piano il problema dell'esistenza del soggetto era preliminarmente escluso. Che questo modo di procedere sia legittimo è indicato dal semplice fatto che esso è possibile e che di per se stesso non contiene alcun elemento tale da comprendere e da confondere fin dall'inizio la ricerca condotta su questo terreno. Come abbiamo visto, il fenomenologo nel parlare di "io puro" non inventa nulla, opera soltanto astrattivamente in modo tale da rendere tematico uno strato di senso del soggetto che, nella sua concreta pienezza, sono io stesso. Per questo la polemica "esistenzialistica" contro il formalismo husserliano cade nel vuoto. Non ha alcun senso rimproverare ad una astrazione di essere astratta. Ma è evidente che nel momento in cui mi pongo il problema della concretezza e della determinatezza del soggetto, non posso restare all'interno della sfera della soggettività resa esplicita nella sua "purezza". Non posso cioè attendermi che, nello sviluppo di quest'analisi, il soggetto di cui parlo diventi improvvisamente quel soggetto concreto che io sono. Debbo invece, a questo punto, abbandonare il discorso sulla forma, perché da essa non può essere dedotto alcunché sulla mia esistenza concreta di soggetto. E questo è naturale, perché per rendere tematica l'essenza della soggettività, io ho considerato la mia stessa fattualità unicamente come un esempio e ho conferito ad essa un carattere puramente possibile. Il mio essere questo io determinato, una volta risolto nella sua fattua- 131 lità, scompare definitivamente dal soggetto eidetico e non è possibile ritrovarlo materialmente come una sua parte. Del resto la trasformazione del fattuale nel possibile è un atto immaginativo che io sono libero di compiere. Ciò implica essenzialmente due cose: anzitutto che io resto in ogni caso quello che sono, un soggetto di fatto. In secondo luogo e di conseguenza, a questo soggetto di fatto io posso sempre "ritornare" perché da esso non mi sono mai realmente allontanato. Perciò, la questione della concretezza non ha in se nulla che possa togliere validità al discorso fenomenologico nel suo insieme. Si tratterà piuttosto di accertare che cosa significhi rendere tematico ciò che mi fa essere nella mia determinatezza. Debbo forse descrivere ciò che io sono, accettare la mia fattualità non più come un esempio, come una possibilità qualsiasi, ma come una necessità imprescindibile - quella necessità che mi caratterizza per quello che sono nella mia individualità? Se inizio una descrizione di questo tipo mi rendo conto in primo luogo che tutti quei caratteri o attributi che posso elencare come mia definizione sono strettamente intrecciati al fatto che la mia vita è una vita tra gli altri. Posso dire: "Sono nato nel 1940", e già questa determinazione situa la mia storia individuale nella storia di una generazione. Vi è qui un anno contato dagli uomini, che indica un momento della loro storia complessiva, ed a partire da quel momento ha inizio la mia storia individuale. "Nato nel 1940" - significa nato nel crollo di un'epoca, nella quale invece i miei genitori hanno vissuto i loro anni maturi; significa nascere alla propria vita psicologica a un nuovo inizio, e a partire da questo acquistare a poco a poco una nuova coscienza del passato. Prima di me vi è una realtà sociale, la realtà di un nucleo familiare che è esso stesso inserito in uno sfondo sociale più ampio - lo sfondo del gruppo o della classe a cui esso appartiene. Qualsiasi attributo che mi caratterizza per ciò che ora io sono presuppone questa realtà sociale storicamente costituita, poiché solo rispetto ad essa diventa comprensibile ogni mio comportamento, ogni decisione, ogni presa di posizione. La storia della società, della classe, del nucleo sociale in cui vivo diventa la mia storia; e la mia storia insieme con le altre storie individuali dei miei contemporanei, di coloro che appartengono alla mia generazione, forma la base e il presupposto della storia della generazione futura. Nello stesso momento in cui mi accingo a descrivere ciò che mi definisce nella mia individualità 132 determinata, debbo dunque anzitutto parlare degli altri. La presenza di questi altri è anche intorno a me, nelle cose che mi circondano, negli ambienti nei quali ho vissuto. Ogni momento della mia vita reca con se un paesaggio: una casa, una scuola, una città. Ed ogni paesaggio contiene in se la presenza degli uomini contemporanei e passati, la loro esperienza, la loro lotta - ancora una volta: la loro storia. Tuttavia, per giungere a identificare che cosa sono io come soggetto di fatto, non sembra che sia corretto procedere in questo modo, iniziare cioè una descrizione di tutte le mie determinazioni particolari e di tutti i rapporti sociali che scopro inestricabilmente connessi con me stesso e che nella loro totalità inesauribile definiscono e precisano sempre più il mio essere questa persona determinata. In questo modo io posso indubbiamente arricchire i contenuti che mi caratterizzano personalmente, e tuttavia resta sempre in ombra il nucleo intorno al quale si articola l'insieme delle mie determinazioni. Sviluppando sempre più la descrizione della mia vita di persona che vive nel mondo tra persone, io lascio sempre da parte, come punto di riferimento non chiarito, proprio ciò che voglio portare alla luce. Ogni elemento che io scopro come mio si aggiunge come ulteriore momento della mia concretezza, ma in che cosa consista anzitutto e in primo luogo questa mia concretezza, non appare mai in primo piano; ogni determinazione è una determinazione del mio essere fattuale, ma che cosa io sia propriamente in quanto essere fattuale, è una domanda che, seguendo questa via, deve necessariamente restare senza risposta. In realtà, per indicare e rendere descrivibile quel centro a cui le mie determinazioni sono riferite, debbo procedere nella direzione opposta: non nel senso della progressiva esplicitazione, ma in quello dell'esclusione progressiva di ogni determinazione che riconosco come mia fino al punto in cui ritrovo un limite, tolto il quale sono tolto io stesso. Sembra tuttavia che a questa proposta si possa rivolgere un'obiezione di fondo: come è possibile neutralizzare ogni attributo della mia determinatezza se ho riconosciuto or ora che una sua eventuale esplicitazione dovrebbe procedere indefinitamente senza mai esaurirla? Se questo è vero non possiamo pensare che si possa ridurre l'una dopo l'altra ogni attribuzione personale e quindi che si possa parlare, come abbiamo fatto, di una esclusione "progressiva". Infatti ci siamo lasciati ingannare da un'analogia di discorso: non si tratta di un processo riduttivo graduale, ma di una riduzione attuata in un colpo solo. Noi abbia- 133 mo or ora riconosciuto che la presenza degli altri nella mia vita personale è ineliminabile e che ogni atto di questa vita è radicato in un sostrato di socialità che si presenta non solo nel rapporto propriamente sociale, ma persino nel rapporto tra me e l'ambiente materiale in cui vivo. Quindi potrei dire: prescindo non da questo o da quel mia caratteristica personale, ma da tutto ciò che nella mia vita di soggetto rinvia agli altri uomini, quindi da tutto il mio agire personale, da tutti i significati umani da cui le cose che mi circondano sono investite, da tutta la mia storia. Io prescindo dal sociale in generale per il fatto che ogni mia determinazione individuale è in se stessa intrinsecamente sociale. E mi chiedo se, prescindendo da tutto ciò, mi resta ancora qualcosa da cui non posso prescindere e che è quindi condizione necessaria e fondamentale di qualsiasi mia determinazione ulteriore. Ancora una volta abbiamo a che fare con un genere particolare di riduzione. In questo caso, i contenuti ridotti sono tutti i significati che presuppongono gli altri. Ed è importante sottolineare che nel momento in cui questi significati vengono meno viene meno l'intero mondo storico-sociale e nello stesso tempo io "perdo" ogni significato personale. Qualcosa resta tuttavia al di fuori del margine di questa operazione riduttiva: la riduzione del significato altro toglie bensì qualsiasi determinatezza personale storica, e tuttavia non mi disperde, non mi risolve; non mi annulla. Alla fine, se procedo coerentemente in questa riflessione, debbo giungere a porre in evidenza che ciò che è in se stesso privo di significato sociale, e quindi ciò che mi appartiene in modo esclusivo, sono io stesso nella misura in cui coincido con il mio corpo. Io sono corporeo, e questo "attributo" non mi può essere tolto se non togliendo me stesso con tutte le mie determinazioni; e quindi non è neppure un attributo, ma è il soggetto stesso, non in quanto è socialmente e storicamente determinato, ma nella condizione fondamentale della sua determinatezza storico-sociale. Naturalmente questo non è che un modo di presentare il problema che qui ci interessa, un tentativo di isolarlo e di individuarlo con la massima chiarezza possibile. È facile comprendere che si può senz'altro riprendere questa stessa argomentazione in un altro senso, per cogliere lo stesso problema sotto una luce diversa e secondo una diversa orientazione. Ma, l'importante è tentare, almeno in una prima approssimazione, una delimitazione corretta del nostro tema. E poiché cerchiamo ora di cogliere la concretezza del soggetto, il soggetto concreto in quanto tale, dalla nostra argomentazione dobbiamo trar- 134 re che questa concretezza ha nel corpo il suo strato di senso più elementare. Si tratta di un risultato che può essere tradotto in termini del tutto ovvi, poiché è cosa a tutti ben nota che se parliamo di un soggetto reale ed esistente, questo soggetto non può essere incorporeo. Ma nell'argomentazione così come l'abbiamo esposta vi è qualcosa di più: la corporeità non è una qualificazione del soggetto, ma è il soggetto stesso. Nella nostra considerazione viene meno quella distanza che necessariamente si pone nel momento in cui parlo del corpo come corpo che è mio. Se il corpo è una mia proprietà, dirò che "io ho un corpo" e non che "io sono il mio corpo". Noi abbiamo invece ricondotto questo avere del corpo da parte del soggetto all'essere del corpo stesso come soggetto. Perciò partiamo dal presupposto dell'identità, nella forma dell'essere, tra il soggetto e il corpo, e sarà eventualmente compito di una ricerca ulteriore mostrare come questa identità si trasformi in un'identificazione nella forma dell'avere. Il soggetto in quanto tale e - aggiungiamo ora - in quanto soggetto puramente esistente, è il suo corpo. Questa situazione è fenomenologicamente descrivibile proprio per il fatto che chi esegue ora questa descrizione è un soggetto personale ed è dunque in grado sia di cogliere il suo corpo come un attributo, sia di riconoscere in esso l'essere stesso del soggetto come soggetto concreto. Per questo parlare di corporeità del soggetto e di soggettività del corpo significa indicare la reciproca appartenenza del corpo e del soggetto, sottolineata talora da Husserl con l'uso dell'espressione corpo-soggetto. Se da un lato il corpo si mantiene a distanza dal soggetto personale come una sua proprietà, dall'altro questa distanza viene meno nella riduzione dei significati personali e il soggetto stesso diventa una proprietà del corpo. Per questa stessa ragione una ricerca sui caratteri fenomenologici del corpo-soggetto è eseguibile come ricerca diretta sui caratteri di questo corpo che, a differenza degli altri corpi materiali che mi circondano, io riconosco come il mio. 2. Anzitutto è attraverso questo corpo che io vedo le cose, le posso toccare, cogliere il loro movimento o la loro quiete, udire dei rumori o dei suoni, sentire degli odori. Questo corpo è attivo, sia nel senso che esso è a mia immediata disposizione sia nel senso che il suo 135 essere si esplica costantemente in un'attività percettiva nella quale si costituisce per me un mondo di cose, un ambiente materiale che mi si presenta, attraverso il corpo, con certi caratteri e certe qualità. Di nessun altro corpo, tra le cose che mi circondano, io posso disporre così come faccio di questo corpo che è il mio. E se vi e un mondo "esterno", una "natura puramente materiale", se vi sono intorno a me delle cose materiali con le loro qualità, con una forma, un colore, un peso e cosi via - di tutto ciò io posso sapere soltanto attraverso il mio corpo, poiché esso e anzitutto organo attivo della percezione. Ciò significa anche che, se intendiamo il soggetto come corpo-soggetto, gli atti soggettivi sono atti puramente corporei e il soggetto esplica unicamente l'attività del percepire. Questi atti sono sempre rivolti verso l'"esterno", verso ciò che si trova "di fronte" al soggetto, "fuori" di esso. Ma proprio per il fatto che il corpo è organo della percezione, appartiene alle sue possibilità più proprie quella di rivolgersi percettivamente a se stesso e noi dobbiamo cercare di mettere in rilievo i momenti essenziali di questa autocostituzione percettiva del corpo dal momento che dalla loro descrizione risulta definito il suo carattere originariamente soggettivo. Merleau-Ponty, che ha ripreso a modo suo questa tematica husserliana, osserva che "quando descriveva il corpo proprio, la psicologia classica gli attribuiva già 'caratteri' incompatibili con lo statuto d'oggetto. In primo luogo affermava che il mio corpo si distingue dal tavolo o dalla lampada perché è costantemente percepito, mentre da quelli posso distogliermi. Pertanto, è un oggetto che non mi abbandona. Ma è dunque ancora un oggetto?" [1]. In realtà, questo essere sempre con me del corpo è un'indicazione della sua soggettività: esso non è una cosa che io trovo sempre di fronte a me [2]. La permanenza del corpo "non è una permanenza nel mondo, ma una permanenza dalla mia parte. Dire che esso è accanto a me, sempre là per me, è quanto dire che non è mai veramente di fronte a me, che non posso dispiegarlo sotto il mio sguardo, che rimane al margine di tutte le mie percezioni, che è con me" [3]. Come per le cose, io non percepisco il corpo tutto insieme, ma solo in certe prospettive: ma mentre io posso liberamente girare intorno alle cose, scegliere le prospettive, guardare gli oggetti da tutti i lati, il mio corpo, proprio in quanto si autopercepisce, è vincolato nelle variazioni prospettiche dalla disposizione dei suoi organi percettivi: "Mentre io, di fronte a tutte le altre cose, sono libero di modificare a piaci- 136 mento la mia posizione di fronte ad esse e perciò, insieme, di variare a piacimento le pluralità delle apparizioni attraverso cui esse mi si danno, io non ho la possibilità di allontanarmi dal mio corpo o di allontanare il mio corpo da me, per cui, corrispondentemente, le pluralità delle apparizioni dello stesso corpo proprio sono limitate in modo determinato: certe parti del mio corpo, io posso vederle soltanto secondo un peculiare scorcio prospettico, altre (per es. la testa) mi sono invisibili. Lo stesso corpo proprio, che mi serve da mezzo percettivo, mi è d'ostacolo nella percezione di se stesso ed è una cosa costituita in un modo lacunosamente incompiuto" [4]. Ed ancora Merleau-Ponty: "Quando dico che il mio corpo è sempre percepito da me, queste parole non vanno dunque intese in un senso semplicemente statistico e deve esservi, nella presentazione del corpo proprio, qualcosa che ne renda impensabile l'assenza o anche la variazione. Che cosa dunque? La mia testa non è data alla mia vista se non per l'estremità del naso e per il contorno delle orbite. Io posso sì vedere i miei occhi in uno specchio a tre facce, ma sono gli occhi di uno che osserva, ed è già tanto se riesco a sorprendere il mio sguardo vivente quando per strada uno specchio mi rinvia inopinatamente la mia immagine [5]. La permanenza percettiva del corpo, il fatto che il corpo non può mai eclissarsi dal campo percettivo e nello stesso tempo l'incompiutezza della sua percezione sono tutti elementi che indicano la posizione peculiare e privilegiata che esso occupa tra gli altri oggetti esterni: "Non solo la permanenza del mio corpo non è un caso particolare della permanenza nel mondo degli oggetti esterni, ma la seconda non è comprensibile se non per mezzo della prima; non solo la prospettiva del mio corpo non è un caso particolare di quella degli oggetti, ma la presentazione prospettica degli oggetti non è comprensibile se non per mezzo della resistenza del mio corpo ad ogni variazione prospettica. Se è necessario che gli oggetti mi mostrino sempre solo una delle loro facce, lo è perché io stesso sono in un certo luogo dal quale li vedo e che non posso vedere" [6]. Ma il fenomeno più caratteristico della proprietà soggettiva del corpo è quello che Husserl definisce come localizzazione delle sensazioni. Nel toccare questo fermacarte che mi sta di fronte io vengo a conoscere le sue qualità e le sue caratteristiche - o meglio io costituisco questo fermacarte nelle sue proprietà "oggettive" di cosa materiale. Io esercito con le dita una pressione su di esso e ne per- 137 cepisco la durezza; passo la mia mano sopra di esso, riconosco la levigatezza del metallo ed anche la sua forma, così come mi si dà al tatto, se ad esempio suppongo di essere al buio e di non poterlo vedere. Ora, tutte queste percezioni, che mi dànno la cosa materiale stessa e le sue proprietà come qualcosa di oggettivo, sono interpretabili - se distolgo la mia attenzione dall'oggetto e la rivolgo al corpo percipiente - come sensazioni che il corpo stesso ha e che sono localizzate in qualche sua parte. Così la durezza e la levigatezza del metallo sono sensazioni localizzate nelle mie dita o sulla mia mano: "La stessa sensazione della pressione della mano posata sul tavolo viene appresa ora come percezione della superficie del tavolo (anzi di una piccola parte di essa), e ora, sulla base di un''altra direzione dell'attenzione', dell'attualizzazione di un altro strato dell'apprensione, propone sensazioni di pressioni nel dito. Nello stesso modo agiscono il freddo della superficie della cosa e la sensazione del freddo nel dito" [7]. Gli esempi naturalmente si possono moltiplicare. La mano che incontra una superficie appuntita e si punge nel momento in cui fa pressione su di essa, sente il dolore della puntura: questa sensazione è una sensazione localizzata in quel punto della mano. "Se dico che il piede mi fa male, non voglio dire semplicemente che esso è una causa di dolore allo stesso titolo del chiodo che lo strazia e solamente più vicina; non voglio dire che esso è l'ultimo oggetto del mondo esterno, dopo di che comincerebbe un dolore del senso intimo, una coscienza del dolore per se stesso e senza luogo che si connetterebbe al piede solo per una determinazione casuale e nel sistema dell'esperienza. Voglio dire che il dolore indica la propria sede e che è costitutivo di uno 'spazio doloroso'" [8]. Il fenomeno dell'aver sensazioni e della loro localizzazione è del tutto peculiare del mio corpo ed è ciò che lo distingue da tutti gli altri corpi: è esso che consente l'appropriazione soggettiva degli atti corporei e la "percezione interna" del corpo. Da un lato infatti il corpo percepisce le proprie parti cosi come percepisce le cose esterne. La mano destra si posa sulla mano sinistra e la percepisce come una cosa che ha una certa forma e certe proprietà oggettive (essa è ruvida o liscia, ecc.). Tutto qui accade come nella percezione delle cose esterne. Ma la mano sinistra che viene toccata ha essa stessa sensazioni "che vengono localizzate in essa, ma non sono costitutive di qualità (come la ruvidezza o il liscio della mano, questa cosa fisica)". "Se parlo della cosa fisica 'mano sinistra' faccio astrazione 138 da queste sensazioni, se le prendo in considerazione, la cosa fisica non si arricchisce, bensì diventa corpo proprio, ha sensazioni" [9]. Nel caso della autopercezione dunque, si ha lo stesso fenomeno già rilevato per la percezione della cosa associato con la localizzazione della sensazione nel soggetto percipiente, soltanto che in questo caso esso si presenta raddoppiato: la mano sinistra è cosa fisica per la mano destra ed è sede di sensazioni localizzate; e viceversa la mano destra è cosa fisica per la mano sinistra ed è sede essa stessa di sensazioni localizzate. "Il corpo proprio si costituisce dunque originariamente in un duplice modo: da un lato è cosa fisica, materia, ha una sua estensione in cui rientrano le sue qualità reali, il colore, il liscio, la durezza, il suo calore e le altre analoghe qualità materiali; dall'altro io trovo su di esso, e ho sensazioni 'su' di esso e 'in' esso: il calore sul dorso della mano, il freddo nei piedi, le sensazioni di contatto sulla punta delle dita" [10]. Il fatto che nel determinare il fenomeno delle sensazioni localizzate ci siamo richiamati esclusivamente alla sfera della tattilità non è casuale. Infatti nella autocostituzione percettiva del corpo, i diversi organi di senso non operano tutti nello stesso modo. Se consideriamo ad esempio la sfera visiva, in essa non ritroveremo affatto il fenomeno della localizzazione cosi come lo abbiamo or ora determinato. La mano che tocca può apparire come mano toccata, sia che questa sensazione di contatto derivi da una cosa esterna oppure da un'altra mano. Ciò non si verifica evidentemente nel caso della vista: "L'occhio non appare visivamente, e non avviene mai che nell'occhio che appare visivamente appaiano anche, localizzati come sensazioni, gli stessi colori (localizzati visivamente e in modo corrispondente alle diverse parti visive dell'apparizione), come quelle sensazioni che nell'apprensione della cosa esterna vista vengono attribuite all'oggetto e vengono obiettivate in esso come caratteristiche. Del pari non abbiamo una configurazione diffusa degli occhi tale che un occhio possa correre progressivamente lungo l'altro e in modo che possa generarsi il fenomeno della duplice sensazione; ne possiamo considerare la cosa vista come una cosa che è a contatto con l'occhio, che lo 'tocca' continuamente, mentre con un organo realmente tattile, per es. con la superficie della mano, possiamo passare sull'oggetto e con l'oggetto sulla superficie della mano" [11]. Che l'occhio venga percepito come parte del corpo e quindi esso stesso integrato al corpo come mia proprietà dipende ancora dal 139 tatto stesso e dal fatto che l'occhio si dà come un oggetto tattile che è sede di sensazioni localizzate. Lo stesso riconoscimento dei propri occhi in uno specchio - osserva Husserl - è un fenomeno molto complesso che presuppone la percezione interna dei propri occhi attraverso la tattilità e che è inoltre da considerare come una modificazione della percezione dei corpi degli altri soggetti [12]. E inversamente: "Un soggetto che fosse provvisto di soli occhi non potrebbe avere un corpo proprio capace di apparire; nel gioco delle motivazioni cinestetiche (che esso non potrebbe apprendere cinesteticamente) avrebbe apparizioni di cose, vedrebbe cose reali. Non si dirà che chi vede soltanto vede il proprio corpo, perché gli mancherebbe il modo specifico di contraddistinguersi dal corpo proprio; perfino il libero movimento di questo 'corpo proprio', movimento che va di pari passo con la libertà dei processi cinestetici, non lo renderebbe corpo proprio. Sarebbe soltanto come se l'io, insieme con questa libertà nel campo cinestetico, avesse la possibilità di muovere liberamente e immediatamente la cosa materiale" [13]. Tutto ciò mostra il ruolo fondamentale assolto dalla tattilità nell'appropriazione soggettiva del corpo percipiente. Ciò che rende il senso di proprietà del corpo è essenzialmente la tattilità, perché è in essa che noi abbiamo il fenomeno della sensazione localizzata, in base al quale la percezione che il corpo ha di se stesso si distingue in modo decisivo da ogni altra percezione di cose. Nella percezione dunque il corpo costituisce le cose materiali esterne, la natura esterna, e si autocostituisce come cosa materiale soggettiva, del tutto peculiare. Il fenomeno della localizzazione rappresenta questa peculiarità del corpo di fronte a tutte le altre cose della "natura materiale". Le sensazioni localizzate si diffondono anch'esse nello spazio, hanno anch'esse una dimensione spaziale. "Ma questa diffusione, questo muoversi è appunto qualcosa di essenzialmente diverso dall'estensione nel senso di quelle determinazioni che caratterizzano la res extensa. La sensazione localizzata che si diffonde su e dentro la superficie della mano non è una conformazione reale della cosa (tutto questo sempre entro la cornice delle intuizioni e delle loro datità) come invece la ruvidità della mano, il suo colore, ecc. Queste ultime qualità reali della cosa si costituiscono attraverso lo schema sensoriale e le molteplicità degli adombramenti. Parlare di qualcosa del genere per la sensazione localizzata non avrebbe senso. Se giro la mano, se l'avvicino o l'allontano, per es. il colore della mano, che resta ugua- 140 le, mi si dà in modo sempre diverso, cioè si rappresenta, e il colore cosi costituito (quello dello schema sensoriale) annuncia una qualità ottica della mano. Anche la ruvidezza si rappresenta dal punto di vista tattile, attraverso multiformi sensazioni tattili che costantemente fluiscono l'una nell'altra e a ciascuna delle quali inerisce la diffusione. Ma le sensazioni tattili localizzate, quelle sensazioni che, sempre modificandosi, stanno sulla superficie delle dita che palpano qualcosa, così come sono, diffuse sulla superficie, non sono qualcosa di dato attraverso l'adombramento e la schematizzazione. Non rientrano affatto nello schema sensoriale. La sensazione tattile localizzata non è uno stato della cosa materiale 'mano'. È la mano stessa, che per noi è di più che una cosa materiale, e il modo in cui è mia, a far sì che io, il 'soggetto del corpo proprio', dica: quello che è della cosa materiale è cosa sua e non mia. Tutte le sensazioni localizzate fanno parte della mia psiche, tutto ciò che è esteso fa parte della cosa materiale. Su questa superficie della mano io ho sensazioni di contatto e simili. E proprio per questo essa si manifesta immediatamente come mio corpo proprio" [14]. 3. Possiamo cercare di trarre qualche prima conclusione a proposito della problematica che abbiamo incontrato nel sollevare la questione del soggetto concreto. In primo luogo abbiamo visto che il carattere fondamentale della concretezza deve essere colto nella corporeità del soggetto. Questo è un primo elemento sul quale ci sembra necessario indugiare un poco. Infatti noi siamo passati, per cosi dire, da un estremo all'altro: da un soggetto pensato come privo di contenuti determinati, un soggetto come pura forma vuota che può perciò essere anche presentato come attività puramente riflessiva, a un soggetto che deve invece essere inteso come coincidente con il suo corpo, quindi come un soggetto puramente percettivo. Fra questi due estremi vi sono io stesso che sono in grado di prescindere dai contenuti o dalla mia storia individuale e che posso perciò rendere tematico ora questo ora quel significato del soggetto. Perciò se teniamo presente questo modo di procedere, non è difficile rendersi conto che, nonostante la terminologia di cui ci siamo serviti, sarebbe del tutto inesatto contrapporre il soggetto riflessivo al soggetto 141 percettivo presentando il primo come soggetto astratto e il secondo come soggetto concreto. Entrambi infatti sono stati ottenuti attraverso operazioni riduttive e la loro differenza dipende unicamente dal diverso orientamento di queste riduzioni, dal loro diverso carattere. Per questo motivo bisogna rifiutare una contrapposizione ingenua tra astratto e concreto e sapere invece cogliere i diversi piani delle nostre astrazioni tematiche e definire con precisione il loro senso. In ultima analisi, questa considerazione non vale soltanto per la ricerca propriamente fenomenologica, ma in genere per ogni ricerca, la quale per avere un oggetto deve necessariamente isolarlo, separarlo dal contesto concreto in cui esso inserito, metterlo a fuoco per ciò che esso è in se stesso, per poi eventualmente riportarlo all'interno di quel contesto, avendone cosi chiarito le relazioni interne. Così, sarebbe stato più facile per noi dichiarare fin dall'inizio che l'unico soggetto concreto è appunto l'uomo nella pienezza della sua storicità - o meglio io stesso nella pienezza della mia storia individuale, dal momento che anche l'"uomo" deve essere considerato come un significato relativamente mediato e quindi relativamente astratto - piuttosto che andare ad aggrovigliarci nelle complicazioni analitiche del soggetto formale o del soggetto corporeo. Sennonché questa facilità sarebbe stata pagata con la rinuncia a qualsiasi tentativo esplicativo, dato che, nel momento in cui mi dispongo in un atteggiamento di ricerca, non posso fare a meno di operare delle astrazioni, in modo da rendere di volta in volta tematico ora questo ora quell'aspetto del mio oggetto. Da questo punto di vista è estremamente caratteristico il modo in cui si pone in sede rigorosamente fenomenologica il problema della percezione. Da un lato esso si presenta strettamente connesso con la questione della soggettività, poiché l'attività percettiva appare come una prima e fondamentale caratterizzazione del soggetto stesso come soggetto concreto. Dall'altro, una fenomenologia della percezione può essere elaborata anzitutto sul terreno solipsistico. L'analisi percettiva è in primo luogo un'analisi solipsistica, dal momento che solo facendo astrazione da ogni significato intersoggettivo io posso delimitare il campo della percezione pura. Ciò appare con particolare evidenza proprio seguendo la linea di discorso che abbiamo cercato di sviluppare, e cioè tenendo fermo come nostro punto di riferimento la questione del soggetto. Allora le analisi che io posso compiere dell'esperienza soggettiva del corpo - di cui abbiamo dato 142 qualche esempio e del resto anche le analisi che tendono invece ad illustrare in che modo al soggetto percipiente si dia un "mondo di cose", sono da intendere come analisi solipsistiche - come analisi condotte nell'esclusione metodologica di ogni significato che implichi e presupponga gli altri soggetti. Noi sappiamo tuttavia - anche se non svilupperemo diffusamente questo punto - che alla fine tutti i problemi costitutivi della fenomenologia debbono essere reinterpretati e approfonditi dal punto di vista intersoggettivo. Benché non possiamo senz'altro situarci in una dimensione intersoggettiva, tuttavia è chiaro che la costituzione puramente solipsistica non può andare al di là di un certo limite. Questo terreno solipsistico dovrà venire "superato". In che modo? La risposta è molto semplice. Non dovremo far altro che considerare la presenza dell'altro nel nostro campo percettivo. E poiché, nel far questo, noi restiamo all'interno della nostra riduzione, l'altro significa qui puramente un altro corpo che viene percepito in quanto tale da questo corpo che è il mio, e perciò come un corpo che ha, come il mio, una posizione privilegiata rispetto alle cose del suo mondo circostante. Il problema dell'esperienza soggettiva del mio corpo diventerebbe problema dell'esperienza soggettiva del corpo di un altro soggetto, che ha una esperienza soggettiva di se stesso. Tutte le difficoltà della problematica intersoggettiva non nascono, come spesso si è creduto, per ragioni di principio, come se le ricerche husserliane rivolte in questa direzione fossero da interpretare come infruttuosi tentativi di uscire da una situazione solipsistica. Come già abbiamo avuto occasione di notare, la riduzione solipsistica non conduce affatto all'aporia solipsistica così come si è più volte presentata nello scetticismo. Non comprendere questo punto significa non avere inteso il carattere puramente metodologico del solipsismo, e più in generale della riduzione - il suo essere un semplice atto di libertà, un diritto, per così dire, che io sono libero di esercitare e che non sottrae affatto - realisticamente - agli oggetti che mi sono di fronte tutta la loro ricchezza di significato. Si può dire invece che la problematica intersoggettiva ha per certi aspetti un significato cruciale per il discorso husserliano nel suo complesso; non è difficile intravedere che, negli sviluppi possibili della ricerca, risulterà che il corpo-soggetto acquisito nella riduzione dei significati sociali, è esso stesso fin dall'inizio orientato ver- 143 so l'altro, ed a partire di qui è probabile che si debba alla fine giungere ad una ricomprensione ed a una riformulazione dei concetti generali della fenomenologia. Tuttavia, afferrare chiaramente lo stile della ricerca fenomenologica condotta all'interno della finzione solipsistica significa porre nel modo più sicuro le basi per procedere oltre. Per questo motivo, preferiamo porre qui tutta la nostra cura nell'illustrare nel modo più esteso possibile il tipo di ricerche che possono essere svolte sul piano solipsistico, e quindi, anzitutto, quelle che cadono nell'ambito di una fenomenologia della percezione. Annotazioni 1. Generalmente la critica che viene mossa a Husserl di essere rimasto prigioniero del solipsismo presuppone il fraintendimento del significato fenomenologico della trascendentalità del soggetto. Di conseguenza anche là dove Husserl parla in termini estremamente chiari, resta incomprensibile come si possa giungere alla posizione di una pluralità di soggetti, ai quali per di più spetta la stessa caratteristica di trascendentalità. Dal punto di vista di un confronto con là filosofia del passato, sarebbe particolarmente interessante cercare di vedere in che modo l'idea leibniziana della monadologia venga ripresa ed innestata sulla tematica idealistica del soggetto trascendentale e considerare nello stesso tempo il senso della risoluzione e della reinterpretazione di questi temi sul terreno fenomenologico. Occorre inoltre osservare che la critica che fa di Husserl il filosofo della "solitudine trascendentale" in genere si ricollega, direttamente o indirettamente, alle prese di posizioni rispetto alla filosofia husserliana di origine esistenzialistica. Il testo di Husserl più famoso che si occupa della tematica intersoggettiva è la Quinta meditazione cartesiana. Non si tratta tuttavia di una tematica tarda: essa fu posta esplicitamente da Husserl intorno al 1910, ma si può dire sia già presente nelle Ricerche logiche, e in particolare nella Prima ricerca. Fra le opere edite, oltre la Quinta meditazione cartesiana, l'esposizione più diffusa è contenuta in Ideen II, sez. II, cap. IV e sez. III (Idee, II, trad. it., pp. 556 sgg.). 144 2. 148 Note al Capitolo quinto [1] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. it. a cura di A. Bonomi, Milano 1965, p. 141. [2] La risposta che Merleau-Ponty dà a questa domanda è in realtà molto più sfumata di questa risposta che riteniamo più aderente alla posizione husserliana: in essa infatti la distinzione tra l'elemento soggettivo e quello oggettivo viene sempre tenuta ferma, mentre è caratteristico della posizione di Merleau-Ponty l'attenuazione di questa polarità. [3] ivi, p. 141. [4] Idee, II, trad, it., p. 553. [5] M. Merleau-Ponty, op. cit., p. 143. [6] ivi, pp. 143-144. [7] Idee, II, trad, it., p. 541. [8] M. Merleau-Ponty, op. cit., p. 145. [9] Idee, II, trad, it., p. 539. [10] ivi, p. 540. [11] ivi, p. 542. [12] ivi, p. 542. [13] ivi, p. 544. [14] ivi, pp. 543-544. [15] E. Husserl, Kritik zu den beiden Stufen, in denen ich 1907 und 1910 die Idee der Reduktion gewonnen hatte (probabilmente 1924), in E. Husserl, Erste Philosophie. Theorie der phänomenologischen Reduktion, op. cit., p. 433. [16] E. Husserl, Erste Philosophie. Theorie der phänomenologischen Reduktion, op. cit., p. 174, n. 2. Corsivo mio. [17] E. Husserl, Kritik zu den beiden Stufen, in denen ich 1907 und 1910 die Idee der Reduktion gewonnen hatte, in E. Husserl, Erste Philosophie. Theorie der phänomenologischen Reduktion, op. cit., p. 433. [18] I. Kern, Einleitung des Herausgebers, in E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Erster Teil, op. cit., p. XXXIX. [19] E. Husserl, Cartesianische Meditationen, op. cit., p. 140 (tr. it., p. 161). [20] ivi, p. 124 (trad. it. p. 142). [21] E. Husserl, Ideen, Zweites Buch, op. cit., p. 78 (trad. it., p.473). 149 [22] E. Husserl, Die Seinsabhängigkeit alles Seienden, zunächst aller transzendentalen Subjekte von mir und dann meiner selbst von ihnen, in E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Dritter teil, op. cit., p. 35. [23] ivi. [24] ivi., p. 34. [25] ivi., p. 36. 150 151 VI. Il problema di una fenomenologia della percezione 1. L'oggetto "culturale" e la cosa "materiale" 2. La costituzione della cosa 3. Il tema della passività in Esperienza e giudizio 4. Il carattere temporale della percezione 5. Percezione e linguaggio 152 153 1. Insieme alle ricerche sul modo in cui il corpo, come organo di percezione, ha una esperienza percettiva di sè - a cui abbiamo accennato nel capitolo precedente - dobbiamo prendere in considerazione l'esperienza nella quale per il corpo si costituisce qualcosa di esterno, il suo mondo, sempre restando sul terreno dell'attività percettiva. Questo ambito di temi può anche essere presentato sotto il titolo della "costituzione della cosa materiale" o anche della "natura", se con questo termine intendiamo, in via preliminare e provvisoriamente, un "mondo di cose materiali". Il lavoro di Husserl in questa direzione è documentato oltre che dalle ricerche contenute in Ideen II, anche dalla Lezione sulla cosa (Dingvorlesung) che risale al 1907. Per chiarire ed illustrare meglio in che cosa consista una ricerca fenomenologica in questo ambito, vorremmo cercare di gettare uno sguardo anche su questo aspetto che concerne in generale la costituzione dell'oggetto percettivo o, per servirci della nostra terminologia, del polo "oggettivo" della relazione intenzionale. Dobbiamo notare, in primo luogo, che il significato "cosa materiale" non mi è dato nell'esperienza che io ho ogni giorno del mondo che mi circonda. Questa affermazione può a prima vista sembrare sorprendente. Ma se volgiamo intorno lo sguardo, ci accorgiamo subito che nessun oggetto ha per noi il senso di una cosa puramente materiale. Nello stesso momento in cui io vedo e nomino "questo fermacarte", esso non è per me una semplice cosa, identica nella sua materialità alle molte altre cose che vi sono sul mio tavolo di lavoro e differente da esse soltanto per le sue qualità materiali. Anzitutto, esso è un oggetto che ha una certa utilità e una certa funzione. Questo è il suo carattere distintivo, ed io lo colgo nel momento stesso in cui lo percepisco. Il "mondo" che mi circonda - nelle cose di cui esso è costituito - ha dunque quotidianamente un significato pratico: "Davanti a me trovo le cose fornite di caratteri di valore, come di proprietà fisiche, belle e brutte, piacevoli e spiacevoli, gradite e sgradite, ecc. Le cose si presentano immediatamente come oggetti d'uso, la 'tavola', con i suoi 'libri', il 'bicchiere', il 'vaso', il 'pianoforte', ecc. Anche questi caratteri assiologici e pratici appartengono costitutivamente agli oggetti come tali, che io presti o non presti attenzione ad essi ed agli oggetti. E, come per le mere 154 cose, ciò vale naturalmente anche per gli uomini e gli animali che mi circondano. Essi sono miei 'amici' o 'nemici', miei 'inferiori' o 'superiori', 'estranei' o 'parenti', ecc." [1]. "Questo mondo circostante non contiene mere cose, bensì anche oggetti d'uso (abiti, utensili domestici, armi, strumenti), opere d'arte, prodotti letterari, mezzi di azione religiosa, legale (sigilli, distintivi ufficiali, insegne regali, simboli ecclesiastici, ecc.) e non contiene soltanto persone singole: le persone sono, piuttosto, membri di comunità, di unità personali di ordine superiore, che vivono in quanto totalità, che si mantengono e continuano nel tempo indipendentemente dalla comparsa e dalla scomparsa dei singoli, che hanno una loro conformazione di comunità, i loro ordinamenti etici e giuridici, i loro modi di funzionare agendo insieme con altre comunità e con singole persone, le loro dipendenze da circostanze, la loro regolata mutevolezza, un loro modo di svilupparsi o di mantenersi temporaneamente costanti, a seconda delle particolari circostanze. I membri della comunità, del matrimonio e della famiglia, del ceto, dell'associazione, del comune, dello stato, della chiesa, ecc. si 'sanno' loro membri, si trovano coscienzialmente dipendenti da essi e sanno, eventualmente, di agire coscienzialmente su di essi" [2]. Potremmo dire, seguendo una distinzione husserliana, che il mio mondo circostante non mai soltanto natura, ma è anzitutto un mondo culturale. Quest'ultimo termine è naturalmente inteso da Husserl in un'accezione molto larga, che del resto è già propria della parola tedesca Kultur. Se l'oggetto naturale è la cosa puramente materiale e l'idea della natura si presenta in primo luogo come un mondo di cose materiali, l'oggetto culturale è invece ogni cosa che ha per me immediatamente un significato umano, al quale io posso attribuire un predicato valutativo, che io utilizzo per raggiungere determinati fini, ecc. Questo significato è direttamente connesso con me stesso in quanto sono una persona tra altre persone, all'interno di un nesso sociale che ha costruito nello sviluppo storico un proprio modo di atteggiarsi verso le cose che lo circondano e che ha quindi un suo mondo storico-culturale. All'interno di questo nesso sociale complessivo, io partecipo a mia volta ad un nesso sociale parziale che ha anch'esso i propri oggetti e significati storici e tradizionali. Il 'tavolo', i 'libri', il 'vaso', il 'pianoforte' - queste cose che mi cadono ora sotto gli occhi sono tanto connesse con me stesso, come persona che vive tra persone in un determinato ambiente umano, da rappresentare già un elemento 155 sufficiente a situarmi e a localizzarmi socialmente. Anzitutto io ho a che fare con un mondo di oggetti culturali, e non con un mondo di semplici cose. Certo, se io rifletto su questi oggetti posso dire che essi sono cose materiali, che questa materialità è il loro primo strato di senso. Ma questo è già un risultato di un certo rilievo: se vogliamo restare all'interno dell'empiria fenomenologica, dovremo dire che immediatamente la materialità in quanto tale non mi appare, ed infatti questo strato di senso può essere portato alla luce solo attraverso una riflessione. In essa mi rendo conto che il carattere di utilizzabilità di questo fermacarte rappresenta soltanto un momento del suo significato complessivo - un momento da cui io posso anche prescindere. Così, posso prescindere dal nome con il quale io lo indico e che rimanda immediatamente alla sua funzione; dal fatto che esso è, eventualmente, un oggetto artisticamente cesellato, che per me esso ha anche un "valore affettivo", e così via. Se io generalizzo questa operazione su tutti gli oggetti che mi circondano, se io cioè neutralizzo le connessioni di ogni genere per le quali quegli oggetti hanno per me un significato che rimanda alla mia vita personale quotidiana ed alla mia storia, questo mio mondo circostante non scompare. Esso resta come semplice "mondo di cose", come natura. Ma anche, come sappiamo, come mondo di un soggetto che è soltanto corporeo. Infatti, questa "riflessione" attraverso la quale ottengo, a partire dal mondo degli oggetti culturali, un mondo di semplici cose, non è altro che quell'operazione riduttiva che noi abbiamo già discusso in rapporto al problema del soggetto concreto. È evidente che entrambe le argomentazioni sono strettamente collegate, che la riduzione del mondo culturale al mondo naturale è correlativa alla riduzione del soggetto personale al soggetto corporeo. Per questo, in precedenza, non abbiamo potuto passare sotto silenzio il fatto che gli oggetti del corpo percipiente sono essenzialmente cose materiali. Che tutto ciò debba essere ribadito con tanta insistenza sembrerà forse eccessivo. Alla fine, non pare che si sia ottenuto un gran risultato nel precisare che l'esperienza della cosa materiale in quanto tale non è diretta e immediata, ma può essere raggiunta soltanto attraverso una certa "riduzione". Peraltro - si può osservare - anche se questa riduzione non è esplicitamente enunciata, è chiaro che essa è almeno implicita nel momento in cui mi occupo delle cose 156 materiali come tali. Ci si può richiamare all'esempio dello "scienziato della natura" il quale non ha affatto bisogno di precisare che, nel momento in cui si interessa del suo mondo circostante, prescinde da tutti quei caratteri pratici o di valore che anzitutto gli appartengono. Tutto ciò è vero, ma questa esplicitazione di un'operazione riduttiva puramente presupposta ha una sua portata di senso che per noi non è trascurabile. Lo strato puramente materiale dell'oggetto non è già di fronte allo scienziato della natura; solo in quanto assume rispetto ai suoi oggetti un determinato atteggiamento nel quale è per principio escluso ogni interesse pratico verso di essi, egli può avere la natura stessa come proprio tema di indagine. Ciò significa anche che, nella stessa misura in cui io rivolgo la mia attenzione verso la cosa puramente materiale, sono interessato ad essa in senso puramente conoscitivo. La cosa non mi interessa perché io la posso utilizzare immediatamente, ma anzitutto perché la voglio conoscere. Qualsiasi valutazione che io compio in questo atteggiamento è una valutazione che riguarda l'essere della cosa e qualsiasi praxis che modifica l'oggetto o il suo contesto (come può avvenire nell'esperimento) è compiuta in funzione di questo interesse [3]. Queste considerazioni hanno per noi il senso di un duplice indizio. Anzitutto segnalano che vi deve essere una certa correlazione tra la praxis conoscitiva in generale, che può assumere un carattere propriamente scientifico, e la praxis puramente corporea della percezione. In secondo luogo, se il senso "cosa materiale" non è dato immediatamente, ma si presenta come uno strato che io colgo nell'esclusione dei significati pratico-culturali, è legittimo chiedersi se questo strato sia a sua volta riconducibile a strati di senso più elementari. 2. L'analisi della costituzione della "cosa materiale" ha inizio proprio dalla posizione di questo problema. Ogni cosa - e naturalmente intendiamo questo termine in una accezione molto larga - non è un prodotto semplice e non ulteriormente analizzabile. Essa è qualcosa di singolare e di individuale, ha un suo modo di permanere identica, almeno per un certo periodo di tempo. Ha una certa estensione, occupa un luogo nello spazio, tra altre cose estese e spazialmente lo- 157 calizzate. Ha certe qualità peculiari, come una forma, un peso, un colore. Tutti questi caratteri sono unificati nella cosa, che proprio per questo è qualcosa di individuale e di distinto. Essa è dunque un prodotto sintetico particolarmente complesso che io posso ulteriormente analizzare. Io posso cioè mettere in evidenza ognuno di questi caratteri di per se stesso, soffermandomi ad esempio a considerare la cosa unicamente in quanto ha un colore e una forma, prescindendo. ad esempio, dalle qualità che sì rivelano al tatto. Perciò, la riduzione che io ho iniziato rispetto all'oggetto culturale non si arresta al piano della cosa puramente materiale, ma procede oltre nel distinguere in essa strati inferiori di senso. Naturalmente ogni momento così isolato richiederà il chiarimento di un operare costitutivo specifico ed infine la ricostruzione di questa totalità così scomposta porrà anche il problema delle relazioni tra i vari strati di senso - esigerà l'illustrazione del processo intenzionale del loro integrarsi. Da questo punto di vista, l'operare regressivo della riduzione indica e stabilisce i momenti dell'operare progressivo del processo costitutivo. Ciò che viene "tolto" dalla riduzione può essere interpretato come qualcosa che è precostituito e che quindi rimanda ad un processo anteriore di costituzione. Nella stessa misura in cui posso prescindere dal momento funzionale dello strumento e considerarlo quindi come una semplice cosa, la strumentalità mi deve apparire come pre-costituita. Lo stesso si dica per i caratteri della cosa materiale, come la spazialità, la forma, il colore, il peso. Io posso sempre sciogliere le connessioni nelle quali essi sono appunto caratteri di questa cosa e considerarli in quanto tali. Ma questa regressione non può procedere all'infinito. Io debbo ad un certo punto incontrare un momento fenomenologico che è bensì presupposto, ma non è precostituito nel senso che esso non rimanda più ad alcun processo costitutivo. Per illustrare questo aspetto riferiamoci a un esempio che ci è ormai familiare: quello del suono. In precedenza, considerando il suono come un puro oggetto temporale, avevamo già isolato un suo momento e ci eravamo disinteressati degli altri caratteri che il suono stesso ha in quanto è un evento reale e materiale. Poniamo dunque che, nella stanza vicina, risuoni una nota emessa da un violino. Io la odo, non come un suono qualsiasi, ma come un suono determinato - questa nota - prodotta da un certo strumento. Prescindiamo da tutto ciò che io so di questa nota, del 158 suo contesto con altre note, della sua eventuale partecipazione a una melodia che posso apprezzare, che mi può sembrare gradevole o sgradevole, e così via. Limitiamoci a considerare questo suono come un evento semplicemente reale. Esso ha un'origine in un punto della stanza vicina, una certa intensità, una durata. "Questo evento rimane lo stesso sia che io mi allontani, sia che io mi avvicini, sia che la camera adiacente, in cui la nota risuona, sia aperta o chiusa" [4]. Il do resta do, indipendentemente dalle mie variazioni di posizione: un evento reale che si manifesta nella sua identità tra gli altri eventi naturali e reali. Ma io posso prescindere anche da questa sua realtà e considerarlo ad esempio soltanto come un evento spaziale, che si muove secondo una certa direzione, a partire da un punto. "Ma alla fine, anche l'apprensione spaziale può essere neutralizzata, e quindi la nota può essere presa, invece che come una nota che risuona nello spazio, come un mero 'dato della sensazione'. Al posto di ciò che, sulla base dell'avvicinamento o dell'allontanamento, era presente alla coscienza come una nota immutata nello spazio, attraverso il rivolgimento dello sguardo, attraverso la considerazione del dato della sensazione, si presenta qualche cosa che si modifica continuamente" [5]. In questo caso, dunque, precedo regressivamente da ciò che è un oggetto già costituito, il suono che io sento immediatamente come una nota determinata emessa da un violino, sino a dei puri fenomeni sonori che non sembrano più contenere alcun elemento da cui io possa ulteriormente prescindere. La nota iniziale si presenta come un oggetto complesso che ha diverse stratificazioni costitutive di senso. Il dato sonoro che io ottengo alla fine, seguendo questa via astrattiva, è "pensabile" in se stesso anche prescindendo da una apprensione spaziale; d'altro lato, su di esso non posso operare più alcuna analisi, non posso cioè cogliere più alcuno strato inferiore di significato che rimandi a sua volta a un'operazione costitutiva di grado più basso. In questo senso possiamo dire che esso è veramente dato prima (o pre-dato), senza che ciò implichi il rimando a un'attività costitutiva anteriore. Esso rappresenta la "materia" con la quale e a partire dalla quale il soggetto opererà le sue sintesi ulteriori sino alla nota singolare e identica che conclude l'intero processo. Bisogna infatti sottolineare che il suono come puro e semplice dato della sensazione non ha alcun carattere di oggetto, non è cioè 159 qualcosa di identico e di distinto. Esso è necessariamente fluido. Perciò, osserva Husserl, "di fronte al puro dato della sensazione, ci imbattiamo in una predatità che viene prima della costituzione dell'oggetto in quanto oggetto" [6]. Consideriamo ancora la situazione iniziale. Mentre sono intento in una certa occupazione, dalla stanza adiacente proviene un suono di violino. Io lo odo, sento che è una nota, ma non mi distolgo dalla mia occupazione, non soffermo la mia attenzione su di essa. In questo caso, io "apprendo" la nota in quanto oggetto - il suono cioè mi appare nella sua individualità già costituita, la nota è già per me nota-oggetto. Tuttavia, non mi rivolgo ad essa per afferrarla, non mi dispongo in una dimensione di ascolto. Seguendo il linguaggio che Husserl usa a questo proposito, diremo che qui vi è l'apprensione dell'oggetto ma non il suo esplicito afferramento. Naturalmente tra apprensione e afferramento vi è un rapporto molto stretto che diventa visibile non appena supponiamo che questa sia la prima volta che odo risuonare una nota di violino. In questa situazione non è pensabile che io possa avere l'apprensione di una nota come oggetto. Perché questo si possa verificare è necessario che io altre volte abbia già afferrato questo suono, che io abbia già operato una costituzione di senso. Perciò, nella situazione nella quale io odo per la prima volta una nota, essa mi si impone come uno stimolo fluido, privo di qualsiasi carattere di identità e di fissità: è ciò che abbiamo chiamato un mero dato della sensazione. In questo caso "deve esistere una sensibilità alla nota che non è né l'apprensione dell'oggetto né il suo afferramento" [7]. Il soggetto percipiente è qui meramente ricettivo, non è ancora rivolto al dato sonoro neppure nella forma semplice dell'afferramento. Oppure, se consideriamo questa ricezione come caso limite dell'afferramento, dovremo dire che essa non va intesa come afferramento di un oggetto già costituito nella sua identità, ma come "un atto originario che costituisce l'oggetto in modo originario" [8]. 3. Su questo ambito di problemi si apre il primo capitolo di Esperienza e giudizio. Il suo tema principale è quello di chiarire - come dice il suo titolo - le strutture generali della ricettività. Si tratta cioè di penetrare più a fondo in quella sfera inferiore di meri dati di sensazione che 160 viene raggiunta nella regressione degli strati costitutivi dell'oggetto in cui consiste quella particolare forma di riduzione che abbiamo or ora illustrata. Abbiamo visto che in questa sfera il dato sensoriale si impone al soggetto corporeo il quale non fa altro che recepirlo passivamente. Questo fenomeno complessivo viene indicato da Husserl con il termine di affezione ed è appunto da esso che dobbiamo iniziare la nostra analisi. Sull'introduzione di questo nuovo termine non è forse inutile qualche breve osservazione. In tedesco, la parola Affektion è una parola esclusivamente "filosofica�� del tutto lontana dal linguaggio corrente e modellata in modo diretto sul latino affectio. Tutti gli inconvenienti nascono nella traduzione italiana, dal momento che in italiano essa è propria (ed è inutile sottolinearlo, in tutt'altro senso) del linguaggio corrente. Proprio per questo essa ha perduto in gran parte quella risonanza di significato che la parola latina possiede ed alla quale ci si riferisce nel suo uso filosofico. Altre difficoltà derivano dal fatto che, in tedesco, è facile - data la convenzionalità dell'introduzione di questo termine e il suo diretto riferimento al latino - introdurre la corrispondente forma verbale di affizieren. In italiano si potrà ricorrere alla forma passiva "essere affetto da", ma ciò non è evidentemente privo di ulteriori complicazioni. Dobbiamo precisare anzitutto la distinzione tra i momenti dell'affezione, dell'afferramento e dell'apprensione che finora abbiamo messo in luce come caratteristici del processo percettivo nel suo stadio più elementare. Una prima distinzione tra apprensione ed afferramento è già stata rapidamente chiarita. L'apprensione è l'atto nel quale l'oggetto viene percepito nella sua identità. L'apprensione è quindi in certo senso un atto di riconoscimento, e per questo abbiamo osservato che esso presuppone che io abbia già afferrato più volte il dato sensoriale, che io abbia soffermato su di esso - in precedenza - la mia attenzione, e che quindi io lo abbia già costituito come oggetto. Solo per questo, nell'apprensione io lo posso riconoscere. Il semplice afferramento o, come potremmo anche dire, la semplice "prensione" percettiva è proprio questo volgersi del soggetto all'oggetto; in particolare noi possiamo considerare questo atto - per cogliere la sua peculiarità - come se esso venisse compiuto per la prima volta. Così, se è vero che l'apprensione è nello stesso tempo un atto di prensione, dal momento che per riconoscere un oggetto debbo comunque afferrarlo, la prensione stessa può 161 non essere accompagnata dal momento del riconoscimento apprensivo. Perciò vi è una distinzione tra i due atti, e in particolare questa distinzione può essere anche considerata da un punto di vista genetico: l'afferramento "precede" l'apprensione e questa è possibile soltanto nella reiterazione degli atti di afferramento. La situazione descritta dal termine di affezione è ancora più complessa. Vogliamo cogliere qui quello stato che precede sia l'afferramento del dato, sia, naturalmente, l'apprensione dell'oggetto, dal momento che, in questo caso, abbiamo da un lato un dato sensoriale che si impone da sè, dall'altro un soggetto che lo riceve e lo subisce. Mentre sono intento nella lettura di un libro, e quindi la mia attenzione è tutta volta alle parole e ai significati scritti che mi sono di fronte, improvvisamente un latrato mi giunge dall'esterno e io lo odo: non posso evidentemente non udirlo, anche se posso continuare la mia lettura, senza rispondere a questo stimolo oppure chiudere il libro e affacciarmi alla finestra. Il latrato, dunque, mi colpisce ed io lo subisco; ma lo stimolo che mi colpisce non può essere propriamente detto un atto e il mio subire non è tale da essere una pura e semplice passività. Si intende che qui il latrato viene ricevuto come un mero dato sonoro - e non ad esempio senz'altro con il senso "latrato di un cane", che è già particolarmente ricco. Dobbiamo invece fingere la situazione "come se lo udissi per la prima volta". Questa è appunto la situazione fenomenologica nella quale possiamo rendere descrivibile la ricezione, la situazione cioè in cui non vi è intorno a me un mondo già costituito di oggetti e che ha quindi una sua struttura relativamente rigida e fissa, ma un mero campo sensoriale, ancora privo di oggetti, di identità strutturali. Ora, che un campo sensoriale sia dato in questa forma non significa che esso sia di per se stesso attivo e che, esercitando questa attività, influisca su un soggetto puramente passivo. Significa essenzialmente che questo soggetto è sempre percezione possibile o percezione all'inizio ed è in rapporto a questa potenzialità percettiva del soggetto che il dato può apparire come quasi attivo, come uno stimolo. Perciò la ricezione deve essere considerata essa stessa come il grado più basso di attività del soggetto percettivo, come attività percettiva potenziale che permane costantemente. L'attributo di passività che noi continueremo ad attribuire al soggetto ricettivo, dopo questa precisazione, ha dunque un senso diverso da quello comune. La "coscienza ingenua" tende ad attribuire alla percezione stessa, anche 162 nelle sue forme superiori, il carattere di un comportamento puramente passivo, contrapponendo a questa osservazione passiva della cosa la sua manipolazione reale e la sua modificazione: "Essa sarà perciò indotta a ritenere che il percepire e l'osservare non siano che un subire, un comportamento passivo, e a questa passività dell'accettare gli oggetti già dati non sa opporre altro, come attività, che la praxis in senso più stretto, la trasformazione delle cose già date con il por mano ad esse ovvero la produzione di proposizioni predicative che restano poi come formazioni oggettive, come prodotti" [9]. In realtà, bisogna intendere la percezione in ogni suo grado come una praxis, sia pure una praxis dell'osservare, dal momento che anche l'osservare richiede un complesso di atti corporei, un volgersi del corpo verso l'oggetto, un dirigersi concretamente verso di esso. Il problema della ricezione e dell'affezione ci conduce così a considerare questo livello inferiore dell'attività percettiva che, al suo limite, è pura e semplice potenzialità. Questo carattere non spetta soltanto al corpo percettivo, ma anche al campo sensoriale. Noi abbiamo parlato finora essenzialmente di dati della sensazione, di stimoli: ma ogni dato della sensazione, ogni stimolo, pur nella sua indeterminatezza, è già qualcosa che, per così dire, si staglia da uno sfondo, il quale è in se stesso indeterminato e indefinito. Questo sfondo contiene già tutte le distinzioni e tutti gli oggetti, ma solo in potenza [10]. Ma prima di ogni atto percettivo, esso è essenzialmente fluido e non presenta alcun oggetto individuale: "Possiamo anche dire che prima di ogni movimento conoscitivo vi è già l'oggetto della conoscenza come dynamis che deve diventare entelechia [11]. L'attualizzazione di questa potenzialità del campo sensoriale richiede evidentemente l'attualizzazione della potenzialità percettiva del corpo stesso o, in altri termini, l'attività percettiva ridestata dallo stimolo che si rivolge ad essa reiteratamente, che quindi lo afferra ed infine lo apprende, è un'attività che costituisce l'oggetto in quanto tale. Per questo Husserl parla dell'attività percettiva come di una attività di oggettualizzazione. Lo stimolo che si manifesta per la prima volta non è ancora un oggetto, ma un oggetto potenziale e nel momento in cui vi è uno stimolo, un processo di costituzione oggettuale è già in atto. Lo stimolo infatti prende rilievo dal campo sensoriale, ha un suo modo di presentarsi distintamente, anche se non possiede ancora l'individualità e la rigidità strutturale dell'oggetto. 163 Per indicare questa forma germinale di individualità, potremmo introdurre il concetto di emergenza, un termine che - dopo quanto si è detto - appare del tutto naturale. Siamo così passati dalla cosa considerata nella totalità dei suoi attributi a questi stessi attributi considerati come unità fenomenologiche prese isolatamente e infine alle forme più semplici di individualità che indichiamo con il termine di emergenze. Questa regressione implica, d'altra parte - se consideriamo l'intero processo intenzionale - il passaggio a sintesi percettive sempre più semplici: la sintesi che dà la cosa materiale viene operata sugli strati corrispondenti ai suoi caratteri materiali. Ma l'oggetto puramente visivo, ad esempio, presuppone a sua volta la sintesi operata sulle emergenze di un campo sensoriale puramente visivo. Si tratta dunque di risalire a quelle sintesi inferiori che "connettono necessariamente tutte le altre" [12]e di riportarle alla luce descrittivamente. 4. Abbiamo or ora osservato che il nostro problema concernente la costituzione della cosa non può essere posto immediatamente, ma richiede che si regredisca a livelli costitutivi inferiori. Né ci possiamo arrestare alla considerazione della cosa, ad esempio, in quanto è puramente visiva e quindi ad un esame del rosso come dato fenomenologico di una cosa puramente visiva, e neppure del rosso in quanto tale, come colore in sè. In realtà, disporsi sul piano della ricezione e degli stimoli significa prendere in considerazione il nostro vedere attuale del rosso, la nostra impressione del rosso come prima emergenza del nostro campo visivo. I miei occhi sono colpiti da una impressione di rosso: e la nostra descrizione deve cercare di cogliere proprio questa situazione. Il termine di impressione che abbiamo usato a questo punto riporta la nostra attenzione su una tematica che abbiamo toccata in precedenza: quella del tempo. Naturalmente non vogliamo insistere qui su questo aspetto che è molto complesso. Ma pur all'interno dei limiti del nostro discorso è importante sottolineare che non appena cerco di chiarire il senso e i momenti di una fenomenologia della percezione ho a che fare con il problema del tempo. Il concetto di emergenza, che indica una forma ancora germinale di identità, va ricondotto a quello di impressione. Per questo Husserl osserva che già 164 questa identità, puramente impressionale, che subisco passivamente come emergente dallo sfondo fluido e indistinto di un campo visivo, presuppone le operazioni sintetiche della coscienza interna del tempo [13]. A ciò del resto Husserl accenna anche in Ideen II, dove osserva che nel processo regressivo - esemplificato negli strati costitutivi della nota - "veniamo infine riportati a quei dati della sensazione che sono costituiti in modo più primitivo, cioè che si costituiscono come unità nella coscienza originaria del tempo" [14]. Anche l'emergenza dello stimolo è un'unità, ed è per questo che la problematica temporalistica viene qui immediatamente alla luce. Infatti: "La coscienza del tempo è il luogo originario della costituzione di ogni unità identica in generale" [15]. Ma, come abbiamo visto, questa coscienza stabilisce soltanto una forma generale, mentre il "dato che perdura è perdurante solo come dato del suo contenuto" [16]. Ciò significa da un lato che la costituzione percettiva è necessariamente un processo temporale, dall'altro che in questo processo le sintesi operate sono sintesi contenutistiche [17]. Il problema del tempo si ripresenta anche nel momento in cui cerchiamo di chiarire i rapporti tra le emergenze di un campo sensoriale e il campo sensoriale stesso e, in secondo luogo, tra un certo campo sensoriale e un altro campo (ad esempio, tra il campo visivo e quello tattile). Anche questo è un tema che Husserl affronta nel primo capitolo di Esperienza e giudizio. Ogni campo è in se stesso omogeneo mentre è eterogeneo rispetto ad ogni altro campo sensoriale. Ma accertare il senso di questa omogeneità ed eterogeneità richiede analisi particolarmente complesse. Se ci atteniamo sempre al campo visivo, la sua omogeneità ha essa stessa una struttura particolare. All'interno di essa vi sono delle emergenze da cui io sono colpito, che attirano su di sè il mio sguardo. Ad esempio, su uno sfondo bianco si distinguono delle macchie rosse: vi è dunque un contrasto in base al quale le macchie rosse prendono rilievo all'interno del campo visivo. D'altra parte, le macchie rosse - pur nell'indeterminatezza dei loro contorni e nella loro disposizione "casuale" sulla superficie bianca - sono fra loro omogenee, "si fondono a distanza" formando un campo del rosso complessivamente eterogeneo rispetto al campo del bianco. L'omogeneità del campo visivo rispetto a ogni altro campo sensoriale è dunque internamente articolata: ma ogni rapporto di somiglianza e di dissomiglianza, ogni rapporto interno di distinzione presuppone 165 proprio questa complessiva omogeneità del campo visivo stesso. Per questo diremo anche che "le macchie rosse e la superficie bianca sono originariamente affini in quanto datità visive" [18]. È facile intuire che problemi analoghi si pongono a proposito dell'eterogeneità dei diversi campi sensoriali tra loro. La questione del senso di questo terreno di omogeneità, presupposto da ogni posizione di rapporti di somiglianza e di dissomiglianza, di contrasti e di fusioni, introduce direttamente alla tematica fenomenologica dell'associazione. Senza volerci addentrare a fondo in questo problema, notiamo soltanto che l'associazione di cui Husserl parla - distinguendo chiaramente il proprio ordine di considerazione da quello della psicologia associazionistica dell'ottocento - va compreso esso stesso in rapporto alla struttura temporale del decorso percettivo. Il problema dell'associazione è perciò connesso con quello della genesi [19]. D'altra parte, alla relazione associativa intesa in questo senso va riportato anche il rapporto di reciproca indicazione tra oggetti e il fatto che una cosa ricordi o rimandi ad un'altra, funga cioè da suo segno, può essere interpretato anche in questo modo: "Essa si dà in una genesi" [20]. Per questo Husserl osserva che nell'analisi del fenomeno dell'indicazione, contenuta nella prima delle sue Ricerche logiche, vi era già "il germe della fenomenologia genetica" [21]. 5. La direzione in cui ricerche di questo genere sono orientate in Esperienza e giudizio non è tuttavia quella di una esplicitazione sistematica delle strutture percettive. L'intenzione che guida Husserl in queste analisi è piuttosto quella di rintracciare la genesi fenomenologica della logica tradizionale. Questo problema viene limitato da Husserl alla genesi del giudizio predicativo e alle sue modalità, dal momento che il concetto del giudizio predicativo ha un'importanza fondamentale per la forma che la logica tradizionale ha storicamente assunto [22]. Dopo quanto abbiamo detto, sono chiare le ragioni per le quali il problema dell'origine del giudizio pone immediatamente la questione di un'illustrazione descrittiva delle strutture percettive. Ogni giudizio che abbia forma "S è p" presuppone che vi sia già un oggetto di fronte a noi, l'oggetto appunto sul quale esso si pronuncia. Prima del giudizio, vi è già "qualcosa": ma questo "qualcosa" 166 deve avere già una struttura unitaria e un'identità, dal momento che esso è già un oggetto ed è proprio "questa identità, che costituisce il concetto pregnante dell'oggetto" [23]. Di qui la necessità di mostrare in che modo si formino, a partire dalla fluidità del campo sensoriale, degli oggetti come possibili sostrati di giudizio. Ma come abbiamo visto, il processo di oggettualizzazione si svolge in diverse fasi e vi saranno dunque anche diversi gradi dell'identità dell'oggetto. Non vi è un passaggio immediato dalla fluidità indistinta del campo sensoriale iniziale alla fissità e all'identità dell'oggetto. Si tratta appunto di un processo temporale. Lo stimolo iniziale prima soltanto ricevuto e poi afferrato, che cessa per ripresentarsi ancora, in modo da essere alla fine fissato nella memoria, diventa un dato permanente che può essere sempre riconosciuto ad ogni suo ripresentarsi. Ciò è vero anche per ogni campo sensoriale e per le sue interrelazioni interne ed esterne: nel processo complessivo di questa costituzione percettiva io non ho soltanto a che fare con dei semplici dati sensoriali, ma con un mondo di cose che ha una sua configurazione oggettiva. Dalla primitiva attività puramente percettiva, eventualmente suscitata dall'esterno, io posso ora rivolgermi spontaneamente verso il mondo che mi circonda nell'intento di penetrare sempre più a fondo nel suo essere. Ma questa intenzione conoscitiva non irrompe per così dire improvvisamente all'interno di questo processo percettivo. Nel momento semplice del volgersi dello sguardo e del suo posarsi sull'oggetto nell'attenzione, vi è già un'intenzione conoscitiva, anche se ancora primitiva e inconsapevole. Per questo, per Husserl, il problema della praxis percettiva è strettamente connesso con quello della praxis della conoscenza. Nella percezione si costituisce già quell'oggetto su cui il giudizio si pronuncia. Il giudizio stesso, come espressione linguistica, deve essere considerato come un momento ulteriore del processo di oggettualizzazione: esso opera un'ulteriore fissazione dell'oggetto costituito nella temporalità della percezione e mantenuto, ancora in una relativa fluidità, nella memoria e nell'abitudine. Solo in questa ulteriore fissazione linguistica si costituisce un patrimonio stabile di conoscenza e quindi solo nel momento in cui la conoscenza è affidata al linguaggio si può parlare di scienza [24]. 167 Annotazioni 1. Non vi dubbio che una conoscenza più approfondita delle due opere a cui si è fatto più spesso riferimento in questo capitolo - Ideen II ed Esperienza e giudizio - avrebbe impedito la formazione di una immagine convenzionale della filosofia husserliana e della ricerca fenomenologica in generale. D'altra parte, per ragioni diverse, esse rimasero inaccessibili a un pubblico più vasto della cerchia degli stretti collaboratori di Husserl molti anni dopo la morte del filosofo. Caratteristica e ben nota è, in particolare, la reazione di Merleau-Ponty di fronte a Ideen II che egli poté leggere dattiloscritto. La lettura di Ideen II coincise per lui con la scoperta di un nuovo Husserl, che aveva ben poco in comune con l'immagine del filosofo che si era ormai da tempo affermata anche negli ambienti francesi. D'altra parte, è significativo anche che Merleau-Ponty, anziché rimettere in gioco l'intera interpretazione della filosofia husserliana, si accontenti di contrapporre questo Husserl delle analisi percettive all'Husserl eidetico ed essenzialista ��� cosa che prova la difficoltà, che ha anche delle motivazioni oggettive, di situare in maniera adeguata quest'opera all'interno della ricerca husserliana nel suo complesso. La prima edizione di Ideen Il fu possibile solo nel 1952, quando usci, a cura di Marly Biemel, come vol. IV della Husserliana. Quanto a Esperienza e giudizio, il suo destino è ancora più paradossale, dal momento che - come racconta Landgrebe, redattore materiale dell'opera - essa venne stampata nel 1939 ma, in seguito alle vicende della guerra, non venne posta in commercio, ad eccezione di un numero ridottissimo di esemplari. Cosicché si può dire che essa ebbe la possibilità di raggiungere il pubblico soltanto dopo il 1949, quando la Claassen-Verlag di Amburgo intraprese la ristampa dell'opera (si veda la Prefazione di Landgrebe a Esperienza e giudizio, trad. it., pp. IX-XIII). 2. (VC). 170 Note al Capitolo sesto [1] Idee, I, trad. it., p. 59. [2] ivi, II, p. 578 [3] ivi, p. 424. [4] ivi, p. 421. [5] ivi. [6] ivi, p. 421. [7] ivi, p. 422. [8] ivi. [9] Esperienza e giudizio, trad., it., p. 58 (61). - Per comodità del lettore, anche per Esperienza e giudizio, come abbiamo fatto per gli altri testi husserliani, rimandiamo alla traduzione italiana corrispondente. Tuttavia, essa non è sempre utilizzabile ed abbiamo perciò ritenuto necessario in molti casi modificare i passi citati in modo da renderli più conformi al testo tedesco. Il numero tra parentesi e in corsivo indica la pagina corrispondente dell'ed. ted., Erfahrung und Urteil, Claassen Verlag, Amburgo 1954 (II ed.). [10] ivi. [11] ivi, p. 24. [12] ivi, p. 73. [13] ivi, p. 73. [14] Idee, II, trad, it., p. 423. [15] Esperienza e giudizio, trad, cit., p. 73. [16] ivi. [17] ivi, p. 74. [18] ivi, p. 74. [19] ivi, pp. 75-76. [20] ivi, p. 73. [21] ivi, p. 75. [22] ivi, p. 3. [23] ivi, p. 61. [24] ivi, pp. 61-62. 172 173 VII. Il problema di una fenomenologia del bisogno 1. Il privilegio dell'esperienza percettiva e la sua problematicità 2. Il soggetto come corpo vivente 3. Idea di una fenomenologia del bisogno 4. Nota conclusiva 174 175 1. Nonostante la molteplicità delle direzioni di ricerca che abbiamo visto aprirsi di fronte a noi nello sviluppo del nostro discorso, il problema del soggetto è sempre rimasto al suo centro ed ha rappresentato, in certo senso, il nostro filo conduttore. Così, abbiamo cercato di delineare la tematica del tempo, poichè questo problema sorgeva direttamente dalla considerazione del soggetto come forma pura; ed abbiamo affrontato, nelle sue linee essenziali, la questione di una fenomenologia della percezione per il fatto che il soggetto nella sua concretezza si presenta anzitutto come corporeità percettiva. Naturalmente, tra questi due concetti del soggetto vi è una stretta relazione dal momento che se consideriamo l'attività percettiva e il suo operare costitutivo non possiamo prescindere da quella struttura temporale che ci si è rivelata direttamente nella considerazione della riflessione. Inoltre, se dovessimo riprendere il nostro discorso da un punto di vista genetico, dovremmo senza dubbio rovesciare il nostro ordine di esposizione, dal momento che si tratterebbe di ritrovare i momenti fenomenologici del processo che conduce all'autocostituzione riflessiva. Infatti, io posso operare astrattivamente rendendo tematico il soggetto riflettente oppure il soggetto percettivo, ma posso anche porre il problema del processo nel quale il corpo percipiente giunge a nominarsi nell'io, accertando così - sempre all'interno dell'immaginazione fenomenologica - in che modo si formi quella distanza tra il soggetto e il suo corpo alla quale abbiamo già accennato e che è un fatto a tutti ben noto. In questo senso, è necessario affermare che esiste una genesi del soggetto nella stessa misura in cui esiste una genesi delle formazioni oggettive. Del resto ciò è stato osservato anche in precedenza, senza approfondire la cosa da questo punto di vista. Infatti, si può interpretare la connessione notata tra l'attività percettiva e l'attività propriamente conoscitiva da un lato come un processo di formazione costitutiva di oggetti complessi di ordine superiore, dall'altro come evoluzione del soggetto percettivo che dalla ricezione passiva dello stimolo e dalla sua reazione immediata ad esso diventa in grado di rivolgersi spontaneamente ai suoi oggetti, di conservare nel ricordo le esperienze passate, di operare immaginativamente sui dati presenti e passati, di creare formazioni quasi-percettive, ecc. L'oggetto 176 percettivo, l'oggetto immaginato, l'oggetto "astratto" possono essere considerati come formazioni a cui corrispondono momenti diversi del soggetto costituente. Ma anche senza tentare un'esplicitazione di questo genere, una cosa è assolutamente certa. Nel procedere dall'esperienza ricettiva sino alle formazioni superiori della percezione, io posso costituire la cosa materiale o un mondo di cose, ed anche un mondo puramente possibile sino a pervenire ai sistemi di oggettività ideali dai quali è scomparsa l'idea stessa di "mondo". Ma nessuna intenzionalità di altro genere, nessun significato pratico o strumentale, nessun predicato di valore può a un certo punto irrompere in questo processo. E correlativamente il soggetto potrà essere percettivo, immaginativo o attivo puramente nell'astrazione, ma non assumerà mai il senso di un soggetto che interviene praticamente sull'oggetto, per modificarlo nella sua forma, per utilizzarlo, e così via. La percezione, abbiamo detto, è una praxis, ma in questa praxis specifica - che si trova all'origine dell'atteggiamento teoretico o conoscitivo nessun significato pratico può alla fine inerire all'oggetto. E il mondo costituito in esso sarà sempre un mondo di cose materiali oppure, eventualmente - nei gradi geneticamente superiori dell'attività conoscitiva - un ordine di oggetti immaginari e astratti. E questo mondo non è - come sappiamo - quello che mi è immediatamente alla mano, che mi si offre anzitutto nei suoi significati storici e pratici, nei suoi oggetti d'uso e di valore. Tutto ciò è del resto naturale, dal momento che per rendere tematico il soggetto percipiente io ho neutralizzato tutti gli attributi che mi appartengono in quanto io sono questa persona e nello stesso tempo il mondo che mi circonda è stato ridotto a mera natura. Ora, l'essere personale è in senso molto generale "pratico" ed essenzialmente pratica è anche l'esperienza che io ho in quanto persona del mio mondo circostante. "Gli oggetti esperiti, in quanto oggetti di questo senso dell'esperienza, stimolano il mio desiderio oppure rispondono a certi bisogni in relazione con certe circostanze coscienzialmente costituite, per es. in relazione con il bisogno di nutrizione che di continuo si ridesta. Più tardi possono essere appresi in quanto adatti a rispondere a simili bisogni oppure in quanto utili a una certa proprietà; allora, dal punto di vista dell'apprensione, sono presenti come mezzi di nutrizione, come oggetti di utilità di un genere qualsiasi: materiali combustibili, zappe, martelli, ecc. Io per es. vedo il carbone come un 177 combustibile; lo riconosco e lo riconosco come utilizzabile e come utile al riscaldamento, come un materiale atto a produrre calore. - Io vedo che qualcosa brucia oppure è arroventato; mi avvicino un po' di più e mi accorgo che da esse irradia calore; io so questo anche in base all'esperienza, e l'oggetto è 'caldo' anche se io non ho la sensazione di gradi calorici. Il calore è una qualità obiettiva, che si manifesta attualmente nelle sensazioni di calore e nelle apprensioni dell'irradiazione del calore dall'oggetto L'oggetto diffonde calore, e il calore in quanto qualità obiettiva dell'oggetto è un calore immodificato, un calore sempre uguale, mentre io, spostandomi a un a maggiore o minore distanza, ho sensazioni di calore diverse. Io esperisco inoltre che l'oggetto sfregato oppure acceso per contatto con un corpo che già brucia o è arroventato, si arroventa a sua volta: è una materia 'combustibile' (e ciò, dapprima, senza una relazione pratica). Ora posso utilizzarlo come combustibile, lo valuto come un possibile diffusore di calore, oppure lo valuto in relazione con il fatto che, mediante esso, posso ottenere il riscaldamento di una camera e suscitare così, per me o per altri, gradevoli sensazioni di calore. Io ne ho un'apprensione da questo punto di vista: posso utilizzarlo a questo scopo, mi è utile a questo scopo; anche altri hanno un'apprensione analoga; allora l'oggetto ottiene un valore d'uso intersoggettivo, nell'associazione degli uomini viene valutato e merita di essere valutato in quanto utilizzabile a questo scopo, in quanto utile agli uomini, ecc. In questo senso viene 'considerato' immediatamente; ulteriormente viene considerato una 'merce' che può essere venduta a quello scopo, ecc." [1]. Il concetto di esperienza percettiva - che si sviluppa poi come esperienza propriamente conoscitiva - non coincide dunque con quel concetto "quotidianamente concreto e familiare" di esperienza, il quale rimanda "al comportamento praticamente attivo e valutativo piuttosto che, in modo specifico, a quello conoscitivo e giudicativo" [2]. Si tratta indubbiamente di un concetto più esteso rispetto a quello puramente conoscitivo. Ma il problema reale sta nel fatto che l'orizzonte del mondo, nel quale io vivo "non è determinato soltanto dai caratteri familiari dell'ente derivanti dalla praxis della conoscenza, ma anche anzitutto da quelli derivanti dalla praxis vitale quotidiana della manipolazione" [3]. Se dunque assumiamo un concetto generalizzato della praxis, all'interno del quale distinguiamo una praxis che si rivolge percettivamente alle cose (e quindi in modo conoscitivo o "teoreti- 178 co") da una praxis che invece "pone mano" ad esse per modificarle e riplasmarle all'interno di un sistema di fini, è lecito chiedere che tipo di rapporto intercorra fra l'una e l'altra, se vi sia una connessione essenziale o una reciproca indipendenza. Si tratta, come è facile comprendere, del problema, che ha tutta una sua storia, del rapporto praxis-teoria, che in sede fenomenologica si pone in modo del tutto peculiare, abbracciando un arco di temi che in gran parte non vengono considerati nella sua elaborazione tradizionale. Naturalmente, come abbiamo già avuto occasione di osservare, non incontriamo alcuna difficoltà di principio se ci accingiamo ad un'analisi fenomenologica dell'oggetto pratico in quanto tale. Il fatto che ora non mi interessi di questo oggetto per ciò che esso è in se stesso, ma che io mi occupi di esso utilizzandolo come uno strumento implica soltanto che nella illustrazione fenomenologica io faccia riferimento all'atteggiamento intenzionale corrispondente dell'utilizzazione. Tenendo della molteplicità degli atteggiamenti possibili e del fatto che io sono libero di assumere ora questo ora quell'atteggiamento, si tratterà soltanto di accertare in che modo essi sono intrecciati l'uno con l'altro in ogni caso determinato. Se ad esempio consideriamo l'esecuzione di una attività lavorativa, la percezione che accerta, per così dire, l'oggetto del lavoro nel suo essere e l'attività lavorativa che lo modifica e lo riplasma concretamente sono insieme connesse in modo tale che la trasformazione della cosa tendente a fare di esso un "utilizzabile" poggia sulla percezione della cosa in quanto tale nella sua forma primitiva ed un accertamento della cosa stessa come prodotto finito precede l'attività del "mettere da parte" per il suo uso futuro[4]. Ma la cosa muta completamente di aspetto se si considera che, in Husserl, la costituzione puramente percettiva presenta per così dire un carattere privilegiato in quanto è in essa che vengono elaborate le basi per le ulteriori formazioni costitutive, comprese quelle propriamente pratiche. È in questo senso che Husserl sostiene la preminenza dell'esperienza intesa in senso ristretto, con una consapevolezza metodologica che non troviamo, ad esempio, e per ragioni non casuali, in un Merleau-Ponty. È possibile rifarsi all'esperienza in senso ristretto, osserva Husserl, per il fatto che "sia il fare pratico che quello puramente conoscitivo è fondato sull'esperienza in questo senso" [5]. Se l'esistenza del mondo è il presupposto dell'interesse conoscitivo, essa lo è anche di quello pratico. Ogni mio atto diretto praticamente alle cose, presuppone 179 l'esistenza del mondo circostante come orizzonte, non meno di ogni atto diretto ad esse nella praxis conoscitiva[6]. Lo stesso si deve dire per il campo dell'affezione: esso può anche essere stimolo di un agire pratico, e nel momento in cui si procede dalla passività a un comportamento pratico "è già da sempre presupposta una primitiva attività di conoscenza, un cogliere l'ente come determinato in questo o in quel modo, un frammento di esplicazione" [7]. Tuttavia il privilegio della praxis percettiva non è in sè affatto ovvio, ma va giustificato fino in fondo rispetto a quella praxis della vita che è la praxis nella quale io stesso sono, nella totalità dei miei interessi. Di qui il fatto che Husserl anzitutto neghi questo privilegio per riaffermarlo poi sotto precise condizioni: "L'io che vive concretamente nel suo mondo circostante, dedito ai suoi scopi pratici, non è affatto prima di tutto un io osservante. Per l'io, preso nel suo concreto mondo della vita, osservare un essere è un atteggiamento che esso può assumere occasionalmente e provvisoriamente senza che quest'atteggiamento possieda una particolare eccellenza" [8]. Del resto, questa constatazione poggia su uno dei motivi di fondo della critica husserliana all'assolutizzazione dell'atteggiamento teoretico che caratterizza per essenza l'operare dello "scienziato della natura". Nella nostra vita quotidiana, osserva Husserl in Ideen II, non vediamo sempre il mondo da un punto di vista naturalistico "come se fossimo sempre intenti a praticare la fisica o la zoologia, quasi che il nostro interesse teoretico ed extrateoretico dovesse immancabilmente puntarsi sullo psichico in quanto fondato nel corpo proprio, in quanto realmente dipendente dal corpo proprio e con esso intrecciato in un senso reale-causale. Ciò non avviene sempre nemmeno per lo zoologo e per lo psicologo naturalista; semplicemente, questi scienziati hanno assunto l'abitudine stabile, di cui in genere non riescono più a dirompere i limiti, per cui, appena assumono l'atteggiamento scientifico, esso è immancabilmente un atteggiamento naturalistico (o, ed è lo stesso, un atteggiamento puntato verso la realtà 'obiettiva'). Hanno insomma paraocchi abituali. In quanto studiosi, non vedono più che la 'natura'. Ma in quanto persone, essi, come chiunque altro, vivono e sanno di essere costantemente soggetti del loro mondo circostante. Vivere come persona significa porre se stessi come persona, trovarsi in rapporti coscienziali con un 'mondo circostante' e porsi in simili rapporti. Da una considerazione più precisa risulterà anzi come non si tratti qui di due atteggiamenti ugualmente legittimi e si- 180 stemabili su uno stesso ordine, oppure di due appercezioni parimenti legittime e insieme compenetrantesi, bensì che l'atteggiamento naturalistico è subordinato a quello personalistico e che attraverso l'astrazione o, meglio, attraverso una specie di auto-oblio dell'io personale, ottiene una certa autonomia, assolutizzando così, e in modo illegittimo, il suo mondo, la natura" [9]. Ma a questo motivo di fondo, che implica l'affermazione dell'anteriorità del mondo storico-culturale rispetto a quello puramente scientifico-naturale, si ricollega il motivo nuovo secondo il quale in realtà "la successiva riflessione filosofica sulla struttura del mondo dell'esperienza immediata, sul nostro mondo della vita, mostra che alla percezione osservativa conviene un carattere di eccellenza per il fatto che essa scopre ed assume come suo tema le strutture del mondo che stanno alla base di tutto, anche di ogni comportamento pratico, sebbene non divengano in generale tematiche" [10]. E ancora: "Affinchè qualcosa possa essere data come usabile, temibile, repellente, attraente o in qualsiasi altro modo, essa deve in certo modo esserci presente come coglibile coi sensi, data in esperienza sensibile immediata, anche se noi non ci inoltriamo nella percezione di essa e non tentiamo quindi di esplicarla, coglierla in pura osservazione, esplicitarla nelle sue qualità sensorialmente percepibili, ma se, sulla base di questa sua presenza sensibile, attrae immediatamente a sè il nostro interesse pratico o affettivo, dandosi a noi come questo ente utile, attraente o repellente. Ma tutto ciò si fonda appunto sul fatto che si tratta di un sostrato dotato di qualità esperibili in semplice esperienza, alle quali riconduce sempre la via di una possibile esplicitazione" [11]. Tuttavia, questa spiegazione, nonostante la sua evidenza, lascia aperto più di un problema. Se è vero infatti che ogni interesse o impegno pratico verso la cosa presuppone la cosa stessa nel suo essere, d'altra parte l'intenzionalità semplicemente percettiva per quanto possa arricchirsi di mediazioni non può per principio essere produttiva di quella complessa significatività storico-umana, nella quale il mondo circostante ci è dato anzitutto nella nostra esperienza concreta. Riconoscere nell'esperienza percettiva un momento necessario dell'esperienza concreta non significa ancora aver mostrato in quale forma fondamentale si presenti questa connessione: questo problema appare perciò soltanto differito. Esso ricompare in tutta la sua evidenza nel momento in cui consideriamo l'intera questione da un punto di vista genetico. Così come il discor- 181 so che abbiamo condotto sino a questo punto può anche essere interpretato come una indicazione della genesi del soggetto teoretico, del soggetto che opera nell'interesse della conoscenza - la stessa impostazione genetica può essere riproposta per il soggetto pratico, cioè per il soggetto propriamente storico, che ha fra le sue facoltà quella di dirigersi liberamente verso il mondo che lo circonda per conoscerlo nel suo essere e per modificarlo. 2. Per impostare questo nucleo di problemi, noi dobbiamo ancora una volta dirigere la nostra attenzione sulla riduzione alla corporeità nella quale abbiamo determinato un primo concetto del soggetto. Noi eravamo pervenuti a identificare il soggetto e il suo corpo e in base a questa identificazione abbiamo anche parlato di corposoggetto Abbiamo quindi inteso questa corporeità essenzialmente come facoltà di percezione. Solo che dobbiamo ora notare qui un fatto, molto semplice, che in precedenza era stato solo tacitamente presupposto. Il corpo a cui siamo pervenuti nella nostra riduzione è infatti un corpo vivo e soltanto per questo esso è anche un corpo percettivo. Questa constatazione elementare ci indica che, in realtà, nell'assumere semplicemente e direttamente la corporeità come percezione avevamo già operato una limitazione nella considerazione dell'essere del corpo. Infatti, ciò che ci interessa qui non è la vita del corpo come condizione del suo essere percettivo, ma il fatto che la considerazione del suo semplice operare percettivo è limitativa rispetto alla considerazione del corpo stesso, nella sua totalità, come corpo vivo. Oppure, in altro modo: la praxis corporea della percezione deve essere considerata come interna alla praxis della vita del corpo. La riduzione alla corporeità va dunque reinterpretata da questo punto di vista, nel quale è anzitutto determinante l'indicazione del corpo-soggetto come corpo vivo. Noi infatti abbiamo proceduto dalla posizione dell'io-polo all'identificazione del mio corpo come centro di convergenza dei miei atti intenzionali. Ora dobbiamo identificare questo corpo-soggetto con il fatto che esso è un corpo vivo. Un corpo senza soggetto è un corpo senza vita e la riduzione che abbiamo operato in precedenza ottiene il suo senso ultimo nel raggiungimento di questo "residuo" che sono io stesso unicamente 182 come corpo che vive. Per questo posso dire che il mio corpo vivente è l'ultimo limite della mia vita soggettiva. E la vita del corpo puramente come tale è la prima e fondamentale determinazione di me stesso in quanto sono un soggetto. Se ci è sembrato ovvio che la corporeità viva sia una condizione di ogni operare attivo del corpo, e quindi anzitutto del suo operare percettivo, non così ovvia sembra l'idea che un corpo in quanto soltanto vivo sia già un soggetto. Potremmo dire anzi che questa asserzione rappresenta il punto estremo a cui perviene la dissoluzione fenomenologica di ogni ipostatizzazione idealistica del soggetto. La facoltà di rivolgersi a se stesso del soggetto nella riflessione si fonda sulla facoltà originariamente propria del corpo stesso, in quanto organo di percezione, di autopercepirsi. Un soggetto che sia soltanto facoltà di rivolgersi a se stesso nel pensiero non esiste. Esso presuppone un corpo: non nel senso che esso deve semplicemente avere un corpo, ma anzitutto nel senso che deve esserlo. E anche infine nel senso che il "soggetto" come identità costituita nel pensiero ha la sua origine nell'identità del corpo con se stesso che il corpo costituisce nell'autopercezione. Tuttavia ciò non basta ancora. Il corpo è già un soggetto puramente in quanto è vivo e prima ancora di "apprendersi" nella sua identità rivolgendosi percettivamente a se stesso. Questo è il problema di fronte al quale Husserl si trova in un complesso paragrafo di Ideen II, dove tenta una indagine sulla "costituzione dell'io personale prima della riflessione". "Il grande problema" scrive Husserl "è questo: l'io personale si costituisce sulla base di riflessioni dell'io, si costituisce cioè originariamente sulla base della pura autopercezione e della pura autoesperienza?" [12]. La risposta di Husserl è negativa. Il soggetto che io stesso sono è il soggetto della sua vita - e vivendo esso si evolve. Ma questo soggetto puramente vivente non ha anzitutto esperienza di se stesso: è rivolto verso le cose in una attiva riplasmazione. Esso non è "in virtù dell'esperienza", ma della vita. Si può osservare che questa risposta è oscura: che in essa non si parla esplicitamente della corporeità e che quindi, forse, la nostra è soltanto una interpretazione. Noi crediamo tuttavia che si tratti di una interpretazione ben fondata. Verso la fine del paragrafo leggiamo che questo soggetto "costituisce" il proprio mondo circostante "e in questo processo è motivato, sempre di nuovo motivato, non in un modo qualunque, bensì sempre nell'atteggiamento dell'autoconservazione" [13]. 183 D'altra parte, sarebbe per noi privo di senso ridurre questo problema a una semplice questione esegetica. In realtà non si tratta tanto di verificare una certa impostazione di discorso su alcuni testi, quanto piuttosto di cogliere un nodo problematico che può rivelarsi produttivo. Questo nodo noi lo rileviamo, in particolare, nella considerazione husserliana della costituzione del soggetto storicopratico, di ciò che Husserl definisce io personale, e naturalmente anche della corrispondente costituzione del mondo circostante di questo soggetto, del mondo propriamente storico. Ora, nonostante la massa di ricerche che Husserl dedica a questo ambito di problemi, si tratta - qui più che altrove di materiale non sufficientemente elaborato, e di ciò è una prova eloquente la terza sezione di Ideen II. Ma vi sono - tra i molti problemi toccati nel tentativo di impostare questa tematica - due idee che hanno per noi, in questo contesto, una particolare importanza. Anzitutto: ciò che caratterizza l'essere personale (storico) del soggetto è la sua praticità; e in secondo luogo: il soggetto personale non ha "origine" nel corpo in quanto facoltà di percezione e quindi di autopercezione, ma in quanto esso è anzitutto un corpo vivente. Ciò spiega anche per quale motivo il problema del bisogno, che affiora qui e là in un'opera come Ideen II come una fra le altre esemplificazioni illustrative assuma invece un'importanza centrale in alcuni dei manoscritti più tardi. 3. Il problema di una fenomenologia del bisogno si pone dunque nel momento in cui rivolgo la mia attenzione al vivere del corpo in quanto tale come base di ogni vita soggettiva in generale. Ciò che noi consideriamo fin dall'inizio è la costante permanenza del corpo nella sua vita, dal momento che non avrebbe senso attribuire al soggetto vivente quel carattere di pura potenzialità che abbiamo invece riconosciuto come proprio sia del soggetto riflessivo che di quello percettivo. In ogni momento, questo corpo è già vivo e permane tale. Non vi è dunque una potenzialità della vita, così come vi è una potenzialità della riflessione e della percezione. Il corpo si trova sempre nell'attualità della vita, in ogni momento è vita attuale che permane attuale. Ma si tratta di una permanenza attiva che proprio per questo si distingue dalla semplice persistenza delle cose. Vi è un costante cedere della vita ed una sua costante ripresa e l'essere vivo 184 del corpo è una tensione, attivamente mantenuta, tra la vita stessa e il suo venir meno. Perciò diciamo che il corpo si mantiene in vita e indichiamo la permanenza del corpo vivo come un mantenersi costantemente nell'attualità e non come un restare identico a partire dal passato, attraverso il presente, verso il futuro. Il permanere nell'attualità, in questo senso concreto, è dunque, per il corpo vivo, permanere nella mancanza della vita e nella tensione del suo superamento. Il nome che definisce questa mancanza, dando ad essa un significato noto a ognuno e privo di misteri, è il bisogno. E il suo superamento, il movimento della sua integrazione e del suo riempimento è il movimento del suo soddisfacimento concreto. Il bisogno attuale come tensione verso il suo oggetto e l'attività concretamente corporea del suo soddisfacimento, all'interno della quale si apre un nuovo bisogno: questo è il senso del permanere attuale del corpo vivo. La permanenza della vita del corpo ci appare come permanenza del corpo vivo nel bisogno e possiamo dire perciò che, nell'esperienza del bisogno, il corpo ha esperienza del suo stesso vivere. Per questo una fenomenologia del soggetto vivente si pone anzitutto come fenomenologia del bisogno o, più in generale, del corpo stesso come sistema di bisogni. Questo genere di analisi non pone, dal punto di vista metodologico, problemi diversi da quelli che pone una ricerca fenomenologica di qualsiasi altro genere. Anche in questo caso mi riferisco all'esperienza soggettiva. Il carattere di certezza che abbiamo riconosciuto al cogito è proprio anche dell'esperienza vissuta del bisogno: possiamo anzi affermare che il bisogno non è che una modalità del cogito - per quanto forzato possa sembrare ora l'impiego di questa formula. È assolutamente certo che se ho la sensazione della fame, ho questa sensazione della fame e la fame è per me questa sensazione determinata. Ogni nostra riflessione, ogni nostro concetto deve avere la sua giustificazione in questa evidenza e unicamente in essa. Certo, la "fame" in questo senso non è un concetto "scientifico" nella comune accezione del termine: e del resto non e "scientifico", in questa accezione, neppure il concetto di "corpo vivo". Nello sviluppare una ricerca di questo genere, noi non ci occupiamo della fame e della sua soddisfazione come di un processo che concerne questa determinata struttura organica e cellulare. Noi ci atteniamo unicamente a ciò che già sappiamo sulla fame o sul corpo vivo nella nostra esperienza diretta e non pretendiamo affatto che le nostre nozioni si sostituiscano a 185 quelle elaborate dalla scienza. Si tratta di un ambito di discorso di cui è anzitutto necessario sottolineare l'essenziale diversità. Se ad esempio io considero l'esperienza soggettiva di un oggetto che stimola la mia fame, la "causalità" che mi spinge verso di esso ha un carattere essenzialmente diverso dalla causalità intesa in senso fisicalistico: "L'oggetto mi stimola in virtù delle sue qualità esperite: non delle qualità fisicalistiche, di cui io posso anche non sapere nulla e che, anche quando so di esse, possono anche non essere vere. L'oggetto (nell'ambito delle intenzionalità dell'esperienza oppure di un sapere sperimentale indiretto, in virtù delle proprietà che così gli vengono attribuite) mi stimola a mangiare. Questo oggetto è un bene rientrante nella classe dei mezzi di alimentazione. Io mi accingo a mangiarlo. Questo è un nuovo genere di 'effetto' soggettivooggettivo" [14]. Lo stesso si può dire per ogni altro operare corporeo, come il muovere, lo spingere, il trascinare, e così via: "Certo, il prodursi del movimento meccanico della mia mano e la sua azione meccanica sulla sfera che viene 'spinta' è un processo fisico-reale. Ma allo stesso titolo, l'oggetto 'quest'uomo', 'questo animale', partecipa con la propria 'psiche' a questi eventi, e il suo 'io muovo la mano, il piede' è un processo psicofisicamente intrecciato, che va spiegato da un punto dì vista reale-causale nel contesto della realtà psicofisica. Ma qui non si dà un processo psicofisico, bensì un rapporto di ordine intenzionale: io, il soggetto, muovo la mano; ciò che questo significa per un modo di considerazione soggettivo esclude qualsiasi ricorso a processi cerebrali, a fenomeni nervosi, ecc." [15]. Questo è il punto di vista che deve essere fatto valere anche in rapporto al problema che qui ci interessa più direttamente, in modo da evitare sia di cadere nel tentativo di costruire una "filosofia della vita" che ci illumini sulla sua essenza, sia di pretendere di elaborare una filosofia "legittima" della vita "fondandola" su qualche dubbia generalizzazione di nozioni sviluppate all'interno delle scienze. Inoltre, per lo stesso orientamento della nostra ricerca, non si pongono neppure, inizialmente, quelle domande che sembrano invece richiedere una risposta immediata, se ci si pone da un punto di vista oggettivo. Viene spontaneo, ad esempio, chiedere se nel porre le cose in questo modo, nell'impostare cioè la questione della praticità storica del soggetto a partire dalla considerazione del suo essere anzitutto un corpo vivo, non si riesca poi alla fine a giustificare il carattere di storicità, che sembra appunto contraddistinguere la vita 186 di questo animale che si chiama uomo da quello degli animali delle altre specie. Ma si tratta di un problema che può essere rimandato. Nella nostra attuale finzione riduttiva nulla sappiamo del fatto che il tempo delal vita della specie umana può assumere il senso di un tempo storico, e nemmeno sappiamo dell'esistenza di animali di altre specie come del resto di animali che il corpo vivo possa riconoscere come appartenenti alla propria specie. Si tratta di una questione che dovrà essere affrontato nel momento in cui ci imbatteremo nella questione della costituzione intersoggettiva, che su questo piano di discorso significa: costituzione da parte di questo corpo vivo di un altro corpo vivo come sistema di bisogni. Perciò, non si richiede fin d'ora da parte nostra alcuna decisione sul significato della storicità del tempo umano in rapporto al tempo della vita animale. All'inizio, ci muoviamo in una situazione solipsisticamente delimitata - anche se, come si può intuire fin d'ora, il "superamento" di questa situazione avrà un senso necessariamente diverso da quello che caratterizza la costituzione puramente percettiva dell'altro corpo inteso esso stesso come puramente percettivo. Senza volersi inoltrare in questo campo, ci basta fissare ora la possibilità e la legittimità di una analisi fenomenologica del corpo vivo come sistema di bisogni e sottolineare l'importanza essenziale che essa assume. Da un lato, infatti, il bisogno ha un carattere intenzionale che va chiarito nella sua struttura specifica, dall'altro l'intenzionalità del bisogno - se viene considerata all'interno del nostro discorso complessivo - si trova alla base di ogni altra forma di intenzionalità. Mi sembra giusto far notare a questo proposito che nulla illustra meglio il senso generale della "coscienza intenzionale" del rapporto che è immediatamente messo in atto dal bisogno. Il bisogno è per essenza bisogno di qualche cosa. L'oggetto è gi�� dato nel momento in cui un bisogno è desto: ma come un assenza, come un vuoto che deve essere riempito. Per questo il corpo nel bisogno è gettato per così dire fuori di sè, "si rivolge" a qualche cosa di completamente altro, che deve fare proprio distruggendolo nella sua esteriorità Ma anche: l'oggetto del bisogno, che è sempre al di fuori del corpo, di fronte ad esso - assente o non ancora raggiunto - è in realtà sempre il corpo stesso che vive. Nel soddisfacimento del bisogno singolo, che è sempre integrato nel sistema, ciò che si soddisfa è la vita stessa. Il corpo vivo è dunque, nel bisogno, rivolto a 187 qualcosa di totalmente altro; alle "cose" da cui è circondato, ma nello stesso tempo questa intenzionalità è per essenza rivolta al soddisfacimento del corpo vivo: la praxis che si dirige verso l'oggetto per consumarlo non si perde, per così dire, in esso, ma è una praxis che, nel consumo, opera produttivamente in funzione della vita del corpo. Questa praxis concreta del soddisfacimento, nella quale il corpo si mantiene in vita producendo e riproducendo se stesso, è la struttura intenzionale più semplice e primitiva alla quale va attribuita un'anteriorità genetico-costitutiva rispetto ad ogni altra modalità della praxis. 4. Uno sviluppo della tematica fenomenologica del soggetto sembra ricondurre, attraverso una complessa stratificazione di piani di discorso, al problema della vita materiale dell'uomo come fondamento del suo essere storico-pratico. Proprio per mettere in luce questo cammino - che non trova qui il suo termine, ma un nuovo inizio - siamo partiti dal punto più lontano, dal soggetto inteso come pura facoltà di riflessione, per giungere a questa identificazione tra l'essere del soggetto in quanto tale e la vita del corpo. Questo modo di procedere ci ha d'altra parte consentito di eliminare progressivamente gli equivoci che potevano ancora permanere intorno al senso del soggetto e della soggettività. Perchè ora appare chiaro che quando parliamo della radicale praticità del soggetto intendiamo indicare anzitutto la praxis del soddisfacimento, che continuiamo perciò a definire soggettiva. Ci si può chiedere per quale motivo questa terminologia venga mantenuta, e se non si debba invece, a questo punto, parlare più semplicemente dell'uomo, dei suoi bisogni, del modo in cui li soddisfa. Ma se si riflette su tutto ciò che precede l'introduzione della problematica della corporeità e di una fenomenologia del bisogno e della praxis, ci si accorge che ogni cautela nelle espressioni di cui ci serviamo, ogni insistenza su alcuni momenti del nostro discorso appare del tutto giustificata. È opinione comune che nel momento in cui abbiamo finalmente deciso di interessarci dell'uomo, appunto e non in quanto ente astratto - ma dell'uomo concretamente vivente, il quale per vivere ha anzitutto bisogno di 188 mangiare, di bere, di vestirsi e di altre cose ancora - si sia anche annullata con un tratto di penna l'intera sfera delle ricerche costitutive, di cui abbiamo dato in precedenza qualche esempio, oltre che lo stile in cui esse possono essere condotte. In realtà, ciò che si vuole affermare è proprio l'opposto: il risultato più consistente a cui siamo pervenuti non solo impone una complessiva ricomprensione dei temi precedentemente sviluppati in modo da approfondirne il senso, ma rappresenta esso stesso una nuova premessa, un nuovo ovvio presupposto che può essere reso esplicito e svolto nei suoi contenuti significativi solo restando all'interno dell'atteggiamento fenomenologico e della considerazione intenzionale. Per questo motivo è importante pervenire a questo terreno proprio sviluppando nel modo più articolato possibile il tema del soggetto e delimitando di volta in volta con chiarezza le nostre situazioni di ricerca. Parlare del corpo vivente come soggetto non è una semplice questione terminologica e neppure dipende dall'assunzione o meno di una determinata "prospettiva filosofica". Infatti solo sulla base di una impostazione fenomenologica - assunta senza falsi dogmatismi e in una continua rielaborazione, abbandonando ciò che si dimostra inutile e rilevando gli elementi che possono essere fecondi - è possibile elaborare un'idea della soggettività priva di enfasi speculative fuori luogo. Tutto ciò presuppone che, all'interno della ricerca di Husserl, si colga essenzialmente l'aspetto critico verso l'impostazione "idealistica", un aspetto che pur non essendo portato alle sue ultime conseguenze, noi riteniamo essere uno dei motivi di fondo della filosofia husserliana. In alcuni appunti sulla filosofia postkantiana redatti intorno al 1914, Husserl indica l'ipostatizzazione dei concetti formali come uno degli elementi critici fondamentali che caratterizzano quello che egli chiama l'"idealismo romantico". E osserva: "La sfera empirica viene costruita con concetti formali e, in linea del tutto generale, i concetti formali si trasformano in esistenze reali, vengono pensati come forze e come essenze reali" [16]. Attraverso la falsa concretizzazione della forma viene meno, secondo Husserl, anche la funzione interpretativa che il discorso sulle essenze deve svolgere e di qui ad una costruzione metafisica il passo è breve. La delimitazione del senso dell'analisi "eidetica" e soprattutto l'impostazione costitutiva che ca- 189 ratterizza la ricerca fenomenologica sono la risposta più consistente di Husserl alle ipostatizzazioni idealistiche. Rendere realmente operante su tutti i piani di ricerca l'impostazione costitutiva significa mostrare la genesi di ogni struttura oggettiva e impedire quindi che questa oggettività assuma il senso di ciò che è dato all'inizio e una volta per tutte. Se ciò è vero per ogni oggetto in generale, sarà a maggior ragione vero per le oggettività storico-sociali, per quegli oggetti cioè che mostrano in modo ancora più diretto il loro vincolo necessario con l'operare soggettivo costituente. All'interno di questa impostazione di ordine generale, abbiamo cercato di mettere in luce che la concezione fenomenologica del soggetto passa in certo senso attraverso la riflessione idealistica, ma si presenta nei suoi e nelle sue linee essenziali come una critica del soggetto idealistico ipostatizzato. Orientare la nostra ricerca in questa direzione, individuare queste possibili linee di sviluppo significa rilevare l'intenzione più profonda della ricerca husserliana e nello stesso tempo esercitare una critica di quei momenti, ancora presenti in essa, nei quali questa intenzione appare offuscata. Ancora una volta va qui ribadito ciò che abbiamo affermato fin dall'inizio: i concetti e i temi fenomenologici, sia quelli che hanno un prevalente carattere metodologico, sia quelli che emergono direttamente da una determinata ricerca, non possono pretendere una fissazione definitiva e l'assunzione di un punto di vista fenomenologico può essere efficace solo a patto che esso non rappresenti la chiusura in un sistema concettuale predeterminato e solo se si riconosce il privilegio della norma unicamente alle cose stesse che debbono essere chiarite nel loro senso e nella loro struttura. Annotazioni 1. Nella lettura che Enzo Paci fa dei temi di una possibile fenomenologia del bisogno, ci si orienta verso la prospettiva di un marxismo rinnovato e riscoperto. Scrive Paci: "L'uomo in quanto essere materiale e vivente, è un uomo che ha dei bisogni. Il rapporto tra l'uomo e la materia è anche un rapporto tra il soggetto che ha bisogno e i beni che soddisfano i bisogni. sul piano precategoriale ciò vuol dire 190 che una fenomenologia del bisogno vissuto dal soggetto in prima persona si può porre come base dell'economia politica come scienza. La stessa intenzionalità potrà assumere, allora, un nuovo significato. Essa si rivelerà non solo come coscienza di qualche cosa ma anche come dipendenza da qualche cosa. La mia soggettività sul piano economico precategoriale, si potrà rivelare come bisogno di qualche cosa che condiziona la vita. La crisi delle scienze apparirà, precategorialmente, come crisi economica e categorialmente come crisi dell'economia politica che si rivelerà come scienza delle decisioni, per usare l'espressione che Husserl usa per la psicologia. Per l'economia resta vero che l'uomo non è soltanto oggetto di studio, oggetto astratto, produttore astratto. La stessa cosa vale per l'antropologia fisica: l'uomo non è nemmeno l'oggetto culturale di una antropologia naturalistica del tipo di quella di Malinowski. L'uomo è il protagonista della storia. Pur rimanendo 'scientifiche', e anzi proprio se saranno veramente scientifiche, economia e antropologia dovranno diventare storiche intenzionali e orientate: non potranno nascondersi nella maschera di una mitologica neutralità. Le implicazioni qui indicate sono rimaste, per Husserl, occultate: esse potranno permettere una correzione e un rinnovamento della fenomenologia". E. Paci, Funzione dette scienze e significato dell'uomo, op, cit., p. 197. Questo problema, sempre presente nel volume di Paci or ora citato, è sviluppato più estesamente, e con particolare riferimento a Marx, Sartre, Merleau-Ponty e Lukàcs, nella Parte III, pp. 305-466. La prima discussione diretta del rapporto fenomenologia e marxismo può essere considerata l'opera di Tran-Duc-Thao, Phénoménologie et matérialisme dialectique, Parigi 1951, che presenta peraltro un orientamento del tutto diverso. 2. 191 Note al Capitolo settimo [1] Idee, II, trad, it., p. 584. [2] Esperienza e giudizio, trad. it. p. 50 (52). Consideriamo anche le citazioni tratte dall'Introduzione, redatta da Landgrebe, come rispecchianti le idee di Husserl. [3] ivi. [4] ivi p. 82 (84). [5] ivi, p. 51 (52). [6] ivi. [7] ivi, p 51 (53). [8] ivi, p. 63 (67). [9] Idee, II, trad. it., pp. 579-580. [10] Esperienza e giudizio, trad. it., p. 64 (67). [11] ivi, pp. 51-52 (53-54). [12] Idee, lI, trad. it., p. 642. [13] ivi, p. 644. [14] ivi, p. 611. [15] ivi, p. 612. [16] E. Husserl, Erste Philosophie, I, Husserliana VII, p. 411. 192 Giovanni Piana Opere complete vol. ventesimo Fenomenologia, esistenzialismo, marxismo 1. Presentazione (2014)(p. 5) 2. Esistenza e storia negli inediti di Husserl (p. 21) con prefazione di Enzo Paci (p. 25) - Appendice: Significato della fenomenologia (p. 135) 3. Il filo di Arianna. Nota su Husserl e Heidegger (p. 165) 4. Una critica sociologica di Marx (p. 175) 5. Note su "Storia e coscienza di classe" (p. 187) 5. La nozione di analogia strutturale in "Storia e coscienza di classe" (p. 249) 6. "Storia e coscienza di classe": dal tempo della scrittura ai tempi della lettura (p. 253) 7. Abbozzo per una periodizzazione dello sviluppo (p. 286). 2014 4 Presentazione 5 (2013) I testi che ho ritenuto di poter raccogliere insieme in questo libro sono assai disparati nel loro contenuto, oltre che nello stile, ed è forse necessario, pur a distanza di molti anni dalla loro redazione, che io dica alcune cose intorno ad essi. Intanto, come ho narrato nel volume Stralci di vita, il testo che compare per primo con il titolo Esistenza e storia negli inediti di Husserl, rappresenta la mia tesi di laurea eseguita con Enzo Paci che volle associare alla sua pubblicazione una generosa prefazione. Il libro fu pubblicato nel 1965 da Arrigo Lampugnani Nigri che voglio qui ringraziare ancora una volta come feci tanti anni fa: esso venne redatto a Freiburg im Breisgau tra il 1961 e il 1962 ed era pronto in forma definitiva nel febbraio 1963, quando mi laureai. Penso che sia opportuno rammentare quale fosse la situazione, a quel tempo, per quanto riguarda la pubblicazione delle opere complete di Husserl che doveva comprendere le opere edite ed i manoscritti inediti: impresa monumentale, tenendo anche conto che, come è noto, Husserl era solito pensare scrivendo, e scrivere stenograficamente - cosicché ogni suo scritto doveva essere trascritto in maniera da renderlo leggibile a chiunque. Di questa impresa dobbiamo essere veramente grati all'Archivio Husserl di Lovanio ed alla schiera di operatori che hanno sviluppato questa impresa con inflessibilità inesorabile e con grande competenza. Al tempo in cui io giunsi a Freiburg erano stati pubblicati nove volumi della Husserliana, comprendenti in parte opere già note a cui erano stati aggiunti testi inediti di argomento affine: oggi i volumi pubblicati assommano a quarantadue; e normalmente si tratta di volumi di grandi e grandissime proporzioni. Nella mia personale biblioteca vi sono tre volumi pubblicati nel 1973 come volumi XIII, XIV e XV della Husserliana e intitolati Zur Phänomenologie der Intersubjektivität curati da Iso Kern, di 6 complessive 1800 pagine, spesso scritte a caratteri inferiori alla media, che rappresentano la trascrizione degli inediti relativi all'argomento che mi proponevo di studiare a Freiburg. In realtà avevo preso le mosse dall'idea leibniziana di monadologia - Leibniz è sempre stato un filosofo da me ammiratissimo - e la ripresa da parte di Husserl di questo tema nella Quinta Meditazione cartesiana mi suggerì questa ipotesi di lavoro per la tesi di laurea che Enzo Paci non solo accettò di buon grado, ma sostenne con spirito di autentico Maestro. Guardando ora i libri curati da Kern, il mio pensiero non può che riandare ai fogli in carta carbone che trovai a Freiburg e su cui lavorai duramente anzitutto per decidere quale scelta di lettura sarebbe stato opportuno fare in quelle circostanze. Eugen Fink aveva ricevuto da Lovanio una copia, appunto, in carta carbone di ciò che fino ad allora era stato trascritto - ed insisto su questo dettaglio della carta carbone per rendere noto ai più giovani che non esistevano ancora le fotocopiatrici: all'inizio degli anni sessanta la Xerox cominciava appena con il commercializzare le proprie macchine. Ciò voleva dire, che io non potevo far altro che prendere appunto e copiare a mano le frasi che presumevo utili per le citazioni. Così lavorai per quasi un anno per cavare quello che in fondo è un libriccino che quando occhieggia le più di mille ottocento pagine raccolte e trascritte da Iso Kern si mette a tremare come una foglia. Ma forse non del tutto a ragione: e questo perché, di fronte ad un materiale catalogato alla meglio e ad una tematica di cui non era possibile nemmeno sospettare la sovrabbondanza, presi una decisione che forse era abbastanza ragionevole. Mi proposi infatti di tracciare una sorta di sentiero che, partendo dalla Quinta Meditazione cartesiana, facesse almeno intravvedere le problematiche da essa aperte ed a cui essa avrebbe finito con il condurre. Ne è risultato, almeno così mi sembra, non tanto uno studio filologico (anche se in esso c'è molta attenzione e cura filologica), ma un percorso che intanto confermava la lettura che Enzo Paci andava allora facendo del pensiero di Husserl e che contrad- 7 diceva apertamente le letture e le interpretazioni che erano in voga, per lo più come armi critiche contro la fenomenologia: essere questa niente altro che una riedizione dell'idealismo (e da che pulpito veniva talvolta questa lezione!), che l'essenzialismo fenomenologico ci riportava indietro ad un platonismo astorico e adialettico, con variazioni sul tema più o meno conseguenti. Per non dire l'orrore che suscitava in taluni la parola "soggettività" - e naturalmente "intersoggettività", oppure l'affermazione più volte ribadita da Husserl della ripresa di una prospettiva filosofica "trascendentalistica". La lettura che faceva allora Enzo Paci facendo leva soprattutto sulle Meditazioni cartesiane e sulla Crisi della scienze europee contraddiceva apertamente queste interpretazioni e le critiche connesse; e la mia operina non solo confermava quella lettura, ma anche mostrava un aspetto che divenne per me un vero e proprio filo conduttore che mi guidava nei disordinati meandri dell'opera manoscritta degli anni tra il 1928 e il 1934. che io avevo prescelto per una obbligatoria delimitazioine di campo e attratto già dalle titolature guida che erano state apposte su ciascun manoscritto. Man mano che procedevo nella lettura di quei fogli in carta carbone avevo la netta sensazione che certe insolite accentuazioni di Husserl avessero in Heidegger il loro movente. In un senso duplice: da un lato il filosofo era stato colpito dai temi "esistenziali" heideggeriani che gli erano rimasti a lungo estranei, e dunque si accingeva a renderli oggetti di approfondita meditazione; dall'altro risultava anche chiaro che egli intendeva mostrare come il trascendentalismo fenomenologico, rifiutato da Heidegger, fosse in grado sia di controbattere le critiche heideggeriane, sia di proporre analisi approfondite delle stesse tematiche che Heidegger andava proponendo. Lo sviluppo del problema dell'intersoggettività conduceva Husserl ad accentuare la soggettività come "esserci" (Dasein) - ma in una direzione che conduceva alle tematiche della concretezza corporea, nei suoi strati più profondi, alla tematica degli istintualità, della vita sessuale, degli impulsi: tutto ciò in 8 un orizzonte che non aveva nulla a che fare con i misteri della rivelazione dell'Essere nell'Esserci, o del suo nascondimento, di un Essere che c'era e non c'era, che quando c'era doveva essere cancellato con una croce di Sant'Andrea, come fece Heidegger proprio nell'anno in cui ero a Freiburg, sbucando all'improvviso dalla Foresta Nera, in una conferenza predestinata a diventare famosa. Queste furberie che io, già allora, nel mio piccolo, mi permettevo di considerare, furberie da baraccone, pur rispettando la grandezza del vecchio filosofo tedesco in nome delle opere scritte nella sua gioventù, erano lontane mille miglia dallo spirito che traspariva nei manoscritti di Husserl, per quel poco che mi fu accessibile, nel momento in cui intraprese le vie impervie che lo inducevano a radicare sempre più la soggettività trascendentale in una storicità ricca di senso, fatta di socialità e comunicazione, di una humanitas che traeva la sua vitalità dal sottostrato corporeo e animale, o semplicemente "naturale". Dopo quegli anni naturalmente i rapporti tra il pensiero di Husserl e quello di Heidegger sono stati ampiamente studiati. In particolare si può rammentare che sono state pubblicate persino le annotazioni che Husserl fece in margine a Essere e tempo. E tutti i temi che io tocco nel mio libretto si sono arricchiti enormemente sia di testi manoscritti, sia di studi molto approfonditi con il quale la mia tesi di laurea non può certo competere. Ciononostante, essa manifesta una linea di tendenza, sia pure, come dirò fra breve, un po' fluttuante, che io desidero sottolineare perché in certo senso ne va di mezzo anche la mia successiva posizione filosofica, benché non sia sui temi di questa mia tesi di laurea che essa ha preso forma e si è sviluppata. Si tratta appunto della pronunciata presa di posizione di Husserl che reagisce costruttivamente a Heidegger, estendendo il campo della sua ricerca, ma senza deflettere dal metodo e quindi dalla propria concezione della fenomenologia, ed in ultima analisi della filosofia stessa. In seguito in effetti io presi sempre più le distanze le distanze dall'heideggerismo che si stava diffondendo 9 a macchia d'olio nelle forme più varie e inattese in Italia. Su questo punto è opportuno richiamare l'attenzione del lettore sullo scritto Il filo di Arianna (1989), nel quale mi sembra che si spieghi con sufficiente chiarezza che il problema non è Heidegger come tale, ma una idea della filosofia che io ritenevo e ritengo culturalmente fuorviante - riconoscendo ovviamente in via di principio il diritto di chiunque di interpretare il compito del filosofo a suo piacimento. A mio sommesso parere, la filosofia dovrebbe avere soprattutto un compito orientativo e formativo, sia nel pensiero che nella vita - e quindi insegnare, nella misura del possibile, a formarsi autonomamente idee proprie. Il filosofo dovrebbe anzitutto sentirsi un "maestro" nell'umile e nobile significato del maestro di scuola - parola a sua volta da scrivere con la lettera minuscola - anche se può certo accadere che, per la ricchezza e densità di pensiero, egli diventi spontaneamente Maestro con la maiuscola ed il suo insegnamento faccia Scuola, senza che ciò comporti alcun distacco dalla nobile umiltà delle sue origini. Io credo che la figura di Wittgenstein sia esemplare anche per questo aspetto. Altra cosa è diventare capocorrente di dottrine o orientamenti intellettuali precostituiti e propagandati con la grancassa di tutti gli strumenti del potere possibili, ed in particolare del potere accademico, editoriale, politico e mediatico. L'atteggiamento peggiore di tutti è quello di approfittare di letture male apprese per pastrocchiare con le parole facendo credere all'ascoltatore inevitabilmente ingenuo che colui che sta parlando da filosofo sia un pensatore profondissimo. Uno dei mezzi per ottenere questo risultato è sempre stata l'enfasi, che a sua volta può contare su varie possibilità. Una di queste è ciò che una volta ho chiamato il surriscaldamento dei problemi - che è il far la voce grossa con un nonnulla. Enfasi e surriscaldamento fanno apparire alle spalle di colui che parla, come in una sorta di fondale scenico, l'immagine del pulpito, che è un'immagine del potere. Chi parla dall'alto intende sempre coartare l'ascoltatore. E per 10 quanto mi riguarda io spero che mai alle mie spalle si intravveda un simile fondale. La filosofia praticata con intenti formativi, nella misura delle proprie capacità, ha nel filo di Arianna una sua efficace rappresentazione simbolica. Nel mio breve intervento del 1989, al filo di Arianna si contrappone l'apologia del labirinto, dizione che non intendeva colpire soltanto l'heideggerismo, ma anzitutto un modo di concepire la filosofia mirata a confondere piuttosto che a chiarire. Tuttavia quella dizione non poteva che investire le varie forme di "contaminazioni" con Heidegger, eccelso apologeta del labirinto, che hanno imperversato nella cultura filosofica italiana - per diritto e per rovescio - e che in parte imperversano ancora. Inutile dire che anche il revival di studi intorno a Nietzsche, di cui credo nessuno possa negare il carattere maiuscolo di Maestro, corse molti rischi non certo da parte di Heidegger che lo aveva anzitutto promosso, ma da parte dell'heideggerismo che minacciava di bistrattarlo o inghiottirlo malamente. Uno dei danni, e non dei minori, che questo andamento di una parte della filosofia italiana di quegli anni e degli anni più recenti fino ad oggi - di una parte! e nemmeno maggioritaria, ma certamente di una parte capace di tenersi sempre "in vista" - è stato quello di devastare l'insegnamento dei Maestri della filosofia novecentesca, e se possibile di un passato ancora più lontano. In quel mio piccolo intervento, la cui importanza non vorrei sopravvalutare ma che la storia successiva ha dimostrato essere un significativo, come chiamarlo?, "documento d'epoca", facevo notare che l'apologia del labirinto tendeva fatalmente a trasformarsi in una apologia del silenzio. Fu all'incirca dopo quella data che in effetti si accrebbero le chiacchiere enfatiche sul silenzio - veramente troppe per un simile argomento - pronubo ed antesignano ancora Heidegger. Queste chiacchiere investirono anche un autore che ha detto una sola frase sul silenzio e poi su di esso ha taciuto, e ne ha dette migliaia di altre estremamente acute ed interessanti: alludo a Wittgenstein naturalmente, a cui non è stata risparmiata 11 l'invasività dei cultori del labirinto. Ed ancora oggi, niente meno che quaranta anni dopo la mia Interpretazione del Tractatus (1973), Wittgenstein è ancora un pretesto per "scrivere il silenzio" (in effetti secondo un nostro filosofo, che a detta di alcuni avrebbe messo in discussione tutto il pensiero occidentale, il silenzio lo si può scrivere, e lui sa farlo). A proposito di Wittgenstein mi sia consentito di rammentare un episodio personale che forse spiega il finale improvviso e un poco inatteso di quell'intervento. In quel torno di tempo, mi fu dato in lettura da parte di un'autorevole rivista di filosofia un saggio che mostrava che tra Wittgenstein e Heidegger vi era la differenza di una pagliuzza. Ed io naturalmente mi impegnai a fondo scrivendo una lunga relazione per dimostrare con citazioni assai precise che quel saggio era quanto meno arbitrario, che non vi erano argomenti solidi per "contaminare" l'uno autore con l'altro. Fatica sprecata. Il saggio fu comunque pubblicato. All'autore evidentemente, per qualche ragione, non si poteva dire di no. In un simile contesto i miei vecchi problemi di lettore e interprete dei manoscritti venivano tenuti desti proprio dai numerosi tentativi di cercare fusioni anziché distinzioni - e in particolare, naturalmente, dai tentativi di approssimare le posizioni di Husserl e Heidegger. Debbo comunque fare una precisazione per non essere frainteso: nella filosofia persino gli errori di interpretazione possono essere forieri di intuizioni felici e di sviluppi fecondi; e che una diversa interpretazione, per quanto forse eccessiva e non corroborata a fondo, un accostamento che a tutta prima sembra improbabile e azzardato, può stabilire angolature interessanti per nuove letture e quindi per nuove idee. Inoltre la filosofia è intrinsecamente fatta di incertezze, di dubbi, di azzardi, di esitazioni: le strade della filosofia non sono mai nettamente tracciate e il rischio di perdersi nel bosco esiste sempre, nonostante tutte le buone intenzioni. Cosicché vorrei 12 qui dire due parole sulle mie personali incertezze ed esitazioni facendo un passo indietro e ritornando a Esistenza e storia. Ho detto che in quel libretto vi è una linea di tendenza che per un verso è piuttosto decisa, ma per un altro manifesta una fluttuazione. Il percorso attraverso i manoscritti mi aveva portato ad evidenziare punti possibili di apertura verso temi caratteristici della filosofia marxista - ad esempio, il tema della realtà (Wirklichkeit) come risultato dell'azione efficace, come "campo pratico di effettuazione" (praktisches Wirkungswelt), della praticità come capace di umanizzare il mondo e quindi di portare la natura alla cultura (Cfr. sez. II, § VII). Ma la praticità veniva vista da Husserl anche dal punto di vista della risposta ai bisogni, ed anzitutto ai bisogni elementari: ed ecco affacciarsi all'interno del manoscritto husserliano la "cura" (Sorge) di cui tanto aveva parlato Heidegger. Ma ora questa parola ha tutt'altro senso perché è integrata nella preoccupazione, continuamente ricorrente, per la propria sopravvivenza materiale, la "cura" nel manoscritto husserliano è connessa al lavoro ed alla fame. E quando in esso compare la parola "angoscia" (Angst), in gioco è ancora la sopravvivenza corporea, è ancora in gioco la fame e la morte: "La fame che rimane insaziata: l'impotenza dell'io ad agire: non soltanto non-aver-voglia, non soltanto brama insoddisfatta "una volta tanto" - nel gioco della brama soddisfatta ed insoddisfatta, impedita nella sua libera realizzazione - ma angoscia dell'esserci. Disperazione dinanzi al non-essere-così, al non-poter-essereancora. L'angoscia della vita, l'"angoscia della morte" - senza rappresentazione della morte. Io vengo meno, dinanzi alla fame". Questa frase sorprendente era apparentemente riferita ai primordi dell'umanità, ma con rapidità fulminea, così tipica della scrittura dell'ultimo Husserl, il passaggio all'oggi, un oggi marcato presumibilmente nel 1932, era immediato. Rammentiamo che erano anni bui, e questo buio penetrava nella pagine di Husserl, irrompendo in esse con queste parole drammatiche: angoscia, minaccia, fame, morte; ma anche: "Potenza e sempre ancora 13 potenza, e potenza su gruppi umani sempre più ampi"; "accumulazione": "l'accumulare sempre ancora denaro cosi come il sempre ancora accumulare francobolli"… A mio avviso, in questi cenni che non erano apparentemente più che spezzoni di frasi, trovava una conferma che la linea di superamento della fenomenologia verso il marxismo, che Paci stava nello stesso periodo teorizzando, era una linea praticabile e il mio libro si chiude con questa conferma. Ma non si chiude definitivamente. Vi è ancora un'appendice, che mi fu richiesta poco prima della pubblicazione, e la fluttuazione si avverte proprio qui. La mia posizione non era ancora chiaramente definita e le ragioni di questa incertezza sono in parte implicite nei discorsi precedenti. Da un lato vi era da parte mia, già allora, una profonda riluttanza verso le "contaminazioni" - e il titolo "marxismo e fenomenologia" minacciava di essere una delle tante. Dall'altro, vi era un evidente "limite di coscienza possibile" nella posizione di Husserl, che non poteva non essere dichiarato apertamente. Per dirla in breve: parole come "classe" o "capitale" appartenevano al linguaggio del marxismo e non potevano essere forzatamente introdotte in quello della fenomenologia. Una critica della fenomenologia di parte marxista era inevitabile, anche se io ho sempre ritenuto intollerabile l'impiego della parola "idealismo" come critica della cosiddetta "filosofia borghese". Ma vi era una ulteriore complicazione: da un lato io simpatizzavo politicamente per la sinistra - ed ero attivo nella sinistra operaista del gruppo "Classe operaia" che faceva capo a Mario Tronti; dall'altro non trovavo nel marxismo ciò che io cercavo, e cioè, mi sia consentito di dire senza pericolo di essere frainteso, una filosofia completa. Apprezzavo in altri termini nel marxismo più il suo carattere politico, che quello speculativo. Mentre trovavo nella fenomenologia un metodo che mi sembrava consentire una ricerca filosofica a tutto campo. L'appendice, intitolata troppo pomposamente Significato della fenomenologia, deve essere letta tenendo conto di questa premessa. Allora la si comprende nel 14 suo senso effettivo e ci si libera dalle sue reticenze. In questa appendice il filo conduttore è ancora quello dell'idea di filosofia. E per ciò che riguarda la fenomenologia, naturalmente, viene in primo piano il "programma" della filosofia come scienza rigorosa. Questo programma tuttavia a mio avviso non deve essere assunto in modo letterale, nel suo lato positivo che resta del tutto indeterminato, ma in ciò che in esso si rifiuta: la filosofia come "concezione del mondo". E nella discussione si suggerisce di poter sostituire la parola "ideologia" all'espressione "concezione del mondo". Era evidentemente un modo non innocuo di sostituzione terminologica finalizzata a più di uno scopo. Anzitutto a quello di una critica della "molteplicità" dei "punti di vista" per una ripresa di un concetto unitario di filosofia che a sua volta deve essere intesa in quella possibilità di indagine a tutto campo a cui ho accennato or ora: la filosofia intesa come ideologia richiama subito l'idea di una molteplicità di punti di vista tendenzialmente equivalenti. Ma vi era anche l��intento di riprendere questa espressione che aveva avuto un determinato significato ed un impiego in funzione di una critica, per ribaltare questa funzione sul marxismo stesso, in quanto dottrina fossilizzata - in quanto filosofia conservatrice del passato. Il filosofo-ideologo assolve il compito di "difensore" e "custode", con lo sguardo volto ad un passato che deve essere di continuo sovrapposto al presente con il risultato di occcultarlo così come di rifiutare il nuovo nel campo della filosofia, dell'arte, del costume. In questo modo si faceva sentire una esigenza di critica del marxismo "dogmatico" o "volgare", come si diceva allora, che non proveniva certamente solo dalla parte dei "fenomenologi", ma che serpeggiava largamente negli ambienti di sinistra. Nello stesso tempo, portando l'attenzione sulla funzione costitutiva della ricerca fenomenologica, e quindi sul fatto che questa ricerca mirava in ogni caso alle radici soggettive delle formazioni di senso ed ai processi che conducevano ad esse, si poteva recuperare il senso originario della "critica dell'ideologia" 15 nel senso marxiano del termine, che non si avvaleva di categorie già fatte ma alla concretezza dell'analisi storica. In un modo che oggi a me sembra un po' contorto, in questa appendice si comincia con il mettere l'accento soprattutto su una fenomenologia che entra in contatto con il marxismo con un forte accento critico sugli aspetti dottrinari e sostanzialmente conservatori, sullo "scientismo oggettivista" implicato dalle concezioni materialistiche di derivazione engelsiana e leninista; ma anche si vuol suggerire che anche nei confronti della fenomenologia doveva essere esercitata una "critica dell'ideologia" per quegli aspetti che non riuscivano a ricongiungersi al presente storico se non utopicamente e in modo puramente etico. Le forze in campo nei conflitti di quegli anni non potevano essere da Husserl chiaramente identificate. Una simile critica non intaccava tuttavia la rivendicazione proveniente dal versante fenomenologico di una fondazione filosofica capace di spingersi attraverso il tema dell'intersoggettività sino ai grandi temi della socialità e della storicità - in questo peraltro rientrando in un alveo che in Italia il marxismo di impronta storicista aveva in realtà già ampiamente acquisito. Del resto erano ormai gli anni in cui al "marxismo" subentravano "i marxismi", al "marxismo dogmatico" si contrapponeva un possibile "marxismo autentico" da ricercare attraverso una rilettura delle fonti marxiane. Ma risulta indirettamente da questa appendice che non ritenevo particolarmente appassionante questo dibattito - ed è anche caratteristico il fatto che vi siano critiche di spirito fenomenologico nei confronti del marxismo, senza che ad esse corrisponda un'esposizione realmente convincente della capacità della fenomenologia di sviluppare un'elaborazione autonoma sul suo stesso campo di problemi. Se da lettore spassionato mi chiedo che cosa resti fissato nella mente alla fine della lettura di quel saggio, mi sembra di poter dire che dietro le due espressioni di "filosofia del presente" e "ideologia-tradizione" non ci sia per nulla un'adesione ad un programma di fusione tra una corrente 16 filosofica e l'altra, ma piuttosto una vera e propria reciproca soppressione. Nell'ultimo paragrafo si suggerisce o si sottintende che ogni corrente filosofica può finire con l'avere il carattere di "ideologia-tradizione" - questo non vale solo per il marxismo, ma anche per la fenomenologia - e che il filosofo deve cercare di situarsi nella dimensione del presente, come dimensione effettiva della sua ricerca. Ma anche questa affermazione ora mi sembra ambigua. Non si vuol dire, ad esempio, che tema della filosofia debba essere necessariamente il presente storico. Questa caratterizzazione temporale vuole soprattutto invitare, dato un problema, ad azzerare le soluzioni precostituite, a ripensarlo da capo, qui ed ora, sia pure con la consapevolezza di ciò che in passato è stato detto e discusso. In questa caratterizzazione temporale cessano di valere le cornici precostituite, le soluzioni preordinate e si fanno invece avanti le idee nuove e modi nuovi di guardare indietro al passato ritrovandolo nuovamente vivo. Oggi io riassumerei questa idea di una reciproca soppressione un po' drasticamente così: non datemi una filosofia, e nemmeno due, datemi un problema! Certo, ogni problema va affrontato con metodo, ed io sono convinto che non vi sia problema che possa essere discusso se manca un orizzonte di carattere generale in cui esso possa essere inserito. Ma nel contesto delle esitazioni che a quel tempo erano forse inevitabili, quella frase un po' drastica sembra rendere ciò che voglio dire. Del resto anche nello scritto Una critica sociologica a Marx che venne pubblicato nello stesso anno di pubblicazione della tesi di laurea e che mette in questione il modo in cui viene discusso il concetto di classe nel volume di Dahrendorf, Classi e conflitti di classe nella società industriale, credo si avverta che non si tratta di applicare questo o quello schema già fatto - tant'è che si critica Dahrendorf, ma anche si mostra insoddisfazione verso certi atteggiamenti di parte marxista, e di fenomenologia non si parla affatto. Poi venne il '68. Ed un anno prima io avevo condotto a 17 termine la traduzione di Storia e coscienza di classe, il grande libro di Lukàcs pubblicato nel 1922, che interveniva più di quarant'anni dopo la sua pubblicazione in un dibattito di cui oggi non si riesce nemmeno ad immaginare l'effervescenza e la serietà. Ad esso dedicai il saggio qui pubblicato con il titolo Note su Storia e coscienza di classe che mi sembra proporre - ma io non posso essere in proposito un buon giudice - una chiave interpretativa inconsueta, dovuta peraltro alle mie già ricordate simpatie con la componente operaistica della sinistra di quel tempo. Vorrei sottolineare questo punto: non si tratta affatto di una "lettura fenomenologica" di Lukàcs, espressione che non mi sembra abbia senso, ma semmai si tratta di una lettura orientata in senso operaistico. In effetti, benché naturalmente la questione meriti uno studio a parte sulla ricezione di questo volume di Lukàcs in Italia in quegli anni, credo di poter affermare che l'attenzione prevalente andava in direzione del grande saggio su La reificazione e la coscienza del proletariato, letto per lo più estraendolo dal contesto complessivo del volume e quindi isolandone la tematica. Ne risultava una lettura che andava incontro alle tesi sull'integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico, particolarmente cara a quelle tendenze interne del movimento studentesco che sostenevano la trasmigrazione in quel movimento dello spirito della rivoluzione. Il grande saggio di Lukàcs veniva dunque letto nello spirito del marcusismo - mettendo l'accento sui meccanismi di integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico e sulla condanna del progresso tecnologico oltre che sui danni del consumismo. Ora, fin dalle prime battute delle mie note si mette l'accento sulla necessità di cogliere le radici dell'atteggiamento teorico nell'esperienza storica degli anni in cui fu scritto, tra il 1917 e il 1923, in cui l'attesa di una generalizzazione della rivoluzione russa era particolarmente intensa ed era particolarmente sentito il problema di rendere conto delle resistenze dei partiti "menscevichi" nei confronti delle spinte rivoluzionarie delle masse. Dal punto di vista della teoria politica, il dibattito verteva 18 soprattutto sulla dialettica tra la spontaneità dell'azione di massa e la necessità dell'organizzazione politica - un dibattito che aveva sullo sfondo i nomi di Rosa Luxemburg e di Lenin - dibattito che noi sentivamo allora particolarmente attuale. Si trattava allora di prendere le mosse in certo senso dalla fine del libro, ovvero dal saggio che compariva per ultimo sotto il titolo Considerazioni metodologiche sulla questione dell'organizzazione. Esso era in grado di fornire la chiave per una corretta comprensione del saggio sulla reificazione. Questa storicizzazione non poteva certo impedire di vedere gli elementi di attualità di quel dibattito, dal momento che proprio a partire dal sessantotto il tema dei rapporti classe- partito, organizzazione-spontaneità, sciopero-rivoluzione, classe operaia-piccola borghesia (alla quale poteva essere ascritto il movimento studentesco) erano tornati all'ordine del giorno in forza dei burrascosi fermenti di quegli anni. Per questa ragione nel ripubblicare questo testo ho ritenuto interessante associare ad esso ritagli di giornali del 1967-68 che io avevo conservato gelosamente per tanti anni. In essi si intravvede il dramma di un'epoca intera. È guardando quelle immagini che si comprende che parole come capitalismo, comunismo, classe operaia, conflitto di classe, potere nero, miseria, imperialismo, guerra… non erano parole vuote. E mi auguro anche che quelle immagini, con la loro drammatica evidenza, che riempie di senso quelle parole, riportino il lettore non più al presente di Lukàcs ed ai conflitti sessantotteschi, che appartengono ormai ad un tempo lontano, ma al nostro presente nel quale le tragedie che esse mostrano esistono, sia pure in forma mutata, purtroppo ancora. Un diverso problema è quello dello spirito in cui leggeremmo oggi il testo di Lukàcs ed il senso che è possibile attribuire ad esso. Questo problema mi è stato posto da Margherita Ganeri, chiedendomi di collaborare ad un numero dedicato a Lukàcs al giorno d'oggi (2014) della rivista Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura. Da 1968 al 2014 sono intervenuti mutamenti storici e ideologici tali che ho assai esitato a riprendere fra le mani 19 il libro di Lukacs e a ripensarne le tematiche. Ma poi ho deciso di scrivere un nuovo saggio intitolato Storia e coscienza di classe: dal tempo della scrittura ai tempi della lettura, che qui viene pubblicato in anteprima e che non era presente in una edizione precedente di questo volume. Riflettere sul passato con i pensieri del presente è sempre un esercizio utile e stimolante. Mi auguro che la lettura di questo saggio lo sia anche per il lettore. Infine oso aggiungere a questi materiali degli appunti che non hanno carattere filosofico, ma che restano all'interno di questo alveo di interessi. Ho intitolato questi appunti, che sono gli unici del genere che mi sono rimasti di quell'epoca, "Abbozzo per una periodizzazione dello sviluppo della classe operaia e del capitale a partire dal 1870", titolo che corrisponde al contenuto ed allo scopo. Essi derivano da un seminario tenuto nel 1968 presso l'Istituto di Filosofia dell'Università di Milano che mi era stato esplicitamente richiesto da studenti attivi presso il gruppo di "Classe operaia" di cui, come ho detto in precedenza, io stesso ero membro. Considerando la data, l'argomento e il modo di trattarlo, questi materiali, condotti del resto su una bibliografia corrente, hanno un puro carattere informativo e descrittivo, ma documentano anche una sfera di interessi conoscitivi sinceri da parte mia e dei miei ascoltatori, ed è per questo motivo che ho pensato meritassero di essere pubblicati in questo libro. Poi quel tempo passò: "Classe operaia" si disciolse, io mi iscrissi al Partito Comunista presso cui fui attivo per qualche anno. E dopo quel tempo vennero gli anni delle grandi delusioni: la caduta prevedibile dei regimi comunisti (che la sinistra a cui appartenevo non aveva certo mai approvato), gli orrori del terrorismo, l'agghiacciante piattume e decadenza culturale (a dir poco) del berlusconismo, l'impotenza della sinistra di fronte al problema di trovare una via di uscita e del resto la sua interessata acquiescenza di fronte alla progressiva ed evidente degenerazione della politica. In ogni caso da molto tempo ormai avevo capito che il mio destino era proprio la torre d'avorio. 20 Ma che torre d'avorio d'Egitto! Si trattava di un grande palazzo rinascimentale, con un ingresso chiamato "cortile" di eccezionale nobiltà architet­ tonica, ed in quel palazzo ero circondato da giovani stupendi con i quali era possibile un dialogo reale, e da un certo momento in poi, a causa dell'accresciuto numero degli ascoltatori, le nostre conversazioni avvenivano in un'aula che a me sembrava immensa e che non era affatto un'aula, ma un antico chiostro ricoperto da una vetrata... Giovanni Piana 6 maggio 2013 Università degli Studi di Milano 21 Giovanni Piana Esistenza e storia negli inediti di Husserl 1965 1965 22 Il volume "Esistenza e storia negli inediti di Husserl" è stato pubblicato dall'Editore Arrigo Lampugnani Nigri nel 1965 ed è stato tradotto in inglese da Anthony Roda, con il titolo History and Existence in Husserl's Manuscripts, "Telos", Ottobre 1972. Indice 23 Prefazione di Enzo Paci p. 25 Introduzione (p.37) 1. Atteggiamento naturale e dubbio filosofico (p. 38) 2. L'indubitabilità fenomenologica (p. 41) 3. Significato del solipsismo (p.43) Sezione prima (p. 49) Costituzione dell'alterità soggettiva I. Riduzione alla proprietà (p. 51) II. La percezione dell'altro (p. 55) III. Discorso e riconoscimento (p. 63) IV. Proprietà ed estraneità temporale (p. 69) V. L'identificazione temporale intersoggettiva (p. 76) VI.Coesistenza (p. 80) Sezione seconda (p. 87) Intersoggettività e storia I. Nota introduttiva (p. 88) II. Faktum (p. 95) III. Ripresa tematica della proprietà corporea: la genesi (p. 102) IV. Incontro e generazione (p. 108) V. Il "tradere" come forma dell'identificazione (p. 111) VI. Storicità e tradizione (p. 116) VII. Il tema della praxis (p. 121) Note 24 Appendice (p. 135) Significato della fenomenologia I. L'idea della filosofia come scienza II. La tematica costitutiva III. Scienza della soggettività e scienza della storia IV. La filosofia del presente e l'ideologia-tradizione 25 Enzo Paci Prefazione L'analisi che Giovanni Piana ci presenta con questo suo intenso e rigoroso lavoro basato su alcuni importanti manoscritti inediti di Husserl è un esempio di ricostruzione fenomenologica condotta in forma nuova: alcuni temi fondamentali della fenomenologia - quelli dell'intersoggettività e del tempo, dell'esistenza, intesa in senso fenomenologico, e della storia - sono qui ripresi nelle loro connessioni inteme e secondo punti di vista che finora non erano emersi. Lo studio dei manoscritti è per lo studioso di Husserl un'esperienza indimenticabile: è un contatto con un pensiero vivo in formazione che, nei vari processi del suo svolgimento e nei vari nuclei in cui si accentra per riprendere sempre di nuovo in esame se stesso, ci offre il vero senso della fenomenologia, un senso difficilmente traducibile nello schema di un trattato e di un libro. Non solo le opere di Husserl sono soltanto momenti di una meditazione sempre in corso - e non vanno quindi mai isolate dalla corrente di fondo che le anima e dalla continua riconsiderazione - ma esigono dal lettore, più che una comprensione passiva, una partecipazione attiva. I testi fenomenologici, ed in modo del tutto particolare i manoscritti di Husserl, o gran parte di essi, sono eserciziche non devono essere soltanto compresi, ma compiuti e compiuti non solo da Husserl ma dallo studioso di Husserl. D'altra parte i manoscritti sono fin troppo ricchi: richiedono una disciplina interpretativa che non perda mai, tra le varie tematizzazioni e sottotematizzazioni, i temi di fondo e la loro connessione. Piana ha saputo cogliere i punti nevralgici del suo argomento in un'analisi che, per mantenere la sua precisione, si presenta necessariamente in una sobrietà esemplare che 26 chiarisce alcuni punti oscuri, o che possono sembrare equivoci, del pensiero husserliano. Difficile è intendere davvero che cosa si vuol dire in fenomenologia quando si parla di ritorno alla soggettività: il termine soggettività è già, nella mente dello studioso, carico di significati prestabiliti che gli impediscono di cogliere il vero senso dell'esercizio husserliano. Molto genericamente al termine soggettività vien contrapposto il termine " oggettività scientifica", all'io la socialità. Si tratta di impressioni: al di là dell'impressione è facile accorgersi che il pensiero husserliano tende proprio a chiarire il vero significato dell'"oggettività" scientifica, nonché i fondamenti ed il senso dell'intersoggettività ,sia sul piano sociale, sia sul piano storico. Da un punto di vista generale, che interessa tutto il pensier omoderno, la posizione di Husserl non è comprensibile se non sul piano di una radicale critica della ragione. Ma la critica, a sua volta, esige che siano sempre e fino in fondo tenute presenti le istanze del solipsismo e dello scetticismo. La filosofia può essere scientifica e "antidogmatica", nel senso dell'antidogmatismo kantiano portato alle sue estreme conseguenze, solo a questo patto. Dobbiamo fondarci soltanto su quello che veramente sappiamo, su ciò che può davvero sottrarsi alla critica scettica ed al solipsismo: in altre parole, solipsismo e scetticismo sono superabili solo se accettati fino in fondo. È questa una delle ragioni essenziali del ritorno alla soggettività, un ritorno che riesce a fondare l'intersoggettività e la filo sofia come scienza rigorosa. Lo scetticismo è la critica di quello che Husserl definisce atteggiamento naturale. Consapevole di sé, lo scetticismo diventa riduzione all'immanenza, a ciò che veramente mi si dà e mi si presenta, al fenomeno. Né io stesso né gli altri possiamo negare di percepire o pensare o sognare quello che percepiamo o pensiamo o sognamo, se davvero restiamo ai dati che ci sono offerti e non diciamo nulla di più, se non diciamo nulla, quindi, di ciò che trascende tali dati. Restando all'immanenza, al fenomeno 27 stesso, è nell'interno delle modalità del fenomeno che dovremo cercare ciò che caratterizza il reale. Il realismo trascendente e il realismo ingenuo sono rifiutati proprio perché sono teorie già costituite, non fondate. Gli "altri"sono messi da parte proprio perché devono essere fondati e costituiti. Il ritorno alla soggettività sospende ciò che vuol raggiungere e fondare: cioè l'intersoggettività. Quando, per costituire l'altro, Husserl parla del proprio e per cogliere il proprio comincia con il mettere da parte l'altro, è per fondare l''altro e non per rimanere nel proprio. Si tratta di un metodo e non di un sistema, e questo metodo è sempre in atto in ogni analisi fenomenologica. Parlare di realtà, di intersoggettività e di scientificità come ovvietà significa non aver sottoposto la filosofia e le scienze ad una critica. Ma l'analisi critica procede senza anticipare i suoi risultati: per ritrovare gli altri io sospendo l'ovvietà degli altri e ritorno al mio mondo proprio. In esso ritroverò gli altri e scoprirò il fondamento dell'alterità. In quanto mi muovo su questo piano, sono sul piano trascendentale e quindi sul piano costitutivo: proprio nel ritorno al soggetto devo scoprire come al soggetto si dà l'altro in quanto altro soggetto. Descrivendo come l'altro si dà all'ego cogito devo scoprire il modo tipico di darsi dell'altro come altro. Piana ha ricostruito questa problematica insistendo sul fatto che noi ci muoviamo sul terreno trascendentale: l'altro è dato come fenomeno tra i fenomeni della sfera descrittiva delineata dalla riduzione all'ego cogito. Sul piano ingenuo, prima della fondazione, prima dell'analisi scientifica rigorosa, l'altro c'è già. Sul piano critico, trascendentale, questo "c'è già" è messo tra parentesi ed io devo spiegarlo, fondarlo, e quindi devo arrivare a togliere le parentesi. Cerco l'obiettività perché non è ovvia, perché l'obiettività deve essere scientifica. Ma per raggiungere l'obiettività devo cominciare con la costituzione dell'altro. Il fine a cui Husserl tende è proprio il mondo obiettivo, un mondo che, se non vuole essere astratto, e come tale opposto alla soggettività concreta, deve essere intersoggettivamente fon- 28 dato. In senso critico, in un senso kantiano condotto alle estreme conseguenze, ciò vuol dire comprendere in che modo sia possibile per gli uomini, per gli uomini come scienziati, per le scienze, un mondo obiettivo. Come è possibile,ed in quali condizioni, tm mondo come natura e come cultura?Si risponde a questa domanda solo se si arriva alla fondazione dell'intersog­gettività. Il ritorno al soggetto è necessario per l'intersoggettività, l'intersoggettività è fondata sulla costituzione trascendentale dell'altro e questa, a sua volta, come dice Husserl, deve permettermi di arrivare "ad una storia universale di senso che, emanando dall'interno, rende per me anzitutto possibile il mondo obiettivo". Sembra molto difficile non seguire Husserl. Il fenomenologo lo sa, ma sa anche, nello stesso tempo, che è molto difficile seguirlo e che una volta operata l'epoché è molto difficile restare in essa, nell'atteggiamento critico richiesto dalla fenomenologia. È molto difficile non seguire Husserl perché per non seguirlo bisognerebbe non dubitare mai, non porsi in un atteggiamento critico: ora, il filosofo è sempre in un atteggiamento critico ed egli è il primo a dubitare della filosofia: se non lo facesse non rifiuterebbe soltanto Kant, ma anche Socrate. Il dubbio è immanente all'analisi filosofica: sitratta però di sapere fino in fondo ciò che questo significa. Una volta riconosciuto, nel senso più vasto, ma anche più preciso, che cosa è il dubbio come metodo, io non ricorrerò più a prove esterne al metodo, non parlerò più di apertura all'essere o di altre astrazioni: dovrò sempre parlare di ciò che esperimento e di ciò che effettivamente riesco a fondare. Ma è difficile non ricorrere mai a prove esterne; è difficile resistere alla tentazione naturalistica, all'ovvietà. Le modalità del metodo fenomenologico dipendono tutte da questa esigenza, dall'esigenza di non ricadere nel non fondato, nel non scientifico, nel naturalistico. Non si tratta soltanto di ritornare all'io, ma di seguire le tappe rigorose di questo ritomo: un primo esempio è la riduzione alla proprietà, alla "natura propria". Ed a questa riduzione deve ricollegarsi il ritorno alla percezione. Per 29 Piana il ritorno alla percezione è collegato al fatto che la natura propria è essenzialmente percezione, "nesso intenzionale tra corporeità viva percipiente ed oggettività percepita". "Nel campo della percezione è dato qualcosa come un altro corpo vivo, un corpo percepito come esso stesso soggetto di percezione". L'altro in quanto non è per me solo una pura presenza, ma è, per così dire, presenza di un'altra presenza, fonda la co-presenza, resa possibile dall'appresenta­zione, dall'atto intenzionale percettivo "che reca a datità l'altro come tale". L'altro stesso si trova nel mio orizzonte percettivo: si può dunque parlare di una originalità dell'appresentazione. L'appresentazione è possibile perché l'altro non è solo percepito, ma appercepito. Piana chiarisce il senso di questa appercezione analogica spiegando come in essa sono colti l'espressività ed il comportamento del corpo dell'altro e non la sua mera esteriorità di corpo. L'esteriorità dell'altro viene compresa nelle sue motivazioni: l'analisi di Piana ci fa vedere sotto nuova luce il significato, cosi spesso misconosciuto, della Einfühlung e sottolinea i momenti fondamentali del discorso e del riconoscimento. Discorso e socialità sono strettamente legati nel senso che, come dice Husserl, "ad ogni socialità sta a fondamento la connessione attuale della comunanza comunicativa". Osserva Piana: "Colui al quale io parlo e che mi ascolta, che assume il mio discorso e ad esso risponde, non è più soltanto altro ma il mio tu, e nel discorso entrambi ci nominiamo nel noi". Siamo dunque già sul piano dell'"originario accomunamento intersoggettivo". È a questo punto, nell'analisi della costituzione intersoggettiva, che si inserisce necessariamente per Piana il problema del tempo. Questa necessità risulta dai paragrafi della prima parte del lavoro che hanno per titolo Proprietà ed estraneità temporale, L'identificazione temporale intersoggettiva e Coesistenza. È importante seguire le modalità di tale analisi che ci conduce dalla costituzione formale del tempo alla concretezza della coesistenza. Il carattere di concretezza è qui fondamentale e il senso di tale concretezza si 30 realizza proprio nella storicità in quanto intersoggettivamente e temporalmente fondata: è qui che l'Einfühlung rivela il suo più profondo significato e si collega strettamente alla monadologia husserliana. La monade concreta è la monade esistente: sembra degno di riflessione e di sviluppo quello che dice Piana a proposito dell'esistenza e dei problemi che questo tema coinvolge. Ciò che conta in Husserl è proprio il fondamento egologico senza il quale ogni concezione dell'esistenza ricade nel naturalismo. La conclusione è proprio l'intersoggettività e nell'intersoggettività cosi raggiunta si chiarisce il senso della fattualità e della storicità: il ritorno al soggetto scopre nel soggetto la "totalità monadica, la storia e la costituzione storica del mondo". Come scrive a Misch, Husserl ha posto "a distanza la storia" per ritrovarla nella sua concretezza, cosi come quando ha posto a distanza l'altro per il proprio lo ha fatto per arrivare alla reale scoperta dell'altro, alla sua costituzione. Intersoggettività e storia sono temi strettamente legati e Piana ce lo dimostra nella coerenza di tutto il suo lavoro. Storicità significa che "l'io-umano vive nel mondo esercitando una praxis sul mondo. Il suo essere temporale nel tempo non è mera sopportazione - il tempo non passa al di sopra di lui - e non è neppure mera successione di sé a se stesso. L'uomo non è un reale (una res) , ma intenzionalità attiva, praxis totale, attraverso la quale si esprime la trascendentalità del suo esserci di fatto e che definisce questo suo esserci come propriamente storico". L'insistenza su questa tematica è caratteristica della ricostruzione fenomenologica di Piana che indica esplicitamente la direzione del suo lavoro quando scrive: "Dal "realismo" ingenuo attraverso l'"idealismo"scettico-solipsistico, siamo giunti alla rigorosa tematizzazione dell'esserci stesso, ed una volta esclusa la soluzione "esistenzialistica", ci siamo avviati a comprendere questo esserci come essenzialmente "storico"". La storicità non è qualcosa di vuoto e di formale, ma deve riempirsi di contenuti significativi. Per cogliere questi contenuti 31 il metodo fenomenologico compie una nuova epoché che gli permette di raggiungere, attraverso una specie di astrazione, la genesi dell'io, e, al limite, la nascita egologica. L'io si impoverisce della sua ricchezza attuale per comprendere se stesso: alla fine, per arricchirsi davvero. È la tematica dell' "io povero" che verte sull'inizio e sulla fine dell'io, sul nascere e sul morire. Si noti, nell'analisi di Piana, come, per cogliere la determinatezza finita dell'io, Husserl è consapevole di servirsi, come si è detto, di un'astrazione. Non è che l'io sia, nella riflessione su se stesso, soltanto mera corporeità o venir meno della percezione: è che, riflettendo su di sé, nella stessa riflessione, si pone tra parentesi (pur riflettendo) come riflettente, per scoprire che l'autocoscienza non sarebbe stata possibile senza la genesi, senza il fatto che il corpo "è nato dall'incontro corporeo del padre e della madre". Questa situazione richiama l'attenzione su nuove possibili analisi: lo stesso ritorno al soggetto è tale da far pensare che la soggettività fenomenologica, quella di cui più spesso parla Husserl nei testi editi, è a suo modo un'astrazione, come è un'astrazione il cogito di Cartesio: un'astrazione necessaria, per ragioni dimetodo - così come è necessario "prendere distanza" dalla storia per scoprirne la concretezza (la teoria della storia o la filosofia della storia o la storiografia non sono senz'altro la storia, anche se sono nella storia) - un'astrazione che ha per fine la scoperta della stessa genesi dell'io da cui pure ognuno di noi parte per scoprire la genesi. Su questa via Husserl arriva alla possibilità di un'analisi retrospettiva che coglie il senso dell'incontro e della generazione Si tratta di analizzare la sessualità e l'impulso, ma in modo tale da comprendere in che modo "dal mondo animale degli impulsi si costituisca progressivamente un mondo propriamente umano e razionale". La totalità delle monadi, secondo questa direzione, tende al raggiungimento della sua "massima universalità come società umana". Cosi la nostra vita consapevole e desta, proprio perché tale, e cioè perché è in un ambito di significati umani, si scopre anche nella continuità di una genesi. Ereditiamo il nostro 32 corpo ed ereditiamo un'intersoggettività comune: siamo eredi corporalmente, ma siamo anche eredi di significati. L'io, nel cogito, è un individuo procreato, ma gli individui procreati si costituiscono "nell'accomu­namento degli individui desti". L'io finito è nella catena genetica, nella trasmissione, nel tradere, ma è anche rinnovamento e trasformazione della tradizione: l'individuo, proprio perché si scopre procreato e procrea, si comprende come individuo in quanto fa parte di un universo intersoggettivo al quale appartiene anche la catena dei progenitori ora morti, cosi come appartengono alla nostravita le ore del sonno. Ma la veglia si tramanda al di là del sonno in modo che la veglia stessa è il luogo del vivo e reale trasformarsi della storia. "La vita desta è essenzialmente tramandata (tradierte Wachheit), tradizionalmente costituita e costituente sempre di nuovo tradizionalità". Da ciò il carattere intersoggettivo e storico - e non esistenziale, per Piana - della nascita e della morte in Husserl: "nascita e morte sono da riportare al problema del senso della partecipazione individuale al nesso intersoggettivo e dell'interna connessione tra la tradizione intersoggettiva e la tradizione personale: non solo dunque non possono essere considerati come eventi di rottura dell'unità intersoggettiva ed interstorica, ma anzi come "membri di raccordo" (Brückenglieder) attraverso i quali questa unità diventa possibile". Si noti come il rapporto intersoggettività-storia, nel momento stesso nel quale diventa, nell'analisi, sempre più stretto, diventa anche più concreto. È stato necessario partire dal solipsismo per arrivare ad una storicità concreta - e su questa via si arriva infine a comprendere anche il senso di una socialità concreta, non contrapposta come un'astrazione agli individui (peggio se tale astrazione è "oggettivata" e pur essendo astratta, funziona come concreta), ma costituita come storia dei soggetti e quindi come storicità intersoggettiva. Non si tratta quindi di mere immediatezze o di mediazioni astratte e formali, di separazione o di relazione astratta, di singolarità astratta o 33 di tradizione astratta. Piana ha avuto la mano felice nel citare il seguente passo dell'inedito A V 7 nel quale la storicità intersoggettiva non è "l'essere-l'uno-accanto-all' altro di essere e di divenire personali e di storicità singolo-personali ( tradizionalità), ma di unità di umanità collegate, di vincoli, di vincoli di vincoli, di intrecci di forma molteplice, di mediatezze in una connessione continua, che hanno in questo essere-in-relazione(Verbundenheit) la loro storicità, l'unità di un essere umano (personalmente collegato), di una vita in comunanza storica,che non può essere spezzata in una separata singolarità di vite". E Piana osserva come appaia qui la motivazione reciproca che definisce il "complesso rapporto tra il singolo ed il gruppo". Nessuna storicità precostituita, dunque (e nessuna dialettica precostituita): l'uomo appartiene ad una "comunità animale", ma è l'essere che "fa storia" in quanto "si autorealizza nel suo operare temporale significativamente produttivo". "La storicità dell'uomo è definita dalla sua appartenenza al mondo come singolarmente individuato nella mediazione intersoggettiva e come praxis totale, individuale accomunata: tra individuo e gruppo, gruppo e gruppo, mondo ed individuo mondo e gruppo vi è una dialettica reale reciproca, il cui senso resta di volta in volta da determinare". Cosi dalla sempre più intima congiunzione tra intersoggettività e storia scaturiscono il piano di una dialettica concreta ed il senso della praxis. Lo sviluppo dell'analisi dei manoscritti studiati conduce al rilievo di una particolare tematica: la rigorosità della fenomenologia come scienza è connessa all'"u­manizzazione del mondo" che procede "in vista dell'appagamento dei bisogni immediati e poi mediati". Si parla, sotto questo profilo, di mezzi, di accumulazione e di ricchezza. La praxis, considerata come lavoro, implica il tema del "lavoro derubato": sono qui di particolare interesse gli esempi del "mendicante" e del "prigioniero" che rivelano un aspetto finora sconosciuto della ricerca husserliana. È caratteristico del modo con il quale la nuova generazione intende la fenomenologia il richiamo alla necessità di ritrova- 34 re e di assumere in forma nuova il progetto husserliano della fencmenologia come scienza: si tratta ancora della critica alle "concezioni del mondo", ma questa critica appare ben presto come critica all'ideologia e la filosofia si realizza come analisi costitutiva: per Piana, il compito che si impone è di sviluppare fino alle ultime conseguenze "l'idea della costituzione come idea del lavoro filosofico". Il discorso costitutivo riguarda contenuti specifici e la fenomenologia non parla soltanto di significati culturali, ma anche di "costituzione della materia". Ciò interessa il marxismo in quanto la materia non va intesa come "oggettività non costituita". La natura è la natura con la quale l'uomo entra in un rapporto pratico-reale e come tale è storica. La critica all'ideologia è critica al falso sapere che occulta le operazioni reali, soggettive nel senso fenomenologico. La polarità fondante è soggettiva "proprio perché il vero problema è quello della costituzione della polarità oggettiva": è per questa ragione che la fenomenologia deve presentarsi come "scienza della soggettività" e quindi dell'intersoggettività, cioè di una società vivente nella storia. La scienza della soggettività diventa cosi "scienza della società e della storia" intesa come scienza dei fondamenti. La ricerca filosofica tende "alla chiarificazione delle formazioni oggettive a partire dalle operazioni compiute dal soggetto che, nella sua pienezza, non è altro che l'uomo nella sua vita intersoggettiva e storico-naturale". È notevole il fatto che questa prospettiva implichi la "rottura" della forma che la fenomenologia ha assunto in Husserl, mentre per un altro aspetto richiede che "anche il marxismo, nella misura in cui si dispone come filosofia-scienza", sia rimesso in questione "in quanto ideologia-tradizione". Il problema si imposta allora sui due poli della "filosofia del presente" e dell'"ideologia-tradizione". Il problema del senso dei rapporti tra fenomenologia e marxismo ha ormai la sua storia, ma la ricerca del Piana sembra caratterizzata dall'insistenza sulla riconsiderazione, sulla presenza che ricomprende e ricostituisce il passato 35 nel suo senso, riconfermandosi come filosofia-scienza in atto e non come ideologia scientifica già costituita". Non si tratta qui di precisare accordi o disaccordi: abbiamo soltanto voluto indicare alcune direzioni originali della ricerca di Piana, ricerca, come si è detto, che è un esempio di ricostruzione fenomenologica e l'indicazione di un possibile lavoro. È significativo che la direzione delle nuove ricerche non accetti passivamente la fenomenologia, ma la ricostruisca e la ridimensioni, al di là ed oltre ciò che può derivare dagli studi finora compiuti. Si apre così un orizzonte nel quale l'eredità fenomenologica viene sentita come un compito nuovo. 36 37 Introduzione Non esiste un realismo più radicale del nostro; purché questa parola non significhi che questo: "io sono certo di essere un uomo che vive in questo mondo, ecc. e di ciò non ho il minimo dubbio". Ma il grande problema è appunto quello di capire questa 'ovvietà'. (Krisis, trad. it., p . 213) Questo lavoro, che ha per tema la teoria husserliana dell'intersoggettività, deve essere introdotto dalla messa in questione del configurarsi del programma fenomenologico a critica della ragione. Nell'affrontare una tematica variamente ripresa da certa parte del pensiero contemporaneo, non dobbiamo perdere di vista il suo essere motivata in primo luogo dal problema di una fondazione valida del sapere filosofico. In queste pagine introduttive si cercherà di indagare la genesi teoretica del tema, seguendo la traccia che conduce dalla crisi del pensare naturalmente atteggiato, esemplificata dallo scetticismo e dal solipsismo, alla riflessione critica: un'impostazione che ci permetterà fin dall'inizio di mostrare che il superamento dello scetticismo è interamente vincolato alla soluzione dell'obiezione solipsistica [1]. 38 1 Atteggiamento naturale e dubbio filosofico "Con il ridestarsi della riflessione sulla relazione di conoscenzae oggetto si aprono le difficoltà più profonde. La conoscenza, cosa più ovvia per il pensiero naturale, rimane ad un tratto indecisa, un mistero [2]. L'esserci dell'essente come ciò su cui la mia indagine è rivolta, è indubitabile: l'oggetto è là se lo vedo, se riesco apercepirlo, ad afferrarlo servendomi di strumenti diversi d'indagine, dai più semplici ai più complicati. Se cado in erroree nel ripetersi delle esperienze il dato esperito mi si rivela illusorio, potrò perfezionare gli strumenti di verifica, intraprendere vie nuove e cosi via. Su questo terreno, nel quale l'oggetto in generale è naturalmente e direttamente dato al conoscere, non viene in questione il problema della possibilità del conoscere stesso [3]. Io conosco e basta. Porre l'interrogazione: "Come posso conoscere ciò che vedo dinanzi a me"sembra urtare contro il "buon senso". A questo "assurdo problema" conduce l'argomentazione scettica. Lo scettico si appella all'ipotesi di un inganno insospettabile e giunge anche a sostenere la verità di q uesta ipotesi, costringendo il conoscere. naturale in una continua ed imponente riconferma di sé. La serietà di questo gioco si mostra nella richiesta implicita di discutere l'indiscutibilità indiscussa del fatto che, in generale, "io conosco": si richiedono le garanzie di principio che giustifichino la validità del mio sapere attuale come di ogni sapere possibile. Lo scettico che intenda volgere la sua scepsi ad elaborazione teorica sistematica si imbatte necessariamente in continui controsensi, ma l'esigenza positiva che presenta, con maggiore o minore consapevolezza, è quella della fondazione critica del conoscere come tale. La lettura humeana stimola Kant alla realizzazione del progetto grandioso di una critica della ragione: questo ha per Hus- 39 serl un significato esemplare. Hume procede con tanta penetrazione nella sua indagine da porre in piena luce il paradosso del conoscere naturalmente atteggiato, l'enigma dell'incontro tra l'operazione immanente del conoscere e la trascendenza dell'oggetto: "Ogni conoscenza naturale, quella prescientifica ed in particolare quella scientifica, è conoscenza trascendentemente obiettivante: essa pone oggetti come essenti e pretende di incontrare conoscitivamente relazioni cosali che non le sono " date in verità ", che non le sono " immanenti"" [4]. Hume mostra che la trascendenza può e ssere ridotta a finzione e la conoscenza, pur rimanendo quella che è, non può più trovare garanzia nell'in sé del suo oggetto. Pur preservandoci dalla costruzione controsensa dello scetticismo elevato a sistema negativo di verità, noi dobbiamo accettare la critica scettica all'atteggiamento naturale. Non possiamo assumere come semplicemente valido il sapere delle scienze naturalmente atteggiate [5]: questo non tener conto della"scienza" si fonda sulla più generale messa in questione dell'indubitalità d'esserci del "mondo" stesso. Per lo scetticismo ciò verrebbe a significare: questo mondo, cosi concreto, cosi reale, è, forse, sogno. Impegnato nella polemica con il dogmatismo naturale, lo scetticismo è soltanto l'indice della sua crisi e rimane aperto ad un nuovo ed ancora più paradossale dogmatismo teorico. Esso è cieco dinanzi al fatto che proprio nella riduzione del trascendente a datità immanente sta la sua grande scoperta, capace di sottrarlo all'atteggiamento naturale ed a introdurlo sulla via di un sapere pienamente fondato. Husserl indica nella riduzione l'operazione che rende possibile la descrizione intuitiva del veduto come tale, come dato puramente alla "coscienza" e quindi "vero" nell'unico senso che si sottrae alla stessa denuncia scettica. La finzione diventa per lui pura visibilità del dato: il fenomeno. Se sospendo la tesi di esistenza e considero la realtà come fenomeno, il trascendente stesso viene posto fuori gioco: ciò che importa èallora la modalità del nesso tra "coscienza" ed il suo oggetto. La tematiz- 40 zazione di questo nesso non implica, anzi esclude,l'assunzione trascendente dell'oggetto verso cui la "coscienza"si trascende: "L'essere riferito al trascendente, in qualsiasi modo si intenda questa espressione, è ancora un carattere interno al fenomeno" [6]. Accettando radicalmente la proposta scettica perveniamo alla considerazione intenzionale dell'essente. Se l'intenzionalità della relazione rimane celata lo scettico sosterrà di aver dimostrata l'indistinzione teorica tra realtà e finzione: mentre egli si è avviato ad una critica del concetto naturale di trascendenza, di fatto lo presuppone anche se come limite gnoseologicamente negativo. Attraverso la riduzione al fenomeno la distinzione tra immanentee trascendente non viene a cadere ma è rigorosamente mantenuta in una totale riformulazione di senso: viene meno invece l'assunzione ingenua dell'inseità. Il concetto di essere in sé è un concetto prefilosofico elaborato all'interno della riflessione naturale. La fenomenologia respinge il "realismo ingenuo" che è costretto a richiedere garanzia della propria "scientificità" alle scienze naturalmente atteggiate; e tuttavia: "L'autentica filosofia trascendentale, lo si accentui con decisione fin dall'inizio, non è come la filosofia humeana, né scopertamente né copertamente, una decomposizione della conoscenza del mondo e del mondo stesso in finzioni, quindi, come oggi si dice, una "filosofia del come se" . E non è neppure una "dissoluzione " del mondo in "mere apparizioni soggettive" che in un senso qualsiasi possano avere a che fare con la parvenza" [7] 2 41 L'indubitabilità fenomenologica "Ricordiamo ora la argomentazione dubitativa di Cartesio. Riflettendo sulle molteplici possibilità di errore e di illusione, può accadere che io cada in una disperazione scettica, per cui finisca con il dire: nulla è certo per me, tutto è per me dubbio. Ma subito è evidente che non tutto per me può essere dubbio, dal momento che quando do questo giudizio - che tutto per me è dubbio - è indubbio che io do questo giudizio e sarebbe un controsenso pretendere di mantenere un dubbio universale. Ed in ogni caso di dubbio determinato, è indubbiamente certo che io dubito in questo modo determinato. Altrettanto per ogni cogitatio" [8]. Questa argomentazione filosofica tradizionale assume per Husserl un significato ed una rilevanza particolare perché essa non esprime meramente la indubitabilità di principio della "coscienza di sé", ma piuttosto la verità del vedere e del veduto considerati come intenzionalmente connessi. Per questo il titolo cartesiano di ego cogito non è per lui la premessa di un discorso deduttivo, ma indica piuttosto l'apriori metodologico della descrizione. Accusare la fenomenologia di "cartesianismo" è "un equivoco ridicolo, per quanto disgraziatamente abbastanza diffuso" [9]. Certamente approfondire il senso del polo soggettivo della relazione diventa essenziale per la fenomenologia. Perché sia chiarito ciò che si deve intendere per descrizione fenomenologica - per mezzo della quale sembra si possa pervenire, emergendo dall'atteggiamento naturale e dallo scetticismo, ad un sapere in autonoma e valida fondazione - debbo procedere a determinare i contenuti di senso dell'ego. Questo è per noi ora soltanto il "chi" della relazione intenzionale: né "cosapensante" né "io-umano". Tuttavia, ancor prima di disporci sulla via di questa esplicitazione, ci troviamo di fronte ad un'obiezione di principio: se l'oggetto del sapere fenomenologico è per essenza 42 riferito ad un polo soggettivo, delle due l'una: o questo sapere si riduce a mera privatità, rinunciando ad una validità obiettiva - oppure, per pretendere obiettività, deve produrre trascendenze, riproponendo contro il suo assunto la questionabilità [10]. Ci troviamo in realtà di fronte ad una falsa aporia: la questione dell'"obiettività" del sapere è analoga, anzi conseguente, a quella della trascendenza. Per il pensare naturalmente atteggiato il sapere attuale o possibile dell'in sé è verità in sé: ci ritroviamo in una situazione aporetica soltanto se alla critica del concetto naturale di trascendenza non segue la critica del concetto naturale del sapere della trascendenza. Ma non ha senso raffrontare l'obiettività ingenua del sapere e la soggettività del discorso fenomenologico. Nella prospettiva intenzionale "soggettivo" e "privato" non coincidono, e l'obiettività come validità per "gli altri" resta da spiegare. Qui una seconda, e più grave, obiezione di principio può essere rivolta: in che modo questa espressione "gli altri" può avere per noi un senso, se, dopo la riduzione, noi sappiamo soltanto di una pura soggettività non-umana, disincarnata, unica ed assoluta? Non siamo forse presi nelle maglie del solipsismo nel momento in cui tentiamo una descrizione del campo delineato dall'ego cogito e dell' ego cogito stesso considerato come il "chi" della relazione intenzionale? L'esercizio fenomenologico dell'epoché mi ha condotto alla sospensione di tutto ciò che appartiene al già dato: di tutto ciò che io so come già valido degli altri e dagli altri, dello stesso mondo umano come mondo che, nell'evoluzione della sua storia, so uno ed identico per tutti. Il sapere fenomenologico, con la sua pretesa di assolutezza, non è forse null'altro che un vuoto discorso solipsistico? Questa obiezione, che si ripete ancora come in grado di invalidare teoreticamente la fenomenologia, deve essere chiarita e compresa nel suo significato interno. 3 43 Significato del solipsismo La proposizione "il mondo è" (Die Welt ist) - che comporta immediatamente l' affermazione dell'esistenza mia ed altrui nel mondo - potrebbe essere indicata come tesi fondamentale della pre-concezione realistica che l'esperienza e la praxis quotidiana già da sempre presuppongono [11]. Orientandoci ora in maniera specifica sulla messa in questione di questa formula otterremo una nuova impostazione della critica all'atteggiamento naturale, che indicherà nel solipsismo un aspetto dello scetticismo ed al tempo stesso il margine significativo che esso detiene per la riflessione filosofica. L'indubitabilità della tesi dell'esistenza del mondo, ovvia per l'atteggiamento naturale, esprime una certezza apodittica? Qualcosa è indubbio se "nulla parla contro di esso": ma il conoscere è veramente apodittico soltanto se per principio esclude la possibilità di non essere del conosciuto [12]. La tesi d'esistenza del mondo non ha questo carattere di apoditticità: la contingenza della proposizione "il mondo è" è invalicabile perché ogni fatto (Faktum ) è contingente ed il mondo è un fatto [13]. La certezza dell'esistenza del mondo che noi assumiamo ed alla quale "crediamo" è soltanto empirica: "Nulla parla in favore che il mondo non sia, tutto in favore che esso sia" [14]. Tuttavia la tesi opposta della non esistenza del mondo non è controsensa: io posso anche pensare che lo stile armonico di esperienza che mi offre il mondo come esistente sia del tutto sconvolto. Il pazzo può dire: "il mondo non è": l'obiezione al realismo è "l'obiezione della pazzia" [15]. Ci possiamo arrestare a questo risultato, liberandoci senza difficoltà di questo sconveniente urto contro il "buon senso" : ci appelleremo allora alla normalità, alla validità per tutti, respingendo il pazzo nella sua solitudine. Ma qui appunto è il problema: solo se ci teniamo fermi al naturale terreno dell'atteggiamento comunicativo, siamo e giudichiamo 44 nella norma. Il mio stile di esperienza per il quale c'è un mondo per me concorda con lo stile delle esperienze altrui e la sua eventuale modificazione parziale può essere senza difficoltà interpretata in riferimento alla normalità comune. Ma nell'ipotesi di una modificazione totale, che mi sottragga ogni orizzonte di credenza, non ho disponibile alcuna norma: il mondo e gli altri sono per me mera finzione. Questa argomentazione pone l'esigenza di sottoporre a critica apodittica la certezza empirica del mondo proprio per giungere ad una sua interna comprensione. Anche l'obiezione della pazzia, come quella scettica, ha la sua serietà: essa ci conduce all'abbandono del discorso comunicativo come condizione per una critica valida del sapere ingenuamente realistico. Occorre porsi nella solitudine assoluta: apoditticamente indubitabile sono solo io. Le esperienze degli altri debbono valere non altrimenti che come mie stesse esperienze: sono esperiti del mio esperire e nulla più. Debbo sottrarmi all'atteggiamento comunicativo in quanto presuppone l'esistenza degli altri, reale o possibile, e passare quindi da un discorso implicante il noi (Wir-Rede) ad un discorso puramente egologico (Ich-Rede) [16]. Il solipsista si è posto sulla via di una critica apodittica dell'esperienza naturale del mondo e tuttavia non ha colto il senso della sua riduzione: la sua riflessione su di essa rimane ingenua cosi come il risultato al quale egli crede di poter pervenire [17]. Noi invece rileviamo l'infondatezza del realismo ingenuo e riducendo il mondo, e gli altri in esso, a parvenza, interpretiamo la parvenza stessa in senso trascendentale come pura datità fenomenologica. Accettiamo dunque l'ipotesi dell'illusorietà del mondo ma riconosciamo la sua natura di "mera ipotesi": Husserl rimprovera a Cartesio di non aver visto che il dubbio sorto dall'illusorietà possibile di un dato esperito non può essere esteso a scardinare "realmente" la certezza del mondo [18]. Di necessità ci veniamo allora a trovare nel solipsismo, ma lo assumiamo coscientemente come un artificio, un esperimento mentale (Gedankenexperiment) [19], una 45 finzione [20]. Certamente il solipsismo metodico ci pone subito più di un problema, ma esso non è risolto dall'appello all'ovvio essere insieme quotidiano ed alla certezza che esso comporta. Si richiede invece la fondazione costitutiva dell'alterità, sulla base della apoditticità fenomenologica che proprio l'istanza scettico-solipsistica dischiude. Proprio in quanto il metodo fenomenologico mette capo all'aporia solipsistica, pone il tema dell'intersoggettività come suo necessario compimento [21]. 46 Note [1] Sul tema " critica della ragione e fenomenologia " sono da vedere essenzialmente le cinque lezioni Idee der Phänomenologie (1907), Husserliana, II, e la conferenza Kant und die Idee der Transzendentalphilosophie ( 1924), Husserliana, VII, pp. 230-287. - In seguito ometteremo l'indicazione Husserliana, riferendo soltanto il numero d'ordine dei volumi pubblicati. I titoli corrispondenti sono riportati nella Nota conclusiva. [2] II, p. 19. [3] II, pp. 17-19 [4] II, p. 34. [5] II, p. 36. [6] II, p. 46. [7] VII, p. 246. [8] II, p. 30. Si veda, per il significato del cogito, E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bari 1961, p. 65 seg. [9] Krisis, trad. it. E. Filippini, Milano 1961, p. 215. [10] II, p 49 [11]La discussione seguente si fonda soprattutto su VIII, pp. 49-69. [12] VIII, pp. 49-50. [13] Cfr. VIII, pp. 50 e 53. [14] VIII, p. 54 [15] Einwand der Verriicktheit, VIII, p. 51. [16] VI)II, pp. 59-60 [17] VIII, p. 71. [18]" La peculiarità della certezza del mondo non sta proprio in questo: che essa, nel suo modo, permane persino nella sua apoditticità, nonostante tutti i dubbi. reali e possibili rispetto ad una data situazione? E che non può essere distrutta arbitraria- 47 mente, per quanto le realtà singole, sempre nella singola situazione reale, siano passibili di dubbio e anche troppo spesso subiscano una trasformazione di validità passando dall'essere all'apparenza? Cartesio non ha considerato questo fatto e naturalmente non ha visto i problemi che vi si riferivano e che dovevano sorgere dall'adozione della sua scoperta (giustamente intesa). Non si può dunque parlare di un dubbio realmente universale di fronte al mondo; ma ciò che del suo metodo resta, il suo merito essenziale, è una epoché dall'essere dell'intero mondo (motivata per Cartesio dalla possibilità universale del dubbio, in quanto possibilità del non-essere del mondo), oppure la posizione ipotetica di questo non essere". Krisis, trad. it. cit., pp. 427-428. [19] IV, p. 81. [20] VIII, p. 177. [21] Per quanto riguarda la storia del problema all'interno dello sviluppo del pensiero husserliano siamo costretti a limitarci alle poche indicazioni che seguono: nel semestre d'inverno del 1910-11 Husserl tenne a Gottinga un seminario su "l problemi fondamentali della fenomenologia", nel quale per la prima volta affrontava il problema dell'intersoggettività trascendentale (cfr. VIII, p. 433, n. 3). Nelle lezioni del 1907 (II) la riduzione non è ancora estesa all'intersoggettività ed il problema della alterità soggettiva non è ancora posto: in esse, osserva più tardi Husscrl, rivedendo la via percorsa, era presente un "errore di principio" (VIII, p. 433). Nel periodo che conduce dal 1910 al 1929 (Cartesianiscbe Meditationen) la tematica intersoggettiva viene continuamente approfondita ma essa è già compiuta nelle sue linee essenziali intorno al periodo 1923-24 (Erste Philosophie). 48 49 Sezione prima Costituzione dell'alterità soggettiva 50 Accingendoci a seguire nelle sue linee essenziali la teoria husserliana della Einfiihlung [1] - l'insieme delle analisi dirette a descrivere l'esperienza dell'alterità soggettiva - dobbiamo sottolineare il fatto che, nell'attuazione di questo compito, noi ci muoviamo costantemente sul terreno trascendentale: l'altro è dato come fenomeno tra i fenomeni della sfera descrittiva delineata dalla riduzione all'ego cogito. Noi non siamo nella mera "empiria" per la quale l'altro c'è già ed allora non ha bisogno di essere costituito [2]: se poniamo il problema della sua costituzione ciò accade perché l'assunzione "empirica" non è ancora di per sé significante. Nostro problema è quello di comprendere nel suo senso, liberi da ogni ipotesi metafisica e da ogni ovvietà, la presenza a me dell'altro come essente soggettivamente estraneo: "Noi dobbiamo allora accertare, penetrando osservativamente nell' intenzionalirà esplicita ed implicita nella quale, sul terreno del nostro ego trascendentale, si manifesta e verifica l'alter ego, in che modo, per quali intenzionalità, per quali sintesi, per quali motivazioni, si forma in me il senso alter ego e, sotto il titolo di esperienza concordante estranea, si verifica come essente, anzi, a suo modo, come presente in se stesso" [3]. La costituzione trascendentale dell'altro come tale è fondante per ogni formazione dell'esserci-per-ognuno, quindi dell'"obiettività" in senso lato, del mondo come natura e come cultura [4]: attraverso di essa si deve giungere ad "una storia universale di senso che, emanando dall'interno, rende per me anzitutto possibile il mondo obiettivo". I 51 Riduzione alla proprietà La "messa in parentesi" che si richiede per una adeguata tematizzazione dell'alterità soggettiva riguarda tutti i soggetti che si presentano come estranei e tutte le formazioni implicanti, direttamente o indirettamente, l'estraneità. Questa particolare operazione riduttiva ha lo scopo di definire ciò che pertiene anzitutto ed in primo luogo all'io, per giungere infine ad un'esplicitazione positiva dell'esperienza dell'altro colta nella sua originarietà. Il solipsismo iniziale è portato al limite estremo perché la messa in parentesi è rivolta ora ai significati intenzionali estranei nella loro stessa fenomenicità ridotta. La riduzione delle scienze obiettive e del mondo conduce all' ego cogito come campo trascendentale di fenomeni: il mondo è ancora per l'ego come fenomeno ed in esso si trovano gli altri e le formazioni intersoggettive di senso, benché al mero titolo del "come se" [6]. La sfera universale dell 'essere è divenuta fenomeno correlativo all'ego trascendentale puro. Nel momento in cui, all'interno di questa sfera, opero sul senso "altro" un'ulteriore epoché, l'ego viene riportato alla sua "proprietà", all'io-stesso trascendentale concreto [7]. Il "mondo", privato di ogni intenzione soggettiva altra dalla mia - di tutto ciò che può essere riunito sotto il titolo di "cultura" - è mondo soltanto "mio", ma è anche, pe questo, soltanto "natura". La natura propria (eigenheitliche Natur) non è la "mera natura" oggetto della "scienza", che mantiene ancora, pur essendo ottenuta per astrazione da ogni significato umano-culturale, il carattere dell'esserci-per-ognuno, dell'obiettività: essa è invece essenzialmente percezione, nesso intenzionale tra corporeità viva percipiente ed oggettualità percepita. La riduzione della soggettività trascendentale all'"essere mio" del soggetto, rivela la sua naturalità originaria: il suo essenziale essere in e per un corpo. La corporeità viva percipiente 52 è originaria per il fatto che essa è l'ambito non oltrepassabile al quale pervengo attraverso il procedimento riduttivo portato al limite, il fondamento di ogni possibile esperienza del mondo [8]. Essa è, per cosi dire, la sfera del "solipsismo" assoluto, o, secondo la terminologia husserliana, la sfera della primordinalità o primordialità egologica [9]: ciò che è assolutamente primo nel mio essere propriamente un io, ed allora non ancora un "io-uomo", ma "sensibilità pura e semplice" [10] Ciò che fa dell'io un io non è una vuota essenza, ma anzitutto il fungere percipiente del corpo. La riduzione al primordiale porta ad una delimitazione interna del polo soggettivo della relazione intenzionale, proponendo senz'altro la tematica negativamente contrapposta dell'altro; rende inoltre accessibile il tema della costituzione spazio-temporale della "natura" esigendo per essa una fondazione puramente percettiva [11]. È anche chiaro per il modo secondo il quale l'ambito della percezione è stato ottenuto che questo non deve essere inteso come campo dell'assoluta immediatezza. La costituzione dell'altro, proprio per il fatto che, condotta sul terreno percettivo, infrange il solipsismo della percezione, deve necessariamente introdurre a nuove e complesse considerazioni che accentuano il momento della mediazione, sia in cappotto alla tematica della "natura", sia a quella del mondo umano, della "cultura". 53 Note [1] Il termine di Einfühlung - introdotto, se non andiamo e errati, da Herder nel vocabolario filosofico tedesco, fu probabilmente tratto da Husserl dalla Estetica di Theodor Lipps. Si trattava del resto di un vocabolo d'uso nella cultura filosofica del tempo, e per questo provvisto di un significato abbastanza generico, che di volta in volta resta da precisare. In questa genericità viene assunto da Husserl, per il quale vale in generale ad indicare il complesso di atti intenzionalmente diretti all'alterità. Le traduzioni finora proposte sono assai varie e quasi sempre discutibili, soprattutto quando si vuole, nel tradurre, conferire ad esso una pregnanza significativa univoca che non possiede. Sono da respingere le traduzioni che implicano un rimando obbligatorio alla sfera affettiva : cosi ad es. "sentimento dell'essere altrui" "penetrazione affettiva", "immedesimazione affettiva", etc. Ciò non significa, come si vuole affermare dopo Scheler, che Husserl abbia privato il termine di ogni contenuto emozionale, ma soltanto che il sentimento non è per Husserl che un modo della Einfühlung. In Francia si è diffusa cd affermata la traduzione : intropathie "che, oltre a rimandare alla sfera affettiva, richiede a sua volta di essere tradotta: cosi la forma italiana analoga "entropatia" e le sue varianti ("connessione entropatica ", "empatia" etc.). René Toulemont respinge la traduzione "intropathie" con una motivazione inaccettabile ("parceque l' Einfühlung de Husserl n'a pas le caractère essentiellement affectif que suggere "intropathie" e que, specialement le mode fondamental de l'experience d'autrui est, pour lui, un phénomène purement intellectuel". (L'essence de la société selon Husserl, Paris 1962, p. 52, n. 3) e sostituisce con projection che è, a nostro parere, una traduzione arbitraria. Opportuna in molti casi la traduzione "introsentirsi" e "introsentirsi reciproco" (Paci ), che non può tuttavia essere sempre seguita. 54 Infine è da notare che Husserl usa questo termine a malincuore: lo giudica "poco adatto" (VIII, p. 63); osserva che l'insieme delle esperienze dirette verso gli altri è reso molto male dal termine di Einfühlung (VIII, p. 438); e spesso tenta di sostituirlo: parla così anche di Eindeutung (V, p. 109), Interpretation (VIII, p. 63), interpretative Wahrnemung (V,p. 14), interpretative Erfahrung (VIII, p. 175 ), Komprehension ( lV, p.228), komprehemive Erfahrung (IV, p. 191), Comprehensio (IV, p. 198 ), komprehensive Bewusstsein ( lV, p. 234). 2 "Transzendental gehe ich den Andem vorher, für die empirische Konstitution gehen die anderen Menschen meinem Sein als Menschen vorher". C 11 V, p. 7.3 [3] I, p. 122. [4] I, pp. 122-124. [5] I , p. 124. [8 ] I , p. 127. [6] I, p . 125. [7] Rendiamo "Eigenheit" semplicemente con "proprietà". Spesso è tradotto con "appartenenza". Per l'espressione "io-stesso trascendentale concreto" cfr. l , p. 125 [8 ] I , p. 127. [9] Il termine "primordinal" è caratteristico della V Meditazione cartesiana. Nei manoscritti Husserl usa più spesso "primordial". Talvolta anche "Primordium": ad es. "'Ich konkret, Bewusstseinsleben als ichzentriertes Leben, polarisiert-zentriert; mein Primordium als konkretes; Relativität des Primordiums, darin eine primordiale formale Struktur" C 16, VII , p. 14. Il mondo primordiale è detto anche da Husserl "Die "erste" Welt" (ad es. D. 12 I V). [10] Cfr. I , p. 171. [11] I, p. 173. II 55 La percezione dell'altro Nel campo della percezione è dato qualcosa come un altro corpo vivo, un corpo percepito come esso stesso soggetto di percezione. Esso non si risolve nell'essere presente: se cosi fosse non sarebbe per me realmente un altro, e neppure un corpo vivo. L'esperienza originale e diretta è limitata alla autopercezione del "mio" corpo ed alla percezione della mera materialità dei corpi percepiti: ciò per cui il corpo è percettivamente dato come "animato" e come "altro " non è esso stesso presente (selbst-da), ma co-presente (mit-da). Noi indichiamo l'atto intenzionale percettivo che reca a datità l'altro come tale con il termine di appresentazione [1]: "Nella percezione offerente in originalità effettiva, io ho soltanto la corporeità dell'altro, se dico: "quest'uomo è presente in carne ed ossa" - ma proprio ciò che lo rende persona, ciò che anima questo corpo materiale, conferendogli il senso "corpo vivo" questo non è originalmente percepito. Esso è co-presente, presentificato e da rendere intui tivo, ma non è "presente" in originalità effettiva (come lo è per me l 'essere egologico che mi è proprio) : esso è dato originariamente soltanto come "copresente" (non in una mera presunzione indiretta, come per sentito dire etc.)" [2]. Il fatto che l'esperienza dell'altro non sia presentante ma appresentante indica soltanto che l'altro è primordialmcntc presente in una radicale trascendenza [3]: cionondimeno l'altro stesso è nel mio orizzonte percettivo. In unmanoscrit to presumibilmente contemporaneo all' elaborazione delle Cartesianische Meditalionen Husserl parla anzi di "originalità della appresentazione": "la mia "percezione" degli altri è originale auto-offrirsi di altri uomini: l 'originalità nella quale si dà il loro essere psichico insieme con il loro corpo a me dato immediatamente è originalità della appresentazione, che si legittima conseguentemente nella sintesi di una esperienza progressiva e sempre più completa, in conse- 56 guente autoconferma" [4]. Tentiamo una più precisa determinazione della differenza tra percezione di cosa e percezione dell'estraneità, e perciò della loro diversa modalità di verificazione (Bewährung). Il concetto di appresentazione interviene anche nella interpretazione della percezione di cosa; l'immediatamente percepito,ciò che è in presenza diretta, implica un orizzonte di appresenza [5]. L'atto appresentante è qui intenzione presuntiva che può essere "riempita" attraverso un opportuno mutamento di localizzazione del soggetto percipiente. L'appresentato diventa direttamente presente se io muto posizione e guardo l' oggetto "dal lato posteriore". Ma l'altro non è dietro il suo corpo così da presentarsi tutto intero se io gli giro intorno [6] La verificazione dell'esservi per me dell'altro non si realizza nell'identificazione sintetica dell'unità esperita attraverso la reiterazione delle esperienze adombranti, cosi come accade per la percezione di cosa: "In certo modo l'apprensione dell'uomo attraversa il fenomeno del corpo, che è qui corpo vivo. Essa non si ferma, per cosi dire, presso il corpo, non ad esso tende la sua freccia e neppure ad uno spirito ad esso connesso, ma lo "trapassa" e si dirige appunto all'uomo" [7]. L'apprensione dell'uomo non procede dal corpo all'anima in una successione, come se prima fosse dato il mero corpo e poi la persona intera [8]. Per questa stessa ragione non necessariamente mi si presenta l'intero corpo dell'altro perché io abbia questa apprensione: una parte suppone il tutto [9]. L'appresentazione percettiva o appercezione interviene necessariamente sia nel caso della percezione di cosa sia nel caso della percezione dell'altro, ma sono differenti i termini che entrano in relazione appercettiva ed il suo senso. Appercezione in generale è "un'apprensione dell'essente simile in modo conforme a ciò che già per me è simile" [10]. Il corpo dell'altro primordialmente esperito non è dato come mero corpo materiale, ma come organo soggettivo analogo al corpo nel quale si realizza il "mio" vivere 57 egologico. Poiché questa esperienza cade nella sfera di proprietà, debbo concludere che il senso di corporeità viva che io esperisco come altro è costituito a partire dal corpo vivo che io esperisco originalmente come mio-proprio: la corporeità viva altrui è data in un'appercezione analogica [11]. Soltanto in questa appercezione - si deve aggiungere - io riconosco, con il corpo altrui, il mio corpo come mio: l'esperienza dell'altro implica un reciproco riconoscimento percettivo, un'identificazione associativa di soggetti percipienti. Nella percezione di cosa invece il processo percettivo-appercettivo identifica la cosa con se stessa determinandola ed estraniandola nella sua trascendenza oggettuale: "Il corpo vivo che è là come corpo esperito secondo l'appercezione del mio corpo vivo. Sembra semplicemente trattarsi dell'appercezione del simile attraverso ciò che in precedenza è esperito come simile, in modo ad esso conforme. Tuttavia ciò non avviene come nel campo già costituito delle cose che sono fuori di me, quando senz'altro io trasferisco appercettivamente ciò che io so di una cosa ad un'altra ad essa simile. Il mio corpo vivo non ha inizialmente alcun corpo simile e giunge a ciò soltanto attraverso l'appercezione di nuovo genere del corpo vivo, che presuppone già l'appercezione dellacosa esterna ma la modifica in un'appercezione di nuovo genere" [12]. L'intenzionalità dell'atto percettivo nell'apprensione dell'altro non è diretta a cogliere la mera esteriorità del corpo, ma la sua espressività: "Gli altri io, gli uomini e gli animali sono esperiti anzitutto come corpi del mondo, ma come "esprimenti" e appresentanti una vita di coscienza estranea"[13] - L'espressività del corpo è il suo fungere gestuale: la certezza d'essere dell'altro si fonda sulla verificazione continua e concordante della gestualità (comportamento) del corpo altrui [14]. Nel procedere del mio esperire diretto alla "cosa", io la verifico costantemente nelle sue datità prima anticipate, nel suo essere come è e nelle "circostanze" che la condizionano e caratterizzano: "Ma una persona, per quanto essa abbia uno stile generale come persona che offre una 58 traccia all'associazione e per quanto viva in circostanze ed in riferimento ad esse detenga la sua identità, non attraverso le mere circostanze, ma attraverso il suo comportamento (Verhalten) in esse, predelinea ciò che essa farà e come essa si comporterà nel subirle. Una persona non può essere costruita, si può soltanto riconoscere la sua individualità dal decorso di fatto del suo comportamento, anche se all'interno di una forma essenziale che non può essere oltrepassata"[15]. 59 Note [1] I, p. 139. [2] "In wirklich original gebender Wahrnehmung habe ich dabei nur den körperlidhen Leib des Anderen insofern sage ich, dieser Mensch ist leibhaft da - aber gerade was ihn zu Person macht, was diesen Körper "beseelt" und den Sinn Leib gibt, das ist nicht originale Wahrnehmung. Es ist mit da, vergegenwärtigt und anschaulich zu machen, aber statt in wi riklicher Originalität "da" (wie das eigene ichliche Sein für mich) nur: als "mit da" ursprünglich gegeben (nicht bloss indirekt vermeint, wie vom Horensagen usw" ) ". A V 5, p. 2234. [3] "L'alterità personale rappresenta una trascendenza ben più spinta che non sia quella della cosa inanimata". E. Melandri, Logica ed esperienza in Husserl, Bologna, 1961, p. 207. Nella teoria della Fremderfahrung non si tratta. affatto di "minimizzare" la distanza tra ego ed alter-ego, come di sfuggita osserva R . Toulemont (op. cit., p. 55), ma soltanto di comprendere il senso di questa distanza. [4] "Meine "Wahrnehmung" von anderen ist originale Selbstgebung von anderen Menschen, die Originalität, in der ihr seelisches Sein in eins mit ihrem mir unmittelbar gegeben Leibkörpet gegeben ist, ist Originalitä der Appresentation als sich in der Synthesis fortschreitender und immer vollkommenerer Erfahrung konsequent ausweisend, in konsequenter Selbstbestätigung". A V 10 / 2, pp. 155. Cfr. anche A V 10 2, p. 208 dove Husserl usa l'espressione di "originalità secondaria" della Einfühlung, in contrapposizione alla Selbsterfahrung primordinale. [5] Urpräsenz ed Appräsenz: cfr. IV p. 162 seg. [6] "Aber darum ist doch, was sein individuelles Sein, sein Eigenwesen als dieser Mensch (und insbesonders als diese Person, a!s diese Seele) ausmacht, nicht schon für mich direkt, wahr- 60 nehmungsmässig erfahrhar. Es ist so horizonthaft vorgezeichnet, dass ich bloss eigentlich erfahrend weitergehen könnte und was ich von ihm zunächst wirklich erfahren habe (die "Seite") zur Allseitigkeit bringen könnte" - A V 5, p. 166. [7] I V, p. 240. [8] ivi. [9] I V, p. 241 seg. [10] "Apperzeption - eine Aufassung von ähnlich Seiendem gemass dem schon für mich seiendem Ähnlichem". D 12 IV, p. 25. [11] Analogische Apperzeption (I, p. 138) - verähnlichende Apperzeption (I, p. 141). Gli equivoci ricorrenti sulla natura di questo atto analogizzante sono ben noti. Fra i primi fu Max Scheler ad intendere l'analogia husserliana come mera comparazione intellettuale. Contro Scheler, Husserl afferma a chiare lettere che l'appercezione analogica non è un ragionamento per analogia, non è un sillogismo o un atto mentale (I ,p. 141 ). Non ha compreso il testo A. Schutz quando scrive che "ammettendo una apprensione analogica del corpo altrui che si fonderebbe su di una rassomiglianza di questo corpo con il mio proprio, Husserl contraddice la situazione fenomenologica per la quale il mio corpo proprio, nel campo percettivo primordiale, si presenta con un "rilievo" fondamentalmente differente da quello secondo il quale si presenta il corpo dell'altro, che si pretende sia simile al mio". V. Le problème de l'intersubjectivité transcendentale chez Husserl, Cahiers de Royaumont , Edit.de Minuit, 1959, p. 345. Nello stesso saggio troviamo anche l'obiezione dell' "uomo del tramway" che ci prendiamo il gusto di riferire: "Ci si può chiedere anche se effettivamente l'apparizione in carne ed ossa dell'altro nella mia sfera primordiale abbia l'importanza decisiva che gli attribuisce Husserl. Io mi sento ben più vicino ad un filosofo lontano nello spazio che ad un estraneo che mi è dato tuttavia in carne ed ossa nel tramway" (p. 362). [12 ] "Der Leib dort als Leib erfahren gemäss der Apperzep- 61 tion meines Leibes. Das scheint einfach, es ist Apperzeption des Ähnlichen durch vorgängig erfahrenes Ähnliches, ihm gemäss. Aber es ist doch nicht so, wie in dem schon konstituierten Feld ausser mir seiender Dinge, was ich an einem kennen lerne, ohne weiteres apperzeptiv auf ein anderes ihm ähnliches übertrage. Mein Leib hat zunachst noch keinen gleichen und gewinnt dergleichen erst durch die neuartige Apperzeption des Leibes, die schon die Aussending-apperzeption voraussetzt,aber sie in eine neuartige verwandelt". D 12 IV, pp. 26-27. [13 ] "Andere Ich, Menschen und Tiere sind erfahren zunachst wie weltliche, aber erfahren als Korper "ausdrückend", apprasentierend fremdes Bewusstseinsleben". A VI 23, p. 11. Per la corporeità come Ausdruck cfr. IV, p. 234 seg. Husserl si serve talvolta anche del termine Indikation (VIII, p. 187), altruistische Indikation (A V 5, p. 32), indizieren (A VI 20, pp. 44-5). [14] Gestualità: das Mienenspiel (IV, p. 253) - Comportamento: Gebaren (I, p. 144). Husserl usa anche: Das Verhalten, das Gehaben. "Il Gehaben è il "comportamento" husserliano che in certo senso è originario e antepredicativo rispetto al behaviour del comportamentismo". E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bari 1961, p. 147. [15] "Eine Person aber, so sehr die einen allgemeinen Stil als Person hat und assoziativ vorzeichnet und so sehr sie unter Umständen lebt und in Beziehung auf sie die identische Person ist, zeichnet nicht durch die blossen Umständen sondern durch ihr Verhalten unter den Umständen vor, was sie non wciter tun, bezw. wie sie sich leidend verhalten wird. Eine Person kann man nicht konstruieren, man kann ihre Individualität nur erkennen aus dem faktischen Gang gerade ihres Verhaltens, obschon innerhalb einer Wesensform, die unüberschreitbar ist". A V 5, p. 34. La conosçenza dell'altro come persona non può derivare da una mera aspettazione induttiva (A V 5, p. 35). Husserl, costantemente insoddisfatto della terminologia relativa alla tematica intersoggettiva, parla anche talvolta di Induktion (cfr. A VI 20, 62 p. 44) dove tuttavia appare aggiunto in margine: "Induktion ist ein schlechtes Wort" ), ma sottolinea che mentre l'esperienza dell'oggetto fisico è induttiva, nel caso dell'alterità posso parlare di induzione solo in senso improprio: posso dire che nella Einfühlung io "induco" l'altro soggetto, ma questo solo perché nella mia autoesperienza, che non deriva da induzione, ho già un "prototipo" di soggettività (A V 10 2, p. 175). Sulla funzione relativa del "metodo induttivo" nella Fremderfahrung si rimanda a R. Toulemont, op. cit., pp. 70-13 III 63 Discorso e riconoscimento Poiché l'esterno dell'altro viene compreso come comportamento, la mia comprensione è interna nel senso che afferra l'esteriorità come soggettivamente motivata. Nel termine di "comprensione" non è ancora per nulla pregiudicata la natura dell'atto comprensivo, se sia essenzialmente teoretico oppure affettivo: questo problema, intorno al quale si sono spese molte parole, non sussiste in alcun modo. Distinguiamo tuttavia tra Einfühlung riflessiva e pre-riflessiva: la prima "presuppone" sempre la seconda [1]. L'Einfühlung percettiva ha una priorità trascendentale: vi sono poi infinite modalità modificate, che restano di volta in volta da descrivere. Vi è sempre un interesse [2] che guida la mia attenzione intenzionale, cosi che i modi di comprensione sono fenomenologicamente da differenziare in correlazione al mio sempre diverso essere interessato: "L'altro è esperito in modo tale che io sono "assortoin lui" sempre per via di qualche interesse. Nell'appresentazione per la quale egli è esperito come persona corporea nel mio mondo percettivo, anzi, nel mio campo spaziale attuale del presente percettivo, io vivo con lui la sua vita. In generale egli mi è presente in modo da essere anche appresentato come persona di una vita personale. Tuttavia l'appresentazione, come quando si guarda di sfuggita, può rimanere del tutto inattiva in una completa intrasparenza ed indistinzione, anche se egli - per me privo di interesse - rimane ancora sullo sfondo. Se poi viene attivata e funge nell'interesse attivo, allora essa è un con-sentire alla e nella altra persona, un vivere-quasi con essa: nell'appresentazione presentificante, a seconda dei modi nei quali questa di volta in volta si determina, si trova il suo esperire, il suo pensare, valutare ed agire" [3]. Il fatto che l'altro sia nel mio campo percettivo ed io nel suo non significa ancora che noi ci percipiamo reciprocamente come percipienti [4]; può 64 accadere che io veda l'altro senza sapere se egli mi ha visto; lo posso osservare senza che egli se ne accorga e viceversa. La presenza altrui mi può essere datamentre non sono verso di essa in una Einfühlung esplicita. All'inverso: sono diretto esplicitamente verso l'altro, colgo le sue manifestazioni e lo comprendo eventualmente come egli stesso diretto esplicitamente alle mie manifestazioni, o al mio essere diretto verso di lui : "Egli può anche, ad es., mentre mi osserva in un interesse qualsiasi, ritenere che io non me ne accorga, forse perché "faccio" come se non me ne accorgessi ed evito ogni espressione del mio accorgermi" [5]. Per tutte queste modalità non si può ancora parlare in senso proprio di alcuna "unificazione intenzionale", di alcun attuale nesso-io-tu (Ich-Du-Konnex): "Ciò che ancora manca è il progetto e la volontà del render noto - manca la specifica attività della comunicazione ..." [6]. Il comportamento dell'altro è una manifestazione (Bekundung) anche "senza che l'altro abbia una intenzione specificamente manifestante, cioè comunicante". Una manifestazione è comprensibile anche attraverso il suo mero essere espressa. La comunicazione (Mitteilung ), nel suo significato originario, è altra cosa: qui io sono diretto con intenzione all'altro e l' altro deve essere appreso come comprendentemi in questa intenzione. Nella comunicazione si richiede la manifestazione della stessa intenzione comunicante. L'esprimersi - che inerisce in generale ad ogni modo di Einfühlung - in quanto manifestazione intenzionalmente comunicante, è discorso (Rede) [7]. Intendiamo il discorso nell'accezione più ampia, comprensiva delle modalità comunicat ive della parola parlata, dello scritto, dello stesso gesto esplicitamente comunicante [8]. Esso ha un carattere particolare di immediatezza: nel discorrere mi rivolgo direttamente a chi ascolta e lo considero puramente come ascoltante. Non ho in presenza tematica i medi attraverso i quali gli diviene accessibile il mio discorrere. Lo stessovale per me che discorro: se parlo, non ho in presenza la mia voce, il suo timbro 65 etc. [9]. Il discorso è puramente un rivolgersi discorrente-a-qualcuno (Anrede) per essere compreso nella sua intenzione discorrente-a: suo fine è far si che l'altro a cui mi rivolgo riconosca il suo essere da me riconosciuto. Il riconoscimento discorsivo definisce ulteriormente l'idea della comunanza (Gemeinschaft), già emersa nell'interpretazione dell'esperienza percettiva dell'altro: "Ad ogni socialità sta a fondamento (anzitutto nell' originarietà dell'attività sociale attualmente prodotta) la connessione attuale della comunanza comunicativa, della pura comunanza del rivolgersi-discorrente-a e della sua assunzione; più chiaramente: del dire-a e del porgere-ascolto-a. Questa relazione linguistica è la forma fondamentale dell'unificazione comunicativa in generale, la forma originaria di un'identificazione particolare tra me e l'altro: cosi tra uno qualsiasi ed uno che sia per lui l'altro, un'unificazionedi discorso" [10]. Colui al quale io parlo e che mi ascolta,che assume il mio discorso e ad esso risponde, non è più soltanto altro ma il mio tu, e nel discorso entrambi ci nominiamo nel noi: "Nel discorrete-a e nell'assunzione di questo discorrere, io e l'altro io perveniamo ad una prima unificazione. Io non sono soltanto per me e l'altro non mi è dinanzi come altro, ma l'altro è il mio tu, e, nel discorso, nell'ascolto, nella risposta, noi formiamo già un noi, che è in modo particolare unificato ed accomunato" [11]. Siamo qui soltanto all'inizio di una vasta tematica che ha il suo centro nell'originario accomunamento intersoggettivo. Perché questo possa essere ulteriormente chiarito nel suo senso proprio, la presenza estranea deve essere ancora descritta nella prospettiva sinora taciuta del problema del tempo [12]. 66 Note [1] "Einfühlung kann so auftreten wie jedes andere gebende Bewusstsein, ohne dass ich daraus eine theoretische Erfahrung mache, es erscheinen dann die Anderen, ev. unbeachtet oder nebenher beachtet, gelegentlich lenke ich den "Blick auf Einzelheiten des Eingefühlten". "Die Apperzeption der eigenen Person bildet sich passiv vor der reflektiven Selbsterfassung". A V 10 , p. 121. "Auch bei der Einfühlung ist zu sagen, dass sie zunächst nicht reflecktierende Einfühlung sein muss hinsichtlich der fremden Person". A V 101 p. 122. [2] Cfr. C 16 IV, p. 30 [3] "Der Andere ist erfahren, in der Weise, dass ich "in ihm versunken" bin aus welchem Interesse immer. Ich lebe in der Appräsentation sein Leben mit: wobei er als leibliche Person in meiner Wahrnehmungswelt erfahren ist, näher in meinem aktuellen Raumfeld der wahrnehmungsmässigen Gegenwart. Ist sie überhaupt so fiir mich da, so ist er auch apprasentiert als Person personalen Lebens. Doch kann die Appräsentation, wie bei flüchtigem Sehen, gar wenn er als für mich interessenlos im Hintergrunde bleibt, in voller Undeutlichkeit und Unklarbeit vollig inaktiv bleiben. Ist sie selbst aktiviert, in der Aktivität des Interesses fungierend, so besteht sie in einem Eingehen auf die und in die andere Person, in einern Quasi mit ihr Leben: ihr Erfahren, ihr Denken, ihr Werten, ihr Tun in der vergegenwärtigenden Appräsentation und soweit sie jeweils bestimmte ist". A V 6, p. 18. [4] A V 6, p.30. [5] "Er kann ja, z. B., mich in irgendeinem Interesse beobachtend, meinen, dass ich das nicht merke, vielleicht, weil ich so "tue", als ob ich es nicht merkte - jeden Ausdruck meines Merkens dabei unterdrückend". A V 6. p. 31. [6] "Was noch fehlt ist Vorhabe und Wille der Kundgebung - es fehlt die spezifische Aktivität der Mitteilung…" A V 6, p. 67 32. La presente problematica è già accennata in Ideen II, quando viene in discussione il reciproco influire interpersonale (IV, p . 192 seg.). Qui Husserl indica come Einwirkung (distinguendo questo concetto dalla Wirkung) il dirigersi verso l'altro con l'intenzione di realizzare in lui una modificazione. Una forma fondamentale della Einwirkung è la comunicazione discorsiva. - R. Toulemont riferisce più dettagliatamente il Ms. A V 6 : si veda op. cit. pp. 102-109. [7] A V 6, p. 33. [8] A V 6, p. 35. Per un esempio di discorso puramente gestuale Cfr. A V 23, p. 2, cit. da Toulemont, op. cit., p. 109. [9] Una breve analisi dell' immediatezza della comunicazione è contenuta in A II l, p. 5. [10] "Aller Sozialität liegt zugrunde (zunachst in Ursprünglichkeit der aktuell hergestellten sozialen Aktivität) der aktuell Konnex der Mitteilungsgemeinschaft, der blossen Gemeinschaft von Anrede und Aufnehmen der Anrede, oder deutlicher von Ansprechen und Zuhoren. Diese sprachliche Verbundenheit ist die Grundform der kommunikative Einigung überhaupt, die Urform einer besondern Deckung zwischen mir und dem Anderen und so zwischen irgendjemand und einem für ihn Anderen, eine Einigung der Rede". A V 6, p. 36. [11] "In Anrede und Aufnahme der Anrede kommen Ich und anderen Ich zu einer ersten Einigung. Ich bin nicht nur für mich und der Andere ist nicht mir gegenüber als Anderer, sondern der Anderer ist mein Du, redend, zuhörend, gegenredend bilden wir schon ein Wir, das in besonderer Weise vereinigt, vergemeinschaftes ist". A V 6, pp. 36-7. [12] La prima ricerca husserliana esplicitamente diretta alla chiarificazione fenomenologica della "coscienza interna del tempo" risale al 1904-5: i manoscritti ad essa relativi furono editi solo nel 1928, da Heidegger (Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, Halle,1928). Nelle opere edite e più note, la tematica temporalistica, pur sempre presente, non è mai in primo 68 piano ed a essa ci si riferisce generalmente in modo oscuro: si direbbe che Husserl esiti a presentare pubblicamente le sue indagini su di un tema che sempre gli parve di eccezionale difficoltà. Enzo Paci, nella sua originale ripresa del pensiero husserliano, ha posto in luce l'importanza fondamentale del nesso intercorrente tra intenzionalità e tempo. Soltanto su questa base è possibile, sul piano interpretativo, ottenere una visione comprensiva ed unitaria del pensiero di Husserl, quale ci appare nell'opera edita ed inedita, togliendo di mezzo equivoci ricorrenti e tramandati di libro in libro. Si veda E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bari 1961, ed in esso sopratutto il saggio "Tempo e intersoggettività" (pp. 129-165 ). "Il problema del tempo nella fenomenologia di Husserl" è stato anche il tema del corso che Enzo Paci ha tenuto all'Università di Milano nel 1959-60 (cfr. Dispense, Milano, La Goliardica, 1960). IV 69 Proprietà ed estraneità temporale Riportiamoci all'inizio del nostro discorso, là dove, prima ancora che la stessa alterità soggettiva fosse direttamente tematizzata, si poneva il problema dell'esplicitazione di senso del polo soggettivo della relazione intenzionale, e tentiamo di penetrare la struttura della soggettività considerata in quanto tale ed in generale. Per "soggettività" non possiamo qui intendere un qualsiasi "ente" metafisico , a cui eventualmente si acceda in virtù di qualche particolare facoltà dello "spirito": il nostro problema è soltanto quello di accertare, rimanendo fermi all'empiria fenomenologica, quali contenuti siano celati nel mio costante sapermi un io, questo io che io sono. All'inizio questa proprietà per la quale io stesso mi nomino, viene metodicamente posta da parte e neutralizzata : cosi procedendo posso rivolgermi tematicamente non propriamente su me stesso, ma sulla soggettività come tale e rimango tuttavia costantemente nella autoriflessione, intesa anch'essa come indifferente rispetto ai suoi contenuti propri. Husserl tenta di svolgere questa analisi in particolare nei manoscritti ordinati sotto la lettera C, che si presentano con il titolo significativo di "Costituzione del tempo come costituzione formale" (Zeitkonstitution als formale Konstitution). L'esplicitazione pura della struttura soggettiva riguarda direttamente la costituzione del tempo cometale. Soggettività e temporalità sono da ricondurre ad un unico tema e non possono essere considerati in una astratta separazione. Su ciò non intendiamo diffonderci e rimandiamo all'esposizione che Gerd Brand ha reso di questo gruppo di manoscritti limitatamente a questo tema [1]. Ci importa piuttosto sottolineare un aspetto, già presente in Brand, che ha per il compito che ci siamo proposti un rilievo del tutto particolare. Affermare che la soggettività è temporale significa anche porre l'accento sulla "dialettica" attraverso la quale essa 70 si costituisce: l'identità soggettiva va intesa come ripresa costante di una distanza che non viene risolta ma accomunata, quindi come processo temporale di identificazione (Deckung). L'ego è temporale nel distanziare sé da se stesso e costantemente si ritrova in comunanza (Gemeinschaft) con se stesso. Se cosi non fosse un passato ed un futuro non avrebbe per l'io alcun senso [2] ed un io che non ha né passato né futuro non è neppure un io. L'affermazione dell'inafferrabilità auto-riflessiva dell'io, che ha dato luogo a molte stravaganze metafisiche, ha senso soltanto se con essa si vuole indicare la temporalità della soggettività come tale: se descrivo l'io come esso è puramente dato nella autoriflessione sono sempre rimandato ad un nuovo fungere dell'io ed in ciò mi si rivela il modo che è mio, in quanto sono un soggetto, di essere in un tempo e di avere il tempo: "Io sono dunque presente a me stesso nella forma originale dell' ''adesso" senza essere oggettuale, non in quanto mi conosco e in quanto sono conoscibile, bensì del tutto immediatamente. Ma in guanto sono presente del tutto immediatamentea me stesso, posso essermi presente anche oggettualmente, non come sono nel mio fungere, bensì come ero "poco fa"" [3]. Nel riflettere l'io oggetto è distinto e distante dall'io che ora riflette, ma è l'io che io ero "poco fa". Vi è sempre una distanza nell'io ma questa "è sempre già colmata, perché io sono sempre lo stesso": "La riflessione è la differenza e la coincidenza dell'io, la distanza colmata, l'esplicitazione originaria di un "adesso" e di un "poco fa" [4]. L'essere sempre a se stesso dell'io, che si rivela nella possibilità iterativa della riflessione e la costante identificazione nella distanza di un passato e di un futuro è indicato da Husserl come presente vivente-fluente [5]. Tutto ciò rimane valido se considero esplicitamente la presenza a me dell'altro e rifletto all'interno della mia proprietà ridotta : io sono propriamente quello che sono nella continua ripresa della distanza tra l'io del mio presente e gli io del mio passato e del mio possibile futuro. In questo presente io presentifico l'io che un tempo sono stato e che potrò essere nel futuro: 71 la mia identità soggettiva propria si ricostituisce costantemente nelle operazioni presentificanti. La sintesi di identificazione che riporta a me stesso è possibile in quanto i molteplici atti di molteplici io sono coesistenti nella forma del tempo. Questo non è il tempo "di tutti " (un senso che è ancora da costituire) e neppure il tempo soggettivo "in generale": il tempo nel quale io stesso sono e nel quale gli atti egologici molteplici sono miei, è il tempo proprio mio (Selbstzeit)[6]. L'immanenza egologica ha senso soltanto se è temporale, ed allora soltanto se è accomunata, se in essa vi è una distanza che permane nell' identificazione. In questa distanza interna alla vita egologica propria, non identificabile nella puntuale coincidenza, l'estraneità ha già un modello di sé: l'io presuppone l'altro, dove la presupposizione non è una ragione argomentativa, ma soltanto l'essere posto prima dell'io a se stesso. L'alterità presupposta è l'altro io che un tempo sono stato, che potrò essere nel futuro, che progetto di essere nelle mie possibilità possibili o nell' impossibile possibilità della fantasia: "Ciò che io esperisco intuitivamente come soggettivamente estraneo è, secondo il suo intero contenuto intuitivo - secondo l'intera struttura intuitiva di senso, facendo astrazione dal modo d'essere di ciò che è soggettivamente estraneo - necessariamente inerente all'ambito della mia pura autoesperienza possibile, in quanto già delineato dall'ambito della possibile fantasia di sé" [7]. Tuttavia l'altro stesso non è un anello di una catena deduttiva: egli è sempre e soltanto dato in una forma particolare di esperienza che noi abbiamo convcndtodi indicare con il termine di Einfühlung. Di fatto , all'interno del mio campo primordiale si presenta una primordialità che non è mia e che non può essere condotta ad immediata unità sintetica con la mia. L'altro è esperito come per se stesso primordiale e costituente, sul fondamento della centralità originaria del suo presente, un tempo proprio suo: "Ogni io che esperisco come altro in presentificazione originaria ha la sua unità, la sua vita fluente, il suo flusso temporale immanente di temporalizzazione concreta, la sua natura primordiale" [8].Tra me e 72 l'altro non vi è alcuna unità per la quale l'alter ego possa essere da me riconosciuto come l'altro io che un tempo sono stato: l'altro è là nella sua trascendenza: "Nessuna continuità conduce dal mio polo egologico, cioè dal mio sostrato continuo di intenzionalità inattiva e dai miei atti (la cui continuità esterna, nel flusso temporale, ha come correlato la continuità opposta dell'io-polo che sta in una identità accomunata con se stesso) verso l'altro polo egologico" [9]. Nella mia immanenza temporale rendo presente un'altra immanenza temporale. Nel mio presente, presentifico un altro presente: l' Einfühlung stessa non è che un modo del tutto particolare di presentificazione [10]. Su questo punto occorre riflettere: nell' Einfühlung i miei atti implicano intenzionalmente ed appresentativamente gli atti estranei, le presentazioni dell'altro nella inediatezza appresentativa [11]: ed anche il suo appresentare ed il suo presentificare per il quale egli si costituisce temporalmenre nella sua immanenza egologica e riconosce in me un'altra immanenza egologica. Il mio rendere presente è diretto dunque su di un altro rendere presente, su ciò che è già per se stesso presentificante: nell'Einfühlung pervengo all'io, ma non all'io stesso che io sono: l'io è qui effettivamente un altro, a me di fronte "in un campo temporale esternamente presente" [12]: "Se noi rimaniamo nella percezione originaria dell'altro uomo nella quale il suo io è prcsentificato ed appresentato, anche se in una modalità invalicabile, e se rimaniamo continuamente nella co-validità per la quale è dato in continuità il "ci" stesso dell'altro, il "ci" non soltanto del corpo materiale ma dell'uomo, allora io stesso sono presso di lui stesso, ma io stesso soltanto come colui che compie l'appercezione di uomo e le componenti introsentite in essa incluse: "presso di lui stesso significa null'altro che essere presso di lui nella presentificazione per Einfühlung" [13]. Nell'incontro due sfere di immanenza sono reciprocamente di fronte : l'io primordiale centrato nella sua temporalità immanente e l'altro io, costituito appresentativamente come egli 73 stesso per se stesso un io primordiale che si autocostituisce nel tempo propriamente suo. In questo essere centrati in una proprietà temporale reciprocamente estranea sembra consistere la distanza più profonda e radicale tra l'io e l'altro. Tuttavia l'operazione presentificante in generale non fissa soltanto una meradistanza ma svolge necessariamente una funzione identificante: la presentificazione opera sempre un trascendimento della trascendenza. Ciò è chiaro se noi ci limitiamo a considerare il ricordo nel quale un passato è distanziato come passato e riconosciuto nel presente. Ma l'Einfühlung - benché debba sussistere qui una analogia - non è un ricordo [14]: in che cosa consiste allora il suo peculiare essere una presentificazione, in rapporto alla trascendenza propria reciproca del tempo, ed in che modo un'identificazione può aver luogo? La risposta ad una tale questione deve condurre alla costituzione della obiettività temporale nella quale tutti già ci sappiamo. 74 Note [1] Gerd Brand, Welt, Ich und Zeit, Den Haag, 1955; trad. it. a cura di Enrico Filippini, Milano 1960. [2] C 16 III, p. 13. [3] Brand, op. cit., trad. it., p. 1:31. [4] ivi, p. 134. [5] ivi, p. 145. [6] Selbstzeit: cfr. C 16 VI, p. 36. [7] "Was ich als anschaulich als Fremd-Subjektive erfahre, ist notwendig seinem ganz anschaulichen Gehalt nach (der ganzen Struktur des Anschauungssinnes nach, abgesehen von dem Seinsmodus Fremd-Subjektives) zu dem Bereich meiner rein moglichen Selbsterfahrung gehört, wie er bezeichnet ist durch den Bereich moglicher Selbstphantasie". AVI 20, p. 45. Cfr. anche C 17 I, pp. 67: "Die Möglichkeit meines monadisches Seins liegt in meiner Wirklichkeit und alle anderen Möglichkeiten, die ich aus dieser Wirklichkeit durch freie Phantasieabwandlung gewinne, sind eben nur Abwandlungen und Moglichkeiten meiner und zunachst nur meiner Wirklichkei. Aber Iche, gedacht als wie wenn ich anders wäre, das heisst noch nicht ein Anderer. In mir liegt die Moglichkeit eines Anderen und damit die Zweiheit: Ich und Andere (in weiterer Folge "Wir zwei", was aber schon mchr, schon ein neues beibringt) ausschliesslich durch die Möglichkeit der Einfühlung und zwar als meine Vermöglichkeit". [8] "Jedes Ich, das ich als anderes in originaler Vergegenwartigung erfahre, hat seine Einheit und sein stromendes Leben, seinen immanente-zeitlichen Strom sachlicher Zeitigung, seine primordiale Natur". C 16 VII, p. 4. [9] "... es führt keine mögliche Kontinuierung von meinem Ichpol bezw, von meinem kontinuierlichen Untergrund der inaktiven Intentionalität und meinen Akren (deren äussere Kon- 75 tinuität im Zeitstrom als Korrelat die Gegenkontinuität des in Identitätgemeinschaft mit sich selbst stehenden Ichpols hat) zum "anderen" Ichpol". C 16 VII, p. 5. [10] Nella Quinta Meditazione cartesiana la tematica temporalistica non è approfondita. Per un accenno sull'Einfühlung come forma di presentificazione cfr. I, p. 144-5; sulla costituzione intersoggettiva del tempo cfr. I, p. 156. [11] Cfr. C 16 VII, p. 13. [12] C 16. VI, p. 30 [13] "Bleiben wir bei der ursprünglichen Wahrnehmung von anderen Menschen, in der sein Ich vergegenwanigt, aber trotz der Unüberschreitbarkeit dieses Modus apprasentiert ist, also stets in Mitgeltung, die eben das stets-da, das selbst-da des Anderen, das Da nicht nur des Körpers, sondem des Menschen ausmacht. So bin ich also selbst bei ihm selbst, aber ich selbst bin nur als der die Menschenapperzeption, darin die Einfühlungskomponenre Volhziehende; bei ihm selbst heisst hier nichts anderes als in der einfühlenden Vergegenwärtigung bei ihm sein". C 16 VI, p. 32. [14] Cfr. C 16 VI, p. 35: "Wie steht es nun mit der Eigenart der einfühlend-apprasentierenden Vergegenwartigung Anderer? Es ist eine meiner Seinsgeltungen wie eine meiner "Erinnerungen" im weitesten Sinne und doch keine Erinnerung" ; C 16 V H, p. 15: "Nicht "erinnernde" Vergegenwärtigung, sondern Alteration von primordialer Immanenz . ..". 76 V L'identificazione temporale intersoggettiva Il presente vivente primordialmente ridotto è l'ora (Jetzt) nel quale mi so come soggetto corporeo: è il mio ora come ulteriore ed essenziale determinazione del mio qui. Qui ed ora sono un io, e sono propriamente un io soltanto in questa forma di individuazione spazio-temporale. La via fenomenologica che conduce ai temi della concretezza egologica passa necessariamente attraverso la messa in chiaro dell'esperienza dell'alterità soggettiva nella sua modalità propria e nel senso del suo fungere costitutivo. Se ci limitiamo alla tematica del tempo, siamo indotti a precisare il presente vivente-fluente nella temporalità viva del mio ora dinanzi all'ora vivente dell'altro. Nell'incontro, il presente, estraniando l'ora altrui, si individua come mio. In questa correlatività individuante si rivela la comunanza che conduce l'estraneità reciproca a identificazione: nel mio ora costituisco l'altro nel suo ora, ma lo stesso ora ci accomuna. Noi non siamo nella medesimezza di un tempo che ci trascende e ci contiene: il fondamento della comunanza temporale è il mio presente-stesso, all'interno del quale un altro presente stessosi rivela e si scopre come il medesimo: la comunanza è formazione sintetica della distanza temporale. Precisandosi ed individuandosi come mio, questo ora si distingue ed accomuna: di qui risulta l'essere insieme simultaneo del mio e dell'altro ora: la contemporaneità temporale (zeitliches Zugleich ) [1]. Nel ricordo vi è pure una simultaneità del presente passato presentificato che è ora rimemorato come un ora passato, m aquesto essere insieme di due ora non è una contemporaneità temporale: non è un nuovo ora, una nuova determinazione del tempo. La contemporaneità in senso proprio è simultaneità di due (o piu) ora nella sintesi di un nuovo ora: "Mentre compio nel mio presente vivente le mie Einfühlungen ho nel loro estendersi in una puntuale contemporaneità il mio presente e quello 77 dell'altro, soltanto che quest'ultimo non è per me percettivamente intuitivo, ma è intro-sentito; ciò che è dato nell'Einfühlung (il presentificato) è ciò che è esperito continuamente ed è continuamente unificato con l'esperito. Ma si dirà allora: cosi accade anche per la rimemorazione intuitiva. Il rimemorare presente si identica puntualmente con il rimemorato, in rapporto alla durata reciproca. Ma questa contemporaneità dell'identificazione non è contemporaneità temporale: la prima è il mio presente, la seconda il mio passato" [2]. La sintesi del ricordo è egologica attraverso il tempo, non è una sintesi del tempo. La presentificazione per Einfühlung è invece un'identificazione del tempo che implica la formazione sintetica di un polo egologico di grado superiore. La sintesi egologica che si produce nell'incontro, in quanto è anzitutto un'originaria identificazione del tempo, differisce allora nel suo senso dalla sintesi egologica operata nel ricordo. Vero è che la connessione necessaria intercorrente tra temporalità ed egoità in generale non si rivela meno nel caso del ricordo che in quello della presentificazione per Einfühlung: ma qui il polo egologico della sintesi non è l'io stesso, ma l'unità temporale intersoggettiva del noi. L'Einfühlung stabilisce una distanza nel presente tra me e l'altro io ed insieme un presente accomunato nel modo della contemporaneità. Inoltre l'altro è consaputo come avente un suo passato ed un suo futuro: se da una parte io mi ritrovo come presente nella continua ritenzione dell'io appena passato al quale, fungendo, mi accomuno, e mi scopro come passato nel volgermi all'io che un tempo ero, così anche l'altro viene consaputo come contemporaneo con il suo passato ed il suo futuro, non nel modo della mera distanza ma della distanza accomunata. La contemporaneità è la forma fondante per ogni sintesi temporale intersoggettiva, ma presuppone ulteriori dimensioni accomunate, almeno nel senso del possibile accomunamento. Può accadere che il passato estraneo non mi sia ora accessibile e mi rimanga del tutto ignoto: ma per principio può essere discoperto 78 e portato a identificazione: "A questo proposito è da riflettere sul fatto che mentre compio una Einfühlung radicalmente intuitiva, il mio presente vivente e con esso anche il mio passato intanto defluito e ridestabile tramite la rimemorazione, e quello dell'altro, arrivano ad identificazione. Inoltre, se l'altro si ricorda di un precedente passato nel quale non era oggetto della mia Einfühlung, questo passato ricordato potrà allora diventare per me accessibile. In quantosi identifica un tratto del suo e del mio tempo, l'identificazione procede per l'insieme temporale" [3]. Il mio altro, con il quale sono in un'identificazione duale temporalmente accomunata, non è soltanto per me accessibile in quello che egli stesso è ora, è stato o vorrà essere: poiché egli è mia "ripetizione intenzionale" egli ha a sua volta altri che sono da lui direttamente appresentati. L'unità di identificazione temporale ed egologica è iterabile all'infinito: attraversoil mio altro, io so di altri; egli è per me, come io sonoper lui, un centro di infinite mediazioni. Il presente contemporaneo che noi abbiamo all'inizio costituito come identificazione tra me ed il mio altro si estende a comprendere una totalità accomunata di presenti nella loro modalità originaria [4] e poiché una tale identificazione implica l'insieme temporale, noi troviamo a fondamento trascendentale del tempo "obiettivo" e dell'umanità "obiettiva" il presente infinitamente aperto della totalità intersoggettiva. La costituzione del tempo non può essere scissa dalla costituzione dell'alterità soggettiva e l'accomunamento intersoggettivo dell'incontro è sempre anche accomunamento temporale. 79 Note [1] C 17 I, p. 1 seg. [2] "Solange ich in meiner lebendige Gegenwart meine Einfühlungenvollziehe, habe ich in ihrer Erstreckung Zeitpunkt für Zeitpunkt zugleich meine Gegenwart und die des Anderen, nur dass diese letztere nicht für mich wahrnehmungsmässig anschauliche, sondern eingefühlte ist; das Eingefühlte (das Vergegenwärtigte) ist kontinuierlich Erfahrenes und kontinuierlich einig mit dem Erfahrenen. Nun wird man aber sagen, so ist es doch auch bei der anschaulichen Wiedererinnerung. Es deckt sich das gegenwartige Wiedererinnern mit dem Wiedererinnerten hinsichtlich der beiderseitigen Dauern Punkt fiir Punkt. Aber dieses Zugleich der Deckung ist nicht zeitliches Zugleich, das eine meine Gegenwart, dasa ndere meine Vergangenheit". C 17 I, pp. 2-3. [3] "Hier ist aber zu bedenken, dass, solange ich wirklich anschauliche Einfühlung vollziehe, meine lebendig strömende Gegenwart, aber damit auch meine indessen verflossene und durch Wiedererinnerung aufzuweckende Vergangenheit und die des Anderen zur Deckung kommt. Ferner, wenn der Andere sich erinnert an eine frühere Vergangenheit, in der nicht Gegenstand meiner Einfühlung war, so wird diese Erinnerungsvergangenheit mir doch jetzt zugänglich werden konnen. Indem eine Strecke seiner und meiner Zeit sich deckt, setzt sich die Deckung durch die ganzen Zeiten fort". C 17 l, p. 3. [4] Tutti i presenti primordiali si accomunano in un presente intersoggettivo: "Sie sind zugleich jetzt". A V 5, p. 82 80 VI Coesistenza Comprendere il senso della dialettica tra distanza ed accomunamento, tra identificato e separato, rende chiare le ragioni dell'orientarsi di Husserl verso una prospettiva monadologica. Il tempo proprio (Selbstzeit) della monade singola è la forma di esistenza (Existenzform) della sua vita soggettiva: per esso le "monadi" sono quelle che sono, hanno uno stile,sono centrate nella loro immanenza egologica [1]. I loro tempi trascendentali sono le "forme della loro individualità in sé conclusa" [2]. Esse sono nella separazione, non solo in quanto meri corpi, ma anche in quanto sono, oltre che corpi, "anime" [3]. La separazione d.ella monade è la sua assolutezza fattuale, l'irripetibilità del suo tempo, il suo essere una volta per tutte. La sintesi temporale intersoggettiva non è un'estensione reale del mio tempo di vita, come se mi impossessassi dell'infini ta ripetizione. L'individuo, centro di mediazioni temporali iterative, è una volta per tutte: "Gli individui animati, non solo per i loro corpi, ma già in se stessi sono individui "separati" - eppure questa parola non è adatta, benché le anime siano indivisibili ed anche in questo senso vero e proprio del termine siano individui; viene qui in questione l'altro senso dell'unavolta-per-tutte dell'essere che le anime detengono non soltanto in quanto sono fra circostanze, in un tempo universale dato prima, ma da loro stesse, dal loro proprio essere temporale, nel quale è intenzionalmente inclusa la temporalità altra che per essenza è un'altra" [4] La separazione (Trennung) è dunque invalicabile: "D'altro lato questa separazione non impedisce, anzi è essa la condizione di possibilità perché le monadi si possano "identificare", perché esse - in una parola - possano essere in comunanza. Questo tuttavia significa: esse coesistono; ed ancora: sono monadi coesistenti al plurale, come possibilità d'essere di un'altra monade" [5]. Ogni monade impli- 81 ca nella sua realtà effettiva (Wirklichkeit) la possibilità d'essere dell'altra monade: ma la realtà effettiva della comunanza è la comunanza stessa costituita nella presentificazione per Einfühlung, tra me ed il mio tu, comunanza di esistenza con esistenza, nella forma originariamente intersoggettiva del tempo: la contemporaneità temporale. Nell'incontro intersoggettivo l'identificazione riguarda l'integrità di vita del soggetto, non la mera temporalità, ma il "tempo riempito" [6] e la validità prodotta nell'identificazione riguarda l'essere stesso. La coesistenza (Koexistenz) è la pienezza della forma temporale intersoggettiva che si realizza nella distanza temporalmente accomunata delle esistenze vive, per se stesse primordiali ed accentrate nel loro proprio tempo di vita: "non è allora un vuoto essere insieme, ma per me un esserci-per-me, un esserci a me "comune", in modo tale che il mio esserci, presentificando in sé un altro, esperisca ed insieme possa esperire che esso si esperisce come presentificante" [7]. Riproponiamo questa tematica sotto altra luce. L'uomo nel mondo (mundaner Mensch) ha, in quanto è un corpo materiale, un' estensione spaziale ed una durata obiettiva. Considerati come corpi gli uomini si trovano fra di loro in un rapporto di reciproca esteriorità (Aussereinander). Ma l'esserede l'uomo nel mondo e nel tempo non si risolve in questa obiettivazione: la "monade" non ha un tempo al di fuori di lei, né si riferisce alle altre monadi nell'obiettività già costituita del tempo in cui i corpi materiali sono l'un l'altro ordinati. Essa è già essa stessa un "mondo" per sé concluso ed è fondamento trascendentale di ogni costituzione temporale : "Il "mondo" della monade singola per sé ha come forma di coesistenza delle sue "realtà" un tempo per sé, il tempo d'essere, un tempo di vita dell'anima: in esso scorre tutta la sua vita, tutti i suoi atti, le sue associazioni, il suo permanere di abitualità una volta fondate, di abitudini etc.; tutto ha qui il "suo tempo", cioè la sua durata, il suo inizio e la sua fine all'interno del tempo totale, che è la monade stessa, l'anima concreta stes- 82 sa, in quanto riempita di contenuti in una necessaria continuità, assunta appunto in sé e per sé, astrazion fatta dal suo corpo materiale" [8] Il mio tempo è sempre individuato, distinto dal tempo proprio dell'altro, necessariamente separato cosi come è separata la localizzazione spaziale del corpo mio e di quello altrui. Ma la separazione temporale sarebbe conseguente, per una sorta di parallelismo, dalla separazione materiale? "Le anime sono forse contemporanee e situate l'una dopo l'altra, temporalmente coesistenti, soltanto attraverso il legame con i corpi materiali,quindi per methexis con il tempo universale della natura?" [9]. Il corpo materiale è nel tempo spaziale (Raumzeit), nella totalità temporale obiettiva della natura. Il suo essere reale è determinato dalla partecipazione a questa totalità. La sua concretezza è sempre relativa, perché mediata dalle "circostanze" e determinata all'interno del nesso causale-naturale [10]. Certamente l'anima è partecipe della temporalità spaziale dei corpi perché essa è sempre necessariamente "incorporata", ma se consideriamo l'uomo nel suo specifico essere soggettivo, dobbiamo rilevare che la coesistenza corporea "presuppone" per lui una coesistenza puramente interna, un "nesso di anime" (seelischer Zusammenhang) [11]. L'assolutezza concreta del soggetto - il suo essere in sé e per sé - non è e non può essere mera separazione. Se poniamo questo problema in termini tradizionali, potremmo chiedere: che cosa definisce la "sostanzialità" dell'anima? "La risposta deve evidentemente suonare: le anime non sono soltanto in sé e per sé, sono io-soggetti umani nella concrezione della loro vita fluente considerata come puramente psichica; ma come tali esse non sono essenti in sé e per sé, nella loro temporalità monadica. Esse sono anche ed essenzialmente in comunanza attuale e potenziale, in connessione attuale e potenziale, di cui il "commercium", il "frequentare" nelle sue forme molteplici è soltanto una particolarità" [12]. La relazione tra monade e monade è tale che per essa ne va 83 di loro stesse: "Le anime non sono soltanto per sé, ma per l'una ne va dell'altra" [13]. Ciò significa: il soggetto è tale ed è concreto soltanto per questa struttura relazionale : per essa l'io ha uno stile, una vita, un corpo. L'Einfühlung, l'incontro comprensivo dell'altro è il modo originario di questo ne va di. [14]. Un altro io mi è dato, c'è (ist da) nel mio presente come altro, e per esso "ne va di me". Tramite l'Einfühlung "io mi riferisco ad un secondo io ed alla sua vita, attraverso di essa egli c'è per me immediatamente come altro e per lui ne va di me; in quanto egli è un altro, ne va di me già per il fatto che prima di ogni frequenza con lui, eo ipso non soltanto esperisco la sua vita, appena effettivamente giunge all'esserci per me (e si offre quindi nella sfera delle possibilità intuitive sempre determinate), ma con-vivo, co-percepisco, co-credo, co-giudico, essendo d'accordo, rifiutando, dubitando, congratulandomi, temendo insieme, etc." [15] Possiamo concludere a questo punto il nostro tentativo preliminare di definire il senso in Hussetl della teoria costitutiva dell'alterità soggettiva e siamo ora avviati ad una considerazione diretta dei temi inerenti e derivanti dall'accertamento dell'"accomunamento originario" (Urverge­meinschaftung) di vita e di esistenza dell'io e del suo altro. 84 Note [1] Il tempo proprio come Existenzform: C 17 I. p. 4. [2] C 17 I , p. 6. [3] Il termine "anima" - che avremo ancora occasione di usare - non renda preoccupato il lettore: esso indica soltanto l'animazione del corpo materiale. [4] "Die seelischen Individuen sind nicht erst durch ihre Körper, sondern in sich selbst schon "getrennte Individuen" doch passt das Wort nicht, obschon die Seelen unzerstückbar sind und auch in diesem eigenen Wortsinn Individuen sind; es kommt der andere Sinn der Einmaligkeit; des Seins in Betracht; und die haben die Seelen nicht erst aus einem Sein unter Umständen in einen vorgegebenen universalen Zeit, sondern aus sich selbst, aus ihrem eigenen zeitlichen Wesen, indem andere Zeitlichkeit intentional beschlossen ist, die wesensmässig eine andere ist". C 17 I, p. 6. [5] "Andererseits hindert diese Trennung nicht, ja sie ist sogar die Bedingung der Ermöglichung dafür, dass Monaden sich "decken" können, dass sie mit einem Wort - in Germeinschaft sein können ; aber wieder dasselbe sagt, dass sie koexistieren, und wieder dasselbe, dass sie im Plural, koexistierende Monaden a!s Möglichkeit des Seins einer anderen." C 17 I, p. 6. [6] Erfüllte Zeit: C 17 l, pp. 3-4. [7] "Koexistenz ist nicht ein leeres Zusammensein, sondern fur mich ein Für-mich-dasein, mit mir "gemeinsam" Dasein dadurch, dass mein Dasein anderes in sich vergegenwärtigend erfahrt und erfahren kann, in eins damit, dass es sich selbst erfahrt als vergegenwärtigendes." C 17 I, p. 17. [8] "Die "Welt" der einzelnen Monade für sich hat als Koexistanzform ihrer "Realitäten" eine Zeit für sich, die Seinszeit, die Lebenszeit der Seele, in der all ihr Leben verlauft, alle ihre Akte, ihre Assoziationen, ihr Verharren von einmal gestifteten Habitualitäten, Gewohnheiten usw.; alles darin hat "seine Zeit", d. h. 85 seine Dauer, seine Anfangen und Aufhoren innerhalb der Gesamtzeit, die als inhaltlich ausgefüllte und notwendig lückenlos ausgefüllte die Monade selbst, die konkrete Seele selbst ist und zwar an und für sich genommen, abgesehen von ihrem Körper" C. 17 I, p. 28. [9] "Sind also die Seelen gleichzeitig und nacheinander sind siezeitlich koexlstierend nur durch ihre Verbindung mit Jen Korpern, alsodurch Methexis an der universalen Naturzcit?" C 17 I, p. 29. [10] C 17 I, p. 30. [11] C 17 I, pp. 31-32. [12] "Die Antwort muss offenbar lauten: Seelen sind nicht nur in sich und für sich, oder Seelen sind menschliche Ichsubjekte in der Konkretion ihres stromenden, rein psychisch betrachteten Lebens; aber als das sind sie eben nicht bloss in sich und fiir sich seiend, also seiend in ihrer monadischen Zeitlichkeit. Sie sind auch und wesensmässig in aktueller oder potentieller Gemeinschaft, in aktuellem oder potentiellem Konnex, wovon das "Commercium", der Umgang in seinen vielfältigen Gestalten nur Besonderheit ist. " C 17 I, p. 33. [13] "...die Seelen sind nicht für sich nur, sie gehen einander an". C 17 I, p. 33. Con ne va cerchiamo di rendere l'husserliano angehen ed Angang. [14] C 17 I , p. 34. [15] Durch sie aber beziehe ich mich auf ein zweites Ich und ihr Leben, durch sie ist es für mich unmittelbar da als anderes und geht mich an; es geht mich als anderes schon dadurch an, dass ich vor allem Umgang mit ihm eo ipso sein Leben, soweit es wirklich für mich zu einem Da wird (also in der Sphäre der Anschaulichkeit und jedenfalls Bestimmtheit) nicht nur erfahre, sondern mitlebe, mitwahrnehmend, mitglaubend, miturteilend, zustimmend, ablehenend, zweifelnd, mich miterfreuend, mitfürchtend, usw. " C 17 I, p. 34. 86 87 Sezione seconda Intersoggettività e storia 88 I Nota introduttiva In fine risulterà chiaro - io penso - che l'"astorico Husserl" solo temporaneamente prese distanza dalla storia (che in realtà gli fu sempre presente), proprio per approfondire il metodo fino al punto di poter porre su di essa questioni scientifiche. E. Husserl a G . Misch, in data Freiburg 27 Xl '30 (cit. da A. Diemer, Edmund Husserl. Versuch einer systematischen Darstellung seiner Phänomenologie, Meisenheim am Glan, 1956, p. 394 ). Nella posizione del tema dell'alterità soggettiva la fenomenologia perviene al terreno dello stesso esserci dell'io. Ciò non ha in se stesso nulla di sorprendente: dal mio esistere concreto ha preso l'avvio l'iniziale operazione fenomenologica. Chi si pone sulla via di una presa di coscienza radicale se non proprio io, che mi decido alla riflessione filosofica, nella crisi delle ovvie verità giàdate, della stessa indiscussa verità e realtà dell'essere mio e del mondo? Proprio io che so già di avere un nome e un corpo, di essere una volta nato, di avere una mia "vita", una mia "storia". Lo scetticismo è questo rimettere in discussione la concreta e già saputa verità del mio essere: l'ombra scettica annienta il già noto nell'ignoto, il già vero nella possibilità della non-verità. La crisi scettica dischiude il campo della riflessione filosofica; ci si rifiuta di accettare perché si era già tutto accettato, di credere perché si aveva già tutto creduto: si vuole vedere. Nella decisione abbiamo perduto il nostro saperci già nel mondo, la realtà nel suo intrasparente ed enigmatico essere-là di fronte a noi: il 89 nostro stesso nome, la nostra nascita, il nostro possibile morire. Se non vogliamo rinunciare alla responsabilità della verità, fino ad accettare il quotidiano ovvio sapere-già nella sua indiscutibilità indiscussa, dobbiamo andare fino in fondo, attraverso ed oltre lo scetticismo. Noi perveniamo allora - nella destoricizzazione e nella disindividuazione della decisione filosofica - all'ego, che in quanto privato di ogni concretezza, non è propriamente un io: piuttosto una forma egologica, una struttura invariante - non soggetto, ma "egoità" [1]. L'analisi diretta ad accertare la caratteristica formale dell'ego conduce alla chiarificazione del nesso essenziale che lega soggetto e tempo; l'ipseità egologica non ha senso se non è fluire temporale, identificazione continuamente ripresa di sé a se stesso. Se essa viene assunta come identità atemporale, si annienta come egoità: il suo essere è l'auto-accomunarsi temporale non solo un fluire, una vita fluente, ma un defluire: un distanziate sé da se stesso; ed un affluire: un progettarsi verso un io futuro. L'immanenza temporale dell'io si trascende necessariamente e costantemente. Nel temporalizzarsi l'egoità che non aveva senso finora definire una o molteplice, "si individua" precisandosi come identità che "si fa" diversa, come unità che "si rende" molteplice: "A partire da me, penetrando nel trascendentale si dischiude, con la questione dell'infinità della temporalizzazione, la questione della infinità della molteplicità trascendentale di soggetti" [2]. Questo "processo" inizia e termina all'interno della forma egologica: non lo si fraintenda dunque idealisticamente come una reale produzione. L'egoità qui considerata è l'io solipsista dell'inizio: sinché rimango a questo grado sono prigioniero della forma e non mi posso scoprire quale propriamente io sono, un soggetto incarnato, un uomo nel mondo. Questo appunto è il problema: il fatto che io sono soggetto del mondo nel mondo già dato, tra soggetti intenzionalmente riferiti a me ed al mondo, ed essenti con me in esso [3]. Su ciò ci conduce la messa a tema dell'esperienza dell'altro: perché un altro abbia senso, debbo comprendere ciò 90 che propriamente io sono ed infine ciò che l'altro propriamente è nel suo esserci. In questo modo ci troviamo a considerare la dimensione del riempimento della forma, non l'egoità in generale e la sua temporalità, ma l'io proprio incarnato nel suo tempo proprio di vita, nel suo rapporto di coesistenza reale e fattuale con l'altro. Siamo tenuti allora ad accertare il trapasso della fenomenologia ad "esistenzialismo"? A questa questione intendiamo rispondere per quel tanto che basta a liberare il nostro discorso da possibili equivoci. Il nodo cruciale per certi aspetti della filosofia contemporanea che lega ambiguamente fenomenologia ed esistenzialismo non è di facile soluzione: esistono a questo proposito molte opinioni correnti e qualche incerto tentativo, ma nessuna risposta ci sembra - almeno approssimativamente adeguata. La questione è anzitutto storiografica: si tratta di considerare nella sua ampiezza l'apporto effettivo che l'esistenzialismo - Heidegger in particolare - ha tratto dal pensiero husserliano ed, ancor più, il senso di questo apporto. Inoltre, una certa tematica che traluce dall'opera manoscritta può essere suggerita, almeno nei suoi titoli, dalla lettura di Sein und Zeit. Ma non sarà per principio possibile alcun serio accertamento storiografico se non si ottiene anzitutto un preciso chiarimento del diverso contesto di discorso entro il quale, eventualmente, temi analoghi vengono indagati. È ben noto il fatto che il tema di un'analitica dell'Esserci è posto da Heidegger perché l'Essere ha nell'Esserci la sua fonte di accessibilità. Per questa dichiarata intenzione ci si rifiuta di accedere e di permanere sul terreno trascendentale al quale Husserl era pervenuto nella ripresa del progetto di una fondazione rigorosa del sapere: l'uso dell'epoché viene limitato a critica del già-compreso, della "ovvietà" e l'operazione riduttiva viene posta da parte nella misura in cui, attraverso di essa, si perviene sul terreno della formalità egologica. In questo senso Heidegger è esplicito contro Husserl. Giunto al problema del "chi" dell'esserci, così indica la via husserliana: "Non si va forse contro le 91 regole di ogni metodologia garantita, se non si mantiene l'impostazione di una problematica nel quadro di dati evidenti del terreno tematico? E che cosa c'è di più indubitabile della datità dell'io? E questa datità non implica forse (in vista della sua elaborazione originaria) la necessaria esclusione preliminare di qualsiasi "dato" di altro genere, cioè non solo di un ente "mondo", ma anche dell'essere di altri "io"? Può darsi che ciò che è dato in questo genere di dare, cioè nella percezione semplice, formale e riflessiva dell'io, sia evidente. Questa intuizione apre infatti la via d'accesso ad una problematica filosofica che ha il suo significato fondamentale e delimitativo come "fenomenologia formale della coscienza"" [4]. La critica di Heidegger a questa posizione è la seguente: "L'interpretazione positiva dell'Esserci finora data inibisce per sé sola il partire dalla datità formale dell'io se si vuol giungere ad una soluzione fenomenicamente sufficiente del chi. L'analisi dell'essere nel mondo rese già chiaro che non "è" e non "è" mai dato innanzitutto un soggetto senza mondo. Ed allo stesso modo non è mai dato, in primo luogo, un io isolato senza gli altri"[5]. Heidegger abbandona dunque, insieme con il discorso trascendentale a cui conduce la radicale messa in questione della riduzione fenomenologica, la fenomenologia formale della coscienza e subordina la componente egologica a quella meramente "esistenziale". In Husserl l'esistente viene a tema senza che la coerenza del discorso fenomenologico sia infranta o deviata: il metodo di indagine ed il senso dei suoi risultati è di conseguenza del tutto differente. Ciò risulta chiaro già dal fatto che in Husserl, Dasein, che noi abbiamo reso in qualche luogo con la traduzione tradizionale di "esserci" per sottolineare l'effettiva realtà costituita nella Einfühlung, ha essenzialmente il senso di presenza. Nel momento in cui riduco l'essere egologico al mio essere proprio e sono presenza concreta di me a me stesso, costituendo su questo fondamento l'altro come a me appercettivamente presente, ho l'esistente a 92 tema. Mi riconosco nel mio esserci riconoscendo l' altro e sapendomi come corpo percipiente-agente, in un presente costituito nella ritenzione di un passato e nella protenzione di un futuro, come stile attraverso il tempo. Ritrovo la mia concretezza esistenziale e correlativamente quella dell'altro, ed insieme il nostro coesistere, per il fatto che mi apprendo non come mero io, in una mera forma temporale, ma come io stesso in un tempo riempito, io nella mia corporeità individuata, nella mia storia. Se rimaniamo in una rigorosa considerazione fenomenologica dell'esserci, saremo immediatamente diretti a considerare il tema dell'accomunamento storico-intersoggettivo: "In una considerazione assoluta ogni ego ha la sua storia ed è soltanto come soggetto di una storia, della sua. Ed ogni comunanza comunicativa di io assoluti, di soggettività assolute - alla cui pienezza di concrezione inerisce la costituzione del mondo - ha la sua storia "passiva" e "attiva" ed è soltanto in questa storia" [6]. Possiamo allora tentare di indicare, alla luce di queste poche considerazioni, le linee di fondo intorno alle quali sembrano orientarsi le ricerche husserliane ed il significato del loro ultimo rivolgersi verso la tematica della monadologia, dell'intersoggettività, della storia. Ritorniamo ancora una volta sulla ripresa fenomenologica della "molto discussa e poco compresa" rivoluzione copernicana, nella quale Husserl riconosce il "significato di eternità della filosofia kantiana" [7]. L'inversione trascendentale denuncia l'ovvietà dell'atteggiamento naturale per porre ogni problema come problema di datità immanente: la fenomenologia riprende questa intenzione e si trova nella necessità di chiarire il senso del polo intenzionale soggettivo del campo fenomenologico. Su di ciò Husserl fu, sin dall'inizio, frainteso: le Ideen I sembrarono anche a coloro "che più si erano distinti come eccellenti fenomenologi" [8] una deviazione inammissibile di fronte all'impostazione fornita nelle Logische Untersuchungen: dinanzi a chi indicava nella posizione della tematica egologica l'avvento di una metafisica di 93 tipo idealistico, egli ribadisce l'unità e la coerenza del suo procedere e riafferma polemicamente che disgiungere fenomenologia e "idealismo trascendentale" equivale a fraintendere "il senso più profondo del metodo intenzionale"[9]. Il fraintendimento fu allora addirittura duplice: ci si convinse a maggior ragione che la fenomenologia fosse "idealismo" e si fraintese non soltanto il "senso più profondo del metodo intenzionale", ma naturalmente anche il significato della ripresa fenomenologica dell'intenzione idealistica. Ciò che invece era significativo non fu generalmente osservato: approfondendo la tematica egologica Husserl giunge alla posizione dell'inter­soggettività ed al tema correlativo dell'individuazione monadologica. Il progetto critico iniziale si conclude nel riconoscimento dell'intersoggettività monadica come "l'essere in sé primo" [10]. Il radicalismo fenomenologico giunge qui al suo ultimo rimando. Soltanto allora è possibile affermare che nessun problema detiene un privilegio di principio tale da non poter essere affrontato dal sapere rigoroso del fenomeno: ogni problema è filosofico e la sua posizione è legittima solo se condotta all'interno di questo sapere: "La fenomenologia non dice affatto che essa si arresta di fronte ai problemi ''ultimi e sommi''"[11]. L'atteggiamento anti-metafisico della fenomenologia, sulla base del quale è stato addirittura possibile contrabbandare antiquate sistematiche filosofiche, non ha il suo senso nell'essere per principio indifferente alla "metafisica" e nel poter essere di conseguenza riempito da un qualsiasi contenuto metafisico: esso si esprime invece nel fatto che per principio non esclude la metafisica, non è neutrale di fronte ai problemi tradizionalmente affidati ad elaborazioni mitologiche o prefilosofiche (religiose o metafisiche). In questo proposito sembra condotta alle sue estreme conseguenze la dissoluzione di un concetto che fa della filosofia, in modi diversi, un' "opinione privata sul mondo" e sembra invece essere riaffermato il "positivo" ed "empirico" disvelamento della "realtà" come compito essenziale della ricerca filosofica. 94 Note [1] "Invariante Struktur": C 11 I, p. 3. [2] "Von mir her im Transzendentalen vordringend, eröffnet sich mit der Frage der Unendlichkelt der Zeitigung die Frage der Unendlichkeit der transzendentalen Mannigfaltigkeit von Subjekten". C. 11 I , p. 6. [3] C 11 I, p . 3. [4] M. Heidegger, Sein und Zeit, trad . it. Milano, 1953, p. 129. [5] ivi. [6] VIII, p. 506. [7] VII, p. 240. [8] VII, p . 253. [9] I , p. 119 - cfr. anche VIII, p. 181, dove si dichiara che la fenomenologia è null'altro che la "prima forma rigorosamente scientifica dell'idealismo trascendentale", affermazione da Husserl spesso ripetuta. [10] "Das an sich erste Sein" : I, p . 182. [11] I, p. 182 (trad. it. Milano, 1960, p. 210). II 95 Faktum Senza l'esserci di fatto di qualcosa la posizione di un compito fenomenologico è un non-senso; così potremmo enunciare una ragione di principio finora rimasta soltanto implicita. Il fondamento di possibilità della fenomenologia è il Faktum: in primo luogo - e per questo siamo di fronte ad una affermazione rigorosamente realistica come rigorosamente idealistica - il fatto che io sono; la mia fattualità apodittica: "Io sono? Certamente; io sono! E dico: "io sono", apoditticamente: sono come l'io della mia vita ora fluente, come io che costantemente esperisce il mondo che è e che opera l'identificazione ed in essa costantemente lo può riconoscere" [1]. Il mio "io sono " non è revocabile a dubbio: "io sono" e riflessivamente so di questo esserci: "Pensando, io penso me stesso come l'esperito in autoesperienza, come l'esperito al cui essere stesso inerisce una vita, un aver coscienza, un aver facoltà etc. Pensando mi determino come l'esperito stesso, mi riconosco come ente apodittico" [2]. Il pensare riflessivo non produce il mio essere, non vi aggiunge nulla perché l'essere non consegue dal pensare, ne è soltanto il correlato intenzionale [3]. La riflessione rivela la trascendentalità del mio essere di fatto. Io sono il fatto che io sono: ma in esso sono implicite "la soggettività monadica", le soggettività altrui e la loro storicità che mi ha costituito nella mia stessa fattualità storica. Posso affermare: la mia storicità propria abbraccia nel modo della realtà e della possibilità tutte le storicità monadiche relative [4]. Ed ancora: io nel mio Faktum sono io ultimo [5]. Sono nell'atemporalità temporale del presente vivente e "reco la totalità monadica, la storia e la costituzione storica del mondo come totalità trascendentale del mondo (totalità monadica) in me" [6]. "L'io concreto e individuato è il Weltall", dice Husserl. Questa rivelazione è categorialmente assurda. Così sarebbe assurdo 96 parlare dell'io individuato, o del soggetto trascendentale husserliano come dell'assoluto. Ma quella rivelazione, assurda sul piano categoriale, non lo è sul piano precategoriale. Qui la soggettività in prima persona, in quanto è la mia propria, è la soggettività in cui si autorivelano come proprie, universalmente, tutte le prime persone. Questa universalità non è vissuta come l'universalità di tutti gli altri da me, ma è l'universalità di tutte le prime persone come me" [7]. Fattualità significa pre-datità ed io come io del presente vivente sono dato prima e sono nella pre-datità del mondo: la mia aposteriorità riflessiva - nella quale appunto dico "io sono" è indice della apriorità della mia predatità fattuale [8]. A priori sono io nel mio Faktum, nelle connessioni ch esi rivelano alla riflessione denaturalizzata: a priori è la predatità stessa nello stile del suo essere storico: "… io vedo che ho in predatità il mondo, che io stesso potrei sapere e so ciò, che ho già scoperto questa storicità (Geschichtlichkeit), che sono già divenuto uomo autonomo ed ho condotto questa autonomia a libera ed attuale effettuazione, ottenendo in essa un tale sapere come a priori. Con ciò ho già ottenuto nella mia stessa predatità e dalla mia riplasmazione della medesima, una forma per la storicità (Historizität) delle pre-datità, inerente essa stessa alla mia pre-datità, che è storica (historisch) e in se stessa include la sua storicità (Historizität) come pre-datità" [9] Se noi affermiamo che l'io-uomo, nella sua concretezza monadica e fattuale, è formazione obiettiva della soggettività trascendentale, non intendiamo per questo riproporre una prospettiva "idealistica" secondo la quale una soggettività ipostatizzata ed entificata genera in un processo di dialettica reale l'io incarnato ed individuato, ma sottolineare piuttosto la possibilità, immanente nel suo stesso essere fattuale, di questo io di fatto, "oggetto nel mondo", di trascendere questa oggettività. La "coscienza" è sempre naturalizzata, in un corpo, in un ambiente naturale - e non è mai mera natura. Attraverso il suo 97 corpo, che è l'indice della sua partecipazione alla materialità inerte e condizione del suo esserci di fatto, l'io-umano vive nel mondo esercitando una praxis sul mondo. Il suo essere temporale nel tempo non è mera sopportazione - il tempo non passa al di sopra di lui - e non è neppure mera successione di sé a se stesso. L'uomo non è un reale (una res) ma intenzionalità attiva, praxis totale, attraverso la quale si esprime la trascendentalità del suo esserci di fatto e che definisce questo esserci come propriamente storico. L'uomo è nel mondo come agente sulle cose del mondo nel lavoro, nella modificazione, nell'invenzione, nell'esprimere stesso che è originariamente un modo della praxis soggettiva: la temporalità ha il suo contenuto in questa attività della vita, per la quale l'uomo si autorealizza come uomo nel tempo "umanizzando" il mondo: "Umanizzazione è il processo costante dell'esserci umano, auto-umanizzazione, essere in una genesi costante di auto-plasmazione ed umanizzazione del mondo" [10]. In quanto individuato in e per l'accomunamento l'uomo è nel suo esserci in un processo temporale concreto già iniziato e che sempre procede. Io sono nella storia: sono in un mondo già umanizzato, che esprime la sua genesi precedente [11]. Posso spingermi indietro nel tempo, posso sapere del venire al mondo dell'uomo, anzitutto e soltanto come specie animale fra le altre specie animali, della sua vita ferina, della sua "lotta per l'esistenza" [12] del suo graduale adattamento alle condizioni della natura. In simbiosi con la natura l'uomo si autoumaniza ed umanizza la natura: questa si fa "cultura", "natura spiritualizzata dalla ragione": si storicizza nella storia dell'uomo [13]. II mio essere nella storia è questa partecipazione alla storicità totale, anzitutto umana, ma ipso facto della natura. La natura è storica, e lo è a partire da me, dalla mia storicità, anche nelle età che hanno preceduto il venire al mondo dell'uomo. Il divenire naturale che io vengo a conoscere attraverso le scienze di storia della natura è divenire che io situo nel tempo, che comprendo nel 98 suo evolversi: fino a quando qualcosa come l'animale "homo" ha potuto essere generato ed iniziare la sua "storia" indicando infine negli eventi che lo hanno preceduto "ciò che era prima di lui": il pre-umano, il "non-spirituale". Lo "storico" ha in Husserl questo significato totale: comprende l'esserci nel mondo dell'uomo a partire dalla originaria matrice materiale-naturale, fino alle più alte formazioni dello spirito e della natura. Storia e natura rimandano ad una storia trascendentale totale: la storicità mondana - scrive Husserl - è formazione della storicità trascendentale [14]. Ciò non significa che la fattualità storica sia come attraversata da un significato trascendente, ma che in essa rimane celato un senso di assoluto fondamento. "La natura umana e la storia diventa indice trascendentale dell'unità di una storia trascendentale nella quale la soggettività trascendentale è per essenza, in ogni genesi trascendentale, divenuta-diveniente in infinitum ed ha in questo essere divenuto diveniente il suo essere costante. Il suo essere è essere storico, la sua infinità è infinità storica che si vela sino a piena incomprensibilità nell'infinità spazio-temporale della natura, si eleva ad una comprensibilità telativa nella storia umana, anche se tutto in tutto rimane trascendentalmente velato: ma nel suo essere velato diventa comprensibile per il fenomenologo"[15]. Note 99 [1] "Bin ich? Ja ich bin! Und ich sage ich bin apodiktisch und bin es als Ich meines jetzt strömenden Lebens als ich, das standig seiende Welt erfährt, das identifiziert und ständig identifizierend und wiedererkennen kann" A VI 23, p. 9. "Mein apodiktisches Faktum": A VII 11, p. 16. [2] "Denkend denke ich nun mich selbst als den in Selbsterfahrung Erfahrenen als den zu dessen selbst Sein Leben, Bewusstbaben, Vermögenhaben, etc. gehört, denkend bestimme ich mich als den selbst Erfahrenen, erkenne ich mich als apodiktisch Seienden". A VI 23, p. 10. [3] "Mein Sein ist nicht Folge des Denkens, Sein überhaupt ist Korrelat des Denkens und Venmögens des Denkens und zunachst mein Sein für mich selbst" A VI 23, p. 11. [4] A VII 11, p. 16. [5] Si noti l'osservazione seguente: "Nicht zu mindestens ist aber da aus den Augen zu verlieren, dass das Fundament aller Erwägungen von Möglichkeiten, die zur transzendentalen Subjektivität gehören, das Ich-bin in gewöhnlichen Sinne ist, und dass die phänomenologische Reduktion uns zunächst keine andere Subjektivität gibt als unsere eigene und von meiner lebendiger Gegenwart aus, dann die der für mich konstituierten Anderen". C 4, pp. 24-5. [6] A VII 11, p. 17. [7] E. Paci, Nuove ricerche fenomenologiche, in "Aut Aut" n. 68 (marzo 1962), p. 105. [8] A VII 11, p. 18. [9] "... ich sehe, dass ich die Welt vorgegeben habe, dass ich selbst das wissen könnte und weiss, der (ich) schon diese Geschichtlichkeit entdeckt habe, der (ich) schon autonomer Mensch geworden bin und diese Autonomie zur freien aktuellen Auswirkung gebracht habe, in der ich solches Wissen und als ein apriorisches gewonnen habe. Und damit habe ich ja in meiner 100 Vorgegebenheit und aus meiner Umgestaltung derselben eine Form für die Historizität der Vorgegebenheiten gewonnen, als Form, die selbst im meiner Vorgegebenheit gehört, die historisch ist und in sich selbst ihre Historizität als Vorgegebenheit beschliesst." AVII 11, p. 19. L'uso di Geschichtlichkeit e Historizität non ha in Hussetl una precisa differenziazione. [10] "Humanisierung ist der ständige Prozess des menschlichen Daseins, Selbsthumanisierung, Sein in beständiger Genesis der Selbstgestaltung und Humanisierung der Welt" A V 10, p. 25. [11] "Als schon humanisierte drückt sie beständig ihre frühere Genesis aus. Menschliches Dasein, Sein der menschliches Welt - der Welt, die für Menschen seiende ist - ist Sein in beständig lebendiger Geschichte und sein in sedimentierter Geschichte, die als das ihr immer neues historisches Gesicht hat, dem die Genesis anzusehen, dem sie abzufragen ist" A V 10, p. 25 [12] "Der Mensch und das Tier im Kosmos; die Spezies "homo" unter den Tierspezies; die Tierspezies kommen und gehen in der Erdgeschichte; ihr Kampf ums Dasein ..." C I, p. l. [13 ] "... die menschliche Welt in ihrer Entwicklung - immer schon als menschliche vorausgesetzt und so sich entwickend - Erhaltung der Form Natur als abstrakter Struktur; die humane Form: die Natur mitmenschheitlichem Gesicht. Darin die Kultur - korrelativ der Mensch als Vernunftwesen, als Person in seiner personalen Entwicklung; die Kultur d.h. die durch Vernunft vergeistigte Natur" C 1, p. 1. [14] "In der transzendentalen Interpretation wird die Natur selbst zu einem Gebilde der transzendentalen Geschichte, einer "ewigen" transzendentalen Geschichte" A V 10, p. 25. "Der natürlich menschlichen Historie entspricht eine transzendentale Historie". C 8 II, p. 3 cfr. anche A VII 11, p. 22 [15] "Menschliche Natur und Geschichte wird zur tranzendentalen Index der Einheit einer transzendentalen Geschichte, in welcher die transzendentale Subiektivität -wesensmässig in jeder 101 transzendentalen Genesis ins Unendliche werdend-geworden ist und in diesem Werden-gewordensein ihr ständiges Sein hat. Ihr Sein hat geschichtliches Sein, ihre Unendlichkeit ist geschichtliche Unendlichkeit, die sich in der raum-zeitlichen Unendlichkeit der Natur bis zu völliger Unverständlichkeit verhüllt, in der menschliche Geschichte sich zu einer relativen Verständlichkeit erhebt, aber alles in allem transzendental verhüllt bleibt, aber in ihrer Verhüllung verständlich wird für den Phänomenologen". A V 10, p. 27. 102 III Ripresa tematica della proprietà corporea: la genesi Dal "realismo" ingenuo attraverso l'"idealismo" scettico-solipsistico, siamo giunti alla rigorosa tematizzazione dell'esserci stesso, ed una volta esclusa la soluzione "esistenzialistica", siamo avviati a comprendere questo esserci come essenzialmente storico. Il titolo di "storicità" è ora per noi necessariamente vuoto di contenuti significativi e per tentare una sua prossima determinazione, anziché affidarci agli allusivi suggerimenti che questo termine nel suo uso quotidiano già da subito propone, dobbiamo riprendere tematicamente quella dimensione di "proprietà" nel cui senso già acquisito di corporeità viva fungente possediamo un primo ed essenziale elemento di definizione dell'esserci egologico. Ci riportiamo dunque a ciò che dai significati quotidiani dello "storico" sembra essere più lontano: regrediamo all'ileticità passiva ed inconscia, al grado originario della vita egologica, alla primordialità come sistema della percezionee dell'istinto. Su questo terreno noi perveniamo operando una sorta di astrazione per la quale all'io che ora sono, nella pienezza delle mie facoltà, sottraggo tutto ciò che mi pertiene in quanto sono un io "personale", riflettente e coscientemente progettante. In certo senso "impoverisco" il mio io di un insieme di attributi che mi definiscono per quello che sono come uomo tra gli altri uomini. Questo operare astrattivo deve ora essere reinterpretato come riflessione temporale. In precedenza abbiamo affermato l'essenziale temporalità dell'io considerato come tale. Nel rivolgersi riflessivo a se stesso, l'ego trova il suo ora in un orizzonte di passato e di futuro: esso sperimenta il suo divenire in una genesi. Consideriamo più da vicino il modo di questa autocostituzione genetica: non si tratta di una linea semplice che va dal passato, al presente ed al futuro. Il luogo di questa costituzione è infatti sempre il presente 103 dell'ego. Il passato reso di volta in volta tematico attraverso il ricordo, è presente già trascorso appreso ora in questo presente. Ma non è in una immobile fissità, continuamente fluisce con il fluire presente-vivente dell'io: in effetti il passato si offre di volta in volta provvisto di un incremento di senso che deriva dal successivo vivere ed esprimere dell'io. Il progredire egologico verso il futuro incrementa il regredire riflessivo dell'io sul suo passato. Alla genesi progressiva del mio presente, emergente dalla genesi sedimentata del mio passato, è correlativo il concrescere su di sé di questo stesso passato. Ciò vale solo in senso relativo: al potenziamento del passato derivante dalla vita verso il futuro è connesso anche il suo continuo e progressivo depotenziamento. Se l'io considerato puramente nel suo essere egologico, è in una genesi, ritornando riflessivamente ad essa, perviene, nel costante impoverimento di sé (Verarmung), ad un limite: lanascita egologica. Come è pensabile questo io del limite iniziale? Esso non ha alcuna esperienza in senso proprio: il suo esperire non ha dietro di sé alcun esperire passato: la sua sfera di prossimità non è ancora un "mondo". Esso è io povero (armselig Ich), pura apprensione corporea di ciò che sta immediatamente intorno, dove per principio è esclusa qualsiasi mediazione. L'io povero è da definire come mera corporeità percettiva: essa soltanto percepisce, non "oggetti", ma semplicemente "percepiti". L'io povero è percettività e corporeità, eppure è già un io: nel riferirsi percipiente a se stesso il corpo è già infatti egologicamente formato: "Questa sfera di prossimità ha ancora come nucleo il corpo vivo, nel suo essere riferito a se stesso, ed ha, come io, l'io povero che dispone poveramente soltanto del corpo, con le facoltà che gli sono proprie" [1]. Si chiede allora: se l'ego trova al limite il corpo vivo come già essente, non si presenta forse il problema della sua stessa genesi? L'io povero, corporeo e percipiente, è l'io del limite, ma è esso stesso a partire da una genesi. L'inizio non può essere un fulmineo venire alla luce dell' io, ma un essere nell'inizio, 104 un iniziare ed un essere già iniziato: non un io desto, ma un io che si desta: "Poiché per essenza la genesi è ia corso appena l'io è desto, in modo tale che io ho un campo percettivo (anche se non ancora un campo di cose), noi abbiamo allora come limite l'io che si desta, che diventa io-uomo, crescendo ad una "vita" e costituendosi sempre più coscienzialmente per sestesso" [2]. Viene allora in questione la nascita corporea dell'io stesso. Un'analoga riduzione a mera corporeità, che racchiude un'enigmaticità ancora più profonda, riguarda il possibile finire dell'io. Mentre si era prima badato allo sguardo del presente sul suo passato, in questo caso dobbiamo occuparci della modalità del presente che dischiude il futuro: non del ricordo, ma dell'essere progettante dell'io nel presente. Il futuro è per l'io la sua possibilità e l'io del presente che si apre al futuro è l'io posso, la sua praticità originariamente corporea [3]. Il corpo può quando è in stato "normale", ma nella malattia, nell'infortunio, sperimenta il suo eventuale venir meno. È certamente "pensabile" il costante deperire del mio corpo, e questo progressivamente, a partire da un momento cruciale (maturità). Il venir meno del corpo è anche depotenziamento del futuro: si restringe l'orizzonte del possibile, del mio presente pratico entro il quale sempre e soltanto io vivo: verso il futuro, ma anche verso il passato: "Indubbiamente una certa genesi ha luogo di continuo, perché all'io si presenta un sempre nuovo appercepito mondano, ma con il venir meno della sua forza si restringe il mondo circostante, il presente, poiché si rimpicciolisce la sfera della raggiungibilità (le "lontananze" relative diventano sempre più grandi ), la sfera delle formazioni operative che potrebbero essere progettate ed eseguite, diminuisce, e si restringe allora il futuro pratico: ma anche il passato, a causa del venir meno della forza del ricordo, come forza della disponibilità sul passato" [4]. Come è possibile il limite di questo processo, la fine? Essa può forse essere immaginata come un sonno senza sogni, come un essere totalmente privi di ogni possibilità mondana. Ma in 105 che modo può essere esperita questa fine che provvisosiamente ci appare un "sonno senza sogni"? E, se questa analogia ha senso, ci si può da esso ancora "ridestare"? Esperibile è soltanto il distruggersi graduale del corpo, non l'essere distrutto nella sua integrità: nel progressivo venir meno dell'esperire è soltanto predelineato il non poter più esperire. L'io giunto al limite non può più disporre di un corpo e per suo tramite di un mondo: "Ma come è possibile pensare ciò? Questo io è dunque ancora io dell'inizio? Ma allota dovrebbe essere "io che si desta" affetto da dati di sensazione distinti. Oppure non è ancora io desto, come l'io dell'inizio prima dell'inizio (se ciò ha un senso), ancora senza distinzioni, un essere ed un vivere in sé pienamente indifferenziati. Ma qui noi chiediamo: ha ciò un senso o non inerisce forse all'essenza dell'io l'essere-proteso-verso qualcosa, a questo ed a quello, al diverso, e non è forse l'io una polarizzazione del vivere che presuppone contropoli in un processo costitutivo della formazione oggettuale?" [6]. Il problema fenomenologico della morte pone in questione la stessa struttura intenzionale della coscienza: ad essa deve in ogni caso essere riportato se può essere ritenuto autentico problema per la filosofia. Le difficoltà che qui si presentano e la prudenza che si richiede nell'affrontarle, spiegano l'improvviso arresto del manoscritto finora riferito: appena posta l'interrogazione citata, Husserl osserva che tutto quanto si è detto ha significato soltanto a partire dal "vivere mondano concretamente sviluppato" e che le illazioni che si possono trarre sono da intendere in una certa astrazione: ciò che possiamo affermate rimanendo ai dati della descrizione è soltanto il progressivo venir meno delle forze corporee, che può essere portato al limite e concepito come cessare di ogni vivere cosciente, quindi anche dell'io come polo di identità di questo vivere e delle facoltà che gli sono proprie [7]. Sul tema del nascere e del morire, Husserl ritorna più volte nell'opera manoscritta e per una ragione non casuale. Si tratta 106 di definire il senso della finitezza monadica, nel suo stesso fondamento iletico, evitando una chiusura "metafisica" nel finito. L'enigma della finitezza è racchiuso nell'arco di vita tra la nascita e la morte, entro il quale l'uomo diviene in una genesi, che è psichica in quanto è anzitutto corporea: da una parte, vi è il problema di una considerazione interna del "parallelismo" tra il divenire psichico e quello corporeo, dall'altra quello relativo alla comprensione del punto zero di questo "parallelismo" - la nascita - in cui il tema della genesi si pone per il corpo come problema della sua generazione. Note 107 [1] "Aber diese Nahsphäre hat noch als Kern den Leib, in seiner Zurückbezogenheit auf sich selbst, und hat als Ich das armselig bloss im Leibe waltende armselig Ich mit den zugehörige Vermögen". C 8 l, p. 2 [2] "Da wesensmässig die Genesis in Gang ist, sowie das Ich wach ist, dass ich ein Wahrnehrnungsfeld habe (obschon noch nicht ein Dingfeld), so haben wir als Limes das erwachende Ich, das zu einem Leben erwachsend und sich für sich selbst weiter so konstituierend, dass es für sich bcwusstseinsmässig zum Menschenich wird". C8 I, p. 2. [3] C 8 I, p. 3. [4] "Zwar eine gewisse Genesis findet immerfort statt, da dem Ich immer neues weltlich Appercipiertcs begegnet, aber mit der Abnahme seiner Kraft verengt sich die Umwelt, die Gegenwärtige, sofern die Sphäre der Zugänglichkeiten sich verkleinert (die relativen "Entfernungen" werden immer grosser), die Sphäre der Werkgebilde, die noch zu entwerfen und auszuführen wären, sich mindert, womit sich die praktische Zukunft verengert. Aber auch die Vergangenheit engt sich durch Abnahme der Erinnerungskraft, als der Kraft der Verfügbarkeit über die Vergangenheiten, ein". C 8 I, p. 4. [5] "Das Zerfallensein des ganzen Leibes kann nicht mehr erfahren sein. Nur ein Limes als der des fortschreitenden Zerfallens ist vorgezeichnet mit dem Ende des Nichtmehrerfahrenkönnens". C 8 I, p. 6. [6] "Aber wie ist das denkbar? Und ist dann etwa weder das Ich des Anfangs? Aber dann müsste es "erwachendes" sein, affiziert durch abgehobene Empfindungsdaten. Oder noch nicht waches Ich, wie das des Anfangs vor dem Anfangen (wenn das einen Sinn hat), noch ohne Abgehonheiten, ein vollig, in sich ungeschiedenes Sein und Leben. Aber hier fragen wir, hat das einen Sinn oder gehört nicht zum Wesendes Ich das Auf-etwashin- 108 leben , auf dieses und jenes, auf Unterschiedenes, und ist das Ich nicht eine Polarisierung des Lebens, die Gegenpole in einem konstitutiven Prozess der Gegenstandsbildung votwussetzt?" C 8 I p. 7. [7] C 8 I, p. 8. IV Incontro e generazione Il corpo è nato nell'incontro corporeo del padre e della madre, ed è un corpo non soltanto generato ma infine generante in un nuovo incontro originalmente suo. Si esprime in ciò una mera vicenda del corpo vivo, oppure questa, in quanto intrecciata al processo di formazione di significati personali-umani, contiene una forma determinata di pre-significatività? Se ci poniamo su questo terreno arrischiato, ciò accade soltanto per il fatto che non possiamo seriamente pensare ad un'irruzione del significato dal meramente materiale. Vi sono invece indicazioni sufficienti per ritenere che la materia stessa - ora, si intende, la materia vivente - sia a tutto ciò di fondamento. Si comprendono allora i motivi che spingono Husserl a porsia più riprese il problema di una fenomenologia della vita istintiva ed in particolare della vita sessuale del corpo. A ciò intendiamo accennare rapidamente. Nella soddisfazione della brama sessuale noi abbiamo l'incontro intersoggettivo originariamente materiale, procreante una materia vivente nuova: "Istinto sessuale, la lotta per la femmina. L'amore sessuale in quanto umano: non brama di una cosa materiale, ma brama di una unificazione egologica, anche se, inizialmente, soprattutto come unificazione in una comunanza di godimento sensuale. Internamente è una volontà passionale di accomunarsi ed il suo compimento, ed inoltre una volontà che permane di ripetizione: infine, ma non sempre, anche una comunanza di vita ed essere come genitori" [1]. Nell' interna compe- 109 netrazione corporea dell'accoppiamento sessuale la distanza dei corpi viene trascesa in una unità primordiale nuova: "Nel semplice riempimento come modalità originaria, noi non abbiamo mai due riempimenti separabili nell'una e nell'altra primordialità, ma una unità di ambedue le primordialità çhe si costituisce nell'essere l'uno nell'altro dei riempimenti" [2]. Nell'incontro vi è anche il riconoscimento reciproco: riconoscimento di sé come corpo sessuato in modo determinato e dell'estraneo come animale della propria specie [3]. Il problema effettivo sta nel comprendere in che modo da un tale riconoscimento, dal mondo umano-animale degli impulsi si costituisca "progressivamente" un mondo propriamente "umano" e "razionale". L' interrogazione di fondo che Husserl si rivolge in analisi numerose e spregiudicate riguarda la possibilità di porre il problema di una "teleologia universale" che porti a continuità il non ancora costituito ed il già costituito, una teleologia - espresso in termini temporali - per la quale il presente intersoggettivo simultaneo nel quale la monade che si desta si ritrova, possa essere considerato come "esplicitazione" di una temporalità accomunata implicita, o, meglio, di una "pre-temporalità": "Il nuovo risvegliarsi degli Io come propri, come centri degli atti che si relazionano ad un mondo circostante e perciò il risvegliarsi di costituzioni di "essenti", infine il risvegliarsi di un orizzonte di mondo, in quanto teleologia inclusa nella teleologia universale che "procede" nella perenne vitalità di una unitaria e consapevole comunità monadica. È questa la comunità degli impulsi universali costituita, alla quale corrisponde un mondo che già da sempre è essente come orizzonte del flusso, un mondo che sempre di nuovo porta le monadi a rinnovata formazione ed al loro svolgimento e che tutto ciò ha già fatto da sempre. In questa forma arriva gradualmente la totalità delle monadi all'autocoscienza che raggiunge la sua massima universalità come società umana" [4]. A partire da me, che mi riconosco come "uomo scientifico e riconsidero il mio e il nostro essere monadico e su questa base procedo oltre sistematicamente" - e soltanto su questa 110 base della vita cosciente e desta [5] - io posso legittimamente regredire al non ancora costituito, dal mondo nel quale già sono al mondo "prima" della costituzione del mondo, dalla mia temporalità e dalla temporalità intersoggettiva alla pretemporalità mia ed intersoggettiva [6]. Cadono a questo punto le analisi husserliane relative allo stato pre-natale dell'uomo, alla descrizione del premondo embrionale, alla graduale costituzione del mondo in tersoggettivo nel rapportarsi della prima infanzia alla madre e cosi via: analisi che Husserl lascia quanto mai nell'incertezza e nell'incompiutezza [7] Note [1] "Geschlechtinstinkt, der Streit um das Weib. Die Geschlechtsliebe als menschliche: nicht Begehren nach einer dinglichen Sache, sondern ein Begehren nach einer ichlichen Einigung, obschon von vornherein zunächst als Einigung in einer Gemeinschaft im sinnlichen Genuss. In der Innenseite ist es ein vergemeinschafteter leidenschaftlicher Wille und Willenserfüllung, davon ausgebend, ein bleibender Wille für Wiederholung und endlich, aber nicht immer, weiter eine Gemeinschaft des Lebens und Seins als Eltern" . A ,V 10 2, p. 139-140. [2] E III 5, edito in appendice a Enzo Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bari 1961, pp . 257-269. Il passo citato nella traduzione insieme edita - è a p. 259. Si veda per i problemi relativi a questo manoscritto: ivi, p. 245-253 [3] E III 5, ivi, p. 261. [4 ] E III 5, ivi, p. 265. [5] Su questo punto Husserl insiste in modo particolare: cfr. C 17 V, p. 33. [6] E III 5, ivi , p. 267. [7] Per le analisi e le ricerche husserliane relative a questi problemi si rimanda all'esposizione data da R. Toulemont, op. cit., pp. 82-88. V 111 Il "tradere" come forma ddl'identificazione All'interno della vita desta noi ci troviamo in un ambito di significati "umani", ma ci sappiamo anche nella continuità di una genesi: l'essere generato del corpo rimanda il nostro ereditarci a noi stessi, per il quale siamo quello che siamo nella nostra storia personale intrecciata con le storie che ci vengono incontro sullo sfondo di una comune eredità in tersoggettiva,ad una forma già umana, originaria ed inconscia, di ereditarietà. Il tradere (tradieren), nell'accezione più ampia possibile, è la forma di questo divenire genetico temporale dell'uomo nel mondo. L'identificazione reciproca degli io umani, che è stata sinora considerata nella distinzione dei suoi diversi strati di senso, si precisa qui, essenzialmente e comprensivamente, come trasmissione significativa (Sinnübertragung), eredità di significati (Sinnerbschaft). Il tradere implica la temporalità nella quale l'identificazione si realizza, l'identificazione come processo: l'essere nella tradizione, nel suo significato totale, indica l'inerenza ad un nesso per il quale io sono quello che sono, traendo per me dagli altri il mio essere personale in una necessaria riplasmazione. La generatività umana non è un vuoto essere generato, ma essere generato in una possibile costituzione personale, ed è tramandare effettivo di proprietà caratteriologiche, non quindi della mera forma dell' essere egologico monadico. La monade che si desta ha in sé come possibilità di risveglio le abitualità tramandate, ma è monade nuova, con una nuova hyle e le abitualità dei genitori le sono proprie solo in un unirsi insieme che è esso stesso un essere altro attraverso gli altri [1]. Questo io che si scopre riflessivamente come assoluto, in un presente atemporale vivente-fuente, è uomo nel mondo, in un tempo finito, inserito in un nesso generativo infinitamente iterabile. Esso è individuo procreato, ma il procreare è già tra- 112 dizione originaria (Urtradition), un trasmettere di significati che è prima e che non è ancora: tutto ciò sul piano notturno della vita biologica, sulla linea del cui sviluppo si pone la "tradizione nell'accomunamento degli individui desti". Soltanto allora - nella Wachheit - il trasmettere è storico, tradizione in senso comune: "L'assoluto ed i singoli io assoluti - ognuno mondanizzato nella finitezza di un tratto temporale; l'io finito nella catena della sua generazione, l'infinità generativa. La tradizione originaria della generazione; i generanti che trasmettono nel tradere il loro essere individuale all'individuo generato; tradizione nell'accomunamento degli individui desti; ciò che mi è proprio si imprime sugli altri; identificazione degli individui; prodotti associativi del mutarsi insieme nei singoli e reciproco interno trapassare del proprio e dell'estraneo; quindi ereditarietà, ereditarietà originariamente generativa della tradizione, in senso usuale (tradizione storica)" [2]. Consideriamo il modo di costituzione della vita desta ricorrendo all'esperienza del sonno che ci è immediatamente disponibile: di esso noi sappiamo solo limitatamente ai momenti dell'"addormentarsi" (Einschlafen) e del "ridestarsi" (Aufwachen), il primo appreso come depotenziamento ed impoverimento della vita di coscienza nelle sue facoltà psichico-corporee, il secondo come improvviso riavere di un campo percettivo, riconosciuto come quello che anche "prima" era [3]. Tra i due momenti, una "pausa": il sonno. II sogno e tutto quanto in esso è contenuto lo stesso tempo del sogno che, avendo una sua autonoma struttura costitutiva, è un "altro" tempo - non serve a riempire questo vuoto [4]. Comunque ne sia della vita dormiente [5] il fatto è che ncll'addormentarmi mi sono, ad esempio, posto nel l etto e ridestandomi mi "ricordo" di ciò: io giaccio ancora sul letto. "Questo "ancora", - nota Husserl - è qui appunto il problema" [6]. Il ricordo svolge una funzione essenziale perché per esso io "riprendo le fila" della mia temporalità e della temporalità del mio mondo, ritrovando, oltre la pausa, l'unità della mia durata e l'identità di ciò che mi circonda. Possiamo generalizzare questo 113 risultato ed affermare che "ogni qual volta nella temporalizzazione percettiva vivente è costituito un tale presente spaziale e la rimemorazione riproduce un presente simile e contenutisticamente concordante e sovraconcordante come passato, deve intervenire un'identificazione sintetica. Ma questa non significa né "identità" né differenza ed uguaglianza nel comun senso del termine" [7]. La vita desta non è un costante ed inesausto essere desto: la sua costanza, e quella del mondo in essa presente, è costituita nella molteplicità di periodi-desti (Wachperioden), identificati nella sintesi temporale. Questo risultato vale anzitutto per l'ambito mio proprio di vita, ma è già una indicazione per comprendere la modalità costitutiva della vita desta intersoggettiva, come vita dell'universum dei soggetti desti e del mondo loro intenzionalmente riferito: in questo caso, la singolarità individuale dell'io desto, periodicamente costituita, è essa stessa periodo di una più ampia sintesi temporale. La vita desta intersoggettiva ed il mondo intersoggettivo si costituiscono nella periodicità singolo-individuale del nascere e del morire. Io mi desto e nella genesi della mia vita desta che si realizza attraverso ed oltre le pause del sonno, mi riconosco nell'intersoggettività desta "come sistema infinito di io desti che presuppone un sistema di io "dormienti", di "morti"" [8]. La vita desta è essenzialmente tramandata (tradierte Wachheit), tradizionalmente costituita e costituente sempre di nuovo tradizionalità. Nonostante la loro enigmaticità di fondo che rende eccezionalmente complessa l'analisi, nascita e morte sono da riportare al problema del senso della partecipazione individuale al nesso intersoggettivo e dell'interna connessione tra la tradizione intersoggettiva e la tradizione personale [9]: non solo dunque non possono essere considerati come eventi di rottura dell'unità intersoggettiva ed interstorica, ma anzi come "membri di raccordo" [10] attraverso i quali questa unità diventa possibile. 114 Note [1] "Wir stehen in der Tradition: durch Andere werden wir anders, ihr Personales in uns anfnehmend, es in uns notwendig umbildend. Generativ: es veretbt sicb nicht die Leerform monadischer Ichlichkeit, ichlicher Struktur, sondern die vererbten Chnrakteteigenschaften: wie das? Mit der Erweckung der neuen Monaden ist erweckt oder vorerweckt die latente Habitualität; aber die neue Monade hat eine neue Hyle und die elterliche eine eigene Habitualität, das alles in sedimentiener Übertragung und sich "mischend", verschmelzend". C 17 V, pp. 31-32. Per l'espressione "eredito me stesso" cfr. A V 5, p. 3. È da notare che Husserl riferisce il termine "Tradition" anche all'io singolo-personale considerato in se stesso (cfr. A V 11, p. 10): come anche, talvolta, indica la vita personale dell'io entro i limiti dellanascita e della morte come "Historie" , "Das Historische" (cfr. C 8 I, p. 11). [2] "Das Absolute und die einzelnen, absoluten Ich - jedes verweltllichtin der Endlichkeit einer Zeitstrecke; das endliche Ich in der Kette seiner Generation, die Generations-unendlichkeit. Die Urtradition der Zeugung; die Zeugenden ihr individuelles Sein tradierend ins erzeugte Individuum; Tradition in der Vergemeinschaftung der wachen Individuen; was mir eigen ist, prägt sich anderen ein; Deckung der Individuen; assoziative Verschmelzungsprodukte in den Einzelnen und Ineinandertragen des Eigenen und Fremden; so Vererbung ursprülinglich generativ Vererbung der gewöhnlichen Tradition (historisch)". C 17 V, pp. 32-33. [3] C 17 V, pp. 1-2. [4] "Nun haben wir frcilich den Modus des Traumes nicht berücksichtigt, mit seinen Traumakten, geträumten Dingen, Erlebnissen,Handlungen etc. Aber hilft das etwas, um durch die Traumzeit etwa eine Zwischenzeit herzustellen? Die Zwischenzeit ist ja eine ernstliche und nicht eine Traumzeit" C 17 V, p. 4. 115 [5] Per ulteriori indicazioni si veda Ida Bona, "L'interesse e la fenomenologia del sonno" in "Aut Aut" n. 64, pp. 362-365. [6] "Das "noch" ist hier natürlich das Problem". C 17 V, p. 6. [7] "Allgemein ist zu sagen, wenn immer solche räumliche Gegenwart konstiuiert ist in lebendiger wahrnehmungsmässiger Zeitigung und die Wiedererinnerung eine ebensolche und inhaltlich einstimmige und übereinstimmende Gegenwart als Vergangenheit reproduziert, muss eine synthetische Deckung eintreten. Aber das besagt zunachst weder "Identität" noch Verschiedenheit und Gleichheit im gewöhnlichen Wortsinne". C 17 V, p. 7. [8] "Die transzendentale Intersubjektivität - hat sie über die transzendentale Synthesis der Wachheiten hinaus (als Parallele der in derWelt seienden Menschengemeinschft) eine Sphäre der Unwachheit, ist nicht alle transzendentale Subjektivität, die überhaupt ist, transzendental wach (wohei wir das ganze sein des transzendentalen - als für sich weltlich konstituierten - ich als eine Wachhcit bezeichnen) vielmehr ein unendliches System "Schlafender" voraussetzt, "toter", und ist das absolute Universum in dieser Hinsicht ein beständiger Wandeln, indem Leben und Tod, wach aktuelle Ich und tote Ich ihre Funktionüben". C 17 V, p. 35. [9] C 17 V, p . 35. [10] Brückenglieder: C 17 V, p. 17. 116 VI Storicità e tradizione La mia tradizione propria e quella estranea da me costituita sono reciprocamente ed internmente vincolate nella mediazione della tradizione intersoggettiva. La vita-in-comunanza (Gemeinschaftsleben) è vita di "persone", in un legame attuale e potenziale continuo. La storicità intersoggettiva (intersubjektive Historzität ) non è un "essere-l'uno-accanto-all'altro di essere e divenire personali e di storicità singolo-personali (tradizionalità), ma unità di umanità collegate, di vincoli,e vincoli di vincoli, di intrecci di forma molteplice, di mediatezze in una connessione continua, che hanno in questo essere-in-relazione (Verbundenheit) la loro storicità, l'unità di un esserci umano (personalmente collegato), di una vita in comunanza storica, che non può essere spezzata in una separata singolarità di vite" [1]. La forma della motivazione reciproca definisce il complesso rapporto di continua mediazione tra il singolo ed il gruppo. Nel suo concreto essere tempora le il singolo è in una tradizionalità emergente da quella della comunità nella quale è inserito e che egli stesso con-costituisce: "L'uomo non è soltanto nella comunità, ma in quanto diviene nell'accomunamento interno e si forma per esso e con esso in motivazione reciproca, quindi in quanto è di volta in volta divenuto, porta in sé la genesi sorta dalla comunità, o, che è lo stesso, porta in sé intenzionalmente i suoi educatori umani.Ciò riguarda naturalmente anche la formazione attraverso la tradizione, cioè l'influsso (la cosidetta Nachwirkung) di quegli uomini della medesima umanità che sono vissuti in tempi precedenti" [2]. Nella mia esperienza si presentano gli eventi di nascita, malattia, morte; il mio essere generato; il fatto che una volta sono nato ed una volta debbo morire. Esperisco anche gli anziani che sono nati prima di me e posso prevedere che dopo di me e dopo la mia generazione si succederanno altre generazioni. Mi ricono- 117 sco in un nesso generativo infinitamente aperto verso il passato e verso il futuro. Il mondo che io ora percepisco come il medesimo nella sintesi rinnovata delle mie esperienze - e che si presenta come tale non solo a me, ma a coloro che sono cresciuti con me - è quello stesso mondo unico e riconoscibile come medesimo nell'infinito trapassare delle generazioni. Correlativamente, se vi è una unità della mia vita personale, racchiusa nei limiti della nascita e della morte, questa unità è già superata ed inclusa in una unità più ampia, che è anzitutto quella della generazione che è la mia, e poi ancora quella delle generazioni che mi hanno preceduto e che mi seguiranno. Io comprendo l'unità di una storia - di una tradizione - che è la mia storia, e poi la storia della mia generazione, del popolo nel quale sono nato e cosi via, verso unità fluenti sempre più ampie e comptensive [3]. Approfondendo l'esserci stesso del soggetto come storia e relazione ci diviene anche accessibile il tema della cultura, sotto il cui titolo avevamo all'inizio riportato ogni significatività umana-in tersoggettiva ingenerale. Ciò accade dopo che ci siamo spinti a comprendere il senso dell'incontro sino nella originarietà della prima Einfühlung [4]: lo stesso corpo vivo - che era parso presentarsi in una sorta di immediatezza - si è rivelato nella mediazione generativa. come generato-generante nella forma umana del tradere [5]. La comunità nella quale l'uomo è generativamente inserito è anche comunità "animale". Se la generatività viene considerata da questo punto di vista, l'uomo è mera specie animale: "homo". Tuttavia la forma propriamente umana della generatività, in quanto è trasmissione di significati, non è puramente naturale, ma naturale-personale e l'orizzonte dell'accomunamento entro il quale l'uomo si ritrova è un orizzonte personale-culturale: "Popolo" [6]. Ciò distingue la vita accomunata animale da quella umana: anche l'animale è in una comnnità, in una genesi per la quale si può indicare - in senso relativo - uno sviluppo "spirituale" dall'inizio embrionale fino alla maturità ed un relativo ambito 118 "culturale". Ma l'animale non può pervenire a persona, il suo mondo circostante non è mai primariamente culturale, il suo divenire genetico non è mai storia [7]. L'essere in quanto storico, che ha storia, che fa storia e di cui si può fare storia è soltanto l'uomo, come l'essere che si autorealizza nel suo operare temporale significativamente produttivo: "L' uomo come persona è soggetto di un mondo culturale, che è correlato della comunità pesonale totale, nella quale ogni persona si sa, e si sa in relazione al mondo culturale umano nel quale essa vive. L'animale non vive, sapendosi, in un mondo culturale. A ciò inerisce evidentemente: l'uomo è un essere storico, egli vive in una "umanità", una umanità che si trova nel divenire storico, nel divenire che fa storia; essa è la soggettività come portatrice del mondo storico, espressione che non significa: vita storicamente vivente, costituente storia, ma che indica il mondo circostante correlativo come mondo circostante umano, che, a partire dall'uomo, dall'umanità totale, porta in sé come proprietà ontiche delle realtà e della loro storicità ontica, significato spirituale ed ha questo significato dall'agire umano, dagli interessi, scopi, sistemi di scopi umani" [8]. La storicità dell'uomo è definita dalla sua appartenenza al mondo come singolarmente individuato nella mediazione intersoggettiva e come praxis totale, individuale accomunata: tra individuo e gruppo, gruppo e gruppo, mondo ed individuo, mondo e gruppo vi è una dialettica reale reciproca, il cui senso resta di volta in volta da determinare. Note 119 [1] "Ein Nebeneinander von personalen Sein und Werden und von einzelpersonalen Geschichtlichkeiten (Traditionalitäten), sondern Einheit von verbundenen Menschheiten, von Verbänden, Verbänden von Verbänden, von Verpflechtungen vieler Formen und sich fort verpflechtender Mittelbarkeiten, die in dieser Verbundenheit ihre Historizität haben, Einheit eines menschheitlichen (personal verbundenen) Dascins haben, eines historischen Gemeinschaftsleben, das sich nicht in getrennte Einzel-leben zerstücken lässt". A V 7, p. 4. [2] "Der Mensch ist nicht nur in der Gemeinschaft sondern als Werdender in die Vergemeinschaftung hineinwerdend und sich nach ihr, mit ihr in wechselseitiger Motivation Bildender, also als jeweils Gewordener, in sich die aus Gemeinschaft entsprungene Genesis tragt, oder, was gleich gilt, seine mitmenschliche Bildner intentional in sich tragt. Das betrifft natürlich auch die Bildung durch Tradition, die Wirkung (sogennante Nachwirkung) von Mitmenschen derselben Menschheit, nur solcher früherer Zeiten bedeutet". C 11 III, p. 8 Nachwirkung indica l'effetto che permane anche dopo il cessare della causa. [3] C 11 I, p. 25. [4] Per l'espressione "prima Einfühlung" cfr. Ms. K III. [5] Anche se non è qui possibile trattare della vasta e complessa fenomeno1ogica relativa alla Kultur, ci sembra opportuno sottolineare che essa non può risolversi in una mera descrizione statica: questa presuppone la considerazione della genesi del tipo, la messa in chiaro del modo secondo il quale, all'interno della totalità di manifestazioni produttive di una vita storica determinata, esso si è costituito ed è venuto a validità. In questo modo è possibile una considerazione del significato che non proceda a partire dall'ovvia assunzione della sua "validità", ma che sia in grado, riconoscendola come "validità di questo presente" , di ri:salire alle motivazioni genetico-storiche che hanno condotto alla 120 sua sedimentazione. Delld proposta qui implicita che attribuisce alla ricerca storico-sociologica un nuovo compito di rivelazione e di fondazione, esiste in Husscrl almeno il presupposto, anche se questo aspetto è stato lasciato sostanzialmente in ombra, se non del tutto ignorato dalla letteratura fenomenologica. Ha nociuto a questo proposito l'opinione pregiudiziale che la prospettiva in cui egli si dispone comportasse di necessità un sostanziale disinteresse per la storia. Eppure il punto finale a cui apprda la lunga via husserliana - qunndo la prima parola d'ordine fenomenologica "zu den Sachen selbst" si traduce nel rimando alla "Lebenswelt" - è il rinonoscimento della vita della storia - nella sua complessa dialettica - come il fondamento ultimo al quale dobbiamo attingere, perché in essa ogni significato umano e non umano ha la sua fonte trascendentale di costituzione. [6] C 11 III, p. 11 . [7] C 11 III, p. 12. [8] "Der Mensch als Person ist Subjekt einer Kulturwelt, die das Korrelat ist det Personenallgemeinschaft, in der sich jede Person weiss und weiss in Bezug auf die humane Kulturwelt , in der sie lebt. Das Tier lebt nicht, sich wissend, in einer Kulturwlt. Dazu gehört offenbar: der Mensch ist ein geschichtliches Wesen, er lebt in einer "Menschheit", die in dem geschichtlichen, Geschichte schaffenden Wcrden; sie ist die Subjektivität als Träger der geschichtichen Welt, ein Ausdruck der dann nicht besagt: das historisch lebende, Historie konstituierende Leben, sondern das umweltliche Korrelat bezeichnet, als humane Umwelt, vom Menschen, von der totalen Menschheit her geistige Bedeutung in sich tragend, als ontische Eigenschaften der Realitäten und ihrer ontischen Geschichtlichkeit, als aus dem menschlichcn Handeln, aus menschlichen Interessen, Zwecken, Zwecksystemen her diese Bedeutung habend". C 11 III , pp. 12-13. VII 121 Il tema della praxis "Io posso" ora volgere lo sguardo a questo o a quello e procedere oltre nella visione e nella descrizione. Questo "volgere lo sguardo" è già un modo di attività, ma la praticità soggettiva non si risolve in questa contemplazione: "L'io tuttavia è per essenza attivo anche in un altro senso: a partire da sé, attraverso la sua attività, l'io comunica un senso modificato a ciò che esperisce come essente "nel mondo", già con un determinato senso d'essere che esso ha in forza del passato (eventualmente, anzi, scnz'altro attraverso l'appercezione), predelineante il futuro dell'essete identico" [2]. Per mezzo della mia praxis io penetro nel già-essente, modifico il suo essere-così-già-divenuto, nella sua forma e nel suo scopo eventuale: produco un effetto (Wirkung) nuovo. Il mondo non è soltanto quello che è, la sua reatà è effettualità (Wirklichkeit), prodotto sedimentato come permanente di un concreto operare passato. Ciò significa che, in quanto presente a me che ora sono l'io-posso, esso è essenzialmente campo pratico per una effettuazione possibile: "La soggettività obiettivata come soggettività umana nell'auto-costituzione trascendentale è nel mondo, e come tale non soltanto viene a conoscete il tnondo, ma dà forma al mondo che è già. Il mondo di volta in volta già essente come mondo appercepito con senso d'essere a partire dal passato soggettivamente costituente, il mondo dato-prima all'esperienza non è effettualità permanente, ma campo pratico di effettuazione" [3]. La praxis rimanda alla materialità corporea dell'uomo: la primordialità va intesa, per questo aspetto, come sistema dell'io-posso. Attraverso il suo corpo, l'io può verso il mondo che lo circonda, opera su di esso in una costante e concreta riplasmazione, fa sorgere dalla mera natura il significato, storicizza se stesso e la natura ed è infine uomo-nel-mondo in un mondo 122 umano. La corporeità materiale viva viene qui in questione anche per il fatto che la praxis è da essa anzitutto motivata: l'io posso è originariamente una risposta al bisogno [4]. Nella miavita concreta di ogni giorno io sono nel bisogno: ogni giorno sono nella cura (Sorge ) per l'appagamento della mia fame e nella preoccupazione (Vorsorge) per il mio domani, perché il bisogno di oggi si presenta oggi come periodicamente ripetuto e destinato a ripetersi. "Le mere soddisfazioni quotidiane non hanno alcun risultato permanente. L'appropriarsi, il mangiare il cibo produce il suo consumo" [5]. "All'inizio" non vi è che la fame incondizionata del corpo e la caccia del cibo per la sua immediata soddisfazione: la caccia è il progetto originario del corpo, il cibo ciò verso cui esso è già un io-posso ed attraverso cui potrà esserlo ancora. Proprio in quanto la minaccia della fame inappagata è diretta alla possibilità originaria del corpo, è una minaccia di morte, di fronte alla quale l'esistenza si angoscia: "La fame che rimane insaziata: l'impotenza dell'io ad agire: non soltanto non-aver-voglia, non soltanto brama insoddisfatta "una volta tanto" - nel gioco della brama soddisfatta ed insoddisfatta, impedita nella sua libera realizzazione - ma angoscia dell'esserci. Disperazione dinanzi al non-essere-così, al non-poter-essere-ancora. L' an­goscia della vita, l'"angoscia della morte"- senza rappresentazione della morte. Io vengo meno, dinanzi alla fame" [6]. L'altro che si pone tra la mia fame ed il mio cibo per la soddisfazione della sua fame, diventa allora il mio nemico mortale: "Gli altri e la lotta con gli altri - nella minaccia di vita: "lotta per la vita e per la morte". Lotta con gli altri per il proprio esserci - di chi muore di fame, per la nutrizione - che diventa difesa; la mia volontà incondizionata (per il mio "esserci") in conflitto con la volontà dell'altro: mi dirigo contro di lui nella sua volontà incondizionata, contro di lui con odio incondizionato, e l'altro è il mio nemico mortale" [7]. La lotta mortale con l'altro termina nell'evoluzione della 123 caccia del cibo in praxis produttiva ed accomunata. Nell'immediatezza del bisogno riconosco l' alterità nell'accomunamento possibile della sua praxis con la mia, per la soddisfazione della comune indigenza [8]. L'essente viene allora riplasmato e concretamente elaborato nel suo migliore venire incontro al bisogno [9]: sull'essere già reale della natura - in vista dell'appagamento dei bisogni immediati e poi mediati - procede costantemente l'umanizzazione del mondo [10]. In questo modo diviene possibile la posizione di compiti della praxis che, dall'interesse immediato della fame, pervengano alla soluzione della periodicità del bisogno attraverso la costituzione di una permanenza onniquotidiana [11] di mezzi utili [2] di beni. Tuttavia - nelle linee qui appena incertamente tracciate di una fenomenologia del bisogno e della praxis - è da considerare anche la caduta di ciò che motiva la permanenza: la "ricchezza" diventa fine in sé dell'accumulazione (Ansammlung, Vermehrung): l'accumulare sempre ancora denaro cosi come il sempre ancora accumulare francobolli [13], ed inoltre l'aver potenza e sempre ancora potenza, come un bene, un godimento che soltanto nel sempre ancora ha il suo senso ed il suo fine : "Potenza e sempre ancora potenza, e potenza su gruppi umani sempre più ampi. Certamente il dominio singolare, il sovrastare è un godimento, ma bene permanente è l'aver potenza, avere il singolo come schiavo (qui, senza aver di mira l'utilità): dominare una comunità, un gruppo, avere una costante padronanza su di ciò ed eventualmente estendere costantemente il proprio ambito di padronanza in infinitum" [14]. L'originaria praticità dell'io definisce comprensivamente l'esistenza (Existenz) come vita e come storia: il soggetto esistente nel suo costante presente [15] è anzitutto un io-posso. Sempre vivo nell' apertura del possibile, nel poter realizzare il progetto del mio vivere; vivo ora nella speranza (Hoffnung) di vivere ancora e nella cura (Sorge) volta a risolvere il come della possibilità progettata: "Ogni vita nella speranza è vita nella cura e reciprocamente - se appunto cura d'esistenza riguarda il come 124 non il che dell'esistenza"[16]. La minaccia (Bedrohung) è originariamente rivolta all'io-posso: la vita normale è sempre minacciata, nel di-volta-in-volta dei suoi progetti molteplici oppure nello stesso suo poter essere ancora. La morte è il limite della negatività della vita perché totale venir meno del possibile, indifferenza della cura ed oscuramento della speranza. Di fronte alla minaccia mortale, all'assoluto non poter più, sta l'angoscia per l'esistenza (Angst um die Existenz). Ma la negatività della vita è presente in ogni determinata disperazione della possibilità del possibile, anzitutto ogni volta che all'uomo è sottratto il lavoro propriamente suo, la sua praxis [17]. Husserl si interroga sulla vita del lavoro derubato servendosi di due esempi: la vita del "mendicante" e quella del "prigioniero". Il "mendicante" vive elemosinando, in totale subordinazione dal lavoro altrui: può essere che egli sia, o diventi, mendicante "professionale", "scroccone", costituendo cosi per sé un ambito di cura e di speranza, una possibilità di vita; ma può essere anche che il lavoro, "come nel nostro tempo di disoccupazione", gli sia semplicemente impossibile. Egli è ancora un "vivo", ma in che modo la sua è una "vita"? [18]. Il "prigioniero" si mantiene nella "positività" se può sperare di tornare in libertà e di ricostruire una vita propria sul fondamento del proprio lavoro. Poniamo invece che ciò gli sia precluso, che egli sia un condannato a vita: "Se egli "come pena" non può fare nulla in una cella di isolamento, oppure se è costretto ad un fare per lui privo di senso e scopo - come sfilacciare lana e simili - senza che ne derivi alcuna vera possibilità, una simile vita imprigionata non è forse inumana, non è radicalmente dis-umanizzante?" [19]. Mendicante e prigioniero sono immagini dello stesso volto: privati della loro possibilità propria, ed ancora nella positività della vita, sono uomini nella disumanizzazione, sono dei vivi nella morte. Se il disoccupato finisce con il risolvere la propria 125 vita mendicando, il prigioniero, derubato del senso di libera proprietà del suo lavoro, non può che mendicare la sua possibilità di vita inventando un gioco: "Se l'uomo in una tale situazione inventa giochi che lo occupano e se in essi volontariamente si ritrova, cosi da mantenersi, per essi e sempre di nuovo per essi sarebbe questa una vita umana? Non è questo, per cosi dire, un modo di mendicare soddisfazione di vita, in luogo di pervenire ad un modo d'esserci veramente umano?" [20]. Con il render noti questi ultimi frammenti, crediamo di poter concludere questà nostra esposizione: essa ha tentato soltanto di mettere in luce l'orizzonte di problemi dischiuso dalla posizione fenomenologica del tema dell'alterità soggettiva. Risulta in ogni caso ben chiaro che la traccia che ci è sembrato di poter seguire rimane, nelle sue diramazioni possibili e nel suo stesso senso finale, del tutto aperta ed inconclusa. 126 Note [1] "Bin Ich blosser Zuschauer, so heisst, das, ich bin nicht handelnd, nicht einzeln und nicht mit-tätig, sondern ich bin nur aktiv in Richtung auf Seinsenthüllung, neuer Kenntnisnahme oder reproduktiv". C 17 II, p. 14. [2] "Das Ich ist aber noch in einem anderen Sinne, und zwar wesensmässig aktiv; es erteilt dem schon als weltich seiend Erfabrenen, schon mit einem bestimmten Seinssinn vermöge der Vergangenheit (eventuell und sogar zumeist durch Appetzeption), die Zukunft identischen Seins vorzeichnend, von sich aus durch seine, des Ich, Aktivität einen veränderten Sinn". C 17 II, p. 11. [3] "Die Subjektivität, in transzendentaler Selbstkonstitution objektiviert als menschliche Subjektivität, ist in der Welt und ist als das nicht nur Welt kennenlernend, sondern die schon seiende Welt gestaltende. Die jeweils schon seiende als von der subjektivkonstituierenden Vergangenheit her mit Seinssinn apperzipierte Welt, erfahrungsmässig vorgegebene Welt ist nicht die verbleibende seiende Wirklichkeit, sondern praktisches Wirkungsfeld". C 17 II , p. 12. Cfr. anche C 17 V, p. 25: "Die beständige Weltform und Form der Subjektivität (Welt als Welt der raumzeitlichen Realitäten) ist zugleich Form für die praktische Entwicklungsbewegung; die reale Welt ist der Boden für alle menschliche Praxis, im einzdnen oder verbunden". La dissoluzione del realismo ingenuo, avviata all'inizio, è colta nel suo risultato di porre in rilievo centrale l'essere storico-pratico del mondo per l'uomo. [4] Il problema di una fenomenologia del bisogno è chiaramente posto da Husserl, ma le sue analisi a questo proposito, oltre ad essere più che mai frammentarie, sembrano non andare al di là di una incerta proposta. Per chi tuttavia ritiene che esistano 127 validi motivi anche oggi per riprendete il discorso husserliano, questa proposta non può non destare interesse: noi rimandiamo perciò al saggio di E. Paci, "Nuove ricerche fenomenologiche" (in "Aut Aut", n . 68, marzo 1962, pp. 99-112) che, riprendendo il tema di una fenomenologia del bisogno, pone problemi appartenenti ormai ad una nuova storia della fenomenologia. [5] "Die bloss täglichen Bedürfnisbefriedigungen haben keine bleibenden Ergebnisse. Die Zueignung, das Essen der Speise ergibt das Aufbrauchen der Speise". A V 5, p. 169. [6] "Der ungestillt bleibende Hunger - die Ohnmacht des Ich im Handeln: nicht nur Unlust, nicht nur unerfülltes Begehren "inzwischn-einmal" - im Spiele des erfüllten, und unerfüllten, bald frei sich auswirkend gehemmt, sondern Angst des Daseins. Verzweiflung vor dem Nicht-so-sein, Nicht-fort-sein-konnen. Die Lebens Angst, die "Todesangst" - ohne Vorstellung des Todes. "Ich vergehe" vor Hunger". A V 7, p. 78. [7] "Anderer und Streit mit Anderen - in der Leben-bedrohung "Kampf auf Leben und Tod". Kampf um sein eigenes Dasein - als Verhungernder mit Anderen um die Nährung - wird zur Abwehr; mein unbedingter Wille (für mein "Dasein") in Konflikt mit dem des Anderen; ich richte mich gegen ihm in seinem unbedingten Wille, gegen ihm unbedingt im Hass und der Andere ist mein Totfeind". A V 7,p. 78. [8] "Die Menschen verstehen sich als Menschen zuunterst in ihrem leiblichen Walten, aber nicht nur das, sondern auch in ihren typischen unmittelbaren, niederstufigen Bedürfnisscn und Weisen det Bedürfnisbefricdigung, dann in den Weisen der höherstüfig motivierten Bedürfnisse, mit stufenweise Zweckformen und Ergebnisformen". A V 5, p. 176-177. Per il tema dell'identificazione nella praxis, cfr. A V 6, p. 20. [9] "Ich bin als Ich bedürftiges Ich, habe meine Bedürfnisse, und jeweils bald durch das Seiende befriedigte, oder an ihnen unbefriedigt, von ihnen leidend . Ich kann mir Objekte anders denken als sie faktisch sind, und unliebsame so umden- 128 ken, dass sie mir liebsame, erwünschte, mir als bedürftigem (bcgehrendem, Willens-Ich) Ich gemäss waren. Ich kann aber auch dessen ev. gewiss werden, dass ich das Erwünschte auch handelnd verwirklichen kann, was ich mir als besser umgedacht habe, wird mir als für mich praktisch möglich bewusst - aber eine praktische Möglichkeiten kann mit anderen praktischen Moglichkeiten in Konkurs treten, ich kann mich für die eine entscheiden, und indem ich es tue, handle ich, diese Möglichkeit verwirklichend. Aus dem anders und besser Gedachten bezw. aus dem als Besten Erkannten wird nun ein neues Seiendes gestaltet oder ist zur Gestaltung gekommen - als Ich greife in die seiende Welt ein, die seiende wandelt sich inhaltlich von mir aus, und ich bin immer darauf aus, als Handelnder eine Umwelt für mich herzustellen, die mir als bedürftigem Ich genügen könnte. Aber ich bin nicht allein, die seiende Welt ist allgemeinsame, obschon für jedes praktische Ich mit dem gegenständlichen Sinn in der Praxis bestimmte, den sie für es jeweils hat. Jede Veränderung, die ich meinen Wünsche gemäss vollziehe, ändert eo ipso die Umwelt fur jeden Genossen, und jenachdem so, dass sich ihm Liebsames in Unliebsames verwandelt usw. Dieselbe Welt ist für die verschiedenen Personen, die praktische auf sie bezogen sind, in praktischer Hinsicht, also in Hinsicht auf Wunsch und Wille nicht dieselbe. Die verschiedenen Menschen stehen in Verhältnissen des Streiten und der praktischen Möglichkeit der Vereinigung oder des Kampfes, usw ". A V 5, pp. 161-162. [10] A V 5. pp. 175-176. [11] "Das Sichkonstituieren von Uberalltäglichem". A V 5, p . 169. [12] "Also Konstitution von bleibenden Nutzwerten, Nutzlichkeiten, Güter in Vorsorge fiir die Zukunft bereitzustellen". A V 5, p . 170. [13] A V 5, p . 171. [14] "Macht und immer wieder Macht, und Macht über immer weitere Menschenkreise. Freilich das einzelne Herrschen, 129 Űberwinden ist Genuss, aber Gut, bleibcndes, ist das Machthaben, den Einzelnen als Sklaven haben (hier nicht um der Nützlichkeit willen), eine Gemeinschaft, einen Verein beherrschen stets Herrschaft darüber haben und ev. seinen Herrschaftsbereich ständig erweitern in infinitum" AV 5, p. 172. [15] È da sottolineare il fatto che il tema fondamentale del presente viene a coincidere con quello della praxis: "Il presente è vitale e la sua ampiezza dipende dal bisogno di vivere; l'atto del presente è intetessato ed in tal caso… è praxis" E. Paci, Corso di lezioni "Il problema del tempo nella fenomenologia di Husserl", 1959-60, p. 136. [16] "Alles Leben in der Hoffnung ist Leben in der Existenzsorge und umgekehrt - wenn eben Existenzsorge Sorge um das Wie und nicht um das Dass der Existenz überhaupt geht". E III p. 2. [17] "Bedrohung" - "Angst um die Existenz, die totale Existenz". E III 6, p. l. [18] "Wie in unserer Zeit der Arbeitlosigkeit". E III 6, p. 4. [19] "Wenn et "zur Strafe" in einer Isolierzelle nichts zu tun kann,oder (zu) einen fiir ihn sinn- und zwecklosen Tun, Wolle zu zupfen u. dgl., gezwungen sein soll, ohne ernstliche Möglichkeit zu entspringen? Ist ein solches Gefangenen Leben nicht unmenschlich, nicht von vornherein ent-menschend?". E III, 6, p . 5. [20] "Wenn der Mensch in solcher Lage sich Spiele erfindet, die ihn beschäftigen, und sich willentlich hineinfinden würde, sich durch Spiele und immer wieder neu durch Spiele zu "erhalten" - ware das ein menschliches Leben? Ist das nicht sozusagen eine Weise Lebensbefriedigung: zu erbetteln, statt zu einer wahrhaft menschlichen Daseinweise zu kommen?". E III 6, p. 6. 130 Nota Questo lavoro è stato compiuto nelle sue linee essenziali presso l'Archivio Husserl dell'Università di Freiburg in Breisgau tra il luglio 1961 e il maggio 1962. Desidero qui ringraziare Eugen Fink, direttore dell'archivio, per avermi cortesemente concetto l'autorizzazione allo studio ed all'utilizzazione dell'opera husserliana manoscritta. Per l'assistenza che nel corso del mio lavoro mi è stata costantemente prestata da Enzo Paci, desidero esprimergli in questa occasione la mia più viva gratitudine. Gli inediti che sono alla base di questa ricerca risalgono quasi tutti agli anni 1928-1934. Presentiamo qui le indicazioni relative. Ms. A V 5: pp. 257. Consta di scritti di argomento diverso e diversamente datati ( 1927 - 1930-33; le pp. 94-97 sono del 1920). Cfr. a) sez. I, par. II limitatamente alle pp . 214-225 (7 fogli nell'orig. datati tra il 1928 e il 1930) ed alle pp. 156-169 (6 fogli nell'orig., dat. 1932); b) sez. II, par. VII per le pp. 169-170 (foglio singolo nell'orig., datato1931-32) e per le pp. 171-174(2 fogli nell'orig., datati inizio gennaio 1932: recano il titolo "Das handelnde Dasein in der immer schon seiende Welt"), pp. 175-179 (2 fogli nell'orig., senza data). Si tratta più che di un frammento, di un insieme di titoli per analisi eventuali, tuttavia chiaramente interpretabile. Ms. A V 6: pp. 44 (1932). Cfr. sez. I, par. III per il gruppo pp. 17-41, che fanno parte a sé nel corpo del Ms. (Orig. 15 fogli, aprile 1932). Ms. A V 7: pp. 180. Comprende manoscritti diversi elaborati fra il 1920 ed il 1932 (pp. 1-5: 1930 - pp. 6-51: ott. 1929; pp.52-56: ott.1929; pp. 70-78: 19.30. Le pp. 77-78 corrispondo- no nell'orig. ad unfoglio singolo). 131 Ms. A V 10: I parte: pp. 130. Comprende un insieme di scritti datati tra il 1920 e il 1931. I tre gruppi pp. 1-19, pp. 20-55, pp. 43-55 sono datati: Nov. 1931 (Le pp. 20-27 hanno carattere unitario e costituiscono uno scritto a sè stante). Le pp. 56-70 sono invece dell'ott. 1925. II parte (A V 10 2): pp. 134. Comprende scritti elaborati fra il 1920 ed il 1930. Le pp. 139-140 sono datate 1928. Ms. A V I 20: pp. 64 ( 1928-29). Ms. VI 23: pp. 14 (23 febb. 1732) Ms. A VII 11: pp. 133 (ott. 1932: le pp. 53-55 sono del 1925). Sitratta di fogli scritti sepatatamente e solo più tardi raccolti insieme. Cfr. sez. II, par. II per le pp. 16-22. Ms. C I: pp. 6 (1934). Ms. C 8 I: pp. 24 (ott. 1929). Cfr. sez. II, par. III per le pp. 1-8. Sull'intero manoscritto ho riferito altrove (cfr. "L'inedito husscrliano C 8 I" in "Aut Aut", 70, luglio 1962, pp. 284-293 ). Ms. C 11 I : pp. 28 (1923?). Ms. C 11 III: pp. 21 (1934). Cfr. sez. II, par. VI per le pp. 8-13. Ms. C 11 V: pp. 19 (dic. 1931). Ms. C 16 III: pp. 15 (maggio 1932 ). Ms. C 16 IV: pp. 33 (marzo 1932). 132 Ms. C 16 VI: pp. 39 (maggio 1932). Le pp. 26-39 riguardano l'Einfühlung. Cfr. sez. l, par . IV. Ms. C 16 VII: pp. 18 (maggio 1933). L'orig. è costituito da gruppi di tre, di uno, di due fogli: gli altri sono fogli singoli. Ms. C 17 I : pp. 44 (sett. 1931 ). L'orig. è costituito di gruppi di cinque, di undici, di dieci fogli. Cfr. sez., par. VI per le pp. 1-8 (5 fogli nell'orig.) e 26-44 (11 fogli ncll'orig.). Ms. C. 17 II: pp. 21 (1930-31). Cfr. sez. Il, par. VII. Ms. C 17 V: pp. 47 (estate 1930). L'orig. è costituito di gruppi di dieci, di sei, di quattro, di sei fogli. Cfr. sez . II, par. V. Ms. D 12 IV: pp. 34 (non datato, ma: 1931). Si tratta di due manoscritti riuniti in uno. La seconda parte ha come titolo: "Konstitution der Anderen, des Leibes als erstes Objekt der ausserleiblichen Umwelt". Ms. E III 5: pp. 7 (sett. 1933). Cfr. sez. II, par. IV. Ms. E III 6: p. 16 (maggio-giugno 1933). Titolo: "Gemeinschaftsleben und Existenz". Distinto in due parti (pp. 1-6 e pp. 7-16), la seconda delle quali riprende i temi della prima. Cfr. sez. II, par. VII per le pp. 1-6. Le citazioni ed i rimandi all'opera edita si riferiscono all'edizione delle Opere complete di Edmund Husserl ("Husserliana") iniziata nel 1950 sotto la direzione di H. L. Van Breda. Riportiamo qui le indicazioni relative ai primi nove volumi pubblicati: I: Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, hrsg. v. S. Strasser 133 (Den Haag, 1950) II: Die Idee der Phänomenologie, Fünf Vorlesungen, hrsg. von W. Biemel (Den Haag, 1950); III: Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. l. Buch: Allgemeine Einfürung in die Phänomenologie, hrsg. von W. Bicmel (Den Haag, 1950); IV: Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie - 2. Buch: Phänomenologiscbe Untersuchungen zur Konstitution, hrsg. von M. Biemel (Den Haag, 1952); V: Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie - 3. Buch: Die Phänomenologie und die Fundamente der Wissenschaften, hrsg. von M. Biemel (Den Haag 1952); VI: Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die Phänomenologie, hrsg. von W. Biemel (Den Haag, 1954); VII. Erste Philosophie (1923-24). I. Teil: Kritische Ideengeschichte, hrsg. von R. Boehm (Den Haag 1954); VIII: Erste Philomphie (1923-24). II. Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, hrsg. von R. Boehm (Den Haag, 1959). IX: Phänomenologische Psychologie. Vorlesungen Sommersemester 1925, hrsg. von W. Biemel (Den Haag, 1962). 134 135 Appendice Significato della fenomenologia 136 1 137 L'idea della filosofia come scienza Analizzando un gruppo di inediti husserliani abbiamo visto inche modo si pone, all'interno dello sviluppo fenomenologico, il tema della storicità del soggetto e con esso, necessariamente, il tema generale della storia. Ora, proprio per comprendere il significato dell'impostazione fenomenologica e dei suoi corrispondenti risultati di ricerca, dobbiamo abbandonare il terreno delle analisi specifiche cosi come si dispiegavano al nostro sguardo nella lettura dell'opera manoscritta e riprendere la tematica emersa con maggior libertà e soprattutto da un punto di vista più generale. Vi è infatti una domanda che, implicita fin dall'inizio, si pone ora in modo del tutto esplicito: che senso ha per noi, oggi, la fenomenologia? Io credo che una risposta a questo interrogativo si trovi, prima ancora che nella considerazione dei contenuti, nella riflessione sull'idea della filosofia che la fenomenologia teorizza esplicitamente. Quest'idea, com'è noto, è contenuta nel programma della filosofia come scienza rigorosa. Le rapide considerazioni che intendiamo proporre su questo tema tendono non tanto a verificare la possibilità di principio di questo programma - la sua realizzabilità, - quanto piuttosto a mostrare quali problemi faccia nascere la sua assunzione consapevole. Perché questo, nonostante l'apparenza, è il compito veramente prioritario. La questione della possibilità e della realizzabilità in linea di principio si pone infatti nel momento in cui l'idea della scienza è già compiutamente determinata e si tratta perciò soltanto di decidere, in rapporto a tale idea, se ciò che chiamiamo "filosofia" sia o non sia una scienza. In realtà, l'istanza della filosofia come scienza rigorosa è rivolta - prima ancora che alla filosofia - alla scienza stessa come tale. 138 La parola "scienza" ridesta in noi un complesso di significati latenti che sono direttamente connessi con un'idea della scientificità che le scienze positive hanno elaborato all'interno del loro sviluppo storico. In rapporto a questa carica di significati, si spiega perché il problema della filosofia come scienza non appaia immediatamente come problema della scienza stessa, ma si traduca spontaneamente in quello della possibilità che la filosofia assuma, nel suo procedere, quella scientificità che caratterizza le scienze positive. Ora, per noi, l'indiscutibilità dell'idea della scientificità cosi come si è affermata nelle scienze positive deve presentarsi come un presupposto che va esso stesso spiegato e ricompreso e che quindi non ci può offrire un sostegno sicuro e diretto nella questione della filosofia come scienza. Sul programma iniziale della fenomenologia, considerato come tale, nella sua formulazione immediata, non possiamo pronunciare alcun giudizio definitivo. Esso non è infatti di per sé significativo, ma deve appunto, una volta posto, assumere i propri contenuti. Questo vale in particolare in rapporto alla filosofia husserliana. Ciò che importa è che questo programma sia stato posto: è la forma che esso assume all'interno del discorso fenomenologico. **** Un primo aspetto di particolare interesse, che conferisce fin dall'inizio all'idea della filosofia come scienza una direzione determinata, è rappresentato dal fatto che in essa è posta come necessaria la critica della filosofia come "concezione del mondo". Questo tema si presenta in tutta la sua estensione nel famoso articolo del 1911, anzitutto come critica dello storicismo diltheyano. Ma questo riferimento polemico immediato si inserisce nel più ampio progetto delineato nella prima parte dello stesso articolo. Qui, alla negazione della filosofia come sistema si contrappone la necessità del sistema della filosofia: "Io non dico che la filosofia sia una scienza imperfetta, dico semplicementeche non 139 è ancora una scienza... Imperfette sono tutte le scienze, anche le tanto ammirate scienze esatte. Da un lato, esse sono incomplete a causa dell'orizzonte infinito dei problemi irrisolti che non lasceranno mai riposare le esigenze della conoscenza; dall'altro, nel loro contenuto già sviluppato, vi sono molte deficienze; qui e là si trovano oscurità ed imperfezioni nell'ordine sistematico delle prove e delle teorie. Ma come sempre siamo in presenza di un contenuto che continua a crescere ed a ramificarsi. Di tutt'altro genere è l'imperfezione della filosofia. Non si tratta del fatto che essa disponga soltanto di un sistema dottrinale imperfetto, incompleto in qualche punto particolare, ma semplicemente del fatto che essa non dispone di alcun sistema. Tutto è qui controverso; ogni presa di posizione è materia di convinzione particolare, dell'interpretazione di una scuola, del "punto di vista"". [1] La storia della filosofia può essere vista come un succedersi di "concezioni del mondo" che pretendono di essere totali ed assolute: ma proprio il loro avvicendarsi dimostra che ogni volta questa istanza è fallita e che nella filosofia non vi è un crescere sistematico di conoscenza a conoscenza, "pietra su pietra". Parlando di sistema della filosofia si intenderà allora "un sistema filosofico nel senso t radizionale della parola, simile ad una Minerva, che esce completamente armata dalla testa di un genio creatore - per essere conservata aitempi futuri, accanto ad altre Minerve, nel museo tranquillo della storia?" O si intenderà piuttosto "un sistema filosofico di dottrine che, dopo un enorme lavoro preparatorio che dura per generazioni, comincia veramente dal basso su un fondamento assolutamente certo, e che cresce verso l'alto come ogni buona costruzione in cui si mette pietra su pietra; e ciascuna di esse è solida quanto l'altra?"[2]. La critica non si rivolge dunque soltanto alla teorizzazione esplicita della storicità di ogni filosofia come Weltanschauung, ma anche all'idea stessa della filosofia come sistema, come sapere della totalità. Come tale, esso non si presenta come sapere che costantemente concresce su di sé, "pietra su pietra", ma come 140 "concezione del mondo", che di volta in volta si chiude nella propria relatività. Tanto che la filosofia della Weltanschauung appare come esplicita teorizzazione del fallimento della filosofia come sistema, come consapevolezza raggiunta della relatività di ogni pretesa assolutezza e totalità del sapere. Molto più tardi, nell'estate del 1935, Husserl lasciò scritto: "La filosofia come scienza, come tma scienza seria, rigorosa,anzi apodittica - il sogno è finito" [3]. Ed è la frase, cosi spesso fraintesa, in cui Husserl, nell'ultimo scorcio del suo tempo di vita, di fronte alla "crisi" ripropone questo tema originario in tutta la sua aperta problematicità. "La filosofia è in pericolo, il suo futuro è minacciato - ma ciò non attribuisce forse un senso ben distinto al compito attuale della filosofia in quanto problema che si pone in questo tempo?" [4]. Viene così ripresa e riconfermata l'idea che era alla base dell'articolo del 1911: "... se un mutamento filosofico nella nostra epoca deve essere giustificato, è necessario che esso sia in ogni caso animato dall'intenzione di fondare ancora una volta la filosofia nel senso di scienza rigorosa" [5]. Per questo, nel manoscritto del 1935, il problema cheviene affrontato è ancora una volta quello della Weltanschauung. Ed è proprio qui che appare come la "concezione del mondo", consapevolmente affermata nella sua relatività , non sia altro che il sistema che nega la propria assolutezza. In questa teoriz-zazione, la filosofia non si è liberata completamente dalla sua matrice religiosa, dal compito, cioè, di esibire un quadro totale dell'universo e del suo senso nel quale l'uomo trovi immediatamente assicurato, e per sempre, il fondamento del suo pensare e del suo agire. Ciò che si aggiunge è soltanto la consapevolezza della relatività, la liquidazione dell'oggettività della concezione del mondo: ciò che permane è il "punto di vista", la sua necessità in rapporto alla prassi. Così, il sapere teologico si rovescia nella ��concezione del mondo"- come "fede religiosa personale" [6] *** 141 Tutto ciò può valere per noi soltanto come indicazione generale a partire dalla quale il discorso può essere aperto. Questa indicazione riguarda l'idea della filosofia come scienza nella sua contrapposizione necessaria all'idea della filosofia come concezione del mondo o, come potremmo anche dire, sia pure con un termine carico di equivoci, come "ideologia". Ma vi è un altro aspetto, anch'esso generale, che va immediatamente preso in considerazione. Nel tentativo di delineare l'idea della filosofia come scienza e della filosofia come ideologia non può essere trascurata la connessione necessaria tra filosofia in generale ed il suo esercizio concreto: quindi tra filosofia e lavoro filosofico. Nell'idea della filosofia vi è già una assegnazione di compiti e di fini al lavoro filosolico stesso, una predeterminazione del suo senso. Questa prospettiva è immediatamente visibile nel momento in cui si considera la filosofia come prodotto di un lavoro, e quindi non soltanto come risultato teorico in quanto tale. La questione della filosofia-scienza in rapporto alla filosofia-ideologia può essere perciò convertita in quella del lavoro scientifico-filosofico in rapporto al lavoro ideologico-filosofico. All'interno di questo contesto si pone allora un problema nuovo: il lavoro filosofico come tale è un lavoro che si svolge necessariamente nel tempo. L'idea della filosofia va dunque indagata nella sua dimensione temporale corrispondente. La Weltanschauung filosofica ha una origine nel tempo: una "fondazione". E come tale viene ereditata dal presente.I problemi di ortodossia e di eterodossia che si pongono su questo terreno sono problemi di coerenza con la tradizione, ed il loro porsi trova una sua prima e generale spiegazione nell'idea della filosofia come ideologia e nella necessaria struttura temporale in cui l'ideologia stessa si costituisce. Il passato diventa qui la dimensione temporale determinante: senza un passato non vi è ideologia e la crisi del passato è sempre crisi dell'ideologia. Proprio in quanto l'ideologia appare già fondata, il lavo- 142 ro del filosofo, nell'ideologia, è già determinato nei suoi stessi contenuti. Egli opera qui nella riaffermazione della concezione del mondo; come "difensore" e "custode". Il suo problema è: il passato non deve entrare in contraddizione con se stesso. Perciò egli agisce nella costante attualizzazione del presente rispetto al passato. Se ora ci rivolgiamo al problema della filosofia come scienza, cosi come si presenta all'interno del discorso fenomenologico, possiamo affrontarlo dallo stesso punto di vista: quali sono i compiti ed i fini che l'idea della filosofia come scienza assegna al lavoro filosofico? Quale è il suo oggetto effettivo? La risposta che la fenomenologia nel suo complesso offre a questi interrogativi è tutta contenuta nel fatto che, per essa, ogni problema si pone come problema di costituzione. Le analisi che abbiamo seguito e ricostruito sulla base dei manoscritti husserliani sono altrettanti esempi di analisi costitutive. È indubbiamente possibile una riesposizione della metodologia fenomenologica nel suo complesso e di tutti i temi essenziali della fenomenologia proprio a cominciare da una estesa esplicitazione della problematica costitutiva: essa infatti rappresenta il nucleo essenziale, il punto di convergenza delle analisi husserliane. Ma anziché intraprendere una simile riesposizione, ai nostri fini sarà sufficiente indicare la portata di significato di questa impostazione, cercando immediatamente di delineare e di chiarire l'idea della costituzione come idea del lavoro filosofico stesso, che rappresenta una delle proposte essenziali della fenomenologia, anche se non sviluppata sino alle sue ultime conseguenze. 2 143 La tematica costitutiva Ritorniamo al nostro inizio, all'apertura di una sfera infinita di datità fenomenologiche ottenuta mediante la riduzione. Questa riduzione non è altro che l'evidenziazione degli "oggetti" che mi circondano come possibili temi di una ricerca. Questa evidenziazione pone l'ovvietà - la stessa ovvietà dell'essere delle cose come sono, dei significati immediatamente appresi- come in se stessa problematica, come inizio di una ricerca esplicativa. Questa problematizzazione è, in linea di principio, totale: ma nel momento in cui ha inizio e si realizza il lavoro di ricerca, essa è necessariamente specifica. Infatti, l'universalizzazione della riduzione come riduzione della totalità dei dati rappresenta soltanto il generale superamento di ciò che Husserl definisce "atteggiamento naturale": ed ha come conseguenza l'assunzione dell'abito proprio della ricerca, e non un immediato sapere della totalità. A partire di qui ha inizio la descrizione, ed essa esige, a seconda del suo oggetto, operazioni tematizzanti sempre determinate. Una descrizione che deve essere esplicativa: ed è per questo che essa non si arresta al puro momento eidetico o essenziale. La stessa correlazione intenzionale che rende possibile la dimensione eidetica dell'analisi, rende necessario il passaggio da questa dimensione a quella in cui si pone la questione della formazione dell'eidos - questione che va risolta ancora e soltanto descrittivamente, ma che implica l'orientarsi della descrizione sulla correlazione intenzionale stessa. Ed è a questo punto che l'analisi fenomenologica diventa necessariamente analisi fenomenologico-costitutiva. La riduzione fenomenologica è una pura finzione del pensiero, un'argomentazione filosofica : non una realistica trasfigurazione del reale. Ma proprio come tale, come argomentazione 144 filosofica, essa ha una funzione estremamente precisa: essa deve mostrare come le validità obbiettive, che noi assumiamo immediatamente come tali, sono in realtà da giustificare, da chiarire riportandole al loro fondamento. Esse hanno sempre una genesi, anche se questa genesi non appare, anche se può sembrare che esse, in quanto sono oggettive, derivino la loro validità solo da se stesse. Proprio questo aspetto deve essere messo in questione. Le formulazioni di significato nelle quali già da sempre ci troviamo sono da noi percepite come formazioni oggettive, cosi come queste monete che trovo di fronte a me hanno per me immediatamente, come proprietà che è loro obbiettivamente inerente, il significato di denaro. La problematizzazione dei significati consiste anzitutto nellascoperta dei significati non come già essenti in se stessi, ma come costituiti, come prodotti di un processo di costituzione, che va analiticamente e descrittivamente ricostruito perché solo in questo modo è possibile spiegarli. Ciò che caratterizza la fenomenologia è l'estrema radicalizzazione ed universalizzazione del discorso costitutivo. Esso non si limita soltanto al terreno dei significati "culturali", dove l'interrogazione costitutiva sembra immediatamente legittima, ma si rivolge anche a quello strato di senso che sembra sfuggire ad essa in quanto si presenta come limite ultimo degli stessi processi di costituzione. La fenomenologia parla dunque di "costituzione della materia", di costituzione della natura. Questo punto di vista interessa naturalmente le concezioni che si pongono come "materialistiche". Nella misura in cui il "materialismo" pone l'anteriorità assoluta della materia come per essenza non costituita deve andare alla ricerca di una garanzia di scientificità presso le scienze positive. Come sappiamo, questo "materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali" fu oggetto di critica da parte di Marx [7]. Tuttavia, nel marxismo stesso, anche se in forme nuove, permane ancora l'idea dell'anteriorità degli oggetti tematici delle scienze positive, ed in corrispondenza a questa idea, 145 il carattere "materialistico" del marxismo viene identificato, tra l'altro, nell'ancoramento ai risultati delle ricerche scientifico-positive come dati direttamente concernenti la natura come oggettività non-costituita. Ma aparte ciò che dice la fenomenologia a questo proposito, la negazione che la natura stessa sia quella delle scienze della natura emerge direttamente all'interno della "concezione materialistica della storia". La "natura" di cui parla Marx è in primo luogo la natura come ambiente dell'uomo, è la natura che l'uomo trova di fronte a sé con la quale entra in un rapporto pratico-reale, il cui senso è determinato dalla necessità di soddisfazione del bisogno. Questa natura che si costituisce attraverso il corpo nel bisogno è la natura stessa, veramente anteriore. Come ambiente di vita dell'uomo, questa natura si evolve con l'evolversi dell'uomo: è essa stessa storica. La natura astorica delle scienze si forma a partire da questa natura umanamente significativa: essa non è semplicemente posta, ma determinatamente costituita nelle operazioni corrispondenti dello scienziato che si dispone nell'atteggiamento scientifico-naturale. È l'oblio delle operazioni costitutive che conduce alla semplice posizione della "mera natura" come posizione assoluta. Si dimentica cioè l'astrazione determinata che lo scienziato stesso compie nella tematizzazione del suo oggetto specifico. La riscoperta di questa genesi operativa e costitutiva non solo sottrae la regione oggettuale alla sua assolutizzazione, ma esercita la critica dei significati falsificanti che si sono formati in funzione dell'assolutizzazione, attraverso l'esibizione diretta delle motivazioni di questa genesi [8]. Ogni regione oggettuale porrà indubbiamente problemi costitutivi di genere particolare, sia in rapporto alla determinazione delle possibilità di accesso, sia per ciò che concerne la loro soluzione concreta; ed infine anche dal punto di vista della portata dei risultati della ricostruzione descrittiva, che potrà essere di volta in volta diversa. Ma a noi basterà notare qui che, per qualsiasi regione oggettuale, vi è un atteggiamento di ricerca per 146 principio unitario. La domanda ha sempre la stessa formulazione; ed il fine, lo scopo della ricerca si risolve nella stessa ricostruzione costitutiva. Questo vale in linea di principio ed in un ordine estremamente generale di considerazione. Dipende dalla natura dell'oggetto e dalla specifica modalità della sua falsificazione che nella rifondazione costitutiva si giunga alla posizione di nuovi compiti, non soltanto teorici ed esplicativi, ma più propriamente pratici. Affermare che lo scopo della ricerca si risolve nella ricostruzione costitutiva non significa perciò legittimare la circolarità chiusa del pensiero, la sua estraneità rispetto a compiti di modificazione pratica. Significa porre l'accento sul fatto che non vi è una filosofia-scienza della modificazione come tale. Non vi è, anzitutto per il fatto che la ricerca costitutiva non si racchiude nei limiti di una determinata regione oggettuale, di quella regione, cioè, nella quale l'emergenza della praticità può e deve rivelarsi a priori. L'eventuale fondamentalità di questa regione pone in questione il significato pratico del campo complessivo del sapere, ma non conduce in ogni caso all'istanza della prassi come istanza meramente posta dalla filosofia. *** Abbiamo visto che nella tematica costitutiva il problema della genesi delle formazioni di senso si poneva sia come problema esplicativo, sia come problema della verifica della legittimità e del fondamento di validità dei significati stessi. Nel significato percepito immediatamente come valido in se stesso non vi è soltanto l'occultamento della sua genesi costitutiva: questo occultamento implica necessariamente una falsificazione. Sottrarre la genesi all'occultamento, ricostruire descrittivamente la via che ha portato ad una certa posizione di validità, significa anche verificarla, sottrarla alla falsificazione, svelare il suo senso reale, effettivo. 147 Mentre nel paragrafo precedente abbiamo parlato di ideologia come "concezione del mondo", dobbiamo ora parlare dell'ideologia nel senso propriamente marxiano, come falsifi-cazione della verità, come falso sapere di fronte al sapere reale. Nella stessa misura in cui la ricerca scientifico-filosofica è ricerca costitutiva, essa è anche ricerca demistificante rispetto alla ideologizzazione dei significati. Al rifiuto necessario della forma di "concezione del mondo" corrisponde la configurazione del lavoro filosofico come ricerca costitutiva, con la sua intera portata ed intenzione verificante e demistificante. Nella prospettiva della filosofia come scienza, la critica dei contenuti ideologici falsificanti non si esercita come verifica in rapporto ad un sistema paradigmatico di verità, ma nella esibizione descrittiva dei rapporti reali e nell'illustrazione genetico-costitutiva del processo reale di formazione di quei contenuti. La filosofia come scienza implica dunque la critica dell'ideologia nei due sensi fondamentali che attribuiamo a questo termine. 3 Scienza della soggettivita` e scienza della storia Un discorso che ponga il problema della chiarificazione e rifondazione dei significati come problema costitutivo è per principio assurdo se contemporaneamente afferma l'assorbimento della soggettività nell'oggettività. La critica che risolve l'essere in sé in datità fenomenologiche dalla cui descrizione deve essere indicata la motivazione del suo costituirsi in essere in sé, si pone, per essenza, su un terreno in cui l'oggettività ritorna a se stessa, esplicitata nel suo senso, solo dopo essere passata attraverso il momento soggettivo. L'oggettività come tale, che assorbe in sé il momento soggettivo come se esso stesso non fosse altro 148 che una sua figura, non può essere concepita come una validità già costituita e che deve perciò essere spiegata risalendo il cammino di questo processo di formazione genetica: essa ha la spiegazione in se stessa. O meglio: non ha spiegazione affatto. Essa è semplicemente posta; il suo valere è un valere come tale, che non richiede spiegazione. È un fatto non accidentale che le filosofie oggettivistiche non pervengano alla posizione della filosofia come ricerca costitutiva o vi pervengano soltanto in maniera contradditoria e parziale. Per la stessa ragione in esse vive costantemente la tendenza alla configurazione dei risultati della ricerca nella forma della filosofia-Weltanschauung. In realtà, non appena si parla di costituzione, si parla anche, necessariamente, di soggettività costituente: solo se l'oggettività viene concepita come polarità del rapporto intenzionale, e quindi nella sua necessaria correlazione con la polarità soggettiva, essa può presentarsi come problema costitutivo. Come tale esso va risolto nel costante rimando alle operazioni del soggetto. La stessa impostazione tematica dell'intenzionalità, e la critica corrispondente del sostanzialismo della coscienza e dell'oggetto, assume una luce nuova se considerata dalla prospettiva dell'idea della filosofia come ricerca costitutiva. Infatti, la cosidetta "intenzionalità" non è il primo principio, il postulato di una filosofia: la sua affermazione dipende dal radicale e conseguente sviluppo dell'idea della filosofia-scienza, cioè dalla chiarificazione del senso della scientificità filosofica. Ora, se l'atteggiamento intenzionale preclude l'assorbimento della soggettività nell'oggettività, preclude anche l'operazione inversa: ed è questo il senso del duplice rifiuto opposto dalla fenomenologia alle teorizzazioni ingenue del realismo e dell'idealismo. Tuttavia, la soluzione di questa antinomia teorica non sta semplicemente nella ricerca di una presunta zona intermedia, nella posizione di qualche "equilibrio" nel rapporto intenzionale. In tale rapporto, la polarità fondante deve necessariamente essere quella soggettiva, proprio perché il vero problema è quello della costituzione della polarità 149 oggettiva. Di qui il fatto che, in Husserl, la fenomenologia si presenta anzitutto come scienza della soggettività. In quanto riconosce il proprio fine essenziale nella soluzione dei compiti di una ricerca costitutiva, la fenomenologia non può non sottoporre ad analisi la soggettività stessa come fondamento della costituzione, come soggettività operante e costituente: ecioè trascendentale, origine di ogni senso e di ogni formazione costitutiva. È questa analisi che deve riempire di significato questo termine "soggettività" che può essere inizialmente del tutto misterioso. E proprio per il fatto che intende chiarire la struttura della soggettività considerata come fondamento,questa analisi è decisiva al fine di approfondire il senso della costituzione. *** Ricolleghiamoci ai risultati della nostra ricerca sui manoscritti husserliani. Noi abbiamo visto che la questione dell'alterità si poneva come superamento dell'obiezione solipsistica: ma, data la natura propriamente metodologica di questa obiezione, si trattava essenzialmente di arrivare ad una più profonda comprensione del senso della soggettività e quindi a rendere tematica la sfera delle datità culturalmente significanti che, in quanto tali, sono escluse dall'ambito solipsistico. L'obiezione solipsistica non ha perciò altra funzione che quella di introdurre all'analisi della percezione dell'altro, ed i risultati di questa ricerca implicano una complessiva ricomprensione della stessa tematica fenomenologica della soggettività. Nella costituzione dell'altro emerge anzitutto l'esistenzialità concreta del soggetto e l'immediata caratterizzazione di questa esistenzialità come essenzialmente storica. Al tempo stesso, l'unità di associazione che si forma nella stessa attività percettiva tra me e l'altro, chiarisce, e determina il senso della soggettività come relazione intersoggettiva di soggetti corporei, esistenti e storici. 150 L'approfondimento della tematica fenomenologica della soggettività fino al punto in cui essa si presenta come rapporto intersoggettivo è uno degli aspetti del pensiero husserliano generalmente sottovalutato dalle correnti fenomeno­logi­che. Esso rappresenta per noi, invece, uno degli elementi essenziali del lavoro husserliano per un duplice motivo: come suo necessario estremo punto d'approdo; come momento attraverso il quale si infrange lo stesso orizzonte entro il quale Husserl ha compreso la sua filosofia. Il tema della storicità del soggetto e della storia in generale nasce in Husserl proprio dalla riflessione sulla connessione intersoggettiva. Una connessione che è anzitutto corporea e che in quanto tale presuppone la corporeità come vita soggettiva in un ambiente naturale da cui il corpo trae i mezzi per la propria sopravvivenza. Dal terreno elementare della risposta ai bisogni immediati, al quale corrisponde una costituzione elementare di significati umani, inizia il processo che conduce alla formazione di una significatività sempre più complessa. Questo terreno elementare, tuttavia, non è soltanto l'"inizio" del processo, ma anche il suo fondamento. Ed è alla luce di questo fondamento che debbono essere considerate anche le più complesse formazioni di senso. L'intersoggettività che si costituisce come società vivente nella storia, in una processualità determinata dalle necessità materiali elementari è l'ultima forma che assume in Husserl idea della soggettività. Il carattere di trascendentalità va allora attribuito non alla mera soggettività, ma alla relazione storica intersoggettiva. A questo ptmto la fenomenologia come scienza della soggettività si trasforma necessariamente in scienza della società e della storia. La società, nella sua dimensione reale e storica, è il fondamento ultimo dei significati, ed ogni sapete va ticondotto al sapere della società e della storia come sapere fondante.Tutto il nostro discorso dovrebbe allora ricominciare da questo pun- 151 to. Ma le linee essenziali del suo possibile sviluppo sembrano essere già sufficientemente chiare. Quando si parla di scienza della società e della storia, come scienza dell'intersoggettività costituente, non si indica tanto una scienza determinata con un oggetto particolare quanto, prima ancora di questo, l'idea dell'ultimo strato di senso delle formazioni costitutive. Nel suo interno quindi cadono anche le oggettualità costituite nell'idealizzazione - in tutte le sue forme - ed il sapere di queste oggettualità. In questo senso, la scienza della storia è la scienza dell'unificazione, in quanto riporta tutte le formazioni di senso, sottraendole alla loro apparente autonomia e separazione, alla loro matrice concretamente unitaria. Potremmo dire anche che proporre la scienza della società e della storia come scienza del fondamento significa indicare l'idea normativa della ricerca costitutiva. Per questo non si può interpretare tutto ciò come dissoluzione o risoluzione sociologistica o storicistica della filosofia: anche se, evidentemente, la sociologia e la storiografia come scienze debbonoessere direttamente messe in questione. Il vero problema è qui quello di chiarire in che modo la scienza della società, che si caratterizza come scienza tra le scienze per la peculiarità del suo oggetto, proprio per questa peculiarità, sia la scienza per essenza unificante. La "sociologia" appare oggi invece, non solo come priva di alcun significato unificante, ma essa stessa come scienza separata nella separazione delle scienze. Quando il rapporto non è addirittura rovesciato fino al punto che la scienza della soggettività costituente si presenta come scienza essenzialmente da fondare sulle scienze dell'oggettività costituita. Anche nello "storicismo" si ha una delimitazione parziale del campo della ricerca dal punto di vista dei suoi oggetti. Per esso, unico oggetto di cui vi è scienza, è l'oggetto determinatamente storico. La risoluzione della filosofia nell'indagine storiografica sembra perciò il più coerente sbocco dell'ideologia storicistica. Anche per lo storicismo non esiste propriamente un 152 problema di costituzione: la regione oggettuale delimitata che esso propone come regione in cui si esercita il sapere filosofico è oggettivamente storica, e quindi indagabile storiograficamente. La storiografia si pone cosi come sapere oggettivo di dati oggettivamente storici: da un lato resta inindagata la tematizzazione determinata dell'oggetto come oggetto del sapere storiografico, dall'altro, viene coerentemente respinta al di là di qualsiasi possibilità di considerazione scientifico-filosofica l'oggettualità spogliata dai suoi attributi storicizzanti [9]. Per questo lo storicismo, come filosofia della storiografia, non lascia alla ricerca neppure il margine per la chiarificazione della struttura dell'oggetto storiografico come tale e giunge necessariamente a rifiutare, esplicitamente o implicitamente, il discorso sulle stesse condizioni della storicità. A questo proposito è indicativo il modo in cui Husserl concepisce il "mondo della vita" e quindi la scienza del mondo della vita, titolo sotto il quale l'intera tematica fenomenologica viene ricondotta alla posizione dell'intersoggettività come ultima fonte trascendentale di costituzione. Esso non è inteso come una originarietà nella quale noi siamo direttamente e immediatamente, ma come forma generale del mondo storico-sociale: noi ci troviamo sempre necessariamente nellemodalità già storicizzate dei "mondi circostanti della vita". Per questo in Husserl vengono tenute ferme entrambe le possibilità descrittive: descrivibili non sono soltanto i mondi circostanti della vita, ma anche il mondo della vita come tale. Non solo la Weltanschauung storicamente relativa ad un mondo circostante della vita, ma la Weltanschauung nel senso letterale di "intuizione del mondo". Nel Marx dell' Ideologia tedesca la posizione di una scienza reale e positiva, come sapere reale di fronte al sapere ideologico, non si presenta come proposta immediata di un sapere storiografico, ma come un sapere anzitutto diretto sui presupposti della storicità come tale. Ciò che qui Marx tenta di fare è di portare alla luce le condizioni originarie della storicità umana, una storicità che in forza di se 153 stessa assume forme sempre nuove [10]. Tuttavia, è importante notare che in questo modo non si ha semplicemente la configurazione di un metodo per il sapere stortografico. Il significato di queste ricerche va al di là della semplice esibizione di criteri metodologici. I loro risultati hanno indubbiamente anche una portata normativa, ma solo in quanto rappresentano già un contenuto del sapere. All'interno di queste prospettive generali va ripresa nella sua interezza l'idea della filosofia come scienza della società e della storia e, in quanto tale, come scienza del fondamento e dell'unificazione. Quest'idea è essenziale al marxismo nella misura in cui esso si pone come filosofia-scienza. In rapporto alla fenomenologia lo sviluppo conseguente di questa idea implica la riconsiderazione della forma che essa ha assunto in Husserl. La concezione della fondamentalità della dimensione della produzione della vita, non arriva in Husserl fino al punto in cui, chiarita la genesi sociale della coscienza e delle formazioni teoriche, è possibile un'interpretazione sociale dello stesso lavoro filosofico, oltre che la necessaria ricomprensione, alla luce di ciò, del suo significato interno. Ciò che deve essere portato a pieno sviluppo nel discorso fenomenologico è la critica dell'ideologia immanente nella posizione dell'idea della filosofia come scienza rigorosa. Questo sviluppo non procede tuttavia nel senso della liquidazione del pensiero husserliano nel suo complesso a partire da un terreno ideologico precostituito, ma nella radicalizzazione del lavoro scientifico-filosofico come ricerca costitutiva. E quindi come rilevazione ed approfondimento della tematica della soggettività e dell'intersoggettività. La prospettiva fenomenologica esige che si consideri ogni significato nella sua genesi soggettiva; in questa genesi, proprio in quanto è soggettiva, è al tempo stesso intersoggettiva e storica. Ogni considerazione costitutiva che non pervenga sino alla ricomprensione sociale del significato è necessariarmente parziale: non esaurisce il significato stesso. Non 154 arriva alla descrizione della totalità della sua genesi. Ciò è vero anche per le elaborazioni del sapere. Ogni significato si può presentare come indipendente e costituirsi in oggetto di un sapere indipendente. Il nostro problema sarà quello di comprendere le varie forme in cui si realizza questa autonomia dell'oggetto e del sapere dell'oggetto; ma non soltanto le forme. Anche le motivazioni di questo processo. Ed è a questo punto che si pone per il fenomenologo il problema del marxismo: e si pone per lui, ad un tempo, come recupero della sua originaria intenzione di filosofia-scienza e come discorso già aperto sulla significatività sociale del sapere. O, per usare una formula che comprende entrambe queste determinazioni: come problema della scienza della storia in quanto scienza del fondamento e dell'unificazione. Un'elaborazione conseguente dell'idea della filosofia come ricerca costitutiva non può che condurre a questo risultato. La ricerca filosofica tende allora alla chiarificazione delle formazioni oggettive a partire dalle operazioni compiute dal soggetto che, nella sua pienezza, non è altro che l'uomo nella sua vita intersoggettiva e storico-naturale. Ricollegandosi ad un passo dell'Ideologia tedesca, Enzo Paci osserva che l'ideologia nel suo significato più semplice ed originario è "una interpretazione distorta delle operazioni che l'uomo reale compie nel tempo e nella storia" [11]. Pertanto, in quanto è critica dell'ideologia, la filosofia si presenta nel Marx dell'Ideologia Tedesca, come scienza della storia in un senso nuovo, che Paci esprime sinteticamente dicendo: "La scienza della storia è la scienza di tutte le operazioni umane" [12]. 4 155 La filosofia del presente e l'ideologia-tradizione Nel tentativo di fissare provvisoriamente la forma della filosofia come "concezione del mondo", abbiamo notato come essa fosse definita anche da una particolare modo di essere nel tempo, a cui corrispondeva una modalità temporale determinatad ell'esercizio della filosofia da parte del filosofo. Naturalmente, il problema della temporalità del lavoro filosofico va ripreso anche in rapporto all'idea della filosofia come scienza. Abbiamo notato come l'ideologia ponga il passato come dimensione temporale privilegiata: nel presente essa è patrimonio ereditato del sapere, coagulato nella tradizione. Per sottolineare l'essenzialità di questa componente temporale dell'ideologia, potremmo anche parlare di ideologia-tradizione. Situarsi come filosofi all'interno dell'ideologia, scegliere, nel presente, l'ideologia significa scegliere per il passato. Il lavoro filosofico deve, nel presente, essere già tradizione: il presente stesso deve essere tradizionalizzato, assorbito dalla tradizione. In questo lavoro, lo sguardo del filosofo sul suo presente è lo sguardo che coglie ciò che può essere conservato: esso guarda per riconoscere, non per scoprire. Ma proprio questo, nel riconoscere vi è già l'intenzione del ricoprimento. Per il filosofo, la scelta del presente si identifica con la scelta dell'intenzione scientifica di scoperta. Nell'esercizio del suo lavoro, egli si localizza nel presente stesso come dimensione temporale assoluta [13]. E' necessario comprendere il legame di necessità che vincola l'idea della filosofia-scienza a questa consapevole localizzazione temporale del lavoro filosofico. È chiaro che questa prospettiva, 156 in correlazione con l'intenzione di scoperta del presente, muta lo sguardo del filosofo verso il suo stesso passato filosofico. Non più la tradizione "pesa" sul presente, ma il presente "pesa" sulla tradizione. In quanto il filosofo si dispone nell'apertura del presente, non può considerare il sapere passato semplicemente nella forma dell' ideologia-tradizione. Nell'attualizzazione reale del passato a partire dal presente si ha una radicale messa in questione del passato stesso: e quindi l'ideologia-tradizione si rompe in questa sua forma per esibire solo i suoi eventuali contenuti di ricerca. La continuità si ristabilisce così come continuità soggettiva, che procede dal presente al passato. Nella costante rottura con la tradizione che si attua nella ricerca filosofica del presente vi è ad un tempo la libertà rispetto al passato e la costante ricreazione di nuove unità teoriche che attingono un senso costantemente nuovo da questo riferirsi all'attualità. Così, la riconsiderazione delle filosofie, la ricomprensione da parte del filosofo del proprio passato filosofico non ha come conseguenza meccanica e necessaria l'eredità della loro totale portata di senso: sia per ciò che concerne il loro contenuto propriamente teorico, sia per ciò che concerne il loro ultimo significato sociale. Da questa impostazione di principio non può essere tratta coerentemente la conseguenza che una considerazione propriamente storica delle filosofie , che le racchiude nella determinatezza del loro tempo, verrebbe resa senz'altro impossibile, ed insieme ad essa anche la loro critica propriamente sociale. Ciò che occorre tenere ferma è la duplice possibilità della considerazione scientifico-filosofica della filosofia stessa e dell'esercizio della critica dell'ideologia. Occorre anzi mostrare che la prima è condizione della seconda, nel senso che solo a partire dall'impostazione di principio della filosofia-scienza si rivelano le condizioni per l'esercizio concreto della critica dell'ideologia. Ciò diventa visibile già nel fatto che la stessa idea della critica sociale dell'ideologia nasce proprio dalla posizione del problema del sapere 157 reale e dal suo svolgimento conseguente. Che poi all'interno di questo stesso svolgimento si ponga la questione di una reinterpretazione storica della propria ricerca ciò non priva di senso e neppure nega la posizione iniziale del problema del sapere reale. Ciò che si contesta non è dunque la legittimità della critica sociale dell'ideologia. Al contrario: per noi questo aspetto, cioè il riconoscimento del carattere di classe delle teorie filosofiche, è di eccezionale importanza. La critica dell'ideologia, che si trova alle origini storiche del marxismo, rappresenta una delle sue fondamentali linee-forza. Si contesta invece che l'esercizio della critica dell'ideologia possa essere esso stesso fondato, anziché sulla filosofia-scienza, sull'ideologia "scientifica". In questo caso si assume l'elaborazione teorica del passato come ideologia-tradizione o come un complesso internamente antagonistico di ideologie-tradizioni, l'evoluzione delle quali viene colta come una continuità semplicemente oggettiva. Questo atteggiamento è liquidatorio rispetto alle stesse possibilità di un esercizio effettivo della critica dell'ideologia nello specifico senso marxiano. Il massimo risultato che questa prospettiva falsante possa raggiungere in questo campo è l'elaborazione di categorie generali a cui viene attribuito una volta per tutte un significato sociale. Il critico dell'ideologia si risparmia così la pena di considerare in concreto le filosofie in rapporto al loro presente ed alla loro riconsiderazione attualizzante della tradizione filosofica: sarà sufficiente dimostrare un sistema di uguaglianze che, dal livello della elaborazione teorica, conducono alla categoria critica predeterminata e da questa al significato sociale che le è stato attribuito. In questo modo sfugge lo stesso significato sociale specifico che la ricerca teorica, considerata nella forma dell'ideologia, possiede necessariamente nella determinatezza del suo tempo storico. La continuità storica delle teorie viene allora concepita come continuità parallela e corrispondente alla continuità della storia reale. La socializzazione che si tenta di attuare mediante la "corrispondenza sociale" non arriva perciò a risolvere l'autonomia co- 158 stantemente mantenuta nel parallelismo tra storia della filosofia e storia della società. Ed il destino di questa prospettiva è quello di creare una filosofia della storia della filosofia, unicamente fondata in categorie ideologiche. *** Tutto quanto si è detto serve forse a chiarire entro quali limiti il problema dei rapporti tra "marxismo e fenomenologia" ha un'esistenza reale. Esso si può presentare in due modi: come problema del connubio o della separazione di due ideologie-tradizioni oppure come problema che riguarda direttamente la loro totale riconsiderazione nella ricerca del presente. È caratteristico di alcuni critici di parte marxista della fenomenologia la comprensione esclusiva del primo modo di porre questo problema. La fenomenologia viene considerata globalmente come ideologia idealistica borghese: da rifiutare come tale. Ciò che alloraviene ribadita è la purezza della propria tradizione ideologica contro ogni connubio. È caratteristico che su questo terreno il problema della critica dell'ideologia non si pone neppure come problema: ed una riprova di ciò si ha nel fatto che non esiste tuttora una critica della fenomenologia come ideologia. Perché non può essere considerata tale il semplice riconoscimento del carattere idealistico, e quindi borghese, della fenomenologia. La critica dell'ideologia ha senso solo in quanto considera l'ideologia stessa come produzione determinata del suo presente storico. Ciò che è veramente importante è allora la specificità della "mistificazione ideologica" operata da una filosofia determinata e la specificità delle sue motivazioni sociali. Nella mediazione categoriale dell'"idealismo" scompare quell'elemento differenziale che è l'elemento propriamente storico-sociale dell'ideologia. Tra ideologie caratteristiche 159 di diverse epoche storiche si opera cosi una unificazione nel pensiero, a cui corrisponde la determinazione della realtà sociale, che l'"idealismo" dovrebbeportare alla luce, come categoria pura ed indifferenziata. Per ciò che concerne la fenomenologia, non si è mai spiegata la ragione per cui questa elaborazione teorica di un filosofo borghese, considerata in rapporto alla sua epoca, rappresenti nel suo complesso una reazione contro la riduzione alla positività come generale caratterizzazione dell'ideologia borghese dominante. E si pone perciò, nella sua ultima forma, anche se in modo mistificato - e cioè sempre all'interno detpunto di vista borghese - come critica della ragione capitalistica. Ciò appare in particolare nella riflessione husserliana sulla separazione delle scienze fra loro come scienze particolari specializzate. Nell'introduzione a Logica formale e trascendentale l'origine ideale di questo processo è vista da Husserl nell'inversione del rapporto tra scienze particolari e "logica". Questa inversione che, nel Husserl della Crisi si ripresenta come il rendersi autonomo delle scienze dal mondo storico nel quale esse hanno la loro vera ratio, conduce alla trasformazione delle scienze in mere tecniche: private della ratio, le scienze hanno ancora soltanto una razionalità tecnologico-funzionale, "positiva" : l'efficienza della fattualità capitalistica. Per Husserl questa situazione è profondamente tragica: non si tratta del fatto che "la serie delle scienze specializzatesi è talmente ingigantita da non permettere più ad alcuno di trarre pieno frutto" dall'intero campo del sapere [14]. Si tratta di una deficienza più radicale, che non concerne l'"appropriazione e l'unificazione collettiva": le scienze non hanno più una radice giustificativa, come fonte della loro unificazione. Le scienze sono dunque "sradicate", separate ed anche ingiustificate. Proprio in quanto tali, esse si trasformano in mere tecniche teoriche che si fondano più "sull'esperienza pratica ... che sulla penetrazione della "ratio" dell'operazione compiuta" [15]. Per indicare le caratteristiche di questa "esperienza pratica", Husserl si riferisce 160 alle qualità che contraddistinguono un buon uomo d'affari: l'"intuizione", il "senso pratico", il "colpo d'occhio". Ciò che caratterizza la specializzazione è che essa non si rende conto della sua unilateralità: per questa ragione le discipline scientifiche parziali non posseggono nel loro vero senso neppure i campi parziali di verità che indagano. L'essere stesso è per loro frantumato. Esse possono indagare positivamente frammenti dell'essere; non possono dare una risposta al problema del suo senso. Questa risposta può essere data soltanto da quel punto di vista universale - dell'unificazione - che è andato perduto. Di qui la razionalità unilaterale delle scienze positive: "... le scienze positive possono esibire solouna razionalità relativa, unilaterale, che ha come residuo, negli altri lati corrispondenti e necessari, una piena irrazionalità" [16]. La positività della scienza è la sua possibilità di accertare fatti; è al tempo stesso la sua incapacità di significarli. Le scienze che si trovano in questa positività non sanno dire "quale senso abbia l'essere di cui parlano, e quali orizzonti di senso esso presupponga: orizzonti di cui esse non parlano e che tuttavia sono co-determinanti di quel senso" [17]. La razionalità tecnologica è una razionalità cieca, al servizio delle cose. E per questo l'uomo moderno non vede più nella scienza e nella cultura moderna "l'auto-obbietrivazione della ragione umana o l'universale funzione che l'umanità ha creato per rendere possibile a se stessa una vita veramente soddisfacente, una vita individuale e sociale, che sia frutto della ragione pratica" [18]. Non solo: "Si vive così generalmente in un mondo divenuto incomprensibile, nel quale invano ci si interroga sullo scopo (Wozu), sul senso una volta cosi sicuramente ramente riconosciuto dall'intelletto e dalla volontà" [19]. La riduzione capitalistica alla positività implica questa separazione dai fini, qeesta incomprensibilità del mondo che ci circonda: un'incomprensibilità non metafisica, ma sociale, di un mondo ridotto sotto le leggi della razionalità tecnologica. La praxis non è più "ragione pratica", prassi razionale, ma sempre 161 e soltanto praxis utile - "A che cosa?": una praxis che non può essere seguita né dall'intelletto né dal volere [20]. Non c'è dubbio: la consapevolezza che Husserl ha del significato di questa critica resta sempre al di qua di limiti precisi. Vi è un contesto di discorso che non arriva mai alla sua necessaria rottura. La rivendicazione della "ragione autentica" non arriva mai ad investire il terreno della lotta sociale, così come non giungono ad avere un nome le forze sociali che muovono verso la "decadenza". E tuttavia questa critica husserliana, pur entro i suoi precisi limiti di coscienza possibile, appare significativa : anche verso il marxismo. In che misura infatti il marxismo, nel corso del suo sviluppo, non appare esso stesso determinato dalla riduzione capitalistica alla positività? Naturalmente si tratta di un discorso complesso che deve rifiutare le semplificazioni più ovvie e soprattutto assumere di volta in volta una forma precisa. Ma questo problema sussiste. La sua soluzione non appare fin dall'inizio scontata. Anche da questo punto di vista, il significato che la fenomenologia assume oggi per noi si riflette sul marxismo. Diventa problema del marxismo stesso: come filosofia del presente, cioè come ricerca costantemente aperta nel presente e sul presente che ricomprende e ricostituisce il passato nel suo senso riconfermandosi come filosofia-scienza in atto e non come ideologia "scientifica" già costituita. La posta in gioco è solo falsamente espressa dall'alternativa tra marxismo dogmatico o volgare e marxismo critico o autentico. Queste alternative nascono solo all'interno dell'ideologia-tradizione ed il loro senso più profondo sta in un'attualità che si presenta soltanto mistificata nel dibattito ideologico. Se oggi l'accento cade in prevalenza sulla criticità e l'apertura, ciò non significa un'effettiva acquisizione dell'attualità come dimensione consapevole del lavoro filosofico: in quanto resta intatta la forma dell'ideologia, il risultato di adattamento che viene cosi ottenuto va giudicato in rapporto al presente, ma non come sco- 162 perta del presente. Del resto, la questione dei "marxismi" che rinasce all'interno dell'istanza di unità che ogni marxismo presenta, è ancora una indicazione sia dell'impossibilità di sottrarsi al presente, sia della necessità dell'assunzione del presente come dimensione temporale fondamentale. Ma ciò significa anche che il marxismo, nella misura in cui si dispone - come filosofia-scienza - in questa localizzazione temporale, deve essere messo radicalmente in questione in quanto ideologia-tradizione. Note 163 [1] E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, trad. franc., Parigi 1955, pp. 53-54. [2] ivi, p. 55. [3] E. Husserl, La crisi delle sczenze europee, trad . it . a cura di E. Filippini, Milano 1061, p. 535. [4] ivi, p. 537. [5] E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, op. cit, p. 57. [6] E. Husserl, La crisi delle scienze europee, op. cit., p. 536. [7] K. Marx, Il Capitale, trad. it., Roma 1953, Vol. I , 2, p. 73. [8] Intesa ed esercita ta in direzione delle scienze, la fenomenologia ha senso solo come critica costitutiva dei concetti fondamentali che operano nella scienza; in questo modo si esercita la critica della "filosofia" che spesso si nasconde all'interno della stessa elaborazione scientifica. [9] Tipica da questo punto di vista l'obiezione "storicistica" secondo la quale la fenomenologia postula una originarietà della percezione che in quanto tale ignorerebbe la dimensione storica nella quale ogni percezione di fatto si realizza. Quando si parla di originarietà della percezione si apre indubbiamente la possibilità di molti equivoci. Ma il fenomenologo applica il proprio metodo non soltanto nell'esercizio delle sue analisi descrittive, ma anche nella loro valutazione complessiva. Cosi, nell'affermare l'originarietà della percezione rispetto ad ogni atto della coscienza intuitiva non dimentica in che modo egli è giunto a questorisultato, non dimentica cioè la forma specifica di astrazione che egli effettua per rendere tematico questo terreno "originario" nel quale troviamo soltanto i dati percepiti e l'attività percettiva. Cosi, giunto su questo terreno, egli si disinteressa ovviamente, da una parte e dall'altra, della dimensione della storicità che appartiene ad un diverso livello dell'attività percettiva, nel quale da un lato i dati percepiti sono propriamente cose percepite nel loro significato culturale determinato, dall'altro non ho il soggetto pura- 164 mente corporeo, ma la persona - questa persona - socialmente e storicamente determinata. Questo provvisorio disinteresse non equivale affatto all'ipostatizzazione di una dimensione di ricerca. Anzi, proprio a partire da questa consapevolezza si potrà alla fine rendere concreramenrc descrivibile lo stesso terreno di cui provvisoriamente ci si disinteressa. [10] K. Marx, Ideologia tedesca, trad. it. F. Codino, Roma 1958, p. 26. [11] E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell'uomo, Milano, 1963 p. 400. [12] ivi, p. 401. [13] Sulla fondamentalità del presente in rapporto al senso della prassi filosofica e sul tema, strettamente connesso ad esso, della riconsiderazione, si veda E. Paci, op. cit., p. 406 e 426, p. 391 e 456. [14] E. Husserl, Formale und transzendentale Logik, Halle 1929, p. 3. [15] ivi, p. 3 [16] ivi, p. 16. [17] ivi, p. 12. [18] ivi, p. 5 [19] ivi, p. 5. [20] La sotterranea, ma non per questo invisibile, polemica di Husserl verso l'esistenzialismo è stata troppo poco notata dai critici della fenomenologia. Nella Crisi, in particolare, lo "stato d'animo ostile" verso le scienze viene interpretato come rovesciamento dell'ideologia del progresso borghese imperniata ta sull'apologetica della razionalità tecnologica. Si può dire anzi che la Crisi sia, per molti aspetti, anche una risposta ed una interpretazione dell'esistenzialismo come malaise dell'ottimismo borghese. "Filosofia della decadenza", scrive Husserl nella Crisi, non è soltanto quella che tenta di giustificare l'umanità accecata dal progresso, "ma anche quella che, reagendo criticamente ad essa, assume grandiosi atteggiamenti esistenziali" (trad. it. cit., p. 447). 165 Il filo di Arianna Nota su Husserl e Heidegger Testo di un intervento tenuto nel corso del Convegno "Husserl e Heidegger" - Università degli Studi di Milano (4-6 dic. 1989) durante la tavola rotonda intitolata "La fenomenologia e il destino del pensiero". 166 167 A me sembra che, se guardiamo senza pregiudizi l'andamento del dibattito filosofico attuale, si avverta una sorta di saturazione, di esaurimento di una linea di tendenza che si è protratta negli anni con convergenze piuttosto ampie - una sensazione che fa tutt'uno con il bisogno di ritrovare il senso delle differenze, l'importanza delle distinzioni, anzi: ancor prima: il bisogno di ritrovare criteri per istituire differenze e per valutarne il peso. È vero che, in una considerazione di super­ficie, il dibattito filosofico sembra procedere in una direzione opposta, e non solo sul piano della filosofia generale, ma anche su quello delle problematiche specificamente epistemologiche e logico-filosofiche. In realtà stiamo assistendo ad un processo nel quale si va affermando sempre più un'idea di filosofia come di un grande contenitore nel quale possono coesistere istanze teoretiche molto diverse e persino contrapposte, stili filosofici del tutto eterogenei. Si va accentuando una tendenza al sincretismo che può essere realmente professata solo deviando l'attenzione rispetto ai punti critici. Caratteristica da questo punto di vista è l'enfasi spesso ir- 168 ragionevole posta sulle "contaminazioni" - un'enfasi che va talvolta oltre la circostanza del tutto ovvia che ciascuno può attingere ovunque alimento per i propri pensieri e che un contenuto di pensiero può essere liberato da qualunque luogo in cui esso si trovi: invece spesso traspare l'idea affatto diversa che la "contaminazione" possa essere considerata come un vero e proprio strumento di creatività filosofica. All'origine di questi sviluppi vi è il giusto rifiuto di vecchi dogmatismi, e in particolare la consapevolezza della eccessiva rigidezza e della conseguente sterilità di categorie oppositive - si pensi soltanto alla coppia razionalismo/irrazionalismo oppure a quella idealismo/realismo - il cui impiego spesso non conduceva ad altro che alla cancellazione di interi ambiti di ricerca ed alla soppressione di problema­tiche di grande interesse. In proposito va rammentata anche l'attenuazione del peso delle critiche ideologiche, in se stesse non solo legittime, ma anche utili all'in­ telligenza ed alla comprensione dei testi, condotte tuttavia molto spesso senza la minima consapevolezza dei loro limiti metodologici e dell'autonomia che va riconosciuta in via di principio alla problematiche filosofiche. Tuttavia, mentre attiro l'attenzione sui motivi polemici positivi che stanno alla base di questa linea di tendenza e che conferiscono ad essa una sua giustificazione, credo che si debba sottolineare anche il fatto che questi motivi stanno ormai per esaurirsi ed agiscono in direzione di uno spappolamento del discorso filosofico che genera perplessità e diso­rientamento. Tutto ciò può valere come premessa per qualche consi­derazione più direttamente pertinente al tema del convegno. Dirò allora che a me sembra che una delle ragioni del valore permanente della fenomenologia nella forma che essa riceve in Edmund Husserl - 169 e questa precisazione deve ricevere la forza che le compete, data la molteplicità di accezioni in cui il termine fenomenologia può essere utilizzato - sta nell'aver nuovamente ribadito l'esistenza di requisiti irrinunciabili che delimitano e caratterizzano la filosofia stessa. Di aver ribadito, ad esempio, la prossimità della filosofia alla dimensione conoscitiva in genere, di aver attirato l'attenzione sul fatto che esiste un metodo filosofico, o più precisamente, che esiste il problema di un metodo filosofico con tutto ciò che questo comporta; di aver riportato l'attenzione sul fatto che il discorso chiaro non è la stessa cosa del discorso confuso, ed anche che vi sono temi specifici della riflessione filosofica la quale non è obbligata ad avere sempre e necessariamente di mira la totalità stessa, i problemi ultimi e sommi - che anzi possono trovare il loro più sicuro avvio proprio nelle questioni che appaiono superficialmente come questioni di dettaglio. Proprio in rapporto a quest'ultimo punto - ripensando alle tematiche discusse in questo convegno che è stato così ricco di insegnamenti e di proposte - non si può tuttavia non notare che proprio in rapporto alla fenomenologia si è prestata una attenzione quasi esclusiva alle questioni più generali, e in particolare si è trascurato il fatto che ciò che chiamiamo fenomenologia deve essere in grado di specificarsi in una molteplicità di fenomenologie, dirette a campi tematici par­ticolari e capaci di svilupparsi in ricerche determinatamente rivolte a mettere in luce le loro articolazioni interne e i loro nessi strutturali. Cosicché, ponendo ad esempio il problema della costituzione o il problema del mondo della vita, andrebbe a mio sommesso parere almeno rammentato che in fin dei conti chi non è interessato ad una problematica strettamente esegetica, ma a sviluppi teoretici effettivi, forse potrà mettere da parte gli enigmi troppo profondi dell'intenzionalità fungente o della soggettività originaria - enigmi nei quali Husserl si impiglia e nel quale si era già impigliato del resto gran parte dell'idealismo tedesco. Mentre è della massima importanza rammentare che dietro i titoli della costituzione o del mondo 170 della vita vi sono le tematiche della chiarificazione genetica del numero, delle forme logico-predicative e ontologico-formali, di ogni idealità concet­tuale in genere, delle strutture della temporalità e della spazia­lità, delle funzioni della percezione e dell'immaginazione, delle strutture delle vita affettiva - vi è insomma l'intera tematica di un'elucidazione descrittiva e strutturale dell'espe­rienza in genere. Nello spirito di queste considerazioni vorrei ricollegarmi al titolo che si è voluto a dare a questo incontro. In esso si parla impegnativamente di destino del pensiero, e ad esso si connette anzi la fenomenologia stessa, come se essa fosse per così dire disposta dentro questo destino. Noi vorremmo però ricollegarci a questo titolo in tutt'altra maniera, cominciando con il proporre una piccola e inappariscente modifica. La parola "destino" - comunque la si voglia determinare - ha un singolare rapporto con la dimensione temporale. In essa si può cogliere il rimando ad un passato immemorabile nel quale qualcosa è stato già deciso oppure ad un futuro remoto, ad un futuro tanto lontano che non è possibile coglierne i tratti. A questa parola così impegnativa noi ne vorremmo sostituire un'altra. Vorremmo par­lare di destinazione, vorremo poter dire: la fenomenologia, ed anzi la filosofia stessa deve avere una destinazione. Così dicendo si dà subito evidenza a due punti particolarmente importanti: la ricerca filosofica è un movimento del pensiero che deve darsi una mèta, ed una mèta non troppo lontana. Essa ha dunque degli scopi, deve raggiungere un luogo: in questo senso essa ha una destinazione. Inoltre essa ha una destinazione per il solo fatto che è un discorso - un discorso autentico, che non solo ha un oggetto e un tema, ma come ogni altro discorso deve avere qualcuno a cui è destinato, qualcuno a cui si rivolge. Il filosofo deve forse venire dalle solitudini della montagna, ma poi deve scendere in pianura, a parlare fra la gente. Parlare della destinazione in questo senso impone certa­ men­te degli obblighi: impone una presa di posizione che si pre- 171 cisa come un richiamo alla linearità che deve infine pre­va­lere sul­le tortuosità e i tormenti del pensiero, un richiamo al filo di Arianna il cui ricordo deve prevalere sull'apologia del labirinto. Oggi molti sono gli apologeti del labirinto - e quasi senza eccezione essi sono riconducibili alle posizioni di Hei­deg­ger. In effetti quando sono andato dicendo acquista il suo vero senso sullo sfondo delle problematiche heideggeriane. A questo proposito - di fronte alle molte voci che vedono una continuità o in ogni caso una stretta solidarietà tra Husserl e Heidegger - vorrei solo rammentare, riportandomi molto indietro negli anni e precisamente al periodo di innesto delle tematiche fenomenologiche in Italia ad opera di Enzo Paci, che era già convinzione di Paci che la ripresa degli interessi fenomenologici all'interno della cultura filosofica italiana - una ripresa che era in realtà un effettivo inizio - avesse il senso di un superamento delle problematiche heideggeriane, e quindi di una inversione teoretica dell'ordine storico. Prima di Heidegger, per oltrepassarlo. Husserl che leggevamo allora ci appariva venuto dopo Heidegger e non prima di lui. Questa convinzione era propria di Paci ed era condivisa, se ben ricordo, dall'intera sua scuola. Credo che, a quasi trent'anni di distanza, di debba prendere atto che le linee di tendenza della cultura filosofica italiana hanno avuto uno sviluppo ben diverso da quello che faceva intravvedere quella convinzione; si è avuta infatti, in varie forme una predominanza delle problematiche di deriva­zione heideggeriana, in parte dovuta ad un arricchimento delle conoscenze e delle interpretazioni intorno a Heidegger, ma in parte certamente anche a ragioni più profonde. Da ogni parte si guardi si vedono filosofi che cercano di imitare più o meno maldestramente - e per lo più maldestramente, per il semplice fatto che, in fin dei conti, Heidegger è un autore inimitabile. E spesso, curiosamente, differenze che per altri versi contano molto, come quella tra l'essere laico (o addirittura ateo) o cattolico, politicamente di destra o di sinistra, di fronte ad Heidegger sembrano cessare di avere 172 importanza. Universalità del pensiero heideggeriano? Niente affatto. Soltanto moda del momento: una persona molto importante si è messo un cappello, ed altre persone meno importanti si sono messi lo stesso cappello perché hanno ritenuto conveniente fare così. Giudizio troppo duro? Ci rinuncio subito. Nella nostra discussione non sono in questione le persone ed i loro comportamenti, ma le idee e la loro storia. Così rinuncio a giudicare e mi limito a prendere atto che vi è un predominio di Heidegger nella cultura italiana del momento; ma questo predominio non è motivo che mi può dissuadere dal sostenere oggi ciò che mi sembrava giusto e soprattutto interessante sostenere allora. Certamente oggi quello stesso problema si presenta in una forma diversa, come un problema che appartiene ad una vicenda culturale passata. Eppure, proprio per procedere oltre, nel senso di quelle esigenze messe in evidenza all'inizio, resta ancora significativa proprio la decisione teoretica che ciascuno assume nei confronti della divergenza storica tra Husserl e Heidegger. Mi sembra allora doveroso da parte mia che io corra il rischio di affermare che la riproposizione heideggeriana di una tematica ontologica come orizzonte della ricerca fenomenologica, rappresenta un ritorno alla metafisica (al di là delle tergiversazioni che dovrebbero consentirci di parlare del suo definitivo superamento), ma di una metafisica a cui è venuta a mancare la parola. La vera differenza con le grandi e belle metafisiche del passato - da Leibniz a Schopenhauer - sta nel fatto che esse sono metafisiche apertamente parlanti, e proprio per questo si mantengono costantemente in una dimensione di apertura con tutti gli ambiti della vita spirituale, e partire dalla tematiche epistemologiche sino a quelle etiche, estetiche e politiche nel senso ampio del termine, ponendosi in un dibattito aperto con l'esperienza religiosa, ora per riaffer­marla in tentativi di dare ad essa un fondamento argomentativo, ora per contestarla alle sue radici. In rapporto a questa vitalità e vivacità discorsiva, gli sviluppi heideggeriani non possono che apparire che nel loro insieme come orientati verso 173 un progressivo immiserimento di questi nessi, come un movimento che tende a rinchiudersi su se stesso, in una circolarità che deve culminare nell'assenza del discorso. Si perviene così ad un'apologetica del silenzio nella quale riconfluisce infine, come sembra giusto, ogni apologetica del labirinto. Mi sia consentito di concludere con un fugace pensiero alla maggiore vittima di questa doppia apologetica: alludo naturalmente a Ludwig Wittgenstein, il quale, avendo voluto incautamente insegnare alla mosca la strada per uscire dalla bottiglia, è stato in essa rinchiuso e ben tappato dai suoi più o meno recenti interpreti heideggeriani. 174 175 UNA CRITICA SOCIOLOGICA A MARX Questo testo è stato pubblicato nella rivista "Aut Aut", n. 86, 1965, pp. 52-60 Come è noto, il Capitale si arresta ad un punto decisivo, e cioè al momento in cui avrebbe dovuto essere elaborato in tutta la sua estensione il problema della costituzione della classe in quanto classe: "La prima domanda a cui si deve rispondere è la seguente: che cosa costituisce una classe? E la risposta risulterà autonomamente da quella data all'altra domanda: che cosa fa sì che gli 176 operai salariati, i capitalisti ed i proprietari fondiari formino le tre grandi classi sociali?". Su questo interrogativo si interrompe l'analisi marxiana, un'analisi che, partendo dalla fenomenologia della merce, trapassa, per propria interna necessità, nella sfera della produzione, approda sul terreno dell'apparenza capitalistica; rivelandone l'essenza, e ripropone infine la tematica della dinamica sociale nel suo complesso: non più soltanto sfera della circolazione e della produzione, ma l'una e l'altra insieme come processo economico totale che, in quanto tale, è processo storico-sociale nel senso più pieno del termine. In questa prospettiva l'avviamento, immediatamente interrotto, della tematica della costituzione della classe è la conclusione più conseguente delle analisi precedenti e l'apertura, non meno conseguente e necessitante, di un discorso complessivamente diretto sulla struttura della società. Su questa sospensione del discorso marxiano si innesta il lavoro svolto dal sociologo Ralf Dahrendorf ed esposto nel volume Classi e conflitto di classe nella società industriale, presentato in Italia da Alessandro Pizzorno [2]. E vi si innesta tentando, contemporaneamente, un bilancio critico della teoria marxiana delle classi e dei contributi utili su questo tema che si possono trarre dalla letteratura sociologica contemporanea, al fine di indicare le linee di una nuova teoria delle classi che, al di là della impostazione marxiana, sia in grado di riproporre il problema di una teoria sociologica generale del conflitto, anzitutto all'interno della società industriale. Da un lato quindi il problema dell'autore è quello di valutare adeguatamente la teoria marxiana oltre il luogo comune secondo il quale "molte delle previsioni di Marx sono state smentite dall'evoluzione delle società industriali nel corso del secolo passato"[3], dall'altro, partendo dal rilievo dell'insufficienza di un semplice rifiuto teorico e dalla constatazione che la teoria marxiana non è stata effettivamente superata nell'ambito del lavoro sociologico, quello di indicare gli elementi essenziali per pervenire a questo superamento [4]. In modo corrispondente a questo progetto, il 177 volume si articola in due parti [5], ed è soltanto sulla ·prima - cioè sul tentativo di bilancio dell'esperienza teorica marxiana all'interno del lavoro sociologico contemporaneo - che intendiamo rivolgere la nostra attenzione. Intendiamo, cioè, discutere più il significato ed il metodo di questa critica sociologica a Marx che tentare una valutazione del suo "superamento". Essa ci sembra esemplare soprattutto perché implica una impostazione metodologica di fondo che, per quanto possa presentarsi come ovvia, ed inoltre come una definitiva aquisizione della scienza, sociologica, è ancora ben lontana dal non presentare alcuni equivoci sostanziali. L'istituzione di un confronto critico con la teoria marxiana delle classi richiede evidentemente l'individuazione degli elementi essenziali di questa teoria, richiede cioè, per cosi dire, il completamento del capitolo cinquantaduesimo del Capitale. Dahrendorf ritiene che sia possibile individuare le linee di fondo dell'indagine marxiana sulle classi, cosa che egli fa collegando un certo numero di citazioni tratte dalla sua opera complessiva [6]. Ha inizio fin da questa ricostruzione quella arbitraria semplificazione e riduzione della ricerca marxiana e delle possibilità in essa implicite, che permetterà a Dahrendorf di esercitare disinvoltamente la sua critica alla "teoria di Marx". Il suo contributo positivo si riduce, secondo lui, alla costante attenzione da Marx prestata all'analisi dei mutamenti strutturali [7] ed al riconoscimento dei conflitti di gruppo come forze determinanti il mutamento sociale [8]. Ma, a parte certe analisi "empiriche" del capitalismo ottocentesco che restano valide nella misura in cui i dati da esse emersi non sono stati "filosoficamente generalizzati", il lavoro di Marx, secondo Dahrendorf, va respinto non soltanto nel suo contenuto, ma anche nella sua finalità [9]. Ciononostante, sarebbe un errore da un punto di vista marxista pronunciare una semplice condanna della sua opera, in modo tale da rifiutare su di essa, come priva di utilità, qualsiasi discussione. Si tratterà peraltro di una discussione dall'esterno, che presuppone imme- 178 diatamente e, direi, paradossalmente, una discussione interna al marxismo stesso. Anzitutto: è naturalmente inessenziale che Dahrendorf cerchi di individuare le linee di fondo dell'indagine marxiana sulle classi con il metodo del collegamento delle citazioni, in quanto qui si tratta essenzialmente di "offrire una presentazione sistematica delle molte affermazioni isolate relative alle classi rintracciabili nei lavori di Marx [10]. È invece essenziale che con questo metodo tale indagine si fissi in una "teoria" ben determinata e chiusa e che come tale essa venga sottoposta a verifica. Ma la legittimità paradossale di questo procedimento è che esso si ritrova - mutatis mutandis - identico in tutta una certa tradizione marxista, la quale delimita la ricerca marxiana in una teoria chiusa rifiutando - per usare ancora la nostra metafora - di scrivere realmente il capitolo interrotto del Capitale, e limitandosi a riempirlo con le "citazioni" (anche ·questa espressione vale qui per noi essenzialmente come una metafora) tratte da Marx. Ciò spiega, tra l'altro, per quale ragione - operando indubbiamente una falsificazione - nella critica sociologica di Dahrendorf vi sia Marx (un Marx appositamente costruito), ma non il marxismo, e viceversa, non vi sia cioè la continuità e lo sviluppo, nei suoi aspetti positivi e negativi, della ricerca marxiana. La giustificazione data da Dahrendorf a questo proposito è di carattere pratico, di necessaria limitazione di discorso [11]. Ma la ragione reale - anche se l'autore non se ne rende conto - è più profonda. Il Marx costruito da Dahrendorf è in gran parte il Marx del marxismo ideologico, anche se esso viene utilizzato, sul terreno dell'ideologia, in modo diverso. Egli ce lo descrive come un analista empirico che pur avendo capito il suo tempo, era stato tradito dai suoi miti intellettuali: al punto che un pensatore forse fra i meno sistematici ed i più attenti al quotidiano scorrere della storia, fra i più aperti alle possibilità della realtà storica e fra i meno inclini alla teorizzazione profetico-utopistica, diventa per Dahrendorf un "maniaco della sistematica" [12]. E come 179 Dahrendorf può aver facilmente ragione di questo maniaco inventato nel suo laboratorio sociologico, così riporta facile e giustificata vittoria sulle esibizioni intellettuali dei teorici-ideologi del marxismo [13]. Il rifiuto della critica di Dahrendorf non può perciò non esigere una critica di fondo che venga elaborata all'interno dell'area marxista, dei suoi interessi e dei suoi fini. Il marxismo ideologico, attraverso la sistematizzazione della ricerca marxiana e la sua formulazione in leggi "scientifiche" (inindagate nel loro senso effettivo in quanto leggi formulate da una "scienza della storia"), ricopre la realtà con una rete che la rende invisibile e la distorce, ed a questo punto il sociologo può "dimostrare" che queste leggi non sono state verificate dai fatti e "superare" Marx nella sua pretesa inattualità e, soprattutto, nella sua cruciale attualità. L'ideologia, compie così, in entrambi i casi, la funzione cui è destinata. Questo discorso va ora precisato, indicando i punti più caratteristici della critica in questione. La società descritta da Marx era la società propriamente capitalistica, caratterizzata, tra l'altro, dalla concentrazione nelle stesse mani della proprietà privata dei mezzi di produzione e delcontrollo su di essi. A partire da questo dato di fatto, Marx fa risalire la formazione delle classi alla proprietà o alla privazione di proprietà dei mezzi di produzione. Ed è su questo punto che si concentra l'attenzione di Dahrendorf: "Per rapporti di proprietà o di produzione Marx intende i rapporti di effettivo controllo e subordinazione nell'impresa di produzione industriale, oppure soltanto i rapporti di autorità basati sul titolo legale della proprietà? Concepisce egli la proprietà in senso lato (sociologico), e cioè nel senso della esclusività del controllo legittimo (nel qual caso anche il dirigente verrebbe a svolgere funzioni di proprietà) oppure semplicemente come un diritto di proprietà stabilito dalla legge e relativo a tale controllo? La proprietà è per Marx un caso particolare di autorità, oppure è invece l'autorità che è un caso particolare di proprietà?" [14]. Dalla risposta data a questo interrogativo, e cioè dall'interpreta- 180 zione di Dahrendorf su questo punto, dipende il suo giudizio complessivo sulla teoria marxiana della classe e lo stesso orientamento teorico sviluppato nella seconda parte del volume. La tesi di Dahrendorf è che Marx si convinse - constatando che il controllo nella società capitalistica ottocentesca era sempre unito al titolo legalistico di possesso - che l'autorità non è che un caso particolare di proprietà. E che quindi, nonostante l'ambiguità di Marx su questo punto, "si può tuttavia dimostrare che le sue analisi sono essenzialmente basate su un concetto ristretto, legalistico di proprietà[15]. In questo contesto assume una fondamentale importanza l'interpretazione marxiana della società per azioni. Secondo Dahrendorf, che su questo punto ritorna con particolare insistenza [16], essa sarebbe fondamentalmente corretta, ma al tempo stesso implicherebbe all'interno della teoria marxiana una contraddizione, "dal momento che da essa si ricava che quella classe capitalista che era stata profetizzata da Marx non si è mai in effetti realizzata" [17]. Se dunque la proprietà privata dei mezzi di produzione è determinante ai fini della costituzione della classe, la sua soppressione coincide con la dissoluzione delle strutture classiste della società, con la società senza classi: un "raggiro definitorio" [18] mediante il quale Marx abbandona il terreno della sociologia (anzi, per dirla con Dahrendorf, tradisce la sociologia) [19] e passa sul terreno della "filosofia della storia". Il punto di congiunzione è appunto rappresentato dalla teoria delle classi [20]. Nel tentativo di isolare la teoria marxiana della classe, Dahrendorf la estrae dal contesto in cui essa è stata avviata ad elaborazione, e così facendo la semplifica e la distorce. In Marx essa è infatti inserita nell'analisi della struttura economica capitalistica, ed in questo contesto il problema della proprietà e del controllo dei mezzi di produzione si identifica con il problema dello sfruttamento. Per ragioni di principio, il livello economico viene da Dahrendorf completamente trascurato. Di qui anche l'inadeguatezza e l'indeterminazione di quella nozione di 181 postcapitalismo che Dahrendorf accampa sulla base della considerazione dei grandi mutamenti storici intervenuti dopo Marx nella organizzazione sociale. È chiaro che non è soltanto un problema di convenzione terminologica se Dahrendorf preferisce il termine"post-capitalismo" a "neocapitalismo" od a qualsiasi altro, per caratterizzare la società industriale moderna. Neocapitalismo,ad esempio, significa "nuova forma di capitalismo", ed in questo senso può essere legittimamente contrapposto a forme capitalistiche anteriori. Per Dahrendorf invece il post-capitalismo si oppone al capitalismo ottocentesco (considerato sic etsimpliciter come capitalismo) in quanto è il suo superamento [21]: ora, l'espressione post-capitalismo pretende di avere un senso - e quindi un possibile uso come categoria interpretativa - che i fatti portati da Dahrendorf stesso a sua illustrazione e giustificazione descrittiva non sono in grado di conferirgli. L'insignificanza teorica della caratterizzazione della società industriale moderna come post-capitalistica resterà visibile ad occhio nudo sin quando, oltre l'esibizione di dati differenziali rispetto al capitalismo ottocentesco, il sociologo non indicherà la forma reale del superamento del capitalismo nella sua stessa essenza. Qui il sociologo si arresta invece sul terreno dell'apparenza e non arriva a cogliere, a partire dal suo dinamismo, il reale dinamismo che in essa si cela. A questo punto, nonostante gli scongiuri del metodo "empiristico", l'unica giustificazione di una simile impostazione non può essere che apologetico-ideologica. Pertanto se questo problema va impostato da un punto di vista marxista, evitando le ovvietà prive di senso e le logore formule del patrimonio dottrinale, è necessario risalire alla radice della questione, e cioè alle premesse metodologiche, allo stesso problema della "costituzione scientifica" della sociologia come qui viene concepita. "Quando in questo libro parlo di "teoria", "ipotesi","prova empirica", "confutazione" e "scienza"- osserva Dahrendorf nella prefazione alla prima edizione tedesca - uso questi termini rigorosamente, nel senso dei requisiti metodologici di una disciplina 182 empirica. La fisica, la fisiologia e la sociologia sono, almeno da un punto di vista logico, soggette alle stesse leggi, a prescindere dal fatto che l'una o l'altra di queste discipline sia preferibile sul piano empirico per la sua maggiore esattezza. Non vedo perché non si debba almeno auspicare il tentativo di liberare la sociologia della doppia pastoia di un indirizzo filosofico ideografico-storico, o meta-empirico, e non si debba trasformarla in una scienza sociale esatta basata su postulati formulati con precisione - idealmente, è ovvio, in termini matematici - su modelli teoretici e su leggi verificabili [22]. Non è evidentemente sul piano della demitologizzazione, della polemica anti-speculativa di per se stessa, che questa impostazione va giudicata: ma nel suo esercizio effettivo, di cui appunto troviamo un esempio, in questo libro, nella critica a Marx. Uno dei suoi elementi caratteristici è l'affaccendamento dell'autore a distinguere gli elementi "sociologici"da quelli "filosofici", tra il Marx "sociologo" ed il Marx "filosofo": "Nel lavoro di Marx la teoria delle classi costituisce il problematico legame tra l'analisi sociologica e la speculazione filosofica. Entrambe possono essere separate e devono anche essere separate… " [23] . Dahrendorf non si rende conto che la generale impostazione teorica marxiana - la quale,tra l'altro, prende le mosse, come è noto, dalla critica della speculazione e della filosofia in nome dell'empiria della ricerca respinge lo stesso punto di vista "scientifico" da cui egli si dispone. Contiene cioè una proposta alternativa della costituzione scientifica della sociologia. Fino a che punto tale proposta è stata finora rilevata? Su questo terreno bisogna probabilmente riconoscere, nonostante le numerose elaborazioni positive, l'insufficienza del lavoro finora svolto. Lo stesso si dica per il problema della costituzione della classe in quanto classe. Ed infine anche per l'altro tema fondamentale della critica di Dahrendorf, quello dell'evo­ luzione del capitalismo dopo Marx. Secondo Dahrendorf, il fallimento delle previsioni di Marx, tra cui soprattutto la progressiva pauperizzazione della dasse 183 operaia, la degradazione della specializzazione e la omogeneizzazione delle classi contrapposte, contraddette da una sempre più equa distribuzione del reddito e dall'aumento della specializzazione e della mobilità sociale, dimostrerebbero la falsità della teorizzazione marxiana. Non è evidentemente necessario riprendere qui il discorso di Dahrendorf punto per punto al fine di sottoporlo ad un preciso controllo: tanto più che esso non dice cose estremamente nuove. L'inattualità di Marx nel senso che egli è figlio del suo secolo [24] non incontrerà obiezioni da parte di alcun marxista serio. In particolare Dahrendorf afferma che Marx vide esattamente la situazione in corso nel suo presente[25]: ma non è esatto affermare che Marx, nel formulare le leggi di sviluppo della società capitalistica, non fece altro che operare una falsa generalizzazione di questa situazione. Dahrendorf, proprio come certi marxisti, assume le leggi marxiane come leggi "naturalistiche": e di conseguenza non gli è difficile dimostrare la loro falsità, così come è una conseguenza necessaria che quei marxisti falsifichino costantemente i fatti per amore della verità naturalistica della legge. Il problema che questa impostazione pone è quello del recupero del significato tendenziale della legge di sviluppo sociale, la cui modalità di verifica non può essere quella a cui - in un curioso affratellamento - pensano la sociologia borghese ed il marxismo ideologico. Ed in questa prospettiva ridiventa possibile l'analisi marxista dello sviluppo della società contemporanea: ridiventa cioè possibile l'elaborazione di un'autentica sociologia marxista, un problema che naturalmente non esiste per un Dahrendorf il quale ha "superato" - e per la prima volta! - la dottrina di Marx, e che è invece uno dei problemi di fondo per chi ritiene che la via aperta da Marx non si chiuda una volta per tutte nella rete delle sue deformazioni ideologiche. 184 Note 1. K. Marx, Il capitale, trad. it., Roma 1956, III, 3, p . 303. 2. Trad. it. dall'edizione inglese di L. Cappelletti, con un saggio introduttivo di A. Pizzorno intitolato Le organizzazioni, il potere e i conflitti di classe, Bari (Laterza), 1963. 3. R. Dahrendorf, Op. cit., p. 73. 4·"A che serve affermare, come si fa frequentemente nel tirare le conclusioni di una data ricerca, che i risultati ottenuti contraddicono questa o quella tesi di Marx? A che serve demolire una determinata tesi, se il progresso scientifico si arresta a questo stadio preliminare? È indubitabile che è piuttosto importante arrivare alla confutazione di determinate teorie, delle ipotesi derivate da esse; ma è ancora più importante superare queste teorie, e in base agli elementi che ne hanno permesso la confutazione, sostituirle con teorie migliori e più soddisfacenti " (p. 137); "Noi abbiamo iniziato la nostra indagine con un esame dell'opera di Marx perché la formulazione marxiana della teoria delle classi è stata la prima e, per quanto ne sappiamo, l'unica del suo genere. Oggi la teoria di Marx è rigettata ma non è stata ancora superata" (p. 212). 5. Parte prima: La dottrina di Marx alla luce dei mutamenti storici e delle interpretazioni della sociologia, pp. 19-268. Parte seconda: Verso una teona sociologica del conflitto nella società industriale, pp. 279-548. 6. R. Dahrendorf, op. cit., pp. 29-44. 7. "In tutti i suoi lavori, Marx mostrò infatti un forte convincimento dell'importanza primaria dell'analisi dei mutamenti strutturali ... Come vedremo tra poco, Marx esagerò, ed andò troppo oltre; senza contare numerosi errori da lui commessi riguardo a aspetti particolari della sua teoria.Tuttavia, per quanto riguarda le società storicamente esistite, Marx non cadde mai nella trappola di lasciarsi affascinare dalla bellezza dei suoi modelli strutturali tralasciando il problema dei mutamenti. Il sog- 185 getto della sua indagine fu il mutamento sociale, e la categoria "struttura sociale" costitui esclusivamente uno strumento per affrontare quel problema complicato e sfuggente" (p. 223) 8. "…non si può negare che Marx abbia messo in luce una delle più interessanti e probabilmente, delle più significative relazioni esistenti tra struttura sociale e mutamento sociale assumendo che i conflitti di gruppo e le loro violente manifestazioni siano le forze che determinano tale mutamento" (p. 224). 9. ivi, p. 423. 10. ivi, p. 44, n. 7· 11. ivi, p. 144, n. 5. 12. ivi, p. 65. 13. Si veda la critica ai saggi di Nemchinov, Fedosejev e Kuczinsky, ivi, pp. 145 sg. 14. ivi, pp. 48-49. 15. ivi, p. 49. Intervenendo nella discussione avviata dalla rivista "Tempi moderni" sul tema "Classi, strutture sociali, potere", Umberto Melotti si è occupato in maniera specifica del volume di Dahrendorf, mettendo in luce le deficienze di questa critica. Cfr. U. Melotti, Classe, potere, ideologia, in "Tempi moderni", ottobre-dicembre 1963, n. 15, pp. 8o-84. 16. Cfr. R. Dahrendorf, op. cit., p. 50 e pp. 83-84. 17. ivi, p. 93. "E proprio nel cercare le contraddizioni in Marx, Dahrendorf cade in alcuni equivoci clamorosi, come quando attribuisce alla concezione marxiana della società per azioni tutti i luoghi comuni sulla separazione della proprietà dal controllo esposti qualche decennio più tardi dagli apologeti delle grandi Corporations, senza cogliere che Marx individua nella s.p.a. un elemento di contraddizione all'interno di un sistema capitalistico che va sempre più socializzandosi, la contraddizione del modo di produzione capitalistico con la proprietà privata capitalistica, A. Illuminati, in "Il contemporaneo", luglio 1961, n. 62, p. 119. 18. R. Dahrendorf, op. cit., p. 64. 186 19. ivi, p. 65. 20. ivi, p. 49; cfr. p. 6o: "Gli attributi "sociologico" e "filosofico" significano in questo contesto una differenza nella condizione logica di determinate proposizioni. La teoria delle classi di Marx contiene elementi di entrambi questi tipi. Si può invero affermare che Marx non ha mai collegato questi due tipi di proposizioni cosi abilmente - e quindi in modo cosi ingannevole come nella sua teoria delle classi". 21. "…una delle differenze tra i tempi di Marx ed i nostri tempi è proprio costituita dal superamento del capitalismo" (p. 127). 22. ivi, pp. 7-8. Su questo terreno dei problemi di metodo ci possiamo riferire ad un discorso già avviato su questa rivista e che meriterebbe il più ampio e sistematico sviluppo. Si veda in proposito: E. Renzi, Sociologia e fenomenologia, marzo 1962, n. 68, pp. 155 seg.; E. Paci, Per una sociologia intenzionale, settembre 1962, n. 71, pp. 359-367; le osservazioni di F. Ferrarotti sull'articolo di Renzi e la risposta di Paci in A proposito di sociologia e fenomenologia, novembre 1962, n. 72, pp. 505-51. 23. R. Dahrendorf, op.cit., p . 27; cfr. anche p. 56; p . 67; p. 213. 24. ivi, p. 84. 25. ivi, pp. 95-96. 187 NOTE SU "STORIA E COSCIENZA DI CLASSE" 1968 188 Questo saggio è stato edito nella rivista "Aut Aut", n. 107, 1968 1 189 All'inizio del saggio su La reificazione e la coscienza del proletariato Lukács osserva che il problema della merce non va considerato come problema particolare "e neppure sempli­ce­men­te come problema centrale dell'economia intesa come scienza particolare, ma come problema strutturale centrale della società capitalista in tutte le sue manifestazioni di vita" (1) . Con ciò egli orienta fin dall'inizio il proprio discorso sulla reificazione nella società capitalista: l'analisi marxiana della merce, nei suoi sviluppi che debbono condurre alla messa in luce dell'articolazione reale del modo di produzione capita­listico nel suo complesso, è qui presupposta. Mentre ricevono svi­luppo autonomo le indicazioni marxiane riunite intorno al tema del feticismo della merce, nel quale deve essere ritrovato il fenomeno fondamentale della reificazione (2) . L'orientamento di fondo che si fa valere nello svolgimento teorico di questo tema generale si radica in motivazioni strettamen­te attinenti ai problemi ed alle valutazioni politiche del­l'esperienza storica degli anni 1917-1923, entro i quali sono compresi tutti gli scritti di cui Storia e coscienza di classe è costituita. È di qui che dobbiamo trarre le ragioni dell'accento posto, oltre che sul tema della reificazione, anche, ed in particolare, sull'asso­ciazione di questo tema con quello della "coscienza del proletariato", e piú in generale della critica del­l'i­deo­logia. Converrà prendere le mosse dal saggio conclusivo sull'or­ga­niz­zazione: non soltanto perché in esso sono piú ricchi e diretti che altrove i rimandi al dibattito all'interno del movimento operaio internazionale, e neppure per il suo carattere, per molti versi, immediatamente politico. Ma soprattutto perché i temi teorici essenziali di Storia e coscienza di classe vengono qui ricondotti ad un centro di discorso unitario che riporta, a sua volta, al problema dei rapporti tra la classe e l'or­ganizzazione all'interno della rivoluzione europea. Si riprenda rapidamente in esame, nei suoi termini essenzia- 190 li, la discussione con Rosa Luxemburg, che è certamente uno dei fili conduttori del volume. Dopo aver premesso che, nel dibattere la questione dell'organizzazione, deve essere evitata quella forma di dottrinarismo consistente nella dissertazione astratta intorno a possibilità di cui non si hanno ancora esempi di realizzazione storica, si ricorda fin dall'inizio come esemplare da questo punto di vista lo scritto di Rosa Luxemburg Sciopero generale, partito e sindacato (3) . Rosa Luxemburg va al di là di una impostazione dottrinaria nella misura in cui, in luogo di porre in astratto il problema delle azioni di massa, si riferisce all'esperienza degli scioperi generali in Europa nei primi anni del secolo, con particolare riguardo al 1905 in Russia, mostrando, con l'esempio dei fatti, il carattere mitologico della teorizzazione anarchica dello sciopero generale, cosí come la falsità oggettiva dell'argomentazione tecnico-organiz­zativa con cui i sindacati tedeschi giustificavano il suo rifiuto. L'esempio delle azioni di massa di quegli anni dimostrava che lo sciopero generale non era altro che una delle forme di lotta scelte dalla classe operaia, il cui senso era determinato di volta in volta dal livello acquisito dei rapporti politico-sociali, un senso che l'analisi marxista deve portare alla luce, perché solo attraverso questa chiarezza è possibile innestare il momento della direzione politica che è destinata a potenziare in modo decisivo il movimento di classe. Un senso, ancora, che non è immediatamente ovvio e non può essere colto da uno sguardo di superficie o con l'ausilio di principi generali che non si commisurano alla novità storica della situazione concreta. Cosí Rosa Lu­xem­burg osserva che il risolversi del movimento di massa del gennaio 1905 in Russia, "come atto politico di dichiarazione di guerra rivoluzionaria all'assolutismo", in una serie di lotte salariali e rivendicative, non fu una frantumazione dell'azione e tanto meno un regresso "ma solo un mutamento di fronte, una trasformazione im­provvisa e naturale della prima battaglia generale contro l'as­so­lutismo in una generale resa dei conti con il capitale, che, conformemente al suo carattere, assu- 191 meva la forma di singole frammen­­tarie lotte salariali. Attraverso lo spezzettamento del­lo sciopero generale in scioperi economici non fu rotta in gennaio l'azione politica, ma viceversa: dopo che il contenuto dell'azione politica che era possibile nella situazione data a quel dato gradino della rivoluzione, fu esaurito, essa si divise o piuttosto si trasformò in un'a­zione economica" (4) . Il fallimento dello sciopero generale politico proclamato dalla socialdemocrazia russa dopo lo scioglimento della Duma non fa che comprovare, secondo Rosa Luxemburg, questa analisi (5). Que­sto fallimento non fu il risultato di un'immaturità politica delle masse: esso denuncia piuttosto la mancata consapevolezza, da par­te della direzione politica, dell'improvviso mutamento del fronte della lotta. Nel discorso complessivo della Luxemburg, questo non è che un esempio che riguarda il problema del rapportotra classe e organizzazione. Ed il 1905 in Russia conferma anche la tesi generale sostenuta in questo scritto: l'organizzazione nasce dalla lotta e non viceversa (6). La situazione tipica di confronto è rappresentata da quella tedesca: in Germania, in una situazione di relativa stabilità sociale, dove il partito e i sindacati si sono ormai attestati in una posizione di solidità, cresce l'ideologia dell'organiz­zazione: l'idea cioè che la classe si muova solo sulla base delle decisioni del partito e del sindacato; ed il sindacato teorizza l'im­possibilità delle azioni di massa facendo riferimento alla propria debolezza. In Russia, in una situazione di debolezza del partito, in una situazione in cui i sindacati sono praticamente inesistenti, la lotta diventa matura, assolve i propri compiti, crea organizzazioni nuove, ed il partito si rafforza, si formano e generalizzano gli organismi sindacali, ecc. Tutto ciò diventa possibile per il sussistere di una rottura rivoluzionaria. E come l'organizzazione ha la sua ge­nesi nella lotta, così essa non ha il compito di prepararla tecnicamente, ma di dirigerla politicamente. 192 21 aprile 1967 21 aprile 1967 193 Due tesi strettamente interdipendenti, la cui correttezza viene sottolineata da Lukács: con alcune riserve significative. Infatti, secondo Lukács, se deve essere accettato ciò che in esse conduce ad una critica della sopravvalutazione dell'or­ganizzazione, ed in particolare la sua caratterizzazione come una questione puramente tecnica, di efficienza, dall'altra debbono essere invece respinti quegli elementi che inducono ad una sopravvalutazione della "spontaneità". La realtà di questa critica sta ovviamente altrove che nell'idea del giusto mezzo; e non sta nemmeno in un'a­ stratta contrapposizione tra concetti. Già il termine di "spontaneità" mantiene una certa indeterminatezza d'uso che si pre­cisa sempre soltanto all'interno di un discorso politico sufficientemente definito. Anche dai brevi cenni a cui ci siamo limitati, il tema della spontaneità in Rosa Luxemburg non appare come semplice ipostatizzazione del­l'istinto rivoluzionario delle masse, ma come azione sociale che ha una sua precisa logica interna e che può essere ripresa e diretta politicamente in modo da far sí che essa esprima tutti i contenuti eversivi che sono possibili a quel dato momento dello sviluppo. Un accen­to diverso assume questo termine in Lukács; ma mutano anche quei parametri storici a cui ogni posizione, nel marxismo militante, deve essere commisurata. Anche da questo punto di vista, la Germania rivoluzionaria del 1918 non è la Russia del 1905. Ci troviamo qui di fronte ad un processo di disgregazione delle organizzazioni tradizionali della classe, come conseguenza immediata della rottura che interviene tra partito e classe dopo l'inizio della guerra e che si approfondisce sempre più nel suo corso fino ed oltre il novembre 1918. All'inizio della guerra, la socialdemocrazia tedesca si presentava come un partito di vecchie tradizioni e di grande prestigio, nel quale la classe operaia continuava a sentirsi rappresentata: e come il partito procedeva sulle vie del riformismo, anche la classe operaia poteva sembrare interamente attestata su posizioni di graduali acquisizioni di miglioramenti economici e politici nel 194 quadro dell'ordine borghese. Che ciò fosse solo apparenza lo dimostrarono gli avvenimenti successivi. L'utiliz­zazione di parte operaia del partito viene meno quando il partito decreta che la lotta di classe venga sospesa ("tregua interna") e quindi che la classe si sciolga. Di fronte a ciò la classe risponde sciogliendo il partito, ricacciando le sue sfere dirigenti alla collaborazione al vertice del potere con i propri nemici di classe e riprendendo la propria libertà di azione. 1 giugno 1967 Questa libertà di azione può apparire, dopo il 1918, e così appare a Lukács, come "spontaneità", come istinto rivoluzionario che non riesce a crescere sino al partito, come un fattore, dunque, essenzialmente negativo. Su questo giudizio si fa sentire il peso di un'interpretazione politica: l'inter­pretazione del divario tra l'azione del movimento operraio organizzato e l'azione di classe, del continuo divergere tra le decisioni delle masse e le decisioni delle loro organizzazioni che appare come costante rilevabile ad occhio nudo negli anni in cui vennero scritti i saggi di Storia e coscienza di classe. Un primo esempio è già l'arretratezza degli obiettivi politici rispetto alla realtà del movimento di classe che la socialdemocrazia maggioritaria e i socialisti indipendenti propongono all'indomani della rivoluzione di novembre. Ma questo divario è proprio, in modi diversi e con un diverso senso, anche agli svi- 195 luppi successivi che appartengono alla storia del partito comunista tedesco. Così l'insurrezione del gennaio 1919 avviene come adesione del partito ad un movimento "spontaneo", benché la sua sconfitta fosse da Rosa Luxemburg "da anni lucidamente prevista sul piano teorico e su quello tattico nel momento stesso dell'azione" (7) . 5 giugno 1967 Nel 1920 il movimento di classe, al tempo del putsch di Kapp, si presenta come un movimento capace non solo di generalizzarsi, ma anche di superare gli obiettivi immediati della restaurazione della repubblica bor­ghese, ed è questa volta il partito 196 che non si adegua come fattore di potenziamento e di direzione politica della spinta delle masse (8) . L'ultimo esempio clamoroso è il marzo 1921, particolarmen­ te significativo anche in rapporto a Lukács (9) , quando un movimento a caratteristiche particolari e locali viene sopravvalutato dal partito e viene interpretato come un movimento provvisto di forza sufficiente per essere generalizzato in senso rivoluzionario. Di qui la proclamazione da parte del partito comunista dello sciopero generale; di qui anche il suo fallimento (10) . Nel 1920 e nel 1921 abbiamo così due esempi contrapposti di non aderenza tra classe ed organizzazione: nel primo caso una situa­zione di lotta generale che non viene­utilizzata politicamente, nel secondo un tentativo di utilizzazione politica generale e rivolu­zionaria di un movimento di breve respiro. Le masse si muovono in assenza del partito, il partito si muove in assenza delle masse. Questo problema è direttamente connesso con gli sviluppi della rivoluzione tedesca. Le lotte condotte dalla classe operaia tedesca nel corso della guerra fino al 1921 ed oltre fino al 1923 dimostrano un'enorme spinta rivoluzionaria che mantiene la società tedesca costantemente sull'orlo della crisi: una spinta che riprende con forza imprevista e incontrollabile dopo ogni sconfitta. Questa spinta, la cui portata è dimostrata dalla sua stessa durata, conduce tuttavia ad un fallimento che dopo il 1921 si incomincia ormai a intravvedere. Su di essa non è riuscito ad innestarsi un movimento organizzativo capace di sostenerla: nel 1923, quando l'idea della rivoluzione vie­ne ancora una volta ripresa nonostante ogni previsione, Radek scrive: "La storia sta galoppando come un cavallo imbizzarrito" (11) . Una frase che potrebbe essere assunta come espressione esemplificativa del punto di vista dell'organiz­za­zio­ne in rapporto ai movimenti di classe in Europa dalla fine della guerra sino al 1923. Su questo sfondo va considerato il problema della "spon­ taneità" in Lukács, l'accento posto sulla necessità di por­tare i temi dell'organizzazione a chiarezza teorica, come anche alla 197 fine, la stessa teorizzazione complessiva della coscienza di classe. Il rimando a Rosa Luxemburg può servirci ancora come punto di riferimento per una preliminare messa a fuoco di questo problema. Benché Rosa Luxemburg abbia visto giustamente che al partito spetta un compito di direzione politica della lotta, essa non ha però messo in luce, osserva Lukács, "quei momenti organizzativi che rendono il partito del proletariato capace di esercitare una direzione politica" (12) : un'osservazione in cui si connette la possibilità di mantenere un corretto atteggiamento verso il movimento di classe ad una determinata struttura organizzativa interna del partito stesso. Vengono ripresi qui i termini della vecchia polemica tra la Lu­xemburg e Lenin sul problema del partito. Secondo Lukács, il punto cruciale che rappresenta uno dei motivi importanti delle difficoltà del partito ad innestarsi nel movimento rivoluzionario va ricercato non soltanto nell'eredità del partito socialdemocratico tedesco, ma anche nel fatto che la sinistra socialdemocratica dell'an­te­guerra non aveva raggiunto. la consapevolezza della necessità di tradurre il dissenso teorico sulle prospettive della rivoluzione in un dissenso sul piano organizzativo: cioè, in questo contesto, nella concezione del partito e nella sua realizzazione pratica. In questo consiste appunto l'esempio leninista: il riflesso diretto sul terreno della concezione del partito del diverso modo di intendere gli sviluppi della rivoluzione russa (13) . Certamente su questa valutazione, che finisce poi con l'attribuire una certa affinità tra la posizione centrista e quella della sinistra radicale europea dell'an­te­guerra, nella misura in cui entrambe mantengono, per ragioni diverse e con diverse conseguenze, la distanza tra momento teorico e quello pratico evitando la mediazione organizzativa, agisce l'attua­lità delle "ven­­­tun condizioni" (14) , che è, nella prospettiva ancora a­per­ta di Storia e coscienza di classe, l'attualità del problema della costruzione del partito rivoluzionario. Da questo punto di vista vale per Lukács una duplice premessa. In primo luogo: "Il fatto che, quasi senza eccezioni, un in- 198 fluente stato direttivo dei partiti operai si pone apertamente al fianco della borghesia, mentre un'altra parte stringe con essa alleanze segrete ed inconfessate e che è possibile ad entrambi, sia spiritualmente che organizzativamente, mantenere anche in questo caso sot­to la propria direzione gli strumenti decisivi del proletariato, deve essere assunto come punto di par­tenza per valutare la situazione ed il compito del partito operaio rivoluzionario" (15) . Ed in secondo luogo: "È una vana speranza contare sul fatto che anche questi strati direttivi possano a poco a poco 'convincersi' della giustezza delle concezioni rivoluzionarie in modo tale che il movimento operaio possa riprodurre dall' interno, 'organicamente', la propria unità rivoluzionaria" (16) . Secondo Lukács vi è un'interna coerenza tra il modo luxemburghiano di porre il problema del rapporto tra classe e organizzazione e la conduzione della lotta contro l'oppor­tu­ni­smo all'interno del partito "che dovrà ovviamente essere condotta in modo tale da far cadere l'accento interamente sul­l'ope­ra di convinzione verso i sostenitori degli opportunisti, nel tentativo di ottenere la maggioranza all'interno del partito" (17) . E questo atteggiamento lo si ritrova poi nella concezione "organica" del processo rivoluzionario stesso. Non si tratta, sottolinea Lukács, della tesi del passaggio graduale dal capitalismo al socialismo, ma del suo rovesciamento (18), che mantiene tuttavia il presupposto di una formazione spontanea e progressiva del fronte anticapitalistico della lotta (19) . Nel saggio sullo Sciopero generale, per rafforzare la propria tesi del rapporto tra lotta e organizzazione, Rosa Luxemburg ricorda che in una situazione rivoluzionaria hanno un peso decisivo non soltanto le masse già organizzate, e quindi anche più avanzate, ma anche quelle non organizzate (20) . Per Rosa Luxemburg resta fermo che le avanguardie piú radicali della lotta sono gli operai della grande industria: la spinta comincia dalla parte piú avanzata della classe operaia, ma non può non ripercuotersi anche sui livelli piú arretrati. Questo discorso, in Rosa 199 24 luglio 1967 25 luglio 1967 200 Luxemburg, vale essenzialmente a mostrare che la lotta fa fare un enorme passo avanti sia nella maturazione della classe, sia in rapporto alle sue strutture organizzative. Nella lotta, i diversi livelli della coscienza di classe negli strati operai ed anche nella piccola borghesia proletarizzata, tendono ad autosopprimersi al grado piú alto, ed è proprio in questo sen­so che l'organizzazione fa nella lotta un passo avanti decisivo, raffor­zandosi e potenziandosi, riuscendo con estrema rapidità ad ottenere dei risultati che richiederebbero altrimenti anni di attività politica "quotidiana". La critica di Lukács a questo aspetto del discor­so luxemburghiano è duplice. Anzitutto egli osserva che in questo modo di porre il problema non si fa altro che riflettere, sulla rivoluzione proletaria, lo schema della rivoluzione borghese: il passaggio dalla struttura feudale a quella capitalistica ha in realtà il carattere di una "trasformazione economica dell'ordinamento feudale della produzione in un ordinamento capitalistico", ed in questo senso "sarebbe senz'altro pensabile dal punto di vista teorico che questo sviluppo si realizzi anche senza rivoluzione borghese" (21) . Con ciò si fissa anche la differenza tra rivoluzione borghese e rivoluzione operaia: "L'enorme differenza tra i due tipi di sviluppo consiste tuttavia nel fatto che il capitalismo si è sviluppato come modo di economia già all'interno del feudalesimo, agendo distruttivamente su di esso. Mentre sarebbe una fantastica utopia pensare che, all'in­terno del capitalismo possa sorgere, in direzione del socialismo qualcosa di altro che, da un lato, le premesse economiche oggettive della sua possibilità - le quali peraltro possono trasformarsi in elementi reali del modo di produzione socialista solo dopo ed in seguito al crollo del capitalismo - e, dall'altro, lo sviluppo del proletariato come classe" (22) . Si tratta di un motivo interessante, ma esso coglie solo in parte l'impostazione luxemburghiana, come del resto Lukács riconosce, orientando la propria critica essenzialmente verso la "convinzione dogmatica" che "insieme ad un reale bisogno sociale" venga sempre prodotto "anche il mezzo della sua soddisfazio­ne, 201 insieme ad un certo problema anche la sua soluzione" (23) . Ma le reali implicazioni di questa critica vengono alla luce quando Lukács osserva che una concezione come quella luxemburghiana dello sviluppo rivoluzionario presuppone il carattere puramente operaio della rivoluzione stessa: dove la complicazione, e l'am­biguità, di questa discussione sta nel fatto che mentre da un lato si sottolinea, nei confronti della Luxemburg, la differenza tra trasformazione capitalistica dell'ordinamento di produzione e rivoluzione operaia, d'altro lato si usa come argomento critico, procedente nella stessa direzione, il carattere non puramente operaio della rivoluzione stessa, sull'esempio della presenza determinante del movimento contadino nella rivoluzione russa. Lukács respinge così anche il punto più delicato - quello riguardante la questione agraria - dello scritto di Rosa Lu­xemburg sulla rivoluzione russa: "La rivoluzione agraria - scrive Lukács - era ormai un fatto, un fatto del tutto indipendente dalla volontà dei bolscevichi e persino da quella del proletariato. I contadini avrebbero in ogni caso operato la spartizione della proprietà fondiaria, come manifestazione ele­mentare dei loro interessi di classe. E questo movimento ele­mentare avrebbe spazzato via, se vi si fossero opposti, i bolscevichi stessi, così come aveva spazzato via i menscevichi e i socialrioluzionari. Porre correttamente il problema della questione agraria non significa quindi chiedere se la riforma agraria dei bolscevichi fosse un provvedimento socialista oppure almeno orientato verso il socialismo... Imprimere a questo movimento una graduale deviazione 'in direzione del socialismo' in quel momento non era neppure pensabile" (24) . Su questa base, la scelta bolscevica sulla questione agraria si presenta a Lukács come una scelta cosciente di direzione politica che deve concretizzarsi nella capacità, da parte dell'or­ga­ niz­zazione, di adottare una tattica nella situazione concreta dello sviluppo rivoluzionario, tenendo conto "sia degli elementi non proletari al di fuori della classe, sia del potere di ideologie all'interno del proletariato stesso". Due aspetti sottovalutati, secondo 202 Lukács, da Rosa Luxemburg, che si riducono poi alla "sottovalutazione del ruolo del partito nella rivoluzione", "dell'azione coscientemente politica di fron­te alla spinta elementare determinata dalla necessità dello sviluppo economico" (25) . 2 È forse opportuno, a questo punto, aprire una digressione sul modo in cui si configura in Lukács il problema del­l'ar­ti­colazione della società in gruppi sociali, in "classi", sottolineando fin dal­ l'i­nizio che ogni qual volta questo problema viene posto non si fa questione di termini. È indifferente che si parli di "classe" in un'ac­cezione molto ampia, differenziando poi una "classe" dal­ l'altra in base a determinate caratteristiche, ed arrivando eventualmente a riconoscere l'opportunità di un uso estremamente ristretto del termine di classe. Non è indifferente invece che si confondano fra loro le caratteristiche differenziali corrispondenti sotto il pretesto di una particolare liberalità terminologica. Per questo è sempre stato importante, nelle tradizioni del marxismo, connettere al termine di classe una rigorosa determinazione del suo concetto. Attenendoci strettamente all'impostazione lukacsiana, ci accontenteremo anche in questo caso di pochi cenni. Il principio secondo il quale "l'articolazione della società in classi deve essere determinata dalla posizione che esse occupano all'interno della produzione" offre un primo e generale criterio orientativo del problema "secondo lo spirito del marxismo" (26) . Esso implica il riferimento alle strutture produttive nella loro determinatezza storica. Certamente, un gruppo può trovare il proprio centro costitutivo su altre basi, in altre differenze non connesse con la posizione nel processo di produzione, come le differenze di razza, di religione, di appartenenza nazionale, geografica, linguistica, ecc. E queste differenze possono anche sovrapporsi o istituire 203 Detroit, 26 luglio 1967 204 delle intersezioni complesse rispetto alla posizione nel processo di produzione, considerata come normativa. La complessità di un'analisi dei movimenti sociali dipende anche dalla complicazione presentata da queste intersezioni e da questi intrecci che sono portatori di diverse motivazioni delle azioni, ognuna delle quali ha un diverso peso e, si potrebbe dire, anche un diverso grado di realtà. Ma proprio per penetrare all'interno di questo complesso nodo di relazioni, va riaffermata la tesi della centralità del riferimento alla posizione produttiva come base della realtà del gruppo, comunque questa realtà possa essere resa intrasparente dalle differenze indotte da ulteriori sovrapposizioni e intersezioni. È caratteristico tuttavia della concezione di Lukács che questo fondamento reale dell'articolazione sociale venga alla luce nella sua nudità e nella sua purezza solo all'interno del modo di produzione capitalistico. E per la stessa ragione per cui l'economia diventa nel capitalismo una scienza autonoma che acquista un'importanza fondamentale. Ed ancora: per la stessa ragione per cui le motivazioni reali profonde delle azioni sociali appaiono in superficie nel capitalismo e la lotta sociale si attesta, anche sul piano della coscienza, come lotta di classe. Certamente, con ciò si è operata una scelta anche sul piano della determinatezza del termine di classe, che verrà allora inteso restrittivamente e riferito in modo esclusivo agli strati sociali essenzialmente propri del modo capitalistico di produzione. Questa connessione intrinseca tra "classe" e "capitale" va ricercata, secondo Lukács, in quella che è la tendenza di fondo del modo capitalistico di produzione, la tendenza ad una progressiva omogeneità del ciclo produttivo che deve condurre, nel suo senso, ad emarginare le componenti sociali ad esso estrinseche e ad una com­pleta funzionalizzazione della società all'"economia". Questa tendenza è ciò che contraddistingue il modo di produzione capitalistico dai modi di produzione anteriori: "La differenza che è ora rilevante per noi e che salta subito agli occhi è il fatto 205 che ogni società precapitalistica - dal punto di vista economico forma un'unità incomparabilmente meno coerente di quella capitalistica; in essa, l'in­di­pendenza delle parti è molto maggiore che nel capitalismo, mentre molto minori e più unilaterali sono le loro interrelazioni economiche" (27) . Ed ancora: il capitalismo è "il primo ordinamento di produzione che tende ad una completa assimilazione economica della società nella sua interezza" (28) . 13 settembre 1967 17 settembre 1967 È vero che fin d'ora è operante la categoria hegeliana della to­talità; e Lukács stesso avverte, nella prefazione del 1967, che va considerato come un eccesso hegeliano il contrapporre "alla priorità della sfera economica la centralità me­todologica della totalità" (29) . Ma senza entrare nel merito di una valutazione dell'hege­lismo di Lukács, va almeno notato che la frase famosa: "Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghe­se non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità" 206 6 ottobre 1967 207 (30), non può essere separata dal rilievo del carattere totalizzante del modo di produzione capitalistico e nello stesso tempo dalla fissazione del marxismo come "autoconoscenza della società capitalistica" (31) . 11 ottobre 1967 Questa precisazione è necessaria per intendere ciò che caratterizza i gruppi sociali essenzialmente propri della società capitalistica, la borghesia ed il proletariato, che sono, secondo Lukács, "le uniche classi pure della società borghese" (32) . In quanto classi esse hanno questo in comune: "solo la loro esistenza e il loro evolversi poggiano esclusivamente sullo sviluppo del moderno processo di produzione e solo a partire dalle loro condizioni di esistenza è in generale pensabile un piano per l'organizzazione dell'intera società" (33) . Esse occupano, cioè, una posizione all'interno del processo di produzione tale che i loro interessi particolari "implicano" la totalità del processo stesso: e ciò è possibile soltanto quando questo pro­cesso assume i caratteri di una tendenziale coerenza. I temi della totalità, del processo capitalistico e della classe fanno parte di un unico contesto di discorso. 208 Questo carattere comune della borghesia e del proletariato in quanto classi è scisso da quel solco che li contrappone come classi in lotta: un contrasto che in Lukács viene descritto nelle sue caratteristiche ulteriori ed in particolare, in rapporto alla borghesia, nell'impossibilità, socialmente fondata, di arrivare a realizzare quel­la consapevolezza della totalità del processo che deve esserle attribuita in linea di diritto: "una impossibilità di principio di dominare teoricamente e pra­ticamente i problemi che sorgono necessariamente dallo sviluppo della produzione capitalistica" (34) . A questo proposito Lukács sottolinea spesso esemplificativamente l'incom­pren­sibilità di parte borghese del meccanismo della crisi. Agisce anche in questo caso, in Lukács, l'accentuazione posta sul pro­blema della coscienza, riferito ad un altro versante, e quindi anche con segno rovesciato, perché, in rapporto alla borghesia, il sussistere di una opposizione dialettica tra interesse di classe e coscienza di classe, non è soltanto la base del­l'oc­cultamento ideologico della realtà dei rapporti sociali, ma istituisce tra la teoria e la praxis una "opposizione incolmabile" (35) . Questa accentuazione ha delle conseguenze più generali sulla stessa determinazione del concetto di classe che abbiamo or ora ricordata. Certo, in Lukács, è la classe che sta alla base della coscienza, e non è la coscienza che forma il punto di concentrazione della classe. Tuttavia, né in rapporto alla borghesia, né in rapporto alla classe operaia, il problema inizialmente posto riceve uno sviluppo nel senso della scoperta del­l'articolazione concreta di questi strati sociali dentro il mo­do capitalistico di produzione. Per questo la determinazione riferita fa leva essenzialmente sulla possibilità di percepire la totalità del processo da una localizzazione parziale nel processo stes­so. Quindi come punto di vista e come pensabilità, da quel punto di vista, di un piano per l'organizzazione per l'in­tera società. Le differenze concerneranno poi l'effettiva capacità di traduzione pratica di questa semplice condizione di diritto, che avrà a sua volta come 209 tramite, decisivo per il suo successo o insuccesso, la coscienza di classe. Questa tendenza prevalente, nel discorso lukácsiano, impedisce uno sviluppo dell'indicazione orientativa preliminare che riesca a cogliere che cosa sono la borghesia e il prole­tariato in quanto parti sociali del capitale. Anche in questo caso sussiste una differente posizione all'interno del processo produttivo, che non si risolve unicamente nel possesso dei mez­zi di produzione e delle forme istituzionali del potere: la ricerca marxista deve affrontare ancora in modo radicale questo problema ritornando all'impostazione marxiana e sviluppandola sino alle sue conseguenze ultime. Di qui il presentarsi di tutto un complesso di problemi che se da un lato traggono direttamente la loro origine in Marx, dall'altro debbono condurre a determinazioni nuove e storicamente adeguate allo svi­luppo moderno del rapportoclasse operaia e capitale (36) . Tentativi orientati nel senso di una più precisa determinazione della struttura del gruppo sociale che arrivi a chiarire il centro e i modi della sua costituzione, e quindi anche le ten­den­ze e le forme "tipiche" della sua praxis sociale, vengono compiuti da Lukács, sostanzialmente all'interno della tematica classica del marxismo, in rapporto ai contadini ed alla piccola borghesia. Ed essi tendono a confermare la tesi della riduzione del concetto di classe ai gruppi sociali essenzialmente propri del modo capitalistico di produzione - la tesi della borghesia e del proletariato come uniche "classi pure" della società borghese. Ma questa caratterizzazione comune in quanto classi poggia, come abbiamo visto, sulla forma di rapporto con l'in­tero della produzione. Al di là di ogni differenza nella struttura di gruppo, per quanto riguarda il concetto di classe, appaiono rilevanti non queste differenze, ma il carattere comune di parti che implicano la totalità del processo. Il tema della pianificazione si annuncia, in Lukács, all'interno degli stessi limiti, che sono anche, in rapporto a Lukács stesso, limiti di coscienza possibile: nella misura in cui l'idea dell'econo 210 16 ottobre 1967 211 mia pia­nificata viene assunta dalla borghesia progressista, questa assunzione viene interpretata, in un modo che oggi è diventa­to problematico, come "capitolazione della coscienza di classe della borghesia di fronte a quella del proletariato" (37) . Naturalmente lo sviluppo di questo problema è in Lukács piú ricco di quanto qui possa sembrare. Il modo di essere della classe operaia in rapporto all'intero dell'economia non si esprime soltanto in un punto di vista sul processo economico, ma molto piú radicalmente nella funzione della classe operaia come "massima for­za produttiva", e quindi, nello stesso tempo, come soggetto reale della produzione (38) . La ripresa di questo tema marxiano è piú volte sottolineata da Lukács, e l'accento cadrà dunque più volte sul carattere socioeconomico del processo produttivo. Si può, a partire di qui, rovesciare l'idea guida della teoria e della praxis capitalistica della funzionalizzazione del sociale all'economico nella realtà del processo, che è un processo economico socialmente motivato e socialmente condizionato nella sua dinamica storica. Così co­me è possibile assumendo la caratterizzazione lukacsiana del­l'omogeneità tendenziale del modo capitalistico di produzione arrivare a riconoscere che quando le strutture economiche sono giunte a permeare ogni componente della vita sociale, allora non soltanto la lotta sociale si svolge scopertamente all'in­ter­no dei rapporti economici come lotta di classe, ma l'e­conomia stessa non ha più da questa lotta alcuna forma di indipendenza. Che Lukács non arrivi fino a questo limite è dimostrato dal fatto che la crisi non appare come dipendente dal conflitto sociale, ma come presupposto, come condizione di possibilità per l'azione rivoluzionaria operaia. Il richiamo alla classe operaia come massima forza produttiva, come soggetto reale della produzione, si ripresenta in Lukács per mostrare che, quando sussiste una situazione di crisi, questa realtà della classe deve apparire coscientemente come momento di rovesciamento dei rapporti capitalistici, come azione politica cosciente che deve impedire il "ritorno alla normalità", il superamento "puramente 212 economico" della crisi. Per questo Lukács, citando Lenin, sottolinea che dal punto di vista puramente economico il capitalismo è sempre in grado, in linea di principio, di superare ogni crisi, ma se riuscirà di fatto ciò dipende dalla classe operaia: "In qualunque situazione si possa trovare il capitalismo, si presenteranno sempre delle possibilità di soluzioni 'puramente economiche'; il problema è allora solo quello di sapere se queste soluzioni, una volta uscite dal piano teorico puro dell'economia ed introdotte nel­la realtà della lotta di classe, potranno realizzarsi ed affermar­ si. In sé e per sé sarebbero dunque pensabili diverse vie d'u­scita per il capitalismo. Ma la loro realizzabilità dipende dal proletariato. È il proletariato, è la sua azione che sbarra al capitalismo la via d'uscita da questa crisi" (39) . Prima della crisi, in tempi "normali", questa soggettività della classe è, secondo Lukács, una soggettività latente. Così anche se la crisi non viene utilizzata dalla classe operaia come occasione per la trasformazione rivoluzionaria. Questo è uno dei cardini della tematica che connette in Lukács il polo teorico del discorso a quel­lo direttamente politico. "Appare chiaro - scrive Lukács - che il peso decisivo deve essere posto sul problema se la 'massima forza produttiva' dell'ordinamento capitalistico di produzione, il proletariato, vive la crisi come puro e semplice oggetto, oppure come soggetto di decisione. La crisi è sempre determinata in modo oggettivo dai 'rapporti antagonistici di distribuzione', dal contrasto del flusso del capitale che continua a scorrere in rapporto all'impeto che già possiede , con la base ristretta 'su cui poggiano i rapporti di consumo'. Ma nelle crisi che si verificano nel progressivo sviluppo del capitalismo, per via dell''immaturità del proletariato', della sua incapacità ad intervenire attivamente nel processo di produzione in altro modo che come 'forza produttiva', inserita senza resistenza in esso e sottoposta alle leggi dell'e­conomia, questo aspetto dell'anta­gonismo non viene apertamente alla luce. Può sembrare così che le 'leggi dell'e­co­nomia', come hanno condotto alla crisi, possano anche 213 19 novembre 1967 23 novembre 1967 5 gennaio 1968 214 condurre fuori da essa. Mentre è vero soltanto che, in seguito alla passività del proletariato, la classe dei capitalisti è riuscita a superare un punto morto, rimettendo ancora una volta la macchina in moto. Ciò che distingue qualitativamente le crisi decisive, le crisi 'ultime' del capitalismo (ovviamente si può trattare di un'epoca intera di crisi singole tra loro separate) dal­le precedenti non è quindi una semplice conversione della loro estensione e profondità, della loro quantità in qualità. O meglio: questa conversione si manifesta per il fatto che il proletariato cessa di essere semplice oggetto della crisi e si è pienamente sviluppato l'interno antagonismo della produzione capitalistica che, secondo il suo concetto, ha rappresentato già la lotta tra l'ordinamento borghese della produzione e quello proletario, il contrasto tra le forze produttive socializzate e le forze individualistiche e anarchiche. L'organizza­zione del pro­letariato, il cui scopo fu sempre quello di 'infrangere le conseguenze rovinose di quella legge naturale della produzione capitalistica sulla propria classe', passa dallo stadio di negatività o dell'azione puramente frenante, di indebolimento e di temporeggiamento, in quel­lo dell'attività. Soltanto così la struttura della crisi si modifica in modo decisivo, qualitativamente" (40) . La trasformazione della crisi "economica" in una rottura dirompente sul piano del potere è legata qui all'attivazione del­la "forza produttiva", che deve dimostrarsi per quello che è: non oggetto del processo, ma suo soggetto; al passaggio dalla passività all'at­tività. È determinante per l'intero discorso di Lukács che questo passaggio debba effettuarsi essenzialmente come "presa di coscienza" e come sua traduzione organizzativa: coscienza di classe e organizzazione, in rapporto alla classe operaia, sono per Lukács due aspetti dello stesso problema. E nella stessa misura in cui non arriva a maturazione il processo di crescita organizzativa, si ribalterà sulla classe il giudizio di "immaturità", una immaturità che dovrà trovare la propria spiegazione generale ancora sul piano della coscienza, e cioè dell'ideologizzazione, dell'inci- 215 denza delle forme della reificazione sulla stessa classe operaia. La distinzione tra coscienza di classe e coscienza psicologica o immediata (41) rivela qui il suo uso interpretativo. L'e­ spansione dell'i­deo­logia borghese sulla classe operaia, nelle varie forme illustrate da Lukács, diventa possibile nella misura in cui la coscienza di classe, come consapevolezza che la classe possiede della propria situazione storica, è una coscienza "attribuita in linea di diritto", e quindi può sempre sussistere un divario tra la coscienza immediata dei singoli e la coscienza di classe che deve essere loro attribuita oggettivamente in quanto sono membri della classe. La rottura rivoluzionaria è legata alla scomparsa di questo divario (42) , alla coincidenza di questi due poli, entro i quali i momenti reificanti, sul terreno pratico e teorico, si innestano come un cuneo. La possibilità della reificazione, considerata secondo questa prospettiva, poggia sulla possibile divergenza tra la situazione di classe e la coscienza di classe, che a sua volta si giustifica sulla base della dialettica, nella coscienza, tra il piano dell'immediatezza e quello della mediazione. Muovendoci all'interno di questa complessa stru­mentazione concettuale non dobbiamo perdere di vista le mo­tivazioni che abbiamo richiamato aIl'inizio. Perché appare chia­ro che la tematica della reificazione, considerata alla luce della tesi lukacsiana dell'imborghesimento relativo della classe operaia che qui si annuncia, deve alla fine offrire un quadro teorico generale entro il quale divenga possibile, implicando le strutture della società capitalistica in generale, da un lato spiegare l'affermarsi del riformismo sul piano del partito operaio nel primo anteguerra, dall'altro le difficoltà della direzione politica nelle azioni di massa dell'immediato dopoguerra. In Storia e coscienza di classe si ribadisce più volte la cen­tralità della posizione della classe operaia e il senso "oggettivamente anticapitalistico della sua lotta rispetto alle altre classi" che dovranno essere considerate come "sopravvivenze precapitalistiche" sussistenti in funzione e subordinatamente al contrasto tra operai e capitale: "Infatti - scrive Lukács - se la totalità della 216 società attuale non è in generale percepibile dal punto di vista di una determinata situazione di classe, se sviluppando idealmente sino in fondo gli interessi di una classe nel senso che può essere loro attribuito di diritto non si incontra la totalità della società, questa classe potrà svolgere soltanto un ruolo subordinato, non potrà mai intervenire nel corso della storia né come elemento di conservazione, né come elemento di di­namismo. In genere tali classi sono predestinate alla passività, ad un incerto fluttuare tra le classi dominanti e rivoluzionarie e le loro eventuali esplosioni hanno necessariamente in sé il carattere della vuota elementarità, del­l'assenza del fine; e sono condannate ad una definitiva disfatta, anche nel caso di una casuale vittoria" (43) . Questo è il caso della piccola borghesia e dei contadini. Si hanno qui due tipici esempi nei quali la situazione di classe è tale da non consentire né un'iniziativa politica autonoma, né un'orga­niz­zazione politica. La loro "coscienza di classe" sarà sempre, per esprimerci con Lukács, presa a prestito, e sarà ca­ ratterizzata da costanti fluttuazioni tendenti a impedire o a ral­ lentare il processo sia di completa trasformazione capitalistica della società, sia di conversione rivoluzionaria di un sistema capitalistico in un sistema socialistico: "Il comportamento delle altre classi (piccolo borghesi, contadini) è oscillante ed infe­condo per lo sviluppo perché la loro esistenza non si fonda esclusivamente sulla posizione che esse occupano nel processo capitalistico di produzione, ma è indissolubilmente legata a so­pravvivenze della società organizzata in stati. Perciò esse non cercano in genere di promuovere lo sviluppo capitalistico in modo da spingerlo oltre se stesso, ma di farlo retrocedere o almeno di impedire che esso si dispieghi in tutta la sua pienezza. Il loro interesse di classe è quindi diretto soltanto ai sintomi dello sviluppo, e non allo sviluppo stesso, ai fenomeni parziali della società, e non alla struttura sociale nella sua interezza" (44). 217 30 gennaio 1968 2 febbraio 1968 218 Tutto ciò ha una conseguenza diretta sul senso dei movimenti di questi strati sociali. L'instabilità delle loro scelte politiche e organizzative, i rapidi mutamenti di fronte, le situazioni che forniscono ad essi una occasione di mobilitazione, la portata eversiva delle loro azioni che si può improvvisamente trasformare in una tendenza al regresso, tut­ti questi elementi possono essere ricondotti alla loro struttura di gruppo, all'assenza di un centro di unificazione oggettivamente e materialmente localizzato nella direzione del processo produttivo. Per questo, secondo Lukács, di spontaneità in sen­so proprio si può parlare soltanto in rapporto a questi strati sociali. In senso proprio, che è anche un nuovo senso. In rapporto alla classe operaia, spontaneità può voler dire soltanto che sussiste ancora un divario tra la coscienza di classe oggettiva e la coscienza immediata: cioè che la coscienza di classe non è riuscita ancora a farsi soggettiva, perciò può essere rilevata solo in linea teorica senza dar luogo a fatti organizzativi che la rendano attualmente e praticamente attiva. Nel caso degli strati non operai, non vi è alcuna coscienza di classe attribuibile in linea di diritto, non vi è che la coscienza immediata dei singoli che trova il proprio punto di riferimento in parole d'ordine estrinseche e la cui portata eversiva, nel momento della mobilitazione, può essere orientata anticapitalisticamente solo nella misura in cui è possibile la sua subordinazione politica al movimento oggettivamente anticapitalistico della classe operaia: "I movimenti diquesti strati intermedi - scrive Lukács - sono realmente esoltanto movimenti spontanei. In realtà essi non sono altro che i prodotti di potenze naturali della società, che operano con la cecità delle 'leggi di natura'; e in quanto tali, sono essi stessi ciechi - in senso sociale... La direzione che essi finiranno con l'assu­mere... dipende in gran parte dal comportamento delle classi che sono in grado di giungere ad una presa di coscienza, la borghesia ed il proletariato" (45) . A queste considerazioni si aggiunge poi un nuovo motivo che va segnalato perché apre un nuovo problema accanto a quel- 219 li finora impostati. Infatti, se da un lato si insiste sulla funzione subordinata degli strati intermedi, dall'altro si osserva che in realtà la borghesia non detiene direttamente nelle proprie mani il potere e che è costretta a porre l'effettivo esercizio del potere (l'esercito, la burocrazia inferiore, ecc.) nelle mani dei piccolo borghesi, dei contadini, degli appartenenti alle nazioni oppresse, ecc. Ora, se a causa della crisi si muta la condizione economica di questi strati, se viene scosso l'ap­pog­gio in­genuo e irriflesso che essi danno al sistema sociale guidato dalla borghesia, il suo intero apparato di dominio può crollare, per così dire, di colpo: il proletariato può presentarsi come vinci­tore, come unico potere organizzato sen­za aver neppure ingag­giato una battaglia vera e propria, e quindi a maggior ragione senza averla vinta" (46) . Ed in questo punto il discorso ritorna in realtà sulla situa­zione europea. Anche se non si può dire che in Lukács questa tesi sia esplicitamente enunciata, ma per cosi dire soltanto in­sinuata ed arrischiata, sembra che egli interpreti i fatti del 1918 e del 1919 in Germania ed in Ungheria più come un cedimento della struttura sociale di supporto degli strati intermedi che come risultato di un attacco e di una vittoria politica, sia pure provvisoria, di parte operaia. O almeno: a questa vittoria avrebbe contribuito in modo determinante questo cedimento. In questo senso l'osservazione secondo la quale furono circostanze favorevoli a mettere il potere nelle mani del proletariato in Germania ed in Ungheria nel 1918 e nel 1919 (47) . 220 10 febbraio 1968 1 marzo 1968 221 Roma, 4 marzo 1968 Milano, 27 marzo 1968 222 24 marzo 1968 31 marzo 1968 3 223 Le linee del discorso che si sviluppano nel saggio sulla reificazione sono molteplici e avviluppate fra loro in modo molto com­plesso. È comprensibile perciò che alcuni aspetti siano stati sottolineati più di altri, oppure che essi siano stati isolati ed abbiano assunto un significato esemplare indipendentemente dalle loro implicazioni nel complesso del discorso lu­kacsiano. Ciò è del resto anche una conseguenza dello stile di Storia e coscienza di classe: uno stile in realtà episodico, fatto di geniali approssimazioni o di spunti illuminanti, piuttosto che di una trattazione che proceda secondo uno sviluppo di progressivo approfondimento. L'omogeneità e la coerenza ven­­gono spesso ottenute attraverso una schematizzazione a cui va riconosciuto il carattere di una semplificazione eccessiva. Si può pensare, ad esempio, al tentativo, compiuto nella seconda parte del saggio sulla reificazione, di ridurre lo sviluppo del pensiero filosofico moderno ad un filo conduttore unitario che ripropone costantemente, in forma nuova, alcuni proble­mi di fondo che debbono presentarsi al pensiero borghese co­me antinomie insolubili. Un'analisi più dettagliata di ogni singola presa di posizione può dar luogo a numerose difficoltà; ciononostante, adeguandosi ad un taglio di discorso che ha appunto di mira i caratteri tipici, i punti nodali, piuttosto che gli aspetti e le pieghe piú complesse dello sviluppo, numerosi sono i momenti significativi che vengono posti in rilievo. Cosi la critica diretta ad una metodologia empiristico-po­ sitivistica, ad un modello di scientificità che si presenta co­me alternativo alla comprensione dialettica nell'oppor­tunismo di origine bernsteiniana, passa attraverso l'indica­zio­ne che determinate assunzioni fondamentali di metodo all'in­ter­no del­la scienza sono intrinsecamente adeguate al senso del processo sociale: "Ciò che colpisce a prima vista in un metodo di questo genere è 224 il fatto che lo stesso sviluppo capitalistico tende a produrre una struttura della società che asseconda ampiamente una simile impostazione di pensiero. Ma proprio a questo punto e proprio per questa ragione abbiamo bisogno del metodo dialettico per non soggiacere all'appa­ren­za sociale che così si produce, per poter cogliere ancora l'essenza dietro questa apparenza. I fatti 'puri' delle scienze della natura sorgono, cioè, trasponendo realmente o idealmente un certo fenomeno della vita in circostanze nelle quali i suoi caratteri conformi a legge possono essere indagati a fondo senza l'in­tervento perturbatore di altri fenomeni. Questo processo si estende ancora piú nel momento in cui i fenomeni vengono ridotti alla loro essenza puramente quantitativa, espressa in numeri e in rapporti numerici. Ora, gli opportunisti trascurano costantemente il fatto che è proprio dell'essenza del capitalismo il produrre i fenomeni in questa forma" (48) . Lo stesso orientamento si fa valere nella critica dell'as­sun­ zione della matematica come "ideale della scientificità", come modello a cui ogni scienza autentica deve aspirare. È vero che in Lukács "matematizzazione" significa sempree soltanto "quantificazione", ed un'analisi interna di questo proble­ma richiederebbe determinazioni concettuali più sottili. E tuttavia l'impostazione lukacsiana non perde per questo tutta la sua portata. Alla sua base vi è un compito reale, per quanto possa essere discussa la sua esecuzione: il compito di portare a realizzazione l'idea marxiana della critica dell'ideologia. La tendenza alla matematizzazione viene allora considerata da questo punto di vista, come una tendenza che si afferma progres­sivamente all'interno della scienza e che è partecipe della sua storicità. Vi deve essere una coerenza interna tra l'assun­zione di questo ideale e lo sviluppo capitalistico: "Non è affatto casuale che fin dall'inizio del moderno sviluppo filosofico la 'matematica universale' si presenti come ideale della conoscenza: come tentativo di creare un sistema razionale capace di abbracciare le possibilità formali, tutte le proporzioni e le relazioni di un'esistenza razionalizzata, con il cui 225 aiuto, ogni manifestazione possa essere oggetto di calcolo esatto, indipendentemente dalle differenze di natura concretamente materiale" (49) . La questione della matematizzazione si salda cosi con l'horror pleni, con l'enigma della cosa in sé di Kant che appare, nell'interpretazione lukacsiana, come annuncio all'in­so­ lu­bilità del problema della materia e degli aspetti qualitativi per un pensiero che è stato socialmente motivato a porsi sulla viadel vuoto della forma. Sarebbe ingenuo interpretare questa impostazione del discorso lukacsiano come un rifiuto puro e semplice della linea principale di sviluppo della scienza moderna, ed anche come una critica del pensiero scientifico considerato come momento interno della "cultura" borghese. Met­tere in chiaro i nessi che connettono fra loro gli atteggiamenti e i problemi operanti nelle diverse discipline scientifiche e filosofiche, ritrovando poi un punto in cui questi nessi confluiscono e che rimandano con chiarezza alla struttura della società, significa scoprire i modi di un esercizio concreto del momento ideologico che si cela nell'accumu­la­zione del pa­trimonio scientifico. Così come la critica del capitalismo non è un'apologia dell'età feudale, la critica della "quantificazione" come principio normativo delle scienze nella società borghese non può ricondurre alla scienza qualitativa pregalileiana. Basterà notare come Lukács affronta il problema dello specialismo: egli rifiuta la sua critica ingenua che assume forma di accusa e che non riconosce la sua necessità storica. E dopo aver respinto questa impostazione superficiale del problema, lo ripresenta nella sua forma effettiva: nella specializzazione si manifesta una forma del lavoro scientifico che è connessa all'idea della scienza che ha la sua base reale nello sviluppo capitalistico. Poiché "quanto piú una scienza moderna si sviluppa, raggiungendo una maggiore chiarezza metodologica su se stessa, tanto piú decisamente si distoglie dai problemi d'essere della sua sfera, estromettendoli dal campo di in­tel­ligibilità che essa ha elaborato. Man mano che essa si e­vol­ve diventando sempre più scientifica, essa si trasforma in un sistema formal 226 6 aprile 1968 7 aprile 1968 8 aprile 1968 227 mente completo di leggi speciali parziali, per il quale il mondo che si trova al di fuori del suo campo ed anche, in primo luogo, la materia che essa ha il compito di conoscere, il suo autentico, concreto sostrato di realtà diventa inafferrabile sia per ragioni di metodo che di principio" (50) . La scienza economica rappresenta ancora una volta l'e­ sempio piú ricco di significato, anche se si intendono le indicazioni lukacsiane piú come problemi che come soluzioni. Anzitutto perché la tendenza alla razionalizzazione completa, che è per Lukács una tendenza al completo svuotamento dei contenuti materiali che si ripresenta non solo nei prodotti scientifici ma anche in ogni manifestazione di vita del capitalismo, arriva qui a toccare la sua radice. "Il valore d'uso come valore d'uso esula dal campo di osservazione dell'economia politica", aveva scritto Marx - e questa affermazione viene ripresa e potenziata da Lukács che intende mostrare come sia questa la matrice da cui ha origine la conversione di ogni rapporto in un rapporto "formale". Per l'economia politica ciò rappresenta un preciso limite scientifico, dal momento che quando il problema del sostrato materiale, degli aspetti qualitativi della merce si ripresenta, come nel caso delle crisi, come un fattore determinante, questa e­mer­genza appare e deve apparire al pensiero economico borghese come una emergenza irrazionale. "L'essere qualitativo delle 'cose' che conduce la propria vita extraeconomica come una cosa in sé, incomprensibile e rimossa come valore d'uso, che si pensa di poter trascurare in tutta tranquillità durante il normale funzionamento delle leggi economiche, nelle crisi diventa improvvisamente (per il pensiero razionale, reificato) il fattore decisivo. O, per meglio dire: i suoi effetti si manifestano nell'arresto del funzionamento di queste leggi, senza che l'intelletto reificato sia in condizione di scorgere un senso qual­siasi in questo 'caos'. E questo fallimento non interessa soltanto l'economia classica, che riuscì a cogliere nelle crisi soltanto perturbazioni provvisorie, accidentali, ma l'econo- 228 mia borghese nel suo complesso. L'inintelligilità della crisi, la sua irrazionalità è certamente, in rapporto ai contenuti, una conseguenza della situazione e degli interessi di classe della borghesia, e tuttavia è anche una necessaria conseguenza del suo metodo economico" (51) . La ricchezza di significato di questo esempio sta appunto nel fatto che, sulla sua base, è possibile non solo cogliere "la stretta interazione tra una certa metodologia scientifica che scaturisce dall'essere sociale di una classe... e lo stesso essere di classe" (52) , ma anche come tutto ciò rappresenti un preciso limite nell'ordine della conoscenza, della comprensione scientifica. Ma la centralità che la scienza economica occupa di fatto nell'organizzazione del sapere nel capitalismo, dà a questo esempio una portata ancora più vasta. Nella struttura della merce, caratterizzata anzitutto dall'astrazione operata sul valore d'uso e nello stesso tempo sulla forza lavoro come produttrice di valore d'uso, va riconosciuta la struttura di fondo che si ritrova non in quanto tale, ma analogicamente rispecchiata ai vari livelli della vita sociale. 11 maggio 1968 229 11 aprile 1968 12 aprile 1968 14 aprile 1968 230 4 Una rilettura di Lukács oggi deve cercare di ritrovare la tematica di Storia e coscienza di classe da un lato riconoscendo le sue motivazioni storiche, dall'altro liberandola da quei significati che su di essa sono stati costruiti. La linea del discorso di Lukács che, come abbiamo visto, va ampiamente discussa e sot­toposta a critica, è in ogni caso solidamente radicata in un problema di prassi politica e di elaborazione teorica nell'am­bi­to del marxismo e non può quindi essere tradotta nei termini di una descrizione "sociologica" della "società industriale". È nel capitalismo che la forma di merce diventa la forma del rapporto di lavoro e che si trova alla base, secondo Lukács, della dialettica della soggettività e dell'oggettivazione operaia. In questa "trasformazione dell'operaio in puro esemplice oggetto della produzione" (53) si radicano i fenomeni specificamente capitalistici della disumanizzazione, i fenomeni cioè che risultano dal passo ulteriore, di cui il mercato del lavoro ed il contratto non è che il presupposto: l'effettivo funzionamento di quella merce che è l'operaio stesso nell'ingranaggio della produzione capitalistica. L'oggettivazione che qui si realizza, per la quale egli partecipa come oggetto ad un processo in cui è "inserito come un numero puramente ridotto ad astratta quantità, come uno strumento accessorio meccanizzato e razionalizzato" (54) produce effetti disumanizzanti: ma la critica della disumanizzazione deve arrivare alle cause. Restando intatta la struttura capitalistica del lavoro sfruttato, l'umanizzazione delle condizioni di lavoro non è possibile in altro modo se non come una "umanizzazione" ancora una volta subordinata ai criteri del­l'efficienza, e quindi come potenziamento dello sfruttamento e come incremento della reificazione. Questo carattere di merce, in rapporto all'operaio, oltre che la sua localizzazione all'interno della produzione e la sua as­ 231 sociazione obiettiva come membro della classe, determina anche la natura specifica ed il metodo della sua lotta. Essa non può cominciare in un punto qualsiasi. La rivoluzione operaia non ha inizio dal­l'idea della rivoluzione. Il "limite economico" della lotta operaia è il suo fondamento reale. Questa lotta deve avere inizio dalla merce: dalla contrattazione del suo prez­zo. Certo, il momento decisivo sta nel fatto che essa oltrepassi gli obiettivi del miglioramento del prezzo della forza lavoro e delle condizioni dello sfruttamento nel­l'unico senso oggettivamente possibile: nel senso della soppressione del mer­cato del lavoro e dello sfruttamento, nel senso della soppres­sione simultanea del lavoro salariato e del capitale. 13 maggio 1968 15 maggio 1968 232 17 maggio 1968 23 maggio 1968 233 In Lukács, come abbiamo già accennato, questi due momenti hanno un aspetto essenziale di mediazione. Affinché questo rapporto economico esprima tutto il proprio potenziale di antagonismo politico, è decisivo per Lukács l'acquisi­zione di parte operaia della propria specifica coscienza diclasse. È singolare tuttavia che, in questa concezione, classe operaia e capitale vengano considerati in una reciproca separazione proprio nel punto della crisi. La crisi è, secondo Lukács, "un prodotto automatico secondo legge dello sviluppo capitalistico" (55) , e ciò viene riconosciuto anche sulla base dei limiti restrittivi imposti all'"automatismo" dall'acquisi­zione della natura socioeconomica del processo. La crisi si trasforma perciò in crisi rivoluzionaria, decisiva per le sorti del capitalismo, solo se "alla semplice contraddizione" si aggiunge la "coscienza del proletariato che si trasforma in azione" (56) . Per questo motivo, in questo punto, e solo in questo punto, la classe operaia appare come soggetto reale della produzione. Per questo motivo, quell'inizio della lotta dalla merce non appare in Lukács come un momento attivo, ma puramente passivo, co­me azione di resistenza e di freno, non come attacco permanente che condiziona attivamente lo sviluppo del capitale (57) . In questa prospettiva, la lotta economica della classe operaia appare come del tutto interna all'oggettivazione capitalistica. Certamente in Lukács viene sempre sottolineato il significato politico, come significato "implicito" della lotta economica. La traduzione della lotta economica in lotta per il potere non rappresenta una conversione di un certo tipo di lotta in una lotta di tutt'altra natura, ma una realizzazione del senso di ogni lotta economica operaia. Ed ogni sciopero economico che non possa essere completamente controllato e previsto nei suoi obiettivi è una minaccia politica, e come tale viene sentita dai gestori del capitale. Per questo Lukács riprende e sottolinea una tesi del III Congresso del Comintern nella quale si legge che "ogni sciopero di grandi dimensioni tende a convertirsi in guerra civile e in lotta 234 diretta per il potere" (58) . All'interno di questo quadro, il non realizzarsi di questa tendenza verrà da Lukács essenzialmente riferita alle strutture della rei­ficazione che sono operanti anche a livello operaio e che impediscono l'acquisizione di quella coscienza di classe che è attribuibile in linea di diritto alla classe operaia e che de­ve fungere come a "punto di passaggio per la praxis" (59) , portando il movimento spontaneo sino all'organizzazione rivoluzionaria. In questo senso si parla in Lukács di imborghesimento relativo della classe operaia, ed è questo il punto, il nodo di interpretazione politica in cui sfocia la tesi di base che rende possibile il discorso lukacsiano sulla reificazione: "Il proletariato condivide con la borghesia la reificazione di tutte le sue manifestazioni di vita" (60) . Questa posizione assume un senso completamente diverso se la si astrae dal problema della rivoluzione europea da cui esso ha origine e se lo si isola rispetto al duplice problema della critica del riformismo da un lato e della costruzione del partito rivoluzionario dall'altro. Si può sottolineare come sintomatico il fatto che Storia e coscienza di classe sia in realtà priva di una analisi effettiva dei rapporti di classe e del livello di sviluppo del capitalismo nell'immediato dopoguerra; e questa assenza rappresenta uno dei suoi limiti specifici. Ma non si può non riconoscere che vincolare le difficoltà del movimento rivoluzionario in Europa essenzialmente all'azione dell'ideologia sulla classe rappresentava per Lukács un modo di mantenere aperto, sia pure nelle incertezze dell'ora, il problema della rivoluzione europea in concordanza con le sue posizioni politiche di quegli anni (61) . Di qui assume l'intero suo senso la connessione troppo poco sottolineata che Lukács istituisce tra il tema della reificazione e quello della possibilità del menscevismo. Lukács infatti rifiuta la tesi delle "aristocrazie operaie" come in grado di spiegare l'intero problema dell'affer­marsi del partito riformista. 235 25 maggio 1968 25 maggio 1968 26 maggio 1968 236 28 maggio 1968 31 maggio 1968 237 Funerali di Robert Kennedy 8 giugno 1968 Senza contestare la formazione di gruppi economicamente privilegiati al­l'in­terno della classe operaia, in particolare come conseguenza della politica coloniale, Lukács osserva che, inversamente, la perdita delle colonie non si ripercuote in modo sensibile sul­la posizione del riformismo, e in secondo luogo, se l'"im­bor­ghesimento" viene inteso oltre il piano dell'influenza ideo­logica, si finisce con il concedere troppo, se non tutto al riformismo stesso: in particolare si concede che non sussista una situazione oggettivamente rivoluzionaria, laddove manca invece soltanto, in questa situazione, l'elemento cosciente, "una chiara e permanente volontà di rivoluzione da parte del proletariato" (62) . Sulla base di questo limite della coscienza il partito "menscevico" sarà in grado di esercitare una propria specifica funzione capitalistica, una funzione cioè di mediazione ideologica con tutte le conseguenze pratiche che esso assume come propria responsabilità politica. Il partito riporta sulla classe le strutture della reificazione: la stra­tificazioni all'interno della classe operaia, fondate su differenze economiche che generano differen- 238 ze di interessi immediati e che peraltro, ribadisce Lukács, "non poggiano affatto su differenze oggettive in qualche modo analoghe a quelle che determinano sul piano oggettivo la separazione delle classi stesse" (63) , diventano il punto su cui far leva per approfondire il carattere "puramente economico" della lotta operaia. Pertanto i partiti menscevichi "lavorano coscientemente per mantenere i movimenti spontanei del pro­letariato (la loro dipendenza dall'occasione immediata, il loro frazionamento per professioni, paesi, ecc.) al livello della semplice spontaneità ed impediscono che essi si convertano in movimenti diretti verso l'intero, sia mediante la loro riunione territoriale, professionale, ecc., sia mediante l'unificazione del movimento economico con quello politico. Ed in questo caso ai sindacati spetta sempre più la funzione di atomizzare e spoliticizzare il movimento, occultando il suo rapporto con l'intero, mentre i partiti menscevichi adempiono sempre più la loro missione di fissare ideologicamente e organizzativamen­te la reificazione nella coscienza del proletariato mantenendolo al livello dell'imborghesimento relativo" (64) . Ed analogamente in rapporto alle differenze di coscienza che si possono creare sul piano dell'immediatezza all'interno della classe, l'opportunismo tenderà al "livellamento di queste strati­fic­ azioni di coscienza al grado più basso o, nel caso migliore, al grado medio" (65) . La critica del partito "menscevico" riceve così, all'inter­no del discorso di Lukács, nuovi motivi attinti al tema della reificazione che vengono articolati secondo la traccia teorica che attraversa l'in­tero volume. In questo quadro, l'insistenza sul problema della coscienza si muove tra i due poli del­l'ideo­logizzazione della classe, a cui è collegato il tema della coscienza immediata e della spontaneità, e la necessità del­l'orga­nizzazione politica, del partito. 239 27 giugno 1968 Annotazione Nella prefazione del 1967, Lukács definisce Storia e coscienza di classe come un'opera sorta "in un periodo di transizione e di crisi interiore" (p. XV). In effetti in essa si ripercuotono non solo le speranze, ma anche le incertezze delle tendenze di sinistra della Terza Internazionale. In questo senso Storia e coscienza di classe è un e­sem­pio di discussione marxista innestata in un punto critico della rivoluzione europea, in un punto di svolta che è anche fondamen­talmente un momento di incer­tezza. Il dibattito corrente, e i giudizi pronunciati da Lukács stesso sulla propria 240 opera, tendono a sottolineare l'"e­stremismo" di Storia e coscienza di classe, e non impor­ta qui che esso venga connesso a residui utopistici o a eccessi hegeliani. In realtà, il volume di Lukács rispecchia nel suo movimento interno, ed anche nelle sue oscillazioni di giudizio e nelle sue pre­se di posizione, gli sviluppi di una crisi che mette interamente in gioco, insieme all'assetto politico europeo, i rapporti tra classe e partito sul piano internazionale - una crisi che presenta nuovi problemi di interpretazione teorica alla riflessione marxista e che si apre su prospettive malsicure e non ancora definite. Vincolare il tema della reificazione a questo contesto è oggi tanto più necessario per il fatto che esso ha finito con l'essere ripreso in modo tale da cambiare completamente di segno. Mentre in Lukács esso doveva servire, da un lato, a mostrare le "basi" del menscevismo, dall'altro la sua debolezza interna, ed a ribadire la centralità della classe operaia nel processo rivo­luzionario, non richiamandosi a qualche sua essenza intrinseca (un'impostazione del problema che è sempre stata estranea al marxismo), ma alla sua posizione oggettiva nel pro­cesso di produzione, lo sviluppo di questo tema ha invece condotto a teorizzare la "decadenza" della classe operaia come classe ri­voluzionaria e la trasmigrazione dello "spirito della rivoluzio­ne ad altri gruppi sociali. A questo proposito va esplicitamente sottolineato che non vi è spazio in Lukács per una teoria dell'alienazione (ed integrazio­ne) operaia attraverso il consumo in nessuna delle varianti oggi in uso. Nulla è più istruttivo per mostrare la manipolazione teorica con la quale Marcuse arriva alle sue ben note conclusioni del modo in cui egli si serve di alcuni concetti lukacsiani per utiliz­zarli a proprio vantaggio. Ciò comporta, beninteso, anche significative prese di posizioni critiche. Si veda, ad e­sem­pio, L'uomo a una dimensione (Torino, Einaudi, 1967), p. 49: "Questi mutamenti nel carattere del lavoro e degli strumenti di produ­zione mutano l'atteggiamento e la coscienza del lavoratore, fatto che diventa manifesto nella tanto discussa 'integrazione sociale e culturale' della classe lavora- 241 trice entro la società capitali­stica. Si tratta di un mutamento che tocca solamente la coscien­za? La risposta affermativa, data con frequenza da parte mar­xista, sembra stranamente inconsisten­ te. Un mutamento così fondamentale nella coscienza è com­ prensibile ove non si assu­ma un mutamento corrispondente nell''essere sociale'? Pur ammettendo un alto grado di indipendenza dell'ideologia, i le­gami che connettono detto mutamento alla trasformazione del processo produttivo depongono contro un'interpretazione del genere. L'eli­mi­nazione del­le differenze nei bisogni. e nelle aspirazioni, nel tenore di vita, nelle attività del tempo libero, nella sfera politica, deriva da un'integrazione che si verifica nella fabbrica, nel processo materiale di produzione". Certamente, tra queste varianti si possono ricordare anche le tesi espresse da Sweezy e Baran, anche se va riconosciuta ad entrambi gli autori un ben diverso impegno teorico e politico. Nell'opera recentemente edita in italiano Il capitale monopo­listico (Torino, Einaudi, 1968) vi sono diversi sviluppi che possono essere ricondotti al tema della reificazione, anche se non compare nessun esplicito rimando a Lukács. Basterà ricordare a questo proposito i capitoli X e XI che concludono il volume. Attraverso l'illustrazione dell'irrazionalità intrinseca del "capitalismo monopolistico", gli autori ribadiscono la tesi della necessità del rovesciamento rivoluzionario. Tuttavia "la risposta della tradizionale ortodossia marxiana - che il proletariato industriale deve alla fine fare la rivoluzione contro i capitalisti suoi oppressori - non convince più. Gli operai del­l'industria sono una minoranza sempre più esigua della classe lavoratrice americana, e i loro nuclei organizzati nelle industrie di base sono in larga misura integrati nel sistema come consumatori e sono diventati membri ideologicamente condizionati dalla società" (p. 303). Questa tesi dell'inte­grazione at­traverso i consumi ha come suo diretto correlato una teoria della rivoluzione tendenzialmente sottoproletaria: il potenziale rivoluzionario è pensabile soltanto nelle "vittime preferite" del sistema, "i disoccupati e gli incollocabili, i lavo- 242 ratori agricoli emigrati, gli abitanti dei ghetti delle grandi città, gli studenti che non hanno finito le scuole, gli anziani che vivono con le misere pensioni di vecchiaia: in una parola gli esclusi, quelli che per il loro limitato potere d'acquisto sono incapaci di fruire delle soddisfazioni del consumo, quali che esse siano" (p. 304). E poiché questa rivoluzione della miseria si rivela in realtà priva di sbocchi effettivi ("ma questi gruppi, malgrado il loro numero impressionante, sono troppo eterogenei, troppo sparpagliati e frazionati per costituire una forza coerente nella società. E l'oligarchia, mediante sussidi ed elargizioni, sa come tenerli divisi e impedire che diventino un sottoproletariato di mise­rabili affamati" p. 304), essa deve trovare la propria forza propulsiva nei movimenti di liberazione nazionale. Gli aspetti propriamente teorici dello sviluppo capitalistico in Sweezy e Baran, nonostante l'interesse intrinseco della loro opera, sono obiettabili in modo sostanziale, e si rimanda per un avvio alla critica agli interventi intorno a questo volume di Myron E. Sharpe, Maurice Dobb, Joseph M. Gillman, Theodor Prager, Otto Nathan oltre che alla presentazione del volume di G. Mori, in "Critica Marxista", V, n. 6, nov.-dic. 1967. Si veda inoltre L. Ferrari Bravo, Neorevisionismo e capitale monopolistico, in "Contropiano", n. 1, 1968, Firenze, La Nuova Italia, pp. 183-194. Note 243 (1) G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1967, p. 107 (2) Ivi, p. 111. Cfr. p. 224: "È stato spesso sottolineato - e con una certa legittimità che il famoso capitolo della Lo­ gica hegeliana sull'essere, il non essere e il divenire contiene l'intera filosofia di Hegel. Si potrebbe dire, forse con la stessa legittimità, che il capitolo sul carat­tere di feticcio della merce cela in sé tutto il materialismo storico, l'in­tera autoconoscenza del proletariato come conoscenza della società capi­talistica (e delle società anteriori considerate come gradi rispetto ad essa)". (3) R . Luxemburg, Scritti politici, a cura di L. Basso, Milano, Editori Riuniti, 1967, pp. 283-368. (4) Ivi, p. 315. (5) Ivi, p. 326 e p. 329 (6) Ivi, p. 320 e p. 342. (7) G. Lukács, o p. cit., p. 57. (8) E. H . C a r r , La rivoluzione bolscevica, 1917-1922, Torino, Einau­di, 1967, pp. 958-959: "Il colpo sarebbe probabilmente riuscito se non fosse stato per uno sciopero generale indetto dai sindacati che impedì alla nuova autorità di consolidarsi e alla fine impose una restaurazione del vecchio governo. La Zentrale del KPD a Berlino, in un volantino diffuso il 13 marzo, si rifiutò intransigentemente 'di muovere un dito per la repubblica democratica .... Il giorno dopo, tuttavia, quando lo sciopero si rivelò un brillante successo e quando si vide che la gran massa del partito seguiva l'esempio dei loro compagni dei sindacati, la direzione del partito si affrettò a cambiare il suo atteggiamento in quello di un appoggio senza entusiasmo. Lo sciopero fu approvato; ma alle sezioni locali del KPD venne indirizzato un ammonimento contro 'le illusioni... circa il valore della democrazia borghese' e impartita la di­rettiva che 244 l'unica forma adatta d'azione comune da parte degli operai era l'istituzione di consigli di fabbrica e di consigli operai come organi politici. La raccomandazione, data con riluttanza, di appoggiare lo sciopero, venne attuata". Lukács accenna brevemente all'atteggiamento del partito comunista durante iI putsch di Kapp a p. 409. (9) Sulla posizione di Lukács in rapporto all'azione di marzo, cfr. op. c i t . , p p. XIII-XV. (10) A . Rosenberg, Storia della Repubblica tedesca, Roma, Ed. Leonar­do, 1945, pagg. 146-147: " Nel marzo 1921 sembrò offrirsi un'occasione di lotta.In seguito a piccoli conflitti clocali il governo prussiano inviò rinforzi di poliziai nella regione mineraria di Mansfeld, nella Germania centrale, sede allora di un proletariato particolarmente radicale e risoluto. I minatori considerarono l'intervento della polizia di stato come una provocazione e presero le armi... La centrale del KPD non aveva promossa la rivolta di Mansfeld... Tuttavia la direzione del partito credette di dover sostenere la rivolta degli operai di Mansfeld... La centrale del KPD invitò allo sciopero generale tutto il proletariato tedesco sperando di poter attrarre nel movimento anche gli operai socialdemocratici. L'attesa grande sollevazione del proletariato tedesco tuttavia mancò. Gli organizzati del KPD fecero tutti gli sforzi per eseguire le parole d'ordine della direzione del partito, ma la massa del proletariato rimase indifferente di fronte agli avvenimenti non vedendo in questo conflitto locale un motivo per sollearsi ed iniziare la lotta decisiva contro il capitalismo. Così lo sciopero generale fallì completamente". (11) Cit. da E. H. Carr, in La morte di Leniti, Torino, Einaudi, 1965, p. 155. (12) G. Lukács, op. cit., p. 367. (13) Ivi, p. 368. (14) Sulle "Ventun condizioni" per l'ammissione all'Internazionale Comunista discusse al suo secondo Congresso (1920), 245 v. E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica, trad. it., Einaudi, Torino 1964, pp. 978 sgg. (15) Ivi, p. 356. (16) Ivi, p. 357. (17) Ivi, p. 353 (18) Cfr. i v i , p. 344. (19) Cfr. p. 352. (20) Cfr. R. Luxemburg, op. cit., pp. 336-342. (21) G. Lukács, op. cit., p. 349. (22) Ivi. (23) Ivi, p. 344. (24) Ivi, p. 337. R. Luxemburg, op. cit., p. 575: " Il programma agrario proprio di Lenin, prima della rivoluzione era un altro. La pa­rola d'ordine adottata viene presa ai tanto disprezzati socialisti rivoluzionari, o, più esattamente, al movimento spontaneo dei contadini ". Lenin al II Congresso dei deputati degli operai e dei soldati del 25-26 ottobre 1917 (Decreto sulla terra): "Si sentono qui delle voci le quali affermano che il mandato e il decreto stesso sono stati elaborati dai socialisti rivoluzionari. Sia pure. Non è forse lo stesso che siano stati elaborati dagli uni o dagli altri? Come governo democratico noi non po­tremmo trascurare una decisione delle masse del popolo, anche se non fossimo d'accordo. All'atto pratico, con l'applicazione del decreto, con la sua attuazione nelle varie località, i contadini stessi comprenderanno dov'è la verità. E anche se i contadini continueranno a seguire i socialisti rivoluzionari, e anche se essi daranno nell'Assemblea Costituente la mag­gioranza a questo partito, noi diremo anche qui : non importa. La vita è la migliore maestra e mostrerà chi ha ragione, anche se i contadini partiranno da un estremo e noi da un altro per risolvere questa que­stione. La vita ci obbligherà a riavvicinarci nel torrente della creazione rivoluzionaria, nell'elaborazione delle nuove forme statali. Noi dobbiamo seguire la vita, dobbiamo concedere piena libertà alla forza creativa delle masse popolari " (Lenin, La rivoluzione di ottobre, Roma, 246 Ed. Rinascita, 1956, p. 373). (25) G. Lukács, op. cit., p. 338. (26) Ivi, p. 59. (27) Ivi, p. 72. (28) Ivi, p. 81. Cfr. p. 119: "Per la prima volta nella storia l'in­tera società, almeno tendenzialmente, è sottoposta ad un processo eco­nomico unitario ed il destino di tutti i membri della società viene mosso da leggi unitarie. (Le unità organiche delle società precapitalistiche hanno invece compiuto il loro ricambio organico in un rapporto di reciproca indipendenza)". Ed anche, p. 286: " Nella società precapitalistica, i momenti singoli del processo economico (ad es. il capitale d'interesse e la stessa produzione di beni) si mantengono in una separazione reciproca del tutto astratta, che non ammette né un'interazione immediata né un'interazione che sia rilevabile da parte della coscienza sociale... Nel capi­talismo, invece, tutti i momenti della struttura della società si trovano l'uno con l'altro in un'interazione dialettica. La loro apparente autono­mia reciproca, il loro convogliarsi in sistemi autonomi, la parvenza feticistica dell'autonomia delle loro leggi - come aspetto necessario del ca­pitalismo dal punto di vista della borghesia - è il punto di passaggio necessario verso la loro conoscenza giusta e piena. Soltanto attraverso una reale e radicale reinterpretazione di queste tendenze all'autonomia, di cui indubbiamente non era capace la stessa scienza borghese nei suoi tempi migliori, è possibile comprenderle nella loro reciproca dipendenza, nel loro coordinamento a subordinazione alla totalità della struttura eco­nomica della società". (29) Ivi, p. XXI. (30) Ivi, p. 35. (31) Cfr. ivi, p. 284 e p. 287. (32) Ivi, p. 77. (33) Ivi. (34) Ivi, p. 83. (35) Ivi, p. 84. 247 (36) Su questa via procedono le ricerche di M. Tronti, in Operai e ca­pitale, Torino, Einaudi, 1966. (37) G. Lukács, op.cit., p. 88 (38) Ivi, p. 379. (39) Ivi, p. 377. (40) Ivi, pp. 303-304. Le parti poste tra virgolette, all'interno della citazione, sono riprese da Marx. (41) Cfr. pagg. 228-231. Cfr. p. 97. (42) Cfr. p. 97. (43) Ivi, p. 68. (44) Ivi, p. 77. Cfr, anche pp. 78-79. (45) Ivi, p. 379. (46) Ivi. (47) Ivi, p. 384. (48) Ivi, p. 8. (49) Ivi, p. 469. (50) Ivi, p. 135. (51) Ivi, p. 137. (52) Ivi, p. 136. Cfr. anche p. 216. (53) Ivi, p. 221. (54) Ivi, p. 279. (55) Ivi, p. 234. (56) Ivi. (57) M. Tronti, op. cit., pp. 209-210: "È Marx che ha usato i termini di Angriffskraft (forza d'attacco) della classe operaia e Widerstandskraft (forza di resistenza) del capitale (cfr. Werke, 26, p. 313). Bisogna rimet­tere in circolazione questi termini nella lotta di oggi. Perché in essi è contenuto quel rovesciamento strategico che solo una volta, dopo Marx, nella pratica è stato tentato e che, dopo Lenin, sia nella teoria che nella pratica, è stato archiviato. Per arrivare a dimostrare come esso può di nuovo funzionare nelle forme della lotta, occorre portare più avanti il processo di ricostruzione dei movimenti oggettivi delle forze che si tro­vano 248 a lottare. Abbiamo intanto acquisito un punto, che qualcuno è anche disposto ad ammettere nel principio, ma che nessuno è disposto a considerare nelle sue conseguenze: prima il lavoratore libero e povero e quindi il proletariato come 'partito della distruzione', poi la merce forzalavoro e quindi l'operaio singolo come produttore in potenza, infine la forza sociale del lavoro produttivo in atto e quindi la classe operaia nel processo di produzione - sono a volta a volta, concettualmente e storicamente (begriflich und geschichtlich), l'elemento dinamico vero e proprio del capitale, la causa prima dello sviluppo, capitalistico". (58) G. Lukács, op. cit., p. 382. (59) Ivi, p. 234 (60) Ivi, p. 198. (61) D'altra parte è caratteristico che introducendo il concetto di crisi ideologica del proletariato per indicare che "il comportamento del prole­tariato, la sua reazione alla crisi, resta quanto a violenza e intensità molto al di sotto della crisi stessa (p. 375), Lukács si affretti a precisare in nota che tale concezione non è una "conseguenza del cosiddetto lento sviluppo della rivoluzione": cioè, nella sostanza, il frutto di un pessi­mismo direttamente derivante dal fallimento del partito nell'azione di marzo. (62) Ivi, p. 376. (63) Ivi, p. 398. (64) Ivi, pp. 382-383. Cfr. anche p. 399. (65) Ivi, p. 402. Cfr. p. 98: "La teoria dell'opportunismo, che fino alla crisi acuta ha avuto in apparenza una funzione di puro freno dello sviluppo oggettivo, si converte ora in una tendenza ad esso direttamente opposta. Essa cerca di impedire che la coscienza proletaria di classe ab­bandonando la propria datità meramente psicologica, progredisca fino al punto di adeguarsi allo sviluppo oggettivo nel suo complesso, di repri­mere la coscienza di classe del proletariato a livello della sua datità psico­logica, imprimendo così una direzione opposta al movimento della co­scienza di classe che ha avuto fino a questo punto un carattere puramente istintivo". 249 Sulla nozione di analogia strutturale in "Storia e coscienza di classe" Pubblicato in "Aut Aut", n. 107, pp. 101-103, 1968 Vorrei soffermarmi brevemente sulla nozione di analogia strutturale a cui Lukács, in Storia e coscienza di classe, fa riferimento nel momento in cui affronta il tema generale della reificazione nella società capitalistica. Va notato, anzitutto, che l'uso del termine struttura si richiama qui ad un ambito problematico nettamente diverso da quello del discorso tradizionale orientato nel senso dell'opposizione struttura-sovrastruttura. Ciò appare immediatamente chiaro dallo sviluppo del discorso di Lukács e non richiede particolari spiegazioni. Tale termine intende invece mettere l'accento sul fatto che, in una società che ha la forma della totalità, come è appunto la società capitalistica, è rilevabile nelle più diverse manifestazioni della vita sociale una identità di struttura. O più precisamente: le manifestazioni di vita nel capitalismo, anche quando riguardano campi nettamente distinti di attività e quindi sono, da questo punto di vista, chiaramente differenziate, si rivelano strutturalmente analoghe. Una simile impostazione non si regge soltanto sull'indicazione della struttura della merce come base ed origine di questa analogia, ma nello stesso tempo sul fatto che tale struttura non è definita dallo scambio, ma dalla produzione: la generalizzazione dello scambio non è che la forma in cui si manifesta una modificazione storica qualitativamente decisiva del modo di produzione, e quindi del rapporto tra produttore e prodotto. L'espansione della struttura di merce all'intera società è possibile nella misura in cui il tessuto sociale acquista quella coerenza interna che consente l'istituzione di un rapporto " dialettico". E nello stesso tempo: la vita socio-economica può assumere questa coerenza interna solo nel 250 momento in cui il lavoro diventa lavoro salariato, lavoro operaio. Per questa ragione, nel saggio La reificazione e la coscienza del proletariato, il problema della forma di merce (trad. it., Milano 1967, pp. 108-111) trapassa coerentemente in quello della forza-lavoro (pp. 112 sgg.) e nella fabbrica viene indicata la sede in cui si manifesta in modo concentrato, ma anche in modo diretto, non analogico, " la struttura dell'intera società capitalistica " (p. 117). Ci basti qui far riferimento ad uno solo degli aspetti di questo problema: la passività dell'operaio di fronte alla macchina, la sua riduzione reale ad una funzione di osservazione e di controllo privo di partecipazione. Né dal punto di vista oggettivo, né da quello del rapporto tra l'uomo e il processo lavorativo - scrive Lukács - l'uomo stesso si presenta come l'autentico tramite di questo processo: egli viene invece inserito come una parte meccanizzata in un sistema meccanico, un sistema che egli trova bell'e pronto di fronte a sé e che funziona in piena indipendenza da lui secondo leggi alle quali egli si deve adeguare senza far intervenire la propria volontà. Questa assenza del volere viene accentuata dal fatto che, con la crescente razionalizzazione e meccanizzazione del processo lavorativo, l'attività del lavoratore perde sempre più il suo carattere di attività, trasformandosi in un comportamento contemplativo (pp. 115-116). Su questa situazione di fondo è basata l'asserzione, piu volte ribadita da Lukács, della natura contemplativa del soggetto nel capitalismo, un'asserzione che va intesa correttamente secondo il punto di vista espresso dalla nozione di analogia strutturale: "L'essenza del calcolo razionale poggia, in ultima analisi, sul fatto che il decorso di determinati eventi viene conosciuto e calcolato secondo leggi necessarie ed indipendenti dall' "arbitrio" individuale. Il comportamento dell'uomo si esaurisce quindi nel corretto calcolo delle occasioni di questo decorso (le " leggi " del quale egli trova "pronte " di fronte a sé), nell'evitare abilmente gli " elementi accidentali " di disturbo mediante l'uso di appositi strumenti protettivi e provvedimenti difensivi (che dipendono anch'essi dalla conoscenza 251 e dall'applicazione di "leggi" analoghe). Quanto più questa situazione viene approfondita indipendentemente dalle leggende borghesi sulla "creatività" elaborate dagli esponenti dell'epoca capitalistica, tanto più chiaramente viene in primo piano l'analogia strutturale di ogni comportamento di questo genere con il comportamento dell'operaio di fronte alla macchina, di cui si trova al servizio e che egli osserva, controllandone contemplativamente il funzionamento. Si può riconoscere un elemento "creativo" soltanto nella misura in cui l'applicazione delle "leggi" ha una relativa autonomia oppure è puramente al servizio di qualcosa:· cioè, nella misura in cui viene represso l'atteggiamento puramente contemplativo. Ma la differenza che sussiste così tra l'operaio di fronte alla singola macchina, l'imprenditore di fronte ad un certo tipo di evoluzione delle macchine, il tecnico di fronte allo stato della scienza ed alla redditività della sua applicazione tecnica, è una differenza di grado, puramente quantitativa, e non direttamente una differenza qualitativa nella struttura della coscienza " (pagg. 127-128). In realtà, quando Lukács, al termine del saggio Considerazioni metodologiche sulla questione dell'organizzazione, critica la tendenza alla formazione di una gerarchia di funzionari che ha come conseguenza la trasformazione dei membri del partito "in semplici routiniers, in meccanici esecutori delle loro occupazioni", che hanno " una funzione di semplici spettatori delle azioni della gerarchia " (cfr. pagg. 415-416), egli fa ancora leva sulla nozione di analogia strutturale quando scrive che "nel caso della burocrazia si ha un adattamento del modo di vita e di lavoro, e correlativamente della coscienza, ai presupposti economico-sociali generali dell'economia capitalistica, analogo a quello che abbiamo notato nel caso degli operai della singola azienda" (p. 128). In questo modo può vincolare il fenomeno della burocratizzazione alle sue radici capitalistiche, respingendo la sua interpretazione come degenerazione priva di un'origine e quindi di una spiegazione. 252 253 "Storia e coscienza di classe": Dal tempo della scrittura ai tempi della lettura 2014 254 I. 255 Nel momento in cui ci si accinge oggi a riprendere nelle mani Storia e coscienza di classe, il pensiero corre subito a quella che è certamente una ovvietà per ogni libro: con il variare del tempo della lettura rispetto al tempo della scrittura, il modo in cui il testo è stato letto una volta tende ora, nella rilettura, a mutare, ad arricchirsi o ad impoverirsi. Questa ovvietà potrebbe essere perfezionata ed io ho la sensazione che si possano cogliere significative differenze secondo il "genere" del testo che viene preso in considerazione. Voglio dire che forse il divario è minore per la poesia e la narrativa, anche se le differenze della forma letteraria e dello stile nonché dei contenuti trattati possono essere rilevantissime. Nonostante queste differenze, credo che il lettore riesca, anche a molta distanza di tempo, a reimpossessarsi con relativa facilità del "tempo della scrittura" e dunque a rivivere il contenuto del testo riportandolo dentro il tempo della lettura. Qualcosa di simile vale forse anche per i libri di filosofia, naturalmente quando non si assuma obbligatoriamente un atteggiamento di ricostruzione storica e filologica; può sembrarci allora di aver di fronte l'autore di un tempo lontano che espone proprio ora i suoi argomenti proponendoli al tuo giudizio di lettore: molto spesso senza rimandi particolarmente impegnativi al suo tempo storico. Naturalmente questi rimandi non possono non esserci ed anche possono essere particolarmente importanti, ma la loro temporanea messa da parte non turba la struttura dell'argomentazione e la discussione in corso. Naturalmente non intendo impegnarmi più di tanto su un terreno così arrischiato, non voglio nemmeno suggerire un discorso di troppe pretese, ma mi sembra che queste osservazioni servano a richiamare un punto che ha invece una notevole importanza. Quanto più l'opera filosofica morde nella storia tanto più diventa significativo il divario tra il tempo della lettura e il tempo della scrittura. Ciò significa molto semplicemente che l'opera di- 256 venta sempre più rischiosamente inattuale. Ora, vi sono poche opere filosofiche nel Novecento che mordono nella storia quanto fa questo grande libro di Lukács. Un libro di filosofia, beninteso - ma nel quale il dramma e i rivolgimenti sociali della sua epoca penetrano con la forza che non può essere posseduta né dallo storico né dal filosofo, ma che proviene dal fatto che l'autore del testo è un protagonista attivo del cammino di cui i saggi che lo compongono segnano i passi. Storia e coscienza di classe, a mio avviso, deve essere intanto letta così: accentuando questa presenza viva dell'autore dentro il libro, in modo da percepire con altrettanta vivacità i dibattiti, le azioni, i protagonisti di quei dibattiti e di quelle azioni: quindi non come un normale libro di storia e nemmeno come un normale libro di filosofia. In ultima analisi oserei dire che questioni come la quantità di hegelismo in esso contenuta, che poi si allargò alla quantità di hegelismo contenuta nello stesso Marx, sono relativamente poco interessanti rispetto alla portata filosofica, politica e culturale di cui quest'opera è portatrice ed al felice intreccio tra questi diversi momenti che Lukács riesce a realizzare. Per assumere questa angolatura credo tuttavia che sia assolutamente necessario portare alla nostra presenza la speranza e la tragedia e la disperazione di un'epoca, i suoi entusiasmi, i suoi miti. La speranza era la prima rivoluzione comunista della storia - con l'incongruenza e la difficoltà teorica del fatto che la rivoluzione preconizzata da Marx non era avvenuta nell'Inghilterra e nell'Europa industrializzata, ma nella Russia contadina; la speranza era ancora nella possibilità che il movimento russo stimolasse un movimento di dimensioni anche maggiori in Europa, portando al "crollo del capitalismo" secondo un mito a cui Lukács presta ancora fede; la tragedia fu il fatto che alcuni successi che potevano fare intravedere il realizzarsi di quel mito, come l'esperienza della Repubblica Ungherese dei Consigli, a cui 257 lo stesso Lukács partecipò in posizione di grande responsabilità essendo membro del governo di Bela Kun come commissario del popolo dell'istruzione e commissario politico della quinta divisione rossa, durò pochi mesi, dal marzo all'agosto del 1919. Lo stesso anno è drammaticamente segnato dal fallimento della "rivoluzione di gennaio" in Germania e dall'assassinio di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht. Due anni dopo, nel 1921, il fallimento dell'Azione di Marzo in Germania non solo chiuse ogni speranza nella rivoluzione tedesca, ma dimostrò quanto grandi fossero i conflitti interni della sinistra intorno alla strategia della rivoluzione europea e lo scollamento tra le masse e le loro organizzazioni politiche. Val forse la pena di rileggere in questo contesto la narrazione dello svolgimento dell'Azione di Marzo dettagliatamente descritta da Enzo Rutigliano (Rutigliano, 1974). Storia e coscienza di classe nasce esattamente nel fuoco di questi eventi storici ed anzitutto dalla necessità di rendere conto di essi sul piano teorico-politico. In essi venivano in chiaro drastiche alternative all'interno del movimento operaio, ed anzitutto la sempre più netta separazione dei partiti comunisti e la socialdemocrazia - e queste alternative richiedevano che il marxismo stesso ed i suoi concetti base venissero ripensati, ridiscussi, rielaborati. È questo che intende fare Lukács, ad un tempo con l'esperienza politica che andava facendosi in quegli anni e con la sua grande cultura filosofica. Vedere solo la seconda, senza collegarla con la prima è un errore che si è continuato a fare fino a tempi relativamente recenti. Ad esempio, Giuseppe Bedeschi, ricollegandosi del resto alla Prefazione scritta dallo stesso Lukács per la traduzione italiana nel 1967, scrive che "in realtà quello che Lukács si propone è una riscoperta del metodo di Marx al di là degli equivoci e dei fraintendimenti del marxismo della Seconda Internazionale"(Bedeschi, 1970, p. 23). Si tratterebbe dunque di questioni meramente teoriche, di equivoci e di fraintendimenti da correggere, tanto più che nello stesso testo non si fa nemmeno un rapido cenno al momento storico ed al 258 fatti che quegli equivoci e di quei fraintendimenti colavano di sangue. Ma, come ho già notato, il dibattito su queste questioni cruciali divampava anche all'interno dei partiti comunisti. Non si trattava solo dei "fraintendimenti" della Seconda internazionale, ma di decidere come orientare la lotta di classe nel futuro dopo le esperienze di quegli anni. Questo aspetto veniva certamente subito colto dal lettore di allora. Si doveva "afferrare l'anello più vicino della catena" - secondo la frase di Lenin, oppure affidarsi a presunte dinamiche oggettive interne che avrebbero portato il capitalismo alla sua dissoluzione? Ci si doveva affidare all'istinto delle masse, appoggiando le loro decisioni, oppure accentuare il momento della direzione politica del partito? Si doveva ritenere che la classe fosse obbiettivamente unificata da una effettiva coscienza di classe prodotta dalla stessa sua posizione nella totalità della società, oppure si poteva parlare soltanto, tenendo conto di questa posizione, di una "coscienza di classe attribuita in linea di diritto", secondo la frase più volte ribadita da Lukács che in realtà tende evidentemente a rendere l'idea stessa di "coscienza di classe" un concetto teorico distinto dalla coscienza psicologica del singolo? Queste erano anzitutto le domande che in quegli anni si poneva Lukács, e dietro queste domande giganteggiano le grandi figure di Rosa Luxemburg e di Vladimir Ilic Lenin: forse si può dire che a questi nomi, alle loro convergenze e divergenze, sono legati i problemi su cui si è giocata l'intera storia del comunismo nel secolo scorso. Rosa Luxemburg temeva la formazioni di elites autoritarie, la burocratizzazione all'interno dei partiti e negli organi dello stato, e dunque chiedeva che una società comunista mantenesse una struttura elettiva, la libertà di stampa e di parola, e quindi la possibilità del dissenso, la necessità dell'ascoltare la voce delle masse, di seguirne le iniziative anche quando sembravano non avere sbocchi. Lenin traeva invece dalle stesse vicende rivoluzionarie in Russia e in Europa la convinzione della necessità di un elemento 259 dirigente forte, capace di ideare una "linea" e di imporla, mantenendo nello stesso tempo la flessibilità di chi cala il proprio progetto politico in una realtà storica mutevole. Rosa Luxemburg e Lenin: la classe e il partito. La spontaneità e l'organizzazione. La "coscienza di classe" che si inserisce tra questi due poli come elemento fondamentale, dal momento occorre decidere dove essa si trova eminentemente - se nelle masse operaie come coscienza pratica la cui realizzazione significa già "rivoluzione" o nelle loro avanguardie consapevoli e teoricamente agguerrite. Va da sé che in questo quadro si inserisce il problema di rendere conto del "menscevismo" e della presa che i partiti "menscevichi" (si intende naturalmente le socialdemocrazie europee ed anzitutto quella tedesca) mantengono ancora sulle masse. Io credo che questi siano anzitutto i temi di Storia e coscienza di classe: e che fossero questi lo si comprese nella lettura di allora. Si comprese benissimo che, nonostante il riconoscimento del tragico fallimento della Luxemburg, e le ripetute conferme della giustezza del punto di vista leninista, vi era nel libro una sorta di inclinazione favorevole alla Luxemburg e dunque il libro doveva essere condannato, come appunto accadde nel 1924, appena un anno dopo la sua pubblicazione, nel corso del V Congresso dell'Internazionale Comunista per bocca di Zinoviev e di Bucharin. Non conosco le motivazioni di questa condanna né so dire se esista un documento scritto in proposito, ma sono egualmente certo che in essa l'influenza di Simmel, di Weber, di Bergson o il problema delle ascendenze strettamente culturali di Lukács su cui gli interpreti continuano tuttora ad esercitarsi non avevano una parte rilevante. Mentre aveva sicuramente una parte rilevantissima sia la componente politica, sia il problema del rinnovamento teorico del marxismo che serpeggia dappertutto in Storia e coscienza di classe e che con quella componente è strettamente legata. Una conferma indiretta di ciò sta nella scoperta avvenuta nel 1996 di una difesa di quel libro nei confronti 260 delle critiche di due recensori, Abraham Deborin e László Rudas, difesa scritta da Lukács stesso presumibilmente nel 1925 o 1926 e rimasta inedita. Questo libro intitolato Codismo e dialettica (dove codismo significa grosso modo "tendenza ad accodarsi allo spontaneismo delle masse"), che è stato tradotto in italiano con il titolo da furberia editoriale di bassa lega Coscienza di classe e storia, è diviso in due parti. La seconda parte è interamente dedicata ad una discussione tutta teorica sulla Dialettica della natura di Engels, mentre la prima tratta del tema cruciale della nozione di classe e di coscienza di classe discutendo diffusamente la nozione di "coscienza di classe attribuita in linea di diritto" che fa tutt'uno con il problema del rapporto tra spontaneità e organizzazione a cui anche il titolo autentico allude. Per ovvie ragioni, in questo testo, scritto dopo le critiche della Terza Internazionale, Lukács accentua la sua adesione al leninismo ed al bolscevismo. E non avendo compreso queste ovvie ragioni, Slavoj Zizek nel saggio aggiunto alla traduzione italiana fa passare Lukács senz'altro come "filosofo del leninismo". In realtà l'adesione conclusiva al punto di vista leninista non è affatto immediata, ma passa attraverso una riflessione approfondita sulle teorizzazioni di Rosa Luxemburg e sulle sconfitte dei tentativi della rivoluzione in Europa. Ed è sufficiente una lettura attenta dei due saggi dedicati a Rosa Luxemburg per rendersi conto fino a che punto, nonostante le critiche, Lukács fosse a quel tempo ancora vicino alle sue posizioni. Molti anni dopo, nella prefazione alla traduzione italiana del 1967, egli scriveva che "Rosa Luxemburg è stata l'unica discepola di Marx che abbia realmente sviluppato la sua opera sia nei suoi contenuti economici che in sede di metodo economico, ricollegandola concretamente, per questi aspetti, allo stadio attuale dello sviluppo sociale…l'indirizzo di pensiero di Rosa Luxemburg è stato ed in parte è ancora oggi teoricamente decisivo, sia nelle sue conseguenze feconde che nei suoi errori" (Lukács, 1973, p. XLIV). Questo è il terreno politico e teorico su cui si regge tutto 261 il libro. Per questa ragione in apertura del saggio che scrissi a ridosso della mia traduzione di Storia e coscienza di classe, invito il lettore a cominciare la lettura dell'opera dalla sua fine, ovvero dal saggio conclusivo sull'organizzazione "non soltanto perché in esso sono più ricchi e diretti che altrove i rimandi all'interno del movimento operaio internazionale, e neppure per il suo carattere, per molti versi immediatamente politico. Ma soprattutto perché i temi teorici essenziali di Storia e coscienza di classe vengono qui ricondotti ad un centro di discorso unitario che riporta, a sua volta, al problema dei rapporti tra la classe e l'organizzazione, all'interno della rivoluzione europea" (Piana, 1968). Del resto, nella Prefazione del 1967, Lukács stesso definisce questo saggio come quello di maggior peso insieme al saggio sulla reificazione, e tiene a precisare che esso venne scritto subito dopo l'Azione di Marzo, di cui egli stesso era stato sostenitore. Questa mia sottolineatura, che in realtà rappresentava una presa di posizione in quegli anni inconsueta, e che mi sembra di dover mantenere anche oggi, non intende affatto mettere in dubbio la portata filosofica di questo libro, e in particolare del saggio sulla Reificazione. Questo saggio per molti versi può essere considerato un vero e proprio tentativo di ripensamento - e quindi di rifondazione - del marxismo in alcuni temi cruciali, ed il "regresso" a Hegel, che gli è stato rimproverato e che Lukács stesso si rimprovera, era in certo senso un regresso necessario per ritrovare il grande respiro teorico che lo attraversa da parte a parte: per ritrovare il grande tema del rapporto tra dialettica e totalità. Beninteso in esso tutto era ed è discutibile, sia nel senso che si cammina in un rischioso equilibrio su un filo teso dal quale è facile la caduta, sia nel senso che esso apre la via nelle letture che altri ne diedero a differenti interpretazioni che sono segno della sua fecondità. Intanto, per la prima volta si sperimenta in grande, nell'area del marxismo, l'esercizio della "critica dell'ideologia". E non più su questo o quell'autore o gruppo di autori, ma su un intero sviluppo di pensiero che non esita ad abbracciare un periodo che 262 va dal seicento al primo novecento, implicando i suoi massimi protagonisti. Ciò può essere fatto perché Lukács riesce nell'intento di unificare sotto un'unica forma concettuale - la forma di merce - produzione materiale e produzione teorico-filosofica, processo sociale e processo del pensiero, ed ancora gli giova in questo progetto lo stile della dialettica hegeliana e soprattutto il punto di vista della totalità che egli con particolare enfasi contrappone, con scandalo per il marxismo volgare, al punto di vista delle giustificazioni puramente economiche, secondo la frase famosa che apre lo scritto Rosa Luxemburg marxista: "Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità" (Lukács, 1973, p. 35). Cosicché diventa accettabile e ricco di interesse il tentativo di abbracciare in un unico sguardo sviluppo sociale e sviluppo filosofico, sotto il titolo di "Antinomie del pensiero borghese" identificando queste antinomie sotto categorie filosofiche ben note - e soprattutto quella tra forma e contenuto. L'idea guida diventa l'inafferrabilità del contenuto, da parte di un pensiero "razionale" dominato dalla calcolabilità e più in generale dalla tendenza a risucchiare ogni cosa nella forma: e metafora di questa inafferrabilità diventa il noumeno kantiano di cui si dice, addirittura, che esso è "la questione fondamentale del pensiero borghese" (Lukács, 1973, p. 199). In questo concetto si rivela per opposizione il fatto che "il concetto formale dell'oggetto della conoscenza, estrapolato nella sua purezza, la connessione matematica, la necessità della legge naturale come ideale conoscitivo, trasformano sempre più la conoscenza in una contemplazione metodologicamente cosciente di quelle connessioni formali pure, di quelle "leggi" che si realizzano nella realtà oggettiva senza l'intervento del soggetto. Con ciò, il tentativo di mettere da parte tutti gli elementi contenutistico-irrazionali, si orienta verso l'oggetto, ma in misura sempre più netta anche verso il soggetto" (ivi, p. 167). 263 Abbiamo detto che tutto ciò è interessante, e persino accettabile nel suo disegno complessivo, non che è condivisibile senza problemi. Tutt'altro. Manca in Lukács una giustificazione metodologica del concetto di "critica dell'ideologia", concetto specificamente proprio del marxismo, ma che va al di là di esso nella misura in cui esso, a mio avviso, può prescindere dalle assunzioni più forti della concezione marxista, ed essere considerato soprattutto come una richiesta di considerare, anche in rapporto al pensiero filosofico più astratto, un aggancio possibile con la storicità. Ma occorre mettere in discussione il metodo in cui ciò possa avvenire in modo non arbitrario e sopratutto evitando un appiattimento sociologico delle problematiche filosofiche come se essere fossero una facciata che si limita a nascondere il "vero senso" che sta dietro di essa. In Lukács, pur in assenza di una chiarificazione metodologica, questo appiattimento non sembra esserci - anzi sembra esserci al contrario la sua critica, come viene attestato, proprio a proposito della cosa in sé, dal rifiuto netto della volgarizzazione ideologica proposta da Engels (ivi, p. 172). In fin dei conti potremmo dire che la metodologia per la "critica dell'ideologia" sta implicitamente nel fatto stesso della scelta "totalizzante" - dove tout se tient. Ma ciò che tiene il tutto è la tematica della reificazione (Verdinglichung). Di essa noi ci limiteremo a sottolineare due aspetti. Anzitutto vi è nella parola stessa la degradazione dell'elemento umano - degradazione che viene vista come desoggettivazione e che ha una grande molteplicità di modi di manifestazione. Questa molteplicità può peraltro essere ricondotta sotto titoli comuni. Questo è un tratto che caratterizza l'intera esposizione di Lukács in questo saggio e che spiega la possibilità di grandi "salti" concettuali. Si pensi soltanto a come viene usato il termine "contemplazione" e i corrispondenti aggettivi. Questo termine lo abbiamo già incontrato nella precedente citazione in cui si parla di una conoscenza che si trasforma in una pura e semplice contemplazione di connessioni formali; ma esattamente lo stesso 264 termine ci introduce nel mondo del lavoro di fabbrica: esso ci deve fare intravedere l'operaio e l'operaia che, nel ritmo della pressa, la contemplano per inserire al tempo giusto la lastrina di ferro in cui il maglio praticherà un foro: una simile contemplazione mette dunque in questione le trasformazioni tecniche del lavoro di fabbrica, la "cosificazione" dell'uomo come ingranaggio della macchina, in una forma che ha ben podo di metaforico, e le forme di "alienazione" conseguenti. Ovviamente di tutto ciò vi è una esplicita e vibrata denuncia. Ma l'altro aspetto su cui si deve attirare l'attenzione è che questa contemplazione, questa desoggettivazione sta all'origine del comportamento delle dirigenze dei partiti menscevichi, così come della passività della classe stessa di fronte alle occasioni potenzialmente rivoluzionarie, di una coscienza di classe che non riesce a "realizzarsi" come tale. Si tratta del tema dell' "imborghesimento" di ampi strati di classe operaia e dei loro strati dirigenti socialdemocratici. Secondo Lukács questo imborghesimento non è soltanto dovuto alla formazione di strati operai che traggono vantaggio dai profitti coloniali, come era stato già prospettato da Marx ed Engels (ivi, p. 376) - non è dovuto dunque a motivi di ordine economico, ma piuttosto a circostanze di ordine ideologico. Esso doveva essere riportato all'interno del problema della "reificazione", e proprio per questo non poteva avere un radicamento realmente profondo e poteva essere superato da una sempre presente "coscienza di classe attribuita in linea di diritto". II Cercando di realizzare in brevissimo spazio una traccia delle letture dell'opera nei loro momenti cruciali, passerò senz'altro al '68 - non certo per sottovalutare l'influenza che Storia e coscienza di classe ebbe in forme più o meno sotterranee su una fascia importantissima di intellettualità europea - ma proprio perché evocando il '68, voglio riprendere questa traccia da quello che è 265 stata chiamato "l'anno magico" della scuola di Francoforte (Bedeschi, 1985, p. 3), e conseguentemente, io aggiungerei, anche l'anno magico di una nuova presenza di Lukács come comprimario sulla scena della storia filosofica del Novecento. Ma con delle significative differenze e complicazioni. Storia e coscienza di classe e Marxismo di filosofia di Karl Korsch, pubblicato nel 1923, esattamente nello stesso anno dell'opera di Lukács, ed anch'essa opera di un marxista militante, divennero in brevissimo tempo, nonostante gli ostracismi, libri che mostravano la possibilità di un marxismo diverso, assai poco positivista e materialista, ma deciso, sotto il profilo filosofico, a riprendere il filo conduttore della dialettica hegeliana. E già all'epoca in cui queste opere vennero pubblicate, vi erano voci importanti in ascolto: Adorno, Habermas, Marcuse, Horkeimer… La Scuola di Francoforte non c'era ancora, o meglio non si chiamava così, ma il suo nucleo si andava formando e crescendo presso l'Università di Francoforte con il nome di Istituto per la Ricerca Sociale. Anno di fondazione - prestiamo ancora attenzione alle date: 1922. L'epoca tuttavia era in rapidissima evoluzione e, per quanto riguarda il nostro problema, che non riguarda tanto il problema delle influenze o delle diverse interpretazioni ma, come abbiamo dichiarato fin dall'inizio, la questione del rapporto tra il tempo della scrittura e il tempo della lettura, era cominciata un'altra "lettura", anzi più d'una. Intanto il tempo della lettura ha ora interamente dietro le spalle le tragedie degli anni appena trascorsi. Per questa ragione ho nominato per primo, accennando alla Scuola di Francoforte, Theodor Wiesengrund Adorno. Egli era nato nel 1903, dunque nel 1917 aveva quattordici anni e sedici nel 1919. Eppure negli anni venti è convintamente marxista e nel 1925 compie un viaggio a Vienna per incontrare personalmente Lukács di cui ammirava soprattutto la Teoria del Romanzo e Storia e coscienza di classe. La vicenda di questo incontro è narrata in una lettera a 266 Helene e Alban Berg dove si legge che l'autore di quei libri "mi ha influenzato intellettualmente più in profondità che qualunque altro" (Tertullian, 2005, p. 199). Nello stesso tempo non viene nascosto in un'altra lettera a Kracauer (ivi, 200) il proprio disappunto nei confronti dell'accettazione di Lukács della critiche rivolte dalla Terza Internazionale a Storia e coscienza di classe e la sua conseguente sconfessione. In seguito, come si sa, Adorno prese nettamente posizione contro la svolta intervenuta nelle opere successive; il contrasto venne costantemente ribadito ed egli arrivò a "stabilire un parallelo tra i destini di Heidegger e di Lukács, che avrebbero entrambi perduto nel secondo periodo della loro attività le intuizioni feconde presenti nei loro scritti di gioventù" (ivi). Questo interesse per il primo Lukács, è strettamente associato all'idea di un rinnovamento di un marxismo capace di ritrovare il motivo dialettico e di liberarsi dai gravami del positivismo e delle accentuazioni materialistiche. Ma questo inizio marxista non ebbe alcun seguito. E da convinto marxista, Adorno divenne un più che convinto anticomunista. Anche per Horkheimer Storia e coscienza di classe è un libro importante: ma ciò che ora viene in primo piano è il tema della reificazione, ripreso soprattutto nell'assunzione di una classe operaia che ha perduto la propria unità interna - e che quindi ha nel proprio interno interessi contrapposti. Da un lato vi sono gli operai occupati in maniera relativamente stabile, e con loro le socialdemocrazie totalmente "imborghesite", dall'altro le schiere di operai disoccupati o sull'orlo della disoccupazione e della miseria. Dai primi non ci si può aspettare che arrischino la loro posizione, dai secondi azioni disperate prive di prospettiva. Di qui, da ciò che una volta si chiamava sottoproletariato, dovremmo aspettarci un'effettiva spinta verso una trasformazione rivoluzionaria? In realtà questa trasmigrazione dello spirito della rivoluzione a ciò che una volta si chiamava sottoproletariato si affaccia nella scuola di Francoforte e questa idea delle classi diseredate, 267 che non hanno nulla da perdere, e che quindi si mettono sulla strada della rivoluzione sociale ha un suo seguito in varie formulazioni fino al Capitale monopolistico (1966) di Sweezy e Baran che ne ribadiscono in ogni caso l'assenza di prospettiva, auspicando che un nuovo stimolo ai processi di rinnovamento possano venire dai movimenti anti-imperialisti di liberazione nazionale. In ogni caso, in queste letture viene meno, rispetto al quadro delineato da Lukács, una nozione forte di "classe" e soprattutto vengono meno le grandi opposizioni su cui la sua opera è strutturata: la contrapposizione dialettica tra classe e capitale, tra movimento di classe e sviluppo della produzione capitalistica, e cade del tutto la nozione stessa di "coscienza di classe". Non credo che vi sia bisogno di entrare nelle sottigliezze delle grandi opere come la Dialettica negativa di Adorno e La dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e di Adorno per rendersi conto che la visione della struttura sociale cambia radicalmente e, sia pure con accentuazioni e modi diversi, si fa avanti un pessimismo radicale che non vede più dinamiche di lotta, ma una sorta di cappa di conformismo generalizzato indotto da quella che ormai non si chiama più capitalismo, socialismo o comunismo ma "società industriale avanzata", "società amministrata", "società dei consumi", "società tecnologica", e simili. La "reificazione" viene intesa come passività generalizzata, del tutto indipendente dai regimi sociali. Scienza e tecnica a loro volta vengono rese responsabili di questa alienazione globale: in questa direzione viene ripresa la critica lukácsiana della "razionalizzazione". Le trasformazioni tecnologiche da un lato, e i consumi dall'altro vengono resi responsabili del preteso appiattimento delle coscienze che demandano alla "società amministrata" ogni decisione ed ogni scelta. Il '68 come anno magico della Scuola di Francoforte? A ben pensarci quell'anno avrebbe dovuto essere al contrario una sua colossale smentita. I conflitti e i contrasti all'interno del sistema, che si erano annunciati nell'intero corso degli anni Sessanta, deflagrarono dall'Europa agli Stati Uniti con una forza 268 inaudita - non vi è bisogno di rammentarlo - su tutti i fronti del disagio sociale. Dentro questo sconvolgimento straordinario, la classe operaia ebbe una parte importantissima con un ciclo di scioperi durissimi che cominciavano direttamente dalla fabbrica, spesso "spontaneamente" e indipendentemente dalle indicazioni sindacali e di partito. Per certi versi si riproponeva o comunque sembrava riproporsi - in forma convulsa per la molteplicità delle posizioni in gioco nella sinistra - il problema che era stato cruciale negli anni venti: il divario tra spontaneità operaia e organizzazione. Su questo divario potevano giocare i gruppi della sinistra operaista - penso qui naturalmente soprattutto alla situazione italiana, e in particolare ai gruppi di Classe operaia e di Potere operaio - che cercarono di forzare questo divario fino al punto di teorizzare la completa autonomia della classe rispetto al partito "menscevico" - come era allora considerato dalla sinistra operaista il partito comunista italiano. Ed ecco una nuova possibile lettura di Storia e coscienza di classe: in esse ritorna una nozione forte di "classe" ed una nozione ancora più forte di "coscienza di classe", che non era più semplicemente attribuita in linea di diritto, ma resa attuale dalle lotte in corso, e ciò sembrava conferire ad ogni azione operaia, ed anzitutto allo sciopero operaio, un carattere orientato verso un processo rivoluzionario. La teoria del "crollo" tornò temporaneamente in auge. Per questo verso vi erano le condizioni sociali per una lettura di Storia e coscienza di classe di intonazione luxemburghiana, e del tutto indipendente dalle posizioni della Scuola di Francoforte, ed anzi ad essa contrapposta. Anche per questo aspetto questa Scuola avrebbe dovuto avere una netta smentita. La classe operaia era sempre là, più che mai minacciosa. Eppure vi erano anche le condizioni sociali perché quella Scuola ebbe il suo momento di gloria. E lo ebbe in forza di un altro divario, di un'altra frattura interna: in realtà le lotte del 269 movimento degli studenti non si incontrarono con quelle delle classe operaia: queste avevano infatti un movente essenzialmente economico, mentre il movimento studentesco, sia pure nelle mille voci da cui era attraversato, era confusamente orientato piuttosto verso una radicale modificazione del regime sociale. E a dar corpo a questo orientamento contribuì indubbiamente la Scuola di Francoforte. O meglio: il contributo più importante non fu della Scuola come tale, e nemmeno venne dai suoi esponenti più autorevoli - Adorno e Horkheimer. Adorno in particolare fu duramente contestato dagli studenti proprio nel 1968 durante la Fiera del libro di Francoforte. Racconta Günther Grass, presente alla scena, che Adorno "fu fatto a pezzi dai suoi stessi seguaci davanti a un pubblico studentesco urlante. È stato vergognoso vedere come queste persona anziana sia stata derisa, con odio". Nella stessa testimonianza tuttavia Grass, con molto acume osserva che "la sua magnifica struttura teorica, che non voglio sottovalutare, nutriva un certo timore nei confronti della realtà. Certo, forse una parte delle accuse degli studenti deriva anche dal fatto che la teoria era in un certo modo lontana dalla realtà… Ma sussisteva in tutta la Scuola di Francoforte un certo timore di avvicinarsi troppo alla politica quotidiana" (Medail, 2001, p. 35). È noto poi, perché vi fu in proposito una polemica pubblica, che Habermas arrivò ad accusare Rudi Dutschke e movimento studentesco tedesco di essere "fascisti di sinistra". Era difficile manifestare un'ostilità più greve e ottusa di questa. Chi "salvò" la Scuola di Francoforte presso il movimento degli studenti fu, inutile dirlo, Herbert Marcuse. "A differenza dei suoi compagni di strada della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor Adorno, egli rimase notevolmente aperto e ricettivo verso gli sviluppi politici contemporanei" (Prefazione di R. Wollin a Marcuse, 2005, p. IX). Da Marcuse vennero forti suggestioni al movimento degli studenti, e su ciò val la pena di spendere qualche parola. Marcuse era di qualche anno più vecchio di Adorno, essen- 270 do nato nel 1898, quei pochi anni che gli permisero comunque una precoce militanza politica presso la socialdemocrazia tedesca dalla quale si dimise dopo il fallimento dell'azione della Lega Spartachista e l'assassinio della Luxemburg e di Liebknecht. Ed è interessante notare da un lato che anch'egli fu fortemente colpito dal Lukács di Storia e coscienza di classe e dal Korsch di Marxismo e filosofia, (R.Wolin, in Marcuse H., 2005, p. 13) ma che divenne in quel torno di tempo allievo di Heidegger e che interpretò Essere e tempo come un'opera che, nonostante tutte le differenze, poteva entrare in contatto con il marxismo. Questa idea era sicuramente mediata dalla tematica lukácsiana della reificazione. D'altra parte la storia di relazioni possibili tra Lukács e Heidegger è relativamente ricca e meriterebbe di essere raccontata a parte. In questa storia a quanto sembra, Marcuse parte per primo, e recentemente è stato possibile pubblicare, a cura di Richard Wolin e di John Abromeit un libro intitolato addirittura Heideggerian Marxism (Marcuse H., 2005) nel quale si raccolgono gli scritti dell'epoca di Marcuse sull'argomento. La collaborazione con Heidegger comunque terminò con il rifiuto da parte di questi di accettare la memoria di abilitazione su Hegel proposta da Marcuse, rifiuto che venne comunicato a Riezler, Rettore a Francoforte, da Edmund Husserl, e fu poi lo stesso Husserl a introdurre Marcuse presso l'Istituto diretto da Horkheimer. Siamo nel 1932 e la Scuola di Francoforte, i cui membri erano prevalentemente ebrei, sta per riparare a Ginevra e poco dopo negli Stati Uniti. Ora Marcuse condivideva in buona sostanza l'analisi francofortese della "società amministrata", ma quell'analisi era in certo senso sovrastata da un complesso di altri temi che riguardavano un'alternativa sociale possibile, che avevano un alto contenuto liberatorio e che venivano svolti, se non con particolare profondità, sicuramente con affascinante convinzione ed in modo particolarmente attraente. In altre parole, Marcuse faceva una sorta di intelligente doppio gioco - da un lato ribadiva ed 271 anzi talora appesantiva le già pesanti immagini della "società industriale avanzata" proposte dalla scuola di Francoforte, dall'altro in luogo di incupire queste immagini o di addensare su di esse moralismi di ogni specie come avrebbe fatto un Adorno, approfittava di questo appesantimento per dare la massima evidenza all'alternativa di una società libertaria. Penso naturalmente alla discussione con la posizione di Freud in Eros e civiltà, e dunque alla critica di ogni forma di repressione, anzitutto quella sessuale, e all'idea di una società fondata sul principio del piacere; alla posizione decisiva che può avere l'esercizio dell'arte in una società che può dare ai suoi membri la possibilità di esplicare la propria creatività. Il "doppio gioco" a cui abbiamo accennato in precedenza lo si vede poi in particolare nella demonizzazione a cui la Scuola di Francoforte sottopone la tecnologia, come primaria responsabile della struttura della "società amministrata" . Nell'Uomo ad una dimensione (1964) questa demonizzazione è ancora presente, e forse addirittura appesantita, ma si precisa già che gli effetti alienanti delle innovazioni tecnologiche dipendono dalla loro gestione e si arriva ad affermare che "se dovesse mai divenire il processo di produzione materiale, l'automazione rivoluzionerebbe la società intera. La reificazione della forza lavoro umana, portata alla perfezione, spezzerebbe la forma reificata, tagliando la catena che lega l'individuo alla macchina, al meccanismo per mezzo del quale il suo stesso lavoro lo rende schiavo. L'automazione integrale nel regno della necessità farebbe del tempo libero la dimensione in cui primariamente si formerebbe l'esistenza privata e sociale dell'uomo. Si avrebbe così la trascendenza storica verso una nuova civiltà" (Marcuse 1964, p. 56). Questa posizione viene confermata in Fine dell'utopia (1967) e nel Saggio sulla liberazione (1969): la tecnologia può diventare risparmio di lavoro ed aprire la prospettiva di una vita estetica, nel senso in cui ne parlava Schiller, un autore particolarmente studiato in gioventù da Marcuse, che esalta nelle sue Lettere sull'educazione estetica la funzione nel gioco nel quale si esprimono al massimo 272 grado le forze creative umane e le sue azioni autenticamente libere. L'utopia dell' "abolizione del lavoro" di cui il giovane Marx aveva parlato nella L'ideologia tedesca e altrove può forse non essere più un'utopia (Marx, 1975, p. 120, p. 278). In Fine dell'Utopia, una conferenza tenuta a Berlino nel 1967, Marcuse sintetizza questo tema riunendo il problema dell'automazione non solo con la liberazione dalle forme alienanti del lavoro fisico, ma anche con la negazione dei vecchi bisogni indotti dalla produzione capitalistica e dalle modalità di vita che essa implicitamente o esplicitamente impone e con la creazione di nuovi bisogni, diretti alla libera esplicazione della personalità di ognuno. Egli scrive: "Nei Grundrisse Marx ha dimostrato che la completa automazione del lavoro socialmente necessario è incompatibile con la conservazione del capitalismo. L'automazione è solo una parola-chiave per questa tendenza , attraverso la quale il lavoro fisico, il lavoro alienato si ritrae in misura crescente dal processo materiale di produzione. Questa tendenza, se liberata dalle catene della produzione capitalistica, porterebbe ad una sperimentazione creativa con le forze produttive… Tuttavia, affinché queste possibilità tecniche non diventino possibilità di repressione, per consentire loro di essere in grado di assolvere la loro funzione liberatoria, esse debbono essere deve essere sostenute e dirette da bisogni liberatori e gratificanti" (Marcuse, 1967, p. 4). In tutta questa tematica, che abbiamo riassunto in un baleno, non sembra che ci si preoccupasse molto del problema di chi dovesse o potesse essere il soggetto attivo e cosciente di questa radicale trasformazione sociale - anche la chiamata in causa della miseria sottoproletaria, dei movimenti di liberazione nazionale o del movimento nero non era calzante perché gli obbiettivi immediati erano tutt'altri, il superamento della miseria, l'indipendenza dalle servitù imperialistiche, l'oppressione razzista. È invece comprensibile che il movimento studentesco si identificasse con questo soggetto attivo e facesse delle tesi teo- 273 riche di Marcuse le proprie parole d'ordine che poterono trovare ne "l'immaginazione al potere" una loro felice sintesi. Ma con questi esiti, Storia e coscienza di classe, che pur aveva assolto un ruolo importante in rapporto alla Scuola di Francoforte, aveva ormai ben poco a che fare. In diretta prossimità con il Lukács di questi anni, ma anche con lo spirito innovatore del Lukács del 1923, era invece la "Scuola di Budapest" che si era formata intorno a Lukács, in anni che precedono il Sessantotto, ma che produsse opere che ebbero efficacia anche negli anni che seguirono. Naturalmente, non è possibile non fare in proposito almeno il nome di Agnes Heller, che era stata allieva diretta di Lukács e poi sua assistente negli anni cinquanta, che poneva con vigore il problema di un marxismo rinnovato in una chiave interamente diversa dalla Scuola di Francoforte, a parte qualche significativa assonanza con Marcuse, avanzando un'interpretazione di Marx che poneva l'accento sulla struttura e sul soddisfacimento dei bisogni. Il libro La teoria dei bisogni in Marx fu pubblicato nel 1973 e può essere considerato una sorta di prosecuzione teorica delle idee del '68. Nel 2009 lo "Jahrbuch der Internationalen Georg-Lukács-Gesellschaft" ha dedicato un numero speciale intitolato "Lukács e il 1968", Aisthesis, Bielefeld. A questo numero dello "Jahrbuch" si rimanda per ogni approfondimento. III Nel 1989 i regimi comunisti collassarono, quasi tutti insieme, ed a giusta ragione. Lukács era morto nel 1971 e non poté assistere a questo colossale fallimento di questa vicenda storica, in ogni caso straordinaria, che egli aveva voluto sostenere nonostante tutto ed a tutti i costi. L'esperimento storico del comunismo reale era fallito. Il marxismo teorico a sua volta, in tutte le sue molteplici varianti, era troppo strettamente collegato al 274 comunismo politico per non subire un contraccolpo distruttivo. Naturalmente, noi vogliamo tenerci il più stretti possibile al nostro tema, ed evitare di vestire i panni di giudici della storia; così ci limiteremo ad alcune poche osservazioni per tirare le fila secondo ciò che ci è stato possibile capire. Intanto il capitalismo ha celebrato il suo trionfo con tutte le sue storture. Il suo unico merito sta nel fatto che queste storture sono rimaste al di sotto delle storture dei regimi comunisti - ma è un merito che non risparmia certo, a mio parere, dall'opporsi ad esse, dal tentativo di moderarle, di mitigarle. Ed anche il pensiero teorico - filosofico e scientifico, ed in particolare economico e sociologico - deve continuare ad impegnarsi su questo terreno. Ciò spiega come l'interesse per il marxismo ed in particolare per alcuni suoi autori, tra i quali vi è naturalmente anche Lukács, non è del tutto venuto meno - come in realtà avrebbe potuto accadere, anche in forza delle enormi modificazioni sociali intervenute e del mutamento di atteggiamenti ideali conseguenti. Per quanto riguarda l'interesse per Lukács, si può forse dire che si è venuto addirittura ravvivando in quest'ultima trentina d'anni, a partire da Lukács Revalued edito da Agnes Heller (Heller, 1983). Ma si possono citare anche numerosi altri volumi dedicati a riletture di tutto l'arco dell'opera lukácsiana. Per citarne alcuni: Lukács Today. Essays in Marxist Philosophy edito daTom Rockmore (Rockmore, 1987), Reification or the Anxiety of Late Capitalism, di Timothy Bewes (Bewes, 2002), Reification: A Recognition-Theoretical View di Axel Honneth, (Honneth, 2007) e dello stesso autore, Reification: A New Look at an Old Idea (Honneth, 2008); Georg Lukács: The Fundamental Dissonance of Existence (Bewes T., Hall. T. (eds), 2011), Georg Lukács Reconsidered: Critical Essays in Politics, Philosophy and Aesthetics, edito da Michael J. Thompson (Thompson, 2011). Una posizione di rilievo ha avuto in questo mantenimento dell'interesse per Lukács il "Jahrbuch der Internationalen Georg Lukács Gesellschaft" edito da Frank Benseler e Werner 275 Jung, che abbiamo citato poco fa per il numero del 2009 dedicato a Lukács e il 1968. Naturalmente le opere che ho or ora ricordato riguardano l'intera produzione di Lukács, così come la grande influenza che egli ebbe sul pensiero novecentesco. Si tratta di letture che hanno talora carattere di ricostruzione storiografica, ma che assai spesso discutono le estensioni e le varianti teoriche del suo pensiero o che si impegnano in nuove elaborazioni che prendono spunto da concetti lukácsiani. In questi testi Storia e coscienza di classe è ampiamente rappresentata, e naturalmente in particolare il concetto chiave di "reificazione". Sarebbe interessante prendere in attento esame questa bibliografia che giunge fino a tempi recenti e recentissimi. Ma nello spirito di questo saggio, vorrei avviarmi alla conclusione esponendo qualche mia azzardata opinione, con una semplicità che non teme il semplicismo e con una brevità che non è certo adeguata all'impor­tanza dei temi chiamati in causa. A mio avviso l'unica lettura oggi possibile di Storia e coscienza di classe è una lettura "storica". Ciò significa una lettura del ricordo, di un ricordo che è certamente importante conservare. Ma il ricordo riguarda il passato: dai tempi della scrittura di questo libro sono trascorsi quasi cent'anni. Ed il progresso non si realizza con i ricordi. Se guardiamo alla storia dell'oggi, allora dobbiamo riconoscere che Storia e coscienza di classe non morde più in essa. È lo scotto che il marxismo, anzi che i vari marxismi debbono pagare per le cose pur grandi che hanno saputo fare gli uomini che hanno realmente creduto nella rivoluzione sociale ma che hanno fallito lo scopo, non certo per loro responsabilità. Ora non è più nemmeno il caso di parlare di "rivoluzione" perché l'esperienza storica ha detto la sua. Ma ciò non significa che una profonda trasformazione sociale non sia possibile - ed anzi necessaria - e che non ci si debba impegnare in essa. Una delle più gravi storture della società capitalistica è la diseguaglianza economica: il ceto dei medio-ricchi, ricchi e straricchi - che non è identificabile unicamente con i "capitalisti" - non 276 può che crescere su un rapace sfruttamento del lavoro altrui che assume mille forme, sulla corruzione, sull'intrallazzo tra politica e affari, sulle ladrerie delle organizzazioni finanziarie, sull'abuso della finanza pubblica, sull'evasione fiscale, sulle parcelle esorbitanti dei professionisti, ecc. Sulla base della diseguaglianza nessuna società può essere "giusta", ma è una società del malaffare. Oserei dire che si può anche cessare di parlare di capitalismo e di socialismo o comunismo come alternative di regime, e semplicemente esigere "giustizia" nel senso ampio del termine, cercando di promuovere ogni iniziativa che sia orientata a realizzare l'esigenza fondamentale di quella che io chiamerei "diseguglianza tollerabile", onde evitare che la parola "eguaglianza" ridesti obiezioni antiche. Il fatto è che la diseguaglianza che il capitalismo dei nostri giorni è riuscito a realizzare è una diseguaglianza intollerabile, anche a fronte di una riduzione relativa della miseria e della formazione di una "classe media" molto più ampia che nel passato. Ma vi è almeno una seconda esigenza fondamentale che vorrei introdurre ricollegandomi a ciò che si è detto su Marcuse. Debbo ammettere che non avrei mai pensato, nel sessantotto, di associarmi sia pure solo lateralmente, a quella direzione di pensiero, dato che la mia personale partecipazione al movimento studentesco era, per così dire, mitigata da convinzioni operaiste e dunque ben poco potevo simpatizzare per Marcuse. Ma l'idea marcusiana di una società i cui membri possano gioire nell'esplicazione della loro creatività e in cui il lavoro stesso possa diventare creativo, e quindi si riduca al massimo la reificazione ad esso legata, ed insieme si ampli il tempo dedicato al "gioco" - parola da intendere come metafora globale di azioni creative in cui la personalità di ciascuno possa realizzarsi in una libertà autentica: questa idea mi sembra irrinunciabile per tutti coloro che si situano dalla parte del progresso. Abbiamo osservato in precedenza che in questa idea vi è in Marcuse un'ascendenza schilleriana. Ma è così estranea e lontana 277 da Lukács una simile idea? Rileggiamo allora che cosa egli dice a proposito della XV Lettera sull'educazione estetica: "Quando Schiller fissa il principio estetico come impulso al gioco (contrapponendolo all'impulso alla forma ed all'impulso alla materia, l'analisi dei quali, come in genere gli scritti estetici schilleriani, contiene molti elementi preziosi sulla questione della reificazione), egli sottolinea quanto segue: "Infatti, per dirla apertamente una volta per tutte, l'uomo gioca soltanto quando è uomo nel significato più pieno del termine, ed egli è interamente uomo, solo quando gioca". Ora, quando Schiller accentua così nettamente la portata del principio estetico fino al punto di oltrepassare ampiamente il campo dell'estetica e cercando in esso la chiave per risolvere il problema del senso dell'esistenza sociale dell'uomo, viene allora chiaramente alla luce la questione fondamentale della filosofia classica. Da un lato si riconosce che l'essere sociale ha annientato l'uomo come uomo. Dall'altro, si indica il principio secondo il quale si deve ancora una volta ricreare con il pensiero l'uomo socialmente annientato, frantumato, lacerato tra sistemi parziali" (Lukács, 1973, p. 182- 183). Nononostante una presa di posizione così lucida e netta, non mi sembra invece che si possano trovare in Lukács appigli per proporre come obbiettivo una "società che gioca", e tanto meno per un discorso che veda nella tecnologia, da Lukács considerata come elemento fondamentale della "razionalizzazione" capitalistica, un possibile mezzo per il raggiungimento di quell'obbiettivo. È interessante, invece, rileggere il geniale (anche se discutibile) libro di Kostas Axelos intitolato Marx pensatore della tecnica, autore che ebbe il merito di generalizzare la conoscenza di Storia e coscienza di classe, avendone realizzato la traduzione in francese senza il consenso dell'autore nel 1960. Nel volume di Axelos si mette in evidenza l'ambivalenza di Marx di fronte a questo problema: "Il positivismo marxiano, che tanto ammira l'evoluzione delle forze produttive, si tramuta in romanticismo appassionato nell'affrontare la macchina alienante e disumana" 278 (Axelos, 1961, p. 94); ma altrove Axelos cita un passo di Marx (ivi, p. 348) che illustra l' idea della macchina: "Strumenti semplici, accumulazione degli strumenti, strumenti composti, messa in moto di uno strumento composto da parte di un unico motore manuale, da parte dell'uomo, messa in moto di questi strumenti da parte delle forze naturali, macchina, sistema delle macchine che hanno un solo motore, sistema delle macchine che hanno un automa per motore: ecco il cammino delle macchine" (Marx, 1950, p. 117). Questa citazione viene commentata da Axelos facendo notare che "solo l'automazione è in grado di superare la specializzazione, a beneficio del lavoro produttivo, universalizzato ma disalienato. Marx pensa fermamente che le cose andranno così. Egli attacca le tecniche produttive del presente nella stessa misura in cui canta le lodi delle future tecniche produttive. Quelle del presente implicano il cattivo automatismo, l'attività particellare e atomizzata; in un sistema reificato e automatico gli individui non possono che essere atomistici. Viceversa, la tecnica dell'avvenire avrà sorpassato l'automazione e l'atomismo grazie al suo sviluppo integrale, che permetterà agli uomini di sviluppare integralmente le loro forze essenziali, la loro energia. La grande tecnica dei tempi futuri sarà il contravveleno che ci guarirà dai mali della tecnica sottosviluppata, quindi alienante. La speranza che Marx ripone nella tecnica è incrollabile, e il qualificarla come ingenua sarebbe a sua volta ingenuo" (Axelos, 1961, p. 248). In ogni caso, né Marx né Lukács avrebbero potuto anche solo intravedere l'avvento di quella che si chiama ormai "terza era industriale" e che ha al suo centro un travolgente sviluppo delle tecnologie in ogni campo. Naturalmente, da parte dei vetero-marxisti le tematiche lukacsiane sulla tecnicizzazione sono ancora un'occasione per scagliare i loro anatemi contro le nuove tecnologie, e in particolare contro le alienazioni da essa indotte - ma questo è il problema di sempre: occorre orientare il loro impiego nella direzione che esse sono ormai in grado di sostenere: per la difesa dell'am- 279 biente naturale che il banditismo capitalistico ha devastato, per restituire alle città condizioni di vivibilità, e naturalmente anzitutto per ridurre al minimo il lavoro di fabbrica nei suoi aspetti alienanti e per rendere il nostro tempo di vita realmente nostro, da giocarcelo nella misura del possibile come vogliamo. Detto in due parole: si tratta di comprimere il tempo di lavoro a favore del tempo libero. L'automazione e la robotica possono operare in questa direzione e così sono possibili coraggiosi provvedimenti legislativi che contrastino efficacemente la diseguaglianza economica intollerabile. Si tratta di due temi che, occorre ribadirlo con decisione, hanno le loro radici nella lotta operaia, la loro storia comincia di lì, essi sono in tutta evidenza una prosecuzione delle due fondamentali direzioni della lotta di classe: la lotta per il salario e la lotta per la riduzione della giornata lavorativa. Ma ora questi temi interessano ogni gruppo sociale ed il problema è: in che modo queste possibilità si possono tradurre in azioni efficaci? È chiaro che è anzitutto necessaria una diffusa consapevolezza politico-sociale di questa problematica e questa consapevolezza deve riuscire a tradursi in un movimento potente che chieda a gran voce che vengano realizzate le azioni atte a promuovere un simile orientamento dello sviluppo. Queste mie considerazioni che, come ho detto poc'anzi, non temono l'eccesso di semplicità e la carenza di documentazione, trovano in realtà un sostegno assai robusto, complessità e documentazione nell'opera di Jeremy Rifkin, e in particolare nel volume La fine del lavoro [Rifkin, 1995- 2004]. Ad esso naturalmente possiamo dedicare solo qualche parola - ma è quasi obbligatorio prendere in considerazione questo libro che sotto quel titolo tratta gli effetti attuali e reali, e quelli futuri possibili dell'automazione in modo assai ben documentato, evitando le trappole di discorsi puramente ideologici o le fantasie che inclinano verso l'utopia. In effetti incremento dell'automazione vuol dire oggi incremento della disoccupazione ed una buona parte del libro è dedicata a mostrare fino a che punto l'introduzione delle tecni- 280 che di meccanizzazione e di robotizzazione possano portare ad una disoccupazione crescente in ogni settore della vita produttiva e sotto ogni regime. Ma questa analisi è seguita da un'esposizione e discussione di respiro altrettanto ampio per illustrare i processi che sarebbe necessario promuovere per impedire che la disoccupazione crei conseguenze drammatiche e una miseria crescente a fronte di arricchimenti fondati su questo movimento perverso. Val la pena intanto di citare almeno uno dei tanti dati impressionanti che si possono leggere in questo libro. Esso riguarda quella che io ho chiamato "diseguaglianza intollerabile" ed è relativo agli Stati Uniti. Alla fine degli anni Ottanta "lo 0,5% delle famiglie più ricche era proprietario del 30,3% della ricchezza privata… Nel 1989, il primo 1% delle famiglie guadagnava il 14,1 % del reddito nazionale degli Stati Uniti e possedeva il 38,3% della ricchezza e il 50,3% delle attività finanziarie nette del Paese" (Rifkin, p. 283). Aggiungerò soltanto un paio di dati più recenti relativi alla situazione italiana. Dai Supplementi al Bollettino Statistico pubblicato da Bankitalia in data 27 gennaio 2014, relativo ai bilanci delle famiglie italiane nel 2012, risulta che il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% della ricchezza netta totale e che la povertà è salita dal 14% del 2010 al 16% nel 2012 individuando la soglia di povertà a 7.678 euro netti l'anno (Bankitalia, 2014). Quanto al problema della disoccupazione, nella terza rivoluzione industriale "macchine intelligenti, nella forma di software per computer, robotica, nanotecnologia e biotecnologia, hanno progressivamente sostituito il lavoro umano nell'agricoltura, nei comparti dell'industria e dei servizi… Alla metà del ventunesimo secolo, la sfera degli scambi avrà i mezzi tecnologici e la capacità organizzativa per fornire beni e servizi di base a una crescente popolazione mondiale usando una frazione della forza lavoro impiegata al presente. Forse si avrà bisogno solo del 5% della popolazione adulta per gestire e rendere operativa la tradi- 281 zionale sfera industriale entro il 2050. Aziende agricole, fabbriche e uffici semivuoti saranno la norma in ogni Paese" (Rifkin, p. XXIV). "Questa è l'occasione e la sfida che l'economia mondiale ha di fronte, mentre ci muoviamo nella nuova era della tecnologia intelligente. Liberare intere generazioni dalle lunghe ore trascorse sul posto di lavoro potrebbe annunciare un secondo rinascimento per la razza umana o portare ad una grande divisione e sconvolgimento sociale. La questione centrale è: che cosa facciamo dei milioni di giovani lavoratori di cui si avrà poco o nessun bisogno in un'economia globale sempre più automatizzata? Davanti a noi ci sono diverse opzioni su come guardare il futuro dell'occupazione. Ognuna di esse richiede un certo sforzo di immaginazione: per esempio la disponibilità sia a ripensare la vera natura del lavoro, sia a esplorare modi alternativi per gli esseri umani a definire il proprio ruolo e contributo nei confronti della società nel secolo appena arrivato" (ivi, XXVI). Naturalmente non è possibile qui nemmeno fare un passo in direzione di questa "esplorazione dei modi alternativi" che Rifkin discute nell'ultima parte di questo suo notevole libro, ma va detto almeno che vi sono due modi, tra gli altri, a cui la sua discussione dà largo spazio: uno è la riduzione della giornata di lavoro, con l'ampliamento conseguente del tempo libero; l'altro è il volontariato, che viene chiamato in causa in particolare per il fatto che la trasformazione sociale preconizzata non deve soltanto stimolare la creatività degli individui, ma promuovere nuovi valori, respingendo i falsi valori indotti dalla ricerca esasperata dei profitti. Viene qui toccato un altro tema di fondamentale importanza fin qui rimasto in ombra. Vi è stata e continua ad esservi una distorsione di valori - quando parlavamo di società del malaffare non intendevamo alludere soltanto a comportamenti criminali veri e propri, ma a comportamenti che il contesto sociale accetta come "normali" e che invece sono anomali sul piano etico, e dunque vi è una lotta da compiere in funzione 282 di un recupero di valori autentici: ad una società del malaffare deve subentrare una società giusta, come in precedenza ci siamo espressi. In Rifkin, sebbene in altro linguaggio e con proposte concrete questo problema è ben presente quando osserva che "un altro settore in cui le abilità, il talento e le competenze delle persone possono ravvivarsi" è quel settore che "include tutte le attività no profit formali e informali che costituiscono la vita culturale della società. È il settore in cui le persone creano i legami tra le comunità e quindi l'ordine sociale… Il servizio nella comunità è molto diverso dal lavoro nel mercato. Il contributo di ognuno viene liberamente elargito in base alla sensibilità nei confronti della cura degli altri. Se da tali attività derivano spesso conseguenze economiche, esse sono secondarie rispetto allo scambio sociale. Lo scopo non è l'accumulo di ricchezza ma piuttosto la coesione sociale" (ivi, pp. XLI- XLII). La prefazione del 2004 si conclude così: "È possibile immaginare che entro il ventunesimo secolo la tecnologia intelligente sostituirà buona parte del lavoro umano nella sfera degli scambi economici, consentendo alla maggioranza degli esseri umani di essere istruiti e formati per occupazioni adatte alle propri attitudini in campo culturale. Dopo tutto, il lavoro dovrebbe essere compito delle macchine. Il lavoro produce soltanto profitti. Le persone, invece, dovrebbero essere liberate per generare valore intrinseco e rinvigorire il senso di una comunità condivisa. Liberare gli individui dal lavoro, così da renderli in grado di dare un profondo contributo alla creazione del capitale sociale nella società civile, rappresenta uno straordinario salto in avanti per l'umanità nel secolo appena arrivato. Ciò che si richiede è la volontà e la determinazione necessarie per cominciare questo definitivo viaggio umano" (ivi, pp. LV- LVI). Gyorgy Lukács ha vissuto con straordinaria intelligenza, equilibrio e saggezza, i grandi entusiasmi e le profonde delusioni di quasi un secolo. E noi attraverso Lukács riviviamo ancora 283 quegli entusiasmi e quelle delusioni, attraverso di lui ne risentiamo vivacemente l'eco. Sappiamo anche che molti problemi che erano della sua epoca sono ancora oggi irrisolti. Ma quegli stessi problemi si presentano ormai in una forma così fortemente mutata che dobbiamo affrontarli con un atteggiamento che guarda al futuro. 284 Testi citati Axelos K., 1961, Marx penseur de la technique, Les Éditions de Minuit, trad. it. a cura di A. Bonomi, Marx pensatore della tecnica, Sugar, Milano, 1963. Bankitalia, 2014, I bilanci delle famiglie italiane nell'anno 2012, in https://www.bancaditalia.it/statistiche/indcamp­/bilfait/­boll­_stat Bedeschi G., 1985, Introduzione alla Scuola di Francoforte Laterza, Bari. Bewes T, Hall. T. (eds), 2011, Georg Lukács: The Fundamental Dissonance of Existence. Continuum, London. Bewes T., 2002, Reification or the Anxiety of Late Capitalism. Verso, London. Heller A, 1973, Bedeutung und Funktion des Begriffs Bedürfnis im Denken von Karl Marx, Budapest 1973, trad. it. di Anna Maria Morazzoni La teoria dei bisogni in Marx di, con prefazione di Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano 1974. Heller A. (ed.), 1983, Lukács Revalued , Basil Blackwell, Oxford. Honneth A., 2007, Reification: A Recognition-Theoretical View. University Press, Oxford. Honneth A., 2008, Reification: A New Look at an Old, University Press, Oxford. Lukács G., 1973, Storia e coscienza di classe, trad. it. di G. 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Medail C., 2001, Adorno: i pensieri che incendiarono il '68, in "Il Corriere della sera", 11 aprile 2001, p. 35. Piana G., 1968, Note su "Storia e coscienza di classe", in Piana G., 1968, in "Aut Aut", n. 107, 1968. Ora in Fenomenologia, Esistenzialismo, Marxismo, Lulu.com, 2015. Rifkin J., 1995, The End of Work. The decline of the Global Labor Force and the Dawn of The post Market Era, P. Tarcher, Los Angeles, 1995. II. Ed. 2004. Trad. it. di P. Canton, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato, Mondadori, Milano 2002 (rist. 2012). Rockmore T. (ed), 1987, Lukács Today, Essays in Marxist Philosophy, Ed. by Tom Rockmore, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht. Rutigliano E., 1974, Linkskommunismus e Rivoluzione in Occidente. Per una storia della KAPD, Dedalo, Bari, 1974. Tertullian N., 2005 Tertulian Nicolas , " Adorno-Lukács : polémiques et malentendus ", Cités, 2005/2 n° 22, p. 199-220. Disponibile in linea anche in http://www.cairn.info/revue-cites-2005-2-page-199.htm Thompson M. J. (ed.), 2011, Georg Lukács Reconsidered: Critical Essays in Politics, Philosophy and Aesthetics, Continuum, New York. 286 Abbozzo per una periodizzazione dello sviluppo della classe operaia e del capitale a partire dal 1870 Materiali per un seminario tenuto nel 1968-1969 presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Milano. Premessa Vi è un lavoro preparatorio da fare prima di ogni discorso sui rapporti tra classe operaia e capitale che abbia di mira il tempo presente. Occorre individuare anzitutto i punti di passaggio nodali dello sviluppo, i punti in cui si passa a strutture ed a forme sociali nuove, cercando di caratterizzare nello stesso tempo le forme e le strutture tipiche del periodo di volta in volta preso in considerazione. Naturalmente questa ricerca si serve del materiale di informazione storica particolare che abbiamo a disposizione, ma con l'intenzione di mettere in evidenza il senso generale del processo. Inoltre, ai nostri scopi, è importante attenersi al principio che i fenomeni sociali vengano considerati significativi agli effetti della periodizzazione solo nella misura in cui essi hanno un carattere tipico e rappresentativo, ovvero quando rappresentano la regola e non l'eccezione e possono perciò essere considerati indicativi per l'intero periodo considerato. La periodizzazione che proporremo perciò non intende presentarsi come una pura e semplice cronologia o cronistoria del tutto neutra, ma presuppone la scelta di un centro, di un punto di riferimento che fornisca il filo conduttore a cui possono essere ricondotti, pur con tutte le mediazioni necessarie, 287 aspetti dello sviluppo che possono apparrire molto lontani tra loro. Questo centro non è la struttura economica come un processo materiale delle cose, ma è la lotta di classe, o meglio, come preciseremo in seguito, la lotta operaia. Va da sé che ponendo l'accento sul conflitto di classe, intendiamo sottolineare la necessità di considerare il processo propriamente economico come essenzialmente determinato dalla contraddizione sociale, negando la possibilità di una considerazione dello sviluppo del modo capitalistico di produzione separato da quello della classe operaia. 1 La scelta del 1870 Occorre anzitutto giustificare e discutere la scelta dell'anno 1870 come data iniziale della nostra periodizzazione. Vi è in effetti una ragione molto precisa e significativa di questa scelta. A nostro avviso solo negli anni successivi a questa data è possibile parlare di classe operaia in senso proprio; e solo negli anni successiva a questa data è possibile considerare il modo capitalistico di produzione come sufficientemente generalizzato al punto da rappresentare il modo di di produzione socialmente tipico. Questa tesi non può essere data per ovvia e va dunque dimostrata. Essa implica la dissociazione del legame che connette il sorgere del capitalismo e della classe operaia alla cosiddetta rivoluzione industriale. La rivoluzione industriale, che si usa datare tra il 1760 e il 1830 viene solitamente intesa come una rivoluzione indotta nel processo produttivo da innovazioni di carattere tecnologico. Ma bisogna disstinguere tra le scoperte e le innovazioni tecnologiche e il periodo della loro effettiva introduzione generalizzata. A titolo di memorandum: la macchina a vapore viene inventata da Watt nel 1769, e nello stesso torno di tempo si hanno i vari filatoi meccanici ed a fusi multipli sempre più evoluti: il co- 288 siddetto spinning-jenny (giannetta) viene inventato da Hargreaves nel 1764, il filatoio continuo di Arkwright nel 1769 , il "mulo" da Crompton nel 1779, il telaio meccanico messo in movimento da un motore a vapore nel 1787 (Cartwright). Per tutto il periodo precedente al 1870, l'introduzione delle nuove tecnologie è estremamente lento. Il vecchio modo di produzione oppone a questo processo una resistenza che continua per decenni a sopravvivere e a tenere un posto non trascurabile anche in settori industriali il cui il campo è già in parte conquistato dalla fabbrica moderna. Ernest Ludlow Bogart, nella sua Storia economica dell'Europa, 1760-1939 (UTET, 1953), un'opera che rappresenterà uno dei nostri principali punti di riferimento. sottolinea che lo sviluppo effettivo del vapore e delle macchine a vapore si ebbe "non con la rivoluzione industriale, ma alla fine del XIX secolo ed al principio del XX secolo" (p. 350) . Questa circostanza va connessa direttamente con la permanente disponibilità di forza-lavoro che è una delle caratteristiche proprie del periodo della prima rivoluzione industriale. La causa essenziale della lentezza del processo di introduzione delle scoperte scientifiche e delle tecnologie corrispondenti è dunque data dall'abbondanza di manodopera di origine e di struttura socialmente disorganica e perciò anche socialmente disorganizzata, che può essere costantemente rinnovata e perciò sfruttata nelle forme più brutali e primitive. Ma i dati più significativi su cui si sostiene la tesi del 1870 come inizio del periodo in cui il modo di produzioe capitalistico si afferma a livello sociale riguardano le forme specifiche del rapporto di lavoro e i caratteri della forza lavoro anteriori a quella data. Consideriamo la situazione avendo di mira soprattutto l'Inghilterra, che è la nazione più evoluta dal punto di vista dello sviluppo industriale e traendo le nostre informazioni per lo più dal volume di Dobb, Problemi di storia del capitalismo (Editori Riuniti, Roma 1958). 289 Il sistema di fabbrica, caratterizzato come concentrazione dei lavoratori in un unico luogo di lavoro, continua a convivere fino al 1870 con il sistema del lavoro a domicilio, ed in taluni settori quest'ultimo è addirittura prevalente. Nell'industria tessile, ad esempio, prima di quella data si può calcolare che solo la metà degli operai dell'industria laniera lavora in fabbriche, mentre quindicimila piccoli maestri artigiani con trentratremila garzoni lavora a domicilio e costituisce il nerbo dell'industria. Per quanto riguarda la lavorazione del cotone, solo un quarto delle industrie impiega più di cento operai, mentre nel caso delle calzature e dell'abbigliamento la media scende a 10 dipendenti. Con la consistente presenza del lavoro a domicilio è connessa la figura del capitalista come mercante committente, che in seguito è destinata a scomparire. Il capitalista possiede il capitale per l'acquisto della materia prima. La sua funzione è quella di affidarla poi a piccoli produttori artigiani che posseggono lo strumento di lavoro e di ritirare il prodotto finito che egli venderà sul mercato. Va anche tenuto presente che caratterizzare il sistema di fabbrica soltanto come concentrazione di lavoratori in un unico luogo di lavoro non basta. È necessario andare a vedere in che modo si realizza questa concentrazione e quali sono i rapporti di lavoro nel suo interno. Per tutto il periodo precedente al 1870, in alcuni settori importanti come nel caso dell'industria metallurgica, lo sviluppo avviene per diffusione di piccole officine, piuttosto che secondo la concentrazione del sistema di fabbrica. Ovvero: la fabbrica stessa si configura come una serie di piccole officine e di piccoli laboratori, dati in affitto dal capitalista agli ex-capi artigiani: con l'introduzine della macchina a vapore, il capitalista provvede anche all'erogazione dell'energia necessaria ad ogni officina. Anche in questo caso il possessore di capitale non svolge una funzione propriamente imprenditoriale, ma quella derivante dal possesso di una proprietà immobiliare di uso industriale. 290 Ciò spiega ampiamente il sussistere, anche nei punti di larga concentrazione di manodopera, di rapporti precapitastlici di lavoro che non vanno considerati come sopravvivenze marginali, anche se restano fuori dalle linee tendenziali dello sviluppo. Un esempio caratteristico è quello del sistema del subappalto, che è a sua volta connesso con il sistema di fabbrica costituita come una rete di officine largamente autonome dal punto di vista organizzativo, anche se materialmente unificate dal processo di produzione. L'ex-maestro artigiano, che viene normalmente ed equivocamente caratterizzato come operaio qualificato, riceve la responsabilità diretta di un piccolo settore del processo produttivo che ha ottenuto in appalto dal padrone ed a sua volta assume, controlla e paga la manodopera che si trova alle sue dirette dipendenze. A quesa figura di "operaio qualificato" spetta una funzione imprenditoriale in misura maggiore che al proprietario di capitale. La scomparsa di questa figura coincide con la rilevazione dell'iniziativa diretta della produzione nelle mani del capitalista ed all'eliminazione di quella che sembra essere il contrasto fondamentale del periodo in seno alla forza lavoro. Si tratta appunto del conflitto di interessi tra "operai qualificati" e "non qualificati", che occupano una posizione nettamente diversa nel processo di produzione e rispetto al proprietario di capitale. 2 Le organizzazioni operaie Le osservazioni precedenti forniscono una chiave interpretativa sufficiente per cogliere il senso e l'evoluzione delle lotte operaie e delle organizzazioni della forza lavoro negli anni che stiamo prendendo in considerazione. Anzitutto, per quanto riguarda le organizzazioni della forza lavoro, esse investono essenzialmente il lavoro "qualificato", 291 inteso nel senso or ora precisato. Sino agli ultimi anni settanta la linea di demarcazione tra le masse organizzate e quelle non organizzate coincide con quella tra lavoratori qualificati e non qualificati posti alle loro dipendenze. Ciò si riflette in modo determinante nella struttura dell'organizzazione sindacale, che non ha nulla in comune con l'organizzazione operaia, sia nei metodi che negli obbiettivi della lotta. Il sindacato come organizzazione operaia che tende a difendere il prezzo della forza lavoro attraverso la contrattazione collettiva usanto lo sciopero appare pienamente solo negli anni ottanta (Nuovo unionismo) quando il sistema di fabbrica mina completamente la funzione e la posizione di lavoratori specializzati "semi-artigiani". Fino agli anni settanta l'organizzazione sindacale si presenta nella forma di unioni di mestiere che, oltre ad essere composte esclusivamente di operai qualificati, hanno anche carattere strettamente locale. L'unificazione della forza lavoro si ottiene sulla base non solo dell'appartenenza allo stesso mestiere, ma anche dell'appartenenza alla stessa zona di lavoro. Di qui anche il carattere particolare dei conflitti tra datori di lavoro e operai qualificati che è proprio di tutto il periodo 1850-1870. Le Unioni non sono organizzate su scala nazionale, ma si sviluppano autonomamente a livello locale e rimangono tra loro assolutamente indipendenti. Nascono come associazioni di carattere mutualistico, con una cassa comune destinata a sostenere gli aderenti in caso di scioperi contro il dato di lavoro. Anche quando si giunge progressivamente alla creazione di unioni sindacali centralizzate a carattere nazionale, poiché si mantiene intatta la composizione sociale dei membri del sindacato, esso conserva le caratteristiche organizzative e di metodo delle organizzazioni di mestiere. Il principio su cui si fonda la lotta a questo livello organizzativo è quello di "rendere scarso il lavoro per tenere alti i salari", un principio intorno al quale si articola tutta una serie di 292 misure che vanno a danno della forza lavoro non qualificata. In particolare si punta sul mantenimento dell'apprendistato e sul suo controllo oltre che sulla rigida delimitazione dei mestieri. Le unioni rivendicano il diritto a contrattare con il datore di lavoro il numero degli operai occupati. Si tende al numero chiuso e ad acquisire il massimo potere nella questione del collocamento della manodopera e nel controllo sulla retribuzione a cottimo, dominante nel sistema del subappalto. Il monopolio della forza lavoro viene spinto sino al punto di imporre tasse al lavoratore che viene a cercare lavoro da un'altra città. Talora la metà della tassa viene conservata per pagargli il biglietto di ritorno nei momenti di diminuzione della domanda di forza lavoro. Viene anche mantenuto un fondo per far emigrare membri del sindacato nei periodi di disoccupazione. Le organizzazioni sindacali sono tendenzialmente contrarie all'uso dello sciopero come strumento di lotta e le rivendicazioni sulla riduzione dell'orario di lavoro e sul salario minimo di base restano al di fuori dei loro obbiettivi. Un esempio caratteristico di rifiuto dello sciopero come mezzo di lotta è dato dalle posizioni dell'operaio Weston, contro cui Marx scrisse Prezzo, salario, profitto. Queste caratteristiche delle organizzioni della forza lavoro restano dominanti nel periodo 1850-1870 (vecchio unionismo), mentre il periodo successivo, che va dal 1870 alla fine degli anni ottanta è caratterizzato da una modificazione strutturale della composizione della forza-lavoro, quindi da una crisi nelle vecchie organizzazioni che darà luogo a ciò che viene chiamato nuovo unionismo ed al tempo stesso da una dimensione completamente nuova delle lotte operaie. È forse opportuno caratterizzare gli anni 1870-1889 come periodo di transizione dal vecchio al nuovo unionismo: la posizione del vecchio lavoratore qualificato viene completamente scalzata e ad esso subentra una nuova figura di operaio speciliazzato che non proviene più dalle vecchie organizzazioni di mestiere; e quel che più importa, il rapporto 293 che egli ha con il padrone è lo stesso di quello del manovale: le frontiere tra manovali, semispecializzati e specializzati sono ormai difficilmente tracciabili. Solo con la caduta di questa contraddizione interna si giunge ad una omogeneità sociale della forza lavoro che consente il suo configurarsi in classe. Da una simile ricognizione storica risulta con chiarezza che l'opera di Marx va considerata come una rilevazione delle linee di tendenza di uno sviluppo che non sono ancora divenute socialmente evidenti. In altri termini, il Capitale di Marx, il cui primo volume fu pubblicato nel 1867, più che descrivere una situazione di fatto già matura, anticipa uno sviluppo ch si affermerà solo successivamente. 3 Lo sciopero Abbiamo detto che il periodo 1870-1889 può essere caratterizzato come un periodo di crisi del vecchio unionismo e di transizione verso il nuovo unionismo. Questo passaggio è determinato dalla modificazione nella composizione sociale della forza lavoro e dal mutamento dei metodi e della forma di lotta. Questo è il periodo della introduzione dello sciopero come mezzo fondamentale della lotta operaia. Si registrano scioperi di asprezza e di durata eccezionale. Basti rammentare - facendo sempre riferimento alla situazione inglese - lo sciopero dei meccanici del 1871, durato nove mesi. Un altro fenomeno che viene a cadere per il moltiplicarsi delle iniziative di sciopero è l'impiego dei fondi delle Unioni a scopo di investimento in iniziative produttive. Questi fondi ormai debbono essere totalmente impiegati per sostenere gli operai durante gli scioperi. Nel 1879 l'associazione degli operai meccanici sostiene per gli scioperi una spesa eguale a quella dei precedenti ventisei anni. Nel periodo 1871-1874 si registra un nettissimo aumento 294 degli operai sindacalmente organizzati e cominciano ad affermarsi nuove organizzazioni di operai non qualificati. Gli obbiettivi delle lotte vertono essenzialmente sulla durata della giornata lavorativa ed sui livelli salariali. Su questi punti si delinea infatti l'attacco padronale, che ha anch'esso una caratteristica generalizzata anche se questo attacco non è ancora socialmente organizzato. In questa fase i padroni reagiscono alla depressione tentando la riduzione dei salari, il prolungamento della giornata lavorativa e l'aumento dei ritmi del lavoro. Soprattutto negli anni 1878-79 le lotte operaie hanno un carattere difensivo, di resistenza sulla posizioni precedentemente acquisite. E si concludono in linea generale con sconfitte di parte operaia. Le lotte di questi anni hanno comunque posto il problema del salario minimo legale e della riduzione della giornata lavorativa. Uno dei temi essenziali della lotta dei minatori del carbone, che rappresentano una categoria di fondamentale importanza in questo periodo, è quello dello svincolamento del salario dal prezzo del carbone vigente sul mercato. Questa richiesta deve essere intesa, come la stessa richiesta del salario minimo, come un momento del processo di identificazione del sistema salariale come indipendente dalla dinamica materiale ed occasionale della produzione capitalistica. 4 Il rifiuto del lavoro Siamo ormai alla fine del secolo e dovremmo prendere in considerazione il periodo che va dal 1890 alla prima guerra mondiale. Anni cruciali e di svolta: ora classe operaia e capitale sono realmente l'una di fronte all'altro, e legati l'una all'altro da un unico sviluppo sempre più conflittuale. Naturalmente ci dovremmo ora occupare di troppe cose, e in questo primo contatto converrà invece dirne poche. ed unicamente sul problema della cosid- 295 detta "organizazzione scientifica del lavoro". Questa denominazione è una variante di "scientific management", espressione escogitata da Frederick Winslow Taylor che la pose nel titolo della sua opera The Principles of Scientific Management pubblicata nel 1911, che riprendeva tematiche elaborate a partire dai primi anni ottanta e che avevano già avuto una forma letteraria nella Direzione d'officina (Shop Management) che risale al 1903. Frederick Winslow Taylor Nato nel 1856, nel 1878 entra come operaio manovale in una industria metallurgica, nella quale compie la carriera da mano- 296 vale a macchinista, caposquadra, caporeparto sino a diventare ingegnere capo dell'intera fabbrica (aveva in effetti conseguito nel frattempo il diploma di ingegnere). In ogni caso il "sistema" ha una diffusione molto lenta e in questo arco di tempo le fabbriche in cui viene applicato restano ancora delle eccezioni. Nell'avviare questa tematica, è opportuno sottolineare che essa presuppone il riconoscimento della resistenza operaia all'aumento della produttività come una forma specifica di lotta permanente all'interno della fabbrica. Dietro di essa vi è la questione dell'occupazione e la lotta contro l'intensificazione dello sfruttamento attraverso l'accelerazione dei ritmi del cottimo. Questa resistenza si esprime in varie forme che possono essere sintetizzate dall'espressione "soldiering" - il "far finta di lavorare". Ecco come si esprime in proposito lo stesso Taylor nel capitolo primo dei Principi di organizzazione scientifica del lavoro: "Quando l'operaio torna a lavorare il giorno seguente, invece di fare ogni sforzo per realizzare la maggiore quantità possibile di lavoro, nella maggioranza dei casi egli progetta deliberatamente di fare il meno possibile, molto meno lavoro di quello che è perfettamente in grado di fare, in molti casi fa tra un terzo e metà di una giornata lavorativa. E in effetti se facesse del suo meglio per ottenere il migliore risultato nella giornata, egli verrebbe per questo insultato dai suoi compagni di lavoro, anche più che se si fosse dato per vinto in una gara sportiva. Questo deliberato lavorare lentamente in modo da evitare di fare una piena giornata lavorativa - "soldiering", come viene chiamato in questo paese, ""hanging it out ", come viene chiamato in Inghilterra," ca canae ", come viene chiamato in Scozia - è una pratica quasi universale negli stabilimenti industriali, e prevale anche in larga misura nelle industrie edilizie. Lo scrivente afferma senza timore di smentita che ciò costituisce la più grande piaga di cui la manodopera di Inghilterra e d' America sono ora afflitti." La constatazione da cui muove Taylor è l'impotenza strutturale del sistema tradizionale di organizzazione, che egli carat- 297 teorizza come "sistema di iniziativa e di incentivo" di fronte al "soldiering". Secondo tale sistema la determinazione dei metodi e dei tempi delle operazioni lavorative è sostanzialmente lasciata nelle mani degli operai. Per migliorare la produttività, la direzione non può fare altro che appellarsi alla "capacità di iniziativa" degli operai ed istituire degli "incentivi" materiali per ottenere che questa capacità venga esercitata . Questa caratteristica è propria anche degli esperimenti di "partecipazione agli utili" che debbono essere fallimentari, osserva Taylor, come ogni altro sistema fondato sulla coppia iniziativa/incentivo. Fintantoché la direzione è costretta a prospettare "agli operai il problema di come eseguire il lavoro nella maniera più efficace ed economica" oppure ad imporre direttamente un'accelerazione dei ritmi, il problema della resistenza operaia resta per principio insolubile. La direzione manifesta la propria debolezza già per il fatto che l'operaio è perfettamente in grado di occultare il tempo di lavoro realmente necessario per il compimento di una determinata operazione; e la legalità spontaneamente imposta dalla coesione di classe stabilisce dei limiti a cui il singolo lavoratore non può sottrarsi. Si richiede dunque una completa modificazione del rapporto della direzione rispetto al processo produttivo, una modificazione che comporta a sua volta un mutamento del rapporto tra l'operaio ed il suo lavoro. Lo sfruttamento all'interno della fabbrica è essenzialmente fondato sulla possibilità effettiva del comando sulla forza lavoro. La "direzione aziendale" nei confronti del lavoro non è altro che la mediazione concreta in cui si deve realizzare il comando del capitale sul lavoro. La scoperta essenziale di Taylor è che tale comando è destinato ad un insuccesso se esso si presenta in forma diretta, e che è invece necessaria una completa trasformazione organizzativa che investa l'intera struttura dei rapporti di fabbrica. A questo proposito occorre correggere il discorso comune 298 che viene fatto ancora oggi da parte marxista sull'organiz­zazione scientifica del lavoro: esso si limita a rilevare che essa rappresenta uno sviluppo che si fa sempre più acuto della divisione e della specializzazione del lavoro. Ma questo rilievo non è sufficiente per cogliere il carattere specifico di questa conversione nel metodo dello sfruttamento della forza lavoro. Proprio perché si tratta di una effettiva conversione, il problema non è solo quello della parcellizzazione delle operazioni umane all'interno della fabbrica, ma piuttosto quello di porre la direzione aziendale nella condizione di compiere effettivamente la funzione che le è assegnata. E dunque - così argomenta Taylor - essa deve assumersi l'intera responsabilità di ogni operazione produttiva, predeterminando i modi e i tempi ottimali della sua esecuzione, mentre l'operaio deve essere esclusivamente il semplice esecutore di quelle operazioni. Per illustrare questo punto vale per tutti l'esempio del colloquio con l'operaio Schmidt. A Schmidt viene proposto un aumento nel salario giornaliero senza che nel dialogo si accenni minimamente all'aumento della produttività : si chiede soltanto che l'operaio esegua le istruzioni che riceverà il giorno dopo da una persona che gli viene messa al fianco. "Quando ti dirà di prendere un lingotto e di portarlo, tu lo prenderai e lo porterai, quando ti dirà di sederti e di riposare, ti metterai a sedere; fai questo, punto per punto, durante tutto il giorno. E ciò che è più importante, nessuna rimostranza, perché un uomo di valore fa esattamente quello che gli si dice, e non fa rimostranze, capito? Quando questo tale dice di camminare, tu cammini, e quando ti dice di sederti, ti siedi, e non protesti. Allora domani tu vieni a lavorare qui, e prima di sera capirò se sei davvero l'uomo che cerco o no". Il dialogo tra Taylor e l'operaio ha ben più del valore di un aneddoto. Il mutamento di punto di vista è espresso dal fatto che il discorso non è impostato nel senso: se domani caricherai 47 tonnellate di ghisa riceverai un premio in denaro: ma riceverai 299 un salario maggiorato se farai esattamente ciò che ti sarà detto di fare. I metodi e il tempi, il ritmo di lavoro, le pause necessarie per evitare effetti stancanti con conseguente spreco di energie; tutto ciò sarà già stato preventivamente e sperimentalmente determinato da un ufficio direzionale. Il capitale riesce a comandare il lavoro solo se il lavoro stesso può essere obbiettivato in ogni sua componente materiale, se quindi l'operazione lavorativa può essere analizzata interamente nelle forme, nei metodi e nei tempi della sua esecuzione, e quindi programmata anticipatamente. Il primo compito da assolvere sarà dunque quello di elaborare sistematicamente delle vere e proprie "scienze" relative alle attività esecutive come la spalatura, la posa dei mattoni, il taglio dei metalli, ecc. La direzione deve istituire appositi uffici con compiti di ricerche in questo campo, deve finanziare gli "esperimenti" e creare nuove mansioni. Il termine di organizzazione "scientifica" dovrebbe mostrare che questo è l'aspetto principale del nuovo metodo, che si contrappone al puro ed approssimato empirismo, alle nozioni acquisite per tradizione, alla genialità ed all'esperienza personale del direttore e del capo officina. Il vecchio metodo dell'organizzazione personale deve essere abbandonato: "In passato l'elemento più importante era l'uomo; nel futuro sarà il sistema". Questa evoluzione accompagna significativamente anche la dissoluzione della figura del capitalista individuale a cui subentra il capitale collettivo: una direzione centralizzata che fa capo ad un unico organizzatore che decide in base a criteri derivati dalla propria esperienza personale ogni scelta concernente i metodi produttivi, deve cedere il passo ad un complesso apparato di uffici e di mansioni collegate tra loro che debbono esibire i materiali per operare scelte organizzative scientificamente fondate. Ma tutto ciò non basta. Il secondo passo importante sta nel "mettere insieme la scienza e gli operai" - ovvero, molto prosaicamente, "convincere" gli operai ad un atteggiamento di semplice esecuzione del lavoro secondo i tempi e i metodi "scientifica- 300 mente" predeterminati. Cosa non del tutto facile, evidentemente! Tale opera di convinzione non avrebbe alcuna speranza di successo se fosse condotta nei confronti della classe come tale: bisogna escogitare un modo di far passare questa linea anzitutto attraverso il contatto con l'operaio singolo, separandolo dai suoi compagni di lavoro. In effetti, in questa fase iniziale che ha essenzialmente carattere di progetto, l'unificazione tra la scienza e gli operai passa attraverso il tentativo di disaggregare la classe nello stesso rapporto lavorativo in cui si è formata, all'interno della fabbrica. Si tratta dunque anzitutto di puntare sull'operaio come individuo, nelle sue specifiche qualità individuali, sia di capacità di lavoro sia di natura psicologica. Ciò può essere esemplificato sulla base di quanto Taylor dichiara a proposito del passaggio all'interno di una fabbrica dal vecchio al nuovo modo di organizzazione. La selezione ha già fin dall'inizio questa funzione di isolamento ed il processo di introduzione del nuovo metodo deve essere graduale e richiedere un lungo periodo di tempo perché, come sottolinea più volte Taylor, esso deve coinvolgere un operaio dopo l'altro, presi ad uno ad uno, facendo leva sulle motivazioni individuali e disgregando progressivamente il fronte del lavoro all'interno della fabbrica. Questo processo viene in certo modo istituzionalizzato come forma organizzativa nel senso che l'operaio viene collegato direttamente e invidiaulmente ad un apposito ufficio direzionale che stabililsce giorno per giorno, operaio per operaio, i compiti che egli deve assolvere. Laddove è possibile si cerca di sciogliere le squadre di lavoro e di separare spazialmente gli addetti ad un'unica attività. Tutto ciò si trova in coerenza con la posizione di Taylor nei confronti del contratto collettivo: egli pensa che il nuovo sistema lo rende superfluo.Appare chiaro, dagli scritti di Taylor, è che l'ideologia generale che fa da sfondo all'intero discorso è quella dell'irrealtà del conflitto tra classe operaia e capitale. Proprio perché tale conflitto si fonderebbe su opinioni erronee esso può 301 essere completamente eliminato. Ed è questa la prospettiva in cui si muove Taylor eliminando le cause degli scioperi e dunque gli scioperi stessi. L'ideologia elementare su cui questa prospettiva si basa sta nell'idea che un aumento della produzione è un reale aumento di ricchezza di cui si avvantaggiano sia gli operai che i capitalisti, anzi più gli operai che i capitalisti stessi… per un fatto numerico: in fin dei conti gli operai sono in numero maggiore dei capitalisti! Inoltre secondo Taylor un aumento della produttività non può creare disoccupazione, ma al contrario un aumento di occupazione, almeno nel lungo periodo. Taylor rammenta in più di una occasione che l'introduzione delle macchine ha condotto ad una maggior occupazione ed a un aumento di ricchezza nel lungo periodo. La disoccupazione, secondo Taylor, è un falso problema: con l'introduzione dell'organizzazione scientifica intervengono delle modificazioni di mansioni, ma ogni operaio sarà alla fine occupato, per di più nella mansione per la quale è meglio atto. Disoccupato potrà essere soltanto l'operaio che non ha voglia di lavorare… Su queste pensieri mediteranno i miei lettori. Ma non posso chiudere questo mio intervento senza almeno citare Henry Ford, a cui si deve l'introduzione nella fabbrica della catena di montaggio (1913). Giovanni Piana Opere complete Volume ventunesimo Saggi su Husserl e sulla fenomenologia 2013 4 ISBN 978-1-291-60728-4 Copyright @ Giovanni Piana (2013) Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT 5 Indice 1. La fenomenologia come metodo filosofico, p. 7 2. L'idea husserliana di "filosofia prima", p. 37 3. Introduzione alle Ricerche logiche, p. 51 4. Husserl, Schlick e Wittgenstein sulle proposizioni sintetiche a priori, p. 99 5. Husserl e la cultura cattolica, p. 131 6. Recensioni, p. 147 a) A. Serravezza, Musica e scienza nell'età del positivismo, Il Mulino, Bologna 1996., p. 149 b) Lawrence Ferrara, Philosophy and Analysis of Music. Bridges on Musical Sound, Form and Reference. Excelsior Music Publishing Co., 1991, p. 161 c) Mikel Dufrenne - La notion d'"a priori", Paris,Presses Universitaires de France, 1959, p. 171 d) Omaggio a Husserl a cura di Enzo Paci, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 180 e) H. Zeltner, Das Ich und die Anderen. In "Zeitschrift fiir philosophische Forschung", 1959, n. 2, p. 191 6 7 Giovanni Piana La fenomenologia come metodo filosofico 1992 8 Questo testo è stato pubblicato come introduzione a Paolo Spinicci, La visione e il linguaggio - Considerazioni sull'applicabilità del modello linguistico all'esperienza, Guerini Studio, Milano 1992. 9 1. Ingenuità e pregiudizio Sarebbe certamente un'impresa senza speranza se si volesse tentare di delineare, sia pure in forma largamente introduttiva, il problema della fenome­nologia come metodo filosofico facendo riferimento alla varietà di forme che esso ha assunto nel corso della storia del pensiero nel nostro secolo. Queste forme sono realmente troppe per poter sperare di venirne a capo. Non sarebbe possibile nemmeno una rassegna schematica e sommaria dei modi in cui le tematiche fenomenologiche sono state presentate e ripresentate nelle più varie elaborazioni e integrate in contesti culturali e teorici molto spesso contrassegnati da differenze e profondi contrasti non meno che da somiglianze e da affinità. È tuttavia forse possibile soddisfare un'esigenza che ha un carattere preliminare rispetto ad ogni possibile discussione e approfondimento ulteriore - e precisamente quella di poter disporre di un quadro concettuale passabilmente semplice e completo che ci consenta di acquisire un punto di vista dal quale misurare poi affinità e differenze. Si tratterà allora di fornire una traccia che ci consenta di circoscrivere il nucleo teorico, a nostro avviso, più solido e più fecondo del metodo fenomenologico, operando così in modo indubbiamente unilaterale, ma forse non privo di efficacia in rapporto agli scopi che ci proponiamo. Vogliamo cominciare con il prendere posizione con un modo corrente di proporre il problema sul quale cade spesso l'accento dei divulgatori, favorendo rifiuti polemici certamente troppo semplici. Si tratta di un aspetto che può essere ricollegato ai primi sviluppi della filosofia di Husserl, al motto "Alle cose stesse!" che formulava in positivo ciò che poco più tardi veniva teorizzato come "messa tra parentesi" di ogni teoria e strettamente 10 ricollegato con il tema dell'epoché fenomenologica. Molto spesso si sono considerate affermazioni volte in questa direzione totalmente al di fuori dei contesti di ricerca nei quali esse erano state primariamente formulate, cosicché esse hanno finito con l'assumere il senso del tutto astratto e generale secondo il quale la porta di accesso alla filosofia fenomenologica sarebbe rappresentata appunto dall'assunzione di un atteggiamento di radicale ingenuità, di assoluta innocenza filosofica, che sembrerebbe costituire la condizione affinché ci si apra alla verità del dato, alla datità fenomenologica come tale non coperta da proiezioni di senso precostituite. Che una simile posizione sia esposta a confutazioni molto semplici, si comprende da sé. La stessa formulazione della "messa in parentesi" di ogni opinione pregiudiziale è molto dubbia come scelta filosofica consapevole per il semplice fatto che i pregiudizi agiscono realmente come tali solo se si trovano alle nostre spalle, se essi sono, come pregiudizi, fuori dall'ambito della nostra consapevolezza. Cosicché non può esserci nessun gesto generale di liberazione da tutti i pregiudizi, come se essi potessero essere scacciati tutti in un colpo solo - questa sarebbe soltanto una pura astrazione filosofica. Deve invece esserci anzitutto la messa allo scoperto del pregiudizio nella sua determinatezza e nella determinatezza delle sue conseguenze, e proprio in questa operazione, necessariamente particolare, è possibile la sua disattivazione. Di fatto, quando si parlò di ritorno "alle cose stesse" e di liberazione dai pregiudizi, e talvolta anche di "ingenuità", si aveva di mira un insieme di opinioni ben determinate, con precise conseguenze teoriche, soprattutto nell'ambito di una filosofia dell'esperienza nella quale si facevano valere le istanze della psicologia associazionista. Da questo punto di vista è esemplare il richiamo ad un'osservazione libera da pregiudizi così caratteristica della psicologia della forma ai suoi inizi e poi sempre ribadita - un richiamo che nessuno potrebbe interpretare come espressione di un generico atteggiamento anti-intellettualistico, e nemmeno 11 di una polemica priva di oggetto. Le teorie e le concezioni da "mettere da parte" erano al contrario chiaramente individuate, ed altrettanto lo erano le loro conseguenze nell'inter­pretazione dei fatti di esperienza: cosicché la sottolineatura della necessità di una visione non pregiudiziale non poteva che essere accompagnata dall'esibizione delle distorsioni indotte nei fatti da quelle interpretazioni. 2. Riduzione fenomenologica All'interno di questo orizzonte critico, particolarmente rilevante non solo sotto il profilo filosofico ma anche sotto quello scientifico, si annunciava non già il tema del tutto insignificante dello sguardo filosoficamente innocente, ma il complesso di compiti analitici particolari che venivano prospettati in una grande varietà di direzioni da una teoria dell'intenzionalità degli atti di coscienza. È solo nel momento in cui Husserl ritiene di poter reintrodurre l'idea stessa di fenomenologia attraverso la ripresa del dubbio cartesiano reinterpretato a sua volta alla luce della "sospensione del giudizio" che il motto "alle cose stesse" così come il tema della "messa in parentesi" possono essere proposti come un vero e proprio problema metodologico autonomo. Sorge così la teoria della riduzione fenomenologica. Essa è ispirata da due esigenze fondamentali: da un lato dall'esigenza di caratterizzare con particolare nettezza l'idea di fenomenologia come metodo filosofico, marcandone la distinzione rispetto ad un livello preliminare della ricerca psicologica; dall'altro dall'esigenza, che non viene esplicitamente formulata, ma che motiva in profondità gli sviluppi della teoria, di dare voce a istanze ed a tensioni d'epoca. Entrambe queste esigenze trovano il loro punto di fusione e di massima concentrazione proprio nella ripresa dell'argomen­ 12 tazione cartesiana: infatti la filosoficità del metodo riceve certamente la massima accentuazione proprio con questo richiamo; e nello stesso tempo, il tema fondazionale in esso presente - che aveva del resto già in Cartesio il senso di una polemica non puramente speculativa, ma che investiva l'orientamento dominante nella cultura filosofica della propria epoca - è attraversata dalle inquietudini di una vicenda storica che si muove a partire dalla fine del primo decennio del secolo verso la catastrofe della prima guerra mondiale e al di là di essa alle tragedie del fascismo e del comunismo staliniano. L'azzeramento richiesto dall'epoché fenomenologica tende ad assumere il carattere di un'immensa operazione catartica, che deve giungere ad un ripensamento dell'idea stessa della razionalità ed a un rinnovamento radicale della vita della cultura. Alla luce di considerazioni come queste credo si possa arrivare a comprendere i motivi profondi per i quali la tematica fenomenologica nel suo complesso tenda ad assumere sempre più nettamente il carattere di una filosofia della soggettività che non esita a richiamarsi alla tradizione idealistica e nello stesso tempo quello di un abnorme e gigantesco discorso sul metodo, che sconfina di continuo sul terreno della responsabilità etica e della necessità di una presa di coscienza storica. Si tratta di un aspetto della massima importanza per comprendere l'inclinazione che l'idea di fenomenologia riceve nel corso dello sviluppo del pensiero di Husserl e il modo in cui si innesta con il concetto della crisi. Ma si tratta anche di un orientamento complessivo del problema che sembra non consentirci altro che una riproposizione di quel concetto, riproposizione che è destinata ad impoverirsi ad ogni iterazione. Detto in una parola: il concetto della crisi non può valere per tutto un secolo, altrimenti deve valere per tutti i secoli. 13 3. Filosofia e chiarezza Prima di procedere oltre in direzione delle specificità dei temi fenomenologici,E' indubbiamente necessario ripensare in termini generali all'idea del metodo nella filosofia ed alla sua problematicità interna. Tra gli scopi della filosofia, e fra i suoi scopi più importanti, vi è certamente quello di portare chiarezza nei nostri pensieri. Talvolta il libero corso dei nostri pensieri si inceppa, e noi vogliamo vederci chiaro. La matassa si è imbrogliata, e noi dobbiamo riprenderne il filo. Già in questo possiamo cogliere le difficoltà dell'idea del metodo nella filosofia. Vi è forse un metodo per sbrogliare una matassa che si è aggrovigliata? Avremmo una certa esitazione a rispondere affermativamente ad una simile domanda, perchè ci rendiamo subito conto che non sarebbe affatto facile mettere quel metodo nero su bianco. Non possiamo dire: anzitutto si fa questo, e poi quest'altro, e se succede questo, devi fare quest'altro. Non vi è dubbio che se parlassimo di metodo nel senso di una determinata successione di passi e di procedure che possano essere chiaramente codificate, avremmo ragione di affermare che nella filosofia non vi è metodo alcuno. Tuttavia è altrettanto certo che per sbrogliare una matassa non possiamo procedere in un modo qualunque, ad esempio non possiamo prendere un filo a caso e tirarlo il più possibile verso di noi; e nemmeno possiamo immergere le mani nella matassa e cercare di tirarla da tutti i lati, sperando che il risultato sia proprio quello di dipanare l'imbroglio. Certo, taluni filosofi fanno proprio così, ma non è questo il modo! Vi è qui qualcosa di singolare, quasi paradossale: si deve pensare con ordine, c'è un ordine del pensiero - e proprio per questo pos- 14 siamo parlare di un metodo filosofico. Tuttavia questo ordine non può a sua volta essere riordinato, cosicché un discorso sul metodo sembra essere un'istanza irrinunciabile per la filosofia e nello stesso tempo irrealizzabile in linea di principio. A meno che l'espressione "discorso sul metodo" non venga intesa nella sua accezione più ampia, e in realtà più ricca di senso: un discorso sul metodo come un discorrere o un dibattere intorno ad esso, come un attraversare con i nostri discorsi le regioni dei metodi. Allora le considerazioni che abbiamo sviluppate poco fa non ci conducono affatto in una sorta di vicolo cieco, ma possono essere considerate come osservazioni iniziali aperte a molti possibili sviluppi. Abbiamo detto: quando il pensiero si imbroglia, noi vogliamo vederci chiaro. Del resto per dipanare una matassa che si è imbrogliata è necessario quanto meno prestare ad essa molta attenzione. Ad esempio, in mezzo al groviglio di fili fittamente intrecciati tra loro si dovrà cercare anzitutto di scorgere il capo. Se poi non lo si trova, non resterà forse altra alternativa che appigliarsi ad un filo e tirare un poco, vedere che cosa succede, agendo di conseguenza. Ci vuole metodo, indubbiamente. E nonostante tutte le precedenti incertezze intorno alla questione del metodo posso dire di sapere per certo che una matassa non si può dipanare a occhi chiusi. Il vedere è comunque importante. Ed in questo modo cominciamo con il porre l'accento sul fatto che la fenomenologia come metodo filosofico è anzitutto un metodo intuizionistico, che essa è una forma particolarmente complessa, particolarmente sofisticata di intuizionismo. Annotazione L'immagine della matassa ricorda certamente altre immagini affini proposte da Wittgenstein per la filosofia. Questa connessione con la chiarezza è presente a partire dal Tractatus logico-philosophicus (trad. it. a cura di A. G. Conte, Torino, Einaudi, 1964) 15 fino agli scritti più tardi, con sfumature e tonalità anche profondamente diverse che meriterebbero una discussione dettagliata: inizialmente nella forma esasperata ed utopica di una chiarezza esaustiva ed effettivamente raggiunta che si ribalta, secondo una precisa dinamica interna così caratteristica di quel­l'opera, in un'oscurità impenetrabile di fronte alla quale lo stesso discorso filosofico si ritrae. Ma l'idea che un'opera filosofica consti essenzialmente di "discussioni che mirano ad apportare chiarimenti" (4112.c - come potremmo svolgere parafrasticamente la parola Erläuterung) ha una storia che va molto oltre i rigidi limiti stabiliti dal Tractatus e raggiunge le formulazioni più tarde nelle quali, in varie forme, si insiste invece sulla chiarificazione come scopo effettivo della filosofia da perseguire con una pluralità di metodi (il costante riferimento al linguaggio non ha, io credo, il senso di un richiamo ad un metodo unico e privilegiato). Eppure si tratta di un percorso che resta controverso, che non trova realmente modo di acquetarsi proprio per ciò che riguarda il nesso tra filosofia e chiarezza. In certo senso si potrebbe dire che le situazioni che richiedono la filosofia sono situazioni "bloccate" - lo sono dal punto di vista concettuale, ma non può sfuggire anche una possibile inclinazione esistenziale che si insinua nelle "figure" della confusione filosofica in Wittgenstein. Particolarmente inquietante, per quanto poco sia stato avvertito questo aspetto, è naturalmente la "mosca nella bottiglia" (Ricerche filosofiche, trad. it. di M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1967, oss. n. 309); ma anche, ad esempio "l'uomo prigioniero in una stanza" - "la porta è sbarrata e si apre dall'interno", ma a quell'uomo "non viene affatto in mente di tirare, anzichè di spingere" (Pensieri diversi, trad. it. a cura di M. Ranchetti, Milano, Adelphi, 1980, p. 84) che è una singolare e notevole variazione della precedente. La soluzione è a portata di mano eppure angosciosamente inaccessibile. In frasi come queste si può avvertire anche un altro problema: i problemi filosofici, suggerisce più volte Wittgenstein, derivano da costruzioni artificiose, attraverso una manipolazione ingiustificata delle regole del linguaggio corrente - cosicchè quelle figure di prigionia possono essere considerate figure della complessità della filosofia stessa, all'interno di una contrapposizione irrisolta con la "semplicità" della vita. Il filosofo stesso diventa la mosca nella bottiglia - cosicchè egli non può indicare alcuna strada; ed è 16 ancora il filosofo che spinge ostinatamente la porta verso l'esterno. Ecco una sorprendente reazione alla lettura dei dialoghi di Platone: "Leggendo i dialoghi socratici si ha questa sensazione: che terribile spreco di tempo! A che pro questo argomentare che non dimostra nulla e nulla chiarisce?" (Pensieri diversi, trad. it. cit.,p. 36). La riflessione filosofica assume qui il carattere di un groviglio che sempre pi�� si aggroviglia, di una spirale senza fine alla quale possiamo sottrarci solo balzando nel linguaggio ordinario, ovvero nella vita di tutti i giorni che sta prima e al di fuori della filosofia. Ma se le cose stanno così allora possiamo forse comprendere la frase seguente - il cui senso autentico non lo si coglie certo alla prima lettura: "La vera chiarezza cui aspiriamo è certo una chiarezza completa. Ma questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici debbono svanire completamente. La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio." (Ricerche filosofiche, oss. 133, trad. it. cit. p.71). Le prime due frasi dicono: poichè non possiamo sperare di pervenire a quella chiarezza completa a cui aspiriamo, allora i problemi filosofici non possono svanire completamente. Perciò, ciò che importa è rendersi conto che posso smettere di filosofare in un istante qualunque, ed esattamente nell'istante in cui lo voglio. Se una simile interpretazione è orientata nella giusta direzione, allora si potrebbe sostenere che il problema entro cui Wittgenstein si era dibattuto nel Tractatus, e che aveva indubbiamente uno dei suoi fulcri proprio nell'esasperazione non tanto del tema della chiarezza, quanto di quello di una chiarezza completa, continui ad agire anche negli sviluppi successivi, all'interno dei quali tuttavia non può prendere corpo, come nel Tractatus, in una forma di dogmatismo, ma al contrario in una venatura di scetticismo, che fa leva sul contrasto tra il vivere "semplicemente" e la riflessione filosofica. Allora si potrebbe rammentare a titolo di grande antecedente della frase di Wittgenstein or ora citata la conclusione humeana di fronte al dibattersi della riflessione filosofica tra alternative insolubili: "non curarsene, non badarci: ecco l'unico rimedio. Al quale mi affido interamente" (Trattato sulla natura umana, I, Parte IV, Sez. III, in D. Hume, Opere, trad. it. a cura di E. Lecaldano e E. Mistretta, Bari, Laterza, 1971, p. 231) "Ecco, io pranzo, gioco a tric-trac, faccio conversazione, mi diverto con gli amici: quando, dopo tre o quattro ore di svago 17 ritrno a queste speculazioni esse mi appaiono così fredde, così forzate e ridicole che mi viene meno il coraggio di rimettermici dentro" (ivi, I, Parte IV, Sez. VII, p. 281) Questa vicenda, che qui abbiamo solo rapidamente schematizzata, mostra le complicazioni interne del problema, la varietà delle sue possibili direzioni di sviluppo; ma invita anche a riflettere sul fatto che, assumendo un punto di vista fenomenologico, se da un lato possiamo avvalerci inizialmente di un'immagine "wittgensteiniana", dall'altro è molto probabile che le vie finiranno poi con il divergere o in ogni caso che potranno convivere solo in una sorta di complesso gioco di compensazioni reciproche. In particolare vorrei notare che si possono trarre significativi vantaggi dall'associare la corrosività ironica del modo di pensare di Wittgenstein con la serietà costruttiva così caratteristica del pensiero fenomenologico. 4. Intuizionismo La rivendicazione della fenomenologia come intuizionismo è tutt'altro che frequente - e di ciò non ci si può certamente sorprendere. Più precisamente: questa parola, associata alla fenomenologia, compare certamente con maggiore frequenza nelle polemiche contro il metodo fenomenologico, piuttosto che da parte dei sostenitori di questo metodo. Sembra quasi prevalere presso di essi una sorta di pudore e di timore di fronte a questa parola, certamente per via delle implicazioni che essa ha nella tradizione filosofica. Si tratta di implicazioni che possono essere considerate più o meno desiderabili, ma che in ogni caso hanno sempre esposto la complessità e la ricchezza del pensiero fenomenologico a critiche troppo sbrigative. Io credo invece che, senza esasperare la questione terminologica più di quanto essa meriti dal momento che essa è comunque meno importante delle tematiche effettive di volta in volta ad esse soggiacenti, ci si possa assumere di quella rivendicazione 18 una responsabilità piena e completa. Non ci si deve preoccupare più di tanto, ad esempio, se parlando di intuizionismo, si potranno mettere sul tappeto, eventualmente con accentuazione polemica, i nomi di un Bergson o di uno Schopenhauer: potremmo infatti approfittare di una simile occasione per ampliare la discussione arricchendo il nostro tema con più precisi confronti e paragoni. In Bergson, ad esempio, la parola intuizione allude soprattutto ad una fonte di conoscenza inattingibile con mezzi razionali - e dunque come un'illuminazione che proviene da profondità insondabili. In certo senso l'idea della chiarezza è qui associata strettamente con quella di una oscurità necessaria - un'oscurità fitta e profonda che l'intuizione riesce qualche volta a perforare. Siamo perciò molto lontani dal "vedere" nel senso comune ed in particolare dal vedere come esperienza percettiva, caratteristicamente legata alla superficie delle cose. Al contrario: in questo contesto intuire significa entrare in comunanza con l'interno delle cose, con ciò che non si vede e che perciò non si può neppure rappresentare. La stessa nozione di punto di vista appartiene al vedere, e non all'intuire, al piano della rappresentazione e infine a quello della mediazione "simbolica" e discorsiva che non intuisce, ma analizza e descrive. L'intuizione diventa così la via di accesso alla metafisica, ciò che consente di superare l'esteriorità e di andare oltre la superficie. In Schopenhauer le cose stanno in realtà in maniera un po' diversa. In lui è certamente presente l'idea dell'intuizione come una speciale modalità della conoscenza che ci consente di accedere al livello metafisico del reale, ma questa idea è comunque fortemente caratterizzata dalla possibilità di "vederci chiaro". Così, proprio nelle prime pagine della Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente egli associa l'idea del veder chiaro all'esercizio della riflessione filosofica in genere: la filosofia, egli dice, deve essere in tutto simile ad un lago svizzero - la superficie calma e tranquilla mostra in trasparenza ciò che giace alla massima pro- 19 fondità. La metafisica, il sistema del mondo non può più essere costruito mediante argomentazioni logiche, e tuttavia resta in Schopenhauer l'ideale fondamentale di tutta la tradizione del razionalismo, e cioè l'ideale di una metafisica chiara, pienamente comprensibile, pienamente evidente. È il principio metafisico che può avere le sue oscurità abissali, non il modo in cui possiamo pervenire ad esso attraverso le vie della filosofia. In ogni caso, nella fenomenologia viene meno proprio questo nesso tra intuizione e metafisica, e con ciò cambia radicalmente il senso e la portata di questo richiamo. Il modo in cui il tema dell'intuizione si presenta con forza all'interno di una prospettiva fenomenologica è caratterizzato non già dall'idea di una forma speciale di conoscenza che ci farebbe attingere verità altrimenti inattingibili, ma dal legame con la riduzione fenomenologica, a cui ora dobbiamo ripensare, riconsiderandola nel quadro delle questioni del metodo. Annotazioni 1. In taluni casi, nei testi di Husserl i riferimenti al vedere, al guardare, all'osservare sono, anche sotto il profilo stilistico, particolarmente insistenti e persino fastidiosi. Si veda la lezione seconda dell'Idea della fenomenologia (trad. it. di A. Vasa a cura di M. Rosso), e in particolare p. 66-67 dove si possono contare non meno di quattordici contesti che rimandano al guardare (schauen, rein schauend, hinblicken, vor Augen stehen, schauen­de Wahrnehmung, herausschauen, die geschaute Fülle der Klarheit, ecc.: Husserliana, II, Die Idee der Phänomenologie, 1958, pp. 30-31): anche se la pesantezza che in molti casi ne deriva nella traduzione italiana è talvolta dovuta alla scelta - sicuramente non obbligatoria - di M. Rosso di evitare l'impiego della terminologia dell���" intuire" in rapporto a "schauen", scelta motivata (p. 45, nota 5) con ragioni di aderenza letterale. Ciò che lascia perplessi tuttavia non sono tanto quelle espressioni forzate ("conoscenza guardante" (p. 45), "indagine guardante" (p. 94), ecc.) che il curatore stesso riconosce come "scostanti" - tutte le traduzioni di Husserl debbono pagare uno scotto da questo punto di vista - ma quei passi che mi- 20 nacciano di diventare, senza necessità, incomprensibili proprio a causa di una simile accentuazione della fenomenologia come una filosofia ossessionata dal bisogno di aver sempre qualcosa da guardare. Ad esempio, un conto è notare che, in rapporto al problema della conoscenza, "dobbiamo, operando con lo sguardo (im schauenden Verfahren), approfondire una per una tutte le sue figure fondamentali" (operando con lo sguardo?) - e un altro è notare che questo approfondimento deve avvenire secondo procedure intuitive. 2. H. Bergson, Introduzione alla metafisica, trad. it, a cura di V. Mathieu, Bari, Laterza, 1971: "Intuizione chiamiamo qui la simpatia per cui ci si trasporta all'interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente di inesprimibile. L'analisi, al contrario, è l'operazione che riporta l'oggetto a elementi già conosciuti, vale a dire comuni a questo oggetto ed a altri (...) Nel desiderio, eternamente insaziato, di abbracciare l'oggetto intorno a cui è condannata a girare, l'analisi moltiplica senza fine i punti di vista per completare una rappresentazione sempre incompleta; varia senza soste i simboli, per perfezionare una traduzione sempre imperfetta (...) Se esiste un mezzo per possedere una data realtà assolutamente, invece di conoscerla relativamente, per porsi in essa invece di assumere punti di vista su di essa, per averne l'intuizione invece di farne l'analisi, insomma per coglierla all'infuori di qualsiasi espressione, traduzione o rappresentazione simbolica, la metafisica è proprio questo. La metafisica è, dunque, la scienza che pretende di fare a meno dei simboli" (pp. 45-46). 3. Il filosofo, scrive Schopenhauer nel bellissimo terzo paragrafo della Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (trad. it. di A. Vigorelli, Milano, Guerini, 1990) non può aver dubbi sulla parte che gli spetta rammentando la favola del topo di campagna e del topo di città che Orazio racconta nel libro secondo delle sue Satire. Il topo di campagna si accontenta del poco che riesce ad ottenere ma poi, si lascia convincere dal topo di città a rubacchiare sui resti dei lauti pasti dei ricchi che vivono nella città. I cagnacci del padrone di casa lo convincono tuttavia a tornare nella selva. Magari poco, ma almeno sicuro. Al filosfo spetta certamen- 21 te la parte del topo di campagna: anzitutto perchè "il poco, ma posseduto con sicurezza e certezza incontrovertibili, deve essere per noi meglio del molto, in gran parte costruito sulle belle parole, sulla capacità di imporsi e di affermarsi, il cui godimento può perciò venire turbato in un attimo da una critica imparziale e intrepida". Vi è dunque un intento rivolto alla costruzione solida, dalle giuste e meditate proporzioni, anche se priva di lussuosità magniloquenti; ma di questo intento non può che far parte anche un'esposizione provvista della "massima intelligibilità possibile", "ottenuta mediante la precisa definizione del significato di ogni espressione, un requisito estremamente necessario per la filosofia, che ci assicura dell'errore e dall'inganno intenzionale e rende ogni conoscenza ottenuta nell'ambito della filosofia un possesso sicuro, e non tale da poterci essere di nuovo strappato da un equivoco o da un'ambiguità scoperti in seguito". Per questo "il filosofo cercherà sempre la limpidezza e la chiarezza, e si sforzerà di assomigliare non ad un torrente torbido e impetuoso, ma piuttosto ad un lago svizzero che, grazie alla sua calma, benché così profondo, ha grande trasparenza, ed è proprio questa a renderne visibile la profondità" (pp. 22-23). 5. Evidenza L'essere degli enti deve essere ridotto al loro modo di apparire: questo è ciò che dice la teoria della riduzione fenomenologica. O anche, riprendendo e in realtà anche un poco modificando una formula estremamente concisa che si trova nelle Meditazioni cartesiane (V, §46): Tanto d'essere, quanto di apparire. Dobbiamo tuttavia essere in grado di cogliere l'enorme distanza che separa il senso in cui questa formula va intesa dell'esse est percipi di Berkeley, alla quale è letteralmente così vicina. Più precisamente: il principio di Berkeley intende cogliere l'essenza del mondo stesso, la "vera natura delle cose" e dunque non può essere separato dalla metafisica immaterialista così come dalla nuova dimostrazione dell'esistenza di Dio la cui necessità sta 22 nella perennità di uno sguardo che mantiene in essere il mondo stesso. Ma non sfugge certo a Berkeley il profondo significato epistemologico di quel principio, come è attestato dalla sua Teoria della visione: una discussione critica di questo testo si presta in modo in particolare per un'introduzione alle tematiche fenomenologiche. Nella riformulazione fenomenologica dell'esse est percipi di Berkeley non si vuol dire assolutamente nulla sulla vera essenza del reale. Si tratta invece di un sorta di gesto filosofico, come se si stendesse il braccio per indicare un orizzonte di ricerche possibili il cui filo conduttore è rappresentato dall'idea di una caratterizzazione degli enti attraverso l'esibizione di differenze che riguardano i loro modi di manifestazione, piuttosto che attraverso formulazioni definitorie. Ad un'ontologia oggettiva deve subentrare un'ontologia soggettiva, ma questa non è altro che una onto-fenomenologia, ovvero un'ontologia fenomenologicamente fondata. Vi sono qui diversi aspetti particolarmente significativi in rapporto alla nozione di intuizione - se vogliamo ancora usare questo termine nonostante tutti gli equivoci di cui è portatore e che ne scoraggiano l'impiego. In primo luogo l'intuizione non è più una specie di sonda che peraltro dovrebbe essere applicata proprio a qualcosa che viene posto come insondabile in via di principio. Ma è soprattutto notevole il modo in cui viene qui effettuato il richiamo all'evidenza. A questo proposito è tutt'oggi necessario sottolineare - nonostante la molta acqua passata sotto i ponti del dogmatismo epistemologico di un tempo - che del tutto a torto ci si è talvolta lasciati intimorire dalle critiche così frequentemente rivolte da logici ed epistemologi allo stesso impiego della parola evidenza nel nome autorevole delle geometrie non euclidee o del metodo assiomatico, o di entrambi insieme. In quelle critiche infatti, che si astenevano di norma da qualsiasi analisi storica o concettuale, si assumeva implicitamente una nozione di evidenza psicologizzante - mentre l'evidenza fenomenologica di 23 cui ora si parla non ha proprio più nulla a che vedere con quella sorta di impedimento psichico, di severo ammonimento interno di fronte alla contraddizione o al contrario di compiaciuto assenso interiore al quale così spesso ci si è appellati nella tradizione nel tentativo di giustificare l'immediatezza delle evidenze logiche. Inoltre è degno di nota che in questo contesto non svolga più alcuna funzione la concezione che fa dell'intuizione una speciale facoltà della mente con la quale si attinge un'altrettanto speciale forma di conoscenza, inaccessibile attraverso altre vie. Ma se non ci troviamo alla presenza di nessuna speciale facoltà della mente e così anche di nessuna forma speciale di conoscenza che essa possa attingere - di che si tratta dunque? Si tratta sopprattutto di fare riferimento - in rapporto ad un problema nel quale la matassa dei nostri pensieri si è imbrogliata o rischia di imbrogliarsi - ad una situazione esemplare che può essere colta dalle nostre capacità immaginative e percettive e che può dunque essere descritta e liberamente variata e nuovamente descritta; di attirare l'attenzione sulle relazioni e sui rapporti interni che la caratterizzano. Molte risposte più complesse e apparentemente più profonde rischiano sempre di lasciarsi sfuggire il punto essenziale, che sta proprio nel fatto che l'intuire e il mostrare a cui si richiama la fenomenologia consiste anzitutto in questo attirare l'attenzione, in questo mettere in rilievo qualcosa che potrebbe passare inosservato, in questo far notare. E tutto ciò può avvenire naturalmente soltanto se il "guardare" che qui si richiede non è una pura registrazione passiva di tutto ciò che c'è, ma un guardare indagante che cerca risposte a problemi e che ha quindi di mira degli scopi. Annotazioni 1. La frase citata delle Meditazioni cartesiane dice propriamente: "Soviel Schein, soviel (durch ihn nur verdecktes, verfälschtes) Sein..." - (Husserliana, I, Den Haag, 1950, p. 133) do­ve si sot- 24 tolinea in parentesi che il principio enunciato, del quale si parla come "legge formale apodittica", non sopprime affatto la possibile copertura dell'essere da parte dell'apparire. Su questa frase si sofferma E. Paci in Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bari, Laterza, 1961, pp. 12 sgg. 2. Sul significato di Berkeley per Husserl, cfr. E. Husserl, Storia critica delle idee, trad. it. di G. Piana, Milano, Guerini, 1989, lez. XXI, "La scoperta di Berkeley e il fraintendimento naturalistico del problema della costituzione del mondo reale" (pp. 163 sgg.). - Richiamandosi alla propria nozione di "fenomenologia sperimentale", P. Bozzi (Fenomenologia sperimentale, Bologna, Il Mulino, 1989) rammenta positivamente Berkeley: gli oggetti di cui si occupa la fenomenologia sperimentale "esistono come oggetti per la sperimentazione in quanto sono presenti e disponibili all'ispezione diretta (...), ossia, per seguire la terminologia corrente, in quanto sono percepiti. L'enunciato di Berkeley, esse est percipi, può essere una buona guida nella definizione del metodo fenomenologico. Questo esse est percipi, naturalmente, è di natura del tutto metodologica e non contiene neppure un'ombra del soggettivismo berkeleyano. L'esse est percipi metodologico insegna a guardare ai fatti con atteggiamento libero, svincolato da ogni forma di conoscenza precostituita, anche se fondatissima, e allena lo spirito di osservazione distraendolo dalle convinzioni del 'dover essere'" (p. 26). 3. Una polemica vivacissima con l'impostazione "psicologistica" della tematica dell'evidenza, che può essere ricondotta all'idea che la differenza tra la condizione dell'evidenza e della non evidenza sia riconducibile alla presenza di una speciale sensazione interiore che sarebbe presente nel primo caso e mancherebbe nel secondo è contenuta nella lezione quarta dell'Idea della fenomenologia di Husserl. "I teorici empiristi della conoscenza, che tanto parlano del valore dell'indagine sull'origine e intanto rimangono così lontani dalle vere origini quanto i più accaniti razionalisti, vogliono farci credere che tutta la distinzione fra giudizi evidenti e non evidenti consista in un certo sentimento (Gefühl) per il quale si contraddistinguono i primi. Ma che cosa potrebbe rendere intelligibile un sentimento? Quale dovrebbe essere il suo com- 25 pito? Dovrebbe forse gridarci: Alt! Qui è la verità? Ma in questo caso perchè dovremmo credergli? Questa credenza deve avere a sua volta un indice di sentimento (Gefühlsindex)? E perchè un giudizio che dice due per due fa cinque non ha mai questo indice di sentimento e perché non può averlo? Come si arriva propriamente a questa dottrina degli indici di sentimento?" (op. cit. p. 90) In questo contesto si ripresenta la distinzione tra livello intuitivo e livello simbolico che è presente anche in Bergson, e sarebbe sicuramente interessante rilevare analogie e differenze. Il passo precedente continua infatti in questo modo: "Ebbene, si dice: lo stesso giudizio, lo stesso logicamente parlando, ad es. il giudizio due per due fa quattro, può essermi una volta evidente ed un'altra no, lo stesso concetto del quattro può essermi dato una volta intuitivamente (intuitiv), con evidenza, ed un'altra in una rappresentazione meramente simbolica. Dal punto di vista del contenuto, ci sarebbe quindi da entrambe le parti lo stesso fenomeno, ma solo da una parte una prerogativa di valore, un carattere che conferisce valore, un sentimento privilegiante. Ma ho veramente da entrambe le parti la stessa cosa, tranne che una volta ho un sentimento annesso, l'altra volta no?... Se una volta vedo che due per due fa quattro, e un'altra volta lo dico in un giudicare vagamente simbolico, intendo una medesima cosa, ma intendere una medesima cosa non significa avere lo stesso fenomeno. Il contenuto è nei due casi distinto: una volta vedo, e nel vedere è dato lo stato di cose stesso; l'altra volta ho l'intendere simbolico. Una volta ho intuizione (Intuition), l'altra volta intenzione vuota... Prendiamo un esempio ancora più semplice: se una volta ho il colore rosso in una viva intuizione e un'altra volta penso al rosso in una vuota intenzione simbolica, forse che nei due casi è materialmente presente lo stesso fenomeno di rosso, ma una volta con un sentimento e l'altra volta senza sentimento?" (p.91). La vecchia protesta "alle cose stesse!" può ben risuonare di fronte a questa teoria degli indici di sentimento: "Ma si guardino da vicino i fenomeni stessi, invece di parlarne dall'alto e di abbandonarsi a costruzioni!" (p. 91). 4. È il caso di porre il problema di una componente "intuizionista" anche in Wittgenstein? Certamente lo è - e da diversi punti di vista. Il riferimento dominante al linguaggio ha portato 26 spesso l'attenzione degli interpreti in altre direzioni. Ma, almeno io credo, si può parlare già in rapporto al Tractatus logico-phi­ losophicus di "intuizionismo linguistico" fornendo una precisa interpretazione della frase secondo la quale "alla domanda se per risolvere i problemi matematici l'intuizione serva, si deve rispondere nel senso che appunto il linguaggio fornisce qui l'intuizione necessaria" (prop. 6.2331). Qui il tema dell'in­tuizione viene anzitutto riportato a quello del semplice vedere, e la questione del simbolismo si ripresenta in forma nuova - non più dal punto di vista della mera rappresentazione ed eventualmente della pura intenzione vuota, ma come semplice segno (disegno), come cosa della percezione, che viene anzitutto visivamente colta. Il "mostrare" di cui si parla nel Tractatus non ha affatto solo il senso magniloquente, che tanto piace ai topi di città, del silenzio mistico, ma è collegato ad una filosofia del calcolo ed in generale dei linguaggi simbolici, così come in generale agli sviluppi successivi della ricerca di Wittgenstein, e in modo particolare proprio allo stile filosofico delle Ricerche filosofiche (trad. it. a cura di M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1967) dove nel contesto di considerazioni metodiche particolarmente rilevanti per il senso dell'opera si legge, come una frustata, la frase: "Non pensare, ma guarda": "Denk nicht, sondern schau!" (oss. 66) (In certo senso fa comprendere le difficoltà e la complessità del problema il fatto che mentre in precedenza ci lamentavamo degli eccessi del linguaggio del "guardare", ora dobbiamo esprimere il nostro rincrescimento per il fatto che nella traduzione italiana quell'imperioso "guardare" si converta nell'innocuo e riflessivo "osservare"). 6. Richiami platonici Ponendo le cose in questo modo, è difficile non ripensare al Menone platonico. Ripensiamo a Socrate che traccia un quadrato sul terreno e dice: "Dimmi ragazzo, riconosci in questo un quadrato?" Il ragazzo risponde: "Sì!" - e questo sì è naturalmente della massima importanza. La "dimostrazione" inizia esattamente in 27 quella sillaba. E poi prosegue di passo in passo, anzi di figura in figura, giungendo infine alla costruzione finale che assume questa forma: Il doppio del quadrato dato ABCD è il quadrato costruito sulla sua diagonale, come si trae dal modo della costruzione e da questo suo risultato conclusivo. Il modo poi in cui si sviluppano i discorsi e le azioni di Socrate può essere descritto proprio con le espressioni che noi stessi abbiamo impiegato. Socrate attira l'attenzione, Socrate fa notare questo e quest'altro, finchè la giusta relazione, il giusto rapporto viene finalmente colto. Ma nel ripensare a questo straordinario momento della storia del pensiero dell'Occidente, il momento che rappresenta forse l'autentico luogo d'origine della strenge Wissenschaft, occorre forse mettere un poco ai margini il motivo innatistico, che è sempre stato ad esso ricollegato, naturalmente in connessione con la tematica platonica della reminiscenza. Già in Platone infatti tutto il problema sembra essere ricondotto alla soggettività conoscitiva che riscopre dentro di sé evidenze dimenticate, evidenze che appartengono peraltro alla costituzione ideale del mondo oggettivo. Vorrei invece suggerire che forse potremmo anche attenerci, ed in certo senso arrestarci, al primo ed essenziale momento del racconto platonico, nel quale si dà per acquisito che la giusta relazione, il giusto rapporto è in ogni caso afferrabile diretta- 28 mente, visivamente all'interno della figura, nel modo e nella maniera in cui sono connesse insieme le sue parti, anche se questo modo, questa maniera non cade affatto subito sotto gli occhi, ma ha bisogno di essere messa allo scoperto, deve essere fatta notare passo dopo passo. Annotazione C'è un punto in cui Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione, dovrebbe rammentare il Menone platonico, e proprio la dimostrazione socratica, e invece curiosamente la citazione manca. In luogo di essa ci viene messa sotto gli occhi la figura seguente: In essa noi dovremmo scorgere con evidenza la relazione affermata nel teorema di Pitagora, almeno nel caso dei triangoli isoscele. Affinchè questa relazione salti veramente agli occhi è forse opportuno far ruotare il quadrato platonico di 45 gradi: 29 oppure disegnare anzitutto il triangolo rettangolo secondo la disposizione che ci è più familiare, costruendo poi i quadrati sui cateti. L'una figura è dunque contenuta nell'altra. Nel corso di una discussione nella quale Schopenhauer attacca il metodo assiomatico e dimostrativo euclideo con una fortissima tensione provocatoria, rilevando la profonda incomprensibilità e oscurità della dimostrazione più chiara, cogliendo l'occasione per dire che nella dimostrazione euclidea del "teorema di Pitagora" "vengono tirate delle linee senza che se ne sappia il perchè: più tardi ci accorgiamo che erano dei nodi scorsoi che si stringono all'im­provviso per strappare l'assenso dello studioso: il quale, tutto compreso di meraviglia, è ora costretto ad ammettere una cosa la cui connessione intrinseca gli resta perfettamente incomprensibile" (trad. it. di A. Vigliani, Mondadori, Milano 1989, p. 108), la figura viene contrapposta duramente alla dimostrazione, per esaltare la sua capacità di mostrare l'esistenza di un rapporto assai complesso da dire, e con un balzo veramente geniale veniamo riportati indietro da Euclide a Platone, da un'elaborazione che ha ormai di mira una scienza deduttiva sistematicamente esposta alle tematiche che stanno alla sua origine. Naturalmente l'intuizionismo di Schopenhauer può essere citato anche come un pensiero che non era in grado nemmeno di sospettare di lontano quale partita teorica si giocasse nei tentativi di dimostrazione dell'"assioma 30 delle parallele". Così egli scrive, nel Capitolo XIII dei Supplementi al primo volume del Mondo: "Il metodo dimostrativo di Euclide ha generato dal suo stesso grembo la più indovinata parodia e caricatura di sé, con la celebre disputa sulla teoria delle parallele e con i continui tentativi di dimostrare l'undicesimo assioma (...) Questo scrupolo di coscienza mi ricorda la questione di diritto posta da Schiller: 'Da anni mi servo del naso per sentire gli odori: ma avrò davvero su di esso un diritto incontestabile?'" (op. cit. p. 901). 7. Per un'analitica dei concetti bastardi Anche in rapporto al platonismo fenomenologico sono certamente possibili diverse inclinazioni interpretative, ed il modo or ora proposto di illustrare la ripresa all'interno dell"intuizionismo" fenomenologico dello spirito del platonismo individua una precisa linea di tendenza all'interno delle molteplici possibilità di intendere e sviluppare le tematiche fenomenologiche. La stessa espressione di "intuizione delle essenze" ha sempre fatto pensare soprattutto all'afferramento della pura idealità nel caso empirico, mettendo in secondo piano le operazioni tendenti a dare rilievo ai nessi strutturali interni della situazione esemplare che si dànno nella manifestazione; ed ha anche distolto l'attenzione dalla problematica della formazione e della genesi dei concetti a partire dall'esperienza fenomenologicamente riconsiderata. La linea di tendenza che abbiamo cercato di prospettare porterà invece l'accento sul problema fondamentale di una analisi che prenda le mosse non già dai concetti logicamente in ordine, in quanto essi sono già il risultato di operazioni razionalizzanti, ma da concetti prossimi all'esperienza e modellati su di essa. Vi è tutta una tradizione di pensiero che ha operato una 31 svalutazione di questo problema fondamentale, come se questi concetti "intuitivi", questi concetti che mi piacerebbe chiamare - in realtà ancora con un ricordo platonico - concetti bastardi, fossero null'altro che formazioni vaghe e inarticolate, validi al più sotto l'aspetto pragmatico, per gli scopi delle pratiche quotidiane, ma privi di qualsiasi consistenza e di interesse teorico. Contro queste svalutazioni occorre invece rivendicare come un autentico compito filosofico una vera e propria analitica dei concetti bastardi, dimostrandone la possibilità e la portata. Una simile indicazione non deve in nessun modo essere interpretata cone un tentativo di limitare dal basso l'autonomia delle operazioni del "pensiero puro". Si tratta invece di dispiegare il ventaglio dei significati possibili e quindi dei problemi che sorgono all'interno di un processo di "formazione del concetto" che ha il suo inizio nelle forme della nostra costituzione primaria del mondo. All'interno di queste considerazioni deve allora ricevere il massimo risalto l'importanza delle operazioni di razionalizzazione così come deve essere chiaramente riconosciuta la funzione di superamento dell'esperienza che a queste operazioni spetta in via di principio. Ciò di cui si sente il bisogno, sotto questo profilo, non è affatto un generico rifiuto dei concetti "intuitivi", ma il poter misurare effettivamente le distanze rispetto ad essi, così come una chiara individuazione del senso e della direzione delle operazioni di razionalizzazione. Ciò può essere compiuto solo se si assume un punto di vista processuale, e non attraverso un salto che non sa nemmeno di avere un trampolino sotto i propri piedi. Annotazione Platone parla di "ragionamenti bastardi" nel Timeo, 52 b( ) a proposito della problematica della spazialità, ed a questa espressione faccio riferimento nel saggio intitolato "Riflessioni sul luogo" in La notte dei lampi, Milano, Guerini, 1988, p. 250. 32 8. I dati e le regole Il problema di una chiarificazione genetica dei concetti si situa peraltro in un ambito tematico più ampio. La riduzione fenomenologica, lo abbiamo osservato poco fa, riconduce l'essere degli enti al loro modo di apparire, e ciò rappresenta soprattutto una formula per indicare l'apertura di una molteplicità di compiti descrittivi diretti alle formazioni di senso che si realizzano su questo terreno. All'as­sol­vimento di questi compiti è naturalmente demandata la realizzazione di un'onto-feno­menologia come campo di indagine che giace all'interno del grande titolo di una filosofia dell'espe­rienza. Ma ora che prestiamo particolare attenzione alle questioni metodiche dobbiamo chiederci: in che modo deve essere concepita questa descrizione? Io credo intanto che si debba anzitutto escludere ciò che sembra implicito nello stesso impiego della parola. Quando si parla di descrizione sembra subito che si evochi una sorta di passiva registrazione di piccoli dettagli, quasi che alla fine del compito il risultato debba essere qualcosa di simile ad una lista o ad un elenco di oggetti e delle loro proprietà. Lo sbaglio qui non consiste tanto nel richiamo al dettaglio, al­l'os­ servazione minuta, che non è affatto disprezzabile, quanto l'idea di una raccolta di dettagli in funzione dell'esibizione di elenchi, e per di più di elenchi di oggetti. La situazione non migliorerebbe poi in modo significativo se in luogo di oggetti o di cose parlassimo di dati. Parole come dato o datità ricorrono spes­so nel linguaggio fenomenologico, ed a maggior ragione dobbiamo mettere in guardia da un fraintendimento. Non solo ciò che interessa la descrizione fenomenologica non è il dato empirico nella sua accidentalità e nelle determinatezze del suo qui ed ora: questa è una circostanza ovunque ribadita. Bisogna invece precisare che ciò che viene ricercato, l'obbiettivo autentico della descrizione, 33 non sono affatto in generale dati, ma regole, e precisamente quelle regole che determinano la manifestazione di questa o quella formazione percettiva, di questa o quel­la formazione oggettuale in generale. Si tratta di stabilire in che modo variando determinate condizioni della situazione percettiva, si modifichi anche il suo senso, e ciò fa tutt'uno con l'evidenziazione di nessi e rapporti funzionali, di modi di articolazione, di rapporti di determinazione reciproca. In questo senso mi sembra più importante parlare piuttosto che di dati, di regole fenomenologiche, e dunque di strutture, il cui afferramento rappresenta il vero obbiettivo della ricerca. La nozione della regola va infatti posta insieme con quella di struttura ed insieme contribuiscono a determinare più precisamente l'idea stessa di descrizione. Ciò va detto non solo in rapporto ai modi di apparire, ma anche agli aspetti noetici necessariamente correlativi, in rapporto dunque ai modi dell'inten­dere. In altre parole: anche nel campo dei vissuti vi sono nessi e articolazioni, e dunque anche in rapporto ad essi si impone l'esigenza di una descrizione che miri all'afferramento della struttura. Annotazione L'osservazione che P. Bozzi fa valere in rapporto alla nozione di "fenomenologia sperimentale" secondo la quale si tratta di vedere in "quell'innesto di caratteristiche osservabili" che è l'oggetto stesso "che cosa dipende da che cosa, che cosa varierà variando qualche cosa, che cosa resterà togliendo qualche cosa" vale in realtà anche per la "fenomenologia pura" (op. cit. p. 26). 9. Geometria dell'esperienza Vorrei concludere richiamando ancora una volta il Menone platonico e l'insegnamento fondamentale che di cui possiamo trarre 34 per la delineazione di un'idea di fenomenologia che porti l'accento sul tema della struttura. Con il Menone platonico ci troviamo alle origini della geometria, e in queste origini possiamo cogliere un preciso punto di connessione tra intuizionee concetto, tra schema formale e visione intuitiva. Già in Euclide, nel quale peraltro sono ancora vivi i rapporti con i concetti modellati sull'esperienza, comincia con il prevalere un ordine di tipo nuovo, nel quale la chiarezza e la connessione concettuale debbono essere anzitutto ricercate sul piano linguistico, cioè sul piano delle forme proposizionali nelle quali le conoscenze geometriche trovano espresssione. Si tratta del passaggio ad una nozione essenzialmente nuova della dimostrazione, nella quale dimostrare non significa più semplicemente mettere davanti, far notare, attirare l'attenzione sulle relazioni interne tra gli oggetti. È appena il caso di rammentare che questo concetto della dimostrazione, e quindi l'idea della deduzione che Euclide pratica sistematicamente per la prima volta è ciò che ha sempre giustificato il carattere di modello della geometria per il razionalismo filosofico della tradizione. Ora, l'esemplarità della geometria può essere rivendicata anche in rapporto alla nozione di fenomenologia, purchè questo richiamo venga proposto ripensando alle origini della geometria nell'autentico spirito platonico, nel quale si impone soprattutto l'idea di regolarità generali direttamente afferrabili nelle configurazioni dei dati. Più precisamente: la metafora della fenomenologia come disciplina "geometrica" può essere considerata particolarmente espressiva non in rapporto ad una nozione qualunque di fenomenologia, ma in rapporto ad un'inter­pretazione del metodo fenomenologico come un metodo fenomenologico-strutturale. Essa traccia in certo senso una linea di demarcazione. Le diverse fenomenologie pretendono ovunque di proporsi come filosofie dell'esperienza. E potranno anche, con varie inflessioni e con diverse sfumature, rivendicare per sè una matrice intuizionistica. 35 Non è facile invece trovare nelle varie direzioni in cui hanno preso forma le tematiche fenomenologiche la tesi fondamentale secondo la quale l'esperienza ha una struttura come una tesi che può essere esplicitata ed illustrata parlando di una "geometria dell'esperienza". Ed è infine interessante notare che una simile tesi fondamentale, intesa secondo l'angolatura proposta da quella metafora, non la si ritroverà certamente per motivi di principio, e in primo luogo per lo spostamento intervenuto nell'idea stessa dei compiti attribuiti alla filosofia, in tutti gli sviluppi fenomenologici in cui si sono sovrapposti o nei quali sono intessuti motivi e punti di vista di origine e di ispirazione esistenzialistica. Al con­ trario quella metafora può suggerire la fondatezza della critica dell'astrattezza della fenomenologia, a partire dalla quale del resto quei motivi e quei punti di vista avevano preso forma. 36 37 Giovanni Piana L'idea husserliana di "Filosofia Prima" 1989 38 Questo testo è stato pubblicato come Presentazione del volume di E. Husserl, Storia critica delle idee, trad. it. a cura di Giovanni Piana, Guerini, Milano 1989, di Erste Philosophie, Parte I, Husserliana VII, 1923-24, Nijhoff, Den Haag, 1956. 39 Nell'anno 1956 veniva pubblicata come volume VII della Husserliana la prima parte di Erste Philosophie (Filosofia prima) a cui faceva seguito, nel 1959, la seconda parte, entrambe a cura di Rudolf Boehm [1]. Si trattava, per l'essenziale, di un corso di lezioni tenuto da Husserl presso l'Università di Freiburg nel semestre invernale 1923-24, nettamente suddiviso in due parti. In esso Husserl si proponeva di fornire un'introduzione e un'illustrazione del concetto di fenomenologia seguendo dapprima la via di una riflessione critica di carattere storico-filosofico e quindi quella di una discussione approfondita del tema della riduzione fenomenologica, riunendo l'intera trattazione sotto il titolo originariamente aristotelico di Filosofia prima, titolo assunto per indicare una prospettiva dalla quale avrebbe dovuto essere riconsiderata la fenomenologia stessa. Il testo che viene ora pubblicato in traduzione italiana rappresenta l'intera parte prima di Erste Philosophie, e precisamente le ventisette lezioni di cui essa consta [2], ad esclusione delle dissertazioni e delle appendici che sono testi elaborati indipendentemente e normalmente non destinati alla stampa, associati dal curatore al testo principale sulla base di motivi tematici e cronologici. Il titolo Storia critica delle idee è di Husserl stesso e il testo, dattiloscritto dall'originale stenografato ad opera di Landgrebe e variamente elaborato da Husserl in vista di una pubblicazione, può certamente, sia per la sua relativa completezza stilistica, sia soprattutto per la sua compattezza tematica, essere considerato come un lavoro autonomo, indipendentemente dalla Teoria della riduzione fenomenologica a cui, come abbiamo rammentato or ora, è dedicata la seconda parte. L'idea della fenomenologia come filosofia prima determina naturalmente l'orizzonte in cui si sviluppa la riflessione. Essa si annuncia fin dalle prime battute quando la terminologia aristotelica viene ripresa con esplicito richiamo all'apertura di senso di 40 quell'espressione: "filosofia prima", e non "metafisica", non solo perché quest'ultimo termine appare troppo compromesso da impieghi che ne hanno in qualche modo irrigidito il senso, ma soprattutto perché in questo senso irrigidito vi sono implicazioni che contrastano con le stesse radici del modo di pensare fenomenologico. Altrimenti stanno le cose con la priorità della filosofia prima. In essa sono presenti direzioni che sembrano corrispondere al tema fenomenologico a partire dal momento in cui Husserl si accinge ad approfondire ed a radicalizzare la portata filosofica del metodo, sempre più separandolo dal terreno della riflessione psicologica da cui esso era originariamente sorto. Giustamente, quindi, per la genesi del problema ci si può ricollegare molto indietro alle lezioni del 1907 su L'idea della fenomenologia che presentano la prima formulazione della teoria dell'epoché e, in tempi più vicini, alle Idee per una fenomenologia pura del 1913, un'opera nella quale il problema di un'analitica fenomenologica del campo della coscienza viene dispiegata in tutta la sua ampiezza e in tutta la sua portata nel quadro di una dottrina filosofica di ampio respiro. Infatti, se la soggettività è stata riconosciuta - e questo riconoscimento comincia certo con la reinterpretazione dell'argomentazione dubitativa di Descartes nella teoria della riduzione fenomenologica - come sede di ogni formazione di senso, come luogo di origine di ogni obiettività, si tratti di quelle che delineano i campi di indagine delle scienze positive o delle obiettività di cui è costituito lo stesso mondo di esperienza che ci è dato nell'atteggiamento naturale, allora una ricerca volta alla chiarificazione della soggettività stessa, del suo modo di operare, delle sue funzioni e delle sue strutture, finirà prima o poi con il rivendicare un carattere preliminare non solo rispetto al patrimonio scientifico già dato, ma anche rispetto all'intero arco delle questioni che possano a vario titolo essere attribuite all'ambito della filosofia. 41 Certo, l'idea che la descrizione fenomenologica abbia un carattere in qualche modo preliminare e dunque debba precedere e nello stesso tempo preparare il terreno a ulteriori livelli di indagine, è un'idea variamente ricorrente in rapporto a una nozione lata di fenomenologia, non specificamente legata all'elaborazione husserliana, e tuttavia senza la pregnanza filosofica che essa ora tende a ricevere: la fenomenologia come filosofia prima deve assolvere il compito che spetta anzitutto alla filosofia secondo l'impronta che essa ricevette alle sue origini greche e naturalmente, in un'inscindibile unità, alla scienza stessa, di vincolare ogni acquisizione conoscitiva ad un terreno di evidenze primarie, in modo che la razionalità che si pretende viva nella stessa produzione conoscitiva possa ricevere una conferma radicale, capace di sottrarla ad ogni dubbio possibile. La preliminarità della fenomenologia va dunque intesa come già orientata verso quella problematica fondazionale che riceverà la sua formulazione più compiuta e significativa nella Crisi delle scienze europee. Certamente manca qui ancora il tema del "mondo della vita", e talvolta può sembrare, stando alla lettera di certe enunciazioni, che si proponga, sotto il titolo di "filosofia prima", qualcosa di simile a una disciplina completamente realizzata e attraversata da parte a parte dall'evidenza, capace di garantire per sé e per ogni conoscenza in generale. E invece anche quelle enunciazioni potranno essere meglio comprese pensando all'evoluzione che questa tematica è destinata a subire quando il richiamo alle giustificazioni soggettive riceverà il carattere di una rivendicazione della fondamentalità della filosofia rispetto alle scienze stesse, in quanto la filosofia si assume il compito di rammentare ad esse la loro origine e il loro scopo nella vita concreta degli uomini. Stando a questo orientamento del problema vi è spazio per accentuazioni che mostrano con chiarezza il prevalere sulla questione epistemologica di una presa di posizione etico-storica di fronte a un'epoca che sembrava essere la dimostrazione drammaticamente concreta dell'impotenza di 42 una forma di razionalismo tutto giocato sull'"obiettività". Nelle lezioni di Filosofia prima questi temi si avvertono nella richiesta di una scienza che sappia trovare la vocazione intransigente della verità, e dunque nell'esasperazione dell'istanza fondazionale a cui è del resto dovuto l'inarcarsi dello stile laddove questi temi vengono richiamati, il suo tendersi senza il pudore dell'enfasi, l'iterazione spesso apertamente fastidiosa di parole chiave in certo modo inaudite e di cui occorre apprezzare anzitutto l'interna animazione polemica. Ma vi è anche un altro aspetto del problema, certo strettamente intrecciato con questo, e che tuttavia è in grado di accennare ad una sua diversa inclinazione. Parlare di filosofia prima non significa forse, richiamandosi ad una considerazione che sta all'inizio, rivolgersi ai principianti della filosofia per indicare loro la strada che conduce alle sue soglie? Dunque non si tratta dell'aspirazione ad una disciplina che faccia da coronamento ad un patrimonio di conoscenze e che contenga le conoscenze più alte, ma al contrario di un richiamo all'elementare, a ciò che ha certo carattere fondamentale, ma nel senso dell'abc - di un'acquisizione, a un tempo, semplice e necessaria per accedere ai campi della riflessione filosofica. Il tema di una introduzione alla filosofia fa del resto parte integrante dell'origine e dello sviluppo di Filosofia prima [3]. In questa direzione possono essere considerate persino le Meditationes de prima philosophia di Descartes - dal momento che ciò che conta in esse, secondo Husserl, non sono tanto le pretese prime pietre di un sapere assoluto, quanto piuttosto l'individuazione dello "stile necessario" di una riflessione filosofica ai suoi inizi [4]. In tutto ciò è ancora ben presente la tematica fondazionale, ma sarebbe un errore non cogliere qui un'ambivalenza che riporta l'attenzione sui momenti concreti del metodo e quindi, nello stesso tempo, sulla necessità di dotarsi di strumenti teorici per lo sviluppo di ricerche particolari all'interno di un campo di indagine in linea di principio aperto. L'istanza fondazionale dapprima tanto en- 43 fatizzata da apparire smisurata e inarrivabile si stempera in un compito finalmente alla nostra portata. Ci imbattiamo così in quella che è forse la questione interpretativa fondamentale intorno alla fenomenologia nella forma elaborata da Husserl. In essa, l'analitica fenomenologica - e ciò significa: la descrizione minuta, attenta al dettaglio, rivolta a problematiche di volta in volta particolari, certo, dentro un quadro unitario delineato in grande - corre il rischio di essere in qualche modo oscurata da un discorso d'insieme che esaspera la teoria del metodo secondo direzioni di senso che certamente le pure motivazioni teoretiche non sono in grado di giustificare. Proprio su questo problema, proiettato in una dimensione storico-filosofica, questa Storia critica delle idee è in grado di apportare un contributo decisivo. Il suo contenuto effettivo è rappresentato da un ripensamento delle principali problematiche fenomenologiche che vengono riconsiderate alla luce dello sviluppo storico della filosofia europea, dagli inizi platonici sino a Kant, nei suoi momenti che possono essere ritenuti, da questo punto di vista, esemplari. È appena il caso di dire quanto sia erroneo commisurare una simile esposizione ad un'effettiva trattazione storica. Al suo centro sta sempre, infatti, la fenomenologia stessa. Si può dire che non vi sia tema fenomenologico importante che non venga qui richiamato in modo più o meno ampio, dalle iniziali considerazioni sulla logica sino al tema "monadologico", e quindi alla problematica dell'intersoggettività e della costituzione intersoggettiva che solo più tardi, nelle Meditazioni cartesiane, arriverà a una teorizzazione approfondita. Per questo lato, la Storia critica delle idee è una sintesi magistrale che si presta, molto più di altri lavori husserliani, a illustrare le tematiche fenomenologiche principali e a renderne chiare le implicazioni. Ma ciò che ne accresce la portata e ne arricchisce il senso è certamente il fatto che queste tematiche sono colte nella vicenda di uno sviluppo - quindi nel modo del loro primo sorgere e poi nelle varie forme del loro presentarsi e ripresentarsi, nelle posi- 44 zioni e nelle opposizioni che esse generano. Già per questo si può parlare di una storia delle idee, una storia che è critica proprio perché essa non è semplicemente lasciata a se stessa, ma è sempre filtrata attraverso un problema teoretico dominante. Il modo in cui questa vicenda è narrata, le insistenze e le accentuazioni, le critiche e le valutazioni che vengono via via effettuate gettano una luce viva sull'impianto di principio della problematica fenomenologica nel suo insieme. In rapporto a questo impianto è decisivo il nodo storico-teoretico che sta al centro di questa Storia - e precisamente l'interpretazione dell'opposizione tra le tendenze del razionalismo e gli orientamenti empiristici più o meno venati di scetticismo e del modo in cui la fenomenologia si riferisce a essa. Si può forse pensare che su ciò vi sia ben poco spazio per controversie: le ascendenze razionalistiche della fenomenologia sono anche troppo evidenti e vi sono certamente buone ragioni per affermare che l'intera prospettiva fenomenologica sorga dalla critica radicale delle posizioni empiristiche e si mantenga viva nel quadro di questa polemica. Una simile osservazione può certo pretendere di dimostrare in modo ovvio la propria validità. È appena il caso di rammentare che l'evoluzione della nozione di fenomenologia è profondamente segnata dal distacco dall'orizzonte psicologico nel quale essa era stata originariamente formulata, e quindi anche da una polemica che già nelle Ricerche logiche è particolarmente pronunciata in direzione dell'atteggiamento intellettuale e delle impostazioni problematiche dell'empirismo, che del resto Husserl considera ancora attuali e dominanti nelle tendenze positivistiche. Si impone così, sempre nelle Ricerche logiche, una serrata ripresa del motivo platonistico dell'afferramento diretto delle generalità mentre, poco più tardi, Descartes verrà chiamato in causa per conferire al metodo la sua definitiva impronta filosofica. I richiami kantiani che vanno sempre più accentuandosi fino al martellante ribadimento della fenomenologia come unica 45 e autentica filosofia trascendentale, l'idea di una scienza della soggettività che assume talora toni idealistici e che anzi spesso rivendica l'idealismo come propria interna vocazione - tutto ciò sembra rappresentare una coerente linea di sviluppo che approfondisce a tal punto la distanza con le posizioni empiristiche da fare apparire improponibile qualunque riconoscimento di una funzione motivante in rapporto alla formazione della problematica fenomenologica o quanto meno da limitare questo riconoscimento a una sua irrilevante preistoria. Ora, proprio questa Storia critica delle idee, che ripercorre a modo suo questo sviluppo, mostra quanto una simile prospettiva interpretativa sia troppo semplice e unilaterale, fornendo al tempo stesso chiarimenti essenziali per penetrare nel problema preservandone la necessaria complessità. Si deve così prestare particolare attenzione al modo in cui già nelle lezioni sulla filosofia greca viene considerata la scepsi sofistica: la necessità di una critica radicale dello scetticismo in genere e di un suo definitivo superamento è certamente fuori questione; e tuttavia nelle argomentazioni scettiche non debbono essere colte soltanto stimolanti negazioni, ma soprattutto la presenza "in una forma ancora vaga e primitiva", di "un motivo completamente nuovo, di fondamentale rilevanza per la coscienza filosofica dell'umanità". Questo motivo sta racchiuso proprio nel soggettivismo che si trova alla base della costruzione degli "ingegnosi paradossi" scettici, dal momento che in esso "per la prima volta, l'intero mondo reale - e di conseguenza la totalità dell'oggettività possibile in generale - viene considerato "trascendentalmente", come oggetto di una conoscenza possibile, di una coscienza possibile in generale", cosicché "la soggettività viene considerata puramente in quanto esercita queste funzioni trascendentali, e la sua coscienza, la funzione trascendentale stessa, come ciò in cui o attraverso cui tutti gli oggetti pensabili ricevono per un soggetto di coscienza quel contenuto e quel senso che debbono poter avere per esso" [6]. 46 Queste considerazioni preparano certamente il balzo a Descartes, ma sarebbe erroneo, dal punto di vista di Husserl, ritenere che in Descartes questi motivi implicitamente sollevati dallo scetticismo giungano, se non a una realizzazione, almeno ad un'esplicitazione. Al contrario, in Descartes, "mancò l'approfondimento del senso effettivo del compito che il relativismo scettico poneva in modo inevitabile alla filosofia" [7] Questo approfondimento deve essere invece ricercato nella direzione dell'empirismo moderno - in quella tendenza avviata da Locke e portata a pieno sviluppo da Berkeley e da Hume. La riflessione che si sviluppa intorno ad esso lungo l'intera seconda e terza sezione della Storia critica, rappresenta indubbiamente il suo punto culminante, e ciò proprio per la rilevanza che la tematica empiristica riveste ai fini della formazione del concetto di fenomenologia, e persino, vorremmo esplicitamente sottolineare, per quel concetto di fenomenologia a cui è possibile e necessario dare la forma di sviluppo di una filosofia prima. In questa riflessione, il fatto che già in Locke i bagliori del problema della verità si attenuino nei barlumi del lume di candela, oppure che in Berkeley siano in ultima analisi predominanti interessi teologici e preoccupazioni apologetiche, e infine che il tema dello scetticismo riesploda nuovamente in Hume in una forma tale da giustificare il giudizio secondo il quale la filosofia di Hume rappresenta "l'aperta bancarotta di ogni filosofia che intenda dare chiarimenti scientifici sul mondo mediante la scienza della natura o la metafisica" [8], tutto ciò non può fare perdere di vista il fatto che qualcosa di simile a un progetto di filosofia fenomenologica delineata in concreto può prendere forma soltanto a partire dal programma lockiano nel quale la coscienza diventa un titolo per problemi descrittivi determinatamente posti e per un'indagine onnilaterale orientata dal principio del "ritorno alle fonti originarie dell'intuizione a partire dalle quali ogni conoscenza deve essere sistematicamente chiarita" [9]. Ciò che deve essere anzitutto sottolineato in rapporto all'empirismo in genere è il passaggio 47 alla realizzazione effettiva di un compito nel quale si ritrova già la concretezza del lavoro fenomenologico, per quanto oscurato da fraintendimenti psicologistici e da latenti controsensi scettici: "Non si tratta di una costruzione semplicemente vuota, di una scolastica dei concetti. L'empirista è indubbiamente rivolto a problemi concretamente afferrabili e alla loro soluzione effettiva mediante un lavoro che deve essere effettivamente intrapreso. Egli ha inoltre realmente a che fare con qualcosa; il suo lavoro non è privo di frutti, qualcosa prende forma tra le sue mani; ed è per questo che si può imparare qualcosa da Locke e dai suoi seguaci; si vede sempre ciò che essi vedono e che essi vedono qualcosa, che qualcosa si va delineando nello svolgimento del lavoro" [10]. Tutta la trattazione, così ricca di interesse, che Husserl dedica all'empirismo inglese mostra quanto poco si tratti di riconoscimenti estrinseci. Al contrario: emerge con estrema chiarezza da questa esposizione che le sole istanze del razionalismo non potrebbero ricevere alcuno sviluppo e tanto meno potrebbero far sospettare la possibilità di una metodologia fenomenologica senza che esse siano ripensate e nuovamente riproiettate sulle tematiche di quel positivismo immanente [11] che caratterizza l'orientamento empiristico. Né dall'ego di Descartes né dall'io penso di Kant può derivare qualcosa di simile ad un'"egologia" effettivamente sviluppata, proprio perché né nell'uno né nell'altro è presente il problema fondamentale: quello di una filosofia che sia giunta a proporre la "coscienza" come titolo per un effettivo campo di indagine e che abbia individuato nella descrizione delle correlazioni intenzionali il mezzo principale per assolvere la propria funzione chiarificatrice. Si tratta invece del problema che sta al centro dell'orientamento empiristico e che trova la sua elaborazione più compiuta nell'"opera mirabile" [12] di Hume nella quale è possibile vedere, mettendo da parte la componente scettica, "il primo tentativo sistematico di una scienza delle pure datità di coscienza", così come il primo progetto sistematico del- 48 la "problematica costitutiva concreta", la "prima concreta teoria puramente immanente della conoscenza", e dunque, sia pure in forme empiristico-sensistiche, "il primo abbozzo di una fenomenologia pura" [13]. Si comprende allora come la stessa critica serrata che viene condotta in uno stretto intreccio con queste valutazioni - e che conduce a nozioni destinate a ricevere una portata particolarmente ampia negli sviluppi successivi, come quella della "naturalizzazione della coscienza" - assumano su questo sfondo la loro massima pregnanza. Quanto più si è giunti a sfiorare il nucleo del problema, tanto più vistosa appare la distorsione che in rapporto a esso viene operata, tanto più questa distorsione deve essere aggredita e nettamente superata. Non può sfuggire infine come l'attirare l'attenzione su questi aspetti non sia affatto senza conseguenze sulle questioni che abbiamo inizialmente sollevato intorno alla priorità della filosofia fenomenologica. Detto in breve: se è vero che nell'istanza fondazionale verso cui è già puntata questa priorità è latente il rischio che motivazioni di ordine ideologico, per quanto importanti e ricche di significato per altri versi, tendano a prevalere sull'impianto teoretico ed a fare apparire lo stesso problema fondazionale più un luogo per esercitazioni esortative che un titolo per compiti di ricerca, occorre allora riconoscere che questo rischio si manifesta anzitutto in inerenza alla ripresa di motivi razionalistici. Uno dei vantaggi non secondari di questa Storia critica delle idee, oltre a quello di proporci un'inusuale via d'accesso alla fenomenologia attraverso il ripensamento critico di alcuni dei nodi cruciali della storia della filosofia europea, è certamente quello di rammentarci di continuo il complesso legame con la tradizione empiristica che ci riporta alla determinatezza dei compiti analitici e alla ricchezza intrinseca di una prospettiva filosofica che non ha ancora cessato di dare i suoi frutti. 49 Note [1] Erste Philosophie (1923-24), I: Kritische Ideengeschichte; II: Theorie der Phanomenologischen Reduktion, Husserliana VII e VIII. Martinus Nijhoff , Den Haag 1956 e 1959. (I titoli delle sezioni, dei capitoli e delle lezioni sono di Rudolf Boehm) [2] Husserliana, VII, pp. 3-199. Questo primo ciclo di lezioni venne tenuto dal 2 novembre 1923 al 18 dicembre 1923. Il secondo ciclo di lezioni venne tenuto dopo le festività natalizie, a partire dall'8 gennaio 1924. [3] Rammenta Rudolf Boehm (Husserliana, VII, p. XXII) che le lezioni di Filosofia prima derivano, insieme al seminario tenuto nel semestre invernale del 1922-23 intitolato Introduzione alla filosofia, da quattro conferenze tenute da Husserl a Londra nel 1922 intitolate Il metodo fenomenologico e la filosofia fenomenologica. [4] Infra, Lez. IX. [5] Ibid. [6] Ibid. [7] Infra, Lez. X. [8] Questo giudizio verrà ribadito nel par. 23 della Crisi delle scienze europee nel corso di uno sviluppo che riprende ín larga parte, ma in forma assai più povera, lo schema della Storia critica (par. 10-27). [9] Infra, Lez. XX. [10] Ibid. [11] Ibid. [12] Infra, Lez. XXII. [13] Ibid. 50 51 Giovanni Piana Introduzione alle Ricerche logiche di Husserl 1968 52 Questo testo è stato pubblicato come introduzione alla traduzione italiana di E. Husserl, Ricerche logiche, a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968 53 §1 Il lavoro di Husserl nel campo dei problemi della logica, che trova una prima e notevole espressione nelle sue Ricerche logiche, si rivela tuttora di difficile valutazione, soprattutto se si tenta di considerarlo alla luce della logica contemporanea nel suo complesso. Questa incertezza è visibile sia da parte degli interpreti husserliani, sia da parte del logico specialista. Nel primo caso ci si limita spesso ad un discorso illustrativo, che restando rigorosamente all'interno dei principi, dei metodi e infine anche della terminologia fenomenologica, evita di entrare in contatto con la problematica logica più recente, oppure si accenna alla discussione di alcuni momenti particolari di con­fronto dalla quale si avverte l'assenza di un'effettiva carat­terizzazione della posizione che l'opera di Husserl occupa all'interno delle linee principali di sviluppo della logica mo­derna. Da parte del logico specialista si può notare invece, in linea generale, la tendenza a ritenere che - a parte il problema di una valutazione com­plessiva della filosofia di Husserl - il contributo husserliano verso la logica non rientri in quel solco che egli considera come determinante nella storia recente della propria disciplina. Che poi di fatto l'opera husserliana abbia po­tuto avere una certa influenza - il cui peso resta ancora, peraltro, tutto da valutare - o che alcuni spunti problematici di origine husserliana riemergano talora nella letteratura logica, può essere considerato come una circostanza interessante, ma che non con­sente ancora di modificare l'atteggiamento sul problema della valuta­zione del contributo di Husserl in questa direzione. Nella sua forma più estrema, questo atteggiamento può trasformarsi nell'interrogativo se il "logico" Husserl debba effettivamente entrare in una storia signifi­cativa della logica contemporanea [1]. Non ci sembra tuttavia né utile né necessario tentare in questa sede una risposta immediata a questo interrogativo, come se esso rappresen­tasse una condizione preliminare all'apertura 54 del problema del senso del lavoro di Husserl nell'ambito della logica. La stessa posizione di questo interrogativo in una forma così recisa implica in realtà una certa presa di posizione di carattere molto generale nei confronti dell'idea della logica e della sua elaborazione moderna. Dal 1900-1901, l'anno di pubblicazione delle Ricerche lo­gi­ che, gli studi logici hanno conosciuto uno sviluppo imponente, tanto da poter essere indicati come uno dei fatti più rilevanti, dal punto di vista teo­rico, del nostro secolo. Questo sviluppo è contraddistinto da una mol­teplicità di direzioni, da un'ampia serie di confluenze di impostazioni di diversa origine, oltre che da una comprensione e interpretazione dei risultati che varia spesso di autore in autore, di periodo in periodo. Ma questa complessità nella formazione e nell'elaborazione della logica mo­derna, non toglie il fatto che la logica formale appare oggi come una disciplina autonoma, come una disciplina scientifica che ha acquisito una posizione di fondamentale importanza all'interno delle discipline che lo sviluppo sociale chiede siano messe in gioco nella pro­mozione delle nuove forme del processo produttivo. Questo riconosci­mento non conduce soltanto all'individuazione di una nuova figura di lavoratore scientifico destinato ad occupare un proprio posto ed a svol­gere una propria funzione in rapporto ad altri lavoratori scientifici: ciò comporta, in particolare, che il passato della logica venga considerato unicamente in rapporto alle acquisizioni effettivamente do­cumen­tabili e registrabili, che istituiscono, al di sopra del contesto sempre aperta­mente problematico della discussione reale, le linee fondamentali rile­vanti, le vie maestre dello sviluppo. Esse stesse saranno poi contrasse­ gnate da fasi e da momenti essenziali di transizione - momenti inter­medi di superamento interno che segnano il passaggio irreversibile ad un livello nuovo. Si forma così non soltanto un quadro intellettuale entro cui la tematica logica deve essere inscritta, ma anche uno schema dello sviluppo che da tale quadro è direttamente imposto. Una riformu­lazione teorica di principio 55 è sempre indubbiamente possibile: ma già il perseguimento di un ritorno storico che riscopra i limiti e i termini del dibattito entro il quale prende forma l'idea moderna della logica ha il carattere di una messa in questione; e lo ha necessariamente perché in questo ritorno si arriva a cogliere una fase dello sviluppo che non ha ancora di fatto di fronte a sé punti di confluenza e di conden­ sazione, luoghi di passaggio già visibili e identificati: l'orizzonte dello sviluppo non è ancora racchiuso nello schema. Nel caso delle Ricerche logiche, la loro lettura è parti­colarmente esem­plificativa perché riconduce appunto ad uno stadio del problema in cui la certezza delle soluzioni e delle scelte, la determinazione dei concetti fondamentali che debbono costituire la nervatura di questa nuova disci­plina - nuova nei suoi caratteri di autonomia - è oggetto di una ricerca che non può ancora realizzarsi nella forma di un'esposizione sistematica, di trattato o di manuale. Un primo modo di affrontare i temi che esse presentano è dunque quello di disporsi in questo at­teg­giamento, con­ siderando le Ricerche logiche come una componente di un dibattito in corso, i cui confini si allargano almeno nella duplice direzione della psicologia e dell'economia - che si trovano entrambe ad un momento di svolta e di complessiva ristrutturazione e reinterpretazione - apren­dosi problematicamente sul significato complessivo che la questione della natura della logica come scienza riceve all'interno della discus­sione scientifica che caratterizza l'ultimo scorcio del secolo XIX. Ciò appare già chiaro dal fatto che le Ricerche logiche si presentano anzitutto come un tentativo di superamento radicale della prospettiva di assorbimento della logica nella psicologia, che Husserl caratterizza globalmente come psicologismo. Questa tendenza va del resto consi­derata come momento di un orientamento più ampio che si sviluppa di pari passo con l'enorme sviluppo della psicologia sperimentale, con i suoi tentativi di elaborazione teorica e di giustificazione di principio, dopo il rifiuto comtiano della possibilità della psicologia come scienza. Questa 56 atmosfera di auto-affermazione della psicologia è già direttamente avvertibile in quella sorta di elogio di questa nuova scienza che Franz Brentano premette alla sua Psicologia dal punto di vista empirico. Non soltanto si indica qui la psicologia come l'effettiva scienza del futuro, come la scienza a cui in un futuro non troppo lontano tutte le altre scienze dovranno essere subordinate nella loro applicazione pratica [2], ma si arriva a sottolineare come la conoscenza delle leggi che regolano la modificazione degli stati d'animo, nei singoli e nelle masse, dovrebbe alla fine contribuire in maniera decisiva ad orientare la prassi del "poli­tico", liberandolo da quell'incertezza che "si rivela ogni volta che un avvenimento eccezionale modifica improvvisamente la situazione poli­ tica" [3]. Insieme con l'affer­marsi della psicologia nel suo diritto ad esi­stere, si accresce anche - sino alle sue estreme sfrangiature utopistiche - l'esten­sione dei compiti che essa sarebbe destinata ad assolvere, i pro­blemi che essa dovrebbe portare a definitiva soluzione. All'interno di questo orientamento di ordine generale, lo psicologi­smo logico nelle sue diverse varietà può essere considerato come l'indi­rizzo dominante all'interno degli studi logici nella seconda metà del secolo XIX. Nello stesso tempo si fa strada, attraverso gli studi di logici che hanno dietro le proprie spalle, come è del resto il caso di Husserl, gli studi aritmetici e geometrici, piuttosto che la filosofia romantica tedesca, l'idea della logica come disciplina matematica che, coltivata all'inizio in sfere relativamente ristrette, era destinata in seguito a rive­larsi come l'effettiva direzione progressiva nel campo degli studi logici. Che quest'idea della matematicità della logica dovesse essere connessa ad una critica della tendenza psicologistica non era una circostanza im­mediatamente ovvia. E dallo stesso Husserl nella sua prima opera, dove già si prospetta l'idea di una logica generale dei metodi simbolici o semeiotica [4], questa connessione tra il problema della matematicità della logica e la necessità di una concezione "non psicologistica" di questa disciplina non viene colta 57 con chiarezza e in tutta la sua effettiva portata [5]. Sarà questo il motivo principale che indurrà Husserl a so­spendere la pubblicazione del secondo volume della Filosofia dell'arit­metica, già annunciato nel 1891 come pronto in prima stesura, e a cui pensava ancora almeno fino al 1894 [6]. Questa critica diventa invece il tema essenziale dei Prolegomeni a una logica pura, dove si mostra con una ricchezza di motivi che hanno conferito a questa discussione un carattere di decisività ampiamente riconosciuto, che la logica, proprio in quanto è una disciplina "matematica" nella sua essenza, non può essere interpretata psicologisticamente e che ogni interpretazione di questo genere deve necessariamente condurre a conseguenze ed a impli­cazioni che la dimostrano oggettivamente autocontradditoria. Questa critica coinvolge non soltanto l'indirizzo psicolo­gistico più espli­cito - un indirizzo che nella tradizione tedesca può essere fatto risalire sino a Beneke per giungere sino ai logici contemporanei di Husserl che si trovano sotto l'influenza di Stuart Mill - ma anche quella difesa del­l'autonomia della logica che trova appiglio nella distinzione kantiana tra logica pura e logica applicata [7] e che si sviluppa in Herbart e negli herbartiani. Coloro che hanno tentato di giustificare mediante il concetto della normatività la "purezza" della logica non sono riusciti ad acqui­sire motivatamente questo fondamentale punto di vista che considera l'omogeneità di principio della sfera matematica e di quella logica [8]. Proprio il fatto che questa parte introduttiva delle Ricerche logiche rappresentava un consistente momento di rottura con gli indirizzi do­minanti nel campo degli studi logici nella seconda metà dell'Ottocento, mostrando come la direzione progressiva della logica fosse da ricercare in quell'indirizzo che Husserl definisce matematizzante, ha contribuito alla sua notorietà ed alla sua efficacia. La critica dello psicologismo si salda qui con l'affermazione decisa del fatto che, con la sua assunzione nel­l'ambito delle discipline matematiche, la logica ha ritrovato la loca­lizzazione che le spettava fin dall'inizio per la sua stessa natura interna. 58 L'opposizione da parte "filosofica" di fronte a questo sviluppo non può che essere considerata regressiva: Non il matematico, ma il filosofo oltrepassa la sua sfera naturale e legittima quando si oppone alle teorie "matematizzanti" della logica, e non vuole affidare i suoi temporanei figli adottivi ai loro genitori naturali. La degnazione con la quale i filo­sofi che si occupano di logica amano parlare delle teorie matematiche delle inferenze non muta il fatto che la forma matematica della tratta­zione, in queste come in tutte le teorie rigorosamente sviluppate (assu­mendo naturalmente il termine di teoria in senso autentico) è l'unica forma scientifica, l'unica che offra perfezione e completezza sistematica, che consenta di abbracciare tutte le questioni possibili e le forme possibili della loro soluzione" [9]. Da questo punto di vista, Husserl ha in comune con i logici matema­tici dell'epoca l'interesse caratteristico di quegli anni verso la logica leib­niziana [10] ed orientato da questi intenti di fondo è indotto a sottoli­neare come precursore della moderna logica matematica il nome di Ber­nard Bolzano. Ricordato da Cantor a proposito del problema dell'infi­nito attuale, e segnalato all'at­ten­zione dei matematici da Hankel e da Stolz [11], Bolzano come logico era in realtà sconosciuto [12]; tanto più sor­prende il sicuro giudizio che Husserl pronuncia su di lui. Dopo aver dichiarato che con i primi due volumi della sua Wissenschafts­lehre, Bol­zano può essere indicato come "uno dei più grandi logici di tutti i tem­pi", Husserl ricorda l'ascendenza leibniziana di Bolzano. "Teoreticamente egli è da porre in rapporto abbastanza stretto con Leibniz con il quale condivide importanti idee e concezioni fondamentali ed al quale si trova molto vicino anche dal punto di vista filosofico. Certo, anche Bolzano non ha interamente esaurito la ricchezza delle intuizioni logiche di Leibniz, soprattutto per ciò che concerne la sillogistica matematica e la mathesis universalis. Ma bisogna notare che allora gli scritti inediti di Leibniz erano troppo poco conosciuti, e come chiave per una compren­sione mancavano la matematica " formale " e la 59 teoria delle varietà" [13]. Inoltre Husserl osserva che in realtà le moderne teorie matematizzanti della logica che "i matematici costruiscono con tanto successo senza preoccuparsi del disprezzo dei filosofi" sono "assolutamente conformi allo spirito della logica di Bolzano" [14]. §2 Ci si potrebbe attendere da queste così decise prese di posizione nei confronti della nuova logica, che i Prolegomeni non facciano altro che togliere di mezzo la posizione psicologistica, istituendo su solide basi il concetto di logica pura, per poi passare direttamente al sistema. Ma nulla di simile è rilevabile nelle sei ricerche successive. Già nell'intro­duzione al secondo volume si afferma che non ci si deve "accontentare di elaborare la logica pura nello stesso modo delle nostre discipline ma­tematiche, come un sistema di proposizioni che si sviluppa nella sua vali­dità ingenuamente positiva" [15]. E l'indagine che di qui ha inizio, pur nella costante presenza di una trattazione sistematica come obiettivo ter­minale, non appare già direttamente orientata in questo senso, ed anche là dove si accenna ai momenti del sistema, questo carattere preparato­rio viene esplicitamente denunciato [16]. Da questo punto di vista è parti­colarmente caratteristica la Terza ricerca: ciò che essa propone è in realtà una teoria pienamente dispiegata e puramente formale dell'intero e della parte, una teoria nella quale tutti i concetti dovrebbero essere definiti con "esattezza matematica" e i teoremi dedotti "mediante argumenta in forma, cioè matematicamente", in modo da ottenere una completa "sinossi, secondo leggi, delle complicazioni possibili a priori delle forme degli interi e delle parti, ed una conoscenza esatta dei rap­porti possibili in questa sfera". Ma di fronte a questa proposta, i "brevi spunti" contenuti nel secondo capitolo di 60 questa ricerca hanno uno scopo ancora essenzialmente esemplificativo, per mostrare l'accessibilità di questo scopo, che va poi effettivamente ed integralmente perseguito, dal momento che "il progresso che conduce dalle teorie e dalle costru­zioni concettuali vaghe alle teorie ed alle costruzioni concettuali mate­ maticamente esatte è qui, come ovunque, la condizione preliminare di una piena comprensione dei nessi a priori ed un'istanza irrinunciabile della scienza" [17]. Tuttavia, anche in questo caso, il tentativo di enun­ciare, sia pure in modo del tutto provvisorio, gli assiomi destinati a reggere una simile teoria è preceduto da un complesso di ricerche inte­ramente condotte sul terreno fenomenologico [18]. In realtà il vero nodo da sciogliere è rappresentato dal senso di questo rapporto tra ricerche fenomenologiche e elaborazione logica, tra il sistema matema­tico-formale e le ricerche preliminari al sistema. Un problema che, in questo testo husserliano, si presenta anche come difficoltà del passaggio dalla critica dello psicologismo, con l'idea in esso implicita della logica pura in quanto disciplina teoretica autonoma, e le sei ricerche che a questa intro­duzione fanno seguito. Fin dall'inizio sono restate incomprensibili a gran parte della letteratura husserliana le ragioni che conducono dal programma enunciato nei Prolegomeni e culminante nell'idea della teoria delle forme possibili di teoria ad una sequenza di analisi che tendono costantemente a rompere il cerchio degli interessi propriamente logici, sino al tentativo di un'ela­bora­zione già relativamente compiuta di una teoria degli atti intenzionali in generale, come avviene nella Quinta ricerca. Del resto, già quella critica di "ricaduta nello psicologismo" che accompagna il secondo volume di quest'opera dalla data della sua pubblicazione ad oggi [19], è almeno in parte riconducibile a questa difficoltà. Essa sembra derivare, non tanto da motivazioni intrinseche, quanto piuttosto dal­l'attesa che, una volta assunta, come fa Husserl, l'autonomia della logica nel suo carattere teoretico puro, una volta che con tanta sicurezza e definitività si è affidata la logica al matematico, non resti altro compito che quel- 61 lo del passaggio diretto e immediato alla costruzione sistema­tica. Ciò che appare in questione non è, o meglio, non è soltanto, la pretesa "ricaduta nello psicologismo", ma piuttosto in linea del tutto generale l'ammissibilità di una nuova esigenza filosofica, di un nuovo campo di lavoro filosofico che Husserl propone. In effetti, l'esplicita presa di posizione in favore di una elaborazione matematica della logica, si accompagna con la richiesta di una chia­rificazione dei suoi concetti costitutivi fondamentali che procede, a sua volta, secondo una impostazione autonoma. Da parte filosofica non si tratta, cioè, di elaborare una logica all'interno del "sistema della filo­sofia" - una logica dunque, legata ad assunzioni "filosofiche" gene­rali, come era del resto la stessa tesi empiristica generalizzata che stava alla base dello psicologismo esplicito. La logica è - idealmente - una disciplina unitaria e conclusa, che va coordinata nel sistema delle disci­pline matematiche. Una logica filosofica avrebbe dunque tanto poco senso quanto una geometria filosofica. E tuttavia si ripropone, nell'uno e nell'altro caso, il problema della "filosofia", nella misura in cui si intenda il suo ambito di indagine delimitato dalla riflessione gnoseolo­gica. Questa riassunzione di senso di una filosofia della logica diventa del resto possibile e legittima solo nella misura in cui si è ottenuta chiarezza sull'impossibilità di una logica dei filosofi che si contrapponga alla logica dei matematici [20]. Questa delimitazione reciproca viene illustrata da Husserl al termine dei Prolegomeni mediante l'idea della divisione del lavoro. Si ribadisce che "la costruzione delle teorie, la soluzione rigorosa e metodica di tutti i problemi formali resterà sempre l'autentico dominio del matematico. Si presuppongono qui metodi e disposizioni di ricerca peculiari che sono sostanzialmente gli stessi per tutte le teorie pure. Recentemente anzi l'elabora­ zione della teoria sillogistica che da tempo immemorabile ve­niva attribuita alla sfera più propria della filosofia, è stata assunta dai matematici, subendo tra le loro mani un'evoluzione insospettata 62 - pro­prio questa teoria che pareva ormai da tempo compiuta. E contempo­raneamente sono state scoperte ed elaborate, con una sottigliezza genui­namente matematica, teorie intorno a nuovi generi di inferenze, che la logica tradizionale aveva trascurato o ignorato. Nessuno può vietare che i matematici rivendichino per sé tutto ciò che è suscettibile di trat­tazione secondo metodo e forma matematica" [21]. Di qui sorge la do­manda: "Ma se l'elaborazione di tutte le teorie è di competenza del matematico, che cosa resta al filosofo?" Si risponde allora che "il mate­matico, in realtà, non è il teorico puro, ma soltanto il tecnico ingegnoso, è per così dire il costruttore che, guardando unicamente ai nessi for­mali, costruisce la teoria come un'opera d'ar­te tecnica. Come il mecca­nico pratico costruisce macchine, senza possedere necessariamente la comprensione ultima del­l'es­senza della natura e delle sue leggi, così il matematico costruisce teorie dei numeri, delle grandezze, delle infe­renze, delle varietà, senza che per questo egli debba necessariamente possedere la comprensione ultima dell'essenza della teoria come tale e delle leggi e concetti che la determinano. La stessa cosa accade nel caso di tutte le "scienze specialistiche"" [22]. Quanto alla ricerca filosofica, "essa non intende rubare il mestiere allo scienziato specialista, ma sol­tanto pervenire ad una comprensione evidente del senso e dell'essenza delle sue operazioni, in rapporto ai metodi ed alle competenze. Al filo­sofo non basta che noi ci orientiamo nel mondo oppure che possediamo leggi espresse in formule in base alle quali prevediamo il futuro corso delle cose e possiamo ricostruire quello passato; egli vuole chiarire che cosa sia l'essenza di "cosa, "evento" , "causa" , "effetto" , "spazio", "tempo", ecc.; e ancora: che genere di affinità straordinaria inter­corra tra queste essenze e quelle del pensiero, del conoscere, del signifi­care, dal momento che esse possono essere pensate, conosciute, significate, ecc. E se la scienza costruisce teorie per la soluzione sistematica dei suoi problemi, il filosofo chiede che cosa sia la scienza della teoria, che cosa renda possibile la teoria in generale, ecc. Soltanto la 63 ricerca filosofica integra le operazioni scientifiche degli scienziati della natura e dei mate­matici, in modo da completare la conoscenza pura e la conoscenza teore­tica autentica" [23]. Se queste affermazioni implicassero nel loro senso l'attribuzione di un privilegio filosofico, la ripresa di una differenza di livelli e di dignità tra l'attività scientifico-positiva e la filosofia - se insomma si trattasse an­cora una volta di contrapporre l'ingegno alla sapienza, questa posizione andrebbe semplicemente respinta. Ma come si può già desumere dalle nostre considerazioni preliminari, questo problema ha un senso irriducibile alla questione, in ultima analisi, banale della presunzione filosofica. Ciò che qui si ha di mira è la duplice ed essenziale direzione dell'inda­gine scientifica, l'una rivolta verso l'acquisi­zione positiva e diretta di co­noscenze sempre nuove ed alla loro costante ristrutturazione sistematica, l'altra all'esplorazione del metodo di questa acquisizione, dei fondamenti della costruzione, dell'illustrazione dei concetti primitivi che nella costru­zione stessa sono presupposti. Si tratta di una relazione che si è sempre fatta valere all'interno dello sviluppo storico della scienza e che è ciò che promuove in modo caratteristico la sua dialettica interna. E come nel corso dello sviluppo questa relazione vige all'interno di un'intenzione scientifica unitaria, così all'idea della divisione del lavoro si associa qui necessariamente l'idea di un riconoscimento e di una reciproca integra­zione: "L'ars inventiva dello scienziato specialista e la critica della conoscenza del filosofo sono attività scientifiche che si integrano a vi­cenda e solo attraverso di esse si realizza la piena ed evidente compren­sione teoretica che abbraccia tutte le relazioni essenziali" [24]. Che poi qui si affermi l'assenza "caratteristica", nello scienziato specialista, della "comprensione ultima dell'essenza della teoria come tale e delle leggi e dei concetti che la determinano" non è da intendere come indicazione di un livello inferiore dell'acqui­si­zione scientifica. Si tratta piuttosto del fatto che il "matematico, il fisico o l'astronomo, per l'esecuzione delle più importanti operazioni scientifiche, non hanno bisogno di 64 penetrare negli ultimi fondamenti del loro fare" [25]: anche se ciò rappresenta ne­cessariamente un limite di incompletezza e va quindi inteso, alla fine, solo in senso relativo. Sarà dunque all'interno del processo della costruzione scientifica stessa che si imporrà il problema della chiarificazione con­cettuale, proprio perché quel limite di incompletezza, che all'inizio può anche non incidere sul fecondo progresso della scienza, può apparire in­fine come una crisi interna dello sviluppo. Per quanto riguarda il caso di Husserl, le difficoltà che sospingono verso la radicalizzazione del problema fino al programma di una nuova teoria della conoscenza sono chiaramente ravvisabili nei due grandi pro­blemi irrisolti che Husserl indica come cruciali nella matematica del proprio tempo: il problema del senso delle varietà spaziali e di una inter­pretazione teoricamente adeguata dei numeri complessi. Per molti aspetti, osserva Husserl, la matematica "vale ancora come ideale di ogni scienza in generale: ma che essa in realtà non lo sia, lo insegnano le vecchie controversie, che continuano a restare irrisolte, sui fondamenti della geometria, nonché quelle sulle basi che giustificano il metodo degli immaginari. Gli stessi scienziati che padroneggiano con ineguagliabile maestria i mirabili metodi della matematica e che la arricchiscono con metodi nuovi, si rivelano del tutto incapaci di rendere conto in modo esauriente della validità logica di questi metodi e dei limiti della loro applicazione legittima. Ora, benché le scienze si siano sviluppate nono­stante tutte queste deficienze e ci abbiano procurato un dominio sulla natura mai sospettato in precedenza, esse non possono tuttavia soddi­sfarci dal punto di vista teoretico" [26]. Entrambi questi problemi interessano direttamente la tema­tica del primo Husserl. Nella prefazione alla Filosofia dell'aritmetica si annuncia l'intenzione di presentare nel se­condo volume di quest'opera non soltanto una teoria dei numeri (o come si esprime Husserl, quasi-numeri) che sorgono dalle operazioni inverse, ma anche una nuova teoria filosofica della geometria 65 eucidea [27]. È all'in­terno di questa sfera di interessi, che tiene conto dei mo­menti più avanzati del pensiero matematico del periodo, che Husserl perviene all'elaborazione del concetto di teoria e di varietà, oltre che a quello di definitezza. Ciò si può desumere da una dichiarazione contenuta nel primo volume di Idee, dove Husserl osserva: "I concetti qui introdotti mi servirono già al principio degli anni novanta nelle Ricerche sulla teoria delle discipline matematico-formali, pensate come continuazione della Filosofia dell'aritmetica - soprattutto allo scopo di trovare una soluzione di principio del problema dell'immagi­nario" [28]. Nella stessa nota ci si richiama alla ripresa di questa tematica in due conferenze tenute nel 1900-1901 alla "Mathematische Gesell­schaft" di Gottinga. Ciò viene ripetuto in Logica formale e trascenden­tale, dove si osserva che "il concetto di varietà definita mi servì origi­ nariamente per un altro scopo, cioè per chiarire il senso logico del pas­saggio calcolistico all' "imma­ginario" e, in connessione con ciò, per met­tere in luce il nucleo sano del "principio della permanenza delle leggi formali" (H. Hankel), principio celeberrimo, ma logicamente infondato e oscuro" [29]. Questo sfondo tematico, da cui Husserl sempre più si allontana nell'allargamento del­l'orizzonte dei propri interessi, va tuttavia tenuto presente in particolare nella lettura delle Ricerche logiche. Già nell'ultimo capitolo dei Prolegomeni si affaccia l'idea della possibilità di interpretare l'estensione del campo dei numeri come passaggio dalla teoria dei numeri reali (che è già essa stessa una forma di teoria) alla forma corrispondente sovraordinata di teoria, e si aggiunge che "in realtà in questa concezione si trova la chiave per l'unica soluzione possibile di un problema che non è ancora stato chiarito, cioè del fatto che, nel campo dei numeri, concetti im­possibili (non-essenziali) possono essere trattati, dal punto di vista me­todologico, come concetti reali" [30]. Non meno caratteristico è l'accenno al problema della geometria: "Se chiamiamo spazio la nota forma di ordinamento del mondo fenomenico, è naturalmente assurdo parlare di "spazi" 66 per i quali, ad esempio, non valga l'assioma delle parallele. E sarà assurdo anche parlare di geome­trie diverse, in quanto la geometria viene appunto definita come scienza dello spazio del mondo fenomenico. Ma se con spazio intendiamo la forma categoriale dello spazio del mondo e, correlativamente, con geo­metria la forma categoriale di teoria della geometria in senso comune, allora lo spazio cade sotto un genere, da definire secondo leggi, di varietà determinate in modo puramente categoriale, in rapporto alle quali si parlerà naturalmente di spazio in senso ancora più ampio. Così la teoria geometrica si coordina con un genere corrispondente di forme di teorie teoreticamente interdipendenti e determinate in modo puramente cate­goriale, che si possono definire in un senso altrettanto esteso come "geometrie" di queste varietà "spaziali"" [31]. In entrambi questi riferimenti, per quanto possano essere limitati, appare determinante l'idea di una giustificazione delle costruzioni arit­metiche e geometriche attraverso i concetti di teoria e di forma di teoria, una giustificazione, cioè, che fa leva sulla distinzione di livelli formali e quindi sul passaggio al livello formale superiore. Questo punto di vista non viene adeguatamente sviluppato nelle Ricerche logiche, e neppure, in ultima analisi, in Logica formale e trascendentale dove il problema della geometria viene ripreso nella discussione del concetto di sistema deduttivo [32]. Tuttavia in esso va colta una delle motivazioni di fondo che conducono Husserl ad affrontare in tutta la loro ampiezza i problemi della logica; e su questo sfondo acquistano anche il loro senso di pro­ spettiva alcuni dei punti culminanti delle Ricerche logiche, come è in­dubbiamente il caso della distinzione tra significati possibili e impossi­bili introdotta nel quarto capitolo della Sesta ricerca. 67 §3 Fino a questo punto ci siamo limitati a indicare l'atteggia­mento di Husserl nei confronti dei problemi della logica secondo linee molto generali ed esterne. Abbiamo così sottolineato la stretta relazione che sussiste tra la critica della tendenza psicologistica e la difesa dell'indi­rizzo matematiz­zante, nonché l'orien­tamento, che si manifesta fin dal­l'inizio e che verrà in seguito costantemente approfondito, diretto alla rivendicazione di uno spazio autonomo alla ricerca filosofica e della sua funzione di integrazione. Ma non abbiamo detto nulla su ciò che si debba intendere quando si parla, in Husserl, di matematicità della logica; e neppure sulla natura effettiva, sulla direzione di fondo delle ricerche "filosofiche" di cui viene qui avanzata l'istanza. È necessaria dunque un'ulteriore approssi­mazione, che senza pretendere di fissare i limiti di questa discussione, contribuisca almeno a circoscrivere alcuni dei suoi termini. Le Ricerche logiche prendono l'avvio da una diffusa discussione del concetto di espressione e significato nella loro distinzione di principio e al tempo stesso nella loro unità necessaria. Questo punto di avvio e i risultati che emergono via via in questo primo tentativo di mettere in evidenza le "distinzioni essenziali" rappresentano la base elementare su cui si sviluppano in una complicazione crescente le ricerche husser­liane. Il problema di un'illustrazione del concetto di espressione riman­da a quello del segno, un termine che viene assunto in primo luogo nell'accezione di segno indicativo o segnale. Si tratterà dunque di chia­ rire l'irriducibilità dell'espressione in quanto segno provvisto di un signi­ficato ai segni puramente indicativi, operando una prima distinzione che comporta l'esclusione preliminare dal concetto di espressione di quello della comunicazione. La portata comunicativa dell'espressione va separata dalla sua portata puramente significativa, ed il concetto di linguaggio viene definito in primo luogo attraverso quello di segno significativo, indipendentemen- 68 te dal fatto che esso funga o meno al­l'interno di un contesto dialogico [33]. L'intento comunicativo è, per così dire, un incremento che l'espressione riceve, una funzione che essa può assolvere, ma che non è, rispetto ad essa, essenziale. Anche in questo caso agiscono le motivazioni di una critica dello psicologismo: nel concetto logico del giudizio non si intende il giudizio in quanto "vissuto" di un giudicante. Ma esso è determinato unicamente dal significato, dalla proposizione come unità ideale: "Ogni volta che le scienze sviluppano teorie sistematiche, ogni volta che esse, anziché partecipare il mero de­corso della fondazione e della ricerca soggettiva, presentano il frutto maturo di una verità riconosciuta come unità oggettiva, in questione non sono mai i giudizi, le rappresentazioni e gli atti psichici di qualsiasi altro genere. Certo, lo scienziato oggettivo definisce delle espressioni. Egli dice: con forza viva, massa, integrale, seno, si intende questo e quest'altro. Tuttavia, così facendo, egli rinvia soltanto al significato oggettivo delle sue espressioni, contrassegna i "concetti" che ha di mira e che svolgono la loro funzione come momenti costitutivi nelle verità di un determinato campo di ricerca. Ciò che lo interessa non è il comprendere, ma il concetto che vale per lui come unità ideale di significato, così come la verità che è essa stessa costituita di concetti" [34]. Dall'espressione e dal significato va inoltre distinto l'oggetto inteso dal significato, poiché "ogni espressione non vuol dire soltanto qual­cosa, ma dice anche su qualche cosa; oltre ad avere un significato, si riferisce anche ad oggetti di genere qualsiasi. In certi casi, la stessa espres­sione può avere molteplici riferimenti. Ma in nessun caso l'oggetto coin­cide con il significato" [35]. Vi è qui una relazione di riferimento, che se da un lato va distinta dal significato stesso, dall'altro è posta con la posizione del significato: "un'espressione, cioè, acquista un riferimento all'oggetto per il solo fatto che essa significa, e quindi si dice giusta­mente che l'espressione designa (denomina) l'oggetto per mezzo del suo significato, ovvero che l'atto del significare è il modo determinato 69 di intendere l'oggetto in questione - solo che proprio questo modo del­l'intendere significativo, e quindi il significato stesso, può variare men­tre resta identica la direzione verso l'oggetto" [36]. Ora, l'oggetto si costituisce in atti essenzialmente diversi da quelli in cui si costituisce il significato. Se l'oggetto è un oggetto percettivo, esso si costituisce in atti della percezione che hanno caratteristiche loro proprie, distinte da quelle degli atti che, attraverso l'espressione, signi­ficano l'oggetto percetti­vamente costituito. Gli uni e gli altri si trovano tuttavia in una relazione che diventa visibile quando la percezione ap­prende l'oggetto nel modo in cui esso è inteso dal significato. Il riferi­mento dell'oggetto al significato è allora realizzato: l'oggetto inteso è attualmente dato. Assumendo questo punto di vista i significati si pre­sentano come correlati di intenzioni significanti vuote che si riempiono nei correlati di certi atti di riempimento. Fin d'ora si colgono le possibili complicazioni di questo problema: tuttavia, all'interno dei limiti di un primo tentativo di chiarimento, basterà accertare che ogni significato intende un oggetto nella modalità del riferimento e che la realizzazione di tale riferimento, e quindi il "riempimento", è extra-essenziale ri­spetto al significato stesso. Come in precedenza si è fatta valere la distin­zione tra l'espressione e il segno indicativo, mostrando che l'espressione, pur potendo fungere da segnale come accade nella comunicazione [37], non è tuttavia definita nel suo carattere di espressione dal rapporto indica­tivo, così ora si distingue dall'essenza dell'espressione la sua possibilità di fungere in una conoscenza attuale. Ciò comporta, correlativamente, la critica della tesi secondo cui il significato si risolve nell'intuizione cor­rispondente dell'oggetto [38]. Infatti, il rapporto conoscitivo nella sua for­ma più elementare può essere definito come rapporto di coincidenza tra significazione (intenzione significante) e intuizione oppure, rispettiva­mente, tra il significato e il suo oggetto nella misura in cui esso è dato così come è inteso dal significato, cioè come coincidenza tra il 70 significato e ciò che Husserl indica, per trasposizione, come senso ricmpiente [39]. Questa caratterizzazione del rapporto conoscitivo non deve essere tutta­via interpretata come se il significato fosse, in quanto tale, sorretto dal­l'intuizione dell'oggetto che in esso viene inteso. Con ciò si arriverebbe a postulare come significative solo le espressioni che rinviano alla pre­senza attuale di ciò che il significato intende, e non si riuscirebbe a spie­gare il fatto fondamentale che caratterizza il linguaggio, cioè il suo essere il veicolo autonomo di intenzioni significanti in quanto tali: "Per coloro che trasferiscono nell'intuizione il momento del significato, l'esistenza di un pensiero puramente simbolico rappresenta un insolubile enigma. Per loro un linguaggio privo di intuizione è anche privo di senso" [40] Un esempio che illustra questa caduta dell'attualità del rapporto conoscitivo è dato dalla "comprensione senza intuizione" delle espressioni linguistiche. L'espressione resta significante anche se lo stato di cose espresso non è più direttamente presente, anche se dunque non sussiste la coincidenza attuale tra il significato vuoto e il senso "riempiente". Si avrà allora una comprensione "simbolica" delle espressioni, una com­prensione nella quale lo stato di cose significazionalmente inteso non è attualmente dato, ma solo indirettamente presunto. Si parla qui natural­mente, di funzione simbolica delle espressioni, in un senso del tutto pecu­ liare, che è strettamente connesso con il concetto di linguaggio. E la pos­sibilità di fungere simbolicamente, in questo senso, è una possibilità che spetta originariamente al linguaggio stesso nella stessa misura in cui ad esso spetta la possibilità di fungere come veicolo della conoscenza attuale. Ciò significa anche che è proprio del linguaggio una maggiore estensione rispetto all'ambito degli oggetti attualmente conosciuti e in generale co­noscibili. In altri termini: il campo del significato è più esteso di quello dell'intuizione [41]. Ciò appare in particolare se si considerano le espressioni di significato assurdo a cui non spetta per principio alcun senso riem­piente e che quindi vengono ricordate (nella 71 Prima ricerca) come un argo­mento decisivo per criticare la risoluzione del significato nella sua tra­duzione intuitiva. In questi casi l'espressione funge solo simbolicamente e il suo significato non può per principio coincidere con un senso riem­piente [42]. Consideriamo ora, secondo quel criterio di semplice schematizzazione al quale ci siamo finora attenuti, le implicazioni di quell'idea che costi­tuisce il passo essenziale verso l'istituzione di una teoria logica - l'idea, cioè, che in ogni significato dato sia immanente una certa struttura tipica, rispetto alla quale esso può essere considerato come uno fra i molti pos­sibili esempi. Si richiede qui, per l'effettuazione di questa specie pecu­liare di astrazione, che sia già acquisita la distinzione tra i due momenti costitutivi essenziali del significato, tra ciò che nel significato rimanda al suo oggetto (la sua materia o, come anche diremo, la sua sostanza [43]) e ciò che rende possibile questo rimando nelle sue diverse modalità. Sul piano linguistico questa tipicità strutturale può essere messa in evidenza sostituendo dei termini indeterminati alle espressioni che costituiscono nel significato completo, assunto come esempio, la sua materia. Il pas­saggio formalizzante che prende le mosse da un'espressione esemplifica­tiva di significato unitario, come è la proposizione questo albero è verde, conduce alla forma proposizionale questo S è p, "come forma che ab­braccia nella propria estensione solo significati indipendenti" [44]. In que­sta forma proposizionale si prescinde dunque dalla funzione conoscitiva proprio nella misura in cui la "materia" resta qui indeterminata, e quindi essa non avrà nemmeno una funzione simbolica nel senso prece­den­temente delineato. Il rapporto tra significato e riempimento ha tut­t'altro senso di quello tra la struttura significativa e i significati esem­plificativi corrispondenti. Le difficoltà interpretative hanno inizio non appena si tenta di fis­sare che cosa si debba propriamente intendere con forma del significato rispetto alla sua materia o sostanza. Per mettere in rilievo questa diffe­renza, si può mostrare che, mantenendo identica la sostanza, è possibile operare la variazione della sua forma. 72 Se confrontiamo, ad esempio, le forme proposizionali "S è p e Q è r" e "Se S è p, allora Q è r", i termini "S è p" e "Q è r" si presentano qui come sostanze identiche all'interno di forme diverse, dal momento che nel primo caso la forma è data dalla connessione congiuntiva, nel secondo dalla connessione ipotetica. Lo stesso si può dire per "S è p" e "Q è r" considerati come significati indi­ pendenti. Anche qui si fa valere la differenza tra sostanza e forma: "S è p", infatti, va interpretata come connessione predicativa delle sostanze S e p, in quanto sostanze che hanno rispettivamente la forma di soggetto e la forma di predicato. L'analisi non si ferma tuttavia a questo punto: perché S possa entrare nella forma del soggetto deve a sua volta avere la forma del sostantivo e, dalla parte del predicato, p deve avere la forma dell'aggettivo. Ci troviamo così di fronte ad una complessa stratificazione nella quale si costituisce l'unità del significato: in essa è possibile distinguere le forme che operano su sostanze già formate, che vengono indicate da Husserl rispettivamente con il termine di forme sintattiche e sostanze sintattiche, e le forme che operano su sostanze "pure", prive di forma, che vengono indicate come forme e sostanze nucleari; si attribuirà infine all'unità delle prime il termine di sintagma ed all'unità delle seconde quello di costrutto nucleare (Kerngebilde) [45]. Le forme dei nuclei, che sono le categorie primitive dei significati, delimitano la sfera della varia­bilità di ciò che può presentarsi come sostanza all'interno della forma sintattica nell'unità del sintagma. Nel caso della forma questo S è p "possiamo senz'altro trasformare il nostro esempio questo albero è verde in questo oro, questo numero algebrico, questo corvo blu, ecc. è verde, in breve, possiamo sostituire qualsiasi materia nominale in un senso lato, e così anche qualsiasi materia aggettivistica nel caso di p: noi otteniamo sempre un significato unitario e sensato, e precisamente una proposizione indipendente della forma prescritta - ma l'uni­ tà di senso va perduta non appena non ci atteniamo alle categorie delle mate­rie di significato. Ogni qual volta vi è una materia nominale, può esserci una materia nominale qualsiasi, ma non 73 una materia aggettivistica o rela­zionale, o un'intera materia proposizionale; ma ogni qual volta vi è una materia di tali categorie, può esserci sempre di nuovo una materia di questo genere, cioè sempre una materia della stessa categoria, e non di un'altra. Ciò è vero per qualsiasi significato, per quanto possa essere complessa la sua struttura" [46]. In tutto ciò è già visibile una legalità in­ terna della sfera dei significati, una legalità che concerne le loro possibi­lità di costruzione pura. Ammesso, cioè, che siano date le categorie pri­mitive di significato e le loro sintassi primitive, allora possono essere ottenute costruttivamente tutte le strutture che costituiscono per loro essenza delle unità di significato: "Di qui sorge il grande compito, ugual­mente fondamentale sia per la logica che per la grammatica, di far emer­gere questa costituzione a priori che abbraccia il regno dei significati, di indagare in una "morfologia dei significati" il sistema a priori delle strutture formali, cioè di quelle strutture che sono indifferenti a qual­siasi particolarità materiale dei significati" [47]. Se ora passiamo alla sfera delle espressioni di cui questa teoria delle forme di significato appare costituita, ci rendiamo conto che è possibile qui, come nel caso di ogni altra teoria puramente formale, una modifi­cazione essenziale, la cui importanza è, in ultima analisi, decisiva ai fini di una sua effettiva elaborazione. Si tratta di una modificazione che inte­ressa il concetto di espressione, così come lo abbiamo in precedenza definito: esso valeva per noi come qualcosa di sensibilmente percepibile che rappresentava tuttavia soltanto, in certo senso, il veicolo attraverso cui viene inteso il significato. Si può pensare che l'intenzione significante venga meno, ed in tal caso, si potrebbe dire, l'espressione si presente­rebbe come un "segno privo di significato". Tuttavia, se considerassimo più da vicino questo punto, ci renderemmo ben presto conto che questa caratterizzazione incontra più di una difficoltà: in generale, quando si parla di "segni privi di significato" si possono intendere anche cose molto diverse, e l'interpretazione di volta in volta adeguata andrebbe accuratamente 74 precisata. Nel caso in questione, è comunque certo che l'espressione privata del suo rinvio al significato, ed intesa quindi come "mera" espressione, si presenta nelle sue pure e semplici qualità sensi­bili: come complesso fonetico, se si tratta di una parola effettivamente pronunciata, o come semplice grafema, se si tratta invece di una parola scritta. In entrambi i casi sono comunque determinanti i caratteri quali­tativi materiali, e per questa ragione i complessi fonetici o i grafemi vanno legittimamente sussunti sotto il concetto della cosa in un'ac­­ce­zione sufficientemente ampia. Da tali segni intesi come mere espressioni, vanno poi distinti quei segni che, all'interno di una connessione siste­matica, possono, per così dire, sostituire un linguaggio che si muove nel campo delle pure forme e che vanno indicati anch'essi come "privi di significato" secondo un'interpretazione nuova. I segni in questione sono in effetti delle cose, caratterizzate, come ogni altra cosa, da certe qualità sensibili e materiali. La sola differenza - ed è una differenza essenziale - consiste nel fatto che queste "cose" vengono considerate indipendentemente dalle loro qualità, e quindi "intese" come cose qualsiasi, unicamente determinate dai loro rapporti reciproci. Nel caso normale, che qui abbiamo di mira, si tratterà di "grafemi", e quindi, in particolare di rapporti spaziali. Se conveniamo di chiamare simboli tali grafemi, sarà allora essenziale a questa nozione il sussistere di una regola o di un insieme di regole che definiscano l'unità sistematica dei simboli stabilendo i modi "legittimi" delle loro relazioni spaziali. Nella descrizione di un sistema simbolico compariranno perciò termini di loca­lizzazione come "tra", "a destra", "a sinistra", "sopra", "sotto", e così via. In precedenza abbiamo parlato di funzione simbolica del linguaggio intendendo con ciò il fungere del linguaggio in modo autonomo rispetto ai riempimenti, e quindi rispetto all'attualità della relazione conoscitiva. Da questo concetto di funzione simbolica va nettamente distinto il con­cetto di simbolo, come è stato qui delineato: "un pensiero simbolico inteso come privo di intu- 75 izione" è infatti tutt'altra cosa da "un pen­siero simbolico che si realizza con concetti operazionali sostitutivi" [48]. Il simbolo non è un segno, se si intende il segno come definito dal rapporto di indicazione, come segnale [49]. Ma esso non è nemmeno una espressione, poiché è "privo di significato", ed infine non è soltanto una cosa, perché non viene inteso in ciò che esso è dal punto di vista sensibile qualitativo, ma nella sua funzione combinatoria. Tuttavia, nel trattare di questo problema, Husserl accenna alla possibilità di intendere come "significato" del simbolo la stessa relazione combinatoria e di conseguenza il concetto di espressione viene esteso anche a compren­dere i simboli. L'espressione simbolica avrà allora il carattere di un segno "il cui significato è determinato unicamente dalle forme esterne di operazione", e quindi di una cosa qualsiasi "che può essere manipo­ lata sul foglio di carta in queste forme determinate" [50]. "Il vero senso dei segni in questione" osserva Husserl "si rivela nel momento in cui pensiamo alla ben nota similitudine tra le operazioni di calcolo e quelle che si compiono nei giochi che si svolgono secondo regole, come quello degli scacchi. Le figure degli scacchi non interven­gono nel gioco, come cose di avorio o di legno, che hanno un determinato colore. Ciò che le costituisce dal punto di vista fisico e fenomenale è del tutto indifferente e può variare a piacere. Esse diventano figure degli scacchi, cioè pezzi del gioco in questione, in virtù delle regole che con­feriscono ad esse il loro preciso significato di gioco" [51]. Tra espressione e simbolo vi è dunque una netta differenza e al tempo stesso una connessione che va accuratamente illustrata. Le espressioni hanno anch'esse un aspetto materiale, fisico; ma nel cogliere l'espressione si ha di mira il significato e attraverso di esso l'oggetto, in un atto uni­tario che solo astrattamente può essere distinto ed articolato nei suoi momenti parziali. Disponendosi sul piano formale, e quindi, nel caso della logica, sul piano delle forme di significato, è possibile prescindere dal carattere espressivo considerando il segno come semplice cosa 76 che mantiene tuttavia un significato combinatorio, un significato, come dice Husserl, operazionale. Questo significato opera­zionale deve essere tuttavia distinto dal significato originario, così come il concetto proprio e pieno di espressione da quello di simbolo, ed entrambi dai segni intesi come segnali. Sussiste qui una sorta di "pa­rallelismo" in base al quale il risultato delle trasformazioni operate direttamente sui simboli può infine essere reinterpretato nel senso dei significati originari [52]. In tutto ciò e implicito che la logica, nella misura in cui si definisce come teoria formale del significato, può essere simbolizzata ed elaborata calcolisticamente. Otteniamo così una prima caratterizzazione della ma­tematicità della logica, o anche, più in generale, una prima caratterizza­zione del concetto di matematica, che si potrebbe definire matematica del significato, o meglio, per usare l'espressione propriamente husser­liana, matematica apofantica: "L'elaborazione metodicamente perfetta di questa analitica (quando essa è rivolta puramente ai significati giu­dicativi) conduce necessariamente ad una "matematica" formale apo­fantica. Giacché chiunque abbia una volta imparato, nella matematica moderna e nell'analisi matematica in generale, la tecnica deduttiva, deve senz'altro vedere (come già Leibniz ha visto per primo) che le forme proposizionali si possono trattare, e si può "calcolare" con esse, come si fa con numeri, grandezze, ecc.; di più, che questo è l'unico modo in cui deve essere costruita una teoria universale delle proposizioni, come una teoria essenzialmente deduttiva." [53]. §4 Nelle considerazioni precedenti abbiamo messo in rilievo esclusi­ vamente quel livello inferiore della logica nel quale cadono le differenze della sensatezza e del nonsenso, un livello che Husserl 77 designa anche come grammatica logica pura. In questa sfera ci si disinteressa delle condizioni di validità del significato - un problema che verrà in seguito precisato e articolato nella distinzione degli strati della logica della conseguenza e della logica della verità [54]. Restando su questo terreno, avremmo in realtà indicato solo una parte dei compiti che spettano secondo Husserl all'analitica logica. Infatti, sia nella teoria delle forme del significato, sia negli strati superiori, noi restiamo sempre dalla parte del significato, ottenendo al tempo stesso una caratterizzazione ancora incompleta del senso della "matematicità" della logica. Ma se riprendiamo l'intero pro­blema a partire dalla distinzione elementare tra il significato e l'oggetto si presenta allora la possibilità di un'estensione della tematica proposta che apre tutto un complesso di prospettive nuove. Infatti, l'astra­zione formalizzante che in precedenza rendeva possibile l'acqui­sizione della forma logica in quanto forma di significato, può essere diretta sull'og­getto e condurre cosi alla sfera delle relazioni formali che non concernono più i significati, ma gli oggetti. Si parlerà allora, anche in questo caso, di oggettualità sintattiche che debbono potersi rispecchiare in tutte le loro forme e articolazioni in "sintassi di significato esattamente corri­spondenti"; così come si ritroverà qui la differenza tra queste stesse oggettualità intese "come derivate da altre oggettualità mediante forme sintattiche" e oggetti (substrati) ultimi, privi di qualsiasi forma di con­nessione [55]. E potrà infine essere legittimamente avanzata l'idea di una teoria che elabori, in una assoluta generalità, le sintassi primi­tive dell'oggetto in generale e le loro complicazioni possibili. Ciò che qui si intende far valere è l'unità interna della sfera logica in senso stretto, della logica come matematica apofantica, con la "mate­matica non apofantica, cioè con 1' "analisi" formale tradizionale dei ma­tematici" [56], una unità che non è data direttamente con l'algoritmizzazio­ne della logica. Senza l'idea che i concetti tematici fondamentali che sor­reggono le diverse discipline analitico-matematiche possono essere ricon­dotti sotto il 78 concetto di oggetto, ponendosi così in una reciproca cor­relazione come sue ramificazioni categoriali, non può apparire con una chiarezza di principio il nodo necessario che collega tali discipline nel loro insieme, secondo rapporti certamente molto complessi, alla sfera del significato. Così, dal punto di vista di Husserl, il fatto che anche "la sillogistica può essere trattata in modo algebrico" ed ha perciò un aspetto teoretico "simile a quello di un'algebra delle grandezze e dei numeri" non è sufficiente a portare ad unità queste discipline, così come, nella direzione inversa, il fatto che "secondo un'osservazione geniale di Boole, il calcolo dell'aritmetica si riduce (considerato formalmente) al calcolo logico se si pensa la serie dei numeri limitata a zero e uno" [57]. È necessario invece mostrare come l'esibi­zione delle categorie del signi­ficato è correlativa all'esibizione delle categorie dell'oggetto, in modo tale che la sfera del logico arrivi ad abbracciare l'intera sfera del formale, la sfera matematica in senso ampliato, nel senso in cui Husserl riattualizza l'e­spres­sione leibniziana di mathesis universalis. Questa sfera si artico­lerebbe dunque in una teoria del significato o apofantica formale ed in una teoria dell'oggetto o ontologia formale: "In effetti, tutto ciò che appartiene alla sfera logica, cade sotto le categorie reciprocamente corre­lative di significato e di oggetto. Se quindi parliamo al plurale di cate­gorie logiche si potrà trattare soltanto di pure specie che si distinguono a priori all'interno del genere "significato" o di forme correlative del­l'oggettualità intesa categorialmente come tale." [58]. Questo orientamento generale del discorso husserliano si trova alla base della determinazione del concetto di teoria in senso stretto, deter­minazione che è collegata con la distinzione generale delle scienze in due grandi classi secondo i modi della loro unità. Se ci atteniamo alle indica­zioni con cui si aprono i Prolegomeni, si distinguerà allora il concetto della scienza da quello del "mero sapere", cioè dalle conoscenze singole e isolate: "Ora, al concetto della scienza ed al suo compito inerisce qualcosa di più che il mero sapere. Se noi abbiamo esperienza di singole per- 79 cezioni interne o di gruppi di percezioni e le riconosciamo come esi­stenti, abbiamo certo un sapere, ma non ancora una scienza. E non altrimenti accade per i gruppi di atti conoscitivi privi di connessioni. Certo, la scienza intende darci una molteplicità del sapere, ma non una mera molteplicità. Anche l'affinità delle cose non produce ancora la sua unità peculiare nella molteplicità del sapere. Un gruppo di conoscenze chimiche non consentirebbe certo di parlare di una scienza chimica. Evi­dentemente si richiede qualcosa di più, si richiede, cioè, il nesso siste­matico in senso teoretico, ed in questo consiste la fondazione del sapere e quindi anche la concatenazione ed il coordinamento del succedersi delle fondazioni. All'essenza della scienza inerisce dunque l'unità del nesso di fondazione, nel quale ricevono un'unità sistematica, insieme alle singole conoscenze, le stesse fondazioni e con queste anche le complessioni supe­riori di fondazioni che chiameremo teorie" [59]. Questa unità sistematica definisce tuttavia solo una classe di scienze che Husserl distingue, desi­gnandole come scienze astratte (o nomologiche), dalle scienze che deri­vano la loro unità da principi extra-essenziali, ed in particolare dall'omo­geneità del loro campo (scienze concrete o ontologiche o descrittive) [60]. Certamente, ogni scienza presuppone un certo grado di unificazione che non riguarda unicamente il riferirsi delle proposizioni di cui essa è costi­tuita ad oggetti appartenenti ad un genere unitario. Così, ogni scienza presuppone dei procedimenti metodici attraverso i quali le verità sin­gole vengono fondate in verità di carattere più generale, o nuove verità vengono acquisite attraverso la loro mediazione [61]. Ma non ogni scienza appare interamente attraversata dal nesso della fondazione, in modo tale che ogni proposizione singola sia sistematicamente riducibile ad una legge, e questa a sua volta a certe leggi che "per loro stessa essenza (quindi "in sé ", e non in senso meramente soggettivo o antropologico) non possono essere più fondate" [62]. Quando ciò si verifica, si dirà che una scienza è completamente ridotta all'unità della teoria, cioè "all'uni��tà sistematica della totalità i­deal­mente 80 chiusa di leggi che si basano su un'unica legalità fondamentale come loro ultimo fondamento e che deri­vano da tale fondamento mediante la riduzione sistematica [63]. Con ciò si precisa anche il concetto correlativo di spiegazione (Erklä­rung): "Spiegare secondo la teoria significa rendere comprensibile il singolare a partire dalla legge generale, e quest'ultima a partire dalla legge fon­damentale. Nel campo dei fatti, si tratta perciò di riconoscere che ciò che accade in determinate collocazioni di circostanze, accade necessaria­mente, cioè secondo leggi naturali. Nel campo dell'a priori si tratta di comprendere la necessità delle relazioni specifiche di grado inferiore a partire dalle necessità generali più comprensive, ed infine dalle leggi relazionali più primitive e generali che chiamiamo assiomi" [64]. Nella misura in cui la logica si presenta come dottrina della scienza, essa ha a che fare con ciò che costituisce la sua unità teoretica [65]. Essa si occuperà dunque dei modi in cui i significati possono essere connessi secondo il rapporto di fondazione nel senso indicato. I problemi nei quali ci siamo imbattuti in precedenza, si ritrovano qui generalizzati sul piano sistematico: già nel caso delle fondazioni in generale, esse sono caratterizzate dal fatto che "ogni qual volta passiamo fondativamente da conoscenze date a nuove conoscenze, all'interno del modo di fonda­ zione, vi è una certa forma che essa ha in comune con infinite altre fonda­zioni e che si trova in un certo rapporto con una legge generale mediante la quale è possibile giustificare direttamente tutte queste singole fonda­zioni" [66]. Lo stesso dovrà valere per la teoria intesa come unità siste­matica dei significati nel rapporto di fondazione: anche in questo caso sarà possibile il passaggio alla struttura invariante di cui ogni teoria è soltanto una particolarizzazione, un "esempio". Si affaccia così l'idea di una teoria delle forme di teoria e, correlativamente, delle forme di campo nella quale si presenta, in una nuova interpretazione, il concetto di matematica formale o dottrina delle varietà, "questo massimo frutto della matematica moderna" [67]. 81 §5 Il problema del significato appare dunque come il centro effettivo dell'idea husserliana della logica, non soltanto per la determinazione della sfera morfologica, ma anche in generale per la duplice articolazione della logica nell'apofantica e nell'onto­logia, ed infine per la discussione del concetto generale di teoria. Ci si può chiedere allora in che modo il concetto di significato possa essere adeguatamente istituito, in che modo dunque possano essere otte­nute quelle "distinzioni essenziali" che a tale concetto sono strettamente attinenti. Pensiamo qui, naturalmente, al problema del rapporto tra segno, espressione e significato, tra significato e oggetto, tra forma e "materia" del significato, su cui si è in particolare soffermata la nostra attenzione. Ma anche, ad esempio, alla distinzione tra significati oggettivi ed occasionali, tra significati indipendenti e non-indipendenti - per indicare solo alcune delle distinzioni che intervengono necessariamente nella precisazione dell'idea della logica qui prospettata. Tentare di dare una risposta a questo interrogativo, vuol dire anche mettere direttamente in questione un tema che in precedenza era ampiamente implicito: un'ana­litica logica presuppone un'"a­ nalisi" del significato e delle sue diffe­renze in un senso completamente nuovo, sia nel suo metodo sia negli obiettivi che essa persegue; ed è lo sviluppo di questa analisi che carat­terizza le Ricerche logiche in modo senz'altro determinante. Per illustrare questo punto ci possiamo servire delle ultime indica­zioni emerse a proposito del concetto di teoria, a cui del resto ci siamo riferiti non soltanto, naturalmente, per il rilievo che esso assume all'interno del discorso logico husserliano nel suo complesso, ma anche, agli scopi particolari di un inizio introduttivo che ci sono stati sempre presenti, ed in particolare per sottolineare che le indagini svolte da Husserl in quest'opera cadono interamente al di fuori del concetto di teoria, anche se 82 sono rispetto ad esso finalizzate. Così, l'idea della spiegazione che deriva dalla connessione fondativa dei significati nell'unità di ordine superiore della teoria, ci serve qui al fine di introdurre, in certo senso per contrasto, l'idea della chiarificazione, che è essa stessa strettamente connessa ad un secondo concetto di fondazione (Grundlegung) [68]. Infatti l'"analisi" diretta alla chiarificazione delle differenze che concernono la sfera del significato, se da un lato si trova alla base della costruzione teoretica in senso stretto, dall'altro emerge completamente rispetto a questo piano, presupponendo un orientamento dell'indagine del tutto diverso. Peraltro, questa differenza tra chiarificazione e spiegazione non è cosa che dipenda da una scelta "filosofica" generale, ma anzitutto dall'og­getto tematico della ricerca. Da questo punto di vista, la riflessione sul concetto di significato mostra direttamente questa essenziale duplicità, dal momento che l'istituzione di un nesso esplicativo tra le sue differenze interne rappresenta un compito improponibile proprio perché urta con­tro un'assur­ dità di principio [69]. Se ci si propone, ad esempio, di accertare la differenza tra l'espressione ed il significato, non è difficile rendersi conto che vi è spazio qui unicamente per la chiarificazione: questa diffe­renza, cioè, può essere resa chiara, ma non spiegata, e ciò va detto in generale per tutti i concetti costitutivi della teoria, per tutte le categorie primitive del significato, come per tutte le categorie primitive del­l'oggetto [70]. Questo è il primo punto che va sottolineato in rapporto al lavoro husserliano: esso si svolge interamente sul piano della chiarificazione. Il secondo punto è che non basta indicare che i concetti logici fonda­mentali vanno sottoposti ad una chiarificazione preliminare, ma è neces­sario anche esibire i criteri della sua effettuazione, è necessario rendere interamente esplicito il suo metodo. Ciò corrisponde ad una richiesta di rigore: infatti ad ogni determinazione chiarificativa dei concetti deb­bono corrispondere quelle indicazioni di metodo che, mostrando in che modo essa è stata ottenuta, 83 formano il requisito della sua fondatezza. E questo è il passo essenziale compiuto da Husserl nelle Ricerche logiche, un passo che genera tutte le complicazioni future, perché è in questo tentativo di rispondere al problema dell'esplici­tazione del metodo della chiarificazione che assume la sua prima forma il concetto husserliano di fenomenologia. Il terzo punto su cui va richiamata conclusivamente l'at­ten­ zione ri­guarda il problema dell'intuizione, nella misura in cui esso viene ripro­posto in rapporto alla precisazione del senso di una chiarificazione feno­menologica. In precedenza abbiamo osservato che il correlato intuitivo eventuale del significato, il suo senso riempiente, non è un elemento costitutivo del significato stesso, e su questa base abbiamo distinto la funzione conoscitiva del linguaggio dalla sua portata puramente signifi­cativa. Tuttavia, secondo Husserl, le differenze concernenti il significato non possono essere rese chiare arrestandosi alla considerazione delle espressioni nella loro funzione simbolica, ed è questo che fa rinascere in sede di analisi fenomenologica - e non dunque sul terreno della teoria logica - il problema dell'intui­zione. Mantenendo la terminologia fissata, l'analisi fenomenologica sarà un'analisi attuale che considera i significati in rapporto ai loro riempimenti [71]: e viene così alla luce il nodo interno che connette questa scelta di metodo con la problematica di una nuova teoria della conoscenza, così come si presenta nella Sesta ricerca logica. 84 Note * Nelle note seguenti, la traduzione italiana da me curata, Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano 1968 viene indicata con la sigla R.L. [1] Come esempi si potrebbero citare i giudizi di un Beth o di uno Scholz. Secondo il primo, Husserl non sarebbe mai riuscito ad "assimilare completamente Frege" (I fondamenti logici della matematica, trad. it. di E. Casari, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 147); l'antipsicologismo di Husserl sarebbe puramente preteso e la fenomenologia null'altro che una psicologia speculativa che differisce da quella di Mill e di Ziehen solo perché assume principi differenti (cfr. E. W. Beth e J. Piaget, Epistémologie mathématique et psychologie, Paris, P.U.F., 1961, pp. 33-36; di qui risulta anche che questi giudizi si reggono sulle "conceptions courantes, d'ailleurs en grandes lignes exactes" [!] della fenomenologia, oltre che sulla lettura del volume di M. Farber, The Foundation of Phenomenology, Cambridge, Mass., 1943). Secondo Scholz, il merito che si è aggiudicato Husserl con la scoperta della logica bolzaniana "è forse da porre più in alto di quello che gli spetta per le sue Ricerche logiche" (Storia della logica, trad. it. di E. Melandri, Milano, Silva, 1962, p. 94). - Lo stesso Beth (op. cit., p. 147) ricorda che l'opera di Husserl ha esercitato una forte influenza sulla logica polacca - ed è questa una direzione passata sostanzialmente inosser­ vata da parte della bibliografia husserliana. Da questo punto di vista assumono rilievo anche le critiche di Husserl alle posizioni di Twardowski, il quale va a sua volta ricollegato all'ambiente brentaniano. (Dal 1968 ad oggi - 2013 - la situazione si è radicalmente modificata. L'interesse per il pensiero logico di Husserl è andato crescendo, sia in rapporto alla sua portata teoretica, sia alle influenze esercitate sulla logica e sulla filosofia del linguaggio del novecento. Nessuno studioso, di qualunque tendenza, azzarderebbe oggi giudizi così superficiali come quelli di Beth e di Scholz). 85 [2] F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkte, Leipzig 1874, I, pp. 32-33. [3] Ibid., p. 27. [4] E. Husserl, Philosophie der Arithmetik, Halle-Saale 1891, p. VI. [5] Come è noto, sussiste il problema della possibile influenza esercitata da Frege su Husserl, in particolare con la recensione alla Philosophie der Arithmetik, pub­blicata nel 1894 nella "Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik" ed ora leggibile in G. Frege, Logica e aritmetica, trad. it. di L. Geymonat e C. Man­gione, Torino, Boringhieri, 1965, pp. 419-437. Si rinvia a questo proposito a D. Føllesdal, Husserl und Frege. Ein Beitrag zur Beleuchtung der Entstehung der phä­nomenologischen Philosophie, Oslo 1958. Il Føllesdal sottolinea come questo pro­blema sia stato finora poco studiato, rilevando l'insufficienza delle osservazioni che si possono trovare in M. Farber, op. cit., pp. 16-17, e in A. Osborn, Husserl and his Logical Investigations, Cambridge, Mass., 1949, pp. 49-53. D'altra parte il volu­metto di Føllesdal è a sua volta ampiamente insoddisfacente: il problema dei rap­porti Husserl-Frege viene affrontato con l'in­tento di stabilire "rigo­rosamente" se Frege ha influito su Husserl, ed a tal fine si accampano le citazioni corrispondenti (i fatti) per poi passare alle ipotesi e alla loro eventuale verifica. A tanto possono condurre le imitazioni di un "metodo scientifico" grossolanamente inteso. Il risultato è poi che Frege può aver influenzato Husserl, come una possibilità non verificata. (Ed a quale ricchezza di risultati esse possono condurre!). - Sulla posizione di Frege in generale si veda l'introdu­zione di C. Mangione al volume citato degli scritti di Frege, pp. 16-81. Inoltre: S. Veca, Fondazione e oggettività logica in G. Frege, "Aut Aut", luglio 1966, pp. 26-52. [6] Come risulta da una lettera di Husserl a Meinong, in data 86 22.XI.1894, pubblicata in Philosophenbriefe aus der wissenschaftlichen Korrespondenz von A. v. Meinong, Graz 1965, p. 94. - Le idee sviluppate nei Prolegomeni risalgono al 1896, stando alle indicazioni contenute nella prefazione alla seconda edizione delle Ricerche logiche, dove si scrive che essi sono "nel loro contenuto essenziale, una semplice rielabo­razione di due serie complementari di lezioni tenute a Halle nell'estate e nell'in­verno del 1896". (Cfr. R. L., p. 10). Questa data è spostata al 1895 nel progretto di prefazione per la stessa edizione, pubblicato da Fink nel 1939, dove si legge che il contenuto del primo volume è "sostanzialmente, ed in particolare in tutte le sue argomentazioni antipsicologistiche, solo una ripresa di lezioni universitarie dell'estate e dell'autunno del 1895, e con ciò si spiega anche una certa vivacità e libertà dell'esposizione. Di progettazione nuova fu in realtà soltanto il capitolo conclusivo, il cui contenuto concettuale deriva tuttavia interamente dai più vecchi studi logico-­matematici, che non ho più portato avanti dopo il 1894" (Entwurf einer "Vorrede" zu den "Logischen Untersuchungen", 1913, in "Tijdschrift voor Philosophie", 1, febbraio 1939, pp. 106-133, e 2 maggio 1939, pp. 319-339; la citazione riportata si trova a p. 128). [7] E. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Bari, Laterza, 1949, vol. I, p. 97. [8] "Gli antipsicologisti sbagliano quando fanno della funzione regolativa della conoscenza, per così dire, la quintessenza delle leggi logiche. Per questa ragione non si è fatto valere come avrebbe meritato il carattere puramente teoretico della logica formale e di conseguenza la sua assimilazione alla matematica formale" (R.L., I, p. 168). Nel § 59 dei Prolegomeni, dopo aver sottolineato l'importanza di Herbart dal punto di vista di una concezione della logica come disciplina pura, non ridu­cibile alla psicologia, Husserl osserva che l'errore fondamentale di Herbart consiste nella definizione del concetto logico attraverso il suo 87 carattere normativo: "Stret­tamente dipendente da ciò è il fatto che Herbart crede di aver trovato una formula risolutiva quando contrappone la logica come morale del pensiero alla psico­logia come storia naturale dell'intelletto. Egli non ha alcuna idea della scienza pura, teoretica, che si cela dietro questa morale (come anche nel caso della morale in senso comune), ed ancora meno dell'ambito e dei limiti naturali di questa scienza e della sua interna unità con la matematica pura" (ibid., I, p. 225). - Fra i filosofi suoi contemporanei che hanno intravisto l'idea della matematicità della logica, Husserl ricorda i nomi di Lotze e di Riehl (ibid., p. 80 e p. 178). In Logica formale e tra­scendentale questo riferimento viene precisato in senso critico: "Furono soltanto dei logici affatto isolati che si misero dalla parte delle tesi dei matematici, ma in fondo essi seguivano piuttosto una sensazione della via giusta, come Lotze, o il pregiudizio della superiorità del punto di vista dei matematici, come è chiaramente il caso di A. Riehl - più di quanto non cercassero di fondare questa presa di posizione sulla ricerca effettiva" (trad. it. di G. D. Neri, in seguito indicata con L.F.T., Bari, Laterza, 1966, p. 101). - A proposito del giudizio di Husserl su Lotze si veda Entwurf, cit., pp. 325-326, e Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, trad. it. di E. Filippini, in seguito indicata con Idee, Torino, Einaudi, 1965, pp. 836-837. [9] R.L., I, p. 257. [10] È appena il caso di ricordare che tra il 1900 e il 1903 vengono pubblicati i volumi dedicati a Leibniz di B. Russell (A critical exposition of the philosophy of Leibniz, Cambridge 1900), di L. Couturat (La logique de Leibniz, d'a près des docu­ments inédits, Paris 1901. - Opuscules et fragments inédits de Leibniz, par L. Couturat, Paris 1903), e di E. Cassirer (Leibniz's System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, Marburg 1902). - Attraverso Leibniz, Husserl perviene a riaprire il problema del significato della logica scolastica, 88 anche su questo punto in armonia con gli interessi riattivati dalla nuova logica. Accingendosi a difendere l'idea di una logica pura dall'obiezione secondo la quale si tratterebbe di una "restaurazione della logica scolastico-aristotelica, che la storia avrebbe già condannato come scarsamente valida", egli si chiede "se il disprezzo verso la logica tradizionale non sia una conseguenza ingiustificata di quello stato d'animo rinascimentale che aveva alla sua base motivazioni che oggi non possono più toccarci". Ed aggiunge: "Il fatto che la logica formale abbia assunto nelle mani della scolastica (specialmente nel periodo della sua degenerazione) il carattere di una falsa metodologia, dimostra forse soltanto che la teoria logica (nella misura in cui era già sviluppata) non era stata corretta­mente compresa dal punto di vista filosofico: la sua utilizzazione pratica intraprese perciò vie erronee, ed essa venne creduta capace di operazioni metodiche che per sua stessa essenza non era in grado di compiere. Così la mistica dei numeri non dimostra nulla in rapporto all'aritmetica" (ibid., pp. 55-56). [11] Cfr. H. Scholz, Die Wissenschaftslehre Bolzanos, in Mathesis universalis, Basel­Stuttgart 1961, p. 220, n. 3. [12] "L'opinione di Rickert che Bolzano fosse uno studioso ben noto e molto utiliz­zato in Austria, dove avrebbe esercitato una vasta influenza, è un'invenzione priva del minimo fondamento, come del resto tutto ciò che dice su Brentano, su di me e sui nostri rapporti con Bolzano. A che punto stessero le cose, a proposito dell'influenza di Bolzano, risulta già dal fatto che ancora intorno al 1901 l'edizione originale della Wissenschaftslehre del 1837 era invenduta e l'edizione parziale di Braumüller del 1884 aveva preso la via dell'antiquariato ad un prezzo irrisorio - poco prima che la mia riscoperta della sua importanza attirasse su di essa l'attenzione di tutti" (E. Husserl, Entwurf, cit., p. 129, nota). [13] R.L., I, p. 230. 89 [14] Ibid., p. 231. Per il giudizio di Husserl su Bolzano, si veda in particolare Entwurf, cit., pp. 129 sgg. e pp. 326-327; Idee, p. 836; L.F.T., pp. 102-104. Su Bolzano e le Ricerche logiche: G. Preti, I fondamenti della logica formale pura nella Wissenscha/tslehre di B. Bolzano e nelle Logische Untersuchungen di E. Husserl, in "Sophia", II-1V, 1935. [15] Ibid., p. 268. [16] Cfr. ad es., ibid., II, p. 15: "... noi non lavoriamo ad un'esposizione sistematica della logica, ma alla sua chiarificazione critico-conoscitiva e, al tempo stesso, ad una elaborazione preliminare in vista di ogni esposizione futura di questo genere". [17] Ibid., II, pp. 76-77. [18] Nel primo capitolo della Terza ricerca assumono particolare rilievo i riferimenti all'opera di Carl Stumpf, a cui le Ricerche logiche sono dedicate. La bibliografia husserliana ha generalmente trascurato questo rapporto, ed a maggior ragione vogliamo sottolineare qui il suo specifico interesse. Stumpf è del resto autore poco studiato che meriterebbe di essere ripreso in considerazione. Si vedano intanto H. Spiegelberg, The Phenomenological Movement, Den Haag, M. Nijhoff, 1960, I, cap. II, pp. 53-69; e anche, con particolare riguardo al concetto di "fusione": A. Gurwitsch, Théorie du champ de la conscience, Paris 1957, pp. 72-77. Segna­liamo infine che le opere di Stumpf Tonpsychologie (1883-1890) e Ueber den psycho­logischen Ursprung der Raumvorstelhung (1873) sono diventate nuovamente acces­sibili in seguito alle riedizioni compiute rispettivamente da E. J. Bonset, Amsterdam 1965, e da Frits Knuf e E. J. Bonset, Hilversum-Amsterdam 1965. [19] Nella prefazione apposta alla Sesta ricerca (1920), Husserl definisce "grotte­sca" questa critica (R.L., I, p. 17) e nell'Ent­wurf del 1913 osserva che coloro che parlano di "ricaduta nello psicolo- 90 gismo non trovano nulla di strano nel fatto che lo stesso autore che nel primo volume manifesterebbe un acume da essi tanto lodato, nel secondo cercherebbe riparo in contraddizioni manifeste, anzi infantili" (p. 115). [20] Naturalmente Husserl parla più volte, sia nelle Ricerche logiche che altrove, di logica filosofica, ma con ciò si intende sempre una logica "filosoficamente" chia­rificata, nel senso gnoseologico che qui si ha di mira. Per l'approfondimento di questo tema si veda in particolare: L.F.T., § 8 e § 56. [21] R.L., I, p. 256. [22] Ibid., p. 257. [23] Ibid., p. 258. [24] Ibid. [25] Ibid., p. 29. [26] Ibid., p. 30. [27] Philosophie der Arithmetik, op. cit., pp. VIII-IX. - Husserl aggiunge di essere debitore delle idee fondamentali della sua nuova teoria "allo studio della memoria di Gauss sui resti biquadratici (II), che pur essendo stata molto letta, è tuttavia sempre stata utilizzata solo unilateralmente" (ibid., p. IX). Su questo riferimento a Gauss in rapporto alla Philosophie der Arithmetik, cfr. B. Picker, Die Bedeutung der Mathematik für die Philosophie Edmund Husserls, in "Philosophia naturalis", 1962, Band VII, Heft 3-4, pp. 290-297. [28] Idee, p. 118. 91 [29] L.F.T., p. 118. - Sui problemi posti dal concetto di varietà definita si veda S. Bachelard, La logique de Husserl, Paris, P.U.F., 1957, pp. 109 sgg. La Bachelard osserva che il concetto di definitezza non si presenta nei Prolegomeni benché la suaformulazione sia anteriore (stando appunto alla nota citata di Idee, op. cit., p. 110, n. 1). Questa affermazione deve essere tuttavia corretta, poiché anche se tale requi­sito non viene esplicitamente enunciato nel capitolo conclusivo dei Prolegomeni, esso ci sembra tuttavia riconoscibile nel concetto di chiusura del sistema di leggi fondamentali (R.L., I, p. 239). [30] R.L., I, p. 254 (a questo accenno si rimanda anche nella precedente citazione tratta da Idee). [31] Ibid., p. 255. [32] Cfr. Sez. I, cap. III, in particolare § 30. [33] Cfr. Prima ricerca, §§ 1-8. [34] Ibid., p. 361. [35] Ibid., p. 313. [36] Ibid., p. 315. [37] Cfr. Prima ricerca, §§ 7-8. [38] Cfr. l'intero cap. II della Prima ricerca. [39] Cfr. ibid., S 14. [40] Ibid., pp. 334-35. 92 [41] R.L., II, p. 108. [42] Ibid., I, p. 331. Si veda in particolare la discussione con Sigwart (Ibid., I, p. 320), a proposito dell'esempio "cerchio quadrato". Sigwart nega che espressioni di questo genere abbiano significato, traendo questa negazione dall'asserzione "non vi è alcun cerchio quadrato". In sostanza si chiede qui se vi è un esempio intuitivo dell'espressione in questione, e si conclude dall'insussistenza di questo esempio al­l'insignificanza dell'e­spres­­sione corrispondente. Ma se le cose stessero in questi ter­mini, osserva Husserl, "dovremmo definire prive di senso, oltre alle espressioni imme­diatamente assurde anche quelle che sono assurde solo mediatamente, quindi le nume­rosissime espressioni che i matematici, con complesse dimostrazioni indirette, hanno provato essere a priori prive di oggetto, e dovremmo negare anche che concetti come decaedro regolare, ecc., siano in generale dei concetti" (p. 321). Husserl nega perciò che espressioni come "cerchio quadrato" e "verde è o" siano da porre sullo stesso piano: la seconda è infatti un'espressione apparente, un nonsenso, mentre la prima ha un significato che viene compreso perfettamente, solo che manca di traduzione intuitiva in linea di principio: cioè, il significato cerchio e il significato quadrato sono incompatibili, e da questa incompatibilità si trae l'afferma­zio­ne dell'impossibilità a priori di un senso riempiente. Non sempre la "cambiale emessa sull'intuizione" (per servirci di un'immagine di Husserl) viene pagata (p. 322). [43] La traduzione di Stoff con sostanza (e corrispondentemente di stofflich con sostanziale) può essere naturalmente discussa e ad essa sarebbe preferibile il termine di materia. Va notato tuttavia che Husserl afferma esplicitamente la necessità di distinguere anche sul piano terminologico questo concetto di materia (Materie), che si oppone a forma categoriale, dal concetto di materia come opposto a qualità (cfr. Sesta ricerca § 42). All'in­terno delle 93 Ricerche logiche la traduzione di Stoff con sostanza non conduce in ogni caso ad alcun equivoco essendo il suo senso nettamente determinato. Questa traduzione è stata adottata da M. Farber in The Foundation of Phenomenology, Cambridge, Mass. 1943, p. 322). Nella traduzione francese delle Richerche logiche (PUF, Paris 1961) si propone di rendere Stoff con materiau (vol. III, p 301). [44] R.L., II, p. 109. [45] Cfr. in particolare R.L., II, pp. 114-115 e l'Appendice prima a L.F.T. da cui ab­biamo tratto i termini Syntagma e Kerngebilde che non compaiono nelle R.L. Si rimanda inoltre per queste distinzioni a Erfahrung und Urteil, Hamburg 1964, § 50b, da cui riferiamo il passo seguente, a chiarimento del problema accennato:"Ad un esame più attento, in ogni giudizio predicativo più semplice si è già effet­tuata una duplice messa in forma. I membri della proposizione giudicativa non hanno soltanto la messa in forma sintattica, a titolo di soggetto predicato, ecc., in quanto forme funzionali (Funktionsformen) che spettano ad essi come membri della pro­ posizione, ma hanno alla base ancora un'altra specie di messa in forma, le forme nucleari: il soggetto ha la forma nucleare della sostantività (Substantivität) e nel predicato la determinazione p si trova nella forma nucleare dell'ag­get­tività. La forma della sostantività non va peraltro confusa con la forma di soggetto. Essa desi­gna l'"essere-per-sé", l'indipen­denza di un oggetto (una indipendenza che natural­mente, come vedremo, può anche derivare da un'autonomizzazione), rispetto al­l'aggettività, alla forma dell' "inerenza a qualcosa", della non-indipendenza dell'oggetto determinativo. Questa messa in forma non ha immediatamente nulla a che fare con la funzione di ciò che viene formato (del "costrutto nucleare") nel­l'intero del giudizio predicativo; ma essa è il presupposto per la messa in forma sintattica, per la trasformazione dei "costrutti nucleari" in sostanze sintattiche con forme funzionali, come la forma di soggetto, ecc. La messa in 94 forma di soggetto presuppone una sostanza con la forma della sostantività. Ma tale sostanza non deve necessariamente assumere la forma di soggetto, essa può anche, come vedremo, avere la forma sintattica dell'oggetto relazionale. Ed analogamente ciò che viene colto nella forma dell'ag­gettività può fungere sia come predicato sia come attributo" (p. 248). [46] R.L., II, p. 109. [47] Ibid., p. 110. [48] Ibid., I, p. 338. [49] Ibid., p. 336. [50] Ibid., p. 118, n. 9. [51] Ibid., p. 336. [52] Ibid. - Se si considerano le implicazioni di questa prima presa di posizione sul problema, non è difficile rendersi conto perché Husserl insisterà in seguito sul fatto che la soppressione di queste differenze, che comporta la riduzione di ogni significato al significato-gioco, e quindi dell'intera sfera delle forme a quella delle cose, va criticamente considerata come un momento interno del processo attra­verso il quale le scienze diventano esse stesse "fabbriche di proposizioni preziose praticamente utili, in cui si può lavorare come operai o come tecnici inventori, a cui, in veste pratica, si può attingere anche senza un intera comprensione, coglien­done, nel migliore dei casi, semplicemente la razionalità tecnica" (Idee, trad. it. cit., p. 871; i corsivi sono nostri). [53] L.F.T., p. 93. 95 [54] Cfr. Erste Philosophie, Husserliana, VII, cap. II, pp. 17-31; L.F.T., pp. 65 sgg. [55] Idee, p. 31. [56] L.F.T., pp. 93-94 [57] Ibid., p. 95. [58] R.L., I, p. 362. - Questo problema si complica ulteriormente se si osserva che il significato può a sua volta essere oggetto di un significato, in modo tale che "su di esso possono eventualmente essere enunciati giudizi unitari evidenti: esso può venire paragonato ad altri significati ed essere distinto da essi; può essere soggetto identico di numerosi predicati, identico punto di riferimento in molteplici relazioni; può essere collegato con altri significati e contato come unità; in quanto significato identico, esso stesso è di nuovo oggetto in rapporto a molteplici significati nuovi - come tutti gli altri oggetti che non sono significati (cavalli, pietre, atti psichici, ecc.)" (ibid., p. 382).- Il termine di teoria dell'oggetto è caratteristico della prima edizione delle R.L., mentre quello di ontologia della seconda edizione e delle opere successive. Per la moti­vazione di questa scelta, si veda Idee, libro I, p. 30, nota 1, dove Husserl osserva che al tempo della prima edizione delle R.L. non aveva osato assumere il termine di ontologia, perché era "urtante per motivi storici". Per il passaggio dal concetto di teoria dell'oggetto a quello di ontologia si veda in particolare Seconda ricerca, § 8. [59] Ibid., I, pp. 33-34. [60] Cfr. Prolegomeni, § 64. [61] Si veda per questo concetto di fondazione (Begründung), Pro- 96 legomeni, §§ 6-9 e § 42. [62] R.L., I, p. 239. [63] Ibid. [64] Ibid., p. 285. [65] Ibid., p. 362: "Ogni scienza, in rapporto al suo statuto oggettivo, è costituita in quanto teoria di un'unica sostanza omogenea, essa è una complessione ideale di significati. Potremmo dire addirittura, nella sua totalità, pur così differenziata, que­sta trama di significati che chiamiamo unità teoretica della scienza, appartiene an­cora alla categoria che abbraccia tutti i suoi elementi, costituisce essa stessa un unità di significato". [66] Ibid., p. 37. [67] Ibid., p. 253. [68] Si veda su questo punto E. Paci, Fondazione e chiarificazione in Husserl, in "Aut Aut", 99, maggio 1967, pp. 7-13, e dello stesso autore, sul tema di questa introduzione, Per lo studio della logica in Husserl, in "Aut Aut", 94, luglio 1966, pp. 7-25. - Il concetto di chiarificazione viene ripreso in Idee, libro I, § 67 e § 125; libro III, cap. IV. - Nel cap. II della Terza ricerca si definisce un terzo concetto di fondazione (Fundienung) che è di fondamentale importanza per le R.L. nel loro complesso. All'interno di quest'opera la distinzione terminologica (Begründung, Grundlegung, Fundierung) viene mantenuta in modo relativamente costante. [69] Secondo J. Vuillemin (La philosophie de l'algèbre, Paris 1962, p. 495), la discriminante essenziale che separerebbe l'impo­stazione husserliana dagli altri indirizzi della riflessione contemporanea 97 sul problema dei fondamenti della matematica con­siste nel fatto che essa andrebbe caratterizzata come intuizionismo, "ma in un senso interamente differente da quello di un Weyl o di un Brouwer. Questi ultimi rico­struiscono su un dato irriducibile, ma di origine puramente matematica, come la serie degli interi naturali, tutto ciò che nella teoria degli insiemi e in topologia può ridursi, per mezzo di modi definiti di dimostrazione, come il ragionamento ricorsivo, a questi dati primitivi. Essi non passano in nessun caso ad un "altro genere" e non hanno bisogno di fornire una deduzione filosofica dei concetti primitivi propri della matematica". Non stiamo qui a discutere la caratterizzazione di intuizionismo in rapporto a Husserl che ha i suoi problemi: se teniamo conto dell'orientamento di ricerca che si fa valere in Husserl, si chiede qui implicitamente che la "chiarificazione" del significato cada nella sua "analitica", ed è questa richiesta che meriterebbe di essere segnalata come un assurdo passaggio ad altro genere. [70] Si ribadisce perciò, in Husserl, che la teoria della conoscenza "in senso pro­prio non è affatto una teoria. Non è una scienza nel senso pregnante di una unità derivante da una spiegazione teoretica" (R.L., I, p. 285). "Essa non vuole spiegare in senso psicologico o psicofisico, la conoscenza, l'evento fattuale nella natura ob­biettiva, ma chiarificare l'idea della conoscenza nei suoi elementi costitutivi o nelle sue leggi; non vuole andare alla ricerca dei nessi reali della coesistenza e della suc­cessione, nei quali sono intessuti gli atti conoscitivi fattuali, ma comprendere il senso ideale dei nessi specifici nei quali si documenta l'obiettività della conoscenza; ritornando al riempimento adeguato dell'intuizione, essa vuole rendere chiare e di­stinte le forme pure della conoscenza e le sue leggi" (ibid.). [71] "Ciò che è il "significato"" scrive Husserl in un passo molto indicativo della sua posizione "ci può essere dato con la stessa 98 immediatezza con cui ci è dato ciò che è il colore o il suono. Si tratta di qualcosa che non può essere definito ulteriormente, di descrittivamente ultimo. Ogni qual volta compiamo o comprendiamo un'espres­sione, essa signi­fica per noi qualcosa, noi siamo attualmente coscienti del suo senso. Questo com­prendere, significare, effettuare un senso, non è l'udire il complesso fonetico, o l'avere nello stesso tempo l'esperienza vissuta di un'immagine qualsiasi. Con la stessa evi­denza con cui ci sono date le differenze fenomenologiche tra suoni che si manife­stano, ci sono date anche le differenze tra i significati. Naturalmente la fenomenologia dei significati non raggiunge qui il suo punto terminale, ma ha di qui inizio. Da un lato si accerterà la differenza fondamentale, dal punto di vista gnoseologico, tra i significati simbolicamente vuoti e quelli intuitivamente riempiti, d'altro lato si dovranno studiare le modalità essenziali e le forme di collegamento tra i significati. Questo è il campo dell'analisi attuale del significato" (R.L., I, p. 454). 99 Giovanni Piana Husserl, Schlick e Wittgenstein sulle cosiddette "proposizioni sintetiche a priori" 1971 100 Questo articolo è stato pubblicato nella rivista "Aut Aut", n. 122, 1971, pp. 19-41. 101 1. All'interno della Terza ricerca logica, Husserl ripropone in termini nuovi la distinzione di una classe di proposizioni che dovrebbero meritare la caratterizzazione di "proposizioni sintetiche a priori" di fronte alle proposizioni "analitiche". Nelle pagine seguenti tenterò di chiarire brevemente il senso di questa distinzione, prendendo in considerazione, da un lato, la critica che Moritz Schlick conduce ad essa e, dall'altro, la posizione di Wittgenstein che, pur respingendo la sua validità, sviluppa una propria elaborazione della tematica ad essa soggiacente. 2. Converrà senz'altro prendere le mosse dalla definizione della nozione di proposizione analitica che viene formulata da Husserl nel § 12 della Terza ricerca logica. "Possiamo definire come proposizioni analiticamente necessarie le proposizioni che hanno una verità pienamente indipendente dalla natura intrinseca delle loro oggettualità (pensate in modo determinato o in una generalità indeterminata) e dall'eventuale fattualità del caso in questione, dalla validità dell'eventuale posizione esistenziale; si tratta quindi di proposizioni che si possono 'formalizzare' completamente e che possono essere comprese come casi speciali o applicazioni empiriche delle leggi analitiche o formali che sorgono validamente da tale formalizzazione. In una proposizione analitica deve essere possibile sostituire ogni materia, mantenendo pienamente la forma logica della proposizione, con la forma vuota qualcosa e mettere da parte ogni posizione esistenziale passando alla forma giudicativa corrispondente, provvista di una 'generalità incondizionata' ovvero del carattere di legge"[1]. Naturalmente occorre intendersi sulla nozione di "formalizzazione completa" da cui dipende interamente il senso della 102 definizione proposta. Come appare dall'ultima frase del passo citato, si presuppone qui una differenziazione interna nell'unità dell'enunciato tra un momento formale (la "forma logica della proposizione") e un momento materiale, dove il momento materiale consiste in ciò che, nell'enunciato, rinvia alla determinatezza degli oggetti. Si dirà allora "completamente formalizzato" un enunciato i cui segni che rinviano ad oggetti determinati siano stati sostituiti da "variabili" o, che è lo stesso, dall'espressione "qualcosa" (che dovrà ovviamente essere intesa come priva dell'as­sunzione esistenziale che essa ha nel linguaggio ordinario). L'intera definizione può allora essere sintetizzata come segue: un enunciato sarà detto analiticamente necessario (necessità analitica) se l'enunciato formalizzato corrispondente - che in tal caso sarà detto legge analitica - può essere saturato validamente da qualsiasi valore delle variabili che compaiono in esso. L'estensione di questa formulazione al piano puramente enunciativo, nel quale consideriamo gli enunciati come tali indipendentemente dalla loro articolazione interna, non presenta particolari difficoltà: naturalmente in questo caso non si parlerà di oggetti, ma di "stati di cose" come poli di riferimento degli enunciati e la "formalizzazione" avverrà sostituendo agli interi enunciati semplici variabili enunciative. Qui si dirà analitico un enunciato la cui verità non dipende dalla verità degli enunciati semplici ovvero dal sussistere o dal non sussistere degli stati di cose ad essi corrispondenti[2]. Indubbiamente si richiederebbe un'elaborazione migliore e più precisa - ed anche restando all'interno del discorso di Husserl andrebbero dette molte altre cose: ma qui ciò che importa è la direzione principale in cui questa definizione è orientata Da essa risulta che con proposizione analitica si deve intendere una proposizione la cui validità è giustificata da una legge valida per ogni oggetto in generale, ma se ci atteniamo unicamente al piano linguistico è egualmente corretto indicare la validità di una pro- 103 posizione analitica come una validità dipendente unicamente dalla sua "forma logica", dalla sua struttura "logico-gramma­ticale". E poiché il momento materiale dell'enunciato non è altro che il momento del senso, il prescindere dalla materia - che sul piano segnico si realizza attraverso l'uso di "variabili" - non è altro che un prescindere dal senso, in modo tale che, in questa accezione, forma e senso dell'enunciato appaiono contrapposti. Per le nostre considerazioni successive è bene tener presente questo punto che, pur non essendo esplicitamente formulato nella definizione indicata, può tuttavia essere legittimamente sviluppato da essa. II problema dell'ammissione di "proposizioni sintetiche a priori" nasce in Husserl dall'analisi di esempi proposizionali che, se da un lato sembrano presentarsi con lo stesso carattere di validità "a priori" secondo la vecchia terminologia che è proprio delle "necessità analitiche", dall'altro non sono interpretabili come tali in base alla definizione di analiticità or ora proposta. Si prendano come esempi proposizioni del tipo "ogni colore è diffuso su un'estensione", oppure "ogni suono ha sempre una certa altezza, un'intensità e un timbro", nelle quali naturalmente le parole "suono" o "colore" saranno tacitamente intese con alcune necessarie restrizioni: se si ammette che proposizioni di questo tipo non possano essere interpretate come generalizzazioni empiriche, bensì che esse formulino delle condizioni di possibilità dell'esperienza del suono e del colore, allora dovremo in qualche modo differenziare queste leggi a priori dalle precedenti e parleremo così di leggi sintetiche a priori e correlativamente, in rapporto agli esempi che sono casi speciali di quelle leggi, di necessità sintetiche a priori. Considerando il piano linguistico possiamo anche dire che la validità di un enunciato sintetico a priori poggia sul suo momento materiale, cioè sul suo senso. Se ora si confrontano queste caratterizzazioni con quelle kantiane corrispondenti - che, secondo Husserl, "non meritano affatto di essere dette classiche" [3] - non si ha difficoltà a riconoscere che siamo ben lontani da una semplice differenza di 104 formulazione che non inciderebbe sulla classificazione istituita. Al contrario: sotto il titolo di "analitico" e di "sintetico a priori" cadono esempi di proposizioni interamente diverse. Basti notare che una proposizione come "ogni corpo è esteso", che in Kant appare come esempio di proposizione analitica, deve essere in Husserl caratterizzata come sintetica a priori, e che una proposizione che assume la necessità della connessione causale, che in Kant vale come esempio centrale di proposizione sintetica a priori, non rientra affatto sotto la designazione husserliana corrispondente e presenta una tematica interamente differente [4]. Questa differenza è perciò così sostanziale che avrebbe dovuto sconsigliare la ripresa della terminologia. A parte poi la necessità di evitare ogni ambiguità rispetto ad una posizione così impegnativa e così discussa come quella kantiana, si può anche osservare che è difficile da giustificare, all'interno del discorso di Husserl ed in rapporto a questo problema, lo stesso uso di espressioni come "analitico" e "sintetico", sia pure in una eventuale reinterpretazione. La vera opposizione non sta infatti in questi termini, comunque intesi, ma in quelli di "forma" e "materia", ed in effetti va notato che l'espressione "leggi sintetiche a priori" ricorre in Husserl molto di rado, mentre si preferisce parlare di "leggi materiali" in contrapposizione a "leggi formali" (come già nel § 11 della Terza ricerca logica) ed anche, rinunciando al termine "a priori", di leggi essenziali (eidetiche) formali e materiali. In ogni caso, per gli sviluppi della discussione successive, va chiaramente fissato che, secondo Husserl, è necessario istituire una netta differenza tra quegli esempi che sono necessità in forza della loro forma logica o, come potremmo anche dire senza impuntarsi sui termini, del loro momento "sintattico", ed esempi di proposizioni che sono necessità in forza del loro momento di senso, del loro momento "semantico". Ciò dovrà valere anche in rapporto alle "contraddizioni", e come esempio di contraddizione relative al momento del senso, cioè come esempio di proposizione costituita di significati non unificabili in forza del- 105 la non unificabilità dei loro oggetti di riferimento (controsenso o assurdità materiale nella terminologia di Husserl) può valere una proposizione che afferma che un certo oggetto colorato è inesteso, oppure che esiste un suono senza un'altezza oppure ancora che un oggetto è al tempo stesso uniformemente rosso e uniformemente verde. 3. Veniamo ora alla discussione a cui Moritz Schlick sottopone la posizione di Husserl, prendendo in esame le tesi principali del saggio intitolato Esiste un a priori materiale? che ha direttamente di mira il nostro problema [5]. Schlick coglie giustamente il fatto che la distinzione introdotta da Husserl non ha un significato secondario per la sua impostazione filosofica complessiva, al contrario: l'introdu­zione delle "proposizioni sintetiche a priori" si inserisce nel quadro più ampio della rivendicazione di un a priori "materiale", che da un lato è connessa con l'intera costruzione programmatica delle cosiddette "ontologie materiali)", dall'altro con la metodologia fenomenologica nel suo complesso nella misura in cui le ricerche impostate in senso fenomenologico dovrebbero infine pervenire a formulazioni che debbono essere esse stesse caratterizzate come "verità sintetiche a priori". Così Schlick individua acutamente il punto cruciale che dovrebbe consentire una critica condotta sul piano elementare, cioè sul piano delle distinzioni logiche più semplici capace di infirmare in modo radicale la costruzione teorica di Husserl senza che si sia costretti ad entrare nei suoi dettagli. D'altro lato, questo saggio rappresenta anche un esempio di applicazione di "critica della filosofia" secondo i più tipici canoni del neopositivismo. Secondo Schlick, la distinzione tra analitico e sintetico è interamente coincidente con quella tra a priori e a posteriori: "II nostro empirismo afferma che in generale non sussistono altri giudizi a priori che quelli analitici o, come oggi preferia- 106 mo dire: che solo le proposizioni tautologiche sono a priori" [6]. D'altronde la definizione di analitico suona: "Una proposizione analitica è una proposizione vera solo in virtù della sua forma; chi ha compreso il senso di una tautologia ha la tempo stesso compresa la sue verità. Nel caso di una proposizione sintetica invece si deve anzitutto comprendere il senso, e quindi accertare se essa è vera o falsa; perciò essa è a posteriori"[7]. Data questa impostazione di principio non potremo muoverci che tra questi due estremi: o le proposizioni che vengono indicate da Husserl come esempi di proposizioni sintetiche a priori non esprimono alcuna connessione necessaria ma soltanto empirica, e quindi saranno sintetiche, oppure saranno valide necessariamente, ed in tal caso avranno carattere analitico o tautologico. Gli esempi su cui più si sofferma Schlick sono del tipo "un'unica e medesima superficie non può essere al tempo stesso verde e rossa" oppure "Se il vestito di Tizio è rosso, allora non è verde", esempi che, come abbiamo visto, appartengono all'am­ bito del nostro problema. Certamente osserva Schlick, dall'e­ sperienza io so che una determinata superficie ha un certo colore, ad esempio che è rossa. Ma sarebbe "ingenuo empirismo", che condurrebbe non lontano dalle posizioni di uno Stuart Mill, ritenere che la conoscenza conseguente secondo la quale essa non è verde sia ancora da definire come empirica eventualmente in modo mediato, cioè in forza della natura della conoscenza su cui essa è fondata. Se si ammettesse il carattere empirico di simili conoscenze, come anche di quelle del tipo "ogni suono ha un'altezza��, si dovrebbe ammettere che da qualche parte, in qualche mondo possibile, si possa dare una superficie ad un tempo uniformemente rossa e uniformemente verde, oppure un suono privo di altezza: ma ciò è impossibile, e questa impossibilità è di natura logica. "Come starebbero le cose se un cacciatore ci assicurasse di aver visto in Africa leoni normalmente gialli, ma al tempo stesso 107 anche blu? Noi gli faremmo notare che ciò è impossibile, e se egli replicasse che questa nostra diffidenza dipende dal fatto accidentale che non abbiamo mai visto un colore giallo e al tempo stesso blu, ciò non ci farebbe certo mutare di opinione" [8]. I fenomenologi hanno dunque ragione quando affermano che la "validità di tali proposizioni è di tutt'altro genere che quella dei comuni giudizi di esperienza" [9]. Sbagliano invece quando ritengono che siamo in presenza di proposizioni che hanno un carattere contenutistico, sbagliano nel ritenere che tutto ciò abbia a che vedere con la materia e non con la forma e sbagliano infine quando, guidati da quest'ordine di considerazioni, sono indotti ad introdurre, accanto alle proposizioni analitiche e sintetiche una terza classe di proposizioni a titolo di "proposizioni sintetiche a priori". In realtà, le proposizioni che essi recano come esempi sono anzitutto "banali", come le tautologie, come queste ultime esse "non dicono nulla", non apportano nessuna nuova conoscenza, "sono vere solo in virtù della loro forma e non comunicano nulla sulla realtà". Pertanto esse sono "in realtà di natura puramente concettuale, la loro validità è una validità logica, esse hanno un carattere tautologico, formale" [10]. La loro verità si può comprendere direttamente dal senso. La proposizione "la regina portava un vestito rosso" è altrettanto sensata della proposizione "la regina portava un vestito verde". "Ma se io odo che il vestito era sia rosso che verde, non posso assolutamente annettere un senso a questa connessione di parole, non so assolutamente che cosa si debba intendere con ciò" [11]. "Verde e rosso sono l'uno con l'altro incompatibili, non perché non si sia mai osservato il loro essere insieme, ma perché la proposizione 'questa macchia è sia verde che rossa' è una connessione priva di senso di parole. Le regole logiche in forza delle quali noi usiamo le parole di colore (Farbwort), impediscono un simile uso, così come impedirebbero che si dicesse 'il rosso chiaro è più rosso che il rosso scuro' " [12]. Conclusivamente: "L'errore che viene commesso da coloro 108 che sostengono l'a priori materiale, si spiega con il fatto che non si è mai chiarito che i concetti di colore e i concetti visuali hanno una struttura formale esattamente come, ad es., i numeri o i concetti spaziali, e che questa struttura determina il loro significato senza residui" [13]. È opportuno ricollegarsi senz'altro alla definizione di analiticità presentata da Schlick, alla quale è vincolata la sua intera argomentazione. Poiché il carattere razionale, "apriorico", delle proposizioni in questione è riconosciuto da Schlick negli stessi termini che in Husserl, il problema si riduce unicamente all'assunzione o al rifiuto della loro analiticità. Per far questo sarebbe stato ovviamente essenziale mettere in discussione la definizione data da Husserl. Ma di essa non si fa cenno nell'intero saggio. Di contro, nella definizione proposta da Schlick la questione è fin dall'inizio risolta nella misura in cui la "verità secondo la forma" e la "verità secondo il senso" sono assunte senz'altro come nozioni equivalenti per caratterizzare definitoriamente ciò che si deve intendere con analitico o tautologico. E poiché il problema di Husserl nasce appunto nella differenziazione di questi due momenti come momenti interni dell'unità proposizionale in generale, o si contesta la legittimità di tale distinzione, oppure ci si trova di fronte alla stessa alternativa, con modificazioni puramente terminologiche: anche se si definissero tautologiche o analitiche le verità secondo il senso o la forma (cosa che in sé non è obiettabile dal momento che, come abbiamo visto, il vero problema non va sotto i titoli dell'analisi o della sintesi), quindi anche se si volesse rinunciare a caratterizzare le proposizioni in questione come "sintetiche a priori" riunendole sotto il titolo di proposizioni analitiche resterebbe la questione di accertare se si possa distinguere l'analiticità in rapporto alla forma e l'analiticità in rapporto al senso. II problema nel suo complesso viene così eluso ed è difficile sottrarsi all'impressione che l'intera argomentazione di Schlick si riduca ad una semplice petizione di principio. 109 Una seconda osservazione riguarda il problema del senso. Certamente, vi possono essere buoni motivi per definire "insensato" un enunciato come "questa macchia è sia verde che rossa", ma si dovrà riconoscere che lo "schema enunciativo" corrispondente che otteniamo attraverso la sua "formalizzazione completa" può essere saturato da un esempio di enunciato provvisto di senso. L'incompatibilità indicata non è dunque puramente grammaticale, come vorrebbe Schlick che si esprime come se vi fossero delle particolari regole logico-grammaticali delle parole di colore. Quanto alla conclusione a cui egli perviene, non sembra che vanga dato alcun contributo a chiarire le cose appellandosi alla "struttura formale" del colore, del suono, ecc., tanto più se resta del tutto indeterminato che cosa si debba intendere, in questo caso, con una simile espressione. 4. Al termine del saggio di Schlick vi è un preciso richiamo alle posizioni sostenute da Wittgenstein, "il primo che ha dato la soluzione corretta della difficoltà" [14]. Tanto più appare interessante il fatto che questa stessa discussione, isolata agli esempi che abbiamo prodotti, si ripresenti nella forma di dibattito personale e diretto tra Schlick e Wittgenstein nei colloqui che essi ebbero a Vienna nell'inverno 1929-1930. Di questi colloqui ci restano gli appunti di Waismann che sono stati pubblicati con il titolo Ludwig Wittgenstein und der Wiener Kreis [15]. Schlick è qui sollecitato a riproporre il problema da alcune osservazioni di Wittgenstein e sollecita a sua volta Wittgenstein a prendere posizione nei confronti della reinterpretazione husserliana del "sintetico a priori". La discussione si arricchisce peraltro di tutto un complesso di nuovi spunti che spostano l'accento della questione, così come essa si era presentata sia nella posizione di Husserl sia nella confutazione di Schlick. Consideriamo brevemente la ripresa della critica a Husserl. 110 È Schlick che pone la domanda: "Che cosa si può replicare ad un filosofo che pensa che gli enunciati della fenomenologia siano giudizi sintetici a priori?" [16]. La sostanza della risposta Wittgenstein (che riferiamo integralmente si nota) sembra andare nella stessa direzione del discorso di Schlick: in realtà Husserl pensa di poter inserire tra il "logico" e il "fattuale" - un terzo termine che dovrebbe condividere, sotto la denominazione di "sintetico a priori", i caratteri dell'uno e dell'altro: "A questo io replicherei: certo, si possono inventare le parole, ma in esse io non posso pensare nulla" [17]. Tuttavia mentre in Schlick gli esempi di Husserl non ponevano particolari problemi e dalla critica delle proposizioni "sintetiche a priori" come logicamente impossibili si passava alla caratterizzazione di tali esempi sotto il titolo di "tautologia", proprio su questo punto Wittgenstein manifesta il proprio dissenso ed è quindi indotto a riprendere in esame alcune tesi del Tractatus e ad aprire, sulla loro base, nuovi spunti di ricerca. Questi sviluppi sono reperibili, sostanzialmente negli stessi termini, nel saggio Some remarks on logical form (1929) e nelle Philosophische Bemerkungen alla cui elaborazione egli attende in questo stesso periodo di tempo [18]. Anzitutto vi è il problema dell'indipendenza delle proposizioni elementari. Nel Tractatus, dall'ammissione dell'in­dipendenza reciproca delle proposizioni elementari si passava coerentemente ad escludere la possibilità di istituire tra di esse un rapporto di conseguenza [19]. Ma se si concede che le proposizioni "A è rosso" e "A è verde" possano valere come esempi di proposizioni elementari appare chiaro che dalla posizione della prima è possibile concludere all'esclusione della seconda, e quindi va riconosciuto in generale che fra questi esempi di proposizioni elementari intercorre un preciso rapporto di interdipendenza. II modo in cui deve essere intesa la proposizione elementare va perciò precisato nella misura in cui possiamo assumere che ogni proposizione elementare sia posta all'interno di un sistema 111 di proposizioni, ognuna delle quali descrive una possibilità alternativa dello stato di cose in questione: "Una volta ho scritto: 'La proposizione è come un metro apposto alla realtà. Solo i punti più esterni toccano l'oggetto che deve essere misurato'. Ora direi piuttosto: un sistema proposizionale è come un metro apposto alla realtà. Intendo dire che se appongo un metro ad un oggetto spaziale, appongo al tempo stesso tutte le linee di graduazione". "Non vengono giustapposte all'oggetto le lineette singole, ma la scala intera. Se io so che l'oggetto arriva sino alla lineetta 10, so anche immediatamente che esso non arriva al tratto 11, 12, ecc." [20]. Nelle Philosophische Bemerkungen si ribadisce: "Le proposizioni diventano in questo caso ancora più simili a metri di quanto io abbia creduto in precedenza - La coincidenza di una misura esclude automaticamente tutte le altre. Dico automaticamente: come tutte le linee di graduazione si trovano su un unico metro, così le proposizioni, che corrispondono a quelle linee, sono interdipendenti e non si può misurare con una di esse, senza al tempo stesso misurare con tutte le altre. - Io non appongo la proposizione come metro alla realtà, ma il sistema di proposizioni" [21]. Già a questo punto siamo in realtà molto al di là del discorso di Schlick su questo stesso problema. L'inferenza che diventa possibile tra una proposizione ed un'altra proposizione elementare quando sono interdipendenti all'interno di un sistema, non è riducibile alla forma della "tautologia".Su questo punto Wittgenstein prende esplicita posizione ricollegandosi, ancora una volta, al Tractatus: "Nella redazione del mio lavoro non mi ero ancora reso conto di tutto ciò; allora pensavo che qualsiasi deduzione poggiasse sulla forma della tautologia. A quel tempo 112 non avevo ancora visto che una conclusione può anche avere la forma: un uomo è alto due metri, dunque non è alto tre metri. Ciò è strettamente connesso con il fatto che credevo che le proposizioni elementari dovessero essere indipendenti e che dal sussistere di uno stato di cose non si potesse concludere al non sussistere di un altro stato di cose. Ma se la mia concezione attuale del sistema proposizionale è corretta, vale anzi di regola che dal sussistere di uno stato di cose si possa concludere al non sussistere di tutti gli altri che vengono descritti dal sistema proposizionale" [22]. Nelle Philosophische Bemerkungen si osserva che la "contraddizione" che risulta dalla congiunzione di due proposizioni elementari di questo tipo non può apparire dal segno, bensì dal simbolo, quando con quest'ultimo termine si intenda, secondo la definizione del Tractatus, quella "parte della proposizione che caratterizza il suo senso" [23] e si convenga dunque che "se, ad esempio una lettera designa ora un colore ora un suono, essa è di volta in volta un simbolo diverso" [24]. Ritroviamo così in altro modo, e con diverse motivazioni, il problema così come lo avevamo inizialmente impostato. Infatti, la possibilità di istituire la nozione di contraddizione "analitica" su una base puramente segnica è una naturale conseguenza del fatto che tale nozione ha a che fare esclusivamente con il momento formale dell'e­nun­ciato e che ciò non sia possibile nel caso della contraddizione non analitica, cioè che in questo caso la contraddizione deve "interamente mostrarsi nel simbolismo" ed "essere insita nel senso delle due proposizioni" [25], non è che un altro modo di esprimere il suo carattere non grammaticale. Bisogna tuttavia badare che termini come forma, grammatica, sintassi, ecc., possono essere usati anche in rapporto al piano ontologico, trasponendoli dal piano linguistico. Ed è necessario perciò guardarsi dagli equivoci terminologici che possono sorgere a questo proposito. Così Wittgenstein, che compie appunto questa trasposizione, può ancora ribadire che tutto ciò "non vuol dire naturalmente che l'inferire 113 possa effettuarsi non solo formalmente ma anche materialmente. II senso segue dal senso, e quindi la forma dalla forma" [26]. Ma in questo caso "forma" è usato in rapporto all'oggetto: cioè, in quanto l'oggetto ha la "forma" del colore o la "forma" dell'estensione ha in generale queste o quelle possibilità o necessità sintattiche, ad esempio una superficie che si presenta nel campo visivo deve essere necessariamente colorata; oppure: "che due colori non possano occorrere nello stesso tempo e nello stesso luogo deve essere insito nella loro forma e nella forma dello spazio" [27]. Così un'inferenza che porti ad espressione queste necessità può essere caratterizzata come "formale" solo nella misura in cui la connessione dei sensi rinvia ad una connessione necessaria delle forme degli oggetti a cui i sensi si riferiscono. Analogamente, nel caso della congiunzione di proposizioni incompatibili, l'incompatibilità è un'incompatibilità dei sensi in quanto è un'incompatibilità degli oggetti corrispondenti: "Le due proposizioni collidono nell'og­getto" [28]. (Se si confronta questo modo di impostare il problema con il discorso di Schlick non si avrà difficoltà ad accertare che esso è in buona parte giocato su un equivoco in rapporto ai termini di "grammaticalità" e di "forma logica"). Dopo quanto si è detto, il passaggio all'estensione della nozione di "sistema" dalla sfera delle proposizioni a quella degli oggetti appare del tutto naturale. Wittgenstein accenna appunto in questa direzione. I colori formano un "sistema cromatico", così come i suoni: un suono singolo o un colore singolo "presuppone" l'intero sistema dei colori o dei suoni. Alla domanda di Schlick che chiede se questa presupposizione sia da caratterizzare come "logica" o empirica, Wittgenstein risponde che essa non deriva dall'esperienza eventuale del sussistere di questo o quest'altro colore accanto a quello attualmente conosciuto. Si tratta perciò di una presupposizione logica. Qui interviene l'obiezione di Schlick: se così stanno le cose che accadrebbe "se il mondo fosse rosso", che ne sarebbe cioè 114 del sistema cromatico per un soggetto che vedesse solo rosso? Forse ad un tale soggetto può essere dato "logicamente" ciò che non gli è dato dall'esperienza? [29] La prima risposta di Wittgenstein tende a sottolineare che il colore singolo è caratterizzato da un'intensità e sono dunque pensabili, anche se il mondo fosse rosso, delle differenze di intensità, che di grado in grado conducono a vere e proprie differenze di colore. "Ora, ha senso chiedere: di quanti colori è necessario avere esperienza per conoscere il sistema di colori. No! (Tra l'altro: pensare (denken) un colore non vuol dire allucinarlo (halluzinieren)). Qui vi sono due possibilità: • o la sua sintassi è la stessa della nostra: rosso, più rosso, rosso chiaro, giallo-rosso, ecc. Ed in tal caso egli avrà il nostro intero sistema cromatico; • oppure la sua sintassi non è la stessa. Ed in tal caso egli non conosce un colore del nostro senso. Infatti se un segno ha lo stesso significato, deve avere anche la stessa sintassi" [30]. Analogamente in rapporto alla nozione di spazio, se si supponesse che qualcuno fosse sempre stato chiuso in una stanza, l'infinità dello spazio, la sua 'apertura' gli sarebbe forse ignota? No, perché ciò non dipende da un'esperienza: è qualcosa che "è posto a priori nella stessa sintassi dello spazio" [31]. Nonostante alcuni spunti interessanti, questa argomentazione è tuttavia insoddisfacente nella sua prima parte, e Wittgenstein se ne rende conto ritornando sull'argomento in due riprese. Egli rifiuta anzitutto la possibilità di uno sviluppo del sistema cromatico a partire dalle differenze di intensità del colore singolo [32], per rifiutare poi senz'altro la stessa proponibilità del problema. "Se tutto ciò che vedo fosse rosso e io potessi descrivere ciò, potrei allora anche formare la proposizione negativa 115 corrispondente. Ma ciò presuppone la possibilità di altri colori. Oppure il rosso è qualcosa che non posso descrivere ed allora non avrei una simile proposizione e non potrei negare nulla. In un mondo in cui il rosso svolgesse quasi lo stesso ruolo del tempo nel nostro mondo non vi sarebbero enunciati della forma: tutto è rosso: tutto ciò che vedo è rosso. Dunque, nella misura in cui sussiste uno stato di cose, esso può essere descritto, e allora il rosso presuppone un sistema di colori. Oppure rosso significa qualcosa di interamente diverso, ed allora non ha senso chiamarlo colore. E di ciò non si può nemmeno parlare"[33]. Con ciò si è tuttavia detto soltanto che non è possibile obiettare alla nozione di sistema riferita, ad esempio, ai colori, con l'argomento "se il mondo fosse rosso", poiché questa affermazione ha senso solo, per così dire, a partire da un mondo che non lo è ed in cui il sistema cromatico è presupposto [34]. Ma in quell'obiezione, per quanto mal posta, era tuttavia insito un problema a cui non viene data risposta. Resta infatti ancora relativamente indeciso il piano su cui si muove la nozione di "sistema" quando questo viene inteso nel modo indicato. Per questo Schlick può in seguito riproporre il proprio quesito iniziale. E questa volta Wittgenstein, ribadendo il proprio punto di vista, osserva: "Nel Tractatus ho detto una volta: la logica è prima del come, non prima del che cosa. La logica dipende dal fatto che qualcosa esista (nel senso di: qualcosa è 'disponibile'), che vi sono fatti. Essa è indipendente dal modo in cui sono costituiti i fatti, dal loro essere determinato. Che vi siano fatti non può essere descritto da alcuna proposizione. Se volete si potrebbe altrettanto bene dire: la logica è empirica se chiamate questo empiria" [35]. Naturalmente non sarà opportuno intendere questo con empiria [36], ma l'intenzione della risposta è tuttavia abbastanza chiara. La nozione di sistema non è in realtà altro, come si sarà notato, che uno sviluppo della metafora dello "spazio" così come si presentava nel Tractatus: "La macchia nel campo visivo non deve certo essere necessariamente rossa, ma deve avere un 116 colore: essa ha per così dire lo spazio cromatico intorno a sé. Il suono deve avere un'altezza, l'oggetto del tatto una durezza, ecc." [37]. E se si considera che può sorgere immediatamente la domanda: da dove attingo queste conoscenze e in che cosa è fondata la loro certezza, si comprende che Wittgenstein, di fronte alle domande di Schlick, finisca con il richiamare l'attenzione, sia pure abbastanza tortuosamente, sul fatto che vi è almeno un senso in base al quale è possibile definire "empirica" la logica. Accenniamo infine ad una conclusione ulteriore che Wittgenstein trae dalle considerazioni precedenti. Nel Tractatus la formulazione delle regole d'uso delle "costanti logiche" era strettamente connessa con l'assunzione dell'indipendenza delle proposizioni elementari. La loro "gram­matica" viene istituita prescindendo dalla struttura interna delle proposizioni connesse. Ma se si considerano le "costanti logiche" in rapporto alla struttura delle proposizioni su cui esse operano, si otterranno nuove regole sintattiche - ed un esempio particolarmente chiaro è offerto appunto dal "prodotto logico" di due proposizioni elementari che appartengono al sistema: "Io avevo disposto delle regole per l'uso sintattico delle costanti logiche, ad es. 'p e q', e non avevo pensato al fatto che queste regole potrebbero avere a che fare con la struttura interna delle proposizioni. Nella mia concezione era falsa la mia convinzione che si potesse istituire la sintassi delle costanti logiche senza badare alla struttura interna della proposizione. Così non stanno le cose. Io non posso, ad esempio, dire: in un unico e medesimo punto vi è al tempo stesso il rosso e il blu. Qui il prodotto logico è ineseguibile. Le regole delle costanti logiche formano invece solo una parte di una sintassi più ampia di cui allora non sapevo ancora nulla" [38]. La stessa idea viene ribadita nelle Philosophische Bemerkungen: "Le regole grammaticali su 'e', 'non', 'o', ecc. non sono in effetti esaurite da ciò che ho detto nella Dissertazione, ma vi sono regole delle funzioni di verità che trattano anche della parte elementare 117 della proposizione" [39]. "Le regole su 'e', 'o', 'non', ecc. che ho presentato mediante la notazione V-F sono una parte della grammatica di queste parole, ma non sono l'intera grammatica" [40]. La discussione si conclude così: Schlick: "Non si ha forse la sensazione che le costanti logiche (le funzioni di verità) siano qualche cosa di più essenziale delle regole particolari della sintassi, che ad esempio la possibilità di formare un prodotto logico 'p e q' sia più generale, in certo modo più comprensiva, delle regole della sintassi secondo cui rosso e blu non possono essere nello stesso luogo? La prima regola non contiene nulla che riguardi il luogo e il colore". Wittgenstein: "Non credo che sussista qui una differenza. Le regole per il prodotto logico, ecc., non debbono essere separate dalle altre regole della sintassi. Entrambe appartengono al metodo della raffigurazione del mondo" [41]. 5. Alcune integrazioni a scopo di chiarimento possono essere cercate nel saggio Some remarks on logical form (1929) il cui contenuto corrisponde allo stesso problema che abbiamo or ora discusso. Il fatto che questo tema sia stato prescelto da Wittgenstein per una comunicazione pubblica dimostra che egli annetteva ad esso una certa importanza e ciò indipendentemente dal fatto che la soluzione proposta potesse essere giudicata da Wittgenstein stesso insoddisfacente [42]. Vediamo anzitutto l'inizio del saggio. "Ogni proposizione - scrive Wittgenstein - ha un contenuto ed una forma. Noi otteniamo l'immagine della pura forma se facciamo astrazione dal significato delle singole parole, o dei simboli (nella misura in cui essi hanno significati indipendenti).Vale a dire se noi sostituiamo variabili al posto delle costanti della proposizione. Le regole della sintassi che sono applicate alle costanti debbono perciò essere 118 applicate alle variabili. Con sintassi in questo senso generale della parola io intendo le regole che ci dicono in quali connessioni unicamente una parola ha senso, escludendo così le strutture nonsense (nonsensical)" [43]. Già il modo in cui la nozione di sintassi viene qui definita indica la direzione in cui Wittgenstein intende procedere: con "strutture nonsense", in questa accezione generale, sembra infatti si debbano intendere non solo quegli esempi di proposizioni che valevano, nella terminologia di Husserl, come contraddizioni formali, ma anche come contraddizioni materiali. Dietro la diversità della terminologia vi è in realtà un diverso modo di intendere la nozione di forma proposizionale che si presenta con chiarezza nel saggio in questione, come il vero punto cruciale del discorso. Ciò che è la forma di una proposizione elementare - sostiene Wittgenstein - non può essere previsto, non può essere dato a priori, ma deve essere tratto dall'indagine dei fatti dei fenomeni reali che essa presenta [44]. Così, l'identità di forma che due proposizioni predicative presentano nel linguaggio ordinario può essere del tutto apparente: quale sia la forma della proposizione elementare lo dobbiamo apprendere da un'analisi dello stato di cose che essa rappresenta, formulando con precisione le regole del "metodo di proiezione" attraverso cui essa può assolvere questa funzione rappresentativa. Una proposizione espressa nel linguaggio ordinario dovrà quindi essere riformulata, una volta chiarita la struttura dello stato di cose, in un linguaggio adeguato a tale struttura - un linguaggio cioè che possegga, come Wittgenstein si esprime, la stessa "molteplicità logica". Come in precedenza Wittgenstein aveva ricordato la propria metafora del "metro apposto alla realtà", qui egli ricorda un'altra metafora di cui si era servito per illustrare lo stesso rapporto: la proposizione "si spinge sino a toccare la realtà" [45]; e spiega che con ciò egli intendeva dire che "le forme delle entità sono contenute nella forma della proposizione che verte intorno ad esse"[46]. Dire che una proposizione elementare ha una forma predicativa o 119 relazionale è esprimersi in modo del tutto vago. Nel linguaggio ordinario non intervengono determinazioni relative al metodo di proiezione e pertanto dalle proposizioni formulate in tale linguaggio si può trarre solo una caratterizzazione vaga degli stati di cose corrispondenti: così come, se so che le figure quadrate e circolari proiettate su un piano sono rispettivamente proiezioni di figure rettangolari e ellittiche, ignorando tuttavia la regola secondo la quale è stata effettuata la proiezione, non posso dalle prime inferire la forma effettiva e le dimensioni delle seconde [47]. L'esigenza che qui si fa valere è anzitutto quella della determinatezza del senso della proposizione: ma si può senz'altro dubitare che questo problema faccia tutt'uno con quello dell'interpretazione della nozione di forma proposizionale, che verrebbe intesa, in rapporto alle proposizioni elementari in modo interamente diverso rispetto alla sua applicazione alle proposizioni non elementari. Così Wittgenstein osserva che espressioni come "Questo foglio di carta è forata", "II tempo è bello" e "Io sono pigro " non hanno assolutamente nulla a che vedere le une con le altre e possono avere forme interamente diverse. Soltanto nella misura in cui ho compiuto un'analisi effettiva degli stati di cose corrispondenti posso cogliere la loro reale forma logica e determinare i criteri adeguati alla loro rappresentazione linguistica. Dal fatto che le proposizioni elementari sono nuclei di ogni proposizione - dunque anche il loro materiale - Wittgenstein è portato a ritenere che la loro "forma" sarà da interpretare vincolandola in modo diretto ai contenuti espressi. Poiché nel linguaggio ordinario questi contenuti sono formulati in modo vago, non solo non possiamo cogliere dalla proposizione stessa la sua forma reale, ma nemmeno essere certi che una proposizione che appare come elementare di fatto lo sia. E qui veniamo al nostro argomento più determinato. Nel Tractatus, una proposizione che formula la determinazione del grado di una qualità (o semplicemente di una qualità) era stata, 120 intesa come una proposizione analizzabile e in particolare riducibile alla congiunzione di più proposizioni elementari. Su questa base era stato possibile assumere che proposizioni incompatibili nel senso indicato fossero interpretabili in termini di semplice contraddizione. Tale ammissione resta peraltro null'altro che un'ipotesi, e da questo punto di vista è caratteristico il modo in cui il problema viene presentato nel Tractatus: " E' chiaro che il prodotto logico di due proposizioni elementari non può essere né una tautologia né una contraddizione. L'enunciato che un punto del campo visivo ha nel medesimo tempo due diversi colori è una contraddizione" [48]. Si deve pensare allora tale enunciato non possa essere considerato come il prodotto logico di due proposizioni elementari. Una proposizione che enuncia, ad esempio, che una certa cosa ha un determinato colore andrebbe considerata come una proposizione non analizzata, cosicché si può assumere - e una tale assunzione sarebbe giustificata in una considerazione logica - che il carattere "contraddittorio" del prodotto logico di proposizioni incompatibili risulti chiaro qualora esse siano interamente analizzate. In questo modo solo in apparenza un'inferenza del tipo indicato rappresenterebbe un esempio che si sottrae al modello della "tautologia". Questa opinione viene ora modificata. Le proposizioni incompatibili sono da considerare come non ulteriormente analizzabili, qualunque sia la loro traduzione in un simbolismo adeguato. Sarà allora necessario distinguere tra contraddizione ed esclusione. Due proposizioni elementari non possono contraddirsi, ma possono escludersi. Questa esclusione, come già sappiamo, dovrà essere rappresentata nel simbolismo: a questo fine, le regole della congiunzione non sono adeguate nella misura in cui ammettono la combinazione dei valori di verità che conferisce ad una coppia di proposizioni che si escludono il valore 'vero', attribuendo così ad essa "una maggiore molteplicità logica di quella delle possibilità reali" [49]. Fissiamo alcune osservazioni ed alcuni dubbi su quanto ab- 121 biamo esposto. È interessante notare come la discussione che abbiamo riferita non metta in ogni caso in questione la possibilità di formulare enunciati intorno ad oggettualità come il colore, il suono, la superficie, ecc. che posseggano il carattere di conoscenze certe al di fuori di un'elaborazione teoretica in senso sistematico. Questa possibilità è naturalmente un tema esplicito in Husserl, ma viene assunta come tacito presupposto anche da Schlick. Ciò che si discute infatti è lo statuto logico di queste conoscenze, e non già che esse siano o meno possibili. In altri termini, non viene messa in discussione la possibilità di istituire delle verità effettive, ad esempio, intorno al colore o al suono intesi unicamente a titolo di qualità percettive, e quindi indipendentemente da eventuali spiegazioni che richiedano il ricorso ad un sistema teorico. In Wittgenstein questo presupposto è più consapevole nelle sue implicazioni. Nelle Philosophische Bemerkungen egli arriva ad un'ammissione molto nitida di una dimensione fenomenologica di ricerca. "La fisica - scrive qui Wittgenstein - si distingue dalla fenomenologia per il fatto che essa intende fissare delle leggi. La fenomenologia fissa soltanto delle possibilità. La fenomenologia non sarebbe allora altro che la grammatica della descrizione di quei fatti sui quali la fisica edifica le sue teorie. Spiegare è più che descrivere. Ma ogni spiegazione contiene una descrizione". Ed ancora: "Ciò di cui ho bisogno è una teoria psicologica o meglio fenomenologica dei colori, non una teoria fisica e tanto meno una teoria fisiologica. - E certamente deve esserci una teoria dei colori puramente fenomenologica nella quale si parla soltanto di ciò che è realmente percepibile e nella quale non si presentano oggetti ipotetici, come onde, ecc." [50]. Naturalmente bisogna guardarsi dal ritenere che una simile ammissione comporti l'accettazione di tutto ciò che vale sotto il termine di "fenomenologia" all'interno della filosofia di Husserl - bisogna, cioè guardarsi dalle troppo facili assimilazioni. Queste citazioni valgono a puro titolo indicativo della presenza di Wittgenstein di 122 una problematica di tipo descrittivo il cui senso effettivo richiederebbe un discorso a parte. Quanto al tema più particolare che abbiamo affrontato, le posizioni di Husserl e di Wittgenstein, benché rimandino ad una comune base problematica, a differenza del discorso di Schlick che trascorre dall'una all'altra posizione senza rendersi chiaramente conto di quali siano i termini entro cui esse sono definite, in realtà sono guidate da motivazioni diverse e conducono a sbocchi programmatici diversi. In Husserl tutti gli sviluppi eventuali restano vincolati alla distinzione, fin dall'inizio chiaramente posta, tra forma e senso della proposizione, o più correttamente, tra forma e materia della proposizione intesa come "unità di significato" [51]. Pertanto si pongono qui due compiti chiaramente differenziati in rapporto alla fissazione delle regole di buona formazione: e va da sé che per ottenere un enunciato formalmente e materialmente corretto si richiederà l'applica­zione di regole relative ad entrambi i momenti di cui il significato proposizionale è essenzialmente costituito. (Peraltro, Husserl non è andato molto al di là di semplici accenni e indicazioni in rapporto a questa problematica). Di fronte agli esempi di proposizioni incompatibili del tipo indicato, Wittgenstein, come abbiamo visto, assume due posizioni: in un primo tempo ipotizza la loro interpretazione in termini di semplice contraddizione. L'autocritica di questa posizione è accompagnata dalla costante preoccupazione a ribadire il carattere "formale" di questo rapporto - e fu probabilmente questo aspetto che indusse in errore Schlick che non sembra rendersi conto della portata delle tesi sostenute da Wittgenstein nelle Remarks e della differenza tra il punto di vista che qui viene fatto valere e quello del Tractatus. La debolezza della prima posizione di Wittgenstein su questo problema fu acutamente colta da Ramsey nella sua recensio­ne al Tractatus [52], ma il passo più interessante a questo proposito, che contiene in nuce una critica alla seconda posizione, lo si può 123 trovare in un breve accenno che compare nel suo saggio Fatti e proposizioni, redatto nel 1927. Secondo Ramsey, non vi è dubbio che "un'inferenza tra 'questo è rosso' e 'questo non è blu' non sia formalmente garantita come il sillogismo" e l'affermazione di Wittgenstein secondo cui la congiunzione di proposizioni incompatibili di questa natura debba essere considerata contraddittoria, pur restando la contraddizione nascosta per difetto di analisi, resta una semplice ipotesi, priva di una base effettiva. D'altro lato, aggiunge Ramsey è lecito dubitare che il problema qui in gioco riguardi la logica formale; questa presuppone e deve presupporre come realmente possibili "tutte le possibilità di verità delle proposizioni atomiche", così come nel gioco degli scacchi si presuppone che i pezzi "non siano magnetizzati al punto da rendere impossibili alcune posizioni sulla scacchiera, cosicché noi dobbiamo prendere in considerazione solo le restrizioni imposte dalle regole del gioco e possiamo trascurare qualunque altra posizione che possa risultare dalla costituzione fisica dei pezzi" [53]. Come abbiamo visto, Wittgenstein rileva la critica di Ramsey al punto di vista del Tractatus, ma la sviluppa in una direzione nettamente diversa, nella direzione cioè, per seguire l'immagine di Ramsey, di una restrizione delle regole del gioco indotta dalla presenza di campi magnetici. Ma si può per questo realmente obiettare che si incorrerebbe qui in una confusione tra livello formale e livello contenutistico? A me sembra piuttosto che Wittgenstein effettui un tentativo, in se stesso perfettamente legittimo, di formulare il problema dei rapporti tra l'uno e l'altro livello, un tentativo tuttavia, sul quale pesano oscurità e ambiguità riconducibili, come abbiamo visto, ad alcuni dei presupposti di fondo che caratterizzano il discorso sulla logica condotto nel Tractatus [54]. 124 Note [1] E. Husserl, Ricerche logiche trad. it. Milano 1968, vol. II, p. 45. [2] È interessante notare che in Logica formale e trascendentale Husserl osserva che la definizione di proposizione analitica è rivolta nella stessa direzione della dottrina della tautologia "comparsa nella logistica più recente" (trad. it. Bari, 1966, p. 412). L'allusione qui è a Wittgenstein, a cui Oskar Becker si ricollega esplicitamente nel § 4 dell'Appendice Terza intitolato Osservazioni sulla tautologia nel senso della logistica, che viene inserito da Husserl direttamente nel testo e da cui togliamo la seguente duplice definizione (in termini della "logica della verità" e della "logica della conseguenza"): "Se per mezzo di operazioni logiche dai giudizi p1, p2... pn, si costituisce la forma complessa P(p1, p2... pn) che, in forza della sua struttura meramente grammaticale, presenta essa stessa un giudizio, allora, e allora soltanto, P è una tautologia o una contraddizione nel caso che P sia vero o, rispettivamente, falso, indipendentemente dal fatto che i giudizi p1, p2... pn siano veri o falsi. La questione dell'adeguazione dei significati giudicativi di p1, p2... pn ad un qualsiasi stato di cose ontologico-formale o anche materiale non ha qui dunque alcuna rilevanza. Possiamo tuttavia presentare in modo corrispondente queste definizioni anche nella sfera meramente analitica, dunque strettamente senza alcun ricorso ad un concetto di verità o di falsità: 'P è una tautologia o una contraddizione' significa 'P(p1, p2... pn) è compatibile o incompatibile con p1 come con non-p1, con p2 come con non-p2... con pn come con non- pn'. (Ciò significa che P è, nel caso che sia una tautologia o una contraddizione, corrispondentemente compatibile o incompatibile con ogni prodotto logico derivante da p1, p2... pn quando sostituiamo un qualsivoglia pi con la sua negazione)" (pp. 413-414). Nella edizione tedesca, Halle 1929, il passo si trova a p. 296-297. Occorre tuttavia notare che questo richiamo a Wittgenstein (in nota: "Questa ca- 125 ratterizzazione deriva da L. Wittgenstein") è reso possibile dalla definizione già presente nelle Ricerche logiche, definizione che rappresenta perciò presumibilmente la prima caratterizzazione moderna della nozione di analiticità in termini di validità puramente sintattica. [3] Ricerche logiche, op. cit., vol. II, p. 46. [4] Su questo punto è sufficiente prendere in esame l'appendice seconda di Esperienza e giudizio (L'esperienza dell'asserzione probabilistica. Critica della concezione di Hume). Viene qui ripreso il tema humeano della connessione causale e la critica tocca unicamente la sua giustificazione psicologistica mediante il "sentimento di necessità". Secondo Husserl, sarebbe stato invece necessario, a partire da quella critica, elaborare principi della probabilità e giungere quindi ad una giustificazione probabilistica dei giudizi causali. (Si noti che nelle Ricerche logiche, vol. II, p. 42, Husserl contrappone alle leggi analitiche sia le leggi sintetiche a priori nel senso or ora determinato, sia "leggi come quella di causalità", ma non intende affatto porre le prime e le seconde sullo stesso piano). [5] L'articolo Gibt es ein materiales Apriori? venne pubblicato per la prima volta in "Wissenschaftlicher Jahresbericht der Philosophischen Gesellschaft an der Universität zu Wien fur das Vereinsjahr 1930-31" ed è stato riedito in M Schlick, Gesammelte Aufsätze (1926-1936), Vienna 1938, pp. 19-30. Le citazioni si riferiscono a quest'ultima edizione. [6] M. Schlick, op. cit., p. 13. [7] ivi, p. 22. [8] ivi p. 26. [9] ivi. [10] ivi, p. 28. [11] ivi, p. 29. [12] ivi. [13] ivi. [14] ivi, p. 29. Schlick cita sia il Tractatus che le Remarks on logical 126 form. [15] Oxford, 1967. I colloqui che ci interessano più direttamente sono datati 25 dicembre 1929, 30 dicembre 1929 e 5 gennaio 1930. [16] F. Waismann, op. cit., p. 67. [17] Il passo, intitolato Anti-Husserl, è il seguente: "Se io dico 'Non ho mal di stomaco', ciò presuppone già la possibilità di uno stato di mal di stomaco. Il mio stato attuale e lo stato del mal di stomaco giacciono per così dire nello stesso spazio logico. (Così se io dico: io non ho denaro. Questo enunciato presuppone già la possibilità che io abbia denaro. Esso esibisce il punto zero dello spazio del denaro). La proposizione negativa presuppone la proposizione positiva e inversamente. Prendiamo ora l'enunciato: 'Un oggetto non è al tempo stesso rosso e verde'. Voglio forse con ciò dire soltanto che finora non ho visto un simile oggetto? Manifestamente no. Io intendo: 'Io non posso vedere un simile oggetto', 'Rosso e verde non possono essere nello stesso luogo'. Ora chiederei: che cosa significa qui la parola 'posso'? La parola 'posso' è chiaramente un concetto grammaticale (logico), non fattuale (sachlich). Poniamo che l'enunciato: 'Un oggetto non può essere rosso e verde' sia un giudizio sintetico e che le parole 'non posso' significhino un'impossibilità logica. Ora poiché la proposizione è negazione della sua negazione, si deve anche dare la proposizione 'un oggetto può essere rosso e verde'. Questa proposizione sarebbe altrettanto sintetica. Come proposizione sintetica essa ha senso, e significa questo: la situazione da essa descritta può sussistere. Se dunque 'non posso' significa impossibilità logica, allora perveniamo alla conseguenza che l'impossibilità è tuttavia possibile. A questo punto a Husserl rimase solo la scappatoia di spiegare che vi sarebbe ancora una terza possibilità. A questo io replicherei: certo, si possono inventare le parole; ma in esse io non posso pensare nulla" (pp. 67-68). 127 [18] Il saggio Some remarks on logical form, Aristotelian Society Supplementary, vol. IX, London 1929, pp. 162-171 è stato ristampato in Essays on Wittgenstein's Tractatus, a cura di I. M. Copi e R. W. Board, London 1966, pp. 31-37. Le citazioni si riferiscono a questa ristampa. - Delle Philosophische Bemerkungen, Frankfurt a. M. 1964, ci interessa in particolare la sez. VIII, pp. 105-1l4. [19] Tractatus Logico-philosophicus, trad. it. a cura di A. G. Conte, Torino 1964, Cfr. le proposizioni: 2.062 ("Dal sussistere o non sussistere di uno stato di cose non può concludersi al sussistere o non sussistere di altri"); 5.134 ("Da una proposizione elementare non se ne può inferire un'altra"), 5.135 ("In nessun modo può concludersi dal sussistere di qualsiasi situazione al sussistere di una situazione affatto diversa da essa"). Ed inoltre: 4.211 ("Un segno della proposizione elementare è che nessuna proposizione può essere in contraddizione con essa") [20] F. Waismann, op. cit., pp. 63-64. II riferimento è alle seguenti proposizioni del Tractatus: 2.1511 ("L'immagine è così legata con la realtà; giunge ad essa"); 2.1512 ("Essa è come un metro apposto alla realtà"); 2.15121 ("Solo i punti estremi delle righe di graduazione toccano l'oggetto da misurare") [21] Philosophische Bemerkungen, op. cit., p. 110. [22] F. Waismann, op. cit., p. 64. [23] Tractatus, prop. 3.3 [24] Philosophische Bemerkungen, op. cit., p. 107. [25] ivi. [26] ivi. [27] ivi. [28] ivi. [29] F. Waismann, op. cit., p. 65. [30] ivi, p. 66. A p. 88 si pone halluzinieren come sinonimo di anschaulich vorstellen (rappresentare intuitivamente). [31] ivi. [32] ivi, in nota. [33] ivi, p. 88. 128 [34] Cfr. ivi, p. 89, nota. [35] ivi, p. 77. Cfr. anche p. 65: alla domanda di Schlick: "Quale è il rapporto tra la conoscenza empirica e la sintassi?", Wittgenstein "replica che vi è un'esperienza del che cosa e un'esperienza del come". [36] Cfr. Tractatus, prop. 5.552 ("'L'esperienza' di cui abbiamo bisogno per comprendere la logica non è quella secondo cui qualcosa sta in questo o in quel modo, ma secondo cui qualcosa è: ma questa appunto non è esperienza"). [37] Tractatus, prop. 2.0131. Lo stesso problema si presenta in questa osservazione registrata da Waismann: "Se io dico 'il tavolo è grigio' ha un senso riferire la proprietà grigio ad un portatore, il tavolo. Se io posso pensare il tavolo grigio, allora posso pensarlo con ogni altro colore. Che cosa vuol dire: io posso rappresentarmi lo stesso circolo rosso o verde? Che cosa è rimasto identico? La forma circolare. Ma non posso rappresentarmi questa forma da sola" (op. cit., p. 108). [38] F. Waismann, op. cit., p. 74. [39] Philosophische Bemerkungen, op. cit., p. 109. [40] ivi, p. 111. [41] F. Waismann, op. cit., pp. 80-81. Si noti che, secondo Wittgenstein, nel caso della congiunzione tra proposizioni interdipendenti, la regola corrispondente può essere formulata in modo interamente generale, ad esempio dicendo "una coordinata della realtà può essere determinata solo una volta" oppure: "due determinazioni della stessa specie (coordinata) sono impossibili" (Philosophische Bemerkungen, op. cit., p. 111 e p. 112. Le stesse formulazioni si trovano in F. Waismann, op. cit., p. 76). [42] Consentendo alla pubblicazione del saggio, G. E. M. Anscombe osserva, in nota, che Wittgenstein in seguito lo sconfessò, citando diverse testimonianze. Sembra tuttavia eccessivo ritenere che per questo non si possa annettere nessun valore a questo saggio come informazione intorno alle idee di Wittgenstein in questo periodo di tempo. 129 [43] Some remarks on logical form, op. cit., p. 31. [44] "Si ha spesso la tentazione di porre l'interrogativo da un punto di vista aprioristico: quali possono essere, dopo tutto, le forme delle proposizioni, e rispondere, ad esempio, le proposizioni a soggetto- predicato e le proposizioni relazionali a due o più termini, forse anche le proposizioni che pongono in relazione reciproca predicati e relazioni, e così via. Ma questo, io credo, è soltanto un giocare con le parole. Una forma atomica non può essere prevista. E sarebbe sorprendente se i fenomeni reali non avessero nulla di più da insegnarci sulla loro struttura. A tali congetture intorno alla struttura delle proposizioni atomiche noi siamo guidate dal nostro linguaggio ordinario, che usa la forma soggetto-predicato e la forma relazionale" (ivi, p. 32). [45] Tractatus, prop. 2.1511. [46] Some remarks on logical form, op. cit., p. 36. [47] ivi, p. 33: "Immaginiamo due piani paralleli, I e II. Sul piano I sono tracciate delle figure, ad es., ellissi e rettangoli di differente grandezza e forma, ed è nostro compito produrre immagini di queste figure sul piano II. Possiamo immaginare due modi, tra gli altri, di fare questo. Possiamo anzitutto formulare una legge di proiezione - ad es., che la proiezione sia ortogonale o di qualche altro tipo - e quindi procedere a proiettare tutte le figure dal piano I al piano II secondo questa legge. Oppure possiamo procedere così: noi assumiamo la regola che ogni ellisse sul piano I debba presentarsi come un circolo e ogni rettangolo come un quadrato sul piano II. Questo modo di rappresentazione può essere per noi opportuno se, per qualche ragione, preferiamo tracciare solo circoli e quadrati sul piano II. Naturalmente, da queste immagini non possono essere immediatamente inferite le forme esatte delle figure originali sul piano I. Noi possiamo soltanto dedurre da esse che l'originale era una ellisse o un rettangolo. Per arrivare a cogliere, in ogni caso singolo, la forma determinata dell'originale, dovremmo conoscere il metodo particolare con cui, ad es., una ellisse particolare viene proiettato nel 130 circolo di fronte a me. Il caso del linguaggio ordinario è abbastanza analogo. Se il fatto della realtà solo le ellissi e i rettangoli sul piano I, le forme a soggetto-predicato e le forme relazionali corrispondono ai cerchi ed ai quadrati sul piano II". [48] Tractatus, prop. 6.3751. Cfr. anche Quaderni 1914-1916, annotazione in data 16 agosto 1916 (trad. it. p. 183). [49] Some remarks on logical form, op. cit., p. 37. [50] Rispettivamente a p. 51 e p. 273. Inoltre si veda p. 88 dove il termine di fenomenologia viene usato come equivalente a "teoria della conoscenza". Ed ancora Waismann, op. cit., p. 63 e p. 65. [51] Ricordiamo che la riformulazione del problema in Husserl nei termini di "forma" e "senso" è stata suggerita dall'esigenza di delimitare con chiarezza il modo in cui si sarebbe sviluppata in seguito la discussione. [52] F. P. Ramsey, I fondamenti della matematica e altri scritti di logica, trad. it., Milano 1964, p. 298. [53] ivi, p. 169. [54] Un'ampia e accurata rassegna critica delle posizioni relative al tema che abbiamo discusso si può trovare nel volume di H. Delius, Untersuchungen zur Problematik der sogennanten synthetischen Sätze a priori, Göttingen 1963 131 Giovanni Piana Husserl e la cultura cattolica 1962 132 Testo pubblicato in "Aut Aut", n. 67, genn. 1962 133 La nota presente ha origine occasionale da una constatazione di fatto: anche in Italia, l'opera di Husserl sta penetrando sempre più profondamente in ambienti legati al cattolicesimo. La cosa ha degli aspetti di particolare interesse e sarà forse utile condurre alcune osservazioni in proposito, soprattutto al fine di veder chiaro in ciò che si vuole concretamente fare o non fare quando si afferma che la fenomenologia può assolvere una funzione po­si­tiva nell'am­bito della filosofia e della cultura italiana contem­poranea. Le considerazioni seguenti non hanno una così ambiziosa pretesa, ma sol­tanto quella di contribuire alla liberazione da equivoci, che finiscono con l'accre­ditare sospetti e diffidenze. In che modo si rende possibile l'acquisizione della fenomenolo­gia nel­l'am­bito della cultura cattolica? Oppure : è compatibile la fenomenologia con una metafisica, il cui risultato di fatto è l'accettazione di un organismo quale è la Chiesa cattolica, nella sua dogmatica e nella sua teologia? Tali problemi sono stati in parte già dibattuti ed e cosa nota che il recupero della fe­nomenologia è reso possibile tramite la sua riduzione a mera metodologia: di essa vengono quindi rifiutate eventuali aperture metafisiche, tacciate di solito come idealiste" [1]. La fenomenologia diventa così strumen­to, il cui uso non può compromettere le proposte di una metafisica "autentica". Questo stesso discorso, che noi abbiamo riferito con necessaria schematicità, chiarisce anche la ragione per cui il problema della teologia e della "filosofia della religione" in rapporto alla fenomenolo­gia, non ha finora destato preoccupazione: tra fenomenologia e teologia nessuna relazione è possibile dal momento che la prima è strumento di indagine esercitabile soltanto nel­l'ambito del feno­ meno. Secondo la tesi del Lauer, la limitazione della certezza al fenomeno impedisce una teologia fenomenologica, poiché Dio è puramente ciò che non appare [2]. Tuttavia se fenomeno è da 134 inten­dere in senso husserliano, cioè come "cosa stessa" e quindi come assoluto, la fenomenologia in quanto sapere del fenomeno è sapere assoluto; di conseguenza la richiesta di fondazione ontologica del fenomeno diventa non senso [3] e se Dio ha da essere qualcosa, deve avere propri modi di datità nei quali si risolve. Con ciò viene a cadere, sempre che si voglia parlare di fenomenologia in senso husserliano, la riduzione di questa a mero metodo, indifferente ad una problematica filosofica di fondo. L'in­dubbio caratte­re metodico dell'astensione e del­l'analisi non esaurisce il signi­ficato né dell'una né dell'altra: se così non fosse, Husserl non avrebbe parlato dell'epoché come di una conversione religiosa, dal momento che non ci si converte mai per puro gusto meto­dico: "Forse risulterà addirittura che l'atteggiamento fenome­nologico to­tale e l'epoché che gli inerisce sono destinati a produrre innanzitutto una completa trasforma­zione personale che sulle pri­me potrebbe essere paragonata ad una conversione religiosa, ma che, al di là di ciò, è la più grande evoluzione esistenziale che sia concessa all 'umanità come tale" [4]. Tale asserzione non si limita soltanto ad accentuare il momento essenzialmente esistenziale dell'astensione, ma indica il significato che essa può assumere, oltre l'io privato del fenomenologo, per la vita storica dell'umanità. L'apertura al "mondo della prassi" si esprime inizialmente come costituzione di un sapere rigoroso e quindi - negativamente - come distruzione di ogni costruzione mi­tologica. La fenomenologia richiede una fondazione a tutto ciò che si pone come sapere e non può precludersi nulla, neppure di esigere dalla teologia le ragioni della sua validità. Infatti : o questa pretende di essere un sapere, ed allora richiede u­na fon­ dazione fenomenologica, oppure è, sic et simpliciter, non sapere, mitologia. L'atteggiamento fenomeno­logi­co, e cioè propriamente fi­losofico, rifugge, per ogni oggetto assunto a tema e per il pre­sente in particolare, da qualsiasi agno­sticismo, come anche dif­ferisce dall'atteggiamento dello "scienzia­to" che ritiene la fede risolvibile senza residui nell'ambito della "oggettività scientifica": 135 nel primo caso si rinuncia infatti al radi­calismo dell'indagine, nel secondo la presunzione "scientifico-naturalistica" porta ad una dimensione a partire dalla quale l'oggetto rimane per essenza incompreso. Possiamo per ora affermare in senso del tutto generale che l'a­stensione è anzitutto un atto rivolto contro la fede, sia questa la fede mondana nell'ovvio, che quella, ugualmente precostituita, in una religione positiva. Non è nostro com­pito proseguire la proble­matica che si presenta a questo punto di particolare complessità; tuttavia è forse necessario aggiungere che nel caso della fede religiosa, dove il creduto si pre­senta, oltre che valido, anche come non fondato e non fon­dabile per essenza, non spetta certo alla fenomenologia discutere i contenuti della rivelazione come tali; piuttosto le compete, in linea preliminare, il portare alla luce le motivazioni che permet­tono l'assunzione di validità per essenza infondate. Come ogni analisi fenomenologica, anche questa presenta una stratificazione carat­teristica: dalla fede in generale e dall'uomo in generale essa si particolarizza, passando a questa fede storica ed a quest'uo­mo storico, mentre ovviamente questo processo è seguito anche dall'ambito delle motivazioni, che diventa sem­pre più specifico, senza perdere il suo caratteristico orientamento multidirezionale. Accanto a questo problema di com­prensione storica in un senso nuovo o che rimane da approfondire, si pone la questione dei risultati a cui possono pervenire una religione ed una teologia che si vogliono porre come scienza e cioè costituirsi fenomenologicamente. Tale impostazione preliminare è probabilmente viziata da un errore di principio, dal momento che, dopo l'astensione, non possiamo stabilire se ha senso lo stesso problema della ricostruzione di una religione e di una teologia demitizzate. Al fine di giungere ad una chiarificazione, formuliamo tuttavia l'ipotesi che al pro­blema proposto si debba rispondere positivamente. Allora, lasciando da parte il fatto religioso nel suo complesso, la progettazione di una "nuova teologia" è cosa da cui non ci si può esimere, se si assume l'abito fenomenologico, a patto che 136 non si ritenga che tale abito possa essere mutato a piacere: e ciò sia detto non tanto per noi, che riteniamo necessario orientare il progetto husserliano verso ben altre direzioni, ma per coloro che vogliono a tutti i costi essere ad un tempo fenomenologi e teologi. La specificità della fede non è argomento sufficiente per eli­minare il controsenso che si crea quando si pretende che la fenomenologia possa coesistere con una teologia che troviamo di fatto nel mondo culturale, ammettendo quindi implicitamente la validità di una formazione ingenua, capace di autofondazione. In generale : ogni dato posto tra parentesi viene costituito tramite l'analisi fenomenologica e quindi compreso nelle sue motivazioni e nella sua genesi; con ciò vien meno ogni "autorità" che ingenuamente gli inerisce, mentre l'eventuale "intenzione razionale" in esso implicita, liberata dalla deformazione, viene ripresa e progettata sul terreno della filosofia. Fino a che punto quanto si è detto corrisponda alle reali intenzioni di Husserl, resta argomento di discussione. Sullo sfondo di questa, val la pena in ogni caso di sottolineare l'impegno che nei riguardi della religione che caratterizza coloro che sono soli­ tamente indicati come maestri, diretti o indiretti, di Husserl. Di Bernardo Bolzano Husserl si limitò a prendere in considerazio­ ne alcuni risultati da questi ottenuti nell'ambito della logica, ma Bolzano era anche teologo e numerosi sono i saggi che egli dedica al problema della teologia ed alla filosofia della religione, saggi nei quali sostiene posizioni che rasentano l'ete­rodossia; sarebbe forse utile indagare i rapporti intercorrenti tra Bolzano e la scuola semirazionalista di Georg Hermes, le cui dottrine furono condannate dal "Dum acerbissimas" di Gregorio XVI (1835). Per quanto riguarda Brentano, la posizione di questi è ancora più caratteristica: prete gesuita, non esitò a gettarsi nella mischia negli anni cruciali nei quali a Roma si maturava l'ultimo giro di vite al consolidamento della struttura monarchica e assoluta della Chiesa cattolica; fu allora che Brentano scrisse un pamphlet contro l'infallibilità pontificia, che fu presentato dal ve- 137 scovo Ketteler all'Assemblea dei vescovi tedeschi, riunita a Fulda [5]. Poco dopo, rifiutandosi di accettare la proclamazione del dogma, si spretò; per il resto della sua vita continuò a nutrire vaghe speranze di rinnovamento del mondo cattolico, mentre andava elaborando una personale filosofia religiosa, che si trova esposta nell'opera; pubblicata postuma, dai titolo Vom Dasein des Gottes (1929). Solidali con Brentano furono Carl Stumpf e Anton Marty, il primo dei quali lasciò immediatamente il seminario nel quale era entrato, il secondo, dopo essere stato ordinato sacerdote, si tenne lontano dall'esercizio, in posizione schiva ed appartata [6]. Ricordando questi fatti, Spiegelberg osserva: "Fu chiaramente qualcosa di più di una pura coincidenza il fatto che il nuovo movimento filosofico fu coerentemente accompagnato dal rifiuto del­l'autorità dogmatica nella religione, un rifiuto che fu preceduto da un serio esame delle sue credenziale e da un sincero tentativo di sperimentare la vita richiesta dalla fede" [7]. L'ambiente nel quale Husserl si è venuto formando è dunque caratterizzato da quel­l'ansia di rinnovamento religioso, che poté portare al modernismo. In Husserl troviamo, come uno fra gli altri, senza particolare privilegio, anche il problema della teologia, così come vengono poste le linee per precisare il concetto di dio che può essere compatibile con la prospettiva fenomenologica. Per avviare alcune considerazioni su questo tema, che esigerebbe molta più cura di quanta possiamo dedicargli, è utile notare innanzitutto che lo Husserl parla di solito in tono sprezzante della filosofia scolastica, giungendo a rifiutarla globalmente, in quanto del tutto inutilizzabile [8]. Quando poi si rivolge a Cartesio come all'autore dal quale ogni filosofo che voglia porsi sul terreno della scienza deve necessariamente prendere l'avvio, non esita a dichiarare paradossali e contraddittorie le prove che egli reca dell'esi­stenza di dio: "Ancora oggi, e forse soltanto oggi, mi sembra, qualsiasi pensatore originale dovreb­be studiare a fondo queste Meditazioni, senza lasciarsi spaventare dall'appa­renza di rudimentalità te- 138 oretica, dal fatto, ben noto, che Cartesio svaluta le sue scoperte a prove paradossali e contraddittorie dell'esistenza di dio, né dalle altre oscurità e ambiguità di signi­ficato - e nemmeno dovrebbe accontentarsi troppo presto della propria confutazione" [9]. Tale critica non è un motivo tardo: nel periodo in cui lo Husserl fa lezioni in qualità di Privat­dozent ad Halle (1887-1894) si occupa di Cartesio mettendo in discussione le sue dimostrazioni dell'esistenza di dio. Questa critica ha un significato tutto particolare: per Husserl ogni "dimostrazione" che, partendo da "principi razionali", pretenda di sostituire l'auto­datità, è un'illusione che si ammanta del nome di scienza, mentre, se nella fenomenologia ha senso parlare di dio, ciò può avvenire soltanto sul piano dell'evidenza. Né vale, come si è visto, l'obiezione di principio che si sostiene sull'affermazione della noumenicità di dio, proprio in quanto il dualismo in essa presup­posto, per la fenomenologia, non sussiste né di fatto né di diritto; come Erste Philosophie, la fenomenologia è scienza del noumeno, e se si vuole rifiutare tale asserzione non si potrà che svuotare di senso la stessa "metodologia feno­menologica" e conseguentemente elaborare me­ta­fi­siche e teologie mitologiche. Si può fin d'ora intuire che un'eventuale teologia fondata sulla fenomenologia è radicalmente eversiva rispetto alla teologia tradizionale: per un certo aspetto essa consisterà nella enunciazione degli attributi divini, a partire dalla descri­zione dell'esperienza vissuta del fenomeno divino; per questo le deve divenire essenziale il contributo offertole dalla disciplina che va sotto il titolo di "fenomenologia della religione". Una teologia "descrittiva" che si oppone quindi ad una teologia ri­velata, risultato della fissazione concettuale di ciò che è vissuto in un'e­sperienza originaria. Per Husserl, un'analisi fenomenologica della religione non può essere compiuta senza trascendere il mero terreno della neutralità; la scientificità proposta dalla feno­meno­logia non ha alcun senso meramente speculativo: al momento negativo dell'astensione, deve seguire una progettazione positiva nella quale si attua ad un tempo la 139 comprensione del valore religioso ed il suo superamento. La teorizzazione teolo­gica, elaborata a partire da una esperienza concreta, ha inevita­bilmente le sue radici nel terreno del­l'in­genuità : "In quanto scienziati, potremmo accontentarci di affermare che dio ha creato il mondo e gli uomini in esso, che dio ha dotato gli uomini della coscienza e della ragione, cioè della possibilità di una conoscenza, che, al livello più alto, è conoscenza scientifica? Tutto ciò può valere come una verità indubbia e definitiva nell'ingenuità che inerisce all'essenza stessa della religione positiva anche se proprio per questa ingenuità, questa verità manca di qualsiasi consistenza per il filosofo. L'enigma della creazione di dio è un fattore costitutivo essenziale della religione posi­tiva" [10]. In appunti che recano la data del 1924, Husserl ci fornisce un esempio del procedimento che porta dall'ingenuità alla sua concettualizzazione, che vai la pena di riferire inte­gralmente: "Tuttavia il pensiero naturale ingenuo si lascia inconsideratamente guidare dalla analogia, inclina a generalizza­zioni inammissibili, che travalicano i limiti legittimi dei concetti. Ad es.: ogni cosa si trova nella sua relazione cosale; ciò che richiede le modificazioni, in un rapporto di dipendenza. Un mutamento condiziona un altro mutamento; perciò in ogni mutamento insorge la domanda concernente la causa. Ma se ora si volge lo sguardo all'idea del mondo come intero (che non è oggetto di esperienza reale e mai lo può essere, ed è tuttavia un'idea che si sviluppa già nel pensiero naturale) allora il mondo come intero viene trattato alla stregua di una cosa singola e indagato anche secondo le sue cause. Nella vita pratica l'uomo si inserisce nell'accadere e produce cose. Egli si vede circondato dappertutto da cose prodotte, anche le campagne, i boschi etc. sono formazioni del suo lavoro culturale. Trasportato sul piano della totalità del mondo : il mondo è prodotto. Che cosa è la causa del mondo? Il mondo è un orologio, dio è l'orologiaio" [11]. Esercitato in questa direzione, il metodo fenomenologico permette di indagare, a partire dalla religione positiva, il processo di generalizza­zione che 140 presiede alla formazione della sua teologia, razionale o sacra, e della sua dogmatica. L'argomentazione citata può valere per una critica del concetto di dio come causa e della re­lativa prova causalistica dell'esistenza di dio. La presupposi­zione ingenua di tale argomento è che il mondo sia una cosa, mentre ciò non può essere affermato stando all'esperienza reale (originaria). Questa assunzione è invece ovvia per il pensiero naturale: ed appunto perché si fonda sull'inge­nuità, l'argomento causalistico si presenta all'uomo comune come immediatamente convincente. Tuttavia il metodo husserliano, applicato all'ambito di una de­terminata teologia, non si riduce ad una pura denuncia di processi mentali ingenui : questo non è che un lato dell'anali­si, non più importante di quello che porta all'esplicitazione di tutte quelle motivazioni che concorrono ad un'elaborazione teologica e che riguardano l'uomo come uomo storico ed eco­nomico in senso lato. Lo stesso Husserl era ben consapevole delle conseguenze implicite, per questo aspetto, nella sua posizione: nell'Annota­ zione al § 51 di Ideen I, egli osserva che se l'ordine teleologico, immanente alla coscienza, potrebbe rimandare al problema del suo fondamento, "peraltro il principio teologico, che si può ragionevolmente supporre, non può essere assunto come una trascendenza nel senso del mondo; perché ciò costituirebbe, come si può prevedere in base ai nostri risultati, un circolo assurdo. Il principio ordinativo dell'assoluto deve essere trovato, per mezzo di una considerazione puramente assoluta, nell'assoluto stesso". E poco dopo avverte: "La nostra mira immediata non va alla teologia, ma alla fenomenologia, per quanto questa possa avere indiret­tamente una grande importanza per quella" [12]. Il fatto che tale gran­de importanza della fenomenologia per la teologia non sia stata ancora rilevata, o meglio sperimentata, deriva forse dall'in­comprensione del significato di fondo del pensiero hus­serliano; passi come quello citato, ed altri ancora che toccano da vicino lo stesso problema, si prestano in modo particolare al frainten­dimento. Quando nel §58 di Ideen 141 I Husserl tratta della neutralizzazione della trascendenza di dio, osserva che "il pas­saggio alla coscienza pura, effettuato con il metodo della ridu­zione trascendentale, conduce inevitabilmente alla questione circa il fondamento della fattizità, ora rivelatasi, della corrispondente coscienza costitutiva. Non il fatto generale ma il fatto come sorgente di valori possibili e reali, crescenti all'infinito, impone la questione del suo fondamento - che non ha naturalmente il senso di una causa fisica. Sorvoliamo sul modo con cui la coscienza religiosa può condurre al medesimo principio, e sia pure un modo consistente in un motivo razionalmente fondato. Ciò che qui ci interessa è che, secondo quanto è accennato da diversi gruppi di simili fondamenti razionali per l'esistenza di un essere 'divino' extramondano, questo sarebbe trascendente non solo rispetto al mondo, ma anche rispetto alla coscienza 'asso­luta'. Sarebbe dunque un assoluto in un senso totalmente diverso dall'assoluto della coscienza, come d'altra parte sarebbe un trascendente in un senso totalmente diverso dalla trascen­denza nel senso del mondo" [13]. Lo Alliney, in una nota relativa a questo paragrafo, osserva che questo è uno dei testi da cui emerge il carattere antimetafisico della fenomenologia: l'osser­vazione ci sembra esatta ma aperta all'equi­vocità. Occorreva forse mettere in chiaro che l'assoluto metafisico nel senso della coscienza ingenua non ha posto nella fenomenologia, non tanto perché rimanda ad un ordine di considerazioni che non le com­pete, ma perché essa si pone come scienza totale, filosofia prima. Ci troviamo allora paradossalmente d'accordo con chi, prendendo le difese delle "azioni dell'essere" all'XI Convegno del Centro di studi filosofici di Gallarate, protestava contro la messa in parentesi, proposta dalla feno­meno­logia, della "ricchezza veramente regale della metafisica classica" e contro la neutralizzazione di dio [14]. Il principio teologico interessa la fenomenologia in quanto la teleologia immanente nei dati di coscienza rimanda ad una razionalità di fondo; in sede teoretica, quindi, il problema di dio si 142 presenta essenzialmente come problema della ragione e del senso del mondo [15]. Dio diventa allora "die absolute ideale Polidee" [16] : o, in altri termini, l'umanità consociata che si autorealizza in gradi sempre più alti, in direzione di un valore posto all'infinito. Il dio statico, garante una volta per tutte del valore, il dio della sicurezza borghese, in questa pro­spettiva, non è più che un feticcio; il suo culto: idolatria. Il cattolicesimo in particolare appariva a Husserl rinuncia alla responsabilità filosofica, quella responsabilità radicale che impone l'esclusione di ogni fede dogmatica, il cui risultato ultimo è la obbiettivazione dell'umano [17]. In tale condanna viene incluso l'ateismo scettico, che oltre ad essere in sé contraddittorio, ripresenterebbe, con segno invertito, la perdita della dimensione teleolo­gica e finisce quindi col trovarsi al di fuori della via della verità [18]. Si tratta di una opinione non nuova, che dice in buona sostanza che tutto si può sostenere nella filosofia tranne che l'ateismo. Questa opinione certamente non obbligatoria in ogni caso viene ripresa nello spirito del kantismo, forse con un'accentuazione dell'elemento "umanistico" e con il massimo risalto all'esclusione di aspetti confessionali i ai quali subentrano considerazioni astrattamente filosofiche. Nel momento in cui nella fenomenologia si pone il problema di dio, ciò che viene propriamente in questione è infatti soprattutto il mondo umano, la lotta contro la degradazione e l'obbiettivazione [19]: la filosofia che diventa sempre più concreta (ovvero che si approssima sempre più al mondo reale degli uomini) e la teologia che diventa sempre più filosofica (ovvero che diventa sempre più consapevole che dio è una "absolute ideale Polidee") si identificano all'infinito: "Im Unendlichen decken sich Philosophie (die immer konkreter werdende) und Theologie, die immer philosophischer werdende" [20]. 143 Note 1. Non è nostro compito ribattere, l'interpretazione "idealista" di Husserl, che appare sempre più, mentre procede la pubblicazione dei suoi scritti, erronea. Si rimanda a E. Paci: "Coscienza fenomenologica e coscienza idealista" in "Il Verri", 1960, n. 4, pp. 3-15. 2. Q. Lauer: "Phénoménologie de Husserl. Essai sur la genèse de l'intentionnalité", Paris 1955, p. 161 n. 2: "Pour Husserl, cette limitation de la certitude au phénomène ferme effectivement la porte à toute théologie phénoménologique, puisque Dieu est pure­ment et simplement non appa­raissant (Ideen I, p. 121-122)". Il Lauer si riferisce qui alla Anmerkung al § 51 di Ideen I, traendone una conclusione del tutto indebita. 3. Il problema di un'ontologia si pone in Husserl senza oltrepassare l'ambito dell'intenzionalità e tenendo fermo il principio della evidenza (cfr. Krisis, p. 176, 31-32 trad. it. a cura di Enrico Filippini, Milano 1961, p. 200). È possibile quindi parlare di ontologia del mondo della vita come "teoria concretamente generale" dell'essenza degli onta costituenti, nella loro totalità, il "mondo" (Krisis p. 145, sg., trad. it. p.1; cfr. anche Krisis p. 498, 34 sg., trad. it. p. 524), do­ve "il senso proprio di questa 'ontologia', quello di una scienza a priori, si contrap­pone radicalmente a quello tradizionale" (Krisis p. 177, 1-3, trad. it. p. 200). Per il significato della fenomenologia come ontologia del mondo della vita: E. Paci, La fenomenologia come scienza nuova, in "Aut Aut", novembre 1960, n. 60, p. 368. 4. Krisis, trad. it. p. 166 (ed. ted. p. 140, 27-333); cfr. anche p. 178 (ed. ted. p. 154, 7-11): "Ma non va nemmeno dimenticato che la riduzione dell'epoché ad un atteggiamento professionale non ne costituisce una svalu­tazione; attraverso questa epoché, che è 144 capace di raggiungere le massime profondità filosofiche, è possibile un mutamento radicale di tutta l'u­ma­nità". Tali asserzioni, pur nella loro indeterminatezza, sono già sufficienti ad indicare come il momento della astensione sia alla fine essenzialmente in funzione di una "prassi": "La filosofia trascendentale, un'arte comple­tamente inutile, non è d'ausilio ai signori ed ai padroni di questo mondo, ai politici, agli ingegneri, agli industriali. Ma non può costituire una nota di biasimo, il fatto che essa ci liberi teoreti­camente dall'assolutizzazione di questo mondo e ci dischiu­da l'unica porta d'ac­cesso scientificamente possibile al mon­do vero nel senso più alto, il mondo dello spirito assoluto. E forse anch'essa è la funzione teoretica di una prassi, di quella appunto nella quale si debbono necessariamente realizzare i più alti e supremi interessi dell'umanità" (Erste Philosophie,I, Husserliana VII p. 283, 27-36). A proposito del carattere religioso dell'epoché, Enzo Paci osserva: "L'epoché deve liberare l'individuo nella società. La progressiva instaurazione di una società intermonadica rap­presenta la negazione della feticizzazione che riduce ogni individuo e ogni gruppo, a puri mezzi privi di telos. È per questa ragione che Husserl sente l'epo­ché come una "con­ versione religiosa che deve fondare "l'umanità come umanità". L'epoché delle scienze obiet­tivate si collega dunque alla epoché degli interessi feticizzati ed è lotta contro la riduzione dell'uomo a funzione tecnica: è libera­zione dell'individuo e della società nella teleologia intermonadica che fonda il senso del­l'essere" (art. cit. p. 367). 5. H. Spiegelberg, The phenomenological Movement - A historical intro­duction, L'Aia 1960, p. 29. Ed anche: A. D. Osborn, Edmund Husserl and his Logical Investigations, Cambridge (Mass.), 1949, p. 15. 6. H. Spiegelberg, op. cit. p. 55, n. 1; Osborn, op. cit. p. 29. 145 7. H. Spiegelberg, op. cit., p. 31. 8. Krisis, p. 392, 32-33, trad. it. p.411. 9. Krisis, p. 76, 29-36, trad. it. p. 101. 10. Krisis, p.184, 18 sg., trad. it, p. 207. 11. Erste Philosophie I (Husserliana VII), p. 312, 15-30. 12. Idee per una fenomenologia pura, trad. it. Torino 1950, p. 166167. 13. Idee, trad. it. cit. p. 185. 14. Benedetto d'Amore: La fenomenologia e le sue aporie, in Atti del­ XI Convegno del Centro di studi filosofici, Gallarate 1955, "La fenomenologia", Brescia 1956. Il d'Amore vede nella riduzione un rischio che non ha adeguata contropartita: "Val la pena per tanto poco, sacrificare la bellezza veramente regale della metafisica classica? È poi vero che questa metafisica non sia fondata criticamente e abbia bisogno di un'altra filosofia su cui fondarsi?" (p. 192). E poco dopo, riferendosi al § 58 di Ideen I: "È lecito neutralizzare Dio e tutto ciò che ci circonda per l'assoluto vivere della coscienza?" (p. 195). 15. "Il problema di dio contiene evidentemente il problema della reli­gione 'assoluta' in quanto fonte teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del senso del mondo" (Krisis, p. 7, 14-16, trad. it. p. 38). 16. E III, 4, 61 cit. in A. Diemer, Edmund Husserl. Versuch einer 146 systematischen Darstellung seiner Phänomenologie, Meisenheim am Glan 1956; p. 375 n. 2. 17. Si veda la lettera a Roman Ingarden in data 25 Nov. 1921. Viene ricordata da H. Spiegelberg op. cit. p. 87. 18. L'idea di dio, osserva Husserl in una nota al § 79 di Ideen I, è "un indice indispensabile per la costruzione di certi concetti-limite, del quale nem­meno l'ateo che filosofa potrebbe fare a meno" (trad. it. p. 247). 19. Nella problematica della obbiettivazione la fenomenologia riprende una fondamentale istanza del marxismo. 20. In A. Diemer, op. cit. 147 Recensioni 148 149 A. Serravezza, Musica e scienza nell'età del positivismo, Il Mulino, Bologna 1996. Recensione in "Analisi", anno VII, n. 21, 1996. Vi è certamente più di un motivo per attirare l'attenzione sul progetto realizzato da Antonio Serravezza in questo suo ultimo libro. In esso si assume l'impegno di fornire un quadro dei rapporti tra musica e scienza nel positivismo; e dunque, in realtà - poiché questo è il problema generale sempre in gioco - di un aspetto essenziale della riflessione musicale nel suo complesso nell'arco di tempo che va dalla metà del secolo XIX sino a pochi anni prima della Guerra Mondiale. Tra questi motivi vi è certamente il fatto che esso - come si usa dire - "riempie una lacuna" storiografica, un' espressione in realtà abbastanza infelice perché in certo senso riporta in un'atmosfera di ovvietà ciò che invece ovvio non è: come se fosse anzitutto ovvio che lacune vi siano dappertutto nell'ambito storiografico, e che, essendoci lacune, sia naturale che qualcuno prima o poi si accinga a colmarle. In questo caso le cose stanno, io credo, assai diversamente. Il volume di Serravezza ci induce infatti ad una riflessione più ampia, ad una riflessione che riguarda le vicende intellettuali di un'epoca che possiamo sentire più o meno lontana nel tempo, ma che pone anche domande e interrogativi che ci sono assai prossimi. Ma ecco anzittutto un rendiconto, che purtroppo non potrà che essere molto sommario, del contenuto e della struttura di questo libro. Come si è detto, l'arco di tempo implicato è estremamente ampio: la discussione che in esso si sviluppa è ricchissima ed è attraversata da alcuni importanti riferimenti unitari, ma anche da tensioni che puntano in direzioni diverse, da convergenze e divergenze estremamente significative. Di un simile materiale Serravezza riesce a venire a capo in modo magistrale con alcune scelte di fondo: anzitutto con la 150 scelta di non inseguire gli autori nei dettagli o negli aspetti laterali, per quanto interessanti possano essere, ma di rintracciare subito - con mano sicura - i punti centrali, che possono poi naturalmente rappresentare anche dei punti di raccordo. In secondo luogo con la decisione di mediare l'intenzione, che resta certo prevalentemente storiografica, con un orientamento teorico-tematico. In effetti il libro si articola in tre grandi capitoli, che sono anche tre grandi articolazioni teoriche della riflessione sulla musica nell'età del positivismo. Esso si apre con il dibattito fondazionale nel senso più stretto. Il primo capitolo, intitolato "Dalle sensazioni acustiche alle rappresentazioni sonore", stringe giustamente in un unico nodo tre grandi dominatori della scena teorica: Helmholtz, Stumpf e Riemann. Questi autori non solo interagiscono tra loro in un'atmosfera di fecondo scambio scientifico, ma anche delineano - sullo sfondo di un orizzonte culturale comune - vie tipicamente diverse. La Lehre von den Tonempfindungen di Helmholtz, punto di riferimento obbligatorio per ogni riflessione sui "fondamenti" del musicale nella seconda meta del sec. XIX, viene considerata per prima, come il più consistente tentativo di dare una base fisico-fisiologica agli elementi della musica. Qui sono dunque in scena anzitutto le sensazioni acustiche. La Tonsychologie di Stumpf segna invece il passaggio ad un punto di vista prevalentemente psicologico, che Serravezza esibisce soprattutto nella rimessa in questione del problema della consonanza e della dissonanza attraverso il concetto di fusione. La posizione di Riemann viene in esame soprattutto nei suoi esiti conclusivi, nel punto in cui, dopo aver tentato strade diverse, l'autore arriva a teorizzare che l'ambito del musicale deve staccarsi dall'elemento sensoriale, non solo considerato sotto il profilo acustico, ma anche - come accade in Stumpf - da un punto di vista "protofenomenologico". Può così essere rivendicata l'idea della "rappresentazione sonora" - una nozione 151 che che è in realtà più prossima alle strutture immaginative ed intellettuali, con una logica interna autonoma, che alle strutture della percezione: un passaggio che Serravezza documenta con riferimento, in particolare, alle Ideen zu einer "Lehre von den Tonvorstellungen" del 1916. Tre autori che coprono dunque l'intero arco del periodo considerato, e che intrecciano tra loro un dialogo fittissimo attraversando fasi diverse, di cui Serravezza riesce a rendere conto con un raffinato gioco di ritaglio che ha lo scopo di evitare il vero pericolo che si presentava qui, come del resto nel progetto dell'intero libro: quello di proporre un' esposizione nella quale andasse perduta per il lettore l'effervescenza dei problemi, l'agitarsi delle proposte teoretiche all'interno di alternative diverse, sia tra gli autori, sia all'interno dell'elaborazione dello stesso autore. Mi sembra poi caratteristico dell'esposizione di Serravezza - sia detto di passaggio - il fatto di tendere a sottolineare più gli aspetti di dinamicità interna dei singoli autori, che le rigidità di ordine teorico. In Helmholtz, ad esempio, non sembra dubbio che le "aperture" in direzione di possibilità "psicologiche" non previste e non prevedibili a partire da una impostazione "fisicalistica" siano dovute alla resistenza che incontrovertibili circostanze di ordine percettivo e musicale oppongono a quella impostazione, e che quindi il richiamo al versante psicologico assuma il senso di un deus ex machina da invocare quando la strada consueta e più desiderabile conduce ad un vicolo cieco. Come osserva Serravezza: "l'intervento della spiegazione psicologica si registra in funzione di supplenza o integrazione dell'interpretazione fisica e fisiologica" (p. 29). Ma è chiaro che dove debba cadere l'accento - se sulla supplenza o sull'integrazione, e dunque sul deus ex machina o su un atteggiamento di potenziale apertura - ciò può dipendere in larga parte da valutazioni interpretative complessive, rispetto alle quali Serravezza assume in generale un atteggiamento di stretta prudenza storiografica. Il compito prevalente - si dice nella premessa - è quello di "esporre le idee 152 con le parole degli autori": "il libro si concepisce essenzialmente come rassegna di teorie" (p. 10). Ciò comporta una sorta di ascetica rinuncia ogni volta che siamo stimolati dal demone tentatore dell'intervento critico-teorico. Nel secondo capitolo intitolato L'estetica musicale e le scienze lo scenario in realtà, dal punto di vista tematico, cambia completamente anche se il dibattito fondazionale proposto con tanta estensione nel primo capitolo mantiene il valore di essenziale punto di riferimento. Qui il problema principale è quello degli orientamenti possibili di un'"estetica musicale" - cosicché l'attenzione si sposta sulle tematiche dell'espressione musicale e della valutazione, sul "che cosa" della musica in genere. Mentre il primo capitolo considerava tre figure fondamentali in un ordine che era cronologico e tematico insieme, questo secondo capitolo ha in Vom Musikalische-Schönen di Hanslick una sorta di perno intorno a cui far ruotare la grande varietà delle posizioni prese in considerazione. A partire di qui è possibile, con un movimento che è caratteristico di questo libro, riprendere autori già trattati in precedenza, così da riconsiderarne la tematica secondo una diversa angolatura. In questo modo da un lato si stabiliscono fili interni che dànno coerenza all'esposizione, dall'altro diventa possibile esibire un materiale molto ampio che viene setacciato e riorganizzato a beneficio del lettore, il quale può avventurarsi in esso seguendo strade sicure e opportunamente tracciate. In rapporto ad Hanslick viene messo in evidenza che il suo carattere innovativo non deve essere considerato esclusivamente negli elementi formalistici, presenti anche in tempi precedenti sia pure sotto diverse chiavi - basti pensare a Kant ma anche, in particolare per quanto riguarda la metafora dell'arabesco, ad autori di èra romantica (cfr. p. 134 sgg.). Io penso che persino un autore come Schopenhauer - la cui metafisica della musica evidentemente non può rientrare nella delimitazione tematica di questo volume, ma di cui è probabilmente utile non dimenticarsi in rapporto a queste discussioni - non sarebbe certo incline 153 ad accettare posizioni di contenutismo accentuato in senso sentimentalistico e psicologizzante. Giustamente perciò l'interesse della posizione di Hanslick viene vista soprattutto nel modo in cui egli si pone in rapporto con la cultura del proprio tempo, ed in particolare proprio nel modo in cui Hanslick "guarda con attenzione al mondo delle scienze naturali", propugnando un "sobrio appoggio conoscitivo posto sotto le insegne delle scienze della natura" (p. 102) - restandogli tuttavia estranea l'idea di "ricavare dalle scienze naturali un fondamento per la teoria estetica" (p. 103), manifestando così un atteggiamento che lo avvicina a Lotze. In questo modo si scorgono le ragioni delle relazioni che possono ricollegare Hanslick a Helmholtz o che, quanto meno, giustificano l'interesse di Helmholtz verso le posizioni hanslickiane, e proprio in rapporto a quelle oscillazioni del suo pensiero che lo inducono ad accentuare, in sede propriamente estetica, il versante psicologico su quello fisiologico - accentuazione che certamente non ha solo le valenze accennate poc'anzi. Emerge in questo rapporto quella differenza tra Stimmung e Gefühl - tra la determinatezza del sentimento indicata da quest'ultimo termine e l'indeterminatezza dell'atmosfera emotiva indicata dal primo - che rappresenta una delle articolazioni fondamentali del dibattito sul terreno propriamente estetico, che va ad intrecciarsi con le questioni relative alle giustificazioni fisiologiche o psicologiche considerate ora alla luce del problema delle ragioni del piacere della musica e delle possibili modalità della sua fruizione. In questo nostro resoconto ci dobbiamo naturalmente limitare a citare i riferimenti maggiori, ma si deve avvertire che uno degli scopi esplicitamente perseguiti è anche quello di mostrare, attraverso l'ampiezza dei riferimenti ad autori minori, ricordati in gran numero, il livello europeo del dibattito, il suo circolare nei diversi ambiti nazionali come un vero e proprio dibattito a più voci. Particolare spazio ricevono naturalmente non solo le ricer- 154 che volte ad ampliare punti di vista helmholtziani o hanslickiani, ma anche alle varie formulazioni dell'estetica musicale psicologizzante, e infine alle posizioni riconducibili alla teoria dell'Einfühlung nella quale nuove tendenze si fanno avanti. Nell'ultimo capitolo il riferimento teorico fondamentale è la tematica evoluzionistica nel suo insieme. In esso campeggiano dunque i nomi di Spencer e di Darwin. Gli interrogativi dominanti sono qui le fonti dalle quali la musica ha potuto avere origine - un problema, come si può subito sospettare, dai confini metodologici incerti, e che può essere affrontato con maggiore o minore consapevolezza critica. È certo in ogni caso che esso può essere considerato come una chiave attraverso la quale si aprono questioni che sono ancora strettamente attinenti all' "essenza" della musica, alla sua natura. Quindi, ad esempio, i rapporti tra musica e linguaggio verbale. Il capitolo prende appunto le mosse da questo tema con riferimento alle tesi di Spencer che prospettando la duplice valenza delle parole come "segni delle idee" e come "segni del sentimento", ed individuando nei "toni" della voce un' inclinazione premusicale atta a svilupparsi in direzione della musica vera e propria, riprende e rinnova temi che per certi versi ci riportano al dibattito illuministico prima e romantico poi. In generale la questione dell'origine è appunto quella di ciò che sta prima della musica e che nello stesso tempo ne rappresenta il seme, ne contiene il primo nucleo. In questo sguardo retrospettivo ci si interroga sulla condizione dei primordi, superando, come era nella logica dell'evoluzionismo, gli orizzonti della specie umana verso il regno animale. In Darwin la considerazione della musica nella sua origine e nella sua evoluzione propone la relazione, piuttosto che con il linguaggio verbale, con l'istinto sessuale e con la tematica della selezione della specie. Diventano allora significativi i riferimenti al mondo animale, al canto degli uccelli come tipicamente rappresentativo di questa connessione e di questa origine. Nell'esposizione di Serravezza si mette in evidenza il fatto 155 che un simile orientamento comporta indubbiamente il rischio di operare una riduzione indebita del piano dei valori estetici veri e propri: e tuttavia è notevole il fatto che, sia sulla base della considerazione di dati di fatto non strettamente riconducibili allo schema teorico, sia in forza della natura stessa del problema dell'"origine", si è indotti anche a compiere l'operazione inversa, e cioè quella di rivendicare un significato ed una portata estetica o pre-estetica a momenti governati dai livelli inferiori della vita istintiva. Ciò accade già in Darwin che scopriamo assorto, nei pressi di Rio de Janeiro, a tendere l'orecchio, la sera, a ranocchi "che emettevano dolci note stridule in armonia" (p. 246) ed a difendere la piacevolezza di questo canto per poter più liberamente sostenere, a maggior ragione, la "musicalità" del canto degli uccelli e addirittura la possibilità che essa possa essere "apprezzata". La selezione stessa, si chiede Darwin, non esige proprio la possibilità di un simile apprezzamento da parte della femmina? E forse il maschio continuerà, anche al di là degli stimoli dell'istinto, il suo bel canto. Ma a parte Darwin e coloro che ne riprendono il problema sul piano musicale e tentano di approfondirlo, il sasso è stato gettato e il dibattito sulla musicalità degli animali si sviluppa anche secondo direzioni indipendenti e con una varietà di opinioni che una concezione stereotipa dell'atteggiamento intellettuale positivista, ancora oggi così diffusa, certamente non sarebbe in grado nemmeno di sospettare. D'altra parte questo problema è connesso con un altro di peso certamente maggiore. La questione dell'origine, di ciò che sta prima della musica e che è comunque già musica in quanto ne è il suo seme non può che incontrarsi con la ricerca etnomusicologica che sta in quegli anni prendendo forma e ottenendo i suoi primi risultati. Osserva Antonio Serravezza: "Sotto altri aspetti, tuttavia, la ricerca sulle origini della musica espone la coscienza estetica 156 ai turbamenti generati dal remoto e dal diverso. L'operazione tentata dai filosofi e dagli uomini di scienza che nella stagione positivistica si avventurano su questo terreno presenta anche il significato di una ricognizione al di fuori dei confini rassicuranti della "civiltà". La musica è riportata dalla condizione di arte evoluta ad uno stato primordiale nel quale l'assetto ed i valori acquisiti nelle fasi più avanzate cessano di ricevere attenzione (salvo riproporsi surrettiziamente nella forma di embrioni originari, e quindi di "natura" profonda della musica), e viceversa acquistano rilevanza fattori elementari occultati dal progresso tecnico ed estetico... Le implicazioni estetiche del dibattito sulle origini compongono dunque un quadro dai tratti discordanti: ricerca di ascendenze e di modelli, agnizioni, rassicurazioni circa i valori correnti, ma anche incontri con un'alterità inquietante. In ogni caso le teorie sui primordi della musica elaborate in ambito evoluzionistico (e rimosse nella stagione antipositivistica) comportano una profonda introspezione della coscienza culturale e nell'insieme costituiscono uno dei momenti di più intensa riflessione sulle radici della musicalità" (p. 267). L'esame che nel libro viene condotta su questo lato del problema, un esame che si estende alle altre posizioni particolarmente significative in cui emergono le problematiche del gioco così come quella del lavoro, in connessione con l'accentuazione del tema del ritmo (Groos, Grosse, Bücher, Wallaschek ed altri) confermano ampiamente le osservazioni precedenti. Nello stesso tempo consentono di vedere con chiarezza anche in questo ambito quello che è forse il limite di coscienza possibile dell'intera riflessione positivistica sulla musica. A parte alcune figure che si trovano ai suoi margini e che guardano ormai oltre di essa, il riconoscimento dell'alterità si muove per lo più all'interno di una visione teleologica, di cui la tradizione europea rappresenta l'autentico punto di arrivo. Eppure la nostra musica, la musica della nostra grande tradizione - leggiamo in Weismann (p. 268) - deriva da quelle "pri- 157 mitive successioni sonore": proprio queste sono le sue origini, per quanto di ciò possiamo provare meraviglia, per quanto stentiamo ad applicare ad esse la parola "musica": "non c'è altra via". In certo modo una simile conclusione ci riconduce ai problemi della tematica fondazionale trattata all'inizio. Nè le limitazioni poste da Helmholtz ai rapporti dell'estetica con i fondamenti fisici della musica, né la teorizzazione dei problemi della musica alla luce della nozione di "rappresentazione sonora", teorizzazione che in via di principio avrebbe potuto aprirsi alla molteplicità dei linguaggi musicali, riesce ad attingere questa possibilità e ad appropriarsene. Sembra invece che accada l'inverso: questa possibilità si trova a portata di mano proprio degli autori la cui ricerca è orientata dal punto di vista dell' "origine" e che sono disposti per ciò stesso ad andare piuttosto lontano dalle nostre consuetudini di ascolto. Essa arriva quasi a far parte delle loro conclusioni tacite. La falce di cui ci parla Bücher, che con il suo movimento "dà suoni di diversa intensità e durata nei momenti in cui l'attrezzo taglia e viene ritratto" è già musica alle orecchie dell'autore, prima ancora che la voce stessa intervenga a riprodurne gli effetti. Lo stesso si può dire per altri autori che, come Stumpf, sono attratti dai problemi della musica extraeuropea in base a considerazioni relative alla ricezione del materiale sonoro considerato in relativa indipendenza dal suo impiego musicale. Per il teorico della rappresentazione sonora, invece, per il quale la musica stessa sta avanti a tutto e il ruolo della soggettività diventa decisivo, la ricerca di legalità interne alla musica, nettamente distinte da legalità interne al campo sonoro, propone un' impostazione nella quale si prospetta l'assolutezza di un modello. Vi sono qui certo spunti per la riflessione che vanno ampiamente oltre i limiti entro cui ciascun autore si muove. Questi ultimi accenni ci consentono qualche considerazione conclusiva Essa può prendere spunto da una frase che l'autore stesso inserisce nella premessa per caratterizzare il senso del suo lavoro. Si tratta di una frase che deve essere citata per 158 intero: "Se si domandasse perché meriti di essere intrapresa una rivisitazione di queste idee e di questi dibattiti, la risposta sarebbe elementare: perché si tratta di aspetti trascurati della storia della cultura musicale. E se si chiedesse se la loro ricostruzione non sia una sorta di operazione archeologica, la risposta sarebbe affermativa: sebbene non lontano nel tempo, e sebbene cronologicamente coincidente con fasi della vita e della produzione musicale tra le più presenti nella nostra cultura, l'insieme delle idee che abbiamo cercato di ricostruire è senz'altro "antico" nella rappresentazione corrente, anche in ambito musicologico. Per qual motivo ciò sia avvenuto, e perché in molti casi si sia registrata una vera e propria damnatio memoriae, sono quesiti da porre alla storia della cultura musicale del Novecento" (p. 10). Dopo la lettura del libro, confesso di trovare questa frase polemi­camente reticente o ambiguamente provocatoria, anche se essa in fin dei conti rende ragione della decisione, mantenuta fermamente nel corso dell'intera ricerca, di lasciare aperto l'importantissimo interrogativo conclusivo. Il lettore spera di trovare, almeno al termine del lungo cammino, qualche ipotesi di risposta a quell'interrogativo - ma l'autore, implacabilmente, chiude. Se noi dovessimo, come semplici recensori, dare una nostra opinione in via breve sull'interesse di una simile ricerca, al di là della quantità di informazioni che ci mette a disposizione e dell'efficace riordinamento del materiale che è già stato in precedenza segnalato, punteremmo anzitutto l'attenzione sul fatto che essa genera più o meno indirettamente domande e problemi di grandissimo interesse sia storiografico sia propriamente teorico. Lo abbiamo già accenato all'inizio. Appare anzitutto chiaro, in questa esposizione, la serietà e l'importanza che si annette, nell'arco di tempo considerato, all'ela­borazione di una filosofia della musica in un senso particolarmente pregnante del termine: per lo più il dibattito riguarda infatti, da un lato, le questioni di principio che chiamano in causa la teoria della musica nel senso più stretto e le problematiche 159 di fondo dell'estetica musicale, dall'altro, la discussione mostra l'esigenza costante di un' integrazione della riflessione sulla musica all'interno di un orizzonte filosofico di ordine generale, di "concezioni del mondo" dalle quali la riflessione sulla posizione e sul significato della musica trae domande e cerca risposte. Tutto il volume è un'esemplificazione cospicua di questa impudente tendenza al teorizzare in grande - impudente perché in effetti essa è esplicita e senza vergogna, perché ciascuno affronta i rischi inevitabili della teoria, non si muove garantito da mille rampini che lo possano mettere al riparo per mille secoli, ma si espone invece al dibattito, alle confutazioni immediate, ad errori materiali e concettuali. Eventualmente anche al rischio di essere dimenticato di lì a poco. E risulta altrettanto esemplificato dall'in­tero volume che questo atteggiamento dà molti frutti, che anche dove vi sono impostazioni caduche, dove ci sono stati eccessi ed ingenuità speculative e interpretative - tutto ciò non ha affatto impedito il progresso e l'arricchimento della problematica musicale nel suo insieme, ma anzi la ricerca ne è risultata stimolata e promossa. Certamente, come abbiamo osservato, entro determinati limiti di coscienza possibile: ma sarebbe egualmente erroneo ritenere che questi limiti valgano a giustificare una valutazione di antiquatezza del dibattito. Giustamente Serravezza osserva che "nella rappresentazione corrente, anche in ambito musicologico" l'insieme di idee qui esposto è sentito come "antico". Ma è poi giusta questa "rappresentazione"? O meglio: che cosa propriamente essa implica, fino a che punto essa può essere estesa ed appartenere realmente ad un giudizio "storico" e non ad un pregiudizio teoretico mascherato da giudizio storico? In effetti potrebbe sembrare che gli stessi sviluppi musicali abbiano messo a tacere in un colpo solo tutti questi vecchi dibattiti - come se le novità intervenute nel novecento sul piano della prassi musicale abbiano fatto cadere ogni interesse verso discussioni come quelle intorno al fondamento della triade negli 160 armonici, della distinzione tra consonanza o dissonanza, oppure intorno alle giustificazioni psicolo­gistiche o fisiologistiche della musica, così come verso ricerche più o meno naturalistiche intorno al senso della fruizione musicale. In realtà una simile visione è assai semplicistica - e lo è anche nella sua sottintesa valutazione storiografica. Mi sembra che uno dei risultati su questo terreno del lavoro di Serravezza sia quello di aver mostrato che la discussione non ha affatto un monotono e omogeneo andamento "riduzionista", secondo la valutazione corrente. Ma lo è soprattutto in rapporto ad un modo di concepire gli stessi sviluppi musicali a partire dal primo novecento sino ad oggi ed alla loro relazione interna con le questioni teoriche. Infine viene messo sotto silenzio l'importanza che ha avuto in quella damnatio memoriae di cui qui si parla lo storicismo nelle sue svariate metamorfosi, dalle più antiche alle più recenti e recentissime. In particolare in Italia, nonostante tutta l'acqua passata sotto i ponti, si continua ancora oggi a sentire il fastidioso peso delle pregiudiziali di origine storicistica - e fra queste pregiudiziali, sembra strano dirlo, vi è anche la damnatio theoriae che sicuramente è una delle componenti che rendono conto di questa damnatio memoriae. Si può forse sostenere che oggi non vi sia un diffuso scetticismo nei confronti dell'attività teorizzatrice? Questo scetticismo deriva dallo svuotamento interno della pregnanza dei problemi che interviene nel momento in cui si assume che non vi possano essere mai domande e risposte in sé, ma sempre e soltanto domande e risposte d'epoca (il che è ad un tempo banalmente vero e banalmente falso). Fra i molti stimoli che vengono da questo libro vi è anche, io credo, e forse meno obliquamente di quanto possa sembrare ad un primo sguardo, un invito ad una riflessione rinnovata su questo punto, secondo l'angolatura dei materiali proposti in modo tanto ricco e penetrante. 161 Lawrence Ferrara, Philosophy and Analysis of Music. Bridges on Musical Sound, Form and Reference. Excelsior Music Publishing Co., 1991. Recensito in "Axiomathes", 1995, n. 2. Filosofia e analisi musicale: ecco un connubbio che molti, fino a poco tempo fa, avrebbero guardato con scetticismo e sospetto e che invece si va a poco a poco imponendo, sia per ragioni strettamente interne ai problemi dell'analisi, sia per ragioni più generali che riguardano l'ampiezza degli orizzonti culturali che la musica mette in gioco. In realtà di fronte all'atteggiamento di quei musicologi - e ve ne sono ancora molti - che guardano con sufficienza questo rapporto è necessario far notare che esso implica una sottovalutazione proprio del peso che la musica ha per la vita della cultura, nel senso più profondo del termine, e che pertanto questo atteggiamento finisce, lo si voglia o meno, con l'assecondare la tendenza a considerare la musica come un'arte separata e nello stesso tempo come un'arte minore - nonostante la sua assicurata appartenenza ad importanti eventi mondani. Per quanto riguarda la situazione italiana, è un segno sufficiente di ciò la separazione istituzionale tra conservatorio e università, e all'interno di quest'ultima, una presenza in realtà assai limitata di insegnamenti musicali, che si trovano in ogni caso più a ridosso degli insegnamenti letterari che degli insegnamenti filosofici. Non a caso dunque un libro come questo ci viene dagli Stati Uniti - dove la situazione è molto diversa. Se mai le difficoltà sorgono all'interno di un dibattito culturale nel quale sono state a lungo predominanti correnti di pensiero, di più o meno lontana origine neopositivistica, orientate verso tematiche semiologiche e logicizzanti che hanno avuto una influenza amplissima anche sul terreno della filosofia dell'arte: correnti che peraltro sono state oggetto, ormai da tempo, di una vivace contestazione che si è avvalsa anche nell'ambito della riflessione sulla musica, di altri modelli filosofici di riferimento. 162 Il libro di Ferrara rappresenta un caso realmente esemplare, sotto più di un riguardo, che fissa un momento di maturità di questo dibattito, che si era mosso inizialmente in contrapposizioni talora troppo elementari tra scientismo ed antiscientismo, tra oggettivismo e rivendicazione della soggettività interpretante, tra tecnicismo e rivendicazione umanistica, tra accademismo e anti-accademismo in modo tale da rischiare di compromettere l'esito stesso della disputa proprio a favore delle tendenze più rigidamente ancorate al ruolo del musicologo-scienziato, preoccupato, più che apprestare strumenti efficaci per una comprensione, a reggere il confronto con le imprescindibili esigenze del Metodo. L'aria che si respira in tutto il libro è invece quella della necessità di una nuova sintesi che sappia portare a concordanza il senso e la tecnica - o come si dice più ampiamente nel sottotitolo - che sappia stabilire dei ponti tra il suono musicale, la forma e il riferimento, secondo una tripartizione problematica che assume rilevanza teorica all'interno dell'impostazione proposta da Ferrara. Il suono non interviene nel brano musicale come pura materia, ma richiede una messa in forma. In quanto il brano musicale riceve realtà e viene effettivamente eseguito, la sua organizzazione formale assume poi il carattere di un processo temporale che viene colto come tale: e il suono come materia messa in forma (Sound-in-form) e come processo temporale (Sound-in-time) debbono infine rappresentare i veicoli sui quali si innestano le relazioni di senso (Reference) dell'opera. Questo è il significato effettivo della formula, forse un po' provocatoria, di metodo eclettico di cui Ferrara si fa promotore. Si tratta intanto si sdrammatizzare la questione del metodo, e nello stesso tempo di riconoscere che una pluralità di metodi è necessaria proprio per rendere conto della "multi-leveled nature of musical significance". All'interno di questa pluralità si opera poi una grande distinzione tra metodi "convenzionali" - cioè tra i metodi correntemente in uso nell'analisi insegnata "a scuola" 163 - e metodi non convenzionali, con i quali si intendono metodologie ispirate alla filosofia fenomenologica, in un senso ampio del termine, ed all'ermeneutica di ispirazione heideggeriana e gadameriana. È importante sottolineare, proprio per evitare che il punto di vista di Ferrara venga frainteso, che l'espressione "convenzionale" non ha nessun modo un significato peggiorativo, così come, inversamente, l'espressione "non convenzio­nale" non allude ad alcun privilegio e pregio di principio. Alle spalle di questa distinzione che potrebbe sembrare un po' sommaria vi è una presa di posizione più complessa: si tratta anzitutto di evitare che il riferimento filosofico alla fenomenologia diventi un pretesto per una critica dei metodi formali nell'analisi musicale che finisce poi con il rivalutare una critica "ad orecchio" - di carattere fondamentalmente psicologistico e impressionistico. L'accento sulla musica come fatto eminentemente uditivo, quindi sulla musica che ha come suo centro il sound, va certo mantenuto, ma ciò non significa che si debba rinunciare a metodologie che, secondo diverse angolature, agevolano la penetrazione nella "musical form". I metodi che Ferrara chiama convenzionali sono diretti proprio alla forma, alla sintassi del brano e possono, ed anzi debbono, essere impiegati a fondo proprio in quanto si tratta di un livello fondamentale della composizione. Di fatto "music analysis in the twentieth century it is decidedly in favor of limiting its purview to musical syntax" (p. 3) -, ma questa limitazione contiene anche le ragioni per le quali i metodi "convenzionali" debbono entrare a pieno diritto in un percorso analitico ideale, di cui questo volume si propone di mostrare il tracciato. Questo percorso non può tuttavia eludere il problema semantico, ed anzi deve culminare in esso. Tocchiamo qui un altro dei punti importanti del lavoro di Ferrara. La convinzione che lo guida, convinzione alla quale io credo si debba assentire in via di principio, è che una analisi è essenzialmente incompleta se non riesce ad aggredire il piano del "riferimento", perché è proprio su questo piano che si esplica in 164 modo eminente la funzione espressiva della musica. Noi dobbiamo essere in grado di guardare al di là del muro dei suoni da cui un brano musicale sembra essere costituito - e per far questo abbiamo bisogno, non solo di un'adeguata contestualizzazione storica, sulla quale Ferrara richiama più volte l'attenzione, ma in particolare dell'apporto filosofico, abbiamo bisogno della fenomenologia e dell'ermeneutica. La fenomenologia in certo senso apre la strada, mentre è compito dell'ermeneutica il mostrare la mèta. Al problema del significato referenziale nella musica è dedicato l'intero capitolo primo della prima parte. Qui come ovunque il volume è caratterizzato dalla cura e dall'ampiezza con cui viene presentata la letteratura critica sugli argomenti di volta in volta discussi, dimostrando una rara competenza sul duplice fronte filosofico e musicologico, e manifestando la propria utilità anche dal punto di vista di una buona informazione sulla situazione attuale. Sul problema di una fenomenologia applicata alla musica l'autore indugia invece nel capitolo quarto della seconda parte (pp. 143-176), come conclusione di un'esposizione suddivisa in tre capitoli dedicati, rispettivamente, a Husserl, all'ermeneutica heideggeriana ed alla filosofia dell'arte di Heidegger (Parte II, cap. 3-5, pp. 49-142). Vi sono varie obiezioni che Ferrara rivolge ad un atteggiamento fenomenologico. Fin dall'introduzione siamo avvertiti che "this book and its proposed eclectic method are not a promotion of the use of phenomenological method in music" (p. XVIII). Anzitutto è discutibile la pretesa canonica con cui si dovrebbe aprire un'analisi fenomenologica, la famosa assenza di ogni pregiudizio teorico, dal momento che lo stesso impianto fenomenologico potrebbe essere considerato appunto come un pregiudizio teorico. In connessione con ciò vi è poi l'insistenza sull'aspetto descrittivo, sulle descrizioni in contrapposizione alle spiegazioni che impediscono di vedere, a parere dell'autore, che il vero problema sta nel superamento di questa opposizione 165 in direzione della nozione di interpretazione. Irrisolto è anche il contrasto tra oggettivismo e soggettivismo, che rende talvolta puramente preteso il rigore scientifico rivendicato dai fenomenologi. Queste obiezioni sono discusse in un dibattito che coinvolge gli autori più significativi che si sono fatti promotori negli Stati Uniti di una prospettiva fenomenologica, quali Smith, Bartholomew, Broadhead e, in particolare, Clifton e Lochhead, considerati come gli autori forse più rappresentativi di questa linea di tendenza. Questa discussione critica individua in ogni caso un luogo ben determinato per l'esplicazione di un atteggiamento fenomenologico all'interno di un percorso analitico: dopo un'esplorazione della sintassi del brano, cominciano ad affacciarsi i problemi del riferimento, e cominciano ad affacciarsi proprio nel momento in cui ad una visione meramente architettonica subentra l'ascolto del brano come concreto processo sonoro, articolato in unità temporali, connotate con qualità caratteristiche, alla cui evidenziazione si presta in modo particolare la metolodologia fenomenologica. Come abbiamo già notato, il livello del riferimento può tuttavia essere acquisito solo a livello ermeneutico: come Husserl deve essere superato in direzione heidegerriana, così l'analisi fenomenologica in campo musicale deve trovare il proprio compimento in un'analisi ermeneutica. Si tratta di una linea di discorso che in realtà Ferrara coltiva dal tempo della sua tesi di dottorato in filosofia che era appunto dedicata ad una riflessione sul pensiero di Heidegger in rapporto al problema semantico nella musica (L. Ferrara, Referential Meaning in Music: a Conceptual Model based on the Philosophy of Martin Heidegger, New York University, 1978). La parte terza è infine dedicata ad una indispensabile verifica - compiuta su un brano di Bèla Bartok (Improvvisazione n. 3, op. 20) e su uno di David Zinn (Spanish Sojourn, Terzo Mov.). Questa esemplificazione occupa quasi la metà dell'intero volume e assolve una funzione importantissima nel mostrare in 166 che modo i materiali e i dibattiti filosofici precedenti possano assumere un peso specificamente musicale. In essa l'autore propone un' articolazione dell'itinerario analitico in ben dieci passi - ma risulta chiaro dal suo andamento che sarebbe un errore del lettore assumere una simile articolazione in modo pedantesco, come se ogni analisi "eclettica" dovesse esattamente seguire questo schema passo dopo passo. Si tratta invece di una schematizzazione ricercata per uno scopo di chiarezza, che ha anche il merito di suggerire aspetti e problemi che erano rimasti precedentemente in ombra. Mi sembra interessante intanto la stessa idea che il compito analitico non sia proposto come un compito che deve sfociare in un'analisi da leggere, ma di un vero e proprio itinerario che prevede, tra l'altro, esperienze di ascolto del pezzo localizzate in modo da apprezzare l'apporto e l'incidenza delle osservazioni analitiche via via effettuate nella fruizione effettiva del brano. La connessione con la dimensione dell'ascolto inserita nei passi di un itinerario analitico rappresenta naturalmente anche una connessione con la dimensione dell'esecutore e dell'interprete. In altri termini a me sembra che si debba dare rilievo al fatto che tutto lo sforzo analitico non trapassa puramente sul terreno "conoscitivo", quasi che il brano musicale rappresentasse un mero "oggetto da conoscere" e le comunicazioni analitiche vertessero su proprietà e caratteristiche prima sconosciute - altra illusione del musicologo-scienziato - ma culmina piuttosto nella proposta di una "performance guide", di una guida per l'esecuzione, cosicché l'analisi viene situata finalmente al suo giusto posto in un tragitto che va dalla musica alla musica (e non è certo inopportuno rammentare a questo proposito che Ferrara unisce all'insegnamento universitario un'intensa attività concertistica). Naturalmente passi essenziali di questo itinerario analitico saranno quelli che abbiamo già rammentato, relativamente al sound in form, al sound in time ed al referencial meaning, che vengono variamente articolati e arricchiti ed illustrati dagli 167 esempi. In questo contesto si dovranno cercare le precisazioni e i chiarimenti che in precedenza erano rimasti in sospeso. In rapporto al modo di intendere il metodo fenomenologico, si precisa ora che si tratterà non solo di individuare le unità temporali, ma anche di ricercare una caratterizzazione di queste unità in rapporto ai momenti della dinamica, del ritmo e del tipo di sonorità. A tale scopo ci si potrà giovare anche dell'impiego di un linguaggio metaforico che sarebbe invece fuori luogo a livello sintattico-formale. A parere di Ferrara si deve porre una distinzione piuttosto netta tra l'elemento grammaticale e il sound-in-time - e in proposito egli nota che che "this is similar to the suggestion by Roman Ingarden that phenomenological literary criticism should include a report of the sounds of the words as such" (p. 182), cosa da cui consegue che l'unico elemento di organizzazione afferrabile fenomenologicamente sarebbe l'elemento temporale. Il problema del referencial meaning, che si fa sentire solo indirettamente sul piano fenomenologico nell'impiego di espressioni con inclinazione metaforica, viene esplicitamente posto nei passi immediatamente successivi: ciò che occorre identificare è "the manner in which the work is expressive of human feelings" (p. 183). A questo scopo si può incominciare dai dati più esterni, dalle verbalizzazioni esplicite contenute nei testi eventualmente annessi (testi veri e propri, ma anche titoli, indicazioni esecutive, ecc.) che naturalmente andranno letti con tutte le cautele critiche e commisurati ai risultati analitici già raggiunti, fino a tratteggiare ciò che l'autore chiama "the onto-historical world of the composer" così come esso si manifesta nel brano musicale. A questo punto ci troviamo naturalmente in ambito "ermeneutico". Così nel brano di Bartók si ritiene di poter cogliere il motivo di una presenza che accenna a smarrirsi di fronte alla possibilità della caduta, di un cedimento possibile di fronte alla calma della morte, un sentimento che attraversa, nel corso del brano, una coloritura variegata e inquieta, i cui mutamenti vengono perseguiti battuta per battuta. 168 È appena il caso di dire - per avviarci ad una conclusione con qualche riflessione nostra - che proprio a questi esiti sul terreno della semantica musicale si potrebbero appuntare le critiche, seguendo i luoghi comuni ben noti di un atteggiamento formalistico. Io penso invece che sarebbe tempo di riflettere sull'autentica portata di questi luoghi comuni, senza perdersi di fronte agli aspetti più ovvi e superficiali. Una volta che si sia ammesso che un formalismo stretto e rigoroso è insostenibile, sia dalla parte dell'azione creativa, sia dalla parte dell'ascolto - cosa che a me sembra debba essere ammessa - allora sia benvenuta ogni ricerca che accetti l'indubbio rischio che è presente nel tentativo di intraprendere il cammino in direzione di una analisi semantica. Intanto si deve prendere atto del fatto che ogni affermazione intorno al "riferimento" non può pretendere ad una prova (ed è inutile perciò avanzarne, come obiezione, la pretesa). Essa può tuttavia contare - questo è un punto di grande importanza - sul contesto analitico globale in cui è inserita, contesto da cui non è assolutamente possibile prescindere. Questa circostanza stabilisce intanto un'invalicabile differenza rispetto alle analisi psicologizzanti ed alla buona che hanno così pesantemente screditato lo stesso problema semantico. Le indicazioni di ordine semantico vengono dopo che il pezzo è stato sviscerato in tutte le sue articolazioni formali così come in tutte le sue caratteristiche di processo sonoro. Queste indicazioni potrebbero poi sembrare troppo precise, troppo esatte - vi è anche questo rischio: che è poi il rischio di un simbolismo punto contro punto. Si potrebbe anche notare che, in una simile analisi, da un lato il brano viene aperto nel suo senso preteso, dall'altro esso viene altrettanto ermeticamente rinchiuso in questo senso, esattamente come un codice che è stato decifrato una volta per tutte. Si tratta di osservazioni che debbono essere tenute nel debito conto. A questo proposito assume tuttavia un particolare peso, anche sotto questo riguardo, la considerazione che abbiamo svolto in precedenza sull'idea di 169 un itinerario analitico che situa l'analisi vera e propria strettamente all'interno di un tragitto che conduce "dalla musica alla musica". Di conseguenza anche l'esito "ermeneutico" non va a sua volta inteso come un dire ciò che la musica mostra - come una discutibile "decodificazione"; ma come un complesso di considerazioni che si debbono risolvere a loro volta in suggerimenti e suggestioni in vista di un'esecuzione: l'interpretazione analitica diventa interpretazione musicale, cosicché tutto viene nuovamente riaffidato alla fluidità dell'espressione musicale. Comunque possano essere giudicate le proposte avanzate a livello semantico, è certo che l'esecuzione subisce una modificazione proprio secondo la direzione suggerita da quelle proposte. Ma vi sono naturalmente anche molti altri motivi di discussione. In particolare vorrei soffermarmi sul nodo fenomenologia-ermeneutica, che fa parte dell'impianto teorico-filosofico del volume. In tutto ciò che si dice sul rapporto tra musica e fenomenologia si risente, come è ovvio, l'angolatura in cui questo problema è stato rilevato in ambiente statunitense - nel quale peraltro si è avvertita la possibilità di un incontro assai prima che altrove. Schematizzando molto si può dire che dalla fenomenologia (e da una fenomenologia nella quale erano già fortemente presenti motivi merleau-pontiani e heideggeriani) sono stati tratti 1. motivi di carattere del tutto generale concernenti l'orientamento di principio della ricerca, e soprattutto motivi polemici in funzione "anti-scientista" 2. motivi più specifici che consentono un più diretto approccio ai problemi dell'analisi, se non a configurarsi come un insieme di strumenti analitici veri e propri. La posizione che Ferrara assume rispetto ad entrambe queste direzioni è molto equilibrata: credo anche che si possa assentire alle osservazioni critiche che egli svolge, a cui abbiamo in precedenza accennato. Ciò che invece manca interamente è l'idea di una funzione importante che un'impostazione fenomenologica può assolvere in direzione di una vera e propria teoria della musica, e quindi in direzione di una ricerca rivolta ai concetti costitutivi 170 fondamentali che vengono in questione in ogni riflessione sui fatti della musica in genere. Noto di passaggio che, assumendo questa angolatura, non sembra abbia molto senso delimitare gli interessi fenomenologici all'aspetto puramente temporale, dal momento che nel "fenomeno" suono non incontriamo solo momenti puramente temporali, ma siamo alla presenza di una pienezza percettiva che richiede di essere considerata nella totalità delle sue qualità e delle relazioni fenomenologiche che esse fondano. È importante poi sottolineare che di questa pienezza fanno parte anche componenti di ordine immaginativo. Questa è una circostanza che deve essere portata a chiarezza teorica proprio in funzione di un approccio che ha particolarmente a cuore un intervento sui livelli del senso. Una fenomenologia dell'immaginazione che sappia precisarsi sul terreno della produttività musicale rappresenta a questo proposito una premessa indispensabile. Con ciò mi sembra che si dia anche una risposta almeno indiretta alla questione "ermeneutica". Si tratta di una questione strettamente connessa alla precedente. Una certa prospettiva interpretativa in rapporto alla fenomenologia comporta anche una presa di posizione implicita o esplicita sul rapporto con Heidegger. Dal punto di vista a cui ora ho accennato di Heidegger non si sente un gran bisogno proprio per il fatto che, se da Heidegger si possono trarre diverse suggestioni in rapporto agli "states of being", come Lawrence Ferrara mostra molto bene, ben poche indicazioni invece si possono trarre sul problema di una teoria della musica. Nemmeno la sua filosofia dell'arte sembra favorire una simile direzione, accentrata come essa è, in modo del tutto tradizionale, intorno alle arti della parola e così appesantita dall'idea dell'espressione artistica come espressione emi­nen­temente metafisica. Io credo che far troppo conto su Heidegger possa introdurre nell'analisi una componente intellettualistica, dal momento che l'apparato concettuale che ci viene messo a disposizione potrebbe essere inteso come un repertorio di categorie già 171 pronte a cui attingere in caso di necessità. È indubbiamente un'altro dei numerosi meriti di questo lavoro di Lawrence Ferrara il fare un impiego molto sorvegliato della concettualità heideggeriana, di cui si attenuano le pesantezze metafisiche portando piuttosto l'accento sull'inclinazione ermeneutica. Le nostre ultime osservazioni non fanno altro che mostrare la possibilità di diverse angolature e suggerire ulteriori motivi di riflessione, confermando conclusivamente i pregi del volume di Lawrence Ferrara, che io spero di essere riuscito ad illustrare. Mikel Dufrenne, La notion d'"a priori", Paris, Presses Universitaires de France, 1959. Recensito in "Il pensiero", vol. V n. 3, 1960. Proposito dell'Autore è un riesame complessivo del concetto di a priori; suo scopo è la fondazione di un " empirismo del trascendentale" (p. 61) che superi l'impostazione essenzialmente formalistica data da Kant al problema dell'a priori. Già Paul Ricoeur aveva notato come, nella Critica della ragione pura, ad una analisi riflessiva che porta all'io penso come pura forma si intrecci un'analisi fenomenologica, il cui ultimo risultato è lo spirito in quanto opera concretamente, il Gemüt (l). La critica di Husserl, che rimprovera a Kant di avere ancora posto l'io penso sul piano del mondo, secondo Dufrenne accentua maggiormente, il formalismo kantiano e complica il problema del rapporto tra io trascendentale e io psicologico. L'Autore si riferisce da una parte all'interpretazione che della fenomenologia diede a suo tempo Eugen Fink (2) e dall'altra a quella di Merleau-Ponty (3), e ne è condotto a rifiutare i risultati " idealistici" ·della fenomenologia e ad insistere piuttosto sulla necessità del ritorno all'antepredicativo. L'una e l'altra interpretazione non possono che manifestare la loro unilateralità nel fatto stesso che sono costrette a 172 dichiarare l'incoerenza di fondo degli scritti husserliani, mentre ciò che occorre mostrare è l'unità di progetto dell'affermato ritorno all'io trascendentale (unitamente alle analisi eidetiche che gli sono correlative) ed al mondo della vita (4). Sotto quest'altra luce il rapporto Kant-Husserl si presenta in termini ben diversi: l'io trascendentale husserliano non è che una preliminare istanza metodologica per il raggiungimento della monade concreta, dell'io-nel-mondo così come la denuncia dello psicologismo indica soltanto il persistere in Kant delle ovvietà del mondo pre-dato (5). L'interpretazione di Fink è dall'Autore presa di base anche per mettere ìn luce il fallimento del tentativo husserliano di risolvere il problema della sussunzione, dovute ad una assolutizzazione del trascendentale (p. 49). Dufrenne ha certo ragione nel porre ogni cura per evitare "l'idealismo della costituzione"; ma ciò contro cui. si rivolge è lo Husserl di Fink (p. 49). Perchè, allora, non esaminare più ·direttamente la posizione husserliana, prescindendo e da Fink e da Merleau-Ponty, tanto più che proprio in Husserl si presenta il problema della materializzazione dell'a priori, contro il formalismo kantiano? (6). Nel volume di Dufrenne, ·l'Introduzione, alla quale si è qui rapidamente accennato e che ha il compito di precisare i temi dell'indagine e di focalizzare criticamente lo stato del problema, è seguita da tre parti. Le prime due studiano separatamente i due aspetti da cui si può considerare l'a priori; l'aspetto oggettivo, come .immanente nel dato esperito, e quello soggettivo, come presente nel soggetto concreto. Tali aspetti preludono alla possibilità della considerazione univoca e alla dimensione dell'êtreau-monde, che è tema specifico della terza parte del volume. Il compito di "delogiciser" l'a priori si presenta, dal punto di vista oggettivo, come ritorno alla percezione, nella quale l'a priori si definisce come "l'immédiat dont il n'y a pas de genèse empirique ou d'apprentissage: comme l'évidence antéprédicative que présuppose toute évidence (p. 63), Benchè non sia giunto al concetto di un a priori materiale " en assignanf plusieurs sources à l'a 173 priori, en particulier en conférant les privilèges de l'a priori à la forme de la sensibilité, Kant s'interdit de logiciser totalement l'a priori: le formel n'implique plus un formalisme logique lorsqu'il désigne la forme de la sensibilité" (p. 69). Tale tendenza deve essere allora radicalizzata : invece di considerare l'a priori soltanto dopo una elaborazione che ha carattere inevitabilmente formalizzante, occorrerà piuttosto "invoquer l'expérience de la spatialité avant la géometrie, de la pluralité avant la théorie du nombre, du tragique avant une esthétique pure comme théorie des qualités effectives, de la domination avant un sociologie pure de l'inter-subjecvité, de tel mythe avant une théorie des archétypes. L'a priori est alors le sens immédiat saisi dans l'expérience, immediatement reconnu" (p.71). La necessità dell'a priori così concepito è necessità di fatto, dell'irrecusabilità di un dato (p.74). Ciò significa pure che l'universalità dell'a priori è subordinata ai soggetti concreti, non. ad un soggetto impersonale o prepersonale: la categoria della causalità appartiene al soggetto pensante in generale o piuttosto ad una certa mentalità detta "logica"? (p. 76). L'a priori, allora, non può rifiutare la propria storicità (p. 77). L'antecedente di tale concezione è indicato dall'Autore in Scheler (p. 88), come del resto anche in Husserl, il quale sembra tuttavia legittimare l'estensione dell'a priori a tutte le essenze (p. 94). L'insistenza husserliana sul fatto percettivo mostra -che il logicismo che si tenta di attribuirgli può essere facilmente contestato (p. 94-95), ma secondo l'Autore è anche indispensabile delimitare più rigorosamente l'a priori, evitando di estendere l' apriorità a tutte le essenze. Dufrenne si muove qui sul terreno di Merleau-Ponty. La percezione, egli dice, è " la source de toutes les aventures de l'esprit, aussi bien de toutes les découvertes de la pensée que detoutes les attitudes ou opérations de la conscience. Elle est plus qu'un mode particulier de l'intentionnalité, elle tient en puissance tous les modes"(p. 117-118). Alla base di questo ricorso alla percezione nel senso di Merleau-P·onty sta la preoccupazione di evitare il sospetto idea- 174 listico della operazione costitutiva del soggetto, il quale in realtà si limita ad elaborare il dato con processi di formalizzazione e di generalizzazione, che generano rispettivamente le scienze pure a priori e le scienze a posteriori (pp. 120-121). L'a priori può quindi essere definito costitutivo (costituant) indicando con ciò soltanto che esso è . presente nell'oggetto come il senso che lo abita (p. 126), senso che l'oggetto stesso esprime. E Dufrenne osserva: "L'a priori affectif - l'allégresse d'une fugue -imaginatif - la qualité d'enfance - et meme peut-etre intellectuel - l'unité, la necessité lorsqu'elle apparait impérieusement, bien qu'avant toute formalisation, comme qualité d'une chose ou d'un événement apparaissent comme des expressions de l'objet. Et ceci vérifie bien que l'a priori est d'abord perçu. Car la lecture de l'expression par le sentiment. est le plus haut moment de la perception, le moment où la perception se fait tout entière perception, où le sujet percevant se voue à son objet, devient en quelque sorte l'objet, du moins le vit jusqu'à s'aliéner en lui"(p. 133). Ci sembra di poter indicare l'origine di questa posizione in Paul Ricoeur, quando scrive che "le sentiment est la manifestation sentie d'une relation au monde plus profonde que celle de la représentation qui institue la polarité du sujet et de l'objet" (7). In entrambi i casi agisce il tema dell'opposizione tra sensibilità e ragione, così che in Ricoeur ci si volge ad una "filosofia del cuore" e in Dufrenne si giunge, come vedremo, alla contrapposizione tra filosofia e poesia. L'aspetto soggettivo dell'a priori è fondamentale in Kant. Ma contro Kant occorre osservare che l'a priori non appartiene alla soggettività come una regola di cui essa sarebbe depositaria: "Mais ce qu'ilfaut reconnaitre au sujet, c'est l'aptitude à comprendre l'a priori qui se propose à lui et qui, sitot donné, est reconnu"(p. 146). Tale attitudine implica pertanto una comprensione pre-data del dato; in altri termini, un accordo originario del soggetto e del mondo. Viene allora alla luce la problematica husserliana dell'innatismo e della genesi passiva (8), la quale porta gradualmente al 175 momento essenziale del processo, qui in atto, di personalizzazione del trascendentale: quello dell'incarnazione (cfr. cap. VII). Tale problema era mal posto da Descartes, per il quale è data preliminarmente la distinzione sul piano sostanzialistico dell'anima e del corpo: " Mais alors, il faut retrouver le corps dans la conscience, et non simplement le joindre à elle comme Descartes " (p. 165). D'altra parte il rapporto coscienza-corpo non è una identità: il monismo presuppone sempre il dualismo e viceversa. In questo senso deve essere intesa la seguente affermazione: " Je suis mon corps à condition de n'etre pas mon corps, puisque je dis je" (p.183). La corporeità ci porta nell'ambito .del concreto:." En découvrant l'unité de la conscience et du corps, nous vérifions d'abord que ce qui est, c'est le sujet et non la conscience " (p. 197). A questo punto l'Autore si trova di fronte al problema dell',intersoggettività (cap. IX: " Le su jet social" ). Egli lo sviluppa secondo un itinerario ormai tradizionale, aprentesi con la discussione dell'istanza solipsistica, e lo imposta nel senso di scoprire la "socialità" inerente alla natura del soggetto e non di dedurre la "Società" stessa, che è un fatto irriducibile (Sartre) (9). Occorre cioè indagare l'a priori dell'apertura verso gli altri, fondamento dell'a posteriori "società". Seguendo -Husserl, per il quale il problema dell'intersoggettività si presenta come condizione di possibilità dell'oggettività, l'Autore osserva: "l'universalité logique de l'a priori ou des jugements par lesquels je l'explicite suggère une universalité concrète, une société des sujets " (pp. 204-205). Questo "altro" richiesto dall'oggettività è naturalmente un altro possibile. Esistono tuttavia degli a priori dell'intersoggettività che non solo pongono l'esigenza dell'altro,. ma ne attestano la presenza. Siamo richiamati alla Fremderfahrung di Husserl; uno di tali a priori è infatti il riconoscimento dell'altro come alter ego e come "simile": "Si je reconconnais ainsi mon semblable, ce n'est pas en projetant sur lui une certaine idée que j'ai de lui: je le connais avant de me connaitre" (p.207) (10). Si giunge così alla scoperta 176 di un terreno comune, per il quale è possibile dire indifferentemente io o noi, oppure ancora, genericamente, "si" (on): "C'est pourquoi le "on" n'a pas nécessairement le caractère d'inauthenticité dont l'affecte Heidegger, il désigne l'homme que je suis et que nous sommes " (p. 208, n. l) (11). Del rapporto soggetto-società si può dire che io appartengo ad una società così come ho un corpo, ma anche che io sono la società così come sono il mio corpo: d'altra parte la società in quanto cultura è anche soggetto, o meglio quasi-soggetto, termine che l'Autore attribuisce al modo d'essere che si presenta come soggetto pur essendo in realtà un " conosciuto" e non un "conoscente" (p. 219). Allora la relazione individuo-società si presenta come tensione ambigua, per la quale non è possibile parlare di limitazione assoluta della società sull'individuo o viceversa. Infatti "le sujet n'est jamais totalement objet pour etre déterminé par la société-obiet" e d'altra parte " la société n'est jamais totalement sujet pour ètre de plain-pied avec le sujet individuel, et en, quelque sorte se substituer à lui" (p. 218). Siamo così introdotti alla parte conclusiva del volume: il duplice aspetto dell'a priori ci ha mostrato ad un tempo la dualità e l'unità del rapporto uomo-mondo. Il mondo deve pertanto essere concepito in riferimento all'uomo (dunque si potrà parlare di prossimità, di affinità), ma occorre evitare il rischio della soggettivazione. Si tratta in altre parole di una relazione intenzionale che pone da un lato il soggetto concreto,· dall'altro il mondo come orizzonte degli orizzonti e come terreno (p. 230), impostazione chiaramente husserliana (anche se non si fa qui esplicito riferimento ad Husserl) (12). Come del resto sono tesi ·fenomenologiche la particolarizzazione del mondo come "mondo della persona"(p. 234), la "pluralità dei mondi" che lascia aperta la possibilità di un unico mondo oggettivo, che l'Autore preferisce indicare con il termine "universo". "Dès lors le rapport des mondes à l'univers est bien le rapport du particulier à l'universel: le réel est inépuisable et les divers mondes sont des aspects divers du réel. 177 Aspects réels ou possibles? C'est le réel qui est la possibilité du possible. Mais peut-il y avoir deux vérités s'il n'y a qu'une réalité? Ou si chaque vérité n'est qu'une expression approchée du réel; il peut y avoir plusieurs explications simultanément parce que partiellement valables d'une mème réalité; mais c'est à condition qu'aucune ne revendique l'exclusivité: le soleil des astronomes n'est pas le soleil réel, et le soleil réel est à la fois la possibilité du soleil des astronomes e du soleil des poétes"(p. 143). Ora, aggiungiamo noi, il reale come possibilità del possibile non è la definizione dell'eidos husserliano? È significativo che l'Autore, pur avendo preso l'avvio dalla negazione della validità della ricerca eidetica per ritornare puramente alla Lebenswelt, abbia in essa ritrovato il carattere di fondamentale possibilità della realtà, cioè la sua struttura eidetica. Ma la mancata chiarificazione di tale aspetto fa sì che il termine verso cui cui si muove il Dufrenne si trovi decisamente al di fuori dell'ambito fenomenologico. Col porsi, nel modo che abbiamo veduto, la questione del fondamento a priori del trascendentale, egli si trova indotto ad abbandonare l'intenzionalità stessa; ma il suo abbandono diventa allora abbandono della filosofia. Se la filosofia vuol andare al di là del puro fatto ontico, se essa vuole comunicare l'esperienza di un fondamento radicale essa non può essere che poesia. Vengono in luce qui le conseguenze dell'entificazione, a nostro parere illegittima, del mondo della vita; l'unità soggetto-oggetto, invece di rappresentare l'elemento fungente da esplicitare, la condizione stessa del rapporto intenzionale, perde il proprio carattere di intenzionalità implicita per diventare terreno ontologioco nel quale il poeta, romanticamente ingenuo, si immerge (cfr. p. 286,: " avec l'ingenuité de l'innocence"). Allora la poesia non può che contrapporsi alla filosofia, alla quale viene attribuita una funzione esclusivamente concettualizzante: il risultato di tutto ciò è una concezione dell'esistenza poetica e di quella filosofica che lascia alquanto perplessi. Che può dire, infatti, la formula dell'unità soggetto-oggetto nell'esame concreto delle singole 178 opere di poesia? Ed in secondo luogo: non andrà perduto, in tale prospettiva, proprio il significato "metafisico", cioè di infinito chiarimento esistenziale, caratteristico del fare poetico come del fare filosofico? La dicotomia di fronte alla quale l'Autore viene a trovarsi è, giova ricordarlo, quella stessa· che poneva al giovane Hegel il problema di oltrepassare le astratte opposizioni intellettualistiche tramite un nuovo concetto di riflessione. Hegel indicava con ciò, indipendentemente dai risultati a cui pervenne, una via praticabile per sottrarsi al mito intellettualistico di una vita ingenua e di un pensare chiuso nella torre d'avorio della propria astrazione. È a .questo mito che ci sembra direttamente ricollegarsi il volume di Dufrenne, pur così ricco di interessi ed articolato in analisi il più delle volte pregevolissime. Note (l) Cfr., P. Ricoeur, Kant et Husserl, in " Kant-Studien ", Bd. 46(1954-55), Heft l, pp. 44-67. In proposito cfr. E. RENZI, Criticismo, fenomenologia e problema della relazione interpersonale secondo Ricoeur, in "Archivio di Filosofia", 1960, fasc. dedicato a Tempo e intenzionalità, pp. 89-97. (2) È precisa.mente al saggio Die phänomenologische Philosophie E. Husserls in der gegenwiirtigen Kritik in "Kant-Studien" Bd. 38 (1933). (3) Cfr. l'"Introduzione" della Phénoménologie de la perception e, inoltre,p. 61, n. l, e p. 419, n. l. · (4) Cfr. E. Paci, La fenomenologia come scienza del mondo della vita, in "Aut Aut", n. 56, marzo 1960, pp. 75. (5) Cfr. in particolare Krisis (Husserliana, Bd. VI, Den 179 Haag 1954) §§ 28-31. Husserl pone in luce l'ambiguità presente in Kant fra trascendentalee psicologico (ib. pp. 117, 29 seg): essa deriva dal legame che Kant mantiene ancora con la psicologia naturalistica del suo tempo (pp. 118 seg.), mancandogli una psicologia intenzionale. Ciò che Husserl richiede è una adeguata descrizione della vita psichica (Seele), non una distinzione tra soggettività trascendentale ed anima operando la quale "geraten wir in ein unverständlich Mythishes"(p. 120). Cfr. Paci, art. cit., p. 79. Cfr. inoltre Tran Duc Thao, Phénoménologie et matérialisme dialectique, Paris 1951, pp. 58 e 217. (6) Cfr. Q. Lauer, Phénoménologie de Husserl. Essai sur la genèse de l'intentionnalité, Paris 1955, p. 31. (7) P. Ricoeur, Le sentiment, nel vol. Edmund Husserl 18591959. La Haye l959, pp. 260-274 (8) Osserviamo di passaggio che le osservazioni che rimproverano ad Husserl una insufficiente impostazione del problema io-tempo (cfr. p. 154) non tengono conto della distinzione fondamentale tra Zeitlichkeit e Zeitigung. (9) Cfr. L'Etre et le Néant, trad. it. Del Bo, Milano 1958, p. 318. (10) L'origine di questa tesi è da cercare nel § 50 delle Meditazioni cartesiane, là dove si tratta della analogische Apperzeption (Husserliana, Bd. I, Den Haag 1950, pp. 138 sg., trad. it. F. Costa, Milano 1960, pp. 158 sg). Cfr.anche Merleau-Ponty, op. cit., p. 404. (11) Considerazione analoga in Sartre, op. cit., trad. it. cit., p. 355. (12) Cfr. G. Brand, Mondo, io e tempo, trad. it. E. Filippini, Milano 1960, §§ 3-4. 180 Omaggio a Husserl, a cura di Enzo Paci, Il Saggiatore, Milano 1960. Recensito in "Il Verri", Anno IV, agosto 1960. Nell'attuale reviviscenza di studi husserliani in Italia, questo Omaggio a Husserl si presenta con precisi spunti programmatici, enunciati da Enzo Paci nella sua Nota introduttiva. Rovesciando la prospettiva secondo la quale l'esistenzialismo viene considerato come esito della fenomenologia, si tratta di accertare se per caso l'esistenzialismo non sia un aspetto particolare della fenomenologia stessa, "un aspetto comunque che, per essere davvero compreso e valutato, deve essere ricondotto alle origini, e cioè al pensiero husserliano, o piuttosto, sarebbe meglio dire, ad una particolare interpretazione di una fase del pensiero husserliano" [p. 3]. Questo accertamento può portare anche alla liberazione di certi costanti pregiudizi, che vengono spesso presentati come critiche: infatti si continua ancora a parlare di platonismo, di idealismo, di illusione scientifica, di astrattezza della fenomenologia; o all'opposto di irrazionalismo, di acquiescenza positivistica al fatto, di vitalismo. Siamo di fronte a veri e propri impasses, dannosi sia per una adeguata valutazione storiografica di Husserl, sia per una possibile utilizzazione teoretica dei testi husserliani. I saggi contenuti nell'Omaggio, mostrando direttamente o indirettamente l'inconsistenza di questi pregiudizi e impegnandosi a fondo nel chiarimento di alcuni temi interni alla problematica fenomenologica, possono essere considerati indicativi dell'attuale livello degli studi di fenomenologia in Italia; ed al tempo stesso, per la loro interna coerenza, attestano in linea di massima un determinato atteggiamento nel confronti dei testi husserliani che può essere indicato nell'interesse verso quella tematica che Enzo Paci da qualche tempo propone in numerose pubblicazioni e sintetizza qui nel saggio Husserl sempre di nuovo (pp. 9-27), posto, per la sua specifica funzione introduttiva, in testa al volume. 181 Da quanto si è detto è da escludere, ovviamente, lo scritto di Antonio Banfi, La Fenomenologia e il compito del pensiero contemporaneo, comparso nel 1939 sul numero della "Revue internationale de philosophie" dedicato ad Husserl e qui ripubblicato. Si tratta di un saggio ,di carattere generale nel quale è colto il significato essenziale della fenomenologia e se ne dà una valutazione sostanzialmente positiva anche se si riconosce in essa la persistenza di residui dogmatici e metafisici. Per ovviare a questi il Banfi propone tre motivi da inserire nella fenomenologia : "Il primo sta nel riconoscimento del carattere dinamico dell'esperienza, della sua vivente, complessa e infinita tensione interiore. Il secondo è l'uso del metodo trascendentale come ricerca delle leggi costitutive ed evolutive dell'esperienza, come definizione dell'idea nel senso del principio determinante la vivente problematicità dell'esperienza stessa. Il terzo è infine la coscienza della natura dialettica del razionale, come la forza che risolve ogni determinazione intuitiva del concetto in un sempre più vasto sistema di relazioni, per un'infinita estensione, approfondimento, coordinamento dell'esperienza" [p. 44] . Ora, proprio in quanto oggi, ad una conoscenza più approfondita di Husserl, appare chiaro che questi motivi si trovano presenti nella fenomenologia, e pertanto le critiche, o come egli preferisce dire significativamente le " osservazioni " [p. 43], che ad essa rivolge vengono ad essere infondate, questo saggio può essere utilmente. riletto come indicante una direzione che " è sempre degna di essere presa in seria considerazione dalla critica fenomenologica" [E. Paci, Nota introduttiva]. Passiamo ora ad un'indicazione sommaria dei problemi affrontati di volta in volta dagli autori dei diversi scritti. Il saggio di Giuseppe Semerari La Filosofia come scienza rigorosa e la critica fenomenologica del dogmatismo che assume come tema specifico di 182 indagine l'articolo pubblicato da Husserl in " Logos" nel 1911, correggendo la comune interpretazione secondo la quale esso viene considerato come "opera di transizione tra due fasi ben distinte della fenomenologia", tende a mostrare come in realtà "tra la fase rappresentata dalle Logische Untersuchungen e l'altra inaugurata dalle Ideen non vi sono salti bruschi e improvvisi, ma lenta maturazione, cosicché lo scritto del 1911, quasi al confine tra le due fasi, riesce a illuminare abbastanza bene la struttura di fondo della fenomenologia e a fissarne soprattutto il suo più specifico senso programmatico" [p. 123] . Di particolare interesse ci sembrano le pagine che riguardano la ripresa di Husserl del programma kantiano e il significato di questa ripresa [p. 126 seg.]. Il limite dogmatico della cosa in sè e l'ambiguità delle idee della ragione sono eliminati ed assume una importanza determinante il problema del tempo affiorato in Kant nella teoria dello schematismo. I temi kantiani sono pertanto recuperati ed inverati tramite la relazione - posta in luce dalla fenomenologia - tra coscienza, tempo e idea. Questa relazione rivela anche l'antidogmatismo del concetto di scienza rigorosa e della fenomenologia in generale [p. 141]; ed a partire dai risultati della chiarificazione del problema della temporalità si presentano obiettabili le posizioni dell'analista del linguaggio e dello storicista. "Lo storicista al pari dell'analista e del naturalista in genere, spezza la linea immanente della intenzionalità temporale di coscienza, disconosce l'estrema problematicità che al presente e al passato viene dal loro essere diretti al futuro e questo spezzare è la conseguenza dell'oblio della "idea" per il pregiudizio del "fatto", è il risultato estremo del non vedere la sistematicità fenomenologica della connessione idea-co- 183 scienza-tempo. Da questo lato, la fenomenologia ci aiuta a capire come la più tragica contraddizione dello storicismo, della filosofia che eleva la storia, il divenire, il processo a 'filosofia, sia proprio il difetto di coscienza temporalistica" [p. 145]. Semerari conclude chiarendo, in base all'esame dell'ultima parte dello scritto in questione, quale sia la posizione di Husserl di fronte alla storia. Da una diversa prospettiva, anche Guido D. Neri, nel suo studio dal titolo La filosofia come ontologia universale e . le obiezioni del relativismo scettico in Husserl, si propone di esaminare il significato e le implicazioni di quello che fu il costante programma di Husserl : la fondazione della filosofia come scienza rigorosa. Guido Neri osserva che Husserl vuole giungere ad una scienza "definitiva" che tuttavia si realizzi in un processo " infinito" [p. 71]. Si tratta pertanto di comprendere il significato di questa distinzione; in effetti la scientificità e il rigore della ricerca fenomenologica non sono infirmati dal continuo superamento dei suoi risultati; ciò che rimane costante, in questo continuo mutare, è l'idea di scienza rigorosa come " idea di fine" [pp. 7172 e 78 n. 13]. Nel secondo paragrafo del saggio, che riguarda più propriamente la critica husserliana del relativismo storicistico e dello scetticismo, Neri mostra come Husserl non pretenda di sostituire ad altre, ad essa contrapposte, una determinata Weltanschauung : egli tende soltanto alla determinazione di quel mondo comune che è il terreno presupposto da ogni visione del mondo. "A nostro parere - scrive Guido D. Neri - è essenziale interpretare in questo senso il programma di Husserl, perché solo cosi si può salvare il significato delle sue ricerche fenomenologiche, e tutta la meravigliosa ricchezza di temi che essi pre- 184 sentano. Per chi invece insista a vedere nella "ontologia universale" la pretesa all'esaustione "attuale" del tutto, sarà facile accusare la fenomenologia di essersi arrestata molto prima della realizzazione del suo programma, o anche di essersi posta un programma irrealizzabile" [p. 77]. Il saggio di Guido Pedroli Realtà e prassi in Husserl è di utilissima lettura perché, prendendo in esame alcuni manoscritti inediti di Husserl che risalgono al periodo 1930-34, puntualizza, anche se solo in via preliminare, una tematica finora poco studiata; e lo è in particolare per coloro che rimproverano ad Husserl un sorpassato " atteggiamento speculativo". I testi che Guido Pedroli ha il merito di fare conoscere sono la' più aperta denuncia della non validità d'uso dello schema teoria-prassi in funzione critica. Il dualismo stesso è da Husserl abbandonato: egli parla infatti di "prassi della conoscenza", e lo può fare tramite l'acquisizione all'io, come soggetto di conoscenza, della corporeità [pp. 203-204]. Ciò significa che "la Weltanschauung filosofica non sarebbe punto di partenza per la ricostruzione della totalità del sapere secondo nuovi schemi concettuali (le ontologie regionali), ma un diverso atteggiamento verso la realtà, la esigenza sempre rinnovantesi e mai completamente soddisfatta di risolvere il dato fattuale in una molteplicità di rapporti possibili" [p. 203]. Raffaele Pucci (Fenomenologia e psicologia), prendendo l'avvio dalla critica di Husserl allo psicologismo, giunge alla posizione del problema etico della persona, che dell'intero suo saggio costituisce il punto di convergenza. Viene confermato qui ciò che per altra via aveva chiaramente indicato Pedroli, nello scritto di cui or ora si è parlato. 185 "Pertanto si commette una grave ingiustizia nel confronti della fenomenologia allorché si insiste nel considerarla solo come una raffinata arte districatoria di strutture intenzionali, la cui fonte resterebbe unicamente la "coscienza pura". Al contrario: la fenomenologia si rivolge anche, anzi soprattutto, all'uomo integrale . E per integralità essa intende l'essere umano preso in tutto il suo contesto "affettivo" e "sociale" e non solamente nella sua dimensione interna" [p. 253]. , La stessa epochè che può sembrare puro mezzo di indagine è invece anzitutto una presa di posizione sul piano etico : "il regime costante dell'epochè provvede infatti ad una nuova, valutazione del senso della vita, ad un nuovo, libero, responsabile impegno nel nostro "mondo", ad un nuovo entusiasmo spirituale, a un ri-trovamento di se stessi" [p. 253]. Ed a livello intersoggettivo, lo scopo fondamentale della fenomenologia è, secondo l'espressione di Pucci, "extrafilosofico" [p. 256]. Il saggio di Sofia Vanni Rovighi Una fonte remota della teoria husserliana dell'intenzionalità si muove essenzialmente sul piano storiografico ponendo in rilievo, in base ad una ampia documentazione, nelle ricerche di Pietro Aureolo un " Interesse prevalentemente fenomenologico".. Tuttavia è appena accennato un determinato modo di intendere la fenomenologia al quale non mi sembra si possa consentire. Come in Aureolo, anche in Husserl la descrizione fenomenologica lascerebbe in sospeso la determinazione della struttura ontologica della cosa [p. 62]. La fenomenologia si presenta come invito alla "prudenza" nella ricerca; la sua funzione sarebbe allora puramente metodologica. A noi sembra invece che l'astensione dal decidere qualcosa intorno alla struttura antologica della cosa non sia un mero criterio 186 prudenziale, ma implichi una presa di posizione ben precisa che porta alla liquidazione del problema ontologico come tale: a comprovare ciò ci sembra sufficiente il noto § 43 di Ideen I. Il documentatissimo saggio di Enzo Melandri I paradossi dell'inflnito nell'orizzonte fenomenologico è di fondamentale importanza perché, assumendo per tema il problema del rapporto finito-infinito, mostra come proprio esso, nella .sua formulazione in Cantor, Bolzano, Weierstrass, Brentano, stia l'origine prima della fenomenologia. Per questo occorre risalire alla Philosophie der Arithmetik, dove i futuri sviluppi del pensiero husserliano sono già in germe, soprattutto nel concetto di "momento figurale": "La portata rivoluzionaria della scoperta, dei momenti figurali, se da un lato rende inagevole Il programma iniziale, rompe in compenso a un paesaggio speculativo completamente nuovo. Ogni finito si presenta qui come circondato da un orizzonte infinito, che per la prima volta si emancipa dalla sua tradizionale "anonimità" di presupposto inconsaputo. Tematizzando proprio questo momento oscuramente implicito in ogni datità, Husserl lo sottrae all'ambiguità creando con ciò le condizioni per valutarne la funzione e la portata operativa" [p. 98]. Il passo ulteriore da compiere riguarda l'evidenza : Husserl ammette la correlatività della evidenza a diversi modi di datità, ragione per cui può esistere evidenza di ciò che per 'sua essenza non può darsi adeguatamente. Con ciò si è indicata la via husserliana per superare i paradossi dell'infinito, che nascono dal misconoscimento dell' essenziale inadeguatezza del suo modo di datità, ed è adombrata al tempo stesso la futura tematica caratteristicamente fenomenologica. Fin d'ora si precisa l'atteggiamento antimetafisico della fenomenologia: 187 "Il fatto che l'infinito sia dato solo in potenza, e cioè in un modo di necessità sempre inadeguato, lo costituisce a oggetto tutto particolare. Vi si 'coniugano i motivi del sublime; il path­os della lontananza, il sentimento di insoddisfazione o di struggimento: tutti motivi che ineriscono naturalmente a ogni esperienza inattuale senza con ciò assumere uno speciale significato, ma che in una data accezione cospirano nel senso di creare l'illusione come di un messaggio. Si creano in tal modo le condizioni per ogni tema specificamente teologico" [p. 103]. La radicalità dell'atteggiamento husserliano - spesso paradossalmente frainteso- è posta qui chiaramente in luce tanto' più per il fatto che si dà una spiegazione genetica dell'illusione teologica. La complessità del problema dell'intersoggettività in Husserl è ben nota; ed è anche riconosciuta la sua importanza, non soltanto perché proprio a partire da essa si sono venuti elaborando scritti teorici di grande interesse, ma anche in quanto la tematica qui posta da Husserl ha in sé una ricchezza lontana dall'essere esaurita. Giustamente Enrico Filippini, al , termine del suo saggio dal titolo Ego ed alter-ego nella Krisls di Husserl indica come compito aperto la descrizione fenomenologica delle strutture che vengono alla luce nell'analisi di questo problema, come la famiglia, il popolo, la comunità popolare, ecc. Il saggio di Enrico Filippini, esaminando i diversi modi secondo cui Husserl ripropone a se stesso il problema dell'intersoggettività nella Krisis, mostra il suo necessario collegamento con quello della Zeitigung e della " storicità trascendentale", aspetto che nelle Cartesianische Meditationen era rimasto in ombra. Leo Lugarini, nel saggio La fondazione trascendentale della logica in Husserl, si propone di esaminare, con il "preciso intento di preliminare chiarificazione metodologica", i presupposti di base assunti da Husserl per questo problema. A tal fine egli si serve in' particolare di Formale und transzendentale Logik considerata come 188 introduzione al programma che Husserl concretamente svolge in Erfahrung und Urteil. Il saggio si articola in quattro paragrafi: I. Perché la logica sia da fondare; II. Il metodo di fondazione; III. La fondazione come critica radicale dell'evidenza; IV. La trascendentalità della fondazione. Viene quindi anzitutto esaminata la critica husserliana della logica formale e il significato della accusa di "mondanità" ad essa rivolta. In questa accusa è coinvolta la filosofia che da essa prende gli inizi e su di essa si fonda. Ciò che accomuna filosofia e logica formale è la mancata messa in questione del loro presupposto di fondo : la Vorgegebenheit del mondo. Osserva Lugarini: "Nel suo presente rifiorire, la logica formale è d'altronde utilizzata anche per dichiarare il non senso della filosofia in quanto disciplina autonoma: husserlianamente i motivi ne sono da cercare nel fatto che pure gli odierni sistemi di logica formale rivestono quel carattere mondano e che esso contrassegna parimenti l'idea della filosofia impugnatane, cioè l'idea della filosofia come " metafisica ", dottrina mondana dell'essere. Anziché valida liquidazione della filosofia stessa, come tale, ciò è indizio ulteriore della necessità di " superare " la logica formale - e, non meno, l'idea corrispondente della filosofia" [p. 172]. La messa in questione della predatità del mondo significa fondare la stessa logica formale: ed in ciò consiste il suo " superamento " che non è dunque sua negazione. Leo Lugarini insiste giustamente nel rilevare la dialetticità di questo metodo di fondazione "... ove per "dialettica" si intenda non un più o meno artificioso ed estrinseco meccanismo di tesi, antitesi e sintesi, bensì un procedimento negativo-conservativo o meglio negativo-positivo: positivo di ciò stesso che per altro verso ne viene negato" [p. 175]. 189 La riduzione trascendentale, negativa e conservativa, si presenta quindi come una forma di Aufhebung in senso hegeliano [p. 175 e in particolare pp. 191-192 n. 9-10 ]. Il compito di fondazione si precisa come richiamo alla "evidenza della chiarezza " e quindi alla Selbstgebung: "Cosi la Begründung della logica entra nella sua fase risolutiva e manifesta il suo tipico carattere trascendentale. Al presente livello la trascendentalità della fondazione sta qui : nel lumeggiare che la evidenza di base del giudizio è sì il darsi delle cose stesse, ma che la Selbstgebung si radica nell'operatività propria della vita cosciente, e nel mostrare la concreta e originaria costituzione delle forme logiche per opera della coscienza, a partire da tale, antepredicativa esperienza di base" [p. 183]. Conclude il volume il saggio di Giorgio Guzzoni : Di una posizione " storicamente " positiva rispetto alla fenomenologia di Husserl: esso è espressione del " clima culturale " di certa parte della filosofia contemporanea tedesca, che - come è noto - ha profondamente sentito l'influenza heideggeriana. La prospettiva dalla quale si cerca di mettere a fuoco la fenomenologia si fonda sul presupposto, proprio del pensiero di Eugen Fink, che ogni filosofia si costituisca in base alla differenziazione, all'interno di un'epoca, del tema generalissimo "mondo - essere - verità". Di qui dipende l'affermazione (che ci permettiamo di indicare come dubbia) : " La filosofia in ogni sua forma possibile resta necessariamente anch'essa un'apparizione determinata dal genio di un secolo " [p. 274]. A partire da questo presupposto si cerca di enucleare i concetti di base sui quali si è venuta a formare la fenomenologia, mostrando come a loro volta questi richiedano " per supporto l 'insieme dei concetti basilari che decidono di volta in volta del modo in cui essere, mondo, verità si presentano all'uomo" [p. 190 275]. A questo punto si pone il problema del rapporto fenomenologia e speculazione in quanto: "Quel modo della filosofia che mette a disposizione della fenomenologia i presupposti delle sue indagini, sottoponendole i concetti base su cui e con cui operare, e delimitandole così il campo di ricerca, porta il titolo di speculazione" [p. 275]. Si legga a questo proposito il saggio di Fink L'analyse intentionelle et le problème de la pensée spéculative (in "Problèmes actuels de la Phénoménologie", Paris 1952, pp. 54-87): "Il pensiero della filosofia è essenzialmente speculativo. Forse non esprimo solo un'opinione soggettiva se dico che il futuro della fenomenologia dipende dal fatto che si riesca a portare l'analitica intenzionale in una effettiva relazione con il pensare autentico ed a produrre un reale incontro con esso in luogo dell'atteggiamento antispeculativo. Ciò non significa tuttavia soltanto un avvicinamento alla tradizione metafisica, ma più ancora una decisa ripresa del problema dell'essere" [p. 84]. La seconda parte del saggio del Guzzoni riguarda appunto il tentativo "di esporre il fenomeno della speculazione stessa, e precisamente rispetto al modo in cui esso appare far parte della problematica della posizione filosofica di Fink" [p. 275]; ed in particolare, la critica di Fink alla metafisica e la posizione, su nuove basi, del problema dell'essere. Una discussione sulla legittimità di tale impostazione in questa sede è, evidentemente, fuori luogo; ci basti rilevare che la lettura di questo saggio, dopo i precedenti, pone in evidenza rispetto ad essi, una radicale differenza di "stile" - che qui significa modo di fare della filosofia - sulla quale val la pena di riflettere. 191 H. Zeltner, Das Ich und die Anderen. In "Zeitschrift für philosophische Forschung", 1959, n. 2. Nota pubblicata in "Aut Aut", n. 54, 1959 con il titolo "Sul problema dell'intersoggettività". · Hermann Zeltner in un saggio dal titolo Das Ich und die Anderen. Husserls Beitrag zur Grundlegung der Sozialphilosophie, pubblicato nel numero 2, 1959, interamente dedicato a Husserl di Zeitschrift fiir philosophische Forschung (pp. 288-315) riprende il problema dell'intersoggettività in Husserl ricollegandosi ad un articolo di Alfred Schütz (Das Problem der transzendentalen Intersubjektivität bei Husserl, in Philosophische Rundschau 5, pp. 81-107, Tübingen, 1957) col quale si pone in polemica soltanto implicita, augurandosi che questa possa dare luogo a indagini e discussioni future. Di qui la natura di problema aperto dell'articolo, che tuttavia procede secondo una direzione precisa e giunge a conclusioni chiaramente determinate se pur non sempre facilmente accettabili. Zeltner si propone di indicare i risultati delle ricerche husserliane in questo campo, di studiarne il significato, e di discuterne i limiti. I primi paragrafi sono perciò descrittivi mentre gli ultimi hanno intento critico. La prima parte, critico-espositiva, procede secondo le seguenti linee. Il problema viene introdotto dall'esame dell'uso fenomenologico dell'epochè, che porta alla messa in parentesi non soltanto dell'atteggiamento naturale, ma anche di ogni senso di "comunità" che ad esso è inevitabilmente collegato (p. 290). Con ciò è raggiunta la sfera trascendentale nella quale opera le fenomenologia: il significato delle ricerche di Husserl in questo campo risiede proprio nel fatto che egli ha tentato di spiegare con il metodo da lui sviluppato dell'analisi trascendental-fenomenologica l'esperienza che io .compio dell'altro. "Appare quindi indicato con ciò il compito di seguire le diverse vie per le quali egli ha cercato di avvicinarsi a questo scopo" (p. 291). L'esame vero e proprio del problema dell'intersoggettività in Husserl comincia a questo punto. Facendo riferimento agli ultimi paragrafi di Ide- 192 a questo punto. Facendo riferimento agli ultimi paragrafi di Ideen I Zeltner studia il sorgere del problema dell'intersoggettività in sede costitutiva. La costituzione della cosa avviene per gradi, uno dei quali, immediatamente sovrastante al grado della costituzione semplicemente percettiva della cosa, implica l'intersoggettività (Die Intersubjektivität der Dingwahrnehmung, pp. 292-3 ). D'altra parte il concetto di mondo come "ultimo orizzonte di un'esperienza possibile" (p. 293) pone il problema della natura di questa esperienza e rimanda all'intersoggettività. In entrambi i casi viene posta chiaramente in luce la correlazione intrinseca tra oggettività e intersoggettivtà e quindi la natura caratteristicamente epistemologica del problema del rapporto io-altro come viene posto in Husserl. Tuttavia, nota Zeltner, "né dall'analisi della .percezione di cosa né dalla costituzione del concetto di mondo si può acquistare immediatamente una posizione dalla quale la comunità trascendentale umana possa essere fondata. Entrambe sono notevoli come rimandi dell'intersoggettività che opera in esse, però non sono proprio nulla più che questo" (p. 294). Infatti per una fondazione concreta dell'intersoggettività Husserl non poteva che iniziare l'analisi fenomenologica a partire dalle strutture intenzionali dell'io trascendentale inteso solipsisticamente. È questa la via seguita da Husserl nella Quinta delle sue Cartesianische Meditationen che Zeltner rintraccia nei diversi momenti del suo svolgersi: riduzione alla sfera di appartenenza ed epoché dell'estraneità; individuazione della "natura", all'interno del "mondo proprio", come Leib, incarnazione dell'ego trascendentale come unità psico-fisica; la datità "appresentativa" dell'estraneo e la costituzione del Körper appresentato come Leib, sino alla posizione di un "noi trascendentale" e di una sfera di appartenenza ad esso relativa. A proposito di quest'ultimo punto Zeltner nota che per Husserl "ha una certa importanza per questa comunità il fatto che la sua intenzionalità comune si obbiettivi in un mondo. unico, medesimo e · in questo senso 193 oggettivo. È in certo modo una garanzia per la.comunità del noi trascendentale il fatto che essa divenga oggettiva nella identità di questo unico mondo " (p. 300). Proprio questo concetto di modo oggettivo identico come correlato intenzionale del noi "trascendentale" sarà quello su cui volgeranno le critiche del Zeltner. Al termine del § 4, Zeltner pone la giusta osservazione che "Husserl non ha pensato, per così dire, all'ipostatizzazione di un soggetto superindividuale. Il parlare di un "noi trascendentale e della sfera di appartenenza ad esso associata è piuttosto soltanto il tentativo di descrivere ancora più esattamente la messa in comune delle intenzionalità, partendo dalla base acquisita attraverso la costituzione della sfera di appartenenza" (p. 300). Con ciò, si può aggiungere, è eliminato ogni possibile equivoco accostamento tra "noi trascendentale" e Io trascendentale di tipo idealistico. Sin qui l'esposizione di Zeltner è chiara e persuasiva. Meno convincente appare forse il paragrafo 5, dove egli si propone di mettere in evidenza quelle che ritiene premesse psicologiche e ontologiche della dottrina husserliana. In particolare sembra non del tutto dimostrata· la sua interpretazione della Paarung in chiave psicologica, cioè nel senso che Husserl diverrebbe con ·essa implicitamente un "sostenitore di un rinnovato psicoparallelismo" (pp. 301-2). Con la trattazione della intersoggettività come comunità storica, concernente gli sviluppi dati intorno a questo tema nella Krisis si conclude la parte espositiva dell'articolo e si inizia la discussione intorno al valore ed ai limiti delle tesi esposte. Zeltner richiede anzitutto un "riordinamento critico delle esigenze portate alla luce da Husserl, in una più vasta connessione"(p. 308), in quanto il non chiarito rapporto tra i due momenti della astrazione e della concrezione porta ad una ambigua relazione di reciproca implicazione tra sfera di appartenenza e sfera dell'intersoggettività, l'una frutto del processo astrattivo, l'altra obbiettivazione della sfera di appartenenza stessa in un mondo oggettivo-intersoggettivo. Si tratterebbe .di una situazio- 194 ne aporetica in quanto la presupposizione di una realtà comune del mondo, che dovrebbe essere risultato del processo di concrezione, condiziona invece l'applicazione del metodo astrattivo. "Ciò che conferisce il mordente suo. proprio a tutta la maniera di argomentare di Husserl - scrive Zeltner - sono però in ultima analisi alcuni presupposti metafisici sottintesi. Egli crede di fornire una descrizione e in definitiva una deduzione trascendentale di questi fenomeni mentre·presuppone non solo le tesi psicologiche e metafisiche già escluse, ma in particolare vi aggiunge quella che ogni comunità umana sarebbe essenzialmente determinata attraverso la fede comune in una unica realtà del mondo - e così egli interpreta questa realtà del mondo soprattutto nel senso di un'oggettività intesa in modo naturalistico-scientifico" (p. 311). Questa affermazione ci sembra particolarmente discutibile: che Husserl parli di un·mondo oggettivo-intersoggettivo con un solo spazio ed un solo tempo è certo: ma non si tratta di un'oggettività unilaterale, tanto da escludere ed anzi contrapporsi alla molteplicità dei modi possibili di comprendere il mondo secondo intenzionalità diverse da quella specificamente scientifica. Per questo non pare del tutto legittimo contrapporre alla concezione di una "spazialità oggettiva valevole in egual maniera per ciascuno" (p. 310), la heideggeriana "spazialità del Dasein", determinata a partire dall'ente intramondano di cui ci si prende cura; il che porta, per Heidegger, alla subordinazione del significato del rapporto spaziale alle modalità del "prendersi cura" del Dasein stesso. Da questo punto di vista è esatta l'osservazione di Zeltner secondo la quale: " Poiché la spazialità di un rapporto amoroso non è una Chambre séparée nello spazio universale di un "mondo per ciascuno", l'intenzionalità da cui scaturisce quella spazialità è fondamentalmente di altro tipo" (p. 311). Tuttavia non siamo qui di fronte ad un'opposizione irriducibile: la spazialità propria degli amanti può essere oggetto di indagine fenomenologica in riferimento ad una intenzionalità di tipo particolare. Si dovrà poi inserire questo tipo di spazialità nell'ambito della 195 più generale spazialità oggettivo-intersoggettiva, inserimento che è condizione di comprensibilità non dogmaticamente posta, ma inerente alle strutture intenzionali dell'ego assunto solipsisticamente. Non si vede pertanto in che cosa consista il sottostrato presupposto della dottrina husserliana, né tanto meno ci sembra si possa parlare di una caduta in una oggettività intesa secondo i moduli scientifico-naturalistici. Un'ulteriore critica di Zeltner, connessa con la già notata ambiguità del rapporto astrazione-concrezione, rintraccia in Husserl una disposizione reciproca delle strutture della Welt­ konstitution e della Fremderfahrung (p. 311) mentre la seconda struttura dovrebbe essere indipendente dalla prima. Il rapporto di intreccio (Verschränkung) tra queste strutture vanificherebbe, secondo Zeltner, una fondazione concreta dell'intersog­gettività. Come si è visto, Zeltner ha fatto esplicito riferimento ad Heidegger nella critica del concetto di spazialità comune in Husserl (p. 310); in effetti le prospettive heideggeriane influenzano in modo determinante anche i due paragrafi conclusivi dell'articolo; infatti la postulazione di una dialettica "Fremdheit-Vertrautheit viene ad essere un vero e proprio esistenziale" (existential, secondo l'accezione heideggeriana), mentre la Fremdheit è soltanto il contenuto di esperienza della Fremderfahrung, individuato tramite la riduzione alla sfera di appartenenza. L'articolo si conclude con l'obiezione a Husserl di non aver considerato un fattore di primaria importanza in una trattazione del problema dell'intersoggettività: il linguaggio e la problematica ad esso connessa: "È evidente - scrive Zeltner - che Husserl non si è mai posto propriamente questa problematica. Egli non -sa nulla del carattere di vincolo del linguaggio anche nel suo esplicito pensiero filosofico; egli respinge la sua guida e sembra conoscere soltanto le deviazioni a cui il linguaggio conduce" (p. 315). Anche questo rilievo rimanda però sostanzialmente alla concezione heideggeriana del linguaggio come fenomeno avente le sue radici nella costituzione esistenziale dell'apertura del Dasein. Giovanni Piana Stralci di vita 2012 3 In copertina G. P. : "Il mio ultimo viaggio solitario in un raggio di sole" Pietrabianca, marzo 2012 Questo testo è reperibile presso l'editore Lulu all'indirizzo: www.lulu.com Si rammenti che per avere il corretto appaiamento delle pagine nel caso del formato Pdf, la pagina di numero dispari si deve trovare sempre a destra. Di conseguenza in Acroread la modalità di visualizzazione deve essere "2 su 1", "Mostra spazi tra le pagine" e"Mostra copertina durante la visualizzazione 2 su 1" (Menu Vista) In queste condizioni viene corretta anche la stampa fronte-retro. 4 Indice Presentazione, p. 7 I. Lettere, p. 11 1956-1958, p. 13 1959, p. 33 1960, p. 49 1961, p. 63 1962, p. 137 II. Immagini, p. 175 5 6 Presentazione In un dimenticato cassetto di un armadio della nostra casa vi è sempre stata una borsa di plastica che conteneva alla rinfusa lettere risalenti all'incirca agli anni 1957-1963. Mia moglie Marina ed io ci riproponevamo, prima o poi, di rileggerle rapidamente e poi di bruciarle come ricordi di un passato lontano che non ha senso "lasciare ai posteri", per il fatto che per loro essi sono del tutto privi di interesse. Quelle lettere contenevano infatti soprattutto il racconto dei nostri amori - ma anche, nello stesso tempo, dei nostri primi approcci alla vita adulta, delle avventure e delle inquietudini di quell'età difficile. Volevamo, Marina ed io, dare insieme un'ultima occhiata alla nostra gioventù, alle persone che la avevano in certo senso popolata ed arricchita, per prendere da quel periodo definitivamente congedo. Prima che questo progetto potesse realizzarsi, io sono rimasto drammaticamente solo. Ed il mio primo pensiero fu quello di prendere quella borsa di plastica, senza nemmeno aprirla, e di consegnarla alle fiamme che bruciano ogni ricordo. Invece è accaduto qualcosa della quale, per quel che sapevo di me stesso, provai una profonda meraviglia. Io sono sempre stato volto al futuro, la mia memoria è scarsa, sono un pessimo fisionomista, per non dire della capacità di datare le stesse vicende della mia vita. Ed invece proprio il silenzio abissale da cui mi sono sentito circondato dentro e fuori di me, mi ha violentemente rigettato sul passato. Mi sono talvolta chiesto se la ragione che spinge le persone anziane a continuare a raccontare i fatti più o meno significativi della loro gioventù e che le rende spesso tanto noiose da richiedere da parte dell'ascoltatore, per così dire, una pazienza "di rispetto", fosse niente altro che il restringimento dell'orizzonte temporale, di un futuro che non è un futuro autentico perché toglie ogni autentica progettualità. Chissà, forse in parte è questo il motivo del fatto che mi sono alla fine deciso ad aprire la borsa dei ricordi! E tuttavia non appena diedi avvio alla rilettura, mi andavo rendendo conto di molte altre cose, 7 che mi sembra, anche se non ne sono del tutto sicuro, possano giustificare il fatto che non mi sono limitato a rileggere, ma ho cominciato, a "stralciare" da queste lettere quei pezzi di vita che esse lasciavano non tanto vedere, quanto intravvedere - a ricopiare dunque, assai raramente una lettera intera, ma questa o quella frase o successioni di frasi, contrassegnando questi stralci con una data leggibile all'interno della lettera o sulla busta quando c'era. In tutto questo non vi era in realtà all'inizio alcun preciso proposito: soprattutto mi resi conto che questo sguardo retrospettivo realizzato non astrattamente, ma con le voci che balzavano ancora vive da quelle pagine scritte aveva anzitutto per me un effetto di rasserenamento di cui avevo un bisogno estremo. Eppure l'intento a conservare qualche traccia di ciò che andavo leggendo tradiva evidentemente un intento ad una comunicazione possibile. Questo lavoro di ritaglio non lo facevo soltanto per me! Nel realizzarlo al centro dei miei pensieri vi era Marina, la donna che non solo è stata mia compagna, ma anche sostegno e protezione - che mi ha consentito di realizzare i miei progetti nella tranquillità di cui essi avevano bisogno, e che a sua volta si era realizzata con i suoi progetti, con la sua attività personale e politica, con il suo innovatore entusiasmo ambientalista, con la sua espansiva vita sociale che io condividevo con grande simpatia, ma solo alla lontana. Dallo scambio di lettere nei primi passi dei nostri rapporti, più di tutto questo si avvertono le inquietudini di due giovani spaesati che cercano una strada - le si avvertono con una vivacità per me inattesa, tanto vicine, tanto immediate da generare una pace interiore che riusciva ad averla vinta, almeno a tratti, sull'abissalità del silenzio. Ma altrettanto vivaci mi sono sembrate le voci degli altri che in un modo o nell'altro si inserivano nei nostri dialoghi d'amore. Questi rappresentano in certo senso il filo conduttore della storia: ma quante altre storie, quante altre fisionomie si affacciano intorno a quel filo! Proprio per questo l'idea degli "stralci" cominciò allora a sembrarmi sempre meno privata, sempre più comunicabile. E per un motivo opposto a quello che queste stesse mie parole fin qui hanno indotto a sospettare. La vivacità e la vicinanza del ricordo fa pensare ad una sorta di 8 ritorno al reale, di regresso a ciò che è realmente stato; quindi ad una sorta di realismo. Invece quel che più mi colpiva è che il ricordo si trasformava in una specie di racconto ed ogni stralcio di lettera perdeva quasi completamente lo scopo di documentare qualcosa - sia per il fatto che in esso i fatti erano realmente minimi, sia per effetto della frammentazione e della frantumazione che emarginava ancor più quei fatti, dando invece spazio a nodi di emotività, profili psicologici appena delineati, pensieri o riflessioni elaborati all'istante. Le vicende personali come tali perdevano così d'importanza, ed il racconto intravisto assumeva i tratti di qualcosa che apparteneva, sia pure in maniera fortemente ambigua, all'immaginario. Cosicché sarei tentato di mettere in calce a questo scritto, come talvolta si usava soprattutto nelle produzioni cinematografiche, l'avvertimento che ogni riferimento che sembra rimandare a persone reali è puramente apparente e del tutto casuale. Ciò non è vero, naturalmente: eppure, se assumiamo questo punto di vista, le persone reali, che vengono qui indicate con il loro proprio nome e cognome - molte delle quali già note in quei tempi lontani, molte destinate a diventarlo - assumono il carattere di "personaggi" e come tali finiscono con il condividere alcune fortunate proprietà dei personaggi di un romanzo o di un pezzo di teatro. Essi appartengono e non appartengono al tempo, e balzano dallo scritto che li pone in essere come sempre vivi di fronte a te - non sono mai morti e mai sono stati sepolti, né mai lo saranno. In essi il lettore può forse anche riconoscere qualche tratto di se stesso, oppure, nonostante la varietà e l'individualità assoluta delle vicende reali che accadono a ciascuno di noi, qualcosa che assomiglia ad esse. Ciò da cui sono stato colpito, in questa revisione, in cui, lo confesso, ho sforbiciato le lettere nostre e altrui con assoluta libertà - senza naturalmente togliere o aggiungere una virgola ai passi che ho ritenuto potessero essere "salvati" - è il fatto che basta una frase soltanto a rendere un carattere, un'atmosfera, una sfumatura psicologica, un atteggiamento. Una frase è come un gesto che "fa vedere" la persona talvolta con una vivezza e completezza davvero sorprendente. Lo stesso può valere per le fotografie - anche quando esse non hanno intenti d'arte e nemmeno si pongono particolari problemi espressivi. Di qui l'inserimento di immagini fotografiche intanto nella pri9 ma parte di questo volumetto, in cui vi sono soprattutto "Lettere". Quando mi è stato possibile ho proposto in essa fotografie di persone effettivamente menzionate nella narrazione - ma come un suo arricchimento, e mai come un documento in più. Tutta la prima parte è poi attraversato da "particolari" di dipinti di Chagall. Certo, il mondo russo-ebraico di Chagall non poteva che essere fattualmente molto lontano da noi, eppure quanto in quegli anni ci è stato vicino! La seconda parte ("Immagini"), è stata intesa come tutta fatta di figure che riescano a dare un poco di seguito alla storia che nella prima si parte si chiude, come è giusto che sia per le favole, con il matrimonio degli innamorati. Ma questo finale mi è sembrato avesse bisogno di un'integrazione. Ho pensato dunque ad una scelta soprattutto di immagini fotografiche, con qualche annotazione aggiuntiva. A differenza della prima parte la componente del "documento" è forse più presente - eppure sono convinto che anche in questa seconda parte lo "stralcio di vita" finisca per avere il sopravvento e faccia così regredire sullo sfondo il particolare biografico. L'immagine diventa forse capace di aggiungere ad esso quel momento espressivo che non appartiene più al "documento", ma vorrei quasi dire, al "sentimento". Per la maggiore parte delle persone una fotografia documenta qualcosa - un battesimo, un matrimonio, un nipotino che gioca… Questo aspetto non è assente dalle fotografie contenute nella seconda parte di questo libretto, ma io vorrei che esse fossero viste secondo quell'altra angolatura - come uno stralcio di vita in cui in un volto intravvediamo un tratto significativo del carattere, in un albero una traccia della natura intera. Debbo ancora aggiungere che gli anni di cui si tratta nella prima parte non vanno oltre quelli dei miei studi universatari. Quando conobbi Marina, ella aveva venti anni ed io diciassette. Generoso lettore, ti debbo dare proprio questo appellativo, perché ci vuole generosità nello sfogliare questo libretto - ed io te la chiedo. Giovanni Piana Pietrabianca di Sangineto 5 giugno 2012 10 I Lettere 11 12 1956 -1958 13 [2012] Ecco i miei foglietti innamorati, scritti qui e là nel corso dell'autunno/inverno 1957-1958, tentando di fissare istanti insieme vissuti e nello stesso tempo di renderli incomparabili. Ma questo può riuscire solo ai grandi poeti. Io non sono nemmeno un poeta e queste non sono e non vogliono essere poesie. Ma appunto "foglietti innamorati" - foglietti che tutti gli innamorati scrivono o sono tentati di scrivere. I rumori erano ormai lontani. Ma a tendere bene l'orecchio il suono acuto del violino dell'orchestrina da ballo giungeva fino nella strada buia. Trasognato e lento è il volgere del suo capo verso di me, in un tempo sospeso. Ma io non ho avuto il coraggio di un bacio, che si è volto in un sorriso, come un pianto. Ti dissi: vedi, ora comincia a piovigginare, non si può correre a sognare al Mulino Vecchio. Ascolteremo invece al chiuso un po' di musica. Fu danzando piano quella musica sommessa che sentii per la prima volta il tuo abbraccio e commosso ti dissi ci non lasciarmi più solo. Per la prima volta sentii su di me amore di donna. Faceva freddo quando uscimmo, ma non pioveva più. Il vento trascinava via le nubi e faceva veleggiare i nostri impermeabili: era un rendere più grande la nostra felicità di ragazzi innamorati. Ora ci siamo accorti che è autunno ed io desidero vederti: prima c'erano le giornate terse di settembre ed in riva al Po già seccavano gli arbusti. Ma non c'era l'estate che moriva. Oggi ti attendo. Non tardare. Nel vedermi sorridi; così il primo autunno si vince, e le chiazze d'acqua sull'asfalto, e la gente della città che cammina, e questo cielo buio; e lo sfaldarsi di una stagione, e il lento morire. Un velo di nebbia è il tempo futuro. Per questo ella ha pianto. È venuta la sera e siamo dimentichi dell'ora che passa: la cullo fra le mie braccia ed ella sorride: e mi chiede perdono. Ma non si deve chiedere perdono di un pianto. 14 Voglio che giunga quel tempo che sia svanire di ricordi: allora potresti dormire sulla mia spalla, Marina. Ancora sole, sole per noi. Tu siedi sulle pietre dell'argine, e poi i tuoi occhi si fanno seri e so che non vedi l'altra riva, ma un'ombra ti ha sfiorato. Che cosa sia tu non dici, e mi ti rannicchi accanto. Ella pensa che dopo i Santi me ne andrò e tutto potrà essere finito. Ella non sa che posseggo un segreto. Marina mia, ora che Natale è vicino, ti offrirò fiori di neve da porre nei tuoi capelli bruni: stille di luce, sorrisi del mio cuore. Una volta a Natale pregavo, ma anche ora sono felice, ed è gioia d'infanzia. Acque del Po, di un grigio di perla decembrina: è un giorno nostro, sulla barca ferma alla riva, nella solitudine di un'ora festiva. Profumo di bacche sbocciate a risvegliare l'inverno, rosse, nel morbido sparire a sera di alberi affacciati alla riva. È ormai buio d'intorno (timore ancora di fanciullo che il buio rechi ombre cattive; allora mi fermo ed ascolto). Poi ci siamo gettati fra le erbe alte; c'era una lucciola sola, e se ne andava. 15 [2012] Era la "festa del paese" del 1957. In realtà, Marina Romussi ed io ci siamo conosciuti su una balera: non so se ne esistono ancora fatte così: pavimentazione con listelli di legno, telone da circo come copertura e l'orchestrina da ballo - fisarmonica, violino, cantante, qualche volta un sassofono. Chitarra elettrica? No, nessuna chitarra elettrica - anche se era già stata inventata.... Il fiume Po sullo sfondo. Scorreva poco distante dal villaggio, ed era allora veramente un grande fiume, così grande tra i due argini da poter contenere anche isolotti, boscaglie, canneti... E il dio Pan? C'era, c'era! E ci spiava di nascosto. 16 Il fiume Po a Valmacca Valmacca 17 [2012] Scopro proprio ora, in certo senso nascosto in un quadernetto di scuola dove ci sono tutt'altre cose, che anche Marina aveva dei "foglietti innamorati", uno solo ne ho trovato, ed esso vuole avere forma poetica - gli a capo sono nel suo testo. Mi chiedo ora: perché non me lo hai comunicato? E credo di poter rispondere: perché era troppo dolce, troppo tenero - forse avresti dovuto cantarmelo sommessamente come una ninna nanna. E così ora lo risento risuonare dentro di me. Quando chini sul libro a tarda sera i tuoi riccioli biondo cenere, come ombre di nuvole, come una cortina tra me e i tuoi pensieri vorrei essere tua madre, per gettarli indietro con la mano, come fa il vento a primavera. Quando ti vedo guardare lontano con gli occhi seri e fissi ad una presenza misteriosa, vorrei essere la sorella della tua anima per seguirti nel tuo mondo ignoto perché il dubbio non ti raggeli, il pensiero non ti tormenti, il sogno non ti porti troppo lontano da noi. 18 Valmacca, 23 Febbraio 1958 Mio caro Giovanni, non posso fare a meno di scriverti stasera, tanto intensa è l'illusione di averti qui e di parlarti. Sarà perché ho avuto una giornata pessima, al laboratorio non ho combinato nulla, ed ora sono stanca, ma i rumori che mi circondano mi giungono come attutiti. Sono ancora con te. Il tempo si è fermato a domenica, ed io non ho bisogno di pensarti tanto ti sento in me. È una sensazione indescrivibile, mi pare che le ore di domenica sera non le abbia già vissute, sono ancora là abbracciata a te. Tu taci, ma io spero che le mie parole non turbino il tuo silenzio. Ho bisogno di parlare perché parlando non solo mi manifesto, ma mi rivelo a me stessa. Ho sempre saputo che c'è un fondo di dolcezza in me, ma finora non mi stato possibile rivelarla. Desiderosa di affetto e di comprensione, ma incapace di domandarlo con gentilezza, rifiutando se mi viene donato per dovere, mi sono chiusa in un atteggiamento di scontrosa indifferenza, specie verso coloro che mi sono più vicini. Solo a te ora mi affido donandoti tutto il mio affetto senza un solo filo di diffidenza. Non mi importa sapere quanto durerà, se durerà, ciò che vale è l'essere veri ed è appunto in questa verità la bellezza del nostro sentimento. Tu accenni a lati piuttosto difficili del tuo carattere, ma non credo che questo ti preoccupi eccessivamente, ed è giusto che sia così. Io credo che questo modo di comportarti un po' scostante sia in maggior parte causato dall'aridità che finora ti ha circondato. Aridità non colpevole da parte degli altri, la sola colpa è del tuo carattere particolarmente sensibile. Ma se tu ora mi ami, se veramente mi vuoi vicina, troverai in me tanta fiducia, tanta tenerezza, tanto amore che ogni cosa sarà addolcita e questo ti aiuterà a vivere meglio. Credo nei sentimenti e spero proprio di renderti felice, lo desidero con tutta l'anima. Giovanni, ti voglio bene e voler bene è per me vivere, è lo scopo, la missione del mio oggi. Calda di questo sentimento ti auguro ora una buona giornata, anzi una buona settimana pregustando la gioia di vederti presto. Con tanto affetto 19 20 21 [2012] Dobbiamo ora fare un passo indietro. Nel 1956 ero studente di prima liceo classico a Casale Monferrato, e fu in quell'anno che un nuovo professore di filosofia si presentò in aula: si chiamava Armando Plebe. Io non dirò proprio nulla sulle vicende future che lo hanno reso noto e discusso - soprattutto per le sue scorribande nelle diverse sfere della vita politica del nostro paese. Di fatto di esse mi disinteressai assai presto e tenni gelosamente per me l'immagine di lui e del suo insegnamento liceale, durato peraltro appena un anno. Io credo che questa immagine traspaia con evidenza dagli stralci delle sue lettere. Armando Plebe aveva allora ventinove anni ed io ero un sedicenne fiammeggiante di desiderio verso l'apprendimento di un sapere soprattutto letterario e filosofico. Armando Plebe - il cui volto anziano, ed è naturale, stento a riconoscere - a sua volta portò in quell'aula una ventata che attizzò quelle fiamme: figura gentile, volto affilato, mani da pianista, immerso nella cultura greca come vita vissuta nel momento stesso in cui la evocava e capace di trasmettere i grandi segreti, i miti, le fantasie che si nascondevano persino negli etimi della lingua greca, diventò a sua volta per me, per qualche anno, anch'egli un mito. Tuttavia, troppa era la distanza di orientamento intellettuale, ma anche psicologica e di temperamento, che ci separava: cosicché dopo qualche anno di rapporti epistolari e di incontri sporadici, dal mito egli se ne uscì - per me inattesamente - per rientrare in una sua realtà che era per me incomprensibile. Ma le lettere che mi scrisse confermano la sua adesione senza riserve ad una concezione della cultura tanto viva da poter essere a chiunque comunicata, al punto di non esitare a scrivere ad un giovane di sedici anni, parlando con un'apertura, una eleganza ed una chiarezza mentale che rende per me inesplicabile l'oscurità in cui mi sembrò precipitare nel suo futuro. 22 Alessandria, 30 Luglio 1956 Caro Piana, è mia abitudine rispondere puntualmente alle lettere, tanto più quando si tratta di lettere ricche ed importanti come l'espresso che mi inviasti. Ma esso ebbe una curiosa odissea: non avendo noi avvertito il fattorino degli espressi di Bressanone del nostro arrivo, esso venne da lui rispedito a Casale, dove sostò alquanto per essere poi rispedito a Bressanone… Mi dispiace molto del contrattempo e dell'impressione di mia negligenza che potrai aver avuto nel non ricevere risposta. Caro Piana, la tua lettera mi testimonia una tua grande ricchezza interiore e un orientamento assai caratteristico che, per quanto ancora confuso e alborale, mi par già di intravvedere chiaramente in che direzione procederà. È una direzione alquanto lontana dalla mia forma mentale; ma io mi guarderò bene dal cercare di modificarla: non solo perché ciò sarebbe inutile ed assurdo, ma anche perché ho la massima stima di chi, come te, è portato spontaneamente o per riflessione ad una concezione irrazionalistica della vita (così come disprezzo invece chi a tal concezione giunga per conformismo ed opportunismo eticoreligioso, e per moda, o per posa). Pensare=vivere: è un'equazione che sottoscrivo anch'io, per quanto in un senso assai diverso dal tuo. Io mi chiedo: ogni pensiero è vero "pensare" e quindi autentica "vita", oppure soltanto quel pensiero che sia concreta iniziativa sia individuale che sociale? Un pensiero è pur quello contenuto in riflessioni quali: "trenta giorni ha settembre, con april giugno ecc."; ma certo non diremo che questa è "vita". Per converso, forse che ogni espressione di vita è "pensiero"? Davvero non direi, ché pensiero non è, ad es., l'espletamento dei nostri bisogni fisiologici. Che cosa è dunque questo nesso "pensiero-vita", che concretizza il pensiero e dà un senso alla vita? Io a questa domanda rispondo in un modo (cioè col concetto di razionalità del reale) che non può essere il tuo. Tu però devi porti e risolvere il problema dal tuo punto di vista. Né, mi pare, puoi far tua troppo facilmente la polemica contro il "senso comune": senza il senso comune la vita non sarebbe vita, ma alienazione mentale. Ciò non significa che ci si debba fermare al senso comune; significa però che bisogna fare i conti con esso. E sono ben lieto che anche tu 23 senta il bisogno di un ordine del pensiero, senza di cui il pensiero non può essere tale. Di tutto ciò parleremo ancora, e meglio, sopratuttto quando potremo vederci, spero, a settembre. Sono lieto che tu stia leggendo Eschilo. Le Supplici sono una grande tragedia, purché non ci si fermi alla lettera di essa, ma si riesca a cogliere il dramma cosmico della lotta tra il principio maschile e quello femminile, che sta alla sua base - lotta che, nei suoi fondamenti ideali, risale proprio a quella contrapposizione tra il mondo mediterraneo e quello indoeuropeo, sulla quale insiste Untersteiner, a mio avviso giustamente. - Tu ti chiedi se l'elemento catartico sia o non sia necessario al tragico. Questo dipende da che cosa si intende per catarsi: se si intende la terapia magico-medica dei Pitagorici, direi anch'io di no, se invece s'intende la chiarificazione delle passioni di cui parla Aristotele, io propenderei a pensare che il tragico sia proprio nato con essa. Quanto alla storicità della contraddizione, mi permetto di rimandare il discorso, perché sarebbe troppo lungo. Tu sai che io sono convinto storicista, forse anche più spinto di quanto non sia Untersteiner. Tuttavia vedo benissimo le ragioni degli avversari. Bene per Leibniz e per il Sublime. Ti raccomando il tedesco: senza di quello non potrai mai condurre scientificamente uno studio filosofico o filologico. E infine, buone vacanze. E scrivimi, non appena hai qualcosa da dirmi: c'è da sperare che il percorso postale delle tue lettere sia in seguito un po' più fortunato. Ricordami al Sig. Padre ed alla Sig.ra Mamma, che io rammento con viva simpatia; e accogli molti saluti dal tuo [2012] Il Sublime di cui si parla è il trattato attribuito a Cassio Longino che mi ripromettevo di tradurre durante le vacanze. Non ricordo in quale occasione i miei genitori conobbero Armando Plebe, ma è un fatto che egli non dimentica mai di pregarmi di salutarli. 24 [2012] Al termine della mia prima liceo, abbandonai Casale Monferrato, per trasferirmi a Milano dove frequentai il liceo Carducci. E per quale ragione? Per puro spirito di ribellione non so bene perché ed a che cosa. Ma le cose stavano così. Quegli anni erano per me particolarmente inquieti, e questa inquietudine si comunicava in varie forme anche agli altri che erano intorno a me. Ad esempio, i litigi con i professori erano frequenti. Ma un allievo di liceo può litigare con un docente? Lo può. Basta scoprire il suo punto debole e colpirlo in quel punto inesorabilmente ed abilmente. E può anche sobillare la classe a fare cose talora divertenti, talora non troppo. Insomma, ero un poco discolo, nonostante il buon rendimento scolastico che mi metteva al riparo da possibili fulmini e saette. Anche Casale Monferrato mi stava un po' stretta. Chiesi dunque ai miei genitori di andarmene a Milano ed essi mi assecondarono, approfittando della meravigliosa ospitalità della famiglia di Cesare Augusto Tallone di cui mio padre era diventato amico. Questi era personalità fuori del comune, grandissimo esperto nelle tecniche costruttive del pianoforte e uomo di fiducia di Arturo Benedetti Michelangeli che il grande pianista portava con sé ovunque in qualità di accordatore. Tallone sognava di mettere la propria esperienza al servizio della realizzazione di un pianoforte tutto suo, tutto "italiano" - come egli diceva. E riuscì in questo intento. In quella casa, conobbi Michelangeli e rammento ancora un pomeriggio intero in cui egli, trasognato e febbricitante, andava ripetendo 25 al pianoforte una breve frase di Debussy - sempre quella: eppure non vi era nell'ascolto neppure l'ombra di qualcosa che potesse destare il senso di ripetizione ossessiva. E dalla mia cameretta, tendevo l'orecchio ogni volta. In quel tempo furono mie protettrici la moglie Lizzy e soprattutto la bionda e dolcissima Elisa di pochi anni più adulta che, io credo, capisse molte cose di me e di tante altre. E la scuola? E il liceo Carducci? Alla fine di questa nuova esperienza liceale milanese, la decisione era ormai presa. Anche questa volta i miei straordinari genitori assecondarono questa ulteriore bizzaria del loro figliolo un po' discolo, un po' stravagante. Addio banchi di scuola! L'ultimo anno - quello che si conclude con la "maturità", che era un esame un po' più pesante rispetto a quello di oggi - decisi di farlo da "privatista", standomene a casa, senza litigi, scegliendo da me stesso i libri da leggere. Per quanto riguarda il testo filosofico da commentare la mia scelta cadde sulla Sezione Seconda delle Idee per una fenomenologia pura di Husserl, intitolata La considerazione fenomenologica fondamentale. Un'iniziativa tutta mia. Non sapevo ancora che Enzo Paci aveva già dato avvio alla sua fase fenomenologica, benché lo conoscessi e lo ammirassi per le sue lezioni sull'esistenzialismo del 1955, pubblicate nel 1956, che avevo ascoltato dal Terzo Programma RAI. 26 Roma, 16 Gennaio 1958 Caro Piana, non ho potuto rispondere prima alla tua lettera, ma ho gradito il ricordo e gli auguri, che ricambio a te e ai Tuoi. Sono contento che la tua preparazione all'esame proceda bene. Certo, portare Husserl alla maturità è cosa più unica che rara; ne sono molto contento per il tuo futuro, ma non vorrei che ti appesantisse il già pesante programma di esame. Non appena superata la maturità, farai invece molto bene, se cercherai di approfondire il pensiero husserliano, che è una vera miniera per intendere la filosofia contemporanea. Mi chiedi d'indicarti che cosa leggere sul Prometeo. Non so neppure io; le cose migliori sono in tedesco e in inglese; alcuni studi italiani sono sepolti in riviste e atti di accademie che difficilmente riusciresti a trovare a Casale. Hai visto il famoso volume di Manara Valgimigli, La trilogia di Prometeo, Bologna, Zanichelli, 1904? Naturalmente, ormai è invecchiato. Ma le cose recenti che valga la pena di leggere non sono in italiano. Conto, da quanto mi scrivi, di vederti a Roma in febbraio. Molti saluti a te e ai Tuoi dal tuo 27 Roma, 3 Settembre 1958 Caro Piana, grazie della tua cara lettera, e congratulazioni per l'esito degli esami! Hai superato una prova difficile (l'esame da privatista) che chiunque non poteva che sconsigliarti per il rischio che comportava. È stata una bella prova di carattere, della quale sono contento per te: non che io dubitassi delle tue capacità intellettuali; ma quello che non avevo ancora esperimentato in te era la capacità di uno studio metodico, costante, regolato, quale è richiesto dalla preparazione di un privatista (io lo so per esperienza perché anch'io - allora non volli dirtelo perché preferivo non incitarti al rischio del privatista - mi presentai privatista alla maturità classica, per poter saltare l'ultimo anno). E non dispiacerti se l'esame è stato più banale del previsto; talora è proprio la banalità dell'esame che un privatista intelligente può rischiare di cadere, e tu non sei caduto. Le letture che intendi fare vanno bene; certo se tu potessi disciplinarle e indirizzarle bene sin dal principio, i risultati sarebbero ancora migliori. Ma di questo potremo parlare a voce. A Milano, poi, sarà tuo professore di Filosofia Teoretica Enzo Paci, una bella mente e un buon studioso, conoscitore appassionato di Husserl (me ne parlava qui a Roma alcuni mesi or sono): se ti rivolgerai a lui potrai trovare un'ottima guida. Sarò lieto di rivederti a Roma, dove resterò sino al 15 c.m. Arrivederci, dunque, e molti cordiali saluti, estesi ai Tuoi, dal tuo 28 Roma, 5 Novembre 1958 Caro Piana, grazie della lettere e delle notizie che mi dai. Fai bene a seguire il prof. Segre, ma soprattutto sono lieto che tu segua il prof. Paci; a mio avviso Paci è tra le menti più aperte che vi sono in Italia: se riesci a farti ascoltare da lui, cerca di far tesoro della sua vicinanza e di divenire il più possibile suo allievo. È un po' difficile darti in due parole qualche indicazione sul concetto di "eticità" della Fenomenologia hegeliana: quel concetto è tutto un mondo, è una prospettiva da cui si potrebbe intendere tutto il romanticismo. In genere si suol studiare questo concetto troppo astrattamente, senza cioè vederne quella concretezza che gli proveniva dall'essere stato - prima che un concetto filosofico - un'esperienza letteraria, artistica e della vita stessa dei romantici. Per questo, se fossi al tuo posto, anziché ripetere i solito commenti alla Fenomenologia (ad es. il ripetutissimo e non sempre intelligente Hyppolite) cercherei di andare alle origini letterario-filosofiche di quel concetto nel romanticismo. Secondo me, alla base dei paragrafi sull'eticità della Fenomenologia sta per lo meno l'esperienza delle Lettere sull'educazione estetica di Schiller, in particolare della sesta lettera. Ma io andrei più in là: Hegel aveva risentito (come tutti i romantici) profondamente l'influsso delle Esperienze di W. Meister di Goethe: sai che F. Schlegel faceva addirittura derivare il termine "romanticismo" dal "romanzo" per eccellenza che era per lui il W. Meister. Ora, nei tre ultimi libri del W. Meister vi è già tutta la problematica dei concetti di eticità, moralità, "anima bella". Nel VI libro è abbozzata la figura dell'"anima bella", mentre nel contrasto presente nel VII e VIII libro tra le figure di Teresa e di Natalia v'è già il contrasto tra la moralità e l'eticità impersonata magistralmente dalla figura - fondamentalmente filosofica - di Natalia. Dal Meister derivano le importanti riflessioni etiche di F. Schlegel e da F. Schlegel non poco derivò Fichte, che gli era strettissimo amico. Ma il discorso dei rapporti tra l'etica fichtiana e quella hegeliana sarebbe troppo lungo… In ogni caso, secondo me, bisogna partire da Schiller e Goethe: lì trovi le origini di quella problematica. Tu sai quanto questo argo29 mento mi stia a cuore; quindi sono molto lieto che te ne occupi. E sarei molto lieto se tu mi scrivessi come procede questa tua relazione. Mi dici di una tua vicenda sentimentale: sono certo che un giovane come sei tu non sarà distratto, ma arricchito dall'esperienza del sentimento. Del resto che cosa terribilmente arida - e terribilmente noiosa - sarebbe il filosofo se si chiudesse alle voci del sentimento, e quindi della vita stessa! Mi scrivi di considerarti ancora mio allievo. Grazie! Ma non so che cosa possa averti dato io… al liceo si può insegnare così poco! Tuttavia, almeno sentimentalmente, piace anche a me considerarti sempre mio allievo. Del resto, non si sa mai che cosa riserva il futuro: un giorno potrebbe darsi che tu ti debba avvicinare per un qualsiasi motivo all'Università dove insegno io. Quando vieni a Roma in una delle tue fugaci visite? E i Tuoi come stanno? Salutameli e accogli molte cordialità e auguri dal tuo PS. Che ne è del povero Sandro Ricci? Non avrei mai immaginato che sarebbe finito con i nervi in quello stato. E, ormai, non so più che cosa pensare di lui. La tua amicizia non gli può servire a scuoterlo dal suo stato di torpore? [2012] No, non ho potuto far nulla per lui, caro amico della mia prima infanzia. Lo conobbi durante la prima media, a dieci anni - mio compagno di scuola e di banco. Egli abitava a Valmacca, il paese di Marina, e fu così che io conobbi quel paese sul Po che tanta importanza ha avuto poi nella mia vita. Bambini appena, voglio ricordare almeno questo, ci rotolavamo nella distesa di grano messo a seccare nel sottotetto della sua casa incuranti delle irritazioni cutanee che quel gioco creava e che ci costringeva poi a immediati bagni caldi nelle tinozze della cascina. Un poco più grandicelli, percorrevamo le stradine oltre l'argine del fiume, indugiavamo come folletti nei pioppeti e tra i capanni costuiti dai pescatori lungo il fiume. Questo 30 nostro sodalizio, che ci vide per un certo tempo compagni anche nei dialoghi con Armando Plebe, durò fino al momento in cui io me ne andai a Milano al liceo Carducci. Sandro entrò in uno stato depressivo irrimediabile proprio nell'anno della sua maturità classica - che peraltro superò brillantemente. Così le nostre strade si separarono, io mi iscrissi all'Università di Milano, Sandro all'Università di Pavia. A poco a poco ci perdemmo di vista e, io credo, per volontà di entrambi. Io mi resi conto che non solo mi era impossibile aiutarlo, ma anche che forse la mia stessa presenza avrebbe potuto essergli dannosa. Credo che di questo egli fosse consapevole. Nel 1963 fu mio testimone di nozze - poi non ci incontrammo più. Nella notte del 4-5 dicembre del 1971, all'età di 31 anni, si gettò dal Viadotto Soleri a Cuneo, il "ponte dei suicidi". Pochi giorni prima aveva comunicato la propria intenzione suicida ad una riunione del gruppo "L'erba voglio". Ho appreso questo particolare agghiacciante dal volume di Lea Melandri, L'erba voglio (1971-77) - Il desiderio dissidente, che contiene anche un suo scritto intitolato Appunti da un reparto psichiatrico. Sandro Ricci 1953 III media 31 32 1959 33 Milano, 16 Marzo 1959 Marina mia, è di sera che mi viene il desiderio di parlarti. Ho cenato all'osteria (stasera, con l'accompagnamento di due ubriachi) e poi me ne sono andato a prendere un po' d'aria. Sai che abito in periferia: i marciapiedi sono deserti, ma vi sono molte automobili che passano nella strada principale, dirette fuori città. Ai margini del Naviglio vi sono le grandi case alte, con le finestre illuminate, qui e là, come occhi inespressivi. Si sente allora che molte cose che di giorno sembrano importanti, a quest'ora si annullano, spariscono, diventano lontane. Rimane questo andare per la strada e qualche cosa che vive dentro di me - uno scambio d'amore. Ciò mi riempie di dolcezza, e non mi importa nulla se le finestre mi guardano con occhi inespressivi. Per il resto oggi non ho fatto nulla. Sono soltanto andato ad annoiarmi due ore in Università. Una buona notizia: domani riprendo le lezioni di violino. Era tempo. Fammi un sorriso. Milano, 20 Marzo 1959 Marina mia, sono tornato ora dall'Università dopo la mia esercitazione: avrebbe dovuto durare un'ora ed è invece durata due; anzi domani debbo riprendere alcuni punti che verranno discussi e probabilmente sarà necessaria un'altra ora. Ti assicuro che sono mezzo stordito: comunque è andata bene, meglio di quanto pensassi. Sono riuscito ad essere abbastanza chiaro e, pare, abbastanza interessante. Come stai tu ora? Vorrei che la mia lettera ti arrivasse già stasera per averti immediatamente vicina. Ma tu mi sei immediatamente vicina! Con te io nasco a poco a poco, c'è qualcosa che, vivendoti accanto, mi redime. Finora ho vissuto con un oscuro senso di colpa: credimi, non ho fatto nulla che lo giustifichi. Ora sento di diventare libero. Sono belle le nostre passeggiate nei boschi. Sono belli i nostri ritorni verso sera. Prendiamoci per mano, Marina. 34 35 Cantavenna, 4 Agosto 1959 Marina mia, ti scrivo appena giunto a Cantavenna. Forse non mi perdonerai facilmente questa mia fuga per passare dei giorni qui, sacrificando ore che potremmo passare insieme (ed è un inverno che sospiriamo questi giorni), ma cerca di essere più serena che puoi nel giudicare. Questo periodo per me si presenta abbastanza decisivo e dalla riuscita di ciò intorno a cui lavoro dipende una maggiore chiarezza su di un possibile futuro. Lo sai che vivo dentro un campanile? Esso è di poco discosto dalla chiesa, ed io ho occupato la stanza che si trova sotto la campana. Quando la campana suona, certo, il suo grande suono compenetra le pareti e si irraggia da esse, impossessandosi del mio corpo facendolo diventare anch'esso suono di campana. Questa cella è per me un luogo ideale - e lo sarà anche per te, appena potrai raggiungermi. Dalla finestra della cella campanaria si vede tutta la vallata, le risaie ed il fiume Po che trascina le sue acque verso il mare. A presto. 36 Roma, 23 Ottobre 1959 Caro Piana, grazie davvero dell'attenzione con cui mi hai letto e della tua lettera tanto acuta. Tutti i tuoi interrogativi sono più che legittimi: l'estratto che ti ho inviato non rappresenta che i primi due capitoli di un volume, che in parte è già scritto e in parte sto ancora meditando. Perciò non potrei qui esporti il mio pensiero un po' più compiutamente senza dare a questa mia lettera almeno l'estensione di uno dei prossimi articoli che seguiranno: il che ora non posso proprio fare! Ma la prima volta che ci vedremo sarò tanto lieto di conversare con te di tutto ciò. Rimandando per ora, quindi, una risposta compiuta, vorrei solo accennarti a qualche punto della tua lettera. Tu mi obietti che una ricerca puramente ipotetica è assurda. Io ti rispondo che il giudicare assurda una ricerca presuppone un criterio e quindi - per me - un'ipotesi: ipotesi che io rispetto ma che non posso ritenere valida obbiettivamente. Tu mi chiedi: "Perché la ricerca?" Io ti rispondo che questa domanda non è che una presentazione particolare della domanda "Perché la vita?", che è la domanda di ogni filosofia, a cui ogni filosofia risponde formulando una ipotesi. Senonché caratteristica di ogni formulazione di ipotesi è il credere ad essa: ora, siccome io sostengo l'ipoteticità di ogni ipotesi, corro il rischio di non aver più la spinta sufficiente a formulare la mia ipotesi. Sembra, cioè, che l'empirismo ipotetico distrugga se stesso. Ma questa è un'obiezione valida solo per chi si àncori tuttora al principio di non contraddizione! L'empirista ipotetico non si preoccupa di non contraddirsi, perché non può riconoscere la non-contraddizione come principio universalmente valido. Perciò egli continua a pensare! - Sì, hai ragione a dirmi che mi sono molto avvicinato all'esistenzialismo: senonché l'esistenzialismo teorizza in qualche modo l'esistenza e la irrigidisce, per cui in certo modo è ormai fuori della contraddizione insita nella "ricerca". Io invece sto ancora dentro a quella contraddizione. Ma di ciò parleremo a lungo, spero: forse per anni! Intanto scrivimi di te e dei tuoi esami. Ed accogli molti cari saluti dal tuo 37 Milano, 15 Novembre 1959 Stasera sono stato al bar Giamaica: il luogo te lo ho già descritto. È il ritrovo del mondo deteriore dell'arte, quello delle barbe e delle pipe: persone piuttosto scadenti, anche se i loro nomi si possono trovare al fondo di articoli di giornali o citati in rubriche letterarie. Ma guardarli dal di fuori può essere interessante. In un certo senso mi sono "disteso i nervi", che erano un po' tesi. In realtà sono contento: te lo ho già detto che sono orgoglioso di te? È così. Molto orgoglioso, per quello che fai, che dici, che vedi, per quello che sei. Sono stato dal Maestro Balsimelli nel primo pomeriggio e ci siamo messi d'accordo per le lezioni di violino. Sono curioso di suonare con Francesco Degrada, pianista e mio compagno di corso con cui ho rapidamente simpatizzato. Lo vedrò sabato prossimo. Infine una ultima piccola ma molto significativa notizia. Mario Untersteiner ha scritto appositamente a Tubinga per informarsi presso un professore che insegna là quali possibilità di studio e di sistemazioni ci siano presso quella Università per uno studente che intenda lavorare intorno a Husserl. Il professor Untersteiner ha veramente una straordinaria sollecitudine nei miei confronti, io non gli ho chiesto nulla, gli ho solo raccontato le mie intenzioni e i miei desideri. Oltre che ammirarlo, comincio anche ad essergli seriamente affezionato. Ora scappo a dormire. Domani debbo essere riposato perché vado… dal cavadenti! [2012] L'amicizia con Francesco Degrada cominciò proprio nei primi miei anni di università e si mantenne per tutta la nostra esperienza universitaria, presso l'Università di Milano. Ed all'inizio fu un rapporto che aveva proprio nella possibilità di suonare insieme la sua maggiore attrattiva. 38 [2012] Mario Untersteiner, indimenticabile maestro: ora apprendo questo piccolo dettaglio dimenticato. Anch'egli volle in qualche modo darmi una mano. Seguii le sue lezioni già al mio primo anno di università, perché ero ancora incerto sulla scelta verso la filosofia antica e la cultura greca o verso la filosofia teoretica. I suoi allievi si contavano allora sulle punta delle dita. C'erano Fernanda Caizzi, Mario Geymonat, Luca Cafiero e pochi altri, talmente pochi che ci eravamo accordati al fine di preavvisarci reciprocamente delle nostre eventuali assenze per evitare di lasciarlo solo. Ricordo che questo uomo di piccola statura arrivava alle lezioni carico di volumoni che lo sovrastavano per peso e per grandezza. Filopono, soprattutto, commentatore di Aristotele, era immenso e, al vedere il prof. Untersteiner svoltare nel corridoio carico in quel modo, noi correvamo a fornirgli aiuto. 39 Valmacca, 17 Novembre 1959 Come eravamo d'accordo ho infine telefonato a tua sorella Angiola. E qui è esplosa la bomba. Al telefono è venuta anche tua mamma ed insieme mi hanno invitato a cena. Come puoi ben pensare, ho cercato di rifiutare ma poi, siccome tu mi hai raccomandato di essere cordiale con i tuoi, ho 1962 accettato. Alle diciannove ero in casa tua, sono stata fatta entrare nella tua stanza e sono stata sola circa mezz'ora, ed ho letto alcune poesie di Montale. Infine è giunta Angiola e siamo state insieme fino all'ora di cena. Debbo dirti che Angiola mi è molto simpatica ed anche Giuseppe. All'ultimo momento è entrato in camera tuo padre e mi ha fatto un sacco di complimenti. Voglio dirti della nota stridente. Lunedì sono venuta alla stazione e ti ho visto e guardato a lungo. A che cosa serve scusarmi di essermi allontanata, piangendo, perché non sono riuscita a superare la piccola distanza che ci separava? Ora dico piccola quella distanza, ora che ho vinto quel senso di vuoto allorché ti vedo parlare, animatamente, con altre persone. Perché sovente, in queste circostanze, sento che non vi è posto per me, che sei lontano, che ti potrebbe dar fastidio la mia presenza. Non posso pensare che sia egoismo e gelosia a farmi agire così. Non mi spiego che cosa mi succede, so solo che sto tanto male e che mi dispiace di avere ancora momenti come questi. Per dissipare ciò ho deciso di tornare nella tua casa, e lì ti ho ritrovato. Ho portato fiori a tua mamma stasera, non è stata una formalità. Ti amo Giovanni, ed ho ancora tanto bisogno di te. Comprendi? Vorrei che tutto fosse liscio, armonioso, spero tanto che presto lo sia, mi aiuterai, vero? 40 Chagall, 1947 (The blue Fiddler) Valmacca, 30 Novembre 1959 È stata una lunga giornata quella di ieri. L'alzataccia alle sei, la lezione di pittura, l'incontro con i tuoi, il pranzo frettoloso. Il meraviglioso pomeriggio in casa tua. So che puoi suonare agevolmente in mia presenza, non ci sono muri fra noi. Da molto tempo aspettavo 41 questa occasione ed è stato bello che essa si sia presentata spontaneamente. Nasce una relazione di sentimenti dalla musica che esce dal tuo violino. Per mezzo dei suoni, l'animo nostro si fa più sensibile, ed è un'impressione così istantanea che è difficile spiegare la sua semplicità. Dare parole espressive alle sensazioni è il mio eterno problema. Fortunatamente siamo tanto vicini da poterci incontrare anche per vie traverse, una tua frase sbagliata, la mie parole vaghe ed incerte. Sono felice delle ore di pura vita che trascorro con te. È grazie a giornate come queste che si accetta l'esistenza, grazie alla tua esistenza io vivo. Quanti giorni quest'anno sono stati mesi e mesi di luce: ma vi sono ancora tanti spiragli dai quali dovrà uscire tanto buio. Con te vivo, non temo. Viverti accanto significa appunto vincere gradualmente le molteplici difficoltà che le azioni comportano. Si ha il coraggio per tentare nuove esperienze. Sono convinta che svanirà anche quel senso di disagio, di cui ti ho parlato l'altra volta. Con tanta tenerezza. [2012] In quei tempi riuscii a convincerti che sarebbe stato bello coltivare una sensibilità così viva come la tua al mondo dei colori, anche con delle "lezioni di pittura". A dire il vero, io ero la persona meno adatta a ritenere che fosse necessario prendere delle "lezioni", ma da un lato mi sembrava un modo di vincere la tua ritrosia rispetto a questo problema, dall'altro pensavo che ti saresti sentita maggiormente protetta in questa tua "nuova esperienza". Tuo zio Andrea Di Palma era un buon paesaggista, innamorato della pittura, ed una nostra amica di famiglia, Elsa Barberis, era soprattutto miniaturista, ma anche pittrice amante dei fiori e dei paesaggi collinari: entrambi accettarono volentieri di darti qualche buon consiglio. È strano, ma di queste tue prove mi restano soltanto quelle che riporto nelle pagine seguenti e che, è giusto sottolinearlo, furono le prime che realizzasti appena prendesti in mano i pennelli. Poi rinunciasti a poco a poco - non so esattamente perché, ma credo per una sorta di pudore verso l'arte stessa, come se essa fosse comunque inarrivabile. 42 Marina Romussi - L'albero (1959) 43 Marina Romussi Paesaggio (1959) Marina Romussi - Terra fertile (1959) 44 [2012] Ci fu anche una sperimentazione di Marina con la ceramica, avendo un amico che possedeva una forno per la cottura. Anche in questo caso, con mio rincrescimento, la sperimentazione fu troppo breve. Ciononostante conservammo insieme gelosamente come una sorta di pezzo unico sorto da questa sua attività, questo eschimese di arte Inuit che trovammo fotografato in bianco nero in una rivista. 45 Milano, 8 Dicembre 1959 … nel pomeriggio sono andato alla Braidense a vedere i disegni di Matisse; poi ho comprato due Chagall ed un Matisse. Ti mando Chagall che mi sembra la cartolina migliore delle tre. Sono molto stanco ma sono tranquillo; so che passerai una settimana serena e che sabato ti troverò luminosa, come sempre. Non prendertela con te stessa quando succede fra noi qualcosa di stridente, ma gettati fra le mie braccia. Vorrei essere anche un tuo rifugio. Senti, senti: vorrei essere capace di proteggerti. Tu dici di non aver bisogno di protezione? Che vuoi, è più forte di me: ti proteggerò lo stesso. [2012] Così nacquero le nostre gallerie di dipinti. Ritagliavamo da giornali, riviste, calendari, dovunque si trovassero le opere dei grandi pittori - e poi c'erano alcune librerie o cartolerie che consentivano un'ampia scelta di cartoline tra le quali scartabellavamo a lungo per acquistarne... due o tre! Vi era anche il gusto di metterle in un album in bell'ordine, imparando molte cose e dialogando fra noi. Ricordi, Marina mia, quante belle ore abbiamo passato così? 46 Milano, 20 Dicembre 1959 Marina mia, ti debbo anzitutto narrare uno strano episodio finito bene: il mio bel violino ha seriamente rischiato di finire nelle mani di un ladro d'auto. Uscendo di casa mio padre ha notato la serratura forzata dello sportello anteriore e si è messo le mani nei capelli: io mi sono limitato a guardare nella parte posteriore dove il mio violino, parzialmente ricoperto per prudenza da una sciarpa, mi ha strizzato l'occhio: e sono diventato improvvisamente di buon umore. Nella valigia rubata del resto c'era poco o niente ed anche mio padre si è subito tranquillizzato. D'altra parte la giornata era cominciata decisamente bene. Ho trovato altre riproduzioni di Edward Munch che mi hanno dato da pensare per tutto il viaggio. A poco a poco, con il tuo aiuto, apro gli occhi sui colori. E sono pieno di entusiasmo. Questo entusiasmo per la pittura me lo hai trasmesso tu stessa, lo ho ereditato da te, come un tuo grande regalo. Mi dispiace di non poterti mandare subito qualche riproduzione dei dipinti di questo pittore. Tu ricorderai quella strana "danza della vita" che ti ho mostrato pochi giorni fa: il significato, il tono emotivo sono gli stessi nei dipinti che ho dinanzi, un'esasperazione tragica, un carico di "angoscia" - si potrebbe dire con una parola sola, se questo termine non fosse diventato d'uso tanto comune che è ormai quasi privo di significato. 47 Ora capisco molto di più l'espressionismo musicale che è stato uno delle mie prime e più violente esperienze nel campo dell'arte. Dobbiamo sentire insieme anche Schönberg! Dobbiamo, a tutti i costi. È molto tempo che lo ho lasciato da parte ed ho la sensazione che il risentirlo ora, dopo un poco di frequentazione nel campo della pittura, lo comprenderei meglio e più a fondo. E poi desidero che anche tu lo conosca. Quante cose, Marina mia… Tante cose vorrei fare con te e non le si possono fare. Noi due siamo tanto scapigliati che, se ci lasciassero liberi, correremmo gridando di gioia fino a cadere a terra senza fiato. Invece un equilibrio è necessario. Ti scrivo dalla mia nuova stanza. Niente mi disturba qui: potrò lavorare meglio, senza dubbio. Tu mi sei accanto: una bella immagine della mia vita. 48 1960 49 Roma, 23 Febbraio 1960 Caro Piana, grazie della lettera e delle tue gentili espressioni verso di me. Sono veramente contento di vederti avviato così solidamente verso la carriera degli studi ad alto livello scientifico; la quale è certamente ardua, ma è ricca di soddisfazioni, e tu hai tutti i numeri per percorrerla con successo. Paci mi ha detto molto bene di te; e io a lui, naturalmente, non potei che dirgli quello che effettivamente penso di te. E mi fa molto piacere che tu prenda sul serio anche gli studi di filosofia antica. Il tuo schema per la relazione sul framm. 52 di Eraclito va benissimo; e vi intravvedo anche l'impronta della tua personalità (il seguire J. Wahl). Io, naturalmente, avendo interessi diversi dai tuoi, insisterei invece su altri aspetti: il rapporto spoudé-paidiá (sul quale esiste un ottimo volumetto di L. Radermacher, Weinen und Lachen, Wien 1947) che si riconnette poi al problema della "Gods compulsion" (studiato in un volume, uscito a Oxford pochi giorni fa, di A.W. Adkins, Merit and Responsability. A study in Greek Values). Ma è bene che tu non conduca lo studio come lo condurrei io con la mia testa ma come la tua testa ti spinge a condurlo; tanto più che filologicamente, il tuo schema va benissimo. Quanto al mio Processo, tu mi rimproveri di aver inteso i termini di "fenomenolgia", del "zu den Sachen selbst", ecc. nel significato non-tecnico in cui sono usati dal Dufrenne nel suo libro (che è vivacissimo) Phénoménologie de l'experiénce esthétique. Però non è colpa 50 mia se, quando scrissi il mio libro, una estetica "fenomenologica" in senso tecnico non esisteva ancora. Quindi ciò che mi si può rimproverare è soltanto, tutt'al più, di non aver chiarito in una nota come la posizione di quella che si chiama "estetica fenomenologica" non è la posizione husserliana autentica, ma è una posizione che prende Husserl solo come bandiera. E non ho nulla in contrario a precisare ciò quando farò una seconda edizione del libro. Ora però vi è un fatto nuovo: Paci mi ha detto che è uscita in questi giorni un'estetica veramente "fenomenologica" ad opera di un tale Piguet (è un volume della serie di Nijhoff ). Ho subito ordinato questo libro ed intendo studiarlo ed occuparmene, per vedere che cosa ne salta fuori. - Anch'io sono convinto, come mi scrivi tu, che la posizione del mio Processo sia meno lontana di quanto sembri da una possibile estetica fenomenologica. Dammi sempre tue notizie. E abbiti molti cordiali saluti dal tuo Palermo, 18 Marzo 1960 Cara Marina, un breve biglietto tra un'ora e l'altra. Ieri mattina, inaugurazione del congresso di filosofia: un mucchio di parole di vuota retorica, alla presenza di Sua Eminenza il Cardinale. È stato tirato in ballo anche Garibaldi! Vittorio Enzo Alfieri ha risollevato un po' la situazione con una serie di battute fatte apposta per scorno del Principe della Chiesa e del suo codazzo di preti. Dopo di che un interminabile necrologio di un tale sconosciuto, morto vent'anni fa e la cui ombra, a detta del gonfio e stucchevole oratore, in realtà vagava ancora fra di noi. Io non me ne sono accorto. Nella pausa del mezzogiorno abbiamo fatto un giro in città che, alla luce del sole, ha una fisionomia tutta particolare. Edifici settecenteschi, palazzine di cattivo gusto, palazzoni moderni ed ammassi di 51 case bianche di calcina, corrose, in decadenza, a volte assomigliano addirittura ad un ammasso di rottami. Un insieme ibrido, ma che si rivela pittoresco ed anche ricco di giardini, assai verdi e ricchi di alberi rivieraschi. Nei vicoli, di giorno ci si sente di circolare più liberamente ed a volte hanno un aspetto festoso, ma purtroppo il lordume non si scioglie ai raggi del sole. Nel pomeriggio sono cominciati i veri e propri lavori del congresso. Tranne pochissime eccezioni, si ha l'impressione che il livello culturale in questo campo in Italia sia estremamente basso. Quelli che vengono in qualche maniera considerati i "maestri" da una parte del pubblico filosofico, sono dei vecchi nell'animo e nelle parole: apparentemente critici (ma poi nemmeno troppo) rispetto a Croce e Gentile non hanno nulla di veramente interessante da contrapporre. Questo è il caso di Guzzo, di Spirito, di Calogero… La sera invece è stata ricchissima e diversamente intonata, grazie al fatto che ci siamo accompagnati con Ferruccio Rossi-Landi, attualmente insegnante a Milano e portatore di nuovi metodi di indagine filosofica. Egli è stato di estrema cortesia. Ci ha persino invitati a cena insieme al professor Vaccarino, personaggio estremamente interessante combattuto tra la passione per la filosofia e operazioni di ordine commerciale in cui sembra a malincuore essere impelagato. A cena la conversazione è stata vivacissima e interessante. Ti scriverò ancora prestissimo. 52 Palermo, 19 Marzo 1960 Cara Marina, nel pomeriggio, disertando il congresso, siamo saliti all'Aspra, un roccione da cui si domina, da un lato, il golfo di Palermo e, dall'altro, nuove insenature in un mare vastissimo che sembra diventare sempre più vasto. La roccia e il mare; i paesi semplici e nudi, spesso costruiti sulla roccia viva che sorge dal mare, una vegetazione scarna; tutto ha qui il carattere della purezza, dell'essenziale - un paesaggio ignoto per chi ha visto soltanto le coste liguri o quelle napoletane. Qui vi sono solo colori puri - per dirla nel nostro linguaggio. Ho la sensazione di essere stato di fronte a qualcosa di nuovo, di non paragonabile alle mie esperienze passate, anche se questa sensazione resta molto indeterminata e non riesco a chiarirla a fondo a me stesso. Siamo saliti anche alle rovine di Solunto, un'antica città che si trova in un posizione straordinariamente disagevole (e lo doveva essere specialmente un tempo): stupenda, in alto, dominatrice, serena, solare. Marina mia, sento che il tuo vivere deve essere fatto di questo vedere, di questo andare alla ricerca di quanto è bello e può essere nostro tesoro. Lavoriamo insieme perché le possibilità che ci si offrono possano venire realizzate. Non bisogna aver paura: non c'è niente che ci possa soffocare, né il denaro, né i problemi della convivenza, né le difficoltà che ci vengono spesso dalle persone che ci circondano. Lasciami ripetere: un giorno torneremo in Sicilia insieme. Quello che ti chiedo è quasi un atto di fede religiosa, naturalmente di quella religione della vita, che è la nostra. La religione cattolica ha come massimo simbolo un uomo morto, è una religione che predica la sofferenza, che condanna la sensualità e i suoi adepti dovrebbero testimoniare la loro fede appendendosi al collo un orrendo strumento di tortura. E di continuo implorare il loro dio che abbia pietà di loro! Tutto ciò è veramente miserando. Mio amore, dammi la buonanotte. Se la lettera è scritta male è colpa della stanchezza. 53 Valmacca, 23 Marzo 1960 Ieri sera mio fratello Franco mi ha dedicato un poco del suo tempo per parlare di noi. Dialogo: Lui: "Leggi tu questo libro?" (Storia della filosofia, non c'era assolutamente ironia nella sua voce). Io: "Si, ma Giovanni dice che ne esistono dei più adatti per chi come come me si trova agli inizi". Lui: "Nella tua camera ne abbiamo un altro che ti metterò da parte. Leggi tutto ciò per renderti interessante?" Io: "No. Trovo interessante la materia. Vorrei avere una cultura adatta ed una mente aperta per potermi inoltrare in essa. La curiosità per ora è il mio stimolo, non disgiunto dal fatto che Giovanni studia appunto filosofia. Se fosse un ciabattino, non lo nego, mi interesserei anche di ciabatte". Lui osserva ancora, con un serio disappunto, che molti che studiano filosofia in università in realtà non la sentono… Franco invece, effettivamente, ha studiato filosofia con molta passione e con altrettanta passione, come tu sai, la insegna. Caro Giovanni, potrei avere interesse per te e non per la tua attività, potrei essere senza quella curiosità che ci spinge a cercare ed a vivere insieme esperienze che arricchiscano il patrimonio dei nostri giorni? Milano, 2 Aprile 1960 All'inizio ci si adatta - è come decidere di vestire un'abito, perché sembra necessario fare così come fanno tutti. Di quest'abito si sente subito la goffaggine. Poi ci si guarda sempre più allo specchio, l'occhio si abitua, ci si ripete tante volte: "Qui dentro ci sto proprio bene!" e anche gli altri ti aiutano, ti dicono: "Ti sta a pennello". Al massimo si fa un piccolo ritocco, e con ciò tutto sembra a posto, comodo e facile. "Se mi togliessi quest'abito chi mi riconoscerebbe?" - ci si chiede. Oppure: "Meglio un abito che nulla". No; meglio nulla. 54 [2012] Nell'estate del 1960, fui ospitato dalla famiglia Tallone nella loro splendida casa settecentesca di San Giulio, sul lago di Orta, oggi sede di manifestazioni musicali. I giorni passati in quella casa fa ancora parte dei miei sogni. 55 Valmacca, 9 Agosto 1960 Saperti lì a San Giulio mi fa tanto piacere da annullare il principio di una eventuale malinconia. Del nostro viaggio di ritorno non ho nulla da raccontare se non che, aprendo casualmente gli occhi, ho stentato a riconoscere la strana stanza nella quale dormivo con tre persone… Sfido! Si trovava sulla soglia di un paese sconosciuto e i miei compagni erano i tuoi familiari. Resami conto di ciò, mi sono divertita nell'osservare i rari passanti che, dopo aver oltrepassato la macchina, si voltavano, quasi per convincermi della realtà della scena e, confabulando tra di loro, non si decidevano ad allontanarsi. Uno di essi si è avvicinato al finestrino ed io, con l'indice sulle labbra, gli ho intimato il silenzio, avessi visto che faccia… Poi mi sono riaddormentata e, una volta a casa, solo le gambe mi hanno trasportata a letto ove ho continuato il sonno. Sono curiosa di sapere come Husserl e Hobbes siano entrati in relazione con te nella villa sul lago. Spero che oltre ad insegnarti cose interessanti e utili ti siano buoni compagni senza metterti troppo in difficoltà. Il violino è entrato con successo in ogni stanza e sarebbe un vero peccato trascurarlo, vietandogli quegli spazi. Non è comunque la somma delle cose invitanti e favorevoli che vale come garanzia di buon soggiorno, ma è il benessere spirituale nel quale ti auguro di trovarti che servirà senz'altro a rendere fruttuosa la tua vacanza. I miei commenti sulla visita a San Giulio li hai già avuti a voce e sono tutti favorevoli. Solo sulla conversazione a cena vorrei dire la mia. Ricordi, si parlava di agricoltura - ed ecco le chiacchiere sulla meraviglia del germoglio, sul muso bianco dei buoi che illumina il solco durante la semina, o le loro corna che appaiono come corna della luna... queste sono immagini dannunziane del tutto lontane dalla vita reale del contadino. Chiedi ad una vera contadina che si sfianca nei campi che ne pensa del muso del bue o delle sue corna! Ora il tempo è scaduto, ma io resto sull'uscio. Non so salutarti, vorrei tornare indietro, dirti solo frasi affettuose… non poche, ma tante… ora posso quasi andare. E che il tuo soggiorno sia come io lo voglio. 56 57 San Giulio, 10 Agosto 1960 Marina mia, il silenzio di ora è forse quel silenzio che un giorno avresti voluto comprare. Ora non c'è nessuno in questa grande casa. È notte, il lago è una grande macchia scura. Ma non c'è nulla che faccia paura, un fruscio che renda sospetti di fronte ad inafferrabili presenze. Mi sento serenamente padrone di me, anche se un po' stordito, ancora incapace di ascoltare un silenzio tanto atteso. Ogni mia fibra si tende e poi si rilascia, mi spoglio di un vestito pesante, che mi opprimeva, ma debbo farlo adagio; mi meraviglia che ciò possa avvenire. È piovuto; fin da ieri, quando siete partiti. Poi, più tardi ero già a letto, ma quando ho sentito scrosciare sono saltato dal letto ad aprire la finestra. Pioveva anche oggi: sul lago immobile, ogni goccia vi scavava un foro. A sera invece c'era invece un poco di rosa sulle colline e qualche raggio di un sole che se ne andava. Forse non bisogna guardarlo troppo, il lago, a sera. È tutto un lento, estenuante perdersi di colori; ed a guardarlo ci si perde, noi stessi ci sentiamo andare come se l'acqua, che diventa a poco a poco grigia, ci facesse sapere che tutto è uguale, ma anche che nello stesso tempo qualche cosa ogni sera adagio adagio si perde. Eppure, niente è drammatico: vi è solo colore, anche se esso è un'unica nota grigia, cielo, lago, colline sotto una pioggia uguale: una nota sola che risuona e che tu insegui per scoprirne la fine che non viene mai, anche se il suono ti giunge da sempre più lontano. 11 Agosto 1960 Oggi il tempo è incerto, ma io sto benissimo. Mi alzo tardi, naturalmente, e faccio un lento giro nell'orto. I tre quarti d'ora che mi restano prima del pranzo suono il violino. Dopo pranzo mi metto al lavoro. Forse non riusciò a fare tutto quanto mi ero proposto, ma certamente una buona parte. Ieri verso sera ho fatto persino un giro in barca , mentre non ho nessuna voglia di prendere bagni e del resto non fa neppure molto caldo. Ho pranzato con Cesare Augusto Tallone che è poi subito ripartito. Penso che anche tu starai bene. E poiché lo penso, non deludermi. D'accordo? 58 13 Agosto 1960 Ora piove desolatamente e senza respiro. Questa casa diventa diversa. San Giulio cessa di essere un luogo per turisti sfaccendati, dove c'è una chiesa da vedere o i giardini delle ville affacciate sul lago. Diventa un luogo dove potresti proprio viverci: un rifugio che può diventare unico e insostituibile; perché è remoto e lo senti sempre più tuo. Specialmente quando piove così desolatamente. 59 Valmacca, 11 Ottobre 1960 Domenica: sono stata in Val Cerrina di fronte ad un paesaggio grigio di nubi. Le colline avevano rinchiuso le tinte in attesa del sole. Poi ho sentito la pastosità del colore sotto il pennello e, quando ho alzato gli occhi tutto era come me. Ed io ero felice. Dal paesaggio ho ricavato il quadro che ti ho dedicato. Un quadro a te a cui devo l'interna emozione di dipingere. Tu, il mio verde che riposa, il giallo che riempie di dolcezza, il rosso che canta la mia gioia. Tu, l'albero ricco di vita che si allontana decisamente dai cumuli di ansia grigia (le colline). Uno specchio che riflette il mio mondo. Ho lavorato intensamente, quando ho posato il pennello tremavo un poco e lo zio mi guardava con gli occhi grandi così… Lunedì: stamane l'estate ci ha lasciati. Mi ha svegliato la sua voce roca di dolore, le sue saettanti occhiate. Brontolando si è perso nel cielo ed ora un pianto insistente sottolinea la sua partenza. Ho fatto visita alle mele. Rosse di vergogna e strette nella loro pienezza fuggivano dall'albero per non cedere alle insidie dell'autunno. Martedì: Notte d'inferno. Sono venuti i cuccioli a mordicchiare il mio povero corpo. Avevano boccucce del sangue che fatalmente è sgorgato. Giovedì: Tuo padre è entusiasta del quadro (ogni giorno vado a casa tua affettuosamente accolta). Oggi pomeriggio sono tornata a dipingere con lo zio Andrea, verso Villabella. Ottimi posti. Questa volta mi ha aiutata perché, dopo aver voluto inventare il paesaggio, non riuscivo a concludere. Mi è veramente utile andare con lui. Ho appreso particolari interessantissimi. E lui ha detto alla mamma che sono un'allieva appassionata e intelligente! La sera stessa ho fatto, totalmente da sola, un altro quadro ricavato da uno dei tre disegni fatti in giornata. Come vedi sono in piena attività. Sono tornata alla pittura….Parlare di pittura serve a distrarmi. Ora è notte mentre scrivo e vorrei spegnere la luce e scivolarti accanto. Buona notte, caro, abbi tanto bene. Con affetto 60 Milano, 30 Novembre 1960 Cara Marina, saprai già che lunedì sera me ne sono tornato a casa: ero convinto che l'abito scuro fosse qui a Milano. Invece no. Ho pensato che ad una riunione dove si sarebbe parlato del compositore Wladimir Vogel e della sua cantata "La caduta di Wagadu", e per di più nelle ore pomeridiane, l'abito scuro non fosse strettamente necessario. Sfortunatamente fui il solo a pensarlo. La conferenza si teneva alla "Società Svizzera" - un circolo dove le persone recano su ogni parte del loro corpo i profitti dei loro affari. Sedeva vicino a me una vecchia mezza gobba, con pelliccia, orecchini e rossetto abbondante. "Eppure - mi dicevo rintanato nel mio angolo - l'abito lo devi avere. Oggi sei venuto con la tua giacchetta a quadrettini che è stata rivoltata una volta; ma domani, al concerto, l'abito scuro è inevitabile…". Intanto era arrivato non so quale console o viceconsole che salutò questo onorevole pubblico, definendolo dottissimo, dando poi la parola a Massimo Mila. Devi sapere che costui passa per ottimo critico musicale. Sarà vero. Il fatto è che disse cose piuttosto plateali. Ed alla fine quando l'illustre critico cominciò a ripetere che la musica scritta da Vogel per la leggenda africana era proprio quella che ci voleva, che quindi era "naturale"; che era immediata; che non ci potevamo aspettare note diverse da quelle, che esse spuntavano fuori al punto giusto, ecc. ecc., mi sono alzato dal mio posto e me ne sono andato. Credo proprio che le cose migliori le abbia dette dopo, mentre io mangiavo un panino alla stazione Centrale. La sera dopo sono andato al concerto. Insolito il complesso (coro maschile e femminile, coro parlato, soprano contralto e basso; cinque sassofoni). Il mito di Wagadu è molto bello. Vogel mi è sembrato un buon musicista. Tuttavia egli ha trascritto la leggenda in un linguaggio "civile" ed è andata forse perduta la dimensione corporea del mito, l'espressività del barbarico. Ma la seconda parte mi è sembrata molto bella; il coro parlato e i canti di guerra estremamente suggestivi. Dopo l'intervallo, la sala si era mezza svuotata. Mi sarebbe piaciuto che anche tu fossi lì ad ascoltare con me. 61 Roma, 29 Dicembre 1960 Caro Piana, mi fa piacere che tu abbia scritto - e scritto cose interessanti - sulla rivista del mio amico Anceschi. Spero di poter ricambiare presto con qualcosa di mio che ti interessi (è uscito ora un mio studio sui rapporti tra Resp. II-III e Resp. X, ma credo che ormai questi argomenti non ti riguardino più; ti manderò invece, quando sarà uscito, il mio studio sull'Ulysses di Joyce, a cui faccio ora seguire uno studio sul terribile Finnegans Wake). Spero che tu non abbia abbandonato la lettura del Faust di cui (se non ricordo male) mi parlavi nella tua scorsa lettera e, soprattutto, che non abbia seguito l'esempio dei più superficiali lettori di Goethe, che si fermano al primo Faust. Al proposito, ti consiglio la lettura dell'importantissima Critica del gusto di Della Volpe, uscita ora presso Feltrinelli: vi sono alcune pagine sul Faust che, a mio avviso, sono le più geniali che siano state scritte in questi ultimi decenni (Mefistofele è il negativo non perché è il "peccato", ma perché crede che per Faust il "peccato" sia peccato, mentre Faust è ormai al di là della morale cattolica). Congratulazioni per Lovanio… ormai anche tu sei diventato un'autorità in campo husserliano e fai parte dello stato maggiore di Paci… Io ne sono lieto perché, pur non condividendo gli entusiasimi milanesi per la fenomenologia, tuttavia vedo in Paci, in Spirito e in Della Volpe i tre maggiori rappresentanti del pensiero italiano in questo momento e sono perciò contento di poterti pensare come una delle colonne delle scuola di Paci. Ti vedrò molto volentieri a Roma, quando verrai. E molti auguri a te ed ai tuoi dal tuo 62 1961 63 64 Gli auguri di Marina per il mio ventunesimo compleanno (scritto a retro) Marina felice fra le margherite (1957) 65 Milano, 3 Aprile 1961 Ti ho comprato un romanzo di Dos Passos, ed anche le lettere di Degas e di Cézanne. Ieri ho passato il pomeriggio con Emilio Renzi che mi ha raccontato nel suo stile fiorito l'arrivo di Paolo Caruso da Parigi, magro come un chiodo, barbuto ed affamato, pieno di debiti fino ai capelli e semi allucinato. Mi ha anche fatto leggere la nota che ha scritto di recente e che verrà pubblicata non so dove e nella quale, per la prima volta nella storia della letteratura mondiale, vengo citato per ben due volte con l'articolo "il" di fronte al mio cognome! Giovedì sera andrò ad una riunione in casa di Lelio Basso cercando di imparare qualcosa. Non preoccuparti delle cose che hanno poca importanza. Noi siamo per la Nona Sinfonia di Beethoven. Milano, 12 Aprile 1961 Sono stato in università. Nell'istituto di Filosofia, l'assistente dell'innominabile mi ha trattenuto una ventina di minuti per dirmi che stavo per giocarmi la "firma" di quest'anno, date le mie scarse apparizioni al corso, esercitazioni, ecc. ecc. Al che io ho per un po' un ruffianeggiato per diminuire le mie responsabilità, mettendo poi bene in chiaro che se prima la mia partecipazione è stata scarsa, in seguito sarà addirittura nulla e che il professore farà bene a darmi la firma lo stesso, dal momento che non ho tempo da perdere a Milano essendo prossimo il mio giro per università tedesche! D'accordo! Non ho detto proprio così. Lo ho detto nella forma più gentile possibile, in modo da dare peso di studi severi ai miei impegni futuri, insomma credo di avere reso accettabile la sostanza della cosa. Vedremo. Sarò di ritorno, come al solito, nella giornata di sabato. 66 [2012] Come il mio lettore avrà compreso, ora il racconto sta per subire una svolta. Se nel primo anno di università avevo ancora delle incertezze nella scelta della direzione di studio, la frequentazione delle lezioni di Enzo Paci avevano ormai posto un punto fermo. Quelle lezioni credo che abbiano lasciato in tutti coloro che ebbero la possibilità di ascoltarle un'impronta indelebile. Il suo eloquio era fluido, scorrevole, e soprattutto colpiva il modo in cui una severa proposta filosofica - come era quella di Husserl - poteva arricchirsi con l'immediatezza di riferimenti, soprattutto letterari. Essi apparivano certo come digressioni, e tuttavia non solo non distraevano l'ascoltatore, ma ancor più lo attraevano verso il centro delle tematiche filosofiche trattate. In queste digressioni produttive si inserivano poi anche riferimenti filosofici del passato e del presente. Paci si definì "relazionista" - benché poche volte io sentii usare da lui il termine di "relazionismo" perché temeva ogni "etichettatura" - e di fatto lo stabilire relazioni anche tra territori apparentemente lontani rientrava pienamente nel suo stile filosofico. Il fascino esercitato era dunque grandissimo. Forse lo si percepiva con maggiore chiarezza, almeno da parte mia, nel rapporto diretto che attraverso la pagina scritta. Nei due primi anni di studio si stabilì tra noi un rapporto tenace, solido, talmente simpatetico da darmi l'illusione di essere da lui considerato il suo allievo prediletto. Peraltro i nostri temperamenti erano molto diversi: più morbido ed aperto alla comprensione degli altri, il suo, più duro e rigido, più chiuso, il mio. Si tratta di aspetti del carattere che naturalmente poi possono portare anche a modi diversi di approccio all'idea stessa del "fare filosofia". Il suo Husserl del resto poteva andare perfettamente d'accordo con Proust, il mio restava un severo professore tedesco a cavallo del secolo. Poi ci fu, da parte mia, l'incontro con Wittgenstein, che a Paci rimase sempre estraneo. Ora, si diede il caso che poco oltre la fine del secondo anno di uni67 versità io avessi esaurito il pacchetto di esami anche del terzo anno, cosicché - essendo tecnicamente impossibile fare esami su corsi relativi al quarto anno - mi restava uno spazio libero da occupare già in funzione di una possibile tesi di laurea (rammento che a quel tempo vi era un percorso relativamene fisso nel piano dei studio). Paci formulò allora il progetto di inviarmi a Lovanio, dove Leo Van Breda aveva trasferito tempestivamente l'intero e ingente patrimonio manoscritto di Husserl salvandolo dalla probabile distruzione nazista: risultò tuttavia più semplice fare riferimento a Freiburg im Breisgau, dove vi era una sezione distaccata dell'Archivio Husserl diretta da Eugen Fink. A quel tempo tuttavia non vi era nulla di simile all' "Erasmus" di oggi, e nemmeno la possibilità di fruire per uno studente universitario non ancora laureato di una borsa di studio presso una università straniera. Per di più la mia famiglia, proprio in quel periodo, non era in grado di assumersi per intero un carico di spesa nei miei confronti. Occorre tener conto, che mio padre, medico noto e quanto mai apprezzato, doveva occuparsi oltre che di me anche di altre due sorelle e tre fratelli, tutti in età scolare, tutti nelle più varie situazioni scolastiche. In questi frangenti, Enzo Paci fece nei miei confronti un gesto che supera di gran lunga i compiti di un Maestro verso un affezionato discepolo. Mi procurò egli stesso il finanziamento iniziale che mi consentì di partire, e poi durante il mio soggiorno provvide ad ulteriori finanziamenti che, insieme a quelli indispensabili inviatemi da mio padre, mi consentirono di sopravvivere a Freiburg una decina di mesi. Un debito di questa natura, che è anzitutto un debito affettivo, non può essere restituito. Ma è stato da me conservato come un bene inestimabile che anche le difficoltà, che pure ci furono fra noi nel futuro, non hanno certo potuto cancellare. 68 Giovanni Piana ed Enzo Paci al XX Congresso Nazionale di Filosofia Perugia 1965 Questa bella foto che ritrae Paci in atteggiamento "magistrale" fu scattata da Marina durante il Congresso di Filosofia di Perugia del 1965. Essa ebbe una notevole fortuna, se debbo giudicare dalla sua ampia ripresa su giornali, libri, copertine, siti internet che si occupano di Paci. Naturalmente la mia presenza è sempre accuratamente sforbiciata. E questo un po' mi dispiace. 69 70 Freiburg, 16 Luglio 1961 Pioveva a dirotto all'arrivo. Alla stazione ho tentato di lasciare la valigetta a mano nel deposito, ma l'addetto ha risposto cose strane facendo segni ancora più strani. Allora me ne sono andato sotto la pioggia con la borsa, la valigia, il violino - ed io. Tutte le agenzie turistiche, manco a dirlo, facevano festa. Ma sono comunque riuscito a trovare una camera d'albergo. Si tratta, a dire il vero, di un bugigattolo sotto il tetto, tenuto del resto con una certa onestà e pulizia. Fino a mezzogiorno ho girovagato sotto la pioggia ed un vento gelido alla disperata alla ricerca di un caffelatte, per bere qualcosa di caldo - e per mia fortuna mi imbatto in un bar tenuto da italiani. Riesco poi a risolvere il problema del pranzo, io credo, molto brillantemente. Dopo una specie di crema acquosa che bevo per solidarietà con tutti gli avventori, ciò che avevo chiesto a caso da un menu per me incomprensibile si rivela essere una bistecca di maiale impanata. Zu trinken: Bier. La porzione era enorme e ne sono riuscito vittorioso a malapena. Vittorioso si fa per dire. Quella bistecca di maiale ed io siamo rimasti tutt'uno per l'intero pomeriggio. Ho tentato di digerirla con esorcismi mentali potentissimi, il maiale era inesorabilmente dentro di me e me lo sono portato a spasso ancora fino alle otto di sera. Sempre sotto la pioggia, naturalmente. Ti potrei raccontare molte altre cose, ma lo farò domani. Freiburg, 17 Luglio 1961 Il fratello del nostro amico Guzzoni, da buon italiano fortemente tedeschizzato, fa le vacanze in Norvegia e si tratterà fino al 26 agosto. Non posso dunque contare su di lui. Sono molto disturbato dal fatto che non riesco né a parlare né a capire un tedesco corrente e quotidiano - ciò porta ad una perdita di significato di ogni cosa. Si va per la strada e si leggono iscrizioni che dovrebbero esprimere qualcosa e che per te non esprimono nulla. Un volto che non parla è già strano; un volto che parla e che non esprime nulla lo vedi come il volto di un 71 folle. Esagero, tu dirai. Il fatto è che sono assolutamente solo e non ho alcuna possibilità di non esserlo. Passerà. Ma intanto piove e le mie scarpe estive continuano ovviamente a fare acqua. Dovrei andare a ritirare le valigie? Ma sono pesantissime e forse domani potrei non essere più nella pensione nella quale ora mi trovo. E poi: in quale valigia saranno le scarpe? Ecco: mi vedi immerso fino al collo nel grado più infimo della materialità. In questo grado si trovano i fieri pasti. Dicono che i capelli imbiancano per un grosso spavento; i miei imbianchiranno di fronte al prossimo piatto alla tedesca. Comunque domani farò il mio ingresso in università e mi darò da fare per per la questione della camera. Se rimani sola rivolgiti a mia sorella Angiola. E sta buona. Freiburg, 18 Luglio 1961 Piove. Terzo giorno. Ma oggi la ho fatta da furbo: ho camminato sui ginocchi, così le scarpe sono rimaste intatte. Non chiedermi nulla. Ti racconterò per sommi capi quello che posso. Stamane ho fatto il mio ingresso all'università. E qui mi sono risollevato perché ho incontrato finalmente qualcuno che conosce un poco il francese e che è costretto a chiedermi scusa e ad arrossire (chissà se avessi tentato di parlare in tedesco!). Cerco gli archivi Husserl. Husserl? Uno studente gentile mi accompagna in portineria. Confabulazioni varie tra lui e il portinaio e poi mi passano un indirizzo. Ho sospettato l'equivoco. Badate che il mio Husserl è morto parecchi anni fa! dico - e quelli allargano le braccia. L'indirizzo comunque mi viene confermato vivacemente - Brahmsstrasse 6. Rimango scettico ma resto curioso: mi voglio togliere il gusto di vedere chi c'è in via Brahms. Questa si trova nel quartiere Herdern della città, un luogo delizioso - e in quel momento c'era anche un po' di sole; al n. 6 abita effettivamente un dr. Husserl, ma mi sono guardato dal suonare all'uscio per non prendermi dell'imbecille in tedesco. A Herdern in72 tanto ho avuto la geniale illuminazione di non mangiare, o meglio di accontentarmi di due pezzi di pane e di un cappuccino. L'idea di intabernarmi in una Gastätte ingozzandomi di maiale mi ossessionava. Ero così contento di tale felice decisione che sono tornato in centro città e mi sono comprato un libro di Szilasi sulla fenomenologia. E ora cerchiamoci una camera! Bene: ho aspettato due ore e mezza di fronte alla porta dello Studentenwerk. Senza risultato. Allo Zimmernachweis c'era una vecchia tedesca che gentilmente mi ha scritto un biglietto di presentazione e raccomandazione per Frau Koch. Costei abita in periferia in un quartiere piuttosto popolare. Ma la stanza e il prezzo per me poteva andare. Le difficoltà vengono tutte da Frau Koch che è rimasta molto seccata dalla mia ignoranza del tedesco quotidiano (e dire che leggo piuttosto bene il tedesco di Husserl), o più probabilmente dall'inclinazione un po' italiana di quel tedesco. Quindi si è riservata di darmi una risposta all'indomani. Addio! Alla fine sono affranto dalla stanchezza, dal mal di denti accresciuto probabilmente dall'umidità di questi giorni, ma cerco di agire ancora recandomi ad un indirizzo datomi allo Zimmernachweis: Frau Gerhardt, Salzstrasse 18. Al numero 18 di Salzstrasse c'è l'Archivio Municipale di Freiburg. Non mi resta che entrare in una Gastätte, con il proposito fermissimo di evitare il maiale. Scelgo dunque delle rassicuranti uova alla russa che però non ti descrivo per non riportarle troppo vivamente alla memoria. A presto con le mie cronache. Freiburg, 19 Luglio 1961 Oggi sono stato al di sopra di ogni elogio. L'idea di dover abitare, a Freiburg, in una casa popolare in una camera con una finestra grande come la mia bocca mi ossessionava. Per questo appena sveglio mi sono rimesso in cammino, sotto la pioggia. Sono stato fortunato e sono riuscito a fissare a partire dal primo agosto una camera alla tedesca - del tutto priva di quel falso e misero moderno con fioracci nauseanti alle pareti e specchi di cattivo gusto di Frau Koch. La stanza 73 si trova in una pensioncina all'antica tenuta da Frau Motschenbacher, con una sala da pranzo piena di gingilli in cui vi è anche un'antica pianola. Frau Motschenbacher è una vecchia grassona, abbastanza arzilla che mi ha accolto molto cortesemente. Mi sento sollevato. Tutta la mattina ho girato di casa in casa - o meglio da un tafanario all'altro. Ho pranzato sotto un albero con due pani, un pezzetto di formaggio e due pesche. Spero da oggi in poi di raccontarti cose più interessanti. Puoi salutare per conto mio tutti gli amici di via Sirtori? A presto. [2012] Queste cronachine del mio arrivo a Freiburg venivano spedite a Marina a Milano, dove da qualche tempo si era trasferita. Inutile dire che i due giovani innamorati non potevano stare troppo distanti l'uno dall'altro. Marina se ne venne dunque a Milano, trovò un lavoro presso un laboratorio di maglieria (è sempre stata abile e geniale maglierista nel lavoro a mano ed a macchina) e ospitalità in "Via Sirtori", che più che il nome di una via era per noi - gruppo di amici impegnati nella vita culturale e politica milanese - il nome di un luogo di riferimento e di incontro. Si trattava in effetti di una casa comune di studenti, caratterizzata da un grande andirivieni di persone e di idee. Giairo Daghini e la moglie Erica facevano da numi tutelari - e in quella casa si viveva integralmente e con partecipazione l'atmosfera di quegli anni, così gravidi di eventi drammatici. Vi era soprattutto la guerra d'Algeria, vi erano le gesta eroiche dei vietcong; e si manifestava ormai quello che di lì a poco divenne il volto più brutale dell'imperialismo ameri74 cano che non era per nulla, come si vuol far credere oggi, un puro slogan: erano lacrime e sangue, erano le bombe al napalm, erano i pacifici monaci buddisti che ardevano come fiaccole nella pubblica piazza. Per poco che si fosse orientati a sinistra (ma anche animati da semplice e autentica pietà cristiana) era impossibile non vivere un senso di profonda avversione per questo clima di violenza montante esaltata dalla destra e dal centro filoamericano e dal cattolicesimo anticomunista. Sia Marina che io vivemmo in questo contesto le nostre prime esperienze politiche forti. Per Marina, in particolare, si trattava di un ambiente e di un'esperienza interamente nuova, sia per le idee che circolavano, sia per l'atmosfera esistenzial-libertaria a cui quelle idee erano spesso associate. Erica e Giairo Daghini (1961) 75 Freiburg, 20 Luglio 1961 Ieri ho parlato con Eugen Fink, un uomo sufficientemente simpatico, mi sembra sui sessant'anni. Mi ha detto essenzialmente 1. che gli archivi chiudono il 30 luglio; 2. che i manoscritti (in realtà dattiloscritti) non possono essere prestati; 3. che Guzzoni non è persona troppo gradita e tutto sommato è meglio non nominarlo. Con particolare eleganza Fink a questo proposito ha dichiarato: "M. Guzzoni est une personne trés aimable, mais il n'a pas d'authorité". Ora, devi sapere che uscendo dall'università c'era il sole e decido dunque di vedere un poco la città da turista. Niente affatto: mi rendo conto di camminare ciondolando come un ubriaco. Era sonno. Avrai capito dalle mie lettere quante energie abbia bruciato in questi pochi giorni, energie fisiche e mentali. Me ne sono dunque andato a dormire. Oggi sto bene e c'è ancora il sole: finalmente i miei occhi vedono giusto e si accorgono delle belle ragazze per le strade. Ho visitato con un po' di calma la splendida cattedrale e mi riprometto di ritornarvi presto. Intanto ti mando uno dei moltisssimi e straordinari vomitatori d'acqua che adornano l'esterno della chiesa. Fino al primo agosto mi trovi al vecchio indirizzo. Scrivimi! 76 Milano, 25 Luglio 1961 Paci mi incarica di dirti di fare in 2-3 cartelle uno schema di storia della fenomenologia, ma forse ti scriverà egli stesso. Paci ti vuole bene e ora, dice, ne vuole anche a me, purché continui ad essere la tua gioia. Gli stai molto a cuore. Sono felice di ricevere finalmente tue notizie. Mi pare così di incontrarti, come a Milano, ogni sera. Le tue avventure o disavventure sono narrate con uno spirito che mi fa presumere un tuo certo buon umore. Le mie giornate sono di tanto lavoro, ma anche di crescente entusiasmo per la vita milanese. Oggi, che è domenica, è andata così: Dino Formaggio sveglia quasi a mezzogiorno, pue una delle sue creazioni lizia a fondo della casa, pranzo da sola, felice corsa all'Adda con Guido Neri. Bagno delizioso. Cena con Caruso, Davidovic, Neri e Paci. Visita ad un algerino che intende fondare una rivista che tratti problemi africani politici, economici e culturali. Trasferimento di tutta la truppa in via Sirtori. Loro sono di là, mentre io ti scrivo nella mia camera. Ieri sera è venuto da noi Dino Formaggio, è stato simpatico, mi ha offerto un gelato e mi ha detto che sono simpatica e bella! Ti saluto, ti abbraccio… 77 Milano, 26 Luglio 1961 Caro Piana, forse il nostro progetto è possibile con Mondadori, per la BMM. Tu dovresti preparare due pagine nelle quali, diviso per capitoli, riferisci il sunto presuntivo di una tua Storia della fenomenologia. La presentazione deve essere brillante e dar l'idea che il libro può essere letto in generale da persone colte. Insisti su nomi noti come Sartre, ecc. Eventualmente correggerò io il sunto. Per favore, scrivimi e dammi tue notizie, anche finanziarie. Milano, 26 Luglio 1961 ogni giorno trascorre benigno componendo una settimana serena. Con Guido Neri siamo andato a pranzo dai bolognesi, poi abbiamo portato Carlo Basso e una ragazza sul lago Segrino, proseguendo poi per Magreglio, vicino a Erba - un luogo incantevole come piace a te, fra prati e boschi a sette-ottocento metri di altezza. In quel bellissimo posto villeggiano i genitori di Guido. Abbiamo cenato con loro ed alle undici di sera eravamo di ritorno in via Sirtori. Sabato è stata un'altra serata allegra. Ero sola, ed allora ho invitato Guido Neri e Paolo Caruso a cena. Dopo cena abbiamo ascoltato ogni sorta di dischi, fatto telefonate in giro, ed alla fine ci siamo trovati in casa Dino Formaggio che si è rivetato una persona realmente spiritosa e ci ha fatto ottima compagnia, ed a me ancora un sacco di complimenti. In questo momento ti scrivo dalla casa di Angiola, dove mi sono temporaneamente stabilita per qualche giorno. 78 Freiburg, 27 Luglio 1961 Scrivere è già un atto di amore, come parlare, raccontare di sé. Forse sono tanto assoluto da non poter parlare realmente con una donna senza volerle bene. Ho ricevuto tue notizie e sono consolanti. Ormai desidero sentire la tua voce. Mantieni questa tua autonomia, da me come da tutti, e saremo felici. In un giorno ho steso un mediocre progetto di lavoro, dubito che sarà soddisfacente ma non posso farci nulla; il tempo era troppo esiguo. Ho scritto anche a Enzo Paci, ma un giorno sentirò il bisogno di scrivergli una lettera vera. Intanto sono solo come un vagabondo e vado scoprendo di giorno in giorno i meravigliosi giardini di Freiburg, con i miei libri nella cartella. C'è il sole, un sole che non brucia. E cerco di ritrovare la mia anima in questa totale assenza di relazioni. Sofia, la cameriera che mi serve il pranzo mattina e sera, deve aver pena della mia solitudine. Ma ha torto. Io ho ritrovato le mie notti, anche se qualche volta sono tormentate. Ed anche l'aria del mattino. Ho dimenticato tutti e tutto; da Freiburg dovrò ripartire nuovo. Debbo smetterla di essere un ragazzo timido, nonostante la pelle crostacea. Sono stato al Friedhof di Freiburg; quello antico, dove i morti sono sepolti in tombe lasciate alla fantasia dell'edera. È un luogo straordinario, romantico alla vecchia maniera, immerso tra gli alberi dove vengono a passeggiare i vecchi e le madri portano a giocare i bambini. Le tombe sono delle fogge più strane, i marmi arrugginiti dal tempo, le immagini scolpite a volte soltanto tristi, a volte paurose. Ma non ci torno volentieri. Preferisco i giardini pieni di sole. Allo Stadtgarten ho letto Aden Arabia di Nizan: si tratta di un grande libro che spero tu possa leggere presto. 79 Freiburg i. B. - Stadtgarten 80 Milano, 30 Luglio 1961 Caro Piana, Grazie degli espressi e del piano per la "Storia". Dovrò trafficare un po' per far accettare il lavoro ma ho delle buone ragioni di credere di riuscire. Vorrebbero pagarti a percentuali. Ho detto che preferivi una somma subito a forfait. Questo per avere al più presto del denaro. Ho modificato il tuo schema. Ti farò avere a parte una copia modificata. Bisogna che parliamo per l'esecuzione del libro. Ho molti consigli da darti. Più pratici e, per così dire, di convenienza, che di altra natura. Ma di questo parleremo. Spero che a Friburgo non ti trovi male e vedo che ora hai tranquillità per lavorare. Dunque è bene che resti… I più affettuosi auguri e saluti. Milano, 1 Agosto 1961 Caro Giovanni Semprevivo, ti scrivo solo due righe di corsa perché debbo ancora lavare una pila di piatti e pentole. Marina da una settimana è saltuariamente a casa nostra, saltuariamente perché Erica reclama il suo aiuto. Stasera non c'è, è al cinema: l'ho avvertita dell'arrivo della tua lettera. Ieri sono stata con lei in via Sirtori, dove con il prof. Paci in maniche di camicia e pantofole c'erano una quindicina di uomini barbuti, alla Fidel Castro, di nazionalità italiana, americana, tedesca, svizzera, ecc. provenienti in parte, pare, da una gabbia di matti situata in via Solferino. A parte gli scherzi, ho conosciuto il prof. Paci che, quando ha saputo che ero tua sorella, mi ha fatto mille feste chiedendomi di te. Da lui ho avuto il tuo indirizzo, a tutti noi ancora sconosciuto. È una persona molto simpatica, ma io nella maniera più assoluta sono un asino tale da non essere in grado di parlare con lui né con i 81 tuoi amici di altro che di fatti quotidiani. Sabato vado in ferie. Spero di potermi distrarre abbastanza. Ti chiedo di scrivermi. Non essere troppo economico. (Parentesi: ho udito per telefono la voce della figlia di Paci. Mi è molto simpatica. Se fosse possibile, mi piacerebbe conoscerla). Spero di vederti presto Freiburg, 2 Agosto 1961 Cara Marina ti mando qualche appunto preso in disordine ed un disegno. È notte spengo la luce che mi ha accecato dopo tanto lavoro. La notte è buia ed uniforme; non si distingue la casa di fronte, né l'iniziare del cielo. Ora una finestra illuminata buca questo nero, ma non si vede altro che un giallo rettangolare fosforescente in un campo di nero che ha profondità. Ieri ho visto una vecchia che se ne stava istupidita di fronte al suo compagno che le scattava una fotografia. Piccola e magra, il volto ridotto ad un pugno di bambino, con il naso appuntito e cadente sulle labbra. Occhiali chiari senza montatura. Il vestito era nero come il fazzoletto sul capo. Se ne stava ferma, senza pensare a nulla, ad attendere che la sua immagine venisse impressa su di un foglio di carta bianca. C'è stato molto vento che radendo i praticelli di Freiburg faceva serpeggiare tra il verde, strisce di bianco. Di fronte all'Università c'è una scultura di Moore: ogni volta che vi passo dinanzi sono tentato di abbracciarla e di inserirmi nei vuoti di quella forma corposa e liscia. 82 [2012] È ormai tempo che dica qualcosa sui disegni che feci a Freiburg, alcuni dei quali mandavo poi a Marina, non senza talvolta qualche perplessità da parte sua. Debbo premettere che io non so affatto disegnare, non ho mai saputo disegnare, e nemmeno dipingere - mentre raccomandavo a Marina, di coltivare la pittura per la quale lei era dotata. A Freiburg tuttavia accadde per qualche tempo che esercitassi una sorta di grafica gestuale, o se volete, di gestualità che si traduceva graficamente, talora con una semplice penna biro o una matita, talaltra e per lo più con uno spazzolino da denti intriso di inchiostro di china. Mi è sembrato che anch'essi meritassero di entrare in questo libretto, di cui certamente condividono lo spirito - e li ho quindi inseriti nei frontespizi degli anni in cui è suddiviso. Per aggiunta ne dò qui di seguito qualche altro esempio. 83 84 85 86 Freiburg, 5 Agosto 1961 Questa sera sono stato allo Studentenheim che è in realtà l'Alte Universität, l'antico edificio dell'università medioevale. Esso è assai intelligentemente adibito al libero intrattenimento degli studenti, vi è una sala di lettura dei giornali e persino una sala per fare musica con le necessarie attrezzature: l'ambiente è veramente molto simpatico. Non sono amico di nessuno, eppure entro, mi siedo, fumo, chiacchiero: nessuno mi chiede chi sono e che cosa voglio, e così ce ne stiamo in pace. Domani porterò là il violino. Ho trovato uno strano tipo seduto ad un pianoforte e gli ho chiesto se voleva suonare con me. Lui ha detto di sì. Vedremo come andrà a finire. Stasera ha smesso di piovere e sono tornate le stelle; allora si può tirare avanti. È strano che alla stazione di Milano, prima della partenza, ti abbia dato un bacio fraterno su una guancia. E tu mi hai gettato le braccia al collo dimostrandomi la mia incapacità di dare un addio. Dimmi qualche cosa. 87 Valmacca, 8 Agosto 1961 Lunedì sono sulle rive del Po ed è sera. Come è bello apprenderlo dalle ombre che si sono fatte lunghe lunghe. Quanto calma e ristoro vi è nel fruscio dell'acqua e nel volo degli uccelli! Oggi è stata una giornata felice. Tu del fiume non conosci quest'acqua limpida e calda. Vorrei che tu fossi qui a ricrederti dimenticando l'esasperante calura dell'ultima volta. Ho accanto a me una cesta colma di pesci, ho aiutato i pescatori a raccogliere le reti. I pesci guizzando scintillavano comunicandomi un'allegria eccitata. Quando stanca, felice, mi sono abbandonata al fiume, mi sono sentita accogliere come se mi avesse attesa. Ogni movimento, nelle sue mille variazioni, è perfettamente sincronizzato. Mi sento sciolta, trasformata, quasi fossi io l'acqua. È bello vedere sfilare alberi, cespugli, sassi sulla riva. Sono stata un chilometro di fiume. 88 89 Freiburg, 12 Agosto 1961 Cara Marina, ieri ho passato la mattinata alla polizia. I controlli non sono finiti: debbo provare documenti alla mano che studio a Freiburg, della mia parola non si fidano… debbo dunque ritornare in quel luogo turpe almeno ancora una volta entro un mese. Il pianista di cui ti avevo parlato non mi piaceva affatto - era un energumeno con la mascella per traverso. Quindi non sono andato all'appuntamento. Ho perso il pianista ma ho trovato un violinista: un altro olandese, non troppo comunicativo, ma non si sa mai. Anche i frequentatori dello Studentenheim non mi convincono troppo. Diraderò le mie visite. Sto molto bene quando lavoro, scrivo molto, leggo molto. In questo momento piove. Il sole del Po mi giunge nelle tue lettere piene di luce. Freiburg, 15 Agosto 1961 Marina, ciao, sono io. Dalla vecchia Motschenbacher oggi è entrato in scena, essendo la cameriera in vacanza, il signor Motschenbacher figlio, 39 anni, ridicolissimo, calzoni corti, inchini a non finire. Mi porta il pranzo, mi fa il letto… e intanto chiacchiera con me tutto contento; io rispondo, lui scodinzola, si inchina nuovamente, se ne va… È la sola persona con la quale abbia parlato per diversi giorni. Ieri soltanto ho deciso di rompere questa mia assurda solitudine e sono capitato allo Studentenheim. La compagnia c'era: tre papere portoghesi, una inglese, un profugo ungherese, un tedesco ed uno spagnolo. Nel complesso è stata una serata piacevole, ed è strano e paradossale come persone di nazionalità diverse nessuna delle quali riesce decentemente a parlare una lingua comune riescano ad intendersi. 90 Che cosa ti debbo raccontare ancora? Della pioggia? Del mio persistente mal di denti? No! in fondo sono contento; ho quello che voglio. Lavoro molto su Husserl che qualche volta mi dà del filo da torcere. Quando sono affaticato me ne vado su una panchina a dondolare le gambe. Del resto so che nulla sta fermo, e anch'io mi sto muovendo, anche se lentamente ed a zig-zag. Debbo poi chiederti un favore: fa un quadretto per me. Oppure per te. Ciao Marina. Ma come sei lontana! Freiburg, 16 Agosto 1961 Cara Marina, stanotte non ho dormito per il mal di denti - sono stato per ore disteso immobile come una statua, con la guancia premuta sul cuscino. Cosicché oggi mi sento leggero come una foglia. I denari da casa non sono ancora arrivati e mi restano tre mila lire in tasca. Ogni mattina, con il batticuore, prendo le lettere dalla cassetta ma tu te ne stai silenziosa. Non vuoi tenermi un po' di compagnia? Mi piacerebbe portarti in qualche oasi felice, ed invece bisogna tentare di vivere come si può. Io lo faccio ostinatamente, il cuore scavato da suoni lontani. Freiburg, 18 Agosto 61 E intanto piove, piove, tira vento, fa freddo che quasi non ci credo. Tuttavia ho ricevuto le tue lettere e sono contento. Il primo mese di soggiorno a Freiburg è ormai trascorso e posso tirare le somme: studio testardo e disperato del tedesco (più di mille vocaboli interamente digeriti) ed il risultato si avverte. Comincio a capire quel che mi si dice e persino a discutere di filosofia. Ti avevo detto di aver trovato un violinista - abbiamo suonato insieme qualche giorno fa, ed egli mi ha immediatamente proposto di prendere qualche lezioni dal suo maestro, cosa che sarebbe davvero 91 molto utile e che mi aprirebbe la strada per fare molta musica ed al tempo stesso per conoscere gente. La difficoltà è essenzialmente finanziaria ma sono certo che mio padre mi verrà incontro. Ed ecco un'altra notiziola. Una faccia nota a Freiburg la dovevo pur trovare! Forse qualche volta ti ho parlato di G., studente anche lui all'Università di Milano e figlio di un ricco borghese del quale ha tutta la mentalità. Bene, eccolo qui a Freiburg. Non so esattamente che cosa ci sia venuto a fare e io non glielo ho chiesto. Comunque mi dice subito che vuole offrirmi il pranzo, e di ciò, dati i tempi non posso che gioire - poi ci ripensa e per tutto il giorno mi scrocca sigarette. Il lato positivo è che per mezzo suo ho conosciuto due ragazzi che mi riprometto di frequentare, uno dei quali si occupa di Musil. Con loro ho sostenuto oggi discretamente la mia parte in una discussione tutta tedesca. Avrai capito che sto superando la malinconia. Tanto meglio. Un abbraccio, Marina mia, e qualche parola sussurrata in un orecchio. Freiburg, 19 Agosto 1961 Cara Marina, ci deve essere stato qualche disservizio bancario ed a tutt'oggi non ho ricevuto nessun assegno dai miei, tanto che ho mandato loro una gustosa cartolina che manifesta chiaramente come mi senta in queste circostanze. Penso allora di rivolgermi all'amico G., che credo proprio non abbia problemi finanziari. E scopro che in realtà egli medita il modo di combinare qualche pasticcio finanziario all'università, comprando e rivendendo libri. Io gli chiedo comunque 10 marchi in prestito. Lui dice di sì, e sparisce dalla circolazione per due giorni. Lo ripesco mentre gioca a scacchi. Dico: "Allora?". E lui: "Aspetta, finisco la partita". Io aspetto implacabile; e lui invece di fare una partita, ne fa due. Finalmente cede. Con mille raccomandazioni. La conferenza che ho ascoltato ieri la ho compresa quasi completamente. Intanto ho scritto a Paci. Attendo tue notizie. 92 93 Freiburg, 7 Settembre 1961 Ricevo in questo momento una lettera del mio amico olandese. Ricordi? Ho suonato con lui una volta dei duetti di Viotti. Ora mi scrive dall'Olanda e mi dice di aver parlato di me al suo maestro di Freiburg e che verso la fine di settembre potrei accordarmi per prendere qualche lezione. Aggiunge che desidera ancora suonare con me e che porterà con sé della musica al suo ritorno a Freiburg. Che ne dici? Non è stupendo? In questi giorni ho tanto desiderio di suonare! Ti voglio bene. Freiburg, 8 Settembre 1961 Il cielo è stupendo dopo una giornata di pioggia tempestosa; non lo ho mai visto così potente, ancora coperto di nuvolaglia nera, fissata in attimi di fuga, e lontano uno squarcio di luce piena, infuocata. Noi viviamo senza sapere di darci un passato e di sorpresa ce lo troviamo alle spalle. C'è stato un tempo in cui avevo le gambe corte ed i riccioli folti, e pascolavo una capra con i miei fratelli, dietro il muro coperto d'edera della chiesa di Frassinello. Ora mi sembra di raccontare una favola e la ascolto con meraviglia. I nostri corpi si sono riconosciuti perché non si sono mai dimenticati; ma la lontananza fa paura perché è come l'oblio. Tu sei lontana, ma so che ti posso carpire con una mano. Marina, tu sei la mia ragazza, la mia donna. Non contraddirmi. E ti chiedo di dormire serena, nella mia esistenza turbinosa. Se mi scrivi, mi aiuti a vivere. 94 [2012] A partire dal mese di settembre sia Marina che io cominciammo a dubitare che fosse opportuno continuare il soggiorno a Milano, in via Sirtori. Questi dubbi derivavano sia dal senso della lontananza che tolleravamo entrambi a malapena, sia dal fatto che diventavano assillanti, come chiamarli?, gli attacchi alla solidità della coppia - l'unica, da quelle parti, realmente solida, se ben ricordo. Questi attacchi ebbero l'effetto, da un lato, di generare in noi ansietà ed inquietudine, dall'altro di progettare la possibilità per Marina di raggiungermi a Freiburg, come di fatto poi accadde. In queste circostanze, scrissi anche una lettera a Enzo Paci, ed egli mi rispose. Freiburg, 10 Settembre 1961 Marina mia, Non ho mai saputo come ora che il mio amore per te fosse dentro il mio corpo, nelle mie viscere. Io ho passato un mese di assoluta solitudine che si è concluso con l'assurdo orrore di perderti. Ed è in questo mese che sono emersi echi lontani, da tempo soffocati. Questo ho cercato di dire a Paci, per quanto era possibile. E la mia vita con te non è stata forse felice? Sì, ma in una cornice disperante. Non ricordi le nostre notti d'amore interrotte? Non ricordi che ero io a dirti: "Andiamo!", perché guardavo sempre al domani, e la mia disperazione, ignota a se stessa, si accresceva? Ieri notte avrei voluto sedermi sul marciapiede e piangere, perché non ho saputo darti neppure un'ora di felicità, di felicità piena, senza domani. Ciò significa che questa ora te la posso dare e te la darò. Non angosciarti più: noi camminiamo su di una strada nuova che può essere più bella dell'antica. Ci dobbiamo aiutare. Lo vorrei ora, in questo momento, per te; e non vi riesco, perché è troppo difficile comunicare con parole una presenza - non dimenticare che anch'io ho bisogno di essere aiutato. Guardiamoci in faccia: noi non ci possiamo tradire e neppure ingannare. Non tormentiamo allora le nostre anime con false immagini di noi stessi. 95 [2012] I tre stralci che seguono sono tratti da un lunga lettera che Enzo Paci mi mandò in risposta alle mie "pene d'amore" e sono rimasti un segreto strettissimo tra me e Marina fino ad oggi: era giusto così. Ed è giusto che ora diventino noti per una ragione molto semplice: l'intera mia vita sta ormai trascorrendo via e ciascuno può prendere atto di ciò che ho fatto o non ho fatto, dando della mia attività intellettuale il giudizio che crede. Ma il giudizio che a quel tempo Enzo Paci diede su di me torna con la massima evidenza tutto a suo onore di uomo e di maestro che non esita un solo istante a mettere se stesso in questione di fronte ad un proprio allievo che muoveva allora solo i suoi primi passi. Enzo Paci ad Albavilla nel 1970 96 Milano, 12 Settembre 1961 Carissimo Piana, Nella tua lettera leggo molte cose - quelle che mi dici e quelle che immagino e sento per Einfühlung. Ho pensato ad una frase di Valery che spesso ho dovuto ricordare per me stesso: "Il mondo fa tutto quello che può per impedire ad una disgraziata idea di riuscire". Naturalmente, non si tratta soltanto di un'idea ma anche di un progetto di lavoro e di un progetto di vita. Molto spesso quando si inizia una via - e si inizia bene - si viene sottoposti brutalmente ad una prova ed a una sfida. Così è accaduto a te - così è accaduto tante volte a me (ho cinquanta anni) e così forse accade e deve accadere a tutti coloro che hanno veramente un compito autentico da assolvere. […] Io sono qui che scrivo, nella tarda notte, ad un giovane che amo per quello che è, per quello che fa, per quello che può fare. Ti scrivo sapendo molto bene, molto più di te, con più certezza di te, che tu hai un compito da assolvere che mi supera, che tu assolverai meglio di me - tu un giorno ricorderai con quanta sicurezza io te l'ho detto, vedendo, sentendo in te tutto questo. Ma proprio per questa ragione io mi sono sempre un po' preoccupato per te: perché sapevo che le persone come te, alle quali è riservato un grande compito, sono sottoposti a difficili prove. […] Questa mia lettera non è una lettera del professore - ammesso che esista qualcosa di simile al professore. La tua lettera è una lettera da amico, nella quale tu ti apri. E la mia lettera ti risponde. Ti risponderò sempre così - mi è spontaneo con te - ogni volta che questo sarà possibile ed io spero che sarà possibile, ormai, per sempre. In realtà vorrei parlare a lungo, molto a lungo con te, su tutto - ma su un tutto visto alla luce del tema di questa lettera. Spero di poterlo fare presto. Ti scriverò ancora per le altre cose che riguardano il tuo soggiorno e i tuoi studi. Non ora. Ma nonostante il mio ritardo nello scriverti ti sarei grato se tu mi scrivessi presto. Attendo dunque qualcosa da te. Con tutta la mia più affettuosa amicizia 97 98 99 Freiburg, 14 Settembre 1961 Ho ricevuto un'ora fa la lettera di Paci. Non dubitavo che mi avrebbe scritto. Ora lo sento vicino come ho sempre desiderato. Per quanto riguarda la tua venuta qui, un pizzico di francese può essere utile prima di buttarsi sul tedesco che potrai imparare sul posto. Per il francese ci sono dei buoni manuali di conversazione; potresti cominciare da quelli. L'unica cosa da studiare con un po' di cura sono i verbi; per il resto, vedrai, è facilissimo. Tu sai bene come le tue decisioni mi abbiano reso contento. Per le lezioni di disegno come pensi di poter fare? Ti raccomando di non aver paura di nulla perché non c'è nulla che possa far paura. Mia compagna, io mi guadagno la vita poveramente e umilmente, così come posso. E cerco di tener lontana la nostalgia. Non è forse meglio così? Fidati di me. Io ti cammino al fianco, ti guardo, tento di aiutarti in tutto, anche nelle cose più piccole. Non costringermi allora a dirti che ti voglio bene. Milano, 14 settembre 1961 Sono stata da Eliane. Ieri sera alle nove ho percorso il tragitto Via Sirtori - via S. Spirito scortata da una fuoriserie dagli occhi biechi. È proprio strano essere seguiti senza vedere l'uomo che ti segue. Poi ho trovato la tua lettera e sono stata con te. Stamane mi sono svegliata con te accanto, libera di distruggere i brutti sogni che incombono mostrandoti realtà terribili… La prigione si è finalmente aperta. Finalmente so chi sono. Tutto ciò mi porta a fare progetti ed a prendere decisioni, ad esempio, l'apprendimento immediato del francese spicciolo e in seguito lezioni di disegno. Se ti avessi ascoltato avrei già fatto una parte di queste cose, ma non riesco a fare cose "in vista di…". Sono come un cavallo che ha bisogno di essere sul posto per sbrigliarsi a correre e non un ammasso di acciaio che dopo essere stato forgiato in officina diventa una macchina da corsa! Nel secondo caso si è avvantaggiati dalla costruzione, nel primo dalla libertà che il correre ti offre. 100 [2012] Quando fui a Milano, già ai tempi della mia seconda liceo, divenni allievo di violino del Maestro Arrigo Balsimelli. L'insegnamento del violino, che molti violinisti fanno apertamente di malavoglia considerandolo talvolta addirittura come un mezzuccio per arrotondare lo stipendio da orchestrale, per Arrigo Balsimelli era una passione autentica, accompagnata da un reale desiderio di vedere crescere un "suonatore di violino", qualunque fosse poi la sua professione futura, e da un grande sapere didattico e teorico. Il suo riferimento principale non era il solito Kreutzer, ma Sevcik e la scuola russa. E la sua partecipazione era tale che, circostanza assolutamente insolita per un maestro di violino, usava assai spesso eseguire gli esercizi insieme ai suoi allievi. Nella lettera che mi scrisse a Freiburg sono ancora oggi colpito soprattutto dalla preoccupazione di darmi dei buoni consigli per evitare di arretrare nella tecnica violinistica, come inevitabilmente accade, nei periodi di stasi. E poi, caro Maestro, quando tornai a Milano per riprendere le tue lezioni, di cui mi dici qui poco assiduo perché tutto preso dai miei interessi filosofici, non mi fu possibile incontrarti ancora. Te ne eri andato per sempre. 101 Milano, 15 Settembre 1961 Caro Giovanni, Ho gradito immensamente la tua gentile lettera, avevo veramente desiderio di avere tue notizie. Immagino che i primi momenti debbono essere stati duri, lontano dalla famiglia e abituarsi ad una vita diversa in tutto. Ad ogni modo, ti sia conforto il sapere che i sacrifici che fai, tornano a vantaggio della tua posizione, quindi hai uno scopo. Devi pensare che sarà una cosa temporanea. Godo nel sentire che hai la possibilità di ascoltare della buona musica e che in Germania è coltivata e amata. Con la riapertura dell'Università, farai nuove conoscenze e piano piano ti abituerai e sentirai meno la nostalgia. Anch'io non ti nascondo, sebbene venivi poco, sento la tua mancanza ed ho un senso di vuoto. 1. In quanto all'esercizio del violino mi raccomando di non perdere la cavata, prima di cominciare a suonare fai qualche minuto delle note lunghissime sulla quarta e terza corda (che sono seste) e sali quasi fino al ponticello e questo è più che sufficiente per mantenere il suono. Mi raccomando le ottave diteggiate, eseguite anche a ottave semplici; il Moto perpetuo di Paganini, se lo hai con te. Eseguire arpeggi di gran volata, le terze e le scale semplici, un giorno picchiettate, un giorno balzate e via via. Con questo sistema, stai pur certo, farai ugualmente progressi e ti garantisce che con chiunque ti trovi a suonare farai sempre una ottima figura. Sarò molto felice di rivederti e a voce mi racconterai tutte le novità e riprenderemo senz'altro le lezioni, ma credi che tu ormai hai e conosci la tecnica del violino. Al momento si ha l'impressione di perdere tutto, ma chi ha tudiato veramente i primi anni come te, la ripresa è fulminea. Io sto abbastanza bene, nonostante la continua stanchezza al braccio. Ti ricordo con tanto affetto più come amico, che come allievo, ti faccio tanti auguri di ogni bene ed abbiti i più cordiali saluti. 102 Milano, 16 Settembre 1961 Si, si, Giovanni, ridi pure. Comincio una lettera con il proposito di comunicarti i fatti della vita quotidiana e finisco per scriverti un libro d'amore. Ti invito a sederti con me al caffè, parlo, racconto, mi volto e basta un attimo, m'innamoro! Così sono fatta e la mia vita vuole essere così: lavorare quel tanto che mi basta per mangiare, poi saltellarti intorno, cercarti, toccarti, seguirti, baciarti, fare l'amore. È come essere su di una scala. Io ho voglia di ridere, di scendere di corsa e dire: "È uno scherzo!" Sì, ho voglia di baciarti e ti bacio sulle orecchie e sul naso, e non mi importa nulla del francese (però continuerò a studiarlo perché tu mi hai detto "fatti una carriera"!), Senti? anche a Milano i gatti fanno la serenata, ma non sono sinceri, non riescono a convincere. Qui, certo ci sono case, stanze, camere piccole e grandi, ma vuoi mettere un amore che ti invita nei prati, nei boschi di lucciole sotto la luna, nel silenzio - con il cemento per erba, il neon per stelle, lo sferragliare dei tram per il fruscio del vento e dell'acqua? Io stanotte ho voglia di correre. Se terrai la finestra socchiusa mi sentirai saltare nella tua camera - Miao-Ciao. 103 Milano, 17 Settembre 1961 William mi ha offerto il concerto per violino di Mozart, lo stesso che ascoltai una volta in casa tua. Un'emozione intensa mi ha portato per un momento vicinissima a te. Siamo stati insieme in quel puro meraviglioso adagio. Altri dischi, una sinfonia stupenda, sempre di Mozart, la Follia di Corelli in 23 variazioni; la Sagra della primavera… Ho ricevuto il tuo caro, entusiasta biglietto nel quale mi comunichi la tua ansia di suonare. Che gioia sentire questi tuoi slanci. Che cosa bella è la musica - che felicità quando potrai soddisfare il tuo desiderio. Giovanni, ti voglio così, vibrante, vivo, contento… Tienimi un poco con te - te lo ho chiesto in quel caldo pomeriggio di settembre e te lo ripeto oggi e non so se ne ho bisogno più oggi di allora. Tu che tieni fra le mani questo foglio lo senti fremere come se fosse il mio volto ed è inesprimibile ciò che vi leggi. A te che mi vedi, mi mostro. Come è dolce dire settembre e sentire scorrere l'acqua del fiume, la pioggia, la vendemmia… Quest'anno settembre è un gatto fulvo mai sazio di sole, una strada difficile, le nostre mani che disegnano gesti che pure nella memoria hanno un senso. C'è armonia nei nostri giorni anche se la dissonanza è vicina. Siamo più adulti, aspro è talvolta vivere. Io che accarezzo la tua fronte che brucia per i tormentosi pensieri, il lavoro - quante cose so di te - so tutti i tuoi giorni, ho con me la tua vita di uomo. Io che sto imparando ad "accettare" mi sento più ricca. Quanti "grazie" ti debbo, e sono tutte carezze. Freiburg, 20 settembre 1961 A Marina Ho voglia di ballare con te. 104 Freiburg, 22 settembre 1961 Scrivi a Guido Neri, certamente, se è una cosa che senti. Io apprezzo molto Guido e lo sento, come dire? familiare. Non ti posso dire di Enzo Paci in due righe. Egli è un uomo autentico. Ha compreso molto di me. Dovrei dirti tante, tante cose. Milano, 23 settembre 1961 Caro Piana, grazie della tua lettera. L'attendevo. Ho letto con attenzione quello che mi dici, ne riparleremo ancora. So che a Friburgo non ci sono tutti i manoscritti. Penso che se vorrai leggere le lezioni husserliane del 1910/1911 dovrai andare a Lovanio - a meno che quella trascrizione non sia possibile averla qui a Milano. Io devo pensare a trasportare qui l'Archivio - per questo sono costetto a fare molte cose - e molte cose che non avrei voglia di fare. Così, in questa situazione, talvolta mi sento quasi "bloccato". Non preoccuparti eccessivamente del manoscritto sul colore. Quando avrò finito questa lettera cercherò l'indicazione precisa. Ora bisogna che ti scriva di un'altra cosa. Ho ottenuto da Mondadori l'accettazione della proposta per il tuo libro sulla fenomenologia. Per scriverlo avrai tempo due anni. Potrai cominciare dopo la tesi e, nel frattempo, fare altre cose. Purtroppo il compenso in denaro non è molto alto. Ma è sempre bene pubblicare un libro da Mondadori. Il mio consiglio è dunque di accettare queste condizioni. Io troverò il modo di cercare altro denaro perché tu possa restare ancora a Friburgo e, eventualmente, andare a Lovanio. Ora ho bisogno che tu mi scriva con la massima sollecitudine. Appena ricevuta la tua risposta affermativa io ti farò spedire il contratto. In tal modo potrai ricervere il denaro il più presto possibile. Dunque attendo due righe da te subito. Affettuosamente 105 Freiburg, 25 Settembre 1961 Eppure, credi, ho degli amici; li ho sempre avuti, anche per una sera soltanto, per un giorno; poi improvvisamente scomparsi, andati lontano, forse senza neppure un saluto. L'amicizia è un incontro; ci si guarda in viso, ci si riconosce come degli esseri che hanno qualcosa in comune. E non è neppure vero che si debba scavare fin chissà dove, che si debba parlare di "faccende private", o simili cose. Ora me ne vado in giro per le strade di Freiburg. Così belle la sera, e così diverse - la via principale, molto comune, con i portici tradizionali, poi le vie laterali, in saliscendi, accanto a piccoli canali che sbucano chissà di dove ed una birreria con gli uomini in camicia che godono il fresco ed una gonna rossa che balla - e penso all'amicizia che può essere trovata dappertutto, nelle cose e negli uomini; con una parola o una sigaretta, come quando ho offerto da fumare al cameriere del bar e da allora mi dice, quando entro: "Ecco il mio amico". Pensa che una volta mi ha addirittura chiamato "Pasquale"! O come quando in treno quell'emigrante che se ne veniva in Germania a trasportare mattoni, mi offerse una pesca che io ebbi il coraggio di rifiutare: mi sembrò subito di aver dato senza ragione uno schiaffo a qualcuno. Accanto a questi volti che presto si dimenticano, ve ne sono altri che hanno inciso più profondamente qualche cosa dentro di me e che fanno parte della mia storia. Sapessi quanta umanità vi era in un tempo ormai lontano in una casa di cura circondata di cicale e di ombra. Ero un bambino che sognava, e i volti che mi guardavano mi dicevano tutti che mi volevano bene; persino quello che mi sembrava proprio il più cattivo, addirittura che mi appariva come l'immagine della cattiveria e del cinismo, in un'ora soltanto si mostrò quale realmente era, un uomo buono, che soltanto aveva più ferite degli altri sul proprio corpo. Quante cose ti potrei dire ancora! R. un giorno mi disse: "non ti voglio più vedere" ed io lo compresi senza comprenderlo, e sparii. Non so che sentimenti nutrisse per me, ma so che, per il tempo in cui lo frequentai, mi aiutò, perché chiarì con la sua solitudine, la mia. È inutile, Marina, che ti parli di volti di cui tu conosci il significato: non so per quale ragione, io tendo ora 106 a ritornare all'infanzia quando salivo cinque rampe di scale e lassù, nell'alloggio sotto il tetto, trovavo un vecchio maliconico e buono; ogni giorno guardava e riguardava i suoi violini, spostava di posizione la loro "anima" o il ponticello alla ricerca del suono migliore, viveva dell'umiltà di una passione, di quella passione per la quale aveva sempre vissuto. Non potei mai udirlo mentre suonava l'organo: ma io spesso lo immaginavo così: in una grande chiesa vuota, ma tutta risonante di quelle note potenti che un uomo piccolo e vecchio traeva dalle oscure profondità della sua anima. Visca Egidio: un piccolo uomo; soltanto un uomo. Il suo corpo morì spezzato dalla stanchezza. I miei occhi lo videro inerte su un letto di ferro battuto, in una camera dal soffitto basso e grigio; e quegli occhi scavati, già uccisi, chiedevano luce, e le sue mani, lentamente, anch'esse cercavano luce nel vuoto. Senza accorgermene sono andato tanto lontano, lontano anche forse da quello che io sono ora. Forse non tuttavia così diverso dal momento che riesco persino a ritrovare la mia infanzia, ma sono certamente più violento, più incredibile, più complicato di un tempo. È difficile ora "afferrarmi". Ho imparato ad essere molte cose. Datemi il fragore di una danza, datemi di quel ritmo che può nascere soltanto ai limiti di una terra accecata di sole e mi perderò come un selvaggio. Ed oggi mi chinerei adorante di fronte all'enigma di un volto di rame, adorno di simboli ignoti. Certamente ho imparato anche la serietà di una professione, la serietà della professione di uomo provvisto di una ragione, e questa ragione la userò, costi quello che costi. Stiano lontano da me le persone per le quali la filosofia è un mero pretesto per ricamare parolette alla moda e scrivere qui e là qualche parola in tedesco. La filosofia e la cultura in genere non sono questo. Tu sai che cosa significa tutto ciò. In questi frammenti tu puoi trovare la mia unità. Mi conosci bene; io con te sono proprio quello che sono. Chi mi conosce meglio di te? Mi hai visto ridere e piangere, gridare e sussurrare; giocare e "ragionare". Con te io possa parlare di filosofia (e già successo nevvero?) oppure venire di soqquatto alle tue spalle e… (anche questo è successo!). 107 Vieni con me, ragazza mia; non comprendi che abbiamo dentro di noi formidabili certezze? E ti può far paura una parola detta da altri? Non senti il nostro entusiasmo? Noi viviamo in un mondo che prima o poi morirà. Da secoli sono maturati gesti e pensieri che tentano di soffocare la nostra libertà. Io sento che le difficoltà che nascono nei rapporti con gli altri hanno una radice lontana. Ma noi due di fatto non siamo vincolati a tutto ciò. Tu, come me, sai ritrovare il piano della verità e dell'amicizia, quando vuoi e come vuoi. Credi a me; a nessun altro. Perché io ti conosco, e nessun altro: conosco il tuo sorriso, la tua paura, la tua angoscia, la tua felicità di fanciulla, il tuo sonno stanco, i tremiti di tue notti lontane. Io solo conosco la tua nudità. Questo tuo corpo nudo che mi si è rivelato in un tempo che ha una durata, che ha anch'esso una storia; che è mio perché è diventato mio. Che cosa è lo spogliarsi, l'essere nudi? Niente. Volete dei corpi nudi? Uomini? Donne? Ecco ve li porto a dozzine. Ve ne sono alcuni veramente belli, sono belli come un albero o come un fiore. Ma il punto sta in questo: che cosa ne farete di questa bellezza? Marina, so che tu mi capisci, so che senti che non c'è nemmeno la più piccola ombra di amarezza in quello che dico. Tu stessa hai già compreso tutto questo. Ed ora ti dico: non abbiamo bisogno di anelli che ci leghino; noi possiamo procedere per le nostre strade, che potranno anche divergere, ma non dobbiamo perdere il nostro entusiastico senso del vivere; non dobbiamo venire a patti con questo vecchio mondo che ci condiziona. Io ti grido tutto questo trascinandoti in un abbraccio. Non dobbiamo nemmeno andare alla ricerca di un mondo mitico abitato da divinità grandi come montagne. Bastano due materassi gettati per terra; e bastano le nostre vite giocate in un'aula, in un negozio, sul tram. Marina mia, fanciulla, questo mio turbinare di parole dice soltanto il mio amore per le cose; per questa notte che mi viene ad avvolgere, per questi uomini che camminano incertamente per vie che ignorano e che pure credono di conoscere. Fanciulla, cara fanciulla, guardiamo insieme silenziosi paesaggi lunari; ascoltiamo: i nostri passi leggeri si allontanano da noi. Ed ora possiamo dormire, l'uno accanto all'altro. Io dormo sulla tua bellezza. 108 Milano, 28 Settembre 1961 Giovanni caro, che idea stupenda mandarmi i fiori! Li ho incollati sulla carta Fabriano nera e li appesi sulla porta accanto alla finestra. Così da Freiburg viene nella nostra camera una nota felice. Domani sera andrò ad informarmi personalmente per i corsi serali di lingua. Tutti mi incoraggiano, Tom è stato due ore la sera a farmi leggere ad alta voce e correggere la pronuncia. Paci mi ha telefonato e dopo aver chiesto tue notizie mi ha anche detto: "So che possono esserci momenti di perplessità, nei quali le azioni comportano errori. Perciò ti dico di vigilare e soprattutto di non lasciarti incantare da falsi discorsi intellettualistici. So che sei buona, che agisci secondo la tua natura, ma sii prudente. Giovanni ti vuole bene, io te ne voglio, rimani con noi. Ti parlo come ad una figlia dall'alto dei miei cinquanta anni, sii buona. Ciao. Ti ritelefonerò…" Non posso aggiungere nulla alle sue parole. Il giorno precedente era venuto qui Nani Filippini. Mi ha chiesto se dovevo dirgli qualcosa, lui partiva per Parigi e non ci saremmo rivisti per qualche tempo. Nel poco che ci siamo detti, ci siamo subito capiti. Anche lui, con meno effusioni, ci vuole bene, vero? Lasciandomi mi ha regalato una sigaretta ed ha aggiunto che non mi donano gli occhi rossi. Ti ho ritrovato, sei la mia cosa più bella. Ora chiudo la luce, la porta e la finestra, così staremo soli insieme. [2012] Vi fu autentica amicizia tra me ed Enrico Filippini - Nani, per gli amici - nel periodo in cui visse a Milano. Quando era attivo presso Feltrinelli, fu proprio lui ad affidarmi la mia prima traduzione: Einzelheiten, di Hans Magnus Enzensberger. E di questo gli fui grato, anche perché era una implicita affermazione di stima. Infatti il libro di Enzensberger era, ahimé, difficilissimo da tradurre in italiano! 109 Freiburg, 29 settembre 1961 …allora ho bisogno della tua mano sulla mia fronte, della tua voce che mi dica: "Giovanni, non così, non tremare, non è nulla, ci sono io qui accanto"; ho bisogno di una madre, come quando da piccolo avevo la febbre alta e le pareti rotolavano fragorosamente intorno a me, in un baratro circolare. Ora, se una delle persone che stanno ad origliare alla nostra porta sapessero di questa frase, pensando a Freud, si sazierebbero della loro "normalità"; e io rimarrei il fanciullo, colui che non è riuscito a superare psicologicamente la propria infanzia. Io li guardo, penso a questa loro sazietà di essere uomini e tiro avanti, sapendo lucidamente che quando io sarò uomo avrò gli occhi limpidi e chiari, una maturità vera. Dove siete, o uomini maturi? Io che sono ancora fanciullo, già fin d'ora vedo la vostra maturità nell'indifferenza, nell'accettazione, nell'alzare le spalle, nella mediocrità della mente e del sentimento, nel timore della follia, nel sentirsi tutti mediocremente eguali. Marina, non lasciarti ingannare da chi ti parla di me: nessuno ora può farlo; e non parlare di me a nessuno. Perché ti dico questo? Perdonami. Forse perché vorrei che tu sentissi che non è difficile stare accanto a me, e che tu me lo dicessi come quando mi facesti ascoltare i gatti in amore sui tetti di Milano. Parlami, Marina. Freiburg, 4 ottobre 1961 Marina mia, se avessi dubitato non ti avrei offerto la mia lacerazione, ho solo protestato per me e per te, per ciò che ci lega - e nel momento in cui qualcuno ha cercato di dividerci. Ero ancora debole, è vero: logorato. Il mio lavoro è difficile, non è mai stato così difficile. Vorrei deporre i miei occhi sulle cose, perché vadano lontano da me. Poi vi è il sonno, il sonno che non viene; l'angoscia che mi sorprende con una mano gelida. La notte spalanco la finestra e mi rannicchio nel letto, perché il freddo entri nella stanza ed io possa sentire il caldo del mio corpo, il mio corpo vivo. 110 Dopo la tua prima lettera ho ritrovato subito la mia giornata, e le tue due ultime lettere sono ciò di cui ho bisogno ora: una bontà vicina. Le fotografie che mi hai mandato mi hanno riempito di gioia, di stupore per la mia paura: perché quella che ho vissuto è soltanto una stagione d'amore. Ho forse solo sbagliato nell'aver voluto mettere in questione me stesso per tutto quello che io sono. Ci sono stati momenti in cui io non ero nulla. E fu allora che ti chiesi: parlami, dimmi che sono! Se io mi perdo, ti cerco perché la mia certezza in te si ritrova. Certezza significa tutto: avere delle mani, degli occhi, un viso, una voce, una mente. La tua risposta è venuta e l'attendevo perché si attende sempre una risposta: ma io la conoscevo già, l'ho saputa da sempre. È nella mia carne, nella mia mente. Mi sono annientato, Marina, ed ho parlato da questo mio niente che tu hai sentito e di fronte al quale sei inorridita. Ma non è stato che un attimo: in questo annullarmi ho protestato. Ho protestato contro chi tenta di annientarmi. Io ho una voce: questa voce ha un suono che giunge là dove è radicata la mia certezza di essere. Ora ho tanto bisogno di sentirmi a casa, di riposare accanto a te, di rivederti, di sorriderti. Perché sono ancora debole; tanto che se quando ti rivedrò mi commuoverò senza neppure averti detto "ciao" abbi pazienza. Non tormentiamoci più; te l'ho detto: la nostra è soltanto una stagione d'amore. Freiburg, 6 Ottobre 1961 Hai fatto bene a scrivermi così. Ogni tanto ho bisogno di una scossa che mi liberi dalle mie fantasie. La tua lettera mi ha riportato alla mia esistenza positiva, alle cose reali, e non alle assurde immagini che mi attraversano il cervello. Intanto è venuto l'autunno, e quest'anno io non ho visto la vendemmia. Ieri la giornata era scura e camminando sotto un cielo denso di nubi ho cominciato a cantare - sai come canto io! Piano piano, senza alcun filo logico né nelle parole né nel canto. Ho camminato e camminato e non avrei voluto tornare mai nella mia camera. Ciao Marina. Le nostre vite sono piccole piccole, fra milioni e milioni di altre vite. Bisogna avere il senso delle proporzioni. Eppure 111 qualche volta è come se fra te e me… non so. È difficile dirlo. Ed ecco alcune storie anch'esse piccole piccole - per farti ridere. Di fronte alla mia camera abita ora un vecchio alto e grosso. Al mattino lo incontro e dico: "Guten Tag"; lui risponde "Dabaliù". Non sono riuscito ancora a decidere a quale nazionalità appartenga. Frau Motschenbacher comincia a dispiacermi alquanto e sono istintivamente portato ad attribuirle i titoli peggiori che posso. Il titolo che le attribuisco più di sovente è "spia". Ho la costante impressione che mi spii. Questo mi diverte. Di notte soprattutto. Lei non dorme mai. A qualsiasi ora della notte questa vecchia grassona si muove pesantemente nel corridoio principale della pensione, io penso, attaccandosi ai muri della casa; oppure si rintana in cucina dove compie certamente riti incomprensibili. Del resto è sana di mente e si fa pagare in anticipo. Se lascio mezza fetta di pane all'ora di cena, posso star sicuro che al mattino mi porta la colazione con la porzione di pane dimezzata. Quando parla è soprattutto evidente la sua venerazione per gli impiegati di alto lignaggio. Io cerco di adeguarmi e d'altra parte sono scusato perché sono filosofo e per di più suono il violino: mi spiega che anche suo padre suonava il violino nell'orchestra comunale, e poi il piano, il violoncello, l'arpa… "Anche la fisarmonica?" - io chiedo; e lei mi guarda indispettita, tagliando corto: "È uno strumento che non faceva per lui!" Come finale c'è la storia del verme. Al mattino del lunedì c'era un verme nella Suppe. Ho mangiato la Suppe. Alla sera, c'era un verme nella Suppe. Ho mangiato la Suppe. Alla sera del martedì c'era un verme nella Suppe. Non ho mangiato la Suppe e dico severissimo : "Es gibt ein Wurm in der Suppe!": al che il figlio di Frau Motschenbacher, che come sai fa anche da cameriera occasionale, porta via la Suppe senza fiatare, sprofondandosi in inchini e camminando all'indietro. Ma i vermi nella Suppe mi hanno convinto definitivamente che di qui me ne debbo andare. 112 Freiburg, 7 Ottobre 1961 Per il momento ho preso solo due lezioni di violino, ma straordinariamente interessanti e, penso, molto utili. Il prof. Nauber insegna alla Hochschule di Freiburg ed è una persona amabile. Il modo ispirato di parlare del violino e della tecnica violinistica è forse inconcepibile per uno che non sia tedesco, ma mi ha già insegnato un sacco di cose. Anche il mio caro Maestro Balsimelli ha lo stesso stile dal punto di vista tecnico e d'altra parte mi è molto più vicino, più comprensibile. Ma Nauber mi affascina. Ed ha una pazienza infinita ed anch'io ne debbo avere molta: sai che che mi sta facendo ripensare alla tecnica del violino cominciando dalla lettera A? Io ho seguito il suo gioco e mi sono messo nei panni di chi deve ancora imparare a tirare l'arco, anzi a tenere l'arco in mano. Eppure, nonostante questo incredibile passo indietro, credo di poter progredire presto e rapidamente. D'altra parte pare che mi trovi "begabt" per il violino ed oggi ho capito che, come ogni maestro serio non mi fa lezione solo per guadagnare quei venti marchi che gli do. Sai che conosce Heidegger? Poi mi ha parlato di Rudolf Steiner, di cui tiene la fotografia sullo scaffale dei libri. Di costui sapevo ben poco e lui mi ha parlato della società antroposofica da lui fondata che ha il suo centro a Dornach, presso Basilea. Marina, ti abbraccio tanto. 113 [2012] Con il Prof. Nauber le cose andarono a finire così. Dopo alcuni mesi di lezioni di violino assai proficue per me, me ne scappai come un ladro, lasciando alcune lezioni da pagare. Ma questo è nulla rispetto a quello che soffrii quando lo incontrai per caso in una via cittadina. Entrambi ci fermammo, l'uno di fronte all'altro - ed io balbettai qualche parola di scusa. "Perché mai non sei tornato?" - mi chiese. Ed io gli dissi con evidente afflizione la semplice verità che non ero in grado di pagarlo. Il maestro mi guardò a lungo, poi mi sorrise benevolmente, e mi disse: "Era sufficiente dirlo! Ed io le avrei fatto lezione egualmente". Tutti i maestri di violino che ho avuto la fortuna di incontrare sono stati per me anche maestri di vita. Grazie, Prof. Nauber! Milano, 14 Ottobre 1961 Caro Giovanni, oggi ho lavorato molto, sono stanca e un poco malinconica. I tuoi genitori sono partiti in questo momento e ho letto per loro le tue lettere. Spero che tu abbia già scritto a Paci: tranquillizzalo altrimenti diverrà la mia ombra, continua a telefonare chiedendo di me per conoscere la tua situazione. Chiede se ti servono soldi: "Sai debbo procurarglieli io" - egli dice, non so se con orgoglio o disappunto. Via Sirtori ti saluta, vuole una cartolina da esporre. Guido non è ancora partito. Tom Regazzola mi tenta con una gita al mare e la tenda. Sono tutti simpatici e buoni. Sì! Ma tu non sei qui e Milano mi sembra vuota. Ora fumerò una sigaretta e poi andrò a nanna. E domani sarò ancora da te. 114 Freiburg. Martinstor Freiburg, 18 ottobre 1961 Marina mia, se tu mi accompagnassi nei miei pensieri, nelle immagini che io vedo, sapresti quante cose ci sono in una giornata: tanto più quanto più è vuota, apparentemente normale, ben regolata. Un giorno che si chiude come in cerchio intorno a se stesso, un giorno solo ci appare incomunicabile, immutabile, irripetibile. Si possono sentire i rintocchi di un orologio - alla Martinstor; che è mai questo se non cosa comune che accade ogni giorno? Tutti coloro che passano alle otto in Kaiserstrasse odono e dicono "Sono le otto". Eppure in questo mio assoluto camminare, dove il camminare è solo camminare per non andare in nessun luogo, questi rintocchi si sono fissati in modo indimenticabile… Il senso dell'andare lontano di un uomo: se uno partisse per dieci anni, che avrebbe da raccontare al suo ritorno? Si può narrare di 115 un'ora, di un giorno, forse di un anno, ma di dieci, di venti anni, che si ha da raccontare? Si porta la propria storia sul viso, nelle proprie mani; raccontare è inutile. Si racconta per riportarsi ad un passato; ma come è possibile ricollegare un passato che io solo ho vissuto a quello che appartiene ad altri, comunicare dei passati, riportarci ad una contemporaneità impossibile? Iersera, passando sotto la Martinstor, mentre "erano le otto", io pensavo ad un uomo che partiva e ritornava dopo dieci anni. Per lui vi è un passato che si è arrestato per sempre: un passato fatto di volti, di sorrisi, di parole, di case, di piante, di animali. Egli è andato verso un futuro diverso, dove si troverà dapprima straniero, gettato in un altro tempo, in un tempo che non si collega con il suo passato; che ha un altro passato che non contiene il suo volto, che non contiene i volti tra i quali è vissuto. E là dove ha lasciato tutto, assurdamente un orologio continua a battere le ore con quello stesso suono; e gli uomini tra i quali è vissuto, anch'essi riprendono al mattino sereni la loro esistenza, perché il fatto nuovo che è accaduto - un uomo, uno dei loro, è partito - non muta e non può mutare nulla. Forse si dirà soltanto: "È partito. Starà lontano. Forse non tornerà mai più". Mentre scrivevo, ho interrotto per il pranzo. Poi mi sono seduto per terra sul terrazzo a godermi il sole ed a fumare una sigaretta. Ed ero sereno pensando che avrei spedito subito questa mia lettera perché è un piccolo pezzo di me che se ne va dalla mia ragazza, che le parlerà un poco; che le terrà compagnia per qualche momento, una compagnia forse un po' triste, ma buona. 116 Milano, 20 Ottobre 1961 Dopo cena sono andata alla Scala con William. Ho sentito lo Stabat Mater di Szymanowski - coro stupendo; e il Concerto per orchestra di Bartok. Che cosa meravigliosamente ben fatta, Giovanni: io non sapevo che il concerto fosse "da vedere". Ed invece ho ascoltato in piedi, pur avendo un posto libero, ed ho visto le trombe alzarsi con il suono, le mani dei violinisti accarezzare le corde e rendere in un fremito di gesti, il vibrare delle note. Ho visto i tamburi sconvolgere l'atmosfera, e poi gli uomini, Giovanni, strumenti dei quali la musica si serve per essere tale. Che cosa grandiosa! 117 Freiburg, 29 Ottobre 1961 … Se una volta una mia parola o un mio gesto ti sembra vuoto, chiedimi: perché? Non capisco, per me non ha senso. Dimmi: i disegni che mi mandi non significano nulla. Non lasciarmelo dire da altri. Aiutami a parlarti; io so che posso parlarti; so che tu mi capisci, in tutto, Marina mia, in tutto; e più approfondisco il mio timore, più so questo: io ho guardato gli occhi della mia ragazza ed ella un giorno ha dormito con il capo appoggiato sulla mia spalla; in una notte serena; sulla spalla di un giovane disperso che ancora non conosceva. Ed il sonno non viene accanto ad un ignoto, un sonno buono, pieno di futuro. Ricordi, Marina, quel tuo sonno? Era la fiducia che tu prendevi e che donavi; mi donavi la mia fiducia, la mia certezza. Io sono nato allora, in quel tuo sonno. Sono tanto stanco; sono passate le tre di notte. Ti debbo lasciare, Marina. Freiburg, 30 ottobre 1961 Marina, a volte io sento di lontano la tua tristezza, tu senti la mia. Ma non siamo mutati per questo, perché per una volta siamo un po' tristi. Noi dobbiamo pensare ora che il nostro giorno, dal mattino a sera, non sia cattivo; dobbiamo addormentarci così come se io potessi con una mano sfiorare i tuoi capelli; dobbiamo scriverci perché le nostre voci ci accompagnino; non dobbiamo abusare della stanchezza dei nostri corpi. Ed attendere. Il tempo passa come un uccello notturno, e domani io sarò da te; nei nostri sguardi ci sarà la gioia di noi, di averci saputo amare, di aver saputo mantenere la fedeltà a noi stessi ed al nostro amore. Eccomi, sono arrivato e ti porto anche un dono. No, non ti dico che cosa. Ti voglio fare una sorpresa. Ciao, ragazza. 118 [2012] Nel novembre del 1961, Marina si apprestava ormai a raggiungermi a Freiburg. Si trattò in realtà di una "fuga": infatti la famiglia di lei non fu avvertita di questa novità, perché essa non solo non sarebbe stata bene accetta, ma quasi sicuramente fortemente ostacolata. Confidavamo comunque che i familiari, che erano certamente meno rigidi e più affettuosi di quanto volessero sembrare, ci avrebbero compreso, cosa che Marina desiderava fortemente. Ci ripromettevamo perciò in breve tempo di riportare la pace e di ristabilire i giusti rapporti, non appena il soggiorno di Marina a Freiburg si fosse consolidato. Così come di fatto avvenne. I miei genitori ebbero anche in questa occasione un atteggiamento di protezione di questo nostro rapporto. Freiburg, 6 Novembre 1961 Nevica. E il freddo, appena arrivato, mi ha spaccato la testa in due con una incredibile esattezza. Metà della testa è rimasta intontita e sensibile al tatto. Ora è passato. Procurati tutta la lana puoi, calze lunghe, calzoni pesanti… ne avrai bisogno. Qualche giorno fa ho potuto mettere un annuncio sulla Badische Zeitung, che rinnoverò sabato prossimo. Esso dice letteralmente: "Ehrliches, arbeitswilliges italienisches Mädchen, 24 Jahre alt, möchte als Haushaltshilfe oder Kindernmädchen tätig werden, um dabei die deutsche Sprache zu erlernen". Il figlio di Frau Motschenbacher non dubita che riuscitò a trovarti una sistemazione opportuna, e mi ha anche consigliato di rivolgermi alla missione cattolica, cosa che farò! Ti debbo creare una cintura di protezione a costo di vendere l'anima al diavolo. Procurati al più presto possibile il passaporto anche perché io possa comunicare una data probabile per il tuo arrivo. Per il tedesco non proccuparti, studia solo vocaboli scelti per i bisogni di una vita in famiglia e qualche verbo. Dormi e ricordati di me. 119 Freiburg, 7 Novembre 1961 Evviva. Parti subito, sospendi immediatamente il lavoro, chiedi una liquidazione rapida; occupati del passaporto. Non dimenticare nulla. Ti raccomando la cassetta dei colori, compra quelli che ti mancano. Intanto non essere complicata, e per le faccende che ti possono servire fatti aiutare dai miei. Se lo ritieni opportuno potrei anche scrivere una breve e semplice lettera a tuo padre per esporgli la cosa. Dimmi tu. La prospettiva di averti qui a Freiburg mi rende felice, mentre fino a ieri ero incerto e timoroso. Temevo che nessuno rispondesse all'inserzione nella Badische Zeitung e puoi dunque immaginare quanta sorpresa e quanta gioia nel vedermi stamane consegnare una quindicina di lettere! e tutte che chiedono, offrono denari, implorano, osannano il tuo nome. C'è chi offre addirittura 300 marchi oltre il vitto l'alloggio: ma la famiglia è composta da sette persone (quattro bambini) e vi sono offerte meno vantaggiose finanziariamente, ma per noi molto migliori. La tua presenza qui è urgente, ho bisogno di una data almeno approssimativa. Freiburg, 9 Novembre 1961 Ed eccomi ora - camicia bianca e dignitosa cravatta - dalla signora Kindler. La signora, che mi ha accolto molto cordialmente, senza tuttavia evitare tutte le domande possibili, ha una caratteristica particolare: quella di avere le idee molto chiare. Intanto mi ha fatto illustrare le ragioni per le quali sarai presto in Germania: l'argomento su cui ho più insistito è stato il lavoro piuttosto massacrante e inutile, oltre che mal retribuito, in un laboratorio di maglieria milanese. Mi ha chiesto di vedere una tua fotografia e, al primo sguardo, ha dichiarato che sei una ragazza con la quale è possibile andare d'accordo (ha aggiunto che devi essere molto passionale). Per il resto: non ti verrebbero affidati i ragazzi, perché vi è già una nurse, ma i lavori di casa propriamente 120 detti. Dovresti anche cucinare, non so quante volte: all'italiana, s'intende. La signora ama molto viaggiare e conosce molto bene l'Italia e afferma senz'altro di preferire tutto quanto viene dal Sud; perfino i suoi ragazzi, ella dice con soddisfazione, non hanno il comportamento pacioccoso dei tedeschi. Quando si è parlato di denaro Frau Kindler mi ha dato una risposta scientifico-imprenditoriale: dipenderà dal rendimento, ma ci metteremo senz'altro d'accordo. Naturalmente era anche curiosa di sapere di me ed io ho le ho potuto illustrare chiaramente la mia posizione a Freiburg presentandomi molto seriamente come tuo fidanzato, e ciò non le ha affatto dispiacere, anche se le pareva strano che io accettassi l'idea di farti fare lavori di casa in un'altra famiglia. Del resto ha capito benissimo la situazione. Persona molto intelligente davvero! Vi sono però anche altre possibilità, persino quella di un Kindergarten. Le prenderò in considerazione con calma. Intanto fammi sapere che cosa ne pensi. Milano, 10 Novembre 1961 Mio carissimo ragazzo, ho cenato sola soletta, ho lavato il mio bicchiere e il mio piatto ed ora corro da te festosa. Forse avremo fortuna e qualcuno a Freiburg mi accoglierà in casa dandoci la possibilità di incontrarci per strada, proprio come tu dici. Qui in Via Sirtori è la solita vita: sono lieta di venirmene via, oltrettutto fa molto freddo e la mia camera, ora che i termosifoni sono spenti, è un frigorifero. Ho rifinito un acquerello con colori chiari. Soggetto, fiori di macchia. Figura di donna, atmosfera incantata e leggera. Lo ho regalato alla graziosa e simpatica ragazza del laboratorio in cui lavoro. Come vedi sono serena anche se sono rattristata per il modo in cui prenderanno le cose i miei familiari. Più divento io, e più li faccio soffrire. Amo mia madre e so che soffrirà più di tutti: ciò che faccio, ogni piccola cosa non può che deluderla, tradirla. Mi ha comprato un servizio da tavola di fiandra, bellissimo, lavora tenacemente preparando il mio corredo, e so che me lo offrirà nonostante il matrimonio 121 civile, l'ho capito quanto l'ho vista piangere, silenziosamente, come se non dovesse smettere più. Ora accendo una sigaretta. In questo momento ha telefonato Paci. Siccome sono sola ho risposto io con la voce che posso avere ora, ed alle sue insistenze gli ho spiegato la ragione. Abbiamo concluso che la situazione è intricata ma che con volontà, tenacia e coerenza si potrà districare. Tutti, egli dice, abbiamo avuto complicazioni in famiglia. Forse arriveremo ad intenderci. Ti guardo e non temo nulla. Freiburg, 11 novembre 1961 In realtà sto cercando ancora. Vi è una vecchia signora che abita a Hinterzarten a pochi chilometri di qui - e poi sono stato anche presso una delle famiglie che ha risposto al nostro annuncio, che mi è sembrata troppo impegnativa. D'altra parte ho qualche dubbio sulla scientificità, sia pure bonaria, della signora Kindler. Ma mi sembra già di vederti scendere dal treno, c'era persino il sole oggi, e mi sono sorpreso a sorridere ed a guardare i passanti con aria accogliente, ed a bere il caffè come uno che sa che il caffè è una cosa molto buona. Ascolta! Se avremo qualche giorno di libertà (ma sarà molto, molto difficile!) gireremo per la Germania, prima saliremo verso la Foresta Nera, percorreremo la Valle dell'Inferno, e poi forse riusciremo a spingerci sino a Karlsruhe, Stoccarda, Monaco… e se non ci sarà possibile, giocheremo a palle di neve. Ora ti racconto una storia singolare che mi è capitata proprio oggi. Salgo dunque sul tram e me ne sto seduto tranquillo, con il violino tra le gambe, sognando cose belle, e scrollando il ricordo di una brutta lezione su Marx che ho sentito iersera. L'episodio è stato improvviso e rapidissimo. Un vecchio si alza dal suo posto e si siede accanto a me, e mentre io cerco di trarre da parte la cartella dei libri che impacciavano, egli mi afferra una mano facendovi scivolare una moneta da cinque marchi. Lo guardo sbalordito e interrogativo. Chiedo sottovoce: "Perché?", ed il vecchio, visibilmente emozionato borbotta che di denaro ne ha già abbastanza. Quindi si alza in fretta e furia e scende dal tram alla prima fermata. 122 Il primo pensiero un po' cattivo è stato quello che si trattasse di un omosessuale folgorato dal mio aspetto, ma questo pensiero è subito fuggito via. Esso mi è sembrato non solo un po' cattivo, ma anche ingiusto. Posso aver suscitato pietà o compassione? A volte ho effettivamente un aspetto miserando, ma non oggi, perfettamente rasato, con l'impermeabile che mi hai donato tu, e per di più ero di umore buono, anche se questo umore era invisibile tanto ero assorto nei miei pensieri. Quel vecchio era realmente emozionato, mi ha colpito per il suo imbarazzo - e del resto mi sembra difficile fare un gesto simile, così difficilmente decifrabile. La cosa più probabile è forse che gli ho ricordato qualcosa o qualcuno, forse lo stesso fatto che portassi con me il violino e che avessi lo sguardo perso nei miei sogni ha suscitato in lui un qualche sentimento che lo toccava da vicino. Chissà! Mi è sembrato giusto, comunque, non protestare limitandomi a sussurrare un semplice "Warum das?". E il trattenere quei cinque marchi, che sicuramente non mi erano stati dati per farmi una elemosina e nemmeno per chiedermi qualcosa, mi è sembrato un atto di discrezione e di rispetto per un sentimento. Freiburg, 13 novembre 1961 Marina mia, eccoti una lettera definitiva con una buona notizia: tra le le offerte di risposta all'annuncio ve ne è una che mi sembra faccia al caso nostro, anche se la casa si trova in un quartiere un po' lontano da me. Frau Brodbeck, due figlioletti, tre e sei anni - mi reco da lei e ho trovato un accordo che considero ottimale. Frau Brodbeck ha, a mio giudizio, la tua età o poco più. Vive in una villetta molto graziosa, bene arredata, piena di luce. Dunque tu presto sarai qui, tutto è in ordine, puoi fissare una data in modo che io possa comunicarla. Tutto il resto, i malumori o i buonumori familiari sono indifferenti. Quel che importa è che tra una settimana, io penso, sarai presso di me, nel luogo della tua esistenza e della mia. Ti abbraccio con tanto amore. 123 Valmacca, 15 novembre 1961 Domenica con Gigi e Luigina sono andata a Torino dove un collezionista americano presenta la sua collezione. Molto Picasso - e di Klee ho finalmente visto i velieri, coloratissimi su sfondo blu. Infine Mirò mi ha affascinato. Ma ormai brucio di impazienza, tu tieni a bada i tedeschi, io gli italiani, ma quanti piccoli sentierini occorre percorrere prima di giungere dove vogliamo noi! Peccato che il pensiero sia più veloce dell'azione. Oh, Giovanni, non spedirmi in paradiso in non so quale zona lontana da te: sia chiaro che preferisco le notti gelate di Freiburg che una comoda casa ovunque. Sarò molto buona con la famiglia che mi accoglierà. Certo, tu sei sul posto ed a te spetta di scegliere, e come tu sai, mi fido. L'idea di bersagliarci con le palle di neve mi ha felicemente commossa, sarò prestissimo dunque da te per giocare. Freiburg, 16 novembre 1961 Marina cara, pensa che in tanti mesi passati a Freiburg non mi è mai stato possibile, o comunque non ero nella disposizione adatta, a recarmi a Günterstal - un piccolo borgo di Freiburg. Così, avendo chiuso il nostro problema più urgente mi sono concesso questo piccolo "pellegrinaggio" - ed è proprio il caso di usare questa parola perché nel cimitero di Günterstal sono sepolti Edmund Husserl e la moglie Malvine. Avrei forse potuto, prima o poi, andarmene da Freiburg, senza recarmi a dare un saluto al filosofo con il quale sto colloquiando ormai da molto tempo e la cui voce sento risuonare viva e profonda dai suoi scritti? Il paesino è poi incantevole - la visita del Friedhof è stata per me una esperienza toccante per la semplicità del luogo e la nordica "romanticità" 124 Tomba di Husserl a Günterstal 125 Freiburg, 17 Novembre 1961 Ragazza, datti da fare, corrompi, seduci, uccidi ma procurati rapidissimamente le carte che hai bisogno… Spero che il permesso di lavoro in Germania sia già nelle tue mani, nel momento in cui riceverai questa mia… Ritarderai qualche giorno, d'accordo: il tuo entusiasmo mi ha sottratto a quel mare di nostalgia nel quale senza accorgermene affondavo lentamente , e per il solo fatto di essere rimasto due giorni senza tue notizie! In questo senso sono insopportabile. Ma intanto debbo dirti che ieri mattina, trascinato da un improvviso desiderio di chiacchierare con una suora, cosa che ormai non facevo da quando avevo cinque anni, mi sono recato da Sorella Esther, al Katholische Maedchenschutz; mi ha aperto uno spaventapasseri tutto nero alto il doppio di me. Fatti i primi convenevoli d'uso, sono stato introdotto da Sorella Esther, agréable. Ti dirò che oltre al desiderio di chiacchierare con una suona che sarebbe invero stato insufficiente per convincermi ad un simile passo, c'era anche il sottinteso scopo di stabilire alcuni punti fermi per superare immediatamente imprevidibili colpi della sfortuna. La Sorella - nonostante il suo abito penosissimo che la inscatolava in un nero uniforme, lasciando appena intravvedere quelle parti del viso che sono indispensabili per una comunicazione umana - mi è sembrata simpatica; le ho spiegato che avevo già trovato una buona famiglia per te e che in ogni caso la ringraziavo per l'interessamento. A questo punto, con il quale mi sembrava risolta la questione, mi sono reso conto di quanto grande sia la mia ingenuità. Ella mi chiede infatti il nome della signora e appena saputolo rimane un istante pensosa; ripassa mentalmente e con velocità vertiginosa il catalogo delle diecimila famiglie di Freiburg; rimane ancora un attimo esitante quasi per confermare con dati associativi collaterali la propria memoria, 126 e poi improvvisamente e decisamente, mentre io avvertivo a fior di pelle il dramma che si stava svolgendo in lei, mi butta in faccia: "Ma è una famiglia evangelica!". Se tu fossi stata presente avresti visto sul mio volto una smorfia di dolore, che discontinuamente si contraeva in caricatura, essendo incapace di dominare il senso del comico che sorgeva spontaneamente dentro di me, e senza malizia alcuna. Peraltro Sorella Esther non è evidentemente persona che drammatizzi più del necessario: e con atteggiamento comprensivo di fronte alla mia inesperienza rispetto alle usanze di un paese straniero, ha cominciato a sorridere aggiungendo che, in ogni caso, se fossero sorte difficoltà di qualsiasi tipo, anche di ordine puramente pratico, mi sarei potuto sempre rivolgere a lei che avrebbe provveduto. Con ciò considero chiuso il periodo delle mie indagini. Ma debbo dirti anche che in questi stessi giorni ho fatto di più. Avendo ormai accertato che la vecchia Motschenbacher è una strozzina di prim'ordine e per di più, come ti raccontai, mi fa mangiare i vermi nella Suppe, me ne sono andato sui due piedi, e poiché voleva tassarmi per il mancato preavviso le ho detto in perfetto tedesco una frase equivalente a "Ne ho abbastanza di essere preso per il collo" (naturalmente appositamente e preventivamente studiata) - e la vecchia a questo punto è caduta in deliquio e non si è più riavuta. La camera che affitto ora è appena fuori Freiburg nel borgo di Littenweiler, è moderna, arredata con gusto con annesso un bagno e toilette. Questi ultimi li condivido con un amico sardo che ho conosciuto pochi giorni fa ed è laureato in filosofia. Le nostre due camere formano un piccolo ma simpatico alloggetto. Non mi resta che attenderti. Ricordati di portarmi un basco che potrai chiedere a mia madre. A mio padre invece devi chiedere dei sonniferi e dei tranquillanti; in questo momento non ne ho bisogno ma sono stato troppo male in passato per non premunirmi. Aspetto che tu mi parli. 127 Freiburg im Br. - Borgo di Littenweiler 128 Milano, 19 Novembre 1961 Allarga le braccia, Giovanni. Fra poco spiccherò il grande salto e sarò da te. Ti amo tanto. Chagall, The Dance, 1951 129 Il mio lettore avrà già previsto che l'arrivo di Marina a Freiburg, nel dicembre 1961, cambiò la nostra vita - e cominciammo ad essere più lieti e meno inquieti. Marina poi riprese fin d'allora quella radiosità e quella gioiosa vitalità che faceva parte dell'aspetto profondo del suo carattere e che finalmente si esprimeva in tutta la sua forza avvolgente e coinvolgente. Non ci fu persona né allora né poi che non avvertisse immediatamente in lei quella luminosità, che ha allietato la mia vita e cancellato le sue ombre. Ma vi fu un altro incontro che cambiò in particolare la mia vita freiburghese: e fu quello dell' "amico sardo" di cui per vari mesi condivisi l'alloggetto di Littenweiler il cui nome è Remo Bodei. Ecco un'altra figura intrinsecamente felice, che mi si accostava e mi comunicava la sua permanente festosità. Remo fu veramente un incontro per me fortunato. Il suo esempio di ottimismo, la sua serenità esemplare fu per me più importante di quanto egli stesso possa pensare. Remo Bodei a Freiburg, 1961 130 131 Roma, 19 dicembre 1961 Caro Giovanni, da Giairo che ho visto qui qualche giorno fa, ho saputo che non si prevede un tuo viaggio in Italia per queste feste. Giairo era qui a Roma con Paolo Gambazzi, il Bonomi e il Caruso (e naturalissimamente con Paci) per il convegno con Sartre di cui poi ti parlerò. Ma Giairo e gli altri sapevano poco o niente su di te, se non che "lavori". Non mi resta percià che raccontarti di me. Dopo l'ultima volta che ci siamo visti, ai primi di novembre, quello stato di attesa del "messaggio dell'imperatore" di cui ti parlavo, si è sciolto quasi subito con l'arrivo della lettera della Rai. La lettera diceva: hai vinto il concorso ma non potrai avere il posto se non dopo il servizio militare. È stata una beffa spaventosa. Ho accettato lo stesso per precostituirmi una carta dopo la naja - questa cosa spaventosa che sarà la mia rovina e la mia maledizione. L'addio ai miei scolaretti è sfociata in una scena disgustosamente deamicisiana: i bambini piangevano e dicevano che se non venivo più io, non venivano più nemmeno loro. Il 20 novembre sono arrivato a Roma ed ho cominciato a seruire il corso di addestramento professionale che terminera il 20 gennaio. Questo corso consiste di lezioni dei vari papaveri e capiservizi che sono molto rompicoglioni; e di proiezioni, esame dei programmi e visioni nei teatri di prosa e negli studi. Nulla di trascendentale, ma l'arco della giornata è quasi tutto occupato. Questo è triste. Resisto come posso. Roma non contribuisce a questa resistenza: è troppo bella, troppo accogliente, troppo liberale, troppo ricca di piazze e di giardini. Nessuno stimolo che faccia pensare, nessun fatto che faccia soffrire - come accade a Milano. Paci l'avevo visto ai primi di novembre. Mi aveva chiesto un articolo per "Aut Aut" sull'antropologia e io gli avevo promesso di rimaneggiare l'appendie alla tesi, un lavoro che ho terminato qui a Roma. Non ho purtroppo potuto seguire i lavori del convegno con Sartre perché impedito dalle lezioni del corso. Ho fatto in tempo a seguire i "finali" di due giornate. Jean-Paul è piccolissimo, brutto e ammirevole senza misura quando lo si ascolta. Il Convegno si teneva all'Istituto Gramsci. Tema: Il problema della soggettività. Gli interlocutori era132 no soprattutto Luporini e Galvano della Volpe. Della Volpe è un nevrotico e confusionario incredibile; Luporini è più corretto e abile; ma il nocciolo della questione è che nè loro nè gli altri marxisti ufficiali avevano letto la Critique de la raison dialectique! Sartre si è dimostrato bravissimo ed umano nello scendere sul loro terreno e nel rispiegargli tutto pazientemente e brillantemente. L'importante è che alla fine Alicata, che è il responsabile culturale del PCI, ha detto che i problemi posti da Sartre erano della massima portata e che bisognava discuterne in un nuovo convegno fra qualche mese nella formulazione che ne aveva data Sartre. Inespresso ma ben vivo agiva sullo sfondo del convegno lo spettro dei risultati del XXII Congresso del PCUS, su cui il PCI ha avviato una discussione che ci si augura non rimanga alla superficie come avvenne nel 1956 dopo il famosissimo XX. Chi si è distinto in questa discussione è stato il nostro ex-collega Achille Occhetto nella sua qualità di direttore del settimanale "Nuova generazione"; e a questo giornale che si riferiva Maurice Thorez quando attaccò il PCI. Ed ecco qualche altra notizia che ci riguarda: recensendo su Paese sera la Krisis, Preti attacca pesantemente la fenomenologia. Nella stessa sede ed a proposito degli articoli teorici di Robbe-Grillet, un tal Aldo Rossi scrive: "… intorno all'ottimo Paci, si sta creando una sorta di massoneria che crede di aver trovato nella fenomenologia un grimaldello buono a tutto", facendo (il Rossi) un unico fascio di Paci e Anceschi, di "Aut Aut" e dei casinisti del "Verri", della fenomenologia e del "Nouveau Roman"; del resto fin da questo maggio sulla rivistina genovese "Itinerari", Cesare Vasoli ha accusato la fenomenologia di 133 irrazionalismo, debolezza politica e fenomeno alla moda. Ma sono discorsi già fatti. Due ultime parole sulla situazione italiana, tanto per concludere il quadro nazionale. I repubblicani hanno promesso di togliere la fiducia a Fanfani il 27 gennaio 1962; il Congresso DC di quei giorni dovrà decidere per il centro sinistra. Nonostante le spaventose urla di Scelba e Gonella, il centro sinistra si farà. È nell'aria: lo avvertono tutti, lo pensano tutti. Il PSI darà l'appoggio esterno; il PCI fin d'ora ha riacutizzato la sua proverbiale paura dell'isolamento e parla di entrare anch'esso, non si sa come, nella combinazione. Dato il "possibilismo" di Togliatti non ci sarebbe nulla stupirsi. L'unica certezza della situazione è che il PSI si farà fagocitare dai preti con spaventosa facilità. Dopodiché non riesco più a vedere che cosa sarà di noi. Scrivimi qualcosa. E su col morale e in gamba. Ciao [2012] Emilio Renzi - Mimmo per gli amici - mi fu amico carissimo e compagno affezionato e gentile lungo tutto il periodo universitario fino ad oggi. In questa lettera Mimmo rende assai bene l'atmosfera culturale di quegli anni. A questo proposito merita di essere segnalato, per la ricchezza di informazione e la gustosità dello scritto, il saggio intitolato "I migliori anni della nostra vita" (http://www.emiliorenzi.it/download/I_ migliori_anni_della_nostra_vita.pdf ), dove si ritroveranno 134 molti riferimenti e molti nomi che ricorrono anche in questo mio racconto. Quanto all'espressione: "il nostro ex-collega Achille Occhetto", in realtà essa è piuttosto appropriata. Occhetto in effetti era iscritto in quegli anni alla Facolta di Lettere e Filosofia dell'Università di Milano. Io usavo allora andare in giro con una maglia nera molto accollata - e ricordo che Occhetto mi sospettò di fascismo e fece una sgradevole allusione in questo senso in mia presenza nell'Istituto di Filosofia. Fui costretto a spiegargli che il nero non era necessariamente "fascista" - era anche il colore dei pirati e degli anarchici: ma che dopo tutto era nero, e che i colori erano colori e che alla fine non ci si deve lasciar rubare nulla dai movimenti politici, per farli diventare un'altra cosa da quello che sono. Achille Occhetto comprese, e del resto come dimostra tutta la sua carriera politica, egli non era affatto settario. Milano, 21 Dicembre 1961 Caro Piana, Spero che a quest'ora avrai ricevuto le trenta mila lire inviate per un articolo di "Aut Aut". Ti scrivo in fretta: poi ti scriverò più a lungo. I più affettuosi saluti a te ed a Marina. P.S. L'incontro tra, Sartre e i comunisti del Comitato Centrale a Roma è stata una lotta epica - conclusasi, in ultima analisi, a favore di Sartre e mio. 135 136 1962 137 Casale Monferrato, 26 Febbraio 1962 Marina mia, Giochiamo. Sposiamoci. Daremo l'annuncio senza clamori al momento opportuno. E poi via, si fugge. In case altrui, ancora, ma noi. Ora qui, ora là, perché desideriamo muoverci. Espedienti, lavoro, vita, violino, quadri, poesie, traduzioni, maglie di lana, tedesco, Husserl, amore, lunghi sonni, la nostra coperta sui prati, Ugo Foscolo, estati, inverni, primavere, vendemmie, fanciulle, musica. Noi. Postilla Guarda che non lo ho deciso solo ora di farti questa richiesta! Per dimostrartelo accludo questo prezioso "documento" - non è una lettera! - Ed ha persino un titolo: si intitola infatti "Chiarezza sul mio destino". Presta attenzione alla data. Avrei dovuto comunicartelo nella primavera del '59, ma credo proprio di essere ancora in tempo. Milano, 15 Ottobre 1958. Giardini Pubblici, ore 13. Ecco ciò che importa: strappare al tempo che passa le indicazioni del futuro. Per questo bisogna attendere. E quando possiederò questa certezza, allora non vi saranno consigli, non vi saranno preghiere né ragionamenti che sapranno trattenermi. Ascolta anche tu le suggestioni del tempo. Te lo dirò in primavera, Marina, che ti sposo. 138 139 Freiburg, 2 Marzo 1962 Mio caro Giovanni, sei appena partito e già ti scrivo. Non mi vergogno. Hai scritto una lettera che mi ha commosso. Ho ritrovato "noi" come quattro anni fa. Come allora, abbiamo di fronte cose racchiuse in parole lise: Amore. Matrimonio. Parole rattoppate, raggrinzite, ripiegate in usi che fanno disperare realtà e concretezza. Ma la parola "amore" è diventata ricca di significato quel giorno, là, sulle barche. E la parola matrimonio è originale e palpitante ora che la scopriamo per noi. Io ti sposo, Giovanni, come e quando vuoi. Noi ci sposiamo, Giovanni, questo è il nostro atto di fede. Freiburg, 3 Marzo 1962 Amore bello, quando finirò di scriverti? Oggi ti ho spedito tre buste e sono nuovamente qui con la penna in mano. Mi chiedi che cosa ho fatto oggi - lo hai già capito tutto dalle cartoline che ti ho spedito come razzi luminosi insieme alla lettera. Oggi gli spezzati pensieri che accompagnano chi cammina erano tentativi di esprimere in parole la gioia, di definirla. Ho cominciato dunque con il togliere il colletto di pelliccia nera al mio cappotto che meravigliosamente si è tramutato in un primaverile soprabito. Ho indossato una camicetta bianca, ho raccolto i neri capelli in un bel nodo alto e con il passo più sciolto del mio lungo corpo mi sono tuffata nel vento e nel sole. Nelle mie mani sono poi capitate (attirate da me) le cose volute. Una borsa veramente classica e di buona pelle per il tuo compleanno; tele per dipingere, colori, e poi le cartoline. Te le ho gettate di slancio. Ti prego, riportamele, debbo rivederle per convincermi della loro bellezza che immediatamente mi ha accesa. Anche la signora Brodbeck le vorrebbe vedere! Ora sto fumando una sigaretta davanti allo specchio. Socchiudo gli occhi e mi dò un sacco di arie. Poi penso che se non studio divento un somaro con le lunghe orecchie. La cosa mi diverte. Rido! Hai capito, sono felice. Ho voglia di giocare con te. 140 [1971] 141 Freiburg, 5 Marzo 1962 Caro Giovanni, è bella la casa che tu hai scelto per me. Vorrei saperti rendere questo con le immagini. Oggi: Veit seduto sul battipanni che gli fa da cavallo, tace solenne (è un cavaliere di ventura). Sul capo gli ho calzato un vecchio paio di mutande. Gli occhi sbucano seri dai fori che prima servivano alle cosce. Sul naso ha un nastro con il quale ho raccolto la stoffa sovrabbondante. Frau Brodbeck ricama, secondo l'ultima moda, un cuscino. Io rido, distesa, di vero cuore all'ultima trovata di Mark. Mark corre a passi minutissimi sopra il tappeto, e questo ad ogni momento si arriccia sotto i suoi piedi e lo fa cadere, cosa che reca al bambino una gioia che lo fa garrire. Io ho sulle ginocchia il lavoro a maglia e la televisione trasmette canzonette. So a memoria una poesia di Trakl! Domani un'altra. Ho letto anche un po' di Garcia Lorca. 142 Freiburg, 14 Marzo 1962 Mio caro ragazzo, la malinconia che mi ha preso dopo la tua partenza si è risolta in un male allo stomaco, come ogni tanto mi succede. Ieri mattina ho ricevuto una lettera da casa tanto, tanto triste ed è stato con grande sollievo che ho pensato che in questi stessi giorni vedrai mia mamma. Una lettera non sarebbe bastata, ma la tua presenza le farà molto bene. Qui dai Brodbeck, come sempre. Al mattino lavori in casa e nel pomeriggio sto con i ragazzini, Veit e Marck, che sono tranquilli e giocano con me. Studio il tedesco, ogni giorno. C'è un vento forte e caldo, ed ho tanta voglia di camminare con te. Casale Monferrato, 16 Marzo 1962 Cara Marina, finalmente sono stato a casa tua, una mia visita era assolutamente necessaria e posso dire in breve che tutto va per il meglio. Mi sono trattenuto con tuo fratello Franco per almeno un'ora, e mi sembra che abbia riflettuto a fondo sulle nostre vicende, anche se ci rimprovera la decisione di essere partiti dell'Italia senza dir nulla. La nostra è stata in effetti una vera propria fuga. Di questo silenzio mi sono preso tutta la responsabilità, come del resto è assolutamente vero. Tuo padre sembra l'uomo di sempre ed ha chiacchierato di tutto - naturalmente anche di ciò che accadde ad Addis Abeba, tanto tempo fa. Ma sembra soltanto: in realtà è anche cambiato un poco, anzi forse molto. Probabilmente è stanco di recitare una parte che in fondo non gli si addice, ora mi sembra si senta molto più padre che padrone. Inoltre proprio qualche sua asprezza dimostra una notevole libertà di pensiero che io ho sempre apprezzato e nel fondo del suo cuore credo proprio non ti abbia mai realmente disapprovata nei tuoi comportamenti indipendenti. Tra l'altro non ha obiettato nulla su un tuo provvisorio ritorno, seguito da una nuova partenza. Tua madre invece 143 temeva da parte sua fulmini e saette. Egli invece mi ha accolto con un sorriso, di quei sorrisi a metà, quasi timido. Così puoi stare del tutto tranquilla sui rapporti futuri con la tua famiglia, a cui giustamente tu tanto tieni. Veniamo ora a casa mia. Mio padre ha tranquillizzato i suoi sonni pensando che potrebbe fare un debito di quattrocentomila lire per mantenermi ancora, e senza ristrettezze, almeno fino ad ottobre. Tu lo conosci e sai che cosa possa significare per lui sia il sapermi in costante difficoltà, sia che altri si occupino proprio sotto questo profilo del mio avvenire. Sandro Ricci vive ancora su una fragile montagna di carta. Ciò che dice è spesso soltanto un tentativo di sottrarsi ad una totale impossibilità da cui si sente afferrato e raggelato. Abbiamo ancora passeggiato insieme e chiacchierato a lungo. Ho potuto vedere in questi giorni anche Carlo Palena. Egli è uno di quegli amici che io posso sempre dimenticare perché posso sempre ritrovare. Ed è anche una persona che potrei ascoltare per ore senza stancarmi. Le sue poesie mi piacciono e, lo sai, sono stato io a convincerlo che era necessario batterle a macchina per poterle mostrare ad altri e farne delle copie. E dopo averlo convinto ho eseguito io stesso questo compito. Carlo si sposa ed andrà ad abitare a Como. Mi ha lasciato il suo annuncio di matrimonio accompagnandolo sul fronte e sul retro con alcune sue poesie - quella sul fronte particolarmente cruda e violenta - e sacrosanta; quelle sul retro invece sono in fondo più tipicamente sue, sono dolci e raffinate, degne della sua formazione, della sua cultura letteraria e della sua ricchezza spirituale. Un paio di esse mi sono anche dedicate e sono relative alla breve visita che mi fece a Freiburg. 144 145 [2012] Credo di dovermi scusare con il lettore se ora ritorno ancora una volta agli anni di liceale, quando vivevo ancora a Casale Monferrato. Ma il nome del poeta Carlo Palena - poeta ignoto probabilmente ai più, certamente, ma questo che importa?: è poeta chi vive profondamente l'esperienza della poesia sia come esperienza vissuta sia come esperienza letteraria, e questo è appunto il suo caso - questo nome mi riporta alle nostre camminate tra strade e stradine di quella città, all'intensità dei nostri dialoghi, alle discussioni, persino alle liti; e non vi era dialogo o discussione che non mi regalasse qualcosa nel difficile processo della mia formazione e maturazione giovanile. Egli aveva Carlo Palena, 1980 nove anni più di me - quando lo conobbi, io avevo sedici anni ed egli venticinque. Carlo Palena faceva allora una tesi di laurea su Ungaretti, e fu in realtà un latinista dell'Università Cattolica presso il quale egli era iscritto - il prof. Franceschini - che comprese di che stoffa era fatto questo giovane fuori del comune, bizzarro e geniale - e soprattutto poeta. Tanto poeta, e tanto bizzarro da scrivere alcune sue 146 poesie sul foglio dell'esame di latino, e ed oltre queste null'altro. Ed un giorno del 1958, Carlo Palena mi scrisse così: "Mio carissimo Giovanni, ieri è stato un giorno insperato. Dovrei essere più pudico dei sentimenti e dei fatti, ma se penso quanto straordinaio sia ciò che mi è accaduto e come ne sarai felice, chi mi tiene? Un giorno per me memorabile: il professor Franceschini, preside della Facoltà di lettere, ha letto le poesie che riscrissi sul foglio di latino, mi ha voluto conoscere e tra le indimenticabili cose che ha detto su di me, ascolta: "… le poesie che ho letto sono bellissime. Lei può avere un posto molto notevole nella giovane poesia italiana. E creda, in cinquanta anni di esperienza, mai mi era accaduto di dover usare parole così impegnative… ". Altro se aggiungessi non direbbe nulla e sarebbe troppa vanità che solo la tua amicizia mi perdonerebbe. E lasciandomi: "… oggi, mi creda, per me è nata una grande amicizia..". Io piangevo e pensavo a te, ai pochi che mi vogliono bene e mi sembrava che nulla mi si dovesse e fossi indegno. A presto Sai, Franceschini conosce Tallone e coi suoi tipi ha pubblicato una Imitazione di Cristo bellissima. Ti prego di tacere la mia gioia a chi non capirebbe. Ciao 25 ottobre 1958 Il Tallone di cui si parla è l'Editore Madino Tallone, fratello di Cesare Augusto, e che io a mia volta ebbi l'occasione di conoscere in casa di Cesare Augusto nei miei anni milanesi. C'era stato dunque un importantissimo riconoscimento, e la postilla fa chiaramente capire 147 che si era parlato anche di una possibile autorevole pubblicazione. Che cosa poi esattamente accadde in rapporto a questo problema, non so. La vita in qualche modo continua, talvolta con dei salti, con dei buchi, c'è una viva e importante presenza per un certo periodo e poi si dimentica, si cammina per strade diverse che spesso sono tanto divergenti da non incontrarsi più. Nel 1981, ben ventitré anni dopo la lettera relativa al racconto di Franceschini, e vent'anni dopo le poesie scritte a Freiburg, ricevetti per posta una breve raccolta delle poesie intitolata Il fiore della luce. In apertura della pagina vi era una bella dedica a me, mia moglie e mio figlio Valentino. 148 Ma poco prima dell'inizio vi era anche una scritta che ho trovato agghiacciante: "Queste mie poesie ormai antiche sono quanto m'è rimasto d'una più vasta raccolta dispersa un giorno per disperazione. Belle o brutte che siano, tutte le riconosco mie sole creature d'amore" Dal 1981 al 2012 ci siamo ancora detti qualcosa? Si - non ho saputo resistere: mentre scrivevo queste righe, gli ho parlato per telefono, perché lui è sempre là, a Como, e sono perciò riuscito a ritrovarlo. Volevo sentire il suono della sua voce, ed egli ha gioito a sentire il mio. Carlo Palena, i tempi sono cambiati. Io distribuirò il tuo "Fiore della luce" in internet, e chiunque vorrà potrà leggere i tuoi versi. E fin d'ora voglio copiare qui una tua "creatura d'amore". 149 Carlo Palena Il fiore della luce (L'eringio, 1979) Mie strade Sanno d'erba le stelle in questa mia sera di vento. O mie strade a primavera, di gonne fragranti e di memorie, ragazzo stanotte ancora a voi ritornerò come se fossi al primo amore. E trascorreranno vergini i cieli sui miei paesi allucciolati di grilli e letizia di luce il mare mi sarà, mio mattino. 150 Milano, 18 Marzo 1962 La mia prima giornata milanese: trascorsa. Via Sirtori, a mezzanotte. Porta chiusa. Tranquillità: tutto bello. Il nostro Giairo preso dal suo lavoro; Erica dorme affondata nel trapuntino dalle righe rosse. Mi dànno infine un letto, ma non dormo. Sono contento di essere qui. Vieri riempie fogliettini di grafici, puntini, numeri strani e sogna dimostrazioni matematiche circondato da bucce di arancio, di giocattolini, un bicchere di latte e Nescafé. Poi mi decido. Paul ha smesso di dormire; la camera (la tua di un tempo) è fredda. Se ne sta raggomitolato alla scrivania. Ha nostalgia per Marsiglia: un alloggio nella vecchia Marsiglia, due stanze sotto il tetto, dove si possa lavorare e scrivere. Egli dice: A Milano è impossibile. L'alba molle, quasi calda, cittadina. L'aria di Freiburg è migliore, ci si respira meglio. Ora scrivo ascoltando una serenata di Mozart. Sarò solo domani da Enzo Paci. Pare che abbia parlato molto bene degli scritti inviati da Freiburg. Abbiamo pranzato con Emilio Renzi stasera, ricchissimo di cose e di notizie. È contento di lavorare presso il Saggiatore. Paolo Caruso è arrivato da Parigi oggi stesso. E sfarfalla. Una persona come lui è necessaria come il telefono. È una sorta di messaggero umanoculturale. Se potessi, con una linea ti traccerei la grazia di questo tema mozartiano, tutto in punta di piedi, malinconia trattenuta al limite, che ti passa accanto e subito si discosta. Ora passo a Bach: i corni risuonano in alternanza con gli archi (Primo concerto brandeburghese). Cose di fronte a me. Serenamente: progetti, idee lontane, azioni, esistenza. Profondità. Ascolteremo Bach. Faremo l'amore, noi, dovunque. Compagna serena. Una vita, fino alla fine: questo, anche, il senso. Non è una promessa. Non siamo legati dalle promesse. È una cosa. Come un albero. Chi ha mai sentito il mare? 151 Praga, 26 Marzo 1962 Che cosa è successo di Piana e della Marina? Io avevo creduto di ritrovarvi in Italia a Natale. Non sto a difendermi per il torto di non avervi più scritto. Ora però ho potuto ottenere il vostro indirizzo. In capo a 7/8 mesi di Cecoslovacchia, oltre all'idea fondamentale ed alle molte esperienze della vita locale, ho finito di tradurre La structure du Comportament di Merleau-Ponty, ho studiato un po' di russo e ho ho cominciato a lavorare al mio libro. Mi interessa conoscere i risultati degli studi di Giovanni, almeno in sintesi. Qui ho potuto trovare i libri essenziali ed anche delle persone, come Kosik e Patocka, che mi hanno dato buone indicazioni. Raccontami un po' dell'ambiente di Friburgo, di Fink ecc. Qui uscirà la seconda traduzione della Krisis, curata da Kosik, nella patria di Husserl - la Boemia. Inoltre, come forse ti è già stato detto, Paci sarà invitato qui per il prossimo autunno, e credo che i sirtoriani organizzeranno un viaggio collettivo. Che cosa fa la Marina? Ha trovato la possibilità di lavorare? Qualche giorno fa stavo per arrivare a Berlino. Da Praga non è lontano - ma all'ultimo momento non ho ottenuto il visto. Sarebbe bello incontrarci qualche volta, anche se è un po' complicato e lontano per voi. Vi saluto affettuosamente Guido Neri Guido Davide Neri, 1979 (Il butto, Olgiate Molgora) 152 Milano, 30 Marzo 1962 Ho visto Paci stamane, ma frettolosamente. Sta traslocando proprio in questi giorni. Mi ha abbracciato! La prossima settimana sarà possibile chiacchierare con lui con un po' di calma. Intanto il mio articolo gli è certamente piaciuto. Lo ho trovato addirittura già in bozze. Ciò significa che verrà pubblicato tra poco più di una quindicina di giorni. Nel numero precedente è uscita quella "vecchia" nota con il titolo "Husserl e la cultura cattolica", cosicché in Aut-Aut vi è ora una vera inflazione di scritti pianiani. Stamane mi sono recato a trovare la famiglia Tallone. Accolto, come sempre, affettuosamente. Mi hanno offerto dei fichi secchi. Non potrò mai dimenticare la loro ospitalità nella casa di via del Gesù, durante la seconda liceo. Ho visto mia sorella Angiola e lei, appena arrivato, mi ha comprato un bel paio di scarpe. Ed ho subito assunto la parte delle mie scarpe camminando come un pavone. Ciao, Marina: tu te ne stai ancora a Freiburg presso i Brodbeck e io sono sono invece qui a Milano con un discreto disinteresse per questa città. Che diavolo? - penso. Venni una volta qui, all'alba, attesa lunga e trepidante. Le nostre lettere che si rincorrevano una dopo l'altra… e quando fui di fronte alla porta di via Sirtori sostai, per non piangere di gioia. Mi sentivo a casa: eri ancora lì, con il tuo camicione, calda di sonno, La tua lettera mi è giunta stasera. Domani ne aspetto un'altra. Per il nostro matrimonio non dimenticarti che sono anche uno scapestrato! Casale Monferrato, 1 aprile 1962 Marina mia, finalmente sono a Casale Monferrato. Mia madre mi è sembrata ad un tratto un groppo di dolore: gli occhi le si velano, ed allora trattiene il piangere. Ora dorme rasserenata. Domani sarà ancora serena, ed io ho di lei soprattutto l'immagine di questo rasserenarsi. Trascina 153 le gambe come una vecchia eppure sembra, come hai detto tu, una bambina. Ho rivisto quei pochi amici di qui. Sandro Ricci è un centro incomprensibile di coerenti contraddizioni. Ora procede tranquillamente in due direzioni: da una parte va verso il marxismo, dall'altro verso una forma di buddistico-razionalistica indifferenza verso gli uomini e le cose. Guida i suoi sensi o crede guidarli, li domina e, con un sorriso, li disprezza. Se c'è in lui un residuo di sentimento, lo seziona, ne ricerca i motivi validi e se non ce ne sono lo rigetta tra le alienazioni. Basta con la donna! Alienazione del tutto inessenziale. Ora si chiede se anche i bisogni fisiologici non siano per caso una costrizione, una passività da cui la ragione deve liberarsi. Ma confessa di non averne ancora fatta esperienza. Tua mamma è venuta oggi da noi con la zia di Alassio. La conosci bene e potrai prevedere ogni suo gesto. Ha molta nostalgia di te, questo lo ho capito bene quando mi ha abbracciato andandosene. Avendo saputo del mio arrivo è andata al forno per farti un dolce. Ho detto che te lo porterò, per non deluderla, ma non so se possa conservarsi fresco. Recherò con me anche la tua borsetta di Natale e un regalo in denari di tua zia Angela. Hai passato una domenica senza di me. Raccontami cosa hai fatto. Casale Monferrato, 3 Aprile 1962 Sorrisi, scherzi, pelle bruna. Si va per ore. Ed io chiacchiero, chiacchiero. Quante cose ti ho raccontato. Ed anche tu chiacchieri all'infinito. Siamo due chiaccheroni. Come è bello stringere un corpo vivo, sentire l'amore? E dormire, addormentarsi come affondare, la mia mano abbandonata sui frutti del tuo corpo! Marina, piccola amica mia: che uomo assurdo e noioso sarei se tu non ci fossi! Aspettami. Ti voglio bene e ti sposo. 154 Freiburg, 5 Aprile 1962 I tuoi anni ti abbracciano come i cerchi nei giovani alberi. Oggi il ventiduesimo cerchio ha inizio, che tu abbia tanta gioia, Giovanni. Non posso dire ti offro, ma ti offrirò una bella borsa di pelle nera per libri e viaggi, contento? E poi forse anche una piccola sorpresa. Ma ancora non so. Che bello, ti sposo! Guarda che scherzo mi fa questo pensiero. Io attendo nel mio presente un mese tutto d'oro, ed un dono, grande, vero, che respira, parla e riempie tutta la casa. Giovanni, ho dimenticato i tuoi difetti. Ne hai molti? Che vuol dire "scapestrato"? Per me questo è un momento di grazia, chiedi pure tanto, tanto sono ricca. Corri Giovanni, sbriga tutto, schnell, devi tornare presto, devi dirmi se il mio vestito ti piace. Milano 5 aprile 1962 Cara Marina, ti scrivo da un caffè, mentre un gattone nero si sta crogiolando al sole caldo di questa giornata. Proprio qui accanto a me. Ho voglia di fare delle piroette oltre che qualche sberleffo ai passanti. Ti dirò che oggi mi sono recato ad una seduta del Rotary: a guardare le facce e le posizioni delle persone sembrava di essere in un quadro di Otto Dix. Il professore della Facoltà di Lettere, che si è fatto tramite molto cortesemente di questo incontro pur sapendo come stavano le cose, si era preso anche il fastidio di dirmi che queste canaglie, oltre alla condizione che io non abbia qualche rapporto con il Partito Comunista, desiderano vedere le persone in ordine, e quindi mi sono fatto tagliare i capelli, e tutto imbrillantinato e con una bella scriminatura ero veramente grazioso. Sono andato perché sembra che ogni tanto il Rotary dia una borsa di studio a giovani promettenti e graziosi, e in particolare che soddisfino la condizione suddetta. Di conseguenza la borsa mi verrà certamente rifiutata. Del resto preferirei una vita da pezzente piuttosto che far finta di poter convivere con questi am155 bienti. In realtà bisogna fare molta, molta attenzione, altrimenti ti troverai a dire, di fronte a vecchi sclerotici, a generali fottuti, a pancioni ripieni di segatura, frasi come queste: "Dalla cenere della grande stanchezza rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell'umanità; perché soltanto lo spirito è immortale". Freiburg, 8 Aprile 1962 Dammi le tue mani amore, che io possa affondare il mio viso, sentire il pulsare delle tempie sfociare nella tua frescura. Tutto oggi: cose inutili, né belle né brutte. Ora giaccio nel buio, ho lasciato cadere polverosi pensieri. Apri le braccia, Giovanni, ballerò lentamente con te. Ho fatto un quadro stasera ma non sono riuscita a rendere il bianco di certe linee. E uno dei quadri del sonno. Quando avrò veramente il mio tempo, studierò bene questi motivi. Devo imparare anche a disegnare. Ora debbo finire il vestito, per riprendere il tedesco. Non riesco a tollerare di leggere senza capire, conoscere tutte le parole. Sono anche un poco stanca e da sola mi annoio. Non credere che stia sempre in casa - oggi, domenica, ho camminato due ore. Ho visto molti cani. Quando uno scemo barboncino tutto fiocchetti mi si è parato davanti ho pensato che i cani sono stupidi e lui mi ha guardato perplesso. Ho visto un prato verde e mi sono distesa. Chissà cosa credeva di fare l'aliante che mi ronzava sul naso, è bastato uno spintone del vento per sconvolgergli i piani. Poi casette che trotterellano con fiori a quadretti e circolini. Hanno delle gambe corte che non fanno neppure ridere. Oh sì, poi ti voglio bene, questo sì, tanto. 156 Milano, 9 Aprile 1962 "La mattina andremo nelle vigne: vedremo se la vite ha fiorito, se sono sbocciate le gemme, se hanno germogliato i melograni: là ti darò i miei amori" Cantico dei cantici, 7-13. (Il trasformare questo straordinario libro d'amore in stupidi teologemi preteschi mi fa semplicemente orrore: solo l'odio verso il creato - voglio proprio usare questa parola - può riuscire a tanto). Non posso trattenermi dall'inviarti queste immagini di fanciulle africane che mi sembrano ora così belle. Una è donna vera, di una bellezza sconosciuta, eppure vicina, senza segno alcuno di avvilenti passati. Le tre giovanette della seconda fotografia sono incantevoli, colte in una gestualità seria ma candida. 157 Freiburg, 12 Aprile 1962 Caro Giovanni, le fotografie che mi hai mandato mi hanno portato così vicino a te e così vivo, da farmi stupire di non vederti alzando gli occhi. Belli, stupendi, giovani, candidi nudi. Che invidia questi seni gonfi, turgidi, caldi di sole, come sono liberi e morbidi questi loro gesti. Ma ti sembra giusto che il nostro seno debba essere sempre nascosto in una fodera! Se una donna aprisse la camicetta e prendesse il sole sul seno correrebbe parecchi guai! Scandalo! dicono - scandalizzano i bambini (che poppano da quello)! A noi comunque sono rimasti i boschi, è rimasto il nudo a tu per tu; è rimasto Chagall. E poi chi ci dice che gli animali del bosco non ci abbiano protetto benevoli quando nel prato di lucciole o in riva al Po abbiamo fatto l'amore? Forse la lepre non ha sentito istintivamente che non eravamo lì per darle la caccia? Chagall è uno di noi. Arriva a Parigi, lavora, riceve riconoscimenti e se ne torna al suo paese per sposare la sua Bella. E dipinge fra i fiori gli amanti che si baciano. Ciao. A presto. 158 Freiburg, 15 Aprile 1962 Giovanni, ho fatto un quadro come quello del vento. Questa volta sono piccole vele che vanno, che vanno. Ho pianto un poco - poi ho preso la cassetta ed ho cominciato con i soli colori. Domani andrò in città e comprerò altre tele. Non mi interessa uno zero il disegno. Con i colori invece mi sfogo. Con la matita, linee su linee per non ottenere nulla. I colori invece ci sono, e sono belli. Ma guarda che ragazza ti è toccata, se le manca un tuo segno si sente impoverire, istante per istante - rimane senza acqua con le sofferenze di un pesce. Sorridi un poco benevolmente di fronte al mio egoismo, al mio desiderio di chiudere tutte le finestre e goderti unica. Augurandomi di non averti turbato, rientro in punta di piedi nella mia stanza. 159 La vita con Remo Bodei a Freiburg fu sempre lieta - come dissi in precedenza - per il suo temperamento vivace e giocoso. Allora egli conduceva una ricerca sugli autori citati nella Vita di Hegel di Rosenkranz, cosa che lo costringeva anche a delle pazienti ricerche nelle biblioteche di diverse città tedesche. Inoltre, entrambi per una ragione o per l'altra, di tanto in tanto tornavamo temporaneamente in Italia, io per lo più a Milano ed a Casale Monferrato, ed in queste occasioni ci scambiammo alcune lettere. In esse talvolta vi sono divertiti e spiritosi accenni al peggioramento inevitabile con i nostri affittacamere tedeschi: e qui vanno dette due parole almeno sulla faccenda delle Gardinen - le tendine alle finestre che nella casa dei Weith sostituivano le imposte inesistenti. Una delle cose che facevano più imbestialire i due coniugi era il fatto che i loro due ospiti italiani dormivano alla grande fino a tarda mattina (e nel mio caso particolarmente tarda - dal momento è sempre stato mio costume lavorare la notte): e le tendine chiuse ne erano la dimostrazione palese. E con questo? direte voi. Con questo i Weith temevano le critiche dei vicini di casa, proprio così! i quali evidentemente interpretavano questo segnale come una pericolosa presenza di crapuloni nullafacenti nel villaggio di Littenweiler. Per evitare questa disastrosa vergogna, l'uno o l'altro dei due coniugi si peritava assai spesso di entrare sgarbatamente e sguaiatamente imprecando nelle nostre camere per aprire le famose Gardinen… Minimalia, certo. Ma più è piccolo il fatto, tanto più dimostra la potenza del conformismo. 160 Cagliari, 27 Aprile 1962 Caro Giovanni, ti ringrazio per avermi fatto sapere le ultime notizie da Friburgo. Stando qui, le cose di lassù sembrano venire da un altro mondo. Prima della partenza ho avuto grosse storie col Weith che è o si finge incazzatissimo sul nostro disordine (tu perché fumi troppo (!) e di conseguenza gli sporchi le Gardinen, io perché gli macchio il pavimento con le scarpe e ieri gli ho lasciati i piatti sporchi nel bagno). Qui è tutt'altra aria. Vado al mare quasi tutte le mattine con un costume da bagno in una mano e un libro sulla repubblica di Weimar in un'altra. Di pomeriggio dormo i sonni del giusto senza timore di vedermi aprire le Gardinen. Divido la sera tra lo studio e le relazioni umane, riprendendo contatto con tutti i vecchi amici. Che fa il buon Marini, sperduta pecorella di dio in un mondo di lupi? Resterò a Cagliari fino al 4 prossimo. Poi andrò in Sicilia e nelle Eolie per una decina di giorni al seguito di una delle solite spedizioni archeologiche. Quest'anno dovrebbe essere condotta in grande stile. Verranno anche alcuni professori della Statale di Milano. È una cosa che mi attira follemente. Cari saluti a te ed Marina. A presto [2012] "La sperduta pecorella di dio in un mondo di lupi" era proprio Alfredo Marini - anch'egli capitato a Freiburg per studiare i manoscritti di Husserl - di cui divenni amico e più tardi collega presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Milano. In occasione del suo settantesimo compleanno, amici e allievi gli dedicarono un libro che contiene in apertura una mia lettera che ricorda, in particolare, questo periodo freiburghese. In essa tolgo al volo questo stralcio: "Una volta ci invitasti ad entrare nella tua stanza, anzi a salire 161 in essa, perché si trattava di una soffitta. Una soffitta vera, una soffitta da fiaba, voglio dire: una soffitta dove avrebbe potuto vivere una strega cattiva. Ci muovemmo a tentoni in una scala oscura, per raggiungere la tua stanzetta: luce fioca che non si sapeva di dove venisse, grande stufa a legna spenta da secoli nel centro, e il letto non so dove. Era buio… non ricordo. Forse a ridosso della stufa. Forse nell'angolo dello spiovente del tetto. Chissà dove dormivi! E in quella tua soffitta già allora ti immaginai immerso nelle tue meditazioni, incurante di tutto. Queste sono immagini per me vivissime. Non mi ricordano niente che sia passato. Mi ricordano solo, sia pure nelle traversie, molti filosofici entusiasmi. Tu amavi discutere a lungo, io anche - e via a passeggiare per le strade di Freiburg, parlando a voce alta, a volte altissima, almeno per orecchie tedesche, cosicché talvolta venivamo persino zittiti per strada. Oppure nelle Gastätte a bere, come ovvio, una birra (al massimo)". (Lazzari R. - Mezzamanica M. - Storace S. (a cura di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini, Ed. Mimesis, 2008) Freiburg, 9 Maggio 1962 Caro Giovanni, ti scrivo dopo essermi roso il fegato per alcuni giorni a cercare di trovare un'altra camera. Inutilmente. Ho dovuto venire a patti con i due schifosi. Figurati che sono arrivati alla meschinità di sequestrarmi la macchina da scrivere e la radio nel caso non avessi pagato il mio debito. La sacra vampa dell'incazzatura mi avvolgeva ancora quando sono arrivato alle 4,30 del mattino. Ho letto il tuo biglietto e mi sono messo a sedere su un gradino bagnato di pioggia, aspettando le sette. A dire il vero avevo voglia di buttarli giù dal letto tutti e due. Poi mi ha distratto il mutato colore degli alberi, delle colline, il verde più chiaro che si era insinuato, l'arrivo della "alte Pussy" tutta graffiata e fangosa dopo una scorribanda notturna, l'apertura della macelleria Gehrli. Sono uscito a fare una passeggiata sulla strada. 162 Grande sorriso della fanciullina del macellaio, gente che si alza dopo aver dormito tutta la notte, magari dopo aver bevuto uno di quegli intrugli che chiamano caffè. Le suore del vicino convento stanno coltivando il giardino. Adesso mi muovo a mio agio o quasi. Ho ripreso i contatti con il gruppetto dell'SDS, ho attaccato duramente una loro conferenza sul problema tedesco. Adesso vado quasi sempre a mangiare in una Verbindug vicino a Lorettoberg. Gente abbastanza simpatica che conoscevo già da prima (Ricorderai forse Axel, quello che parla italiano-veneto e che voleva andare in Perù e forse Ferdinand, il viennese). Fanno la preghiera prima e dopo mangiato, mentre io guardo il piatto o il soffitto, però si mangia bene e si evita di fare la coda alla mensa. Ho trovato Marina che mi ha raccontato un po' i vostri progetti. Avete deciso ormai di non tornare a Friburgo? Resterai in Italia fino a febbraio? Farai o no i tre esami a giugno? Come stai di salute? Marina mi ha detto che negli ultimi tempi non riuscivi a prendere sonno e, naturalmente, eri nervosissimo per la storia delle Gardinen. Io mi sono fermato qualche giorno a Pisa anche per ragioni sentimentali (una vecchia e cara amicizia che si è trasformata in "amore" - mi sembra già di vedervi ridere). Invece può essere anche una cosa seria. A proposito qui mi credono tutti sul punto di convolare a giuste nozze con un'americana che è venuta qualche volta dopo che sono tornato da Berlino. La voce ha avuto una diffusione tale che mi meraviglia e non capisco come ciò sia possibile … Basta con questi pettegolezzi! Tanti cari saluti e fatti vivo 163 Freiburg, 23 Maggio 1962 Amore mio, sta venendo il nostro tempo, a piccoli silenziosi passi, ma non ci coglierà di sorpresa. Noi sapremo afferrarlo ed abitarlo. Forse questa volta con meno impicci di sempre e con maggiore disponibilità. E quando ci sposeremo non dovrai dire più: sono pressato da questo o da quello, quando potrò mai arrestarmi… Questa mattina ho ascoltato un concerto per flauto e orchestra di Mozart. Freiburg, 24 Maggio 1962 Caro Giovanni, oggi sono fioriti i misteriosi fiori che dal giorno del mio arrivo mi incuriosivano. Sono azalee, bellissime, splendenti. Che cosa faccio? Al mattino mi accade di ascoltare un concerto, anche due. Stamane, ho ascoltato una cantata di Bach. Poi lavoro al secondo pullover del veneziano. Ricevo e leggo le tue lettere. Secondo il parere di Frau Brodbeck il giovane postino si è innamorato di me. Però mi piace di più il giapponesino. Ma stai tranquillo. Ti amo sempre. Ho detto a Remo che si sposeremo civilmente, forse nel mese di settembre. Mi ha stretto con entusiasmo la mano offrendosi come testimone. Ho detto senz'altro di sì - e lo ho avvertito che non ci saranno lunghi abiti bianchi, cerimonie e musiche religiose. Sarà un matrimonio civile, che vale anche come una dimostrazione politica. Se si farà a Valmacca, il nostro sarà il primo matrimonio civile della storia del mio paese. Credi che non interverranno? Forse si potrà bere solo un bicchiere di vino, ma credo che varrà la pena di intervenire. Io faccio scintille, vedremo poi insieme quali utilizzare. Per me rappresenterà davvero solo un fatto politico, perché mi sposerò da comunista e non da atea come tu sei, secondo la fama che hai presso i miei compaesani. Und dann, bist du ganz sicher dass ich will um mein Mann ein müde Jung zu heiraten? Kein Witz! Ich brauche dich sehr stark und froh! Also, Giovanni, Ich jetzt deine Munde und deine Bauch küsse, gute Nacht, mein lieber 164 Casale Monferrato, 30 Maggio 1962 Marina mia, oggi insieme a Sandro siamo andati a Frassinello. La casa mi piace molto ed il luogo anche, ma difficilmente avrò il coraggio di abitarla senza di te. Porterò a Frassinello i miei libri e le mie cose e potrò godere del silenzio e della campagna, luogo ideale per terminare la mia tesi di laurea. Ed eccoti intanto una ottima notizia. Alla terza ed ultima visita di leva, sono stato esonerato dal servizio militare con la dizione RAM che credo significhi "Ridotte attitudini militari", e questo per via delle mie misure lillipuziane: 49 kg di peso e 91 cm di torace… La mia vita nell'esercito si è così conclusa felicemente. A Milano aspetterò il tuo arrivo da Freiburg - non dire nulla a nessuno sulla data, perché possiamo vivere un paio di giorni da clandestini. Mi troverai splendente, stanne certo. Ed ho anche una gran voglia di stendermi con te al sole sulla ghiaia del Po, ma sono sicuro che al momento buono cercherò l'ombra, magari sotto una canna. Mi auguro il tempo in cui potremo vivere insieme - tepore dormiente, dolce vita avviluppata, avvinghiata: sono stato troppo solo, eppure ho avuto tutto il tuo amore, voglio ancora che trapassi nel mio sonno. Marina, queste cose ascoltale come la mia voce nella tua giornata. Esse significano soltanto: sono il tuo compagno, e posso parlarti ed ascoltarti dentro di me. La tua è una presenza che mi riporta con un gesto a questo scorrere della mia vita, un gesto di gioia interna immensa, che non è soltanto un sorriso. Dammi la buona notte, come se il momento della nostra vicinanza, che voglio assoluta, e non soltanto sognata o attesa - sia tanto prossimo da poterlo toccare. 165 Freiburg, 27 Giugno 1962 La Weith mi ha trovato una volta che leggevo un libro di documentazione (con molte fotografie) sui campi di concentramento e mi ha detto che sono tutte fotografie false, fatte durante i bombardamenti di Dresda e Lipsia. Ha inoltre ricordato incidentalmente di conservare in cornice una foto del Weith che stringe la mano a Hitler. Nelle mie osservazioni psicologiche mi sono tuttavia accorto che il Weith maschio è un buon diavolo manovrato e caricato come un giocattolo dalla moglie. Poveraccio, ogni tanto con i suoi sforzi di essere gentile, mi è in certo senso persino simpatico. Il grandissimo Guido (il "veneziano") vi saluta - insieme a sua figlia Gianna - e dice che se non fosse per rispetto verso di te avrebbe fatto a Marina molti complimenti. Ciao, e tanti cari saluti a te ed a Marina Cagliari, 2 Agosto 1962 Caro Giovanni, scusami se rispondo alla tua lettera con tanto ritardo, ma il molle clima cagliaritano mi ha un po' fiaccato. A quando la data delle nozze? State preparando il nido? Che fai tutto il giorno a Frassinello? Io ho cominciato uno studio in grande stile di economia politica sia da un punto di vista teorico - Marx e i contemporanei - sia da un punto di vista tecnico con contorno di matematica finanziaria, politica economica, ecc. Altre attività: ripetizione di francese, scienze e italiano per mia sorella ed una sua amica e correzione delle bozze che Lugarini e Massolo mi mandano di tanto in tanto. L'unica cosa che leggo attualmente è Senso e non senso tradotto dal tuo carissimo amico Paolo Caruso. Può darsi che, stimolato dal dibattito fra Luporini, Badaloni da una parte e Della Volpe e compagnia dall'altra (su "Rinascita") sul problema dell'oggettività della contraddizione in Hegel, mi decida verso settembre a rimettere le mani sulla Scienza della logica. C'è da mettersi le mani nei capelli, ma a quanto pare il compagno Lenin consigliava la costituzione di circoli dedicati alla Scienza della logica e 166 nel rinnovato clima di legalità "leninista" bisognerà dargli ascolto. E adesso, dimmi, che cosa fai di bello per organizzare la vita a due? In un certo senso e con prospettiva temporalmente lontane mi cointeressa. Siete ancora in campagna? Tanti cari saluti a te e a Marina Casale Monferrato, 18 Agosto 1962 Marina cara, La mia serata la ho passata così, stracciando carte che prima erano conservate nel mio armadio. Mi sono accorto che in questo armadio vi era tutto il residuo della mia infanzia (e davvero non me lo voglio portare dietro, proprio quando intendo sposarmi). Ho trattenuto soltanto le riproduzioni di quadri, le cartoline che erano più numerose di quanto sospettassi. Ma il resto! Riviste, ritaglini, appunti liceali (un'infinità…) via tutto! Adesso non c'è più nulla, per fortuna. E mi sento molto più leggero e quasi nuovo. Mi sembra anche di aver ripreso un certo umore battagliero con il quale recito molto meglio che nei panni del cavaliere e della morte. Fidiamoci di noi. 167 Cagliari, 25 Agosto 1962 Caro Giovanni, scusa per il relativo ritardo con cui ti rispondo ed invio il tuo manoscritto-articolo. In questi giorni sono purtroppo completamente "ingaglioffito" (come direbbe Machiavelli) nella stesura di centinaia di domande e di loro sottospecie per poter ottenere qualche supplenza temporanea a Cagliari prima di partire per Pisa. Se e quando ti capiteranno simili cose capirai a pieno il significato dell'alienazione. A questo proposito, hai letto l'articolo di Paci su Rinascita che tratta della "realtà oggettiva della contraddizione" (sviluppando cioè una polemica tra Della Volpe, Luporini e Badaloni)? Ne sono stato piacevolmente sorpreso. Vedo che prende di petto una problematica seria con molta acutezza, con un linguaggio più adeguato del solito e con interessi, mi pare, in gran parte maturati da poco. Sarai anche a conoscenza delle lodi che l'uomo ha mietuto, con la complicità di Spinella, sull'"Unità". Quanto dici sulla sinistra socialista che condivide la responsabilità della maggioranza, sebbene sia un problema che mi preoccupa moltissimo, non mi sembra completamente esatto. È vero che la cosa più facile sarebbe mandare tutti al diavolo e passare al partito comunista, e che la via regia con le sirene intorno sarebbe quella di inserirsi in funzione di rompiscatole sostanzialmente innocuo (leggi autonomista o socialdemocratico) nel sistema attuale delle classi dominanti e del miracolo economico. C'è però da chiedersi: 1. Il lasciare attualmente nello sterco il partito, soprattutto nei suoi gangli di base, è utile per la classe operaia nel suo complesso? 2. È utile fare ora la scissione senza poter contare su una tribuna di discussione e di diffusione delle nostre idee e dei nostri programmi essendo la stampa monopolizzata dalla direzione? Ecco perché si aspetta fino al prossimo congresso del partito per poter uscire con una rottura clamorosa ed efficace. 3. Non ha la politica del PCI in questo periodo molte esitazioni e cose poco chiare, pur esendo naturalmente una fase di assestamento e quel grande partito di sempre? Credo che una scissione ora servirebbe soltanto a spingere gli autonomisti nelle braccia di Saragat e di Moro, darebbe un giro di vite reazionario alle pur timide riforme del Centro 168 Sinistra e non avrebbe molto seguito. Del resto le uscite individuali da un partito non risolvono molto e portano solo alla paralisi ed alla quarantena politica di chi le compie. Non che questo mi dispiaccia, anzi può essere una tentazione di désegagement e di pigrizia, ma credo che una decisione collegiale (ove si possa raggiungere) sia indiscutibilmente migliore. Così ti vuoi liberare di Husserl (e ti capisco) proprio quando a me è venuta una voglia matta di conoscerlo? Che tu abbia quasi finito la tesi è un ottimo segno. Hai degli esami in programma per ottobre? Il tuo articolo, che ho riscoperto sotto le mie svariate cartacce, mi è piaciuto. Ci sono dei problemi di estremo interesse e che potrebbero anche essere "tradotti" in termini ideologicamente diversi. Per esempio, mi è sembrata molto centrata, riferendola mealmente a questioni di storiografia ed alla "filosofia della prassi" l'osservazione per cui il presente "tematizza" il passato e gli dà un "incremento di senso". È uno spunto notevole che sviluppato ti può dare: a) che non esiste alcuna "verità" o contraddizione avvertita se non quella che la prassi e le esigenze del tuo presente possono creare e che in funzione di esso tu dài un "senso" (ossia raggruppi gli avvenimenti delle due esperiense e della storia sociale) secondo un nesso "pratico". Cioè riduzione della filosofia a ideologia, senza cadere nel relativismo in quanto la continuità e l'incremento di senso sono dati dal trasformarsi reale della situazione che ha mille legami e condizionamenti; b. inscindibilità della dimensione storica dalla filosofia. Purtroppo mi accorgo di essere entrato in un ginepraio, in cui occorrerebbero precisazioni e messe a fuoco continue perché il discorso non sia vuoto. E non è questo il momento. Ne riparleremo, se ne avremo voglia, alla prima occasione, di fronte ad una bella bottiglia di barolo. La scuola-guida mi diverte assai. Per il resto come il solito. Tu che fai? Finiti i pannelli alla Matisse e le decorazioni su motivi africani? L'allusione al nido era naturalmente ironica, nel senso che ve lo state costruendo voi stessi. Fatti vivo. Tanti cari saluti a te ed a Marina 169 Casale Monferrato, 16 ottobre 1962 Marina, ricevo ora il tuo biglietto mentre torno dall'Università… ho dato inizio alla copiatura rapida della tesi, definitiva, quattro copie. Fra venti giorni non ne parleremo più… Ti parlerò invece di un sacco di altre cose. Per ora sono ancora un po' confuso e mi dispiace di non averti regalato una dalia gialla. Tu fa tante belle cose, delle belle maglie e delle belle sciarpe rosse. Non annoiarti! Ciao. 170 Milano, 24 Ottobre 1962 Cara Marina, Il mio aspetto stasera è terrificante. Ho saputo infatti che l'esame di estetica è stato anticipato, e così sono precipitato in affannose letture alquanto inconcludenti. Per giunta sono stato nel pomeriggio a trovare un amico, e questi mi ha gettato in una grave crisi quando ha dichiarato, senza batter ciglio, e senza muoversi dal luogo in cui era, che aveva letto almeno quaranta volumi di Benedetto Croce. Ahimé! Che altro debbo dire? Ho fatto anche un salto in biblioteca e stanotte sognerò senz'altro un esercito di libri con le gambette che verranno di fronte a me a genuflettersi. La verità è che o riacquisto le mie primitive libertà oppure me ne vado altrove. Anzi, ce ne andiamo altrove. Vi è comunque anche l'alternativa che io mi trasformi integralmente in una parola danzante. Se mi capiterà di aver posto in un dizionario (ma ne dubito), in esso si potrebbe leggere "Giovanni Piana: parola danzante intorno alla quale danzano un sacco di altre parole da essa generate: paroline piccole, scomposte e disordinate che la definiscono". Ti saluta la tua parola danzante [2012] Marina Romussi e Giovanni Piana si sposarono civilmente presso il Comune di Milano il giorno 7 aprile del 1963. Andarono in municipio in tram. Testimoni, e del resto, unici presenti alle nozze, furono gli amici di infanzia della sposa - Luigina Asiano - e dello sposo - Sandro Ricci. 171 M. Chagall, Il divano - 1950 (part.) 172 Il lettore può immaginare da sé quante cose, quanti volti, quante vicende vennero più tardi - ma il romanzo dovrebbe finire qui. Tuttavia ho promesso nella presentazione una seconda parte tutta occupata da immagini accompagnate da qualche annotazione. Anch'esse vorrei che fossero viste come immagini che fondono insieme istanti del ricordo che tendono a diventare o sono già diventati istanti di un sogno. Naturalmente nel corso degli anni successivi ci sono le tante parole che ho scritto e detto, paroline piccole piccole, come si dice in questa ultima lettera, ma esse hanno ormai una vita per conto loro. La vita vera è quella che io ho realmente vissuto. Tuttavia non so che senso abbia quest'affermazione proprio ora che sto percorrendo il mio ultimo viaggio solitario in un raggio di sole. 173 174 II Immagini 175 176 Gli anni tra il 1963 e il 1968-69 furono complicatissimi e difficilissimi per tutti, e soprattutto per chi, come Marina ed io, eravamo già immersi in problematiche politiche e sociali. Non vi è bisogno di raccontarli - anche se le vicende di allora, viste da oggi, sembrano lontane mille anni luce. Il piccolo movimento politico Classe operaia nacque nel 1963 ed il primo numero di quel giornale uscì nel 1964, dopo l'esperienza torinese dei Quaderni Rossi. Marina ed io aderimmo ad esso - e Marina con particolare entusiasmo - fino alla saggia decisione di Mario Tronti di ritenere chiusa quella esperienza nel 1967, e proponendo invece il rientro nel Partito Comunista. Io seguii quella linea - rifiutando gli inviti di Massimo Cacciari e Tony Negri ad estendere l'esperienza di Potere Operaio in ambiente milanese ai fini della sua generalizzazione. Mi iscrissi dunque al Partito comunista mentre Marina sviluppava i temi femministi e ambientalisti che già cominciavano a farsi sentire. Poi venne il Movimento studentesco, a cui partecipai con i sospetti derivanti da un orientamento operaistico, a dire il vero un po' settario, ma, io credo, non del tutto infondato. Comunque l'esercizio della didattica era diventato, a dire poco una faccenda intricata e controversa. I rapporti tra tutto e tutti erano tesi e potevano cambiare da un'ora all'altra. E tra i "rivoluzionari" di allora bisognava anche prestare attenzione a non imbattersi in un occhiuto poliziotto travestito. Purtroppo cominciava anche l'era del terrorismo. Io passai accanto alla Banca di Piazza Fontana probabilmente qualche minuto dopo lo scoppio della bomba (12 dicembre 1969). Ci fu la caccia all'anarchico a cui collaborò per primo l'allora Presidente della Repubblica - Giuseppe Saragat - che praticamente qualche minuto dopo lo scopo della bomba ebbe la faccia tosta di dichiararne la matrice anarchica. Il "suicidio" di Pinelli non potrà mai essere dimenticato da chi visse quei giorni. L'assassinio del commissario Calabresi, con tutti i suoi misteri irrisolti, nemmeno. Tra le pressioni di questo o quel gruppuscolo, il terrorismo avanzante, i pericoli di essere coinvolti subdolamente in qualche malaffare di dubbia origine, ci convinsero verso la fine del 1969 a lasciare Milano e ad andarci a cercare un rifugio in Brianza. 177 A Milano abbiamo sempre abitato nei pressi dell'inizio di corso Sempione, in via Guerrazzi. Marina sulla terrazza dell'alloggio che si trovava all'ultimo piano. Sotto, io al mio tavolo di lavoro fatto alla buona con due transenne (1963). 178 [1965] 179 Fu quando decidemmo di lasciare Milano che nella nostra storia si inserisce forse qualche elemento di favola. Infatti con la collaborazione di un padrone di casa degno della commedia dell'arte che viveva in un allogetto in Liguria e che si faceva regolarmente accompagnare da una fantesca che sembrava manovrata da un invisibile burattinaio, riuscimmo ad affittare insieme ad un amico una grande casa ad Albavilla: noi abitavamo all'ultimo piano, ma faceva parte del nostro spazio abitativo, oltre una grandissima terrazza, anche la veranda con le finestre "gotiche" in cima alla scala il cui soffitto era interamente affrescato. La casa era ammobiliata con mobili d'epoca. Albavilla si trova tra Como ed Erba in bellissima posizione e si affaccia al lago di Alserio. La nostra casa ad Albavilla Alla casa si accedeva attraverso una cancellata, con i pilastri adeguatamente sormontati da due leoni. Di qui si entrava nel parco e si raggiungeva la casa. Non mancava la fontana all'interno dello spazio delimitato dalla balaustra, mentre lo scalone conduceva ad un grande orto-giardino. In mezzo, un pozzo nello stesso stile dell'insieme, sulla destra dell'edificio un piccolo boschetto ombroso per cenare all'aperto. Vi era persino la serra, visibile nella foto subito oltre lo scalone. 180 181 Passare dalle turbolenze milanesi a questo luogo fuori del tempo fu come passare da una navicella sempre a rischio di essere travolta da un mare in burrasca ad un porto relativamente tranquillo. Echi di quelle turbolenze, comunque, si fecero sentire persino in questo luogo e ci fu anche qualche problema legato alla convivenza: cosicché alla fine, la prossima nascita di un figlio ci convinse che la soluzione migliore per noi sarebbe stata quella di disporre di un'abitazione tutta nostra. Ed anche questa volta fummo fortunati. Ad Olgiate Molgora, la famiglia di origine aristocratica Sommi Picenardi, oltre che una grande casa signorile, possedeva una villetta in cima ad una collina, chiamata "Il butto". Presumibilmente si trattava di un vecchio "roccolo" che era stata riadattato mantenendo il bell'aspetto di un'elegante rusticità. La casa ci venne affittata di buon grado, anche perché il luogo era isolatissimo, nonostante il fatto che la collinetta fosse subito accessibile a partire dal centro del piccolo paese, e non lontana dalla stazione ferroviaria che mi consentiva un facile contatto con l'Università di Milano. Ad essa si accedeva attraverso una stradina che portava ai pochi gradini di accesso e al boschetto retrostante. 182 La nostra casa a Olgiate Molgora, "Il Butto" Il prato di fronte al Butto 183 Qui portammo, nel 1971, nostro figlio Valentino, appena nato, e qui vivemmo serenamente per diciotto anni, dal 1971 al 1989. 184 185 186 187 Valentino Piana (1971) 188 189 190 191 Parlando una volta, con il Preside della facoltà di Lettere di allora - siamo all'incirca tra il 1974-75 - Prof. Enzo Evangelisti, glottologo di fama internazionale, in particolare per i suoi studi sulla lingua tocarica, mi accadde di dire: È bello avere un figlio, perché ho reimparato a giocare. Con mia sorpresa e sconforto, ma anche con la massima comprensione del sentimento che esprimeva, gli vidi sgorgare una grossa lacrima dagli occhi, mentre commentava commosso: "E dici poco!" (egli viveva solo ed aveva vissuto, nel fiore della sua gioventù, la durissima esperienza di un campo di concentramento tedesco). Fui molto colpito da quella reazione. Il gioco! già, questa grande attività che gli adulti sono in realtà costretti a dimenticare, legati alla roccia della vita seria con la punizione di Prometeo, senza del resto averne né i meriti né le colpe! Io confesso di essere sempre stato sedotto da attività ludiche, al punto da poter mettermi al lavoro solo dopo aver perduto un po' del mio tempo a fare qualche piccola sciocchezza. In realtà è cosa nota che la festività di Natale piace tanto anche agli adulti perché consente loro, con la scusa dei regali, di partecipare a questa gioia del gioco così ingiustamente legata soltanto all'infanzia, che resta invece nel fondo dell'anima adulta e basta un nonnulla per riportare in superficie. Per me e per Marina la situazione non era diversa - e normalmente la festività di Natale, avendo un bimbo per casa era l'occasione per inventare un gioco. A ciò mi piace dedicare qualche parola. Occorre sapere che il polisterolo espanso si può agevolmente tagliare con un filo caldo e che erano e forse sono ancora in vendita piccoli strumentini a pile per questo scopo. Inoltre, per la proprietà stessa del materiale è possibile "incastrare" facilmente e con buona tenuta un pezzo di polistirolo con l'altro attraverso appositi intagli. Uno dei miei progetti fu quello di creare dei moduli rettangolari con intagli e dei rettangolini con funzione di connessione tra un modulo e l'altro. I moduli poi in parte erano di forma fissa e senza ulteriori fronzoli, in parte invece erano intagliati in modo da simulare porte, finestre, merli, decorazioni varie, eventualmente rafforzate da disegni a pennarello ecc. Tutti questi pezzi potevano essere assemblati nel modo più vario - castelli, case contadine, torri, ecc. Tutto ciò è più facile da mostrare che da spiegare. 192 forma del modulo di base uno dei castelli possibili 193 Credo proprio che oggi il teatro delle marionette, fatto in casa, sia sostanzialmente dimenticato. Io realizzai la struttura del teatro, Marina le marionette (ne fece una trentina). Il vero problema era poi quello degli spettacoli, che furono invero molto pochi, ma il piccolo Valentino faceva agire a piacere le marionette nei suoi giochi. 194 195 1968 1972 1990 196 197 Fantasie - Il butto fantastico Ecco come mi apparvero una volta il prato e gli alberi di fronte al "Butto"... In realtà si tratta di una ��fantasia fotografica". Era il tempo in cui mi occupavo dei colori in Goethe e sperimentavo direttamente con la macchina fotografica, sul cui obiettivo avevo disposto un prisma. Il Butto allora mi apparve così - a sinistra si intravvede persino il tetto della casa. In quello stesso periodo, ecco un autoritratto un po' tormentato, realizzato naturalmente in tutt'altro altro modo. 198 A proposito di giochi, fantasie ed autoritratti, è di quegli stessi anni questo "monotipo" - una tecnica molto semplice che consiste nel distendere inchiostro tipografico su un pezzo di vetro, tracciando il disegno con un bastoncino, usandolo poi come una matrice : la sera intrattenevo spesso Valentino con giochi di questo genere. G.P - Autoritratto con violino (1972) 199 Nel 1983 Marina ed io progettammo persino un'attività commerciale. Si trattava in realtà di un desiderio di Marina di valorizzare la propria attività di maglierista, che le era sempre piaciuta e che continuava ad esercitare in forma non organizzata. Pensammo dunque alla possibilità di realizzare un negozio per la vendita di lane e per la produzione di maglieria. Ci riuscimmo! Nonostante il fatto che l'amico più ricco che avevamo - proprietario di un'acciaieria - ci negò financo una firma di garanzia per un prestito bancario, d'altronde bassissimo, ed a rafforzamento di questo comportamento addusse addirittura che su di esso concordava anche sua moglie! Vi è un proverbio giapponese che dice: Se vuoi sapere che cosa dio pensa del denaro, considera coloro a cui lo concede. Si tratta di un proverbio forse un po' enigmatico, ma che di sicuro non torna a merito di dio. Ci aiutò invece il più povero dei nostri amici, a cui non avevamo chiesto nulla: Alfredo Civita che seguì i miei primissimi corsi universitari e con il quale si stabilì fin dall'inizio una solida amicizia che dura tuttora. Inutile dire che ci fu anche l'approvazione incondizionata della scrittrice Maria Luisa Cavallazzi, sua moglie, che era stata anch'essa mia allieva. Il progetto andò dunque in porto, con grande soddisfazione di Marina. Io imparai varie cose della vita pratica che mi erano completamente ignote. Imparai anche a realizzare i conti in partita doppia, e mi parve di scoprire che dentro c'era persino un pezzo di filosofia leibniziana. I conti tornano se il negativo arriva a pareggiare con il positivo! Non è meraviglioso? Verso sera, alla chiusura del negozio, io 200 andavo a fare da garzone a mia moglie, felicissimo di farlo e completamente nella parte. Mi dolevo soltanto di non aver la visierina e le mezze maniche che avevo visto tante volte indosso ai commessi nei vecchi film americani. Marina e Cristina De Vecchi, 1990 Il negozio si trovava nel paese a piano terra ma con una terrazza che si affacciava ad una piazzetta sottostante. L'insegna alludeva alla favola della Bella Addormentata, con la fanciulla che sale la scala che conduce dalla vecchia all'arcolaio... Essa era stata magnificamente realizzata da un'altra ex-allieva, diventata cara amica, Cristina De Vecchi. L'arredamento era fondamentalmente costituito da una bella tappezzeria liberty, una grande tenda di pizzo sul fondo, uno specchio che ci era stato regalato e poco altro. Ma negli anni in cui durò questo esperimento Marina si sentì realizzata sia nel suo lavoro che nei numerosi rapporti che un negozio di lavoro a maglia favorisce in modo particolare. Nel 1992 considerammo insieme la possibilità di chiudere questa attività; dal 1989 non abitavamo più ad Olgiate Molgora ed entrambi non eravamo più interessati a proseguirla. 201 202 Oltre che il docente universitario e il garzone di bottega, io a mia volta ebbi modo - a partire dal 1981 - di uscire dal mio isolamento di violinista solitario entrando nell'Orchestra d'archi "Il Capriccio". In effetti il violino è stato compagno della mia vita - con sorti alterne. Nel periodo universitario e freiburghese vi era stata naturalmente più di una possibilità di suonarlo occasionalmente con amici. In seguito, ero soprattutto preso dalla mia attività e lo trascurai alquanto, per riprenderne vivacemente lo studio non appena mi fu possibile. Le occasioni di suonare insieme ad altri divennero per un certo tempo rarissime, ma era per me quasi un bisogno fisico fare la mia ora giornaliera di violino - anche senza un particolare scopo. Fu del resto per questa ragione che la mia tecnica violinistica migliorava in certo senso da sé: da tempo non avevo maestri, ma avevo deciso di seguire grosso modo l'iter conservatoriale. Quindi dopo Kreutzer, i classici studi di Fiorillo, Alard, Gaviniés e Dont fino a sfiorare addirittura i capricci paganiniani, Ysaye e gli ignorati brani per violino solo di Max Reger, che io trovo bellissimi, e che, a quanto ne so, sono praticamente assenti dai repertori violinistici correnti. Naturalmente, quando più si va verso il difficile, tanto meglio si eseguono e si prova piacere nell'eseguire brani che non presentano particolari difficoltà tecniche. Ora, l'orchestra d'archi il Capriccio fu per me una occasione unica e bellissima, per uscire dalla solitudine dell'esercizio tecnico, e imparare le tante cose che si possono apprendere in un insieme orchestrale, nonché per il godimento verso la musica prevalentemente barocca che faceva ovviamente parte del suo repertorio. Questa bella esperienza, che durò per qualche anno, la debbo tutta a Roberto Zam203 bonini che fu il creatore oltre che il direttore musicale di questo organismo fatto di dilettanti come io ero, di studenti di conservatorio che venivano presso l'orchestra a far pratica, oltre che da qualche generoso strumentista professionista. Tutte le foto del Capriccio, di cui ovviamente mi limito a dare solo qualche esempio, furono scattate da Marina. 204 205 Prima del concerto Giuliana Fumagalli accorda il cembalo 206 Alessandro Ferrari, Alessandra Milesi, Roberto Zambonini 207 Ad appena tre chilometri da Olgiate Molgora vi è il paese di Cernusco Lombardone, che a sua volta confina con Merate, che è una piccola cittadina. Quando nel 1989 venimmo sfrattati dal Butto per esigenze dei nostri padroni di casa, io disperavo di trovare una soluzione che fosse all'altezza della situazione che avevamo così felicemente vissuta per tanti anni. L'ottimismo così caratteristico di Marina, invece, anche questa volta ebbe ragione. Ai margini del paese di Cernusco, sulla statale che conduceva a Milano, ma fortemente rientrata rispetto ad essa e protetta di un magnifico parco di abeti, trovammo la nostra nuova dimora. La proprietaria della casa mi conosceva già come docente universitario tramite una sua nipote che era stata mia allieva e ciò facilitò l'affitto di questa casa particolare, con i tetti fortemente spioventi come una casa svizzero-tedesca, grande cancellata di accesso, il prato ed un possibile orto nella parte retrostante, e totalmente libera da vicini di casa troppo prossimi. Ancora dunque una casa immersa nei sogni - che alcuni ritenevano vagamente inquietante, e che invece a noi parve una dimora ideale, anche se all'interno soprattutto era un po' malandata. La nostra casa a Cernusco Lombardone 208 La parte retrostante. La scaletta di sinistra portava in un saloncino foderato in legno, con un caminetto; la scaletta di destra nella cucina. Non pensai mai di fotografare la bellissima cantina a volta, che avrebbe fatto la felicità di un amante del vino. 209 Tutte le ornamentazioni esterne, intorno alle finestre ed alle porte erano in cemento, secondo il gusto dell'epoca in cui questa casa venne edificata 210 Il prato nella parte retrostante. Sul fondo l'orto tenuto da Marina La stanza che avevo scelto come studio si affacciava sul prato. Vi erano anche le ante interne, originariamente di un orribile color crema, che io ridipinsi mettendo in evidenza le forme in rilievo. 211 Mentre io tendevo a partecipare molto esternamente a movimenti politici, soprattutto dopo alcune esperienze deludenti all'interno del PCI milanese, cercando invece di far valere nella misura delle mie capacità non solo il sapere filosofico ma anche, nello stesso tempo, il compito educativo implicito nella mia professione di filosofo, Marina è sempre stata direttamente impegnata nel sociale, e rimase iscritta al PCI prima poi al DS ed al PD sino agli anni calabresi. Ma la sua vera vocazione emerse negli anni di Olgiate Molgora e Merate, anzi soprattutto negli anni meratesi. A Merate era stato possibile riunire un gruppo di persone intorno alle tematiche ambientaliste, nel quale, a differenza delle organizzazioni strettamente partitiche, era possibile partecipare con entusiamo, invenzione e giocosità. Il gruppo meratese fu tutto questo: era un gruppo di amici che sapeva inventare, intorno alle linee guida di Legambiente ed alle iniziative che questa organizzazione andava via via proponendo, forme di partecipazione fantasiose ed attraenti. Questa era per Marina l'atmosfera ideale ed in questo spirito agì in tutto il periodo del nostro soggiorno a Cernusco. Fu sempre per me, come per tutto il gruppo meratese, radiosa come un raggio di sole. 212 Gruppo meratese di Legambiente, 1996 213 In partenza per i boschi di fronte al cancello di casa 214 Marina e Marcella Garrone mentre puliscono il mondo Marina non si limitava a partecipare alle iniziative di Legambiente, ma ne studiava le problematiche ed era diventata una vera esperta in questo campo, molto apprezzata e, secondo i casi, anche temuta dai sindaci ed assessori, sia nel periodo meratese che in quello calabrese. 215 216 Marina illustra al ministro Rosy Bindi una petizione proposta dal gruppo di Legambiente di Merate (ott. 1997) Marcella Garrone, Marina e Giovanna Mandelli in Calabria nel 2006 217 Il congedo del gruppo di Legambiente di Merate (1998) La partenza per la Calabria era prevista per il dicembre 1998, anche se sino a giugno del 1999 io feci il pendolare tra la Lombardia e la Calabria per chiudere il mio ultimo corso. 218 La ragione per la quale mi ritirai in pensione indubbiamente prima della maggior parte dei miei colleghi universitari è presto detta: la didattica non era più in grado di seguire, come era sempre accaduto in precedenza, gli sviluppi della mia ricerca ed io avevo invece l'esigenza di condurre in porto progetti abbozzati nei corsi, ma troppo avanzati per essere realizzati in essi. I miei sforzi, sul piano didattico, sono sempre stati orientati dall'intendimento di farmi capire, di trasmettere dei contenuti, anche complessi, ma con la necessaria gradualità ed escogitando metodi per conseguire questo scopo. Ora questi sforzi urtavano contro una barriera praticamente impossibile da superare, dal momento ero ormai da tempo costretto ad attenermi ai preliminari, senza poi riuscire a passare agli effettivi sviluppi. In certo senso quasi all'improvviso mi resi conto della possibilità del pensionamento, avendo comunque raggiunto i quaranta anni di presenza università, e mi parve una buona soluzione al mio problema. I nuovi mezzi di comunicazione, lo sviluppo dell'informatica e dei rapporti via internet che io accettai entusiasticamente, dopo essere stato edotto ed educato da mio figlio Valentino che a dodici anni pretese quel magnifico oggetto che si chiamava "Spectrum" e da cui si poteva imparare praticamente tutto sui misteri della computeristica, mi convinsero della possibilità di un rinnovamento radicale della mia attività. Oltrettutto mi ero definitivamente stancato della lentezze e passività dei rapporti con gli editori, dei tempi eterni per la pubblicazione di un articolo su rivista, delle rigidità della distribuzione libraria mentre con internet si apriva una vera autostrada della distribuzione - tutte cose che a mio avviso annunciavano un rinnovamento di tutta la problematica della saggistica, rinnovamento che molti presentivano come un pericolo e che tuttora viene fortemente ostacolato. Ma mi sembrò ovvio porre anche per me stesso un cambiamento di ambiente di vita altrettanto radicale. Ora non amavo più la mezza montagna e le nebbioline brianzole, per non dire delle fredde gelate invernali o dei fiori di ghiaccio dipinti sui reticolati. Si vada verso il sole e il mare del sud, aggiungiamo alla nostra vita questa nuova avventura! E Marina disse entusiasticamente di sì. Ai miei amici studenti dissi: ormai mi avvio verso il tramonto, e tramonto sia, ma a mezzogiorno! 219 220 Arrivammo così - e sarebbe un po' lungo spiegare come - in terra calabrese, a Sangineto. Il paese è laggiù in mezzo alla montagna: 221 La nostra casa, nella quale abito tuttora (2012), non si trova in mezzo ai monti ma a mare, nella contrada di Pietrabianca. Tutta diversa dalle precedenti nostre abitazioni! Di struttura semplice, con due grandi terrazze, uno straordinario palmeto di quarantacinque palme dinanzi ed un prato nella parte retrostante che trovammo relativamente trascurato, ma che col tempo Marina seppe trasformare in un bellissimo orto-giardino. Ho detto spesso ad Alfonso Cammarella, qui con la figlia Maria Vittoria e la moglie Tudy, che l'averlo incontrato in circostanze fortuite aveva cambiato la vita di Marina e mia offrendoci una situazione abitativa fuori dal comune. Alfonso era uomo anticonformista finalmente! - amava la discussione, anche se era difficilissimo fargli cambiare opinione. La sua vita era stata profondamente segnata dalle vicende della guerra mondiale, durante la quale si rese conto della tragedia ebraica, e proprio per questo divenne cultore dell'ebraismo manifestando in vari modi il proprio interesse verso di esso. 222 La nostra casa a Pietrabianca Noi occupavamo l'intero primo piano, mentre il piano terra era destinato agli affitti estivi e restava deserto per il resto dell'anno. 223 224 A Pietrabianca ogni tanto erano di passaggio o soggiornavano animali diversi, naturalmente anzitutto gatti, per un certo periodo sotto il palmeto vi fu una piccola famigliola di pecore, io riuscii a cogliere la presenza di un'upupa, e infine per un certo periodo Alfonso Cammarella lasciò libero di scorrazzare per il prato un bel coniglio bianco. Luca Zendri - di professione psicologo, ma anche filosofo e ottimo violinista, studente avanzato d'organo ed ultimamente saggista, drammaturgo e narratore, qualità quest'ultime in cui eccelle, presumibilmente mio allievo dal momento che egli ricorda di aver dato un mio accigliatissimo esame, ma soprattutto diventato (forse dopo quell'esame) amico fraterno e divenuto in particolare maestro di violino di mio figlio Valentino, che fu il suo unico allievo e che portò a superare agevolmente l'esame del quinto corso - insomma Luca Zendri mi inviò un giorno un trattatello per lo studio del pianoforte. Letto il quale, mi sembrò fosse un testo dall'apparenza seriosa e dal contenuto paradossale, che mi riportò vagamente alla mente lo stile di Jonathan Swift - e in questo senso lo commentai. Ma Luca mi scrisse allarmatissimo: avevo frainteso tutto, il testo intendeva essere serissimo. La mia risposta fu questo coniglio che studia la spinetta secondo il metodo Zendri, in cui il coniglio è reale e venne fotografato da Marina in quella posizione: solo la spinetta è un "montaggio". 225 La terrazza verso il palmeto Al fondo del palmeto, il mare 226 Alle spalle della valle di Sangineto vi è il massiccio montuoso del Montea che da casa nostra, nelle più fredde giornate invernali, può coprirsi di un leggero strato di neve. Questa immagine è stata presa da una delle terrazze. Nella valle scorre il fiume Sangineto, da cui il paese prende il nome e che sfocia proprio al confine della piccolo villaggio di Pietrabianca. 227 Quante cose si poterono fare, Marina cara, in questo luogo di Pietrabianca! Io portai a realizzazione moltissimi dei progetti che mi stavano a cuore e che ora sono pubblicati nel mio archivio internet - ed anche iniziai a comporre musica, approfittando anche su questo versante, dei nuovi mezzi messi a disposizione dai progressi dell'informatica. È stato un modo di continuare - attraverso fantasie musicali che prendevano corpo - la passione di una vita, un modo di continuare i miei pensieri sulla musica nella musica stessa. La sospensione dell'impegno accademico diretto me lo concedeva. Ed è inutile dirlo, nella solitudine di Pietrabianca, Marina era la mia prima ascoltatrice, la prima con la quale discutevo a fondo quanto andavo facendo. Inoltre per alcuni anni partecipai alla bellissima iniziativa organizzata da Antonio De Lisa a Maratea. Si trattava di un convegno estivo, anzi di un vera e propria Scuola estiva di musica e filosofia in cui ebbi modo sia di intervenire con le mie comunicazioni sia di incontrare studenti e colleghi e di discutere con loro. Antonio De Lisa e Giovanni Piana - Maratea 2004 228 Maria Luisa Zanoncelli ed Enrica Lisciani Petrini Carlo Serra con Giovanni e Marina Piana 229 Vi furono poi vari incontri con l'Università di Calabria (Arcavacata). In essa erano approdati prima Vincenzo Costa, poi Silvia Vizzardelli, il "grande angiolo biondo" come la chiamava Marina, e Carlo Serra, con il quale c'è sempre stata un'amicizia fraterna. Naturalmente era poi sbocco naturale di questi incontri il ritrovarsi sulle mie terrazze di Pietrabianca. Così potei rivedere dopo tanti anni Paolo Spinicci e Roberta De Monticelli. Moltissimi furono i vecchi amici che vennero a farci visita, come Sergio Lanza e Sergio Mainoldi, o a passare qui a Pietrabianca le loro vacanze come Luca Zendri, Pierluigi Gasparotto, Marco Doni, Andrea Melis, Mauro De Martini ed i suoi eccezionali figli adottivi colombiani; Paola Basso con i suoi figli altrettanto eccezionali; oppure persone che non avevo mai conosciuto prima come Rosalba Quindici, Mario Campanino, Biagio Putignano. Mi è veramente impossibile nominare tutte le persone che in un modo o nell'altro, dopo il mio ritiro dalla vita accademica, non solo direttamente con la loro viva presenza ma anche indirettamente attraverso la posta elettronica stabilirono intorno a noi la grande e gioiosa cornice dell'amicizia! 230 Il grande angiolo biondo Paolo Spinicci Sergio Lanza Carlo Alessandro Landini Roberta de Monticelli sulla terrazza di Pietrabianca Con Carlo Serra e Pierluigi Gasparotto ad un concerto sulla Sila Paola Basso, Leo e Nicolò sulla terrazza di Pietrabianca (2009) 231 Con Biagio Putignano nel 2006 Andrea Melis Rosalba Quindici Mario Campanino e famiglia insieme a Marina e Valentino (2009) 232 Marco Doni Marcello La Matina Mauro De Martini, Fernando e Brenda (2010) 233 In questi incontri, nelle iniziative da cui prendevano le mosse ed eventualmente sfociavano, Marina mi è sempre stata accanto, partecipe, vivace, con quel suo senso dell'amicizia e della vita che immediatamente si diffondeva intorno a lei e che ciascuno con altrettanta immediatezza percepiva. Gioiva delle nostre gioie e delle gioie altrui. E l'età avanzante non pesava né a lei, né a me. Marina rifioriva ad ogni primavera, ogni volta insieme ai fiori di cui riempiva le nostre terrazze ed il giardino, zappava e vangava la terra e ne raccoglieva i frutti. 234 235 La terra, i fiori, gli alberi, le fonti, i fiumi, i boschi e… il mare, il cielo e il mare! Quanta felicità in questa libera natura calabrese che la mano dell'uomo non è riuscita a guastare nonostante l'incuria, l'ignoranza e il malaffare degli amministratori pubblici! Quanta felicità nei cieli, di giorno e nella notte, nei cieli cupi come in quelli rasserenati dalle nubi viaggianti dalla montagna al mare; e il sole nella calura e nei tramonti, e il sole che riesce a sfolgorare tra gli alberi; quanta bellezza nel mare calmo o in burrasca, nelle nostre nuotate in acque ancora trasparenti; quanto vitale impeto nel vento trascinante e ululante che veniva dalla vetta del Montea attraverso la valle del Sangineto! Mai avevamo sentito l'eguale. 236 237 238 239 Ed ancora, Marina cara, per la prima volta nella nostra vita abbiamo potuto viaggiare - io tardivo guidatore d'auto, ma diventato ardito - abbiamo girato in lungo e in largo le contrade calabresi, e poi la Lucania, la Puglia, la Sicilia… Ogni volta un'avventura lieta, una piccola avventura dentro la grande - calma, serena - avventura di tutta la nostra vita. Marina, come una volta, ti chiedo: Sorridimi! Come quando ero ragazzo. Ma adesso aggiungo anche: proteggimi in questo ultimo scorcio del mio tempo. Sorridimi e stringimi in un grande abbraccio protettivo. Certo, io so che non puoi udirmi, o meglio: puoi udirmi solo dentro il mio cuore - ora non sei in nessun luogo, sei in quel nulla in cui tutti abbiamo abitato quando non eravamo ancora nati, ma solo ora, che la nostra vita è trascorsa, comprendo veramente, come ti scrissi in una lettera antica, fino a che punto tu fai parte di me. Nel mio cuore tu sei un grumo di sentimenti cocenti; ed io sono libero di pensare, in uno slancio di fantasia metafisica, che questo grumo, come quello di miriadi e miriadi di altri uomini e donne, non vada del tutto perduto ma, diventato un piccolissimo cristallo palpitante 240 di vita, depurato da ogni scoria, vada a ricongiungersi in un'immensa sfera iperuranica che solo di quei cristalli è fatta e nel cui centro sono nascosti tutti i segreti della natura. Fra le tante fantasie metafisiche che gli uomini hanno elaborato, almeno questa non contiene né odio né fanatismo, e nemmeno specula sul terrore del nulla: è una fantasia innocente. Ed a te, mio lettore, alla cui generosità mi sono appellato all'inizio, voglio dirti il mio "grazie" e concludere questo mio racconto mostrandoti due fanciulli che nulla sapevano ancora l'uno dell'altro e del loro futuro, ma che ora tu ed io sappiamo che hanno avuto, insieme, una vita felice. 241 242 243 Nota La stragrande maggioranza del materiale fotografico è stato realizzati da Marina, da me o da amici. In particolare sono di Marina o mie tutte le immagini paesaggistiche della seconda parte. Alcune sono invece tratte da internet, come tutte le immagini di Chagall della prima parte e sono a chiunque accessibili. Da internet sono tratte anche fotografie di persone di cui non avevo documentazione fotografica personale. Non mi è stato possibile tener nota dei siti di provenienza, ma si tratta di immagini di pubblico dominio. Le immagini relative al paese di Valmacca di p. 15 e p. 17 sono reperibili al sito del Comune all'indirizzo http://www.comune.valmacca.al.it/. Le altre immagini del fiume Po presenti a p. 87 sono invece di nostra realizzazione. La foto del panorama del Po visibile da Cantavenna è firmato Gianlu87 ed è stato tratto da Flickr all'indirizzo: http://www.flickr. com/photos/28195844@N02/2852353353/ La foto di Arturo Benedetti Michelangeli, Schloss Paschbach 1959, è firmata Foto Pedrotti ed è ripresa dal sito internet http://www.pianoacademy-eppan.com/ITA/premio.htm. Giovanni Piana Opere complete Volume ventitreesimo Conversazioni sulla "Crisi delle scienze europee" di Husserl 2013 4 ISBN: 978-1-291-64337-4 Copyright @ Giovanni Piana (2013) Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT Questo testo è stato redatto nel 2013 sulla base di materiali predisposti per un corso tenuto nel 1978 all' Università degli Studi di Milano. Se non altrimenti indicato le citazioni e i numeri di pagina si riferiscono E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it. a cura di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano, IV ed., 1972. La prima edizione di questa traduzione era uscita nel 1961, la prima edizione tedesca curata da W. Biemel, nel 1954 (Husserliana, VI). 5 Indice Presentazione, p. 7 Prima conversazione, p. 9 Seconda conversazione, p. 23 Terza conversazione, p. 43 Quarta conversazione, p.61 Quinta conversazione, p. 87 Sesta conversazione, p. 109 Settima conversazione, p. 125 Ottava conversazione, p. 139 Nona conversazione, p. 141 Decima conversazione, p. 183 Appendici: I. La Crisi delle scienze europee. Cinquant' anni dopo, p. 195 II. Omaggio a Enzo Paci, p. 201 6 7 Presentazione Questo testo si ricollega in parte ad un corso di lezioni del 1978. In realtà il titolo di quel corso era: "La tematica del mondo della vita e delle strutture antepredicative nella filosofia di Husserl", ed esso era stato pensato, per quanto riguarda l'itinerario teoretico, cominciando "dalla fine": quindi dalla Crisi delle scienze europee; per poi fare un grande salto all'indietro alla Filosofia dell'aritmetica, ricongiungendosi nuovamente alla Crisi attraverso Esperienza e giudizio. Lo scopo era quello di mostrare i vari aspetti della ricerca husserliana, assumendo come nucleo il problema dell'origine. In questo modo era mia intenzione sottolineare come, in opere profondamente differenti, anche sotto il profilo stilistico, vi fosse un filo conduttore unitario, in realtà molto mobile, ma pur sempre chiaramente dominabile - dominabilità che è spesso sfuggita alla bibliografia fenonomenologica, che molte volte ha unilateralmente privilegiato certi aspetti piuttosto che altri. Nel riprendere tra le mani questo progetto, esso ha assunta una forma del tutto diversa. Ho preferito limitare il tema alla Crisi delle scienze europee, conferendo all'esposizione il carattere di Conversazioni, che mi consentiva, da un lato, di dire con particolare libertà alcune cose che mi premevano, dall'altro di evitare la sistematicità e la completezza di un lavoro filologicamente mirato. Il brogliaccio iniziale è stato dunque interamente riscritto, ed ho operato anche alcuni aggiornamenti resi necessari dal fatto che la bibliografia ha fatto nel frattempo passi da gigante. A maggior ragione si avverte il bisogno oggi - e questa esigenza si fa sentire nel libro - di una storiografia filosofica seriamente impostata che riguardi gli anni di diffusione della fenomenologia in Italia, ma anche delle altre correnti, in particolare nell'ambito del neopositivismo, della filosofia del linguaggio, della logica, della filosofia della scienza, delle alterne vicende del marxismo, delle correnti della filosofia dell'arte, e naturalmente della diffusione dell'heideggerismo, dando un quadro fedele, ma non falsamente 8 neutrale, delle vicende filosofiche e dei dibattiti della seconda metà del secolo XX in Italia. Talora un punto di vista di tendenza, che quindi non si sottragga in via di principio a valutazioni di merito, fa vedere più cose di un punto di vista pseudo-oggettivo. Queste conversazioni, oltre a narrare a modo loro alcuni aspetti salienti del pensiero dell'ultimo Husserl, cercano di ambientare la Crisi delle scienze europee nel loro tempo forse più di quanto altri abbiano fatto. Inoltre esse tengono d'occhio la ricezione che quest'opera ebbe in Italia nei tempi della sua traduzione. Per loro natura esse non ambiscono a sovrapporsi ad opere di più largo impegno che nel frattempo sono state pubblicate, ed aspirano soltanto a mettere qui e là, sperabilmente, qualche punto fermo, ed anche, in varie direzioni, qualche punto interrogativo. Ho infine pensato che fosse giusto che un libro dedicato alla Crisi delle scienze europee, terminasse con un breve, ma sentito ed affettuoso Omaggio a Enzo Paci, che scrissi ai tempi della sua scomparsa: un omaggio ad un Maestro che in tutta la mia vita ho sempre sentito accanto e che volle chiudere la prefazione alla mia tesi di laurea con queste parole: "Si apre così un orizzonte nel quale l'eredità fenomenologica viene sentita come un compito nuovo". Giovanni Piana 9 Prima conversazione 10 11 1. In realtà, chi si limitasse a prendere in considerazione solo la Crisi delle scienze europee avrebbe un'immagine del tutto distorta della filosofia di Husserl - non solo dal punto di vista dei contenuti del suo pensiero, ma anche del suo metodo di lavoro e del suo modo di affrontare i problemi. Non si tratta del fatto ovvio che la lettura di un solo testo non può che fornire un'immagine unilaterale del filosofo. Il vero problema è invece il fatto che la Crisi ha caratteristiche sia di stile sia di impostazione che si può dire non abbiano un effettivo riscontro nelle altre opere edite di Husserl. Beninteso, vi sono fortissimi elementi di continuità nell'evoluzione del suo pensiero. Ciononostante, io credo che dopo la prima lettura della Crisi, chi leggesse un'opera come la Filosofia dell'aritmetica, o le Ricerche logiche, come del resto le Idee per una fenomenologia pura, non potrebbe che restare fortemente sorpreso. L'impressione che si riceve non è solo quella di trovarsi di fronte ad un altro pensatore, ma addirittura sotto un altro cielo. Se dovessimo cominciare ad indicare in breve le differenze, osserveremmo probabilmente che nella Crisi delle scienze europee ci troviamo di fronte ad un'esposizione che abbraccia un orizzonte storico-culturale amplissimo. Fin dalle prime pagine, la problematica messa in gioco non riguarda una solo un orizzonte filosofico, ma coimplica fin dall'inizio il rapporto della filosofia con la scienza, con la cultura in generale, e dunque con la "civiltà". A questa ampiezza dell'orizzonte corrisponde d'altro lato uno sguardo tematico fortemente concentrato, fortemente sintetico. Nei riferimenti alla storia del pensiero sono tolti di mezzo i dettagli, si va direttamente al cuore dei problemi, si segnalano soltanto gli aspetti rilevanti in via di principio, procedendo per grandi classificazioni che hanno uno scopo essenzialmente orientativo. Lo stile si adegua a tutto ciò: si tratta di uno stile denso, ma nello stesso tempo ampio e disteso; qui e là forse un po' retorico, 12 ma anche dove si avverte un'accentuazione retorica essa appare una diretta conseguenza di una tensione spirituale che anima dall'interno queste pagine, conferendo ad esse un notevole fascino. Consideriamo ora le Ricerche logiche: l'orizzonte culturale, nella molteplicità e nella ricchezza dei suoi addentellati, sembra addirittura non sussistere, o al massimo sussiste come una discussione interna di addetti ai lavori. In quest'opera il tema generale iniziale, la critica di una concezione psicologizzante della logica, è certamente un tema di ampio respiro, ma anche chiaramente delimitabile, ed in ultima analisi si tratta di un tema specialistico. La discussione può allora avvenire nella forma classica di una paziente elencazione di argomenti a favore di quella concezione o contro di essa. E Husserl procede proprio in questo modo: attraverso una discussione analitica, estremamente dettagliata nella quale la rilevanza eventuale del problema discusso sul piano culturale resta per il lettore molto difficile da cogliere, benché questa rilevanza sussista e proprio nel punto culminante della discussione, dove Husserl riporta la varie forme di concezioni psicologiche ad una unica matrice scettica. Le cose non mutano quando Husserl, conclusa la fase di critica delle opinioni altrui, passa all'elaborazione positiva. Anzi, se è possibile, peggiorano ancora. Ora abbiamo a che fare con analisi interminabili, molto sottili. Talora il nostro tema sembra ridursi a quello di fissare i modi di impiego di certi termini. Ad esempio, gran parte della Quinta ricerca logica è dedicata alla discussione del termine "rappresentazione" ed il lettore arriva estenuato alla conclusione della ricerca, dopo aver appreso che si possono elencare almeno quattordici sensi di quella parola! La forma è poi - inutile dirlo - perfettamente adeguata a questo contenuto. Lo stile è analitico, freddamente raziocinante, preciso, antiretorico - insomma tutto ciò che si può dire per lo stile della Crisi, lo si può negare per quello delle Ricerche logiche. Qualcuno ha scritto che le Ricerche logiche avrebbero potuto esse- 13 re state scritte nel Medioevo - un'osservazione motivata certamente dalla forma, ma anche forse dalla difficoltà di intravedere dall'opera stessa lo spirito del tempo. Al contrario la Crisi sembra la voce stessa - una delle voci, s'intende - dello spirito del tempo. Questa espressione non viene qui usata in senso strettamente hegeliano: voglio dire soltanto che, nella Crisi, l'epoca si fa avanti e compenetra forma e contenuto del testo. Ma proprio per questo si tratta di un'opera dominata da una preoccupazione prevalente che sarebbe sbagliato ritenere centrale nel complesso della produzione del filosofo, mentre è profondamente giusto ritenere che essa sia cresciuta con il tempo nel corso di una evoluzione che si accompagnava all'evoluzione della storia stessa. La tematica svolta nella Crisi diventa centrale al termine di un un lungo tragitto filosofico. Nonostante le differenze di stile e di metodo, questo tragitto è fortemente coerente e guidato da alcune idee guida fondamentali e da uno spirito unitario. Questo spirito è caratterizzato, da un lato dalla fiducia rara e illimitata nella ricerca filosofica come tale, dai grandi problemi ai problemi minimi, una fiducia nell'analisi paziente ed accurata, accompagnata dall'umiltà che caratterizza l'autentico uomo di scienza, dall'altro dalla convinzione che la filosofia in genere abbia compiti "formativi" ed "educativi" nel senso più alto e più nobile dei termini. Nelle sue linee generali, la Crisi presenta una istanza di riconduzione del senso della scienza ai valori della vita e dell'esistenza umana. Ma questo problema risulta oltre che da un ripensamento e da una reinterpretazione del concetto di metodo fenomenologico, dalla generalizzazione di una problematica che potremmo formulare così: ogni formazione concettuale, ed in particolare quei concetti che hanno una particolare rilevanza di principio all'interno dell'elaborazione scientifica - ad es. il concetto di corpo, di spazio, tempo, causa, ecc. - e così anche i 14 concetti matematici e i concetti logici - ad es. numero, operazione, soggetto, predicato, qualità, relazione, ecc. - hanno origine nell'esperienza quotidiana e concreta della realtà. L'intera opera di Husserl è dominata dall'idea dell'origine. Per indicare le strutture di esperienza che stanno alla base delle formazioni concettuali astratte Husserl parla spesso di strutture "antepredicative" ed è questa tematica di ordine generale che prende poi la forma, teorizzata nella Crisi, del rapporto tra scienza e "mondo della vita". Che cos'altro è il "mondo della vita" se non ciò che nelle opere precedenti veniva talora chiamato "mondo dell'esperienza" (Welterfahrung) o anche "mondo circostante" (Umwelt) - quindi il mondo che circonda e nel quale viviamo ogni giorno? Che questa problematica si continui qui è dimostrato, in particolare, dalla famosa Terza Appendice, dedicata all'origine della geometria; ma per ciò che riguarda il discorso complessivo svolto nella Crisi, esso si modifica - cessando di essere mirato su una problematica relativamente particolare mettendo il problema dell'antepredicativo sotto il fuoco di considerazioni che, dal terreno strettamente epistemologico, abbracciano la questione generale dei rapporti tra la filosofia e la cultura: e questi rapporti non possono certo non chiamare in causa la scienza e l'esistenza stessa. Il tema della crisi e del suo possibile superamento assume allora necessariamente una forte accentuazione etica. Sarebbe tuttavia un errore, nella lettura della Crisi, perdere di vista la problematica dei primi inizi della riflessione di Husserl. La tematica elaborata nella Terza Appendice, che abbiamo citato poco fa, la possiamo ritrovare addirittura nella prima opera pubblicata da Husserl nel 1891, la Filosofia dell'aritmetica, un'opera scritta in un'epoca nella quale l'idea di fenomenologia non era stata nemmeno teorizzata. In essa si ritrova, in una cornice metodica e culturale del tutto diversa, proprio il problema dell'origine del numero dal mondo di esperienza sino alla tematica dell'aritmetica vera e propria. Il principio metodico fondamentale su 15 cui si erige quest'opera è formulato così: "Nessun concetto può essere pensato senza fondazione in un'intuizione concreta" (Filosofia dell'aritmetica, trad. it. a cura di G. Leghissa, Bompiani, Milano 2001, p. 79). Sulla base di questo principio, l'indagine perviene alla nozione astratta di numero prendendo l'avvio dall'idea di una molteplicità di cose concretamente esperibili e manipolabile. Di cose, "dunque", appartenenti al nostro mondo circostante. 2. La Parte Prima della Crisi delle scienze europee, molto breve, sintetizza in una ventina di pagine il principale motivo conduttore dell'opera che in realtà è concentrato nel suo titolo. Si tratta di un titolo, io credo, che non è affatto ovvio, ma ha bisogno di essere giustificato. Se consideriamo lo sviluppo delle scienze, non vediamo forse successi crescenti, sia sul piano dell'acquisizione di conoscenze teoriche che su quello delle applicazioni pratiche? Proprio a partire dalla metà del secolo XIX in poi il movimento della scienza ha subito una brusca accelerazione. Alle scienze si impongono istanze sempre nuove e sempre più ampie, ed esse si rivelano in grado di rispondere ad esse. E dunque oggi - ovvero ai tempi di Husserl - in che senso potrebbe essere lecito parlare di crisi? Saremmo dunque subito tentati di negare la legittimità di qualunque discorso orientato in questa direzione. Ciò che appare evidente è proprio, al contrario, una continua crescita: un'accresciuta e continuamente crescente importanza della scienza nella nostra stessa esistenza a cui corrisponde un tendenziale predominio della scienza nella forma stessa della nostra cultura. Certo, nella scienza vi sono "crisi" continue, ma solo nel senso di grandi e proficui mutamenti di punti di vista, di rivolgimenti teorici di vasta portata che mettono in questione il quadro teorico conoscitivo del passato. Ma crisi di questo genere fanno parte dello stesso sviluppo della scienza, dunque del suo progresso. 16 Sembrano dunque esservi buoni motivi per contestare il titolo: anzi per rovesciarlo. Un filosofo parla ora della crisi delle scienze. Ma che cosa ci viene a raccontare? Se qualcosa è in crisi, questa è semmai proprio la filosofia. Da un lato, infatti si è dimostrata insostenibile proprio l'antica pretesa della filosofia di essere una sorta di superscienza, di "regina delle scienze" che avrebbe il compito di organizzare e sistematizzare da un punto di vista superiore i risultati delle scienze. Dall'altro, i sistemi filosofici si sono moltiplicati esprimendo punti di vista talora profondamente differenti che difficilmente possono entrare tra loro in una comunicazione feconda. Tutto sembra, nella filosofia, lasciato all'arbitrio del singolo filosofo. E manca naturalmente anche l'unità di un metodo sulla cui base una disputa filosofica possa essere sensatamente sollevata. Se c'è qualcosa che deve essere ripensato nel suo senso e nel suo modo di procedere questa è proprio la filosofia. Del resto, nello stesso torno di tempo in cui scrive Husserl, vi è chi pensa che finalmente i filosofi comprendano che debbono rinnovarsi radicalmente andando alla scuola della scienza. Ora, mentre è stato ampiamente contestato l'argomento del libro così come compare nel suo titolo, è stato assai poco sottolineato che Husserl fa anzitutto propria questa contestazione. Di essa - egli dice - dobbiamo riconoscere le buone ragioni: il progresso e la scientificità delle scienze è fuori discussione. Ed altrettanto indiscutibile è il contrasto tra la scientificità delle scienze e la non scientificità della filosofia. "Perciò noi riconosciamo le buone ragioni della profonda protesta degli scienziati, sicuri del loro metodo, contro il titolo di queste conferenze" (p. 34). Riconosciamo in particolare che ci troviamo qui di fronte a metodi effettivamente rigorosi nel loro movimento verso un continuo perfezionamento. Riconosciamo la portata critica, ma nello stesso tempo profondamente innovativa, delle grandi scoperte 17 teoriche. Se si parla di crisi, ciò non dipende dalla presenza di questo o di quel nodo teorico irrisolto, di una qualche problematica lasciata in sospeso: in generale, che vi siano nodi irrisolti e problematiche lasciate in sospeso fa parte - ed ha sempre fatto parte - del movimento stesso delle scienze e del loro progresso. Il processo della scienza, considerato dall'interno, è "inattaccabile" (p. 35). Ma tutto ciò - e qui comincia la difesa da parte di Husserl del proprio tema - circoscrive solo un primo senso della scientificità delle scienze. Vi è infatti anche un altro senso della scientificità: ed è in rapporto ad esso che è possibile parlare di crisi, riferendola al tempo presente. Per coglierlo dobbiamo disporci all'esterno della scienza. Cosa che non significa rivolgersi ad essa in modo estrinseco: significa invece tentare di cogliere il nesso che collega la scienza nella sua forma attuale e negli orientamenti intellettuali che essa suggerisce e la cultura nel suo insieme: tra la scienza come patrimonio di conoscenze acquisite e le idee che ci orientano nella nostra vita. Dunque: la relazione tra la scienza e la forma stessa della nostra esistenza. Va subito sottolineato che, posto in questo modo, il problema chiama in causa direttamente la filosofia, perché è la filosofia che fa da mediatrice tra la scienza e l'esistenza, trasmettendo un'immagine della scienza nella cultura. Occorre dunque prestare molto attenzione a non fraintendere già il titolo di questo libro, che proprio sul concetto della crisi è fluttuante. Dove si trova la crisi? Che cosa è propriamente in crisi? Sarei tentato di dire che la risposta effettiva di Husserl sta in una citazione musicale. Si tratta dell'Inno alla gioia di Schiller, ripreso nella Nona Sinfonia di Beethoven, un inno che trabocca di ottimismo progressista e che egli ricollega giustamente allo spirito dell'illuminismo. L'illuminismo, osserva Husserl, era stato capace di diffondere 18 "quell'acceso bisogno di sapere, quello zelo per una riforma dell'educazione e delle complessive forme sociali e politiche di esistenza dell'umanità, uno zelo che rende degna di venerazione l'epoca tanto diffamata dell'Iluminismo. Una testimonianza perenne di questo spirito è costituita dallo splendido inno Alla gioia di Schiller e Beethoven. Oggigiorno questo inno non può che suscitare in noi dolorosi sentimenti. È impensabile un contrasto maggiore con la nostra attuale situazione" (p. 39). Così Husserl: non possiamo sentirci partecipi dell'Inno alla gioia, non possiamo condividere il suo ottimismo - esso non è più corrispondente alla realtà della nostra epoca, alla sua "miseria". Questo è il problema autentico per cui è possibile parlare in generale di una crisi: invisibile certo da un punto di vista interno al processo della scienza, ma che invece investe direttamente il nostro esistere quotidiano. La scienza, attraverso la mediazione della filosofia, conferisce la propria impronta alla cultura, e questa finisce con l'incidere profondamenta nelle forme della nostra esistenza. Il discorso sulla "crisi" sembra dunque, secondo Husserl, spostarsi sul versante della scienza, ma solo secondo una prospettiva che coinvolge la filosofia e la realtà sociale. 3. Cerchiamo di illustrare a modo nostro questo passaggio, evidentemente cruciale per l'intera impostazione husserliana. Se volessimo indicare in che senso, del tutto generale, si può parlare di crisi dell'esistenza, forse potremmo esprimerci così: nella crisi ci sentiamo smarriti, abbiamo perduto la via, non vediamo nessuna strada, nessun sentiero che potrebbe condurci ad una mèta. E ciò a sua volta significa: non abbiamo più di fronte a noi degli scopi che possano essere sensatamente perseguiti: abbiamo perso il controllo sulle cose, ci troviamo impotenti di fronte ad una realtà che segue il suo corso che ci è estraneo e ostile. Allora viene certamente meno la condizione prima dell'ottimismo che 19 consiste in un legame con la realtà tale per cui essa ci appare come plasmabile secondo gli obbiettivi che noi vorremmo perseguire in essa. La soggettività deve poter sopravanzare sull'oggettività, sia pure facendo i conti con la sua durezza. All'oggettività debbono poter essere imposti scopi soggettivi: questa è la condizione prima, il presupposto per poter ritornare ad essere partecipi dell'Inno alla gioia. Non si tratta dunque di una sorta di incapacità soggettiva di progettare scopi. Tutti siamo in grado di immaginare una realtà diversa dalla nostra, un'esistenza felice. Si tratta invece del fatto che ogni nostro progetto non può far presa su questa realtà, la realtà che mi sta di fronte ed in cui vivo. Ogni progetto può al più essere proiettato in uno spazio utopico. La realtà si presenta nella forma del puro e semplice: le cose stanno così e non altrimenti (e tu in ogni caso non puoi farci nulla). Ma tutto ciò che cosa ha a che fare con la scienza in genere? Nello spirito del discorso che Husserl sta facendo non dobbiamo tanto guardare ai contenuti intrinseci della scienza o ai suoi metodi, ma all'immagine che essa fornisce della realtà. Allora, a suo avviso, troviamo trascritta in termini teorici proprio la situazione della crisi. La scienza tende anzitutto all'oggettività. Questo è ovvio. Se si cercano conoscenze e verità effettive non si può pensare che esse valgano solo per il singolo o per gruppi umani delimitati. Si cercano conoscenze che possano essere riconosciute e praticate intersoggettivamente. Ma da questa oggettività, che non è in discussione, dobbiamo distinguere quello che Husserl chiama obbiettivismo: un modo di intendere il problema dell'oggettività che va al di là di quell'ovvietà ed anche oltre il terreno di un dibattito interno alla scienza ed investe invece la filosofia ed il rapporto tra scienza e filosofia. L'obbiettivismo diventa particolarmente sensibile in quelle scienze che hanno tematicamente a che fare con il polo opposto - con la psicologia, ad esempio. E in generale con le scienze 20 "storiche". Qui troviamo il motivo dell'importanza che riveste per Husserl in rapporto alla propria impostazione una discussione sullo statuto filosofico della psicologia. La seconda sezione della terza parte dell'opera, di cui noi non ci occuperemo, è in effetti dedicata al problema dei rapporti tra filosofia e psicologia. E val la pena anche di far notare, a proposito delle fluttuazioni del concetto stesso della crisi, che la Conferenza tenuta a Vienna 1935 venne replicata nello stesso anno a Praga con il titolo "La crisi delle scienze europee e la psicologia". In quella conferenza, e dunque nelle prime pagine della Crisi, si legge che "ci renderemo conto ben presto che alla problematicità che è proprio della psicologia, non soltanto ai giorni nostri ma da secoli - alla"crisi" che le è peculiare - occorre riconoscere un significato centrale; essa rivela, le enigmatiche ed a prima vista inestricabili oscurità delle scienze moderne, persino di quelle matematiche, essa rivela un enigma del mondo di un genere che era completamente estraneo alle epoche passate. Tutti questi enigmi riconducono all'enigma della soggettività e sono quindi inseparabilmente connesse all'enigma della tematica e del metodo della psicologia" (p. 35). Questi richiami critici ad un obbiettivismo che per contrapposizione mettono in rilievo il tema della soggettività, sono richiami ad una tendenza, che prendendo le mosse dall'oggettività della scienza, punta in direzione di una eliminazione di ogni momento di sopravanzamento soggettivo del dato. L'intento orientato alla fissazione di conoscenze "giustificate" e intersoggettivamente verificabili, in sé pienamente legittima ed anzi obbligatoria nel fare conoscitivo concreto, può diventare una tendenza, per nulla ovvia, a prospettare come compito della scienza quello dell'accertamento di dati di fatto, prescindendo da qualunque considerazione che metta in qualche modo in questione scopi e direzio- 21 ni di senso. Ci si dimentica che la vita deve essere progettata, e deve essere progettata secondo i desideri e le speranze che la rendano ricca di senso. Forse potremmo dire semplicemente: più felice. Un concetto della scienza in cui la realtà viene presupposta come un puro complesso di dati di fatto che sono così come sono, e l'unico problema è il fissarli nella loro oggettività può diventare il motore di un movimento di privazione di senso della realtà stessa. Detto in altro modo: eliminiamo dalla storia per quanto è possibile la componente soggettiva, eliminiamo dunque "tutti i legami di vita, gli ideali, le norme che volta per volta hanno fornito una direzione agli uomini" - e il residuo di questa eliminazione sarà la trasformazione di tutti gli eventi storici, così ricchi di senso per uno sguardo orientato verso il regno dei progetti e degli scopi, niente altro che "onde fuggenti", momenti che scorrono via precipitando in una cascata di nonsensi. Ma questa forma di obbiettivazione non è qualcosa di intrinseco all'operare della scienza. È un'immagine della realtà estratta da un modo di concepire la scienza: questa immagine ratifica il nostro vivere in una "crisi esistenziale" - e non solo lo ratifica, ma forse, secondo Husserl, è di quella crisi esistenziale la ragione più profonda. In realtà, la riconduzione della "crisi esistenziale", intesa non già come vicenda spirituale del singolo, ma come condizione sociale di un'epoca intera, ad una crisi della filosofia e della scienza, considerata come il motivo che sta alla sua radice, può fin da subito generare perplessità. Non converrà condividerla senz'altro. Tuttavia prima di esercitare una critica, è giusto tentare di comprendere meglio questa presa di posizione. 22 23 Seconda conversazione 24 25 1. Anzitutto è il caso di rammentare come antecedente di tutta questa discussione la tematica del saggio del 1911, La filosofia come scienza rigorosa. Questo è forse il primo saggio nella produzione di Husserl che si avverte scritto sotto l'impulso di un disagio culturale di carattere generale. Il titolo sembra attirare l'attenzione anzitutto su un compito positivo - diamo rigore alla filosofia, quel rigore che conferisce ad essa il carattere di una scienza autentica. Ma il modo di sviluppo del tema è in realtà critico-polemico. Da un lato si intende osteggiare una pretesa "rigorizzazione" della filosofia che consisterebbe nel ricondurre l'intero patrimonio problematico che appartiene alla sua tradizione nell'alveo delle scienze sperimentali, e soprattutto della psicologia. Dall'altro si ha di mira un altro tipo di riduzione, ciò che Husserl chiama Historismus, intendendo con ciò la tendenza a riportare la filosofia, e più precisamente le filosofie a "concezioni del mondo" proposte da pensatori geniali e rappresentativi che dànno semplicemente forma alle idee del tempo. Di conseguenza gli argomenti teorici diventano in certo senso fittizi, avendo alla loro base unicamente delle motivazioni storiche. A partire da presupposti "storicistici" si perviene a posizioni relativistiche nelle quali non vi è posto per l'idea della scientificità della filosofia e di uno sviluppo progressivo di una fondazione autenticamente razionale delle argomentazioni filosofiche. Verso questa stessa direzione punta anche la riduzione della problematica filosofica a problemi di psicologia sperimentale, che a sua volta si associa sempre più, in ambito positivista, ad un sistema delle scienze in cui la psicologia tende ad assumere un valore fondativo proprio per il fatto che le giustificazioni ultime di ciascuna scienza viene in via di principio pensata come giustificazioni di ordine psicologico. Esemplificativamente: se vogliamo comprendere le ragioni più profonde dei fatti religiosi, bisogna lasciar da parte le speculazioni filosofiche, oltre che i libri di metafisica e di teologia, e rivolgersi invece all'ambito delle 26 motivazioni psicologiche, sperimentabilmente accertabili. Rimandando a fatti psichici si potrà costruire un'intera filosofia della cultura, del costume, di ogni tipo di comportamenti. I fatti psichici hanno un carattere onniesplicativo, e tra essi vanno ricercate le spiegazioni ultime. Seguendo questa via è inevitabile che in luogo di ragioni non si faccia altro che accumulare dati di fatto. Nello stesso tempo poiché i fatti psichici sono anzitutto fatti, ovvero accadimenti che non hanno alcuna peculiarità rispetto agli altri accadimenti ed agli eventi naturali in generale, si apre la strada ad una sorta di "naturalizzazione della coscienza" che ha come implicazione un'evidente conseguenza "scettica": tutti i fatti hanno eguale valore. A mio avviso questo saggio deve in certo senso essere letto in negativo. In esso si propone la rigorizzazione della filosofia come scienza soprattutto per fornire una parola d'ordine per la critica dello scetticismo. Ma a differenza della critica dello scetticismo che era già centrale nel Prolegomeni alle Ricerche logiche, in cui i problemi della Crisi sono ancora lontani, ora si tratta di un discorso rivolto esplicitamente al proprio tempo: che è sentito come denso di squilibri, di tensioni, come avviato verso profonde disarmonie, pur essendo carico di grandi potenzialità spirituali. "Il nostro tempo viene detto periodo di decadenza; io non posso ritenere giustificato questo rimprovero. Non si troverà nella storia un'epoca in cui una tale somma di forze efficaci fu messi in opera con tale successo come nell'epoca nostra. Noi possiamo non approvare sempre gli scopi; possiamo anche lamentare che in epoche più tranquille e pacifiche, quando la vita scorre più facilmente siano sbocciati fiori della vita spirituale quali non possiamo trovare né aspettarcene nella nostra età… Io penso che il nostro tempo, per ciò cui esso è chiamato, sia una grande epoca. Solo che esso soffre di uno scetticismo che ha distrutto i vecchi ideali non chiarificati. E per ciò 27 stesso soffre per il troppo povero sviluppo e potenza della filosofia, che ancora non è sufficientemente progredita e scientifica da poter vincere il negativismo scettico (che si dice positivo) mediante il vero positivismo. Il nostro tempo vuol solo credere alle "realtà"; ora la sua realtà più imperiosa è la scienza, e così la scienza filosofica è ciò che specialmente è necessario nel nostro tempo" (La filosofia come scienza rigorosa, trad. it. di F. Costa, ETS, Firenze 1990, pp. 110-111). A partire da 1911, quel pessimismo sulla situazione storico-sociale che è già evidente in queste righe non poteva che aumentare ancora, ed a diventare sempre più drammatico. Non solo dunque occorre mettere l'accento sul fatto che non si tratta di negare il progresso delle scienze e il loro sviluppo da un punto di vista interno, e sul fatto che ciò che viene messo in questione non è la scienza, ma un determinato concetto della scienza: oltre a ciò occorre scorgere nella discussione di Husserl un atteggiamento critico nei confronti dell'ottimismo verso la scienza che era tipico del positivismo ottocentesco ed era rinato proprio negli anni venti sotto nuove forme. La domanda se quell'ottimismo fosse realmente giustificato era purtroppo assai lecita. A questo proposito occorre tuttavia essere più precisi. La dizione "positivismo" nasce con Comte come nome di una filosofia, anzi di una fase filosofica che è destinata a contrassegnare la fase futura della storia dell'umanità soprattutto sulla base di una nuova scienza - la scienza della società. Secondo Comte, le realizzazioni di questa filosofia non può fare a meno dell'apporto della politica. Nel Preambolo al suo Discours sur l'ensemble du positivism (Parigi, 1848), Comte scrive che "il positivismo si compone essenzialmente di una filosofia e di una politica, che sono necessariamente inseparabili, come costituenti l'una la base e l'altra la mèta di un sistema 28 universale, in cui l'intelligenza e la socialità si trovano intimamente combinate" (ediz. Société positiviste internationale, 1907, p. 2). role: E il primo paragrafo di quest'opera si apre con queste pa- "Il fine della filosofia è di dare un ordine (systématiser) alla vita umana. La vera filosofia si propone di sistematizzare, nella misura del possibile, l'intera esistenza umana, individuale e soprattutto collettiva, compresa ad un tempo nei tre ordini di fenomeni che la caratterizzano: pensieri, sentimenti e atti. Sotto tutto questi aspetti l'evoluzione fondamentale dell'umanità è necessaria­mente spontanea, e l'esatto apprezza­mento del suo cammino naturale è l'unico che può fornirci la base generale di un saggio intervento. Ma le modificazioni sistematiche che noi vi possiamo introdurre hanno nondimeno un'estrema importanza, per ottenere una rilevante diminuzione delle deviazioni parziali, dei ritardi funesti e delle gravi incoerenze, proprie ad una crescita così complessa, se essa restasse interamente abbandonata a se stessa. La realizzazione continua di questo intervento indispensabile rappresenta il dominio essenziale della politica" (ivi, p. 8). Si tratta di affermazioni assai significative ed importanti, sia per il legame della scienza con la vita, nella totalità delle sue manifestazioni ("pensieri, sentimenti, atti"), sia per il fatto che il progresso non è considerato ineluttabile, ma richiede l'intervento necessario dell'azione politica. Per questo Comte considerava quasi offensivo attribuire al positivismo la qualifica di filosofia ottimistica (ivi, § 21), perché riteneva che tale qualifica reintroducesse in esso una mentalità provvidenzialistica che doveva essere superata. 29 Ma il positivismo tardo-ottocentesco non eredita questa impronta della filosofia comtiana, così come non eredita l'interesse per la teoria sociale come teoria scientifica fondamentale; inoltre in esso diventa dominante un ottimismo fondato nella convinzione che il progresso scientifico come tale, ovviamente accompagnato dalle innovazioni tecnologiche conseguenti, avrebbe automaticamente prodotto la soluzione di ogni problema: una sorta di ottimismo passivo che riteneva di poter lasciare ai fatti, una volta conosciuti e diventati perciò tecnicamente dominabili, la capacità di delineare essi stessi il cammino di una systematisation humaine - per usare l'espressione di Comte - ovvero una vita provvista di senso. Un simile punto di vista evidentemente toglieva di mezzo il problema. Non vi è alcuna discussione da compiere su fatti e valori. I valori diventano intrinseci alla scienza dei fatti, il che significa che il progresso è in via di principio garantito - e ciò sembrerebbe suonare definitiva conferma del principio dell'obbiettività. Proprio in quanto la scienza esibisce fatti e li documenta, proponendo verifiche intersoggettivamente valide, essi non potranno non essere riconosciuti da chiunque, al di là delle opinioni mitologiche, religiose o metafisiche, e di conseguenza verrà necessariamente meno la conflittualità sociale e i danni che essa reca alla vita stessa. È chiaro che vi è tra questa presa di posizione e la garanzia ottimistica del progresso uno stretto legame - l'ottimismo progressista sembra consolidare definitivamente ad un tempo l'oggettività della scienza e la sua efficacia sociale e culturale. Mi sembra che ciò che io chiamo qui ottimismo passivo sia sintetizzato al meglio dal titolo che Ardigò diede ad un suo intervento al Convegno internazionale del libero pensiero a Roma nel 1904: "Divisi dalle religioni, la scienza ci riunirà". Dopo aver dichiarato che in forza di una verità obbiettiva da tutti riconosciuta, sarebbe stata superata l'inimicizia tra le razze, l'intervento si conclude con l'invocazione di Lucrezio a Venere, dea che qui 30 Ardigò assume come simbolo della scienza: Effice ut interea fera moenera militiai per maria ac terras omnis sopita quiescant: nam tu sola potes tranquilla pace juvare mortalis (I, 29- 32) E per mare e per terra fa che sopiti tacciano intanto i feroci studi dell'armi. Infatti tu sola puoi giovare i mortali con una pace serena (Trad. di B. Pinchetti, Bur, Milano1986) 2. Abbiamo evocato fatti e valori. Fermati qui: tutto ciò che appartiene ai valori non può essere affrontato dalla scienza. È così? Ma se è così e se la scienza è depositaria del concetto autentico della razionalità, rispetto all'intero ambito dei valori non è possibile nessun approccio autenticamente razionale. Se mai le questioni appartenenti a questo ambito sono questioni "filosofiche". Osservazione quanto mai ambigua, perché sembra voler sottolineare due volte l'indominabilità da parte della ragione del campo dei valori. In essa è infatti sottintesa una sorta di sottovalutazione di un pensiero filosofico autonomo, indipendente dalla scienza, che sia capace di produrre un sapere autentico. Non è vero forse che nella filosofia si fanno valere punti di vista individuali, che anche quando vengono condivisi da un largo numero di persone, non per questo perdono il loro carattere originariamente particolare? Di fronte all'universalità della scienza che è in grado di sollevare problemi effettivi che possono essere dibattuti secondo una metodologia ben stabilita, vi è la particolarità dei punti di vista filosofici che certamente possono porre problemi che la scienza non può porre, per il semplice fatto che rimandano ad uno sfondo oscuro e non dominabile razionalmente. A questo sfondo deve essere attribuita ogni scelta secondo uno scopo, non solo all'interno dell'azione individuale, 31 ma anche all'interno dell'azione sociale. Nella vita etica, come in quella del costume e dell'educazione. E dunque anche nelle istituzioni sociali, nella politica nel senso ampio del termine, nella storia. Chi argomenta in questo modo, stranamente, non si rende conto a sua volta di filosofeggiare e di essere malamente scivolato secondo uno sviluppo apparentemente logico dalla tendenza all'oggettività, ad una posizione che in nessun caso può pretendere di essere contenuta all'interno di un orizzonte puramente metodologico. Infatti qui si dichiara apertis verbis che non c'è nessuna razionalità autentica nella nostra esistenza in genere. Certamente essa è tutta intessuta di scopi e di valutazioni, di fini che noi perseguiamo non solo sul piano personale e individuale, ma anche all'interno di un più ampio contesto sociale. Ma questo vivere secondo scopi deve essere sorretto dalla fiducia nella fondatezza, e quindi nella razionalità, dei nostri comportamenti. Il concetto positivistico della scienza ci insegna invece che la razionalità la ritroviamo soltanto nelle procedure scientifiche di ricerca, di verifica e di scoperta capaci di cogliere quelli che sono effettivi dati di fatto al di là delle mitologie filosofiche e religiose. Tutto è il resto è irrazionale. Ma come non vedere che in questo resto è contenuta anche tutta la nostra esistenza? Ancora una volta la varietà dei titoli dimostra una significativa esitazione. Il titolo di quella conferenza tenuta a Vienna era La crisi dell'umanità europea e la filosofia (cfr. Introduzione di W. Biemel, p. 21). In questo titolo le "scienze europee" non compaiono. Una variante del titolo era: La filosofia nella crisi dell'umanità europea - e forse questo è il titolo più chiaro. L'argomento di quest'opera non è la scienza, ma la filosofia. E ciò viene detto anche in modo del tutto aperto: "La crisi delle scienze e quindi dell'intera cultura moderna che si basa sull'autonomia della ragione 32 scientifica, è in fondo soltanto una crisi della filosofia… La crisi delle scienze ha il suo fondamento in una crisi dell'autocomprensione dell'uomo. Il superamento di questa crisi potrà aver successo unicamente e soltanto attraverso una trasformazione della comprensione che l'uomo ha di se stesso" (Husserliana, vol. XXIX, pp. 137- 138). E proprio perché la filosofia si trova al centro del problema, si vanno riproponendo in quest'opera temi antichi che attraversano tutta la storia della filosofia. Nella Conferenza di Vienna ritorna con forza l'idea che le scienze si presentino come "ramificazioni" della filosofia: il nostro compito, dice Husserl, è quello di una riflessione sulla funzione della filosofia e delle sue ramificazioni nell'attuale situazione di crisi (p. 128). Questi rami della filosofia sono appunto le scienze: idea ripetuta più di una volta come quando si parla della filosofia come "scienza onnicomprensiva" oppure delle scienze come "rami dipendenti di un'unica filosofia", riprendendo persino l'antico problema del rapporto tra le scienza e la metafisica. In queste formulazioni in realtà non si compie nessun salto all'indietro. In realtà esse vanno comprese alla luce delle nostre considerazioni precedenti sulla critica antipositivistica della concezione della razionalità della scienza. Questa concezione può essere spinta sino al punto di arrivare ad una effettiva negazione della filosofia in genere, del suo diritto all'esistenza, o almeno ad un'esistenza autonoma. Di ciò dovremo riparlare. Nella sua critica antipositivistica Husserl non guarda certo a cinquant'anni prima, ma al dibattito che era vivo al suo tempo. Ed all'interno di questo dibattito era un'autentica provocazione accingersi ad una difesa della filosofia spinta sino al punto di rievocare non tanto la predominanza della filosofia sulle scienze, cosa che Husserl non fa, quanto la necessità di tener ferma la "filosoficità" delle scienze, e cioè di mantenere nelle scienze 33 come linea guida l'idea di una razionalità capace di abbracciare le problematiche di senso la cui esigenza è intrinseca all'esistenza stessa. 3. Un importante richiamo all'indietro tuttavia c'è, ed è cruciale per tutto il discorso che viene compiuto nella Crisi. Si tratta richiamo alla cultura rinascimentale (§ 3). In essa si è effettuato un "rivolgimento rivoluzionario", la cui essenza sta nella riacquisita presa di coscienza della possibilità di intervenire secondo l'autonomia della ragione sulla realtà per foggiarla e plasmarla secondo fini umani. Si abbandona dunque il punto di vista trascendente del Medioevo - i vecchi dogmatismi, le vecchie metafisiche. Ma si è ben lontani dal teorizzare la particolarità della filosofia, secondo un'inclinazione che conduce alla sua soppressione. Al contrario la costruzione sistematica, la tendenza a fare delle scienze dei "rami" della filosofia si risolve integralmente nell'idea dell'unità intrinseca della ragione e dell'inscindibilità dei progetti conoscitivi particolari dal progetto che punta al dominio razionale sull'esistenza stessa. "La liberazione dal tradizionalismo della Scolastica e dalla sua considerazione teologico-teleologica del mondo, la lotta contro i pregiudizi tradizionali, l'appassionata volontà di elaborare una scienza e una filosofia fondata sulla ragione autonoma, domina il movimento dello spirito filosofico a partire dal Rinascimento. Il Rinascimento rinnova dunque innanzitutto l'unico senso della filosofia come conoscenza del mondo fondata puramente sulla episteme. E ben presto esso giunge al punto di proporsi di evitare l'assunzione tradizionalistica delle antiche filosofie. Infine, nella tendenza di tutti questi sforzi, era inclusa la volontà di una libertà radicale e assoluta dai pregiudizi, nella quale si esprimesse limpidamente la ragione, identica 34 in tutti coloro che giudicano razionalmente, la ragione capace di avviare, in modo onnivincolante, il vero metodo e le vere teorie" (Appendice X, p. 444). Altrettanto notevole per Husserl è il fatto che il richiamo al Rinascimento rappresenti nello stesso un richiamo all'antichità greca che il Rinascimento porta a nuova vita. L'uomo rinascimentale, l'umanista, acquista anzitutto la coscienza della sua autonomia teoretica e di conseguenza della sua autonomia pratica. Egli tende ad un'accumulazione di conoscenze che è poi destinata a riversarsi nella vita stessa modificando profondamente "l'intero mondo circostante, l'esistenza politica e sociale dell'umanità in base alla libera ragione, in base alle evidenze di una filosofia universale" (p.15). Ritroviamo così, insieme ad uno dei motivi centrali della Crisi, il tema delle origini perdute: dall'Europa rinascimentale sorge vivo il ricordo delle origini greche della cultura europea. È in Grecia che la cultura europea ha le sue radici, e non altrove. È in Grecia che ha origine l'idea di Europa, quell'idea che, secondo Husserl, è portatrice di un'idea universale di ragione. "Questo vuol dire, né più né meno, che non soltanto attribuiamo alla cultura europea, di cui abbiamo descritto il tipo di sviluppo, proprio per il fatto di averlo realizzato, la posizione relativamente più elevata tra tutte le culture storiche, ma che la consideriamo la prima realizzazione di una norma assoluta di sviluppo, destinata a rivoluzionare ogni altra cultura" (E. Husserl, L'idea di Europa, trad. it. a cura di C. Sinigaglia, p. 87 - Questo volume contiene la traduzione degli articoli pubblicati nella rivista giapponese Kaizo nel 1923-24) 35 4. Ci si può chiedere: questo richiamo al Rinascimento ed alla classicità greca formulato in questo modo non può forse sollevare un sospetto eurocentrismo? Del resto perché mai si parla nel titolo di scienze "europee", perché mai questa designazione geografica? E non vi sono forse frasi di Husserl che rafforzano questo sospetto? Anticipiamo subito che vi sono dei "limiti di coscienza possibile" - per usare un'espressione di Lukàcs - nella presa di posizione complessiva di Husserl ed il fatto che l'europeizzazione del mondo grondi di lacrime e sangue sembra trovarsi al di là di questi limiti. Ma questo problema potrebbe non incrociarsi con quello qui discusso da Husserl, mentre vi si incrocia indubbiamente quello del multiculturalismo. Naturalmente Husserl sa che vi sono civiltà differenti, che si sono sviluppate nel tempo, che sono scomparse o variamente fuse tra loro, con i loro ambiti culturali affini o profondamente estranei. L'umanità ci appare "come un'unica compagine di vita, della vita dei popoli congiunta esclusivamente da nessi spirituali, gremita da tipi umani e culturali che costantemente confluiscono l'uno nell'altro. È come un mare in cui gli uomini e i popoli sono onde fuggevoli che si formano, si trasformano e di nuovo scompaiono, alcune increspate in modo più ricco e complesso, le altre in modo più elementare" (p. 333). Da questo punto di vista "la forma spirituale Europa" va considerata una cultura accanto ad ogni altra, le sue "origini storiche" rimandano sempre più lontano "di epoca in epoca, dai romani ai greci, dai greci agli egizi,ai persiani… fino all'età della pietra" (p. 332). Non manca nemmeno il riconoscimento del fatto che le conoscenze prodotte nelle culture extra-europee sono effettive co- 36 noscenze, sono "nozioni sul mondo effettivo, che debbono essere ritenute scientifiche". Husserl sottolinea anche che "Qualsiasi popolo, qualsiasi unità popolare ha un suo mondo, in cui tutto si armonizza, un mondo miticomagico, o, come in Europa, razionalmente, un mondo in cui tutto può essere perfettamente spiegato. Ogni popolo ha una sua "logica" e quindi, se questa venisse esplicata in proposizioni, un suo "a priori"" (Appendice III, p. 400). In quest'ultima citazione il riferimento al mondo mitico- magico e rispettivamente, per l'Europa, alla razionalità, non rappresenta una differenza nell'ordine gerarchico del concetto di cultura. "In tal senso è importante ricordare che da questa posizione non possiamo stabilire nessuna gerarchia razionale di un mondo rispetto agli altri. Ciascun popolo possiede, come si afferma alla fine, la sua logica, dunque la sua razionalità, il suo apriori; in una parola, ciascun mondo ha la propria cultura, che non può essere valutata da quella di qualsiasi altro, e questo sia a livello della ragione teoretica come a quello della ragion pratica. Quindi, la forma razionale- europea, nel modo in cui qui viene menzionata, non è né maggiore né peggiore, e nemmeno dice maggiori o minori verità intorno agli uomini ed al loro mondo che la forma mitico-magica" ( Jesús M. Díaz Álvarez, ¿Son todas lasa épocas y culturas humanas iguales ante dios ?Husserl y el problema del eurocentrismo, in "Investigaciones fenomenológicas", Madrid …., p. 202, p. 4). Tuttavia queste affermazioni non sono da leggere nello spirito dello storicismo relativista che Husserl ha sempre osteggiato. Egli ne condivide l'assunto fondamentale nella misura in cui si resta sul terreno della fattualità storica. Ma dal punto di vista 37 di una storicità ricca di senso e provvista di fini, il problema sta proprio nel tipo di razionalità di cui l'Europa è portatrice, che in luogo di essere chiusa dentro il proprio orizzonte, si apre al mondo intero e ad ogni cultura particolare possibile. È questo il motivo per cui Husserl ritiene di poter parlare di una idea di Europa, e non di una pura e semplice località storico- geografica. La differenza consiste nel fatto che in Europa prende forma un'idea universale di razionalità, in essa è diventato un valore in sé l'idea di un processo conoscitivo infinito, sempre più organizzato in un apparato di concetti e le conoscenze sono perciò inserite dentro un sistema-scienza, sottraendosi ad un orizzonte mitico-pratico. È questo il passaggio effettuato dall'"umanità filosofica": esso è avvenuto in Grecia e di qui ha dato forma alla cultura europea. Cosicché l'Europa può assumere un significato ideale, legato alla sua "forma spirituale". Appartenere all'Europa ha una peculiarità che viene talora formulata da Husserl in termini che possono apparire tra l'ingenuo e l'urtante: "L'appartenenza all'Europa è qualcosa di estremamente peculiare, qualcosa di sensibile anche per altri gruppi umani i quali, nella costante volontà della preservazione spirituale e a prescindere dal calcolo dell'utilità, possono sentirsi indotti al tentativo di europeizzarsi. Noi invece, se siamo consci di noi stessi, ben difficilmente cercheremo di diventare indiani" (p. 333). "In un senso spirituale rientrano nell'Europa i dominions inglesi, gli Stati Uniti, ecc., ma non gli esquimesi e gli indiani d'America che ci vengono mostrati nei baracconi delle fiere o gli zingari vagabondi per l'Europa" (pp. 332). Queste frasi, tanto difficili da accettare se prese in se stesse perché sembra mettano in questione la pluralità delle culture e per di più chiamando esplicitamente in causa culture represse, han- 38 no dato occasione a Derrida (De l'esprit: Heidegger et la question, Ed. Galilée, Paris 1987, n. 2, p. 94) e ad altri autori di parlare non solo di eurocentrismo, ma addirittura di razzismo. E vi è chi è arrivato addirittura a evocare lo sterminio nazista degli zingari (D. Moran, Introduction to phenomenology, Routledge, 1999, London, p. 184). Si tratta di letture che manifestamente cercano di non lasciare troppo solo il nazismo reale e attivamente praticato da Heidegger e che anzitutto per la bassezza di questo motivo non possono essere prese in considerazione. Ma non lo possono anche per un altro motivo: esse fraintendono il testo. Il vero senso di queste affermazioni va in realtà ricercato in una sorta di rafforzamento dell'affermazione contenuta nella Conferenza di Vienna secondo cui l'Europa di cui qui si parla è una "forma spirituale", e non un fatto geografico (cfr. p. Dissertazione II, p, 333) (e quindi tanto meno un fatto razziale). "Non sei europeo per il fatto di abitare quel luogo che designamo geograficamente come Europa. E per mostrare questo, per smentire l'argomento geografico, e non per una logica razziale implicita, Husserl si riferisce agli Stati Uniti o ai dominions inglesi. Infatti se con Europa si intendesse una zona geografica, mai gli americani e gli australiani, per fare solo due esempi, potranno chiamarsi "europei". Per questa stessa ragione, i gitani che vagabondano nel territorio fisico del continente europeo o gli indios o eschimesi che si esibiscono nelle fiere dell'Europa geografica, magari per varie generazioni, non possono essere considerati "europei"". "Per Husserl l'Europa incarna l'idea di razionalità universale, vale a dire del logos comune, che per definizione può diventare accessibile e assimilabile da chiunque per il solo fatto che è un essere umano… D'altra parte non vi è in Husserl nessuna allusione alla razza, né un accesso alla cultura europea in virtù della razza. Perciò non vi è nessuna "inconseguenza filosofica" 39 [secondo quanto sostiene Derrida] quando afferma che, culturalmente, i gitani, gli indios o gli eschimesi non appartengono al Geist europeo. Vi sarebbe inconseguenza solo se lo stesso Husserl, una volta affermato il carattere spirituale della condizione di europeo, avesse chiuso questo spazio ai non europei, in forza della razza, cosa che egli è lontanissimo dal suggerire". "E per terminare: Può dirsi, senza alcuna perplessità, che il pensiero di husserliano sia uno dei responsabili di Auschwitz? La verità è che quando lessi il testo di Derrida fu questa una delle cose che richiamò la mia attenzione. Non perché abbia qualche tabù nel momento di analizzare il pensiero di un grande filosofo o le conseguenze che ne trae, ma perché la scelta di confrontare sotto questo riguardo Husserl con Heidegger mi sembra poco accettabile alla luce della biografia di questi autori" ( Jesús M. Díaz Álvarez, op. cit., pp. 208). Con tanta più forza dobbiamo allora ribadire che la peculiarità della forma spirituale "Europa" sta nell'idea della scienza e nello stesso tempo in un'idea della ragione che riconduce ogni conoscenza entro il più ampio quadro di fini pedagogici e formativi: forse questo può essere ammesso senza troppi problemi come peculiarmente europeo, ed anzitutto greco. È qui il caso di ricordare che proprio negli anni di maturazione della problematica della Crisi husserliana, e precisamente nel buio dell'anno 1933, veniva pubblicato il luminoso volume di Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell'uomo greco. E nelle sue prime pagine questo grande studioso scriveva: "La natura dell'uomo quale essere corporeo e spirituale dà luogo a speciali condizioni per la conservazione e la trasmissione del tipo umano e promuove speciali istituti materiali e morale la cui essenza noi designamo con la parola: educazione. Nell'educazione, qual è praticata 40 dall'uomo, opera quella medesima volontà di vita, plastica e generatrice, della natura, la quale spontaneamente tende a propagare e conservare ogni specie vivente nella sua forma; ma in questo gradino è portata alla massima intensità mediante il finalismo della conoscenza e della volontà umana consapevoli" (trad. it. di L. Emery, Firenze 1953, p. 1-2). E poco dopo aggiungeva, con parole così vicine a quelle di Husserl: "Un posto speciale spetta alla grecità. I "Greci", considerati dal presente, rappresentano rispetto ai grandi popoli storici dell'Oriente un "progresso" radicale, un nuovo "grado" in tutto ciò che concerne la vita dell'uomo nella comunità. Questa è impostata, presso i greci, su fondamenti affatto nuovi. Per quanto altamente si apprezzi l'importanza artistica, religiosa e politica dei popoli anteriori, la storia di ciò che possiamo chiamare cultura, nel nostro senso consapevole, non comincia che coi Greci" (ivi, p. 3). La parola Paideia così ricca di senso potrebbe essere resa in tedesco con la parola Bildung. Nelle pagine di Husserl si fa avanti con forza la necessità di stabilire uno stretto legame tra la filosofia e la Bildung, tra la filosofia e l'educazione, tra la filosofia e il problema della formazione della persona, e si fa avanti in una forma tale da sottolineare che la filosofia con i valori di cui è portatrice non si limita al piano "professionale" e "specialistico", ma che essa deve saper penetrare nel tessuto sociale superando la scissione tra "dotti e profani" introducendo nuove direzioni della prassi ad ogni livello della vita sociale. "Così la verità ideale diventa un valore assoluto, e nel movimento della formazione culturale e negli esiti dell'educazione infantile produce una prassi modificata in 41 senso universale" (p. 345). "La diffusione della filosofia non può avvenire semplicemente nella forma della diffusione di una ricerca professionale; piuttosto essa avviene al di là della cerchia professionale nel movimento dell'educazione (Bildung)" (p. 346). Il ritorno alle origini greche, la filosofia che deve ritrovare, come condizione stessa del superamento di una crisi che è storico-sociale, un rapporto con l'educazione, non è certo da intendere come una variante di un atteggiamento tradizionalista e passatista. Nella Filosofia come scienza rigorosa in cui si ritrovano alcuni temi qui presenti e che noi abbiamo in questo contesto potuto citare coerentemente, vi era in ogni caso una sorta di nostalgia per il crollo dei vecchi valori. Ora invece si rivendica come condizione di una rinascita la critica della tradizione, ed in forme particolarmente accese: "Coloro che sono soddisfatti da un punto di vista conservatore della tradizione entreranno in conflitto con l'umanità filosofica e questa lotta avverrà certamente anche nella sfera del potere politico". "La persecuzione comincia già con gli inizi della filosofia" (p. 346). Ciò che deve essere fatto valere, in una educazione animata dallo spirito rinnovato della filosofia è un "atteggiamento critico universale verso tutti i dati tradizionali" che investe anche la pratica sociale in tutti i suoi aspetti "tutte le forme tradizionali, le norme del diritto, della bellezza, dei valori personali riconosciuti, i valori del carattere personale" (p. 345). All'interno di questo atteggiamento tutto volto verso una dimensione ideale, nell' "europeizzazione" del mondo Husserl vede 42 essenzialmente l'espansione di una cultura che avviene esclusivamente in forza dei suoi valori spirituali interni. Certamente vi è un punto di vista ben legittimo dal quale possiamo vedere nell'europeizzazione un'espansione che si avvale di un processo violento di dominio. Ma, come abbiamo già notato, questo punto di vista, che certamente presuppone la consapevolezza delle dinamiche reali della storia, forse non può nemmeno avere un istantaneo punto di intersezione con la visione ideale che guida ora il percorso del pensiero di Husserl. Se vogliamo capire questo percorso dobbiamo installarci, sia pure a nostra volta da visionari, in quella visione - attribuendo alla cultura europea un senso che potremmo definire "assoluto", parola assai rischiosa ed impegnativa, ma che significa soprattutto che questo senso non appartiene ad una cultura particolare e determinata, ma alla cultura come tale, alla "civiltà". Quando vi appartiene: quando è in grado di ritrovare le sue origini e di riproporle per il futuro. Non ora, dunque! Sull'argomento dell'europeizzazione e del multi­cultu­rali­smo, ha scritto delle belle pagine Vincenzo Costa, Husserl, Carrocci, Roma 2009, pp. 163 sgg., un testo che si raccomanda anche per la chiarezza con cui vengono esposti i temi fondamentali della fenomenologia. 43 Terza conversazione 44 45 1. Il Rinascimento rappresenta per Husserl una sorta di punto di volta per una considerazione "storica" che sappia rendere conto, dal punto di vista della storia delle idee, del tragitto che ha condotto alla crisi. Questo consapevole guardare alle proprie spalle ha il senso di una rinnovata interrogazione sul passato, un tentativo di rimettere in questione la concettualità su cui la scienza moderna si è costituita. E si tratta di un punto di volta, perché da un lato si vuole lumeggiare l'importanza e la portata dei punti di vista che si affacciano nel Rinascimento e che si sviluppano a partire di qui, dall'altro perché si mostra come la via che viene intrapresa contiene problemi e rischi proprio per quanto riguarda il concetto della scientificità ed in generale della cultura. Questo, come numerosi altri aspetti della Crisi vennero aspramente e talora anche ottusamente criticati, come se si compiesse una violazione dell'"oggettività" storiografica: senza rendersi conto che un problema è quello di un'effettiva ricostruzione documentaria del passato filosofico e del pensiero scientifico ad esso strettamente collegato, da cui certamente Husserl è molto lontano, ed un altro quello di una ricerca di sensi interni che possono essere indagati soltanto in un'andirivieni dalle problematiche che urgono nel presente alle tematiche assopite nel passato che da questa urgenza vengono ridestate. Questo è il senso della richiesta husserliana di una Rückfrage, ovvero della necessità di una domanda retroattiva dal presente al passato e che dal passato ritorna sul presente. È come se si fosse di fronte alla porta sbarrata del futuro e si dovesse necessariamente, per riaprire quella porta - che non può che essere il compito attuale della filosofia - fare un esercizio della memoria che sia anche una messa in questione. Naturalmente l'orientamento di questo percorso ha un carattere fortemente improntato alla stessa filosofia di Husserl: l'evoluzione dello sviluppo, se esso riesce a riprendere il filo conduttore che sta alle sue origini, sbrogliando gli intrecci che hanno aggrovigliato quel filo, deve 46 portare alla "fenomenologia trascendentale". In certo senso Husserl è troppo immerso nel suo stesso orizzonte di pensiero per individuare più di una strada. Ma vi sono in questa idea della Rückfrage presa nella sua generalità e certamente anche non in modo letterale motivi e spunti che oggi vengono raccolti ed apprezzati. Nel libro La natura degli oggetti matematici alla luce del pensiero di Husserl, che avremo in seguito ancora occasione di citare perché, pur nella sua brevità, rappresenta una svolta nelle valutazioni di alcuni problemi importanti della Crisi di Husserl, discutendo la necessità di rimettere in gioco la storia della matematica nell'esplicitazione della sua concettualità, Giorgio Israel si richiama a Gian-Carlo Rota, "un matematico di rilievo, uno dei pochi che ha ispirato non soltanto le sue riflessioni filosofiche ma anche la sua metodologia di ricerca alla fenomenologia husserliana" (ivi, p. 29) rammentando questa sua notevole affermazione "Solo a partire dalle sue esigenze attuali il matematico può comprendere lo sviluppo del teorema, ma senza una comprensione degli inizi di questo sviluppo non possiamo capire il senso attuale del teorema". Essa viene commentata G. Israel facendo riferimento al modo di procedere della Crisi: "Ma questo movimento non è altro che quello proposto da Husserl nella Krisis visto come l'unico metodo adeguato a comprendere come e perché si sia arrivati allo stato attuale. Come osserva giustamente Palombi, "per capire il senso della storia ideale proposta da Rota non possiamo fare altro che rifarci a quella sorta di movimento a zig zag che Husserl propone nella Crisi delle scienze europee"" (G. Israel, op. cit., Marietti, Genova 2011 p. 29). Secondo Rota il metodo husserliano è il più appropriato per la 47 matematica in quanto "qualsiasi oggetto eideticamente costruito (in matematica diremmo "definito") eo ipso comincia a nascondere il dramma della propria origine" (G. Israel, op. cit., p. 31). Il riferimento a F. Palombi è al volume La stella e l'intero. La ricerca di Gian- Carlo Rota tra matematica e fenomenologia (Boringhieri, Torino 2003). - Il concetto di storia teorizzato nella Crisi è stato ripreso e discusso da Jacob Klein nel saggio Phenomenology and the History of science, pubblicato in Philosophical Essays in Memory of Edmund Husserl, Harvard University Press, 1940, pp. 143-63, ma soprattutto messo implicitamente in pratica dallo stesso Klein nella sua opera fondamentale Greek Mathematical Thought and the Origin of Algebra, MIT, 1968 (originale in lingua tedesca 1934-36). Klein aveva incontrato Husserl nel 1919, diventando amico di famiglia nel 1933 ed emigrò negli Stati Uniti nel 1937. Con riferimento a Husserl ed a Klein, Burt C. Hopkins ha realizzato un notevole volume che apre un vero e proprio nuovo filone di ricerca intitolato The Origin of the Logic of Symbolic Mathematics, Indiana University Press, BloomingtonIndianapolis, 2011. 2. Dobbiamo dunque compiere un esercizio della memoria, di cui noi ci limiteremo a compiere pochi passi. Il primo ci conduce a riconsiderare, con Husserl, il fatto che la tendenza all'oggettività assume la forma di una tendenza alla matematizzazione. La matematica diventa modello della rigorosità scientifica. Potremmo dire: una scienza - qualunque sia il suo oggetto - è da considerare tanto più rigorosa quanto più matematica essa contiene. Si tratta di una formulazione indubbiamente un poco rozza, ma che ha il merito di esprimere quello che è ormai diventato un luogo comune. Questo luogo comune rimanda "all'inizio dell'epoca moderna, al momento della riadozione della idea antica", dunque ancora poco oltre l'età rinascimentale, in un'epoca che annovera le due figure filosofiche fondamentali - sul versante della scienza, la figura di Galileo Galilei, su quello della 48 filosofia, quella di Cartesio. Nell'uno e nell'altro caso queste figure sono assunte nella loro tipicità, come rappresentanti di un periodo intero, quindi come figure esemplari. In questa epoca di rinnovamento uno dei momenti particolarmente significativi non consiste soltanto nella ripresa "umanistica" dell' antichità classica. Potremmo anzi legittimamente sostenere che il modo in cui oggi usiamo questo termine come riferito esclusivamente alle "lettere" sia del tutto erroneo. Non solo la letteratura, ma l'intera cultura greca viene coltivata dal dotto umanista. Ed una rinnovata attenzione viene dedicata alla matematica greca, e soprattutto alla sua più grande realizzazione: la geometria. Nella geometria, nella sistemazione che diede ad essa Euclide, non abbiamo soltanto una disciplina scientifica determinata giunta ad un alto grado di sviluppo, ma anche il progetto di un'organizzazione delle conoscenze che contiene idee decisive ed importanti per il concetto stesso della scienza. Anzitutto si ha qui a che fare con forme spaziali idealizzate. I punti e le linee, le figure in genere di cui tratta la geometria non sono i punti e le linee, le figure concrete che possiamo eventualmente disegnare alla lavagna o tracciare sulla sabbia e che possono essere determinate nelle loro proprietà attraverso l'osservazione empirica. Il riferimento al concreto è un puro mezzo ausiliario, le figure disegnate vanno sempre considerate esempi "approssimativi" di oggetti ideali che sono propriamente gli oggetti che abbiamo di mira. La prima idea importante del progetto euclideo consiste dunque nella proiezione di un universo di oggettività ideali. Lo sfondo filosofico che sta alla base della geometria greca è certamente la dottrina platonica delle idee. Questa dottrina proponeva l'esistenza di un mondo intelligibile costituito da oggetti ideali e perfetti rispetto ai quali gli oggetti del mondo sensibile, del mondo concreto nel quale viviamo sarebbero da intendere come copie imperfette e rozze. Il mondo concreto è in qualche modo partecipe del mondo ideale - tra l'uno e l'altro 49 vi una "partecipazione" - ma vi è tra essi anche una netta separazione. Questa separazione risulta in particolare dal modo di accesso, e quindi nello stesso tempo dal modo di concepire le idee. Noi ammettiamo che le idee esistano in se stesse nel loro mondo, nella loro compiutezza e perfezione e potranno essere colte in una peculiare "intuizione intellettuale". Questo termine non si trova in Platone, ma è indubbiamente nello spirito della concezione platonica. In essa le idee sono precostituite rispetto al mondo sensibile, esistono in se stesse, per così dire, già da sempre. Il fatto che poi il mondo sensibile partecipi, sia pure in una forma difficile da determinare, a questo mondo ideale è naturalmente della massima importanza per comprendere le intenzioni platoniche. La separazione tra mondo sensibile e mondo intelligibile illustra la possibilità di una scienza pura delle idee - una scienza cioè puramente razionale che non ha bisogno in linea di principio di ricorrere all'empiria. La geometria può essere considerata allora come una scienza che studia una regione del mondo delle idee. Il momento della partecipazione spiega d'altra parte l'utilizzabilità delle conoscenze attinte sul terreno razionale-ideale nel campo delle esperienza sensibile, quindi l'applicabilità delle conoscenze geometriche. La purezza delle idealità traspare nel mondo sensibile, e ciò che viene acquisito in modo autonomo rispetto ad esso si rivela tuttavia senz'altro valido all'interno di esso, nei limiti delle differenze dipendenti dal fatto che il campo del sensibile è il campo dell'approssimazione. Ma da questa idea di partecipazione resta escluso il problema di una costruzione delle oggettualità ideali a partire dall'esperienza sensibile e dalle operazioni concrete compiute su di esse. La stessa parola "costruzione" risulta qui fuori luogo, per il fatto che le idee non sono in generale costruite, non sono dei prodotti, ma sono appunto "oggetti" sussistenti in se stessi. Esse possono essere colte indirettamente attraverso l'oggetto sensibile, ma "attraverso" significa qui qualcosa come "in 50 trasparenza". Il mondo ideale traspare attraverso quello sensibile-concreto, lo vediamo attraverso di esso. 3. A questo punto possiamo innestare un tema che è di fondamentale importanza per comprendere l'orientamento, non soltanto della Crisi, ma dell'origine e dell'evoluzione dell'intero pensiero husserliano. Si tratta del tema a cui abbiamo accennato fin dall'inizio e che nella sua massima generalizzazione, viene riunito sotto il titolo di "mondo della vita", ma che nelle sue specificazioni, in particolare sul terreno della "teoria del giudizio", rimanda alla problematica delle strutture antepredicative - e infine stabilisce il raccordo tra il percorso fenomenologico nel suo complesso e la fase prefenomenologica della Filosofia dell'aritmetica. Nella discussione condotta nella Crisi Husserl non prende le mosse dal dualismo platonico tra oggetti intellettuali e oggetti sensibili, ma dall'esperienza sensibile, mettendo inizialmente da parte ogni considerazione che chiami in causa la geometria come scienza di oggettività ideali come la abbiamo descritta or ora. In questo modo di cominciare è sottinteso che le "forme" sono relative a corpi. Le figure sono sempre integrate con i corpi con tutte le loro determinazioni concrete che possiamo rilevare attraverso la sensibilità. Se consideriamo queste forme e relazioni spaziali nel modo in cui si presentano nell'ambito dell'esperienza sensibile, ci rendiamo conto che esse "sono immerse nelle oscillazioni della mera tipicità" (p. 55). Ciò significa che chiamando una figura cerchio, per l'impiego di questo termine richiederemo soltanto che le figure rientrino in un determinato tipo all'interno del quale la figura può essere diversa entro limiti abbastanza ampi. Chiameremo così una figura tracciata con il compasso, ma anche a mano libera. E sarà triangolo una figura che ha alcuni rilevanti requisiti tipici, e non importa se uno dei suoi lati ha una piccola incurvatura. Poiché, usando questi termini, abbiamo escluso considerazioni di ordine geometrico, non abbiamo 51 nessun bisogno di ritenere che gli angoli, i triangoli e i cerchi che percepiamo siano, mentre li percepiamo, già commisurati ad angoli, triangoli e cerchi ideali. Accade come nel caso dei concetti empirici - con cani o cavalli possiamo intendere anche animali con aspetti piuttosto diversi, purché posseggano alcune caratteristiche "eminenti". È chiaro anche che nessuna idea di cane o di cavallo deve essere presupposta come precostituita, come se si trattasse di quell'idea che ���traspare" attraverso il cane o il cavallo che vediamo. Perciò quando diciamo "questo è un cerchio" la percezione corrispondente non è effettuata per così dire con lo sconto dell'approssimazione empirica. Quasi che si volesse dire: si vede benissimo che questa figura non è un "vero" cerchio, ma voglio considerarlo tale. Parlando di tipicità restiamo dunque nell'ambito empirico e delle sue fluttuazioni necessarie. Diciamo la stessa cosa se notiamo che i corpi nelle loro forme empirico-geometriche concrete si presentano secondo una possibile gradualità, anzi addirittura "sono pensabili soltanto nella gradualità" (p. 55). Cosicché possiamo parlare di una linea più o meno retta, anche se probabilmente nel discorso corrente parleremo di linea più o meno diritta. La possibilità della "gradualità", del più e del meno potrebbe far pensare che persino nel discorso corrente la figura geometrico-ideale sia presupposta. Come se nel valutare l'imperfezione del cerchio tracciato a mano io sia guidato da un modello di cerchio perfetto che vedo con gli occhi della mente, e rispetto al quale appunto il cerchio che ho tracciato mi sembra imperfetto. Cosicché un angolo "più retto" di un altro sarebbe in qualche modo più vicino all'angolo retto ideale, che si trova comunque ad una distanza irraggiungibile. Invece la gradualità deve ancora essere interpretata all'interno della tipicità empirica. Lo si rileva subito se pensiamo alle circostanze concrete in cui useremmo espressioni di questo tipo. Ci rechiamo da un falegname e gli chiediamo di rendere più liscia la superficie di un tavolo. Che cosa gli chiediamo propriamente? Io credo che gli chiediamo che egli elimini questa o quella incre- 52 spatura del legno, questa o quella piccola incurvatura. Non gli chiediamo una maggiore approssimazione alla superficie ideale della geometria. Così il parlare di oscillazioni della mera tipicità è perfettamente compatibile con la possibilità di indicare le figure di un determinato tipo secondo un ordine del più e del meno, senza implicare che questo ordinamento tenda a qualche cosa, per di più inaccessibile in via di principio. Del resto il falegname può reagire dicendo: più liscio di così non si può. E la serie qui ha termine. Supponiamo che un tale su mia richiesta abbia disegnato un cerchio sulla lavagna. Ora io gli chiedo di disegnarlo un po' meglio. Egli potrebbe acconsentire, e fare un nuovo tentativo. Ma potrei forse chiedergli di disegnare un cerchio più simile o più vicino al cerchio platonico? Poiché tale cerchio non lo si può disegnare affatto, non si può nemmeno disegnare un cerchio più o meno prossimo ad esso. La mia richiesta di maggiore perfezione non è determinata da un ideale di perfezione, ma dal fatto che una figura disegnata così non si presta ad essere riconosciuta nella sua tipicità e questo può compromettere, ad esempio, il buon esito delle mie spiegazioni. Vi sono interessi pratici che determinano la perfezione richiesta. Ed è indubbiamente possibile che per i nostri scopi la figura disegnata si possa considerare proprio perfetta. 4. Queste considerazioni preparano la strada a ciò che si deve concepire con "idealizzazione". Questo concetto non viene lasciato da Husserl in una vaga genericità, ma viene illustrato come un processo che, pur prendendo le mosse dalle forme empiriche, non riguarda propriamente queste forme come tali, ma l'idea del loro perfezionamento. Per questo motivo egli parla delle forme geometriche come forme-limite. Naturalmente tutto ciò non è privo di problemi. Anzitutto le forme sensibili non tendono ad alcunché. Inoltre il riferimento alla gradualità su cui forse potrebbe poggiare un processo di idealizzazione, come abbiamo 53 visto or ora, non ci porta su quella via. Infine si può obbiettare che non ha alcun senso porre un limite su un piano totalmente diverso da quello delle cose che "tendono" ad esso. Tenendo conto di tutto ciò dobbiamo concludere che l'idea di perfezione come idea-limite è effettivamente il risultato di un'operazione del tutto nuova, è opera del pensiero, e non più della percezione. È un'operazione intellettuale di nuovo genere. Di fronte ad un atteggiamento, come quello platonico, che contrappone gli oggetti ideali in genere, e in particolare le forme geometriche, agli oggetti della percezione, si comincia qui con l'indicare sotto il titolo di idealizzazione, la necessità di considerare gli oggetti ideali come acquisiti mediante una determinata procedura intellettuale a partire dagli oggetti della percezione. Ciò non significa che la distanza tra gli uni e gli altri venga meno, ma si solleva il nuovo problema riguardante l'origine delle forme geometriche ideali a partire dalla trasvalutazione meramente intellettuale dell'idea della perfezionabilità che sorge già sul terreno empirico. Questo problema dell'origine non poteva essere nemmeno posto dentro un atteggiamento platonistico. Ora l'oggetto ideale non si presenta come qualcosa di già dato, di sussistente in se stesso, in un mondo a sè stante, ma come qualcosa di costruito. Husserl talvolta usa il termine di costruzione, ma assai più spesso quello di "costituzione". Questo elemento costitutivo-costruttivo è presente anche nel breve ma significativo cenno che si richiama all'organizzazione sistematica della geometria. Come è noto, essa rappresentò il primo, e per molto tempo ancora, l'unico esempio di teoria assiomatica. Il grande motivo che sta alla base della teoria euclidea consiste nell'idea di formulare pochi principi "evidenti in se stessi", associati ad un insieme di definizioni, da cui derivare logicamente proprietà appartenenti agli oggetti di questo universo ideale. Nello stesso tempo si fa strada l'idea di un'assoluta certezza delle conoscenze così acquisite - l'idea di un'evidenza apodittica o di una validità incondizionata per usare le espres- 54 sioni di Husserl: di un'evidenza che viene mantenuta nel passaggio dagli assiomi ai teoremi e che trae le proprie giustificazioni dall'interno stesso del sistema teoretico. Si acquisiscono così sempre nuove conoscenze, che da un lato sono già contenute negli assiomi che delimitano e circoscrivono l'universo intero che è oggetto di questa scienza, dall'altro sono "incondizionatamente valide" indipendente­mente da ogni conferma empirica, ed anzi esse valgono come norme rispetto al terreno dell'empiria e dell'osservazione. La geometria ha la forma di un "teoria in senso pregnante". Con questa espressione nelle Ricerche Logiche Husserl indicava niente altro che una teoria assiomatica. Ora questa possibilità in quanto possibilità di esposizione sistematica è ricondotta proprio al momento costruttivo che sta alla base della produzione di forme geometriche. Ed alla luce di ciò anche la nozione di idealizzazione dovrebbe essere studiata ed esaminata più a fondo. Per il momento essa può valere solo come indicazione di massima di un modo di porre il problema. Soprattutto bisogna guardarsi dal ritenere che vi sia una sorta di correlazione semplice tra il triangolo empirico e il triangolo ideale come se la forma ideale fosse prodotta solo a partire dalla forma empirica corrispondente. In tal caso ogni forma sensibile sarebbe considerata isolatamente e così anche ogni forma geometrico-ideale. Per formare l'idea di un poligono di cento lati avremmo bisogno di percepire un simile poligono ed ogni prodotto "idealizzato" sarebbe indipendente da ogni altro. La prassi del pensiero puro che conduce alle forme ideali esatte a partire dalle forme empiriche, osserva esplicitamente Husserl, non deve essere considerata come una procedura che si rivolge a forme sensibili "arbitrariamente isolate" (p. 56). Al contrario dobbiamo riconoscere che si conferisce a determinate forme un certo privilegio, si riconosce ad esse il carattere di forme fondamentali ed elementari da cui altre forme sono liberamente derivabili, e producibili "secondo il metodo che le genera" (p. 57). Cosicché la procedura idealizzante non 55 dovrà essere intesa semplicemente come una proiezione in un terreno ideale di forme percepite. Non ci sono la retta e il triangolo intuitivo e dunque la retta e il triangolo ideale. Ma ci sono le rette e, ad esempio, la possibilità di intersezione delle rette. Così vi è un metodo che conduce dalle rette agli angoli, dagli angoli al triangolo, al quadrilatero, La "scoperta da cui è nata la geometria", sottolinea incisivamente Husserl, è proprio questa possibilità di costruire sempre nuove forme in una libera ed autonoma produzione intellettuale. "Libera e autonoma" significa qui che la produzione di forme avviene secondo una norma che è interna al terreno acquisito attraverso l'idealizzazione e che non ha bisogno di altra garanzia che stia al di là di esso. E la libertà riguarda anche qualunque vincolo al terreno empirico intuitivo. Il quadrilatero nel nostro esempio esiste nella stessa misura e nello stesso modo in cui esistono gli angoli e i triangoli - è una possibilità costruttiva a partire dall'intersezione delle linee che non ha bisogno per esistere di alcun corrispondente empirico-reale. Questa possibilità 56 di produzione costruttiva di forme sta alla base dell'organizzabilità sistematica della geometria come scienza. In base ad essa è chiaro che possiamo pervenire all'idea della possibilità di costruire tutte le forme pensabili in genere, all'idea dunque di un universo definito di forme che sia descrivibile nelle regole elementari della loro produzione. Queste regole circoscrivono allora l'a priori costitutivo di quell'universo. Ora l'esistenza possibile di questo a priori, così teorizzato, non è certo in grado di stabilire un collegamento semplice con la forma di una dottrina assiomatica, perché queste due problematiche - costruzione sistematica e assiomatizzazione - hanno modi di accesso assai diversi. Una teoria assiomatica consta di proposizioni connesse consequenzialmente. Le regole di costruzione hanno invece direttamente a che fare con figure. La sequenza che producono è una sequenza di figure. Ma io credo che si intraveda almeno che un legame ci deve essere e che varrebbe la pena indagare intorno ad esso. 5. Le nostre osservazioni precedenti sulla relazione tra forme geometriche empiriche e forme geometriche ideali debbono essere integrate con alcuni rilievi che mettono in questione la pratica della misurazione. Come abbiamo osservato, benché il problema della gradualità possa restare per così dire chiuso dentro l'ambito dell'empiria, tuttavia l'idea di forma-limite può sorgere in un'operazione intellettuale che poggia su un processo di perfezionamento idealmente trasvalutato. Questa trasva­lutazione implica un effettivo passaggio di piani, una prassi di genere interamente nuovo, come dice Husserl, una "prassi ideale di un pensiero puro" (p. 65). Nell'impiego empirico dei concetti geometrici ci possiamo accontentare di determinazioni piuttosto vaghe, di una vaga tipicità; e dunque di confronti sommari, a occhio e croce. Ci possiamo contentare - ma beninteso secondo i casi. Vi sono casi in cui non ci contentiamo affatto. Se ad esempio dobbiamo vendere il nostro campicello o scambiare il nostro con quello di un altro, presumibilmente non saremo affatto soddisfatti da 57 determinazioni tra il più e il meno. Cerchereno di escogitare metodi più precisi di confronto, dunque metodi di misurazione. Si vede subito allora in che senso la pratica della misurazione abbia a che fare con la geometria, e in particolare con la sua origine. Pur essendo motivati da interessi pratici, cominciamo tuttavia ora a porci problemi teorici, sia pure in una forma relativamente disorganica. Per escogitare metodi di misurazione abbiamo bisogno di operare una certa classificazione delle forme, scoprire certe relazioni tra esse o inventare dei ben determinati congegni per stabilire tra esse una relazione. In tutto ciò sono implicite numerose riflessioni teoriche che preparano la riflessione propriamente geometrica. Lo stesso problema di una classificazione tenderà, ad esempio, ad un certo ordinamento che prefigura la distinzione tra forme elementari e forme derivate. In generale tenderemo anzitutto ad occuparci delle forme più semplici per le quali un criterio di misura può risultare particolarmente evidente. Già questo intento classificatorio che tende a separare certi tipi di oggetti da altri e ad operare ulteriori distinzioni all'interno di essi, per di più secondo un criterio che rinviando alla semplicità ed alla composizione, non solo richiede un preciso intervento teorico, ma configura un possibile campo di indagine con fini propriamente ed esclusivamente conoscitivi. Questa origine della problematica geometrica non ha evidentemente un carattere "storiografico" nel senso consueto del termine - in altri termini non ci sono "documenti" che mostrino che le cose sono andate proprio così, e questo è un altro elemento di notevole interesse che emerge dalle riflessioni di Husserl e che riguarda il concetto della storicità, a cui si è accennato in precedenza. È innegabile infatti che siamo comunque di fronte ad una descrizione "storica", ma essa è condotta sul filo di una logica interna ai concetti, non è un racconto campato in aria. E persino l'origine della riflessione geometrica dall'agrimensura ha forse queste caratteristiche di una connessione "genetica" non storiograficamente documentata in senso stretto, e che rientra 58 tuttavia, vorremmo dire, nel pensiero di una storia della geometria alle sue origini. La fenomenologia rappresenta in certo senso la guida di questo pensiero. Benché l'istante della transizione non possa essere documentato, è tuttavia chiaro che molte conoscenze geometriche siano state anticipate e presupposte nella tecnica degli agrimensori. E in generale possiamo affermare che i problemi che sorgono nell'ambito della soluzione di difficoltà pratiche stimolano la ricerca sul piano teoretico-conoscitivo. La prassi tecnica genera motivi di riflessione teorica. E inversamente la riflessione teorica diventa un "mezzo della tecnica"; una volta che una scienza come la geometria si è costituita, quando cioè esiste un lavoro scientifico diretto in modo autonomo ad un universo di oggetti concettualmente definito, questo lavoro si ripercuote a sua volta sul terreno dei problemi tecnici suggerendo nuove idee e nuovi progetti. Del problema del rapporto tra misurazione e origine della geometria ci interessa soprattutto la connessione tra perfezionamento e determinazione oggettiva. La misurazione è una procedura che opera un'oggettivazione delle forme geometriche e delle loro relazioni. Questo passaggio estremamente importante è anche nello stessso tempo relativamente ovvio. Un concetto impiegato secondo le oscillazioni della mera tipicità è, proprio per questo, un concetto che lascia margini molto ampi ad impieghi contestabili. Una determinazione puramente tipologica lascia molte cose indecise e aperte all'arbitrio soggettivo. Questa relativa indeterminatezza del tipo empirico rinvia d'altro lato ad un momento che caratterizza in linea del tutto generale il mondo circostante prescientifico intuitivo, il "mondo della vita". Nell'esperienza quotidiana, il mondo è dato in una relatività soggettiva. Questa relatività soggettiva deve essere intesa in senso duplice. In primo luogo non parliamo di un un mondo in sé, ma di un mondo che è dato come in sé all'interno di un processo di esperienza ed è dunque presupposto un soggetto che lo effettua. Ciò non va inteso banalmente, come se volessimo 59 soltanto dire che se consideriamo una cosa in quanto percepita, deve necessariamente esserci un soggetto che la percepisca. Si tratta invece di indicare una correlazione, di districare i modi in cui essa si fa valere e le regole che agiscono in essa. Nella Crisi si affaccia con insistenza l'idea di una vera e propria "scienza nuova" che si assuma questa indagine come compito fondamentale. In realtà io credo che una simile scienza finirebbe per risolversi in analisi fenomenologiche a loro volta particolari, e dunque che questa idea sia un altro modo di proporre l'idea stessa di fenomenologia, o addirittura soltanto un altro nome per essa. In ogni caso, questa scienza sarebbe in via di principio scienza della correlazione tra soggettività e mondo della vita. Ciò non significa tuttavia una soggettivazione del mondo nel senso che ogni cosa dipenda dall'arbitrio soggettivo dell'osservatore e nemmeno si deve pensare che attraverso questi modi soggettivi non si giunga alla posizione di oggettività in genere. È vero semmai il contrario. Proprio attraverso queste relatività, e le regole da cui sono dominate, l'oggetto appare come un oggetto che sussiste in se stesso, indipendentemente da me. Lo stesso problema si ripresenta ad un nuovo grado considerando le esperienze degli altri. Tuttavia l'oggettività che si costituisce attraverso l'esperienza è, nonostante tutto una oggettività precaria, che prevede possibili discordanze, ed al fine di vincere questa precarietà si rendono necessarie determinate procedure di obbiettivazione. La misurazione è da considerare come una di queste procedure: in essa, nella varietà delle operazioni di cui consta, è implicita la fissazione di un criterio che superi la "soggettività". Mediante la misurazione si comincia a distinguere la cosa in quanto appare a qualcuno e la cosa così come è in se stessa, nel suo essere vero. La necessità di questa distinzione appare chiara in rapporto ai vec­chi pro­blemi relativi all'inganno dei sensi. Questi due segmenti mi appaiono diseguali. 60 Ma per sapere se lo sono davvero converrà misurarli. L'essere in sé deve dunque essere distinto dall'apparire. Il problema della verità e dell'apparenza sorge dunque già all'interno del mondo dell'esperienza nella stessa misura in cui si impongono già in esso procedure di obbiettivazione. 61 Quarta Conversazione 62 63 1. È certo che nella matematica greca in genere, anche nei suoi punti più alti, l'idea della generalizzabilità del metodo assiomatico era fondamen­talmente estranea, sia nella forma dell'assiomatizzazione di regioni parziali sia in quella di una scienza che domini razionalmente la totalità dell'essere. Questo è un portato dei tempi nuovi che Husserl sottolinea con molta chiarezza: ciò che è stato fatto per le forme geometriche deve poter essere fatto per ogni dominio del sapere. In questo modo sorge "la grande idea di una scienza razionale ed onnicomprensiva in un senso nuovo" (p. 52). Questo ideale si sviluppa in primo luogo ancora all'interno delle discipline matematiche. Comincia ad affiorare l'idea di una matematica formale: l'idea di una disciplina riguardante non le cose, ma la pura forma delle relazioni tra le cose; che non tratti entità od oggetti di questa o quella specie, ma entità e oggetti in una generalità indeterminata. Pensiamo all'algebra, che ha in quest'epoca i suoi inizi. In essa non trattiamo più con numeri determinati, ma con variabili e costanti numeriche indeterminate. Abbiamo a che fare con forme relazionali e strutture di rapporto. E si annuncia una tendenza a superare il più possibile ogni legame, anche lontano, con il terreno concreto e intuitivo. Un altro passo importante e significativo che può essere portato ad esempio di questa tendenza alla formalizzazione sono i primi inizi della geometria analitica. Ci si rende conto della possibilità non solo di astrarre, nella geometria, dalla figura concretamente percepita, ma anche dalla stessa figura geometrica intesa come idealità. Possiamo descrivere una linea mediante una equazione; o inversamente dare di una equazione un'interpretazione geometrica. Ecco dunque un altro progresso in direzione della svuotamento del contenuto, e dunque in direzione di una matematica formale. Occorre prestare attenzione al fatto che matematizzazione e formalizzazione talora vengono usate come espressioni equivalenti: l'una e l'altra del resto si richiamano ad una considera- 64 zione di oggetti in generale prescindendo dalle loro determinazioni specifiche. L'espressione "formalizzazione" pone in particolare l'accento sulla forma come vuotezza da ogni contenuto. (L'impiego frequente di "formalizzazione" per indicare semplicemente la scrittura simbolica non viene qui presa in considerazione). "La grande novità è costituita dalla concezione di quest'idea di una totalità infinita dell'essere e di una scienza razionale che lo domina razionalmente. Questo mondo infinito, questo mondo di idealità è concepito in modo tale che i suoi oggetti non possono essere attinti singolarmente, imperfettamente e come casualmente dalla nostra conoscenza: esso può essere raggiunto soltanto da un metodo razionale, sistematicamente unitario - nel procedere infinito di ogni oggetto verso il suo pieno essere-in-sé. Ma ciò non vale soltanto per quanto riguarda lo spazio ideale. Ancora più estranea agli antichi era la concezione di un'idea analoga ma (in quanto sorta da un'astrazione formalizzante) più generale, l'idea di una matematica formale. Soltanto agli inizi dell'epoca moderna comincia la vera conquista e la scoperta degli infiniti orizzonti della matematica. Siamo così agli inizi dell'algebra, della matematica dei continui, della geometria analitica. L'ardimento e l'originalità che è propria della nuova umanità anticipa ben presto, su queste basi, il grande ideale di una scienza razionale e onnicomprensiva in un senso nuovo, cioè l'idea che la totalità infinita di ciò che è, sia in sé una totalità razionale e che, correlati­vamente, essa possa essere dominata, e dominata completamente, da una scienza universale" (p. 52). Le idee implicite nella generalizzazione dell'assiomatizzazione della geometria, della tendenza all'idealizzazione con gli sviluppi e le generalizzazioni avvenute in età moderna, di cui Husserl ne 65 parla con incontestabile e manifesto entusiasmo, sono destinate a incidere a fondo sull'idea stessa della scienza ed in generale sulla filosofia ed a conferire ad entrambe un'inclinazione che diventa l'oggetto principale della sua messa in questione. Il primo momento decisivo di questa generalizzazione deve essere considerata l'idea galileiana di scienza della natura. Con Galileo ha inizio la scienza fisica nel senso moderno del termine. Riconsiderare la posizione di Galileo nei suoi punti essenziali significa dunque rimeditare sulle idee che stanno all'origine della nuova scienza. Il punto centrale che deve essere messo a fuoco è la modificazione del punto di vista che rende possibile il guardare alla natura nel suo complesso in modo interamente nuovo. Ed è appena il caso di sottolineare che la novità sta soprattutto nell'orientamento matematizzante. In Galileo non si tratta soltanto di richiamarsi ad un ideale di scienza rigorosa, ma di estendere al mondo fisico in genere, quindi al mondo dei corpi, dei movimenti e delle relazioni tra essi quelle procedure di obbiettivazione che hanno già prodotto risultati così fecondi nel campo più ristretto delle forme e delle relazioni spaziali. Il progetto di afferrare l'essere vero, l'essere in sé delle cose della natura fisica si trova così in Galileo direttamente connesso con un problema di "matematizzazione della natura" attraverso l'esemplarità della geometria. "Galileo partì dunque del mondo praticamente comprensibile in cui la geometria nella sfera tradizionale del mondo sensibile circostante contribuisce ad un'univoca determinazione, e si disse: ovunque si è giunti ad elaborare una simile metodica, grazie ad essa è stata superata anche la relatività dell'apprensione soggettiva che, in fin dei conti, è essenziale per il mondo empirico-intuitivo" (p. 59). Come abbiamo visto in precedenza a proposito della geometria, è possibile pervenire all'oggetto geometrico ideale attraverso la strada di procedure di idealizzazione, e seguendo questa strada si 66 terrebbe ferma la differenza tra mondo dell'esperienza sensibile e i modi di elaborazione dei suoi oggtti ai fini della loro trattazione matematica, dando dunque rilievo alle procedure intellettuali che vengono messe in opera in rapporto alle idealizzazioni stesse ed evidenziando i problemi che eventualmente si fanno avanti nel corso di questi processi. Galileo invece, dal punto di vista teorico generale, non segue questa strada, e in genuino spirito platonico, assume il matematismo come effettiva struttura del reale. Si effettua così una contrapposizione di tutt'altro genere tra un mondo apparente, che è appunto il mondo dell'esperienza sensibile e il mondo matematizzato che andrà dunque considerato come il mondo vero in sé. 2. Ed eccoci dunque alla famosa frase nel Saggiatore: "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (e dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, a conoscer i caratteri ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto" (Il Saggiatore, § 6). Naturalmente questa frase non è in alcun modo in contrasto con l'atteggiamento sperimentale di Galileo, anche se certo non può essere portata ad appoggiare "la diffusa immagine di Galileo come di uno scienziato che fonda tutta la sua scienza sugli esperimenti, anzi quasi di un empirista, alieno dalle formulazioni teoriche" (G. Israel, op. cit. p. 7). Giorgio Israel considera giustamente questa posizione come un 67 travisamento che è anche "un classico esempio di cattiva divulgazione scientifica" (ivi). Il libro di Israel va rammentato per il fatto che individua con chiarezza e acume il vero nodo della matematizzazione della natura da parte di Galileo, impiegando come filo conduttore proprio la tematica sviluppata a questo proposito da Husserl, e fornendo anche, sia pure molto brevemente, spunti originali per uno sviluppo in direzione di una critica dello stile di pensiero di certa filosofia della matematica e della logica dei nostri giorni. La sperimentazione galileiana, gli interessi di Galileo verso una nuova scienza della natura, si svolge in un orizzonte di pensiero platonizzante, che ha a sua volta come obiettivo la generalizzazione della scienza geometrica che l'età rinascimentale riceve dalla cultura greca, senza che in quella cultura si facesse valere quell'istanza di generalizzazione. Naturalmente l'affermazione galileiana non deve essere intesa alla lettera come se si trattasse di prospettare ovunque forme geometriche. Essa dice in primo luogo, anche se con un'ambiguità che non è priva di motivi, non già che la natura sia fatta di forme geometriche, ma che dobbiamo guardare ad essa con gli occhi del geometra. Ed allora assumono risalto nuovi problemi, nuove soluzioni, nuove proposte sperimentali. Molto equilibrata ci sembra in rapporto a questo problema la posizione formulata da Cassirer: "Il compito di Galileo non si limitava più a spiegare i fenomeni per mezzo di strumenti scientifici già dati; si trattava di scoprire una lingua nuova per la nuova concezione della natura, di determinarne i caratteri e di costringerne la struttura sintattica in regole fisse. Tra matematica e fisica risulta ora una stretta correlazione, in modo che l'ordine logico di precedenza tra esse appare talvolta come invertito. Non soltanto i concetti matematici si svolgono, con un progresso autonomo e immanente, fino agli inizi della meccanica, ma anche il sistema dei 68 concetti determina a sua volta la forma della matematica" (E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, I, trad. it. di A. Pasquinelli, p. 463) Si apre dunque una dialettica complessa tra il mondo della natura e le istanze della sua matematizzazione. In questa dialettica il punto fondamentale è che "se a partire dal mondo reale e dalle procedure della misurazione esatta abbiamo costruito un mondo di oggetti ideali manipolabili di per sé indipendenti dal mondo empirico, questo non significa che sia garantita la possibilità di compiere il percorso inverso, e cioè di utilizzare questo mondo di concetti per rappresentare ogni aspetto della realtà. Ma questa è proprio l'idea che anima i protagonisti della rivoluzione scientifica, Galileo in particolare, e non lui soltanto. Descartes, nel ritenere che la mathesis universalis, scienza dell'ordine e della misura, sia lo strumento per rappresentare ogni fenomeno, stabilisce un presupposto che costituisce la base di questa visione, senza cui essa crolla: e cioè che la materia si riduce a estensione e quindi che tutta la natura è riducibile a forme geometriche. Ma un simile presupposto è indimostrato e indimostrabile, è una pura ipotesi metafisica. Anche Galileo è ispirato a questa visione, anzi ne è il primo protagonista. Egli è talmente affascinato dal mondo della matematica... da darsi come obbiettivo primario il cammino inverso rispetto a quello compiuto dalla matematica antica… Galileo è stato il primo a indicare l'obbiettivo di ridiscendere dalla matematica al mondo dei corpi sensibili, dalla matematica alla natura, per rappresentarla e dominarla" (G. Israel, op. cit., p. 44). 69 3. Dentro questo quadro è facile comprendere come già in Galileo possa trovare formulazione la contrapposizione tra qualità primarie e qualità secondarie. La terminologia non è di Galileo, ma di Locke, e tuttavia questa distinzione ha inizio proprio in Galileo ed è estremamente indicativa rispetto al tema in discussione. È ancora un famoso passo del Saggiatore che la dichiara a chiare lettere: "Per tanto io dico, che ben sento tirarmi dalla necessità, subito concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch'ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch'ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch'ella è in questo o in quel luogo, in questo o quel tempo, ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella è una, poche o molte, né per veruna immaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch'ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza dalla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi se i sensi non ci fussero di scorta, forse il discorso o l'imaginazione per se stessa non v'arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando, che questi sapori, odori, colori, ecc. per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corso sensitivo, sicché rimosso l'animale sieno levate ed annichilate tutte queste qualità" (Il Saggiatore, § 48) Con linguaggio lockiano chiameremo dunque primarie le qualità delle cose che rinviano in un modo o nell'altro alla loro forma, dimensioni, localizzazione spazio-temporale, numero ecc. - e le chiameremo così in quanto appartenenti alla cose stesse, nel loro essere vero. Chiameremo invece secondarie le cosiddette "qualità specifiche di senso" che invece sono riconducibili ai sensi 70 della vista, del tatto, dell'udito, dell'odorato e del gusto. Queste qualità - il colore della cosa, la sua levigatezza, il calore che essa eventualmente promana - debbono essere caratterizzate come secondarie perché non appartengono alle cose stesse, ma derivano dal rapporto con il soggetto esperiente. Posta in questo modo, si tratta di una distinzione chiaramente insostenibile. Non vi è nessuna ragione comprensibile del fatto che si attribuisca una relatività soggettiva a proprietà come il calore, e non invece alla forma empirica delle cose. Le forma di una cosa, ad esempio, viene vista attraverso una molteplicità di prospettive correlate all'organo della vista, e così anche le loro relazione locali o temporali, in quanto date percettivamente, hanno bisogno dell' "animale" e variano al variare della sua stessa localizzazione spazio-temporale. Il motivo di questa distinzione che ha avuto una enorme importanza per la filosofia europea, va cercato altrove e precisamente nella posizione del problema della loro possibile oggettivazione. A questo proposito, deve essere nuovamente rimesso in questione il problema della misurazione. Le qualità primarie sono in primo luogo direttamente misurabili ed una qualità secondaria passa al rango di qualità primaria non appena si trovi un metodo sicuro per la sua misurazione. Si pensi alla relativa semplicità che ha la soluzione del problema di misurare la lunghezza di un segmento, e quindi la riconduzione della lunghezza al numero, e la difficoltà che si incontrano invece nel porre il problema della misurazione in rapporto ad una sfumatura cromatica ed alla sua matematizzazione. Di conseguenza anche per i corpi debbono essere messe in opera procedure idealizzanti e si dovrà prima o poi procedere alla posizione di principi primi che abbiano carattere apriorico e che possano essere assunti come assiomi per una teoria sistematica ed onnicomprensiva. Pensiamo al principio di inerzia, formulato esplicitamente da Newton, ma già presente in Cartesio e prima ancora in Galileo che ne fa impiego diretto e ne discute il senso e la portata. Questo principio afferma che 71 un corpo continua il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme qualora non intervenga alcuna forza ad introdurre un mutamento. Nei Discorsi e dimostrazioni matematiche, libro III, Galileo si esprime così: "imagino un mobile lanciato su un piano orizzontale e rimosso ogni impedimento: già sappiamo che il moto si svolgerà equabile e perpetuo sul medesimo piano, qualora questo si estenda all'infinito". E in una lettera del 1607: "A principiar il moto è ben necessario il movente, ma a continuarlo basta il non aver contrasto"" (A. Pala, Introduzione a I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, p. 92, n. 3). Certamente qui siamo fuori dal campo della geometria per il semplice fatto che parliamo di corpi e di movimenti. Ma il senso effettivo di questo principio si comprende solo se teniamo presente che le nozioni in questione sono risultati di procedure idealizzanti. Il corpo di cui parliamo è un corpo fisico, dal momento che si muove o sta in quiete, e tuttavia è un corpo fisico ideale, dal momento che ciò che prendiamo in considerazione è soltanto la sua possibilità di movimento. Osserva Cassirer nella sua esposizione del principio di inerzia in Galileo (cfr. op. cit. p. 453) che non possiamo obbiettare che questo corpo dovrebbe essere a sua volta fatto di una materiale indistruttibile se deve continuare all'infinito il suo movimento o il suo stato di quiete. Una simile obiezione può essere compiuta solo se non si comprende l'ambito in cui il principio viene formulato. Del corpo ci interessiamo soltanto nella misura in cui si muove, così come nel caso della geometria consideravamo i corpi solo nella loro forma, prescindendo da tutto il resto. Qui addirittura la forma non ci interessa affatto anche se si può essere quasi certi che questo "corpo del principio di inerzia" ce lo figuriamo sferico. Chissà perché! Ma naturalmente c'è un perché. Nell'esperienza possiamo constatare che se il piano è liscio, una sfera continua per un 72 buon tratto il suo cammino, mentre ciò non accade, ad esempio, per un cubo. Cosicché un corpo sferico può rappresentare per così dire la base per l'idealizzazione, anche se questa va totalmente oltre questo genere di considerazioni. Interessa solo il corpo in quanto si muove, e del resto solo nella formulazione di Galileo si parla di un piano su cui il corpo scorre. Peraltro lo scorrere, che è in fondo una determinazione concreta del movimento, diversa ad esempio dal camminare, ce lo aggiungiamo noi. Ma vi è anche un altro aspetto più generale che si presta ad una trasposizione del punto di vista geometrico alla scienza della natura. La geometria assume il carattere di scienza in quanto l'intero suo campo è attraverso da una legalità onnicomprensiva. Ora, una simile legalità, se guardiamo la natura con lo sguardo del geometra, dobbiamo ritrovarla anche nella natura. A ciò del resto siamo fino ad un certo punto già preparati dal modo stesso in cui si presenta il nostro mondo circostante intuitivo - il "mondo della vita". I corpi così come sono dati nell'esperienza di ogni giorno sono connessi tra loro e si presentano in questa connessione. Una finestra viene sbattuta dal vento. E se il giorno non è ventoso, ci sorprenderemmo se una finestra sbatte e ne cerchiamo la causa. Oppure una pallina ne urta un'altra e la mette in movimento. Anche in questo caso genererebbe sorpresa se ciò non accadesse e la pallina restasse al suo posto, e forse ci chiederemmo se per caso essa non è incollata o inchiodata al tavolo. Vi sono dunque non soltanto percezioni di cose, ma percezione di rapporti tra cose - e non solo rapporti di vicinanza o lontananza, di simultaneità e di successione, ma anche di dipendenza: vediamo la finestra che sbatte, ma vediamo anche che è sbattuta dal vento; vediamo che la pallina si muove, ma vediamo anche che si muove per via dell'urto che ha subito.In generale le cose si comportano secondo certe regolarità; come noi abbiamo le nostre abitudini, le cose hanno le loro. Una pietra lanciata in alto cade invariabilmente a terra, dopo aver percorso un certo tratto. L'acqua bolle dopo un po' di tempo quando è posta sul fuoco. Potremmo dire 73 dunque che le cose si comportanto secondo un certo stile. Si tratta di descrizioni "antropo­morfiche" che qualcuno potrebbe definire semplicemente "false". Invece esse corrispondono alla nostra esperienza quotidiana di questi rapporti: le regolarità qui in questione stanno tutte all'interno della tipicità da cui quell'esperienza è caratterizzata. I rapporti di dipendenza che percepiamo sono rapporti "sensibili-tipici". Sensibili perché percepiti, tipici perché la regolarità è intesa qui come un "comportamento" analogo in circostanze analoghe - entro possibili limiti di indetermina­tezza: "nella vita prescientifica noi siamo impigliati nel press'a poco, nel tipico" (p. 60). Proprio per il fatto che l'idea di una legalità causale è preparata nel mondo così come lo sperimentiamo direttamente (nel mondo della vita), assume particolare forza il progetto di un'estensione al mondo dei corpi del metodo felicemente applicato al mondo delle forme. Dobbiamo dunque proporci lo scopo di una teoria che sappia costruire sistematicamente i propri oggetti e le relazioni possibili tra essi a partire da principi generali e primitivi - una teoria che sappia anticipare l'esperienza istituendo validità a priori nel caso dei rapporti fisici di dipendenza esattamente come viene fatto dalla geometria nel caso dei rapporti formali-spaziali. Ciò che è stato possibile per lo spazio deve diventare possibile per il mondo concreto in generale. Il progetto di una scienza effettiva, di una episteme autentica, come talora si esprime Husserl rammentando la distinzione greca tra episteme e doxa, presuppone l'idea di una "natura costruttivamente determinabile in tutti i suoi aspetti", idea che era pretracciata "con il ritorno del Rinascimento alla filosofia antica", quindi con il rinnovato interesse per la geometria e per l'idea di conoscenza che in essa aveva trovato espressione. 4. Ora, riflettendo retrospettivamente sul percorso appena compiuto, vi sono ancora questioni rilevanti rimaste in sospeso. La geometria abbraccia il regno delle forme vuote. La scienza della 74 natura considera queste forme nella loro pienezza, come "plena sensibili" - secondo il termine spesso usato da Husserl. Ed abbiamo già visto che possono sorgere delle difficoltà nel programma di oggettivazione e di matematizzazione proprio in rapporto ai plena. In realtà, in rapporto alle qualità specifiche di senso manca la possibilità di una matematizzazione diretta, mancano cioè, o non sono immediatamente evidenti, procedure idealizzanti a partire da oggettivazioni operate attraverso la misurazione. Consideriamo una qualità cromatica - un colore rosso di una certa sfumatura. Che potrebbe significare in questo caso una procedura idealizzante? Il problema di una idealizzazione non può essere senz'altro trasposto e matenere lo stesso senso che aveva in precedenza. Sia pure con le restrizioni che abbiamo esposto, ha senso parlare del cerchio empirico come una sorta di variante approssimata del cerchio geometrico ideale. La stessa cosa non vale per il colore. Questa qualità non si presenta come una qualità perfettibile e che possa essere resa esatta. Non vi è dunque un colore rosso in idea che possa essere interpretata come limite a cui si approssimano i rossi empiricamente dati. Ovvero: non sembra esservi una geometria dei colori nello stesso senso in cui vi è una geometria delle forme - anche se non possiamo escludere che vi sia un "sistema dei colori" che, in un senso interamente diverso, possa richiamare l'idea della geometria delle forme. La stessa cosa si può dire considerando il problema della misurazione. "Noi abbiamo soltanto una forma universale del mondo, e non due, disponiamo soltanto di una e non di una duplice geometria, disponiamo di una geometria delle forme ma non di una geometria dei plena. I corpi del mondo empirico intuitivo, conformemente alla struttura che inerisce loro a priori, sono articolati in modo tale che ogni corpo ha - per parlare astrattamente - una propria estensione; ma tutte queste estensioni sono forme dell'unica, totale, 75 infinita estensione del mondo. In quanto mondo, in quanto configurazione universale di tutti i corpi, esso ha dunque una forma totale che abbraccia tutte le forme, e questa forma è idealizzabile e dominabile attraverso la costruzione, appunto nel modo che è stato analizzato" (p. 64). Dobbiamo dunque ricorrere a qualche metodo di matematizzazione indiretta, dovremo cioè cercare di ricondurre ogni evento qulitativo ad eventi che hanno luogo entro una sfera di entità dominabili matematicamente. A questo scopo assolve una funzione decisiva l'idea del nesso causale. Pensiamo ad una concezione atomistica. Essa non era sostenuta esplicitamente da Galileo, ma certamente ebbe una qualche influenza sul suo pensiero. In primo luogo è interessante notare che in qualunque modo venga presentato e giustificato il concetto di atomo, esso deriva indubbiamente dalla trasposizione del punto geometrico sul terreno fisico. L'atomo è il punto geometrico a cui è stato attribuito un significato fisico. Come tale ad esso si addicono le possibilità dei corpi in genere, ed anzitutto quella del movimento e tutte le nozioni che lo concernono (velocità, accelerazione ecc.). Queste nozioni possono essere astrattamente presentate in termini di determinati rapporti e possono soggiacere a metodi di misurazione. Parlando degli atomi e dei loro movimenti ci troviamo dunque in un universo che è interamente dominabile dal punto di vista matematico. Di conseguenza se riusciamo a ricondurre gli eventi qualitativi a eventi atomici come causa di essi, avremo ottenuto la generalità richiesta dalla tendenza alla matematizzazione. Il prezzo che deve essere pagato è naturalmente la tesi che l'evento sperimentato sia inteso come un evento apparente, che rinvia ad una realtà sottostante che è l'effettiva realtà in sé. 5. Tutto ciò non è affatto privo di problemi. Questo modo di procedere in sé essenzialmente giustificato e necessario (come 76 Husserl afferma più di una volta) si presta ad un'interpretazione fuorviante. Che cosa in questa impostazione può essere contestato? Certamente non l'escogitazione di metodi di misura indiretta che operino un'obbiettivazione dei rapporti qualitativi rendendo possibile dare di essi descrizioni quantitativamente determinate. E nemmeno il fatto che si operino idealizzazioni introducendo entità ideali o nozioni come il movimento, la forza ecc. assumendo un punto di vista matematico e istituendo in rapporto ad esse principi elementari da cui derivare legalità razionali. E nemmeno certamente il fatto che questo patrimonio conoscitivo venga impiegato per elaborare teorie esplicative degli eventi. Se tutto ciò fosse oggetto di contestazione, della nostra scienza non rimarrebbe nemmeno un frammento. Quindi non è contestabile nemmeno l'obiettivo generale che fin qui abbiamo indicato con il termine di "matematizzazione". L'oggetto possibile della contestazione sta invece nel modo di interpretare questa "matematizzazione", dunque nella filosofia che può star dietro a tutto ciò. Infatti un conto è mantenere nella realizzazione di queste procedure matematizzanti la consapevolezza del fatto che si tratta appunto di procedure effettuate per un determinato scopo, ed un altro è assumere che la natura sia "matematica" nella sua essenza. Un conto è impiegare la matematica nella conoscenza della natura, ed un altro è matematizzare la natura. In realtà, si propone una teoria esplicativa in cui un certo tipo di eventi viene pensato secondo modalità trattabili matematicamente; ma ciò non significa per nulla che il loro essere vero abbia forma matematica. In questo modo si opera un passaggio, per dirla in breve, dalla metodologia all'ontologia e per operare questo passaggio la scienza non basta: ci vuole invece la filosofia. Meglio: ci vuole una filosofia erronea, perché questo passaggio non è consentito nemmeno alla speculazione filosofica. Il vero oggetto del contendere dunque non è la scienza stessa, ma una certa filosofia della scienza. Avendo chiaro questo punto, si comprenderanno nel loro giusto senso formulazioni che potrebbero essere fraintese. 77 Così Husserl afferma che non dobbiamo porre le cose come se ogni mutamento all'interno di una "pienezza" "trovasse la propria controfigura nella sfera delle forme (p. 65), aggiungendo che una simile concezione potrebbe apparirci "avventurosa". Per un lettore distratto sembrerebbe quasi che si voglia affermare una sorta di restrizione di principio alla riducibilità del qualitativo al quantitativo, e dunque sostenere che la scienza deve riconoscere un limite alle razionalizzazioni che essa compie con le proprie spiegazioni "matematizzanti". È vero d'altra parte che numerosi interpreti di Husserl, favorevoli alla sua posizione, lo hanno interpretato proprio in questo modo. E malamente: perché quella frase ribadisce che l'evento spiegato in termini fisico-matematici non è la sua controparte reale, ma niente altro che la sua spiegazione in quei termini e che è sbagliato ritenere che "tutto quanto si manifesta come reale nelle qualità specifiche (sensibili) debba avere un proprio indice matematico negli eventi della sfera delle forme" (p. 66). Detto un po' brutalmente, il problema è proprio questo: non ci sono eventi nella sfera delle forme, per il semplice fatto che quando si parla di eventi nella sfera delle forme non si allude ad altro che a costruzioni esplicative. Ciò significa la stessa cosa che "il processo di idealizzazione fondato sull'arte pratica della misurazione ha condotto alla costituzione del mondo della matematica i cui oggetti hanno quindi una natura molto chiara e trasparente: sono il prodotto di un'idealizzazione risultante dalla pratica misuratoria. Ma il processo inverso, che mira invece all'obbiettivo del mondo sensibile applicando ad esso il mondo delle forme ideali, è giustificabile soltanto volta per volta, caso per caso. L'ipotesi che lo sostiene, e cioè che il mondo delle qualità 78 specifiche sensibili abbia un indice matematico, non è dimnostrabile una volta per tutte, ma è soltanto un'ipotesi soggetta a verifica infinita" (G. Israel, op. cit. p. 64). Secondo Husserl questo atteggiamento che si annuncia in Galileo in una forma ancora problematica, si viene sempre più affermando con lo sviluppo successivo della scienza fino a diventare un'ovvietà che tende oggi ad appartenere al senso comune. All'epoca di Galileo si è ancora nella fase della scoperta di nuovi metodi di ricerca, di nuovi modi di approccio allo studio dei fenomeni naturali: "la via che portava da queste esperienze all'idea ed alle ipotesi universali che tutti gli eventi specificamente qualitativi rimandino a corrispon­denti costellazioni e accadimenti nell'ambi­­to delle forme era ancora lunga" (p. 67). Tuttavia questa via era già delineata nell'atteggiamento di principio che sta alla base della scienza moderna. 6. Percorrendo questa via diventa sempre più remoto il rapporto con il mondo della vita, con il nostro mondo da cui ha origine ogni istanza conoscitiva ed a cui ogni istanza conoscitiva deve alla fine ritornare. Da questo punto di vista viene considerata nella Crisi anche la tematica della tecnicizzazione. Purtroppo ciò che vi è di interessante nelle pagine dedicate ad essa ha finito con il rifluire nel secolo scorso con un bolso atteggiamento anti-tecnologico: i filosofi che hanno creduto fosse compito eminente della filosofia lanciare anatemi contro la "tecnica" e la sua perversa "disumanità" non si contano, e Husserl è stato ampiamente coinvolto in questo atteggiamento - soprattutto via Heidegger e heideggeriani di ogni risma. È perciò particolarmente opportuno chiarire che cosa Husserl sostiene veramente in proposito. La discussione prende l'avvio da considerazioni interne alla matematica stessa. La matematica trova espressione in formule. Il 79 linguaggio delle formule diventa il linguaggio della scienza - e si badi bene: il linguaggio che è ad essa adeguato. Un legame causale esprime una dipendenza funzionale tra eventi; esprime cioè una relazione tale che le variazioni dell'uno dipendono funzionalmente dalle variazioni dell'altro. Questa dipendenza funzionale deve poter essere stabilita tra grandezze matematicamente dominabili, ed eventualmente provviste di valori aritmetici ben definiti. Queste dipendenze sono appunto ciò che viene espresso nelle formule. Contro una lettura ingenua del testo, talvolta non priva di malafede, noi facciamo esplicitamente notare non solo che questa tendenza alla produzione di formule è, secondo Husserl, intrinsecamente legittima - e ci mancherebbe altro che non lo fosse - ma è suggerita ed anticipata dalla stessa struttura del mondo della vita. Basti rammentare ciò che è già stato detto sulle regolarità empiriche. Queste regolarità hanno già per lo più la forma di dipendenze funzionali, ed esse si affermano naturalmente già "nel mondo pratico della vita". "Per la vita, l'operazione decisiva è dunque la matematizzazione e le formule grazie ad essa conseguite" (p. 72). Le formule sono un momento fondamentale dell' "operazione complessiva che abbiamo delineato" ed è del tutto naturale che gli indagatori della natura "rivolgessero ad esse un interesse appassionato" (p. 72). Il problema che si pone resta comunque quello di sempre: "la tentazione di vedere in queste formule e nel loro senso il vero essere della natura stessa" (ivi). Cosicché da un lato esse sono un mezzo di rappresentazione di rapporti, dall'altro possono presentarsi come se in esse fosse rappresentata l'essenza del rapporto. E poiché la formula è trattabile matematicamente in modo indipendente dall'interpretazione (e dal problema che è alla sua origine), la sostanzializzazione del metodo confluisce qui direttamente con la tendenza ad una completa formalizzazione. Ciò che Husserl propriamente intende è illustrato molto 80 bene da ciò che egli chiama "aritmetizzazione della geometria" - espressione con cui egli intende l'idea di "geometria analitica", ma volendo anche abbracciare il progressivo affermarsi dei metodi algebrici, e dunque in prospettiva della matematica formale pienamente dispiegata. "…le misurazioni producono cifre, e nelle proposizioni generali sulle dipendenze funzionali delle misure di grandezza, invece di numeri determinati, numeri in generale, enunciati attraverso proposizioni generali che esprimono le leggi delle dipendenze funzionali. Occorre qui prendere in considerazione le enormi conseguenze, talvolta provvide e talvolta negative, delle designazioni algebriche e dei modi di pensiero algebrici che si diffondono nell'epoca moderna a partire da Vieta, e quindi già prima di Galileo" (p. 72). Di fronte a questi sviluppi Husserl evoca anzitutto gli effetti positivi, gli straordinari passi in avanti che vengono prodotti adottando questo punto di vista "formalizzante". Egli scrive: "Ciò equivale dapprima ad un enorme allargamento delle possibilità del pensiero aritmetico ereditato nelle vecchie forme rudimentali. Esso diventa un pensiero a priori libero, sistematico, purificato da qualsiasi realtà intuitiva, un pensiero che considera soltanto i numeri in generale, i rapporti numerici, le leggi numeriche. Ben presto esso viene ampiamente applicato, nella geometria, nella matematica assolutamente pura delle forme spazio-temporali, le quali a fini metodici vengono completamente formalizzate algebricamente. Nasce così un'"aritmetizzazioue della geometria", un'aritmetizzazione di tutto il regno delle forme pure…" (p. 72). Si è qui sulla via della mathesis universalis di Leibniz, e dunque su quella di una "logica formale" onnilaterale che "soltanto nel 81 nostro tempo si è giunti a prospettarne in una elaborazione sistematica". Ma già all'origine di questo processo vi era un problema, un grave equivoco potenziale: l'"aritmetizzazione della geometria" non poteva voler significa che la geometria sia in realtà aritmetica. Ecco un chiaro esempio di sostanzializzazione del metodo. Questo passaggio è infatti del tutto illegittimo. La trattazione aritmetica e poi algebrica di relazioni geometriche non toglie il fatto che la geometria sia qualcosa di interamente diverso dall'aritmetica; così come l'impiego esclusivo di variabili e costanti non può far dimenticare il numero e ciò che esso eventualmente rappresenta. Credo che sia il caso di dire che è proprio la storia fenomenologica del concetto che insegna a mantenere la differenza tra i concetti, e che quindi questa storia ha un rilevantissimo peso epistemologico. Ed è chiaro che questa storia mantiene la presa sui contenuti, e dunque sul "senso" che le procedure formalizzanti, per legittime, necessarie e produttive ragioni di principio debbono tenere a distanza. Occorre dunque da un lato tener ferma la determinazione concettuale della forma geometrica a partire dalla forma sensibile, dall'altro aver chiaramente presente che la procedura di aritmetizzazine è un vero e proprio artificio metodico, una vera e propria invenzione, e non una scoperta - un'invenzione non solo in se stessa pienamente legittima, ma straordinariamente feconda di nuovi problemi. Ciò ci riporta al problema della tecnicizzazione. "Questa arimetizzazione della geometria porta da sé, in certo modo, ad uno svuotamento del suo senso" (p. 73). All'inizio vi è un'operazione metodica pienamente legittima. Si intende che l'espressione "svuotamento di senso" non ha necessariamente un significato negativo in quanto indica semplicemente l'operazione di formalizzazione. Ma finisce con l'assumerlo nel momento in cui da questo inizio si perviene ad un travisamento fondamentale. Ed è lo svuotamento di senso, espressione ricorrente in questo contesto problematico, che porta al preva- 82 lere del momento tecnico sul momento concettuale ed una tendenza alla tecnicizzazione. Per illustrare questa nozione converrà ricollegarsi ad un momento interno del pensiero matematico, che può anch'esso essere esemplificato in modo molto semplice. Pensiamo alle operazioni aritmetiche elementari, al sommare, al moltiplicare, al dividere, ecc. Alla base di queste operazioni ci sono nozioni concettualmente definite. Ma in realtà questo momento concettuale deve passare in secondo piano, può, ed anzi deve essere interamente dimenticato nell'esecuzione del calcolo. Ognuno di noi è in grado di eseguire una moltiplicazione o una divisione. Ma forse non tutti tra noi saprebbero giustificare la particolare procedura di cui ci serviamo, ad esempio, nel mettere in colonna i numeri proprio in quel modo, nell'operare le moltiplicazioni singole proprio in quell'ordine, nel sommare i risultati parziali, ecc. Abbiamo imparato determinate regole e le applichiamo. Notiamo inoltre che nell'eseguire queste operazioni non è affatto importante che venga mantenuto ai segni che manipoliamo in vario modo uno specifico significato aritmetico. Ciò che deve esserci noto è il modo della costruzione di un determinato sistema di segni e un insieme di regole di manipolazione sulle strutture segniche ottenute entro quel sistema. Naturalmente sappiamo che quei segni rappresentano numeri, e quindi hanno un significato, esprimono un concetto. Ma proprio questo rinvio ad un momento concettuale è del tutto estrinseco rispetto al calcolo. In questo senso possiamo parlare di una meccanizzazione di un movimento concettuale attraverso il calcolo. Nel calcolo non ci sono pensieri. Questa non è una frase polemica, né una proposizione falsa: al contrario è una posizione che può essere largamente condivisa. Non solo: nella lettura di queste pagine della Crisi sulle formule e sul calcolo, non bisogna dimenticare il fatto che Husserl stesso, fin dai tempi della Filosofia dell'aritmetica, era molto prossimo alle posizioni del formalismo, e in quell'opera il punto culminante dal punto di vista teorico era proprio la na- 83 tura essenzialmente calcolistica dell'aritmetica. Occorre dunque ribadire due volte che la matematica non è l'arte di eseguire calcoli, ma di inventarli. E dietro l'invenzione dei calcoli vi sta una grandiosa ricchezza di pensiero. La polemica naturalmente c'è, ed è ancora una volta contro l'enfasi posta in positivo sulla "cecità" delle operazioni matematiche, e dunque ancora sulla "vuotezza" formale, e su un senso di cui si esalta la perdita. Ed allora contro i filosofi che si fanno vanto di difendere l'"uomo" contro i pretesi danni della "tecnica", e che pretendono di trovare un sostegno nella tematica husserliana, converrà richiamare frasi come le seguenti: "In sé il passaggio da una matematica legata alle cose alla sua logicizzazione formale, e il rendersi autonoma della logica formale ampliata a pura analisi ed a dottrina della molteplicità, è qualcosa di completamente legittimo, anzi di necessario; così la tecnicizzazione con il suo perdersi temporaneo in un pensiero meramente tecnico. Ma tutto ciò può e deve costituire un metodo inteso e praticato coscientemente. Ciò avviene soltanto quando è viva la preoccupazione di eludere pericolosi spostamenti di senso, quando si fa cioè in modo che il conferimento originario di senso al metodo, a cui il metodo aveva attinto il senso di un'operazione per la conoscenza del mondo, resti continuamente attuale e presente. Anzi quando si fa sì che il metodo venga liberato da quell'inindagato tradizionalismo che già all'epoca della prima scoperta della nuova idea e del nuovo metodo aveva introdotto nel suo senso momenti di oscurità" (p. 75-76). 84 85 Quinta conversazione 86 87 1. Dall'evoluzione della scienza a quella della filosofia. A partire dal § 10 della Crisi la figura centrale è rappresentata da Cartesio che è assunto, sul versante della filosofia, con lo stesso carattere di esemplarità nel quale era stato assunto Galileo sul versante della scienza. Inoltre con la discussione relativa a Cartesio si cominciano ad intravedere i nessi con la fenomenologia. Fin qui, questo richiamo non era prossimo, anche se nella critica di una determinata idea della scienza aveva cominciato a delinearsi per opposizione un determinato atteggiamento filosofico. Di qui in avanti la nozione di fenomenologia dovrà essere più nettamente implicata, anzi potremmo dire che ora sta per cominciare una vera e propria introduzione alla fenomenologia realizzata attraverso i nomi di Cartesio, Hume e Kant. In certo modo, Husserl riprende qui, ma inserendole in un diverso contesto, valutazioni e critiche che aveva elaborato in passato indipendendentemente dal tema della "crisi delle scienze", per illustrare i presupposti storico-filosofici della propria posizione. Di questi presupposti noi faremo soltanto una breve ricapitolazione. Intanto è necessario sintetizzare l'opposizione tra obbiettivismo e trascendentalismo (§ 14). Con questi due termini Husserl non intende questa o quella posizione determinata, ma due linee di tendenza che possono essere rilevate in varia misura e in varie forme in filosofie diverse. Esse saranno perciò definite in modo molto generale. Parleremo di una tendenza o di un orientamento obbiettivistico quando lo scopo della filosofia è fissato come uno scopo conoscitivo direttamente rivolto ad un mondo che è assunto nella sua ovvietà come un essere in sé, dato oggettivamente e che deve semplicemente essere conosciuto in questo suo essere in modo sempre più approfondito. Per l'atteggiamento obbiettivistico l'oggetto è anzitutto qualcosa che c'è già, indipendente ed esterno rispetto a noi. In questa sua esistenza esterna e indipendente, esso si presenta come un dato da conoscere ed il rapporto 88 conoscitivo non porrà alcun problema: l'oggetto nel suo essere si rispecchia, attraverso le operazioni conoscitive, nel soggetto che le effettua. Saremo invece propensi a parlare di un motivo trascendentalistico quando la nostra attenzione non procede senz'altro verso l'oggetto come un dato da conoscere, ma verso la relazione tra soggetto e oggetto come una relazione entro la quale si costituisce il mondo stesso e la sua oggettività. Che ci sia per noi un mondo, esterno e indipendente da noi, questo deve essere un problema, e non un semplice dato di fatto. A prima vista sembra che questa opposizione possa essere ripresentata nei termini di un'altra, forse un poco più familiare: quella tra realismo e idealismo. In un pensiero realisticamente orientato in primo luogo ci sono gli oggetti che ci circondano nelle loro determinaizoni oggettive, che sono quello che sono, indipendetemente dalle funzioni conoscitive che sono esercitate su di essi. Queste funzioni sono indubbiamente funzioni soggettive, in quanto sono esercitate da soggetti. Ma questo elemento soggettivo ha una portata secondaria. Una posizione realistica può essere caratterizzata anche come una posizione trascendentistica, avendo di mira l'accezione letterale del termine: trascendente significa stare oltre, trovarsi al di là. Ciò che sta oltre è la realtà stessa - al di là di me, s'intende. Non vi è bisogno di dire che in via immediata si simpatizzerà con quest'ultima posizione. Noi viviamo un'esperienza della realtà come di una realtà che sta oltre, di cui io non sono affatto padrone. Gli oggetti che ci circondano hanno le loro determinazioni, e non sono certo io ad attribuirle ad esse. Tuttavia, a ben pensarci, tutto ciò significa soltanto che normalmente, nella nostra vita quotidiana ed al di là di ogni riflessione filosofica, viviamo in un atteggiamento realistico. Con ciò abbiamo anche introdotto la tipica nozione husserliana di atteggiamento naturale. D'altronde se guardiamo all'altro versante esso ci appare subito non solo piuttosto innaturale, ma anche abbastanza difficile da capire. Si dice, in Husserl: ciò che caratterizza il punto 89 di vista trascendentalistico è il presentarsi del mondo della vita come una formazione soggettiva (§ 14, p. 97). Ma che cosa può significare ciò? Dobbiamo forse intendere che il mondo e gli oggetti che mi circondano, questa sedia, ad esempio, non sia qualcosa di indipendente, ed esterno - oltre di me, e dunque qualcosa di trascendente, ma al contrario dentro di me, e dunque qualcosa di immanente? Una posizione idealistica portata all'estremo porta ad una dissoluzione soggettivistica dell'essere della realtà, è contraria al senso comune ed è difficile da sostenere argomentativamente. 2. A questo punto possiamo procedere oltre solo entrando nel merito della posizione filosofica di Husserl. Diciamo subito che non si tratta affatto di sostituire alla tesi di trascendenza una tesi di una pura e semplice immanenza. La cosa mi appare come esterna e indipendente - ma questa esteriorità e indipendenza della cosa non è qualcosa di simile ad un'informazione che io ricevo da qualche fonte misteriosa. Io so che le cose stanno così perché ho compiuto determinati atti, determinate operazioni nelle quali ed attraverso le quali la cosa mi appare proprio in questa forma: esterna e indipendente. La trascendenza della cosa si costituisce per noi in forza di determinate operazioni soggettive. Con ciò abbiamo in due parole introdotto due nozioni fenomenologiche fondamentali - il termine di fenomeno, che è implicato nell'apparire della cosa ed il termine di costituzione che implica il modo in cui la cosa mi appare. Aggiungiamo ancora che con queste due nozioni non si perviene ad una teorizzazione fenomenistica, e quindi ad una teorizzazione filosofico-metafisica della natura della realtà. Si tratta invece solo di una premessa a partire dalla quale si apre un ventaglio volto in ogni direzione per l'individuazione di possibili temi analitici e per la loro esecuzione. Non vi è fenomenologia, se non vi sono analisi fenomenologiche. Questo sembra ovvio, ed invece sono costretto ad affermare che forse si tratta soltanto di una mia personale opinione, dal momento che vi sono libri interi 90 che rimestano la solfa terminologica della fenomenologia senza che sia dato trovare in essi un solo grammo di effettiva ricerca fenomenologica. 3. La distinzione tra obbiettivismo e trascendentalismo può fare da introduzione alla trattazione di Cartesio (§§ 16-19). Lo schema secondo cui questo autore viene discusso da Husserl è piuttosto semplice, mentre i problemi implicati sono numerosi. Naturalmente anche Cartesio è animato dalla stessa istanza di razionalità che trova il suo modello nella matematica e questa istanza viene anzi generalizzata al problema della filosofia in genere, di una dottrina dell'essere, di una metafisica. Perciò Husserl sottolinea che l'idea più tardi formulata con maggior chiarezza da Leibniz della riduzione della filosofia a calcolo è già presente in Cartesio, anche se non in una forma così consistente come in Leibniz. In ogni caso è dominante in Cartesio il modello della deduzione logica: la filosofia procede per argomentazioni ed attinge attraverso di esse le verità più profonde. "Se poco prima Galileo era giunto alla fondazione originaria della nuova scienza, fu Cartesio a concepire e ad avviare una realizzazione sistematica della nuova idea della filosofia universale nel senso di un razionalismo matematico, o meglio fisicalistico, di una filosofia come "matematica universale". Questa filosofia esercitò ben presto un influsso poderoso" (§ 16, p. 102). Il razionalismo cartesiano risente fortemente del modello fisicalistico. La matematizzazione della natura, nei suoi sviluppi, ha come conseguenza, da un lato di dare alla fisica il carattere di modello metodico per ogni altra scienza, dall'altro di ritenere che in via di principio eventi di ordine fisico debbano stare a fondamento di ogni altra scienza, ovvero di ogni altro tipo di evento. Tutti i motivi dell'interesse di Husserl verso Cartesio stanno dunque altrove, e precisamente nella ben nota tematica 91 del dubbio, così come si trova esposta nelle Meditazioni metafisiche, "comune argomento di domande d'esame per i giovanissimi studiosi di filosofia" (§ 17, p. 103). Ma il campo di interesse si riduce ancor più: da un lato infatti non può sfuggire l'enfasi con cui Husserl si accinge a ripresentare l'argomentazione cartesiana. Le prime due meditazioni, egli dice, "sono di una profondità che è quasi impossibile esaurire", l'argomentazione del dubbio è di un "radicalismo inaudito", in essa vi è "l'inizio storico di una critica radicale della conoscenza" (pp. 104). D'altro lato giunge subito l'osservazione critica decisiva secondo cui l'interpretazione che Cartesio dà dell'argomen­tazione dubitativa è erronea, essa non dimostra ciò che egli pensava potesse dimostrare . In questo senso Cartesio è solo vicino ad una grande scoperta, ma è lontano dal realizzarla. In luogo di procedere verso il motivo trascendentalistico che in quell'argomentazione si affaccia, egli trae da essa una conclusione che riconduce la sua filosofia nell'alveo di una tendenza obbiettivistica. A nostra volta noi eviteremo di dare una risposta esauriente ad una domanda di esame, attirando invece subito l'attenzione sul centro della questione: esso sta nella escogitazione del demone maligno che ci costringe a dubitare realmente di tutto, non solo del mondo esterno e di tutto ciò che esso contiene, ma persino delle intangibili proposizioni matematiche e geometriche. Questa "ipotesi" non è certo una autentica ipotesi, ma una vera e propria finzione argomentativa che serve per introdurre una nozione di dubbio del tutto nuovo: poiché il motivo del dubbio è la ricerca di una certezza assoluta, abbiamo bisogno di un dubbio assoluto. Di una specie di dubbio che può sorgere solo nella mente di un filosofo. Quando noi uomini normali dubitiamo, dubitiamo sempre di qualcosa di determinato, e sulla base di motivi determinati. Ciò ci consente oltrettutto di prendere qualche provvedimento opportuno. Se il risultato di un calcolo non ci persuade, converrà rifare il conto. E se dubitiamo che quel che vediamo agitarsi nel buio non sia un alberello, ma una fantasma, 92 andremo a cercarci una lampada per illuminare meglio il sentiero. Con il suo demone, invece, Cartesio inventa il dubbio assoluto. Si tratta di una invenzione che non mi fa dubitare delle cose in cui continuo a credere seriamente, ma a non tener conto di esse come certezze ultime. Il demone ci libera poi dall'incombenza di andare enumerando le possibili ragioni del dubitare di questo o di quello, non dobbiamo più, al modo degli scettici antichi, argomentare sugli inganni dei sensi o gli errori della ragione: di queste argomentazioni con il demone cartesiano non abbiamo affatto bisogno. In un colpo solo e con una finzione, mettiamo fuori gioco ogni validità obbiettiva. Ma se le cose stanno così, allora il dubbio cartesiano ha un importante antecedente proprio in una delle tante elaborazioni dello scetticismo antico. Si tratta della sospensione metodica del giudizio che gli antichi chiamavano epoché. La via percorsa era diversa, ma il risultato assai simile, ed anzi più appropriato alle intenzioni filosofiche husserliane. Anche in questo caso il problema non era tanto quello di reperire argomentazioni particolari intorno a opinioni particolari, ma di assumere un atteggiamento metodico consistente nel "sospendere la validità di un giudizio" per quanto esso possa sembrare convincente. In Cartesio questo termine non è utilizzato. In Husserl diventa invece una parola fondamentale nella sua interpretazione del dubbio cartesiano e nella propria filosofia. E con essa tutto cambia: la formula "ego cogito" non è più una formula riassuntiva per indicare l'assoluta certezza degli atti soggettivi in genere, indipendentemente dalla validità d'essere attribuita ai loro correlati oggettivi, e neppure garantisce alcunché sull'esistenza dell'io inteso come sostanza pensante. Secondo la reintepretazione husserliana quell'assoluta certezza va invece attribuita al rapporto cogito-cogitatum, cioè al rapporto tra l'atto soggettivo e ciò che è posto in quell'atto. La riformulazione di Husserl suona allora: cogito cogitata qua cogitata, ovvero la certezza riguarda il fatto stesso che io compio una determinata esperienza e nello stesso tempo è altrettanto certo che in quell'esperienza 93 qualcosa mi è data nel modo in cui mi è data - modo che può essere sottoposto a una descrizione analitica. Attraverso la propria argomentazione Cartesio avrebbe dovuto scoprire l'idea della correlazione intenzionale e di conseguenza non già l'apoditticità dell'ego-sostanza, ma l'apoditticità del riferimento soggetto-oggetto e la tematica conseguente della costituzione soggettiva di ogni formazione oggettiva. Certamente si noterà che Husserl comincia qui a far agire in maniera piuttosto consistente quel punto di vista teleologico che aveva esplicitamente enunciato come una peculiarità del "nostro modo di considerare la storia della filosofia". "Ciò che importa è di riuscire a rendere comprensibile la teleologia insita nel divenire storico della filosofia, in particolare di quella moderna, e insieme di giungere alla chiarezza di fronte a noi stessi, che ne siamo i portatori, in quanto, nella nostra volontà personale, contribuiamo ad attuarla" (p. 99). Così l'argomentazione cartesiana non viene considerata soltanto in ciò che essa è, ma in ciò che essa tendeva o aspirava ad essere. Cartesio obbedisce qui ad una "nascosta teleologia storica" (p. 103). Intravede il problema della fenomenologia, ma non arriva a formularlo. È ad un passo dall'epoché fenomenologica, ma poi la oltrepassa fraintendendo la propria stessa argomentazione. 4. Nel gruppo di §§ 21-27, Husserl si occupa della tematica dell'empirismo inglese, con un rapido cenno a Kant. Se ne occupa forse troppo in breve - e forse questa è una delle ragioni per le quali l'importanza del riferimento alla tradizione empiristica ai fini di una interpretazione di Husserl è stata finora ampiamente sottovalutata. Intanto se guardiamo al contesto culturale in cui si forma il pensiero di Husserl, ritornando dunque alla sua giovinezza filosofica ed ai suoi maestri, notiamo una presenza dell'empirismo molto più viva, ad esempio, dell'idealismo 94 romantico. Nonostante il fatto che nella Crisi si trovino alcuni apprezzamenti positivi nei confronti dei grandi idealisti tedeschi, si può dire che quella tradizione di pensiero sia sempre rimasta profondamente estranea a Husserl. Lo stesso interesse di Husserl nei confronti di Kant è piuttosto tardo, mentre la tradizione empiristica è presente lungo tutto l'arco del suo pensiero come una tradizione con la quale val sempre la pena misurarsi. Certo, la polemica più impegnativa che Husserl conduce fin dai tempi delle Ricerche logiche ha il suo obbiettivo principale proprio nell'atteggiamento empiristico. Ciononostante va spiegata l'ammirazione che Husserl mantiene costantemente nei confronti dell'empirismo, e in particolare di Hume: evidentemente essa va oltre gli intenti di una confutazione critica complessiva. Val la pena intrattenersi su questo punto perché questo riferimento storico potrebbe passare in secondo piano di fronte agli altri due riferimenti storico-filosofici - Cartesio e Kant - che si presentano in una forma indubbiamente più vistosa. Dell'importanza dell'argomentazione dubitativa cartesiana abbiamo già detto. E non si può certo dimenticare che una delle opere importanti di Husserl ribadisce esplicitamente nel titolo Meditazioni cartesiane questo riferimento. Nel caso di Kant ci si può limitare a rammentare che, da un certo punto in poi, raramente Husserl impiega la parola "fenomenologia" senza aggiungere l'aggettivo "trascendentale". Una parola così tipicamente kantiana non indica forse una profonda influenza di Kant? Eppure io sostengo che se andiamo a vedere le cose più da vicino, non stenteremo a renderci conto che l'interesse di Husserl nei confronti della filosofia humeana è assai più significativo dei riferimenti, indubbiamente più vistosi, a Cartesio ed a Kant. Del resto questo problema traspare già dalla nostra esposizione fino a questo punto. Che cosa trae Husserl da Cartesio? Una sola idea - anche se, a suo dire - una grande idea: quella del dubbio metodico 95 che diventa per lui la nozione introduttiva al concetto di analisi fenomenologica. Ma proprio niente altro. Forse potremmo aggiungere che manteniamo della filosofia cartesiana l'istanza fondazionale - che assume peraltro un senso radicalmente diverso. Io oso invece affermare che per sviluppare l'intero problema in una direzione fenomenologica dobbiamo non soltanto prendere le distanze dai motivi particolari della filosofia cartesiana, ma rinunciare alla mentalità cartesiana: non possiamo infatti accettare una concezione della filosofia tutta basata sull'argomentazione logica, dobbiamo dare spazio alla descrizione, dobbiamo rifiutare l'istanza della costruzione di un sistema speculativo secondo lo spirito del razionalismo così come rifiutare i tentativi cartesiani di realizzare una psicologia a base fisiologistica. E non è poco. Non meno indicativo è il modo in cui avviene in concreto la discussione intorno a Kant. Ci fregiamo dell'aggettivo trascendentale - e sta bene. Ma questo aggettivo indica in fin dei conti una tendenza filosofica che si contrappone al realismo o all'obbiettivismo, spostando l'attenzione filosofica dall'oggetto assume come sussistente in se stesso alla relazione tra il soggetto e l'oggetto. Secondo un concetto così ampio, potremmo solo affermare che la filosofia kantiana può essere annoverata tra le filosofie trascendentali. Ma forse più significativo di ciò è il fatto che Husserl ha una propria posizione particolare sul rapporto tra Hume e Kant che è invece molto decisa e molto precisa. In primo luogo, nonostante l'indubbia influenza che Hume poté avere su Kant, il pensiero kantiano va ricollegato assai più strettamente alla tradizione razionalistica che a quella empiristica, sia nel senso negativo secondo cui il razionalismo è il vero obbiettivo polemico di Kant, sia in senso positivo, nel senso cioè che si fanno valere in Kant in modo determinante ancora istanze razionalistiche. In secondo luogo, a nostro avviso, è erronea la concezione che vede nella filosofia kantiana un effettivo superamento di Hume. Infatti Kant sviluppa la propria posizione eludendo quel- 96 lo che era l'autentico problema humeano. Il che è quanto dire: Kant non ha compreso il punto essenziale della filosofia humeana, non ha colto ciò che Hume aveva invece compreso, sia pure nel quadro di una posizione filosofica complessivamente insoddisfacente. A ciò si aggiunge un rilievo di non scarso peso. Husserl sottolinea che Kant conosceva Hume solo attraverso le Ricerche sull'intelletto umano, ed è invece caratteristico dell'interpretazione di Husserl affermare la superiorità dell'opera giovanile, il Trattato sulla natura umana, rispetto all'opera più tarda. La tesi che stiamo proponendo è piuttosto impegnativa, cosicché vogliamo indugiare in qualche spiegazione che la giustifichi. Intanto vi è la posizione di Husserl nei confronti dell'empirismo inglese che, esposta in due parole, suona così: da Cartesio si aprono due vie, quella del razionalismo - per i quali abbiamo i nomi esemplificativi di Malebranche, Spinoza e Leibniz, ma che va prolungata sino a Kant; e quella dell'empirismo che si oppone al razionalismo, ma che, specialmente nel suo iniziatore, John Locke, subisce ancora l'influenza di Cartesio. In Locke si affaccia il problema della psicologia e nello stesso tempo il problema dello psicologismo nella teoria della conoscenza. Locke non problematizza la nozione cartesiana della soggettività ma la assume senz'altro nel senso del soggetto psichico che riflette sulle proprie funzioni. Da Cartesio viene ripreso poi proprio l'aspetto più problematico - la contrapposizione tra res extensa e res cogitans, e Locke è lontano dal cogliere una qualche difficoltà di principio in questo dualismo. Per Husserl ciò significa un indebolimento in Locke del motivo trascendentale che pure era in qualche modo presente nell'argomentazione del dubbio cartesiano. Per Cartesio non è affatto ovvio che la soggettività acquisita nel dubbio metodico sia il soggetto nel senso psico-fisico quotidiano del termine, ed è un problema, per Cartesio anche la posizione di cose che "trascendono" l'ego cogito. Locke invece prende le mosse dalla distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa, attingendola tuttavia, indipendentemente dal dubbio 97 metodico, così come essa si trova nell'atteggiamento naturale. È vero che Locke avvia una critica della nozione di sostanza, ma è Berkeley che radicalizza questa critica avviandosi nettamente in direzione di un superamento del realismo di Locke. Ed eccoci dunque ai passi decisivi compiuti da Hume. Il suo problema metodico fondamentale è quello di compiere una analisi tutta racchiusa in un ambito "immanente". Il sussistere in sé degli oggetti è posto fuori gioco, se mai si tratta di rendere conto delle operazioni soggettive che conducono alla posizione di oggetti sussistenti in se stessi. L'unico materiale di cui possiamo disporre sono le impressioni, i dati sensoriali e il nostro compito è quello di chiarire in che modo nel gioco delle facoltà psichiche con questi dati si costituisce per noi un mondo composto di cose, di altre persone - un mondo che si presenta secondo strutture e norme relativamente stabili, e in particolare dominato da regole e da nessi causali. Nell'impostazione di Hume il dubbio assolve una funzione filosoficamente rilevante: i problemi che egli pone possono essere sempre proposti ricorrendo ad argomentazioni dubitative, ad una messa in questione di validità quotidiane solidamente radicate. Nella quotidianità noi siamo convinti dell'esistenza di noi stessi o degli altri, delle cose che ci circondano; e siamo anche convinti del sussistere tra le cose di nessi causali, della certezza delle asserzioni dell'aritmetica e della geometria, della validità delle regole di argomentazione logica e di molte altre cose ancora. I problemi di Hume si raggiungono per mezzo di una costante e graduale messa in questione di queste validità. Se puntiamo su esse la nostra attenzione filosofica, ad esempio sulla nozione di "io" ovvero, come si esprime Hume, dell' "identità personale", ci troviamo avvolti da difficoltà quasi inestricabili; e quanto alle cose esterne e indipendenti da noi, siamo costretti ad ammettere che abbiamo a che fare solo con impressioni, con dati sensoriali, quindi con dati immanenti e ciò che al più pos- 98 siamo tentare di fare è illustrare in che modo ce ne formiamo l'idea, ricorrendo a funzioni psichiche come la memoria e l'associazione. La convinzione del sussistere di nessi causali effettivi, si dissolve nella famosa critica humeana, che riduce la causalità a pura contiguità di eventi. Nel contesto di una problematica fenomenologica, è chiaro che l'attenzione deve essere attirata proprio sullo scetticismo di Hume, sia per una valutazione positiva della sua posizione sia per la sua critica. Tenendo conto di esso, il tema trascendentale che si era attenuato in Locke riceve nuovo vigore. Ma la distanza tra Cartesio e Hume resta invalicabile: lo scetticismo di Hume è in certo senso uno scetticismo autentico, almeno nel senso che in esso viene completamente meno quell'istanza fondazionale che è invece il tratto caratteristico del dubbio cartesiano. Ma stando a questo scetticismo, ogni formazione oggettiva assume il carattere di una finzione illusoria, un prodotto dell'attività di coscienza in cui interviene in modo determinante l'immaginazione. Il dubbio iniziale si ritrova così alla fine ed in forma ancora più cruciale come fallimento della filosofia stessa che non sa far altro che costruire paradossi nei cui meandri ci si perde. Sarà dunque meglio ritornare dai tormenti della filosofia alle pacifiche ovvietà della vita normale che la nostra speculazione non è comunque riuscita ad intaccare. Ormai siamo in grado di giungere speditamente ai punti essenziali del complesso rapporto della filosofia di Husserl e la tradizione dell'empirismo classico, corroborando la tesi che abbiamo enunciata in precedenza. Nella posizione di Locke si fa sentire in modo particolarmente forte un'istanza realistica. Dal punto di vista di Husserl questa istanza rappresenta un aspetto negativo per il fatto che essa non fa altro che ripresentare in un contesto filosofico speculativo la posizione caratteristica dell'atteggiamento naturale. Questa valutazione riguarda naturalmente anche la nozione di sostanza, che Locke critica a fondo e che tuttavia ritiene di poter in qualche modo conservare ipotizzando un sostegno delle qualità delle cose che sarebbe inconoscibile. La radicalizzazione operata da 99 Berkeley della critica lockiana porta, come è noto, ad un riduzione al fenomeno che conduce Berkeley alla soppressione della distinzione tra qualità primarie e secondarie. A questo punto il problema Hume è fin d'ora implicato perché Hume concorda su entrambe le critiche berkeleyane a Locke, benché gli siano profondamente estranee le motivazioni religiose dell' "immaterialismo". Con Berkeley e con Hume siamo ormai sul terreno dei fenomeni: è la posizione che la storia della filosofia ha indicato come fenomenismo. Ed una posizione fenomenistica non può che essere considerata soggettivistica e immanentistica, nel senso che considera essenzialmente non già le cose come tali, gli oggetti, ma i dati sensoriali attraverso i quali le cose si manifestano alla soggettività. Tra fenomenologia e fenomenismo sembra dunque esserci una linea di separazione sottilissima, o forse nessuna linea di separazione. In effetti questa prossimità è stata spesso usata in chiave critica nei confronti della fenomenologia. È necessaria perciò una precisazione che sia in grado di ispessire quella linea di separazione e imprima ad essa addirittura il carattere di una differenza invalicabile. In effetti, la riduzione empiristica ai fenomeni non può che essere considerata del tutto giustificata, mentre non è giustifiata l'opinione che una volta operata questa riduzione il concetto dell'oggetto si dissolva. L'errore del fenomenismo empiristico sta nel ritenere che la riduzione all'immanenza sia senz'altro una soppressione della trascendenza dell'oggetto: al contrario la riduzione all'immanenza deve esibire l'oggetto trascendente come correlato intenzionale complesso di atti di apprensione soggettiva. Perciò la critica di Husserl, in particolare, al fenomenismo berkeleyano, è molto dura: in Berkeley l'empirismo di Locke diventa "idealismo paradossale e infine si risolve in una serie di controsensi" (§ 23, p. 114). Per ciò che riguarda gli aspetti fenomenistici, questa critica dovrebbe investire anche Hume, ed in effetti Husserl non lo ignora, ma la discussione che egli conduce nei confronti di 100 Hume si arricchisce di nuovi motivi che la rendono particolarmente interessante dal punto di vista fenomenologico. Approfondendo le tematiche humeane ben presto si rendiamo conto che Cartesio soltanto ci servirebbe ben poco senza Hume. Abbiamo spiegato che il dubbio cartesiano deve essere considerato come un modo di proporre una molteplicità di compiti analitico-descrittivi relativi alla struttura fenomenologica delle oggettività costituite nella vita di coscienza. Ma se stiamo solo a Cartesio, il dubbio non è altro che un'argomentazione che introduce ad altre argomentazioni. La riduzione fenomenistica di Hume invece, con tutti i limiti che derivano dal fenomenismo, ha come risultato la proposta di chiarire le strutture complesse delle oggettività che ci sono date attraverso le impressioni e le facoltà dell'anima - la percezione, l'immaginazione, la memoria. Ne deriva una selva di problemi che sono portati spesso a soluzioni erronee: e tuttavia sono chiaramente identificati e riproponibili entro un contesto propriamente fenomenologico. In Hume, secondo Husserl, in forma distorta e sulla base di erronei presupposti di principio e di metodo, si fa strada l'idea di costituzione fenomenologica. Di qui la sottolineatura molto forte che Husserl pone su quello che a suo avviso è da considerare il problema autentico di Hume che egli formula in questo modo: "Come può essere resa comprensibile l'ingenua ovvietà della certezza del mondo in cui viviamo, sia la certezza del mondo quotidiano, sia quella delle dotte costruzioni teoretiche che si fondano su di esso?" (§ 25, p. 124). Questo tema dell'ovvietà quotidiana che deve essere messa in discussione è un tema che entra direttamente nei motivi che circoscrivono l'epoché fenomenologica, ed è un tema sostanzialmente estraneo all'argomentazione dubitativa cartesiana, alla cui base vi è la posizione astratta del problema della certezza e della sua possibilità. In Hume invece non dubitiamo astrattamente se la certezza sia possibile, ma facciamo diventare problematiche le 101 certezze indiscutibili ed ovvie che fanno parte del nostro atteggiamento naturale nei confronti del mondo, e di qui conseguono ricerche e analisi concretamente sviluppate. Queste ricerche ed analisi si trovano tutte all'interno del tentativo di rendere conto delle posizioni comuni di validità attraverso un'indagine che non esca dall'ambito fenomenico. Viene dunque in primo piano un compito positivo-ricostruttivo che può essere affrontato solo mettendo in gioco le funzioni soggettive, che certamente in Hume sono da considerare funzioni psicologiche. In Hume cominciamo dunque a intravedere concretamente il doppio movimento - fondamentale per l'impostazione fenomenologica di Husserl - della riduzione e della costituzione fenomenologica, secondo un'angolatura fenomenistico-psicologica che deve essere preliminarmente sottoposta a critica. Dentro questo quadro non è di poco conto che nel Trattato sulla natura umana la vecchia impostazione di principio secondo cui la ricerca filosofica avrebbe in ultima analisi il compito negativo di determinare i limiti della nostra capacità di conoscere è di gran lunga superata. Di un simile problema non si parla nemmeno. Così come non è di poco conto il fatto che, come osserva Husserl, entrino nel campo di indagine humeano le "dotte costruzioni teoretiche" che si fondano nell'atteggiamento naturale. Vi è qui ancora un'allusione al Trattato, piuttosto che alle Ricerche - e precisamente alla seconda parte dove si effettua un tentativo di analisi che cerca di far valere l'impostazione di principio che abbiamo esposto anche nei confronti dei concetti astratti, quali lo spazio, il tempo, il numero, le formazioni geometriche. Vi è dunque in Hume l'idea che anche quei concetti astratti a partire dai quali possono poi essere erette "dotte costruzioni teoretiche" hanno una base nell'esperienza stessa. Naturalmente, in questo campo come altrove, Hume sviluppa la propria ricerca in una direzione inaccettabile. In particolare le conseguenze di questo empirismo radicale nell'ambito dei concetti che fanno ri- 102 ferimento alle scienze matematico-formali sono particolarmente urtanti per la loro rozzezza. Queste parti vengono dunque a cadere nelle Ricerche sull'intelletto umano, nelle quali viene adottata la distinzione comunemente accettata tra verità di ragione e verità di fatto. Tuttavia il problema di una base esperienziale dei concetti astratti esiste effettivamente, e non deve avere necessariamente il senso, che ha invece nel Trattato di Hume, di una riduzione diretta al terreno empirico. Ad esempio, Hume afferma che è falso affermare che un segmento di retta è costituito da un numero infinito di punti. Con segmento di retta Hume intende un segmento tracciato sulla lavagna, oppure l'idea corrispondente, la quale tuttavia avrà gli stessi caratteri del contenuto percettivo, a parte la minore vivacità. Il segmento avrà - sostiene Hume, un numero finito di punti - che noi non possiamo contare, ma solo per il fatto che sono troppo vicini l'uno all'altro. In realtà con una simile considerazione il pensiero geometrico cesserebbe di esistere. In un esempio come questo si coglie non solo la soppressione della tematica delle idealizzazioni, ma anche l'inclinazione erronea della intera teoria dell'esperienza di Hume. Che un segmento di retta sia una successione di punti molto vicini non si può affermare nemmeno per il segmento di retta tracciato sulla lavagna. Segmento e punto dal punto di vista percettivo nel quale si dispone Hume sono configurazioni autonome e vengono colte come tali. Vi è dunque un'impostazione del problema della struttura dell'esperienza che da un lato apre tematiche su un versante estremamente ampio, dall'altro conduce a continui fraintendimenti. La posizione di Hume, considerata da un punto di vista fenomenologico presenta sia motivi di grande interesse, sia motivi pesantemente critici. Cosicché non deve sorprendere che una "dottrina fenomenologica dell'esperienza" possa essere esposta facendo spesso riferimento per contrapposizione alle tesi humeane, e naturalmente alla tradizione empiristica nel suo complesso. 103 Proprio a quella tradizione si può imputare di non aver saputo in tutta la sua storia elaborare un'effettiva filosofia dell'esperienza. Ciò che rende particolarmente significativa la posizione di Hume secondo Husserl è, in particolare, il fatto che questo fallimento sia apertamente denunciato da Hume stesso al termine della propria ricerca. Lo scetticismo degli inizi si ricongiunge con lo scetticismo filosofico della conclusione - con l'abbandono in via di principio della ricerca e dunque come una sorta di dichiarazione di "bancarotta della scienza obbiettiva". Non riusciamo a rendere conto delle validità quotidiane, tanto meno potremo dar senso al problema di una conoscenza oggettiva della realtà. Un brusco ritorno all'"atteggiamento naturale" diventa così inevitabile ed in rapporto alla dimensione filosofico-trascendentale, che si affaccia lungo tutto il corso della ricerca, non possiamo far altro che dubitare della serietà dei suoi problemi. Nella filosofia, ci sembra dire alla fine Hume, abbiamo a che fare con una sorta di divertimento intellettuale che tralasciamo nel momento in cui non ci prendiamo più gusto. Quale distanza rispetto a Cartesio ed al razionalismo! Cosicché Husserl di fronte all'ironia dello scetticismo humeano riscopre la serietà della propria anima cartesiana. Ed è significativo che Husserl rivolga infine una critica conclusiva verso Hume essenzialmente di natura morale: "Per quanto sorprendente sia il genio di Hume, tanto più deplorevole è il fatto che ad esso non vada accoppiato un ethos filosofico corrispondente" (§ 23, p. 116). 5. Abbiamo parlato di anima cartesiana, ma certamente non possiamo dedicare qualche parola a quello che si presenta come punto culminante della storia delle idee delineata da Husserl. Naturalmente pensiamo a Kant (§§ 25-32). Husserl in realtà si distanzia dalle versioni correnti della filosofia kantiana presentandola non già come una sorta di supe- 104 ramento dell'empirismo o comunque di via intermedia tra razionalismo ed empirismo - ma come una posizione da ricollegare in modo piuttosto diretto alla linea razionalista. Naturalmente resta vero ciò che raccontano tutti i manuali: Hume ha smosso in Kant corde profonde e ha rappresentato per lui la crisi del razionalismo stimolandolo alla ricerca di un nuovo approccio filosofico, capace di liquidare gli aspetti insostenibili dei sistemi razionalisti, riproponendone tuttavia in forma nuova le istanze che si possano ritenere valide. Kant è stimolato da Hume non già ad un ripensamento della problematica empiristica, ma piuttosto di quella razionalista. Approdiamo così alla "critica della ragione" - al problema cioè di delimitare le nostre capacità di conoscere scoprendo una via che ci conduca a penetrare le regole secondo cui ci è dato un mondo conoscitivo possibile, senza passare sotto le forche caudine di una filosofia psicologizzante. Ma questa non è forse una versione aggiornata del punto di vista di Locke, e quindi un passo indietro rispetto a Hume? E come accadde in Locke, anche ora è lecito attendersi che da una determinazione dei limiti si finisca con il riconoscere che c'è qualcosa al di là di essi. Alla sostanza di Locke subentra il noumeno di Kant. Così da un lato si sviluppa una critica del programma razionalistico culminante nella costruzione di un sistema metafisico; dall'altro si salva di quel programma quello che è forse il punto essenziale. La critica della metafisica in Kant è strettamente intrecciata con la legittimazione di quell'istanza metafisica che il fenomenismo humeano toglieva alla radice. Perciò Kant sente il bisogno di sviluppare una complessa considerazione che tende a dimostrare l'impossibilità della metafisica come scienza - una dimostrazione di cui Hume non sentiva affatto il bisogno; e per realizzarla si rende necessaria un'indagine sulle condizioni di possibilità dell'esperienza e della conoscenza in genere. Una simile indagine culmina nella "Dialettica trascendentale", con un'esposizione che taglia il nodo che legava, per il filosofo razionalista, la logica alla metafisica. Checché ne sia dei 105 dettagli della discussione a cui Kant sottopone le antinomie della ragione, il senso complessivo è chiaro: la logica non può accedere alla struttura profonda della realtà. "Kant si rese conto che tra le pure verità di ragione e l'obbiettività metafisica si apriva un abisso incomprensibile; si rese conto cioè dell'impossibilità di capire come queste verità di ragione potessero venire impiegate per la conoscenza delle cose" (§ 25, p. 121). Volendo approfondire questo problema probabilmente sarebbe opportuno riflettere sul fatto che per Kant il problema metafisico si ripresenta poi nel quadro di una tematica che ha essenzialmente di mira la "ragione pratica", e questa circostanza potrebbe per noi diventare particolarmente significativa proprio per il fatto la presenza di questo problema rappresenta in ogni caso lo sfondo del sistema razionalistico; così come è significativo che questa etica si presenti come una etica formale, cioè come un'etica che si rifiuta di formulare norme contenutisticamente determinate. Infatti non possiamo più contare su determinazioni di valore ontologicamente giustificate. Naturalmente si tratta soltanto di spunti che meriterebbero un'analisi ben altrimenti approfondita. A questo punto possiamo giustificare meglio la nostra convinzione secondo cui l'importanza di Hume per la formazione del pensiero husserliano forse supera non solo quella di Cartesio, ma persino quella di Kant. Vi è una dichiarazione esplicita di Husserl che dice a chiare lettere che Kant non ha compreso il problema autentico di Hume. "Qualunque sia la misura di verità della filosofia kantiana, di cui qui non ci tocca giudicare, non dobbiamo dimenticare che Hume, così come è inteso da Kant, non è lo Hume reale. Kant parla del "problema humeano". Ma qual è il problema reale, quello che muove lo stesso Hume? Possiamo arrivare a scoprirlo soltanto se ritrasformiamo la 106 teoria scettica di Hume, le sue affermazioni globali, nel suo problema, se ne traiamo tutte quelle conseguenze che non hanno trovato una compiuta formulazione nella sua teoria, anche se è difficile ammettere che un genio come Hume non le abbia intraviste pur non trattandole espressamente e teoreticamente" (§ 25 p. 123). Ciò che Kant avrebbe dovuto comprendere dopo la lettura di Hume è che occorreva da un lato correggere, dall'altro proseguire la via stessa tracciata da Hume; Kant invece si muove in tutt'altra direzione poiché "la sua problematica si dispone completamente sul terreno del razionalismo" (§ 25, p. 124). Ciò lo si può cogliere con particolare evidenza nella dottrina kantiana dell'esperienza e in particolare nella dottrina delle categorie. In essa Kant abbandona interamente il problema "genetico" o "storico" - per usare il linguaggio di Locke - proponendo invece l'analisi dei fatti di esperienza nei loro componenti sensoriali e intellettuali. Ciò che Kant intende con "intelletto" è un'intelaiatura di forme, di ordinamenti - le categorie - che sono proiettate sui materiali sensoriali in se stessi privi di ordine e di legami. In un certo senso le categorie sono già date, l'esperienza si muove attraverso questi due poli, o meglio: risulta dalla loro fusione. In questa teoria delle categorie, un apparato intellettuale predisposto che dovrà essere attribuito alla soggettività (una nozione peraltro che comincia con il diventare oscura), non è difficile intravedere il ripresentarsi sia pure in forma meno ingenua la teoria razionalista delle idee innate. Ma a parte questo, è importante per noi richiamare l'attenzione sul fatto che seguendo questa strada, la troveremo sbarrata rispetto alla ripresa di un problema di costituzione fenomenologica. Le categorie non derivano dall'esperienza proprio perché fanno parte della forma logica di essa. È 107 inutile tentare di trarle da essa. Potremmo invece tentare di trarle dalla forma logica del giudizio (proposizione), perché l'intelletto si esplica anzitutto nella formulazione di giudizi. Nello spirito della concezione kantiana il giudizio precede l'esperienza, le sue forme sono a priori. E già il titolo della grande opera di Husserl, che non ha nulla che le assomigli nell'intera storia della filosofia, Esperienza e giudizio, mostra che in realtà adottando un punto di vista fenomenologico ci muoveremmo esattamente nella direzione opposta. Tutto ciò a me sembra sufficiente per consolidare la tesi che abbiamo formulata intorno al nodo Cartesio-Hume-Kant. Husserl indubbiamente sottolinea l'elemento "trascendentale" della sua fenomenologia, ma la nostra discussione mostra che il trascendentalismo fenomenologico si trova addirittura, per alcuni aspetti essenziali, in netta opposizione al trascendentalismo critico di Kant. 108 109 Sesta conversazione 110 111 1. L'introduzione del concetto di fenomenologia attraverso l'epoché ovvero, come spesso si esprime Husserl, la teoria della riduzione fenomenologica, viene caratterizzata da Husserl stesso come una vera e propria svolta all'interno del proprio pensiero. Ora, a mio avviso, ci imbattiamo qui in uno dei nodi fondamentali per l'orientamento di una discusssione e per l'esercizio di una critica. Il motivo che cercherò di far valere a questo proposito, motivo che non è affatto generalmente condiviso - di ciò mi sembra giusto avvertire il mio lettore - è che l'importanza crescente che riveste il problema della riduzione, e dunque il problema dell'introduzione del metodo fenomenologico in Husserl, rappresenta il graduale prevalere di proccupazioni di genere interamente diverso rispetto alle tematiche strettamente teoretiche della ricerca fenomenologica. Questo aspetto diventa dominante nella Crisi, nella quale l'epoché fenomenologica cessa di essere un'argomentazione in certo senso ausiliaria per l'introduzione del metodo e riceve un'enfatizzazione che rappresenta l'indice di un problema che deve essere chiarito. Comincerò a citare due luoghi particolarmente indicativi. Attraverso l'epoché "che è capace di raggiungere le massime profondità filosofiche è possibile un mutamento radicale di tutta l'umanità" (§ 40, p. 178). "l'atteggiamento fenomenologico totale e l'epoché che gli inerisce sono destinati a produrre innanzitutto una completa trasformazione personale che sulle prime potrebbe essere paragonata ad una conversione religiosa, ma che, al di là di ciò, è la più grande evoluzione esistenziale che sia concessa all'umanità come tale" (§ 35, p. 166). Di fronte a frasi come queste non ci si può non interrogare sulle 112 ragioni e sul significato di una simile enfasi, che finisce poi naturalmente con l'investire la fenomenologia stessa. Io credo che invano cercheremo di trovare per essa delle effettive giustificazioni teoretiche. Una motivazione indubbiamente c'è, ma dobbiamo cercarla in altra direzione. In queste enfatizzazioni si avverte la presenza di una piega ideologica. Ciò significa: l'orientamento di pensiero dominante nell'opera può assumere una inclinazione che non dipende soltanto dal suo movimento di pensiero interno, ma anche dalle problematiche proposte dal corso storico in cui quel movimento è integrato. 2. Beninteso, Husserl aveva le sue buone ragioni per indicare, nel momento della formulazione della teoria dell'epoché, una sorta di svolta nella sua filosofia. Qualcosa di effettivamente nuovo accade veramente in questa impostazione del problema e la novità rappresenta per molti versi un effettivo approfondimento, un'effettiva estensione della tematica in senso autenticamente teoretico. Il problema difficile da districare è che in questa novità vi sono già elementi che hanno una diversa provenienza ed che non hanno di mira una questione di pura teoria. Ciò vale in primo luogo per il tema della soggettività. Non c'è dubbio che l'interpretazione proposta da Husserl dell'argomentazione cartesiana, porti in primo piano questo tema che in precedenza aveva mantenuto un carattere relativamente marginale. Nelle Ricerche logiche, in particolare nella prima edizione, si parlava di "coscienza" come "compagine di esperienze, di vissuti", e dunque una unità interna tra i vissuti era in qualche modo implicata. Ma nel presentare le cose secondo la via cartesiana risultava subito chiaro che la soggettività doveva essere presupposta ai fini della realizzazione stessa della ricerca fenomenologica. Perciò in una ricerca vertente sulle strutture dell'esperienza in genere, non possiamo guardare ad esse come se non ci fosse già un io che pone il problema e lo elabora sistematicamente. Cosicché questa centralità non assume affatto il carattere di un' assun- 113 zione idealistico-speculativo, come molti interpreti ritengono. Affermare che la nozione di compagine di esperienza presuppone una unità soggettiva come polo di riferimento non significa per nulla essere idealisti, soggettivisti, metafisici…, ma enunciare una premessa per ricerche tendenti a chiarificazioni strutturali. A sua volta la soggettività può essere indagata come centro delle sue esperienze, e non possiamo certo passare sotto silenzio il fatto che in ogni caso siamo proprio noi che proponiamo questi problemi. La soggettività dunque assume ad un tempo il carattere di tema possibile e di presupposto per la sua elaborazione - e in ciò non vediamo nulla di strano né di particolarmente enigmatico. È chiaro che da parte nostra vi è da compiere una critica che tuttavia non è affatto orientata nel senso di una contrapposizione tra le prime opere di Husserl e quelle successive alla svolta trascendentale. È noto che proprio all'interno della scuola che si andava formando intorno a Husserl vi furono critiche che riguardavano proprio questa svolta, che venne subito "tacciata" di idealismo. In particolare venne attaccata l'esposizione introduttiva dell'idea di fenomenologia che egli aveva delineato nel volume intitolato Idee per una fenomenologia pura, progettato in tre volumi, ma di cui venne pubblicato, Husserl vivente, solo il primo. In esso in effetti la via cartesiana sembrava condurre a formulazioni estreme di sapore idealistico. Io credo che queste formulazioni siano delle consapevoli e volute imitazioni del linguaggio idealistico. Ad esempio, una volta si dice che se cerchiamo qualcosa che possa pretendere ad un titolo di assolutezza, questo deve essere appunto la coscienza, la soggettività. Di essa si può dire che "non ha bisogno di nessuna cosa per esistere": la coscienza è ciò che resta nell'assunzione dell'"annientamento del mondo" (Weltvernichtung). Si tratta di frasi divenute famose e normalmente citate per il loro richiamo alle idee dell'idealismo speculativo. Io tendo invece a riportarle entro i termini dell'argomentazione cartesiana. Credo, ad esempio, che la prima frase secondo cui la coscienza 114 non ha bisogno di nessuna cosa per esistere non debba essere interpretata in un senso ingenuamente realistico, come se essa dicesse non noi non abbiamo bisogno di mangiare e di bere. A ben vedere essa parla anzitutto delle "cose": sono esse che hanno bisogno della coscienza per esistere, proprio per il fatto che sono costituite nel loro essere e nel loro modo d'essere nell'esperienza che abbiamo di esse. Si tratta dunque ancora del tema della costituzione: quella frase non formula una posizione metafisica, ma delimita un campo di problemi costitutivi. E nemmeno dice che la soggettività è "pensiero puro". Questa idea è profondamente estranea alla filosofia di Husserl che insiste in modo particolare sulla problematica della corporeità. In tutta evidenza, la formula dell' "annientamento del mondo" può essere considerato una variante del demone cartesiano. Il punto che mi interessa rilevare è che anche dopo la svolta cartesiana la dimensione analitica non solo non viene meno ma si arricchisce ed approfondisce. La tematica della soggettività pone molto presto la problematica delle relazioni intersoggettive: alcuni cenni risalgono al 1910-11, anche se quella tematica riceverà uno sviluppo consistente solo negli scritti più tardi nei quali essa si intersecherà con la tematica delle strutture della storicità. Questo nesso soggettività-intersoggettività-storia è della massima importanza perché mostra che, a differenza di Cartesio, che dall'ego cogito approda ad un grande sistema metafisico, il percorso di Husserl ha come mèta il problema della storicità umana. Ciò è importante anche in funzione di una filosofia della cultura. Con la posizione del problema costitutivo come problema "storico" viene superata una nozione di fenomenologia come descrizione di strutture e di rapporti statici. Pensiamo soltanto a problematiche che potrebbero andare sotto il titolo di "fenomenologia dell'esperienza estetica" oppure di "fenomenologia dell'esperienza religiosa". In questi ambiti tematici il disporsi in 115 un punto di vista genetico-dinamico piuttosto che in un punto di vista statico assume particolare rilievo. Attenendosi ad un un punto di vista statico si dovrebbe riconoscere l'esistenza di esperienze peculiari e autonome - l'esperienza estetica o l'esperienza religiosa - e dunque anche di oggettività o di formazioni di senso corrispondenti (il bello, il sacro, l'oggetto bello, l'oggetto sacro) - tentando poi di delimitare la peculiarità fenomenologica di queste esperienze e dei loro oggetti. Alcuni sviluppi della fenomenologia sono andati in questa direzione. Se invece adottiamo un punto di vista dinamico strutturale (genetico) questi problemi si presenterebbero in tutt'altro modo. Ad esempio, non sarebbe lecito assumere che esistono esperienze speciali per così dire puntate su determinati oggetti. Se volgiamo la nostra attenzione analitica al "sacro", ciò che si dovrebbe notare in primo luogo è che l'esperienza del sacro è in linea di principio un'esperienza composita, connotata culturalmente. Non vi è esperienza religiosa senza un implicito rinvio culturale-intersoggettivo. Ma allora emerge in primo piano il tema della storicità, delle motivazioni storico-culturali delle corrispondenti formazioni di senso. È inutile dire che nella Crisi la problematica della soggettività assume una grandissima importanza facendo alla fine tutt'uno con quella del "mondo della vita" e delle formazioni originarie di senso che in esso si vanno storicamente elaborando in una dialettica con l'universo delle scienze di cui abbiamo potuto almeno saggiare la sua complessità. Ma il fatto che la tematica della soggettività venga teorizzata a partire dalla teoria della riduzione fenomenologica ha varie conseguenze: quella teoria si carica sempre più di senso, in una complicazione crescente, di distinzioni e sottodistinzioni di cui l'interprete stenta a riconoscere un preciso fondamento analitico. La teoria della soggettività ne segue il destino. Nella terza parte della Crisi, di cui non intendiamo occuparci, l'argomentazione cartesiana, a suo tempo reinterpretata da 116 Husserl con chiarezza e linearità come epoché fenomenologica, tende a diventare un crampo mentale, e la soggettività stessa un insolubile enigma. Ora noi ci chiediamo: perché quelle enfasi, perché queste impennate che non ci sembrano giustificate, perché questa evoluzione complessiva del problema? 3. Per rispondere a queste domande dobbiamo riprendere e approfondire alcuni cenni iniziali delle nostre conversazioni. La Crisi si apre con una presa di posizione che aggredisce direttamente, senza indugi e senza esitazioni, un piano direttamente culturale. E si rivolge direttamente alla situazione del presente - essa non è un'opera che parla di una questione strettamente filosofica, implicando per così dire l'autore e il lettore nella loro singolarità personale, ma coinvolgendo noi tutti. È stato fatto giustamente notare la frequenza con cui compare il "noi", ed insieme a questo pronome il riferimento allo stato di cose del presente. "… sembra che specialmente nel contesto della Crisi, il soggetto della riflessione filosofica venga concepito ora in termini di prima persona plurale -"noi uomini del presente" (Wir Menschen der Gegenwart), "noi filosofi di questo presente" (Wir Philosophen dieser Gegenwart), ovvero "filosofi del giorno d'oggi" (heutige Philosophen) (Krisis, Husserliana, VI, 12, 15, 72). E conseguentemente, il fondamento della discussione filosofica è qui definita con termini come "la situazione di fatto del presente" (die faktische Gegenwartslage) e la "nostra situazione attuale" (unsere Gegenwartssituation) (ivi, 8, 16, 196), implicando inestricabilmente aspetti culturali comuni di questo presente. Qui, il presente non è più inteso nei termini di una presenza immediata alla coscienza. Ma nei termini di un ben più ampio orizzonte di interessi, includendo i vari "presupposti" appartenenti alla situazione data" (T. Miettinen, op. cit., p. 54). 117 Questi non sono dettagli stilistici privi di importanza. Atttraverso di essi si comincia con l'apporre all'opera un preciso indice storico: questa volta è l'opera stessa che lo richiede. E questa apposizione significa anche aprire gli occhi sulle pieghe ideologiche che essa può assumere. Se consideriamo un sistema o una posizione filosofica dobbiamo essere anzitutto interessati a comprendere il suo significato interno, e naturalmente a valutare la fondatezza delle argomentazioni e l'interesse dei punti di vista proposti. Ma ad un certo punto della nostra ricerca possono sorgere interrogativi a cui si può rispondere solo considerando sia le coordinate storiche in cui l'opera filosofica è comunque integrata, sia il modo in cui essa tenta a sua volta di interagire con la cultura dell'epoca con istanze di rinnovamento o di conservazione. È giusto sottolineare che il problema di una simile considerazione si propone in ogni caso, indipendentemente da prese di posizioni esplicite o addirittura da orientamenti politici esplicitamente enunciati. Il momento della motivazione sociale agisce in ogni caso, in modo più o meno intenso, e spetta all'interprete il metterlo in luce. Ciò comporta vari rischi. In certi casi gli appigli per una contestualizzazione storica possono essere deboli e inappariscenti, e ciononostante possono rivestire una particolare importanza per la comprensione del testo. L'interprete deve rintracciare momenti significativi per ancorare l'elaborazione filosofica ad un determinato orizzonte sociale. In questa operazione può accadere che lo stesso sistema filosofico nel suo complesso o qualche suo dettaglio importante venga considerato come una grande metafora - questo non è necessariamente un errore. Mentre lo è certamente il ritenere che quella metafora sia la via che conduce al vero senso del sistema o del dettaglio. Si tratta invece del fatto che abbiamo cambiato angolatura, e dal nuovo punto di vista possiamo cogliere aspetti che prima non erano visibili ed eventualmente ottenere spiegazioni su punti che in precedenza ci potevano apparire inesplicabili. Per questo occorre distinguere con chiarezza, all'interno di una filosofia sufficientemente 118 elaborata, tra contenuto teoretico e contenuto ideologico. Il mantenere questa distinzione non ha solo il senso di rivendicare l'autonomia del pensiero in genere rispetto la realtà sociale, evitando le banalizzazioni delle interpretazioni meramente sociologiche, ma assume importanza proprio per un esercizio corretto di quella funzione di storicizzazione in cui consiste una considerazione compiuta dal punto di vista dell'ideologia. Infatti i momenti ideologizzanti fanno presa sui motivi teoretici attribuendo ad essi un determinato orientamento che può essere chiarito soltanto mediante considerazioni extrateoretiche. Ma se dobbiamo venire a capo di tutto ciò, va da sé che anzitutto dobbiamo aver compreso quei motivi nel loro effettivo contenuto teoretico. È poi interessante notare che talora la necessità di una considerazione ideologica si impone a partire dal contenuto teoretico stesso, e quindi da quello che potremmo chiamare lo strato primario dell'interpretazione: ciò che salta subito all'occhio. Può accadere, ad esempio, che proprio muovendoci sul piano della concatenazione delle idee ci imbattiamo in lacune, in incongruenze o in generale in aspetti che non riusciamo in nessun modo a giustificare restando all'interno del sistema. In realtà questo è il nostro caso: ci troviamo di fronte a motivi che appaiono troppo carichi di senso, che sono investiti di un peso che la teoria non sembra sopportare. Potremmo allora limitarci a segnalare la cosa, fermandoci lì. Oppure potremmo tentare di continuare l'interpretazione assumendo il punto di vista della critica dell'ideologia. E può essere che assumendo questo diverso modo di approccio si raggiunga una comprensione più profonda e più completa della problematica presa in esame. Questi cenni preliminari verranno messi alla prova in queste nostre considerazioni conclusive intorno alla Crisi. 4. La crisi non è una parola o parte del titolo di un libro. È un'epoca intera, l'epoca della grande tragedia, dell'abisso in cui l'Eu- 119 ropa precipita con la prima guerra mondiale e che diventa sempre più vertiginoso con l'approssimarsi della seconda. È l'epoca dei grandi rivolgimenti - della rivoluzione russa e del suo tragico seguito staliniano; del fascismo mussoliniano e del nazismo. Husserl - dicono anzitutto le Enciclopedie: 1859-1938: la sua attività comincia nel fervore degli studi positivisti, matematico alla scuola di Weierstrass - certo tra i massimi matematici dell'ottocento -, filosofo alla scuola di Brentano, che ha lasciato un segno notevole soprattutto nell'ambito degli studi psicologici. All'inizio dell'attività scientifica di Husserl, che possiamo porre nella sua Filosofia dell'aritmetica (1891), siamo agli albori del nuovo secolo. L'ottimismo gravitante sull'idea di una scienza in progresso di cui si faceva portatore la cultura positivista si mantiene ben vivo all'approssimarsi del 1914 - poi non riesce a reggere non appena si affacciano le date dell'abisso che non si possono leggere senza avvertire le vertigini: 1914-1917-1922- 1933-1940… Eppure quell'ottimismo aveva una forza talmente espansiva da spingere talora a considerare positivamente anche gli eventi bellici che si approssimavano quasi che fossero provvisti di una forza rigeneratrice. O forse più precisamente: l'idea di una rigenerazione aveva necessariamente al suo fondamento già l'idea di una progressiva decadenza, di un'estenuazione della civiltà. Ma per noi oggi - almeno per la maggioranza di noi - è difficile pensare che da questa estenuazione ci si possa risollevare evocando la falce della morte. Mentre la grande guerra è ancora in corso, Husserl - con due figli al fronte - in una conferenza su Fichte si esprime in modo favorevole ad essa come capace di segnare una epoca di rinascita per l'intera Europa. "Husserl non è il solo a esprimersi a favore della guerra: il 1914 è un momento di ebbrezza collettiva, in cui popolo e intellettuali si stringono intorno al loro stato in un clima di festa, ridondante di raduni nelle piazze…È un momento di entusiasmo in cui tutti si schierano: anche Thomas 120 Mann, non certo tacciabile di becero nazionalismo, scrive: "Il mio sentimento fondamentale è un'enorme curiosità e, lo confesso, la più profonda simpatia per questa odiata Germania". Sentimenti che si attenuano man mano che il conflitto va avanti, divenendo in breve vuota forma propagandistica per legittimare il crescendo di perdite, distruzione e morte. Quella che doveva essere una guerra lampo, quasi una festa, già nel 1916 si annuncia come tragica ecatombe" (P. Pettinotti, Husserl, 2007, p. 45). "In particolare nell'ambito dell'intelligentsia tedesca, emersero numerose "filosofie della guerra" che miravano ad interpretare i conflitti militari in termini di rinascita culturale e di auto-affermazione. Una delle figure più influenti di questo movimento fu Max Scheler, che scrisse il suo entusiastico Il genio della guerra e la guerra tedesca (Der Genius des Krieges und der Deutsch Krieg) all'inizio della guerra nel 1914-15" (T. Miettinen, op. cit. , p. 102). Il risultato di questi entusiasmi fu nove milioni di morti e sei milioni di mutilati - e tra i milioni di morti anche il figlio minore di Husserl, Wolfgang. Ora non si può più non vedere lucidamente ciò che una volta era forse non si intravedeva nemmeno, o al massimo lo si presentiva rispecchiato nell'immagine di una "decadenza" da cui era obbligatorio nel peggiore dei modi risollevarsi. Quel "rinnovamento" che prima era affidato alla forza salvifica della morte, è destinato invece a diventare "l'appello generale nel nostro tormentato presente, e nell'intero ambito della cultura europea. La guerra, che dal 1914 l'ha devastata e che dal 1918 non ha fatto che sostituire i mezzi della coercizione militare con quelli più "raffinati" della tortura psicologica e dell'indigenza economica, non 121 meno depravanti al punto di vista morale, ha rivelato l'intima non verità e insensatezza di tale cultura… Una nazione, un'umanità, vive ed opera nella pienezza delle forze soltanto se sorretta nel suo slancio da una fede in se stessa e nella bellezza e bontà della vita della propria cultura… essere degno di appartenere ad un'umanità simile, cooperare ad una tale cultura, contribuire ai suoi valori edificanti, rappresenta la felicità di ogni uomo operoso e lo solleva dalle preoccupazioni e dalle sventure individuali… Oggi noi - e con noi la stragrande maggioranza della popolazione - abbiamo ormai perduto questa fede… Se già prima della guerra essa era diventata vacillante, ora è crollata del tutto" (E. Husserl, L'idea di Europa, cit., p. 3). Quando Husserl scrive queste righe (1922), il fascismo domina in Italia. Nel 1928 Husserl va in pensione senza abbandonare l'insegnamento. Seguono poi gli anni più bui, con l'ascesa del nazismo che gli vieta l'insegnamento, la partecipazione ai convegni filosofici e ad associazioni filosofiche, e persino di accedere alla biblioteca universitaria. Di queste personali miserie non vi è traccia diretta nell'opera di Husserl - la sua decisione è presa con le conferenze di Praga e di Vienna che formano il nucleo della Crisi delle scienze europee. Siamo nell'anno 1935. Il filosofo ebreo Edmund Husserl si assume la responsabilità di parlare della "crisi" alla sua epoca: il vecchio autore delle Ricerche logiche sente di dover far sentire la propria voce per mettere a nudo le radici di questa "crisi". Ed argomenta con i mezzi speculativi che ha elaborato negli anni - ripensa la propria tematica fondamentale alla luce del crollo dell'"umanità europea" e si pone la domanda: come siamo potuti arrivare a tutto questo? Tutto il nostro sapere, tutta la ricchezza della nostra scienza non è stata in grado di compenetrare la nostra stessa esistenza ed a consolidare una cultura autentica? In che modo e per quali motivi la barbarie prevale sulla civiltà? 122 5. Queste sono le domande che Husserl in quegli anni si pone, nella ricchezza di una vita spesa nella filosofia, nella scienza, nella cultura. Eppure, di fronte alla traduzione italiana dell'opera (1961), per merito di Enzo Paci che se ne fece promotore e di Enrico Filippini che si assunse l'onere della traduzione, furono molte le voci, e per altri versi autorevoli, a non comprendere, non dico la lettera, ma lo spirito dell'opera. Purtroppo, che io sappia, non esiste un lavoro di storiografia filosofica che illustri onestamente la ricezione della fenomenologia in Italia, così come del resto delle varie direzioni e correnti filosofiche nella prima trentina d'anni a partire dal secondo dopoguerra in Italia, o comunque nella seconda metà del secolo scorso. Ne risulterebbe un quadro indubbiamente ricco di interesse sulla natura del dibattito che si venne allora sviluppando. Per quanto riguarda la fenomenologia, e in particolare la Crisi delle scienze europee, si stenta a crederlo, ma una delle accuse più frequenti fu quella di "irrazionalismo". Oggi questa parola viene accolta senza troppi problemi, e del resto, l'essere irrazionalisti - qualunque sia il senso attribuito a questa parola - fa parte del diritto della libera opinione, che nessuno dovrebbe mettere in dubbio, soprattutto in ambito filosofico. Ma ai tempi a cui faccio riferimento - che sono appunto i tempi della pubblicazione della traduzione italiana dell'opera - questa parola veniva seriamente assunta come una sorta di "categoria" per realizzare una sbrigativa critica dell'ideologia, anzi per non realizzarla affatto: si assumeva la parola stessa come capace di per sé sola di sostituirsi ad una discussione di contenuto e di merito. Del resto l'impiego di simili "categorie" era particolarmente diffuso nel marxismo più o meno scolastico, più o meno ortodosso, perché esimeva da un discorso critico effettivo e di dettaglio. Inoltre in questo modo si potevano "bollare" le filosofie più diverse - usando così la parola come chiave interpretativa passe-partout. E così facendo ci si risparmiava oltrettutto il lavoro, talora un po' faticoso, di leggere i filosofi - e di capirli - per esercitare poi, eventualmente, 123 una critica fondata, sia in rapporto alle argomentazioni interne, sia eventualmente in rapporto a stimoli derivanti dal contesto storico-culturale. Ci fu chi disse: Nella Crisi si tenta di fare un nuovo "processo a Galileo". L'accusa di irrazionalismo è qui rafforzata da uno slogan che ha il solo scopo di gettare fango, e di proiettare su Husserl un'accusa infamante. Le polemiche e le discussioni filosofiche autentiche non si possono servire di questi mezzi. E su di essi noi a nostra volta vogliamo stendere un velo. 124 125 Settima conversazione 126 127 1. Più serio è invece il discorso che deve essere fatto sulla accusa di irrazionalismo che viene rivolta a Husserl nella Storia del pensiero scientifico e filosofico di Ludovico Geymonat (Garzanti, Milano 1970). Mi sembra doveroso dire qualche parola in proposito perché quella Storia ha tuttora un carattere di autorevolezza che può indurre molti ad accettare esposizioni, giudizi e valutazioni in modo acritico - ed un numero necessariamente esiguo di pagine può indurre lettori frettolosi ad accontentarsi di esse senza nemmeno darsi la pena di sfogliare un numero altrettanto esiguo di pagine originalmente scritte dal filosofo di cui si parla. Intanto va detto che nel capitolo dedicato al nostro autore (1972, vol. V, cap. II), il testo è soprattutto dedicato alla Crisi della scienze europee, e la ragione è abbastanza chiara. E non è esattamente soltanto quella dichiarata, secondo cui questa scelta corrisponderebbe agli interessi dell'opera puntata sui rapporti tra filosofia e scienza. Se così fosse si sarebbe magari dovuto dedicare uno spazio maggiore alla Filosofia dell'aritmetica: a quest'opera si dedicano invece poche righe per dire "che essa fonda il numero sul contare" - che peraltro è un'affermazione del tutto erronea, essendo la tesi sostenuta in quell'opera tutt'altra. Di essa non è stato letto nemmeno l'indice. Oppure alle opere di interesse logico-filosofico come le Ricerche logiche, Esperienza e giudizio o Logica formale e trascendentale. La ragione effettiva della scelta di dedicare l'esposizione di Husserl esclusivamente alla Crisi delle scienze europee è più contingente e riguarda il dibattito filosofico e le polemiche, del resto salutari, di quegli anni. Quest'opera era infatti al centro degli interessi di Enzo Paci: abbiamo già ricordato che egli ne promosse la traduzione italiana, ed inoltre assunse La crisi delle scienze europee come filo conduttore della propria opera Funzione delle scienze e significato dell'uomo, che era nata proprio con lo scopo di realizzare un commento alla Crisi, ma che poi assunse uno sviluppo molto più ampio e finì con il rappresentare una summa originale del pensiero di Paci e del suo intenso 128 dialogo con la filosofia del novecento. L'orientamento critico era dunque quanto meno duplice ed era strettamente integrato nel dibattito allora attuale. In ogni caso, una volta fatta questa scelta unilaterale ci si aspetterebbe una discussione - sia pure sintetica, sia pure critica - dei punti nodali dell'opera presa in esame. Così non mi sembra che sia. In primo luogo dall'interpretazione husserliana del rapporto filosofia-scienza-esistenza viene semplicemente cassato quello tra scienza ed esistenza - di esso non si parla proprio: come non si parla in generale della visione husserliana della cultura europea e delle sue origini greco-rinascimentali, della paideia greca, della problematica della misurazione e delle idealizzazioni, delle forme-limite, dell'intera tematica dei plena sensibili… Ma di che cosa si parla dunque? A quanto mi è dato di capire, a parte alcune notizie manualistiche che non entrano nel merito dei problemi, e a parte una sezione stranamente piuttosto ampia su Franz Brentano quale maestro di Husserl, si parla di alcune cose che servono a manifestare il dissenso su tre punti. Anzitutto il dissenso nei confronti dell'immagine positivistica della scienza criticata da Husserl. Stranamente la critica è tuttavia così debole che si prova persino una certa difficoltà a controbatterla. Così Ludovico Geymonat scrive che mentre Husserl poteva aver ragione nel denunciare i pericoli derivanti dalla specializzazione del sapere, tali pericoli "erano già stati chiaramente percepiti da Auguste Comte e da Hermann von Helmholtz…È vero che Husserl non fa mai riferimento a tali autori; vero è però che non era facile, per lui, prendere in seria considerazione due pensatori come Comte e Helmholtz, solitamente qualificati col titolo di "positivisti". Egli nutriva infatti nei confronti del positivismo dei pregiudizi troppo radicati per poter ammettere che anche questo indirizzo si fosse proposto di ridare alle scienze - sia pure con strumenti diversi dai 129 suoi - un significato umano, razionale, "filosofico" (nel senso più profondo del termine). Per Husserl i positivisti sono coloro che hanno ridotto le scienze a "mere scienze di fatti", e quindi gli uomini a "meri uomini di fatto". Chi abbia seguito con una certa attenzione quanto abbiamo diffusamente esposto in vari capitoli dedicati… al positivismo, sa che ciò è storicamente falso; ma è un errore che non può sorprendere, risultando ancora oggi condiviso da molti studiosi" (p. 28). È veramente difficile, anche da quel poco che abbiamo detto, e del molto che dice Husserl, poter accettare di riportare la posizione del filosofo alla frase secondo cui "mere scienze di fatti" riducono a "meri uomini di fatto" che, detta così, fuori da un contesto qualunque - non è tanto un pregiudizio, quanto una pura stupidaggine, di cui io personalmente mi sorprenderei. Così come è sorprendente il fatto che il complesso discorso che Husserl compie sulla filosofia e sulla scienza venga ridotto a così misera cosa. Ad un pregiudizio, appunto, del resto condiviso da molti. Tutto qui. Il secondo punto messo criticamente in rilievo riguarda Galileo. Va subito detto che Geymonat appartiene al novero di quegli interpreti per il quale Galileo è soprattutto un fisico sperimentale, e dunque viene a cadere il presupposto fondamentale del discorso di Husserl in proposito. La matematica a cui sarebbe interessato Galileo è soprattutto la matematica applicata alla natura. Niente platonismo, dunque - o un platonismo alquanto debole. Così egli scrive: "Abbiamo visto nelle pagine precedenti la vivacità e varietà degli interessi scientifici di Galileo; orbene, in che misura si estendevano essi anche alla matematica? Qui occorre compiere una netta distinzione tra matematica pura e matematica applicata. Per la prima il Nostro non 130 ebbe mai un serio interesse, e pertanto non recò al suo sviluppo alcun contributo paragonabile a quelli portati ad altri rami della scienza… Quanto ora detto non va inteso nel senso che Galileo abbia intuito con chiarezza le diversità fra matematica pura e matematica applicata; significa invece che egli dedicò le sue migliori energie a quest'ultima, non rendendosi nemmeno conto, in modo preciso, dell'esistenza di un'altra matematica, rigorosamente teorica". "L'interpretazione testè riferita della matematica è molto importante per valutare con esattezza il significato del "platonismo" che molti studiosi ritengono di scorgere nel pensiero di Galileo. Che questo "platonismo", se esiste, vada collegato all'importanza attribuita da Galileo alla matematica nello studio della natura, e fuori dubbio" (ivi). (L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 1957, p. 45). Naturalmente, è fuori di dubbio. E la frase galileiana sulla "lingua della natura"? Verrebbe voglia di dire: quella, se esiste, non conta! E l'anticipazione galileiana della distinzione lockiana tra qualità primarie e secondarie? Non conta neppure quella. Stando così le cose, e se per di più il senso della "riconsiderazione storica" che rende conto delle ragioni del richiamo a Galileo ed a Cartesio non viene nemmeno rammentato, evidentemente qualunque ulteriore obiezione diventa priva di senso e di scopo, rimane per così dire "sospesa per aria". Anche quella secondo cui la concezione del mondo attribuita da Husserl a Galileo coincide con l'indirizzo meccanicistico, e che il trascurare questo fatto "induce a trascurare tutti i dibattiti fra fisici matematici e sperimentali che si produssero all'interno della fisica a partire dal XVIII secolo… e negando ogni importanza alla grande crisi del meccanicismo verificatasi entro la scienza negli ultimi decenni dell'Ottocento" (ivi). 131 Su tutto ciò si è già risposto con le acute osservazioni di Giorgio Israel. Comunque, in cauda venenum. Che ne è del problema fondamentale della formazione dei concetti astratti, del problema "genetico", che giunge alla Crisi nella sua forma più ampia come rapporto tra scienza, filosofia e "mondo della vita", ma che occupa una parte così notevole nella produzione filosofica di Husserl a partire proprio dalla Filosofia dell'aritmetica? Qui vi sarebbe uno spazio per un dibattito critico ricco di interesse. Ed invece ci troviamo di fronte ad una commento conclusivo disarmante: "Husserl non ha visto la complessa e articolatissima dialettica fra il categoriale e il precategoriale, perché voleva non vederla. E voleva non vederla a un fine ben preciso: allo scopo cioè di sminuire il valore del categoriale, esaltando di contro ad esso quello del precategoriale, in ciò influenzato dalla pesante eredità della metafisica romantica. Non senza motivo è accaduto che il suo pensiero trovasse un'accoglienza particolarmente favorevole proprio in certi settori della cultura che sono costituzionalmente sordi ai problemi ed ai risultati della razionalità dell'intelletto". "Vero è, insomma, che il nostro autore difende con energia il razionalismo, ma tutto fa presumere che egli non voglia includere nella ragione anche l'intelletto… è ben comprensibile che egli non riesca a capire l'autentica struttura della scienza moderna (come non la capiranno i suoi discepoli esistenzialisti, fedeli almeno su questo punto al maestro)". [Questo motivo viene ribadito nella sezione dedicata all'esistenzialismo: "I nessi tra la fenomenologia e l'esistenzialismo furono così diretti da suscitare non di rado l'impressione di uno sviluppo senza discontinuità di quella in questo" (ivi, p. 147))]. "Non è senza motivo il fatto che Husserl non analizzi mai la funzione dell'esperimento, inteso come interrogazione dell'esperienza anziché come semplice "descrizione" di ciò che vediamo in essa. Se 132 teniamo conto di ciò, dobbiamo forse concluderne che la radice lontana dell'antiscientificità della fenomenologia va proprio cercata nella primitiva adesione di Husserl alla psicologia puramente descrittivistica di Brentano" (ivi, p. 39). Husserl non ne vuol sapere delle astrazioni. Le vuole addirittura "sminuire" (ma come si fa a sminuire un'astrazione?). Ed ora si capisce anche perché nelle poche pagine dedicate a Husserl, ben tre pagine abbondanti siano dedicate a Brentano. Il vero responsabile dell'atteggiamento di Husserl nei confronti della scienza sarebbe Brentano, perché è da Brentano che Husserl eredita il descrittivismo, elidendo anche gli aspetti empirici presenti in Brentano, e il descrittivismo dimostra che Husserl non solo vuole "sminuire" le astrazioni, ma anche gli "esperimenti". Niente astrazioni, niente esperimenti. E che volete allora che rimanga della grandezza della scienza? Nemmeno un vago sentore. In compenso viene evocata addirittura la "metafisica romantica" di cui notoriamente Husserl non ha mai voluto sapere nulla. Ma tant'è! Le venti pagine tra l'altro non contengono nemmeno un cenno alle tragiche vicende della storia europea di quegli anni. E non la contengono per il semplice fatto che, nel capitolo precedente, con evidente allusione a Husserl, si legge che "si è giunti a parlare di tramonto dello spirito scientifico e financo di "crisi" della civiltà. Un esame obiettivo della situazione non sembra tuttavia giustificare un tale giudizio, né rispetto alla scienza né in generale rispetto alla civiltà" (p. 7). Nessuna crisi, dunque. Per la scienza si tratta di fecondi "rivolgimenti" interni, per la civiltà il progresso è stato garantito 133 "dalla realizzazione di ordini sociali radicalmente nuovi (rivoluzione sovietica del 1917 e rivoluzione cinese del 1949)"(ivi). Su questo "esame obbiettivo della situazione" mi sembra giusto tacere e rimettermi interamente al giudizio del mio lettore. Quanto alla conclusione, essa diventa più che ovvia: la fenomenologia è una filosofia "antiscientifica". Husserl è dunque un filosofo irrazionalista. Come hanno ben capito i suoi allievi esistenzialisti. Perché "antiscientifico" significa appunto "irrazionalista", e forse anche peggio: esso evoca infatti un atteggiamento di contrasto attivo, che l'altro termine non possiede. In tempi a noi molto vicini, vi è ancora chi, a proposito della Crisi scrive che "in quell'opera senile, origine di buona parte del pensiero antiscientifico del Novecento (da Jaspers ad Adorno a Habermas alle correnti costruttiviste e postmoderne) Husserl si spingeva anche più in là, fino ad affermare che "nella miseria della nostra vita questa scienza non ha nulla da dirci…" (p. 3). (A. Massarenti, in due paginette di presentazione al volume, peraltro ben fatto, di Autori Vari, Husserl, Il Sole-24 ore, 2006, op. cit. p. 9). Inutile dire che nessuno degli autori citati - Jaspers, Adorno, Habermas - ha a che vedere con Husserl, e Adorno in particolare ha cominciato la sua carriera filosofica con un libro fortemente polemico contro Husserl. Inoltre, con mediocre furberia, nel riferire la frase di Husserl, l'autore la taglia opportunamente in modo che sembri un parere del filosofo. Di fatto il testo dice: "Nella miseria della nostra vita - si sente dire - questa scienza non ha niente da dirci…". La mediocrità non ha limiti nemmeno nell'ignoranza, ed è peggiore di questa perché non può essere corretta. 2. Forse Ludovico Geymonat ignorava che questo allievo di uno dei massimi matematici dell'ottocento di nome Karl Weierstrass, amico personale di Georg Cantor, era anche il filosofo che aveva l'apprezzamento di uno dei massimi matematici del Novecento di nome Kurt Gödel. Scrive Hao Wang: 134 "L'eroe di Gödel è Leibniz, un altro grande logico. Inoltre, Gödel considera la monadologia di Leibniz in stretta unità con la sua propria filosofia. Al tempo stesso il carattere nitido e conclusivo delle innovazioni matematiche di Gödel erano forse più simili all'invenzione di Descartes della geometria analitica, e la sua simpatia per Husserl sembra essere più vicina alla cura predominante di Descartes per il metodo, per un nuovo modo di pensare e per l'inizio di un nuovo tipo di filosofia" (Hao Wang, A logical Journey from Gödel to Philosophy, MIT 1996, p. 55) "Gödel non cominciò a studiare Husserl prima del 1959, ma ben presto venne quasi assorbito dalla lettura degli scritti di Husserl. Egli possedeva tutte le opere principali di Husserl e le sue sottolineature e i suoi commenti al margine indicano che li studiò accuratamente. La maggior parte dei suoi commenti sono positivi e sviluppano punti di Husserl" (D. Follesdal, in K. Gödel, Collected Works, vol. III, Oxford University Press, 1995, p. 367). Un fatto così significativo dal punto di vista teorico e dal punto di vista storiografico è stato ignorato per lungo tempo - e per quanto riguarda i metodi messi in atto da certa filosofia italiana si sarebbe tentati di pensare che sia stato "tenuto nascosto". Ancora oggi viene rammentato per così dire "a denti stretti". Ne parla, ad esempio, Gabriele Lolli, con qualche forse giustificata incertezza, perché la parola fenomenologia "è un termine difficile per una filosofia difficile, che non discuteremo nel dettaglio perché non si può dire che sia una filosofia della matematica" (p. 111). Naturalmente non ho idea su che cosa voglia dire Lolli quando dice che la fenomenologia non è una filosofia della matematica. Da un lato si tratta di una pura ovvietà, dal momento con questa parola si indica una posizione filosofica globale che 135 comprende una filosofia della matematica - ma se egli pensa che meritino di essere "filosofie della matematica" solo quelle che non si occupano di altro che di matematica, ciò mi sembrerebbe assai strano e meriterebbe un qualche chiarimento preliminare sul concetto di filosofia della matematica. Poiché penso che Lolli non ne abbia bisogno, accetto di conseguenza l'interpretazione più favorevole della sua frase forse un po' infelice. Ciononostante mi chiedo come mai non abbia dedicato una parola, oltre il titolo, alla Filosofia dell'aritmetica che, nell'edizione della Husserliana, vol. XII, comprendente gli scritti inediti, conta 585 pagine; insieme alla quale andrebbero citati gli Studien zur Arithmetik und Geometrie (Husserliana, XXI) che contano 506 pagine del cui indice mi permetto rispettosamente di consigliare la lettura a Lolli. Credo comunque che sia un fatto del tutto positivo che egli osi inserire la voce fenomenologia nella sua Filosofia della matematica. L'eredità del Novecento (Il mulino, Bologna, 2002). In essa, Lolli dà un certo spazio sia al rapporto tra Gödel e Husserl, sia a quello con Kurt Weyl e con Gian-Carlo Rota. Si ritrova così, quel filone logico-matematico così importante, certo insieme a molte altre cose, nel percorso filosofico di Husserl che le particolari vicende della cultura italiana di quegli anni avevano impedito che diventasse chiaramente visibile. Debbo qui rammentare, come dato biografico che tuttavia mi sembra abbia un significato che vada oltre di esso, il fatto che io abbia potuto trarre profitto dal lavoro meritorio svolto da tutto il gruppo epistemologico milanese, di cui proprio Ludovico Geymonat fu l'autorevole promotore e di cui vorrei ricordare alcuni studiosi da me personalmente conosciuti e da cui ho potuto molto apprendere, e tra essi almeno Ettore Casari, Edoardo Ballo, Corrado Mangione e Silvio Bozzi. Nello stesso tempo, vorrei lamentarmi un poco, a tanta distanza di tempo, del logicismo "assoluto" professato dal gruppo, che rendeva difficile un dialogo autentico (che pure ci fu), rispetto alle mie propensioni verso altre direzioni del discorso logico-epistemologico. A partire dalla Filosofia dell'aritmetica, guardavo se 136 mai nella direzione di Hilbert, di Gooodstein e persino di Lorenzen, benché non fossi in grado di dominarne la tematica e perciò mi volsi giustamente ben presto verso altri lidi, per me più controllabili e familiari. Inoltre le posizioni di Frege e di Russell, che a mio avviso erano difficilmente unificabili dal punto di vista filosofico, erano nella scuola milanese una sorta di tavola della legge, e la Filosofia dell'aritmetica di Husserl era già stata gettata una volta per tutte, considerando la recensione di Frege, nel sacro cespuglio di fuoco. La parola "intuizione" generava poi delle vere e proprie crisi di rigetto. Cosicché l'affermazione di Gödel secondo cui con la husserliana "intuizione delle essenze" (Wesenschau) o "intuizione eidetica" si intendeva in fin dei conti qualcosa di non molto diverso dalla normale percezione di oggetti - e le ragioni che egli adduceva per giustificarla e che naturalmente aveva strettamente a che vedere con ciò che Gödel intendeva con "oggetto matematico", in qualche modo rende giustizia ad una posizione, come dice Lolli, difficile e complessa, che non è certo prevalentemente una filosofia della matematica, ma che con essa può avere interessanti legami. Naturalmente su questi legami non è possibile qui soffermarsi. Vorrei solo notare che non è l'autore della Crisi che maggiormente interessa Gödel e tanto meno la tematica della genesi dei concetti astratti, ma piuttosto il loro statuto intenzionale in quanto tale. Ancora Hao Wang riferisce che "Negli anni '60 Gödel raccomandava a molti logici il tema dell'"intuizione categoriale" nell'ultima parte delle Ricerche logiche. E nelle nostre discussioni degli anni '70 egli mi suggeriva che le Idee e le Meditazioni cartesiane erano i migliori libri di Husserl" (op. cit. 80). "Nelle discussioni con me Gödel frequentemente commentava, da un lato, le filosofie di Kant e di Husserl e, d'all'altro il positivismo e l'empirismo, con particolare attenzione ai punti di vista di Carnap. Egli fece anche delle osservazioni occasionali sulle 137 vedute di Wittgenstein. Mi era chiaro che le sue simpatie erano per Husserl e che egli si opponeva ai positivisti logici, i leaders dei quali erano stati suoi maestri a Vienna" (ivi, p. 155) La bibliografia sull'argomento specifico del rapporto di Gödel con Husserl e più in generale sui rapporti tra fenomenologia e filosofia della matematica raccoglie ormai contributi particolarmente importanti. Oltre il fondamentale volume citato di Hao Wang, vanno segnalati almeno Richard Tieszen, Phenomenology, Logic, and the Philosophy of Mathematics, Cambridge University Press, New York 2005; Gian-Carlo Rota, Indiscrete Thoughts, MIT, Cambridge Mass. 1997 (ed. F. Palombi); Xiaoli Liu, Gödel's philosophical program and Husserl's phenomenology, in "Synthese", 2010, n. 175, pp. 33-45. - Per i rapporti con Cantor: Claire Ortiz Hill, Did Georg Cantor Influence Edmund Husserl? in "Synthese", 1997, n. 113, pp. 145-170. 138 139 Ottava conversazione 140 141 1. Gli "esistenzialisti" sono stati chiamati in causa. Ed è vero, naturalmente, che personalità come Sartre o Merleau-Ponty debbono molto a Husserl. E non solo loro. L'influenza del pensiero di Husserl è stata così ampia ed ha agito in una tale varietà di direzioni, anche molto differenti tra loro, e continua ancora ad agire, che risulta difficile dare di essa una valutazione. Ma naturalmente non avrebbe senso per noi estendere il discorso su questo versante. Diverso è il caso di Heidegger - qualche parola intorno al problema dei rapporti tra Husserl e Heidegger va detta per la prossimità fisica e temporale tra i due filosofi e per di conseguenza per la loro appartenenza allo stesso contesto storico-culturale. In effetti in rapporto a Heidegger, inizialmente allievo prediletto di Husserl che pensava potesse essere il fecondo continuatore della propria opera, vorrei subito sostenere che anch'egli è figlio della crisi storica, è un risultato di essa, ed è dunque di essa una figura particolarmente rappresentativa. Mi sembra che una simile affermazione la si legga di rado. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che sottolineando questo punto, verrebbe conseguentemente sottolineato anche come particolarmente significativo l'"esistenzialismo" di Heidegger, e in particolare Sein und Zeit, piuttosto che i conati ontologici successivi, e questa circostanza verrebbe considerata riduttiva in particolare dall'heideggerismo italiano e, naturalmente, frutto di un'interpretazione "superata". Cosicché si preferisce storicizzare la lettura dell'opera piuttosto che l'opera stessa, come se essa fosse scritta in cielo e venisse letta in terra: quella lettura "che accentua addirittura l'analisi degli aspetti più acuti della finitezza umana ci appare oggi essenzialmente legata al clima spirituale del [secondo] dopoguerra"; "il limite dell'interpretazione "esistenzialistica" di Heidegger appare dunque oggi quello di averlo ridotto a sintomo 142 ed espressione di una crisi del pensiero" (G.Vattimo, Introduzione a Heidegger, 1971, p. 146). Il piccolo dettaglio trascurato è che l'opera, oltre che essere scritta anch'essa in terra, fu scritta a sua volta in un drammatico dopoguerra. A nostro avviso invece la lettura che accentua "l'analisi degli aspetti più acuti della finitezza umana" è l'unica lettura che renda conto della novità effettiva dell'opera heideggeriana e che d'altronde è alla base dell'interesse che ha suscitato all'epoca sua nel primo dopoguerra e, in Italia, nel secondo dopoguerra e del suo apprezzamento anche presso filosofi che non se ne facevano necessariamente promotori, e persino presso un pubblico non specializzato. La lettura italiana degli anni più recenti non ha fatto che adeguarsi a ciò che Heidegger ha detto di se stesso, a cominciare dal rifiuto - del resto giustificato secondo la sua impostazione - di essere caratterizzato come "esistenzialista", al racconto della Kehre e tutto il resto, imitandone pedissequamente il percorso, compreso il revival inaspettato e senza futuro di Nietzsche. Dentro questo quadro si è manifestata anche la tendenza ad approssimare Heidegger a Husserl - tendenza che abbiamo vista in azione nella Storia di Geymonat, ma con intenti in certo senso "maligni". La stessa tendenza si verifica negli heideggeriani che intendono invece attenuare le punte più indigeribili del suo pensiero. Ora, rispetto a Husserl vi fu una svolta teorica che solo i duri d'orecchio per le cose della filosofia possono non avvertire o soltanto indebolire. Questa svolta è tanto evidente e tanto ben documentata che non ha bisogno di essere particolarmente illustrata. Basti dire qui che la parola "ontologia" ha in Husserl solo due sensi: 1. quello di ontologia formale, che riguarda in generale l'ambito logico-matematico, ogni teoria del "qualcosa in generale" (si tratta di una parola di senso molto affine a 143 "matematica formale"); 2. quello di ontologia regionale, che riguarda invece la problematica costitutiva di base dei "temi" o, se vogliamo, degli "oggetti" che stanno al fondamento dei diversi settori del conoscere (regioni). Nel suo Historical Dictionary of Husserl's Philosophy alla voce "Regional Ontology", J. J. Drummond scrive: "L'interpretazione di Husserl comprende sia l'ontologia formale che le ontologie regionali. Mentre l'ontologia formale identifica le forme e le leggi appartenenti ad un' oggettività qualsivoglia, le ontologie regionali sono definite, al di là delle categorie puramente formali, da un concetto materiale e, più specificamente, dal concetto di una regione. A ciascuna regione appartiene la sua propria scienza eidetica. Ed è questa scienza eidetica regionale che Husserl chiama "ontologia regionale". Mentre le ontologie regionali sono localizzate all'interno di limiti categoriali definiti dall'ontologia formale, esse a loro volta arricchiscono l'ontologia formale provvedendo sia il contenuto materiale sia le forme essenzialmente appartenenti ad una regione particolare" (p. 180). È interessante confrontare le precedenti definizioni con quelle che vengono riportate nel dizionario heideggeriano di Jean-Marie Vaysse: "L'ontologia caratterizza la filosofia in quanto l'essere è il suo unico tema e ed essa la scienza dell'essere. Ora, se da un lato a partire dall'antichità tutte le grandi filosofiche si sono come comprese come ontologie, esse hanno nondimeno fallito tutte nel costituirsi come ontologia fondamentale. La questione fondamentale è dunque di sapere che cosa significa essere e come la comprensione dell'essere sia 144 possibile. L'obbiettivo dell'analitica esistenziale è quello di mostrare come la comprensione dell'essere è soggiacente a ogni atteggiamento nei confronti dell'ente. Ogni scienza di una regione dell'ente implica una ontologia regionale, concernente l'essere dell'ente di cui questa scienza si occupa. Ora, le contologie regionali fondando le scienze positive hanno esse stesse bisogno di essere fondate su una ontologia fondamentale che elabora il senso dell'essere" (Dictionnaire Heidegger, Ellipses, Paris 2007, p. 115). In Husserl entrambi i sensi riguardano il campo della conoscenza, e quindi sono nozioni strettamente epistemologiche. Del tutto diversamente stanno le cose nel caso di Heidegger dove si dice assai bene, nella voce or ora citata, che "la questione fondamentale è dunque di sapere ciò che significa essere e come la comprensione dell'essere sia possibile". In certo senso l'ontologia formale è sostituita dall'"ontologia fondamentale". A mio avviso ciò basta a fissare un'indicazione che separa in maniera drastica e definitiva i due percorsi (senza escludere naturalmente che fra i due autori, su singoli aspetti, sussistano affinità, somiglianze, confronti sui quali potrebbe essere interessante attirare l'attenzione). È opportuno anche mettere in evidenza che è radicalmente differente l'humus culturale da cui entrambi prendevano le mosse. Lo stesso Husserl parlava di un approccio teologico alla fenomenologia da parte di Heidegger, e Gadamer in modo ancora più pregnante, e forse eccessivamente, in una comunicazione scritta trasmessa a Hopkins osservava che "tema fondamentale di Heidegger è sempre stata la questione di dio. Ed è questo che, nel corso della sua evoluzione lo tenne sempre a distanza da Husserl" (cfr. 145 B. Hopkins, The Husserl-Heidegger Confrontation and the Essential Possibility of Phenomenology: Edmund Husserl, Psychological and Transcendental Phenomenology and the Confrontation with Heidegger, in "Husserl Studies" n. 17: 125-148, 2001). Ampiamente nota è l'amicizia di Heidegger con Jaspers, entrambi legati, oltre che da un comune interesse per Kierkegaard, da letture teologiche approfondite dei grandi autori della tradizione cattolica e protestante. Letture importanti, certo, ma che non potevano essere condivise con Husserl, matematico inizialmente interessato all'astronomia e poi alla psicologia, e allievo di Brentano, un prete spretato e adeguatamente scomunicato, e di un ex-seminarista Carl Stumpf che aveva gettato la toga alle ortiche alla dichiarazione dell'infallibilità pontificia, interessati alla filosofia, alla logica, alla psicologia empirica: immersi nel terreno del positivismo - e per essi l'astrazione e l'esperimento, erano importanti - e quanto! Carl Stumpf sperimentava nel campo dell'acustica con l'organo in chiesa. 2. Ma a parte lo sfondo e gli interessi culturali che rendeva le due personalità profondamente estranee l'una all'altra, ciò che importa sono soprattutto le differenze nell'elaborazione teorica effettiva. Ciò che caratterizza Heidegger, e la sua originalità rispetto a Husserl, è il suo approccio all'"ontologia fondamentale" attraverso l'esperienza emotiva e la tematica del nulla. Ed è su questo punto che mi sembra di poter dire che Heidegger è a sua volta radicato nella crisi storica. In Essere e tempo egli ha di mira direttamente l'esistente, ciò che egli chiama Dasein - espressione normalmente tradotta in italiano con "esserci" - e che letteralmente significa "essere-qui", dove il qui è in realtà un'espressione locale e temporale ad un tempo: dunque si intende l'uomo stesso, e la sua presenza effet- 146 tiva nel mondo. Questa presenza è colta soprattutto attraverso stati emotivi che rivelano lacerazioni profonde ed una profonda drammaticità che vengono colte in analisi e descrizioni che sono diventate giustamente famose. Taluni hanno osservato che, per certi versi, se dovessimo fare un paragone con l'arte dell'epoca, non sarebbe sbagliato parlare per Essere e tempo di una sorta di espressionismo filosofico. Ed io credo che non sarebbe del tutto fuori luogo, o addirittura più appropriato, un accostamento alla Neue Sachlichkeit - nonostante che questo movimento nasca come reazione all'espressionismo. Da Sein und Zeit, Husserl fu indubbiamente colpito - e se ne comprendono le ragioni. Egli doveva risentire in quelle analisi la possibilità di fenomenologia della vita emotiva, ed io penso anche, come ho suggerito altrove, che egli venne forse stimolato da Heidegger proprio a volgersi anche in quella direzione. Ma l'orientamento intellettuale era inesorabilmente diverso: non solo per quanto riguarda la drastica differenza del rapporto fenomenologia-ontologia, ma anche per il contesto in cui quelle analisi venivano situate. Di particolare importanza assume la distinzione tra autenticità (Eigentlichkeit) e inautenticità (Uneigentlichkeit), che stabilisce una rischiosa, benché seducente, differenza tra modi diversi di "essere nel mondo" - una diversità che la scelta stessa delle parole sottolineano, anche se Heidegger precisa che non intende con esse stabilire alcuna valutazione morale. Ma ciò non giustifica ancora la nostra affermazione iniziale secondo la quale anche Heidegger è una manifestazione della crisi. Dove si vede la crisi in Heidegger? Io credo che si debba rispondere: non la si vede! Essa esce interamente dal campo visuale poiché la tragicità dell'esistenza viene a far parte intrinseca dell'esistenza, occupandola in modo esclusivo e irrimediabile. Di fronte ad essa, non vi è altra alternativa che adeguarsi alle pratiche della medietà anonima e comune, rientrando nelle forme dell'esistenza inautentica, oppure la sua accettazione cosciente. Inutile dire che la parola Dasein non è scelta a caso, dal mo- 147 mento che essa sostituisce la soggettività intenzionale di Husserl. Nell'analitica esistenziale, la soggettività intenzionale, nella sua totale apertura al mondo, non ha più posto e nemmeno ha posto quell'intersoggettività umana in genere a cui Husserl si appella con tanta speranza e fervore: la prima e fondamentale forma di intersoggettività che ci viene incontro in Heidegger è infatti quella anonima del "Si" - si fa così. Il "Si" di Heidegger è "la mas­­­ sa", "la gente", ed è sede primaria della vita inautentica. Husserl fa della crisi assunta coscientemente come crisi storica il centro del proprio discorso e del suo superamento il compito fondamentale della filosofia della nostra epoca. Heidegger occulta la crisi fissandola e traducendola in una sofisticata antropologia, come gli obietta Husserl nelle note in margine ad Essere e tempo. Usando (nella misura delle mie capacità) il linguaggio di Heidegger, verrebbe voglia di dire: egli trasferisce la crisi dal piano ontico a quello ontologico: da cui essa scompare. 3. Dovremmo allora dire che Heidegger è irrazionalista? Possiamo dirlo, beninteso tenendo conto della premessa che abbiamo fatto in precedenza a proposito dell'impiego di questa parola. Nella Crisi Husserl talvolta la impiega, rivendicando un'istanza razionalistica autentica, avendo di mira ora l' irrazionalismo talvolta coperto nella tradizione filosofica, ora quello del tutto scoperto dei giorni nostri. E quando si tratta dei giorni nostri, l'attacco va indubbiamente anzitutto verso Heidegger, che peraltro Husserl evita per lo più di nominare. Abbiamo già detto quanto Husserl stimasse inizialmente Heidegger vedendo in lui il continuatore della propria opera, e quanto durasse questa stima: diventato suo assistente nel 1919, la collaborazione diretta durò fino al 1923, quando Heidegger divenne insegnante a Marburgo, ma anche nel 1927, anno di pubblicazione di Essere e tempo, Husserl ne appoggiò il passaggio sulla propria cattedra a Friburgo: probabilmente con esitazione crescente. Totalmente diverso il comportamento di Heidegger 148 nei suoi confronti: non appena, essendo passato all'Università di Marburgo, nel 1923, Heidegger riuscì e rendersi parzialmente autonomo da Husserl, in una lettera a Löwith, si esprime in toni letteralmente insultanti contro il "Maestro": "Ho pubblicamente bruciato e distrutto le Idee (nel suo seminario del semestre invernale 1922-1923) a tal punto che mi permetto di dire che le basi essenziali per l'intero[del mio lavoro] sono ora chiaramente definite. Guardando indietro da questo punto di vista alle Ricerche logiche, ora sono convinto che Husserl non è mai stato un filosofo, nemmeno per un secondo della sua vita. Egli diventa sempre più ridicolo" (citato da B. Hopkins, op.cit., p. 127). E nello stesso anno, sempre in una lettera a Löwith, scriveva ancora più sprezzantemente (se possibile!): "Il vecchio si renderà conto che io gli sto strizzando il collo - e quanto al problema di succedergli questo non è in gioco. Il fatto è che io non posso aiutare me stesso" (ivi). Questo era l'uomo. E chi fosse l'uomo lo si vide ancora meglio dopo la sua adesione al nazismo. Husserl se ne rese conto evidentemente molto tardi, e inizialmente il dissenso fu soprattutto teorico. Dopo l'adesione al nazismo, ovviamente anche personale. Su questa adesione si sono dette molte cose, ma ve ne è un'altra che si è detta troppo poco: che anche questa adesione è un'espressione della "crisi storica", un modo terrificante di viverla, per un uomo della levatura intellettuale di Heidegger. Ciò significa che anche da questo punto di vista egli è una figura rappresentativa della sua epoca. La sua fu una scelta ben meditata, non la rinnegò mai. In ogni epoca storica gli uomini vivono all'interno di pos- 149 sibili alternative - talora altamente drammatiche. Ed io confesso di non riuscire a sottrarmi ad una scena visionaria: mi sembra di vedere il vecchio Husserl che, al termine della sua conferenza di Vienna, di fronte ad un folto pubblico che gli richiedeva di rinnovare la conferenza il giorno successivo, si appella ad una rinascita dalla barbarie incombente e osa chiudere la conferenza con la frase retorica: "perché solo lo spirito è immortale"; e in quello stesso istante vedo Heidegger stilare, nella solitudine necessaria a simili circostanze, una miserabile lettera di delazione in cui egli affermava che il filosofo e sociologo Eduard Baumgarten non solo non era mai stato un simpatizzante del nazismo, ma aveva partecipato ad un circolo che faceva capo a Max Weber, di cui era parente, e che per di più aveva rapporti con ebrei, e pertanto doveva essere escluso dal corpo docente. Di passaggio Baumgarten era stato allievo di Husserl e dello stesso Heidegger di cui era diventato amico personale. Letteralmente scriveva Heidegger: "Il dott. Baumgarten proviene, per parentela e per atteggiamento spirituale, dalla cerchia intellettuale liberal-democratica che gravita intorno a Max Weber. Durante il suo soggiorno qui a Friburgo era tutt'altro che nazionalsocialista. Dopo aver fallito con me, ebbe stretti rapporti con l'ebreo Fraenkel… Credo che sia da escludere la sua ammissione tanto nelle SA quanto nel corpo docenti" (M. Heidegger, Gesamtausgabe, Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges, 1910-1976, p. 774). Una mia personale fantasia, beninteso, ma per il solo fatto che questa lettera venne scritta nel 1933, e non nel 1935. Naturalmente il problema è: in che misura l'uomo e il filosofo possono o debbono essere tenuti distinti? È giusto vedere nell'opera filosofica di Heidegger un rapporto di stretta correlazione con il nazismo? Che importanza dobbiamo dare all'uo- 150 mo Heidegger ed ai suoi più o meno miserandi rapporti con le "meravigliose mani" di Hitler, di cui nel 1933 egli ebbe a parlare con entusiasmo di fronte ad uno strabiliato Karl Jaspers, insieme ad altri interessanti argomenti, come la congiura dell'ebraismo internazionale? F. Volpi, Presentazione a K. Jaspers, Splendore e miseria di Martin Heidegger, p. 197 in "Micromega", 1997. La citazione è da K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, p. 101. È stato detto: "Essere e tempo è un'opera impolitica e l'ade­ sione di Heidegger al nazionalsocialismo non fu un atto filosofico" (F. Volpi, Heidegger e la sua ombra, "Porto Franco", II, maggio 1988, p. 5). Questa frase, che sembra un colpo ben assestato da un'intelligenza fulminea, è una comoda ridicolaggine, e giustamente viene ridicolizzata, in un discorso molto serio, da Paolo Rossi: "Sarei disposto ad ammettere che non tutte le azioni di un filosofo siano qualificabili come atti filosofici. Per esempio lavarsi i denti pare proprio non esserlo. Forse anche (come molto più raramente accade nella parrocchia filosofica) ammazzare la moglie. Ma l'iscrizione al partito nazionale fa­scista di Giovanni Gentile e il rifiuto al giuramento di Pie­ro Martinetti? E la allocuzione heideggeriana del 17 maggio 1933 con la connessa "disponibilità a spingersi fino all'estre­mo" e il Sieg Heil tedesco "alla nostra grande guida Adolf Hitler"?" E poco oltre, assai più duramente, egli scrive: "Agli specialisti di Heidegger era certamente noto che in un testo del 1939- 1942 (edito nel 1998) e negli scritti su Jünger (pubblicati nel 2004), Heidegger era arrivato ad affermare che "la selezione razziale era 151 metafisicamente necessaria", che "il pensiero della razza scaturisce dall'esperienza dell'essere come soggettività", ed aveva parlato nello stesso contesto, di "essenza non ancora purificata dei tedeschi". Parlando di Heidegger un giorno sì e un giorno no su giornali di grande tiratura gli studiosi italiani specialisti in heideggerismo (a quanto mi risulta) non hanno mai parlato di frasi come queste. Tutto, una volta pubblicato è definibile come "già noto". Il loro silenzio è dipeso dal fatto che si trattava di cose già note? Oppure dal fatto che frasi come quelle qui sopra riportate rendono davvero più difficile il compito, sempre più improbo, dei minimizzatori?" (Retrocesso a sciamano, "Rivista di Filosofia", vol. XCIX, n. 1, aprile 2008, p. 91 e p. 96. Questo scritto, che prende spunto dal volume di A. Gnoli e F. Volpi, L'ultimo sciamano, Bompiani, Milano 2006. - Sul razzismo di Heidegger cfr. E. Faye, Soggettività e razza negli scritti di Martin Heidegger, in "Rivista di filosofia", vol. CIII, n. 1, aprile 2012). Parole dure, ma quanto mai pertinenti che colgono anche di sbieco i mezzi con cui si è imposto l'heideggerismo in Italia e di che pasta esso sia fatto. Credo tuttavia che si possa aggiungere qualcosa secondo l'angolatura che abbiamo dato a tutto il nostro discorso. Abbiamo infatti sottolineato che non dobbiamo confondere o intrecciare malamente il contenuto teoretico di un'opera e la sue pieghe ideologiche, di cui anche le opere dei filosofi non sono immuni in quanto partecipi del corso storico. Questa partecipazione può avvenire a vari livelli, può essere prossima o più o meno remota: e il momento storico può insinuarsi nelle opere con maggiore o minore consapevolezza da parte dell'autore, per vie che possono essere anche simili a passaggi segreti attraverso i quali trascorrono dei significati non necessariamente apertamente desiderati, anche se trovano un terreno sufficientemente 152 fertile in cui radicarsi. Ciò che mi sembra di dover sostenere, per qualunque opera filosofica, è che deve essere data importanza anzitutto al contenuto teoretico. Esso deve essere compreso a fondo e naturalmente potrà essere sviluppato in varie direzioni, ed anche secondo interpretazioni e valenze ideologiche diverse - così come è accaduto nel caso di Heidegger. Ma per qualunque opera filosofica debbono anche essere considerate le valenze ideologiche, che possono essere più o meno pesanti, e incidere in misura maggiore o minore sul contenuto teoretico. Nel caso di Heidegger queste valenze sono particolarmente pesanti e non possono in alcun modo essere ignorate. In Italia, dove si sono trovati molti apostoli di cotesto messia, si fanno tuttora le spallucce, e questo è naturalmente un altro dei segni del fatto che da noi l'heideggerismo si è diffuso in forme imitative filosoficamente di basso livello. In luogo di prendere atto dei dati di fatto che via via venivano resi noti, e poi di considerare fino a che punto quei dati - che mostravano in ogni caso un'adesione al nazismo tutt'altro che superficiale - avrebbero potuto fornire nuove chiavi di lettura, si è cercato di attenuare con ogni mezzo possibile il peso di quella scelta politica. È sceso in campo un intero esercito di "minimizzatori", secondo la azzeccata espressione di Paolo Rossi. A mio avviso in casi come questi si dovrebbe invece tentare di fare una sorta di doppia lettura del testo, o almeno di alcuni suoi punti salienti - penso sempre in particolare a Sein und Zeit che è l'opera in ogni caso più sensibile in rapporto al problema che stiamo discutendo - orientando la seconda lettura verso le risonanze ideologiche da cui certe tematiche possono essere investite. Un'opera filosofica, per essere valutata nel suo contenuto teoretico, deve essere anzitutto considerata come un messaggio nella bottiglia la cui provenienza ci è ignota; ma nello stesso tempo l'adozione di un punto di vista critico-ideologico, e dunque 153 la considerazione del radicamento dell'opera nella dimensione storica, in molti casi ci può aiutare anche in vista di una comprensione più profonda e più completa del suo senso e della direzione in cui è orientata. 4. A questo proposito mi limiterò a rafforzare con un paio di esempi un nostro accenno precedente. Abbiamo già accennato all'importanza che riveste in Essere e tempo la distinzione tra vita autentica e vita inautentica. Abbiamo anche notato che Heidegger non intende dare a questa distinzione una valenza morale - ma è naturalmente difficile, data la scelta terminologica, evitare di attribuire a questi termini una connotazione valutativa. Il punto in cui culmina questa distinzione è indubbiamente la discussione sul modo di atteggiarsi di fronte alla morte: vi un è modo quotidiano di essere per la morte, che sarà naturalmente caratterizzato dall'inautenticità, ed un modo autentico che ad esso si contrappone. Il Dizionario heideggeriano che abbiamo già avuto modo di citare osserva che "La traduzione dell'espressione tedesca "Sein zum Tode" con "Etre pour la mort" è scorretta, perché suggerisce che la morte sarebbe qualcosa come una finalità che si ha di mira, autorizzando un'esaltazione guerriera e un culto della morte o comunque una visione del mondo pessimista. Cosicché è preferibile tradurre questa espressione con "etre à la mort" o "etre vers la mort"…" (op. cit. p. 104). In inglese la traduzione usuale è Being towards the Death, e nell'ultima traduzione italiana, dovuta ad Alfredo Marini, si sceglie essere alla morte. In parte si tratta di un problema di lana caprina, in parte, come già si legge nelle righe precedenti, fa parte di quelle pratiche interpretative di minimizzazione delle posizioni heideggeriane che evidentemente non riguardano solo l'adesione al nazismo, ma che toccano i contenuti arrivando talora ad infimi e inconsistenti dettagli. Così l'autore del Dictionnaire precisa poco 154 dopo: "Le pagine di Essere e tempo sulla morte sono le più conosciute, ma anche quelle che hanno accreditato il controsenso (controsens) esistenzialista e l'interpretazione pessimista del pensiero di Heidegger" (p. 105). Effettivamente ciò che qui viene chiamato, chissà perché, controsenso esistenzialista, può essere almeno parzialmente contrastato dal fatto che, nel corso dell'ampia discussione nella quale noi non ci addentreremo, Heidegger introduce questa relazione esistenziale chiamando in causa l'idea del darsi del Dasein come intero e la sua apertura al possibile. Questa apertura sarebbe realmente garantita dal fatto che la possibilità della morte è una possibilità che, ponendo fine ad ogni possibilità ulteriore, rappresenta la possibilità più propria del Dasein, ovvero la possibilità che fa letteralmente corpo con lui, e come tale sta a fondamento di ogni sua possibilità. L'essere per la morte tende a diventare un discorso sulla libertà - non troppo sorridente, a dire il vero, ma molti interpreti si contentano, e del resto in Heidegger questo modo di presentare le cose assolve una parte importante. Poiché non intendo entrare nei dettagli del testo e pur tuttavia vorrei individuare almeno qualche spunto convincente, mi limiterò a fissare l'attenzione sulla coppia autenticità-essere per la morte perché qui è il nodo del nostro problema. L'essere per la morte rappresenta una dizione per una vita che vive nella costante consapevolezza che la possibilità che le è più propria, che compete al Dasein che io sono in modo assoluto ed esclusivo, che nessun altro può prendere al mio posto, è la possibilità che toglie ogni possibilità: questa consapevolezza è un appropriarsi della propria morte e dunque una appropriazione di sé. Già in questa formulazione si affaccia la problematica dell'autentico essere per la morte, ma io credo che ciò che qui si vuol dire si comprenda meglio considerando, anche sommaria- 155 mente, che cosa Heidegger consideri il modo d'essere inautentico. Questo problema viene aperto nella Seconda sezione di Sein und Zeit, e si sviluppa nell'intero primo capitolo, nei §§ 46-53 - ma in realtà lo spazio maggiore è occupato proprio dal modo di atteggiarsi inautentico, tanto che il ��concetto esistenziale della morte", e quindi "l'autentico essere per la morte" occupa l'intero § 53 e sembra definito per opposizione. In seguito tutte le citazioni da Essere e tempo saranno tratte dalla traduzione curata da Alfredo Marini, Mondadori, Milano 2006). Il modo inautentico è naturalmente dominato dal Si, e quindi da tutti gli atteggiamenti messi in atto dalla medietà quotidiana per neutralizzare l'elemento tragico della morte. Nel "si muore" è comunque l'altro a morire, non è il proprio io, ma l'io estraneo. E nessun estraneo può essere "rappresentante" del mio morire, ovvero "Nessuno può togliere all'altro il suo morire" (p. 679). Il tema della proprietà e dell'estraneità, che in Husserl apriva il tema dell'uscita dal solipsismo e della costituzione dell'intersoggettività, qui viene richiamato per il suo contrario. L'intersoggettività con cui abbiamo anzitutto a che fare in Heidegger è quella del Si e l'io singolo- individuale è in certo senso indistinto ed immerso nell'inautenticità alla quale si può sottrarre solo in quanto singolo respingendo le pratiche del Si. In queste pratiche si ritrova naturalmente la "chiacchiera" quotidiana che tenderà a neutralizzare la durezza della morte riducendola ad "occorrenza, qualcosa che costantemente si incontra, un "caso di morte"". Sconosciuti "muoiono" ogni giorno, ogni ora. "La morte si incontra come un noto evento occorrente nel mondo". Ed ancora: "Il "si muore" diffonde l'opinione che la morte colpisca, per così dire, il Si" (p. 715). "La spiegazione pubblica dell'esserci dice "si muore" perché, così , ciascun altro e ciascuno di noi può continuare a dire 156 a se stesso: come ogni volta, non proprio io; infatti questo Si è il nessuno… il Si dà diritto e forza alla tentazione di velare a se stessi il più proprio essere per la morte" (p. 717): "…"i parenti prossimi" spesso continuano a dare ad intendere proprio al "morente" che sfuggirà alla morte… È così che il viene procurando un costante acquietamento circa la morte. In fondo esso serve però non solo al moriente ma anche al "consolatore"" (p. 717). Vi è dunque nel "quotidiano essere per la morte" tutto un complesso di comportamenti, di discorsi, di atteggiamenti che sono tesi a sopprimere o allontanare l'inquietudine che la accompagna, dunque a realizzare una fuga di fronte ad essa. Ora vi è un tratto poco o nulla sottolineato dagli interpreti e che è invece importante per comprendere il senso del passaggio del Dasein, quando avviene, dalla dimensione inautentica a quella autentica dell'essere per la morte. Questo tratto riguarda la viltà che si manifesta all'interno della medietà quotidiana, secondo l'ambiguità che la caratterizza. Essa dichiara "vile" lo stesso "pensare alla morte" come se ciò manifestasse "la paura, l'insicurezza dell'esserci, la cupa evasione dal mondo" (p. 719). Ma questa stessa imputazione di viltà non ha il senso di un guardare in faccia alla morte, ma fa parte della "fuga" di fronte ad essa e dalle inquietudini che essa genera. "Il Si non lascia emergere il coraggio dell'angoscia di fronte alla morte… nell'angoscia davanti alla morte, l'esserci viene portato di fronte a se stesso in queanto rimesso a quella possibilità invalicabile. Il Si procura il rovesciamento di tale angoscia in paura di fronte ad un evento a venire. L'angoscia, resa equivoca come paura, viene poi spacciata per una debolezza che, a un esserci sicuro di sé, dovrebbe 157 essere sconosciuta. Ciò che "si addice" stando al muto decreto del Si, è l'indifferente quiete di fronte al "dato di fatto" che si muore. Il raggiungimento di una tale"superiore" indifferenza estrania l'esserci dal suo più proprio, irrelativo, poter essere" (p. 719). La viltà (Feigheit) di cui qui si parla ha dunque un senso duplice. "L'essere per la morte è essenzialmente angoscia. L'attestazione, infallibile benché "solo" indiretta è offerta dal descritto essere per la morte, quando esso rovescia l'angoscia in vile paura e poi, superando quest'ultima, non fa che segnalare la propria viltà di fronte all'angoscia" (p. 751). Tenendo conto di quanto abbiamo detto in precedenza l'essere per la morte autentico rappresenta un'appropriazione di sè e nello stesso tempo il sé si è riappropriato di una liberta per la morte (Freiheit zum Tode) "appassionata" "sciolta dalle illusioni del Si", "certa di se stessa" e "angosciata" (ivi). Restare all'interno del Si è pura vigliaccheria, questo va compreso se vogliamo comprendere che cosa Heidegger intende per vita autentica: guardare negli occhi la morte, sperimentare la vera libertà finalmente acquisita, anche se anch'essa è fondata nella morte, è filosoficamente fare della morte il segno discriminante tra i vili e i coraggiosi, tra la gente comune che in un modo o nell'altro esorcizza la morte, e il singolo audace (l'audacia non è forse l'opposto della viltà?) che da quella gente si distacca e lo fa facendo della morte il proprio segno. Come da una fessura che si apre inopinatamente in questo denso filosofare, ci sembra ora di intravedere la trista passione per i teschi delle camicie nere e delle camicie brune. Si tratta forse ancora una volta, come in precedenza, di una delle mie fantasticherie che non ha proprio nessun fondamento? In uno scritto che nega esplicitamente che il nazismo di 158 Heidegger possa essere connesso al suo pensiero filosofico, si stabiliscono ciononostante connessioni significative - ad esempio tra l'idea di libertà teorizzata in Sein und Zeit e l'idea della necessità di una guida assoluta. "In Essere e tempo la scelta e l'operare erano concepiti in modo tale da non dare posto ad alcunché di simile ad una obbligazione; era come se Heidegger avesse desiderato mettere da parte ogni obbligo a favore di una espansiva libertà nietschzeana. Nella conseguente assenza di qualunque principio di legame morale tra gli uomini, l'autorità sociale avrebbe dovuto derivare da nature superiori che avrebbero imposto la loro volontà ad esseri inferiori" (F. A. Olafson, Heidegger's Thought and Nazism, "Inquiry", 43, 271-88, p. 286). Così anche in rapporto alla problema della vita inautentica, nella quale secondo Heidegger sarebbe immersa sino al collo la maggior parte della gente, Olafson osserva che secondo Heidegger solo "la risolutezza di alcuni individui, comunque venuti alla ribalta, avrebbe potuto in qualche modo sollevare la massa del popolo al di sopra della loro profondamente inautentico modo di vita. Non vi è bisogno di dire che essi non sarebbero stati chiamati ad alcuna forma di vita sociale o politica che meritasse di essere detta "democratica"… al suo posto vi sarebbe stata una società profondamente illiberale che era l'unica che Heidegger avrebbe potuto effettivamente concepire e sottoscrivere" (ivi, p. 279). Ma di fronte all'esibizione di questi esempi, che si potrebbero moltiplicare, credo che si debba ribadire ciò che è già stato detto. Il mutamento di punto di vista non ci fornisce il vero senso dell'elaborazione filosofica heideggeriana, ma ci può offrire nuovi ele- 159 menti per una comprensione più approfondita riannodando il filo dell'analitica esistenziale alla "crisi storica" e rendendo questo filo nuovamente visibile. Credo che valga la pena di leggere, a proposito dell'essere per la morte, quanto scrive E. Faye nel suo volume L'introduzione del nazismo nella filosofia, trad. it. di F. Arra, L'asino d'oro Edizioni, Roma 2012: "L'autore passa insidiosamente dall'analisi descrittiva alla formulazione di un vero e proprio programma e - dal paragrafo §53 sulla morte al paragrafo §74 sul destino storico della comunità, indissociabili sotto questo profilo - giunge a imporre come solo modo di esistenza "autentica" l'anticipazione della morte e l���abbandono, la "rinuncia a se stessi" a vantaggio della comunità, del popolo, e in vista del "proseguimento della lotta". Questo modo di legare il sacrificio di sé dell'"essere per la morte" con l'affermazione del destino comune nella totalità indivisa della comunità, riprende strutturalmente le tesi di Hitler nel capitolo del Mein Kampf intitolato Popolo e razza, dove in molte pagine viene esaltata la "capacità del singolo di sacrificarsi per la totalità, per i suoi simili". Sotto l'influenza delle prime letture di Lévinas e di Sartre, a lungo, e soprattutto in Francia, si è letto Essere e tempo "con gli occhi di Kierkegaard", per usare una recente espressione di Jürgen Habermas. Si è dunque erroneamente creduto di trovarvi una filosofia dell'individualità umana, laddove invece, nel §74, Heidegger respinge ogni riferimento ai destini individuali. Più perspicaci, diversi filosofi tedeschi (da Karl Löwith e Günther Anders a Theodor W. Adorno) hanno saputo sviluppare un'eccellente critica della riduzione heideggeriana dell'esistenza all'abbandono, al sacrificio di sé, al suicidio morale della Selbstaufgabe, presentata da Heidegger come l'"estrema possibilità" dell'esistenza. In quel modo, osserva Anders, "l'esistenza di Heidegger commette un suicidio che dura tutta la vita". Adorno poi ha ben compreso che per Heidegger il rapporto con la morte non è più quello della meditazione né del pensiero: profondamente discriminatoria, l'"autenticità" nel sacrificio della morte non compete più alla filosofia, poiché è concessa solo a coloro che sono nel "favore dell'essere"" (p. 16). 160 161 Nona conversazione 162 163 1. Come abbiamo già osservato, quando ricorre nel testo della Crisi di Husserl la parola "irrazionalismo", "misticismo" e simili, in termini apertamente critici è certo che il riferimento principale è Heidegger, anche se egli evita di nominarlo. Così già nelle prime pagine dell'opera si fa sentire questo tema - che è da leggere naturalmente in positivo come rivendicazione al ritorno ad una razionalità ad un tempo antica e rinnovata. "la filosofia attualmente minaccia di soccombere alla scepsi, all'irrazionalismo, al misticismo" (p. 33). Altrove, il termine di irrazionalismo viene utilizzato per gli esiti della filosofia humeana (§ 23); ma quando si parla di "elucubrazioni irrazionalistiche ora di moda", questa formulazione non può che riguardare Heidegger e l'heideggerismo: "Il nostro compito è appunto quello di realizzare questo vero e autentico razionalismo di fronte a quello, gravato di nascosti controsensi dell'epoca dell'illuminismo, se veramente rifiutiamo di ammettere che la scienza decaduta a scienza specializzata, ad arte, a techne oppure la filosofia decaduta alle elucubrazioni irrazionalistiche ora di moda, possano sostituire l'idea perenne d'una filosofia come scienza universale e radicalmente fondata" (p. 222). Analogamente si allude ancora a Heidegger quando, nel teorizzare l'epoché delle scienze obbiettive per realizzare la nuova scienza del mondo della vita, si avverte: "Evidentemente è innanzitutto necessaria l'epoché da tutte le scienze obiettive. Operare quest'epoché non equivale ad astrarre da esse; non basta per esempio un ripensamento fittizio dell'esistenza umana attuale al di fuori di qualsiasi elemento scientifico" (§ 35, p. 164). 164 Ma la posizione espressa da Husserl nella Crisi non è in realtà compatibile nemmeno con le posizioni espresse dal Circolo di Vienna che può essere considerato il contraltare filosofico dell'heideggerismo. Per quanto poco egli lo chiami in causa. Vi è anzi, da parte di Husserl, una significativa prudenza. Ad esempio, quando parla di "fisicalismo" tiene a precisare in nota: "Qui come altrove uso l'espressione "fisicalismo" soltanto in un senso generale, come risulta del resto dall'andamento della nostra ricerca, per indicare cioè quegli equivoci filosofici che derivano da un fraintendimento del vero senso della fisica moderna. Questo termine non allude dunque specificamente al "movimento fisicalistico" (Circolo di Vienna, empirismo logico)" (p. 129, n. 5). Questa prudenza, e quindi anche il fatto stesso di non misurarsi direttamente con le posizioni del Circolo, sono in realtà ben comprensibili da più di un punto di vista. Fondato da Moritz Schlick nel 1925, esso era caratterizzato, almeno inizialmente, non tanto come una corrente filosofica precisamente definita, ma come un luogo di incontro di personalità che condividevano alcuni assunti comuni per ciò che riguardava il rapporto tra filosofia e scienza. Anche questi assunti comuni facevano parte tuttavia di un dibattito in corso che rendeva il gruppo assai aperto ai contributi più diversi. Lo stesso Carnap, che fu la personalità filosoficamente più eminente, si era formato alla scuola di Husserl - e non in maniera estrinseca. Questa relazione così significativa è per alcuni "storici" italiani evidentemente sgradita e quindi viene semplicemente omessa. Essa non viene rammentata da A. Meotti nella Storia del pensiero filosofico e scientifico diretta da L. Geymonat; mentre A. Pasquinelli nella sua Introduzione a Carnap (Laterza, Bari 1972) dedica ad essa due infimi e irrilevanti accenni. Eppure, benché lo stesso Carnap mantenga una certa riservatezza su questo punto motivata presumibilmente da interessi "accademici" e ne faccia a malapena un cenno nella sua Au- 165 tobiografia pubblicata da Schilpp, la presenza di Husserl era evidente nelle prime due sue opere: Der Raum e Der logische Aufbau der Welt ed è certo che Carnap fu studente di Husserl in almeno tre semestri negli anni 1924-25. G. E. Rosado Haddock, che ha dedicato uno studio estremamente approfondito sull'argo­ mento, motivando anche il silenzio di Carnap, osserva che "Vi è il plausibilissimo dubbio che durante la redazione della sua dissertazione, Der Raum, tra il 1919 e il 1921, a Buchenbach, una cittadina nei pressi di Freiburg, Carnap frequentasse i corsi di Husserl o avesse quanto meno alcuni contatti con lui. Benché non vi sia nessuna prova documentaria su questo punto, considerando la forte influenza di Husserl sulla dissertazione di Carnap, sarebbe estremamente strano che durante quei tre anni Carnap non fu mai tentato di incontrare il maestro" (Guillermo E. Rosado Haddock, The Young Carnap's Unknown Master - Husserl's Influence on Der Raum and Der logische Aufbau der Welt, Ashgate, Burlington 2008). Il fatto che Carnap fu studente di Husserl nel 1924-25 è attestato da K. Schuhmann, Husserl-Chronik, Den Haag 1977. La Autobiografia intellettuale di Carnap è pubblicata in P. A. Schilpp ed.), The Philosophy of Rudolf Carnap, La Salle 1963. Allievo di Husserl e membro del circolo di Vienna era anche Felix Kaufmann. Vi erano dunque dei rapporti più o meno mediati, favoriti anche dall'atmosfera che Schlick aveva saputo dare al gruppo sollecitando un dibattito aperto, piuttosto che una polemica infruttuosa. Nella sua Autobiografia Carnap fornisce una notevole descrizione dello spirito che animava il gruppo: "Caratteristica del Circolo era l'atteggiamento aperto e antidogmatico esibito nelle discussioni. Ciascuno si mostrava sempre pronto a sottoporre le sue tesi alle altrui 166 o alla propria revisione. Prevaleva lo spirito collaborativo su quello competitivo ed era intento comune lavorare insieme nella lotta per la chiarificazione e per l'analisi. L'atmosfera congeniale delle riunioni del Circolo risultava dovuta eminentemente alla personalità di Schlick alla sua immancabile gentilezza, tolleranza e modestia" ( cit. da A. Pasquinelli, op. cit., p. 19). 2. Vi era anche, lo abbiamo già notato, un retroterra comune, anche questo largamente ignorato dalla storiografia filosofica italiana, che andrà prima o poi quasi interamente riscritta, sia per allora che per i tempi nostri, perché per una buona parte - con le dovute lodevoli eccezioni - è anche troppo chiaramente determinata da interessi di parte. Questo retroterra non lo dobbiamo andare a cercare con la lanterna oppure operare forzature fuori luogo. Esso sta tutto scritto nel Manifesto del Circolo di Vienna, scritto da Hahn, Neurath e Carnap sotto il titolo La concezione scientifica del mondo (Wissenschaftliche Weltauffassung, Wolf Verlag, Vienna 1929). Tutto il Manifesto gravita in realtà sui poli empirismo-metafisica, e nel suo primo paragrafo si indicano in breve gli antecedenti storici o preistorici ritenuti particolarmente significativi. Intanto va notata la sottolineatura della componente liberale, che era particolarmente viva a Vienna a fine del secolo XIX attraverso l'influenza dell'empirismo e dell'utilitarismo anglosassone. Così si rammenta l'atmosfera liberale in cui si era sviluppato il pensiero di Ernst Mach, a cui il Circolo di Vienna si era intitolato. È inutile dire che si tratta di un autore che fa parte anche della formazione di Husserl. Insieme a Mach viene nominato Boltzmann e si sottolinea che sotto l'impulso di questi due maestri "si può comprendere che era dominante anche un vivace interesse per i problemi logici e teoretico-conoscitivi, che sono connessi con i fondamenti della fisica. Attraverso 167 questi problemi fondazionali si venne indotti ad occuparsi del rinnovamento della logica" (ivi, cit. p. 302). Ora, proprio per quanto gli studi logici ed epistemologici, vengono rammentati come importanti per la preistoria del Circolo autori che si trovano in stretta prossimità con Husserl. E dopo quanto abbiamo letto nella Storia di Geymonat, non possiamo non sorprenderci di ritrovare citato con onore Franz Brentano. "Come sacerdote cattolico, Brentano aveva comprensione per la scolastica; egli si ricollegò direttamente alla logica scolastica ed ai tentativi leibniziani per una riforma della logica, lasciando da parte Kant e i filosofi dei sistemi idealistici. È sempre risultata evidente la comprensione di Brentano e dei suoi allievi per uomini come Bolzano (Wissenschaftslehre, 1837) e altri, che dedicavano i loro sforzi ad una rifondazione rigorosa della logica" (ivi, p. 302). Il riferimento a Bolzano non può inoltre che essere un indiretto riferimento a Husserl, dal momento che fu Husserl a trarre questo autore dall'oblio. Viene fatto anche il nome di Alexius Meinong, con il quale Husserl era in rapporto diretto e di Alois Höfler, allievo di Brentano e di Boltzmann di cui, nel Manifesto, si rammentano gli interessi per i fondamenti della fisica e le collaborazioni con Hans Hahn. Si comprende dunque che vi sia una certa esitazione da parte di Husserl in direzione del Circolo di Vienna, sia per via di questi legami culturali, sia per la pluralità di opinioni a cui il Circolo dava voce, sia per la mobilità da cui esso fu caratterizzato anche in rapporto alla posizione filosofica prevalente che conobbe diverse oscillazioni. Va inoltre da sé, per quanto riguarda le questioni di ordine teorico, che il tema centrale nella prima sezione della Crisi concernente la "matematizzazione della natura" non poteva toccare direttamente le elaborazioni specifiche del Circolo di Vienna, proprio per la svolta che esso imprime ai rapporti tra scienza e filosofia ed al concetto stesso di 168 filosofia. I primi neopositivisti sono lontani dal sostenere in linea generale il carattere intrinsecamente fisico-matematico della realtà, dal momento che l'accento cade piuttosto sul fatto che una teoria scientifica è essenzialmente uno strumento interpretativo che deve essere nettamente distinto dall'oggetto da interpretare; e la filosofia a sua volta non ha alcuna tematica autonoma da far valere sul piano della conoscenza autentica, demandata nella sua totalità alla scienza "empiricamente fondata", ma deve operare chiarimenti sul modo di operare della scienza stessa, sulla sua struttura sistematica, sulla concatenazione logica delle sue proposizioni. In breve si fa avanti una concezione della filosofia come una riflessione sulla metodologia dell'operare scientifico. Ora è chiaro, anche al di là di particolari approfondimenti, che una simile concezione, anche se variamente elaborata, nei suoi nodi fondamentali non solo differiva profondamente, ma anche non poteva che entrare in contrasto con l'impostazione husserliana. Considerata da questo punto di vista la Crisi ha un doppio obbiettivo - non solo l'"esistenzialismo" heideggeriano e similari, ma anche il suo contraltare neopositivistico. L'esclusivismo con cui il filosofo neopositivista volge il proprio interesse verso la metodologia della scienza induce a ritenere che la scienza, così come è sviluppata dagli scienziati professionali è l'unico luogo di esplicazione della razionalità in senso pieno e proprio. Altrove non vi può essere altro che "metafisica": l'opposizione tra empirismo e metafisica, caratteristica del positivismo ottocentesco, viene proposta di continuo nel Manifesto in maniera così rigida e inflessibile che non può trovare giustificazione nella necessaria concisione a cui un simile documento deve necessariamente attenersi. Questa rigidità non poteva certo essere condivisa da Husserl che, pur servendosi di opposizioni concettuali in ultima analisi molto nette, mostra tuttavia come queste opposizioni si muovano spesso dialetticamente l'una nell'altra, e le fa agire non tanto come categorie statiche, ma come funzioni per portare ordine in un materiale filosoficamente movimentato. E nemmeno 169 poteva essere condivisa, ma anzi fortemente osteggiata, l'idea che la filosofia non possa pretendere uno spazio di riflessione autonoma, essendo il suo unico spazio legittimo a ridosso della scienza stessa. Nel quadro di questa concezione prima o poi la filosofia avanzerà la pretesa di formulare veri e propri canoni della scientificità, che si pretenderà estratti e giustificati dalla scienza stessa. Passaggio assai rischioso e completamente estraneo a Husserl: le analisi metodologiche diventano mezzi per ottenere criteri per valutare il grado di scientificità di una teoria: della scientificità della filosofia - o semplicemente della maggiore o minore fondatezza di una posizione filosofica, non è nemmeno il caso di parlare, non essendovi essendovi più una problematica filosofica autonoma. A ciò si connette naturalmente la polemica antimetafisica che non fa altro che confermare che vi è un vastissimo ambito di problemi che la filosofia del passato ha ritenuto di dover e di poter trattare e che invece si sottrarrebero in linea di principio ad una trattazione razionale. Vi è qui materiale più che sufficiente per indicare tutto un complesso di motivi che delineano i tratti di quell'atteggiamento nei confronti della scienza e della filosofia contestato dalla Crisi. Anzitutto, una volta accolta la precisazione che Husserl stesso fa sull'impiego del termine "fisicalismo", resta comunque il fatto che il termine può essere esteso criticamente ai filosofi del Circolo di Vienna almeno nella misura in cui per loro la fisica funge da modello in rapporto alle scienze in genere ed all'idea di scientificità. Ma è soprattutto significativo il progetto fisicalista nell'accezione vera e propria del Circolo di Vienna. Uno dei problemi che vennero posti sul tappeto fin dall'inizio fu quello di caratterizzare la designazione inevitabilmente generica della base empirica delle teorie scientifiche. Il neopositivismo si autoteorizza come un "empirismo logico" - ciò significa che ogni teoria scientifica deve poter essere ricondotta secondo procedure logicamente ben definite a fatti empiricamente osservabili. Fu allora ogget- 170 to di ampia discussione che cosa dovesse intendersi con questa espressione. All'inizio vennero ripresi temi empiristico-fenomenistici - ma ben presto prevalse la tesi che venne appunto caratterizzata come "fisicalismo" che asseriva che le constatazioni ultime a cui le nozioni e le teorie scientifiche dovevano poter essere ricondotte piuttosto che a fenomeni a cose in un senso non molto lontano da quello corrente. Questa discussione, in realtà venne superata in varie direzioni dallo sviluppo successivo del movimento; ma per quanto riguarda la problematica che stiamo discutendo non siamo interessati alle alternative interpretative proposte per dar corpo all'espressione "fatto osservabile", quanto all'impiego di questa stessa espressione in funzione della liceità o meno della validità degli asserti conoscitivi. Il senso di questo richiamo ai fatti osservabili, nel quale risuona indubbiamente un vecchio tema positivista, lo si comprende chiaramente solo se pensiamo alle esclusioni a cui dà origine. La psicanalisi non può che essere respinta nella sua globalità; la psicologia della forma diventa altamente sospetta; mentre sul terreno psicologico può essere approvata solo una linea di tendenza rigidamente comportamentista. Abbiamo accennato a discipline psicologiche perché nella Crisi di Husserl la psicologia finisce con l'avere un significato cruciale, per il peso che riceve sul piano filosofico il tema della soggettività. Questo peso si annuncia sin dalle prime pagine, in cui si dice che "alla problematicità che è propria della psicologia, non soltanto ai giorni nostri ma da secoli, - alla "crisi" che le è peculiare - occorre riconoscere un significato centrale; essa rivela le enigmatiche ed a prima vista inestricabili oscurità delle scienze moderne, persino quelle matematiche, essa rivela un enigma del mondo di un genere che era completamente estraneo alle epoche passate. Tutti questi enigmi riconducono all'enigma della soggettività e sono 171 quindi inseparabilmente connessi all'enigma della tematica e del metodo della psicologia" (p. 35). Ma questa dichiarazione non resta lettera morta. La tematica della psicologia, presente dappertutto, diventa poi, nella terza parte dell'opera, una vera e propria "via di accesso alla filosofia trascendentale fenomenologica a partire dalla psicologia". Seguendo questo percorso, pur evitando come sempre diffuse polemiche particolari, Husserl non evita invece in una piccola nota di segnalare "le esagerazioni dei behavioristi, i quali operano in generale soltanto con l'aspetto esteriore dei comportamenti, come se il comportamento non smarrisse il suo senso, quello che gli è conferito dall'entropatia, dalla comprensione dell' "espressione"" (p. 293, n. 20). E si tratta in fondo di una riserva polemica molto contenuta rispetto alle pesanti formulazioni dei comportamentisti. Così, ad esempio, Skinner arriva a scrivere: "l'ipotesi che l'uomo non sia libero è essenziale all'applicazione del metodo scientifico allo studio del comportamento umano. L'uomo internamente libero che è ritenuto responsabile del comportamento dell'organismo biologico interno è soltanto un sostituto prescientificao per il genere di cause che vengono scoperte nel corso dell'analisi scientifica" (B. F. Skinner, Science and Human Behaviour , 1953, p. 447, cit. da T. Miettinen, p. 132). Nello stesso tempo, Husserl non ha alcun problema nel dichiarare la legittimità di indagini psicologiche volte verso le dimensioni inconscie, ovviamente senza prendere posizione per l'una o per l'altra corrente: 172 "Già nel concetto di coscienza dell'"orizzonte", nell'intenzionalità dell'orizzonte, sono inclusi modi molto diversi di intenzionalità che, nel senso comune e ristretto della parola, è "inconscia" e che tuttavia, come è facile mostrare, è pure vivente e addirittura co-fungente; modi che hanno modalità proprie di validità e modi propri di trasformarla. Inoltre esistono ancora, come bisognerà dimostrare attraverso analisi più precise, intenzionalità "inconscie". Tra esse occorre annoverare gli affetti rimossi dell'amore, dell'umiliazione, del "risentimento" e i comportamenti inconsciamente motivati che sono stati scoperti dalla recente "psicologia del profondo" (con le cui teorie noi tuttavia non ci identifichiamo)"(p. 258). Nel quadro delle tematiche neopositiviste si tratta di temi rigorosamente esclusi, e per quanto riguarda il tema generale della soggettività, esso non solo non si pone, ma si tenta di liberare il terreno dal suo stesso concetto. A tal fine vengono recuperate ed aggiornate persino le vecchie critiche empiristiche - si pensi alla discussione di Hume sull'identità personale. D'altronde l'erigere la psicologia comportamentista a modello per la psicologia ha esattamente il senso di liberarsi, nel più antiquato stile del vecchio positivismo, della soggettività per sostituire i fatti psichici che non possono essere né visti né toccati con "fatti osservabili". 3. Particolarmente importante è anche il fatto che la scienza venga considerata fondamentalmente da un punto di vista statico. Ciò che interessa è operare una sezione all'interno dello sviluppo scientifico e metterne in luce lo scheletro formale. Assumendo un simile atteggiamento non viene dato nessuno spazio al rapporto tra la scienza e i suoi produttori, l'attenzione non va alle procedure concrete di produzione della teoria, ma al concetto di teoria scientifica come tale. Conseguentemente le considerazioni di 173 ordine storico cadono interamente al di fuori del punto di vista in cui ci si dispone, operando un'ulteriore restrizione nella stessa riflessione metodologica interna alla scienza. In questa delimitazione non è in questione il fatto che il campo d'indagine deve essere comunque determinato; essa è invece motivata dall'idea che le procedure concrete degli scienziati, i problemi interni dello sviluppo della scienza - tutto ciò sia extraessenziale al concetto scientificamente elaborato. Ciò che importa è il risultato - il concetto stesso, mentre la "storia" che conduce ad esso, la "formazione del concetto" può essere lasciato alle curiosità dello storico. Anche in rapporto a questo problema siamo agli antipodi della posizione fatta valere da Husserl nella Crisi, e del resto in tutta la sua opera. Le considerazioni epistemologiche possono talora intrecciarsi fruttuosamente con la storia del concetto, ed è accaduto così storici della scienza fortemente interessati a problemi epistemologici come Koyré o Kuhn abbiano avuto un atteggiamento critico nei confronti dell'atteggiamento neopositivistico nel suo complesso. Questo modo di vedere fortemente statico è peraltro solidale con la posizione che la logica e le pratiche logico-simboliche vengono ad assumere fin dall'inizio all'interno del Circolo di Vienna. La dizione "empirismo logico" è indicativa sia del distacco rispetto all'empirismo della tradizione sia dell'importanza data alla strumentazione logica. Su questo punto, come su molti altri, debbono essere ascritte a merito dei maggiori rappresentanti di questa linea di tendenza acquisizioni importanti nel campo degli studi logici. Diversamente stanno le cose per i tentativi di esercitare la critica della filosofia del passato o del presente attraverso l'analisi logico-linguistica che in realtà si rivela intrinsecamente misera nei suoi risultati facendo intravedere una concezione estremamente riduttiva dei prodotti culturali in genere e del loro significato complessivo. Ciò vale anche per il celebrato saggio scritto da Carnap nel 174 1932 e intitolato Il superamento della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio ( Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Utet, Torino 1969, pp. 504 sgg.). Questo articolo è assai rappresentativo della posizione del neopositivismo in questa sua prima fase di sviluppo. In realtà può essere considerato una sorta di secondo Manifesto. Il presupposto di fondo è che vi sia un grammatica logica profonda, da distinguere dalla grammatica di superficie, e che si possa mostrare, con strumenti logici, che proposizioni che alla superficie appaiono provviste di senso, ne sono in realtà interamente prive. La critica dei problemi della metafisica e della filosofia in genere avviene appunto mostrando che essi sono formulati in proposizioni che hanno un senso solo apparente. Gli errori dei filosofi riguardano dunque l'impiego del linguaggio ed una purificazione del linguaggio ci libera da essi. Nonostante il fatto che a tutta prima questa posizione possa sembrare seducente, ad un tempo per il suo radicalismo e la sua semplicità, tuttavia la sua portata effettiva si chiarisce nel suo impiego. Di una simile critica Carnap fornisce numerosi esempi, tratti dalla filosofia del passato e del presente. Fra gli altri vi è anche Cartesio. Penso, dunque sono. Qui si commettono errori logici di ogni sorta: Carnap li enumera con cura, ed io penso persino che egli abbia ragione, che questi errori ci siano veramente. Ma ciò che non sono disposto ad accettare è che, in forza di questa circostanza, di quella frase non metta nemmeno conto di parlare. È vero che noi non ci siamo chiesti se essa e le conseguenze che Cartesio trae a catena da quella frase fossero logicamente in ordine. Abbiamo semplicemente posto da parte la questione, certamente non per il fatto che la riterremmo del tutto irrilevante o addirittura per un innato disprezzo filosofico per la logica. Semplicemente, abbiamo ritenuto che, al di là di tutto, la posizione di Cartesio fosse piuttosto interessante. Inutile dire che questo micidiale strumento critico logico- linguistico si abbatte impietosamente su Hegel. Si prende una frase qualunque, ad esempio, "Il puro essere e il puro nulla sono 175 la medesima cosa" e la critica va di conseguenza. Ma l'esempio più famoso dell'intero saggio è fornito da Heidegger. Per quanto poca simpatia possiamo avere per questo autore, una critica fatta così è inaccettabile, e del resto lascia il tempo che trova. Cartesio, Hegel e Heidegger restano tranquillamente nel posto in cui sono. Sulla critica carnapiana a Heidegger, Roberta De Monticelli ha scritto una gustosa ed acuminata confutazione mostrando che con gli stessi mezzi potrebbe essere criticato niente di meno che Gottlob Frege (Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, Bollati-Boringhieri, Torino 2006) 4. Nel saggio di Carnap, Husserl non viene attaccato direttamente, ma un attacco per nulla generico, anche se Husserl non viene nominato, è presente nel Manifesto e viene fatto passare attraverso il concetto di origine kantiana, ma nell'accezione interamente rinnovata che gli viene attribuito da Husserl, di giudizio sintetico a priori. In qualunque accezione possibile, di giudizi sintetici a priori i neopositivisti non ne vogliono proprio sentir parlare. Questo rifiuto è così pregnante da diventare, insieme all'antimetafisica, la seconda negazione importante per caratterizzare la linea filosofica del Circolo. "In questo modo attraverso l'analisi logica non viene superata solo la metafisica nel senso proprio, classico della parola, in particolare la metafisica scolastica e quella dei sistemi dell'idealismo tedesco, ma anche la metafisica nascosta dell'apriorismo kantiano e dell'apriorismo moderno. La concezione scientifica del mondo non conosce alcuna conoscenza incodizionatamente valida fondata sulla ragione pura, non conosce "giudizi sintetici a priori" come quelli che stanno alla base della teoria della conoscenza kantiana e tanto più di ogni metafisica e ontologia pre- e postkantiana…Proprio nel rifiuto della 176 possibilità di una conoscenza sintetica a priori consiste la tesi fondamentale del moderno empirismo. La concezione scientifica del mondo conosce solo proposizioni empiriche su oggetti di ogni specie e la proposizioni analitiche della logica e della matematica" (Wissenschaftliche Weltauffassung, op. cit., p. 307). Vi fu, documentata da Waismann, una discussione tra Schlick e Wittgenstein sulla nozione husserliana di giudizio sintetico a priori, sulla quale Schlick si era espresso con un saggio sull'argomento. Su questa discussione ho riferito nel saggio "Husserl, Schlick e Wittgenstein sulle cosiddette "proposizioni sintetiche a priori"" (1971), ora in G. Piana, Saggi su Husserl e sulla fenomenologia, Lulu.com, 2013. Ma, tornando al saggio di Carnap, in realtà l'aspetto più sorprendente è la conclusione a cui perviene. Alla fine ci si chiede: eppure, dopo tutto ciò dobbiamo pur rendere conto di questo sragionamento metafisico-filosofico che comincia dagli inizi della filosofia per arrivare fino al giorno d'oggi. La risposta è tanto semplice quanto disarmante. Esiste in generale un sentimento della vita che non è riducibile a forme razionali e che non trova dunque possibilità di esprimersi nella scienza. Esso trova espressione invece nel mito, nella religione, nella metafisica. Tuttavia l'espressione più adeguata a tale sentimento è l'arte, in particolare la poesia e la musica. Di qui la conclusione: "I metafisici non sono che dei musicisti senza capacità musicale". "Il sistema armonioso della vita, ciò che il metafisico vuol esprimere in un sistema monistico si rivela con maggior chiarezza nella musica di Mozart" (Il superamento della 177 metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio, op. cit., § 7, pp. 530 sgg). Dopo di ciò non può meravigliare che l'articolo si concluda con un elogio di Nietzsche: la maggior parte delle sue opere avrebbe un "contenuto empirico" - dice Carnap (bontà sua) - e laddove ci si avvia alla speculazione filosofica egli non tenta di dare all'esposizione forma razionale, ma sceglie senz'altro una forma lirico-poetica. Questa conclusione è presente anche nel Manifesto, del quale del resto lo stesso Carnap è coautore. "In questo chiarimento dei problemi e degli enunciati consiste il compito del lavoro filosofico, ma non nell'apprestamento di enunciati "filosofici" veri e propri. Il metodo di questa chiarificazione è quello dell'analisi logica… Il metafisico e il teologo credono, fraintendendo se stessi, di dire qualcosa con le loro proposizioni. L'analisi mostra invece che queste proposizioni non significano nulla, ma sono solo espressione di qualcosa come un sentimento della vita (Lebensgefühl)" (Wissenschaftliche Weltauffassung, op. cit., II sez, p. 306). La posizione complessiva che viene delineata dal Manifesto e che si ripresenta nel saggio di Carnap deve essere compresa a partire da queste conclusioni. Carnap non sospetta nemmeno che la nozione di "sentimento della vita" sia una nozione filosofica, e che si possa manifestare il più aperto disaccordo sul fatto che l'arte in genere sia pura manifestazione di stati emotivi non analizzabili e non altrimenti esprimibili. Mozart non pensa, Schönberg nemmeno - il "sentimento della vita" vale per l'uno e per l'altro. La ragione non si manifesta nella musica. Ma di quale nozione di ragione egli parla? Di quale sentimento della vita? Proprio perché la ragione di questa prima fase del neopositivismo finisce con l'essere ragione del Vero/Falso, essa esclude il chiaroscuro, 178 pretende la chiarezza più completa e questa chiarezza non può che essere strettamente delimitata. Quindi oltre quei limiti c'è l'Oscuro. In questo Oscuro non finiscono solo i grandi filosofi, musicisti mancati, finisce tutto ciò che non può essere nettamente fissato in un fatto esteriore, tutto ciò che riguarda l'ambito delle scelte e affidato alle decisioni; tutto ciò che appartiene alla vita etica ed affettiva, all'esperienza soggettiva ed intersoggettiva, dunque tutto ciò che fa parte della nostra vita personale, individuale e sociale. Questa sembra essere anche la conclusione di Wittgenstein nel Tractatus, l'opera che il Circolo di Vienna assunse come testo fondamentale. La frase "Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere" sembra invocare il silenzio su tutto ciò che non è garantito scientificamente e logicamente, ammettendo nello stesso tempo che lo spazio del silenzio era enormemente ampio. Ma quella frase è passibile di diverse interpretazioni e di essa si è ampiamente abusato, come se in questo finale consistesse tutto il senso dell'opera. A mio avviso, quella frase non intendeva mettere la museruola ai metafisici, e nemmeno voleva dare fiato ai filosofi che si crogiolano nel mistero. Ciò divenne sempre più chiaro in seguito, dal momento Wittgenstein non si identificò mai nella posizione del Circolo di Vienna, ed anzi talora lo fece oggetto di pesanti ironie. A mio avviso, egli volle concludere il Tractatus segnalando che "Ci son più cose in cielo e in terra, di quante se ne sognano nella tua filosofia": si trattava dunque di un ammonimento contro una possibile lettura riduttiva di quell'opera. Il Circolo di Vienna non lo capì. Da quell'opera riprese l'"empirismo logico", mentre quel sano ammonimento divenne un affare privato di Wittgenstein, il suo angolino "metafisico", dove egli poteva tacere, magari suonando alla meglio il suo clarinetto; e per gli "irrazionalisti" di varie specie una formula da pronunciare inginocchiati di fronte al mistero dei misteri, buttando a mare tutto il resto dell'opera. Se poi vogliamo attenerci al punto di vista della Crisi, la 179 posizione del Circolo con il suo esclusivismo e la sua rigidità, in questo suo esito musicale carnapiano ed eventualmente nel silenzio di Wittgenstein interpretato in modo conforme, ricorda anche troppo da vicino l'heideggeriano "Unica­men­te l'ente e al di fuori di questo - nulla", detto in rapporto alla scienza. In luogo del nulla c'è qui il "sentimento della vita" - razionalmente indecifrabile - o ciò su cui si deve tacere. Ma Wittgenstein è un caso da considerare a parte, perché per un certo tratto tace, ma poi riprende il discorso filosofico a tutto campo. La profonda differenza tra Heidegger e il Circolo di Vienna sta in questo: Heidegger si avvia sul sentiero del nulla (o dell'essere), mentre il Circolo intende restare sul sentiero della scienza: non è una differenza da poco, ma dal punto di vista husserliano, oltre tutte le divergenze che abbiamo visto crescere a poco a poco, la posizione del Circolo da un lato si presenta come un razionalismo estremo, dall'altro - e forse proprio per questo, lascia uno spazio troppo ampio a posizioni "irrazionalistiche". Un concetto di ragione autentica non può accogliere le limitazioni dettate da un punto di vista neopositivista, né può essere accettato un concetto di filosofia che abbia quel punto di vista a suo fondamento. In fin dei conti non avevano forse tutti i torti quei sostenitori della concezione scientifica del mondo che affacciarono l'idea di mettere al bando lo stesso termine di filosofia. "Per accentuare ancora più fortemente l'opposizione alla filosofia sistematica, molti sostenitori della concezione scientifica del mondo non vogliono più impiegare in generale il termine di "filosofia" in rapporto al loro lavoro" (Wissenschaftliche Weltauffassung op. cit. p. 214). 5. Ma ora dobbiamo interrogarci su un altro aspetto che, nonostante le nostre numerose digressioni, rappresenta in realtà il nostro principale filo conduttore. La nostra attenzione è puntata da un lato sui libri, ma dall'altro sul corso storico. E la domanda 180 diventa dunque: in che modo il Circolo di Vienna si rapporta alla crisi storica? Per nostra fortuna, ad una domanda così impegnativa indizi importanti per una risposta ci vengono offerti dallo stesso Manifesto del Circolo. Abbiamo già rammentato che proprio in apertura viene sottolineata l'atmosfera liberale della Vienna di fine secolo dove si forma la "preistoria" del Circolo. Questa atmosfera fornisce naturalmente la sua impronta al momento della nascita del Circolo (e vogliamo rammentarne ancora una volta la data: 1922) e in seguito. Nel Manifesto si sottolinea non solo il liberalismo, ma anche un permanente interesse ed apertura verso le problematiche sociali. Il gruppo dei partecipanti non ha carattere elitario ma al contrario è aperto anche alle Lebensfragen: "Anche gli atteggiamenti nei confronti della questioni di vita, benche queste questioni non stiano in primo piano fra i temi discussi nel circolo, manifestano notevoli concordanze. Si tratta di questioni che hanno una stretta affinità con la concezione scientifica del mondo… ad esempio gli sforzi per una riplasmazione dei rapporti economici e sociali, per l'unificazione dell'umanità, per il rinnovamento della scuola e dell'educazione in un nesso interno con la concezione scientifica del mondo; è chiaro che questi sforzi sono affermati e considerati con simpatia dai membri del circolo e da alcuni anche attivamente promossi" (ivi, II, p. 304). Tuttavia è solo alla fine del testo che vi è una tanto breve quanto improvvisa irruzione della crisi storica, quando si parla delle "violente lotte sociali ed economiche del presente". Ed anche ora, a proposito del Manifesto, è il caso di ripetere le date: siamo nel 1929. Ormai la china della storia la si poteva vedere dappertutto, e gli esponenti del Circolo di Vienna dovettero sentire sulla loro pelle l'ostilità crescente degli ambienti viennesi filotedeschi, 181 e la necessità di trovare un qualche riparo altrove, come nel caso di Neurath che decise di non tornare in patria dall'Olanda nel 1933 o Carnap che emigrò nel 1935 negli Stati Uniti, fino all'aberrante assassinio di Moritz Schlick ad opera di uno studente nazista nel 1936. L'ascesa del nazismo determinò la dispersione del Circolo. Eppure non deve sorprendere l'ingenuità con cui il Manifesto vede le "violente lotte sociali ed economiche del presente" distribuite sui due poli della metafisica-teologia da un lato e della concezione scientifica del mondo dall'altro - chiudendosi ottimisticamente sulla vittoria inevitabile della scienza sulla superstizione. Sulla bilancia di questa vittoria viene posta anche la diffusione del socialismo tra le masse, verso il quale simpatizzava soprattutto Neurath. "Accade così che in molti paesi le masse ora siano ampiamente più coscienti di prima nel rifiuto di queste teorie e inclinino, in concomitanza con un atteggiamento socialistico, ad una concezione terrena, empiristica. In passato l'espressione di questa concezione era il materialismo; ma nel frattempo l'empirismo moderno si è sviluppato in molte forme insostenibili ed ha trovato una forma sostenibile nella concezione scientifica del mondo. In questi modo la concezione scientifica del mondo si trova in prossimità con la vita del presente" (ivi, p. 314). E sulla stessa bilancia ritroviamo anche "il moderno processo di produzione, che sempre più intensamente assume un carattere tecnico-macchinistico e sempre meno spazio lascia alle rappresentazioni metafisiche" (ivi). In quegli anni, in Storia e coscienza e classe (1923), Lukàcs denunciava quello stesso processo come elemento di alienazione fisica e spirituale del proletariato di fabbrica. 182 Questa ingenuità non deve sorprendere perché in essa in realtà si rispecchia l'atteggiamento filosofico complessivo che è delineato nel Manifesto. Poiché la scienza ha un suo sviluppo autonomo che deve essere il più possibile svincolato dalla filosofia, e quindi da un concetto di cultura che non può che investire dall'interno l'esistenza stessa, i drammi della vita e le sue tragedie non possono essere intrecciati con le vicenda della scienza in cammino - vicenda che in ogni caso risulterà trionfante anche su quei drammi e su quelle tragedie in virtù semplicemente di se stessa. Inevitabilmente. La crisi storica viene dunque ad un tempo tragicamente sofferta e ignorata, e certamente questo è un altro modo di reagire ad essa. Si tratta, manifestamente, dell'ottimismo passivo del vecchio positivismo. Se stiamo ai dettami della scienza, le cose andranno comunque per il meglio e la scienza si incontrerà con l'esistenza e inversamente, con vantaggio dell'umanità intera. In questo senso, io credo, deve essere intesa la frase con cui si chiude il Manifesto: "La concezione scientifica del mondo serve alla vita e la vita se ne appropria" ("Die wissenschaftliche Weltauffassung dient dem Leben und das Leben nimmt sie auf", p. 215). 183 Decima conversazione 184 185 1. Oltre che di irrazionalismo, si è parlato anche, in rapporto alla Crisi, di idealismo, e la cosa non può certo sorprendere visto che Husserl non ha nessuna difficoltà a proclamarsi "idealista", sia pure con riferimento non già ai sistemi filosofici dell'idealismo romantico, ma al trascendentalismo kantiano. Ma purtroppo nella filosofia è veramente raro che le parole abbiano un senso univoco. E in rapporto alla Crisi, l'espressione di "idealismo" può avere tutt'altro senso ed essere impiegata per l'esercizio di una critica che non si rivela infondata e la discussione su questo punto deve diventare assai più sottile che nel caso delle accuse, manifestamente campate in aria, di "irrazionalismo". Fin dall'inizio abbiamo attirato l'attenzione sul fatto che sarebbe erroneo interpretare la posizione di Husserl come se in essa si sostenesse piattamente che la crisi dell'esistenza fosse determinata dalla crisi della scienza, sottolineando che è in questione soprattutto una filosofia incapace di integrare la scienza in una Paideia capace di coinvolgere la società nel suo insieme. Tuttavia credo che sia indubbio che non si possa comprendere lo spirito della Crisi della scienze europee se non si riconosce in quest'opera una concezione del processo storico che vede nel movimento delle idee il suo motore fondamentale. Husserl non enuncia esplicitamente un simile presupposto, ma esso lascia un segno troppo profondo per non essere notato come motivo per una critica. Di conseguenza la parola "idealismo" potrebbe essere usata non solo per indicare il passaggio al trascendentalismo fenomenologico, ma in un'accezione critico-ideologica. Si tratta, come è chiaro, di due impieghi del termine profondamente differenti. Di fronte al problema di una ricerca dei motivi della crisi non ci si rivolge praticamente mai alla storia reale nella determinatezza dei suoi processi economico-sociali, nei suoi conflitti storicamente determinati che purtroppo non sono soltanto conflitti fra le idee: ci si rivolge in modo esclusivo alla storia della filosofia. Questa dovrà poi essere concepita essenzialmente 186 nella forma di un conflitto ideale che sembra aver le sue ragioni unicamente in se stesso: il conflitto tra obbiettivismo e trascendentalismo. Procedendo in questo modo, si pensa di poter ad un tempo motivare la situazione attuale e indicare la via per il suo superamento. In concomitanza con tutto ciò, si fa sempre più insistente l'idea di una teleologia interna che ha come punto d'arrivo la fenomenologia trascendentale. Lo schema che abbiamo già visto operante in Cartesio - il problema della fenomenologia appena intravisto a cui segue un autofraintendimento - è uno schema che Husserl impiega di continuo per gli autori che va via via considerando. Essi sono sempre sul punto di… ma poi falliscono lo scopo. I loro argomenti portano in prossimità della posizione fenomenologica, ma poi si allontanano bruscamente da essa. Cosicché la fenomenologia diventa una scoperta che invera quegli argomenti e li riconduce nella loro giusta direzione. Questa inclinazione dell'impostazione di Husserl che, come abbiamo visto, ha il suo aspetto più positivo in un rimando al passato inteso non già come una ricostruzione passiva che resta per noi muta, ma come un dialogo tra presente e passato che restituisce il senso degli antichi dibattiti alla luce dei dibattiti presenti, ha anche come limite la convergenza teleologica verso la fenomenologia come culmine del processo e suo inveramento. Ora, io credo che la storia della filosofia debba apparire come un'enorme quercia, fortemente ramificata, piuttosto che come un cipresso che termina in una punta. Ma mi pongo nello stesso tempo il problema delle ragioni per cui questo andamento è così accentuato. Sappiamo già che questo aspetto teleologico è un aspetto interno alla Rückfrage, cioè del tipo di riconsiderazione storica teorizzata da Husserl. Un buon manuale di storia della filosofia tenderà nella misura del possibile ad astenersi dall'intervenire nel merito delle posizioni filosofiche esposte anche se naturalmente una direzione interpretativa è sempre giustificata e inevitabile. Tuttavia, il compito prioritario sarà quello di ricostruire la co- 187 erenza interna del pensiero filosofico esposto. Ad esempio si cercherà di integrare l'argomentazione dubitativa cartesiana, fissandola all'interno della posizione complessiva di Cartesio, spiegando la funzione che svolge in essa. Questo modo di procedere è naturalmente del tutto corretto ed obbligatorio. Nell'esposizione husserliana di Cartesio e degli altri autori considerati avviene invece che le posizioni esposte vengano discusse, criticate ed eventualmente ripresentate e rivisitate dal punto di vista delle problematiche fenomenologiche. Anche questo modo di procedere è legittimo. I filosofi hanno in genere formulato dei pensieri; noi comprendiamo questi pensieri ed essi hanno un senso per noi e dunque possiamo discuterli come tali e su di essi possiamo formulare le nostre opinioni. Non solo: possiamo servirci di quei pensieri per illustrare i nostri, per mostrare che essi possono essere sottoposti ad un'interpretazione che a nostro avviso rappresenta il loro "vero senso", cosa che qui significa: il senso che è per noi interessante. Ma Husserl va oltre. E il richiamo alla fenomenologia come realizzazione e compimento di un desiderat di secoli è così consistente da lasciare giustamente perplesso il lettore. Ci troviamo di fronte ad un'enfasi del punto di arrivo che non sembra avere effettive giustificazioni. Eppure essa è così insistente che è opportuno ricercarne il motivo. In effetti se rivediamo meglio il percorso compiuto, ed anche i luoghi in cui questa enfasi si fa più accentuata, ci rendiamo conto che in quei luoghi il punto di arrivo non è affatto dato per acquisito, ma è posto a sua volta come un compito "infinito". Questo non è un dettaglio da poco perché fa cambiare interamente l'inclinazione del discorso, e chiarisce anche il suo oggetto. Il punto di vista teleologico non riguarda questa o quella corrente filosofica ma riguarda in realtà il cammino futuro dell'umanità stessa: si chiede che questo cammino proceda e progredisca secondo gli ideali della ragione, secondo gli ideali della filosofia. 188 Dunque è l'umanità stessa che deve diventare "filosofica", e ciò che si chiama qui fenomenologia o fenomenologia trascendentale si dissolve in questo compito che non può - e non deve - per principio aver mai fine. Ma se le cose stanno così allora questi eccessi finalistici tendono anche a dissolvere il concetto di fenomenologia nella determinatezza delle sue problematiche. Questo esito fa parte dell'intensità con cui Husserl vive la propria esperienza filosofica in rapporto al dramma a sua volta profondamente vissuto della sua epoca, insieme alla speranza di una rinascita. Sembra un paradosso, ma solo in parte lo è: io credo che si possa dire che in quest'ultima opera di Husserl, la fenomenologia trascendentale si trae da parte, o addirittura scompare. Ora, per Husserl, dire fenomenologia è dire la stessa cosa che filosofia tout court . E dire filosofia significa per lui il luogo in cui si elaborano i valori umani fondamentali e nello stesso tempo il luogo in cui si formano le forze motrici della storia. Questa è naturalmente una sopravvalutazione di intonazione "idealistica" - ed io credo che sia importante portare l'attenzione su questo punto sia per esercitare una critica, sia per una comprensione più completa e profonda. Attraverso questa sopravvalutazione arriviamo a comprendere meglio come la fenomenologia, da pratica analitica che può anche essere estremamente minuta, venga sottoposta ad un'operazione che ne rende evanescente i contorni, approssimandola sempre più ad una sorta di credo salvifico che tende a perdere i propri appigli con la realtà ed a dissolversi negli orizzonti dell'utopia. Certo: Husserl ripete più volte che è necessario un rivoluzionamento radicale dell'umanità, che sappia mettere in questione le forme di organizzazione sociale. Questo rivoluzionamento deve condurre da forme di esistenza in cui le persone si trovano sotto il dominio ed il controllo delle "cose" a forme di esistenza in cui la "cosa" venga sopravanzata dalla soggettività e la società stessa possa da se stessa determinare il proprio destino. Ma il 189 fatto è che questo grande compito è affidato da Husserl proprio alla filosofia, ed in modo del tutto coerente. Husserl è un pensatore "serio" - che crede in quello che dice, che crede nei compiti che gli sono affidati in quanto filosofo, sino al punto da vagheggiare una ripresa dell'idea platonica di una società "arcontica" ovvero di una società dominata dalla ragione. "In questa società totale idealmente orientata, la filosofia e il suo specifico compito infinito esercitano una funzione determinante; la funzione di una considerazione libera e universalmente teoretica che abbracci anche tutti gli ideali e l'ideale totale: dunque l'universo di tutte le norme. La funzione che la filosofia deve costantemente esercitare all'interno dell'umanità europea è una funzione arcontica per tutta l'umanità" (p. 348). Così il ruolo del filosofo deve essere caratterizzato come funzionario dell'umanità (cfr. § 15, p. 99), come funzionario di un'umanità concreta alla quale egli prospetta l'umanità ideale, l'umanità come deve essere. E mentre mi accingo a criticare Husserl proprio per questo suo utopismo idealistico, non posso fare a meno di onorare questo "idealismo" in un'epoca come quella dei giorni nostri, in cui troppe volte il filosofo provvisto di un sano senso della realtà ritiene che l'essere funzionario dell'umanità non significhi altro che riuscire ad afferrare un ben pagato incarico pubblico. 2. Vogliamo concludere questa nostra conversazione su un tema che in realtà abbiamo lasciato in sospeso. Dobbiamo riparlare della teoria dell'epoché. Lo abbiamo già detto: in ultima analisi l'epoché non è altro che un modo di presentare brevemente le nozioni elementari della fenomenologia. Si tratta della rimanipolazione e dell'adattamento di una classica argomentazione filosofica al fine di indicare l'atteggiamento di principio che sta 190 alla base della ricerca fenomenologica intesa nei suoi più tipici aspetti analitici, che formano la solida ossatura dell'elaborazione filosofica di Husserl. A mio avviso, la teoria dell'epoché non ha bisogno della profonda elaborazione a cui Husserl la sottopone lungo tutto l'arco della propria produzione filosofica fino alla Crisi. Di conseguenza io credo che la sua portata debba essere fortemente attenuata. Questa tuttavia rappresenta una mia personale presa di posizione, e debbo dunque precisare che questa estrema attenuazione della teoria dell'epoché non è compatibile con il pensiero di Husserl. In Husserl infatti l'importanza e il peso della teoria e le complicazioni a cui essa viene sottoposta è andata crescendo negli anni. Essa diventa per Husserl un vero e proprio rovello intellettuale, ed io penso che questa crescente complicazione sia il nodo in cui la tematica teoretica si aggroviglia con quella ideologica. In Cartesio l'argomentazione dubitativa assume il suo senso dall'obiettivo fondazionale che sta all'origine del problema. Si persegue l'obiettivo di una fondazione assoluta del sapere, obiettivo che viene raggiunto - almeno stando a quanto ritiene Cartesio. Ma nella ripresa fenomenologica le cose non possono stare nello stesso modo. Infatti, se consideriamo la teoria della riduzione fenomenologica nella sua forma debole - l'unica che abbia una giustificazione teoretica - cioè come un mezzo espositivo ausiliario per l'acquisizione di un terreno di indagine fenomenologica, non avremmo particolari ragioni per sottolineare l'aspetto della certezza. Nella fenomenologia si parla spesso di evidenza, ma non bisogna pensare che l'evidenza sia una sorta di appannaggio del metodo. Ci accadrà di dire che attraverso l'epoché viene acquisito un ambito di dati evidenti: ma questo è solo un modo di sottolineare che le chiarificazioni fenomenologiche rinviano a situazioni esemplificative di carattere intuitivo. Tuttavia è certo che Husserl sia colpito dall'argomen­tazione cartesiana anche in rapporto all'istanza fondazionale che in essa 191 è presente. Questa istanza non potrà, come accade in Cartesio, risolversi in un principio: l'epoché infatti non fa altro che porre il compito di una molteplicità di ricerche fenomenologico-costitutive volte in ogni direzione. L'istanza fondazionale investe allora l'idea stessa di fenomenologia e propone l'immagine della fenomenologia come sede delle giustificazioni ultime. Ma ciò deve poi assumere forma concreta nel quadro della tematica genetica: la ricerca deve dunque riguardare l'origine di un concetto o di un ambito problematico, altrimenti la "giustificazione ultima" non lascia intravedere nessun compito teoreticamente determinato. Naturalmente la teoria dell'epoché è connessa al motivo del "ritorno alle cose stesse" e dell' "assenza di pregiudizi", ed è giusto notare proprio a questo punto che si tratta di motivi che precedono quella teoria, che essi si trovano in Husserl prima della svolta cartesiana. La frase "Alle cose stesse!" è un invito a compiere analisi descrittive lasciando essere il fenomeno così come si presenta, evitando interpretazioni che rinviano a ovvietà comuni o a presupposti pregiudiziali di tipo filosofico o scientifico. Ma va da sé che questa frase ha di per se stessa un significato del tutto generico e che essa non può che esigere delle specificazioni. Dicendo "Torniamo alle cose stesse" formuliamo un principio non molto diverso da quello che Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche formula così: "non pensare, ma guarda!". Ed è certo che queste frasi non possono essere essere intese, per così dire, nel vuoto, come se Wittgenstein volesse dire che pensare è un male o Husserl che le teorie sono funeste. Il fatto è che ci sono effettivamente teorie sbagliate che ci impediscono di cogliere come stanno realmente le cose, di "vederle": ma l'argomento in discussione e la teoria corrispondente debbono essere chiaramente individuati e circoscritti. Vorrei quasi dire che i pregiudizi relativi ad un determinato tema da cui io mi debbo liberare per raggiungere la "cosa stessa" debbono essere elencati ad uno ad uno. Qui affiora un altro motivo critico 192 nei confronti della teoria husserliana dell'epoché. La determinatezza su cui portiamo ora l'attenzione è sempre presente nel corso dello sviluppo del pensiero di Husserl, ma il contesto tende a mutare e così il senso del discorso complessivo. Cartesio ancora insegna. Anche in Cartesio - pensiamo al Discorso sul metodo - vi sono motivazioni ben radicate nell'orizzonte storico-culturale, e queste possono essere lette proprio nella chiave dell'assenza di pregiudizi. Nel Discorso sul metodo egli conduce un attacco a fondo alla cultura ed all'educazione scolastica del proprio tempo, muove un attacco alla tradizione culturale e dunque ai valori di cui essa era portratrice. Così il duplice e astratto movimento dal dubbio assoluto alla certezza assoluta può essere inteso come la versione filosofica del rifiuto di una tradizione - di un gigantesco pregiudizio, appunto - e della posizione di un problema di rifondazione e di rinnovamento radicale di valori. La globalità dell'attacco e la sua indeterminatezza sono i nuovi motivi che probabilmente sono di stimolo per Husserl nella modificazione che si fa strada nel suo pensiero dell'epoché come un rivolgimento radicale che riguarda la filosofia e il destino della civiltà. Nella Conferenza di Vienna la nozione greca di filosofia viene considerata come una produzione del pensiero che proprio in quanto portatrice di ideali di universalità entra in urto con il pensiero tradizionale, con i costumi, con il mito, con la religione. Si apre così una lotta che va al di là dei conflitti tra i sistemi dei singoli pensatori proprio perché la filosofia tende a penetrare di sé lo stesso atteggiamento spirituale degli uomini. La filosofia, che prende le mosse dal singolo filosofo, compenetra la vita sociale, e la lotta tra la tradizione e l'innovazione filosofica "avverrà anche certamente nella sfera del potere politico. La persecuzione comincia già con gli inizi della filosofia. Coloro che vivono per le idee sono sospetti. Eppure le idee sono più forti di qualsiasi forza empirica" (p. 348). 193 La filosofia sorge da un "atteggiamento critico universale verso tutti i dati tradizionali" (p. 346). Più oltre, nella stessa conferenza, egli rivendica a se stesso la qualifica di rivoluzionario: "Sono convinto che io, il presunto reazionario, sono molto più radicale e molto più rivoluzionario di coloro che oggi si bardano di un radicalismo meramente verbale" (p. 348). Ora finalmente possiamo rendere conto di quelle formulazioni sull'epoché che all'inizio avevamo ritenuto sorprendenti. In quelle formulazioni l'epoché veniva intesa come trasformazione radicale dell'umanità; come qualcosa di simile ad una conversione religiosa. Come potevamo capire una cosa simile? Ora ci sembra di essere in grado di capirla. Dentro il quadro che ho cercato di delineare, la rivoluzione più autentica deve essere una rivoluzione filosofica - ed è allora del tutto naturale che una simile enfasi debba cadere sull'epoché e sulla fenomenologia. La via delle idealità viene percorsa fino ai suoi esiti estremi. Si può dire che quanto più cresce in Husserl la consapevolezza della storicità del problema che egli pone, tanto più è portato ad accentuare la tensione ideale e morale, tanto più questa accentuazione diventa una gridata manifestazione di speranza, ma anche di impotenza. Così non vi è dubbio che il filosofo Husserl settantaseienne, nella Conferenza di Vienna e nella Crisi delle scienze europee, per quello che dice e per il modo in cui lo dice ci riempie ancora oggi di ammirazione, anche se si avverte la sensazione che qui si tocchi il limite estremo di una posizione che impone per così dire da se stessa il proprio superamento. Il tono appassionato del suo discorso, la sua vivacità intellettuale, la sua aggressività, la consapevolezza di un compito ormai non più accademico, ma generalmente sociale, la messa da parte di ogni atteggiamento rinunciatario o di ripiegamento - tutto ciò fa sì che questa conferenza e l'opera che ad essa si ricollega meriti un posto importante nella vita culturale della nostra epoca. 194 195 Appendice I La crisi delle scienze europee. Cinquant'anni dopo. Questo scritto riprende un breve intervento tenuto al Convegno sul tema "La crisi delle scienze europee. Cinquant'anni dopo", tenuto all'Università di Roma nel 1985. 196 197 La Crisi delle scienze europee è stata redatta ormai da cinquant'anni. E cinquanta anni sono veramente molti. Ciò è naturalmente qualcosa di più di una pura constatazione. Non già che si voglia conferire a questo richiamo un'immediata connotazione negativa. Ciò sarebbe troppo ovvio. Anzi, notando ciò, mi sembra che si possa provare un certo senso di sollievo, ci si libera da molte preoccupazioni, soprattutto dall'ansietà per le cose di un presente lontano da cui forse ci sentiamo toccati a malapena. Non si tratta dunque di richiamare il molto tempo trascorso con un'inclinazione in se stessa negativa. Si tratta invece di notare che il dare senso e interesse al passato non sempre significa un riavvicinamento, una pur e semplice, necessariamente forzata, riattualizzazione: spesso è invece necessaria un'operazione molto più complessa. Più sottile. Il passato lo si avvicina in molti modi: anche mettendolo a distanza. La Crisi delle scienze europee deve essere posta a distanza proprio per poterne cogliere tutta la portata e direi quasi la potenza. Questa potenza si è andata estenuando quanto più si è preteso di fare di essa una sorta di chiave interpretativa filosofica per il secolo intero. Mentre in essa emergeva con forza straordinaria, con straordinaria tensione filosofica e morale, una risposta possibile a quello che era il problema centrale - sotto il profilo filosofico intellettuale - dell'epoca in cui fu scritta: il problema della ricostruzione di un quadro ideologico che era crollato sotto il colpi della Grande guerra e dell'ascesa del fascismo e del nazismo. Questo era anche il problema di Cassirer ai tempi della Filosofia delle forme simboliche (1923-1929), del primo Heidegger (Essere e tempo, 1927), del Wittgenstein del Tractatus (1922), del Circolo di Vienna (1925) ed anche del Lukàcs di Storia e coscienza di classe (1923), ovviamente secondo prospettive profondamente diverse. Cinquant'anni dopo, la Crisi ci parla intanto di cinquanta anni fa. O almeno noi dobbiamo saperla leggere non solo così, 198 ma anche così. E dunque dobbiamo, dentro la densità del suo discorso teorico, scorgere il dramma di un'epoca, e dobbiamo sapere ammirare in quell'opera di Husserl una reazione esemplare al cedimento della società e della sua cultura - questo ci insegna Husserl, e non certo il cedimento a quel cedimento. E poiché le forze dell'incultura - forze che nel caso migliore significano ruberie, malversazioni, prevaricazioni, abusi, prepotenze, e nel caso peggiore guerra, violenza, morte - sono sempre attive, quella reazione continua a valere ed a scuoterci nel profondo anche cinquant'anni dopo e sperabilmente anche nei cinquanta anni a venire. Ciò vale per la cornice entro cui l'opera si sviluppa, e in particolare per la ricchezza dell'etos che la sostiene. Ma nella Crisi non vi è solo questo. Spesso infatti si chiede al filosofo ciò che non si chiederebbe mai, ad esempio, ad un pittore: di realizzare prima del quadro la sua cornice, approfittando del fatto che in effetti qualche volta i filosofi sono costruttori di cornici senza che dentro vi sia alcun quadro. Invece, lo sanno tutti, il dipinto è più importante della sua cornice, e sono importanti anche gli abbozzi, le prove, i tentativi - il modo in cui il dipinto si va via via realizzando ed assumendo a poco a poco un significato sempre più ricco oppure diversificandosi lungo il cammino. Ora, anche se taluni hanno comunque cercato di ridurre la Crisi delle scienze europee alla sua cornice, in essa vi è un quadro assai ricco sia dal punto di vista storico- filosofico che dal punto di vista dell'elaborazione teoretica. Questo quadro riprende un itinerario che Husserl ha delineato fin dai tempi della Filosofia dell'aritmetica, ed è questo itinerario che a sua volta, oggi può essere ripreso, sviluppato, arricchito. Poche filosofie del nostro tempo si sono prestate a sviluppi, arricchimenti e integrazioni come la fenomenologia. In certo senso la sua "attualità" la si coglie se si rafforza quel carattere di filosofia essenzialmente incompleta che le è sempre stato associato, a cominciare da Husserl stesso. Questa possibile attualità e continuità richiede che l'idea della ricerca 199 fenomenologica nella sua dimensione più elementare riprenda il suo cammino al di là delle enfasi e delle accentuazioni che sono presenti in particolare nella Crisi, e che hanno certamente la loro giustificazione profonda nel suo radicamento storico. Vi sono interi campi ancora aperti all'indagine fenomenologica, ma per giungere a risultati ricchi di interesse questa "storicità" deve essere posta a distanza, dedicando tutta l'attenzione alle "cose stesse". E naturalmente occorre far tesoro, in questi futuri e auspicabili sviluppi, che si tenga conto di quanto di positivo e di fecondo è emerso da altre direzioni. Ve ne è più d'una, ma ora penso in particolare ad una figura come quella di Wittgenstein, che in certo senso è profondamente diversa da quella di Husserl, sia nel temperamento umano che nel metodo filosofico. A questo proposito non è in questione tanto il Tractatus logico-philosophicus, che in realtà appartiene al clima spirituale della Crisi, ma al Wittgenstein dei giochi linguistici, al Wittgenstein che riscopre, dopo le profondità del Tractatus, l'interesse per ciò che sta alla superficie, e dunque per la varietà e la molteplicità dell'esistenza: al Wittgenstein dunque che installa la propria riflessione tra la dimensione minima e la dimensione massima della realtà. Cosa che non vuol dire affatto installarsi ad un livello medio, ma muoversi dinamicamente tra questi estremi - tra la profondità e la superficie. Per ciò che concerne gli stimoli provenienti da questi autori e che puntano direttamente sui metodi e sui contenuti, vi sarebbe certo da discutere a lungo. Ma io vorrei concludere attirando l'attenzione su un aspetto rivelatore della profonda diversità di queste personalità filosofiche esemplari, che forse proprio in virtù della loro opposizione sembrano richiamarsi a vicenda. Di fronte a Husserl che ha alle proprie spalle la grande tradizione della filosofia universitaria tedesca, Wittgenstein sembra uscito in certo senso dal nulla - ed anche il suo modo di riprendere il filo dei problemi filosofici della tradizione è interamente diverso. In Husserl, nel momento in cui si tratta di dare un fondamento all'idea di ricerca fenomenologica, comincia un 200 intenso lavorio di ripensamento del passato filosofico, che tende a ricostruire una sorta di continuità finalisticamente orientata attraverso i nodi cruciali dello sviluppo della filosofia europea. Con ciò è coerente una ripresa dei termini della tradizione filosofica secondo accezioni che dovrebbero confermare la continuità e l'innovazione; ma è coerente anche la continua coniazione di una terminologia filosofica nuova che in questo modo conferma e ribadisce la specificità e l'autonomia della ricerca filosofica, in certo modo il suo specialismo. In ciò consiste uno dei motivi di fascino della posizione di Husserl, che è il fascino delle radici antiche, ed anche certamente il fascino della vecchiaia, di una vecchiaia severa e profondamente serena. In Wittgenstein invece il tema così equivoco del riferimento al linguaggio ordinario, che è stato ripreso spesso secondo una prospettiva di forte appiattimento filosofico, va interpretato anzitutto come la manifestazione di un radicalismo innovatore e inquieto, che rompe con lo specialismo, con il tecnicismo terminologico della tradizione filosofica per ritrovare i propri problemi nella forma più diretta, più immediata, che possa essere discussa in certo senso sui due piedi, richiamandosi alla nostra pura e semplice "capacità di giudicare". Poiché io penso che la prossimità del linguaggio ordinario all'esperienza sia una delle ragioni che orientano la riflessione di Wittgenstein attraverso l'idea-guida dei giochi linguistici, credo che la sua lezione possa essere ben accolta da chi intenda sviluppare creativamente la ricerca fenomenologica. 201 Appendice II Omaggio ad Enzo Paci Articolo pubblicato su L'Unità, 3 agosto 1976, pochi giorni dopo la scomparsa di Enzo Paci (21 luglio 1976) con titolo Una ricerca ininterrotta. La lezione di Enzo Paci. 202 203 È difficile scindere quello che fu il momento più sensibile della presenza di Paci nella cultura italiana - il mo­mento in cui egli prese a par­lare della fenomenologia di Husserl - dall'ottimismo di una dimensione filosofica ritro­vata e, nello stesso tempo, dal senso vivo di una tradi­zione culturale che si rinno­va. Egli parlava allora di "ri­torno" a Husserl: si trattava, dunque, anzitutto, di guarda­re indietro. Molto indietro. Prima del fascismo, prima del nazismo. E l'opera di Husserl a cui egli faceva essenzial­mente riferimento - La crisi delle scienze europee - in­dica la direzione di questo ritorno. In essa il grande pen­satore tedesco compiva una sorta di autointerpretazione del proprio itinerario intellet­tuale che implicava il ripen­samento dei grandi fili con­duttori della filosofia europea in un'ottica che confluiva in un' appas­sionata protesta mo­rale contro il nazismo insor­gente. Quell'opera, pubblicata postuma nel 1954 e che Paci fece tradurre nel 1961, pote­va essere letta come un'ope­ra "attuale": poteva essere intesa come una voce risco­perta che parla non soltanto alla sua epoca, ma anche al­la nostra, proprio in forza del­la sua profonda ispirazione e­tica, di una messa in que­stione del senso e della por­tata della tradizione filosofi­ca europea, nella quale risuo­na pressante l'istanza - ben­chè tutta proiettata in una dimensione puramente specu­lativa - di un rinnovamen­to radicale. La vicenda umana Non c'è dubbio che, per Pa­ci, questo "ritorno" significa­va anzitutto andare oltre un limite preciso. Il limite, ad un tempo, di punti di vista che avevano bisogno di tro­vare un centro effettivo intorno a cui ricomporsi; e di un'impostazione complessiva in cui si risentivano ancora gli echi esistenzialistici delle sue precedenti formulazioni filosofiche. Certo, fin dall'inizio egli a­veva parlato di esistenziali­smo "positivo", ma ciò non bastava a dare all'albero al­tre radici. Queste radici sta­vano certamente nella 204 trage­dia del fascismo e della guer­ra. Diciamo pure: in un mo­do di vivere e di interpre­tare questa tragedia, in un atteggiamento di fronte ad es­sa. Nella vicenda umana di Paci, l'incubo del campo di concentramento che egli evocava talvolta come un incu­bo che non era stato sogna­to, ma vissuto giorno dopo giorno, aveva il duplice sen­so del destino che schiaccia ogni cosa e delle risorse ine­sauribili che gli uomini pos­sono trarre da se stessi nel­la lotta contro di esso. Alla realtà degli incubi si può sem­pre contrapporre una realtà diversa, ricca di senso e fe­lice. Così, anche in seguito, il richiamo ai temi esistenziali­stici aveva una portata, que­sta sì, tutta positiva, di am­pliamento costante dell'oriz­zonte culturale, di compren­sione dell'epoca nei suoi do­cumenti filosofici, scientifici, letterari e artistici nella mi­sura in cui in questi docu­menti l'epoca si apre nella sua drammaticità, ma anche nella sua ricchezza interna di sviluppi possibili, di signi­ficati da connettere, di dire­zioni da cogliere, da ripren­dere, da tramandare. Nel 1965 egli volle racco­gliere sotto il titolo di Rela­z ioni e significati i saggi che riteneva fra i più indicativi di un periodo compreso tra il 1946 e il 1964. Ad essi converrà riandare per rendersi conto, in primo luogo, di un atteggiamento, di uno stile che ha ragioni profonde nel­la personalità di Paci. In questo atteggiamento vi era, più aspra e più forte di quanto forse Paci stesso si rendesse conto, una polemica contro quella che potremmo chiamare semplicemente: la ristrettezza della mente. L'angustia intellettuale. Il soste­nere qualcosa che può anche essere fondamentalmente giu­sto, ma il sostenerlo angustamente. Senza capire che ci sono anche altre istanze. Che non si può schernire nulla o quasi nulla. Che è necessario, comunque, cercare di com­prendere. Esattamente in questo pun­ to le sue idee, il suo modo di intendere la filosofia si fon­dono inestricabilmente con il suo tratto umano, con il suo entusiasmo comunicativo - il fascino delle sue lezioni di un tempo! E del resto questo stesso atteggiamento si trova all'o­rigine della sua così caratte­ristica tendenza alle "media­zioni cultura- 205 li", che conferi­sce alla sua opera un'impron­ta di eclettismo. Esse venne­ro, di volta in volta, aspra­mente contrastate. Ai tempi del "ritorno a Husserl" questi contrasti non avevano, francamente, alcun peso. Si è sempre parlato, in rapporto a Paci, di un irra­zionalismo latente, di uno spi­rito, in ultima analisi, ostile alla scienza. Ciò destava al massimo un lieve sorriso. Allora, intorno a lui, si aveva l'impressione che qualcosa si fosse messo velocemente in moto, che fosse stato acquisi­to un "punto di vista" che consentiva di gettare lo sguar­do a ventaglio sulla cultura e sulla realtà seguendo il movimento dell'una e dell'altra. Una prospettiva era stata aperta: nel suo punto focale il marxismo si presentava come il passo necessario e decisivo. Che non si potesse restare entro i limiti ideologici della filosofia di Husserl, fu ben presto per Paci cosa eviden­te. Il suo progettato commen­to alla Crisi delle scienze eu­ropee divenne la storia di un percorso che conduce al mar­xismo. Non è certo un caso che l'opera in cui questo pas­so viene compiuto - Funzione delle scienze e significato dell'uomo (1963) - sia la sua opera più impegnativa sul pia­no filosofico e, nello stesso tempo, la sua opera più lim­pida e chiara. Nella visione marxista di Paci, era importante il richia­mo alla soggettività - alla soggettività storicamente inte­sa come costitutiva di valori, come soggettività concreta­mente determinata che pone, nelle condizioni sempre nuo­ve dello sviluppo, un orizzon­te aperto di fini. Perciò egli ritenne di poter riprendere la tematica husserliana del "mondo della vita" come ter­reno a partire dal quale ogni sviluppo filosofico e scientifi­co deve essere ripensato e ricompreso, in una reinterpre­tazione capace di connettere il richiamo ad una realtà sto­rica soggiacente ad ogni co­struzione teorica con l'accen­to posto sulle determinazioni materiali che condizionano l'operare soggettivo in uno svi­luppo sociale attraversato da parte a parte da una conflit­tualità storica. Non c'è dubbio che, in que­sta prospettiva, tutti i mo­menti che avevano contrasse­gnato l'itinerario filosofico di Paci trovarono la loro sinte­si più felice e nettamente per­cepibile. Nell'insistenza sul problema dei fini 206 riecheggiava, in un nuovo contesto, i motivi neokantiani della sua giovinezza; così come la con­cezione della soggettività che andava proponendo configurava una concezione del marxi­smo come filosofia in pro­gresso che, in linea di princi­pio, non può irrigidirsi in for­mule, in chiusure settarie, in atteggiamenti culturali, teori­ci e politici precostituiti. I temi materialistici sbarravano la strada alla retorica della "vita dello spirito". Ma la di­rezione in cui questi temi ve­nivano ripresi manteneva a­perto come problema tutto ciò che sotto questo titolo poteva essere ricondotto. Poi venne il '68. Questo enorme serbatoio di energia so­ ciale e culturale che deflagra diventa per Paci la prima ef­fettiva occasione per misura­re fino in fondo, come filoso­fo, come intellettuale, il pro­prio rapporto con la realtà. Al '68 si doveva aderire, e non si poteva non aderire ap­passiona­tamente. Tutti ricor­dano l'esplosiva passione di Paci in quegli anni. Tutti gli studenti in fermento lo han­no amato allora. Il problema difficile era comprendere passo dopo pas­so che cosa realmente stes­se accadendo, quali fossero le tendenze dello sviluppo: le modificazioni che andavano via via producendosi nella so­cietà nel suo complesso e nel­l'istituzione universitaria in particolare; quindi nel ruolo dell'intel­lettuale, nel suo rap­porto con la politica. Si imponevano scelte strettamente subordinate ad un'analisi del­la realtà che non può essere, in certo senso, fatta da soli; che non può essere dedotta, nemmeno dal marxismo. L'a­desione al '68 non poteva in nessun caso essere un erro­re. Dopo, invece, ogni erro­re diventava possibile se non si riusciva a cogliere, nell'insieme del movimento, una direzione. O anche più d'una, ma in ogni caso qualche di­rezione. Istanze dei tempi nuovi Paci seguì il movimento successivo con incertezze cre­scenti. Da un lato veniva me­no, sotto l'urto delle cose, un'immagine di intellettuale con la quale si era sempre identificato, ma che non 207 cor­rispondeva probabilmente più alle istanze dei tempi nuovi. Dall'altro, egli fece ogni sfor­zo per capire e valutare. Ma per molti aspetti questa real­tà nuova doveva apparirgli indecifrabile. Aveva compre­so con chiarezza che non si poteva essere apologeti acri­tici del mito di una nuova si­nistra. Tuttavia, una strada per la ricostruzione di un momento organico di raccordo tra cultura e società, tra isti­tuzioni e figure istituzionali da un lato e movimento sociale dall'altro, si perdeva forse per lui come si perdono i sentieri nel bosco. Ciò che alla fine ricercò appassionatamente - pur nelle condizioni tragiche in cui si svolse la sua esistenza negli ultimi anni - fu il mantenimento di un legame saldo, fondato sul­la parola viva, sull'insegnamento, con i suoi studenti, con i giovani. Giovanni Piana Opere Complete Volume ventiquattresimo Fenomenologia delle sintesi passive 1. Intenzionalità, essenza, costituzione, sintesi, p. 7 2. Fenomenologia delle sintesi passive, p. 39 3. La percezione come luogo originario della chiarificazione nelle lezioni husserliane sulla sintesi passiva, p. 199 2013 4 ISBN 978-1-291-60604-1 Copyright @ Giovanni Piana (2013) Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT Le illustrazioni di questo libro sono tratte da dipinti di Vassily Kandinsky (ad eccezione delle pp. 148, 153, 154) 5 Indice 1. Intenzionalità, essenza, costituzione, sintesi, p. 7 1. Intenzionalità, p. 9 2. Essenza, p. 16 3. Costituzione, p. 23 4. Sintesi, p. 29 2. Fenomenologia delle sintesi passive, p. 39 1. Il prospettivismo della percezione, p. 41 2. La logica della percezione, p. 47 3. La forma temporale, p. 50 4. Intenzione e riempimento, p. 52 5. Ritenzione e protenzione, p. 54 6. Orizzonte esterno e orizzonte interno, p. 56 7. Conoscenza e presa d'atto, p. 58 8. Intelaiatura di senso e tracciato di senso, p. 60 9. La negazione, p. 62 10. Il dubbio, p. 76 11. La possibilità, p. 82 12. La decisione, p. 89 13. Estensioni in direzione di una teoria della soggettività, p. 95 14. Teoria fenomenologica dell'associazione, p. 100 15. Il problema degli elementi, p. 111 16. Emergenze, p. 116 17. Sintesi tra emergenze, p. 123 18. Continuità e discretezza, p. 131 19. Sfumature cromatiche e suoni glissanti, p. 133 20. Sintesi di coincidenza e ripetizione, p. 138 21. Fenomenologia dei campi sensoriali, p. 143 22. Progressioni, p. 146 23. Luoghi e sistemi di luoghi, p. 151 24. Affezione, p. 156 25. Il ridestamento dell'io e le affezioni latenti, p. 158 26. La metafora del sonno, il passato, l'inconscio, p. 159 27. Emergenza e forza affettiva, p. 161 6 28. Inconscio, p. 169 29. Gradazioni dell'affezione e livelli di consapevolezza, p. 174 30. Il ricordo improvviso. p. 179 31. L'associazione e la vita di coscienza, p. 181 32. La concatenazione e gli anelli intermedi, p. 185 33. L'associazione al futuro, p. 188 34. Prima esperienza e ripetizione, p. 193 35. Il versante epistemologico della struttura delle attese 3. La percezione come luogo originario della chiarificazione nelle lezioni husserliane sulla sintesi passiva. 7 Intenzionalità, essenza, costituzione, sintesi 1988 8 Questo testo è tratto da materiali del corso tenuto all'Università degli Studi di Milano nell'anno 1987-88, intitolato "Introduzione alla fenomenologia". 9 Premessa Vi sono quattro parole, caratteristiche della filosofia fenomenologica, che sono sufficienti ad introdurre ad essa. Esse sono: intenzionalità, essenza, costituzione, sintesi. Il tentativo che vorrei fare è illustrarne in breve il senso - naturalmente secondo l'angolatura, le prese di posizione, le inclusioni e le esclusioni che caratterizzano il mio modo di vedere questo orientamento filosofico. Intenzionalità La parola "intenzionalità" ha origini latine e risale alla filosofia medioevale. Da essa viene tratta e rimessa in vigore da Franz Brentano, e poi, in un senso strettamente legato al proprio impianto filosofico, da Husserl. È appena il caso di dirlo: la parola fa parte della terminologia filosofica nel senso più stretto. In Husserl essa viene impiegata in rapporto alla tematica della coscienza o, in generale, della soggettività. Inoltre spesso si parla di analisi intenzionale per indicare la stessa ricerca fenomenologica. La nostra prima presa di posizione è la seguente: proprio per la molteplicità di problemi che gravitano intorno a questa nozione, è opportuno considerare la "teoria" dell'intenzionalità, non tanto come una teoria ma come un insieme di motivi che possono essere riuniti intorno al quel termine. Nonostante l'appartenenza della parola alla terminologia tecnica della filosofia, le nostre considerazioni possono essere aperte proprio tenendo conto di certi modi caratteristici di impiegare parole ad essa collegate, ma che appartengono invece ad un impiego corrente. Noi parliamo, ad esempio, delle nostre intenzioni intorno al modo di affrontare un problema o di sviluppare un'iniziativa. Un'intenzione è qualcosa di simile ad una decisione - sia pure in un senso non troppo forte - che sta per essere presa, a qualcosa che si ha in animo di fare o di non fare. 10 In questo impiego vi sono alcuni aspetti che ci possono interessare proprio in rapporto all'impiego filosofico, ma anche altri che potrebbero essere fortemente fuorvianti. Può essere interessante il fatto che l'intenzione ha di mira qualcosa che di norma non è ancora stato realizzato. In tal caso la parola esprime una situazione di dinamismo, un movimento della soggettività stessa, una sua tendenza. Qualcosa di questo senso entra nell'impiego filosofico, mentre gli aspetti che collegano, nel linguaggio corrente, l'intenzione con un atto di volontà sono fuorvianti rispetto all'impiego filosofico. Le espressioni intenzionale-non intenzionale spesso sono buoni sinonimi di volontario-involontario. Sono invece per noi molto interessanti le considerazioni che si possono fare sul verbo intendere, che naturalmente appartiene alla stessa famiglia di parole. È bene in proposito rammentare che la parola corrispondente nel tedesco è il verbo meinen, e dunque anche il sostantivo Meinung. Soffermandoci su alcuni caratteristici impieghi di queste parole arriveremo in realtà molto vicini a quello che io penso sia il centro della questione. A questo scopo dobbiamo richiamare l'attenzione non tanto su quegli impieghi in cui "intendere" è all'incirca equivalente a "comprendere", ma piuttosto sugli esempi in cui l'intendere indica un modo di comprendere, un modo di afferrare un'opinione e di farla propria. Analogamente sugli esempi in cui "intendere" viene impiegato per rendere esplicito il riferimento implicito in un discorso o in un'allusione. Ad esempio, possiamo dire: "io ho inteso l'ordine in questo modo" piuttosto che in quest'altro. Oppure: "ciascuno potrà intendere quest'affermazione a modo suo". Se vogliamo invece illustrare il secondo caso possiamo esemplificare con frasi come: "Non intendevo dire questo"; "Intendevo proprio lui, è lui che avevo di mira nelle considerazioni che ho svolto poco fa". La frase "non intendevo dire questo" 11 esprime la circostanza che non era questo l'argomento a cui miravo con le mie parole. È interessante notare che il verbo meinen in tedesco significa spesso "pensare", ma in un'accezione particolare, nell'acce­ zione che si fa valere in italiano quando diciamo "Io la penso così", "Questa è la mia opinione" - ed in effetti, nel discorso corrente tedesco Meinung significa soprattutto "opinione". Ma meinen significa naturalmente anche aver di mira nel senso or ora illustrato. Tutte queste considerazioni possono dunque essere riportate alle diversità dei modi di intendere qualcosa. L'intendere ha dunque anche il senso di un modo di aver di mira. Vogliamo illustrare questa nozione che abbiamo ormai trasferito dal discorso corrente alla terminologia filosofica con un esempio molto semplice. Supponiamo di essere di fronte ad un dipinto che ha un evidente contenuto rappresentativo - una figura umana o un paesaggio. Può accadere tuttavia che se ci avviciniamo troppo al dipinto il rimando rappresentativo non venga più colto e che io non riesca più a seguire le linee e i contorni che producono un effetto raffigurativo e che veda invece soltanto macchie di colore. Oppure, mentre qualcuno discorre, durante una conferenza, di norma prestiamo attenzione al senso delle parole, ma può anche essere che io prescinda da questo senso e diriga la mia attenzione, più che al loro senso, al loro suono. Lo stesso oggetto, la parola, viene ora intesa in un modo, ora in un altro, ora come senso, ora come suono. E così anche nel caso del dipinto. Naturalmente possiamo anche dire: ora intendiamo il suono, ora il senso; ora abbiamo di mira la raffigurazione, ora soltanto le macchie di colore. Se ora tentiamo la generalizzazione di questa nozione, arriviamo a cogliere uno degli aspetti più importanti della teoria dell'intenzionalità. Ma che cosa significa operare la generalizzazione di questa nozione? Significa considerare tutto ciò che fa parte del nostro atteggiarsi verso il mondo, quindi il percepire, 12 il ricordare, l'immaginare, il volere, il desiderare, ecc., alla luce della nozione dell'intendere. Si tratta dunque della "coscienza" stessa - una vecchia parola che in ogni caso può ancora servire a indicare l'insieme di questi "atti" che verranno caratterizzati dall'intenzionalità, cioè dall'essere puramente modi diversi di aver di mira un'oggettualità. Così la differenza tra percepire ed immaginare sarà da ricercare nel diverso modo in cui esse si riferiscono al loro oggetto - uno stesso oggetto, ad esempio un cavallo, può essere dato percettivamente o immaginativamente e la differenza sta unicamente nel modo in cui esso viene "inteso" nell'uno o nell'altro caso. Va notato che in questo modo di impostare il problema appare chiara la netta distinzione tra analisi fenomenologica e metodo introspettivo, perché non si tratterà di cercare questa differenza attraverso l'autosservazione di ciò che accade nella nostra mente quando percepiamo o immaginiamo un cavallo, ma di illustrare in che cosa l'intenzionalità percettiva si differenzia dall'intenzionalità immaginativa. Per mostrare nuovi motivi di riflessione, vogliamo considerare lo stesso problema da un diverso punto di vista. Abbiamo parlato dell'intenzionalità come di una "caratteristica" degli atti di coscienza, e quindi della coscienza stessa. Talvolta si legge anche, come una sorta di definizione dell'intenzionalità, la frase: "La coscienza è sempre coscienza di qualche cosa". Formulazioni come queste forse non sono a sufficienza illustrate dalle nostre considerazioni precedenti. In certo senso in esse abbiamo ritenuto di dover anzitutto attirare l'attenzione sulla nozione di modo di intendere e sulla differenza tra i modi di intendere piuttosto che sull'intendere stesso come un puro e semplice aver di mira qualcosa. Ma naturalmente parlando di intenzionalità si parla anzitutto di una relazione con un'oggettività che pone fuori gioco in via di principio qualunque concezione che abbia implicitamente o esplicitamente alla sua 13 base la separazione tra coscienza e mondo, tra atti soggettivi in genere e oggettività, e quindi tra "interno" (immanente) ed "esterno" (trascendente). Secondo la concezione che stiamo abbozzando non avrebbe senso parlare di una coscienza come una sorta di entità psichica che entra in qualche modo - e certamente in un modo che non può essere affatto chiaro - con una realtà extrapsichica. Ciò che si sostiene invece è che ogni atto di coscienza è caratterizzato proprio dal fatto che esso si trova direttamente riferito ad un oggetto. Ciò significa, ad esempio, che la percezione consta certamente di momenti soggettivi, ma essi presentano la cosa stessa, questa sedia che io posso appunto vedere o toccare, e non in primo luogo un fantasma di sedia che farebbe da mediazione psichica rispetto alla cosa reale che sta fuori dalla coscienza. La "teoria dell'intenzionalità" - se vogliamo esprimerci in questo modo - contiene la negazione che vi sia un fuori dalla coscienza- ma contiene anche la negazione che la coscienza sia una sorta di luogo, di spazio chiuso dentro il quale ci sarebbero le immagini delle cose. Invece di una simile concezione statico-spaziale, il tema dell'intenzionalità propone una concezione dinamica secondo la quale l'atto di coscienza è senz'altro proteso verso qualcosa che non è affatto necessariamente contenuto nella coscienza. È forse contenuta nella coscienza la statuetta di marmo che ora io percepisco? Certamente no. Eppure è proprio questa statuetta di marmo che io ho di mira percettivamente. L'espressione "aver di mira" deve dunque essere impiegata anche tenendo conto di questo senso: si ha di mira qualcosa che sta oltre. In questo senso va ripresa e commentata: "la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa": in essa l'accento deve cadere sulla paroletta "di". Questa paroletta opera la transizione tra interno ed esterno, tra immanente e trascendente. Essa dice: la coscienza ha di mira la trascendenza ed è caratterizzata da un movimento di autotrascendimento. Si tratta di affermazioni di grande portata che tuttavia, a 14 mio avviso, spesso sono state interpretate con accentuazioni che tendono a sviarne il senso. In realtà io credo che sia importante non dimenticare i problemi filosofici speciali da cui esse hanno origine. In particolare occorrerebbe non perdere di vista anche il modo in cui questo tema dell'intenzionalità si è imposto, dal momento che questo sviluppo non è affatto indifferente al suo senso. Nelle Ricerche logiche, nelle quali non si pensa ancora ad una concezione generale della filosofia come fenomenologia, il tema dell'intenzionalità è tuttavia ben presente, e lo è in una forma ad un tempo elementare e chiara, meno ricca di implicazioni filosofiche direttamente visibili di ampio respiro e tuttavia tale da indicare già con chiarezza le prospettive future. In quest'opera si parla di "vissuti intenzionali" per indicare quegli atti di coscienza che sono caratterizzati dalla relazione ad un oggetto, dal momento che essi vanno contraddistinti da quei vissuti che sono "stati di coscienza" piuttosto che atti. In effetti non tutto ciò che accade nella vita psichica è caratterizzato da una direzione verso l'oggetto. Con ciò non pensiamo soltanto a quei casi in cui l'oggetto è semplicemente indeterminato, ma in generale a quegli stati affettivi ed emotivi che non hanno affatto la struttura dell'"aver di mira". Si pensi alla tristezza, alla gioia, all'infinità di sfumature intermedie, agli stati di malessere e di benessere - questi non sono affatto atti, ma stati, e non hanno dunque la caratteristica dell'intenzionalità. Una volta messa in rilievo questa distinzione tuttavia Husserl discute a lungo, e con una grande dovizia di dettagli analitici, se ai vissuti intenzionali debba essere dato qualche privilegio ovvero se il momento dell'intenzionalità debba essere comunque riconosciuto come un momento che sostiene la compagine della coscienza nel suo insieme. Al di là di tutte le sottigliezze e i dettagli si comprende abbastanza facilmente il senso generale di questo orientamento della ricerca: una coscienza fatta soltanto di stati e priva di atti sarebbe un puro magma psichico, chiuso in se 15 stesso, inarticolato, senza mondo. Ed è importante notare come questi temi si richiamino l'un l'altro: la coscienza è articolata proprio nella misura in cui ha un mondo, ed essa ha un mondo in quanto vi sono in essa vissuti che puntano direttamente su oggetti. Sono dunque proprio questi vissuti a costituire la struttura portante della coscienza stessa e del suo dinamismo. Questo è un nuovo motivo che appartiene alle origini del problema, ma che fa anche parte della costellazione di motivi che sono chiamati in causa dal tema dell'intenzionalità. Annotazione Abbiamo usato il termine di "vissuto" ed "esperienza vissuta" per tradurre il tedesco Erlebnis. Nelle traduzioni italiane di Husserl antecedenti alle Ricerche logiche, il termine veniva lasciato nella versione tedesca, come se questo facilitasse le cose. In realtà esso deve essere considerato, alla stregua di altri termini che abbiamo impiegato nella nostra esposizione, come coscienza o atto di coscienza, come un termine che rammenta l'origine delle tematiche fenomenologiche dalla psicologia. Ma a parte questo, qualunque traduzione deve tener conto dei contesti e quindi dei sensi attribuiti dall'autore a questo o a quel termine. Molti interpreti hanno ritenuto di poter impiegare questo termine come se esso alludesse ad un modo peculiare e misterioso di "sentire", come se in esso vi fosse un richiamo alla concretezza delle nostre esperienze vissute che, come sappiamo, quando più sono concrete, tanto più sono incomunicabili, come i nostri amori. Come si sarà già compreso, io sono contrario a qualunque versione della tematica fenomenologica che esasperi il tema della concretezza in una direzione vitalistico-sentimentalistica. E credo che questa contrarietà sia ben giustificata nei testi husserliani. Il termine di vissuto non ha in Husserl alcuna accezione pregnante, indica semplicemente gli atti di coscienza in genere, persino gli atti che si richiamano a operazioni propriamente intellettuali. In proposito è forse utile rammentare l'espressione cartesiana: i vissuti non sono altro che ciò che Cartesio chiamava cogitationes - richiamandosi a tutti gli atti concreti di coscienza in genere, ma non a caso mediante un termine che allude anzitutto al pensare. 16 Essenza Pur avendo una tradizione antichissima, il termine di essenza è stato rimesso in particolare vigore dall'impostazione fenomenologica. In Husserl si può tradurre in questo modo il termine di Wesen: ma nei suoi testi viene impiegato anche il termine di origine latina Essenz, ed in un senso analogo il termine greco, anzi specificamente platonico, di eidos. Questi termini naturalmente dànno poi luogo a forme aggettivali: non solo essenziale (wesentlich), ma anche eidetico (eidetisch). Così Husserl parlava di "intuizione eidetica" per indicare una "visione dell'essenza" nella quale intendeva certamente riprendere lo spirito della filosofia platonica. In Platone la conoscenza autentica è una conoscenza rivolta alle idee, cioè agli aspetti stabili e necessari delle cose. E ciò sosteneva Platone in aperta critica contro un modo di concepire il sapere come un puro e semplice ammasso di cognizioni tratte dall'osservazione, dall'esperienza sensibile. Se il modello della conoscenza è la matematica in genere, e in particolare la geometria, come lo era sicuramente per Platone, allora l'idea di un sapere puramente empirico, privo di un'interna sistematicità non può essere considerato soddisfacente. In Husserl non vi è certamente un simile modello del sapere filosofico, ma vi sono diversi elementi che suggeriscono la ripresa di una terminologia platonica. Ciò ha generato numerose controversie sul senso effettivo di questa ripresa terminologica, controversie che sono rese ancora più complesse dal fatto che lo spirito della problematica empiristica è tutt'altro che spento in Husserl. In ogni caso la tematica dell'essenza serve spesso per caratterizzare gli scopi della ricerca fenomenologica. Così si ripete che la ricerca fenomenologica è rivolta all'essenza, che essa ha di mira relazioni eidetiche, quindi relazioni ideali più che relazioni empirico-fattuali. Si tratta di formulazioni che non sembrano affatto predisposte ad una comprensione immediata. 17 Ora, di fronte a questi problemi e difficoltà, vogliamo avviare la nostra discussione secondo il metodo che abbiamo già precedentemente sperimentato: nonostante il fatto che si tratti di parole che appartengono ad una terminologia tecnica, cercheremo anzitutto di mettere in evidenza l'area di senso che si può trarre dalla considerazione di impieghi quotidiani. In fin dei conti negli usi correnti, soprattutto dell'aggettivo "essenziale" sono certamente implicati momenti che interessano anche l'uso filosofico. Questo aggettivo ha un'area di senso che va dal richiamo alla pura e semplice importanza di qualcosa sino a quello della necessità o dell'indispensabilità di ciò che viene detto essere essenziale. Ogni volta che si usa, in contesti correnti, la parola essenziale, ad essa può quasi sempre essere sostituita con parole come importante, necessario, indispensabile, immancabile: il punto essenziale di una questione è il punto più importante, il punto che non può mancare senza che la questione perda del tutto di senso. E così anche quando diciamo che, in questa o quella occasione, è essenziale la presenza di qualcuno o di qualcosa. Nella terminologia filosofica ovviamente le cose sono rese particolarmente complesse dalla varietà delle posizioni filosofiche in cui la parola viene utilizzata. Tuttavia il tratto comune sta nella differenza tra aspetti accidentali e aspetti necessari delle cose - e gli aspetti accidentali sono ovviamente quegli aspetti (proprietà, momenti) che possono anche mancare o venire meno senza che la cosa cessi di essere quella che è. Sullo sfondo di questa distinzione si fa avanti una contrapposizione, certamente presente nella tradizione filosofica, tra fenomeno ed essenza, se con fenomeno si indica una pura parvenza: ciò che soltanto appare, in contrapposizione a ciò che veramente è. Se si accetta una simile contrapposizione il parlare di una essenza colta seguendo la via dei fenomeni può sembrare addirittura un controsenso. I modi di apparire di una stessa cosa possono variare, mentre l'essenza è ciò che permane identico al di là delle possibili 18 variazioni. Talvolta questa identità è intesa con una sfumatura di idealità - come nel caso delle figure geometriche o dei "concetti" in genere. Una retta così come viene descritta dalla geometria o una qualunque figura pensata nella sua purezza geometrica non si ritrova nella realtà concreta, benché si possa forse dire che essa rappresenta l'essenza delle figure geometriche dello stesso tipo che possiamo vedere intorno a noi. Il concetto di "cavallo" può essere inteso come l'identico che permane al di là delle differenti specie di cavalli, così come del resto dei cavalli nella loro individualità concreta e concretamente osservabile. La parola essenza può dunque ricevere anche il senso di "concetto" o di "idea". La tematica dell'essenza è correlata a quella della definizione - anzi si tratta forse di qualcosa di più di una semplice correlazione. Definire qualcosa è dire che cosa essa propriamente è, e in ciò che una cosa propriamente è non sono inclusi i momenti accidentali liberamente variabili. Ciò che si definisce è dunque l'essenza. Definire significa qualcosa di simile a dire l'essenza. Noi diciamo l'essenza dell'uomo, se ad esempio proponiamo la definizione di uomo come "animale razionale", o l'essenza del punto se lo definiamo come "ciò che non ha parti". E così possiamo cercare definizioni per il numero, per le varie figure e forme della geometria, per il bello, per le differenza del giusto e dell'ingiusto… Naturalmente qui non siamo interessati a discutere nessuna definizione come tale, e nemmeno richiamare l'attenzione su tutte le difficoltà che si possono sollevare a partire di qui, sia sulla nozione di essenza sia su quella di definizione, sia infine sulla correlazione tra essenza e definizione. Ciò che ci interessa mostrare è invece in che modo i temi suggeriti da quella parola entrino all'interno della problematica fenomenologica e fino a che punto ed in quale forma, certamente modificata, essi intervengano in un orizzonte fenomeno- 19 logico. Di fatto, ciò che abbiamo detto in precedenza è una sorta di preparazione in negativo, dal momento che per intendere il modo in cui la problematica dell'essenza entra all'interno delle considerazioni fenomenologiche è necessario anzitutto separare questa problematica da quella della ricerca di una definizione, a cui invece la abbiamo or ora strettamente collegata. Il collegamento deve essere fatto non tanto alla definizione, quanto alla descrizione. Vogliamo spiegarci meglio. Nell'impiego precedente del termine di definizione ci si richiamava fondamentalmente ad una operazione di concettualizzazione. Secondo quell'accezione, cercare una definizione di "numero" pone il problema di determinare la nozione di numero che ci può essere nota nei suoi impieghi pratici, in modo concettualmente chiaro. Attraverso la definizione la nozione definita riceve un'effettiva determinatezza concettuale e viene anche messa al riparo da difficoltà e oscurità di ordine logico. Perciò potremmo parlare della definizione come di un'operazione di concettualizzazione che si conclude con una proposizione che "dice l'essenza": "il numero è…". Con la fenomenologia si fa avanti un'istanza descrittiva che va incisivamente sottolineata. Quindi si imbocca anche un'altra strada per ciò che riguarda l'idea del definire e del concettualizzare. E la sua mèta non è una proposizione che dice l'essenza. Ma allora in che senso si può dire che la ricerca fenomenologica è rivolta all'essenza? Lo si può dire in quanto nella ricerca diretta sui fenomeni, nelle descrizioni che andiamo conducendo ci imbattiamo in circostanze, relazioni, proprietà che non sono accidentali, che non sono ad esempio legate alle particolarità dell'oggetto o stato di cose considerato, e nemmeno alle particolarità dell'osservatore, alle sue peculiari disposizioni psichiche così come al momento ed al luogo dell'osservazione. Tutto l'interesse della nostra ricerca dipende dal reperimento di circostanze che appartengono all'ordine dell'essenza. Una delle tesi più notevoli - e certamente anche più di- 20 scutibili della posizione espressa da Husserl - è che l'ambito delle verità essenziali sia da estendere dal campo delle scienze matematico-formali al campo dell'esperienza, quindi anche al campo dei fenomeni. Nei percorsi che noi compiamo attraverso i fenomeni - ad esempio nel campo della percezione, della memoria e dell'immaginazione, ma anche nei rapporti reciproci, negli intrecci complessi tra questi modi di intendere, nelle relazioni dinamiche tra campi percettivi, memorativi, immaginativi e affettivi, noi incontriamo relazioni e proprietà essenziali che formano l'oggetto vero e proprio della nostra ricerca. Questa è una tesi di fondamentale importanza che fa parte dell'idea di fenomenologia teorizzata da Husserl. In essa - è bene sottolinearlo - l'antico modello della geometria in qualche modo viene ripreso in una nuova forma: viene meno l'aspetto deduttivo, ma non invece il richiamo alla "purezza" delle relazioni geometriche, alla loro necessità ed alla loro essenzialità. In realtà, Husserl in più di una occasione sottolinea che nella fenomenologia ci si propone di realizzare una sorta di vera e propria geometria dell'esperienza. Vi sono dunque buone ragioni per una ripresa del problema dell'essenza e del linguaggio dell'essenzialismo. Si pensi soltanto a ciò che abbiamo affermato poco fa: l'essenza è ciò che permane identico al di là di possibili variazioni. Questa formulazione può essere rammentata per illustrare quella sorta di apparente artificio interno della ricerca fenomenologica che Husserl chiama "variazione eidetica". Questo termine potrebbe essere illustrato così: alla presenza di un contesto fenomenologico, puoi afferrare ciò che in esso appartiene all'essenza variando a piacere i momenti del contesto. In questa variazione qualcosa deve restare identico e ciò che resta identico è appunto ciò che appartiene all'eidos. La "variazione eidetica" è dunque una sorta di metodo per separare l'accidentale dal necessario - più esattamente è un modo di formulare il concetto di questa separazione. 21 Nonostante il fatto che l'impiego del termine di essenza in connessione con la problematica fenomenologica possa essere ampiamente giustificato, a mio avviso il suo impiego non è privo di inconvenienti, e talora può apparire forzato e fuorviante. Questo termine può suggerire che le ricerche fenomenologiche siano effettivamente indirizzate alle "verità essenziali", come se ciascuna di essa, benché non metta capo ad una definizione, tuttavia debba mettere capo a qualche verità assoluta. L'idea della "variazione eidetica" fa poi pensare che l'impegno massimo del fenomenologo consista in un'assillante interrogazione intorno all'accidentalità ed all'essenzialità, che egli occupi tutto il suo tempo ad operare "variazioni eidetiche" a fini classificatori o addirittura enciclopedici. In rapporto a queste perplessità, occorre rammentarsi del fatto che spesso accade nella filosofia che la proposta di un nuovo termine non lascia affatto le cose come stanno, ma contribuisce ad illustrare il problema da nuovi lati, ed eventualmente anche a determinarne meglio la direzione di senso. È allora il caso di notare che la parola tedesca Wesen non ci obbliga senz'altro alla traduzione essenza. Se badiamo agli usi correnti, più che a quelli filosofici, nel dizionario troviamo traduzioni come "natura", "modo di essere", "modo di comportarsi", "carattere" - e come parte di parola composta essa indica qualcosa di simile a "organizzazione", "sistema" e simili. Nel periodo in cui mi accingevo alla traduzione italiana delle Ricerche logiche fui fortemente tentato di abbandonare la classica traduzione di Wesen con essenza, rendendo invece questo termine con la parola "struttura" che mi sembrava non allontanarsi troppo dalla sua area di senso. Si trattava di una proposta piuttosto audace che avrebbe fatto dissolvere la terminologia essenzialistica da buona parte delle Ricerche Logiche. Enzo Paci reagì molto vivacemente - e negativamente! - a questa mia proposta, non tanto per ragioni di ordine filologico su cui concordava, ma per timore delle conseguenze interpretative che avrebbero potuto derivarne, in un periodo domina- 22 to dallo strutturalismo di ispirazione linguistica. In realtà quella proposta non aveva di mira un'approssimazione della tematica fenomenologica allo strutturalismo linguistico, quanto piuttosto era suggerita dall'idea che l'effettiva portata e gli intendimenti reali della ricerca fenomenologica fossero meglio illustrati proprio dal riferimento alla struttura. Si trattava peraltro di un'idea che meritava di essere fatta valere, piuttosto che sul piano di una traduzione, su quello di un atteggiamento interpretativo vero e proprio, che non aveva avuto, a mio avviso, né in Francia né in Italia, e tanto meno in Germania, modo di manifestarsi come un modo possibile di esercitare la ricerca fenomenologica. Per questo in seguito, per indicare questo atteggiamento interpretativo, ho spesso parlato di orientamento fenomenologico-strutturale o anche semplicemente di strutturalismo fenomenologico. Annotazione Nel & 8 di Ideen III, Husserl non esita a riprendere per illustrare la differenza tra fenomenologia filosofica e psicologia empirico-sperimentale, la vecchia dizione, caduta da tempo in disuso, di psicologia razionale. La fenomenologia, egli dice, si può presentare nella forma di una scienza razionale, addirittura come ontologia della sfera della psichicità (e l'impiego di quest'ultimo termine mostra come egli lo usasse secondo un significato molto ampio, relativo alle idee delle ontologie regionali). E fin dall'inizio è presente il parallelismo con la geometria: "Chi credesse che i risultati della fenomenologia siano ottenibili anche dalla psicologia attraverso l'esperienza interna si metterebbe nella stessa posizione di chi credesse che la geometria possa essere sostituita, per il fisico, dall'osservazione e dall'esperimento" (Idee per una fenomenologia pura, Torino, Einaudi, anno, p. 824). Psicologia sperimentale e fenomenologia hanno compiti diversi: la prima ha di mira "gli stati psichici degli individui reali del mondo reale" ; la seconda la formulazione di "leggi essenziali", che non sono fondate su descrizioni od osservazioni fattuali. L'esistenza di cui si parla nella fenomenologia ha lo stesso senso dell'esistenza nella matematica. Le leggi formulate non hanno il carattere di leggi che 23 hanno bisogno di conferma empirica (cfr. pp. 827-28). Da questo punto di vista è esemplare il riferimento a Galileo: "Riconoscere la possibilità di una disciplina razionale… significa innalzare ad un nuovo grado la corrispondente scienza sperimentale regionale. In questo modo la scienza naturale fisica del secolo XVII è stata innalzata ad un nuovo grado attraverso la scoperta che la geometria, certo da tempo esistente, era un elemento fondamentale di una mathesis della natura, di una mathesis che investe non soltanto la forma delle cose, ma anche l'intera cosa materiale… Ritenere che l'esperienza e l'induzione (che erano state usate ben prima di Galileo e di Keplero) siano all'origine della scienza esatta moderna vuol dire non comprendere il senso e la storia di questa scienza" (ivi, p. 823). L'esempio della geometria, che ricorre di frequente, è importante anche per intendere in che senso si parla di intuizioni eidetiche o essenziali. "L'esperito è quindi lo stesso dell'esperito del geometra, il quale trasforma l'intuizione empirica usuale delle cose in un che di eidetico, si tratti di figure disegnate sulla lavagna o di quei modelli che egli va a prendere nell'apposito armadio" (ivi, p. 822). Va da sé che fenomenologia e matematica, pur essendo entrambi dottrine delle essenze, per il resto sono nettamente diverse e non avrebbe senso per la fenomenologia una esposizione assiomatica e deduttiva. 24 Costituzione Sono convinto che con la possibilità di sostituire le parole essenza ed essenziale con struttura e strutturale si abbia la sensazione di ottenere subito un certo grado di maggiore chiarezza. Parlare della struttura della coscienza in luogo che di essenza della coscienza oppure, più determinatamente, di struttura della percezione, di struttura dell'oggetto immaginativo, ecc. - in altri termini considerare l'analisi fenomenologica come un particolare tipo di analisi strutturale mi sembra rendere con maggiore chiarezza il nostro problema ed in ogni caso corrisponde ad una sottolineatura e ad un'accentuazione di un aspetto della tematica fenomenologica che è caratteristica del modo in cui io tendo a interpretare la filosofia fenomenologica nel suo insieme. Con la parola struttura, inoltre, ci approssimiamo anche al problema della costituzione, un termine che allude ad una problematica che spesso viene contrapposta a quella "essen-zialistica", in parte a ragione, in parte a torto. Di un'analisi fenomenologica possiamo dire che si pone compiti costitutivi rispetto ad una determinata oggettività, nel senso ampio del termine: ad esempio, rispetto ad un concetto astratto oppure ad un senso che si manifesta sul piano fenomenologico. "Costituzione" è parola tratta di peso dal latino anche nella terminologia di Husserl: in latino troviamo il verbo constituo ed il sostantivo constitutio, ed anche un semplice sguardo al vocabolario ci indica che constituo significa porre e disporre qualcosa, ma anche costruire (cioè fabbricare, erigere), comporre qualcosa nel senso di riunire insieme rafforzando e consolidando. Costituzione, a sua volta, oltre a indicare l'organizzazione legale e politica, significa anche, nella terminologia retorica e giuridica, fissazione e determinazione dell'oggetto controverso di una causa e più in generale determinazione e delimitazione di un concetto, dunque anche la sua definizione. In realtà, nonostante alcune affinità serpeggianti all'interno 25 del termine, esso ci invita a considerare la problematica fenomenologica da una nuova angolazione. Dal punto di vista della "storia delle idee", è proprio in rapporto alla tematica suggerita da questo termine che la fenomenologia, il cui atteggiamento fondamentale resta in ogni caso contrario all'empirismo filosofico, riprende alcune impostazioni importanti tipiche delle tradizione empiristica. Occorre anche non perdere mai di vista il fatto che il problema della costituzione si trova alle origini della problematica di Husserl, sia pure in un quadro che non può essere definito fenomenologico. Nella sua Filosofia dell'aritmetica (1891) viene preso in esame il suo concetto di base, il concetto di numero, ai fini di opera il suo chiarimento e la sua delimitazione. Questo compito potrebbe essere assolto ponendosi alla ricerca di una definizione, potremmo cioè avviare un chiarimento della nozione di numero compiendo un'analisi logica di questa nozione che dovrebbe sfociare in una definizione. Questa via viene da Husserl apertamente respinta. Nella critica corrente, questa posizione viene normalmente ricondotta al fatto che Husserl pensa ancora in quest'opera ad una sorta di fondazione psicologica dell'aritmetica, senza scorgere i motivi filosofici di eccezionale importanza che sono alla sua base e che sono in realtà interamente indipendenti dallo psicologismo nel quale indubbiamente quell'opera è ancora immersa. Questi motivi potrebbero essere formulati così: si ottiene la chiarificazione filosofica di un concetto, non solo attraverso una sua "analisi logica", ma in primo luogo nel tentare di mostrare il modo in cui esso si costituisce. Ciò significa che devi chiarire il modo in cui esso è stato costruito, quindi devi cogliere in particolare il luogo da cui ha avuto origine e il modo in cui ha preso forma sviluppandosi da questa origine. Si delinea così un motivo genetico che nella Filosofia dell'aritmetica assume in apparenza una caratterizzazione psicologizzante. Ma che questa caratterizzazione non sia necessaria e obbligato- 26 ria, è mostrato dal fatto che questo motivo si ripresenta con particolare vigore anche nel quadro, nettamente antipsicologistico, della tematica propriamente fenomenologica. Questo motivo genetico scompare per così dire solo provvisoriamente, o almeno non appare nettamente in primo piano, nelle Ricerche logiche. In quest'opera, tenendo conto del problema fondamentale che la muove, era certamente più importante insistere sull'idealità dei significati piuttosto che porre un problema di chiarificazione genetica. I concetti - potremmo anche dire, le "essenze" - vengono proposti come oggettività intenzionali vere e proprie. Ovvero: fra i modi dell'intendere deve essere ammesso anche un modo che pone il proprio oggetto come un "oggetto generale", come un "universale" (secondo la terminologia filosofica tradizionale), senza che ciò debba porre un insolubile interrogativo intorno al loro essere. Ad esempio, attraverso l'espressione "il due" noi abbiamo effettivamente di mira un oggetto, che certo non è reperibile tra le cose dell'esperienza sensibile e che cionondimeno ha la sua identità e la sua determinatezza oggettiva. Il problema della sua "realtà in sé" non si pone proprio perché un simile oggetto c'è unicamente all'interno e in relazione a quel modo dell'intendere. Nonostante questa riconduzione dell'intero problema all'interno di una prospettiva intenzionale, è chiaro che in questa impostazione si fanno valere istanze platonistiche. Ma nel problema della costituzione è destinato ad essere ripreso nella misura più ampia proprio quel motivo genetico, così apertamente presente nella Filosofia dell'aritmetica. Ciò che ai tratta anzitutto di far valere è che i concetti in genere non sono già in sé fissati e delimitati, che essi non sono già racchiusi in una definizione che ci è eventualmente ignota e che noi ci dobbiamo sforzare di scoprire. Ma vi è in certo modo una storia dei concetti, un loro movimento interno ed è semmai questo movimento interno che deve essere scoperto e ripercorso di passo in passo. Ma se vi è una storia dei concetti, vi è anche 27 un terreno a partire dal quale questa storia ha inizio, e questo terreno è in generale il terreno dell'esperienza: aggiungiamo più precisamente: il terreno dell'esperienza comune, quotidiana, che non è ancora stata elaborata, né in realtà ha bisogno di esserlo, da operazioni razionali, benché ciò non significhi affatto che essa sia dominata da fattori e componenti di ordine irrazionale. Vi sono anzi già su questo terreno complesse formazioni di senso, e da queste formazioni di senso noi dobbiamo prendere le mosse per mostrare la costituzione del concetto, ovvero portare chiarezza intorno al modo in cui esso è fatto, illustrando il modo del suo sviluppo. Considerando la questione da questa angolatura, la ricerca fenomenologica è una ricerca che si installa su questo terreno dell'esperienza concepito come terreno delle origini. È opportuno sottolineare che questo non contraddice la presenza di un aspetto strutturale, dal momento una considerazione di carattere strutturale non deve essere necessariamente statica, ed esistono relazioni e forme strutturali inerenti anche a situazioni di carattere processuale. Abbiamo fatto notare che la tematica della costituzione rappresenta una ripresa su nuove basi di problemi particolarmente presenti nella tradizione empiristica. In effetti in questa tradizione è sempre stato importante sottrarre i contenuti astratti, le idee, allora loro esistenza autonoma per cercare di appurare se e fino a che punto esse potessero essere riportate, secondo percorsi più o meno complessi, ai contenuti immediati dell'esperienza sensibile. Si tratta naturalmente del grande problema del rapporto tra intelletto e intuizione che, nel quadro di un'impostazione empiristica, è orientato a ricercare mostrare fondamento e giustificazione delle formazioni intellettuali sul piano della concretezza dell'esperienza sensibile. È naturalmente esemplare da questo punto di vista la riduzione operata da Hume di tutti i contenuti mentali a impressioni. Questa posizione è esemplare anche per il fatto che essa induceva a deprimere le formazioni 28 intellettuali sul piano della sensibilità al punto da generare una posizione insostenibile soprattutto sul piano della teoria della scienza. Proprio per reagire a questa depressione, Kant avvia la sua classica critica dell'empirismo che poggia su una reimpostazione della questione dei rapporti tra intelletto e intuizione. Esse diventano, in Kant, due fonti autonome del sapere che si incontrano e cooperano nel processo conoscitivo, ma che mantengono la loro reciproca autonomia. In Kant manca dunque interamente la prospettiva suggerita dalla tematica della costituzione, secondo la quale non si tratta di appiattire le formazioni intellettuali sul piano della sensibilità, nello stile dell'empirismo quanto di mostrare come queste formazioni, prendendo le mosse da questo piano arrivino ad innalzarsi al di là di esso, e ad acquisire di grado in grado la loro piena autonomia. Al tempo stesso, il riferimento all'intuizione ed in particolare proprio il riferimento all'origine intuitiva, acquista in modo pronunciato il carattere di un vero e proprio metodo di analisi e di chiarificazione filosofica. Il riferimento alla tradizione empiristica - e in particolare alla posizione di Hume - ci è utile anche per mostrare un altro aspetto notevole della problematica della costituzione. Esso non riguarda soltanto l'antico problema dei rapporti tra intuizione e intelletto e nemmeno riguarda soltanto la tematica dell'origine esperienziale dei concetti astratti. Riflettiamo per un istante al singolare inizio humeano nel quale il mondo viene in certo senso annientato e ridotto a impressioni vaganti nel nostro universo mentale. Considerando questo inizio alla luce delle nostre considerazioni precedenti, esso è assimilabile ad una sorta di dissoluzione della fissità, della stabilità, della solida costituzione del mondo stesso per avviare un complesso di ricerche che avrebbero il compito di operare una ricostituzione. Di fatto, se possiamo dire con una certa sicurezza che in Kant manca l'idea della costituzione, la stessa cosa non può essere detta in rapporto a Hume. Gli interrogativi di Hume sono 29 in un certo senso sempre interrogativi che riguardano i modi della costituzione di sensi precostituiti che sono stati messi in questione. Ad esempio, Hume si chiede in che modo si costituisce una cosa come oggettività identica - avendo anzitutto mostrato che il puro decorso delle impressioni dissolve interamente questa identità. Oppure, se percepiamo due eventi come causalmente connessi, dobbiamo interrogarci sul modo di questa connessione - e ciò richiede anzitutto che il nesso sia stato disciolto e che l'interrogazione riguardi il modo in cui esso si ricostituisce per noi. Lo scioglimento di ogni nesso che fa parte della riduzione del mondo a "impressioni" ci riporta ad una situazione "primitiva" della coscienza, alla condizione nella quale possiamo immaginare di trovarci quando siamo appena nati. Aprendo gli occhi per la prima volta non ci troviamo certo di fronte ad un mondo stabilmente costituito, ma ad un mondo interamente da costituire. Questa considerazione in fin dei conti la possiamo riportare sulla stessa idea di riduzione fenomenologica, la possiamo assumere in certo modo come una riduzione "storica" e così facendo mostriamo direttamente la pertinenza del problema costitutivo alla stessa idea di ricerca fenomenologica. 30 Sintesi Hume e Kant sono in realtà ancora sullo sfondo della tematica fenomenologica della sintesi. La parola è di origine greca, essendo un calco esatto del greco synthesis. La parola greca a sua volta è formata da syn, che corrisponde al nostro "con" e da un richiamo al verbo tithemi, che significa "porre, collocare, stabilire". Del resto anche la parola tesi ricalca il greco thesis, e significa "qualcosa che è stato posto, qualcosa che viene stabilito"; e secondariamente "asserto, affermazione, proposizione". Proposizione è, alla lettera, una posizione che viene fatta avanti. Sintesi richiama dunque le azioni del porre insieme, comporre, stabilire un nesso, collegare. Ma se questa è l'area di senso della parola, allora dentro quest'area dovremmo includere anche l'associare qualcosa a qualcos'altro. In fin dei conti illustreremmo all'incirca nello stesso modo il termine di associazione. Mentre dal punto di vista linguistico corrente questa possibile equivalenza non suscita obiezioni, dal punto di vista della terminologia filosofica e della sua storia le cose stanno ben diversamente. Sintesi è una parola tipicamente kantiana. Associazione, tipicamente humeana, ed in questa scelta kantiana vi è certamente il proposito di contrapposizione all'empirismo humeano. È chiaro dunque che, per entrambi, era particolarmente importante la tematica dell'unificazione, ma che essa veniva affrontata da punti di vista profondamente diversi. Per quanto possa essere azzardato da parte mia il proposito di cogliere in breve questo rapporto, innestandolo poi nel tema fenomenologico, voglio effettuare almeno un tentativo in questa direzione. La tematica dell'unificazione diventa importante in Hume per via di quel peculiare "annientamento del mondo" a cui abbiamo accennato poc'anzi. La riduzione all'immanenza che ha in Hume il senso di una riduzione del mondo intero a puri contenuti mentali - si tratta dunque di una riduzione psicologica di 31 carattere sensistico e fenomenistico - ci porta alla presenza di atomi sensoriali che, all'inizio, non dànno luogo ad alcuna formazione unitaria. Abbiamo già osservato che questa dissoluzione può essere concepita come una perdita di nessi, dei momenti di incastro. Pensiamo ad un puzzle - la figura composta è andata in frantumi ed ora vi sono solo i pezzi del puzzle. Occorre, vorrei quasi dire, ricomporre il mondo; e il compito di questa ricomposizione viene prospettato secondo l'angolatura delle associazioni psicologiche. Ciò significa che gli atomi sensoriali, le impressioni nel loro vagare casuale nell'universo mentale, entrano in connessione tra loro e i complessi che essi formano inizialmente in modo del tutto accidentale, tendono a stabilizzarsi in forza di una legalità di ordine psicologico. Naturalmente non è qui il caso di soffermarsi sui dettagli, trattandosi del resto di temi ben noti. Basti rammentare che, formulato il problema delle associazione delle idee, con le due leggi fondamentali della associazione per contiguità e per somiglianza, la stabilizzazione dei nessi avverrà attraverso l'esperienza della loro ripetizione, quindi con il passare del tempo e la formazione di abitudini. Tutte le formazioni oggettive debbono essere riportate a questa base associativa ed essere considerate non come sussistenti in se stesse, ma come risultati di processi. È importante poi mettere in evidenza che la riduzione all'immanenza, così come è concepita da Hume è tale da mettere fuori gioco la soggettività stessa, che sarà a sua volta un'unità che dovrà essere ricostituita filosoficamente. Quando abbiamo parlato della situazione "primitiva" come di un universo mentale formato da atomi sensoriali vaganti, questo universo deve essere concepito come privo di qualunque centro soggettivo. La soggettività dovrà dunque essere a sua volta riproposta come risultato di processi di natura associativa. Venendo ora a Kant, chiediamoci: in base a quali motivazioni anche in Kant il problema dell'unificazione diventa un problema centrale? Noi risponderemo, forse in modo non troppo 32 consueto: per gli stessi motivi per i quali esso si pone in Hume. A di là di differenze molto profonde, vi sono alcuni momenti importanti della posizione di Hume che restano alla base della posizione kantiana. Spesso si presenta questo rapporto come se si trattasse di un puro e semplice superamento da parte di Kant della insostenibile posizione di Hume, dove Hume assolve in positivo soltanto la funzione di messaggero mattutino che risveglia il dormiente Kant dal suo sonno dogmatico. Il rapporto è invece più complesso: anche per Kant infatti l'esperienza sensoriale come tale è essenzialmente priva di nessi, è un'esperienza priva di organizzazione interna, è un'esperienza non strutturata. Si potrebbe dire che Kant su questo punto subisca l'influenza di Hume, accetti uno dei capisaldi dell'impostazione humeana. Sicuramente in questa chiave può essere intesa l'accet­tazione da parte di Kant della critica di Hume della nozione di causa. La relazione causale è appunto un nesso, e Hume aveva mostrato la base associativa di questo nesso. Kant non condivide certo questa tesi, che anzi combatte, ma condivide certamente l'aspetto critico della discussione di Hume, e in particolare l'idea che la relazione causale non possa essere colta come tale nell'esperienza sensibile, e dunque che non vi sia tra i dati dell'esperienza sensoriale una connessione interna di tipo causale. Se pensiamo che la relazione causale non è soltanto una relazione di fondamentale importanza sul terreno epistemologico, ma che essa riguarda la coerenza stessa del mondo, si può comprendere in che senso si possa affermare che in Kant come in Hume l'esperienza sensoriale non è in grado di offrirci un mondo coerente. Profondamente diversa è invece non solo la soluzione del problema, ma anche il modo in cui esso viene proposto. Anzitutto Kant non segue nemmeno implicitamente la via di una sorta di riduzione all'"origine" ovvero di ritorno ad una situazione "iniziale" dell'esperienza. Egli è invece indotto a interrogarsi sugli ingredienti della conoscenza in genere. Il problema di Kant, 33 sullo sfondo delle grandi domande sulla possibilità della metafisica e sulle condizioni di possibilità della conoscenza, è quello di mostrare quali siano le componenti del rapporto conoscitivo, ritrovando il tema antico della distinzione tra forma e contenuto di cui egli propone un'interpretazione interamente nuova. I dati sensoriali - il contenuto - entrano nel rapporto di esperienza quando cadono sotto l'azione necessaria delle forme di unificazione, le quali non sono da ricercare sul piano dell'"intuizione", e nemmeno sul lato oggettivo del rapporto, ma piuttosto sul lato soggettivo. A questo lato appartengono anzitutto lo spazio e il tempo e poi tutte le forme di unificazione che Kant chiama "categorie". Quest'ultimo termine - che rimanda all'attività giudicativa i genere - intende sottolineare il fatto che queste forme di unificazione fanno parte dell'attività del pensiero, del momento "intellettuale" necessario non solo ad ogni conoscenza, ma ad ogni esperienza del mondo. La parola sintesi è stata scelta da Kant proprio per caratterizzare questo modo di impostare il problema dell'unificazione differenziandolo da quello di Hume, quindi in contrapposizione alla tematica dell'associazione. Con ciò questa parola si carica di implicazioni filosofiche che non possiamo certo pretendere di ritrovare direttamente nel termine stesso. Anzitutto le sintesi saranno sempre sintesi intellettuali. In secondo luogo esse debbono essere considerate come vere e proprie azioni che la soggettività esercita sul dato sensoriale come tale. Rispetto a quest'ultimo la soggettività è invece necessariamente ricettiva, e dunque passiva. Per caratterizzare questo punto che si trova in chiaro contrasto con la teoria humeana dell'abitudine, Kant parla anche di spontaneità delle sintesi. Ed un altro punto di fondamentale contrasto con Hume sta nel fatto che la soggettività deve essere comunque sempre presupposta come condizione prima di tutte le condizioni dell'esperienza. Questa discussione sul tema dell'unificazione in Hume e in Kant, è una premessa necessaria per comprendere il modo 34 in cui in sede fenomenologica si presenta la tematica della sintesi. Anzitutto va subito detto che l'assunzione di dati sensoriali intesi come dati in via di principio come privi di connessioni, ogni forma di "atomismo" deve essere respinta. Ciò vale sia per la posizione "psicologistica" di Hume, che per la via kantiana nella quale la dispersione atomistica dell'esperienza si presenta all'interno di una separazione analitica tra contenuto e forma, secondo un orientamento pronunciatamente antipsicologistico. All'individuazione di un assunto comune in Hume e Kant fa riscontro una critica proprio di questo assunto comune. Ma allora il mio lettore si chiederà subito: se questo assunto viene tolto, in che modo si pone in sede fenomenologica una problematica relativa all'unificazione? In base a quali motivazioni si impone una problematica che peraltro - riprendendo il termine di sintesi - viene ricollegata alla posizione kantiana? Qual è il senso di questa ripresa? Ed in essa tutti gli importanti motivi di origine empiristica vengono realmente respinti oppure continuano a farsi valere sia pure secondo nuove modalità? Per rispondere a questi interrogativi occorre mettere in evidenza alcuni aspetti della critica husserliana verso entrambi gli autori considerati. Nei confronti di Hume la critica si rivolgerebbe all'astrattezza della nozione di atomo sensoriale. Questa nozione non ha nessuna possibilità di essere esemplificata in concreto. Non è possibile sperimentare alcuna situazione che ci metta di fronte al mondo di sensazioni disperse di Hume. Nei confronti di Kant invece possiamo obiettare che non vi sono ragioni per ammettere che qualunque forma di unificazione sia intellettuale o comunque promanante dalla soggettività. Non vi è nulla che giustifichi un'assunzione così forte, secondo la quale saremmo costantemente attivi in un'operazione di plasmazione dell'esperienza sensoriale. Assumendo un punto di vista fenomenologico invece osserveremo: qualunque situazione percettiva venga proposta esemplificativamente, anzi qualunque situazione percettiva pos- 35 sa essere anche soltanto immaginata, avrà in ogni caso il carattere di una "configurazione", e non dunque quello di una pura e semplice molteplicità disparata di dati sensoriali, una espressione a cui sappiamo forse dare un qualche senso, ma che non sapremmo in che modo dovrebbe essere esemplificata in concreto. La configurazione fenomenologica può essere più o meno complessa, può essere attraversata da sensi particolarmente evoluti e pluristratificati oppure essere una configurazione estremamente elementare. Ad esempio: possiamo trovarci in un ambiente occupato da cose o da persone con le quali io stesso ho determinati rapporti - gli strati di senso implicati sono numerosi, non solo certo lo strato puramente percettivo, ma anche quello memorativo ed emotivo; ma può anche trattarsi di una configurazione elementare: un punto luminoso in movimento su uno schermo, un suono secco che rompe il silenzio, una relazione tra due movimenti uno dei quali appare causato dall'altro, il movimento di un oggetto provocato dall'azione di una calamita, ecc. In tutti i casi come questi abbiamo sempre a che fare con "configurazioni fenomenologiche", e mai con meri dati sensoriali pensati in un'astratta separatezza. Questa importante presa di posizione contiene naturalmente una critica verso una concezione del materiale dell'esperienza come se si trattasse di un materiale da unificare: il materiale è invece da subito concepito come un materiale attraversato da tendenze sintetiche, quindi da dinamismi che lo prospettano secondo un senso, secondo un orientamento. L'espressione tendenza sintetica è particolarmente opportuna perché pone l'accento su un dinamismo interno e mostra che non dobbiamo pensare alla sintesi come se si trattasse di una semplice operazione del "mettere insieme". Inoltre viene corretta la suggestione erronea che poteva venire dal nostro stesso esempio del puzzle. Nel caso del puzzle noi sappiamo che il punto di arrivo è perfettamente determinato, anche se la figura finale ci venisse tenuta nascosta per 36 complicare il gioco. Ma il giocatore presterà comunque la massima attenzione alla forma dei pezzi e alla possibilità degli incastri possibili. Questo atteggiamento "attivo", questa massima attenzione, non affatto richiesta nell'afferramento di una configurazione fenomenologica. Un momento del complesso fenomenologico va inteso come un momento che ha in sé, in relazione al contesto che è in ogni caso sempre implicato, una tendenza ad associarsi ad altri momenti formando appunto con essi un'unità. Il parlare di tendenza sintetica è poi particolarmente utile anche per il fatto che, come ci sono tendenze all'unificazione in questa o quella direzione, così anche possono darsi controtendenze, che spingono in direzioni opposte. Una configurazione fenomenologica data è dunque da comprendere come una unità che è il risultato di una dialettica complessa tra tendenze e controtendenze. Non si tratta dunque di mettere insieme un pezzo con l'altro ma di un processo che prospetta una certa unità piuttosto che un'altra. Questo problema interessa in particolare tutte le anticipazioni dei contenuti di esperienza, che sono indubbie condizioni per la formazioni di sensi unitari. Affinché io possa dire di vedere una determinata "cosa", debbono essere coimplicati nell'atto percettivo anche gli aspetti della cosa che io non posso vedere da questa determinata angolatura, ma che mi aspetto comunque di vedere cambiando il luogo dell'osser­ vazione. I contenuti di queste attese sono determinati dai contenuti che mi si sono via via presentati nel decorso percettivo e che hanno coerentemente indicato una direzione dell'attesa piuttosto che un'altra. Naturalmente può anche darsi che questa coerenza manchi, che le tendenze verso una certa direzione di senso sia variamente contrastata e che il risultato di questa dialettica sia una configurazione instabile, relativamente indeterminata e così via. La tematica della sintesi caratterizzata in questo modo riguarda evidentemente non solo la formazione di unità, ma anche la loro dissoluzione, non riguarda l'unificazione ma anche la separazione, e considera tutti i gradi possibili tra la formazione 37 oggettiva più solida e i complessi che invece possono essere descritti in termini di massima disaggregazione. Naturalmente ciò che fa inclinare la terminologia verso la terminologia kantiana è il motivo antipsicologistico - e tuttavia il problema si complica subito per la presenza di vistose differenze rispetto alla posizione kantiana. La prima differenza, e forse la più vistosa, riguarda l'estensione della nozione della sintesi e soprattutto la moltiplicazione delle modalità di unificazione. Ciò è connesso anche al secondo motivo importante che separa le due posizioni. Come abbiamo detto, Kant parlava di sintesi unicamente in rapporto alle unificazioni intellettuali - nello spirito della sua posizione è certamente implicata anche la tesi che non siano funzioni sintetiche interne al piano della sensibilità. Ciò vale anche per le forme a priori dell'intuizione, per la forma spaziale e temporale. Ora, tutti i temi che abbiamo toccato fin qui riguardano una tematica della sintesi sviluppata proprio all'interno del campo dell'esperienza sensibile. E se caratterizziamo l'ambito della sensibilità kantianamente come ambito di pura recettività, rispetto alla spontaneità e alle attività dell'intelletto, allora non avremo difficoltà ad ammettere che esiste una problematica specifica che riguarda proprio le sintesi passive - cioè le tendenze sintetiche che si manifestano nel materiale e in forza del materiale e che la soggettività riceve "passivamente". La nozione di sintesi passiva è totalmente estranea a Kant e l'ambito problematico che questa nozione è in grado di coprire rappresenta uno dei più notevoli contributi che Husserl ha dato ad una filosofia dell'esperienza. Ma con questa nozione di sintesi passiva, che implica una critica radicale nei confronti di Kant, ci spostiamo nuovamente sul polo humeano, cosicché anche su questo problema si manifesta quella oscillazione così caratteristica di tutta la filosofia husserliana, che mentre tra il suo apparato filosofico più generale dalla tradizione razionalistica e trascendentalistica, trae invece le motivazioni più profonde della propria riflessione dalle fonti dell'empirismo. 38 39 Fenomenologia delle sintesi passive 1993-2013 40 Il presente testo è tratto da materiali di un corso tenuto nel 1993 presso l'Università degli studi di Milano intitolato "L'idea della sintesi passiva nella fenomenologia". Esso rappresenta un commento di un'ampia parte del testo di E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, trad. it. di Vincenzo Costa ed a cura di Paolo Spinicci, Guerini, Milano 1993. Questa traduzione fu da me promossa presso l'Editore e riguarda il volume di Husserl, Analysen zur passiven Synthesis, a cura di v. M. M. Fleischer, Husserliana XI, Nijhoff, Den Haag 1966, che raccoglie testi redatti tra il 1918- 1926. Il titolo venne modificato nella traduzione italiana, poiché mi sembrò intollerabile la formula "Analisi… della sintesi…". Il testo non è di facile traduzione e va reso merito sia a Vincenzo Costa che a Paolo Spinicci che se ne assunsero insieme la responsabilità. I numeri tra parentesi quadre rimandano all'impaginazione della traduzione italiana, mentre la numerazione dei capoversi e i titoletti aggiunti hanno il solo scopo di dare un po' d'ordine al mio commento. 41 I. Il prospettivismo della percezione 1. Il prospettivismo della percezione è il primo argomento nel quale ci imbattiamo in apertura delle Lezioni della sintesi passiva, e precisamente nell'introduzione che si propone di delineare i più noti concetti base della fenomenologia. D'altronde, ben presto ci renderemo conto che questo argomento è già interno alla questione della sintesi. Il prospettivismo della percezione lo vogliamo presentare così: La percezione promette sempre qualcosa di più di quanto possa mantenere: "La percezione esterna è una continua pretesa di fare qualcosa che, per sua stessa essenza, non è in grado di fare. In un certo senso inerisce quindi alla sua essenza una contraddizione" [p. 33]. Infatti essa propone sempre l'oggetto nella sua totalità, e propone questa totalità come una totalità compiuta ed esaustiva. Eppure essa non è mai in grado di porgere questa totalità, ma fornisce sempre e soltanto un aspetto dell'oggetto. Per di più, in via di principio, la percezione di uno stesso oggetto è inesauribile sia come totalità, sia addirittura nei singoli aspetti, ciascuno preso di per se stesso. 2. Per comprendere a fondo il senso di questa osservazione converrà assumere in esame esemplificativamente una cosa nel senso corrente del termine: una cosa materiale tridimensionale, un corpo. 3. Le cose ci si dànno attraverso aspetti, attraverso adombramenti prospettici.. Io posso dire legittimamente di vedere di fronte a me un tavolo, ma di fatto vedo soltanto questo o quell'aspetto di 42 esso. Vi è dunque una unilateralità di principio della percezione: "È necessario innanzitutto richiamare l'attenzione sul fatto che l'aspetto, l'adombramento prospettico in cui ogni oggetto spaziale inevitabilmente si manifesta, porta a manifestazione quest'ultimo [l'oggetto spaziale stesso] solo unilateralmente]"[p. 33]. Esemplificativamente: "Se vediamo il tavolo lo vediamo da un lato qualunque e questo è ciò che è visto propriamente: il tavolo tuttavia ha ancora altri lati. Ha un lato posteriore e un suo interno che non sono visibili, ma che sono titoli che stanno per vari lati, per vari complessi che possono diventare visibili... Al senso proprio di ogni percezione inerisce infatti, come suo senso oggettuale, l'oggetto percepito, quindi questa cosa: il tavolo che vedo. Questa cosa non è però il lato che è ora propriamente visto, ma è... la cosa nella sua interezza, che ha ancora altri lati che potrebbero essere propriamente percepiti, non in questa ma in altre percezioni" [p.34]. La prima distinzione che deve essere proposta è dunque tra quello che viene percepito propriamente (direttamente) e ciò che non viene percepito propriamente, che è oggetto solo di una visione impropria (indiretta). 4. I termini come proprio, improprio; propriamente, impropriamente hanno una precisa valenza significativa e si ricollegano al tedesco eigentlich. Si tratta di ciò che viene colto autenticamente, e quindi che viene effettivamente visto, di ciò che è dato immediatamente e direttamente, e non solo per indicazioni, per allusioni, attraverso rimandi attraverso la mediazione di qualcosa d'altro. 5. In senso del tutto analogo si parla talvolta di originalità come caratteristica della percezione ovvero della percezione come Original-bewusstsein. Si potrebbe tradurre liberamente questo termine con "coscienza che propone l'originale". Il termine - di conio 43 latino - allude alla differenza tra copia e originale, e intende sottolineare che la percezione è caratterizzata proprio dal fatto che in essa si ha a che fare con l'originale stesso, la cosa in quanto è data in se stessa. Ma, e questo è il contrasto, o addirittura l'apparente contraddizione, questa coscienza originale [=coscienza dell'originalità] è comunque caratterizzata nello stesso tempo dal fatto che i lati propriamente visti rimandano sempre ad un possibile completamento, ad una possibile integrazione. Questa apertura non è solo verso gli altri lati dati appunto solo indirettamente a partire da questo, ma persino per questo stesso lato che io propriamente vedo. In realtà anche in rapporto ad esso ci sono degli aspetti non visti che potrei vedere se mi avvicinassi di più ad esso, se usassi una lente di ingrandimento o addirittura se esaminassi la sua superficie al microscopio: "Anche per il lato effettivamente visto risuona il grido: avvicinati sempre di più, guardami modificando la tua posizione, cambia la direzione dello sguardo, ecc.; riceverai da me ancora qualcosa di nuovo da vedere, del legno precedentemente visto in maniera generale e indeterminata vedrai sempre nuove parziali colorazioni, strutture prima non visibili, ecc." [p. 37]. 6. Ma questa osservazione sul prospettivismo non è forse del tutto ovvia? Non lo si è sempre saputo che le cose stavano appunto così? Che un tavolo non lo si può vedere onnilateralmente e che vi è una inesauribilità di principio della percezione, per quanto poco poi - è bene notarlo - questa inesauribilità non abbia alcuna conseguenza nelle nostre pratiche quotidiane? 7. Sì. Lo si è sempre saputo. Ma un conto è averlo sempre saputo, ed un altro è ritenere che questa circostanza sia degna della massima attenzione filosofica e debba essere posta al centro di una teoria della percezione. Cosicché essa rientra all'interno di un contesto teorico che è in grado di mostrare la sua ricchezza 44 di significato. Le considerazioni che stiamo facendo sul prospettivismo della percezione presuppongono già la riduzione fenomenologica, e in certo modo ne illustrano retroattivamente il senso. Intanto questo primo spunto teorico non ci porta ad una teoria degli "elementi" - alle impressioni di Hume, ad esempio; oppure ai dati sensoriali di cui tanto si è parlato in seguito sia in ambito psicologico che in ambito filosofico, o a dati immediati in una qualunque accezione del termine: si è sempre trattato di accezioni difficili da determinare e da comprendere, spesso per il fatto che erano nozioni in certo senso miste, in parte di derivazione filosofica, in parte di derivazione psicologica. Di questi dati elementari così spesso enigmatici ci liberiamo di colpo. E ci liberiamo anche del presupposto che così spesso accompagna queste "riduzioni": il presupposto che, come non ci sono più oggetti-cose ma solo dati di senso o impressioni, non ci sia nemmeno qualcosa di simile ad una soggettività. 8. Dopo la riduzione fenomenologica, resta l'oggetto-cosa, e quindi anche resta la soggettività che percepisce, che è la soggettività stessa di colui che sta compiendo questa riflessione filosofica e che dice: ora io vedo un tavolo, e il tavolo mi si dà attraverso una molteplicità di aspetti, ecc. La soggettività che dunque sono io, ma che può naturalmente essere chiunque faccia la stessa riflessione. Questa soggettività non è tema esplicito delle nostre riflessioni, ma è tacitamente presupposta nel fatto stesso che, dopo la riduzione fenomenologica, ci esprimiamo in prima persona, senza nessun problema e senza nessuna perplessità filosofica. 9. Come abbiamo detto, le considerazioni sul prospettivismo ci insegnano molte cose anche sulla stessa riduzione fenomenologica, e quindi in particolare sugli orientamenti analitici che si aprono dopo di essa. Nell'analisi ci si rivolge a quelle caratteristiche che non possono essere considerate come caratteristiche fat- 45 tuali, ma - seguendo il linguaggio di Husserl - come caratteristiche essenziali degli atti di esperienza. Per spiegare che cosa voglia dire una caratteristica essenziale e in che senso la contrapponiamo ad una caratteristica empirico fattuale, possiamo evitare una spiegazione astratta proprio citando il caso del prospettivismo. Il prospettivismo della percezione non è qualcosa che viene rilevato osservando dentro noi stessi per sapere che cosa accade quando percepiamo un tavolo. Non troveremmo a questo proposito proprio nulla di interessante. Invece esso si presenta come una circostanza caratteristica della essenza dell'atto percettivo. La parola di essenza ha peraltro una tradizione in certo senso troppo greve alle proprie spalle, ed è forse addirittura fuorviante nel senso che attira la nostra attenzione in una direzione sbagliata. Molte false discussioni e false critiche sono dovute proprio all'impiego di questo termine. Al termine di essenza si può tuttavia sostituire spesso senza danno, anzi con maggiore perspicuità il termine di struttura così come all'aggettivo essenziale l'aggettivo strutturale. Cosicché potremmo parlare del prospettivismo come una caratteristica strutturale della percezione. Otteniamo così, attraverso queste prime considerazioni, un'esemplificazione dei compiti di chiarificazione che ci vengono assegnati come compiti specifici della ricerca filosofica. Naturalmente la parola struttura ha una accezione molto ampia - ed essa rimanda in generale all'esistenza di forme relazionali, di un'articolazione e di un modo di costituzione interna. Impiegata in questo contesto dobbiamo peraltro sottolineare che le strutture o i rapporti strutturali di cui parliamo hanno un carattere di necessità, facendo subire alla parola struttura una certa restrizione di senso. 10. Mi è sempre sembrato un singolare paradosso il fatto che Merleau-Ponty si accingesse ad elaborare una Fenomenologia della percezione criticando l'essenzialismo di Husserl, quasi che una teoria fenomenologica della percezione potesse avere al proprio 46 centro qualcosa di diverso che l'essenza della percezione (ovvero la sua struttura). - Del resto forse a questa incomprensione di fondo implicita in questa decisione è dovuto il fatto che la Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty sia un interessante miscuglio di psicologismi e filosofemi. 11. Nel parlare di prospettivismo della percezione non realizziamo una constatazione di fatto, ovvero una constatazione che potrebbe essere smentita da accurati esperimenti. E nemmeno una constatazione che si sa essere valida nella maggiore parte dei casi, una constatazione relativa ad una circostanza rispetto alla quale si ignorano eccezioni, che potrebbero comunque esservi in via di principio. Tutte queste caratteristiche sono proprie di quelle che potremmo chiamare constatazioni empiriche oppure constatazioni fattuali. 12. Il prospettivismo non è una circostanza fattuale della percezione. È una circostanza che caratterizza la percezione in sé e per sé. Per utilizzare la terminologia tradizionale, che non è affatto disprezzabile, potremmo dire che una percezione che non abbia questo carattere è semplicemente "impensabile". Questo è un altro modo di dire che esso "fa parte dell'essenza della percezione". Di conseguenza appartiene all'essenza della percezione anche la distinzione tra ciò che viene percepito propriamente e ciò che è invece dato indirettamente nella percezione. "Appartiene quindi all'essenza originaria della correlazione tra percezione esterna e "oggetto" corporeo la fondamentale distinzione tra ciò che viene percepito propriamente e ciò che non è propriamente percepito" [p. 34]. 47 2. Logica della percezione 13. L'impensabilità di cui abbiamo parlato or ora rimanda ad una componente necessaristica. Non può darsi il caso che una cosa si dia percettivamente come una totalità data propriamente e una volta per tutte. Nemmeno dio può fare questo - dice una volta Husserl, molto espressivamente. Nemmeno dio, ammesso che percepisca, può superare questo vincolo interno al concetto stesso del percepire. 14. Si tratta di formulazioni tradizionali, ed anzi volutamente tradizionali per il fatto che vogliono sottolineare il legame che vi è tra questa nozione dell'essenza o della struttura con il tema tradizionale dell'a priori. Il legame: ma anche la assoluta novità che consiste nel proiettare questo tema non già, come �� sempre stato, ai vertici del pensiero, delle entità concettuali, ma nelle bassure dell'esperienza percettiva. La tematica dell'a priori che si prospetta qui non è una tematica che chiami in causa la logica formale come teoria del concetto o come teoria delle inferenze: se di logica si tratta, esse riguarda proprio una logica della percezione, ed eventualmente una logica dell'immaginazione, una logica dei rapporti tra questi diversi campi della vita soggettiva, persino una logica dei sentimenti, e così via. Proprio per contraddistinguerlo dall'apriori in senso logico-concettuale - quell'a priori che ad esempio può essere riferito non solo alla logica, ma alle discipline formali in genere - si parla anche, in sede fenomenologica di a priori materiale. 15. Il riferimento al prospettivismo illustra anche un altro punto di particolare importanza. Riflettiamo su questo punto. Ci sono gli aspetti - una molteplicità di aspetti - che mi presentano in ogni caso un unico oggetto. Ma proprio per questo possiamo 48 dire che ogni aspetto contiene un rimando di senso, che esso è orientato secondo un senso - perciò talora si parla di senso oggettivo o senso oggettuale per indicare la direzione (=senso) verso l'oggetto. Attraverso gli aspetti si costituisce un senso unitario che è l'oggetto stesso che mi appare attraverso e al di là di essi. Il senso unitario è appunto il senso "questo tavolo" ovvero "questa bottiglia sul tavolo", ecc. Ora è chiaro che affinché si dia un simile senso oggettuale (senso-di-oggetto) la molteplicità degli aspetti non può essere una molteplicità disparata dal punto di vista del contenuto, ma deve essere una molteplicità tale da realizzare una convergenza verso quel senso unitario. Usando un'espressione che non si trova in Husserl ma che mi sembra particolarmente efficace, potremmo parlare di scena percettiva per indicare ciò che mi si offre globalmente in un determinato istante al mio sguardo, ad esempio, la stanza nella quale ora mi trovo e che mi si presenta in modo diverso se io muto il luogo di osservazione o anche se mi limito a ruotare la testa volgendo lo sguardo a destra ed a sinistra. In questi movimenti io ho una molteplicità di scene percettive nelle quali appunto la stanza stessa si propone come un senso unitario, come un unico "spazio" formato da diversi luoghi - l'angolo a destra o l'angolo a sinistra: ma affinché ciò avvenga debbono certamente essere soddisfatte certe condizioni. 16. Queste condizioni riguardano sia i contenuti delle scene percettive che via via mi si danno, sia il modo del loro succedersi l'una all'altra. In primo luogo i contenuti debbono essere "simili" tra loro. Più precisamente: l'una scena deve trapassare nell'altra in modo da fondersi parzialmente con essa fino a raggiungere un'altra scena eventualmente molto diversa dalla precedente. Ma quest'altra scena che conclude il movimento del mio sguardo deve essere raggiunta a poco a poco, per transizioni graduali. Vi è dunque una condizione che riguarda il fatto che le scene si suc- 49 cedono continuamente l'una all'altra, dove si parla di continuità non in un senso generico, ma in un senso pregnante, che richiama l'attenzione sul fatto che la molteplicità di cui si parla è una molteplicità che si dipana processualmente in modo tale che l'una scena si integra coerentemente con l'altra. Ora potremmo chiederci: che cosa accadrebbe se, volgendo lo sguardo alla mia destra io mi trovassi di fronte ad un campo di battaglia o ad un paesaggio di montagna? Allora non sarebbe possibile riportare le scene percettive ad un'unità di riferimento oggettivo, esse non sarebbero costitutive di un senso oggettuale - e il senso del "reale" si attenuerebbe fino a spegnersi del tutto. Potremmo dire - come diceva Cartesio - forse sto sognando. A differenza di Cartesio tuttavia lo diremmo con buone ragioni: l'ipotesi del demone maligno può certo darci da pensare e farci pensare astrattamente di sognare. Qui invece ci sono precise infrazioni nelle regole per la formazione della struttura del rapporto tra adombramenti prospettici e sensi oggettuali: i fenomeni sono in effetti puri fenomeni disparati, una molteplicità disparata che non dà luogo ad alcuna unità di riferimento. 17. Queste regole della struttura del rapporto tra prospettive e sensi oggettuali possono essere caratterizzate come regole della sintesi. Il problema di una teoria fenomenologica dell'esperienza non è il problema del reperimento di una unica formula, di un unico schema onniesplicativo, che pretenda di rendere conto della complessità delle formazioni di esperienza: esso si moltiplica e si rifrange appunto secondo la varietà di situazioni tipiche che via via vengono proposte alla nostra attenzione. E tuttavia si può dire che il tema della sintesi sia ovunque dominante: ovunque dobbiamo rendere conto delle condizioni che consentono formazioni unitarie. Anche in rapporto a questo problema, il caso elementare dell'adombramento prospettico fornisce una prima illustrazione piuttosto chiara. Introducendo la discussione Husserl parla subi- 50 to di "sintesi continua" nell'infinita molteplicità delle manifestazioni possibili [p. 33], della necessità di una coerente integrazione delle manifestazioni della cosa [p. 36], così come anche di "sistemi di tendenze di sviluppo cui si legano corrispondenti possibilità di entrare in sistemi, esattamente ordinati di possibili manifestazioni, di possibili decorsi di aspetti con i loro propri inscindibili orizzonti" [p. 35]. 18. Il problema dell'unità si pone come un problema in certo modo concretamente afferrabile in un'analisi rivolta alla struttura stessa del rapporto percettivo, si propone dunque come l'esibizione di condizioni che assumono il carattere di vere e proprie condizioni di possibilità delle sintesi di esperienza - ed è inutile dire che questi termini si richiamano alla posizione trascendentalistica di Kant. 3. La forma temporale 19. Già da questi primi inizi si annuncia l'importanza della tematica temporale. In essi appare chiaro che fa parte delle determinazioni strutturali della percezione la sua forma temporale. Lo stesso tema della molteplicità degli aspetti si propone necessariamente entro un quadro temporale. Le scene percettive si succedono le une alle altre e precisamente in un avvicendamento nel quale la percezione diretta di un aspetto fa presentire un nuovo aspetto che viene in certo senso anticipato; quando l'anticipazione sta per realizzarsi e dunque ciò che era dato prima solo indirettamente sta per presentarsi direttamente al mio sguardo, ciò che fino a questo punto mi era presente in modo diretto sfugge al mio sguardo, passa alle mie spalle, in senso temporale. Non è possibile avviare la benché minima descrizione del rapporto percettivo senza implicare in modo più o meno esplicito la forma 51 temporale. 20. La percezione è essenzialmente un processo. Ma che tipo di processo? Quali sono i fattori che lo rendono tale, i fattori che costituiscono la sua dinamica interna? Se ripensiamo alla tematica precedente alla luce di queste domande, subito ci rendiamo conto che essa può essere descritta come una dinamica che richiama le opposizioni del vuoto e del pieno, una vera e propria dialettica della saturazione e dell'insaturazione, dello svuotamento e del riempimento. Come subito vedremo, con questi termini noi non facciamo altro che proporre un approfondimento del tema della "proprietà" ovvero dell'"immediatezza" nel senso in cui ne abbiamo parlato in precedenza. Per rendere conto di questi termini e di questa dialettica naturalmente non possiamo fare a meno di riferirci alla dimensione temporale. 21. La parola quotidiana che indica il presente - la paroletta "ora" - è legata ad un contenuto che si dà in se stesso in tutta la sua pienezza. Talvolta Husserl parla di "impressione originaria" - indubbiamente con un ricordo di Hume - ma naturalmente avendo di mira un problema solo parzialmente collimante con quello humeano. La nozione di impressione originaria è tanto collegata alla paroletta temporale "ora" che spesso Husserl fonde insieme queste espressioni in un'unica espressione. Ad esempio, si parla di "ora originariamente impressionali" [p. 38]. Ma l'ora originariamente impressionale, cioè l'ora nel quale il contenuto mi è dato in tutta la sua pienezza non è qualcosa si simile ad un punto. Il presente è anzitutto proteso verso il futuro: perciò possiamo parlare di protenzione come una nozione costitutiva della temporalità stessa. Riportando il problema dal livello della pura forma temporale a quello della concretezza del processo percettivo, dobbiamo allora notare che rispetto alla pienezza del presente, dell'ora impressionale, alla protenzione spetta una particolare forma di vuotezza. 52 Nell'impressione originaria vi sono attese anticipatrici, predelinazioni, preinterpretazioni (Vordeutung). Ciò significa, ad esempio, che il lato posteriore della cosa, quello appunto che ora non vedo è solo vuotamente anticipato, con minore o maggiore vaghezza. Questo vuoto è ciò in cui si prolunga il pieno del presente stesso, e quindi fa parte di esso - più precisamente (dal momento che il "far parte" sembra alludere ad una relazione statica) questa presenza del vuoto nel pieno è un fattore di dinamicità: la percezione tende a riempire questo vuoto, è da essa in certo senso attratta. 4. Intenzione e riempimento 22. La terminologia dell'intendere può essere richiamata in questo contesto proprio in rapporto al tema del "riempimento". Intenzione e riempimento: questo accoppiamento di termini venne impiegato da Husserl anzitutto con riferimento al tema del significato. Ad esempio con l'espressione "aranceto in fiore" intendiamo degli alberi di un determinato tipo, con dei fiori di un determinato colore. Ma un conto è intendere questo attraverso l'espressione, ed un altro ed avere di fronte agli occhi un aranceto in fiore. Ciò che in quell'espressione era vuotamente inteso, ora si dà pienamente, quell'intenzione significante è stata appunto riempita. Analogamente nel caso della percezione, al di là di ciò che viene dato qui ed ora di fronte a me, qualcos'altro viene inteso, e questa intenzione esige di essere riempita, di essere saturata. 23. Il dinamismo inerente alla percezione è naturalmente strettamente dipendente dal movimento corporeo. Husserl richiama qui in modo esplicito [§3, p. 44] l'importanza dei movimenti del corpo - e del fatto che la "logica sistematica" che deve attraversare i decorsi percettivi affinché sia data una oggettività unitaria 53 si può istituire solo attraverso una coerenza sistematica degli atti e dei movimenti corporei di cui sono costituiti gli atti percettivi. "Si è spesso accennato al fatto che i decorsi di manifestazione procedono man mano con quei movimenti del corpo che li mettono in scena. Questo fatto non può tuttavia restare un accenno casuale. Il corpo funge costantemente come organo percettivo ed è quindi in se stesso un intero sistema di organi percettivi sintonizzati l'uno all'altro. Il corpo è in sé caratterizzato in quanto corpo proprio percettivo...Sotto questo riguardo il corpo proprio non ci interessa in quanto cosa spaziale percepita ma in relazione al sistema delle cosiddette "sensazioni di movimento" che decorrono durante la percezione, nel movimento degli occhi, del capo, ecc. Esse non sono soltanto presenti parallelamente al decorso delle manifestazioni, ma le serie cinestesiche [successioni di movimenti rivolti al percepire] e le corrispondenti manifestazioni percettive sono coscienzialmente correlate le une alle altre. Se rivolgo lo sguardo verso un oggetto, ho allora coscienza della posizione dei miei occhi e contemporaneamente, sotto forma di un orizzonte sistematico e vuoto di nuovo tipo, ho coscienza dell'intero sistema delle possibili posizioni degli occhi, posizioni che stanno interamente in mio potere. Ciò che è ora visto attraverso una determinata posizione degli occhi è connesso con l'intero sistema, cosicché posso evidentemente dire: se muovessi gli occhi in quella o quell'altra direzione ci sarebbe un decorso corrispondente in un ordine determinato, di queste e queste altre manifestazioni visive; se muovessi gli occhi in quella o quell'altra direzione, allora decorrerebbero altre serie di manifestazioni ed altre dovrebbero essere corrispondentemente attese"[p. 45]. E poco oltre, molto efficacemente: "Il sistema dei movimenti corporei è peculiarmente caratterizzato per la coscienza come un sistema soggettivamente libero. Io lo colgo nella coscienza dell'"io posso". Posso invo- 54 lontariamente "lasciarmi andare" e volgere i miei occhi qui o là, ma in ogni momento posso volontariamente imboccare questa o una qualsiasi linea [=direzione] di movimento" [p. 45]. In questi movimenti corporei che hanno a loro volta carattere sistematico, quelle che potremmo chiamare le intenzioni protenzionali vuote vengono riempite, o più precisamente si daranno qui diverse possibilità. Potranno darsi ad esempio riempimenti parziali, e di diverso genere - e dunque anche parziali elusioni delle attese secondo dinamiche più o meno complesse. 5. Ritenzione e protenzione 24. La differenza tra vuotezza e pienezza che si gioca nella processualità della percezione non riguarda soltanto il futuro atteso. Intanto l'ora impressionale ha carattere di un presente che prima era soltanto atteso, e dunque è esso stesso riempimento di una intenzione vuota. In secondo luogo ciò che ora ha carattere di presente è destinato con il trascorrere del tempo a svuotarsi in un'accezione nuova e particolare, che spetta non più alla dimensione del futuro ma a quella del passato. Ora guardiamo il lato A della cosa. Ma poi, procedendo nella sua esplorazione, guardiamo il lato retrostante B. Ed allora il lato che era prima antistante è diventato retrostante - esso non è più in un'ora impressionale, non è più pienamente presente, ma si trova ancora in una presenza che è sulla via di uno svuotamento. Si tratta della tematica parallela a quella della protenzione, che nella terminologia fenomenologica viene proposta sotto il titolo di ritenzione. In questo termine dobbiamo cogliere due inclinazioni solo apparentemente contrapposte. Ora è sbattuta una porta. Quel rumore che è appena trascorso è ancora nelle mie orecchie. Ma mentre prima ho sobbalzato, ora non sobbalzo più. 55 Ed a poco a poco quel rumore scivola via dalla mia coscienza, si allontana da essa. 25. Tuttavia tra ritenzione e protenzione vi è una differenza strutturale della massima importanza: l'insaturazione della protenzione è un fattore di dinamismo percettivo interno. Ciò che manca per completare l'immagine dell'oggetto percepito attira la nostra attenzione, induce al movimento il nostro corpo, la vuotezza protenzionale è un fattore di dinamismo, è anzi per principio il fattore di dinamismo del processo percettivo. Lo stesso non si può dire invece per lo svuotamento ritenzionale del presente. Questo svuotamento è una sorta di scivolamento all'indietro, come lungo un piano inclinato. Il contenuto presente si mantiene ancora per un qualche tratto, ma per quello stesso tratto in cui si mantiene esso va perdendosi sempre più lontano e viene alla completamente dimenticato. Tutto ciò può essere riassunto così: "Abbiamo imparato a comprendere questo flusso come una struttura sistematica di progressivi riempimenti di intenzioni a cui corrisponde , dall'altro lato, un progressivo svuotamento di intenzioni precedentemente piene. Ogni fase momentanea della percezione è dunque in se stessa una struttura di intenzioni parzialmente piene e di intenzioni parzialmente vuote. In ogni fase abbiamo infatti una manifestazione propria, cioè un'intenzione riempita, anche se solo gradualmente, data la presenza di un orizzonte interno della non pienezza e di una indeterminatezza ulteriormente determinabile. Ad ogni fase appartiene inoltre un orizzonte esterno completamente vuoto che tende verso il riempimento e che, nel procedere secondo una determinata direzione di sviluppo, si protende verso la meta nel modo dell'attesa anticipatrice vuota" [pp. 38-39]. 56 6. Orizzonte esterno e orizzonte interno 26. Abbiamo incontrato, nella citazione precedente, le espressioni di orizzonte interno e di orizzonte esterno che meritano di essere spiegate. Per illustrarne il senso è bene sottolineare che il parlare di prospettivismo, di movimenti intorno alla cosa, di lato antistante e di lato retrostante, ecc. - tutte queste espressioni hanno la loro più naturale esemplificazione nella cosa materiale tridimensionale, benché le considerazioni sul prospettivismo potrebbero essere proposte anche per un cerchio disegnato alla lavagna, che di fatto cambia il suo "aspetto" se considerato frontalmente oppure secondo un'angolatura che induce un forte scorcio prospettico. Questa scelta è dovuta almeno in parte al fatto che in questo modo le nostre spiegazioni risultano agevolate. In particolare il richiamo alla cosa materiale ci è utile per introdurre le nozioni di orizzonte interno e orizzonte esterno. In queste nozioni, ed anzitutto in quella di orizzonte esterno, è anzitutto implicata l'idea che la cosa si dia in linea di principio all'interno di un contesto. Tuttavia questa considerazione non è sufficiente per un'illustrazione della situazione effettiva. Non si tratta infatti tanto di affermare genericamente l'esistenza di un contesto di cose, ad esempio di un sistema di oggetti tra i quali intercorrono determinate relazioni. 27. Da questo punto di vista la stessa parola contesto è particolarmente inappropriata. Può essere che di fronte a noi ci sia un complesso di cose tra loro in relazione sotto più di un rapporto e che la nostra attenzione sia rivolta proprio a questo complesso, che esso sia il nostro tema percettivo. La nozione di orizzonte - e continuiamo qui a pensare all'orizzonte esterno - si sposta allora a ciò che sta oltre questo complesso, a qualcosa che dunque non è ancora per noi attualmente tematico. Voglio dire che la nozione 57 di orizzonte è legata piuttosto alla differenza tra tematico e non tematico, ma in particolare al fatto che il non tematico sta per così intorno a ciò che è tematico e "fuori" di esso, ma è anche dato in quanto tale nell'esperienza di ciò che è tematico. L'orizzonte esterno è da considerare come un campo possibile di esplorazioni percettive, che sta oltre la cosa singola che ho di mira e che, in quanto non tematico, è privo di effettive articolazioni e di determinazione. 28. A ben vedere si tratta qui di un modo di riprendere secondo una nuova angolatura il tema della vuotezza e della pienezza: l'orizzonte esterno sta naturalmente dalla parte della vuotezza, è propriamente "un'indeterminatezza ulteriormente determinabile" [p. 38]. In linea di principio noi ci possiamo muovere dal dato attualmente tematico verso il suo orizzonte esterno, incontrando altre cose, sempre nuove relazioni e connessioni. L'orizzonte esterno si sposta sempre oltre. 29. Non è difficile dopo di ciò rendersi conto di che cosa si può intendere con orizzonte interno. Vi sia un complesso di cose che sono al centro della nostra attenzione tematica. Ora il nostro sguardo potrebbe non volgersi più al complesso come tale, ma piuttosto verso ciascun componente del complesso e verso le singole relazioni che intercorrono tra essi. Diciamo allora che stiamo esplorando l'orizzonte interno del nostro tema. Lo stesso problema si presenta naturalmente quando il tema non è un complesso di cose, ma una cosa singola. Una cosa è sempre vista "all'ingrosso", poi posso esplorarla più da vicino. Ad esempio, posso notare in un angolo di un vaso da fiori una piccola sbreccettatura, oppure un'imperfezione nel disegno. Queste piccola sbreccettatura può poi essere esaminata con una lente di ingrandimento, ed allora possono essere colti altri particolari, altri piccoli dettagli. Come è chiaro abbiamo qui una problematica parallela a quella dell'orizzonte esterno, ed abbiamo anche in questo 58 caso a che fare con l'idea di qualcosa che non è tematico ma che appartiene, appunto come orizzonte esplorabile di ciò che è tematico, con l'idea di una "indeterminatezza ulteriormente determinabile". E infine anche la questione dell'orizzonte interno si situa nel quadro del problema della vuotezza e della pienezza. 7. Conoscenza e presa d'atto 30. In questa dinamica tra vuoto e pieno e tra pieno e vuoto, tra intenzioni e riempimenti, avviene quella che letteralmente si potrebbe tradurre come "presa di conoscenza" (Kenntnisnahme) (cfr. § 2), ma che in realtà giustamente il traduttore ha ritenuto di dover tradurre con "prendere atto" o "presa d'atto" - evitando dunque di richiamarsi ad un atto esplicito del conoscere - questo è in realtà lo scopo di questa alternativa di traduzione. La parola conoscenza è molto prossima nel suo senso ad un sapere esplicito che può essere all'occasione riattivato, che è stato raggiunto in atti altrettanto espliciti di ricerca: ad esempio attraverso atti espliciti di osservazioni che erano appunto scientemente motivati da uno scopo conoscitivo; oppure da strutture dimostrative di vario genere. Nelle nostre conoscenze vi è, ad esempio, il teorema di Pitagora. Noi abbiamo preso conoscenza di esso in un apprendimento scolastico, abbiamo anche studiato la dimostrazione, anche se forse ora non la ricordiamo in tutti i suoi passi, ma sappiamo che c'è e sapremmo come fare per rinnovarne la conoscenza. Ora è della massima importanza distinguere tra simili acquisizioni che sono originariamente acquisizioni attive e acquisizioni che possono essere dette conoscitive, ma in un senso completamente diverso del termine e che si costituiscono non tanto all'interno di un autentico processo conoscitivo - fatto di sperimentazioni, argomentazioni, metodi di prova e di verifica, metodi di scoperta - quanto all'interno delle dinamiche dei pro- 59 cessi di esperienza. 31. Vorrei esemplificare il problema nella sua forma più semplice: io entro nella mia aula, mi siedo alla cattedra e mi guardo intorno. Così facendo vedo moltissime cose, attraverso questo sguardo si costituisce per me una situazione globale nella quale io interverrò con i miei discorsi. Supponiamo ora che io entri nell'aula per sapere se c'è in essa una persona con una maglia rossa. Allora, dopo essere entrato, mi guardo intorno per compiere questo accertamento. Ecco due modi del tutto differenti di guardare: il secondo tendente attivamente ad acquisire una conoscenza, per quanto del tutto priva di interesse sotto il profilo scientifico; il primo invece è un modo di guardare che afferra semplicemente l'aspetto del mondo intorno, senza peraltro che ci sia nemmeno il problema di un qualche preciso accertamento da compiere. Posso anche aver visto, tra l'altro, che vi è una persona che ha una maglia rossa - e in questo senso so che vi è, ma è un sapere che ha appunto una struttura interamente diversa. Ciò risulta chiaro se in un secondo tempo mi venisse richiesto se vi fosse nell'aula una persona con una maglia rossa. Per rispondere ad una simile domanda, dovrei in certo senso idealmente rientrare nell'aula e riguardare in essa, ma ora in quell'altro modo, orientato da una istanza in senso lato conoscitivo: entro per sapere se... per venire a conoscere se... Questa differenza che può essere colta già in rapporto ad una nozione quotidiana di conoscenza, del tutto priva di interesse scientifico, diventa ancora maggiore nel caso delle conoscenze scientifiche, cioè di quelle conoscenze che rientrano in un progetto sistematico di conoscenza del reale e che sono attivamente acquisite e ricercate, che sono oggetto di apprendimento, di dimostrazione, ecc. 32. Il prendere atto di cui qui si parla riguarda appunto un modo 60 del conoscere che non ha prima di sé alcuna domanda attiva, che pur essendo un'acquisizione, non è determinata da un esplicito interesse conoscitivo. 8. Intelaiatura di senso e tracciato di senso 33. Riconsideriamo il processo percettivo nella sua forma elementare costituita di ritenzioni e protenzioni. Rammentiamo che ritenzioni e protenzioni fanno parte della processualità del presente. E facciamo ancora riferimento al caso elementare del lato antistante A e del lato retrostante B. Quando passo all'osservazione del lato B, il lato A non è più presente ma non ha nemmeno il carattere della pura vuotezza, non è più applicabile ad esso la nozione di indeterminatezza determinabile - dal momento che il lato A è ancora ritenzionalmente presente e lo è proprio nella sua determinatezza che è stata poco fa sperimentata. E così, iterando la situazione, quando ritorno dal lato B al lato A la situazione è interamente mutata: il lato A viene riconfermato nella sua determinatezza già nota, e il lato B assume il carattere di una determinatezza data ritenzionalmente, che mi attendo venga per così dire ribadita in un eventuale iterazione. In certo modo si indebolisce proprio il movimento vuoto-pieno - e si indebolisce in virtù di una legalità interna del processo percettivo. A questo indebolimento fa riscontro la stabilizzazione dell'oggetto percepito nelle sue proprietà. Di esso noi "prendiamo atto", prendiamo atto che esso è fatto così e così, e questa presa d'atto non ha un carattere momentaneo ma tende ad assumere un carattere permanente. 34. Si intende che - nonostante le difficoltà che si presentano nel differenziare i termini - tutti gli atti qui in questione sono da intendere come atti "passivi", cioè atti che non sono determinati 61 da un'esplicita intenzione conoscitiva. Proprio per questo motivo è interessante che qui Husserl ritenga opportuno richiamarsi al termine humeano di abitudine: "Si deve allora notare che questo processo di riempimento, di riempimento particolarizzante, è anche il processo di un più preciso prendere atto, e non di un prendere atto solo momentaneo, poiché è - nello stesso tempo - un processo di inserimento nel patrimonio stabile di una conoscenza che diviene abitudine" [p. 39]. Molto efficace ed espressiva è anche la contrapposizione terminologica tra "pura intelaiatura di senso" e "tracciato di senso" [p. 40] che corrisponde appunto al passaggio da una vuotezza e indeterminatezza di alto grado ad un cammino percettivo che è invece largamente previsto, che è sentito come privo di lacune, privo di tensioni interne e sufficientemente stabile. Rileggiamo ancora alcuni punti del testo: "Se una volta ho visto il lato posteriore di un oggetto sconosciuto e ritorno percettivamente al lato anteriore, allora la preintepretazione vuota rivolta al lato posteriore ha ora una determinata predelineazione che prima non aveva. Attraverso tutto ciò l'oggetto sconosciuto si trasforma, nel processo percettivo, in un oggetto conosciuto; certo, alla fine, proprio come all'inizio, ho solo una manifestazione unilaterale... e tuttavia l'intera acquisizione conoscitiva è ancora in mio possesso e, nel percepire tematico, l'ho ancora sotto presa. La nostra coscienza ha ora un tracciato di senso, articolato e sistematico che precedentemente non c'era, che non c'era all'inizio della percezione. Ciò che era allora una mera intelaiatura di senso, una generalità carica di tensione, è ora una particolarità sensatamente articolata... Così, se ritorno alle percezioni del precedente processo di determinazione, allora esse scorrono nella coscienza del riconoscere, nella coscienza dell'io tutto ciò lo conosco già. Ha luogo così una mera illustrazione intuitiva, e con essa una conferma che riempie le intenzioni vuote, ma non una più precisa determinazione" [p. 40]. 62 9. La negazione 35. Tutto quanto precede appartiene alle premesse delle Lezioni sulla sintesi passiva. Il primo argomento nel quale ci imbattiamo e del quale si vuol dare un'esposizione approfondita è quello generale delle modalizzazioni della coscienza, ed all'interno di esso, quello della negazione. Naturalmente, per renderci conto dell'importanza di questo problema e del modo in cui qui viene affrontato le considerazioni che abbiamo svolto in precedenza non ci bastano. Abbiamo bisogno di attirare l'attenzione sul contesto teorico in cui si situano queste prime analisi. In rapporto ad esso dobbiamo subito sottolineare che sono in realtà ancora determinanti gli interessi originari di Husserl per la logica e la filosofia della logica. 36. Ma non ci siamo occupati fin qui di processi percettivi e delle loro strutture? Che cosa ha a che tutto ciò con la logica, la quale si occupa in generale di proposizioni, di "giudizi" secondo la vecchia terminologia; di forme proposizionali e dello studio delle loro modificazioni, uno studio che può essere proposto in modo calcolistico, quindi con l'uso di determinati simbolismi e regole ad essi applicati? 37. La logica ha a che vedere con la nozione di linguaggio, e quindi con le strutture linguistiche piuttosto che con quelle della percezione. E proprio su questo punto noi ci imbattiamo nella grande idea di Husserl, una grande idea che si trasforma anche in un grande progetto filosofico, un progetto che, almeno a mio avviso, attende ancora di essere apprezzato fino in fondo: se è vero che la logica, come disciplina evoluta è effettivamente una disciplina che ha a che fare con le strutture linguistiche in rapporto alle quali può giustamente ed efficacemente far valere ogni 63 possibile strumento di elaborazione formale, la discussione delle questioni di una filosofia della logica è destinata invece ad imbattersi in un vicolo cieco, o in un labirinto senza vie di uscita se tali questioni non subiscono uno spostamento dal piano del linguaggio a quello della percezione, se i concetti costitutivi di base di una teoria della logica ovvero di una teoria del giudizio, come spesso preferisce esprimersi Husserl proprio per ricollegarsi al dibattito tradizionale, non vengono riportati al terreno della percezione e riformulati in modo conseguente. 38. Vogliamo subito cercare di renderci conto di che cosa ciò possa significare proprio sull'esempio della negazione. Questa parola ha la sua applicazione più elementare e immediata nel linguaggio, nella proposizione, dove essa prende corpo nella paroletta non. "Le cose non stanno così". Questa proposizione nega un'altra proposizione, nega la proposizione: "Le cose stanno così", che è appunto la proposizione affermativa corrispondente. Affermazione e negazione sono due concetti strettamente legati. Ora l'apparente evidenza di questa distinzione tende subito a confondersi non appena la esaminiamo più da vicino. 39. Intanto: Che la frase "Le cose non stanno così" sia negativa lo vediamo dalla presenza in essa della negazione - precisamente della paroletta non. Ed allora ci si può chiedere: da dove vedo che la proposizione "le cose stanno così" è affermativa? Non ci dovrebbe essere anche in questo caso una paroletta che me lo indica? Perché questa paroletta non c'è? Potremmo dire: non c'è nessuna paroletta che segnala l'affermazione per il semplice fatto che questa caratteristica assertiva della proposizione è la caratteristica originaria, e la negazione non può che presupporla. In certo senso, negazione e affermazione non sono affatto sullo stesso piano, ma prima c'è l'affermazione, la proposizione affermativa, e poi la sua negazione. Sembra chiaro che non c'è negazione se non di qualcosa che è stato affermato. Nella parola 64 proposizione vi è, etimologicamente, l'atto del porre - in italiano in particolare del porre-avanti. Ciò vale anche per la lingua tedesca: Satz, proposizione, è connesso con setzen che significa appunto porre. Si può intendere questo atto proprio come quando si gioca a carte e si pone sul tavolo una carta: viene posto avanti un certo stato di cose, ed è questo stato di cose che andrà negato, in certo modo soppresso. Così la carta nel gioco potrebbe essere "mangiata". E naturalmente non si può mangiare una carta che non c'è. 40. Tuttavia si potrebbe ben chiedere che cosa significhi parlare di caratteristica originaria in rapporto alla proposizione affermativa; oppure che cosa significhi quel prima e quel poi - prima l'affermazione e poi la negazione - proposti in rapporto a distinzioni logiche. Queste considerazioni critiche potrebbero essere rafforzate dall'esibizione di una seconda via per impostare il problema di questa distinzione. Potremmo infatti considerare la questione come se la frase "le cose stanno così" potesse essere considerata come neutra rispetto all'affermazione ed alla negazione e la differenza tra l'una e l'altra consisterebbe in una sorta di indice di verità e di falsità, che in qualche modo viene apposto ad essa. Vi sarebbe una sorta di puro contenuto lasciato impregiudicato nella sua verità o falsità. Questa potrebbe sembrare una buona soluzione che non concorda con la precedente. Affermazione e negazione vengono proposte in certo modo sullo stesso piano, come operazioni compiute sul contenuto neutralmente inteso. Non vi sarebbe prima l'affermazione e poi la negazione, ma prima il puro contenuto non ancora giudicato, e poi la sua connotazione negativa o affermativa. Ma nuovamente ci potremmo chiedere: che cosa significa qui prima e poi? Affermazione e negazione sono o non sono per così dire proprietà della proposizione? Sono all'interno di essa oppu- 65 re sono simili ad un indice che viene apposto dal di fuori? Inoltre la stessa nozione di mero contenuto che non è affermato né negato è meno chiara di quanto potrebbe apparire ad un primo sguardo. Essa potrebbe anche apparire come una nozione astratta, ovvero come ottenuta per astrazione dalla proposizione affermativa e dalla negativa corrispondente. "Le cose stanno così" - "Le cose non stanno così": il mero contenuto non giudicato sarebbe ciò che queste due proposizioni hanno in comune - mettendo da parte l'affermare e il negare -, e in tal caso la nozione di mero contenuto presupporrebbe quella di proposizione affermativa e negativa. Naturalmente è appena il caso di accennare al possibile impiego relativo dei termini. Perché non potrei parlare di proposizione affermativa nel caso di "Le cose non stanno così" visto che in essa si afferma in ogni caso qualcosa? E questo è ancora un modo di interrogarsi sul problema se il negare o l'affermare sia qualcosa che sta all'interno della proposizione - come il sostantivo che ha forma di soggetto - oppure al di fuori di essa. Questi dubbi, che potrebbero essere rafforzati e che potrebbero dar luogo a impostazioni molto differenti, sono in ogni caso sufficienti a mostrare che è necessario un chiarimento: simili perplessità possono sorgere soltanto per il fatto che non si è chiarito a sufficienza che cosa vogliamo intendere con affermazione e con negazione. 41. Questa esigenza di un chiarimento preliminare che riporti un po' di ordine sul nostro problema è indiscutibile. Ciò che invece si può discutere è la via da percorrere per ottenerlo. Questa via - si potrebbe sostenere - deve rimanere interamente all'interno del piano linguistico in cui è per principio installata la logica. Se oscurità vi sono, si tratta di oscurità di ordine linguistico, che vanno dipanate attraverso un chiarimento nei modi di impiego delle parole, con l'istituzione di qualche opportuna convenzione terminologica che ci aiuti a non cadere in usi equivoci. 66 Per Husserl una simile via, che naturalmente è percorribile in quei casi in cui l'equivoco è effettivamente di origine linguistica, è tuttavia priva di radicalità. Le chiarificazioni realmente radicali sono quelle che vanno oltre il piano linguistico per misurare differenze e categorie logico-linguistiche sul piano dell'esperienza, e in particolare, sul piano della percezione. "Il luogo originario per chiarificazioni realmente radicali è qui la percezione e, per motivi che diventeranno in seguito evidenti, soprattutto la percezione trascendente" [p. 63] Facendo riferimento alla problematica della negazione, questa problematica generale si pone con particolare forza, e si arriva comprendere senza difficoltà in che modo questo ricorso all'esperienza rappresenti anche un metodo di chiarificazione. 42. Abbiamo osservato che nel termine di proposizione vi è l'idea del porre. Ora, questa stessa idea è presente, oltre che sul piano linguistico-giudicativo, su quello puramente percettivo. Nella percezione si effettuano costantemente delle posizioni - potremmo esprimerci così. Ed anche: la percezione ha carattere posizionale. Che cosa significa ora questa espressione? Significa che l'oggetto - l'oggetto trascendente, come ci esprimevamo prima - che è colto e costituito percettivamente, lo è anzitutto come oggetto effettivamente esistente di fronte a me con quelle proprietà che gli sono attribuite attraverso la percezione. Questa esistenza effettiva è appunto la sua posizione. Se io mi guardo intorno e vedo degli oggetti di un qualche colore, questi oggetti non sono pure unità fenomeniche, ma sono anche nello stesso tempo cose che ci sono, là, di fronte a me, con tutte le loro proprietà. Come sappiamo ciò non significa ancora enunciare un giudizio ovvero constatare "qui ci sono oggetti che hanno queste e queste proprietà" - ma la costituzione percettiva è evidentemente una condizione ed una premessa per 67 una simile posizione giudicativa. 43. Vi è dunque una posizione esperienziale, percettiva, che "precede" la posizione giudicativa in un'accezione del precedere del tutto chiara - si tratta appunto non tanto di una precedenza logica (come se si trattasse di un rapporto di premessa e conseguenza) e nemmeno di una precedenza in senso temporale (il prima e il poi non sono qui rilevanti), ma di una precedenza nella struttura fenomenologica di questo rapporto. Il nostro intento sarà dunque quello di ritrovare sul piano percettivo le nozioni che possiamo aver attinto anzitutto sul piano "predicativo" ovvero "logico-linguistico", ed in questo piano percettivo dovremo cercare di cogliere le situazioni a cui quelle nozioni possono essere idealmente riportate e le forme che assumono i problemi che abbiamo riscontrato. 44. Ci siamo lambiccati il cervello per decidere intorno al problema della priorità o meno dell'affermazione sulla negazione? Ebbene, la soluzione è ora a portata di mano, perché la priorità dell'affermazione diventa una sorta di necessità di principio: qualunque processo percettivo deve essere concepito anzitutto come un processo nel quale si effettuano posizioni. Se così non fosse non potremmo nemmeno fare un passo in direzione del problema della negazione. 45. Gli esempi a cui possiamo fare ora riferimento non sono più esempi di enunciati, contrapposti gli uni agli altri, ma sono invece concrete situazioni percettive, costituite processualmente. Husserl fa più volte l'esempio di una sfera che viene costituita anzitutto come tale e inoltre di colore rosso - e che tuttavia mostra poi nel lato retrostante un aspetto diverso, sia dal punto di vista della forma che del colore. Il lato retrostante - espressione con la quale intendiamo ovviamente il lato prima non visto e che poi viene visto attraverso il movimento corporeo del girare 68 intorno all'oggetto o inversamente del fare ruotare l'oggetto - si presenta inattesamente di colore verde e con una rientranza, con una ammaccatura. Inattesamente: qui sta il nuovo problema a cui possiamo ricollegare il problema della negazione considerato non già anzitutto come fatto linguistico, ma come appartenente alla struttura dei processi percettivi. L'oggetto delude le aspettative che facevano parte della sua costituzione iniziale. Questo è il fenomeno della delusione (Enttäuschung) - e ad esso possiamo ricollegare il tema della negazione in quanto possiamo dire che nella delusione viene soppressa, e dunque negata, una determinata anticipazione percettiva. Si tratta, dice Husserl di un "evento contrario alla sintesi del riempimento", un evento che si oppone al processo della "determinazione più precisa" che caratterizza il prendere atto percettivo dell'essere della cosa. Questa "presa d'atto, invece di conservarsi e di arricchirsi ulteriormente, può essere infatti messa in discussione, può essere negata" [p. 59]. 46. L'oggetto esibisce, ad certo punto del suo processo di costituzione percettiva, aspetti inattesi. Non è rosso (come era atteso), ma verde. Non sferico, ma con delle concavità. L'oggetto si presenta nella forma dell'essere-altrimenti. Intanto bisogna distinguere questo modo del presentarsi altrimenti che va nettamente distinto da quello che potremmo caratterizzare come un modo sistematico del presentarsi altrimenti e che è tipico della costituzione percettiva dei mutamenti. Pensiamo alla percezione di un movimento che segue un andamento curvilineo ma senza una effettiva regolarità - oppure di un oggetto che cambia colore oppure forma senza che si possa cogliere una effettiva regola del mutamento. Una situazione come questa non deve essere descritta come se essa non fosse caratterizzata da attese, ma piuttosto da attese che vengono a loro volta sistematicamente deluse, cosicché la delusione stessa segue 69 a sua volta "uno stile ordinato e regolare" ed anzi il rapporto tra attesa e delusione in questo caso si complica, perché la delusione possibile finisce con l'appartenere al contenuto stesso dell'attesa - mi attendo che il movimento prosegua in un certo modo, e tuttavia mi attendo anche che questa attesa non venga confermata: e ciò significa più precisamente e meno equivocamente che "vi è una coscienza costante del divenir altro, la cui analisi fenomenologica è di fondamentale importanza per la costituzione del mutamento" [p. 60]. Questa coscienza del divenir altro deve essere accompagnata dalla coscienza che ciò che diviene altro è in ogni caso sempre lo stesso oggetto che, appunto, è un oggetto mutevole. Il caso dell'oggetto mutevole con tutte le sue complicazioni costitutive deve essere chiaramente distinto dal nostro caso: quando diciamo che l'oggetto si presenta nella forma dell'essere-altrimenti non vogliamo affatto dire che è mutato - ed in effetti è proprio su questo caso che possiamo considerare meglio il rapporto con la negazione. La situazione descrittiva si propone allora in questo modo: per un certo tratto del decorso percettivo vi sono concordanze interne che mi consentono di cogliere un oggetto sferiforme di colore rosso, ma questo decorso improvvisamente viene contraddetto: "Prima che il lato posteriore sia percepito, la percezione nel suo decorso vivente aveva una sua predelineazione intenzionale e rinvii orientati in modo determinato verso il rosso e lo sferico. Tuttavia, invece di riempirsi in questo senso e trovare così conferma, essi vengono delusi" [p. 61]. 47. Ci sono tuttavia delle condizioni che debbono essere rispettate: in primo luogo si deve conservare quello che Husserl chiama "l'ambito generale di senso" [p. 61]: ciò significa essenzialmente che una parte significativa di quella che era la compagine di senso anteriore, e quindi, nell'esempio, il carattere tridimen- 70 sionale, il possesso in ogni caso di una forma con un contorno determinato ed altre eventuali proprietà legate ad altri dati sensoriali, come la tattilità, ecc., debbono essere mantenute, poiché anche qui - come nel caso dell'oggetto mutevole - deve potersi mantenere l'oggetto come oggetto identico: il passaggio ad un totalmente altro è escluso ed è dunque esclusa anche l'idea di una delusione relativa a tutte le direzioni dell'attesa. "Certo, l'ambito generale di senso viene conservato e si riempie, ed è solo in questo e solo in relazione a queste intenzioni che si fa avanti un altrimenti, un contrasto tra le intenzioni ancora viventi da un lato e, dall'altro, i nuovi contenuti intuitivi di senso che ora si danno insieme alle loro intenzioni più o meno piene" [p. 61]. "In questa situazione tuttavia, affinché possa essere ancora mantenuta l'unità di un processo intenzionale, deve essere in ogni caso presupposta una certa misura di riempimento continuo. Ciò significa, correlativamente, che attraverso il deflusso delle manifestazioni mutevoli deve mantenersi una certa unità di senso. Solo così abbiamo, nel decorso del vissuto, insieme alle sue manifestazioni, la persistenza di una coscienza, un'intenzionalità unitaria che abbraccia tutte le fasi [p. 63]... Nella continuità del riempimento si è mantenuto un ambito di senso generale; viene colpita solo una parte dell'intenzione predelineante, quella che appartiene al punto della superficie in questione, e la parte di senso corrispondente riceve il carattere del non così, ma altrimenti" [p. 64]. Non meno importante di questo rilievo della parzialità della delusione, è l'azione retroattiva che questa soppressione dell'attesa comporta. Si tratta qui di un caso particolare di fenomeno di retroazione - dal momento la possibilità dell'azione retroattiva è tanto importante da meritare di essere caratterizzata come una vera e propria struttura della vita coscienziale. Tutto ciò che si manifesta nel decorso percettivo, ma anche più largamente esperienziale, implicando forme complesse di vissuti, può avere effetti retroattivi inducen- 71 do modificazioni non soltanto sulle attese future, ma anche sul senso e sulle direzioni intenzionali che appartengono al passato. Questo principio molto generale può trovare un'esemplificazione molto minuta proprio in rapporto al nostro problema. Il fatto che il riempimento non sia avvenuto in rapporto al colore modifica non solo le eventuali attese future, ma anche il modo in cui possono essere riattualizzate le attese passate. In questa riattualizzazione esse non possono più avere il senso che avevano prima, in cui la conferma non era affatto in discussione, ma esse assumono invece un carattere di attese in cui la conferma non era affatto affatto in discussione, e tuttavia sono state soppresse. Parlando di riattualizzazione si allude ad un effettivo atto di riproduzione memorativa esplicita dei passi precedenti, ma naturalmente questa modificazione avviene in ogni caso, sia che si effettui un esplicito atto rimemorativo sia che non lo si effettui. Converrà anche su questo punto rileggere il testo husserliano: "... l'intero senso della percezione si modifica, e non soltanto quello che appartiene al tratto percettivo attuale; di qui la modificazione di senso si irradia infatti all'indietro verso la percezione passata, verso la totalità delle sue precedenti manifestazioni. Queste vengono dal punto di vista del senso, reinterpretate alla luce del "verde" e dell' "am­maccato". Ciò non avviene naturalmente in atti espliciti, ma se tornassimo attivamente sui nostri passi troveremmo necessariamente, in modo cosciente ed esplicito, l'interpretazione modificata" [p. 61]. Per alludere allo stesso problema, nel § 7, si parla di un "certo raddoppiamento nel contenuto del senso che appartiene per essenza alla situazione fenomenica nel suo complesso. "Proprio come qualcosa di inatteso, nuovo e altro ricopre il senso "rosso e sferico" predelineato nel tratto percettivo finora decorso rendendolo non più valido, così qualcosa di corrispondente accade retro-attivamente per l'intera serie che si è sino a qui dipanata. Il senso percettivo non si modifica cioè solo nel tratto percettivo attuale e originariamen- 72 te impressionale. La modificazione noematica [dalla parte dell'oggetto] si irradia nella sfera ritenzionale nella forma di una cancellazione retroattiva, e modifica la sua operazione di senso derivante dalle precedenti percezioni" [p. 65]. L'idea del raddoppiamento del contenuto del senso viene illustrata poco oltre come una sorta di sovrapposizione tra il vecchio decorso e il nuovo decorso con la nuova interpretazione da esso proposta: "Se noi, in una rimemorazione esplicita, rendessimo intuitive le compagini ritenzionali, e cioè la serie [=successione] di manifestazioni ancor fresca nella coscienza ma già completamente oscura, ritroveremmo nel ricordo in tutti i suoi orizzonti non soltanto la vecchia predelineazione con la vecchia struttura di attesa e di riempimento, così come era allora originariamente, ma avremmo anche, ad essa sovrapposta, la predelineazione corrispondentemente modificata che ora rimanda al "verde" e all'"ammaccato"" [p. 65]. 48. Una volta chiarito che il caso in questione deve essere distinto da quello dell'esperienza dell'oggetto mutevole, va dunque notato: 1. che la delusione prevede un riempimento parziale, che garantisce in ogni caso quel tanto di continuità e di concordanza tra le esperienze che consente il riferimento ad un unico oggetto; 2. la nuova esperienza entra in contrasto con l'esperienza attesa e la sopprime; 3. vi è poi il fenomeno della retroazione, ovvero l'intero corso anteriore dell'esperienza riceve una reinterpretazione nella quale l'esperienza soppressa non si è semplicemente dissolta: essa è ancora presente ma come esperienza soppressa, oppure come esperienza cancellata. Va notato che il momento della negazione va proposto proprio in rapporto alla cancellazione. "Ciò che è immediatamente colpito dalla soppressione, che ha primariamente il carattere del "non", è il momento oggettuale "rosso", il suo esserci dato nell'anticipazione" [p. 66]. "Si fa strada ora il carattere di coscienza dell'intenzione "sop- 73 pressa", "non valida" e, conformemente a ciò, il rosso assume il carattere modale del "non valido". Di contro, ciò che è ora percepito, ma che delude ciò che prima era inteso assume il carattere del "valido"" [p. 67]. 4. Infine il processo riprende il suo corso, e ciò richiede che il contenuto della nuova esperienza si integri in quelle intenzioni che erano state parzialmente riempite, a partire dall'oggetto stesso fornito delle sue nuove determinazioni. "Dopo la modificazione che la percezione originaria nella sua semplicità e normalità ha subito a causa del fenomeno della cancellazione, abbiamo nuovamente una percezione simile a quella normale, poiché la modificazione di senso che marcia di pari passo con la cancellazione ristabilisce una percezione di senso unitario e concordante procedendo nella quale troviamo un riempimento costante delle intenzioni: ora tutto si accorda con l'inserimento del "verde" e dell'"ammaccato"" [p. 66]. 49. Dopo aver mostrato i passi, e quindi anche lo spirito, dell'analisi che stiamo conducendo possiamo concludere con alcune considerazioni di carattere più generale. Anzitutto sul concetto di modalizzazione, e precisamente sulla distinzione tra coscienza modalizzata e coscienza originariamente non modalizzata. Queste ultime espressioni vengono impiegate da Husserl già all'inizio del capitolo, prima della prima sezione dedicata appunto alla modalizzazione[p. 59]. Modale, modalizzazione rimandano evidentemente alla parola "modo", e questa è una parola importante per la fenomenologia. Occorre tuttavia subito notare che questa parola può essere usata in un'accezione molto generale ed in un'accezione più ristretta e più specializzata. Nell'accezione più generale potremmo dire che in una ricerca fenomenologica abbiamo sempre a che fare con l'identificazione di modi della coscienza, oppure, e forse più chiaramente di 74 modi dell'intendere. Il principio dell'intenzionalità enunciato astrattamente secondo la dizione manualistica "la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa" è assai poco pregnante, se non si comprende subito che in quel principio è contenuta l'idea di una molteplicità di modi dell'intendere che vanno concretamente indagati nelle loro forme e nella loro struttura. In una ricerca fenomenologica abbiamo sempre a che fare con differenze nei modi dell'intendere che si riflettono ovviamente anche sui contenuti intesi, sulle oggettività costituite. In questa accezione potremo parlare di modalità o di modi della coscienza proprio per indicare queste differenze tipiche che costituiscono oggettività tipicamente differenti. 50. Il termine modo, modale, e in particolare modificazione modale e modalizzazione possono tuttavia avere un impiego più specifico - ed è appunto questo il caso che dobbiamo considerare qui. Esso ha origine nell'ambito della terminologia della "teoria del giudizio", anche se, come abbiamo visto, questo ambito viene oltrepassato per motivi metodici verso il piano dell'esperienza percettiva. Nella terminologia logica si parla in genere di modalità facendo riferimento ai concetti del possibile, del probabile, del necessario e del certo, e concetti affini. Ciò che accade nella trasposizione problematica effettuata da Husserl sul terreno dell'esperienza cominciamo a vederlo proprio in rapporto al problema della negazione. Qui abbiamo un primo consistente esempio che illustra l'idea di modificazione modale ovvero, equivalentemente, di modalizzazione della coscienza: questa modificazione è data proprio dalla soppressione e dalla cancellazione nel senso prima spiegato. Ma la nozione di modalizzazione impiegata così implica che si possa ed anzi si debba parlare di coscienza originariamente non modalizzata, perché è proprio questa coscienza che subisce una modificazione. 75 51. La coscienza originariamente non modalizzata è la coscienza percettiva in senso ampio, la coscienza che ha anzitutto intorno a sé un mondo costituito attraverso sintesi concordanti, quindi un mondo di cose date in se stesse in una piena certezza. Si tratta della coscienza in quanto effettua posizioni. La percezione, che secondo l'accezione generale può essere definita un modo della coscienza come un altro, in questo contesto può essere definita come coscienza non modalmente modificata (non modalizzata) in quanto in essa si realizzano anzitutto processi di sintesi concordanti che effettuano come tali la "posizione" di oggettività. Talvolta si parla della coscienza originariamente non modalizzata come una coscienza attraversata dall'"originario modo della certezza percettiva ingenua" ovvero della "credenza percettiva ingenua" - dove nella parola credenza risuona indubbiamente un lontano ricordo alla problematica humeana del belief che qui è completamente ripensata e rinnovata. Naturalmente si tratta sempre di una certezza costituita processualmente, all'interno dunque di processi che si sviluppano in ininterrotte sintesi concordanti. Quando invece si ha in queste sintesi di concordanza una interruzione allora vi sono appunto i fenomeni di modificazione modale. La negazione rappresenta una interruzione e rappresenta nello stesso tempo un esempio di modificazione modale sul piano della struttura della percezione. Così si esprime conclusivamente Husserl: "In primo luogo la negazione presuppone per essenza, nell'originarietà [cioè sul terreno dell'esperienza percettiva] la costituzione oggettuale originaria e normale che abbiamo precedentemente descritto come percezione normale. Essa deve esistere per poter essere originariamente modificata. La negazione è una modificazione di coscienza che, secondo la sua propria essenza, annuncia se stessa come tale [ovvero: l'essere una modificazione modale della coscienza fa parte del concetto stesso della negazione]" [p. 67]. 76 10. Il dubbio 52. Nel Secondo Capitolo della Prima sezione delle Lezioni si affronta la tematica del dubbio. Anche in questo caso bisognerà ribadire l'origine del problema dalle questioni poste da una "teoria del giudizio". Se dovessimo prendere effettivamente le mosse dal terreno logico-linguistico, come in precedenza abbiamo preso le mosse da considerazioni sulla paroletta logico-grammaticale "non", così ora molto probabilmente prenderemmo le mosse dalla paroletta "o", "oppure" impiegate in senso esclusivo in proposizioni del tipo "la tal cosa ha la proprietà P1 oppure ha la proprietà P2" - anche se naturalmente non vi è nella frase obbiettivamente considerata alcun riferimento ad una condizione dubitativa. Questa condizione potrebbe in certo modo affiorare se ponessimo al termine della frase un punto interrogativo. Notiamo subito a questo proposito che la risposta fisserà affermativamente uno dei due poli dell'alternativa proposta mentre negherà necessariamente l'altra alternativa. Cosicché la tematica dell'affermazione e della negazione dovrà certamente essere riproposta in questo nuovo contesto. Tuttavia, non è il caso ormai di indugiare più di tanto sugli aspetti logico-linguistici dal momento che le considerazioni precedenti ci hanno già offerto un filo conduttore e noi ci possiamo affidare ad esso. Se facciamo riferimento alle forme possibili di modificazione modale della certezza primaria, e quindi alle forme possibili dei decorsi concordanti dei processi percettivi, noteremo ben presto che si può dare una sorta di condizione transitoria verso la negazione [p. 69], ed in questa condizione dobbiamo cogliere la situazione dell'interrogazione rispetto ad un'alternativa, e quindi della situazione del dubbio riportata sul piano propriamente percettivo. 77 53. Ricolleghiamoci senz'altro all'esempio di Husserl: "Uomo o manichino?". Ecco una domanda che ci potremmo rivolgere se entriamo in un museo di statue di cera dove un custode sembra invitarci sorridente ad entrare in una sala; oppure, per fare un esempio più vicino ai tempi nostri, di fronte ad una statua iperrealista di materiale plastico, come l'uomo che cerca di fermare un taxi esposto in una strada di New York dal quale i taxisti sono inesorabilmente attratti; oppure ancora: "Giganti o mulini a vento?" per metterci nei panni di Don Chisciotte, o forse meglio di Sancio Panza, che qualche dubbio lo aveva. In tutti questi casi non abbiamo a che fare con giudizi o incertezze giudicative vere e proprie, con domande vere e proprie ma con dinamiche interne ai processi percettivi. Anzitutto è chiaro che siamo in presenza di un'interru­zione del decorso delle conferme, ma non nello stesso senso di un'attesa che viene delusa. Piuttosto vi è una sorta di sospensione del processo, ma di sospensione in certo senso dinamica. Non appena sembra che io possa confermare il senso intenzionale "uomo" ecco che su questo senso scivola il senso intenzionale "manichino" - vi è uno slittamento dell'un senso sull'altro. Il termine tedesco è qui Überschiebung, che è di difficile traduzione - esso indica lo spostamento sopra, lo scivolamento, lo slittamento: in generale, per evitare neologismi che appesantirebbero un testo già non troppo leggero, nella traduzione italiana lo si è tradotto quasi sempre con sovrapposizione. Con questo slittare e sovrapporsi di un senso sull'altro si vorrebbe cogliere appunto la condizione strutturale dell'indecisione percettiva: condizione che peraltro esige che l'intenzione venga almeno per un istante riempita, ma poi subito sopraffatta dal riempimento, anch'esso precario, dell'intenzione ad essa contrapposta. I "dati iletici" dice Husserl sono gli stessi - cioè il materiale sensoriale non muta, ma essi formano la base comune di due apprensioni dinamicamente sovrapposte, dove la dinamicità consiste nell'impossibilità di impedire l'oscillazione e la fluttuazione dei sensi e il loro conflitto. 78 "Nel nostro esempio abbiamo piuttosto questa situazione: d'un tratto l'intero contenuto concreto... riceve un secondo contenuto che scivola su di esso. La manifestazione visiva, la forma spaziale riempita dal colore, era precedentemente attorniata da un alone di intenzioni apprensive che produceva il senso "corpo umano" e "uomo in generale" su cui ora scivola il senso "manichino di cera vestito". Riguardo a ciò che viene propriamente visto non cambia nulla, anzi vi sono in più momenti comuni: da entrambe le parti vengono appercepiti in comune vestiti, capelli e così via, ma una volta come carne e sangue, l'altra come cera... Una stessa ed identica compagine di dati iletici è la base comune di due apprensioni sovrapposte. Nessuna delle due viene cancellata durante il dubbio; esse stanno lì, in contrasto reciproco, ognuna ha in un certo qual modo la sua forza... Nel dubbio rimane indeciso un conflitto" [p. 70]. 54. Questa situazione è del tutto diversa da quella della negazione nel senso in cui ne abbiamo parlato in precedenza. In quel caso l'insorgere di un'impressione originaria - quindi di una pienezza - metteva senz'altro fuori gioco quella che era in ogni caso una mera intenzione vuota. Per ricollegarci alla nostra immagine del gioco delle carte: la carta proposta viene senz'altro mangiata. Nel caso del dubbio abbiamo invece il primo esempio elementarissimo, ma già in se stesso estremamente significativo, di situazione effettivamente conflittuale, in cui un'istanza si contrappone ad un'altra istanza, ed esse si contestano reciprocamente [p. 70]: è da notare qui l'impiego per la prima volta della parola "forza" riferita alle intenzioni che stanno all'interno del processo, al peso delle istanze che si fanno avanti. Ora prevale l'una, reprimendo l'altra, che viene "privata di vigore" - ma che non è affatto cancellata, bensì è pronta a riprendere il suo vigore ricacciando indietro l'istanza contrapposta. Questo elemento conflittuale e dinamico è uno degli aspetti di carattere generale che caratterizzano l'intera problematica della teoria dell'espe- 79 rienza presente in queste lezioni. La coscienza del dubbio viene descritta come una coscienza caratterizzata da una "doppiezza" interna, come un processo unitario che ad un certo punto si biforca, ma indugia nel punto esatto della biforcazione in un'alternanza continua di intenzioni e di riempimenti corrispondenti. Naturalmente si farà valere anche in questo caso il fenomeno della retroazione. Il fatto che la coscienza abbia subito una biforcazione e sia giunta in un punto di indecisione, muta retroattivamente il senso dell'intero decorso percettivo che prima era attestato ad esempio nella certezza rivolta all'"uomo in carne ed ossa". Ora questo stesso decorso percettivo ha modificato il suo senso ed è destinato a sboccare in un punto di indecisione. La possibilità di una diversa interpretazione dei "dati iletici" si proietta su tutte le apprensioni percettive precedenti. "Anche qui ci si mostra come il conflitto agisca per essenza retroattivamente sull'esperienza trascorsa, su cui pure si ripercuote lo scindersi della coscienza dotata di un unico senso in una coscienza polisensa. Il divenire discordante con la sua sovrapposizione appercettiva si estende cioè alla coscienza ritenzionale. Se noi compiamo una presentificazione esplicita [una esplicita rimemorazione] del tratto percettivo che precede il dubbio, ci accorgiamo che ora esso non è più presente nell'unicità del suo senso, come un consueto ricordo, ma ha assunto lo stesso raddoppiamento; l'appercezione manichino si è dappertutto sovrapposta all'appercezione-uomo" [p. 71]. 55. Affermazioni come queste non debbono affatto sembrare poco significative. Al contrario ciò che si continua a ribadire in queste formulazioni è che una modificazione interna ai processi dell'esperienza non è una modificazione che interessa unicamente l'istante in cui esattamente avviene, ma si ripercuote sull'intero flusso coscienziale, ed in particolare in direzione del passato. Anche il motivo che io chiamerei della ripercussione (benché Husserl non si serva di questo termine) va tenuto presente come 80 un motivo che ha in realtà una rilevanza generale che va ben oltre il quadro del nostro problema attuale. Questo motivo è presente anche nelle considerazioni successive che completano il quadro descrittivo della problematica del dubbio. Noi abbiamo parlato di una fluttuazione nella quale l'una percezione si ribalta nell'altra. Nel momento in cui si fa valere il senso "uomo", la formula verbale che potrebbe rendere questa situazione potrebbe essere: sì, si tratta davvero di un uomo: ma questo modo della conferma non ha affatto lo stesso senso delle conferme che intervenivano in precedenza nel primo tratto del decorso percettivo quando l'apprensione "uomo" faceva parte della certezza originaria, della coscienza non modalizzata. Ciò che cambia è proprio il fatto che questa decisione affermativa segue una fase di dubbio e forse non è ancora sufficientemente forte da escludere il prevalere dell'istanza opposta: "Ciò che si manifesta in carne ed ossa è ora cosciente in un modo differente. Invece di essere vissuto come qualcosa che è semplicemente presente, così come accade nella percezione normale ed univoca (e cioè in quella percezione che scorre concordemente), esso è cosciente ora come un che di problematico, di dubbio, di controverso: è contestato da qualcosa di altro, da qualcosa che si dà in carne ed ossa in un'altra fase percettiva, qualcosa che si compenetra conflittualmente con esso" [p. 175]. 56. Naturalmente si perverrà alla fine ad uno sblocco del processo, ad una sua ripresa: il processo di costituzione della cosa si rimette in moto con nuove sintesi di concordanza. Ma ciò richiede naturalmente che il dubbio sia realmente e definitivamente deciso nell'una o nell'altra direzione. Ciò comporta, come abbiamo già osservato, il ripresentarsi in una nuova forma del tema dell'affermazione e della negazione [cfr. § 9]. Rivediamo il nostro esempio. E pensiamo semplicemente a 81 come ci comporteremmo di fronte al custode che sembra invitarci sorridente ad entrare in sala. Ebbene, cercheremo di provocare nuovi sviluppi che siano in grado di rafforzare l'una o l'altra direzione - ad esempio potremmo rivolgergli la parola, stringergli la mano, o addirittura mettergli uno zolfanello sotto il naso. Forzeremmo dunque il contrasto tra le due direzioni intenzionali, provocando nuove fasce di attese e dunque rendendo possibile dei nuovi riempimenti che saranno naturalmente attuati all'interno di impressioni originarie. "Il riempimento attuato da un'impressione originaria è la forza che su tutto si impone" [p. 73]. Questi nuovi decorsi di intenzioni e di riempimenti decidono il dubbio nell'una e nell'altra direzione. Con ciò ritorniamo dal piano del dubbio a quello della certezza. Ma è appropriato realmente il parlare di un ritorno? A questo proposito dobbiamo pazientemente riconsiderare meglio la questione. Da un lato si tratta di un ritorno, di una condizione di possibile ripresa dell'interruzione del processo percettivo; dall'altro la certezza così acquisita, che sul piano verbale potremmo esprimere dicendo appunto "sì, le cose stanno veramente così" - questa affermazione che interviene ora, non come una fase interna delle oscillazioni del dubbio, ma come la decisione e quindi come il suo termine, non ha lo stesso senso delle conferme che facevano parte della certezza originaria, della coscienza non ancora modalizzata. Husserl osserva esplicitamente che anche l'affermazione con la quale un dubbio viene deciso, ciò che egli chiama il "sì confermante" [p. 73] "è un modo modalizzato rispetto al modo interamente originario e non modalizzato della validità certa in cui la costituzione semplice dell'oggetto percettivo si compie in modo univoco e incontrastato" [p. 73]. "Non appena, passando attraverso il dubbio subentra la decisione affermativa, abbiamo il ristabilimento della certezza; ciò che risulta in effetti reale diviene per me di nuovo certo. E tuttavia la 82 coscienza è ora modificata" [p. 74]. La condizione della certezza come tale dunque non basta per parlare di coscienza non modalizzata. La coscienza non modalizzata è la coscienza originariamente non modalizzata - la coscienza ciò che non ha ancora subito delle modificazioni modali. Una certezza ristabilita non è affatto certezza ingenua, certezza senza problemi. Ed il fatto che vi sia nel processo una certezza ristabilita dopo la vicenda conflittuale del dubbio si ripercuote sull'intero processo e sul suo senso. Questo tema conclusivo è qui certamente presente e lo è anzi con la consapevolezza della sua portata generale. "Diviene qui come ovunque evidente, e lo sarà ancor di più in seguito, che questo è, per così dire, il destino della coscienza: che tutti i cambiamenti e le modificazioni di cui fa esperienza rimangano, dopo la modificazione, in essa sedimentati come sua "storia"" [p. 74]. 11. La possibilità 57. Nel Capitolo terzo delle Lezioni si parla di "modalità" aderendo al senso più tradizionale del termine, almeno in rapporto ai temi della logica. Il suo scopo principale è quello di distinguere con chiarezza due concetti della possibilità. Non si parla invece ancora di probabilità anche se si pongono le premesse per introdurre anche questo importante concetto epistemologico. Il primo concetto riguarda un concetto di possibilità inteso come specificazione di una generalità relativamente indeterminata. Come esempio, pensiamo al rapporto tra il colore come genere e le sue possibili specificazioni. Questo primo concetto di possibilità è chiamato da Husserl possibilità aperta. Il secondo concetto di possibilità chiama direttamente in causa le nostre considerazioni intorno alla condizione del dub- 83 bio percettivo e può essere presentato come uno sviluppo di esse. Si tratta propriamente della possibilità che si realizzi un certo evento sulla base di ragioni e di motivi, di istanze che la giustificano. Questo secondo concetto di possibilità è chiamato da Husserl possibilità problematica [§§ 11-12]. Questa differenza concettuale è proposta ed illustrata sulla base di differenze che riguardano la struttura dei decorsi percettivi - e questo rappresenta indubbiamente, sotto il profilo metodologico, un ottimo esempio di chiarificazione analitica che non passa affatto attraverso la pura analisi logico-linguistica. È come se dicessimo: le oscurità nelle quali ci imbattiamo nell'impiego della parola - e quindi del concetto di possibilità - ci fa sospettare che essa non abbia senso univoco; ed invece di ricollegarci ad esempi di proposizioni, come potremmo anche fare, ci chiediamo invece che cosa possiamo intendere con possibilità se riportiamo questo termine alla tematica della struttura dei decorsi percettivi. 58. Seguendo l'ordine proposto da Husserl cominciamo ad illustrare la nozione di possibilità aperta. Abbiamo notato fin dall'inizio che l'ambito delle attese protenzionali può essere caratterizzato come un ambito di indeterminatezza determinabile. Questo è il tema che va ripreso a questo punto, distinguendo nettamente due situazioni descrittive molto diverse, sempre rifacendoci esemplificativamente all'idea elementare di un lato antistante e di un lato retrostante della cosa, espressioni che noi intendiamo in senso lato per indicare in genere ciò che è attualmente noto della cosa e ciò che non lo è ancora: A. la situazione nella quale questa indeterminatezza è tuttavia già chiaramente orientata a partire dalla situazione attuale, dal lato antistante. Ad esempio quando un colore del tutto determinato è in ogni caso atteso. L'indeterminatezza consiste allora solo nel fatto che in ogni caso il lato retrostante non è stato ancora scoperto, ma per il resto vi è un'attesa che si situa 84 all'interno di processi di sintesi concordanti che sono puntate tutte in una direzione ben determinata. In tal caso non si parlerà propriamente di possibilità, non si dirà ad esempio che è possibile che il lato retrostante sia colorato di rosso. E nemmeno si parlerà di una "coscienza di indeterminatezza" (questo è il punto essenziale) dal momento che noi ci muoviamo su un tracciato di senso che è nettamente predelineato dalle intenzioni e dai riempimenti sin qui decorsi. Siamo in realtà ancora all'interno di una certezza primaria e ingenua che, come sappiamo, è da intendere processualmente. B. Diversamente stanno le cose se il decorso percettivo anteriore non ci consente un simile orientamento dell'attesa. Allora dentro il flusso percettivo, senza che esso debba necessariamente essere interrotto - come nel caso del dubbio - si presenta una vera e propria "coscienza di indeterminatezza", che non è una coscienza interamente vuota, ma che è predelineata in una forma soltanto generale. I casi possono anche essere intrecciati l'uno nell'altro ed anzi l'esempio proposto da Husserl a me sembra proporre questo intreccio, anche se il testo non è in proposito chiarissimo. Supponiamo di avere a che fare con un oggetto la cui superficie si presenta con molte piccole macchie colorate. L'osservazione sin qui condotta mi consente di operare l'anticipazione determinata secondo cui vi saranno macchie anche nel lato retrostante, mentre non mi consente di anticipare alcun colore determinato dal momento l'osservazione ha finora mostrato macchie di colori svariati senza una qualche regola. Dunque per quanto riguarda il carattere "superficie con macchie" vi è una anticipazione del primo tipo; per il colore delle macchie vi è invece un'anticipazione del secondo tipo (cosa che non avverrebbe se ad esempio tutte le macchie fin qui viste fossero colorate uniformemente). Ciò significa che ci si attende semplicemente che le macchie abbiano un colore in genere. 85 59. Forse potremmo dire: un colore possibile. Uno dei tanti colori che sono in generale possibili. La possibilità è aperta nel senso che se i colori in genere formano un "campo delimitato di possibilità" [p. 77] allora noi facciamo riferimento al campo stesso nella sua interezza, senza che l'uno o l'altro colore abbia una qualche forma di privilegio: l'uno o l'altro equivalentemente. Per proporre un altro esempio illustrativo: supponiamo di avere un oggetto con venti facce - no! rendiamo l'esempio più realistico, supponiamo di aggirarci in un edificio con molte stanze ognuna delle quali è colorata in modo diverso dall'altra. In queste condizioni potremo attenderci che la prossima stanza abbia un colore diverso da questa, ma quanto al colore nella percezione stessa si è costituito il senso uno tra tutti i colori possibili, senza che l'uno o l'altro colore goda una qualche preferenza. 60. Benché all'orizzonte si profili una discussione che naturalmente non può non avere incidenza sul piano propriamente logico-concettuale, tuttavia è interessante notare che Husserl sottolinea espressamente che i piani debbono essere comunque tenuti in via di principio nettamente distinti. "Qui non dobbiamo affatto pensare a nozioni logiche, a generalità classificanti o generalizzanti, ma semplicemente a questa intenzione anticipatrice della percezione, e proprio come essa si dà nella percezione stessa: nel modo di coscienza dell'indeterminatezza" [p. 78]. Come abbiamo osservato proprio questa "coscienza dell'indeterminatezza" è la caratteristica che contraddistingue questo caratteristico modo di coscienza in cui la nozione di possibilità si costituisce come possibilità aperta. Per spiegare meglio di che si tratta possiamo sospendere momentaneamente il decorso percettivo vero e proprio e piuttosto immaginare di "girare intorno all'oggetto": possiamo così immaginare che questo o quel lato abbia un colore determinato. 86 "Noi possiamo liberamente formarci presentificazioni che illustrino intuitivamente ciò che non è visibile, per esempio immaginando di girare intorno all'oggetto. Se così facciamo, avremo intuizioni che ci daranno colori interamente determinati" [p. 78]. Ciò che caratterizza questa fantasia sta nella sua completa gratuità: in luogo di questo colore potrei immaginarne un altro senza che vi siano contrasti o resistenze di alcuna sorta. Il colore che viene immaginato non è stato in qualche modo "richiesto", non è stato "predelineato". Si noti che nel passo precedente si parla qui di presentificazione, un termine che ha un uso molto ampio e che significa semplicemente "portare alla presenza" e che viene tipicamente impiegato in rapporto a ciò che non è presente nel senso più pregnante, ma che deve appunto essere portato alla presenza. Non useremo dunque il termine di presentificazione per la percezione, mentre lo potremo usare per l'immaginazione. Io posso presentificare il lato posteriore (il colore della prossima stanza, ecc.) - e ciò significa: posso comportarmi come se di fronte a me ci fosse proprio questo lato, come se esso mi fosse dato in tutta certezza, ma ciò appunto accade "in una coscienza di indeterminatezza che non ha indizi per pronunciarsi per questo colore che qui [nell'imma­ginazione] casualmente appare". [p. 79]. In una simile immaginazione, si ha una "presentificazione illustrativa": cioè in questo modo fornisco solo un esempio di colore che potrebbe appunto esserci sul lato posteriore, ma "ogni altro colore potrebbe svolgere altrettanto bene la stessa funzione del colore presente [portato alla presenza dall'immaginazione]" [p. 79]. In queste condizioni in cui la coscienza di indeterminatezza è 87 penetrata dentro al decorso percettivo, nel momento in cui scopro il colore della prossima stanza non si avrà tanto il rapporto di attesa e di conferma o di delusione dell'attesa, ma piuttosto "una particolarizzazione determinante" - cioè una particolarizzazione (questo determinato colore) che sopprime l'indeterminatezza e la generalità che si proponevano in precedenza. 61.Veniamo ora alla nozione di possibilità problematica [§§ 1112]. Mentre nella nozione precedente era escluso qualunque riferimento ad una condizione dubitativa, nel caso della possibilità che Husserl chiama problematica dobbiamo riprendere proprio quella condizione. Noi abbiamo descritto quella situazione soprattutto come un'oscillazione tra certezza e incertezza: ora ci sembrava certo il senso "uomo" ora il senso "manichino di cera". Ora credevamo trattarsi di un uomo ora di un manichino di cera. Notiamo l'impiego del verbo credere. Nel trattare il tema del dubbio siamo dunque molto prossimi a situazioni che potremmo anche indicare con il verbo credere o il verbo supporre: intendendo sempre queste espressioni in un senso un po' diverso da quello corrente che si riferisce di norma ad atti espliciti, mentre dobbiamo pensare a ciò che potrebbe loro corrispondere sul terreno dei decorsi percettivi. Ciò che non era stato preso in considerazione nel precedente esame della situazione del dubbio era il fatto che nel dubbio e nella sua provvisoria decisione vi sono per così dire indizi o segnali che ci fanno inclinare nell'una o nell'altra direzione interpretativa, cosa che invece non accadeva nel caso della possibilità aperta. Naturalmente può darsi che questi indizi e questi segnali non forniscano indicazioni sufficienti per risolvere il conflitto tra le due interpretazioni. La situazione è allora una situazione di stallo, di sospensione. In tal caso si compieranno nuovi atti (nuove "intuizioni presentificanti") capaci di fornire ulteriori informazioni. Lo abbiamo già notato in precedenza, ma ora 88 l'accento deve cadere sul fatto che vi sono elementi che fanno inclinare nell'una o nell'altra direzione di senso. La situazione può essere descritta verbalmente con il dire: suppongo, sulla base di questi e questi altri motivi, che le cose stiano così e così, ovvero "è possibile che le cose stiano così e così". Come si vede qui siamo in presenza di una peculiare modalizzazione della posizione: "le cose stanno così". 62. Ad essere precisi - e non finiremo mai di segnalare quali sottigliezze, quali minuzie ci debbono apparire importanti - dobbiamo distinguere la situazione nella quale siamo noi stessi che effettuiamo coscientemente una supposizione, ed è quindi applicabile senza problemi la formula dell'io credo, e quella in cui è l'oggetto stesso che da un lato si propone in un'alternativa di senso e dall'altro mi impone, nello sviluppo del decorso percettivo, un certo polo dell'alternativa piuttosto che l'altro - me lo impone non già come certo, ma come motivatamente ipotizzabile, ovvero come possibile ad un grado maggiore dell'altro. In sostanza nel primo caso abbiamo un atto della spontaneità, già fortemente spostato verso il lato del giudizio, dall'altro abbiamo il vero e proprio processo che appartiene all'ambito della passività. In questo secondo caso Husserl parla di supposizioni d'essere - espressione che va intesa in questo modo: supposizioni che provengono dall'essere stesso dell'oggetto; oppure parla anche di supposizione imposta o di imposizione a supporre; mentre si parla di supposizioni del credere per indicare invece la situazione "spontanea" corrispondente - una terminologia forse soverchiamente complicata per indicare una distinzione relativamente a portata di mano. 63. L'alternativa così posta non rappresenta una decisione del dubbio nel senso in cui ne parlavamo in precedenza: ciò che è supposto è appunto possibile e ciò che caratterizza questo senso della possibilità (detta anche "possibilità della supposizione") è l'esistenza di dati che ci fanno inclinare verso di essa. Il possibile è qui ciò che vie- 89 ne supposto: e ciò che viene supposto viene supposto sulla base di qualcosa che "parla a suo favore". Ogni possibilità che viene considerata nel gioco delle supposizioni e controsupposizioni ha un certo "peso" che si fa sentire nel dato percettivo e che determina il prevalere dell'una sull'altra, o comunque consente di stabilire in via di principio un ordinamento delle possibilità stesse. 64. Questa è in ultima analisi la differenza di fondo tra possibilità aperta e possibilità problematica. Nel caso della possibilità aperta possiamo pensare che il peso di ciascuna sia eguale a quello di qualsiasi altra, ovvero che la certezza che fa parte della generalità che deve essere determinata - ad esempio il fatto che la prossima stanza abbia un colore - si distribuisce e dunque si affievolisce in parti eguali su tutto il campo dei colori possibili. Ciò significa la stessa cosa che dire che la nozione di peso, del parlare a favore di, di inclinazione, di maggiore o minore forza dell'inclinazione non hanno alcun ruolo nella costituzione della nozione di possibilità aperta. Si noti che la differenza concettuale tra possibilità aperta e possibilità problematica è giustificata proprio attraverso la diversità dei processi di costituzione percettiva che possiamo fare loro corrispondere, quindi viene giustificata in certo senso per via a-concettuale, ed attraverso un'impostazione metodica che propone il riferimento al processo di costituzione percettiva come riferimento all'origine ed alla formazione dei concetti stessi. 12. La decisione 65. Il Capitolo quarto rappresenta una sorta di sintesi conclusioni e di ricapitolazione della problematica della modalizzazione, toccando anche temi centrali di ordine generale come quello della differenza tra passività e attività. 90 Mentre spesso non possiamo che esprimerci con termini che richiamano l'idea di un'attività soggettiva ed anche una vera e propria attività giudicativa, tuttavia le nostre osservazioni debbono essere intese come osservazioni relative ai puri processi percettivi distinguendole dalle verbalizzazioni corrispondenti, dai giudizi veri e propri come giudizi espressamente formulati. Detto in breve: un conto è vedere una cosa - e quindi necessariamente anche vederla con il senso di "cosa effettivamente esistente" - ovvero un conto è "prendere atto" di essa visivamente, ed un'altra è il giudizio vero e proprio, sia esso verbalmente espresso o meno: "in questa stanza c'è questo e quest'altro". Insistere su questa distinzione non deve sembrare eccessivo perché la distinzione stessa non è affatto ovvia e non è facile da formulare. Naturalmente se io vedo di fronte a me un albero, so anche che qui c'è un albero. Ma questa parola "sapere" è usata ora in modo improprio: altrimenti dovremmo assimilare ogni nostro atto sensoriale ad un'acquisizione conoscitiva, dovremmo dire il semplice atto di guardarsi intorno sia un atto conoscitivo. Invece comincia ad esserci qualcosa di simile ad un sapere se mi venisse rivolta esplicitamente la domanda se vi sia un albero nel mio giardino, e io guardassi nuovamente dalla finestra della mia stanza, sia effettivamente o anche soltanto in una ripetizione memorativa dello sguardo, e rispondessi affermativamente. Questo secondo sguardo ha una struttura interna interamente diversa dal primo. Ciò che in precedenza era una sorta di precognizione interna all'atto percettivo, diventa qui una cognizione effettiva - per quanto di poco conto. 66. Con una ripresa della terminologia platonica, che viene naturalmente in questo modo genialmente reinterpretata, Husserl parla per l'ambito delle precognizioni, e quindi per l'ambito delle costituzioni oggettuali passive, di doxa. Questo termine, nel linguaggio platonico, indica l'ambito delle opinioni comuni, fondate sulla sensibilità, che sono esposte all'errore finché non sono 91 illuminate dalla visione delle idee. Quando questa illuminazione interviene, allora non parleremo più di doxa, di pura opinione, ma di conoscenza autentica, di episteme. Questa inclinazione dell'opposizione platonica non è affatto assente dall'esposizione husserliana, come subito vedremo. Ma indubbiamente occorre attirare l'attenzione sul fatto che il termine doxa non ha il senso tendenzialmente svalutativo che ha in Platone, dal momento che in Husserl esso indica in generale il piano della costituzione esperienziale del mondo. Adottiamo dunque senz'altro questo termine per una tematica ben nota. Il piano della doxa è il piano della certezza "ingenua" che può essere modalmente modificato. 67. Questo problema della distinzione tra attività e passività ha una particolare pregnanza dopo aver esposto la problematica del dubbio e della possibilità. Il dubbio viene prima o poi deciso. Questa "decisione" può intervenire come un accadere interno alla percezione stessa - ed in tal caso si tratterà di un fenomeno della passività. Ma vi sono anche le decisioni che appartengono all'io stesso, che sono propriamente prese di posizione, che sono risposte attive di fronte al problema che la percezione stessa pone. Peraltro secondo l'impostazione che abbiamo fatto valere fin qui, non dobbiamo intendere questa distinzione come se si trattasse di una sorta di parallelismo, come se decisioni passive - per chiamarle provvisoriamente in questo modo - e prese di posizione fossero l'una accanto all'altra. Sembra invece coerente con il nostro modo di procedere il proporre le decisioni passive come una sorta di presupposto delle prese di posizione, esattamente come nel caso del rapporto tra precognizioni e cognizioni di cui parlavamo poco fa. Si tratta dunque di un sorta di ripercorrimento della situazione del dubbio di cui tuttavia questa volta io stesso mi assumo la responsabilità, io stesso prendo posizione. "Nelle proprie prese di posizione l'io esprime infatti il suo giudizio, si decide per o contro qualcosa" [p. 92]. 92 Per o contro: il decidersi è un decidersi tra alternative; una presa di posizione non è mai un atto per così dire semplice: una presa di posizione a favore di... implica almeno una presa di posizione contro, eventualmente più prese di posizioni contro. Tutte queste prese di posizione, avverte Husserl, "sono del tutto non-indipendenti dal punto di vista intenzionale, poiché presuppongono gli eventi della doxa passiva" [p. 92]. Si tratta di una frase che non la si comprende subito, ma che diventa subito più chiara se parliamo, piuttosto che di non-indipendenza (traduzione del resto letterale), di interdipendenza (traduzione meno letterale, ma più chiara). E questa interdipendenza risulta dal riferimento al terreno della doxa nel quale si dà appunto un ventaglio di possibilità (pensiamo naturalmente qui soprattutto alla possibilità problematica) [pp. 93-94]. Questo terreno della doxa, dice ancora Husserl, rappresenta la "base motivazionale" per la decisione attiva - questa espressione viene ripetuta più di una volta e il suo senso mi sembra chiaro: non vi sarebbe motivo per una decisione attiva se non vi fosse quella scissione interna al processo che genera il dubbio. Questa scissione effettua per così dire una chiamata verso l'io - l'io è chiamato a prendere posizione. "Se si percepisce semplicemente, notando ed afferrando meramente ciò che c'è e si manifesta da sé nell'esperienza, allora - se non si dà altro - non vi è alcun motivo per una presa di posizione... Il giudicare è sempre un decidersi così e così, ed è quindi decisione per o decisione contro, assenso o dissenso, rifiuto...Il giudicare in senso specifico è quindi l'atto con il quale l'io compie la positio, la posizione nella sua possibile doppia forma: quella della decisione concordante dell'io o quella del dissenso o del rifiuto" [p. 93]. 68. Nel corso di questa ripresa e ricapitolazione vengono ribadi- 93 te tesi già in precedenza enunciate, e che riguardano in modo più diretto il livello di una possibile teoria del giudizio: in particolare si avverte che tutte queste considerazioni suggeriscono che sia sbagliato porre l'idea di un contenuto per così dire neutrale rispetto alla validità e non validità, rispetto all'affermazione e alla negazione che verrebbe poi rivestito da carattere affermativo o negativo come qualificazione di questo contenuto. Piuttosto dobbiamo considerare il problema dinamicamente: la negazione nega un contenuto che è stato posto, o a livello della certezza primaria o nella decisione della situazione dubitativa, e ciò chiarisce che la negazione deve avere un "carattere intenzionale secondario": "Diviene così chiaro che la presa di posizione affermativa e quella negativa non sono semplicemente due "qualità" equivalenti, come per esempio nella sfera cromatica il rosso e il blu, e che non è quindi in generale opportuno parlare a questo proposito di qualità. L'atto di negazione compiuto dall'io è un porre fuori validità, e già questa espressione indica che si tratta di un carattere intenzionale secondario" [p. 96]. Una volta che ciò sia stato chiarito possiamo poi riconoscere che la differenza non ha bisogno affatto di essere mantenuta in questa forma, ma che anzi si può portare il non interamente all'interno della proposizione, in modo tale da poter sostenere che ci troviamo comunque di fronte ad accertamenti che le cose stanno così o che le cose non stanno così: dal punto di vista logico questa operazione è interamente legittima: le posizioni negative sono posizioni tanto quanto le posizioni affermative. Accerto che la tal cosa è rossa - accerto che la tal cosa non è rossa. Due accertamenti - due posizioni. "Il "no", e corrispettivamente, il "non valido" entrano allora nel contenuto della constatazione. Di conseguenza il concetto di giudizio può anche essere concepito in modo che esso racchiuda esclusivamente l'agire rivolto a constatare l'essere 94 e che accolga in sé la non validità solo in quanto momento contenutistico, in quanto non essere esistente, per così dire. Di fatto la logica e la scienza riducono tutto a giudizi constatativi, e giustamente. Per quante siano le cose che vengono negate, negli enunciati teoretici non si trova alcun negare, ma essi constatano ora un essere-così e ora un non-essere così. Di conseguenza il concetto di giudizio per eccellenza conosce solamente una "qualità": la constatazione di ciò che è valido" [p. 96]. È appena il caso di notare che in questa obbiettivazione conclusiva del problema va interamente obliato il rapporto con il problema della modalizzazione, e così viene semplicemente cancellato il rapporto con la "scissione", con la condizione del dubbio nella processualità dell'esperienza. E se da un lato è perfettamente legittimo, come sottolinea espressamente Husserl, pervenire a questo risultato conclusivo, dall'altro nessun chiarimento radicale sulla natura della negazione può essere ottenuto interrogandoci sul non concepito in questo modo come un fatto puramente interno alla proposizione. In vista di questo chiarimento dobbiamo proprio risalire al di là di questo oblio ritrovando la negazione come un fenomeno interno alla dinamica dei processi esperienziali. 69. In questa stessa direzione va intesa l'osservazione di Husserl sull'idea di un contenuto neutro a cui prima abbiamo accennato. Se si vuole parlare di un contenuto neutrale dovremmo pensare piuttosto alla domanda idealmente presupposta dal giudizio, cioè la domanda a cui il giudizio può essere proposto come una risposta. Anche questo rilievo mostra l'inclinazione di tutto il discorso ad evitare una classificazione meramemte concettuale ed a impostare il problema dinamicamente. Il concetto formulato oscuramente parlando di neutralità si chiarisce mostrando la presenza e l'importanza di questa correlazione: domanda - risposta. Nella domanda "vi è naturalmente un giudizio che non è 95 ancora effettivo che pure è già preso in considerazione, un giudizio meramente rappresentato (neutrale), che in quanto contenuto della domanda è aperto al sì e al no" [p. 101]. La rivendicazione conseguente che la proposizione interrogativa appartenga ad una teoria del giudizio [§ 15] ci richiama poi al tema della vuotezza e della pienezza ed alla sua centralità per tutto il discorso husserliano. 13. Estensioni in direzione di una teoria della soggettività 70. Ma proprio in questi paragrafi conclusivi del Capitolo quarto della Prima sezione viene più vivacemente in luce l'altra direzione di queste analisi. Qui non è in questione solo una teoria del giudizio. A me sembra che diventi sempre più sensibile l'idea di operare il trasferimento di una problematica come questa sul terreno di una teoria della soggettività, di una teoria dei vissuti di esperienza in un'accezione del tutto generale. Proprio la situazione del dubbio, che è dominante in tutta la problematica della modalizzazione, è da questo punto di vista esemplare: certezza e dubbio, che sembrano valere essenzialmente come titoli problematici interni di una teoria della logica o di una teoria della conoscenza in senso ampio, e come tali vengono per lo più in questione nel testo di Husserl, possono nello stesso tempo esprimere due condizioni esistenziali fondamentali, tanto più se li si intende in senso processuale. L'essere-nella-certezza esprime allora la concordanza della soggettività con se stessa, quindi una condizione vorremmo quasi dire di solidità della soggettività e di sicura apertura al mondo: la soggettività procede nel suo cammino di sintesi progressive, di progressive conferme, ed ogni conferma ha il carattere di una vera e propria autoconferma. Diversamente stanno le cose nel caso del dubbio: la certezza si è incrinata, dunque si è incrinato l'essere-nella-certezza, e 96 di fronte a questa condizione esistenziale si profila la possibilità della scissione, non solo - per usare la terminologia di Husserl - sul lato noematico, ma anche su quello noetico: la scissione all'interno dell'unità dell'io. Ma la scissione nell'unità dell'io contiene anche la minaccia della perdita dell'io stesso, contiene un pericolo fondamentale, una minaccia, e l'angoscia di fronte ad essa. Conseguentemente il problema del ristabilimento dell'unità che si presenta nelle considerazioni precedenti come ritorno ad una "unità priva di incrinature" [p. 94] si arricchisce a sua volta, a mio avviso, di un nuovo senso che modifica l'inclinazione complessiva del discorso che abbiamo fin qui condotto. In particolare la stessa parola decisione inclina ora verso un'accezione tale da poter richiamare il problema della volontà e i temi, potremmo esprimerci così, della ragione pratica. 71. Vorrei cercare di documentare questa possibile inclinazione del discorso, per mostrare che essa non dipende da una mia interpretazione arbitraria. La scissione del processo nel dubbio - sottolinea qui Husserl molto più accentuatamente che nelle discussioni precedenti - è anche una scissione interna dell'io. La vicenda che dalla certezza conduce alla scissione e poi, attraverso la decisione, al suo superamento in una nuova certezza è una vicenda che può essere descritta anche in rapporto alla soggettività stessa: L'io "entra, a modo suo, in conflitto con se stesso, diviene dapprima scisso e infine concorde. Era incline a porsi sul terreno di un'unica apprensione, cioè a compiere soprattutto le tendenze d'attesa di questa apprensione, a farle diventare - in un processo che si origina dal centro dell'io - attese attive; l'io però si vede qui nuovamente ostacolato, viene trascinato all'interno di opposte tendenze di attesa e inclina verso l'apprensione opposta" [p. 94]. Rispetto a tutto ciò Husserl non esita a parlare in rapporto a 97 tutto ciò di quei "tormenti delle modalizzazioni" [p. 100], che è che è espressione certamente troppo carica dal punto di vista emotivo per adattarsi ad una pura vicenda epistemologica che può per di più essere illustrata in termini tanto elementari come abbiamo affatto nel corso della nostra esposizione precedente. Sono questi tormenti che debbono essere superati per ritornare a quell'"unità priva di incrinature" che rappresenta anche il ritorno ad una condizione in cui "l'interno contrasto dell'io con se stesso è risolto" [p. 94]. L'"interna armonia dell'io con se stesso" può peraltro sempre di nuovo andare perduta e l'io tende ad assicurarsi rispetto a questa possibile perdita [p. 99]. Parlare di "armonia dell'io" è un'espressione particolarmente pregnante che ha un'inclinazione esistenziale, e questa inclinazione è presente anche nelle "pure tendenze alla conferma" che si originano dal centro stesso dell'io e che vengono variamente ostacolate e impedite. Non vi è, secondo questa inclinazione, alcun diretto legame con la teoria del giudizio in senso stretto e proprio, eppure vi è un legame lontano e l'interesse di queste pagine sta certamente anche nel fatto di mostrarne l'esistenza e di accorciare in certo senso le distanze. Peraltro la centralità del problema epistemologico non subisce alcuno spostamento, ma soltanto una diversa colorazione, dentro la quale la questione della certezza sul terreno conoscitivo, la certezza in senso epistemologico, si mostra rilevante anche sul terreno esistenziale: la condizione esemplare del dubbio e del conflitto rimane il dubbio interno alla ragione teoretica: solo che esso tende a rivestire un carattere di intollerabilità anche sotto il profilo emotivo e della ragione pratica. E in questo io credo si riveli un tratto fondamentale della personalità filosofica di Husserl che impregna l'intera sua filosofia. 72. È interessante sotto questo riguardo notare che questa tematica è intrecciata con un motivo a cui finora non abbiamo nem- 98 meno accennato. Nella certezza ripristinata attraverso la decisione si acquisisce una conoscenza che viene effettuata all'interno del processo temporale, e dunque in un momento determinato del tempo: tuttavia essa non è affatto legata a questo momento, non è una certezza ed una conoscenza momentanea, ma avviene una sorta di "appropriazione": ciò che è conosciuto diventa mia "proprietà", e ciò implica naturalmente che ciò che è conosciuto lo è ormai, in via di principio, stabilmente. "Si presenta qui un momento importante e caratteristico del decidere giudicativo. Non è qui in questione soltanto il compiersi di un processo nel presente..., ma un'appro­priazione attraverso la quale l'io attivo, l'io agente, sforzandosi, acquisisce una conoscenza permanente, se ne appropria" [p. 95]. Naturalmente quando affermiamo ciò siamo già in prossimità del terreno del giudizio, nel quale la conoscenza acquisita può essere verbalizzata, e dunque anche oggettivata: qui non sono allora più in questione gli atti soggettivi del conoscere, le percezioni in quanto effettuate da una soggettività particolare in un qui ed ora, ma gli accertamenti hanno carattere di accertamenti che riguardano puramente l'essere o il non essere della cosa stessa. Il tema della permanenza viene integrato con una ulteriore notazione che si richiama, con un riferimento esemplificativo minimo, ad una problematica ben più ampia. Il riferimento minimo è quello relativo a due tipi di domande [p. 100]: vi è la domanda semplicemente diretta ad accertare come stanno le cose. Husserl la formula dicendo: "è A?". Meno freddamente, noi ci rivolgeremo ad un amico chiedendo: "C'è una penna rossa in quel cassetto?"; e l'amico aprirà gentilmente il cassetto, andrà a vedere se c'è una penna rossa e risponderà: "Si, c'è una penna rossa nel cassetto". "Ma è veramente A?" [p. 103]. Ovvero: "Ma c'è veramente una penna rossa nel cassetto?". Ebbene, questa potrebbe sembrare un'insistenza inutile e fastidiosa, e meriterebbe una dura 99 risposta da parte del nostro amico (non te lo ho appena detto? Che cosa vuoi sapere di più?). Ed invece - e questo è realmente un po' stupefacente (è stupefacente questo modo di introdurre un problema in realtà di grandi proporzioni) - si tratta di un vero e proprio secondo tipo di domanda, di natura completamente diversa dalla precedente. La prima domanda presupponeva la possibilità problematica, il dubbio in senso vero e proprio e chiedeva che esso fosse deciso. La seconda domanda invece non muove affatto da una situazione di dubbio autentico ed attuale, ma proietta in ogni caso la risposta or ora ricevuta in un orizzonte di possibilità aperta. La seconda domanda mette in questione la permanenza e la stabilità della conoscenza acquisita, vuole dunque assicurarsi rispetto ad ogni futura possibile problematizzazione. È in generale possibile che una conoscenza ritenuta acquisita sia invece rimessa nuovamente in dubbio. La prima domanda chiede un giudizio sicuro; la seconda domanda prende le mosse da un giudizio sicuro per pervenire ad un giudizio definitivamente sicuro. Con una esemplificazione estremamente elementare, si allude a due mosse fondamentali del processo del conoscere: la prima mossa consiste nell'acquisizione di una conoscenza, la seconda mossa nella giustificazione e nella conferma che consolidi questa conoscenza, in se stessa per il momento non minacciata, in modo da metterla al riparo da ogni dubbio possibile. È inutile sottolineare che qui si avanza una nozione di conoscenza particolarmente forte. Ma questo tema è proponibile anche in una versione più debole, nella quale potremmo parlare, per la seconda mossa, di un puro e semplice consolidamento della conoscenza precedentemente acquisita, che ha l'idea della messa al riparo da ogni dubbio possibile soltanto come proprio limite teorico. In questa versione più debole, non mi sembra che vi siano serie obiezioni nell'affermare che queste sono le due mosse fondamentali del processo del conoscere. Credo anche, benché possa 100 talvolta apparire il contrario, che l'impronta teleologica presente in Husserl faccia ritenere più che probabile che anche per Husserl valga la nozione debole. È proprio in questo contesto, fortemente impregnato di istanze epistemologiche, che troviamo le espressioni che abbiamo citato poco fa: "... l'esigenza frequente del fatto che quella concordanza che è stata ristabilita e che ha permesso di riguadagnare l'interna armonia dell'io con se stesso può andare di nuovo perduta, può portare con sé un ulteriore motivazione, può cioè ridestare l'impulso a superare di nuovo il disagio dell'insicurezza. In questo caso l'io non si appaga, come nel caso precedente, nel tendere verso una decisione giudicativa, verso l'appropriazione e la constatazione del giudizio già pronunciato: la tendenza si orienta ora verso un giudizio definitivamente sicuro, che l'io possa fondare in maniera legittima e di cui possa essere quindi soggettivamente sicuro senza ricadere nei tormenti delle modalizzazioni" [p. 100]. 14. Teoria fenomenologica dell'associazione 73. La problematica della sintesi passiva si può ricollegare direttamente a quella dell'associazione, e per questo, mentre in precedenza abbiamo fatto il massimo sforzo per realizzare un commento sequenziale, ora passiamo senz'altro alla Terza sezione, dedicata ad una teoria fenomenologica dell'associazione che rappresenta invece il centro ed anche il punto di arrivo del problema della sintesi passiva. Va anche detto che mentre la sezione sulla modalizzazione è caratterizzata da una relativa unità interna, la sezione sull'associazione è molto più tormentata, vi sono continue corse in avanti e altrettanto frequenti rimandi all'indietro - cosicché ci sembra opportuno riordinare il materiale a modo 101 nostro organizzandolo in maniera del tutto libera rispetto al testo e stabilendo un preciso e convincente ordine di esposizione. Daremo allora evidenza a concetti e problemi la cui discussione si trova dispersa all'interno dell'esposizione husserliana, e cercheremo per essi un'esemplificazione il più possibile adeguata, talvolta ricollegandoci ai rari esempi proposti da Husserl, talaltra cercando invece di escogitarne altri che ci possano sembrare efficaci. Da un lato, dunque il testo stesso di Husserl ci obbliga ad essere un poco più creativi di pedissequi commentatori, dall'altro proprio esercitando una maggior creatività - così almeno spero di mostrare - si potrà effettuare una migliore lettura e interpretazione del testo. 74. La tematica dell'associazione ha ricevuto un peso particolare nella tradizione filosofica a partire da Hume, nel quale si prospetta l'idea delle regole associative come regole per la costituzione della realtà stessa in quanto sono anzitutto regole fondamentali della vita psichica in genere. In quest'ultima forma il problema è passato all'interno della psicologia, che può vedere del resto in Hume uno dei propri padri ed in particolare il padre della linea di tendenza dominante della psicologia nella seconda metà del secolo scorso, alla quale ci si rivolge anche parlando di psicologia associazionista. Di fatto la tematica dell'associazione nella sua originaria impronta humeana era caratterizzata da un assunto particolarmente forte che potrebbe essere formulato molto semplicemente in questo modo: non vi è alcuna necessità interna dell'esperienza. Ogni formazione stabile, ogni formazione oggettiva è il risultato di un processo di stabilizzazione che comincia da materiali fluidi che ricevono un consolidamento attraverso l'iterazione di nessi di eventi. Tale iterazione dà luogo ad abitualità, termine che deve essere inteso in un'accezione molto ampia, tanto da comprendere gli abiti mentali, le abitualità percettive, le abitualità com- 102 portamentali, ecc. Quest'idea dell'assenza di necessità interne è passata nella cosiddetta psicologia associazionista, così come sono passati in essa i presupposti di base di una filosofia empiristica dell'esperienza. 75. Se caratterizziamo il punto di vista associazionista secondo la formula elementare che abbiamo or ora usata, il punto di vista kantiano, che prende invece le mosse dall'idea che vi siano forme a priori dell'intuizione e categorie dell'intelletto altrettanto aprioriche, qualunque cosa significhi in concreto una simile assunzione, essa può essere altrettanto elementarmente caratterizzato dalla formula almeno parzialmente opposta secondo la quale "ci sono necessità dell'esperienza". Secondo la terminologia kantiana: vi sono condizioni che debbono essere necessariamente soddisfatte affinché l'esperienza sia possibile. A dir la verità, senza sentirci obbligati a spiegazioni che qui sarebbero fuori luogo, l'effettivo problema kantiano non è quello di una filosofia dell'esperienza, o lo è in modo del tutto subordinato al problema della conoscenza e della sua possibilità. Dopo l'intervento kantiano la parola "associazione" tende quasi ad implicare nel suo senso la negazione del problema stesso delle condizioni di possibilità. Associazionismo e trascendentalismo si contrappongono così l'uno all'altro. 76. All'interno degli sviluppi del pensiero psicologico, la rea­zione alla psicologia associazionista, che viene condotta in particolare dalla psicologia della forma, ha fatto sì che quest'ultima venga considerata come un indirizzo kantianeggiante. Questo problema lo si ritrova naturalmente anche in rapporto alla nozione di fenomenologia proposta da Husserl: del resto egli si trova molto vicino alla psicologia della forma, anzi per alcuni versi ne precorre alcuni punti di vista fondamentali fin dalla sua prima opera filosoficamente importante (Filosofia dell'aritmetica, 1891). Più tardi poi, pochi anni dopo la pubblicazione delle Ricerche logiche 103 (1900-1901), caratterizza la propria idea di fenomenologia con l'aggettivo di trascendentale. Sembra giusto dunque dare per scontato un definitivo distacco dal punto di vista associazionista. 77. Ma in realtà qui siamo in presenza di un dannoso equivoco. L'impiego della parola trascendentale e il distacco dal punto di vista associazionista, e quindi anche da una filosofia empiristica dell'esperienza, implica certamente l'idea dell'esistenza di condizioni di possibilità dell'esperienza, ma il vero problema è quello di stabilire in che modo abbiamo accesso a queste condizioni di possibilità e quale sia, per così dire, il carattere di queste condizioni. Proprio su questi due punti strettamente collegati tra loro - il modo dell'accesso e la natura delle condizioni - il rapporto Husserl-Kant- Hume potrebbe essere rimesso in gioco. 78. Per arrivare al punto di nodale della questione basterà osservare che per Husserl il modo di accesso alle condizioni di possibilità è una descrizione delle forme di unificazione concreta che sono date in un'esperienza attuale, e di conseguenza il loro carattere è quello di una legalità interna alle strutture dell'esperienza stessa. Un simile modo di accesso è del tutto estraneo al problema kantiano delle categorie: il problema kantiano è quello di una analisi delle forme del giudizio, quindi di un'analisi logica in un senso peculiare, che avrebbe lo scopo di cogliere quelle forme di organizzazione che Kant chiama categorie che sarebbero, secondo la sua prospettiva filosofica, proiettate dentro il materiale informe offerto dalle sensazioni. Proprio perché è presente questa idea della proiezione, le condizioni di possibilità non sono interne al materiale sensoriale, ma alla soggettività stessa, che è una soggettività "legiferante" che impone al materiale sensoriale le proprie leggi di organizzazione. La nozione di trascendentale in Kant - e dunque quella di condizioni di possibilità - è legata a fil doppio a questa concezione della soggettività. Per fissare questa differenza in una formula potremmo dire 104 semplicemente che il modo d'accesso husserliano al problema della condizioni di possibilità è dato dalla stessa analisi fenomenologica; in Kant invece da una speciale forma di analisi logica. Il termine trascendentale in Kant implica già la concezione di una soggettività legiferante e nello stesso tempo rimanda ad un insieme di condizioni intellettuali; in Husserl lo stesso termine non ha queste implicazioni e si richiama in primo luogo al problema dell'esistenza di condizioni di possibilità dell'esperienza come condizioni esplicitabili all'interno della ricerca fenomenologica. 79. Torniamo ora alnostro problema delle sintesi. Sappiamo ormai molte cose sull'atteggiamento fenomenologico e sappiamo che abbiamo ovunque a che fare con sintesi, con operazioni di unificazione e di organizzazione. Abbiamo anche parlato del prospettivismo della percezione, della molteplicità delle scene percettive attraverso cui un determinato ambiente mi appare e che debbono seguire una regola di sviluppo coerente, riconfluendo l'una nell'altra. Questo problema si rinnova, naturalmente in modi diversi, per ogni oggettività che si proponga nella sua identità, in generale per ogni evento che si presenti come una singolarità identificabile. Si pensi al movimento di una danzatrice o di un danzatore - e alla molteplicità di strati che sono implicati nella sua ricezione. Il movimento è in questo caso soprattutto una successione di forme, di figure che vengono colte in stretta relazione da un lato alla musica al cui ritmo la danza si regola, dall'altro alla costruzione narrativa che il danzatore sta mimando - e tutto ciò avviene all'interno di uno spazio scenico che a sua volta può subire delle variazioni, che è immerso in un alternarsi di luci e di colori che mantengono l'identità della scena e che alludono eventualmente a loro volta alle sfere emotivo-affettive messe in campo dalla narrazione evocata dalla mimica del danzatore. Vi sono evidentemente qui associazioni, vi sono sintesi che 105 potremmo dire di grado superiore fittamente intrecciate tra loro. Che cosa vuol dire sintesi di grado superiore? Vuol dire che esse hanno bisogno di altre formazioni sintetiche che rappresentano lo strato su cui poggiano. Secondo il nostro esempio: affinché io possa spingermi sino al punto di poter apprezzare il simbolismo implicato nell'azione mimica del danzatore, debbo essere in grado di seguire il suo movimento come un movimento unitario; e così prima di poter apprezzare l'unità che collega il campo visivo a quello uditivo - il movimento del danzatore con l'andamento del brano musicale - debbo essere in grado di cogliere come un'unità in sviluppo questo stesso andamento come puro fatto acustico. Supponiamo che una persona abbia una sorta di sordità rispetto ad un brano musicale, nel senso che non sappia cogliere in esso, per ragioni culturali o anche per ragioni fisiologiche, uno sviluppo unitario, ad esempio, non sappia cogliere l'andamento ritmico - questa persona non saprà nemmeno cogliere la coesione tra il movimento del danzatore, tra il suo "ritmo", e l'andamento musicale: nel caso migliore coglierà due situazioni percettivamente molto differenti, un tale che si muove sulla scena e che fa dei gesti, e un complesso di fatti sonori che accadono simultaneamente, ma che non hanno niente a che fare con i movimenti del danzatore, esattamente come il movimento delle mie mani sulla tastiera della macchina da scrivere non ha niente a che fare con i rumori della strada che entrano nella mia camera dalla finestra aperta. Naturalmente né sul movimento musicale né su quello del danzatore potrò poi innestare l'andamento narrativo che poggia in effetti sull'uno e sull'altro. L'unità superiore della formazione di senso è andata così perduta. 80. Ma naturalmente possiamo procedere ancora più in profondità negli strati sintetici di una formazione così complessa. Ad esempio il danzatore stesso deve essere colto come tale, come un uomo che si muove all'interno di uno spazio - e ciò richiede appunto che sia per me accessibile una formazione di senso più elemen- 106 tare, potremmo dire la formazione di senso "cosa che si muove" - anche una simile formazione richiede l'effettuazione di sintesi peculiari, dal momento che si distingue tipicamente da una "cosa in quiete", e la "cosa che si muove" si muove presumibilmente tra "cose in quiete", ad esempio, le cose che fanno parte dell'arredamento dello spazio scenico. A sua volta lo spazio scenico pone vari problemi per ciò che riguarda la sua identificazione, il suo isolamento, la sua separazione dallo spazio degli spettatori - affinché possa poi essere colto come uno spazio immaginario nel quale si sviluppa la storia narrata gestualmente dal danzatore. Questo esempio illustra intanto questa idea della stratificazione dei sensi e l'idea non meno importante di sintesi che poggiano su altre sintesi, di sintesi inferiori che sono condizioni per sintesi di grado superiore, che rappresentano per esse una sorta di presupposto necessario. 81. A partire di qui si comprende come si possa porre un primo problema di carattere molto generale: esiste uno strato infimo delle sintesi, uno strato inferiore che non abbia bisogno di poggiare su alcun altro sottostrato e che faccia da presupposto per ogni sintesi possibile? In realtà attraverso questa domanda si può agevolmente proporre, come primo grande problema che incontriamo sulla nostra via: la discussione della relazione tra tematica temporale e tematica delle sintesi o delle associazioni. Il punto essenziale della concezione husserliana della temporalità sta essenzialmente in due punti: da un lato nella chiara distinzione tra temporalità oggettiva e temporalità soggettiva o immanente; dall'altro nella concezione del presente come presente "esteso", un'espressione che Husserl non usa ma che mi sembra opportuna, sia pure accompagnata con qualche parola di commento. Io ne ho fatto uso nei miei Elementi di una dottrina dell'esperienza. La temporalità oggettiva è la temporalità concepita come la 107 totalità dei luoghi temporali per eventi possibili. A rigore nella temporalità concepita così non dovremmo parlare di presente, passato e futuro per il fatto che queste determinazioni richiamano già un riferimento soggettivo. Tuttavia potremo in certo senso ridurre queste determinazioni a puri contrassegni relazionali che indicano unicamente, fissato un certo luogo temporale come presente, i luoghi temporali anteriori e posteriori. La temporalità oggettiva è dunque rappresentabile come una retta infinita da entrambi i lati. La temporalità oggettiva, intesa in questo modo, potrebbe essere chiamata anche "trascendente" poiché sta al di là della soggettività stessa, è la temporalità che "contiene" la soggettività, e la contiene come ogni altro evento della natura. Supponiamo ora di mettere tra parentesi questa temporalità oggettiva - cioè di fare come se di questa temporalità oggettiva che ci contiene non ne sapessimo nulla: in questa messa tra parentesi non accade affatto che qualunque "senso del tempo" venga meno. Al contrario: questa messa in parentesi porta in primo piano la temporalità immanente, cioè l'esperienza che abbiamo originariamente della temporalità, o anche, come Husserl spesso si esprime, la coscienza originaria della temporalità. Perché originaria? Perché essa c'è per noi prima che noi sappiamo alcunché dell'accadere oggettivo degli eventi, prima che noi sappiamo alcunché della nozione di natura come concatenazione infinita di eventi, quindi prima che noi sappiamo alcunché della temporalità oggettiva. Detto questo, non bisogna esasperare questo tema più del necessario dal momento che parlare della temporalità immanente significa parlare di null'altro che dell'esperienza della temporalità nella quale siamo quotidianamente immersi. Ci chiediamo allora: che caratteristica generale ha la temporalità data nella nostra esperienza? Questa caratteristica, apparentemente ovvia, che tuttavia può presentarsi alla riflessione come densa di problemi e di enigmi, è data dal fatto noi viviamo permanentemente nella di- 108 mensione del presente - nella dimensione che viene colta dalla paroletta "ora", "adesso". Noi siamo sempre nell'"ora". 82. In queste formulazioni verbali c'è qualcosa di singolare. Se dico sempre in rapporto tempo oggettivo, questo avverbio si riferisce certamente alla totalità dei luoghi temporali; e questo riferimento rimane anche negli usi quotidiani. Quando dico sempre la dimensione del presente è in certo senso la meno importante: questa parola si estende al passato ed al futuro, o almeno al futuro: d'ora in avanti, sempre così. Se invece per caratterizzare la nostra esperienza temporale diciamo che noi siamo sempre nell'ora, questo sempre non può essere inteso come lo intendevamo in precedenza - altrimenti ne risulterebbe un vero e proprio groviglio concettuale. Esso vuole piuttosto indicare questa permanenza della dimensione dell'ora come la dimensione temporale autentica ed effettiva della nostra stessa esistenza. Ma questa dimensione dell'ora è una dimensione scorrente - il presente è appunto un presente che si estende. Con presente esteso intendiamo infatti un presente che si muove, che dilaga di fronte a sé e anche dietro di sé. Abbiamo qui il tema della ritenzione e della protenzione. E fa parte dell'esperienza della temporalità, della coscienza originaria del tempo, non solo l'essere nell'ora, ma anche lo scorrere stesso. Lo scorrere a sua volta ha una struttura relativamente complessa - il passare dell'ora va concepito sia come un mantenersi ancora nella coscienza sia come un graduale oscuramento. Ciò significa che un certo contenuto che era presente non scompare di colpo dalla coscienza, non si dissolve non appena esce dal centro dell'attenzione ma si avvia lentamente verso i bordi di questo campo. Analogamente, sul versante opposto, vi sono anticipazioni di contenuti non ancora presenti, e ciò significa che un contenuto non mi si para dinanzi del tutto all'improvviso. O più precisamente: degli eventi inattesi possono ben presentar- 109 si, ma questo carattere dell'essere improvviso non è un essere improvviso assoluto, assolutamente radicale. Anche in assenza di attese determinate che possono o non possono essere soddisfatte, vi è comunque sempre un'attesa vuota - l'inatteso assoluto comporterebbe una negazione della stessa nozione di protenzione così come un assoluto sprofondamento comporterebbe la negazione della ritenzione e quindi in generale dell'ora inteso come ora fluente. 83. Proprio queste ultime considerazioni ci consentono di ricollegarci abbastanza agevolmente al problema da cui avevamo preso le mosse. In effetti la descrizione dell'ora fluente è anzitutto la descrizione di un'unità interna in movimento, di una unità si costituisce attraverso il fluire. Ciò significa: una parte trapassa nell'altra continuamente, senza fratture, gradualmente. Il presente si estende verso passato e verso il futuro - intendendo naturalmente queste espressioni in un'accezione coerente con il nostro discorso precedente, e dunque come passato e futuro prossimi, direttamente innestati nel processo del presente. Ma se la descrizione dell'ora fluente è la descrizione di una unità interna in movimento possiamo anche affermare che ci troviamo già qui in presenza di sintesi, più precisamente che la stessa temporalità in quanto temporalità immanente si costituisce sinteticamente, possiamo parlare in altri termini delle sintesi della coscienza originaria del tempo. Queste sintesi sono appunto quelle che si producono nella forma stesso dello scorrere - sono le sintesi della temporalità stessa in quanto essa è data in una continuità processuale. 84. Riflettiamo ora su questo punto. Il danzatore è là, sul palcoscenico, con i suoi movimenti, in uno spazio oggettivo. Sono qui intrecciati insieme momenti temporali (il movimento stesso del danzatore, la musica che sta alla base della sua danza); e momenti che invece non chiamano in causa direttamente la temporalità 110 (lo spazio scenico, le cose che arredano lo scenario ecc.). Ma in rapporto a tutte le oggettività - sia che chiamino in causa la temporalità come una loro caratteristica interna come nel caso del brano musicale, sia che invece non abbiano la temporalità come loro caratteristica interna, come nel caso di una cosa materiale - il problema della temporalità viene sempre e comunque messo in questione sul lato soggettivo (noetico). Infatti tutti i processi entro cui si realizzano le sintesi sono processi temporali. Assumiamo ad esempio che la struttura della percezione sia temporalmente discontinua, e ciò in senso forte, alla quale abbiamo alluso in precedenza parlando di uno sprofondamento assoluto in luogo della ritenzione e della comparsa di eventi assolutamente inattesi, in luogo della protenzione. Si tratta di un'assunzione molto astratta di cui in certo senso, e non a caso, stentiamo a farci un'idea. Potremmo approssimarla un poco dicendo che in questa assunzione l'appena trascorso è subito dimenticato e che ogni evento che accade per la coscienza non è mai accompagnato nemmeno dalla coscienza vuota del "qualcosa sta per accadere". Non è difficile allora rendersi conto che in queste condizioni nessuna sintesi in generale può essere possibile - né sintesi di oggetti che hanno la temporalità come caratteristica interna, né sintesi di oggetti che non hanno questa caratteristica. 85. Argomentiamo sull'assenza di ritenzione - dal momento che l'assenza di protenzione pone lo stesso problema. Se l'appena trascorso è subito dimenticato non posso certamente cogliere l'unità interna di uno sviluppo melodico; ma debbo dire di più: non posso nemmeno cogliere un'unico suono che dura come tale, perché naturalmente anche nel caso di un unico suono agisce la dinamica della ritenzione e della protenzione, sia pure in forma elementare. Ma non posso nemmeno cogliere l'unità interna delle prospettive che mi porgono un'oggetto identico. Non appena l'aspetto successivo mi si presenta, e mi si presenta come un evento assoluto, l'aspetto precedente è già scomparso e non possiamo effettuare tra l'uno 111 e l'altro alcun collegamento. Vi è da chiedersi non solo se in queste condizioni possa darsi una formazione oggettiva, ma se possa persistere una nozione di polarità soggettiva unitaria. Evidentemente non lo può. L'esperienza che stiamo astrattamente prospettando è in realtà un'esperienza esplosa sia sul lato soggettivo che su quello oggettivo, di un'esperienza compiuta rimangono soltanto degli sprazzi che illuminano precariamente un'oscurità che subito ridiventa oscura. 15. Il problema degli elementi 86. Quando si parla di unificazioni e di collegamenti sembra ovvio, e persino logico, interrogarsi sugli elementi primi (potremmo dire anche elementi ultimi!) che sono in sé privi di collegamenti e vengono poi sottoposti ad operazioni di unificazione. Questo problema degli elementi si trascina in tutta la tradizione filosofica. Esso fornisce indubbiamente numerosi spunti di riflessione nel quadro di un atteggiamento fenomenologico, e persino può ricevere in questo ambito nuove formulazioni. Tuttavia si potrebbe egualmente sostenere che, per quanto riguarda l'impianto filosofico fondamentale, questo problema è caratteristicamente assente dall'intera tematica fenomenologica, e questa assenza corrisponde ad un chiarimento fondamentale. Non appena ci si pone la questione delle sintesi non ci si chiede per nulla quali siano gli "elementi primi" da unificare: ciò su cui ci si interroga è esclusivamente, data una certa unità fenomenologica, quali siano le regole che dànno luogo ad un risultato unitario e quali condizioni debbono essere soddisfatte affinché queste regole possano essere operanti. 87. Nel porci questa domanda, noi abbiamo cominciato con il rispondere: una qualunque regola fenomenologica della sintesi può agire intanto nel presupposto della continuità temporale. Que- 112 sto presupposto è anche un ottimo esempio di condizione di possibilità dell'esperienza, una condizione trascendentale nel nuovo senso che da Husserl viene attribuito a questo termine, e quindi un buon esempio di necessità a priori. Se questa condizione non è soddisfatta nessuna esperienza è possibile. Ma ora dobbiamo valutare meglio il peso di questa prima affermazione, e quindi chiarire meglio il suo significato effettivo. Anche su questo punto si giocano possibili diverse interpretazioni della portata della temporalità all'interno del discorso complessivo condotto da Husserl. Fin qui abbiamo spiegato in che senso debba essere intesa l'affermazione secondo cui la "sintesi della coscienza originaria del tempo" rappresenta la condizione e il presupposto di ogni sintesi. Quell'affermazione mette l'accento soprattutto sulla continuità della temporalità immanente - nessuna forza sintetica può agire ed essere efficace se il materiale dell'esperienza è frantumato fin dall'inizio. Si tratta dunque di una prima affermazione di particolare importanza. Tuttavia potremmo correre il rischio di non dare di essa un'interpretazione realmente corretta. La temporalità è condizione di ogni sintesi - ma ciò significa forse che essa è per così dire responsabile di ogni sintesi? Prendiamo come esempio una sequenza di suoni. Per ragioni abbastanza comprensibili l'esemplificazione musicale tende ad affiorare nei discorsi sulla temporalità. Ciò accade già in Hume, nel suo Trattato sulla natura umana; e naturalmente in Husserl stesso; oppure in Bergson. Le ragioni per cui questa esemplificazione è comprensibile stanno nella circostanza che abbiamo già precedentemente enunciata secondo cui la temporalità è una caratteristica interna alla melodia. Perciò noi possiamo prendere una melodia come base esemplificativa per un'analisi dell'esperienza della temporalità e possiamo illustrare sulla sua base l'idea di ritenzione e di protenzione e quindi in particolare l'idea dell'ora fluente. Ma proprio qui si annida la possibilità di un equivoco. La melo- 113 dia è una sequenza organizzata di suoni. È opportuno qui pensare alla parola melodia in senso del tutto tradizionale, al motivo di una canzone, ad un tema sufficientemente compiuto. Sulla base della sua organizzazione interna si generano attese più o meno determinate, ad esempio può esservi un andamento verso un punto culminante e poi un procedere verso una conclusione. Può accadere che una melodia descriva una curva unitaria. 88. Su questo esempio ripetiamo la domanda: dell'unità dinamica della melodia è forse responsabile la continuità temporale? A questa domanda noi dobbiamo rispondere negativamente. Infatti ciò che importa, ai fini del risultato percettivo, è la disposizione dei suoni nella successione: non solo il fatto il fatto che ad un suono ne segua un altro, ma anche che ad un suono di una determinata altezza ne segua un altro più acuto ed un altro ancora più acuto prospettando una tendenza ascendente a cui farà seguito, ad esempio, una tendenza discendente. La continuità temporale non fa altro che rendere possibile l'afferramento delle relazioni tra i suoni, relazioni che sono tuttavia fondate nelle qualità particolari dei suoni stessi, qualità che non hanno nulla a che vedere con la struttura temporale. In realtà questo esempio della melodia si ripresenta spesso come se esso riguardasse la sola componente temporale, e ciò lo rende equivoco. Si pretende che esso parli solo della struttura temporale - mentre esso parla di tutt'altro. Accade anche che mentre noi abbiamo richiamato appositamente ed esplicitamente una melodia nel senso tradizionale del termine, questo richiamo è spesso solo implicito, anche se esso è strettamente necessario. La stessa cosa si può dire per l'esempio degli adombramenti prospettici. Se volgendo lo sguardo intorno mi si presentano delle scene coerenti, questa coerenza riguarda il contenuto visivo particolare di queste scene, e non invece il puro e semplice fatto che le scene mi si danno successivamente, all'interno di un flusso temporale continuo. Ciò che si afferma è dunque soltanto che 114 la coerenza contenutistica delle singole scene può manifestarsi solo alla condizione che si dia un flusso temporale continuo - ma essa non dipende in alcun modo da questo flusso. 89. Il punto effettivo della questione sta soprattutto in questo: noi non abbiamo mai a che fare con la temporalità come tale, con il flusso temporale vuoto. Abbiamo invece sempre a che fare con processi esperienziali pieni e completi, quindi con formazioni unitarie che si fondano sulle caratteristiche qualitative dei contenuti esperiti e proposti in questi processi. Questi contenuti riempiono il continuo temporale come tale, che sarà pertanto in se stesso una forma vuota di cui possiamo parlare soltanto facendo astrazione dai suoi riempimenti. In questo senso, mentre esiste un'esperienza della cosa materiale, non esiste un'esperienza vera e propria della temporalità. È strano che sia difficile trovare nella letteratura fenomenologica o comunque nei testi attinenti all'esperienza interna del tempo, una simile affermazione enunciata apertis verbis. Sembra quasi che si voglia dare ad intendere che vi sia un'esperienza molto speciale, nella quale noi sentiamo, come in un lontano brusio, il puro scorrere del tempo, senza che in questo scorrere scorra qualcosa. Tutto ciò naturalmente precisa in che senso parliamo della continuità del tempo immanente come condizione di ogni sintesi: si tratta infatti di una condizione puramente formale, e che si può applicare ad ogni formazione sintetica proprio perché ha rispetto ad essa il carattere di pura forma, che può essere riempita da un qualunque contenuto. Inversamente, non appena ci accingiamo a considerare l'esperienza nella sua concreta pienezza, e quindi come esperienza di una determinata configurazione visiva, di una determinata sequenza di suoni, come esperienza di viluppi più o meno complessamente stratificati ciò che importa sono le sintesi che si effettuano in ed attraverso i contenuti, in forza dunque di regole che non sono puramente temporali anche se possono variamente intrecciarsi con la problematica temporale. 115 90. Se ricerchiamo gli elementi primi che stanno alla base di ogni associazione dobbiamo in ogni caso presupporre una condizione primaria, che è rappresentata "dalla sintesi che di continuo si realizza nella coscienza originaria del tempo", quella sintesi che vede la dimensione del presente già originariamente unificata con la dimensione dell'appena passato e, se è consentita l'espressione, dell'appena futuro. Naturalmente, dobbiamo tener conto che vi è una nozione più ampia di passato e di futuro, ma il presente fluente rappresenta in ogni caso l'inizio a partire dal quale non potrebbe esservi alcuno sviluppo. Dice anzi Husserl: esso rappresenta l'inizio dell'inizio, "la lettera A nell'ABC della costituzione di ogni oggettività" [p. 177]. Questo inizio tuttavia propone una condizione trascendentale puramente formale dell'esperienza - questo tema è subito annunciato all'inizio del § 27, e viene ripreso più volte nel suo corso e ribadito con particolare chiarezza al suo termine. Particolarmente chiare e significative sono le affermazioni seguenti. Parlando della sintesi trascendentale del tempo ci muoviamo in un "ambito formale universale". Ma in realtà non vi è soltanto la sintesi trascendentale del tempo, ma vi sono "altri tipi di sintesi" che meritano anch'esse di essere chiamate trascendentali. "Si tratta di sintesi che... decorrono insieme alla sintesi che costituisce la forma temporale di tutti gli oggetti e quindi debbono concernere anche il contenuto temporale, il contenuto oggettuale messo in forma temporale". Poco oltre si parla di "sintesi contenutistiche che vanno oltre la sintesi trascendentale del tempo" e che proprio la ricerca intorno a queste sintesi contenutistiche costituirà in seguito il compito che ci proponiamo di svolgere [p. 179]. Con particolare chiarezza il problema della astrattezza delle considerazioni sulla forma temporale e la distinzione tra la continuità come condizione formale delle sintesi e le sintesi contenutistiche viene formulata al termine del paragrafo. "Se la coscienza del tempo è il luogo originario della costituzione sia dell'unità 116 che dell'identità e cioè dell'oggettualità, sia delle forme di collegamento della coesistenza e della successione di tutte le oggettualità che divengono coscienti, essa è tuttavia solo una coscienza che produce una forma generale. La mera forma è senza dubbio un'astrazione: l'analisi intenzionale della coscienza del tempo e del suo operare è dunque sin da principio un'analisi astrattiva[p. 179]... L'analisi temporale da sola non può tuttavia dirci che cosa dia unità contenutistica a ogni singolo oggetto, che cosa costituisca contenutisticamente per la coscienza, ed a partire dal suo fare costitutivo, le differenze dell'uno e dell'altro oggetto, che cosa renda coscienzialmente possibile la partizione e il rapporto tra le parti... Essa astrae proprio dal momento contenutistico. Cosicché essa non permette nemmeno di farci un'idea di quelle necessarie strutture sintetiche del presente fluente e della corrente unitaria dei presenti che in qualche modo concernono la particolarità del contenuto" [p. 180]. 16. Emergenze 91. Dalla problematica generale della temporalità immanente siamo passati alla sottolineatura dell'importanza delle sintesi contenutistiche, cioè delle sintesi che avvengono sulla base dei dati fenomenologici considerati sulla base della loro specificità qualitativa. Dobbiamo cercare ora di delineare le nozioni che stabiliscono un modo approccio a questo nuovo campo di problemi. Intanto dobbiamo introdurre una nuova significativa differenza illustrandola con un semplice esempio. Durante la visita di un museo o di una mostra noi ci soffermiamo di fronte ad un quadro: la visione di un quadro non è meno complessamente stratificata, dal punto di vista delle operazioni sintetiche che debbono essere effettuate, che nel caso del danzatore. Vi sono i colori e le forme del quadro che debbono essere comprese, e ciò significa - prima ancora che evocare strati culturali superiori 117 - che è necessario che quelle macchie di colore sulla tela assumano per me il senso, ad esempio, di paesaggio marino. Andranno dunque operate le corrette distinzioni percettive - ad esempio, si dovranno distinguere le regioni diversamente colorate, che poi potranno assumere il senso di mare, spiaggia, pineta ai bordi della spiaggia. Le distinzioni presuppongono naturalmente delle associazioni, e precisamente delle sintesi contenutistiche. I contenuti in questione sono sia i fattori cromatici che quelli grafico-formali. La mia visione peraltro è un processo temporale, che avviene interamente nel presente fluente. Ora è chiaro che la temporalità del processo visivo non interviene in alcun modo nella determinazione delle sintesi effettuate, ma la sua continuità si limita a renderle possibili. Supponiamo ora che la visione del dipinto, senz'altro colto come raffigurante un paesaggio marino, agisca per un qualche suo dettaglio interno, ad esempio una casa bianca arrampicata sulla collina, facendo affiorare alla mia memoria un altro paesaggio marino: mi faccia ricordare l'estate scorsa, quando io ho abitato per qualche giorno in una casa bianca affacciata ad un paesaggio marino. Questo è naturalmente un altro possibile esempio di sintesi contenutistica: è il contenuto del quadro che sollecita il mio ricordo in una determinata direzione. Si tratta di un esempio che è forse più vicino al senso tradizionale della parola associazione - proprio perché qui vi è l'esplicita struttura relazionale "questo mi richiama alla mente quest'altro". La sintesi va qui da un contenuto ad un altro contenuto, ma anche naturalmente dal presente al passato. In questo caso, a differenza del precedente, la temporalità è partecipe della stessa struttura relazionale e dunque entra di pieno diritto all'interno delle dinamiche sintetiche. 92. Possiamo ora caratterizzare meglio il nostro modo di approccio introducendo una prima nozione fondamentale che ricorre di continuo in queste pagine. Si tratta della nozione di emergenza. 118 Ogni formazione di senso è normalmente una formazione complessa, e talvolta estremamente complessa. Questa complessità dipende da ciò che io chiamerei stratificazione dei piani sintetici. Abbiamo visto anche che è possibile distinguere tra piani sovraordinati e sottordinati, anche se occorre prestare attenzione a non rappresentarsi il problema troppo schematicamente, secondo il rapporto semplice del sopra e del sotto. Secondo l'esempio del dipinto, le macchie di colore rappresentano uno strato inferiore rispetto al senso paesaggio marino, e questo a sua volta uno strato inferiore rispetto ad eventuali investimenti simbolici o affettivi che il paesaggio può ricevere. Ma sfortunatamente un simile modo di esprimersi evoca l'idea di un edificio fatto di piani l'uno sull'altro: e quando mi trovo al piano di sopra il piano di sotto non c'è realmente più nella sua configurazione ambientale, ma funge come mero sostegno di cui io mi posso benissimo completamente dimenticare. Chi vive in un appartamento condominiale rammenterà il piano di sotto o il piano di sopra solo quando di lì viene qualche disturbo, qualche interferenza. Nel nostro caso invece le macchie di colore interferiscono sempre in ogni caso in tutti gli strati di senso del dipinto, perché sono in fin dei conti proprio esse a ricevere nuovi arricchimenti di senso. Potremmo forse dire che l'intero ambiente del primo piano è presente nell'ultimo in forme variamente modificate. In certo modo la stratificazione orizzontale convive con una stratificazione verticale o trasversale - e questo sarebbe certamente un edificio difficile da immaginare. Precisato questo punto, è in ogni caso vero che possiamo analizzare la complessità di una formazione sintetica risalendo a piani sintetici sempre più semplici. In realtà stiamo riproponendo in una nuova forma la questione tradizionale degli "elementi" - che abbiamo già toccato nella discussione sulla tematica temporale. Quando si parla di composizione, di sintesi, di associazione si è sempre pensato che uno dei problemi fondamentali fosse quello di decidere quali fossero quei dati che non fossero a loro 119 volta già risultati di operazioni di composizione e che fornissero appunto il materiale ultimo o primo - l'un termine vale l'altro, secondo la direzione che decidiamo di percorrere. Il cosiddetto atomismo di Hume e della psicologia associazionistica si muovono proprio entro questo quadro; ma occorre anche rammentare che Kant, su questo punto, non è da meno, dal momento che i dati sensoriali disparati che attendono la messa in forma categoriale - dati che egli chiama con pudicizia trascendentale il "molteplice dell'esperienza" - altro non sono che gli atomi di Hume e della psicologia associazionista. Ora il modo in cui qui viene affrontato questo stesso problema è radicalmente diverso. Debbo tuttavia avvertire che nel testo non si trova esattamente questa sistemazione concettuale, e di essa dunque io mi assumo la responsabilità. Secondo la nostra impostazione ha senso l'idea di un regresso verso strati sintetici più elementari. Ma che ora potremmo chiamare elemento non è affatto il non-composto, ciò che non ha parti e per questo è l'elemento ultimo di una composizione possibile - nozione che non è mai riuscita ad uscire dalla sua astrattezza teorica. La nozione di elemento si riporta se mai all'idea del piano sintetico elementare, potremmo dire piano sintetico più elementare di tutti. A questo punto possiamo introdurre la nozione di emergenza rendendo chiare anche le ragioni della sua introduzione. La parola tedesca di cui emergenza - Abgehobenheit - è una possibile traduzione è una parola con una desinenza astratta, e di uso certamente raro nel discorso corrente, che rinvia al carattere dell'essere distinto, differenziato, del prendere rilievo rispetto ad uno sfondo indifferenziato. La nozione di emergenza dunque può certamente essere applicata a qualunque cosa dell'ambiente circostante, in quanto essa è una unità singola ben definita, che viene colta e individuata come tale, beninteso, all'interno di un campo percettivo; ma quel che più interessa, ai fini del nostro discorso, è che questa nozione può essere applicata a una qua- 120 lunque configurazione che rompa l'omogeneità di un campo percettivo, una qualunque sua differenza interna. 93. Cerchiamo di spiegarci meglio. La nozione ha una sua ovvietà, ma anche qualche complicazione. Anzitutto spieghiamo che cosa intendiamo con omogeneo fornendo qualche esempio: omogeneo - s'intende, sommariamente omogeneo - è il foglio di carta bianca che ci sta di fronte sulla scrivania: ma omogenea, sempre sommariamente omogenea, può essere considerata la scrivania stessa se il suo colore è uniforme, se essa non ha increspature, tagli, fessure. Il foglio di carta bianco considerato sulla superficie marrone della scrivania è di contro, rispetto ad essa, una configurazione che rompe quella omogeneità, quindi, come noi diremmo, esso ha carattere di emergenza, è un "oggetto che si distingue" dove la parola oggetto in fin dei conti fa tutt'uno "qualcosa che si distingue". Vi è dunque una certa reciproca implicazione nella nozione di emergenza e in quella di omogeneità. Una emergenza è data solo all'interno di un campo. E inversamente l'idea che possiamo formarci su questa base di un campo percettivo perfettamente omogeneo e totalmente privo di differenze interne è una idea-limite, nulla che potremmo in qualche modo concretamente esemplificare; in certo senso potremmo dire che in presenza di un simile campo non vi sarebbe nulla da percepire, in un'accezione quasi letterale, non vi sarebbe da percepire qualcosa, non un dato distinto perché non vi è nulla di distinto, ma nemmeno - questo è più notevole ed occorre su questo punto riflettere un poco - la stessa omogeneità del campo perché questa omogeneità viene posta in risalto da una frattura interna, per quanto minima. 94. Un foglio di carta bianco con un semplice punto su di esso, una tela di colore uniforme con un taglio in mezzo, una superficie liscia con un graffio, un suono che rompe il silenzio, e così via. Questi sono buoni esempi di emergenze. All'interno del con- 121 testo teorico che abbiamo illustrato, essi assumono il carattere di forme di unità, che sono anche elementi per costruzioni sintetiche di ordine superiore. In quel regresso di cui prima abbiamo parlato non giungiamo affatto a qualcosa di simile ai dati sensoriali o alle impressioni di cui parlava Hume, ma al concetto più elementare dell'unità che consiste nella semplice distinzione rispetto ad uno sfondo omogeneo: non raggiungiamo dunque una molteplicità disparata di dati, ma una forma primitiva di organizzazione. Con ciò si nega anche che vi sia qualcosa come un molteplice dell'esperienza nel senso di Kant. Nello stesso tempo questa nozione introdotta in questo modo ci consente di stabilire un inizio per un percorso fenomenologico tendente a stabilire un quadro, sia pure molto sommario, di sintesi possibili. 95. Ma giunti a questo punto si potrebbe chiedere: perché mai l'emergenza concepita in questo modo può essere considerata come una primitiva forma di organizzazione, perché riteniamo di poter cogliere già nel concetto di emergenza come tale l'applicabilità dell'idea della sintesi? Non si possono forse sollevare dei dubbi significativi? Ad esempio: qui vi è appunto un solo "oggetto" - l'emergenza - e il parlare di sintesi, di collegamento sembra richiedere almeno due oggetti da collegare insieme. Inoltre, proprio nel proporre la nozione di emergenza, non sottolineiamo piuttosto il tema della differenza, della distinzione, della frattura? E come si può allora parlare di sintesi in rapporto a una nozione che è essenzialmente istituita su questa base? 96. Si tratta di osservazioni che hanno una loro apparente evidenza e che hanno il merito di consentirci di fornire le ultime essenziali precisazioni. In esse si mostra come possa essere tenace il modello dell'unificazione inteso come pura aggregazione tra entità individuali. Vi è l'individuo A e l'individuo B ed una qualche forma di collegamento e di relazione tra essi. Dunque, per avere un collegamento, ci debbono essere almeno due individui. 122 Cosa invece noi stiamo propriamente sostenendo? Stiamo sostenendo che non vi è alcun individuo A o B isolatamente preso, che un individuo è tale solo all'interno di un campo. È la stessa nozione di emergenza che fa tutt'uno con quella di individualità, e non vi è emergenza senza qualcosa da cui essa emerga. 97. Con ciò abbiamo cominciato con il dare una prima importante risposta. Ma essa va completata nel senso della seconda parte dell'obiezione avanzata. Certamente, un'emergenza è data dalla differenza e dalla frattura, il termine stesso, come abbiamo spiegato allude all'essere distinto. Un'emergenza sorge necessariamente da un contrasto - anche questo è un termine di cui potremmo fare uso a questo proposito. Ora, è solo ancora una volta un modello puramente aggregativo della sintesi che ci può impedire di cogliere nel contrasto l'azione di un'operazione unificante. Non solo perché in generale il contrasto può essere annoverato tra le regole dell'associazione delle idee nel senso consueto del termine, cosa che non era certo sfuggita alla psicologia associazionista (un nano può richiamare alla mia mente un gigante); ma soprattutto per una ragione più specificamente attinente alla nozione di emergenza. Non abbiamo forse detto poco fa che non vi è emergenza senza qualcosa da cui emerga? Questa frase richiama l'attenzione sul fatto che un'emergenza ha bisogno di una omogeneità da cui si staglia per contrasto; e inversamente l'omogeneità, che come omogeneità assoluta è solo un'idea limite, ha bisogno di una emergenza per manifestarsi come sfondo omogeneo. Vi potrebbe essere sintesi più forte di questa? 98. Vi è naturalmente una profonda affinità ed addirittura una parziale coincidenza tra la nozione fenomenologica di emergenza e il problema ghestaltico figura-sfondo. Lo stesso materiale gestaltico può essere utilizzato sia illustrativamente sia per arricchire la tipologia fenomenologica del problema dell'emergenza. Tuttavia sarebbe un errore ignorare le differenze che poi si ri- 123 ducono, ma non è poco, proprio alla presenza di una piuttosto impegnativa cornice filosofica. La psicologia della Gestalt considera il problema figura-sfondo come uno delle tante tipologie dell'organizzazione percettiva e lo studia a questo titolo. Mentre nel nostro contesto di discorso esso riceve una inclinazione filosofica - di fronte alla quale è possibilissimo che lo psicologo della forma scuota la testa. Del resto la psicologia della forma ha anche sempre teorizzato il ricorso a figurazioni elementari come motivato praticamente - esse sono più agevoli da manipolare, trattare sperimentalmente, ecc., mentre noi tenderemmo a dare a questo ricorso una precisa giustificazione teorica. 99. Nonostante il suo evidente disordine, nel testo di Husserl, si prospetta una ricerca orientata verso l'individuazione di "fenomeni originari" delle sintesi passive che segua una sorta di filo conduttore interno. Una volta introdotta la nozione di emergenza nella sua forma più elementare, come unità singolare che si contraddistingue da uno sfondo, sembra si possa avviare una esposizione ordinata verso casi sempre più complessi. 17. Sintesi tra emergenze 100. La nostra esposizione potrebbe così passare al caso della molteplicità di emergenze su uno sfondo unitario, considerando diversi casi esemplari e tipicamente differenziati. La ricerca si dovrebbe poi articolare in certo senso in due sezioni - una riguardante una problematica sintetica che riguarda una molteplicità di emergenze puramente coesistenti, un'altra una molteplicità di emergenze che si succedono l'un l'altra temporalmente, in una successione che è da intendersi comunque come una successione che si verifica nel presente fluente, nel presente esteso. Rappresentano tipicamente emergenze del primo tipo i dati visivi, con le loro proprietà di forma e di colore; i 124 dati acustici, i suoni in genere, possono rappresentare tipicamente emergenze del secondo tipo. Naturalmente non può essere nostra intenzione fornire una ricerca interamente dispiegata (cosa che Husserl è in ogni caso lontano dal fare), ma mostrare il senso e la direzione di una simile ricerca. Abbiamo parlato di molteplicità di emergenze su uno sfondo unitario e occupiamoci per il momento di fenomeni visivi. Ora dobbiamo subito osservare che questa formulazione potrebbe essere illustrata in modi molto diversi. Forniamo alcuni esempi: siano le nostre emergenze delle piccole macchie, di forme molto varie e irregolari, dello stesso colore e distribuite in modo relativamente uniforme sullo sfondo ed eventualmente con la tendenza a non riempire l'intera scena percettiva ma a diradarsi verso i bordi. Dovendo illustrare in parole una simile situazione percettiva parleremo di una molteplicità disordinata di macchie, forse anche di un complesso caotico. Queste espressioni non debbono affatto essere ricondotte ad una pura e semplice assenza di legami, ma esse stesse sono indicative di un risultato che viene ottenuto solo soddisfacendo determinate condizioni. Più precisamente: quando parliamo di condizioni che debbono essere soddisfatte affinché si pervenga ad un'unità, parliamo anche del caso opposto - il non soddisfacimento di una condizione comporta l'allentamento del nesso fino alla sua soppressione. Il campo percettivo è sempre il risultato di un gioco di tendenze sintetiche che vengono variamente ostacolate o promosse - ciò vale tanto nei casi in qui parleremmo prevalentemente di un ordine, di simmettrie, e nessi relazionali, così come nei casi in cui parleremmo inversamente di disordine, di assenza di nessi relazionali di dissimmetrie, di caoticità, ecc. 101. Questa circostanza è del resto ben presente anche nella descrizione del nostro esempio. In essa ho parlato di piccole macchie, di forma irregolare e distribuite in modo relativamente 125 uniforme sull'intero sfondo. Questa è di fatto una descrizione di condizioni che tendono intanto ad impedire una gerarchizzazione delle varie parti del complesso. Ad esempio, il fatto che le macchie siano tutte abbastanza piccole e di forma irregolare - e quindi fondamentalmente simili tra loro, benché nessuna forma sia eguale all'altra e di conseguenza nessuna dimensione sia visibilmente eguale all'altra, impedisce che qualcuna di essa prenda rilievo rispetto a tutte le altre. Se invece una sola forma fosse molto più grande delle altre passeremmo ad una molteplicità di nuovo tipo, nella quale una figura sarebbe dominante e le altre avrebbero un carattere subordinato ad essa, esattamente come nella visione di una continente e delle sue isole, o di una grande isola rispetto alle isole più piccole che la circondano. Da un punto di vista percettivo, queste isole più piccole sono effettivamente gravitanti intorno all'isola più grande - vi è in certo modo una forza gravitazionale puramente percettivo-visiva che entra qui in azione. Vi sarebbe dunque una emergenza dominante rispetto ad una molteplicità di emergenze subordinate - la struttura sintetica del campo percettivo sarebbe dunque interamente diversa. Qualcosa di analogo accadrebbe naturalmente anche qualora vi fosse anche un sola di forma perfettamente regolare tra queste forme irregolari - questa regolarità stabilirebbe appunto un contrasto, e dunque l'emergenza della molteplicità di macchie come pura molteplicità sarebbe in qualche modo disturbata da quella figura regolare che sarebbe a sua volta una emergenza all'interno della molteplicità stessa. Particolarmente importante è la richiesta che le macchie siano distribuite uniformemente rispetto allo sfondo - ciò significa: la distanza tra ciascuna macchia e l'altra deve essere approssimativamente simile, o anche le macchie debbono essere approssimativamente egualmente vicine ed egualmente lontane tra loro affinché a sua volta la maggiore distanza non stabilisca delle forme di raggruppamento che istituisca qualche "emergenza" 126 interna dovuta a questa circostanza. È in ogni caso chiaro che una piccola macchia che fosse isolata all'interno della molteplicità assumerebbe a sua volta carattere di emergenza, e nuovamente l'intera configurazione cambierebbe il suo senso. Abbiamo anche posto come possibile condizione aggiuntiva che le macchie si diradino verso i bordi. In effetti, per ciò che riguarda la distribuzione delle macchie, che le cose starebbero diversamente 1. se la molteplicità fosse effettivamente distribuita sull'intero sfondo oppure se 2. essa, verso i bordi, tendesse a diradarsi e poi a cessare in modo da prospettare qualcosa di simile ad un contorno. Nel primo caso la molteplicità tenderebbe a non apparire come un raggruppamento vero e proprio su uno sfondo omogeneo, ma piuttosto come una caratteristica della superficie, - di una superficie che ha ovunque delle macchie. Mentre nel secondo caso apparirebbe più netta la formazione di un raggruppamento complessivo delle macchie. Vi sono dunque delle condizioni o anche come si potrebbe dire (ed io forse preferirei dire) delle regole che sottostanno al risultato percettivo "molteplicità di macchie su fondo bianco". Modificando queste regole si modifica il senso globale della situazione percettiva - ed anzi la ricerca in realtà può procedere proprio operando una variazione delle regole e considerando ciò che risulta da questa variazione. Queste regole giocano a loro volta su due fattori - come tutta la nostra esposizione dimostra. In primo luogo sul fattore della somiglianza, e quindi ovviamente anche della dissimiglianza: questo fattore viene richiamato, ad esempio, per la forma delle macchie, che sono tutte diverse tra loro, ma anche dello stesso tipo, per la loro dimensione; mentre il fattore della dissimiglianza per i colori che potrebbero essere molto vari. Ma vi è anche un altro fattore, che è quello che abbiamo richiamato parlando della distribuzione spaziale delle macchie e quindi della loro distanza reciproca. È del tutto naturale parla- 127 re di contiguità a proposito di questo fattore: ci siamo richiamati infatti alla distanza delle macchie tra loro, ed alle variazioni che interverrebbero nel complesso o in parti del complesso qualora si variasse questo fattore. Il termine tuttavia non è impiegato nella sua accezione comune, caratteristica del linguaggio ordinario, nel quale esso indica una stretta prossimità, un contatto, ma in un'accezione più lata - indicando la vicinanza in genere; e quindi nell'accezione che esso ha già in Hume e nella teoria associazionistica. 102. Le vecchie regole dell'associazionismo ritornano qui ma in un senso interamente rinnovato: infatti esse non sono formulate anzitutto in rapporto a contenuti in generale che si associano nella nostra mente, e quindi come regole che riguardano anzitutto le idee nell'accezione humeana. Parlando di somiglianza alludiamo proprio alla somiglianza di colore - percepita in una percezione attuale - come ciò che sta a fondamento di una possibile formazione sintetica. Analogamente parlando di contiguità alludiamo, in quanto restiamo vincolati al nostro esempio, non tanto ad una nozione generale di contiguità, e tanto meno ad una nozione di contiguità in rapporto alla quale è destinata a prevalere la componente meramente temporale come accade nella teoria associazionista, ma come vicinanza spaziale in quanto tale vicinanza è un fattore di collegamento e rispettivamente di differenziazione tra le emergenze del campo percettivo. Il problema mantiene qui indubbiamente un'affinità, ma anche una profonda differenza. Ed è certo che sia nel caso della somiglianza che in quello della contiguità puntiamo in una direzione esattamente opposta a quella della psicologia humeana e della psicologia associazionista. Per quest'ultima il richiamo all'associazione in genere aveva essenzialmente il carattere di un richiamo alle accidentalità della vita di coscienza. Così si sarebbe osservato: un conto è un legame reale, che vincola di fatto un certo stato di cose ad un altro stato di cose e un altro è il legame 128 provocato dalla somiglianza: un legame di parentela è un legame effettivo, la somiglianza del naso di Pietro con il naso di Paolo non è certo in grado di rendere Pietro e Paolo parenti tra loro. Come già sappiamo, ciò vale a maggior ragione per la contiguità, e soprattutto per la contiguità in senso temporale - in rapporto alla quale possiamo dire che qualunque contenuto può precedere o succedere ad un altro contenuto qualunque. Il nostro punto di vista è ora interamente mutato. Quello che stiamo notando è che se vogliamo rendere conto del darsi di una formazione unitaria il rimando alle regole della somiglianza e della somiglianza assolve una funzione determinante. Esse agiscono come fattori che istituiscono, non già un legame reale nel senso precedentemente illustrato del rapporto di parentela, ma un legame fenomenologico, e questo legame ha una sua precisa realtà fenomenologica. Esso non sta fuori dalla situazione percettiva - ad esempio nella soggettività stessa come nella prospettiva humeana ed anche in quella kantiana - ma sta nella situazione percettiva, naturalmente considerata come tale e quindi nella sua correlazione essenziale con la soggettività. Questo legame forma una unità "coscienziale", ovvero per la coscienza, ma per rendere conto di questa unità noi dobbiamo rimandare alla struttura della situazione percettiva, in certo modo puntando il dito su di essa. Tutto ciò è naturalmente strettamente collegato con l'idea della passività della sintesi. Supponiamo che mi vengano presentati due quadrati rossi e due cerchi blu: vi è già qui una duplice forza che unisce insieme i quadrati da un lato e i cerchi dall'altro - una forza proveniente dalla somiglianza, anzi dall'eguaglianza delle forme e dall'eguaglianza dei colori; e naturalmente queste stesse forze tendono segregare l'una coppia dall'altra. Questa tendenza potrebbe essere ulteriormente rafforzata dall'azione della contiguità, attraverso opportuni distanziamenti ed approssimazioni. Il risultato conclusivo - una molteplicità di dati emergenti suddiviso in due coppie di emergenze - è colto dalla soggettività percettiva appunto con questo senso indipenden- 129 temente da qualunque confronto esplicito, da qualunque attività del paragonare. 103. Una condizione essenziale perché si possa parlare di un'attività, è che l'atto sia preceduto da un'intenzione esplicitamente diretta ad un determinato scopo: il confronto c'è solo se nell'osservazione c'è l'intenzione del confronto. Ciò richiede una situazione fenomenologica peculiare. Supponiamo che io abbia richiesto una copia esatta di un disegno d'autore ad un pittore. Quando questi mi consegna il suo prodotto io lo vado esaminando con l'originale alla mano in tutti i suoi dettagli per vedere se si tratta di una copia realmente fedele. Ecco un caso di confronto attivo. Ma la situazione fenomenologica è del tutto diversa nel nostro caso. Quando mi viene presentata la doppia coppia non paragoniamo il primo al secondo quadrato, ma la loro somiglianza si impone percettivamente e con essa la struttura di "coppia di quadrati rossi e coppia di cerchi blu". Annotazione Ecco alcune citazioni che si prestano a realizzare un breve riassunto. Esse sono tratte dal § 28. Intanto il titolo di questo paragrafo è forse diventato più chiaro alla luce della nostra discussione. Esso parla di "sintesi dell'omogeneità nell'unità del presente fluente" - e l'espressione compare nuovamente proprio all'inizio del paragrafo: "soffermiamoci sull'unità sintetica continua di un presente fluente..." [p. 181]. Sintesi dell'omogeneità non sono altro che le sintesi fondate sulla somiglianza. La parola omogeneità (Homogenität) non è qui che un'altra parola per indicare la somiglianza ed il riferimento all'"unità di un presente fluente" delimita l'indagine a quelle formazioni sintetiche che si dànno nella continuità del presente, delimitazione che sottintende la temporanea esclusione delle sintesi dal presente al passato. Cosicché potremmo riformulare questo titolo in modo più semplice parlando delle formazioni unitarie fondate nella somiglianza che si dànno in una percezione attuale (mettendo da parte il caso della rimemorazione). L'apertura del paragrafo dice in effetti questo: accingiamoci ad un esame più ravvicinato 130 delle formazioni unitarie che si dànno in una percezione attuale, escludendo dunque sia le funzioni rimemorative, sia "le attese che si spingono al di là della protenzione continua" - ritenzione e protenzione appartengono al presente. Lasciamo anche da parte "ogni fantasticare, ogni atto del pensiero, ogni attività valutativa senza pregiudicare nulla rispetto al loro essere o non essere indispensabili per una soggettività". Detto ciò ci veniamo a trovare direttamente sul terreno del concetto di emergenza come fenomeno elementare ed originario. "Noi possiamo infatti vedere ed afferrare direttamente solo dove abbiamo qualcosa che emerge per sé" [p. 175]. In realtà l'emergenza è una riformulazione stessa della nozione di dato fenomenologico, una riformulazione che si trova già all'interno della problematica della sintesi. A questo punto dobbiamo considerare i "collegamenti contenutisticamente determinati più generali" che sussistono tra le emergenze, e questi collegamenti sono "la somiglianza (o l'eguaglianza) e la non somiglianza, oppure, in termini più pregnanti: i collegamenti dell'omogeneità e dell'eterogeneità". Il collegamento così effettuato è "un'operazione delle sintesi coscienziali", un'operazione che istituisce un legame fenomenologico tra gli oggetti affini. In particolare, si osserva: "Possono sicuramente esservi buone ragioni quando diciamo che la mera somiglianza non genera tra gli oggetti reali alcun collegamento di natura reale. Che due uomini siano reciprocamente simili, perché per esempio hanno simile il naso, è cosa che non produce tra loro alcun legame reale. Noi però parliamo di dati immanenti [non di puri contenuti mentali, non di idee e di associazione delle idee nel senso di Hume], per esempio di concreti dati cromatici nell'unità di un presente fluente, di dati quindi che sono coscienti in una coesistenza immanente, per una qualsivoglia durata costituente". E questi dati hanno un'unità per la coscienza che è un'unità intrinseca: "molteplici dati cromatici separati si raggruppano nel campo visivo e, grazie alla loro somiglianza, sono uniti in modo peculiare" [p. 182]. È importante poi che si possano distinguere dei gradi di somiglianza, e che si possa parlare di eguaglianza come massima somiglianza. Corrispondentemente aumenta la forza della sintesi e del collegamento così costituito. Se noi prendiamo un complesso di singolarità eguali, ogni singolarità "non resta priva di contatti con le altre singolarità, ma si unisce a formare un 131 gruppo particolare che diviene così una molteplicità unitaria, un intero (nel senso ampio del termine) le cui singolarità sono collegate soltanto dall'affinità". Qualora si attenui la somiglianza si attenua anche la forza del legame che connette l'intero. [p. 182] 18. Continuità e discretezza 104. Attraverso le ricerche di Husserl e l'apparato concettuale che egli va via via proponendo si intravede un progetto tendente ad individuare una vera e propria tipologia delle molteplicità possibili, delle possibili formazioni sintetiche e delle regole che presiedono alla loro costituzione. Questo progetto non ha naturalmente bisogno di essere ora materialmente realizzato, mentre è importante avere chiarezza sui suoi lineamenti così come sulla sua portata. Come abbiamo visto, somiglianza e contiguità assolvono un ruolo di particolare importanza e conviene cercare di sviluppare almeno un poco la discussione. In primo luogo, riprendendo il tema della somiglianza, dobbiamo sottolineare che la sintesi che ha luogo su questa base può essere anche una sintesi a distanza. Somiglianza e contiguità possono operare un rafforzamento dell'unità oppure operare l'uno contro l'altra. Parlando di una sintesi a distanza ci si richiama evidentemente ad una tendenza della somiglianza a contrastare l'effetto segregante della distanza. La somiglianza stabilisce un legame tra dati che sono "lontani tra loro". Potremmo in proposito addurre più di una situazione esemplificativa. Un esempio potrebbe essere un insieme di figure dal quale "si stagliano" due di esse per via dell'identità del loro colore. Un altro potrebbe essere una doppia coppia in cui l'effetto di coppia è prodotto dalla vicinanza spaziale, mentre il colore differente potrebbe proporre a distanza una differente modalità di accoppiamento. 132 Quando ciò accade possiamo dire che i due dati lontani formano una emergenza unitaria. In luogo di sintesi a distanza, Husserl parla anche, e più spesso, di fusione a distanza (Fernverschmelzung), e questa espressione può forse generare una certa meraviglia dal momento che la parola fusione allude ad un rapporto molto stretto: un contenuto si fonde nell'altro quando trapassa nell'altro senza che sia poi possibile operare alcuna distinzione netta tra l'uno e l'altro. Si parlerà in tal caso di continuità tra i contenuti, e ciò significa appunto: un dato trapassa nell'altro senza lacune, senza intervalli, senza interruzioni, senza confini chiaramente contrassegnati. Si tratta dunque di una scelta terminologica non troppo felice e del resto non necessaria, che io penso sia motivata dall'intento di correlare questa situazione alla sua opposta. Alla fusione a distanza si potrà contrapporre la fusione da vicino, che altro non è che il trapassare interno di un contenuto nell'altro contenuto. [cfr. p. 193]. Tra i due casi vi è naturalmente una relazione che è data dal problema della somiglianza. Solo che nel caso della fusione a distanza "i dati emersi separatamente vengono unificati in maniera discontinua" [p. 193] - fra l'uno e l'altro vi è una lacuna, in questo caso un intervallo spaziale. In luogo di discontinuità potremmo anche parlare di discretezza - ed anche, adottando l'espressione di cui si serve Husserl in questo testo, di discrezione. I dati emergenti unitariamente sono in ogni caso dati discreti. Ma se togliamo la distanza, se approssimiamo questi dati discreti al punto da eliminare ogni distanza, se togliamo di mezzo anche le demarcazioni di confine, l'un dato trapassa nell'altro per ciò concerne l'aspetto cromatico. Ed abbiamo in questo modo la cosiddetta fusione da vicino - che è la fusione vera e propria. Alla discrezione contrapponiamo la concrezione, e questo termine è impiegato da Husserl in quanto allude al concrescere in quanto crescere insieme, in quanto l'una germina per così dire dall'altro. Il termine di discrezione è in effetti scelto proprio per poterlo confron- 133 tare con concrezione - e si presti attenzione che quando si parla di dati concreti in questo contesto, concreto ha un senso del tutto diverso da quello comune significando invece concresciuto, cresciuto insieme, ed allude dunque ad una unità della continuità, alla fusione di dati da vicino. "Noi potremmo anche contrapporre la concrezione e la discrezione, intendendo ora concrezione in un senso quasi letterale. In un certo senso, l'eguale e il molto simile concrescono" [p. 192]. Poco dopo, si parla anche di contrasto e di "fusione concreta", e così anche si dice che "in ogni contrasto... è implicito... qualcosa della fusione, qualcosa che unifica omogeneamente i dati concreti e contemporaneamente disturba la loro concrezione interrompendone la continuità" [p. 192]. I dati concreti sono qui i dati concrescenti in forza di una qualche somiglianza, che non arrivano tuttavia a fondersi realmente in una unità della concrezione. 19. Sfumature cromatiche e suoni glissanti 105. Un ottimo esempio di unità della concrezione (fusione da vicino) è dato indubbiamente da una sequenza di sfumature cromatiche nella quale le nostre espressioni del germinare dell'un colore dall'altro, del concrescere cessano di essere espressioni vuote, ed assumono un significato esemplificativamente ben determinato. Vi è in questo caso una variazione del contenuto cromatico, ma questa variazione è appunto graduale e, per regioni abbastanza vicine della sequenza, potremmo dire che vi è somiglianza se non identità. Si tratta di un esempio particolarmente significativo per il fatto che attraverso di esso si allude ad una possibile teoria dei colori come teoria fenomenologica. In una simile teoria la sfumatura cromatica, i problemi della fusione e del contrasto, 134 delle possibili relazioni strutturali tra i colori dovrebbero avere una trattazione estremamente ampia e diffusa. Un altro buon esempio di fusione da vicino lo possiamo trarre - finalmente - dal campo temporale (sempre peraltro inteso come campo del presente esteso). Si tratta del suono cosiddetti glissante - cioè di un suono che varia gradualmente di altezza senza interruzioni e senza salti. Anche questo esempio naturalmente non è fine a se stesso ma fa sospettare che esso possa essere sottoposto ad un'elaborazione ricca di senso all'interno di una teoria fenomenologica dei suoni. Il quadro generale ci interessa tuttavia più delle sue possibili diramazioni ed arricchimenti. Da questo punto di vista ci interessa notare che il tema della fusione da vicino ha una sua applicazione anche nel caso della pura continuità priva di variazioni interne - e ciò significa non solo per una sequenza di sfumature cromatiche che varia gradualmente, ma anche per una superficie ricoperta in modo omogeneo di un unico colore, dove non vi è alcuna variazione graduale. Analogamente, per il nostro esempio sonoro, non solo nel di un glissando la cui altezza varia di grado in grado ma anche per un suono tenuto, la cui altezza non varia. Ciò evidentemente potrebbe non essere del tutto ovvio. Infatti ciò che si chiede qui è che una superficie cromaticamente omogenea non venga considerata soltanto come tale, ma come consistente di momenti, di fasi cromatiche che concrescono l'una nell'altra diventando così un caso particolare di una sequenza. Analogamente un suono tenuto viene interpretato come una fusione di fasi di identico contenuto sonoro che trapassano l'una nell'altra. In realtà in questa estensione del problema si noterà che l'idea di descrizione fenomenologica non è affatto una descrizione cieca, in certo senso, non guidata da alcun pensiero. Uno stesso suono che perdura non è descrivibile in modo ovvio come una successione di fasi che germinano l'una dall'altra e così anche una superficie omogenea. Per proporre questa descrizione è in- 135 vece necessario che la condizione descrittiva del glissando o della sfumatura cromatica venga proiettata sul suono tenuto o sulla superficie cromaticamente omogenea. Questa proiezione a sua volta è motivata dall'intento di riportare entrambi i casi sotto il titolo della fusione "concreta" - nel primo caso della fusione fondata sulla somiglianza, nel secondo sull'eguaglianza contenuti. Quest'ultimo problema è toccato al termine del §29 dove si dice che "ogni continuità contenutistica, per esempio quella di un suono di violino, è unità di una fusione continua di fase in fase; ed è solo nel divenire continuo, nell'ordinamento temporale che il contenuto può fondersi in forma continua" [p. 195]. E poco oltre: "L'unità del suono è idealmente risolvibile in fasi sonore. L'unità di queste fasi deriva, conformemente alla continuità temporale, dalla fusione della successione; questa fusione nella sua unitarietà può divenire possibile nel flusso del divenire temporale continuo solo se i dati si fondono senza differenze, se si fondono continuamente di fase in fase. In nessun luogo può quindi verificarsi una frattura, cioè una differenza contenutistica che emerga bruscamente" [p. 195]. 106. Il problema della fusione, ed in particolare la relazione tra continuità e discontinuità ha in realtà una posizione centrale in tutta la tematica della sintesi - ed è già presente nel concetto stesso di emergenza in cui continuità e discretezza si implicano reciprocamente. A partire da questa prima evidenziazione dell'importanza di questo problema si prenderanno poi le mosse verso una ricerca tendente a mostrare i vari modi e i vari livelli in cui continuo e discreto possono intrecciarsi tra loro e possono variamente stratificarsi le varie possibilità strutturali che giocano su queste due polarità. 136 107. Elaboriamo brevemente, ampliandolo un poco, l'esempio che Husserl propone alla fine del § 29. Un suono tenuto può distinguersi - e quindi proporsi come emergenza - da "uno sfondo sonoro generale", da un insieme di rumori indistinti che salgono dalla mia finestra che dà sulla strada. Questi rumori fanno da sfondo - e quindi rappresentano anche quell'omogeneità rispetto alla quale il suono tenuto contrasta e si differenzia. Si tratta tuttavia di una omogeneità non assoluta, perché è finemente spezzata dal rumoreggiare; non si tratta di uno sfondo per così dire liscio, ma increspato. Il suono tenuto è a sua volta caratterizzato dalla "fusione da vicino" e precisamente, dalla fusione fondata sulla sintesi di eguaglianza. L'eguaglianza tuttavia può riguardare solo la nota - non ad esempio l'intensità del suono, che può variare. "Non in tutti i momenti contenutistici deve dominare la continuità. Per esempio, anche se si mantiene la continuità di una qualità sonora, per esempio come continua eguaglianza per ciò che concerne la qualità do, può egualmente aver luogo una frattura sul piano dell'intensità, un cambiamento improvviso dal forte al piano" [p. 195]. Se il mutamento di intensità è improvviso, avremo una rottura della continuità; ma il mutamento di intensità potrebbe a sua volta essere graduale: la nota tenuta che aumenta gradualmente di intensità può essere l'inizio di una melodia, che rappresenta a sua volta un'unità, che ha i propri richiami interni, in essa si effettuano sintesi a distanza, in essa agiscono, questa volta nell'ordine temporale, sia la somiglianza che la contiguità. Nella melodia il succedersi dei suoni può essere caratterizzato da varie forme di staccato o di legato, da pause - cioè da interruzioni - cosicché si ripropone a livelli sempre nuovi, e secondo i vari parametri, ovvero le varie qualità caratteristiche del suono, il gioco della continuità e della discretezza. Non sarebbe infine difficile riproporre i problemi posti da questo esempio in rapporto a scene percettive 137 di carattere visivo. Un altro esempio di sintesi a distanza si trova alla fine del § 28 ed apre in realtà alcuni nuovi problemi. In precedenza la sintesi a distanza era stata concepita come formazione di una emergenza unitaria all'interno di un intero. Abbiamo citato due figure che hanno la stessa forma e lo stesso colore tra figure irregolari di colore differente. L'azione della sintesi a distanza può essere anche più complessa ed in luogo di dare luogo ad una formazione unitaria agire come fattore per mettere in rilievo una parte interna ad un intero. L'esempio di Husserl è quello di un suono piuttosto breve che viene seguito a breve distanza dallo stesso suono - cioè da un suono di eguale altezza e timbro - ma di più lunga durata. In questo caso si avrebbe - osserva Husserl - un rafforzamento della prima parte del suono che risuona successivamente, e precisamente di quella parte che ha la stessa durata del suono precedente. "Un esempio di partizione nella passività ci è dato dalla successione unitaria di un suono che dura per poco e di un suono che dura a lungo. In questo caso, una parte del suono che dura più a lungo emerge, se pur non nettamente, e guadagna attraverso la coincidenza, una posizione privilegiata rispetto al resto" [p. 186]. Si tratta a mio avviso di un esempio un poco faticoso che non lascia affatto trasparire il vero problema che si ha di mira e che è quello delle evidenziazione sintetica di una parte dell'intero attraverso un'emergenza che si trova al di fuori di esso. Sostituiamo allora questo esempio con quest'altro: Sia dato il suono A e poi, dopo una breve pausa, i suoni BCADE (che formano una unità temporale, un intero distinto dalla singolarità sonora A). Allora è chiaro che quando in questa seconda successione risuona il suono A esso viene vissuto con il senso della ripetizione e quindi riceve una evidenziazione e una distinzione rispetto alle 138 altre parti. È interessante notare che possiamo dare di quest'esempio una variante che riguarda invece il piano visivo: sia dato un reticolo le cui parti non abbiano ragioni di prevalere particolarmente l'una sull'altra per forma o per colore. Ma sia dato accanto a questo reticolo una figura che ha esattamente la forma e il colore di una parte del reticolo. In tal caso avviene una sintesi di coincidenza, che rafforza e mette in rilievo la parte corrispondente all'interno del reticolo. Questo secondo esempio è del tutto analogo a quello precedente e illustra la distinzione di una parte all'interno dell'intero dovuta all'azione di una sintesi a distanza. 20. Sintesi di coincidenza e ripetizione 108. L'intera esposizione di Husserl tende, ogni volta che è possibile, a proporre i temi della struttura del campo percettivo secondo un orientamento dinamico. Ciò risulta chiaro nella trattazione proposta del tema dell'eguaglianza e della somiglianza nel § 28 e nella trattazione del problema degli ordinamenti percettivi che forma invece il contenuto principale del § 29. In rapporto alla sintesi fondata sull'eguaglianza si parla in particolare di sintesi di coincidenza (Deckung). Questo termine va inteso come se, nell'apprensione dell'eguaglianza vi fosse una sorta di movimento dall'uno all'altro elemento, in modo tale che si realizzi, per la coscienza, una sorta di sovrapposizione ed in questa sovrapposizione i contenuti in questione si rivelassero appunto coincidenti. In effetti la stessa parola di coincidenza allude, in tedesco, all'operazione del ricoprire [Decken] - ed essa viene impiegata in stretta connessione con la parola congruenza e con una parola di difficile traduzione che si è deciso di tradurre con sovrapposizione [Ueberschiebung]. Congruenza (Kongruenz) è termine che Husserl impiega indubbiamente rammentando il suo senso 139 all'interno della geometria elementare: due triangoli, ad esempio, si definiscono congruenti quando, in una sovrapposizione ideale, senza effettuare rotazioni, coincidono punto a punto. Ed il termine letteralmente significa qualcosa come "scivolare sopra" o "slittare l'uno sull'altro" (Überschieben, Überschiebung) va certamente interpretato in rapporto a questo richiamo geometrico. Potremmo dire che nella sintesi fondata sull'eguaglianza vi è coscienza della congruenza delle emergenze e questa congruenza è appunto rappresentata da una tensione reciproca alla sovrapposizione, allo slittamento dell'una nell'altra. Avviene qui come se - ma si tratta evidentemente di un come se particolarmente accentuato - due figure eguali nella forma e nel colore, poniamo due quadrati rossi, fossero disegnati ciascuno su un foglio di carta semitrasparente e un foglio venisse fatto scorrere sull'altro fino alla piena coincidenza. 109. Questa concezione della sintesi di eguaglianza come coincidenza nel senso di sovrapposizione si comprende forse meglio pensando al caso della ripetizione - che in effetti è un tema particolarmente presente nel § 28. Il tema della ripetizione a sua volta va affrontato in primo luogo in rapporto alla dimensione temporale, piuttosto che a quella spaziale. Ad esempio, parleremmo senz'altro di ripetizione in rapporto ad un suono di eguale altezza che appunto risuona più volte, parleremmo anzi in questo caso dello stesso suono che viene ripetuto più volte e non di molti suoni che risuonano successivamente - e si tratta di una circostanza che viene da Husserl specificamente notata [p. 184]. D'altra parte di fronte a più quadrati tutti eguali e disposti l'uno accanto all'altro tenderemmo a parlare di una molteplicità di quadrati eguali piuttosto che dello stesso quadrato ripetuto più volte. Più precisamente: parleremmo dello stesso quadrato ripetuto più volte, se in qualche modo si proiettasse sul complesso percettivo l'immagine temporale della successione, come se i 140 quadrati si succedessero l'un l'altro nello stesso modo in cui si succedono i suoni. Così quando ad esempio diciamo in rapporto ad una tappezzeria o a un disegno ornamentale che si tratta dello stesso motivo ripetuto più volte in realtà prospettiamo un modo di guardarlo: non in un colpo solo, ma come se lo percorressimo con lo sguardo passando successivamente da una configurazione all'altra. In ogni caso, il tema della coincidenza e della sovrapposizione ha una sua particolare chiarezza proprio nella ripetizione considerata nell'ordine temporale - e quindi ad esempio in rapporto ad uno stesso suono che viene ripetuto. Potremmo dire semplicemente che affinché vi sia "coscienza della ripetizione" è necessario che il suono attuale riattivi il suono appena trascorso, che è ancora presente ritenzionalmente, e venga avvertito come un suono che lo ripresenta e che per questo coincide con esso. Mentre la parola coincidenza può apparire un po' forzata nel caso di due figure visive eguali che rimangono due, nel caso dei suoni ripetuti, in cui noi abbiamo comunque a che fare con suoni che hanno la stessa altezza, quella espressione si mostra indubbiamente più pertinente. 110. La tendenza a trattare i problemi della sintesi nel campo percettivo in termini di movimenti e quindi anche di tensioni dinamiche risulta ancora più evidente nelle considerazioni sulla somiglianza, che contengono degli spunti interessanti benché solo abbozzati e qui e là non troppo chiari. Chiaro è invece il nucleo del problema. Mentre con eguaglianza intendiamo due contenuti che sono simili in tutto e per tutto (l'eguaglianza diventa così un caso particolare della somiglianza), quando parliamo di somiglianza soltanto ci riferiamo ad una coincidenza solo parziale, i contenuti in questione avranno momenti simili ma saranno anche caratterizzati da momenti di dissimiglianza. Husserl suggerisce più volte che la presenza di questi mo- 141 menti di dissimiglianza siano da considerare come un elemento di vera e propria conflittualità. Si tratta di uno spunto interessante ma che, a mio avviso, non viene sviluppato adeguatamente e resta di conseguenza esemplificativamente poco chiaro. In effetti possiamo affermare in generale che, seguendo l'esempio semplice di Husserl che mette sulla scena percettiva un quadrato rosso ed uno blu, le due emergenze coincidono per quanto riguarda la forma, ma si trovano in contrasto per quanto riguarda il colore cosicché questo elemento agisce da controtendenza all'unificazione a distanza. Fin qui non ci sono problemi. Ma si dice anche che in caso di coincidenza parziale i contenuti dissimili tendono a nascondersi l'un l'altro. Si gioca qui sottilmente su un'ambiguità che è propria della radice della parola tedesca, che indica da un lato la coincidenza per sovrapposizione (Deckung), dall'altro alla sovrapposizione come copertura e nascondimento (Verdeckung). Le parti dissimili tenderebbero così a elidersi reciprocamente oppure ad entrare in un conflitto reciproco: Husserl parla anzi [cfr. p. 183] di rimozione [Verdrängung] di un contenuto da parte dell'altro. "Se confrontiamo cose simili [in luogo che eguali] troviamo invece due momenti emergenti: da un lato la coincidenza sintetica in un elemento comune [nell'esempio la forma quadrata], quindi un momento identico, dall'altro il conflitto sintetico delle particolarità [=differenze particolari] di questo elemento comune, le quali nella sovrapposizione si rimuovono reciprocamente. Parliamo di rimozione perché una particolarità copre l'altra e ciò che è coperto tende a sua volta a scoprirsi e, apertosi un varco, a coprire ciò che prima era allo scoperto. Così avviene quando portiamo a sovrapposizione un quadrato rosso e un quadrato blu" [183]. Qui, a meno un fraintendimento da parte mia, vi è evidentemente l'affiorare di una problematica che è molto mal sostenuta dall'esemplificazione elementare proposta. Come abbiamo già detto è perfettamente sostenibile che la differenza cromatica faccia da 142 controtendenza all'unificazione sintetica dipendente dalla forma - e in questo senso si può parlare di conflitto. Mentre sembra evidente che l'esempio del quadrato rosso e del quadrato blu concepiti come dati nella presenza attuale non possa realmente sostenere il tema della coincidenza parziale e del conflitto così come viene proposto nel testo. 111. Tuttavia possiamo interpretare l'esempio per così dire grossolanamente - ed allora in parte i conti tornano. Se un quadrato blu disegnato su un foglio di carta non trasparente viene fatto scorrere su un quadrato rosso, allora effettivamente il blu copre e nasconde il rosso, "rimuovendolo", e inversamente. Il fatto che si parli poi di conflitto e addirittura di tendenza della proprietà coperta a ritornare allo scoperto a mio avviso ha la sua giustificazione nell'ipotesi interpretativa che ho avanzato in precedenza secondo la quale Husserl ritenesse che queste analisi sulle dinamiche della percezione potessero servire da modello per analisi dirette sulla vita soggettiva in genere. Infatti in un campo più ampio di considerazioni, è perfettamente possibile pensare che un'associazione parziale nell'accezione illustrata, possa comportare delle coperture o scambi di senso. Ad esempio, una situazione vissuta in passato simile ma non identica ad una situazione che mi si ripresenta attualmente può investire del suo senso la situazione attuale, impedendo od ostacolando (ed in questo senso, rimuovendo) quell'aspetto del senso della situazione attuale che la differenzia dalla precedente. Un caso come questo, benché richiami la problematica del rapporto presente-passato che abbiamo provvisoriamente messo da parte, potrebbe tuttavia illustrare assai bene il problema e rendere conto del modo in cui viene proposto in questo contesto il problema della dissimiglianza. Potremmo schematizzare parlando di un evento vissuto E1 composto di momenti rilevanti A, B e C e di un altro evento vissuto E2, composto di momenti rilevanti A, B e D: e si può per- 143 fettamente immaginare che i due eventi possano fondersi l'uno nell'altro nel ricordo, ma che solo C oppure D si presenti in esso, e che quindi o C o D risulti "coperto". E si comprende anche che l'evento coperto tenda ad aprirsi un varco verso il proprio scoprimento. 21. Fenomenologia dei campi sensoriali 112. Di fatto si è ormai perfettamente compreso che la direzione nella quale ci muoviamo è quella di una realizzazione di una fenomenologia dei campi sensibili o campi sensoriali (peraltro, come abbiamo osservato or ora, con una sottintesa apertura verso le dinamiche conflittuali della vita soggettiva in genere). Con la nozione di campo sensoriale intendiamo in primo luogo gli eventi fenomenologici relativi ad un determinato organo sensoriale. "... ogni dominio sensibile è un dominio unitario per sé: ogni elemento visivo è collegato dall'omogeneità visiva, ogni elemento tattile dall'omogeneità tattile, ogni elemento acustico dall'omogeneità acustica, ecc. In un senso amplissimo possiamo parlare di campi sensibili unitari. L'uno è eterogeneo all'altro: sono dunque associati solo grazie alla temporalità del presente vivente. Accanto a questa unitarietà formale ogni campo possiede in sé una unitarietà di contenuti, una unità, che è appunto quella dell'omogeneità contenutistica" [p. 191]. Naturalmente a partire da questa nozione lata di campo sensoriale si potrà aprire una discussione tendente ad operare una delimitazione più precisa. Ci si può chiedere infatti: è realmente giusto parlare di campo sia per gli eventi visivi che per gli eventi olfattivi o gustativi? Le differenze sembrano così rilevanti da rendere sensata una possibile restrizione della nozione di campo, o 144 almeno la distinzione tra un impiego proprio dell'espressione ed un impiego improprio. Tutta la tradizione filosofica del resto - anche là dove non ha esplicitamente discusso la questione - ha sempre prestato una particolare attenzione soprattutto alla vista e alla tattilità, separando piuttosto nettamente questi due organi sensoriali dall'udito, il gusto e l'odorato. Si comprende che la ragione di ciò sta nella centralità che assume il corpo - sia inteso come cosa materiale sia come corpo soggettivo (il "mio corpo") - per la costituzione della realtà stessa. Per questa costituzione ciò che conta è soprattutto la res, il mondo è in primo luogo un mondo di cose. Ogni livello costitutivo di indagine deve convergere nel tentativo di rendere conto della posizione della cosa come cosa materiale, che rappresenta una sorta di sostegno della realtà stessa. Anche le nostre indagini tutte gravitanti sulla nozione di emergenza sarebbero subordinate a questo scopo finale. 113. All'interno di questa discussione non vogliamo peraltro addentrarci. Vanno solo segnalate senza metterle in discussione almeno due circostanze interessanti: per Husserl si parlerà di campo in senso improprio già in rapporto campo acustico - e tanto più dunque per il campo dell'odorato e dell'olfatto; inoltre sempre per Husserl la nozione di campo è rigorosamente delimitata, nel senso che essa è strettamente definita dall'omogeneità dei contenuti tra loro all'interno di un campo e quindi dall'eterogeneità di un campo rispetto all'altro. Ciò significa in particolare che il livello delle sintesi qui considerate non potrà mai riguardare ad esempio dati sonori e dati cromatici, oppure dati sonori e dati tattili. Questo è a mio avviso un punto critico dell'intera impostazione husserliana. È vero infatti che una sintesi attraverso i campi sensoriali non può essere sostenuta come una sintesi che si muove soltanto sul piano dell'esperienza percettiva e memorativa. Ma occorre richiamare vivacemente l'attenzione sul fatto 145 che ogni percezione contiene indubbiamente componenti di ordine immaginativo. Ed io ritengo che sia ben difficile contenere la descrizione fenomenologica di una situazione percettiva senza prendere in considerazione proprio i suoi sconfinamenti immaginativi. Questo sconfinare verso l'immaginario è anzi, io credo, una caratteristica interna della struttura della percezione in genere. Quando ad esempio io qualifico un suono come ruvido oppure come morbido queste espressioni hanno una precisa valenza descrittiva e nello stesso tempo immaginativa. Vorrei quasi sostenere, stando a questo esempio, che la valenza descrittiva di cui quegli aggettivi non sono affatto privi si appoggia su quella immaginativa, e dire questo ha un significato interamente diverso che l'assumere queste espressioni come metafore aggiunte alla cosa stessa da una pura facoltà immaginativa estranea alla cosa stessa. Mi sembra giusto dunque sottolineare l'importanza di quelle che si possono chiamare sintesi immaginative anche ai fini di una fenomenologia della percezione, e segnalare come un limite della posizione di Husserl l'aver interamente eluso una simile problematica. Husserl tuttavia ha fornito elementi preziosi per una filosofia fenomenologica dell'immaginazione che io ho cercato di elaborare anzitutto nei miei Elementi per una dottrina dell'esperienza e nei saggi compresi nel volume Le regole dell'immaginazione, oltre che nell'ambito della filosofia della musica. 114. I compiti che ci si propone ponendo il problema di una fenomenologia dei campi sensoriali è quello di elaborare le caratteristiche relative ad ogni singolo campo, i principi essenziali, le legalità, le regole, ecc. H. parla addirittura di una "geometria, di una topologia di questi campi" pensando soprattutto al campo visivo: non si tratta certo della geometria nel senso comune (benché si parli di assiomi) ma di una geometria fenomenologica, che probabilmente ha degli importanti legami con la geometria come scienza astratta, ma che è in ogni caso distinta da essa in via di principio. 146 Le domande che ci porremo all'interno di uno sviluppo di una fenomenologia dei campi sensoriali sono ad esempio: che tipo di oggetti possono essere costituiti nel campo visivo ovvero nel campo acustico? Che tipi di configurazioni unitarie? Che tipi di modificazioni, di relazioni, di forme di ordinamento? Ovvero di contrasti, di sintesi in generale? In che modo è possibile operare suddivisioni all'interno di un campo sensoriale? In quali modi si pongono i rapporti tra intero e parte? 22. Progressioni 115. Dentro questo quadro è il caso di discutere il tema delle forme di ordinamento e quello del fenomeno della localizzazione facendo un passo indietro al § 29. Finora abbiamo citato esempi di molteplicità unitarie di vario genere, ma non abbiamo esplicitamente parlato di un complesso ordinato, di una molteplicità ordinata e di forme possibili di ordinamento percettivo, anche se in realtà non abbiamo affatto potuto evitare di proporre esempi che contenevano già delle forme di ordinamento. Ad esempio abbiamo parlato già di sfumature cromatiche. Una sfumatura cromatica, proprio in quanto è una sfumatura, non può che presupporre un ordine, è precisamente un ordine di tipo particolare. A questa unità di ordinamento "non appartiene soltanto in generale la formazione della coppia per somiglianza, ma una somiglianza particolare che qui si chiama incremento" [p. 187] Pensiamo una sfumatura chiaroscurale nell'ambito dello stesso colore, oppure una sequenza di gradazioni che va dall'arancione al giallo. Si tratta di una sequenza che, rispetto ai nostri problemi 147 precedenti, ha certamente una particolare caratteristica: ad ogni suo passo si registra un incremento, ad esempio: considerando un certo punto della sequenza il punto successivo sarà più chiaro o più scuro, nel caso della sequenza chiaroscurale; oppure, nel caso della sequenza dall'arancione al giallo il colore diventa sempre più giallo. Il termine tedesco che Husserl usa per indicare successioni come queste è Steigerung che si può tradurre con incremento o accrescimento. Forse si potrebbe anche tradurre con progressione. Esempi analoghi tratti dal terreno della forma piuttosto che da quello del colore potrebbe essere una successione di triangoli disposti in ordine di grandezza crescente. Occorre soffermarsi un poco su questo esempio, perché esso ci consente di chiarire meglio che nei casi precedenti il senso effettivo del discorso che andiamo facendo. Intanto proprio a proposito delle progressioni Husserl ribadisce più volte il termine di fenomeno originario. Ciò significa, in particolare, che si tratta di un fenomeno irriducibile ad altri, di una sintesi di tipo peculiare che non è ad esempio riconducibile all'apprensione di una coppia. Si noti in particolare che, benché la forma sia eguale, le dimensioni cambiano - se i triangoli fossero solo due potremmo realmente parlare di progressione? Qui si ha un interessante esempio di che cosa significhi ricercare una regola fenomenologica e quindi anche di che cosa sia in concreto una simile regola. La ricerca di una regola fenomenologica si realizza in concreto variando la situazione percettiva in modo da constatare quali variazioni vengono indotte nel senso della situazione percettiva stessa. Dati due triangoli di diverse dimensioni non è affatto detto che l'uno venga appreso come un incremento dell'altro. Potrebbero essere appresi semplicemente come due triangoli che sono soltanto di dimensioni diverse. In realtà la peculiarità di questo tipo di sintesi sta nel fatto che la dissimiglianza viene integrata per così dire in una sintesi di identità: il senso effettivo dell'ac- 148 crescimento sta nell'espressione "lo stesso ma più grande", esattamente come nel caso della sfumatura cromatica io parlo dello stesso colore, ma più chiaro o più giallo. "Si può notare che la coincidenza in un incremento [in una progressione], sebbene non sia un'eguaglianza, è tuttavia particolarmente stretta. Ciò che è minore non si ripete certo semplicemente in ciò che è incrementato: eppure, quest'ultimo è ancora lo stesso, ma è anche di più" [p. 175]. ECCETERA L'esempio puramente visivo di una sequenza di triangoli che diventano sempre più grandi in realtà riceve il suo senso di progressione dall'idea di uno stesso triangolo che cresce - idea che si imporrebbe indubbiamente se supponessimo che ci venisse proposto un triangolo alla volta in una successione temporale. E questo è un punto che Husserl non manca di notare [p. 187]. Ciò significa che quando si produce un'apprensione di progressione un sorta di senso temporale si proietta sulla sequenza, come se essa avesse il carattere di uno sviluppo. 149 150 Ma allora affinché si produca una simile apprensione debbono essere soddisfatte alcune regole: ad esempio sembra giusto affermare che i triangoli debbono essere più di due, e questo perché nel senso dell'apprensione percettiva deve sedimentarsi passivamente il senso del sempre più. In certo modo la progressione deve spingersi sempre un poco oltre quello che di fatto vediamo prospettando la possibilità di una prosecuzione; oppure deve essere fatta in modo tale da proporsi come una progressione chiusa, come nel caso di una progressione dal bianco al nero. Un'altra condizione che può essere formulata in termini di regola è che la progressione si muova per passi abbastanza piccoli - cioè la differenza di dimensioni rispetto al triangolo successivo non deve essere troppo grande. Se il passo è invece molto ampio si indebolisce la possibilità di cogliere un elemento come accrescimento del precedente, o addirittura di cogliere l'intera successione come uno sviluppo di un unico elemento che si accresce. Si comprende anche, da questa regola, che una sequenza continua ha carattere fondamentale rispetto all'intero problema delle progressioni. Naturalmente il tema della progressione può essere sviluppato in varie direzioni, pensiamo soltanto all'importanza che esso riceve nel campo dei fenomeni sonori, anzi nel campo della musica stessa. Ma non va trascurato che attirando l'attenzione sul tema della progressione Husserl pensa anche certamente a problemi che riguardano le forme fondamentali del pensiero astratto. È interessante notare ad esempio che l'idea della prosecuzione illimitata possa essere proposta direttamente da una situazione percettiva, cioè che essa si imponga appunto passivamente all'interno di un modello percettivo. 151 23. Luoghi e sistemi di luoghi 116. Nel § 29 viene introdotta anche la nozione di localizzazione. Come abbiamo già osservato un campo percettivo privo di emergenze è una pura nozione limite, ma che è lecito per noi esemplificarlo con un foglio bianco che sia il più possibile omogeneo. In esso - potremmo dire - non sono presenti luoghi. Invece, non appena si presentano delle emergenze esse assumono subito una disposizione locale [Lokalität], fanno apparire un luogo. Ciò significa che un'emergenza verrà caratterizzata come localizzata a destra, a sinistra, in alto in basso, al centro dello spazio percettivo considerato. Si tratta del riconoscimento di coordinate fenomenologiche che saranno indubbiamente soggettive, e quindi in questo senso relative, ma questa soggettività e questa relatività non toglie che la presenza di queste determinazioni contribuisca in modo determinante alla strutturazione del campo percettivo. Occorre anche notare che questa relatività è qui puramente sottintesa e su di essa non bisogna attirare l'attenzione più di tanto altrimenti si corrono diversi equivoci. Parlare del centro del campo percettivo o affermare che una emergenza si trova a destra o a sinistra significa fornire delle indicazioni locali ben determinate, e non caratterizzabili o rovesciabili a piacere. È opportuno sottolineare che la localizzazione è naturalmente del tutto indipendente dai contenuti percettivi che vengono localizzati, e quindi appartiene agli elementi formali che sono in certo senso precostituiti anche se, come ho notato in precedenza, le emergenze sono necessarie per fare apparire le località. "Consideriamo il campo visivo e i dati particolari che in esso si fanno avanti. Essi hanno l'unità dell'omogeneità, ma ciò non è ancora sufficiente a costituire un ordine. Tuttavia troviamo anche qui ordinamenti e, come nel tempo, già indipendentemente dall'elemento contenutistico che qui si ordina. Nel 152 campo visivo. preso in senso puramente immanente [=fenomenologico], abbiamo possibili serie che possiamo designare linguisticamente solo avvalendoci di apprensione oggettive. Così un ordinamento della coesistenza di macchie di colore qualsiasi o di figure nettamente delimitate si trova nell'ordinamento destra-sinistra e nell'ordinamento sopra-sotto o in una determinata direzione verso destra in alto, ecc." [p. 189]. In questa citazione si parla anche di direzioni. La possibilità di un'articolazione fondamentale della spazialità percepita fa sì che possano essere operanti non solo delle sintesi che si riferiscono all'identità del luogo, ma anche che possa darsi una unità-di-direzione che è definita dall'apparire di emergenze che sono per così dire orientate verso uno stesso luogo. Gli elementi di un complesso possono essere colti unitariamente in forza del fatto che essi hanno tutti una unità di direzione caratterizzata, ad esempio, verso destra in basso. Inoltre - e qui abbiamo una relatività in certo senso di secondo grado - una emergenza B può essere sopra o sotto, a destra o a sinistra di un'emergenza A, e ciò significa naturalmente assumere come riferimento centrale l'emergenza A, e quindi costruire un sistema di luoghi relativamente ad A. La nozione di sistema di luoghi o anche, come dice esattamente Husserl, di sistema di posizioni (Stellensystem), che può riguardare in generale sia l'intera situazione percettiva sia una sua parte, si riferisce naturalmente ai possibili ordinamenti realizzati sulla base della localizzazione. Le posizioni formano un sistema in quanto sono tra loro concatenate - questo concetto di concatenazione (Verkettung) è dominante in tutta la tematica delle forme d'ordine. Ed in effetti il problema di un ordine fondato sulla localizzazione ha qualche analogia con i casi discussi in precedenza. Ciò spiega anche il frequente uso del termine serie (Reihe) anche in questo contesto. Ad esempio: un caso elementare di relazione di ordine fondata sulla località è l'essere-a-destra-di. Ora non evidentemen- 153 te la stessa cosa l'apprendere quattro rettangoli semplicemente come una pura molteplicità, dunque come quattro rettangoli, ed invece come quatto rettangoli che sono ordinati secondo questa relazione. In questo secondo caso è presente in primo luogo l'iterazione della relazione e la struttura della concatenazione. Si può anche dubitare che un ordinamento come questo sia realmente colto come tale e che non abbia bisogno invece di una condizione temporale aggiuntiva, in cui una figura si aggiunge via via alla destra dell'altra. Questa idea di un movimento di cui la struttura percettiva è un risultato va tenuto presente in questo genere di considerazioni, perché la struttura assume spesso il senso che essa ha proprio sulla base di una simile riferimento implicito che può essere naturalmente del tutto ideale. Sotto il titolo di sistema di posizioni rientra ogni problema che riguarda la forma che una determinata configurazione riceve in forza di sintesi fondate sulla località. A questo proposito è interessante l'espressione di linee degli ordinamenti locali che sono le linee che formano il tracciato di questi sistemi. Ad esempio, le emergenze di una situazione percettiva potrebbero essere disposte a croce, e ciò significa appunto che se tracciassimo delle linee tra i luoghi occupati otterremmo il tracciato di una croce. 154 155 Otteniamo in questo modo un'interpretazione molto chiara dell'idea, che spesso viene formulata nella tradizione filosofica, dello spazio come ciò che istituisce un ordine tra entità coesistenti. Questa idea significa ora che vi sono articolazioni possibili della spazialità fenomenologica sulle quali si fondano sintesi della localizzazione. Il tracciato a croce risulta dall'intersezione di due serie - l'una nella direzione sinistra-destra, l'altra nella direzione sopra-sotto. Questo è un caso di concatenazione complessa - per quanto elementare. In certo modo nello spazio le concatenazioni possono espandersi in ogni direzione, ed anche stratificarsi in modo molto vario - saremmo tentati di dire "a rete", espressione che non copre probabilmente ciò che vogliamo dire, ma che si contrappone abbastanza efficacemente alla concatenazione lineare che è tipica invece dell'ordinamento temporale. "...analogamente al campo della successione, in quanto campo originario dell'ordinamento con posizioni temporali variabili, vi è anche qui un campo di posizioni dell'ordinamento che nella coesistenza predelineano un concatenamento. Anche qui si separano, e in modo nuovo, forma e contenuto: da una parte la forma dell'ordinamento locale e dall'altra come contenuto, ciò che viene ordinato, ciò che... sta in questo e quel luogo (Lokalität) visivo occupandolo. Ma per il vero vi è qui una considerevole differenza: la successione è una concatenazione unica, lineare, sempre di nuovo eguale. Nel campo visivo invece i dati non si dànno tutti e sempre in un concatenamento, in un ordinamento identico e lineare, ma possono originariamente formarsi diversi concatenamenti seriali, e diversi contemporaneamente, cosicché nel campo sono racchiuse molte linee in quanto sistemi delle posizioni della località" [p. 189-190]. Vi è dunque un parallelismo problematico tra spazio e tempo sotto questo profilo degli ordinamenti come attinenti unicamente alla forma spaziale ed alla forma temporale. Ma la forma temporale consente una unica forma di ordinamento possibile - 156 quello della successione - mentre la forma spaziale contiene una potenzialità di ordinamenti possibili. E' chiaro infine che anche in questa problematica Husserl tiene d'occhio problematiche "matematico-formali". Ad esempio, la distinzione tra concatenazioni (Verkettungen) e meri insiemi (blosse Mengen), e in generale l'individuazione di pattern intuitivi relativi a possibili forme di concatenazione potrebbero avere un rilievo per l'apprestamento di nozioni formali. 24. Affezione 117. Parlando di impressioni Hume aveva proposto un termine polivalente che tocca a noi dipanare nei suoi vari sensi. Fra questi vi è quello dell'essere colpiti ed è proprio in questa accezione che va assunta l'espressione impiegata da Husserl di affezione (Terza sezione, cap. II). Peraltro si tratta di un termine kantiano, e da Kant, non da Hume, la trae Husserl. L'origine è latina, e rimanda al verbo afficere e al sostantivo affectio. Il significato primario di afficere e dunque di affectio è quello dell'influire, proprio nel senso dell'essere colpiti, dell'essere impressionati, di subire le conseguenze di un'impressione. L'affectio indica poi per estensione uno stato d'animo, una disposizione del sentire; infine indica la passione - in corrispondenza al greco pathos. 118. Si tratta ora di rendere conto del senso di questa nozione e in particolare della sua relazione e differenza con la nozione di emergenza, ma anche per quale motivo Husserl ritenga che questo tema solleciti un riesame fenomenologico della nozione di inconscio. Nello stesso tempo esso ci introduce all'interno della problematica vera e propria dell'associazione: infatti, benché sia vero che possiamo usare il termine di associazione in un'accezione generale come equivalente a quello di sintesi, è altrettanto vero che in Husserl esso ha anche un significato più particolare, riguardando 157 propriamente le sintesi che potremmo chiamare di ridestamento - cioè le sintesi che operano in modo da portare alla luce un contenuto nascosto o in ogni caso un contenuto non attualmente presente (anche: che non si trova al centro della presenza attuale, ma ai suoi margini). 119. L'ottenere chiarezza su questi tre problemi, e quindi sui rapporti tra affezione ed emergenza, tra affezione e inconscio e tra affezione e l'associazione intesa come ridestamento è il nostro compito più importante, anche se non potremo seguire passo passo il testo che manifesta qualche incertezza sulla strada da seguire. 120. Il primo chiarimento sembra il più semplice da ottenere. L'emergenza è una formazione unitaria dovuta a diversi fattori, ed in ultima analisi a fenomeni di fusione (concrescenza) e di contrasto. La considerazione delle emergenze richiede in realtà una pure considerazione "noematica", cioè volta al lato oggettivo. Ma un conto è che un dato sia emergente rispetto ad un contesto, ed un altro è che questa emergenza sia colta come tale, che essa ci colpisca. Nulla ci garantisce che la dinamica del colpire - quindi delle affezioni - ricalchi la dinamica delle emergenze come tali. Vi sono emergenze che non ci colpiscono, o vi sono emergenze che ci colpiscono solo in certe circostanze. È ciò che Husserl chiama il relativismo delle affezioni - relativismo che evidentemente rimanda ad un fattore soggettivo che in via di principio inerente alla nozione di affezione. Tutte i nostri cenni analitici precedenti sono stati condotti senza implicare il fenomeno dell'affezione, ovvero, che è lo stesso, sono stati condotti neutralizzando il fenomeno dell'affezione con la tacita intesa che tutto ciò che aveva carattere di emergenza aveva anche carattere affettivo - ciò era in grado di colpirci. 158 25. Il ridestamento dell'io e le affezioni latenti 121. Ma vogliamo muoverci intanto per piccoli passi: all'inizio del § 32 Husserl ci gratifica con una definizione della nozione di affezione: "Con affezione intendiamo lo stimolo coscienziale, l'impulso [Zug] peculiare che un oggetto cosciente [=dato alla coscienza] esercita sull'io. Si tratta di un impulso che trova soddisfazione [=si compie, si realizza, arriva a compimento] nel volgersi dell'io e che da qui si dispiega nella tendenza verso l'intuizione originalmente offerente che disvela sempre più il se stesso oggettuale [=ciò che l'oggetto è in se stesso], nella tendenza quindi verso la presa d'atto, verso l'osservazione più dettagliata dell'og­getto" [p. 205]. A questa definizione conviene subito associare la distinzione che segue poco dopo tra l'affezione che si realizza effettivamente e la tendenza affettiva (potremmo anche parlare di affezioni latenti) che viene descritta invece come una potenzialità dell'affezione. "I dati sensibili (e quindi i dati in generale) indirizzano verso l'io-polo dei raggi [frecce] dotati di forza affettiva che non sono tuttavia sufficientemente forti per raggiungerlo e non si trasformano quindi effettivamente in uno stimolo ridestante per la soggettività" [p. 206]. Notiamo subito che anche nell'ambito problematico che ci accingiamo ad esplorare e che sembra esigere un allargamento della riflessione alla vita del sentimento in genere - e proprio parlando dell'affezione che ha in sé una scossa emotiva e che contiene in ogni caso l��idea di un turbamento - la ricerca di Husserl è sempre unilateralmente e, diciamolo pure, intellettualisticamente spostata verso il lato conoscitivo. L'affezione stimola l'io ad ulteriori passi nell'approfondimento della conoscenza dell'oggetto. Si tratta peraltro 159 di un limite che può essere in via di principio superato e che queste ricerche possono avere un significato entro un ambito più vasto di considerazioni. 122. In esse si prospetta un nuovo modo di concepire il campo dell'esperienza. L'io è un io che viene ridestato dall'affezione - dunque l'io è posto anzitutto come un io dormiente, un io che è dimentico del mondo così come è dimentico di sé. Il campo percettivo invece è proposto come un campo di latenze affettive attraversato da forze che si dirigono verso l'io, come un campo fatto di "raggi dotati di forza affettiva" - in luogo di raggi potremmo parlare di frecce scoccate in direzione dell'io, alcune di queste non raggiungono il bersaglio. Quando una freccia raggiunge l'io e dunque lo ridesta, comincia il processo inverso: l'io ridestato si rivolge verso l'oggetto manifestando il proprio interesse. 26. La metafora del sonno, il passato, l'inconscio 123. In questa singolare descrizione cominciamo a scorgere alcuni problemi ed alcune connessioni. L'affezione può agire soltanto con la collaborazione dell'io, cioè vi è un campo di motivazioni soggettive che la rendono possibile. E vi è già un problema nel capire come possa un io dormiente essere tuttavia esposto alla presa dell'affezione - il problema cioè di come qualcosa che è caratterizzato come assente possa essere riportato alla presenza. Se lo può, si trattava allora di un'assenza relativa, di qualcosa che non c'è e tuttavia in qualche modo c'è, di uno "zero che tuttavia non è nulla", come si ripete più volte in questo capitolo. In effetti già qui si annuncia il tema dell'inconscio, così, come quello del ridestamento e della tematica dell'associazione nel senso stretto in cui la abbiamo precedentemente definita. La metafora del sonno, a ben vedere, riguarda infatti anche la nozione del passato, la nozione di inconscio, più in generale la distinzione tra livelli di coscienza - anzi è proprio 160 quest'ultima idea, l'idea di diversi livelli di coscienza e di un movimento tra questi livelli che qui comincia ad affiorare. L'assenza dell'io - l'io dormiente - può essere intesa unicamente come sospensione dell'interesse verso le cose che mi circondano - così come quando siamo assorti nei nostri pensieri. Il mondo circostante brulica di cose - di emergenze - che mirano attrarre su di sé la mia attenzione. È opportuno sottolineare che, benché si parli ora dell'attività delle cose e dell'inattività dell'io, tuttavia questa assenza dell'io - nel disinteresse - va intesa come una latenza, un avvertire inavvertitamente. Questa è la situazione enigmatica a cui più volte allude Husserl in questo capitolo. E di fatto più che nel caso del sonno una simile espressione apparentemente contraddittoria è invece particolarmente adatta per esprimere la condizione dell'io immerso nei suoi pensieri. Per caratterizzare questa condizione non diremmo che l'io semplicemente non percepisce: invece percepisce tutto ciò che gli accade intorno, vede le cose che lo circondano, ma con uno sguardo assente, e così sente i rumori, i passi nella stanza accanto, i rumori che vengono dal di fuori. Solo che ad essi non vi fa caso, ad essi non presta attenzione. Non è ad essi interessato. Poi accade che una emergenza abbia, una forza impulsionale maggiore - una maggiore forza affettiva: l'io viene sottratto dai suoi pensieri e si rivolge verso ciò che lo colpisce. Vi è prima un campo di latenze - poi una latenza che viene attualizzata. (Il termine di forza impulsionale come equivalente a quella di forza affettiva mi sembra appropriato). Si vede subito che la nozione di affezione e di forza affettiva è qualcosa di profondamente diverso da quella di emergenza, ma nello stesso tempo essa è legata ad essa in modo piuttosto stretto. In taluni casi anzi sembra abbastanza difficile districare l'una dall'altra. 124. La limitazione imposta che toglie di mezzo ogni forma per così dire evoluta e complessa della vita emotiva arriva ad ammet- 161 tere come differenza significativa la differenza elementarissima del gradevole e dello sgradevole: "Dalla sfera del sentimento possiamo poi solo prendere i sentimenti originariamente congiunti con i dati sensibili" [p. 207]. Questa limitazione è peraltro dovuta alla scelta analitica di iniziare a cogliere il problema al suo stadio più elementare, e quindi escludendo i fattori temporali del passato e del futuro che sono portatori della ricchezza di senso: "Analizzando il livello genetico più basso noi poniamo il problema di quell'astrazione che è necessaria in vista di una genesi sistematica: facciamo quindi come se il mondo dell'io fosse costituito solo dal presente impressionale e come se non vi fosse alcuna appercezione che oltrepassi questa cerchia e che tragga la sua origine da legalità soggettive che si spingono più in là di essa, come se non vi fosse alcuna conoscenza acquisita nella vita mondana, alcun interesse estetico e pratico, alcuna valutazione, ecc." [207]. Ma non vi è dubbio che questa limitazione non soltanto impoverisca enormemente la trattazione della problematica dell'affezione, ma anche che renda difficoltosa una chiara distinzione della stessa nozione di emergenza rispetto a quella di affezione. Il lettore può avere nel corso della lettura spesso la sensazione che i due concetti siano differenti, ma nello stesso troppo vicini, e si tratta a mio avviso di una sensazione del tutto giustificata. 27. Emergenza e forza affettiva 125. Tentiamo allora di vederci un po' più chiaro su questa distinzione. Intanto il contrasto fa parte delle condizioni dell'affezione - nessun dato che non prenda rilievo da uno sfondo può 162 sviluppare una forza affettiva - ma ciò è quanto dire che "l'affezione presuppone anzitutto l'emergenza" [p. 206]: ma anche che all'emergenza come tale va attribuita in linea di principio una forza affettiva latente e la stessa gradualità del contrasto comporterà una gradualità nell'intensità della forza affettiva sempre intesa come pura latenza. Vi saranno poi contrasti concorrenti che a loro volta staranno alla base di forze affettive concorrenti. La differenza sta nel fatto che il contrasto rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente per l'affezione. "Uno stesso contrasto può effettivamente esercitare uno stimolo sull'io ed in un'altra occasione può accadere che l'io non venga raggiunto dalla tendenza affettiva"[p. 206]. Le ragioni dell'attualizzazione di una forza affettiva non sono dunque solo nel contrasto e nell'emergenza, ma nel lato propriamente soggettivo. Come abbiamo già osservato, tuttavia la riduzione operata dell'ambito emotivo al gradevole e allo sgradevole ci lascia assai poco spazio per l'esemplificazione e quindi per l'elaborazione di questo problema. Ecco in ogni caso l'esempio di Husserl di cui dobbiamo far tesoro: "Per esempio, ci colpiscono singole figure colorate che emergono e contemporaneamente, vi sono rumori come il tramestio delle carrozze, le note di una canzone, così come odori che emergono, ecc. Tutto ciò si dà simultaneamente, e tra queste cose è la canzone che si afferma in quanto noi, nell'ascolto, siamo rivolti ad essa soltanto. Il resto tuttavia ci stimola. Se però sopravviene un potente boato, come quello di un'esplosione, allora esso non elimina solo le particolarità affettiva del campo acustico, ma anche quelle di tutti gli altri campi. Ciò che altrimenti ci parlava, per quanto poco lo stessimo a sentire, non può giungere sino a noi" [p. 206]. Questo esempio è abbastanza efficace. Intanto appare chiaro da 163 questo passo non solo che le emergenze sono condizioni dell'affezione, ma anche che adottando il punto di vista della problematica dell'affezione dobbiamo attribuire alle emergenze delle forze affettive latenti la cui intensità corrisponde all'intensità del contrasto. Come si dice alla fine: ci sono cose che ci parlano anche se non le stiamo a sentire. Così vi sono forme colorate, ad esempio dei manifesti nella strada, rumori divario genere, la gente che chiacchiera e passeggia, rombi di motori ecc. - ma all'improvviso sono colpito dalle note di una canzone, è essa che ha la maggior forza affettiva e quindi io mi rivolgo ad essa. E per quale motivo sono colpito? Qui è interessante intanto che si debba cercare un motivo (problema che nell'emergenza come tale non si pone) e a quella domanda io posso rispondere: quella canzone mi è nota, ha per me un peculiare valore emotivo. Va anche notato che sta nello spirito dell'esempio che il contrasto che caratterizza l'emergenza che mi colpisce non sia necessariamente il più intenso di tutti: nel rumoreggiare io sono colpito da quella canzone che è magari cantata con un fil di voce, da un emergenza piuttosto debole che tuttavia assume la massima forza affettiva. È chiaro che qui stiamo distinguendo la componente oggettiva (sia pure sempre in senso fenomenologico) da quella soggettiva. D'altro lato può anche darsi che un contrasto sia così forte da soverchiare ogni altro: un'emergenza si impone ed assume la massima forza affettiva per motivi del tutto indipendenti da componenti di ordine soggettivo. Viene qui fatto l'esempio di un boato particolarmente forte e quindi di un contrasto estremo che toglie di mezzo ogni concorrenza e ci colpisce proprio per la sua forza obbiettiva. Esso opera una vera e propria copertura [Verdeckung] di tutte le altre tendenze - parola che abbiamo già incontrato e che in questo contesto sembra particolarmente appropriata. Potremmo dire che vi è copertura in generale quando una o più tendenze vengono ostacolate ed impedite da una tendenza che ha una più forte tendenza affettiva. In questa formulazione risentiamo naturalmente la possibilità di un discorso che si estenda ad un dina- 164 mismo psichico di carattere generale. Il dubbio che il termine di affezione sia stato scelto anche per la sua parentela con l'affettività in senso comune non sembra affatto infondato. 126. Un'emergenza può essere considerata come provvista di una forza affettiva latente - quando un'emergenza è per così dire al di fuori del campo dell'attenzione dell'io essa può essere considerata come una forza affettiva di grado zero [p. 212]. Talvolta si parla anche, nello stesso senso di un carattere preaffettivo che spetta alle emergenze, oppure di "legalità preaffettive della formazione di unità" che sono naturalmente che null'altro che le legalità sintetiche considerate come legalità che sono portatrici di una forza affettiva latente. Questa terminologia accentua l'importanza della tematica dell'affezione e la generalizza. L'affezione diventa una condizione necessaria per ogni unificazione. "... ci si chiede se l'affezione non sia già una condizione essenziale della realizzazione di ogni sintesi costitutiva e se non vi debba essere una relazione tra questi due momenti: da un lato la peculiarità preaffettiva degli elementi, insieme ai presupposti essenziali, ad essa relativi, della formazione di unità, dall'altro l'affezione stessa. È necessario dunque prendere in considerazione da un lato la possibilità che tutte le fusioni e le separazioni attraverso le quali le unità oggettuali sorgono nel campo del presente abbiano bisogno di una vivacità affettiva per potersi in generale sviluppare, dall'altro il fatto che esse forse non potrebbero svilupparsi se le condizioni oggettive dell'unificazione fossero sì soddisfatte, ma la forza affettiva fosse nulla"[p. 223]. 127. Porre l'accento su questo punto significa anche accentuare l'importanza dell'associazione intesa non più genericamente come un equivalente al termine di sintesi, ma con esplicito riferimento alla tematica del ridestamento. È anzi l'intera tematica della sintesi a ricadere sotto quest'ultima tematica. Ciò riceve il suo 165 significato più pieno dal fatto che quando si parla di ridestamento si parla anche di differenti livelli della coscienza. Questo concetto comincia già a proporsi nella considerazione della soggettività come diversamente attratta dalle forze che agiscono nel campo del presente. 128. In questo contesto che fa intravedere la nozione di inconscio, deve essere considerata la tematica della propagazione dell'affezione. La forza affettiva di un evento non resta necessariamente isolata sull'evento stesso, ma tende a trasmettersi ad altri eventi - e questo in forme diverse e con conseguenze diverse, talora promuovendo certe tendenze, talaltra ostacolandole. Husserl si propone il problema di una ricerca destinata ad individuare quelle che egli chiama le leggi della propagazione dell'affezione (§ 33). Il testo suggerisce anche una definizione dell'affezione che vale la pena di annotare: "Per ciò che concerne l'oggetto possiamo anche dire che l'affezione è il ridestamento di un'intenzione diretta su di esso. Possiamo allora chiederci se non vi siano leggi della propagazione del ridestamento inten­zionale"[p. 202]. Per chiarire l'idea di propagazione dell'affezione, è possibile almeno inizialmente ricollegarsi ad un esempio di cui ho già commentato nel saggio intitolato "Una passeggiata sulla collina di Loretto" (ora in Fenomenologia e psicologia della forma, Lulu.com, 2013), che prende le mosse da un breve racconto qui riferito [p. 211]. Durante una passeggiata serale su una collina da cui si gode un bel panorama sulla valle del Reno, Husserl racconta di aver visto senza particolare attenzione una fila di luci lontano nella valle. Naturalmente si tratta di un intero strutturato - la parola "fila" allude appunto ad una forma di ordinamento ed in forza di questa forma di ordinamento questo raggruppamento ci appare in modo unitario [p. 211]; ma poiché non prestiamo attenzione 166 ad essa, ci appare come "caso zero del ridestamento" [p. 212]. Questa fila è dunque qualcosa che vediamo e non vediamo - appartiene a quella che Husserl chiamerà, con espressione molto significativa, "anticamera dell'io". Supponiamo ora che avvenga una modificazione improvvisa, ed una delle luci di questa fila cambi il proprio colore, da bianca che era diventi rossa - oppure cominci a lampeggiare o ancora diventi improvvisamente più luminosa. In forza di questa modificazione veniamo colpiti da quel punto luminoso - avviene dunque un ridestamento. L'io si rivolge ad esso. Ma poiché questa modificazione è inserita in una struttura unitaria - la fila - la modificazione intervenuta in questo elemento della fila agisce sull'intera fila, facendola apparire con maggior evidenza. Ecco un buon esempio che illustra in che senso si parla di propagazione dell'affezione. La forza affettiva della luce singola che varia - e quindi introduce un elemento di contrasto - conferisce agli altri membri della configurazione ed alla configurazione stessa quello che Husserl chiama rilievo affettivo. La trasmissione della forza affettiva, vogliamo notarlo, avviene qui dalla parte all'intero. E ciò naturalmente soggiace a certe condizioni. Ad esempio se la luce singola diventa troppo intensa, quindi se il contrasto è troppo forte può essere che essa assorba su di sé tutta la nostra attenzione, impedendo ed ostacolando la stessa manifestazione della fila come intero [p. 212]. La propagazione, che nell'esempio prendeva l'avvio da una parte all'intero, può peraltro verificarsi anche nella direzione inversa. Possiamo infatti supporre - senza variare l'esempio iniziale - che la fila ci abbia anzitutto colpito come tale, quindi l'intero stesso abbia la massima forza affettiva. Ma ciò significa che questa forza si propaga anche ai singoli componenti della fila che assumono rilievo ad un tempo come luci singole e come luci strutturate in una fila. 167 "Da questi esempi scorgiamo anche un'importante differenza relativa al modo di datità degli oggetti per il soggetto di coscienza. Talora la datità dell'intero... precede le parti, talora la datità delle parti precede invece l'intero. Ciò dipende dalle mutevoli condizioni dell'affezione, e fondamentalmente dalle condizioni che determinano oggettivamente l'unità delle cose"[p. 213]. Si spiega così in questo esempio sia la nozione di propagazione dell'affezione sia quella delle regole e delle condizioni di essa. Un altro esempio, diversamente orientato ma significativo, è quello di un suono inizialmente forte - che prima prevale su altri suoni dell'ambiente circostante proprio per la sua intensità e che attrae su di sé il nostro interesse e che poi va spegnendosi ed indebolendosi a poco a poco. Questo suono quando passa nel pianissimo non verrebbe nemmeno avvertito se la forza affettiva iniziale non si propagasse e non sostenesse la nostra attenzione lungo tutto il decorso sonoro. Noi manteniamo ancora la nostra presa uditiva su una melodia che va spegnendosi proprio in quanto siamo stati colpiti dal suo inizio e il nostro orecchio segue il suo percorso anche se da un punto di vista obbiettivo risulta sempre più difficile districarla dal contesto sonoro globale. Un altro esempio: se risuona una melodia che io odo appena, ma ad un certo punto sono colpito da un suono di essa particolarmente dolce, allora non è solo quel suono che assume rilievo affettivo, ma l'intera melodia: "Questa singolarità non ci colpirà intensamente soltanto per sé, ma d'un tratto emergerà l'intera melodia nella misura in cui essa è ancora viva nel campo del presente; l'affezione si irradia quindi all'indietro nell'elemento ritenzionale, agisce anzitutto dando risalto unitario ed allo stesso tempo agisce e penetra nelle emergenze particolari, nei singoli suoni, promuovendo un'affezione particolare"[p. 213]. 168 128. Questi ultimi esempi mostrano che il tema della propagazione vale naturalmente anche nella dimensione temporale e in particolare nella direzione delle ritenzioni e delle protenzioni. Husserl sottolinea un punto particolarmente importante: le ritenzioni implicano una modificazione, ma una modificazione puramente temporale, e da una modificazione temporale non può venire una modificazione del contenuto, della sua struttura e delle sue relazioni. Questa osservazione è formulata da Husserl in questi termini: "...è implicito nell'essenza della modificazione ritenzionale che essa non modifichi le affinità contenutistiche e i contrasti nel modo in cui ha luogo la modificazione oggettiva all'interno della chiarezza"[p. 213-214]. La "nuova dimensione del confondersi delle differenze, un crescente annebbiamento, un oscuramento" [p. 214], che è una conseguenza della ritenzione, ha come conseguenza ulteriore l'attenuarsi in via di principio della forza affettiva, non nel senso della sua totale dissoluzione, ma nel suo passaggio alla latenza. Perciò è possibile la propagazione dell'affezione in direzione del passato più vicino e del passato più lontano. L'affezione può essere retroattiva [p. 214] e ciò ha naturalmente un duplice senso: da un lato un "raggio" ridestante può partire dal presente e ridestare un dato passato. Questo dato ridestato ha sua volta la capacità non solo di ridestare altri eventi passati ma anche quello di rivolgersi al campo del presente e sollecitare nuovamente la soggettività esercitando su di essa la propria forza affettiva. Vi è dunque anche una latenza affettiva del passato. 129. Escogitiamo un esempio ad hoc. Supponiamo che di fronte ad una frase del tutto innocua pronunciata da un mio amico io reagisca in una forma spropositata - con un comportamento che non può essere giustificato dalla lettera di quella frase e nemmeno dalla situazione reale attuale - ad esempio, con una reazione 169 verbale fortemente adirata mentre nulla giustificherebbe questa ira. Una spiegazione potrebbe invece trovarsi nella forza affettiva del passato, nel fatto ad esempio che in quella frase era contenuta anche solo una parola che ridestava un evento passato, e non in forma direttamente memorativa. Potremmo dire: viene ridestato non tanto il ricordo dell'evento passato, quanto la forza affettiva di esso, forza che si propaga al presente proiettando su di esso quel contesto che potrebbe giustificare il mio incomprensibile comportamento. Naturalmente non è affatto necessario che ciò avvenga sul piano della consapevolezza. 130. Se parliamo di ridestamento all'indietro - che riguarda sia le ritenzioni che i ricordi in senso proprio - forse ci sentiamo autorizzati a parlare anche di "ridestamento in avanti, verso il futuro". Così almeno si esprime Husserl in realtà ricollegandosi alla problematica della protenzione e delle attese protenzionali. Si tratta propriamente di proiezioni associative rivolte al futuro - di anticipazioni e di attese fondate nel passato. Dal punto di vista terminologico Husserl parla di associazione primaria per l'associazione rivolta all'indietro e di associazione secondaria per l'associazione rivolta in avanti (che è secondaria in quanto è fondata sulla precedente che è caratterizzata anche come originaria). 28. Inconscio 131. Nelle nostre considerazioni precedenti il problema dell'inconscio affiora appena - o meglio: talvolta ci viene proposto in modo molto netto, molto deciso, ed in una forma che in certo ci coglie di sorpresa dal momento che non vi sono o almeno sembra che non ci siano né premesse né sviluppi per una simile tematica. Ad esempio l'esempio della passeggiata sulla collina di Loretto e della fila di luci nella valle del Reno, viene proposto dopo 170 un richiamo molto netto proprio al problema dell'inconscio. "L'affezione giocava ovunque un ruolo, e lo stesso può dirsi anche per la trasmissione ridestante dell'affezione e quindi per l'associazione. Sorge così il seguente problema: non sono forse soltanto l'affezione e l'associazione che - nel loro dipendere secondo una legge dalle condizioni essenziali della formazione dell'unità e nel loro essere co-determinate da nuovi tipi di leggi essenziali - rendono possibile la costituzione degli oggetti esistenti per sé? Non vi sono potenze contrapposte che, secondo una legge, indeboliscono, ostacolano e, non lasciando più affermarsi l'affezione, rendono anche impossibile il realizzarsi di unità che esistano per sé, unità che quindi senza l'affezione non si sarebbero in generale realizzate? Si tratta di problemi molto difficili da risolvere, difficili in particolare quando noi, dalla sfera del presente vivente vogliamo penetrare... nella sfera del passato e rendere comprensibile il ridestamento riproduttivo. Non ho bisogno di dire che a tutte queste considerazioni che stiamo conducendo può anche essere dato un titolo famoso: quello di "inconscio". Si tratta quindi di una fenomenologia di questo cosiddetto inconscio"[p. 211]. Il racconto della passeggiata sulla collina di Loretto avviene proprio dopo questa affermazione, al fine di cominciare con il preparare questo difficile problema, come dice Husserl: "al fine di gettare qualche luce fenomenologica su questa notte" [p. 211]. Ma vi sono almeno due altri passi significativi in cui il problema dell'inconscio è richiamato in modo molto netto. "Solo una teoria radicale che soddisfi allo stesso modo la costruzione concreta del presente vivente e quella delle singole concrezioni che si formano a partire dagli elementi costitutivi può risolvere l'enigma dell'associazione e con questo tutti gli enigmi dell'"inconscio" e del mutevole "divenire cosciente"" [p. 223]. 171 Si tratta di una frase particolarmente impegnativa che connette strettamente la tematica dell'inconscio con quella dell'associazione: i chiarimenti sulle forme e sui dinamismi associativi debbono necessariamente portare chiarimenti su ciò che si può intendere, dal punto di vista fenomenologico, come inconscio. Il l'altro passo riguarda la ritenzione, e dunque quell'annebbiamento (Vernebelung) che caratterizza lo sprofondamento ritenzionale di tutte le cose che prima erano vivacemente presenti e che ora "sono sprofondate in un'unica notte, che sono diventate, in senso peculiare, inconsce" [p. 230]. 132. Per quanto siano brevi questi cenni non possiamo lasciarli privi di qualche commento. Intanto va subito detto che siamo qui in presenza di puri e semplici spunti che non vanno sopravvalutati e sono lontanissimi dal configurare una elaborazione teorica vera e propria. E sarà bene anche evitare di fare un confronto troppo diretto con quelle che sono invece grandi elaborazioni teoriche come quelle che appartengono alla tradizione psicoanalitica nel senso ampio del termine. Occorre infatti stabilire in via preliminare in che modo un simile confronto - che prende le mosse da una sproporzione di elaborazione così vistosa - sia sensatamente effettuabile. D'altra parte vi è anche un'altra ragione che suggerisce la cautela, sotto questo riguardo: l'assenza di qualunque rimando, anche molto di sbieco, a nomi come quelli di Freud e di Jung che all'epoca erano già certamente nomi altisonanti, non credo debba ritenersi casuale. Certamente non risulta che Husserl avesse di questi autori una qualche particolare conoscenza - ma il punto del problema non sta qui. In realtà, nello spirito delle considerazioni di Husserl, il problema dell'inconscio si pone anzitutto in certo senso al livello più basso, cioè al livello di un inizio di chiarificazione del significato o dei significati possibili del termine - al livello dunque in cui si situano tutte le ricerche che stanno alla base di queste lezioni. 172 In certo senso dunque si fa valere, proprio per attingere questo piano, una sorta di implicita messa in parentesi di teorie evolute - manifestando anche in questo modo quel radicalismo nell'impostazione problematica che viene così spesso rivendicato in queste pagine. Un indagine radicale deve portare ad un ripensamento che implica anche una messa da parte delle elaborazioni dottrinali per quanto possano essere ricche ed anche feconde di risultati su diversi piani. 133. Mettiamo dunque tra parentesi tutto ciò che sappiamo per via diretta o indiretta dell'inconscio a partire dalle elaborazioni psicoanalitiche. E delimitiamo il nostro compito non già alla costruzione di una teorizzazione che farebbe comunque parte di una teoria della soggettività nel senso più stretto del termine, ma all'esigenza preliminare di un chiarimento sulla nozione di inconscio. Il modo poi con cui affrontiamo questo compito non differisce dal nostro metodo generale - ed è anzi proprio questo riferimento metodico che conferisce all'indagine un andamento così singolare: anche in rapporto agli "enigmi dell'inconscio dobbiamo fare riferimento alle evidenze di primo livello" che sono quelle evidenze che appartengono alla sfera del presente, quelle evidenze cioè che sono inerenti all'esperienza stessa nella sua struttura. Indagando questa struttura cominceremo con l'apportare i nostri primi chiarimenti. "Solo una teoria radicale che soddisfi allo stesso modo la costruzione concreta del presente vivente e quella delle singole concrezioni che si formano a partire dagli elementi costitutivi può risolvere l'enigma dell'associazione e con questo tutti gli enigmi dell'"inconscio" e del mutevole "divenir cosciente". D'altra parte, tutti i motivi di una teoria scaturiscono dalle evidenze di primo livello, da quelle che sono per noi necessariamente il punto di partenza: le evidenze che si trovano nei fenomeni del presente vivente che è, per così dire, fino in fondo strutturato" [p. 223]. 173 134. Vi è un modo di articolazione e di strutturazione (Gestaltung) del presente - ed è questa strutturazione che impone già essa stessa che si parli di inconscio. Ma impone anche che se ne parli secondo una determinata inclinazione, secondo alcune prese di posizione sufficientemente precise per quanto elementari. La dimensione del presente è la dimensione della presenza - nel duplice senso soggettivo e oggettivo insieme - la chiara presenza dell'oggetto ad una soggettività che lo esperisce e nello stesso tempo la chiara presenza della soggettività a se stessa, l'esplicito io percepisco questo e quello, io mi muovo, ed eventualmente io voglio, io giudico, io desidero, ecc. Ma a poco a poco la descrizione della presenza diventa più complessa. E lo diventa soprattutto quando si apre la tematica dell'affezione. L'essere desto dell'io si propone allora come un essere desto relativamente ad un determinato interesse, e questo interesse a sua volta come un interesse ridestato da una forza impulsionale, da una forza affettiva. Questo legame tra una fenomenologia dell'affezione e una fenomenologia dell'interesse è forse in queste Lezioni husserliane troppo poco sottolineato: e non ci si richiama mai, se non vado errato, né alla circostanza che alle spalle della nozione di interesse vi è forse il tema del desiderio e alle spalle del desiderio quello del bisogno e dell'istinto; così come non si parla mai di forze affettive che promanano per così dire dall'interno della vita soggettiva. Si tratta indubbiamente di uno dei limiti importanti della esposizione di Husserl su questo tema. Un altro limite particolarmente rilevante è la nettezza con cui viene delimitata l'azione dell'associazione all'interno di un unico campo sensibile - cioè vi è una condizione di omogeneità che è ovvia per ciò che concerne il dato percettivo come tale, assai meno ovvia in rapporto alle funzioni immaginative. Naturalmente non ha senso parlare sotto il profilo percettivo, di un suono giallo - lo ha invece sotto quello immaginativo. Del resto, pur dando un così largo spazio alla tematica dell'associazione e delle sintesi, nelle Lezioni sulla sintesi 174 passiva non si allude mai ad una tematica corrispondente relativa all'immaginazione ed alle relazioni tra percezione e immaginazione, che peraltro è largamente presente nell'opera inedita. Per entrambi i limiti che ho voluto qui segnalare, va detto che in particolare nei manoscritti più tardi Husserl ha manifestato un interesse molto vivo sia per la tematica della rappresentazione immaginativa sia per quella degli istinti e quindi della vita emotiva in genere. Nam-In Lee ha pubblicato nel 1993 un volume interamente dedicato agli inediti di Husserl intolato Edmund Husserls Phänomenologie der Instinkte (Kluwer, Dordrecht, 1993). La possibilità di un'analisi estesa anche ai vissuti intenzionali del desiderio e della volontà è adombrata già nella Quinta ricerca logica (cfr. ivi, p. 43). In particolare nella parte seconda, cap. II del libro di Nam-In Lee, si mostra come Husserl riprenda la tematica della sintesi passiva ed i concetti elaborati nelle Lezioni sulla sintesi passiva proiettandoli su questo terreno (cfr. pp. 97 sgg.). Gli inediti pubblicati dalla Husserliana, XXIII, nel volume intitolato Phäntasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschaulichenVergegenwartigungen. Texte aus dem Nachlass (1898-1925), a cura di E. Marbach, Nijhoff, The Hague 1980, mostrano l'ampiezza degli interessi di Husserl nei confronti dei rapporti tra le rappresentazioni percettive, immaginative e memorative. Su questo argomento si potranno in ogni caso consultare i seguenti testi: L. Di Pinto, Nexus tra immaginazione e sintesi passive in Edmund Husserl, Laterza, Bari, 1999; V. Ghiron, La teoria dell'immaginazione di Edmund Husserl, Marsilio, Bologna, 2001. 29. Gradazioni dell'affezione e livelli di consapevolezza 135. Il problema del presente si propone da una diversa angolatura quando cominciamo a proporre il problema dell'affezione. In effetti nella destità non vi è soltanto il puntuale essere rivolto 175 dell'io verso un oggetto, ma vi è, vorremmo quasi dire, un orizzonte della destità che è un orizzonte di forze affettive latenti. Il campo dell'attualità, quindi il campo della consapevolezza, non è rappresentabile come una zona interamente attraversata dalla luce, oppure come un raggio che si dirige su un unico punto, ma è fatto per così dire di gradazioni dell'affezione [§ 35]. Ci rendiamo conto allora che l'elemento inconsapevole fa essenzialmente parte dell'elemento consapevole, che la regione di luce è circondata da ombre. Parlare della "gradualità dell'affezione nel presente vivente" significa alludere a presenze assenti, a forze inattive, ma anche che sono pronte ad attualizzarsi - ed è anche importante notare che quella tematica del conflitto che è così presente già sul piano delle semplici emergenze è tutt'altro che abbandonata sul piano delle affezioni. Le forze impulsionali sono tra loro in conflitto per la loro affermazione - questa è una posizione di carattere generale che sarebbe erroneo vincolare solo agli esempi semplicissimi con cui talvolta qui sono sostenute. Un suono particolarmente dolce urge in certo senso alle nostre spalle, mentre stiamo parlando con un amico o sviluppando un complesso ragionamento: esso fa parte e non fa parte della mia consapevolezza, lo sento e non lo sento - si trova appunto nell'"anticamera dell'io" [p. 224]. E naturalmente vi è una lotta, un conflitto, tra questo suono e la mia attenzione verso l'argomento che sto sviluppando, così come tra questo suono e gli altri rumori che vengono dall'esterno, che io avverto confusamente, ma che non ascolto. Potrebbe anche esservi da parte mia una tendenza a resistere all'attrazione che quel suono udito e non udito provoca su di me - a persistere sull'argomento che sto trattando, a non lasciarmi fuorviare. Mentre l'io sta parlando, nella sala centrale che normalmente occupa o che vorrebbe occupare, nella sua anticamera avvengono molte cose, vi sono molti ospiti che premono, ospiti più o meno graditi, che talvolta si contestano tra loro, che spingono per 176 essere ricevuti. Ed allora non abbiamo forse ragione di sostenere che, volendo parlare di inconscio possiamo proprio cominciare di qui, che il problema dell'inconscio è un problema che si pone già a partire dalla struttura di ogni esperienza dell'attualità? Questo modo di approccio ha come iniziale filo conduttore l'idea dei livelli della consapevolezza, livelli che appartengono interamente alla struttura stessa della vita cosciente. Non vi è dunque la coscienza come consapevolezza da un lato, e l'inconscio dall'altro come una sorta di partizione della vita della soggettività, e tanto meno vi è l'idea di una vita autonoma dell'inconscio di cui la vita cosciente sarebbe un puro e semplice risultato. 136. Questo problema della gradualità riguarda anche - forse anzitutto - la dimensione temporale. Se cominciamo a porre il problema dell'inconscio in questo modo, a partire dalla struttura del presente, dobbiamo allora mettere in evidenza una sorta di legame non fattuale, ma di principio tra l'inconscio e il passato. È tempo ormai di parlare proprio del passato, non del passato puramente ritenzionale, di cui abbiamo sempre parlato fino a questo punto, ma del passato in senso pieno e proprio. 137. Se dovessimo rispondere alla domanda che chiede che cosa sia il passato nel contesto delle nostre considerazioni noi dovremmo dire che il passato è null'altro che oblio, che esso è qualcosa che è divenuto un nulla, è il risultato di un graduale annullamento, di un annebbiamento, di un progressivo oscuramento che è poi è trapassato in totale oscurità, in unica notte. E qui abbiamo nuovamente la possibilità di richiamarci all'inconscio, certo in un'accezione strettamente legata a questo sviluppo discorsivo. Il tema della gradualità dell'affezione si propone naturalmente anche in rapporto al processo ritenzionale: non solo la destità ha un orizzonte di latenze affettive, ma le attualità affettive che fanno parte della destità sono destinate ad attenuarsi nella loro forza affettiva in virtù del loro graduale sprofondamento 177 temporale - sono destinate a loro volta a trasformarsi in pure latenze, anzi ad azzerarsi. Questo azzeramento è l'estremo margine esterno della coscienza, è l'inconscio - ma si tratta di uno zero che non è tuttavia un nulla! Questa frase risuona più di una volta nel testo e noi ne abbiamo preso nota. Così come abbiamo preso nota del fatto che questa attenuazione della forza affettiva è dovuta alla componente temporale, e quindi alla mera forma temporale dell'evento e non al suo contenuto. Perciò essa non riguarda la capacità impulsionale dell'evento in se stesso. Un episodio della nostra vita può avere avuto per noi il significato di una bruciante sconfitta, di una delusione intollerabile, di un dolore immenso - eppure non vi è emozione tanto potente che non venga smussata, attenuata, dimenticata appunto con il "passare del tempo", ci possiamo appropriare di questo elemento di saggezza popolare facendola diventare una sorta di apriori della temporalità; ma anche possiamo affermare che qualunque delusione o sconfitta dimenticata può improvvisamente rinascere - ridestarsi intatta in tutta la sua violenza emotiva, in tutta la sua intollerabilità, in tutta la sua immensità. Dove è stata allora in tutto questo tempo? Come è possibile il suo ripresentarsi qui ed ora sbucando appunto dalla notte del passato? 138. A questo punto stabiliamo l'ultimo nesso importante: il titolo di inconscio è connesso con il passato così come è connesso con la possibilità del suo ridestamento, quindi con la tematica dell'associazione. Come possiamo constatare elaborando per nostro conto la tematica proposta, si viene profilando un'impostazione coerente, che contiene la promessa di sviluppi ricchi di senso, se vi sarà chi saprà raccogliere questi primi inizi. 178 30. Il ricordo improvviso 139. È solo con la tematica del ricordo che il tema dell'asso­ ciazione assume il suo senso più particolare (Sezione terza, cap. III), e ciò viene annunciato sin dal § 26, intitolato "Posizione e delimitazione di una teoria fenomenologica dell'associazione". Già in questo paragrafo si parla proprio del problema dell'associazione come ridestamento volto verso il passato, quindi della tematica della memoria. Rammentiamo anzitutto che, secondo la nostra terminologia, ricordare (rimemorare) non significa ritenere: la rimemorazione è qualcosa di interamente diverso dalla ritenzione. Nella ritenzione l'appena passato è ancora presente, in essa la soggettività guarda sempre avanti, mentre alle proprie spalle scivolano via a poco a poco i contenuti trascorsi. Nella rimemorazione invece la soggettività guarda alle proprie spalle, sospende in certo senso la direzione intenzionale verso il futuro, e si sofferma su un evento passato. Come già sappiamo tuttavia gli eventi passati non sono a nostra disposizione - come se bastasse il mutamento di direzione dello sguardo per afferrarli memorativamente. Al contrario: affinché si possa parlare di ricordo come rimemorazione è necessario che si sia costituito un passato autentico, e questa costituzione di un passato stabilisce un nesso stretto tra l'idea del passato e l'idea dell'oblio. L'evento passato ricordato è anzitutto un evento dimenticato. Il ricordo opera il movimento inverso dell'oblio, è un rendere presente un'assenza. 140. Naturalmente occorre precisare che con ricordo non intendiamo la rappresentazione vuota di un evento, ad esempio, il fatto che nel 1980 siamo stati in vacanza sulla costa amalfitana: il ricordo inteso così potrebbe essere qualcosa di simile ad un deposito di cognizioni che riguardano la nostra vita, come la nostra data di 179 nascita. Ricordiamo la nostra data di nascita - ed è una data che potremmo anche dimenticare; ma questi modi di impiego di verbi come dimenticare o ricordare sono del tutto marginali rispetto alla nostra discussione, ed hanno del resto un senso interamente diverso. Quando parliamo di attività rimemorativa intendiamo l'effettivo ripresentarsi di un evento che abbiamo vissuto, il ricordo non è qui una rappresentazione vuota, ma una rappresentazione intuitiva: non dunque la data associata ad un evento, ma il rivedere con gli occhi della memoria quell'evento, quel paesaggio marino, il risentire i momenti di un dialogo con amici, anzi il risentirne quasi la viva voce. 141. Questa precisazione ci fa comprendere meglio la natura del problema che ci accingiamo a porre: lasciando da parte tutte le questioni che potrebbero essere sollevate su che cosa significhi propriamente ricordo intuitivo e in che modo questa scena memorativa che ora rivedo si contraddistingua dalla scena percettiva, la prima domanda che vogliamo porci è: come fanno a sorgere i ricordi? E ciò è quanto dire: come fa un evento passato, che è in via di principio privo di forza affettiva o meglio che è forza affettiva meramente latente, a riemergere al livello della coscienza? La risposta la conosciamo già: il principio che abbiamo più volte enunciato della centralità del presente non lascia dubbi in proposito. Una forza affettiva che appartiene al presente ridesta un evento passato, e questa peculiare forma di ridestamento è al tempo stesso una peculiare forma di sintesi, è uno sviluppo importante della tematica fenomenologica dell'associazione. Si noti che questo problema si annuncia in Husserl già nel flusso del decadimento ritenzionale. Qualcosa di simile ad un ridestamento improprio avviene già, per attenerci all'esempio efficace di Husserl, nel caso elementare di una successione di colpi 180 di martello. Il colpo successivo richiama il colpo precedente, frenando per così dire la sua caduta ritenzionale, ed in questo modo i due colpi possono accoppiarsi percettivamente. Si tratta in certo senso di un freno posto all'annebbiamento dei contenuti ritenzionali. Su questa situazione Husserl indugia abbastanza a lungo (§ 36) ma occorre sottolineare che si tratta di un ridestamento improprio: il fenomeno del ridestamento assume la sua massima pregnanza proprio nei confronti di un evento dimenticato. 142. All'improvviso, eventualmente mentre sto parlando, mi viene in mente una casa di campagna, in collina, una piccola stalla vuota, con la vecchina sotto il fico e il cagnetto che va avanti e indietro sull'aia con la catena che scorre su un filo teso attraverso il cortile. Un frammento del passato si è bruscamente ridestato. Ora la domanda che ormai ci aspettiamo a questo punto: come può il passato bruscamente ridestarsi? In effetti non ci contentiamo qui del puro dato di fatto che proprio ora mi ricordo questo e quest'altro. Non ci possiamo contentare di una simile constatazione e ci sono almeno due buoni motivi per non contentarci di essa: da un lato dovremmo ammettere che il passato abbia una forza che esso non ha; dall'altro, e questo secondo motivo ha una portata molto generale, dovremmo ammettere all'interno della vita di coscienza un evento privo di legami - un ricordo sbuca dal nulla, senza legame con nessun altro vissuto: ma questa circostanza comporterebbe l'ammissione di una incoerenza interna nel senso letterale di questa espressione. È chiaro infatti che il tema che stiamo cercando di elaborare rimanda all'idea della coesione interna della vita di coscienza, quindi dell'esistenza di nessi e legami tra ogni vissuto. Ciò non significa che la vita della soggettività non possa essere segnata da fratture, da scissioni e da conflitti profondi. Ma possiamo parlare di queste scissioni e di queste fratture solo con riferimento ad una coesione sulla cui base e sul cui sfondo si agitano le scissioni e i conflitti. Questa idea della coesione interna è a sua volta una 181 condizione per il riconoscimento di quella che Husserl chiama "legalità della genesi che domina la vita soggettiva" (p. 170). Parlare di una genesi che domina la vita soggettiva significa parlare di questa vita come di un processo unitario, di un divenire unitario - e il parlare di legalità della genesi allude appunto a legami strutturali che la regolano. Quindi questo evento - il ricordo improvviso - non può affatto essere ritenuto immotivato, così come qualunque altro evento della vita di coscienza, per quanto ci appaia alla superficie interamente privo di relazioni con altri vissuti. 31. L'associazione e la vita di coscienza 143. Non è difficile scorgere qui un tema di ordine generale che chiama in causa la comprensibilità stessa della vita di coscienza. La vita di coscienza è comprensibile solo nella misura cui si assume che in essa ogni evento abbia le proprie motivazioni in altri eventi. Questo problema si presenta già con particolare chiarezza in Schopenhauer che teorizza la necessità di estendere ciò che egli chiama principio di ragione sufficiente anche all'ambito della vita psichica: ogni evento psichico ha e deve avere le proprie motivazioni, cioè debbono esserci altri eventi che lo suscitano e rendono di esso ragione. Ed in realtà è proprio questo principio a cui si ricollega anche Freud quando si accinge ad un'analisi di quegli eventi profondamente incoerenti con la nostra normale vita di coscienza che sono i nostri sogni. Sia in Schopenhauer come in Freud tuttavia questa idea tende a confondersi con un'assunzione deterministica, come se l'accento dovesse cadere sul fatto che la vita di coscienza sia dominata da rapporti di causa ed effetto. Si tratta invece di nessi interni di vario tipo - in generale di nessi associativi, come ora stiamo sostenendo. 182 "Il titolo "associazione" designa per noi una forma e una legalità della genesi immanente che appartiene costantemente alla coscienza in generale" [p. 169]. L'associazione non è affatto qualcosa di analogo al nesso causale, ma è un fenomeno peculiare che organizza i dinamismi della vita di coscienza e che fa tutt'uno con l'unità temporale come fondamento della vita di coscienza. "..appare ben presto chiaro che la fenomenologia dell'associazione è, in certo senso, una prosecuzione ad un più alto livello della teoria della costituzione originaria del tempo" [p. 170]. 144. Esaminiamo il nostro semplice esempio del ricordo improvviso: alla domanda come può il passato bruscamente ridestarsi rispondiamo che qualcosa nel presente deve avere agito da elemento ridestante di quella scena memorativa passata: l'abbaiare di un cane, ad esempio: e questo suono che ci raggiunge appena ecco che fa sorgere all'improvviso quella scena remota, la casa sulla collina, la vecchina sotto il fico, ecc. Tutto ciò avviene ancora forse relativamente alle mie spalle - io continuo ancora il mio discorso, oppure potrei abbandonarmi al ricordo. E abbandonarsi al ricordo significa lasciarsi trascinare da una vera e propria catena di ridestamenti. Questa catena ha inizio nel presente - e non può che avere inizio dal presente. Il presente ricorda il passato: Dice icasticamente Husserl [p. 170]. Non solo: il primo passo di questa catena non può che essere dovuto a una qualche somiglianza - ricordando le regole humeane dell'associazione della contiguità e della somiglianza: in effetti in rapporto al primo passo della catena non avrebbe senso parlare di un ridestamento per contiguità. Se consideriamo la vicinanza temporale abbiamo al più dei ridestamenti impropri, nel senso in cui ne parlavamo prima, a proposito dell'esempio della successione dei colpi di martello. La contiguità ci fa restare nelle vicinanze del presente. 183 Il passato deve invece essere raggiunto di salto - quindi attraverso una sintesi a distanza, e perciò attraverso una sintesi di somiglianza. La catena dei ricordi può poi procedere in molte direzioni, e talvolta la regola sarà la contiguità: la scena memorativa ridestata, che ha una sua localizzazione temporale nel passato, a sua volta mi ricorda un evento avvenuto poco prima o poco dopo; e la nuova scena memorativa che in questo modo è stata richiamata suscita per somiglianza un ricordo ancora più lontano oppure inversamente un avvenimento molto più vicino al presente. Lo stesso impiego linguistico corrente non parla soltanto del ricordare questo o quell'evento, io ricordo questo e quest'altro, ma anche questo mi ricorda quello e addirittura questo ricorda quello - addirittura, perché sembra quasi, omettendo il riferimento a me stesso, che il rapporto memorativo sussista tra gli eventi stessi. 145. Si inizia così un percorso del ricordo, un itinerario che attraversa il passato: si forma una catena di ricordi che è attraversata da un'unità che è data unicamente dal rapporto di ridestamento. Nello stesso tempo questo itinerario in sé unitario non costituisce affatto un paesaggio unitario, come accade ad esempio quando seguiamo un sentiero in una passeggiata. Proprio per il fatto che questo percorso è guidato dall'associazione il paesaggio muta spesso all'improvviso. Il passato, che noi ritroviamo sotto le forze attive del presente, si ricostituisce in un'essenziale discontinuità e frammentarietà. Il processo della rimemorazione può essere dunque distinto in tre livelli tenendo conto dell'associazione e del modo del ridestamento: il primo livello riguarda propriamente quella che abbiamo chiamato ridestamento improprio, e cioè la formazione delle sintesi di ridestamento all'interno del presente esteso secondo l'esempio della successione dei colpi di martello. Il secondo livello riguarda il ridestamento retroattivo, cioè il livello del "ridestamento delle rappresentazioni della sfera di grado 184 zero" - dove non si intende ancora il ricordo in senso proprio ma il puro affiorare di un contenuto dimenticato (o comunque non presente) senza essere esplicitamente rivolti ad esso e come un contenuto ancora vago, indistinto non ancora caratterizzato dall'intuitività. L'intuitività, nel senso che abbiamo spiegato, caratterizza invece il terzo livello, la rimemorazione vera e propria. 146. Nella possibile tipologia delle forme del ricordo vi è il ricordo ingannevole, il ricordo falso. In che modo è possibile che ricordiamo qualcosa che in realtà non è avvenuto? Poiché il ricordare è inteso qui anzitutto come riproduzione del passato, la risposta a questa domanda va ricercata nella possibilità che il ricordo ingannevole sia il risultato di una confusione tra ricordi, confusione che a sua volta deve essere ricondotta alla tematica dell'associazione. Questo problema, che qui non viene sviluppato, suggerisce tuttavia il pensiero che se è possibile che dai ricordi sorga una formazione immaginaria (nel senso di fittizia, illusoria), è inversamente possibile che certe formazioni immaginarie sorgano da ricordi, che vi sia una connessione tra produzione immaginativa e ricordo, senza che la formazione immaginaria abbia lo stesso significato di formazione fittizia o illusoria. "Appartengono all'ambito di questi fatti i fenomeni, per noi di particolare interesse, della scissione delle rimemorazioni in rimemorazioni che, per utilizzare il nostro modo di esprimerci, si sono sovrapposte le une alle altre in modo tale che le immagini memorative di passati distinti si sono fuse nell'unità di un'immagine illusoria. Il problema della fusione delle rimemorazioni conduce inoltre a questo quesito: in quale misura anche le semplici fantasie ci riconducono, attraverso l'analisi intenzionale, a rimemorazioni, quindi in che misura, secondo il loro contenuto intuitivo, esse sono il prodotto della fusione di rimemorazioni?" [p. 175]. 185 32. La concatenazione e gli anelli intermedi 147. Nel § 26 è già annunciata la tematica della catena dei ricordi - attraverso la nozione di associazione [=ridestamento] mediata e immediata. Se A ridesta B e B ridesta C l'associazione tra A e B e tra B e C è immediata, mentre è mediata l'associazione tra A e C. B fa da membro-ponte, rammentando la terminologia di cui ci eravamo già serviti nelle analisi precedenti. Dietro questa semplice indicazione dobbiamo intravedere l'importanza del problema della concatenazione così come del resto il presumibile ripresentarsi del problema dell'inconscio sotto nuove forme. È interessante notare che Husserl rammenta, a proposito delle associazioni mediate e immediate, che gli anelli intermedi possono anche passare relativamente inosservati in quanto siamo più fortemente attratti dall'elemento terminale che attraverso di essi è stato raggiunto. Gli anelli intermedi passano inosservati (avvertiti-inavvertiti) perché sono sovrastati dalla maggior peso che ha l'elemento finale della catena. "Quando un membro finale, spesso molto mediato, ci attira particolarmente il nostro interesse sorvola sugli altri membri. Questo membro finale ci si dà allora come un lampo; l'intera connessione associativa decorre sì nella coscienza, ma non le prestiamo un'attenzione particolare. Per esempio: durante una conversazione ci viene in mente uno splendido paesaggio marino. Se riflettiamo sui motivi per cui ci è venuto in mente allora troviamo, per esempio che una piega della conversazione ce ne ricorda immediatamente una simile formulata l'estate scorsa al mare in una festa. La bella immagine del paesaggio marino si è però interamente impadronita dell'interesse" [p. 174]. Ma si comprende subito che questa non è che una possibilità elementari tra le tante e l'elaborazione di queste possibilità cer- 186 tamente ci dovrebbe portare di fronte ad un nuovo approfondimento del problema dell'inconscio. Si pensi ad un contenuto memorativo particolarmente sgradevole per la soggettività che pur essendo ridestato viene immediatamente viene oltrepassato verso un evento contiguo del tutto insignificante. Esso funge così da anello intermedio che viene tuttavia nascosto, benché resti attivo. Una simile situazione richiederebbe la considerazione di forme di conflittualità che sono responsabili della copertura di un contenuto memorativo. La nozione di inconscio qui in questione sarebbe più complessa dei casi considerati in precedenza così come si affaccerebbe un'idea dell'oblio che non sarebbe legata al solo fattore temporale ma ad un dinamismo interno della vita di coscienza. L'evento obliato non avrebbe solo una forza affettiva latente ma questa forza sarebbe in ogni caso attiva, anche se appunto la sua azione è, in un senso peculiare, inconscia. Questa è tuttavia una nostra digressione piuttosto che una discussione contenuta nel testo. 148. Il tema della fusione e della confusione tra i ricordi viene ripreso nella Quarta sezione, e precisamente nel Capitolo primo. In esso si presenta un tentativo di approfondimento del problema della confusione tra i ricordi che, pur non andando molto lontano, ribadisce quella che è la tendenza principale della tematica husserliana: la tendenza ad insistere sui dinamismi interni della vita di coscienza, sugli elementi conflittuali, su quella che egli spesso chiama la "contesa" (Wettstreit) tra istanze diverse. In certo senso questa discussione che compare al termine del testo ci rammenta la problematica della modalizzazione, benché l'argomento sia profondamente diverso. Un tema su cui si insiste in modo particolare è quello della somiglianza che da un lato eccita il ridestamento, ma che talora può anche frenare ed ostacolare l'affiorare del contenuto ridestato. Questo tema può essere illustrato in particolare pensando alla somiglianza tra ricordi. Il fatto che un certo contenuto memorativo 187 A sia simile ad un contenuto B, può far sì che A ridesti B, ma anche che B venga confuso con A, e quindi che A impedisca a B di manifestarsi, o almeno di manifestarsi con piena chiarezza. Il problema generale è in ogni caso chiaro: dal punto di vista da cui ci disponiamo il problema di come possano darsi "illusioni nell'ambito della rimemorazione" non può essere posto e risolto in modo ovvio. Sembra anzi quasi contraddittorio - data la nostra caratterizzazione del ricordo. Il ricordo lo abbiamo infatti definito come "mera riproduzione": alla sua base c'è un presente trascorso. Come possiamo allora parlare della sua falsità? Donde deriva il carattere ingannevole possibile del ricordo? Esso non può derivare dalla rimemorazione come tale, perché in tal caso essa sarebbe "stranamente produttiva" - osserva Husserl - ma deve necessariamente derivare da un gioco psichico più o meno complesso che riguarda la "compenetrazione di ricordi appartenenti a passati diversi" [p. 257]. Si tratta dunque di ricercare spiegazioni dinamiche, nelle quali quella sovrapposizione, quella coincidenza di cui abbiamo così spesso parlato in rapporto alla somiglianza tende ad assumere una funzione di ricoprimento piuttosto che di ridestamento. 149. Un altro esempio in direzione analoga. P ridesta R. Si dànno allora diverse possibilità. Può essere che la scena memorativa stenti ad emergere, ma si annunci debolmente nel presente, in qualche modo il senso della scena che ho di fronte tende a mutare. Ma può anche darsi che la scena memorativa R si imponga con tanta forza da saturare l'intero campo temporale - in una parola: siamo immersi nel passato. Ma se solo solo frammenti del passato riescono ad aprirsi un varco verso la riproduzione memorativa sovrapponendosi a frammenti del presente decorrente, allora si creano fusioni e possibili conflitti. Si tratta di casi di conflitti che hanno la loro analogia con i conflitti all'interno di un campo sensibile. In casi come questi non si può avere la "piena intuitività" del ricordo. Un ricordo pienamente intuitivo 188 richiede che il presente percettivo passi sullo sfondo, e che noi siamo pienamente immersi nel passato. Ma vi sono casi intermedi in cui il passato balugina attraverso il presente, l'uno traspare attraverso l'altro. 33. L'associazione al futuro 150. Il tema dell'associazione non deve essere visto solo nei confronti del passato, ma anche del futuro. Non vi è solo l'associazione riproduttiva, ma anche l'associazione induttiva, cioè l'associazione che opera proiezioni e anticipazioni nel futuro. "Per il vero, una compiuta fenomenologia del ridestamento riproduttivo concerne ed esaurisce solo un lato di questo problema, cioè quello relativo alla costituzione del proprio passato, del proprio essere-stato nell'infinità del tempo immanente. Vedremo infatti che la parte complementare, l'altra metà del problema è costituita dal dominio della fenomenologia dell'associazione induttiva, dell'asso­cia­zione anticipatrice"[p. 176]. Questo è il tema del Capitolo quarto della Terza sezione che riguarda il fenomeno dell'attesa e che rappresenta forse l'effettivo capitolo culminante dell'intera opera. Come suo risultato collaterale, in esso si chiarisce nuovamente l'importanza del rapporto con Hume e lo spostamento di accento e di senso che la problematica humeana subisce in questa rielaborazione fenomenologica del problema dell'associazione. Ciò che si tratta di fare ora è, naturalmente, riprendere la problematica della protenzione tenendo conto dei punti di vista emersi in precedenza e in particolare della problematica del ridestamento. Come abbiamo visto or ora Husserl parla di associazione induttiva, ma anche, talvolta, di ridestamento orientato verso il futuro, un'espressione che certamente può suonare sin- 189 golare, ma che è tuttavia giustificata per due ordini di ragioni. La prima sta in una precisa simmetria problematica che riguarda soprattutto la necessità di distinguere l'attesa nel senso qui in questione dalla protenzione. Naturalmente questi due termini si trovano in certo senso l'uno nell'altro. Per le nostre esigenze attuali è opportuno invece distinguere un senso ristretto di attesa secondo il quale questo termine verrà distinto dalla protenzione esattamente come il ricordo dalla ritenzione. L'attesa, in questo senso ristretto, travalica per così dire le sintesi della continuità protenzionale, e dunque ciò che è direttamente e immediatamente proposto nella protenzione, operando una vera e propria evocazione, sia pure ancora passiva, di un evento futuro. Possiamo ammettere che, a differenza della ritenzione, in cui la distinzione tra ritenzione e rimemorazione è più netta, in questo caso si tratta di una distinzione più sfumata. Volendo eludere descrizioni psicologizzanti, conviene sottolineare che, mentre condizione necessaria delle protenzioni è la continuità, l'attesa nell'accezione che vogliamo ora assumere ha come condizione la discontinuità. Il futuro scaturisce "dalla protenzione continua [stetig] e discreta [diskret] secondo le leggi della formazione dell'attesa" [p. 246]. Ciò significa: una cosa sono le anticipazioni fondate sulle ritenzioni immediate, sul passato prossimo - queste anticipazioni fanno per così dire corpo con lo sviluppo stesso della percezione; ed un'altra sono le anticipazioni che chiamano in causa un passato più lontano. 151. Esemplificativamente: un conto è attendersi una certa evoluzione delle scene percettive nell'osservazione di un oggetto e nel mutamento del punto di vista, ed un'altra è attendersi un colpo, se sono in prossimità di un tale che si limita ad alzare un fucile. Anche in questo caso si tratta di un fenomeno della passi- 190 vità, nel senso che l'attesa sta qui non nello aspettare qualcuno o qualcosa, ma nel semplice fatto che subito, di fronte a quel gesto, mi tappo le orecchie. Si vede qui in che senso ci si può richiamare ad una condizione di discontinuità: non vi è nulla nelle ritenzioni immediate che induca l'attesa di uno sparo per il semplice fatto che esso non ha ancora avuto inizio. L'evento sonoro atteso è, considerato al presente, effettivamente qualcosa di nuovo. Ed in questo senso vi è una proiezione che supera la stessa continuità del presente. Ma naturalmente, e qui veniamo alla seconda importante ragione che rende conto dell'espressione di ridestamento al futuro, ciò non significa per nulla che una simile attesa non abbia a che vedere con il passato. Al contrario: di essa possiamo rendere conto solo ricollegandoci alla tematica del ridestamento verso il passato. La proiezione effettuata è di fatto una proiezione che viene dal passato, è un passato che per così dire viene gettato in avanti. Riflettiamo brevemente sull'esempio semplicissimo dello sparo. Chi non sa assolutamente che cosa sia un fucile, e dunque non è in grado di associare quello strano oggetto con uno sparo non si tapperà le orecchie di fronte a quel gesto: se si tappa le orecchie, ciò significa che per lui si è stabilito quel nesso e non può che essersi stabilito in forza dell'esperienza passata. Ma il problema sta nel portare chiarezza sul meccanismo che è qui in gioco, sul suo senso e sulla sua portata. Nella discussione che Husserl compie si rievoca l'antico principio secondo il quale il simile richiama il simile e dunque anche: dal simile ci si aspetta il simile. Ma come interpretare questo principio che è naturalmente alla base del nostro stesso esempio e del problema generale che da esso si intravede? Di fatto noi potremmo dare di essa un'interpretazione ontologica o una interpretazione psicologica, o anche poteremmo intrecciare l'interpretazione ontologica con quella psicologica. Secondo l'interpretazione ontologica, potremmo 191 dire che questo principio si fonda nella natura stessa delle cose, nel principio di uniformità della natura, di cui potremmo dare varie giustificazioni oppure che potremmo assumere come una sorta di postulato metafisico o anche soltanto epistemologico. Secondo l'interpretazione psicologica, la nostra mente sarebbe fatta in modo tale da attendersi qualcosa di simile da un evento simile. L'interpretazione psicologica può poi fondersi con l'interpretazione ontologica, ed esattamente questo accade in Hume in cui il principio dell'uniformità della natura è una ipotesi empirica che si è dimostrata valida nella maggior parte dei casi, sia nelle cose della scienza che in quelle della vita pratica, e nello stesso tempo un'inclinazione psicologica della natura umana che naturalmente può trovare appoggio nell'interpretazione ontologica. La nostra mente inclina a pensare in questo modo, e questa inclinazione psicologica non ha trovato smentite particolarmente rilevanti o significative nella natura stessa. Il miracolo è appunto un evento eccezionale, mentre tutto si svolge per lo più secondo una norma interna che ci consente di aspettare ogni mattina il sole che sorge. 152. La nostra direzione interpretativa non procede invece né nell'una né nell'altra direzione, e tanto meno nel compromesso humeano tra l'una e l'altra. Per rendercene conto basta mettere in chiaro il meccanismo che qui è in gioco, meccanismo che è del tutto a portata di mano, semplice da capire e da afferrare e tuttavia evidentemente difficile da intendere nella sua dimensione più profonda. Sia dato per la prima volta un evento A seguito da un evento B. Sia dato in un tempo successivo un evento A' simile ad A. È subito chiaro che, in forza di tutto ciò che abbiamo sostenuto in precedenza, che vi sarà a partire da A' un ridestamento di somiglianza verso A. Ma allora anche un ridestamento per contiguità di B, ridestamento che assume la forma di un'attesa di un B' simile a B. 192 Ecco uno schema elementarissimo in cui giocano tutti i termini della nostra problematica e che rende conto della faccenda dello sparo. A sia il gesto del cacciatore che alza il fucile, B sia lo sparo che segue immediatamente a questo gesto. Si ripeta ora come A' il gesto del cacciatore. Allora il ridestamento verso il passato dello sparo, fa tutt'uno con la proiezione di uno sparo B' in quanto sparo atteso. Il ridestamento al futuro non è altro per così dire che una immagine speculare del ridestamento al passato. "La rappresentazione d'attesa è manifestamente caratterizzata come una rappresentazione di nuovo tipo, come una rappresentazione di secondo livello, come copia dell'originaria rappresentazione del passato" [p. 246-247]. Ora chiediamoci: abbiamo bisogno per difendere e sostenere questo schema di ricorrere all'idea dell'uniformità della natura, e quindi di giustificarlo sulla base di considerazioni fisiche o metafisiche particolarmente forti? Sembra di no. Ma non abbiamo nemmeno bisogno di postulare che vi sia nell'uomo una inclinazione psicologica a un'inclinazione a credere al principio "dal simile il simile". Parleremo piuttosto di una condizione della coerenza stessa dell'esperienza, di una condizione di possibilità dell'esperienza in generale. Avviene qui qualcosa di molto vicino a ciò che avviene quando, sul piano della semplice percezione di una configurazione percettiva, avvertiamo la presenza di una mancanza, come se la figura che vediamo disegnata alla lavagna avesse bisogno di una integrazione e noi cogliessimo percettivamente questo bisogno. Nello stesso modo la proiezione dell'evento B', l'attesa dello sparo, ha il carattere di un'integrazione necessaria di una configurazione che è stata per così dire aperta dal gesto del cacciatore. 193 34. Prima esperienza e ripetizione 153. È evidente che qui stiamo ripensando al problema originariamente humeano della formazione di abitudini, ma fin dai primi passi ci troviamo di fronte ad alcune significative novità. Intanto rimettiamo in questione, e in modo realmente più sottile, l'idea secondo la quale la ripetizione dell'esperienza rafforza l'attesa, quindi la funzione stabilizzante dell'esperienza passata. Questa idea, che ad occhio e croce ha una sua plausibilità, ha sempre fatto pensare che un'esperienza non ripetuta più volte non abbia alcuna stabilità e dunque che l'esperienza successiva ad un'ipotetica prima esperienza non possa che suscitare un'attesa del tutto vuota e indeterminata. Questa sembra essere una conseguenza logica dell'idea del rafforzamento tramite la ripetizione. Ed invece non lo è affatto, ed è addirittura un'assunzione che contrasta con i fatti più banalmente osservabili. Non sempre una ipotetica prima esperienza è una pura astrazione. Ad esempio, un selvaggio o un bambino piccolo possono non aver mai visto un fucile e non conoscere nulla del senso del gesto di alzarlo prima dello sparo. E siamo veramente certi che avremmo bisogno di sparare almeno venti volte presso le orecchie di un bambino prima che egli si turi le orecchie o scappi a gambe levate appena vede quell'oggetto e quel gesto? Una volta gli basta! E ci basta aver infilato una sola volta le mani in un braciere per non ripeterlo una seconda! È abbastanza singolare che circostanze così chiare possano essere nascoste da una falsa interpretazione di un principio che, come abbiamo detto, non è affatto sbagliato. Dal fatto che l'iterazione rafforzi l'attesa non consegue per nulla che una prima esperienza non sia in grado di determinare alcuna attesa. La logica vuole, mi sembra, che dal principio dell'iterazione consegua soltanto che l'attesa eventualmente determinata da quella prima esperienza sarà rafforzata dalla ripetizione e inversamente indebolita se l'evento atteso non si verifica. 194 154. Vogliamo esaminare più da vicino questo punto. Si dà anzitutto la coppia di eventi in successione A-B. Si dà poi A'. E si determina con ciò l'attesa di un B'. In che modo lo abbiamo spiegato. Vi è un ridestamento retroattivo per somiglianza, quindi un ridestamento per contiguità che assume forma proiettiva. Il proiettato è dunque B'. Supponiamo ora che questa attesa venga confermata più e più volte - in tal caso il nesso A-B tenderà a diventare sempre più stretto, fino ad apparire certo secondo quella peculiare modalità di certezza che è propria di questa struttura costitutiva. In altri termini: la possibilità che intervenga una delusione dell'attesa resta, ma è appunto solo un caso di possibilità aperta - il concetto è qui un poco mutato ma se ne comprende tuttavia l'applicazione. Non vi è nessun caso che ci fa propendere per questa possibilità. Rivediamo riassumendo e parafrasando la descrizione che Husserl dà di questa situazione. Si assume dunque che "in una precedente situazione coscienziale del passato lontano le circostanze C si siano costituite unitariamente e sia poi subentrato un q; e se supponiamo inoltre che ora, nella nuova situazione coscienziale attualmente presente si siano ripetute le circostanze simili C', allora, nel caso che i precedenti C e il loro q siano giunti al ridestamento, anche adesso il subentrare di q' come evento prossimo sarà motivato in maniera necessaria... Possiamo qui vedere la causalità motivazionale come una necessità; possiamo dire con evidenza: poiché in circostanze simili ho fatto esperienza di q, allora attendo q', e questo poiché-allora è dato in maniera evidente. Correlativamente: dal fatto che qualcosa si è verificato in circostanze precedenti simili inferisco "induttivamente" in piena evidenza che qualcosa di simile si verificherà adesso. Come ogni inferenza anche questa è dotata di necessità e conduce, nella generalizzazione essenziale ad una legge inferenziale evidente" [p. 248]. 195 "È inoltre evidente che la credenza anticipatrice dell'attesa può essere più o meno forte; vi è quindi una gradualità, e la forza cresce con il numero di "istanze" induttive, quindi con la frequenza dell'essere subentrato in circostanze simili. Allo stesso modo, ma in senso inverso, è chiaro che le tendenze motivate dell'attesa si ostacoleranno se, data la circostanza C sono subentrati ora q, ora r, ora s, che si escludono vicendevolmente. È altrettanto chiaro che gli incrementi e gli ostacoli della forza non si fanno avanti in modo meramente casuale, ma possono essere motivati in modo evidente" [p. 249]. Si possono poi dare altri casi, ad esempio l'evento atteso può variare, ma può anche accadere che uno dei vari eventi diventi dominante, ovvero si ripresenti più frequentemente, e si imponga come tale sugli altri. In tal caso nel corso del processo dell'esperienza è avvenuta quella che potremmo chiamare una selezione delle attese. Il rafforzamento o l'indebolimento può anche essere presentato in altra forma, come un rafforzamento o in un indebolimento che si avvale di una concatenazione di eventi successivi. Supponiamo che si sia sedimentata in una relativa stabilità la sequenza di eventi esperiti A B C D. Gli estremi della catena sono A e D. Ora sia dato A' - membro iniziale della concatenazione. Allora sarà atteso anche il membro finale D'- oltre che naturalmente i membri intermedi. Tuttavia l'attesa del membro finale sarà più forte se ad A' segue un B' e se un C' segue a B', cioè l'attesa di D' diventerà tanto più forte quanto più ricevono conferma gli elementi intermedi e tanto più forte sarà la "delusione" qualora la successione di eventi non chiudesse con D'. Potremmo esprimerci anche dicendo che la coscienza della mancanza di D' diventa sempre più acuta quanto più vengono riempite le attese degli elementi intermedi. 196 35. Il versante epistemologico della struttura delle attese 155. Tutto questo discorso è chiaramente volto su due versanti: per un versante esso guarda al problema della strutturazione dell'esperienza e in particolare, all'interno di questo problema, a quello del peso dell'esperienza passata nella determinazione delle formazioni di senso del presente e quindi anche nella determinazione delle attese future, attese che fanno parte del movimento stesso dell'esperienza. Si tratta dunque per un verso di un profondo ripensamento della tematica humeana dell'abitudine. Questa stessa parola viene impiegata da Husserl con esplicito riferimento a Hume: "Anche la forza di quest'attesa appercettiva cresce con il numero delle "istanze" - oppure con l'abitudine, il che è lo stesso" [p. 175]. Si tratta dunque di un tema - certo tutto da approfondire e da integrare nel quadro più ampio di una teoria della soggettività - che riguarda i processi della sintesi passiva fornendo una ulteriore esemplificazione del fatto che questi processi sono attraversate da regole fenomenologiche che possono essere portate alla luce: "Nella sfera ritenzionale vuota le forze, e con esse anche le forze dell'attesa, si sommano e si ostacolano alla cieca come ogni impulso; e tuttavia la tipicità e la legalità dell'attesa sono - lo vediamo - del tutto dipendenti sia dalla tipicità e dalla legalità dell'associazione riproduttiva sia - attraverso questa mediazione - da quella legalità dell'associazione originaria che ha luogo nella sfera del presente vivente" [p. 250]. Ma vi è anche un altro versante non meno importante rispetto al quale a mio avviso questa trattazione assume una funzione realmente esemplare. Si tratta del versante propriamente episte- 197 mologico. Più volte, nella nostra ripresa delle tematiche fenomenologiche, è risuonata una polemica anticonvenzionalistica, ed in particolare una critica di quell'atteggiamento ancora così diffuso che considera gli "assiomi" di una teoria per così dire senza impegno per la loro verità, per la loro evidenza - secondo le antiche formulazioni. Ma questa critica in realtà non intendeva riprendere queste antiche formulazioni in cui del resto sifaceva valere per lo più, sotto il profilo filosofico, una concezione psicologistica dell'evidenza. E nemmeno contestare le molte ragioni che rendono opportuno e interessante parlare degli assiomi anzitutto come pure assunzioni, al fine della stessa libera produzione di una possibile pluralità di sistemi teorici. La nostra critica riguardava piuttosto il totale abbandono del problema dell'evidenza come un problema epistemologico che non meritava di essere ridiscusso con criteri e modalità del tutto nuove. Proprio la questione della "causalità motivazionale delle attese" ci offre una dimostrazione realmente esemplare della possibilità di questa rimessa in discussione. In essa, considerata sotto il profilo epistemologico, è certamente incluso il concetto di probabilità, e si apre di conseguenza il problema di una possibile teoria della probabilità. Agli "assiomi" di questa teoria potrà appartenere la seguente formulazione: "La probabilità che si realizzi un evento B, se si è realizzato un evento A, è tanto maggiore quanto maggiore è il numero dei casi in cui la realizzazione di B è stata concomitante con la realizzazione di A" Si parlerà qui di assioma nel senso precedentemente indicato di mera assunzione che non ha bisogno di essere giustificata, non già perché essa sia evidentemente vera, ma perché viene posta semplicemente tra le proposizioni primitive della teoria. Si noti ora che questa formulazione è una formulazione ontologica - ovvero se si preferisce: una formulazione oggettiva, essa 198 parla di eventi, di frequenza nell'accadere di eventi, e dunque di probabilità di questo accadere. In questa formulazione abbiamo del tutto ragione nel non insistere sul problema della sua verità o falsità, della sua evidenza o non evidenza. Ad alcuni apparirà evidente. Ad altri poco e ad altri ancora proprio per nulla. Ma vi è un fatto realmente interessante che non possiamo certo trascurare: questa formulazione ontologica ammette una riformulazione fenomenologica, e ciò significa: in luogo di eventi parliamo di esperienza di eventi, in luogo di probabilità e di gradi di probabilità parliamo di attese e di gradi della forza delle attese. Realizziamo in altri termini una riformulazione soggettiva di una formulazione oggettiva e nello stesso tempo passiamo dal piano di una concettualità teoreticamente organizzata al piano dell'esperienza in cui questa concettualità ha origine. Operiamo il passaggio al terreno dell'"intuizione" - se vogliamo usare questo termine così discutibile, così abusato e incompreso. Ora su questo piano il principio del rafforzamento della probabilità con la frequenza dei casi è tutt'altro che un principio opaco, o dato in una "vaga intuizione", ma un principio, come ripete più volte Husserl del tutto evidente, dove la sua evidenza fa tutt'uno con il suo carattere di una vera e propria condizione trascendentale dell'esperienza. Io credo che alle obiezioni più volte affiorate sulla tematica fenomenologica dell'evidenza si possa rispondere semplicemente proponendo esemplificativamente proprio la nostra precedente discussione. Ma naturalmente questa discussione è anche un esempio di una possibile epistemologia fenomenologica, un esempio di giustificazione concettuale attraverso una metodologia che potremmo definire genetico-regressiva, cioè di riconduzione dell'elemento concettuale, linguistico, predicativo, all'elemento a-concettuale, alinguistico, antepredicativo. 199 La percezione come luogo originario della chiarificazione nelle lezioni husserliane sulla sintesi passiva. 1997 200 Questo saggio è stato pubblicato nel volume Ragione e storia. Studi in memoria di Giuseppe Semerari, a cura di F. Tateo, Schena Editore, Fasano di Brindisi, 1997, pp. 187-198. 201 Ogni discussione sul metodo nell'ambito della fenomenologia corre in realtà il rischio di perdersi in direzioni contrapposte: se imbocchiamo fin dall'inizio la strada dell'epoché fenomenologica, che sembra contenere il problema del metodo in modo eminente, ci troveremo ben presto ad un'espansione progressiva che ci condurrebbe ad un quadro problematico troppo ricco. Si tratta di un'osservazione che potrebbe sembrare a prima vista piuttosto singolare, dal momento che la ricchezza problematica dovrebbe essere sempre lodata come un pregio piuttosto che come un difetto. E tuttavia, almeno da parte di chi è interessato all'esercizio concreto del metodo, questa ricchezza può essere giudicata eccessiva proprio perché - con l'ampiezza dei rimandi storico-filosofici e l'orientamento rivolto prevalentemente verso il problema generale della fondazione - rimangono solo sullo sfondo tutte le questioni legate alla sua effettiva praticabilità. Se invece imbocchiamo la via che si intitola "alle cose stesse!", che suggerisce un approccio molto più diretto ed immediato, attirando l'attenzione proprio sulla necessità di tradurre il nome di "fenomenologia" in una pratica metodica concretamente applicata, il rischio è quello di poter disporre di un'indicazione troppo povera che è aperta ad ogni equivocità e ad interpretazioni molto diverse, oltre che a critiche non del tutto infondate. Questa strada sfocia infatti nella "descrizione senza pregiudizi", nel puro "vedere" a-teorico, nella "fedeltà" ai dati dell'osservazione fenomenologica: cose tutte sulle quali si può assentire o dissentire, senza che tuttavia si riesca ad intravedere in esse qualcosa di simile alla specificità di un metodo. Di fatto si ottiene molto di più, sotto questo riguardo, esplorando i testi husserliani per andare le ricerca di quelle procedure che vengono messe in atto e che rivestono un preciso significato metodico, sia che questo venga esplicitamente teorizzato, sia che questa teorizzazione non sussista o sia ridotta al minimo. A questo proposito vorrei soffermarmi sul tema della percezione come "luogo originario della chiarificazione" così come 202 viene proposto ed esercitato nelle Lezioni sulla sintesi passiva recentemente pubblicate in un'eccellente versione italiana realizzata da Vincenzo Costa con la cura di Paolo Spinicci [1]. Naturalmente ci troviamo qui all'interno della grande tematica di Esperienza e giudizio, e quindi dentro il quadro del problema dell'origine antepredicativa delle forme logiche - ma l'angolatura da cui ora vorrei dispormi è piuttosto quello del richiamo "genetico" come un richiamo ad una metodologia di analisi che ha di mira la chiarezza e la distinzione concettuale. Dice propriamente Husserl: "Il luogo originario per chiarificazioni realmente radicali è la percezione e [...] soprattutto la percezione trascendente" [2]. Vogliamo indugiare un poco sul senso effettivo e sulla portata di questa affermazione. Poiché l'avvio del problema è dato dal problema della "modalizzazione", e dunque da una riflessione su nozioni logiche, in essa è implicito uno sfondo critico: una chiarificazione che prendesse le mosse e si attenesse unicamente al livello linguistico, aprendo una riflessione sull'impiego dei termini, potrebbe essere forse in grado di dissodare il terreno, liberandolo dai primi equivoci. Ma non potrebbe raggiungere veramente il nocciolo della questione, non potrebbe agire con la radicalità che qui si rende necessaria. Occorre invece cercare di produrre un modello percettivo che ripresenti i termini della distinzione concettuale da esaminare come termini che si risolvono interamente in dinamiche processuali ed esperienziali determinatamente descrivibili. Dalla messa in luce delle articolazioni e delle necessità interne del modello si tornerà poi alla distinzione concettuale che certamente non potrà non subire il contraccolpo di questa analisi. Affermazione e negazione, per fornire un esempio che si trova del resto all'inizio di tutti i successivi sviluppi, sono concetti che debbono essere riferiti primariamente alle proposizioni. Ed allora ci si deve chiedere: è possibile assumere una situazione percettiva alla quale queste nozioni possano essere riferite, sia pure in una necessaria modificazione di senso? 203 Naturalmente che ciò sia possibile è già mostrato dal fatto che vi sono proposizioni che enunciano stati di cose accertati percettivamente. Ma se guardassimo a questo nesso come un nesso istituito unicamente attraverso il riferimento al contenuto non andremmo certo molto lontano. Ciò che importa è mettere in rilievo i rapporti logico-strutturali, che consentono di stabilire un legame tra il campo della proposizione da un lato e il campo della percezione dell'altro. Questi rapporti non sono subito a portata di mano, anzi potrebbe farsi valere un principio di netta separazione. La proposizione dice quello che dice, è per così dire ferma nell'identità del suo significato, mentre la percezione è un processo. Ciò che ci impone di ricercare una connessione è in realtà un fondamentale principio metodico. Così, dal punto di vista logico-linguistico può apparire che l'affermazione e la negazione siano semplicemente concetti opposti, e l'idea che l'operazione che esse compiono abbia come base una rappresentazione mentale "neutra" sotto questo riguardo sembra imporsi con una certa plausibilità. Applicando il criterio metodico del rinvio a modelli percettivi non troviamo tuttavia nulla di simile ad una rappresentazione neutra e dobbiamo dunque cominciare con il prendere atto di questa circostanza. Ciò implica che l'affermare e il negare considerate alla luce del loro possibile correlato percettivo non potranno essere intese come "qualificazioni" di un "mero contenuto", di un contenuto cioè che non è né negato né affermato. Si impone invece una discussione che prende le mosse dall'idea di un processo esperienziale di sintesi concordanti, che istituisce un terreno di certezza "originaria". L'originarietà va qui intesa naturalmente in senso strettamente fenomenologico. Richiamandoci ad essa sosteniamo soltanto che la percezione non può cominciare dal non. Lo esclude la stessa logica del processo esperienziale. Anzitutto qualcosa deve essere semplicemente dato, e precisamente come momento di un decorso ininterrotto in cui la cosa si autoconferma di con- 204 tinuo nel suo senso. È possibile tuttavia che questo decorso si interrompa, ovvero che l'attesa contenutisticamente determinata che viene di continuo riproposta nella certezza originaria venga delusa, ed in rapporto ad una simile situazione possiamo parlare della negazione come una questione interna alla percezione, e nello stesso tempo come qualcosa che annuncia il non in quanto appartenente ad un livello interamente diverso della proposizione. Questo livello viene poi più nettamente approssimato nel momento in cui si passa alla condizione del dubbio percettivo. Naturalmente si potrebbe fare un'analisi sull'impiego del verbo "dubitare", ovvero sul verbo "credere", ecc. - quindi mantenendosi strettamente sul terreno delle considerazioni linguistiche. Non si deve in realtà ritenere che un simile terreno sia banalmente escluso dall'ambito delle ricerche fenomenologiche - soprattutto tenendo conto del fatto il linguaggio corrente contiene spesso indizi importanti proprio per ciò che concerne la fenomenologia del mondo di esperienza. Anche la rassegna di impieghi contestuali, secondo lo stile della nozione wittgensteiniana di "gioco linguistico", può appartenere ai ferri del mestiere del fenomenologo. Ma questi eventuali riferimenti linguistici possono essere implicati in una ricerca fenomenologica solo in quanto sono elaborati in modo coerente ad un impianto filosofico del quale fa parte l'idea che la risposta "radicale" debba essere ricercata nella percezione. In altri termini deve prima o poi presentarsi la domanda intorno alla condizione percettiva nella quale con "dubitare" non intendiamo un verbo che deve essere integrato in una proposizione di una determinata forma, ma il vissuto corrispondente: e tale vissuto a sua volta non va inteso come uno stato mentale la cui particolarità andrebbe indagata con i mezzi di un'analisi introspettiva, ma come una specifica modalità intenzionale la cui strutturazione fenomenologica può essere portata all'evidenza. Il rinvio al terreno percettivo comporta infatti il vantaggio 205 di liberare il terreno da un possibile equivoco psicologistico intorno al modo di intendere il vissuto; nello stesso tempo mostra che ciò che è possibile come costruzione logico-grammaticale potrebbe non aver alcun senso [ovvero alcun riscontro] nella sua riconduzione alla percezione. Ad esempio, l'iterazione del dubbio, ad esempio, "dubito di dubitare", "dubito di dubitare di dubitare", ecc., è in via di principio possibile come costruzione logico-grammaticale, ma non vi è nessun riscontro fenomenologico, né dalla parte del soggetto né da quella dell'oggetto, per queste espressioni. D'altra parte, ciò viene insegnato anche dal riferimento ai contesti di impiego del linguaggio corrente, che non forniscono esempi sensati di impiego per queste iterazioni le quali andranno dunque considerate come costruzioni astratte eventualmente escogitate per interessi puramente "speculativi". Il tema del dubbio verrà dunque proposto anzitutto come dubbio percettivo, e quindi come forma peculiare di interruzione delle sintesi di concordanza che ha ora la forma dell'oscil­lazione tra attese alternative di peso differente. Ed è naturalmente la decisione del dubbio, con il prevalere di un'inclinazione della credenza, a proporre il "sì" e il "no", l'affermare e il negare in un'accezione che è in realtà ormai molto prossima al piano della "spontaneità" discorsiva. Per illustrare il motivo metodico della percezione come luogo originario della chiarificazione è opportuno tuttavia guardare anche in altra direzione, dal momento che l'esempio dell'affermazione e della negazione e la discussione sulla certezza e sulla possibilità che viene subito implicata, sono strettamente situati nell'orizzonte problematico dell'origine antepre-dicativa delle forme del giudizio, cosicché questo motivo metodico sembra essere strettamente dipendente dalla natura del problema al punto da non essere forse separabile da esso. All'interno delle stesse Lezioni sulla sintesi passiva si mostra che le cose non stanno così. Queste lezioni guardano infatti in più di una direzione - ed è fin dall'inizio chiaro che l'elabora- 206 zione della nozione di sintesi passiva conduce molto al di là di una delimitazione tematica al rapporto tra strutture antepredicative e categorie logiche. Questa nozione ci riconduce infatti sul terreno di una riproposizione fenomenologica della teoria humeana dell'associazione, che viene interamente riformulata, per non dire ribaltata, nei suoi termini e nel suo senso. Il problema dell'associazione viene considerato anzitutto come problema della strutturazione e dell'unificazione delle "emergenze" percettive, considerate in quanto provviste di una "forza affettiva latente", dove la nozione di emergenza e quella di affezione rappresentano indubbiamente un'elaborazione della nozione humeana di impressione. All'interno di questo quadro si fanno avanti pochi ma significativi spunti sulla nozione di inconscio sui quali è interessante richiamare l'attenzione proprio per il fatto che ci troviamo in un ambito molto lontano da quello della genesi delle categorie logiche. Osserviamo intanto che vi è qualcosa di singolare e persino di sorprendente nel modo in cui nelle Lezioni si affronta il problema dell'inconscio: l'argomento sbuca fuori all'improvviso, apparentemente senza preparazione, senza la minima segnalazione dell'esistenza delle grandi elaborazioni sull'argomento di Freud o di Jung, ed anche gli sviluppi sembrano assai scarsi nonostante una certa enfasi con cui il problema viene annunciato [3]. Per venire a capo dei dubbi che l'esposizione suscita, è necessario attirare l'attenzione sul fatto che, nello spirito delle considerazioni di Husserl, il problema dell'inconscio si pone al livello più elementare, ci si interroga cioè sul significato o sui significati possibili del termine cosicché, manifestando anche in questo modo quel radicalismo nell'impostazione problematica che viene spesso rivendicato in queste pagine, si effettua un'implicita messa in parentesi di teorie evolute per avviare una riflessione autonoma. L'esigenza che viene avanzata è dunque quella di un chiarimento preliminare. Ma come questa esigenza viene soddisfatta? In realtà riproponendo anche in questo caso il motivo metodico della 207 percezione come luogo originario della chiarificazione. La domanda a cui dobbiamo anzitutto rispondere è se, indagando nella struttura del rapporto percettivo, emergano circostanze in rapporto alle quali il parlare di "inconscio" possa risultare appropriato. Queste circostanze dovranno poi essere messe a fuoco per operare una delineazione dei problemi che possono essere raccolti sotto questo titolo. Ancora più semplicemente potremmo porre la questione in questo modo: ci rivolgiamo ancora una volta alle formazioni sintetiche della percezione con i suggerimenti di cui indubbiamente il titolo di inconscio è portatore. E vogliamo accertare se assumendo questa angolatura dello sguardo fenomenologico possiamo individuare indizi significativi per l'apertura e l'impostazione di un dibattito capace di dipanare le difficoltà e le oscurità interne di quella nozione. Peraltro, vi è un aspetto che in precedenza era stato trascurato e che ora deve invece essere reso esplicito. La riconduzione ad una situazione che faccia da modello percettivo rappresenta nello stesso tempo anche la riconduzione ad un'analisi "attuale", cioè ad un'analisi che si riferisca alla dimensione temporale del presente. Ciò significa che il processo percettivo viene messo in questione in quanto può fornirci una base esemplificativa direttamente producibile qui ed ora: nella percezione, in quanto decorrente nel presente e al presente, dobbiamo cercare quelle che Husserl chiama le "evidenze di primo livello" a cui dobbiamo ricorrere per una delimitazione preliminare della nozione di inconscio. Questo aspetto, che probabilmente non aveva bisogno, negli esempi precedenti, di ricevere una particolare sottolineatura, assume ora un rilievo particolare per il fatto che la questione dell'inconscio affrontata in questo modo mostra subito di far corpo con la struttura del presente, con la dinamica della ritenzione e della protenzione, essa è "implicata" nella forma temporale e dunque anche nella forma del rapporto intenzionale entro cui si costituisce la soggettività stessa. 208 Osserva Husserl: "Solo una teoria radicale che soddisfi nello stesso modo la costruzione concreta del presente vivente e quella delle singole concrezioni che si formano a partire dagli elementi costitutivi può risolvere l'enigma dell'associazione e con questo tutti gli enigmi dell'"inconscio" e del mutevole "divenir cosciente". D'altra parte tutti i motivi di una teoria scaturiscono dalle evidenze di primo livello, da quelle che sono per noi necessariamente il punto di partenza: le evidenze che si trovano nei fenomeni del presente vivente che è, per così dire, fino in fondo strutturato"[4]. Vi è un modo di articolazione e di strutturazione [Gestaltung] del presente, ed è proprio questa strutturazione che impone già essa stessa che si parli di inconscio. Ma impone anche che se ne parli secondo una determinata inclinazione, secondo uno stile che è strettamente conseguente ad una simile scelta metodica. Parlare del presente e del rapporto intenzionale in esso istituito significa richiamarsi alla "presenza" in un senso duplice, oggettivo e soggettivo: si tratta della chiara presenza dell'oggetto ad una soggettività che lo esperisce, ma nello stesso tempo anche della chiara presenza della soggettività a se stessa, ciò che viene detto l'essere desto ovvero la destità dell'io, l'esplicito "io percepisco questo e quello", "io giudico", "io voglio", "io desidero", ecc. La tematica dell'affezione conferisce tuttavia a questa dimensione della presenza, della destità dell'io, una maggiore complessità, anche in una considerazione che ha di mira i più elementari fatti percettivi. L'essere desto dell'io si propone infatti come un essere desto relativamente ad un determinato interesse, e questo interesse a sua volta come un interesse ridestato da una "forza affettiva���. Non vi è dubbio che proprio in questo campo di problemi appaiano con chiarezza i limiti in cui si muove la trattazione husserliana, almeno in quest'opera. La parola affezione [Affektion] non intende richiamarsi alla vita affettiva in senso usuale, e dunque alla vita del sentimento, ma si limita a caratterizzare la situazione 209 dell'"essere colpiti", esemplificata anzitutto da fatti puramente sensoriali. Anche se qui e là non si può evitare di pensare che Husserl faccia qualche conto proprio sulla possibile ambiguità della parola, e quindi anche sulla possibilità di implicare fattori di ordine emotivo, tuttavia la messa da parte di questo lato del problema è piuttosto esplicito: "Consideriamo qui le funzioni dell'affettività che si fondano puramente sul momento impressionale. Dalla sfera del sentimento possiamo poi solo prendere i sentimenti originariamente congiunti con i dati sensibili" [5], e quindi, a quanto sembra di capire, soltanto le differenze del gradevole e dello sgradevole, in un'accezione il più possibile "epidermica". L'intera tematica dell'affezione e dell'interesse sembra, in più di un punto, essere strettamente subordinata al tema conoscitivo: il volgersi dell'io determinato dall'affezione conduce ad una "osservazione più dettagliata dell'oggetto" [6]. Dietro al tema dell'interesse è difficile, stando alla lettera della pagina husserliana, scorgere quello dello desiderio, ed ancora oltre quello del bisogno e dell'istinto. Un altro limite particolarmente rilevante, che riguarda l'intera tematica dell'associazione, è l'assenza di qualunque implicazione del versante propriamente immaginativo: in tutte le lezioni non viene affacciato nemmeno il sospetto che nelle sintesi percettive che sono costitutive del "senso" dell'oggetto possano avere una funzione rilevante tipi di sintesi che appartengono piuttosto al campo delle operazioni dell'immaginazione. Il problema del "senso" è sempre posto esclusivamente come problema di una formazione unitaria in quanto tema di una conoscenza possibile, e dunque in un quadro di netto predominio di un punto di vista epistemologicamente orientato. Questi limiti che interessano l'esposizione husserliana nel suo insieme operano, in rapporto al nostro tema, in modo da accentuare un modo di approccio che era già metodicamente orientato ad evitare inizialmente un livello di discussione troppo evoluta. Il primo passo da compiere sta allora in un modificazione nella considerazione del campo del presente percettivo. 210 Esso deve essere inteso prima ancora che come campo di oggetti, come campo di azione delle forze "affettive" che premono l'io da ogni parte e che tentano di attrarre su di sé il suo sguardo. Infatti, nella dimensione della destità non vi è soltanto il puntuale essere rivolto dell'io verso l'oggetto, ma vi è un orizzonte della destità che è soprattutto un orizzonte di forze affettive latenti. Alcune di queste forze sono prossime all'io e stanno quasi per raggiungerlo, altre invece sono più lontane e si fanno sentire appena. Ancora più lontano tutto si perde in un'oscurità indistinta. Non dovremmo allora, in riferimento a questa "gradualità dell'affezione nel presente vivente" [7], cogliere già un motivo che riguarda il nostro problema? Parlare di questa gradualità significa alludere alla presenza come una regione di luce di intensità decrescente - una regione di luce, dunque, che degrada in una regione di ombre sempre più scure. Nell'oscurità vi sono affezioni potenziali che sono pronte ad attualizzarsi e, attualizzandosi, ad agire sull'io imponendogli un nuovo orientamento del suo essere rivolto. E naturalmente vale qui, in rapporto alla nozione di affezione, ciò che vale anzitutto per quella di emergenza: i dati fenomenologici - le emergenze - debbono comporsi in una formazione unitaria, ma ciò avviene all'interno di un processo dominato da una conflittualità interna. L'associazione di cui qui si parla non è unificazione statica di contenuti, un puro e semplice "comporsi" di essi, ma contiene un motivo dinamico, in base al quale una direzione di senso unitaria si afferma in quanto può superare il conflitto con altre possibili direzioni di senso. Le forze affettive sono in conflitto tra loro, ciascuna di esse mira alla propria affermazione: ed in questo contesto ciò significa soltanto che ciascuna forza affettiva mira ad imporsi all'attenzione osservativa e conoscitiva dell'io, ma naturalmente sono certamente implicate qui altre possibili estensioni di senso. Tutto ciò viene detto in rapporto ad un'esemplificazione che deve essere in via di principio assolutamente elementare. Se operiamo le restrizioni or ora rammentate in rapporto alla no- 211 zione di affezione, saranno buoni esempi di emergenze capaci di esercitare una forza affettiva cose come punti luminosi, macchie colorate, semplici formazioni figurali, rumori, suoni. Eppure la richiesta esplicita che ci viene avanzata è proprio quella di cominciare a discutere la nozione di inconscio a partire da esempi come questi. La convinzione qui sottintesa è che le distinzioni e i problemi che si cominciano ad intravedere su questo terreno potranno fornire il filo conduttore per l'espansione che il problema deve indubbiamente ricevere non appena lo si consideri nel quadro di una nozione di soggettività piena e completa. Di fatto, l'orientamento che si va profilando è assai più preciso di quanto farebbe sospettare l'elementarità di questo inizio e delle sue possibili esemplificazioni. Appartiene all'in­­conscio un'affezione ancora lontana, un suono che udiamo appena, ed al quale non prestiamo attenzione, e che tuttavia in certo senso urge alle nostre spalle mentre stiamo parlando con un amico o siamo intenti a realizzare attivamente uno scopo. Di questo suono possiamo indubbiamente dire: "lo sento e non lo sento" - esso si trova nell'"anticamera dell'io" [8]. E possiamo anche parlare di un conflitto tra questo suono e gli altri rumori che vengono dall'esterno che io avverto confusamente, ma che non ascolto. Sviluppando la metafora husserliana, potremmo forse dire che mentre l'io si trova nella sala centrale della sua casa, nell'anticamera avvengono molte cose, vi sono molti ospiti, più o meno graditi, che premono per essere ricevuti per primi e che proprio per questo si contestano vivacemente l'un l'altro. Si suggeriscono qui almeno due idee, tra loro connesse, per un'elaborazione del problema dell'inconscio: l'idea dell'esistenza di diversi livelli di consapevolezza e l'idea che l'inconsapevolezza possa avere il senso di un avvertire inavvertito, come è proposto dall'esempio del suono che udiamo e non udiamo. Non vi è dunque la coscienza come consapevolezza da un lato e l'inconscio dall'altro come una sorta di partizione della vita della soggettività e tanto meno l'idea di una vita autonoma dell'inconscio di cui 212 la vita cosciente sarebbe un puro e semplice risultato. La gradualità dell'affezione, che viene proposta anzitutto sul piano del campo della presenza, suggerisce un altro passaggio che riguarda il movimento del presente. L'allontanamento dell'affezione, e quindi il suo indebolimento, è allora da intendere come un movimento temporale, legato alla degradazione ritenzionale del presente e infine alla formazione di un passato in senso pieno e proprio. Dal punto di vista di una fenomenologia della temporalità, il passare ha il senso di un graduale annebbiamento delle distinzioni, di un progressivo oscurarsi che trapassa in una totale oscurità, "in un'unica notte"[9]. E qui abbiamo certamente la possibilità di richiamarci all'inconscio, ovviamente in un'accezione strettamente legata a questo filo conduttore: il tema dell'inconscio si mostra qui connesso a quello del passato e dell'oblio. Non solo dunque la destità ha un orizzonte di affezioni latenti, ma le attualità affettive che fanno parte della destità sono destinate ad attenuarsi nella loro forza affettiva in virtù del loro graduale sprofondamento temporale, sono destinate ad azzerarsi. Il non essere presente alla coscienza assume ora semplicemente il senso dell'essere stato obliato. Si tratta di una connessione che può sembrare ovvia e nello stesso tempo improduttiva dal punto di vista teorico, ma diversamente appaiono le cose se si considera che questo tema dell'oblio è connesso al sempre possibile ridestamento del contenuto obliato e di conseguenza anche della sua forza affettiva. Il contenuto azzerato si trova all'estremo margine della coscienza e proprio per questo può essere detto "inconscio" ma, come si ripete più volte, si tratta di uno zero che non tuttavia un nulla [10]: l'attenuazione della forza affettiva è dovuta alla mera forma temporale dell'evento, e non riguarda il contenuto come tale, in ciò che esso propriamente è. Perciò questa attenuazione non arriva ad inficiare la capacità impulsionale dell'evento in se stesso. Il passato assume esso stesso il carattere di un campo di latenze affettive che possono in ogni momento ridiventare attive. 213 Il titolo di inconscio è connesso con il passato così come è connesso con la possibilità del suo ridestamento - possibilità che cade ancora nel campo dei fenomeni dell'associazione e che mette in causa non già la semplice determinazione del presente da parte del passato, ma l'interazione tra presente e passato, interazione che può essere indagata a gradi diversi di complessità. Ed è appena il caso di dire che anche questa può rappresentare un'indicazione preziosa per un'elaborazione evoluta del problema. Per concludere vorrei richiamare l'attenzione sul fatto che la chiarificazione del concetto da cui avevamo preso le mosse non rappresenta, all'interno di questo punto di vista, una pura e semplice ripulitura di scorie indesiderate, un'operazione che si appaga nella liberazione da questo o quel possibile impiego equivoco della parola: al contrario sembra strettamente connesso con il motivo metodico della percezione come "luogo originario della chiarificazione" il fatto che il chiarimento non possa aver luogo se non promuovendo anche un'indagine effettiva che non lascia le cose come stanno per ciò che concerne un possibile approfondimento teorico. 214 Note [1] E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini, Milano 1993, trad. it. di Analysen zur passiven Synthesis [p. 3-222] a cura di M. Fleischer, Kluwer, Dordrecht, 1966, Husserliana XI. La traduzione non comprende i testi integrativi e le appendici. Tutte le citazioni sono tratte dalla traduzione italiana. [2] ivi, p. 63. [3] ivi, p. 210, p. 223, p. 230. [4]ivi, p. 223 [corsivi nostri]. [5]ivi, p. 207. [6]ivi, 205. [7]ivi, p. 223. [8]ivi, p. 224. [9]ivi, p. 230. [10] ivi, p. 225. Giovanni Piana Opere complete Volume venticinquesimo NUMERO E FIGURA Idee per un'epistemologia della ripetizione 2013 4 ISBN 978-1-291-65726-5 Copyright @ Giovanni Piana (2013) Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT Questo testo è stato pubblicato dalla Casa Editrice CUEM, Milano 1999 5 Giovanni Piana NUMERO E FIGURA idee per un'epistemologia della ripetizione azione + ripetizione = calcolo 1999 6 7 Indice Parte prima Sulla costruzione iterativa del numero 1. Chiarimenti intorno al quadro teoretico-conoscitivo entro cui intendiamo muoverci - La vera filosofia tende all'ele­men­­tare - La costituzione primaria dei concetti - Il riproporsi su questo terreno di antiche domande - Cenno sul tema dell'"intui­zione" nella tradizione filosofica - La "crisi dell'intuizione" - L'idea della "definizione implicita" - I molti equivoci sull'argomento richiedono una riflessione critica. 2. Prime considerazioni sugli impieghi comuni della parola "numero", "numeroso", ecc. - La semantica oppositiva nel discorso corrente - I modelli percettivi che fanno da sostegno alle espressioni linguistiche - Molti e pochi - Molteplicità e pluralità - Pluralità e singolarità. 3. Il numero come risposta alla domanda "Quanti?" - La nozione di numero intesa come numero-di-oggetti - Numero e molteplicità - Il numero come oggettività a sé stante - Riduzionismo empiristico e ontolgismo platonizzante - Critica di questa alternativa attraverso l'idea delle differenze nella modalità dell'intendere. 4. Numero cardinale - Le molteplicità ordinate - Il numero come numero-di-posizione - Cardinalità e ordinalità - I nu­me­ri iterativi - I segni numerici. 5. Necessità di passare ad un'elaborazione più approfondita - La priorità della nozione di molteplicità rispetto a quella di numero - Il contare e la serie numerica - Il problema della de­terminazione della quantità sorge in inerenza alla nozione di molteplicità e indipendentemente dalla serie numerica. 6. Una favola della preistoria molto spesso raccontata - Il confronto tra molteplicità - Il numero non è una proprietà delle cose 8 come il colore - Talvolta la quantità può essere determinata "a colpo d'occhio" - L'afferra­mento del "numero" come afferramento di una configurazione tipica - Importanza delle procedure indirette per il sorgere del problema del numero. 7. Il metodo del tanti-quanti - La formazione di insiemi-modello per la determinazione della quantità - Assenza di una generalizzazione autentica del metodo - Nel metodo del tanti-quanti non si sa nulla sul numero, non si conta, e nemmeno vi sono nomi per numeri. 8. La strana importanza delle mani nelle procedure del contare - In che modo si usano le mani quando ci accade di contare con il loro aiuto? - La mano come prima "macchina da calcolo" - I metodi corporei in genere - Esempi - Ciò che vi è di nuovo nei metodi corporei 9. Emergere del problema dell'ordine e legame tra la procedura di conteggio e l'idea della posizione - Conte, filastrocche infantili ed altre strane usanze - In che senso potrebbe essere giusto parlare del corpo come "origine dell'aritmetica". 10. Ciò che manca ai metodi corporei per approdare realmente sul terreno del numero - Limiti dell'organicismo dell'or­dine - In che senso parlare del corpo come origine dell'aritmetica potrebbe essere del tutto sbagliato. 11. Necessità di una rinnovata riflessione sul problema de­l­ l'ordine - L'idea di un ordine intrinseco - Ordine e ripetizione - Ripetizione semplice e ripetizione concatenata - Ordine intrinseco e concatenazione. 12. Le serie ricorsive - La serie che rappresenta la forma della concatenazione - Ciò che mancava ai metodi corporei era il pensiero della concatenazione - In rapporto ai numeri si può dire che il loro essere coincide con il loro luogo - Il numero come oggettività sintattica. 13. Riproposizione del problema del contare - Nel contare 9 non si sorteggiano numeri - Cardinalità, ordinalità e iteratività - Importanza fondamentale del numero iterativo nella filosofia del numero - Iterazione e apertura infinitaria - La soppressione dell'esperienza. 14. Qualunque numero deve poter avere un nome - Che cosa è una denominazione sistematica per i numeri - La notazione-tratto. 15. I numeri distributivi e l'idea di una base - La domanda "Quanti per volta?" - Ai metodi additivi manca l'idea di grande unità ottenuta ricorsivamente - Intreccio tra concetto e rappresentazione - Grande unità, ricorsione e notazione posizionale. 16. Considerazioni sui calcoli aritmetici nel senso comune del termine - Il calcolo e la macchina - La possibilità di un uso generalizzato del termine di "calcolo" (algoritmo) - Il calcolo come manipolazione di segni secondo regole - La singolare vicenda della parola "assioma" - I segni come figure - Pensieri e segni - Passaggio dal numero alla figura. Parte seconda Sulla costruzione iterativa delle figure 1. La geometria come scienza dello spazio e scienza delle forme - Numeri e figure - La geometria come "semantica" dell'a­rit­­ metica - I vincoli "intuitivi" e l'istanza del loro superamento 2. La geometria e la terra - Husserl e Mandelbrot: un invito a ricordare - Il problema di una tipologia empirica delle forme - Inizio di una libera riflessione che prende spun­ti da Euclide - Riflessioni su linee molto sottili - Riflessioni sull'angolo pia­tto. 3. L'intuizione e il buon senso - La differenza tra giochi linguistici e le loro possibili sovrapposizioni - Le definizioni euclidee guardano da due parti - Importanza della verbalizzazione. 4. Sulla prima proposizione degli Elementi di Euclide - In essa si formula un compito costruttivo - Lo scopo della costruzione 10 è tuttavia quello di mostrare le connessioni interne della figura. 5. La questione dell'evidenza - È evidente il primo postulato? - E il terzo? - E che dire del quinto postulato? - Crisi dell'intuizione e crisi dell'evidenza - Quattro possibili accezioni del termine evidenza - Logica delle figure e logica delle proposizioni - La sospensione del senso nel passaggio alle nuove geometrie - Evidenze ed assunzioni. 6. Iterazione operativa e motivo infinitario - L'ec­ce­tera­zione come strumento primario per l'ideazione di nuovi oggetti - Il pentagono stellato dei pitagorici - La figura infinita. 7. Un modo singolare per impartire ordini e disegnare una linea - Introduzione del segno F e di un algoritmo generatore di segni F. 8. Introduzione nel simbolismo di segni che indicano il mutamento di direzione - Esempi di calcoli. 9. Variazioni sul tema del pentagramma pitagorico e scoperta dell'al­goritmo che lo genera. 10. Variazioni sulla curva di Koch - Problemi attinenti al rapporto tra figura generata e algoritmo generatore. 11. Il passaggio infinitario illustrato sull'esempio della curva di Koch - Il preteso carattere contro-intuitivo della lunghezza della curva di Koch. 12. La "crisi dell'intuizione" secondo Hans Hahn - Discussione critica. 13. Per concludere: alcune osservazioni sulla "geometria della natura" e sugli oggetti "fratti" - Il richiamo alle differenze soggettive del punto di vista - Il nostro scopo è stato quello di mostrare quanto sia movimentato il rapporto tra l'espe­rienza e le elaborazioni intellettuali. 11 Parte prima Sulla costruzione iterativa del numero 12 13 §1 Chiarimenti intorno al quadro teoretico-conoscitivo entro cui intendiamo muoverci - La vera filosofia tende all'ele­men­tare - La costituzione primaria dei concetti - Il riproporsi su questo terreno di antiche domande ��� Cenno sul tema dell'"intui­zione" nella tradizione filosofica - La "crisi dell'intuizione" - I molti equivoci sull'argomento richiedono una riflessione critica. Il percorso che vorremmo tracciare comincia dal problema del numero e prosegue poi in direzione di quello della "figura", della forma spaziale. Sullo sfondo, ma destinato ben presto a passare in primo piano, vi è il tema della ripetizione: la ripetizione ha una qualche funzione in rapporto al concetto di numero? Nella discussione intorno ad esso questo tema può o addirittura deve essere richiamato? Ed ancora: il richiamo alla ripetizione nel campo delle figure merita almeno di essere considerato interessante? Si tratta di domande che non verranno poste astrattamente, ma che si imporranno ben presto in forza dell'impo­sta­zione della nostra ricerca. Vi sono infatti delle linee ben determinate entro le quali si muove la nostra indagine, e solo facendo riferimento ad esse diventa per noi possibile accingerci a questa ricerca, senza gettarci in modo scriteriato dentro una discussione che potrebbe apparire ora troppo complessa ed ora troppo vaga. È necessario invece che i nostri problemi siano ben delimitati. Ciò può accadere attraverso la determinazione degli interessi che ci guidano, dagli scopi che vorremmo perseguire, e persino dalle nostre prese di posizione filosofiche di ordine generale. Certe domande non sorgerebbero nemmeno se non vi fosse un atteggiamento filosofico a partire dal qua­le ed in funzione del quale esse assumono il loro senso. Questo atteggiamento orienta poi naturalmente anche il modo in cui la discussione tenderà a svilupparsi. Il quadro entro cui intendiamo muoverci rientra nel titolo di una teoria della conoscenza, inteso nel senso più ampio, e 14 precisamente in un senso che non chiama in causa, da subito, la scienza e i suoi metodi, ma piuttosto il modo in cui concetti che sono per essa rilevanti cominciano ad essere primariamente forgiati nell'espe­rienza del mondo. Da questo punto di vista numero e figura sono no­zioni che hanno una portata esemplare proprio per il fatto che essi possono essere considerati come concetti-base dell'a­ritmetica e della geometria, cioè come concetti che ne definiscono le rispettive regioni ontologiche. Nello stesso tempo essi non compaiono belli e pronti all'inter­no di una sistematica teorica definita e chiusa che quelle regioni ontologiche dovrebbe rispecchiare. Noi abbiamo un'esperienza del numero così come abbiamo un'esperienza della figura. La parola "esperienza" sembrerebbe inclinare verso atti puramente con­templativi ed osservativi, men­tre secondo le nostre intenzioni essa ha piuttosto il senso di un molteplice aver-a-che-fare, nel quale numeri e figure sono messi-in-pratica. A sua volta questa pratica non va intesa come una più o meno rozza applicazione di quei frammenti di teoria che si sono imparati a scuola fin dalla più tenera infanzia. Si tratta piuttosto del fatto che il problema del numero sorge, come problema concettuale, per il fatto stesso che vi sono intorno a noi delle molteplicità; e quello della figura o della forma per il fatto stesso che vi è uno spazio articolato, che può essere variamente suddiviso, modificato, trasformato. L'interesse pratico-em­pirico precede l'interesse teorico, lo anticipa e lo prepara. Quando poi questo interesse arriva a bastare a se stesso, ha inizio il cammino della teoria - un cammino vertiginoso, non solo per le altezze che riesce a raggiungere, ma anche perché sa sopportare le vertigini di un sentiero che, sempre più salendo, si libera progressivamente da ogni protezione procedendo in bilico sul vuoto, forse persino creando da se stesso il terreno per il prossimo passo. Aritmetica e geometria sono una splendida illustrazione di un simile cammino. Ci si può chiedere allora che interesse potrebbe avere il 15 ram­mentare i primi inizi. In realtà potremmo fare semplicemen­ te a meno di questi ricordi - l'oblio non recherebbe certamente dànno alle conoscenze ormai solidamente acquisite. Si tratta del resto di ricordi che pur riguardando certi dati di fatto che sono attinenti ai concetti, sembra si trovino in realtà all'esterno del loro statuto logico autentico, e non siano dunque in grado di insegnarci nulla in rapporto ad esso: dati di fatto storici o addirittura preistorici che potrebbero interessare l'an­tropologo, ed eventualmente richiamare l'attenzione del­lo psicologo o del pedagogista potendo essere ricollegati al modo in cui i concetti si formano nella nostra mente. Qualcuno potrebbe sostenere che chi ha di mira l'a­cqui­sizione di chiarimenti nel quadro dei problemi di una teoria della conoscenza, e che è perciò interessato proprio allo statuto logico-concettuale, dovrebbe volgere lo sguardo interamente altrove, orientando la propria riflessione sul piano evoluto della teoria: dovrebbe dunque avventurarsi su quel sentiero piuttosto che esitare presso quei primi inizi. Eppure, per quanti stimoli la riflessione epistemologica possa ricevere dalla considerazione delle elaborazioni teoretiche evolute, dalla riflessione sulle strutture definitorie e sulle connessioni e relazioni istituite nel presupposto di un'unità teorica compiuta, tanto più que­sti stimoli potranno essere fecondi se si ribadisce quella che è forse la vocazione più profonda della filosofia, che è in realtà assai diversa da quella dell'indagine scientifi­ca. È mera retorica non voler prendere atto di questa diversità, benché l'una e l'altra si trovino all'in­ter­no di un orizzonte comune. La vera filosofia tende all'elementare. E dunque non ha fretta di correre oltre, indugia in quei punti rispetto ai quali si potrebbe benissimo soprassedere. In certo senso si fa custode del ricordo di cose che si potrebbero facilmente dimenticare. Il riferimento alle situazioni iniziali, all'interesse filosofico specifico che questo riferimento può rivestire, si situa in questo contesto. In realtà si tratta di un interesse che propone, secondo una particolare angolatura, questioni che non solo non sono 16 estranee ad un'episte­mo­logia autentica, ma appartengono anzi al suo nucleo più interno. Qui si rinnovano infatti antiche domande: esse riguardano intelletto e sensazione, astrazione e concretezza, logica ed empiria. L'angolatura particolare sta nel fatto che le domande proposte intorno a questi grandi titoli oppositivi vengono riformulate nei termini di una "genealogia fenomenologica", cioè nei termini di una riflessione sulla costituzione primaria dei concetti. In questa riflessione vengono considerati certi fatti solo in quanto implicano e suggeriscono una trama teorica, e naturalmente verso di essa è puntata tutta la nostra attenzione. Questo è il modo in cui si può realizzare una vera e propria analisi della costituzione interna del concetto. La parola costituzione ha una duplice e interessante inclinazione di senso, statica e dinamica ad un tempo: da un lato indica l'intelaiatura fondamentale che sostiene una costruzione, i suoi nodi, il suo scheletro; dall'al­tro il modo in cui una simile intelaiatura è stata processualmente ottenuta, si è andata via via formando in un processo. Alla base delle considerazioni che seguono vi è la convinzione che l'intelaiatura interna possa essere esibita dal processo costitutivo - o per dir meglio: dal pensiero di un possibile processo costitutivo, evitando così l'equivoco richiamo ad una "storia" in senso empirico-concreto. Una simile formulazione suggerisce tra l'altro, molto opportunamente, l'idea che i processi costitutivi pos­sano essere più d'uno: è infatti lecito ritenere che una nozione possa essere essere illuminata da diversi lati e che presenti caratteri che possano essere meglio illustrati seguendo itinerari differenti. Parlando di tendenza all'elementare, ed in rapporto ad essa, di una "genealogia fenomenologica", si allude ad un altro problema, che ha una lunga tradizione dietro le proprie spalle. La riflessione filosofica ha spesso rivendicato, all'interno di diverse prospettive teo­riche e talora con significati ed intenti profondamente diversi, la necessità che le operazioni intellettuali ed i loro prodotti, che hanno la loro sedimentazione nel linguaggio, fossero di continuo messi alla prova nel loro senso, nella loro portata 17 effettiva e nella specificità del loro contenuto. Ed ha spesso avanzato il dubbio che la via dell'astrazione non possa pretendere di trovare ogni garanzia in se stessa, ma che fosse invece un compito privilegiato della teoria della conoscenza rammentare ed elaborare il nesso, per dirla in breve, tra "concetti" e "intuizioni". È opportuno sottolineare che non si tratta affatto di un'i­ stan­za che cresce dentro atteggiamenti filosofici in via di principio ostili alla logica o alla scienza. Al con­trario essa si fa sentire con particolare pregnanza proprio all'interno delle grandi filosofie razionaliste, come quella di Cartesio o di Leibniz. Nella tradizione empiristica, naturalmente, il nesso tende a diventare opposizione - e nella storia complessa del problema trovano spazio anche tendenze in cui l'opposizione diventa una esasperata contrapposizione. La parola stessa di "intuizione", il cui senso peraltro non è mai stato univoco, assume valenze di significato che sembrano non poter essere rese esplicite se non in modo meramente negativo: l'intuitivo come l'alogico, l'arazionale. Come se si trattasse ancora di un conoscere, ma per un'altra via. In questa modificazione di senso ci troviamo certamente lontani dalla tradizione razionalistica, ma anche da quella empiristica, nella quale il richiamo alla priorità delle impressions sulle ideas aveva comunque un senso ed una portata analitica, ed assolveva dunque un importante compito critico-conoscitivo: l'idea viene illustrata e chiarita attraverso l'esibizione delle sue origini "impressionali". Oppure essa viene dimostrata come puro flatus vocis, mera costruzione linguistica senza contenuto, quando questa esibizione non risulta possibile. Se ponessimo l'accento sulla contrapposizione ci troveremmo altrettanto lontani dalla concezione kantiana dell'integrazione necessaria tra il piano intellettuale e quello intuititivo - parole che del resto in un contesto trascenden­talistico ricevono a loro volta un senso interamente nuovo. Con la nozione di intuizione pura ed a priori, nell'accezione kan­tiana del termine, ciò che viene intuitivamente colto assume una nuova dignità, in 18 quanto deve appartenere alla forma stessa del reale. Si potrebbe tuttavia osservare che tutte queste diverse possibilità di intendere il termine e la problematica corrispondente sono di fatto confluite insieme e, ad un tempo, superate e soppresse da quella "crisi dell'in­tuizione" il cui risultato dovrebbe essere ritenuto del tutto acquisito. In questa crisi non deve forse anche essere travolta l'idea stessa della necessità di un'inda­ gine volta in direzione dei rapporti tra concetti e processi dell'e­ sperienza e la sua appartenenza di diritto al campo degli interessi epistemologici? Secondo una semplice schematizzazione che è stata per lungo tempo in auge, e forse lo è ancora, la domanda "filosofica" - ma di una filosofia che sarebbe digiuna dello sviluppo della scienza - pone l'istanza dell' "intuizione", laddove la scienza, ed una filosofia che si attenga ad essa come propria stella polare, ha già relegata questa istanza tra le anticaglie del passato. A titolo di esempio: la consistenza delle geometrie "non euclidee" e nello stesso tempo il loro carattere "contro-intuitivo" sembrano avere il valore di dati di fatto che stanno in luogo di mille discettazioni. L'antico concetto dell'assioma, e la cogenza razionale ad esso associato, si mostra ora in tutta la sua decrepitezza e consunzione. Persino autorevoli "leggi logiche" - si pensi al rapporto intero-parte - hanno perduta tutta la loro autorevolezza in un giorno solo, esattamente nel giorno in cui si ebbe l'idea di contare tutti i numeri pari scoprendo che essi erano tanti quanti i numeri pari e dispari insieme. Il vecchio neopositivismo fece di tutto ciò una sorta di bandiera - e la nuova logica sembrò trovare nell'idea della definizione implicita, strettamente solidale con questa "crisi dell'intuizione", la risposta effettiva alla domanda filosofica sul­l'essenza. Ad esempio: se si chiede "Che cosa è il numero?" si risponderà non già dicendo o tentando di dire la cosa, ma indicando un insieme di condizioni (gli "assiomi" appunto in quanto "assunzioni", e non in quanto "evidenze") che la cosa deve soddisfa- 19 re per essere chiamata numero. L'ente resta "concettualmente" indeterminato - mentre esattamente determinate sono le condizioni del suo comportamento. "Concettualmente" significa qui "psicologicamente", "mentalmente", o qualcosa di analogo. Infatti anche la terminologia del concetto diventa decrepita. A quanto sembra non sappiamo più attribuire a quel termine altro senso che quello di "contenuto mentale" - e allora dei concetti se ne occupi lo psicologo, se ritiene di doverlo fare; oppure l'an­ tropologo se è interessato alle pratiche con i numeri, alle usanze aritmetiche di questa o quella tribù. La definizione implicita ci consente da subito di navigare nelle acque alte del pensiero astratto, non ci obbliga a fare i conti con il vero e con il falso, distingue nettamente tra costruzione teorica e applicazione, non ci impegna né sulla natura del concetto né su quella della realtà. Essa dunque ci libera da molti pro­blemi, ed ha molti vantaggi. Eppure basta un nonnulla - una sua ripresa senza che sia accompagnata da una necessaria riflessione critica, una stanca ripetizione da manuale, il presentare le cose come se si trattasse di una straordinaria scoperta piuttosto che di una possibilità interessante - perché essa, considerata dal punto di vista epistemologico, non sia altro che un modo di soprassedere, di alzare le spalle, di "dimenticare": una vera e propria dissennata apologia della cecità. La quale è peraltro molto spesso - e per fortuna - una finzione ad uso dei profani. Ciò che si dice di non pensare più, lo si è già pensato prima. Questo pensiero anteriore, che precede gli scarabocchi dei simbolismi, viene chiamato in causa dalle nostre considerazioni precedenti e dai dubbi in esse formulati: una riflessione filosofica epistemologicamente orientata può avere il senso di una pausa nel cammino sempre avanti su quel vertiginoso sentiero, una sorta di temporaneo ritorno a terra dal mare alto, sulla spiaggia, dove potremo in piena tranquillità, forse giocherellando con i sassolini tra i nostri piedi, tentare di mettere un poco di ordine nei nostri pensieri. 20 §2 Prime considerazioni sugli impieghi comuni della parola "numero", "numeroso", ecc. - La semantica oppositiva nel discorso corrente - I modelli percettivi che fanno da sostegno alle espressioni linguistiche - Molti e pochi - Molteplicità e pluralità - Pluralità e singolarità. Per cominciare a delineare i termini di un problema e introdurre la discussione, entrando al tempo stesso speditamente nel bel mezzo delle cose, non vi è forse metodo migliore che quello di proporre una riflessione sugli impieghi di termini in qualche modo attinenti ad esso nel linguaggio corrente. Questo abbiamo appreso soprattutto da Wittgenstein e dal­ la filosofia analitica del linguaggio - anche se occorre evitare l'errore di elaborare una generica rassegna o un elenco di termini scelti a casaccio. Un obbiettivo di ricerca deve essere sottinteso e debbono esservi intenzioni filosofiche in grado di offrire dei criteri di selezione: perciò ci preoccuperemo subito di mettere in risalto tra ciò che ci può sembrare significativo dal punto di vista teorico, trascurando invece ciò che non sembra poterci insegnare qualcosa. Dunque, nessuna semplice presa d��atto degli impieghi ordinari: e nessuna illusione di trovare in essi un riferimento che dovrebbe avere poi un significato normativo per risolvere i nostri dubbi nella filosofia. Il riferimento agli impieghi linguistici correnti ha piuttosto il senso di un dissodamento preliminare del problema, di una sorta di elucidazione dei suoi termini iniziali. Se poi potremo di qui trarre qualche suggerimento interessante dal punto di vista teorico, cercheremo di farne un buon uso. Vi è anche un motivo di provenienza fenomenologica che ci suggerisce un simile punto di avvio: almeno talvolta, il linguaggio corrente è fortemente refrattario ad adottare moduli linguistici che si distacchino troppo net­tamente dall'esperienza che noi abbiamo del reale. In particolare è una caratteristica del linguaggio nei suoi 21 impieghi correnti quella di tenersi abbastanza fortemente abbarbicato ad una semantica oppositiva, che appare appropriata ad una condizione in cui la concettualità è ancora fortemente intrisa di componenti percettive e immaginative. Nell'esperienza percettiva le determinazioni delle cose non hanno il senso di mere determinazioni oggettive a sé stanti, ma entrano in relazione tra loro secondo rapporti di somiglianza e di contrasto. Nell'istituzione di queste connessioni hanno naturalmente particolare importanza le componenti immaginative e associative che sono sempre presenti nel campo della percezione. A sua volta il linguaggio corrente sottintende spes­so una delimitazione oppositiva del senso dei termini. Conseguentemente potremmo sostenere che uno dei primi passi che caratterizzano il pensare astratto e ne annunciano la presenza è proprio quello che consiste nel superamento di un simile modo di determinare il significato dei termini opponendoli l'uno all'altro. Si comincia così a superare i legami che per questa via si mantengono con il piano empirico concreto. Le opposizioni si riducono a semplici casi particolari subordinati ad un unico titolo generale. Questo aspetto può essere illustrato con esempi che ci consentono anche di dare l'avvio alla discussione del nostro argomento. Nel linguaggio corrente vi è l'aggettivo "numeroso" che si applica quando siamo alla presenza di "molte" cose. Il "molto" va tuttavia qui inteso in opposizione al "poco", e ciò significa che l'aggettivo numeroso non allude ad una molteplicità qualunque, ma ad una molteplicità rilevante. Di un pubblico che partecipa ad una conferenza o ad una lezione universitaria non diremmo che è numeroso, se esso è rappresentato da due o tre persone. Potremmo dire che al senso delle parole "molto" e "poco" fanno da sostegno modelli percettivi nettamente diversi. È opportuno richiamare l'attenzione sul fatto che vi sono o possono esservi dei modelli percettivi che fanno da sostegno al senso delle parole - si tratta di una circostanza per noi parti- 22 colarmente interessante che viene spesso ignorata o addirittura capovolta, quasi che l'e­sperienza stessa fosse un risultato dell'uso linguistico e non vi fosse invece, tra l'uno e l'altro piano, una complessa interazione, secondo intrecci molto vari. Il modello percettivo, a sua volta, contiene rimandi associativi-immaginativi. Ad esempio, in luogo di pubblico numeroso si potrebbe parlare di un folto pubblico, aggettivo che è particolarmente pertinente per gli alberi di una foresta. Se dico "numeroso", nelle valenze di senso della parola vi è anche il "folto": il modello percettivo eventuale, cioè l'esempio che può essere mostrato come illustrazione adeguata del senso, esibisce così al tempo stesso anche un'inclinazione immaginativa, contiene "associazioni" che sono in realtà importanti per la sua delimitazione e per la sua comprensione. Tuttavia il "molto" non ha solo il senso che gli deriva dal­ l'es­sere contrapposto al poco. Esso può talora essere considerato connesso all'idea espressa dall'im­piego della paroletta "più" in esempi come: "Vi sono più persone in questa stanza". In esempi come questi il "più" indica propriamente che in questa stanza non vi è una sola persona, ma ve ne sono appunto più d'una. La "molteplicità" scivola verso la "pluralità". Vi è dunque un'e­quivocità che conviene fin dall'inizio mettere in rilievo: con molteplicità di oggetti potremmo anche intendere una pluralità, avendo di mira piuttosto che l'opposizione tra il molto e il poco, quella tra pluralità e singolarità. Al molto si contrappone allora la cosa singola. Vogliamo ancora sottolineare che si tratta di una opposizione autentica. Forse si potrebbe pensare di indebolirne la forza, parlando ad esempio di una molteplicità che è costituita da un solo oggetto, ed in questa formulazione ci libereremmo di una caratterizzazione oppositiva, pur mantenendo la differenza tra l'idea di molteplicità e quella di oggetto singolo. È facile tuttavia rendersi conto che quella formulazione ha come condizione di possibilità che si sia già compiuto più di un passo sul piano dell'astrazione. 23 Il tema dei modelli percettivi ci può servire qui da vero e proprio criterio distintivo. Infatti mentre posso esi­bire un modello percettivo per l'oggetto singolo o per la pluralità, non potrei poi mostrare nuovamente un oggetto singolo per illustrare l'idea di "molteplicità costituita di un solo oggetto": per questa idea non vi è propriamente nessun modello percettivo. In essa infatti la singolarità è "pensata" attraverso il pensiero della molteplicità (pluralità) e questo pensiero non è contenuto nel dato esibito. Il rimando al modello percettivo ci consente dunque di distinguere nettamente tra un impiego del termine di "molteplicità" che ha un modello percettivo attraverso il quale può essere illustrato il suo senso ed un impiego dello stesso termine per il quale questa possibilità il­lu­strativa non sussiste. Ciò significa forse che quest'ul­timo è illegittimo? Certamente no. Non si vede in­fatti quale passaggio ci possa condurre dalla posizione di una simile distinzione all'assunzione dell'esistenza di un modello percettivo come canone di una legittimazione. §3 Il numero come risposta alla domanda "Quanti?" - La nozione di numero intesa come numero-di-oggetti - Numero e molteplicità - Il numero come oggettività a sé stante - Riduzionismo empiristico e ontolgismo platonizzante - Critica di questa alternativa attraverso l'idea delle differenze nella modalità dell'intendere. In presenza di una molteplicità di oggetti, si può porre la domanda: "Quanti?", ed a questa domanda si risponde con un numero. Il termine di "quantità" appartiene certo alla stessa famiglia di "molteplicità", "pluralità" e "numerosità", ma ha una sfumatura di senso che si richiama alla determinatezza. Se alla domanda "Quanti?" si risponde ancora con "molti" o "più di uno" certamente chi rivolge la domanda ha il diritto di riproporla. La molteplicità può in via di principio essere determinata, ed il numero opera appunto questa determinazione. Secondo queste prime considerazioni dunque il numero si 24 prospetta come vincolato ad una nozione di molteplicità essenzialmente intesa come pluralità, come una sorta di "proprietà" o di "attributo" della molteplicità: un numero andrà infatti attribuito ad una molteplicità ovvero questa potrà essere caratterizzata e contraddistinta da altre mediante un numero. Potremmo dire che il numero è qui essenzialmente "numero-di..." e precisamente numero-di-oggetti. Espressioni come proprietà o di attributo sono tuttavia in questo contesto largamente equivoche: come abbiamo notato fin dall'inizio, i nostri richiami a possibili impieghi correnti non ci fanno per nulla dimenticare che essi si trovano sul percorso di una ricerca filosofica ai suoi inizi. Essi non ci interessano in se stessi, ma per le riflessioni che possono suggerire. In questo caso si deve rilevare un'im­portante differenza che può essere nascosta dall'uso generico del termine di proprietà e di attributo. In realtà "attribuire" un numero ad una molteplicità ha implicazioni differenti dall'"attribuire" un colore a cose come un fiore o un frutto. Anzitutto una molteplicità non è una "cosa", benché possa essere composta di cose. In rapporto alle cose infatti l'at­tri­buzione non è senz'altro sensata, ma vi sono determinate con­dizioni che debbono essere soddisfatte affinché essa pos­sa aver luogo. Ad un suono non può essere attribuito il co­lore giallo - anche se l'espressione di "suono giallo" può avere un senso e una portata dal punto di vista immaginativo. A sua volta la formazione di una molteplicità concreta esige che siano soddisfatte delle condizioni relative agli oggetti di cui essa è composta: le mele e le coordinate cartesiane non possono essere poste nello stesso canestro. Tuttavia la nozione di molteplicità che si va istituendo a partire dalla molteplicità concreta non è affatto vincolata a questa concretezza, e in particolare non lo è quando si pone il problema del numero. L'attribuzione di un numero ad una molteplicità non richiede che sia soddisfatta qualche condizione in rapporto alla "natura" degli oggetti di cui essa è costituita. Un suono, il colore giallo, l'ascissa e l'ordinata 25 formano una molteplicità e­sat­­tamente come le mele in un canestro, e su di essa potrà porre la domanda intorno alla quantità. Un'attenzione particolare merita poi la paroletta "di" che aggiungiamo all'espressione "numero": Numero-di... - e in particolare numero-di-oggetti. Questa formula intende segnalare la differenza tra una nozione di numero che è vincolata in via di principio a quella di molteplicità (e degli oggetti che appartengono ad essa) e una nozione di numero come entità o oggettività essa stessa autonoma. Grande problema! Certamente. Ma esso può essere affrontato con i nostri mezzi minimi. Proviamo infatti ad attenerci il più possibile al terreno che abbiamo scelto, in cui vi sono domande e risposte quotidiane. A chi ci chie­desse che cosa sia mai il numero come entità in se stessa autonoma, il numero sic et simpliciter, risponderemmo anzitutto che si tratta del numero che non risponde intorno ad alcuna domanda intorno al quanti, e che quindi non è inteso relativamente ad una molteplicità. Ad esempio, spesso facciamo un impiego sostantivo delle espressioni numeriche come 5, 8, ecc. Possiamo far comparire queste espressioni nel soggetto di proposizioni del tipo "cinque è un numero dispari" oppure "otto è un numero intero". In espressioni come queste non si parla dell'8 o del 5 come numeri-di..., ma di numeri sic et simpliciter, di numeri considerati essi stessi come oggetti e che hanno dunque le loro proprietà e intrattengono tra loro determinate relazioni. Sta bene: ma che tipo di oggetti? Talora si risponde (ed anche noi potremmo rispondere così): oggetti ideali. O anche: oggetti intellettuali. Benché si possa dare non troppa importanza al fatto di usare l'una o l'altra espressione, fra le due vi è un'in­clinazione senso abbastanza diversa. Impiegando la parola "intellettuale" sembra si attiri l'attenzione su una facoltà umana - l'intelletto, la facoltà di pensare - e l'oggettività verrebbe interpretata come un suo prodotto, una sua costruzione. Si tenderà allora a dare alla parola un'inflessione prevalentemente psicologica, come se 26 "intellettuale" fosse qualcosa di equivalente a "mentale" e parlando di oggettività intellettuali intendessimo cose che esistono al massimo nella nostra mente. Il richiamare l'attenzione sull'idealità invece sposta l'attenzione su tutt'altro versante, richiamando piuttosto le "idee" nel senso di un'on­tologia platonica. Ma non è obbligatorio scegliere tra l'una e l'altra alternativa, tra l'ente nel senso più forte e il flatus vocis. Si tratta piuttosto di dare senso a queste formulazioni riferendole a determinazioni di carattere fenomenologico. È appena ovvio notare che in questo contesto il richiamo ad un punto di vista fenomenologico implica che si metta da parte l'idea, che ha fatto tanti guasti sul terreno della filosofia della logica e del linguaggio, che vi sia sempre e necessariamente una grammatica nascosta sotto la superficie linguistica e che le questioni che il linguaggio propone alla riflessione filosofica siano sempre questioni intorno alla riducibilità di questa superficie, considerata come in via di principio fuorviante ed erronea, ad una forma che si pretende logicamente corretta. In luogo di ciò, occorre riconoscere la presenza, proprio alla superficie degli impieghi linguistici, di differenti modalità dell'intendere. Questa nozione ci offre un modo assai interessante di riproporre la questione del numero come oggettività a sé stante, ed inversamente possiamo trarre di qui un esempio che può servire ad illustrare che cosa intendiamo dire parlando di differenza nella modalità dell'intendere. L'espressione "5" viene intesa in modi diversi se essa com­ pare nella risposta alla domanda "Quanti?" oppure nella proposizione "5 è un numero dispari". Se prescindiamo da considerazioni che stanno al di fuori di questi impieghi, attenendoci a ciò che in essi è implicato, non sembra possa sollevare obiezioni il fatto di riconoscere che nel secondo caso viene intesa un'og­ gettività, nel primo invece è implicata una molteplicità di cui si effettua, attraverso il numero, una determinazione. Questa differenza può essere riconosciuta senza implicare, 27 in rapporto al numero come oggettività a sè stante, né una scelta mentalistico-psicologistica né una scelta ontologico-platonistica. Questa è anche la ragione per la quale la scelta terminologica non ci sembra decisiva e non ci accingeremmo ad una discussione più approfondita per decidere quale delle due dizioni possa essere più appropriata. Poiché è certo che l'oggettività intesa non si incontra come tale nel nostro mondo circostante così come si incontrano invece alberi e case, l'una o l'altra espressione va altrettanto bene per marcare que­sta differenza che deve essere in ogni caso ricondotta ad una differenza nei modi dell'intendere. In questi nostri primi passi cerchiamo dunque di attirare l'attenzione sull'importanza del nesso tra numero e molteplicità, sottolineando nello stesso tempo che, se da un lato vi è tra queste due nozioni un intreccio ricco di senso che va esplorato a fondo, dall'altro sarebbe sbagliato ritenere che il numero non possa essere "pensato" senza che sia "pensata" anche la molteplicità. Il numero come numero-di-oggetti e il numero come oggettività a sé stante vanno anzitutto indicate come modalità dell'intendere peculiarmente diverse. E il numero come oggettività a sé stante va difesa come una possibilità del tutto legittima. §4 Numero cardinale - Le molteplicità ordinate - Il numero come numero-di-posizione - Cardinalità e ordinalità - I numeri ite­rativi - I segni numerici. Il numero come quanto del molto ovvero il numero che presuppone l'idea della molteplicità come pluralità, e che noi abbiamo voluto chiamare anche numero-di-oggetti, è naturalmente ciò che comunemente si indica con il termine di numero cardinale. Nes­ suna caratterizzazione della cardinalità potrebbe fare a meno di richiamarsi ad una molteplicità in genere. Nello stesso tempo non appena parliamo di cardinalità viene subito richiamata alla mente la nozione di ordinalità e di nu- 28 mero ordinale, sulla quale vogliamo ora spostare la nostra attenzione. La grammatica della lingua italiana provvede a stabilire anche sul piano linguistico questa differenza proponendo degli specifici "numerali ordinali". Si tratta, come si sa, delle parole "primo, secondo, terzo, quarto, ecc.". Queste espressioni verrano impiegate quando ci troviamo alla presenza di una molteplicità ordinata e siamo interessati alla posizione che un certo elemento occupa in essa. Un buon esempio di molteplicità ordinata sono le lettere del nostro alfabeto. Esse ci vengono insegnate e­sat­tamente secondo un certo ordine che comincia con la A e finisce con la Z, anche se quest'ordine non ha nessuna necessità interna. Cosicché ha perfettamente senso chiedere in quale posizione esattamente si trovi la lettera M - domanda a cui la lingua italiana ci raccomanda di rispondere con un numero ordinale. Di passaggio non è forse inutile osservare che se nella lingua italiana non esistessero affatto dei numerali ordinali, la distinzione concettuale non per questo verrebbe meno e saremmo tenuti a metterla in evidenza. Potremmo allora dire che il numero ordinale è un tipo di numero che risponde alla domanda: "In quale posizione?" An­ ch'esso può allora essere caratterizzato come numero-di... e precisamente come numero-di-posi­z io­ne. La differenza tra cardinale e ordinale è per certi versi ovvia, e tuttavia, non appena ci si pensa un po' sopra, questa ovvietà tende ad attenuarsi. La differenza inizialmente chiara sta in questo: un conto è determinare il numero degli elementi di un insieme (parola che usiamo qui nello stesso senso di molteplicità o di pluralità) ed un altro è determinare la posizione che un singolo elemento ha nell'insieme. Nel primo caso potremmo dire che l'ordine è del tutto indifferente, sia che esso ci sia o non ci sia. Le lettere dell'alfabeto restano ventuno sia che la recitazione dell'alfabeto cominci dalla A o dalla Z oppure che l'alfa­beto venga scritto su tessere spar- 29 pagliate su un tavolo da leggere in un modo qualunque. Per qualunque ordine, il risultato del conteggio non cambia. Vedremo in seguito se il contare sia da riferire essenzialmente alla cardinalità - come saremmo forse indotti a pensare badando non tanto allo svolgimento dell'operazione di conteggio, quanto al suo risultato - oppure se il problema abbia un grado maggiore di complessità e debba essere affrontato in altro modo. Nel caso del numero ordinale invece non siamo interessati a determinare il numero totale degli elementi dell'i­nsieme, ma la posizione di un singolo elemento in esso. Di fronte a queste differenze occorre però proporre una precisa relazione: se determiniamo la posizione del­l'ultimo elemento di un insieme ordinato abbiamo de­terminato anche quan­ ti sono gli elementi dell'insie­me. Se sappiamo che la Z si trova al ventunesimo posto e che essa è l'ultima lettera sappiamo anche che vi sono 21 lettere dell'alfabeto. Naturalmente il numero di posizione della lettera M è anche il numero di lettere della mol­ teplicità delle lettere comprese tra A e M. Alla luce di questa constatazione, cardinalità e ordinalità ci appaiono ora assai meno nettamente differenziate di quanto potesse sembrare dalle considerazioni precedenti; e non vi sarebbe da meravigliarsi se sorgessero, pur a partire da determinazioni così semplici e chiare, nodi particolarmente difficili da dipanare proprio per ciò che riguarda il modo in cui esse si trovano in rapporto. Nella teoria del numero si è molto discusso, ad esempio, su quale fosse la nozione primaria del numero, se la nozione cardinale o quella ordinale, e spesso si è pensato che, proprio per il fatto che l'ordine presuppone qualcosa da ordinare, si dovesse prendere le mosse da una nozione generale di molteplicità, e quindi da una nozione di molteplicità indifferente all'ordine. Una sorta di priorità spetterebbe così alla nozione di numero cardinale. Ma vi sono anche autorevoli teorie opposte. Ciò di cui spesso si sente la mancanza in questo genere di discussioni è un chiarimento 30 preliminare sul senso in cui si parla di primarietà e il contesto in cui questo problema viene posto. In realtà l'in­te­res­se della questione diventa chiaramente visibile all'in­terno di un punto di vista genetico-costitutivo. L'interro­gativo ver­rebbe così posto anzitutto sul modo in cui cardinalità e ordinalità intervengono all'interno della formazione del concetto di numero. In effetti stiamo costruendo il terreno per una ripresa della questione da questo punto di vista. A queste due forme numeriche, per così dire, ufficialmente riconosciute, ne vogliamo tuttavia aggiungere una terza, che è intervenuta nelle discussioni sulla filosofia del numero assai meno delle precedenti, mentre noi intendiamo dare ad essa la massima importanza. Si risponde con un numero non solo alla domanda "Quanti?" e "In quale posizione?" ma anche alla domanda "Quante volte?". Ciò suggerisce di istituire una terza nozione di numero da porre accanto a quella dei numeri cardinali e dei numeri ordinali. La domanda "Quante volte?" è essenzialmente diversa sia dalla domanda "Quanti?" sia dalla domanda "In quale posizione?". A differenza di entrambe, essa non rimanda alla nozione di molteplicità, non rimanda dunque in genere ad oggetti, ma ad azioni o ad operazioni in genere. "Quante volte ti sei bagnato nello stesso fiume?" - noi rispondiamo appunto "una volta, due volte, tre volte,...". Non possiamo assolutamente trascurare il fatto che ci troviamo qui di fronte ad un impiego del termine numerico che richiede, per essere illustrato, una situazione esemplificativa essenzialmente differente. Non solo il tema della molteplicità nel senso precedentemen­te inteso non assolve un ruolo, ma si affaccia qui per la prima volta il motivo della ripetizione. Nella lingua italiana non esiste una designazione numerica speciale come nel caso dei numeri ordinali. Nella lingua latina troviamo invece alcuni indizi interessanti. In essa "Quanti?" si dice Quot? e "in quale posizione?" si dice "Quotus". Tuttavia, ol- 31 tre a Quot e Quotus il latino possiede anche la formula "Quotiens" (o "Quoties") che chiede appunto "Quante volte?". Ed a questa domanda si ri­sponde con dei numerali specifici come "semel, bis, ter, quater, quin­quies" (con carattere avverbiale) che sono diversi sia dai numerali cardi­nali (unus, duo, tres, quattuor, quinque, ecc.), sia dai numerali ordi­nali (primus, secundus, tertius, quartus, quintus, ecc.). Si tratta di un'accidentalità linguistica che tuttavia per noi assume il senso di un indizio significativo in relazione ad una specificità dell'impiego del segno numerico. In assenza di una terminologia consolidata, vogliamo parlare di numeri iterativi. Il numero iterativo in quanto numero-di-volte apparterrà in ogni caso al tipo del numero-di.... e dovrà essere contrapposto, insieme al numero di oggetti ed al numero di posizione al numero inteso come oggettività a sé stante. È opportuno notare che nel caso dei numeri-di... è sempre implicito un riferimento all'applicazione, mentre questo riferimento manca interamente nel caso dei numeri considerati come oggettività. Ma vi è un altro significato notevole della parola "numero" nel discorso corrente. Talora questa parola designa equivocamente anche la cifra, il segno grafico, il grafema che indica il numero, ad es. il segno "5", che può essere equivalentemente sostituito da qualunque altra convenzione segnica, come "V" secondo la numerazione romana, o da qualunque altra cosa alla quale si sia attribuito un significato designativo numerico. Diremo allora che una determinata cifra, ad esempio "5", ha una du­plice possibilità di riferimento: ciò che viene inteso attraverso quel segno può infatti essere il numero come numero-di... ; oppure come oggettività ideale. Possiamo riassumere ciò che abbiamo acquisito sino a questo punto nello schema che segue: 32 oggetti numero di segno numerico mol teplic ità posizione volte azioni numero come oggettività Si può intravvedere fin d'ora che l'intera nostra discussione successiva dovrà vertere sul modo in cui interagiscono fra loro i tipi diversi di numeri-di... e l'eventuale rapporto che sussiste tra essi e la nozione del numero come oggetto. §5 Necessità di passare ad un'elaborazione più approfondita - La priorità della nozione di molteplicità rispetto a quella di numero - Il contare e la serie numerica - Il problema della determinazione della quantità sorge in inerenza alla nozione di molteplicità e indipendentemente dalla serie numerica. Dobbiamo ora cercare di ordinare il materiale raccolto e farlo oggetto di una riflessione più approfondita. Intanto il nesso tra numero e ripetizione, che fin dall'inizio avevamo proposto come uno dei nostri temi centrali, fino a questo punto non si è certo mostrato in primo piano: tuttavia esso si è annunciato con l'introduzione dei numeri iterativi. Di fatto, mentre è subito chiara la sussistenza di un rapporto tra cardinalità e ordinalità, per quanti problemi possano poi sorgere nella sua elaborazione, il numero iterativo se ne sta a parte e resta da spie­gare se e in che modo il tema della ripetizione e il concetto di numero si richiamino per ragioni essenziali. Un approfondimento non può tuttavia venire insistendo sugli impieghi linguistici correnti, ma piuttosto imprimendo alla 33 nostra discussione un andamento più nettamente "genetico". Per fare questo passo avanti abbiamo già posto alcune premesse ed avanzato alcuni suggerimenti. Abbiamo parlato della molteplicità e della determinazione della mol­teplicità, ovvero del numero che spetta ad una molteplicità. Aggiungiamo ora che nelle nostre considerazioni precedenti era già implicito che la nozione di molteplicità (pluralità) sta prima di quella di numero. Prima in che senso? - si chiederà subito. A me sembra che si possa rispondere in modo forse un po' indiretto ma sufficientemente persuasivo dicendo che la domanda "quanti" può essere posta solo se è già stata esibita la molteplicità che deve essere determinata. Naturalmente la priorità in senso temporale, che è ovvia se facciamo riferimento ad un evento che si verifica effettivamente, ci interessa assai poco. D'al­tra parte esiteremmo a parlare di priorità "logica", a meno che non si voglia usare questo termine in un'accezione mol­to estesa. La molteplicità di cui parliamo qui non è la nozione logico-matematica di insieme, nella quale eventualmente può essere "fondata" una teoria del numero introducendo definitoriamente i concetti numerici a par­tire da essa - nel quale caso avremmo certamente a che fare con una priorità logica in un'accezione ben determinata. Preferiremmo invece parlare di una priorità genetico-fenomenologica poiché, come abbiamo notato or ora, non ci troviamo né sul terreno di eventi e di puri dati di fatto, né su quello del "pensiero puro". Ci avvaliamo invece di argomenti e di analisi che poggiano sempre su possibili esemplificazioni concrete - sull'im­ma­ginare di poter fare determinate cose e sulle condizioni di possibilità di questo fare liberamente immaginato. In ogni caso, di fronte alla domanda "quanti", pro­posta rispetto ad una molteplicità effettivamente esibita, noi ci accingeremmo certamente a contare gli oggetti che appartengono ad essa. Questa azione non è un'a­zione qualunque come tendere un braccio per afferrare qualcosa. Per quanto possa essere considerata sem­plice, essa ci è stata comunque insegnata, ed anche se non 34 siamo in possesso di una giustificazione teorica autentica, essa presuppone che sia per noi già costituito un concetto di numero ed una pratica ad esso corrispondente. Quando contiamo, nel senso usuale del termine, nel suo senso per così dire "adulto", la serie dei numeri ci è perfettamente nota. Vi è dunque un sapere aritmetico, per quanto elementare. Noi siamo invece interessati ad una situazione nella quale si ponga la domanda "quanti" senza che un sapere aritmetico sia già a disposizione, e questo non per un gusto astrattamente filosofico del mettere sempre tra parentesi tutto quanto di cui così spesso si parla nei libri dei fenomenologi senza che si sappia esattamente che cosa si dovrebbe fare: ma per il fatto che vogliamo cogliere in che modo, a partire dall'esistenza di molteplicità, sorga il problema della loro determinazione quan­ titativa e in che modo esso possa essere risolto. Non si tratta quindi solo di risalire al linguaggio corrente, tra­endo di qui qualche indizio che del resto può diventare realmente significativo solo in un'even­tuale elaborazione successiva, ma piuttosto di deli­neare i passi che conducono dalla nozione di molteplicità alla nozione di numero. Quest'ultima dunque non potrà essere presupposta. Un punto di particolare importanza è che questi passi sono da intendere come passi di un percorso teorico: si tratta infatti di avviare una vera e propria analisi del concetto, e non soltanto raccogliere insieme osservazioni e dati sulla sua storia. Ai fini della ricostruzione di questo percorso teorico il richiamo ad episodi che in qualche modo appartengono alla storia del numero può essere assai illuminante dal momento che in questa storia il problema teorico è ovunque presente e si mostra attraverso mille imprevedi­bili strade [1] . 35 §6 Una favola della preistoria molto spesso raccontata - Il confronto tra molteplicità - Il numero non è una proprietà delle cose come il colore - Talvolta la quantità può essere determinata "a colpo d'occhio" - L'afferramento del "numero" come afferramento di una configurazione tipica - Importanza delle procedure indirette per il sorgere del problema del numero. Abbiamo detto or ora che se ci venisse richiesto di determinare la quantità di elementi che formano una molteplicità, noi ci accingeremmo sempli­cemente a contarli. Ma abbiamo anche notato che, proprio per il fatto che nel conteggio la nozione di numero è già presupposta, questo non poteva essere affatto un buon inizio. Naturalmente vi è una discussione che non possia­mo trascurare come se niente fosse. In che senso il numero si trova in relazione con il contare? Quando cominceremmo a parlare di numero in un senso che potremmo ritenere appropriato, o comunque "propriamente aritmetico", e quando di contare? Siamo certi che il numero sia presupposto nel contare e che non abbia assolutamente senso parlare di un contare senza presupporre la nozione di numero? In breve, in tutte queste domande ci si chiede di chiarire in che cosa consista propriamente l'operazione del conteggio. Raccontiamo anche noi la favola, tante volte raccontata, del pastore di molte migliaia di anni fa, il quale, avendo molte pecore, può temere, la sera, al ritorno dai pascoli, che qualcuna di esse si sia perduta in un anfratto. Occorre dunque operare una determinazione della quantità. Per far questo dovranno essere paragonate due molteplicità di cose - le pecore del mattino e le pecore della sera. Il paragone tuttavia non può affatto avvenire sulla base dell'immediatezza della percezione. Proprio questa circostanza mostra nel modo migliore che avere un certo numero per una molteplicità è una "proprietà" in un senso piuttosto particolare: le proprietà delle cose si 36 possono, in genere, paragonare direttamente. Il numero non si dà concretamente come il colore o la forma di una cosa. Se prendo un sasso lo posso confrontare con un altro e decidere sulla base di un confronto diretto se l'uno ha lo stesso colore dell'altro, oppure se l'uno ha una forma meno spigolosa e più arrotondata dell'altro. Il numero (la quantità) di oggetti di una molteplicità non può affatto essere determinato nel­lo stesso modo, non può essere visto direttamente sulla molteplicità, ma è necessaria una qualche procedura per effettuare questa determinazione. Vogliamo notare che questa circostanza rappresenta già un indizio del fatto che forse il numero non è semplicemente una faccenda della percezione, che esso è anche, e forse soprattutto, una faccenda del pensiero. Tuttavia non è opportuno correre subito oltre seguendo la traccia suggerita da questo indizio. Questa nostra prima osservazione ha bisogno intanto di essere precisata. Intanto, non è del tutto vero che il numero di una molteplicità non possa mai essere determinato "a colpo d'occhio". Se la molteplicit�� è abbastanza piccola, se il nostro pastore è molto povero e possiede ad esempio soltanto tre pecore, quando tornerà all'ovile basterà una fugace occhiata per togliere di mezzo ogni preoccupazione. Tuttavia, affidandoci al colpo d'occhio non andremo certo molto lontano. Forse è difficile superare cinque elementi o sei elementi - a meno che la stessa configurazione percettiva non si proponga in modo tale da proporre un raggruppamento e un'articolazione. Ad esempio, le seguenti configurazioni oppure sono certamente più "distinte" di 37 È possibile che simili operazioni di raggruppamento, che agevolano l'afferramento della quantità, vengano anche realizzate implicitamente pro­iettando un'articolazione possibile nella strut­tura percettiva così da realizzare una sorta di analisi, di riduzione dei molti ai pochi. Ma proprio queste considerazioni ripropongono i nostri primi interrogativi intorno al numero ed al contare. Quando afferriamo a colpo d'occhio il numero non effettuiamo nessun calcolo, ma ci limitiamo a riconoscere percettivamente una configurazione percettiva che ha assunto per noi forma tipica, afferriamo dunque una Gestalt. È come se ci fosse una figura-del-tre, una figura-del-quattro, ecc. In una determinata molteplicità noi riconosciamo la presenza di quella figura. In questo senso dicendo che può esservi una pro­iezione implicita di un raggruppamento non intendeva­mo suggerire l'idea di un intervento "intellettuale" (cioè di componenti relazionali estranei alla percezione), ma l'afferra­mento, dentro una determinata figura, di una configurazione tipica, ad esempio della figura-del-tre e­v­en­tualmente ripetuta due volte. Talvolta si fa notare che presso popolazioni molto primitive si potè constatare la presenza di nomi per numeri solo per quantità molto piccole e che la sequenza dei numeri si presenta talora nella forma 1, 2, 3, molti, cosicché - si dice - si saprebbe contare solo fino a tre. In realtà parlare di nomi per numeri, di sequenza dei numeri e di contare come se si avesse qui a che fare con un'arit­ metica rozza e primitiva, ma comunque con un'arit­me­tica, fa perdere di vista la natura del problema che questi casi interessanti illustrano con evidenza. Le distinzioni che qui vengono effettuate sono infatti distinzioni eminentemente qualitative tra molteplicità che hanno configurazioni percettive distinguibili e differenziabili tra loro e molteplicità che confluiscono invece tutte nella designa­zione "mol­ti" in quanto rimandano a loro volta ad una configurazione tipica della "numerosità" che potrebbe essere esemplificata altrettanto 38 bene dal cielo stellato, da un mucchietto di sassolini o dagli alberi di una foresta. Se mettiamo l'accento su questo punto, allora avremo ragione di osservare che la problematica del nu­mero in questi casi la intravvediamo solo balenare in lontananza. La circostanza per la quale la serie così presto si blocca - circostanza che può sembrare assai difficile da comprendere, per quanto possa essere pri­mitivo il livello di sviluppo presupposto - diventa invece immediatamente comprensibile non appena si sottolinea il fatto che è in quesione la capacità di afferramento e di discriminazione della quantità attraverso la percezione e che il livello primitivo di sviluppo consiste non già nel non sapere andare oltre, ma nella mancanza dell'idea stessa della serie dei numeri. Non dobbiamo dire: sanno contare solo fino a tre. Bensì: non sanno affatto contare. Del resto la nostra capacità di discriminazione non è affatto dissimile dalla loro. §7 Il metodo del tanti-quanti - La formazione di insiemi-modello per la determinazione della quantità - Assenza di una generalizzazione autentica del metodo - Nel metodo del tanti-quanti non si sa nulla sul numero, non si conta, e nemmeno vi sono nomi per numeri. Stando al "colpo d'occhio" la strada verso il numero è rigorosamente sbarrata. Torniamo allora alla nostra favola del pastore preistorico di cui non abbiamo ancora narrato l'epilogo. Nella sua Storia universale dei numeri, Ifrah dopo aver parlato di ciò che egli chiama "sensazione numerica" - indicando con ciò "una sorta di percezione diretta dei numeri", in un senso prossimo [2] a quello che abbiamo illustrato or ora parlando di afferramento diretto del numero - prende in considerazione il "primo procedimento aritmetico" e lo individua, come del resto ciascuno avrebbe ragione di attendersi, in un'operazione di corri- 39 spondenza biunivoca. In realtà usare una simile espressione o altre espressioni tecniche di origine logico-matematica di significato analogo, non è troppo opportuno perché essere debbono essere mantenute nel contesto che è loro proprio. Poiché ci stiamo occupando di una situazione quanto mai remota, che si perde nella favolosa notte dei tempi, e siamo dunque lontanissimi dai modi di approccio di un'esposizione formale, preferiamo riferirci a questa operazione parlando di metodo del tanti-quanti. Espressione certo più rozza, ma degna appunto della rozzezza di un pastore. Qui abbiamo a che fare con molteplicità concrete - e non con "insiemi" pensati nella teoria formale corrispondente - e dunque nemmeno con domini, codomini, iniezioni, suriezioni, biiezioni, ecc. Inoltre non possiamo affatto permetterci di dimen­ ticare che il problema della determinazione delle quantità emerge in questo contesto come un problema legato a primitive pratiche quotidiane, normalmente legate a interessi di ordine economico in senso lato, scambi di merci, determinazione delle doti delle donne da marito, ed anche di altro ordine, ad es. di ordine magico-rituale e religioso (enunciazione di un numero prefissato di litanie, di lodi del signore, ecc.). In che cosa consiste dunque il metodo del tanti-quanti considerato su questo terreno primitivo-concreto? Consiste nel rispondere alla domanda "Quanti?" non già con un termine numerico (nome di numero), raggiunto come risultato di una procedura di conteggio, ma nell'esibizione di una molteplicità che è stata posta in corrispondenza uno a uno con la molteplicità che deve essere determinata. Alla domanda: "Quan­ ti?" che ci vie­ne proposta mostrando a dito una certa molteplicità di oggetti, si risponde mostrando a dito un'altra molteplicità dicendo: "Tanti così". In rapporto al pastore preistorico: egli escogiterà su questa base una procedura di verifica che assolve allo scopo. Ad esempio, egli farà rientrare le pecore ad una ad una nell'ovile associando ad ogni pecora un bastoncino, oppure una pietruzza, o un'altra cosa qualunque. In questo modo realizza quello che potremmo chia­mare un 40 insieme-modello [3] per il suo gregge. Sa che il suo gregge ha tante pecore quante sono i bastoncini che conserva eventualmente in un sacchetto - e di conseguenza riesce ad effettuare la valutazione a cui è interessato. Naturalmente restiamo qui inizialmente vincolati ad una situazione del tutto particolare, particolare è il compito da svolgere - si tratta proprio del gregge, e di nul­l'al­tro - particolare è il sacchetto con i suoi bastoncini che servono esattamente a quello scopo, e a nul­l'altro. Si comprende però anche che, giunti a questo punto, è subito possibile un passo significativo verso un'ap­plica­zione un poco più ampia del metodo. I bastoncini infatti sono rappresentativi di una certa quantità di oggetti. E si potranno possedere svariate collezioni di oggetti, differenti qualitativamente in modo da non confonderli tra loro, ed ognuna di esse sarà rappresentativa di una certa quantità di oggetti. Avremo dunque a disposizioni svariati insiemi-modello - una collezione di bastoncini, una di conchiglie, un'altra di noci di cocco o di chicchi di caffè [4] . Di fronte ad una molteplicità da determinare nella sua quantità essa potrà essere messa alla prova del tanti-quanti, e potremo forse trovare tra i nostri insiemi-modello un insieme corrispondente ad essa. Appare tuttavia subito chiaro che non si tratta di un'ef­ fettiva generalizzazione. L'idea di un metodo di determinazione quantitativa che non sia un metodo per qualsiasi molteplicità può essere per noi, uomini evoluti, abbastanza difficile da comprendere: eppure bisogna prender nota di questa mancanza di generalità che è strettamente dipendente dalla rete di interessi in cui è ancora inviluppato l'interesse conoscitivo. Possiamo immaginare che per il pescatore di perle di un milione di anni fa non tutte le molteplicità siano egualmente significative - come del resto accade a noi tutti nella nostra vita normale: egli non si accingerà mai a "contare" le pietruzze della riva, ma le perle raccolte in giornata, e queste del resto non faranno mai un mucchio grande come una montagna. 41 Un metodo per effettuare la determinazione delle poche molteplicità che rientrano negli interessi quotidiani è quanto basta e la questione generale di un possibile metodo per la determinazione quantitativa di qua­lunque molteplicità, di cui la procedura applicata nel caso particolare possa essere considerata una specializzazione, non si pone nemmeno. La molteplicità con cui si ha a che fare è ora sempre una molteplicità data o una mol­teplicità empiricamente possibile e non il pensiero puro di una molteplicità (cosa che significa poi: una molteplicità possibile in generale). Ciò mostra inversamente quale ricchezza di significato sia nascosta in parolette come "qualsiasi", "ogni", "qualunque". Si può fare riferimento ad esse per spiegare in modo semplice ed elementare che cosa significhi il rendersi autonomo di un interesse puramente conoscitivo; ed anche l'importanza decisiva che questa autonomia riveste per il passaggio al pensiero astratto. Sulla base di queste considerazioni dobbiamo riproporre la nostra domanda iniziale: in rapporto alla procedura del tanti-quanti possiamo parlare propriamente di numero? In essa si effettua un conteggio effettivo della quantità? La risposta sembra dover essere ancora fondamen­talmente negativa. La via verso il numero è stata im­boc­cata, ma ci troviamo solo al suo inizio. L'opinione che lo stesso Ifrah propone nella discussione degli insiemi-mo­dello ci sembra possa essere largamente condivisa. "Questo artificio della mente - egli osserva - non fornisce però solo un modo per istituire un confronto tra due raggruppamenti, ma permette anche di pervenire a parecchi numeri, senza pertanto contare, e neppure nominare o conoscere le quantità implicate" [5] . Dunque da un lato ci troviamo oltre la mera apprensione diretta della quantità, dall'altro attraverso il metodo del tanti-quanti non si conta, e nemmeno si sa qualcosa del numero o della sua nozione. In particolare non vi saranno nomi per numeri. Una simile affermazione ha una sua incontestabile plausibi- 42 lità. All'interno di una considerazione genetica dobbiamo affermare che il numero resta inaccessibile al metodo del tanti-quanti: in effetti non sappiamo affatto quanti siano gli oggetti della molteplicità, ma siamo soltanto in grado di effettuare una valutazione di certe molteplicità, e precisamente di quelle molteplicità che possono essere confrontate con i particolari insiemi-modello che sono a nostra disposizione. Pensiamo alla pratica del rosario che sopravvive ancora oggi sia presso la religione cattolica sia presso altre religioni, ad esempio la religione mussulmana nella quale essa serve per enunciare gli attributi di Allah o le sue lodi [6]. Naturalmente si tratta di una pratica fondata sul tanti-quanti, ed essa può essere esercitata senza avere la minima idea di quante siano le Ave Marie o gli attributi di Allah enunciati. Potremmo dire che ci muoviamo ancora nell'am­bito della semplice caratteriz­zazione del "molti" anche se vi è qui una novità considerevole: all'idea del "molti" si è aggiunta infatti la coscienza della piena deter­minatezza e della possibilità della piena determinazione. Io non so quanti siano gli attributi di Allah, ma sono certo, quando sono arrivato alla fine del rosario, di averli detti tutti e, se mi fermo prima, di averne trascurati alcuni. La molteplicità degli attributi di Allah non è un puro "molti" - ma è una mol­teplicità come un tipo ben determinato dal suo "rosario" ed essa differisce da altre molteplicità altrettanto ben determinate ed alle qua­li corrisponde un "rosario" del tutto diverso. L'elemento qualitativo mantiene dunque ancora la massima importanza. I "rosari", gli insiemi-modello, deb­bono essere riconosciuti per qualche caratteristica che ci consenta di distinguerli l'uno dall'altro e questa caratteristica non potrà naturalmente essere la "numerosità", bensì il colore, la forma, il fatto che l'uno è costituito di conchiglie e l'altro di grani di caffé. Il materiale rappresentativo come tale è irrilevante, ma non è irrilevante la differenza qualitativa degli oggetti che formano la collezione perché il tipo di molteplicità è caratterizzato proprio in base ad essa. 43 §8 La strana importanza delle mani nelle procedure del contare - In che modo si usano le mani quando ci accade di contare con il loro aiuto? - La mano come prima "macchina da calcolo" - I metodi corporei in genere - Esempi - Ciò che vi è di nuovo nei metodi corporei. Tutti sanno che nelle procedure di conteggio hanno avuto una grande importanza le nostre mani. Ancora og­gi vi è l'abitudine, in particolari circostanze, di contare facendo riferimento alle dita della mano. Quando vogliamo insegnare ai bambini molto piccoli i primi rudimenti dell'aritmetica è un comportamento comune e qua­si istintivo ricorrere all'aiuto delle mani. Eppure una simile pratica tanto nota ed una consuetudine così diffusa non è poi molto facile da capire, se in luogo di accettarla come ovvia attirassimo su di essa l'attenzione come una circostanza che richiederebbe qualche spiegazione. In che senso ci possono aiutare le mani in una faccenda come è quella del numero? Inoltre: in che modo propriamente usiamo le mani quando ci accade di contare con il loro aiuto? Dobbiamo fare anche un certo sforzo per rammentare esattamente che tipo di gesto facciamo quando contiamo servendoci delle mani, e forse proprio quel gesto potrebbe non essere obbligatorio. In luogo di esso se ne potrebbero fare degli altri. Io, ad esempio, comincio con il pugno chiuso, leggermente inclinato verso il basso, e poi sollevo via via le dita - talvolta, mentre compio questo gesto, vado farfugliando un numero dopo l'altro. In questo modo mi aiuto con le mani... ma in che cosa e per che cosa questo gesto mi giova? Ora più che mai mi accorgo che non so affatto che cosa significhi propriamente il contare. Quando conto e come conto? Contare significa forse alzare via via le dita in questo modo, farfugliare sottovoce i nomi dei numeri che ho appreso a scuola? Forse hanno ragione coloro che sostengono che il contare 44 sia nient'altro che un processo psicologico o meglio un comportamento di un certo tipo, socialmente indotto: non sarebbe allora affatto strano che vi siano diversi modi di contare che hanno poco o nulla a che vedere con le determinazioni concettuali del numero. Potremmo addirittura, rovesciando la direzione di discorso che abbiamo sostenuta poco fa, ritenere che potrebbe essere molto interessante, dal punto di vista logico, assumere la corrispondenza biunivoca come base per il concetto di numero proprio per il fatto che in essa finalmente non si conta. Si lascia così il contare agli psicologi, agli etnologi ed altri antropologi, oltre che naturalmente all'immagina­zione speculativa dei fenomenologi. In realtà in precedenza, notando che laddove non si conta nemmeno può esservi il numero, abbiamo posto l'accento sull'esistenza di una relazione interna, concettuale, tra il contare e il numero. Fino a questo punto tuttavia si tratta di una pura istanza non dimostrata, ed anzi potremmo essere costretti ad am­ mettere di sapere ben poco sul significato del contare in genere, se escludiamo che ci possano interessare le minuzie di un puro gesto comportamentale. Ma che non si tratti per nulla di questo, che il contare con le mani, oltre a rientrare fra le consuetudini più arcaiche, abbia un senso che va ben oltre queste minuzie e sia tutt'altro che irrilevante sotto il profilo di un discorso teorico, lo si comincia ad imparare proprio lasciando da parte i nostri gesti più o meno abituali, che sono in effetti poco interessanti, e cercando invece di accertare meglio in che senso la mano intervenga nel processo di formazione del numero. Nella Storia di Ifrah si trova una documentazione impressionante della varietà dei metodi di conteggio con le mani. Con le mani - accenno soltanto alla questione - non si conta certo solo fino cinque o dieci ma, con metodi ingegnosissimi, si può arrivare a numeri piuttosto elevati, che comprendono anche l'uso della base. Anzi l'intero capitolo dedicato all'in­venzione della base, invenzione fondamentale per arrivare ad un autentico 45 dominio del campo dei numeri, è trattato da Ifrah interamente con riferimento alle tecniche di conteggio manuale, a cui può essere riferita non solo la base cinque e la base dieci, che con le mani hanno un riferimento piuttosto evidente, ma anche la base dodici e la base sessanta il cui impiego e la cui origine è assai più enigmatica. La mano, egli osserva, costituisce la prima "macchina da calcolo" di tutti i tempi [7] - ed è certo molto interessante che una simile espressione venga impiegata da un autore come Ifrah che è anche esperto di informaitica e di calcolatori: egli non avrebbe certo impiegato l'espressione di "macchina da calcolo" se avesse ritenuto il riferimento alle mani come un fatto provvisto, per così dire, di un valore puramente narrativo. Un poco rassicurati nei nostri intenti, cominciamo a prendere coraggio ed a precisare le nostre idee sulla faccenda del contare come processo "psicologico". Anzitutto quest'ultima espressione suona assai singolare se riferita a questo contesto. In fin dei conti la mano è tutto meno che un componente psichico, la mano è una mano, semplicemente: una parte del corpo, e non un elemento dei nostri vissuti. Di fatto la documentazione di Ifrah riguarda la mano proprio da questo punto di vista: essa interviene all'interno di una trattazione che riguarda quelli che Ifrah chiama i metodi corporei in genere. A tutta prima sembra si tratti soltanto di possibili varianti del metodo del tanti-quanti. In luogo di prendere dei bastoncini o delle conchiglie, facciamo riferimento alle dita della nostra mano cominciando, come facevano i Papua della Nuova Guinea, dal dito mignolo della mano destra [8] . In una descrizione più precisa: con la mano sinistra tocco il dito mignolo della mano destra quando la prima pecora è entrata nell'ovile; poi tocco l'anulare, il medio, l'indice, il pollice. E non mi fermo qui. Procedo verso il polso, il gomito, la spalla destra - e poi ancora più su l'orecchio destro, l'occhio destro, il naso, la 46 bocca, l'orecchio sinistro... e via di questo passo toccando tutte le parti importanti del corpo, genitali compresi (che corrispondono al numero ventisette) fino alle dita dei piedi. Dopo le quali, anzi precisamente dopo il mignolo del piede sinistro, cominciano semplicemente i "molti" (a meno di ulteriori artifici si perviene in questo modo al numero 41). In apparenza dunque non faccio nulla di diverso dal metodo dei bastoncini e delle conchiglie. Di fatto potremmo sostenere che non c'è qui alcun conteggio vero e proprio e nessun nu­mero nello stesso senso in cui sostenevamo ciò nel caso del metodo tanti-quanti. Potrebbero non esserci addirittura nomi per numeri, essendo la quantità designata dal percorso ad es. dal mignolo al gomito destro o dal mignolo all'orecchio sinistro essendo naturalmente tale percorso fissato una volta per tutte. Alla domanda "quante perle?" si risponde, ad esempio: dal mignolo all'ombelico. Possiamo parlare veramente del nome di un numero di fronte ad una simile designazione e di numero per ciò che essa designa? In realtà, se c'è numero, questo non ha alcuna autonomia rispetto al gesto, ma è ancora tutto impastato dentro di esso. Il riferimento al gesto ed alle parti corporee sembra dunque essere l'unica differenza del metodo corporeo rispetto al metodo del tanti-quanti. Ad un primo sguardo questa differenza appare concettualmente irrilevante. Al più potremmo notare come un progresso il fatto che invece di dover ricorrere ad un molteplicità di insiemi-modello, in questo caso l'insieme modello è uno solo. Un progresso significativo, ma non più di tanto. Le cose invece stanno altrimenti. Avremmo infatti una ben scarsa capacità di osservazione se non notassimo che vi è una differenza assai vistosa che in realtà ci porta su un terreno interamente nuovo. Questa differenza consiste nel fatto che l'in­sie­me modello è un insieme ordinato, le mie dita non sono con­tenute in un sacchetto e io non le vado casualmente estraendo ad una ad 47 una. Si tratta invece di un percorso che io debbo compiere e che deve essere invariabilmente lo stesso, cioè deve cominciare sempre dal dito mignolo della mano destra e prose­guire nel mo­do che abbiamo detto: non può cominciare una volta dal dito mignolo della mano destra, un'al­tra volta dal pollice della mano sinistra o dall'o­re­c­­chio destro. Altrimenti non potrei asso­lutamente raccapezzarmi e la funzione di unico insieme-mo­dello ver­rebbe interamente meno. Il progresso rappresentato dall'unicità dell'insie­me modello è strettamente legato e dipendente dal radicale mutamento nel­ l'applicazione del metodo del tanti-quanti che ora si riferisce ad una molteplicità ordinata. Si noti di passaggio che l'ordine, che pur in qualche modo appartiene ad un "rosario", non interviene a riorientare in modo significativo quella procedura in questa nuova direzione. Esso appartiene in certo senso più all'oggetto co­me tale che al modo del suo impiego. In realtà l'inizio, in un rosario, potrebbe essere deciso di volta in volta, essendo necessario soltanto che esso venga tenuto fermo per ogni particolare operazione di conteggio. Riflettiamo ancora su questo punto: questioni come quelle sul modo di contare dei Papua non rafforzano proprio la tesi di coloro che ritengono queste faccende prive di interesse sotto il profilo teorico? Vi sono infatti riferimenti a pratiche particolari, relative ad un determinato contesto culturale, e non è certamente difficile richiamare l'atten­zione sulla loro accidentalità. La nostra opinione è invece che proprio sulla base di un simile esempio risulti molto chiara la differenza che deve essere posta tra aspetti accidentali ed aspetti invece che accidentali non sono ed hanno una notevole rilevanza concettuale. Accidentale ovvero concettualmente irrilevante, è il fatto che si cominci in un modo piuttosto che nell'al­tro, dal mignolo piuttosto che dal pollice; e persino il fatto che il riferimento dominante sia una parte del corpo o il corpo intero, per quanto que­sta circostanza possa essere interessante da altri punti di vista. 48 Non sono invece irrilevanti le ragioni per cui il corpo assolve qui un ruolo tanto significativo: esso rappresenta esemplarmen­ te un sistema ordinato in genere, il sistema ordinato che ci è al tempo stesso più noto e più vicino. Riusciamo così a identificare con chiarezza in che cosa consista propriamente la componente psicologica - un punto che in genere non viene affatto precisato proprio da coloro che intendono il contare come mero processo psicologico: essa consiste nel vissuto della corporeità come un sistema che si presenta con la massima evidenza come provvisto di un ordine interno - sistema che viene messo in opera nel coordinamento delle proprie attività finalizzate al raggiungimento di uno scopo. Ma se si trat­ta di questo è evidente che questa componente può es­sere neutralizzata, essendo subordinata al problema del­ l'or­dine che assume invece il massimo rilievo dal punto di vista concettuale. §9 Emergere del problema dell'ordine e legame tra la procedura di conteggio e l'idea della posizione - Conte, filastrocche infantili ed altre strane usanze - In che senso potrebbe essere giusto parlare del corpo come "origine dell'aritmetica". La parola "contare" comincia finalmente ad assumere una fisionomia più precisa, anche se molti dubbi restano aperti. Il conteggio è infatti ancora profondamente innestato nel gesto che lo accompagna e non viene ancora districato da esso. "Nessuno di tali riferimenti corporei è visto dagli indigeni quale 'numero', trattandosi piuttosto ai loro occhi dell'ultimo elemento di un insieme tipo al termine del quale si perviene in seguito a una precisa successione di movimenti rivolti a quelle parti del corpo" [9] . Tutto ciò ha un'importante conseguenza. Come ab­bia­mo già messo in rilievo, nessuna parte del corpo presa in se stessa 49 può valere come segno di un numero, ad es. per indicare il numero 7: "La mera designazione di una di esse non basta a caratterizzare una certa quantità di esseri o di oggetti se questa non è corredata dalla serie dei gesti corrispondenti" [10] . Non c'è dunque né il numero né un'effettiva effettiva designazione di esso. È emerso tuttavia il nuovo motivo dell'ordine ed è proprio in base a questo motivo che siamo vicinissimi a superare in modo netto e definitivo il metodo del tanti-quanti: ci troviamo sul punto di realizzare questo superamento e di acquisire una nozione astratta di numero e di pervenire ad una sua effettiva simbolizzazione. Una situazione di transizione verso questo obbiettivo non è difficile da immaginare: si tratterà di una situazione in cui si farà riferimento agli elementi concreti della serie, chiamandoli proprio con il loro nome consueto - mignolo, anulare, medio, indice, pollice: ma, essendo questo ordine perfettamente costante, le parole impiegate in questo contesto tenderanno a distaccarsi sempre più dal loro significato concreto che le vincola alle dita della nostra mano per assumere il significato astratto della posizione all'interno di una sequenza ordinata. Particolarmente interessanti per l'evidenza che con­ feri­ scono al problema dell'ordine gli esempi forniti da Ifrah in cui vengono impiegate pure e semplici forme verbali, talvolta senza significato o divenute tali, come procedure di conteggio che naturalmente possono sopravvivere anche dopo la "scoperta" del numero. Tra queste vanno annoverate le "conte" nei giochi infantili, quando si deve scegliere a caso uno dei protagonisti del gioco. Am, stram, gram Pike, pike, kollegram Bouré, bouré, ratatam, Am, stram, gram Così dice una vecchia filastrocca germanica, che ha un senso ma 50 che è anche ai limiti del non senso [11] . Queste "conte" ricordano lo stile delle formule magiche ed in effetti potrebbero ricollegarsi di fatto ad esse. Numerose sono le credenze superstiziose sui malanni del contare; nella capanna è meglio non dormire con i piedi rivolti all'uscita per evitare che gli spiriti maligni ti contino le dita dei piedi [12] con conseguenze sicuramente spiacevoli. Cosicché se vogliamo o dobbiamo a tutti i costi contare qualcosa potrebbe essere una buona idea non usare i noti nomi dei numeri. E cos'altro allora? Una filastrocca, ad es., una litania, una formula verbale qualunque purché le parole abbiano un'ordine assolutamente fisso. Questa è la condizione importante, mentre il significato delle parole è irrilevante. Se ne avevano uno, tenderanno a perderlo assolvendo sempre più la funzione generale di indicatori di posizione. Forse l'esempio più notevole non è tratto né dalla storia, né dal folklore, ma da un ricordo personale riferito da Ifrah di un bambino disadattato che enumera le cose che gli stanno intorno usando nomi di altri bambini: André, Jacques, Paul, Alain... Da dove deriva questa - vorremmo quasi dire - strana usanza? Deriva dal fatto che nel dormitorio del collegio in cui vive, André occupa il primo letto, Jacques il secondo, Paul il terzo, Alain il quarto... Cosicché quest'ordine si è imposto come una sorta di ordine-modello a cui il bambino riporta le molteplicità da contare. Evidentemente il riferimento ormai non è più quel determinato bambino che dorme nel primo letto, e non è nemmeno un nome provvisorio che viene attribuito ora a questo ora a quell'altro oggetto, ma tende ad essere appunto niente altro che un nome di posizione e nello stesso tempo un mezzo per contare [13] . Importante dunque non è il corpo umano come tale, per quanto possa essere detto origine dell'aritme­tica [14] , ma il modello di ordine che esso esibisce e che ten­de a diventare un ordine astratto: "I rispettivi riferimenti... evocano allora in misura sempre minore le parti del corpo, identificandosi invece sempre 51 più con una determinata serie di numeri; essi tendono dunque a distaccarsi dal contesto loro proprio e a divenire applicabili a esseri, oggetti o elementi qualsiasi. È questa la ragione per cui le tecniche corporee del numero rivestono tanta importanza nella storia universale dell'aritmetica, essendo indubbiamente esse ad aver fatto assumere coscienza ai nostri lontani progenitori della nozione di ordine, destinata a svolgere un ruolo essenziale sia in matematica che in ogni altra scienza. Grazie a ciò esse hanno per­messo loro di acquisire poco alla volta la facoltà del computo, inaugurando la strada di un'effettiva comprensione dei numeri astratti. Senza di esse i nostri procedimenti numerici probabilmente non avrebbero superato la fase delle tecniche elementari dell'appaiamento" [15] . § 10 Ciò che manca ai metodi corporei per approdare realmente sul terreno del numero - Limiti dell'organicismo dell'or­dine - In che senso parlare del corpo come origine dell'aritmetica potrebbe essere del tutto sbagliato. È opportuno in ogni caso indugiare un poco sulle ragioni per le quali non possiamo affatto arrestarci alle acquisizioni precedenti, certo già in se stesse significative [16] . In fin dei conti non siamo ancora affatto approdati alla serie numerica vera e propria, nemmeno nella forma cieca in cui la abbiamo imparata a scuola, alla "filastrocca" dei numeri - 1, 2, 3, 4... Possiamo solo affermare che ormai siamo abbastanza vicini ad essa. Tuttavia se chiedessimo se le parti del corpo percorse in successione possano forse essere intese come qualcosa di simile ad una serie numerica, sembrerebbe giusto dare una risposta dubitativa. Restiamo ancora nell'ambito delle grossolanità qualitative, e d'altronde nulla è più caratteristico del fatto che la successione si chiude inesorabilmente sul mignolo del piede sinistro, oltre il quale non può esservi altro che l'inde­terminatezza dei "molti". In realtà ha scarsa che importanza che il "molti" venga dopo 52 il numero dopo il numero tre o il numero cinque o il numero 41. Ciò che manca in ogni caso è l'idea della proseguibilità infinita. Ma allora c'è qualcosa che non va nel tipo di relazione che si istituisce tra l'uno e l'altro elemento della serie ordinata data. Questa relazione è tale da non proporre o imporre a partire da se stessa la possibilità della prosecuzione. Qual è il senso di questa circostanza tanto singolare, come può accadere che l'idea dell'ordine non si incontri con quella della proseguibilità infinita, che sembra essere ad essa strettamente correlata? Evidentemente, l'ordine di successione, così come è fissato nel sistema corporeo è strettamente subordinato al dato di fatto di questo sistema, cosicché l'essere prima, il precedere o il seguire non ha alcun senso generale e resta interamente all'in­terno del sistema stesso. Questo sistema è un sistema chiuso: il nostro corpo non si prolunga fattualmente al di là delle nostre membra. Possiamo riconoscere un ordine in esso, in esso vi è la possibilità di un percorso relativamente stabile, sia pure con qualche margine di gioco. Di conseguenza quando il sistema "termina", ovvero raggiunge i proprio confini, termina anche ogni appiglio per il proseguimento di un ordine. Il "molti" indeterminato, che subentra all'ultimo elemento del sistema, ha il senso dell'essere-fuori-dal-sistema, e tutto ciò ha anche strettamente a che vedere con il tipo di relazione che collega l'un mem­bro all'altro. Di che tipo di relazione si tratta? Non c'è dubbio che, come abbiamo già osservato, la scelta del metodo corporeo sia dovuta al fatto che nell'espe­rienza corporea è avvertita la connessione delle parti e la loro correlazione interna in senso psicofisiologico: cosicché le parti che costituiscono i nodi della successione stanno l'una accanto all'altra, assumendo questo senso solo in virtù della loro appartenenza all'intero fattuale della corporeità. Ora questa caratteristica, che in qualche modo ci avvicina alla problematica del numero, anche ce ne allontana poiché questo essere l'uno accanto all'altro ha un carattere concreto, non meramente relazionale. Al 41 non segue il 42 per il semplice fatto che 53 accanto al mio piede e fuori da esso non c'è nulla che mi appartenga come il mio dito mignolo. Quindi c'è un essere accanto all'altro in forza di un'unità sovraordinata, e nello stesso tempo questa forma relazionale non ha la possibilità di svilupparsi al di fuori dell'unità a cui le parti sono subordinate. L'or­ganicismo che rappresenta un superamento della mera dispersione del metodo del tanti-quanti e che suggerisce il problema dell'ordine, rappresenta un limite che deve essere superato. Vogliamo spiegare meglio questo punto. Un esempio di ordine non troppo dissimile a quel­lo delle dita di un mano potrebbe essere quello di una fila di alberi. Volendo mettere in evidenza essenzialmente l'aspetto dell'ordine, e quindi la forma tipica della fila, questa potrebbe essere schematizzata con una sequenza di tratti: In questo stesso modo potrebbe essere schematizzata anche la successione delle dita delle mani. Naturalmente affinché si dia la percezione di una successione questa figura deve essere intesa come percorsa da sinistra a destra o da destra a sinistra, e siamo liberi di scegliere l'uno e l'altro percorso così come siamo liberi di scegliere di prendere le mosse dal mignolo oppure dal pollice. Ma a parte questo margine di gioco, la fila si presenta percettivamente come una fila, e quindi con un ordine in qualche modo "interno" alla configurazione, ed ogni elemento della configura- 54 zione occupa in essa una posizione determinata. Naturalmente vi sono varie condizioni che debbono essere soddisfatte affinché si dia questa forma, ad esempio gli alberi debbono essere approssimativamente a distanza eguale, ecc. L'effetto della fila può essere rafforzato o indebolito variando certe circostanze (ad esempio, l'altezza, ecc.). Stando alle apparenze delle configurazioni percettive dobbiamo distinguere piuttosto nettamente tra configurazioni del tipo "una fila di alberi" da configurazioni del tipo "un mucchietto di sassolini". Un sassolino ha con l'intero una relazione piuttosto debole, e così anche con un altro sassolino. Ad esempio, se viene tolto un elemento da una fila si noterebbe una lacuna, e se viene tolto più di un elemento la configurazione può risultare scompaginata. Ciò non accade con i sassolini. Ed è inutile dire che un certo sassolino può occupare un luogo qualunque nel mucchietto - ed anzi proprio per questo si parla di "mucchietto". Tra l'uno e l'altro caso vi è tuttavia un nesso. Se abbiamo tratto alcuni sassolini e poi li abbiamo messi in una fila, possiamo sempre rimettere i sassolini dentro il mucchietto da cui li abbiamo presi ed essi torneranno ad essere quelli di prima - elementi di un insieme privo di un ordine interno. Certo, essi potrebbero essere stati incollati al pavimento al momento di disporli in fila, così da rendere difficile o impossibile riportarli nel mucchio - ma questa impossibilità fattuale non cambia il senso dell'esempio: tra la fila come forma di ordinamento e il sassolino che entra in quella forma non vi è alcun rapporto di implicazione reciproca. Ciò che ora sta in un ordine può anche stare in un mucchio. La mano si è potuta imporre come macchina da calcolo e come insieme-modello in generale soprattuto per il fatto che l'ordine è in questo caso assai stabile: alla disposizione delle dita si aggiungeranno poi convenzioni facili da rispettare: c'è chi potrebbe considerare l'ordine dal pollice al mignolo come probabilmente farà ognuno di noi, oppure dal mignolo al pollice come 55 farebbe un antico papua della Nuova Guinea. Al di là di un certo margine di discrezionalità si impone tuttavia un ordine che dipende dalla conformazione della mano. Nello stesso tempo potremmo dire che questo ordine è privo di una necessità interna e che le nostre dita sono in certo senso soltanto incollate sul palmo della nostra mano. Non possono essere rimesse in un sacchetto come nel caso dei bastoncini o dei sassolini - ma questa impossibilità non è connessa ad un ordine necessario della loro disposizione. La loro conformazione è importante, rappresenta un dato di fatto "favorevole" dal momento che in base ad essa sono resi possibili conteggi anche piuttosto complessi. Ifrah rammenta come ipotesi sull'origine della base 12 la possibilità di toccare con il pollice ogni falange delle altre quattro dita: e osserva spiritosamente che un polipo farebbe molto più fatica di noi a contare ed a escogitare metodi di conteggio nonostante l'abbon­dan­za delle sue propaggini prensili. Ma si tratta appunto di conformazioni fattuali accidentali - e se noi ci attenessimo ad esse non riusciremmo in alcun modo a fare quel passo avanti che è assolutamente necessario per approdare su un terreno che meriti di essere chiamato "aritmetico". Parlare della mano come macchina da calcolo e del corpo come origine dell'aritmetica non avrebbe senso, anzi sarebbe profondamente sbagliato se non venisse chiarita e spiegata la limitazione intrinseca - anzitutto di ordine concettuale - che è qui presente. § 11 Necessità di una rinnovata riflessione sul problema dell'ordine - L'idea di un ordine intrinseco - Ordine e ripetizione - Ripetizione semplice e ripetizione concatenata - Ordine intrinseco e concatenazione. La riflessione ritorna dunque nuovamente sul problema dell'or­ dine. Abbiamo detto: alla base dei sistemi corporei non vi è l'idea pura e semplice di un insieme-modello a cui verrà correlato il 56 particolare insieme da determinare. Il punto importante sta nel­ l'u­nicità dell'insieme-mo­del­lo, unicità che è strettamente associata all'idea della stabilità dell'ordine secondo cui i suoi elementi sono disposti. Abbiamo tuttavia attirato l'attenzione sul fatto che una stabilità fattuale - sia che dipenda dalla conformazione fisica della cosa stessa sia da qualche consuetudine consolidata (come nell'esempio degli amici del bambino che abbiamo rammentato in precedenza) - è ancora lontana dal poter proporre il pensiero del numero. L'insegnamento che possiamo trarre dalle considerazioni svolte fin qui è che questo pensiero è vincolato ad un ordinamento che sia tale per ragioni essenziali, il che significa ad un ordinamento necessario, a priori. Non abbiamo nessuna difficoltà ad impiegare vecchie parole del­la tradizione filosofica, ma vorremmo farlo determinando­ne con chiarezza il contesto. Cosicché ci chiediamo: che tipo di connessione deve sussistere tra un elemento e l'elemento successivo di una successione affinché si possa parlare di un ordine intrinseco, che sia del tutto indipendente da considerazioni empirico-fattuali? Quale condizione deve essere soddisfatta affinché un determinato elemento di una successione occupi necessariamente e non occasionalmente una determinata posizione? Per rispondere a questa domande in realtà dobbiamo spostare la nostra attenzione proprio, e finalmente, al problema della ripetizione. Ad esso dobbiamo ripensare tenendo conto di ciò che abbiamo già detto, ma anche del nuovo contesto in cui il problema ci si ripresenta, che non può dare per acquisito, come potevamo invece fare in precedenza, la nozione del numero. Potremmo allora, rispettando questa consegna, richiamarci non tan­to all'idea della molteplicità e degli oggetti di cui essa è costituita quanto piuttosto all'esercizio di un'a­zione ovvero all'e­secuzione di un'operazione. Soprattutto in rapporto ad azioni o ad operazioni si parla di ripetizione. Oppure in rapporto ad eventi, i quali 57 peraltro sono in via di principio all'interno di una processualità. Quando questo termine viene riferito ad oggetti viene implicata, più o meno debolmente, una componente dinamico-processuale, sia in quanto si tratta di oggetti che fanno effettivamente parte di eventi (come nel caso di suoni all'interno di una melodia), sia attraverso una "proiezione" che conferisce un dinamismo interno alla staticità dell'oggetto. Quest'ultimo caso è per noi particolarmente interessante: talvolta possiamo trovare opportuno parlare di ripetizione in rapporto ad una configurazione visiva, ad esempio potremmo usare questo termine in rapporto ad una configurazione come la seguente: Questa è una circostanza interessante perché il vedere nella figura qualcosa che si ripete significa in certo modo proiettare l'or­dine della figura sul piano di una operazione possibile che la ha generata: Se in questo caso parliamo di ripetizione, potremmo osservare che con questa parola si fa emergere un'al­lu­sio­ne, ad esempio, ad una possibile operazione di duplicazione e di rotazione a specchio: la figura così intesa viene riarticolata e questa riarticolazione viene interpreta­ta riportandola ad una procedura da cui essa potrebbe essere stata generata. 58 Si riporta l'ordine alla ripetizione. L'or­di­ne appare come un risultato, come qualcosa che è stato prodotto, e dietro l'oggetto si intravvede un modo di realizzazione possibile della figura. Un fascio di relazioni molto ricco e complesso collega ordine e ripetizione. Ma vi è un caso semplice che mo­stra esemplarmente, e in modo particolarmente forte, questo rapporto considerando unicamente la nozione dell'opera­zione ripetuta. Dobbiamo notare anzitutto che ci sono almeno due modi di considerare la ripetizione di un'operazione. Un modo è quello che potremmo chiamare la ripetizione sem­ plice. Supponiamo ad esempio che un maestro propon­ga alla lavagna un triangolo e chieda agli allievi di ricopiarlo. Potrebbe in particolare chiedere che questa azione venga ripetuta più volte. Poiché non vi sono altre istruzioni, gli allievi potranno disegnare triangoli in qua­lunque parte del foglio, e in qualunque disposizione. Quindi: disordinatamente. Certamente i triangoli vengono disegnati l'uno dopo l'altro e quindi vi è un ordine temporale della successione, ma di questo non rimane traccia sul foglio di carta e non è leggibile in esso. In certo senso esso è un ordine meramente soggettivo perché riguarda riguarda le azioni come tali e non il loro prodotto. Ogni passo è chiuso in se stesso nel senso che non presuppone né l'azione precedente né quella successiva. L'oggetto prodotto potrà di conseguenza essere considerato come un oggetto a sé stante, eventualmente con relazioni di somiglianza con gli oggetti che gli stanno intorno. Diversamente stanno le cose per quella che potremmo chiamare ripetizione concatenata. Se ad esempio, l'istru­zione fosse quella di copiare il modello più volte allineando i triangoli tra loro, in base a questa condizione aggiuntiva cominceremmo ad uscire dalla semplice ripetizione per il fatto che dovremmo appunto "agganciare" ciascun disegno al disegno precedente, e l'ordine non avrebbe più carattere meramente temporale ma si imprimerebbe nel dise- 59 gno che assumerebbe anche, in forza di esso, un carattere ad un tempo dinamico ed unitario. Gli oggetti prodotti non saranno semplicemen­te a sé stanti, ma apparterebbero ad un'unità più ampia che si va dispiegando con la ripetizione. La condizione potrebbe essere rafforzata - ad esempio sta­ bilendo che ad ogni passo, a partire dal modello, il triangolo de­ve essere rappresentato ruotato a destra di 90°. In questo caso non si può prescindere anzitutto dalla disposi­ zione del triangolo dato come modello e ogni figura risulta for­ temente concatenata alla figura precedente ed alla figura succes­ siva. La figura fornita come modello dal maestro assume netta­ mente il carattere di "inizio" di una successione di figure fra loro correlate. Alla terza ripetizione dell'operazione corrisponderà una disposizione determinata tra le quattro possibili disposizioni che il triangolo può assumere. Ogni passo è aperto al successivo e nello stesso tempo si ricollega al passo precedente. Il prima e il poi diventano irri­ levanti per qualificare un'ordine che si trova ormai all'interno della serie di figure ed in dipendenza del tipo di ope­razione che le ha prodotte. Vogliamo ora considerare la nozione di operazione in un'a­­­ stratta generalità: in essa si distinguerà la base dell'o­pe­ra­zione, che è ciò su cui essa viene esercitata, e il risultato dell'o­pe­razione, che è ciò che viene prodotto nell'applicazione del­l'ope­razione ad una base. Nella possibilità di fare del risultato di un'appli­cazione dell'o­pe­­razione la base per una nuova applicazione di essa sta tutto il concetto della ripetizione concatenata. In rapporto ad 60 essa parleremo anche di ripetizione (iterazione) ricorsiva o di ricorsione (restringendo dunque il termine di "ricorrere", che è un possibile sinonimo di "ripetere" o "iterare"). Occorre tuttavia notare che quest'ultima espressione - che appartiene ad un'elabo­razione matematica evoluta - andrà sempre intesa in stretta aderenza al nostro contesto elementare di discorso [17] . Quando si verifica l'applicazione ricorsiva di un'o­pe­ra­zione, a partire da un unico oggetto inteso come inizio, il risultato complessivo, ottenuto in un punto qualunque dell'ap­pli­cazione, sarà una successione di elementi attraversata da un ordine intrinseco. In effetti, essendo dato un primo elemento, ogni altro elemento è costruito in modo da presupporre, nella regola della sua costruzione, l'elemento precedente. In questo contesto, le vecchie parole della nostra tradizione filosofica come essenziale, necessario, a priori assumono un significato pienamente comprensibile. L'interruzione della ricorsione dovrà, a sua volta, essere ritenuta puramente "accidentale". In altri termini non vi sono ragioni di principio perché l'applicazione ri­corsiva debba terminare in questo o quel punto - cosicché possiamo dire che l'i­ terabilità spetta all'opera­zione in via di principio, e ciò significa naturalmente la stessa cosa che affermare che essa è iterabile ad infinitum. È interessante notare che, come in precedenza il tipo di relazione tra gli elementi del corpo non consentivano la "proseguibilità" della serie, così ora questa proseguibilità è garantita ed assicurata dalla stessa idea della concatenazione. La relazione che sussiste tra un elemento della serie e l'elemento precedente assicura che dato un elemento se ne potrà sempre costruire un altro. Si è messa in moto una macchina inarrestabile. Questa apertura infinitaria fa parte della rete concettuale che siamo riusciti a fare emergere liberandoci dalle scorie delle nostre precedenti esemplificazioni empirico-con­crete. 61 § 12 Le serie ricorsive - La serie che rappresenta la forma della concatenazione - Ciò che mancava ai metodi corporei era il pensiero della concatenazione - In rapporto ai numeri si può dire che il loro essere coincide con il loro luogo - Il numero come oggettività sintattica. Se ora volgiamo lo sguardo indietro, possiamo notare quanto strada abbiamo fatto allontanandoci dal piano dei metodi corporei. Come abbiamo osservato in precedenza, il limite di quei metodi non consisteva tanto nel fatto che la serie risultava bloccata in un numero massimo, quanto piuttosto nel fatto che questo blocco non poteva essere superato restando sul loro terreno e la sua esistenza denunciava la mancata acquisizione di una nozione autentica di numero e di serie aritmetica. In realtà l'arresto della serie potrebbe sembrarci sorprendente e inesplicabile. Come è possibile non riuscire a effettuare un passo così semplice al di là del nu­mero 41? Il primitivismo può essere esso stesso una ragione o non dovremmo forse di que­sto primitivismo cer­care una ragione? Stando al punto di vista proposto si comprende benissimo la ragione per la quale questo passo non può essere effettuato: infatti la serie da 1 a 41 - secondo la conta dei Papua - non è affatto una serie numerica parziale per il semplice fatto che una serie numerica parziale non esiste: se c'è una parte della serie numerica, essa deve poter esserci tutta. Il nodo della questione sta nel fatto che l'ordine non era in quel caso un ordine "intrinseco" - tra l'uno e l'altro elemento della serie non vi era dunque un rapporto di concatenazione. Cosicché l'ordine doveva essere contenuto dal sistema corporeo come un sistema non oltrepassabile. Ora abbiamo trovato una risposta soddisfacente proprio alla domanda intorno alla condizione che deve essere soddisfatta affinché un determinato elemento di una successione occupi necessariamente e non occasionalmente una determinata po- 62 sizione. La risposta punta sulla possibilità di riportare l'ordine all'ite­razione, e pre­cisamente in modo tale da rendere conto del formarsi di un ordine intrinseco. Un primo risultato delle nostre considerazioni è dunque il seguente: l'ordine intrinseco è una proiezione sul piano obbiettivo-relazionale (ontologico) dell'iterazione ricorsiva dell'ope­ra­z ione. Per pervenire alla serie aritmetica vera e propria (e quindi dei numeri sic et simpliciter) è tuttavia necessario fare un passo ulteriore. Vogliamo intanto chiamare serie ricorsive [18] le serie i cui ele­menti sono connessi tra loro da una relazione di concatenazione. Tutte le serie ricorsive hanno una forma comune - e noi diciamo che la serie aritmetica ovvero la serie dei numeri è quella serie che rappresenta la forma comune delle serie ricorsive. Essa è la serie rappresentativa della forma della concatenazione in generale. Ciò che mancava ai metodi corporei per raggiungere il terreno aritmetico vero e proprio era il pensiero della concatenazione. Questo pensiero diventa effettivo solo nel­la posizione della serie aritmetica, e questa nello stesso tempo fornisce finalmente anche quell'oggettiva­zione che rende possibile il parlare di numeri come oggetti. Il numero è un oggetto in quanto può fare da sostrato a determinazioni predicative, e non in modo fittizio, secondo le pretese riduzioni logico-grammaticali che rappresentano un'au­ten­tica ossessione del pensiero empirista. Di un numero si può dire che esso è pari o dispari, che è scomponibile in fattori primi, che si trova in questa o quella relazione con altri numeri, ecc. Ma certamente si tratta di un oggetto molto particolare. L'intro­duzione del numero non può avvenire se non si introduce al tempo stesso la serie aritmetica. La sua "indipendenza" ha come condizione la sua appartenenza ad essa. Gli oggetti che appartengono a questa serie sono appunto i numeri, sic et simpliciter - non sono più numeri-di...: né di questo né di quello. Potremmo allora dire che il numero è una entità la cui consistenza d'essere coincide con il luogo (posizione) che essa occupa in 63 forza del modo in cui essa è stata prodotta. Perciò, come si può accentuare la solidità ontologica del numero, così se ne potrebbe accentuare l'evane­scenza. Già la possibilità di parlare di un essere che è il suo luogo sembra segnalare che il numero è quasi nulla. Il numero-di... si appoggia sempre a qualche cosa - ad insiemi, ordini, operazioni. Ognuna di queste nozioni può presentarsi depurata da ogni componente empirico-fattuale, come una nozione puramente matematica - ma in ogni caso può trovare anche un'esem­plificazione nell'esperienza percettiva. Nel­l'idea del numero come numero-di... la realtà stessa è presente, sia pure in uno sfondo più o meno lontano. Nella storia fenomenologica del numero dobbiamo prendere le mosse da quelle nozioni e precisamente dal modo in cui esse possono essere concretamente esemplificate e cadere sotto la presa dell'esperienza. Ma quando, seguendo un preciso percorso, perveniamo al numero come oggetto, in certo senso esso non si appoggia su nulla. Non trova alcun sostegno nella realtà. Rispetto al numero considerato come numero-di... è stato effettuato un vero e proprio salto: il numero si costituisce come pura oggettività sintattica, cioè come un'oggettività che è in forza della sintassi iterativo-ri­corsiva che sta alla base della serie aritmetica. Annotazioni 1. È appena il caso di dire che non ci siamo posti alla ricerca di una caratterizzazione definitoria generale del numero, una caratterizzazione cioè sotto la quale dovrebbero essere sussunti i diversi tipi di numero in generale possibili o comunque noti. I numeri di cui parliamo sono sempre i numeri cosiddetti "naturali". Questa espressione è stata evitata per via della sua equivocità: non si può dire infatti che si capisca subito quale sia la "natura" che qui viene evocata. Dopo aver compiuto il nostro itinerario ci sembrerebbe tuttavia una buona decisione quella di dissolvere quel tanto di enigmatico vi è in questa "naturalità" nell'idea della loro primarietà "genealogica". I numeri normalmente detti "naturali" sono proprio quelli che nel percorso genealogico si incontrano per primi. 64 2. Si sarà certamente notato che nella nostra discussione non abbiamo fatto alcun cenno alle operazioni aritmetiche in senso u­suale e in particolare all'addizione. Non avremmo dovuto dire che la serie aritmetica è generata dall'iterazione dell'operazione + 1 a partire dall'inizio 0? Si consideri allora questo punto: le operazio­ni aritmetiche sono operazioni con i numeri, e dunque i numeri debbono in qualche modo esserci già. La serie aritmetica non può avere origine da un'operazione aritmetica. Dal punto di vista che abbiamo assunto, si parla di operazioni in generale, e non di operazioni aritmetiche; e di serie ricorsive come serie generate da operazioni ricorsive; infine della serie aritmetica come serie rappresentativa della forma della concatenazione. Solo al di là della soglia, quando abbiamo ormai a che fare con numeri, si può parlare dell'ad­dizione come un'operazione che ha numeri come base e come risultato [19] . § 13 Riproposizione del problema del contare - Nel contare non si sorteggiano numeri - Cardinalità, ordinalità e iteratività - Importanza fondamentale del numero iterativo nella filosofia del numero - Iterazione e apertura infinitaria - La soppressione dell'esperienza. A questo punto possiamo finalmente dare una risposta alla domanda intorno al rapporto tra il numero e il contare che abbiamo più volte formulata e che in realtà abbiamo sempre lasciata in sospeso. Propriamente si trattava di decidere quale significato attribuire alla parola "contare" e in che modo essa possa essere connessa con il numero, qualora si ammetta l'esistenza di una relazione significativa dal punto di vista concettuale. Naturalmente dipende solo da noi lo stabilire o meno di usare la parola "contare" in un'accezione tanto ampia da poter abbracciare qualunque metodo di deter­minazione quantitativa di una molteplicità. In questa accezione possono cadere ovviamente tutte le varianti delle procedure del metodo tanti-quanti e dei metodi corporei in genere. Analogamente saranno nomi di 65 numeri tutti i termini utilizzati in quelle procedure per indicare le determinazioni quantitative acquisite. L'intero percorso che abbiamo compiuto fin qui mostra tuttavia che è più istruttivo riconoscere l'op­portunità di operare una precisa restrizione. C'è il contare se c'è la serie dei numeri nel senso proprio del termine - ed allora contare significa essenzialmente, come è stato spesso notato, stabilire una correlazione tra la mol­teplicità da contare e la serie aritmetica. Questa osservazione va tuttavia accompagnata dal­la consapevolezza che la formazione di una serie aritme­tica, e quindi il concetto di numero, concresce all'in­ter­no della crescita stessa del problema del contare. Ma questa precisazione non basta ancora: il parlare di una correlazione tra la molteplicità da contare e la serie aritmetica può indurre nell'e­quivoco di intendere il contare come un'ap­pli­cazione del metodo del tanti-quanti che si ripresenterebbe dopo la costituzione della serie. In tal caso il procedimento del contare viene frain­teso in ciò che esso ha di più caratteristico, e cioè nel riferimento alla serie numerica come rappresentativa del­la forma della concatenazione. La proposizione fondamentale della filosofia del numero potrebbe essere: i numeri non si possono mettere in disordine. Ciò ha naturalmente strettamente a che vedere con un preciso modo di intendere il processo del contare. Nel contare non si gioca a tombola. Non vi è da un lato un sacchetto di sassolini e dall'altro un sacchetto di numeri; i numeri con cui si conta non vengono estratti a sorte, come potrebbe accadere per un qualunque insieme-modello. Dunque nel contare non vi è nessun me­todo del tanti-quanti. Il contare è interamente determinato dal­la presenza dell'ordine e precisamente da un ordine che ha la forma della concatenazione, anche se questa presenza si consuma all'interno del processo stesso. Non solo i numeri debbono essere "presi" nel­l'or­dine che spetta loro, ma questa circostanza fa sì che alla molteplicità da contare sia prestato un ordine provvisorio, che è il percorso tracciato dallo stesso processo del 66 contare, nel quale ogni elemento della molteplicità dovrà mantenere provvisoriamente quel posto che il contare gli ha assegnato almeno fino al termine del conteggio. Si conta appunto dal primo elemento all'ul­timo. Riprendiamo da Ifrah le due figure che egli propone molto opportunamente per illustrare questo punto [20] : La cardinalità viene determinata attraverso l'ordinalità, l'ordina­lità rimanda all'iterazione ed il contare in questa accezione ristretta presuppone la costituzione del numero come oggettività e nello stesso tempo come costruzione iterativa. Il numero-di-volte, che così raramente viene ram­men­tato nella filosofia del numero assume, all'in­terno della nostra esposizione, un'importanza fondamentale nel rendere conto del problema dell'ordine e della forma di concatena­z ione - e dunque della formazione della serie aritmetica. Non è naturalmente irrilevante il fatto che abbiamo voluto par­lare di numero-di-oggetti, del numero-di-posizione e del numero-di-volte prima di parlare del numero sic et simpliciter. E che poi nel corso della nostra discussione siamo in certo senso invitati a ripercorrere a ritroso quel­le distinzioni iniziali. Risulta infine confermato e ribadito che, se il problema del contare viene correttamente affrontato, è possibile isolare con chiarezza le componenti che hanno un puro interesse antropologico o psicologico da quelle che non riguardano la mera empiria degli impieghi numerici. In effetti laddove ci sembra interes- 67 sante fare riferimenti a questa empiria, come anche noi abbiamo fatto, ci troviamo ben oltre le pura curiosità e l'aneddotica, perché all'interno di questi materiali sono leggibili i problemi di una "storia" che racconta molte cose intorno allo statuto teorico del numero. In questa storia si vede anche in che modo riusciamo finalmente a liberarci dalle pastoie dei dati intuitivi, dai riferimenti materiali, dal rapporto con l'immediatezza e la concretezza. Occorre indugiare a lungo presso il concreto per comprendere a fondo quanto lontano possa andare il pensiero astratto, e quanto siano ristretti i limiti del­l'"in­tuizione". Come abbiamo visto in precedenza, possiamo affermare che la serie aritmetica non è realmente acquisita, pur essendo in possesso di svariate tecniche di conteggio nel senso lato del termine e di una terminologia per i numeri relativamente evoluta, se queste tecniche sfociano infine nel "molti", nella numerosità indeterminata da cui abbiamo preso anzitutto le mosse. Al di là di un certo limite di chiarezza quantitativa distinguibile si ripiomba nella confusa indeterminatezza del modello percettivo del "molti", l'intrico della foresta, il mucchio di sabbia. In tali condizioni il numero non c'è: la serie non è in grado di continuare. Perciò non è un'autentica serie aritmetica. Il passaggio che mostra che gli argini dei riferimenti concreti sono stati rotti è l'illimitatezza di principio delle iterazioni, ed ancora più precisamente il fatto che siamo qui alla presenza di qualcosa di simile ad un processo ideale che ha in se stesso il principio del proprio movimento. Le operazioni sono iterabili "infinitamente" - il che significa anzitutto che, se una certa regola è stata una volta applicata, allora potrai applicarla ancora una volta, e poi ancora una volta, ed un'altra ancora... Potrai: non proprio tu, non io - in questa o quella situazione concreta. Si potrà, in generale: si tratta di una possibilità fondata sul legame concettuale che unisce l'idea della operazione all'idea di un ancora-una-volta ecceterato. Con questo passaggio infinitario il piano dell'em­piria è cer- 68 tamente oltrepassato: viene in generale superato il piano dell'e­ sperienza per essere mantenuta soltanto la componente strut­­turale liberata dalle sue limitazioni fattuali. Il numero è in certo senso annidato nelle pieghe delle molteplicità concrete, degli ordini empirici, delle configurazioni ghestaltiche, delle operazioni effettuate, delle regole iterativamente applicate. Ma quando esso viene di qui estratto deve presentarsi come pura costruzione logica - cioè come una costruzione che è faccenda soprattutto del pensiero, non dell'esperienza o dell'in­tui­zione. Secondo il senso delle nostre considerazioni l'elemento intuitivo non si trova in una semplice contrapposizione all'elemento logico, così come ciò che è discorsivo si contrappone al non-discorsivo. L'im­portante vincolo tra logica e discorso non esaurisce l'ampiezza di senso della parola "logica", ed inversamente il riferimento all'intuizio­ne intesa unicamente come mera comprensione non-discorsiva non può che essere considerato fortemente fuorviante e riduttivo. Attraverso la percezione non si colgono soltanto degli enti: si colgono anche processi, andamenti, tendenze, rapporti, relazioni, strutture in generale. Queste strutture possono essere apprese con le loro determinatezze empiriche, ma anche all'interno di funzioni ideative che attenuano la forza di queste determinatezze e accentuano invece ciò che in esse appartiene all'ambito delle pure possibilità, quindi ad un ambito a cui la parola "logico" può già cominciare ad essere applicata. Nello stesso tempo, quando ciò accade stiamo già scivolando al di fuori del campo di ciò che è direttamente sperimentato, l'oggetto o la relazione direttamen­te colta (ed in questo senso "intuita") tende a sottrarsi a questa presa per entrare nel campo gravitazionale del pensiero puro - ed eventualmente ad esserne interamente assorbita. L'esperienza dovrà alla fine essere superata e soppressa. Questo tema del superamento ed anzi della soppressione dell'e­ sperienza [21] rappresenta una delle mète importanti del nostro percorso epistemologico. Certamente è un compito squisitamen­ 69 te filosofico riportare alla memoria questa esperienza soppressa. E tuttavia essa, come è suggerito dal termine tedesco di Aufhebung, viene in qualche modo ancora mantenuta, sia pure in lontananza e nell'oblio. La filosofia è un'arte del ricordo. Ma vi è in ogni caso anche qualcosa di profondamente giusto nell'idea, che si ripropone di continuo, di una scienza che deve in qualche modo "liberarsi" dalla filosofia. È come liberarsi dai ricordi - e questo è spesso necessario per procedere oltre. § 14 Qualunque numero deve poter avere un nome - Che cosa è una denominazione sistematica per i numeri - La notazione-tratto. Nelle nostre considerazioni iniziali avevamo segnalato come la parola "numero" possa anche indicare ciò che dovremmo chiamare più propriamente "nomi dei numeri" - cioè dei segni o dei simboli che rappresentano numeri, quindi le cifre. Con questo termine si possono intendere sia le cifre elementari di cui si serve un determinato sistema di notazione sia i segni composti attraverso di esse - in ogni caso si tratta sempre del livello segnico-notazionale. Se ad esempio chiediamo che vengano scritti dei numeri sulla lavagna, intendiamo evidentemente le cifre. Il numero in sé non può apparire intorno a noi tra le cose di questo mondo. La cifra scritta sulla lavagna è la sua rappresentazione nell'ambito di un simbolismo. Dovremmo allora recriminare sulle imprecisioni e imperfezioni del linguaggio comune che stenta sempre a distinguere il designante dal designato, il simbolizzante dal simbolizzato - e che usa la stessa espressione ora per indicare l'oggetto ora per indicare il suo nome? Al contrario, io credo che questo sia un buon esempio che mostra come queste recriminazioni siano giustificate solo secondo i casi. Talvolta le equivocità del linguaggio corrente sono 70 indizi che vanno accolti ed es­plo­rati a fondo proprio perché possono insegnarci qualcosa. In questo caso l'equivocità potrebbe suggerire di esaminare meglio come stiano le cose per ciò che concerne il rapporto tra simbolo (segno) numerico e il numero che esso rappresenta. È possibile infatti che tra l'una e l'altra cosa sussista una sorta di reciproca coappartenenza che potrebbe rendere difficile, se non impossibile separarne i destini. In effetti, quando il rapporto designativo sussiste in forza di una pura e semplice convenzione, simbolizzante e simbolizzato stanno l'uno al di fuori dell'altro come la parola "foresta" rispetto alla foresta o come un nome proprio rispetto al portatore del nome. E perché mai ciò non dovrebbe valere anche per i "nomi dei numeri"? Sembra ovvio che la parola "tredici" non abbia nulla a che fare con il numero corrispondente - un altro nome sarebbe altrettanto possibile, e d'altronde nelle diverse lingue avremo nomi differenti. Ciò lo si potrà dire - forse - anche per le cifre vere e proprie, ad es. per la cifra "13". Anche qui la forma del segno non è obbligatoria, ed un'altra convenzione segnica potrebbe essere utilizzata in luogo di questa. Ma qui siamo tentati da un "forse" che ha il suo peso. Tutti sappiamo infatti che i metodi notazionali evoluti, per quan­to possano essere diversi, sono caratterizzati da un ordine sistematico in base al quale qualunque numero può avere un nome. Nell'esempio non è obbligatoria la forma delle cifra 1 e della cifra 3, e ciò vale in generale per le cifre da 0 a 9. Ma per il resto il nome verrà costruito in base ad una regola in modo da poter ottenere un segno per ogni possibile elemento della serie aritmetica. Si comprende a questo proposito, da un diverso punto di vista, come sia importante distinguere tra una serie aritmetica autentica ed una serie pseudo-aritmetica che termina nel "molti". In questo caso possono bastare designazioni convenzionali, si tratti di segni scritti oppure di gesti che possano essere in grado di contrassegnare determinazioni quantitative realizzate 71 su molteplicità di oggetti. Nel caso della serie aritmetica vera e propria invece si pone il problema di una denominazione sistematica: si tratta cioè di indicare un metodo in base al quale ogni numero producibile all'in­ terno della serie possa essere designato in modo chiaro e distinto. Nel porre questo problema non vogliamo saltare nel bel mezzo della soluzione proponendo la risposta che tutti sanno. Questa risposta risaputa ce la vogliamo riguadagnare compiendo il tragitto teorico necessario, a partire dal primo passo. Questo consisterà probabilmente in una proposta di costruzione del segno numerico che non faccia altro che rispecchiare il modo di costruzione del numero stesso. Si tratterà dunque di una procedura che produca i segni numerici secondo la forma della concatenazione ricorsiva. Questa procedura potrebbe essere presentata nel modo seguente: anzitutto abbiamo bisogno di un segno che potrebbe il nostro ben noto segno 1. Ci è poi utile poter disporre di un segno in rapporto al quale sia predisposta una regola di sostituzione. Tale segno sia x. Naturalmente questi segni potrebbero essere sostituiti da altri qualsiasi. Ciò premesso stabiliamo un inizio ed una regola: Inizio: x Regola: x→1x Non vi è evidentemente bisogno di altro per generare in sequenza 1x, 11x, 111x, 1111x, ecc. Poiché stiamo giocando a carte scoperte, sappiamo già che il segno 1 è nome del numero uno, e si comprende subito che cosa accadrà nell'applicazione iterata della regola. Il criterio che abbiamo enunciato in precedenza - che la produzione dei segni numerici rispecchi la produzione dei numeri - viene indubbiamente rispettato. Inoltre possediamo una denominazione sistematica per un elemento qualsiasi della serie aritmetica. Attraverso questa notazione, che potremmo 72 chiamare notazione-tratto, il numero - e proprio il nu­me­ro inteso come oggettività ideale - è ritornato in qualche modo a far parte del nostro mondo circostante dopo una lunga vicenda che aveva preso le mosse dalle molteplicità concrete. Esso si appoggia nuovamente a qualcosa - al segno stesso che lo rappresenta e che è appunto un oggetto visivo come qualsiasi altro. Eppure appare subito subito chiaro che con la notazione-tratto, raggiungiamo un esito del tutto insoddisfacente, ed anzi paradossale. Il paradosso che impedisce di considerare una cosa simile come una notazione per i numeri è che i tratti di cui deve essere composta ogni singola cifra debbono essere contati per poter essere riconosciuti. Per i primi elementi della serie delle cifre potremo cercare di afferarrare le differenze a "colpo d'oc­chio" - regredendo così allo stadio più primitivo della storia del concetto di numero. La notazione si autosopprime. Di fronte a noi vi è di fatto niente altro che una molteplicità. Una rappresentazione per il numero deve poter essere utilizzabile, e dunque dominabile - ed una rappresentazione come quella precedente non è dominabile già per il fatto che non è perspicua. Nessuna notazione che non sia intuitivamente dominabile è una buona notazione. Non lo è mai dal punto di vista "pratico", della sua maneggevolezza; e talvolta non lo è nemmeno dal punto di vista delle giuste esigenze della teoria. Nel nostro caso, la notazione è ovviamente impraticabile, ma è anche inaccettabile dal punto di vista concettuale per il fatto che la differenza tra i numeri non trova manifestazione adeguata nella loro rappresentazione. Ma se questo esito paradossale è stato ottenuto attraverso l'idea di un rispecchiamento, allora l'esigenza di una notazione adeguata, che si propone come una esigenza che non viene affatto dall'esterno, ma anzi dal cuore stesso del problema, deve essere soddisfatta secondo una direzione che è essenzialmente diversa da quella che termini come "rispecchiamento" e "adeguatezza" suggeriscono. Numero e notazione del numero non 73 stanno probabilmente l'uno di fronte all'altro, come se vi fosse di là il concetto e di qui il segno, e dall���uno all'altro un mero rapporto statico di designazione. Vi è piuttosto una interazione tra il segno e il concetto, in modo tale che il concetto suggerisce un segno, ma il segno a sua volta suggerisce nuovi pensieri, e la stessa formazione del concetto procede oltre, su una strada che comincia a serpeggiare tra il numero e la sua rappresentazione. § 15 I numeri distributivi e l'idea di una base - La domanda "Quanti per volta?" - Ai metodi additivi manca l'idea di grande unità ottenuta ricorsivamente - Intreccio tra concetto e rappresentazione - Grande unità, ricorsione e notazione posizionale. Questo intreccio diventa chiaramente visibile nella questione della base. Si tratta infatti di un'elaborazione della tecnica elementare del conteggio che da un lato interviene a livello concettuale e dall'altro mette in questione il piano simbolico notazionale. Ripensiamo al filo conduttore linguistico che ci ha permesso di parlare di numeri cardinali, ordinali e iterativi. In quella nostra discussione avevamo omesso un altro caso interessante di forma espressiva relativa ai numeri registrata dalla grammatica corrente. Si tratta di espressioni del tipo "a due a due", "a tre a tre" ecc., ovvero dei numerali detti correntemente "distributivi". In latino, oltre Quot? Quotus? Quoties?, il "quanti" assume anche la forma del Quoteni? ovvero del "Quanti per volta?". Le risposte richiederanno poi l'impiego di parole numeriche particolari come singuli, bini, terni, quaterni, ecc. Naturalmente è qui implicato il problema di un'o­perazione di raggruppamento, ma non nel senso da implicare una molteplicità data, che viene in qualche modo concretamente divisa, ad esempio in cinque parti. Il conteggio con cui si risponde al "Quanti per volta?" può ovviamente iniziare anche se non la molteplicità a cui ci si riferisce non è attualmente presente nella sua 74 totalità. Nello stesso tempo il numero in quanto numero-di-oggetti ritorna all'interno del nostro problema. Se, data una certa molteplicità, debbo prendere da essa quattro elementi per volta, conterò anzitutto fino a quattro (possiamo in proposito pensare anche anche un modo primitivo di "conteggio"), ed opererò in questo modo un primo raggruppamento, e poi ancora fino a quattro, ed opererò un secondo raggruppamento, e così via. Perciò svolgono qui una parte essenziale anche il numero ordinale e il numero di volte. Il numero di volte riguarda l'operazione del conteggio e il conseguente raggruppamento - e sappiamo già che vi è una connessione di principio tra ordine e iterazione. Le considerazioni sulla base per una notazione numerica possono benissimo essere introdotte a partire dal numero distributivo. Ma le idee di cardinalità e di ordinalità, che sono qui coimplicate, si ripresentano in un nuovo quadro concettuale. In realtà può accadere che si parli di decine o di dozzine restando tuttavia sul piano dei raggruppamenti senza che si affacci l'idea di una base per un sistema numerico. Affinché si possa parlare di una base è necessario che il "quanti per volta" assuma il carattere di una nuova grande unità e che le grandi unità si possano distinguere per livelli di ordine differenti. Dodici dozzine è una unità di secondo livello così come una dozzina è una unità di primo livello e gli elementi singoli di questa stratificazione potranno essere dunque considerate unità di livello 0. L'iterazione genera una stratificazione ordinata di livelli in rapporto alle "grandi unità". Queste sono considerazioni che riguardano il piano propriamente concettuale della questione. Ma queste considerazioni si sviluppano strettamente a ridosso del problema notazionale. Il concetto di numero nasce da una prassi. E questa prassi non potrebbe nemmeno cominciare ad essere esercitata se non si avvalesse di rappresentazioni. Questa istanza rappresentativa e i problemi ad essa collegati si fanno sentire già nel contare nel 75 senso più lato e più lontano dalla serie aritmetica vera e propria e dal numero come costruzione logica. È interessante tuttavia notare che anche nei modi impropri del conteggio che terminano nel "molti" spesso si propongano forme gestuali di rappresentazione - cifre gestuali, per così dire - oppure parole di numero che presuppongono un raggruppamento. Presso un popolo dell'Oceania in cui il due si dice okasa, il quattro si dice okasa-okasa, il sei okasa-okasa-okasa. Poiché l'uno si dice urapun, come si dirà il tre e il cinque può essere lasciato indovinare al lettore. Ma giunti al 7 ed oltre, tutto è ras ovvero molti. Questo è un esempio molto interessante. Non sembrerebbe tuttavia opportuno parlare in casi come questi (e ve ne sono moltissimi) di sistemi con base due, per il fatto non vi è qui ancora una nozione pregnante del contare e tanto meno vi può essere una nozione propria della base [22] . Eppure questo dato storico-antropologico ha certamente interesse per la storia fenomenologico-ideale del numero. Affiorano infatti già qui due spunti fondamentali per la formazione dell'idea della base: le entità singole vengono raggruppate, il raggruppamento viene iterato in modo da dare luogo ad un metodo sistematico di costruzione dei nomi. I nomi dei numeri debbono essere prevedibili - il nome di un numero deve in certo modo esserci già prima che si sia mai manifestata un'occasione per il suo impiego. Oppure: il nome di un numero deve poter essere indovinato - come abbiamo fatto or ora. Entro certi limiti ciò accade nell'ultimo esempio, ma questi limiti sono limiti pratici e concettuali insieme - gli uni stanno, per così dire, dentro gli altri. La forma rappresentativa è ancora guidata dalla Gestalt percettiva della coppia e siamo ancora lontanissimi da una nozione autentica del contare; ed altrettanto lontani da una nozione vera e propria di base. Ciò che manca non è il raggruppamento come tale, ma il pensiero delle "grandi unità" ottenute per iterazione ricorsiva. 76 Consideriamo più attentamente questo punto. Dob­biamo immaginare che il problema del raggruppare e di una notazione per il raggruppamento si sia posto ben presto nella storia del numero. Si tratta di un problema connesso all'impiego del numero, che a sua volta fa tutt'uno con l'impiego di una notazione per il numero. Prendendo le mosse dalla notazione-tratto, si potrà anzitutto ricorrere a segni per i raggruppamenti che saranno intesi come abbreviazioni dei segni-tratto corrispondenti. Ad una determinata molteplicità di tratti (ovvero di segni "1") si sostituisce un segno singolo speciale, facilmente riconoscibile, con chiaro vantaggio in rapporto alla perspicuità. I segni singoli potranno essere giustapposti esattamente come i tratti della notazione e­lementare. Per questo motivo si parla in generale di metodi notazionali di tipo additivo. Questi stessi segni potranno poi essere raggruppati e sostituiti con un segno singolo, e questo modo di procedere potrà essere ripetuto un certo numero di volte. Al di là di un certo limite tuttavia il segno numerico ridiventa percettivamente non dominabile. Ad esempio 11111 può essere sostituito con A AA può essere sostituito con B BBB può essere sostituito con C Cosicché il numero 25 sarà rappresentato, ad e­sempio, da BBA. In questo tipo di metodo vi è una componente iterativa così come una tendenza alla gerarchizzazione, e dunque all'ordine. Questo metodo notazionale ha la caratteristica, verso il basso, di operare una differenziazione necessaria rompendo l'o­mogeneità "intrasparente" dei tratti, ma verso l'alto, esso opera una moltiplicazione dei segni che a sua volta non può che riproporre in altro modo una situazione di non perspicuità e di indominabilità. I segni via via nuovamente introdotti dal punto di vista della loro 77 conformazione, seguono un principio di differenziazione qualitativa, quindi ancora un criterio puramente ghestaltico. Naturalmente le cose, dal punto di vista concettuale, non migliorebbero di molto se vi fosse coerenza nel raggruppamento, ad esempio scegliendo un unico "cri­terio" numerico del raggruppamento, e dunque qualcosa che assomiglierebbe ad una "base". Infine l'ordine e la disposizione dei segni non ha importanza. Il numero 25, a meno di speciali convenzioni aggiuntive, potrebbe essere espresso indifferentemente dai segni BBA, BAB, ABB. Il momento della gerarchizzazione, e quindi del livello di ordine dei raggruppamenti, è qui estraneo sia alla formazione del concetto che a quella del segno. I livelli non sono generati secondo la logica interna della concatenazione, ma si presentano in forma molto debole sulla base della circostanza ovvia che un'abbreviazione segnica presuppone che sia già stato introdotto il segno che viene abbreviato. Naturalmente sono possibili convenzioni restrittive o pre­scrizioni che impediscano o ostacolino la confusione. Vi saranno regole nella disposizione dei segni. Ad esempio, nella notazione romana il segno "I" cambia completamente di senso se viene messo a sinistra o a destra del segno "V". In generale i segni saranno letti in una unica direzione, da sinistra a destra o da destra verso sinistra. Ma queste convenzioni sono appunto soltanto convenzioni e non vi alcun rapporto di interdipendenza tra simili norme per le disposizioni segniche e il modo in cui si forma il concetto di numero. Il passaggio dalle notazioni additive a quelle posizionali non può perciò essere inteso soltanto come un passo avanti nella maneggevolezza e nella praticabilità. Esso è invece strettamente connesso con la riproposizione, ad un nuovo livello, della forma della concatenazione e della procedura ricorsiva che genera la serie aritmetica. Ciò che abbiamo chiamato prima "grande unità" è qualcosa di diverso da un raggruppamento e dalla giustapposizione addi- 78 tiva di raggruppamenti per il fatto che le grandi unità vengono prodotte all'interno di una procedura ricorsiva che ripete ad un livello più alto la procedura che genera la serie aritmetica rappresentata dalla notazione tratto. La prima novità importante che qui si introduce è che i segni non si moltiplicano "verso l'alto" in una proliferazione a piacere di configurazioni segniche differenti. Al contrario le u­nità di ordine superiore sono costituite dalle stesse cifre elementari. La percezione deve limitarsi ad effettuare il riconoscimento di queste cifre, ed a riferire l'ordine della loro disposizione presentato sul piano segnico alle differenze di livello delle unità sovraordinate. Esistono naturalmente ancora am­pi margini per la convenzione, ma essa deve rispettare tutte le condizioni che fanno parte di una costruzione del segno che è diventata sempre più interna alla costruzione del concetto. Tanto interna che il tentativo di proporre l'intero problema sul piano della mera costruzione segnica potrebbe risultare molto istruttivo, come sintesi e conferma di ciò che stiamo sostenendo. Dovrebbe allora diventare chiaro non soltanto il sussistere di una rete di relazioni tra i vari tipi di numeri e le nozioni connesse (molteplicità, ordine, operazione, iteratività, distributività), ma anche il fatto che avremmo sempre in realtà a che fare con unità, benché di ordine superiore. Si consideri, per semplicità, un sistema a base binaria. Dovremo allora distinguere tra le cifre elementari o semplici, che saranno in questo caso due, e le cifre generate per composizione delle cifre semplici. Si noti che essendo due le cifre elementari, una di esse dovrà necessariamente designare l'unità, mentre l'altra cifra dovrà essere considerata equivalente nel suo senso a "nessuna unità". In altri termini una delle due cifre dovrà caratterizzare un posto vuoto [23] : da essa veniamo informati che nessuna unità occupa una certa posizione. Possiamo scegliere per entrambe le cifre una forma figurale qualunque, ma sarà ovvio optare per segni 1 e 0. La procedura di produzione dei segni 79 potrebbe essere sintetizzata nel modo seguente: Inizio 1x Prima Regola x →0x Seconda Regola x →1x Vi sono qui due regole che debbono essere applicate l'una dopo l'altra nell'ordine in cui sono qui proposte per ciascun successivo elemento prodotto dalla procedura. L'applicazione delle regole genera dunque una coppia per ciascun elemento prodotto e una lista di coppie per ogni livello di iterazione. La prima base per l'applicazione della regola è naturalmente 1x che rappresenterà il livello zero. Di qui si trae, in forza della prima regola, 10x e, in forza della seconda regola, 11x. Questa coppia rappresenta il primo livello di iterazione e rappresenterà la base per una nuova applicazione delle due regole a ciascun elemento di essa e ottenendo per ogni segno una coppia di segni. Avremo dunque 100x, 101x, 110x, 111x - e questo risultato rappresenterà il secondo livello di iterazione. Il terzo livello di iterazione, ottenuto a partire da quest'ultimo esibirà la lista 1000x, 1001x, 1010x, 1011x, 1100x, 1101x, 1110x, 1111x, e così via. Per ciò che riguarda l'interpretazione in termini numerici dei segni così prodotti ci troviamo ancora una volta di fronte al rapporto tra ordine e numero di volte, in base al quale viene interpretata la posizione e dunque il "valore" da attribuire all' "unità". Si riconsideri quanto detto or ora alla luce dello schema seguente, dove la x è stata soppressa, dal momento che essa rappresenta soltanto un artificio calcolistico interno alla procedura. Alla sinistra abbiamo segnalato il valore dell'unità ai vari livelli in termini di esponente - ma questo solo per rammentare la consueta formula matematica delle basi. Di fatto nello spirito della nostra esposizione, come non si effettuano addizioni sul piano della 80 forma notazionale dei tratti, così non si effettuano operazioni di moltiplicazione o di elevazione alla potenza. Il problema invece è quello di un conteggio per grandi unità ottenute per ricorsione. L'attenzione deve essere richiamata sull'ordine e sulla ripetizione ricorsiva, che sono gli elementi fondamentali che si rispecchiano nella posizione della cifra elementare all'interno della cifra composta. 1 livello 0 (20) 10 11 livello 1 (21) 100 101 110 111 livello 2 (22) 1000 1001 1010 1011 1100 1101 1110 1111 livello 3 (23) eccetera Il segno 1 cambia di senso secondo il livello iterativo a cui appartiene, livello che è leggibile nella sua posizione. Il segno 0 indica a sua volta che non esistono unità nel livello iterativo indicato dalla sua posizione. Così la cifra 1011 verrà intesa nel modo seguente: VALORI DELL'UNITA' 3 8 2 4 L IVE L L I 1 2 0 1 8 + 0 0 + 1 2 + 1 1 = 11 1 81 Possiamo anche presentare la derivazione dei segni attraverso una struttura ramificata come già fece a suo tempo Leibniz proprio in rapporto alla notazione binaria. 1 10 100 1000 11 101 1001 1010 110 1011 1100 111 1101 1110 1111 eccetera Created using UNREGISTERED Top Draw 8/6/97 10:18:06 PM Nel caso del sistema decimale la procedura resta esattamente la stessa, come per ogni altra base. Aumenta solo, di poco, la complessità di questo nostro modo di presentare il problema [24] . Annotazione È interessante ripetere le considerazioni precedenti dando ad esse la forma di una possibile procedura capace di generare i diversi sistemi numerici che si avvalga unicamente di regole di sostituzione per segni e della ripetizione della loro applicazione. L'essenziale per la procedura di un sistema a pseudobase unaria è già stato detto. Siano date una lista iniziale L1 formata dal segno x che abbiamo convenuto di utilizzare come segno per una sostituzione possibile ed un' unica regola di sostituzione di x con 1x, il risultato che otteniamo alla prima applicazione sarà ovviamente 1x che aggiungeremo alla lista L1 ottenendo L1= {x, 1x}. Da questa lista eliminiamo il primo elemento, quindi x, in modo che la seconda applicazione della regola di sostituzione possa avvenire sul risultato della prima applicazione. Otterremo dunque nella seconda applicazione la stringa 11x che verrà aggiunta alla lista L1; da questa verrà eliminato il primo elemento, e così via. Nel linguaggio del noto programma Mathematica della Wolfram Research si avrebbero le seguenti righe di codice: 82 BaseUno(k_) := { L1={"x"}; Do ( {L1 = Append(L1, StringReplace(First(L1), {"x"->"1x"})), L1 = Drop(L1, 1), {k} ); L1 }; Scrivendo L1 nella penultima riga si stabilisce che L1 sia l'output a video della procedura. Cosicché ad esempio l'istruzione: BaseUno(4) porrà in output 1111x (la x può naturalmente essere eliminata). Si noti che mentre k è un iteratore (il numero di volte in cui vengono applicate le regole e le istruzioni connesse), l'output è una pura e semplice stringa, quindi una mera costruzione grafica, che potrà ovviamente avere un' interpretazione numerica. La relativa complicazione con cui presentiamo ora la notazione-tratto ha le sue ragioni nel fatto che un sistema numerico di una base qualunque può essere prodotto esattamente nello stesso modo. Consideriamo nuovamente un sistema a base binaria. La procedura per la produzione di cifre del sistema binario assumerebbe questa forma: BaseDue(k_) := { L1 ={"1x"}; Do ( {L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1), {"x"->"0x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1),{"x"->"1x"})), L1=Drop(L1,1),}, {k} ); L1 }; 83 Le regole di sostituzione sono ora due e debbono essere realizzate nell'ordine. Esse si applicano sempre al primo elemento di L1 e i risultati vengono aggiunti alla lista L1, alla quale, ad ogni iterazione, viene tolto il primo elemento. In breve ad ogni iterazione le ultime due cifre della lista sorgono dal risultato dell'applicazione ordinata delle regole alla prima cifra della lista L1. È appena il caso di dire che per il sistema a base dieci avremo bisogno di dieci regole e che la lista L1 sarà inizialmente rappresentata dalla sequenza da 1 a 9. Per il resto il meccanismo di generazione delle cifre resta esattamente lo stesso. BaseDieci (k_) := { L1 ={"1x", "2x", "3x", "4x", "5x", "6x", "7x", "8x", "9x"}; Do ( {L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1), {"x"->"0x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1),{"x"->"1x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1), {"x"->"2x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1),{"x"->"3x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1), {"x"->"4x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1),{"x"->"5x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1), {"x"->"6x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1),{"x"->"7x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1), {"x"->"8x"})), L1 = Append(L1,StringReplace(First(L1),{"x"->"9x"})), L1=Drop(L1,1),}, {k}); L1 }; Ad ogni iterazione vengono ora prodotte dieci cifre attraverso l'appli­cazione delle dieci regole nell'or­dine dato alla prima cifra di L1. Naturalmente L1 fa parte del "motore" della procedura, ma è invece secondario il fatto che proprio questa lista rappresenti l'output a video. È possibile, ad esempio, conservare in una lista L2 tutti i primi elementi che vengono via via eliminati da L1 ed in tal caso l'unione tra L2 e L1 ci darà nell'ordine, per ogni sistema, tutte le cifre prodotte ad una determinata iterazione. L'ul­timo elemento di L2 potrà fornirci la stringa corrispondente all'iteratore, cosicché la procedura può anche essere utilizzata come una 84 procedura di conversione dal sistema a base dieci ad altri sistemi. L'interesse di tutto ciò non sta in questi possibili aggiustamenti e varianti, ma nel fatto di generare come pure "cifre" i numeri di sistemi di una base qualsivoglia senza impiegare alcun calcolo aritmetico vero e proprio, ma unicamente attraverso la ripetizione ricorsiva di regole di sostituzione. § 16 Considerazioni sui calcoli aritmetici nel senso comune del termine - Il calcolo e la macchina - La possibilità di un uso generalizzato del termine di "calcolo" (algoritmo) - Il calcolo come manipolazione di segni secondo regole - La singolare vicenda della parola "assioma" - I segni come figure - Pensieri e segni - Passaggio dal numero alla figura. Non appena si pone il problema del numero all'interno del contare si pone nello stesso tempo il problema della sua rappresentazione, ed in una forma peculiare, dal momento che non si tratta soltanto di escogitare dei "nomi" intesi come pure etichet­te verbali o grafiche. Tra livello segnico e livello concettuale si impone ben presto un rapporto di interazione reciproca. Per questo si può trovare significativo il fatto che, nel linguaggio corrente, la parola "numero" possa indicare sia il segno che il concetto - anche il significante oltre che la cosa stessa significata. Di qui possiamo trarre un'importante conseguenza: se è possibile trasmettere sul piano segnico-simbolico relazioni e rapporti che si trovano sul piano concettuale, allora possiamo pensare, inversamente, che relazioni e rapporti istituiti anzitutto sul piano segnico-simbolico possano essere trasferiti su quello concettuale. Nello stesso tempo, per quanto a tutta prima ciò possa sembrare paradossale, è proprio in forza di questa interazione, e quindi di questa peculiare implicazione semantica del segno, che si può imporre in questo campo un punto di vista secondo il quale si può "prescindere dal significato" dei segni, un punto di 85 vista che dunque può essere ritenuto una possibilità inerente alla cosa stessa, e non soltanto il risultato di una presa di posizione filosofica. Tale punto di vista viene caratterizzato con termini che si richiamano alla "forma" (formale, formalistico, formalizzazione, ecc.), dove occorre prestare attenzione che questo impiego è giustificato anzitutto dall'opposizione forma-contenuto. Passare ad un piano formale significa passare ad un piano in cui il contenuto (e quindi, il significato del segno) viene messo da parte, e di conseguenza viene preso in considerazione soltanto il livello segnico. Questo passaggio viene talora, forse non a caso, trascurato e si parla di formalismo, formalizzazione, linguaggio formalizzato e simili, volendo richiamarsi al puro e semplice impiego di un sistema di convenzioni segniche, proposto in sostituzione del linguaggio corrente - che tende a diventare l'effettivo altro polo del­l'op­po­sizione Il calcolo nel senso aritmetico, consueto ed elementare, del termine è un chiaro esempio del fatto che l'interesse dell'ope­ra­ zio­ne di "prescindere dal significato" dipende proprio proprio da quella che abbiamo chiamato or ora "implicazione semantica". Effettuare un calcolo nel senso usuale - si pensi ad una semplice moltiplicazione o ad una divisione - significa mettere in opera una tecnica di trasformazione segnica, il cui apprendimento sarà in generale legato ad una giustificazione concettuale. Tuttavia nell'esecuzione questa giustificazione non entra in linea di conto e può anche essere messa del tutto da parte, come del resto normalmente accade. La coscienza del riferimento significativo sta per così dire prima e dopo il calcolo - ed eventualmente accanto ad esso, nel senso che, mentre calcolo, so quello che faccio, so di compiere, e per determinati scopi, operazioni su numeri che hanno numeri come loro risultato. Questa consapevolezza tuttavia non alcuna parte nelle azioni che io di fatto compio. Nel calcolare non si pensa e forse anzi il pensiero disturberebbe il calcolo, forse lo rallenterebbe rendendo­lo più faticoso. 86 In ciò consiste, sotto l'aspetto psicologico, l'automatismo dei calcoli. Ma parlando di automatismo dei calcoli parliamo sopratutto della possibilità, che non ha niente di psicologico, della loro meccanizzazione. L'agente del calcolo può cessare di essere una soggettività umana: il calcolatore è finalmente diventato una macchina. Secondo Schopenhauer, che pure ha avuto uno spunto felice nella teoria del numero ai tempi della sua prima giovinezza [25] , valutava nella sua tarda vecchiaia questa circostanza come una prova certa della bassezza dell'a­ritmetica come attività dello spirito: "Che la più bassa di tutte le attività dello spirito sia l'aritmetica è dimostrato dal fatto che essa è l'unica che possa essere eseguita anche da una macchina; così oggi, in Inghilterra, simili macchine calcolatrici sono, per comodità, diventate di uso frequente" [26] . Forse la migliore ri­sposta a questa fra­se di Schopenhauer è la meticolosa atten­zione che Felix Klein dedica alla Rech­en­ma­­ schine chiama­­ta "Brun­­s­vi­­ga" del­­la Brun­­s­­viga Maschinen­­­­­werke Grim­­me, Natalis &Co.: ad essa, ai suoi meravigliosi congegni ed al modo del suo funzionamento Klein dedica ben tre pagine del primo volume della sua Elementar Mathematik [27] . Queste mac­chi­ne "sot­trag­gono al matematico il lavoro puramente meccanico del calcolo numerico che eseguono più celermente ed anzi in modo esente da errori in misura superiore di quanto egli stesso avrebbe potuto fare". La loro stessa esistenza contie- 87 ne una conferma che nel calcolo intervengono solo regole formali, e non significati numerici che la macchina non è in grado di afferrare. Klein rammenta ancora che Lei­bniz, oltre ad essere il padre della matematica formale pura, fu anche l'inventore di una macchina calcolatrice - e in questa impresa si impegnò, non tanto per scopi pratici, ma perché stimolato dalla ricerca, tutta teorica, di ottenere conferme intorno alla natura essenziale dei calcoli. Il campo dei significati, ma anche il lavoro intelligente sui simbolismi, l'acquisizione di nuovi punti di vista per vecchi problemi, la capacità di delineare problemi e di prospettare soluzioni - tutto ciò è consegnato al pensiero matematico, che è tutto meno che il "pensare senza il pensiero" [28] della Brunsviga. Relativamente alla problematica che stiamo sviluppando, la nozione di calcolo non è peraltro vincolata necessariamente alle operazioni aritmetiche in senso proprio. Una qualunque manipolazione e trasformazione di segni secondo regole può essere chiamata così. In questa accezione si può convenire di usare anche la parola "algoritmo". In questo contesto la parola "segno" non ha più alcun legame con una relazione di designazione ed indica ora qualcosa di simile ad un "graffito", e per di più ad un graffito sul cui "significato" non è affatto il caso di interrogarsi: si tratta dunque di un disegno, di una configurazione di linee, quindi di un oggetto visivo, di una figura. Le operazioni che definiscono il calcolo sono operazioni di trasformazione (o di costruzione) figurale: le regole si applicano a figure e consentono di passare da una figura ad un'altra. Detto questo ci si rende subito conto che come esempi di calcoli in questa accezione generalizzata possono essere indicati gli schemi operativi precedentemente presentati per la notazione-tratto e per la notazionale posizionale. In essi vi è appunto un inizio (figura iniziale) ed una o più regole di sostituzione che possono naturalmente essere intese come regole di costruzione per figure, e quindi come regole che consentono di passare dall'u- 88 na all'altra figura appartenente al calcolo [29] . Talvolta la configurazione iniziale di un calcolo viene chiamata assioma ed io credo che nulla sia più caratteristico dei mutamenti intervenuti nel nostro secolo nel campo del pensiero matematico-formale in genere dell'evoluzione subita proprio da questo termine, ed in particolare della possibilità di essere impiegata per la configurazione iniziale di un calcolo. Questa parola che è sempre stata riferita a proposizioni e che è sempre stata carica di enfasi sul tema della verità - riferita co­m'e­ra ad una proposizione che si impone con il solare chiarore dell'evidenza, e come tale anche racchiudente un enigma custodito forse nelle profondità incommensurabili dell'intelletto divino - si è dapprima radicalmente attenuata nell'idea della "mera assunzione", realizzando il proprio completo declino proprio in questa possibilità di indicare con essa un qualunque grafema tracciato su un foglio di carta, uno scarabocchio sul quale non è nemmeno le­ cita la domanda sul senso. La giustificazione di questa estrema metamorfosi del significato sta, da un lato, nel fatto che un assioma può essere una premessa di un sistema deduttivo, e come tale si trova al suo inizio, dall'altro nel fatto che una premessa è una proposizione, e questa, "formalmente considerata", è appunto null'altro che una configurazio­ne grafica; il sistema deduttivo può essere a sua volta concepito e trattato come un calcolo nell'accezione or ora definita. Talora proprio attraverso questi spostamenti di senso scopriamo aspetti affini che non sono subito a por­tata di mano. Lo spostamento di senso implica un mutamento di punto di vista, e si scoprono così nuovi modi di approccio e nuovi problemi. Questo vantaggio sarebbe tuttavia interamente compromesso se non si tenessero sempre presenti i percorsi che ci hanno condotto in questa o in quest'altra direzione e si volesse approfittare dello spostamento di senso per cancellare differenze concettuali che sono estremamente rilevanti sotto il profilo filosofico. Il 89 campo del pensiero formale è eminentemente caratterizzato dalla possibilità di far trapassare nozioni diverse l'una nell'altra, ma ciò non significa per nulla che questo campo sia la notte in cui tutte le vacche sono nere. La filosofia della matematica, a sua volta, "non consiste nell'avvolgere la matematica con una cortina di nebbia" [30] . L'importanza di un punto di vista genetico, ma vorrei dire più ampiamente: lo scopo di una riflessione epistemologica in genere sta proprio nel ristabilire le differenze concettuali una volta che, per qualche buon motivo, esse siano state tolte. Se la notte è diventata troppo fonda, se le parole hanno cominciato troppo velocemente a scambiarsi le parti, se non sappiamo più dove cominci il calcolo e dove la proposizione, allora è forse opportuno interrogarsi sul significato che quelle espressioni avevano "una volta" presso il linguaggio, presso l'espe­rienza. Da una proposizione posso arrivare ad una pura configurazione grafica, ma non da ogni configurazione grafica posso arrivare alla proposizione. Così è possibile considerare una teoria deduttiva dal punto di vista del­l'idea del calcolo, ma un calcolo è una teoria deduttiva quanto poco lo è una qualunque moltiplicazione o divisione. Tirando le fila: la nostra esposizione ha mirato a dare il massimo risalto alla relazione interna tra il concetto di numero e quello di algoritmo e quindi anche alla generazione della serie dei numeri intesi come un calcolo generatore di configurazioni segniche peculiari. Tuttavia il percorso che abbiamo seguito mostra che non si tratta affatto di una pura cancellazione della componente logico-concettuale, quindi di una matematica senza il pensiero matematico, secondo un'obiezione che è stata spesso rivolta all'orien­tamento formalistico nella filosofia della matematica. Questo sospetto può sorgere solo se non si è richiamata a sufficienza l'attenzione sul fatto che ciò che rende possibile l'"astrazione dal significato" è il riconoscimento di un nesso di tipo 90 peculiare tra significante e significato che istituisce un intreccio ricco di conseguenze tra livello concettuale e livello segnico-simbolico. Il concetto può precedere il segno, ma anche venire dopo di esso, ed anzi forse è proprio l'anticipazione del segno rispetto al concetto, che si è così spesso verificata nella storia della matematica, ad essere particolarmente significativa per la sua filosofia. Di fronte alla possibilità del segno, il pensiero matematico sospetta la possibilità del concetto anche là dove per il momento questa possibilità non solo non è logicamente garantita, ma può persino ragionevolmente essere messa in questione. Il concetto si prospetta ai margini del segno e prospetta un segno ai propri margini. Tenendo conto di ciò non si potrà essere troppo soddisfatti da una sottolineatura del simbolismo come un puro artificio pratico. Se l'introduzione di un simbolo reca qualche vantaggio "pratico" - si pensi ancora all'introduzione del segno per lo zero - allora si può essere sicuri che nuovi concetti concetti bussano alla porta. A questo intreccio tra segno e concetto è naturalmente collegato anche il problema della "figuralità" del simbolismo. I segni sono oggetti della visione. Questa circostanza può passare inosservata, se ad esempio si insistesse soprattutto sulla convenzionalità e sull'artificialità del segno; oppure potrebbe essere ritenuta relativamente irrilevante dal momento che si potrebbe pensare che si metta su carta qualcosa che sta interamente altrove. Una valutazione diversa deve invece essere data se siamo disposti ad attribuire un significato esemplare, anche sotto il profilo teorico, al problema della perspicuità nella notazione che si è presentato più volte nel corso della nostra esposizione. La perspicuità è legata ad un'evidenza che riguarda l'oggetto percepito come tale, nelle sue arti­colazioni e nelle sue distinzioni interne. Questo problema si pone agli inizi del numero, quando il numero trova rappresentazione in configurazioni tipiche, che vengono ricono- 91 sciute in questa loro tipicità indipendentemente da un processo autentico di conteggio, ma si pone anche nel passaggio cruciale alla serie aritmetica vera e propria. In questo passaggio è ancora la questione del raggruppamento che passa in primo piano, ma essa si pone ora come una questione ghestaltica e calcolistica ad un tempo, come una questione in cui concettualità e intuitività si intrecciano formando un unico nodo. Nell'idea di calcolo non si tratta dunque soltanto del­ l'e­ scogitazione di un linguaggio artificiale, di una con­centrazione e una semplificazione simbolica da cui ci aspettiamo diversi vantaggi pratici. Si tratta piuttosto di una rappresentazione in cui si sedimenta e si concretizzano concetti, mettendo a punto, nello stesso tempo, un vero e proprio strumento del pensiero. La rappresentazione assume carattere di figura tracciata su un foglio di carta, dunque di una cosa visiva. In questo senso parlare della aritmetica ed in generale del pensiero matematico alla luce della nozione di calcolo contiene il riconoscimento di un ruolo dell' "intuizione" almeno nell'accezione elemen­tare che si richiama all'atto del vedere [31] . Questo vedere non è tuttavia un mero vedere, un puro osservare e accogliere dati della visione. Nel segno "101" riconosco una differenza rispetto al segno "100". Questa differenza è una differenza figurale. Il riconoscimento tuttavia non si limita alla mera qualità figurale, ma esso riporta la qualità figurale alla regola di costruzione secondo quale questi grafemi sono prodotti. Se con "intuizione" intendessi qualcosa di simile allo sforzo psicologico di rappresentare nella mia mente (di "figurarmi") un insieme di cento elementi e di cogliere nello stesso tempo la differenza tra esso ed un insieme di cento e uno elementi allora certamente fallirei nello scopo: la differenza concettuale tra l'uno e l'altro numero, che è perfettamente chiara, verrebbe resa confusa nello stesso momento in cui si tenta si tradurla in una immagine della mente. La parola "calcolo" si contrapporrà nettamente a "intuizione" in questa accezione del termine. Tuttavia è giusto anche dire che nel calcolo "alla cieca" bisogna tenere gli 92 occhi bene aperti. E ciò non basta ancora: nella figuralità percettivamente colta non vengono soltanto afferrati degli oggetti, ma dei rapporti strutturali, dei nessi formali interni, delle legalità generali che da un lato vengono viste dentro la figura, dal­l'altro possono essere proiettate molto lontano da essa sul piano del pensiero puro. Queste nostre considerazioni conclusive, proprio insistendo su questo aspetto segnico-figurale dell'a­rit­metica, finiscono per suggerirci che forse è opportuno spostare la nostra attenzione proprio sul versante delle figure. Forse l'aritmetica è una specie di geometria? si chiedeva Wittgenstein [32] . No, non lo è. Ma la domanda è in se stessa molto interessante. 93 Parte seconda Sulla costruzione iterativa delle figure 94 95 §1 La geometria come scienza dello spazio e scienza delle forme - Numeri e figure - La geometria come "semantica" del­l'aritmetica - I vincoli "intuitivi" e l'istanza del loro superamento. Benché il nostro sguardo sia ora volto in altra direzione, domande e metodi restano gli stessi. Come in precedenza ci siamo mossi sulla soglia della teoria del numero, così ora, guidati dall'in­ tenzione di avviare alcune riflessioni sul problema della "forma", e quindi su questioni che chiamano in causa la geometria, avremo cura di man­tenerci nei luoghi che sono più accessibili alla natura ed al carattere della nostra considerazione epistemologica, quindi nei luoghi in cui sia più chiaramente avvertibile il nesso tra concetti geometrici elementari e i dati che possiamo attingere all'esperienza percettiva con­creta. È opportuna intanto una precisazione terminologica. Nel nostro contesto di discorso, le parole forma e figura debbono potersi scambiare le parti, e in particolare dunque la parola "forma" andrà intesa per lo più secondo l'inclinazione suggerita dal­la parola figura: a sua vol­ta questa va intesa in un'accezione ampia, e quindi non deve far pensare solo a linee che si chiudono formando un contorno, ma a grafemi in genere, come del resto è già da noi stata impiegata in precedenza. Il dettaglio terminologico ed eventuali complicazioni che potrebbero sorgere può essee comunque con­trollato da indicazioni più precise quando queste si rendessero necessarie oppure da differenze di contesto capaci di rendere inequivoco l'impiego dei termini. Più importante è invece la questione del modo in cui si stabilisce un collegamento tra la forma-figura e la geometria. A questo proposito ci si deve chiedere anzitutto se la forma-figura possa servirci al fine di circoscrivere la specifica regione ontologica della geometria oppure se non sarebbe più giusto considerare come nozione di base quella dello spazio, a cui la precedente 96 potrebbe essere subordinata. All'interno di una concezione in cui venisse negata scien­ temente qualunque specificità "ontolo­gica" della geometria la questione sarebbe del tutto irrilevante. La domanda è invece par­ticolarmente ricca di interesse se proposta secondo un'an­ gola­tura epistemologica che ha in certo senso come propria vo­ cazione la tendenza alla differenziazione. Dal punto di vista della priorità della nozione di spazio, la forma verrebbe intesa essenzialmente come una sua partizione, come un ritaglio che viene effettuato in esso. Una linea ci appari­ rebbe come linea "divisoria" e le figure come spazio delimitato dall'inter­sezione di linee. Created using UNREGISTERED Top Draw 4/25/95 10:41:13 PM Il rapporto di parte sarebbe qui determinante. Nel­l'espe­rienza della spazialità e delle forme, sembra tuttavia che si proceda dal­ la figura allo spazio piuttosto che inversamente dallo spazio alla figura. Si sarebbe tentati di dire: lo spazio non è dato "imme­ diatamente", bensì attraverso i corpi che si trovano in esso. Le forme vengono colte anzitutto in quanto inerenti ai corpi, come "contorni" che possono essere poi considerati separatamente ed esaminati come tali. Inoltre le figure non solo vengono viste ed osservate, ma possono essere liberamente riprodotte: una figura può essere disegnata, e quindi costruita e ricostruita, in una libe­ ra variazione di tutti i rapporti. In questo modo si attenua ancor più il legame con il corpo nella sua fisicità, e dunque anche si indebolisce l'effi­cacia dell'immagine del "contorno" che rimanda proprio a questo legame. La figura tende avere la propria auto­ nomia rispetto al corpo che essa riveste. Chi disegna una figura su un foglio di carta sperimenta tut­ 97 tavia anche un'altra possibilità interessante: quella di far sorgere la figura dal tracciato di una linea che alla fine si richiude. In realtà si può parlare di un triangolo o di un quadrato, e persino di una piramide o di un cono, che nella loro tridimensionalità richiamano più direttamente lo spa­­­zio percepito e i corpi in esso, senza che la nozione del­la spazialità in generale sia realmente messa in questione. Si avranno allora di mira unicamente la costituzione interna delle figure, il modo in cui esse sono fatte, le loro eventuali relazioni, le loro legalità interne. Vi possono essere linee e piani che si intersecano, e le figure che sorgono da queste intersezioni, potranno essere considerate senza che lo spazio in grande debba rappresentare un effettivo tema teorico. In realtà è proprio questo l'orientamento di pensiero che troviamo alle origini della geometria. La geometria non si presenta senz'altro come scien­za dello spazio, ma anzitutto come scienza delle forme - anche se, soprattutto nella prospettiva platonica, si impone un' immagine dello spazio come totalità onnicomprensiva, e di conseguenza anche l'idea della forma come parte e ritaglio. Ciononostante il pensiero dello spazio passa sullo sfondo, sostanzialmente non tematizzato, rispetto a quello della forma: gli stessi costituenti ultimi ed ideali del reale sono le forme perfette dei solidi regolari. Questa circostanza, d'altra parte, rimanda alla costituzione percettiva della spazialità. Lo spazio come latenza di tutte le forme - come poteva essere suggerito dalla riflessione platonica nel Timeo - è un pensiero che non si trova affatto nei pressi dell'espe­rienza. E naturalmente ancora più lontana è l'idea di una figuralità in­ teramente dominata da leggi che la inscrivono all'in­terno di una spazialità matematicamente determinata, secondo il senso della rappresentazione delle coordinate cartesiane. È interessante sottolineare come questa idea, che pure non è affatto priva di rapporti con la spazialità sperimentata, sia un'idea particolarmente "evoluta" e come nello stesso tempo a partire da essa prenda 98 l'avvio una tendenza, destinata ad accentuarsi sempre più, a riportare, per dirla in breve, la forma al numero, e quindi ad attenuare il peso dell'elemento intuitivo di fronte all'ele­mento puramente intellettuale. In effetti tra numero e figura si impone ben presto questa differenza: parole come "cerchio", "quadrato", "triangolo" indicano cose che si vedono. La forma è appunto là, insieme alla cosa, come suo carattere o attributo. Vi sono i profili dei monti delle montagne e le linee delle coste; la curvatura visibile dell'oriz­ zonte. La forma tondeggiante della luna. Le forme possono poi essere riprodotte e, quando siano riferite a cose del mondo circostante, esse possono essere toccate con mano; oppure possono essere date in immagine ed acquisire così la duttilità di mere parvenze che sono interamente in nostro possesso e sulle quali possiamo liberamente intervenire separando, unendo, collegando, componendo e scomponendo. Il numero cinque - o qualunque altro - invece non si vede. Nell'esperienza non ci imbattiamo mai nei numeri come oggetti, ma solo nei modi dei loro impieghi. Di fronte a noi ci possono essere molteplicità più o meno "numerose". Ad esse può essere attribuito un numero che peraltro non si può afferrare su di esse così come si afferra il colore di una cosa o il suo spessore. L'attri­ bu­zione di un numero comporta un'operazione di conteggio. Nel conteggio ci possiamo sbagliare - e questa possibilità aleggia su questa "proprietà" come un principio di instabilità. Analogamente, il numero di posizione si riferisce a determinazioni relazionali interne che sono in via di principio mutevoli in rapporto alle molteplicità empiriche; e se consideriamo infine il numero in rapporto all'iterazione di un'operazione, esso si dissolve nell'iterazione stessa senza alcuna sedimentazione obbiettiva. Il numero, appena c'è, subito scompare. Ma tutto ciò è vero soltanto se guardiamo al versante dell'empiria. Su questo versante i numeri sembrano trovarsi a disagio. Invece se consideriamo il numero come pura oggetti- 99 vità dovremmo esprimerci in modo del tutto diverso: il numero ci appare allora come un'og­gettività intellettuale per eccellenza, come qualcosa che è solo in quanto è conforme ad una legge, e dunque un autentico modello di ciò che può essere interamente privo di contaminazioni con la pratica e l'osservazione: il separare, il collegare, il comporre e lo scomporre in rapporto ai numeri hanno un equivalente in operazioni manuali solo attraverso la mediazione delle molteplicità concrete. Prescindendo da questa mediazione queste operazioni meritano di essere caratterizzate come puramente intellettuali in un'accezione particolarmente forte. Certo, in quanto calcoli queste operazioni sono effettuate su figure e mediante figure. Su questo punto abbiamo in precedenza messo l'accento, ed anzi abbiamo approfittato di ciò per operare il passaggio a questo nuovo ambito di problemi. Ma per quanto il sospetto implicito in questo passaggio fosse proprio la possibilità di cogliere qualcosa di simile ad una componente "geometrica" nei calcoli, tuttavia resta sempre una differenza essenziale. Le "figure" di un calcolo non sono, come tali, temi di una indagine, non sono esse stesse oggetto di esame. Confermiamo così la risposta negativa che abbiamo dato alla fine della prima parte: l'aritmetica non è affatto una sorta di geometria. Ciò che ci interessa nelle figure dei calcoli sono le pure regole della loro manipolazione sintattica - e di con­seguenza le loro qualità figurali vere e proprie sono per lo più fuori questione: esse vengono considerate solo in quanto agevolano od ostacolono le pratiche manipolatorie. Il fatto che poi i segni-figura di un calcolo possano essere considerati indipendentemente da qualunque riferimento significativo rappresenta indubbiamente una possibilità direttamente connessa con l'ogget­tività come una pura oggettività intellettuale, interamente libera da sostegni empirici, nel senso e nei modi che abbiamo in precedenza illustrato. Questa possibilità apre peraltro un problema di garanzie "semantiche" che, a partire dalla matematica greca, attraversa l'intera 100 storia dei rapporti tra aritmetica e geometria. Proprio considerando questo punto si vede quanto sia erronea la posizione che vede nel­l'"a­rit­metico" una componente intuitiva e dinamica e nel "geometrico" l'ele­mento rigido, astrat­ to. Se mai è vero l'opposto. Ciò è mostrato anche dal fatto che si è spesso avuta la sensazione che in ambito geometrico sia possibile effettuare quell'ancoramento del senso delle parole, di cui invece si potrebbe sentire il bisogno in ambito aritmetico. Procedendo attraverso i calcoli non è certo fino a che punto sia possibile mantenere la presa sul senso che era invece presente nei primi inizi. Esemplare da questo punto di vista è certamente il modo in cui vengono considerati i rapporti tra aritmetica e geometria nella matematica greca. In essa l'aritme­tica assolve la parte della disciplina "matematica" eminente, di una teoria pura libera da ogni contaminazione con le indeterminazioni dell'empiria. Nello stesso tempo viene demandato alla geometria il compito di fornire quei riferimenti in mancanza dei quali si assume che l'e­ spressione puramente calcolistica resterebbe semanticamente inde­terminata [33] . Assumendo questo punto di vista questa indeterminatezza apparterrebbe anche a segni come a4 o a5 che, a differenza di a2 o a3 non hanno un possibile corrispondente geometrico [34] . Analogamente 2 è un segno aritmetico che può essere accettato solo nel momento in cui è stata assodata la corrispondenza geometrica con la diagonale di un quadrato. Que­sto è l'oggetto a cui il segno può essere riferito e da cui esso viene legittimato. Del resto una possibile fenomenologia del numero - in qualche modo memore della matematica greca - potrebbe anche prendere le mosse, anziché dalla molteplicità come abbiamo fatto in precedenza, da un concetto di "unità" che riceverebbe la sua illustrazione diretta nel meÍtron ovvero in una lunghezza arbitrariamen­te scelta come (unità di) misura. Seguendo questa via si mostrerebbero aspetti che da altre angolature sarebbero 101 più remote. Intanto il riferimento fondamentale non sarebbe rappresentato da una molteplicità disparata, sulla cui quantità ci si deve anzitutto interrogare, ma dalla nozione dell'intero e della parte, così come del rapporto tra interi che possono essere ripartiti ed in questo modo rappresentare l'uno la misura dell'altro. La stessa nozione dell'1 si distribuisce sui due poli dell'intero e della parte rappresentando ad un tempo l'intero stesso - la totalità di tutte le sue parti - e quella parte che è in grado di misurarlo: l'intero e l'unità di misura. Secondo questa angolatura risulterebbe con particolare pregnanza e immediatezza la connessione del numero con un'ope­razione, e in particolare con la sua iterazione possibile. Non è possibile concepire alcunché come "unità di misura" senza includere in questa concezione un riporto iterato. L'importanza del numero-di-volte ai fini della costituzione del concetto di numero non verrebbe certo diminuita da questo ordine di considerazioni. Occorre tuttavia notare che la pretesa di trovare una garanzia semantica nella geometria per le entità aritmetiche rischia di schiacciarla sulle cose di questo mondo più di quanto sia lecito fare. Il vincolo alle cose sta presso le prime origini, ma non appena i concetti sono stati costituiti la geometria, non meno del­l'aritmetica, procede per vie autonome e non ha bisogno di confrontarsi ad ogni passo con la realtà. Qui come altrove nel pensiero astratto la questione del senso può risultare sospesa. Del resto proprio questa sospensione rappresenta uno dei motori essenziali di pro­gresso e di sviluppo del pensiero astratto in genere: questo pensiero trae stimoli da evidenze ricercate e da dubbi sui significati possibili, e non certo dal compiacimento di un viaggio attraverso un universo di segni senza significato, lungo il quale sia possibile fare "assunzioni" a piacimento. 102 §2 La geometria e la terra - Husserl e Mandelbrot: un invito a ricordare - Il problema di una tipologia empirica delle forme - Inizio di una libera riflessione che prende spunti da Euclide - Riflessioni su linee molto sottili - Riflessioni sull'angolo piatto. Geometria è costituita da due parole una delle quali allude alla "misurazione", l'altro alla "terra" - e la terra di cui si parla è naturalmente la terra nel senso in cui ne parlano i contadini piuttosto che gli astronomi, la terra da arare, la terra da vendere, la terra da misurare. In un'appendice famosa della Crisi delle scienze europee -Husserl sottolinea più volte la circo­stanza secondo la quale il sape­re geometrico si è svi­luppato nella pratica degli agrimensori, e lo sottolinea avendo di mira un discorso non certo di carattere storico, quanto di genesi e di formazione dei concetti [35] . In tempi molto più recenti, Benoît Mandelbrot ha nuovamente richiamato l'attenzione su questa origine in termini pressoché identici e in tutta probabilità senza conoscere l'analoga presa di posizione di Husserl. Quel che rende poi particolarmente interessante la sua presa di posizione è che essa non ha alla propria base ragioni filosofiche di carattere generale, ma motivi strettamente legati ai progressi della geometria come impresa scientifica. Egli scrive così: "È ben noto che descrivere la terra fu uno dei primi problemi formali che si è posto l'uomo. Per opera dei Greci la 'geometria' diede alla luce la geometria matematica. Tuttavia - come succede così spesso nello sviluppo delle scienze! - la geometria matematica dimenticò molto presto le sue origini, dopo avere appena grattato la superficie del problema iniziale" [36] . In entrambi gli autori c'è dunque un invito a ricordare. Prima che l'interesse teorico si impossessi del campo delle forme per fare di esso il tema di una scienza come la geometria, questo campo ap­­par­tiene al nostro mondo circostante ed all'esperienza che facciamo di esso. Quando si parla di forme concretamente esperite non si 103 vuole alludere solo a puri e semplici dati, ai dati della visione e dell'osservazione visiva. Si tratta piuttosto di un'esperienza pratico-percettiva: non solo per il fatto che le figure possono essere raffigurate, e in quanto raffigurazioni esse possono essere prodotte e ricostituite, ma ancor prima per il fatto che, nella loro inerenza alla cosa materiale, le forme possono essere concretamente realizzate, manipolate e modificate. Volendo porre l'accento su questo punto, più che all'agri­ mensura, converrebbe forse pensare ad una pratica diretta di manipolazione, ad esempio alla pratica del falegname, che deve procacciarsi le assi, togliere le asperità alla corteccia, ottenere superfici liscie per poter alla fine realizzare oggetti che debbono assolvere determinate funzioni utili nella vita di ogni giorno. Op­pure alle pratiche di modellazione della creta, per realizzare recipienti, anfore e vasi. O a quelle degli scalpellini; in generale alla produzione di materiali da costruzione, come mattoni, lastre, pali, colonne, ecc. Come nelle operazioni di conteggio, un orizzonte di interessi economici legati agli scopi ed alle necessità della vita presiede queste azioni. Restando all'interno di questo orizzonte si perviene ad una tipologia di forme, ad una classificazione nella quale la forma comincia con l'essere colta ed individuata in se stessa, e dunque riconosciuta come appartenente a questo o a quel tipo. Potremmo dire che vi sono linee che hanno un certo andamento caratteristico in base a cui esse vengono raccolte sotto un tipo. È questo andamento che riconosco quando dico: questa è una curva, questa è una lin­ea diritta. All'interno di questa tipologia delle forme una particolare importanza assume la distinzione tra forme regolari e irregolari. Questa distinzione poggia anch'es­sa, almeno in parte, sull'im­pres­ sione visiva, cioè sul modo in cui una certa figura, con l'a­spetto che tipicamente la contraddistingue, si imprime nella mia mente - quindi l'irregolarità sull'impressione visiva del disordine, mentre la regolarità sulla presenza di ricorrenze interne che propongo- 104 no caratteri più nettamente e chiaramente definiti facilitando in qualche modo la sua appropriazione. All'interno di un orizzonte pratico si fa sentire anche un interesse in senso lato "architettonico" per la regolarità, che appare allora legata alla stabilità dell'oggetto, all'a­derenza alla funzione che esso deve assolvere. Con quelle superfici lisciate a dovere il falegname dovrà realizzare sedili che si reggano sulle proprie gambe e tavoli non troppo sghembi; e così l'acqua non si dovrà rovesciare dalle anfore e i mattoni dovranno poter essere facilmente essere messi in una pila. È il caso di ricordare che "isoscele" significa letteralmente "con gambe eguali" (skŒlow, gamba) e l'e­spres­sione "scaleno" viene invece, secondo l'etimo­logia proposta da Proclo, collegata allo zoppicare (sk‡zein) [37] . In ogni caso può essere connessa con skoli¦w che richiama qualcosa di sghembo, di malamente inclinato [38] . In effetti, da ciò che abbiamo chiamato andamento o aspetto caratteristico non sono affatto escluse valenze che ribadiscono il carattere della figura sul piano delle sintesi immaginative. Le forme-figure possono ricevere così mani e pie­di, ed apparire equilibrate come persone dalle belle proporzioni oppure avere un andamento claudicante che manifesta un equilibrio instabile. Naturalmente non appena l'attenzione teorica comincia a ridestarsi, districandosi a poco a poco ed emergendo come un interesse autonomo, queste valenze si attenuano, perdono di importanza, e muta l'angolatura secondo cui gli stessi aspetti vengono colti: così ad e­sempio nella regolarità si intravvede l'azione della regola, e quindi strutture e uniformità che possono essere oggetto di conoscenza, prospettando la possibilità di o­pe­razioni generalizzanti. Anche da questo punto di vista è esemplare l'enfasi platonica sui solidi regolari. Gli andamenti caratteristici possono essere colti secondo un'in­tenzione rivolta non tanto a fissare caratteri accidentalmente ricorrenti o proprietà comuni intorno alle quali raccogliere il tipo, ma a stabilire nessi tra l'aspet­to delle figure e possibili relazioni funzionali interne. Nel tipo empirico traspare il tipo eidetico: si è messo in 105 moto un processo che deve condurre dalle intuizioni e dai concetti bastardi concresciuti in esse, ai concetti puri : dagli uni agli altri non si passa di salto. Vi sono invece transizioni, formazioni miste in cui coesistono componenti percettive e immaginative insieme a frammenti di concettualizzazione vera e propria. Ma sarebbe certo un errore pensare che un processo che comin­cia così continui semplicemente all'insegna della progressiva purificazione. La questione è, dal punto di vista epistemologico, assai più movimentata. Ripensiamo ancora ad Euclide. Con Euclide abbiamo lasciato alle nostre spalle tutti i falegnami, gli scalpellini ed i vasai del mondo. Prima di lui vi è uno straordinario accumulo di acquisizioni orientate da un autentico interesse conoscitivo. Ed Euclide non si pone il problema di raccogliere insieme, di realizzare un puro e semplice sommario delle conoscenze disparate sulle forme spaziali, quelle conoscenze che la riflessione geometrica greca aveva già prodotto in gran numero e con straordinaria fecondità. L'intenzione di ridare il giusto valore alla grande tradizione di pensiero che precede la sintesi degli Elementi, e che questa sintesi ha forse contribuito a oscurare quasi che tutto sorgesse in questo grande libro, non deve affatto indurre a ritenere ingiustificata l'ammirazione che gli è stata tributata per secoli. Al contrario: proprio perché con un sapere storiografico più avvedu­to è possibile mostrare che la geometria greca non è uscita dalla testa di Euclide come Minerva dalla testa di Giove, siamo in grado di riconoscere ancor più e ancor meglio il fatto che il merito autentico ed esclusivo di Euclide sta anzitutto nel senso globale del suo progetto: egli si pone infatti il problema di una vera e propria costituzione originaria del campo delle forme, di una costituzione in via di principio compiuta e, in un senso particolare, interamente chiusa. Potremmo dire che in Euclide si inaugura un modello di discorso del tutto nuovo e mai sperimentato prima di lui. Ciò che viene inventato è un vero e proprio nuovo gioco linguistico che, a differenza di quello 106 quotidiano, non comincia ovunque e in nessun luogo, ma deve esibire espli­citamente i propri inizi e le proprie regole e contenere proposizioni vere che debbono avere all'interno di quel gioco le proprie giustificazioni assolute. Questo gioco comincia con le definizioni - e noi dovremmo cercare un contatto vivente con quei tempi lontani per essere in grado di avvertire la grandiosità del progetto che in esse si annuncia. Certamente, aprendo gli Elementi, ciascuno ha già una qualche idea del sen­so di parole come punto, linea, angolo, ecc., dal momento che ci accade di impiegarle in contesti quotidiani. Di fronte a quei sensi precostituiti legati agli impieghi correnti, quelle definizioni giungono inattese e sconcertanti. Tu sai certamente che cosa sia un punto. Ed ora io ti dirò che cosa esso è: Un punto è ciò che non ha parti Era così? Sapevi già questo? Si prova qui un leggero senso di vertigine. Oppure: La linea è lunghezza senza larghezza Chiunque avrebbe ragione di chiedersi se una frase come questa possa in generale essere compresa. Di lunghezza e di larghezza si può certo parlare in rapporto alle linee che eventualmente vediamo o possiamo produrre su un foglio di carta. Le linee possono essere spesse o sottili, e possiamo anche stabilire un ordine che va dal più al meno. Supponiamo allora di disporre di uno strumento traccialinee che ci consenta di regolare a piacere lo spessore della linea. Tracciamo dunque una linea di un determinato spessore, poi altre linee sem­­ pre più sottili, o inversamente. Compiamo dun­que un'azione, e la andiamo ripetendo secondo la possibilità del più e del meno, che è tuttavia limitata sia dalle capacità dello strumento sia della 107 nostra disposizione rispetto al senso del­le parole spesso e sottile. Voglio dire che di fatto ci sarà uno spessore massimo al di là del quale non saremo più disposti a chiamare la figura così prodotta una linea, ma parleremmo piuttosto di una superficie rettangolare nera; nell'altra direzione sappiamo che prima o poi si arriverà ad un punto in cui diremo: "Più sottile di così non si può"! Oppure: per i nostri scopi è del tutto irrilevante ottenere una linea più sottile. Su questo semplice esempio cominciamo ad intravvedere in che modo, a partire da operazioni e oggetti concreti, si innestano processi che vanno del tutto al di là di essi. In effetti abbiamo imparato dalla scuola che le figu­re tracciate sulla lavagna, su un foglio di carta o sullo schermo di un calcolatore non sono le figure di cui parla propriamente la geometria. Il maestro elementare renderà subito avvertiti di questo i suoi giovani allievi. Le figure geometriche sono, non meno dei numeri, delle oggettività ideali, sono "oggetti del pensiero". Ma come ren­dere conto del senso di queste espressioni, che certamente non siamo a nostra volta obbligati a comprendere? Non basta il parlare di idealizzazione o di ideazione: l'idealizzare deve infatti potersi precisare facendo riferimento a procedure determinatamente indicabili, a vere e proprie regole che annunciano, nel momento in cui vengono messe in opera, la presenza del pensiero puro. Questo pensiero si appiglia, nel nostro esempio, alla possibilità di disporre di una serie ordinata che rimanda a sua volta ad un'azione iterata. L'iterazione può essere intesa come una semplice possibilità, mettendo interamente da parte o­gni problema relativo all'eseguibilità effettiva dell'o­pera­zione, con gli scopi che eventualmente la determinano, così come agli strumenti materiali che consentono la sua realizzazione oppure agli impedimenti ed agli ostacoli empirici che renderebbero la prosecuzione di fatto impossibile. A questo punto si verifica una radicale modificazione della situazione complessiva e dunque una radicale modificazione di senso: il più e il meno, da cui la serie riceve il proprio ordine, 108 stabiliscono anche che essa deve continuare finché lo può: ciò significa che il processo potrà essere idealmente proseguito sino ad una linea di sottigliezza pari a zero. Ogni suo passo verrà poi concepito come un'appros­simazione a questo valore. Cominciamo così a identificare nella nozione di ordine, di iterazione e del procedere-verso-un-limite alcune delle leve su cui il pensiero può appoggiarsi nella sua attività produttiva di nuove oggettività. Nella seconda definizione euclidea, e del resto in ogni altra, possiamo dunque cogliere quelli che potrem­mo chiamare metodi di idealizzazione, che sono vere e proprie regole del pensiero puro. Occorre anzi sottolineare che solo la possibilità di fornire esempi di questi metodi è in grado di riempire di contenuto parole che altrimenti resterebbero vuote ed oscure, apparentemente affidate ad un'interpretazione psicologizzante, come idea­ liz­zazione, pensiero puro, attività intellettuale e così via. Tutto ciò può essere illustrato anche per difetto - prendendo nota di ciò che in Euclide ancora non c'è. Di angolo piatto nemmeno si parla. Alcuni commenti ci rendono avvertiti di questa "lacuna". L'angolo piatto "è per noi un angolo vero e proprio" [39] men­tre per Euclide non lo era. Anzi, esso viene escluso dalla Definizione VIII: "Angolo piano è l'inclina­zione reciproca di due linee su un piano, le quali si incontrino fra loro e non giacciano in linea retta" [40] . Ma siamo realmente certi che per noi l'angolo piatto sia un angolo vero e proprio? (Se qualcosa è piatto, si sarebbe tentati di dire, non è certo un angolo). La verità è che qui dobbiamo far valere la tensione tra discorso corrente e gioco linguistico geometrico: e il discorso corrente non ha imparato nemmeno nel ventesimo secolo che vi sono angoli piatti. Per esso vi sono ancora angoli e spigoli, e tra gli uni e gli altri vi è una profonda e ben nota differenza. "Vai nell'angolo!" - si dice al bambino nel gioco dei quattro cantoni 109 (mai e poi mai intenderemmo l'angolo piatto); oppure "Attento allo spigolo!" - agli spigoli, infatti, a differenza che agli angoli, bisogna soprattutto fare attenzione. E questo accade non perché il discorso corrente sia particolarmente refrattario alla scienza, ma per il fatto che esso è immerso tra le cose concrete di questo mondo, e ad esse riferisce in primo luogo i suoi termini. Naturalmente questa grossolana differenza potrebbe assottigliarsi nello stesso momento in cui la forma-figura viene estratta dal mondo delle cose e per così dire semplificata e stilizzata in un disegno. Noi siamo tentati di concepire anche una simile semplificazione e stilizzazione come un processo astraente in cammino. Angoli e spigoli non interessano più come momenti di una spazialità concretamente praticata ma, tra le configurazioni possibili, comincia con l'assumere risalto l'angolo in una nuova accezione ad un tempo più "astratta" e "più generale". La definizione euclidea si appiglia a questo inizio di astrazione e lo porta un poco oltre: in essa ci si richiama ad una pura disposizione spaziale delle linee, ad una possibile relazione tra l'una e l'altra: esse sono "reciprocamente inclinate" - e se da un lato la definizione proprio attraverso il riferimento all'"incli­na­ zione" (kl›siw) può for­­se adempiere un "compito descrittivo" [41] , dall'altro essa è tale da superare nettamente angoli e spi­ goli della quo­tidianità, e di riunire sotto un unico termine angoli acuti, ottusi e retti. Ma l'angolo piatto, appunto, non c'è e si potrebbe sostenere che questa circostanza sia un indizio del fatto che il versante "intuitivo" non è del tutto abbandonato, che si sarebbe potuto andare ancora oltre. Si tratta di una affermazione in sé fondamentalmente giusta. Il punto importante da mettere in rilievo è però forse un altro, e precisamente il fatto che questa interessante lacuna mostra che in Euclide, almeno in questo punto, non viene resa operante una fondamentale pro­cedura "intellettuale", una delle molte regole dell'a­strarre. Questa regola consiste in una modalità di 110 formazione concettuale che non può affatto essere descritta nei termini consueti dei "caratteri comuni" e del rapporto di genere a specie, ma consiste piuttosto nel­l'e­sibizione di un nesso generativo, e quindi di una relazione che sussiste in forza di un percorso possibile che conduce, senza lacune, dall'uno all'altro oggetto. Così facendo in realtà ci allontaniamo anche da una nozione di formazione concettuale che prenda le mosse dall'aspetto caratteristico. Una linea rettilinea ed un angolo acuto hanno in effetti un aspetto molto differente: Created using UNREGISTERED Top Draw 4/30/95 3:15:11 PM ed una classificazione meramente fondata nell'aspetto non giungerebbe certo ad una subordinazione sotto un unico "concetto". In una parola, facendo riferimento a "ciò che tutti gli angoli hanno in comune" sembra difficile pervenire all'angolo piatto. Diversamente stanno le cose se facciamo notare in che modo la linea rettilinea possa essere raggiunta a partire dall'angolo acuto: Created using UNREGISTERED Top Draw 8/3/98 9:52:18 PM Parlare di angolo piatto significa indubbiamente stabilire una connessione logica tra la "posizione spaziale" che abbiamo indicato con A e la "posizione spaziale" che abbiamo indicato con B: 111 a partire da questa posso raggiungere quella senza salti. Il parlare di connessione logica sembra qui appropria­to, anche se si stabilisce una connessione tra oggetti, piuttosto che tra proposizioni. Nello stesso tempo diventa forse più chiaro sulla base di questo esempio in quale direzione potrebbe essere fraintesa l'af­ fer­mazione, in sé del tutto giusta, secondo cui possiamo ovunque trovare nel testo euclideo delle "sopravvivenze" intuitive. Non vi è dubbio infatti che la possibilità di includere tra gli angoli, anche gli angoli piatti presupponga un maggiore livello di astrazione. Eppure, stando al nostro esempio, il mutamento che interviene per accedere a quel livello riguarda ancora un pensiero che continua a trovarsi presso la figure: esso prende le mosse da una modificazione del modo di guardarle. La figura non vie­ne colta in se stessa, isolatamente e staticamente, ma viene vista come un momento all'interno di un processo. Questa circostanza invita alla riflessione. §3 L'intuizione e il buon senso - La differenza tra giochi linguistici e le loro possibili sovrapposizioni - Le definizioni euclidee guardano da due parti - Importanza della verbalizzazione. Le nostre precedenti osservazioni mirano a far sorgere il sospetto che quei commenti che si affrettano a presentare le definizioni euclidee come residui "intuitivi" che il pensiero evoluto saprà finalmente mettere da parte, come scorie che attendono ancora di essere passate ad un filtro provvisto di più sottili trame, siano fuorvianti, nonostante una loro ovvia e superficiale validità. Il citare queste formulazioni al più per mostrare in quali secche si finisca quando si pretenda di dare definizioni esplicite dei termini primitivi è realmente un discorso troppo sem­plice e riduttivo, che cancella l'inte­resse di qualunque tentativo di gettare lo sguardo sulle dinamiche effettive delle procedure astra­enti. Altrettanto insoddisfacente è un'altra posizione che in ap- 112 parenza muove, in rapporto alle definizioni euclidee, in direzione opposta e che sembrerebbe trovarsi maggiormente in armonia con la posizione che stia­mo cercando di delineare. In luogo di trovare troppo "intuitive" quelle definizioni, le si trovano "controintuitive" - anzi contro il "buon senso". Non sembra forse che urti proprio il nostro innato buon senso il parlare di una linea senza larghezza o di un punto senza parti, quasi che il togliere la larghezza possa preservare la lunghezza, o ridurre a zero il diametro di un cerchio possa preservare il cerchio stesso? Le definizioni euclidee andranno allora difese proprio per il fatto che superano - attraverso nozioni logiche - il piano dell'intuizione. Una simile direzione di discorso in realtà ha già di mira l'idea che se vogliamo capir qualcosa della geometria in genere, euclidea o non euclidea, dobbiamo fin dall'inizio ficcarci bene in testa che in essa si tratta di "logica", e non di "intuizione". Anche in questo caso vi è una parte di verità che vie­­ne falsata da un'epistemologia troppo elementare. Nonostante la diversità degli esiti, non si stenta a rilevare che ci troviamo di fronte ad un atteggiamento che non è poi troppo diverso dal precedente. In entrambi i casi parole come intuizione, intuitivo, ecc. - mettendo bellamente da parte un dibattito scientifico-filosofico secolare la cui stessa esistenza spesso si ha ragione di sospettare sia del tutto ignorata - vengono ad essere assimilate a espressioni come: "sapere approssimativo", "a lume di naso", "alla buona", "pregiudizi correnti", "evidenza ingannevole", "opi­nioni infondate e presumi­bil­mente false", "delimitazioni con­cettuali prive di rigore", e infine anche, come abbiamo visto or ora, ad un "buon senso" che di buono non ha proprio nulla, ma è tutto arricchito dalle connotazioni negative presenti nel­le e­spressioni precedenti. Curiosamente la stessa parola vuol talvolta dire anche "idea geniale", "illuminante", "chiarimento improv­viso", venuto da qualche parte in modo peraltro non troppo chiaro. Simili scelte terminologiche sono spesso il veicolo di inac- 113 cettabili semplificazioni sul terreno della teoria della conoscenza e in particolare sul problema delle relazioni tra intuizioni e concetti. In entrambe le direzioni di discorso la presa di posizione elementare che sopprime ogni problema sta, come è chiaro, nel contrapporre conflittualmente il cosiddetto "buon senso" - che includerebbe intuizione e immaginazione, ma non la capacità riflessiva del ragionamento e del calcolo - al pensiero logico-ma­ tematico il cui imperativo categorico primario sarebbe proprio quello ignorare il buon senso, costi quello che costi. L'esi­stenza di una complessa dialettica tra for­mazioni di esperienza e formazioni concettuali è semplicemente al di fuori del campo visuale di un simile punto di vista. Questa dialettica può anche essere presentata molto efficacemente come una dialettica tra "giochi linguistici". Come abbiamo osservato, in Euclide si apre il problema di un gioco linguistico interamente diverso da quello quotidiano: quest'ultimo è strettamente legato ai bisogni della vita, ai suoi orizzonti pratici, in generale al­l'e­­sperienza pratico-percettiva del mondo, alle tipologie empiriche ed alle configurazioni caratteristiche. E pro­prio tutto ciò deve essere superato e soppresso. Ma questa Aufhebung è un processo complesso, in certo senso sempre iniziato e mai esaurito. La singolarità che ci sconcerta nelle formulazioni definitorie euclidee è dovuta al fatto che in questo processo sono possibili parziali sovrapposizioni. Quelle for­mulazioni stanno appunto a cavallo di giochi linguistici profondamente differenti: nel gioco linguistico quo­tidiano ci sono linee più o meno spesse, più o meno sottili. Ci sono punti grossi e punti piccoli - ed essi non sono affatto punti o linee del "buon senso"! Sono invece con­figurazioni caratteristiche, che rimangono impresse nella nostra mente, a cui abbiamo applicato dei nomi, e che possiamo facilmente riconoscere quando ci si presentano sotto il nostro sguardo - figure dell'intuizione, per l'appunto. Accanto a questo gioco, comincia ad esservene un altro nel 114 quale non deve aver senso parlare né di sottigliezza né di spessore della linea o di grossezza del punto. Quando diciamo: La linea è lunghezza senza larghezza, e parliamo dunque di spessore della linea, anche se per escluderla, questi due giochi linguistici tendono a sovrapporsi parzialmente. Quella frase guarda da due parti, da un lato alla concretezza del­la linea sperimentata, dall'altro alla linea in idea, alla concezione astratto-geometrica della linea. Il "concepire" si allontana sem­­ pre più da un afferrare sulla base di una configurazione percettiva, da una "concezione" che deborda appena dalla "percezione", per assumere il senso vero e proprio che spetta ai concetti. La traccia dell'origine resta nella formulazione verbale. Ma l'origine è superata nello stesso fatto che siamo alla presenza di una formulazione verbale. Soffermiamoci un poco su quest'ultimo punto che è della massima importanza. Prima ancora che parlare dei contenuti delle definizioni euclidee, bisognerebbe attirare l'attenzione sul fatto che in esse si è in generale alla ricerca di descrizioni verbali complete degli oggetti elementari della geometria. Si avanza qui una pretesa di cui non si era mai avvertita l'esigenza, e proprio tenendo conto di essa si comincia a compren­ dere in che senso si inaugura un "gioco linguistico" interamente nuovo. È infatti interessante chiedersi che forma assumerebbe la definizione di parole come punto, linea, cerchio, ecc. restando sul piano dell'esperienza pratico-percettiva delle forme. Pensiamo al modo in cui ci comporteremmo di fronte al problema di fare apprendere ad un bambino il significato di parole di questo genere. Certamente non cercheremo di introdurre la parola punto o retta dicendo o tentando di dire che cosa essa è. Ad esempio non diremo: punto è "ciò che non ha parti"; ed ora disegna un punto. Oppure linea è "lunghezza senza larghezza" ed ora disegna qualcosa che è lungo, ma non è largo. Presumibilmente mostreremo noi stessi un punto o una linea diritta su un foglio di carta, impiegando nello stesso tempo 115 la parola corrispondente e poi, dopo aver ripetuto eventualmente in vari modi queste operazioni, con qualche variante tendente a mettere in evidenza aspetti importanti e non importanti, lo inviteremo a disegnare una linea o un punto, esprimendo approvazione o disapprovazione fino a quando potremo essere ragionevolmente certi che la parola in questione è entrata a far parte del suo gioco linguistico, e in questo senso essa è stata compresa. Ciò che è talora chiamata "definizione ostensiva" - con terminologia del tutto impropria per il fatto che essa si mantiene ostinatamente abbarbicata al "definire", al­l'i­­dea del dire ciò che una cosa è - oltre a non essere una definizione affatto, non è nemmeno una pratica ostensiva semplice, è in­­vece un insieme di pratiche di varia natura, un "insegnamento ostensi­vo" del quale fanno naturalmente parte anche le parole, ma si tratta di parole integrate in una grande varietà di gesti, di comportamenti, di atti mimetici, di raccomandazioni, persino di sottintese minacce, che hanno lo scopo di addestrare ad impiegare "correttamente" le parole di nuova introduzione [42] . Ciò che con questo insieme di pratiche viene evitata è proprio la definizione verbale, mentre, nei primi passi della geometria come scienza, si cerca al contrario di affidare al linguaggio e - come una linea di tendenza che già si annunzia - soltanto ad esso, ciò che la figura è o deve essere. In questo senso abbiamo le nostre buone ragioni per affermare che per il solo fatto che nelle definizioni eu­clidee si tenti di introdurre i termini mediante parole si opera un netto distacco dal piano pratico-percettivo, manifestando il nostro dissenso da chi si affretta a segnalare come una sorta di residuo negativo la presenza di componenti intuitive e immaginative nelle definizioni di Euclide e nelle proposizioni che fanno parte dell'apparato fondazionale, così come del resto anche dalla pretesa che in esse ci troveremmo di fronte ad un puro e semplice conflitto con il "buon senso". 116 §4 Sulla prima proposizione degli Elementi di Euclide - In essa si formula un compito costruttivo - Lo scopo della costruzione è tuttavia quello di mostrare le connessioni interne della figura - Ogni passo della costruzione deve essere giustificato. Abbiamo più volte sottolineato che l'esperienza delle figure non riguarda la semplice visione, ma anche la possibilità di plasmarle e riplasmarle, di riprodurle in immagine. L'esperienza delle forme è un'esperienza del fare. Esse dunque possono essere guardate come prodotti e un problema relativo alle proprietà delle forme potrebbe essere riformulato in rapporto al modo in cui esse sono state prodotte. Consideriamo la prima proposizione di Euclide - quella a partire dalla quale, dopo l'esposizione delle nozioni fondamentali, si delinea il grande progetto di una teoria deduttiva: ci troviamo di fronte non già ad una proposizione che enuncia uno stato di cose, il sussistere di una certa relazione o di una certa proprietà. In essa si formula un compito costruttivo, si pone un problema che sembra essere essenzialmente di realizzazione grafica: Su una retta terminata costruire un triangolo equilatero Nella formulazione linguistica, dunque, non compare affatto una tesi relativamente ad una proprietà di un certo oggetto, ma un compito che deve essere portato a buon fine. La formulazione "come dovevasi dimostrare" che chiude le dimostrazioni nei nostri manuali elementari non è originaria di Euclide. La formula conclusiva euclidea corrisponde alla formulazione del compito, e dice dunque propriamente "come dovevasi fare". Nel momento in cui la geometria che è giunta ad un tale stadio di sviluppo da potersi proporre come una teoria in senso 117 pregnante, come una teoria deduttiva, siamo anzitutto invitati a prendere carta e matita, riga e compasso ed a metterci al lavoro. Notato questo punto tuttavia, e non appena ci accingiamo alla costruzione che la proposizione ci propone, ci rendiamo conto di un'altra circostanza fondamen­tale che in realtà ci fornisce il senso autentico del compito proposto: la costruzione interessa in quanto essa è in grado di esibire dei passi internamente giustificati, cioè che hanno la loro giustificazione nelle connessioni interne della figura. Lo scopo è di mostrare queste connessioni e di mostrarle non già come dati di fatto rilevati nella mera osservazione della figura, ma come nessi determinati dal modo stesso in cui la figura è generata, e dunque come nessi appartenenti alla sua essenza. Consideriamo come procede la costruzione del trian­­golo sulla "retta terminata". Ci viene anzitutto richiesto di puntare alternativamente il compasso in A e in B e di realizzare due cerchi che si intersecheranno nel punto C. E poi di congiungere i punti A e B con il punto C. Si ottiene così il triangolo ABC. C A B Created using UNREGISTERED Top 8/7/98 Ora, ciò che importa sono le ragioni per leDraw quali possiamo dire 3:17:17 PM che abbiamo costruito un triangolo equilatero, non il dato di fatto della costruzione del triangolo equilatero. Alla costruzione è affidato unicamente il compito di esibire queste ragioni. Da un lato dunque è vero che l'impostazione del problema assume la forma di una costruzione, e questo rammenta l'origine dalla pratica con le figure. Dall'altro le componenti empirico-fat- 118 tuali di questa pratica sono nettamente oltrepassate in una direzione di discorso essenzialmente diversa. Questo oltrepassamento è dimostrato soprattutto dal mo­ do in cui si argomenta che, facendo così, il triangolo costruito è effettivamente equilatero. Esso è tale per via della eguaglianza dei raggi, di AB con AC e di AB con BC - e dunque anche di AC con BC. In realtà si potrebbero presentare le cose in tutt'al­tro modo. Il problema sia appunto quello di realizzare un triangolo equilatero su un segmento dato. Se vuoi realizzare questo compito devi fare così e così - devi puntare il compasso in A e poi in B. Devi congiungere poi il punto di intersezione C con A e con B. Facendo in questo modo otterrai un triangolo equilatero, come ti potrai convincere misurando i lati e constatando che essi sono eguali. Se presentassimo le cose in questo modo tutto si ridurrebbe ad una precettistica pratica e la conferma della bontà del risultato verrebbe poi da una constatazione empirica, dalla misurazione. Come se dicessimo: si è sempre fatto così, si è trovato che questo è un buon metodo ovvero che questa procedura ha sempre dato buoni risultati. Invece la prima proposizione non dice affatto questo, non ha affatto questo senso, né implicitamente né esplicitamente. L'esistenza di una relazione geometrica non trae conferma da una misurazione empirica, così come dal successo praticamente sperimentato di un metodo o di una procedura di costruzione. Ma da ciò segue che questa procedura non ha bisogno di essere concretamente realizzata: è sufficiente il pensiero della possibilità di una simile procedura e le conseguenze che io posso trarre da questo pensiero. Naturalmente una modificazione corrispondente subiscono le oggettività prodotte e gli enunciati su queste oggettività. Siamo appunto nel campo delle idealità. Più precisamente: stia­mo cercando di spiegare che cosa significhi essere nel campo delle idealità. Fa indubbiamente parte di 119 questa spiegazione il fatto che la costruzione non solo debba essere giustificata ad ogni suo passo, ma anche che la giustificazione debba essere trovata restando strettamemente all'interno degli Elementi. Poiché questa proposizione è appunto la prima, allora non potremo fare altro che richiamarci a tale scopo alle definizioni, ai postulati e alle nozioni comuni che fanno parte dell'apparato fondazionale della teoria. Rivediamo da questo punto di vista la realizzazione del compito enunciato dalla prima proposizione nei passi in cui essa può essere suddivisa. Il primo passo è quello di delineare il cerchio con centro in A e raggio AB. Il secondo passo consiste inversamente nel delineare il cerchio con centro in A e raggio BA. Ma questi due passi non sono affatto dati per compiuti e nulla più. Essi debbono invece essere giustificati, e proprio a questo scopo vi è un rimando anzitutto al Terzo Postulato, il quale afferma che possiamo sempre tracciare un cerchio con un raggio qualsiasi. Come terzo passo, si tracciano dal punto C, in cui i cerchi si intersecano, le linee congiungenti C con A e con B. E naturalmente anche questo passo deve essere giustificato - cioè deve essere giustificato il fatto che sia possibile tracciare quelle linee esattamente come nel caso precedente dei cerchi. Il rimando è qui al Primo postulato: È sempre possibile tracciare una linea da un qualsiasi punto ad ogni altro punto [43]. Abbiamo infine - non tanto un quarto passo - quanto una considerazione conclusiva che deve effettuare il passaggio alla formula "come dovevasi fare". Si tratta di confermare che il triangolo costruito nei passi precedenti è effettivamente un trian­golo equilatero, e per questo forniamo una giustificazione intrinseca che può essere tratta dal peculiare metodo di costruzione del triangolo stesso. Si sono tracciati dei cerchi: e la ragione del­la equilateralità sta nella Definizione XV che riguarda l'e­gua­glia­n­za dei raggi come condizione definitoria del cerchio; e nella Prima nozione comune che riguarda la transitività dell'eguaglianza e 120 che rende possibile l'impiego di questa condizione in rapporto al problema proposto. Del resto, non è affatto ovvio accingersi a disegnare un triangolo tracciando cerchi! §5 La questione dell'evidenza - È evidente il primo postulato? - E il terzo? - E che dire del quinto postulato? - Crisi dell'intuizione e crisi dell'evidenza - Quattro possibili accezioni del termine evidenza - Logica delle figure e logica delle proposizioni - La sospensione del senso nel passaggio alle nuove geometrie - Evidenze ed assunzioni. Per chiarire la direzione principale dei nostri discorsi ed il loro intento, i postulati (a™t-mata) euclidei, a cui abbiamo accennato poco fa, fanno allo scopo. Nella filosofia è spesso necessario ripensare ad un problema senza sentire troppo il peso di dibattiti secolari. Potremmo allora immaginare che Euclide in persona ci venisse incontro dicendo con voce grave: Risulti postulato: che si possa condurre una linea retta da un qualsiasi punto ad ogni altro. Come è strana questa affermazione esaminandola per quello che letteralmente dice! Ed è strana, a seconda di come la si intende, per ragioni molto differenti, e persino opposte. Ad esempio, potremmo osservare che è del tutto evidente che si possa, dati due punti, tracciare una linea tra essi. Ma perché vi è bisogno di dichiararlo? Anche in questo caso, come in quello delle definizioni, dobbiamo dare l'importanza che merita al fatto che si operi una verbalizzazione esplicita. Che cosa propriamente viene verbalizzato? Una tacita evidenza, una verità apodittica - e di origine "intuitiva" - o una mera assunzione la cui necessità è puramente interna al gioco linguistico? Io credo che il dibattito su questo punto sia stato spesso falsamente impostato da un lato per via degli equivoci connessi al problema dell'evi­den­za, dall'altro per il fatto che si è venuta fossilizzando e irrigidendo una 121 contrapposizione che in realtà ha una sua mobilità e ricchezza interna. Intanto va subito notato che anche qui, come nel caso delle definizioni, la verbalizzazione esplicita dimostra l'intento di creare un netto distacco dal discorso quo­tidiano - quindi fa parte del progetto di porre ogni presupposto dentro il gioco linguistico, e non fuori di esso. Quanto alla questione dell'evidenza, ed addirittura ad un'evidenza fondata sull'intuizione - il tenore della risposta dipende certamente dal modo in cui intendiamo questo termine [44] . Se con intuizione intendiamo il rimando ai contesti pratico-concreti dell'esperienza, allora quell'afferma­zio­ne è tutto meno che evidente. Infatti tra un punto A ed un altro punto B io non potrei tracciare proprio nessuna linea (diritta) se tra A e B ci fosse un alto muro. L'evidenza del terzo postulato è ancora minore dal momento che è chiaro che non potrei affatto tracciare un cerchio se il suo raggio fosse troppo grande. Inversamente, la possibilità di tracciare tra due punti una linea o di tracciare un cerchio, quando sono soddisfatte le normali condizioni che sono tacitamente sottintese quando ci viene richiesto di tracciare una linea o un cerchio - essa è tanto ovvia da non aver bisogno nem­meno di essere enunciata. Si comprende la grande novità rappresentata dal­l'e­­nun­­cia­ zione dei postulati. La possibilità che è qui in questione non è una possibilità che fa parte del nostro mondo: i punti, le rette e i cerchi di cui in essi si parla sono oggetti di genere interamente nuovo, sono oggetti che appartengono ad un altro universo, e questa alterità comincia a sussistere proprio nel momento in cui io enuncio che tra essi si può sempre tracciare una retta: si può, perché all'universo a cui appartengono i punti non può appartenere qualcosa come un alto muro. In certo senso la possibilità empirica di tracciare una linea tra due punti sulla lavagna potrebbe rappresentare una sorta di azione introduttiva: io vi mostro che posso tracciare tra due punti 122 qualsiasi sulla lavagna una linea che li congiunge, e vi mostro alcuni esempi, ma con ciò non intendo provare qualcosa di fin troppo ovvio; e cioè che posso fare questo dal momento che lo faccio. Intendo invece preparare una sorta di radicale ribaltamento, nel quale si propongono nuovi oggetti che risultano ricostituiti su un piano interamente diverso: la semplice enunciazione della possibilità esplica una vera e propria azione ontologicamente produttiva in quanto formula una delle condizioni che pone in essere quel tipo di oggetto che è, nell'universo geometrico, il punto e nello stesso tempo anche, istituendo una relazione tra punti e linea, di quel tipo di oggetto che è la linea. Quell'azione introduttiva è ad un tempo essenziale e inessenziale. Essa è essenziale per generare il senso, inessenziale per con­fermarlo. Cose all'incirca analoghe sosterremmo anche in rapporto al quinto postulato. Nella sua formulazione comunemente nota esso dice: Per un punto passa una sola parallela ad una retta data. Ed il commento continuamente ripetuto, che deve preparare la meraviglia degli incauti di fronte alla sua negazione ed alla celebrazione definitiva della logica di fronte all'intuizione, sarà naturalmente: questa è una circostanza che ci appare "intuitivamente evidente". Oppure: alla nostra "intuizione spaziale" sembra che le cose stiano effettivamente così. "La forma dell'unicità è certo assai intuitiva: alla nostra intuizione sembra impossibile che per uno stesso punto passino più parallele ad una retta data" [45] . A dire il vero quando si parla di "evidenza intuitiva" oppure di "intuizione spaziale" si hanno di mira, sia pure implicitamente, cose piuttosto diverse: nel primo caso, l'evidenza intuitiva è il "lume di naso", il "buon senso". Nel secondo invece - a meno di una confusa allusione alla posizione kantiana - si pensa ad una collezione di convinzioni intorno allo spazio, venute chissà da dove, certamente non passate al vaglio della logica, e dalle quali, a tutta prima - così si sostiene - non vorremmo staccarci. 123 Abbiamo già detto che non ci sembra di poter trarre alcuna utilità dalla prima accezione. Ma è lecito dubitare che anche la seconda ci possa orientare nella giusta direzione. Non credo che ci sia nessuno che sia in grado di enunciare sui due piedi le proprie convinzioni intorno alla spazio - la questione sembra già essere alquanto filosofica! Come stanno dunque le cose se le guardiamo dal nostro punto di vista? Per dare una risposta a questa domanda converrà fare un passo indietro, alla definizione del parallelismo, la XXIII, nella quale si dice che: Parallele sono quelle rette che, essendo sullo stesso piano e venendo prolungate illimitatatamente dall'una e dall'altra par­te non si incontrano tra loro da nessuna delle due parti. In rapporto ad essa porremo nuovamente l'accen­to sul fatto che in questa definizione, come in tut­te le altre, si sta a cavallo tra due giochi linguistici profondamente differenti. Attenendoci al piano dell'esperienza noi abbiamo a che fare con andamenti caratteristici, con configurazioni tipiche. La seguente configurazione, ad esempio Created using UNREGISTERED Top Draw 4/30/95 10:52:39 PM ha un carattere sulla base del quale potremmo dire che "prima o poi" le due linee si incontreranno. Peraltro si tratta di una formulazione che presuppone una componente di ordine immaginativo: le linee che abbiamo di fronte sono quelle che sono, e 124 non sono affatto movimenti. In certo senso, se ci esprimiamo così, esse sono in­tese come immagini di movimenti. Oppure ci si rappresenta, per dir così, tacitamente il gesto del tracciare le linee come se ci fosse qualcuno che proprio ora le sta tracciando: dicendo che le due linee si incontreranno anticipiamo il risultato che realizzerà tra poco la tendenza in esse evidente. La stessa cosa si potrebbe naturalmente dire per il parallelismo. Considerato al di fuori del gioco linguistico geometrico, e quindi sul piano "intuitivo", il parallelismo è essenzialmente una configurazione percettiva che ha il suo andamento caratteristico il cui tipo può essere insegnato ed appreso ostensivamente: Di questo insegnamento ostensivo non farà certamente parte l'istruzione: si disegnino due rette che, prolungate illimitatamente, non si incontrino mai. Diremo invece di disegnare due rette che abbiano l'andamento caratteristico del parallelismo, andamento che avremo mostrato ricorrendo a svariati mezzi. Tra essi naturalmente potrebbe essere impiegata efficacemente la con­ trapposizione tra questa configurazione tipica e quell'altra nella quale viene subito evocata l'idea, anzi, si sarebbe quasi ten­tati di dire, la fantasia di un possibile incontro. L'esibizione di differenze e di contrapposizioni fa probabilmente par­te dell'ap­parato di metodi in cui consiste l'inse­gna­mento ostensivo. Che nella definizione di Euclide si prendano le mos­se da queste configurazioni e che di esse rimanga ancora qualche traccia sarebbe difficile negarlo; ma altrettanto difficile sarebbe negare l'approdo ad un gioco linguistico le cui regole si stanno proprio ora approntando e, insieme alle regole, anche gli oggetti su cui esse vertono. Supponiamo ora che qualcuno, per metterci alla prova, ci chiedesse a bruciapelo che cosa ne pensiamo intorno alla fac- 125 cenda del quinto postulato, se per "la nostra intuizione" esso ci appaia senz'altro come evidente - oppure se ci sembri possibile condurre per un punto più di una parallela ad una retta data. Ammettendo che si sia superato un certo sconcerto indotto dalla domanda (anch'essa pretende di stare a cavallo tra due giochi linguistici), cercando una risposta forse penserei all'anda­mento caratteristico delle parallele, e troverei che questa possibilità genererebbe configurazioni a cui non attribuirei la caratteristica del parallelismo. Ma se per questo dicessi: non si può tracciare più di una parallela! ciò non significa affatto la stessa cosa che questa proposizione significa nel contesto della geometria euclidea. Non si tratta di una frase appartenente ad una geometria in genere. A meno che non mi venga in mente un altro modo per risolvere la questione. Disegno un punto molto grosso, e posso dirti allora che di parallele per un punto ad una retta ne possono passare almeno due: "Ma allora non hai capito nulla!". Forse. Il fatto è che mi è stato chiesto di adottare un punto di vista intuitivo, e così ho fatto. Ed ora sono preso dal dubbio che non abbia invece capito qualcosa chi asserisce che quella proposizione sembrerebbe garantita dal­l'in­­ tuizione al solo scopo di sancire, con il richiamo immediato alle geometrie non euclidee, la sua irreversibile "crisi" . Naturalmente per molti secoli quella proposizione è stata ritenuta o evidente in se stessa o dimostrabile a partire da evidenze, ma questa circostanza non può rappresentare per noi un'obiezione. Infatti essa attira la nostra attenzione sulla necessità di interrogarsi sulla mol­­teplicità di sensi che la parola "evidenza" può ricevere, e dunque anche per chiarire quale evidenza la scien­ za e l'epistemologia moderna ha effettivamente mes­so in crisi. 126 Se consideriamo il modo in cui abbiamo sviluppato la nostra discussione, non è difficile rendersi conto che vi sono almeno quattro nozioni di evidenza che da parte nostra non vengono certamente difese, ed anzi non assolvono propriamente nessun ruolo. Si tratta 1. dell'evidenza intesa come illuminazione interiore della verità apodittica, l'evidenza dunque come fenomeno psicologico; 2. dell'evidenza come connessa ad una idea della razionalità metafisicamente garantita; 3. dell'evidenza come nozione connessa con l'in­tui­zione intesa come una specialissima forma di conoscenza, che si contrappone alla conoscenza razionale in genere. Le evidenze intuitive vengono allora considerate come conoscenze autentiche, inaccessibili tuttavia ai mezzi della razionalità e possono rappresentare la base, come in Schopenhauer o in Bergson, di una metafisica non-razionalistica, ma anche di una filosofia della matematica, come accade in Brouwer. Restando sul versante filosofico, questa terza nozione può essere subordinata alla seconda, assolvendo normalmente lo scopo di assicurare un fondamento ad una costruzione di ordine metafisico. 4. infine dell'evidenza nel modo in cui può presentarsi al­ l'interno di una considerazione trascendentalistica di stile kantiano. Quest'ultima, almeno nella sua interpretazione corrente, per­ viene all'idea di leggi a priori della spazialità reale che sarebbero date intuitivamente, in un senso che peraltro ha ben poco da spartire con il "buon senso" e l'"ingenua opinione", ma che per essere spiegato richiederebbe l'intero armamentario del punto di vista trascendentalistico kantiano. Come si sa, lo spazio è, secondo Kant, forma a priori dell'intuizione, e tutto fa pensare che se fosse interrogata sull'argomento "spazio" l'intuizione kantiana ci fornirebbe null'altro che le regole fondamentali della geometria euclidea. E poiché ogni oggettività intuita è data appunto in questa forma, la geometria euclidea farebbe corpo con la realtà stessa - essa è la geometria del reale stesso. 127 Ciò che viene messo in questione dalle geometrie non euclidee non è l'evidenza intuitiva in genere: ma è sia la concezione "psicologica" che quella "metafisica" dell'evi­denza, sia nella variante razionalistica che in quella non razionalistica, qualora naturalmente - e questa è una precisazione importante - l'una o l'altra o entrambe siano richiamate per sostenere l'incon­te­sta­ bilità assoluta del quinto postulato. Per ciò che riguarda la concezione trascendentalistica, il concetto filosofico di "intuizione" in essa elaborato non può cer­ to uscirne indenne. Lo stesso rapporto tra spazio geometrico e spazio fisico - che forse in passato non è mai stato veramente problematico e che poteva essere proposto più o meno esplicitamente secondo un'angolatura platonistica, in base alla quale lo spazio fisico-reale deve essere considerato come un'appros­ sima­zione ad una rete di rapporti ideali che troverebbero nella geometria la loro manifestazione più pura - ha cessato di essere ovvio nel momento in cui si è resa chiara la differenza tra il piano di un'elaborazione teorica che può svilupparsi secondo le proprie leggi immanenti, e il piano dell'applicazione della teoria ad una realtà effettivamente sussistente. Ma come abbiamo osservato, queste nozioni dell'in­tui­z ione e della problematica dell'evidenza connessa ad esse non assolvono propriamente nessun ruolo all'interno della nostra discussione. Tutta l'attenzione è rivolta piuttosto all'idea di una spazialità sperimentata da cui prendono l'avvio i processi di idealizzazione [46] , secondo una prospettiva che mantiene la massima mobilità: sia per il fatto che con spazialità sperimentata si intende una molteplicità di spazi correlati a modalità differenti di esperienze possibili, sia per il fatto che non vi è da nessuna parte una mappa sulla quale sarebbero prescritti i percorsi di quei processi. Abbiamo notato più volte che si tratta di processi di allontanamento dal mondo dell'esperienza - e non è prescritto quanto vicino o quanto lontano ci possiamo spingere, con quali mezzi, in che modo e con quali risultati. 128 Il parlare di nuovo gioco linguistico già per la geometria euclidea implica anzitutto che il concetto plasmato sulla pura configurazione tipica comincia con l'essere messo a distanza, mentre si fa avanti l'idea che questo gioco non consista nella presentazione delle strut­ture metafisico-ontologiche o trascendentali del reale, ma piuttosto in una costruzione del pensiero che ha le proprie regole di legittimazione interna. Allora altri giochi sono certamente possibili, e solo il pensiero stesso potrà mettere limiti oppure toglierli, ed in questo senso potrà anche avvalersi dell'at­ to "creativo" del far valer questo postulato o quest'altro. Profondamente insoddisfacente è invece il presentare l'in­ te­ra questione come una pura vittoria della logica sull'intui­zione, l'una all'altra elementarmente con­trap­poste, a partire dal­l'idea di una assiomatica formale considerata in un quadro filosofico con­ notato della retorica convenzionalista della "mera assunzione". Cerchiamo di motivare meglio questa nostra insoddisfazione ritornando sui nostri esempi. È necessaria indubbiamente una certa spericolatezza, per trarre da essi un effettivo profitto. Ma val la pena di correre qualche rischio per vederci un po' più chiaro sull'im­postazione generale della questione. Di fronte alla figura seguente s c t Created using UNREGISTERED Top Draw 5/16/95 4:46:37 PM potrei dire che è del tutto evidente che le rette t ed s si incontreranno dalla parte in cui gli angoli sono acuti. Oppure non dovrei dirlo? O dovrei dire che credo soltanto che lo sia, che così mi sembra ma forse non è? Che dopo le geometrie non-euclidee la diffidenza, sotto 129 questo riguardo, non è mai troppa? Abbiamo già notato che, in ogni caso, qui si va un poco oltre ciò che "letteralmente" si vede. Ad esempio, la figura seguente Created angoli using UNREGISTERED Top Draw 5/16/95 presenta adiacenti, l'uno ottuso e l'altro acuto.5:00:18 Ma sullaPM sua base io posso anche affermare che variando l'angolo acuto va­ rierà anche l'angolo ottuso e secondo una precisa regola: ad un "sempre più" da un lato, deve corrispondere un "sempre me­no" dall'altro. Andiamo così un poco oltre ciò la figura in se stessa presenta, anche se questo superamento appartiene ai dinamismi pos­sibili della percezione. Questo senso è intessuto nella figura nella misura in cui ne colgo la struttura ed afferro in essa una possibilità di variazione. Questa possibilità sta nelle pieghe intenzionali di questo afferramento. La forma spaziale viene talvolta a torto indicata come un vero e proprio "simbolo" della staticità. Vi è invece un modo di guardarla che la mette in movimento, essa è-così in un poter-divenire-altro, secondo possibilità coerenti di variazione e di trasformazione. Sulla base della figura precendente potrei formulare una regola intorno al "sempre più-sempre meno" ed anche questa regola avrebbe il carattere dell'evidenza. In rapporto ad essa il "buon senso" non ha niente da dire in proposito. Nemmeno è il caso di richiamarsi a una "vaga opinione", dal momento che in realtà non si tratta di un'opinione affatto. Ma a che livello si trovano evidenze come queste? La risposta a questa domanda non è troppo a portata di mano anche se abbiamo già ampiamente preparato ad essa il terreno. Il punto di 130 partenza è certamente la configurazione e l'andamento caratteristico. Ma ciò non significa che ci si attenga al puro piano delle constatazioni empiriche. La figura ha infatti la propria esemplarità, e in base ad essa è possibile operare una generalizzazione che non è affatto una generalizzazione induttiva. Si tratta dunque di evidenze che riguardano la logica interna della figura, logica che è afferrata in inerenza alla figura stessa. Vi è una logica delle figure: questo è un punto di particolare importanza. La geometria sorge dal pensiero di rendere esplicita questa logica, con la quale essa dunque anzitutto a che fare. Nello stesso tempo il pensiero geometrico opera una totale trasvalutazione delle figure ricreandole come nuovi oggetti; in questa trasvalutazione e ricreazione entra in azione il pensiero con la sua au­to­noma capacità produttiva, con le proprie regole: l'og­ getto ricreato viene vincolato alla proposizione, ed una logica originariamente inerente ai nessi oggettuali, che resta peraltro puramente implicita, viene resa esplicita, ripresa e nello stesso tempo rinnovata, all'interno di una logica dei nessi proposizionali, al­l'interno di una costruzione deduttiva. Questo aspetto assume particolare significato proprio in rapporto ai problemi posti dal quinto postulato. La sua storia più volte narrata può avere una morale piuttosto diversa da quella che di solito si cava da essa. Chiediamoci ingenuamente: perché il grande rovello non è cominciato dal primo postulato piuttosto che dal quin­to, perché invece di tentare di derivare il quinto postulato da tutti gli altri non si è tentato di derivare il primo? La risposta è molto semplice: è il quinto postulato, e non il primo, che si presentava nella sua formulazione linguistica come molto simile ad un teorema, e vi erano dei teoremi che sembravano nella loro formulazione molto simili a quel postulato. Quindi il dubbio ha sempre riguardato la posizione del quinto postulato all'interno del sistema deduttivo, ha riguardato soprattutto la logica dei nessi proposizionali, e non la logica interna della figura così come essa 131 si trova nella sua evidenza pregeometrica. È accaduto poi che badando a questa logica si affacciasse la possibilità di un sistema coerente nel quale compariva in luogo del quinto postulato, una proposizione incompatibile con esso, e si decise di avventurarsi su questa strada. Questa decisione aveva dalla propria parte due circostanze fondamentali: in primo luogo gli oggetti della geometria sono in ogni caso costruzioni del pensiero - e naturalmente già a partire dal punto senza parti di Euclide. In secondo luogo tra la logica delle figure e la logica delle proposizioni, che sono insieme intrecciate nel pensiero geometrico, spetta al pensiero stesso decidere se, in un certo punto del cammino, convenga dare la priorità alla seconda piuttosto che alla prima. È esattamente e solo a questo punto che interviene l'assun­z ione: assumo che valga come postulato che per un punto possano passare, ad esempio, due parallele ad una retta data. Il postulato euclideo delle parallele e questo postulato non sono affatto sullo stesso piano dal punto di vista epistemologico. Il primo ha un antefatto nella logica delle figure, il secondo ha un antefatto nella logica delle proposizioni. Il primo appartiene ad un gioco linguistico che avanza la pretesa della chiusura e del superamento dei dati esperienziali, e tuttavia mantiene un rapporto con essi potendo questi dati fornire un qualche sostegno al significato delle parole che compaiono in esso. Il secondo invece appartiene ad un gioco linguistico in rapporto al quale abbiamo deciso che gli interessi sintattici debbano a­vere, almeno per un certo tratto, la prevalenza su quelli semantici. Nelle "nuove geometrie" il significato delle parole diventa tendenzialmente indeterminato. Poiché è cambiata la regola, è cambiato anche l'oggetto. Con retta, parallelismo, angolo, ecc. non si intende più ciò che si intendeva prima. Anzi, più precisamente: ora non è per nulla chiaro che cosa si possa o si debba in generale intendere con quelle parole. Il loro senso è tenuto in sospeso. Di contro la loro sintassi è perfettamente determinata. Si affaccia così, prima come una necessità piuttosto che come una conquista, 132 l'adozione di un punto di vista assiomatico-formale che sancirà la differenza tra sintassi e semantica, tra sistema formale e sua interpretazione con autentica chiarezza teorica. I fatti sono gli stessi, la loro versione è tuttavia un po' cambiata rispetto a quella consueta, ed anche le conclusioni e i commenti sembrano essere piuttosto diversi. In effetti non vi è modo di innestare su tutto ciò un discorso troppo semplice sulla "crisi dell'intuizione" per almeno due motivi: la soppressione del concetto "intuitivo" non ci porta in dono dei concetti "migliori", ma tende a trasformarsi in una soppressione dei concetti in genere, cosicché l'elogio della logica e del pensiero puro orien­tato esclusivamente in questa direzione sembra piut­tosto controproducente, se è destinato ad approdare ad un elogio del­l'as­senza di senso. Di contro potrà essere considerato un'impor­tante conquista l'attribuzione di una semantica possibile ai nuovi sistemi teorici. Il secondo motivo sta in una circostanza su cui ben poco, e non a caso, si richiama l'attenzione all'interno di un dibattito epi­ste­mologico che sia influenzato da una prospettiva convenzionalista: si parla infatti di assunzioni come se si trattasse semplicemente di scegliere una alternativa qualunque, tra le molte possibili, quasi che la stessa idea di una giustificazione ci trascinasse verso una pericolosa china. Al contrario si potrebbe forse affermare che mere assunzioni, quindi assunzioni che sono niente altro che assunzioni, nella matematica non si fanno forse mai. Le assunzioni sono sempre ben meditate: è proprio il caso di dirlo. Si conviene su ciò che per varie ragioni può apparire conveniente. Naturalmente non si tratta di convenienze o di interessi pratici. Prima di un'as­sunzione c'è un problema, c'è una "storia" che la introduce e rende conto di essa. Dopo di essa c'è il seguito di questa storia nel corso della quale si effettuano nuove verifiche sulle ragioni di quella scelta. Vi sono assunzioni che appaiono non interessanti e che pertanto non vengono nemmeno prese in considerazione. Fino ad 133 ora nessuno ha preso in considerazione la possibilità che per un punto possano passare solo ed esattamente sette parallele ad una retta data. Se si avesse la generosità di dare una chiara risposta a questa stravagante osservazione, si offrirebbero probabilmente molti motivi per una riflessione piuttosto seria. Essa finirebbe con il vertere sulle regole che orien­tano implicitamente o esplicitamente il pensiero nel pro­prio fare produttivo, sulle procedure messe in opera, sui criteri che vengono via via fatti valere nell'attività "id­eante". Intorno a queste regole e procedure la contrap­posizione tra logica e intuizione ha troppo poco da insegnarci. Che la chiave del progresso del pensiero a­strat­to si riduca ad una vittoria sulle resistenze del­l'intuizione apparirebbe come una concezione assai modesta non solo dal punto di vista teorico, ma anche storico. Vi è in realtà una complessa interazione tra diverse istanze, un andirivieni tra piani diversi, un complesso gioco di stimoli e di freni. Altrettanto poco ha da insegnarci la contrapposizione tra logica e intuizione impiegata nella direzione in­­versa, secondo una concezione che ha probabilmente il suo modello più vigoroso e drastico in Schopenhauer [47] . Far riferimento a posizioni estreme, sostenute con la massima imprudenza, è talvolta particolarmente utile perché esse mostrano chiarezza i nodi effettivi della discussione, oltre a dare immediato risalto a limiti e pregi. Schopenhauer si scatena contro il metodo "euclideo", che per lui fa tutt'uno con il metodo deduttivo, sostenendone l'improdut­ tività e la superfluità con tanta spericolatezza da alienarsi ogni possibile simpatia anche da parte di coloro che avrebbero potuto forse condividere alcune sue istanze di fondo. In realtà, se si ripensa questa critica della deduzione alla luce delle considerazioni già ampiamente presenti nella Quadruplice radice del principo di ragione sufficiente, situandole all'interno di un quadro interpretativo che la nostra discussione suggerisce, si deve riconoscere che ciò che vi è di prezioso nella posizione di Schopenhauer sta nella difesa quanto mai energica di quella che noi abbiamo chia- 134 mato logica delle figure. Per questo aspetto vi sono qui motivi per noi interessanti. Ma egli non si rende conto - e non è poco - che una "geometria" può avere inizio solo se non ci si arresta alla muta contemplazione delle strutture e se dunque questa logica riesce a trovare la via della proposizione. Le figure non sono solo viste - sia pure in un'intuizione liberata dall'empiria: esse sono appunto figure ideate. Ciò significa ad un tempo prospettate in idea e progettate dal pensiero. Questa ideazione prosegue sul piano della proposizione - anzitutto nella ricerca di caratterizzazioni verbali e poi nell'istituire nessi e rapporti tra le proposizioni: deduzioni e strutture argomentative sono momenti di questo pensiero ideante e progettante, e non sterili aggiunte ad una capacità conoscitiva e inventiva che sta tutta prima di esse. Questo è l'errore di Schopen­hauer: il ritenere che la figura possa stare al posto della proposizione, come se le figure parlassero da sole! Il con­tentarsi delle figure, come se la logica della figura fosse tutto, e la logica della proposizione un nulla! Ecco due linee che hanno un andamento caratteristicamente diverso. Created using UNREGISTERED Top Draw 5/20/95 2:57:57 PM Ed ora farò questo commento: la prima, a differenza della seconda, può essere considerata come la rappresentazione grafica di una funzione derivabile in ogni suo punto. Si avverte subito l'enorme distanza che separa le figure in quanto sono state semplicemente notate nella differenza del loro aspetto e le stesse 135 figure in rapporto alle quali si parla di "derivazione". Un cammino lungo e intricato conduce dalle prime alle seconde. E quante cose ci sono lungo questo cammino! Non c'è certamente solo la logica delle figure - ma un intero sistema di concetti, di connessioni logico-proposizionali dovrebbe essere richiamato se si dovesse spiegare il senso di quel commento. L'errore opposto sta nell'idea che abbia diritto al­l'e­sistenza soltanto la logica della proposizione. I semplicismi si dànno la mano, sostenendosi l'un l'altro. Il pensiero può permettersi di spaziare a tutto campo e di avvalersi di molti mezzi. Esso si muove tra regole e tra diversi tipi di regole. Ora poggia sulle figure, ora sui segni. E questi ora li interpreta, ora li lascia provvisoriamente non interpretati. Assume, deduce ed argomenta. Talvolta può per lungo tempo restare prigioniero di una immagine; ma una semplice immagine può anche rappresentare una guida. E può persino, dopo aver posto tra sé e le figure un autentico abisso, ritornare alle evidenze che in esse si mostrano. Annotazione Per l'intera tematica di una logica delle figure e del suo complesso rapporto con la proposizione, risulta di stra­or­dinario interesse l'interpretazione che Lambert die­de di Euclide, riprendendone l'esemplarità metodica per la filosofia in modo interamente differente dalla tradizione. Questa interpretazione è ricostruita e discussa nel notevole volume di Pa­o­la Basso, Filosofia e geometria: Lambert interprete di Euclide, La Nuova Italia, Firenze 1999. L'insistenza di Lambert sugli aspetti costruttivi di Euclide, certamente inusuali ai tempi suoi, lo induce a ripensare alla funzione della figura nella dimostrazione ed a porre in questione la stessa concezione del concetto secondo lo schema genere-specie, insisten­do piuttosto sui nessi di tipo "genetico". Questa tematica è sviluppata in tutta la sua ampiezza nel volume di Paola Basso, secondo angolature che, oltre a rendere pienamente conto degli aspetti storici, ridestano vivacemente l'interesse teoretico legato ad un dibattito che non si può dire certamente sia ormai esaurito. 136 §6 Iterazione operativa e motivo infinitario - L'ecceterazione come strumento primario per l'ideazione di nuovi oggetti - Il pentagono stellato dei pitagorici - La figura infinita. Le nostre considerazioni precedenti facevano riferimento al­le definizioni ed ai postulati euclidei come puro spunto ed occasione per una discussione teorica a più ampio raggio: il problema che ci interessa, in Euclide, è il fatto che la geometria ci appare qui co­me un complesso punto di intersezione tra la visione e il pensiero. In parte si coglie in essa la vicenda di un pensiero ancora prossimo alle sue origini, in parte questa vicenda sembra poter avere un significato esemplare che va ampiamente al di là di esse. In Euclide l'istanza che viene continuamente prospettata si trova nello spirito di un platonismo che assume tra i propri scopi il togliere terreno ai fraintendimenti empirici a cui la geometria è esposta. La riga e il compasso di Euclide sono strumenti ideali così come le figure che essi tracciano. Eppure questi strumenti sembrano talvolta, in una sorta di platonismo a rovescio, ricordare di essere copie impallidite di strumenti reali nelle mani del geometra al lavoro. Le enunciazioni prospettano non tanto degli oggetti già fatti, ma delle operazioni in cui gli oggetti appaiono come risultati. Talora diciamo che essi semplicemente sono - talaltra si intravvede su di essi l'ombra di una mano fantomatica che li fa essere nel gesto del tracciare. Nel secondo postulato si stabilisce che una retta terminata si possa prolungare continuamente in linea retta. Anche in questo caso possiamo asserire che un processo di idealizzazione è già in corso, ma potremmo anche dire che questo processo è, in certo senso, ancora incompleto. Intanto vi è l'espressione "retta terminata" (peperasmŒnh) ovvero "avente degli estremi" che indica come in Euclide non si parli affatto di retta nel senso in cui se ne parlerà nelle elaborazioni posteriori 137 fino ai nostri giorni. E non possiamo dire nemmeno che la retta terminata corrisponda a ciò che si chiama segmento di retta per il semplice fatto che parlare di segmento di retta presuppone una idea di retta come retta infinita in un'accezione che in Euclide non c'è. Il segmento di retta è parte di una retta pensata come attualmente data e come infinita da entrambi i lati. La "retta avente degli estremi" di Euclide è invece una nozione elementare del tutto autonoma e indipendente: in conformità alla Terza Definizione (Estremi di una linea sono punti) e al Primo Postulato (Che si possa condurre una linea retta da un qualsiasi punto ad ogni altro punto) essa indica una linea finita e delimitata. Esattamente come le nostre rette che disegnamo alla lavagna e che sono tutte, invariabilmente, rette "terminate". Ma il Secondo Postulato aggiunge a questa nozione della retta qualcosa di molto importante. La linea rettilinea può essere prolungata senza restrizioni. In ciò è implicato il rimando all'operazione del tracciare. La retta è anzitutto qualcosa che si traccia. In rapporto ad essa si stabilisce una possibilità che è del tutto indipendente da­gli ostacoli e dagli impedimenti pratico-concreti. Prolungare significa qui concepire (pensare) la retta terminata come una linea che è caratterizzata dalla possibilità essenziale che, dopo l'uno o l'altro dei suoi estremi, essa prosegua nella stessa direzione fino a raggiungere un nuovo estremo. Quest'ultima precisazione è particolarmente importante, dal nostro punto di vista, benché sembri cogliere una differenza abbastanza sottile. Poiché la linea è qualcosa solo in quanto è racchiusa entro i punti che sono i suoi estremi, allora il prolungare deve essere inteso come un aggiungere pezzo a pezzo, piuttosto che un'azione per così dire di semplice continuazione. Si comincia con un tratto, e poi se ne aggiunge un altro, e poi un altro ancora... Se intendiamo le cose in questo modo, approfittando certo del motivo euclideo, ma con un'accen­tua­zione che ha mira piuttosto i prossimi sviluppi della nostra discussione, questa possi- 138 bilità essenziale del prolungamento della retta viene connessa ad una regola in­terna della sua costruzione, e di conseguenza all'itera­bilità di quella regola. Appare così subito chiara la connessione tra l'itera­z ione operativa e il motivo infinitario che qui si annuncia. L'infinito di cui si tratta è naturalmente l'infinito potenziale - quella retta infinita che noi assumiamo in piena ovvietà fin dall'insegnamento elementare, in Euclide non c'è, dunque non c'è nemmeno l'idea di infinito attuale di cui essa è un buon e­sempio. C'è invece l'idea del prolungamento, l'idea di una processualità che può proseguire indefinitamente passo dopo passo - dunque di una potenzialità che viene via via attualizzata, ma che ogni volta propone un risultato finito. Si potrebbe sostenere che la retta attualmente infinita si situi ad un superiore livello di astrazione, che essa sia caratterizzabile come un "nuovo oggetto", come un puro "oggetto del pensiero" assai più nettamente del­la retta prolungabile all'in­fin ­ ito. E così in effetti è. In quest'ultimo caso possiamo infatti contare sulla prossimità con l'esperienza. Certe configurazioni si presentano fenomenologicamente con il senso dell'andare-sem­pre-oltre, e tanto più possono esser investite di questo sen­so quanto più vengono intese come generate da una regola. Il maestro può fare alla lavagna i primi gesti, alludendo poi ad un eccetera che riapre ogni passo al passo successivo. Questa prossimità non toglie tuttavia la formidabile potenza teorica di questo eccetera. Siamo alla presenza di una straordinaria procedura del pensiero, di un strumento primario per l'ideazione di nuovi oggetti. Infinito attuale e infinito potenziale non sono due concetti che stanno l'uno accanto all'altro semplicemente come due diversi modi di concepire l'infinità. L'infinito attuale "presuppone" l'infinito potenziale e viene costituito a partire da esso. Assumiamo la retta come esempio: a partire dall'operazione concreta del tracciare, viene prospettata già su un terreno ideale la possibilità di un prolungamento illimitato. Ciò che si mantiene anche su questo terreno è tuttavia 139 ancora il riferimento all'atto soggettivo del produrre, per quanto questo questo riferimento possa essere rarefatto. Il momento che realizza un'astrazione ulteriore è un passaggio oggettivante: la retta non viene più intesa come prodotta, ma come data, e precisamente nella sua attualità e compiutezza. A questo punto il rapporto può essere ribaltato: il tracciare una retta, la possibilità di incrementarla sempre di nuovo, diventa il modo soggettivo di acquisire di passo in passo, secondo un processo inesauribile, questa infinità attuale e compiuta: ed il processo è inesauribile non tanto in forza dell'iterabilità di principio della regola, ma in forza della cosa stessa che è inesauribile. La retta è diventata ora realmente un oggetto in sé, un ente di nuovo genere, che sta del tutto a parte rispetto gli oggetti del nostro mondo. L'infinità potenziale sta perciò prima e dopo l'infinità attuale: prima essa ha una funzione costitutiva della stessa oggettività attualmente infinita; dopo essa può essere fatta regredire ad una pura circostanza di ordine soggettivo, e pertanto irrilevante in quanto riguarda al più le accidentalità della manifestazione empirica dell'oggetto ideato. Riprendendo una frase che abbiamo già impiegato in altro contesto: l'infinito potenziale è essenziale per istituire il senso dell'infinito attuale, mentre diventa inessenziale per confermarlo. Tuttavia questo ritrarsi sullo sfondo dell'infinito potenziale o più precisamente delle procedure ecceteranti non deve far perdere di vista la potenza teorica dell'ecceterazione. Questa potenza può essere esemplificata in un lampo con il pentagono stellato dei pitagorici. Tracciando le diagonali all'interno di un pentagono regolare ottengo una stella che contiene un pentagono regolare. Tracciando le diagonali all'interno di questo pentagono ottengo un'altra stella che contiene un pentagono regolare, eccetera. (In seguito vedremo che questa descrizione potrebbe essere considerata non appropriata) 140 Created using UNREGISTERED Top Draw 8/7/98 4:15:50 PM Siamo qui alla presenza di una costruzione geometrica che è realizzata sulla base di una precisa regola. E mentre nel caso della retta l'illusione di un'inter­pre­tazione "em­pirica" del prolungamento può essere più persistente, per il fatto che possiamo immaginare proprio di prolungare la retta andando anche molto lontano, qui invece questa illusione è subito resa inattiva dal fatto che l'iterazione della regola, come procedura concreta, si dovrà fermare quasi subito: ben presto il pentagono più interno diventerà confuso e indistinto. La pratica del disegno ci abbandona. Ma il pensiero dell'itera­z ione pesa ormai sulla figura, ed è la figura stessa, nel suo carattere di dato visivo, che è diventata inessenziale. Siamo sulla soglia della figura infinita, così come del numero infinito. Varcando questa soglia il pentagono stellato verrà posto come un' oggettività fatta di infiniti pentagoni e infinite stelle, che io vado eventualmente scoprendo di passo in passo penetrando sempre più in esso in un viaggio che non avrà mai fine. §7 Un modo singolare per impartire ordini e disegnare una linea - Introduzione del segno F e di un algoritmo generatore di segni F. Il pentagono stellato dei pitagorici - questo oggetto che è tanto concreto e sensibile da aver rappresentato un vero e proprio segno di riconoscimento della setta e che è tanto denso immaginativamente 141 da aver suggerito i più singolari riferimenti magico-rituali, come pentagramma mysticum, attraverso l'intero medioevo e che infine è unicamente in rapporto ad un pensiero - rappresenta una figura in cui può essere esemplificata in maniera non banale la caratteristica di autosimilarità che è una delle condizioni definitorie di oggetto frattale. A noi fornisce l'occasione per imprimere una svol­ta alla nostra discussione. Questa svolta può tuttavia avvalersi proprio delle nostre ultime considerazioni sul prolungamento infinito della retta euclidea reinterpretata come risultato dell'ap­plicazione iterata di una regola. Ad esse ci ricolleghiamo immaginando che un allievo con il gesso puntato sulla lavagna attenda istruzioni dal maestro: il maestro dice: "Avanza!" - e l'allievo traccia un segmento di lunghezza prefissata. Il maestro dice ancora "Avanza" e l'allievo esegue prolungando il segmento con un incremento della stessa lunghezza. Il maestro dice ancora "Avanza": l'al­lievo esegue. Ora, nulla ci impedisce di intendere questa espressione come nome di un'operazione, cosicché il maestro potrebbe dire all'allievo: "ripeti tre volte l'operazione 'Avanza'". Conveniamo di simbolizzare l'opera­zione "Avan­za" con la lettera alfabetica F(orward). Disponendo di un'altra lavagna, il maestro potrebbe allora limitarsi a scrivere FFF - e l'allievo, guardando quel segno, sa che cosa deve fare. In realtà ci sono vari modi di intendere una situazione simile, ed anche di descriverla e di considerarla, tutte altrettanto legittime ed istruttive. Il simbolismo grafico è stato da noi introdotto come una sorta di equivalente dell'istruzione verbale, perciò potrebbe sembrare che tutto resti come prima. Da un lato vi è una istruzione linguistica, dall'altro la realizzazione della figura in rapporto a ciò che viene impartito in quella istruzione. Ma l'istruzione linguistica - questo è il primo cambiamen­to significativo - è comunque un "grafema", una figura anch'es­sa. Su entrambe le lavagne ci sono ora delle figure. Cosicché po- 142 tremmo anche non stabilire alcun collegamento tra esse, come accadrebbe per chi entrasse nell'aula senza nulla sapere del gioco che si sta svolgendo. Se stabiliamo la connessione implicando gli agenti - il maestro e l'allievo - si avrà il rapporto "ordine-esecuzione". Ma possiamo anche prescindere da ciò e considerare ad esempio il segno FFF come una sorta di sostituto simbolico-notazionale della linea. Il segno F rappresenta allora un tratto, e nel segno FFF il "prolungamento" del tratto attraverso la sua ripetizione. Tutto ciò contiene il suggerimento di sospendere temporaneamente il significato che attribuiamo ai segni, proponendo un algoritmo generatore di sequenze di segni F secondo un modello che in realtà già ben conosciamo. L'elemento iniziale sia il grafema x e la regola sia espressa come una regola di sostituzione per il grafema x. Inizio Regola Fx x → Fx È necessario prendere chiaramente nota del fatto che abbiamo qui adottato senza riserve un punto di vista "formalistico" e di conseguenza la x non meno della F vale come mero segno grafico. La regola stabilisce che al grafema x è possibile sostituire il grafema Fx. L'unico segno provvisto di senso è in realtà la freccia, dal momento che essa significa appunto: "È possibile sostituire il segno che si trova alla sinistra della freccia con il segno che si trova alla destra". È facile ora rendersi conto, non appena cerchiamo di far funzionare questo algoritmo, che esso può cominciare e proseguire in un solo modo. La prima figura del calcolo è stata fissata in Fx. La regola andrà infatti applicata ad essa e si otterrà così FFx. In questo segno vi è un segno x e dunque all'in­terno di esso potrà essere operata la sostituzione prevista dalla regola, ottenendo così FFFx. Il meccanismo dell'iterazione è dunque del tutto interno all'algo­ 143 ritmo, fa parte di esso. Se per caso volessimo ad un certo punto arrestarci, abbiamo semplicemente preso noi una decisione. L'ultima figura raggiunta segnalerà in ogni caso, con la x che essa contiene, la possibilità di principio di una continuazione. Si noti a questo proposito che, ritornando da questo piano puramente formale, all'interpre­tazione dei segni-simboli, il segno x resta comunque privo di un riferimento semantico vero e proprio. Esso non ha una interpretazione esterna al linguaggio per il semplice fatto che non gliene abbiamo data alcuna. Tuttavia ha una precisa e importante funzione intralinguistica (sintattica) dal momento che, da un lato, rende possibile il primo passo del calcolo e, dall'altro, rappresenta, all'interno di ogni figura, la condizione per l'ecceterazione della regola. Come abbiamo già notato ci stiamo muovendo su un terreno che ci è ben noto e che abbiamo cominciato a sperimentare nell'ambito delle considerazioni sul numero. L'algoritmo generatore dei segni F è, dal punto di vista formale, esattamente lo stesso dell'algoritmo che genera i segni della notazione-tratto. §8 Introduzione nel simbolismo dei segni che indicano il mutamento di direzione - Esempi di calcoli. Vogliamo ora indugiare presso il nostro semplice algoritmo ritornando all'interpretazione con la quale lo abbiamo introdotto. Tenendo conto di essa potremmo dire che esso fornisce la presentazione simbolica di una retta in quanto ne presenta la regola generatrice. Naturalmen­te la parola "retta" andrà intesa in un senso strettamente connesso al modo in cui essa viene introdotta e quindi tenendo conto della costruzione "a tratti" che abbiamo prima descritta in parole e poi presentata in un calcolo. Questo calcolo è la sua definizione operazionale. Si tratta di vedere se di un simile risultato, che in se stesso potrebbe sembrare alquanto peregrino, possiamo realmente far- 144 cene qualcosa. Abbiamo forse fatto qualche guadagno significativo nel porre le cose in questo modo? È realmente interessante assumere un punto di vista che già in rapporto ad una figura così elementare richiami l'attenzione sulla possibile presenza del tema della ripetizione? Che importanza e che peso dobbiamo dare al passaggio ad una scrittura simbolica come quella che è stata or ora proposta? Intanto, per cominciare a dare una risposta a partire da quest'ultima domanda, questo simbolismo ci aiuta a pensare, attraverso di esso la nostra riflessione successiva può trovare un nuovo orientamento ed una nuova direzione. Abbiamo solo bisogno di comprendere in che modo esso possa essere reso un poco più complesso - esso è realmente troppo elementare - e in che modo potremmo impiegarlo eventualmente introducendo di vol­ta in volta tutte le modificazioni che riterremo utili ai nostri scopi. Per compiere un primo passo: la successione dei tratti, nel caso precedente, si sviluppa in un'una unica direzione. Si potrebbe allora proporre come primo arricchimento, oltre il segno F, un segno che indichi il cambiamento di direzione verso destra ed un segno che indichi il cambiamento di direzione verso sinistra secondo un angolo la cui grandezza potrà essere di volta in volta prefissata. Per indicare il mutamento di direzione verso sinistra scegliamo il segno " + ", per indicare il mutamento di direzione verso destra scegliamo il segno " - " , segni che non avranno dunque in questo contesto alcun significato aritmetico, e che ovviamente potrebbero essere sostituiti da qualunque altro. Il nostro linguaggio si arricchisce di due segni e di una condizione. I segni sono il "+" e il "-". La condizione è la grandezza dell'angolo. Il percorso diventa così più mosso, potremo ottenere una grande varietà di linee, ed in particolare queste linee potranno essere chiuse ed anzi dar luogo ad alcune figure geometriche che ci sono familiari. Supponiamo ad esempio di fissare la condizione di un an- 145 golo di 120° e di scrivere la sequenza di segni: F+F+F Occorre intanto attirare l'attenzione sul fatto che, essendo il mutamento di direzione inteso come deviazione da una direzione rettilinea da intendere come procedente da sinistra a destra, la grandezza dell'angolo deve essere misurata a partire da essa. F+F 120° Created using UNREGISTERED Top Draw 8/28/97 9:45:31 PM può Precisato questo punto è chiaro che la sequenza F+F+F essere considerata un sostituto simbolico-notazionale di un triangolo equilatero. F+F+F Created using UNREGISTERED Top Draw 6/2/95 11:27:55 PM 146 Quella sequenza può essere considerata come ottenibile a sua volta all'interno del seguente calcolo: condizione: Angolo 120° Inizio: Regola : x x→F+x che dà luogo alla sequenza: F+x, F+F+x, F+F+F+x, ecc. La figura triangolare è ottenuta alla terza iterazione: al terzo passo la linea si chiude e verrà ripetuto esattamente lo stesso percorso. Andare oltre non ha dunque alcun interesse. Al terzo passo la stringa ottenuta è F+F+F+x che differisce dalla precedente F+F+F solo per il segno "+x", che è irrilevante rispetto alla sua interpretazione figurale; tuttavia questa differenza segnala sul piano della formula la novità nel concetto di figura a cui abbiamo già accennato [48] . Non vi è certo bisogno di spiegare che con un angolo di 90° si otterrà un quadrato, esattamente dunque con la stessa regola del triangolo, e con la sola differenza che le iterazioni dovranno essere quattro per ottenere la chiusura della figura. Created using UNREGISTERED Top Draw 8/28/97 10:01:24 PM Ed esattamente con la stessa regola, si potranno in generale for- 147 mare figure regolari con tutti gli angoli che siano divisori di 360. Il numero dei lati sarà dato dal rapporto tra 360 e la grandezza dell'angolo, e sarà pari al numero delle iterazioni. Naturalmente con suddivisioni approssimate potremo costruire poligoni con lati sempre più brevi e infine, in rapporto alla realizzazione grafica concreta, indistinguibili dal cerchio. Nel caso seguente, lo stesso algoritmo genera, con un angolo pari a 10° alla 36a iterazione qualcosa di molto simile, dal punto di vista grafico, ad un cerchio: E non siamo forse subito stimolati ad interrogarci che cosa accadrebbe se assumessimo che il tratto di base, in luogo di rimanere costante, crescesse per incrementi a loro volta progressivamente crescenti? Per ottenere questa sequenza spiraliforme di tratti è ovviamente necessario introdurre una modificazione delle condizioni e delle regole costruttive: in particolare bisogna stabilire l'incremento e fare in modo che questo incremento sia cumulativo e che quindi porti ad un progressivo allungamento del tratto. Cominciamo ora a sospettare che possa verificarsi, attraverso variazioni introdotte nell'algoritmo, un'autentica esplosione 148 di forme. Ma prima che ciò accada conviene indugiare in qualche parola di commento. Anzitutto già a questo punto del nostro tragitto ci sembra di poter dire che, a partire da una modificazione sul modo di concepire la linea, abbiamo mostrato la possibilità di "riunire sotto un unico concetto" una molteplicità assai varia di figure - confermando un pensiero che è già in precedenza affiorato, e cioè che la "subordinazione concettuale" non è affatto sempre e necessariamente da concepire come una unificazione tra cose che hanno proprietà comuni. Qui in effetti l'unità "concettuale" è costituita dal riferimento all'algoritmo, dalle regole e dalle condizioni che rappresentano nel loro insieme lo schema operazionale della costruzione - potremmo addirittura dire: il concetto è dato proprio da questo schema operazionale. E tanto più sembra opportuno mettere l'accento sulla terminologia del concetto, per il fatto che è proprio la concezione della figura che cambia, nella stessa misura in cui cambia il punto di vista da cui essa viene considerata, e variano dunque le nozioni a partire dalle quali essa viene pensata. Occorre qui attirare l'attenzione sul fatto che quel prospettivismo di cui tanto si parla nella fenomenologia della percezione in realtà può essere ampiamente esteso anche all'ambito delle formazioni intellettuali. Non vi è affatto il concetto del cerchio o il concetto della spirale, con la loro definizione logicamente in ordine che si pretende valga come definizione assoluta, ma modi prospetticamen­te diversi di intendere queste forme (di pensarle) che si rispecchiano nella molteplicità delle loro possibili "definizioni". L'elemento prospettico, che nella percezione è dato dalla differenza del luogo di osservazione, è qui fornito invece dalla differenza delle nozioni di riferimento. Forse si può sostenere che proprio l'ambito del pensiero matematico, che talora viene presentato come modello di univocità, si presenta invece come un cam­po interamente dominato da una pronunciata plurivocità prospettica. Non vi è forse in questo campo alcun concetto che se ne stia, per così dire, fermo in un preciso luogo, ma ognuno può essere colto secondo 149 angolature diverse, secondo inclinazioni differenti. Annotazione Il linguaggio informatico a cui qui e nel seguito faccio ampio ed esplicito riferimento, è un linguaggio che appartiene alla tipologia degli L-systems ovvero "string rewriting systems". La prima idea di un sistema di produzione grafica attraverso la "ri­ scrit­tura" di stringhe è dovuta ad Aristid Lindenmayer (1968). Si parla perciò anche di linguaggi di Lindenmayer e la lettera L richia­ma naturalmente questo nome. Essa è stata poi ripresa da A. R. Smith nel 1984 e da P. Prunsinkiewic nel 1986 (Graphical Applications of L-systems, Vision Interface, 1986, pp. 247-253) e dallo stesso Lindenmayer e Prunsinkiewic con diverse pubblicazioni e in particolare con il volume di P. Prusinkiewicz and A. Lindenmayer, The Algorithmic Beauty of Plants, Springer-Verlag, New York, 1990. Un breve schizzo sulla struttura degli L-sys­ tems è stato realizzato da Dietmar Saupe nella Appendice C (A unified approach to fractal curves and plants) nel volume da lui curato insieme a H. Peitgen The Science of Fractal Images, Springer Verlag, New York 1988. Tale linguaggio è a sua volta ispirato al linguaggio di programmazione Logo che fa parte della famiglia dei linguaggi Lisp. Quanto lontano si possa andare cominciando da un inizio tanto semplice è mostrato dal volume di H. Abelson e di A. Disessa, Turtle Geometry, MIT, 1980, trad. it. La geometria della tartaruga, Muzzio Editore, Padova, 1986. Tuttavia vi sono ragioni che andrebbero esaminate a fondo per le quali, nonostante la notorietà del problema, e l'ampiezza di direzioni il cui questa tematica può essere sviluppata e che è dimostrata da una bibliografia ormai molto ricca, essa non si è incontrata in modo significativo, che io sappia, con la riflessione epistemologica. In particolare non conosco nessuno scritto che si avvalga del riferimento agli L-systems in un contesto filosofico come quello qui proposto. Naturalmente ciò non significa che fin dall'inizio L-systems non fosse motivato da interessi scientifici e teorici molto forti: essi erano tuttavia orientati soprattutto in direzione delle tematiche della rappresentazione dei processi di crescita biologica e dei sistemi dinamici. Un parte non irrilevante dell'interesse è stata volta - come nel caso dei frattali in genere - all'ambito della com­puter graphics. Mi sembra necessario richiamare l'atten­ 150 zione anche sulla rilevanza di questo genere di studi dal punto di vista epistemologico, ponendo in realtà questa rivendicazione in un quadro più generale: la riflessione epistemologica in genere non si è incontrata in modo realmente approfondito con le tecniche informatiche, da cui essa potrebbe attingere probabilmente molte idee, e inversamente da parte informatica forse non si è consapevoli delle implicazioni di ordine filosofico che si trovano all'interno di quelle tecniche, che non sono affatto puri marchingegni al servizio del calcolatore. Per ciò che riguarda un possibile linguaggio L-system utile ai nostri scopi immediati, non è difficile realizzarne un'im­ plementazione all'interno di un qualunque linguaggio di programmazione. Si tratta fondamentalmente di realizzare un programma che consta di tre parti: dobbiamo infatti poter disporre di (1) una procedura P1 che, attraverso l'applicazione ricorsiva delle regole e delle condizioni ad una stringa iniziale, pervenga ad una stringa finale S1; (2) una procedura P2 che interpreti ciascuna lettera di cui è composta S1 e la converta in modo opportuno formando una matrice o una lista S2 contenente le coordinate di schermo corrispondenti al percorso "cifrato" in S1; (3) una procedura P3 che esegua su video il tracciamento delle linee in conformità a S2. Il linguaggio di cui fa uso Mathematica della Wolfram Research, che tratta splendidamente le stringhe e le liste, mi ha consentito la realizzazione di un linguaggio di questo tipo estremamente duttile, facilitando anche il dimensionamento a schermo con gli automatismi di rappresentazione grafica che sono propri di questo linguaggio. La maggior parte dei disegni di questo libro sono stati compiuti attraverso di esso. All'interno di un corso universitario sul tema della ripetizione tenuto presso l'Università di Milano nel 1994 - corso che sta all'origine di questo lavoro - ho realizzato esempi attraverso un'implementazione in Visual Basic. Programmi che realizzano istruzioni L-systems sono in ogni caso abbastanza numerosi e facilmente reperibili. 151 §9 Variazioni sul tema del pentagramma pitagorico e scoperta dell'al­goritmo che lo genera. Come si sarà ben compreso, non siamo affatto disposti a considerare il linguaggio or ora introdotto come un puro artificio informatico, privo di elementi che invitino alla riflessione teorica. Esso è certamente uno strumento assai utile, è un traccialinee - anzi, come subito vedremo - uno stupefacente traccialinee, nello stesso senso in cui lo sono la riga e il compasso euclideo, i quali sono strumenti materialmen­te determinati, con caratteristiche dovute alla loro consistenza materiale, pronti tuttavia a dissolversi come contraccolpo rispetto ai significati ideali da cui vengono investiti gli oggetti da essi prodotti. Precisato questo punto possiamo dar libero corso alle nostre passioni di fenomenologi interessati alle strut­ture lasciando che il nostro traccialinee manifesti pienamente quella capacità di produrre immagini che abbiamo finora appena intravista. Intanto vogliamo svolgere una sorta di esercitazione ricollegandoci al pentagramma dei pitagorici. Per impratichirci del nostro strumento quale esercizio potrebbe essere migliore del tentativo di stabilire la formula di questa figura, lo schema operativo che rappresenta la sua essenza! Oltretutto nessuno, che io sappia, lo ha mai fatto, e questo può servirci da stimolo - così come la stessa idea di possedere la cifra informatica di una figura tanto antica e veneranda. Questa ricerca può essere affrontata, come tutte le cose di questo mondo, in modo prudente e riflessivo, avviandoci con calma verso una determinata direzione con le certezze di un ragionamento convincente fatto in precedenza; oppure in modo imprudente e irriflessivo, sperimentando un poco alla cieca, azzardando questo "assioma" o quella regola, cercando di rendersi conto, alquanto all'ingrosso, di che cosa accada. Naturalmente la via migliore è la prima. Ma come resistere alla tentazione di qual- 152 che prima prova, guidati alla meglio dal fatto che in ogni caso in questa figura c'è un pentagono, e vi sono i diametri che formano una stella ed eventualmente i triangoli formati dall'in­trec­cio delle figure? Uno dei molti nomi con i quali i Pitagorici chiamavano questa figura era quello di tripl¦on triÍgvnon, cioè di triplo triangolo. In effetti possiamo anche vedere in essa la sovrapposizione di tre triangoli eguali. L'idea dunque - molto sommaria, molto azzardata e non particolarmente riflessiva, è quella di provare a far giocare insieme, nello schema operazionale, intanto pentagono e stella. Sappiamo già che il pentagono è rappresentato simbolicamente da "F-F-F-F-F" con l'angolo a 72°. La stella ci riserva subito una piccola sorpresa dal momento che essa risulterà "F--F--F--F--F" : ciò significa che la differenza rispetto al pentagono sta unicamente nella grandezza della deviazione dalla direzione rettilinea, che è doppia rispetto al pentagono. La formula è dunque essere esattamente la stessa di quella del pentagono, con la sola differenza dell'angolo portato a 144°. Siamo subito avvertiti dal simbolismo, e precisamente dal simbolismo non ancora interpretato, di essere alla presenza di costruzioni strettamente solidali. Ed ecco alcuni risultati. Naturalmente ci basta enun­ciare lo schema operazionale: il programma di calcolo realizzerà la figura corrispondente alla stringa ottenuta dopo un certo numero di iterazioni. Di qui in avan­ti per pure ragioni di chiarezza daremo una 153 numerazione pro­gressiva agli schemi operazionali ed alle figure ottenute, indicando tra parentesi quadre il numero di iterazioni corrispondenti. Con prima iterazione si intenderà la pri­ma applicazione delle regole all'assioma, con seconda iterazione l'ul­teriore applicazione delle regole al risultato precedentemente ottenuto, e così via. Nel caso che ciò sia opportuno verrà indicato all'inizio anche la condizione angolare, che ora viene omessa essendo sempre pari a 72°. Schema operazionale n. 1 Assioma F--F--F--F--F Regole F → F-F-FA A → F-F-F-F-F fig. 1, I 154 fig. 2, II Schema operazionale n. 2 Assioma F--F--F--F--F Regole F→F-F-FA A→F--F--F--F--F fig. 3, III 155 fig. 4, III Schema operazionale n. 3 Assioma F--F--F--F--F Regole F→F+F+FA A→F--F--F--F--F fig. 5, II 156 Il traccialinee ha cominciato a funzionare - l'algoritmo elabora le sostituzioni ed ai primi passi mostra ovunque come l'una figura si costruisca sull'altra, dentro l'altra, insieme all'altra. Stelle e pentagoni si alternano qui in maniera sorprendente sotto i nostri occhi. La stella scom­pare nella fig. 2 dove vi sono cinque pentagoni e­guali e cin­­que triangoli eguali, che nella loro sovrapposizione da­n­­­­­­no luogo ad un pentagono centrale più piccolo. Una piccola modificazione all'interno del simbolismo mostra nella fig. 3 come cinque stelle, ognuna delle quali contiene nel suo interno un pentagono, possano formare un pentagono con un lato eguale a quello della stella formando un nuovo pentagono, i cui lati sono sud­divisi dai vertici del pentagono inscrit­ to esattamente in due parti eguali, ciascuna delle quali rappresen­ ta a sua volta la sezione aurea del lato della stella. Con una ulteriore iterazione l'algoritmo produce la fig. 4, in cui tutti i pentagoni appaiono costruiti attraverso figure stellate - almeno considerandoli nel modo in cui si presentano alla vista. Occorre infatti richiamare l'attenzione sul fatto che, ovviamente, non solo non possiamo di norma "intuire" dallo sche­ma operazionale che cosa accadrà nell'inter­pretazione figurale, ma anche che la visione della figura non è affatto in grado di infor­marci sul modo in cui è stata costruita, dal momento che in essa non vi è alcuna "memoria" del percorso che è sta­to seguito, e sono tra l'altro possibili anche sovrapposizioni di tragitti. Le nostre stesse descrizioni guardano alla forma visibile della figura, e non al processo costrut­tivo come tale. Una piccola modificazione della regola per F (il "+" che sostituisce il "-") produce, alla seconda iterazione, la fig. 5, dove all'interno di un pentagono vengono tracciate cinque stelle che formano con i loro lati cinque pentagoni; inoltre i lati delle cinque stelle formano un pentagono centrale che contiene una stella. Nello stesso tempo si noti che la sequenza del penta­gono "F-F-F-F-F" compare solo nel primo schema opeprazionale, mentre negli altri abbiamo a che fare soltan­to con la sequenza 157 della stella e la sequenza di tre F. Ciò che prima dicevamo in rapporto alla figura - che vi è un modo di considerarla per cui essa invita alla trasformazione - sembra ora si possa dire in rapporto al simbolismo concepito come produttivo di figure. Un calcolo ne suggerisce un altro, e si tende a procedere di variante in variante muovendosi all'interno di una famiglia di calcoli nella quale l'uno è quasi una ripetizione dell'altro. Vogliamo procedere con gli esempi. Schema operazionale n. 4 Assioma -F--F--F--F--F- Regola F→F+F+F fig. 6, II fig. 7, III fig. 8, IV 158 fig. 9, V Ciò che rende singolare questa sequenza è il fatto stesso che le figure siano successivamente generate dallo stesso algoritmo e che in essa si proponga, sarei tentato di dire, con ostentazione, la relazione di struttura tra il pentagono e la stella. Il pentagono della fig. 6 appare "riempito" alla seconda iterazione dello sche­ ma seguente: Schema operazionale n. 5 Assioma F--F--F--F--F Regole F→AF-F-FA A→F--F--F--F--F fig. 10, II 159 Dallo stesso algoritmo si sviluppa in terza iterazione la seguente figura che ha un pentagono stellato anche nel suo punto centrale più interno: fig. 11, III La stella al centro la si può vedere naturalmente soltanto ingrandendo il dettaglio: 160 Inseguendo queste variazioni sul tema ci siamo tuttavia allontanati dal problema da cui avevamo preso le mosse al punto da averlo quasi perduto di vista. Fin qui ci ci siamo aggirati tra stelle e pentagoni continuamente rinascenti che ricompaiono in contesti sempre diversi. Ma la nostra ambizione era quello di trovare una formula per la generazione del pentagramma pitagorico, il suo sche­ma costruttivo. Ciò significa che non ci basta vedere affiorare qui e là, all'interno delle configurazioni più va­rie, la tipica configurazione della stella dentro il pentagono o del pentagono dentro la stella. Il nostro scopo iniziale era invece quello di ottenere un algoritmo in cui quella configurazione si genera l'una dentro l'altra ad ogni iterazione successiva. In realtà non possiamo sperare di venire a capo di esso se evitiamo una riflessione preliminare che suggerisca la direzione in cui cercare questa formula. Anzitutto il lato della stella che è diagonale del pentagono circoscritto va progressivamente riducendosi e di conseguen­za dobbiamo preordinare nell'algoritmo una simile riduzione. Uno dei vantaggi dei linguaggi L-systems in genere è quello di poter aggiungere regole e istruzioni sen­ za nessuna restrizione. Si tratta semplicemente di in­trodurre un altro segno e una regola per la sua interpretazione quando verrà incontrato nella lista finale. Ad esempio siamo liberi di introdurre un segno R che venga interpretato come un'istruzione di riduzione della lunghezza del tratto F. Per ciò che riguarda la grandezza della riduzione dobbiamo analizzare meglio la figura. Essa chiama in causa una relazione che possiamo supporre fosse nota ai pitagorici almeno dal punto di vista "figurale" e che comunque fa parte degli albori della scoperta dei numeri ir­razionali : ogni lato d della stella viene suddiviso nei punti di intersezione con gli altri lati secondo il rapporto di sezione aurea; e precisamente in modo tale che ogni lato d della stella risulta suddiviso in tre parti a, b, c tali che a+b=c+b = sezione aurea (media ragione) di d, essendo b il lato del pentagono interno. Il lato della stella deve ridursi esattamente della sua sezione aurea, 161 cioè deve diventare eguale alla sua "estrema ragione" (c) essendo il lato della stella interna eguale al­l'"e­­strema ragione" del lato della stella esterna. Ponendo a 1 la lunghezza del lato della stella, la sezione aurea calcolata nei suoi primi cinque decimali sarà pari a 0.61803, e il valore ricercato sarà 1 - 0.61803 = 0.38197. Quest'ultimo valore farà dunque parte della regola per R come una costante per la quale va moltiplicata la lunghezza di F. L'algoritmo prevederà dunque, che incontrando il segno R, venga eseguita questa operazione aritmetica che serve al ricalcolo del valore della lunghezza di F: il segno R ha perciò, all'interno del simbolismo, una funzione del tutto diversa dal segno F ed anche dai segni di mera sostituzione intralinguistica. d a b c Created using UNREGISTERED Top Draw 6/10/95 5:53:29 PM Oltre al segno R abbiamo bisogno di un altro segno, sia"!" e di una regola per esso. In base a tale regola esso verrà interpretato co­­me un segno a partire dal quale il significato del segni "+" e "-" dovrà essere scambiato. A differenza del precedente, quest'ul­ timo segno appartiene allo stan­dard dei linguaggi L-systems. Fatte queste considerazioni possiamo proporre il seguente schema operazionale che rappresenta lo schema secondo il quale può essere ricorsivamente costruito il pentagramma pitagorico. In esso non vengono ulteriormente specificate le funzioni di "R" e di"!" [49] . 162 Schema operazionale n. 6 Assioma x Regola x →F--F--F--F--F--RF-!x La punta del nostro ipotetico traccialinee comincia a disegnare la figura da sinistra a destra cominciando dal punto I1; dopo la prima applicazione della regola essa si troverà esattamente nel punto I2, come ciascuno potrà del resto verificare con carta e matita. Alla seconda e terza iterazione si otterranno le stelle annidate l'una den­tro l'altra, nel pentagono interno. In via di principio la pro­cedura è iterabile essendo l'iterabilità assicurata dal carattere ricorsivo della regola per "x". I 1 I 2 fig. 12, I fig. 13, II 163 fig. 14, III eccetera La forma pentagonale non compare nella formula ed è sempre un risultato del tracciamento della stella, come del resto accadeva per lo più nei nostri esempi precedenti. Questo è un piccolo dettaglio, ma che assume per noi un particolare significato proprio in rapporto al problema della forma-figura. Abbiamo rammentato all'ini­zio l'idea della forma come contorno, riferendola all'idea della cosa. In rapporto a questa idea della forma è certo più naturale dare maggiore importanza al pentagono, considerando la stella piuttosto come una formazione interna che sorge come risultato del tracciamento delle diagonali del pentagono. Volendo poi parlare delle forme che ne risultano, si presterà attenzione ad una partizione in triangoli e pentagono oppure ai tre triangoli sovrapposti. La descrizione che potremmo dare della stella potrebbe dunque essere quella di un intero fatto di determinate parti che hanno il carattere di parti-figure, ad esempio potremmo dire che si tratta di un pentagono sui lati del quale sono costruiti cinque triangoli. All'ini­zio anche noi abbiamo dato una descrizione della figura in questi termini. D'altra parte il concetto eminente di poligono non è certo dato, nella geometria elementare, dai poligoni intrecciati a cui la stella appartiene. Ma il modo di intendere la figura è cambiato: essa sorge da un percorso, essa è propriamente un tracciato e la sua unità è data dall'unità del tracciato. Adottando questo punto di vista il pentagono e non la stella ha carattere di risultato e la stella non è ottenuta dalla suddivisione di un pen- 164 tagono. Così doveva essere anche per i Pitagorici: è molto probabile infatti che, proprio come si fa nell'al­go­ritmo generatore, il gesto da cui sorgeva la figura fosse appunto quello di realizzare un tracciato che si ricongiungeva al punto di partenza in un percorso ininterrotto nel quale veniva disegnata anzitutto la stella, quindi veniva raggiunto il vertice del pentagono interno sovrapponendosi ad un breve tratto già tracciato, e da quel vertice, sempre senza interruzioni, poteva iniziare la realizzazione di una nuova stella. Questo gesto è poi quello che ci dà la chiave per trovare l'algoritmo generatore - che proprio per questo non rappresenta davvero, da parte nostra, una grossa scoperta! L'algoritmo non fa altro che ripercorrere l'iti­nerario di quel gesto: cominciando dal vertice a sinistra viene tracciata la stella e poi, dopo aver riguadagnato questo vertice, il tratto viene ridotto nella misura voluta in modo da ripercorrere il tratto già tracciato fino al vertice del pen­tagono interno, e qui si apre il nuovo ciclo, esattamen­te identico al precedente. Annotazione Proprio per il fatto che spesso gli storici della matematica passano sotto silenzio questo punto o non dànno ad esso il rilievo che merita, è opportuno richiamare l'attenzione sui molti indizi che rivelano un interesse dominante per le procedure ricorsive da parte pitagorica - e già nel pitagorismo antico. Una corrente filosofica che assume a proprio emblema un simile pentagramma era certamente consapevole delle meraviglie contenute nella sua struttura, e dunque della "logica" interna alla figura. Questo aspetto è in ogni caso illustrato soprattutto dalla teoria dei "numeri figurati". In rapporto ad essi viene ancora in mente la domanda di Wittgen­stein se l'aritmetica non possa essere intesa come una sorta di geometria. E la problematica di cui essi sono portatori si presenta molto seducente per chi sia interessato, come noi siamo, al numero ed alla figura sotto il profilo del problema della ripetizione. Nei numeri figurati non si deve tuttavia cogliere una rozza geometrizzazione che "mal si accorda - come 165 osserva Michel - alle nostre abitudini attuali" e che saremmo facilmente portati a ritenere "aberrante", bensì ci si deve rendere conto che, secondo la prospettiva pitagorica, "a ciascun numero corrisponde una figura visibile che non è un segno convenzionale come sarebbe una cifra, ma un riflesso della sua essenza. La figura traduce le proprietà del numero. Inversamente le proprietà dei numeri possono essere colte attraverso quelle delle figure; ma dobbiamo ricordarci che è dal numero che prendiamo le mosse" (P. H. Michel, De Pythagore a Euclide, Paris 1950, p. 296). Nella nostra terminologia e in conformità alla nostra trattazione, noi diremmo piuttosto che il numero figurato può essere considerato come un metodo di notazione aritmetica a struttura ricorsiva, impiegato per generare seriazioni, e quindi per operare "concettualizzazioni" sulla base di schemi operazionali e per evidenziare in questo modo varie forme di rapporti tra tipi di numeri. § 10 Variazioni sul tema della curva di Koch - Problemi attinenti al rapporto tra figura generata e algoritmo generatore. I problemi e i temi emersi nella discussione precedente possono essere ripresi ed approfonditi con riferimento ad un'altra curva che fa parte del repertorio ben conosciu­to delle immagini frattali. Si tratta della curva che prende nome dal matematico E. Koch che la propose nel 1904. L'algoritmo costruttivo, estremamemente semplice, è il seguente: Assioma F Schema operazionale n. 7 Regola Condizione F→F+F--F+F Angolo = 60° Figuralmente l'assioma è dunque rappresentato dal tratto unitario di base. 166 La parte a destra della freccia della regola dalla figura seguente: Ciò significa che ogni tratto F delle figure via via generate sarà sostituito da quest'ultima configurazione. Lo svilupppo dell'algoritmo potrebbe essere presentato come uno schema albero nel modo seguente: F F+F--F+F F+F--F+F F+F--F+F ecc. F+F--F+F F+F--F+F Si noti che potremmo assumere come assioma la regola stessa, senza modificazioni significative se non ovviamen­te il fatto che la nostra figura iniziale sarà rappresen­tata dalla configurazione precedente piuttosto che dalla linea. Con ciò si mostrerebbe già in azione nel simbolismo il tema dell'au­tosimilarità. Infatti ciò che colpisce nel simbolismo seguente Assioma F+F--F+F Schema operazionale n. 8 Regola Condizione F→F+F--F+F Angolo = 60° è anzitutto il fatto che ogni F dell'assioma venga sostituito con una configurazione di F che è eguale al­l'as­sioma stesso. Abbiamo dunque qui un caso piuttosto differente rispetto a quello del pentagramma pitagorico. Di ogni tratto corrispondente ad F sembra perfettamente pertinente affermare che si tratta di una 167 parte del­l'intero figurale corrispondente a "F+F--F+F". Questa par­te tuttavia è a sua volta costituita di parti ognuna delle quali ha esattamente la stessa configurazione dell'intero. Potremmo anche dire che ogni parte è eguale, a meno della variazione di scala, alla parte immediatamente sovraordinata che rappresenta il suo intero relativo. La nozione di autosimilarità è qui esemplificata secondo un'acce­zione ad un tempo molto precisa e molto forte. Applicando iteratamente le regole dello schema operazionale n. 7 otteniamo la notissima sequenza delle figure: fig. 15, 0 fig. 16, I fig. 18, III fig. 17, II fig. 19, IV È difficile reagire alla tentazione di fare, anche in questo caso, al­meno qualche passo nel seguire le metamorfosi delle forme attraverso le variazioni possibili dell'al­goritmo, senza molto riflettere sullo scopo. D'altra parte si tratta di un gioco che, oltre ad esibire le capacità della ripetizione, potrebbe forse suggerire l'idea di un'inda­gine sistematica che metta a capo ad una tipologia di questi calcoli, attenta anche agli aspetti fenomenologico-figurali ed alla relazione tra questi aspetti e la loro struttura. Potrebbe essere interessante prendere in esame la possibilità di individuare tipi di calcoli con caratteristiche diverse, nei loro nessi con le forme figurali, e dunque i tipi di metamorfosi indotte da determinate variazioni all'in­ter­no del simbolismo. Ecco che cosa può risultare con formule simili a quelle del­la cur­va di Koch o almeno non particolarmen­te più complesse di essa. 168 Assioma F Schema operazionale n. 9 Regola Condizione F→-F+F--F+Fangolo = 60° fig. 20, III fig. 21, IV 169 Assioma F+F--F+F Schema operazionale n. 10 Regola Condizione F→-F+F--F+Fangolo = 30° fig. 22, II fig. 23, III fig. 24, IV 170 Nello schema seguente compare, oltre a "!" già rammentata in precedenza, un'altra istruzione standard dei linguaggi L-systems, l'istruzione indicata l'istru­zione indicata da "|" che realizza l'inver­sione della direzione di movimento della linea. Schema operazionale n. 11 Assioma Regola FFF F→!F+F--F+F| fig. 25, III Condizione angolo=30° 171 fig. 26, IV Assioma FA Schema operazionale n. 12 Regola F→F+F--F+F- A→ -F+F--F+F fig. 27, V Condizione angolo=30° 172 L'aspetto "decorativo" o "ornamentale" che compare spes­so in queste figure risulta naturalmente dalle scelte effettuate nella struttura dell'algoritmo, ed in particolare è una conseguenza del­la scelta dell'angolo e del­l'esi­stenza di particolari simmetrie al­l'interno dello schema operativo, che si vanno complicando ed intrecciando di iterazione in iterazione, arrivando a livelli di com­plessità strutturale che sarebbero davvero inimmaginabili sen­za l'aiuto di un automatismo capace non soltanto di generare la stringa, ma anche di fornire l'interpretazione grafica. Si consideri in particolare l'ultima "meraviglia" (fig. 27) che mi è accaduto di "scoprire" peregrinando tra i calcoli. Da essa prendiamo il ritaglio della sua zona centrale, per mostrare la complessità che risulta dal meccanismo iterativo di un algoritmo tanto semplice. Created using UNREGISTERED Top Draw 6/12/95 2:23:42 AM In questo ritaglio si possono vedere - oltre lo schema elementare della regola dell'algoritmo di Koch, che è onnipresente nelle nostre variazioni - un intreccio di figure geometriche note, ad 173 e­s­empio due quadrati di cui l'uno sovrapposto all'altro secondo una certa inclinazione, un esagono, un ottagono, ed altro ancora: ad esempio, ognuno dei due quadrati può essere considerato suddiviso in nove quadrati. Numerosi piccoli parallelogrammi sono, per così dire, ovunque ordinatamente distribuiti - si tratta in realtà di due schemi elementari sovrapposti. A proposito di una descrizione come questa, che presta attenzione agli aspetti figurali, così come si offrono direttamente alla percezione, occorre tuttavia ri­pren­dere alcune osservazioni che sono già state anticipa­te in precedenza e che riguardano il rapporto tra lo schema operazionale e il risultato figurale. Si è già in effetti fatto notare che di norma lo schema operazionale non lascia certo facilmente intravvedere il risultato grafico. Al più può accadere in taluni casi interessanti di cogliere un nesso tra risultato grafico e schema operazionale. Prendiamo ad esempio un assioma di forma "XYYX"; vi è qui una articolazione secondo la quale que­­­sta stringa si lascia suddividere in due parti, delle quali l'una è l'inverso dell'altra. Si consideri ora il seguente schema operazionale nel quale oltre la simmetria dell'assioma, si presentano ulteriori simmetrie nelle regole per X e per Y (lettere che peraltro qui compaiono come elementi "intralinguistici"): Assioma XYYX Schema operazionale n. 13 Regole Condizione X→F+X--F angolo = 30° Y→F-Y+F Facendo agire questo schema operazionale otteniamo le seguenti figure: 174 fig. 28, V fig. 29, VI Non c'è dubbio che tra la figura risultante e lo schema operazionale, nel suo gioco di inversioni e di simmetrie, presenti sia negli assiomi che nelle regole, sussista un nesso che può anche manifestarsi nel confronto tra la figura e lo schema. Ma anche in questi casi occorre mantenere una distinzione assolutamente neces­saria tra il modo della costruzione e l'interpretazione percettiva del suo risultato. Se presentiamo ad esempio la prima figura a sinistra tenderemo a considerarla come un rettangolo tagliato da un linea retta. Io penso che chiunque fosse richiesto di copiare questa figura traccerebbe anzitutto il rettangolo e poi la linea retta. Invece l'algo­ritmo ha prodotto questo risultato in modo interamente diverso che diventa visibile non appena spostiamo l'angolo 175 di qualche grado, ad esempio da 90 a 87. La figura tracciata sulla destra, mostra il modo effettivo della sua costruzione. Il nostro traccialinee automatico non alza mai la sua punta dal foglio. Analogamente nella figura seguente si stenterà a vedere lo stesso modulo figurale ripetuto quattro volte: L'attenzione sarà invece attratta soprattutto dalle due punte sulla destra, oltre che dalla simmetria che si viene a creare sull'asse orizzontale; inoltre la figura mantiene un singolare carattere di incompletezza, dovuta forse proprio al fatto che la simmetria sull'asse orizzontale non è accompagnata da una simmetria sull'asse verticale. Come accade invece nel caso seguente: Il risultato figurale è dunque, nel suo modo di apparire, del tutto autonomo rispetto allo schema operativo che lo genera. Una conseguenza di ciò è che, nonostante il fatto che queste costruzioni siano governate dal determinismo più rigoroso a meno non inseriamo noi stessi elementi di casualità nelle regole (cosa che è perfettamente possibile), la presenza della ripetizione può rimanere nascosta. Le figurazioni generate ci possono apparire fortemente irregolari, senza un piano e persino caotiche. È interessante notare che le figurazioni considerate nella loro successione non sempre e non necessariamente appaiono concatenate 176 tra loro: cia­scuna di esse occupa una po­sizione ben determinata all'in­terno di una serie, in quanto esse sono subordinate ad un unico schema formale, e sono dunque "specie dello stesso genere": e tuttavia questa subordinazione ad un unico schema formale è tavolta compatibile con la massima differenza fenomenologica tra un risultato e il risultato ad esso immediatamente successivo. Inoltre, una piccola modificazione dell'algo­ritmo o di una sua condizione, talvolta genera una piccola distorsione nella figura, talora una modificazione "catastrofica". § 11 Il passaggio infinitario illustrato sull'esempio della curva di Koch - Il preteso carattere contro-intuitivo della lunghezza della curva di Koch. Numerose delle figurazioni ottenute nelle nostre variazioni sulla curva di Koch sono chiuse, nel senso che riguadagnano il punto di partenza ricalcando poi il percorso precedente, cosicché il procedere oltre nelle iterazioni è privo di interesse per quanto riguarda il risultato grafico. L'iterabilità infinita è garantita al­l'in­ terno del­l'al­goritmo, ma è, per così dire, priva di conseguenze. Il motore ad un certo punto gira vuoto e conviene fermarlo. Diversamente stanno le cose per l'originaria curva di Koch: facendo riferimento ad essa si può realizzare un'efficace esemplificazione del passaggio dall'ite­razione infinita del processo ad un oggetto posto come infinito. In rapporto alla curva di Koch si fa notare che essa può essere considerata come una linea che è, ad un tempo, limitata e di lunghezza infinita. Si potrebbe commentare: quale nuovo scacco per l'intui­ zione che sicuramente si rifiuterà di accettare una cosa simile! Come potremmo, noi uomini di "buon senso" ammettere che, essendo due punti ad una distanza determinata, questa distanza non possa poi essere percorsa? Solo il pensiero logico, la razionalità pura ci può convincere ad assumere una simile asserzione 177 contro-intuitiva. A me sembra invece che non vi è forse migliore esempio per mostrare quanto un commento come questo sia superficiale e inconsistente. Eviteremo intanto di chiamare in causa il buon senso, che in genere non passa il suo tempo a meditare sulle curve di Koch ed altre cose similari; e così anche esempi ad hoc che fanno torto alla logica ed al buon senso e che peraltro non hanno nulla a che vedere con ciò di cui si discute - qui non si discute per nulla se si possa fare o meno una passeggiata su una curva di Koch. Sarà opportuno anche avvertire che talvolta con le parole ci si compiace di fare un vero e proprio "gioco delle tre carte" - cambiando il contesto di senso sotto gli occhi del giocatore sprovveduto. Al contrario in questo genere di discussioni dobbiamo tener fermo anzitutto il senso delle parole; e per tenerlo fermo dobbiamo agganciarlo a qualcosa. Nel nostro caso non possiamo che agganciarlo all'algoritmo ed alla struttura grafica da esso generata. Allora comprendiamo intanto che cosa significhi qui il fat­to che la linea venga detta limitata. Se a e b sono gli estremi del tratto iniziale, questi estremi non cambiano di posizione nel corso delle iterazioni. Ma la regola realizza per ogni tratto rappresentato da F, una sostituzione con quattro tratti. Nella sostituzione avviene naturalmente la riduzione corrispondente della lunghezza del tratto, ovvero una variazione di scala. Ad ogni iterazione, il tratto rappresentato da F viene ridotto di 1/3; nello stesso tempo i tratti scalarmente ridotti che vengono sostituiti ad ogni F nell'iterazione successiva sono quattro, e non tre. Ciò è mostrato semplicemente dalla figura: a b Created using UNREGISTERED Top Draw 6/12/95 6:14:48 PM 178 Stando così le cose ad ogni iterazione ogni tratto verrà sostituito con una lunghezza che è maggiore della precedente di 1/3. Questo è appunto evidente. Ed è allora evidente che ad ogni iterazione la linea diventerà sempre più lunga, anche se per incrementi progressivamente minori. Disponendoci dal punto di vista del­l'in­finito attuale, in cui non vi è un processo ma una totalità ideal­mente data, la lunghezza sarà appunto infinita. Ciò può essere compiutamente compreso e lo può proprio per il fatto che la leva fondamentale della comprensione è fornita dal dato evidente che si mostra nella figura precedente - qui non vi sono affatto argomentazioni o deduzioni a partire da premesse, dimostrazioni per assurdo o che altro. Si tratta proprio della vecchia e malfamata Einsicht, e mi azzarderò a dire: proprio nel senso in cui ne parlava Schopenhauer quando impiegava questo termine rendendolo sinonimo di cognitio, in contrapposizione alla convictio, cioè ad una procedura argomentati­va che mi obbliga all'assenso anche senza un'effettiva compren­sione interna dello stato di cose [50] . Sostengo dunque non solo che il parlare di segmento limitato di lunghezza infinita non ha nulla di contro-intuitivo, ma che una cosa si­mile è realmente comprensibile solo per mezzo ed a partire da considerazioni "intuitive" - dove tuttavia il termine di intuizione viene impiegato (in realtà piuttosto malvolentieri per via degli equivoci che pesano su di esso) in stretta connessione con l'idea secondo la quale esiste anche una logica delle figure, e non solo una logica del­la pro­­­po­sizione. Naturalmente questo dato evidente iniziale si situa in una linea che va ampiamente oltre il piano delle cose concretamente viste e percepite, ed avviene poi il balzo infinitario che ci pone su un terreno di pure idealità. Ma questo balzo ha il suo trampolino nell'itera­zione che, men­tre comincia in un preciso luogo, termina poi in un totale altrove. 179 § 12 La "crisi dell'intuizione" secondo Hans Hahn - Discussione critica. Le nostre ultime considerazioni ci consentono di ricollegarci direttamente ad un famoso saggio del 1933 di Hans Hahn, matematico insigne che fu fra i promotori del Circolo di Vienna. Si tratta di un articolo che in realtà ha fatto testo, nonostante i molti anni trascorsi e le molte novità sul terreno del dibattito epistemologico. Esso contiene idee divenute moneta corrente proprio intorno al problema che rappresenta uno dei nodi della nostra discussione complessiva, e può essere considerato, rispetto ad essa, un piccolo classico. Esso si intitola La crisi dell'intuizione [51] ed il suo scopo è quel­lo di mostrare, sulla base di alcuni esempi tratti dall'ambito geometrico che la geometria, in tutte le sue possibili varietà, è una pura costruzione logica con la quale la cosiddetta intuizione ha ben poco da spartire, ed anzi rappresenta un freno ed un impedimento del pensiero. Non staremo qui a discutere gli scarsi cenni dedicati a Kant con cui si apre il saggio, per andare direttamente a due degli esempi fondamentali riportati da Hahn per sostenere la propria tesi in modo da dare a questa discussione la forma di uno sviluppo e di un consolidamento di quanto abbiamo or ora sostenuto. Il primo di essi riguarda la possibilità di funzioni continue, e tuttavia non derivabili in tutti i loro punti. È interessante intanto notare che questo stesso esempio ricorre in Poincaré, Il valore della scienza [52] , e quindi in un autore che fa un suo discorso molto articolato sull'in­tuizione, e piuttosto propenso, come si sa, a valorizzarla. Di fatto tuttavia su questo esempio l'accordo tra Poincaré e Hahn è completo. Infatti esso viene proposto da Poincaré nel momento in cui egli vuole mostrare i limiti del­ l'in­tui­zione e la necessità che i risultati ottenuti per via intuitiva vengano corretti ed eventualmente migliorati e resi sicuri dalla 180 logica. In realtà anche l'oppo­sizione stabilita da Poincaré tra logica e intuizione ci lascia del tutto insoddisfatti, ma naturalmente converrà limitarci qui alla questione particolare. Ecco quanto scrive Poincaré: "L'intuizione non può darci né il rigore né la certezza: ce ne siamo accorti sempre di più. Citiamo alcuni e­sem­pi. Sappiamo che esistono funzioni continue prive di derivate. Niente di più contrario per l'intuizione di questa proposizione che ci viene imposta dalla logica. I nostri padri non avrebbero fatto a meno di dire: 'E evidente che ogni funzione continua ha una derivata, poiché ogni curva ha una tangente'. - Come può l'intuizione ingannarci a questo punto?". Poincaré dà a questa domanda una risposta nettamente psicologizzante: ci raffigureremmo mentalmente una curva, come una linea senza spessore "ed allora è chiaro che potremo sempre rappresentarci questi due nastri sottili, l'uno rettilineo, l'altro curvilineo, in una posizione tale che si sfiorino leggermente senza attraversarsi. Saremo così condotti, a meno che un'analisi rigorosa non ci avverta, a concludere che una curva ha sempre una tangente" [53] . Vediamo ora come si articola la discussione di Hahn su questo punto. Anzitutto vi è il richiamo ai fondamenti del calcolo differenziale - e quindi al problema del movimento di un punto in un determinato istante ed a quello leibniziano della tangente. È chiaro, dice Hahn, che per l'intuizione un punto in movimento deve avere una velocità determinata in un determinato istante. E parallelamente deve essere intuitivamente evidente che una curva deve avere un'in­clinazione determinata per ogni suo punto o almeno per la maggior parte di essi. Ora intanto è il caso di chiedersi, come prima domanda per così dire preparatoria: che cosa mai significa "intuizione" in queste formulazioni? È assai difficile dare una risposta. Evocando il calcolo differenziale ci si appella ad un altissimo livello di elaborazione teorica: in particolare l'idea del movi- 181 mento del punto in un determinato i­stante è un'idea astratta che non fa parte affatto del concetto comune (quotidiano) di movimento (se si vuole intendere con intuizione qualcosa di simile ad un concetto comune). Forse il pensiero "quotidiano" può arrivare a concepire senza troppa difficoltà e con qualche spiegazione l'idea di velocità media. Il passaggio al limite invece richiede difficili spiegazioni, e deve essere teorizzato a fondo. Perché mai all'interno di questa complessa elaborazione teorica sarebbe proprio l'intuizione - questa pretesa facoltà intorno alla quale si sa ben poco - a suggerire erroneamente che ogni punto in movimento debba avere una velocità determinata in un determinato pun­to? Sembra assai più sensato sostenere che una simile posizione sia una conseguenza di un orientamento intellettuale complessivo e di una concezione dell'analisi nella quale determinati modelli abbiano un carattere normativo e dominante. Forse ciò che crea qualche problema non è l'intuizione (ammesso un qualche impiego sensato del termine), ma il tipo di matematica utilizzata e in particolare, l'esemplarità attribuita a certe forme funzionali piuttosto che ad altre. Attiriamo intanto l'attenzione su questa differenza: nella misura in cui si considera l'invenzione del calcolo infinitesimale come motivato, ad esempio, dal problema del movimento si riconosce già che l'intuizione ha una sua parte, in quanto si pensa alla dimensione reale del movimento, e non ad una questione puramente matematica. Quando si pone il problema di una curva continua senza derivate si ha di mira invece una questione puramente matematica - e quindi qualcosa che non può essere posto sullo stesso piano delle considerazioni relative al movimento. Come nessuno penserebbe di fare una passeggiata su una curva di Koch, così nessuno progetterebbe di costruire un autodromo che abbia come percorso la curva di Weierstrass. È tempo di dire a chiare lettere che l'intuizione - intesa come senso comune, o qualcosa di simile - non ha nessuna opinione sulla curva senza derivate: non sa nemmeno che cosa sia una derivata, anzi, a dire il vero, ha 182 qualche difficoltà a capire che cosa si intenda con "curva" nella matematica in genere. Se in rapporto a questo tipo di problemi qualcosa viene trovato evidente o non evidente, ciò è appunto una questione che riguarda i "nostri padri" - come dice Poincaré: ed è assai ben detto. Infatti se le curve senza derivate dànno dei problemi, non li dànno all'intuizione, ma ai matematici; e ciò che viene messo in questione non è affatto la loro personale intuizione (come dire, la loro capacità immaginativa o cose di questo genere), ma proprio la matematica che hanno praticato fino a quel momento nella quale determinati modelli erano prevalenti. Mettere in questione il movimento è poi sbagliato anche per un'altra ragione: una volta che si è mostrato che esistono curve continue senza derivate, non si è dimostrato nulla intorno al movimento. Non vi è affatto un rapporto semplice tra l'una e l'altra cosa. Analogamente per quanto riguarda il riferimento geometrico. In quanto si assume come modello di curva qualcosa di simile a questo: Created using UNREGISTERED Top Draw 6/18/95 12:09:50 AM naturalmente saremo portati a ritenere in linea generale che caratteristica eminente di una curva sia la possibilità di tangenti in ogni suo punto - ma non per il fatto che l'intuizione ci inganna e ci seduce, ma per il fatto che abbiamo scelto come modello proprio questo, e non un'al­tro. Abbiamo deciso cioè che la nostra geometria, ed in particolare nel momento in cui essa si è incontrata con il concetto di funzione, si sarebbe occupata prevalentemente di curve di questo tipo. Naturalmente non si trattò per nulla di una decisione arbitraria, ma dipendente dai problemi che avevano determinato quell'incontro. Se poi con intuizione intendiamo il riferimento a modelli 183 percettivi, è chiaro che essa non contiene raccomandazioni particolari per il matematico - non raccomanda un modello piuttosto che un'altro. Dal punto di vista percettivo assumono rilievo due tipi con andamenti caratteristici nettamente differenti: un tipo come il precedente, che anche nel linguaggio corrente si chiama "curva", e un tipo come il seguente Created using UNREGISTERED Top Draw 6/18/95 12:19:08 AM che invece il linguaggio corrente non chiamerebbe affatto "curva". Per la percezione siamo qui alla presenza di configurazioni tipicamente differenti, e persino contrapposte, e di cui viene valorizzata proprio la contrapposizione; mentre il pensiero astratto tenderà a riunirle possibilmente sotto un unico titolo. Ora, è il pensiero astratto che fa della prima un modello per la seconda piuttosto che l'inverso. L'intui­zione come tale in questa faccenda non c'entra per nulla. E riguarda ancora soltanto il pensiero astratto il fatto che il secondo tipo di curva non sia dominabile mediante gli strumenti analitici correnti. Fatte queste premesse, vogliamo vedere più da vicino almeno i due primi esempi recati da Hahn, che ci interessano direttamente per ragioni che appariranno subito chiare. Il primo di questi esempi è la curva priva di tangenti in ogni suo punto escogitata da Weierstrass nel 1861. "Si era soliti pensare - commenta Hahn [54] - che l'intuizione ci obbligherebbe a riconoscere che una simile deficienza (la mancanza di tangenti) potrebbe verificarsi solo in punti isolati ed eccezionali di una curva e non in tutti i suoi punti. Si credeva che una curva dovesse possedere una inclinazione esatta, ovvero una tangente, se non in ogni punto, almeno nella netta maggioranza di essi". 184 La circostanza curiosa è che Hahn inizia la propria esposizione osservando che di una simile curva senza tangenti si può dare una dimostrazione con un'il­­lustrazione intuitiva relativamente semplice [55]. Si tratta di un'osservazione del tutto giusta. Egli ne dà infatti una descrizione evitando l'"intricato e arduo calcolo" con il quale Weierstrass perviene ad essa. In realtà si può fare di più e di meglio: è possibile evitare di ripetere la descrizione di Hahn, riprendendone tuttavia alcuni aspetti essenziali, e presentare invece, dopo averci pensato un poco sopra, la sua definizione operazionale, ovvero lo schema attraverso cui la curva può essere generata. Infatti la curva di Weierstrass è una "spezzata" generabile all'interno di un algoritmo ricorsivo non trop­po dissimile dalla nostra curva di Koch. Dovremo tuttavia, per raggiungere lo scopo, adattare nuovamente il linguaggio L-system introducendo due segni A e B che saranno interpretati graficamente nello stesso modo di F: entrambi indicheranno dunque un tratto, con la sola differenza che A indicherà un tratto ascendente e B un tratto discendente, secondo un angolo prefissato che rimarrà costante [56] . In effetti l'assioma sarà semplicemente rappresentato da un tratto ascendente e da un tratto discendente, mentre le due figure corrispondenti alle regole di sostituzione per A e per B e destinata ognuna a sostituire un tratto ascendente ed un tratto discendente, saranno l'una il "rovescio" dell'altra. Created using UNREGISTERED Top Draw 6/18/95 1:14:21 AM assioma regole Created using UNREGISTERED Top Draw 6/18/95 1:13:59 AM La formula della curva di Weiestrass risulta allora essere la seguen- 185 te, assumendo come condizione un angolo a 85°. Assioma AB Schema operazionale n. 13 Regole A→ABAABA B→BABBAB Condizione angolo = 85° Sulla base di questo schema avremo alla prima ed alla seconda iterazione le figure seguenti: fig. 30, I fig. 31, II A questo punto non possiamo far altro che ripetere un commento che abbiamo già fatto in precedenza. Dallo schema operazionale, dal calcolo e dai primi risultati figurali corrispondenti si comprende con evidenza che nel corso delle iterazioni gli "spigoli" si andranno sempre più infittendo. Sulla base del passaggio infinitario, reso possibile dal pensiero dell'ecceterabilità del processo, sarà poi possibile parlare di un simile curva come di una curva priva di tangenti in tutti i suoi punti. Dove è allora la crisi dell'intuizione? È chiaro che il passaggio infinitario pone questo "oggetto" su un piano interamente astratto, facendo di esso un oggetto puramente intellettuale: considerato in quanto tale, esso non ha nulla di intuitivo, ma questa è una scoperta degna soltanto di Monsieur de Lapalisse. Se qui vi è qualche problema, e certamente vi è, si dovrà trattare di un problema interno al pensiero matematico, ai suoi metodi ed agli strumenti intellettuali che esso mette in campo; le even­tuali difficoltà non provengono da qualcosa che stia al di fuori della 186 matematica e che le sia estraneo e persino ostile. Se i padri della matematica di una volta ritenevano impossibile un oggetto simile avevano le loro buone ragioni - questo oggetto "infinito" non è certo un oggetto qualunque (è anzi un oggetto un po' strano - come si lascia sfuggire Hahn). E le ragioni più importanti di questo loro atteggiamento non erano affatto, io credo, di ordine meramente "psicologico", come sempre viene suggerito in contesti come questi. Hahn conclude invece in questo modo: "Il carattere di questa curva elude interamente l'intuizione; in verità dopo poche ripetizioni del processo di segmentazione, la figura che si evolve è cresciuta in modo così intricato che l'intuizione la può a malapena seguire; ed essa ci abbandona completamente... Il fatto è che solo il pensiero o l'analisi logica può seguire questo strano oggetto fino alla sua forma finale" (corsivo mio) [57] . Si rivela qui come sia importante l'aver potuto riportare, da parte nostra, la figura ad un calcolo e come assuma rilievo, di fronte ad una simile osservazione il richiamare l'atten­zione sulla trasparenza della strut­tura che si presenta nella formula costruttiva. Questa prospettiva di discorso manca interamente in Hahn benché egli mostri di rendersi conto perfettamente della logica interna della figura nel momento in cui egli traccia il disegno seguente: Tuttavia siamo noi a parlare di una logica della figura. Di essa Hahn non ha il benché minimo sospetto, e così, dopo aver prodotto questo disegno tanto istruttivo, pas­sa oltre. L'intuizione, egli dice, operando tra l'altro un pesante spostamento di senso 187 nella parola rispetto agli impieghi che egli stesso ha fatto in precedenza, non riesce a seguire gli intricati percorsi dell'iterazione. Ma sarebbe giusto chiedersi: perché dovrebbe farlo? Si tratta del resto di un problema che, mi sembra, non esiste nemmeno per l'"analisi logica". L'ultima frase secondo cui solo "l'analisi logica può seguire questo strano oggetto sino alla sua forma finale" non può voler dire che la logica riesce a fare ciò in cui l'intuizio­ ne fallisce, ma soltanto che, una volta approdati all'in­finito attuale, l'og­get­to è da parte da parte un "oggetto del pensiero" - un oggetto interamente entrato nell'ideazione matematica. Siamo così tornati a Monsieur de Lapalisse. Dopo tutto ciò potremo trattare più speditamente del secondo esempio che ci fornisce il destro, non solo per ribadire il nostro orientamento, ma anche di aggiungere alcune considerazioni che ci consentiranno di tirare un poco le fila. Si tratta di una delle curve "che riempiono lo spazio" proposte da Peano nel 1890. La stessa curva venne discussa da Hilbert nel 1891. Come nei casi precedenti, la curva è realizzabile attraverso un algoritmo ricorsivo dello stesso tipo di quelli precedentemente proposti. Si tenga conto che nei linguaggi L-systems i segni privi di regola vengono semplicemente trascurati, e può accadere che una regola per un segno possa essere applicata solo in iterazioni successive alla prima. Ad esem­pio nel seguente schema nella prima applicazione la regola per il segno B non viene applicata. Assioma A Schema operazionale n. 14 Regole Condizione A→-BF+AFA+FBangolo=60° B→+AF-BFB-FA- La sequenza di figure realizzate nelle prime quattro iterazioni è 188 la seguente: fig. 32, II fig. 33, III fig. 34, III fig. 35, IV Nel considerare le figure che presentano ciò che accade nel succedersi delle iterazioni operate sulla stringa potremo certamente essere autorizzati a commentare che ciò che vediamo è che la linea tende a riempire interamente lo spazio, vediamo in certo modo la linea diventare una superficie. L'infittirsi del reticolo fa sì che lo spazio bianco tra le linee diventi sempre più piccolo ed alla fine sarà pienamente occupato. Di fronte agli occhi avremo così un quadrato nero. Forse si dirà: qui viene considerata la linea percepita e concretamente disegnata, la quale ha, in particolare, uno spessore; ma questa non è matematica! Non è geometria! Infatti non lo è. Il piano empirico concreto deve essere interamente superato e la curva di Peano-Hilbert deve essere considerata come un oggetto geometrico ideale. Vogliamo allora essere più precisi: oltre a vedere, nel senso usuale del termine, che la linea tende a diventare una superficie, comprendiamo con evi­ denza che essa tende a diventare una superficie in un senso che non ha nulla a che vedere con la sottigliezza o con lo spessore: si tratta invece di una circostanza che può essere colta ed afferrata nello schema costruttivo, graficamente interpretato, che ne mo- 189 stra l'"es­senza logica", purché naturalmente venga effettuato il passaggio all'infinito attuale che assolve qui un ruolo essenziale. Il punto del problema sta ora in questo: come è possibile citare una simile curva come esempio di figura "contro-intui­ tiva", di scacco dell'intuizione, quando l'i­dea­­liz­­zazione infinitaria operata dal pensiero può contare, per quanto riguarda la comprensione, su un sostegno intuitivo così cospicuo qual è la struttura visibile della figura? La giustificazione di Hahn consiste nel fatto che sarebbe contrario all'intuizione l'idea che un punto in movimento possa descrivere qualcosa di diverso da una "curva" - ovvero che una curva possa "riempire una superficie". Ma se questa è l'opinione dell'in­tuizione, si tratta certamente di una intuizione che ha già ragionato molto e che ha compiuto molti passi nella direzione dell'oggetto geometrico astratto. Altrimenti essa sarebbe ferma all'idea che non c'è niente di più facile da capire che una linea possa riempire una superficie. Qualora poi sia acquisita la differenza tra il concreto oggetto percettivo e l'og­ getto ideato dal pensiero matematico, l'in­tui­zione avrà ben poco a che ridire rispetto ad un oggetto che per principio si sottrae interamente alla sua giurisdizione e che cade invece in quella del pensiero puro. È in rapporto alle legalità interne a questo campo che talora queste curve sono apparse come dei "mostri", nel duplice senso dell'etimo: delle autentiche "meraviglie" e dei casi "contro-natura". Non per un caso qualsiasi o per una resistenza di forze irrazionali. Al termine dell'articolo di Hahn, rispunta, spiace dirlo, la saccente superficialità dell'empirismo più rozzo. Quel che ci appare mostruoso e inusuale, finirà con il rientrare nella norma purché sia assecondato dall'educa­zione e dall'abitudine. Si tratta dunque solo di maggiore o minore familiarità - e Hahn arriva a rendere la parola "intuizione" a tal punto vacua da rendere possibile l'af­fer­mazione secondo cui "il concetto di 'differenza di potenziale' è intuitivo per l'elettricista, ma non per la maggior parte degli uomini" [58] . 190 Da questa frase, che oscilla tra la banalità e la completa insensatezza, si spicca poi il volo all'idea che con un po' di educazione e un sistema scolastico moder­no tutte le meraviglie e i mostri non esisterebbero affatto, le geometrie non euclidee, gli spazi multidimensionali, e tutto il resto sarebbero "intuitive" quanto lo è la geometria euclidea. Ed anche le curve di Koch, di Peano, ecc., sarebbero considerate come curve qualunque. Invece si tratta di curve strane! E strane rimarranno per sempre. Annotazioni Il testo a nostro avviso più importante sul tema della "crisi dell'in­tuizione" (che assume il carattere di una vasta e penetrante discussione sul concetto di intuizione nell'ambito della riflessione filosofica sulla matematica) è quello scritto da K. Th. Volkert, Die Krise der Anschauung, Vandenhoeck & Rupprecht, Göttingen 1986. In questo libro si dedica una ampia sezione all'"età aurea dei mostri" (pp. 99-157). Della conferenza di Hahn si parla nella parte seconda, storico-sistematica, alle pp. 251-260. § 13 Per concludere: alcune osservazioni sulla "geometria della natura" e sugli oggetti "fratti" - Il richiamo alla differenze soggettive del punto di vista - Il nostro scopo è stato quello di mostrare quanto sia movimentato il rapporto tra l'esperienza e le elaborazioni intellettuali. Ma in che cosa poi consiste la stranezza di una curva come quella di Peano-Hilbert? Quella curva è strana perché, mentre dovremmo attribuire ad essa una sola dimensione - come per ogni linea - forse spetterebbe ad essa l'attribuzione anche della seconda dimensione. O almeno potremmo rimanere incerti fra l'una e l'altra attribuzione. (Una curva così ci potrebbe costringere a riflettere sulla nozione di dimensione). In certo senso, e in modo inatteso, siamo qui indotti a rammentarci dei nostri precedenti discorsi su Euclide, sulla linea che è "lunghezza senza larghezza". Come se in quella frase si fosse 191 toccato un problema che è ancora in grado di tormentarci. Le nostre considerazioni sembrano comunque aver proposto una sistemazione della questione che potrebbe essere giudicata abbastanza soddisfacente. Da un lato vi è un calcolo infinitamente iterabile in via di principio; que­sto calcolo trova il suo strumento concreto in un "traccialinee" con il quale si mostra l'anda­mento della figura ai diversi livelli dell'applicazione ricorsiva delle regole. Lo spazio entro il quale la curva viene delineata si va riempiendo sempre più, ad ogni successiva iterazione, finché ci troviamo di fronte ad un indiscutibile quadrato nero. Ma naturalmente sappiamo che ciò accade perché qui la linea ha in effetti una larghezza! Distinguiamo al­lo­ra chiaramente l'oggetto empirico concreto da un lato e l'oggetto ideale dall'al­ tro. E comprendiamo benissimo che dobbiamo considerare quel riempimento visibile co­me una sorta di simulazione empirica di un riempimen­to ideale: come è ideale la curva pensata come interamente tracciata, oppure la stringa infinita di cui quella curva non è altro che una decodificazione grafica. Eppure proprio nel momento in cui è tempo di chiudere questo nostro saggio sentiamo l'esigenza, non solo di ribadire que­sto chiarimento, ma di evitare anche che esso, a sua volta, ven­ga inteso in modo troppo rigido. Ciò a cui siamo realmente interessati, da un punto di vista generale, è che sia mantenuta la consapevolezza di quanto sia movimentato il rapporto tra l'esperienza e le elaborazioni intellettuali. Questo rapporto può essere considerato da più di una angolatura, e se possiamo ritenerci appagati da un modo di impostarlo e di renderci ragione di esso, variando l'ango­latura, potrebbero proporsi nuovi problemi capaci di rimettere in gioco il precedente modo di approccio ad esso. Intanto vi è una circostanza sulla quale occorre richiamare l'attenzione con particolare vivacità: nel momento in cui il pensiero geometrico sta per ricevere una svolta ed un nuovo impulso, quella netta distinzione tra l'oggetto di pensiero da un 192 lato e l'oggetto dell'e­spe­rien­za dall'altro, viene non tanto messa in questione, quanto temporaneamente sospesa, e ciò accade quasi come un vero e proprio esercizio intellettuale tendente a sondare la possibilità di scoprire, sul piano esperienziale, stimoli ed agganci per nuovi percorsi, nuove inclinazioni possibili dai quali uno stesso problema può essere riconsiderato. Poiché nei nostri ultimi sviluppi era presente, sia pure assai obliquamente, la "geometria frattale" ed abbiamo ritenuto in precedenza di poter citare come significativa una frase di Mandelbrot, possiamo forse avviarci a tirare le fila ricollegandoci a quello che potrebbe essere immaginato come inizio ideale della sua impresa. Questo inizio ci sorprende per la sua ovvietà, e ta tanto più ci sorprende il fatto che questa ovvietà sia rimasta per secoli in certo modo fuori campo, quasi a documentare la forza dei paradigmi entro i quali la conoscenza - per una necessità interna di delimitazione tematica e metodica - restringe e determina l'am­ bito delle cose da ritenersi "rilevanti", emarginando aspetti del reale che si sottraggono ad essi. Guardiamoci intorno: dove nella natura nella natura troviamo qualcosa come un cilindro un cono o un cubo? Ovvero: quadrati, rettangoli, triangoli, cerchi… queste forme di cui è stata realizzata nei secoli una grande scienza. Possiamo dirci veramente convinti che un albero assomigli ad una piramide? Dove sono i rami o qualcosa di simile ad un ramo? E che cosa resterebbe della forma vagamente piramidale di un pino o di un abete togliendo di mezzo la struttura della ramificazione? Improvvisamente apriamo gli occhi, come li apre la folla di fronte alla nudità del re nella fiaba di Andersen. Mandelbrot fa qui la parte del fanciullo di quella fiaba e nello stesso tempo ci riconduce ancora una volta sul terreno delle forme concretamente esperite orientando il nostro sguardo in una direzione nuova. In certo senso ci si appella inizialmente ad una descrizione più fedele di ciò che ci sta intorno, ma avendo già di 193 mira, naturalmente, il problema di un'estensione della capacità di dominio teorico. Mandelbrot ammonisce a non dimenticare che nello stesso nome della geometria è presente il richiamo alla terra: si tratta di un richiamo che ha numerose implicazioni, ma che intanto attira l'attenzione sul "paesaggio" terrestre, in cui ci sono alberi e foreste, corsi dei fiumi, isole e continenti, montagne, nuvole e pianure. La domanda è allora: in che modo vi può essere una geometria di forme come queste, del crinale di una montagna, delle coste di un'isola, della forma di un albero o di un cespuglio? La risposta a questa domanda non può essere cercata in direzione delle forme euclidee. Stando unicamente alla nostra esposizione non risulta certo subito chiaro in che senso possa essere interessante proporre il problema delle forme naturali a partire dalle figure ottenute per iterazione ricorsiva. Ciò dipende soprattutto dagli esempi che abbiamo scelto. Essi proponevano per lo più strutture con una forte regolarità interna, per quanto complessa e articolata, talvolta con una certa propensione per la "vetrata" o la "pavimentazione". Abbiamo già avvertito in precedenza che questo risultato dipende dalle peculiarità dei calcoli e non è difficile immaginare, anche a partire dagli esempi precedenti, delle variazioni degli schemi che sono in grado di generare strutture figurali di tipo interamente diverso. Tra questa enorme varietà di possibilità, vi è anche quella che vengano generate figure che presentano caratteristiche che in qualche modo fanno pensare a forme che troviamo nella natura, e si potrà trattare di forme relativamente regolari, come la forma di un albero, le venatura di una foglia, la forma di una conchiglia; oppure di forme che verrebbero caratterizzate come irregolari, come l'estuario di un fiume, la costa di un'isola o di un continente o il crinale di una montagna. 194 Assioma F Schema operazionale n. 15 Regole Condizione F→-FF+F-!-F+F+Fangolo = 62° La prima figura che segue è stata ottenuta da questo schema; la seconda dallo stesso schema con angolo a 32°, entrambe alla quarta iterazione. Solo con un'attenta osservazione si riscontreranno qui delle ricorrenze, e l'apparenza di casualità potrà essere accentuata nel proseguimento delle iterazioni. Si riveda a questo proposito la curva di Koch e le sue successive iterazioni: ad ogni iterazione la curva diventa sempre più frastagliata, sempre più fratta. Nella stessa scelta di questo termine - oggetto frattale, geometria frattale - piuttosto che sull'iterazione l'accento viene fatto cadere sulla "spezzatura". I "mostri" non cominciano con le curve strane e straordinarie di Weierstrass, di Koch, di Peano o di Hilbert: in realtà è un "mostro" in potenza già la più semplice delle "spezzate". Nello stesso tempo avviene una modificazione prospettica assai singolare: i mostri sono tanto poco tali da essere indicati come possibili modelli di forme naturali. Ripensiamo all'esempio famoso proposto da Mandelbrot della misurazione della costa della Gran Bretagna. Sono almeno due gli aspetti che meritano qui di essere messi in rilievo: anzi- 195 tutto si ritorna a riflettere su un problema di misurazione, e precisamente su un problema, almeno in prima apparenza, del tutto empirico. In secondo luogo si avanza in certo senso la pretesa di ritrovare su questa terra quell'infinito attuale che appartiene invece al paradiso delle ideazioni matematiche. Si verifica infatti per una costa qualcosa di simile a ciò che si verifica per la curva di Koch. Pensiamo ad un golfo visto dall'alto e molto di lontano. Esso ci apparirà con quell'anda­mento caratteristicamente semicircolare che ci fa appunto parlare di esso come di un golfo. Ma non appena il nostro sguardo si avvicina ad esso, la linea semicircolare ci apparirà sempre più frastagliata. Di fronte a noi vi sarà eventualmente solo una porzione del golfo intero, ma questa porzione sarà a sua volta fatta di golfi più piccoli ciascuno dei quali, ad un sguardo più ravvicinato, apparirà fatto di golfi, ecc. Ora ci chiediamo: fino a che punto procederemo in questo mutamento di scala? Non potremmo continuare fino ad insenature i cui estremi distano di pochi metri, e ancora oltre, di pochi centimetri, e ancora oltre? Che ne sarebbe allora della lunghezza della costa e della sua possibile misurazione? Nel proporre questo esempio Mandelbrot osserva che la lunghezza della costa è "praticamente infinita". In realtà, se se si pone il problema della misurazione di una costa, ciò avverrà per determinati scopi e sono questi scopi a determinare il punto di tollerabilità della rettificazione, il punto cioè nel quale termina l'interesse di ogni ulteriore variazione di scala. Il problema della lunghezza infinita sorge solo se si ha nella testa la curva di Koch - o qualche altra dello stesso tipo. La costa della Gran Bretagna diventa allora un puro pretesto in rapporto alla discussione di una questione tutta teorica. Nello stesso tempo è anche vero che si potrebbe sostenere che una curva frattale di un certo tipo può essere considerata un modello per una costa in genere: qual­cosa di capriccioso come una costa, che noi possiamo al più descrivere o rappresentare nel 196 senso di una immagine-copia può, a quanto sembra, essere invece artificialmente costruito, può essere simulato come se fosse prodotto, anziché da sommovimenti tellurici, dal gioco del mare contro le rocce, da un algoritmo iterativo. O più precisamente: la forma di una costa è determinata da diversi fattori di ordine fisico, da una catena più o meno complessa di eventi causali: la sua forma può essere descritta nel modo in cui essa si presenta e indagata nella rete degli eventi causali che la hanno generata. Ma di fatto disponiamo di un calcolo che è in grado di costruire una configurazione tipologicamente analoga e non ce la sentiamo di sostenere che ciò non significhi proprio nulla, che questa circostanza sia del tutto disomogenea alle precedenti e che di essa non possiamo farcene proprio nulla. Al contrario si può sostenere che proprio questa simulazione, questa artificializzazione, questa ricerca di modelli fa parte degli scopi essenziali del conoscere. Ed alle obiezioni secondo le quali avremmo, da un lato, a che fare con strutture rigorosamente deterministiche e dall'altro con processi in cui la "casualità" assolve comunque una funzione significativa si può rispondere se­gnalando la possibilità di prendere ulteriori provvedimenti, ad esempio quello di rendere più duttili i calcoli oppure di realizzare delle attenuazione o degli indebolimenti di concetti di base. Il calcolo, una volta istituito fa esattamente quello che deve fare; ma siamo noi a istituire i calcoli. Nella struttura dei calcoli possono essere previste regole particolarmente complesse e modi complessi di impiegare le regole, oppure addirittura modificazioni casuali delle condizioni [59]; all'autosimilarità in senso stretto e rigoroso, come è esemplificata dalla curva di Koch, è possibile sostituire una nozione più elastica di quasi-auto­simi­lari­tà, di autosimilarità statistica. Vi è un singolare cammino che conduce dalla ripetizione - che è certamente una delle sorgenti di strutture ordinate - all'elemento caotico, dalla regola all'assenza più o meno apparente di regole. Si compren­de anche che la questione qui sfiorata tende 197 a superare una problematica puramente morfologica. La terra di cui si parla è anche la terra in quanto sede di fenomeni naturali di ogni genere, di fenomeni metereologici, di tra­sfor­mazioni biologiche, fisiche e chimiche, ed è naturalmente la terra in quanto pianeta che partecipa ad una vicenda cosmica. Fin dall'inizio la geometria "frattale" avanza la pretesa di essere una "geometria della natura" - una dizione che prospetta un pensiero geometrico già tutto rivolto, fin dai suoi primi passi, al problema di possibili applicazioni. In realtà si potrebbe forse sostenere che questo riferimento alle applicazioni si presenti anche troppo a ridosso dell'ela­bo­ razione teorica, e che questa sia di conseguenza dominata, più che dalla preoccupazione della perfezione formale dei concetti, dalla loro utilizzabilità. Dobbiamo ammettere che anche dal nostro punto di vista, che si limita scientemente alla problematica mor­fologica, questo accento posto sulle forme naturali suscita qualche perplessità, nonostante l'interesse intrinseco dell'argomento. Tuttavia va pre­so atto del fatto che una sorta di speciale ritorno all'empirico, al naturale, al reale, o comunque più ampiamente ad una tematica non solo geometrica, ma fisica in un senso ampio del termine, è stato uno dei motori della nuova geometria "frattale". Questo richiamo assume a tratti anche l'anda­mento di una riflessione sulla stessa struttura della percezione e sulle modalità dinamiche delle costituzioni percettive dell'oggetto. Si presti nuovamente attenzione al modo in cui è stato posto il problema della costa e quindi anche al modo in cui è stato riproposta l'idea della lunghezza infinita. La concretizzazione di questa massima astrazione ripropone le differenze soggettive del punto di vista - più da vicino, più di lontano - che fanno parte dell'esperienza della realtà, ed è appena il caso di rilevare come questa circostanza sia significativa nel contesto dei problemi intorno ai quali si sono sviluppate prevalentemente le nostre discussioni. Il concetto puro non esita ad imbastardirsi riprenden- 198 do il contatto con l'esperienza, ricevendo di qui nuovi stimoli e nuove direzioni di sviluppo. Indicativo dello stesso problema è il modo in cui viene introdotta la nozione di dimensione frattale [60] . La considerazione che sta alla base di questa nozione è puramente matematica: è interessante tuttavia notare che nel momento in cui essa viene qui fatta valere ci si richiama alle relatività fenomenologiche del­ la cosa materiale, agli "adombramenti prospettici" di cui parlano i fenomenologi. La dimensione è forse qualcosa che appartiene all'oggetto come tale come un suo attributo specifico e caratterizzante? Consideriamo allora un gomitolo di lana Quale dimensione dobbiamo attribuirgli? Dovremmo dire che esso è un oggetto sferico tridimensionale? In effetti esso ci apparirà così solo se lo guardiamo ad una certa distanza. Invece, guardato a breve distanza e con una lente di ingrandimento non vedrò affatto il gomitolo di lana, ma vedrò il filo, ed eventualmente vedrò i fili di cui è composto il filo di lana: fili sottilissimi che mi sembreranno senza spessore. Perché mai di un filo così sottile dovrei dire che esso ha tre dimensioni? Eppure con una lente abbastanza potente questi fili sottilissimi mi potranno apparire come colonne. A cominciare da questa relativizzazione della nozione di dimensione e facendo notare la varietà delle situazioni che si possono presentare già a livello percettivo, l'idea di una possibile dimensione intermedia, ad esempio tra l'1 e il 2, può ricongiungersi con un'ela­bora­zione matematica già predisposta e che può avere un'origi­ne e una giustificazione interamente diversa. Il purismo matematico potrà anche alzare le spalle di fronte ad una mossa che sembra dovuta puramente agli interessi della divulgazione. Da parte nostra, diremo invece che gli interessi della divulgazione siano i benvenuti se suggeriscono una riflessione di ampio respiro che riguarda le tensioni tra concetti ed intuizioni, tra formazioni del pensiero puro e formazioni esperienziali. Queste tensioni talora si attenuano e si stabilizzano, 199 talora ridiventano effervescenti, e lo ridiventano in particolare nei grandi momenti innovativi, quando si intravvedono vie nuove e nuove possibilità di elaborazione teorica. Allora invece di chiare distinzioni potremo avere la sensazione di precipitare nel­l'ambiguità: da un lato, l'esempio del gomitolo di lana è rozzamente em­pirico, dall'altro esso si situa in una direzione che pro­­muove nuove vie del pensiero e nuovi modi di approccio teorico. Certamente possiamo sempre adagiarci in contrapposizioni elementari - in esse conviene persino cercare un sostegno quando è necessario riordinare le idee: ma con l'attenzione in ogni caso sempre rivolta ad apprezzare gli impulsi che provengono dal concreto del­l'esperienza e la grandezza e l'audacia della speculazione logico-concettuale. 200 Note [1] Nell'esposizione successiva ci affideremo spesso, per que­ sto aspetto, alla Storia universale dei numeri di G. Ifrah (Mon­dadori, Milano 1989) che rappresenterà per noi un prezioso sostegno in più di un'oc­casione. [2] Prossimo, ma non identico. Per Ifrah (ibid., pp. 18 sgg.) come per altri autori si tratta soprattutto di riconoscere una sorta di afferramento istintivo, che potrebbe trovarsi anche presso gli animali. La questione viene invece richiamata da parte nostra con riferimento al problema della perspicuità, che si ritrova esattamente negli stessi termini anche a livello simbolico-notazionale. [3] L'espressione è impiegata da Ifrah e ci sembra efficace. [4] G. Ifrah, op. cit., p. 28. [5] ibid., p. 25. [6] ibid., p. 25. [7] ibid., p. 72. [8] ibid., p. 30. [9] ibid., p. 32. [10] ibid. [11] ibid., p. 39. [12] ibid., p. 38. [13] ibid., p. 39. 201 [14] ibid., p. 40. [15] ibid. Si veda anche a p. 44 la citazione tratta da T. Dantzig, Il numero, linguaggio della scienza, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1965. [16] Ad esse peraltro si arresta l'esposizione di Ifrah, che procede poi per la propria strada affrontando in vari modi la problematica dei metodi di calcolo. Per gli scopi che l'autore si propone, quell'espo­sizione può essere considerata sufficiente. In rapporto ai nostri interessi teorici essa ha invece un carattere soltanto preliminare e dobbiamo introdurre ulteriori perfezionamenti e precisazioni. [17] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, prop. 5.2. Cfr. G. Piana, Interpretazione del "Tractatus" di Wittgenstein, Guerini, Milano 1993 (II ed.), pp. 97 sgg. [18] Cfr. la nozione di "serie formale" nel Tractatus di Wittgenstein, prop. 4.1252 e 5.22. [19] Questa idea viene elaborata secondo una particolare angolatura, ricca di interesse, nella seconda parte della Filosofia dell'aritmetica di E. Husserl. [20] G. Ifrah, op. cit., p. 41. [21] Si tratta di un tema husserliano che è stato spesso trascurato dalla letteratura fenomenologica (cfr. G. Piana, La notte dei lampi, Guerini, Milano 1988, pp. 165-66). [22] Ho tratto questo esempio da G. Buffa, Fra numeri e dita, Zanichelli, Bologna, 1986, p. 21. [23] Il segno "0" venne appunto introdotto nell'aritmetica indiana come segnaposto per una posizione non occupata. In luogo di una semplice spaziatura che generava equivoci nei calcoli, si cominciò ad usare un contrassegno per essa. 202 [24] G. W. Leibniz, Dell'organo o grande arte del pensare, in Scritti di logica, tr. it. di F. Barone, Zanichelli, Bologna 1968, p. 204: "Non sto a sottolineare gli immensi pregi che derivano dall'impiego di questa progressione; sarà sufficiente notare con che mirabile metodo si esprimono in tal modo tutti i numeri mediante l'Unità e il Niente" [25] Si tratta dell'inserimento della tematica filosofica del numero nel quadro del problema della terza forma del principio di ragione - quella che riguarda il fondamento d'essere (Seinsgrund) ovvero la ratio essendi. Benché Schopenhauer riprenda da Kant il richiamo alla problematica temporale, a ben vedere, questo richiamo viene indebolito, diventando la successione temporale un puro e semplice esempio efficace di ratio essendi che può essere citato accanto a quello del numero. Il fatto che un determinato istante presupponga necessariamente l'istante precedente e quello successivo rimanda ad un ordine necessario del tutto analogo a quello del numero: "Ogni numero presuppone i numeri precedenti come ragioni del suo essere: io posso giungere al numero dieci solo attraverso tutti i precedenti e solo grazie a questa conoscenza della ratio essendi so dove sono dieci, e dunque otto, sei, quattro". Cfr. A. Schopenhauer, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, tr. it. di A. Vigorelli, Guerini, Milano 1990, p. 117. [26] A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Adelphi, Milano 1983, II, p. 825. [27] Elementarmathematik vom höheren Standpunkte aus (I ed. 1908). I, Springer Verlag, Berlin, Vierte Auflage, Nachdruck 1968. La figura della Brunsviga è tratta da questo testo, p. 21. [28] Klein riprende da Thomae l'espressione Gedankenloser Denker, polemicamente rivolta al matematico formalista. [29] In rapporto a questa nozione di calcolo, non si può non rammentare, sia pure solo di sfuggita, il fondamentale lavoro di P. Lorenzen, Einführung in die operative Logik und Mathematik, Springer, Berlin 1969. 203 [30] L. Wittgenstein, Philosophische Grammatik, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1969, p. 367 (tr. it. di M. Trinchero, La Nuova Italia, Firenze 1990, p. 326). [31] Cfr. G. Piana, Interpretazione del "Tractatus" di Wittgenstein, cit. , p. 75 e p. 89. [32] L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, tr. it. di M. Rosso, Einaudi, Torino 1976, p. 89: "Si potrebbe dire: l'aritmetica è una specie di geometria; vale a dire, quello che in geometria sono le costruzioni sulla carta, sono in aritmetica i calcoli (sulla carta). - Si potrebbe dire che si tratta di una geometria più generale". [33] Cfr. K. Th. Volkert, Die Krise der Anschauung, Vandenhoeck e Ruprecht, Göttingen 1986, pp. 8 sgg. Si mette qui in evidenza che i numeri venivano considerati - anche sotto gli impulsi platonici - come entità puramente ideali mentre la geometria veniva considerata assai più compromessa con l'empiria e difficile da districare da essa. All'aritmetica viene tuttavia attribuita solo una priorità teorica, dal momento che la matematica greca resta orientata dalla geometria. Volkert rammenta anche l'opinione di Reidemeister (Das exakte Denken der Griechen, Darmstadt 1972, p. 15) secondo il quale questa situazione paradossale è il Kernproblem della matematica greca. [34] Ibid. p. 13. [35] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1969, Appendice Terza, pp. 380 sgg. [36] B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali - Forma, caso, dimensione. Einaudi, Torino 1987 (1 ed. 1975), p. 16. [37] Cfr. Proclo, Commento al I Libro degli Elementi di Euclide, a cura di M. Timpanaro Cardini, Giardini, Pisa 1971, pp. 147-148. [38] Nel proporre questa informazione A. Frajese e L. Mac- 204 cioni che hanno curato l'edizione italiana degli Elementi di Euclide, UTET, 1970 sottolineano che essa viene concessa "per curiosità filologica" e si aggiunge, chissà perché, "ad uso del lettore"(p. 69): quasi che volessero dire: noi beninteso "ce ne laviamo le mani" (atto purificatore per eccellenza). - Il sospetto che essi possano dare una qualche importanza alla cosa è così esorcizzato. [39] A. Frajese e L. Maccioni, ibid., p. 67. [40] ibid. [41] ibid. [42] Per la nozione di "insegnamento ostensivo" così interpretata cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, oss. 8-16. Benché Wittgenstein parli di un hinweisend definieren, tutta la discussione è una critica dell'in­terpretazione della definizione ostensiva come una pura e semplice ostensione indicativa del rapporto tra nome e oggetto. Il parlare di "insegnamento ostensivo", comprendente un insieme molto vario di pratiche, sembra dunque essere particolarmente appropriato. [43] In realtà dovrebbe essere giustificato anche il fatto che le due circonferenze si intersechino in un punto. Per un commento più dettagliato si vedano in ogni caso le note di Frajese e Maccioni in Euclide, Elementi, cit., pp. 77-78. [44] In tutta la nostra discussione non prendiamo in considerazioni quelle interpretazioni modernizzanti, del tutto equivoche ed improbabili, che fanno di Euclide un "anticipatore" del punto di vista delle proposizioni fondamentali come "mere assunzioni", e quindi che tendono a presentare Euclide come un convinto convenzionalista. [45] A. Frajese e L. Maccioni in Euclide, Elementi, cit., p. 72. [46] Questo è il grande tema assente nell'impostazione kantiana. Proprio per il fatto che la teoria di Kant ha fin dall'inizio di mira 205 la possibilità della conoscenza oggettiva, la sua estetica fallisce i compiti fenomenologici di una autentica filosofia dell'espe­rienza. [47] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, § 15. Nella sua Elementarmathematik, cit., p. 257-259 Klein conduce una discussione ricca di interesse sulla dimostrazione "diretta" del teorema di Pitagora che Schopenhauer propone nel paragrafo citato. [48] Ovviamente potremmo concepire la linea retta come una costruzione conforme a questo algoritmo assumendo 0° come deviazione angolare. [49] È appena ovvio notare che non abbiamo qui preoccupazioni di "buona forma", che richiederebbe una digresssione sugli L-systems non necessaria per i nostri scopi, ma piuttosto di chiara comprensione da parte del lettore. In ogni caso nel programma informatico compariranno, come parametri, l'assioma e la regola così formulata, e non le regole per "!" o per "R" che verranno scritte invece nel motore del programma stesso. Per questa ragione vengono trascurate nel nostro schema operazionale n. 6. [50] Questa distinzione è già proposta Schopenhauer nella Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, cit., p. 120 e poi ripresa nel Mondo come volontà e rappresentazione. [51] Si tratta di una conferenza poi pubblicata, insieme ad altre appartenenti allo stesso ciclo, in Krise und Neufbau in den exakten Wisseschaften. Fünf Wiener Vorträge, Leipzig-Wien 1933. Qui si fa riferimento a H. Hahn, The Crisis of Intuition, in The World of Mathematics, Simon and Schuster, New York 1956, vol. III, pp. 1956-1976. [52] Tr. it. a cura di G. Polizzi, La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 14 sgg. [53] Ibid. , p. 15. [54] H. Hahn, op. cit., p. 1959. 206 [55] ibid., p. 1962. [56] Come abbiamo già osservato, i linguaggi L-systems sono caratterizzati da una completa flessibilità per quanto riguarda le regole di cui sono di volta in volta costituiti. Si dovrà soltanto inserire all'interno del programma l'istruzione opportuna per i nuovi segni. Le regole per A e B sono naturalmente una nostra proposta ad hoc. [57] ibid., p. 1964. [58] ibid., p. 1976. [59] Cfr. B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali, cit., p. 46. [60] ibid., p. 8. Giovanni Piana Opere Complete Volume ventiseiesimo Frammenti epistemologici 2015 https://www.lulu.com/it 4 Copyright @ Giovanni Piana (2015) Edizione a stampa Lulu.com: 2015 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT 5 Indice Nota introduttiva | 9 | I Sullo spazio Pratiche della spazialità Lo spazio e le cose La figura e l'estensione Lo spazio e l'aperto Idealizzazioni Spazio geometrico e spazio del mondo Lobacevsky Ordo rerum Cose, relazioni, luoghi Geometria e analysis situs Spazio assoluto Generalizzazione | 10 | II Immaginare e raffigurare lo spazio | 46 | Una piramide nel deserto Immaginare e raffigurare lo spazio Il simbolismo degli aspetti 6 III Sui quattro bellissimi corpi Geometria e mito La maternità dello spazio Il grande animale Le quattro materie primigenie Schema dell'interpretazione platonica Il problema della triangolazione La riduzione al triangolo "platonico" La bellezza del triangolo platonico Il triangolo platonico e il triangolo equilatero Le trasformazioni reciproche Il cubo, ovvero la terra Fuoco aria acqua. Il pesante e il leggero Ragionamenti bastardi Il dodecaedro ovvero della totalità | 52 | IV Sul numero e su altri argomenti | 95 | Incommensurabilità e numeri irrazionali Convenzioni ed evidenze Ordine e concatenazione Simbolismi Logica e linguaggio corrente Numero e tempo Rigore Teoria e storia 7 V Intuizione e costruzione | 118 | Intuizione Costruzione Intuizione ed evidenza Intuitività dell'oggetto e comprensibilità della regola per la sua costruzione VI L'aritmetica prima dell'aritmetica | 132 | La fortuna e la sfortuna della Filosofia dell'aritmetica I compiti di una filosofia dell'aritmetica secondo Husserl. Il numero come concetto aperto Il luogo del problema Numero e molteplicità Rappresentazione diretta e rappresentazione simbolica del numero Problematica dei numeri immaginari Lo zero e l'uno Le operazioni pre-aritmetiche L'invenzione dell'aritmetica Il metodo logico dell'aritmetica Aritmetica e arte del calcolo Il problema della computabilità 8 VII L'aritmetica senza l'astrazione | 172 | Il grande pensiero di Frege Il numero si enuncia di un concetto Numeri e astrazione Equinumerosità e corrispondenza biunivoca Numero e relazione Definizione per astrazione? Il metodo definitorio di Frege non ha a che vedere con l'astrazione Una conferma tratta da Russell VIII Sull'idea di "Fisica ingenua" in Paolo Bozzi | 188 | IX È giusto parlare di "Intelligenza artificiale" | 195 | X Appendici Esempi di impiego di procedure realizzate con il programma Mathematica Avvertenza 1. Procedure formali per la successione dei numeri naturali 2. Procedure per realizzare un linguaggio L-systems 3. Procedure di calcolo per il "triangolo di Sarngadeva" 4. Procedure per la realizzazioni di "flussi sonori" | 203 | 9 Nota introduttiva In questo testo propongo annotazioni brevi su diversi argomenti trattati in altre mie pubblicazioni che rientrano nel campo delle problematiche epistemologiche. Si tratta di appunti preparatori, note prese in margine a letture antiche e recenti, talora senza un ordine organico, talaltra fornendo invece tracce di discorso relativamente organiche. Mi auguro che, oltre a completare l'orizzonte di idee esposte altrove, almeno alcune di esse possano stimolare il lettore ad approfondimenti ed estensioni che qui non sono state realizzate. I tempi della scrittura sono differenti, e del resto non sono importanti. Voglio solo segnalare che la sezione VIII, Sull'idea di Fisica ingenua in Paolo Bozzi, riprende letteralmente un intervento proposto durante un incontro dibattito con Stefano Jacomuzzi e Corrado Mangione, alla presenza di Paolo Bozzi in occasione della pubblicazione del suo libro intitolato Fisica ingenua, Garzanti, Milano, 1990. Pubblico questo intervento come omaggio all'amico fraterno, scomparso nel novembre del 2003. A Corrado Mangione, a cui debbo amicizia e dottrina, anch'egli scomparso nel 2009, dedico lo scritto della sezione IX, Sull'espressione "Intelligenza artificiale" : esso fu redatto in occasione di un dibattito sull'intelligenza artificiale trasmesso da Radiotre e diretto da Corrado Mangione che mi invitò a partecipare ad esso con cortese ed affettuosa insistenza. Due parole vanno dette poi sulle Appendici. Esse sono leggibili ed eventualmente utilizzabili e messe alla prova solo da chi conosce il programma informatico Mathematica della Wolfram Research. Ho voluto aggiungere queste appendici per documentare l'importanza che ha avuto quel programma in alcune mie ricerche ed anche, implicitamente, per sollecitare l'impiego dei nuovi mezzi messi a disposizione dal calcolatore anche sul terreno della riflessione filosofica; oltre che su quello della didattica della matematica, che ai tempi della mia gioventù era, a mio avviso, molto carente sotto più di un aspetto. Queste appendici sono proposte nel mio Archivio Internet anche in forma leggibile da quel programma. Roma, 23 maggio 2015 10 I Sullo spazio Pratiche della spazialità - Abbiamo una nozione quotidiana dello spazio? Intanto possiamo dire di avere una pratica della spazialità. Ciascuno di noi ha un "concetto" della spazialità, ovvero una concezione implicata nelle pratiche. Che cosa puoi dire tu a questo proposito? - Debbo ammettere che il parlare di una "nozione quotidiana", comunque essa possa essere intesa, mi mette in imbarazzo. È sicuro invece che usiamo parole attinenti allo spazio. Ecco un esercizio che in apparenza non ha nulla di filosofico: supponiamo che si debba realizzare il compito di sottolineare, in un elenco di parole - aggettivi, avverbi, verbi, come rosso, vuoto, noioso, abete, sinistra, desiderare, frettolosamente, vedere, profondo, camminare... - quelli che sono attinenti allo spazio, che lo implicano in qualche modo. Un simile esercizio potrebbe essere utile, per cominciare. - Vi sono determinazioni spaziali che forse possiamo indicare con il termine di direzione. A destra, a sinistra, avanti, dietro, sopra, sotto. La direzione richiede un punto da cui assume senso il parlare di essa, una sorta di centro delle direzioni. A destra, a sinistra… ma di dove? - Il qui e il là diventano designazioni di luoghi. Non lo sono fin dall'inizio. Sarei tentato di dire: in uno stadio infantile del nostro sviluppo vi è certamente una condizione nella quale la frase "io sono qui" non ha affatto il senso di "io sono in un luogo". Vi è una condizione nella quale c'è la nozione del qui ma non quella del luogo. 11 - Sopprimendo il centro delle direzioni si sopprime ogni direzione oppure si può porre come centro una sorta di sostituto formale di esso (come il punto zero negli assi cartesiani). Lo spazio ha un'origine. In assenza di un centro o di un riferimento centrale, vi può essere una determinazione puramente relazionale. In tal caso lo spazio non avrebbe un'origine. O meglio: un luogo qualunque di esso potrebbe essere preso come origine, e fungere dunque come centro di direzioni. - Tra "direzioni" in un senso che si riferisce esclusivamente alle pratiche della spazialità, e "dimensioni" nel senso in cui se ne parla in geometria vi è certamente una qualche relazione (ma anche una differenza). Le dimensioni sono tre poiché essenzialmente tre sono le direzioni (con le loro opposte). Avanti, a destra, sopra (dietro, a sinistra, sotto). Lo spazio è tridirezionale, e forse potrei dire addirittura tridimensionale. Di ciò sono assolutamente certo. In effetti non saprei in quale altra direzione andare… - Vi è una pratica dello spazio che è un'esperienza dell'andare, del camminare, del movimento. - La parola "vuoto" appartiene all'area di senso delle parole spaziali. Nel buio mi muovo a tentoni, con le mani protese in avanti per accertarmi che di fronte a me non ci sia nessuna cosa che impedisca il mio cammino, per il quale il vuoto di fronte a me è una condizione evidente. - "Vuoto" è una parola enigmatica se di essa tentiamo di farne fin dall'inizio un impiego oggettivo. Considera in che senso si può dire: il vuoto è condizione del movimento. Quando dico questo, facendo riferimento al mio movimento, so quello che dico. Se invece ci si chiede se esiste o non esista il vuoto, si avverte oscuramente che il riferimento è cambiato, che la parola stessa tende 12 ad avere un altro senso - che essa è entrata in un nuovo gioco linguistico. - Se nulla viene incontrato dalle mani protese allora di fronte c'è il vuoto, e questo fatto significa sempli­cemente che posso andare avanti. Le mani protese non intendono toccare qualcosa, ad esempio, per conoscerla nelle sue proprietà tattili, ma sperimentano se in quella direzione si incontra la cosa che ora ha solo il senso di barriera e ostacolo al cammino. Cosa e spazio stanno qui l'una contro l'altra come il pieno e il vuoto. - Lo spazio al buio. Lo spazio per chi non vede. L'esperienza dello spazio è qui legata alla differenza tra vuoto e pieno. Il momento spaziale si rivela ora come "vuoto di fronte", "vuoto a destra", "vuoto a sinistra", ecc. Nel buio ci sono in ogni caso le direzioni. - Eppure Aristotele riteneva che l'esistenza del vuoto avrebbe impedito il movimento. Ecco un buon esempio di che cosa può accadere quando una parola, che viene impiegata secondo le pratiche che noi abbiamo con la realtà, entra in una teoria. Essa viene "concettualizzata", ovvero entra in una rete di concetti, da cui ormai dipende il suo senso. La rete può essere talmente ampia da implicare un'intera concezione dell'Universo. Come spiega molto semplicemente Koyré: secondo Aristotele "il tutto, l'ordine cosmico, l'armonia sono concetti che richiedono che le cose nell'universo siano (o debbano essere) distribuite e disposte in un certo ordine determinato; che la loro posizione non sia una questione indifferente (né per esse né per l'Universo); che, al contrario, ogni cosa, secondo la sua natura, abbia una determinata "posizione" nell'Universo, che in certo senso è la sua" (Koyré, 1973, p. 147). Ora, è questa idea della "posizione naturale", che a sua volta rimanda ad un ordine cosmico, che determina la teoria del moto. "Infatti se tutto fosse 'in ordine', ogni cosa sarebbe nella 13 sua posizione naturale e ovviamente, rimarrebbe lì per sempre. Perché dovrebbe allontanarsene?" (ivi, 147). Se se ne allontana, deve esserne costretta da una qualche azione violenta, cessata la quale la cosa cercherà di ritornare al proprio posto - e questo è il moto "naturale". In questo contesto va situato l'idea del vuoto e del suo rapporto con il movimento. Quando il corpo, rimosso con la violenza dal suo posto naturale, tenderà a ritornare ad esso "per la via più corta e più rapida. Ne segue che ogni movimento naturale avviene in linea retta e che ogni corpo si muove verso la sua posizione naturale il più velocemente possibile; cioè quanto più velocemente glielo permette tutto ciò che lo circonda e che resiste e si oppone al suo movimento. Se quindi non vi fosse nulla ad arrestarlo, se il mezzo circostante non opponesse nessuna resistenza al moto del corpo (come avverrebbe nel caso del vuoto) esso si muoverebbe verso la sua posizione con velocità infinita. Ma tale movimento sarebbe istantaneo, cosa che ad Aristotele sembra - e a buona ragione - assolutamente impossibile. La conclusione è ovvia: nessun movimento naturale può aver luogo nel vuoto" (ivi, p. 151). Eccoci all'interno di una teoria. Non camminiamo più a tentoni nella nostra stanza, ma stiamo riflettendo sul concetto "movimento". In questa riflessione è implicata un'idea fortemente statica dell'ordine e dell'armonia dell'Universo e seguendo coerentemente questa idea arriviamo a sostenere l'impossibilità del movimento nel vuoto. - In realtà la costituzione dello spazio non è originariamente legata agli organi più elementari della conoscenza della realtà, come la vista o il tatto. Un'esperienza della spazia­lità è ancora possibile se prescindiamo dal "percepire" (vedere, toccare, udire…). Essa è anzitutto legata al movimento: anzitutto alla mia possibilità di movimento, all'esser qui ed al poter essere là; all'andare, al percorrere. Quale potrebbe essere l'immagine dello spazio di una statua viva che nemmeno possa sognare la possibilità del movimento? 14 - Abbiamo detto che protendo le mani, a occhi chiusi, per accertare la possibilità del cammino. La cosa è ora la "pienezza" che si oppone ad esso. Secondo un'altra inclinazione di senso, pienezza è anche il terreno tastato dai nostri piedi. - Il terreno ha tuttavia i suoi pericoli. Percorriamo un cammino ad occhi chiusi e tastiamo il terreno di fronte a noi con un bastone. Il terreno può essere sentito come malsicuro, un vuoto potrebbe esserci in esso. Ora il vuoto ha un altro senso. È tutto meno che la possibilità di un cammino. È baratro e precipizio. Possibilità di una cadu­ta. Forza di gravità. Noi ci muoviamo nello spazio con tutto il nostro peso. - La possibilità della caduta "è fondamentale per la comprensione dell'intera vita umana; ed infatti lo schema spaziale vale al tempo stesso in senso trasposto per l'intera situazione dell'uomo" (Bollnow, 1980, p. 48). Lo spazio e le cose - Se ci si chiede in che cosa consista il momento spaziale di una cosa subito il pensiero corre alla sua superficie, e dunque ai suoi contorni. La cosa è la cosa materiale che ha forma, grandezza (volume), attributi specificamente materiali, determinazioni qualitative di vario genere (colore, sapore, ecc.). La cosa la si può vedere, toccare, modificare, manipolare, e qualche volta persino mangiare. - La cosa può occupare un luogo, ma il luogo è qualcosa di assai diverso dalla cosa. Esso ha bisogno di essere determinato. Ad esempio, in un gioco contrassegniamo un luogo facendo un cerchio sul terreno. Quel cerchio è un contrassegno del luogo, ma anche fa sorgere il luogo. Prima il luogo non c'era. Eppure i luoghi sono da sempre nello spazio. Ma in che modo? 15 - Immagina che non vi siano cose: in che modo potrebbe esservi percezione dello spazio? La spazialità è afferrata attraverso le cose, la percezione delle cose funge da sostegno alla percezione dello spazio. Ciò è importante anche per la rappresentazione (raffigurazione) della spazialità. Lo spazio non può essere raffigurato senza le cose. Lo spazio è una non-cosa, come l'acqua o l'aria (gli elementi in cui nuotano le cose). Ma sono le cose che prospettano lo spazio. - Non è un caso che in Euclide non vi sia alcun tentativo di definire o caratterizzare lo spazio e che le prima definizione la si incontri solo in Leibniz. "…vale la pena di ricordare che nella Analysis situs per la prima volta troviamo definizioni e teoremi il cui oggetto è lo spazio in generale. Ora, questa è una innovazione davvero notevole, perché nessuna definizione dello spazio può essere trovata nel lavoro di Euclide o, in linea generale, in ogni trattato geometrico prima dei tempi moderni" (De Risi, 2007, p. 129). - La geometria non si presenta senz'altro come scienza dello spazio, ma anzitutto come scienza delle forme, cioè di linee che si chiudono realizzando in questo modo delle "figure" che hanno determinate relazioni interne. Il pensiero dello spazio non è affatto in primo piano, ma esso resta solo sullo sfondo, sostanzialmente non tematizzato. Di conseguenza la forma non appare da subito come un "ritaglio" dello spazio, come forse poteva essere suggerito dalla riflessione platonica nel Timeo, non ha il carattere di parte rispetto ad una totalità pensabile come infinita, ma è invece considerata in se stessa come determinata dalla linea che la pone in essere, dunque soprattutto come "perimetro" e superficie in esso racchiusa. Ma questo è un tratto che si richiama all'esperienza della forma nella quale lo spazio si costituisce sulla base dei corpi che hanno in esso un luogo. Il corpo nella sua fisicità, la cosa tangibile e percepibile è il protagonista che sta sul 16 proscenio mentre lo spazio è anzitutto scenario e fondale. - La forma-figura si impone da subito nell'esperienza pratico-percettiva della realtà in stretta inerenza alla corporeità fisica delle cose. Naturalmente in questo inizio si innestano le "ideazioni" ovvero le procedure astraenti del pensiero che sono anzitutto procedure isolanti. Non solo il corpo viene isolato dallo spazio, ma la forma del corpo dal corpo stesso, così da proporre la forma come un'oggettività esistente in se stessa, che può essere indagata e conosciuta come tale e di cui possiamo enunciare proprietà e relazioni notevoli. - Quando parlo di un quadrato e lo disegno, mi occupo esattamente di esso e non dello spazio intorno. In rapporto ad Euclide non possiamo ancora veramente dire che il tema della geometria sia lo spazio, ma piuttosto la forma intesa come figura. - Forse è possibile considerare le forme in se stesse, indipendentemente dal riferimento allo spazio? Non si fa forse così nell'insegnamento elementare della geometria? Non mi è chiaro se debbo caratterizzare la geometria come scienza della forma-figura o scienza dello spazio. Non mi è chiaro come l'una nozione sia connessa con l'altra. - Se nella geometria si cominciasse dalle coordinate cartesiane sarebbe subito chiaro che la geometria si occupa dello spazio? Forse sì. Perché l'origine degli assi è concepito come centro di tutto lo spazio. Ma in realtà proprio a questo punto l'essenziale del geometrico-spaziale tende a dissolversi in una struttura relazionale-funzionale. La figura e l'estensione - La forma è da un lato connessa alla cosa, dall'altra all'elemento 17 spaziale. Ma che cosa significa elemento spaziale? "Questa cosa ha una forma cilindrica". La forma richiama la nozione della cosa, rammenta i suoi contorni. Ma non senz'altro l'"estensione": in sé l'espressione res extensa è alquanto misteriosa. Forse intende significare che la cosa partecipa dell'estensione. Ed allora è l'estensione che diventa misteriosa. - Un triangolo disegnato su una sfera lo chiameresti ancora triangolo? Potremmo rispondere "si!" - oppure: "assolutamente no!". - Supponi, dopo aver insegnato elementi di geometria piana, di invitare gli allievi a disegnare un triangolo - ma sui loro banchi è stata fatta deporre una semisfera. Alcuni diranno: su una superficie sferica non è possibile disegnare nessun triangolo. Ed altri invece: una figura triangolare disegnata su una sfera la potremmo ancora chiamare triangolo. Ad esempio triangolo sferico o qualcosa di simile. - Possiamo usare uno stesso nome in giochi linguistici differenti, ma dobbiamo essere consapevoli che la differenza del gioco, ne cambia il senso. Nello stesso tempo rientra nel novero delle possibilità interessanti il fatto che si possano stabilire nessi tra giochi linguistici differenti proprio per il fatto che si è deciso di usare lo stesso nome. - La spazialità è stata talvolta indicata dai filosofi come intrinsecamente statica, come un vero e proprio simbolo della staticità, in virtù di un'astratta contrapposizione tra tempo e spazio. Ed invece le cose stanno ben diversamente: la forma, non appena la guardi, subito si muove, oppure ti tenta a muoverla. Essa è-così in un poter-essere-altrimenti che stimola alla variazione ed alla trasformazione. Essa è quella che è, ma nello stesso tempo possiamo dire che è nel modo in cui viene generata. - Suddividere uno spazio. Tracciare delle linee. Debbo realiz- 18 zare una piantina per un alloggio. Ho suddiviso lo spazio, ho dato ad esso una articolazione. Ogni parte dello spazio ha ora una determinata forma. Posso dire che una forma è ritagliata nello spazio? - Pensando al concetto concreto di luogo, sarebbe giusto dire non tanto che i luoghi sono punti dello spazio, quanto che i luoghi punteggiano lo spazio. Tra l'uno e l'altro luogo ci sono dei tragitti. Pensa ad una carta geografica, ed alle strade che sono segnate in essa e che conducono da una città ad un'altra, da un luogo ad un altro luogo. Concepito in questo modo lo spazio è qualcosa di simile ad una rete. - Nell'espressione res extensa vi è una ambiguità di principio. Da un lato essa guarda alla cosa, e dunque al corpo e al luogo, dall'altro alla forma come ritaglio dell'estensione. - Si potrebbe forse definire lo spazio-estensione, in quanto spazio suddiviso, come una ragnatela di linee. - Una simile definizione la illustrerei così: da una fotografia, eliminiamo le differenze chiaroscurali che forniscono indicazioni sulla tridimensionalità e stabiliscono così le distinzioni percettive tra le cose: Otterremo allora una figura come questa: una ragnatela di linee. 19 Assume qui un ruolo fondamentale il punto di vista dell'intero e della parte. Lo spazio è l'intero che appare ora variamente articolato in parti. Non ci sono nemmeno propriamente dei luoghi. In questo modo si mostra anche come la nozione di forma si trovi all'interno della nozione di spazialità. - Alla forma posso arrivare per così dire dall'alto, a partire dallo spazio-estensione, dalla sua partizione e articolazione interna, e non necessariamente a partire dalla cosa e dai suoi contorni. E nemmeno dunque dal luogo. - Dal disegno sono scomparsi non solo i contorni delle cose, ma anche il "vuoto" tra una cosa e l'altra. Prima guardi la fotografia e poi il disegno. Nel disegno non sai più distinguere quale era il pieno e quale il vuoto. Forse potremmo dire che nella geometria il vuoto non c'è (e nemmeno il pieno). Lo spazio e l'aperto - All'area dei significati della spazialità appartiene indubbiamente l'opposizione dentro-fuori. Dentro si dice in particolare in rapporto alle cose: dentro un cassetto o un armadio. Una cosa può stare dentro l'altra. Non per questo posso dire che quest'altra è 20 fuori di essa. Ad esempio una penna sta nel cas­setto, ma non ha affatto senso dire che il cassetto è fuori dalla penna. - Il luogo deve essere determinato. In questo senso è chiuso e inoltre può essere circondato da alte pareti. Esse mi impedisco­no di andare oltre. Di qui posso uscire soltanto se vi è una apertura. - Il movimento non è solo spostamento da luogo a luogo. Altrimenti non vi sarebbe l'entrare e l'uscire. Queste non sono espressioni puramente relative, come se si trattasse di passare da un luogo all'altro. Esco da una stanza ed entro in un'altra. Sulla soglia mi fermo e mi chiedo: sto uscendo o sto entrando? Mi muovo in interni. Ma infine tutto poggia su una contrapposizione assoluta. Non si entra all'aperto. Non posso assimilare l'aperto ad una grande scatola. La più grande di tutte. Lo spazio è "spazio a cielo aperto". La relazione tra lo spazio e il cielo, in Aristotele, ha anche questo senso. Lo spazio è l'aperto. - Nell'elaborazione immaginativa dello spazio si trova il labi­ rinto. Il labirinto è una riflessione sull'essere‑dentro resa più complessa e ricca di senso dalla confusione tra i tragitti. Nel labirinto accade qualcosa di simile ad un'esperienza dello spazio ad occhi chiusi. - Si può comprendere che lo spazio non articolato e non suddiviso, lo spazio privo di centro, possa essere considerato come l'opposto dell'ordine, come caos. In esso non ci sono direzioni. Non è possibile alcun orientamento. Ideazioni - "Ma perché mai di due rette parallele si dice, come possibile definizione, che esse sono convergenti all'infinito, ovvero che esse si incontrano in un punto disposto all'infinito? Questo mi è 21 stato insegnato a scuola, ma senza troppe spiegazioni". - "Ora te lo spiego: andiamo insieme su un binario ferroviario, ci mettiamo tra le due rotaie e come vedi esse appaiono convergenti, per un noto effetto prospettico. Di qui…" - Avverto laggiù, nel fondo della sala, un sorriso di compatimento per il filosofo che si arrangia come può di fronte ad un pensiero astratto che lo mette a disagio. Ed invece sei proprio tu, là in fondo, che dovresti sentirti a disagio, perché ignori che l'origine da cui sorge quella dizione definitoria è proprio questa: "In una lettera a Desargues, Cartesio approvò l'idea di considerare un fascio di rette parallele come un caso particolare di un sistema di rette concorrenti in un unico punto. Se le rette sono parallele non c'è dubbio che è loro attribuibile una proprietà comune, che potrebbe definirsi senza ambiguità come la loro 'direzione'. Ma questa 'direzione' può anche chiamarsi 'punto all'infinito' per chi contempli la fuga prospettica delle rette parallele che si allontanano indefinitamente in uno sfondo immaginario o reale. L'idea di chiamare con il nome di punto una direzione venne a Desargues proprio dalle ricerche sulla prospettiva: il raggio visuale che segue la comune direzione delle rette tende a fissarsi in un punto limite 'all'infinito' che appare l'ideale punto di incontro delle linee rette" (Zellini, p. 147) - Il rimando alla storia reale, ma anche ad una "storia possibile" dei concetti, così come i richiami ad esperienze concrete che possono essere correlate ad essi servono talvolta a comprendere il concetto più a fondo. Ma vi è anche chi del non comprendere se ne fa un vanto. - Parlo di "storia possibile" perché talora non possiamo contare su documenti effettivi, in cui si dimostra che le cose sono andate proprio così, ma riflettendo sul concetto possiamo immaginare il 22 cammino che è stato percorso per pervenire ad esso. - Nel cerchio euclideo sopravvive il compasso, beninteso un compasso implicito ed oltretutto, come i cerchi che esso "può" tracciare, un "compasso ideale": eppure qualche volta questo compasso sembra, in una sorta di platonismo a rovescio, essere una copia impallidita di un compasso reale, con le sue punte acuminate, nelle mani del geometra pratico. - Nei processi di idealizzazione, tutto assume una particolare mobilità. Ben poche cose si possono considerare già decise. Non è deciso nemmeno esattamente da dove questi processi prendano le mosse. Puntando su leve diverse essi potrebbero procedere secondo vie diverse. Da un lato essi sono processi di allontanamento dal mondo di esperienza - e non c'è scritto da nessuna parte quanto lontano ci possiamo spingere, con quali mezzi, in che modo e con quali risultati. Dall'altro, non è scritto da nessuna parte che nel viaggio avventuroso che stiamo per affrontare non possiamo portare con noi i nostri ricordi, e che non convenga ogni tanto a questo mondo fare ritorno. L'unica cosa certa è forse la tortuosità del cammino. - Proprio perché prende le mosse da forme colte percettivamente o concretamente realizzate, la geometria resta esposta ad un possibile equivoco attinente alla natura dei suoi oggetti - come se essi fossero esattamente quelli che possono stare alla nostra presenza. L'esigenza di contrastare questo equivoco fa indubbiamente parte delle motivazioni più profonde della teoria platonica delle idee. Essa non trae tanto ispirazione dalla idealità delle forme geometriche, come se questa idealità fosse un'ovvietà già ampiamente riconosciuta, ma al contrario se ne fa sostenitrice nel quadro di una teoria generale di ogni possibile conoscenza obbiettiva. 23 Spazio geometrico e spazio del mondo - In via di principio lo spazio di cui si parla nella geometria deve essere tenuto ben distinto dallo spazio del mondo. Come sia fatto lo spazio del mondo (che non è da confondere con lo spazio circostante) è un problema fisico, e non geometrico anche se ovviamente su questo problema la fisica si appoggerà ampiamente sulla geometria. La distinzione è a portata di mano, e lo scivolamento inavvertito dall'uno all'altro, anche. E questo scivolamento non può fare altro che confondere le idee. - La differenza tra un punto di vista geometrico-matematico e un punto di vista fisico non sta nella quantità di teoria che sta nell'uno e nell'altro ma nel fatto che nel primo caso ci possiamo allontanare a piacere dal reale, nel secondo dobbiamo tentare di approssimarci ad esso - rendere la distanza sempre più piccola. Ma che cosa significa questa approssimazione se non il fatto che la teoria dello spazio fisico deve consentirci applicazioni tecnologiche sempre più ampie, efficienti e precise? - La geometria non si occupa dello spazio del mondo. La geometria elabora il pensiero dello spazio. - Se siamo in presenza essenzialmente di una costruzione del pensiero, e non ad una presentazione delle strutture metafisico-ontologiche o trascendentali del reale, allora solo il pensiero stesso potrà mettere limiti oppure toglierli, ed in questo senso potrà anche avvalersi dell'atto creativo del far valere questo postulato o quest'altro. Ma deve comunque avere sempre delle buone ragioni. Lobacevsky - In rapporto alle geometrie non euclidee, vi è la tendenza, non 24 solo nelle esposizioni divulgative, a falsare la vera storia di questa straordinaria vicenda intellettuale, o almeno a tacere aspetti importanti di questa storia. Ad esempio, nel caso di Lobacevsky viene normalmente taciuto il fatto che alla base della sua concezione vi è una concezione antiplatonistica ed empiristica della geometria. Questo aspetto viene invece chiaramente sottolineato da L. Lombardo Radice nel suo saggio introduttivo alla traduzione italiana dei Nuovi principi della geometria (Lobacevsky, 1965). - Si può dire intanto, in linea generale, che la scoperta delle geometrie non euclidee mette in questione il rapporto tra spazio geometrico e spazio del mondo, rappresentando una sorta di conferma del fatto che proprio il modo in cui ora si propone questo rapporto non consente di mettere un accento troppo forte sull'apriorità della geometria. Questa conferma induce semmai ad accentuare l'elemento empirico, a cominciare da Gauss fino a Riemann. - Così scrive in proposito Donald Gillies: "È certamente ovvio che la scoperta della geometria non euclidea ebbe profonde conseguenze filosofiche. Prima di questa scoperta si pensava che la geometria euclidea fosse la sola possibile geometria, ed a fortiori la vera geometria dello spazio. Tutti i suoi teoremi avrebbero potuto essere dedotti fa pochi assiomi generalmente ritenuti essere autoevidenti. Cosicché la geometria euclidea poteva apparire come una conoscenza del mondo acquisibile a priori e la visione di Kant di essa come sintetica a priori doveva sembrare particolarmente ragionevole. Tuttavia non appena si riconobbe che era possibile un'alternativa non euclidea, si presentava da sé la questione se, dopo tutto, la geometria dello spazio non avrebbe potuto essere non euclidea piuttosto che euclidea. Si trattava di una questione a cui si poteva manifestamente rispondere solo attraverso l'osservazione e la misurazione, facendo fornendo così alla geometria delle fondamenta empiriche piuttosto che a priori. 25 Così in una lettera a Olbert, Gauss osservava che la geometria non avrebbe dovuto essere posta nella stessa classe dell'aritmetica 'che è puramente a priori, ma piuttosto con la meccanica'" (Gillies, 1999 p. 174). Nell'ambito del problema di una concezione empiristica della geometria Gillies fa riferimenti significativi, oltre che a Riemann, anche a Helmholtz e a Erdmann. - In ogni caso fin dalle prime pagine del volume di Lobacevsky risulta quanto sia fuorviante un modo comune di ambientare dal punto di vista epistemologico la problematica delle geometrie non-euclidee. Si tende infatti a presentare questa problematica come essa fosse una sorta di puro e semplice trionfo del pensiero astratto, del pensiero puro, in generale del pensiero logicamente purificato di fronte alle seduzioni di un pensiero inquinato da elementi empirici, psicologici, intuitivi. "Crisi dell'intuizione" e geometrie non-euclidee sembrano a molti essere titoli che stanno l'uno dentro l'altro. Allora è il caso di riflettere sul modo in cui Lobacevsky vincola i concetti geometrici elementari all'esperienza sensibile. - Il punto che dovrebbe essere subito sottolineato nel caso di Lobacevsky è probabilmente il fatto, che proprio alla presenza di una svolta cruciale nei modelli del pensiero geometrico, si senta il bisogno di una "nuova fondazione" dei concetti primi della geometria stessa. E non appena ci addentriamo anche di poco nel testo ci rendiamo conto, non senza una qualche meraviglia, se siamo abituati alle esposizioni scolastiche, che questa nuova fondazione viene ricercata in un vero e proprio ritorno all'esperienza. - In questo ritorno non si cerca di dare da subito un ordine formale all'esposizione, di formulare con qualche precisione definizioni, per non dire di dare forma assiomatica all'esposizione. In certo modo potremmo azzardarci ad affermare che, per andare oltre Euclide, Lobacevsky fa in certo senso, dal punto di 26 vista metodico, un passo indietro rispetto ad Euclide. Ad es. egli non enuncia definizioni concettuali, come Euclide aveva pur tentato di fare. Il passo avanti di Lobacevsky è condizionato da un "regresso" rispetto al livello assiomatico in cui Euclide è già attestato. Lobacevsky non è per nulla preoccupato da una esposizione assiomatica, né si sente impacciato da problemi definitori. Ciò che egli vuol fare è un'introduzione dei "primi concetti della geometria" richiamandosi all'esperienza dello spazio, anzi - dobbiamo dire più precisamente - all'esperienza della cosa materiale ovvero di ciò che egli chiama propriamente "corpo della natura", che tuttavia non è da subito la cosa "fisicalizzata", cioè già all'interno di una teoria fisica matura, ma la cosa direttamente presente alla percezione comune. - E non sono le forme-figure (i contorni) che egli prende anzitutto in considerazione, ma i corpi stessi e la loro possibilità da un lato di entrare in contatto tra loro, dall'altro di poter essere suddivisi. "Il contatto costituisce l'attributo caratteristico dei corpi - egli dice - ; ad esso i corpi debbono il nome di corpi geometrici, non appena noi teniamo fissa l'attenzione su questa loro proprietà, e non consideriamo invece tutte le altre proprietà, siano essenziali o accidentali" (ivi, p. 73) (Pensa a ciò che avrebbe detto Frege di una simile teoria dell'astrazione). - Le cose possono entrare in contatto tra loro, si possono toccare, il lato di una cosa può aderire al lato di un'altra. Ma per quanto io possa usare dei sinonimi o delle perifrasi, il senso in cui deve essere intesa questa parola di "contatto" io debbo già conoscerlo. E in che modo posso conoscere questo senso se non nel rapporto diretto che ho con le cose e con l'esperienza delle cose? Alla domanda intorno al senso in cui deve essere intesa questa parola in effetti si risponde che la nozione di contatto "la abbiamo ricevuto dalla natura attraverso i sensi, non deriva da altri concetti, e non soggiace perciò a ulteriori spiegazioni" 27 (ivi). Ciò è quanto dire: come sappiamo che una cosa è una cosa materiale, così sappiamo anche che cosa significa contatto tra le cose materiali. - Contatto, diremmo noi, significa ciò che questa parola significa di solito. Io, Lobacevsky che sono un raffinato geometra e matematico, e che sono fra i primi a proporre una geometria non-euclidea, uso la parola contatto esattamente nel modo in cui la useresti tu, che sei un uomo qualunque, incolto nella mia scienza. - Lo stesso vale per la nozione di sezione - ovvero per il tema della suddivisione di un corpo. Secare in latino significa tagliare, e Lobacevsky non si vergogna per nulla di intendere il taglio in modo assai concreto. "Ogni corpo viene scomposto da una qualsivoglia sezione S in due parti A e B. Intendiamo qui con la parola sezione non già un qualche nuovo attributo del corpo, ma ancora una volta il contatto in quanto esprimiamo in questo caso la scomposizione del corpo in due parti che si toccano" (p. 73). - La nozione di sezione è dunque un contraltare di quella di contatto. La figura seguente le illustra entrambe: Questa figura può essere vista come due parallelepipedi in contatto attraverso una faccia oppure come un intero suddiviso in due parti. 28 - Corpo, contatto, sezione. Poi tutto il resto verrà. Ma intanto cominciamo intravedere un altro modo di pensare lo spazio. L'introduzione di questo concetto ci può apparire inizialmente enigmatica: "In questo modo noi possiamo concepire tutti i corpi nella natura come parti di un unico corpo globale che noi chiamiamo spazio" (ivi). Eppure cominciamo già afferrare che seguendo questa via si potranno riproporre i concetti costitutivi dello spazio e cominciamo a scorgere un altro modo di idearli. - Val la pena di leggere come si esprime Lobacevsky per introdurre il concetto di superficie: "Se due corpi A e B si toccano superficialmente in quanto si trovano dai due lati della sezione S, essi riceveranno d'ora innanzi il nome di superficie S, non appena è permesso aggiungere o togliere ad A ogni parte a che non tocchi B e a B ogni parte b che non tocchi A. Il distacco di parti a e b di questo tipo deve avvenire con l'ausilio di sezioni S' e S'' consecutive rispetto ad S, e può essere proseguito finché in entrambi i corpi si arrivi alla sottigliezza di un foglio di carta, o fino al punto in cui l'immaginazione è ancora in grado di seguire la suddivisione. Usualmente ci si rappresenta le superfici in questa forma, e cioè proprio per mezzo dell'estremo assottigliamento di due corpi, rimuovendo dalla nostra attenzione quelle parti in essi che non è necessario prendere in considerazione" (p. 83). - Questo linguaggio molto concreto si ripresenta anche nel caso della linea laddove si parla di "sottigliezza di un capello"; oppure per il punto che viene assimilato ad un granello di sabbia o ad una punta aguzza. E va forse notato anche che nel passaggio alla superficie, come alla linea ed al punto non sembra esservi nessuna ideazione che presupponga un passaggio infinitario, nessuna idea-limite. - Nel modo in cui Lobacevsky illustra la sua definizione dello spazio, rimango colpito dal fatto che riesca a riunire in una sin- 29 tesi la concezione platonica con quella aristotelica, almeno nel senso in cui io le ho intese. Aristotele: "Sarebbe del tutto inesatto affermare che Aristotele non ci offre una teoria dello spazio, ma una teoria del luogo: è certo invece che ciò che viene proposto è una teoria dello spazio attraverso una teoria del luogo. Ma di questa circostanza occorre afferrare le ragioni nelle loro implicazioni più profonde. Il pro­blema dello spazio si presenta fin dall'inizio come insepara­bile da quello della materia, cosicché l'una teoria deve svilup­parsi dentro l'altra: una teoria dello spazio dentro una teoria della materia. E a sua volta questa connessione viene considerata alla luce di una nozione di realtà che ha il suo primo modello nella concre­tezza della cosa materiale, del corpo che c'è nella sua indivi­dualità e determinatezza. Di conseguenza la nozione fonda­mentale di una teoria dello spazio diventa proprio quella di luogo" (Piana, 1988, ed. Lulu, p. 122). Platone: "L'essenziale viene colto non già osservando la cosa, ma badando alle condizioni della sua concezione, a quei caratteri che, in base ad esse, sono possibili o impossibili. Per esempio, non può esserci corpo senza tridimensionalità. E nemmeno tridimen­sionalità sen­za il piano. Il piano poi lo puoi in ogni caso suddividere in superfici di forma triangolare. In proposizioni come queste si manifesta il passaggio a una vera e propria nuova modalità del pensiero che distoglie lo sguardo dalla precarietà del dettaglio, per badare invece alle regole interne che sono costitutive della forma come tale. La corporeità da cui si prende l'avvio sembra alla fine interamente trascesa, e proprio in direzione della sua risoluzione in una spazialità che certo non potrà più essere descritta come un informe impasto materico. Le prime materie ci appaiono ora, nella varietà dei loro modi di apparire, come manifestazioni di un'es­senza cristallina: in esse e al di là di esse noi intravediamo i profili dei 'quattro bellissimi corpi', le meravigliose consonanze dei solidi regolari alla cui costru­zione il 30 triangolo fa da fondamento. Lo stupore della forma sopra­van­za così il mito della materia" (ivi, p. 129). - Il tema della forma, concepito in questo modo, punta in direzione di una concettualizzazione dello spazio profondamente differente da quella aristotelica, e precisamente prospetta l'idea di uno spazio che pone le forme non più relativamente a corpi e dunque a luoghi, ma come risultati della sua suddivisione (cfr. ivi, p. 166). - In fin dei conti, in Aristotele abbiamo un'idea di spazio che potremmo caratterizzare come spazio-materia oppure, forse meglio, come spazio-luogo rammentando il rapporto tra corpo e luogo, in Platone un'idea di spazio che potremmo caratterizzare come spazio-estensione. Nel primo caso le nozioni "originarie" sono quelle di corpo e luogo, nel secondo quella di forma intesa come parte di un intero che può essere suddiviso. - Ora Lobacevsky prende indubbiamente le mosse dal corpo, ed anzi questa nozione entra nella definizione che egli propone dello spazio, che è assai inusuale e apparentemente molto lontana dell'esperienza quotidiana della spazialità. Nello stesso tempo in essa si fa avanti l'idea di una totalità suddivisa perché i corpi sono detti senz'altro parti dello spazio. Il riferimento al corpo ci fa sospettare un punto di partenza aristotelico, mentre il tema della suddivisione ad una direzione platonica. In realtà, a mio avviso, Lobacevsky mostra come le due vie possano confluire l'una nell'altra. E lo fa attraverso la nozione di contatto e quella di sezione. - In due parole: vi è una tipologia del contatto che è rappresentata da corpi che si trovano l'uno dentro l'altro. Lo stesso Lobacevsky propone la seguente immagine illustrativa da intendere come rappresentantativa di un corpo sferico dentro un altro corpo sferico: 31 B A Created using UNREGISTERED Top Draw 12/24/95 6:09:00 PM Qui si ripresenta il rapporto tra contenente e contenuto così importante per la concezione aristotelica dello spazio. Ma il corpo B viene chiamato da Lobacevsky spazio circostante di A. B potrà a sua volta essere contenuto in un corpo C che sarà il suo spazio circostante, e così C in una iterazione illimitata. Vi sono poi altre due possibilità interessanti: B può contrarsi fino a "coincidere" con A, senza identificarsi concettualmente con esso: in tal caso esso verrà chiamato "luogo" di A. Inversamente può espandersi indefinitamente a partire da A, ed in tal caso saremo in presenza dello spazio, concepito appunto come "corpo globale di cui tutti i corpi sono parti". - È difficile non intravedere qui il farsi avanti dell'idea dello spazio-estensione. Questa direzione è accentuata dall'altra possibile tipologia del contatto che è rappresentata dal contatto di due corpi attraverso uno dei loro lati, secondo l'introduzione proposta da Lobacevsky del concetto di superficie e illustrata, come abbiamo mostrato in precedenza, dalla figura dall'accostamento di due parallelepipedi che può anche essere intesa come illustrazione di un intero che può essere suddiviso in parti. - A me sembra che, anche solo sulla base di queste poche indicazioni, si possa giustificare l'affermazione che nell'espo­sizione di Lobacevsky il tema del corpo scivoli coerentemente in quella del solido, nel senso geometrico del termine, e che dunque si possa cogliere in essa un modo singolare di far confluire l'uno 32 nell'altro l'itinerario aristotelico con quello platonico. Ordo rerum -"Lo spazio è un ordine delle coesistenze" (Leibniz, 1963, p. 400). O ancora più semplicemente: ordo rerum. "… tempus non est nisi ordo rerum, non aliquid absolutum. Atque idem de spatio censeo" (Leibniz, 1875, vol. II, p. 510 - Lettera a Des Bosses). - Così Leibniz: e con ciò si annuncia un modo interamente nuovo di approccio al tema dello spazio. Egli spiega poi più ampiamente: "Lo spazio contrassegna in termini di possibilità l'ordine di quelle cose che esistono nello stesso tempo, in quanto esse esistono insieme, senza entrare nei loro modi di esistere particolari" (1963, p. 400) . - Nella definizione seguente: "Extensio mihi nihil aliud esse videtur, quam continuus ordo coexistendi, ut tempus continuus ordo existendi successive" si aggiunge un importante riferimento alla continuità (Leibniz, 1875, vol. II, p. 221 - Lettera a de Volder). - Potremmo forse dire che la caratterizzazione di Leibniz è una sorta di esplicitazione, o meglio, di interpretazione dell'essere in un luogo, quindi dello spazio come insieme di luoghi, ma secondo un orientamento assai lontano dall'immagine aristotelica dell'anfora, e dunque del rapporto tra contenente e contenuto. - "Ecco come gli uomini giungono a formarsi il concetto dello spazio. Essi considerano che più cose esistono insieme, e trovano tra esse un ordine di coesistenza, secondo cui il rapporto delle une e delle altre è più o meno semplice: è la loro situazione (situation) o distanza (distance)" (1963, p. 441- 442; 1875, vol. VII, p. 400). 33 - La terminologia è qui oscillante, forse un poco equivoca. Situation rimanda ad un contesto, mentre distance fa subito pensare alla possibilità della misurazione. In ogni caso, l'essenza del luogo e dell'essere in un luogo dobbiamo cercarla nell'idea del trovarsi in una determinata relazione con altri luoghi. Potremmo dire che alla domanda sul "dove" non si risponde con un "essere in", ma con un "essere tra". Di conseguenza un contesto relazionale deve essere sempre presupposto. - La tal cosa è là: la determinazione del luogo attraverso questo là, può certamente essere risolta in determinazioni relazionali - ad es. potrei rendere chiaro che dicendo là intendevo indicare la cosa che si trova tra il tavolo e la poltrona di questa stanza. Il mio interlocutore non ha compreso chiaramente il gesto che accompagnava il mio "là" - e così ho fornito un'ulteriore spiegazione. Se così stessero le cose la determinazione relazionale sarebbe una sorta di analisi dell'espressione là, ed in tal caso si ammetterebbe implicitamente che lo spazio sia precostituito nella totalità dei suoi luoghi: le cose vanno ad occupare questi luoghi ed entrano perciò in varie relazioni tra loro. Ma non è così che intende la questione Leibniz. Cose, relazioni, luoghi - Forse potremmo dire che la nozione di relazione precede quella della cosa. O forse "precede" è un'espressione troppo forte. È certo in ogni caso che per Leibniz deve essere posta una netta differenza tra l'una nozione e l'altra. La relazione non deve essere "cosificata". Conseguentemente il luogo o il situs, come Leibniz si esprime, deve poggiare essenzialmente non sulla nozione della cosa ma su quella di relazione. Il punto su una retta o su una superficie illustra questa concezione in quanto da un lato è privo di qualità (i "modi di esistere particolari") che lo contraddistin- 34 guono da altri punti e dall'altro un punto su una retta o una superficie non può che coesistere con altri punti. Indirettamente in questa illustrazione si intravede anche la possibilità di introdurre il tema della continuità. - Situs viene spesso tradotto con situazione e quanti problemi scateni questa parola e quante discussioni si possano svolgere in rapporto a questa vera e propria svolta nella problematica teorico-filosofica dello spazio lo si può ben comprendere nel monumentale volume di Vincenzo De Risi, Geometry and Monadology. Leibniz's Analysis Situs and Philosophy of Space (De Risi, 2007), che riguarda sia le conseguenze che la concezione leibniziana ha sul piano del pensiero geometrico sia la connessione che vi è - assai profonda - tra la filosofia leibniziana dello spazio e la sua monadologia (un problema ben poco considerato dalla bibliografia anteriore). Entrambi gli aspetti sono trattati non solo con profonda penetrazione storico-filologica, ma anche con una rara sensibilità teoretica al punto da rendere quest'opera un vero e proprio modello di storiografia filosofica. - Indicativa è anche la notazione che talora propone Leibniz, contrassegnando il situs con un punto: ad esempio "A.B". Secondo questa notazione, il punto tra A e B caratterizza il situs. Ma né il punto tra le lettere né i punti di una linea vanno intesi come rinvianti ad una spazialità oggettivamente precostituita: la novità essenziale è la riconduzione dei luoghi ad un sistema di relazioni. Ed in fondo anche il riferimento alle cose potrebbe essere considerato inappropriato. In effetti, nelle lettere a Clarke, Leibniz parla dello spazio non solo come ordo rerum ma anche come ordre des situations. "Dunque, io non dico che lo spazio sia un ordine od una situazione, ma un ordine delle situazioni, secondo quale, cioè, le situazioni sono disposte; e che lo spazio astratto è lo stesso ordine delle situazioni, concepite come possibili" (1963, p. 461 - 1975, vol. VII, p. 415). 35 - Potremmo azzardarci a dire che, essendo la cosa portatrice del concetto della realtà stessa e la relazione non va intesa come una cosa o una sua proprietà, lo spazio risolto in puri nessi relazionali deve essere proposto come qualcosa di ideale. Anche se non può essere troppo facile comprendere come questa idealità debba essere intesa. Probabilmente deve valere qui ciò che vale, secondo Leibniz, per tutte le relazioni: esse non sono reali, nel senso che sono semplicemente pensate. "Per Leibniz la realtà è composta di sole sostanze individuali: al di fuori dei singolari esistenti non si può dire che esista qualcosa di 'reale' che si possa denominare relazione" (Mugnai, 1976, p. 144). - Un'efficace immagine proposta da Leibniz nelle lettere a Clarke ci porta al centro della questione. Se vuoi comprendere che cosa io intenda con luogo e con spazio pensa ad un albero genealogico. Di esso possiamo proporre uno schema che ha lo scopo di illustrare i rapporti. Tenendo conto di esso potremmo interrogarci sul posto che occupa in esso un determinato individuo A. La risposta avrà la forma: A è figlio di B, fratello di C, nipote di D, padre di E, ecc. Ed un'analoga sequenza di determinazioni relazionali sarebbe la risposta adeguata alla domanda del posto che occupa B o chiunque altro. "…la mente può figurarsi un ordine consistente in linee genealogiche, le cui grandezze non rappresentano che il numero delle generazioni, nelle quali ogni persona trova il suo posto" (1963, p. 443 - 1975, vol. VII, p. 401). - Quest'immagine è accompagnata da una singolare finzione aggiuntiva. Potremmo ammettere che sia vera la metempsicosi, cosicché l'analogia viene estesa non solo alla posizione ma anche al mutamento di posizione: "Se si aggiungesse la finzione della metempsicosi, con cui si fanno tornare le stesse anime umane, le persone potrebbero cambiarsi di posto: chi è stato padre o nonno può diventare figlio o nipote…" (ivi). 36 - Questa integrazione illustrativa pretende di rendere conto del movimento. E porta subito con sé la questione della direzione in cui è rivolta prevalentemente la caratterizzazione leibniziana: se in direzione dello spazio fisico o dello spazio geometrico o addirittura di una "formalizzazione" completa del concetto. Va da sé che Leibniz riporta la propria caratterizzazione di spazio in tutti questi ambiti traendo da essa le possibili conseguenze e reinterpretandola secondo l'ambito considerato. Ne deriva una elaborazione ricchissima di implicazioni. Geometria e analysis situs - La concezione relazionale dello spazio è rilevante anzitutto sul piano specifico del pensiero geometrico, ed il progetto leibniziano di un rinnovamento di esso sotto il titolo di Analysis situs si integra nel fervore delle innovazioni e scoperte che caratterizzano la sua epoca, a partire dalla tematica dell'algebraizzazione cartesiana ed ai suoi sviluppi, a quella della geometria proiettiva, ai problemi indotti dalla riflessione sul calcolo infinitesimale (cfr. De Risi, 2007, pp. 5 sgg.). Questo progetto ha al suo centro l'idea, in fin dei conti controcorrente e che rappresenta il tratto di forte originalità di Leibniz, del carattere fondazionale della geometria: "In effetti, Leibniz pensa anche di poter fondare l'algebra sulla geometria, e non inversamente, in quanto quest'ultima gli sembra molto più originaria della prima. Cosicché, il fondamento della geometria che egli ha tentato attraverso la sua analysis situs sarà anche una fondazione dei metodi algebrici" (De Risi, 2007, p. 8, n. 8). - Un simile orientamento nel considerare il rapporto tra algebra e geometria sottintende un'intenzione di mantenere la presa sul piano dell'esperienza sensibile, ma questa intenzione convive in Leibniz con la sua forma mentis fortemente logicizzante, cosicché l'idea dell'analysis situs fa anche tutt'uno con il progetto di ripen- 37 samento delle nozioni fondamentali della geometria alla luce di istanze di formalizzazione e di rigorizzazione. Questo duplice orientamento crea una forte tensione interna al pensiero di Leibniz che permea sia il suo pensiero logico-matematico sia la sua filosofia monadologica, che non abbandona del tutto il terreno "fenomenologico" anche quando si spinge nel modo più audace sul terreno metafisico. Spazio assoluto - Si è forse notato troppo poco che lo spazio assoluto di cui Newton parla nello Scolio alle sue definizioni nei suoi Principi contiene virtualmente una "cosificazione" dello spazio. Lo rammenta invece Van Frassen che scrive: "Gli Newtoniani spiegano il loro concetto di spazio dicendo che lo spazio e molto simile ad un corpo materiale, di una specie assai eterea, ma non interamente. La differenza principale è che i corpi sono nello spazio, ma è un nonsenso chiedere dove sia lo spazio - essi non concedono che parti dello spazio siano luoghi di se stessi come di tutte le altre cose" (Van Fraassen, 1992, p. 109). - Ciò che Newton dice nel famoso Scolio dei suoi Principi Matematici della Filosofia naturale lo possiamo già leggere direttamente nella sua formulazione del principio di inerzia: "Ciascun corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non sia costretto a mutare quello stato da una forza che gli è stata impressa". - Ecco il corpo che passa di fronte a noi nel suo splendido isolamento e nel suo altrettanto splendido moto rettilineo uniforme - splendido per la sua perfetta uniformità, per la perfezione della retta che in qualche modo disegna lasciandone la traccia! Ciò presuppone appunto lo spazio come una grande lavagna nera. La cosa riga lo spazio come una punta aguzza - ma allora lo 38 spazio non è forse prospettato come una grande cosa immobile? -"Noto infine che le tracce che i mobili lasciano talvolta negli immobili sui quali si muovono, hanno dato occasione agli uomini di formarsi quell'idea: come se restasse ancora qualche traccia anche quando non vi è nessun immobile. Ma è una traccia ideale, la quale implica soltanto che, se vi fosse a quel posto un immobile, la si potrebbe disegnare. Questa analogia fa sì che vengano foggiati posti, tracce, spazi, benché tali cose non consistano che nella verità dei rapporti e per niente in una realtà assoluta" (Leibniz, 1963, V, oss. 47 - 1875, vol. VII, p. 402). - Ciò non significa naturalmente che, assumendo un punto di vista leibniziano, si dovrebbe necessariamente respingere il principio di inerzia: ma che quella formulazione del principio non è compatibile con l'ordine di idee leibniziane. Stando ad esso quiete e movimento non possono essere concepite rispetto allo spazio. Invece per Newton la distinzione tra moti relativi e moti assoluti rappresenta un corollario inevitabile. Per illustrare l'idea di moto relativo egli ricorre proprio all'immagine della nave già presente in Aristotele, immagine che sta alla base dell'ultima metamorfosi della definizione aristotelica, il passaggio al contenente immobile. Il luogo, se deve essere tale, non può, nonostante tutto essere un vaso, perché il vaso può essere trasportato. E che luogo esso è mai se poi è in grado, esso stesso, di muoversi? Per Newton il moto relativo è un moto da un luogo relativo ad un altro luogo relativo, ed i luoghi relativi sono ad esempio le parti di una nave che si muove lungo un fiume. "Di conseguenza, commenta Newton - se la terra fosse realmente in quiete, il corpo che è in quiete relativa sulla nave si muoverebbe di moto reale ed assoluto sulla terra con la stessa velocità con la quale la nave si muove sulla terra". Ma se la terra a sua volta si muove, allora il corpo in quiete sulla nave si muove in realtà secondo un movimento che "si compone del moto vero della terra nello spazio immobile e 39 del moto relativo della nave sulla terra" (Newton, 1965, p. 105). - È particolarmente importante mettere in evidenza che la distinzione tra movimento relativo e movimento assoluto è direttamente connessa con quella tra apparenza e realtà. Qualcosa che appare in quiete può essere in realtà in movimento. Spostando l'attenzione in questa direzione si coglie subito che in una simile considerazione ci troviamo su un terreno propriamente argomentativo, ovvero all'interno di un dibattito filosofico che nei contesti quotidiani sarebbe del tutto improponibile. La determinazione del luogo, e quindi dello stato di moto o di quiete, si regola normalmente sul riferimento richiesto dal senso del contesto. Nei contesti quotidiani, ogni domanda sulla quiete e sul moto avrà una risposta adeguata al contesto in cui la domanda è stata formulata. Certamente si potrà anche notare che vi è un riferimento ultimo, che è la terra stessa che ha, tra le sue singolari proprietà, anche quella di essere terraferma. La terraferma, per chi va vagando per i mari, è qualcosa di tangibile, fa parte della sua esperienza concreta di vita. - Invece, una volta che siamo solidamente installati nel gioco linguistico che si muove nei meandri filosofici del concetto di spazio, certamente potrebbe porsi come esigenza razionale quella di un riferimento ultimo ed assoluto nella catena delle relatività. Di relatività in relatività debbo pervenire a qualcosa che è assolutamente in quiete altrimenti non saprei affatto che cosa si muove e che cosa no. Ora ci troviamo nel campo della delimitazione razionale dei concetti, delle argomentazioni e delle controargomentazioni eventuali. Di relatività in relatività si giunge infine a porsi il problema dello spazio assoluto come terraferma dell'universo. Qui i pensieri mi si confondono. - L'idea dello spazio assoluto è un enigma. Da un lato sembra trattarsi di una tesi imposta dalla ragione stessa, che si radica 40 nella fondamentale esigenza razionale di un criterio del vero e del falso. Si chiede: questa cosa è davvero in quiete? Che cosa si muove davvero? Dall'altro potrebbe essere considerata come una ipotesi da provare con esperimenti e induzioni di varia natura. - Vi sono anche aspetti che rendono la tesi dello spazio assoluto come una sorta di punto di congiunzione tra fisica e metafisica. Il problema dello spazio fisico non chiama in causa solo il pianeta terra, il sistema solare, le realtà astronomiche più vicine o più lontane, ma la totalità stessa. E non si tratta beninteso di una totalità puramente pensata. Si tratta invece della totalità reale, quindi della totalità in cui stanno tutte le cose, anzi della totalità che ci sarebbe anche se non ci fossero cose. - La problematica dell'assolutezza, che ha origine nell'esigenza di concettualizzazione inerente anzitutto alla costruzione di una immagine fisica della realtà, si aggancia ai fondamenti metafisici della fisica - il tema dello spazio richiama il tema di dio anzi per molti versi sembra addirittura coincidere con gli enigmi più profondi che portano sull'essenza di dio. In fin dei conti sappiamo dove sono il sole, i pianeti, le stelle più vicine e più lontane, sappiamo ricercarle con i nostri telescopi. Ma la terra dov'è? È proprio questo che ci interessa sapere. - Porsi questa domanda, e porsela in questo modo, significa porre il problema dell'ordine ultimo, dell'ordine dell'universo che rimanda ad un piano che la fisica stessa non basta ad illustrare. Nella religione ebraica uno degli appellativi di dio è semplicemente il Luogo. E Newton deve aver certamente riflettuto su di esso. Molti studiosi hanno messo in rilievo l'importanza di queste motivazioni religiose nella tematica newtoniana dell'assolutezza dello spazio, documentando l'influenza su Newton di autori che fanno parte della tradizione della mistica ebraica. Queste letture, questi insegnamenti, che risalgono agli anni gio- 41 vanili della formazione di Newton, ebbero un peso rilevante, ed è certamente riduttivo ritenere che questo momento religioso si innesti come una sorta di corpo estraneo sull'impianto scientifico di Newton ed abbia agito da freno rispetto ad esso. In realtà dietro una simile prospettiva di discorso vi è un modo erroneo di concepire i rapporti tra filosofia, scienza e religione, ed anche un modo di rappresentarsi lo sviluppo della scienza e il processo stesso del pensiero. - Un pensiero autentico è un pensiero che passa attraverso mille vicissitudini, complesse tortuosità, mentre non vi è un pensiero frenato vuoi dalla religione vuoi dalla filosofia, come se, senza questi freni, esso andrebbe liberamente a valle seguendo la giusta direzione. Quanto alla religione talora frena, talora stimola, e ora frena e stimola insieme, ed ora frena in una direzione, ora nella direzione opposta. - Il dibattito tra Leibniz e Clarke sull'alternativa tra spazio assoluto e spazio relazionale è in ogni caso anche un dibattito teologico, morale e metafisico; ed è assai interessante vedere come l'un problema trapassi nell'altro. La ricchezza del dibattito filosofico si manifesta proprio nel fatto di riuscire a stabilire nessi e relazioni, nel mostrare le conseguenze vicine, ma anche quelle più lontane, di una presa di posizione. La discussione sullo spazio non può essere circoscritta - non può tecnicizzarsi, resta aperta alle più varie digressioni. Talvolta si può pensare che si parli di tutt'altro. Leibniz attacca insidiosamente Newton avanzando il sospetto che la sua concezione dello spazio finisca con il dare argomenti ai materialisti. La critica si accanisce sull'analogia newtoniana dello spazio come sensorium dei. Nell'Ottica, Newton spiega che, affinché le cose che ci stanno intorno siano da noi afferrate e conosciute, è necessario non solo che le immagini di esse, le loro "specie" sensibili, siano separatamente percepite attraverso gli organi di senso, ma anche che esse siano riunite 42 in un luogo del nostro cervello, che egli chiama sensorio nel quale esse sono unitariamente presenti nella nostra coscienza. Lo spazio infinito in rapporto alla coscienza di dio sarebbe qualcosa di simile a questo sensorio - il che è palesemente un modo di illustrare metaforicamente la stretta unità tra dio e lo spazio, e dunque per illustrare la sua onnipresenza. Si tratta di un'immagine che non piace affatto a Leibniz. E non vi è forse qui il rischio che si operi una materializzazione di dio, dal momento che viene assimilato ad un essere vivente che ha bisogno di organi di senso per percepire le cose? - Clarke a sua volta spiega che si tratta solo di una metafora. Questo paragone - spiega Clarke - significa soltanto che "dio vede tutte le cose con la sua presenza immediata ad esse, essendo attualmente presente alle cose stesse, quante ve ne sono nell'universo, allo stesso modo che l'anima è presente a tutte le immagini che si formano nel cervello" (1963, p. 389). Ed inoltre con sensorium non si intende "organo della sensazione", ma luogo della sensazione. Anche i dizionari vengono richiamati per sostenere la disputa - "organum sensationis" scartabella Leibniz nel dizionario di Goclenius; "domicilium animae" contrappone Clarke squadernando il dizionario di Scapula - e che importa poi sapere quel che Goclenius intende con "sensorium", dal momento che è semmai l'opinione di Newton quella che conta? Ribatte Leibniz: A che servono allora i dizionari? Ed in ogni caso l'espressione "sensorium" è la meno adatta che si sarebbe potuto trovare. Naturalmente la questione non si riduce alla disputa sulla parola. Sono in effetti implicate differenze che riguardano l'orientamento intellettuale generale, e che si fanno valere con argomenti e sottoargomenti che riguardano il modo di concepire la divinità in connessione con l'idea di legge di natura, il determinismo e il libero arbitrio, e persino la possibilità dei miracoli - argomenti che hanno in ogni caso tutti il loro punto di avvio in ipotesi e interpretazioni di ordine fisico. 43 Generalizzazione - Forse lo scambio epistolare con Clarke induce a pensare che gli interessi della concezione relazionale dello spazio di Leibniz siano rivolti soprattutto allo spazio fisico reale. In esso ovunque si discute con esempi che, per quanto fittizi possano essere, rimandano in ogni caso per lo più alla realtà fisica e astronomica. Ma in realtà occorre sempre rammentare l'importanza che assumono in Leibniz le considerazioni propriamente attinenti al campo della logica e delle discipline che Leibniz stesso considera ad essa estremamente vicine, se non appartenenti ad essa in una accezione ampia del termine, come l'aritmetica, la geometria, la matematica in genere. Proprio in questa direzione va ricercato il nucleo delle idee che conducono all'idea dello spazio come "ordo rerum". - È il caso di rammentare che la parola situs fa la sua prima comparsa significativa nel De Arte combinatoria in rapporto al problema delle permutazioni possibili di una successione di oggetti qualunque (cfr. De Risi, 2007, pp. 41-42). Nelle Definizioni, dopo aver caratterizzato il sito come collocazione delle parti, egli distingue tra il sito assoluto e relativo: "Il sito è assoluto o relativo: il primo è quello delle parti rispetto al tutto, il secondo è quello delle parti rispetto alle parti. Nel primo viene considerato il numero dei luoghi e la distanza dall'inizio alla fine, nel secondo non vengono osservati né l'inizio né la fine, ma viene solo considerata la distanza di una parte da un'altra parte data. Ne risulta che il primo viene espresso dalla linea, o dalle linee che non racchiudono una figura e che non ritornano su di sé, e soprattutto dalla linea retta; il secondo dalla linea o dalle linee che racchiudono una figura, e soprattutto dal circolo. Nel primo si ha la massima considerazione della priorità e della posteriorità, nel secondo nessuna. Assai opportunamente il primo si chiamerà ordine. E 44 il secondo vicinanza; il primo disposizione, il secondo composizione. Dunque, in ragione dell'ordine i seguenti siti abcd, bcda, cdab, dabc differiscono tra loro. Nella vicinanza però non si osserva nessuna variazione, ma un solo sito, cioè questo: b a c d ". (Leibniz, 1968, p. 89). - Questo brano, in rapporto alla questione che stiamo considerando, ha questo di notevole: che il situs non solo è concepito come forma possibile di relazione secondo un ordine, ma anche che gli oggetti posti in relazione possano essere oggetti qualsivoglia. De Risi commentando questo passo osserva che Leibniz riteneva che la nozione di situs così definita fosse applicabile a qualunque tipo di oggetto, ma in seguito egli "abbandonerà questa posizione universalistica, che anche all'interno dell'Ars Combinatoria non è sempre applicata. In seguito, in realtà, egli considera il situs in relazione all'extensum e non a puri concetti e nemmeno a sostanze inestese" (De Risi, 2007, pp. 41- 42). - Io credo tuttavia ci siano in Leibniz tutte le premesse per questo passo ulteriore. L'"essere tra" assunto come costitutivo del concetto di spazio può condurre ampiamente al di là di un'idea di spazio che abbia la sua origine in ciò che ci sta intorno, ed anche al di là della consueta distinzione tra spazio geometrico e spazio fisico-reale per ottenere una generalità conseguente allo stesso svuotamento di contenuto del concetto. - Le "cose" di cui lo "spazio" è ordine potrebbero essere considerate come "cose in generale", non semplicemente i corpi, ma qualunque entità. In modo corrispondentemente generalizzato dovrebbe allora essere inteso anche il luogo e lo spazio come insieme di luoghi. 45 - Di "luogo" in questa accezione astratta possiamo parlare ovunque si sia in presenza di una struttura d'ordine. Non si tratterebbe dunque di rispondere alla domanda che chiede che cosa sia il luogo che un corpo può occupare, ma piuttosto che cosa sia il luogo considerato in modo astrattamente generale: tale nozione potrà allora essere riferita alle cose e ai luoghi dell'esperienza come ai corpi e ai luoghi di cui parliamo all'interno di un discorso fisico o astronomico; oppure nell'ambito della geometria e dell'aritmetica. Nella serie ordinata dei numeri interi non vi è forse un "luogo" per il numero 3? Oppure per ciascuna sfumatura cromatica di quello che potremmo ora chiamare spazio cromatico? O per ciascuna frequenza nello spazio sonoro? Naturalmente comportando, in questi vari ambiti, problemi e difficoltà specificamente differenti. - Secondo una simile prospettiva di discorso, ci si orienta dunque anzitutto verso un concetto logico di luogo, intendendo con ciò non semplicemente un concetto libero da contraddizioni interne che tuttavia resta vincolato nella sua applicazione: esso viene raggiunto quando alla cosa materiale subentra l'idea di qualcosa in generale. A questo punto la nozione di luogo si congiunge, vorrei dire, in modo diretto ed immediato, a quella di relazione; e la nozione di spazio all'idea di un sistema di relazioni. - Naturalmente in questa estrema metamorfosi della nozione di spazio, nulla o quasi nulla resta dello spazio in quanto originariamente costituito attraverso l'esperienza concreta delle cose. Ma già a partire dal terreno dell'esperienza concreta si intravedono diverse possibili concettualizzazioni. Nella corporeità della cosa e nel suo occupare un luogo - la possibilità di una nozione di spazio fisico-reale; nella "sagoma" della cosa, in cui il momento della materialità viene posto da parte, la possibilità di una nozione di forma-figura, in cui l'idea del luogo passa sullo sfondo e 46 si fa avanti invece l'idea dello spazio-estensione; per giungere, dalla rete dei rapporti spaziali che le cose intrattengono tra loro, ad una nozione di luogo e di cosa che segna la massima distanza dall'idea di spazialità originariamente costituita nell'esperienza concreta dei luoghi, delle cose e delle loro forme. Ma queste possibilità, con il loro complicati sviluppi, con i loro intrecci, gli scambi problematici che si verificano tra i vari ambiti, con gli andirivieni dal concreto dell'esperienza alle pure astrazioni intellettuali, rappresentano giochi linguistici rispetto ai quali è altrettanto importante mantenere la coscienza delle differenza quanto lo è il comprendere come essi possano trapassare l'uno nell'altro in un modo ricco di senso. II Immaginare e raffigurare lo spazio Una piramide nel deserto - Nell'ambiente che ti circonda, hai mai visto autentiche forme euclidee, ad esempio, una pietra perfettamente cubica? Io credo di no. E questa circostanza potrebbe in fondo essere citata in un elogio dell'autonomia del pensiero delle forme. - Ad esempio, siamo tentati di chiederci: da dove trassero gli egizi l'immagine della piramide e con tanta forza da fare di essa una sorta di simbolo di una straordinaria civiltà e di una straordinaria cultura? Intorno a loro c'era solo deserto, con le sue dune tondeggianti: nemmeno un pino, un'abete, una montagna impervia. Una piramide nel deserto: quale persuasivo esempio di che cosa possa significare la produttività dello spirito, espressione che a volte ci sembra suonare così retorica e vuota! Nella sua massiccia concretezza, la piramide riempie invece di senso quelle parole evocando una dialettica complessa del modo di rapporto con la 47 realtà semplicemente data: forma verticale perfetta e chiusa in uno spazio orizzontale immensamente aperto, la piramide egizia con le sue complesse simbologie ci appare come una sintesi compiuta tra operazioni immaginative e operazioni intellettuali, le une fittamente intrecciate all'interno delle altre, come forze cooperanti per un unico progetto che si può chiamare spirituale proprio perché è il risultato di questa cooperazione. - Le strutture costitutive essenziali della spazialità sono anche i fondamenti e le basi per processi di valorizzazione: una schematizzazione di queste strutture costitutive offre una sorta di filo conduttore per la problematica delle valorizzazioni inerenti al momento spaziale. Ascendere. Discendere. Avanzare. Ritornare. Caduta. Cerchio. Triangolo. Sfera. Riga obliqua, orizzontale. Verticale. Figurazione simmetrica… Nella Poetica dello spazio di Bachelard, ci vengono descritti luoghi sospesi in una dimensione immaginaria - scale, corridoi, cantine, conchiglie.. che sono sulla via di diventare simboli. Spazi dell'immaginazione - Vi sono poi gli spazi immaginari. Spazio immaginario si dice al­meno in due sensi: spazio liberamente fantasticato, che ha un carat­tere fantastico nelle sue connotazioni interne; e spazio immagina­rio nel senso di uno spazio "sovrapposto" allo spazio reale e "distinto" da esso (spazio del gioco, spazio sacro, spazio scenico). - Vi sono molti modi secondo i quali si può parlare di un paesaggio "fantastico". Nelle architetture di Escher la costruzione raffigurativa è tale da impedire una "sintesi". Si provocano conflitti mentre si finge di ricondurre ad unità l'insieme. Le scale di Escher salgono e scendono restando sullo stesso piano. Quella di Escher è una fantasia dello spazio in senso molto preciso - 48 vengono sconvol­te le determinazioni spaziali "originarie", che costituiscono lo spazio - l'avanti, il dietro, il sopra e il sotto, ecc. Queste de­terminazioni sono diventate ambigue, ambivalenti. Pure apparenze. Ciò vale anche per le figure tridimensionali impossibili. Ciò su cui occorre attira­re l'attenzione non è tanto l'impossibilità di realizzarle in con­creto, quanto piuttosto la peculiare impressione di "incoesione" e di "conflitto" che esse generano. - In Delvaux invece la spazialità immaginaria viene resa con altri mezzi, con la singolarità degli eventi che in essa compaiono, l'eterogeneità dei personaggi che la abitano… Dalla pittura si possono trarre infinite indicazioni su una possibile fenomenologia degli spazi immaginari. Manipolazioni della prospettiva. Divertimenti settecenteschi. Moltiplicazione dei punti di vista (esempi moderni). Adozione di punti di vista inconsueti (tecnica fotografica e cinematografica). Il simbolismo degli aspetti - Le osservazioni di Arnheim sulla bidimensionalità e tridimensionalità nel cinema (Arnheim, 1960) sono strettamente dipendenti dalla sua concezione della creatività legata all'impiego dei mezzi, alla tecnica della ripresa. Poiché contro questa possibile creatività si potrebbe obiettare che la macchina da presa come del resto la macchina fotografica riproduce la realtà così come è (come la vediamo), Arnheim si avvale di vari argomenti per sottolineare la distanza tra realtà percepita e immagine cinematografica. Ma questo problema - impostato un poco ingenuamente (del resto ci troviamo di fronte ad una estetica cinematografica ai suoi inizi) - insieme a moltissimi spunti ricchi di interesse, porta anche a prese di posizioni troppo elementari. Così vi è una propensione in Arnheim a considerare orientata in senso anti-artistico ogni innovazione tecnica che conduca in via 49 di principio ad una maggiore approssimazione alla realtà. I limiti del mezzo diventano pregi perché consentono un'appropriazione soggettiva della realtà, una sua traduzione espressivo-immaginativa. Secondo Arnheim, quanto più l'immagine tende illusionisticamente alla riproduzione della realtà, tanto più essa ci rimetterebbe in fatto di capacità espressiva. Di qui il tendenziale rifiuto del sonoro, ed anche del film a colori. In questa stessa direzione sono orientate le perplessità intorno alle tendenze ad ampliare le dimensioni dello schermo o l'interesse di una ricerca per una "visione stereoscopica". - Arnheim dice che l'immagine cinematografica "non è assolutamente bidimensionale e neanche assolutamente tridimensionale". Ciò non mi sembra troppo giusto. Io direi piuttosto: l'immagine è oggettivamente piatta; ma la terza dimensione è data nella rappresentazione. La cosiddetta visione stereoscopica non è altro che una accentuazione della rappresentazione della profondità. - La differenza tra l'apparenza della tridimensionalità e la tridimensionalità reale-oggettiva può essere illustrata pensando ad un'immagine riflessa in uno specchio. Se mettete uno specchio in fondo ad un corridoio, l'unica cosa che vi impedisce di tentare di andare oltre è la circostanza che nell'avvicinarvi ad esso vi accorgerete probabilmente che quella figura che viene verso di voi siete voi stesso (anche se mi è accaduto una volta, in simili circostanze, di cedere più volte il passo ad una persona che a sua volta mi cedeva il passo con eguale ed assoluta ostinazione). La terza dimensione reale ha uno strato puramente visivo che non differisce per nulla dall'immagine dello specchio. Che cosa dunque potrebbe voler dire che l'immagine cinematografica (o fotografica) è bidimensionale e contrapporre questa bidimensionalità alla tridimensionalità della realtà? Oppure che essa non è propriamente né bidimensionale né tridimensionale? 50 - Le tecniche cinematografiche ci offrono un'infinità di elementi di discussione in rapporto ai problemi di una fenomenologia della visione e in direzione della tematica dell'espres­sività in genere. In rapporto al problema della spazialità ci si dovrebbe soffermare soprattutto sulla questione del "punto di vista". Peraltro immagini percettive e immagini cinematografiche hanno in comune proprio il fatto che esse sono sempre colte da un determinato punto di vista. Ma questa circostanza diventa una tecnica peculiare per l'espressione cinematografica. - Arnheim nota, ad esempio, che la ripresa dal basso tende ad esprimere la forza dominatrice di un personaggio. Si ottiene allora un effetto di ingrandimento delle proporzioni e nello stesso tempo un particolare tipo di deformazione. Entrambe le cose propongono l'immagine del sovrastare. Essa gioca in certo senso su due piani, tenendo conto del modo in cui è implicato lo spettatore. Da un lato essa ha il senso: persona vista dal basso; ma poiché sono proprio io, lo spettatore, a vederla così, ed io non sono affatto in basso e non guardo verso l'alto, l'effetto della relativizzazione del punto di vista si indebolisce, mentre assume forza proprio il momento della deformazione prospettica come deformazione espressiva. In generale Arnheim dice troppo poco sulla relazione con lo spettatore. Nella visione del film, ciò che viene afferrato è anzitutto il "fenomeno" piuttosto che la cosa stessa, o meglio: il rapporto tra fenomeno e cosa diventa ambiguo. Se venisse colto soltanto "un uomo visto dal basso" resterebbe la relazione al punto di vista, ma verrebbe meno la distorsione che, assolvendo la funzione di mediazione fenomenica, si dissolverebbe come tale. Invece viene colta sia la visione dal basso sia la distorsione, ed è proprio questa circostanza che fa assumere rilievo simbolico-espressivo al punto di vista. - In rapporto al cinema dovremmo forse parlare di un vero e 51 proprio "simbolismo degli aspetti" come di un mezzo espressivo fondamentale. La "sintesi immaginativa" si basa non tanto sulla cosa, ma sull'aspetto della cosa. Ciò vale naturalmente anche per fotografie o dipinti, ma forse nel caso di sequenze di immagini che hanno una qualche forma narrativa, il simbolismo dell'aspetto assume una particolare pregnanza. - Un disegno è una figura bidimensionale, che resta tale natural­ mente anche se rappresenta un edificio, un paesaggio, un ambiente in genere. Qui la tridimensionalità è apparente nel duplice senso del termine: nel disegno appare la profondità e nello stesso tem­po questa profondità è illusoria. Ma per la profondità illusoria valgono le stesse regole fenomenologiche che per la costituzione della spazialità visiva non illusoria. - Vi sono diversi modi per fare apparire la profondità. Ad es.: una cosa ricopre parzialmente un'altra. Questo problema del­ la copertura parziale appartiene al nostro ambito di discorso. Qualunque tecnica di raffigurazione che in un modo o nell'al­tro faccia apparire la profondità può essere per noi interessante. Ci interessano le modalità in cui la profondità viene fatta appari­re, non invece la questione di quale tecnica consenta una rappresen­tazione più fedele dello spazio percepito. - Rappresentazione infantile dello spazio. Arnheim ed altri dicono che i bambini raffigurano le cose non come le vedono, ma come le pensano. Ciò mi impensierisce. * 52 III Sui quattro bellissimi corpi Geometria e mito - La posizione platonica è tutta orientata in direzione del problema della possibilità di una conoscenza oggettiva, quindi - come diremmo oggi - in una direzione epistemologica. Platone prende le distanze dall'esperienza sensibile, ma più precisamente: prende le distanze da ciò che nell'esperienza sensibile appartiene alle particolarità provvisorie, alle componenti accidentali, che non sono afferrabili e fissabili in un risultato conoscitivo permanente. Il suo rimando alle componenti ideali non è affatto dovuto anzitutto ad un'esigenza "sistematica" di ordine metafisico, ma ad un esigenza di teoria della conoscenza. Forse potremmo dire che con Platone prende forma l'idea stessa di un'epistemologia. - In questo quadro assume una significativa esemplarità la conoscenza geometrica: la sua certezza, la sua indipendenza dalla sensibilità. Ma è Platone stesso che la mette in evidenza e la teorizza, strappandola al mondo delle pratiche geometriche concrete. - Nelle sue opere più tarde - in particolare nel Timeo - il Platone epistemologo diventa "metafisico" e tenta un abbozzo di "sistema del mondo". La guida per delineare questo sistema è anzitutto fornita dalla narrazione mitica, sempre presente nella speculazione platonica, ma che qui assume forse più che altrove importanza e peso. Naturalmente non si tratta del mito inteso come favola e nemmeno come appartenente ad un pensiero e ad una ritualità di ordine religioso. La narrazione mitica appare qui come una narrazione essenzialmente "filosofica", cioè come una veste immaginativa che, proprio in quanto è prodotta dall'immaginazione, colma efficacemente con ricchezza di senso le lacune 53 che né l'intelligenza né l'esperienza riescono a superare, riuscendo a dare un corpo a pensieri profondi che concernono l'essenza stessa della realtà. - Alla narrazione mitica si affianca la geometria. Mito e geometria: questo straordinario connubio sta alla base della speculazione platonica, e in modo particolare all'approccio platonico del problema dello spazio. - Lo spazio in Platone viene chiamato chora (xˉra). Taluni traducono xˉra con "posto", "luogo", "posizione". Come xˉrion oppure x±row, può indicare anche terreno, regione, ecc. Si tratta di una traduzione letteralmente corretta, ma estranea allo spirito della impostazione platonica, alla quale mi sembra più conforme la parola "spazio". Questa scelta non è indifferente per il fatto che la parola "luogo" è invece particolarmente adatta ad indicare la posizione aristotelica, che adotta il termine t¦pow. La maternità dello spazio - Lo spazio riceve in Platone delle qualificazioni che rammentano il caos originario di cui parla il mito: il pensiero dello spazio ci riporta indietro ad uno stato che precede l'ordine cosmico, dunque il mondo stesso. Come nel mito, questo pensiero sembra non districarsi in Platone dal pensiero di una pura matericità informe, fluida, magmatica, internamente non delimitata, che tuttavia contiene potenzialmente tutte le forme possibili: di qui esse dovranno scaturire attraverso l'opera del "demiurgo": il dio senza nome che dal caos fa emergere il cosmo. - Non sorprende allora che a questa matericità siano associate idee che si riconnettono alla vita, o meglio: alla generazione della vita. In questa direzione in realtà va inteso l'attributo più frequente e caratteristico per questo aspetto della tematica dello spazio: Pla- 54 tone parla dello spazio come upodoché (µpodox-) - un'espressione solitamente tradotta con ricettacolo, che contiene nel suo etimo il richiamo ad una cavità e precisamente ad una cavità che accoglie: ad una accogliente cavità. Non solo ricettacolo, dunque: ma "ricettacolo di tutto ciò che si genera": per questo motivo lo spazio può essere caratterizzato come madre o nutrice. - La nascita - e dunque la morte. Nello spazio ha luogo l'intera vicenda della vivere e del morire. Vi è il pensiero delle origini dal caos, della generazione del mondo, e nello stesso tempo di un perenne avvicendarsi della vita e della morte sullo sfondo eterno di uno spazio che continua a farsi mondo. Il grande animale - In questa ripresa con gli occhi del mito, il primo pensiero dunque non va certo allo spazio che sta immediatamente di fronte a noi, allo spazio-che-ci-circonda, al luogo che noi e le cose occupiamo, ai "vuoti" che ci sono fra esse, ecc. Lo spazio viene invece inteso anzitutto come nozione totalizzante, ovvero come nozione che implica l'idea della totalità delle cose e degli eventi. - E notare questo non basta ancora: viene infatti richiamata una nozione dell'universo fortemente connotata in senso organicistico. Lo spazio inteso anzitutto come disordine caotico è anche un disordine pieno di una vita potenziale, uno spazio "gravido" dell'infinita varietà delle forme viventi, e nello stesso tempo, quando da questo caos il demiurgo cava un universo ordinato, un cosmo, esso è concepito come un essere vivente, come un grande animale, anzi come il più perfetto degli animali: un animale che, a differenza di tutti gli altri, che sono soggetti ad una perenne trasmutazione, alla generazione ed alla corruzione, è invece eterno e non ha bisogno di nulla. Per bocca di Timeo Platone si esprime proprio così: "Perché l'artefice fece il mondo di tutto il fuoco e l'acqua 55 e l'aria e la terra senza lasciare fuori nessuna parte o qualità di nessuno di essi: ed ha realizzato la composizione affinché anzitutto l'animale fosse, quanto più possibile perfetto, e formato di parti perfette; ed affinché fosse unico, in quanto nient'era stato lasciato, donde potesse farsi un altro simile; e infine in modo tale che fosse immune da vecchiezza e da morbo, perché egli sapeva che il caldo e il freddo e tutti gli agenti di grande energia, circondando dal di fuori un corpo composto e importunamente assalendolo, lo sciolgono, inducendovi morbi e vecchiezza e lo fanno morire" [33a]. - A questo grande animale, e proprio per le sue caratteristiche di totalità eternamente vivente, viene attribuita una forma ben determinata: si tratta di un animale "rotondo", di un animale di forma perfettamente sferica, senza occhi, senza orecchie, senza gambe né mani - perché essendo la totalità stessa questo animale non ha nulla da vedere o da udire o non vi sono cose fuori di esso da afferrare e nemmeno "spazi" da percorrere. "Ora all'animale che doveva raccogliere in sé tutti gli animali, conveniva una forma, che in sé raccogliesse tutte quante le forme. Perciò arrotondò il mondo in forma sferica e circolare, egualmente distante in ogni parte dal centro alle estremità. Questa è di tutte le figure la più perfetta e la più simile a se stessa [=omogenea], giudicando il simile infinitamente più bello del dissimile. E lo fece perfettamente liscio tutt'intorno per molte ragioni. Infatti non aveva alcun bisogno di occhi, non essendovi rimasto niente da udire: né vi era aria intorno, che richiedesse di essere respirata.....E le mani con le quali non aveva nessun bisogno di prendere né di respingere alcuna cosa, il demiurgo non credette di dovergliele aggiungere invano, e nemmeno i piedi, né quant'altro serve per camminare" (33b). - Platone aggiunge poco oltre che gli conferì comunque un movimento rotatorio, che è in realtà un movimento "nello stesso 56 luogo" , e per quel movimento non vi è certo bisogno di gambe e di piedi. Le quatto materie primigenie - Questo è l'aspetto mitico del discorso platonico. Certo, il riferimento alla sfericità del grande animale ci fa intravedere il versante geometrico. L'immagine della sfera ci seguirà nei sotterranei dei nostri discorsi. - Ma può veramente esservi una confluenza significativa, a partire di qui, con l'elemento geometrico-matematico? Per comprendere questo nesso è bene anzitutto che ci liberiamo del pregiudizio che vi sia una sorta di contrapposizione tra l'elemento geometrico-matematico e l'elemento organico-vitale. Questa contrapposizione è in realtà tipicamente "moderna", ed in ogni caso non è affatto detto che sia ben fondata e che non celi una complessità di cui la semplice contrapposizione non può certo rendere conto. - In ogni caso si tratta di una contrapposizione che non esiste per il pensiero greco, per Platone in particolare: l'organicità è infatti connessa in Platone con l'ordine, la proporzione, la corrispondenza interna tra le parti, con la loro interna concordanza. Assume particolare significato da questo punto di vista la relazione tra musica e matematica: l'organicità rimanda all'armonia in un senso che riguarda ad un tempo l'universo stesso, la matematica e la musica. - Tuttavia questa considerazione di ordine generale non può pretendere di fornire una risposta effettiva alla nostra domanda. Essa può valere come premessa e come indicazione iniziale, ma non ci porta nel vivo della questione e in particolare non mostra che l'approccio platonico, che da un lato si aggancia saldamente 57 all'immaginazione come del resto alla speculazione dei filosofi presocratici, dall'altro se ne distacca nettamente ed in questo distacco diventa visibile la funzione del modello geometrico-matematico. - Nell'immaginazione mitica così come nella filosofia presocratica e del resto anche negli sviluppi filosofici che vanno anche oltre Platone, il passaggio dal caos al cosmo viene spesso concepito alla luce della teoria delle materie primigenie - terra, acqua, aria, fuoco - sia che queste materie vengano concepite come egualmente originarie, sia che l'una di esse sia privilegiata come autentico principio di tutte le cose, come autentica arché. - Si tratta di una impostazione del problema dell'origine dell'universo che Platone critica molto vivacemente. Per Platone infatti, le materie primigenie, proprio perché stanno all'origine di tutto, non possono avere lo stesso statuto ontologico di quelle stesse materie così come le conosciamo ordinariamente: ed invece, a quanto sembra, quell'impostazione affonda le sue radici proprio in questa esperienza ordinaria, che è in particolare esperienza sensibile. Si tratta dell'esperienza della terra che calpestiamo o che possiamo impastare con acqua, dell'esperienza dell'acqua che vediamo scorrere nei fiumi o scaturire dalle sorgenti, del fuoco con cui possiamo scaldarci bruciando la legna, dell'aria come vento che soffia, come alito o come respiro. Ed è ancora dell'osservazione comune la possibilità di una relazione interna tra questi elementi: ad esempio, l'acqua può spegnere il fuoco, ma dal fuoco può anche essere fatta evaporare e dunque trasformata in aria. Vi è qui l'idea della possibilità di un trapassare di un elemento materiale nell'altro, e dunque di una condensazione o di una rarefazione: l'idea della rarefazione trova esemplificazione particolarmente evidente ai sensi nell'evaporazione dell'acqua attraverso il riscaldamento; per la condensazione forse è abbastanza persuasiva l'acqua che diventa ghiaccio oppure la pioggia che scende dalle 58 nubi: come se si trattasse dell'acqua che una volta evaporata e dunque divenuta aria, nuovamente si addensi diventando nube e ritornando acqua in forma di pioggia. Queste idee di rarefazione e condensazione, che hanno origine in osservazioni quotidiane possono poi essere venire interpretate come momenti che realizzano la trasformazione delle quattro materie primigenie l'una nell'altra. Si prendono dunque ancora le mosse dall'osservazione ordinaria per poi trasporla sul più ampio piano di una speculazione sull'essenza della realtà e in particolare sull'essenza della materia. - Ora è estremamente indicativo del modo di pensare platonico non solo il rifiuto di effettuare questo passaggio, ma anzitutto il fatto che proprio osservazioni come queste possano essere considerate come indicative della precarietà delle nozioni ottenute sulla base dell'esperienza sensibile. Se è vero che vi è questa continua modificazione dell'un elemento nell'altro come potrai dire di sapere che cosa è fuoco, che cosa è aria, che cosa acqua o terra? Per impiegare un'immagine nostra: se ti affidi al sapere che hai dell'acqua attraverso l'osservazione, questo sapere sguscerà via dalla tua mente esattamente come acqua che evapora al fuoco - e parlerai di terra, acqua, aria e fuoco senza poterne afferrare l'autentica essenza. - Rammentiamo il problema fondamentale di Platone: come è possibile una conoscenza oggettiva? È necessario andare oltre questo flusso di trasformazioni sensibili per afferrare quel che vi è stabile e di permanente in esse. Nel Timeo viene effettuato questo passo, ed esso non procede più in direzione del mito, ma in direzione della geometria, anche se di una geometria ancora pensata sotto il fascino dell'elemento mitico. Schema dell'interpretazione platonica - Conviene premettere ad un'esposizione più particolareggiata 59 lo schema del percorso che verrà seguito. Intanto è chiaro che il compito proposto potrà essere considerato assolto se riuscissimo a ricondurre in qualche modo le quattro materie primigenie della tradizione mitica a forme geometriche. Che non potranno certo essere forme qualunque, ma dovranno avere caratteristiche speciali, e in particolare dovranno anch'esse possibilmente corrispondere nel numero al numero delle materie originarie. - Possibilmente: non possiamo pretendere troppo da questo modo di argomentare, che comunque ci riserva delle sorprese e che saprà far tesoro anche delle non perfette congruenze. - Ora ci sono tra le forme geometriche cinque solidi - e non più di cinque - che hanno caratteristiche molto speciali: si tratta dei cinque poliedri regolari - il tetraedro, l'esaedro o cubo, l'ottaedro, il dodecaedro, l'icosaedro. La regolarità consiste nel fatto tutte le facce sono poligoni regolari eguali e eguali i diedri formati da due facce consecutive. Come conseguenza non irrilevante di tutto ciò, ogni solido regolare può essere iscritto in una sfera. Platone associa il tetraedro ovvero la piramide a quattro facce al fuoco, l'esaedro ovvero il cubo alla terra, l'ottaedro all'aria, l'icosaedro all'acqua. Questi sono quegli che egli chiama "i quattro bellissimi corpi" (53c). - tetraedro 60 - esaedro (cubo) - ottaedro - icosaedro 61 - E il dodecaedro? Ad esso dovremmo dedicare un commento a parte. - Ciò che ci orienta in questa direzione non è forse già la peculiarità del numero - cinque e non più di cinque, di fronte all'infinita molteplicità dei poligoni regolari? Quando i molti si fissano in un numero invalicabile, già questo eccita la fantasia mitico-filosofica. E i cinque - e per il momento i quattro - bellissimi corpi già per questo sono destinati ad assumere un significato di rilievo assoluto nell'ordine cosmico, in quanto nuclei intelligibili della matericità che appare all'esperienza sensibile. Ma questo indizio deve essere perfezionato: e dovremo arrivare a rendere conto delle trasformazioni delle materie sensibili che si rivelano all'osservazione attraverso le relazioni formali-ideali tra i quattro solidi. - Nell'accennare ad un elogio dell'autonomia del pensiero delle forme, avevo notato che non ti sarà facile trovare, nell'ambiente che ti circonda, cose che hanno una forma "perfetta", ad es. esempio una pietra che abbia la forma di uno dei cinque solidi: la forma perfetta, si intende: la regolarità non tollera approssimazioni. Ma questa autonomia, che significa anche creatività, talora mette a disagio, cosicché vi sono interpreti che si affrettano ad 62 informare, ed a rassicurare, il lettore che "i cinque poliedri regolari non sono solo il frutto di un procedimento puramente intellettuale, giacché anche nel mondo naturale non mancano esempi di forme riconducibili alle cinque figure solide regolari" (Gario, 1979, p. 26). Si allude qui ai problemi posti dalle forme dei cristalli ed alle questioni di grande interesse rela­­tivi alla cristallografia. Si è rilevato intanto che "tra le svariate forme cristalline ritroviamo quelle del tetraedro, del cubo e dell'ottaedro" mentre mancano le forme del dodecaedro e dell'icosaedro (ivi, p. 26). Altri problemi di notevole interesse si sono manifestati alla luce delle indagine della struttura atomica dei cristalli (ivi, p. 18-26). Ma si tratta manifestamente di esempi che hanno ben poco a che vedere con la speculazione platonica. In rapporto alla quale occorrerebbe avvertire il lettore dell'esatto contrario: i solidi platonici sono proprio "il frutto di un procedimento puramente intellettuale", che essi sono autentiche costruzioni intellettuali e Platone li vuole esplicitamente far valere come tali. - Su queste costruzioni l'immaginazione associativa è fin dall'inizio in opera. Ma il punto fondamentale è che sarebbe sbagliato ritenere necessario ritrovare una qualche somiglianza tra la forma geometrica e l'elemento di cui essa sarebbe l'essenza - dal momento che non è questa somiglianza a motivare l'andamento del discorso platonico. Vi è invece un motivo più forte, che in certo senso ci fa dimenticare il riferimento concreto alle materie primigenie, e che è connesso alla struttura formale degli oggetti geometrici e che fa venire in primo piano il problema della possibilità del trapassare l'uno nell'altro. - Ad eccezione del cubo e del dodecaedro, tutte le facce degli altri solidi regolari - quindi il tetraedro, l'ottaedro e l'icosaedro - sono triangoli equilateri. Ma anche il quadrato che rappresenta la faccia del cubo e il pentagono che rappresenta quella del dodecaedro possono essere suddivisi in triangoli. Il quadrato suddiviso 63 dalla diagonale esibisce due triangoli isosceli e triangoli isosceli risultano anche dalla suddivisione del pentagono ad opera delle sue mediane. Questo risultato può essere generalizzato perché, se consideriamo qualunque poligonale chiusa e convessa, che è il caso che qui ci interessa, essa potrà essere sottoposta ad una operazione di triangolazione, tracciando un segmento da un solo vertice agli altri vertici non consecutivi, quindi senza intersezioni. Naturalmente ciascun triangolo interno così ottenuto potrà essere indifferentemente equilatero, isoscele o scaleno. Il punto importante è che si possa riportare una forma piana qualunque a superfici triangolari. Questa possibilità è un passo che conferma e rafforza la tendenza interpretativa a ridurre la materia alla spazialità. L'idea della materia deve essere ripensata secondo l'angolatura che questa tendenza suggerisce, e in realtà andare verso la propria dissoluzione. In precedenza abbiamo parlato di una matericità informe, rievocando anche l'immagine mitica del caos. Abbiamo anche parlato di una potenzialità di tutte le forme, assimilando questa potenzialità ad una materia non ancora plasmata. Queste immagini possono ancora essere mantenute, ma l'accento deve essere spostato, ed in maniera assai significativa. Questa matericità infatti si è rivelata essa stessa fatta di spazio ovvero di forme e di figure spaziali. 64 - L'elemento della forma-figura si fa avanti prepotentemente mentre l'idea della matericità si indebolisce sempre più e si rafforza invece quella di una spazialità concepita come pura estensione che ha in sé la potenzialità di tutte le forme in quanto ogni forma può essere intesa come parte di essa, ovvero come il risultato di una suddivisione, come un ritaglio di essa. La triangolazione è una sorta di suddivisione primaria da cui possono derivare tutte le altre forme. - Debbo avvertire che un simile percorso, così esplicito, così diretto, in Platone non lo si ritrova. Non abbiamo difficoltà ad ammettere che, in particolare con queste ultime considerazioni andiamo piuttosto nettamente oltre la lettera del testo, operando un prolungamento a cui siamo indotti dal ripensamento del percorso platonico. Il problema della triangolazione - La specificità della posizione platonica non sta soltanto nel fatto di riportare le quattro materie primigenie ai poliedri regolari integrando la questione geometrica in un sistema del mondo secondo una forma mentis che pensa in forme matematiche, quindi in realtà in forme relazionali, con le quali ha sempre a che fare il pensiero geometrico. Sta anche, e forse soprattutto, nel modo in cui questa integrazione viene effettuata fino dai suoi primi passi. Occorre allora anzitutto dare la dovuta pregnanza di significato al primo attacco del problema in Platone. -Rileggiamo con attenzione questo attacco: "E prima di tutto è chiaro ad ognuno che fuoco, terra, acqua e aria sono corpi. Ma ogni specie di corpo ha anche profondità; ed è assolutamente necessario che la profondità contenga in sé la natura del piano, e qualunque superficie chiusa da una linea rettilinea si compone di triangoli" [53c]. 65 - Si tratta di passaggi estremamente rapidi, ma assai significativi. Dal fatto che le quattro materie sono corpi, Platone sottolinea subito che è proprio di esse la "profondità" ovvero la terza dimensione, e ciò ci potrebbe far supporre un ulteriore passaggio ai "solidi". - Invece non è così. Infatti si afferma subito che ciò che è essenziale alla tridimensionalita è il piano, la superficie. È come se fin da questo primo attacco Platone pensasse prima ancora che al solido, al suo possibile sviluppo sul piano, o meglio ancora: pensando al solido Platone pensa soprattutto al modo di costruirlo a partire da una superficie piana e quindi ai pezzi necessari per comporlo. Tutta la questione è posta in termini genetico-costruttivi. - Intanto si possono riportare sul piano le forme fondamentali, squadernandole in modo che esse possano essere ricomposte: - tetraedro 66 - esaedro (cubo) - ottaedro - icosaedro 67 - dodecaedro (Di ciò Escher approfitterà per un suo variopinto e geniale album sui solidi platonici). - Sappiamo già, e lo vediamo ancor meglio dalle figure squadernate, che il triangolo è dominante nelle tre forme del tetrae­dro, ottaedro e icosaedro. Ma è chiaro anche che la diagonale del quadrato realizza due triangoli e tre triangoli risultano congiungendo un vertice del pentagono con gli altri vertici non consecutivi. A mio avviso in tutta questa tematica platonica l'idea della trian- 68 golazione dello "spazio" è dominante ed essa è manifestamente suggerita proprio dalla riflessione sui solidi regolari, benché il suo "campo di azione" sia più ampio. - Alcuni commentatori rammentano che la triangolazione era un metodo pratico di misurazione delle aree. Con questo metodo era possibile misurare l'area di superfici anche molto irregolari, proprio perché esse potevano essere ridotte ad un certo numero di triangoli di cui era relativamente facile ottenere le misure e calcolare l'area. Questo riferimento è certamente pertinente, ma occorre nello stesso tempo attirare l'attenzione sul fatto che questa possibilità non è certo considerata qui come il risultato di una mera constatazione empirica, ma è diventata una possibilità essenziale. Tutto il problema si pone ora sul terreno di ciò che appartiene all'eidos, all'essenza. All'essenza dei corpi appartiene la profondità; ma all'essenza della profondità appartiene il riferimento al piano. Ed ogni figura tracciata nel piano, e precisamente ogni figura poligonale chiusa - e la "convessità" è sottintesa - dunque ogni poligono in senso usuale può essere diviso in triangoli. Come se si dicesse: prendete una superficie a piacere, comunque delimitata. E potrete suddividerla in modo tale che essa risulti composta solo da triangoli. Una superficie qualsiasi, presa a piacere: queste parole innocue, questo qualsiasi, questo fa come vuoi, annunciano il passaggio ad una vera e propria nuova modalità del pensiero, che non guarda più semplicemente alla particolarità, alle caratteristiche empiriche e perciò precarie, ma a ciò che appartiene alle regole interne che sono costitutive della forma come tale. - Nello stesso tempo la molteplicità delle forme possibili si rivela "riducibile", dal momento che ogni forma può essere considerata come risultante di una composizione di un unico tipo formale. Come i filosofi che lo hanno preceduto, Platone cerca gli "elementi" 69 nel senso di parti ultime, ma secondo uno stile interamente nuovo. La riduzione al triangolo "platonico" - Se è il triangolo si rivela così significativo rispetto alle forme in genere, esaminiamo più da vicino il triangolo stesso. Possiamo operare in rapporto ad esso ancora qualche partizione che risulti in qualche modo significativa? La richiesta di significatività è certo ovvia: non si chiede qui una partizione qualunque, con linee qualunque, ecc.: ma una partizione che metta in gioco tipologie formali e compositive ben definite, che possano essere attribuite all'essenza. L'attenzione cade allora sulla possibilità di suddividere un triangolo qualunque in due triangoli rettangoli. Ciò può avvenire tracciando da un qualsiasi vertice la perpendicolare al lato ad esso opposto. Questa non è una possibilità empirica, ma eidetica: ad ogni triangolo spetta la possibilità di principio di essere suddiviso in triangoli rettangoli. Questi a loro volta sono di due tipi: o hanno due, e solo due lati eguali - i due cateti, ovviamente - oppure tutti i lati sono diseguali. Tutti i triangoli rettangoli si distinguono dunque in due specie: gli isosceli e gli scaleni (53d). Ecco dunque un'ulteriore "riduzione" all'elementare. Non sono i triangoli in generale che vanno considerati, ma i triangoli rettangoli come "costituenti" dei triangoli in genere. - Si noti che l'espressione "costituenti" ha evidentemente un senso particolare: essa rimanda ad una possibile suddivisione del triangolo e nello stesso tempo, correlativamente, ad una sua possibile costruzione. Ad un processo di decomposizione è ovviamente correlato un processo di composizione. Tutto il percorso mostra poi di essere guidato non da un intento puramente tipologico-classificatorio, ma piuttosto dal tentativo di rintracciare un percorso per una costruzione possibile. Rivediamo intanto i tre solidi le cui facce sono triangoli equilateri, ulteriormente suddi- 70 vise in triangoli rettangoli. Nel caso del cubo e del dodecaedro le cose cambiano un poco. 71 I triangoli già ottenuti nel caso del cubo sono isosceli e di conseguenza otteniamo dei triangoli rettangoli isosceli tracciando anche l'altra diagonale. Per quanto riguarda il dodecaedro sappiamo già che ogni sua faccia è divisibile in tre triangoli isosceli. - Sia i triangoli rettangoli isosceli che i triangoli rettangoli scaleni hanno una fondamentale importanza strutturale-costruttiva. Tuttavia Platone attira subito l'attenzione su un particolare tipo di triangolo rettangolo scaleno. Esso risulta dalla divisione del rettangolo equilatero, e di conseguenza ha una caratteristica formale particolarmente notevole: la sua ipotenusa è esattamente il doppio del cateto minore. 72 a b c Created using UNREGISTERED Top Draw 2/6/96 3:35:43 PM - Per intenderci in breve, daremo a questo particolare triangolo rettangolo il nome di triangolo platonico. Ricorrendo al teorema di Pitagora non è difficile ricavare il rapporto tra i due cateti e il rapporto tra il cateto maggiore e l'ipotenusa. Essendo a = 2c e dunque c = a/2, volendo esprimere il quadrato di b nel quadrato di c ci serviremo del teorema di Pitagora b2 + c2 = a2 b2 = a2- c2 b2 = (2c)2 - c2= 4c2- c2=3c2 Di qui abbiamo la formulazione platonica secondo cui "il quadrato del lato maggiore è il triplo del quadrato del lato minore" Volendo invece esprimere il quadrato di b nel quadrato di a, sostituiremo nell'equazione or ora ottenuta c con a/2 ottenendo b2 = 3 (a/2) 2 = 3 a2/4 = 3/4 a2 Avremo dunque come proprietà del triangolo platonico le proprietà conseguenti al fatto che l'ipotenusa è il doppio del cateto minore, e precisamente il quadrato del cateto maggiore è il triplo del quadrato del cateto minore (ovvero il quadrato del cateto minore è pari a 1/3 del quadrato del cateto maggiore) e il quadra- 73 to del cateto maggiore è pari a 3/4 del quadrato dell'ipotenusa (ovvero il quadrato del cateto minore è pari a 1/4 del quadrato dell'ipotenusa) La bellezza del triangolo platonico - In realtà ci saremmo potuti limitare a ricordare la prima e più semplice caratteristica del triangolo platonico, quella che stabilisce che l'ipotenusa è il doppio del cateto minore. Ma un poco pedantescamente abbiamo voluto ricavare anche gli altri rapporti e vi insistiamo un poco per una ragione molto precisa ed a mio avviso molto interessante. - Platone osserva che tra gli infiniti triangoli scaleni generabili questo è il più bello, e dunque il più meritevole di essere preso in considerazione in rapporto ai solidi regolari. Questa circostanza viene normalmente riferita come una piccola curiosità nei commenti, senza dare ad essa soverchia importanza. Ad esempio, Taylor nota che Timeo non spiega "quale sia la peculiare bellezza di questi triangoli" ma, rifacendosi a commenti platonici più tardi, propone che essa dipenda dalla particolare semplicità dei rapporti tra le grandezze angolari del triangolo isoscele derivante dalla suddivisione del quadrato (che i pitagorici chiamavano semi-quadrato) e del triangolo rettangolo scaleno derivante dalla suddivisione del triangolo equilatero (che i pitagorici chiamavano "semi-triangolo��). (Taylor, 1968, p. 707). In effetti i gradi degli angoli del triangolo rettangolo isoscele in questione sono 45, 45, 90, dunque i loro rapporti 1:1:2, mentre quelli del triangolo scaleno sono 30, 60, 90 e i loro rapporti conseguentemente 1:2:3. Io credo che questa spiegazione sia piuttosto insignificante, anche se ha il merito di riferirsi alla tradizione antica dell'elogio dei numeri semplici. L'obiezione che si può fare tuttavia è che essa non sembra integrarsi nel discorso complessivo qui condotto. Inoltre qui ci si riferisce ad entrambi i tipi di triangoli, 74 mentre a quanto sembra in questo contesto viene chiamato in causa il solo triangolo rettangolo scaleno. - Platone ha in mente qualcosa; ed insiste un poco sulla questione presentando le cose come una sorta di enigma che l'interlocutore è provocato a risolvere. È certamente questa la forma più bella - egli dice: "E se per la composizione di questi corpi qualcuno ce ne può dire una più bella, scelta da lui, egli vince non come nemico, ma come amico...." (54 a). E poi, misteriosamente: "Dire il perché sia la forma più bella, sarebbe troppo lungo: ma a chi contraddice a questo, e trova che non è così, è riservata come premio la nostra amicizia" (54b). - Ora, considerando i rapporti precedentemente calcolati tra cateti ed ipotenusa del triangolo rettangolo scaleno credo di poter dare una mia spiegazione piuttosto precisa della "bellezza" del triangolo platonico, essendo anche certo che essa è così a portata di mano che sarebbe strano che non si trovasse per questa mia ipotesi un appoggio bibliografico. - Intanto, in rapporto ad un filosofo come Platone, non è il caso di pensare che il "bello" debba essere colto con gli occhi, e che dunque si debba guardare il triangolo e giudicare se esso ci appaia più o meno bello. Dobbiamo piuttosto considerare la questione sotto il profilo dei rapporti. E precisamente assumendo il rapporto in certo senso costitutivo del triangolo platonico - cioè il rapporto del doppio che sussiste tra ipotenusa e cateto minore - associandolo al rapporto tra il quadrato del cateto maggiore rispetto all'ipotenusa (3/4) e al rapporto tra il quadrato del cateto minore rispetto a quello maggiore (1/3, di cui considereremo il complementare 2/3) ed interessandoci dell'aspetto puramente numerico ne risulta la serie: 75 1 3/4 2/3 1/2 Forse ci si potrebbe limitare a notare la presenza in questi rapporti dei numeri 1, 2, 3, 4 - una successione che ha sempre avuto una grande importanza "numerologica" ribadendo l'idea dei numeri semplici che per di più sono i primi nella serie dei numeri. Ma a mio avviso vi è una spiegazione più profonda che si comprende subito se riportiamo questi rapporti in rapporti tra grandezze lineari. Per chiarezza allora disegnamoli in questo modo: 1 3/4 2/3 1/2 Created using UNREGISTERED Top Draw 2/26/96 9:41:58 PM Questi rapporti sono di grandissima importanza musicale: riportati sulle corde faranno risuonare le consonanze perfette conosciute e celebrate dalla teoria musicale greca. Nell'ordine: suono di riferimento che corrisponde all'intero; in rapporto alla corda che è tre quarti della corda di riferimento avremo la quarta superiore al suono di riferimento, in rapporto a 2/3 avremo la quinta superiore, infine l'ottava superiore. - È mia convinzione, in altri termini, che la "bellezza" del triangolo elementare platonico sia da riportare ai rapporti musicali che sono leggibili in esso. Inoltre si tratta di una spiegazione coerente con l'impostazione di principio di Platone. Questi rapporti si ripresentano anche nella determinazione dell'anima del mondo (35a - Cfr. Giarratano, 1971, p. 383- 384, note 49- 50). 76 Il triangolo platonico e il triangolo equilatero - Questo rimando musicale arricchisce sul piano simbolico-immaginativo la scelta platonica in rapporto alla concezione delle materie primigenie e ribadisce su questo piano il nesso con i solidi regolari. - Rammentiamo che le facce del tetraedro, dell'ottaedro e dell'icosaedro sono triangoli equilateri. Ora, come abbiamo visto nelle figure precedenti, il triangolo equilatero esibisce immediatamente la propria composizione in due triangoli platonici, al punto che questa circostanza potrebbe essere impiegata nella definizione di triangolo platonico. Infatti se noi tracciamo l'altezza di un triangolo equilatero - questa altezza divide il triangolo in due triangoli eguali in questo modo: a b c - Che l'ipotenusa sia il doppio del cateto minore nel triangolo abc risulta del tutto ovvio per il fatto che in un triangolo equilatero la linea perpendicolare tratta dal vertice al lato opposto (altezza) è una "mediana", cioè essa termina nel punto medio del lato opposto, e questo lato è appunto eguale all'ipotenusa del triangolo abc. - Di fatto per introdurre la nozione di triangolo rettangolo sca- 77 leno Platone impiega in primo luogo proprio la possibilità di produrlo "costruttivamente", e quindi di usare questa possibilità come una sorta di definizione. In sostanza potremmo dire che chiamiamo triangolo platonico il triangolo rettangolo scaleno che risulta dalla suddivisione di un triangolo equilatero ovvero come Platone dice inversamente "quel triangolo che ripetuto forma un terzo triangolo che è equilatero"(54b). - Ma Platone non si ferma a questo punto. La ricerca riguarda pur sempre gli "elementi" - espressione che implica una qualche forma di "indecomponibilità", di suddivisione ultima. Cosicché ci si deve chiedere, e di fatto Platone si chiede, se non sia possibile, mantenendo ferma l'idea che elemento ultimo sia in ogni caso sotto il profilo formale il triangolo rettangolo scaleno con le caratteristiche che abbiamo descritte, procedere ad una suddivisione più fine. - E in effetti ci si rende così conto che in un triangolo equilatero sono contenuti non solo due triangoli platonici ma ben sei. La figura che suggerisce questa circostanza è la seguente, nella quale vengono tracciate tutte le altezze di un triangolo equilatero. Si rammenti che l'altezza, in un triangolo equilatero, coincide con la mediana - ovvero con il segmento che va da un vertice al punto medio del lato opposto. 78 - Abbiamo detto: la suggerisce - ed in effetti noi vediamo che qui il triangolo equilatero è suddiviso in sei triangoli, ma come faccio a sapere che si tratta proprio di triangoli platonici? Sarebbe davvero singolare il fatto che la forma di suddivisione di una mediana di un triangolo equilatero scaleno si ritrovi nei triangoli prodotti dall'intersezione di tutte le mediane. Ciò non è affatto ovvio, ed io non posso dire che ad occhio e croce le cose sembrano stare proprio così. - In realtà vi sono due vie per mostrare che ciascuno dei sei triangoli che risultano da questa suddivisione è in effetti un triangolo platonico. Una via la potremmo chiamare via dimostrativa, e non la troviamo propriamente in Platone, ma la dobbiamo cercare tra i teoremi di Euclide. - Anzitutto in un corollario della XV proposizione del libro IV, che tratta dell'esagono regolare iscritto in un cerchio. Nel corollario a questa proposizione si sancisce che il lato dell'esagono è eguale al raggio del cerchio circoscritto. Stabilito questo dobbiamo fare riferimento ad una parte di una dimostrazione del libro XIII, estraendola da una proposizione, la XII, che serve allo scopo e pur non avendo esattamente di mira il nostro problema, appartiene in ogni caso alle dimostrazioni preparatorie ai poliedri regolari. Il teorema in questione stabilisce che se un triangolo equilatero è inscritto in un cerchio, il quadrato sul lato del triangolo è triplo del quadrato costruito sul raggio del cerchio. Ma a noi interessa solo la costruzione iniziale. La figura di base è un triangolo ABC iscritto in un cerchio 79 Da A si prolunga il raggio AD sino ad E e si congiunge B con E. Essendo il triangolo ABC equilatero, il tratto di circonferenza BEC è pari ad un terzo della circonferenza e il tratto BE è pari a un sesto. BE è dunque lato di un esagono inscritto alla circonferenza e BE è eguale DE (in forza del corollario or ora ricordato). - A questo punto non ci serve altro se non argomentare sulla seguente figura che riprende la precedente Essendo BE=EF+FD ed essendo BD esso stesso raggio del cerchio circoscritto, il triangolo BD, BE, EF+FD è equilatero, e tutti i triangoli interni al triangolo equilatero maggiore sono triangoli platonici. 80 - È chiaro a questo punto in che senso possiamo parlare qui di una via dimostrativa. Si mostra che il teorema è conseguenza di altre proposizioni precedentemente dimostrate. La figura vale qui solo come un ausilio aggiuntivo alle formulazioni verbali. - Nel Timeo troviamo una diversa proposta che apparirà a tutta prima singolare. Platone propone di formare anzitutto un quadrilatero associando due triangoli platonici attraverso le ipotenuse, mostrando che attraverso la congiunzione di tre di questi quadrilateri si ottiene la formazione di un triangolo equilatero. In questo caso, in effetti più delle parole, valgono le figure. Il quadrilatero viene formato così: Ora supponiamo di avere tre pezzi fatti così che possiamo rigirare a piacere. Il problema è di vedere se riusciamo a formare un triangolo equilatero. In effetti tutto il segreto sta nell'accostare tra loro i cateti più brevi. 81 Ogni lato del triangolo formato in questo modo risulta essere formato da due cateti lunghi - pertanto tutti i lati sono eguali ed il triangolo è equilatero. A questa costruzione fa riferimento esplicito Platone quando dice: "Se si compongono insieme due siffatti triangoli secondo la diagonale e questo si ripete tre volte di modo che le diagonali e i lati brevi convergano nello stesso punto, come in un centro, nasce di sei triangoli un solo triangolo equilatero" (54e). (Parlando di diagonale si intende: "se si compongono insieme due triangoli secondo la loro ipotenusa in modo che questa formi la diagonale di un quadrilatero" - tenendo presente che con diagonale di un poligono si intende il segmento che connette due suoi vertici non consecutivi). - Qui siamo in realtà molto distanti dalla via dimostrativa che abbiamo illustrato in precedenza, e siamo piuttosto in presenza di una via che potremmo chiamare via costruttiva: più precisamente, una "dimostrazione" viene effettuata, ma non nel senso di una concatenazione di proposizioni, di premesse e conseguenze, ma piuttosto in quello di indicare un metodo di costruzione da cui risulta senz'altro l'equilateralità del triangolo in questione. - "Senz'altro" non vuol dire qui semplicemente "a vista". Significa piuttosto che afferro che si tratta di un triangolo equilatero sulla base del modo in cui è costruito. Interviene qui quasi esclusivamente la comprensione del modo in cui la figura è costruita. La figura stessa che vi propongo, nella regola della sua costruzione, rappresenta essa stessa la "dimostrazione". - Wittgenstein si chiese una volta se una figura potesse fungere da dimostrazione. Oltre che lettore di libri gialli, egli era anche un attento lettore di Platone. 82 - Naturalmente vi è anche un'altra differenza. Mentre nel primo caso procedevamo dall'intero verso la parte e dimostravamo che la suddivisione effettuata portava effettivamente a parti che erano triangoli platonici, in questo caso noi procediamo dalla parte, il triangolo platonico e dimostriamo costruttivamente che è possibile formare un triangolo equilatero attraverso sei di essi. L'aspetto comune è in ogni caso quello del rapporto intero e parte. - Sono costretto a prendermi la responsabilità della distinzione tra via dimostrativa e via costruttiva: nelle esposizioni correnti si fondono le due vie, senza rilevare la profonda e interessante differenza. Le trasformazioni reciproche - A questo punto possiamo ritornare ai nostri poliedri regolari, o più precisamente ai poliedri regolari che hanno come facce dei triangoli equilateri. Se ogni faccia equilatera può essere suddivisa in sei triangoli platonici, avremo una semplice regola per decidere quanti triangoli platonici ci vogliono per ciascun poliedro. Si tratterrà si moltiplicare per sei il numero delle facce. Dunque: fuoco = Tetraedro = 24 triangoli aria = Ottaedro = 48 triangoli acqua = Icosaedro = 120 triangoli Ovviamente questa regola non vale per il cubo, dunque per la terra. Avendo facce quadrate, tirando le diagonali avremo per ogni faccia quattro triangoli isosceli - del triangolo equilatero proprio non se ne parla. Quindi in totale, essendo sei le facce, 24 triangoli isosceli. Volenti o nolenti, in Platone si deve ammettere questa "disomogeneità", quindi si deve ammettere anche l'importanza, in rapporto alla geometrizzazione delle materie primigenie, del triangolo isoscele. Ma, come subito vedremo, con l'aiuto della fantasia mitica, faremo tesoro anche di questa "in- 83 congruenza" soprattutto in rapporto al problema della trasformazione reciproca delle materie. - Come abbiamo accennato all'inizio, all'origine di tutto sta la domanda: come rendere conto del trapassare l'una nell'altra delle materie primigenie? In questo problema ne va di mezzo la loro reale essenza. Intanto bisogna guardarsi dal ritenere che questa trasformazione sia affidata ad una sommatoria dei solidi come tali o ad una qualche loro composizione. In realtà lo studio secolare successivo dei solidi regolari ha portato alla luce delle straordinarie relazioni tra essi, basti rammentare la formula di Eulero che stabilisce una "caratteristica" aritmetica omogenea per essi secondo la quale per tutti i solidi regolari vale: V(ertici) - S(pigoli) + F(acce) = 2 Ma vennero scoperte anche interessanti relazioni tra i solidi come entità geometriche. Ad esempio, tra il cubo e l'ottaedro - l'uno si può "trasformare" nell'altro congiungendo mediante segmenti il centro di ogni faccia del solido considerato. La stessa situazione si verifica nel caso dell'icosaedro e del dodecaedro. Questi rapporti hanno il loro corrispondente nell'inversione tra vertici e facce - avendo il cubo 8 vertici e 6 facce e l'ottaedro 6 vertici e 8 facce, analoga inversione si verifica per il dodecaedro (20 vertici e 12 facce) e l'icosaedro (12 vertici e 20 facce). E le relazioni notevoli tra i cinque corpi non finiscono qui, e riguardano ad esempio anche la possibilità di "combinarsi" variamente tra loro inscrivendosi l'uno nell'altro (Ghyka, 1977, cap. IV, in part. p. 41). - Queste relazioni non erano note a Platone e d'altra parte facendo riferimento al quadro complessivo da lui delineato risulta piuttosto naturale interpretare il problema della trasformazione di una materia nell'altra non già per contatto o per divisione e qualche sorta di composizione dei solidi corrispondenti ma per 84 decomposizione nelle forme più elementari e nella ricomposizione di nuove forme a partire da esse. Il solido viene squadernato sul piano, e poi nuovamente ripiegato in un nuovo solido, utilizzando le parti triangolari necessarie. Così, constando l'ottaedro di 48 triangoli platonici con questi io potrò certamente costruire due tetraedri ciascuno dei quali consta di 24 triangoli platonici. Così l'aria diventa fuoco. Con ciò io tenderei anche a ribadire l'idea che il fulcro (e la specificità) della tematica platonica non sta solo nel richiamo ai poliedri regolari, ma soprattutto nell'idea della triangolazione. - Del resto mi sembra che Platone sia piuttosto chiaro su questo punto: almeno per quanto riguarda il tetraedro, l'ottaedro e l'icosaedro "essendo tutte [queste forme] derivate da un solo triangolo, dissolvendosi le più grandi, se ne formeranno molte piccole" e queste "possono costituire un'altra forma grande. E questo basti a proposito della reciproca trasformazione delle forme" [54d]. Il cubo, ovvero la terra - Naturalmente Platone sottolinea fortemente che questa possibilità sussiste solo per i poliedri che hanno come facce dei triangoli equilateri. Ecco la precisazione platonica che riguarda il cubo: "Ma ora occorre definire meglio quello che prima fu detto oscuramente. Ci pareva che tutte le quattro specie si generassero l'una dall'altra; ma questa non era una concezione esatta. In verità dai triangoli che abbiamo scelto [isoscele e scaleno] nascono quattro specie, ma tre da quel solo triangolo che ha i lati diseguali e la quarta è formata essa sola dal triangolo isoscele" [54c]. - Si tratta appunto del cubo. Platone si mostra assolutamente rigoroso e coerente nel concludere da questa circostanza che il cubo - ovvero la terra - ha una posizione particolare proprio in 85 ordine al problema della trasformazione. La terra, dice Platone, può certamente frantumarsi, sminuzzarsi, e quindi essere sottoposta a vari processi di redistribuzione, eventualmente proprio sotto l'azione delle altre materie come il fuoco, l'aria o l'acqua, ma è nello stesso tempo caratterizzata da una sorta di inconvertibilità, nel senso che dopo queste frantumazioni e spezzettamenti comunque resta sempre terra e non può trasformarsi in un'altra materia. - "La terra, incontrandosi con il fuoco e disciolta dall'acutezza di esso, errerebbe qui e là, o sciolta nel fuoco stesso o nella massa dell'aria o dell'acqua, fino a che le sue parti incontrandosi non si riunissero di nuovo fra loro e ridivenissero terra: perché esse non potrebbero passare mai in altra specie" [56d]. - Una relazione geometrica ovvero l'impossibilità strutturale di costruire un cubo attraverso triangoli platonici diventa esplicativa di un discorso propriamente fisico. E questo è certamente un aspetto che illustra il senso complessivo dell'impostazione platonica. Naturalmente non si può pretendere che una simile impostazione sia limpida e chiara - ci sono difficoltà interpretative che non sono soltanto difficoltà di lettura del testo, ma anche di ordine concettuale; sono le difficoltà di un discorso che sa benissimo di essere arrischiato, e dopo essersi così seriamente addentrato nel territorio della geometria, quindi della conoscenza pura, avverte di essere ricacciato di continuo in prossimità dell'immaginario. - Le considerazioni geometriche riconfluiscono in considerazioni fisiche che hanno una base puramente associativo-immaginativa. Come si è già rammentato, il cubo viene connesso alla terra rammentando la sua forma statica rispetto, ad esempio, ad un icosaedro o un ottaedro. 86 - "...la terra è la più difficile da muovere delle quattro specie ed è di tutti i corpi il più tenace" (55e). - "Ora, dei triangoli posti da principio è più stabile naturalmente la base dei triangoli che hanno lati eguali piuttosto che lati diseguali. E la superficie equilatera quadrangolare [quadrato] composta da due triangoli isosceli è necessariamente più stabile, sia nelle parti che nella sua totalità, che una superficie triangolare" (55 e). Fuoco aria acqua. Il pesante e il leggero - Abbiamo parlato dell'acutezza del fuoco (56d), e dunque del suo carattere puntuto, tagliente, cosicché il tetraedro si presta in modo particolare all'associazione. Altre caratterizzazioni verranno a loro volta riportate alla struttura geometrica in un impiego arrischiato dei concetti e dei termini: così il tetraedro-fuoco sarà piccolo e leggero, mentre l'acqua-icosaedro sarà il corpo più grande e più pesante (oltre che meno "tagliente"). Ma che cosa significa qui grande e piccolo, leggero e pesante? Non si tratta forse di aggettivi che esigono il riferimento ai corpi? Non vi è qualche prossimità con la posizione democritea? In effetti almeno un punto sembra contenere un accenno molto netto ad un'interpretazione corpuscolare, come se le forme dei poliedri fossero forme di atomi. Anche in Democrito del resto la differenza di forma degli atomi aveva un'importanza nella determinazione delle differenze sensibili. - "Tutti questi elementi - dice una volta Platone [56c] - bisogna concepirli così piccoli che nessuna delle singole parti di ciascuna specie possa essere veduta da noi per la sua piccolezza, ma riunendosene insieme molte, si vedano le loro masse". - Qui la piccolezza sembra avere un senso fisico vero e proprio e 87 quindi ricordare in qualche modo la prospettiva filosofica dell'atomismo. Se così fosse le forme poliedriche sarebbero forme di corpuscoli. Ad esempio, l'acqua sarebbe un composto di microscopici icosaedri. A mio avviso quel cenno ad una possibile interpretazione in questa direzione, che affiora nella citazione indicata, deve essere intesa come una marginale deviazione di un corso di idee che punta in tutt'altra direzione. Nello spirito complessivo del discorso platonico, la questione non è mai quella dell'indivisibile nel senso atomistico, del corpuscolo atomico. Gli elementi ultimi sono invece proprio i triangoli "platonici " - il problema del­l'indivisibilità nel senso atomistico non si pone nemmeno così come non si pone il problema di uno spazio inteso come vuoto entro cui gli atomi, che sono veri e propri grumi minimi di materia, vagherebbero secondo la loro forma e il loro peso. - Alla base della riflessione platonica vi è l'idea generale di una totalità indivisa su cui viene effettuata un'operazione di partizione triangolare. Di conseguenza il richiamo ai poliedri ha soprattutto il senso di un richiamo al sussistere di una rete di rapporti formali - cosa che rende conto anche della valenza simbolica dell'associazione. Detto in altro modo: quando associamo l'acqua all'icosaedro non vogliamo dire che essa è fatta di tanti piccoli icosaedri, tanto piccoli da essere invisibili (come sembra si dica appunto nella citazione precedente a cui vogliamo dare il significato di una esitazione che non ha seguito); quanto piuttosto che alla formazione sensibile "acqua" sottostanno una rete di rapporti ideali in base ai quali essa può entrare in relazione e interagire con gli altri elementi. Questi rapporti ideali sono eminentemente di ordine numerico e spaziale. - Ciò che è in questione proprio il numero dei triangoli costitutivi: l'acqua è detta "pesante" perché consta di ben 120 triangoli elementari contro i 24 triangoli elementari di cui consta inve- 88 ce il fuoco; e per lo stesso motivo parleremo della grandezza dell'icosaedro e della piccolezza del tetraedro. Evidentemente, geometricamente parlando, piccolo e grande non hanno certo a che vedere con il numero delle facce; e tanto meno si può parlare in rapporto ad un oggetto "puramente" geometrico di un peso, e ancor meno riferendolo al numero delle facce. Si tratta di un ragionamento che certamente "non sta in piedi", di un ragionamento misto, o come dice Platone, di un ragionamento bastardo. L'espressione è piuttosto forte ma la traduzione è in realtà strettamente aderente al testo. Ragionamenti bastardi - Il pensiero bastardo non sta solo prima del pensiero puro ma continua ostinatamente a sopravvivere accanto ad esso: talora come residuo che si oppone agli interessi della conoscenza, ma talaltra, al contrario, come stimolo e come elemento di vitalità che sa superare le lentezze di un pensiero troppo imbrigliato dall'idea della perfezione. - L'espressione ragionamento bastardo viene talora mitigata nelle traduzioni, con metafore più deboli. Io penso invece che la si debba mantenere proprio per la sua forza provocatoria. Questa provocazione richiama molti problemi, che in parte sono strettamente attinenti a Platone, in parte vanno oltre l'orizzonte dei suoi problemi. - Ciò che mi colpisce è da un lato la consapevolezza che Platone manifesta di fronte a ragionamenti di questo tipo - dall'altro il fatto che in ogni caso egli si assume la responsabilità del ragionamento bastardo, ed in questo modo riesce a formulare l'idea fondamentale di una legalità geometrico-matematica soggiacente ai fenomeni della natura che si ripresenta in forme nuove e decisive per la nascita della scienza moderna in età rinascimentale e postrinascimentale. Ma a parte Platone e il platonismo, quell'espressione ci pone alla presenza del problema di una ri- 89 flessione sugli intrecci tra ragionamento e immaginazione, sulle possibili differenze, sulle loro possibili forme di unità; sulla funzione dell'immaginazione nel processo di formazione dei concetti e naturalmente anche sul senso di una razionalizzazione come processo di purificazione e di depurazione dagli elementi mitico- immaginativi. - Eppure siamo tentati di dire: non è forse tempo di dedicare un poco di attenzione epistemologica ai "concetti bastardi" per chiarire la funzione che essi talora svolgono nel processo della conoscenza? Essi non assolvono forse assai spesso la funzione di riempire delle lacune che non possono essere risolte con i mezzi di cui attualmente si dispone e riempiendo queste lacune consentono alla conoscenza di proseguire il suo corso? Non accade che attraverso il concetto bastardo si formulino ipotesi in un senso un po' speciale, e che anche questa funzione promuova il procedere della scienza? E addirittura che colgano, e forse non del tutto a caso, qualche particella di verità? D'altra parte la terra è stata immaginata rotonda prima che la si potesse vedere come tale. - E per stare al nostro argomento, infine a me sembra straordinario che, attraverso ragionamenti bastardi, Platone o chi per lui non solo riesca ad associare il problema dei poliedri regolari alla tematica della sfera, ma soprattutto a quella della loro riduzione al piano e della triangolazione delle superfici. Il passaggio di fondamentale importanza, che mi sembra poco sottolineato nei commenti, è proprio quello della riconduzione al piano del solido. Duemiladuecento anni dopo, Augustin-Louis Cauchy (1789-1857), accingendosi a riformulare ed a generalizzare la caratteristica di Eulero, che abbiamo precedentemente citato, realizza anzitutto una "rimozione" di un faccia del poliedro e "appiattisce" poi il solido su questa faccia "ottenendo una figura piana fatta di parecchi poligoni contenuti in un contorno 90 dato… dividendo poi il grafo in regioni triangolari aggiungendo diagonali a tutte le facce non triangolari". Questa operazione di Cauchy - che trova una esposizione chiara e competente nel bel libro di David S. Richeson (Richeson, 2008, cap. XII, pp. 112 sgg.) - viene considerata fra i primi passi verso l'elaborazione di un concetto topologico della superficie. Non mi sembra peraltro che nei commenti al Timeo questo riferimento sia particolarmente presente - sia pure con la giusta consapevolezza di una matematica che ha percorso più di duemila anni di storia. Il dodecaedro ovvero della totalità - Vi è un solido regolare di cui non abbiamo affatto parlato, se non di sfuggita all'inizio e proprio per metterlo da parte: il dodecaedro. - In realtà alcune cose meritano proprio di essere dette. Come abbiamo notato all'inizio le materie primigenie sono quattro; i solidi regolari sono invece cinque. Uno di essi doveva restare escluso oppure avere una posizione a parte. Per di più il dodecaedro rappresenta a sua volta un caso speciale ed unico tra i solidi regolari. Le sue dodici facce sono pentagoni regolari. Naturalmente si possono effettuare triangolazioni in un pentagono, ma è impossibile realizzare una triangolazione in triangoli equilateri e conseguentemente in triangoli rettangoli scaleni del tipo previsto da Platone. Tuttavia il dodecaedro ci riserva qualche sorpresa. - La prima sorpresa, che forse non è del tutto pertinente allo sviluppo del nostro tema principale, è il fatto che tracciando le diagonali del pentagono, nel suo interno otteniamo ciò che è stato chiamato pentagono stellato (detto anche pentalfa, pentagramma o triplon trigonon). 91 Ma all'interno della figura si ripresenta nuovamente il pentagono, e dunque tracciando le sue diagonali otterremo un nuovo pentagono stellato con all'interno di esso un nuovo pentagono, sic ad infinitum. La regola di costruzione - di cui ho trattato abbastanza a lungo altrove (Piana, 1999) - è in effetti una regola ricorsiva. Questo è un aspetto di grande interesse della figura che non era certo ignoto ai pitagorici, i cui "numeri figurati" hanno carattere ricorsivo. Ed è inutile dire che anche questo aspetto contribuì alla pregnanza simbolica della figura. - Ma la seconda sorpresa, questa strettamente pertinente alla nostra discussione, è che vi è una modalità di suddivisione del pentagono che ci riporta al triangolo platonico: mentre nel caso del triangolo equilatero ottenevamo i sei triangoli platonici tracciando le altezze che coincidono in questo caso con le mediane, nel caso del dodecaedro possiamo ottenere i triangoli platonici usando sia le cinque mediane che congiungono un vertice con il punto medio dei lati opposti sia le cinque diagonali che congiungono vertici non consecutivi. La figura che ne risulta è la seguente: 92 In realtà si tratta di 30 triangoli platonici - ed essendo dodici le facce si giunge quindi a 360 triangoli (Boyer, 1995, p. 103). Un numero che converrà ricordare. - Il dodecaedro non solo era noto ai primi pitagorici come poliedro regolare, insieme al cubo ed al tetraedro, ma aveva anche per essi, proprio per la ricchezza di relazioni che esibiva, un particolare valore simbolico al punto da diventare emblema della setta. E naturalmente non lo avevano trovato per strada. Si è costretti talvolta a difendere la speculazione filosofica da una malintesa empiria più di quanto sarebbe necessario persino a lume di buon senso. Così vi è chi attribuisce la conoscenza del dodecaedro da parte pitagorica all'esistenza di miniere di pirite in Sicilia "un minerale di zolfo che cristallizzandosi assume la forma del pentagono dodecaedro, che è un poliedro non regolare, ma con struttura del tutto analoga a quella del dodecaedro. Nel pentagono dodecaedro ciascuna delle dodici facce è un pentagono con quattro lati eguali tra loro e uno di diversa lunghezza. A parte questa leggera irregolarità il cristallo di pirite costituisce un ottimo modello in natura di un dodecaedro. L'osservazione di questa forma di cristallizzazione potrebbe aver suggerito ai 93 matematici della scuola di Pitagora l'idea di costruire un solido analogo, ma con tutte le caratteristiche della regolarità" (Gario, 1979). Anche Rivaud dà credito all'origine "empirica" e casuale del dodecaedro rammentando che non sono rare le pietre in forma di dodecaedro e che ciò spiegherebbe addirittura come mai questa forma era nota ai pitagorici, insieme al cubo ed al tetraedro, mentre l'ottaedro e l'icosaedro sarebbero una più tarda scoperta di Teeteto (Rivaud, 1985, p. 82). - Fu così che, durante una passeggiata, in un caldo pomeriggio d'estate, un filosofo pitagorico vide sul sentiero polveroso un dodecaedro… - Lasciando al loro destino queste favole, e occupandoci invece di favole cariche di filosofia, ritorniamo a Platone. Che cosa egli dice del dodecaedro? Egli dice semplicemente: "Restava una quinta combinazione e il dio se ne giovò per decorare l'universo" [55c]. - Sembra a tutta prima un brillantissimo escamotage: non sapendo come adattare questo solido "in più" all'interno della teoria, ecco che lo poniamo come una sorta di ghirlanda dell'universo! Molti commenti si accontentano di questa spiegazione. Ma in realtà le cose non stanno esattamente così - o meglio: se si tratta di un escamotage, esso è tuttavia ancora in grado di dirci qualcosa e di completare e di confermare il quadro teorico. Ciò su cui deve cadere l'accento infatti non è tanto l'idea dell'ornamento, ma il riferimento all'universo, cioè alla totalità stessa. In effetti il testo greco dice to pan, parla proprio del tutto, tradurre "l'universo" è tendenzialmente fuorviante. Distoglie l'attenzione dall'idea di trovare nel solido atipico un'immagine per la totalità. Mentre per ogni elemento viene individuato un singolo solido che viene pensato come suddiviso, il solido eccedente è portato a simbolizzare la totalità del mondo come totalità - rendendo 94 conto così anche della ricchezza di significato che la tradizione pitagorica (a cui Platone si sente spesso vicino) dava al pentagono e al dodecaedro stesso. - Del resto vi è una discussione intorno alla traduzione del verbo greco zvcrafeˆn che qui abbiamo reso con decorare, traduzione che è particolarmente frequente e che non si può dire erronea. Come osserva Kotrc, in un notevole saggio interamente dedicato al dodecaedro nel Timeo: "the basic meaning of zvcrafeˆn is to paint from life (Republic, 598 B); an extension of this meaning is to adorn (as with paint" (1981, p. 213). Ma lo stesso autore mostra in modo convincente con diverse citazioni interne ai testi platonici che lo stesso verbo può significare "delineare, tracciare i confini", e che questa traduzione sarebbe più appropriata. - In effetti con essa ci approssimiamo ancor più alla spiegazione che questa relazione in ogni caso richiede. Ancora una volta geometria e mito confluiscono insieme. Come i poligoni regolari possono essere inscritti in un cerchio, ed anzi da questa possibilità deriva un metodo per la loro costruzione, così i poliedri regolari possono essere inscritti in una sfera. Ora, come spiega Taylor, nel suo dettagliatissimo commento al Timeo "dei cinque solidi inscritti in una e medesima sfera, il dodecaedro ha il massimo volume e arriva quasi a coincidere con la sfera, oltre al fatto di esserle simile nella forma" (Taylor, 1928, pp. 377- 378). Altrove lo stesso Taylor rammenta che, secondo una concezione di origine pitagorica, "ai fini della descrizione astronomica si ripartiva la sfera celeste dividendola in dodici regioni pentagonali, proprio come una palla di cuoio si fa cucendo insieme dodici pezzi pentagonali di cuoio" (Taylor, 1968, p. 708). - Infine: non vi è forse in quei 360 triangoli rettangoli scaleni un riferimento aritmetico che si ci riporta alla geometria della 95 circonferenza e della sfera come immagini della totalità? È infatti estremamente seducente pensare che in questo numero di 360 sia in qualche modo implicata la nozione di grado come misura degli archi - misura in realtà antichissima che risale ai babilonesi e che è nota anche in Grecia (intorno al 200 a.C.). Con idee come queste andiamo ancora una volta indiscutibilmente al di fuori della lettera del testo platonico. Non invece, a quanto sembra, dal suo spirito. Nota: per le citazioni da Platone ci si è appoggiati alla traduzione francese di A. Rivaud, Platon, Oeuvres Complètes, Tome X. Les Belles Lettres, 1985, alla traduzione di C. Giarratano, Platone, Opere complete, vol VI, Laterza, Bari 1971 e di G. Reale, Platone, Timeo, Rusconi, Milano 1994. IV Sul numero e su altri argomenti Incommensurabilità e numeri irrazionali - Aritmetica e geometria non fanno tutt'uno? Tra l'una e l'altra vi sono diverse possibili interrelazioni. Questo richiede una chiara differenza che è sancita anzitutto nel modo della loro origine. Poi l'una e l'altra si incontrano variamente, e poi talora si separano... - Ciò che spinge Dedekind ad una nuova definizione dei numeri irrazionali e quindi ad una ridefinizione di numero reale è, in particolare, la convinzione della necessità di liberare l'aritmetica dai riferimenti geometrici. In Stetigkeit und irrationale Zahlen egli scrive esplicitamente che un approccio attraverso "l'intuizione geometrica" al calcolo differenziale può essere "straordina­riamente utile" da un punto di vista didattico, "ed anzi indispensabile, se non si vuol perdere troppo tempo". "Ma che questo modo di introdurre al calcolo differenziale non possa avanzare la pretesa di scientificità, non verrà negato da nessuno. Questo senso di 96 insoddisfazione era così forte, che io presi la ferma decisione di riflettere quanto fosse necessario per trovare una fondazione puramente aritmetica e pienamente rigorosa dell'analisi infinitesimale" (Dedekind, 1972, p. 4). - Anche nella matematica greca, di fatto dominata dalla geometria, la scienza matematica per eccellenza era considerata l'aritmetica perché si riteneva che essa fosse meno compromessa con l'esperienza sensibile. D'altra parte, per comprendere questa estensione del campo dei numeri, l'origine geometrica del problema ha molto da insegnarci. - L'incommensurabilità non sarebbe in alcun modo accessibile in un orizzonte di interessi dominato dalle pratiche di misura. La riduzione dell'unità di misura proseguirebbe infatti sino a quando il "resto" diventerebbe del tutto inapprezzabile. Di conseguenza, restando all'interno di quest'orizzonte, nulla di simile ad entità incommensurabili potrebbe essere nemmeno sospettato. Non a caso questa possibilità si affacciò invece all'interno di una concezione della matematica animata da interessi puramente speculativi, così ricca di episodi che mostrano la connessione tra un interesse "gratuito" per la soluzione dei problemi e la passione per l'argomentazione la cui origine sofistico-retorica è a sua volta significativa proprio per il fatto che - nell'atteggia­mento di fondo della sofistica greca - non è tanto importante la tesi da dimostrare quanto il fatto che la si dimostri. - In realtà l'idea dell'incommensurabilità è da parte a parte un prodotto di pura teoria, ed in particolare un'esemplare manifestazione della potenza teorica dell'ecceterazione. Così, in Euclide (libro X, proposizione seconda) si stabilisce che "Se di due grandezze diseguali veniamo a sottrarre, sempre e vicendevolmente, la minore dalla maggiore, quante volte sia possibile, e quella ogni volta restante non misura mai la grandezza ad essa precedente, 97 le grandezze saranno incommensurabili". - Questo metodo di sottrazioni ricorsivamente iterate non può naturalmente valere come una sorta di suggerimento empirico per l'accertamento dell'incommen­su­ra­bilità, perché i suoi primi passi debbono essere pensati come inizio di un processo che non può che proseguire all'infinito. Mentre il processo empirico-reale porterebbe indubbiamente alla sua chiusura. - La tesi secondo cui l'idea dell'incommensurabilità è un prodotto di pura teoria, si può anche appoggiare a quanto dice A. Szabò (1978, pp. 199 sgg). Intanto egli insiste particolarmente sull'im­portanza che rivestono, proprio per la tematica delle proporzioni in genere e in particolare per la conoscenza degli incommensurabili, i tentativi "di dividere i più importanti intervalli musicali in sottointervalli eguali". Questo problema implicava quello della media proporzionale (= media geometrica) e portava in prossimità della questione dei rapporti tra i segmenti (le corde). Osserva tuttavia Szabò: "Non è comunque per nulla ovvio che una simile questione possa essere decisa per mezzo di metodi empirici" (p. 200). Facendo riferimento in particolare alla proposizione seconda del libro X di Euclide, egli osserva: "L'incommen­su­rabilità è un concetto teorico; non è una proprietà empirica delle grandezze geometriche". "Quando i Greci scoprirono l'esistenza dell'in­commensurabilità lineare, essi si confrontarono con un fatto matematico che non poteva essere provato conclusivamente con metodi pratici. Tali metodi servono in realtà per stabilire l'esatto opposto, cioè che due grandezze qualunque hanno una misura comune… Era necessario distogliere lo sguardo dall'evidenza visiva e rifiutare l'empirismo in matematica per provare che esistono grandezze incommensurabili" (ivi, p. 213). - Questo tema si trova chiaramente formulato in Felix Klein, 98 come corollario della sua importante e netta distinzione della matematica in matematica della precisione (Präzisionmathematik) e matematica dell'approssimazione (Approxima­tionmathematik ). Questa distinzione, particolarmente importante nella prospettiva teorica di Klein e strettamente connessa con la tematica dell'applicazione (Anwendung), è introdotta nella sua Elementarmathematik (Klein, 1933, p. 39) da alcune considerazioni sulla spazialità intesa in un duplice senso come derivante da una intuizione empirica dello spazio oppure da una intuizione interna, da una idea innata dello spazio: quest'ultima nozione è una reminiscenza kantiana, ma il vero senso del discorso è il distinguere tra una nozione empirica dello spazio (e in generale di tutte quelle cose a cui la matematica è applicabile) ed una nozione ideale. La matematica della precisione si occuperà di stati di cose idealizzati - mentre la matematica dell'approssimazione si occuperà di stati di cose reali di cui si può dare una matematizzazione solo approssimativa. La matematica della precisione può servire ad approntare strumenti sempre più evoluti alla matematica dell'approssimazione - che è propriamente la matematica di cui "si ha bisogno". In questo contesto si precisa che il concetto di numero irrazionale "appartiene sicuramente solo alla matematica della precisione" e "per la praxis si può senza problemi sostituire i numeri irrazionali con numeri razionali" (ivi, p. 39). Convenzioni ed evidenze - Noi non sappiamo se l'evidenza c'è, ma siamo convinti che valga la pena di cercarla. - Non ci svegliamo da un giorno all'altro dicendo: ora cambierò la convenzione. Vi è un complesso di ragioni che ci convincono ad una prova, a provare che cosa accade se cambio la convenzione. Dopo tutto ciò, forse potrei tentare di vedere che cosa accade se assumo per un punto passi più di una parallela ad una retta data o nessuna.. Può 99 essere che in questo tentativo io mi arresti dopo qualche passo, per il semplice fatto che mi verrò a trovare ben presto in un vicolo cieco. Può essere invece che io trovi sempre più interessante il suo sviluppo. E si tratta di vedere che cosa esattamente mi impedisca di andare avanti; oppure che cosa vi sia di interessante negli sviluppi che eventualmente riuscissi a dare. Trarre dalla vicenda delle geometrie non euclidee delle conclusioni filosofiche generali senza tener conto delle particolarità di questa vicenda potrebbe essere fortemente fuorviante. - Il vero problema non sta semplicemente nell'azione negativa, nel fatto di dire: potrei usare un'assunzione diversa, ma nel fatto che questo pensiero sorge nel quadro di una determinata problematica; e prosegue con nuovi problemi, ma in un contesto di arricchimento teoretico del tutto manifesto. - Prendiamo a titolo di esempio semplice le regole per la potenza. Per convenzione, un numero n con esponente 0 è eguale a 1, tranne nel caso che in cui lo stesso n sia eguale a 0 (in tal caso l'elevazione a potenza resta indefinita). Ora prova a sostituire questa convenzione con un'altra qualsiasi, ad es. = 2. Forse ti arresterai subito. - Talora è interessante fare una certa assunzione. Ma vi sono assunzioni possibili per le quali nessuno ha ancora trovato interesse... - Il fatto è che, a differenza di ciò che talvolta ci viene insegnato, l'assunzione è per così dire una assunzione "condizionata" - ex ante ed ex post, se così si può dire, cioè è preceduta e seguita da condizioni. Bisogna vedere che cosa c'è prima e che cosa accade dopo. Bisogna vedere se un'assunzione è "interessante" o se non la è, e che cosa significa interessante, e le ragioni per cui diciamo che essa lo è. Inoltre vi sono regole implicite che entrano in ope- 100 ra quando si fa una nuova assunzione. - Nella sua Introduzione al pensiero matematico, Waismann ha esposto molto acutamente l'intero problema del convenire e dell'assumere nell'aritmetica e quello delle condizioni delle assunzioni ricordando una regola esplicitamente formulata, la regola di Hankel: "La conservazione delle regole del calcolo orienta in maniera determinante la stessa determinazione dei concetti. Si tratta di una prima applicazione delle legge che Hankel chiamò principio di permanenza delle regole del calcolo. Essa può venire così formulata: se nella matematica si vuol generalizzare un concetto al di là della sua originaria definizione, bisogna scegliere tra tutti i modi possibili, quello che permette di conservare immutate le regole del calcolo nel più esteso numero dei casi. Questo principio di permanenza non è un'affermazione sulla cui validità si possa discutere, bensì un principio direttivo della formazione dei concetti" (1971, p. 40). Ordine e concatenazione - I numeri non possono essere messi in disordine. Forse questa è la proposizione fondamentale della filosofia del numero. Insieme a quest'altra: il numero non lo si può mettere in tasca (come il pastore il suo bastoncino con le tacche). - Di fatto la stabilità dell'ordine deve essere richiesta perché una serie empirica possa funzionare come serie numerica. Nel caso della serie empirica la stabilità non fa altro che "imitare" un ordine essenziale, o forse meglio: fa presentire o prepara il passaggio ad un ordine intrinseco, necessario, alla serie numerica vera e propria. - L'interesse della posizione di Wittgenstein (nel Tractatus) è quello di mostrare, spostando tutto il problema sul piano forma- 101 le notazionale, la possibilità di fondare il concetto stesso di numero sull'idea dell'iterazione, cosicché il numero compare come un vero e proprio contatore di operazioni. - Wittgenstein evita l'intero percorso della storia fenomenologica del concetto di numero per iniziare da subito dal livello segnico. - Vi è una giustificazione per il fatto che si chiamano numeri anche le cifre: non si tratta di un uso equivoco del termine. Anche se naturalmente il significato è differente. - Ifrah caratterizza un calcolo o un algoritmo come "ogni procedimento matematico consistente nel passare automaticamente, in stretta concatenazione, da una fase alla fase successiva": questa definizione appare subito di carattere molto generale, e dunque non obbligatoriamente connessa ai "numeri", ma certamente con il problema di un'operazione che produce serie intrinsecamente ordinate, e conseguentemente con il problema della produzione dei numeri (Ifrah, 1989, p. 267). - Concepire una curva come generata dalla sezione di un cono (o da una particolare rotazione ecc.) è qualcosa di assai diverso che concepirla come rappresentazione figurale di una funzione. - Il moderno calcolatore celebra i fasti dell'aritmetica discreta, e si potrebbe sostenere come un fecondo paradosso - ma non so dire fino a che punto lo sia - che l'intera analisi, i numeri irrazionali, i numeri cantoriani, ecc., quando sono manipolabili al calcolatore, siano finzioni che abili informatici propongono ai matematici. Simbolismi - Al posto dello zero si poneva una volta uno spazio vuoto. L'importanza dello zero nel simbolismo. Non si tratta di ragio- 102 nare sul concetto del vuoto, per vedere se questo è più o meno accettabile! O di porre il vuoto come qualcosa di simile ad una esigenza logica. Si tratta di vedere quali vantaggi io ottenga introducendo il segno "0". - La posizione straordinaria della matematica in genere è proprio la capacità di un unire pensiero e immaginazione (l'insieme infinito è un abisso, diceva Cantor): la massima astrazione ed il concreto come concreto: il balzo dall'insieme infinito al simbolo omega. - Weierstrass: "Un matematico che non abbia un po' del poeta non può essere un perfetto matematico" (Bell, 1966, p. VII). - La parola "simbolizzazione" può essere intesa nel senso di una base segnico-materiale per un significato che sta oltre di essa. Si tratta di una nozione in parte ovvia in parte no. Ad esempio questo grafema _______________________________________ sia inteso come retta infinita. Esso è allora un simbolo? Che senso ha questo termine ora? Potremmo fare a meno di questo segno per "concepire" l'idea di retta infinita? - Possono darsi idee astratte che non solo non siano di fatto simbolizzate, ma che non possano addirittura esserlo? - La distinguibilità e l'evidenza percettiva, ovvero intuitiva hanno una funzione assolutamente fondamentale in rapporto al problema della notazione e quindi del simbolismo aritmetico in genere. - È possibile che nell'invenzione di metodi notazionali per il numero si prendano le mosse da difficoltà di ordine pratico, ma 103 la soluzione di queste difficoltà è ricca di implicazioni teoriche estremamente rilevanti. Secondo la soluzione data a queste difficoltà l'aritmetica ha potuto trarre vantaggio o grave svantaggio. In altri termini il pensiero del numero è stato messo in moto dalla pratica dei numeri (cifre) e la riflessione aritmetica è sempre stata intrecciata con la riflessione sui simbolismi possibili. - Il vantaggio della notazione posizionale arabo-indiana (nella quale il significato da dare ad un numero rispetto alla base è determinato dalla sua posizione all'interno della cifra) non è costituito soltanto dalla sua grande concisione e dalla sua chiarezza, ma soprattutto dalla possibilità di operare calcoli direttamente sulle cifre, e dunque sui nomi dei numeri, e non su mere molteplicità. - Noi siamo talmente abituati ad operare in questo modo che ci sfugge ormai la portata e l'importanza di questa circostanza. Occorre allora rammentare che per millenni il nome del numero è stato separato dal calcolo. Il calcolo vero e proprio era affidato per lo più a complicati pallottolieri, di varie fogge ed a volte particolarmente ingegnosi che consentivano di effettuare calcoli con numeri anche molto elevati. Ma per quanto ingegnosi possano essere i metodi di lavoro al pallottoliere, il calcolo al pallottoliere resta legato alla manipolazione diretta di molteplicità. Specialista del pallottolliere era appunto il contabile, che apparteneva ad una casta privilegiata proprio per la capacità di impiegare i pallottolieri. La cifra, ovvero il nome del numero, serviva per lo più per registrare in una scrittura il risultato del calcolo o i suoi termini iniziali. Naturalmente la notazione posizionale non nasce dal nulla, ma cresce da determinati modi di impiego dei pallottolieri e dal trasferimento dei loro risultati in forma di notazione attraverso segni. "Delle marche mobili, dei sassolini, delle palline, ecc., possono essere poste in numero sufficiente all'interno di ambiti spaziali delimitati in maniera fissa (in colonne o su bastoncini). Tali ambiti hanno un ordine stabile; le marche nella prima fila sono indicano un uno per ciascuna, le 104 marche nella seconda fila indicano le decine, ecc. Ogni ripartizione delle marche nelle colonne espone dunque un numero in base dieci in forma rigorosamente articolata. Con ciò si rimedia per l'essenziale alla mancanza di una designazione verbale o in cifre. Con questi semplici dispositivi, la cui invenzione naturalmente presuppone una chiara visione del principio che sorregge il sistema numerico, viene così creata una designazione decimale sistematica, artificiale e rigorosa" (Husserl, 1970, p. 319-320). - Con il diffondersi della notazione posizionale la pratica dei calcoli diventa sempre più una pratica di manipolazione delle cifre, cioè una pratica di trasformazione secondo regole di configurazioni segniche. Logica e linguaggio corrente - La logica moderna si apre con esorcismi sul linguaggio corrente. "Gran parte del lavoro del filosofo consiste - o dovrebbe consistere - in una lotta contro la lingua" (Frege, 1986, p. 416). "Si comprende di qui con quale facilità la lingua ci seduce in false concezioni e quale importanza possa avere per la filosofia il sottrarsi al dominio della lingua. Quando si cerca di edificare un sistema di segni su fondamenta e con strumenti completamente diversi, come ho fatto io con la mia Begriffsschrift, si va, per così dire, a sbattere il naso contro le false analogie della lingua" (ivi, pp. 154- 155). - La ricerca di Peano di un nuovo simbolismo è certo dovuta all'intenzione di allontanarsi al massimo dai pericoli concettuali che si presume siano contenuti nel linguaggio comune. Scrive Klein che il libro di Peano Aritmetices Principia nova methodo exposita "è scritto in un peculiare linguaggio simbolico destinato secondo gli intenti dell'autore a mostrare ogni passo logico della dimostrazione mettendolo in rilievo come tale. Peano vuole garantirsi 105 in questo modo che venga fatto uso solo del principio che egli menziona specificamente, liberato da qualunque cosa che possa derivare dall'intuizione. Egli desidera evitare l'insinuarsi, usando il linguaggio ordinario, di innumerevoli incontrollabili associazioni di idee e residui della percezione" (Klein, 1933, p. 13). È difficile peraltro negare che vi sia un nesso tra l'invenzione di simbolismi logico-matematici - che è ovviamente profondamente giustificata - e le idee di riforma del linguaggio corrente che induce lo stesso Peano a impastrocchiarsi con il Latino sine flexione, esteso poi ad un italiano sine grammatica, di cui mi sembra istruttivo fornire un piccolo esempio: - "Grammatica tormento de pueritia, es quasi semper inutile. Nos considera, per exemplo, italiano: Io scrivo. Tu leggi. Noi abbiamo una lingua e due orecchi. La lingua internazionale ieri era un'utopia, domani sarà la verità. Scribe omne vocabulo sub forma citato in vocabulario, et supprime elementos inutile; resulta italiano sine grammatica: Io scrivere. Tu leggere. Noi avere uno lingua e due orecchio. Lingua internazionale ieri essere utopia, domani essere verità" (Peano, 1958, p. 492). - È inutile nascondersi dietro un dito. Si tratta di un progetto aberrante, adottato, oltre che da Peano, soltanto da Tarzan. Beninteso, questo progetto che Peano coltiva con molta serietà, non toglie nulla alla grandezza del matematico e del logico. Dimostra soltanto una profonda insensibilità per la storicità ed io sarei portato ad aggiungere, per la bellezza della lingua; ma anche - in realtà, e questo appare assai più singolare - verso la logica interna implicata nella sua grammatica. Certo, la flessione non è obbligatoria, ma quando non lo è, ciò è frutto di un'evoluzione significativa, e non di un artificialismo studiato a tavolino. - "Se avessimo una lingua logicamente perfetta forse non avrem- 106 mo più bisogno della logica e potremmo leggerla dalla lingua. Ma da ciò siamo ben lontani. Il lavoro logico è proprio in gran parte una lotta contro i difetti logici della lingua, che però, a sua volta, è uno strumento indispensabile per noi. Solo dopo aver portato a termine il nostro lavoro logico avremo a disposizione uno strumento più perfetto" (Frege, 1986, p. 395). - Wittgenstein, nel Tractatus: "Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell'abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell'abito è formata per ben altri scopi che quello di far riconoscere la forma del corpo" (prop. 4.002). Più tardi, certamente vi è un mutamento di prospettiva, che rende il discorso di Wittgenstein sul linguaggio e sulla logica assai più complesso e interessante (cfr. Piana, 1913). Numero e tempo - Forse proprio l'idea di una necessità nell'ordine di successione ha così persistentemente suggerito alla speculazione filosofica di orientare l'attenzione, per ciò che riguarda il problema dell'origine del numero, in direzione della tematica temporale. Questo legame è presente nella filosofia kantiana ma si ripresenta fino a tempi più recenti ed in particolare nella tendenza intuizionistica nell'ambito della filosofia della matematica. È indubbiamente possibile pensare, senza entrare nel contenuto di quelle concezioni, che il primo suggerimento possa derivare proprio dall'immagine di ordine inesorabile che potrebbe venire dall'idea del prima e del dopo, dall'idea della "successione temporale" intesa non come pura giustapposizione di istanti, ma come un procedere necessario nel quale l'istante successivo è per così dire un portato di quello precedente, una sorta di suo prolungamento necessario, e quindi ha nel precedente il suo necessario presupposto. - Le nostre considerazioni tuttavia non avvicinano affatto ad 107 una simile prospettiva ma se mai si allontanano da essa. La ragione di ciò sta proprio nel fatto che l'accento non deve cadere su un ordine necessario genericamente inteso, o eventualmente da cogliere in una riflessione filosofica che abbandona più o meno momentaneamente il contesto di discorso che caratterizza il problema del numero per riprenderlo poi dopo una scorribanda speculativa sulla forma temporale, ma sul tema soggiacente della ripetizione e dell'iterazione della regola. Proprio questo aspetto non è certo a portata di mano nella problematica temporale: l'ordinamento intrinseco della successione temporale non è in grado di per se stesso di generare oggettività intrinsecamente ordinate, ma esso rimane per così dire senza alcun effetto interamente a parte subiecti. Esso si consuma mentre scorre, si volatilizza. L'ordine temporale necessario delle nostre azioni non garantisce nulla sull'ordine eventuale dei loro risultati. Ed anche come immagine, quest'ordine è fuorviante proprio per il fatto che nasconde il punto realmente importante - e cioè l'implicazione reciproca degli elementi della "successione" in quanto sono costruiti attraverso l'applicazione iterata di una regola. - Inoltre il tema della temporalità qualora lo si voglia connettere a quello di operazione non può fare altro che proporre la nozione di operazione come una operazione che prende tempo, con un vincolo alla concretezza che proprio ora, quando cerchiamo di spiccare il volo verso una dimensione astratta, sembra particolarmente urtante. Parlando di un modo in cui la serie è costruita secondo il quale un elemento della serie è il presupposto necessario dell'elemento successivo, vogliamo affermare che quello deve essere costruito prima di questo, ma "prima" non ha affatto un significato di precedenza temporale, ma anzitutto di precedenza logico-strutturale. Il terzo elemento presuppone il secondo in quanto questo è la base della sua generazione ed al suo essere appartiene anche il luogo in cui si trova. Esso non è stato preso da un mucchio, e messo in un ordine. Cosicché non può nemmeno essere estratto 108 dall'ordine e rimesso nel mucchio. Appartiene invece alla serie come un anello di una catena che non può avere nessuna esistenza autonoma rispetto alla catena stessa. Rigore - Per secoli gli Elementi di Euclide sono stati un modello incontrastato di rigore deduttivo. Eppure Leibniz nutriva dubbi proprio su questo aspetto e riteneva che essi richiedessero una vera e propria riscrittura. Un aspetto di quello che Leibniz chiamava Analysis situs riguarda proprio questo problema. In un frammento pubblicato da Couturat, egli scrive: "L'ordine delle proposizioni deve essere matematico, eppure diverso da quello euclideo. I geometri, infatti, fanno accuratamente le loro dimostrazioni, ma invece di illuminare la mente (animus), la costringono: certamente, ottengono un maggiore rispetto estorcendo il lettore il suo assenso e conquistandolo con sottigliezza inattesa, ma non si curano abbastanza della memoria e dell'intelligenza del lettore, perché in qualche modo nascondono i motivi e le cause naturali delle loro conclusioni, cosicché non è facile riconoscere il modo in cui hanno ottenuto le loro scoperte. Al contrario , in ogni disciplina questo è in realtà la cosa più importante : riconoscere non solo i risultati e le loro manifestazioni, ma anche l'origine di tali risultati, e solo questo si deve ricordare perché di qui tutto il resto può essere dedotto per mezzo dell'abilità di ognuno. Pertanto debbono essere congiunti la luce dell'invenzione (inventionis lux) e il rigore della dimostrazione (demonstrandi rigor) e gli elementi di qualsiasi disciplina debbono essere scritti in modo tale che il discepolo o il lettore può sempre vedere la connessione e simile ad un compagno nell'invenzione, sembri non tanto seguire il Maestro, quanto camminare con lui ..." (Leibniz 1903, p. 33). - Inventionis lux et demonstrandi rigor: non si poteva dire meglio. ed 109 in queste perplessità critiche, riferite peraltro ad ogni disciplina, possiamo cogliere una portata che va oltre il problema specifico che stiamo discutendo, investendo un atteggiamento ancora oggi largamente presente, che tiene ben poco conto dell'inventionis lux, a vantaggio di un cieco demonstrandi rigor, in cui l'allievo, in luogo di camminare con il maestro, lo imita pedissequamente. - Siamo tentati di mettere quest'osservazione di Leibniz in parallelo con la posizione sulla geometria euclidea di un autore apparentemente molto lontano da lui. In essa, osserva Arthur Schopenhauer, la convictio prevale sulla cognitio: dove il termine di convictio "non indica in realtà un'opinione di cui in un modo o nell'altro abbiamo acquisito una certezza soggettiva (Überzeugung): esso è invece tratto dal linguaggio giuridico per indicare quel complesso di considerazioni, che possono diventare vere e proprie stringenti argomentazioni con il quale un giudice istruttore mette con le spalle al muro un imputato, e in questo senso lo convince della sua colpa. Lo convince, ovvero gli mostra che non vi sono per lui vie di uscita, che tutto confluisce coerentemente, logicamente, nell'indicarlo come autore del delitto" (Piana, 1990, p. 315). Mentre la cognitio è l'effettiva apprensione dell'evidenza di una connessione. "Nel § 15 del Primo libro del Mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer osserva, avendo di mira soprattutto le dimostrazioni euclidee per assurdo, che per quanto 'il modo in cui Euclide applica il suo processo meriti tutta l'ammirazione che i secoli gli consacrarono', tuttavia questo metodo opera uno stravolgimento, perché tende a sostituire ad ogni evidenza intuitiva immediata un'evidenza puramente logica" (ivi, p. 317). "Solo entrando nell'ordine di idee proposto da Kant si comprende come il problema dello statuto delle proposizioni geometriche debba essere interamente riconsiderato ridando all'intuizione l'importanza che essa ha in rapporto ad esse. In questo modo possiamo andare oltre quello che, secondo Schopenhauer, è il limite maggiore delle dimostrazioni geometriche, cioè quello di indicare che 110 le cose stanno così e così, senza indicarne il perché. Ci veniamo così a trovare nei panni di 'colui al quale si fanno vedere i diversi effetti della macchina, senza permettergli di osservarne l'interno meccanismo e i congegni'. Le dimostrazioni assomigliano a 'giochi di prestigio' - e più di tutte assomigliano a giochi di prestigio le dimostrazioni 'apagogiche' - cioè le dimostrazioni nelle quali la verità della tesi da dimostrare verrebbe provata provando la falsità della sua negativa. 'Qui sembra si proceda realmente a puro rigore di logica - una simile dimostrazione chiude l'una dopo l'altra tutte le porte, non lasciandone aperta che una sola, per la quale dobbiamo passare per quest'unico motivo che è la sola rimasta aperta'. Si tratta di un'immagine assai simile a quella delle spalle al muro. Entrambe le immagini confluiscono nell'istanza di una convictio che possa essere accompagnata da una cognitio" (ivi, p. 318). - Nella cognitio di cui parla Schopenhauer possiamo, io credo, cogliere almeno un aspetto importante della lux inventionis di cui parla Leibniz: ma la via tanto nettamente intuizionistica di derivazione kantiana di Schopenhauer tende a indebolire fortemente il rigor demonstrandi, mentre in questa relazione e opposizione troviamo un'ulteriore formulazione possibile della tensione che rende tanto movimentato il pensiero leibniziano. - In realtà nella storia della matematica, gli intenti rigorizzatrici non sono portatori soltanto di una maggiore esattezza e precisione, ma conducono spesso a nuove invenzioni matematiche. Anche Poincaré, che distingue nettamente tra una intelligenza "logica e analitica" ed un altro tipo di intelligenza che si può caratterizzare come "intuitiva e geometrica", dopo aver insistito che l'invenzione sta soprattutto su questo secondo versante, sottolinea che "anche gli analisti sono stati inventori" (anche se poco dopo aggiunge: "ma ve ne sono pochi") (1994, p. 25). Forse in tempi più recenti, con l'esasperazione della tendenza al rigore questa creatività si è indebolita e, soprattutto nella logica, si è 111 fatta avanti una tendenza puramente "decorativa". Si ricorre così a complicate elucubrazioni ed arzigogolati simbolismi per dire cose che si possono dire, addirittura più chiaramente, nel linguaggio di tutti i giorni. Chiamo decorativo un simbolismo quando esso è superfluo e viene introdotto unicamente per suscitare una parvenza di rigore. - I matematici creativi non amano un rigore puramente decorativo e sono ricchi di immaginazione. "Sono profondamente convinto che l'astrazione forzata, il risalto attribuito all' 'elaborazione formale' e la proliferazine di concetti e di termini, molte volte facciano più male che bene" (Mandelbrot, 1987, p. 13). - Talvolta il matematico prosegue il proprio lavoro accettando le suggestioni che provengono dai suoi algoritmi anche se nutre dubbi sulla loro natura e i loro fondamenti. La storia dei numeri immaginari insegna: malgrado i dubbi "si continuò a proseguire i calcoli con le radici di numeri negativi come con le radici solite. Si tratta di un momento critico che occupa un posto di primissimo ordine nella storia delle matematiche: sembra che proprio nell'operare con formule, cioè nell'algoritmo matematico stesso, si celi una forza autonoma che ci spinge innanzi nostro malgrado, forza che nel caso considerato portò i matematici a far uso dei numeri immaginari. E tutto ciò con estremo vantaggio della matematica, perché la pretesa pedante di una dimostrazione rigorosa avrebbe invece paralizzato ogni ulteriore sviluppo. Per fortuna i matematici di quel tempo non si preoccuparono troppo di un'analisi logica sottile" (Waismann, 1971, p. 23). - Frege dice una volta che nella storia della matematica il rigore viene per ultimo. Ed è singolare come non si renda conto che questa affermazione ha delle implicazioni piuttosto serie. Egli dice propriamente: "Un principiante, cui si insegnino i primi rudimenti di matematica nella forma logicamente più rigorosa, li 112 troverà per lo più innaturali, e ciò proprio a causa del rigore logico. La conseguenza è che l'insegnamento viene compreso imperfettamente o per niente. Bisogna pertanto in un primo tempo rilassare un po' il rigore e cercare di risvegliarne il bisogno gradatamente. Anche nella storia della matematica troviamo che il massimo rigore è conseguito sempre da ultimo" (Frege, 1986, p. 74. Cfr. anche p. 256). Ciò implica che il rigore avviene a cose fatte, e se così fosse vi è da chiedersi se esso abbia realmente a che fare con la creatività matematica. Cosa che io credo, e che la frase di Frege invece fa dubitare. - Osserva Felix Klein che il punto di vista assiomatico - che si appoggia all'autorità di Euclide - "tuttavia non corrisponde al divenire storico della matematica stessa". Egli propone in proposito una bellissima immagine: la matematica si sviluppa come un albero che non cresce semplicemente verso l'alto verso ramificazioni sempre più fini - ma nella stessa misura in cui si diffonde verso l'alto, così si spinge sempre più a fondo verso il basso, nelle sue radici. Ciò significa che la riflessione sui principi si approfondisce man mano con cui avvengono gli ampliamenti del pensiero matematico. Il punto di vista assiomatico propone il problema in tutt'altra maniera. In particolare secondo questo punto di vista si prospetta uno sbarramento, per così dire, verso il basso (le radici dell'albero) e una compiutezza che sono contrari al divenire concreto della matematica (Klein, 1933 p. 16). Teoria e storia - "Ora chiamiamo numeri cose che una volta non avremmo chiamate così. Ma allora la nostra preoccupazione fondamentale deve essere quella di trovare una nuova definizione, perché solo da essa quella estensione può essere resa legittima. Nello stesso tempo, la nuova definizione non potrà essere intesa come una sorta di adeguazione al movimento del concetto: il numero infatti, in 113 se stesso, non ha alcun movimento - ma la nuova definizione non farebbe altro che sostituire una definizione sbagliata con una definizione giusta. Secondo un simile atteggiamento la storia della matematica non potrà rappresentare il farsi della matematica stessa, ma la vicenda terrena in cui l'universo matematico, nella sua compiuta perfezione, imperfettamente si rivela" (Piana, 1967, p. 282). - Se il movimento del concetto è privo di interesse, allora l'intera storia della matematica è dal punto di vista epistemologico, del tutto irrilevante. In essa non vi è nulla da apprendere sul contenuto del concetto. - Di questa irrilevanza ne fa fede in modo esplicito Gottlob Frege: "Ovviamente un simile resoconto di come si sia giunti a ritenere vero qualcosa non costituisce una dimostrazione; anche nella scienza la storia della scoperta di una legge matematica o naturale non può surrogare la fondazione giustificante. Quest'ultima sarà sempre astorica; sarà irrilevante sapere chi ci ha pensato per primo, che cosa ha dato lo spunto ad un sì brillante ragionamento e quando e dove il tutto abbia avuto luogo" (Frege, 1986, p. 69). Evidentemente Frege ha una concezione miserrima della storia della matematica. - "… divenendo rigorosa, la scienza matematica prende un carattere artificiale che colpirà tutti; essa dimentica le sue origini storiche; si vede come le questioni possano risolversi, ma non si vede più come e perché sorgano" (Poincaré, 1994, p. 20). Ed invece è necessario vederlo: in questo "perché" sta spesso il loro senso irrinunciabile. - L'esergo della History of Mathematics di Florian Cajori dice: "Io sono certo che non vi sia argomento che ci rimetta maggiormente della matematica se si tenta di dissociarla dalla sua storia" 114 (Cajori, 1894) Aggiungo che naturalmente non è l'aneddotica che interessa, ma il fatto che attraverso la storia si colgono le vicissitudini del concetto, e dunque i suoi problemi, mentre è una tendenza molto diffusa tacere su quelle vicissitudini, ricche di senso, e fornire il risultato, possibilmente nella sua versione più aggiornata e (apparentemente) priva di problemi. - In un notevole saggio del 1897 intitolato Sull'importanza relativa alle ricerche sulla storia delle scienze, Giovanni Vailati fa giustamente risalire la tendenza a trascurare questa importanza quando aveva un precisa giustificazione, ovvero alla polemica di Galilei contro l'aristotelismo rammentando la frase: "Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni vostre, o di Aristotele, e non con testi e nuda autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile e non sopra un mondo di carta". "Ma da un altro punto di vista - commenta Vailati - questo mondo di carta di cui Galileo parla con tanto disprezzo, il mondo delle idee e delle immaginazioni umane, non è né meno reale, né meno sensibile, né meno meritevole di studio e di diligente osservazione, di quell'altro mondo all'investigazione del quale egli ha rivolto con tanto successo l'attività della sua mente". "La storia delle teorie scientifiche su un dato soggetto non va concepita come la storia di una serie di tentativi successivi falliti tutti eccetto l'ultimo; essa non è da paragonare, come fu fatto con assai più spirito che profondità, alla serie di operazioni che fa chi voglia aprire una porta avendo a disposizione un mazzo di chiavi tra le quali egli non sa discernere quella che è atta allo scopo" (Vailati, 1972, pp. 5-6). - È notevole il fatto che sia in Klein come in Vailati il tema della storia della scienza sia connesso con l'idea di un rinnovamento della didattica della matematica, e lo sia non per mere motivazioni di arricchimento di un'informazione fine a se stessa, ma per l'intrinseco interesse teoretico contenuto in questa informazione 115 che è portatrice, per il discente, di un'accresciuta comprensione e di un attenzione più viva verso l'argomento considerato. In proposito vi è un passo di Vailati che merita di essere citato per intero: "Per ciò che riguarda anzi in modo speciale gli studi matematici, io non sarei del tutto alieno dal dar ragione a quelli che credono che il metodo migliore, dal lato didattico, per l'esposizione delle varie parti d'un determinato soggetto, sia quello che risulta dal presentare la materia, di cui esso si compone, sotto una forma che si discosti il meno possibile da quella che corrisponde al suo sviluppo storico. Quello che si chiama ora il metodo euristico, quel metodo cioè d'esposizione e d'insegnamento nel quale l'allievo o il lettore arriva ad impossessarsi delle cognizioni che costituiscono un dato ramo di scienza passando attraverso alle considerazioni che hanno guidato quelli che sono giunti ad esse per la prima volta, presenta da questo lato indiscutibili vantaggi sull'ordinario metodo d'esposizione, il quale, astraendo affatto da qualunque considerazione d'indole psicologica sulla differenza di tirocinio mentale e di abitudini coordinatrici tra chi impara e chi insegna, mira ad esporre fin dal principio il soggetto sotto la forma che all'insegnante può sembrare la più logicamente connessa, la più up to date, come direbbero gli inglesi, sotto la forma più soddisfacente insomma, per chi, come lui, abbia già conoscenza del ramo di ricerca di cui si tratta, e per chi come lui non senta altro bisogno che quello di sistematizzare e coordinare un complesso di cognizioni che possiede già. Come scienziato, come pensatore, come scrittore, l'insegnante può bene aspirare ad appartenere alla nobile schiera dei maestri di color che sanno, ma, come insegnante, egli ha soprattutto il compito di essere il maestro di color che non sanno. A nessuno che abbia avuto occasione di trattare in scuola, davanti a dei giovani, qualunque soggetto che si riferisca alle parti astratte e teoriche della matematica, può essere sfuggito il rapido cambiamento di tono che subisce l'attenzione e l'interessamento degli studenti ogni qualvolta l'esposizione, discostandosi per una circostanza qualsiasi dall'or- 116 dinario andamento dottrinale e deduttivo, lascia luogo a delle considerazioni d'indole storica, a considerazioni, per esempio, che si riferiscano alla natura dei problemi e delle difficoltà che hanno dato origine allo svolgimento d'una teoria o all'introduzione d'un metodo, alle ragioni per le quali determinati concetti o determinate convenzioni sono state adottate, o ai diversi punti di vista dai quali un dato soggetto fu considerato da quelli che maggiormente contribuirono ad avanzarne la trattazione scientifica. Di questo appetito sano e caratteristico delle menti giovani per quella parte degli alimenti intellettuali loro presentati che istintivamente riconoscono come facilmente assimilabile e più confacente al normale sviluppo delle loro facoltà, è certamente desiderabile trarre il maggior partito possibile. Utilizzarlo intelligentemente vuol dire rendere l'insegnamento più proficuo e nello stesso tempo più gradevole, più efficace e insieme più attraente" (ivi, pp. 8- 9). - Il passato di un problema può intervenire come elemento creativo nella sua riproposizione e nel suo rinnovamento, perché rappresenta un campo di possibilità dissodate di cui occorre essere consapevoli nei loro successi e insuccessi: come materiali dunque per una nuova riflessione che non sorge dal nulla. La storia del problema può essere ben documentata. E tuttavia talora la documentazione risulta insufficiente ed allora debbono essere immaginati dei percorsi che hanno condotto a questo o a quel risultato ritenuto insoddisfacente. Per questo Gian-Carlo Rota parla di "storia reale", ma anche di una "storia ideale" che un matematico di talento potrebbe ricostruire. Egli dice precisamente: "Ogni matematico sarà d'accordo che un passo importante per risolvere un problema matematico, forse il passo più importante, consiste nell'analizzare altri tentativi, sia tentativi che sono stati precedentemente effettuati oppure tentativi che uno immagina potrebbero essere stati effettuati con l'obiettivo di scoprire come questi tentativi "precedenti" fossero 117 fuorvianti. In breve, nessun matematico si sognerebbe di aggredire un problema matematico sostanziale senza prima prendere conoscenza con la storia del problema, si tratti della storia reale o di una storia ideale che un matematico di talento potrebbe ricostruire" (Rota, 1991, p. 174). - La questione non riguarda dunque soltanto una questione di fatti, o addirittura di fatterelli. Di mezzo vi è invece la comprensione del concetto, della sua multilateralità, ciò che lo rende ricco di interesse e dunque didatticamente efficace ed attraente, ma vi è anche il fatto che il suo passato entra direttamente nella sua ricreazione nel presente. "In termini filosofici, un matematico che risolve un problema non può evitare la storicità del problema. La matematica non è altro se non un soggetto storico per eccellenza" (ivi). - Anche Carlo Cellucci sottolinea che "per comprendere la natura della matematica è importante considerarne lo sviluppo storico. Secondo i sostenitori dell'ortodossia prevalente, non occorre considerare lo sviluppo della matematica perché 'l'eziologia delle idee matematiche, per quanto interessante, non è qualcosa il cui studio promette di rivelare molto sulla struttura del pensiero: per la maggior parte, l'origine e lo sviluppo delle idee matematiche sono semplicemente troppo determinate da influenze estranee' (George-Velleman, Philosophies of Mathematics, Blackwell, Oxford 2002, p. 2)" (Cellucci, 2007, p. 108). E aggiunge: "Non considerare lo sviluppo storico della matematica porta a vedere la matematica come un sistema statico, basato su relazioni lineari di dipendenza logica tra assiomi e teoremi determinati a priori. Un esame dello sviluppo storico mostra invece che la matematica è un sistema dinamico, che spesso si evolve per vie tortuose non determinate a priori, e procede attraverso false partenze e arresti, periodi di routine e svolte improvvise" (ivi, 109). 118 Intuizione V Intuizione e costruzione - È sbagliata l'idea che conferisce la chiarezza solo dalla parte del concetto e la vaghezza solo dalla parte dell'"intuizione". L'intuizione può essere chiara o confusa esattamente come il concetto. Un concetto confuso è un concetto ambiguo, non chiaramente differenziato da un'altro, ecc. - In taluni casi si porebbe dire: non questo concetto è lontano dalla nostra intuizione o è controintuitivo, ma: a questo concetto spetta una oscurità intuitiva essenziale (cioè non ha un corrispondente intuitivo in linea di principio). - All'infinito attuale spetta una oscurità intuitiva essenziale? Forse. Ma l'intuizione assolve ancora uno scopo sia nella costituzione della nozione (rimando all'infinito potenziale), sia nel fornire comunque un qualche appoggio immaginativo ad esso: le infinite stelle del cielo. Potremmo anche dire: che difficoltà c'è nell'infinito attuale? Anche un bambino potrebbe figurarselo! - Mentre per l'area semantica della parola costruzione possiamo esplorare gli impieghi correnti traendone alcune indicazioni, per la parola intuizione le cose stanno molto diversamente. Vi è forse un unico impiego chiaramente comprensibile nel discorso corrente di questa parola. Si tratta di espressioni come "felice intuizione", "intuizione improvvisa" e di altre analoghe che vengono spesso utilizzate per indicare un'idea che ci viene in mente chissà in che modo e chissà da dove e che ci consente di uscire da una situazione di difficoltà o di imbarazzo, di realizzare la soluzione di un problema, oppure di fare una piccola ingegnosa scoperta. Da questa idea siamo in qualche modo "illuminati" - dell'intuizione si può dire che essa è "illuminante". Quando usiamo questa espressione vogliamo spesso sottolineare, nel discorso 119 corrente, che l'idea che ci è venuta in mente non dipende da una qualche riflessione o argomentazione, e nemmeno in seguito ad un qualche processo conoscitivo chiaramente identificato, ma ha preso forma nella nostra testa forse in dipendenza di uno stimolo che tuttavia non è chiaramente identificabile. In ogni caso si tratta di un'idea buona, che può contenere appunto la soluzione di un problema da cui in precedenza non vedevano una via d'uscita. In questo contesto è opportuno rammentare anche la parola intùito, che viene spesso impiegata proprio per indicare la capacità di avere intuizioni nel senso or ora indicato. - Considerando gli impieghi correnti non credo che ci si possa spingere molto oltre. Ma essi ci dicono troppo poco invece sui sensi che questa parola può assumere negli impieghi filosofici, scientifici ed epistemologici. - Intanto comincerei con il mettere avanti un'accezione di intuizione che non è compresa nelle considerazioni precedenti e che io ritengo sia l'accezione fondamentale. - Si tratta dell'accezione che è contenuta nella versione latina del termine da cui quella italiana è derivata. Intueor in latino significa vedere o guardare. Il prefisso in- suggerisce che si tratti di un guardare o di un vedere penetrante, quindi di una vista acuta. Boezio, ad esempio, parla dell'intuito degli uccelli - intuitus avium, in cui è presumibilmente contenuta un'allusione non solo alla facoltà visiva degli uccelli, ma anche alla loro vista "acuta". Negli impieghi filosofici questa origine letterale non è forse in primo piano, ma io credo che non sia mai totalmente dimenticata. In base ad essa "intuire" significa appunto niente altro che vedere; per estensione tuttavia questo termine potrà comprendere anche il percepire in genere e i diversi tipi di atti in cui esso si articola. - In questo significato letterale del termine va ricercata anche la 120 contrapposizione gravida di conseguenze tra intuizione e pensiero. Su di essa si addensano nugoli di problemi, controversie di ogni genere: ma la sua giustificazione e la sua legittimità è in fin dei conti del tutto a portata di mano. Noi possiamo concepire qualcosa (averne un concetto, pensare) senza avere l'intuizione di essa. Ad un cieco, ad esempio, può essere insegnato l'impiego delle parole di colore, la loro "sintassi" - cosicché può usare correttamente parole come "sfumatura", "più chiaro", "più scuro" ecc. oppure può dire che l'arancione sta tra il rosso e il giallo. Egli possiede dunque il pensiero del colore, senza poter possedere l'intuizione corrispondente. Per lui vi è un sintassi, ma non una semantica di esse. Se riacquista la vista, allora ecco che il sistema di regole che gli consentiva l'impiego corretto delle parole di colore riceve una semantica, ovvero un'interpretazione in base alla quale quel sistema viene effettivamente agganciato ad un mondo di cose. Intuizione ed evidenza - Tenendo presente il significato letterale riusciamo facilmente ad afferrare anche il classico legame tra l'intuizione e la problematica dell'evidenza. Prendiamo parole come "consonanza" e "dissonanza": i concetti che stanno alla base del significato di queste parole possono probabilmente essere illustrati in parole con determinate spiegazioni. Posso spiegare che cosa accade se una corda tesa viene pizzicata e se suoni emessi da corde tese vengono fatti risuonare insieme. Posso anche spiegare verbalmente come la lunghezza o la tensione della cosa sia importante per il risultato, ed anche stabilire dei rapporti numerici tra le lunghezze delle corde ed elaborare variamente queste nozioni, eventualmente ricorrendo a nozioni di fisica del suono. - Tutte queste spiegazioni contribuiscono certamente a fornire un concetto di consonanza o dissonanza. Ma esso riceve "evi- 121 denza" solo nel momento in cui faccio risuonare un accordo consonantico o una dura dissonanza. Allora il concetto stesso, per così dire, si illumina. Prima era chiaro solo sulla base di determinazioni astratte, ad esempio un rapporto numerico da cui non avrei certo potuto estrarre un "corpo". Ora il rapporto numerico può essere addirittura dimenticato, ma resta il fenomeno vivo, corposo, evidente della consonanza. - La parola "evidenza" tuttavia, nella tradizione filosofica non è certo stata utilizzata solo in simili contesti. Il suo significato muta e il significato di "intuizione" subisce il contraccolpo di questo mutamento. Il termine di "intuizione" si allontana sempre più dall'accezione originaria che talvolta è a malapena riconoscibile. - Così si parla di evidenza riferendola a principi logici generali. Ad esempio: la parte non può essere maggiore del tutto di cui è parte. E trovi immediatamente il logico sapiente che scuote la testa e ti parla dell'equinumerosità della totalità dei numeri naturali con la quella dei numeri pari… Vedi quanto ti può ingannare l'intuizione! Non si parli più di evidenza… Avrà ragione il logico sapiente oppure - avendo egli cambiato gioco linguistico - ha semplicemente fatto il gioco delle tre carte? Ma avrà certamente torto chi sostiene che quel principio è frutto di un'intuizione intesa come una speciale sensazione, come una illuminazione interiore della sua verità. Come se egli dicesse: sento che quel principio è vero. - Ma io, ad esempio, non lo sento. Senza che sia costretto ad accettare il gioco delle tre carte. - Stiamo entrando in un campo scivoloso, ambiguo, pieno di possibili equivoci. Se poi si fa un passo oltre in questa direzione ci si imbatte in un'altra accezione del termine intuizione che è piuttosto lontana dal significato originario, benché ne mantenga alcuni tratti. La contrapposizione con il pensiero, che per molti versi è perfettamente giustificata ed anzi necessaria, tende a far 122 scivolare la parola intuizione verso l'idea di una forma di conoscenza contrapposta ed autonoma rispetto la conoscenza razionale e scientifica in genere. Allora l'intuizione indicherebbe una specialissima forma di conoscenza che segue un cammino del tutto diverso da quello della conoscenza scientifica e che sarebbe tuttavia capace di fondare un sapere autonomo. Quale sapere? Su ciò io non saprei dare una risposta. Bisogna chiederla a chi si fa sostenitore di una simile concezione. - Comunque vale in generale che in presenza di autori importanti che si avvalgono del termine di "intuizione" è necessario penetrare in modo non superficiale all'interno del loro modo di filosofare per comprendere il senso dell'impiego di questo termine che da questo modo è strettamente determinato. - È infine opportuno segnalare un uso piuttosto particolare del termine intuizione, intuitivo e simili da parte di taluni logici e matematici. Questo termine viene polemicamente ripreso, contrapponendo le costruzioni logico-linguistiche considerate perfettamente in ordine a ciò che invece è un puro portato dell' "intuizione" - termine che, impiegato così, può essere sostituire parole come "buon senso", "senso comune", "vaga opinione". Naturalmente ciascuno può fare dei termini l'uso che vuole. Credo però che si debba avvertire che una simile accezione non ha precedenti nella tradizione filosofica e si tratta, a mio avviso, di un uso polemico del termine assai rozzo, per il fatto che talora è inconsapevole dell'importanza e della complessità della partita che si gioca nelle vicende del pensiero filosofico sotto il termine di intuizione e della molteplicità dei sensi che esso riceve all'interno di queste vicende. - In ogni caso qualunque logico o matematico fa "uso dell'intuizione" nella stessa misura opera necessariamente su segni, e i segni li deve vedere. Un logico o un matematico cieco è certa- 123 mente più improbabile che un musicista cieco; ed assomiglierebbe molto ad un pittore cieco. - "È evidente che in ogni addizione posso commutare i termini senza mutamento del risultato: 2 x 3 = 3 x 2". - "Ma come fai a saperlo?" Klein (1933, p. 12) suggerisce questo esempio: . . . . . . Da questa figura vediamo che 2 X 3 = 3 X 2. L'operazione aritmetica viene riportata alla Gestalt della figura - come se si trattasse di due modi di vederla: secondo un modo si possono vedere due 3, secondo un altro tre 2. Ciò rammenta ancora ciò che Wittgenstein osserva - problematicamente (ma questo vale anche per Klein) - sulla possibilità che una figura possa essere una dimostrazione. Ma un conto è la costruzione operativa di un segno, cioè il modo in cui esso viene prodotto in un calcolo, ed un altro è il modo in cui esso si presenta alla percezione, la sua configurazione percettiva. La sua Gestalt, per l'appunto. Quest'ultima può addirittura trarci in inganno sulla regola della costruzione. Inoltre questo esempio tratta di un caso singolo. Come posso sapere che questa legge vale anche per numeri molto grandi che, in una simile scrittura per punti, sarebbero inafferrabili? Ancora Klein risponde che a ciò provvede l'induzione completa: "Questo principio che io ritengo autenticamente intuitivo, aiuta di fatto proprio a superare i limiti presso i quali fallisce l'intuizione sensibile" (Klein, 1933 p. 12). Tuttavia a me sembra che non sia facile in questo caso passare da una relazione visivamente colta ad una generalizzazione fondata sull'induzione completa. Anche in rapporto a questo problema, manca nell'esempio l'idea della 124 regola di formazione della figura, o almeno essa non è in primo piano. Inoltre si ha la sensazione che anche i matematici che in un modo o nell'altro dànno un peso all'intuizione, spesso usino questo termine in un modo fluttuante tra i vari suoi possibili sensi. Nel passo or ora citato Klein afferma impegnativamente che "non è eccessivo affermare che, secondo la concezione delle regole di calcolo che noi abbiamo or ora delineato, la sicurezza dell'intera struttura della matematica poggia sull'intuizione, dove questa parola deve essere intesa nel suo senso più generale" (ivi). Ma qual è il senso più generale della parola "intuizione"? - Dal contesto in ogni caso si può comprendere il senso prevalente. Facendo riferimento a Hilbert, ancora Klein osserva che, persino nel formalismo non possiamo fare a meno di un "residuo di intuizione" nella misura in cui dobbiamo essere in grado di contraddistinguere un segno da un altro, e qui evidentemente il senso prevalente riguarda proprio il vedere: "La tendenza a reprimere interamente l'intuizione ed a sostenere ricerca puramente logiche non mi sembra completamente realizzabile. Io penso che si debba sempre mantenere un residuo, sia pure minimo, di intuizione. Si deve pur sempre usare una certa intuizione anche nella più astratta formulazione con i simboli che vengono usati nelle operazioni, al fine di riconoscere i simboli nuovamente, anche se si ha di mira soltanto l'aspetto esterno delle lettere" (1933, p. 15). Qui "intuizione" sembra proprio indicare l'intuizione sensibile, il vedere nel senso usuale. - A questo proposito vi è un altro esempio particolarmente pregnante che Klein propone come esempio, si potrebbe dire, di dimostrazione attraverso la vista. Come si sa, vale tra i principi elementari dell'uso dei segni + e - e delle parentesi la regola, essendo a, b e c numeri interi positivi c - (a - b) = c - a + b Io non sono in grado di ricordare se questa regola ci sia stata in 125 qualche modo dimostrata o comunque spiegata in modo persuasivo o semplicemente dichiarata come una regola da prendere così come è. Ora, va da sé che un atteggiamento "intuitivo" non rinuncerà facilmente a intravedere nel numero l'elemento "geometrico", ed anzitutto naturalmente nella serie dei numeri l'immagine della retta. Ora, lo (a- b) di cui sopra, essendo c>a>b, potrà essere rappresentato, osserva Klein, dalla figura seguente: -     - In effetti a, b, c vanno ora intesi come segmenti 0a, 0b e 0c e se pensiamo di "sottrarre" b da a, il segmento indicato in figura è appunto (a-b). Ora se da c "sottraggo" (a-b) la situazione rimane esattamente la stessa se, sottraendo da c anzitutto l'intero segmen­to a vi aggiungo poi il segmento b. Infatti facendo da c la sottrazione di a ciò che debbo fare per soddisfare la nostra eguaglianza è appunto aggiungere b. Ma su tutto ciò abbiamo ragionato anche troppo. Per Klein si tratta di una semplice dimostrazione (Beweis) intuitiva, come esempio di "quelle dimostrazioni che hanno bisogno per sussistere solo della figura (Abbildung) e della paroletta "Guarda!" (Siehe!), come era costume tra gli antichi indiani" (Klein, 1933, p. 28). Ed io confesso che, anche soltanto per pure ragioni culturali, alla mia tarda età, vorrei ricordarmi insieme alla regoletta del cambiamento di segno, anche di una qualche sua giustificazione, foss'anche quella proposta da Klein, che alcuni potrebbero considerare particolarmente rozza. 126 - Non ci si può a questo punto non rammentare, ancora di Wittgenstein, la frase "Non pensare, ma guarda" (Denk nicht, sondern schau!) - questo "guarda" è poi pudicamente tradotto nella versione italiana delle Ricerche Filosofiche (1967, oss. 66) con "osserva", che è tutt'altra cosa, oltre che poter essere malevolmente considerato un vero e proprio errore di traduzione. Ma non lo è: è una decisione consapevole. Il traduttore si vergogna un poco di questo "guarda" che appare addirittura in contrapposizione con il pensiero. (Una frase simile insieme ad altre inclinazioni di discorso mi fa pensare che Klein fosse tra le letture di Wittgenstein). - Un altro aspetto importante per comprendere la posizione di Klein è quello dell'"applicazione" (Anwendung) a cui abbiamo già accennato. "Certo i nessi puramente logici debbono rimanere il fermo scheletro nell'organismo della matematica, che ad essa conferisce una peculiare solidità e sicurezza. Ma ciò che è vivo nella matematica, gli stimoli più importanti, la loro efficacia verso l'esterno poggiano assolutamente sulle applicazioni, cioè sulle interazioni di quelle cose puramente logiche in rapporto ad altri campi. Bandire le applicazioni dalla matematica sarebbe quindi come se si volesse trovare la natura dell'animale vivente nell'impianto dello scheletro, senza prendere in considerazione muscoli, nervi e tessuti, istinti, in generale la vita dell'animale" (1932, pp. 14-15). - Questa formulazione, molto interessante, non deve essere fraintesa in senso "organicistico-vitalistico" come se implicasse tacitamente un rifiuto di ogni forma di "meccanizzazione". Altra cosa è chiedere che la matematica sia una cosa viva, e tanto più questa esigenza è importante quando ha di mira, come in Klein, certi modi di insegnare la matematica nelle scuole che unisce l'astrattezza all'autoritarismo - "Così stanno le cose, e se non sai che stanno così, saranno guai per te" (1933, p. 7) (ed anche 127 questa frase fa venire in mente l'insegnamento di Wittgenstein). In quella frase in realtà confluiscono alcuni temi differenti, anche se legati tra loro. Quando in Klein si parla di intuizione si chiede intanto di non perdere il rapporto con la comprensione del concetto. Di questo rapporto fa parte naturalmente anche la sua "storia", vuoi reale, vuoi ideale. Ma nemmeno va perduto il rapporto con la realtà e dunque, in questo senso, con l'applicazione. Nel primo punto ricade l'idea di illustrazioni visive dell'astratto concettuale, ed eventualmente di riconduzione dell'aritmetico alla figuralità. Il problema dell'applicazione coinvolge non solo la critica ad una posizione formalistica, ma anche il problema della comprensione. Il concetto astratto potrebbe talvolta essere meglio "compreso" nella sua applicazione concreta. Proprio facendo riferimento a Klein, Poincarè rammenta che questi, per una delle questioni più astratte della teoria delle funzioni, organizza a scopi quasi dimostrativi un vero e proprio esperimento fisico utilizzando una superficie metallica e collegando due suoi punti in comunicazione con i due poli di una pila. Commenta Poincaré: "un logico avrebbe rigettato con orrore una simile concezione, o meglio non l'avrebbe rigettata, poiché nella sua mente non sarebbe mai potuta nascere" (Poincaré, 1994, p. 12) Nello stesso saggio L'intuizione e la logica nelle matematiche Poincaré sottolinea la plurivocità di sensi che la parola intuizione può avere (p. 17), e che, secondo i contesti, prevale l'uno o l'altro. L'idea guida è la complementarità di logica e intuizione - poiché l'intuizione non può darci né il rigore né la certezza. "La logica e l'intuizione hanno ciascuna la loro parte necessaria. Tutt'e due sono indispensabili. La logica, che soltanto può dare la certezza, è lo strumento della dimostrazione; l'intuizione, lo strumento dell'invenzione" (p. 23). Costruzione - L'oggetto costruito si contrappone all'oggetto trovato, ad 128 esempio, una pietra che io raccolgo lungo la riva del mare e che mi attira per qualche sua particolare caratteristica, il suo colore, la sua forma o le venature che compaiono alla sua superficie. Naturalmente questa pietra è risultato di un processo, quindi anche di un lavoro: il lavoro del mare, durato forse un millennio. Tuttavia questo non basta per fare di questa pietra un oggetto "costruito". Anche gli alberi o i fiori sono risultati di processi che mettono capo a formazioni fortemente organizzate. Tuttavia anch'essi non li caratterizzeremmo come oggetti costruiti. - Se dovessimo invece indicare un oggetto costruito probabilmente andremmo diritti verso un edificio, una casa - il costruire è appunto un ottimo sinonimo di edificare. Ma che cosa contraddistingue un edificio, da una pietra o da un albero? Forse potremmo rispondere: in rapporto alla pietra e all'albero manca quell'elemento di artificialità che vi è invece nel "fare" che mette capo ad una casa, ad un edificio in genere. Questo elemento rinvia a sua volta ad una soggettività che realizza la costruzione - il muratore o, alle spalle del muratore, l'architetto. Forse questa è la strada giusta. - E tuttavia… tuttavia il modo stesso in cui ci siamo espressi ci rende forse avvertiti di un altro aspetto della questione forse altrettanto importante. La soggettività realizza la costruzione. Ma soggettività e costruzione non stanno obbligatoriamente l'una nell'altra. - Pensiamo ancora al muratore, e non attribuiamoli un compito così impegnativo come è quello di realizzare una casa intera. Basterà pensare ad un muro - e proprio ad un muro, e non a una qualche altra cosa che occasionalmente il muratore fa. Con una pala il muratore potrebbe fare un mucchio di ghiaia, ma un mucchio di ghiaia non lo diresti una costruzione. Un semplice muro invece sì, ed evidentemente non solo per il fatto che c'è 129 qualcuno che lo fa. - Si tratta invece di questo: un muro viene fatto secondo una precisa procedura, secondo una regola perfettamente determinata. La regola molto semplificata potrebbe essere formulata così: metti un mattone su un altro mattone. Questa formulazione un po' singolare può riguardare una sola azione. Di conseguenza assume particolare importanza la sua ripetizione. La singola azione che è conforme alla regola verrà ripetuta sino all'adempimento del compito. Occorre notare anche che un mattone deve essere stato prima posto affinché sia possibile porre su di esso un altro mattone. Intuitività dell'oggetto e comprensibilità della regola per la sua costruzione - A tutta prima, potrà sembrare che i termini di costruzione e intuizione puntino in direzioni molto diverse. In quella che abbiamo chiamato l'accezione fondamentale del termine intuizione, potremmo dire che l'oggetto intuitivo è essenzialmente un oggetto trovato piuttosto che un oggetto costruito. Talvolta si parla degli oggetti dell'intuizione come dei dati: ciò che importa è allora il loro esserci, il fatto che ci sono e sono afferrati intuitivamente in questo loro esserci. Sembra così che ci troviamo al polo opposto del problema della costruzione. Ma le cose non stanno esattamente così. - Ripensiamo al problema dell'intuizione corrispondente ad un concetto oppure anche ad un dato concreto di cui abbiamo dato solo una caratterizzazione astratta. Potremmo dire, per riprendere l'esempio precedente, che la parola "consonanza" ha un "senso oscuro" senza intuizione corrispondente. O addirittura che essa è "priva di senso". Ma non ci vuol molto a comprendere che in queste espressioni è implicito un criterio del senso 130 troppo forte. Se lo dovessimo applicare letteralmente esso non riuscirebbe a rendere conto nemmeno dell'impiego delle parole del discorso corrente, per non dire delle parole nel discorso scientifico. - Ad esempio la chiarezza e distinzione intuitiva che spetta ai poligoni di quattro o cinque lati viene meno nel caso dei poligoni con 1000 lati. Evidentemente non possiamo ammettere che il senso della parola poligono sia più o meno chiaro secondo il numero dei suoi lati. Si tratta allora di vedere in che modo si possa mantenere l'istanza contenuta nella richiesta di un'intuizione corrispondente senza incorrere in una situazione tanto imbarazzante. E proprio la strada che ricerca una soluzione conduce ad una sorta di vero e proprio ribaltamento del problema dell'intuizione in quello della costruzione. - Anziché come dato l'oggetto viene considerato come costruito e se è possibile formulare una regola "trasparente" per la sua costruzione, questa trasparenza può assolvere una funzione assai simile, se non la stessa funzione, dell'intuitività della figura. - Un poligono può essere considerato come una figura esistente in se stessa che ha determinate proprietà - quindi come un'oggettività data di cui potremmo dare una definizione. Ma vi è anche un altro modo di considerarlo, e precisamente come il risultato di un'azione che mette capo ad esso come proprio risultato. Si prenda un cerchio, si contrassegnino punti sulla sua circonferenza e li si congiungano procedendo da sinistra a destra rispettando rigorosamente l'ordine. La procedura ha un carattere del tutto generale ed è dunque possibile costruire attraverso di essa poligoni per un numero qualsiasi di lati. Se il numero dei punti è molto elevato presumibilmente vi saranno difficoltà di ogni genere per realizzarlo in disegno, ma la costruzione effettiva, empirica, è del tutto priva di 131 interesse, mentre è importante la possibilità della costruzione, possibilità che non ha bisogno di essere dimostrata, ma semplicemente mostrata nei casi più semplici. Fai così e così, e poi ancora così e così, eccetera. - Una delle operazioni fondamentali del pensiero astratto sta nello stabilire connessioni, e precisamente connessioni che hanno una logica costruttivo-generativa. O che mostrano un nesso attraverso una procedura di trasformazione. - Ciò che si richiede è che venga afferrato chiaramente come funziona la regola: ciò che importa non è il darsi intuitivo dell'oggetto, quanto piuttosto la comprensibilità della regola. Potremmo dire che l'intuitività dell'oggetto trapassa nella comprensibilità della regola per la sua costruzione. - Si dovrebbe provare meraviglia di fronte alle discussioni che tentano di mettere in questione la tenuta logica del principio di "induzione completa"; e questo non per il fatto che questo principio sembra a occhio e croce "evidente", ma per il fatto che esso aderisce perfettamente alla formula costruttiva della serie. E sarebbe del tutto fuori luogo, come hanno fatto in realtà gli stessi sostenitori di quel principio, attribuire ad esso un fondamento intuitivo. A meno che con intuizione non si intenda del tutto impropriamente l'afferramento del senso di quella formula. - Un concetto generale che viene formato per tratti (proprietà) comuni, così caro alla logica tradizionale, è solo una delle possibili modi di concepire la nozione concetto. Altrove mi sono chiesto come mai Euclide non parli dell'angolo piatto (Piana, 1999, p. 125). Ed ho cercato di mostrare che esso era un buon esempio per un concetto non concepito come formato per tratti comuni ma attraverso l'indicazione di una procedura generativo-costruttiva. 132 Un altro buon esempio potrebbe forse essere quello che consente di porre sotto un unico concetto secante e tangente, facendo della tangente un caso limite della secante. VI L'aritmetica prima dell'aritmetica La fortuna e la sfortuna della Filosofia dell'aritmetica - Se tu avessi cominciato le tue letture husserliane dalla Crisi delle scienze europee, faresti bene a fare poi un grande balzo indietro, dagli anni trenta al 1891, data di pubblicazione della Filosofia dell'aritmetica. Nella Crisi, infatti, vi è un Husserl che fronteggia il proprio tempo in modo diretto, e appaiono dunque in primo piano le motivazioni che fanno della Conferenza di Vienna e del lavoro che vi sta intorno una sorta di grande manifesto filosofico-politico-culturale, animato dall'interno da una straordinaria passione etica. Quelle stesse motivazioni fanno sì che in essa non si possa chiaramente avvertire il senso e la portata della ricerca fenomenologica come ricerca, diciamo pure, di dettaglio, su temi particolari. - "E si avvertono invece, tu pensi, in un'opera che è addirittura precedente all'elaborazione del concetto di fenomenologia?" - Io credo di sì. E questo per il semplice fatto che la tematica 133 del mondo della vita (Lebenswelt) può essere considerata come un'estensione di quella che in precedenza si presentava spesso sotto il titolo di Welterfahrung: esperienza del mondo. L'espressione esperienza del mondo differisce nel suo senso da mondo di esperienza solo per il fatto che nel primo caso l'accento principale cade sull'elemento soggettivo dell'esperire, nel secondo su ciò che in questo esperire è esperito. Ora è sufficiente assumere il termine Welterfahrung, nell'una o nell'altra accezione e quello di "esperienza" nella sua accezione più lata - non solo dunque relativamente alla percezione, al ricordo, all'immaginazione… ma anche in generale ai vissuti emotivi ed agli atti propriamente pratici che sono a loro volta correlati a interessi, desideri e bisogni, per trovarci di fronte alla vita stessa come vita vissuta. Alla Lebenswelt - al mondo della vita. Ma prima della Crisi, e prima ancora che venisse elaborato il concetto di fenomenologia e che lo stesso termine di Welterfahrug si affacciasse nelle pagine di Husserl, il richiamo all'esperienza rappresenta un titolo per una problematica assai più ristretta e particolare: la problematica dell'origine esperienziale dei concetti astratti. - Fra i concetti astratti vi è certamente il numero, dal momento che con concetto astratto in un'accezione generica e non troppo impegnativa potremmo intendere un concetto che non può essere ricondotto direttamente ad un'esperienza concreta, ovvero di esso non possiamo dare un esempio intuitivo, che possa essere messo sotto i nostri occhi, come lo possono invece "cavallo", "tavolo", "rosso, ecc. Certo, noi possiamo percepire due cose, ma esse non sono il numero due. Se d'altronde dicessimo che si tratta di una proprietà che posseggono due cose, la singolarità di questa proprietà salta subito all'occhio, perché non sapremmo affatto dire dove essa si trovi. E dunque sorge il dubbio che il termine di "proprietà" in questo caso non sia impiegato correttamente. 134 - Forse il numero due lo vedo con gli occhi della mente? Questa metafora non può insegnarci molto. Per l'approccio di Husserl a questo problema nelle sue linee generali, la Crisi delle scienze europee ha certo molto da insegnarci, basti rammentare i cenni contenuti in essa sulla problematica dell'origine della geometria. Perciò è giustificato il balzo all'indietro verso la Filosofia dell'aritmetica. Quest'opera può essere indicata come appartenente al periodo prefenomenologico perché essa precede l'elaborazione del metodo. Tuttavia sarebbe un errore considerarla del tutto superata rispetto alla tematica sviluppata successivamente. Così come sarebbe del tutto limitativo ritenere che essa possa essere considerata importante solo come un episodio interno dell'itinerario filosofico husserliano. - "Ma la Filosofia dell'aritmetica non fu forse recensita negativamente - e qui e là addirittura beffardamente - da Frege che la criticò per il suo psicologismo?" - Quella recensione determinò in effetti la fortuna, o meglio la "sfortuna" dell'opera: e poiché Husserl, ne accettò la critica sotto questo profilo, ed anzi, nelle Ricerche logiche egli condusse una critica assai più dettagliata di quella di Frege contro lo psicologismo nell'ambito della logica, non certo seguendone le indicazioni, ma percorrendo piuttosto un autonomo itinerario teorico che lo condusse all'elaborazione del punto di vista fenomenologico, la Filosofia dell'aritmetica venne completamente trascurata dalla letteratura specializzata. Ci fu un singolare conformismo, che avrebbe bisogno di qualche spiegazione storiografica, da parte di logici e filosofi della scienza, nell'accettare la posizione di Frege ai tempi del rinnovato interesse nei confronti di Husserl negli anni cinquanta in Italia. Non è un caso che, nonostante l'ampia diffusione della fenomenologia, la prima traduzione italiana di quest'opera risalga al 2001 a cura di Giovanni Leghissa. Un poco drasticamente, a mia volta nei miei Elementi per una dottrina dell'esperienza dichiaravo, nel contesto di una sintetica esposizione del contenuto della Filosofia dell'aritmetica, che "la confutazione 135 esemplare di Frege di quell'opera è esemplare anche per il modo in cui non coglie nel segno" (Piana, 1967, p. 283). Ma a quel tempo la mia fu una posizione del tutto isolata. Ed era motivata dal fatto che la critica di Frege, proprio per il fatto che è centrata sul problema dello psicologismo, si muove alla superficie della problematica proposta da Husserl e si riduce al rilievo di indeterminatezze di metodo che possiamo concedere fin dall'inizio, senza troppo danno al discorso teorico. Non è irrilevante poi notare che fu anzitutto Husserl ad attaccare le posizioni di Frege. Come osserva Matteo Ravasio, che ha dedicato al problema Husserl-Frege un'ampia discussione, "spesso si dimentica questa metà del dibattito, inscenando un duello surreale in cui solo un contendente attacca e colpisce" (Ravasio, 2013, p. 4). - Il vero punto del contrasto non riguarda lo psicologismo, ma la metodologia della chiarificazione. E non è certo irrilevante che secondo questa metodologia si proceda in direzione ben diversa da quella del logicismo, dal momento che l'orientamento che si viene profilando nel corso dell'opera è un orientamento che guarda piuttosto al versante formalista. Alla fine dell'opera non solo viene teorizzata una filosofia dell'aritmetica che pone al centro l'elemento calcolistico, ma viene prospettata una teoria generale dei calcoli, intesi anzitutto come operazioni su sistemi di segni. Giustamente è stato notato da Richard Tieszen che né Frege né Husserl "erano soddisfatti del formalismo nello stile di Hilbert, benché nella seconda parte della sua Filosofia dell'aritmetica Husserl era in qualche modo più vicina a quella di Hilbert" (2005, p. 315). Dopo aver notato che "lo psicologismo era una forma molto diffusa di naturalismo relativamente alla logica ed alla matematica nel tardo secolo XIX", R. Tieszen osserva: "un altro punto notevole della Filosofia dell'aritmetica è che nel libro il punto di vista della 'conoscenza intuitiva' o 'diretta' in aritmetica è molto limitato. Quasi tutto della nostra conoscenza aritmetica è ritenuto 'simbolico' e nella seconda parte dell'opera Husserl 136 sviluppa un genere di formalismo sia nel caso dell'aritmetica sia per altre parti della matematica" (ivi, pp. 2-3) - Il contrasto tra Husserl e Frege era di sostanza, e non di superficie. Il platonismo e l'oggettivismo di Frege non poteva accordarsi con il punto di vista della Begriffsbildung caratteristico di Husserl e che accompagna l'intero itinerario speculativo del filosofo. Ma nemmeno con quell'oggettivismo e con quel platonismo legato all'idea dell'intenzionalità, che rappresenta una importantissima novità nell'elaborazione della tematica "eidetica" di Husserl. - Oggi l'importanza e la portata della Filosofia dell'aritmetica è ampiamente riconosciuta, così come del lavoro svolto da Husserl nel campo della filosofia della logica, e non solo in rapporto alle Ricerche logiche, ma anche a Logica formale e trascendentale. Da molti studiosi autorevoli la recensione di Frege viene oggi ritenuta esemplare "anche per il modo in cui non coglie nel segno" e dovrebbe essere ricordata ormai per il solo fatto che essa riuscì a ritardare di più di cento anni il riconoscimento dell'interesse di quell'opera. - Scrive giustamente Stefania Centrone, in un notevole volume sulla logica e la filosofia della matematica del primo Husserl: "Secondo Rudolf Bernet 'il valore della Filosofia dell'aritmetica consiste nel fatto che essa anticipa certi decisivi risultati non solo delle Ricerche logiche, ma anche dell'opera tarda di Husserl'. Dal nostro punto di vista, in ogni caso il valore di questo testo va oltre il fatto di anticipare certe tesi che vennero consolidate nella fenomenologia di Husserl. Le soluzioni specifiche che Husserl avanza nel suo primo libro possiede un interesse intrinseco per la logica e la matematica, ed esse sono indipendenti dal contesto psicologistico in cui esse hanno avuto origine" (Centrone, 2010, p. XII). Nell'introduzione a questo volume Peter Simons, in modo particolarmente 137 incisivo, scrive: "La storia della filosofia della matematica degli anni d'oro 1879-1939 difficilmente menziona Husserl. Si legge di Dedekind, Cantor, Frege, Peano, Russell, Poincaré, Hilbert, Brouwer, Weyl, Gödel, Church e Turing. Husserl è effettivamente fuori dal quadro perché la sua Filosofia dell'aritmetica venne criticata come psicologistica da Frege, e l'opinione della maggioranza si trova dalla parte di Frege… È mia convinzione, basata in parte sulle prove stringenti presentate dal libro di Stefania Centrone, che Husserl dovrebbe meritare un'onorevole menzione nella storia della filosofia della matematica e della logica accanto a tutti gli altri, e che questo sarebbe stato più evidente se non fosse stato destinato a diventare il colosso filosofico con cui abbiamo familiarità'" (Centrone, 2010, p. VIII). - Il volume di Stefania Centrone è effettivamente un contributo assai importante per ciò che riguarda non solo la Filosofia dell'aritmetica, ma anche l'intero apporto di Husserl alla filosofia della matematica e della logica. Genera solo perplessità il fatto che in questo volume, non si attiri l'attenzione, e tanto meno si approfondisca, l'aspetto metodologico, ovvero il concetto di chiarificazione concettuale che sta alla base della Filosofia dell'aritmetica. In effetti quest'ultima opera, nonostante il titolo a tutto campo, si occupa anzitutto della chiarificazione del concetto di numero e dell'idea di aritmetica, secondo un concetto di chiarificazione che lo stesso Husserl formula in questo modo: un'indagine che voglia rispondere alla domanda "Che cosa è il numero" deve essenzialmente indicare i "fenomeni concreti" sulla cui base si effettuano le procedure che danno luogo al numero come proprio prodotto. La chiarificazione del concetto assume la forma di un'indagine sulla sua origine. - I concetti astratti hanno fra l'altro anche la seguente peculiarità: se essi vengono applicati direttamente e ingenuamente non pongono nessun problema. Ma non appena cerchiamo di riflet- 138 tere sui concetti stessi, qui le nostre idee sembrano diventare singolarmente appannate. Calcoliamo senza problemi con numeri. Ma se ci chiediamo che cosa sia il numero, allora le nostre idee si confondono. Di fronte a domande come queste dovremmo cominciare una sorta di riflessione critica sulla domanda stessa. In luogo di chiedere che cosa sia il numero devi porti il problema del modo in cui esso viene prodotto. - Stefania Centrone fa certo un'esposizione fedele della Filosofia dell'aritmetica, e tuttavia sorprende il fatto che non si soffermi sulla differenza tra statuto logico di un concetto come quello di numero e il processo della sua formazione, cosicché non sembra sottolineare a sufficienza la distinzione tra livello pre-aritmetico e livello dell'aritmetica "vera e propria", che è il cardine dell'intero problema. Di conseguenza il volume, sorprendentemente, toglie di mezzo un'opera così importante per la filosofia della logica e così connessa con la Filosofia dell'aritmetica come Erfahrung und Urteil. Questa circostanza fa sospettare che, dietro le quinte del libro, ci sia ancora una vecchia idea della logica e dei suoi rapporti con la filosofia. - Nasce il dubbio che la frase che poco fa abbiamo citato secondo cui "Le soluzioni specifiche che Husserl avanza nel suo primo libro possiede un interesse intrinseco per la logica e la matematica, ed esse sono indipendenti dal contesto psicologistico in cui esse hanno avuto origine" abbia un senso differente da quello secondo cui la abbiamo inteso. Essa potrebbe essere interpretata come se si dovesse ritagliare la logica e la matematica non solo dalla filosofia in cui essa è inserita, ma dalla filosofia in genere: ovvero, come se ci fosse una filosofia della logica e della matematica che non abbia nulla a che fare con le prese di posizione filosofiche più generali in cui essa è inserita. In ogni caso va ribadito che il libro di Stefania Centrone resta uno dei più importanti contributi di questi anni sugli aspetti specificamente logico-matematici della filosofia di Husserl. 139 I compiti di una filosofia dell'aritmetica secondo Husserl - "Che cosa è dunque una filosofia dell'aritmetica?" - Vorrei rispondere a questa domanda approfittando proprio del testo di Husserl, quasi a titolo di un possibile esempio. - L'idea iniziale è intanto il fatto che, trattando l'aritmetica del numero, si debba cominciare a rendere conto di questo concetto. Che cosa è implicato in esso? Sembra allora che ci si chieda quale sia il suo statuto logico, e dunque che una ricerca filosofica dovrebbe anzitutto compiere un'analisi volta in questa direzione. La formazione del concetto sembra essere un altro problema ed aver di mira soltanto il modo in cui nella nostra testa si forma il concetto di numero: dunque la sua storia psicologica. - "Ora non ti sembra che Husserl riduca il primo problema al secondo, come del resto dimostra il sottotitolo del libro che suona Ricerche logiche e psicologiche?" - Quel titolo, io credo, è un segno evidente che il problema di una chiara distinzione non viene percepito come un problema effettivamente rilevante. Beninteso nel libro si argomenta, per convalidare la propria posizione o invalidare le posizioni altrui. Ma per quanto riguarda la "formazione del concetto" è altrettanto indubbio che essa viene trattata più o meno implicitamente come un problema di ordine psicologico. Ma su questo punto non si avvia alcuna discussione di metodo. Ed allora noi dobbiamo badare soprattutto al contenuto. È giusto dire che si vorrebbe descrivere ciò che accade nella nostra mente nella formazione del concetto, come ci siamo precedentemente espressi? No, non è giusto. Nella nostra mente, vuol dire, nella mia mente, ma anche nella tua - e nella nostra mente potrebbero accadere cose molto differenti. A quanto sembra Frege non riusciva a pensare 140 insieme il rosso, la luna e Napoleone senza stabilire qualche relazione "in più" che collegasse oggetti tanto eterogenei (Frege, 1884, p. 427-28). Naturalmente aveva le sue buone ragioni. La testa di ciascuno è fatta come è fatta. - L'espressione "storia psicologica" deve essere intesa in un'accezione molto debole. Che cosa si intende mai con questa espressione? In Husserl, se badiamo appunto al contenuto di ciò che gli dice, non troviamo "analisi introspettive", e nemmeno vi è traccia di qualche esperimento di carattere psicologico. Ciò che possiamo rintracciare è qualche inflessione psicologizzante nel linguaggio che egli usa. Per questo l'obiezione di psicologismo ha una presa piuttosto debole, come oggi viene ampiamente riconosciuto, mentre forse poteva aver maggior forza ai tempi della fondazione fregeana del logicismo. - L'effettiva carenza della Filosofia dell'aritmetica sta proprio nel dibattito metodologico, che si può dire sia praticamente assente, ed in fondo anche per questo motivo l'obiezione di psicologismo non riesce a innestarsi su un terreno abbastanza profondo. La questione metodologica viene elusa e si punta piuttosto su un semplice principio di metodo formulato così: "Nessun concetto può essere pensato senza fondazione in un'intuizione concreta" (p. 79). - È veramente necessario per applicare questo principio passare attraverso la psicologia, che cosa ha da dire l'introspezione a questo proposito o quale esperimento posso apprestare per metterlo in pratica? Non vi potrebbe essere una storia ideale che conduce dal percetto al concetto? - Nello stesso tempo in quest'opera non si fa quasi nessun impiego di cognizioni propriamente psicologiche, non si ricorre a 141 materiali sperimentali o comunque ad una qualche documentazione "esterna" (ad esempio, sui meccanismi di apprendimento). In qualche punto ci si richiama ad una non meglio qualificata "esperienza interna", ma in forma assai debole e non particolarmente significativa. Il numero come concetto aperto - L'inclinazione psicologistica della Filosofia dell'aritmetica non è in grado di sopprimere il tema realmente rilevante qui in questione che è in realtà quello di trasformare la domanda "Che cosa è il numero?" nella domanda "Come si forma il numero?": la domanda sull'essere viene tradotta in una domanda sul divenire che in certo senso riguarda anche il possibile futuro del numero. Se noi ci atteniamo alla prima forma della domanda dobbiamo assumere che il numero c'è già, e che dunque vi è un'essenza del numero inizialmente oscura, ma che può essere portata allo scoperto; e infine che questa essenza circoscrive in generale ciò che è il numero una volta per tutte e in se stesso. Il problema che la domanda pone è quello della ricerca di una definizione. La nuova definizione deve essere capace di applicarsi ai vecchi numeri come ai nuovi, riconducendo così gli uni e gli altri sotto l'essenza immutabile del numero. Non è essa che muta, ma le definizioni che si avvicendano per stringerla in pugno. - Wittgenstein rammenta una frase di Frege: "Frege ha detto una volta: 'una retta è già tracciata prima che sia stata tracciata'" (Waismann, 1967, p. 165). Assumendo questo punto di vista la storia della matematica è una storia di "scoperte", piuttosto che produzioni della creatività ed inventività dello spirito. Ed anche su questo punto Wittgenstein insegna: "Il matematico è un inventore (Erfinder): non uno che scopre (Entdecker)" (Wittgenstein, 1971, I, oss. 167, p. 64). 142 - Diversamente stanno le cose se intraprendiamo la via percorsa dal numero nel processo della sua formazione. Dobbiamo allora disporci in un luogo in cui il numero non c'è ancora e non c'è ancora l'aritmetica, ma che entrambi stanno per esserci. La conseguenza è che il concetto di numero così acquisito non ha un'essenza fissabile definitoriamente una volta per tutte, ma è un concetto aperto, che può subire modificazioni ed estensioni di vario genere. Il luogo del problema - Talvolta le questioni filosofiche sono difficili da comprendere nella loro stessa impostazione. Più precisamente è difficile da comprendere il luogo del problema - dove esso si trovi. Così parliamo di numeri, comprendiamo il loro nome nel senso che impieghiamo correttamente le parole che li designano, e quindi comprendiamo anche il concetto che esprimono. Qui vi sono due mele, e diciamo appunto che esse sono due. Dov'è il problema? - Percepiamo una cosa e percepiamo che essa è gialla. Nell'e­ len­­co delle sue proprietà porremmo anche la proprietà di essere una? Anzitutto saremmo tentati di rispondere affermativamente. In fin dei conti accertiamo percettivamente che tre cose sono tre esattamente come accertiamo che esse sono gialle. Vediamo che sono tre nel senso letterale del termine: le cogliamo a colpo d'occhio, a prima vista, senza ricorrere a nessuna procedura di conteggio. - Qui ci imbattiamo già nel nodo fondamentale della teoria del numero nella Filosofia dell'aritmetica. Vi sono gruppi di cose il cui numero lo vediamo - che sono "direttamente rappresentate" - e gruppi di cose la cui numerosità non può essere valutata a vista, e gruppi di cose il cui numero può essere pensato grande a piacere, senza che né la percezione né l'immaginazione possa 143 offrire una qualche rappresentazione. - Ma rifletti: che cosa significa qui "numero"? Che cosa vuol dire dire vedere il numero o la semplice numerosità, e che cosa il pensare quest'ultima grande a piacere? - "Numero" significa qui il "pochi" e il "molti", come quando si dice: vi era un certo numero di persone (poche) oppure che il pubblico era numeroso (molti); ed inoltre dobbiamo mettere da parte tutto ciò che sul numero ci hanno insegnato fin dalle scuole elementari: una sorta di "messa in parentesi" ante litteram. In effetti vi è la possibilità di incorrere in un equivoco rilevante, che investe anche una difficoltà di traduzione non facile da risolvere. Abbiamo parlato del "cogliere il numero a colpo d'occhio". Vediamo subito che quelle persone sono tre. Non le abbiamo contate. Quando Husserl usa espressioni come zählen o Zählung, che significano correntemente contare e conteggio, occorre prestare attenzione se eventualmente egli non si riferisca a quelle piccole molteplicità concrete il cui numero può essere afferrato con lo sguardo, ed in tal caso questi termini, senza perdere in altri contesti il loro senso usuale, assumono invece il senso del "cogliere il numero ovvero la determinazione quantitativa della molteplicità a colpo d'occhio". Questa duplicità di senso dovrebbe essere compresa contestualmente da parte del lettore senza particolare difficoltà. - Tre cose sono fisicamente distinte da due cose, e questa possibilità di distinzione fisica è strettamente connessa con il fatto che la distinzione numerica è una distinzione che concerne una differenza visibile ed afferrabile. Non avremmo dunque ragioni per ritenere che la proprietà di essere due sia una proprietà di tipo particolare. Questa è l'opinione di Stuart Mill - ed è inutile dire che caratterizza un modo di pensare empiristico. Essa viene rammentata da Husserl nel primo capitolo della Filosofia dell'aritmetica (Husserl, 1970, p. 17) e tolta di mezzo in modo giustamente sbri- 144 gativo. Di ciò non val quasi la pena di parlare - osserva Husserl - perché l'impiego del numero è caratterizzato proprio dal fatto che il numero non si applica solo a cose della percezione, ma a enti in generale. In realtà possiamo parlare, ad esempio, di due possibilità (che sono certamente diverse da tre), di due concetti, ecc., e ciò basta per far perdere di senso il riportare la differenza numerica ad una distinzione fisico-fenomenica. E non solo possiamo applicare il concetto di numero ad oggetti qualunque, ma questi non debbono essere necessariamente omogenei, cioè appartenenti alla stessa "regione dell'essere". Leibniz diceva - e Husserl lo rammenta - che il numero è qualcosa di interamente universale - universalissimum - e con il numero possiamo riunire enti di qualunque specie "dio, un angelo, un uomo, un movimento" (ivi, pp. 16- 17). - Di qui risulta subito un altro fattore differenziante. Se sappiamo che due cose sono gialle sappiamo ad esempio anche che avranno una forma, un'estensione, una grandezza, un peso, ecc. Sappiamo dunque che tipi di cose sono ed a quale regione ontologica appartengano, mentre nulla sappiamo di esse, se sappiamo soltanto che sono due. Numero e molteplicità - Fin dalle prime pagine della Filosofia dell'aritmetica si attira l'attenzione sull'universalità del numero inteso come indipedenza dai contenuti, quindi come universalità formale. Il numero è un concetto formale (Formbegriff). Questa espressione merita di essere rammentata fin d'ora e rappresenta uno degli assi portanti della tematica husserliana relativa al concetto di numero - anzi alla matematica in genere. Distratto dalla sua critica della teoria dell'astrazione, Frege dedica più di una pagina ad ironizzare sull'astrarre inteso come "prescindere da", senza rendersi conto che ciò che ha di mira Husserl è l'idea della vuotezza del contenuto 145 e, dal punto di vista generale, quella di una matematica formale, sovraordinata all'aritmetica stessa. Vero è che la distinzione tra concetto formale e concetto materiale (provvisto di un contenuto) non è chiaramente esposta come tale nella Filosofia dell'aritmetica, e comparirà invece nettamente nella discussione sulla nozione di proposizione analitica nella terza Ricerca logica. Non essendo chiaro questo punto, ma avendo di mira la teoria tradizionale dell'astrazione fortemente sospettata (ed in effetti sospettabile) di psicologismo l'ironia fregeana intende colpire l'idea di molteplicità a partire dalla quale inizia il percorso husserliano verso il numero "aritmetico". - Per indicare la molteplicità Husserl usa il termine di Vielheit, ma anche quello di Menge (insieme) oppure quello di Inbegriff (aggregato). Benché egli li usi con una certa libertà e senza particolari vincoli, vi è un punto in cui egli precisa che "laddove ci siamo trovati in prossimità di fenomeni concreti" si è preferito impiegare i termini di insieme o di aggregato, mentre il termine di molteplicità si richiama ad un impiego più generale (Husserl 1970, p. 347). - All'inizio della nostra ricerca possiamo usare questi termini, come del resto gli altri che abbiamo ricordato, non solo senza fissare una precisa differenza tra essi, ma anche nel presupposto che "ognuno sappia che cosa si intenda con queste espressioni". Dunque non si propongono definizioni. Eventualmente possono essere utili degli esempi che andremo a cercare ovviamente anzitutto nell'ambito delle molteplicità concrete, della molteplicità percepite. Questo è indubbiamente uno dei punti chiave del dibattito teorico. Husserl critica Frege sia per la cosiddetta "definizione per astrazione", sia per l'idea che un concetto sia chiaro solo quando di esso si dispone di una definizione adeguata. Di conseguenza le parti che Frege, nella sua recensione, dedicate al tema del definire sono una sorta di autodifesa. Del resto anche 146 su questo si gioca la drastica divergenza tra i due autori, ed anch'essa non riguarda specificamente l'inflessione psicologistica della tematica svolta da Husserl. - Di conseguenza Frege è costretto anche a fare l'allocco sul problema del collegamento collettivo. A ciò ho già accennato, ma la frase merita di essere citata per intero: "Debbo confessare che non mi è riuscito di formarmi un aggregato secondo le istruzioni dell'autore. Col collegamento collettivo, i contenuti debbono venire pensati o rappresentati semplicemente insieme, senza che venga rappresentata una loro qualunque relazione o un loro qualsiasi nesso. A me questo non è possibile. Non riesco a rappresentarmi il rosso, la luna e Napoleone senza alcun collegamento tra loro; per esempio, il rosso di un villaggio che brucia, dal quale si stacchi la figura di Napoleone, illuminato a destra dalla luna" (Frege, 1884, pp. 427-428). Ciò mi fa pensare che, quando Frege vuol fare lo psicologista, lo sappia fare assai bene e che vi sia un più verace psicologismo nella sua recensione che nell'intera Filosofia dell'aritmetica. E dire che, da logico qual era, avrebbe potuto approfittare del suggerimento che gli veniva da Husserl quando indica come segno del collegamento collettivo la paroletta "e", la quale non è obbligata a realizzare il quadretto surrealista qui sopra descritto né ha normalmente la funzione di realizzare simili quadretti. - Vi sono diversi tipi di collegamenti fra gli oggetti una molteplicità che determinano a loro volta diversi tipi di interi e, al fine del concetto di numero, il tipo di collegamento in questione è in certo senso il più debole possibile, tanto da essere presentato come un collegamento "estrinseco" (äusserlich). E proprio per questo, trattandosi del collegamento più elementare e nello stesso tempo più "vuoto", ogni intero, qualunque sia la sua forma ulteriore di collegamento, è anzitutto una collezione. Manifestamente questo è un discorso che riguarda gli oggetti, le molteplicità, i 147 collegamenti, i tipi di intero. Non riguarda la psiche di questo o di quello. E se la psiche di Frege non riesce a realizzare mentalmente una collezione sono solo affari suoi - come egli stesso mi concederebbe. - Occorre dire tuttavia che la terminologia utilizzata da Husserl facilita interpretazioni psicologizzanti. Essendo la parola "collegamento" (Verbindung) assai prossima nel suo senso alla parola "relazione" (Relation) il problema del collegamento collettivo deve essere considerato nel quadro più ampio di una "teoria delle relazioni". In proposito dobbiamo subito distinguere tra una relazione in genere, che è "ciò che forma la base per la formazione di attributi relazionali" (ovvero per la enunciazione di giudizi relazionali) e ciò che potremmo chiamare i "fondamenti della relazione" per indicare le cose (i contenuti) che sono posti in relazione. - Seguendo alla lettera il testo di Husserl tra la varie classificazioni proponibili, ve ne è una per noi particolarmente interessante. Vi sono relazioni "primarie" e relazioni "psichiche". Le relazioni vengono dette primarie quando esse poggiano sulle caratteristiche dei fondamenti della relazione. Così la relazione "A è a destra di B" sarà da considerare primaria dal momento che essa determina la localizzazione delle cose A e B in un certo contesto spaziale. Relazioni primarie saranno anche quelle concernenti la somiglianza o l'eguaglianza, prendendo questi termini nel loro impiego concreto. Analogamente per il collegamento di continuità che si ha quando l'intero è formato da parti che "scivolano" l'una dentro l'altra, come nel caso di una striscia con una sfumatura cromatica continua dal rosso al giallo attraverso l'arancione. Un altro esempio di relazione primaria è il rapporto percettivo di incremento (Steigerung), ad esempio quello che sussiste tra vari cerchi le cui dimensioni variano dal grande al piccolo o viceversa. In questo caso vi è certamente la percezione di figure singole, 148 ma ciò che caratterizza questa configurazione nel suo insieme è una "sintesi" che esibisce la serie di cerchi come una serie concatenata secondo una norma di incremento (o decremento) dimensionale. Questa sintesi non �� il risultato di una proiezione intellettuale, ma fa corpo con la percezione stessa. Questo tema è qui appena accennato, ma contiene uno spunto che avrà pieno sviluppo negli sviluppi successivi della tematica fenomenologica. - Alle relazioni primarie Husserl contrappone le relazioni psichiche, nelle quali la relazione non sorge dai contenuti, ma da un atto psichico che effettua la messa in relazione. Un discorso a parte deve essere fatto quando l'atto psichico è determinante per rendere conto della relazione, come è il caso di una molteplicità di oggetti intesi come oggetti del volere: ovviamente non si cercherà di rendere conto di questa relazione a partire dagli oggetti come tali. Ma a parte questo caso particolare, proprio per le considerazioni fatte poco fa, il collegamento collettivo andrà classificato tra le relazioni psichiche, tenendo conto del modo in cui abbiamo caratterizzato le relazioni primarie. Ripiombiamo così nello psicologismo? Non dobbiamo rimanere alla superficie delle parole, ma andare alla sostanza delle cose. Che cosa significa, in ultima analisi, nel contesto che stiamo delineando riferire il collegamento collettivo alle relazioni psichiche? Significa che, data una collezione possiamo variare arbitrariamente i fondamenti della relazione senza che con ciò debba venire meno la relazione stessa (ivi, p. 73) - in altri termini le relazioni che Husserl chiama qui psichiche sono semplicemente le relazioni non primarie. Questa precisazione tuttavia non ha carattere di dettaglio o di corollario aggiuntivo, bensì mostra che l'importante non è il riferimento alla psichicità, ma all'idea di concetto formale. Il senso effettivo della questione non sta nella terminologia psicologistica. Tutto l'essenziale che si ha da dire, lo si può dire in altro modo. 149 - Il legame fondamentale che viene istituito attraverso il collegamento collettivo non è un legame percepito, ma un legame intellettuale, sia pure interpretato psicologisticamente. Ciò ha una conseguenza importante sull'idea dell' "astrazione" da cui sorge il numero. Secondo la descrizione husserliana non accade che prima percepiamo i complessi con le loro determinazioni qualitative e poi "facciamo astrazione da esse". È vero invece che l' "astrazione" è data con la percezione stessa in quanto l'astrarre indica semplicemente l'intendere le cose che sono fondamenti della relazione come "qualcosa in generale". "Ciò significa che la relazione in questione permane nella libera variazione delle determinazioni contenutistiche dei suoi termini. L'espressione 'qualcosa' indica dunque l'oggetto in quanto 'variabile' - forse si dovrebbe dire in quanto 'variabile generalizzata': l'oggetto inteso in senso matematico-formale o, come potremmo dire più brevemente, l'oggetto matematico" (Piana, 1967, p. 274). - La nozione di variabile sta dunque prima della nozione di numero in quanto è implicata in essa nella stessa misura in cui è implicata nell'idea astratta di molteplicità. Due parole soltanto ci bastano per dare espressione elementare ad una molteplicità: la parola "qualcosa" e la paroletta "e". Diremo dunque "qualcosa e qualcosa e qualcosa, ecc."; ma anche "x e y e z, ecc"; oppure anche "Uno e uno e uno, ecc.". - "Ma veramente di parole nei hai dette tre! Vi è anche l'eccetera". - Osservazione quanto mai giusta. L'eccetera ha una funzione importantissima in rapporto al nostro tema affrontato in questo modo. L'eccetera significa che possiamo procedere in questo modo ottenendo molteplicità grandi a piacere. - Ignacio Angelelli, che ha dedicato al problema dell'astrazione in Frege e in Husserl alcuni articoli in cui assume una posizio- 150 ne originale e inconsueta, manifesta perplessità sul modo in cui Husserl perviene dal concetto di molteplicità a quello di numero mediante l'astrazione, in un'accezione della parola che sembra riportare alla tradizione, ovvero all'astrarre inteso come prescindere dalle differenze mantenendo le proprietà comuni del campo di oggetti presi in considerazione. Egli osserva che "le sue istruzioni su come realizzare l'astrazione sono insufficienti, e in realtà inducono confusione. Fondamentalmente ci si dice di ignorare, 'astrarre' dalla natura degli elementi della molteplicità data ignorando così le loro differenze…" (Angelelli, 1997, p. 40) e, questa volta ragionando da fregeano, osserva che da questo modo di concepire l'astrazione si dovrebbe pervenire al concetto di "qualcosa", così come nel caso dei famosi gatti di Frege - uno nero e l'altro bianco - non si ottiene certo il numero 2, ma eventualmente il concetto di "gatto". Qui il "qualcosa" viene equiparato ad un concetto materiale (contenutistico), e quindi sembra che lo stesso Angelelli non tenga conto di questa importante differenza. Ma in realtà questo prima valutazione viene poi corretta e, anche senza usare la nostra terminologia, quella differenza viene formulata con sufficiente chiarezza con un rimando significativo alla logica "classica". - "La teoria classica della predicazione ha peraltro le sue buone cose, in ogni caso interessanti. Una di esse, condivise da Husserl ma non da Frege è un senso profondo delle grandi differenze tra i predicati che sono veri di un oggetto. Dai tempi di Aristotele, i predicati sono stati classificati in uno spettro molto ampio, a partire da quelli che sono essenziali o interni all'oggetto a quelli che sono rispetto ad esso puramente esterni… All'estremo esterno della gerarchia si trovano due tipi di predicati: 1. i predicati di origine psicologica (esempio tradizionale: 'La parete è vista') e 2. I cosidetti predicati 'formali' ('essere qualcosa': aliquid, Etwas)" (ivi, 43). 151 - La pertinenza di questo richiamo, tenendo conto di ciò che abbiamo detto or ora in rapporto a Husserl, è evidente; così come la conseguenza che Angelelli acutamente ne trae: che il problema effettivo di Husserl è quello di rendere del tutto arbitrarie le molteplicità che sono il punto di avvio per la costruzione del numero. La luna, Napoleone e il rosso non hanno nulla in comune: il loro legame è appunto del tutto estrinseco, cosa che a Husserl sembra giustificare la natura puramente psicologica del collegamento collettivo. Ma il punto della questione non è questo - cosa che Angelelli mette in rilievo concludendo: "Io credo che i problemi relativi alla teoria della predicazione siano quelli più importanti e interessanti nel libro di Husserl, piuttosto che quelli relativi allo psicologismo di cui tanto si è chiacchierato. È tempo che gli studiosi Frege-Husserl diano rilievo ai temi della predicazione piuttosto che allo psicologismo" (ivi, p. 45) - Sul problema dell'astrazione, anche Paolo Spinicci rileva (Spinicci 1987, p. 520) le insufficienze di alcune formulazioni husserliane che, sulla scia della tradizione, fanno poggiare questa nozione sulle proprietà comuni, e quindi sul concetto di genere, ma nello stesso tempo egli fa notare che Husserl è pienamente consapevole della peculiarità del "qualcosa": "Si può infatti osservare in primo luogo che la relazione che sussiste tra un determinato oggetto e il concetto di 'qualcosa' che di quello si predica può solo esteriormente essere accostata alla relazione che lega l'individuo al suo genus, e questo perché nel caso in questione non abbiamo affatto a che fare con un concetto di genere. Dire di un oggetto che è un qualcosa non significa proporre un nesso di subordinazione logica" (ivi, p. 522). "Il concetto 'qualcosa'… si rivela un puro concetto formale, una categoria, poiché attraverso di esso si determina esclusivamente la forma logica entro cui è sussunta una qualsiasi oggettualità concreta quando è posta all'interno del contesto di una possibile unità predicativa" (ivi, p. 524). 152 - Vogliamo ancora precisare: l'astrazione nel senso tradizionale del termine presuppone una molteplicità di individui provvisti di proprietà differenti e di proprietà comuni. Le proprietà comuni verranno "prese in considerazione" ai fini di una generalizzazione, mentre si prescinderà dalle proprietà differenti che sono invece indidualizzanti. Questa duplicità del processo astrattivo non ha senso per l'operazione astraente di "formalizzazione". Lo "svuotamento del contenuto" avviene per così dire in un solo passo e riguarda gli oggetti considerati come interi. Credo che ciò sia sufficiente per distinguere l'astrazione che dalla molteplicità conduce al numero dall'astrazione nel senso tradizionale (e di origine empiristica) del termine (cfr. in proposito Ravasio, 2013 p. 68). Rappresentazione diretta e rappresentazione simbolica del numero - Fin qui non ci siamo mai impegnati in considerazioni relative alla costruzione dei numeri secondo un sistema numerico vero e proprio. Una filosofia dell'aritmetica, così concepita, non comincia dall'aritmetica. Sappiamo anche già che non comincia dal contare, perché nonostante l'affiorare del problema della molteplicità molto grandi, fino a questo punto ci siamo occupati implicitamente di "piccole molteplicità" il cui numero può essere colto a colpo d'occhio. La formazione del numero precede il sistema numerico stesso, e dunque precede il concetto di calcolo e in particolare del conteggio, che presuppone già costituita la serie aritmetica. E va da sé che il due, ad esempio, non potrà essere presentato come la somma "1+1" ma come una molteplicità che potremmo rappresentare con due barrette. | | Con le barrette indichiamo semplicemente "qualcosa e qualcosa", anche se naturalmente potremmo benissimo parlare di 153 esse come di due cose. Questo "due" è nome di un numero, ma va considerato come non ancora inserito in un sistema di nomi. Tuttavia se le due barrette vengono intese come segno numerico, ovvero come suo nome, e una barretta come segno dell'uno vediamo profilarsi nell'ecceterazione un'operazione di concatenazione che è il primo passo verso la formazione di un metodo notazionale per i numeri che ci conduce all'aritmetica "vera e propria". - Essa comincia esattamente quando la possibilità di una differenziazione percettiva si arresta. A colpo d'occhio arriviamo a giudicare forse che una molteplicità consta di cinque oggetti. Forse arriveremmo fino a dieci o dodici… ma oltre? Husserl stesso ricorda che presso alcuni popoli primitivi la lingua possiede parole che indicano numeri da 1 a 5, dopo di che viene usata solo la determinazione generica: molti. Sarebbe tuttavia erroneo pensare che si tratti di un sistema numerico per l'appunto molto primitivo - un sistema numerico rozzo e scarsamente adoperabile. È giusto invece dire che si tratta di uno stadio in cui la nozione di sistema numerico non è ancora acquisita. Tanto più allora la cosa ci sembra interessante, perché il concetto di numero appare in ogni caso già sussistente e proprio come determinazione possibile di una molteplicità. "I numeri sono le differenti specie del concetto generale di molteplicità. Ad ogni molteplicità concreta corrisponde una determinata molteplicità di unità, un numero cardinale" (Husserl, 1970, p. 222). - Con l'ecceterazione si fa un passo avanti verso l'idea di sistema numerico, cioè verso l'idea della possibilità di far corrispondere un segno ad una determinata molteplicità in modo tale che la concatenazione dei concetti numerici si trovi rispecchiata nella costruzione dei segni che indicano quei concetti. L'intera seconda parte della Filosofia dell'aritmetica è dedicata proprio all'idea di sistema numerico connesso a quella del calcolo. Se fino ad un certo punto la nozione di nu- 154 mero può essere introdotta indipendentemente dal problema del calcolo, d'altro lato si può parlare di aritmetica solo nel momento in cui disponiamo di un sistema numerico e di conseguenza della possibilità di compiere operazioni sulla base di un sistema di segni ben determinato. - La distinzione tra rappresentazione diretta del numero e sua rappresentazione simbolica assume conseguentemente un'importanza decisiva. Direttamente rappresentati sono i numeri colti a colpo d'occhio. Ma vi sono numeri di cui abbiamo un chiaro concetto senza che essi abbiano un "corrispondente intuitivo" in una molteplicità concreta. La molteplicità è allora - così si esprime Husserl - rappresentata solo indirettamente. Il che significa: mediante un simbolo. - La nozione di simbolo viene così caratterizzata: "Una rappresentazione simbolica o impropria, indica il nome, è una rappresentazione con segni. Se un contenuto non ci viene dato direttamente per quel che è, ma solo in maniera indiretta attraverso dei segni che lo caratterizzano in modo univoco, allora di esso anziché avere una rappresentazione propria, si ha una rappresentazione simbolica" (Husserl, 1970, p. 193). - "Il centro dell'intera argomentazione è la seguente: noi possiamo concepire in un modo proprio ed effettivo solo pochi numeri. La nostra capacità rappresentativa è limitata al punto che già per numeri al di là del tre noi non possiamo vedere distintamente le unità reali che effettivamente li compongono. Come può allora tutto ciò conciliarsi con il fatto che le operazioni aritmetiche trattando con numeri che sono ben più grandi e per i quali non è possibile alcuna rappresentazione propria, e con il fatto che l'aritmetica non si pone come un problema reale quello di non poter rappresentare questi numeri? In questo contesto, Husserl introduce la nozione di rappresentazione simbolica e 155 cerca di mostrare che i numeri e i metodi dell'aritmetica non sono propriamente concepiti come operazioni sui concetti stessi, ma come numeri e metodi simbolici, e che questa circostanza determina il senso e lo scopo dell'aritmetica" (Centrone, 2010, p. 30-31). "L'insistenza di Hus­serl su una giustificazione intuitiva del concetto di numero si ribalta dunque nella rivendicazione di una filosofia dell'aritmetica che ponga al proprio centro il fatto che l'aritmetica è installata sul piano del 'simbolismo'" (Piana, 1967, p. 277). Problematica dei numeri immaginari - Il fatto che ci si muova qui sul terreno dei numeri interi e che l'analisi riguardi le operazioni elementari dell'aritmetica, non deve trarre in inganno. Lo scopo effettivo che Husserl si propone è quello di motivare alla radice l'aritmetica in quanto disciplina capace di estendere il campo dei suoi oggetti - dal piano grossolano dei conteggi "primitivi" ai livelli aritmetici veri e propri. Tra gli stimoli della Filosofia dell'aritmetica e in particolare proprio in rapporto alla tematica della rappresentazione simbolica, vi è il problema di rendere conto dell'estensione del concetto di numero e in particolare dei numeri immaginari. In un notevole saggio dedicato all'idea husserliana di rappresentazione simbolica Jairo José da Silva sottolinea che "i numeri immaginari sono rappresentazioni improprie, cioè rappresentazioni senza oggetto che tuttavia vengono fatte passare come se denotassero qualcosa. A dispetto di questa apparente assurdità, gli immaginari sono in generale innocui e spesso usati nella matematica. Come possiamo spiegare il fatto che possiamo ottenere operando 'ciecamente' con simboli secondo regole, anche quando questi simboli non rappresentano nulla? Questo problema epistemologico si presentò ben presto nell'itinerario filosofico di Husserl e fu un fattore dominante nello sviluppo del suo pensiero" (Da Silva, 2010, p. 124). 156 - Vi è del resto un preciso riferimento di Husserl all'importanza che ebbe per la sua formazione lo scritto di Gauss Theoria residuorum biquadraticorum (II) (1831), e in particolare la comunicazione (Anzeige) che egli vi associa. Dice precisamente Husserl: "Forse contro i miei sforzi non si opporrà alcun pregiudizio sfavorevole se dico subito che devo le linee portanti delle mie nuove teorie allo studio delle note di Gauss sui resti biquadratici, note molto lette ma utilizzate in modo assai unilaterale" (Husserl, 1970, p. 7). - In questo testo il grande matematico mostrava la possibilità di una rappresentazione "intuitiva" dei numeri immaginari - e più precisamente la possibilità di riprendere il metodo di far corrispondere ogni numero reale ad un punto di una retta e di farlo valere anche per i numeri immaginari, utilizzando in luogo della retta gli assi cartesiani. La questione in Gauss è spiegata in modo leggermente diverso ma conduce appunto a questo risultato: ad ogni numero immaginario viene assegnato una coppia di numeri - la parte reale all'asse delle x, la parte immaginaria all'asse delle y. In questo modo i numeri immaginari cessano di essere dei mostri del mondo ideale, anfibi tra essere e non essere come li aveva definiti Leibniz, ma diventa possibile formulare un vero e proprio calcolo, con le proprie operazioni e le regole ad esse relative. Nel suo libretto divulgativo esemplare soprattutto per i rapporti tra matematica e fisica, Introduzione alla matematica, Alfred North Whitehead nota che "l'idea di determinare la posizione di un punto mediante le sue coordinate non era affatto nuova in quell'epoca in cui si stava formando la teoria degli 'immaginari'", ma "l'idea della coppia ordinata come entità a sé sorse più tardi ed è il risultato degli sforzi che vennero compiuti allo scopo di interpretare gli immaginari nel modo più astratto possibile" (pp. 79-80. Corsivo mio). Essendo indubbio che l'interpretazione gaussiana, passando attraverso il riferimento geometrico, seguendo una via da altri precedentemente battuta, intende poi fare ritorno ad 157 un livello puramente aritmetico di grado superiore, mi chiedo se ciò che afferma Whitehead non semplifichi alquanto le cose quando dice che il problema di Gauss era quello di "interpretare gli immaginari nel modo più astratto possibile". D'altronde vi è chi la pensa diversamente. Ad esempio, nella History of Mathematics, che ebbe una certa importanza ai tempi suoi, Florian Cajori osserva che "La connessione tra numeri complessi e punti sul piano, benché artificiosa (artificial), costituì un ausilio potente negli studi successivi di algebra simbolica. La mente richiedeva una rappresentazione visiva al fine di riceverne aiuto" (Cajori, 1894, pp. 317- 318) (corsivo mio). - In realtà in casi come questi è quanto mai opportuno ritornare ai testi originali. In effetti Gauss stesso segnala nella Comunicazione alla Theoria residuorum biquadraticorum (II) che il filo che l'aveva condotto a questo risultato era stata una possibile analogia con la rappresentazione dei numeri reali attraverso una retta. "Così come i numeri interi assoluti possono essere rappresentati attraverso una serie ordinata di punti a distanze eguali in una linea retta, nella quale il punto iniziale è il numero 0, il successivo 1, ecc.; e così come al fine della rappresentazione dei numeri negativi si richiede soltanto un prolungamento illimitato di questa serie dal lato opposto del punto iniziale: nello stesso modo per la rappresentazione dei numeri complessi…". (Gauss, 1876, p. 174). Ma questa frase si apriva con queste parole: "Dobbiamo aggiungere alcune osservazioni di carattere generale. Il fatto di riportare la teoria dei resti biquadratici nel campo dei numeri complessi potrebbe a taluni che hanno poca dimestichezza con le grandezze immaginarie e che di conseguenza diventano prigionieri di false rappresentazioni, apparire urtante e motivare l'opinione che questa ricerca sia campata in aria e riceva un andamento fluttuante, per il fatto che si allontana dal terreno intuitivo (Anschaulichkeit). Ed invece nulla sarebbe più infondato di una simile opinione. Al contrario l'aritmetica dei numeri complessi è capace delle più in- 158 tuitiva resa sensibile (Versinnlichung). E sebbene l'autore nella sua esposizione precedente abbia seguito una trattazione aritmetica, tuttavia egli ha anche per questa fornito l'evidenza (Einsicht) e quindi i necessari accenni alla resa sensibile (Versinnlichung) che saranno sufficienti per il lettore che sa pensare per conto suo" (ivi). In realtà bastano queste poche citazioni per comprendere l'interesse che Husserl poteva provare per il lavoro di Gauss. In esse è implicitamente tracciato un percorso che prendendo l'avvio da una forma aritmetica ad un tempo utile e inesplicabile e che rimanda ad una pura convenzione segnica, opera una sorta di regressione al "piano intuitivo" che consente di darle "un corpo visibile" - così mi sembra debba essere interpretata la Versinnlichung - in modo tale che quella convenzione viene fatta rientrare in un sistema di segni che ha carattere di calcolo e che trae da quella regressione la propria subordinazione al concetto "numero". Se questa mia interpretazione è corretta, qui sono in gioco i temi di fondo della Filosofia dell'aritmetica. L'argomento naturalmente può essere discusso a fondo anche rispetto ad altri testi di Husserl, in particolare, la recensione a Schröder (Husserliana, XXII, pp. 3 sgg.) e le lezioni tenute a Gottinga su questo stesso argomento nel 1901 (Husserliana, XII, pp. 430 sgg). Ma qui possiamo rimandare alla letteratura secondaria, ed anzitutto a quello che può essere considerato probabilmente il primo lavoro di largo impegno sull'importanza del problema logico-matematico lungo l'intero percorso filosofico di Husserl. Si tratta del lungo saggio di Bernhold Picker, Die bedeutung der Mathematik für die Philosophie Edmund Husserls (Picker, 1963). Per quanto riguarda il problema attuale è notevole il fatto che Picker sottolinei che "Gauss sostiene che l'aritmetica ha esteso il suo campo gradualmente e che i primi algebristi avevano denominati falsi anche i numeri negativi. Questa concezione rimase in vigore finché non si riconobbe che i numeri positivi e negativi non dovevano essere applicati ad oggetti singoli considerati di per stessi, ma solo a relazioni tra due oggetti" (Picker, 1963 p. 277). Questa af- 159 fermazione si ritrova letteralmente proprio alla fine della Filosofia dell'aritmetica all'inizio del capitolo sulle fonti logiche dell'aritmetica: "Abitualmente si definisce l'aritmetica come scienza dei numeri. Questa definizione però non è sufficientemente chiara. I singoli numeri, considerati per sé, non forniscono alcun motivo per il trattamento che conduca alla conoscenza, e quando si parla di particolari qualità intrinseche di singoli numeri, da fondarsi scientificamente, si tratta sempre di caratteristiche che spettano a loro a causa di certe relazioni che sono collegate a classi di altri numeri intere o parziali. Solo a partire dalle relazioni che i numeri intrattengono tra loro possono scaturire problemi che richiedono un trattamento logico. Perciò sarebbe meglio definire l'aritmetica come la scienza delle relazioni numeriche. In ogni caso il suo compito scientifico consiste nel trovare numeri a partire da quelli dati, in virtù di certe relazioni già fra loro sussistenti" (Husserl, 1970, p. 256). Ed è ancora Gauss che merita di essere ricordato in rapporto a questa affermazione di Husserl: "Il matematico astrae interamente dalla qualità degli oggetti e dal contenuto delle loro relazioni; egli ha a che fare soltanto con il conteggio (Abzählung) e con la comparazione delle relazioni tra loro" (Gauss, 1876, p. 176). Lo zero e l'uno - È chiaro che la distinzione tra rappresentazione propria o diretta e rappresentazione simbolica o indiretta fa tutt'uno non solo con il riconoscimento di due livelli dell'analisi tra loro correlati "geneticamente", un livello che aritmetica non è (ancora) e un livello propriamente aritmetico, ma anche con l'idea di un modello di chiarificazione concettuale che, per così dire, passa attraverso questi due livelli. - Per illustrare questo punto ci si può limitare ad illustrare il senso delle espressioni uno e zero. Non a caso non parlo senz'altro 160 di numeri. Io ti dico, ad esempio, di aver incontrato "un uomo". Ma se volessi con ciò indicare che ho incontrato un uomo e non due - attribuendo ad "uno" un significato numerico, probabilmente dovrei ricorrere a qualche artificio esterno, anche soltanto ad un'accentuazione della voce su quella parola. La stessa parola "uno" può essere impiegata come un numerale oppure come un articolo indeterminato - e beninteso per noi si tratta di un'equivocità significativa e niente affatto accidentale. Vi è da parte di alcuni logici e filosofi del linguaggio una sorta di orrore dell'equivoco verbale, mentre ci sono parole la cui equivocità ci può insegnare qualcosa. In questo caso noi non ammoniamo il nostro interlocutore a non confondere i due sensi della parola "uno". Al contrario diciamo: badate come sia significativo che questa parola possa avere questi due sensi! - Nella formulazione "uno e uno e uno, ecc." "uno" compare come articolo indeterminato, come se scrivessimo "un… e un… un…", avvertendo che al posto dei puntini potremmo mettere nomi qualunque. Questa ambivalenza grammaticale ha tuttavia per noi una ragione profonda nella stessa istituzione del concetto di numero. Alla sua base, non vi è l'1, ma la forma vuota: l'oggetto matematico. Nello stesso tempo gli oggetti matematici considerati come elementi di una molteplicità potranno essere considerati come "unità", cioè come elementi di cui consiste la molteplicità. Vi è dunque un passaggio dalla nozione del "qualcosa" alla nozione dell'unità: l'unità è il qualcosa considerato dal punto di vista della nozione di molteplicità e in opposizione ad essa. - Perciò dal punto di vista prearitmetico l'uno non è affatto un numero e tanto meno lo zero. Da ogni parte si odono voci di proteste - la più forte e prepotente di tutte è quella di Frege: il numero risponde alla domanda "Quanti?" e tutto ciò che possiamo dire rispondendo a questa domanda merita a pieno titolo il nome di numero. Dunque anche l'1 e lo 0 sono numeri, perché 161 alla domanda "Quanti" si può benissimo rispondere "13" ma anche "1" oppure "0" (Frege, 1884, p. 279- 280). - Nel rispondere a questa possibile obiezione Husserl distingue, nella risposta alla domanda "Quanti", le risposte negative dalle risposte positive, ed è una distinzione piuttosto sottile e acuta (Husserl, 1970, p. 130). - "Quanti sono?" - ovvero: "Di che molteplicità si tratta" chiede il logico fregeano. E la risposta potrebbe essere: "Ma non lo vedi? Qui c'è solo una cosa, quindi non abbiamo a che fare con una molteplicità, ma con un'unità". L'espressione usata da Husserl è Nicht-viel, che indica l'opposizione alla molteplicità (ivi, p. 131). - Oppure: qui non vi è nessun oggetto, quindi non vi alcuna molteplicità, e nemmeno un'unità. E questo è il senso della risposta con lo zero. - In altri termini, ammettiamo la domanda relativa al numero nella forma "Quanti sono?", ma ne analizziamo il senso. - Quanti sono? Potrebbe essere analizzata così: "Qui vi è una molteplicità. Ti prego di determinarla". O anche, in forma interrogativa: "Qui c'è una molteplicità? E se c'è, quanti sono i suoi elementi?" - È chiaro che questa esclusione dell'1 e dello 0 dal punto di vista della produzione primitiva del concetto di numero è una diretta conseguenza dell'impostazione proposta. Se i numeri sono specificazioni della nozione primaria di numero (molteplicità) allora non potremo considerare un oggetto come un caso speciale di molteplicità. A maggiore ragione ciò vale nel caso dello zero. Tuttavia, la loro introduzione in quanto numeri fa tutt'uno con la posizione di un sistema numerico e del calcolo aritmetico. Alla 162 luce di ciò si comprende come Husserl sottolinei con forza l'importanza dell'introduzione dello zero e dell'uno come numeri notando nello stesso tempo come questa introduzione non sia affatto ovvia, in specie per lo zero. Mentre l'uso calcolistico dell'1 come numero ci è imposto già nel periodo prescientifico dell'aritmetica, dell'introduzione dello zero "che richiede una visione aritmetica relativamente sviluppata" siamo debitori alla saggezza indiana. - Lo zero ha una funzione di primaria importanza per l'introduzione - così decisiva per il sorgere dell'aritmetica - del sistema posizionale indiano: tale sistema "deve la propria brevità e la possibilità di venire abbracciato con un solo sguardo al fatto che al suo interno le cifre sostituiscono le parole scritte designanti numeri e l'ordinamento lineare intuitivo viene utilizzato come strumento di designazione sistematico per l'ordinamento dei numeri di livello, sebbene divenga superfluo designare in maniera particolare le unità di livello… Certo una simile modalità di designazione divenne possibile solo dopo l'invenzione della cifra zero, che ha la funzione di marcare la caduta di un numero di livello e di mantenere tuttavia la completezza della serie dei livelli sulla quale si basa il giudizio che valuta la posizione" (Husserl, 1970, p. 244). La storia del numero 1 e dello 0 dovrebbe insegnare qualcosa. - Peraltro anche dopo l'introduzione calcolistica di 1 e 0 come numeri, essi mantengono anche nel calcolo una posizione particolare. Cosa naturalmente negata da chi contesta questa impostazione che farà valere l'idea che in fin dei conti ogni numero ha le proprie particolarità, ad esempio, è pari o dispari, ha determinati divisori, è numero primo ecc. ma che " queste caratteristiche particolari saltano sempre meno agli occhi, via via che il numero diventa più grande. È dunque totalmente arbitrario voler introdurre una differenza di genere. Tutto ciò che non si addice allo 0 e all'1 non può risultare essenziale per il concetto generico di numero" (Frege, 1884, p. 279- 280). 163 - Ciò che il sottile logico non vede - e naturalmente per precise ragioni - è che nelle particolarità dell'1 e dello 0 è implicato l'altro grande concetto costitutivo dell'aritmetica - e precisamente il concetto di operazione, e dunque di calcolo. L'addizione con lo zero non opera nessun incremento, così come la sottrazione nessuna diminuzione. Per qualunque numero, la moltiplicazione per 0 è eguale a 0, e la divisione per 0 non si può fare ovvero non ha senso. La moltiplicazione per l'1 non moltiplica, la divisione con l'1 non divide. Husserl fa notare che si tratta di "particolarità manifestamente di tutt'altro genere che quelle che spettano ai numeri specifici" (Husserl 1970, p. 133). Nel comportamento dell'1 e dello 0 va individuata una vera e propria differenza logica che ha il suo fondamento nella diversità della sua Begriffsbildung. Nel caso dei numeri, il processo rinvia alla nozione di molteplicità, nel caso dell'1 e dello 0 alle procedure di calcolo ed alla serie aritmetica vera e propria. Questa differenza non può essere colta o non avere particolare rilievo per chi esclude, dall'ambito delle considerazioni logiche, il punto di vista della "formazione del concetto". In realtà vi sono differenze concettuali che possono essere chiarite e spiegate solo attraverso il rimando all'origine. Le operazioni pre-aritmetiche - Un altro notevolissimo esempio della differenza e della relazione tra piano pre-aritmetico e piano aritmetico riguarda il problema delle operazioni. Operare ha naturalmente due significati nettamente differenti. - Quali operazioni possiamo eseguire su molteplicità concrete? Non è difficile rendersi conto che le operazioni fattibili sono solo due: l'unificazione e la separazione. Ed alludiamo proprio al fatto di avere di fronte a noi dei gruppi di sassolini. Non possiamo fare altro. 164 - Di due gruppi ne facciamo uno solo (il modo in cui operiamo di fatto - se con le mani o coi piedi, se spostiamo il gruppo di destra su quello di sinistra o inversamente, è del tutto indifferente). Husserl chiama questa operazione connessione additiva (additive Verknüpfung): un nome nuovo perché questo collegamento è cosa del tutto diversa dal collegamento collettivo. Ed è appena il caso di dire che non è nemmeno un'addizione in senso aritmetico. Passando a livello aritmetico, il primo risultato che otteniamo, riguarda la moltiplicazione. Essa verrà considerata come un caso particolare di addizione, o più precisamente come un modo di notazione abbreviativo rispetto alla notazione dell'addizione, cosa sulla quale a questo livello non vi è nulla da eccepire. Facendo riferimento alla "storia del concetto" si vede subito che in questo modo vengono tolte di mezzo importanti differenze. Accade invece che nella moltiplicazione dobbiamo distinguere il moltiplicando dal moltiplicatore, e il moltiplicatore è un nuovo tipo di numero, che non compare nelle considerazioni a livello pre-aritmetico. Del resto noi non risolviamo una moltiplicazione analizzandola nelle addizioni corrispondenti, ma adottiamo una particolare procedura di calcolo. Ed è chiaro che non appena i numeri siano anche poco elevati l'analisi in termini di addizione non possa nemmeno essere praticata (Husserl, 1970, p. 187). - Da un punto di vista astrattamente logico, contrapponiamo un punto di vista che rileva precise differenze concettuali, le quali valorizzano il momento calcolistico del pensiero matematico come pensiero effettivamente produttivo. Husserl anticipa di molti anni una linea di discorso che ritroviamo nelle Osservazioni sui fondamenti della matematica di Wittgenstein, non certo per influenza diretta, ma probabilmente in forza di una somiglianza di atteggiamento che in parte dipende dalla comune polemica nei confronti delle posizione logiciste. - Il discorso sul fatto che, ad esempio, l'introduzione di un 165 nuovo simbolo come l'elevazione alla potenza non sia semplicemente simbolo abbreviativo per la moltiplicazione di fattori eguali - evidentemente un caso analogo alla moltiplicazione rispetto all'addizione - lo si ritrova per esteso nelle Osservazioni sui fondamenti della matematica a proposito dell'elevazione a potenza. - "Quando chiedo: che cosa c'è di nuovo nel 'nuovo genere di calcolo' dell'elevazione a potenza? - è difficile rispondermi. La parola 'nuovo aspetto' è vaga. Vuol dire che ora vediamo la faccenda in modo diverso - ma la questione è: qual è la manifestazione essenzialmente importante in 'questo vedere in modo diverso'? Per prima cosa voglio dire: 'Il fatto che in certi prodotti tutti i fattori siano eguali non avrebbe mai dovuto sorprendere nessuno' - oppure 'Prodotto di fattori tutti eguali' è un nuovo concetto - oppure ancora: 'Il nuovo consiste in questo: che ora classifichiamo i calcoli in modo diverso'. È chiaro che nell'elevazione a potenza l'essenziale è che guardiamo al numero dei fattori…Un nuovo aspetto - ma ancora: qual è il suo lato importante? A che scopo utilizzo ciò che mi ha sorpreso? - Ebbene prima di tutto, forse, lo deposito in una notazione. Così per esempio, scrivo a2 in luogo di 'a * a'. Così facendo mi riferisco alla successione numerica (alludo ad essa) e questo, prima, non era accaduto. Dunque stabilisco una nuova connessione! - Una connessione - tra quali cose? Tra la tecnica dell'enumerare i fattori e la tecnica del moltiplicare" (Wittgenstein, 1971, II, oss. 47, pp. 114-5. Cfr. Piana, 1973, p. 208). - Abbiamo detto che solo due sono le operazioni che si possono compiere sul piano prearitmetico, l'unificazione e la separazione. E manifestamente la separazione è l'operazione inversa dell'unificazione. Sul piano aritmetico saremo tentati di rispondere senz'altro: la sottrazione. Ora scopriamo che nello statuto logico di base - perché qui veramente non vi è proprio nullo di psicologico o di psicologistico - l'inversa dell'unifica­zione è la 166 Teilung, che puoi tradurre con separazione o con partizione. E che, stando sulla base delle "operazioni dirette" - cioè sulle operazioni condotte sulle molteplicità concrete - sottrazione e divisione sono da associare insieme in quanto operazioni di partizione. Nel caso della sottrazione, di una unica molteplicità, ne realizzo due per separazione: e si comprende che questa separazione possa essere intesa come un togliere una parte e che si possa porre il problema del determinare il numero della parte rimanente. Mentre nel caso della divisione, che sul terreno aritmetico considereremo come operazione inversa della moltiplicazione, sul piano pre-aritmetico si presenta come un caso particolare della separazione esattamente come la sottrazione. Del resto anche nel linguaggio corrente dividere significa "suddividere", "separare" - occorre naturalmente aggiungere: in parti eguali. L'operazione del separare viene dunque precisata, anche in questo caso, fissando un compito. Ad esempio: separare un aggregato in quattro parti eguali e determinare il numero di cui consta ogni parte. - L'esecuzione diretta di una simile operazione potrà avvenire nel modo in cui la nozione di divisione viene talvolta insegnata nella scuola elementare. Abbiamo dodici sassolini e dobbiamo consegnarli in parti eguali a quattro persone. Allora cominciamo a darne una a ciascuno ripetendo il giro fino a esaurimento. Poi "contiamo" quanti sassolini ha ricevuto ciascuna persona. L'invenzione dell'aritmetica - Tutto cambia quando possiamo avvalerci di una notazione aritmetica che ci consenta di fare calcoli. Potremmo dire che l'invenzione di una notazione aritmetica che ci consenta agevolmente di fare calcoli senza pensare al numero è l'invenzione dell'aritmetica. - La Filosofia dell'aritmetica si avvia nella sua seconda parte pro- 167 prio assumendo nettamente questa direzione. Le parole chiave sono segno, simbolo, rappresentazione diretta e rappresentazione indiretta ovvero simbolica. E infine: calcolo. La rappresentazione diretta del numero come rappresentazione diretta della molteplicità è ormai del tutto superata. Attraverso segni si può ottenere una rappresentazione indiretta di tutti i numeri possibili. - Anzitutto "il sistema numerico non è un mero metodo per contrassegnare concetti dati, quanto per costruire nuovi concetti e per fornire, insieme alla costruzione, una designazione" (Husserl, 1970, p. 234). Esso deve consistere in un sistema di nomi che seguano la stessa logica costruttiva dei concetti numerici da essi denominati. A questo scopo è essenziale la scelta di una "base" la cui scelta deve essere subordinata alla semplicità nella pratica del calcolo. -"Un rigoroso parallelismo sussiste qui tra il metodo dello sviluppo della serie dei concetti numerici e il metodo dello sviluppo dei segni numerici… e la sistematica dei segni non è meno coerentemente in sé conclusa che quella dei concetti…" (ivi, p. 237). Ciò consente la totale sostituzione dell'operare su concetti con l'operare sui loro nomi. "Si segue semplicemente la sistematica delle designazioni e si ottiene infine un segno composto il cui modo di formazione cela esattamente quello del concetto ricercato. Lo stesso vale… per il calcolare: non si tratta di un'attività con concetti ma con segni" (ivi, p. 240). Il metodo logico dell'aritmetica - "Il metodo dei segni sensibili è dunque il metodo logico dell'aritmetica. Qui si offre quel concetto di calcolo che, in reiferimento all'estensione della sua applicazione, possiamo designare come il più usuale. Esso abbraccia ogni derivazione simbolica di numeri da numeri, che si basa principalmente su operazioni regolate da segni sensibili" (Husserl, 1970, p. 257). 168 - L'accezione in cui è assunta la parola simbolo dipende strettamente dal contesto: da un lato si contrappone alla rappresentazione diretta della molteplicità, dall'altro si richiama ad un piano puramente segnico. Ma la scelta della parola "simbolo" intende rimandare ad un significato possibile. Il punto su cui Husserl insiste è che "mentre il calcolare è un'attività che procede con segni e non con concetti, tuttavia alla fine di ogni calcolo il risultato ottenuto è il segno per un concetto numerico, e come tale va interpretato" (Centrone, 2010, p. 28). - Questa traccia che va dal pensiero al segno ma che deve tornare al pensiero è anche naturalmente la ragione che spiega i futuri dubbi di Husserl su un formalismo che tende a non effettuare questo ritorno e che si propone in qualche modo come valido in se stesso. "Come matematico educato alla fine del diciannovesimo secolo, Husserl era naturalmente sospettoso rispetto ai possibili eccessi della svolta che questa scienza stava effettuando.... Ma egli vide le immense possibilità di una matematica puramente formale; cosicché se ne fece sostenitore dando ad essa una dignità epistemologica (matematica formale come capitolo della ontologia formale), ma con una nota di cautela (le teorie formali debbono essere applicabili)" (Da Silva, 2010, p. 140). - L'aritmetica vera e propria può sorgere solo sul piano segnico-notazionale, da intendere nel senso della rappresentazione simbolica. Si coglie ormai una direzione "formalistica" nella riflessione sui fondamenti dell'aritmetica che è il vero motivo delle reazioni all'opera di parte logicista. (Anche considerando l'intera questione da questo lato si comprende che la critica delle inflessioni psicologistiche indiscutibilmente presenti nell'opera sono irrilevanti per il suo contenuto sostanziale). - Sul piano aritmetico le operazioni si caratterizzano per il fatto che esse vengono effettuate non già sulle molteplicità stesse, ma 169 sui loro segni, sui numeri come simbolizzazioni di molteplicità. Nei simboli numerici la molteplicità è solo indirettamente intesa, non vi è nessuna molteplicità intuitivamente corrispondente. Le operazioni di calcolo, quando il sistema numerico è costituito, saranno allora pure e semplici operazioni di trasformazione dei segni numerici stessi. Va da sé che "solo dal concatenamento sistematico dei concetti che ne stanno alla base e dalle relazioni dipende in effetti che le designazioni corrispondenti si concatenino per formare un sistema conseguente e si stabilisce così con sicurezza che a ogni deduzione di segni e relazioni tra segni a partire da segni dati, logicamente corretta secondo le regole dei segni, corrisponda una deduzione di concetti e di relazioni concettuali a partire da concetti dati, compiuta correttamente nel senso dei pensieri" (Husserl 1970, p. 259). - L'intera tematica della genesi intuitivo-concreta del concetto di numero si prolunga in una concezione dell'aritmetica nella quale deve essere valorizzato il momento segnico-notazionale, quindi il momento calcolistico-simbolico come il momento realmente caratteristico e fondamentale di questa scienza. L'intuitività è naturalmente ancora decisiva, ma essa ha ora il senso della pura visibilità del segno e, attraverso il segno, della relazione con il concetto. Aritmetica e arte del calcolo - Diventa a poco a poco chiaro che l'idea del calcolo non interessa soltanto l'aritmetica nel senso fin qui inteso, l'aritmetica che ha a che fare con i numeri - l'arithmetica numerosa. Essa può essere generalizzata: con "calcolo" o "algoritmo" possiamo intendere "ogni specie di derivazione di segni da segni all'interno di un qualsiasi sistema segnico algoritmico secondo le 'leggi', o meglio, convenzioni, del connettere, della separazione e della trasformazione che sono propri del sistema in questione" (Husserl, 1970, p. 258). "Ora che abbiamo introdotto questo nuovo concetto di cal- 170 colo il rapporto tra aritmetica e arte del calcolo è cambiato del tutto. Se stacchiamo i segni numerici dai loro correlati concettuali e senza preoccuparci delle possibili applicazioni concettuali, formiamo da un punto di vista tecnico i metodi che il loro sistema ammette, abbiamo estratto allora la pura meccanica del calcolo che sta alla base dell'aritmetica e stabilisce il lato tecnico della sua metodica. L'arte del calcolo, chiaramente, non può più essere identica con l'arte della conoscenza aritmetica" (ivi, 259). Con l'arte del calcolo così intesa entriamo ormai nel regno di Hilbert: "È un fatto assai rilevante per una più profonda comprensione della matematica che un solo e medesimo sistema di simboli possa servire a più sistemi concettuali che, diversi tra loro per contenuto, presentano delle analogie solo nella forma della loro costruzione. Essi allora, come diremo meglio, vengono dominati attraverso il medesimo sistema di calcolo" (Husserl, 1970, p. 258). (cfr. anche Picker, 1963, p. 295). Il problema della computabilità - Uno dei meriti di Stefania Centrone è indubbiamente quello di attirare l'attenzione sul capitolo XIII della Filosofia dell'aritmetica e, in particolare, sull'affiorare, attraverso l'apparato concettuale istituito da Husserl, della problematica della "computabilità", sia pure in forma embrionale e per accenni di carattere generale. La questione si pone in effetti nel momento in cui Husserl si dispone sul terreno del calcolo, distinguendo un metodo concettuale, cioè un metodo che procede tenendo fermo il concetto di numero, nei quali i segni "hanno un significato solo secondario", da un metodo mediante segni sensibili, nel quale il concetto sta solo all'inizio ed al termine del processo, arrivando alla conclusione che "il metodo basato sui segni è concreto, sensibile e universale e facile da maneggiare anche con un esercizio minimo. Dico apposta universale perché non è pensabile alcun problema che non si possa risolvere con il suo ausilio. Così tale metodo, 171 rende il primo, quello concettuale, del tutto inutile. Alla fine, il metodo concettuale può trovare applicazione non nell'ambito della pratica scientifica, ma solo in un ambito in cui vigono capacità mentali simili a quelle dell'infanzia" (Husserl, 1970, p 257). - È evidente da questo riferimento all'infanzia che il concetto di numero di cui si parla e dell'operare attraverso un metodo concettuale rimanda al livello degli insiemi concreti, dunque al livello che noi abbiamo chiamato prearitmetico. Tanto più assume importanza il passaggio al livello simbolico, a cui è appunto dedicato il capitolo finale dell'opera. - In questo contesto si annuncia il problema della "computabilità". Gli esempi sono, nello stile dell'opera, del tutto elementari. La sottrazione non sempre ha una soluzione - ciò accade quando il minuendo è minore del sottraendo (p. 269); e lo stesso vale per la divisione: "Anch'essa è limitata quanto alla propria eseguibilità, nella misura in cui possono essere divisi per a parti eguali solo numeri b che siano multipli di a" (Husserl, 1970, p. 271). - Ma naturalmente tutta questa tematica è orientata verso un orizzonte di particolare complessità. Il problema che si pone, osserva Husserl, è che "una soluzione va trovata già per il fatto che si deve sapere prima dell'inizio del calcolo, se si potrà avere un risultato, se il problema posto non includa a priori qualcosa di impossibile"; e d'altra parte "il decorso delle operazioni parziali che qui vanno eseguite (in modo simile a quello che accade con la divisione e la sottrazione) subisce delle modificazioni a seconda della possibilità o dell'impossibilità di ciò che viene posto all'inizio" (ivi, p. 278). - A questi aspetti si richiama Stefania Centrone per affermare che "la nostra tesi è che Husserl abbia una chiara intuizione di quella classe di funzioni che, nella terminologia logica corrente, 172 è conosciuta come 'classe delle funzioni numeriche parzialmente computabili'. Il problema di una rigorosa caratterizzazione di questa classe - è utile ricordarlo - fu esplicitamente e sistematicamente affrontato solo negli anni trenta, nel contesto della teoria della computabilità effettiva nella matematica (nelle opere di A. M. Turing, A. Church, K. Gödel, S.C. Kleene e altri" (Centrone, 2010, p. 47). Una tesi tanto impegnativa è appoggiata dall'autrice da un'appendice a cui naturalmente si rimanda per ogni approfondimento. VII L'aritmetica senza l'astrazione Le citazioni tratte dalle Grundlagen der Arithmetik di Frege fanno riferimento nel numero di pagina alla prima edizione del testo tedesco stampato a Breslau nel 1884. Il grande pensiero di Frege - L'unità tra logica e arimetica è il grande pensiero di Frege. Si è trattato di una vera e propria rivoluzione nella concezione della logica, come è stato detto da molti, o addirittura della filosofia? In un notevole saggio in cui questo problema viene posto Carlo Cellucci lo nega con ottime ragioni (Cellucci, 2003) e lo ribadisce contro quella che egli chiama "l'ortodossia prevalente" nel volume La filosofia della matematica del novecento (Cellucci, 2007), nel quale è dato leggere, io credo, una delle più sintetiche e nello stesso tempo più lucide esposizioni dei punti nodali del pensiero fregeano. - Ma certamente non si può dubitare della grandiosità del progetto e delle dimensioni del movimento di pensiero che esso ha messo in moto. Se vuole essere viva, la filosofia deve muoversi dinamicamente attraverso i possibili diversi punti di vista. E questo vale 173 naturalmente anche per la filosofia della matematica, tanto più in presenza di diverse scuole di pensiero. Credo però che si debba dire fin dall'inizio che l'idea di questa unità, fino ad un passato abbastanza recente, è per lo più entrata nelle nostre aule universitarie con il severo spirito che era proprio dello stesso Frege che, quanto alla distinzione tra vero e falso, era piuttosto intransigente. Che aritmetica e logica facessero tutt'uno e che la teoria degli insiemi potesse valere come teoria fondazionale per qualunque concetto matematico-formale in generale (fondendo e confondendo questi due diversi problemi fra loro) era presentata come una verità finalmente rivelata. E chi mai poteva esserne il profeta se non Gottlob Frege, che taluni hanno dichiarato essere "il più grande logico di tutti i tempi"? (A dire il vero l'idea che, valendo il principio di contraddizione in entrambi i campi, e del resto anche nella geometria, Leibniz manifesta la convinzione che "ce seul principe suffit pour demonstrer toute l'Arithmetique et toute la Geometrie, c'est à dire tous les Principes Mathematiques" (Leibniz 1975, VII, p. 755). Ma si tratta evidentemente di un'affermazione al tempo stesso troppo forte e troppo debole, priva del resto di un'effettiva elaborazione sistematica, per poter essere considerata un autentico precedente). Il numero si enuncia di un concetto - Come spesso accade, idee destinate a sviluppi di particolare complessità hanno alla loro base tesi relativamente a portata di mano e comunque non difficili da formulare alla breve: le complicazioni sorgono quando si comincia a edificare. Anzi forse ancora un poco prima - quando si tentano le prime elaborazioni per mettere alla prova quelle tesi in vista di un'edificazione futura. Nel nostro caso, l'idea iniziale può essere formulata dicendo che il numero è sempre relativo ad un "concetto", dove concetto ha il significato tradizionale di proprietà che può essere "predicata" di un oggetto. 174 - È bene prestare molta attenzione alle formulazioni direttamente fregeane. All'inizio del par. 45 delle Grundlagen der Arithmetik, Frege osserva: "Il numero non è ottenuto per astrazione dalle cose come il colore, il peso, la durezza, non lo è nel senso in cui lo sono le proprietà delle cose. Resterebbe ancora la domanda di che cosa viene enunciato qualcosa mediante una specificazione numerica (Zahlenangabe)" (Frege, 1884, p. 58). È a questa domanda che si dà la risposta cruciale secondo la quale la specificazione numerica contiene un enunciato (Aussage) relativo ad un concetto (ivi, p. 29). Cruciale perché da esso, con tutti i perfezionamenti del caso, deve poter essere estratto tutto il programma logicista. - A tutta prima questa risposta appare sorprendente: non sono le cose a cui spetta primariamente un numero - non sono le cose ad essere in certo senso "numerose", ma il numero sarebbe inerente ad un predicato che quelle cose "raccoglie insieme". Sorprendente ma necessario, se si vuol legare a fil doppio aritmetica e logica. Le cose ritorneranno ad essere importanti, come "estensioni" del concetto, ma proprio questa qualificazione fa sì che esse, quando torneranno ad essere importanti, saranno inghiottite dal concetto. - È certo piuttosto singolare il fatto che per comprovare esemplificativamente questa risposta Frege scelga proprio il numero zero, ovvero la proposizione "il pianeta Venere ha zero satelliti". Qui le cose addirittura non ci sono, "non vi è proprio alcun satellite di Venere o aggregato di satelliti di cui qualcosa possa essere enunciato. Invece al concetto 'satellite di Venere' viene attribuita una proprietà, cioè quella di non comprendere nessun oggetto sotto di sé" (Frege, 1884, p. 59). - Lo zero - in certo modo l'ultimo nato, fra i numeri - e comunque un numero assai poco "numeroso"! Ma non a caso Frege dedica diverse pagine per sostenere che nulla contraddistingue lo 0 e l'1 da qualunque altro numero. Ed in generale 175 si potrebbe sostenere che questi due numeri siano gli autentici protagonisti delle Grundlagen. Non già certamente per mettere in questione la loro esistenza, di cui non vi è certo bisogno; ma per trovare per essi una caratterizzazione puramente logico; insieme naturalmente all'altro problema cruciale di rendere conto logicamente dell'idea di successore immediato di un numero. Non dobbiamo mai perdere di vista il fatto che, secondo questa prospettiva, l'aritmetica come tale c'è già, fatta e finita, esiste ed è sempre esistita, anche se di essa ne abbiamo eventualmente una conoscenza imperfetta e parziale. Ed esisterebbe anche se non ci fosse qualcuno che la pensasse o ne facesse un qualche uso. Persino fin d'ora possiamo dubitare che sia lecito parlare - come accade non tanto in Frege, quanto nei fregeani della prima e dell'ultima ora - dei numeri come entità astratte, cioè come prodotti da un qualche processo di astrazione o di idealizzazione. Al più si tratta di una qualifica che ha senso solo per negazione delle proprietà degli oggetti che possiamo toccare, odorare, mangiare, vedere ecc. A ciò abbiamo già accennato. - L'eventuale formazione del numero - la sua genesi - non interessa (ciò riguarda l'antipsicologismo di Frege), e secondo i suoi presupposti non vi è proprio nulla da obiettare. Ma questi presupposti dovrebbero comunque essere chiaramente evidenziati. Così come dovrebbe essere messo in rilievo il fatto che la Zahlangabe di cui si parla deve necessariamente entrare in una proposizione che non appartiene all'aritmetica, come l'esempio dei satelliti di Venere dimostra. E si sarebbe anche tentati di chiedere che cosa resterebbe della specificazione numerica riferita a concetti, se il mondo non ci fosse, né il pianeta Venere, né qualunque altra cosa. - In ogni caso, il primo impianto del discorso, da un lato presuppone l'aritmetica già costituita, dall'altro l'impiego del numero in campi esterni all'aritmetica e in generale nei suoi usi nel discorso 176 corrente. Sarei anche tentato di aggiungere che probabilmente nessuno direbbe senza una qualche ragione che "il pianeta Venere ha zero satelliti", ma userebbe molto semplicemente la proposizione negativa "Il pianeta Venere non ha satelliti". Credo che anche questa circostanza meriti qualche riflessione. Anche per il fatto che Frege, se ho ben compreso, considera la questione nel suo rovescio. Se non avessimo il numero zero, nessuna proposizione negativa sarebbe possibile. Come abbiamo visto or ora, è possibile che nessuna cosa cada sotto un concetto. "Se ciò non avvenisse, non si potrebbe mai negare l'esistenza, e di conseguenza perderebbe il suo contenuto anche l'affermazione dell'esistenza" (1884, p. 62). D'altronde, poco oltre si legge: "Sotto questo riguardo, l'esistenza è simile al numero. L'affermazione dell'esistenza non è altro che la negazione del numero zero" (p. 65). Ma se le cose stessero così, ed io confesso una certa stupefazione, potrebbe sorgere il dubbio: forse è l'aritmetica a fondamento della logica… chissà! Numeri e astrazione - Abbiamo detto or ora che l'astrazione in senso tradizionale è ancora presente nell'esposizione di Frege, non già come mezzo per pervenire al numero, ma al concetto a cui si potrà attribuire un numero. Per spiegare l'origine dell'errore di pervenire al numero con un'operazione astrattiva Frege ricorre proprio a questa circostanza ed alla sua precedenza necessaria rispetto alla posizione del numero. "Vediamo ora anche come accade che si voglia ottenere il numero per astrazione dalle cose. Ciò che si ottiene con ciò è il concetto di cui poi si scopre il numero. Cosicché l'astrazione di fatto spesso precede la formazione di un giudizio numerico" (1884, p. 61). Ciò che induce l'errore è il fatto che l'astrazione procura i concetti a cui saranno "applicati", quando sia il caso, i numeri. Vi sarebbe dunque in certo senso uno scambio tra il prima e il dopo. 177 - Frege è evidentemente lontano dal pensare che vi possa essere un altro genere di astrazione - un'astrazione "formal-matematica", potremmo chiamarla così, che ci porti direttamente a quel etwas überhaupt, di cui parlava Husserl, attraverso la quale da un qualunque oggetto della sensazione o del pensiero si potesse pervenire all'oggetto matematico-formale per eccellenza, all'idea generalizzata di variabile: quest'idea viene invece depressa nel dato di fatto della "grande applicabilità del numero", e la relazione al concetto diventa la chiave della sua spiegazione. Non vi sono forse concetti per qualunque cosa? "A questo punto si spiega anche la grande applicabilità del numero. Già osservammo quanto fosse difficile comprendere come mai la stessa cosa possa riuscire applicabile tanto a fenomeni esterni quanto a fenomeni interni, tanto a ciò che esiste nello spazio e nel tempo quanto a ciò che è fuori di essi… Solo ai concetti, sotto i quali vengono portati l'esterno e l'interno, lo spaziale e il temporale e ciò che non è né spaziale né temporale vengono applicati i numeri" (pp. 61- 62). - In questi primi inizi si può già vedere la funzione che assolve all'interno di questa posizione l'oggettivismo platonistico di Frege, che intende i numeri come oggetti di un mondo a sé stante, che non hanno bisogno del mondo (del nostro mondo) per esistere. Non si tratta di un problema aggiunto, che sta per così dire, altrove: al contrario esso rappresenta una sorta di premessa teorica fondamentale. Ogni rapporto con l'esperienza è radicalmente messo da parte, e così anche la parola "astrazione" riferita al numero diventa, all'interno di questo punto di vista, altamente sospetta, per il semplice fatto che l'astrarre sembra essere sempre un "astrarre da…" - e da che cosa in primo luogo si può astrarre se non da qualcosa che sta direttamente di fronte a noi - nel nostro mondo? Questa paroletta "da" riporta in primo piano l'esperienza del mondo come punto di partenza, come base da cui comincia il cammino che forse potrà portarci sulle vette di 178 entità "astratte" - che non si possono né vedere né toccare: come i numeri appunto. Ma questa è appunto, secondo Frege, la via dell'empirismo, per quanto possa essere raffinata, e fa del numero il risultato di un'operazione mentale. Psicologismo! Appunto; ahimè. E soggettivismo distruttivo dell'oggetto "numero". L'astrazione, secondo Frege, segue questa via e pertanto, in una parola, "astrarre è una espressione psicologica, e come tale deve essere evitata nella matematica" (Recensione a Cantor, Frege, 1965, p. 417). Se si parla di numeri come oggettività "astratte" questo aggettivo può solo voler dire: "il numero non può essere né odorato, né assaggiato, né udito, né visto, né toccato" (Frege, 1986, p. 411): cioè esso può attingere un senso solo attraverso queste negazioni. - Ma, come abbiamo detto, le cose ritornano: il concetto a cui inerisce il numero riguardano le cose che cadono sotto di esso, secondo la vecchia terminologia, la sua estensione: in questo senso il riferimento al concetto, oltre a riportarci sul terreno della logica, fa da mediazione tra il numero e le molteplicità (classi, insiemi), evitando di effettuare un'astrazione dalle molteplicità al numero che d'altronde sarebbe votata al completo insuccesso. Non solo è subito chiaro che la delimitazione della molteplicità non è determinata dall'espe­rienza di cose esistenti di fronte a noi: essendo estensione di un concetto, la molteplicità in questione è già da subito un'entità appartenente logica. Tout se tient. Equinumerosità e corrispondenza biunivoca - Naturalmente dire che in una specificazione numerica all'interno di un enunciato il numero spetta al concetto non basta, così come non basta dire, di conseguenza, che ogni estensione ha un numero che la caratterizza. Non basta ai fini di una definizione di un numero determinato, così come non basta per definire il numero in genere. A questo punto la nostra discussione 179 deve proseguire con nuove nozioni e argomentazioni. Così il numero 12 sarà pertinente al concetto di "apostolo" (purché io sappia che gli apostoli sono dodici); ma ciò significa anche che sarà vincolato a quel concetto. E naturalmente dovrei per ogni numero fare riferimento ad un concetto determinato. Questo vincolo renderebbe l'intera questione del tutto priva di senso. Dopo aver deciso che il numero spetta al concetto, è necessario liberarlo da ogni riferimento al suo contenuto. Approdiamo così a quella che una volta veniva chiamata "definizione per astrazione", che stabilisce una condizione di identità del numero indipendentemente dai concetti considerati. Non vi definirò il numero, ma l'espressione "lo stesso numero" dicendo che un numero x si dice lo stesso di y, qualunque siano i concetti considerati, se tali concetti sono equinumerosi, ovvero se gli oggetti di cui è costituita la loro estensione possono essere messi tra loro in una corrispondenza biunivoca. La logicità di questa caratterizzazione definitoria sta nel fatto che nessun concetto contenutisticamente determinato viene in questione, ed essa si sostiene unicamente sull'idea di "corrispondenza biunivoca". - Frege stesso cita a sostegno, l'empirista Hume che aveva fornito questa formulazione: "Quando due numeri sono combinati in modo tale che l'uno ha sempre una unità che corrisponde a ciascuna unità dell'altro, allora li indichiamo come eguali" (per questo è consuetudine odierna dei logici riferirsi a questa formulazione come principio di Hume). Beninteso, la posizione complessiva di Hume sull'aritmetica non ha niente a che fare con il logicismo. E sarebbe meglio non confondere troppo le acque. Non solo le parole hanno senso nel contesto di una frase, ma anche una frase di un testo filosofico ha senso nel contesto della filosofia che in esso viene elaborata. Ma a parte questo, la citazione di Hume, che è peraltro una citazione indiretta (tratta da Baumann, il quale la trae a sua volta da un dizionario di terminologia filosofica), sembra ripresa da Frege senza impegno unicamente per l'i- 180 dea della corrispondenza biunivoca e senza particolare necessità, anzi con rischio di equivoci piuttosto pesanti. Essa presuppone una concezione del numero come aggregato di unità - concezione che è oggetto di una polemica vivacissima da parte di Frege. Poiché il cosiddetto "neologicisimo" ha ricreato alcuni crampi mentali intorno al principio di Hume, mi sembra che sia opportuno venga tenuta ben presente questa limpida affermazione di Marco Ruffino: "Adottare il Principio di Hume come assioma sarebbe stato efficiente dal punto di vista tecnico, ma sarebbe stato incompatibile con l'interesse di Frege di rendere evidente la natura logica dell'aritmetica… Il riconoscimento dell'aritmetica come una parte della logica dipenderebbe in questo caso dall'accettare ciecamente i numeri come oggetti logici, senza alcuna riduzione a entità a cui ci si riferisce in modo essenziale in una teoria logica come è il caso delle estensioni (o decorsi di valori). Agli occhi di Frege non sarebbe stato assolutamente una strategia convincente, e sarebbe equivalso ad abbandonare il logicismo" (Ruffino, 1905, p. 234). - Il passo di Hume è contenuto nel Treatise of Human Nature, I, 3, 1. - Infatti Frege non adotta il principio di Hume. Egli si esprime propriamente così: una volta introdotto il concetto di equinumerosità attraverso la corrispondenza biunivoca, "potremmo dare la seguente definizione: 'Il numero che spetta al concetto F non è altro che l'estensione del concetto 'equinumeroso a F'" ("die Anzahl, welche dem Begriffe F zukommt, ist der Umfang des Begriffes 'gleichzahlig dem Begriffe F'" (Frege, 1884, 79-80). Basterà sopprimere il riferimento a un qualsivoglia concetto F per poter dire che il numero non è altro che l'estensione del concetto 'equinumeroso'" (cfr. Frege, 1965, p. 291). Alla base di tutte le complicazioni che si avvertono dai primi inizi, tuttavia vi sono poche nozioni realmente decisive per avviare l'intero corso di idee - il legame tra oggetti e concetti, dunque la nozione di estensione, il numero che in certo senso si nasconde dietro l'equinumerosità, 181 l'equinumerosità che si risolve in una corrispondenza biunivoca - beninteso puramente pensata. - Vi sono insiemi di cose che eventualmente hanno lo stesso numero, ma che non possono essere messe in corrispondenza biunivoca - magari non lo possono per banali ragioni empiriche. F. Waismann fornisce vari esempi di questa impossibilità empirica e conclude, su questo punto, che "un tale coordinamento ci sia di fatto ce lo può dire solo l'esperienza". (1971, p. 127 sgg.) Altri esempi proposti di Waismann mostrano difficoltà dipendenti dal fatto che, sempre considerando casi empirici, ad es. la visione di un cielo stellato, potrebbe accadere che non si possa decidere nemmeno se la quantità di stelle viste sia in numero determinato venendo così meno una sorta una sorta di precondizione per stabilire l'equinumerosità. Egli dice: secondo la definizione di Frege "per una legge logica assoluta, due insiemi debbono sempre essere o non essere egualmente numerosi sia che noi possiamo, sia invece che non possiamo verificarlo…. Ma così non è: il senso di un'affermazione proviene soltanto dal modo di verificarla… bisogna badare ai procedimenti che servono a stabilire tale uguaglianza di numero" (p. 133). Queste obiezioni non colgono nel segno proprio per il fatto che Frege è completamente disinteressato all'applicazione della corrispondenza biunivoca come procedura effettivamente realizzabile e, io credo, all'applicazione dell'aritmetica in genere; quanto meno non è interessato all'impiego concreto dei numeri per stabilire la quantità di oggetti, nonostante il fatto che gli esempi ordinari di Frege facciano riferimento ad essa. Credo invece che si possa dire che, nonostante le iterate dichiarazioni secondo cui il numero deve rispondere alla domanda "quanti?", secondo la definizione di Frege, comunque rigirata, perfezionata e messa nella misura del possibile al riparo da difficoltà di natura logica (nelle quali, come si sa, cadrà comunque clamorosamente), il numero non fornisce mai una indicazione numerica di quantità. Esattamente come il proverbiale pastore che "conta" 182 le sue pecore con i sassolini che tiene in tasca. - Lo nozione di corrispondenza biunivoca non ha a che vedere con nessuna operazione concreta, anche se di essa si possono dare a scopo esplicativo grossolani esempi con le cose di tutti i giorni. Apparecchiando il tavolo, metti un coltello alla destra di ogni piatto e sarai certo che piatti e coltelli saranno in corrispondenza biunivoca. E potrai anche partire dallo stesso esempio per introdurre la nozione di relazione come nozione logica (§ 70, p. 81). Tutte le nozioni di base appartengono al cielo del pensiero puro - e se non ti immergi in questa purezza non potrai comprendere nulla del "logicismo". Anche se poi le impurità della realtà zampillano da ogni parte. Numero e relazione - Frege è peraltro attentissimo a queste impurità. E in particolare tenta di riformulare il concetto di corrispondenza biunivoca in modo da liberarlo da qualunque riferimento ad un'operazione mentale o ad un'operazione reale. Parlare di corrispondenza biunivoca sembra sottintendere una qualche particolare operazione che sappia stabilire la correlazione uno ad uno in entrambe le direzioni e che potrebbe essere diversa secondo gli insiemi considerati. Si richiede perciò una logicizzazione ulteriore, ovvero una completa riformulazione della nozione, cosa che Frege realizza riconducendola alla nozione logica di relazione. Ciò avviene all'inizio del § 71 delle Grundlagen dove si legge la seguente formulazione: "Se ogni oggetto che cade sotto il concetto F, si trova nella relazione φ con un altro oggetto che cade sotto il concetto G, e se per ogni oggetto che cade sotto G, si trova un oggetto che sta nella relazione φ con un oggetto che cade sotto F, allora gli oggetti che cadono sotto F e sotto G sono coordinati l'uno all'altro secondo la relazione φ" (1884, p. 83). 183 - Qui compare una relazione non determinata φ che connette biunivocamente tutti gli oggetti che cadono sotto F e tutti gli oggetti che cadono sotto G. La corrispondenza biunivoca in quanto fondamento dell'equinumerosità è scomparsa da questa definizione mentre resta l'idea di una relazione che sussiste tra ogni elemento di F e G nelle due direzioni. Che in questo modo la corrispondenza biunivoca venga ricondotta a rapporti puramente logici viene sottolineato da Frege: "Con ciò abbiamo ricondotto il coordinamento biunivoco a puri rapporti logici e possiamo dunque definire che l'espressione 'il concetto F è equinumeroso con il concetto G' ha lo stesso significato dell'espressione 'vi è una relazione che coordina biunivocamente gli oggetti che cadono sotto il concetto F agli oggetti che cadono sotto il concetto G'" (p. 85). Definizione per astrazione? - Resta ancora qualcosa da dire sulla "definizione per astrazione" e sul numero come spettante ad un concetto, dopo che si è giunta alla sua formulazione logica definitiva. Ciò che resta da dire, e che affiora anche in precedenza in queste note, ha a che vedere con il titolo che abbiamo voluto dare a questa sezione delle nostre osservazioni: l'aritmetica senza l'astrazione. Questo titolo è suggerito dalle tematiche sviluppate da Ignacio Angelelli, che si è occupato in diversi saggi della tematica dell'astrazione nei quali si trova la negazione più netta ed esplicita che nella posizione fregeana ed in coloro che la hanno ripresa abbia luogo qualcosa di simile ad una procedura astrattiva. - Anzitutto egli ha fatto notare che l'espressione definizione per astrazione non solo non è di Frege, ma egli la usa occasionalmente solo una volta in una lettera a Russell. In realtà, si tratta di un'espressione coniata da Peano, in una formulazione che non esclude l'astrazione nel senso tradizionale dell'"astrarre da" che Frege 184 vorrebbe bandita dalla matematica. In ogni caso, la "definizione per astrazione" è stata spesso conclamata dai logici di tendenza logicista come la quintessenza del definire, come scoperta o, meglio riscoperta - dati i precedenti di Euclide e di Leibniz - dell'introduzione di una nozione di definizione nella forma più consona al pensiero "puro". Ed anche in tempi recenti e recentissimi, mentre l'espressione "definizione per astrazione" sembra caduta in disuso, nel tentativo "neologicistico" parole come astratto, principio di astrazione, e simili si ritrovano ad ogni piè sospinto - ma si tratta sempre di nozioni che hanno a che vedere, in modi spesso molto sofisticati, con riformulazioni della corrispondenza biunivoca. - Su questo tentativo di risuscitare l'istanza fregeana dei fondamenti logici dell'aritmetica, inaugurato da Crispin Wright (1983), puoi vedere i pro e i contra nel volume curato da Andrea Pedeferri (2005). - Ma se ci chiediamo dove sia l'astrazione in un qualche senso del termine nella proposta definitoria di numero da parte di Frege, credo che avremmo qualche difficoltà a dare una risposta chiara. I numeri (e in generale l'aritmetica) sono presupposti - ed anzi nella forma più forte; essi sono esistenze eterne indipendenti dal mondo e fanno parte di un mondo a sé stante. Frege non disponeva dell'idea di un'oggettività "intenzionale" e quindi dei numeri "intesi" come oggetti, così come non avrebbe potuto ammettere alcuna genesi fenomenologica del numero che fosse compatibile con l'oggettività interpretata come un modo dell'intendere. L'oggettività del numero non può essere concepita da Frege altrimenti che come appartenenza ad un mondo totalmente altro. Definire il numero sulla base dell'equi­nu­mero­sità del concetto (o meglio: della sua estensione) e questa sulla nozione di "corrispondenza biunivoca" non sembra contenere una qualche operazione del pensiero che meriti di essere chiamata "astrazione": si tratta al più di una modalità del definire, non di una modalità dell'astrarre. 185 Il metodo definitorio di Frege non ha a che vedere con l'astrazione -Per rendere pregnante la propria presa di posizione, Angelelli dà al metodo definitorio di Frege il nome di "metodo del guardarsi intorno" (looking around for) sopprimendo così qualunque riferimento che richiami il verbo "astrarre". Questa espressione è tratta da Meaning and Necessity di Carnap (1947, p. 1), in un contesto che rimanda alla definizione fregeana. Osservo di passaggio che purtroppo nella traduzione italiana del testo tutta la questione viene semplicemente cancellata perché la frase "Then we look around for entities which might be taken as extensions or as intensions for the various kinds of designators" viene tradotta con "Esamineremo ciò che può essere considerato estensione o intensione per i vari designatori": cosa che mostra come si possa affossare un problema attraverso una traduzione a piacere (Carnap, 1976, p. 9). - Angelelli rammenta in breve la procedura in questione nei termini seguenti: "Si supponga vi siano espressioni che si desidera chiarire e definire più precisamente. Ad esempio, 'il numero di un concetto F', 'l'estensione di un concetto F', ecc. In stile cartesiano, per amor del metodo, abbiamo deciso di dimenticare qualsiasi senso abbiamo già dato a queste espressioni.... Invece di preoccuparsi del loro significato, ci preoccupiamo di stabilire condizioni di identità, come primo passo. Ad esempio, anche se non abbiamo la minima idea di quello che significa 'il numero del concetto di F', stipuliamo che, qualunque sia quel significato, il numero del concetto F = il numero del concetto G se e solo se F e G si trovano in una relazione tale che gli oggetti che cadono sotto di essi possono entrare in una corrispondenza biunivoca. Questo rapporto deve essere una relazione simmetrica e transitiva, o come anche si dice, una relazione di equivalenza. Inoltre, come la seconda ed ultima fase del metodo, si procede a 'guardarsi 186 intorno', consiglia Carnap, al fine di trovare candidati adeguati ad essere assegnati al significato, o denotazione, dei nostri termini singolari, 'il concetto di F', ecc., intendendo con candidato adeguato qualsiasi oggetto tale da essere compatibile con la condizione di identità indicata nella prima parte. Una cosa che può essere scelta, e che è stata ampiamente scelta è chiamata classe di equivalenza. Questo è il metodo utilizzato da Frege in due punti cruciali della sua teoria: la definizione di numero, e nella definizione del decorso di valori (Wertverlauf)" (1991, p. 171). - Angelelli fa una critica durissima del metodo che egli chiama del Looking around. "È un metodo futile e incompatibile con un atteggiamento filosofico serio (Es un método frívolo e incompatible con una seria actitud filosófica). La spiegazione di come un metodo che non ha nulla che concerna l'astrazione possa essere chiamato 'definizione per astrazione' e che viene di conseguenza considerato perciò come astrazione deve essere ricercata nelle vicissitudini e confusione verificata nella trasmissione di questa espressione di Peano (che egli ha coniato con motivazioni genuine) ad altri logici italiani ed a Russell" (ivi, p. 172). - Egli accenna anche, nonostante le critiche all'uso del termine di astrazione in Husserl rammentate in precedenza, alle buone ragioni che si trovano nella Filosofia dell'aritmetica contro quel metodo definitorio (1984, p. 466). Husserl scriveva allora, e Angelelli cita questo passo: "Non riesco a comprendere come questo metodo significhi un arricchimento della logica. I suoi risultati sono tali che noi possiamo solo meravigliarci come qualcuno abbia potuto anche solo provvisoriamente ritenerli veri" (Husserl, 1970, p. 122). Questo riconoscimento di Angelelli fa parte della rimessa in gioco della filosofia della matematica di Husserl, e di quell'opera giovanile in particolare, che è stata operata in anni relativamente recenti. 187 Una conferma tratta da Russell - Anche Russell, dopo qualche esitazione, dopo aver parlato di principle of abstraction, finisce poi con il dire che un simile metodo ci consente di fare a meno dell'astrazione. "Nei Principles of Mathematics Russell respinge totalmente le 'definizioni per astrazione' di Peano come prive di validità… nei Principia Mathematica l'espressione principle of abstraction è usato per qualcosa che è di nuovo, fondamentalmente, il metodo del 'guardarsi intorno' di Frege, che non implica alcuna astrazione. In realtà, molto ragionevolmente ad un certo punto Russell suggerisce di dire 'il principio che ci libera dall'astrazione' (the principles that dispenses with abstraction) invece di 'principio di astrazione'" (Angelelli, 1984, p. 464) (La frase citata si trova in Russell, 1966, p. 52) VIII Esperimento psicologico e fisica ingenua in Paolo Bozzi - Nella storia che Paolo Bozzi narra nel suo straordinario libro Fisica ingenua (Bozzi, 1990), in cui l'elemento autobiografico si intreccia in maniera sorprendente con il dibattito scientifico teorico, il tema dell'esperimento e dell'attività dello sperimentare si presenta come una sorta di filo conduttore interno che io vorrei seguire almeno per qualche breve tratto. In proposito non intendo riferirmi soltanto ai numerosi esperimenti che vengono descritti e discussi con grande chiarezza e che dànno corpo alla tematica centrale del libro, ma anche a tutte quelle annotazioni disseminate nel testo che, da diversi punti di vista, dànno la massima pregnanza e vivezza all'idea stessa dello sperimentare. - L'esperimento, che può apparire come una sorta di marchingegno interno ad un marchingegno più ampio, un apparato dentro 188 il più ampio apparato della scienza, si presenta invece in primo luogo e in generale come un vero e proprio modo di stabilire un contatto con la realtà, un modo di saggiarla, di metterla alla prova, anche quando sperimentare significa soltanto e semplicemente osservare, guardare. - Paolo Bozzi riesce a trasmetterci in pochi tratti la natura complessa di questo sguardo, come quando parla dell'occhio "che non si stanca di seguire la sconcertante traccia di un movimento stroboscopico nel buio tra i due estremi della sua traiettoria rettilinea e intanto il pensiero legato ad esso giocherella futilmente con la domanda 'Cosa diavolo potrei fare per incurvare quella traiettoria?'"; uno sguardo dunque che è tutto meno che una pura ricezione passiva del reale, ma che contiene riflessioni fulminee, domande e pensieri: uno sguardo che fruga il reale come quello del botanico, che in questo testo è una figura del ricordo che tende ad assumere una sorta di profonda esemplarità. Ma questo sguardo è anche la "materializzazione di una curiosità ammirata" nella quale è presente la "gioia immediata di vedere e di comprendere", di cui parla Einstein facendo riferimento a Mach (cfr. p. 158). - Nello sperimentare c'è invenzione e immaginazione, c'è il progettare e il costruire, c'è meraviglia e passione; c'è soprattutto la tensione osservativa attraverso la quale dobbiamo talvolta accorgerci di ciò che abbiamo sempre veduto e di cui non ci siamo mai accorti; in esso non ci sono scopi, o meglio non ci sono utilità immediate e immediatamente a portata di mano - un tema questo che affiora più di una volta in contrapposizione a quell'altra tensione, di tutt'altro genere "che si guarda intorno con attenzione per scovare tra le pieghe dell'attualità contingente qualche opportunità gratificante o qualche leva per agire sulle cose o sugli altri" (ivi). 189 - Inteso in questo modo lo sperimentare può avere origini lontane ed apparentemente anche al di fuori della scienza e dei suoi compiti. Per ricercare le sue radici possiamo addirittura risalire al gioco infantile, o più precisamente a quei giochi in cui si mettono alla prova gli stessi nessi del reale in una sorta di libera variazione operata sul reale stesso, in cui si vuol vedere che cosa accade se invece di questo nesso ci fosse quest'altro. Ma non è solo il gioco che può essere chiamato in causa. Anche il pittore, ad esempio, quando si accinge a riempire la sua tela, mette qualcosa alla prova, fosse anche soltanto questo o quell'acco­stamento cromatico; e così il musicista nel suo comporre con i suoni si pone il problema di che cosa accade quando… quando quei determinati suoni risuonano in una successione oppure simultanea­mente, quando sono distribuiti secondo certi intervalli temporali, piuttosto che secondo altri. - Sia per la nozione di fisica ingenua che per quella di fenomenologia sperimentale il filosofo si sente chiamato in causa, ed io credo per buone ragioni; così come viene messo in questione l'inte­ro problema del rapporto tra filosofia e psicologia, e più determinatamente tra filosofia fenomenologica e psicologia fenomenologica, ovvero, come si potrebbe anche dire, tra fenomenologia pura e fenomenologia empirica. - In Paolo Bozzi vi è ovunque una grande consapevolezza di queste implicazioni filosofiche, ed essa appare in primo piano laddove ci parla di Hume o di Cartesio, e soprattutto di Aristotele e di Galileo, con una vivacità, una chiarezza ed una penetrazione che ci fa comprendere di più di molti commenti specialistici. - Già il titolo del libro dà il destro ad una discussione: Fisica ingenua. In rapporto ad esso vorrei proporre qualche elemento di perplessità confortato del resto dall'impressione che l'autore stesso lo accetti in certo senso in forza di una consuetudine or- 190 mai consolidata che forse non vale la pena di mettere in questione. Vi è qualcosa in questo titolo di non aderente alla natura del problema, qualcosa di riduttivo e forse persino di profondamente equivoco. L'operazione essenziale compiuta da Bozzi non è infatti quella di mostrare la presenza di opinioni più o meno false nella no­stra conoscenza quotidiana delle leggi della meccanica, e tanto meno quella di riconoscere la presenza di pretese sopravvivenze di una cultura anteriore: l'operazione importante e significativa è invece quella di ricondurre queste "opinioni" (che peraltro si possono chiamare così solo impropriamente) a regolarità direttamente colte sul piano percettivo e precisamente sul piano visivo. - In altri termini, vi sono concezioni sulla caduta dei gravi, sul movimento pendolare, sulla traiettoria dei proiettili che dipendono strettamente da condizioni che sono in realtà necessarie affinché un determinato risultato percettivo abbia luogo. - In certo senso l'idea di una fisica ingenua - cioè l'idea di un corpus, anche se non organico, di concezioni effettive e di opinioni vere e proprie - è un'idea secondaria, nel senso che queste concezioni ed opinioni possono essere considerate come una sorta di eco, di riflesso di situazioni visive concrete: è possibile addirittura assumere che le risposte fornite dagli osservatori, ad esempio, sulla traiettoria della caduta dei gravi, siano realizzate semplicemente attraverso la visualizzazione della situazione percettiva corrispondente. - Questo modo di porre il problema ha un grande rilievo non solo dal punto di vista percettologico, ma anche dal punto di vista della problematica epistemologica ed in particolare dei rapporti tra scienza ed esperienza. Fino a pochi anni fa questi rapporti sembravano liquidati da ovvietà sul sapere prescientifico come luogo di opinioni prive di fondamento, di conoscenze 191 cosiddette intuitive intese come rozze approssimazioni legate ad una nozione di buon senso peraltro mai chiarita, così come era moneta corrente l'idea che la "concezione del mondo" - il nostro modo di vedere il mondo, nel senso letterale ed elementare del termine - sarebbe pronto a modificarsi ad ogni mutamento dei quadri categoriali di conoscenza della realtà. - La novità nella posizione del problema non sta per nulla nell'idea di un'altra fisica - quindi di un'altra "teoria", anche intendendo questo termine nella sua forma più debole - ma sta nella scoperta di alcuni interessanti problemi di fenomenologia della percezione. La ragione per cui mi sembra che il titolo di fisica ingenua possa essere equivoco sta nel fatto che fa pensare invece ad una sorta di fisica parallela. Invece, se si riconsidera secondo l'angolatura proposta dall'autore, ad esempio, la problematica aristotelica del movimento, la tesi che emerge da questa discussione è soprattutto quella di una particolare prossimità di quella problematica alla dimensione dell'esperienza del movimento. - Considerando le cose da questo punto di vista, assumono subito rilievo due grandi problemi che la dizione di fisica ingenua tende a mettere in ombra: da un lato il problema di un mondo dell'esperienza che ha le sue forme e i suoi nessi strutturali, quel mondo costruito su quelle percezioni che sono, dice Bozzi, "l'unica realtà tangibile che inequivocabilmente ci sia data" (p. 153) - un mondo all'interno del quale si forma, secondo regole in realtà sufficientemente determinate, un intero complesso di concettualizzazioni primarie o, se vogliamo, di prime concettualizzazioni; dall'altro il problema dello sviluppo che conduce da queste concettualizzazioni primarie a concettualizzazioni di grado superiore, e necessariamente di nuovi metodi di formazione dei concetti che tendono a prendere sempre più le distanze dall'immediatezza dell'esperienza e infine a tagliare il nodo con essa. 192 - A me sembra che si debba dare la massima evidenza all'am­ piezza dello spazio teorico che fa da sfondo a questo problema della "fisica ingenua". In realtà le osservazioni precedenti non sono obiezioni dal momento che risulta chiaro dalla introduzione della nozione di Qualità terziaria, introdotta nel capitolo terzo del volume, che il tema della percezione del movimento non è ritagliato all'interno di una sorta di duplicazione ingenua della fisica o della scienza della natura in genere, come se, oltre ed accanto ad una meccanica ingenua ci dovessimo aspettare lo sviluppo di un'ottica ingenua, di una chimica ingenua o di un'a­ stronomia ingenua come possibili discipline psicologiche - ma si trova invece all'interno del tema generale dell'espressività dei dati esperiti. Detto in breve, ciò che Bozzi sostiene è non solo che possiamo parlare fondatamente di una maggiore o minore naturalezza di un moto pendolare, espressione che non ha alcun senso dal punto di vista fisico, ma anche che la maggiore o minore naturalezza di un moto pendolare è da annoverare tra i tratti espressivi - come quelli che possiamo cogliere nel volto di una persona o nel gesto di una mano. - Proprio la consapevolezza che lo sfondo sia questo mostra la necessità di un raccordo con la fenomenologia filosofica. Dal mio punto di vista, cioè dal punto di vista di uno struttu­ralismo fenomenologico specificamente rivolto all'elabora­zione di una filosofia dell'esperienza, questo raccordo, nel mantenimento di una precisa delimitazione reciproca, è del tutto a portata di mano. Ho l'im­pres­sione invece che per Bozzi esso non appaia troppo auspicabile - forse per via di un brutto incontro con una fenomenologia della percezione "troppo filosofica" com'è quella di Merleau-Ponty, o più in generale per il fatto che proprio alcune tematiche fenomenologiche come quella del "mondo della vita", che potrebbero in realtà a buon diritto essere richiamate a proposito delle ricerche di Bozzi, sono state spesso sommerse da quelle "ciacole" da cui gli psicologi della percezione soprattutto 193 si guardano e da cui in realtà farebbero bene a guardarsi anche i filosofi. D'altra parte l'enfasi sull'esperi­mento contro le ciacole dei filosofi spesso non fa buona prova, e può essere che l'accento sulla "sperimentalità" della sua fenomenologia non risparmi a Bozzi la critica di essere troppo propenso a filosofeggiare. - Comunque ne sia, mi sembra di notare una certa circospezione da parte di Bozzi ad estendere il problema in questa direzione, un certo sospetto nei confronti di chi parla tanto di una visione libera da pregiudizi, di messa in parentesi, di epoché ecc., senza essersi mai posto il problema di una visione effettiva all'interno di una situazione sperimentale sufficientemente determinata. Vorrei sottolineare molto vivacemente che il fatto che questo sospetto è più o meno giustificato secondo i casi, secondo i problemi, secondo ciò che vogliamo esattamente sapere. - Ci sono domande che non possono trovare una risposta se non attraverso la progettazione di una situazione sperimentale. Ma ve ne sono altre a cui occorre invece aver dato preventivamente una risposta per la stessa impostazione e progettazione di una situazione sperimentale. - Per illustrare in due parole la questione, vorrei rammentare il caso esemplare del rapporto tra la celebre argomentazione di Hume sulla causalità e gli esperimenti descritti da Michotte nel suo volume sulla percezione della causalità. In realtà Hume non è mai stato confutato dagli esperimenti di Michotte: e questo per il semplice fatto che egli era già stato confutato dall'affermazione di Michotte proposta nell'introduzione al volume, là dove si dice che noi vediamo "il coltello che taglia il pane", e non un certo movimento del coltello e della mano ed una fessura che si apre in concomitanza con quel movimento. Questa affermazione appartiene alla "feno­me­nologia pura" - oppure, detto in altro modo: essa non poggia su esperimenti, ma su una riflessione intorno alla "gram­ma­ti­ca filosofica" del verbo tagliare. Ed in proposi- 194 to vanno ram­mentate le illuminanti osservazioni di Paolo Bozzi sul rapporto tra linguaggio ed esperienza, sintetizzate nella frase secondo cui il linguaggio comune "è il linguaggio tecnico dell'esperienza percettiva" (p. 177 e p. 301): formulazione bellissima che meriterebbe un commento dettagliato, ma che forse non ne ha affatto bisogno. - A proposito della sperimentazione Paolo Bozzi ha una propria concezione in particolare nel campo nel campo dei fenomeni di movimento e in generale in quello delle "apparenze" fenomenologiche - una concezione che nel volume viene lasciata trasparire più che essere apertamente teorizzata. Gli esperimenti di Bozzi hanno alcune speciali caratteristiche, alcune singolari peculiarità. E talvolta essi non sembrano attenersi strettamente alle regole canoniche o ritenute tali; ed egli si rifiuta - con pesante ironia, di fare cose che altri riterrebbero obbligatorie. Ad esempio, Bozzi si rifiuta di interrogare i Watussi… (p. 301), e non è poco! - "Ma il mio obiettore grida sempre allo scandalo. Un professore di storia dell'arte, a proposito dell'esperimento con i pendoli, mi in­ci­tava a ripetere le mie misure coi watussi, i pigmei e i cinesi, onde stabilire qualcosa di buono sui rapporti tra meccanica e percezione. Quanto al linguaggio, per seminare dubbi metodologici, vengono sempre chiamati in causa gli indiani Hopi, che notoriamente vedono il nostro comune mondo di cose e di fatti in modo diverso, poiché parlano - sembra - una lingua particolarmente ostica. Tutte discussioni da lasciar perdere" (p. 302). - Inoltre, Bozzi, che ha costruito l'esperimento e che sa tutto sui congegni che lo reggono, e che persino ha delle precise attese teoriche sui risultati dell'esperimento (o addirittura delle speranze), non esiterebbe a sedersi bellamente tra gli osservatori ed a partecipare all'esperimento come soggetto sperimentale 195 - "Dubito fortemente - egli dice una volta - di tutti gli esperimenti cui io stesso non abbia assistito" (p. 346). Ed un'altra sua frase, merita in proposito di essere citata: "Un esperimento deve essere una Gestalt, non una raccolta di dati" (p. 311). Si tratta di una frase molto impegnativa, ricca di senso e di conseguenze e mi piacerebbe che, prima o poi, fosse resa interamente esplicita in tutti i suoi importanti sottintesi: essa pone un problema per nulla estraneo alle questioni che ho cercato di sollevare. IX È giusto parlare di "intelligenza artificiale"? - Vi sono due modi piuttosto diversi di impiegare questa espressione. Si può parlare di intelligenza artificiale usando questa espressione tra virgolette (o sottintendendole) oppure senza virgolette o addirittura con una virgoletta sola, come se cominciassimo con l'aprire le virgolette e ci dimenticassimo poi di chiuderle. È evidente che usare le virgolette, prima aperte e poi accuratamente chiuse, significa impiegare questo termine con un alto grado di convenzionalità, come una sorta di designazione per indicare una determinata fase nello sviluppo dei linguaggi di programmazione ed un ambito problematico ben definito. - Il senso di intelligenza artificiale non sarebbe allora determinato dal riferimento all'intelligenza umana, e tanto meno dalla contrapposizione - di per sé assai singolare - tra una intelligenza "naturale" ed una "artificiale", ma piuttosto dai problemi, in realtà abbastanza esattamente determinati o esattamente determinabili, che si pone in concreto il ricercatore in rapporto ai linguaggi di programmazione orientati in questa direzione così come, naturalmente il progettista e lo studioso di elettronica per la parte fisica del problema. - Proprio questo voglio sostenere: potremmo rinunciare com- 196 pletamente al riferimento all'intelligenza ed all'ar­tificio senza rimetterci nulla per ciò che riguarda la realtà del problema - ma anche del suo interesse filosofico, anzi dei molteplici interessi filosofici che le pro­blematiche speciali che vengono riunite sotto quel titolo rivestono. - Voglio riprendere a questo proposito un'informazione che traggo dal gustoso saggio di Odifreddi, Il teorema di Gödel e l'Intelligenza artificiale. "Nel 1936 il matematico inglese Alan Turing sviluppò le basi teoriche dell'informatica, introducendo in particolare un modello astratto di macchina calcolatrice programmabile, oggi chiamata appunto macchina di Turing. Egli prese spunto da un'analisi del processo mentale di calcolo e, benché il suo lavoro fosse puramente matematico, Turing usò a più riprese una terminologia antropomorfa, parlando in particolare di 'stati mentali' per riferirsi a configurazioni interne della macchina. Pochi anni più tardi egli incominciò ad accarezzare il sogno di costruire fisicamente una tale macchina, e continuò ad usare l'analogia originaria, parlando del suo progetto come della costruzione di un 'cervello'. Tali espressioni non erano altro che analogie stimolanti ma superficiali, e così erano viste da coloro che conoscevano Turing. Ad esempio Max Newmann, che fu relatore della sua tesi di laurea ed ebbe un ruolo di rilievo nella costruzione dei primi calcolatori inglesi, nel necrologio di Turing dice che egli 'aveva un talento per analogie comiche ma brillanti, che dispiegò nelle discussioni su cervelli e macchine'. In seguito l'ironia di Turing andò perduta e, quando i computers divennero disponibili, l'analogia fra essi ed il cervello incominciò ad essere presa seriamente" (Odifreddi, 1992). - Una corretta discussione intorno agli interessi filosofici che gravitano intorno all'intelligenza artificiale dovrebbero prendere 197 le mosse proprio dal riconoscimento della completa inessenzialità di quella designazione. E tuttavia essa è stata inventata, ed è stata in certo senso popolarizzata: non è forse questa mia considerazione iniziale trop­po riduttiva? - Veniamo all'impiego dell'espressione intelligenza artificiale senza virgolette o addirittura con una virgoletta sola. L'espressione impiegata senza virgolette lascia vivere ed agire proprio il riferimento all'intelligenza umana ed alla sua ricostruzione o imitazione artificiale, lascia vivere il suggerimento o la suggestione di una tecnologia che sta ormai per impadronirsi di alcune scintille dell'attività della ragione. Mi permetto di ascrivere (non so se a torto o a ragione) l'uso dell'e­spres­sione intelligenza artificiale con una virgoletta sola prevalentemente proprio agli addetti ai lavori, che in realtà vorrebbero evitare la virgolettatura, ma che sanno molto meglio di quanto sappia io che la realtà del problema non sta nello svampimento filosofico di quella espressione, ma nella concretezza delle problematiche teoriche e pratiche che vanno affrontando di volta in volta, e che quindi sono subito pronti a chiudere in un momento qualunque le virgolette che hanno lasciato ambiguamente aperte. - Considerando le cose da questo lato, si colgono svariate implicazioni che hanno a che vedere con un orientamento intellettuale complessivo che solo in parte ha a vedere con la portata teorica e conoscitiva autentica del problema. Io credo che non si debba temere di segnalare, almeno come una questione su cui avviare una riflessione più approfondita, la presenza, proprio nel cuore di quello che è senza alcun dubbio una delle punte più avanzate dello sviluppo teorico, scientifico e tecnico del secolo XX, di aspetti singolarmente regressivi, sia per ciò che riguarda gli sfondi ideologici, sia per ciò che riguarda l'atteggiamento intellettuale. 198 - Dietro l'espressione di intelligenza artificiale a me sembra che si riaffaccino o possano riaffacciarsi concezioni filosofiche sostanzialmente superate. Ad esempio, essa sembra quasi implicare in modo intrinseco, una posizione di tipo com­portamentistico che bada ai risultati che si manifestano esteriormente, piuttosto che ai processi mentali che stanno alla loro base. Ciò che importa qui è infatti il comportamento manifesto della macchina, il modo in cui essa "si comporta" e l'interpretabilità di questo comportamento e del suo risultato come se avesse alla base un processo mentale definibile come intelligente, mentre si prescinde interamente dall'esistenza effettiva di un simile processo. Per quanto si tratti di un modo non privo di interesse in quanto pone il problema di un confronto tra ciò che contraddistingue un'operazione intelligente da una operazione che appare tale, si tratterebbe in ogni caso di evitare il rischio di una ripresa acritica di una concezione comportamentistica nelle sue forme più vecchie e logore. - È anche innegabile la possibilità che tematiche materialistiche troppo elementari riprendano fiato: l'immagine della macchina capace di pensare e di comprendere rilancia l'homme machine. Si fa avanti così un riduzionismo di tipo materialistico che prende le mosse da un'istanza di formalizzazione completa dei processi mentali per approdare ad un'ipotesi di riduzione dei meccanismi formali a meccanismi fisico-materiali. - Io non credo che queste possibili implicazioni filosofiche siano realmente obbligatorie. Tuttavia mi sembra di notarne la presenza, talvolta scoperta, talvolta implicita e serpeggiante nei dibattiti. E se le cose stessero proprio così, se questi orientamenti intellettuali fossero veramente ritenuti come una sorta di supporto filosofico necessario, io tenderei a ribadire che l'infor­matica non ha ancora l'epistemologia che si merita. - La presenza di un aspetto regressivo lo si avverte poi in maniera particolarmente evidente in due aspetti che affiorano di 199 continuo: accade raramente di udire un intervento di carattere generale sull'intelligenza artificiale e sulla robotica che, nonostante tutta la prudenza scientifica, non abbia almeno una sfumatura che tradisce la presenza di una fantasia di onnipotenza. Del resto credo che l'espressione stessa di intelligenza artificiale non sarebbe mai stata coniata senza che sullo sfondo vi fosse una simile fantasia. Ed è notorio che le fantasie di onnipotenza sono fantasie caratteristicamente infantili. - L'altro aspetto assai singolare e fortemente contraddittorio riguarda la tendenza all'impiego di un linguaggio fortemente antropomorfico che non è affatto una caratteristica solo dei testi divulgativi. Questa tendenza si è cominciata ad affermare già nelle prime fasi della storia del calcolatore, ma raggiunge in realtà la sua massima espansione nel caso della robotica, come sembra ovvio. A mio avviso non si tratta per nulla di una tendenza giustificata da una sorta di passaggio qualitativo, di mutamento di natura della macchina: ma si tratta di una paradossale riviviscenza di animismo preistorico che si presenta, del tutto inatteso, nel punto più alto della tecnologia novecentesca. - Il linguaggio impiegato nel rapporto tra l'operatore e il calcolatore o nella descrizione del rapporto tra il calcolatore e il mondo esterno è normalmente di tipo animistico. Noi parliamo alla macchina ed essa ci ascolta, talvolta risponde ai nostri interrogativi, ad essa possiamo impartire degli ordini che essa poi esegue in vari modi. Naturalmente a tutto ciò si aggiunge la clausola dell'ar­tificio: come vi è una mano artificiale, così può esservi una vista artificiale o un odorato artificiale - la macchina vede e annusa. L'intelligenza artificiale diventa la metafora che corona tutte queste metafore, una sorta di integrazione necessaria. - Il problema che sto toccando dovrebbe certo essere considerato più a fondo: la tendenza ad una modalità di discorso an- 200 tropomorfico è ovunque presente nell'ambito della tecnologia ed ha molte giustificazioni dalla propria parte. Questa tendenza non riguarda solo l'elettronica o il calcolatore. Ad esempio, parliamo della sensibilità di una pellicola fotografica. Questa parola ha una ovvia origine analogica. Ma vorrei quasi dire che la gente è stata fin dall'inizio educata ad escludere o a mettere da parte questa valenza antropomorfica e a orientarsi invece sui processi fisici corrispondenti: cosicché a nessuno verrebbe in mente di parlare di sensibilità artificiale della pellicola o della macchina fotografica come una macchina che ha un occhio artificiale, o che vede artificialmente. L'aspet­to singolare è che vi è invece, nel nostro caso, una tendenza ad educare la gente nella direzione opposta: benché si sappia benissimo che, nonostante la complessità maggiore, gli organi sensori di un robot, la sua sensibilità non differisce nell'essen­ziale da quella di una pellicola fotografica. - L'espressione intelligenza artificiale va strettamente virgolettata, anche se ciò equivalesse alla caduta di discorsi interessanti solo in apparenza, ma privi di reale contenuto. A me sembra che la filosofia avrebbe materiale particolarmente ricco e interessante con cui misurarsi considerando più da vicino le problematiche particolari che vengono direttamente o indiret­tamen­te suggerite da questo genere di ricerche. - L'espressione di intelligenza artificiale impiegata senza virgolette allude invece per lo più ad una sorta di utopia moderna, che sta sullo sfondo di ricerche che non sono per nulla utopiche, ma anzi molto determinate, molto concrete. Parlando di utopia non voglio affatto affermare che si debba ritenere impossibile, per qualche misteriosa ragione, la riproduzione tecnica di procedure che si possano chiamare "in­tel­­ligenti". Fornendo una definizione opportuna di procedura intelligente la questione di questa possibilità potrebbe essere anzi considerata già positivamente risolta. Non dobbiamo infatti dimenticare che quando si parla di 201 intelligenza artificiale non si fa affatto solo un discorso al futuro, ma ci si richiama a prodotti già pronti ed a nostra disposizione. Anche tenendo conto di ciò non vedo per quali ragioni si debba mantenere quel riferimento utopico che poteva forse essere giustificato come elemento propulsore negli stadi più arretrati di questi sviluppi. - Si tratta dunque di attenersi alla dimensione reale del problema. Ciò che io mi chiedo è, in altri termini, se non dobbiamo prendere atto, appunto realisticamente, di un momento nuovo nel rapporto tra l'uomo del novecento e la tecnologia del novecento, tra noi e la nostra tecnologia. Per caratterizzare questo momento nuovo parlerei forse di una sorta di pacificazione, o, ancor meglio, di superamento del disagio di fronte agli eccezionali sviluppi tecnologici che il secolo XX ha conosciuto e che fanno parte della sua storia più interna e profonda. Questo disagio ha dato luogo a forme equivoche di rifiuto, a posizioni catastrofistiche, ad atteggiamenti depressi e deprimenti di fronte alla tecnica. L'uomo è diventato antiquato - si è detto efficacemente, cioè con un'effi­ca­ce dichiarazione di im­potenza. Una eco di questo disagio si avverte in realtà anche in molti discorsi orientati in direzioni opposte, nei discorsi euforici piuttosto che in quelli depressi. - A me sembra che si debba prendere atto del fatto che ci stiamo ormai rappacificando con la nostra tecnologia, che il di­sagio di un tempo stia venendo meno. Non abbiamo dunque più bisogno di sentirci impotenti e nemmeno onni­po­tenti, e stiamo cercando, e forse in parte, abbiamo già trovato, un giusto punto di equilibrio, un più corretto punto di vista per comprendere, giudicare e valutare. Bisogna insomma prendere atto del fatto che l'uomo del terzo millennio è non è affatto diventato antiquato, ma è diventato adulto, forse è addirittura invecchiato, e dalla vecchiaia ha tratto saggezza e sottratto illusioni. Sarebbe un grave errore non tenerne conto. 202 203 X Appendici Esempi di impiego di procedure realizzate con il programma "Mathematica" 204 Avvertenza Nel corso della mia attività, mi sono imbattuto in varie occasioni nella necessità di ricorrere al sapere matematico, rendendomi conto ben presto di quanto questo sapere interagisca con la riflessione filosofica, come del resto insegna tutta la sua storia. Certamente, non si deve concepire il rapporto tra matematica e filosofia nel modo stigmatizzato da Gian-Carlo Rota nel suo coraggioso saggio, The Pernicious Influence of Mathematics Upon Philosophy (1991). In una parola: secondo Rota è un errore ritenere che la logica che si è rinnovata nel secolo ventesimo, proprio in forza di una accentuata matematizzazione, debba rappresentare il mezzo fondamentale per un rinnovamento anche della filosofia. È vero invece che essa è diventata un "pezzo di matematica" ovvero una disciplina formale che "è ormai solo un altro ramo della matematica, come la topologia e la teoria della probabilità" (p. 168). E d'altra parte "pochissimi logici del nostro tempo ormai credono che la logica matematica abbia qualcosa a che fare con il nostro modo di pensare" (ivi). Di contro, e paradossalmente, "i filosofi di oggi (non tutti, fortunatamente) credono invece grandemente nella matematizzazione. Essi hanno riscritto la famosa frase di Galileo leggendola così: 'Il grande libro della filosofia è scritto nel linguaggio della matematica'" (ivi, p. 167). E questo è appunto pernicious perché la filosofia da un lato ha una problematica autonoma e "le asserzioni della filosofia, per quanto possano essere parziali e azzardate, sono più prossime alla verità della nostra esistenza che le prove della matematica"; dall'altro, proprio il fatto che non si dia soluzione unica e definitiva ad un problema filosofico mostra che la filosofia è luogo di una discussione e di una riflessione aperta che viene soppressa dall' "imitazione servile (slavish) della matematica" (p. 167). Credo che alle parole di Rota si debba aggiungere che un conto è l'idea illusoria che i libri di filosofia debbano essere scritti in modo tale che il maestro di logica-matematica possa cor- 205 reggerli con la matita rossa e blu fra le mani, come un normale compito in classe della matematica, come era insegnata una volta e come probabilmente è insegnata tuttora; ed un altro è riconoscere che la matematica dia al filosofo, da vari punti di vista, molto da pensare. Le osservazioni di Rota colgono e colpiscano giustamente una linea di tendenza fuorviante ed oppongono ad essa un netto rifiuto, che lo scopo polemico dello scritto rende forse anche troppo rigido; e tuttavia esse dovrebbero essere integrate dal riconoscimento, certamente non estraneo alle sue posizioni, che vi è un intreccio nelle due direzioni - cosicché talvolta potresti non saper districare il punto in cui filosofia, filosofia della matematica e matematica pura si separano. Entrare in questo intreccio, estrarne i problemi e le ragioni sia dal punto di vista teorico che da quello storico è, io credo, il compito di una riflessione epistemologica. Ma vi è un altro punto su cui voglio richiamare l'attenzione per rendere conto delle appendici seguenti. Si trattava per me di riprendere il percorso avviato alla meno peggio nell'insegnamento medio, non tanto per colpa di maestri ed insegnanti spesso ottimi e volonterosi, ma proprio per un atteggiamento generale, che metteva da parte ogni riferimento ed ogni discussione epistemologica, per privilegiare l'aspetto del calcolo e delle sue regole nella sua forma più brutale e più cieca. Ho ricordato, in questi frammenti, la frase di Klein, grande matematico, che ha fra i suoi meriti l'interesse per la pedagogia della matematica: "Così stanno le cose, e se non sai che stanno così, saranno guai per te" (1933, p. 7). Ora, per riprendere questo percorso è stato decisivo un utilizzo intensivo dell'ammirevole programma informatico Mathematica di Stephen Wolfram. Mi è sembrato infatti che per risalire la china, la cosa migliore fosse riprendere i concetti matematici a partire dall'algebra elementare interrogando direttamente il programma in questione e considerando le sue risposte. È stata un'esperienza straordinaria, perché mi ha consentito non solo di rivedere sotto una luce nuova i vecchi concetti 206 comprendendoli assai meglio e in modo più profondo, ma di procedere ben oltre le poche cose che mi erano state insegnate ai vecchi tempi: riuscendo come beneficio ulteriore a trovare risposte ad alcuni interrogativi nei quali le mie ricerche si erano in diversi punti imbattuti. Le seguenti appendici non documentano certo tutto il percorso da me compiuto, ma forniscono alcuni esempi del lavoro svolto. Esse si limitano a presentare sinteticamente le procedure da me realizzate e impiegate in alcuni dei miei testi nei quali esse erano state solo sommariamente indicate e talvolta solo sottintese. L'utilità di questo programma informatico è stata per me molto più ampia di quanto possa apparire qui. Inoltre le sue "capacità" di gestire il suono sono andate crescendo con gli aggiornamenti via via introdotti nelle versioni che si sono avvicendate. Al momento in cui scrivo (2015), il lettore può avere un idea della ricchezza di Mathematica, anche sotto il profilo degli interessi della teoria della musica, all'indirizzo internet http://demonstrations.wolfram.com/topic.html?topic=Music&limit=20 Naturalmente, non posso far altro che presupporre la conoscenza di Mathematica da parte del lettore. Desidero tuttavia segnalare anche l'ottima, estremamente sintetica, ma anche molto densa, Introduzione all'uso di Mathematica di Marco Bramanti che si può trovare all'indirizzo www1.mate.­polimi.it­/­~braman­ti/ma­nua­le/ manuale.pdf. Per consentire l'eventuale effettivo utilizzo, verifica e miglioramenti delle procedure proposte in queste appendici, esse verranno pubblicate anche in versione in versione cdf nel mio Archivio Internet. Il formato cdf è leggibile attraverso Mathematica oppure attraverso il programma CdfPlayer distribuito gratuitamente dalla Wolfram. 207 I. Procedure formali per la costruzione della successione dei numeri naturali Nel volume Numero e figura. Idee per un'epistemologia della ripetizione (Piana, 1999) ho impiegato un metodo inconsueto, che io sappia, per introdurre l'idea di numero naturale. In due parole: ho preso le mosse dagli usi correnti, legati alle pratiche quotidiane del conteggio, distinguendo anzitutto tra numero di… e numero come oggetto in sé. Il numero di… deve poi essere specificato con numero di oggetti e numero di posizione (cardinalità e ordinalità), che chiamano entrambi in causa l'idea di molteplicità. Vi sono tuttavia altre due possibili modalità di impiego: il numero di volte, che risulta ovvio chiamare numero iterativo, e che mette in questione l'idea della ripetizione e dunque rimanda ad una qualche azione od operazione. La seconda possibilità riguarda il numero che la grammatica corrente chiama numero distributivo, che ad un tempo evoca l'idea della molteplicità suddivisa e regolarmente raggruppata e l'idea di un'operazione appunto "distributiva". Nell'ordine, essi rispondono alla domanda "Quanti?", "In quale posizione?", "Quante volte?", "Quanti per volta?". Nella prima parte di quel testo si traccia un percorso che mostra in che modo, per pervenire alla successione dei numeri naturali, e quindi alla serie aritmetica fondamentale, queste nozioni si intreccino variamente; e nello stesso tempo quel percorso insegna come sia essenziale, per l'aritmetica, l'interazione tra livello propriamente segnico e quello concettuale. In questo mio testo si procede secondo un orientamento "formalistico" ed il passo conclusivo di questo percorso è l'esibizione di un algoritmo con cui è possibile produrre la successione dei numeri naturali costruita su una base qualsivoglia. La procedura di calcolo è stata realizzata con Mathematica. In Numero e Figura dedico un cenno ad essa, ma mi sembra ora opportuno apportarle qualche miglioramento e inte- 208 grarla con qualche osservazione ulteriore. Forse non c'è esempio migliore per dimostrare la distanza tra punto di vista logicista e punto di vista formalista (uso questo termine in un'accezione ampia) che considerare il modo in cui viene affrontato il problema della successione dei numeri naturali. Il logicista propone una definizione della nozione di "successore immediato". In Frege questa definizione suona così: "La proposizione 'Vi è un concetto F e un oggetto x che cade sotto di esso tale che il numero che spetta al concetto F sia n e il numero m spetti al concetto 'cadere sotto F, ma non sia eguale a x' ha lo stesso significato di "n segue immediatamente m nella serie dei numeri naturali'" (Frege, 1884, p. 89). Questa definizione, del tutto conforme all'impalcatura teorica di Frege, viene spiegata da Kenny come segue: "Il significato di ciò può essere illustrato, una volta di più, con un esempio non-logico. Si prenda il concetto Monarca Tudor. Il numero appartenente a questo concetto, lo sappiamo dalla storia inglese, è 5. Vi sono dunque cinque oggetti che cadono sotto di esso. Prendiamo ora l'oggetto Re Enrico VIII. Il numero che spetta al concetto 'Monarca Tudor non identico con Enrico VIII' è 4. E 5 è in effetti il successore immediato di 4 nella serie dei numeri" (Kenny, 2000, p. 94). Qualcuno potrebbe trovare questa caratterizzazione non troppo entusiasmante così come il suo seguito, chiaramente illustrato da Kenny (2000, pp. 94 sgg.). Ma il suo scopo non è quello di generare o meno entusiasmi. È certo invece che, come ho detto or ora, questa caratterizzazione è del tutto coerente con l'impostazione di Frege. Il vero problema è che in essa sembra non esservi traccia di una modalità di concatenazione interna da numero a numero - trattandosi del resto di una questione puramente definitoria e non di formazione della successione. A dire il vero, nel seguito una parvenza di concatenazione c'è - assai abi- 209 le e che sarebbe stata molto apprezzata da un sofista antico. Ma a mio avviso, e naturalmente posso sbagliare, solo una parvenza. D'altra parte anche il linguaggio usato da Frege per introdurre il problema è sintomatico: "Voglio ora chiarire la relazione nella quale due membri vicini della serie dei numeri naturali stanno l'uno rispetto all'altro" (corsivo mio) (Ich will nun die Beziehung erklären, in der je zwei benachbarte Glieder der natürlichen Zahlenreihe zu einander stehen) (Frege, 1884, p. 89 - Nella traduzione italiana che rende "Voglio ora chiarire in quale relazione stanno fra loro due termini successivi della successione dei numeri naturali" viene perduta un'importante sfumatura di senso del testo tedesco). Nel § 75 delle Grundlagen viene anzitutto definito lo 0 in questo modo: "0 è ilnumero naturale che spetta al concetto 'disuguale da se stesso'", cosicché (a patto di accettare che l'espressione 'disuguale da se stesso' sia da considerare un concetto - e non un nonsenso - eventualità di cui Frege si rende conto, difendendo questo cruciale punto di partenza), ci liberiamo di Venere e dei suoi pianeti, dei re d'Inghilterra e di qualunque grezza empiria. Dopo di ché (la facciamo in realtà molto breve) il numero 1 verrà definito come "il numero naturale che spetta al concetto 'uguale a zero'" - il quale ultimo concetto in effetti ha un unico oggetto che cade sotto di esso, lo 0, per l'appunto: di cui il numero 1 sarà successore immediato, in virtù della definizione precedente proposta. Per la generalizzazione di questo inizio occorreranno altri sviluppi, ma a me sembra che risulti abbastanza chiaro che, più che l'idea di una concatenazione, prevalga l'idea dell'essere l'uno accanto all'altro - un puro dato di fatto dimostrato a rigor di logica, verrebbe voglia di dire. Stando a questi sviluppi, nessuna catena aritmetica avrebbe mai potuto sorgere, e quindi nessuna aritmetica in generale. Ma anche questo non è un problema per Frege, per il quale l'aritmetica non ha alcuna origine, non sorge, c'è già, c'è sempre stata e sempre ci sarà. Val la pena forse di aggiungere che questo problema del successore immediato resta una croce irrisolta per Frege dopo la scoperta del paradosso di Russell. Nei 210 vari tentativi di superarlo, ve ne è uno che evita il paradosso, ma che incorre in una contraddizione proprio in rapporto a questo problema. Secondo la sua nuova proposta, chiaramente illustrata da Cellucci, 1995, non si può dimostrare senza contraddizione che ogni numero naturale ha un successore. "La dimostrabilità nel sistema di una proprietà dei numeri naturali così fondamentale come quella che ogni numero naturale ha un successore, ovviamente era essenziale per il programma di Frege di fondare l'analisi infinitesimale sulla logica: un sistema in cui non fosse stata dimostrabile una proprietà così elementare non sarebbe stato idoneo per una tale fondazione. È ragionevole supporre che, essendosi reso conto che la sua soluzione del paradosso di Russell non permetteva di dimostrare la proprietà in questione, e quindi di realizzare il suo disegno logicista, e non riuscendo a trovare una soluzione alternativa, alla fine egli si sia convinto che non esistevano altre soluzioni e che il disegno logicista era irrealizzabile" (ivi, p. 23). Rispetto ad un punto di vista che invece fornisce un sistema di regole che rappresenta lo schema generatore della successione risulta con la massima evidenza l'idea della concatenazione. Ma a questo scopo è necessario passare al segno numerico ed alla sua costruzione. Prenderemo le mosse dalla notazione tratto, che rappresenteremo con il noto segno dell'unità aritmetica, benché potremmo scegliere qualunque altro grafema. Esso non ha, nel nostro contesto di discorso, alcun significato aritmetico "vero e proprio" ma rappresenta una successione di segni costruita attraverso una semplice regola ricorsiva. Avendo di mira l'idea della "base" del sistema, parleremo di BaseUno ben sapendo che si tratta di una una espressione del tutto impropria, perché la base è un raggruppamento che forma "grandi unità". Ma questa improprietà ci è utile per segnalare che la "concatenazione" ha qui il suo esempio più semplice. Tutto il resto viene da sé. Abbiamo inoltre bisogno di un segno che funga da variabile per grafemi e sceglieremo il 211 segno "x". BaseUno[k_]:= {L1={"x"}; Do[L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],"x"®"1x"]],{k}]; L1=Drop[L1,1]; L1=StringReplace [L1,"1x"®"1"]; L1=StringJoin[Riffle[L1,""]]; L1 }; Esempi: BaseUno [1] {1} BaseUno [2] {11} BaseUno [5] {11111} È bene mettere subito in evidenza che il numero in parentesi quadre [k_] che fa da parametro all'operazione è un iteratore scritto in notazione decimale, mentre il grafema che compare tra parentesi graffe come output dell'operazione BaseUno potrà essere interpretato come il numero prodotto per applicazione ricorsiva in corrispondenza con il valore dell'iteratore. Deve essere chiaro infatti che, benché la procedura lavori unicamente sull'aspetto segnico-grafico, l'aspetto concettuale forma la linea guida di chi realizza la procedura. È pura ingenuità pensare che il matematico formalista non faccia altro che giocare con i segni; così come non gli si deve credere nemmeno quando fa sfoggio di disinteresse per il livello del significato (e molti logici cascano nel suo gioco). Il numero, diceva Wittgenstein nel Tractatus (1961) ponendosi sul lato opposto del logicismo e anticipando uno spunto 212 significativo (anche se non sviluppato) del punto di vista ricorsivo, è "l'esponente di operazioni" (oss. 7.021). Il senso di questa formulazione, che ho tentato di spiegare nella mia Interpretazione del Tractatus di Wittgenstein (1973), è quello di formulare un algoritmo generatore della serie numerica, attraverso l'iterazione ricorsiva di un'operazione, in cui il numero compare come contatore delle iterazioni. Nonostante differenze significative rispetto all'algoritmo proposto da Wittgenstein, che il mio lettore potrà verificare per proprio conto, la cornice entro cui proponiamo il problema è analogo; e per altri versi, entro questa cornice vi sono idee che Husserl formula nell'ultimo capitolo della sua Filosofia dell'aritmetica e da cui abbiamo già avuto occasione di citare in questi Frammenti la frase " il metodo dei segni sensibili è il metodo logico dell'aritmetica" (Husserl, 1970, p. 257). Ma noi sappiamo che la notazione tratto è del tutto insoddisfacente. Il passaggio all'aritmetica vera e propria avviene attraverso la possibilità del "raggruppamento" attraverso una base. Ora, questa possibilità segue esattamente la logica della procedura BaseUno, cioè la logica della concatenazione ricorsiva. Ciò che cambia è unicamente il fatto che le regole di sostituzione dovranno essere tante quante sono le cifre della base. Se la base è due, dovranno essere due le regole di sostituzione. Chiamiamo questa nuova procedura BaseDue. BaseDue [k_ ]:= { L1={"1x"};L2={}; Do[{L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"0x"}]], L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"1x"}]], L2=Append[L2,First[L1]], L1=Drop[L1,1]},{k}]; Last[L2] }; Naturalmente vi è qui una complessità relativamente maggiore. Le regole, ricorsivamente applicate, sono appunto due, e la sostituzione avviene con i grafemi 0 e 1, come di consueto nel siste- 213 ma a base binaria. Due sono anche le liste L1 e L2: L1 raccoglie i nuovi valori per ogni iterazione, L2 i valori via via eliminati da L1. Naturalmente sarebbe possibile un'istruzione che forma una lista L3, costituita dall'unione tra L2 e L1 (nell'ordine) che raccoglierebbe tutti i valori prodotti all'iterazione corrente. L'output è rappresentato dall'ultimo valore di L2, che viene ripreso con l'istruzione Last[L2], e propone il grafema interpretabile numericamente. Anche in questo caso vi è corrispondenza tra l'iteratore e il grafema qualora sia numericamente interpretato. Poiché l'iteratore è in sistema decimale, la procedura serve anche per convertire una cifra decimale nella stessa cifra in sistema binario. Ciò tuttavia non è il nostro problema. Mathematica ha già incorporata un'operazione (BaseForm) che opera questa conversione. Il nostro interesse sta soprattutto nel mostrare il rapporto tra numero iterativo ovvero il numero di volte e il numero sic et simpliciter (il numero come oggetto in sé in quanto fa parte di una serie concatenata). Esempi: BaseDue[4] 100x BaseDue[8] 1000x Come mostrerebbe un'eventuale lista L3, il segno 100 risulterebbe al quarto posto e il segno 1000 all'ottavo, ovvero rispettivamente alla quarta e ottava iterazione. Ovviamente la x può essere eliminata. A questo punto BaseDieci non ha più bisogno di spiegazioni. BaseDieci[k_]:= {L1={"1x","2x","3x","4x","5x","6x","7x","8x","9x"};L2={}; Do[{L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"0x"}]], 214 L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"1x"}]], L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"2x"}]], L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"3x"}]], L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"4x"}]], L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"5x"}]], L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"6x"}]], L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"7x"}]], L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"8x"}]], L1=Append[L1,StringReplace[First[L1],{"x"→"9x"}]], L2=Append[L2,First[L1]],L1=Drop[L1,1]},{k}]; Last[L2] }; Esempi: BaseDieci[4] 4x BaseDieci[8] 8x Va notato soltanto che lo 0 non compare nelle cifre di inizializzazione, ma nelle regole. Come in precedenza il numero delle regole di sostituzione è pari al numero della base. Ed ovviamente, essendo l'iteratore proposto nel sistema decimale, anche il grafema è lo stesso, avendo del resto scelto le cifre consuete. È opportuno sottolineare che in tutte queste procedure non vi è nemmeno l'ombra dell'addizione, cioè di una operazione aritmetica del tipo "+1". 2. Procedure per realizzare un linguaggio L-systems Sui linguaggi L-systems, particolarmente adatti a trattare i frattali, vi è una vasta bibliografia di cui il lettore può prendere visione nel sito della Wolfram 215 http://mathworld.wolfram.com/Fractal.html Naturalmente vi sono numerosi esempi di impiego di L-systems già elaborati in Mathematica. A questo proposito puoi vedere l'indirizzo http://mathworld.wolfram.com/LindenmayerSystem.html Ma per i miei scopi - in particolare per la seconda parte del mio volume Numero e figura - era per me importante realizzare per mio conto un programma apposito in modo da poterlo pienamente controllare con coscienza di causa. Nel volume citato mi limitavo a segnalare che per un simile linguaggio occorre 1. stabilire una stringa di lettere da intendere come semplici grafemi, che deve valere come stringa iniziale (detta anche assioma), una regola di sostituzione per ciascun grafema, ed eventuali condizioni aggiuntive. 2. In secondo luogo sarà necessaria una procedura che trasformi la stringa iniziale in una stringa finale mediante l'applicazione ricorsiva delle regole e delle condizioni, secondo un numero dato di ripetizioni. 3. La stringa finale di grafemi dovrà poi essere trasformata, attraverso una ulteriore procedura, in valori numerici che rappresentano le coordinate di schermo che sono necessarie alla sua rappresentazione ed alla stampa della figura ottenuta. Quest'ultima operazione non ha bisogno di essere esplicitamente programmata, perché è realizzata automaticamente da Mathematica. Altrettanto automaticamente vengono regolate le proporzioni delle figura finale. Naturalmente si potranno stabilire costanti e variabili, le condizioni potranno variare secondo le nostre necessità, e - cosa particolarmente importante - potremo introdurre dei grafemi a piacere e le interpretazioni corrispondenti non previste nella versione standard, possibilità di cui ho ampiamente approfittato nel mio testo. Per semplificare le cose costruiamo il nostro algoritmo L- system in tre passi. 216 Primo passo Il primo passo consiste nello stabilire una stringa iniziale, una o più regole ed eventuali condizioni. Esempio: assioma = "F-F"; regola = {"F"→"F+F"}; angolo = 45; Naturalmente ciò che chiamiamo "assioma" è la stringa iniziale. Il segno di freccia è un'operazione incorporata in Mathematica è stabilisce che al grafema di sinistra può essere sostituito quello di destra. Il segno F e il segno "+" e, eventualmente, "-", che qui non hanno nulla a che vedere con le operazioni aritmetiche, saranno in seguito interpretati in termini grafici. Conviene anticipare fin d'ora per chiarezza che F verrà interpretato come un segmento, la cui lunghezza è inizialmente predeterminata dal programma stesso, ma che è modificabile dall'utente. I segni "+" e "-" sono invece segni di direzione per F. In particolare segno "+" riguarda la direzione del segmento da destra verso sinistra. Inversamente il segno "-"indicherà la direzione del tratto da sinistra a destra. Queste anticipazioni sono necessarie, intanto perché rendono conto di "angolo" che va inteso come una condizione che riguarda le direzioni del segmento. Ovviamente qui si stabilisce che l'angolo eventuale di deviazione del segmaneto sia pari a 46 gradi. Alla più semplice versione standard appartiene anche il segno "!" che impone l'inversione reciproca dei segni + e - . Tuttavia va tenuto presente che da questa semantica possiamo per il momento prescindere perché il nostro scopo iniziale è semplicemente quello di creare ricorsivamente una stringa di segni (figure) che contenga i segni F e +, - ed altri segni eventuali prestabiliti nell'algoritmo. 217 Secondo passo Il secondo passo è in realtà formato da due istruzioni (o procedure). Una procedura che chiameremo "StringRec" - non essendo una procedura "pronta" la possiamo chiamare come vogliamo - che definiremo nel modo seguente: StringRec[strin_]:=StringReplace[strin,regola]; Il segno := è il modo in cui Mathematica introduce le procedure e il tratto sottoscritto a "strin" tra parentesi quadre indica trattarsi di un parametro variabile della procedura in questione. Quest'ultima agisce sulle stringhe, e quindi anzitutto sulla stringa iniziale in conformità della regola operando, stando al nostro esempio elementarissimo, per ogni F una sostituzione con F+F. Esempio: StrinRec[assioma] darà come risultato F+F-F+F La seconda istruzione che ci è utile in questo secondo passo la chiamiamo Calc1 e la definiremo nel modo seguente: Calc1[iter_]:={string1=Nest[StrinRec,assioma,iter],lista1=Characters[string1],iterator=Length[lista1]}; iter_ è il parametro che stabilisce il numero di iterazioni volute, Nest è una procedura pronta di "annidamento ricorsivo". Nell'esempio seguente il risultato è una stringa f applicata ricorsivamente tre volte all'espressione x. 218 Esempio: Nest[f,x,3] f[f[f[x]]] Nella procedura Calc1 si realizzano due liste: string1 attraverso l'applicazione ricorsiva di Nest; poi attraverso la procedura pronta Characters, che separa carattere per carattere i grafemi realizzati in string1, si realizza una seconda stringa, qui chiamata lista1. La funzione fondamentale di Calc1 è in effetti quella di creare una lista di grafemi separati. Alla variabile iterator viene assegnato il numero degli elementi della lista1. Mettendo in opera Calc1 sul risultato precedentemente ottenuto F+F-F+F otteniamo: Calc1[3] {F+F+F+F+F+F+F+F-F+F+F+F+F+F+F+F, {F,+,F,+,F,+,F,+,F,+,F,+,F,+,F,-,F,+,F,+,F,+,F,+,F,+,F,+,F,+ ,F},31} Ciò che ha fatto questa procedura lo si vede in una disposizione ad albero. F - F + F - F+F + F+F F+F + F+F + F+F +F+F - - F F + F F+F + F+F F+F + F+F + F+F +F+F Terzo passo Compito principale di questo terzo passo è l'interpretazione dei grafemi presenti nella lista1, realizzando nello stesso tempo i 219 valori delle coordinate di schermo utili per la rappresentazione grafica, operazione, quest'ultima, compiuta direttamente dal programma. Nel primo passo abbiamo stabilito un sistema molto semplice assioma = "F-F"; regola = {"F"→"F+F"}; angolo = 45; nel quale compaiono soltanto i segni F, + e - (e dunque anche "!" per l'inversione di direzione, e una sola condizione - un angolo di 45 gradi. Costruiamo dunque la seguente procedura che si serve solo di questi elementi. Con questa semplificazione si comprenderà l'essenziale anche in rapporto a casi più complessi. Dobbiamo naturalmente anzitutto operare delle inizializzazioni che provvedano anche a liberare le variabili da assegnazioni eventuali precedenti e disponiamo già di Calc1 che provvede a fornirci lista1 che contiene i grafemi prodotti secondo il numero delle iterazioni. Iniz := {Clear[lung], Clear[lista2], a = {0, 0}, ultx = a, lista2 = {ultx}, lista3 = {}, lung = 1, inverti = True, angfin = 0} Calc1[iter_]:={string1=Nest[StrinRec,assioma,iter],lista1=Characters[string1],iterator=Length[lista1]}; Attraverso la seguente nuova procedura che chiameremo Calc2 forniamo una "interpretazione" dei segni che predispone alla conversione in un grafico. Calc2 := {Do [ {If[IntegerPart[angfin] > Abs[360], angfin = Mod[angfin, 360]], Switch[First[lista1], "F",{a = ultx + {N[lung*Cos[angfin*Degree]], N[lung*- 220 Sin[angfin*Degree]]}, ultx = a, lista2 = Append[lista2, a], lista1 = Drop[lista1, 1]}, "+", {If[inverti, angfin = angfin + angolo, angfin = angfin angolo], lista1 = Drop[lista1, 1]}, "-", {If[inverti, angfin = angfin - angolo, angfin = angfin + angolo], lista1 = Drop[lista1, 1]}], },{iterator} ],Null }; Sui dettagli di questa procedura non è il caso di indugiare. Basti notare che l'istruzione che fa da motore a questa procedura è Switch, che è un'istruzione incorporata, la quale, indicato un segno, lo ricerca in una lista data e quando lo trova lo sostituisce con il segno o l'operazione immediatamente successiva: Esemplificativamente: Input: Switch["H", "R", "Z", "H", 2+2] Output: 4 Switch cerca il segno "H" che è l'espressione che occupa la prima posizione. L'espressione da cui "H" viene sostituito è quella che segue il primo "H" successivamente incontrato, e poiché nell'esempio si tratta di un'operazione di addizione essa viene eseguita. "H" viene dunque "scambiato" con 2+2. Nella nostra procedura Switch cerca "F"(oppure "!", "+" e "- ") come primo valore della lista1, quando lo trova lo realizza in base alla definizione e lo aggiunge nella lista2 togliendo il primo grafema dalla lista1. Alla fine resta la lista2 che contiene unicamente le coordinate di schermo per la traccia grafica. A questo punto si aggiungerà una istruzione che abbiamo chiamato SL che faccia da traccialinee congiungendo nell'ordine dovuto le coordinate di schermo. 221 SL:=Show[Graphics[Line[lista2]],AspectRatio->Automatic]; Con questa istruzione Mathematica stessa sistema le cose per per quanto riguarda le proporzioni della figura risultante che peraltro possono essere modificate proporzianalmente in modo manuale. Naturalmente queste diverse procedure possono essere riunite in un'unica procedura che abbiamo chiamato Prog e che ha come unico parametro il numero di iterazioni che si vogliono realizzare. Prog[iteraz_]:={Iniz;Calc1[iteraz];Calc2;SL}; Nel caso del nostro esempio con tre iterazioni si ottiene la figura seguente: Prog[3] (In questo caso particolare le ripetizioni oltre "tre volte" rifanno lo stesso percorso e non producono nuove figure). Nel volume Numero e figura ho naturalmente usato una procedura più complessa, aggiungendo nuovi segni e le regole corrispondenti, ma nella sostanza la struttura dell'algoritmo è lo stesso che 222 in questo caso più semplice. Restando identico tutto il resto, si possono introdurre modifiche a piacere in Calc2, cosa che rende l'impiego di questa procedura particolarmente e maneggevole. Precisamente la procedura da me utilizzata è la seguente: Calc2:= {Do[{If[Int[angfin]>Abs[360],angfin=Mod[angfin,360]],Switch[First[lista1], "F",{a=ultx+{N[lung Cos[angfin Degree]],N[lung Sin[angfin Degree]]}, ultx=a,lista2=Append[lista2,a],lista1=Drop[lista1,1]}, "P",{angfin=angolo,a=ultx+{N[lung Cos[angfin Degree]],N[lung Sin[angfin Degree]]},ultx=a,lista2=Append[lista2,a],lista1=Drop[lista1,1]}, "Q",{angfin=-angolo,a=ultx+{N[lung Cos[angfin Degree]],N[lung Sin[angfin Degree]]},ultx=a,lista2=Append[lista2,a],lista1=Drop[lista1,1]}, "R",{lung=lung molt,lista1=Drop[lista1,1]}, "H",{lung=lung/molt,lista1=Drop[lista1,1]}, "!",{inverti= !inverti,lista1=Drop[lista1,1]}, "+",{If[inverti,angfin=angfin+angolo,angfin=angfin-angolo],lista1=Drop[lista1,1]}, "-",{If[inverti,angfin=angfin-angolo,angfin=angfin+angolo],lista1=Drop[lista1,1]}, "|",{angfin=angfin+180,lista1=Drop[lista1,1]}, "$",{angfin=angolo+incr,lista1=Drop[lista1,1]}, _,{lista1=Drop[lista1,1]}]},{iterator}],Null}; Nel volume citato si fornisce una larga esemplificazione di ciò che si può realizzare con questa routine e dei problemi teorico-filosofici che l'uso di questo linguaggio propone. 3. Procedure di calcolo per il "triangolo" di Sarngadeva Nel saggio La serie delle serie dodecafoniche e il triangolo di Sarngadeva mi sono in particolare occupato del metodo escogitato da Sarn- 223 gadeva per raccogliere in unità "tutte le permutazioni possibili delle sette note della scala sagrama illustrando anche un metodo pratico per il loro completo dominio. Precisamente si tratta di realizzare una duplice operazione: da un lato, ad ogni permutazione deve poter essere associato un numero, dall'altro deve essere possibile "estrarre" da un determinato numero - ovviamente compreso tra 1 e il numero massimo di permutazioni possibili - la permutazione ad esso associata".(Piana, 2000). Si tratta dunque di percorrere due "vie": 1. dalla serie ad un numero univocamente determinato (via uddista); da questo numero alla serie corrispondente (via nasta). A parte le spiegazioni fornite dall'autore, la procedura è naturalmente formalizzabile in un algoritmo distinto in due parti: 1. Seq → s → c →Numseq 2. Numseq →c → s →Seq dove Seq è una variabile di lista per i nomi delle note. Ovviamente questo vale per il nostro caso, ma il riferimento musicale è secondario. Seq può essere considerata come una lista di grafemi, che possono essere intesi come nomi di oggetti in genere (note, numeri, ecc.); s e c sono liste, la prima delle quali abbiamo chiamato lista degli indici di spostamento di posizione, la seconda, costruita sulla base della prima, lista dei costituenti del numero della sequenza dalla cui somma viene determinato Numseq. Naturalmente per venire a capo di ciò che sto dicendo, converrà che il lettore tenga sott'occhio sia la matrice triangolare che ho chiamato "triangolo di Sarngadeva", sia il metodo pratico che ho escogitato per operare con esso mediante anelli e gettoni e tutte le spiegazioni relative che non è possibile ripetere qui. Analogamente mi limito ora a proporre la procedura da me escogitata, assente da quel saggio, senza fare commenti che esigerebbero a loro volta una completa ripetizione di ciò che è già stato detto. 224 La matrice triangolare proposta da Sarngadeva è la seguente: 1 0 0 0 0 0 0 1 2 6 24 120 720 4 12 48 240 1440 18 72 360 2160 96 480 2880 600 3600 4320 A parte la prima riga, la seconda riga è costruita con il fattoriale di n con n che varia da 1 a 6. Le altre righe sono ottenute attraverso una moltiplicazione progressiva dei numeri della seconda riga, a partire da 2, per il numero di celle di ciascuna colonna - ovvero moltiplicando 2*2 per la terza colonna, 6*2 e 6*3 per la quarta colonna, ecc. Ai tempi in cui scrissi il saggio in questione, non mi ero reso conto che, a partire dalla terza riga, i rapporti di una riga con la riga precedente sono già musicalmente significativi. Essi infatti rappresentano i rapporti di consonanza presenti e variamente usati in diverse tradizioni musicali, e precisamente 2/1 (ottava secondo la terminologia corrente), 3/2 (quinta), 4/3 (quarta), 5/4 (terza maggiore), 6/5 (terza minore). Questa è in ogni caso una singolarità interessante, ma che non interviene nella costruzione dell'algoritmo, il quale del resto, come abbiamo già detto, non deve avere necessariamente un'interpretazione musicale, ma riguarda la problematica più generale del calcolo delle permutazioni e del loro ordinamento. 225 Il passaggio calcolistico presuppone le seguenti liste: triang ={{1},{0,1},{0,2,4},{0,6,12,18},{0,24,48,72,96},{ 0,120,240,360,480,600},{0,720,1440,2160,2880,3600,432 0}}; standard={sa,ri,ga,ma,pa,da,ni}; Evidentemente esse rappresentano niente altro che una descrizione del triangolo, comprendendo "triang" le liste corrispondenti ad ogni colonna, "standard" i nomi indiani delle sette note. Si noti che il primo numero di ogni riga si presenta come ultimo di ogni lista; ed inoltre che ogni casella può essere caratterizzata da una coppia di numeri, come in ogni matrice. Abbiamo poi bisogno di procedure per realizzazione delle liste S e C che consentano il passaggio da Seq a Numseq e inversamente. La relazione che intercorre tra queste due liste è spiegata nel saggio. In breve data una lista Seq che sia una variante della lista standard, essa andrà confrontata con questa a partire da destra verso sinistra: Esempio: ma ga sa ri pa da ni sa ri ga ma pa da ni Se non vi è spostamento di posizione si attribuisce l'indice di posizione 1. Se vi è spostamento di posizione si conteggia, sempre da destra a sinistra, lo spostamento, comprendendo gli estremi. Da entrambe le sequenze si cancellano via via le note che sono state indicizzate. Nell'esempio cominciamo dunque con 1, 1, 1. Otteniamo così per il confronto ma ga sa ri sa ri ga ma 226 La nota ri verrà indicizzata con 3 (come abbiamo detto il conteggio include gli estremi) ed otteniamo le sequenze ma ga sa sa ga ma Come indice di spostamento di sa avremo ancora 3 e le sequenze saranno ma ga ga ma L'indice di spostamento di ga sarà 2 e di ma sarà 1. ma ma In questo esempio la lista degli indici di spostamento s sarà dunque 1,1,1,3,3,2,1. Di qui si passa agevolmente alla lista c, dal momento che si può considerare la lista precedente come correlata al numero delle colonne considerata sempre da destra a sinistra: 1,1,1,3,3,2,1 7,6,5,4,3,2,1 È allora interessante notare che abbiamo a che fare con coppie di numeri che possono essere intesi come individuanti la cella corrispondente della matrice triangolare. Ad es. 1,7 indicherà la cella della prima riga e della settima colonna, la coppia 4,3 la cella della quarta riga e terza colonna ecc. I numeri contenuti nelle celle così indicate formerà la lista c, che sarà dunque {0,0,0,12,4,1,1}, numeri che sommati insieme forniscono Numseq ovvero 18. La procedura che chiamiamo anche noi Uddista porta dalla sequenza che sarà stata preliminarmente assegnata alla variabile Seq, attraverso la lista s e la lista c, create all'interno di essa, a Numseq 227 in output, che risulta dalla somma dei numeri presenti nella lista c. Uddista :={ { k =Length[Seq]; b = Take[standard, {1, k}]; c = {}; s = {}; n = k; }; {Do[{pos = First[Flatten[Position[b, Last[Seq]]]]; indice = k - pos + 1 ; k = k - 1; s = Append[s, indice]; Seq= Drop[Seq, -1]; b = Delete[b, pos]; memors = s; },{i, 1, n}] }; {Do[{c = Append [c, triang[[Length[s],First[s]]]]; s = Drop[s, 1]}, {i, 1, n}]; Numseq = Apply[Plus, c] }; Numseq}; Per l'impiego di Uddista è sufficiente premettere una sequenza di note assegnandole alla variabile Seq. L'output sarà il numero della sequenza Numseq. Esempio Seq = {ma, ri, ga, sa, pa, ni, da}; Uddista {742} Come si è spiegato, la procedura Nasta riporta inversamente dal numero della sequenza, nell'esempio, 742, all'ordinamento di 228 note corrispondente a quel numero che deve essere assegnato alla variabile Numseq in via preliminare. Nasta:={ {numnote=Length[standard]; h = Numseq - 1; s ={}; c ={};Seq ={};colonna=numnote;}; MaxMinori[listap_,numr_] := { minori = {};lung = Length[listap]; Do [If[numr >= Part[listap, i], minori = Append[minori, Part[listap, i]]], {i, 1, lung}]; If[minori == {}, numric = 0, numric = Max[minori]] }; {Do[{numc=First[MaxMinori[Part[triang,colonna+1-i],h]]; c=Append[c,numc]; pos=Take[Position[Part[triang,colonna+1i],numc],-1]; s=Append[s,pos];h=h-numc},{i,1,colonna-1}]; c=Append[c,1];s=Flatten[s];s=Append[s,1];memors=s; }; { stand1=Take[standard,numnote]; Do[{nota=Part[stand1,-First[s]]; Seq=Append[Seq,nota];stand1=Delete[stand1,Position[stand1,nota]]; s=Drop[s,1]},{x,1,numnote}]; }; Seq=Reverse[Seq] }; Esempio: Numseq= 742; Nasta {ma, ri, ga, sa, pa, ni, da} È tempo ora di dire che il "il numero di Sarngadeva" attribuito ad una sequenza di note non è altro che il numero di ordine che quella sequenza occupa all'interno della serie di tutte le permu- 229 tazioni possibili della sequenza standard. Cosicchè possiamo realizzare un ciclo in cui tali permutazioni vengono effettivamente prodotte, tenendo conto del fatto che la variabile del ciclo prende valori da 1 al fattoriale del numero delle note "standard" - che è nei nostri esempi 7! = 5040. Al numero 1 corrisponde l'ordinamento proposto in standard, al numero 5040 corrisponde, per usare il linguaggio musicale, il retrogrado di quell'ordinamento. Numseq=1; Nasta {sa, ri, ga, ma, pa, da, ni} Numseq = 5040; Nasta {ni, da, pa, ma, ga, ri, sa} La procedura seguente produce nell'ordine tutte le permutazioni mettendo in input il numero delle permutazioni richieste entro l'ambito significativo per 7 oggetti (cioè non oltre 5040), con output a video di Numseq, Seq, s e c. Permut[x_]:= Do[ {Numseq = i, numnote = 7; Nasta, Print[Numseq], Print[Seq], Print ["lista s = ", memors], Print ["lista c = ", c]}, {i, 1, x}] Per passare ad un altro sistema, ad esempio, a dodici note, occorre soltanto mutare corrispondentemente la matrice su cui viene effettuato il calcolo, e quindi triang e standard. Esse diventano: triang = {{1},{0,1},{0,2,4},{0,6, 12, 18}, 230 {0,24,48,72,96},{0,120, 240, 360, 480, 600}, {0, 720, 1440, 2160, 2880, 3600, 4320}, {0, 5040, 10080, 15120, 20160, 25200, 30240,35280}, {0, 40320, 80640, 120960, 161280, 201600, 241920, 282240, 322560}, {0, 362880, 725760, 1088640, 1451520, 1814400, 2177280, 2540160, 2903040, 3265920}, {0, 3628800, 7257600, 10886400, 14515200, 18144000 , 21772800, 25401600, 29030400, 32659200, 36288000}, {0, 39916800, 79833600, 119750400, 159667200, 199584000, 239500800, 279417600, 319334400, 359251200, 399168000, 439084800}}; standard = {1, 2 , 3, 4 , 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12}; Le procedure invece non hanno bisogno di modifiche. Nella variabile standard in luogo dei nomi delle note abbiamo posto dei numeri, che saranno interpretati corrispondentemente, ad es. 2 come do # (o re b), 4 come re# (o mi b), ecc. Voglio infine ricordare qui che il mio saggio è stato di stimolo per una straordinaria ipotesi di reinterpretazione della matrice triangolare di Sarngadeva in chiave di "cosmologia arcaica" da parte Giovanni Ferrero, esperto in questo raro ambito di studi e cultore di informatica umanistica, docente presso l'Università di Genova in Storia del pensiero scientifico e responsabile del Laboratorio di informatica della Facoltà di scienze della formazione presso la stessa Università. Questo studioso è scomparso nel 2006. Di lui si può apprezzare la personalità e l'opera nel sito http://www.cosmologia-arcaica.com In questo sito si può trovare anche il saggio dedicato a quella ipotesi di reinterpretazione cosmologica all'indirizzo: http://www.cosmologia-arcaica.com/testi/cosmo/india/start.html 231 4. Procedure per la realizzazione di "flussi sonori" 1. Alcune premesse elementari Non sarà inopportuno all'inizio rammentare telegraficamente alcune nozioni scolastiche che riguardano la funzione Sin[x]. Essa è una funzione periodica con periodo pari a 2 Pi. La circonferenza del cerchio, essendo r il raggio, è pari a 2*Pi*r, cosicché per r=1, la circonferenza misura 2 Pi. Vi è dunque una relazione tra tale funzione e la circonferenza di un cerchio, e tra entrambe e l'oscillazione di un pendolo ovvero la vibrazione di un corpo che è produttiva di suono. Il numero di vibrazioni nell'unità di tempo è la frequenza e si misura in Hertz (Hz). Essa è il correlato fisico dell'altezza percettiva. Il suono prodotto via computer con il solo impiego di una funzione Sin[2 Pi t], essendo t una variabile che verrà interpretata come variabile temporale, è chiamato "suono sinusoidale". Un moltiplicatore dell'intera funzione fa variare l'ampiezza dell'onda sonora prodotta. Nel seguito ci occuperemo solo di suoni sinusoidali. Nel programma Mathematica vi sono due istruzioni direttamente incorporate che useremo di continuo. L'istruzione grafica Plot che, in particolare, realizza il grafico delle funzioni considerate e l'istruzione Play che provvede a tradurre quelle funzioni in termini sonori. Quest'ultima istruzione fornisce anche un grafico di inviluppo e dello spettro (quest'ultimo sarà lineare essendo il suono sinusoidale in linea di principio privo di armonici). La sua funzione essenziale è tuttavia quella di generare il suono, essendo il grafico corrispondente solo sommariamente indicativo. Conviene tuttavia in taluni casi mostrare anche questo grafico, che è realizzato direttamente sulla base dell'onda sonora mentre va da sé che dalla carta stampata non può essere udito alcun suono. L'istruzione 232 Plot[Sin[2 Pi t], {t, 0, 1}] traccerà dunque una funzione sinusoidale di frequenza pari a 1; e dunque inserendo un valore qualunque nella funzione, ad esempio, moltiplicando 2 Pi per 440 avremo, dal punto di vista di un suono sinusoidale possibile, 440 vibrazioni nell'unità di tempo. La formula per ottenere un suono di 440 Hz sarà data dunque da Sin[2 Pi 440 t], {t, 0, 1} In forma generale: Sin[2 Pi freq t], {t, 0, 1} Esempio per un suono di 60 Hz: Plot[Sin[2 Pi 60 t], {t, 0, 1}] 1.0 0.5 0.2 0.4 0.6 0.8 0.5 1.0 Play[Sin[2 Pi 60 t], {t, 0, 1}] 1.0 233 2. Introduzione al tema dei flussi sonori Il nostro modo di porre il problema della consonanza e della dissonanza credo che possa rivendicare una certa originalità soprattutto perché non si fa di esse una proprietà di raggruppamenti verticali di "note". Queste nozioni vengono invece riferite allo spazio sonoro inteso come flusso continuo e unitario. Di conseguenza la mia esposizione dà una particolare importanza, anzitutto teorica, ai flussi sonori. Un flusso sonoro è naturalmente anche il suono a frequenza costante, ma merita questo nome solo perché esso ha una durata, e dunque non è fenomenologicamente puntiforme. Per avere un suono puntiforme basterà abbreviare la durata del suono in modo che il suono sia assimilabile ad un "punto" sonoro. In contesti in cui può nascere qualche equivoco si potrà usare una convenzione terminologica opportuna per contraddistinguere il flusso sonoro a frequenza costante dal flusso sonoro a frequenza variabile. Per ottenere una frequenza variabile basterà inserire, al posto di un valore di frequenza fisso, una funzione che vari al variare di t tra 0 e1. Un esempio anche solo puramente grafico chiarirà questo punto. Si dia la funzione seguente: funz1 =(220+(t*220)); Plot[Sin[2 Pi funz1 t],{t,0, 1}] 1.0 0.5 0.2 0.5 1.0 0.4 0.6 0.8 1.0 234 Con un numero così elevato di vibrazioni il plottaggio mostra a malapena la variazione di frequenza che diventa tuttavia visibile riducendo l'ambito delle frequenze ed eventualmente aumentando anche la durata. Ad esempio si ridefinisca funz1 come segue: funz1 =(25+(t*25)); Per valori così bassi il plottaggio mostra nettamente la variazione progressiva delle frequenze. Plot[Sin[2 Pi funz1 t],{t,0, 1.3}] 1.0 0.5 0.2 0.4 0.6 0.8 1.0 1.2 0.5 1.0 Va da sé che cambiando la funzione funz1 possiamo ottenere a piacere suoni a frequenza variabile. Anche soltanto con i suoni sinusoidali si possono ottenere una grande varietà di strutture sonore. Per alcune funzioni può accadere che i valori forniscano frequenze troppo basse. Per ovviare a questo inconveniente si userà un moltiplicatore che chiameremo molt. Consideriamo una funzione funz1 meno ad hoc della precedente ed un poco più complessa. Sia ad esempio: funz1 = Log[10, t]*5.5- Sin[t]; 235 Plot[Sin [2 Pi funz1 t],{t,1,10}] 1.0 0.5 4 6 8 10 0.5 1.0 Se sostituiamo a Plot l'istruzione Play avremo frequenze troppo basse, ed un suono puntiforme o inavvertibile. Cosicché nell'istruzione Play ricorreremo ad un moltiplicatore pari a 300. Nota che per la determinazione di molt si procede per prove, sperimentando che cosa succede aumentando o diminuendo molt. molt = 300; Play[Sin[2 Pi molt funz1 t],{t,1,10}] Ci si chiederà ora quale sia l'andamento effettivo del flusso sonoro di questo esempio che si coglie approssimativamente nel riquadro superiore del grafico. Per avere una risposta risulta naturale realizzare il plottaggio della derivata di "molt funz1", cosa che in Mathematica si ottiene con l'istruzione D[f,x] funz2=D[molt funz1*t,t]; 236 Plot[funz2, {t, 1, 10}] 5000 4000 3000 2000 1000 4 6 8 10 La funzione che abbiamo chiamato funz2 ha per noi il significato di mostrare l'andamento della variazione di frequenza per una data funzione funz1 con eventuale moltiplicatore una volta che funz1 è stata inserita come "variatore frequenziale" in una funzione sinusoidale. Notiamo in ogni caso che il ricorso alla derivata serve anche per determinare il valore in frequemza di un flusso all'istante dato. Ad es. per funz1 definito in precedenza, potremo chiedere attraverso la sua derivata funz2, il valore della frequenza all'istante iniziale (t=1) o finale (t=10) o a qualunque altro istante intermedio. funz2/.t→1 302.054 funz2 /.t→10 5047.01 funz2 /. t→9.5 5194.32 3. Dal grafico della funzione all'andamento del flusso sonoro Con "andamento del flusso sonoro" intendo il tipo di movimento del flusso che è mostrato dal grafico della derivata della 237 funzione di base. Ciò che abbiamo detto sin qui fa nascere infatti l'idea di poter "tradurre" il grafico di una qualunque funzione in un movimento sonoro che ha un andamento in certo senso analogo ad esso. La chiave per risolvere il problema è a portata di mano. Infatti sarà sufficiente "intendere" la funzione come se fosse una derivata di cui si deve individuare la funzione primitiva. Quindi si deve ricorrere ad un'operazione di integrazione. Anche in questo caso è sovente indispensabile l'impiego di un moltiplicatore. Esempi: 1. molt = 1000; funz1 =Sin[t]; funz2=Integrate[molt funz1,t]; La forma della funzione che si vuole "tradurre" in suono sia questa volta la stessa forma sinusoidale. Di conseguenza, nell'istruzione Play si inserirà funz2, mentre funz1 verrà intesa come derivata. Plot[molt funz1,{t, 0,2 Pi}] 1000 500 1 500 1000 2 3 4 5 6 238 Play[Sin[2 Pi funz2], {t, 0, 2 Pi}] Si noti che le frequenze vengono prese nei loro valori assoluti. Volendo tenerne conto nel plottaggio si può inserire questa condizione (usando l'istruzione Abs) ovvero: Plot[Abs [molt funz1],{t, 0,2 Pi}] 1000 800 600 400 200 1 2 3 4 2. In questo secondo esempio si assume come funz1 una funzione di quinto grado con moltiplicatore 1000. molt = 1000; funz1 = molt (-5 t^3 + 3 t^5); funz2 = Integrate[funz1, t]; 239 Plot[funz1, {t, -1.4, 1.4}] 2000 1000 1.0 0.5 0.5 1.0 1000 2000 Plot[Abs[funz1],{t, -1.4,1.4}] 2000 1500 1000 500 1.0 0.5 0.5 1.0 Play[Sin[2 Pi funz2],{t, -1.4, 1.4}] 3. molt = 1000; funz1 = molt Sin[t]; 240 funz2 = Integrate[funz1, t]; Plot[funz1, {t, 0, 3.14}] 1000 800 600 400 200 0.5 1.0 1.5 2.0 2.5 3.0 Play[Sin[2 Pi funz2],{t, 0, 3.14}] 4. molt = 1000; funz1 = molt Cos[t]+5; funz2 = Integrate[funz1, t]; 241 Plot[Abs[funz1], {t, 0,4}] 1000 800 600 400 200 1 2 3 4 Play[Sin[2 Pi funz2], {t, 0,4}] 5. Il plottaggio della funzione di Bessel di prima specie presenta questa forma: Plot[BesselJ[0,x],{x,0,50}] 0.4 0.2 10 20 30 40 50 0.2 0.4 Proponendo questa funzione in Play e con numero di frequenza fisso, otterremo un suono di ampiezza (intensità) decrescente. 242 Play[BesselJ[0, 2 Pi 440 x], {x, 0,5}, PlayRange->{-0.09,0.09}] Assumendo la stessa funzione come funz1, e intendendola come derivata la cui integrazione è funz2 otterremo, con funz2 nell'istruzione Play, un flusso sonoro che ha la forma della funzione. funz1 = BesselJ[0, t]; funz2 = Integrate[funz1, t]; Plot[Abs[funz1],{t, 0, 10}] 1.0 0.8 0.6 0.4 0.2 2 4 6 8 10 Play[Sin[2 Pi 1000 funz2],{t, 0, 10}] 243 4. Flussi sonori ascendenti e discendenti In realtà, per quanto riguarda l'idea di "spazio sonoro" inteso come continuo dei suoni è sufficiente prendere in considerazione flussi ascendenti e discendenti, tenendo peraltro conto di un problema che fin qui abbiamo potuto rimandare ma che è particolarmente importante dal punto di vista musicale. Questo problema riguarda le strutture intervallari e in particolare le ottave in cui può essere suddiviso lo spazio sonoro. Mentre a livello fenomenologico vi è eguaglianza percettiva della grandezza degli intervalli di ottava, dal punto di vista fisico tali intervalli si distribuiscono secondo una progressione geometrica di ragione 2. Esemplicativamente se prendiamo il la a 440 Hz, l'ottava successiva sarà di 440*2 = 880, e quella ancora successiva 880 * 2 = 1760 ecc. È necessario allora non solo costruire flussi sonori ascendenti e discendenti, ma anche che essi siano tali da rendere il flusso equilibrato rispetto all'intervallo musicale, facendo variare in modo opportuno la struttura della progressione geometrica. In mancanza di questo equilibrio, il campo delle basse frequenze a disposizione sarebbe particolarmente esiguo mentre vi sarebbe un costante allargamento del campo delle frequenze man mano che ci si approssima alla regione acuta. In parole povere avremmo flussi sempre più lunghi nelle regioni delle alte frequenze e troppo brevi nelle basse frequenze. Vogliamo procedere con ordine anzitutto riportando alla memoria alcuni presupposti elementari che riguardano le progressioni geometriche. Il presupposto più importante che ci interessa è il fatto che una progressione geometrica può essere concepita come generata dalla sua "ragione" elevata ad un esponente progressivo. L'istruzione Table ci consente una semplice esemplificazione. Sia 2 la ragione della progressione che vogliamo costruire, la funzione da inserire in essa sarà appunto 2^t e l'istruzione verrà scritta come segue: 244 Table[2^t, {t, 0,5}] {1,2,4,8,16,32} Volendo iniziare con un numero differente, ad es. 220, la funzione da inserire sarà appunto (220*2^t). Table[220*2^t, {t, 0,5}] {220,440,880,1760,3520,7040} Essendo la forma generale della funzione sinusoidale Sin[2 Pi f(t) * t] dove t verrà usato come iteratore nella istruzione Play, la regola per ottenere la variazione di frequenza sarà quella di ottenere una variazione di f(t) secondo l'iteratore. Si potrà determinare la frequenza iniziale; e si dovrà determinare una ragione e il campo di variazione di t (tmin e tmax, quindi anche la durata del suono). Cosicché t potrà valere da un lato come variabile temporale, dall'altro, in f(t), come esponente della ragione e quindi come la funzione che impone la variazione secondo una progressione geometrica della frequenza. f = 220 2^t; Table[f,{t,0,1}] {220,440} Plot[f, {t,0,1}] 400 350 300 250 0.2 0.4 0.6 0.8 1.0 Naturalmente fin qui abbiamo solo a che fare con funzioni nu- 245 meriche. Ora la nostra intenzione sia quella di realizzare un flusso sonoro che abbia come frequenza iniziale = 220 e frequenza finale = 440 ed abbia forma ascendente e i valori frequenziali indicati nel plottaggio or ora effettuato. La via è in realtà già stata indicata in generale: la funzione in questione verrà intesa come se fosse una derivata di una primitiva da ricercare. Quindi: molt = 220; funz1= molt 2^t; funz2 = Integrate[funz1,t]; Play[Sin[2 *Pi funz2], {t, 0, 1}] funz1/.t→0 220 funz1/.t→1 440 È chiaro che vi è una regola che lega il contatore (=durata) alla ragione della progressione, una regola che ha conseguenze sulla frequenza finale. In linea generale, diminuendo la ragione si avrà per la stessa durata una frequenza finale minore, e aumentandola una frequenza finale maggiore. Analogamente diminuendo o aumentando la durata. Naturalmente noi siamo interessati a controllare questi elementi, in modo tale da ottenere flussi di cui si possa determinare preliminarmente frequenza iniziale, finale e durata. Ciò che ignoriamo è la ragione della progressione che ci fornisca flussi con quelle caratteristiche. Dobbiamo dunque risolvere un'equazione la cui incognita è appunto la ragione. Nel caso 246 precedente avendo scelto la durata di un secondo e una ragione 2 ottenevamo in effetti un flusso con inizio in 220 e fine in 440 Hz. Ma se vogliamo determinare lo stesso flusso facendolo durare 8 secondi dobbiamo determinare la ragione. L'equazione in questione sarà: 220*x^8 == 440 La soluzione (approssimata) dell'equazione andrà realizzata con FindRoot. FindRoot[220*x^8 == 440, {x, 1}] {x→1.09051} Table[220*1.09051^t,{t,0,8}] {220.,239.912,261.627,285.306,311.13,339.29,369.999,40 3.488,440.007} molt = 220; funz1= molt 1.0905^t; funz2 = Integrate[funz1,t]; Play[Sin[2 *Pi funz2], {t, 0, 8}] funz1/. t→0 220 funz1/.t→8 439.975 247 5. Procedure per la determinazione di flussi sonori ascendenti e discendenti Come sintesi conclusiva di questa parte del problema possiamo proporre tre procedure. A. Procedura per la determinazione della ragione (rag), dando come parametri la frequenza minima (fmin), quella massima (fmax) e la durata (dur). DeterminaRag[fmin_,fqmax_, dur_] := FindRoot[fmin*rag^dur == fqmax, {rag,1}]; È possibile porre in una variabile l'output di FindRoot come segue: A = rag /.First[FindRoot[220*rag^10 == 440, {rag,1}]]; Questa possibilità è utilizzata nella procedura seguente e in quella successiva che realizzano rispettivamente un flusso ascendente e un flusso discendente cosicché la ragione viene calcolata all'interno della procedura. Nota che nel flusso ascendente si moltiplica la frequenza iniziale per la ragione, mentre per il flusso discendente viene divisa per la ragione la frequenza finale. Entrambe le procedure provvedono al plottaggio di funz1 e alla produzione sonora corrispondente. B. Flusso ascendente: FlussoAsc[fmin_,fmax_,dur_] := { {R = rag /.First[FindRoot[fmin*rag^dur == fmax, {rag,1}]]; funz1 = fmin * R^t; funz2 = Integrate[funz1,t]; }; {Plot[funz1, {t, 0, dur}]}, 248 {Play[Sin[2 *Pi funz2], {t, 0, dur}, SampleRate->44100];} }; FlussoAsc[220, 440, 5] 400 350 300 250 1 2 3 4 5 La ragione può essere richiesta anche fuori dalla procedura R (* ovvero la ragione*) 1.1487 C. Flusso discendente: FlussoDisc[fmax_,fmin_,dur_] := { {R = rag /.First[FindRoot[fmin*rag^dur == fmax, {rag,1}]]; funz1 = fmax/R^t; funz2 = Integrate[funz1,t]; }; {Plot[funz1, {t, 0, dur}]}, {Play[Sin[2 *Pi funz2], {t, 0, dur},SampleRate->44100];} }; 249 FlussoDisc[440,220,5] 400 350 300 250 1 2 3 4 5 Naturalmente per lo spazio sonoro come continuo dei suoni non ci limiteremo a considerare un'ottava, ma assumeremo l'intero campo dei suoni che possono avere una utilizzazione musicale che viene di solito indicata tra 16 e 15000 Hz circa. La capacità uditiva può variare tra 16 e 20000 Hz. Nello stesso tempo va notato che l'ottava può essere considerata come rappresentativa dell'intero spazio sonoro. 6. Determinazione dell'intersezione dei flussi sonori Considerando coppie di flussi che si intersecano può essere interessante determinare sia la frequenza sia l'istante in cui avviene l'intersezione. Ora per determinare la frequenza è necessario conoscere l'istante t dell'intersezione, che non è noto. La condizione conosciuta è ovviamente il fatto che la frequenza di una funzione nel punto di intersezione è eguale alla frequenza dell'altra cosicché la loro differenza è pari a 0. Intanto, parlando di intersezioni di flussi sonori è utile unificare le due procedure precedenti in un'unica procedura che chiameremo FlussoAscDisc. Chiamiamo le due funzioni funz1 e dunz1 e rispettivamente funz2 e dunz2. Inoltre va relativizzato il Plotrange alle variabili fmin e fmax. L'istruzione Play può essere 250 neutralizzato semplicemente mettendo un ";" al termine della procedura. Flusso ascendente e discendente: FlussoAscDisc[fmin_,fmax_,dmax_,dmin_,dur_] := { {R = rag /.First[FindRoot[fmin*rag^dur == fmax, {rag,1}]]; funz1 = fmin * R^t; funz2 = Integrate[funz1,t]}; { dunz1= dmax/R^t; dunz2 = Integrate[dunz1,t]}; {Plot[{funz1,dunz1}, {t, 0, dur}, PlotRange->{fmin,dmax}]} {Play[{Sin[2 *Pi funz2]+Sin[2 Pi dunz2]}, {t, 1, dur}, SampleRate->44100];} }; Esempio: FlussoAscDisc[220, 440, 440, 220, 20] 400 350 300 250 0 5 10 15 20 Per trovare t basterà risolvere l'equazione che assegna il valore t nel punto dell'eguaglianza delle frequenze tra le due funzioni funz1 e dunz1. Tale equazione sarà ovviamente funz1-dunz1== 0 251 Si userà FindRoot. FindRoot[ funz1- dunz1== 0,{t,1}]//N {t→10.} Per avere la frequenza comune nel punto di intersezione si interrogherà come al solito funz1 o dunz1, avendo trovato il valore di t. funz1/.t→10 //N 311.127 dunz1 /.t→10 //N 311.127 Altri esempi: FlussoAscDisc[180, 600, 600, 180, 10] 600 500 400 300 200 0 2 4 6 FindRoot[ funz1-dunz1== 0,{t,1}]//N {t→5.} funz1/.t→5//N 328.634 dunz1 /.t→5 //N 328.634 8 10 252 FlussoAscDisc[100, 400, 600, 180, 10] 600 500 400 300 200 0 2 4 6 8 10 FindRoot[funz1- dunz1== 0,{t,1}]//N {t→6.46241} funz1/.t→6.46241//N 244.949 dunz1 /.t→6.46241 //N 244.949 Naturalmente le procedure descritte possono essere variate in vari modi, ad esempio è possibile aggiungere un suono costante oppure migliorare il grafico con linee verticali e orizzontali che contrassegnano le coordinate dei punti che ci interessano, ecc. In questo modo ho realizzato i grafici e gli esempi sonori presenti nei miei Barlumi per una filosofia della musica (2007) che comprendono una discussione dell'idea dello spazio sonoro come continuo di altezze (sez. VI), una trattazione dei flussi sonori (sez. VII), della consonanza e della dissonanza (sez. VIII), una discussione sulla nozione di sensibile (sez. IX) e sul tritono che viene normalmente inteso come dissonanza (sez. X), sviluppando e migliorando l'esposizione su questi temi nella Filosofia della musica (1991). Credo infine di dover aggiungere che indirettamente questi miei tentativi mostrano anche un nesso ben poco apprezzato dai fenomenologi tra fenomenologia e matematica e come la "descrizione fenomenologica" possa trarre profitto 253 non solo dalla "contemplazione" del fenomeno, ma dalla sua costruzione. Ed anche questa è, mi sembra, una novità significativa nell'ambito della pur molto ampia e variegata riflessione sulla metodologia fenomenologica. 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Piana, La serie delle serie dodecafoniche e il triangolo di Sarngadeva, Internet, "De Musica", IV, 2000. Ora anche in edizione cartacea in Opere complete, vol. XI, Saggi di filosofia della musica, Lulu. com, 2013, pp. 179 sgg. 260 Tutti gli scritti di G. Piana si trovano anche in formato PDF all'indirizzo http://www.filosofia.unimi.it/piana/ Picker, 1963 B. Picker, Die Bedeutung der Mathematik für die Philosophie Edmund Husserls, in "Philosophia naturalis", Verlag Anton Hain, Meisenheim, 1962. Poincaré, 1994 H. Poincarè, Il valore della scienza, a cura di G. Polizzi, La Nuova Italia, Firenze, 1994. Ravasio, 2013 M. Ravasio, Contare e calcolare. La filosofia dell'aritmetica di Husserl. Tesi di laurea su relazione di Paolo Spinicci, Milano, 2013. Richeson, 2008 D. S. Richeson, The Euler's Gem. The Polyhedron Formula and the Birth of Topology, Princeton University Press, Princeton, 2008. Rivaud, 1985 Platon, Oeuvres Complètes, Tome X, trad. franc. di A. 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Giovanni Piana Opere complete Volume ventisettesimo Barlumi per una filosofia della musica 2007 Lulu 2013 4 ISBN 978-1-291-76077-4 Copyright @ Giovanni Piana (2013) Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT La fotografia di copertina è di Giovanni Piana 5 Dedica A Marina la mia terra, il mio cielo 2007 6 7 8 9 Indice Avvertenza |21| I Filosofia della musica Che cosa dovrebbe essere una filosofia della musica Insofferenze Necessità di una riflessione epistemologica La certezza nella musica e nella filosofia Un enigmatico sogno di Socrate |23| II Essenza della musica Complessità della musica Definizione della musica Origine della musica Specificità della musica Fascino della musica Il piacere della musica La musicalità dei suoni I suoni e il mondo Le radici unitarie della musica La musica come "universale" del comportamento umano Dubbi sulla riduzione del concetto di musica ad una questione sociologica Il canto di un muezzin e Bruno Maderna Le funzioni della musica L'importanza dell'intervallo di ottava Universali musicali e innatismo psico-fisiologico Fondamenti psicobiologici della musica |29| 10 III Regole Regole fenomenologiche Regola e struttura Regole di stile e regole fenomenologiche Regole e punto di vista storicizzante Strutture forti e strutture deboli |45| IV Intorno ai rapporti tra la musica e lo spazio Origine, provenienza, irraggiamento Diffusione del suono Il movimento del suono Il fenomeno sonoro Ascolto ridotto Sensi spaziali interni al fenomeno sonoro La pietra nel pozzo Voci profonde Alta fedeltà Opera ed evento Lo spazio può essere considerato come parametro della musica? Fantasie spaziali La foresta e i suoi canti |53| V Discussione intorno all'idea di "spazio uditivo" Specificità dell'esperienza dello spazio attraverso l'udito secondo Zuckerkandl L'idea di uno spazio uditivo specifico e il problema |73| 11 del contributo dell'udito all'esperienza della spazialità Guardando il cielo sdraiati sul dorso Spazio visivo e spazio uditivo La questione della localizzazione del suono L'esperienza dello spazio come esperienza di una totalità indivisa Ordine tra i suoni e ordine spaziale Lo spazio come ordine di giustapposizione e come ordine di interpenetrazione Una strana domanda di Mach Qualità dinamiche e spazialità del suono VI Spazio sonoro Uso traslato del termine di "spazio" Spazio sonoro come immagine che inclina verso un concetto Totalità e relazione Nota, intervallo e flusso Suoni glissanti |82| VII Flussi sonori Il flusso sonoro come nuova unità sonora Ritenzione e ricordo fresco Esempi di flussi sonori Sovrapposizioni tra suoni "fermi" e flussi sonori Lo spazio sonoro come flusso Continuità fenomenologica e tema della totalità |92| VIII Consonanza e dissonanza |106| Consonanza e dissonanza come caratteri dello spazio sonoro 12 La curvatura consonantica-dissonantica dello spazio sonoro Il centro dello spazio sonoro IX La nozione di sensibile |116| La tensione della "sensibile" verso la "tonica" Sensibile e spazio sonoro Esempio di "sensibile" all'interno dell'esposizione di un raga X Considerazioni sul tritono |121| Il tritono come intervallo e come centro dello spazio sonoro Dissonanza o consonanza? Esempi a confronto Tritono e sensibile XI Intorno ai rapporti tra la musica e il tempo |128| In che senso vi è una relazione intrinseca tra musica e tempo? Confronti tra percezione dello spazio e percezione del tempo Il tempo non è mai un "dato immediato" Soggettività e tempo Intemporalità della musica La musica e le immagini della temporalità Esempi di immagini della temporalità L'immagine della temporalità in Bach Il rapporto passato futuro nella forma-sonata Congelamento del tempo 13 Modulazione metrica XII Valutazione estetica |141| L'esperienza estetica come esperienza composita Distinzioni non troppo difficili da fare Vari sensi della parola "giudicare" Confronto con il giudizio morale L'esigenza di formulare giudizi estetici è rivolta contro gli interessi dell'arte Valutazione e comprensione Raccattare criteri estetici dalla storia XIII Psicologismi Ti propongo un brano e tu scriverai un aggettivo Ti propongo un brano e tu farai un disegno Per favore, fischiettami un dipinto Un volto irato Esperimenti psicologici e filosofemi Acculturazione |149| XIV Comprendere Distanza e comprensione Un'incomprensione necessaria |155| XV Relativismi Consonanza/dissonanza Suoni/rumori |157| 14 XVI Senso e valore immaginativo nella musica |159| Difficoltà del problema semantico nella musica? Formalismo La musica esprime sentimenti? L'urlo di Azucena Le indicazioni espressive Il sentimento senza soggetto XVII Descrizioni Un alterco tra ottoni Il volo della cicogna Titoli |168| XVIII Melodia Idea del melos Cominciare a discutere della questione della melodia Melodia e movimento Melodia e monotonia Melodia e articolazione Peso, importanza, significato Amelodicità dei flussi sonori Il passo e il salto Hindemith: Il percorso di seconde Scala e melodia Melodia e partizione dell'ottava Linea/superficie - figura/sfondo Ambientazione |171| 15 Un paesaggio per il canto Esempi di ambientazioni Armonia tonale e melodia XIX Musica e linguaggio Modi diversi di impiegare il termine di linguaggio in rapporto alla musica Linguaggi verbali e non verbali Analogie e paragoni Impiego della metafora e delle immagini Comunicazione Codice Una critica di Xenakis Leggere la partitura |190| XX Assiomi |203| Il metodo assiomatico come modello per la musica La "metamusica" secondo Xenakis XXI Teatralizzazione della musica Musica dal vivo I divertimenti di Kagel |207| XXII Sulla musica novecentesca |211| Alcune premesse 16 Si sono prese altre decisioni Domande sulla musica del novecento L'atteggiamento verso il passato L'altra musica Ovvietà storicistiche: non c'è pianta senza seme La fontana della giovinezza XXIII Le diverse vie di sviluppo della musica nel novecento Crisi della tonalità Crisi interna e crisi esterna La cosiddetta "logica interna" dello sviluppo Il grande continuatore Ciò che Eisler diceva di Schönberg Il naturalismo in Webern Orientamenti di sviluppo nel processo di trasformazione della musica novecentesca Klangfarbenmelodie Timbro ed espressione nella musica novecentesca Il timbro contro la melodia Nuova importanza conferita agli strumenti percussivi Ricerca di nuove sonorità, impiego del "rumore" e interesse per la sintesi del suono Voltare pagina Modalità La riscoperta del melos nella musica novecentesca Passato e presente |223| XXIV L'orientamento verso il timbro Edgar Varèse Nuove sonorità Potenza del suono |242| 17 Un'arte che prende allo stomaco Elogio del macchinismo Contro la melodia Pierre Schaeffer Musicista o ricercatore? Il disco che si inceppa Dimensione planetaria della musica L'esigenza di un nuovo "solfeggio" "Come ho sperperato la mia vita" Oggetto sonoro e oggetto musicale Fenomenologia in Schaeffer L'ascolto ridotto La tenda di Pitagora Ascolto ridotto e riduzione fenomenologica Contesto, motivazioni e conseguenze del tema dell'ascolto ridotto Morfologia e tipologia degli oggetti sonori Limiti della consueta trattazione del timbro Necessità di un nuovo modo di approccio alla tematica del timbro Forma del transitorio d'attacco e timbro La classificazione degli oggetti sonori e il modello linguistico Ebbene sì, si tratta di una porta François-Bernard Mâche Gestalten sonore L'idea di modello sonoro Dalla natura alla natura Musica e immaginazione Naturalismi La zoomusicologia Il canto degli uccelli Ipotesi estetica sugli uccelli canori La musica e il gioco 18 John Cage L'impulso di Schönberg Servo dell'imperialismo Il pianoforte preparato Ritmo Rumore Accadimento e opera Onnipresenza del suono Pienezza e vuotezza Tema del silenzio Sentimenti Un sistema fondato negli intervalli di tempo Ritmo: suono e silenzio Caso L'effimero nella musica L'uomo che sta in piedi sulla collina Forse la musica è qualcosa di sublime? Milano, 2 dicembre 1977, Teatro Lirico XXV Annotazioni sulla dodecafonia Dissonanze Il patrimonio simbolico della dissonanza Dodecafonia e tonalità Unità e ripetizione Idea della serie Totale cromatico Intervallo e numero dei semitoni La serie illustrata attraverso un esempio Comprensibilità Spazio musicale in Schönberg Melodia nella dodecafonia Ripetizione Trasposizione della serie dodecafonica e modulazione Tutto non è permesso |294| 19 XXVI Ritmo |326| Destreggiarsi tra i nomi Il modello del movimento Il ritmo e il volo Ritmo e prosodia Arsi e tesi Arsi/tesi e battere/levare Il colpo Ritmo e ripetizione Il ritmo e la danza del tempo Scandire il tempo Libertà nel ritmo Metronomi Il levare sottinteso La ritmica africana e la posizione di Simha Aron Lo schema di Arom semplificato La critica di Arom della distinzione tra tempi deboli e tempi forti Scansione di base e la distinzione tra tempo debole e forte Il caso dell'off beat Accenti metrici e accenti intensivi Ritmi additivi e divisivi Fraseggio Sull'impiego delle parole ritmo e metro La confusione tra ritmo e forma Ritmo e forma nella teoria di Rudzinski Tutta la musica è ritmo? Ritmo e forma secondo Sachs 20 XXVII La musica disumana Considerazioni sul termine "musica elettronica" Musica umana? Musica disumana? Il ritorno agli strumenti della tradizione L'anima degli strumenti e degli strumentisti La sovrabbondanza dei suoni La dimensione dell'ascolto Fare musica Vecchie utopie Che cosa posso fare con i suoni? |371| Elenco dei testi citati |405| Le ci­ta­zioni sono indicate con il nome del­l'autore e l'anno di pub­blicazione del volume il cui titolo può essere individuato nell'Elenco dei testi citati. Qualora si citi una traduzione italiana, l'anno di pubblicazione è sempre quello della traduzione. 21 Avvertenza Queste note sono state scritte prima e dopo la pubblicazione del­la mia Filosofia della musica (1991). Esse sono tratte da appunti di varia natura, citazioni, frammenti di lezioni universitarie, annotazioni di lettura, spun­ti di discussione, materiali didattici, ecc. Nel rivedere questo materiale mi è sembrato interessante rimettere in esso un po' di ordine, suddividendolo in sezioni e raggruppando le annotazioni subordinate sotto titoletti orientativi, approfittando di questa occasione per operare riscritture, ripensamenti ed approfondimenti. In realtà, le "annotazioni al margine" da un lato consentono una scioltezza e libertà di pensiero che non sono possibili alle esposizioni sistematiche, e sono anche un invito al lettore ad una riflessione altrettanto libera ed autonoma. Ma debbo aggiungere che nel corso della revisione ho operato ampliamenti e, io spero, miglioramenti relativamente ad argomenti trattati negli altri miei scritti di carattere filosofico- musicale. A questo proposito desidero segnalare soprattutto la tematica dei flussi sonori, della consonanza e dissonanza e la trattazione della problema del ritmo. Ma il lettore si renderà conto che, attraverso una trama di idee più ordinatamente esposta altrove, si sono aggiunti molti "barlumi" su cui altri potranno portare piena luce o mettere in aperta discussione. Questo libro è stato pensato e realizzato anzitutto come opera multimediale e quindi è stato pubblicato anzitutto in formato digitale (PDF). In questa edizione a stampa sono ovviamente assenti sia i filmati che i files sonori che arricchiscono l'edizione digitale. Tuttavia essi non erano essenziali alla comprensione del testo e sono stati eliminati senza danno, anche se con qualche mio personale rincrescimento. Ma non si può volere tutto. E in ogni caso la versione digitale resta a disposizione del lettore nel mio archivio internet. 22 23 I Filosofia della musica Che cosa dovrebbe essere una filosofia della musica - Una filosofia della musica dovrebbe aspirare ad essere anche un'introduzione alla musica. - Una filosofia dell'arte, e in particolare una filosofia della musica è una sorta di riflessione preparatoria che ci deve stimolare, di fronte ad un prodotto musicale, ad entrare nel merito: o anche soltanto ad essere tentati di farlo. - In una prefazione ad una filosofia della musica si potrebbe scrivere così: "Il compito di questo libro potrà ritenersi raggiunto se tu, o lettore, al suo termine, ti sentirai tentato di entrare nel merito di un'opera musicale. Se vorrai sapere altre cose oltre quelle che sapevi già o che in qualche modo hai potuto apprendere di qui. E se sarai tentato ad ascoltare tipi di musiche che non fanno parte del tuo orizzonte culturale e delle tue abitudini di ascolto, oppure se ti sembrerà di dover riascoltare brani musicali che già ben conosci con nuovi interrogativi". - Ed anche: "Chiunque sia addentro alle cose della musica dovrebbe porsi i problemi che sono trattati in questo libro, mentre spesso di fronte ad essi si passa oltre senza darsi pensiero". - Pensare non significa affatto gettare un pensiero qui e un altro là. Un pensiero soltanto non è nemmeno un pensiero. Il pensiero deve essere, in un modo o nell'altro, organico. - Non è affatto il caso di guardare con sospetto i "sistemi filosofici" del passato proprio perché essi non erano altro che modi, spesso mirabili, di realizzare quell'esigenza sistematica che fa 24 parte del pensiero stesso. D'altra parte, scoprirai prima o poi che ogni sistema, considerato da vicino si frantuma in una infinità di problemi di dettaglio, e che autori che vengono lodati per la libertà intrinseca che sarebbe concessa da uno stile frammentario, nei mille e mille pensieri che propongono, hanno alcuni pochi pensieri fondamentali che formano i centri intorno a cui gravitano tutti gli altri. - Una filosofia della musica, come io la intendo, è tale quando trae il suo orientamento da presupposti filosofici di ordine generale. Ma ciò a cui penso non è affatto una deduzione da principi filosofici, e tanto meno l'indivi­duazione di un luogo che la musica dovrebbe occupare all'interno di un sistema filosofico. (In Schopenhauer accade invece che il problema principale sia quello di individuare il senso profondo della musica nel quadro del sistema. La sua è propriamente una "metafisica della musica", come egli stesso si esprime). Insofferenze - La dizione di filosofia della musica talvolta suscita un'insof­ferenza simile a quella che potremmo provare nei confronti di chi, mentre svolgiamo una certa attività, ci osservasse da dietro le spalle e si apprestasse a discorrere con altri prendendo come tema ed argomento la nostra stessa attività. - "Bando alle chiacchiere!... E bada piuttosto a non stonare". - Anzitutto bisogna imparare il mestiere. Ma qui ci troviamo di fronte ad un "mestiere" che ha implicazioni culturali di grande portata (come naturalmente tutti i mestieri artistici) - ed anche senza ricadere in enfasi inopportune, queste implicazioni vanno riconosciute e debbono trovare modo di svilupparsi e di crescere dentro le pratiche strumentali. È invece ancora diffusa l'idea che 25 la musica possa benissimo tollerare di starsene a parte rispetto ai grandi dibattiti di ordine culturale: cosa che non è tanto un'opi­ nio­ne più o meno vera, quanto piuttosto una circostanza storicamente falsa. - Taluni potrebbero richiamare l'attenzione sull'immediatezza espressiva della musica, e si chiede allora: che bisogno c'è della filosofia? Di essa si sente il bisogno nel caso di oscurità che deb­bono essere chiarite, di grovigli concettuali che debbono essere pazientemente disannodati. Non si rischia allora, inserendo anche soltanto un atteggiamento "filosofico", proprio di turbare quella immediatezza - in qualche modo di "in­quinare" la naturalezza e la spontaneità dell'e­spressione musicale? Altri potrebbero invece far notare la densità dei suoi sfondi teorici, gli aspetti razionali e intellettuali, la presenza di una tecnica costruttiva estremamente elaborata e profondamente teorizzata. An­che in questo caso, tuttavia, il sospetto non verrebbe affatto meno. Proprio perché la musica ha la propria teoria, proprio perché vi è una tecnica fortemente spe­cializzata e nello stesso tempo una concettualità autonoma e indipendente che viene attestata da una terminologia speciale, la filosofia, che è avvezza invece alle gran­di generalizzazioni, ed è anche, a quanto sembra, poco incline a trattare que­stioni di ordine tecnico, non sarebbe par­ti­colarmente ad­atta ad intervenire in questo campo. - Cosicché la dizione di Filosofia della musica diventa il nome di una disciplina fantasma rispetto a quelle discipline autentiche che avrebbero, a differenza della filosofia, procedure e me­todi chiaramente specificati o specificabili. Si tratta di una vecchia storia, che non coinvolge solo la filosofia della musica, ma le riflessioni filosofiche in genere e i loro rapporti con le di­scipline speciali. Anzi, si tratta di una storia così vecchia che forse non vale nemmeno la pena di occuparsene o preoccuparsene. 26 Necessità di una riflessione epistemologica - Mentre la teoria musicale, considerata alla superficie, appare assai solida e precisa, essa in realtà oscilla tra storia e pratica, tra concetti sorti per così dire nel fuoco della produzione artistica e concetti che sono invece stati elaborati a tavolino, sul piano dell'analisi e della riflessione teorica. La stessa terminologia musicale è un misto di teoria, di esperienza e di convenzione. Sembra poi mancare del tutto una riflessione epistemologica, una riflessione cioè che si interroghi sulla portata dei concetti e delle relazioni fondamentali, sulla tenuta concettua­le delle nozioni impiegate in sede analitica e in tutti i problemi che sorgono dal rapporto tra teoria ed esperienza musicale. La teoria della musica ha bisogno di una riflessione epistemologica, richiesta che ha naturalmente tanto più senso quanto più si impiega l'espressione di "teoria della musica" in un'accezione abbastanza forte. Se si riduce la teoria musicale ad una sorta di normativa strettamente subordinata all'attività esecutiva e compositiva che assume una maschera teorica, allora l'istanza di una riflessione epistemologica si attenua fino al pun­to di non essere nemmeno percepita. - Fin dall'inizio della sua storia, la musica è compenetrata da una fortissima tensione teorica. Attraverso le tecniche del comporre e dell'eseguire si è sempre fatta avanti una necessità del teorizzare che forse non ha eguali in nessuna altra arte. Si tratta di un teorizzare che in parte affonda nella pratica musicale, in parte si separa da essa, e ad essa nuovamente fa ritorno in un'interazione continua e feconda. Isolare la teoria della musica dalla filosofia, riportarla ad una pura tecnica dell'arte, è contrario anzitutto al modo in cui la musica stessa si è sviluppata lungo tutta la sua storia. 27 La certezza nella musica e nella filosofia - Sia nell'insegnamento pratico, che in quello teorico, nelle dinamiche della "trasmissione del sapere", vi è una sorta di tacito e permanente richiamo alla certezza, che ha del resto una sua parte di ovvietà. Chi studia la matematica non potrà permettersi di sollevare dubbi ad ogni passo, ma deve acquisire una buona tecnica ed essere sostenuto dalla convinzione che le conoscenze acquisite sono molto solide. E così anche chi studia la musica: nella musica c'è molta pratica, c'è molta teoria. Potremmo persino affermare che vi è un enorme bagaglio di cer­tezze che deve in certo senso trapassare nella pratica di uno strumento. "Possedere" uno strumento significa possedere del­le formidabili certezze: il violinista deve essere certo che non sbaglierà in nessun modo passando di salto ad una nota, lassù in alto sul cantino. Il minimo dubbio, la minima inquietudine potrebbe essere fatale. L'apprendimento di uno strumento è un apprendimento alla certezza più di qualsiasi altra cosa. Analogamente per gli aspetti teorici: nonostante il fatto che su questo terreno i dogmatismi teorici si siano attenuati, una sorta di ostinazione dogmatica rimane sullo sfondo ancora presente ed immutata. Ciò che si è una volta imparato su un manuale di armonia e di contrappunto non lo si mette più in discussione. Da questo punto di vista un filosofo potrebbe essere condannato a non essere un buon musicista! In realtà nessun discorso filosofico può aprirsi se questa barriera di certezze non viene anzitutto abbattuta - se non si riesce a vedere con occhi diversi e più problematici circostanze che fanno parte del nostro normale bagaglio di cognizioni acquisite. 28 Un enigmatico sogno di Socrate - Socrate, il padre di tutti i filosofi, il grande e sottile ragionatore, il dialogatore instancabile, talvolta anche sognava, ed un sogno ricorrente che Platone narra nel Fedone riguarda pro­prio la musica. In sogno Socrate ode una voce che gli dice: "O Socrate, componi ed esercita la musica". Sogno singolare, difficile da intendere: forse si incita Socrate a fare quello che egli non fa, oppure quella voce lo incita come si incitano i corridori in corsa, a fare quello che già fanno, essendo la filosofia musica essa stessa in quanto "la più alta espressione di armonia"? Questa è la prima interpretazione di Socrate stesso. Ma poi è la differenza a venire messa in risalto. Qui c'è argomentazione e deduzione logica, là soprattutto capacità di immaginare - come nella poesia che forma con la musica un'unità inscindibile: "Dopo il giudizio, poiché la cerimonia in onore del dio aveva rimandato l'esecuzione della sentenza, pensai se il sogno non avesse voluto intendere che io avrei dovuto dedicarmi alla composizione di vera e propria musica e se, dunque, non fosse stato il caso di obbedire al sogno e, prima di andarmene, mettermi in pace con la coscienza componendo versi e rispettando il suggerimento. Fu così che feci, per prima, una poesia per il dio di cui si celebrava la festa, poi, pensando che un poeta, per essere veramente tale, deve scrivere per immagini e non per deduzioni logiche ed io non essendone capace, decisi di prendere spunto da quelle favole di Esopo che ricordavo a memoria, così come mi venivano in mente". 29 II Essenza della musica Complessità della musica - Non: la musica è…; ma: la musica c'è. Perciò non voglio decidere nulla intorno all'essenza. Quando dico: la musica c'è, intendo dire: la musica è un grande e complesso momento della cultura degli uomini. Oppure: dalla musica che ascolto traluce quella complessità che appartiene alla sua essenza. - Tuttavia ciò non significa per nulla che proprio tutto possa essere musica (ciò lo si sostiene talvolta per il sacro orrore verso le determinazioni a priori). Una sequenza qualunque di parole registrate costituiscono un'opera musicale? Nattiez rispon­de: sì! "se la registrazione è stata effettuata da una persona conosciuta come compositore" (Nattiez, p. 109). "Ma almeno il suono rientrerà in qualche definizione della musica?" - Ancora Nattiez: dipende, non è detto. Quale grande apertura mentale! Ad una determinazione definitoria che rischia di avere un'applicazione normativa e valutativa su ciò che musica è o non è si contrappone la dispersa molteplicità dei fatti. E siamo disposti a tutto. Ad esempio: un tale ben conosciuto come compositore dipinge un quadro e lo porta in concerto. Ecco la mia opera musicale. Poiché egli è un compositore dob­biamo senz'altro credergli. E commentare così: ora i confini della musica si sono allargati. - Invece: o quel tale non sa quello che dice, oppure ha qualche sua nascosta ragione per comportarsi così, ed è questa ragione che dovremmo forse sforzarci di capire. - Il dato di fatto in sé non insegna nulla. - "Appartiene all'essenza del materiale sonoro…". In certi casi 30 ci si può esprimere certamente così. Ad esempio: con i suoni non puoi raffigurare un volto o un paesaggio. Ciò ripugna all'essenza della musica, mentre è proprio dell'essenza della pit­tura (anche se gli uomini non avessero mai fatto impiego di questa possibilità). - Intorno all'"unità dello spirito", siamo pronti in un momento qualunque, e, su richiesta, a farne l'apologia. Cominciando dai materiali si impara subito a distinguere. Pensa a come sono diversi questi atteggiamenti: la soddisfazione, il piacere di tagliare il metallo, a anche soltanto il pensiero di poterlo tagliare, torcere, piegare, modellare. Urto con la materia e suo dominio. Oppure il fascino di significare attraverso la parola, l'attrazione esercitata dal suono, dal rapporto tra suono e significato, dall'accento, dal ritmo della frase. Definizione della musica - Il fatto che vi siano diversi modi di concepire la musica non significa che si tratti di una nozione colta per istrada. Quel che è certo che non debbo cercare una definizione della musica nello stesso modo in cui cercherei la definizione di "balena". - Tentare di dare una definizione della musica in senso forte talvolta è comunque utile perché essa può diventare oggetto di discussione e manifestare un determinato orientamento nei confronti della musica. - Chiedersi se una certa successione di eventi sonori debba essere classificata come musicale o no è come domandarsi se una successione qualsiasi di eventi abbia o meno caratteristiche di teatralità. Un tale bussa alla porta, io vado ad aprire, ed intanto inciampo in un tappeto... 31 - "La musica non ha un'essenza". - Ciò è falso. Ha un'essenza molteplice, e perciò io ti proporrò molte definizioni. Con molte definizioni ti farò notare la ricchezza della musica. - Se dico che qualcosa appartiene all'essenza, non significa che altre cose non possano appartenere ad essa. Ad esempio, appartiene all'essenza della musica un particolare rapporto con la corporeità - che si manifesta, ad esempio, nella danza (ma anche in moltissimi altri modi). E vi sono altri aspetti che ap­partengono all'es­senza della musica e che poco o nulla hanno a che vedere con la danza. Origine della musica - Il problema dell'origine "storica" della musica è certamente privo di senso. È invece ricco di senso immaginare o fantasticare sull'origine. - Ora sosterrò che la musica non ha affatto avuto origine dalla voce, ma dallo strumento: in una civiltà che in nessun modo sia pervenuta ai suoni "artificiali" - in una civiltà che non conosca strumenti musicali, la musica non è affatto possibile. Ed offro queste spiegazioni: la musica è un fare con i suoni. Ora, l'impiego della voce non è un fare con i suoni, proprio perché i suoni debbono essere concepiti come obbiettività che vengono variamente manipolate. Perciò si presuppone la possibilità di mettersi di fronte ai suoni, si presuppone la dimensione dell'ascolto. - Il parlare, il cantare, il gemere e l'urlare non sono un fare con i suoni in questo senso. Parlando non faccio qualcosa impiegando suoni. 32 - La musica comincia proprio dal fare esperimenti. Provo a vedere che cosa accade quando pizzico o sfrego una corda, percuoto un legno cavo, soffio in una canna forata... - Bisogna produrre suoni con artifici. Quando gemo o urlo di dolore non impiego nessun artificio. Dunque la musica non può avere origine dalla voce. In una civiltà senza strumenti il suono sarebbe forse soltanto "espressione"- nel senso della pura manifestazione soggettiva di uno stato. - Ma potremmo anche dire: la voce è il primo strumento, e sostenere allora che la musica ha origine dal "canto" - dalla voce. Ma in un senso niente affatto ovvio: la voce diventa strumento quando comincio ad ascoltarla, ed a metterla alla prova. Nel canto faccio del mio stesso corpo uno strumento, assimilandolo ad una cosa sonora; ed inversamente nell'impiego di uno strumento assimilo la cosa sonora ad un corpo vivente. Lo strumento con attributi che rimandano al corpo umano è uno dei tratti caratteristici dell'imma­ginazione mitica sotto ogni cielo, fa parte anche del vissuto dello strumento nella pratica strumentale. Specificità della musica - Quando si parla di specificità della musica, non si dovrebbe mai dimenticare che fa parte di questa specificità anche la capacità di integrarsi con la parola, di far corpo con la danza, di associarsi ad un dramma, ad uno spettacolo cinematografico, una cerimonia religiosa, un matrimonio, una festa, un'attività lavorativa, e così via. - In rapporto alla donna africana che pesta sementi in un mortaio intonando un canto al ritmo di un pestello, "la madre, in un'unica azione compie un lavoro domestico, canta, danza, accudisce e culla il bambino. Gli elementi unificanti di questo atto 33 polivalente sono il movimento del corpo e il riferimento ad una pulsazione, quella del pestello nel mortaio, sottomessa ad una logica di tipo musicale..." (Giannattasio, 1992, p. 222). - A chi insiste sul rapporto privilegiato tra musica e interiorità, rammentagli la socialità della musica, la musica nella festa, la danza… Ed anche il rapporto con la corporeità! - C'è un aspetto profondamente fisico-corporeo nell'e­spe­rien­za sonora. Il suono sta a fior di pelle. - Rouget, nel suo libro Musica e trance, esprime assai bene, in più punti, il rapporto con la corporeità: "Sulla tribuna di un organo in piena funzione, la musica invade il corpo intero; il mondo trema e tutta l'atmosfera risuona. 'Essere immersi nella musica' non è una semplice metafora; accade veramente che la si riceva fisicamente… Ma non è solo l'apparato sensoriale esterno ad entrare in gioco… anche quello interno, fungendo da canale di trasmissione viene sollecitato dalla musica… impatto fisico peraltro deliberatamente ricercato dalla musica pop, grazie all'uso di amplificatori, ottiene effetti di eccezionale violenza sonora… Tale potenza coinvolge direttamente il corpo, creando una partecipazione che molti non raggiungono neppure durante l'atto sessuale… Le sonorità del basso elettrico provocano nell'addome vibrazioni localizzabili in zone erogene interne… la ripetitività delle melodie e i ronzii causano istantaneamente un leggero stato ipnotico…" (1986, p. 166). "Anche sotto il suo aspetto più immateriale, come nel caso del suono totalmente isolato dalla sua fonte, la musica viene sentita come movimento che si realizza nello spazio. Evidentemente lo è molto di più allorché la si esegue durante la danza o per la danza… La coscienza del corpo viene perciò completamente trasformata. In quanto incitamento alla danza, la musica si rivela pertanto capace di modificare profondamente il rapporto dell'io con se stesso, in altri termini, la 34 struttura della coscienza" (p. 167). Fascino della musica - Perché il fascino della musica dovrebbe avere un'origine diversa da quello che ci offre lo spettacolo di un cielo di nubi che corrono con il vento, di un mare calmo o tempestoso - o anche soltanto dell'infinità di puntini luminosi di una volta stellata? - Chi pone la domanda: "donde viene il fascino della musica?" dovrebbe precisare che cosa esattamente vuol sapere. Il piacere della musica - La polemica contro l'"orientalismo" e l'"esotismo" rappresenta la forma novecentesca dell'eurocentrismo, per quanto si possa mascherare di moralismi e persino di difesa della genuinità delle culture non europee, che verrebbero deturpate da interventi "colo­nialistici". - La parola "esotismo" è stata spesso buttata in faccia a chi come Boulez e Cage avevano un interesse autentico verso le culture non europee. Anche Messiaen è stato ridicolizzato per i suoi interessi verso la cultura indiana. Ogni approccio ad un'altra cultura musicale si espone sempre al rischio di essere accusato di inautenticità. Sarebbe interessante indagare l'o­rigine, il senso e i presupposti di questa pretesa "categoria critica". - Ma vi è anche dell'altro. Così Nono, nel 1959, bolla "gli orientalismi di cui si serve una certa cultura occidentale per rendere più attraente la propria esteticistica elaborazione del materiale" (Nono, 1960, p. 6). In modo molto esplicito in questa frase la critica dell'esotismo si ricollega ad una sorta di dogma che venne fatto proprio da certa avanguardia di allora, che potrebbe essere 35 formulato semplicemente così: Anzitutto la musica non deve piacere. La musica non deve essere attraente. Guai al " frivolo intrattenimento per l'io che si sollazza regalmente" (ivi). La parola "sollazzo" esprime molto bene un piacere profondamente disprezzato. C'è voluto molto tempo, e forse addirittura un cambio generazionale, per liberarsi di tutto ciò. Anzi, forse nemmeno questo è bastato. Persino Fausto Romitelli dice ancora nell'anno 2000: "Certo non esistono più i dogmi di adorniana memoria, ma credo di detestare una musica che si fondi solo sul piacere dell'ascolto. L'edo­nismo appartiene certamente al musicale, ma io diffido di una macdonaldinazzazione dell'ascolto" (Romitelli, 2000, p. 87). Evidentemente esistono ancora i dogmi di adorniana memoria... La musicalità dei suoni - Ho letto da qualche parte il termine di "suoni musicali" per indicare unicamente suoni che hanno un'altezza ben definita. Ma l'altezza non è una proprietà musicale appiccicata ai suoni. Nello stesso testo si cita come suono non musicale il suono che, ad esempio, posso ottenere con le nocche delle dita sul tavolo, cioè un suono percussivo. Quali confusioni! - I suoni da cui siamo circondati nella vita quotidiana, quando risuonano nei contesti consueti, non appartengono alla musica. È il contesto che decide. Ed in rapporto al contesto essi generano le nostre risposte comportamentali. Un suono di clacson ci fa rapidamente arretrare di un passo sul marciapiede mentre ci accingiamo ad attraversare la strada. Il suono è qui integrato in una rete di intenzioni, di interessi, di sensi che sono estranei ad un fatto musicale. La stessa cosa si può dire se l'interesse dominante è quello conoscitivo, quando ad esempio in un laboratorio di acustica si analizzano suoni, si individuano tipologie, si descrivono caratteristiche, producen­do di continuo eventi sonori che non sono tuttavia appartenenti alla musica, proprio perché 36 l'interesse dominante è qui un interesse conoscitivo. - Talora siamo tentati di giocare con i suoni. Ad esempio potrei schiacciare tre tasti insieme del pianoforte: voglio soltanto sapere quale effetto ne risulta? Comincia ad esservi musica quan­­do la conoscenza dei suoni e il gioco con i suoni si incontrano con un intento espressivo. I suoni e il mondo - Ora io odo un suono e posso dunque anche dire: un suono c'è. Ma questo esserci ha certamente qualcosa di particolare. - Confronta le allucinazioni visive con quelle uditive. Vedo una cosa. Io stesso potrei verificare che si tratta di un'al­lu­ci­nazione tentando ad esempio di afferrarla. Che senso potrebbe avere il dire: odo un suono, ma si tratta di un'allu­cina­zione? Ma come faccio a sapere io che il suono che ora odo è un'allucinazione? - È singolare il fatto che io stesso non potrei prendere atto di un'allucinazione uditiva se non argomentativamente o attraverso un riferimento di tipo argomentativo ad una relazione causale: Ho udito una voce. Qui non c'è nessuno; dunque ho soltanto creduto di aver udito una voce. Ma si tratta di una conclusione giusta? - Quando percepisco un "movimento sonoro" non percepisco né un movimento vero né un movimento falso. - I suoni non sono pezzi del mondo, mentre lo sono le cose. Esse sono i pezzi di cui è fatta la realtà stessa: nello stesso senso in cui si parla dei pezzi di un puzzle. Nel pezzo di un puzzle è già data la relazione ad altri pezzi ed al puzzle stesso come totalità. L'intero puzzle c'è prima dei suoi pezzi e per questo non ci pos- 37 sono essere cose prima del mondo. Le cose non pos­­sono essere all'origine del mondo perché presuppongono il mondo stesso. - Nell'immaginazione mitica la non-appartenenza dei suoni al mondo assume il carattere di un peculiare rapporto con il mondo stesso. Come se la cosa fosse opera di un consolidamento e il suono fosse ciò che viene consolidato. Agisce una sorta di ragionamento bastardo che gioca sull'opposizione: ciò che è indipendente dal mondo è anche ciò che c'è prima di esso ed è infine origine e sostanza ultima del mondo stesso. Le radici unitarie della musica - Noi cerchiamo di aprirci una strada verso una considerazione della musica come un fenomeno complesso e complessamente articolato, come un fenomeno fortemente differenzia­to nel suo interno, ma che ha in ogni caso delle radici unitarie. La posizione che vorremmo sostenere è più articolata di quella di una posizione oggettivistico-natu­ralistica, e non vuole nemmeno essere una posizione di mediazione. - Talvolta si cerca di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte senza sapere esattamente dove si trova il cerchio e dove la botte. - Forse più che in ogni altra arte, il pensiero si esprime nella musica come riflessione sulla tecnica di impiego dei materiali. Ma come in ogni arte, non vi sarebbe pensiero musicale se non vi fossero altri pensieri; ed intenti comunicativi ed espressivi, entusiasmi, immaginazioni, desideri, emozioni, modi di concepire il mondo, la vita, i rapporti tra gli esseri umani… e quant'altre cose ancora! 38 La musica come "universale" del comportamento umano - Mentre una volta in ambito etnomusicologico, dopo le critiche al comparativismo, si insisteva soprattutto sulla molteplicità dei sistemi musicali e sulla loro inconfrontabilità, ormai da qualche tempo a questa parte, pur continuando a sottolineare questa molteplicità, l'accento non cade affatto su di essa, ma sul reperimento di aspetti comuni nelle realtà musicali di fatto: a cominciare dalla comunanza dell'esperienza musicale di cui nessuna società è priva. Torna dunque in auge il parlare del concetto di musica. La presenza di questo termine così impegnativo come titolo del libro di Francesco Giannattasio, Il concetto di musica (1992), è un sintomo assai interessante di questa nuova situazione. La musica - si dice - costituisce un "universale" del comportamento umano, come il linguaggio e l'orga­nizzazione sociale nel senso che la "ri­voluzione antropologica" ha permesso di "constatare che non esistono società, per quanto ristrette e isolate possano essere, prive di una qualche forma espressiva musicale". Si pongono quindi "esigenze di generalizzazione" che qualificherebbe l'e­tno­­musicologia come uno studio eminentemente "trans­cul­ turale" (p. 21). - L'attacco di Giannattasio è assai deciso e, a mio avviso, par­ ticolarmente interessante. "La ricerca etnomusicale, mettendo a confronto forme e comportamenti musicali delle diverse società e culture, ha posto di fatto al centro della questione il concetto stesso di musica"; ponendosi l'obbiettivo ambizioso "di rispondere al quesito 'cos'è la musica'". Ed ancora: "È proprio questa esigenza di identificare leggi generali che divarica i metodi e i modelli di analisi dell'etno­musi­cologia da quelli delle discipline storiche (tra cui va collocata anche la tradizionale musicologia) accomunandoli invece a quelli delle cosiddette 'scienze nomotetiche'..."(p. 24). 39 Dubbi sulla riduzione del concetto di musica ad una questione sociologica - "La vocazione comparativa resta a tutt'oggi un tratto fondamentale della ricerca etnomusicologica"(p. 23). In realtà non è sempre stato così, è bene non dimenticarlo. La vicenda è sem­ pre stata molto controversa, e del resto una simile "vo­cazio­ne" non è troppo facile da giustificare. A questo scopo non so se sia sufficiente limitarsi a prendere atto del fatto che, come si è ampiamente potuto constatare, non si è ancora trovata una società priva di esperienza musicale. A ben pensarci per realizzare una simile constatazione si deve probabilmente essere in possesso di qualche criterio (niente affatto induttivo) che in qualche modo ci consenta di circoscrivere che cosa si debba intendere con espressione musicale e con esperienza musicale. - Ma vi è un altro aspetto in realtà particolarmente ricco di implicazioni e che è in certo modo immanente allo stesso pun­­to di vista prescelto. Il concetto di musica assume necessariamente connotazioni sociologiche nel senso lato del termine, e questo è del tutto naturale se ci troviamo sul terreno della ricerca antropologica. Tuttavia talvolta si avanza o si sottintende la pretesa che questo modo di approccio sia l'unico realmente giustificato, mentre mi sembra sia giusto pensare che la considerazione della musica come un fenomeno socialmente integrato sia soltanto uno dei diversi modi possibili di affrontare il problema. In taluni casi è assolutamente indispensabile fare riferimento ad un simile approccio, mentre troverei discutibile la pretesa che esso sia da considerare come l'autentico e definitivo punto di approdo del problema della determinazione del concetto di musica. Volenti o nolenti ci tro­veremmo di fronte ad un punto di vista riduzionistico. Potrei considerare i Concerti Brandeburghesi tenendo conto dell'am­biente in cui vennero composti, del modo in cui venivano di fatto fruiti, e dell'eventualità di una motivazione sociale della 40 loro origine: ma essi non possono essere ridotti a questi fattori di contesto socio-ambientale. Ciò vale anche per una semplice ninna nanna o una danza africana. Che nella musica "etnica" il riferimento sociale si imponga con particolare forza non cambia i termini del problema. - Ora l'etnomusicologia scopre che la musica è un "uni­ver­sale" del comportamento umano. Ma lo scopre secondo i classici luoghi comuni dell'empirismo filosofico: prima di questa scoperta, non lo si sapeva; o meglio: prima lo si sapeva, lo si è in realtà sempre saputo, solo che non era possibile ritenerlo fondatamente. Il fondamento starebbe nel dato di fatto - peraltro formulato in termini negativi: fino ad adesso non è mai accaduto… (ma il futuro è sempre incerto). Il punto fondamentale resta quello di evitare le speculazioni filosofiche, che sono sempre foriere di apriorismi notoriamente dannosissimi al pensare corretto. - "La musica di una determinata cultura è l'insieme delle forme e dei comportamenti che quella cultura ritiene siano di ordine musicale" (Giannattasio,1992, p. 90). Giusto. L'unico problema che mi sembra di intravedere è: come faccio a sapere io quali comportamenti una certa cultura ritenga siano di ordine musicale? Lo debbo chiedere a loro? E come faccio ad essere sicuro che essi comprendano la mia domanda? Ancor prima: come faccio a formulare la domanda se io ho una determinata idea della musica e non ho la minima idea di quale sia la loro? Il canto di un muezzin e Bruno Maderna - Che le forme come tali, cioè lo strutture sonore, non siano in grado di decidere nemmeno il quesito musica/non-musica si pensa di poterlo dimostrare con il seguente esperimento: un gruppo di studenti, udito il canto di un muezzin e il brano Continuo di Maderna, hanno dichiarato essere musicale il primo e 41 non il secondo. Ci sentiamo allora autorizzati a concludere che "la forma non è di per sé sufficiente a garantire la mu­sicalità di un evento sonoro, se non se ne conoscono anche i codici grammaticali e culturali che l'hanno determinata" (Giannattasio,1992, pp. 37-38). - Esperimenti come questi dimostrano sempre qualcosa, anche se non sempre è chiaro che cosa dimostrino (io sono tuttavia sicuro che essi dimostrino qualcosa almeno in rapporto agli studenti che si trovavano quel giorno nell'aula). In ogni caso occorre mettere in evidenza il fatto che, come sperimentatori empirici, da un lato abbiamo inevitabilmente delle attese che tuttavia rappresentano pregiudizi da neutralizzare, dal­l'altro dobbiamo essere disposti ad accettare qualunque tipo di reazione e di essa siamo tenuti a prendere atto. Il risultato tacitamente atteso - ovvero che " la forma non è di per sé sufficiente a garantire la musicalità di un evento sonoro" - , per nostra fortuna, in questo caso è stato confermato. Cosicché con quel preteso esperimento ci può sembrare di aver dimostrato qualcosa. Ma le risposte avrebbero potuto essere differenti: gli studenti avrebbero potuto in maggioranza stabilire che entrambi gli eventi sonori meritavano la qualifica della musicalità; e che dire poi di un mussulmano che affermi di trovare "musicale" il canto di un muezzin? Di queste svariate possibili risposte dobbiamo certamente prendere atto, ma forse dopo averne preso atto, sul loro senso converrebbe avviare una qualche discussione. - La lettura del volume di Giannattasio risulta molto istruttiva ed interessante sotto vari riguardi, e l'autore è ben consapevole di simili questioni di metodo a cui una filosofia della musica è interessata. In particolare egli afferma che per ottenere una definizione "a posteriori" di ciò che la musica è, bisogna stabilire "quali fenomeni, nelle varie società, debbano rientrare in tale definizione" (p. 89), e ciò non è cosa che possa riguardare 42 l'"induzione". Siamo di fronte, come si esprime l'autore, ad un "paradosso epistemologico". Si tratta di stabilire un criterio che anteceda i fatti - non necessariamente a priori in senso forte, ma un criterio "ragionevole". Io credo che il problema stia tutto fino a che punto intendiamo spingere questa "ragione­volezza". Se la tratteniamo troppo presso i fatti si finisce con il trovarsi, nonostante tutte le nostre buone intenzioni, impigliati in essi. Le funzioni della musica - Stando a Merrian (cfr. Giannattasio, 1992, p. 209) le funzio­ ni della musica sono esattamente dieci. Tra esse vi è anche il "potenziamento del conformismo e del rispetto delle norme sociali". Credo che ciò voglia dire: come antropologi abbiamo constatato che in moltissime società, forse nella maggior parte, la musica serve a potenziare il conformismo e il rispetto delle norme sociali. Non stiamo a discutere se ciò sia vero. Ci chie­ diamo piuttosto: anche una simile funzione, così attestata, fa parte del concetto di musica? Già il contenuto di affermazioni come queste è sospetto, ma prima ancora dovresti riflettere sul metodo che ti conduce ad esse. L'importanza dell'intervallo di ottava - A quanto ho appreso ci sono gli universali musicali e i quasi-universali. Così l'intervallo di ottava "può essere considerato un quasi-universale, in quanto corrisponde alla differenza del registro fra voce maschile e femminile" (Giannattasio, p. 129). Ecco il dato di fatto, il vero fondamento. L'in­tervallo di ottava è importante nella musica perché ci sono gli uomini e le donne (ciò mi sembra strano). Naturalmente quella differenza di registro fa sì che l'impiego di quel­l'in­tervallo sia quasi inevitabile nelle culture più diverse, e questo è un rilievo che in una dimensione di ricerca antropologica sta forse al posto giusto. In rapporto al concetto 43 di musica assai meno. Universali musicali e innatismo psico-fisiologico - Il tema degli "universali musicali", che può presentarsi come un tema "empiristico", cioè come riscontro empirico di costanze in ambienti culturalmente disomogenei, si può anche presentare, come accade nella cosiddetta teoria generativa della musica tonale, sotto l'influenza delle posizioni di Chomsky, come una sorta di innatismo psico-fisiologico. A dire il vero i due punti di vista non sono affatto eterogenei e sono anzi reciprocamente compatibili. Se scopriamo delle costanze di reazione all'interno di procedure di osservazione empirica potremo anche ipotizzare che alla base di esse vi siano gli stessi meccanismi psico-fisiologici. Un simile innatismo non ha proprio nulla di "kantiano" (come spesso si pretende parlando di Chomsky). - La questione degli universali musicali e quella di una grammatica musicale su di essi fondata è la forma distorta in cui si presenta il problema di una teoria della musica da un punto di vista generale. Il suo corollario inevitabile è una riduzione psicologistica o sociologistica. - L'uomo è "musicale"? Ebbene, io questa domanda non la capisco nemmeno. Come se mi si chiedesse: "L'uomo è religioso?". Oppure: "L'uomo ama il bello?" Non capisco proprio che cosa tu voglia sapere da me. 44 Fondamenti psicobiologici della musica - Ci sono molti libri che parlano dei fondamenti psicobiologici della musica, di ciò che accade nel nostro cervello mentre udiamo un brano musicale. Nessuno, invece, che io sappia, ha pensato di dedicare un libro ai fondamenti psicobiologici dell'architettura o che ci parli di che cosa succede nel nostro cervello quando guardiamo la bella facciata di un edificio o la fontana di Trevi. Mi piacerebbe che qualcuno me ne spiegasse chiaramente il perché. 45 III Regole Regole fenomenologiche - L'idea di una considerazione della musica da un punto di vista generale è strettamente legata a quella di regola fenomenologica. - Una regola fenomenologica è qualcosa di essenzialmente diverso da una regola "linguistica" anzitutto per il fatto che non vie­ne formulata relativamente ad un determinato linguaggio musicale. Tuttavia tra le regole di un linguaggio musicale e le regole fenomenologiche vi è una relazione, e questo per il sem­­­plice fatto che le prime non sorgono dal nulla ma da un gioco più o meno complesso con le seconde. Esse fanno delle regole fenomenologiche impieghi differenti, e questi impieghi hanno le loro motivazioni nella specificità del progetto espressivo e nell'orizzonte di pensieri, di idee, di prese di posizione che lo determinano. Regola e struttura - Regola e struttura sono nozioni correlative. Dove vi è una struttura, si possono cavare regole. Attraverso regole, si possono ottenere strutture. Nell'ambito musicale sono particolarmente importanti le strutture che si manifestano sul piano percettivo e dunque le regole fenomenologiche corrispondenti. Regole di stile e regole fenomenologiche - Forse la differenza e la relazione che sussiste tra regola fenomenologica e regola appartenente ad un determinato stile mu- 46 sicale può essere illustrato facendo riferimento alla cadenza. Con questo termine si intende una conclusione del brano o di una sezione di esso come una conclusione che si annuncia uditivamente. Il brano non cessa semplicemente, come una circostanza puramente temporale - un puro e semplice terminare nel tempo - ma si conclude: la conclusione giunge seguen­do un percorso che avvertiamo come terminato in quel punto. Naturalmente parlando di cadenza ci serviamo di un termine caratteristico del linguaggio tonale nel quale è implicato anche il riferimento ad una tipologia di modi cadenzali, che la teoria musicale ha classificato in modo molto preciso. Qui ci troviamo sul piano delle regole linguistiche. - Tuttavia per illustrare la differenza tra il cessare e il concludersi di un evento sonoro non è affatto obbligatorio fare riferimento alla tipologia dei modi cadenzali di tipo tonale, ed anzi nemmeno a fatti specificamente musicali. È sufficiente pensare ad andamenti caratteristici, anche molto semplici. Pen­siamo ad un fischio molto acuto che si tiene costantemen­te ad un'altezza e ad un'intensità fissa e, come caso alternativo, a qualcosa di simile ad una sirena di una fabbrica che descrive una sorta di arco sonoro prima crescendo sia in intensità che in altezza, poi decrescendo nell'una e nell'altra. Abbiamo qui due fenomeni sonori strutturalmente diversi e la diversità consiste nel fatto che il primo si manifesta come un suono "incessante". Ciò significa: esso si propone uditivamente come se non dovesse finire mai. Se ad un certo punto esso termina, questo terminare è del tutto imprevisto e imprevedibile, è dunque un terminare improvviso, un cessare. Nel secondo caso invece si tratta di una fine annunciata nel decorso percettivo. - Lo stesso si può dire di un suono qualunque più volte ripetuto intervallato da pause sempre più lunghe: "ral­lentando". In tal caso l'effetto della conclusione che si annun­cia è dovuto ad un rapporto puramente temporale. D'al­tro lato, un'ac­celerazione crescente, poiché procede verso un limite invalicabile, fa atten- 47 dere una conclusione "brusca", che non è però inattesa. - Inversamente vi sono andamenti caratteristici che attenuano un possibile effetto di conclusione. Se il decorso sonoro procede dal grave all'acuto una simile percezione è resa più difficile. Il suono acuto se ne sta, per così dire, appeso in alto, e dunque fornisce un'immagine uditiva di sospensione che tende ad "ostacolare" l'effetto di una chiusura annunciata e percepita. - Facendo riferimento a regole fenomenologiche è possibile rendere conto di aspetti di pratiche musicali particolari, e quin­di in certo senso di dare di esse una qualche giustificazione, dall'altro queste regole hanno carattere generale e non implicano nessuna pratica particolare. Tanto meno si può fondare su di esse una precettistica musicale. Gli scopi, i contesti, i progetti espressivi decidono in che modo vorrai fare uso di queste regole. - "Rendere conto" non esige che si esibisca qualcosa di simi­le ad un processo di deduzione logica o a fondamenti assoluti. Rendere conto significa, nelle nostre intenzioni, rendere ragione e nello stesso tempo rendersi conto. Si cercano delle ragioni, ed anzitutto quelle ragioni che possono trovarsi a portata di mano alla superficie fenomenologica. Necessità e convenzionalità delle regole - In rapporto al problema dei fondamenti delle regole compositive implicite o esplicite che stanno alla base delle varie possibilità espressive della musica, si evoca di solito la coppia oppositiva di necessità e convenzione come una sorta di grande alternativa dentro la quale esso si situa. Ma in realtà questa opposizione serve appena allo scopo di un primo orientamento. Se dovessimo affrontare la questione esigendo una risposta al si ed al no, l'intera tematica delle regole tenderebbe a sfocarsi, a diventare poco 48 interessante. Si tratta infatti di una opposizione troppo generica: essa dà un unico nome ad una problematica molto ampia e ricca di implicazioni talvolta di dettaglio, talaltra di amplissimo respiro teorico, filosofico e persino ideologico. - Dell'alternativa tra necessità e convenzione è facile venire a capo con qualche acconcia filosofia del giusto mezzo che è sempre facilissima da trovare. Tuttavia alle spalle di quell'al­ter­nativa, o in certo senso intessuta in essa, vi è una questione di particolare importanza: se si possano considerare le varie forme di espressione musicale da un punto di vista unitario - da un punto di vista cioè che abbia la generalità necessaria per cogliere nessi e relazioni fra la molteplicità dei linguaggi della musica; oppure se un simile punto di vista unitario sia in via di principio da escludersi. Regole e punto di vista storicizzante - C'è chi alla manualistica musicale corrente (di una volta) - che propone prescrizioni, norme, permessi e divieti - contrappone duramente un'esposizione storica, insegnando, in certo senso, la regola, ma relativizzandola ad un determinato stile. La storicità della regola è ormai da tempo un'ovvietà acquisita. Io oserei invece spezzare una lancia addirittura a favore di un intento normativo: non certo in quanto stabilisce norme da rispettare, quanto piuttosto perché ha il merito di effettuare il tentativo di una sistematizzazione teorica. Si potrebbe perciò prescindere interamente dal­l'elemento astrattamente prescrittivo, per apprezzare invece, in quel tentativo, la volontà di fornire un assetto che abbia una sua logica interna. Così penso che non sia affatto disprezzabile la ricerca di ragioni per le regole compositive - il tentare di render conto di esse, al di là del fatto indiscutibile che il loro impiego definisce un determinato stile. In fin dei conti nella nozione di regola è insita una certa ambiguità: in parte essa ri- 49 guarda il versante del "linguaggio", in parte il versante del "materiale". E può accadere che alla base di una regola caratteristica di un determinato stile si riesca a scorgere una regola che non ha peculiarmente a che fare con esso. - De la Motte nel suo testo sul contrappunto insiste su un apprendimento mediato direttamente dallo studio dei maestri, sostituendolo ad uno studio sistematico astratto. In particolare egli critica la teoria delle "cinque specie", ancora presente in Jeppesen, sottolineando che tale teoria fu solo "una brillante idea di Fux" che peraltro viene giudicata inutile dal punto di vista didattico ed analitico. Ed in certo modo anche antimusicale (De la Motte, 1991, pp. 22 - 23). Tutto giusto. Non vi è dubbio che il marchingegno delle cinque specie sia pedantesco e meccanico se tradotto in termini di insegnamento "graduale" del contrappunto; ed anche antimusicale. Tuttavia potremmo forse vedere quelle distinzioni piuttosto che come un sistema "per imparare il contrappunto", come il risultato di un riordinamento teorico che ha la propria logica interna: anche il percorso dal semplice al complesso potrebbe essere ritenuto non particolarmente "musicale". D'altra parte persino de la Motte arriva a raccomandare, ad un certo punto, per gli esercizi: "in un primo tempo non si impieghino semiminime"… (p. 81): e non è questa una limitazione che ricorda le "specie"? E addirittura a proporre un esercizio "pu­ramente tecnico" che "per il momento ha ben poco a che fare con la musica" (p. 105). In quest'ultimo caso si tratta di fatto di "impiegare tutte le forme di ritardo" nell'uso della dissonanza sul tempo forte - cosa che implica una riflessione sulle varie possibilità, astrattamente considerate, rasentando così, con una certa inconsapevolezza, il proble­ma di una "teoria del contrappunto". Mentre è proprio l'esi­stenza di una simile teoria che si vuole contestare in linea di principio. In realtà una teoria del contrappunto serpeggia lungo tutta la sua storia. 50 - Vorrei aggiungere che il "metodo fondato sui maestri" non è affatto una straordinaria invenzione moderna ed un'assoluta novità: l'opinione che il Contrappunto esista da qualche parte in un cielo ideale, fatto e finito, con le sue buone regole assolute, è assai meno presente nel passato di quanto si voglia far credere. Basti rammentare il trattato di Giambattista Martini, E­semplare o sia saggio fondamentale pratico di contrappunto sopra il canto fermo (Bologna 1774). Esemplare vuol dire raccolta di esempi "de' più eccellenti Maestri compositori che sieno stati ne' tempi andati, particolarmente nel XVI secolo in cui l'Italia divenne Maestra delle altre nazioni in quest'Arte" sulla base dei quali soltanto si può realizzare un "saggio fondamentale pratico di contrappunto". Le regole e­nun­ciate da Martini sono tratte di lì. E nello stesso tempo vi è ovunque, nel Trattato di Martini, l'idea della possibilità di una teoria. - Secondo de la Motte, la tendenza prevalente a mascherare il tritono nella scrittura contrappuntistica, con specifico riferimento allo stile di Josquin, avviene soprattutto in due modi: 1. all'interno della sequenza che contiene l'inter­vallo viene effettuato un mutamento di direzione; 2. la rilevanza dell'in­tervallo di tritono viene indebolita ponendo uno dei suoi estremi o entrambi come nota di passaggio sui tempi deboli ed eventualmente diminuendo le durate relative: tritono evidenziato dai tempi forti tritono indebolito dal mutamento di direzione 51 tritono indebolito dall'uso di un estremo come nota di passaggio Naturalmente potremmo proporre queste regole come pure costanti di stile. Ma non vi è chi non vede che, volendo ottenere quel risultato - la mascheratura del tritono - queste regole sono appropriate e presuppongono circostanze di fenomenologia della percezione di ordine generale. Una sequenza qualunque di note è costituita da determinati intervalli in successione e dagli intervalli che si vengono a formare ad esempio tra la prima e la terza nota, la prima e la quarta, la seconda e la quarta ecc. Ma questi ultimi sono irrilevanti se non vengono evidenziati. Occorre in altri termini che nella sequenza si individui il profilo di un intervallo come profilo dominante. Ciò può essere fatto con vari mezzi. Inversamente si può impedire che un certo intervallo assuma un profilo dominante. La mascheratura consiste fondamentalmente nel­l'im­piego di procedure di indebolimento dell'intervallo che sono efficaci solo in quanto agiscono sul modo in cui la sequenza è percepita. Non c'è dubbio che il mutamento di direzione nella sequenza stabilisce cesure interne alla sequenza che attenuano l'afferramento percettivo del fa e del si come poli di un intervallo; mentre ponendo uno degli estremi come nota di passaggio l'attenzione viene attratta da un diverso profilo intervallare. - Talora dietro una regola si intravede una conoscenza fenome­ nologica elementare, cosicché è giusto dire che non vi sono in generale regole tratte chissà di dove. Data una costante di stile, essa può essere riformulata come regola relativamente a quello stile; tuttavia occorre anche considerare la possibilità che contenga una riflessione fenomenologica implicita che renda conto di essa. Anche le costanti di stile non vengono chissà di dove. 52 Strutture forti e strutture deboli - Le strutture possono essere forti o deboli. Una struttura è debole quando puoi variarne entro certi limiti un elemento senza che ciò venga particolarmente avvertito oppure senza che questa variazione sia sentita del tutto fuori luogo come se si trattasse di un inatteso incidente lungo il percorso musicale. Pensa ad una facciata di un palazzo nella quale una sola finestra non sia allineata alle altre. Questo è un buon esempio di struttura forte. Se tutte le finestre non fossero perfettamente allineate tra loro, ed anzi distribuite secondo un ordine inappariscente la struttura sarebbe debole. Un brano musicale scritto in linguaggio tonale ha indubbiamente una struttura forte. Nella musica del novecento vi è probabilmente una netta prevalenza di strutture deboli. Il brano musicale ha una struttura debole se tale è giudicata dall'udito, anche se esso è stato costruito secondo regole assolutamente strette e rigorosamente vincolanti. 53 IV Intorno ai rapporti tra la musica e lo spazio Origine, provenienza, irraggiamento - In un primo approccio al problema della spazialità del suono è opportuno fare riferimento alla produzione tramite cose materiali (piuttosto che attraverso apparati elettronici). Risulta allora subito chiaro che vi è un nesso tra la spazialità del suono e la spazialità della cosa attraverso cui esso viene prodotto. Noi vediamo concretamente che il suono di un violino o di un tamburo è causato da una certa azione che io compio su questi strumenti: io non vengo informato dell'esistenza di questo rapporto da una fonte esterna alla situazione percettiva globale, ma vedo che quando viene percossa la pelle del tamburo viene anche emesso un suono, e l'azione del percuotere, la pelle percossa che in seguito a questa azione comincia a vibrare e il suono che ora odo con le mie orecchie, - queste tre cose sono essenzialmente unificate secondo una forma di unità che non è quella del puro e semplice accostamento, ma di una relazione che ci fa dire appunto "il suono ha origine di qui". - La parola origine ha una duplice valenza: indica la "causa" e la "provenienza". Nel senso dell'esperienza del suono vi è il provenire-da, che non equivale peraltro all'essere causato da, perché si tratta di due nozioni molto diverse. L'idea della causa è assai più complicata di quella della semplice provenienza. Tuttavia causa e provenienza rimandano alla cosa materiale ed alla sua localizzazione. Diffusione del suono - Il suono si diffonde intorno. Provenienza e irraggiamento. Il 54 suono irraggia dalla fonte e si diffonde nello spazio circostante. In qualche modo lo riempie. Sensibilmente lo avvertiamo con le orecchie. Ma tutto il nostro corpo è avvolto dal suono. - Ci sono due errori in cui si può incorrere in una ricerca fenomenologica. Il primo errore sta nell'articolare tutta una descrizione su un numero troppo ristretto di casi esemplari; il secondo sta nell'idea che una ricerca fenomenologica consista in null'altro che nell'ammassare esempi, prendendo ogni cosa per buona, una sorta di descrizione spicciola, di fenomenologia dei poveri, che vanno raccattando ciò che trovano per istrada - del tutta priva di un qualche orientamento di ordine generale che funga da filo conduttore capace di guidare la descrizione. - "Come fai a parlare di irraggiamento in questo modo? Non vedi che non tutti i suoni sono irraggianti? - Pensa ad un fruscio oppure al rumore di una mano che scorre su una superficie ruvida. Dov'è l'irraggiamento, dov'è la diffusione? Tu invece prendi a titolo di esempio il suono di un gong e non fai altro che una generalizzazione indebita. Tu dici: il suono si irraggia, come se questo irraggiamento appartenesse all'essenza del suono, mentre dovresti dire: alcuni suoni si irraggiano e altri no". - Questa osservazione può sembrare acuta e cogliere nel segno. In essa sembra esserci un'effettiva fedeltà ai fatti, alle "co­se stesse", ed un celebrato senso del dettaglio. Inoltre si punta severamente il dito di fronte alle false generalizzazioni - cosa che fa sempre un bell'effetto. Si pensa che la fenomenologia dovrebbe essere riformata rinunciando al tema dell'"essenza" e riportandola entro i limiti di un sano empirismo: come una sorta di sua variante. E si finisce in elencazioni insignificanti, prive di idee, formulando argomenti costruiti su questo o quel gruppo speciale di esempi. 55 - Io invece voglio proprio andare all'essenza, ed allora cerco di fornire anzitutto quegli esempi che siano capaci di mostrare con la massima nettezza la sua impronta. Si deve cominciare da quelli che io chiamerei esempi pregnanti, per poi volgersi a considerare modificazioni, varianti, indebolimenti, ecc. - Caro amico, per farti apprezzare la maestosità della scultura non ti mostrerò il Mosé di Michelangelo in formato souvenir, alto come il mio dito mignolo, ma ti accompagnerò proprio di fronte al Mosé in carne ed ossa nella chiesa di San Pietro in Vincoli in Roma. - Il fruscio di una camicia non è un suono, ma un suonicchio. Il suono del gong, questo sì può rappresentare un esempio pregnante. - Una bella espressione linguistica parla del suono che non risuona, che non irraggia intorno, come di un suono sordo. Come è strano attribuire la sordità ad un suono! - L'errore opposto sta nell'affidarsi a questa o a quella caratteristica importante ignorando la varietà dei casi. "Non vi è colore senza estensione": sta bene. Ma in tal caso l'estensione è la superficie, che chiama in causa lo spazio a due dimensioni. Citando la luce colorata - un colore che si diffonde nella terza dimensione, come il suono che irraggia intorno - non propongo un controesempio che invalida l'affermazione precedente, ma piuttosto un'angolatura che indica la possibilità di sviluppare l'analisi in nuove direzioni. - La fissazione del caso esemplare può servire anche per cogliere e rendere significative le differenze e la varietà delle situazioni che si possono presentare o liberamente immaginare. Esse arricchiscono allora l'analisi, e non hanno il carattere di controesempi. 56 Il movimento del suono - È la sorgente che occupa un luogo, non il suono stesso ovvero il fenomeno sonoro. Il provenire del suono infatti resta determinato solo dinamicamente, proprio come un di qui o un di là, non come un qui o un là. - Il suono viene riferito ad un luogo dell'ambiente circostante attraverso la mediazione della cosa materiale da cui viene prodotto. Ma anche se questa mediazione è nascosta oppure se non è palese il modo della sua produzione (questo accade addirittura già per il nostro familiare pianoforte) il suono può tollerare le differenze del vicino e del lontano, e si può dire di un suono che si avvicina o si allontana attribuendogli dun­que la possibilità del movimento. Ma qui comincia anche qualche perplessità, cominciano a profilarsi margini di equivoco. È peraltro chiaro che non sto parlando del suono come evento fisico: tutti sanno che il suono considerato da questo punto di vista si muove, ed è nota anche la sua velocità. Naturalmente se mettessimo questa ovvietà sotto la lente di ingrandimento di una considerazione epistemologica avveduta essa diventerebbe meno ovvia: che cosa esattamente si muove dal punto di vista fisico? (Non credere che quando si parla di velocità della luce o di velocità del suono, queste espressioni abbiano un significato realmente certo - anche se si tende a parlare della velocità della luce o del suono come se si trattasse di un auto in corsa molto molto veloce. Credo che anche per un fisico sia quasi una necessità men­tale dare una forma concreta e quotidiana a concetti che sorgono da considerazioni sperimentali e teoriche complesse). - Potresti ad esempio chiedere: questo movimento del suono è soltanto una formula abbreviata per alludere al movimento della cosa materiale che è la sua fonte? In realtà basta considerare la possibilità di far muovere il suono da un altoparlante al­l'altro per 57 rendersi conto che la questione investe il fenomeno sonoro come tale. Il fenomeno sonoro - I legami con la cosa si possono allentare in modi molto vari e questo allentamento rappresenta una sorta di irrealizzazione. Ciò accade ad esempio quando la provenienza diventa tendenzialmente indeterminata. Non tutti i suoni che udiamo sono chiaramente identificati nella loro sorgente e nel modo della loro emissione. La fonte potrebbe non essere sotto i nostri occhi, nascosta da qualche parte, e per qualche motivo potremmo non riuscire a stabilire la connessione tra il suono e la sua fonte. Molto misteriosa ci può apparire l'origine dei suoni elettroacustici o elettronici. Sentiamo che il suono proviene da quelle casse - i diffusori, appunto, ma in che mo­do esso viene prodotto? Anche in questo caso possiamo sapere molte cose intorno al modo della loro generazione, ma questo sapere è qualcosa di completamente diverso dalla visione con­creta del rapporto tra il suono e la pelle di tamburo. In ogni caso anche la membrana di un diffusore la si può vedere vibrare. - Pensa al tuono durante un temporale o al fruscio del vento tra le foglie in un bosco. Tende allora ad agire un meccanismo ad un tempo semplice e singolare, che per un verso tende a riportare questi casi in certo senso anomali al caso "normale" - quello in cui la fon­te del suono sta sotto i nostri occhi. Si tratta di una tendenza che potrebbe essere definita "realistica" perché cerca di ricostituire nessi causali reali, e tuttavia essa va incontro ad uno scacco che induce un balzo nell'immaginario. A partire dal tuono viene evocato un tamburo mitico nelle mani di una divinità adirata. Analogamente il fruscio provocato dal vento richiama misteriose presenze che si aggirano fuggevoli tra le ombre del bosco. Questo ribaltamento nell'immaginario - che attribuisce un surplus di carica espres- 58 siva all'evento - avviene per il fatto che il modello realistico si applica su qualcosa che non è in grado di sostenerlo, perché non vi sono evidenze percettive a cui agganciarsi. L'allentamento dei nessi con la cosa che lo produce esalta il suono come tale disponendolo nello stesso tempo sulle vie dell'immaginario. Ascolto ridotto - Ci si può chiedere se il mettere da parte origine e provenienza del suono, quindi tutto ciò che lo collega allo spazio ed ai corpi, debba rappresentare una vera e propria condizione per l'afferramento della qualità sonora e per lasciare emergere le sue latenze espressive. Attraverso i corpi e lo spazio il suono viene strettamente integrato con gli eventi della realtà che ci circonda. Uno dei modi fondamentali di questa integrazione sta nella capacità del suono di fungere da segnale per un altro evento, che diventa a sua volta il centro effettivo dell'atten­zione. Quando nella vita quotidiana udiamo un suono non indugiamo presso di esso ad ascoltarlo, ma mettiamo in atto comportamenti conseguenti all'evento che viene annunciato. Il suono come tale viene subito oltrepassato, è diventato trasparente, mentre noi abbiamo in certo senso bisogno proprio della sua opacità. Il suono di un brano musicale deve essere opaco rispetto alla realtà che lo stringe in mezzo. Non deve lasciarla vedere. Ma ciò significa proprio che nel­l'ascolto prescindiamo dai nessi reali, e in particolare da quelli spaziali, per portare alla presenza i suoni stessi. Su questo aspetto si è talora molto insistito, e proprio sul versante fenomenologico. Si è anche coniato il termine di "acusma", per indicare il puro fenomeno acustico, o di "ascolto ridotto" per indicare la necessità di tagliare ("ridurre") i nessi reali. È interessante notare che questa tematica è stata particolarmente sottolineata nell'ambito del problema dell'impiego musicale del rumore (Schaeffer). 59 Sensi spaziali interni al fenomeno sonoro - Occorre tuttavia richiamare l'attenzione sul fatto che, restando vero che è necessario prescindere dal carattere di segnale che il suono detiene normalmente nella quotidianità, nel suono così "ridotto" si ripresentano i sensi inerenti alla spazialità, sia pure in una forma modificata e secondo un o­rien­tamento immaginativo. - Supponiamo che camminando per una strada di campagna io senta il rumore lontano del motore di un'auto. E che nello stesso tempo questo rumore subisca una variazione per la qua­le io possa qualificarlo come "rumore di un'auto che si avvicina". In questa formazione di senso da un lato vi è il puro fe­nomeno sonoro come un processo che ha certi suoi caratteri specifici interni. Dall'altro, vi è l'intera situazione reale implicata, io stesso che cammino ai bordi della strada, vi è quel determinato rumore che viene immediatamente riferito ad un'auto, che quasi fa corpo con essa: sentendo il rumore, in certo senso sento anche l'auto alle mie spalle, e in particolare i caratteri interni del rumore che vengono senz'altro interpretati in rapporto alla velocità dell'auto ed al suo avvicinarsi. - Ora, questi nessi possono essere "tagliati". Debbo dire che, in tal caso, la variazione di intensità mi si presenta unicamente come una variazione di intensità? In realtà dovresti esitare a dare una pacifica risposta affermativa senza aggiungere altro. Nel caso di un brano musicale non vi sono certo interpretazioni che portino ad un movimento reale. Ma nello stesso tempo occorre riconoscere che in queste variazioni di intensità rimane appreso, anche nel puro fenomeno sonoro, il senso del vicino e del lontano, dell'al­lon­ta­na­men­to e dell'avvicina­men­to. Pianissimo: molto lontano; piano: più vicino; mezzo piano: sempre più vicino; mezzo forte: quasi vicino; forte: vicinis­simo; fortissimo: mi sta venendo addosso. 60 Non sappiamo che cosa, né ci interessa saperlo. - Il significato spaziale assume ora il carattere di un vettore immaginativo, di una freccia che proprio a partire da un riferimento spaziale apre un percorso immaginativo possibile: dicendo "vicino" o "lontano" intendiamo la vicinanza spaziale solo nella misura in cui questa vicinanza sostiene valenze immaginative molteplici. Il vicino è qualcosa che incombe, che è vivacemente presente; il lontano si perde nelle brume del passato. Quindi il piano/lontano può essere venato di nostalgia, intravediamo in esso come un ripiegamento remissivo, uno sci­volamento verso il silenzio; mentre il forte è immediatezza, affermazione, azione, forse anche aggressione. Queste parole intrecciano piani diversi: il significato spaziale stesso si tinge di valenze temporali, emotive, affettive… - Nel puro fenomeno sonoro non va del tutto perduto il riferimento spaziale, ma questo riferimento assume un altro carattere: non di rimando e di indicazione verso una situazione reale determinata, ma di richiamo ad associazioni immaginative, o come noi preferiamo dire, di sintesi immaginative, a cui il riferimento spaziale fa solo da supporto. - Una filosofia della musica che comincia con una fenomenologia della percezione del suono deve includere una fenomenologia delle inclinazioni di ordine immaginativo che si innestano anche sulle situazioni percettive elementari. Il tema dell'espressività non si impone per la musica solo nella sua dimensione elaborata ed evoluta, ma già nel suo materiale grez­zo. La pietra nel pozzo - Vi sono parole caratteristiche dell'area della spazialità: ad esempio, l'aggettivo "profondo". In esso vi sono diversi richiami: all'elemento tridimensionale, certo: allo spazio a due dimensioni si aggiunge la "profondità". Ma anche a ciò che sta sotto la 61 superficie, si parla ad esempio di profondità marine - e subito le si immagina oscure; oppure ad una cavità o ad un vuoto, come nel caso di un pozzo o di una caverna. Di un abisso. - Vi sono nessi di solidarietà e di opposizione tra lo spazio e la cosa, tra il vuoto e il pieno. E tra questi nessi si può prospettare il suono. Taluni suoni si dicono profondi: o anche gravi. Nella gravità tuttavia il richiamo sembra essere anzitutto a cose come sono le pietre, con il loro peso, solidità e pienezza. La gravità ci riporta ad una corporeità piena, pesante, e ci rammenta la possibilità della caduta. Si potrebbe anche essere indotti a pensare, che l'impiego di simili termini in rapporto a suoni sia un impiego trasposto. La prime costituzioni oggettive sarebbero realizzate attraverso la vista e il tatto, e in generale l'azione: ci verrebbero così fornite le distinzioni fondamentali che verranno poi applicate anche agli oggetti sonori. Vi sarebbe dunque un significato primario che viene trasposto, ma in questa idea di significato primario vi deve essere qualche aggiustamento filosofico, qual­­che assunzione tacita. Ci si richiama ad un prima e ad un poi, lasciando intendere che si costituisce prima un significato fat­tuale, ad esempio il peso in quanto riferito a cose materiali, e poi i significati immaginativi trasposti. Ma queste e­spressioni temporali non possono ricevere alcuna precisazione; nulla esclude invece che si possa ritenere che la determinatezza del senso venga in qualche modo fissata, secondo i contesti, a partire da fasci di significati sfuggenti. - Guardando in un pozzo, chiunque è tentato di gettargli dentro un sasso. Ci siamo avvicinati ad un pozzo e così, sovrappensiero, vi abbiamo gettato dentro un sasso. - "Perché hai gettato la pietra nel pozzo? " - Potremmo dare svariate risposte. Ad esempio: lo ho fatto per 62 divertimento. Oppure: per misurare la profondità del pozzo calcolando in qualche modo il tempo di caduta… A me piacerebbe sostenere che questo semplice gesto è una sorta di realizzazione spontanea e concreta di relazioni immaginative, di quelle stesse di cui poi si impossessa il linguaggio con le sue metafore. - A quella domanda dovresti rispondere così: "Il mio è stato un gesto dell'immaginazione": una sorta di concrezione immediata di sintesi immaginative, che quel gesto esibisce creativamente, e con un'azione, come è giusto, del tutto gratuita. - È come se volessi dare evidenza al senso della profondità - ma al tempo stesso legarla alle vertigini di una caduta, e forse quando hai gettato la pietra nel pozzo hai teso l'orecchio in attesa di un suono che, nelle sue risonanze, fa echeggiare in un unico fascio: vuoto, pieno, gravità, caduta, buio... Voci profonde Esempio di notazione della musica vocale tibetana - Indubbiamente parlando di voci profonde l'esempio che subito viene alla mente è quello degli straordinari cori dei monaci tibetani. - Una tecnica vocale che produce simili suoni deve essere il risultato di una tecnica raffinatissima. Da questi suoni gravi emergono le "diplofonie"- la linea di suoni acuti che prendono misteriosamente forma da questo canto. Nell'ascolto, spe­cialmente dal vivo, ci si sente implicati in una singolare mo­­dalità corporea che non impegna solo le nostre orecchie, ma anche i corpi degli ascoltatori come casse di risonanza. Siamo colpiti dalla volumino- 63 sità del suono, che non è la stessa cosa dell'intensità, nel senso delle differenze del piano e del forte, ma ha a che fare piuttosto con grossezza e spessore. - Ma perché, nei monaci tibetani, questa ricerca della gravità che si spinge sino a questo punto? Che cosa trascina l'imma­ ginazione musicale proprio in questa direzione? Forse studiando la religione e la cultura tibetana, e la filosofia che sta nell'una e nell'altra, potremmo dare una risposta a questo que­sito musicale. Nel libro di Ivan Vandor sulla musica tibetana (Vandor, 1975) purtroppo non ho trovato alcuna risposta, e, a dire il vero, nemmeno il quesito. È comunque chiaro fin dal­l'ini­zio che voci così profonde provengono da regioni misteriose... - Ho letto da qualche parte che Berlioz facendo riferimento ad un musicista che accompagnava la parola abisso da una discesa verso il grave, aveva osservato: costui crede che i suoni siano attratti dalla forza di gravità! - Berlioz aveva torto: se mai quel musicista aveva operata una scelta forse un poco ovvia, ma non certo "innaturale". ­- Nelle regioni di lingua Bantu i suoni non vengono detti acuti e gravi, ma piccoli e grandi (G. Kubik, 1987, p. 280). E con questo? L'autore vorrebbe con ciò segnalare una radicale differenza nel modo della ricezione, senza minimamente avvertire che si tratta di una variazione immaginativa perfettamente coerente. Che una voce acuta la si qualifichi come piccola è ben comprensibile. In entrambi i casi il vettore immaginativo punta nella stessa direzione. Alta fedeltà - La stereofonia in genere è stata per lo più presentata - ed in ciò vi sono naturalmente ragioni commerciali - all'in­segna dell'"alta fedeltà", quindi di una riproduzione più fedele del suono, che, in 64 quanto suono reale, si modifica in vari modi secondo l'ambiente. L'alta fedeltà è uno dei miti del secolo XX. Questa parola non riguarda soltanto il suono, benché sia usata prevalentemente in rapporto ad esso, ma anche molti altri campi dell'inno­vazione tecnica: si può evocare l'alta fedeltà nel pas­saggio dal cinema muto al sonoro, dal cinema in bianco e nero al cinema a colori, nel passaggio dalla radio alla televisione, nei videogiochi. Anche l'espressione di "real­tà vir­tuale" ha degli aspetti che riguardano l'"alta fedeltà" - anzi essa contiene forse la massima esasperazione di questo motivo dal mo­mento che si mette in campo l'utopia di un raddoppiamento che riguarda la realtà stessa. - Naturalmente vi è un lato del problema piuttosto ovvio. Basti pensare agli enormi progressi tecnici nella riproduzione fedele del suono dal disco a 78 giri, al microsolco, al compact disc, per non dire dei lontani primordi dei rulli degli inizi del secolo XX. Si trattava di liberare dalla riproduzione del suono fruscii e gracchiamenti di ogni genere e di ottenere una riproduzione decente del suono degli strumenti, delle voci, ecc. L'infedeltà della riproduzione era dovuta a carenze di ordine tecnico che sono state via via eliminate. In questo campo così come in quello della manipolazione tecnica del suono in genere si sono fatti dei passi giganteschi. Ma una volta superato questo livello del problema, l'appellarsi al realismo della riproduzione diventa più ambiguo. - Gli effetti di riverberazione possono essere considerati nel­lo stesso modo di tutti gli effetti di manipolazione e di distorsione timbrica che modificano la qualità sonora a scopi espressivi - e se li consideriamo così non ha nessun senso appellarsi a riferimenti realistici o al tema della riproduzione fedele. Ciò vale anche quando le tecniche non sono puramente algoritmiche, ma presuppongono la rilevazione delle dinamiche di riverberazione di ambienti reali. Infatti ciò che importa sta nella possibilità di generare l'esperienza viva di una "profondità" che scaturisce dal­l'evento 65 sonoro liberato da ogni contingenza em­pirica: lo spazio nel suo­no, non il suono nello spazio. - L'innovazione tecnologica forse inizialmente guidata dal­l'idea delle riproduzione perfetta e fedele, ha finito poi con il proporre mezzi per una fortissima irrealizzazione. Si pensi al video clip - dove l'innovativa capacità di manipolazione tecnica dell'immagine viene utilizzata per lo più in una funzione pronunciatamente antirealistica. Nei video clip, movimento, disposizione spaziale, paesaggio, sfondo, colore, luce ecc., giocano sulla possibilità di fare violenza alla dimensione del reale per imprimere invece alle sequenze di suoni e di immagini una fortissima carica "espressionistica". - F. Fabbri, nel suo saggio Il mezzo elettroacustico, lo spazio musicale, la popular music (Fabbri, 1987) sottolinea in modo un po' brutale, ma quanto mai opportuno, la presenza di un interesse per l'effettistica rumoristica radiofonica nei centri sperimentali e il richiamo sul fatto che la ricerca per l'effet­ti­stica radiofonica e anche cinematografica ebbe una funzione promozionale nei confronti dei musicisti cosicché "l'idea stessa di musica sperimentale che da sola scopre frontiere sonore e impieghi della musica ignoti al non sperimentatore ha fatto il suo tempo anche sotto questo aspetto". Molto interessante anche la seguente osservazione: "La ricerca elettroacustica ufficiale quindi nacque su un terreno già ampiamente dissodato dall'esigenza di creare ambientazioni acustiche credibili e avreb­be dovuto tener ben presente il fatto che una cosa è l'am­biente reale in cui avviene l'ascolto, altra cosa è l'am­bien­te immaginario che viene evocato". Si parla così di "sugge­stioni spaziali", di "ambienti immaginari", di "illusioni di natura spaziale"; di uso "musicalmente costruttivo della prospettiva acustica immaginativa". "Indubbiamente l'im­pul­so decisivo in questa direzione è stato dato negli ultimi anni dal­ l'introduzione di riverberi digitali o simulatori di ambiente che 66 non sono altro che computer specializzati nel creare quelle catene di ritardi sovrapposti che sono alla base dell'effetto acustico e psicoacustico del riverbero". Questi effetti possono anche essere "deliberatamente innaturali"(p. 98). Opera ed evento - Un brano musicale è ad un tempo "opera" ed "evento". Si tratta di una distinzione, formulata eventualmente in altra terminologia, che ha attirato spesso l'attenzione dell'estetica musicale in genere. Come esecuzione, una sonata per pianoforte accade da qualche parte, in qualche tempo e in qualche luogo. Essa è un evento. L'opera si realizza attraverso i suoi eventi, senza coincidere con essi. Ci si può chiedere allora se il luogo riguardi in modo esclusivo l'evento piuttosto che l'o­pera. Accentuando l'importanza della componente spaziale si accentua anche l'importanza dell'evento rispetto all'opera. Quali conseguenze ha questo spostamento di accento? - Talora l'opera si esaurisce nell'evento. Essa diventa allora irripetibile. - Vi è una connessione tra casualità e irripetibilità - una critica coerente dell'opera deve portare all'happening. Cage insegna. Ciò che importa è ciò che accade oggi, e nell'oggi ciò che importa è ciò che accade nell'istante, e di ciò che accade nell'istante non abbiamo bisogno di mantenere memoria. Esal­tazione dunque dell'acca­ dimento in atto. E quindi della presenza viva. Io allora c'ero. - O eri sul posto oppure l'opera ti è sfuggita per sempre perché essa si riduceva all'evento. Ma la questione è ancora più complicata: non basta essere sul posto. Bisogna decidere anche quale posto occupavi quando eri sul posto. Le contingenze, per un evento tanto contingente, si moltiplicano. 67 - Il compositore deve tener conto, nella stessa partitura, dell'ambiente in cui la sua musica verrà eseguita. Scrive Paul Henry Lang a proposito della Musica sull'acqua (1717) di Haendel: "Un attento esame della partitura rivelerà che la scrittura evita con cura 'buchi' armonici, dato che non era conveniente che in una barca ci fosse un basso continuo" (ovvero un clavicembalo) (p. 159). Tuttavia il brano che una vol­ta è stato eseguito in un luogo, un'altra verrà eseguito in un altro. Il compositore, beninteso, non prescrive che quel brano debba essere sempre suonato in una barca. In certi casi il rapporto con lo spazio può essere assai marginale. - In linea generale il compositore non dovrebbe occuparsi dell'"a­custica di sala" per la stessa ragione per la quale un pianista non dovrebbe occuparsi del fatto che il pianoforte sia bene accordato: questa è una precondizione ovvia per una buo­na esecuzione, e vi è che ci pensa per lui. Anche lo spazio è uno strumento, precisamente è uno strumento che accoglie tutti gli strumenti e che suona con loro, e perciò anch'esso deve essere bene accordato. Ma la questione ha mille differenti sfaccettature. Si pensi soltanto al caso esemplare di Wagner in cui la riflessione sullo spazio in cui deve essere rappresentata l'opera in musica fa corpo con la sua concezione del­l'opera stessa, nella quale confluiva del resto anche il problema di un rinnovato rapporto con il pubblico; oppure ai tanti progetti, speculazioni e utopie architettoniche musicali tra fine ottocento e primo novecento. Da Kircher, Musurgia universalis, IX, p. 300 68 Lo spazio può essere considerato come parametro della musica? - L'idea dello spazio come parametro della musica suscita perplessità. Taluni si esprimono come se oggi ci fossimo resi conto di poter disporre di un parametro in più - lo spazio appunto. Ora il termine di parametro applicato ad altezza timbro intensità e durata indica una caratteristica che serve a contraddistinguere i suoni l'uno dall'altro. Questo stesso termine applicato allo spazio non verrebbe più usato nello stesso modo e non sapremmo esattamente quale senso potremmo attribuirgli in questo caso. - Boulez parla dello spazio come una sorta di quinta dimensione del suono (1979, p. 63). Ciò che egli dice su questa tematica risente dell'arretratezza della tecnologia dell'epoca: ad esempio, quando egli ipotizza che il luogo abbia una determinata forma che sia possibile modificare nel corso dell'e­secu­zione in modo da stabilire situazioni uditive differenziate dal punto di vista spaziale per l'ascoltatore oppure quando accenna a possibili "fonti sonore mobili" ed alla molteplicità di situazioni uditive che sorgerebbero di conseguenza (p. 65 - 66). Oggi si risolverebbero questi problemi in tutt'altro modo, ed assai più semplicemente. Il contesto in cui queste con­side­ra­zioni vengono fatte sembra in ogni caso orientato dal­l'i­dea di dare una qualche consistenza all'idea della "quinta dimensione" dal punto di vista propriamente musicale. Tuttavia Boulez teme che artifici riguardanti lo spazio circostante conducano ad una "teatralizzazione" - come egli dice - che indebolirebbe l'attenzione verso gli aspetti propriamente musicali: senza rendersi conto che si tratta di una preoccupazione che indebolisce implicitamente la pretesa dello spazio come "quin­to parametro". - Peraltro in Boulez il termine di "spazio" viene usato anche in senso formal-relazionale cambiando completamente di senso: così 69 si parla di "spazi in cui si muoveranno le serie", di spazio temperato e non, ecc. In questo quadro l'idea del movi­­mento si ripresenta non già come movimento del suono nel­lo spazio (reale), ma come movimento tra "gli spazi sonori utilizzati": "È arrivato il momento di esplorare spazi variabili a definizione mobile, che possono evolversi (mediante mutazione o trasformazione progressiva) nel corso stesso di un lavoro"(1979, p. 82). Fantasie spaziali - Il problema del caso entra in vari modi nell'ambito della questione dello spazio nella musica. Giacomo Manzoni richiama i "con­cer­ti di corni da nebbia o di campane di una città": il risultato è qui casuale o comunque non vi è problema di un risultato musicale vero e proprio. Ma in realtà Manzoni propone un compito compositivo "per la trasposizione su ampi spazi per i quali è necessaria una musica a ciò specificamente predisposta" (1987, p. 80). Egli pensa in particolare a spazi aperti, molto grandi. - È interessante il rovesciamento del pro­blema. Non si tratterebbe tanto di architettare uno spazio tale da ottimizzare l'ascolto della musica in genere, ma piuttosto, dato uno spazio, di predisporre una musica che sia in qual­che modo consona ad esso. Ricercando nello stesso tempo determinati "effetti spaziali". - Questo rovesciamento è bene illustrato dall'esempio sviluppato da Manzoni dell'Arena di Verona. Questo è un luogo con caratteristiche acustiche determinate e note. Possiamo ad esempio controllare i ritardi, secondo la dislocazione delle fonti e degli ascoltatori. "Come scrivere in queste condizioni una partitura musicale?" (p. 84). Come si è detto si vuole ottenere un risultato "specifi­camente musicale", cosa che mi sembra significhi un risultato che stia sotto il controllo del compositore e che possa in una qualche accezione del termine essere considerato sensato. Ogni ascoltatore dislocato in un punto qualunque dovrebbe per- 70 cepire un effetto sonoro sensato, benché questo effetto possa non essere lo stesso in ogni punto. Ma qual è lo scopo di tutto questo? La risposta di Manzoni è forse un po' debole perché si richiama al nuovo ed all'inaudito come se questa novità forse di per se stessa interessante, oltre che all'aspetto, di per sé non strettamente musicale, della sperimentazione acustica: "… mi domando ora quale sia la reazione intellettiva e psicologica a un ascolto stereofonico che si svolga in condizioni così insolite…"; vi sarebbe "…un aumento enorme del fattore sorpresa, curiosità, novità dell'orientamento acustico oltre che spaziale, di cui non credo esista praticamente esempio nella prassi conosciuta… Un esperimento di questo genere, nuovo non solo dal punto di vista della ricerca musicale, ma anche da quello della cosid­detta psicologia acustica e persino della psicologia di mas­sa e in pari tempo dell'allargamento dell'esperienza individuale dei singoli ascoltatori, mi sembra che varrebbe la pena di essere tentato anche a costo di correre un rischio grandissimo" (p. 86). Si tratta in ogni caso di una bella fantasia. La realizzazione porterebbe tuttavia alla luce l'elemento visivo spet­tacolare, che in realtà si accompagna di continuo alla tematica dell'impiego di spazi reali nella musica. Tutto sarebbe meno interessante se nel risul­tato compositivo non ci fosse qualcosa da vedere oltre che da udire. "Sarebbe possibile accostare modalità di ascolto diversissime tra loro, acuire la facoltà di distinzione quanto alle diverse provenienze del suono, costruire infine spettacolo attraverso i piani visivi sui quali si svolge l'azione del suonare" (p. 86). - Puoi anche scegliere di fare solo spettacolo, come ha fatto Stock­hausen che, con l'aiuto della Luftwaffen, ha realizzato un quartetto d'archi distribuito su quattro elicotteri, con strumentisti attrezzati con cuffia e microfono; vi era anche un microfono aggiuntivo posizionato sotto l'elica degli elicotteri... Il pubblico assisteva alle varie operazioni di volo in una sala in cui erano sistemati alcuni grandi schermi. Io allora non c'ero, e sono contento così. 71 Helicopter String Quartett Festival di Salisburgo 2003 - Le fantasie spaziali di Xenakis diventano interplanetarie, se non intergalattiche: esse non hanno niente a che vedere con un progetto musicale sensato, ma in qualche modo rinnovano, in nome di utopie scientifico-tecnologiche, il mito del cosmo attraversato da suoni. Nella presentazione della sua tesi di dottorato, egli sogna così: "In effetti non c'è alcuna ragione perché l'arte, su esempio della scienza, non esca nell'im­men­sità del cosmo e perché non possa modificare, come un paesag­gista cosmico, l'aspetto delle galassie. Ciò può sembrare un'u­topia, ed in effetti lo è, ma provvisoriamente, nell'im­men­­­sità del tempo. Al contrario, ciò che non è utopia ed è oggi possibile, è lanciare tele di ragno luminose al di sopra di città e campagne, fatte di raggi laser colorati... utilizzare le nuvole come schermi di riflessione ed i satelliti artificiali come specchi riflettenti perché queste tele di ragno salgano nello spazio e circondino la terra con le loro fantasmagorie geometri­che mobili; legare la terra e la luna con filamenti di luce... Quanto alla musica, la tecnologia degli altoparlanti è 72 ancora allo stato embrionale, sottosviluppata, per lanciare il suono nello spazio e riceverlo dal cielo, là dove abita il tuono. Ma il suono radente, nelle città e nelle campagne è già possibile grazie alla rete nazionale di allarmi antiaerei attraverso altoparlanti, basterà affinarli". La foresta e i suoi canti - Mentre nella musica colta il problema della spazialità viene affrontato per lo più in maniera intellettualistica, ben altrimenti stanno le cose nell'ambito della musica di tradizione popolare. In essa il rapporto musica-ambiente rivela una densità di significati che la musica colta non riesce nemmeno a sfiorare con il massimo sforzo intellettuale, dal momento che si tratta di significati che si trovano per essa in una dimensione definitivamente perduta. A questa tematica Carlo Serra ha dedicato una riflessione a tutto campo nel suo Spazio, corpo espressione (Quodlibet, Macerata, 2008): nel titolo di questo libro si sintetizza la linea di discorso che in esso viene sviluppata, con un'amplissima documentazione che si avvale, tra i molti, anche di materiali proposti da Steven Feld, Sound and Sentiment. Birds, Weeping, poetics and song in Kaluli Expression, University of Pennsylvania Press, University of Pennsylvania, 1982. Un iniziale filo conduttore è l'idea che le "voci" della foresta (i canti degli uccelli, lo stormire delle fronde, lo scrosciare dell'acqua nelle cascate...) - e dunque i canti creati in simbiosi con esse dai suoi abitanti, siano il canto stesso della foresta. E come separare allora musica e spazio, che è l'ambiente vitale in cui essa nasce ed assume senso? Ciò fa nascere nuove domande: forse quando esiste con tanta forza questo nesso siamo al di fuori della musica d'arte? Oppure siamo ancora del tutto all'interno della produttività dell'immaginazione musicale? Ed ancora: che cosa potrebbe imparare di qui un musicista dei tempi nostri? 73 V Discussione intorno all'idea di "spazio uditivo" Specificità dell'esperienza dello spazio attraverso l'udito secondo Zuckerkandl - Victor Zuckerkandl dedica un'attenzione inconsueta al problema "musica e spazio", in particolare nell'ultima parte del volume Sound und Symbol (1956): tuttavia non è subito chiaro di che cosa egli esattamente vada in cerca. Vi sono diversi indizi, egli osserva, che segnalano una specifica componente spa­ziale nella musica, considerata generalmente come arte non-spaziale per eccellenza. Ad esempio: il fatto che in un accordo i suoni singoli che lo compongono possano essere colti, entro una certa misura e da ascoltatori esperti, nella loro singolarità può suggerire che sussista una differenza in certo mo­do simile ad una differenza spaziale che ci consente di superare la fusione che deriva dalla loro simultaneità temporale - così egli sostiene. Analogamente la possibilità che, nella musica polifonica, ogni voce proceda "side by side", e che si possa considerare ogni voce separatamente dalle altre ed eventualmente seguirla con l'orecchio "a parte", prestando attenzione soprattutto ad una di essa, sembra presuporre qual­cosa di simile ad una separazione spaziale. Io credo tuttavia che questi indizi debbono essere interpretati. Proprio in rapporto al problema della spazialità potrebbero condurre in direzioni differenti e persino opposte. - Un altro indizio importante per Zuckerkandl è rappresentato da parole che si è tentati di usare per indicare la provenienza dei suoni. Ci si esprime allora dicendo "dall'esterno" - from outside - o "dal di fuori" - without. Egli dà poi impor­tanza particolare all'espressione it encounters me: la musica viene incontrata, ci si 74 incontra nella musica - espressione che a me sembra inconsueta e che probabilmente è enfatizzata da Zuckerkandl per rendere possibile un consistente aggancio con la tematica heideggeriana dello spazio come "ciò da dove (whence) qualcosa mi incontra". - Ma non tutto ciò che proviene dall'esterno e che si incontra nello spazio ed attraverso i corpi che si trovano in esso - continua Zuckerkandl - hanno necessariamente proprietà corporee o spaziali nel senso consueto. Così un pensiero è colto attraverso una frase scritta. La frase è, come un disegno, qualcosa di esteso, di spaziale. Il pensiero invece non lo è. I suoni vengono "incontrati" attraverso sensazioni, e in questo si distinguono dai pensieri, ma si tratta della "sola sensazione che non ci incontra come proprietà di una particolare cosa corporea spaziale" (p. 272). Certo Zuckerkandl può contare in proposito su considerazioni di ordine fenomenologico, e può con ragione osservare che "il suono non è una proprietà, ma un'entità" (p. 273) e che il rapporto con la cosa è un rapporto con la fonte dalla quale il suono si distacca poi radicalmente. Ma ben presto ci si rende conto che considerazioni come queste non intendono avere un intento puramente descrittivo, ma sono volte a far valere una speciale nozione di spazialità di cui l'udito sarebbe portatore. - L'inclinazione della discussione è quella di chiedersi se vi sia una nozione di spazialità costituita uditivamente e che sia specificamente differente da quella visiva o tattile. Quindi uno "spazio uditivo" con speciali caratteristiche. Su un simile problema si addensano immediatamente numerosi possibili equivoci. La questione di uno spazio uditivo va considerata, a mio avviso, come se essa dovesse essere trattata come un capitolo nel problema più ampio della costituzione della spazialità. Ad esempio ci si può chiedere: che cosa accade per quanto riguarda le connotazioni spaziali se prescindiamo dalla vista e dal tatto, facendo riferimento solo a dati uditivi? Quali sono i con­tributi dell'udito per la costituzio- 75 ne dello spazio? Si avverte subito che bisogna stabilire una netta differenza di orientamen­to, ad un tempo sottile e vistosa, tra il porre la questione dello spazio uditivo all'interno del problema generale della costituzione della spazialità, oppure se, perdendo la presa su di esso, si organizza la ricerca come se si dovesse circoscrivere un particolare "sentimento" della spazialità che sarà poi da considerare come all'origine di uno speciale concetto di essa. Zuckerkandl procede proprio in quest'ul­tima direzione (mentre io propenderei per la prima). L'idea di uno spazio uditivo specifico e il problema del contributo dell'udito all'esperienza della spazialità - Una ricerca fenomenologica è in certo senso sempre legata all' "attualità". Voglio dire: ora io chiudo gli occhi e mi chiedo: che ne è della spazialità? E comincio così una descrizione, ponendo nuove domande. Eventualmente, mi immagino di non aver mai avuto a disposizione altro che l'udito stesso: e potrei continuare questa fantasia cercando di determinare quale aspetto potrebbe avere un'esperienza dello spazio. Naturalmente ti invito a fare altrettanto e a discuterne insieme. Tutto ciò non corrisponde per nulla alla posizione della domanda "Esiste uno spazio uditivo?" a cui si debba rispondere affermativamente o negativamente. Ciò che esiste è sicuramen­te la problematica costitutiva corrispondente, cioè i problemi dei nessi tra udito ed esperienza della spazialità. Guardando il cielo sdraiati sul dorso - Zuckerkandl rammenta l'osservazione molto bella di James secondo la quale la sensazione spaziale offerta dall'udito sarebbe simile a quella che abbiamo del cielo blu quando giacciamo sul dorso. Interessante è anche l'espressione di cui James si serve per indicare questa sensazione: "simple total vastness". Vi sarebbe dunque una sensazione di pura profondità - e di vastità 76 indeterminata, senza parti e suddivisioni. Na­turalmente Zuckerkandl sa bene che l'udito, quando è colpito dai suoni, avverte normalmente provenienza e direzione: lo spazio viene "incontrato uditivamente" non tanto quando ci troviamo nella rara posizione descritta da James, quanto piut­tosto nella nostra immersione quotidiana tra cose che occupano posti differenti (places). In certo senso affiora qui quel­la distinzione tra luogo e spazio (aperto) su cui ho richiamato altrove l'attenzione. Ci si rende conto che si tratta di due esperienze dello spazio "essenzialmente differenti". Da un lato vi è lo spazio come aggregato di posti, dall'altro lo spazio come "intero indiviso". L'udito ci porterebbe su questa seconda esperienza dello spazio. Ciò viene detto proprio in rapporto al suono: "I suoni non sono, come le cose, "là" o "da qualche altra parte"; ciascun suono è ovunque (everywhere)" (p. 276). Benché la diffusione e l'irraggiamento del suono siano, io credo, uno dei caratteri rilevanti del modo di esserci del suono nello spazio, questa formulazione mi lascia perplesso. Il suono diffuso nella stanza e che in modo peculiare la riempie come l'aria che sta in essa, non è ovunque in essa, e cioè qui e qui e qui…, come se esso occupasse tutti i suoi luoghi. Spazio visivo e spazio uditivo - La posizione di Zuckerkandl è questa: lo spazio uditivo è qual­ cosa di totalmente diverso dallo spazio visivo: two worlds rigidly separated. Il suono non è inerente ad una cosa come il colore, non è nettamente localizzato, ma "si muove verso di noi, ci raggiunge, ci sorpassa, occupa e riempie lo spazio" (E. Strauss, Vom Sinne der Sinne). Di queste osservazioni Zuckerkandl approfitta osservando che il suono "comes from without" - e questo venire sarebbe qualcosa di completamente diverso dall'essere-in che caratterizza lo spazio visivo. Nel caso del passaggio dallo spazio visivo allo spazio uditivo vi sarebbe dunque è un passaggio dal rigido al fluido. Lo spazio sarebbe allora "flowing space" - spazio fluente. 77 Vi è qui qualcosa di giusto e qualcosa che mi sembra sbagliato. La questione della localizzazione del suono - Si comprende allora che la questione della localization of sound diventi un problema cruciale dal punto di vista di Zuckerkandl. L'orecchio può agire come un sostituto dell'occhio per stabilire il luogo della sorgente del suono. Egli sottolinea che mentre la localizzazione è una "caratteristica essenziale" nel caso del rumore, non lo è invece nel caso del suono (p. 279). Questa posizione sembra collimare con una corretta posizione fenomenologica, ma in realtà si tratta di un tema che va proposto non già presupponendo la differenza tra suoni e rumori, ma al contrario al fine di costituirla. Qui si pongono invece le cose come se, nel caso dei rumori, la cui nozione è data per ovvia, ci fosse un interesse particolare verso la sorgente, mentre è chiaro che possiamo prescindere dalla sorgen­te in rapporto a qualunque tipo di fenomeno sonoro. - Il problema della localizzazione disturba le considerazioni di Zuckerkandl perché sembrerebbe togliere specificità a quello che egli chiama spazio uditivo. È significativo a questo riguardo che egli affermi a chiare lettere che "la questione se e come l'udito sia in grado di orientarci nello spazio visivo non ha nulla a che fare con il problema dello spazio uditivo (auditory space) nel suo senso proprio" (p. 280). Una precisazione, dal suo punto di vista, obbligatoria. L'esperienza dello spazio come esperienza di una totalità indivisa - Vedere il cielo blu, giacendo sul dorso. Questo paragone viene considerato da Zuckerkandl in rapporto ad un suono che perdura. In questa visione della vastità, si vede comunque qualcosa, 78 un colore - il blu che funge qui come equivalente analogico del suono perdurante. Non si tratta dunque, secon­do Zuckerkandl, di percepire qualcosa di simile ad uno spazio vuoto, ma al contrario, di un'esperienza di massima pienezza. Lo spazio appare "filled to the utmost", e in questo modo "diventa vivo". Inoltre l'esperienza è caratterizzata da una perdita tendenziale della distinzione qui-là. Si tratta perciò di uno "spazio" nel quale "io mi perdo". Certamente con questo "io mi perdo" potrei dare espressione al fascino ed all'at­trazione che i suoni esercitano su di me. Ma potrei perdermi co­me nel cielo blu udendo timpani e castagnette? Si ha la sensazione che qui ci si rimetta il senso della ricchezza e della varietà dei fenomeni sonori per amore di una una formula troppo semplice. - Particolarmente enfatizzata è la possibilità di cogliere la differenza tra suoni risuonanti simultaneamente. Abbiamo accennato in precedenza alla questione. È peraltro necessario, dal punto di vista di Zuckerkandl, che in rapporto a questa possibilità si neghi in via preliminare l'idea che essi occupino "luoghi" differenti, poiché la stessa nozione di luogo (place) è tolta: il suono è in ogni dove. Quel problema associato a quella negazione diventa un vero e proprio enigma. Dal nostro punto di vista l'enigma non sussiste: riconosciamo fin dall'inizio una nozione di "spazio sonoro" che non ha nulla da spartire con quello di "spazio uditivo" nel senso qui inteso - spazio sonoro come sistema di relazioni - e cominceremo con il dire che distinguiamo le note nell'accordo intanto perché vi sono in esse percepibili differenze di altezza, ed eventualmente, se le note sono distribuite su più strumenti, differenze timbriche. Qui ci si avvia invece a sostenere che 1. richiedendo la distinguibilità una componente spaziale e 2. potendosi distinguere tra i suoni risuonanti simultaneamente ed infine 3. essendo i suoni privi di localizzazione, allora si deve assumere che l'esperienza uditiva ci offre uno spazio "sui generis" che solo essa è in grado di produrre. Confesso di sentirmi disorientato di 79 fronte a questo modo di porre il problema. Ordine tra i suoni e ordine spaziale - La tematica della spazialità così affrontata fa da sfondo e da supporto a quella delle strutture relazionali. Ma occorre prestare attenzione. Anche in questo caso l'equivoco è alle porte. Non si tratta, in Zuckerkandl, di passare ad una diversa concezione dello spazio come sistema di relazioni, ma piuttosto di far valere le relazioni musicali sul fondamento della nozione di "spazialità uditiva" come è stata proposta. Vi è un ordine tra i suoni ed esso non viene immesso dall'esterno ma appartiene ai suoni stessi. Ma perché un ordine spaziale? Questo passaggio assai delicato viene com­piuto tacitamente per il semplice fatto che si è mostrata in precedenza la spazialità intrinseca del suono. Se il suono è intrinsecamente spaziale, allora l'ordine fondato nei suoni sarà esso stesso da considerare come intrinsecamente spaziale, ma di quel tipo di spazialità assai speciale che è "rivelata" dall'espe­rienza musicale: "un ordine dunque dell'udibile come tale, il quale è (essendo l'udibile a sua volta spaziale) un ordine nello spazio uditivo" (p. 294). Io tenderei a sostenere che i suoni sono oggetti temporali, ma non sono "fatti di tempo"; e nemmeno sono "fatti di spazio". La distinzione da introdurre è se mai quella tra materia sonora e forma temporale. Le relazioni intercorrenti tra i suoni sono anzitutto relazioni che interessano la materia sonora. La rete di relazioni che essi formano costituisce uno "spazio sonoro" in un senso totalmente differente da quello in cui qui si parla di "spazio uditivo". Il nostro interesse a discu­tere con qualche dettaglio la posizione di Zuckerkandl sta nel fatto che per certi aspetti essa può sembrare simile alla nostra, mentre ne è lontanissima. 80 Lo spazio come ordine di giustapposizione e come ordine di interpenetrazione - Una più chiara comprensione della posizione espressa da Zuckerkandl può venire dalla distinzione che egli propone tra lo spazio come ordine di giustapposizione e come ordine di interpenetazione. Secondo Zuckerkandl i concetti di spazio vi­sivo, tattile e geometrico, nonostante le loro differenze, hanno un principio di ordinamento comune, che viene chiamato giustapposizione (order of juxtaposition). Questa parola deve essere strettamente intesa secondo la radice latina: iuxta significa "vicino", "accanto". Vi è dunque un ordine fondato sul­la possibilità delle cose di essere vicine o lontane tra loro, ovvero l'una accanto all'altra, e questo possibilità è propria sia dello spazio geometrico, che di quello tattile o visivo. Laddove vige questa possibilità vige anche la possibilità della separazione dei luoghi. Lo spazio implicato è un "aggregato di luoghi". Questo è anche ciò che Zuckerkandl intende quando parla di concezione classica (o scientifica, come egli anche dice) dello spazio. - Ma vi è un altro spazio non concepito come "aggregazione di luoghi" e in rapporto al quale è tuttavia possibile la separazione (e dunque un ordine). Zuckerkandl parla in proposito di ordine di interpenetrazione (order of interpenetration). L'esempio caratteristico di cui egli si serve è una triade, nel senso specifico che questo termine assume nel linguaggio tonale. Qui ci troveremmo in presenza di un ordine spaziale senza differenza di luoghi, senza "giustap­posizione". Eppure in esso la separazione è in ogni caso possibile. Si tratta di comprendere come ciò possa avvenire. Una strana domanda di Mach - Mach si chiedeva: "Perché tre suoni formano una triade e non un triangolo?" (p. 297). Strana domanda davvero! Forse da essa 81 ha origine tutta questa discussione di Zuckerkandl. Perché mai tre suoni dovrebbero formare un triangolo e ci si dovrebbe addirittura meravigliare che ciò non accada? Sembra che si voglia dire: qui c'è un ordine spaziale in tutto e per tutto simile a quello di una figura geometrica - i suoni si distinguono come i vertici di un triangolo, eppure non formano un triangolo, come dovrebbero, se ci trovassimo in un ordine spa­ziale concepito come aggregazione di luoghi. Cosicché po­tremmo avanzare l'ipotesi di essere invece in presenza di un ordine spaziale del tutto differente. - Torniamo così ai problemi ed alle analogie da cui questa discussione ha avuto inizio. Per vedere colori differenti nello stesso tempo, vi deve essere uno spazio che li separa. "L'oc­chio rivela lo spazio come aggregato di luoghi, e la giustapposizione come principio della sua organizzazione". Ammettiamo che i colori si diffondano intorno, che riempiano lo spazio come fanno i suoni ed ecco che non vi sarà più distinzione cromatica. Una nuvola bianca che si diffonda tutt'intorno in cie­lo disperderà a poco a poco il proprio bianco nell'azzurro . Nel campo dei suoni il punto cruciale è che "suoni simultanei non si fondono insieme into a mixed tone" (pp. 297 - 298). - Secondo Zuckerkandl, ed a lui lasciamo l'intera responsabilità di una simile affermazione, dovremmo dire che nella triade i suoni si sentono l'uno attraverso l'altro, cosicché tra essi vi sarebbe un rapporto di "interpenetrazione". Forse per tentare di capire una cosa simile dovremmo non solo fare riferimento ad una triade tonale, ma addirittura alla teoria degli armonici: nel do dobbiamo sentire il mi e il sol, questi suoni - pensando appunto agli armonici - sono in qualche modo l'u­no dentro l'altro. Ciò sarebbe una riprova del fatto che l'ordine spaziale non si dà solo se vi è "giustapposizione", ma vi è un ordine spaziale specifico fondato sulla "interpene­trazione" (p. 300). 82 - Il ripresentarsi della distinzione data per ovvia tra suoni e rumore segnala con particolare nettezza i vincoli di una simile impostazione con il linguaggio della tonalità. Infatti ciò che si è detto per la triade, non lo si può dire per note simultaneamente risuonanti in genere, ad esempio per un cluster; e tanto meno per i rumori. In ogni caso Zuckerklandl si spinge ad affermare che una melodia monofonica non è realmente in grado di manifestare l'ordine spaziale: la "natura spaziale di questo ordine restò velata finché la musica non giunse sino alla polifonia… poiché lo spazio dischiude se stesso solo nella simultaneità dei dati…" (p. 294), e ciò vale a maggior ragione per la dimensione armonica. La musica monodica sarebbe tendenzialmente giustappositiva… Peraltro questa affermazione non può essere troppo accentuata. La nozione di "qua­lità dinamica", tratta da Schenker, ha una notevole importanza per Zuckerkandl e suggerisce un impianto di discorso che abbraccia naturalmente anche gli aspetti melodici. Qualità dinamiche e spazialità del suono - La differenza tra fatto puramente acustico e fatto musicale passa proprio attraverso la nozione di "qualità dinamica" e si intreccia nello stesso tempo con la tematica "spaziale". Per istituire questa differenza Zuckerkandl non mette anzitutto in gioco la sfera della cultura, ovvero l'integrazione di fatti acustici dentro il quadro della musica come funzione culturale, e quindi come portatrice di "sensi" che superano il puro dato di fatto uditivo, ma si richiama piuttosto al fatto che la pura differenza di altezza non può come tale essere indicata come un fatto musicale: essa diventa tale solo entrando in un sistema linguistico in cui le altezze si trovano in un rapporto dinamico l'una con l'altra, assumendo ciò che viene chiamato una qualità dinamica. Ciò che Zuckerkandl intende dire si comprende subito se si pensa al linguaggio della tonalità, dove l'esistenza di un centro tonale istituisce delle relazioni tra le note costitutive della tonalità (o, come 83 a mio avviso si dovrebbe dire più correttamente: l'esistenza di determinate relazioni tra le note istituisce un centro tonale). - Detto in breve: il parlare di qualità dinamica allude ad una tenden­ za ad andare-oltre, ed in una certa direzione, quindi a progredire o regredire oppure "a restare sul luogo", a stabilire un punto fermo, un punto di equilibrio. È singolare che qui l'autore, che per molti versi non è incline a riferire le formazioni musicali alle abitudini uditive, faccia dipendere questa nozione così rilevante all'interno del suo impianto teorico, dalla nostra "convenzionale educazione uditiva" (conventional ear training). In ogni caso la qualità dinamica non è una proprietà acustica, "ma la proprietà musicale dei suoni, la proprietà che rende possibile la musica" (1959, p. 22). I gradi della scala diventano così funzionalmente (e musicalmente) collegati gli uni agli altri. Un caratteristico esempio di qualità dinamica è naturalmente la "sensibile" - ma ogni altro gra­do del­la scala (tonalità), indica­to con accento circonflesso con simbologia di origine schenkeriana, ha la propria qualità dinamica. L'indicazione delle "tendenze" dei gradi della scala mo­stra con chiarezza la vicinanza con l'idea dell'organiz­zazione tonale. Queste tendenze peraltro non sono viste come un gioco dipendente dall'organizzazione particolare delle altezze, nella quale i rapporti di consonanza assumono un'im­portanza decisiva, ma piuttosto come dipendenti dal rapporto tra le qualità dinamiche e la presunta caratteristica eminente dello spazio musicale che Zuckerkandl chiama "interpe­netra­zio­ne". - Questa subordinazione della tematica della spazio uditivo al linguaggio della tonalità è evidentemente un limite tanto grave di questa impostazione da arrivare ad inficiarla. Si tratta di una questione che affiora dappertutto. Ad esempio, quando si afferma che in rapporto ad accordi che non formino una triade o un accordo non ammesso nell'ambito della tonalità non si può riconoscere la presenza di uno "spatial order" (p. 302); oppu- 84 re quando si sostiene che solo la (nostra) scala diatonica "è di genere differente rispetto a tutte le altre scale" e questo perché "essa, e solo essa, è udita come movimento; e so­lo nella misura in cui noi la udiamo così, come movimento, siamo giustificati a chiamare il suo ordine l'ordine dei suoni della nostra musica" (p. 315). L'attenuazione subito introdot­ta secondo cui comunque "altre culture possono avere esperienze simili con altre serie di suoni" (p. 316) appare in questo contesto del tutto priva di qualche giustificazione. - Dopo tutto ciò non vi è certo da sorprendersi se, secondo Zuckerkandl, occorre respingere in una posizione del tutto marginale la differenza tra suoni gravi ed acuti come pertinente al problema "spaziale". Sono le qualità dinamiche che contano e non le altezze come tali - e chi potrebbe negarlo? Il problema è che le qualità dinamiche sorgono sulla base delle differenze di altezza e dei rapporti che si istituiscono conseguentemente. Naturalmente Zuckerkandl sa che anche le altezze contano qualcosa, e lo dichiara, ma non vi è dubbio che il privilegio assoluto vada alle "note" come qualità "spe­cifiche" piuttosto che in generale alle altezze ed ai timbri. Peraltro, egli non è disposto a ritenere meramente convenzionali qualificazioni come "sopra" e "sotto" riferite ai suoni, ma queste caratteristiche verrebbero a confermare l'idea di una spazialità provvista di qualità del tutto peculiari che sarebbe appunto quella spazialità offerta dalla musica. "Qui la differenza tra sopra e sotto significa più che una differenza di locazione spaziale; significa una differenza nella qualità spaziale, noi potremmo quasi dire nel valore spaziale (spatial value)". Si sarebbe quasi tentati di assentire ad una simile formulazione se essa fosse orientata in direzione della tematica immaginativa. Ma in realtà, nonostante qualche cenno che sembra far sospettare un simile orientamento, alla fine ci si rende ben conto che si è lontanissimi dal porre la questione in termini di valori immaginativi e di immaginazione in genere. È invece nettamente prevalente 85 l'idea che sia in questione proprio la natura dello spazio, ed anzi persino la vera natura dello spazio. L'autore non rinuncia infatti all'ambizione di far valere le proprie osservazioni su un versante propriamente epistemologico. La sua tesi conclusiva è che la musica potrebbe rappresentare il punto di origine di una nuova filosofia dello spazio di interesse generale, e non soltanto musicale (cfr. p. 375 sgg.). VI Spazio sonoro Uso traslato del termine di "spazio" - L'espressione "spazio sonoro" è spesso impiegata in contesti molto vari e con significati diversi, non sempre definiti con precisione. Nella sua vaga metaforicità essa non ha avuto in real­tà nessun impiego realmente significativo nella teoria della musica: qualche stimolo maggiore essa ha offerto forse nel cam­po della riflessione filosofica ed estetica - che peraltro è sempre stata più propensa, se mai, a chiamare in causa la tem­po­ralità della musica, come un elemento che sembra essere ad essa più interno. Nel quadro di una considerazione fenomenologica che ha di mira l'individuazione e l'elucidazione dei concetti musicali fondamentali le cose cambiano: la tematica dello spazio non si presenta soltanto in rapporto al problema dell'ambiente in cui il suono risuona, ma anche in rapporto ai suoni considerati come tali, benché in tal caso si possa parlare di spazio solo in senso traslato. - Ciò non vuol dire tuttavia che la parola "spazio" venga impiegata in un senso solo vagamente determinato. Si tratta di ricorrere ad immagini spaziali, che peraltro non debbono essere considerate come pure e semplici decorazioni discorsive. Talora le immagini ci servono proprio in quanto manifestano un punto di vista che può aiutarci ad organizzare le idee, a stabilire delle 86 chiavi interpretative, a fornirci un impianto sulla cui base è possibile apprestare autentici strumenti del com­­prendere. Spazio sonoro come immagine che inclina verso un concetto - "Spazio sonoro" è un'immagine che inclina verso un concetto. Essa trae suggestioni sia dall'esperienza concreta della spazialità sia dalle forme più o meno astratte della sua elaborazione. Sopra, sotto, in alto, in basso, a destra, a sinistra, vicino, lontano... sono opposizioni costituite nell'esperienza quotidiana dello spazio. Lo spazio come ciò-che-tutto-abbraccia richiede già un pensiero speculativo in cammino: mentre la connessione con la forma e la figura rimandano all'astrazione geometrica e quella con la relazione persino alla pura astrazione logica. Totalità e relazione - La pluralità di sensi dell'espressione "spazio sonoro" è forse attraversata da un tratto comune - e precisamente che in essa è comunque coimplicato un riferimento alla nozione di totalità o a quella di relazione, o ad entrambe insieme. Così una prima accezione generalissima di "spazio sonoro" è applicabile alla totalità dei fenomeni sonori, a qualunque cosa possa colpire il nostro orecchio: suoni o rumori naturali o artificiali, prodotti dalle cause più diverse. Spazio sonoro in questa prima accezione è l'universo dei suoni, senza alcuna specificazione. Esso rappresenta un campo aperto per le selezioni operate dalla musica nella varietà delle sue manifestazioni, che possono essere orientate da criteri molto differenti. Nessun suono è in sé, intrinsecamente, un "suono musicale". - In questo campo aperto possiamo circoscrivere una classe di suoni per i quali l'altezza rappresenta un criterio di differenzia- 87 zione. L'espressione di "spazio sonoro" potrà allora essere utilizzata, in un'accezione più ristretta, sia per indicare la totalità dei suoni che hanno questa caratteristica, sia per segnalare la circostanza secondo la quale ogni suono intrattiene una relazione determinata rispetto ad ogni altro. Come nello spazio reale (o nello spazio geometrico) ogni punto ha una posizione univoca rispetto ad ogni altro e può essere localizzato mediante la determinazione relazionale di questa posizione, così ciascun suono occupa un luogo nello "spazio sonoro" e si trova perciò in una posizione relazionalmente definita rispetto ad ogni suono appartenente allo spazio stesso. L'espres­sione di "spazio" richiama allora l'attenzione anche sull'esistenza di un ordine intrinseco, che è dato con l'oggetto stesso. Possiamo chiedere "dove" si trova un determinato suono ed a questa domanda possiamo rispondere non tanto con un "qui" o un "là", ma con un "tra" che localizzi il suono rispetto ad altri - e quindi in modo del tutto interno alla totalità stessa. Altri impieghi del termine di spazio sonoro sono naturalmente possibili, e di essi possiamo rendere conto sulla base di considerazioni assai simili a queste: ad esempio, si può parlare di spazio sonoro in rapporto all'intervallo di ottava, di spazio tonale, di spazio sonoro di una melodia, ecc. Nota, intervallo e flusso - La parola altezza ha un senso oscillante tra spiegazione fisica e datità percettiva. Dal punto di vista fisico si parlerà piuttosto di frequenza e si riporterà l'altezza percepita alla frequenza (dominante) dell'evento vibratorio che genera il suono; mentre dal punto di vista percettivo, e dunque anche musicale, non è affatto facile spiegare in parole di che si tratta ed occorrerà perciò illustrarne la nozione mediante l'esibizione di esempi: occorrerà, in altri termini, far riferimento esemplificativo alle note. Questa parola è entrata nella terminologia musicale anzitutto per indicare il segno scritto, contendendo il terreno a figura o lettera: ma è risul- 88 tato ben presto naturale impiegarla anche per indicare la cosa significata, e quindi il suono stesso designato dalla figura. Il carattere del suono-nota sta nella possibilità del ripresentarsi come "lo stesso" e nel suo poter essere chiaramente riconosciuto come tale, sta dunque nella sua identificabilità anche quando essa si presenta all'in­terno di corpi (timbri, involucri timbrici) differenti oppure quando ricorre più di una volta in un decorso temporale unitario. Nella terminologia musicale si parla di "stessa nota" anche per note che si trovano tra loro in intervallo di ottava e quindi di altezza differente. Il contesto chiarisce l'uso. - La nota si dà come qualcosa di semplice. In rapporto ad essa può valere l'analogia con il punto, immagine eminente della semplicità. Questa analogia svolge una parte significativa nel­la nota- segno secondo la scrittura musicale corrente. Questa rappresentazione è particolarmente notevole per il fatto che mostra che il carattere di oggetto del suono deve in ogni caso risolversi in determinazioni relazionali. La figura del punto sopprime infatti la possibilità di una differenziazione qualitativa sul piano segnico, cosicché l'individualità del punto e la sua differenza rispetto agli altri punti deve essere esibita attraverso un reticolo di linee inteso come base per l'istituzione di relazioni. Il rigo è come uno spazio contrassegnato da assi car­tesiani: la "chiave" indica il punto-origine che peraltro "porta fuori" dal segno indicando una determinata nota reale come riferimento di base. Ogni punto sul rigo occupa una posizione esattamente determinata rispetto ad ogni altra posizione possibile. Ma vi è una importante differenza. Lo spazio sonoro in questa accezione è pieno di lacune. È più simile alla maglia di una rete, di cui le note occupano i nodi, piuttosto che ad una superficie. Date due note, vi è una distanza più o meno grande che le separa. Esse possono essere considerate gli estremi di un intervallo. - Il suono e l'intervallo sono nozioni che si richiamano l'un l'al- 89 tra, ma sono anche chiaramente distinte. L'uno è un plenum percettivo, qualcosa che viene afferrato uditivamente e fissato nella sua identità. L'altro invece è qualcosa di insostanziale, un vacuum che può essere afferrato solo appigliandosi alle palizzate che lo delimitano. Ma vi è realmente questo vuo­to? Intanto bisogna subito osservare che parlando di note e di intervalli è difficile fare qualche passo avanti senza presupporre un qualche sistema musicale. Se presupponiamo la divisione dell'ottava in dodici semitoni eguali, ogni nota è nettamente distinta da ogni altra, occupa una posizione fissa e il semitono rappresenta appunto l'intervallo minimo. Tra una nota ed un'altra qualunque vi sono eventualmente altre note, se l'intervallo è maggiore dell'intervallo minimo, altrimenti non vi è proprio "nulla"- come non vi è nulla tra un tasto nero ed un tasto bianco del pianoforte quando essi sono contigui. Ci troviamo allora sul versante del discreto: in esso vi sono oggetti-punti, distanze tra essi, vuoti e pieni che si alternano. La parola nota può peraltro essere assunta in un'ac­cezione più ampia, che non presuppone un sistema musicale, se conveniamo di usare questo termine per indicare il suono puntuale in generale, qualunque sia la frequenza che gli è correlata. Con ciò vengono tolte le limitazioni dipendenti da una suddivisione precostituita dello spazio sonoro. Ma questo non è che il primo passo per pervenire ad una nuova nozione di unità sonora che in certo senso sopprime il vuoto dell'in­tervallo saturandolo e rendendo di conseguenza problematica la stessa nozione della nota così come la abbiamo or ora definita. Se le note sono punti, tra nota e nota possiamo certamente interpolare altri punti fino a quando l'intero intervallo viene riempito, facendo apparire qualcosa di interamente diverso da una successione di punti - e precisamente un flusso sonoro la cui altezza è sottoposta ad una variazione continua. In questo modo passiamo dal versante del discreto al versante del continuo - proponendo una nozione di unità sonora che non è più in alcun modo caratterizzabile come suono-oggetto o come suo- 90 no-punto. Viene così portata in primo piano la processualità del suono. I suoni-oggetto si trovano dentro questa processualità e si può forse intravedere fin d'ora che le opposizioni che qui sono state profilate - suono ed intervallo, oggetto e processo - sono alla base delle tensioni attraverso le quali diventa possibile esprimere attraverso i suoni. Suoni glissanti - La tradizione musicale occidentale è tutta attraversata dal predominio del suono-nota e quindi in generale è ampiamen­te spostata sul versante del discreto, piuttosto che su quello del continuo, cosicché è assai difficile trovare, nella nostra musica del passato, esempi di flussi sonori tanto pronunciati come si possono trovare nella musica popolare o in quella colta di altra tradizione. Occorre naturalmente distinguere tra glissandi brevi che hanno carattere di ornamentazioni (ad es. brevi anticipazioni del suono di arrivo o decadenza del suono di partenza) da suoni glissanti per così dire a grande gittata, che in certo senso si esibiscono in se stessi con grande forza espressiva, come può accadere di sentire nei canti di donne marocchine o nell'Opera Cinese. - Per indicare un flusso sonoro nella terminologia musicale vi è il termine di "glissando" (o "glissato"). Esso è caratteristico per il fatto che il tipo di movimento a cui allude - lo scivolamento - contiene in sè l'idea di un cadere in avanti o al­l'indietro con u­na forza attrattiva a cui è difficile resistere. Forse è addirittura il caso di aggiungere: si tratta di un cadere per il fatto che il movimento si spinge troppo avanti o troppo indietro, sopravanzando quel punto di equilibrio in cui sarebbe possibile il riposo. I suoni glissanti sono considerati nella nostra tradizione musicale fenomeni sostanzialmente marginali, ed anche spesso disapprovati nelle pratiche strumentali come sgradevoli "mia­golii" e classificati senz'altro tra gli "ef­fet­ti" da evitare. Essi sono spesso relegati in brani musicali di "genere". La variazione continua in senso 91 letterale viene normalmente evitata e viene sostituita da una successione molto veloce di "punti" sonori vicini tra loro in modo da salvare, in queste forme "punteggiate", il principio della nota e dell'in­tervallo. Del resto il glissando è considerato, ad esempio da Rimsky-Korsakov nel suo Trattato di orchestrazione, come caratteristico dell'arpa, strumento ti­pi­camente "di­screto", in cui tuttavia la coda del suono precedente si sovrappone all'attacco di quella successiva, creando qualcosa di simile ad un effetto di scivolamento: cosa che tuttavia richiede che si prendano delle precauzioni per evitare impasti dissonanti "dovuti al perdurare della vibrazione delle corde"(lez. 2). Egli annovera in ogni caso questa possibilità tra gli "effetti artificiali" (lez. 25). Anche nel violino, che sarebbe invece in grado di produrre una variazione sonora continua, i glissandi sono di norma ottenuti dando una qualche evidenza alla successione di punti. Il violino di ricordo tzigano di Pablo de Sarasate se ne serve in quantità e con grande maestria all'in­terno del genere (cfr. Modi Tzigani): - Vi sono anche esempi più sofisticati e di tutt'altra natura in cui il glissato interviene tra note vicine come delicata transizione espressiva da una nota all'altra. Nel passo seguente della Sonata per violino di Debussy potrà sembrare a molti che il vio­linista J. Thibaut accompagnato al pianoforte da Cortot sembra abbandonarsi, in una registrazione del 1929, ad un riprovevole eccesso nello "scivolare" tra le note, forse tuttavia non così estraneo alle intenzioni di Debussy che, almeno in alcuni punti (qui in batt. 16-17), richiede esplicitamente il glissato in partitura con un'apposita lineetta di collegamento tra le note: 92 - Naturalmente i suoni glissanti sono presenti ovunque nella musica jazz, e non vi è dubbio che per trovare un impiego effettivo in ambito musicale della nozione di flusso sonoro come un'unità sonora caratterizzata da una variazione continua di altezze, bisogna venire a tempi relativamente recenti - basti pensare ai casi famosi dell'inizio della Rapsodia in Blu (1924) di Gerswhin oppure del suono di sirena in Ionisation (1931) di Varèse. - La musica "elettronica" ne ha poi fatto libero e larghissimo uso insieme a molte altre possibilità direttamente derivanti dal­la produzione calcolistica del suono. La ricerca di nuove possibilità sonore nella seconda metà del secolo XX fino alle soglie del nostro ha poi condotto ad un uso di sonorità fluen­ti anche nella musica strumentale, quando questa possibilità era consentita dallo strumento utilizzato (cfr. ad es. I. Xenakis, Dikhthas, per violino e pianoforte). VII Flussi sonori Il flusso sonoro come nuova unità sonora In rapporto ai suoni-nota in successione che abbiano una certa durata sembrerebbe pertinente l'analogia con se­g­menti, piuttosto che con punti. Questa circostanza ci invita a fare una precisazione. Il segmento si impone come analogia essenzialmente in rapporto all'aspetto temporale del suono - esso ne contrassegna la durata. Così accade nella notazione a tratti dei sequencer midi. In essa le note sono rappresentate da linee che ne indicano la durata relativa, mentre l'altezza è contrassegnata dalla posizione della riga in cui è disegnata la linea. Tuttavia l'altezza può essere pensata come punto che non ha bisogno di durata - operando 93 tuttavia una sorta di idealizzazione, dal momento che, in realtà, la progressiva riduzione della durata fa assumere al suono un carattere percussivo rendendo l'altezza percettivamente indistinta. L'argo­mento secondo cui l'elemento "durata" è comunque implica­to nell'altezza, perché questa si misura in numero di oscillazioni al secondo contiene invece una confusione tra livello fisico e livello fenomenologico. - In ogni caso ciò che ci offre la percezione di note in successione non è una pura successione può essere caratterizzato come un movimento che passa da un'altezza all'altra, tracciando una curvatura motivica. Sarebbe del tutto erroneo affermare di essere in presenza di una pura e semplice alternanza di altezze tra loro irrelate. La percezione del movimento verrebbe ostacolata soltanto se fra l'uno e l'al­tro suono venissero interposte pause abbastanza grandi o i suoni fossero molto distanti tra loro. - Sarebbe anche sbagliato ritenere che una curvatura motivica sia una successione di punti sonori in cui manchino i punti intermedi: saturando gli intervalli tra le note, ovvero facendo risuonare le altezze intermedie in modo da dare una sensazione di continuità, otteniamo appunto una vera e propria nuova unità sonora. - Nel flusso sonoro non ci sono più intervalli. E non ci sono nemmeno più punti sonori. L'inizio è puntualmente determinato e così anche la fine, ma il primo fugge subito via e la fine ha carattere di un troncamento. Il movimento, che era in precedenza da luogo a luogo, è diventato ora un processo fluente, nel quale, più che di punti, si potrebbe parlare di fasi che rappresentano sempre fasi di transizione. Ciò stabilisce una novità effettiva rispetto al caso precedente, novità che risulta chia­ra soprattutto se attiriamo l'attenzione sul modo in cui un flusso sonoro si propone come un'unità. 94 Ritenzione e ricordo fresco - Vogliamo distinguere tra l'unità costituita post factum attraverso il ricordo fresco e l'unità costituita nella produzione stessa del flusso attraverso la ritenzione. Entrambe queste nozioni debbono essere distinte dal ricordo nel senso corrente del termine. Con ricordo fresco intendiamo il ricordo che si mantiene di un evento quando l'evento si è appena concluso. Nel ricordo fresco l'evento è appena trascorso ed è dunque ancora presente con particolare vivacità nella memoria senza alcun intento memorativo ad esso rivolto. In questo senso, esso non è la stessa cosa del ricordo in senso proprio e comune, inteso come un esplicito essere diretto ad un evento trascorso che viene nuovamente attualizzato. Da entrambi si deve distinguere la ritenzione che accompagna l'evento nel suo decorso e che rende possibile il nesso del momento attualmente dato con il momento appena passato. Ora, ciò che resta del flusso nell'istante in cui esso termina è il suo andamento globale - quindi il flusso stesso nella sua forma complessiva caratteristica. Va da sé che deve essere soddisfatta una condizione temporale: la durata del flusso deve essere abbastanza breve altrimenti questo andamento subisce una forte semplificazione ed il ricordo fresco è chiaro soltanto per i suoi sviluppi più vicini. Se tuttavia non vi è una simile "sfocatura", allora indubbiamente l'andamento globale propone una figura compiuta ed unitaria come potrebbe essere la linea seguente: - L'unità costituita attraverso le ritenzioni è del tutto diversa, poiché esse non contengono alcuna immagine globale del flusso, 95 ma attraverso di esse questa immagine prende forma nel suo farsi. Ciò non significa che non vi sia unità, ma che siamo in presenza di un'unità che va facendosi nel corso di un processo. In ogni composizione musicale, nella quale il carattere processuale è sempre presente, questa è la forma di unità realmente rilevante, e non quella che risulta da ciò che resta del brano musicale non appena esso è giunto al proprio termine, nella sua maggiore o minore nettezza e distinzione. Ciò è tanto più vero in rapporto al flusso sonoro che è un suono-pro­cesso, saremmo quasi tentati di dire, in senso letterale. Come abbiamo detto, in esso non vi sono più punti, e quindi luoghi staticamente determinati, ma piuttosto momenti e fasi. Cosicché piuttosto che punti si dovrebbe parlare di tendenze: Così vi è inizialmente una tendenza a salire, poi questa tendenza si inverte, e subentra una tendenza a discendere. In un andamento come questo vi sarà certamente un "punto culminante" - che è un punto oggettivamente determinato come del resto ogni altro punto - ma esso stesso ha il carattere di un momento di passaggio. - Il punto culminante ha carattere transizionale. Esso è raggiunto in una tendenza ascendente da cui ha senz'altro inizio una tendenza discendente, senza alcun indugio nel punto cul­minante. L'inversione globale della tendenza viene chiaramente avvertita, ma è perfettamente possibile che non venga colto il punto esatto in cui avviene questo mutamento. In certo senso questo punto esat­to semplicemente non esiste. Lo stesso suono quando appartiene ad un flusso sonoro viene inteso, e ciò significa anche 96 che viene udito, in tutt'altro modo che quando non vi appartiene. Questo naturalmente vale per le note in genere: in contesti differenti la stessa nota assume sensi differenti. Ma nel caso dei flussi sonori questo problema di or­dine generale assume un'in­clinazione specifica proprio per il fatto che sarebbe descrittivamente erroneo affermare che, nel ca­so dei flussi sonori, si percepisca niente altro che una successione di suoni di frequenza differente. - Occorre prestare attenzione a non sovrapporre ciò che sappiamo a ciò che sentiamo. Noi sappiamo benissimo che il flusso è costruito, nel caso di esempi realizzati al calcolatore, mediante numeri di frequenza ben determinati, quindi in modo discreto. Ma la percezione non sa nulla di questa discretezza nel metodo della costruzione. Noi udiamo un fluido scivolamento del suono, una unità che si evolve in un processo. - Considerando flussi sonori di durata abbastanza lunga, si può sottolineare un'altra differenza tra note e flussi, che richiede si distingua tra unitarietà e oggettualità. Una nota ha carattere di oggetto ed è identificabile come tale, mentre nel caso dei flussi si mantiene l'idea del­l'unità, ma si deve abbandonare quella dell'oggettualità. Il suo­­no-processo si contrappone alla puntualità del suono-nota come suono-oggetto. Esempi di flussi sonori - Qualche altro esempio di flusso sonoro può certamente essere opportuno. In particolare, sembra interessante produrre un suo­ no ed un grafico che hanno la stessa struttura, in un senso letterale e non in una generica approssimazione. Naturalmente ciò è possibile perché esempi sonori e grafici corrispondenti sono costruiti calcolisticamente. Così possiamo anzitutto costruire il grafico di una funzione matematica - sia ad esempio il seguente: 97 1000 800 600 400 200 10 15 20 La funzione che ha generato questo grafico [15*(Sin[t]*t1.2+40)], chiamiamola f1, potrà essere considerata come descrivente l'an­ da­mento di una variazione di frequenze: possiamo così considerare, nel grafico, l'asse delle ascisse come asse della durata e l'asse delle ordinate come asse delle frequenze. Ma se vogliamo dare questa interpretazione, f1 dovrà essere considerata come una funzione derivata dalla quale, attraverso una procedura di integrazione, si potrà ottenere la funzione corrispondente primitiva f0, ed è questa funzione che deve entrare in un'istruzione generatrice di suono in modo da ottenere un flusso sonoro che abbia esattamente la forma descritta dalla funzione f1. Nell'edizione a stampa ovviamente ci dobbiamo contentare della rappresentazione grafica della funzione generatrice. Nota Nel programma Mathematica della Wolfram Research l'istruzione Play provvede alla realizzazione del suono, e la funzione f0 verrà proposta in una funzione del tipo Sin[2 p f0] che a sua volta entrerà nell'istruzione Play. In essa dovrà naturalmente essere determinato anche il campo di variazione della variabile temporale t, nell'esempio precedente: Play[Sin[2 p f0],{t,0,21}]. In realtà, l'inversione finale della direzione, che è chiaramente visibile nel­la figura, è difficile da cogliere uditivamente, a meno che non si sia stati avvertiti preliminarmente oppure se non ci si metta sott'occhio la rappresentazione grafica come guida del­ l'ascolto. Si tratta di un'annotazione di dettaglio, che tuttavia può integrare le precedenti osservazioni sulla nozione di tendenza 98 come una nozione che ha una precisa valenza fenomenologica. Mentre il grafico offre una visione statica data tutta in una volta, e ci consente di cogliere il mutamento di direzione che interviene all'estremità destra della figura, nel caso in questione, la direzione ascendente che inizia poco prima del diciottesimo secondo viene costantemente confermata per un tratto abbastanza lungo, cosicché la tendenza si va rafforzando al punto da oltrepassare percettivamente il punto di volta ostacolando la manifestazione della fase discendente subito troncata. - Come nel caso precedente, anche nel prossimo esempio si costituisce ritenzionalmente nel corso del processo una struttura che si ripete, con le conseguenti anticipazioni percettive sullo sviluppo a venire. 800 700 600 7.5 10 12.5 15 17.5 20 Simili esempi ci riportano in certo senso agli albori della musica elettronica - molti e molti anni fa - quando questi risultati erano certamente assai più complicati da ottenere di quan­to lo siano nei tempi nostri. Prendiamo il seguente esem­pio: Il suono risultante può essere manipolato aggiungendo una sorta di vibrato ed un effetto di spazializzazione. Così facendo il fenomeno del "movimento", che è già in ogni caso presente nella 99 variazione continua del­l'altezza, viene accentuato come un vero e proprio attraversamento del suono in uno spazio tridimensionale. Sovrapposizioni tra suoni "fermi" e flussi sonori - La funzione che produce un suono di altezza fissa conterrà una costante numerica che rappresenta la frequenza e una variabile temporale. Il suo grafico sarà una linea rettilinea. 800 600 400 200 0.5 1 1.5 2 2.5 3 In realtà, anche un suono come questo può essere considerato dal punto di vista del flusso: in rapporto ad esso si può ancora parlare di un fluire e persino di una tendenza interna che viene costantemente confermata. Ma in un senso essenzialmente differente. Potremmo dire che esso attraversa il tempo, che il suo fluire è un puro perdurare, esso procede ed avanza in un'accezione che interessa unicamente la dimensione temporale. Per quanto invece riguarda il luogo, esso non si muo­ve, sta dove si trova. In questo senso abbiamo parlato prima di oggetto o di punto sonoro, in contrapposizione al suono come flusso. La nota che perdura è un suono tenuto fer­mo. Il fluire inteso così potrebbe essere indicato come un puro defluire, in esso manca quello spingersi oltre, quel protendersi in avanti che caratterizza il flusso sonoro, mentre potremmo par­lare dell'affluenza del suono per indicare la protenzione concreta, legata all'effettiva variazione delle altezze. Dal pun­to di vista di una fenomenologia dell'ascolto, un suono che si prolunghi nel tempo tenderà - come in ogni caso di "monotonia"- ad allontanarsi dal centro dell'attenzione, men­tre al flusso sonoro spetta uno specifico e durevole interesse percettivo, l'orec­chio 100 non può che mantenerlo in primo piano restando da esso attratto, esattamente come un punto luminoso in movimento in un ambiente oscuro non può che attrarre su di sé, nelle proprie evoluzioni, il nostro sguardo in maniera quasi coercitiva. - Nella sovrapposizione di un suono "tenuto fermo" e un flusso, si dànno tre circostanze differenti che sono diverse non solo strutturalmente, ma anche qualitativamente. Nel caso seguente le altezze in variazione intersecano il suono tenuto fermo in due punti e per il resto non si discostano troppo da esso. In queste circostanze il suono tenuto fermo non viene facilmente udito come un suono indipendente, ma interagisce con il flusso formando con esso una stretta unità. 800 700 600 500 400 300 11 12 13 14 15 Se si trova nettamente al di sotto del flusso, il suono tenuto fermo assume un carattere di fondale sul quale si disegna la traccia del suono in movimento. 800 700 600 500 400 300 11 12 13 14 15 101 La stessa cosa non si può dire invece per la situazione simmetrica ma inversa, in cui il suono tenuto fermo si trova nettamente al di sopra del flusso. In tal caso i due eventi sonori sono chiaramente differenziati, l'evento sonoro più acuto mantiene il primo piano mentre il movimento conserva il proprio profilo come un secondo piano ben caratterizzato 800 700 600 500 400 300 11 12 13 14 15 Lo spazio sonoro come flusso - Lo spazio sonoro, inteso come totalità delle altezze, può essere considerato, concretamente, come un flusso. In realtà, dal punto di vista fisico, l'altezza rimanda semplicemente alla frequenza e se parliamo di spazio sonoro come totalità si intenderà soltanto che esso comprende qualunque frequenza che abbia un corrispondente uditivo identificabile e differenziabile. La totalità di cui si parla sottintende che questi corrispondenti uditivi si diano in modo discreto. La concretizzazione percettiva dell'idea di spazio sonoro richiede invece il passaggio alla nozione del flusso sonoro, e la nozione di totalità si connette allora con la continuità. "Tutte" le note comprese in un intervallo sono rappresentate percettivamente dal flusso so­noro che ha come estremi gli estremi dell'intervallo. Così lo spazio sonoro sarà esso stesso concepibile come un flusso a­scendente o discendente di cui si può dare un'esemplificazione esattamente come abbiamo fatto nei casi precedenti. Occorre tuttavia tener presente che nella nozione di spazio sonoro così concepito vi è una rilevante componente ideale-concettuale 102 esat­tamente come nel caso dello spazio cromatico inteso come solido dei colori, ovvero come una figura geometrica che racchiude per principio ogni possibile determinazione cromatica. Un simile solido non esiste "alla lettera". Esso esiste anzitutto come costruzione concettuale, ma di esso possiamo in ogni caso dare una rappresentazione visiva e quindi proporlo in una concrezione percettiva effettiva. Il fenomeno percettivo di base è una semplice scala chiaroscurale o una sfumatura cromatica. Nel caso dello spazio sonoro vi è un analogo elemento di idealizzazione, ma forse ancor più che nel caso dei colori, noi possiamo riempire questa idea con l'esempio di un flusso che comincia dal basso, da molto in basso, e procede verso l'alto, sempre più in alto.... 10000 8000 6000 4000 2000 5 E nella direzione discendente: 10 15 20 10000 8000 6000 4000 2000 5 10 15 20 Deve essere ben chiaro: questo non è lo spazio sonoro, nemmeno limitatamente alle altezze, ma una base esemplificativa per discuterne il concetto. 103 Annotazione: Nella determinazione dei flussi realizzati nel paragrafo precedente la variazione della frequenza è puramente aritmetica e non tiene conto del fatto che le frequenze interessano essenzialmente nella loro progressione geometrica. La conseguenza è che i valori estratti dalla funzione sono poco numerosi nella fascia dei numeri bassi a confronto di quelli nella fascia dei numeri alti, cosicché vengono creati flussi troppo lunghi nelle alte frequenze e troppo brevi nelle basse frequenze. Questo scompenso non era particolarmente significativo per i nostri scopi esemplificativi precedenti, mentre passando allo spazio sonoro come flusso questo scompenso peserebbe sull'utilizzabilità degli esempi. Tenendo conto che una progressione geometrica richiede una funzione esponenziale e può essere concepita come generata dalla sua ragione elevata successivamente a 0, 1, 2, 3... , dal punto di vista informatico-matematico, occorre apprestare un metodo per stabilire la "ragione" della progressione necessaria per passare in un determinato tempo da una frequenza all'altra. I parametri utili saranno dunque la frequenza iniziale, la frequenza finale e la durata. Nel programma Mathematica si utilizzerà a tale scopo l'istruzione FindRoot che, attraverso quei parametri, è in grado di determinare la ragione cercata che verrà integrata nella routine complessiva in modo da generare flussi correttamente equilibrati. Continuità fenomenologica e tema della totalità - "Ma a che titolo puoi realmente sostenere che nel flusso sonoro dell'esempio siano date tutte le frequenze possibili? E del resto: che senso ha qui l'espressione "tutte"?" - Ogni perplessità sarebbe del tutto giustificata tenendo conto del modo in cui il suono è stato prodotto. La tabella dei valori prodotta dalla funzione su cui è stata costruito il flusso è costituita da una limitata molteplicità di numeri di frequenza, compresi tra 16 e 10000 Hz. - A quella domanda possiamo rispondere così: Il flusso contiene tutto perché ad esso non manca nulla. Per convincerci non basta certo la semplice esibizione del flusso stesso, ma dobbiamo costruire un flusso a cui manca qualcosa, ovvero un flusso in cui sia nettamente percepibile un salto, una lacuna. Nell'udire il flusso udiremo un salto, dunque in esso manca qualcosa: e così ora sappiamo benissimo che cosa intendiamo dire quando diciamo che nello spazio sonoro concepito come flusso non manca nulla, non vi 104 sono buchi, non vi sono lacune. In questo senso la totalità è data nell'e­spe­rienza stessa della continuità. La chiusura dello spazio sonoro - Molti manuali di teoria musicale riportano accurati grafici riguardanti le soglie di udibilità, ma non una parola su ciò che io chiamerei chiusura fenomenologica dello spazio sonoro, ben più rilevante dal punto di vista musicale. In realtà non si sa effettuare nessun passaggio tra il livello fisico-acustico e il livello musicale, cosicché l'uno viene brutalmente posto di fron­te all'altro senza che riescano a significarsi a vicenda. La differenza qui in questione è quella stessa che si ritrova tra una sequenza di suoni che "si interrompe" e una sequenza che invece "giunge al proprio termine" secondo una logica percettiva interna. - A differenza dei flussi sonori che riempiono un intervallo determinato e che si aprono e chiudono bruscamente, e che dunque hanno degli estremi, in rapporto allo spazio sonoro non è possibile parlare di estremi in questo stesso senso. Forse potremmo parlare di "margini" o "bordi", ma in ogni caso dando a queste espressioni un senso che deriva dal modo in cui lo spazio stesso si conclude in direzione ascendente verso l'alto e in direzione discendente verso il basso. Se consideriamo il flusso discendente nel suo segmento finale, è difficile sottrarsi all'idea di una discesa che rappresen­ta al tempo stesso un vero e proprio spegnersi del suono - tan­to questa idea è incorporata nel fenomeno uditivo. Ciò che l'udito coglie come rilevante non è tanto un punto in cui il suono si arresta nel senso di un troncamento, ma un andare del suono verso la propria fine. Il suono va morendo e cessa secondo una logica percettiva inesorabile. Nessuno direbbe: ora il flusso sonoro si è interrotto! Il suono cade sempre più, e questo sempre più non può rinnovarsi all'infinito. Sentiamo di andare verso la fine, sentiamo che il desti- 105 no di questo flusso è il silenzio. Ma questo spegnersi del suono nel silenzio ha una singolare peculiarità: esso non è proposto da una sensazione di progressiva attenuazione dell'in­tensità, quanto piut­tosto da una sensazione di ispessimento crescente - il suono, all'inizio molto sottile, sembra a poco a poco aumentare il proprio volume, come se diventasse sempre più spesso e pesante ed è proprio attraverso questa sensazione - certamente mista di una componente immaginativa - che si afferma il progresso verso il silenzio. Non dobbiamo affatto temere le obiezioni più ovvie che si potrebbero muovere a formulazioni come queste, dal momento che all'interno delle nostre considerazioni le descrizioni qualitative non solo sono ammesse, ma necessarie. Anche nella direzione inversa ritroviamo lo stesso carattere di un andare verso i margini dello spazio sonoro, come u­no "spegnersi" del suono nel silenzio, e tuttavia secondo una diversa modalità. Il suono ora sale ora sempre più in alto assottigliandosi sempre più, e in questo assottigliamento esso annuncia la propria uscita di scena. Vi è dunque una differenza: nel caso precedente il suono si esauriva, la tensione del movimento era progressivamente decrescente - il suono, come ci siamo espressi, cadeva. Questa forma dell'essere-in-cadenza - il richiamo a questo termine musicale non è affatto inappropriato - appartiene certamente più alla dimensione discendente che a quella ascendente: la tensione cresce nel salire, ma nello stesso tempo l'assot­ti­glia­men­to del suono reagisce a questa crescita annunciando che es­so è destinato ad uscire dal campo uditivo, così come un oggetto che si allontana sempre più nel campo visivo apparendo sempre più piccolo. - Se si indugia a lungo, in un brano musicale, su suoni acutissimi, ad esempio sulle regioni più acute raggiungibili da violini, flauti, ottavini, ecc. oppure ottenibili sugli strumenti con particolari accorgimenti - come nel caso dei flautati dei violini - si può cercare in questo modo di ottenere effetti esasperati, che derivano 106 proprio dal carattere percettivo di "margine dello spazio sonoro" che assumono queste regioni. Attraverso la nozione di chiusura sappiamo che c'è una regione media dello spazio sonoro nella quale ci sentiamo a casa, e ci sono regioni marginali che hanno una loro potenzialità espressiva proprio per il fatto che sono fuori da questa medietà. VIII Consonanza e dissonanza Consonanza e dissonanza come caratteri dello spazio sonoro - Io credo che il riferimento ai flussi sonori, ed in particolare allo spazio sonoro come flusso, possa consentire un approccio inconsueto alla problematica della distinzione tra consonanza e dissonanza. Essa viene normalmente affrontata tenendo con­to degli intervalli singolarmente presi ed eventualmente confrontati tra loro. Tuttavia questo non è il solo punto di vista possibile. La tematica degli intervalli può anche essere affrontata in stretta connessione con quella dello spazio sonoro. L'intervallo di ottava, ad esempio, può essere considerato come un intervallo come un altro, ma anche come una partizione dello spazio sonoro che corrisponde ad una sua proprietà strutturale - la ciclicità. Questo intervallo è un segmento dello spazio sonoro che lo "rappresenta" interamente, e per questo può valere a sua volta come spazio sonoro in una diversa accezione. - Considerare anche la distinzione tra consonanza e dissonanza in questa prospettiva potrà non sembrare troppo ovvio. Tuttavia, se è dato un suono di riferimento che venga fatto risuonare simultaneamente ad un flusso che ha in quel suono il suo inizio e la sua fine nell'ottava corrispondente, è lecito attendersi che il 107 dato percettivo non consisterà unicamente in un accostamento di due suoni - l'uno di altezza costante, l'altro di altezza variabile, ciascuno per conto suo - ma che intervenga qualche modificazione dovuta proprio al fatto che essi risuonano insieme. Di quale modificazione si tratta? Uno studio fenomenologico della nozione di consonanza si risolve per l'essenziale nell'analisi e nella descrizione di un simile contesto percettivo. - Si dia dunque un suono qualsivoglia tenuto fermo ed un flusso che procede da questo suono alla sua ottava (220->440 Hz). 450 400 350 300 250 5 10 15 20 Dobbiamo peraltro avvertire che per poter apprezzare correttamente la situazione esemplificativa in questione è necessario che si trovi una giusta regolazione del volume di ascolto, dal momento un volume troppo basso tende ad un generale ammorbidimento che rende il flusso piuttosto uniforme, mentre un volume troppo alto agisce nella direzione opposta. In condizioni di volume opportune, da ricercare facendo qualche prova, potremmo dire che, dopo una iniziale situazione di concordanza (unisono), si presenta una sorta di "frizione", di "contrasto" o di "conflitto"- non importa quale parola sia più opportuna, ma la famiglia è questa - che va via attenuandosi: al di là di un certo punto ciò che avviene nella prima parte del processo si ripresenta secondo un andamento inverso di "frizione" crescente, anche se l'effetto è complessivamente più debole, che si dissolve nel 108 raggiungimento dell'ottava, come del resto è lecito attendersi. Infatti al di là di un certo punto, il flusso si riavvicina alla nota di riferimento, o meglio, alla sua immagine in ottava, cosicché è lecito appunto attendersi che il processo si ripresenti in modo simmetricamente rovesciato. Beninteso nessuna delle fasi attraversate dal flusso intrecciato con la nota ad altezza costante assomiglia veramente a qualcosa che siamo abituati a chiamare dissonanza o consonanza in rapporto ad un brano musicale. Le parole "consonanza" e "dissonanza" sono fortemente legate agli intervalli e non ad altezze variabili. Tuttavia non si può certo dire che ciò che qui accade non abbia proprio a che vedere con la dissonanza e la consonanza in senso usuale. Potremmo peraltro accettare senz'altro che in un simile contesto le parole consonanza e dissonanza ricevano un mutamento di senso, e che dunque parole come "frizione", "urto", "con­flitto", ecc. possano essere intese come descrizioni qualitative strettamente connesse alla situazione esemplificativa pro­posta. Occorre inoltre sottolineare che il riferimento a suoni sinusoidali prodotti "matematicamente" non è dovuto a intenti esplicativi. Noi non siamo alla ricerca di una spiegazione delle nozioni di consonanza e di dissonanza, e di conseguenza il ricorso a suoni sinusoidali non è dovuto ad un sottinteso in qualche modo "fondazionale", ma alla loro peculiare maneggevolezza ed al fatto che possiamo più facilmente dominarne i parametri. L'impiego delle funzioni ci consente inoltre di realizzare delle precise determinazioni quantitative. - Per rendere il più possibile chiara la struttura del movimento (che è il nostro scopo principale) è opportuno proporre il flusso che percorre l'ottava tra entrambi i suoi estremi tenuti fermi lungo il suo decorso. Del resto essi delimitano lo spazio sonoro considerato. L'effetto complessivo ne esce rafforzato, sia nel caso dei suoni sinusoidali che in quello dei suoni che derivano da campioni opportunamente manipolati per ottenere una situazione analoga a quella descritta. 109 frequenze 450 400 350 300 250 5 10 15 20 tempo La curvatura consonantica-dissonantica dello spazio sonoro - Questi riferimenti esemplificativi, mi sembrano sufficienti ad attestare che lo spazio sonoro appare articolato in regioni, e precisamente in una regione consonantica e in due regioni dissonantiche, ed in modo tale che si possa parlare di dissonanza decrescente a partire dall'unisono verso una regione consonantica che al di là di un certo punto trapassa in una regione di dissonanza crescente verso l'ottava. Si noti che l'uni­sono e l'ottava non appartengono alla regione consonantica ma sono punti verso cui evolvono (e si sarebbe tentati di dire: "risolvono") le regioni dissonantiche. Perciò possiamo dire che una dissonanza massima non esiste e che la "dissonanza" è essenzialmente transitoria. Inoltre, poiché abbiamo adottato il flusso sonoro come guida delle nostre considerazioni, non ha senso determinare esattamente i confini delle regioni (che sono in realtà fasi di un movimento). Questa indeterminatezza è intrinseca alla natura del problema, e dunque non riguarda la "vaghezza" del concetto - vaghezza che è sempre stata utilizzata tra gli argomenti per smontarne la consistenza. - Poiché la regione consonantica "diviene" da una regione dissonantica e trapassa in una regione dissonantica, esiste invece un punto di massima consonanza. Nella percezione del flusso, anche 110 questo come ogni altro è un punto sfuggente e non può essere fissato come tale. Ciò che viene percepito è invece la curvatura dello spazio sonoro e il suo procedere-verso un punto di volta. Attraverso l'ascolto, in rapporto al nostro esempio, avvertiamo nettamente questa curvatura situando il punto di volta tra l'undicesimo e il dodicesimo secondo. La teoria e l'esperienza musicale ha del resto sempre indicato il punto di consonanza massima nell'intervallo di quinta - e i calcoli ci indicano che questo intervallo viene incontrato, nell'esempio, al secondo 11,7 del decorso. Perciò il punto di massima consonanza può essere definito semplicemente come quel punto che rappresenta il pun­to di volta della curvatura consonantica/dissonantica dello spazio sonoro. Uno dei vantaggi di una simile modo di impostare la questione sta nel poter fornire caratterizzazioni che rimandano a considerazioni relative alla struttura dello spazio sonoro, piuttosto che a caratterizzazioni di ordine psicologico-soggettivo. Anche consi­derazioni sulla gradevolezza o sgra­devolezza vengono in via di principio messe da parte. - L'esistenza di una curvatura consonantica/dissonantica dello spazio sonoro è ciò a cui mette capo una nozione di consonanza/dissonanza costituita fenomenologicamente. Essa presuppone, non tanto una valutazione soggettiva degli intervalli, quanto la percezione della modificazione qualitativa del movimento del flusso considerato come un percorso tra i poli dello spazio sonoro. Per questo consonanza e dissonanza, all'interno di una simile impostazione, vengono a significare regioni in cui si articola lo spazio sonoro piuttosto che caratteri di intervalli singolarmente presi. Naturalmente dal punto di vista musicale è importante il passaggio agli intervalli, ma le considerazioni sui flussi forniscono a mio avviso un interessante orientamento per affrontare le problematiche connesse dal punto di vista teorico. L'intervallo di tritono è una dissonanza? Per adesso non possiamo far altro che rispondere: esso appartiene alla regione consonantica dello 111 spazio sonoro. Poi converrà forse cercare una risposta più soddisfacente. Il centro dello spazio sonoro - Il flusso può essere percorso in direzione ascendente o in direzione discendente. Facendo risuonare simultanaeamente il flusso ascendente con quello discendente, essi si intersecheranno in un punto: ovvero vi sarà un punto in cui essi si troveranno all'unisono. Se i flussi sono "ben costruiti" (ovvero se i valori frequenziali sono stati distribuiti in modo equilibrato tenendo conto della geometricità della progressione) questo punto viene incontrato esattamente alla metà della durata del percorso. In rapporto a questo punto possiamo parlare di centro dello spazio sonoro. In effetti accade nel nostro esempio che, per la durata di 20 secondi, il flusso ascendente e discendente si incontrino all'unisono esattamente al decimo secondo. - In generale si ritiene che una considerazione fenomenologica debba fondarsi solo sul dato, in contrapposizione al costruito. In realtà i nostri esempi sono costruiti e questa costruzione ci è utile 112 per comprendere i dati. Dalla costruzione che abbiamo effettuato sappiamo che la frequenza nel punto di intersezione è pari a 311,127 Hz, che in cents commisurati a 440 equivalgono a -600 cents e commisurati a 220 a + 600 cents. Questa è la determinazione matematica oggettiva del centro dello spazio sonoro (ottava). All'interno delle nostre considerazioni la nozione di centro dello spazio sonoro può essere definita come punto di intersezione tra il flusso discendente e il flusso ascendente sulla base della situazione esemplificativa corrispondente, e questo centro viene ovviamente chiaramen­te percepito. Sempre dalla costruzione dell'esempio sappiamo, come abbiamo già anticipato, che il punto di massima consonanza (330 Hz) viene raggiunto al secondo 11,7 nella direzione ascendente, superando il centro dello spazio sonoro; nello stesso istante viene raggiunta la quinta nella direzione discendente (293.326 Hz), superando anche qui, ovviamente, il centro dello spazio sonoro. I due punti coincidono temporalmente, ma non dal punto di vista dell'altezza. La situazione si presenta come nel grafico seguente: 450 400 350 300 250 5 10 15 20 Ora gli stessi punti così individuati, quando siano proiettati dalla linea ascendente a quella discendente e inversamente, identificano altri due punti - gli intervalli di quarta, che cadono al secondo 8,3. Il grafico precedente può così essere completato: 113 450 400 350 300 250 5 10 15 20 - L'intervallo di quarta non viene introdotto né come consonanza in un'accezione generica del termine e nemmeno come intervallo comple­mentare alla quinta nell'ottava, ma come quinta raggiunta nella direzione discendente (quinta sotto l'ottava) - ovvero come punto di volta di un flusso discendente che parte dal margine superiore dello spazio sonoro. - Potremmo fare un riepilogo indicando con linee tratteggiate i confini tra le regioni da intendere come designazione approssimativa (in ogni caso abbiamo proposto questi confini a sinistra in prossimità di 294 cents e a destra di 912 cents, in breve: poco prima della terza minore e poco oltre la sesta maggiore). Annotazione Nella Filosofia della musica non ho usato un grafico funzionale effettivo, ma un grafico puramente illustrativo dell'idea di curvatura consonantica/dissonantica: La linea sottostante rappresenta il suono tenuto. La cur- 114 va ad essa sovrapposta allude alla "curva consonantica", ovvero all'andamento del flusso secondo il rapporto consonantico - qui rappresentato dalla maggiore o minore distanza dal suono di riferimento. Unisono e ottava stanno agli estremi di questa curva e non vengono rappresentati, mentre vi è un punto di massima approssimazione della curva al suono riferimento. Si tratta dunque di una pura illustrazione, mentre il grafico ora proposto è stato costruito come grafico del flusso che viene effettivamente udito. Così la figura seguente ha una portata puramente illustrativa rispetto al grafico funzionale seguente che rappresenta la "risoluzione" nell'unisono di flussi che hanno inizio dalla quinta superiore e dalla quinta inferiore alla nota di riferimento (440 Hz). 600 500 400 300 200 5 10 15 20 - Se tu volessi indicare un esempio chiaro di dissonanza utilizzando il pianoforte o qualche altro strumento probabilmente non sceglieresti un tritono, una terza minore oppure una settima, ma - io penso - una seconda, anzi una seconda minore: l'intervallo più stretto del sistema temperato. Se poi aggiungi l'idea di un processo di dissonanza decrescente verso la quinta e di 115 dissonanza crescente dalla quinta all'ottava - cosa che del resto corrisponde largamente all'esperienza ed alla teoria musicale - avrai indicato in modo molto semplice i punti essenziali. - Queste considerazioni non prendono nessuna posizione in rapporto ad una "teoria esplicativa" della consonanza e della dissonanza dal punto di vista fisico, ma si limitano a formulare un punto di vista per un approccio fenomenologico al problema che riconduca questa differenza piuttosto che agli intervalli singolarmente presi alla struttura relazionale dello spazio sonoro. Per questa ragione abbiamo messo da parte ogni possibile riferimento ai battimenti ed ai rapporti tra gli armonici, che in vari modi assolvono un'impor­tante funzione nelle teorie esplicative avanzate in rapporto alla distinzione in questione. Volendo fare un richiamo ad una posizione impegnata soprattutto sul fronte fisico, ma non priva di interesse fenomenologico si può rimandare alle tesi di Plomp (Aspects of Ton sensation, Academic Press, 1976) riprese da Pierce (2000- 1983), che per i suoni sinusoidali arriva a sostenere la tesi, a mio avviso troppo ristretta perché non prende in considerazione quella che noi chiameremmo regione dissonantica superiore, secondo cui "si può prendere come regola che i suoni puri separati da meno di una terza minore sono dissonanti e che i suoni separati da una terza minore o più sono consonanti; così per i suoni sinusoidali puri, qualunque intervallo superiore ad una terza minore sarà giudicato consonante, quale che sia il rapporto delle frequenze" (Pierce, 200- 1983, p. 77). Questa tesi riporta in ogni caso la dissonanza alla prossimità delle frequenze e coloro che la sostengono ritengono possa essere applicata anche ai suoni ricchi di armonici proponendo la prossimità tra le frequenze degli armonici come origine dei fenomeni dissonantici. 116 IX La nozione di sensibile La tensione della "sensibile" verso la "tonica" - Il settimo grado, insegnano manuali e maestri di scuola, si chiama "sensibile" e questa nota genera l'attesa della "tonica", quasi ne evoca la presenza. Si dice anche: essa "porta" sull'ot­ ta­vo grado - come se fosse carica di un'attesa che può essere soddisfatta soltanto nella passaggio ad esso. Si ha qui un ottimo esempio del tonos inteso come tensione, di una protenzione concreta. Il suono non è soltanto quello che è, ma si pro­tende-verso, avanza una domanda che può ricevere una risposta solo nell'effettuazione del passaggio che essa stessa annuncia. In realtà si tratta di una situazione uditivamente pregnante, e che tuttavia la teoria musicale corrente lascia normalmente priva di una qualsiasi forma di giustificazione, così da far sospettare che si tratti di una proprietà misteriosamente inerente alla nota stessa. Quando accade che si cerchi una giustificazione, questa pregnanza uditiva verrà per lo più riferita alle abitudini di ascolto secondo una tendenza di tipo convenzionalistico-empiristico: la ricorrenza con cui si presenta nel linguaggio tonale uno stilema in cui la "tonica" segue di fatto la "sensibile", genera all'apparire della sensibile l'attesa corrispondente (associazione per contiguità). Ricercare una giustificazione sul piano degli eventi fisici in questo caso sembrerebbe piuttosto insensato, dal momento che è ben difficile pensare che una frequenza ne possa "evocare" un'altra. D'altra parte il fatto che si debba presupporre un determinato linguaggio sembra evidente per la stessa terminologia che stiamo ora impiegando: sensibile, tonica, settimo e ottavo grado. Si tratta termini legati a fil doppio al linguaggio tonale. 117 Sensibile e spazio sonoro - Io credo invece che la questione debba essere affrontata in tutt'altro modo. Nelle formulazioni precedenti sono presenti riferimenti che rimandano alla tonalità - ciò è fuori discussione, così come è fuori discussione la parte rilevante che rivestono le abitudini di ascolto in rapporto a questo genere di problemi. Ma tutto ciò non toglie che ci si possa chiedere fino a che punto si possa riportare il problema posto dalla "sensibile" entro un ambito di considerazioni in cui non si è contratto alcun impegno rispetto a questo o quel linguaggio musicale determinato. Formulando questa domanda, non ha nessuna importanza che l'ottava sia suddivisa in dodici semitoni e che vi sia una tonica nel senso complesso che questo termine riceve nel linguaggio tonale: è importante invece che si possa mettere in campo la nozione di ottava intesa come segmento rappresentativo dello spazio sonoro complessivo, e quindi essa stessa come spazio sonoro in un'accezione possibile del termine. Con la parola "sensibile" - se ancora vogliamo usarla - potremmo indicare allora niente altro che una posizione molto vicina all'estremo superiore dello spazio sonoro (e non importa quanto!). Io credo che ciò basti per liberarci da eventuali implicazioni con il linguaggio tonale, ed anche da partizioni e quindi da grandezze intervallari precostituite dell'ot­tava. - Nessuna nota singolarmente presa fa attendere alcunché, e tanto meno ne può evocare un'altra. Ma i contesti determinano le funzioni. La semplice condizione di contesto che si richiede affinché si dia un "effetto di sensibile" è che sia già stato uditivamente determinato uno spazio sonoro di riferimento. 118 Esempio di "sensibile" all'interno dell'esposizione di un raga - Per dare un'illustrazione di "sensibile" in azione, potremmo fare riferimento ad un raga indiano, uscendo dunque interamente dalla tradizione europea. Si tratta di un raga del tipo Bhairavi, eseguito al sitar da Ram Chandra (Laserlight, 15439). Il brano nel suo insieme rappresenta una sorta di graduale ascesa verso l'enunciazione della scala costitutiva del raga, quindi di una graduale determinazione di uno spazio sonoro che non viene subito proposto e nemmeno presupposto fin dall'inizio. Ciò che invece viene immediatamente proposta è la nota iniziale della scala (258 Hz, spesso con la sua ottava), che viene continuamente e inesorabilmente ripetuta lungo tutto il brano formando una sorta di riferimento costantemente ribadito (non voglio parlare di "tonica" perché penso che questo termine debba essere riservato, per ragioni di chiarezza, al linguaggio tonale vero e proprio). La forza propulsiva del brano è la delineazione di una via che conduce al dispiegamento della scala-raga: una sorta di pensoso percorso che va alla ricerca dell'articolazione di uno spazio sonoro individuato inizialmente solo nei suoi confini esterni. Così il brano si sviluppa per un bel tratto introducendo via via le note del raga una per volta, tuttavia non in successione scalare, ma 119 in un andirivieni fatto di un gioco sottilissimo di indugi e di anticipazioni affidati a silenziosi glissandi. Da un certo punto in poi il brano da meditativo e dubitativo quale era all'inizio, riceve una impronta nettamente affermativa, ed ai passi larghi e lenti della parte introduttiva subentra un ritmo che tende a diventare sempre più rapido fino a concludersi in una sorta di grande festeggiamento della meta raggiunta. - Notiamo di passaggio, che se abbiamo fatto una valutazione corretta, la successione degli intervalli in cents risulta approssimativamente essere la seguente: 0, 91, 276, 126, 200,79, 306,122 ovvero, rispetto alla prima nota 0, 91, 367, 493, 693, 772, 1078, 1200 in corrispondenza alla sequenza in Herz: 258, 272, 319, 343, 385, 403, 481, 516. Siamo dunque molto lontani dal nostro ordine temperato. In questa struttura scalare vi sono intervalli che superano largamente il nostro tono e intervalli notevolmente più piccoli del nostro semitono così come intervalli intermedi tra semitono e tono temperato. - Per quanto riguarda il nostro problema dobbiamo attirare l'attenzione sulla penultima nota del raga nella sua prima enunciazione completa. Il raga scorre via velocemente. ma si arresta proprio sulla penultima nota, indugiando in essa e poi "risolvendo" sull'otta­va, che viene in certo senso silenziosamente anticipata mediante un glissando. L'andamento melodico si arresta, generando un'attesa intensissima della nota di chiusura dello spazio 120 sonoro che si ricongiunge con la nota di apertura. L'attesa generata dall'indugio sulla nota che assume funzione di "sensibile", viene rafforzata sia dalla ripetizione delle due note in ottava, che formulano con chiarezza i confini dello spazio sonoro, che della sesta e settima nota, che hanno a loro volta il carattere di un indugio che ritarda la venuta della necessaria nota conclusiva. In questo caso si agisce simultaneamente sia sulla presenza esplicita dell'ottava che fa da sfondo sia sull'attesa, eccitata dalla ripetizione della sesta e della settima nota, dell'estremo superiore che viene dunque contemporaneamente proposto ed annunciato. - Ciò che noi chiamiamo "effetto di sensibile" lo si ritrova qui con elementare chiarezza. Anzitutto deve accadere che una nota si imponga come "nota caratteristica" (suono di riferimento) per uno spazio sonoro possibile. Ciò naturalmente può avvenire in vari modi, anche per il semplice fatto che quella nota viene proposta come inizio di una sequenza. Già per questo il suono assume particolare importanza e implicitamente avanza la pretesa di rappresentare l'estremo inferiore di uno spazio sonoro possibile prospettando dunque un estremo superiore che altro non è che la sua eco (naturalmente è poi ciò che succede in seguito che conferma o sopprime questa pretesa). Se ora facciamo udire un suono molto prossimo a questo fantasma sonoro, ad esempio a distanza di un semitono come accade nel sistema temperato, ma anche ad una distanza inferiore al semitono, allora la percezione, arricchita da questi richiami protenzionali e ritenzionali, coglie questo piccolo intervallo come una differenza che deve essere colmata, come un passo che fallisce una mèta. Ed il fantasma sonoro prende ancora più consistenza come un fantasma che "deve" materializzarsi. È come se dovendo con un passo andare al di là del fosso, il piede arrivasse quasi a toccare l'altra riva, l'altra riva è subito là, ma è necessario ancora un piccolo sforzo - e poi ecco! il piede finalmente si appoggia. Questa tensione aumenta ancor più se aumenta l'insistenza sulla sensibile perché è come se io 121 ripetessi più volte il gesto di passare il fosso e ogni volta invece mi arrestarsi a mezz'aria poco prima di appoggiare la punta del mio piede. (Ciò potrebbe valere anche per la nota superiore più vicina, come se venisse oltrepassato un crinale ed il piede potesse ritrovare un solido appoggio solo retrocedendo un poco). - Non vi è dunque nulla di misterioso nella "tendenza della sensibile a risolvere sulla tonica" e quindi a generare la sua attesa, e nemmeno si tratta di un "effetto" che sorge solo sulla base di abitu­dini di ascolto e di convenzioni di linguaggio. Il contesto percettivo è infatti sufficiente a rendere conto della situazione. - È l'ottava che prepara la sensibile, e non inversamente. In assenza del fosso non vi sarebbe nessun tensione nel passo, e il piede appoggerebbe tranquillamente a terra. X Considerazioni sul tritono Il tritono come intervallo e come centro dello spazio sonoro - Come dice il termine, il tritono è un intervallo che abbraccia tre toni. Nel sistema temperato la sua grandezza è dunque pari a 600 cents. Considerato relativamente agli estremi dell'ottava, esso occupa esattamente il suo centro. In altri tem­­peramenti la nota corrispondente potrà discostarsi più o meno da questo centro, ma per le considerazioni che intendiamo fare la questione è irrilevante. Particolarmente interessante è invece che lo si consideri relativamente agli estremi dell'ottava, quindi nel suo nesso con lo spazio sonoro. Ciò ci potrebbe forse aiutare a fornire qualche chiarimento sul modo in cui si parla di esso di intervallo tipicamente dissonante. In realtà, secondo secondo l'impostazione complessiva del problema della consonanza/dissonanza che 122 ho tentato di abbozzare, il tritono appartiene alla regione consonantica dello spazio sonoro, mentre la nota designazione di diabolus in musica lo segnala sia come elemento che porta nella musica disgregazione e dissociazione, e nello stesso tempo come dissonanza massima. Ciò troverebbe conferma in quelle indagini di psicologia empirica, che in rapporto al tritono, registrano un'impennata del "grado di dissonanza". Dissonanza o consonanza? - Come stanno le cose in rapporto a questo problema, che si presenta in certo senso per noi come un problema critico? Intanto sarei tentato di preparare il terreno della discussione sottolineando che il carattere dissonantico di questo intervallo è assai meno pacifico di quanto si sia soliti pensare. Persino la dizione "diabolus in musica" che sembra ci riporti ad un'era molto lontana nel passato, è forse piuttosto recente, o comunque ha un'origine difficile da documentare. Vi è chi assicura di non aver incontrato una simile espressione in un testo anteriore al secolo XIX. Così a proposito di quell'espressione Chailley afferma esplicitamente "je n'en ai encore jamais trouvé un témoin antérieur au XIX siècle" (1985, p. 123). Verificando nel motore di ricerca del Thesaurus Musicarum Latinarum, non risulta nessun esempio di questa espressione nei testi finora presenti in esso. Dato il numero in ogni caso rilevante dei testi digitalizzati in quel sito, la tesi dell'origine medioevale di quella espressione è molto probabilmente falsa. - In realtà per certi versi proprio il tritono potrebbe essere citato come un buon argomento da parte di coloro che ritengono che la distinzione tra consonanza e dissonanza sia un fatto meramente culturale. Secondo Leo Schrade, esso viene classificato da Hieronymus di Moravia (XIII sec.) tra le consonanze, seguendo presumibilmente un'indicazione di Nicomaco: fino al XIV se- 123 colo non era particolarmente condannato dai teorici e nemmeno represso dai compositori, anche se naturalmente si fa strada abbastanza presto il divieto del tritono, soprattutto nella pratica musicale dell'"organo parallelo", una forma di canto che procedeva per quarte e per quinte parallele (Schrade, Diabolus in musica, 1967, pp. 542-543). A partire dal XIV secolo, questo divieto diventa comune nella teoria e nella pratica, e questa circostanza ha anche conseguenze retroattive, nel senso che vengono introdotti "emendamenti" nella musica del passato che hanno come scopo quello di evitare l'intervallo di tritono. "Quanti tritoni siano stati emendati nel Medioevo" è cosa che ormai impossibile da stabilire (Schrade, ivi). La motivazione del divieto viene poi spesso riferita alla difficoltà di intonazione dell'intervallo, difficoltà che si ritrova presso tutti gli intervalli dissonantici rispetto a quelli consonantici. Il tritono diventa così "principium, medius et finis omnium dissonantiarum" (Bonaventura da Brescia). Esempi a confronto - Tuttavia non voglio affatto impegnarmi sulle controversie intorno a consonanza e dissonanza di cui la storia della teoria musicale è particolarmente ricca. Oltretutto la nostra impostazione operando con flussi e fasi piuttosto che con intervalli, implica una ridefinizione della nozione di consonanza tale da non rendere troppo ovvio il confronto con l'impiego consueto del termine. In realtà l'inizio della nostra discussione sta piuttosto nella tesi seguente: ammesso che il tritono sia una dissonanza, non lo è "come tutte le altre". Essa ha per così dire una "qualità", un carattere interamente diverso. In realtà è opp'ortuno effettuare uditivamente il confronto tra dissonanze di semitono (o in generale ottenuta con i piccoli intervalli) e dissonanze di tritono eventualmente con timbratura molto marcata come strumenti a fiato, trombe, corni ecc. 124 1. dissonanze semitonali 2. dissonanze tritonali Credo che, in base a questo confronto diretto, si possa convenire sul fatto che le situazioni percettive proposte sono nettamente diverse, e lo sono tipicamente nel senso che se dovessimo operare una classificazione raccoglieremo le une e le altre in due classi differenti. Per quanto riguarda la descrizione verbale della differenza, si incontreranno ovviamente le difficoltà caratteristiche di questo genere di questioni. A me sembra di poter dire che i suoni dissonantici formati da piccoli intervalli hanno carattere "stridente" - un termine che rende abbastanza bene l'idea di un urto, di un conflitto. Nel caso della seconda classe di esempi forse parleremmo di una sorta di "divergenza" dei due suoni che risuonano simultaneamente: essi sembrano non concordanti, non tanto per un urto tra essi quanto piuttosto perché appaiono caratterizzati da una sorta di strabismo, instabilità, di incertezza, di irrequietezza. Ma a parte le formulazioni verbali, a cui potremmo tentare di ricorrere, è significativo il fatto che si possa riconoscere una differenza tipica come può accadere tra figure proposte ad una valutazione visiva. In effetti non ci sarebbe da meravigliarsi se, proprio di fronte alla qualificazione di "dissonanze" attribu- 125 ita ai suoni del primo tipo, qualcuno sostenesse di non poter attribuire la stessa qualificazione ai suoni del secondo tipo. Se mai richiederebbe spiegazione il fatto che la teoria musicale non abbia mai, che io sappia, messo l'accento sulla diversità di queste due situazioni percettive. Si tratta probabilmente di una delle tante circostanze che mostrano talora la prevalenza, nella teoria musicale, di elementi attinti altrove piuttosto che nella fenomenologia del materiale sonoro e che attestano anche la mancanza di un'impostazione di principio capace di rendere significativo un interrogativo volto in questa direzione. - Nella teoria di Hindemith il tritono assume un particolare rilievo ed una teorizzazione originale nell'ambito della sua concezione del Grundton. Esso viene considerato a parte e si presenta come una sorta di contraltare dell'unisono e dell'ot­tava. In realtà in Hindemith vi è la massima accentuazione del carattere di "centro" del tritono e della sua instabilità. Essa viene riportata al fatto che nel tritono nessuna delle due note di cui è composta può assumere carattere di Grundton - "nel caso del tritono non è possibile individuare nessun tono fondamentale; o lo si considera dunque come neutrale, come privo di tono fondamentale; oppure si riconosce a ciascuno dei suoi suoni il diritto di rappresentare la posizione del tono fondamentale... Con questo intervallo si può dare inizio a qualcosa di non ben determinato, esso resta sempre ambivalente, indeciso, cangiante...". Ai suoni che lo contengono toglie ogni "quiete e autonomia", li rende duri ed eccitati... "Il tritono opera come un lievito fermentante nei suoni". "Tutti gli accordi che lo ospitano vengono interamente modificati nella loro essenza e vengono contrapposti ai restanti suoni da un lato per via della loro tensione verso uno scopo, dall'altro per via della loro indipendenza" (1987, p. 135). 126 Tritono e sensibile - Un conto è parlare del tritono come un possibile intervallo ed un altro parlare di esso come centro dello spazio sonoro. Nel primo caso consideriamo un intervallo e lo caratterizziamo come composizione di altre grandezze intervallari. In una simile caratterizzazione lo spazio sonoro è implicato molto indirettamente se non per nulla affatto; nel secondo caso invece lo spazio sonoro è in primo piano suggerendo senz'altro una rete di relazioni alla quale possiamo fare riferimento per rendere conto della peculiarità del tritono in termini contestuali e funzionali. - In fin dei conti se il tritono sia o non sia dissonante, e quanto, o in che grado, è questione del tutto irrilevante, forse addirittura fuorviante: la domanda resta tendenzialmente indeterminata, non essendo per nulla determinato il senso della coppia dissonanza/consonanza, e l'attenzione richiamata sul­l'in­tervallo come tale viene invece distratta da quei contesti che ne illustrano il carattere. Sorge anche il dubbio che, in queste condizioni, la ricerca di una spiegazione fisica del tritono allo stesso titolo di ogni altra dissonanza sia una questione malposta. - In realtà il centro dello spazio sonoro, in luogo di essere punto statico di equilibrio - come l'immagine del centro suggerisce - rappresenta un punto di fondamentale instabilità per il fatto che esso sta tra quinta e quarta, in prossimità dell'una e dell'altra. Questo spunto si rafforza se notiamo che questi intervalli possono pretendere a loro volta di farsi valere come spazi sonori essi stessi sulla base di alcune significative analogie. L'analogia essenziale è naturalmente il rapporto consonantico degli estremi dell'intervallo di quinta: in luogo della "coincidenza in ottava" con il suono di riferimento si ha qui il punto di massima consonanza come elemento possibile di arresto e di chiusura. La 127 stessa considerazione si può trasferire alla quarta: del resto nella musica greca la quarta vale come spazio sonoro fondamentale, e l'ottava come composta di due quarte connesse e separate dal "tono di disgiunzione". - Per rendere conto del particolare effetto del tritono si è tentati di far valere l'effetto di sensibile. Assumendo il punto di vista del flusso il tritono appartiene indiscutibilmente alla regione consonantica dello spazio sonoro, tuttavia la posizione che esso occupa è carica della tensione che deriva da un "effetto di sensibile" che è addirittura duplice - rispetto alla quarta e rispetto alla quinta - e che determina un conflitto nella direzione del movimento. La tradizione musicale non si è affatto sbagliata nel riconoscere in questo intervallo un forte squilibrio interno - in circostanze, beninteso, in cui si impongano come rilevanti l'ottava e le sue articolazioni consonantiche fondamentali. Questo intervallo infatti si presenta sotto la tensione stabilita dalla quarta e dalla quinta: esso "fallisce" la consonanza di quarta per eccesso, ma "fallisce" anche la consonanza di quin­ta per difetto. Se il contesto complessivo lo favorisce e lo esalta, si ha dunque un fenomeno corrispondente di duplice e contrastante attesa, di incertezza e di disorientamento di direzione. Non solo: questo effetto di sensibile agisce anche in direzione dell'ottava, ovvero tende a prospettare l'uno o l'altro suono atteso come delimitante una nuova ottava di riferimento - peculiarità che il linguaggio tonale ha naturalmente utilizzato come un fondamentale mezzo espressivo nella modulazione. - La questione della dissonanza del tritono diventa ora una questione soltanto nominale. Il punto essenziale è che, se parliamo in rapporto ad esso di dissonanza, dobbiamo ammettere un significato duplice del termine: da un lato vi è la dissonanza che sorge dall'urto tra i due suoni, dall'altro la dissonanza come risultato di un effetto di sensibile che si genera dalla relazione con i punti di volta dello spazio sonoro: due differenti significati della paro- 128 la che possono essere illustrati dalle differenze delle situazioni esemplificative da cui abbiamo preso le mosse. XI Intorno ai rapporti tra la musica e il tempo In che senso vi è una relazione intrinseca tra musica e tempo? - È opinione diffusa, benché non sempre condivisa, che vi sia tra musica e tempo una relazione intrinseca. Essa ha naturalmente un buon fondamento, ma contiene anche elementi di forte equivocità. - Vi sono aspetti comuni da cui tutte le arti sono attraversate, e non solo a causa della verità lapalissiana sostenuta enfaticamente dal vecchio idealismo che esse tutte sono prodotte dell'attività dello Spirito. Da questi aspetti comuni possiamo peraltro distogliere lo sguardo per attirare invece l'attenzione sulle caratteristiche differenziali, e scegliere l'una o l'altra via dipende dal problema concreto che desideriamo mettere a fuo­co. In rapporto alla musica dovremmo certamente sottolineare che la forma dello sviluppo temporale è la sua forma dominante, e ciò per ragioni essenziali. - I suoni sono oggetti temporali. Ciò significa: essi non sono semplicemente nel tempo, ma sono in virtù e in funzione del tempo. La durata di un suono fa parte del suo essere, del suo "statuto ontologico" - quando dico che c'è un suono, la sua durata è già assunta in questo esserci. Esso è tra il suo inizio e la sua fine. Lo stesso per un brano musicale in genere, che è niente altro che una struttura sonora complessa. - Secondo Brelet da una riflessione sul tempo musicale si po- 129 trebbe dispiegare una vera e propria filosofia del tempo. Io tenderei invece a sostenere che è opportuno anzitutto chiarirsi le idee sulla filosofia del tempo prima di accingersi ad affrontare il problema del tempo nella musica. - A me sembrano assai carenti le considerazioni sul rapporto tra tempo e musica contenute in un saggio famoso di Suvcinsky, La notion du temps et la musique, tenuto in gran conto da Stravinsky. Secondo questo autore l'opera d'arte musicale avrebbe origine da una specifica - ed eventualmente differenziata - esperienza del tempo. Vi sarebbe dunque un'e­sperienza del tempo specificamente musicale "in rapporto alla quale la musica propriamente detta esercita solo il ruolo di realizzatrice funzionale" (Stravinsky, 1942, p. 28). Purtroppo manca qualunque chiarimento che possa in qualche modo giustificare questo assunto di base. Si parla invece di un "tem­po psicologico" - cioè il tempo intrecciato a modalità psicologiche come quelle dell'attesa, dell'angoscia, del desiderio ecc. - alla cui base si troverebbe "la sensazione primaria, spesso inconscia, del tempo reale, del tempo ontologico". Non mi sembra facile dare una qualche consistenza a questa distinzione tra tempo psicologico e tempo ontologico, e dunque ad una anche sommaria classificazione tipologica dei musicisti fondata su questa distinzione. Confronti tra percezione dello spazio e percezione del tempo - Confronta la percezione dello spazio con la percezione del tempo. Che cosa vi è di affine e che cosa di diverso? - In che senso si può parlare di percezione dello spazio? La risposta a questa domanda potrebbe non essere meno irta di dif­ficoltà che a quella sulla percezione del tempo. In ogni caso si può dire: lo spazio lo vedo, vedo lo spazio intorno a me. Ma che cosa vedo veramente? In realtà vedo cose che prospettano lo spazio. 130 - Il tempo non è intorno a me (come lo spazio). Posso forse dire che il tempo è dentro di me? - "Dentro di me" è un'espressione oscura. - Di esperienza del tempo si parla in molti modi. Ad esempio, potrei dire che ho esperienza del tempo quando attendo con impazienza qualcuno. Sento il passare del tempo. L'a­spet­tare, l'attendere sembra essere una situazione tipica del­l'esperienza della temporalità. Il fatto che io possa dire di sentire il passare del tempo non significa tuttavia che vi sia uno specifico sentimento del tempo, e neppure una speciale emozione: diversa, ad esempio dal desiderio o dalla nostalgia. Desiderio e nostalgia hanno in sé un momento temporale, come se il tempo stesse tra le pieghe di quei sentimenti e nelle loro tensioni. Il tempo non è mai un "dato immediato" - Se si parla di esperienza della temporalità o della durata non si deve intendere qualcosa di simile ad un afferramento diretto del tempo, come se il tempo fosse appunto una fra le co­se che possiamo percepire, ovvero come se vi fosse uno speciale organo di senso predisposto all'afferramento del tempo; o anche soltanto un modo speciale di "intuire" il tempo. - Il tempo non è mai un "dato immediato" - semplicemente non lo può essere. L'esperienza del tempo è sempre un'e­sperienza che si appoggia o che deve sostenersi su qualcosa, esattamente come nel caso dell'esperienza dello spazio. Ciò che viene colto, afferrato, percepito nell'esperienza del tempo, come del resto in quella dello spazio, sono delle strutture relazionali, e queste hanno bisogno dei termini fra i quali la relazione viene istituita. Se questi termini vengono tolti e soppres­si, ci si avvia a prospettare una nozione di tempo vuoto ovvero un concetto astratto di tempo. Un'esperienza del tempo naturalmente c'è: ma si tratta 131 appunto dell'esperienza di un tempo pieno, di un tempo riempito da cose e da eventi che non sono a loro volta ���fatti di tempo'. - Se tu pensi che esista una esperienza pura di durata nel senso di Bergson, dimmi che cosa debbo fare per realizzarla. - La durata è colta in inerenza a processi. Ad esempio, in inerenza a suoni. Essa ha a sua volta delle condizioni: in particolare, affinché si dia un'esperienza della durata è necessario che l'esperienza stessa sia un processo. Il percepire deve essere concepito come un flusso continuo di momenti, di fasi, ognuna delle quali sia agganciata alla fase anteriore e sia pron­ta ad agganciarsi alla fase successiva, cosicché il contenuto attuale della percezione da un lato mantenga la presa sul contenuto appena passato, dall'altro si protenda ad afferrare il con­tenuto percettivo che sta per avvenire. Si tratta appunto delle ritenzioni e delle protenzioni di cui parla la filosofia fenomenologica. - La dinamica descritta da Husserl tra ritenzioni e protenzioni non è una dinamica autentica se essa è vuota. Il tempo "concreto" è il tempo riempito di vita. Qualcosa passa, qualcosa è qui ed ora presente, qualcosa viene anticipato… - Forse si potrebbe dire: il tempo considerato nella sua pura e semplice struttura ritenzionale-protenzionale è un'astrazione così come lo è il cosiddetto tempo degli orologi. È la materia sonora che qualifica la temporalità nella musica. - Le ritenzioni, le protenzioni, i processi memorativi e anticipativi funzionano insieme alle qualità intrinseche, sostanziali dei suoni in successione. Si parlerà allora di movimenti e di tensioni in un senso più ricco: queste tensioni sono un risultato del gioco relazionale dipendente dalle qualità intrinseche dei suoni sul fondamento della struttura temporale. 132 - Nelle sue riflessioni sulla temporalità nella musica Stockhausen ha sempre di mira il livello fisico: così una modificazione di altezza implicherebbe un processo temporale per il semplice fatto che passando da 440 a 660 Hz si modifica appunto il numero di vibrazioni al secondo! Intesa così, l'idea principale di "derivare tutte le caratteristiche dei processi sonori dalla concezione della struttura temporale" (Stockhausen, 1961), è, a mio sommesso parere, semplicemente priva di senso. Soggettività e tempo - Vi è dunque un passaggio dall'esperienza della temporalità alla temporalità dell'esperienza che ci porta sul terreno del rapporto tra soggettività e tempo. Ogni durata costituita lo è sulla base e sul fondamento della temporalità della soggettività stessa. E tuttavia ciò non ci consente di effettuare estrapolazioni immediate sul terreno di una filosofia della musica - co­me se vi fosse un rapporto peculiarissimo tra musica e soggettività. La temporalità del­l'espe­rienza viene in questione non solo in rapporto ai suoni ed alle sequenze sonore, e nemmeno soltanto in rapporto ai processi, ma in rapporto ad ogni formazione di esperienza in genere. Anche la visione è un processo, ed ogni oggettività costituita visivamente nella sua identità è il risultato di un processo, anche se non è essa stessa data come processo. Intemporalità della musica - La sequenza sonora si va facendo. Questa affermazione implica molto di più di quanto appaia ad un primo sguardo. In particolare implica che il senso di un suono appartenente alla sequenza non sia affatto deciso nell'istante in cui esso risuona, ma dal rapporto che si viene ad istituire tra ciò che precede e ciò che segue. Dovremmo allora concludere che in fin dei conti, poiché una melodia consta di suoni funzionalmente interdipendenti, 133 il suo senso, ed il senso dei suoni di cui è composta, può apparire soltanto quando essa è giunta al suo termine? - Questa idea è chiaramente formulata fra gli altri da Lévi-Strauss che la riprende da De Schloezer (1947): "Organizzare musicalmente il tempo significa trascenderlo" (Lévi-Strauss, 1966, p. 31). Anche Schönberg si trova su questa linea di discorso. Meno nota ma altrettanto decisa e più articolata è la posizione che Ernst Kurth assume in rapporto a questo problema. A suo avviso, condizione autentica ed essenziale della percezione musicale è la "simultaneità" e non la successione. Questo è un modo di affermare che la temporalità sarebbe una circostanza accessoria, un modo di rivelarsi della struttura, di una totalità che è essenzialmente intemporale: "Nella musica vi è una contraddizione tra tempo e unità intemporale... Alla domanda se noi possiamo afferrare una successione temporale come un' 'immagine' (Bild) (ovvero come una impressione simultanea) si deve rispondere che non solo lo possiamo, ma che lo dobbiamo, altrimenti non si darebbe musica in generale; la trasformazione del movimento in "immagine" è una funzione psichica fondamentale delle cui conseguenze possiamo renderci conto anche sotto altri riguardi. L'im­magine del movimento è un miracolo ancora più grande che il movimento e la sensazione sonora, poiché questi esistono in sé mentre quell'immagine esiste solo in una rappresentazione che trasvaluta il processo reale, un movimento che decorre, in una impressione simultanea" (Kurth, 1931, p. 97). In questo contesto egli cita anche dalla Einführung in die Psychologie di Aster (Leipzig 1919) il passo seguente, che è sotto questo riguardo assai significativo: "Noi possiamo cogliere i punti (di una linea) in un unico sguardo, mentre una successione di suoni si forma sempre in una unità successiva, un intero le cui parti sono l'una dopo l'altra. Ma questa differenza è pienamente irrilevante: contenuti che si succedono gli uni agli altri possono essere vissuti come del tutto simultanei in quanto rappresentano un intero" (Kurth, ivi). 134 - Xenakis distingue tra "fuori tempo" e "in tempo": nella musica vi sono nozioni che non hanno nulla di essenzialmente temporale e sono dunque indifferenti alla dimensione della simultaneità e della successione. In questo senso meritano di essere caratterizzate come "fuori tempo". Così un intervallo è quello che è, indipendentemente dal fatto di essere realizzato nella dimensione della simultaneità o della successione. Di contro vi sono nozioni che si propongono subito come essenzialmente temporali (un elemento ritmico, ad esempio). Ciò che è fuori tempo può assumere forma temporale - intervalli in successione (1982, pp. 31 e 35). Per Xenakis si tratta in ogni caso di sottolineare l'importanza dei fattori "fuori tempo" nella musica, cosa che è del resto coerente con l'accen­tuazione dell'importanza dell'elemento matematico-strutturale nella musica, che richiama in Xenakis l'elemento architettonico. "Spesso è stato detto… che nella musica il tempo è tutto", ma "per meglio comprendere il passato e il presente universali come per preparare l'avvenire è necessario distinguere la struttura, l'architettura, gli organismi sonori dalle loro manifestazioni temporali"(p. 46). "Così il tempo potrebbe essere considerato come una lavagna (vuota) su cui scrivere simboli e relazioni, architetture e organismi astratti. Dallo scontro tra organismi - architetture e realtà istantanea, immediata, nasce la qualità primordiale della coscienza vissuta". "Tutti i musicisti attribuiscono un'enorme importanza al tempo. Mi sono chiesto perché. Che cosa resta della musica se si toglie il tempo? Resta una folla di sensazioni che hanno bisogno del tempo per manifestarsi, ma che esistono senza di esso. La musica non si svolge propriamente nel tempo" (p. 161). - In simili posizioni si fa valere un modello visivo. Il decorso della melodia viene implicitamente paragonata ad un disegno che anziché essermi presentato tutt'intero e in un colpo solo, mi viene presentato parzialmente coperto, e mostrato a poco a poco. Cosicché non sono in grado di afferrare i nessi, il senso 135 del dettaglio si chiarisce via via, ma non può essere veramente chiaro finché il disegno non mi appare nella sua totalità. La temporalità del processo di integrazione diventa inessenziale, mentre essenziali sarebbero soltanto i rapporti che sono finalmente decisi solo al suo termine. - Questo paragone invece mostra la profonda differenza rispetto al farsi temporale di una melodia. Esso è un farsi effettivo, la melodia non c'è già al suo inizio, solo che è nascosta dietro uno schermo; e quando la melodia è terminata, essa lo è per davvero, ed al suo termine non vi è finalmente la totalità, come nel caso del disegno. La dominabilità in un solo sguardo è in ogni caso esclusa. Ciò implica anche che vi è un modo diverso di rapportarsi delle parti nell'intero nell'uno e nell'altro caso. I suoni della sequenza non sono qualcosa di analogo agli aspetti di una cosa, e nemmeno alle parti di un disegno. I sensi che si vanno dipanando sono sensi sospesi, sensi indecisi, anche se io conosco la sequenza a memoria, e per di più non si costituiscono con riferimento alla totalità, ma a ciò che precede ed a ciò che segue. - Devi trarre le dovute conseguenze da circostanze apparentemente inappariscenti, che non riguardano affatto semplici dettagli di ordine psicologico. Ad esempio, nel vedere un disegno parzialmente coperto che viene scoperto a poco a poco non vediamo l'ora che questa operazione finisca per avere finalmente il disegno sottocchio nella sua completezza. Nulla di simile accade nella ricezione di un brano musicale: mentre lo seguiamo non siamo mai curiosi di sapere quali suoni si succederanno a questo. La curiosità può essere attribuita alla vista, non all'udito, e in particolare non all'udire suoni. - È sintomatico che Kurth parli della simultaneità come una condizione essenziale del musicale in genere, e di una simultaneità che sta al termine della Zeitfolge. Il ragionamento che sta alla 136 base di ciò è che nella musica ciò che importa è il "punto di vista della totalità", e allora questa totalità non può che essere data al termine del brano. Dunque soltanto nel ricordo. Ma che cosa potrebbe significare avere la totalità di una melodia appena udita nel ricordo? Potrei rispondere: forse ora potrei ripetere il brano da capo a fondo, ovvero riprodurlo nel suo farsi. Una melodia non è mai una cosa fatta. La musica e le immagini della temporalità - L'idea che una speciale "esperienza del tempo" rappresenti l'origine vera e propria dell'opera musicale è un'idea astrattamente filosofica. Mentre la discussione del problema "tempo" nella musica potrebbe subito apparire feconda se si prendono in considerazione gli svariatissimi modi in cui i musicisti stessi organizzano concretamente gli aspetti della composizione che riguardano il fattore tempo. - Può essere - ma non è obbligatorio - che si facciano avanti immagini differenti della temporalità. Proprio in quanto un brano musicale è un processo può essere talvolta interessante considerare se vi sia un'immagine di decorso temporale suggerito da esso, e indagarne l'origine e il senso. L'immagine della temporalità eventualmente espressa nel brano musicale rappresenta uno dei modi di accedere ai pensieri della musica. - Mi sembra particolarmente felice la seguente formulazione dovuta a David Schiff: "Il tempo musicale è una idea del tempo trasmessa attraverso il suono" (Schiff, 1986, p. 77). Esempi di immagini della temporalità - Anche secondo Greene (1987) ciò su cui si deve attirare l'attenzione non è il legame generale tra musica e temporalità ma la 137 varietà di forme in cui la temporalità può essere espressa dalla musica. "Ognuno sa che la musica è temporale. Ma ognuno si rende conto che differenti brani sono temporali in modi diversi ovvero che ciascun brano propone ricordo ed aspettazione a suo modo e così crea i suoi propri criteri di coerenza, di continuità e di riempimento… la musica è importante per noi in parte, forse per la massima parte, in quanto ci offre immagini uditive della temporalità (aural images of temporality)" (1987, p. VII). Ed ancora: "Ciascun brano ha il suo proprio processo temporale, e così si dovrebbe parlare del processo temporale che esso presenta, e non intorno al processo temporale nella musica in generale" (p. VI) (corsivo mio). - Greene sottolinea anche la fecondità del rapporto tra musica e filosofia in rapporto al pro­blema del tempo: "La maggior parte dei musicologi contemporanei preferisce non usare concetti filosofici, come 'processo temporale' nell'analizzare la musica…", e questo per timore di incamminarsi su un terreno estraneo alla musica stessa. Ma il rapporto interno tra musica e tempo dovrebbe escludere questo pericolo cosicché, sottolinea Greene, si dovrebbe imparare dai filosofi che hanno studiato il problema del tempo e quello della sua relazione con la coscienza umana. Inversamente "l'idea che la musica ci attragga perché le sue immagini della temporalità ci attraggono suggerisce ai filosofi che essi possono imparare dalla musica" (p. VIII). Il fatto che ciascun brano abbia il proprio processo temporale e che perciò "è privo di significato chiedere che cosa sia il processo temporale nella musica in generale", non toglie che "pezzi composti dalla stessa persona e realizzati nella stessa forma o scritti nello stesso periodo stilistico abbiano significative analogie tra loro" e che sia in generale possibile avviare una esemplificazione di ampio respiro sulla temporalità nella musica di Bach o nella musica barocca in genere, nella forma-sonata e nella musica romantica, stabilendo raccordi con temi filosofici generali. 138 L'immagine della temporalità in Bach - Secondo Greene, la temporalità di Bach riporta sul piano musicale l'idea newtoniana della temporalità, e con ciò intende dire: in essa domina musicalmente una concezione deterministica, che è propria di Newton come in generale del razionalismo seicentesco e settecentesco. Si tratta di una direzione di discorso che merita di essere sperimentata e che forse richiama l'attenzione su una relazione che è meno estrinseca di quanto potrebbe sembrare a prima vista. In Newton, ma anche ad esempio in Leibniz, la necessità domina ovunque, anche nei movimenti dell'anima. Il futuro - si tratti della natura umana o della natura materiale - non è altro che un di­spiegamento della necessità. "Le invenzioni di Bach, i movimenti delle sonate, delle fughe e dei concerti, le arie e i cori sono le immagini uditive di un simile dispiegamento della necessità" (p. 7). "Il motore ritmico è così persistente che esso sembra inesorabile e conferisce una qualità di inesorabilità anche al gioco motivico" (p. 8). "La linea del basso implica una serie di armonie che non solo si succedono l'una all'altra ma sembrano progredire dall'una all'altra". Vi è qui la sensazione di un "inevitabile movimento in avanti" (forward Motion). Ed ancora: "Ogni cosa che è accaduta sembra essere accaduta per una ragione completamente sufficiente" - con evidente richiamo al principio leibniziano di ragione sufficiente. "La soddisfazione che la maggior parte degli ascoltatori sente al termine del brano proviene dal fatto che ogni cosa che è accaduta non è accaduta per accidente o per capriccio, ma doveva accadere, e che ogni cosa che aveva bisogno di accadere è di fatto accaduta". Questa inesorabilità non esclude momenti di sospensione, di attesa, di indeterminatezza. Vi sono così anche deviazioni da ciò che viene atteso, ma il modo in cui avvengono queste deviazioni anziché contraddire, conferma il quadro generale prospettato. 139 Il rapporto passato futuro nella forma-sonata - Così, secondo Greene, la forma-sonata manifesta un mutamento nel modo di cogliere il processo temporale. Il tempo non è più pensato in termini deterministici; ma nemmeno "apocalittici", come se il futuro fosse inteso come un inizio totalmente nuovo. Bensì: il passato evoca il futuro e il futuro rimanda al passato, come una eventful occurence - come una occorrenza eventuale, quindi si collega al passato come una possibilità che si è realizzata, e non come se esso stabilisse una condizione da cui il futuro stesso deve necessariamente conseguire. Ciò significa che assume un'im­portan­za cruciale il momento della decisione. Per il futuro, come per il passato: "Se vi fossero state decisioni differenti, l'occorrenza sarebbe stata differente" (p. 19). Il tema della decisione prepara, d'altra parte, quello della soggettività. - Sulla temporalità in Beethoven, che è il suo tema vero e proprio, Greene fornisce un'ampia trattazione che mostra come la sua impostazione, che ha carattere molto generale, possa essere fornire elementi interessanti proprio dal punto di vista dell'analisi e dell'interpretazione. Congelamento del tempo - Nella Winter Music di Cage, le strutture accordali vengono separate da pause a volte immense creando dei blocchi in certo senso solidi e togliendo la percezione di ogni possibile direzione di movimento. La temporalità è qui congelata nella pura contrapposizione tra il vuoto e il pieno. Non c'è fluire, non c'è in realtà nemmeno ripetizione, nessuna immagine della temporalità dunque, ma la sua soppressione. - L'idea di un'immagine della temporalità musicalmente espressa sta alla base del confronto tra Messiaen e Takemitsu proposto 140 da Timothy Koozin (1993, pp. 185-202). L'in­teresse di questo saggio sta in particolare nel fatto di mostrare come un'immagine assai simile della temporalità, certamente all'interno di un diverso orizzonte di pensieri, pos­­­sa ritrovarsi in autori che appartengono a culture dif­ferenti. Modulazione metrica - Con la sua idea della "modulazione metrica" (Carter, 1986, pp. 61 sgg.) Carter ha mostrato uno dei modi in cui la musica può padroneggiare il tempo, in certo senso raddoppiando il suo movimento. Ciò che Carter chiama modulazione metrica è una variazione graduale del "metro" ovvero della velocità della scansione di base all'interno del brano. Naturalmente qualunque ritardando o accelerando potrebbe essere chiamato una modulazione metrica. Ma qui ci si richiama ad un impiego esteso e variamente complesso della modificazione di velocità. In particolare Carter è interessato a situazioni conflittuali - ad es. si diano due strati, dove "uno sostiene un battito regolare mentre l'altro muta la sua velocità gradamente (p. 62). Queste differenze, secondo Carter, non debbono essere un esercizio astratto del compositore, ma debbono essere concretamente avvertite, cosicché egli critica il fatto che talvolta nelle costruzioni ritmiche particolarmente complesse si prescinda completamente dal risultato per l'ascoltatore. - Carter commenta con interesse le sperimentazioni di Ives in questa direzione rammentando che "nel secondo movimento di Three Places in New England un ragazzo sogna due gruppi diversi di soldati che marciano a velocità diverse …" e in The unanswered Question "la domanda è posta sempre più insistentemente e rapidamente dai legni, mentre gli archi suonano un sottofondo tranquillo e mediatativo, in modo impassibile, senza alcuna variazione di velocità e armonia, richiedendo perciò un direttore a parte" - (p. 17). Lo stesso Carter rammenta poi l'importanza 141 delle composizioni di Nancarrow in rapporto al problema temporale. XII Valutazione estetica L'esperienza estetica come esperienza composita - "Vi deve essere qualcosa che distingue ciò che chiami vera opera d'arte e ciò che non chiami così!" - Intanto io credo che non esista nessuna qualità specificamente estetica. Se do un giudizio di valore, ciò non accade in base ad una qualche proprietà caratteristica ed essenziale, ma a tutta una serie di considerazioni e di ragioni molto varie. - Ciò si può dire anche così: non esiste un'esperienza del bello, così come non esiste un'esperienza del sacro. L'espe­rien­za estetica è, come quella religiosa, un'esperienza composita. Ovvero non è un'esperienza che ha di mira un determinato "oggetto", come nel caso del vedere, udire, percepire in genere. Distinzioni non troppo difficili da fare - "Da quanto vai dicendo intorno alla musica, non mi sembra che si dia un qualche spazio al problema della valutazione". - È vero; mi sento abbastanza estraneo alle questioni della valutazione. - "Eppure dovrai pure avere un criterio per distinguere tra Fra Martino campanaro e la Nona sinfonia di Beethoven!". 142 - In realtà ho un'infinità di argomenti in proposito - e comincio a farti notare notare quanto sia lunga quella sinfonia e quanto breve quella canzone. - "La durata come criterio?" - Certamente. Per il confronto possiamo cominciare a far valere come criterio, o più precisamente, come chiamata del­l'atten­ zione per un possibile discorso da sviluppare in seguito, la pura e semplice durata del brano. Comincio così a suggerirti, non tanto che, per la sua durata, l'opera di Beethoven è più bella della canzoncina, ma soprattutto che durando così a lun­go, forse ha un grado maggiore di complessità. Ti faccio notare che essa è come un palazzo nel quale ci dobbiamo aggirare per poterne cogliere l'insie­me e i dettagli, e non come una stan­­zetta che in una occhiata è subito dominata. Il palazzo dovremo percorrerlo in lungo ed in largo, esaminando l'in­sieme e i dettagli e con tutte queste osservazioni ritengo di poter e­sau­rire l'argomento quanto alla differenza ed al maggiore valore artistico. Non sono invece in possesso di una regola generale per stabilire questa differenza. Ciononostante potrei anche discutere accanitamente con un amico per sostenere che questo, e non quest'altro, è una vera "opera d'arte". Adducen­do molti argomenti. Non sempre poi questo problema mi sembra importante. Provo infine un vero senso di fastidio per coloro che distribuiscono premi stilando classifiche e graduatorie - ad es. Telemann è certo inferiore a Bach, Beethoven è il più grande di tutti, Stravinsky… Io invece mi inchino perfino di fronte ad un violinista di strada. È il mio modo di onorare la grandezza della musica. L'idea del bello - A dire il vero, il mio interlocutore, quando mi pose la questione dei criteri di valutazione estetica, pensava "ideali­stica­mente" 143 alla necessità di una idea del bello reperibile come epifania nella storia dell'arte. Ma il problema non cambia nel­l'essenziale se indeboliamo questa pretesa necessità: ad esempio, l'elencazione empirica dei criteri in Dahlhaus assolve esattamente la stessa funzione di fornire una idea del bello musicale, come unità teoretica di riferimento, anche se ovvia­mente da considerare più elasticamente. L'obiezione che mi è stata rivolta è notevole soprattutto per due ragioni: da un lato essa mostra quanto sia alta, per "i cultori del giudizio estetico", la tensione della differenza tra il capolavoro e ciò che capolavoro non è, tra arte e non-arte; dall'altro per il fatto che, in assenza di una teoria ad hoc, specificamente dedicata al bello artistico, una cosa così facile da fare come distinguere tra Fra Martino Campanaro e la Nona Sinfonia viene presentata come se fosse altamente problematica. In realtà un'enuncia­zione astratta di criteri - si pretenda di trarla dall'empiria o dal mondo delle idee - non è affatto necessaria, perché i criteri della differenza, dal punto di vista dell'apprezzamento estetico li si possono trarre dalle opere stesse, esaminandole più da vicino. Sull'un brano si può discorrere veramente a lungo, si possono fare molti commenti, sull'altro no. Ed i criteri che via via andrò enunciando emergeranno all'interno di un approccio che, prendendo le mosse dall'apprezzamento, pone poi l'accento sulla comprensione, sulla molteplicità delle sue strade e dunque sulle molte cose da dire intorno all'opera. Vari sensi della parola "giudicare" -"Giudicare" talvolta significa semplicemente esprimere un'o­pi­ nione su un qualche argomento, talaltra l'accento cade sul momento della "valutazione". Vi è anche il "portare in giudizio", vi sono i giudici dei tribunali che esprimono "giu­dizi" ovvero "sentenze". Una parte delle resistenze che io provo per il problema stesso del giudizio estetico sta in questo: che non appena l'opera c'è, la si debba subito mettere sotto processo. Se componi qualcosa, e la fai 144 sentire ad un amico, egli pensa subito che deve giudicarla, che dovrebbe istruire un processo, mentre io gli ho solo chiesto di ascoltarla, e poi sarà libero, se vuole, di commentarla. Bisogna imparare a distinguere piuttosto nettamente tra l'ascoltare, il commentare e il giudicare - e poi tra il giudicare in un senso generico del termine e l'emettere una sentenza. - La reazione conclusiva di un ascolto non deve essere necessariamente un "giudizio" - e tanto meno del tipo "bello", "brut­­ to", "gradevole", ecc. Potrebbe, ad esempio, essere una domanda: come quando si guarda un quadro, ci si può chiedere che cosa rappresenti quel dettaglio, e come mai nel ritratto il personaggio tenga vistosamente congiunti il dito pollice con il dito indice. - Un romanzo lo si legge per sapere della storia che in esso si racconta, e non per dare di esso una valutazione estetica. Ed alla fine dirò anche che esso è bello, e potrei fermarmi lì, accettando la sostituzione a questo "è bello" - "mi è piaciuto, e potrebbe piacere anche ad un altro". Analogamente si va ad un concerto per ascoltare musica, non allo scopo di emettere giudizi. Naturalmente se poi ci venisse richiesto che cosa è successo, potremo dare svariate risposte e proporre com­menti che hanno a che vedere, a diversi livelli, con il problema di una valutazione. - "Argomentando in questo modo non ci troviamo nell'am­bito del giudizio estetico!" - Ma quando ci troviamo in questo ambito? Forse ciò accade quando si solleva la pretesa di dare una valutazione del­l'opera come tale, e non del mio atteggiamento di fronte al­l'o­pera. Tutti sappiamo distinguere tra questi due livelli di discorso. E del resto possiamo amare moltissimo brani musicali che sappiamo di scarso pregio intrinseco. 145 - Eppure non è così chiaro che cosa vogliamo sapere quando parliamo di valutazione, e quindi in fin dei conti che cosa significhi "giudizio estetico", che cosa si chieda quando si pretende una valutazione estetica vera e propria, e non un semplice e dimesso "giudizio di gusto". Ci piacerebbe peraltro tentare di accennare a risposte che non abbiano bisogno di camminare all'infinito. - Una certa insofferenza verso i problemi filosofici deriva dal sospetto che essi non si possano chiudere mai: e tuttavia ciò non può rappresentare una scusante per evitare di riflettere sulle cose. Almeno un poco. Confronto con il giudizio morale - Considera, per confronto, il "giudizio morale". In linea di principio un giudizio morale può essere formulato in forma molto semplice, ed è subito significativo. Parole come buono, cattivo, male, bene, ecc. esprimono tutto ciò che debbono esprimere in rapporto alle azioni ed ai comportamenti, anche se esse possono poi essere commentate e approfondite nel modo più vario. Non è qui nemmeno in questione il fatto che possa trattarsi di giudizi relativi, culturalmente mediati. Ciò che importa mettere in rilievo è il loro carattere di immediata comprensibilità. Se ad esempio dico che l'usura è azione cattiva, la frase è di per sé completa e significativa, perché qui l'essenziale è la manifestazione di una condanna e di una disapprovazione. Posso persino rinunciare a discutere se quella frase sia giusta o sbagliata; mi basta far notare che essa è un effettivo giudizio, ovvero che si sa che cosa si giudica e come la si giudica. Il dire invece che un'opera musicale è bella sorprende per la sua incompletezza ed insignificanza. Questa forma semplice della formulazione, sia che pretenda di essere intesa come una valutazione oggettiva, sia come una valutazione soggettiva, ci appare come un modo di cominciare un discorso che poi deve essere proseguito, pena l'insignificanza del giudizio stesso. 146 L'esigenza di formulare giudizi estetici è rivolta contro gli interessi dell'arte - Vi è poi una complicazione in più. All'espressione "opera d'arte" compete anzitutto il senso di "prodotto dell'arte", "risultato di un'attività artistica", e come si sa, arte e attività artistica rimandano intanto a certe determinate e pregevoli forme di abilità. Tuttavia il termine di opera d'arte va ben oltre questi sensi letterali, e rasenta invece il "capolavoro". Io credo che quando l'accento cade troppo enfaticamente sul "giudizio estetico" sia in opera l'intenzione di una drastica selezione. A mio avviso una simile tendenza selettiva è contraria allo spirito dell'arte e può essere addirittura distruttiva nei suoi confronti. - Mi piacerebbe dedicare una mia giornata da sofista perdigiorno ad argomentare di fronte ad un pubblico qualificato l'idea che l'esigenza di formulare giudizi estetici sia rivolta contro gli interessi dell'arte. - Se rifletti a che cosa trovi in un museo ti renderai subito conto quanto nell'arte sia dominante non il senso ampolloso dell'e­ spressione "opera d'arte", che viene per così dire sanzionata dal giudizio estetico, ma il suo senso più semplice di "prodotto del­ l'arte". Infatti in un museo il numero delle opere che meriterebbero il titolo di capolavori potrebbe non superare quello delle nostre dita, ma l'arte appunto non è fatta soltanto di essi, e nemmeno il museo che conserva le sue opere. Valutazione e comprensione - Ciò non significa in ogni caso che non esista il problema della valutazione in genere. Esso può benissimo cominciare dal giudizio sul bello o sul brutto come inizio di un discorso che deve proseguire subito oltre. Ed in che modo deve proseguire? Si trat- 147 ta di penetrare sempre più da vicino nell'opera, nel suo interno e nelle sue vicinanze più o meno immediate, di stabilire nessi e relazioni. Si può anche pretendere di andare oltre, verso una valutazione più profonda - ma che cosa può voler dire questo andare oltre se non acquisire la varietà di strumenti che siano in grado di consentirmi una comprensione più approfondita dell'opera? Valutazione e comprensione debbono diventare sempre più vicine, quasi a fondersi l'una nel­l'altra. Forse potremmo dire che parlare della valutazione è parlare di un percorso del comprendere che ha conseguenze sul­l'ap­prezzare. Raccattare criteri estetici dalla storia - Una difesa della problematica del giudizio estetico deve passare probabilmente attraverso un suo smontaggio, una specie di sua dissoluzione. Non sono affatto interessato ad un processo da istruire. E tanto meno si tratta di prendere decisioni sulla base di un modello del bello. La bellezza non si trova concentrata in un insieme di criteri dati a priori, ma nemmeno in un insieme di criteri a posteriori - raccattati dalla storia, come accade in Dahlhaus - da usare secondo il libero arbitrio a cui ci autorizza questa origine empirica. In effetti in Analisi musicale e giudizio estetico (Bologna, 1987), mettendo da parte ogni considerazione estetica di ordine generale, e dunque ogni implicazione filosofica che una considerazione estetica non può non richiamare più o meno indirettamente, Dahlhaus tenta di individuare comunque - e in che altro modo se non attraverso l'empiria storica? - un insieme di categorie, di criteri, di principi (chiamali come vuoi) che nella storia del giudizio estetico si sono affermati per lo più, costruendo quella che io chiamerei una teoria fittizia del giudizio estetico - una teoria fatta da spezzoni di teorie che, fatta così, non è mai esistita in nessun tempo e in nessun luogo - appellandosi ad essa quan­ do sembra il caso, con quella piena libertà di utilizzare questo o quel criterio che una simile costruzione prevede in modo del tutto esplicito e consapevole. Questa libertà sarebbe peraltro, 148 secondo Dahlhaus, limitata dal­l'"analisi", come preteso fondamento oggettivo della valutazione. Naturalmen­te io credo che l'analisi rientri in via di prin­cipio in un apprezzamento fondato sulla comprensione. Per Dahlhaus tuttavia l'ana­lisi rappresenta a sua volta il tribunale di fronte al quale riportare le relatività delle categorie estetiche. Come se si dicesse: le categorie estetiche sono relative, l'una vale quanto la sua opposta, come la storia dimostra. L'analisi ci consentirebbe invece - sia pure con qualche residuo margine di problematicità - di stabilire se una certa categoria è usata propriamente o impropriamente. - È caratteristico di Dahlhaus una continua commistione di punto di vista storico e di punto di vista teorico, che spesso può essere assai produttiva. Ma il modo in cui egli la realizza in concreto, come se la storia dovesse correggere la teoria e inversamente, ottenendo così una sorta di strana mistura semi-storicistica, sembra insegnarci assai poco. Un'elaborazione teorica non può prescindere da certi assunti di carattere generale, non può isolare il problema del giudizio estetico come se esso potesse essere discusso in sé e per sé indipendentemente da presupposti filosofici più o meno forti. Si avranno così delle tesi unilaterali, che saranno pur sempre delle tesi da discutere con argomenti e controargomenti. Il materiale storico potrà allora adeguatamente arricchire la discussione ed entrare in un vario rapporto con la teoria. Punto di vista storico e punto di vista teorico tanto più possono giovarsi efficacemente l'uno dell'altro quanto meno vengono fusi e confusi l'uno nell'altro. 149 XIII Psicologismi Ti propongo un brano e tu scriverai un aggettivo - Ti propongo un brano e tu scriverai un aggettivo. Oppure lo sceglierai all'interno di una lista prestabilita. Poi si applicano algoritmi sta­tistici elaborando ipotesi sui fondamenti psicologici della musica, sulle cause del piacere dell'ascolto, ecc. In tutto ciò serpeggia sempre la vec­chia ambizione fondazionale della psicologia: lo "psi­co­logismo estetico". - Si cerca di accertare, ad esempio, se tra le scelte aggettivali effettuate vi siano concordanze statisticamene significative. Oppure, quando l'induzione è "libera" (ovvero senza liste precostituite) se le aggettivazioni siano coerenti, cioè appartengano ad un'area semantica comune. - Il problema è, a mio avviso, che non sempre si chiarisce esattamente che cosa si vuole provare e che cosa di fatto si prova. Spesso le due cose non coincidono affatto. - Viene proposto l'ascolto di brevi brani di Debussy. Ed è quasi della massima importanza che non si sappia nemmeno che si tratti di lui, che non si conosca il brano, e tanto meno il titolo, che non si sappia riconoscere lo stile. Nel titolo si parla, ad esempio, del vento o dell'acqua: quindi esso suggerisce un contenuto che se mai deve essere addirittura scoperto, oppure contraddetto o negato. Questo è lo scopo dell'esperi­mento! Il senso sarebbe dunque in quel povero aggettivo che un gruppo di persone ignoranti attribuiscono ad un brano musicale avulso da ogni contesto, di cui magari si è proposto un frammento che per di più può durare una manciata di secondi? 150 - Il brano musicale è un oggetto culturale! Puoi dimenticarlo? - "I 16 frammenti musicali (di Debussy) sono stati presentati a 80 soggetti, studenti di filosofia e di scienze umane, che non avevano ricevuto nessuna formazione musicale particolare. Al termine dell'esperienza veniva loro chiesto di attribuire i frammenti ai compositori che avessero eventualmente riconosciuto: solo sei soggetti hanno attribuito i brani a Debussy, senza poter tuttavia precisare l'opera. Nell'insieme questi soggetti hanno dato prova della più grande ignoranza musicale (gli autori citati andavano da Vivaldi a Wagner passando per Dvorak… anche Chopin è stato spesso citato)" (Imberty, 1986, p. 88). - Nulla di interessante possiamo apprendere intorno alla musica da chi non sa distinguere tra Vivaldi e Debussy. - Parlando del senso di un brano musicale devi prestare attenzione a non impiegare una nozione di senso troppo povera. - Perché mai non si chiede di "verbalizzare" attraverso un aggettivo un paesaggio o un ritratto? Perché non troviamo interessante proporre questo esercizio in rapporto ad un dipinto e perché al contrario esso ci sembra fondamentale in rapporto ad un brano musicale? - "Questo brano mi sembra molto triste!" - "Triste? - Io non trovo". Che importanza ha ciò che qualcuno trova? Che uno trovi una cosa ed un altro un'altra? O che tutti e due trovino eventualmente la stessa cosa? - Che qualcuno dia questo o quell'aggettivo ad un brano musicale, in un simile contesto psicologico-sperimentale, non ha quasi nessuna importanza. Natural­mente le cose stanno in modo radicalmen- 151 te differente quando ti servi di aggettivi per illustrare un brano musicale al di là di una descrizione tecnica della sua struttura o anche ad integrazione e rafforzamento di una simile descrizione: puoi usare allora utilmente tutti gli aggettivi che vuoi, ed attraverso di essi evocare immagini: ma in questo caso non stai facendo alcun esperimento psicologico. Presta bene attenzione a questa differenza, anche in rapporto alla problematica dell'immaginazione musicale. - La questione che prima non c'era sorge soltanto quando lo psicologo la solleva. "Con quale aggettivo caratterizzeresti questo brano?" - Io non ho mai pensato, ascoltando questo brano, di doverlo caratterizzare con un aggettivo qualsivoglia. - L'esperimento degli aggettivi lo si potrebbe fare anche con gli odori. O con le marmellate. Quale aggettivo associeresti al­ l'aroma del caffè? - Il caffè viene bevuto in un colpo solo, e poi so tutto quello che c'era da sapere. E nulla da dire. Intorno ad un brano musicale è possibile un lungo discorso. - Nella situazione psicologico-sperimentale c'è già il suggerimento di un modo sbagliato di accingersi all'ascolto. Si chiede di accertare quale stato d'animo susciti un determinato brano. Eppure nell'ascoltare un brano io non sono affatto obbligato a pormi il problema del mio stato d'animo. Ti propongo un brano e tu farai un disegno - Talora si chiede ai ragazzini di fare un disegno dopo aver ascoltato un brano. Questo può servire a qualcosa, forse, ma è certamente sbagliato insinuare che la musica debba necessariamente suggerire un paesaggio o un'emozione che possa essere tradotta gra- 152 ficamente. Per favore, fischiettami un dipinto - Perché mai non si presenta ad uno un dipinto e non gli si chiede: Ora fischiettami qualcosa? Un volto irato - Non bisogna dimenticare che l'affettività ha in ogni caso una forma. Così un'espressione del volto ha caratteristiche ben definite che sono anche in certo senso formalizzabili: Formalizzazione dell'espressione di un volto - Esperimento. Proporre tre aggettivi (irato, gioioso, triste) e chiedere ad un gruppo di soggetti sperimentali di attribuirli alle figure. Il punto del problema è di stabilire che cosa propriamente ha di mira l'esperimento. Stabilito questo, potrebbe mutare l'atteg­giamen­to dello sperimentatore e le conseguenze che trae dall'espe­ri­­mento. - Supponiamo che tutti i soggetti sperimentali attribuiscano la qualificazione di "irato" al volto centrale. Lo sperimentatore potrebbe prendere nota di questo fatto, non trovando in ciò nulla di strano. Oppure potrebbe essere spinto a considerare per quale motivo il tal gruppo di soggetti ha operato un'associazione così singolare (in tal caso farebbe valere, eviden­temente, un sacro- 153 santo pregiudizio). - Occorre soprattutto temere le semplificazioni. Ad es. non è affatto vero che saremmo tenuti a connotare ogni andamento me­lo­dico con un aggettivo che rimanda alle regioni emozionali. Da questo punto di vista l'esempio precedente del volto gioioso, triste ed irato non è realmente calzante, anzitutto perché rimanda ad una tipologia del sentimento. L'analogia con il volto è interessante per­ché ci consente di affermare che un tema potrebbe essere considerato come se avesse una fisionomia sua propria, quindi un volto particolare e inconfondibile, in se stesso espressivo e diverso da ogni altro. De Schloe­zer pensa a qualcosa di simile, quando propone questa similitudine (De Schloezer- Scriabine, 1959, p. 120). - Spesso lo psicologo fa esperimenti per sapere ciò che sa già. E crede, facendo esperimenti, di dare un fondamento a questo sapere di cui prima sarebbe stato privo. Esperimenti psicologici e filosofemi - Con astrazione notale R. Francés (1984) intende la circostanza secondo cui ciò che viene identificato sul piano musicale (percettivo) come una identità definita non è qualcosa di identico sul piano fisico. In effetti una nota può essere percepita come "la stessa" anche se vi è una considerevole variazione nella frequenza. Caso tipico, più volte citato, il vibrato che può arrivare ad oscillazioni addirittura fino a mezzo tono. Così vi sono variazioni di altezza negli attacchi del suono e nelle conclusioni. Si tratta di fluttuazioni che sono state sottoposte ad analisi ed attentamente misurate. - Nel proporsi ricerche come queste lo psicologo fa naturalmente il suo mestiere e mette in evidenza circostanze interessan- 154 ti. Ma quando egli osserva, in proposito, che "l'orecchio ricerca, attraverso inesattezze…, gli enti musicali tipici (che hanno uno statuto psicologico particolare) ai quali esso è stato familiarizzato mediante la ripetizione frequente" (Francés,1984, p. 36), egli filosofeggia, e non è detto che lo faccia nel modo migliore. Si vuol forse sostenere che ciò che all'inizio è percepito come una variazione di altezza poi viene percepito - con la ripetizione frequente - ad es. come la "stessa" nota, eventualmente "vibrante"? Ma che cosa mai viene ripetuto? - Attraverso la ripetizione si sedimenta un senso che prima non c'era. Ma la ripetizione di ciò che non è un vibrato non farà mai apparire un vibrato. Ripetilo quante volte vuoi. - Francés intende proprio sostenere che non vi è alcun fondamento strutturale, ad esempio, per la percezione delle relazioni nel linguaggio della tonalità, ma vi sono solo delle "liai­sons constamment experimentée" (p. 104). Ci troviamo qui agli antipodi delle teorie che pretendono una fondazione fisica. Ma anche la sua posizione è erronea. È erroneo che sia so­lo la "mémoire" che stabilisce un nesso tra gli estremi di un intervallo di quinta. D'altra parte è vero che contestare questa posizione non ci obbliga a ritenere ingiustificato questo nesso finché non si disponga di un'adeguata spiegazione fisico-acustica. - Talvolta si ha l'impressione che lo psicologo della musica sia soprattutto preoccupato di confermare l'ipotesi empiristica, la quale, essendo un'ipotesi filosofica, non è nemmeno un'ipotesi. - Tuttavia nonostante falsi scopi, lo psicologo riesce ad esibire fatti ed a formulare problemi ricchi di interesse. - Non sempre si trova quello che si cerca, ma è sempre meglio trovare qualcosa piuttosto che nulla. 155 Acculturazione - Sulla base di accertamenti psicologici si possono effettuare delle ragionevoli previsioni, ad esempio, sulle reazioni di a­scolto all'in­terno di un gruppo culturale abbastanza definito. Mentre sulla base di considerazioni fenomenologiche, non è mai possibile fare previsioni. Questo è un tratto distintivo caratteristico rispetto alle analisi psicologiche. - La pretesa importanza dell'acculturazione: "… un suono solo percepito trascina con sé nell'immaginazione il corteggio dei rapporti tonali" (Francés, 1984, p. 99). Se un tale udendo una nota soltanto, sente anche un simile corteggio, questi sono affari suoi. Ed io ho il sospetto che possa anche trattarsi di una sorta di disturbo dell'ascolto. XIV Comprendere Distanza e comprensione - Comprendere la specificità di una cultura significa comprendere nello stesso tempo anche le ragioni delle sue scelte e dunque anche quali alternative siano state escluse e le ragioni di questa esclusione. Il movimento della comprensione richiede il regresso all'ambito di possibilità come campo di decisioni possibili. - Il comprendere richiede la distanza. Il problema nasce già da una distanza che diventa consapevole. Cogliere la distanza: questo è il primo passo - perché ciò significa: qui c'è qualcosa che deve essere compreso. Ma la distanza deve essere poi man­tenuta anche nel processo del comprendere. Il comprendere comporta 156 un arricchimento: la mia visuale si è allargata. Un'incomprensione necessaria - Naturalmente non potrò mai comprendere il dolore di Pie­tro. Proprio il suo. Esattamente come lo prova. Questa incomprensione fa parte dell'essenza della comprensione. - La tesi dell'"incomprensibilità" di principio della musica di un'altra cultura è implicitamente o esplicitamente accompa­gnata da un relativismo esasperato, come è naturale che sia. Ed è un errore collegare l'esistenza di una molteplicità di linguaggi della musica a questa pretesa incomprensibilità di prin­cipio. "Ciò che di fatto esiste non è il 'linguaggio', ma linguaggi particolari, non la 'musica' ma musiche particolari... Le barriere tra musica e musiche sono ancora più insuperabili che le barriere linguistiche… Noi possiamo seguire un corso ed imparare la lingua cinese; ma dovremmo vivere realmente con la musica cinese e fino ad un certo punto diventare cinesi se vogliamo comprendere il linguaggio cinese dei suoni" (Zucherkandl, 1959, pp. 17-18). Nota che questo problema potrebbe riproporsi per la musica del nostro passato - la cultura che sta a fondamento del canto gregoriano è un'altra cultura non meno della musica cinese. Lo stesso vale per le innovazioni presenti e future del linguaggio musicale. Io mi chiedo: che cosa dovrei "diventare" per comprendere il gregoriano, l'atonalismo o lo spettralismo? - La distanza non può e non deve essere tolta. Quando viene tolta non c'è più nulla da comprendere. Comprendere l'ascesi buddista non significa affatto diventare monaco buddista. Un monaco buddista "comprende" l'ascesi nella misura in cui la pratica. Tuttavia gli manca qualcosa: un punto di vista più ampio. - Ho rinunciato a comprendere. Ora lo faccio. 157 - Per comprendere debbo dispormi un poco più in alto. Deb­bo poter fare confronti e paragoni. E poter disporre di più di un punto di vista, passando da questo a quello. Debbo poter dire: a differenza di… Oppure: invece… - L'incomprensione consiste nel risucchiare l'altro nelle proprie abitudini. Ma la comprensione non consiste nel farsi risucchiare nelle abitudini dell'altro. XV Relativismi Consonanza/dissonanza - "En réalité, rien de véritablement constructif ne peu sortir de la notion consonance - dissonance dont il est superflu de dénoncer les fluctuations et que l'on ferait mieux de bannir à tout jamais du langage musical" (Costère, 1962, p. 97). Viene così gettata luce nelle tenebre di secoli e secoli. Rien de véritablement constructif … come se i musicisti con le loro grandi orecchie, la musica stessa e la sua storia non fosse mai esistita. - Secondo Reti, Schönberg fu sempre convinto della natura convenzionale della distinzione tra consonanza e dissonanza, e questa convinzione venne ereditata dai suoi allievi e seguaci. Si trattava di un modo seducente per liberarsi dai vecchi precetti e preconcetti, ma secondo Reti una simile tesi non può essere "seriamente sostenuta né da punto di vista storico né dal punto di vista musicale" (Reti 1958, p. 38). Un'altra teoria criticata da Reti è l'idea delle dissonanze come ��armonici lontani" (remote overtones). L'assunzione secondo cui l'orecchio concepirebbe ogni nota pensabile come rappre- 158 sentativa di un remotissimo armonico è una assunzione gratuita, anche tenendo conto del fatto che la stessa riconoscibilità dell'armonico richiederebbe l'abbassamento di diverse ottave. "In ogni caso questa teoria degli ipertoni remoti è priva di importanza dal punto di vista musicale e potrebbe al massimo essere considerata come una terminologia intrigante (intriguing), benché problematica" (p. 39). Inoltre, secondo Reti, Schönberg ha confuso due problemi. Egli ha ragione quando rivendica la possibilità estetica dell'impiego di intervalli e di accordi che non rientrano nella tradizione classica; ma commette un errore ingenuo "assumendo che di conseguenza la differenza musicale tra questi intervalli (consonanze e dissonanze)" verrebbe cancellata. Un conto è l'impiego artistico di questi contrasti, un altro è la tesi della loro soppressione. "Che non vi sia nessuna differenza tra le due categorie contrastanti e che esse possano perciò essere semplicemente interscambiate è invero paradossale, se non assurdo" (ivi) . Suoni/rumori - "Alla musica appartengono silenzio, suoni, rumori che abitudini e tacite convenzioni fanno considerare come ad essa propri" (Nattiez, 1986, p. 16). "Proprio come la musica è ciò che la gente accetta di riconoscere come tale, il rumore è ciò che si riconosce come ciò che disturba e/o è sgradevole. Il confine tra musica e rumore è sempre definito culturalmente, e ciò implica che all'interno di una stessa società esso non si colloca sempre allo stesso posto ovvero che raramente vi è consenso" (p. 20). Il problema effettivo, a mio avviso, non sta nel sottolineare la relatività della distinzione tra suono e rumore, ma nel riconoscere che la considerazione in ambito musicale del rumore riconduce alla nozione del timbro - ed è per questa via che il rumore può diventare musicalmente interessante. Non solo: come osserva giustamente Sergio Lanza, il rumore, entra in un contesto musicale in quanto 159 partecipa di momenti che gli sono strettamente pertinenti: "Così io non sento come tale il fruscio emesso dalla spazzola metallica che scorre sulla superficie sabbiata di una grancassa; non percepisco come tale il sibilo che emette la cantante che non legge alcuna vocale sulla sua parte ma trova invece una 's' o una 'f ' prolungate; né quel particolare tipo di soffio che esce dal flauto o dal violino suonati con un'inclinazione, rispettivamente del labbro o dell'archetto, "non ordinaria". Di fronte a questi rumori io vengo preso, caso mai, dal crescendo che quel suono porta con sé, incastonato in una rete di precise tensioni dinamiche all'interno di un discorso che conosce altri crescendi, diminuendi, sforzati o contrasti dinamici, e, più in generale, relazioni sintattico-musicali che rendono questa classe di eventi sonori tanto idonea a portare senso musicale quanto quella dei suoni ordinari" (Riflessioni di un composizione sul rumore, De Musica 2008, Internet). (users.unimi.it/~gpiana/dm12/lanza/lanza_riflessioni_sul_rumore.pdf) XVI Senso e valore immaginativo nella musica Difficoltà del problema semantico nella musica? - … le difficoltà del problema semantico nella musica… Come se questo problema fosse altrove molto facile. Allora chiederei: che cosa significa un paesaggio dipinto? Che cosa significa un ritratto? Qual è il suo senso? Rispondere a queste domande non è affatto facile. Naturalmente nel caso dei dipinti possiamo (per lo più) dire che cosa essi rappresentino. Ed allora sembra che vi sia una difficoltà proprio nel fatto che qualcosa di simile ad un significare in questa accezione nella musica non c'è. - Quando chiedo che cosa significa un paesaggio dipinto non chiedo che cosa raffiguri, dal momento che questo lo vedo. 160 Formalismo - In mille modi si può dire che la musica è una realtà a se stante, che deve essere considerata nella sua indipendenza e nella sua autonomia. Tutto ciò che sta intorno ad essa, dalla parte del compositore o dell'ascoltatore, è pura accidentalità. Vi sono molti argomenti che possono persuaderci della bontà di una simile presa di posizione. - Stravinsky nelle Cronache della mia vita racconta un dialogo tra un pittore (Degas) e un poeta (Mallarmé): il pittore dice al poeta: "Non riesco a finire il mio sonetto. E non sono le idee che mi mancano". Il poeta risponde sottovoce: "Non è con le idee che si fanno i versi, ma con le parole" (Stravinsky, 1979, p. 110). Con un simile aneddoto potrebbe cominciare una perorazione di un punto di vista "formalistico" in rapporto alla questione del problema del senso. - De Schloezer è un rigoroso sostenitore dell'"assorbimento della parola nella musica" - a questo problema dedica in particolare il capitolo IX della sua Introduction a J. Schopenhauer Bach (De Schloezer, 1947, pp. 257 sgg.). Se la lingua non è nota, non si perde nulla nell'ascolto - ed anzi questa è la situazione migliore. Controprova: stessi testi - musiche differenti. Testi diversi - stesse musiche. Secondo De Schloezer la scelta di un testo è un puro fenomeno psicologico che riguarda solo l'autore, non l'ascoltatore. Esattamente come nel caso della "musica a programma" - che non andrà né approvata né disapprovata per il semplice fatto che "parlando propriamente la musica a programma non esiste" - "vi sono solo musiche più meno bene organizzate e composte" essendo ogni opera, indipendentemente dai pensieri e dalle immaginazioni che hanno accompagnato il processo creativo, "un sistema ermeticamente chiuso su se stesso in cui non può insinuarsi nulla d'impuro - voglio dire: di extra-musicale" (p. 260). 161 - La tesi di De Schloezer è giustamente criticata da Ruwet secondo il quale è erronea una concezione della musica come sistema chiuso. La musica fa parte della cultura ed allora essa deve essere considerata come un "sistema significante" capace di "simbolizzare a suo modo i grandi temi della cultura, il rapporto all'altro, alla natura, alla morte, al desiderio…". Tuttavia per quanto riguarda il problema del senso anche Ruwet, non va molto oltre la vecchia e poco interessante tesi dell'o­mo­logia. L'analisi musicale mette in evidenza delle strutture che sono "omologhe ad altre strutture attinenti alla realtà o al vissuto; è in questo rapporto di omologia che si rivela il 'senso' di un'opera musicale". Esempio: cadenza interrotta e cadenza perfetta. Una situazione che sarebbe omologa "ad un insieme indefinito di altre strutture che possono ritrovarsi nel reale e nel vissuto" (Ruwet,1972, p. 14). - Se ascolto un lieder di Schubert amerei capire che cosa in esso si dice. Ho la sensazione che potrei com­pren­derlo meglio anche musicalmente. Che dire poi di un melodramma a cui assisto, o che semplicemente ascolto senza saper nulla né di ciò che si dice né della trama? Naturalmente molti lieder di Schubert si possono ascoltare con bellissimo effetto nelle trascrizioni puramente pianistiche di Liszt, oltre che nelle utilizzazioni fatte in composizioni strumentali da Schubert stesso; ed ancora Liszt lo si può citare per il melodramma verdiano. Ciò significa soltanto che ci sono nella musica differenti possibilità. Perché si dovrebbe rinunciare ad esse ed adattarsi a tesi fortemente unilaterali? - La fortuna della concezione formalistica è dovuta a vari fattori: essa si incontra con gli interessi di una musicologia che metta l'accento sull'analisi tecnica dell'opera e che intenda nettamente superare il piano di una pura descrizione psicologizzante, in cui ciò che viene descritto è "l'impressione che la musica mi fa". Vi sono poi gli eccessi della musica a program­ma, ed ancora i riferimenti a testi letterari come se il brano musicale non facesse 162 altro che tradurli in musica. Ma critiche giustificate, che fanno tanto più la voce grossa quanto più è debole e semplicisticamente esemplificata la posizione soggetta a critica, conducono a loro volta ad atteggiamenti semplicistici. - Si dice: la musica deriva dalla musica, e non da qualche altra cosa. E così la poesia dalla poesia. Lo strutturalismo linguistico, ha fatto valere questa concezione sul piano della filosofia dell'arte. Una poesia d'amore appartiene anzitutto al genere "poesia d'a­ more" - che ha una sua storia letteraria, le sue ricorrenze i suoi luoghi comuni, ecc. E certamente il poeta che scrive una poesia d'amore non è necessariamente innamorato di qualcuno. Giusto. Ma considerata oltre un certo limite, questa posizione è fortemente riduttiva, e per certi versi nefasta: essa corre il rischio di ridurre le elaborazioni poetiche a centoni della tradizione letteraria, realizzando una vera e propria operazione distruttiva dell'unità e del senso dell'opera. Si trascurano qui alcune cose a mio avviso particolarmente significative: ogni opera avviene all'interno di un progetto artistico: questo progetto ha le sue radici nella tradizione lin­gui­stica preesistente, ma anche nel­l'esperienza vissuta dell'au­tore e nella sua partecipazione alla Storia, che è intessuta in quella esperienza vissuta. Il richiamo all'e­sperienza vissuta non è necessariamente un richiamo biografico o psicologizzante. Si tratta invece di quello sfondo di realtà che è necessario per sostenere l'imma­ginazione creativa, nella quale si fondono insie­me stimoli provenienti dalla tradizione artistica e dal­l'e­spe­rien­za vissuta. Se hai compreso questo, puoi dire senza problemi: anche la biografia talora è molto importante. La musica esprime sentimenti? - La musica esprime sentimenti? Oppure: perché la musica non dovrebbe esprimere sentimenti? Talora lo fa (come anche la pittura). 163 - Considera la differenza tra un paesaggio di Francesco Guardi ed uno di Bernardo Bellotto. Nel primo vi è una luce diffusa ed un croma­tismo che tende a prevalere nettamente sull'elemento grafico ed a dissolvere le forme delle cose - si dipingono "atmosfere". Nel Bellotto il dipinto ha quasi il carattere di uno studio conoscitivo, vuole essere una riproduzione fedele di ciò che viene visto, ed anche una esibizione dei mezzi offerti dalle tecniche del disegno in prospettiva. Entrambi i casi sono interessanti, e ci dànno da pensare per ragioni diverse. Potrei dire: in certi casi la pittura esprime sentimenti, in altri il senso del dipinto potrebbe stare altrove. - Con l'aiuto delle parole e del contesto, della narrazione, del personaggio ecc. la musica può arrivare ad esprimere sentimenti in una piena determinatezza, e non solo in una vaga generalità. Ma una carica affettiva sufficientemente determinata può inerire anche ad un tema o ad uno sviluppo tematico, al momento timbrico e ritmico. I mezzi per esprimere sentimen­ti nella musica sono numerosi. Ciò non significa tuttavia che il sentimento sia tema essenziale ed esclusivo della musica, non più di quanto lo sia per la poesia, la narrativa, la pittura o l'architettura. - Possibilità intrinseche dei materiali, tecnica artistica, immaginazione, concezione del mondo, soggettività dell'autore, tradizione e cultura sono le componenti di cui il dipinto è fatto e da cui sorge il suo senso. La stessa cosa si può dire della musica. - In un brano musicale, non è affatto importante che esso dica qualcosa, ma che noi possiamo dire qualcosa su di esso. L'urlo di Azucena - Nel suo famoso esempio "Che farò senza Euridice…", ripreso da un'osservazione di un contemporaneo di Gluck, Boyé, che 164 aveva notato come il testo potesse essere sostituito con parole di gioia per il ritrovamento di Euridice, Hanslick ha segnalato una singolare ambivalenza possibile della melodia che giocava a favore delle proprie tesi, benché con palese incongruenza rispetto ad esse - assai poco avvertita dai suoi interpreti - aggiungesse di non poter assolvere completamente il compositore "perché la musica per esprimere una dolorosa tristezza possiede accenti ben più appropriati" (Hanslick, 1971, pp. 33-34). - Ma l'errore più grave che egli compie è quello di ignorare completamente il fatto che il ritegno nella manifestazione del dolore o della gioia fa parte di un'estetica classicista. Cosicché l'esempio, tante volte ripreso con pretesa forza dimostrativa, risulta del tutto fuori luogo. Oltretutto esso è stato interpretato, forse andando oltre le intenzioni dell'autore, come se dimostras­se che ad un brano qualunque potesse essere assegnato un senso qualunque, e includendo il caso estremo: un senso ed il suo opposto. Prova allora ad assegnare il senso di un urlo di gioia all'urlo di Azucena quando dice "il figlio mio, il figlio mio avea bruciato" nella parte seconda del Trovatore di Verdi. Le indicazioni espressive - Supponiamo che un autore scriva in spartito "irosamente" come indicazione espressiva (oppure "teneramente", "agitato", "misterioso" ecc.). Con ciò non si dice affatto che quel passo esprima il sentimento dell'ira, e tanto meno che il compositore in quel punto fosse particolarmente adirato, e neppure che l'esecutore o l'ascoltatore debbano provare un sentimento d'ira. Si fa soltanto notare che l'andamento espressivo potrebbe essere reso con una simile parola o con qualche altra che alluda ad una situazione espressiva equivalente. - Vi sono comportamenti caratteristici dell'ira: ad esempio, 165 concitazione, movimento disordinato, voce strozzata. Se vi è in partitura l'indicazione "irosamente", uno strumentista sa quello che deve fare. - È come se la musica avesse un volto che qui si aggrotta, mentre là si rasserena. - Le annotazioni in margine ad una poesia che deve essere declamata da un attore potrebbero essere del tipo: "tene­ramente", "con enfasi", "con distacco", ecc. come su uno spartito. La parole suggeriscono questi andamenti in relazione al contenuto. Immaginiamo ora che il contenuto non vi sia affatto e che vi sia soltanto una sorta di percorso per queste movenze espressive. - Io non dico che la musica esprime sentimenti per il semplice fatto che la dialettica dell'espressione è molto più complessa. Mi sembra giusto aggiungere tuttavia che parole che si richiamano a stati d'animo non sono sempre fuori luogo, come in generale l'uso di immagini e di espressioni immaginose, purché non siano lasciate sole e vengano integrate all'interno di quella dialettica. La questione non va tuttavia confusa con l'im­­piego che talvolta viene fatto di simili parole nella sperimentazione psicologica, anche se probabilmente proprio la pos­sibilità di caratterizza­zioni come queste ha suggerito quel­l'impiego. Se l'Adagio beethoveniano della sonata op. 27 n. 2 (Mondscheinsonate) evochi l'at­mosfera assorta ed amorosa di un chiaro di luna o non piuttosto una meditazione funebre (o eventualmente l'una e l'altra cosa insieme come nel dipinto di Friedrich Un uomo ed una donna che osservano la luna), di ciò non è vietato discutere estendendo l'ambito dei riferimenti, ad esempio richiamando la forma costruttiva del brano, proponendo un'analisi tecnica di dettaglio, confronti con altri brani, considerazioni sugli incisi ritmici caratteristici, ecc. Sarebbe invece inaccettabile pretendere di decidere qualcosa in proposito statisticamente, sottoponendo il problema ad una ve- 166 rifica psicologico-sperimentale. - "Lugubre" non indica che è morto qualcuno, e non descrive nemmeno un sentimento, ma piuttosto la diffusione di un sentimento. Lugubre, teneramente, ecc. sono aggettivi o avverbi ricchi di risonanze. - Il fatto che i fenomeni sonori, anche minimi, in quanto fenomeni percettivi siano sotto la presa di "valorizzazioni" che attribuiscono loro possibili direzioni di senso non giustifica certo la pretesa che una pura e semplice struttura intervallare possa di per sé avere una connotazione affettiva determinata, un "senso" che possa essere fissato in un aggettivo o in una qualche descrizione verbale. Vi è chi si azzarda a proporre veri e propri elenchi di valori affettivi sia per i modi che per i singoli intervalli - ritenendo che l'atteg­giamento che li nega sia la manifestazione di un atteggiamento "intellettualistico" - cito per tutti il caso di Daniélou, che porta ad una grottesca esasperazione questo semanticismo dell'intervallo. Peraltro, simili casistiche si ritrovano anche da parte semiologica, benché private delle pesantezze "ontologiche" presenti in Daniélou, ed anzi proposte sulla base della negazione di un significato intrinseco: l'attribuzione di un significato affettivo viene giustificato attribuendolo a con­venzioni socialmente accettate di questo o quel linguaggio mu­sicale. In questo modo elenchi non meno grotteschi di quelli di Daniélou, possono essere seriamente proposti come sostenuti da indagini che si presentano come indagini di sociologia o di psicologia empirica. - Cooke ritiene di poter individuare "i termini di base del vocabolario musicale" - o più precisamente di poter individuare il loro valore emotivo. Prendendo in considerazione la musica tonale e la musica con testo, tenta di fare un catalogo di gruppi di note o elementi motivici che sarebbero caratterizzate da situa- 167 zioni emotive costanti. Tra le molte amenità si può leggere che "la terza maggiore vede il lato buono delle cose" (1987, p. 303). Il sentimento senza soggetto - Si considera di solito il sentimento come qualcosa che sta dentro di noi. Invece esso ci sta intorno. Una descrizione della paura dovrebbe essere una descrizione dell'aspetto che le cose assumono nella paura. - A chi sostenesse che una linea tematica è portatrice di un sentimento, potremmo chiedere provocatoriamente: "Sen­ti­mento di chi?"; mostrando con la domanda stessa che l'am­missione di una componente affettiva ci porterebbe in realtà fuori dal brano musicale vero e proprio verso la soggettività particolare del compositore o dell'ascoltatore, avviando una "psicologizzazione" che non è certo difficile sottoporre a critica. Eppure potremmo anche dire: come l'espressione di un volto, una melodia che si diffonde nello spazio, risuonando in esso, lo arricchisce di un sentimento che non è né il mio né il tuo, di un sentimento senza soggetto che è, vorrei quasi dire, un sentimento che appartiene allo spazio intorno. - L'espressione di un volto non è qualcosa che è stampato sul volto di una persona e che se ne sta lì. Ma ha una caratteristica espansiva. - Pensa a ciò che accade, nello spazio intorno, quando, sulla soglia, appare all'improv­viso il volto ridente di un fanciullo. 168 XVII Descrizioni Un alterco tra ottoni - Carter parla del suo Brass Quartett presentandolo come un incontro tra persone, come un dialogo, anzi come una discussione che in certi punti degenera nell'alterco. "Un'altra maniera di ascoltare il pezzo… un incontro di cinque sonatori di ottoni che si sono riuniti per suonare una musica lenta e solenne… il corno interviene con idee estranee e irruenti che disturbano momentaneamente il progetto… verso la metà il corno deplora il suo isolamento in un lungo a solo che induce gli altri ad un minaccioso duo per trombe ed a un rabbioso trio per tromboni e corno" (Carter, 1986, p. 52). Il musicista non ha evidentemente le remore del critico o del teorico. Il volo della cicogna - Un bellissimo esempio di "descrizione musicale" lo trovo in Schneider nel saggio Il significato della voce pubblicato nel volume Il significato della musica. Si tratta di un canto africano detto "canto della cicogna" che egli ebbe modo di udire, di registrare e di trascrivere. Racconta Schneider che "alla mia richiesta di conoscerne il testo essi risposero con gesti di diniego perché le parole, mi dissero, non avevano assolutamente nessuna importanza. In effetti esse mutavano molto spesso e l'unica formula relativamente costante era: "Saluta la mia amica". In quel momento era completamente al di fuori del mio ordine di idee che canti del genere potessero avere un eventuale valore onomatopeico o che volessero esprimere la sostanza acustica della cicogna in volo. Lo stesso giorno, trascrivendo la melodia, ad ogni frase rivissi l'impressione visiva provata durante l'ascolto del canto. Alcuni 169 giorni dopo comunicai la mia impressione ai cantori e li pregai di spiegarmi meglio lo svolgimento del canto facendone ascoltare la registrazione. Appena terminata l'introduzione, due cantori presero a danzare e notai come i loro movimenti corrispondessero in pieno alle annotazioni che avevo segnato sulla trascrizione" (Schneider, 1979, p. 156). Di fatto questa descrizione arriva sino alle ultime minuzie: la riferisco sommariamente: si comincia con una introduzione libera. Poi vi è una preparazione al volo, un primo colpo d'ali, una pausa, un movimento del collo ed un altro battito delle ali, quindi un leggero sollevamento e abbassamento del corpo. Poi vi è finalmente lo staccarsi da terra della cicogna e... il volo. Ma il volo, questo è un dettaglio veramente straordinario, non è affatto rappresentato musicalmente. Il volo della cicogna è un volo ampio e silenzioso. Cosicché segue, dopo il breve scatto che annuncia che la cicogna ha spiccato il volo, una lunga pausa. Questa pausa è il volo silenzioso della cicogna. Nota Schneider: "Questa pausa, dotata di una forza incredibilmente suggestiva, fa pensare all'effetto di certe pause in Beethoven e non è certamente un caso se precisamente a questo punto per la prima volta si affacciò in me l'idea del volo" (p. 157) Quindi la cicogna ritorna a terra, più lontano. Ed ecco un tentativo di realizzazione sonora che si attiene grosso modo alla notazione proposta da Schneider e della quale naturalmente non posso avere la minima idea se resti qualcosa di vagamente simile all'originale: 170 Titoli In un disegno di Kubin viene rappresentata una famiglia contadina a cena, in una cascina di una volta, il vecchio a capotavola e tutti gli altri intorno: l'interno è povero e fiocamente illuminato, ciascuno è chino sul suo piatto di minestra in un'atmosfera taciturna e silenziosa. Ma il titolo dice: La mi­nestra avvelenata. Il titolo dice dunque molto di più di quanto possiamo vedere dal disegno, ci dà un'informazione aggiuntiva intorno al suo soggetto, un'infor­ma­zione che è del tutto esterna ad esso. Ma dopo che abbiamo letto il titolo, il nostro modo di vedere e dunque di intendere il disegno muta completamente. Vi è una retroazione della parola sul senso del dipinto (come potrebbe accadere anche nella musica). Ad esempio, certi elementi espressivi che in precedenza abbiamo notato appena ricevono una nuova e diversa accentuazione. Ora questa cena familiare ci appare come una cena di condannati a morte ed attraverso il titolo è entrata nel disegno una misteriosa mano assassina. - Rammento un famoso critico musicale che in un'il­lustra­zio­ne del brano Poissons d'or di Debussy indugiò a lungo a spiegare che i titoli non hanno nessuna importanza, non la avevano per Debussy, e non la hanno per la musica in genere. Dopo questa premessa il critico cominciò a entrare nel vivo e siccome era buon pianista (e compositore) ne andava illustrando l'andamento eseguendo i passi al pianoforte, e sempre più entusiasmandosi: "… qui questi pesci d'oro vi par proprio di vederli… eccoli guizzare nell'acqua azzurrina…" - così gli scappò detto! Forse perché era musicista egli stesso… - Naturalmente può anche accadere che un titolo sia inventato per "vendere" meglio il brano. Oppure per renderlo più accettabile per un pubblico impreparato. Sono cose che succedono. 171 Suoni, sentimenti e gesti - Il "contenuto" non sorge solo attraverso la parola. Nota questa differenza: Se qualcuno dice "Io sono adirato��� oppure "io sono lieto" potremmo indubbiamente affermare di essere alla presenza di espressioni linguistiche che possono essere com­ piutamente comprese nel loro senso che rimanda all'e­sistenza di questo o di quel determinato stato emotivo. Il senso di cui qui si parla è il senso "logico" - cioè il senso in quanto è un portato del significato delle parole e della pura costruzione logica della proposizione. Ma lo stato emotivo che in questo modo viene "espresso" non necessariamente appare nel senso delle parole. Può apparire invece nella mimica, nel gesto che le accompagna ed anzitutto nel modo in cui le parole suonano. - Probabilmente nessuno è propenso ad assumere una minaccia come una minaccia autentica se le parole con cui essa viene profferita non hanno un suono minaccioso (caldo o freddo che sia). - In assenza di suoni, per far apparire il sentimento, resta ancora il gesto come sostituto gestuale del suono. Così i suoni, in assenza di parole, potrebbero essere intesi come sostituti musicali di un gesto. XVIII Melodia Idea del melos - Vi è forse una cosa simile ad un'"idea del melos"? Non si può sospettare, non appena ci si esprime così, e tanto più se si dovesse tentare una definizione, che vi sia un elemento pregiudiziale che presupponga tacitamente uno stile determinato? Si è realmente in grado di assumere in rapporto alla melodia un "punto 172 di vista generale"? Questo assillo ci segue ad ogni passo. - In ogni caso non è detto che affrontando il problema di una "teoria della melodia" secondo uno stile empiristico si debba del tutto rinunciare al problema della generalità. Ciò risulta manifesto dal notevole lavoro di Mario Baroni, Rossana Dalmonte e Carlo Jacoboni che analizza una trentina di arie di Legrenzi avendo di mira diversi e interessanti obbiettivi: da un lato si tratta dell'impresa di stabilire le regole relativamente alla costruzione di queste arie, la loro "grammatica" (e non vi potrebbe essere problema più particolare di questo) - dal­l'altro di mettere alla prova una simile ricerca attraverso un programma informatico che, rilevando questa grammatica, dovrebbe essere in grado di creare musica in conformità ad essa. Ma un simile compito avviene sullo sfondo di una possibile teoria generale della melodia - uno sfondo che peraltro viene spesso in primo piano, e che per gli autori è tanto importante da caratterizzare il titolo che dice semplicemente: Le regole della musica. Indagine sui meccanismi di comunicazione. Si tratta dunque di una ricerca che vuole avere una forte base empirica, ed all'interno di un orizzonte empiristico deve essere contenuto anche il problema della generalità: "Abbiamo già più volte affermato come il concetto di grammatica che noi proponiamo abbia a che fare con strutture e regole culturalmente determinate e modificabili nel tempo e non con principi universali. Tuttavia al di là delle modificazioni contingenti di certe strutture stilistiche esiste anche una sorta di continuità di fondo di talune regole sintattiche... Diciamo allora che nei suoi termini più generali il problema che qui vogliamo discutere è quello della stabilità delle grammatiche piuttosto che quello della loro generalità" (p. 48). Da questa impostazione si possono imparare moltissime cose, e cose che non riguardano soltanto le arie di Legrenzi, ma "Dieci secoli di melodia", come dice il titolo della parte terza in cui il profilo di una vera e propria "teoria della melodia" viene nettamente delineato e che rappresenta una miniera 173 da scavare a fondo. Resta il fatto che le "regole della musica" individuate in questo modo, in assenza di qualunque richiamo fenomenologico (e in particolare in totale assenza dell'idea di regola fenomenologica), non possano che essere formulate a titolo di ipotesi psicologiche, cosicché alla psicologia dovranno essere demandate le spiegazioni ultime. Tutte le perplessità che si possono legittimamente formulare per l'idea degli universali musicali si possono rinnovare a questo punto. - Ma che cosa si potrà dire quanto a questo problema di una "idea del melos", secondo un approccio fenomenologico, che inizialmente non possa contare su una base esemplificativa concreta, cominciando per così dire appeso in aria per poi calarsi, se ci riesce, nei diversi materiali della musica? In apparenza sembrerà che si possa dir ben poco. Poi forse si cominceranno ad intravedere nozioni che tracciano varie vie o modi di approccio alla dimensione musicale concreta. - Intanto ti dirò che sono interessato soltanto a delineare un concetto elementare di melodia che sia capace di agire efficacemente all'interno delle nostre discussioni e che ci aiuti, in particolare, a cogliere analogie e differenze. Un simile concetto, in effetti, non dovrebbe essere ritagliato su un qualche modello, ma non dovrebbe nemmeno essere tanto ampio e generico da risultare del tutto inutile. Cominciare a discutere della questione della melodia - La nostra discussione potrebbe cominciare obliquamente, interrogandoci intanto su che cosa non saremmo disposti a chiamare "melodia". In realtà questo avvio non è destinato a far emergere dei semplici pregiudizi, ma piuttosto ad accertare se vi siano condizioni minime per l'impiego di questo termine che siano in grado di insegnarci qualcosa. Io credo, ad esempio, che non 174 chiameremmo melodia un unico suono la cui durata si prolunghi indefinitamente. (De Schloezer-Scriabine, 1959, pp. 102-103: "Un son isolé tenu plus ou moins longtemps ou répété indéfiniment tel quel, est un phénomène acoustique, non un événement musical... La variation est la conditio sine qua non de l'événement musical..."). - La melodia richiede una certa molteplicità di suoni. Ma la molteplicità in se stessa non basta. Infatti non parleremmo di melodia per una molteplicità di suoni che risuonino simultaneamente, per un blocco sonoro, per un "accordo" nel senso lato del termine. E neppure per una successione di suoni di altezza differente, ma di brevissima durata e separati da pause immense - una configurazione nella quale i suoni se ne stanno ciascuno per conto suo in uno spazio vuoto. - I suoni debbono invece essere distribuiti nel tempo in modo da apparire connessi gli uni agli altri stabilendo un "tracciato", una "linea (figura) sonora". La melodia è sempre stata associata alla linea piuttosto che ad una superficie o ad una massa sonora che dilaga. Melodia e movimento - Effettuiamo qualche piccolo spostamento di punto di vista, ed ecco che intravvedi qualche altro aspetto di particolare importanza. Insieme al caso dell'unico suono che dura indefinitamente potremmo porre quello di un unico suono che si ripete indefinitamente. Nell'un caso è chiara la mancanza di mo­vimento. Ma anche nel secondo: al di fuori di determinati contesti in cui anche la ripetizione è capace di imprimere movimentazione, la semplice ripetizione della nota di eguale durata ha il carattere di un suono che sta nel luogo in cui si trova. Analogamente si può notare che una successione di note di altezza differente tenute 175 "troppo" a lungo creerebbe un pro­­filo che non potrebbe essere chiaramente afferrato. - Jeppesen, nel suo volume sul contrappunto, osserva che "la connessione melodica è effettivamente sentita, mentre l'in­ cre­mento dei valori delle note tende ad indebolire questo sen­ timento" (1992, p. 86). E altrove si conferma: "… si è più coscienti del contesto melodico nel caso di note che si muovono più rapidamente" (p.119). Non si pensi qui ad un problema che riguardi soltanto le "regole del contrappunto". Dietro queste regole ci sono talora regole fenomenologiche. Così fra le condizioni fenomenologiche della percezione del movimento nella musica, dobbiamo annoverare anche il fatto che le durate dei suoni singoli non siano troppo lunghe. (L'espres­sione Cantus firmus è, a questo proposito, molto significativa). Melodia e monotonia - Vi è dunque figura e movimento. Potremmo allora cominciare a parlare della melodia come di un movimento sonoro che traccia figure? In realtà ciò non basta. Anche nei flussi sonori vi è movimento e figuralità. E l'andirivieni di altezze che scivolano l'una dentro l'altra non fa melodia. - "Come lo sai?" - Ecco come. - Il termine di monotonia ha certo a che vedere con un unico suono tenuto a lungo che, come sappiamo, non fa melodia. Un solo (monos) suono (tonos) è qualcosa che ha una tensione (tonos) costante, che non muta. Conviene rammentarsi di ciò per evitare di dare a questo termine, nel nostro contesto, il senso di un giudizio che rinvia ad un'impressione psicologica o ad una valutazione estetica. In questo caso la monotonia non è affatto una mia opinione, non è qualcosa che viene definita così perché genera noia. Dire che un suono soltanto è monotono, significa semplicemente: 176 in esso vi è mancanza di movimento e di differenziazione. - "Melodia" e "monotonia" stanno l'una contro l'altra, formano una sorta di polarità. Il grado zero della melodia è l'unico suono che perdura o che si ripete indefinitamente. Attirando l'attenzione sulla monotonia e sull'assenza di differenziazione, l'accento non cade soltanto, in positivo, su una molteplicità capace di istituire un qualche legame, ma soprattutto sulla necessità di un'articolazione interna. L'articolazione richiede differenziazione in via di principio. Nella melodia vi deve essere molteplicità, ma una molteplicità articolata - se parliamo di movimento, dobbiamo anche attribuirgli un'ar­ticolazione. Melodia e articolazione - Termini come "articolare", "articolazione" e simili vengono usati fondamentalmente in due contesti: con riferimento al linguaggio parlato, al profferire parole: articolare indica allora la chiara e netta enunciazione verbale, il sillabare con precisione, e si contrappone alle parole indistinte, che vanno insieme confusamente. Ma il contesto primario, da cui il precedente è derivato, riguarda le membra del corpo: gli arti a cui quei termini si ricollegano e le loro giunture, ovvero quei punti di snodo che consentono il movimento. In greco arthron ha anzitutto il senso di "giuntura". Alla rilevanza dei punti di snodo, al loro carattere cruciale per il movimento, si deve probabilmente il significato di "articulus" per indicare "punto critico", "momento decisivo" e simili. - Non vi è articolazione in un sistema di oggetti se tutti gli oggetti sono di eguale valore. Ora che cosa può dare "valore" ad un suono all'interno di una successione? Svariati fattori. Ad es. la durata. Durata maggiore, maggior valore. Oppure il numero di volte in cui esso si ritrova rispetto agli altri suoni della successione. Queste sono regole fenomenologiche (non regole di una 177 grammatica musicale determinata). Analogamente la posizione della nota in una sequenza. Un suono posto all'inizio assume una particolare importanza architettonica. Ciò dipende proprio dalla temporalità essenziale della sequenza. La percezione visiva è un processo temporale. Ma non per questo il lato di una cosa che viene colta per prima assume maggior importanza. La cosa visiva è un'identità che si costituisce processualmente, ma alla quale non appartiene la forma del processo. Al contrario, è proprio il carattere di processo, che conferisce al primo suono un particolare peso. Peso, importanza, significato - In luogo di valore, peso o importanza di una nota potremmo parlare di significato. In tedesco Bedeutung significa anche importanza. Una nota può essere più significativa di un'altra. - Laddove c'è un'articolazione c'è una differenziazione tra le parti, ed ogni melodia presuppone questa differenziazione. - Per indicare il movimento della melodia, potremmo essere tentati di dire: la melodia si snoda… Ed in questa espressione, se la afferriamo in connessione con le nostre precedenti considerazioni, è contenuto un suggerimento importante. La melodia deve avere una ossatura. Essa appare come movimento, ma come un movimento che passa attraverso punti di snodo. Per questo la caratterizzazione della melodia come movimento che traccia figure è ancora insoddisfacente. Alla linearità (figuralità) ed al movimento dobbiamo aggiungere l'articolazione. La melodia è movimento articolato che traccia figure sonore. - Anche una melodia che si scosta di poco da quello che abbiamo chiamato grado zero - ad esempio costituita di due note soltanto - può avere diversi momenti di articolazione: ad esempio 178 vi possono essere differenziazioni ritmiche, pause che stabiliscono una suddivisione interna, ed una nota può aver maggior peso dell'altra. Ad esempio la posizione iniziale accentata dà particolare peso alla nota, ma anche la nota posta alla fine del brano assume peso per il solo fatto che è alla fine, dal momento che essa ha una particolare persistenza ritenzionale non essendo cancellata da nessun altro evento sonoro successivo. Amelodicità dei flussi sonori - Io non chiamerei "melodie" i flussi sonori (nel senso stretto del termine). Il flusso sonoro è a-melodico. (Naturalmente ciò non significa per nulla che esso sia a-musicale o antimusicale). Il flusso ha carattere di movimento in un'acce­zione particolarmente stretta del termine, ma esso è privo di punti di snodo. Certo, in esso vi saranno "punti culminanti" nella direzione ascendente o discendente, ma anche questi punti come tutti gli altri scorrono via - anzi l'espressione di punti è qui impropria, si può parlare di punti solo presupponendo il loro astratto isolamento. Abbiamo infatti sempre a che fare con "fasi" di uno sviluppo continuo. Proprio per questo, potremmo caratterizzare come monotono il loro andamento, sia pure con qualche spiegazione aggiuntiva. Un flusso sonoro è un suono solo. I flussi debbono infatti essere intesi come formazioni unitarie, come vere e proprie unità sonore e non come complessi di suoni che si avvicendano. Di conseguenza manca la durata come condizione di differenziazione interna. La durata può essere riferita solo al flusso intero, dall'inizio alla fine, anche se certamente possiamo distinguere analiticamente tra le durate delle singole fasi, che tuttavia fluiscono l'una nell'altra. Manca dunque una con­dizione essenziale per l'esistenza di un ritmo. I flussi sonori sono a-melodici in quanto sono a-ritmici. (Si può ammettere al più una melodicità latente per l'esistenza di fasi che hanno momenti culminanti che estratti dal flusso potrebbero proporsi come punti di snodo). 179 - Ciò spiega come possa esservi una tendenziale opposizione tra melos e cromatismo. Il melos richiede note chiaramente distinte, differenze di intervalli e di durate come condizioni di un'arti­ colazione possibile. Corrispondentemente vi è un vincolo tendenziale tra melos e diatonismo (benché i giochi della musica possano avvalersi di queste tendenze in una molteplicità di modi molto sofisticati e complessi). - Tutto ciò lo si è sempre saputo. In tutta la letteratura teorica verso il cromatismo serpeggia il sospetto che esso sia distruttivo del melos. - Una melodia fatta soltanto di cromatismi può essere forse assimilata ad un disegno tracciato con un dito nell'acqua. Il passo e il salto - Anche la melodia è, a suo modo, un "flusso" e quindi se parliamo di legame con il discreto è necessario intendersi. La configurazione percettiva deve essere tale da consentire in ogni caso che venga mantenuta la presa sul movimento: i suoni non debbono perciò proporsi come suoni a sé stanti, ma deve manifestarsi un procedere dall'uno all'altro suono, un avanzare-da... verso..., ed è proprio questo legame che genera l'apparizione fantomatica della linea e della figura che invece nei flussi sonori è in certo senso tracciata senza lacune. - La percezione del procedere, dell'avanzare da… può essere ostacolata da condizioni contrastanti. All'interno di uno sviluppo melodico vi possono ben essere delle pause, ma esse debbono essere avvertite non tanto come interruzioni ma come "respiri". Come abbiamo già notato, non può realizzarsi un "cammino" attraverso una configurazione in cui ogni nota sia separata da una lunghissima pausa. Lo stesso si può dire per una configurazione 180 in cui tra l'una nota e l'altra vi siano intervalli "troppo" grandi. Un intervallo moderatamente gran­­­de è un passo, un intervallo abbastanza grande o molto grande è un salto: è la stessa terminologia musicale che si serve di queste espressioni, senza peraltro sentire, giustamente, il bisogno di determinarle in modo esatto. Un salto all'interno di un movimento melodico può, in certe condizioni, introdurre tensione e slancio; in altre condizioni esso può dissolvere l'unità del movimento. A maggior ragione una sequenza di intervalli troppo grandi. La grandezza del­l'intervallo agisce come fattore di disaggregazione, e non si instaura alcuna unità melodica in questo caso per eccesso di differenziazione. - Anche questa è, in fondo, una vecchia idea che attraversa tutta la teoria musicale, pur ricevendo svariate formulazioni: il melos si sviluppa essenzialmente per gradi, per passi, piuttosto che per salti. - "Esiste una certa convergenza fra gli studi 'classici' del canto gregoriano e la nostra teoria in quanto da ambo le parti l'andamento per gradi è considerato il movimento fondamentale della melodia" (Baroni-Dalmont-Jacoboni, 1999, p. 237). - "Nella costruzione melodica, troppi salti sono cattivi; una melodia che salta di continuo non è una melodia del tutto" (Jeppesen, 1992, p. 111). In rapporto all'affermazione di Jeppesen noi tenderemmo a chiudere un occhio su quel riferimento alle melodie "cattive" che sembra riportare la questione ad un canone estetico, per cogliere invece un possibile senso più generale. - Molti passi possono succedersi l'uno all'altro. Invece anche solo due salti successivi minacciano l'unità "melodica" del percorso, ed un salto potrebbe forse richiedere una "compen­sazione". Nelle regole del contrappunto sulla condotta lineare delle parti queste condizioni trovano spesso espressione in esplicite norme prescrittive. Esse possono indubbiamente essere conside- 181 rate come estratte da uno stile che esse poi contribuiscono a circoscrivere "didat­ticamente". Ma sarebbe sbagliato mettere in evidenza soltanto la prescrizione dovuta ad una pura fissazione astratta di pratiche usuali, di pure "consuetudini" musicali nonché di consuetudini che hanno un' "universalità psicologica", come se nella regola musicale non trasparisse anche qualcosa che riguarda regole fenomenologiche soggiacenti. - La formulazione di una regola dovrebbe essere sempre proposta in questo modo: "Se vuoi ottenere questo risultato, allora devi fare così e così". Invece si tende ad omettere la prima parte, ed allora interviene una sorta di assolutizzazione della regola e della forma melodica corrispondente. "Devi fare così e così". Dopo un salto devi proseguire invertendo la direzione. La maggiore forza che la regola sembra ricevere da questa riduzione ad una forma imperativa si rivela una debolezza, perché viene tolta la giustificazione della regola, e la regola apparirà come appartenente ad una precettistica priva di fondamento. La reintegrazione del "Se vuoi..." riporta le cose al loro posto, perché si mostra un nesso tra l'obiettivo espressivo che ci si propone e il mezzo per ottenerlo. Tutto dipende dal fatto che tu voglia o meno ottenere questo risultato. Se lo vuoi, allora farai bene a seguire questa via. La regola ricordata or ora ristabilisce un equilibrio che il salto ha rotto, spingendosi per così dire troppo in alto - appunto una regola di compensazione. Quindi, eventualmente non la seguirò, ma ne comprendo le ragioni musicali. Cosicché non si tratterebbe soltanto di dire: ecco una regola valida in Palestrina, e la dobbiamo osservare se vogliamo scrivere "nello stile di Palestrina". Ma piuttosto, una volta riconosciuta l'appartenenza di una regola allo stile di Palestrina, tentare di comprenderla in rapporto a scelte espressive di ordine generale sul tipo di "linea melodica" che in questo modo si ricerca. 182 Hindemith: Il percorso di seconde - Hindemith: "Il materiale da costruzione autentico della melodia sono le seconde." "La legge principale della costruzione melodica dice che un decorso melodico convincente e liscio può essere raggiunto solo quando questi punti principali della melodia avanzano in seconde. La linea che attraverso il procedere da punto elevato a punto elevato, da suono grave a suono grave e da un suono principale messo in evidenza ritmicamente all'altro, senza considerare le parti melodiche più deboli che sono in mezzo, si chiama Sekundengang, percorso di seconde" (Hindemith, 1937, p. 218). - Di qui deriva per Hindemith un compito analitico: mettere in evidenza tratti del brano in cui vi siano seconde in successione. È possibile anche che questi percorsi si intreccino o si sovrappongano come nell'esempio seguente: La logicità del percorso melodico sarebbe garantita dal modo in cui si sviluppano questi percorsi di seconde. Questa impostazione della questione è abbastanza sorprendente. Si può realmente cercare lontano quanto si vuole la seconda successiva? H. osserva che non si può dare a questo proposito una precisa regola. È evidente tuttavia che il rischio di "evidenzia­zioni" relativamente arbitrarie c'è, anche se il criterio degli estremi (note più elevate, note più gravi) dovrebbe fare avvicinare questa "linea" a fatti specificamente musicali. D'altra parte è notevole il fatto che l'andamento per seconde, e quindi ciò che si contrappone ad un andamento a salti, venga considerato come tipicamente melodico e che persino in uno sviluppo melodico ricco di salti si cerchino 183 successioni a distanza di seconde. (Hindemith, 1937, pp. 219-220) Scala e melodia Dallo spazio sonoro assoluto, occorre distinguere lo spazio sonoro relativo ad una melodia che è null'altro che la "scala" su cui la melodia si fonda. Nozione peraltro niente affatto ovvia! Sarebbe ingenuo assumere che la scala su cui una melodia si fonda sia semplicemente costituita dalle note della melodia disposte in ordine scalare senza ripetizioni. Possiamo tuttavia procedere un poco oltre senza impegnarci in troppi dettagli limitandoci ad osservare che un simile fondamento è proposto dalla melodia stessa e rappresenta in certo senso il concetto generico che può essere ottenuto da una particolare melodia facendo astrazione dalle sue proprietà individualizzanti. Ad esempio, all'inizio di questa melodia di Bartok (Mikrokosmos, I, 23) è subito avvertibile già una successione scalare bene ordinata - ma ciò che fa di questa successione un attraente andamento melodico sono le differenze di durata che sono in essa inserite. 184 Sono quelle differenze che, conferendo alla scala una fisionomia appena più pronunciata, forniscono una connotazione individuale che fa già della scala una melodia. - Si ripete spesso che non vi è prima la scala e poi le melodie, ma è vero l'inverso. La scala è una costruzione relativamente astratta, il risultato di una riflessione su un movimento melodico: "I compositori non formano melodie a partire da modelli scalari, ma le scale sono astrazioni teoriche da melodie" (Reti, 1958, p. 29). "I musicisti moderni accettano come base la scala. Si sono assoggettati ad un processo analitico che riduce melodie vive in note morte, al di fuori del quale possono mettersi insieme tutte le melodie che si vogliano. Essi accettano come evidente in sé il fatto che queste note siano pronte all'impiego in una disposizione graduata che va dal basso al­l'alto. Non possono rendersi conto di quanto sia astratta e artificiosa tale disposizione, a meno che, conducendo ricerche sulla musica esotica e popolare, tentino di far cantare o suonare alla persona che stanno esaminato, quella scala sulla quale, nel giudizio occidentale, si basano le sue melodie. Un uomo non influenzato dalla civiltà occidentale si divertirà nell'in­ten­dere una richiesta del genere e sarà certamente imbarazzato nella costruzione di una scala. 'È curioso - scrive Fox Strangways di un musico Kadar da lui incontrato in India - constatare quanto sia stato difficile giungere alla scala sul suo strumento. Il suonatore non aveva l'idea di una nota da suonare separata; invariabilmente l'accompa­gnava con un abbellimento, mostrando come quest'ultimo sia inseparabile anche dalla più semplice delle frasi. Ci si arrivò solo quando gli feci tener le dita nell'ordine di successione delle note'" (Sachs, 1963, p. 60). - Si può comunque sostenere che, nella misura in cui la scala ha un profilo dato dalla differenza degli intervalli - toni e semitoni variamente disposti - essa ha un carattere latentemen­te melodico. La scala cromatica, per via dell'eguaglianza degli intervalli, fa 185 un passo indietro verso la monotonia e l'indif­ferenziazione. E non ha senso per essa, come lo ha invece per la scala diatonica, determinare un inizio ed una fine. Cosicché ad essa spetta in via di principio una proseguibilità indefinita verso l'acuto e verso il grave. In generale la percezione avverte in una scala finemente suddivisa una mobilità senza fine, come se non vi fosse la possibilità di un punto di arresto "sensato", oppure come se il terreno stesso su cui poggi i piedi scivolasse lentamente in avanti. - È certo più marcata la fisionomia di una scala a passi diseguali, che una scala a passi eguali, tanto più se si tratta di piccoli passi. Questo è ciò che fa dire a Victor Zuckerkandl che la scala cromatica "ist the musical equivalent of chaos". Ma l'autore qui vuol fare un attacco del tutto fuori luogo alla dodecafonia: "The expansion of the tonal material from seven to twelve tones does not replace the seven tone order with a twelve tone order" (Zuckerkandl, 1959, pp. 47-48). Del resto la scala cromatica non viene affatto tenuta in considerazione in quanto serie dodecafonica! Melodia e partizione dell'ottava - Una scala può occupare lo spazio di un'ottava e qualora sia contenuta in un in un intervallo più piccolo può essere pensata come chiusa dall'ottava del suono con cui inizia. Cosicché si può dire che una melodia in quanto prospetta una propria scala, opera per ciò stesso una partizione dell'ottava. Ora ogni partizione dell'ot­tava può essere considerata come una partizione dell' intero spazio sonoro "assoluto". Infatti in forza dell'ite­ratività dell'inter­vallo di ottava, una partizione qualsiasi dello spazio sonoro relativo rappre­senta una possibile partizione dello spazio sonoro assoluto. - Qui non facciamo altro che estrarre le dovute conseguenze dall'idea dell'anteriorità della melodia rispetto alla scala. Stando a questa anteriorità, la discretizzazione del continuo, e in parti- 186 colare il modo della sua partizione, viene ad essere dipendente da fatti musicali specifici quali sono i tragitti melodici, e non essendo imposto alcun vincolo ad essi, si apre la prospettiva di una molteplicità in via di principio indefinita di partizioni per le quali non sarebbe nemmeno lecito porre il problema di una giustificazione o di una legittimazione. Che cosa mai potrebbe limitare la libertà di inventare melodie? Ed allora vi è anche una libertà di principio nella scelta del numero e della grandezza degli intervalli all'interno dell'ottava. - Il tuo pianoforte può essere accordato come ti aggrada. Devi solo rispettare la struttura iterativa, e dunque rendere le ottave omogenee tra loro (a meno che tu non voglia rinunciare anche a questa restrizione per vedere che cosa puoi fare facendo a meno di essa). - La tastiera di un pianoforte ci propone uno spazio sonoro non solo già suddiviso, ma anche immodificabile: certo sappiamo che saremo noi stessi a dare ordine alle nostre melodie quando toccheremo con le dita i tasti, ma si tratta comunque di un ordine che presuppone l'ordine già predisposto dall'ac­cor­datura. Possiamo così essere indotti a ritenere che questo ordine abbia la propria giustificazione unicamente in se stesso. Analogamente la teoria parla di partizioni che hanno un fondamento obbiettivo come se vi fosse una "ta­stie­rizzazione" preliminare del continuo dei suoni, che sembra essere operata e giustificata in modo del tutto indipendente da considerazioni che riguardano le differenze dei tipi melodici. Il melodizzare viene in questo modo separato dalla partizione dello spazio sonoro, e questa diventa una operazione indipendente che ha un carattere preliminare rispetto allo stesso "fare musica". Questo è il presupposto che induce ad imboccare la via delle deduzioni e delle giustificazioni matematiche e fisico - matematiche. 187 Linea/superficie - figura/sfondo Se parli della melodia come di una linea, allora potresti parlare dell'armonia, nel senso che ha ricevuto questo termine nel lin­ guaggio della tonalità, come di una superficie su cui va disegnandosi una melodia. La psicologia della forma, che ha spesso considerato le nozioni musicali a partire dalle proprie concezioni modellate soprattutto sui fenomeni della visione, ha cercato di stabilire un parallelo, per quanto riguarda il rapporto armonia-melodia, con il rapporto figura/sfondo. Anche questo paragone è stimolante. Ambientazione - Mi sembra tuttavia interessante proporre una nozione più ampia, anch'essa suggerita da un'immagine: parlando di ambientazione possiamo prescindere dal riferimento al linguaggio della tonalità, ed anzi, per introdurre questa nozione, possiamo uscire dai fatti musicali veri e propri, facendo riferimento ad esempio ad un rumore che abbia un qualche profilo o caratteristica distinguibile, sullo sfondo di un "rumoreggiare" indistinto che abbia invece carattere di trama, di tessuto. Nella musica di consumo e da film si parla talora di tappeto sonoro, per sonorità per lo più continue che potrebbero avere carattere di "fondali" e i programmi informatici forniscono mez­zi per realizzarli alla buona o vengono addirittura proposti preconfezionati all'acquisto. Un paesaggio per il canto - Un semplice ostinato oppure un accompagnamento ritmico- percussivo può dare un paesaggio al canto. Lo sfondo assolve allora una funzione di ambientazione, ma canto e paesaggio restano nettamente distinti: sfondo e primo piano non si intersecano l'uno nell'altro, né potrebbero farlo, anche se naturalmente la 188 differenza degli ambienti incide in modo decisivo sul senso dello sviluppo melodico. Come un oggetto muta di aspetto secondo l'ambiente in cui è inserito o un volto secondo il tipo e la fonte di illuminazione, così una me­lodia o un singolo suono modifica il suo senso secondo lo sfondo in cui viene integrato. Esempi di ambientazioni - Come chiaro esempio di ambientazione comincerei con il citare l'impiego del tampura nella musica indiana. Anche un basso ostinato, su cui si eleva e ondeggia un andamento melodico chiaramente distinto potrebbe essere una buona esemplificazione. - L'ambiente può anche essere ritmico e motivico. Nell'Ave Maris Stella posta al termine della Missa Ave Regina Coelorum di Dufay un tamburo scandisce una cellula ritmica sulla quale una tromba ripete un motivo. Un accordo fisso è tenuto dall'organo. Si tratta di un "tappeto" (sit venia verbo) più complesso dei precedenti: su questo sfondo il coro intona l'Ave Maris Stella a cui si associa una tromba bassa. Pezzo straordinario per la festosità che risulta dall'insieme. Armonia tonale e melodia - L'armonia nel senso del linguaggio tonale potrebbe essere considerata come un caso particolare e particolarmente ricco e complesso sotto il profilo musicale che può essere annoverato tra i fenomeni di ambientazione. Nell'ambientazione armonica, tuttavia le cose stanno ben diversamente che nei casi precedenti: la melodia è legata a fil doppio alla tonalità, che peraltro si costituisce anzitutto nella dimensione armonica. Cosicché lo sviluppo melodico dipende dall'armonia, come è stato fortemente sottolineato fin dalle prime teorizzazioni. Questa dipendenza si verifica da un duplice punto di vista: da un lato la melodia deve ritrovare nel proprio 189 percorso le note della triade caratteristica della tonalità come assi portanti del proprio sviluppo, dall'altro il percorso melodico sarà integrato in un percorso armonico che ribadisce l'apparte­nenza del brano ad uno spazio tonale determinato. Da questo punto di vista, la tonalità rappresenta la massima depressione dell'elemento me­ lodico che viene schiacciato sul piano delle semplici impalcature di uno spazio tonale prefissato. - Adele Katz parla del "principio unificatore" della tonalità come di un "accordo orizzontalizzato" (1947, p. 389 - 390). - Hindemith: "La forma più grossolana dei legame armonico nelle melodie è la pura riproduzione della triade o degli accordi di settima più semplice come fratti. Un melodismo di questo genere non può essere molto espressivo, esso non si è quasi liberato dall'elemento armonico". "Questa specie di melodismo mostra molto chiaramente l'insostenibilità delle opinioni di tutti quegli amici della musica che sono prigionieri di idee dell'età romantica, che ovunque pretendono che si odano solo melodie "belle" o addirittura 'piene di sentimento'. Tali temi non sono né belli né pieni di sentimento; l'inizio della quinta sinfonia oppure del concerto in do minore per pianoforte di Beethoven non dovrebbe certo sopraffare nessun ascoltatore per la bellezza o per la gradevolezza. In essi si esprime anzitutto una forte volontà ad una chiara articolazione formale, essi sono la controparte rispetto alla cadenza armonica"(1937, p. 204). - Nel caso dell'armonia tonale, tuttavia le immagini dell'am­ bientazione, della superficie e dello sfondo suggeriscono, con il loro riferimento alla spazialità, che l'elemento armonico sia qualcosa di statico - e questo è profondamente sbagliato. Sotto questo riguardo sono immagini inappropriate. L'ele­men­to armonico è infatti anzitutto un percorso, e quindi ha eminentemente carattere di processo. La melodia si dipana all'interno di questo 190 percorso ricevendo nuove inclinazioni di senso man mano che esso avanza. XIX Musica e linguaggio Modi diversi di impiegare il termine di linguaggio in rapporto alla musica - "La musica è un linguaggio!" (detto con particolare enfasi - come per escludere qualche altra cosa o per sintetizzare un insieme di idee, intorno a ciò che la musica è; oppure, detto senza particolare enfasi, per indicare un punto di vista a partire dal quale potresti considerare i fatti musicali). - Si può parlare anche del linguaggio di Mozart, di Haydn, di Wagner… ed in tal caso la sfumatura di senso è ancora diversa. - Il dire che la musica è un linguaggio può aprire molti problemi autentici e prospettive di ricerca, ma può anche condurci fuori strada. Ciò dipende dal fatto che ci serviamo di un'analogia, di un paragone e, come accade spesso per i paragoni, per un verso "si attaglia", per un altro non si attaglia affatto. - "Come nel linguaggio… così nella musica…": se mi esprimo così, allora la nozione di linguaggio presupposta è il linguaggio "in senso normale", ovvero quello fatto di parole, che si impiega correntemente nei rapporti tra gli uomini. Linguaggi verbali e non verbali - Talora si distingue tra linguaggi verbali (italiano, francese, latino…) e linguaggi non verbali. Come se la situazione fosse sche- 191 matizzabile così: linguaggio verbale non verbale Questo mi sembra un modo profondamente sbagliato di impostare il problema. - La nozione primaria di linguaggio viene ottenuta dal fatto che parliamo, quindi dall'attività del dire, e nel modo, nei contesti, secondo i sensi in cui si esplica questa attività. Ciò non significa che del linguaggio possediamo senz'altro un chiaro concetto. Sappiamo semplicemente di che si tratta. - Ora se impiego l'espressione "frase musicale" le cose non stanno così: FRASE verbale non verbale Come se ci fosse un concetto di frase in generale e le sue differenze specifiche. Piuttosto si tratta di un movimento dell'analo­gia che suggerisce che qualcosa in una sequenza di suoni potrebbe essere paragonato per qualche aspetto a quel fatto linguistico che chiamiamo frase. Tentiamo di far scivolare l'una nozione nell'altra - aspetti dell'una in aspetti dell'altra - e vi è dunque una sorta di movimento, se mai in direzione orizzontale: Frase (verbale) frase musicale E va da sé che in questo caso so di che si tratta, sia per quanto riguarda la frase - intendo appunto le frasi che pronunciamo, e 192 che altro? - sia per quanto riguarda lo spostamento sul versante musicale. Si comprende anche che qui si propone di sperimentare l'interesse di un paragone. - Molti autori cominciano in orizzontale e poi inopinatamente la riflessione si impenna verticalmente alla ricerca del genere superiore. Analogie e paragoni -­ Attraverso analogie si mostrano diversi lati del problema: esse danno inizio ad un movimento del pensiero. Provati a con­ siderare un brano musicale, e proprio un brano in cui la parola non intervenga in nessun modo, in analogia ad un discorso, quindi realizzando un confronto con i problemi che sorgono in rapporto al linguaggio delle parole. Allora ti potrebbe accadere di notare molte cose interessanti. O più precisamente: mettendoti da questo punto di vista, potresti riuscire a cogliere aspetti che prima non vedevi e che meritano di essere notati. - Parlando di linguaggio in rapporto alla musica, ci serviamo semplicemente di una metafora che istituisce un punto di vista. Impiego della metafora e delle immagini - La metafora non sempre è soltanto una questione dell'im­ maginazione. Proporre una metafora è proporre una visuale, un punto di vista ed il punto di vista è evidentemente essenziale per farci vedere cose che altrimenti non vedremmo. Restando bloccati in un unico punto di vista, l'oggetto che stiamo osservando mantiene nascosto qualcuno dei suoi lati. Mu­tiamo il punto di vista e vedremo qualcosa di più e di diverso. - Interessanti non sono solo le analogie, ma anche le differenze. Le une e le altre possono insegnare qualcosa. 193 - Un nuovo punto di vista può aprirmi una nuova visuale sull'oggetto, ma può anche propormi una forma di esso del tutto "svisata", come accade quando guardiamo qualcosa da un punto di vista innaturale o inconsueto - ad esempio quan­do osserviamo degli uomini che camminano per istrada da un terrazzo posto molto in alto ed essi appaiono come animali semoventi molto strani, schiacciati sul piano della strada. Talvolta il punto di vista è tale da rendere addirittura impossibile l'identificazione di un oggetto molto noto. Questo può accadere anche per la metafora della musica come linguaggio. - Esiste il vocabolario della lingua italiana. Domanda: esiste forse anche un vocabolario di un determinato linguaggio musicale, oppure di un determinato autore? Se un quesito di questo genere mi fosse proposto, penserei alla possibilità di reperire qualcosa di simile a delle costanti motiviche all'interno di un autore o di uno stile di un'epoca: peraltro con molta esitazione sulla sensatezza della domanda. L'esitazione potrebbe essere massima, ed allora potrei pensare che sarebbe privo di senso tentare di sviluppare l'analogia al di là di limiti molto marcati, o addirittura potrei decidere che la questione non ha nessun interesse. - L'immagine deve essere proposta per indicare possibili direzioni dello sguardo, ma possiamo in ogni momento liberarci da essa se risultasse d'impaccio. - Parlando di frase musicale intendo, ad esempio, far notare che quella determinata sequenza di suoni ha un'articolazione interna, e nello stesso tempo una sua compiutezza che richiama la compiutezza e l'articolazione di ciò che sono le frasi rispetto alle aggregazioni di parole "prive di senso", ai "mu­golii", ecc. Ma ciò non significa affatto che vi sia un concetto di frase generalizzato sotto cui cadrebbero sia le frasi verbali che quelle musicali: che avrebbero così una identità d'essenza. 194 - Peraltro nella teoria musicale i paragoni e le immagini tratte dal linguaggio si sono spesso imposte da sé. Ad es. sembra abbastanza naturale parlare di frase musicale, e non invece di frase pittorica. Potrei allora affermare che la musica sembra avere a che fare con il linguaggio più della pittura? In effetti, in quel caso l'analogia sembra più produttiva. Ma nella pittura vi è la possibilità della raffigurazione - è possibile rappresentare un cesto di mele. Lo può mostrare; come se dicesse: "cesto di mele". E mai e poi mai questo potrebbe avvenire per un brano musicale. Nella raffigurazione, il gioco interno tra for­­me e colori percepiti è tale da produrre il rinvio a qualcosa di altro, ad un oggetto del mondo. Questo sembra non accadere nel caso della musica: le sintesi stanno tutte all'interno del fatto sonoro, che si chiude come una "figura" e non si apre al mondo come una "raffigurazione". Ma la questione potrebbe essere più complicata. Anche la musica è aperta al mondo. Ed il mondo è in essa. Il punto di vista semiologico - Una critica dell'indirizzo semiologico nell'ambito della musicologia e della filosofia della musica è tanto più essenziale per noi per il fatto che riteniamo di poter inscrivere il nostro modo di approccio sotto il titolo di uno "struttura­lismo fenomenologico". Anche il punto di vista semiologico si caratterizza in generale come uno strutturalismo, ricollegandosi esplicitamente a quella linea di tendenza che ha dominato una buona parte della cultura europea tra gli anni cinquanta e gli anni settanta. Poi esso è andato declinando. La caratteristica essenziale di quella linea di tendenza era il ricollegarsi alle ricerche nel campo della linguistica, e dunque anche all'intero apparato categoriale caratteristico di questo campo, per operare una generalizzazione estremamente ampia di queste categorie e anche dei risultati conseguiti. Questa generalizzazione era considerata, nell'ambito delle "scienze uma­ne", come una sor­ta di condizione ineludibile della loro scientificità. 195 - Assumendo una simile posizione venivano conseguentemente operate alcune importanti assunzioni. Anzitutto: nesso stretto tra comunicazione e cultura, nel senso ampio del termine che comprende naturalmente non solo i prodotti "su­periori" dello spirito - opere dell'arte, della scienza, ecc. - ma in generale le forme sociali di comportamento, i riti, le norme di convivenza sociale, ecc. In ciò è presupposto che i sistemi di comunicazione siano molteplici: il linguaggio verbale sarebbe uno dei molti possibili sistemi di comunicazione e nello stesso tempo il modello di riferimento per una teoria generale dei possibili sistemi di comunicazione. I sistemi di comunicazione sono sistemi di segni. Vi sarà dunque - o dovrebbe esservi - una nozione generale di segno rispetto al quale ogni segno appartenente ad un sistema dovrebbe valere come pura specificazione, come specie rispetto al genere. E conseguentemente una teoria rivolta a questa nozione generale: la semiotica. Una delle singolarità, del resto necessaria, del punto di vista semiologico, consiste nel fatto che esso è costretto ad un tempo a dare la massima importanza al linguaggio delle parole ed a emarginarlo come uno dei tanti linguaggi possibili. - Anche all'interno della tendenza strutturalistica tuttavia ci si dibatte tra un'interpretazione della centralità della linguistica e del linguaggio verbale, facendo di questa centralità un questione eminentemente concettuale, ed un'interpretazione debole che fa invece della centralità una pura conseguenza del fatto che la linguistica, avendo conosciuto nel corso del secolo XX progressi particolarmente pronunciati, assume una posizione di riferimento e di esempio: secondo questa interpretazione, si tratterebbe più che di una questione concettuale, di un puro e semplice dato di fatto. Vi sono poi differenze di principio anche rilevanti tra i vari autori, cosicché tenendo conto di questa varietà di posizioni, con il termine di strutturalismo si ha di mira una linea di tendenza e non una posizione organicamente elaborata ed unitaria da 196 un punto di vista filosofico. Naturalmente solo le formulazioni più forti rendono conto della pregnanza dello strutturalismo linguistico, ed è ovvio che la critica si debba orientare su di esse. - Lo strutturalismo linguistico è caratterizzato anche da una ten­ denza logicizzante e formalizzante. La linguistica assunta come modello è infatti quella linguistica che - cominciando con De Saussure - prende le distanze da un'impostazione puramente storica delle scienze del linguaggio per rivendicare invece un punto di vista generale tendente ad individuare le regole interne delle formazioni linguistiche, e quindi ad indagare i meccanismi logici che sono al fondamento di queste formazioni. È importante tuttavia sottolineare che lo strutturalismo linguistico e la semiotica in genere è compatibile con una visione fondamentalmente storico-empirica della formazione delle "strutture" - anche se non mancano proposte genericamente "innatistiche". - Anche la musica viene considerata come un campo semiotico, ma la semiotica musicale, a differenza della semiotica nel campo della letteratura ed anche delle arti visive, si muove fin dall'inizio a passi malfermi, imbattendosi ben presto in difficoltà imprevedibili. È indicativo che uno dei pionieri della semiotica musicale, Ruwet, abbia ben presto cercato di delimitarne fortemente i risultati avanzando dubbi particolarmente cospicui sulla fecondità del metodo in rapporto alla musica. In ogni caso la semiologia ottenne in campo musicale risultati significativi soprattutto in rapporto al problema di un rinnovamento degli strumenti analitici, della ricerca di nuovi metodi e di nuovi criteri e categorie per "leggere" un testo musicale. Qualunque sia la valutazione che si voglia dare sui presupposti generali della semiologia musicale, è innegabile che gli studi semiologici abbiano fortemente contribuito ad attirare l'at­ten­zione sull'im­por­­­tanza dell'analisi musicale e dei suoi metodi. - In una considerazione semiologica della musica, risulta mol- 197 to attenuato il carattere analogico del riferimento al linguaggio, portando invece l'accento sul versante logico-con­cettuale. Si tende così ad attribuire alla musica un carattere intrinsecamente linguistico. E mentre in precedenza le domande erano solo indici di problemi, ora le stesse domande sono diventate obbligatorie. Se ad esempio alla nozione di codice è essenzialmente legata quella di messaggio, allora questa stessa nozione deve essere applicata alla musica, avendo ammesso che anch'essa è un codice. - Una successione di suoni può indubbiamente trasmettere messaggi. Chi non lo sa? Così potrei comunicare con un'altra persona tamburellando con le dita sulla superficie del tavolo. E con un tamburo si puo comunicare un'informazione tra luoghi molto distanti tra loro. Ora, se la nozione di messaggio è questa dovremmo guardarci dall'applicare una simile idea al brano musicale come tale. Se invece ci ostiniamo ad affermare che la musica trasmette messaggi, questa parola dovrà essere impiegata in altro modo. Ma in quale altro modo? Posso rinunciare all'idea che attraverso il messaggio si comunichi qualcosa e che vi sia una precisa distinzione tra il mezzo di comunicazione e ciò che viene comunicato? Ad esempio, se io dico "su questo tavolo vi sono dei fogli di carta" debbo distinguere tra il mezzo di comunicazione - la frase in lingua italiana - e ciò che viene comunicato attraverso di essa, che non è un fatto linguistico, ma uno stato di cose. Il mezzo di comunicazione può essere diverso - ad esempio, la frase potrebbe essere in lingua inglese - ma lo stato di cose comunicato restare identico. Ora posso rinunciare a questa importante distinzione ed usare ancora sensatamente la parola messaggio, codice, ecc.? Quel che è certo che è questa distinzione non è proponibile in rapporto alla musica - se non, naturalmente, facendo dei salti mortali. Comunicazione - Nel concetto della comunicazione sembra che si presuppon- 198 ga non soltanto la differenza tra ciò che viene comunicato ed il mezzo della comunicazione, ma anche tra colui che comunica (il soggetto attivo della comunicazione) e colui che la riceve. Anche questa distinzione è assai difficile da proporre in ambito musicale. Nella situazione consueta del concerto, io me ne sto seduto in quinta fila in atteggiamento di ascolto. È difficile allora ritenere che il pianista assuma, suonando, l'atteggiamento di chi fa a me una comunicazione. E se non la fa proprio a me, non la fa nemmeno alla persona che sta alla mia sinistra o alla mia destra, ed a nessuna persona che stia seduta in una fila qualsiasi, e dunque nemmeno all'uditorio come tale. Giustamente Jankélévitch nota che non vi è in questa situazione un rapporto io-tu, che è il rapporto privilegiato della comunicazione, ma vi è piuttosto la produzione di un oggetto sonoro ad opera del pianista per un ascoltatore in generale, per un ascoltatore in terza persona. Io tenderei a trasformare questa osservazione in quest'altra: il brano musicale è un sorta di paesaggio sonoro, che mi comunica qualcosa all'incirca nello stesso senso in cui potrei dire che mi comunica qualcosa un paesaggio naturale che contempliamo dall'alto di una scogliera o di una montagna - una vallata, una veduta lagunare, un mare tempestoso. Ma se ci avviamo in una simile direzione sarà forse meglio lasciare da parte i riferimenti a codici, messaggi, comunicazioni, ecc. come puri artifici. - Densa di equivoci è la seguente affermazione di Nattiez: "I fenomeni musicali sono di natura semiologica perché rinviano a qualcosa di altro, nel mondo esterno o nel pensiero di coloro che li utilizzano". Cosicché la semiologia musicale "ha per obbiettivo di spiegare la natura e di descrivere i fenomeni di rinvio ai quali la musica dà luogo" (Nattiez, 1975, p. 27). Peraltro, vi sono persino nelle prime opere convintamente semiologiche di Nattiez vi sono qui e là affermazioni che invitano alla prudenza: "… la parola semiologia è (nelle opinioni comuni) confusamente ricollegata a quella di scienza per via del prestigio attuale della linguistica 199 che connota 'rigore' e 'sistematicià' e che rappresentava, fino a qualche tempo fa, una sorta di scienza-pilota delle scienze umane. Sfortunatamente la semiologia non è quel magico 'sesamo apriti' che darebbe la chiave di accesso al potere assoluto e che chiarirebbe in un colpo solo tutti i misteri del significato" (1975, p. 46). - Il punto di vista semiologico prende le mosse dallo scivolamento orizzontale dei concetti, ma in certo senso non può sopravvivere con le pretese che esso avanza dal punto di vista epistemologico se non spostandosi a sua volta sul terreno di una subordinazione verticale, passando spesso dall'una all'al­tra impostazione senza effettiva coerenza e consapevolezza teorica. - Non dobbiamo essere obbligati a dire né che la musica ha una natura intrinsecamente linguistica né che essa ne è priva. Non vi è qui alcun oggetto del contendere: talora potremmo ritenere interessante insistere su paragoni linguistici, talaltra servirci invece del riferimento al linguaggio per mettere in evidenza significative differenze. - Il semiologo tende ad immaginarsi il mondo come un grande bestiario di segni. Ciò che gli manca fin da subito e di cui si mette accanitamente alla ricerca è una buona classificazione zoologica. Codice - La parola "codice" è usata di continuo nei lavori semiologici, e si cerca naturalmente di conferire ad essa la massima generalità. Il termine "linguaggio" ricorda sempre troppo da vicino il linguaggio verbale. La parola codice ha invece un significato più neutro. È interessante notare che nel linguaggio comune "scritto in codice" rimanda alla trasformazione secondo una qualche regola di un testo (codificazione) che viene reso leggibile solo a chi è a conoscenza di quella regola (decodificazione). Questa è 200 un'accezione particolare del termine, ma non è del tutto senza relazioni con l'assunzione della parola in un'accezione generalizzata. Sono qui implicite due idee importanti che meritano di essere messa in evidenza: un'ope­razione di codificazione è in via di principio un'operazione convenzionale, la produzione di un codice è una produzione altamente artificiosa. La seconda idea dipende dalla circostanza che solo coloro che conoscono la regola sono in grado di decodificare ("com­prendere") il testo codificato. Cosicché l'idea stessa di codice sembra stabilire una sorta di linea demarcazione relativamente ad un gruppo sociale. Gruppo sociale e codice sono due nozioni che si richiamano l'un l'altra e potremmo persino intenderle come nozioni che si delimitano a vicenda: la stessa nozione di cultura potrebbe essere caratterizzata come una rete particolarmente complessa di codici. Assumendo questo punto di vista vi sarà allora la tendenza a spostare il discorso dal codice al gruppo sociale, quindi a cercare spiegazioni e interpretazioni sul piano sociologico. La musicologia influenzata da punti di vista semiologici si dibatte tra l'idea di un'analisi formale, verso cui spinge l'attenzione al­l'im­palcatura logico-linguistica delle strutture musicali e interpretazioni che tendono a fornire una giustificazione in termini sociologici di quelle strutture. Si rammenti poi che si usano regole di codificazione per rendere "segreti" i messaggi. Qui affiora una connessione tra relativismo e segretezza che può essere estremizzata: una comunità istituita mediante il riferimento alla nozione di codice sembra predestinata ad essere concepita come una comunità chiusa, come se essa avesse a suo modello una società segreta. Ciò chiama in causa anche la nozione di comprensione - e specificamente della comprensione degli "usi e costumi" delle culture che ci sono estranee e lontane. Negli studi antropologici si è passati da una fase in cui venivano più o meno implicitamente fatti valere criteri di valutazione eurocentrici, ad una fase in cui si è esplicitamente teorizzata la necessità di un punto di vista il più possibile localizzato all'interno del gruppo sociale che è tema dell'indagine. Che 201 cosa voglia dire localizzarsi il più possibile all'interno del gruppo sociale è tuttavia motivo di discussione. In questa discussione ha cercato anche di affermarsi l'idea di un gruppo sociale come "società segreta" alla cui appartenenza è inscindibilmente legata la condizione della com­prensione. Ma come può l'antropologo appartenere ad essa? Una critica di Xenakis - "Le identificazioni musica - messaggio, musica - comunicazione, musica - linguaggio sono schematizzazioni che conducono all'assurdità e all'inaridimento". Sotto questa critica cade anche ogni trattazione del problema musicale secondo gli schemi della teoria dell'informazione: "Gli attuali tecnocrati e i loro seguaci assimilano la musica ad un messaggio che il compositore (fonte) trasmette ad un uditore (ricevente). Credono così di risolvere con formule della teoria dell'infor­ma­zione la natura della musica e delle arti in genere" (Xenakis, 1982, p. 32-33). Leggere la partitura - Sullo sfondo di un'originale impostazione filosofica di largo respiro e quindi con implicazioni particolarmente profonde, Marcello La Matina sottolinea come un limite significativo l'enfasi sulla lettura della partitura operata da un punto di vista semiologico, osservando che questa enfasi "determina una concezione della musica come forma chiusa, quasi che il musicista avesse in testa lo spartito invece che i suoni, le atmosfere, una intenzione di comunicazione. Lo studio semiologico della musica... è una relazione tra semiologo e spartito: anche il suono viene trattato dopo che una forma lo ha, per così dire, irregimentato. Tutto accade come se l'oggetto musicale fosse ascoltato con gli occhi più che con il resto del corpo" (La Matina, 2004, p. 56). - Uno dei luoghi comuni dell'insegnamento conservatoriale è 202 che il musicista sia un puro pensatore di suoni. Di conseguenza la partitura sarebbe già per lui musica parlante. Il compositore la musica la scrive, non la suona! E mentre la scrive, anzi prima ancora, essa risuona all'orecchio della mente. La musica non ha nessun bisogno di essere udita, basta leggerla! La sordità di Beethoven - che fu per lui una tragedia immane - non è forse la comprova più clamorosa? Lasciando da parte i casi straordinari, occorre richiamare l'atten­zione sul fatto che la lettura di uno spartito "parla da sé" solo in rapporto a linguaggi musicali con una grammatica fortemente normalizzata. E questa condizione non è più soddisfatta dalla stragrande maggioranza degli spartiti di oggigiorno. - "Per un certo tempo si è creduto che ad una buona disposizione visiva della partitura dovesse corrispondere un altrettanto buono esito all'ascolto, ma poiché le leggi che regolano i due fenomeni non sono uguali, anche se esiste una certa analogia fra loro, una tale affermazione non può essere che arbitraria e senza fondamento. Nella composizione ex-contemporanea non sempre è possibile intuire l'effetto sonoro di una partitura, anzi questo aspetto, che invece è sempre stato l'unico modo per valutare appieno il valore di un'opera, è passato decisamente in secondo piano. Non vorrei escludere ogni possibilità di valutare un'opera musicale ex-contemporanea attraverso la semplice lettura della partitura, ma bisogna ammettere che è possibile esprimere un giudizio solo su pochissimi aspetti ben definiti e quantificabili, cioè: - bella calligrafia: è sintomo di capacità artigianale ed accuratezza; potrebbe significare analoga capacità compositiva. - ordine e chiarezza nella distribuzione dei simboli, armonia nella disposizione grafica, nell'impaginazione e nella spaziatura dei pentagrammi; - conoscenza della strumentazione, non necesssariamente dell'or­che­strazione, che è una dote innata; 203 - presenza di elementi che dimostrino cultura storica e consapevolezza critica" (Verdi, 2005, p. 97). Tutto giusto, forse si potrebbe essere solo più drastici. Il riferimento alla bella calligrafia fa sorridere in un'epoca dove a malapena esistono ancora le penne per qualche sporadico appunto... - Per musica realizzata, negli svariati modi in cui può esserlo, con mezzi informatici ed elettroacustici, in particolare con sintetizzatori, strumenti campionati, ecc. il chiedere una partitura può addirittura essere un nonsenso, anche nel caso in cui si possa ottenere qualcosa di simile ad essa. XX Assiomi Il metodo assiomatico come modello per la musica - Taluni ritengono che sia molto interessante chiamare in cau­sa nella musica il metodo assiomatico. Che sarebbe poi naturalmente sotto "le minacce del teorema di Gödel", di cui il musicista si dovrebbe assai preoccupare! (Orcalli, 1993, p. 165). - Il problema dei rapporti tra musica e matematica è un problema assai serio, e fa parte dell'intera tradizione musicale. Ma viene talvolta proposto in modo discutibile e senza troppa cognizione di causa. Ciò è accaduto in particolare nel periodo dello strutturalismo come conseguenza della preoccupazione di garantire la scientificità di qualsiasi cosa. Ad esempio, Pierre Boulez afferma che il principio informatore del "metodo assiomatico nelle scienze dovrebbe essere posto ad epigrafe alla nostra serie di studi". Questo principio viene ripreso da Louis Rougier in questa formulazione: "Il metodo assiomatico permette di costruire 204 teorie puramente formali che sono reti di relazioni, tabelle di deduzioni bell'e fatte. Da quel momento una medesima forma può venire applicata a diverse materie, a insiemi di oggetti di natura differente: l'unica condizione è che questi oggetti rispettino tra loro le medesime relazioni di quelle enunciate tra i simboli non definiti della teoria". Commenta Boulez: "Mi sembra che un enunciato simile sia fondamentale per il pensiero musicale attuale" (Boulez, 1979, p. 25). Affermazioni come queste sono del tutto prive di significato e rappresentano soltanto idee fisse di un'e­poca. Un concetto di forma anche rozzamente abbozzato sarebbe più che sufficiente per l'idea qui espressa; il metodo assiomatico è tutt'altra cosa. La "metamusica" secondo Xenakis - Anche Xenakis fa allusione alla pretesa importanza del me­ todo assiomatico, con implicazioni inevitabilmente confusionarie, ma comunque più ricche. Ciò accade infatti nel tentare di formulare quella che egli chiama metamusica, espressione con la quale si intende - almeno mi sembra - un insieme di considerazioni sistematiche che riguardano la teoria della musica, concepite in un senso molto generale. La premessa critico-polemica di queste considerazioni sono da un lato i modelli linguistici e di teoria dell'in­for­mazione, ma anche la musica aleatoria, l'orientamento a fare della musica un puro spettacolo: mentre a ciò si contrappone la "necessità di un controllo da parte del pensiero". A questo proposito Xenakis sottolinea che si dovrebbe "fondare per la prima volta un'as­siomatica e sviluppare una formalizzazione che unifichino così passato presente e futuro, e questo su scala planetaria, ossia comprendendo gli universi sonori dell'Asia, dell'Africa e così via". Si dovrebbe dunque scendere dall'alto verso il basso, dall'astrazione matematica all'esperienza musicale concreta. La generalità del punto di vista consisterebbe nel fatto che esso "permette un'assiomatica universale della musica e la for- 205 malizzazione di moltissimi aspetti di tutte le musiche del nostro pianeta". E addirittura: "Sulla base di alcune premesse siamo in grado di costruire un edificio musicale di tipo generale, cioè tale che le espressioni di Bach, di Beethoven, di Schönberg e di altri siano casi realizzati, particolari di una gigantesca virtualità resa possibile dallo spianamento e dalla ricostruzione assiomatici che abbiamo enunciato". Il problema di una considerazione della musica da un punto di vista generale esiste veramente, ma a me sembra che questo sia il modo peggiore di promuoverlo. L'assiomatica universale della musica rischia qui di essere soltanto un'espressione priva di senso (1982, pp. 35 - 36). - La filosofia della musica a cui pensa Xenakis deve tendere anzitutto ad una sorta di rivalutazione e di ripresa di tutta la tradizione del problema dei rapporti tra musica e matematica a partire dai pitagorici sino ai tempi moderni. E propugna con tanto entusiasmo questa direzione da ritenere che chiunque non sia immerso nei rapporti tra musica e numero appartiene inevitabilmente a correnti "antiquate e oscurantiste". "Siamo tutti pitagorici" - dice una vol­ta (1982, p. 56). Il che non è esattamente vero nemmeno per lui. Nel suo progetto di matematizzazione si ricollega volentieri ad Aristosseno. Di Aristosseno sottolinea l'idea di sistema (schema intervallare) e di possibili algoritmi di passaggio da un sistema all'altro. Un altro riferimento musicale tratto dal passato riguarda la musica bizantina. Entrambi i riferimenti hanno, nello spirito di Xenakis, il carattere di esempi di linguaggi musicali in cui l'elemento strutturale prevale su quello temporale. Questa prevalenza si va attenuando gradualmente nell'evoluzione della musica europea: "La degradazione della struttura fuori tempo della musica dal basso medioevo in poi costituisce una caratteristica specifica dell'evoluzione musicale dell'occidente europeo. Degradazione che conduce all'e­screscenza delle strutture temporali…" - mentre la "stocastica" opererebbe la "reintroduzione della struttura fuori tempo"(p. 47). Vi è bisogno di 206 una "filosofia della storia" della musica per cercare di dare fiato alla propria "poetica"? Credo poi che nessuno senta il bisogno di una formalizzazione capace di rendere conto della formazione di ogni tipo di struttura scalare ispirata nien­te di meno che "all'assiomatica dei numeri di Peano"… Se vogliamo dare un qualche senso a simili ingenuità, esse non debbono essere prese alla lettera ma considerate dentro un quadro di entusiasmi, di un passato ormai trascorso, per le nuove tecniche di manipolazione calcolistica che si intravedono con l'avvento dei calcolatori "che faranno progredire di molto le scienze musicali" (p. 54). Questo convinto sostenitore del matematismo non nutre alcun dubbio sull'e­sistenza di fenomeni parapsicologici (p. 165), crede al misterioso significato delle coincidenze (ivi) ed è convinto che "la fisica arriverà a dimostrare che ci sono buchi e fessure attraverso le quali l'energia può sorgere dal nulla…" (p. 164). - È singolare anche che ci si voglia ricollegare "all'assio­ma­ti­ca dei numeri di Peano" o al "metodo assiomatico" in genere proprio da parte di un autore che sostiene una musica "sto­castica" che ha certamente a vedere più con la molteplicità, la varietà e differenza che con ferree deduzioni. Al matematismo di Xenakis si associa una forma di "natu­ralismo" che presta orecchio a "… fenomeni sonori rari o quotidiani così come li offrono la natura o la società…"; "… canto delle cicale…"; "gocce d'acqua su un tendone da circo"; "i clamori ordinati o disordinati di una manifestazione politica"... L'idea guida di u­na composizione che proponga masse e volumi di suoni, piuttosto che linee sonore prevede l'impiego di formule proba­bilistiche per ottenere determinati effetti globali: di conseguenza è presente qui una problematica del caso, secondo un orientamento determinato da un simile scopo espressivo. "Il mio primo tentativo fu quello di introdurre in musica fenomeni globali scaturiti da un gran numero di eventi sonori iso­lati" (1982, p. 22). 207 XXI Teatralizzazione della musica Musica dal vivo - A ben vedere l'elemento di teatralizzazione e di spettacolarizzazione c'è sempre nella musica come evento. Il pianista o il violinista in concerto non suonano dietro una tenda ed anch'essi fanno teatro e spettacolo. Poiché l'accento non cade normalmente in questa direzione - ed anzi questo elemento verrebbe considerato da molti come extra-musicale - è tanto più opportuno far notare che questo è uno degli elementi che contraddistinguono la musica dal vivo. L'unica ricezione che toglie l'elemento spettacolare è l'ascolto di musica registrata. Qui hai il fenomeno sonoro puramente come tale, vorrei quasi dire: assoluto. - Parlando di teatralizzazione non vorrei certo aprire la grande questione dei rapporti tra musica e teatro. Penso soltanto che meriterebbero di essere considerati più da vicino proprio i fatti minimi che concernono l'esecuzione, i gesti implicati nel suonare uno strumento, lo scorrere delle mani sulla tastiera, il balzato dell'archetto sulle corde, ed anche le mimiche espressive degli esecutori. Gli spettatori della musica dal vivo sono fortemente interessati a tutto ciò, e in fin dei conti non a tor­to. - In taluni casi nella musica dei nostri giorni si è contato sull'interesse di questi aspetti eminentamente visivi e, a loro modo, spettacolari. Sarebbe forse interessante considerare la presa sullo spettatore di aspetti anche indiretti che potrebbero attirare l'attenzione proprio perché non strettamente inerenti, e talora non inerenti affatto, al "fenomeno sonoro come tale". Probabilmente otterremo una rassegna di casi che sarebbe assai più ampia di quanto si potrebbe sospettare e potrebbe dare luogo a svariati spunti di discussione. 208 - Soltanto a titolo di esempio: uno strumento come quello esibito nel filmato utilizzato in Seascape di Fausto Romitelli non sembra corrispondere ad una qualche necessità - tanto più in un'epoca in cui non è troppo difficile "com­porre il suono" che si vuole. Esso ha tuttavia una funzione spettacolare e teatrale: Sicuramente il suo ingresso nella sala da concerto attirerà la curiosità e l'attenzione degli spettatori - esattamente come è attratta dal singolare "violoncello" che entra in scena nello straordinario concerto esibito nel film Goto - L'île d'amour di Valerian Borowczyk. 209 I divertimenti di Kagel - Nel Divertimento? di Kagel (2006) questo tipo di teatralizzazione diventa esplicita, e viene strettamente integrata nel progetto musicale con espliciti intenti farseschi - Farce für ensemble è il sottotitolo. Vengono così prescritti, insieme alla musica, precisi atteggiamenti mimici che l'autore asseconda durante le prove (i commenti in corsivo sono di Kagel): Nello stesso brano la suonatrice di ottavino si alza improvvisamente dal suo posto come punta da un indominabile assillo finché viene rappacificata e ricondotta al suo posto da un'ami­ca compassionevole: 210 "La flautista suona l'ottavino; l'ottavino è di per se stesso uno strumento che ha qualcosa di un po' comico, può spingersi in una regione troppo acuta, può essere anche molto aggressivo, ed esso sale sempre più sempre più.. vi è poi una seconda persona, in questo caso il clarinetto basso, che la circonda con un braccio le spalle e la riaccompagna al suo posto" E così il violoncellista, sedotto dall'immagine femminile dello strumento, si mette a danzare dolcemente con lui: "Prima del rinascimento i violoncelli erano proibiti nelle chiese perché avevano forme femminili e si pensava per questo che ciò si trovasse ai limiti dell'oscenità. Quanto a forme erotiche il violoncello è un non plus ultra, il contrabbasso è troppo grosso, è un Boris Karloff - il violoncello no." I fiati sembrano ad un certo punto mimare rozzamente e parodisticamente il caratteristico movimento destra/sinistra, sinistra/ destra degli ottoni nelle JazzBand urtandosi malamente tra loro. 211 Il pubblico naturalmente ride e Kagel se ne compiace, dando, io credo, un insegnamento salutare rispetto alle enfasi moralistiche ancora oggi così diffuse tra i compositori: "Vi è un incredibile risentimento nella musica e i compositori che sono anche condizionati dalla religione provano angoscia di fronte al fatto che si rida in rapporto a ciò che essi fanno. Io ho molto presto considerato le risate del pubblico come un fenomeno positivo" XXII Sulla musica novecentesca Alcune premesse - Nel secolo XX sono avvenute molte cose straordinarie nello sviluppo musicale. Vi è stato uno sviluppo tumultuoso delle proposte, delle idee, delle innovazioni, dei mutamenti linguistici: tutto ciò è stato stimolato dagli inattesi e insospettabili sviluppi tecnologici nell'ambito della produzione del suono. - Occorre tuttavia distinguere con chiarezza tra questi progressi e il progresso nella produzione artistica. Non ha certa­mente molto senso ritenere che una cattedrale gotica sia più "progredita" di una cattedrale romanica sotto il profilo artistico, mentre non vi è dubbio che le conoscenze e le tecniche messe in opera per la costruzione di una cattedrale gotica siano assai più avanzate. Analogamente, si propone talvolta come un merito artistico il venir meno di visioni pregiudiziali, la critica della tradizione, l'enfasi sul nuovo, ecc., mettendo così confusamente insieme piani di discorso differenti. Ad esempio, talora si è parlato di "emancipazione della dissonanza" co­me si trattasse appunto soltanto di un'"emancipazione", e dunque già per questo degna di lode: come ogni emancipazione, come ogni caduta di pregiudizi. 212 Questo punto di vista è sbagliato. Lo si vede subito dal fatto che, alla luce di ciò, dovremmo ritenere che i nostri antenati più vicini o più lontani fossero succubi - chissà perché - dei pregiudizi più ottusi e ingiustificati. - Se consideriamo come risultati di decisioni i dati di fatto caratteristici della musica del novecento, l'"emancipazione" del­la dissonanza, l'apertura del musicale ad ogni evento sonoro, il lasciar fare ai suoni o al caso, l'adozione di procedure matematiche nella tecnica del comporre… - sorge allora subito il problema di un'indagine sulle motivazioni che stanno alla loro base, e quindi in generale sul loro senso. - L'errore maggiore nel considerare la musica novecen­tesca come un puro e semplice processo liberatorio nel qua­­le vengono a cadere tabu e pregiudizi che non sembrano avere alcuna giustificazione intrinseca sta nel fatto di assumere implicitamente una sorta di modello di sviluppo che è anzitutto applicabile ad un processo conoscitivo: questo può essere frena­to da un insieme di pregiudizi oppure promosso e stimolato da una scoperta tecnologica che apre nuove possibilità alle verifiche ed alle sperimentazioni. Ciò vale in parte anche per lo sviluppo dell'arte: la scoperta di nuove tecnologie per la produzione chimica dei colori impiegati dal pittore darà certamente stimolo a nuove forme di sperimentazione. Ma anche questo problema deve essere considerato subordinatamente ad un punto di vista che pone l'accento anzitutto sul fatto che l'arte in genere, e la musica in particolare, risponde a determinate esigenze di carattere espressivo che appartengono al musicista ed alla sua epoca, ed al modo in cui il musicista si atteggia nei suoi confronti. Si sono prese altre decisioni - Nel secolo ventesimo non ci si è accorti di poter fare musica con la dissonanza o con le più svariate sonorità, purché ci si 213 emancipasse da alcuni cattivi pregiudizi che le riguardano: non si è fatta dunque nessuna scoperta in proposito, e nemmeno si è dimostrata una maggiore libertà mentale che nel passato. Per quel che mi consta non vi sono ragioni per ritenere che il musicista del novecento sia più libero da pregiudizi del musicista del settecento o del­l'ot­tocento. Si sono prese semplicemente altre decisioni. Domande sulla musica del novecento - Spesso si sottolinea che le difficoltà di "comprensione" del­ la musica dei giorni nostri è dovuta alla persistente influenza negli ascoltatori di stilemi musicali del passato. Questa è un'os­ servazione apparentemente ovvia - vi sono abitudini udi­ti­ve acquisite, vi sono attese musicali fortemente radicate e la musica del presente non risponde a queste attese. Vi è qui indubbiamente una parte di verità. Tuttavia vi è un'altra circostanza assai poco sottolineata e che forse suggerisce di andare alla ricerca anche di qualche diversa motivazione. Spesso nel­la storia della musica si assiste al fenomeno nettamente opposto: la musica più recente tende a scacciare la musica del passato che cade rapidamente nell'oblio se non viene salvata da esso dallo storico dell'arte e dal musicologo. Mon­teverdi e il melodramma italiano ai suoi inizi scacciano praticamente tutta la produzione anteriore. Bach muore nel 1750 e da questa data in avanti viene considerato un musicista superato di cui a malapena è il caso di eseguire ancora le opere; questa messa da parte dura fin quasi al pieno ottocento, quan­do si crea un movimento di riscoperta. Nell'era di Beethoven, Haydn che pure è tutt'altro che estraneo al sinfonismo beethoveniano, era ritenuto un parruccone, un uomo del passato. Il romanticismo mise una pietra sopra la musica barocca, che ha dovuto essere riscoperta nel secolo XX. Questa situazione a ben vedere è sempre stata la regola: nelle "crisi" del passato, la novità è sempre stata vincente non solo presso i musicisti ma 214 anche presso il pubblico. Il passato viene sepolto - affonda lon­tano oltre l'orizzonte storico del presente d'epoca. È giusto che accada così, che il pubblico si senta rispecchiato dalla mu­­sica della propria epoca, che senta la sua "contem­po­ra­nei­tà" - e che di conseguenza finisca con il considerare come profondamente estranea la musica del passato. La musica del presente scaccia quella del passato. E non è forse singolare che vi sia stata ora un'inversione di tendenza? Non dovremmo rendere conto, fra l'altro, anche di una circostanza così singolare? L'atteggiamento verso il passato - Quale è l'atteggiamento del secolo XX verso il passato? In realtà non oseremmo per nulla affermare che il passato sia stato sepolto. Esso appartiene alla programmazione normale dei concerti. Non solo esso non è stato sepolto, ma fra le cose più notevoli è la sua attenta ripresa. Anche questo non è ovvio. Il Rinascimento non era certamente interessato alla musica dei menestrelli di qualche secolo prima, e tanto meno alla rinascita letterale del canto gregoriano. L'era barocca si comportava con la musica del passato esattamente come era sua abitudine fare con le chiese romaniche e gli affreschi di epoche precedenti: una bella mano di calce sopra di essi, sulla qua­le stendere nuove rappresentazioni pittoriche secondo il gusto dell'epoca. Delle chiese romaniche veniva mantenuta l'archi­tettura di base se era ancora solida per pure ragioni di opportunità pratiche; ma per il resto si ricopriva tutto con festoni, decorazioni, rivestimenti totalmente distruttivi per ciò che vi stava sotto. - È invece una caratteristica del secolo XX quello di un ritorno al passato di grandiose proporzioni, dal gregoriano alle canzoni trovadoriche, alla musica barocca. Mai come nel nostro secolo così proteso verso il futuro si è andati, nella musica, alla ricerca del tempo perduto in un'opera consapevole di riappropriazione. Questo secolo per molti 215 versi così distruttivo, così iconoclasta, per altri versi è un grande conservatore del passato. - Naturalmente questa circostanza può essere interpretata in modi diversi: ad esempio, potrebbe essere letta come un allargamento di orizzonti della coscienza musicale; oppure potrebbe essere intesa come per certi versi coerente con interessi musicali tipicamente novecenteschi, come una ricerca orientata a conoscere una molteplicità di stili ed a riscoprire strumenti con sonorità inconsuete. La ricerca di novità timbriche, così caratteristica della ricerca musicale novecentesca, potrebbe farsi valere anche in rapporto a questa intenzione restaurativa: una timbrica dimenticata diventa nuova nella sua riscoperta. - Tuttavia questo interesse per il passato può essere anche letto in stretta connessione con un ambiguo rapporto con la con­temporaneità. C'è chi ha sostenuto che un'adesione autentica alla contemporaneità sia da ricercare più nella musica di consumo che nella musica da concerto. E questo è ancora un modo di manifestare la problematicità di questo rapporto. Il dubbio dell'ascoltatore e del compositore - Il secolo ventesimo si è chiuso. Le ultime parole sono già state dette, e la musica del secolo ventesimo è proprio quella che è e non un'altra. Detto meglio: il secolo ventesimo si è espresso proprio in quella musica: quella e non un'altra è la musica che lo esprime. - E tuttavia si ha la sensazione che il pubblico si sia adeguato ad essa, più che riconoscerla come la propria musica. Si può realmente sostenere che il pubblico del novecento si sia rispecchiato nella musica del novecento, nonostante il fatto che i musicisti abbiano fatto di tutto per costringerlo a rispecchiarsi? 216 - Io credo che l'intera musica novecentesca abbia avuto come compagno quasi inseparabile, in misura, oso ritenere, incomparabilmente maggiore che per il passato, il dubbio dell'ascol­ta­tore. Molti e molti anni fa questo dubbio si esprimeva in memorabili proteste. Il pubblico fischiava, si agitava, insultava autori ed esecutori. Ma ciò vale soprattutto per il Novecento storico. A cominciare dalla seconda metà del secolo l'ascolta­to­re protesta sempre meno, quasi non protesta. Del resto, poiché il concerto è comunque un'occasione festiva, perché rovinarsi la festa? - "Se si condivide tutto vuol dire che non si condivide niente. Si dice sì a tutto perché non importa niente di niente. Si applaude sempre, come i pubblici di musica contemporanea: a Varsavia, in Italia, in Francia, in Inghilterra, in America, in Unione Sovietica. A Varsavia ho ascoltato nello stesso concerto una cosa infame di Penderecki e un pezzo importante di Xenakis applauditi nello stesso modo. Tutto viene livellato a semplice presenzialismo: quel che c'è c'è, e basta" (F. Donatoni in Restagno, 1990, p. 55). - Il pubblico dubita ancora. In parte, in questo dubbio vi sono certamente elementi che dipendono da pura pigrizia men­tale, da una sorta di inerzia dell'ascolto, da attese precostituite che vogliono a tutti i costi essere soddisfatte. Oppure, come tanto spesso si è det­to, da elementi che dipendono da abitudini sedimentate nel tempo che rendono chiusi rispetto al nuovo. Ma possiamo essere realmente convinti di poter continuare a dire e ridire ciò dopo cento anni di musica "nuova"? Ciò che d'altra parte ci invita ad una risposta più meditata è l'esistenza di un altro dubbio, in certo senso molto più interessante e ricco di significato, ed è il dubbio del compositore. Naturalmente ogni progetto musicale, in quanto ricerca e ten­tativo, in quanto si propone di esplorare nuovi orizzonti non può mai essere accompagnato da una dogmatica certezza intorno al suo risultato. Ciò che qui chiamiamo dubbio, altri chiamerebbero forse, un po' più enfa- 217 ticamente, i tormenti del­la crea­tività. Eppure anche il ricondurre questo dubbio entro una simile formula rischia di attenuare l'elemento intrinsecamente problematico della musica novecentesca, che si annuncia nella prima metà del secolo ma che va crescendo nella seconda. Questo dubbio del compositore è naturalmente connesso alla molteplicità linguistica, ma in certo senso si spinge più lontano seguendo un percorso che ha una sua necessità interna. In realtà nulla ci potrebbe impedire di adagiarci nel­l'idea della mol­teplicità dei linguaggi. Invece è interessante il fatto che, a partire dalla considerazione di questa molteplicità, si passi oltre verso una dimensione che la presenta essa stessa come un problema. Ci si interroga su nuove regole possibili, si pone l'esigenza di nuovi materiali sonori, su nuovi modi di trattarli, di elaborarli, di proporli all'ascolto. Ma che cosa significa tutto questo se non il rendere più precaria la linea di demarcazione tra il livello linguistico in genere e il livello premusicale, il livello della pura esperienza sonora? Il dubbio del compositore riguarda questa linea di demarcazione ed è dunque, se vogliamo proprio parlare di tormento della creatività, la forma tipicamente novecentesca di questo tormento. Questa linea diventa fluttuante, ambigua, evanescente. - Talora si nega semplicemente l'esistenza di una linea di demarcazione. Il pianista David Tudor suona al pianoforte ed un ascoltatore si accinge a chiudere la finestra per "lasciar fuori" i rumori che salgono dalla strada. David Tudor reagisce: no! no! lasciate aperta la finestra, anche quei suoni appartengono alla musica. Quei suoni così come sono, senza nemmeno un pensiero organizzativo autonomo che sia intervenuto a risistemarli nel contesto di un progetto espressivo… - E può anche accadere che il musicista tragga ispirazione non già da una meditazione sulla tradizione, tutta fatta di sofisticate speculazioni grammaticali, ma da ciò che gli accade intorno. L'idea della coesistenza di dimensioni sonore essenzialmente di- 218 verse venne a Charles Ives dalla constatazione che il gioco dei bimbi per strada, le loro grida, il tramestio dei passanti, il rumore del tram e quello della banda in servizio ai giardini pubblici potessero coesistere insieme fondendosi in un tutto accettabile e significativo per le nostre orecchie. - Non a caso abbiamo citato aneddoti tratti dall'esperienza musicale americana. Alle spalle dei grandi compositori del Nuovo Mondo non vi è storia e tradizione, ma una realtà musicale varia e mutevole da cui si può attingere a mani piene senza i crampi mentali di strutturalismi e serialismi. La cultura europea è ossessionata da temi unitaristici, da immagini di ordine e di coerenza, dal fatto che vi sia movimento soltanto come evoluzione e sviluppo. La musica nasce dalla musica, e non nei giardini pubblici! - potremmo essere severamente ammoniti così. E ciò significa anche: la musica, qualunque e comunque essa sia, nasce dal passato - del quale bisogna avere dunque un'idea assai chiara. - Resta ancora fortemente radicato il pensiero che "pro­gre­ dire" significhi sgomitolare un'idea dall'altra: l'a­tonalismo viene sgomitolato dal tonalismo, il serialismo integrale dal serialismo dodecafonico. Mentre sembra più adeguato alla ricchezza della produzione musicale novecentesca l'immagine di una rottura multilaterale di un processo che aveva mantenuto un grado abbastanza elevato di unità e che viene sconvolto sotto spinte di varia natura: di una rottura che può essere concepita come una vera e propria frantumazione i cui esiti sono molteplici e imprevedibili. In questa crisi non intervengono soltanto problematiche strettamente connesse all'evoluzione della sintassi del linguaggio musicale di tradizione europea; in essa giocano istanze e problemi della provenienza più varia e più lontana; non ci sono solo idee sgomitolate o da sgomitolare, ma anche salti, da una cultura ad un'altra ad essa estranea, dalla musica colta alla musica popolare ed alla musica etnica, balzi in avanti e balzi all'indietro… 219 - Mi sembra molto istruttivo il fatto che Glenn Gould riesca a fare un elogio di Strauss e nello stesso tempo di Schönberg senza alcuna difficoltà. Schönberg è stato "uno dei più grandi compositori mai esistiti". Strauss è "uno dei giganti del novecento, la cui evoluzione stilistica, immune dall'assillo schoenberghiano di precorrere i tempi, ha un andamento che in termini storici si può soltanto definire retrogrado"(Gould, 1984, p. 213 e p. 193). - Affermazioni come queste presuppongono una critica assai netta sull'enfasi posto sul "nuovo" nella quale si afferma con chiarezza che la grandezza e l'importanza non si misura in modo meramente cronologico. L'accento cade su una posizione provocatoriamente antistoricistica. "Strauss non appartiene all'epoca dell'atomo più di quanto Bach non appartenga all'epoca dei lumi o Gesualdo all'epoca d'oro del Rinascimento". L'opera di Strauss "rappresenta concretamente il superamento di ogni frivolo e sterile cavillo cronologico. È l'o­pera di un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene e che parla per ogni generazione perché non si identifica con nessuna. È una suprema dichiarazione di individualità: la dimostrazione che l'uomo può creare una propria sintesi del tempo senza essere vincolato dai modelli che il tempo gli impone" (Gould, 1984, p. 169). - Ecco una formulazione realmente notevole: "Gran parte di queste teorie sulla maggiore o minore validità di determinati procedimenti artistici nasce da una concezione della storia che ci ha incoraggiati a vedere il suo agire come un susseguirsi di momenti chiave, ed a giudicare il valore di un artista sulla base della sua partecipazione, o meglio ancora della sua anticipazione del momento chiave più vicino a lui. Si tende ad attribuire un'esagerata importanza ai mutamenti, ed allo scopo - si direbbe - di semplificare la comprensione e l'insegna­men­to della storia (forse sarebbe più esatto dire, per imprigionarla in uno schema) 220 si dà la preferenza a raffigurazioni antitetiche delle sue alterne vicende usando termini necessariamente inquinati da ogni sorta di concetti estranei a base di progresso e regressione" (Gould, 1984, p. 172). - Diceva Stravinsky che i compositori "riescono a stento a tener dietro alle richieste di certi critici che chiedono di continuo: 'Dateci del nuovo'. Talvolta ne risultano novità che difficilmente potrebbero interessare una seconda volta" (1977, p. 79). L'altra musica - Un aspetto forse troppo poco sottolineato è che l'apertura a tutto campo della problematica musicale che si manifesta nel­la musica novecentesca è stimolata dal problema della compren­ sione della musiche estranee alla cultura europea. Ad eccezione di Schönberg e della sua scuola, nella quale il confronto e l'apertura ad altri linguaggi non ha alcuno spazio, vi è invece una direzione di sviluppo interamente diversa, per la qua­le il problema della musica nuova converge con quello della musica degli "altri". L'altra musica è la musica del futuro; ma anche la musica delle altre culture. Da questo punto di vista è sintomatico il fiorire dell'indagine etnomusicologica a cavallo del secolo diciannovesimo e ventesimo. - All'interno degli sviluppi novecenteschi vi è anche un variegato movimento interessato non tanto al "superamento" del pas­­sato, quanto al trarre profitto dall'alterità: si tratti di linguaggi dimenticati nel nostro passato, dei linguaggi del folklore o dei linguaggi orientali, africani, indiani, ecc. Il mutamento e l'innovazione del linguaggio musicale è allora affidato tutto alla discontinuità: sia nella direzione orizzontale, ovvero in direzione di altri linguaggi ancora attuali, sia nella direzione verticale, ovvero in direzione della ripresa di forme pretonali, modali, del passato folklorico, 221 ecc. Alla luce di una simile considerazione il cosiddetto eclettismo di Stravinsky ha un senso profondo che la parola eclettismo nasconde completamente. Ovvietà storicistiche: non c'è pianta senza seme - Nonostante tutte le cose straordinarie che sono avvenute nella musica novecentesca, in tempi recenti, si tende più a sottolineare elementi di continuità con il passato piuttosto che di rottura (mentre una volta l'accento sarebbe caduto sulla rottura). Credo che questo accada per svariate ragioni. Ad esempio, per una ricerca di legittimazione. Ma agisce anche un pregiudizio, di derivazione idealistica e storicistica, per il quale la continuità storica è una sorta di dogma. Se qualcosa appare nuovo, secondo questo atteggiamento, in realtà è stato preparato da gran pezzo. Autentiche novità non ci sono mai, perché vi è sempre una logica interna che porta ad esse: questa logica interna fa sì che il nuovo assuma un carattere di necessità. Il fatto è che una rottura necessaria non è una rottura autentica: essa è appunto un momento obbligatorio di uno sviluppo che non poteva far altro che passare di lì. - A ben pensarci vi è sempre un modo di sostenere che qualcosa che appare nuova, era in realtà preparata prima; e che la storia va sempre avanti e non va mai indietro ed altre cose di questo genere. Ma può accadere, nei casi concreti, che il contenuto di queste verità si riduca a tanto poco da apparire del tutto privo di interesse. - Il dire che "non c'è pianta senza seme" è naturalmente una sacrosanta verità. È un peccato però che la frase valga per tutte le piante in genere e per tutti i semi possibili. Cosicché non ci aiuta molto a spiegare perché, ad esempio, nel mio giardino ci siano quarantacinque palme. Stando a quella sacrosanta verità è certo che all'origine ci dovevano essere quarantacinque semi. 222 Ma con ciò continuo a non saper nulla della ragion d'essere di quelle quarantacinque palme. Forse questa ragione dovrei cercarla nell'uomo che ha deposto i qua­ran­tacinque semi, e nei motivi di questo gesto, cosicché per rendere ragione di ciò debbo appellarmi ad una discontinuità rispetto al mondo vegetale, chiamando in causa il mondo umano. Conflittualità della musica novecentesca - Nella musica novecentesca dobbiamo ritrovare le profonde tensioni e la conflittualità interna da cui essa è attraversata: lasciando da parte la moneta corrente dell' "evoluzione necessaria", della "logica interna" dello sviluppo: addirittura più interessante - anche se si corre il rischio di essere fraintesi - è parlare di una battuta di arresto, di una sensazione di esaurimento dello sviluppo che lascia lo spazio aperto per una radicale messa in questione dell'essenza del musicale, per una sperimentazione di territori che stanno sulla linea di confine tra esperienza musicale ed esperienza di accadimenti sonori, come una problematizzazione dell'esistenza stessa di questi confini. In questo senso si può parlare di un ritorno alle origini, in cui la musica sta per esserci ma non c'è ancora. Ed anche l'ovvietà che ricollega lo sperimentalismo al nuovo, a ciò che ci sta davanti, potrebbe essere vista, all'opposto, come uno straordinario ritorno all'antico, ad un passato remotissimo, a quel passato in cui la musica forse non c'era ancora ma stava per esserci. Il compositore dei giorni nostri che sperimenta nuove possibilità lavorando al calcolatore si ricongiunge idealmente con i cantori dei primordi, con i costruttori di strumenti elementari cavati dal legno del bosco, che cominciano a scoprire il fascino dei suoni. La fontana della giovinezza - Nella musica novecentesca vi è un richiamo alla gioventù della 223 musica, ma esso avviene certamente nella piena consapevolezza di una tradizione plurimillenaria, cosicché la sua conflittualità interna è leggibile anche come una conflittualità che oscilla tra i poli della gioventù e della vecchiaia. Nel tema del nuovo, così ribadito, si risente il mito della fontana della giovi­nezza, ma intorno ad essa si aggirano, come è giusto che sia, soltanto dei vecchi decrepiti. Una festa del suono - La musica del novecento nel suo insieme è una festosa esplosione delle possibilità della musica, è una straordinaria festa del suono. XXIII Le diverse vie di sviluppo della musica nel novecento Crisi della tonalità - Vi è qualcosa di profondamente insoddisfacente nel modo in cui talora vengono presentate le vicende della musica novecentesca, ed in particolare la "crisi della tonalità o crisi del linguaggio tonale". Vi sarebbe anzitutto da discutere se questa formula della crisi della tonalità sia realmente appropriata dal momento che essa riporta una vicenda così ricca e complessa come quella delle trasformazioni intervenute nello scorcio del secolo XIX e poi in seguito sotto il segno, sia pure negativo, della tonalità. È vero in ogni caso che, in vari modi, all'inizio del novecento, ed ancor prima, si mettono in questione elementi che erano strutture portanti della tonalità e dei suoi presupposti teorici generali. In vari modi, appunto: secondo diverse vie. Inoltre non si distingue mai 224 con sufficiente chiarezza tra i momenti della crisi che provengono dall'interno e momenti che provengono dall'esterno. In particolare facendo dell'atonalismo della scuola di Vienna il fulcro di questa crisi, la si interpreta esclusivamente come una crisi interna. In questo modo si perviene ad una visione fortemente riduttiva della complessità della vicenda musicale novecentesca, e nello stesso tempo si tende a sopprimere la sua profonda e significativa problematicità. Crisi interna e crisi esterna - "Che cosa intendi per crisi interna e crisi esterna?" - Immagina il crollo di un palazzo. Esso può essere dovuto a qualche fatto esterno come una pratica di demolizione in cui le mura vengono abbattute da clave gigantesche, oppure ad un terremoto che facendo tremare il terreno provoca la loro caduta. In tal caso io parlerei di una crisi che viene dall'e­sterno. Ma il palazzo può anche crollare per il fatto che con il tempo le sue fondamenta si sono logorate, i muri maestri cominciano ad avere qualche crepa e vi è stato qualche abitante del palazzo che ha cominciato malignamente ad allargarle. Il crollo sarebbe in tal caso una conseguenza di eventi di ordine interno. La cosiddetta "logica interna" dello sviluppo - In una concezione dello sviluppo musicale di tipo strettamente linguistico-continuistico si darà il privilegio ad una narrazione della "crisi della tonalità" facendo riferimento a motivi pre­valentemente interni. Si può allora pensare ad una sorta di disfacimento del linguaggio tonale dovuto ad una logica interna di sviluppo: il disfacimento avviene perché era in germe nel linguaggio stesso - esso non poteva che andare incontro alla propria dissoluzione. 225 - Si può appesantire in misura maggiore o minore questa concezione. E nello stesso tempo avvertire dietro di essa il pro­blema più ampio di un atteggiamento nei confronti della storicità in genere, secondo il quale vi è sempre una linea dominante di senso intorno alla quale deve essere ricomposta la molteplicità degli eventi storici. Il nostro sguardo sulla storia dovrebbe allora orientarsi secondo quella linea - dunque, individuarla anzitutto con chiarezza, e poi servirsi di essa come una sorta di crinale per dare ordine agli eventi, che potranno stare sulle cime del crinale oppure al di qua o al di là di esso. Gli eventi importanti - dunque quelli che appartengono al crinale - saranno connessi da una relazione di senso: ciò che sta prima non sta semplicemente prima, ma prepara l'evento che sta per avvenire, e ciò che sta dopo non sta semplicemente dopo, ma realizza ciò che era solo in germe nell'evento precedente, e nello stesso tempo lo supera. In questa prospettiva l'idea della rottura e della continuità non sono affatto antitetiche, ma la rottura presuppone elementi di continuità così co­me la continuità pone le condizioni per una possibile rottura. Il problema è poi sempre quello del passo avanti, ed esattamente di quel passo che deve necessariamente essere fatto. Di ciò fa parte l'idea di una linea maestra dello sviluppo e le idee con essa solidali di una consequenzialità e di un avanzare attraverso tappe ben definite. - Di ciò fornisce un'immagine efficace un percorso ferroviario. Un treno, intanto, è assai meno maneggevole di un'au­tomobile o di una bicicletta. Se sono in automobile posso improvvisamente decidere di svoltare a destra piuttosto che a sinistra - pur senza rinunciare a raggiungere la mèta prefissata. Posso anche decidere di tornare per un certo tratto indietro, ciò potrebbe far parte del piacere del viaggio. Posso inoltre decidere di prendere vie secondarie, vie traverse; posso decidere di attraversare le città oppure di prendere le circonvallazioni; e soprattutto posso fermarmi 226 esattamente dove voglio. Sembra forse più realistico considerare le vicende storiche sotto questo profilo, piuttosto che secondo quello suggerito da un percorso ferroviario. Le cose allora cambiano interamente: qui si va su un unico binario, lo scambio che ci consente di passare da un binario all'altro è qualcosa di completamente diverso che svoltare a destra o a sinistra, si cambia binario per rimanere in certo senso sempre sullo stesso binario. Sarei anche tentato di dire: un treno sembra fatto soltanto per andare avanti. Viaggiando in treno si ha quasi l'im­pres­sione fisica di andare avanti, anche se siamo seduti di spalle alla direzione del treno, mentre in automobile questa impressione di andare avanti - essendo associata all'an­da­men­to rettilineo del percorso, è assai più debole, meno impor­­­tante. In treno sappiamo astrattamente che ci stiamo recando in una certa località, ma l'impressione complessiva è quella di un andare, che quella di un andare avanti. Ci sono poi le stazioni - inesorabilmente allineate al binario su cui corre il treno, e non puoi assolutamente arrivare alla stazione C partendo da A se prima non hai oltrepassato la stazione B. - Pensa ora ad una visione aerea, e vedi come cambiano le cose! Le città punteggiano il paesaggio, e ci appaiono collegate non più l'una all'altra come gli anelli di una catena: ora vediamo molti possibili collegamenti, strade più o meno tortuose, più o meno importanti che si intersecano tra loro. Inoltre nella visione aerea non sappiamo esattamente dove siamo; in treno invece, proprio mentre ci muoviamo, sappiamo sempre di trovarci in un punto ben determinato, tra una stazione e l'altra, dopo la stazione A e prima della stazione B. (L'utilità del riflettere appoggiandosi su immagini non sta solo nel fatto che il problema si va spontaneamente arricchendo nel dispiegamento dell'immagine, ma anche nel fatto che un'immagine ne può suggerire un'altra contrapposta ed anche il suo dispiegamento è ricco di ulteriori suggerimenti e indicazioni). 227 Il grande continuatore - Secondo la posizione di Arnold Schönberg e della sua scuola, la fine del linguaggio tonale è una sorta di destino del linguaggio tonale stesso, e quindi la necessità di escogitare nuovi metodi compositivi si pone per motivi linguistici interni. Schönberg è il Grande Continuatore. - Mi sembra significativo il fatto che Schönberg sentì l'esi­genza di scrivere un trattato che si presenta come un' imponente riflessione sul linguaggio tonale. Inoltre egli non ha mai provato alcun interesse per tutte quelle cose verso cui inclinavano i musicisti americani; nessun interesse per i nuovi strumenti o le nuove sonorità, per le prospettive offerte dal progresso tecnico e delle conoscenze acustiche, per non dire per le suggestioni della musica concreta; era lontanissimo anche dal pensare che valesse la pena di guardarsi intorno al di là della tradizione europea; o di manifestare una qualche curiosità per il jazz o per i metodi di manipolazione tecnica del suono. Da questo punto di vista Schönberg non è affatto un musicista "moderno". Ciò che Eisler diceva di Schönberg - "Egli è un vero conservatore" - diceva Eisler di Schönberg nel 1924. Ed aggiungeva: "Si è creato persino una rivoluzione per poter essere reazionario". La frase però non è spregiativa, e nonostante la sua formulazione estrema, coglie nel segno: si invita infatti a considerare Schönberg "non più un sovvertitore e un rivoluzionario, bensì un maestro" (Musica nella rivoluzione, p. 131). Il naturalismo in Webern - Anche Webern, dal punto di vista della riflessione teorica, si 228 ricollega ad un naturalismo che trae profitto ad un tempo dal romanticismo e dalle idee, sorte sul terreno della tonalità, della fondazione fisicalistica. L'accento cade vivacemente in lui su una nozione forte della regola, ancor più rafforzata dall'idea, mediata da Goethe, del radicamento delle regole nella natura: "Alla base di ogni arte… vigono delle regole e l'occuparsi dell'arte… può mirare soltanto a stabilire tali regole". "Fra prodotto della natura e prodotto dell'arte non regna alcun contrasto essenziale, ma al contrario, quel che noi consideriamo e definiamo arte fondamentalmente non è altro che un prodotto della natura universale"(Webern, 1989, p. 17).Siamo così riportati indietro ai dibattiti estetici del primo ottocento. Vi è persino un accenno, breve ma significativo, ad una teoria del genio. Si accenna al genio come colui che si fa tramite di questa produttività della natura. Da Goethe si cita la frase seguente: le opere d'arte sono "opere della natura prodotte da uomini" (p. 18). Del naturalismo di stile goethiano (e con venature schopenhaueriane) si mantiene in particolare l'idea della natura come "geroglifico", alle opere d'arte ci si deve accostare come alle opere della natura "cioè con il profondo rispetto per il segreto che è il loro fondamento, per quanto di misterioso vi è in esse" (p. 19). Ma il naturalismo, sia pure di impronta romantica, si va poi ad incontrare con il naturalismo fisicalistico - cosicché la teoria degli armonici è, secondo Webern, il fondamento indubitabile della nostra scala delle sette note. Si tratterebbe, sostiene Webern, di un materiale "conforme alla natura". "La nostra scala di sette suoni si spiega in questo modo"(p. 21). E le scale degli altri - dei cinesi, dei giapponesi, degli africani…? "Io non ne capisco molto". Webern dice proprio così. Ed aggiunge: "Ma il fatto che alla nostra musica sia tracciato un cammino particolare sembra dimostrare la logicità e la profonda fondatezza del nostro sistema" (p. 21). Schiettezza ammirevole. La visione eurocentrica si propone qui in tutta la sua evidenza e con essa l'idea di una tradizione privilegiata che le compete, una tradizione che deve essere nuovamente sviluppata 229 secondo la sua logica interna. Anche l'impiego della dissonanza a­vrebbe un fondamento naturale nella teoria degli armonici. Nell'impiego della dissonanza "noi continuiamo a prendere possesso progressivamente di quel che ci è dato dalla natura!" (p. 26). Il tema schoenberghiano del suono dissonante come armonico più lontano, e quindi la concezione della distinzione tra consonanza e dissonanza come differenza di grado, è qui letteralmente ripreso (p. 27). Ed anzi Webern ritiene di poter affermare che proprio dal fondamento naturale la triade consonantica tra la sua piacevolezza: "Una copia di questi armonici è una copia della natura, il primo e più primitivo rapporto dato fra i suoni. Per questo suona così piacevolmen­te al nostro orecchio ed è stata usata con tanta frequenza" (p. 27). - Il maggior dànno recato da Adorno e dall'ador­nismo, di cui non si può certo attribuire la responsabilità a Schön­berg, è di aver accreditato l'idea che la linea di tendenza da lui avviata sia il crinale da cui giudicare l'intera vicenda della musica novecentesca. ("Io non ho mai potuto soffrire l'uomo… ed ora so anche per certo che la mia musica non gli è mai piaciuta… disgustoso è poi anche il modo in cui tratta Stravinsky. Io non sono certo un seguace di Stravinsky sebbene qua e là qualche suo pezzo mi sia piaciuto, ma così non si può scrivere": questo Schönberg dice di Adorno, in una lettera del 1949 ad Hans Heinz Stuckenschmidt (cfr. Arbo,1991, p. 103). Orientamenti di sviluppo nel processo di trasformazione della musica novecentesca - Io credo che si debbano distinguere almeno tre orientamenti di sviluppo nel processo di trasformazione della musica novecentesca, tre diverse vie che conducono alla messa in questione dei canoni compositivi della tradizione musicale. Oltre che la via atonale-dodecafonica, credo che si possa parlare di una via timbrica e di una via modale pur sapendo perfettamen­te che si tratta di 230 uno schematismo utile solo per chiarirci le idee e che all'interno di questo schema potrebbero esservi biforcazioni più o meno complesse, svariati intrecci, possibilità intermedie. Gli schemi si impiegano fino al punto in cui servono, e poi si buttano. L'importante è qui soprattutto fare valere l'idea di una pluralità di strade, le strade sono molte e forse non è nemmeno il caso di contarle, riprendendo al momento giusto il nostro viaggio aereo. Klangfarbenmelodie - Stando alle idee correnti, il proporre una "via timbrica" autonoma potrebbe suscitare perplessità e critiche. Si dirà che in tutto il novecento l'interesse per il timbro è ovunque presente, e che non ha senso individuare in questo interesse una vera e propria linea di tendenza. - "Come puoi dimenticare l'importanza data da Schönberg alla componente timbrica? Non rammenti forse la sua famosa espressione "melodia di timbri" (Klangfarben Melodie)?" - In realtà sono molti i critici, storici e musicisti che hanno ripetuto all'infinito questa formulazione senza rendersi conto che in essa l'accento non cadeva sulla parola timbro, ma su quella di melodia. Tenendo conto della sua posizione complessiva, credo di poter sostenere che parlando di melodia di timbri Schönberg avesse di mira la possibilità di organizzare un brano musicale che giocasse prevalentemente sulla componente timbrica, ma per lui questo problema coincideva fondamentalmente con lo stabilire tra i vari timbri strumentali un qualche ordine, un qualche rapporto logico che fosse modellato sull'ordine melodico. - Forse il problema è colto, sia pure indirettamente, da Xenakis, che apprezza la dodecafonia soprattutto per il fatto che essa reintrodurrebbe consapevolmente "il pensiero puro della matematica nella composizione musicale", quando osserva che 231 proprio la musica seriale è incapace di realizzare una Klangfarbenmelodie per il prevalere in essa dell'elemento puntuale e lineare e per via dell'esclusione dei glissandi. Con quella espressione, secondo Xena­kis, si dovrebbe intendere "la dispersione delle note sugli strumenti dell'orchestra" per la formazione di masse e volumi sonori di varia densità (1982, p. 11 e p. 115). È inutile dire quanto l'o­rienta­mento di Schönberg sia lontano da una "melodia di timbri" intesa così. - Del resto anche nella musica del passato, il timbro ha sempre occupato un posto della massima importanza. E come potrebbe essere altrimenti? Altrettanto indubbio è tuttavia il fatto che l'inte­resse per il timbro non aveva alcuna autonomia e si realizzava semplicemente attraverso la scelta di particolari organici strumentali. In questo senso la ricerca timbrica è sempre stata solo implicita, e in ogni caso limitata agli strumenti a disposizione. La stessa modificazione tecnica degli strumenti, oppure il venire meno di determinati strumenti e l'avanzare di nuovi era subordinato e conseguente a nuove esigenze espressive che, seguendo le proprie vie, esigevano novità di carattere timbrico. Anzitutto vi è un problema di mutamento nelle esigenze espressive: se si tratta di esprimere musicalmente le vicissitudini della vita emotiva e di sondare l'esperienza vissuta della soggettività, allora abbiamo bisogno di enfatizzare gli aspetti dinamici e agogici. Su questi aspetti il clavicembalo non è in grado di dare risposte soddisfacenti. La liuteria si metterà in moto per trovare una risposta tecnica a questa esigenza espressiva. Timbro ed espressione nella musica novecentesca - Nella musica novecentesca si potrebbe quasi dire che il rapporto tra timbro ed espressione tenda ad invertirsi: come se prima si tendesse l'orecchio al timbro, in quanto oggetto di inte- 232 resse in se stesso, e poi, colpiti dalla sua capacità espressiva, ci si accingesse al progetto musicale. - L'interesse per le novità timbriche è così ampiamente diffuso in compositori di orientamento e di indirizzo anche molto diverso che sembra avere una parte di ragione l'obiezione secondo la quale non si può pretendere di individuare una specifica via timbrica. Tuttavia un conto è un interesse per gli aspetti timbrici, anche molto approfondito e del tutto esplicito, ed un altro è un interesse che focalizza l'elemento timbrico come fondamentale e che lo scatena contro il parametro dell'altezza, e quindi contro le forme e le strutture intervallari. Quando siamo in presenza di quest'ultima condizione credo che sia giusto parlare di una vera e propria linea di tendenza con un profilo ed istanze proprie. Il timbro contro la melodia - La relazione, ma anche opposizione tra l'elemento timbrico e l'altezza, tra il corpo e l'anima del suono - come io sarei tentato di dire - si ritrova rispecchiata in un interesse timbrico che viene esasperato in tendenziale contrapposizione con l'idea di linea melodica e con gli strumenti che in certo senso hanno la vocazione della melodia. Si può parlare di una scelta in direzione del timbro in senso realmente pregnante solo quando è presente questa contrapposizione. Quando ciò accade, d'altra parte, subito si prospetta un complesso di opzioni musicali strettamente conseguenti. Nuova importanza conferita agli strumenti percussivi - In primo luogo la focalizzazione sul timbro potrà coerentemente rappresentare una chiamata dell'attenzione su strumenti che emettono suoni di altezza indeterminata, e quindi sugli strumenti a-melodici, ed anzitutto sugli strumenti percussivi (mi auguro di essere compreso senza lungaggini eccessive: parlo di 233 amelodicità dello strumento percussivo in contrapposizione a strumenti che melodici lo sono tipicamente, come il flauto). - La chiamata dell'attenzione sugli strumenti a percussione ha anzitutto un significato eversivo rispetto alla musica di tradizione europea. In uno stile espressivo, come quello tonale, che è dominato dall'importanza delle grandezze intervallari, dalla consonanza, dal disegno melodico e dal percorso armonico, gli strumenti a percussione sono predestinati ad ottenere un ruolo marginale: di fatto, la musica tonale europea ha fatto un uso estremamente misurato degli strumenti a percussione, o non impiegandoli affatto oppure impiegandoli in funzione di pura sottolineatura di accenti, di rinforzo dei suoni gravi e dei crescendi, se non addirittura per banali effetti imitativi. - Diversamente stanno le cose per altre culture musicali. Gli strumenti a percussione hanno una grande importanza per la musica africana, ma anche nella musica indiana, araba, ecc. È caratteristica di questa linea di tendenza un'apertura verso tradizioni musicali non europee che certo non si possono ritrovare nell'atonalismo viennese o nella dodecafonia. In questo contesto va rammentato anche il jazz che occupa una posizione piuttosto particolare all'interno della musica novecentesca, in quanto può essere considerato come una reazione alla tradizione classica europea, nonostante l'impiego di strutture modali e tonali. - È ben comprensibile che ad un orientamento verso il timbro così caratterizzato, che mette da parte l'aspetto melodico per porre l'accento sul "corpo" del suono, si possa associare un forte interesse per la dimensione ritmica, come una dimensione autonoma. 234 Ricerca di nuove sonorità, impiego del "rumore" e interesse per la sintesi del suono - Nella stessa direzione si farà valere la ricerca di nuove sonorità, fino alla rivendicazione dell'impiego musicale di ciò che normalmente si caratterizza come rumore. Tra timbro e rumore vi è uno stretto legame fenomenologico. Questa linea di tendenza sarà caratterizzata in particolare dal fatto che essa è particolarmente interessata alla sperimentazione intorno ai suoni e alle loro manipolazioni tecniche, alle sonorità "di­storte", all'invenzione ed all'impiego di nuove sonorità. In essa si fa valere dunque una sorta di "critica" degli strumenti tra­dizionali e di interesse per la sintesi del suono, per l'effet­tistica ottenuta attraverso attrezzature elettroniche, ecc. Da questo punto di vista non è il caso di stabilire nessuna linea di demarcazione tra musica "leggera" e musica da concerto - anzi, la musica "leggera" promuove questi sviluppi in modo più deciso e più esclusivo. Voltare pagina - Una simile via di dissoluzione della tradizione non può cominciare all'interno del linguaggio tonale. Il parlare di crisi ha allora questo senso: l'edificio della tonalità è stato abbattuto a colpi di clava. - La tensione verso un'espressione musicale che opta per il timbro come momento fondamentale di essa - dalla contestazione degli strumenti della tradizione alla esigenza di nuove sonorità, al suono come puro accadimento che può essere raccolto per istrada e che sarà poi variamente manipolato, così come la promozione della sperimentazione elettro-acustica, con una critica ora particolarmente esplicita, ora meno, ma ovunque serpeggiante nei confronti di una concezione "linguistica" della musica - rompe con la tradizione per così dire in modo frontale. In luogo di meditare in biblioteca sulle autorevoli partiture del passato, si esce en plein air, si vanno a riscoprire i suoni della natura, oppure si passeggia per strada tendendo l'orecchio a ciò che accade 235 nell'ambiente circostante, voci, grida, motori, macchinari in movimento… Con la tradizione non si discute, ma la si lascia semplicemente alle proprie spalle. Non ci interessa rovistare nelle macerie del passato. Si volta pagina. Si passa ad altro. Modalità - Se ci possono esserci perplessità nell'individuare una vera e propria linea di tendenza timbricamente orientata nel superamento delle forme espressive della tonalità, queste perplessità potrebbero essere più che raddoppiate nell'anno­verare gli interessi verso moduli compositivi modali nel quadro della pro­ blematica del rinnovamento nella musica del novecento. Non si tratta forse di un vero e proprio ritorno al passato? Di un atteggiamento regressivo piuttosto che progressivo? - Musicisti come Debussy, Bartok, Stravinsky, Messiaen e tanti altri in cui i "modi" tornano a svolgere un ruolo musicalmente significativo, sono stati considerati da certa musicologia come musicisti che guardano al passato, piuttosto che al futuro. Su ciò gioca soprattutto l'enfasi posta sulla linea atonale-dodecafonica. Inoltre ha il suo peso probabilmente anche il fatto che si tende ad avere una idea troppo ampia della nozione di tonalità, abbracciando sotto questo titolo anche la modalità, sia perché si adotta un punto di vista secondo cui la modalità viene considerata come una strada che conduce alla tonalità come sua mèta e suo fine, sia perché andamenti modali possono essere inseriti in composizioni tonali. Occorre allora attirare l'attenzione, per poter impostare correttamente l'intera discussione, sulla necessità di delimitare concettualmente e storicamente l'idea di tonalità in modo da evitare equivoci tanto consistenti ed insidiosi. 236 La riscoperta del melos nella musica novecentesca - Intanto credo che si possa a cominciare con il dire: il novecento, questo secolo musicalmente così effervescente di idee e di opere ha anche rappresentato la riscoperta della melodia. E questa riscoperta avviene proprio nel quadro della crisi della tonalità. - Una simile affermazione potrebbe a tutta prima generare sorpresa. Luoghi comuni correnti ci hanno abituato ad associare il melos al passato piuttosto che alla "modernità" novecentesca. Contro il melos parlano timbrismo e atonalismo. In modo assolutamente netto nel timbrismo, in modo a ben vedere più problematico, nel caso dell'atonalismo e della dodecafonia. Ma quel che più importa è che la quintessenza del melos viene riferita alla tonalità, e può certamente sorprendere il fatto che si parli della sua riscoperta nel quadro della tematica della sua crisi. - Immagina allora di trovarti su uno dei palchi, alla prima del Sacre di Stravinsky, nel lontano 1913 - uno dei pezzi più rappresen­ tativi dei tempi nuovi e dei nuovi mezzi espressivi. E nella sala silenziosa si dispiega la melodia intonata dal fagotto: il tuo orecchio allora si tende a questa meraviglia - come un evento affascinante e nuovo, ecco la Melodia! una melodia fluente e piena di fascino, dovuto non solo al timbro del fagotto utilizzato in un registro acuto particolarmente insolito per questo strumento, ma anche per il suo andamento fluente, libero dalle quadrature e dai nodi armonici che sono normalmente imposti all'elemento melodico in ambito tonale. Si tratta appunto di una melodia "modale" (di origine popolare: di solito si allude ad essa come melodia "lituana"). Ma a questo nuovo inizio non appartiene anche la straordinaria apertura dell'Après midi d'un faune (1894) di Debussy? Lo sviluppo melodico è anche in questo caso del tutto fuori dalle maglie della tonalità. 237 - Nel Novecento vi è la riscoperta della melodia e nello stesso tempo l'istanza ricorrente che la melodia venga finalmente riscoperta. Si tratta di un'istanza che si presenta in forme e direzioni molteplici e non certo solo den­tro un'area caratterizzabile come mo­dale, ma come una tensione indotta da un momento troppo profondo dell'e­spres­sione musicale per poter essere semplicemente rimossa. - Nell'A­ria finale della Station Thermale (1993) di Fabio Vacchi, Violante dà voce alla stessa musica novecentesca per rivendicare il "canto" contro la "sourde obscurité" delle materie timbriche e rumoristiche, il canto come un modo di ritrovare "il cammino dei sogni", ed anche per riappropriarsi della libertà da quei vincoli che un luogo comune musicale d'epoca impone. Voglio cantare ancora... "Voglio ancora sperare... sperare è la nostra libertà, la nostra libertà suprema. Libera e serena, io voglio cantare ancora..." "Je veux encore espérer... /espérer est notre liberté,/notre liberté suprême./Libre et sereine,/ je veux encore chanter..." - Per quanto grandi possano essere le differenze stilistiche degli autori, e l'accento possa trovarsi altrove, alla fine può accadere, come accade in Cattedrali di silenzio (2001) di Biagio Putignano che la musica riprenda i suoi sogni nel "canto". - La melodia nasce dall'armonia, diceva Rameau; e nel Nouveau Système de musique theorique osservava che "se la nostra immaginazione ci suggerisce un canto, noi intoniamo sempre il primo suono come principale, o come Terza o come Quinta del principale a meno che certe conoscenze acquisite attraverso l'arte o attraverso l'esperienza non ci inducano a fare il contrario" (Rameau, 1726, p. 49). In realtà Rameau, mentre pretende di esporre ciò che accade se ci atteniamo alla "Mé­lodie naturelle", non faceva altro che proporre i vincoli armonici imposti dal linguaggio tonale all'andamento della melodia. Ben diversamente stanno le 238 cose per la spontaneità dei canti. Basta uno sguardo alle molteplicità degli stili dei canti delle popolazioni più diverse, sia dove vige una cultura musicale specifica, sia nell'ambito del folklore, per rendersi subito conto che se mai è vero il contrario di ciò che sostiene Rameau. La spontaneità dei canti mantiene la massima libertà in rapporto alla grandezza degli intervalli e agli andirivieni tra essi. - Come abbiamo citato Rameau, si potrebbe citare ora la frase orientata in senso opposto di Messiaen: "Primato della melodia - scrive Messiaen nella sua opera intitolata Technique de mon langage musicale - Questo è l'elemento più nobile della musica, la melodia deve essere il fine principale delle nostre ricerche. Dobbiamo lavorare sempre melodicamente".- Quanto all'armonia essa deve essere quella "vera" (veritable), cioè "quella che è voluta dalla melodia e che promana da essa" (1944, p. 22). Il rovesciamento rispetto alla frase di Rameau non poteva essere più completo. L'armonia - ovvero le strutture accordali - vengono rese dipendenti dalla melodia piuttosto che inversamente, e sarà in ogni caso il musicista a decidere che cosa possa valere come armonia in rapporto ad un regime melodico modale. - Primato della melodia e nello stesso tempo "Mélodie naturelle" in un nuovo senso. La musica popolare può diventare una grande sorgente per il rinnovamento del linguaggio musicale; così come può agire da stimolo l'enorme serbatoio della musica orientale, araba, indiana, cinese e giapponese in particolare. Ed insieme a tutto ciò si deve naturalmente rammentare l'importanza della modalità nel jazz. La crisi non avviene qui con colpi di clava - certamente. Tuttavia non si può considerare un simile orientamento come se esso derivasse da una evoluzione interna del linguaggio tonale, ma quel che più importa: nemmeno come un "ritorno" che riguarda il passato del linguaggio tonale. Accade invece che nuovi interessi musicali orientano lo sguardo altrove. L'armonia triadica, e la melodia su di essa centrata, non viene "superata" ma cessa di segnare il cammino - e l'"ambientazione" potrà essere 239 volta in direzione del ritmo. Un orientamento modale stimola una ricerca ritmica particolarmente complessa rispetto alla tendenza semplificatoria che agisce, in rapporto al problema ritmico, nel linguaggio tonale. A questo proposito è ancora Messiaen il nome che va citato in primo luogo: il suo Traité de Rhythme, de couleur et d'ornithologie va annoverato tra i capolavori della teoria novecentesca della musica, un'autentica miniera nella quale la ricerca ritmica volta nelle più diverse direzioni riconfluisce una in una continua riflessione sull'impiego creativo nell'opera dello stesso Messiaen dei materiali raccolti ed analizzati. - Anche nel caso dell'orientamento modale come nella linea di tendenza orientata verso il timbro vi è un atteggiamento verso la storicità che è nettamente diverso da quello dell'ato­nalismo e della dodecafonia. Ma mentre nella linea timbrica è importante soprattutto un presente senza tradizione, talora venato di futuro di tensioni utopiche, nel caso della tendenza modale - messo da parte il problema di una "logica evoluzione" del linguaggio tonale - si cercano impulsi creativi o­vunque si pensi di poterli trovare: il passato della modalità pretonale può benissimo essere una fonte, così come può esserlo, indifferentemente, il passato remoto delle tradizioni popolari o il passato indeterminato della musica orientale… . "Sempre il passato dunque!" - tu dirai. Il fatto è che, nel quadro di questo atteggiamento, non si tratta di una tradizione che debba essere raggiunta camminando all'in­ dietro, ma di materiali musicale viventi, di "fonti" possibili a disposizione da cui scaturisce acqua buona. Da questo punto di vista Messiaen rappresenta un caso esemplare: egli conduce uno studio analitico attentissimo della metrica greca attingendo suggestioni sul versante del ritmo; e con la stessa attenzione studia la musica indiana; e con straordinaria passione vaga tra i boschi registran­do quell'altra "mélodie naturelle" che è rappresentata dai canti degli uccelli e traendo di qui fecondi stimoli per la propria ricerca musicale. - Per Bartòk la riscoperta del patrimonio etnomusicologico un- 240 gherese significa prendere contatto con un altro linguag­gio rispetto a quello della musica colta europea, un linguaggio che ha diverse regole, diverse preferenze, diversi modi di impiego, moduli ritmici del tutto inusuali. Questo linguaggio si è mantenuto come corrente sotterranea, al di sotto della produzione musicale colta. In che modo si pone allora il problema del rapporto con la tradizione? In che modo il rapporto con la storicità? Il linguaggio che Bartok va portando alla luce appartiene al passato, ma appunto ad un passato immemorabile, privo di scansioni e di connotazioni temporali vere e proprie. Si tratta inoltre di un patrimonio collettivo in rapporto al quale non ha alcun senso proporre gerarchie di valutazione estetica. Come tale esso viene ripreso dal musicista col­to come materiale su cui esercitare la propria creatività artistica. Passato e presente - Le cose stanno talora esattamente all'inverso di quanto talvolta si vuol far credere: il legame particolarmente tenace con il passato, il bisogno di tradizione vi è là dove il passato può essere esattamente localizzato, quando si può dire che esso si trova esattamente alle nostre spalle, là dove vi è una tradizione concepita come fatta di tappe ciascuna delle quali ha la forma di un passo avanti. Un atteggiamento che può saldarsi coerentemente con un rifiuto apparentemente radicale nei confronti dello sguardo volto all'indietro, come se questo sguardo avesse necessariamen­te il senso di un regresso. Ed invece vi è anche un guardare indietro che non ha affatto questo senso, ma piuttosto quello del guardare altrove. - C'è chi sostiene, ancora oggi, che vi è una sola direzione del cammino, - avanti o indietro; che una volta che sei andato avanti e sei stato "radicale", ed hai scavato e scavato e scavato guardando sempre avanti, devi ancora scavare e scavare e scavare "sempre più radicalmente" e guardando avanti, sempre più avanti; e 241 che si lamenta che oggi non si faccia più così, come nei bei tempi andati: "Questo in fondo, Adorno, lo aveva perfettamente capito, che nella musica si trattava realmente di un gesto davvero decisivo... non solo dal punto di vista dell'espressione artistica, ma anche dal punto di vista della comunicazione umana. E allora o ritorni precipitosamente indietro - come sta facendo gran parte della musica di questi anni - ma con effetti nulli perché ormai il gesto decisivo c'è stato, per cui non può risaltare l'abisso, oppure prosegui con ancora più radicalità - e fu questa la scelta di Nono... Invece mi pare che gran parte dei giovani compositori tentino, in modo più o meno mascherato, intelligente, di fare marcia indietro; ma questo è un vicolo cieco, mentre il gesto di Nono era quello di continuare a scavare..." (M. Cacciari, 1992, in Cresta 2002, p. 1992): "... fino ai confini del non udibile, e forse oltre"- chiosa Roberto Fabbriciani (2002, p. 143), ed io sono soprattutto colpito da quel "forse oltre" che mi riempie di infantile stupore. A quando la fine di questa retorica senza fine? - Rammentiamoci della visione aerea. Dall'alto vedo molte cose. E quando siamo lassù non siamo chiaramente localizzati. Non possiamo dire di essere in un luogo preciso tra l'una e l'altra stazione. Ma questa è un'immagine per il presente. Dov'è questo presente? Credo che sia opportuno lasciare questa domanda aperta, come se ad essa potessimo dare solo una risposta oscura. Ed allora se non è chiaro il luogo in cui siamo, nemmeno può essere chiaro il luogo in cui si trova il passato. - Ciò che mi piacerebbe riuscire ad ottenere è un punto di vista da cui diventi visibile la straripante ricchezza della musica novecentesca. Essa ci propone, in rapporto alla riflessione sulla musica e dentro la musica, uno straordinario repertorio di idee sul quale conviene indugiare a lungo senza la fretta - così tipica delle vecchie avanguardie - di "andare subito oltre". In questa riflessione credo che si dovrebbe mantenere quelle che sono a 242 mio avviso due virtù eminentemente filosofiche: la curiosità e il dubbio. La curiosità ci attrae e ci stimola a saperne di più, il dubbio ci sottrae alla semplificazione, alle idee già fatte, ai luoghi comuni, spingendoci a ricercare ancora. XXIV L'orientamento verso il timbro Edgar Varèse Nuove sonorità - Volendo difendere l'idea di una via timbrica autonoma nella cosiddetta crisi del linguaggio tonale, il primo nome che va ricordato è indubbiamente quello di Edgar Varèse (1883 - 1965). Francese di origine e americano di adozione, egli rappresenta questa via in maniera esemplare. Il fatto che egli abbia operato soprattutto negli Stati Uniti è più importante di quanto a tutta prima si possa ritenere. Negli Stati Uniti i problemi della continuità storica sono assai meno sentiti che in Europa e la composizione sociale stabilisce una sorta di apertura di principio verso le esperienze culturali più diverse. Inoltre gli Stati Uniti sono anche il paese che rappresenta e­minentemente il vertiginoso sviluppo scientifico e tecnologico del secolo ventesimo. - Ora, basta riferire alcune dichiarazioni esplicite di Varèse per delineare con chiarezza il terreno sul quale ci troviamo: anzitutto l'accento che cade sul suono, e precisamente sui suoni nuovi, sui suoni "mai sentiti prima". "Nel mio lavoro ho sempre sentito il bisogno di nuovi mezzi espressivi. Mi rifiuto di limitarmi a suoni già sentiti. Quello che cerco sono nuovi mezzi meccanici che siano in grado di mettersi al servizio di qualsiasi espressione del pensiero e di sostenerla"; la scienza, proprio attraverso il pro- 243 gresso nelle tecnologie di produzione del suono può apportare alla musica una "linfa di giovinezza" (Varèse, 1985, p. 37). Queste frasi pronunciate allora, nel 1916, erano quasi pura utopia. Theremin suona il theremin Più tardi egli segue con particolare attenzione i tentativi di produrre strumenti per la produzione del suono, e collabora anche con Theremin - l'ideatore di uno delle tante macchine per suonare che ebbero vita breve, ma che fa certo parte della storia della musica elettronica. Il suo Poème électronique, richiestogli da Le Corbusier per il progetto del padiglione Philips all'esposizione di Bruxelles è del 1958. Varèse, Partitura del Poème éelectronique ultima pagina 244 Potenza del suono. Un'arte che prende allo stomaco - È appena il caso di dire che queste istanze si associano con l'idea dell'antiquatezza degli strumenti dell'orchestra europea tradizionale. Una delle raccomandazioni di Varèse, con tanto di punto esclamativo è "Dimenticate il pianoforte!". Il violino è uno strumento del XVIII secolo, ed è ridicolmente inadeguato. Lo è soprattutto per la sua vocina sottile sottile. Questo è un rilievo che attiene tra l'altro alle scelte espressive di Varèse. Il suono deve essere potente. Egli dice addirittura talvolta - deve colpire nelle viscere, deve essere un pugno nello stomaco. Un'arte "che vi prenda allo stomaco" è alla lettera l'aspirazione di Varèse compositore (1985, p. 21, p. 42 e p. 19). - Un suono che "prende allo stomaco" ci rammenta subito il suono delle nostre discoteche; non importa quanto sia lontano dall'epoca di Varèse e dai suoi pensieri, e soprattutto dalla sua musica. Ma per quanto riguarda questa faccenda dell'in­tensità del suono, la massima possibile, dobbiamo sapere senza infingimenti che essa nasce all'in­terno di queste riflessioni. È come se l'enfasi sul timbro dovesse essere sostenuta anche dal volume, dalla "corposità" del suono data dall'in­tensità. Elogio del macchinismo - Dunque ben vengano le attrezzature di amplificazione che consentono di regolare a piacere il volume e soprattutto al di sopra di quanto possano fare gli strumenti di una volta. Ed eccoci dunque all'elogio del macchinismo. Mentre nell'in­dirizzo atonale-dodecafonico non si può trovare nulla di simile, l'esaltazione della scienza, della tecnologia, della macchina è invece presente nella via "timbrica", anche se con sfumature diverse. 245 - In Varèse il macchinismo è nettamente pronunciato, nettamente polemico. L'interprete è destinato a sparire: "una macchina prenderà il posto degli interpreti, e sarà un vantaggio" (p. 68). L'interprete viene letteralmente coperto di insulti: è un eunuco. E' un prisma deformante. L'interprete "scom­parirà come avvenne in letteratura per il cantastorie dopo l'invenzione della stampa" (p. 131). L'orchestra romantica verrà sostituita da "orchestre elettroniche" (p. 76). (A quanto mi sembra di capire oggi, qui Varèse non fu un buon profeta). - Nello stesso tempo bisogna prestare attenzione a cogliere singolari sfumature e sottili ambiguità in atteggiamenti di questo tipo. L'esaltazione della scienza e della macchina si accompagna a singolari propensioni che non sembrano in coerenza con questa esaltazione. Fra le pieghe dei discorsi di questo grande musicista ed ingegnere mancato si affacciano simpatie apparentemente insospettabili per l'esoterismo, ad esempio per Paracelso ed in generale per le matematiche esoteriche (cfr. ad es. p. 59 e p. 162) - e queste simpatie sono sicuramente connesse con un modo di avvicinarsi al suono con il senso di un approssimarsi ad un mistero talvolta impenetrabile: "Anche il processo di composizione musicale è scoperta di arcani: i segreti nascosti nei suoni e nei rumori" (p. 59). "Arcana" è il titolo di una composizione di Varèse. - La valutazione del jazz da parte di Varèse era certo inusuale per un musicista europeo: il jazz viene elogiato per le sonorità di cui è capace, per la forte presenza di una componente ritmica, per la sua estraneit�� alla tradizione europea classica. Contro la melodia - Da Varèse possiamo trarre alcune violente affermazioni contro il momento della melodia nella musica. Queste affermazioni sono direttamente connesse con un ideale della musica che vede 246 nelle percussioni gli strumenti che sono soprattutto in grado di realizzarlo. "Le melodie non sono altro che pettegolezzi musicali" (p. 101). Esse fanno dunque chiacchiere irrilevanti; raccontano di piccole cose, blandiscono l'ascol­tatore interessandolo ad aneddoti insignificanti. Ed è proprio tutto questo che le percussioni non fanno. "Ho lavorato con le percussioni perché non volevo strumenti che insinuassero aneddoti melodici mentre io mi stavo concentrando sul ritmo puro" (p. 101). "Con la melodia si insinua l'aneddoto"; "le percussioni non sanno raccontare una storia" (p. 107). Di tutto ciò le composizioni di Varèse forniscono una straordinaria esemplificazione musicale. Pierre Schaeffer Musicista o ricercatore? - "In realtà io non mi considero un vero musicista. Io sono presente in un'enciclopedia come musicista. La cosa mi fa ridere. Un buon ricercatore - ecco che cosa sono". Così dice Pierre Schaeffer (1910 - 1995) in un'intervista realizzata da Tim Hodgkinson (1987, p. 9). Egli studia ingegneria e si occupa in seguito di radiofonia, seguendo da vicino le innovazioni tecniche legate a questo mezzo, e in particolare alle tecniche di registrazione e di riproduzione discografica e su nastro. Il disco che si inceppa - Schaeffer stesso narra un piccolo incidente che lo affascinò e che in certo senso decise il suo futuro. Un giorno con quegli strumenti rudimentali che oggi sopravvivono forse nei musei e che si chiamavano fonografi e poi giradischi gli accadde che un disco si inceppò ripetendo ininterrottamente lo stesso suono. Che cosa si verifica uditivamente quando una cosa simile accade? La risposta di Schaeffer in proposito è molto acuta: il suono 247 viene sottratto al contesto in cui è stato inserito, cosicché un piccolo frammento che sarebbe stato altrimenti risucchiato nel flusso sonoro di appartenenza, viene posto sotto una lente di ingrandimento uditivo, attraendo fortemente su di sé il nostro ascolto. - Così Schaeffer divenne anzitutto un ascoltatore di suoni; e poi ricercatore e musicista insieme - sia pure non, a suo dire, "un vero musicista". Ma questa indeterminatezza tra ricercatore e musicista non è forse un tratto a sua volta significativo? In ogni caso, divenne vivace teorico di quella che chiamò (siamo nel 1949) "musica concreta", che certamente appartiene in modo eminente alla tendenza a mettere il timbro al centro degli interessi compositivi. Dimensione planetaria della musica - Ciò che io vorrei mettere in evidenza fin dall'inizio in Schaeffer è il senso di una dimensione planetaria della musica, nella quale la musica di tradizione europea deve essere considerata insieme alla musica di altre civiltà e culture, e questa stessa circostanza spinge a ricercare - insieme alle innovazioni tecniche della modernità che interessano il suono - nuovi modi di approccio sia nella pratica musicale che nella teoria. "Io ritenevo che la musica dovesse essere scovata in tutti gli angoli del pianeta" - dice nell'intervista a Hodgkinson (1987, p. 9). E non di rado cita negli esempi altre tradizioni musicali. L'esigenza di un nuovo "solfeggio" - Il nostro "solfeggio" dice Schaeffer - risulta insufficiente e inadeguato, troppo povero ed impostato in modo unilaterale: in primo luogo è necessario un nuovo "solfeggio dell'oggetto sonoro". Questa parola - "solfeggio" - ha poco in comune 248 con il suo impiego usuale, ed allude essenzialmente all'esi­gen­za teorica di individuare nuovi criteri di classificazione e nuovi metodi di approccio all'universo dei suoni. Questa impresa arriva a concretizzarsi in un'opera di grandi dimensioni che è significativamente intitolata Traité des objets musicaux (1966). In realtà questo libro fu formalmente onorato da qualche elogio, ma fu letto poco e male: la ragione non sta soltanto nel fatto che la direzione "concretista" sul terreno musicale risultava in Francia nettamente perdente rispetto a quella "strut­turalista"; ma anche nel fatto che si tratta di un'o­pera ricchissima di idee, ma piuttosto malsicura dal pun­to di vista teorico e metodico, e forse anche realizzata non troppo felicemente dal punto di vista dell'organizzazione del materiale. Vi è poi il problema, che certamente ha pesato moltissimo, della rapida evoluzione della tecnica. La sperimentazione di Schaef­fer come del resto la pratica compositiva dei musicisti di quegli anni si poteva avvalere di un apparato strumentale che oggi giudicheremmo assai rozzo e che divenne rapidamen­te obsoleto: nastro magnetico ed un paio di forbici per quanto riguarda il materiale preregistrato: filtri di frequenza e modulatori per quanto riguarda la manipolazione elet­tronica. "Come ho sperperato la mia vita" - La prevalenza in ambiente francese dello "strutturalismo" in ambito musicale fece sì che ben presto Schaeffer fosse considerato "un cane morto". Invece in ciò che si dice oggi di lui non vi è più nemmeno l'ombra delle critiche, talvolta saccenti, che molti gli rivolsero allora, mentre vi è il riconoscimento sia della sua funzione pionieristica nell'ambito della musica elettroacustica, sia l'apertura del problema "dell'utilizzo dei mezzi di registrazione e riproduzione a fini creativi", al punto da contrassegnare come data storica l'anno 1948 quando Radio France trasmise i suoi Cinq études de bruits (Cfr. L. Camil­leri, 2005, p. 10). Tuttavia anche questi giusti riconoscimenti non debbono avere il caratte- 249 re di "consacrazioni" che tolgono di mezzo i contrasti d'epoca tra atteggiamenti dif­ferenti così come del resto le fluttuazioni di giudizio e di valutazione che pur si verificavano all'interno della stessa direzione di ricerca. - Schaeffer dovrebbe essere ricordato anche per la franchezza in cui alla fine egli dichiara forfait: nell'intervista del 1987 non esita a valutare negativamente l'intera propria opera e con radicale pessimismo la musica successiva agli anni cinquanta: quello che egli chiamava con toni sprezzanti il "doremi", ora lo chiama ancora così ma con una sorta di pessimistica rassegnazione: "Vedendo che nessuno sapeva cosa fare con il doremi, forse noi dovevamo guardare in un'altra direzione… Sfortunatamente ci sono voluti quaranta anni per concludere che nulla è possibile al di fuori del doremi… in altri termini, ho sperperato la mia vita (I wasted my life)". - Alla domanda dell'intervistatore che chiede in che modo si possa oggi restare musicisti, Schaeffer risponde con il verso di Dante: Lasciate ogni speranza o voi che entrate. Forse si può parafrasare così: la musica è un inferno. Se il musicista ha deciso di entrare in questo inferno, allora lasci ogni speranza di realizzare una musica nuova… e si accontenti del doremi. - "Se voi entrate, se voi desiderate fare musica, dovete abbandonare la speranza. Di che? Di fare una musica nuova." - Non credo affatto che questi esiti siano una pura faccenda personale di Schaeffer. Di fronte alle esposizioni diventate sempre più aproblematiche secondo cui l'intero sviluppo procederebbe trionfalmente di conquista in conquista, affermazioni come queste, mostrando il dubbio che serpeggia all'in­ter­no della musica novecentesca, ci rammentano la profonda inquietudine che attraversa i suoi percorsi. 250 Oggetto sonoro e oggetto musicale - Questo dubbio assume spesso in Schaeffer la forma di una domanda che resta irrisolta e che costantemente si rinnova sulla linea evanescente che separa l'oggetto sonoro dall'oggetto musicale. Nella intervista del 1987 si ripete più di una volta che "Non dobbiamo chiamare musica cose che sono semplicemente strutture sonore…". Il Trattato (1966) comincia con gli ���oggetti sonori", ma si propone di arrivare agli "oggetti musicali" - anzi è quest'ultima espressione che compare nel titolo. - Peraltro io sospetto che la questione sia malposta. Quella distinzione non può essere infatti una distinzione oggettiva, come se essa risiedesse nei materiali utilizzati. La prima decisione, che spetta al musicista, riguarda proprio questi materiali - ed in rapporto ad essi non possono esservi vincoli di principio. Fatto questo passo, altre decisioni seguiranno intorno ai modi del loro utilizzo nella formazione dell'opera: cosicché alla fine tutti i problemi si concentreranno sull'ap­prez­­zamento della validità dell'opera, apprezzamento che, almeno per noi, significa svariate cose, nel fondo relativamente semplici: se, ad esempio, saremmo disposti a riascoltarla, se riteniamo che intorno ad essa ci sia da dire qualcosa, molto o poco, se vi siano motivi per cui la troviamo attraente, ecc. Vi sarebbe se mai da chiedersi come mai questa distinzione, una volta fatto il "salto" nel rumore, diventi per Schaeffer un problema. Ciò dipende, io credo, dalla natura stessa del progetto che egli si propone. Fenomenologia in Schaeffer - Vi sono almeno due motivi che potrebbero suggerire l'impiego del termine di fenomenologia per caratterizzare la ricerca di Schaeffer. Il primo motivo sta nel fatto che egli è for­temente inte- 251 ressato ad un'analisi dei fenomeni sonori come fenomeni specificamente uditivi in un orientamento che ha di mira i problemi musicali. Rammentiamo che egli deriva da studi di ingegneria e di acustica, e tuttavia è assai poco propenso ad adottare un punto di vista oggettivistico che indubbiamente una formazione tecnico-scientifica potrebbe suggerire. Si può dire anzi che nelle premesse della sua impostazione vi sia il riconoscimento delle insufficienze di un approccio puramente fisico-acustico. Egli si chiede infatti anzitutto se l'acustica, e dunque i concetti fondamentali di descrizione del suono che possiamo trarre da essa, siano in grado di rendere conto di tutti i fenomeni percettivi rilevanti sotto il profilo musicale. La sua risposta sta tutta nel rilievo secondo cui non vi è un rapporto semplice di correlazione tra un fatto fisico-acustico e il fenomeno percepito corrispondente. - Per fare un esempio assai semplice: una variazione di frequenza non determina necessariamente la variazione corrispondente nella percezione dell'altezza per il fatto che nella percezione dell'altezza possono influire anche altri fattori oltre la frequenza, come il timbro, la regione sonora, l'intensità, o la durata. Così mentre da un punto di vista oggettivo posso abbreviare a piacere la durata di un suono e non ho nessuna ragione di ritenere che la frequenza cambi per questo motivo, dal punto di vista percettivo le cose stanno in modo nettamente diverso, dal momento che al di là di un certo valore di soglia la durata del suono può essere così breve da rendere inapprezzabile l'altezza, e dunque il suono subisce una modificazione dal punto di vista qualitativo e percettivo, assumendo il carattere di un un impulso di altezza indeterminata. Schaeffer passa in rassegna casi simili con una grande passione osservativa, orientata dall'intento di entrare nelle pieghe più riposte dei fenomeni sonori e dell'azione dei loro parametri acustici fondamentali rispetto ai risultati che la loro variazione induce sul piano percettivo. 252 L'ascolto ridotto - Ma vi è anche un secondo motivo più significativo, che implica un richiamo molto esplicito ad un concetto fondamentale della fenomenologia husserliana, che viene peraltro integrato in un'inter­pretazione personale e ricca di implicazioni. Si tratta della nozione di "ascolto ridotto" (écoute réduite). La tenda di Pitagora - Nell'introdurre il tema dell'ascolto ridotto Schaeffer rammenta una delle tante belle leggende che circondano il nome di Pitagora - in certo senso il personaggio che ha fornito per secoli l'immagine per eccellenza della ricerca intorno ai segreti dell'universo sonoro. Pitagora, rammenta Schaeffer, parlava ai suoi discepoli nascosto da una tenda: e questa aveva lo scopo di far concentrare gli ascoltatori sui significati puri trasmessi dalla voce come tale. Né le fattezze di Pitagora, né il suo gestire, né dettagli estranei alla parola stessa avrebbero in questo modo distratto la loro attenzione. La tenda aveva la funzione di togliere ("ridurre") vincoli inessenziali alla parola. - Si tratta di una narrazione ricca di senso, benché si possa dubitare che l'interpretazione proposta sia realmente corretta. Molto probabilmente quella narrazione intende sottolineare il carattere iniziatico dell'insegnamento di Pitagora: gli allievi di fronte alla tenda erano gli allievi più giovani, che compivano ancora i primi passi, e che non potevano ancora essere ammessi alla presenza del maestro. Prima o poi, l'allievo cresciuto nella dottrina e nell'ascesi, sarebbe stato ammesso al di là della tenda e gli sarebbe così stato concesso di vedere il mae­stro. Se così fosse la lettura che di questa leggenda dà Schaef­­fer sarebbe inevitabilmente compromessa. Eppure si tratta di una felice imprecisione. Facendo riferimento a Pitagora, egli manifesta l'idea di un ritorno 253 alle origini della teoria musicale, e nello stesso tempo ritrova in queste origini l'inte­resse per "il suono dietro la tenda" che viene da lui interpretato non tanto per i significati di cui è portatore e che rinviano al di là di esso, ma come il suono a cui vengono tolti tutti i legami estranei alla sua materia percettiva, dunque al suono come tale: il suono ascoltato così viene detto da Schaeffer acusma, ancora con un ricordo pitagorico (a sua volta, a voler essere un po' pedanti, un poco dubbio dal momento che nel­l'am­bito del pitagorismo venivano chiamati "acusmatici" coloro che si pretendevano seguaci dell'in­se­gna­mento orale di Pitagora e quindi nel termine era strettamente implicata la "semantica" dei suoni e non i suoni 'ridotti' ). Ascolto ridotto e riduzione fenomenologica - L'espressione "ascolto ridotto" ci riporta alla "riduzione fenomenologica", e questo riferimento è esplicitamente rammentato nel Trattato. Una considerazione fenomenologica bada anzitutto al modo di apparire, e perciò possiamo dire che essa presuppone una sorta di "messa in parentesi", di "riduzione" di tutto ciò che sappiamo della cosa, ma che non rientra nel suo modo di apparire. Già in questa formulazione si avverte subito che l'ascolto ridotto di Schaeffer non coincide nel suo senso esattamente con l'idea di riduzione fenomenologica. Infatti secondo Schaeffer nell'ascolto ridotto vengono a cadere tutti i legami causali e tutti gli aspetti connessi ad essi. Invece si possono citare esempi chiari in cui lo stesso nesso causale appartiene proprio al modo di apparire, come quando vediamo una mano che pizzica una corda di chitarra e udiamo il suono corrispondente. Questo legame è un legame fenomenologico, ovvero esso "appare" esattamente come il suo­no stesso. Nell'idea di ascolto ridotto vi è comunque un motivo di grande importanza che ci riporta alle tematiche fenomenologiche. Il suono fenomenologicamente considerato deve essere sottratto alla catena di quei riferimenti che lo riducono a 254 segnale di un evento della realtà extramusicale. Contesto, motivazioni e conseguenze del tema dell'ascolto ridotto - Il tema dell'ascolto ridotto rappresenta per Schaeffer il punto focale per far valere alcune significative istanze. Intanto si rivendica un tema comune a tutta la tendenza "timbrica": l'estensione del­l'ambito dei materiali sonori a disposizione del musicista, rifiutando peraltro nettamente il melodizzare con i rumori, l'impiego del materiale nuovo avendo ancora in mente "note" e "altezze", quel doremi che nell'intervista del­l'87 Schaeffer considera con disprezzo e nostalgia nello stesso tempo. Un brutale esempio di questo rifiuto è il cane lirico (§ 71.4): "Così il rumore bussa alla porta della musica, la fa cigolare, gemere. Di qui l'ambizione di addomesticare questi rumori, di imporre ad essi le nostre scale; di qui l'idea, apparentemente logica ma che si rivelerà stupida, di far salire la scala a qualunque cosa. Cosicché questo cane…. diventa subito un cane sapiente…" Rifiuto degli aneddoti - Non meno netto è il rifiuto riguardante l'impiego di rumori che mantengano il riferimento allo strumento o all'ap­parato generatore, e in particolare alla causa del suono ed al contesto reale in cui agisce questa causa. Occorre in generale, evitare un rinvio dal suono all'aneddoto (anedocte) che lo riguarda - spiega Schaeffer con una formulazione molto efficace. L'aneddoto è inteso qui come "piccola storia insignificante": io attendo un amico che deve arrivare alla dieci, ed alle dieci suona il campanello della mia porta, e si tratta proprio dell'amico atteso. Questo è la piccola storia insignificante che racconto in rapporto a quel suono di 255 campanello che scom­pare in essa. Ma l'aneddoto vi può essere anche nel puro e semplice riconoscimento della sorgente del suono, dello strumento emittente. Nell'esemplificazione proposta da Schaeffer (§ 66.2a), egli propone due suoni che hanno tra loro delle relazioni per quanto riguarda la compagine degli armonici di cui sono fatti - questo il commento di Schaeffer: ma veniamo ora informati che in realtà si tratta di due suoni manipolati, il primo derivante da una lamiera percossa, il secondo da un cluster pianistico, di cui si cela l'origine manipolando l'attacco dei suoni. Ma che cosa mai aggiunge questa informazione, che potrebbe essere data verbalmente? Essa non solo non aggiunge nulla, ma toglie qualcosa. Toglie interesse ai suoni (66.2). L'aspetto "aneddotico", ovvero puramente psicologico o soggettivo, sta nell'intenzione di produrre attraverso il pianoforte un suono metallico, come quello di una lamiera percossa, ma questa intenzione appartiene alla piccola storia indifferente che conduce a quei suoni, mentre ciò che interessa sono questi stessi suoni come tali, con le loro relazioni interne che possono essere messe a frutto musicalmente. - Si potrebbe citare in proposito anche un altro esempio che in realtà viene rammentato da Schaeffer in altro contesto e con altri scopi, soprattutto come un esempio di complessità teorica e pratica tratto da civiltà musicali diverse dalla nostra. Si tratta di un esempio di verbalizzazione di strutture ritmiche via via più complesse da parte di un suonatore di tabla. Le parole pronunciate dal suonatore di tabla fanno parte di un 256 metodo di memorizzazione delle strutture ritmiche. Questo metodo poggia sull'onomatopea che risulta in taluni casi realmente sorprendente. Possiamo tener conto di tutto ciò, ma possiamo anche considerare le due sequenze come sequenze sonore pure e semplici che hanno determinate affinità, prescindendo dunque da motivazioni pratiche che rendono aned­doticamente conto di esse. - È inoltre importante un'altra presa di posizione di Schaeffer, coerente con la tematica dell'ascolto ridotto: un suono ripreso dal vivo con un registratore deve essere tecnicamente ma­ni­polato, proprio per rendere irriconoscibile le condizioni della ripresa e dunque l'origine del suono e la sua fonte emittente. Vi fu all'epoca una pesante polemica contro la "musica concreta" da parte di musicisti che cominciavano a praticare la sintesi elettronica del suono, che era giocata proprio contro gli aspetti piattamente realistici della musica concreta, nella quale si vedeva spesso una insulsa imitazione del reale. Da quella presa di posizione risulta del tutto evidente l'incon­sistenza di questa polemica. Schaeffer riteneva del tutto vuota l'opposizione tra musica elettronica e musica concreta: in questione non è per nulla la differenza tra suono sintetico e suono naturale. Il puro e semplice fatto di essere registrato non è cer­to in grado di conferire al suono una caratterizzazione "rea­listica": quando ciò accade si farà bene ad operare manipolazioni in modo da toglierla di mezzo. I suoni tratti da una registrazione possono essere tanto lontani dall' "aned­doto na­tu­ralista" quanto quelli prodotti elettronicamente. L'oppo­sizione tra musica concreta e musica elettronica - definite entrambe come due "generalizzazioni del musicale" - è un'op­posizione "sterile" (§ 72.2), e peraltro né l'una né l'altra, secondo Schaeffer, hanno raggiunto il piano dell'espressione mu­ sicale vera e propria, ma restano solo tecniche di produzione e di impiego del suono. È possibile che Schaeffer man­tenesse una preferenza per il suono registrato e manipolato piut­tosto che 257 per il suono integralmente sintetico, per nulla affatto in forza di un'intenzione "realistica", ma per via della maggiore ricchezza timbrica che era possibile ottenere da suoni "reali" piuttosto che da suoni sintetici - più precisamente: dai suoni sintetici prevalentemente producibili intorno agli anni sessanta. - Anche questo tema è naturalmente strettamente connesso con il modo in cui interviene lo spunto filosofico della riduzione fenomenologica reinterpretato nel contesto dei problemi dell'ascolto ridotto. Suggestivamente Schaeffer ritiene di poter indicare nel nastro magnetico qualcosa di simile alla tenda pitagorica: esso nasconde la fonte, non la rivela: e così " esso si avvia ormai a giocare il ruolo della tenda di Pitagora che mascherava l'oratore, nascondeva il suo gesto, non faceva altro che far emergere il suo senso"(§ 73.4). È singolare tuttavia che Schaeffer non richiami l'attenzione sul fatto che un "ascolto ridotto" può richiedere, come si è spiegato or ora, che il suono stesso venga concretamente sottoposto a operazioni concrete di "taglio", cosicché si tratta anche di "ridurre" il suono stesso. Come si vedrà anzi questa è l'operazione fondamentale che dovrà alla fine essere condotta. Morfologia e tipologia degli oggetti sonori - Queste mosse preliminari sono orientate verso un progetto di ricerca che Schaeffer considera il suo scopo principale. Egli si propone l'obbiettivo di realizzare una classificazione, ovvero una morfologia ed una tipologia degli oggetti sonori in quanto si prestano ad una utilizzazione musicale. Morfologia e tipologia indicano in Schaeffer due compiti distinti: la prima si occupa delle caratteristiche e dei tratti dell'oggetto sonoro che consentono una qualche individuazione sufficientemente determinata; la seconda si dovrebbe invece proporre di confron­tare gli oggetti sonori in modo da formulare dei criteri generali che consen- 258 tano di subordinare un determinato oggetto sonoro ad un tipo. Limiti della consueta trattazione del timbro - La discussione avviata da Schaeffer riguarda anzitutto la nozione di timbro. Ciò che Schaeffer imputa al "solfeggio" tradizionale è soprattutto di non saper venire a capo del timbro. Il timbro è lasciato all'esempio, ed è qualificato con riferimento allo strumento. Di fronte alla carenza della teoria e dell'analisi, ci si orienta così in primo luogo in direzione di una classificazione dei modi strumentali di emissione dei suoni da parte di strumenti musicali riconosciuti. Essa potrà poi servire come punto di riferimento per una classificazione sommaria dei timbri. - Occorre invece prendere atto dell'apertura del musicale al sonoro in genere: di conseguenza gli strumenti musicali impiegati dalla tradizione non hanno da questo punto di vista la funzione orientativa che potevano avere in precedenza. Per di più le possibili manipolazioni a cui può essere sottoposto un suono può far sì che due fonti eterogenee possano dar luogo a fenomeni sonori simili o inversamente che due fonti omogenee possano dar luogo a fenomeni sonori fortemente contrastanti. E naturalmente può anche accadere che una stessa fonte dia luogo a fenomeni sonori del tutto eterogenei. Necessità di un nuovo modo di approccio alla tematica del timbro - Schaeffer propone a questo proposito (§ 73) l'ascolto oggetti sonori che sono prodotti - come veniamo informati - dalla stessa lamiera, variamente stimolata. I suoni sono stati poi a loro volta manipolati. È evidente che non ci darebbe nessuna informazione di qualche significato una classificazione fondata sulla fonte. Occorre dunque soprattutto indugiare sul modo in cui il 259 suono risuona, quindi sugli aspetti fenomenologici. Anche le pratiche di produzione concreta del suono - ad esempio il pizzicare sulle corde oppure lo strofinarle con l'archetto - potrebbero essere messe da parte in rapporto alla nuova forma che assume il problema. Forma del transitorio d'attacco e timbro - Nello studio delle differenze e delle analogie timbriche, Schaeffer si imbatte nel problema dell'importanza dei modi dell'attacco per la determinazione della timbrica particolare di un determinato strumento. Questa importanza naturalmente non è difficile da sospettare: la qualità timbrica del pianoforte deve certamente essere debitrice in larga parte al modo concreto in cui il suono viene generato, e quindi al fatto che io percuoto il tasto e il martelletto percuote la corda. Nella fase iniziale del suono questo elemento percussivo si fa sentire molto nettamente. Potrei allora essere indotto a ritenere che, qualora venisse in qualche modo "tagliata" la fase iniziale di un suono di un pianoforte, l'elemento percussivo non sarebbe più avvertibile e potrei supporre che il suono non sia più rico­noscibile come suono pianistico. Dovrebbe invece udirsi solo la coda del suono e quindi qualcosa di simile ad un suono "flautato". Di fronte a ciò la prima domanda che ci dobbiamo porre è: che cosa si intende dire parlando di attacco percussivo? Dobbiamo forse in proposito pensare a null'altro che al dito che si abbassa sul pianoforte e lo percuote ed al martelletto che percuote la corda? Evidentemente no. Possiamo invece por­re questa domanda come una domanda "morfologica" - interrogandoci sulla forma che ha l'attacco di un suono pianistico, piuttosto che sul modo concreto in cui è stato prodotto. Questo mutamento di impostazione del problema è assai interessante anche per ragioni di ordine generale. In esso si invita non soltanto ad "osservare" il fenomeno, ma a metterlo alla 260 prova non esitando a manipolarlo attraverso metodi e processi di costruzione e ricostruzione. Siamo perciò invitati a verificare che cosa accade "tagliando" la parte iniziale di un suono pianistico - cosa che allora si poteva fare tagliando con le forbici la porzione corrispondente del nastro su cui il suono era registrato e che oggi è invece possibile fare su una immagine della forma d'onda al calcolatore, affidando interamente al calcolatore le operazioni corrispondenti: ci rendiamo conto allora immediatamente che l'effetto percussivo non viene affatto meno, e non subentra per nulla qualcosa di simile ad un suono flautato. - Nei materiali annessi alla sua opera (§ 42 sgg.), Schaeffer propone il caso del suono del pianoforte. Ora, con un editor di files sonori si può tagliare ad esempio i primi cinquanta millesimi del suono, e non accade praticamente nulla. Allora proseguiamo nei tagli, ad esempio tagliamo 100 millesimi e poi 200, 300, 600 millesimi di secondo. Così facendo l'unica differenza che otteniamo sembra essere che ad ogni taglio il suono diventa più breve e progressivamente più debole. Invece l'aspetto percussivo sembra essere inerente a qualunque punto del suono, e addirittura non è venuto meno quando siamo prossimi al suo termine. Risultato che non solo contraddice la supposizione iniziale, ma che sembra paradossale: come è possibile che l'aspetto per­cussivo permanga anche quando è stata soppressa interamente la parte del suono generata dall'atto percussivo concreto? Per renderci conto del fatto che l'intera questione è stata falsamente impostata dobbiamo appunto "mettere da parte" le cause, e quindi dimenticarci della dita sul pianoforte, ragionando piuttosto in termini "morfologici". Il paradosso vie­ne allora del tutto meno ed è invece la nostra ipotesi che mostra una ragionevolezza solo apparente. Non appena ci interroghiamo sulla forma dell'attacco del suono pianistico, ci rendiamo conto del fatto che il suono del pianoforte cresce con estrema rapidità nella fase 261 iniziale per decrescere in modo relativamente lento rispetto a questo inizio nelle fasi successive. Il calcolatore di oggi fornisce uno straordinario ausilio alla fenomenologia consentendoci una costruzione del fenomeno ed operando sulla sua immagine persino nel caso del suono: Sull'asse delle ordinate vi è l'ampiezza (intensità del suono), su quello delle ascisse la durata. Si vede dunque dalla figura che in effetti vi è un'ascesa rapidissima dal silenzio al suono e poi una discesa sempre più lenta nelle fasi successive. Nella figura si possono vedere anche in quali punti è stato tagliato il suono nei casi precedenti: e soprattutto si nota subito che il taglio ricrea in realtà la stessa situazione dell'inizio - rinnovando l'ef­fetto percussivo, come mostrano le immagini seguenti. 100 200 300 600 262 Se poniamo le cose in questo modo, ci liberiamo dall'e­ quivoco implicito nella nostra supposizione precedente ed ora il risultato non ci sorprende affatto e ci sembra comprensibile e coerente. Se a questo punto proviamo a manipolare il suono non tanto "tagliando" la fase iniziale ma mutando l'inviluppo ovvero la forma che assume la dinamica nella fase iniziale, ammorbidendola, cioè stabilendo un'ascesa più lenta dal piano al forte, l'effetto di suono "flautato" risulta immediatamente: La forma modificata è la seguente: Se confrontiamo questa forma a quella dell'attacco del suono di un flauto ne cogliamo subito l'affinità. - In questa indagine intanto Schaeffer ha fatto una scoperta significativa. Nel fenomeno del timbro - per lo più in quell'epoca riferito unilateralmente alla struttura degli armonici - il profilo dinamico del transitorio d'attacco può risultare determinante: "Ecco che la dinamica… rischia di diventare uno dei fattori del timbro, segreto della materia sonora"; "Contrariamente a ciò che 263 viene universalmente professato, la materia armonica non è il solo criterio del timbro strumentale; spesso la forma dinamica è ancora più caratteristica" (§ 52.2). - L'esempio di un suono pianistico che assume carattere di flautato ci rende preparati alla possibilità di rimescolare fortemente le carte tra gli strumenti. In proposito, nella conversazione annessa al Trattato, Schaeffer propone numerosi esem­pi in cui strumenti differenti producono lo stesso suono; oppure casi in cui si mostra come sia possibile modellare suoni secondo prestiti singolari - ad esempio un clavicembalo prendendo suoni da un fagotto; ed ancora suoni, apparentemente prodotti da uno strumento singolo, che derivano invece dalla manipolazione di suoni prodotti da strumenti differenti. Questi interessi per la manipolazione di campioni registrati così come per la stessa sintesi del suono emergono vivacemente nel contesto della ricerca di Schaeffer ed occorre sottolineare che oggi, abituati come siamo ad apparati di produzione sintetica del suono di ben altro livello, certi aspetti ci potrebbero apparire ovvi - mentre all'epoca in cui operavano Schaeffer e i suoi collaboratori non lo erano in nessun modo. La classificazione degli oggetti sonori e il modello linguistico - Il proposito principale di Schaeffer resta comunque quello di realizzare una classificazione degli "oggetti sonori". Di questo progetto vogliamo sbirciare i primi passi. Seguendo Schaef­fer, si prenderanno le mosse dal fatto che ogni evento sonoro sarà in generale integrato in catene di altri eventi sonori ricevendo così coerenza e contesto. Catene particolarmente importanti sono quelle del linguaggio umano, del linguaggio animale, della musica e dei rumori. Si deve notare che la categoria del rumore non viene senz'altro cancellata da Schaeffer, per motivi che sono strettamente inerenti alla tematica dell'ascolto ridotto. Il rumore 264 resta tale finché non si opera la sua riduzione rispetto ai significati di cui è portatore. Questo tema entra qui in modo nuovo a determinare il percorso iniziale in vista di una classificazione. Nell'esempio proposto (§ 82.1) sono presenti sequenze verbali, esclamazioni, ma anche frasi complete. Seguono suoni emessi da uccelli, un frammento di un brano musicale ed una sequenza di rumori. In rapporto a quest'ultima ecco ripresentarsi l'aneddoto: anche se non si distinguono chiaramente il senso delle parole e delle frasi, tuttavia si avverte l'appartenenza dell'insieme dei rumori iniziali alla catena del linguaggio umano. Seguono poi rumori immediatamente intesi come la pressione dell'acceleratore ed un auto che parte velocemente, incontra un ostacolo, viene suonato il clacson, frenata e urto inevitabile con fracasso di vetri infranti. Una piccola storia insignificante che avviene ogni giorno! Che essa possa essere narrata a partire da quella sequenza sonora dipende da due fattori, entrambi indispensabili: da un lato nell'apprensione uditiva vi è senz'altro il riferimento all'evento che lo produce, di cui dunque il rumore appare co­me mediatore, dall'altro vi è la "struttura" complessiva - ovvero la contestualizzazione dei rumori fra loro che stabiliscono un nesso coerente tra un evento rumoristico e l'altro. La relazione al contesto è di fondamentale importanza per il realizzarsi della prima condizione: il semplice rumore dell'acce­lerazione del motore non verrebbe forse identificato come tale se non fosse seguito da rumori che, per così dire, consentono di stabilire una conferma a ritroso. Questa conferma tuttavia può avvenire soltanto se io posso almeno sospettare fin dal­l'inizio di essere alla presenza del rumore di un motore in accelerazione. Analogamente, una frase man mano che si sviluppa conferma retroattivamente le attese di significati che si sviluppano nel suo decorso, ma è necessario che queste attese vengano in esso proposte. Si avverte qui che il modello del linguaggio verbale nelle questioni della musica che sembrava essere messo da parte in questo modo di approccio, ricomincia a tenere banco. In effetti, 265 non meno forte della componente fenomenologica è, in Schaeffer, quella strutturalistico-semiologico. Di qui certo proviene l'istanza subito posta di ricercare unità significanti minime e, al di sotto di queste, unità minime prive di significato. In breve ed esemplificativamente: la parola viene indicata come unità minima significante della catena linguistica, mentre nel caso della musica saremo liberi di scegliere come unità minima la nota, l'accordo o addirittura un breve motivo - tutto ciò in fondo può essere considerato relativamente ovvio. Nel caso del verso di un uccello o del rumore le cose potrebbero un po' più controverse, ma è acuta in ogni caso l'idea di Schaeffer di indicare come unità minima quell'unità che ci consenta, ad esempio, nel caso del verso di un uccello, di riconoscerlo come tale, e così nel caso del rumore quell'unità che lasciare vivere il sospetto "colpo di acceleratore di un auto in partenza". Con queste unità assunte come minime naturalmente non usciamo dalle rispettive catene, mentre il problema è proprio quello di rompere le catene e quindi di togliere di mezzo i nessi di significato che vanno oltre il puro materiale sonoro. Schaeffer si esprime dicendo che è necessario trovare un criterio, almeno provvisorio, una qualche "regola che si possa applicare provvisoriamente a qualunque catena sonora permettendoci di tagliare l'elemento bruto, isolato dalle sue strutture, che noi chiamiamo appunto oggetto sonoro" (§ 81.4) - Anche in questo caso deve intervenire un mutamento della modalità dell'intendere che può realizzarsi soltanto attraverso una "ri­du­zione" del suono stesso, che si realizza attraverso un suo concreto sezionamento. Cosicché Schaeffer indica come criterio per la determinazione delle unità costitutive minime non significanti l'"unità di emissione sonora" - in base alla quale la catena viene tagliata "in ciascun istante in cui si produce una discontinuità energetica" (§ 82.5). Formulazione certo non chiarissima, ma gli esempi che la accompagnano ne illustrano almeno l'intenzione: si tratta di arrivare ad una sorta di atomo della sequenza sonora, dunque ad elementi 266 di durata tale da non consentire il loro collegamento alle catene da cui sono tratte così da sciogliere i legami dalle loro eventuali reciproche connessioni. A questo punto l'espressione oggetti sonori ha assunto ormai un'accezione molto specifica e ristretta (§ 82.6). In realtà in questi casi l'appartenenza alle rispettive catene viene conservata solo a causa del fatto che esso viene dopo gli e­sempi precedenti di cui conserviamo ancora il ricordo. Altrimenti udiremmo soltanto appunto suoni, e niente altro che suoni, che sono quello che sono, che stanno dove stanno e che fanno quello che fanno. - Senza entrare nel merito effettivo del progetto classificatorio, alcuni esempi proposti da Schaeffer potranno render conto del suo senso. I criteri della classificazione debbono essere naturalmente tali da non implicare in alcun modo le catene semantiche e dunque da poter essere applicati a suoni qualunque. La durata rappresenta evidentemente forse il più ovvio di questi criteri: si distinguerà dunque tra suoni impulsivi e suoni tenuti. Come altro criterio si potrà intendere anche l'intonazione fissa o variabile, estendendo il concetto di intonazione alla pura differenza tra grave ed acuto che ammette in ogni caso differenze di grado, anche se non esattamente quantificabili. - Si ottiene dunque dapprima l'azzeramento dell'ap­partenenza alle catene semantiche, attraverso la riduzione all'atomo sonoro, e poi si paragonano tra loro del tutto liberamente suoni la cui origine può risiedere in catene semantiche diverse, entrando così nel regno a-semantico della musica. Anche in esempi così semplici si comprende il tentativo di generalizzazione teorica che Schaeffer cerca di compiere e nello stesso tempo che questo tentativo è guidato da un lato da un pronunciato antisemanticismo, dall'altro da una tendenza altrettanto pronunciata a ristabilire, dopo aver operato un'estensione dei materiali utilizzabili dalla musica, una loro possibile grammatica. Questo problema potreb- 267 be sembrare estraneo ad una tendenza nettamente orientata verso il timbro, eppure in Schaeffer esso si propone strettamente nel suo interno. Ebbene sì, si tratta di una porta In questa tendenza alla costruzione di una grammatica credo che si debba cogliere gli indizi per una risposta ad una domanda che ci siamo già proposti in precedenza - come mai, nonostante l'ampliamento a piacere del campo dei materiali della musica - diventi difficile per Schaeffer rendere conto della distinzione tra oggetto musicale e oggetto sonoro. Schaef­fer è sempre pronto da un lato a ritirarsi sul fronte dell'og­get­to sonoro, dall'altro a rivendicare la radicale differenza tra og­getto sonoro e oggetto musicale. Una morfologia dell'og­getto sonoro, osserva una volta, sarebbe del tutto insensata se non avesse una finalità, e naturalmente egli pensa ad una finalità musicale. L'oggetto sonoro può essere guardato con tanta scrupolosa attenzione soprattutto se abbiamo di mira un possibile utilizzo nell'ambito musicale. Ma alla fine egli è portato a pensare che, fin a quando non si sia dato un ordine all'universo sonoro, realizzando classificazioni e fissando tipologie, la questione del passaggio dall'oggetto sonoro all'og­getto musicale debba necessariamente restare sospesa ed in­de­cisa. Certezza, dubbio, utopia confluiscono in questa distinzione divenuta enigmatica: Ci viene fatto udire un suono prodotto all'interno di un brano da Pierre Henry (§ 93.1). Quale suono? Risposta di Schaeffer: "Ebbene sì, si tratta di una porta" Ma il commento continua così: "Esperienza marginale, forse, ma essa misura due tipi di tensioni: quella che ci trattiene in prossimità di un primo codice, quello 268 dei rumori; e quella che ci attira verso un linguaggio ignorato, nel quale noi non sappiamo quanto lontano ci possiamo spingere" ( § 93.1A) François-Bernard Mâche Gestalten sonore - Che alla fine la posizione di Schaeffer assuma nella propria ricerca un modello linguistico lo coglie assai bene François-Bernard Mâche (1935), allievo di Messiaen e appartenente al Group des Recherches Musicales (GRM) fondato dallo stesso Schaeffer nel 1949. Egli vede nel suo progetto classificatorio la presenza di un atteggiamento analitico, quasi intellettualistico, che è distante dall'esperienza e dalla pratica compositiva. Così gli appare irrealizzabile il tentativo di mostrare la possibile integrazione degli oggetti sonori in strutture d'ordine, fondate su confronti relativi alle loro qualità come rugosità, brillantezza, rigidezza ecc.: "Il solfeggio concreto di P. Schaef­fer non ha potuto sostenere a lungo l'ipotesi che tendeva a integrarli in strutture d'ordine" (1992, p. 172). È assai significativo perciò che in Mâche, all'idea di un dominio analitico del campo sonoro, subentri l'interesse compositivo per ciò che egli chiama modelli sonori e che questi meritino di essere chia­mati Gestalten sonore. Questo termine assume particolare senso rispetto agli atomi di suono quali sono, nel senso più ristretto del termine, gli oggetti sonori di Schaeffer. L'idea di modello sonoro - Anche l'idea di Mâche di modello sonoro appartiene interamente all'ambito della tendenza timbrica nella musica novecentesca e illustra nuove angolature da cui può essere vista questa problematica. Sono presenti nella sua teorizzazione alcuni temi caratteristici comuni come l'interesse per le sonorità tratte dalla musica 269 extraeuropea, l'ostilità verso una concezione della musica come linguaggio, e naturalmente l'allar­ga­men­­to del materiale sonoro a disposizione della musica - quella che talora egli chiama "ibridazione" dei materiali sonori che possono entrare in comunicazione "senza farsi condizionare dagli steccati culturali o dalla separazione delle specie" (1992, p. 168). E si va alla ricerca dei suoni en plein air: "Oc­corre rimettersi ad ascoltare i suoni delle campane o quelli che offrono un simile continuum, dai rumori delle onde a quelli delle cascate, dal baccano delle folle in uno spazio che riverbera i suoni, alle officine operaie: l'orecchio viene così messo in condizione di percepire le forme sonore che superano le dimensioni abituali e che un ascolto troppo pragmatico o troppo analitico non metteva in evidenza. Nel momento in cui la forma sonora emerge dal caos e s'impone con la forza, seppure ancora soltanto in nuce, bisogna afferrare questa traccia per far prorompere l'intimo significato, cercando di non sostituire questo miracoloso incontro con le astute convenzioni della logica" (1992, p. 173). - Ma ormai non ci si contenta più della retorica delle "nuo­ve sonorità" a mani piene, della libera invenzione dei timbri, del dominio sull'intero universo dei suoni… Mâche in realtà parla di una proliferazione che si è poi rivelata sterile, rivendicando la mancanza di una tensione verso il significato, e di conseguenza la necessità di ritrovare l'importanza del simbolismo nella musica: la scoperta di nuove sonorità non è stata tale da generare una reale ricchezza musicale: "… di tutte le figure musicali che sono derivate, pochissime sono quelle che colpiscono i nostri sensi, e ciò non è dovuto alla nostra sclerosi percettiva, ma all'assenza o all'insufficienza di un progetto estetico che non sia formale. Il problema della musica contemporanea non riguarda il materiale o la sintassi, ma lo stile e l'estetica e concerne il grado di forza simbolica che la musica è capace di attingere" (p. 169). Questa ripresa della tematica del senso è affidata alla scelta di quello che Mâche chiama un "mo- 270 dello sonoro", e che si precisa poi come "model­lo naturale". Si tratta di un evento sonoro ripreso dal mondo circostante: il compositore viene colpito anzitutto da esso, e non tanto da questa o quella qualità timbrica singolare separata da tutte le altre, ma dal suono globalmente considerato, inteso appunto come Gestalt sonora. Alla sua capacità creativa è affidato il compito di risignificarlo. - Il modello sonoro, stando a Mâche, sarà solo un punto di partenza, per quanto importante. La situazione percettiva concreta che il modello sonoro presenta verrà "ripensata" dal compositore in modo da poter essere poi riproposta all'inter­no dell'opera musicale, ma secondo nuovi contesti. Mi sembra notevole il fatto che questo passaggio venga assimilato da Mâche al gioco del bambino che "mima le situazioni che lo hanno allarmato… allo scopo di comprenderle e di dominarle" (1992, p. 171). Dalla natura alla natura - Certamente non avrà senso stabilire quali suoni debbano fungere da modelli. Questa è già una scelta compositiva. In generale potranno fungere da modelli suoni di derivazione linguistica (su cui a lungo lo stesso Mâche ha condotto le proprie sperimentazioni), e quindi culturale, oppure suoni di origine naturale ed anche meccanica, come il suono di una pressa. Il secondo passo sta nella "riprogettazione" del modello, ed in questo passo possono intervenire pratiche compositive con impiego di strumentazioni elettroacustiche ed in generale tutte le tecniche e i metodi messi in opera per l'utiliz­zazione del modello da parte del compositore. In una fase successiva della propria produzione, Mâche introduce direttamente i suoni registrati nella composizione senza modifiche e questo modo di operare viene posto all'insegna di quella che lui chiama "fonografia" - una sorta di sequenza di fotografie di suoni (egli parla anche di "cinema sonoro", p. 271 193), organizzata in modo tale da dare ad essa il carattere di un percorso simbolico immaginativo. "In seguito a queste esperienze com­piute su diversi modelli e tirando le conclusioni delle mie elaborazioni, mi sono accorto che la via che avevo seguito conduceva a un contatto sempre più stretto con la realtà sonora, fino a convincermi ad adottare puramente e semplicemente un modello così come si trova in natura…" (1992, p. 190). - L'opera finita rappresenta una sorta di ritorno alla situazione percettiva, che è stata tuttavia risignificata dall'attività compositiva e nella quale è stato immesso una sorta di surplus che è opera dell'arte. In questo modo di porre le cose si mira a mostrare la fusione della dimensione della natura e quella dell'arte. Alla fine l'ascoltatore sa "che ciò che ode è un fenomeno naturale inteso come un'opera d'arte". Si va "ad ascoltare la natura come se fosse già musica" - e nella musica si ascolta la natura. Si comprende come in questo contesto assuma un particolare significato il richiamo di Leonardo alle "pietre paesine": nella venatura della pietra si vede il dipinto di un paesaggio (1992, pp. 171 - 172). In queste tematiche, si avverte la viva presenza del maestro Messiaen che in una intervista del 1959 Mâche elogia come "il primo e forse addirittura il solo ad intendere i rumori della natura come musica che è già compiuta" (GRM, L'experience musicale vue par Bernard Mâche). Musica e immaginazione Il dolce canto del musico Arione, prigioniero dei marinai, richiama i delfini intorno alla nave, da cui Arione è portato in salvo, dopo essersi tuffato in mare. Il tuffo in mare… Immersione nell'inconscio, per Mâche, nella vita istintiva. E anche, certo, immersione nella natura. L'inconscio è inteso, secondo risonanze junghiane, come luogo in cui risiedono simboli archetipici che sarebbero la fonte dell'immaginario musicale. Nello stesso tem- 272 po l'aspetto psicologico diventa solidale con quello biologico. L'elemento istintuale è legato a quello corporeo, e il corpo è il tramite in cui l'uomo e la vita umana rivelano la loro profonda naturalità. Tutta la tematica di Mâche, per questo lato, va intesa come una rivendicazione del rapporto con la natura e del fatto che la vocazione della musica è quella di ristabilire questo rapporto quando esso è andato perduto. "La musica - dice Mâche esprimendo efficacemente la propria posizione - è una costruzione culturale basata sul­l'istinto, con il mito che agisce da sostituto, o proiezione men­tale, dell'istinto stesso" (1992, p. 104) Naturalismi - Dichiarazioni di "poetica" connesse ad un progetto compositivo, come sono certamente quelle di Mâche, non avrebbe senso discuterle come tali. Esse sono tuttavia anche "pensieri sulla musica" - ed allora può essere giusto cercare di comprendere quale stato del problema sia formulato in quei pensieri. - Che la musica abbia le sue radici nell'inconscio, lo si può sempre dire, ed anche quando lo abbiamo detto non succede assolutamente nulla. Analogamente, poiché l'uomo è fatto di carne e di ossa si può sempre sostenere che tutto dipenda da questa sua costituzione fisiologica, musica compresa, e di ciò non vi è da dubitare. - Considerando il tema naturalistico, che rappresenta uno dei punti importanti dell'elaborazione di Mâche, ci rendiamo ben presto conto che esso ha due aspetti, in realtà ben distinti, che si fondono in uno solo. Da un lato, si tratta di rivendicare il rapporto con la natura come un rapporto umanamente concreto, come partecipazione ai grandi eventi naturali, all'avvi­cendamento delle stagioni, come piacere e godimento per ciò che la natura dà, fiori, animali, alberi, foreste, fiumi, cielo, mare, montagna.. Questo 273 piacere e questo godimento non va separato da un sentimento profondo di unità tra gli uomini e la natura, dal sentimento che un'unica vicenda attraversi il mondo intero e che accomuni senza distinzioni radicali tutti gli esseri viventi. Questo sentimento è oggi minacciato - sostiene Mâche e noi possiamo ben essere d'accordo con lui. Forse addirittura non solo da oggi, ma da molto tempo, questo sentimento appartiene solo ad un piccolo angolo della coscienza della nostra tradizione culturale. Mâche sa benissimo che rivendicare il rapporto tra musica, mito e natura significa prendere posizione contro i punti di vista che pongono l'accento sulla vita spirituale e sulla sua storicità come dimensione esclusivamente umana e come ciò che separa in modo invalicabile natura e cultura come due mondi in cui il secondo è un superamento assoluto del primo. Con ciò è certamente coerente la polemica contro la concezione della musica come linguaggio, veicolo tipico di comunicazione umana, così come in generale contro una concezione storicistica, che a sua volta è portatrice di riduzioni relativistiche ed a spiegazioni sociologizzanti. Mâche tenta invece di far valere istanze antirelativistiche, pensa a "universali musicali" secondo tendenze che affiorano anche nella più recente letteratura etnomusicologica. Vi è tuttavia un altro aspetto, un altro concetto di "naturalismo" in cui non si fa propriamente riferimento ad un rapporto concretamente sperimentato e sperimentabile, quan­to piuttosto ad un vero e proprio rapporto di fondazione teorica. In esso si teorizza infatti l'idea che le giustificazioni ultime debbono trovarsi in fatti biologici e fisiologici - e ciò deve valere naturalmente anche per la musica. Si tratta di un problema profondamente diverso dal precedente. Di un naturalismo in tutt'altro senso. Mi sembra che Mâche non avverta la differenza, e che anzi, alla fine, il primo naturalismo venga assorbito nel secondo. Si cercano così in generale giustificazioni troppo forti, senza avvertire che fra questi due livelli potrebbe addirittura esistere un contrasto di ordine concettuale. Proprio in una posizione che cerca di rivalu- 274 tare la componente immaginativa e simbolica, appare singolare che si aspiri ad una fondazione di ordine fisiologico nella quale queste componenti tendono a perdere qualunque autonomia ed a regredire a rapporti da cui il piano del significato è escluso. - Mâche ritiene in realtà che per fare saltare il nodo dell'o­ p­po­sizione cultura/natura sia necessario realizzare una sorta di riduzione del piano culturale a quello delle legalità-scientifico naturali - come se fosse indispensabile "sta­bi­lire le basi fisiologiche della musica" (1992, p. 167), mentre questa riduzione, per attingere quello scopo, non è affatto necessaria. Anche se ammettessimo che esiste una giu­sti­fica­zio­ne fisiologica per il piacere dell'ascolto musicale o per la creazione musicale - e noi siamo disposti ad ammetterlo in via di principio - tutti i nostri problemi e le nostre domande in rapporto alla musica resterebbero nella sostanza immutate. La zoomusicologia - Il naturalismo di Mâche è in ogni caso assai ricco, assai produttivo. Ed è ancora il grande insegnamento musicale, culturale e umano di Olivier Messiaen che talora appare dominante sullo sfondo. Un intero capitolo del suo libro Musica, mito e natura è dedicato alla "zoomusicologia". Si dirà: una disciplina che studia la musica degli animali non esiste affatto, per il semplice fatto che non esiste una musica presso gli animali. Ma come si sarebbe potuto tanto insistere su una visione di integrazione dell'uomo nella natura, di una musica che sorge dalla natura e di una natura che si ritrova nella musica se non si è disposti almeno un poco, almeno per prova, ad aprire il discorso anche su questo versante? Tanto più se poi se si è sostenitori di una musica proveniente dall'istinto che è la porta aperta sul sottostrato della corporeità. Naturalmente sorgeranno subito vari problemi: ad esempio non accetteremo senz'altro di chiamare "musica" qualunque suono 275 che ci venga dagli animali - ed in particolare quando siamo in presenza di manifestazioni estremamente povere che rimandano a funzioni istintive legate inscindibilmente e con la massima evidenza a funzioni vitali elementari ben identificate. Occorre invece - pensa Mâche - che in presenza di una sufficiente ricchezza e differenziazione di manifestazioni sonore, si possa almeno sospettare che tali funzioni vitali elementari (alimentazione, sessualità, difesa, aggressione…) non siano senz'altro in primo piano; occorrerebbe anzi spingersi sino al riconoscimento di un vero e proprio senso estetico autonomo da queste funzioni: il quale assolverà, come del resto nel caso dell'uomo, la propria funzione biologico-vitale. In questo mo­do sembra non esservi contrasto tra questa autonomia e la richiesta di una fondazione fisiologica. Il canto degli uccelli - Entro questa delimitazione il campo di interesse nei confronti della musica negli animali si restringe enormemente e, come sembra naturale, si riduce unicamente agli uccelli canori. Viene così ripreso un antico e favoloso problema: la musica e il canto degli uccelli, che fa in certo senso da contraltare sul piano del produrre ciò che i racconti mitici - e naturalmente quello dei delfini di Arione - ci hanno raccontato mille volte sul piano dell'a­scol­to. Gli animali affascinati da Orfeo, gli uccelli che ascoltano la voce di San Francesco. Un problema antico e favoloso che qui, in fondo, si cerca di sottrarre all'aura mitica per riportarlo sul terreno dell'osservazione possibile. Addirittura sul terreno dell'analisi "musicologica". Ipotesi estetica sugli uccelli canori - Mâche ci informa che vi sono circa 8700 specie di uccelli noti. E che circa cinquemila specie possono essere considerate genericamente "canore" e, tra queste, due o trecento molto interes- 276 santi "per il musicista". L' "ipotesi estetica" viene formulata in rapporto agli uccelli canori. Essa consiste anzitutto in un rifiuto di ciò che pensa forse la maggior parte degli ornitologi - benché la situazione cominci ormai da qualche tempo a mutare -, e cioè che l'emis­sione sonora degli uccelli, come nel caso di tutti gli altri animali, è da interpretare come un sistema rudimentale di comunicazione, e non come una musica rudimentale. Il sistema di comunicazione a sua volta riguarderebbe unicamente gli istinti elementari. A questo atteggiamento scientifico Mâche trova persino una motivazione ideologica: "Il rifiuto da parte di molti scienziati di accogliere la fondatezza dell'ipotesi estetica deriva dalla loro concezione della musica che, come per i borghesi del XIX secolo, continua ad essere considerata un lusso inutile" [1992, p. 105]. Invece, secondo Mâche, la musica può essere presente anche negli animali proprio perché assolve una funzione biologica importante e la può assolvere solo come esercizio autonomo, senza scopi "economici" immediati. - Per quanto possa non essere condivisibile il suo punto di vista generale, le ragioni apportate da Mâche, per giustificare una simile ipotesi sono numerose e notevoli. Particolare importanza viene data alla varietà e ricchezza dei suoni emessi - mentre se fosse vero che tutte le emissioni sonore sono legate alla sessualità, al cibo, al territorio, all'offesa ecc., esse dovrebbero essere di numero ridottissimo. Anche gli zoologi non possono che prendere atto di questa circostanza. Ma appunto ne prendono atto, e nulla più. Scrive Mâche: "Di solito gli zoologi si accontentano di osservare che la ridondanza definita come una medesima reazione prodotta da segnali diversi, è molto grande…il fatto è che uno sperpero di energia e di immaginazione non rientra nello schema interpretativo del behaviorismo, che si limita a spiegare tutto con il metro del­l'u­tilità. Con il concetto di ridondanza si elimina una straordinaria ricchezza di differenziazioni; considerare la diversità come uno spreco impedisce di riconoscere che la 277 musica, cioè l'estetica, svolge una funzione biologica fondamentale parzialmente autonoma"(1992, p. 122). La musica e il gioco - L'argomento che spiega meglio che cosa intenda Mâche per funzione biologica fondamentale e parzialmente autonoma rispetto agli istinti elementari è il riferimento al gioco. Nel gioco si assommano due caratteristiche, che interessano entrambe que­ sto tema: da un lato si può parlare del disinteresse del gioco - del fatto che esso è svincolato dall'immediatezza dei bisogni, anzi è possibile giocare solo se questa immediatezza è momentaneamente superata; dall'altro, è difficile negare una qualche funzione equilibratrice particolarmente importante sul piano della vita stessa, una funzione forse in qualche modo simile a quella fondamentalissima del sonno. "Oltre l'uti­litarismo in molti segnali animali bisogna vedere la gratuità, la non necessarietà che confina con lo spreco energetico; le funzioni comunicative sono quindi superate: si tratta di attività ludiche, estetiche". Il gioco è l'elemento che probabilmente permette di superare "i confini che si sogliono tracciare tra natura e cultura"(1992, p. 165). John Cage 278 L'impulso di Schönberg - Fu un'agghiacciante affermazione di Schönberg, di cui per un certo periodo fu "il più docile degli allievi", che fece prendere a John Cage (1912 - 1992) la decisione di dedicare la propria vita alla musica. Lo racconta egli stesso: "Un giorno lo intesi proclamare davanti a tutta la classe: 'Il mio scopo, lo scopo del mio insegnamento è di rendervi impossibile scrivere musica'" (1977, p. 64). Fu allora che egli prese una clava da im­piegare non solo contro la tradizione, ma anche contro la "nuova musica". Tanto è caratteristica della personalità di Schönberg quello sfogo di malumore, che nascondeva comunque un fondo di verità, tanta è caratteristica la reazione vitale che di fronte ad esso ebbe Cage. Molti musicisti del secolo ventesimo - e in particolare nelle avanguardie degli anni cinquanta - erano convinti che il far musica dovesse essere un martirio per il compositore e che il loro scopo fosse di conseguenza quello di martirizzare l'ascoltatore. Cage nasce invece alla musica con il piacere di far musica, che comincia con il piacere del suono vivo e risuonante, qualunque esso sia. - A Cage si attaglia particolarmente una frase di Varèse sulla creatività. Dice Varèse: "L'irriverenza è il vero fondamento del lavoro creativo!". E' difficile capire qualcosa di ciò che fa o dice Cage se non si tiene conto di questa irriverenza; ma nello stesso tempo si tratta di una irriverenza piena di saggezza, di una saggezza che va oltre il piano musicale. I pensieri di Cage hanno radici fortissime nella sua epoca: egli è certamente un grande testimone del secolo ventesimo. Servo dell'imperialismo - Va anche detto che, per le particolari condizioni della cultura italiana degli anni tra il cinquanta e l'ottanta, egli fu particolar- 279 mente inviso alla cultura musicale di sinistra. Venne violentemente attaccato da Luigi Nono e spesso ridicolmente indicato come una sorta di subdolo servitore dell'im­peria­lismo americano. Luigi Rognoni cita Cage come caso evidente di artista che si adopra "per affermare il conformismo reazionario più ortodosso di cui la società ha bisogno" e come "profeta della moda internazionale della superborghesia" (Rognoni, 1961, p. 73). Vecchie storie che tuttavia conviene non dimenticare. Per quanto riguarda in particolare Luigi Nono le rammenta dettagliatamente Renzo Cresti in Il suono nascente. Per una nuova lettura e(ste)tica dell'opera di Luigi Nono (Cresta, 2002, pp. 38 sgg.). Il pianoforte preparato - È noto che Cage fu congedato da Schönberg con una valutazione non troppo lusinghiera: egli non avrebbe potuto essere un vero compositore, ma semmai un geniale inventore. Un'invenzione vi è in effetti all'inizio della sua attività di compositore. Si tratta dei brani che egli destinò al cosiddetto "pianoforte preparato". Ci sono molti elementi interessanti in questa "invenzione". Intanto occorre una buona dose di sadismo e di crudeltà nel "preparare" il pianoforte in questo mo­do. Si trattava infatti di inserire tra le corde del pianoforte oggetti di vario tipo, come chiodi, viti, pezzettini di sughero, forchette, pezzi di legno, fogli di carta o di cartone e così via. Con un gesto musicale concreto, Cage faceva la propria polemica contro lo strumento principe della musica romantica, così come Varèse aveva protestato contro la svenevolezza del violino ed aveva raccomandato i musicisti di dimenticarsi del pianoforte. Nello stesso tempo otteneva tuttavia un altro risultato, estremamente significativo: il pianoforte preparato così veniva a subire una modificazione timbrica quan­to mai radicale. Essendo impedita alle corde una vibrazione corretta, esso si trasformava in una sorta di notevole orchestra di percussioni. (Ed anzi il movente immediato sembra sia stato 280 "pratico": che fare, avendo bisogno di percussioni, in un teatro non abbastanza spazioso per contenerle? - 1977, p. 26). Ritmo - Il pianoforte preparato significa anzitutto: percussioni! E dunque ritmo! (Puoi ascoltare come esempi Bacchanale per pianoforte preparato oppure Music for Duchamps per pianoforte preparato) Il fattore ritmico diventa centrale ed autonomo. L'elemento melodico tende a scomparire completamente o eventualmente ad essere incorporato come un breve spunto motivico all'in­terno della struttura ritmica. Inoltre la ripetizione domina qui incontrastata e palesemente accettata e ricercata. Rumore - La ricerca, che è cominciata con la manipolazione del pianoforte avendo di mira la distruzione di questo strumento come strumento melodico-armonico, prosegue in realtà con un passo che certamente è lecito attendersi: ciò che si chiama rumore, può benissimo entrare in un brano musicale secondo le idee e la pratica di Cage per il semplice fatto che "…per chi compone per percussione, qualsiasi suono è accettabile" - (Cage, 1937, p. 25). - Ma a che titolo e secondo quale angolatura questa rivendicazione del rumore nell'ambito della musica viene effettuata? Quali sono i motivi che stanno alla sua base? Intanto vi è il tema della consunzione dei suoni degli strumenti tradizionali: i suoni di questi strumenti che sono per così a lungo tempo risuonati nelle nostre orecchie sono diventati logori, poco interessanti, hanno generato stanchezza ed assuefazione. D'altra parte questi suoni sono soltanto una stretta regione nel campo delle sonorità possibili e non vi è o non sembra esservi alcuna ragione interna per una simile restrizione. Oltre tutto questa regione ristretta non 281 si trova affatto per così dire nelle nostre vicinanze, non si trova immediatamente a disposizione nel nostro ambiente circostante: i suoni che quotidianamente colpiscono le nostre orecchie sono "per la maggior parte rumori" e non suoni "musicali"(1937, p. 24). Perché mai il musicista dovrebbe rinunciare ad ampliare il campo della propria attività, e dunque anzitutto il campo dei materiali su cui questa attività è destinata ad esplicarsi? - Questa possibilità di ampliamento si rafforza con il motivo tecnologico, anch'esso presente in Cage. Il secolo ventesimo ha intanto imparato a "fotografare" il suono, a riprodurlo in vari modi. Cage allude alla registrazione discografica, ed anche alla colonna sonora del cinema. Ogni mezzo di riproduzione può diventare anche un mezzo di manipolazione del suono, uno strumento per modificarlo, controllarlo, reinventarlo. Sorgono così nuove curiosità e provocazioni ironiche: che suono mai produrrebbe il profilo di Beethoven inciso su una colonna sonora e ripetuto su di essa cinquanta volte al secondo? (1937, p. 25) Naturalmente non posso prevedere nulla in proposito - debbo realizzare un grafico e vedere che cosa succede quando esso sia stato convertito in un fatto uditivo. - L'atteggiamento del compositore deve mutare di conseguenza. Egli non sarà più condannato ad essere un "pen­sa­tore" del suono, cioè colui che pensa suoni a cui altri daranno un'esistenza effettiva, ma si troverà a contatto diretto con i propri materiali, potrà egli stesso porli in essere, manipolandoli direttamente e spesso valutandoli - per accettarli o respingerli - dopo che essi sono stati prodotti. In questa prima fase della sua opera Cage si trova sotto l'influenza di Varèse da cui riprende la formulazione della musica come "organizzazione del suono" e dell'attività compositiva come attività ad essa finalizzata. Ben presto tuttavia questa formulazione non potrà attagliarsi né alle sue idee né alle sue pratiche compositive. 282 - Nel riferire intorno a queste vicende non dobbiamo dimenticare che esse sono avvenute molti e molti anni fa. Molte azioni musicali di Cage sono "gesti"; e i gesti spesso possono avere un carattere esemplare. Nello stesso tempo sono strettamente irripetibili. Non si possono fare due volte i baffi alla Gioconda. Per questo oggi forse importano maggiormente le idee che stanno sullo sfondo di quei gesti che i gesti stessi. Accadimento e opera - Vi è un tema che ritorna insistentemente negli scritti di Cage. I suoni ci sono sempre. Ovunque e sempre accadono suoni. E su questa circostanza poggia il fatto che qualcosa come la musica ci sia. Di norma il musicista si riferisce ai suoni come materiali grezzi che debbono essere anzitutto selezionati, e quindi modellati, organizzati insieme, e infine proposti all'ascolto come momenti di un progetto espressivo che è stato immesso nei suoni attraverso questa elaborazione. Assumendo questo punto di vista sembra subito chiaro perché si debba dare al brano musicale uno statuto particolare nell'am­bito degli eventi sonori. Che cosa è in effetti un brano musicale? Niente altro che una sequenza di accadimenti sonori. Ma a quanto sembra, noi non dovremmo affatto intenderlo così. Al contrario dobbiamo fare di tutto per operare una sorta di isolamento del brano musicale, ed il brano stesso è costruito in modo tale da presentarsi come una totalità chiusa in cui non possiamo nulla togliere e nulla aggiungere, e che si separa dalle circostanze che lo circondano, e in modo particolare dai suoni che accidentalmente risuonano al di fuori di essa. Questa separazione è il punto cruciale che mostra il nostro sforzo per sopprimere il carattere di accadimento del suono stesso. - Ora e qui, mentre sono in concerto, non c'è soltanto il suono intonato dall'oboe, ma anche lo scalpiccio di un ascoltatore in ritardo o il colpo di tosse del mio vicino in poltrona. Ciò che si ri- 283 chiede al nostro ascolto è quello di separare un suono dall'altro e questa separazione la potremmo formulare dicendo che il colpo di tosse è appunto un accadimento - e come ogni accadimento ha carattere di casualità, potrebbe esserci e non esserci. Mentre il suono dell'oboe non accade, o meglio, non è sull'accadere che deve essere posto l'accento dal momento che non ha nessuna importanza il fatto che quel suono accada in un determinato ora ed in questo determinato luogo, mentre ha importanza l'appartenenza di quel suono al brano stesso, la sua appartenenza all'opera. - Il suono come elemento dell'opera è un materiale spiritualmente elaborato, carico di soggettività ed anche eventualmente di sentimento, e persino di teoria. Esso è allora un bene permanente perché è un bene permanente l'opera a cui appartiene. Potremmo dire: l'opera resta al di là delle sue esecuzioni, al di là delle durate obbiettive nelle quali essa viene eseguita. I suoni intesi come appartenenti ad un'opera non sono mai accadimenti veri e propri, essi non accadono, lo si voglia o no - ma accadono se vogliamo farli accadere e nei modi e nelle forme in cui vogliamo. Invece i suoni che risuonano nell'ambiente intorno sono accadimenti effettivi: essi accadono, lo si voglia o no. Accadono quando essi vogliono ed anche come essi vogliono o meglio esattamente come essi sono. Ed è proprio l'opera ciò contro cui parla Cage: in nome dei suoni come accadimenti. Onnipresenza del suono. Pienezza e vuotezza - L'onnipresenza del suono è un tema che richiama, in modo singolare, ma estremamente significativo, sia immagini di pienezza sonora sia il tema del silenzio. Immagini di pienezza sonora, in primo luogo. Una delle "composizioni" - ma è certo che non la si può chiamare così: dovremmo dire forse uno dei "prodotti" dell'at­ti­vi­tà di Cage si intitola The house full of music (1982), la casa 284 piena di musica, ed in effetti qui questa idea della pienezza sonora viene ripresa ed esaltata. Cage aveva messo insieme un gran numero di studenti di musica del Conservatorio di Brema e di gruppi giovanili, anche bambini, a cui aveva chiesto, io credo, di suonare a piacimento e tutti insieme i loro strumenti: il "brano" venne radiodiffuso simul­taneamente con gran pompa, e come prima esecuzione assoluta!, da numerose stazioni radiofoniche europee nel maggio del 1982. Ne risultava una gran confusione, che aveva questa caratteristica eminente: di non lasciare mai un pertugio al silenzio. Si tratta di un pezzo inascoltabile della durata di un'o­ra e mezza. La sua essenza è puramente simbolica: la casa piena di musica è una metafora del mondo, esalta la pienezza sonora del mondo ed è nello stesso tempo un'esaltazione della musica stessa, anzi più precisamente del fare musica. Ancora più precisamente: un'esal­ ta­zione del fare musica, purchessia. Grande idea, ma appunto soltanto un'idea: il brano musicale in quanto tale si riduce a questo simbolismo: in esso la musica si dissolve. Tema del silenzio - Nella casa piena di musica il silenzio semplicemente non c'è. Cage: "Né lo spazio vuoto, né un tempo vuoto esistono. Qualcosa da vedere, qualcosa da udire c'è sempre" (1957, p.27). Vi è in proposito un famoso racconto di Cage della propria esperienza nella camera anecoica. Cage narra di essere entrato una volta in una camera anecoica - cioè in una stanza protetta dal rumore esterno e dalle risonanze interne, nella quale dovrebbe perciò regnare il più assoluto silenzio. "Entrai in una stanza fatta così: e sentivo due suoni, uno alto e uno basso. Quando li descrissi al tecnico di servizio, mi informò che il suono alto era il mio sistema nervoso in azione, quello basso il mio sangue in circolazione" (1957, p. 27). Io credo che quel giorno un musicista stravagante si sia imbattuto in un tecnico altrettanto stravagante… Da questo incon- 285 tro è nato comunque questo significativo apologo. Il suo senso è questo: non c'è situazione nella quale sia possibile installarsi in un assoluto silenzio, proprio perché il suono appar­tiene alla natura, che è qui direttamente evocata: i suoni uditi rimandano alle attività di un organismo vivente. Anche il sistema nervoso e la circolazione del sangue rumoreggiano: un suono alto, un suono basso. - Non si dice tuttavia propriamente che il silenzio non esiste. Si fornisce piuttosto una sua interpretazione. Il silenzio è, co­me viene detto una volta, "rumore ambientale" (1949, p. 45), una caratterizzazione in realtà estremamente interessante. Essa rimanda a rumori non chiaramente identificati che stanno sullo sfondo e che non sono consapevolmente avvertiti. - Il tema del silenzio è fortemente presente nella riflessione sulla musica di Cage. Il pezzo intitolato 4'33" - ovvero quattro minuti e 33 secondi - deve essere eseguito così: il pianista siede al pianoforte, pone il proprio orologio sul ripiano dove metterebbe lo spartito e quando sono trascorsi esattamente quattro minuti e trentatré secondi si alza e se ne va. Un gesto esemplare - e irripetibile: che si regge, è appena il caso di dirlo, solo sulla filosofia che lo sostiene. Anch'esso ha, in fin dei conti, il senso di un apologo. Il commento più frequente attira l'attenzione sul fatto che in quei quattro minuti il pubblico certamente reagirà rumoreggiando vivacemente, e che dunque quelle proteste faranno da spartito e da esecuzione. Ma io credo che il suo significato effettivo sia quello di illustrare l'idea del silenzio come rumore ambientale. Vi è poi un altro insegnamento prezioso: in questa "opera" si provoca l'attesa di un brano musicale, si richiama dunque l'attenzione uditiva, ma si fa "udire" solo un tratto di tempo. Quindi si esibisce direttamente questa connessione di principio: musica -> silenzio -> tempo 286 Se si dà poi rilievo agli accadimenti sonori accidentali che possono verificarsi in questo tratto di tempo, la connessione diventa musica-->silenzio-->accadimenti sonori--->tempo Il titolo 4'33" allude poi duramente ad una temporalità obbiettiva, bruciando, a torto o a ragione, la contrapposizione tra temporalità musicale e temporalità obbiettiva. Il tempo è qui proprio il tempo degli orologi, con buona pace di Bergson e del bergsonismo; è un tempo che non si conta, ma si misura: "Anziché contare impieghiamo orologi se vogliamo conoscere in quale punto del tempo ci troviamo, ossia in quale punto del tempo un suono debba esistere" (1949, p. 51). Sentimenti - Il suono è "ignaro di ogni storia e di ogni teoria". Ma è anche ignaro dei sentimenti umani, che può eventualmente suggerire all'ascoltatore. A proposito di questo problema dell'e­spres­sione dei sentimenti, vi è in Cage una duplice presa di posizione: da un lato i suoni non sanno nulla dei sentimenti, dall'altro ciò non esclude affatto che la ricezione del suono sia carico di elementi espressivi. Nell'accennare a questo problema, Cage fa riferimenti significativi ai suoni della natura: "…Le emozioni degli esseri umani vengono continuamente risvegliate dagli incontri con la natura. Non è forse vero che una montagna evoca in noi la meraviglia? E le lontre lungo il fiume l'allegria? E le note nella foresta il timore? La pioggia che cade e la nebbia che si leva non suggeriscono l'a­more che lega cielo e terra? La carne in decomposizione non è nauseabonda? La morte di qualcuno non ci dà pena? Che cosa è più furibondo dello scoccare del lampo e del fragore del tuono? Queste risposte alla natura sono le mie, e non corrisponderanno necessariamente a 287 quelle degli altri. L'emozione si produce nella persona che già la possiede. E i suoni, quando si consente loro di essere se stessi, non esigono che chi li ascolti li ascolti senza sentimento" (1957, p. 29). Un sistema fondato negli intervalli di tempo - Talora Cage parla dell'attività compositiva come un'attività che ha il compito di integrare insieme il suono e il silenzio, come materiali della musica, facendo riferimento all'elemento comune tra suono e silenzio, cioè la durata. Altre volte dice che organizzare suoni significa soltanto "operare la loro distribuzione nel tempo", ovvero significa ricorrere ad un "sistema fondato negli intervalli di tempo" (1949, p. 37-39). Formulazioni non chiarissime, certo: ma esse suggeriscono qualcosa. - Parlare di sistema fondato negli intervalli di tempo significa intanto, in negativo, attenuare l'importanza data alle relazioni che sorgono dai fattori qualitativi, e quindi da una temporalità che viene plasmata da essi. Si tratterà invece di una temporalità intesa anzitutto come vuota ed entro la quale si verificano determinati eventi sonori. Il brano viene pensato come una pura articolazione di durate: cosicché viene lasciato libero spazio da un punto di vista qualitativo (timbrico) ad un riempimento qualunque: meglio ancora se poi questo riempimen­to è tale da accentuare l' idea di una durata articolata. L'im­portanza conferita all'elemento ritmico va in effetti compresa all'interno di questa cornice. Ritmo: suono e silenzio - Già il parlare del suono e del silenzio come materiali della musica diventa un'affermazione pregnante solo se pensiamo ad un impiego ritmico; non c'è ritmo senza suono, ma nemmeno c'è ritmo senza silenzio. Per quanto il silenzio possa essere breve, esso ci deve in ogni caso essere affinché si dia ritmo. A 288 mio avviso, il parlare del comporre come una pura distribuzione temporale di suoni e silenzi stabilisce una contrap­posizione tra l'idea di un ritmo che sorge dal "colpo" e l'idea di un ritmo che sorga prevalentemente dal disegno sonoro, dal tema, dalla frase musicale, come un momento interno e subordinato. - In prevalenza, nella musica occidentale, osserva Cage, accade proprio così: si parla di ritmo, ma si allude con ciò soprattutto ad una articolazione interna della sequenza dei suoni che poggia sulle loro differenze di altezza. Il ritmo diventa una sorta di componente dello sviluppo melodico. L'aspetto melodico sarà invece messo da parte attraverso suoni percussivi che non realizzano nessun disegno, che non dànno luogo ad alcuna "forma". In contrapposizione alla nozione di ritmo che Cage chiama "formale", egli parla di una nozione di ritmo puramente strutturale (1949, pp. 38 - 39) che invece rimanda alla temporalità come struttura che accoglie accadimenti sonori, e che dunque bada interamente alla durata ed ai rapporti tra le durate. Caso - Nella frase: "E i suoni, quando si consente loro di essere se stessi, non esigono che chi li ascolti li ascolti senza sentimento" (1957, p. 29) affiora già il pensiero del caso, benché di esso non si parli. Essa può essere interpretata così: vivi l'espe­rienza dell'ascolto come vuoi, ma devi anzitutto consentire ai suoni di essere se stessi. E quasi in forma di precetto: i suoni accadono. E tu devi lasciarli accadere. - Ma come puoi lasciarli accadere? Questo non è affatto facile. Persino in una concezione così debole della musica come distribuzione dei suoni nel tempo è necessario che venga deciso almeno il quando del suono, il punto in cui il suono accade. E chi prende la decisione? La risposta di Cage a questa domanda è: 289 il caso. Cage compie concettualmente l'intero arco che conduce dalla ripetizione al caso. E lo compie in realtà con profonda coerenza. L'opera del caso è imprevedibile, non è preceduta da nessun pensiero, non può essere un bene permanente, è, come Cage dice una volta, "pittura sulla sabbia". La temporalità della musica non potrebbe voler dire anche questo, o addirittura anzitutto questo? È come se qui la musica riconoscesse finalmente quel destino che le era assegnato fin dall'inizio, proprio in forza del suo esserci puramente temporale. Essa si consuma integralmente nel suo farsi. L'effimero nella musica - La musica è effimera, dipinge sulla sabbia. Ed il soffio del tempo la cancella inesorabilmente. Questo tema antico viene fortemente esasperato da Cage. È l'opera intera che, risolta nel suo accadere, mentre si fa, anche si cancella. In certo senso la sua durata si riduce alla somma degli istanti di cui è costituita - ed ogni istante vale in se stesso, nella sua pienezza o vuotezza. Non vi può essere in Cage una concezione del tempo come uno scorrere. La dimensione essenziale del tempo è un presente istantaneo in cui la memoria è soppressa così come ogni evocazione del futuro. Nel brano non vi deve essere un tema o qualcosa di simile ad un tema, proprio perché il tema è un fattore di unità interna che ha come condizione la memoria, e nemmeno dunque uno sviluppo o una variazione del tema, qualcosa di simile ad una "ricapi­tolazione", che riattualizzi ciò che è ormai trascorso. Tutti i mezzi tipici di articolazione della musica del passato, tema principale e tema secondario, varie forme di conflitti tra i temi, sviluppi variazioni, riprese, ecc. - tendono attraverso una pura sequenza sequenza di suoni a prospettare un'architettura, il profilo di un solido edificio. Tutto ciò "ci fa credere di possedere una casa". Mentre la gioia sta "nel possedere alcunché". "Ogni momento ci regala 290 quello che succede" (1959, p. 70). - Con la tematica del caso, ci si dirige verso un piano in cui la musica si sta appena sollevando dal suo livello zero. Dalla musica nella sua floridezza ricca di tradizione torniamo anzitutto indietro: "Cominciammo da zero: suono, silenzio, tempo, attività" (1967, p. 149). Da questo inizio da zero, si apre un discorso al limite del musicale e del non musicale, in un senso che comporta contrasti interni ed una conflittualità molto forte, ed anche molto seria - nonostante le numerose spiritosaggini cageane filosofiche e musicali insieme. Si mettono allo scoperto alcune circostanze dimenticate. Verrebbe voglia di dire, seguendo ed aderendo all'onda inquieta su cui Cage ci ha condotti: la musica non comincia dalla parola, ma dalla natura: dai suoni della natura. E la natura con i suoni non dice nulla. Essi non sono fatti di vocali e di consonanti; siamo noi stessi, talvolta, a pretendere di dare ai suoni le "for­me della parola", tentando con essi di dire qualcosa (1957, p. 35). L'uomo che sta in piedi sulla collina - Eppure la coerenza con la quale viene sostenuto questo tema antilinguistico o alinguistico mostra scopertamente tutte le sue difficoltà, i suoi problemi, i suoi conflitti interni - mostra persino per contrasto l'importanza ed il peso di una strutturazione linguistica del materiale sonoro. "Dare ai suoni le forme della parola" - questa formula ha un senso molto forte in Cage. Si comincia a tradire i suoni, non appena ci si rivolge verso di essi con un intento manipolatorio qualunque, con l'intento di fare di essi l'espressione di qualcosa. Un suono c'è semplicemente, e non se ne sta in quel luogo del tempo assolvendo un qualche scopo, sul quale tu ti senta obbligato a interrogarlo! In uno dei suoi apologhi, Cage racconta di un uomo che sta in piedi su una collina. Uno lo vede e dice: quell'uomo deve aver 291 perduto il suo animale prediletto. Un altro invece: no, forse cerca un amico. Un terzo dice: si sta solo godendo l'aria fresca. Non trovandosi d'accordo, lo interrogarono. E alle tre domande egli rispose sempre no - non faccio questo. Ed allora, essi chiesero, perché te ne stai lassù, se rispondi di no a tutte le nostre domande? "E l'uomo in alto rispose: me ne sto in piedi qui, ecco tutto" (1959, p. 78). - Insieme a questo tema vi è anche una sorta di indebolimento dell'importanza della musica - o meglio: una sorta di attenuazione dell'enfasi posta sulla musica, un suo ricondurla al semplice ed al quotidiano. Il richiamo ai rumori nella musica può anche avere il senso di togliere alla musica la sua aura, per riportarla sulla terra, vorrei quasi dire: il richiamo ai rumori è un richiamo alla vita ed alla gente comune. Un'altra breve storia Zen narrata da Cage va interpretata in stretta connessione con questo problema. "Due monaci arrivarono ad un fiume. Uno era indiano, l'altro Zen. L'indiano cominciò ad attraversare il fiume camminando sulla superficie delle acque. Il giapponese si inquietò e gli chiese di tornare indietro. 'Che succede?' chiese l'indiano. Il monaco Zen disse: 'Non è questo il modo di attraversare il fiume. Segui me'. Lo condusse in un luogo dove l'acqua era bassa, e guadarono il fiume" (1965, p. 89). Quale più splendida dimostrazione dell'arte per un monaco che attraversare un fiume camminando sulla superficie delle acque? Ma il monaco Zen protesta: Fai come fanno tutti. Forse la musica è qualcosa di sublime? - Con il tema del rumore così come con quello dell'accadere, Cage spiega perché la musica possa anche non essere "qualcosa di sublime". Sullo sfondo vi è forse anche l'idea di un'attività creativa diffusa, un'attività ludica - una sorta di gioco in cui ciascuno potrebbe cimentarsi. In Cage si avverte la presenza di questo pen- 292 siero. Si tratta di una prospettiva seducente, da cui la musica dei nostri giorni si è sempre più allontanata e di cui occorrerebbe, a mio avviso, ritrovare il senso. Tuttavia il modo in cui questo tema viene proposto da Cage da un lato sembra poter correre il rischio inquietante di dover rinunciare alla musica in genere, dall'altro di proporre un fare musica non solo tendenzialmente ridotto al puro ascolto, ma anche addirittura esposto a nuove ed ancora più grevi sublimazioni. Rivolgendosi agli ascoltatori di un suo concerto egli osserva: "Avrebbero potuto benissimo, purché ascoltassero, scoprire di preferire i suoni della vita quotidiana a quelli che avrebbero ascoltati nel nostro programma musicale. E per quanto mi riguardava andava benissimo così" (1965, p.88). Vi è un'importantissima condizione che dà senso a questa frase: "avrebbero potuto benissimo, purché ascoltassero…". Ascoltare qui non è detto in un modo qualunque. Si tratta di porgere l'orecchio al suono puramente come tale, e questa è appunto la condizione che normalmente non si dà. Nella quotidianità ci si chiede sempre che cosa faccia l'uomo che sta in piedi sulla collina. In realtà non si tratta soltanto di assumere l'atteggiamento dell'"ascolto ridotto", per usare il linguaggio di Schaeffer, ma di un ascolto che viene enfatizzato, che diventa sempre più estatico, sempre più simile ad una propedeutica per raggiungere uno stato di levitazione transumana. Alla domanda "Perché è tanto necessario che i suoni siano unicamente suoni?" Cage è tentato da questa risposta: "Affinché ognuno possa divenire il Buddha"; oppure "Spezza il bastone, ed ecco Gesù" (1959b, p. 50). A dire il vero, io non so che cosa esattamente significhi divenire il Buddha o spezzare il bastone, ma credo di capire quanto basta. Forse anche per Cage la musica è più che mai, e nonostante tutto, qualcosa di sublime. 293 Milano, 2 dicembre 1977, Teatro Lirico - Cage entra in sala e comincia la lettura di Empty Words: ("Il titolo rinvia alle "parole vuote" esistenti nella lingua cinese. In quella grammatica il termine indica le parole che non hanno un significato in se stesse, e che lo ricevono solo dal contesto del loro accostamento ad altre parole in grado di conferirlo. Più in generale il titolo rinvia alla riduzione dei significati linguistici al principio dell'assenza, del vuoto semantico che è proprio della musica" - Porzio 1995, p. 182). - All'inizio vi è un rispettoso silenzio. Ma la lettura continua in tempi, evidentemente, troppo lunghi per gli ascoltatori e dopo ventisei minuti qualcuno comincia a protestare, dopo trentasette minuti, c'è chi arringa il pubblico… al centoquarantesimo minuto la gazzarra è al colmo. Ma Cage continua con voce suasiva e senza il minimo cenno di nervosismo o di impazienza. Forse qualcuno potrebbe commentare tutto ciò scolasticamente in stile cageano, dicendo che musica è l'insieme degli eventi sonori che qui accadono. Commento assai piatto e banale! La verità è che le parole più o meno urlate dal pubblico di cui afferriamo il senso sono qui puro nonsenso di fronte alle parole vuote. Ma vorrei dire di più: nell'ascolto della registrazione che esiste in disco, io ho la sensazione che la voce di Cage risuoni al di là di un muro impenetrabile sancendo una radicale differenza tra due universi. Cosicché mi sembra di poter dire - cosa tanto più straordinaria 294 per il fatto che ora è in gioco Cage stesso in prima persona - che qui rumore e musica tornano nuovamente a distinguersi: e duramente! XXV Annotazioni sulla dodecafonia Dissonanze - È assai strano che un progetto che si accinge a dare il massimo dispiegamento alle capacità espressive della dissonanza cominci ad autoteorizzarsi così: "D'ora in poi esistono soltanto consonanze. Le dissonanze non sono ormai nient'altro che consonanze più lontane" (Rufer, p. 69). Questa idea è ripresa direttamente da Schönberg. - In realtà è opportuno non dare importanza ad un'affer­mazione simile - ed a non far caso alla falsa teoria della dissonanza come "consonanza più lontana" - cogliendo le origini del problema pro­prio nella dissonanza come dissonanza. Ciò ci porta subito a situare la problematica musicale della scuola di Vienna nell'orizzonte espressionista in cui essa si situa. Talora si ha la sensazione che questo aspetto venga messo in ombra quasi rappresentasse un elemento che potrebbe essere sentito come "diminutivo" rispetto alla rivoluzione teorica e musicale di cui Schönberg fu promotore. Niente di più erroneo. Schönberg è interamente partecipe delle ansie e delle angosce crescenti dell'intellettualità europea più consapevole di fronte al crollo di un patrimonio di valori che conduce, da un lato alla guerra mondiale, dall'altro al marasma sociale del dopoguerra, alla rivoluzione di ottobre e alle speranze da essa suscitate, al drammatico fallimento dei tentativi rivoluzionari in Europa e all'avvento del fascismo e del nazismo. Questo clima storico e sociale genera in molti strati della 295 cultura e dell'arte europea un'at­mosfera di esasperata tragicità. Per quanto Schönberg potesse sentirsi estraneo alle vicende politiche, tutto immerso in una meditazione artistica straordinariamente profonda, le vicende sociali e le atmosfere che esse producono lavorano in profondità, e da esse fu segnato sino alla produzione più tarda. Inoltre come ebreo non poteva certo non sentire sulla propria pelle ciò che gli accadeva intorno. Come ebreo fu costretto a prendere la via dell'esilio negli Stati Uniti, nel 1933. - Occorre non solo parlare del tragico, ma della sua esasperazione. Non a caso la forma della tragedia è tipica del classicismo. In essa vi è la massima intensità delle passioni: vi sono figure di eroi, nel bene come nel male; grandi personaggi, grandi avvenimenti, la morte e l'amore trovano la loro celebrazione e sublimazione. Quindi, anche artisticamente, la tragedia è compatibile con l'ordine, con la misura, con una nobile compostezza. Invece ciò che conta nell'orizzonte espressivo della scuola di Vienna è un ordine lacerato, nel quale proprio nulla può essere celebrato e sublimato. Non vi sono personaggi grandi, nel bene o nel male, e nemmeno eventi memorabili. Alla grandezza del personaggio tragico deve subentrare la maschera dolente del personaggio da circo, del buffone da cabaret (Pierrot Lunaire). L'assassino è un miserabile assassino. Ed è anch'egli una vittima (Wozzeck). Il patrimonio simbolico della dissonanza - Come potremo dare voce a questa lacerazione ed a questa esasperazione con la nostra vecchia triade maggiore, con il domisoldo - con la consonanza che è sempre stato sinonimo sonoro di appagamento e di soddisfazione? Si fa così avanti l'idea di riattivare il patrimonio simbolico della dissonanza, dando ad esso il massimo dispiegamento e sviluppo possibile: e dunque, nello stesso tempo l'idea della possibilità di un linguaggio musicale che superi la tonalità, superando il principio di consonanza che sta alla sua base. 296 - Forse molti avranno di che obbiettare a che si parli di patrimonio simbolico della dissonanza, ed in effetti questa formulazione non avrebbe senso se si accettasse l'idea formulata da Schönberg secondo cui la dissonanza non sarebbe altro che una consonanza più lontana (nell'ordine degli armonici) cosicché non sarebbe più il caso, come molti pensarono dopo di lui, di distinguere tra l'una e l'altra, trattandosi solo di una differenza di grado. Vi sarà inoltre certamente qualcuno che ci farà benevolmente notare che un accordo dissonante - lun­gi dall'assumere necessariamente valenze di conflitto e di contrasto - può essere fatto risuonare tanto teneramente da suscitare la nostra più viva commozione. Su ciò non è il caso di stare a discutere più di tanto: è necessario infatti non troppo sforzo del pensiero per notare che, se ciò accade, accade perché si sono messe in opera determinate procedure tese ad ottenere questo risultato, ad esempio si sono utilizzate certe timbriche piuttosto che altre, si è ricorsi ad un piano o ad un pianissimo, ed altre eventuali tecniche di attenuazione capaci di operare in controtendenza - e questo mostra ancora che vi è una sorta di senso immaginativo primario latente che lega la dissonanza alla durezza, alla conflittualità, all'in­saturazione. - Forse ciò che distoglie l'attenzione dall'"atrocità" (Jankélévitch) della dissonanza è proprio la teoria che conduce all'atonalità ed alla dodecafonia che viene proposta come se questi sviluppi fossero il risultato di una evoluzione necessaria del linguaggio tonale. La crisi del linguaggio tonale va considerata va dunque considerata, secondo questo orientamento, come una crisi interna. Questa prospettiva di discorso è stata poi universalmente accettata dalla critica musicologica che ha spesso parlato di "estreme conseguenze", secondo una ingenua visione teleologica. Schönberg "fu il più radicale nello spingere alle estreme conseguenze la crisi del linguaggio tonale preannunciata nel cromatismo del Tristan und Isolde (1857)" (Rognoni, 1963, p. 113). "Nei Canti di Gurre Schönberg porta alle estreme conseguenze il cromatismo wagneriano…" (Gentilucci, 297 1969, p. 370. L'errore sta qui nell'idea (di origine idealistico-storicistica) che vi sia una sorte di legge necessaria dello sviluppo. Cosa del tutto diversa è vedere nel cromatismo un elemento che, se impiegato in determinati modi, può indebolire l'ordine tonale interno di una composizione. La differenza sembra poca, ma è invece nettissima. Che il cromatismo del Tristano debba finire proprio lì è del tutto legittimo dubitare. Peraltro il passato lo si guarda dal presente; e prendiamo atto che questo è il senso che assume il cromatismo del Tristano visto dal presente dell'atona­lismo. - Che si pretenda che la dissonanza non sia altro che consonanza è un segnale significativo della duplice pretesa avanzata dalla scuola di Vienna: la novità radicale deve essere proposta mantenendo uno stretto legame con la tradizione. Anche l'abusata formula delle "estreme conseguenze" dice ad un tempo due cose: estremismo sì, ma conseguente. Il "nuovo" deve essere legato a fil doppio a ciò che sta alle spalle. L'e­spressione di atonalismo viene del resto rifiutata in modo talora particolarmente vivace proprio, io credo, per il fatto che sembra rompere troppo nettamente con la tradizione. Secondo Berg "atonale" è addirittura un'espressione "diabolica"; "una parola eternamente estranea ai veri musicisti": "Comun­que noi della Scuola di Vienna troviamo prefigurato, anzi confermato, nella musica di Mozart quello che facciamo noi" (Berg, 1995, p. 287 e p. 295). Non esageriamo. E perché poi dovrebbe essere importante rivendicare un simile antecedente? Dodecafonia e tonalità - Questo atteggiamento lascia più di un segno anche sul terreno dell'elaborazione della teoria dodecafonica. Le regole della dodecafonia seguono l'intento di un superamento radicale del linguaggio tonale, ma quelle stesse regole trovano la loro giustificazione proprio nella forma di quel linguaggio e nei suoi scopi. 298 La costruzione del nuovo metodo di composizione con dodici note è guidata dalla convinzione che alla cancellazione della tonalità debba subentrare una forma di espressione altrettanto coerente, altrettanto internamente giustificata, altrettanto strutturata e persino altrettanto avvertibile sul piano della percezione musicale di quanto lo era quella del linguaggio tonale, così da ricreare un linguaggio in grado di sostituirlo validamente. È significativo da questo punto di vista che, per quanto riguarda il modo di concepire questo metodo, Schönberg oscilli tra una personale scelta compositiva, e qualcosa invece di assai più impegnativo sul piano della teoria e dell'estetica: come una teoria scientifica che prima o poi si sarebbe insegnata nei conservatori esattamente come si insegnava all'inizio del novecento (e tuttora) l'armonia tonale: "Verrà un giorno in cui sarà la capacità di ricavare materiale tematico da una serie fondamentale di dodici note ad essere richiesta come requisito indispensabile per ottenere l'amissione alla classe di composizione di un conservatorio" (Schön­­berg, 1975, p. 118). Perciò egli sottolinea il carattere di scoperta, e non di invenzione della teoria. Questa opinione è condivisa da Eimert: non si tratta di un'invenzione tecnico-musicale: "Invece la tecnica dodecafonica, se è una vera legge della musica, non è stata inventata, ma scoperta, svelata storicamente come stadio strutturale della materia musicale; è stata tanto poco 'inventata' quanto lo fu la struttura formale della fuga o il primo deciso 'inquadramento' dell'elemento cromatico nel madrigale del sec. XVI" (Eimert, 1954, p. 72). - Parlando dell'Ode a Napoleone Bonaparte (op. 41), Rufer osserva che Schönberg mette in luce sorprendenti nessi interiori tra la musica tonale e quella dodecafonica, e indica "una strada per giungere al loro collegamento organico che dimostra come essi non siano se non due lati differenti di uno stesso processo umano di pensiero e di creazione". E ciò indipendentemente dal fatto che "la serie che è alla base di quest'o­pera mostra sul piano melodico e armonico una tendenza tonale", dal momento che in 299 ogni caso si tratta di una composizione strettamente dodecafonica (Rufer, 1962, p. 157). - Io credo che mai nella storia della musica l'idea dell'unità abbia ricevuto una formulazione così stretta come nella dodecafonia. "Unità e ordine erano stati i due principi che mi avevano guidato inconsciamente per quella strada" (Schönberg, in Rufer, 1962, p. 34). "L'unità è sempre stata la mia preoccupazione principale" (Schönberg, 1941a, p. 242). L'interesse verso la dodecafonia - commenta Rufer - è dovuto al fatto che essa "metteva nuovamente a disposizione un ordinamento normativo che dava unità e coesione tanto al materiale sonoro svincolato dalla tonalità... quanto all'ela­ borazione di questo ai fini della composizione... un ordinamento che .... stabiliva un collegamento immediato e creativamente fertile con la musica dei maestri classici e preclassici" (ivi, p. 11). Risulta perciò naturale per Rufer fare numerosi richiami al linguaggio tonale non solo per ribadire la necessità e l'inevitabilità del suo oltrepassamento ma anche per trarre proprio dal linguaggio tonale un insieme di conferme. Il metodo dodecafonico "doveva assolutamente essere scoperto". Schönberg comprese la capacità del metodo di "conferire ordine e unità" alla musica (1962, p. 33). La stessa espressione così spesso ripetuta da Schönberg "senso della forma" per Rufer significa soprattutto "nuovo ordine", "nuova norma". Avere una forma significa allora - in questo contesto - qualcosa di simile ad essere costituito da parti coerenti l'una all'altra, la vecchia idea dell'unità organica del tutto. L'ordina­mento tonale deve essere considerato come un "elemento importante al fine di costruire e assicurare la forma"; analogamente "se la musica non tonale era il risultato di un'evoluzione organica genuina e feconda... alla sua base ci doveva essere un'idea generale, una legge" (Rufer, 1962, p. 34). È opportuno rammentare che l'elaborazione della Teoria della composizione dodecafonica di Rufer, da cui sono tratte queste citazioni, fu seguita e approvata da Schönberg stesso. 300 - Alla problematica dell'unità appartiene anche l'idea che l'opera intera scaturisca da ciò che Rufer chiama Einfall, e cioè da un unico nucleo da cui tutto scaturisce e che rappresenta pertanto la radice unitaria dell'opera. Ciò vale anzitutto per la musica tonale - e un analogo principio deve imporsi nella musica dopo la tonalità. Questo pensiero musicale creativo che è l'Einfall sta oltre e prima del fatto musicale, ma deve comunque esprimersi in una figura musicale, una figura fondamentale da cui scaturiscono varianti e sviluppi: per la tonalità si tratta del tema, per la dodecafonia della serie originale - l'uno e l'altra hanno la stessa funzione e lo stesso significato. Nel linguaggio tonale "l'intero complesso di temi apparentemente indipendenti di un brano deriva da un'unica idea fondamentale ... a prescindere dalla questione se i rapporti siano riconoscibili e dimostrabili in ogni singolo caso. Questa tesi corrisponde al postulato dell'unità dell'opera d'arte. L'unità esiste anche quando non si mostra" (Rufer, 1962, p. 44). Quest'ultima frase dà da pensare: essa allude non tanto alla possibilità di un'esibizione analitica, quanto all'indifferenza rispetto ad una concreta esibizione uditiva. In essa si pensa certamente, non tanto al nesso tra i temi in un brano tonale, che sono concretamente avvertiti, ma alla serie che pur essendo onnipresente forse non si mostra. Unità e ripetizione - Se ci si chiede perché un compositore debba attenersi in modo ferreo alla regola di ripetere la serie e le sue varianti, almeno in via di principio, in modo inesorabile, tutt'intera, e lungo l'intera opera, la risposta la si deve cercare proprio nel problema dell'unità che si attribuisce al linguaggio della tonalità, ma portandolo nello stesso tempo ad un'esasperazione che è ad esso ignota. Ciò vale anche per la domanda perché la serie debba essere in un brano una soltanto, e non più di una. "Mentre questo processo richiede la continua ripetizione della serie, essa permea così al 301 tempo stesso l'intero organismo dell'opera - fenomeno paragonabile all'on­nipresenza dell'or­di­na­mento tonale - le conferisce unità e crea così una possibilità di rapporto con una radice melodica anziché armonico-tonale. In questo modo la legge della serie rientra e si risolve nella legge superiore della concatenzione musicale, della forma, ossia in quella legge che è il prodotto dell'evoluzione della musica occidentale" (Rufer, 1962, p. 165). Ed ancora: "Im­piegare più di una serie in un pezzo contraddice al senso e alla funzione formale della serie dodecafonica, annulla questa funzione... " (p. 130). Idea della serie - Lo spazio sonoro nella dodecafonia è definito dalla serie, e precisamente dalla rete relazionale che risulta dai rapporti delle note di cui essa è composta e dalle sue possibili modificazioni strutturali. Le note a loro volta debbono abbracciare il "totale cromatico" - come talvolta si usa dire - ed una ovvia conseguenza di ciò è che all'in­ter­no della serie nessuna nota può essere ripetuta. Qui ci occupiamo unicamente dell'impianto teorico e non delle eventuali eccezioni che il compositore può sempre concedersi. Stando a questo impianto nello svolgimento compositivo della serie una stessa nota può essere ripetuta alla sola condizione che le ripetizioni si trovino in successione immediata, caso in cui si può effettuare il cambiamento di ottava. Eimert (1954, p. 51) che in realtà ha una propria teoria della tecnica dodecafonica che è 302 stata elaborata in parziale autonomia da quella schoenberghiana, ammette la possibilità di ripetizioni di brevi elementi motivici - libertà che è talvolta presente anche in Schönberg. - Il pensiero musicale su cui un brano viene strutturato viene chiamato da Schönberg "serie fondamentale" oppure "serie originale". Si tratta naturalmente della figura fondamentale di cui parla Rufer. Il materiale del brano sarà rappresentato dalla serie stessa, dalle sue varianti strutturali (forme a specchio) e dalle loro trasposizioni. Si tratta evidentemente di una molteplicità che vale come stretta unità - ed è per questo che si può dire che il brano nella sua interezza deve constare di null'altro che di ripetizioni della serie fondamentale. Vige poi la regola che la serie, in qualunque delle sue forme possibili, una volta iniziata, deve essere condotta a termine. Essa potrà essere usata sia orizzontalmente che verticalmente, e questo anche secondo segmenti (quindi in parte orizzontalmente e in parte verticalmente). Inoltre la serie è considerata astrattamente in modo indipendente dalle altezze ("l'ordine di successione dei suoni della serie è importante, senza riguardo alla loro posizione" (Krenek, 1965, p. 7), cosicché il suo impiego concreto potrà contare sulle ottave delle note di cui è composta, e questo rappresenta un'ulteriore, fondamentale, possibilità di mutamento. Regole semplici e, almeno in via di principio, inesorabili. Si tratta di un sistema compositivo che è il più vincolante che la storia della musica abbia mai conosciuto. Quando è stata scritta una nota, la successiva è già data, ed anche la successiva della successiva... - Le regole sono strettamente conseguenti alle scelte iniziali operate. Anzitutto la scelta che la serie contenga tutte le dodici note. Il divieto di ripetere la stessa nota all'interno della serie è dovuta non tanto al fatto, come talvolta si ripete, che si genererebbe un peso tonale sulla nota ripetuta (la ripetizione genera maggior peso anche indipendentemente da ogni riferimento alla tonalità 303 o inversamente la "tonicalizzazione" di una nota richiederebbe ben più che la semplice ripetizione), ma al fatto che la serie deve constare di dodici note, né una di più né una di meno. La regola di enunciare sempre la serie dall'inizio alla fine, si comprende meglio se formulata come divieto di spezzare la serie o di cominciarla in un punto qualunque. E' abbastanza facile rendersi conto che se io posso interrompere la serie dopo tre note, e riprenderla in un altro punto qualsiasi, e poi nuovamente interromperla e così via il riferimento alla serie tenderebbe a perdere del tutto di senso: tanto varrebbe ricollegarsi semplicemente a note qualunque comprese nella scala cromatica. Si tratterebbe semplicemente di note in libertà, un rischio che Schönberg teme al massimo grado. Nulla è più estraneo allo spirito della dodecafonia che l'idea dell'aleatorietà. - Nella pratica compositiva vi sono poi eccezioni variamente motivate alla regola della ripetizione all'interno della serie ed all'enunciazione completa della serie, ma qui vogliamo mantenere l'attenzione al quadro generale del problema, che è quello più significativo dal punto di vista della teoria. Totale cromatico - L'espressione "totale cromatico" è fortemente equivoca per il fatto che nel contesto della teoria dodecafonica va inevitabilmente perduto il senso autentico del cromatismo. La scala cromatica è il puro materiale di cui la serie è fatta. Ciascuna nota deve valere per se stessa e nella sua relazione rispetto alle altre in una prospettiva strettamente discretistica: i dodici suoni sono esattamente punti, non vi sono transizioni tra l'uno e l'altro tali per cui l'uno possa essere un passaggio verso l'altro. Questo è anche il motivo per cui in questa linea di tendenza non si è interessati in nessun modo a qualcosa di diverso dal sistema temperato (equalizzato) di cui in certo senso rappresenta una sorta di apoteosi. 304 Intervallo e numero dei semitoni - Ciò pone anche problemi di scrittura coerenti con una simile presa di posizione. La differenza tra diesis e bemolle viene del tutto meno e la notazione corrispondente viene mantenuta solo per ragioni puramente pratiche, come un ricordo delle scritture tonali che ha lo scopo di facilitare l'esecuzione del brano. Si tratta di un problema di pura "chiarezza grafica" (Krenek, 1965, p. 8). Non si abbandonano certe consuetudini perché sono appunto consuetudini e sarebbe faticoso cambiarle: così si parlerà ancora di terze maggiori, minori, quinta diminuita, ecc., espressioni che non hanno più senso o hanno un senso interamente diverso in quanto dovrebbero essere intese come puri nomi di intervalli la cui grandezza va misurata in semitoni. Eimert: "...i compositori dodecafonici distinguono (forse non correttamene, e tuttavia con una certa logica) fra diesis e bemolle. Un sistema dodecafonico esatto dovrebbe procedere in modo diverso" (Eimert, 1954, p. 27). - Krenek suggerisce di contrassegnare gli intervalli con espressioni numeriche relative al numero dei semitoni di cui è costituito. "Infatti, in ogni intervallo, ha importanza soltanto il numero di semitoni" (1965, p. 14). Questo sarebbe del resto un modo di fare tabula rasa non solo dei termini ma della concettualità tradizionale, rendendo anche più agevoli eventuali elaborazioni formali. Vi è tuttavia un piccolo dettaglio di cui sarebbe opportuno non dimenticarsi: per l'orecchio la frase "ciò che importanza è soltanto il numero dei semitoni" è semplicemente falsa. Ciò che viene udito è un intervallo, con il suo determinato carattere e profilo, e non una somma di semitoni. - La denominazione degli intervalli mediante numeri - e dunque mediante misure, si tratti del semitono oppure dei centesimi di semitono - può essere utile per poter disporre di designazioni di carattere generale, non compromesse con uno stile musicale, 305 senza che ciò implichi necessariamente prendere posizione sulla natura meramente quantitativa degli intervalli. Tuttavia il suggerimento proposto da Krenek fa pensare che l'idea portante della teoria degli intervalli nella dodecafonia sia che un intervallo differisca dall'altro solo nella quantità e non nella qualità - e questa potrebbe essere una formulazione equivalente della tesi secondo cui tutti gli intervalli debbono avere eguale valore. La serie illustrata attraverso un esempio - Per illustrare sia pure sommariamente l'operare con la serie, conviene indugiare un poco su un esempio. Consideriamo la serie fondamentale (originale) del Quintetto per strumenti a fiato op. 26 di cui Schönberg stesso parla come di "una delle mie prime composizioni in questo stile" (1975, p. 117) e di cui fornisce qualche frammento di analisi ripreso e un poco sviluppato da Eimert (1954, p. 67) Tale serie si presenta così: La serie qui supera l'ambito dell'ottava e occasionalmente la nota più acuta e la nota più grave stanno rispettivamente all'inizio e alla fine della serie, ma entrambe le circostanze non hanno particolare significato perché la nota più grave o più acuta può stare ovunque all'interno della serie e l'ottava a cui appartiene la nota della serie può essere, nella sua elaborazione, modificata a piacere. Le serie in genere non hanno nel­l'ot­tava alcun vincolo, e tanto meno una delimitazione. Tuttavia il fatto che in ogni caso le note in ottava siano "spe­cifi­ca­men­te" le "stesse", al di là del­l'altezza, giustifica la regola che ogni suono della serie, nel 306 suo impiego concreto, possa essere sostituito dalle sue ottave. Facendo ricorso a ottave diverse per la stessa nota si ottiene un elemento di varietà di fondamentale importanza. Avvalendosi di questa possibilità di passare all'ottava superiore o inferiore, un intervallo discendente, ad esempio, può ripresentarsi come ascendente o inversamente, e l'intervallo stesso cambia di conseguenza: la nota resta la stessa (a meno dell'ottava), ma l'intervallo con la nota precedente e la nota successiva si muta nel suo rivolto. Nel nostro esempio, l'intervallo iniziale discendente di sesta minore, diventa un intervallo di terza maggiore assumendo il mi bemolle nell'ottava inferiore. Si tratta in realtà di modificazioni importanti nei rapporti intervallari e quindi nel concetto stesso di identità della serie - considerazione che a mio avviso non viene solitamente messa adeguatamente in rilievo. Stabilendo l'in­dif­ferenza della regione sonora, il mantenimento dell'identità qualitativa specifica della nota ha la meglio sul sistema di relazioni intervallari. Da questo punto di vista potremmo dire che la "sostanza" prevale sulla "relazione" (mentre nello spirito di fondo della dodecafonia dovrebbe valere il contrario). Questa equiparazione di valore dei rivolti - che ha un significato meramente formale - in realtà "indebolisce" la rigidità della struttura, ovviamente a tutto vantaggio della possibilità di ela­borazione musicale. Sarebbe realmente sbagliato ritenere che l'ottava non abbia importanza nella dodecafonia! Ed io non sono certo che, come sostiene Eimert, "il salto di ottava non modifica minimamente l'immanente struttura dodecafonica... i salti di ottava vanno giudicati in rapporto con la melodia, ma non in rapporto con lo schema della serie" (Eimert, 1954, p. 23). Le graffe poste sotto il rigo sono la sottolineatura grafica di un raggruppamento. Il considerare la serie come formata da gruppi attira l'attenzione sul fatto che la serie ha una sua propria articolazione interna. Più precisamente: questa circostanza non riguarda la serie in se stessa, ma il modo in cui il musicista la intende e la predispone, secondo questo modo di intenderla, all'elaborazione. Anche questo punto è particolarmente importante 307 per il fatto che, benché la serie sia comunque puro materiale per la composizione, ed in essa non si debba vedere un tema vero e proprio, tuttavia la presenza di un'articolazione in gruppi sottolinea il suo aspetto motivico-tematico. "La serie fondamentale funziona come se fosse un motivo" - osserva esplicitamente Schönberg (1941b, p. 111) - e come ogni motivo dell'armonia tonale essa è internamente articolata. In questo caso la serie viene proposta come suddivisa in due parti di sei note. Nel quintetto la serie nella sua forma originale viene subito esposta dal flauto e l'articolazione in due sezioni, che indicava nella serie originale una pura "inten­zio­ne", in questa elaborazione assume una precisa concretezza musicale essendo la prima parte nettamente separata dalla seconda mediante una pausa piuttosto ampia. - Si noti inoltre quanto profonda sia la modificazione della serie proprio dal punto di vista delle relazioni intervallari ad opera degli spostamenti di ottava. In particolare sono completamente can­cellati i due segmenti di scala a toni interi che appartengono sia alla prima che alla seconda sezione della serie. - Nella serie non compaiono semitoni, ma naturalmente l'in­ tervallo di nona minore al termine di prima sezione può trasformarsi, con una modificazione dell'ottava in un semitono. Non compaiono invece intervalli semitonali successivi: ciò cor­ risponde alla regola generale stabilita da Schönberg per la costruzione delle serie dodecafoniche: esse non debbono richia­mare in nessun modo la scala cromatica - ovvero nella serie so­no esclusi i cromatismi. Un semitono è un intervallo come un altro, due semitoni successivi ed a maggior ragione tre o quattro sarebbero 308 da considerare cromatismi. Per ragioni inter­ne, giustificate sotto il profilo musicale e teorico, il cromatismo non ha più spazio. Ovviamente intendiamo qui il fenomeno della transizione cromatica: esso è nella serie, almeno in via di principio, severamente proibito. Il fatto che vengano usate nella serie tutti i dodici suoni della "scala cromatica" non ha nulla a che vedere con questo problema. La posizione dodecafonica può essere considerata come una cancellazione radicale del fenomeno autentico del cromatismo. Lo Schönberg pittore, rifiuta nella musica proprio il colore - la parola "co­lo­ri­ smo" ha in lui una valenza nettamente negativa (1941, pp. 13132). - Il nostro esempio mostra con molta nettezza il passaggio dalla serie alla sua elaborazione ritmica possibile. Attraverso quest'elaborazione la serie può diventare un "tema vero e proprio", si possono creare "motivi" ricorrenti o simili in essa, nelle sue varie forme, ecc. Il ritmo di cui si parla è naturalmente essenzialmente il ritmo considerato come momento interno della melodia - e in particolare il ritmo fondato sulla differenza delle durate. La "vivacità ritmica è condizione essenziale di questo stile" e l'"uso insistente di disegni ritmici uniformi produrrebbe una monotonia, meno ammissibile in questo stile che in qualunque altro" (Krenek, 1965, pp. 10-11) - Diamo ora un breve sguardo alla elaborazione a più voci della serie. Molto classicamente, in questo quintetto il flauto assume subito la parte di enunciare la serie per così dire apertamente e completamente, cominciando dalla serie originale per proseguire con la forma retrograda e la forma inversa. Si noti come tutte e tre le forme in questa esposizione sono connesse dalla stessa nota che fa da trait d'union tra l'una e l'altra rappresentando la nota finale della forma precedente e la nota iniziale della successiva. Nei grafici successivi abbiamo eliminato per ragioni di chiarezza tutti i segni dinamici. 309 Si tratta di una parte principale, mentre le altre voci avranno una parte di "accompagnamento", come si esprime lo stesso Schönberg. Questa si avvale della seconda sezione della serie principale, cosicché si mostra qui un'altra funzione che egli attribuisce al raggruppamento in sezioni della serie: "Questi raggruppamenti servono soprattutto a dare una certa regolarità alla distribuzione delle note, nel senso che le note utilizzate nella melodia vengono nettamente distinte da quelle destinate all'accompagnamento, alle armonie, agli accordi o alle parti richieste dal tipo di strumentazione, dallo strumento, dal carattere o da altre esigenze del pezzo. La distribuzione può variare o svilupparsi a seconda dei casi, in modo analogo alle trasformazioni di quello che io chiamo il 'motivo del­l'accom­pagmento'"(Schönberg, 1975, p. 119). Nello stesso tempo si chiarisce la possibilità di fare un certo uso relativamente autonomo delle sezioni delle serie che talora vengono proposte senza l'"antecedente" o il "conseguente" oppure, come accade qui, invertendone l'ordine. La serie in genere può poi essere proposta sia in orizzontale sia in verticale, attraversando le voci. In effetti è ciò che qui accade nelle parti dell'oboe, clarinetto e del corno in corrispondenza alla prima sezione della serie enunciata dal flauto Segue immediatamente al di sotto della serie originale, la prima parte di questa, sempre passando attraverso le voci. 310 311 La serie realizza un percorso che seguito linearmente può essere assai tortuoso e creando situazioni accordali che possono associare verticalmente un elemento della serie con un altro qualunque (e non dunque semplicemente con il successivo), potendo così generare con opportuni accorgimenti accordi di terze sovrapposte che ricordano il passato tonale (il precedente segmento termina su un rivolto di un accordo di nona). I­struttiva è anche la fase immediatamente seguente (batt. 6), in cui le parti dell'oboe, del clarinetto e del corno realizzano nove posizioni della serie originale che può essere completata ricollegandosi alle tre ultime note della serie che nella stessa battuta sono presenti nella parte del flauto. È interessante notare che in questo caso (a parte la tortuosità del percorso che è massima) la serie originale viene "pensata" come suddivisa in quattro sezioni anziché in due e che l'ultimo ordinamento verticale presenta un rivolto di un accordo di settima. Nel momento in cui si apre, nella voce principale il retrogrado dell'originale, anche le altre voci propongono la stessa 312 serie, ma mentre l'oboe propone la prima sezione, il corno e il fagotto propongono la seconda, e il clarinetto arriva a nove note (che volendo possono trovare completamento nelle ultime tre del flauto). Infine la serie retrograda del fagotto è preceduta da un motivo di tre note che deriva dalla trasposizione delle prime tre note della serie originale. - Anche una simile considerazione ravvicinata di un numero ridottissimo di battute è in grado di suggerire molti problemi e molti interrogativi. È subito evidente di come possa diventare complicata l'analisi di un brano, se scopo dell'analisi è quello di andare a caccia della serie nella molteplicità delle sue forme e del loro modo di essere introdotte ed elaborate all'in­terno di un brano. Tra l'altro in queste poche battute sono praticamente assenti le forme trasposte che aprono a dismisura, insieme all'impiego di ottave differenti, le possibilità a disposizione. A ciò si aggiunge l'uso che può essere più o meno libero dei raggruppamenti; probabilmente la complicazione maggiore, per l'analisi, sarà data dalla libertà con cui la serie passa attraverso le diverse voci molto spesso sovrapponendosi a se stessa. In questo modo si formano "accordi" che possono non riguardare soltanto note appartenenti a forme diverse della serie - siano esse le forme di base o le 313 loro trasposizioni - ma anche note che appartengono alla stessa serie, ma che non sono successive. (L'accordo dodecafonico tipico secondo l'idea della serie dovrebbe essere la disposizione verticale di note contigue della serie, non ancora proposte nello sviluppo della serie, eventualmente variamente rivoltate - così almeno si sarebbe portati a pensare). Giocando sulle differenze ritmiche, le possibilità di incontri accordali sono realmente illimitate. Sembra anche che si possa dire che concependo le cose in questo modo, la scelta della dissonanza sia effettivamente una scelta da fare di volta in volta sia per ciò che riguarda la strut­tura della serie originale, sia per quanto riguarda le formazioni accordali producibili nell'elaborazione musicale - e che non sia dunque strettamente dipendente dall'impiego del metodo dodecafonico. - Vi sono poi due problemi che sono del resto strettamente collegati tra loro. Uno lo pone molto lucidamente Eimert che non solo sottolinea la difficoltà di compiere un'analisi delle composizioni seriali al fine di estrarne la struttura in termini di impiego della serie: "L'analisi di simili composizioni seriali non è sempre semplice e richiede molta pazienza nella faticosa ricerca degli elementi... esiste una musica dodecafonica che non si può analizzare senza un'indicazione del compositore..." (Eimert, 1954, pp. 67-68), ma avanza anche qualche dubbio sull'utilità di una simile analisi, invitando l'analista a rivolgersi piuttosto ad elementi chiaramente percepibili nella struttura della composizione che fanno poi dell'appa­rato stru­mentale della tradizione: "forme contrappuntistiche, come imitazione, canone, fugato, ecc., elementi formali e caratteri espressivi, come 'primo' e 'secondo' tema, funzioni formali, architettoniche ed emozionali della musica di ogni genere..." (p. 68). Si tratta di un'osservazione molto acuta: di fatto la composizione dodecafonica elabora la serie puntando sulle forme classiche del contrappunto che sono in fin dei conti visibili e percepibili. Così nel nostro breve esempio, quale sia la serie è subito chiaro perché il compositore ha deciso, come se 314 si trattasse un tema normale di una composizione tonale, di farcelo ascoltare distesamente ed interamente nella voce-guida del flauto ed all'inizio del brano, e importa forse abbastanza poco che poi la stessa struttura sia inafferrabile come tale nel complicato viaggio attraverso le voci, il cui tracciato talora è persino difficile cogliere visivamente. Comprensibilità - Ciò ci fornisce forse qualche spunto per delineare il problema della comprensibilità di cui si è tanto spesso discusso all'epoca dell'introduzione del metodo dodecafonico. Schönberg ha spesso attirato l'attenzione sulla comprensibilità del brano: a suo avviso, essa è legata a fil doppio all'esistenza di una grammatica riconoscibile, esattamente come la comprensibilità di un discorso è legata al fatto che esso è organizzato secondo un ordine grammaticale ben definito. In rapporto ad uno stile compositivo che è stato spesso considerato "astruso", Schönberg dichiara senza mezzi termini che "la composizione con dodici note non ha altro scopo che la comprensibilità" (Schönberg, 1941b, p. 106) - una formulazione fortissima che va presa alla lettera se vogliamo capire realmente le ragioni interne delle "regole" della dodecafonia. - Ma che cosa si intende poi con "comprensibilità"? Probabilmente il modello di unità proposto dalla tonalità è, a questo proposito, ancora normativo. In esso gli elementi di coesione strutturale arrivano alla superficie del brano e appaiono all'ascolto, anche al di là di una comprensione "analitica". Io penso che questo problema venga ereditato dal problema schoenberghiano della comprensibilità. Tuttavia anche soltanto le complicazioni e gli intrecci che incontriamo nelle prime battute dell'op. 26 mostrano che il fatto che l'unità interna del brano dodecafonico debba apparire all'ascolto non implica che la serie debba essere ovunque udita come tale nel suo corso. È qui che sorge il 315 problema colto da Eimert. Se si considerano le composizioni concretamente realizzate si nota ben presto che entrano in gioco mezzi per dare unità che non si limitano alla presenza percettiva della serie, ma artifici che fanno parte della musica di sempre, imitazioni, ricorrenze, incisi ritmici caratteristici, insistenze su determinati intervalli. Persino il principio formale della ripetizione della serie può, attraverso opportuni accorgimenti, presentarsi non tanto come una "giustap­posizione", ma come un percorso che riprende procedimenti musicali del passato che assumono la forma di uno sviluppo. Nello stesso tempo non va trascurato (come nel caso di un brano tonale) che la serie, avvertita o meno come tale, rappresenta comunque un'unità profonda che è destinata a "farsi sentire" sul piano delle sintesi passive. - La questione della comprensibilità risulta spesso malposta, sia quando viene considerata in positivo che in negativo. In realtà, porre l'esistenza di un principio formale e la sua manifestazione percettiva come condizione di comprensibilità implica una concezione troppo restrittiva del "comprendere" nella musica e naturalmente in primo luogo della pratica del comporre. In secondo luogo la nozione di "comprensibilità" deve essere lasciata del tutto aperta, essendo una nozione il cui senso deve essere rimesso di continuo in discussione in rapporto alla varietà delle pratiche compositive e delle possibilità espressive della musica. Spazio musicale in Schönberg - Il problema della comprensibilità è messo in particolare evidenza dal modo duplice in cui Schönberg parla di "spazio musicale". Con questa espressione viene intesa anzitutto la serie stessa. L'utilizzo di questo termine può essere giustificato dal fatto vi è nel­la serie un richiamo alla totalità - le dodici note - ed un richiamo allo schema intervallare, quindi alla relazione. Totalità e sistema di relazioni sono nozioni che propongono angolature 316 significative da cui proporre il tema dello spazio in genere. Ma quando Schönberg viene a parlare delle quattro forme, egli pensa di poter parlare della serie avvalendosi di un'analogia non tanto con lo spazio, quanto con la cosa che sta in esso: un coltello, una bottiglia, un orologio. Egli scrive così: "Come possiamo riconoscere un coltello, una bottiglia o un orologio in qualsiasi posizione essi si trovino, e possiamo immaginarli in tutte le posizioni possibili, così un creatore musicale può operare spontaneamente con una serie di note, non tenendo conto della loro direzione e dei riflessi delle loro relazioni che restano una quantità invariabile"(1941b, p. 115). - Pensa ad un filo di ferro modellato in un certo modo, un uncino, ad esempio - che viene colto nella sua identità di cosa nelle diverse posizioni che può assumere nello spazio. Si comprende così che la serie possa essere considerata non solo come sistema di relazioni che intercorrono tra una totalità compiuta di note, ma anche come un'invariante rispetto a determinate modificazioni formali. Potremmo dire: ora come spazio, ora come cosa, indifferentemente. - Schönberg parla una volta di una "legge relativa all'unità dello spazio musicale" che formula in questo modo: l'unità dello spazio musicale richiede una percezione assoluta e unitaria" (1975, p. 115). La frase non è certo troppo chiara, ma mi sembra possa essere spiegata dall'osservazione fatta or ora: muovendosi nello spazio, un oggetto si presenta sotto aspetti differenti, ma la percezione della sua unicità, sopprime la relatività di questi aspetti ed una simile percezione, che viene detta assoluta proprio per il fatto che opera questa soppressione, rappresenta una condizione per conferire allo spazio musicale stesso la sua unità. Detto in una parola: la serie deve essere riconoscibile nel brano al di là di tutte le sue modificazioni formali in maniera tale che si riesca percettivamente a legare identità e mutamento. 317 - La dissoluzione dello spazio tonale operata dalla dodecafonia è naturalmente anzitutto un "attacco" all'elemento armonico che è da esso eminentemente caratterizzato. Ciò non significa certo che in Schönberg si affermi un pensiero musicale orientato al libero prevalere della melodia. Il classico rapporto tra armonia e melodia viene semplicemente scompaginato. - Intanto è bene mettere in chiara evidenza un punto che assume particolare importanza: in Schönberg l'elemento "spa­ziale" (quindi l'elemento architettonico della struttura musicale) è assai più importante di quello temporale, dello scorrere del brano nel tempo. Secondo Rufer, Schönberg parlava di "unità di tempo e spazio dal punto di vista musicale" (1962, p. 65) - di indifferenza rispetto al­l'u­na o all'altra dimensione. Quest'indifferenza sarebbe in grado di giustificare l'impiego della serie sia in senso "motivico-melodico" (orizzontale) sia in senso "armonico" (verticale), adottando la consueta e del tutto discutibile analogia dell'elemento armonico con lo "spazio" e l'elemento melodico con il "tempo". Ma ciò che conta è la componente architettonica del brano. Ecco come si esprime con estrema nettezza Schönberg stesso: "La musica è un'arte che si realizza nel tempo. Ma per il compositore la rappresentazione dell'opera d'arte non ne dipende; il tempo è considerato come spazio. Nella stesura scritta lo spazio è rovesciato nel tempo. Per l'ascoltatore il processo è inverso: solo dopo lo svolgimento dell'opera nel tempo la vede nella sua totalità, ne afferra l'idea, la forma, il contenuto". Questo passo è riferito da Rufer come proveniente da una "comunicazione verbale", ed è del resto del tutto coerente con la concezione che Schönberg ha della serie e del modo del suo impiego compositivo. In esso compare in tutta chiarezza la tendenza a considerare la temporalità musicale come un'acciden­ta­lità della forma espressiva musicale in luogo che una determinazione essenziale che incide necessariamente sia sulla modalità dell'ascolto sia sul problema della composizione. 318 Melodia nella dodecafonia - Consideriamo la parte del violino nelle prime battute della Fantasia per violino e pianoforte op. 47 - e disinteressiamoci della struttura seriale di cui si può trovare un'analisi in Rufer (1962, pp. 106 sgg.) e Rognoni (1966, pp. 284 sgg.). In queste battute non c'è dubbio che al violino spetti la parte della "melodia", al pianoforte quella dell'"accompagnamento" (mentre le strutture seriali si intrecciano). Qui si evidenzia un altro elemento importante che non vale come regola, ma che si ripresenta in concreto nell'ela­bora­zione musicale. Alla cancellazione del cromatismo fa riscontro l'impiego frequente di grandi intervalli. Nelle prime battute della parte violinistica di questo brano l'andamento a grandi intervalli viene 319 molto nettamente esemplificato (così era del resto anche per l'inizio dell'op. 26, parte del flauto). - Rammentiamo l'immagine che associa la melodia al profilo di un volto. Approfittando di essa, potremmo dire che i grandi intervalli tratteggiano un volto dal profilo tanto marcato da approssimarlo ad una maschera tragica o grottesca. Anche nella dodecafonia possiamo intravedere le maschere del Pierrot Lunaire. Nonostante tutte le differenze nella tecnica compositiva si avverte sempre nella dodecafonia l'unità di un progetto espressivo rispetto allo Schönberg predodecafonico. Si tratta di una unità fortemente tesa, come mostra il contrasto dei mezzi con cui essa è ottenuta. Da un lato, l'impiego di cromatismi nella prima produzione di Schönberg, dall'altro la prevalenza del grande intervallo, quindi in certo senso l'e­sasperazione del diatonismo, nello Schönberg dodecafonico, ed è interessante che entrambi i mezzi vengano impiegati spesso con straordinaria efficacia per realizzare un paesaggio espressionistico. - In entrambi i casi si ha una sorta l'elemento melodico tende a venire meno. Ciò accade nell'eccessiva approssimazione all'uno o all'altro versante: il versante del continuo e il versan­te del discreto. In generale potremmo affermare che una sequenza di note può dissolversi in quanto "linea melodica" in due direzioni contrapposte: o ammorbidendo la propria articolazione sino a scioglierla nella fluidità del flusso, oppure irrigidendola ed accentuandola nell'esa­sperazione del salto. - Da Alban Berg viene il richiamo più insistente all'elemento melodico nella "nuova musica" - e poiché uno degli aspetti ca­ ratteristici della Scuola di Vienna è l'ampiezza "amelodica" dei "salti", egli si impegna a giustificare il loro impiego facendo riferimento alla tradizione storica. Cosicché di fronte a quei critici che considerano i "salti" contrari al melos, Berg rammenta che 320 una musica caratterizzata da salti molto ampi "è sempre esistita, specialmente nella musica tedesca": un riferimento specifico che riguarda in particolare la polemica contro il belcantismo dell'opera italiana (Berg, 1995, p. 291-293). - L'idea della serie non può sorgere su altro terreno che su quello di una mentalità decisamente e consapevolmente motivico-tematica. Altrettanto consapevolmente questa mentalità è in stretta correlazione con il rifiuto della tonalità che viene giustamente intesa come essenzialmente determinata da un pensiero orientato armonicamente. - "Anzitutto i principi della forma furono storicamente associati alle tecniche impiegate per far valere la tonalità: in esse il principio armonico incorporato nella triade era il fattore dominante per ottenere una coerenza strutturale. Nel momento in cui la triade stessa cessa di rappresentare un elemento del nuovo sistema, fu naturale che Schönberg spostasse dall'im­pulso armonico all'impulso melodico il fondamento del suo trattamento tecnico" (Katz, 1947, p. 382). - In una composizione a più voci l'elaborazione musicale è in gran parte determinata dal richiamo all'or­ganizzazione contrappuntistica del discorso musicale. "Per sua natura la musica dodecafonica è contrappuntistica e non armonica" (Eimert, 1954, p. 71). In questo senso vi è in Schönberg un netto ritorno al passato pre-tonale, e vi è da chiedersi come mai questa circostanza sia stata ben poco messa nel dovuto rilievo. Ripetizione - Nella dodecafonia vi è una tensione assolutamente elementare tra identità e mutamento, tra pura ripetizione e variazione. Ma l'idea dominante è un'ossessiva unità del tutto. Il mutamento è sempre tale da avvenire attraverso la ripetizione. Tipici esempi di 321 mutamenti attraverso la ripetizione sono naturalmente anche le differenti forme di presentazione della stessa serie - le sue varianti strutturali e le loro trasposizioni. - La ripetizione viene talora difesa appellandosi ad un principio che è uno dei "primi e più importanti" principi della coerenza e dunque della forma musicale in genere (Rufer, 1962, p. 198). "Nella musica la ripetizione è l'humus su cui si sviluppa questa attinenza delle parti nell'intero. Ripetizioni dell'ele­men­to formale più piccolo, del motivo, svolgono un'azione giustificatrice, garantiscono la possibilità di reciproco riferimento di tutte le parti di un'opera, e creano così la premessa di un nesso formale. La musica senza ripetizione è inconcepibile" (pp. 39-40). Quanto alla ripetizione della serie, essa viene talora giustificata con un riferimento all'organiz­zazione tonale. La caratteristica di ogni singola nota in un brano tonale è quella di trovarsi sempre in un determinato rapporto con la tonica. Ora la serie deve essere concepita come una sorta di "tonica" - così argomenta Rufer: ogni nota singola, in un brano dodecafonico, è caratterizzata dalla posizione che essa occupa nella serie. Essa non può dunque essere separata da essa, ma è anzi ancorata alla serie come nella tonalità ogni nota alla tonica. Alla conferma iterata della tonica corrisponde allora la conferma della serie, che deve dunque essere ininterrottamente ripetuta: "È una necessità musicale quella che richiede l'ininterrotta ripetizione della serie" (Rufer, 1962, p. 97). - Ed ancora: qualcosa assume carattere di motivo in quanto viene spesso ripetuto. "Poiché nel corso del pezzo questo contenuto si ripete spesso nelle figure più varie... esso ha valore di motivo...". Rispetto alla musica tonale c'è una sola differenza: "la musica tonale l'intervallo con valore di motivo è una derivazione della tonalità (scala, triade), nella musica dodecafonica è una derivazione della serie" . "Valore di motivo significa: frequente ripetizione organica. È la ripetizione che permette di riconosce- 322 re il motivo. La ripetizione è premessa essenziale per ottenere l'unità di contenuto di una forma musicale. Già questo spiega perché la serie deve venire ripetuta" (Rufer,1962, p. 162-164). - La concezione della dipendenza della nota singola dalla rete relazionale istituita dalla serie in cui essa è inserita è, secondo Rufer, talmente forte da potersi affermare che essa "riacquista la sua indipendenza nell'opera succcessiva", nella quale essa entrerà in una serie differente. La nota è indipendente solo al di fuori dalla sua elaborazione musicale, e quindi in una condizione di assenza di forma. Non vedo tuttavia come si possa sostenere, dopo una simile premessa, che nella "composizione con dodici note che sono in relazione soltanto tra loro" ogni nota riceverebbe un peso individuale riacquistando quella "indipendenza che le note avevano perduto sotto la dittatura tonale" (Rufer, 1962, 101). A quando sembra, ad una dittatura se ne sostituisce un'altra, assai più pesante. Che poi si possa parlare in rapporto alla dodecafonia di uno "spazio sonoro libero e aperto" (Rognoni, 1966, p. 95) mi sembra veramente assai strano. Trasposizione della serie dodecafonica e modulazione - Secondo Rufer, le trasposizioni della serie "avranno all'incirca la stessa funzione delle modulazioni nella musica tonale e servono alla formazione di idee subordinate (per esempio di transizione)" (Rufer, 1962, p. 106). È difficile per me comprendere come una simile affermazione possa essere sostenuta. La sua unica giustificazione sembra proprio soltanto il tentativo di riportare il nuovo metodo compositivo entro l'alveo della tradizione tonale. All'interno di un brano dodecafonico la modificazione deve essere tale da mantenere l'integrità della serie. La serie deve rimanere nella sostanza immodificata. Quest'ultima condizione è soddisfatta intanto da tutte le trasposizioni. Anche nel campo della tonalità la trasposizione ha un'importanza fondamentale 323 (e del resto essa appartiene alle possibilità originarie dell'e­spres­­ sione musicale). Ma la differenza nel modo di impiego è radicale. Nell'orga­niz­zazione dodecafonica il problema della modulazione - e quindi della transizione tra spazi tonali differenti - non si pone nemmeno. Tipicamente vale qui la giustapposizione tra una serie ed una delle sue possibili dodici trasposizioni; nella tonalità invece ciò che importa è proprio il movimento tra tonalità differenti sviluppato in modo da configurare un percorso coerente. In essa il senso è soprattutto variazione di senso. Questo aspetto conferisce una forte connotazione temporale al tema dello spazio sonoro inteso come spazio tonale. Finché si considera un unico spazio tonale, si può sostenere che prevale l'elemento architettonico su quello dinamico temporale. Ma ciò che caratterizza il linguaggio tonale è proprio l'elemento dinamico temporale. - Il senso della trasposizione è del tutto rovesciato. Ora la trasposizione è un motivo di varietà che si raccomanda proprio per il fatto che lo spazio sonoro resta lo stesso. Nella tonalità invece l'identità della struttura relazionale dello spazio sonoro nella trasposizione non ha alcuna portata espressiva mentre ciò che assume senso è l'esistenza di un passaggio da uno spazio tonale all'altro e ciò che avviene di nuovo in questo passaggio: dunque lo spostamento delle portanti armoniche, dei centri di riferimento tonali ecc. Tutto non è permesso - È opinione diffusa che la posizione di Schönberg assuma una funzione esemplare per il fatto che essa sembra aver insegnato la totale libertà delle regole. In effetti il metodo di composizione con le dodici note è una invenzione, e non una scoperta - e non se ne può non sottolineare l'arbitrarietà. Abbiamo deciso di fare così e lo abbiamo fatto. Ma questo vale solo per il metodo considerato nel suo insieme. Una volta operate le scelte di base, le regole poi hanno la loro logica interna. Del resto, per quanto riguarda la 324 posizione vera e propria di Schönberg egli è lontanissimo dal porsi dalla parte di una posizione puramente convenzionalistica. Da una simile posizione discenderebbe evidentemente che non vi sono giustificazione realmente "profonde" per le regole del comporre, che in fin dei conti "si può fare ciò che si vuole": per Schönberg una simile posizione è oggetto non solo di rifiuto costante, ma anche di sarcasmo. Basti rammentare questo passo, che è assai indicativo, e il cui pensiero viene di continuo ribadito. Apparentemente, osserva S. un compositore "con dodici note indipendenti" possiede "quel tipo di libertà che molti definirebbero così: 'tutto è permesso'. "Tutto" è stato sempre permesso a due categorie di artisti: ai maestri da una parte, e agli ignoranti dall'altra" (1975, p. 129). Ai maestri tutto è permesso per il semplice fatto che essi sanno quello che fanno, e lo sanno sulla base di una chiara consapevolezza delle necessità interne dell'azione del comporre. Si tratta dello stesso atteggiamento che sta alla base della sua Harmonielehre in cui la ricerca di una giustificazione delle regole del linguaggio tonale è sempre presente. Matericità nella dodecafonia - Nella musica ciò che conta non è come ottieni un risultato, ma il risultato stesso - ciò dunque che viene concretamente percepito. Può anche accadere che sui metodi di costruzione che non sono accessibili dalla superficie tu sia informato dal­l'autore stesso, altrimenti non ne potresti sapere nulla. Nel caso della dodecafonia, il richiamo al principio formale così come l'intero insieme di regole è assai interessante da un punto di vista teorico - ma la pregnanza espressiva e la ricchezza di senso di un brano costruito così non è vincolato dal punto di vista uditivo all'afferra­ mento di quel principio. Potrebbe invece avvenire un significativo spostamento nei parametri dell'apprezzamento dell'opera. È a mio avviso assai significativo che una via che aveva avuto inizio con l'accento posto sull'e­lemento motivico-tematico e che ha l'intervallo al centro dei propri interessi compositivi, ricevendo per un buon tratto un'elabo­razione 325 che riprende le raffinatezze formali della tradizione polifonica, sembra poi sboccare in un risultato espressivo che è largamente affidato all'aspetto timbrico-materico. - Il metodo dodecafonico, scrive Armando Gentilucci, "ha storicamente assolto il compito di schiudere orizzonti impensati, stimolando un affrancamento del suono in direzione materica e gestuale, liberando cioè l'intervallo dalle responsabilità strutturali della musica tonale" (Gentilucci, 1969, p. 365). In altri termini la dodecafonia che dal punto di vista teorico fa dell'intervallo il vero supporto strutturale del brano, avrebbe agito proprio in direzione della valorizzazione dell'e­le­mento timbrico. Secondo questa stessa linea interpretativa si osserva, in rapporto alle Variazioni op. 31, che : "… ben più che il razionale, continuo e insistente ritorno su poche cellule seriali colpisce la penetrazione delle proprietà della materia sonora, la lucentezza delle soluzioni timbriche, le combinazioni strut­turali sempre nuove, l'alternarsi di qualità formali ed emotive continuamente variate, l'incessante concentrarsi e fran­tumarsi dell'orchestra in raffinati impasti e in spasmodiche tensioni" (p. 374). In realtà l'accentuazione di questo aspetto è significativa soprattutto in rapporto al modo in cui la lezione dodecafonica è stata recepita in Italia. Tuttavia in questa accentuazione c'è un importante fondo di verità: l'e­spressionista Schönberg resta tale nei razionalismi dodecafonici, ed è anzi sostenibile che esso sia stato attratto da quel metodo compositivo in forza dei risultati che poteva ottenere in quella direzione. 326 XXVI Ritmo Destreggiarsi tra i nomi - Nella riflessione filosofica occorre sempre destreggiarsi tra i nomi; e tentare di passare attraverso le pieghe delle parole per formulare comunque le necessarie distinzioni. Questo vale in modo particolare in rapporto alla tematica del ritmo. Il ritmo come sensazione soggettiva - Vi è una tentazione ricorrente a ridurre il ritmo ad una mera sensazione soggettiva. È significativo a questo proposito l'e­ sempio, ripetuto infinite volte e diventato uno stereotipo, della percezione del ticchettio di un orologio nella direzione indicata dall'onoma­topea "tic-tac", con la quale si introduce verbalmente una differenza che non vi è nel rumore udito. Ciò manifesterebbe una sorta di tendenza dell'orecchio ad animare ritmicamente una sequenza di suoni di per sé inanimata suggerendo che il ritmo appartiene al nostro modo di udire la sequenza piuttosto che alla sequenza stessa. Il modello del movimento - La teoria del ritmo è stata a lungo dominata dall'immagine del movimento. A cominciare dalla famosa definizione platonica del ritmo come "ordine del movimento" (Leggi, II, 664e). In questo passo Platone contrappone il movimento disordinato che fanno gli animali "saltando e gridando", al movimento ordinato del corpo di cui solo l'uomo è capace. Si tratta dunque, intanto, non del movimento in genere, ma del movimento del corpo - e naturalmente anzitutto di quel movimento ordinato che è rappresentato dalla danza. È 327 tuttavia poco sottolineato il fatto l'ordine del movimento nel caso della voce Platone lo chiama, in questo stesso passo, "armonia". Ed aggiunge anche che "armonia" e "ritmo" si uniscono insieme nella danza del coro. Non vi è dubbio che questa immagine fornisca una sorta di risorsa importante per una teoria del ritmo. "Il tema della danza porta dentro di sé il peso della dialettica fra essere e divenire - scrive Carlo Serra in rapporto al passo platonico - fra struttura ordinata e trasformazione connessa al mutamento. Il senso della precettistica platonica cambia significativamente di senso, perché dietro alla possibilità di delineare con chiarezza la natura della danza, si nasconde la possibilità di dare una definizione delle modalità di trasformazione, del loro valore paradigmatico per una filosofia e del senso della loro costituzione estetica. La ricerca del giusto ritmo e della qualità di movimento che ad esso si conformi deve permettere di illustrare quali siano i punti d'articolazione in gradi di organizzare il modificarsi della forma espressiva del corpo nel tempo, e di fissare l'ampiezza dei nodi che tengono assieme lo scorrere dei movimenti in concatenazione, rispetto all'equilibrio fra emozione e valenza estetica del gesto. Non si può rinunciare al movimento, al carattere della danza, ma bisogna organizzare un reticolo di posizioni che lo tengano in tensione, che ne contengano l'energia" (Serra, 2006, p. 225). Il ritmo e il volo - Il tema del movimento è fortemente presente nella discussione sull'idea del ritmo nel canto gregoriano, e persino della danza - benché naturalmente considerata come espressione esteriore di un movimento interiore, come danza spiritualizzata. - Così per Benoit De Malherbe, monaco di Solesmes: l'uo­mo è vita, vita è movimento. L'ordine del movimento, e quindi la sua perfezione, è il ritmo. Si tratta di quel "ritmo della vita fisica 328 che regola gli atteggiamenti dell'uomo" che è caratteristico della danza, intesa come "espressione, per mezzo di un gesto armonioso del corpo, di un'emozione che il sentimento fa nascere" (Malherbe, 1947, p. 12). Diversamente da altri, Malherbe sembra dare più importanza al rapporto tra musica e danza piuttosto che a quello tra parola e musica: la parola è artificiale rispetto alla naturalezza della voce (suono) e del gesto. La danza ha origine dalla musica, ma è "la danza che regola la musica". Molto bella l'immagine del gesto chironomico come un gesto danzante. Il volo degli uccelli con il suo ascendere e discendere fluenti, con il suo impennarsi in alto volteggiando ed il posarsi planando a terra sembra effettivamente una figura particolarmente efficace delle volute del gregoriano. Il gesto chironomico rappresenta questo volo. Per Benoit De Malherbe non solo il volo è la "danza perfetta", ma il riferimento al volo non vale come "semplice paragone, ma vera ragione". "È dunque il volo ideale dell'uccello che regolerà la musica ritmica" (p. 25). Viene così suggerita una "teoria coreografica del ritmo musicale", con quel suggestivo scivolamento dalla danza al gesto chironomico della mano che è "danzatrice per eccellenza" (p. 14). - Io penso che una teoria del ritmo dovrebbe cominciare piuttosto dalla tematica temporale che da quella "spaziale" anche se que­st'ultima, e dunque il riferimento al corpo ed al movimento, resta essenziale. Nelle considerazioni di Malherbe, in coerenza con il volo che funge da idea guida, si fa invece notare che mentre per i moderni "la musica è l'arte dei suoni considerati nella loro durata, dunque nel tempo", per gli antichi la musica veniva piuttosto considerata come "un movimento sviluppantesi nello spazio" (Malherbe, 1947, p. 25). Tra l'"ordine delle durate" di cui parla Aristosseno, e l'ordine del movimento di Platone, è quest'ultima la definizione che, secondo Malherbe, dovrebbe essere preferita. Probabilmente l'una definizione può essere riunita all'altra. 329 Ritmo e prosodia - Nuovi problemi si aprirebbero, se invece di dare importanza al tempo, al movimento, al gesto ed alla danza, portassimo l'atten­ zione soprattutto alla parola. Non vi è forse nella parola suono e ritmo? Vi è poi una sorta di unità originaria tra parola e musica che si manifesta sia nel canto che nel verso. E talora è difficile distinguere se il verso non sia nello stesso tempo anche canto. La teoria del ritmo ha tratto fin dall'inizio e lungo tutta la sua storia concetti ed elementi dalla prosodia. Occorre tuttavia riconoscere che, proprio in forza di questo rapporto, concetti non chiarissimi o diversamente interpretabili nella prosodia una volta trasposti in ambito musicale hanno introdotto in esso qualche complicazione. Arsi e tesi - Dalla parola si trae sia la nozione della durata, sia quella dell'accento. Per il verso greco valgono i rapporti di durata: lunga e breve con i loro segni corrispondenti ( , _ ) che, in combinazioni differenti, formano le unità chiamate "piedi". La sensibilità per la differenza delle durate si va poi perdendo, ed ecco subentrare, nella lingua latina, l'accento. Le discussioni cominciano a questo punto. Intanto già nella prosodia greca intervengono i concetti tra loro strettamente correlati di arsi, tesi e ictus. Leggiamo in un manuale: "Ictus, che corrisponde al greco semèion voleva significare presso i Romani 'battuta' di tempo, percussio. Esso aveva soltanto valore musicale. Con l'ictus del piede o del dito si solevano indicare i tempi dei 'piedi' che si dividevano in arsi e tesi". "Il sollevarsi e l'abbassarsi della mano o del piede indicavano il tempo "in levare" (arsis) e il tempo "in battere" (thesis). Questo è spiegato chiaramente da un passo di Mario Vittorino: "Est enim arsis sublatio pedis sine sono, thesis positio pedis cum sono" (Gentili, 1952, p. 6). "Alla retta intelligenza dei termini ictus, arsi e tesi 330 ha nociuto un luogo del grammatico Prisciano. Prisciano intese arsis come elatio vocis e thesis come positio vocis et remissio. Non diversamente Marziano Capella il quale dice: arsis est elevatio, thesis positio vocis et remissio". Seguendo questa via "i moderni hanno inteso l'ictus come accento intensivo, cioè come una maggiore elevazione della voce sulle sillabe lunghe… ed ancora oggi noi usiamo questi due termini nel significato che dettero ad essi i tardi grammatici, e in modo non affatto scientifico siamo soliti indicare con arsi la sillaba colpita dall'ictus e con tesi la sillaba non colpita dal­l'ictus" (Gentili, 1952, pp. 7-8). Ovvero, pur essendosi perduta la sensibilità alla quantità (durata) delle sillabe, che era fondamentale per la musicalità del verso greco, se ne man­tiene la terminologia, e per quanto riguarda i termini di arsi e tesi si arriva addirittura ad invertirne il senso. - A dire il vero, benché l'opinione che il verso greco fosse letto in termini di pure differenze di durate sia prevalente non mancano aperte prese di posizione contro di essa. Sachs, ad esempio, ritiene la questione tutt'altro che risolta e propende in realtà a favore della presenza di accenti nella lettura della poesia greca (Sachs, 1953, p. 140). Egli rammenta che Aristide Quintiliano descrive la tesi come rumore e l'arsi come silenzio e cita anche narrazioni che descrivono il battito delle mani o dei piedi durante esecuzioni musicali e la presenza, talora, di cori diretti da un direttore il quale "marcava la tesi con un battito del piede e l'arsi con un silenzioso gesto verso l'alto". Sachs si chiede come sia possibile di fronte a queste testimonianze asserire che "i concetti di arsi e tesi non hanno nulla a che fare con l'accento" (Sachs, 1953, pp. 140-141). - Nel caso delle teorie sorte dalla riflessione sul canto gregoriano, la terminologia subisce un ulteriore mutamento. Mentre esse possono differire tra loro per vari rispetti, per lo più si ritorna a parlare di arsi e di tesi nel senso antico, ma secondo l'accezione 331 di Prisciano e di Marziano Capella, quindi l'arsi come elevatio vocis e tesi come positio, senza tuttavia accettare lo scambio terminologico intervenuto successivamente secondo cui l'arsi verrebbe a significare il battere e la tesi il levare. Secondo i gregorianisti quindi arsi è "levare" e la tesi "bat­tere". Naturalmente, se questa è la decisione, non si può poi parlare della tesi come "tempo debole" e dell'arsi come "tem­po forte" (M. Bettettini in Agostino, 1997, nota 4, p. 379), perché altrimenti la confusione delle lingue diventerebbe insopportabile. - Quanto alla scelta di riprendere il senso di arsi e tesi secondo l'accezione della elevatio e della positio soni, essa trova la sua giustificazione ad un tempo nell'andamento del canto gregoriano e nell'immagine guida del movimento. Lo slancio dell'inizio è energia che si dispiega e che poi è destinata a terminare, ma anche a riprendersi esattamente nel punto in cui termina - qui si trova l'ictus. I gregorianisti hanno perfettamente ragione di sottolineare che questo ictus non è un rumore che passa dentro la musica, e concepito così non è nemmeno un accento. È semplicemente il momento conclusivo della decadenza del canto (la cui realizzazione può assumere diverse forme) che può essere seguito dalla sua ripresa. Arsi/tesi e battere/levare - Nulla vi è da obbiettare di fronte a simili impieghi terminologici. Vi è invece molto da obbiettare intorno alla pretesa di stabilire una equivalenza di senso tra arsi e tesi nel senso or ora indicato e, rispettivamente, con il levare e il battere nell'accezione musicalmente corrente. E di conseguenza anche con una concezione dell'ictus come un battere che deve necessariamente essere attribuito alla tesi, ovvero al suono nel momento della sua caduta. Di fatto questa equivalenza viene nor­malmente stabilita. E l'imbroglio delle parole diventa particolarmente pesante. 332 - Io credo che vi sia una precisa ragione che rende conto di questa identificazione ma che non la giustifica: ed è precisamente la sopravvivenza, all'interno della problematica della elevatio soni e della positio, del "battere il tempo" con il dito o con il piede della versificazione antica. In essa questo tempo battuto poteva aver senso sia in una lettura fondata sulla durata che in una lettura fondata sugli accenti. Ma quale senso potrebbe avere un simile "battere" per il gregoriano? Sembra quasi che quando si dice, in rapporto al gregoriano, che "il direttore percuoteva con la mano e con il piede al momento della tesi, quando si cantavano suoni e sillabe nella deposizione o posa ritmica", "quando egli faceva pertanto del rumore con tale battito" e che "questo rumore non si comunica e non passa alla musica" (Ernetti, 1961, p. 42) - sembra quasi, oso appena sussurrarlo, che ci si dimentichi del fatto stesso che il tempo del gregoriano non è un tempo battuto, ci si dimentica dunque del senso stesso del gesto chironomico che in luogo di battere il tempo, indica appunto le arsi e le tesi e gli ictus come momenti di trapasso, e questa indicazione direttiva è necessaria proprio perché le durate non sono strettamente previste, i tempi "primi" possono essere più larghi o più stretti, ed occorre indicare quando il suono deve elevarsi e quando deve morire. In quelle frasi ci si ricorda del colpo, ma in un contesto sbagliato. Nulla da eccepire dunque sul fatto che i termini di arsi e tesi vengano impiegati nell'accezione dei gregorianisti. Ma quando sono impiegati così mi sembra sia necessario evitare nettamente l'identifi­cazione di arsi con levare e di tesi con battere, e di ictus con il colpo (udito o semplicemente inteso) del tempo battuto. Si tratta semplicemente di concetti differenti, che presuppongono un modo differente di intendere il flusso musicale del tempo. - Come puoi pensare di conciliare come se fosse la stessa cosa il gesto chironomico che imita il volo e l'alzare e l'abbassare il piede? 333 - In realtà non sembra che possiamo trovare un effettivo filo conduttore che abbia una qualche generalità inseguendo le controversie relative alla lettura del verso greco o latino oppure quelle relative all'arsi ed alla tesi nel gregoriano, anche se certo di qui possiamo trarre una messe di spunti ed una grande ricchezza di motivi di riflessione. Forse conviene invece attirare l'attenzione su ciò che accade sul versante strettamente musicale. Il rapporto con la parola potrebbe portare a confondere le cose piuttosto che aiutare a chiarirle. Per ciò che riguarda il gregoriano non bisogna perdere di vista il fatto che le discussioni sul ritmo sono fortemente motivate dal problema delle sue modalità esecutive, ed in particolare proprio dal problema del rapporto tra accenti tonici delle parole e i momenti dell'arsi e della tesi. Ad esempio ciò che Ernetti vuol dimostrare è che il canto gregoriano si attiene ad una pratica prevalentemente verbale. Ora, poiché vi è un "crescendo" nell'accento tonico e un "decrescendo" nelle sillabe atone, così secondo Ernetti, ci si dovrebbe regolare in linea generale nell'esecuzione rispetto alla differenza tra arsi e tesi e così si regola di fatto, come egli ha tentato di provare con una primitiva sperimentazione elettronica, anche il coro di Solesmes, indipendentemente da ciò che poi viene sostenuto dai suoi teorici. Ma questo, da un lato, è un problema strettamente interno ad una pratica musicale determinata ed alla teoria di quella pratica, dall'altro chiama direttamente in causa il rapporto tra "accenti musicali" ed "accenti verbali". - Di passaggio vorrei notare, a proposito del lavoro di Ernetti, che le così frequenti rivendicazioni di scien­tificità della sua analisi si associano ad affermazioni di sorprendente (e non troppo tollerabile) ingenuità. Con quanta acribia filosofica si usano i termini arsi e tesi se si arriva poi a vedere l'una e l'altra nella forma di un suono sinusoidale? "Col nostro più grande stupore dobbiamo dire che la forma della vibrazione sonora consiste in un susseguirsi di arsi e tesi, di elevazioni e deposizioni, di slanci 334 e di pose. La vibrazione viene infatti oscillografata come una oscillazione sinusoidale..." (Ernetti p. 66). Di fronte ad una simile affermazione in realtà lo stupore è tutto nostro. Occorre poi notare che i grafici di cui Ernetti dispone non sono altro che grafici di inviluppo, dai quali indubbiamente è possibile leggere l'an­damento delle intensità e quindi operare correlazioni tra gli aspetti verbali e quelli musicali. Ma egli ha certamente le idee non troppo chiare su di essi se crede di vedere nelle "lineette" della seguente figura niente di meno che la maggiore o minore "densità" degli armonici del suono fondamentale! (p. 104). Si tratta di un errore veramente marchiano che mi fanno nascere il sospetto che il diavolo in persona, notorio nemico dell'Ernetti esorcista, ci abbia messo la coda... - Ora, se affrontiamo la questione portando in primo piano gli aspetti strettamente musicali lasciando sullo sfondo gli aspetti di relazione con la parola, si ottiene subito una qualche schiarita. Ci rendiamo intanto subito conto che per quanto riguarda il problema del ritmo nella musica l'ereditare in qualche modo la controversia tra lettura "quantitativa" oppure "accentuativa" della versificazione greca ci portato soltanto fuori strada. Entrambi gli aspetti sono interessanti ai fini di una teoria del ritmo, ed anzi essi colgono due momenti fondamentali che interagiscono tra loro. Inoltre dal punto di vista musicale l'elemento della durata e quello dell'ac­cento sono normalmente coesistenti, e sono d'altra parte chiaramente distinguibili l'uno dall'altro. - Il riferimento alla parola potrà essere ripreso quando lo si voglia in tutta la ricchezza dei suoi problemi e in tutta la sua com- 335 plessità. Ma quando si muovono i primi passi, è opportuno invece attirare l'attenzione sull'articolazione del tempo attraverso schemi di accenti e schemi di durate. Il termine di schema (come quello di modulo) allude alla possibilità dell'i­terazione. Uno schema di durate sarà normalmente inserito in uno schema di accenti, ed entrambi potranno determinare in vari modi il ritmo secondo il tipo della loro interazione. Il colpo - Durata, accento, ripetizione, schema: queste nozioni sono tutte strettamente temporali. Non vi è certo bisogno di rilevarlo per la durata. Quanto alla nozione di schema o di modulo, essa viene istituita attraverso la ripetizione, e s'intende che si tratta della ripetizione nel corso del tempo. Solo l'accento sembra contraddistinguersi per questo aspetto: ma ciò dipende unicamente dal fatto che questa nozione sembra tratta anzitutto dall'ambito del linguaggio verbale. Su che cosa si debba intendere con accento, in rapporto alla parola, si potrebbe discutere a lungo. Se invece facciamo riferimento a fatti specificamente musicali, la risposta sembra a portata di mano. - Ictus significa letteralmente colpo - da icere: percuotere, colpire. Il colpo è l'irruzione (idealmente) istantanea in una temporalità silente, che scorre via. Si contrappone perciò al suono perdurante, come temporalità riempita dal suono. - Dobbiamo ricordarci del suono percussivo, non più come battito pedestre e ausilio eliminabile per la lettura di un verso o l'esecuzione di un canto, ma nella sua piena autonomia di fenomeno sonoro con le sue possibili differenze di intensità e di qualità timbrica. E che cosa è dunque l'accento in una sequenza di suoni percussivi? Noi saremmo propensi a rispondere che sono "accentati" i suoni che presentano nella sequenza una maggiore 336 intensità oppure una diversa qualità timbrica (ed ovviamente l'una e l'altra insieme). Se la sequenza è timbricamente omogenea, l'accento è proprio dato dall'aumento di intensità. - Considera il battere e il levare anzitutto come il gesto che essi sono e per ciò che essi fanno. Come il levare della mano sulla pelle del tamburo, sine sono, e il battere della mano su di essa, cum sono. - La discussione su arsi e tesi è piuttosto complicata. E spesso ci disorienta. Ma quando la mano batte sul tamburo, chiamo questo gesto battere; e quando essa si leva in alto, chiamo questo gesto levare. Ed il suono c'è nel battere; mentre nessun suono c'è nel levare. Questo è ciò che io so. Il "cum sono" e il "sine sono" di Vittorino muta così interamente senso, entra a far parte di un contesto musicale e segnala la presenza, alle radici della tematica del ritmo, del rapporto tra suono e silenzio. Ritmo e ripetizione - In questo modo incontriamo la ripetizione. La mano si leva, batte, si leva. Fasi di un gesto che si promuovono reciprocamente. La ripetizione sta dentro questa relazione. Se chiudo la mano essa era aperta, e se la apro essa era chiusa. Il gesto si propone come se fosse, nel momento in cui viene effettuato, già integrato nella ripetizione. - Il caso: il colpo. La necessità: l'iterazione di colpi. Il ritmo gioca tra la regola e la sua assenza, tra l'evento e lo schema, tra il caso e la necessità, tra il suono e il silenzio. Il ritmo e la danza del tempo - Il ritmo introduce differenze nel flusso temporale, ed in questo modo articola ed organizza la temporalità, sottraendola al puro 337 fluire indistinto e plasma in essa immagini possibili di movimento che assumono visibilità anzitutto nel movimento corporeo. - Non devi pensare alla danza anzitutto come un movimento da luogo a luogo, ma come un movimento che mette in scena la danza del tempo. È il tempo danzante che si traduce in gesto. Movimento e tempo - Quando si parla di ritmo, bisogna pensare ai vari tipi di possibilità che si presentano nei movimenti in quanto procedono più o meno regolarmente, più o meno velocemente, oppure rallentando o accellerando, ed ancora agli arresti e agli indugi, all'interruzione del movimento ed alla sua ripresa; quindi agli andamenti dei movimenti che, come nel caso dei corpi viventi possono essere molto vari. - Si potrebbe sostenere che dal punto di vista temporale persino un suono che perdura sia movimento. Esso scorre insieme allo scorrere del tempo. Tuttavia la pura forma dello scorrere non dà luogo a nessuna manifestazione di movimento. Musicalmente ha perfettamente senso parlare di una nota tenuta, cioè di una nota che non si muove. Benoit De Malherbe prescrive, per il canto gregoriano, che "la voce non si immobilizzi su una nota prolungandola. Se questo accade il suono dà l'impressione di qualcosa di inerte e la musica cessa. È facile comprenderlo" (1947, p. 29). Scandire il tempo - Una ripetizione regolare di colpi scandisce il tempo. Dà di esso un'articolazione elementare. Scandire il tempo che passa significa dare ad esso un passo. In questo modo alla temporalità del flusso subentra la temporalità del cammino. 338 - Eseguo i colpi: provoco degli eventi sonori. E per certi versi posso dire di trovarmi in prossimità di una delle radici della musica perché scandisco il tempo. Io credo che la discussione sul ritmo debba attirare anzitutto l'attenzione su questa nozione della scansione come fenomeno sonoro effettivo per poi passare alla scansione puramente "intesa". - Puoi contrassegnare l'iterazione dei colpi ad esempio così: ma devi rammentare che idealmente il colpo deve essere concepito come istantaneo, anche se naturalmente nessun colpo lo è. C'è dunque silenzio tra colpo e colpo - e questa durata da colpo a colpo è la durata dell'unità di scansione. Se vuoi dare evidenza alla presenza del silenzio potresti invece scrivere così: In questo modo indichi se non altro un luogo per il battere e un luogo per il levare. - In rapporto alla pura e semplice scansione come evento sonoro si comprende subito che vi è una sorta di durata intermedia, che viene avvertita come un "giusto passo", e che potranno esservi andamenti più lenti o più veloci, ma solo entro determinati limiti. I colpi possono essere più o meno distanti tra loro, ma non tanto distanti da far perdere il senso della scansione: questo senso va certo perduto se essi sembrano risuonare "uno ogni tanto", anche nel caso che essi siano a distanza obbiettivamente eguale. Nemmeno debbono essere così vicini da far perdere il senso della scansione nella direzione opposta, togliendo la possibilità che si possa parlare di un'andatura. I colpi non debbono 339 essere troppo rari, ma nemmeno troppo densi. Tra gli estremi vi sarà un andamento medio percepito come il giusto passo. Non ha naturalmente nessuna importanza stabilire determinazioni quantitative esatte - questa relativa indeterminatezza appartiene al proble­ma che stiamo discutendo in quanto è un problema musicale. Libertà nel ritmo - Che la scansione sia rigorosa non è affatto obbligatorio. Ora può essere ora rigorosa, ora vaga. Può variare nel corso di una unica sequenza. E variare in molti modi: all'improvviso, gradualmente ecc. Posso fare come voglio. - Non è nemmeno obbligatorio, affinché vi sia ritmo, che vi sia un tempo scandito. Vi sono diversi modi di accadere del suono nel tempo, quindi anche modi molto diversi di ritmizzare il tempo. Alcuni brani saranno fatti in modo tale da esibire all'ascolto una scansione, altri per il quale il problema non si pone nemmeno (e questo non significa che non vi sia ritmo in essi). "Ogni tanto suonerai una nota" (non devi scandire il tempo). - Il concetto di ritmo potrebbe essere assai ampio, estendendosi da ciò che sfugge appena allo schema a ciò che è tanto prossimo al puro evento isolato da arrivare ai margini di ciò che si può ancora a malapena chiamare ritmo. - Il canto gregoriano ha ritmo. Devi però sfrondare la sua teoria dalla retorica del "ritmo vero", "autentico", l'unico veramente "natu­rale", se non anche addirittura "divino", da cui viene volentieri circondato dai gregorianisti. Nel gregoriano ciò che ho chiamato "giusto passo" è probabilmente quello che i teorici chiamano tempo primo. Esso non è rigorosamente e meccanicamente determinato, può contrarsi oppure allargarsi, non vi è qui 340 dunque una scansione "vera e propria" e quindi nemmeno una tematica effettiva del "battere il tempo" - e dunque del battere e del levare. Bensì, arsi e tesi - secondo il gesto danzante della mano. In esso sono importanti i silenzi: il silenzio non è propriamente pausa - non è la vox amissa quae pausa communiter appellatur, la voce perduta nel senso della musica mensurata (Francone da Colonia, Ars cantus mensurabilis,1997, § 4) - e tuttavia i silenzi non sono interruzioni del movimento, ma indugi in esso. "Il canto gregoriano è un cammino, un mezzo di trasporto. Il simbolismo pre-cristiano lo avrebbe chiamato un carro, una nave o un fiume sul quale avrebbero camminato le luminose sillabe sonore" (Schneider, 1979, p. 183). Pausa e silenzio - La pausa fa parte di uno sviluppo. Non il silenzio. Nella musica vi sono pause e silenzi. Nella pausa l'ascolto mantiene ancora la presa sul cammino del tempo. Nelle pause il tempo continua a camminare, e questo lo avverti nell'ascolto. Con silenzio bisogna intendere invece la durata silenziosa, nella quale il tempo semplicemente passa. Ciò che è cominciato come una pausa può anche evolversi come silenzio. Il silenzio può tuttavia avere il senso di un indugio ed in questo senso appartenere ancora al movimento. - Il silenzio rimanda alla continuità, la pausa invece ad una discontinuità schematizzata. - La parola silenzio può essere impiegata nell'acce­zione generale per indicare sia le pause che i silenzi nel senso or ora illustrato. Metronomi - Il primo nome del metronomo era cronometro. E naturalmente vi è una precisa relazione tra il tempo metronomico e il tempo de- 341 gli orologi. Occorre tuttavia notare che il metronomo non misura il tempo, ma lo scandisce. Misurare è qualcosa di completamente diverso dallo scandire. - Quantz diceva: "Uno potrà difficilmente tener dietro per tutto il tempo ad una simile macchina" (riferito da Sachs, 1953, p. 312). Questa frase meriterebbe di essere scritta come una sorta di epitaffio su tutti i metronomi. Di essi sono infatti ancora maniaci molti maestri di musica. - Vi è una realizzazione di Ligeti intitolata Poema sinfonico per cento metronomi (1963). Forse essa può essere considerata come una sorta di riflessione filosofica sul tempo... Quale tempo? Della musica? Dell'antimusica? Intanto vi è il tempo del silenzio su cui si apre la scena con la mostruosa e graduale apparizione delle cento macchine per scandire il tempo - quindi un tempo ancora non scandito, un tempo vuoto: poi il marchingegno si mette in moto, ma ciascun metronomo, che ha in sé una regola, segue la propria regola che è diversa da quella di tutti gli altri. Ne deriva una sorta di meccanico clangore, un passaggio improvviso dal silenzio al caos - ovvero da una forma di mancanza di ordine ad un completo 342 disordine (vi è un affinità tra silenzio e caos): il tempo vuoto si riempie di rumore. Poi lentamente qualcosa di simile ad un ordine ondeggiante comincia a manifestarsi, ed esso diventa sempre più distinto perché i metronomi si vanno spegnendo ad uno ad uno, fino a quando...: ecco la scansione! Un solo metronomo è rimasto vivo. Una scansione regolarissima come il battito di un orologio a pendolo. Ma solo per qualche istante: su questa mortale regolarità non si avvia alcun movimento musicale, ciò che si muove ancora è soltanto l'ingranaggio, e tutto ben presto precipita nuovamen­te nel silenzio. Interessante suggestione filosofica e simbolismi latenti ed ambivalenti. Quanto alla musica, che dire? Forse: "Madre mia a lo que llaman hoy en dia musica!" - come lascia scritto "on line" un commentatore anonimo. - Talvolta il tempo scandito è sembrato essere un puro artificio, inutilmente sovrapposto al tempo obbiettivo. "Contare non è più necessario per la musica su nastro magnetico (ove tanti centimetri o tanti pollici sono pari a tanti secondi): la musica su nastro rende chiaro che ci troviamo dentro il tempo stesso, e non dentro misure di due, di tre, di quattro o di qualsiasi altro numero" (Cage, 1949, p. 51). È come se si dicesse: finalmente la abbiamo fatta finita con la finzione del tempo musicale. Ma si tratta di un'affermazione troppo sbrigativa e ben poco meditata. O fai musica o guardi l'orologio. Non puoi fare le due cose insieme. Naturalmente si può far musica, ma in tutt'altro senso, tagliando un nastro registrato, ed allora debbo sapere dove debbo tagliare. A tal scopo serve un orologio, ed anche un metro. Il levare sottinteso - Prima che la scansione si avvii, essa deve essere pensata. Ogni esecutore lo sa. C'è sempre un "levare" sottinteso - co­me il braccio che effettivamente si alza per sferrare il colpo. È singolare che un autore come Sachs vada di ciò alla ricerca di prove 343 documentali. La frase di D'Indy "ogni melodia comincia con un levare sia espresso sia semplicemente inteso" (1953, p. 111), lo convince assai poco, ammettendo al più che si tratti di una considerazione che può avere un qualche significato psicologico, e dunque sia relativamente irrilevante. Andando alla ricerca di prove, rammenta una prassi presente nel folklore ungherese, ceco e slovacco consistente nell'an­ticipo di una vocale insignificante in levare, quando la melodia comincia in battere, e ciò rappresenterebbe una certa con­ferma della cosa. Ma come generalizzare una situazione tanto particolare? Ciò che genera queste perplessità è forse la mancata consapevolezza della necessità della scansione come ciò che realizza il passaggio dal tempo del flusso al tempo del cammino. - Tuttavia il parlare di levare sottinteso sembra ci porti direttamente, e forse anche in modo acritico, in direzione della nostra consueta nozione di battuta o misura, con i suoi tempi forti e tempi deboli, e ciò si presterebbe a diverse obiezioni in particolare all'in­terno di un'impostazione che aspirerebbe a mantenersi ad un livel­lo il più possibile generale. Del resto nella tradizione europea la suddivisione in "battute" appartiene ad una fase piuttosto tarda, e si è spesso notato che essa ge­nera delle difficoltà sia sotto il profilo musicale che sotto quel­lo notazionale. La ritmica africana e la posizione di Simha Aron - Simha Arom, che ha dedicato uno splendido libro alla ritmica africana (Arom, 1991), mostra in quali difficoltà si vada incontro, dal punto di vista dei tentativi di trascrizione, quando si cerca di rendere con una scrittura in "misure" la ritmica africana. Per la musica occidentale, egli osserva, si è fatto quanto di meglio si poteva fare con questo metodo. "Ma quando un sistema di questo tipo viene imposto alla musica africana, il risultato non può essere altro che nonsenso. Non essendo possibile concepire 344 un'accen­tazione irregolare al di fuori di uno schema di accenti (accentual framework), si è finito con il trattare ogni nota accentata come il primo tempo (beat) di una misura, ovvero come un "tempo forte" (strong beat). Cercando di associare un'accentazione irregolare con la distribuzione sistematica di accenti caratteristica di ciascun tipo di misura, si è stati indotti ad effettuare una continua successione di cambi di misura" (1991, p. 209). Si cita così illustrativamente un esempio di canto monofonico che viene reso con cinque misure in una successione di 3/8, 5/16, 6/16,7/16 e 3/8. Ora Simha Arom fa notare che nella ritmica africana il "tempo battuto" riguarda soltanto la scansione: ciò significa che vengono battuti unicamente i tempi di cui è costituito il "periodo ritmico", che risulta dunque determinato dal numero dei tempi e non dalle eventuali "accentazioni". Ne risulta così addirittura una semplificazione complessiva della questio­ne, che ci riporta in qualche modo all'antico uso nella musica di tradizione europea del tactus. Il tempo battuto è essenzialmente ciò Arom chiama pulsazione e che definisce così: "Con pulsazione (Pulsation) intendiamo l'unità di riferimento intrinseca, isocrona, neutrale, costante, che determina il tempo" (p. 202). La qualifica di intrinsecità viene spiegata da Arom dicendo che si tratta di una unità "inerente alla musica stessa e specifica di ciascuno pezzo". Altrove si dice che la pulsazione "consiste in una sequenza regolare di punti di riferimento in relazione alla quale sono ordinati gli eventi ritmici. Inoltre, nella musica poliritmica, la pulsazione è il comune denominatore, dal punto di vista dell'organizzazione temporale, per tutti le parti di un pezzo. Essa è perciò l'unità di base (basic unit) rispetto alla quale vengono definite tutte le durate" (p. 230). Non stentiamo a riconoscere qui ciò che in precedenza abbiamo chiamato unità di scansione. Le considerazioni di Arom sono mirate alla specificità della musica africana, ma inevitabilmente hanno un interesse che va oltre di essa. - Arom sottolinea naturalmente che la pura e semplice pulsazio- 345 ne non è ancora ritmo. Per diventarlo "le sequenze di e­venti uditivi debbono essere caratterizzati da elementi di contrasto (contrasting features) (p. 202). Questi elementi di contrasto sono, come noi diremmo, nient'altro che elementi di differenziazione. Posto l'intero problema in questo modo, se ne può ricavare una semplice "formalizzazione" delle possibilità di differenziare internamente i periodi della scansione. I parametri utili per una differenziazione sono essenzialmente tre: accento (ovvero aumento di intensità), differenza timbrica, differenza di durata relativa. Tenendo conto che queste differenziazioni possono essere distribuite regolarmente o irregolarmente nel percorso della scansione e che le durate possono essere eguali o differenti, si potrà ottenere un quadro sinottico delle possibilità di differenziazione e quindi delle tipologie ritmiche. Arom propone un elenco formato da nove tipi nell'ordine seguente (p. 203): A: durate identiche con accentazione regolare B: durate identiche con accentazione irregolare C: durate identiche con nessuna accentazione ma con alternanza regolare di timbro (tone colour) D: durate identiche con nessuna accentazione ma con alternanza irregolare di timbro E: Durate differenti con accentazione regolare 346 F: durate differenti con accentazione irregolare G: durate differenti con nessuna accentazione ma con alternanza regolare di timbro H: durate differenti con nessuna accentazione ma con alternanza irregolare di timbro I: Durate differenti ma con nessuna accentazione e nessun cambio di timbro Si noti come Arom proponga, sia pure solo implicitamente attraverso le graffe sottoscritte, una segmentazione del processo della scansione da accento ad accento oppure da un determinato timbro, a cominciare da quello iniziale, al ripresentarsi dello stesso timbro dopo che è intervenuta la variante timbrica. Quando non vi è né accentazione né variante timbrica, non vi è nemmeno segmentazione (come accade nel caso I). Su questo punto in realtà si potrebbe discutere, ma credo che si possa senza troppe difficoltà ammettere che le strutture caratterizzate da pure differenze di durata, benché rappresentino una animazione ritmica della semplice scansione, non siano in grado di esibire di per se stesse una segmentazione della scansione. 347 - L'elenco di Arom può essere disposto per chiarezza in forma di tabella. In tal caso i tipi, che in Arom sono nove, diventano dieci per il semplice fatto che nel suo testo non compare il caso della semplice scansione indifferenziata, caratterizzata solo da identità di durate. La ragione di questa omissione è chiara. La semplice pulsazione priva di differenze non dà ritmo. Potremmo dire: essa rappresenta il ritmo al suo grado zero. Ad essa abbiamo attribuito in tabella la lettera Z, mentre abbiamo mantenuto le lettere dell'elenco precedente con l'esemplificazione corrispondente. 348 Lo schema di Arom semplificato - Questo schema già esemplarmente semplice, e nello stesso tempo capace di una straordinaria sintesi di possibilità estremamente differenziate, può a mio avviso essere ulteriormente semplificato. In effetti qui si distingue tra accentazione (aumento di intensità) e timbro (color tone) come elementi di con­trasto (differenziazione). Di questa distinzione naturalmen­te non possiamo fare a meno se vogliamo correttamente descrivere una struttura ritmica concretamente eseguita. Tuttavia una variazione timbrica può da un lato, in presenza di un'accentazione mediante aumento di intensità, avere il senso di un arricchimento del colore ritmico; ma, in determinate cir­costanze si puo usare un timbro differente per dare rilievo al suono rispetto agli altri. In tal caso la differenza timbrica può avere funzione di accento. Cosicché potremmo o utilizzare il termine di accento sia per una modificazione dinamica che, in determinate condizioni, per una modificazione timbrica, o ancora addirittura mettere da parte - a fini puramente teorico-esemplificativi - l'aspetto della differenziazione timbrica e limitarsi a considerare il caso dell'accento inteso come aumento di intensità. Cosicché potremmo proporre il seguente schema semplificato: 349 - Le considerazioni precedenti riguardano unicamente la scansione nel suo andamento processuale inteso come del tutto aperto e che può proseguire indefinitamente. La scansione risulta così segmentata dagli accenti e ciascun segmento è articolato secondo le differenze e eguaglianze delle durate. Ora la nozione che ancora manca è quella della periodizzazione attraverso cui si introduce la tematica della ripetizione. Essa potrebbe essere introdotta così: chiameremo periodo uno o più segmenti della scansione inteso come una unità iterativa. Nulla a che vedere dunque con il periodo nel senso del discorso verbale. Esso sarà primariamente caratterizzato dai segmenti di cui è costituito e dal numero delle unità di scansione ("tempi") che risultano di conseguenza. In luogo di periodo potremmo parlare di ciclo (loop). "Il periodo - leggiamo ancora in Arom - provvede lo schema (framework) temporale per eventi ritmici" (p. 230). Nota che il parlare di periodizzazione del percorso della scansione ci mette al riparo dal concepire l'articolazione temporale come suddivisione di un intero in parti, concezione che non è troppo appropriata ai decorsi temporali. Il numero dei tempi ovvero l'ampiezza del periodo può essere in linea di principio qualsivoglia, ma vi è certamente un limite al di là del quale tende a venire meno la possibilità di cogliere percettivamente la ripetizione del ciclo, anche se non vi è ragione di porre questa possibilità come condizione obbligatoria. - Secondo Arom, per quanto riguarda la musica africana resta assodato che essendo basata sulla pura scansione dei tempi di un periodo, essa non è da considerare né eterometrica (cambio di misura nell'ordine orizzontale) né polimetrica (cambio di misura nell'ordine polifonico) per il semplice fatto che non conosce alcun "metro" (battuta, misura) - e di conseguenza "essa non fa nessun uso delle nozioni di tempo debole e di tempo forte" (p. 208). 350 - Il grande interesse di questa sistemazione teorica, che fa se­ guito ad un'esposizione critica delle varie alternative, sta nel fatto di stabilire un quadro di riferimento per una teoria del ritmo che prende le mosse dalla pura e semplice scansione per trarne una tipologia che fa leva unicamente su accento e durata, secondo la nozione estesa di accento che ho proposto. A mio avviso, essa è capace di stabilire un criterio di descrizione e di sistematizzazione che sembra andare ben oltre il problema della ritmica africana da cui prende le mosse e su cui prevalentemente essa viene esercitata. La critica di Arom della distinzione tra tempi deboli e tempi forti - Il rifiuto della distinzione tra "tempi deboli" e "tempi forti" è in Arom nettissimo. Ciononostante noi ci chiediamo ancora: per quanto riguarda la problematica generale del ritmo, essa è veramente da confinare ad un'apparenza che si consolida solo con riferimento ad uno stile musicale particolare? - Se guardiamo con attenzione lo schema che egli propone o nella nella sua forma da noi semplificata, ci si rende subito conto che sono sempre in questione accenti reali e quindi effettive modificazioni intensive o timbriche, e non di accenti intenzionali, di accenti cioè meramente intesi, ovvero musicalmente pensati, il che non significa per nulla fittizi o inesistenti. Le espressioni di tempo forte e tempo debole presuppongono nella teoria musicale corrente la nozione di battuta o di misura e sono da intendere come uno schema di accenti intenzionali. Questi accenti intenzionali possono essere o non essere sottolineati da accenti intensivi, così come può accadere che accenti intensivi giochino in contrasto con essi. Quindi, in rapporto alla misura (ed al di là di difficoltà e problemi attinenti a questa nozione che sono ben note) la distinzione del battere e del levare è una distinzione ricca di senso e non sembra per nulla facile eliminarla. 351 Scansione di base e la distinzione tra tempo debole e forte - Indubbiamente nel testo di Aron le dizioni tempo forte e tempo debole sono utilizzate, a questo mi sembra, alla battuta nel senso usuale, di tradizione europea, ed egli sembra avanzare il dubbio che anche nella tradizione europea questa distinzione sia in ultima analisi fittizia. Essa farebbe parte di quella dimensione puramente soggettiva, priva di fondamento nella cosa stessa, che così spesso affiora nelle discussioni sul ritmo. Su questo punto io penso che possano sorgere delle perplessità. È certo merito di Arom aver assodato che il modo di inten­dere l'articolazione temporale nella ritmica africana non preveda la misura e quindi la distinzione tra tempo debole e tempo forte, in quanto nozione strettamente interna alla misura. Ma non si vede in che modo possa essere giustificata, a partire di qui, la riduzione a mera finzione proprio di ciò che sta nell'evidenza del gesto percussivo e che riguarda anzitutto, non la misura, ma la pulsazione. Paradossalmente, come in precedenza ci arrischiavamo a rammentare al gregorianista l'ov­vietà a lui ben nota dell'assenza di un tempo battuto vero e proprio, così in rapporto a questo studio magistrale sulla ritmica africana siamo costretti, con estrema e comprensibile riluttanza, a rammentare come si batte un tamburo. Il caso dell'off beat - L'esistenza di questo problema affiora a mio avviso anche in Arom, e precisamente laddove egli affronta il problema della "sincope". Va da sé che questa nozione è legata a fil doppio con quella della misura, cosicché il termine stesso non dovrebbe essere utilizzato in rapporto alla ritmica africana. Ma ciò che vale per il termine, non vale per la cosa stessa. Suoni off beat vi sono certamente nella ritmica africana, cosicché si pone ad Arom il problema di rendere conto di essi facendo meno del riferimento alla misura. Ma che cosa è dunque una nota offbeat? Arom risponde 352 che una nota offbeat "può essere definita come iniziante sulla seconda metà di un beat (o su qualunque altra parte ad eccezione dell'attacco). In altri termini, una nota qualunque che è attaccata in modo tale da non coincidere con l'attacco del beat è 'off beat'" (p. 207). In proposito viene citata anche con approvazione la definizione di Rousseau "secondo cui una qualsiasi nota sincopata è controtempo (à contretemps), e qualsiasi sequenza di note sincopate è una progressione di controtempi".Arom coglie molto bene che per una simile caratterizzazione (progressione di controtempi) non vi è bisogno di postulare l'esistenza di una battuta, essendo sufficiente la "pulsazione". Rousseau, commenta Arom "giustamente evita di dire che qualunque controtempo è sincopato: ovvero che qualunque controtempo richieda la misura". A me sembra tuttavia che questa accortezza terminologica ci porta al riconoscimento inevitabile che, in rapporto ad una pura scansione, possiamo parlare di un levare e di un battere, e quindi di un tempo forte ed a uno debole (che nel loro senso rimandano al rapporto del suono al silenzio), indipendentemente dalla nozione di misura. Ma se è così il problema si riflette su un periodo intero. La questione meramente terminologica e nello stesso tempo la convinzione che tempo forte e tempo debole debbano appartenere alla misura e siano nozioni inscindibili da essa sono gli elementi fuorvianti all'interno di una tematica così seriamente impostata. Si cerca così una diversa terminologia. Con Kolinski si pro­pone "organizzazione commetrica" o "contrammetrica" - nel primo caso si ha concordanza con il "metro", o meglio con la pulsazione, nel secondo si entra in contrasto con essa. "Questo contrasto rende possibile il provvedere una descrizione ritmicamente rilevante di un brano musicale, in quanto la pulsazione è stata determinata". Si tratta di un punto tanto significativo da potersi dire che "la musica nera africana è chiaramente più contrametrica che commetrica" (p. 208). Condizione di questo contrasto è naturalmente niente altro che l'articolazione elementare (ovvero la differenziazione interna) dell'unità di scansione. 353 - Se abbiamo deciso di indicare la scansione nel modo seguente allora il suono offbeat cadrà nel luogo della pausa: quella seconda metà del beat non è altro che il luogo del "levare". Nozione di unità metrica - A questo punto si può forse introdurre agevolmente la nozione di unità metrica, termine che riprendiamo da Rudzinski giovandoci ampiamente della sua elaborazione teorica, ma senza prendere troppi impegni sul complesso della sua teoria del ritmo (così del resto non possiamo avanzare la pretesa di aver correttamente interpretato il senso e le intenzioni dell'e­sposizione di Arom). In particolare il percorso che ci conduce alla nozione di unità metrica è essenzialmente differente da quello di Rudzinski. Nell'introduzione di questa nozione sono determinanti in Rudzinski le nozioni di arsi e tesi come nozioni "energetiche" essendo poi l'idea di unità metrica definita come "l'intervallo tra un punto di appoggio (tesi) e l'altro, o più precisamente tra due ictus" (Rudzinski, 1993, p. 35). A noi sembra invece che ad essa si possa pervenire prendendo le mosse dalla tematica temporale e dall'idea di scansione, e precisamente dall'idea dell'articolazione del periodo istituita dagli accenti, quindi da quella che abbiamo chiamato segmentazione della scansione. - Vogliamo anzitutto far riferimento ad un esempio. Supponiamo che si dia un periodo formato da sei tempi (ovvero sei unità di scansione) e che esso abbia la seguente struttura di accenti: ovvero, come potremmo anche scrivere: 354 a b c d Secondo gli accenti, il periodo è articolato in "unità metriche" ed ogni unità metrica ha quello che potremmo chiamare la propria unità caratteristica di tempo o più brevemente il proprio tempo caratteristico. (Rudzinski parla piuttosto di tempo primo, ma penso che sia preferibile lasciare questo termine al significato che esso ha nel gregoriano). Che cosa sia il tempo caratteristico lo si comprende mettendo in questione proprio il battere ed il levare. Nell'e­sempio in questione vi sono quattro unità metriche, ma il tempo caratteristico della prima unità a è rappresentata dalla semiminima mentre le unità metriche successive b, c,d hanno come tempo caratteristico la croma. La struttura metrica di a è dunque: mentre la struttura metrica di b, c e d è (riterrei le frecce preferibili alla lunga ed alla breve). - Il problema del battere e del levare, dunque del tempo forte e 355 del tempo debole, come un problema che riguarda naturalmente non tanto accenti reali e concretamente realizzati, ma accenti puramente intenzionali (intesi, pensati) si pone per le unità metriche e non per il periodo e la differenza concettuale resta anche se l'una nozione si sovrappone all'altro, come quan­do, ad esempio un periodo è costituito da un'unica unità metrica. - Questo problema si presenta con particolare chiarezza nelle nostre usuali "battute", mostrando la sua importante valenza sul piano musicale. La battuta indicata ad es. con 3/4 in realtà è relativamente indeterminata proprio sotto il profilo ritmico perché non contiene la specificazione della sua struttura metrica, ovvero della struttura dei tempi forti e dei tempi deboli nel suo interno. La con­se­guenza di questa indeterminatezza fa sorgere un problema ben noto ad ogni strumentista: di fronte ad una battuta di 3/4 egli si chiederà se il tempo va "battuto in uno" oppure "in tre", come si usa dire. La sensibilità musicale avverte qui la presenza di un problema di particolare importanza ritmico-espressiva, e non di un dettaglio che ha una mera rilevanza pratica. In effetti nel primo caso l'unità metrica è rappresentata da h. nel secondo caso invece le unità metriche saranno tre, qqq e mutano conseguentemente i tempi caratteristici e la struttura metrico-ritmico complessiva. Molto opportunamente Rudzinski ha proposto come notazione per il primo caso 1h. per il secondo 3q essendo nel primo caso la struttura costituita di una unica unità metrica, la seconda di tre unità metriche. 356 - Naturalmente le tipologie che si possono presentare, con i loro problemi specifici sono quanto mai numerose e possono complicarsi a dismisura Nella nostra tradizione la periodizzazione si muove tra un numero molto limitato di possibilità. Queste possibilità si allargano andando alla musica popolare o di altre culture. E ciò pone naturalmente nuove discussioni, nuovi problemi, nuovi concetti. Il volume di Rudzinski docu­menta, almeno nella musica di tradizione europea, non solo la ricchezza dei casi possibili ma anche l'effi­cacia analitica di queste nozioni. - Il tempo caratteristico viene determinato a partire dall'unità metrica ed è una nozione strettamente relativa ad essa. Perciò non ha nulla a che vedere con una mera possibilità di partizione delle durate, cosicché ovviamente sono possibili, all'in­terno dell'unità metrica, durate più brevi senza che l'u­nità metrica risulti modificata. Accenti metrici e accenti intensivi - Gli accenti che dipendono dalla forma dell'unità metrica e dal modo della sua articolazione, quindi in ultima analisi dalla struttura del battere e del levare, potrebbero essere chiamati accenti metrici. L'accento metrico è tipicamente un accento inteso, anche se naturalmente può essere concretizzato da accenti intensivi effettivi. Gli accenti intensivi localizzati in qualun­que punto dell'unità metrica, entrano in forme complesse di rapporto con gli accenti metrici. - Poiché sia gli accenti metrici che quelli intensivi fanno parte della struttura ritmica, conviene forse impiegare l'espres­sione accenti ritmici in modo generale, abbracciando sia gli uni che gli altri. 357 Ritmi additivi e divisivi - A mio avviso, la distinzione terminologica tra ritmo divisivo e additivo proposta da Sachs (1953) deve essere considerata come una terminologia descrittiva ed essa non sembra abbia le sue radici in una teoria realmente elaborata. D'altra parte il libro di Sachs sul ritmo si presenta più come un'indagine storico-musicale che come un lavoro di teoria della musica, anche se è ricco, come sempre in questo autore, di suggestioni teoriche importanti. Quella distinzione consente di formulare un primo criterio di ordinamento del materiale. Per il suo impiego va comunque presupposta una "battuta" suddivisa in unità di tempo - e secondo la sua articolazione ritmica interna si parlerà di ritmo divisivo e additivo. Si parla tipicamente di ritmo divisivo quando la battuta può essere suddivisa in parti eguali, come è di norma in gran parte della musica di tradizione europea; mentre il ritmo additivo è quello che deve essere inteso come raggruppamento di parti diseguali, caso che si presenta frequentemente nella musica di tradizione popolare, nella musica indiana ecc. Naturalmente nulla impedisce che un periodo ritmico pari possa essere diviso in parti diseguali, in modo dunque additivo. Di questa distinzione Sachs sembra suggerire una certa "fondazione fisiologica" quasi-cau­sale nel passo umano per il ritmo divisivo, e nell'a­sim­ metria della respirazione per il ritmo additivo (a quanto sembra, l'espirazione è più lunga che l'inspirazione). Battuta La nozione di battuta (misura) è in certo senso una nozione mista: in parte ha un fondamento teorico; in parte una mera giustificazione pratica; in parte riguarda puri fatti notazionali. Le critiche e le osservazioni che riguardano l'uso di questa nozione non sempre tengono conto di queste differenze, e ciò genera qualche confusione. L'elemento teorico presente in essa riguar- 358 da in particolare l'idea della periodizzazione della scansione, di unità metrica e di raggruppamento di unità metriche. - Potremmo dire che mentre l'espressione "unità metrica" (o in qualunque altro modo tu la voglia chiamare) fa parte della teoria del ritmo, l'espressione "battuta" o "misura" fa parte della pratica musicale e della storia dei metodi notazionali. - Mettendo nel giusto rilievo l'aspetto notazionale, Rudzinski caratterizza la battuta nel modo seguente: "La cultura europea moderna definisce battuta lo spazio tra due stanghette, nel quale sono racchiuse le note a seconda del loro valore. La battuta ha innanzitutto carattere metrico e comprende una sola o alcune unità metriche. Il sistema di battute permette di notare quasi tutti i diversi tipi di flussi ritmici e in modo particolare quelli misurati; da questo punto di vista, il sistema non ha perso di attualità neanche ai nostri giorni, malgrado abbia conosciuto momenti di crisi. È innegabile, comunque, che il suo campo di applicazione ideale sia la musica basata su flussi ritmici isometrici, omogenei e regolari" (1993, p. 47). - In rapporto alla "battuta" occorre distinguere con chiarezza gli aspetti notazionali e convenzionali, dagli aspetti che interessano invece la struttura sonora percepita. Forse in via preliminare è utile considerare la battuta come se si trattasse di un metodo notazionale puro e semplice. Potremmo perciò cominciare con il dire: il rigo provvede a fornire le altezze delle note; le convenzioni sui segni delle note provvedono a stabilire le durate e i loro rapporti; ed infine le stanghette del­la battuta in via di principio dovrebbero indicare uno sche­ma di accenti metrico-ritmici per un determinato numero di unità di tempo. Ma non accade sempre così. Ad esempio, la scrittura può essere tale da fornire un ausilio all'esecutore - cosicché questi scandirà il decorso temporale, ma la scansione potrebbe non avere alcun risultato sul piano percet- 359 tivo. Occorre prestare attenzione al modo in cui si manifestano gli eventi sonori agli ascoltatori per i quali c'è una metrica oppure non c'è, indipendentemente dai metodi notazionali di cui ci serviamo. Analogamente un continuo cambio del valore metronomico (quindi dell'unità di scansione) potrebbe generare dal punto di vista dell'ascolto una totale ametria - per quanto il brano possa essere scritto pedissequamente in battute. - Nella consueta nozione di battuta, vi sono delle convenzioni sottintese: ad esempio, il 6/8 andrà inteso come 3+3 e non ad es. come 2+4 ecc. e questo rende già la nozione di battuta relativa ad un determinato linguaggio musicale. Così Sachs fa notare che nella musica indiana un tala (periodo ritmico) di 8/8 verrà inteso come 4+2+2 oppure come 3+3+2. "Nessun modulo indiano può essere diviso in metà, terzi, o quarti; essi sono tutti irregolari dal nostro punto di vista" (1953, p. 102) - Tra lo schema proposto notazionalmente e lo schema effettivo vi può essere un netto divario. In generale questo divario sarà nascosto da vari artifici notazionali (ad es. legature o accenti espliciti) attraverso i quali si proporranno "metri" diversi da quelli indicati notazionalmente. Anche la semplice struttura melodica potrebbe contraddire l'indicazione di battuta. Fraseggio -­ Quando si parla di fraseggio si fa riferimento anche a fatti ritmici, ma non solo ad essi. Nel caso del fraseggio si tratta di cogliere i gruppi unitari, di porre le "cesure" nel punto "giusto": e di operare scelte per quanto riguarda il modo di porgere una frase o un suo segmento. Ad esempio con legature, ovvero staccati o alternanze tra legature e staccati, ecc. - La questione del fraseggio mette in questione problemi rela- 360 tivi alla lettura del testo scritto. L'esecutore potrebbe, ad esempio, essere indotto in errore dalla notazione e realizzare gli accenti in conformità alla notazione piuttosto che al senso ritmico-metrico della frase. Va esplicitamente notato che in questi casi non vi è alcuna conflittualità reale all'interno della sequenza ed in particolare che il parlare, come si fa assai spesso, di contrasto tra ritmo e metro non avrebbe alcun senso intelligibile. La questione è puramente notazionale. Accade soltanto che un certo schema metrico viene scritto in modo non perspicuo oppure che per qualche ragione di comodità o di convenzione si preferisce ricorrere ad artifici notazionali piut­tosto che segnalare nella notazione un mutamento esplicito di metro. Naturalmente un simile "mascheramento" può avere conseguenze sulle modalità esecutive se esso non viene individuato, cosicché si possono avere falsi accenti rispetto a quelli che fanno parte della struttura ritmico-metrica reale. Occorre tuttavia sottolineare che il modo in cui il brano viene "analizzato" da questo punto di vista potrebbe ammettere diverse possibilità cosicché nell'analisi si entra nel campo del fraseggio, nel quale la scelta interpretativa svolge un ruolo importante. Sull'impiego delle parole ritmo e metro - Si ama spesso contrapporre ritmo a metro. Talvolta questa contrapposizione assume un senso vagamente filosofico. Il metro è l'elemento "cattivo", rigido e duro, il metro è disumano perché è meccanico, oppure è troppo umano perché è l'uomo, e non la natura, che fa le macchine. Il metro è un insensato moto perpetuo… Ritmo sarebbe invece l'elemento plastico, portatore di un ordine, ma privo di rigidezza, che introduce dunque varietà e differenza in uno sviluppo che ha la propria logica interna. Ma a ben vedere, benché certo si possa usare questa contrapposizione con intelligenza e in con­testi in cui essa risulta persino in qualche modo a proposito, tuttavia essa reca forse più danni che vantaggi, più confusione che chiarezza. Naturalmente si può convenire 361 su una certa differenza di impiego dei termini, ad esempio il termine "ritmo" potrebbe essere considerato come il termine più generale, applicabile dunque ad ogni modalità di articolazione tem­porale, sia rigida che fluida (e del resto il suo impiego non è limitato all'ambito musicale), mentre il termine "metro" potrebbe essere utilizzato in particolare quando si vuole porre l'accento sugli aspetti quantitativi e sui momenti di schematizzazione. - Mi sembra dunque che si possa concordare con Sachs secondo il quale giustapporre e mettere in contrasto ritmo e metro "is inadmissible" (1953, p. 12). Egli osserva che della parola ritmo si può fare un uso più generale rispetto a metro - si può parlare di ritmo rispetto ad una pittura o ad un edificio, e non invece di metro. Egli cita anche la bella espressione di Charisius, grammatico latino vissuto nel 400 d.C.: "Rhythmus est metrum fluens, metrum rhythmus clausus" - "Flusso e diga - commenta Sachs - sono qui uniti in un'unica definizione" (p. 13). Notevole mi sembra anche il chiarimento offerto da Sachs della frase di Agostino: "ogni metro è ritmo, ma non ogni ritmo è metro" spesso citata in modo avulso dal contesto. Essa ha in realtà un significato molto pre­ciso ed ovvio essendo la parola ritmo utilizzata per indicare un aggregato di più metri (aggregate of several meters) e la parola metro per i piedi di cui è composto un verso (p. 27). Nella sua traduzione di De musica M. Bettettini fornisce questa spiegazione: "metro = l'unità di misura del verso, costituita da più di un piede e delimitata in maniera definita"; "ritmo = sequenza di piedi senza un limite definito, per questa ragione distinto dal metro". - Peraltro Sachs tende ad impiegare la parola metro per indicare "il ritmo ottenuto attraverso durate" (Rhythm by length), differenziandolo dal ritmo ottenuto mediante l'impiego di accenti (Rhythm by stress), senza escludere che le due forme possano accoppiarsi. Secondo Sachs, accento puro e puro metro (differen- 362 ze di durata) sono "meri estremi, non classi opposte. Essi si incontrano e si fondono in sempre nuove combinazioni" (p. 28). - Talora parlando di "metro" si intende null'altro che la schematizzazione di principio del brano, schematizzazione che si riduce all'intelaiatura temporale e accentuativa astratta così come è leggibile nelle indicazioni iniziali della partitura (indicazione del tempo metronomico e del tempo di battuta). E allora con "ritmo" in contrapposizione a metro si intenderà ciò che risulta nell'esecuzione del brano, dal momento che l'ese­cu­zione effettiva si può discostare più o meno nettamente da quell'impianto, sia per via delle "mascherature notazionali" che vengono tolte di mezzo esecutivamente, sia per il fatto che nell'esecuzione avverranno "fra­seggi" di ogni genere, accelerandi, ritardandi, respiri, accenti, legature, staccati, previsti o non previsti dal testo scritto, ecc. Ma anche in questo caso si confondono le carte, perché il confronto non riguarda la musica, ma il suo rapporto con una determinata notazione. La confusione tra ritmo e forma - La via maestra per la confusione tra ritmo e forma (e naturalmente per l'enfasi posta sull'equazione musica = ritmo) sta non tanto nell'operazione perfettamente legittima di mostrare l'articolazione del brano evidenziando i raggruppamenti e la differenza dei loro ordini secondo una struttura ad albero, quanto nel riportare le nozioni di arsi e tesi sugli strati sovraordinati. Ciò viene naturalmente favorito dall'impiego di questi termini nella teoria del ritmo sorta sul terreno del canto gregoriano. In essi sono allora subito incluse le idee di slancio e riposo. Va da sé che queste idee possono essere impiegate non solo per definire il "ritmo elementare", ma anche intere fasi di slancio e di riposo costituite da più ritmi elementari. Nei livelli di stratificazione superiore gli accenti ritmici (ictus) potranno avere, sia carattere 363 "arsico" sia "tetico" secondo che si presentino in una fase arsica o tetica. Lo schema seguente mi sembra illustri chiaramente la questione (Ernetti, 1961, p. 179). Gli ictus sono indicati con un trattino verticale e si può vedere nell'andamento del segno superiore (protasi, apice, apodosi) la forma di una grande arsi seguita da una grande tesi: - Quando si tenta una generalizzazione dei concetti di arsi e tesi, questo modello viene ripreso in una chiave di espansione metaforica. Come se dicessimo: parleremo di arsi in tutti quei casi in cui vi è slancio, dunque avvio del movimento, piuttosto che tendenza al riposo ed all'estinzione. Talvolta si parla giustamente, piuttosto che di arsi e tesi, di valore (anche funzione o carattere) di arsi e tesi, intendendo così sottolineare questo impiego generalizzato e del tutto elastico dei termini. In realtà si tratta di un vero e proprio nuovo senso attribuito ad essi. - Se si attenua la consapevolezza della differenza, ritmo e forma vengono a coincidere, nonostante ogni buona intenzione di tenerli separati. Quando passiamo da qualcosa che è arsi o tesi a qualcosa che ha valore di arsi o tesi effettuiamo il passaggio ad un nuovo livello di considerazioni che è connesso con il ritmo, ma che anche lo travalica - il passaggio cioè a problemi più generali di 364 articolazione formale che non possono interessare soltanto la "ritmizzazione del tempo". Ritmo e forma nella teoria di Rudzinski - Questo problema si presenta con particolare chiarezza nella teoria del ritmo di Rudzinski, così ricca di indicazioni e di prospettive di lavoro. Egli prende le mosse dalla scuola di Solesmes, ma il suo problema non è quello di rendere conto del canto gregoriano e delle sue possibilità esecutive. Il suo progetto è invece quello di apprestare strumenti e concetti validi che abbiano una relativa generalità, e che abbraccino quanto meno la musica di tradizione europea. Lo scivolamento dal rit­mo alla forma risulta qui particolarmente chiaro e proprio per il fatto che egli molto esplicitamente cerca di porvi un freno. - L'impostazione iniziale del problema porta in ogni caso in questa direzione per il fatto che egli fonda la teoria sulle nozioni di arsi e tesi interpretate come rapporto slancio/riposo. La "cellula ritmica elementare" come movimento dall'arsi alla te­si viene costituita sulla base dell'analogia con il movimento di una palla di gomma lanciata in aria che finisce su un fondo sabbioso su cui si arresta. La figura proposta (p. 21) tuttavia non corrisponde esattamente a quel­l'a­nalogia: fig. 1 365 In realtà il volo di una palla gettata in alto che poi cade a terra dovrebbe essere descritto come un movimento di ascesa che raggiunge un punto culminante e poi decade arrestandosi sulla sabbia: secondo una simile descrizione il punto culminante dell'arsi (fase ascendente) è anche il punto iniziale della tesi (fase discendente). Invece la tesi è riferita da Rudzinski alla fine del movimento - il momento in cui la palla si insabbia. Attenendosi strettamente all'immagine si introdurrebbe certo qualche incongruenza nel concetto - e questo problema è colto di passaggio da Rudzinski che si affretta ad osservare che "non è indispensabile che questo tipo di movimento sia diretto dall'alto verso il basso [come in figura]: potrebbe trattarsi di una freccia che colpisce un uccello" - e che dunque ne arresta bruscamente il volo. Ciò che Rudzinski intende dire è piuttosto chiaro: tesi non è l'inizio di una fase discendente, ma la fine del movimento. Al più possiamo ammettere che questa fine si prolunghi un poco rispetto all'arsi, come quando "un aereo in fase di atterraggio tocca il suolo con le ruote: questo momento è l'ictus; le ruote corrono ancora per qualche tempo e ciò rappresenta una tesi prolungata" (p. 22). L'ictus è dunque il punto esatto in cui inizia a finire il movimento: l'accento ritmico, dunque, da distinguere nettamente dall'accento dinamico - intensivo. L'aspetto energetico viene qui esplicitamente sottolineato: "Nei moti spaziali come in quelli sonori gioca un ruolo determinante il processo energetico" (p. 21). Con ricordo della metrica greca la cellula ritmica elementare sarà rappresentata dal giambo, e la lunga dovrà essere considerata come sede dell'ictus: Una semplice variazione dell'immagine introduce un nuovo e decisivo sviluppo. In luogo di insabbiarsi, la palla rimbalza, cadendo questa volta su un piano rigido - ed a differenza del movimento fisico, possiamo assumere che il movimento prosegua 366 indefinitamente in modo omogeneo (p. 34). fig. 2 Abbiamo così un giambo iterato che propone una sequenza giambo-trocaica: Questo passaggio viene ribadito dai gregorianisti, che talvolta pretendono anche di stabilire una differenza quasi ontologica tra giambo e trocheo, ovvero tra il rapporto arsi-tesi e il rapporto tesi-arsi, come se la parola ritmo si addicesse essenzialmente al primo, ed al secondo la parola metro, con tutte le valenze di senso che vengono fatte gravare su questa pretesa opposizione. Rudzinski tuttavia non si attiene a questi luoghi comuni della teoria del ritmo gregoriana, ma prende il destro proprio da questa struttura di alternanza tra arsi e tesi, per teorizzare al contrario l'intimità del rapporto tra metro e ritmo. Proprio all'in­terno di un simile ordine di considerazioni il problema ritmo-me­tro forma un unico problema, anche se tutto il discorso assume una particolare inclinazione direttamente conseguente alla sua impostazione di principio: non so­lo il metro diventa dipendente dal ritmo, ma il ritmo non può che generare inesorabilmente il metro, proponendo così una nozione di ritmo troppo restrittiva. Inoltre, proprio tenendo conto della sua impostazione di principio, si comprendono le difficoltà da parte di Rudzinski di mantenere la differenza tra ritmo e forma nonostante l'intenzione esplicitamen­te formulata di asserirla. 367 - La palla rimbalzante ci fornisce ancora una guida per ulteriori sviluppi. Questo tipo movimento rappresenta un vero e proprio filo conduttore teorico, e non un'illustrazione relativamente estrinseca. Ora ci interessa il caso più prossimo all'e­vento fisico: la palla, che in precedenza procedeva indefinitamente senza perdere energia e movimento, ora rimbalza con forza sempre minore, fino al punto in cui il movimento si spegne. Commenta Rudzinski: "Nell'ictus si decide ciò che seguirà; se l'intero movimento tenderà verso una prosecuzione e uno sviluppo o se al contrario tenderà a fermarsi. Nel primo caso dei due momenti che si fondono nell'ictus prevarrà quello dell'arsi, fonte di ulteriore sviluppo; nel secondo caso, prevarrà la tesi, elemento conclusivo, di estinzione del movimento" (p. 102). Questa situazione viene rappresentata nel modo che segue (p. 102), dove la T maiuscola indica la predominanza dell'elemento tetico nel momento dell'ictus: fig. 3 Nella figura seguente (p. 102) invece, la palla, lanciata in alto, viene colpita da una racchetta prima di toccare terra, cosicché il momento che a livello primario presenta caratteristica di tesi, a livello più alto dell'organizzazione ritmica assume il carattere di arsi e viene contrassegnato con una A maiuscola: fig. 4 368 - Se tutto il problema viene posto in questi termini in cui l'elemento energetico (slancio/riposo) resta dominante, allora non si potrà evitare che arsi e tesi possano valere non solo per definire le cellule ritmiche e le unità metriche elementari, ma possano anche abbracciare unità più ampie stratificate ad albero. Ciò che comincia ad essere formulato in Rudzinski, seguendo gli stimoli teorici di Mocquereau (cfr. p. 104), come ritmo composto rappresenta in realtà il passaggio ad un'idea di ritmo che dovrebbe infine abbracciare l'intera composizione. Qualunque andamento discendente potrà essere inteso come andamento che ha prevalentemente il carattere di tesi, così come qualunque andamento che ascende verso un punto culminante come un andamento che ha prevalentemente carattere di arsi. La coppia di tensione-distensione, di sviluppo-estinzione può trovare applicazione ovunque, e generare "strati" ritmici appartenenti a ordini diversi. - Dimensione propriamente ritmica, forma e fraseggio confluiscono in un unico discorso. È dunque inevitabile che si arrivi poi a parlare, come componenti di una teoria del ritmo, di inciso, di membri costituiti di incisi, di frasi costituiti di membri, di periodi come costituiti di frasi - a titolo di unità ritmiche di ordine superiore. Come accade appunto in Rudzinski. Solo che Rudzinski vuol poi impedire una semplice identificazione tra ritmo e forma. "Occorre sottolineare, egli scrive, che una pura giustapposizione di frasi anche complesse non arriva obbligatoriamente a formare un periodo: si dà anche il caso in cui un raggruppamento di frasi non dia origine ad una struttura integrata organicamente" (p. 108). Così egli è disposto ad accettare livelli di stratificazione solo fino al quarto grado, ovvero al cosiddetto "periodo", e assume un atteggiamento critico nei confronti dell'estensione di un simile modo di considerazione ad un brano intero. A suo avviso, una composizione di vaste proporzioni dovrebbe essere concepita come una "giustap­posizione libera di periodi" e l'unità della composizione intera dovrebbe essere garantita da altri fattori - e non 369 concepita come una "gigantesca battuta" (p. 191) ovvero come un gigantesco giambo (cfr. p. 199). Si arriva così anche a formulare esplicitamente l'idea di una netta distinzione tra ritmo e forma: "L'opinione secondo la quale il concetto di ritmo può estendersi all'opera nella sua totalità... non significa che il ritmo si identifichi con la forma..." (p. 195). Ed ancora: "Il senso dell'unità di un ciclo dipende da fattori formali, non ritmici" (p. 199). Non ogni pezzo, anche breve, "deve rivelare un'influenza del ritmo a livello superiore" (p. 199). Si tratta di affermazioni significative: eppure nessuna di esse può trovare una qualche giustificazione nell'impianto della tematica del ritmo che l'autore propone. Alla domanda che egli pur si pone di quali siano i "confini del ritmo" rispetto alla forma - perché mai dovremmo essere abilitati a salire al quarto ordine e non oltre? - non può dare una risposta soddisfacente. Tutta la musica è ritmo? - Non è facile liberarsi dell'equazione ritmo = musica. In Coo­ per e Meyer essa si annuncia sin dalla prima frase: To study rhytm is to study all of music; e con estrema chiarezza gli autori formulano il concetto assai semplice della ritmicità a cui ci si attiene: "Avere esperienza del ritmo è raggruppare suoni separati in pattern strutturati" (1960, p. 1). La connessione di questa idea del ritmo con l'equa­ zione ritmo=musica si può trarre dalla stessa definizione di ritmo: fattori di unità, e quindi di possibile raggruppamento, sono tutti i fattori musicalmente significativi. - All'interno di una prospettiva che vede il raggruppamento come ciò che caratterizza la ritmicità in genere, come in Cooper e Meyer, il problema della stratificazione dei livelli, e dunque del confluenza della problematica del ritmo nella problematica della forma è null'altro che una pura ovvietà. Vi sono unità inferiori che sono parti di unità superiori sempre più ampie. E ritorna 370 così anche in Meyer la terminologia scolastica dei motivi, frasi, periodi, ecc. (1960, p. 2). Ritmo e forma secondo Sachs - Secondo Sachs invece, "non appena lasciamo il suo dominio piuttosto ristretto l'equazione di ritmo e forma diventa incontrollabile e pericolosa". Sachs rammenta inoltre che secondo dati psicologici il massimo di durata riempita "di­stin­tamente e immediatamente afferrata" non supera i dodici secondi. Vi è dunque oltrettutto un problema psicologico di dominabilità. Si può concedere che qualunque struttura ha una forma ritmica, ma questo non ci autorizza "a espandere un microcosmo ritmico in un macrocosmo ritmico"- "Il ritmo si indebolisce quanto più ampliamo il suo concetto" sia perché la percezione dell'andamento ritmico si deteriora con questa e­spansione, sia perché la regolarità degli accenti, delle durate ecc. non è soddisfatta nella considerazione delle grandi forme. Per quanto riguarda l'unità formale e strutturale di un brano, secondo Sachs, essa è garantita forse assai più da altri elementi come la melodia o l'armonia che non dal ritmo. Secondo Sachs, ritmo, armonia e melodia non coincidono, ciascuno di per sé, con la forma globale del brano, ma sono dei fattori che contribuiscono ad essa (1953, p. 17). 371 XXVII La musica disumana Considerazioni sul termine "musica elettronica" - Gli anni passati sono molti rispetto alle sperimentazioni elet­ troniche degli anni cinquanta del secolo scorso, ma gli svi­luppi che si sono avuto nel campo della tecnologia "hard­wa­re" e "software" sono stati tali da stabilire una distanza in certo senso ancora maggiore di quella puramente cronologica. Ciò vale in modo particolare per le vicende della musica, e dà da pensare sia per una riflessione sul passato sia, per quanto possibile, sulle prospettive di un futuro vicino e lontano. - Va subito detto che la stessa espressione di "musica elettroni­ ca", un tempo così in voga, è diventata per certi versi antiquata, così come espressioni del tipo "... per nastro magnetico" appic­ cicate ad un brano musicale - per quanto entrambe siano ancora in uso. Una volta parlando di "musica elettronica" si alludeva ad una specificità che riguardava non solo il modo di produrre il suono, ma anche il tipo di suono prodot­to, e ciò, io credo, dipen­ deva in particolare dalla rudimen­talità degli apparati strumentali di allora. L'idea di poter disporre su qualunque possibile sono­ rità, senza limitazioni di sorta, faceva in realtà parte della pura teoria, una sorta di illusoria interpretazione della trasformata di Fourier che si prestava a fantasie intorno alla sintesi del suono che non avevano mezzi adeguati per realizzarsi al di là di elemen­ tari manipolazioni delle forme d'onda. Il preteso dominio del­ la totalità del­le possibilità sonore era appunto soltanto preteso. Quel che si riusciva ottenere erano invece sonorità fortemente tipicizzate, immediatamente riconoscibili come "elettroniche", al punto che l'espressione "musica elettronica" finiva con l'es­ sere assimilabile ad una sorta di vero e proprio genere musicale (ed 372 anche oggi spesso questa espressione mantiene questo senso). - All'idea della sintesi del suono si associò fin dall'inizio quel­la del musicista dominatore non solo della forma, ma anche del­la materia: curiosamente, era proprio la vecchia idea estetica della loro unità nella perfezione dell'opera d'arte ad essere ripresa giocando su questa possibilità di agire su un materiale di base - il suono sinusoidale - per raggiungere, con svariate operazioni condotte su di esso, il tipo di suono che sarebbe stato in qualche modo conforme all'idea musicale del compositore. Quella che Stockhau­ sen chiamava la "dit­tatura del materiale" - e cioè la tavolozza di suoni predisposta dagli stru­menti della tradizione - veniva decretata come del tutto superata. - Il musicista deve "ampliare il proprio mestiere e studiare a­cus­ tica per conoscere meglio come è fatto il suono. "Ciò sarà indi­ spensabile per tutti quei compositori che non si accontentano di accettare i fenomeni sonori come dati, che invece si oppongono alla dittatura del materiale e che vogliono, per quan­to è possibile imporre le proprie concezioni formali ai suoni per arrivare ad una nuova corrispondenza tra materiale e forma: tra microstrut­ tura acustica e macrostruttura musicale". E "si giunse così all'i­ dea di abbandonare i suoni strumen­tali preformati e di compor­ re di volta in volta i suoni necessari per una determinata com­ posizione, di collegarli artificialmen­te in accordo con la legge formale di una particolare com­posizione". "La struttura musicale di una data composizione e la struttura del materiale in essa usato vengono derivati da un'u­nica idea musicale: struttura del materia­ le e struttura dell'opera debbono essere identiche" (Stockhausen, 1958, p. 47). - Di fronte a ciò la contrapposizione con la "musica concreta" non poteva che essere molto vivace: ed anche questa contrappo­ sizione ha perso di senso. Soprattutto ha perso di senso la critica 373 distruttiva spesso esercitata in direzione della "musica concre­ ta". I vituperi di Boulez hanno resistito per molto tempo, ma sono a loro volta entrati nel dimenticatoio. Così scriveva Boulez nel 1958: "Passato il primo momento di curiosità, la stella della musica concreta è impallidita di molto. Per fortuna i compositori che si sono dedicati ai problemi della musica elettronica avevano un'altra levatura e, se questo campo diverrà un giorno importan­ te, sarà in virtù degli sforzi degli studi di Colonia e di Milano, e non per la magia derisoria e demodée di dilettanti tanto mise­ ri quanto indigenti che ope­ra­no all'insegna caduca della musica concreta" (Boulez, 1968, p. 253). È accaduto invece che la posi­ zione di Schaeffer e dei "concretisti" ha ricevuto con il passare del tempo una rivalutazione e dei riconoscimenti che non era possibile nemme­no sospettare: quella posizione sembrava allora una partita persa. In tempi relativamente recenti si può leggere che "seb­bene le prime esperienze della musica concreta siano ormai distanti, esse rappresentano non solo un passo importan­ te e pio­nieristico del pensiero musicale contemporaneo, ma si legano, anche se spesso in modo indiretto, ad alcune esperienze musicali elettroacustiche odierne..." (L. Camilleri, 1999, p. 102. Cfr. anche F. Giomi, 1999, pp. 44 sgg.). - Secondo Camilleri, le due esperienze storiche della musica concreta e dello Studio für Elektronische Musik di Colonia han­no in certo senso ancora oggi un'eco "nella contrapposizione fra l'uti­ lizzo di suoni campionati (registrati digitalmente) e l'impiego di suoni sintetici, generati direttamente da programmi" (Camilleri, 2005, p. 15). Ma certo in questo contesto la parola "contrap­po­ sizione" segnala essenzialmente una differen­za di ordine tecnico, e non ha nessuna implicazione polemica. Si tratta naturalmente di una differenza significativa e notevole. Nel primo caso, all'o­ rigine del suono vi è lo strumento reale, nel secondo invece il suono è integralmente "co­struito" secondo uno dei diversi me­ todi di sintesi oggi a disposizione. Occorre però sottolineare 374 che anche nel primo caso una qualche elaborazione digitale è comunque presente, cosicché è forse opportuno che si distin­ gua anzitutto tra suoni che, in una qualunque modalità, vengono mediati da elaboratori elettronici (e tra questi si distingueranno suoni campionati e suoni sintetici) e di suoni così come escono nudi e crudi dai nostri strumenti tradizionali. L'elaboratore elettronico per eccellenza è diventato ormai il calcolatore, tenendo in parti­ colare conto dell'importanza crescente che ha assunto il software rispetto all'hardware. Nello stesso tempo vanno certamente an­ noverate tra le sonorità elettroniche quelle ottenute da strumenti collegati con apparecchiature elettroniche attraverso le quali è possibile agire in vari modi sulla qualità sonora. Tenendo conto di ciò probabilmente non sembra che abbia senso conservare la vecchia dizione di "musica elettronica" con le sue implicazioni particolari. Potremmo dire: a disposizione del musicista vi sono oggi i nostri strumenti di sempre e... tutto il resto: la musica ex machina nel senso più lato possibile del termine. Musica umana? - La "musica elettronica", nell'accezione di un tempo, era tipi­ camente "musica per altoparlanti", ed anche per questo si contrap­ poneva alla musica prodotta dagli strumenti tradizionali: questa si può ascoltare dal vivo, con uno strumentista che si agita sotto i nostri occhi - quella invece, fissata su un qualche supporto, deve essere consegnata a dei diffusori. Naturalmente la musica dal vivo può essere registrata su un supporto. Ormai da tempo possiamo affermare che l'ascolto attraverso altoparlanti è diven­ tato il mezzo fondamentale su cui poggia la ricezione e la cultura musicale. In ogni caso quando si cominciò a parlare di musica elettronica si sottolineò che la sua peculiarità consisteva proprio nella duplice circostanza della sua produzione ex machina e nella sua ricezione esclusiva attraverso altoparlanti: "Chi ascolta per mezzo di altoparlanti capirà prima o poi che ha molto più senso 375 se dall'altoparlante non esce una musica che non si può ascolta­ re altrimenti che con un altoparlante" (Stockausen, 1958). - Tuttavia la relazione con lo strumento viene sentita fin dall'ini­ zio come un problema. Non ne va forse di mezzo l'u­ma­­nità della musica? Così Pousseur pensava che "non utilizzare che suoni elettronici e fra questi non utilizzare che suoni sinusoidali" fosse­ ro due dogmi "fra i più limitanti della prima musica elettronica" (Pousseur, 1976, p. 68) - ed entrambi erano legati a fil doppio all'idea di "comporre" i suoni, ovvero di effettuare direttamente la sintesi ab origine. Egli inclina invece a ristabilire un rapporto fra i vari modi di produzione del suono, e forse persino a intendere il suono elettronico come se fosse prodotto da un altro strumen­ to tra gli strumenti musica­li possibili. Così egli nota che nel Gesang der Jünglinge di Stock­hausen, dove è presente anche l'impiego della voce, si riprende il "dialogo tra musica elettronica e sorgenti tra­ dizionali" e ciò mostrerebbe che "l'apparizione della prima, se costituiva un'audace incursione nel futuro, rappresentava anche un rifiuto delle precedenti limitazioni culturali, e dunque un ri­ torno alle sorgenti elementari dell'espressione musicale. Fra tutti i generatori detti 'naturali' (secondo una classificazione eviden­ temente impropria) la voce è ciò che conserva i più diversi e più duttili poteri di modulazione sonora" (Pousseur, 1976, p. 120). In che cosa consisterà mai l'"improprietà" della classificazione che caratterizza la voce come un "generatore naturale" di suono, secondo quanto afferma qui Pousseur? Io credo che si debba intendere: poiché anche la voce non può che essere prodotta secondo meccanismi fisici, non vi è alcuna differenza sostanzia­ le tra un simile generatore ed un generatore elettronico. E che differenza vi sarebbe mai tra le membrane vibranti di un alto­ parlante e la vibrazione di un tamburo? "Non dimentichiamo prima di tutto che l'altoparlante che è, per lo meno sinora, la vera sorgente, il vero corpo sonoro della musica elettronica, non è un niente, non è una cosa qualsiasi. Una membrana tesa non è forse 376 un poco la realizzazione del­l'ideale di quei tamburi parlanti di cui le tablas indù offrono probabilmente da millenni un esempio così straordinario? E le correnti elettriche che noi inviamo ad esso non sono forse i nostri 'modi di attacco' che sostituiscono le dita o il fiato, i plettri o gli archi o le bacchette dei più antichi strumenti?" - (Pousseur, 1976, p. 245). Osservazioni generose, ma fuorvianti. Tra le membrane di un altoparlante e le tablas indiane vi è una bella differenza. L'analogia sta solo nell'esisten­ za di una vibrazione "reale". Ma è veramente troppo poco per rendere una simile analogia significativa. - Si sostiene anche che proprio il "ritorno" alla natura (fisica) del suono ci riporta in qualche modo all'elemento umano. Lo dice una volta Luigi Rognoni, traendo questa idea - a quanto mi sembra di capire - dal fatto che sarebbe proprio lo strumen­ to a produrre suoni mediante artifici, mentre nella produzione elettronica saremmo alla presenza del suono stesso come pura entità fisico-naturale. In questo "ritorno alla natura" Rognoni crede anche di ve­dere una componente umanistica: "Ma l'aspetto più importante, la cui portata è impossibile ancora oggi valutare in tutte le conseguenze risiede nel profondo significato umano che va acquistando l'esperienza della musica elettronica: la quale si presenta oggi non tanto e non ancora come un vero problema artistico, quanto come una via aperta verso un insperato 'ritorno alla natura' del linguaggio dei suoni che consenta all'uo­mo di ri­ trovare veramen­te se stesso" (Rognoni, 1956, p. 30). Purtroppo, un'altra volta, e non a caso nel saggio La musicologia filosofica di Ador­ no posto come intro­duzione alla traduzione italiana della Filosofia della musica moderna, questo giudizio addirittura si capovolge e si citano con palese disapprovazione quei compositori d'avanguar­ dia che "vanno proclamando un ritorno al 'suono in sé' inteso come materia sonora, spinti a que­sto non nuovo ritorno alla natura soprattutto in ragione dell'insperata nuova dimensione offerta dal campo illimitato dei 'mezzi elettronici' e della cosiddetta mu­ 377 sica concreta" (1959, p. 51). Giudizio poi sempre ribadito negli anni successivi: "Si ha il più delle volte l'impres­sione che anziché di 'mezzi espressivi' si ragioni di 'materiali' e che l'artista pensi che anziché dalla propria coscienza soggettiva egli debba parti­ re dalla materia: un movimento intenzionale invertito insomma, il che equivarrebbe alla più fantastica ide­o­logia dell'aliena­zio­ne totale: all'inten­zionalià negativa pie­na­mente consumata" (1964, p. 77). Nella prima come nella seconda valutazione si fa ampio uso di termini e concetti tratti alla meglio dalla fenomenolo­ gia husserliana, che servono indifferentemente, come del resto sanno fare tutte le chiavi, ora per aprire ora per chiudere la stessa porta. - Non vogliamo rammentare queste doppiezze filosofiche e mu­ sicali d'epoca per rin­crescerci di esse, e tanto meno per pole­ miche tardive, ma anzi per mostrare di scorcio le incertezze di una discussione che si evolve e si rinnova, in concomitanza con la più spericolata sperimentazione di metodologie compositive nella quale emerge di continuo il problema di riconsiderare da nuovi punti di vista il rapporto tra lo strumento e la macchina. - Del resto di tanto in tanto sorge il dubbio che queste incertez­ ze non siano ancora state realmente superate nemmeno ai giorni nostri. Ad esempio, c'è chi si lamenta persino, - e non fra i mu­ sicisti più vecchi, e non in anni remoti - del fatto che oggi gli orologi facciano a meno delle lancette dell'orologio da taschino del (mio) bisnonno: "...la telematica, la tecnologia informatica, ci hanno privato più e più di questo aspetto, con questi orrendi orologi digitali (il testo dice proprio così) non abbiamo più questa dimensione visiva, tangibile in qualche modo, una rappresenta­ zione che comunque era un gesto ermeneutico, interpretativo della real­tà, un fatto attivo e non passivo"; e con tutta la cultura musicale indotta dall'impiego dei dischi e della musica registra­ ta in genere, si trova modo di recriminare sulla musica che "si 378 muove, nasce e vive nel tempo" e che viene invece "cristal­lizzata nell'ascolto di un disco": con connessa e inevitabile perdita dei con­tatti corporei - tutte cose che generano l'orrore adorniano dell'"esperienza quantificata" e addirittura "discre­tiz­zata telema­ ticamente attraverso cavi e trasportata" (p. 54). Salvo poi a con­ cludere, con la coda tra le gambe, "che la tecnologia non è da mitizzare, ma nemmeno da demonizzare; il tipo di cambiamento che è in corso è inevitabile, si tratta a mio avviso di trovare delle risposte" (L. Francesconi, 1995, p. 54). Musica disumana? - L'avere come riferimenti il solo destino della musica "colta" europea e l'atmosfera di Darm­stadt (come se tutto fosse avve­ nuto lì!), non rende certamente conto di ciò che accade in campo a­per­to a livello mondiale, sul piano dell'ingegneria del­lo stru­ mento elettronico e su quello della programmazione informa­ tica in ambito musicale - non rende conto di quel­l'en­­tusiastico fervore che por­ta l'elettricità ovunque, che amplifica e distorce, che fa del­le timbriche diverse una pratica musicale quotidiana, che incentiva la produzione tecnica e industriale ed è da questa incentivata. Si tratta naturalmente per lo più di musica di con­ sumo, che è tutt'altro che priva di idee; e non importa nulla che non disponga di elaborate "filosofie" di supporto. È anzitutto in questo ambito che la ricerca di nuovi timbri e di nuove sonorità diventa un centro di interesse immediato ed immediatamente comunicativo. È l'epoca degli organi hammond, degli amplifi­ catori, dei sintetizzatori; delle chitarre chitarre e dei piani elettri­ ci... È l'epoca del suono "distorto", del­l'"effet­tistica esasperata", delle sonorità sporche, brutte e cattive, delle riverberazioni spinte e in genere delle ricerche volte a spazializzazioni ed a movimen­ tazioni sonore di ogni genere. L'incontro tra musica ed elettro­ nica non può certo ridursi al "comporre il suono" sommando sinusoidi... 379 - A sua volta l'informatica musicale ha fatto passi non meno giganteschi ed occorrerebbe tentare di comprendere che cosa questi passi significhino almeno per il presente della musica e per il suo futuro prossimo. Intanto vi è stato un processo di gra­ duale sostituzione del programma informatico alla cosa hardware: i sintetizzatori di una volta si sono dissolti nella loro immagine a video, pure apparenze visive ricostruite dal gra­fico con punti­ gliosa e compiaciuta fedeltà. Ci si compiace persino di mantene­ re le apparenze, non so fino a che punto gradevoli, dell'intrico di fili e spinotti da manovrare come se si avesse di fronte la "cosa" in carne ed ossa. - La manipolazione del suono è diventata abbordabile con ope­ razioni da eseguire a video, spesso di relativa semplicità. La ta­ stiera "muta" rappresenta una sorta di straordinario strumento universale: con essa non solo puoi suonare uno Steinway o un honky-tonky, ma anche l'organo della Matthias Kirche di Buda, trombe e tromboni, tube wagneriane, violoncelli e contrabbas­ si... qualunque strumento che sia stato adeguatamente campio­ nato o qualunque suono possa essere emesso da un sintetizzato­ re software, e naturalmente rumori di ogni genere, in una parola qualunque suono o sequenza di suoni tu possa avere a disposi­ zione nel tuo calcolatore. Volendo puoi anche ambien­tare il tuo 380 strumento nel Concertgebow di Amsterdam - usando un river­ bero a convoluzione. Io sono ancora in grado di meravigliarmi di tutto questo, e di manifestare apertamente il mio entusiasmo; e sono indotto ad interrogarmi su ciò che potrebbe significare tutto ciò in rapporto alla musica, alle pratiche del comporre ed alla dimensione dell'ascolto. - A questo proposito va tenuta presente la differenza tra suoni ottenuti per campionamento di strumenti reali e suoni ottenuti attraverso varie forme di sintesi con l'intento di rendere "il più fedelmente possibile" strumenti reali. Negli anni cinquanta-ses­ santa del secolo scorso que­st'ul­timo problema non si poneva nemmeno per il semplice fatto che seguendo la strada della pura sintesi si ottenevano risultati orripilanti: ora le cose stanno assai meglio, e lo strumento realizzato da capo a fondo sulla base di algoritmi complessi, quindi lo strumento integralmente "elettro­ nico", ha raggiunto livelli un tempo inimmaginabili. Tuttavia i risultati mi­gliori - talora semplicemente stupefacenti - si otten­ gono per adesso ancora con i campionamenti di suoni emessi da strumenti reali. Notevolissimi sono anche i risultati ottenuti con tecniche miste (ad es. la tecnica chiamata "Harmonic Aligne­ ment" dovuta a S. Lucato e G. Tomassini (Nuzzi, 2005, pp. 22 sgg.). Anche nel campo della vocalità la ricerca continua inces­ santemente e con risultati eccezionali. - Accade dunque che mentre fino a pochissimo tempo fa non si poteva che raccapricciare di fronte ad un'orchestra "vir­tuale", oggi le cose sono radicalmente cambiate. Nel campo della vo­ calità, è stata ormai vinta la barriera dei cori incapaci di verba­ lizzare: il coro virtuale è ora in grado di cantare passabilmente un testo, mentre il campionamento della voce di un cantante singolo arriva al dettaglio dei fonemi, e dunque anche in questo caso è possibile attribuirgli un testo. 381 - La qualità raggiunta dalle tecniche di campionamento è tale da consentire la "co­struzione" di strumenti virtuali capaci di rende­ re le più sottili differenze. Mi sembra giusto a questo proposito far notare che, con lo scopo della realizzazione degli strumenti virtuali è stata compiuta da parte di fonici e musicisti insieme alleati un'analisi delle tecniche strumentali e delle tipologie delle possibilità di emissione sonora di ciascuno stru­mento (e parlo sempre di strumenti dell'orchestra classica) così ricca e dettaglia­ ta che non è dato trovare nemmeno nella manualistica specializ­ zata di una volta. Alla base del lavoro di campionamento si è do­ vuta realizzare un'attentis­sima fenomenologia concreta dei modi di tirare l'arco o di soffiare dentro una tromba o un sassofono, e persino dei rumori collaterali conseguenti. A ciò si aggiunge la possibilità di incidere su queste differenze con la programmazio­ ne informatica - pos­­sibilità affidata a parametri numerici spes­ so attribuibili graficamente: lo "spartito" a video - il Key Editor (o comunque lo si voglia chiamare) si arricchisce di linee che rendono visivamente e realizzano concretamente gli andamenti della dinamica e dell'agogica; inoltre attraverso il cambiamento di "articolazione" si possono riprendere con naturalezza, nel de­ corso del brano, campioni che restituiscono le più varie modalità di impiego delle tecniche strumentali. In taluni casi si può rego­ lare il vibrato del violino, la sua velocità e la sua intensità, si può giocare sulle differenze minime di intonazione... Dato tutto ciò, vorrei chiedere, sia pure a titolo di provocazione: può meritare il nome di interprete anche chi, senza suonare lui stesso una sola nota, realizza al calcolatore un'esecuzione di un brano di Beethoven o di Debussy? - Si potrebbe sospettare che lo meriti allo stesso titolo di un direttore d'or­chestra che prepara ogni dettaglio esecutivo prima di accingersi alla direzione effettiva. Certamente, nell'at­to con­ creto di dirigere, il direttore fa ancora qualcosa di diverso: e tra le cose che fa vi è indubbiamente quel­l'im­pal­pabile flusso umano 382 che scorre tra il direttore e i suoi orchestrali, quella forza comunica­ tiva che è una delle condizioni per una buona esecuzione. Quindi all'inter­preta­zione come pensiero puro che precede l'esecuzione, si aggiunge il rapporto in base al quale il gesto stesso entra in simbiosi con gli esecutori e li induce a quell'andamento musicale, a quel risultato sonoro. Invece nel­la musica realizzata al calcola­ tore resta il puro pensiero interpretativo e naturalmente una co­ noscenza approfondita del mezzo per far sì che esso si realizzi. Ma se c'è un pensiero interpretativo ed una sua realizzazione, c���è anche interpretazione. Non credi? - "No, non lo credo affatto. E c'è anche una bella differenza tra un caso simile e quello di un disco registrato che viene anch'es­ so ascoltato attraverso altoparlanti. Nella musica registrata, che comunque contiene già una deformazione rispetto alla musica ascoltata dal vivo, l'originale è in qualche modo ancora presente, come in una fotografia che riprende un oggetto reale. Invece nel caso di un'esecuzione effettuata interamente tramite calco­ latore non sappiamo esattamente a che cosa siamo di fronte: lo strumento è una pura irrealtà, rispetto allo strumento reale che in ogni caso c'è, sia pure alla lontana. Ma i suoni campionati non sono lo strumento, e soprattutto non vi è uno strumento che ora sta suonando Zapateado di Sarasate. Questo violino non esiste. Tanto meno esiste una persona che lo suona. Non c'è originale, non c'è copia. I suoni prendono corpo direttamente dalla parti­ tura - ed è la macchina che fa tutto questo. Il disco conteneva ancora un ricordo dell'uomo; questa è invece, da parte a parte, musica disumana". - C'è chi la pensa così. E mentre una volta avrebbe storto il naso di fronte alla scarsa qualità sonora di un disco da settantotto giri, oggi invece fa mostra di scetticismo facendo notare quanto sia "fredda" una simile esecuzione: fredda perché "troppo perfet­ ta": disumanamente perfetta. 383 - "E che mai! Che dita ha un simile violinista per correre in que­ sto modo sul filo della corda, e come può aver tanta disinvoltura nell'affrontare questi pizzicati o questi flautati in quel modo... Manca l'attrito del reale, questo è un robot che suona...". - Dovremmo accettare un simile ragionamento, anzi prima che un ragionamento: un simile atteggiamento? Niente affatto. An­zi esso è del tutto sbagliato. Non regge nemmeno ciò che tu dici sul rapporto copia-originale nel caso del disco registrato. Lo si vede subito da una semplice constatazione sulla modalità dell'a­ scolto: quando ascolti un'esecuzione registrata su disco la situa­ zione "dal vivo" è del tutto fuori campo, così come è completamente diverso il contesto dell'ascolto, oltre che la situazione complessi­ va nella quale ti trovi e che determina il tuo modo di ascoltare in dipendenza di quella situazione. Va chiarito qui un punto che mi sembra particolarmente importante: qualunque sia l'origine ed il metodo di produzione dei suoni, sia che essi siano campionati o sintetizzati oppure provenienti da uno strumento reale, quando li ascolti da un "dif­fusore" tu sei alla presenza del fenomeno sonoro in quanto tale, del suono stesso: in questo modo viene esercitata, in certo senso alle tue spalle, proprio una sorta di "riduzione feno­ menologica". Tutto il resto - il pensiero di un possibile interpre­ te reale seduto al pianoforte, le dita del violinista che scorrono sulle corde, ecc., e del resto anche il pensiero della sua possibile esistenza o inesistenza, può aggiungersi in una riflessione a par­ te, ma nella situazione che stai vivendo nell'ascolto questo pen­ siero è del tutto fuori gioco. - Il tener conto di ciò forse ci aiuta a chiarirci un poco le idee. Ascolti quello che ascolti, e ne prendi atto. Il modo in cui è stato pro­ dotto non è ora importante. Di esso potresti non saperne nulla, oppure potresti sapere molte cose, e sulla base di quello che sai potrai fare delle riflessioni e avviare delle discussioni. Ci saranno 384 anche dei confronti che sei inevitabilmente indotto a fare, ad esempio, tra lo strumento che senti e lo stesso strumento che per altri versi conosci molto bene nella sua realtà effettiva: ma anche questi confronti, per quanto possano essere spontanei e immediati, rispondono a domande che ti sei posto prima di ac­ cingerti ad ascoltare o anche durante l'ascolto, ma che è estranea a ciò che in esso è contenuto. Stabilisci una relazione tra ciò che è dato qui ed ora e ciò che sta altrove. - Occorre invece assecondare la riduzione fenomenologica che avviene in certo senso nel modo in cui si porge la cosa stes­sa, relegando ai margini come inessenziali riflessioni o fan­tasie che stanno al di fuori di essa. Ad esempio, il robot che suona che ab­ biamo or ora evocato è una pura fantasia. In essa prende corpo soltanto un pregiudizio. Se è una macchina che fa tutto, allora l'esecuzione non può che essere fredda, meccani­ca, disperatamente senza cuore. - Eppure anche le nuvole in cielo sono senza cuore e non per questo sono meno belle (sei tu che non devi essere un robot per poterle apprezzare). Se poi temi la disumanità della macchi­ na puoi essere rassicurato: dietro la macchina musicante c'è il mu­si­cista pensante che ha stabilito sino all'ultimo dettaglio ciò che la macchina deve fare. Se una esecuzione "midi" ti sembra meccanica, oggi puoi benissimo darne la colpa al fattore uma­ no. Facendo musica al calcolatore ti rendi ben presto conto che con questo tipo di macchina è finito il tempo del legame tra macchina e meccanicità. Musica ex machina non vuol dire ormai più musica meccanica. Il calcolatore non è un organetto a rulli forati - a meno che tu non ricerchi di proposito questo risultato. (Certo, alcuni progammi contengono l'istruzione assai caratteristica di Huma­ nize per inserire algoritmicamente qualche elemento di indeter­ mi­na­zio­ne nel brano, pretendendo così di "umaniz­zarlo", ma questa istruzione serve solo a coloro che hanno fretta). 385 - Talora la perfezione del calcolatore viene citata anche in rappor­ to alla qualità sonora: "Il computer per Grisey '...è perfetto, troppo perfetto', non permette ancora nella sua astratta intransigenza di dar vita a quelle creature 'mutanti, a metà tra accordi e spettro, tra armonia e timbro..." che saranno i protagonisti della sua musica" (Mel­ chiorre, 2000, p. 16). Anche qui si fa sentire il tema della musi­ ca disumana. "L'opzione realista di Grisey, il suono come dato concreto e non astratto, come ma­te­ria e non come materiale, non possono non condurre alla voce, alla vocalità; l'abbandono dell'avanguardia coincide col compiersi del processo di riconqui­ sta del corpo, della voce, ciò che di più musicale c'è nel corpo... Il corpo, il concreto umano, in un'epoca di virtuale e di finzione 'virtuale' richiama a gran voce i suoi diritti" (ivi). In affermazioni come queste ci si esprime come se fossimo già alla fine di un'e­ poca, mentre siamo solo ai suoi inizi. - Il richiamare l'attenzione sul fatto che ciò che conta è il fenomeno sonoro chiarisce anche un equivoco che può essere sug­gerito dal riferimento agli strumenti "classici". Si pensa subito ad una co­ pia, ad un'imitazione e quindi si cerca di valutare la fedeltà dell'imi­ ta­z ione. Oltre tutto queste ricerche sono guidate proprio dall'in­ tento di rendere con la massima fedeltà lo strumento reale, ed è appena il caso di dire che in proposito vi è un esplicito interesse economico dal mo­mento che l'obbiettivo è quello di sostituire gli strumenti reali con quelli virtuali soprattutto nella musica da film e in generale nella produzione multimediale - cosa che or­ mai avviene normalmente. I vantaggi economici che si traggono con orchestre e cori virtuali non hanno certo bisogno di essere spiegati. Le tecniche del co­ordinamento tra suono e immagine a loro volta si sono particolarmente evolute, appor­tando ulteriori agevolazioni e rendendo in ogni caso necessario un passaggio consistente attraverso il calcolatore. Inoltre nel caso della musica destinata a film, documentari, audiovisivi in genere, l'ascolto è meno critico perché immagine e musica interagiscono tra loro, 386 ma è l'immagine ad attrarre su di sé il fuoco dell'atten­zione. - Ma noi ora ci stiamo disponendo da un punto di vista diffe­ rente. Alla questione dell'imi­tazione e riproduzione fedele non siamo affatto interessati. Potremmo persino ammettere che il violino virtuale può anche essere riconoscibile come un violino "falso", forse perché è "troppo perfetto", forse perché ci sembra senza anima: ma il punto essenziale sta nel fatto che anch'esso rientra nell'immenso campo delle sonorità producibili e, per il musicista, si tratta soltanto di decidere se usarlo o non usarlo. E ci potrebbero essere buo­ ne ragioni musicali per usarlo. Il ritorno agli strumenti della tradizione - Qui si apre una nuova direzione per le nostre riflessioni. Intan­ to va preso atto di una situazione in certo senso assai sin­go­lare. Se ripensiamo alle prime reazioni che la musica elettronica aveva suscitato ai suoi inizi, la situazione sembra ora interamente mu­ tata. Si usava dire allora: non si compone con i suoni, ma si compone il suono. Questa frase che viene ancora oggi un po' stancamente ri­ petuta, e non sempre con chia­ra coscienza di causa, in realtà ave­ va un qualche senso soprattutto negli entusiasmi sulla sintesi del suo­no, e quindi in stretta aderenza con la composizione "elet­ tronica", che era ap­punto concepita anzitutto come un "met­tere insieme" il suo­no stesso. Ma la musica elettronica in quel vec­ chio senso comincia a decadere assai più velocemente di quan­ to si sarebbe potuti aspettare: al netto rifiuto dello strumento subentrano atteggiamenti più dubitativi, cosicché gradualmente, ed in modo sempre più netto, si è effettuato un vero e proprio ri­ torno agli strumenti di antica tradizione. Tuttavia questo ritorno ha una sua peculiarità. Avviene infatti che la ricerca di sonorità "inaudite" - che era stato indubbiamente uno dei motori della "musica elettronica" - continua in direzione dell'escogitazione di nuove pratiche strumentali o di modi inusuali di impiego degli 387 strumenti tradizionali, quasi si volesse far tesoro non tanto delle pratiche creative legate alla sintesi del suono, quanto delle "di­ storsioni" operate da apparati elettronici, sperimentate anzitutto nel­l'am­bito della musica di consumo. Credo in effetti che l'uso forzato degli strumenti tradizionali, i fasci di armonici ottenuti con il fagotto, il suonare l'arco con il legno, l'impiego esasperato dei flautati, ecc. debbano essere considerati nello stesso modo delle distorsioni operate elettronicamente. Ciò ha portato anche ad una straordinaria rivalutazione dell'inter­prete - un vero e proprio capovolgimento a 360 gradi rispetto all'eunuco così di­ sprezzato da Varèse. In particolare assume la massima importan­ za l'interprete virtuoso che viene chiamato ad operare a fianco del compositore ed a collaborare con lui come mai è accaduto in passato. Forse perché si vuol conferire all'interprete una sorta di nuova "concreatività", come si è sostenuto (Cresta, 2002, p. 21), forse più semplicemente - come io sarei invece tentato di supporre - perché il compositore ha effettivamente bisogno di lui se vuole, con gli strumenti tradizionali, "ricercare, negli anfratti inesplorati del suono, nuove vie poetiche" (ivi). L'idea di riportare all'interno delle compagini strumentali suggerimenti tratti dalla manipolazione elettronica del suono è talora del tut­ to esplicita. "È il processo contrario a quello di molta musica elettronica: invece di sintetizzare dei suoni di strumenti concre­ ti, o di far suonare la macchina in modo più o meno naturale, questi musicisti tentano di concretizzare suoni o procedimenti sintetici... mediante l'applicazione all'orchestra di tecniche tratte dal mondo elettronico. Ecco quindi l'impiego di termini come "distorsione spettrale" (Grisey), "modu­lazio­ne di frequenza", "tape-loop", "riverbero" (Murail), "paradossi e illusioni uditive" (Dufourt)..." (M. Stroppa, in uno scritto del 1985, citato in Mel­ chiorre, 2000, p. 8). - A proposito di questi modi di impiego degli strumenti tradi­ zionali Sergio Lanza parla di estraneazione timbrica intendendo con 388 ciò "la possibilità che il suono di uno strumento, in de­terminate condizioni, possa nascondere la propria identità, diventare altro da sé, irriconoscibile. Questa metamorfosi può avere un fine, una tendenza verso, pensiamo al "pizzi­cato" nello strumento "ad arco" (travestimento antico, che guar­da alla chitarra o all'arpa) e, in questa direzione, al "pizzi­ca­to alla Bartòk", che, esasperando il rumore implicato da quel modo d'attacco attraverso il rimbal­ zare violento della corda sul manico, ottiene un suono decisa­ mente percussivo, mentre Xenakis va ancora oltre chiedendo (ad esempio in Tetras, (1984) per quartetto) un pizzicato e glissato con l'unghia. D'altra parte il suono di un arco, rapido sugli armo­ nici, "flautato", tende invece a somigliare ed amalgamarsi con i fiati; mentre il suono di un flauto o di un sassofono, attraverso un'opportuna emissione e posizione dell'imboccatura, si fanno letteralmente percussivi, "pizzicati". Oppure l'estraniazione può agire senza puntare ad un gesto mimetico, ed ecco allora il suo­ no al ponticello negli archi e il frullato nei legni (che hanno già una lunga storia nella musica del novecento storico, a partire da quell'istanza "espressionista" che ha contribuito in modo deciso ad ampliare la ricerca timbrica). In questa direzione sono andati lo studio dei suoni multipli nei legni, il moltiplicarsi delle sordi­ ne negli ottoni (influenzati dal Jazz) e la sperimentazione senza confini sulle percussioni (pensiamo anche solo all'uso della pal­ lina superball, sfregata su pelli e metalli) : tutto questo ha dilatato la tavolozza timbrica degli strumenti tradizionali al punto da ren­ dere l'orchestra semplicemente irriconoscibile". Si tratta di una descrizione tanto breve quanto ricca di proporre questo tema, di mostrarne le valenze ed anche di segnalare un percorso storico. Lo stesso Sergio Lanza inoltre non manca di sottolineare che in queste tecniche di "estraneazione" si è fatta sentire l'influenza della ricerca nel campo delle sonorità elettroniche. "L'elet­tri­cità e poi l'elettronica, l'elaborazione di spettri per l'analisi del suono e dei suoi transitori, la registrazione, la sintesi, la modulazione di ampiezza e frequenza, tutto questo ha dotato le orecchie di 389 telescopi e microscopi, abbracciando in un unico sguardo innu­ merevoli fenomeni sonori eterogenei e, allo stesso tempo, con­ sentendo l'analisi di aspetti infinitesimi del suono singolo. Anche chi non ha prodotto musica elettronica ne è stato influenzato" (Lanza, 2007). - L'espressione di "estraneazione timbrica" mi sembra partico­ larmente felice perché rimanda all'idea di un rapporto con l'a­ scolto che a tutta prima non riesce a identificare lo strumento che emette il suono - e ciò suggerisce in via di principio la pos­ sibilità di un gioco compositivo tra ciò che lo strumento è e un suo potenziale essere altro, un gioco che può avere un forte fasci­ no e­spres­sivo. Tuttavia in linea generale, così almeno mi sembra, una simile dialettica non è particolarmente utilizzata nella mu­ sica più recente, a differenza che nei casi storici che Sergio Lanza cita, prevalendo oggi invece un impiego persistente e permanen­ te lungo il brano intero delle pratiche "distorsive" (mancando lo stesso viene allora meno anche l'altro). - Naturalmente anche in rapporto a questo problema il compo­ sitore è giudice ultimo. Tuttavia è ben lecito formulare un dub­ bio: proprio di fronte ad un impiego sempre più semplice di strumentazioni elettroniche ed alla smisurata disponibilità che esse offrono di operare variazioni timbriche, ci si può chiede­ re perché mai non si ricorra senz'altro ad esse - mettendo da parte l'idea, magari suggestiva, ma alquanto intellettualistica di una imitazione strumentale del "suono elettronico": certamente questa retroazione dal suono elettronico al suono strumentale ha avuto una parte importante e significativa, ma sempre seguendo un percorso relativo all'effet­tualità musicale, e non certo attra­ verso una trasposizione di concetti tipicamente fisico-acustici alla pratica strumentale. È questa forma di "fisicalismo" che può essere caratterizzato come una pura verbosità intellettualistica, giustapposta al risultato musicale. 390 - Ma io vorrei portare questo dubbio un poco oltre: queste pra­ tiche di "estraneazione" hanno finito con il condurre per lo più all'esautoramento del "suonare" in senso vero e proprio. L'ese­ cutore viene considerato come una sorta di produttore di fatti sono­ ri - se non come una macchina, come qualcosa di molto simile ad essa. Ci si disinteressa della sua anima, così come dell'anima dello strumento. L'anima degli strumenti e degli strumentisti - "Ecco dove sei caduto! Come puoi parlare di suonare vero e proprio! E che cosa vai raccontando intorno all'anima degli stru­ mentisti per non dire di quella degli strumenti? e per di più in un contesto che sembra a tratti voler tessere un elogio della musica disumana!" - Lo confesso: io credo che strumenti e strumentisti abbiano un'anima, sia pure varia e mutevole. Uno strumento può diven­ tare personaggio, talvolta letteralmente. Come nella bellissima invenzione di Bruno Maderna del suo Don Perlimplin, "uomo ti­ mido e gentile". - Si potrebbe persino scrivere qualcosa di simile ad una storia psicologica degli strumenti, in cui vengono via via portate allo scoperto le loro anime nascoste. Il violino di Vivaldi, benché non sia certo privo di intensi effetti lirici, è caratterizzato più che dall'intensità lirica, che troverà la sua massima espressione nel violino di Beethoven e di Mendelssohn, da un "tem­pe­ramento" mobilissimo, sfavillante, scintillante - di uno sfavillio che ci fa pensare ad una geometria fantastica. Il violino romantico o quel­ lo di Vivaldi non fanno nemmeno alla lontana presagire il violino po­polaresco e plebeo dell'Histoire du Soldat di Stravinsky. Per non far ulteriori paragoni con strumenti simili al violino appartenenti ad altre culture musicali, come il sarangi indiano o il violino cine­ 391 se. Nella Seconda Sonata per pianoforte di Car­lo Alessandro Lan­ dini l'a­scol­tatore assiste ad una straordinaria epopea dell'espres­ sione pianistica in cui il pianoforte è per così dire rivendicato (ed in certo senso vendicato) in tutte le sue anime. Ma si tratta pur sempre di un'unica personalità sonora, per quanto varia e mute­ vole, che lo strumentista sa far rivivere in questa sua complessità. - Si potrebbe notare semplicemente, che a par­te i discorsi sulla psicologia degli strumenti e degli strumentisti, la modificazione nelle tecniche di impiego de­gli strumenti rappresenti una parte importantissima della storia della musica e dei suoi linguaggi. Si tratta di modificazioni spesso assai profonde. Vi è tuttavia una importante differenza: queste modificazioni hanno le loro radici nella peculiarità dei progetti espressivi. Basti rammentare l'abbandono del clavicembalo a favore del pianoforte; oppure quanto stentino gli ottoni ad entrare nell'or­chestra classica fino all'av­vento di Wagner, o la nuova importanza che riceve l'arpa nell'or­che­strazione di Rimsky-Korsakov oppure nella musica di Debussy. In forza di istanze di ordine espressivo, cambiano gli strumenti, le tecniche di costruzione degli strumenti, ed anche le tecniche del loro impiego. Tuttavia questo argomen­to storico è assai poco persuasivo per rendere conto delle modificazioni che intervengono nelle pratiche novecentesche. Quan­do ci si appella ad esso è come se si volesse nascondere o in qualche modo atte­ nuare la radicalità di un mutamento e la netta differenza del suo senso. - Supponi che ti venga detto: prendi un'asta di legno lunga cir­ ca trenta centimetri e percuotila violentemente sulla tastiera nei punti segnati in partitura, e in quegli altri punti, quando è indi­ cato così, tamburella con le dita sul coperchio e poi scivola con le unghie sulle corde dello strumento. Naturalmente non è qui in questione né il risultato musicale e nemmeno la legittimità di queste richieste da parte del compositore. Il mio intento è 392 solo quello di rendere conto del senso delle espressioni che ho impiegato in precedenza e di mostrare anche che esse non con­ tengono valutazioni di sorta. Se io faccio esattamente questo e nien­te altro che questo, oppure se mi chiedi di suonare per un brano intero con l'arco al ponticello o addirittura dietro di esso (e perché no?) credo di poter dire con qualche giustificazione: "Que­sto non è suonare uno strumento, ma produrre suoni". Ose­ rei dire che forse non c'è più nemmeno lo strumento o meglio: lo strumento reale è diventato un falso strumento virtuale - fal­ so perché quei suoni non vengono prodotti da una macchina, ma da uno strumento vero e sono io stesso che li produco: ma d'altra parte quando faccio questo, proprio lui e proprio io non contiamo nulla. (E forse si potrebbe riflettere quanto si indebo­ lisca in questi casi il concetto di interpretazione: l'essere abili nel produrre suoni non è la stessa cosa che interpretare). - Occorre poi aggiungere, e questo può essere sentito come un paradosso, che per questi impieghi non ordinari degli strumenti si richiede una sorta di virtuosismo nel virtuosismo, o meglio di un virtuosismo che si sia specializzato in queste pratiche. Ciò corrisponde ad una fortissima restrizione dei possibili esecutori. La questione merita di essere considerata, nonostante le appa­ renze, come un'au­tentica questione teorica su cui riflettere. Anche in questo caso il confronto con il passato può essere utile. Non c'è grande compositore che non abbia integrato nel proprio repertorio tutti i livelli di difficoltà possibili, mirando ad ampliare piuttosto che a restringere il campo dei destinatari della propria produzione musicale. Che ciò non avvenga ai nostri giorni, ed anzi che si proceda esattamente nella direzione opposta, è una pura e semplice anomalia degna di at­ tenzione. La sovrabbondanza dei suoni - Vi è un'altra circostanza che, a dirla, sembra di far la parte del bambino che dichiara la nudità del re nella fiaba di Ander­ 393 sen: la possibilità di speciali effetti timbrici ottenibili con l'uso di strumenti tradizionali sono realmente molto, molto limitate; co­ sicché alla fine si è condannati a "novità" ricorrenti diventate da tempo intollerabilmente monotone. Questa circostanza diventa sorprendentemente vistosa di fronte alla sovrabbondanza delle sonorità ottenibili elettronicamente - e sovrabbondanza è dire poco! Mai è stato tanto facile plasmare il suono, mai la tavoloz­ za del musicista è stata tanto ampia e multiforme. Che fare con questa sovrab­bon­danza? Non dovreb­be avere essa un qualche si­ gnificato in rapporto alle problematiche legate all'esecuzione, alla pratica ed all'educazione musicale in genere, all'ascolto e del resto anche alla creatività musicale? - Intanto, io sarei tentato di dire: se lo strumento reale tende a trasformarsi in uno strumento virtuale falso, tanto vale a pren­dere uno strumento virtuale vero. Se è umanamente difficile per sva­ riate ragioni realizzare certe esecuzioni, tanto vale ricorrere alla disumanità del calcolatore, che sa benissimo fare, ed anzi sa fare molto meglio, flautati doppi, suonare con il legno o al ponticello. E che potrebbe distorcere il suono del violino in modo assai più ricco e multiforme di quanto potrebbe fare un violinista e so­ prattutto aderendo perfettamente alle intenzioni espressive del compositore. - Vorrei sottolineare fortemente che questo non è che un esem­ pio: un modo di cominciare un discorso che poi può evolversi in molteplici direzioni. Si pensi soltanto alle poliritmie più complesse - che risultano spesso indominabili da parte degli strumentisti se non ricorrendo ad artifici come metronomi in cuffia, ed anche in questo caso con risultati esecutivi talvolta piuttosto dubbi. Il nome di Conlon Nancarrow (1912-1997) si impone da sé sia per il tipo di ricerca ritmica sia per il fatto che egli comprese la necessità di rivolgersi per la realizzazione dei suoi progetti alla pianola mecca­ nica (Serra, 2008). 394 La pianola di Nancarrow Non meno esemplare da questo punto di vista è il nome di Har­ ry Partch (1901-1974). Già nel primo quarto del secolo XX si cominciarono a compiere esperimenti che prevedevano l'impie­ go di quarti o dei terzi di tono, ma essi ebbero breve respiro, for­ se perché alla fine ritenuti poco interessanti musicalmente, forse per le difficoltà esecutive che essi non potevano che presentare. Harry Partch dovette escogitare strumenti appositi per riprende­ re forme scalari estranee al sistema temperato ed in particolare per l'ottava suddivisa in 43 microtoni. Chromelodeon I (Partch, 1949) Come è ovvio il gioco sui sistemi intervallari e sulle intonazioni possibili si presentano in modo radicalmente diverso uti­liz­zando i mezzi offerti dal calcolatore. È notevole del resto il fatto che l'interesse per le tematiche scalari si sia inattesamente ravvivato, 395 almeno presso i cultori di informatica musicale, proprio per la loro possibilità di impiego mediante il calcolatore. La tavolozza dei suoni si è estesa a dismisura non solo in rapporto ai timbri, ma anche agli intervalli. - Vi è anche un interessante problema di conservazione e di riat­ tualizzazione legato agli strumenti virtuali. Viene infatti a poco a poco reso accessibile attraverso i metodi di digitalizzazione non solo lo strumento "classico" di tradizione europea, ma l'intero patrimonio strumentale mondiale. In questa opera di digitaliz­ zazione che procede senza sosta vi è ora, prevalentemente un interesse commerciale, ma persino in esso affiora un interesse scientifico e musicale insieme: un interesse scientifico per quan­ to riguarda la conservazione di un patrimonio etnomusicologico in via di estinzione che può essere a tal pun­to ravvivato da poter essere messo a disposizione immediata del musicista, che può disporre di esso creativamente, se è interessato a farlo. - Ed è sempre sottintesa nei nostri discorsi la potenza di impie­ go dei sintetizzatori: una meravigliosa e straripante sovrabbon­ danza di possibilità di impiego musicale del mondo dei suoni. Tutto questo è oggi, con relativa semplicità, a tua disposizione - e, come sembra chiaro, la questione non è quella di realizzare imitazioni, ma di cavalcare sempre più nell'onda della creatività delle forme e delle materie sonore che caratterizza la musica dei giorni nostri. - Eppure vi è anche chi vede nelle aperture offerte dallo stru­ mento virtuale qualcosa di simile ad un freno alla creatività. Ad esempio, Alessandro Solbiati scrive: "Normalmente sono sem­ pre i limiti a stimolare il comporre, restringendone il campo d'a­ zione; per esempio, mentre si scrive per violino solo è inutile pensare ad accordi di 5 suoni, ovviamente, e qualsiasi intenzione polifonica deve fare continuamente i conti con le quattro corde. La prima vera difficoltà nell'uso del mezzo elet­tronico consiste 396 proprio nella sua assenza di limiti, nel suo essere un contenito­ re vuoto, un'immensa possibilità aperta che deve essere definita senza in ciò essere aiutati da condizionamenti oggettivi. È ben noto che è più facile, sebbene forse più pericoloso, cammina­ re su un sentiero di montagna, che non ammette deviazioni né sconfinamenti e ha una sua precisa direzione, che non in mezzo al deserto, dove ogni direzione, essendo possibile, ci è in fon­ do indifferente, perché poco ne­cessaria, senza meta visibile" (A. Solbiati, 1999, p. 132). Considerata in se stessa e per quel che let­ teralmente dice, a me sembra che una simile affermazione con­ tenga soltanto il ricordo delle bacchettate del maestro sull'allievo che ha scritto note al di fuori del registro dello strumento. Ma il suo merito sta nel fatto che finalmente in essa si prende esplici­ tamente posizione contro la sovrabbondanza - benché poi io non veda proprio come si possa paragonare una foresta lussureggian­ te di suoni - nella quale, certo, non vi sono sentieri già segnati - con il deserto. La dimensione dell'ascolto - Il mio interlocutore ideale (che poi è quello che mi dà sempre torto) osserverà che in realtà si ripresenta qui la vecchia idea, già formulata ai primi inizi della musica elettronica, della "musica per altoparlanti", dal momento che tutto ciò che viene prodotto con l'utilizzo del calcolatore viene fissato su un supporto, che ora non è più il nastro, che ora è il compact disc e che doma­ ni sarà qualche altra cosa, per essere poi riconvertito in modo da poter essere udito attraverso altoparlanti. Ciò rappresenta in realtà un punto critico, e lo fu fin dall'inizio. Nella vecchia idea della "musica per altoparlanti" - soprattutto nelle prime e del resto più efficaci e sincere formulazioni - vi è la più compiuta e perfetta destinazione della musica al semplice ascolto. Si po­ trebbe dire forse più efficacemente: alla contemplazione uditiva di un'oggettività data. 397 - Si tratta di un'obiezione molto seria: nella musica vi sono due poli che non possono essere separati. La musica la si a­scolta, ma anche la si fa, nel duplice senso della creazione musicale (com­ posizione) e della sua ricreazione (esecuzione). Io credo che i diversi attori della musica - l'esecutore, il compositore e l'ascol­ tatore - non siano altro che figure distinte di un unico perso­ naggio. L'esecutore avverte giustamente che la propria attività deve entrare in simbiosi con l'atto creativo, che egli non si limita ad una pura attività del riprodurre. L'a­spirazione al fare musica - nel senso della sua creazione e ricreazione - sta al fondo della dimensione dell'ascolto: un buon ascoltatore è sempre, io credo, un potenziale esecutore; e forse anche un potenziale composito­ re. Egli non è mai un passivo contemplatore di un oggetto. Fare musica - Questo momento del fare rappresenta un'esigenza essenziale per la musica, ed allora è giusto che tu ponga il quesito: "Le con­ siderazioni sviluppate sinora sulla musica realizzata attraverso il calcolatore non vanno forse nella direzione di riproporre una fruizione basata solo sull'ascolto e per di più secondo una mo­ dalità puramente contemplativa?" - Comincerò con il rispondere proponendo un documento fo­ tografico, che riguarda la prima esecuzione del Gesang der Jünglinge di Stockausen, il 30 maggio del 1956: 398 A me sembra che vi sia in questa immagine qualcosa di agghiac­ ciante, e questo non per la presenza al posto di esecutori umani di alcuni monumentali altoparlanti: niente affatto. Ciò che col­ pisce è che la proposta della "musica per altoparlanti" faccia in­ travedere intatta la cerimonia del concerto: gli altoparlanti hanno preso sul palco il posto del pianoforte a coda ed il pubblico in sala si accinge all'ascolto con lo sguardo per lo più rivolto ad essi. Alla fine, verrà un applauso di maniera e poi la scalpicciante e tacita uscita dalla sala. - Un secolo musicalmente così innovativo e per certi versi così aggressivamente distruttivo come il Novecento ha lasciato so­ pravvivere, come se nulla fosse, il concerto ottocentesco senza cambiarvi una virgola, anche quando ha messo sul palcosceni­ co alcuni mastodontici altoparlanti. Superata la soglia del­l'anno duemila, mi chiedo se anche le forme della comunicazione mu­ sicale non debbano essere profondamente innovate. - Se lo chiede in modo molto pregnante anche Fausto Romitelli: "Sicuramente il concerto è un prodotto del diciannovesimo se­ colo arrivato con affanno alla fine del ventesimo. Bisogna assolu­ 399 tamente trovare altri mezzi per comunicare con il pubblico, pur restando fedeli all'impegno ed alla complessità della nostra mu­ sica" (Romitelli, 2000, p. 88). Molto ben detto: ma il testo conti­ nua così: "Forse bisogna trovare, innan­zitutto, un altro pubblico! Ne disponiamo, potenzialmen­te, di uno molto ampio ed interes­ sante: tutti i giovani che seguono le odierne avanguardie elettro­ niche (e sto parlando della vera avanguardia, quella techno, non certo quella mum­mificata ed accademica degli istituti di ricerca), che molto spesso lavorano con il loro computer sul suono e svi­ luppano un gusto nuovo e spesso estremamente raffinato per le trasformazioni timbriche, le poliritmie, le stratificazioni sonore, ecc. Mi sono reso conto che queste persone sono spesso rilut­ tanti ed annoiate di fronte ai quartetti di Beethoven ed entusiaste all'ascolto di Mantra di Stockhausen (per non parlare di Hymnen, geniale anticipazione di tutta l'estetica techno contemporanea): quello che interessa loro è la trasformazione di qualsiasi mate­ riale sonoro in un flusso elettronico. Se questa trasformazione non c'è, la musica rimane lontana, estranea, incomprensibile: il linguaggio è divenuto impotente, ciò di cui hanno bisogno è la potenza del suono elettrico-elettronico" (p. 88). - Confesso di avere una certa diffidenza nei confronti di chi si annoia di fronte ai quartetti di Beethoven e manifesta il massi­ mo entusiasmo per Mantra o Hymnen di Stockhausen. Ma a parte questo, sembra alla fine che diventi cruciale il richiedere altopar­ lanti ancora più mastodontici, voglio dire più potenti, di quelli che occupano il palcoscenico del concerto di Stockhausen. Ho anche la sensazione che non ci si renda conto di quanto sia vec­ chio questo problema dell'inten­sità del suono. Esso ha radici lontanissime in Edgar Varèse. Ci sono cose che Romitelli vede assai bene - ad esempio, l'importanza del calcolatore per una nuova formazione musicale ed anche il potenziale creativo che può provenire da quell'"universo della sperimentazione musica­ le che, dagli anni Sessanta fino ad oggi, nell'ambito del rock o 400 della techno, ha cercato con accanimento ma senza dogmi delle nuove soluzioni sonore, riuscendo talora a coniugare la ricerca sul suono e sulla modulazione del rumore ad un grande impatto percettivo". Ma ciò che egli ritiene di poter trarre da una giusta presa di posizione la fanno invece inclinare in una direzione falsa. Ad es. qui si aggiunge: una "rivoluzione musicale" sorgerà forse dalla "folla anonima dei giovanissimi che, proprio perché non hanno velleità artistiche, sviluppano un nuovo sapere artigianale, una nuova sensibilità e forse, domani, una nuova musica" (Romi­ telli, 2003, p. 81). - Vedremo. Ma io mi chiedo: non si dovrebbe forse smettere una volta per tutte di attendersi una "rivoluzione musicale", di cercare una "nuova" musica - questa vera e propria ossessione del secolo scorso - e semmai mettere a frutto i tesori che esso ci ha lasciato? Così sottoscriverei con entusiasmo la frase seguente: "Se vogliamo rinnovare le forme di comunicazione in musica dobbiamo partire dalla valutazione del modello di riferimento planetario, dalla considerazione che, oggi, la comunicazione si identifica con la strategia patologica e deviata dei media" (Ro­ mitelli, 2000, p. 81). Senonché l'ultima postilla mi fa esitare: o si fa un discorso positivo sui media o negativo, ben sapendo, naturalmente, che vi sono aspetti positivi e negativi. Il "biso­gna sporcarsi le mani" sposta interamente l'asse del problema e ren­ de quella presa di posizione assai malsicura. Vi sono modi devia­ ti e patologici di impiegare i media, ma questi non sono - come molti hanno creduto e continuano a credere - intrinseci ad essi. - Non credo nemmeno che si debba inseguire il mito di un "nuovo pubblico". Il problema è invece quello di un rinnovamento dei mezzi della comunicazione che sia in grado di ristabilire intor­ no alla musica una sfera di interessi autentici: che sono, vorrei sottolineare, interessi semplici: quegli interessi che hanno sempre guidato gli amanti della musica nei luoghi della musica, che si­ 401 ano capaci di rendere la musica accessibile, sia per l'esecuzione che per l'a­scolto. Ciò non significa che la forma del concerto debba essere soppressa! Al contrario. Essa è diventata una realtà così rara da aver assoluto bisogno, per non morire, di essere po­ tenziata e moltiplicata. Ma questo potenziamento non avrebbe senso e sarebbe del resto votato al fallimento se, a cominciare dall'inse­gna­men­­to scolastico, non si cercassero nuovi approcci per suscitare l'interesse e la cul­tura musicale. Questi nuovi ap­ procci dovranno certo tener conto dell'e­du­cazione all'ascolto, ma anche e soprattutto della pratica mu­sicale. Il che oggi non vuol certo dire suonare il flauto dolce o l'armonica a bocca, ma anzitutto, io credo, venire a conoscere e praticare sonorità sintetiche e strumentali, europeee ed extraeuropee, africane, asiatiche, antiche e moderne. Credo che non vi sia bisogno di dire che il calcolatore si presen­ ta come lo strumento privilegiato per questo approccio attivo e creativo. - "Senza un destinatario interessato, anche un'ottima 'offerta culturale' cade nel vuoto.... è sempre più necessario avviare una forma di 'partecipazione attiva alla musica' che coinvolga la pra­ tica vocale e quella strumentale, la musica d'insieme e la dram­ matizzazione, i procedimenti di improvvisazione e composizio­ ne. Distinguere, all'ascolto, il linguaggio di Beethoven da quello di Monteverdi è importante, ma tentare un approccio diretto con l'opera dell'artista significa 'vivere la musica' e di conseguen­ za imparare a conoscerla e ad amarla. Suonare o cantare insieme educa alla socialità. Penso alla soddisfazione che si prova nel fare musica da camera oppure nel disporsi at­torno ad un tavolo per intonare una più o meno facile composizione polifonica! Penso alle società corali, alle bande, ma pure agli spazi destinati alla musica popolare, alle formazioni jazz o rock, alle possibilità di confrontare differenti generi musicali con le relative culture di appartenenza. Queste forme di partecipazione dovrebbero esse­ re avviate attraverso la creazione di 'laboratori musicali' oppor­ 402 tunamente affiancati ai vari cicli scolastici. In tal modo si potreb­ be contribuire ad uno scambio d'esperienze di varia provenienza all'interno di una scuola che si apre sempre di più, attraverso i contributi offerti dalle nuove tecnologie, a influenze multi-etni­ che". Sono parole di Azio Corghi che me­ritano di essere medi­ tate a fondo (Corghi, 2005, p. 181). - L'idea di "laboratori musicali"- di luoghi dove si "fa musica", in tutti i modi possibili, e festosamente (come è sempre accaduto), e dove anche si possa riflettere e discutere su di essa, dove il compositore possa incontrarsi ed intrattenersi con gli ascoltato­ ri, potrebbe prolungarsi al di là dei confini della scuola, fornire contesti per il "concerto", ristabilire il contatto del compositore non con un nuovo pubblico (che è sempre un alibi), ma con il pubblico, semplicemente. - Detto in una parola: la musica deve diventare una pratica socialmente diffusa. Si tratta di un'esigenza che per essa è vitale, e che non è cer­ to impedita dalla musica ex machina, ma può anzi esserne promossa. Vecchie utopie - Nella "musica elettronica" ai suoi inizi vi è chi intravedeva in essa la possibilità che fornisse una nuova occasione per la diffu­ sione del fare musica. Forse - si pensava - l'impiego della tecno­ logia avrebbe potuto aprire porte che prima sarebbero rimaste chiuse: perché una "conoscenza tecnologica generale" "avrebbe il vantaggio di rendere la musica elettronica accessibile ai non specialisti più di quanto non l'abbia mai fatto la musica tradizio­ nale" (J. Chabade, in Pousseur, 1976, p. 284). Ma ancor prima, quando certi sviluppi si intravedevano appena, vi sono le sor­ prendenti dichiarazioni di Glenn Gould, che non esita a parlare di una nuova Hausmusik, legandola ad un ascolto attivo, che addirit­ tura fosse in grado di intervenire, con gusti e valutazioni proprie, sulle sue stesse esecuzioni musicali. Glenn Gould, come si sa, a 403 differenza di altri grandi artisti come Michelangeli e Celibidache che furono fortemente ostili alle registrazioni discografiche, si ritirò assai presto, con gesto straordinario, dal concertismo valo­ rizzando al massimo la registrazione, convinto tra l'altro che la tecnica avrebbe po­tuto consentire in futuro una diversa modalità di ascolto con la possibilità di intervenire sulle interpretazioni modificandole; e che la cultura musicale sarebbe potuta crescere al punto da consentire la diffusione dell'arte del comporre, libera da pre­oc­cu­pazioni di ordine commerciale e professionale. Gli chiede un intervistatore: "E lei sarebbe pronto a lasciare che uno o più ascoltatori ignoti manomettano le sue registrazioni senza il suo permesso?". La risposta è: "In caso contrario non sarei riuscito nel mio intento" (Gould, 1984, p. 23). Ed ancora: "... Non passerà molto tempo prima che l'ascoltatore dia al proprio ruolo un'impronta più autorevole, prima che, tanto per fare un esempio, il consumatore avveduto di musica registrata provveda personalmente al montaggio del nastro (e chissà che questa non diventi la Hausmusik del futuro...). Mi meraviglierei anzi se l'at­ tività dell'ascoltatore si fermasse qui, dal momento che l'idea di partecipazione su più livelli al processo creativo è implicita nella civiltà elettronica" (ivi, p. 171). Queste frasi, formulate molti e molti anni fa, non solo meritano di entrare nella storia del pen­ siero novecentesco sulla musica, ma anche di essere rimeditate all'altezza dei tempi nostri. Che cosa posso fare con i suoni? - Il fascino di una tromba, di un sassofono, di un coro intero, le svariate e singolari sonorità di un sintetizzatore, le turbulenze sonore che da esso puoi sprigionare, ti prendono e ti trascinano anche se sai soltanto poggiare due dita su una tastiera. Da que­ sto fascino possono nascere molte cose. La tastiera del­la musica ti sta di fronte. Ed intanto ti ritornano curiosità infantili. Che cosa posso fare con i suoni? Questo, e quest'al­tro, e quest'altro ancora... 404 - L'ascoltatore porta alla luce la propria vocazione creativa. Ciò che riesce a fare non ha magari maggior valore della costruzio­ ne che un fanciullo realizza con i suoi cubetti. Ma ciò non im­ porta. La musica è un gioco che può attingere alle profondità dell'imma­ginazione, ma anche accontentarsi felicemente e inge­ nuamente di veleggiare alla superficie. 405 Elenco dei testi citati Agostino, 1997, De Musica, a cura di M. Bettettini, Rusconi, Mi­ lano. Angelini A. (a cura di), 1987, Adorno in Italia, Ediprint, Siracusa. Arbo A.,1991, Dialettica della musica. Saggio su Adorno, Guerini, Milano. Arbo A. (a cura di), 2003, Il corpo elettrico. Viaggio nel suono di Fausto Romitelli, "Quaderni di cultura contemporanea" n. 4, dicembre 2003. 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Entrambe le parti in un unico volume in formato PDF sono reperibili presso l'archivio Internet di Giovanni Piana http://www.filosofia.unimi.it/piana/ 5 "La sapienza antica dei Greci sembra essere legata soprattutto alla musica" (Ateneo) "Butta via quella roba. Nessuno ha mai trovato capo o coda alla musica greca, nessuno mai lo troverà" cit. da Gustave Reese, La musica nel medioevo (1940), trad. it. , Rusconi, Milano 1990, p. 30. 6 7 Questo libro è dedicato a Valentino Piana - diletto a Mercurio dal piede alato che stringe il mondo in una sola mano 8 9 INDICE Presentazione - p. 23 Parte Prima 1. Gli strumenti della musica greca - p. 27 1.1 Gli strumenti a fiato - p. 28 1.1.1 L'aulos 1. Lo strumento - 2 Quale era il suono del'aulos? - 3 Il plagiaulos - 4 La musica greca era monofonica? 5 La polemica antipolifonica rinascimentale e la teoria della monofonicità della musica greca 1.1.2 La siringa (syrinx) 1.1.3 La tromba (salpinx) 1.1.4 Il corno (keras) 10 1.2. Gli strumenti a corda - p. 65 1.2.1 La lira 1.2.2 Il barbitos 1.2.3 La cetra 1.2.4 La forminx 1.2.5 L'impiego del plettro 1.2.6 L'arpa 1.3 Strumenti percussivi - p. 111 1.3.1 I crotali 1.3.2 I cimbali 1.3.3 Il krupalon 1.3.4 I sistri 1.3.5 I timpani 1.4. L'organo idraulico - p. 128 11 2. Gli strumenti musicali e l'immaginazione mitica - p. 141 2.1. Premessa - p. 144 2.2 Dioniso - p. 146 2.2.1 Le menadi 2.2.2 I satiri 2.2.3 La vendemmia di Dioniso 2.3 Apollo - p. 165 2.3.1 Dionisiaco e apollineo in Nietzsche 2.3.2 Il canto dell'Olimpo 2.3.3 Apollo musagete 2.3.4 Nascita di Apollo 2.3.5 La cetra e l'arco 2.3. 6 Apollo e il pitone 2.3.7 I lati oscuri di Apollo 12 2.4 L'invenzione della lira e dell'aulos - p. 185 2.4.1 Ermes 2.4.2 Atena 2.5 Marsia ovvero la barbarie di Apollo p. 196 2.6 Il mondo del dio Pan - p. 210 2.6.1 I fauni e le ninfe 2.6.2. Il dio Pan 2.6.3 Storia di Siringa 2.6.4 Storia di re Mida 2.7 Orfeo - p. 227 2.7.1 La lira di Orfeo 2.7.2 La morte di Orfeo Annotazione: la morte di Orfeo secondo Picasso 13 3. I filosofi che cantano - p. 245 3.1 Il volto di Pitagora 3.2 Vita di Pitagora 3.3 Acusmatici e matematici 3.4 Scienza e immaginazione 3.5 Chi è Pitagora? 3.6 Pitagora e Apollo 3.7 Viaggi di Pitagora 3.8 I prodigi di Pitagora 3.9 I filosofi che cantano 4.Gli inizi della teoria della musica - p. 284 4.1 Il principio del numero 4.2 Il fabbro armonioso 4.3 Jubal - Chi era costui? 4.4 Commenti al racconto del fabbro armonioso 4.5 L'invenzione del monocordo 4.6 Il monocordo come strumento di misura 14 Parte Seconda 5. La matematica pitagorica - p. 13 5.1 Numeri, rapporti e proporzioni - p. 14 5.1.1 Il logos 5.1.2 L'analogia 5.2 I numeri figurati - p. 24 5.2.1 La lavagna di Pitagora nella Scuola di Atene di Raffaello 5.2.2 La Tetractys 5.2.3 Cenni sui numeri figurati 5.2.4 Sviluppi e commenti sui numeri figurati 5.2.5 I numeri quadrati 5.2.6 I numeri eteromechi 5.2.7 I numeri figurati e l'idea di matrice 5.3 Le opposizioni pitagoriche - p. 53 5.3.1 Le opposizioni pitagoriche e il loro senso 5.3.2 L'opposizione illimitato/limitato in Filolao 15 5.4 I numeri irrazionali - p. 62 5.5 L'armonia delle sfere - p. 67 6. Il reperimento dei rapporti fondamentali sul monocordo - p. 77 6.1 Il monocordo senza graduazione - p. 77 6.1.1 Il metodo delle sottrazioni successive 6.1.2 Osservazioni sul metodo delle sottrazioni successive 6.1.3 Il quaternario 6.2 La divisione in quattro del monocordo - p. 91 6.3 La divisione in dodici del monocordo - p. 98 6.3.1 La considerazione "lineare" dell'intervallo 6.3.2 I rapporti consonantici espressi con i numeri 6,8,9,12 16 7. Tematica delle medie - p. 107 7.1 Media aritmetica, media armonica e media geometrica - p.108 7.1.1 L'affermarsi del problema delle medie 7.1.2 Le formule delle medie 7.2 Le medie secondo le definizioni di Archita - p. 113 7.2.1 Media aritmetica 7.2.2 Media geometrica 7.2.3 Media armonica 7.3 La media geometrica - p. 124 7.3.1 Ottava, rapporti epimori, media geometrica. 7.3.2 Ripresa del problema dei numeri irrazionali 7.3.3 Duplicazione del quadrato e media geometrica 7.3.4 Media geometrica e il problema del tetragonismo 7.3.5 Conseguenze sulla teoria pitagorica della musica 17 8. Discussione sulla cosiddetta "scala pitagorica"- p. 137 8.1 Il problema della validità degli intervalli e della formazione della scala - p. 137 8.1.1 La costruzione della scala attraverso le medie 8.1.2 Costruzione della "scala pitagorica" attraverso il ciclo delle quinte 8.2 Precisazioni e commenti - p. 145 8.2.1 Tono e limma 8.2.2 L'apotome 8.2.3 Il comma 8.2.4 Il calcolo pitagorico del comma come rapporto 8.2.5 L'andamento discendente della scala 8.2.6 Costruzione della "scala pitagorica" e metodi di accordatura 18 8.3 Eccessi del matematismo pitagorico - p. 162 8.3.1 Il problema della consonanza di undicesima 8.3.2 La soluzione di Tolomeo e quella di Gaudenzio 8.3.3 I tentativi di costruire scale con rapporti epimori 9. Il tetracordo - p. 173 9.1 Il tetracordo come spazio sonoro fondamentale - p. 173 9.2 Il tetracordo diatonico di Filolao - p. 178 9.3 I nomi delle note - p. 180 10. I generi - p. 194 10.1 Prima dei generi - p. 195 10.2 I generi e le loro differenze - p. 200 10.3 L'indicatore del genere - p. 203 19 10.4 L'alterna vicenda dei generi - p. 205 10.5 Il pyknon - p. 209 10.6 La teoria dei generi e i tetracordi di Archita - p. 211 11. Aristosseno e la teoria dei generi - p. 223 11.1 Un nuovo concetto di intervallo - p. 224 11.1.1 L'illimitatezza del numero delle lichanoi 11.1.2 L'esperienza dell'intervallo 11.1.3 Differenze rispetto alla posizione pitagorica, il problema del geometrismo e della matematica degli irrazionali 11.2 Il significato delle misure aristosseniche - p. 236 11.2.1 La divisione in trentesimi dell'intervallo di quarta 11.2.2 Una ipotesi sulla scelta del trentesimo di quarta 11.2.3 La presunta equalizzazione operata da Aristosseno 20 11.3 La teoria dei generi secondo Aristosseno - p. 244 11.3.1 Il punto di vista funzionale 11.3. 2 Confronto tra i generi di Archita e di Aristosseno 12. Il sistema completo - p. 253 12.1 Introduzione - p. 254 12.1.1 Sistemi, toni, armonie 12.1. 2 Le specie (eidos, schema) 12.1.3 Metabolé 12.2 Il sistema completo - p. 264 12.2.1 L'ampiezza dello spazio sonoro nella musica greca 12.2.2 Il doppio tetracordo di base come fondamento del sistema completo 12.2.3 Il sistema completo piccolo e la sua integrazione nel grande 12.2.4 Le specie di ottava 12.2.5 Il problema della trasposizione e la "modulazione della melodia" 21 12.3 Identità e mutamento nel sistema completo - p. 294 12.3.1 Tesi e dynamis 12.3.2 La prospettiva dinamica e tetica nell'intero spazio sonoro 12.3.3 L'immutabilità del sistema completo 22 23 Presentazione Nel 1998 tenni un corso universitario che, in una sua sezione, riguardava la teoria greca della musica. In realtà ero interessato, all'interno di una tematica generale di filosofia della musica, a mettere l'accento sul fatto che, rispetto al linguaggio musicale della nostra tradizione, gli stessi materiali di base venivano prospettati secondo angolature profondamente diverse, e nello stesso tempo riccamente teorizzate entro un ampio quadro filosofico e immaginativo. Con ciò intendevo fornire ai miei giovani ascoltatori un'esemplificazione di un linguaggio della musica assai diverso da quello a loro prevalentemente noto, con le proprie regole e la propria grammatica, mostrando al tempo stesso il suo radicamento nella vita e nel contesto filosofico e culturale in cui esso agisce. Ma di sbieco cercavo di accennare a molte altre cose. Compito ambizioso, ma che io svolsi entro un ambito necessariamente e volutamente limitato. Eppure debbo confessare che già allora mi lasciai un poco trascinare dalle mie antiche passioni per la grecità che mi avevano fatto oscillare per qualche tempo, per quanto riguarda il mio futuro di studente universitario, tra la filosofia antica e la filosofia teoretica. Mi piace ricordare qui che il primo corso universitario che seguii presso l'università di Milano fu il corso di Storia della Filosofia Antica tenuto da Mario Untersteiner - grande e indimenticabile Maestro. Nel riprendere i materiali di appunti di quegli anni, queste antiche passioni si sono ravvivate in modo anche per me un po' inatteso - cosicché mi sono proposto di estendere l'ambito di discorso, aggiungendovi molte cose che nel frattempo mi sembra di aver meglio compreso, mantenendo così le ambizioni che sono difficili da scacciare, ma anche attenuandole dando alle mie lezioni di allora la forma di un album illustrato. Lo scopo resta ancora quello di fornire un profilo che sia il più possibile dominabile anche da chi non ha interessi strettamente specializzati e che desideri nello stesso 24 tempo varcare la soglia verso le straordinarie dimensioni culturali della problematica che stiamo per affrontare. Uno scopo, dunque, che corrisponde alla mia vocazione didattica. Ma mi sono anche reso conto, nel riprendere tra le mani le mie vecchie carte, che nei problemi che venivano via via discussi e nel modo di affrontarli affioravano di continuo temi di ordine teorico che mi hanno dato negli anni molto da pensare, orientamenti che, maturati nella trattazione di altri argomenti, tuttavia si facevano sentire in certi punti cruciali come guide anche per organizzare e ripensare i nodi essenziali della teoria greca della musica. Il lettore che abbia per avventura qualche conoscenza di altri miei lavori non stenterà a riconoscere questa trama sotterranea - si avvedrà ben presto che l'indugio nella problematica pitagorica, che forse potrà sembrare singolare per un fenomenologo che certamente non può che parteggiare per la posizione di Aristosseno, ha certamente una sua importante motivazione in quella fusione tra conoscenza e immaginazione che spesso ha sconcertato gli interpreti. Ed ancora, per l'aspetto epistemologico, potrà forse avvertire la presenza di Wittgenstein del Tractatus così come quella di Husserl della Filosofia dell'aritmetica nell'interpretazione dei numeri figurati come "metodo di notazione" che, sia pure affiorante qui e là nella letteratura specializzata, tuttavia mi sembra sia diventata particolarmente pregnante nell'esposizione che mi è sembrato di poterne dare. Così è assai probabile che questa stessa linea di tendenza mi abbia spinto a mostrare nel pitagorismo la presenza dell'idea della ricorsività, di cui mi sono occupato in altri miei lavori, secondo una accentuazione, mi sembra, piuttosto inusuale. Nella teoria greca della musica si coglie un formidabile interscambio tra elementi che formano la sostanza della vita spirituale - l'impulso conoscitivo con la sua esigenza di metodi ordinati e ben codificati, la creatività del mito che segue percorsi tutti suoi eppure non di rado si incontra con quell'impulso, in una fecondazione reciproca, la pratica artistica diretta, la musicalità direttamente esercitata dal citaredo o dall'auleta e che attraversa la parola del rapsodo, la teoria che da un lato è a ridosso di questa pratica, in parte promuovendola ed in parte essendone promossa... e da tutto ciò poteva forse mancare l'immagine? In realtà debbo un poco ritornare sui miei passi, e correggere il mio dire di poc'anzi quando osservavo che questo lavoro ha preso forma di un album quasi che l'illustra- 25 zione attenuasse l'ambizione. Quest'osservazione ha una sua parte di verità - ma ve ne è un'altra che rende più significativa questa mia scelta. In realtà nella mia personale esperienza didattica l'esemplificazione grafico-illustrativa ha svolto un ruolo, persino per spiegare e discutere argomenti piuttosto astratti. A differenza di molti che ritengono che la consuetudine alle immagini tolga spazio al pensiero ed alla lettura (molti uomini di grande dottrina la pensano così!), io credo che immagine e parola ci parlino entrambi con i linguaggi che sono loro propri con altrettanta efficacia, e che insieme possano mostrarci cose che ci resterebbero del tutto inarrivabili. Ma questo vale tanto più per il nostro argomento. Quando questo mio progetto ha cominciato a prendere forma, mi è accaduto all'improvviso di rendermi conto con enorme sorpresa che, con tutto il greco che ci è stato insegnato, con tutte le vicende omeriche che abbiamo lette riga per riga nelle enfatiche traduzioni ottocentesche di Monti e Pindemonte, non ci è mai stata mostrata una sola immagine di un vaso greco - dico una sola, e proprio mai. Quasi che nella vasaria non ci fosse nulla di interessante che riguardasse i poemi omerici, le narrazioni mitiche, la vita quotidiana dei greci, le loro feste, i loro amori, la musica, le danze, i loro riti, gli oggetti d'uso, il loro modo di vestire e tutto il resto. Quasi che la vasaria non fosse arte essa stessa, e grande arte, e spesso grandissima. Eppure il lettore potrà forse concordare con me che queste immagini, anche quando sono misteriose allusioni che traspaiono da frammenti accuratamente catalogati e messi da parte ammirevolmente da archeologi e cultori della grecità, balza con straordinaria evidenza di fronte a noi una vita apparentemente morta per sempre. Tuttavia in questo album non vi sono solo figure tratte dalla vasaria greca, ma molte appartengono alla grafica e alla pittura successiva. Non sono necessarie molte parole per spiegarne la ragione. Esse mostrano quanto abbiano inciso nell'immaginario della cultura europea le creazioni della classicità, con la quale intendo naturalmente anche la fondamentale mediazione operata dalla cultura latina. È qui - nella Grande Grecia, nella latinità che di essa si è fatta coscientemente erede - che abbiamo le nostre radici. Per tutti questi motivi, questo lavoro ha finito con l'assumere per me un significato che non pensavo inizialmente potesse avere: quello 26 di una sintesi, da una angolatura molto particolare, di un orientamento intellettuale e dei molti pensieri di cui esso è fatto; ed allora è stato inevitabile che nel suo procedere mi sia sentito idealmente attorniato anzitutto da coloro che hanno avuto la pazienza di seguire i miei discorsi nelle aule universitarie così come da coloro che vanno tuttora consultando i miei testi nel sito internet che li ospita; e non solo attorniato, ma in certo senso anche - voglio proprio dire - custodito e protetto, da tutti quegli "allievi" che di quei pensieri sono stati compagni e interlocutori straordinari e che le mie parole al vento hanno portato a nuovi e concreti sviluppi arricchendole ciascuno con la propria genialità, crescente esperienza ed intelligenza. Tra essi vorrei rammentare almeno Paola Basso e la ricchezza dei suoi interessi epistemologici, teoretici e storico-filosofici; Vincenzo Costa e la sua ripresa creativa e infaticabile delle tematiche fenomenologiche; Elio Franzini che tanto cammino ha fatto sui sentieri della filosofia dell'arte; Ernesto Mainoldi che ha preso le vie per me misteriose del Medioevo; Alfredo Civita che ha saputo penetrare originalmente negli oscuri campi della analisi psicologica; Paolo Spinicci che ha dedicato una parte assai ampia delle sue riflessioni all'universo dell'immaginazione grafica e pittorica, facendo parlare le immagini e riuscendo a mostrare quanta filosofia possa sgorgare da quell'universo. E molto dovrei dire di quei musicisti che hanno coniugato musica e filosofia come Mauro De Martini o fatto della musica la loro vocazione continuando con me un dialogo che non si è mai interrotto, come Sergio Lanza e Andrea Melis. Infine voglio ringraziare Carlo Serra, che è il responsabile effettivo della mia decisione di riprendere l'argomento e di tentare di rinnovarlo in questa forma. Tanto disse e tanto fece che non mi è stato possibile non rimettermi nuovamente al lavoro, provandone una nuova gioia, ed anche per questo gli sono grato al doppio. Giovanni Piana Pietrabianca, 27 marzo 2010 27 1. Gli strumenti della musica greca 1.1 Gli strumenti a fiato 1.3 Strumenti percussivi 1.2. Gli strumenti a corda 1.4 L'organo idraulico 28 1.1 Gli strumenti a fiato 29 1.1.1 L'aulos 1 Quale era il suono del'aulos? 2 Il plagiaulos 3 La musica greca era monofonica? 4 La polemica antipolifonica rinascimentale e la teoria della monofonicità della musica greca 1.1.2 La siringa (syrinx) 1.1.3 La tromba (salpinx) 1.1.4 Il corno (keras) 30 L'aulos è uno strumento a canna doppia che qui viene suonato da un satiro. Appesa alla parete vi è la custodia dello strumento. 31 Lo strumento era molto spesso suonato da donne. L'abito è caratteristico delle suonatrici. Si tratta di un abito molto semplice. Nella figura a destra la suonatrice porta anche degli ornamenti e dei monili. 32 Fino a poco tempo fa la traduzione di aulos era "flauto", ed ancora oggi si tratta di una traduzione abbastanza frequente. Essa è invece erronea, perché fa pensare subito - se non al nostro flauto traverso al flauto diritto che nella sua forma più semplice è una canna in cui sono stati praticati dei fori, che vengono tenuti variamente aperti o chiusi dalle dita per ottenere le note. Uno strumento simile certo non mancava in Grecia, come non manca in ogni cultura musicale per la sua semplicità costruttiva, ma era uno strumento "povero", tipico dei pastori. Anche l'aulos, come mostra l'immagine seguente che pone l'aulos fra le mani di un pastore che cavalca un montone (forse con intenzioni comiche) aveva presumibilmente avuto origine pastorale, ma la sua complessità lo destinavano ad un impiego da parte di persone esperte. In ogni caso esso era qualcosa di completamente diverso da un flauto doppio. Questa opinione è stata corretta quando ci si rese conto conto della presenza in questa "doppia canna" di una linguetta (ancia) che doveva produrre un suono in qualche modo simile a strumenti come l'oboe o il clarinetto. Nel suo libro sulla musica greca Chailley (1979, p. 61) mostra con didattica pazienza che se prendiamo un cannuccia e tagliamo una piccola parte della sua superficie, otteniamo appunto una linguetta che sotto l'impulso del soffio, si mette vibrare, la vibrazione si trasmette alla canna che amplifica questo suono e lo modifica. La timbrica che ne risulta è nettamente diversa da quella di un flauto diritto, anche se può variare notevolmente secondo i dettagli costruttivi dell'intero strumento 33 La figura che segue mostra una caratteristica cuffia chiamata forbeia: essa regge una sorta di museruola con lo scopo di facilitare i compiti del musicista. Dobbiamo tener presente che le canne sono due, eventualmente di lunghezza diversa, e che il musicista, a dif differenza del flauto comune, operava con la mano sinistra e con la mano destra in modo del tutto indipendente. Inoltre è possibile che la forbeia servisse a comprimere il rigonfiamento delle guance in modo da dare più potenza al soffio. La forbeia normalmente non compare nelle raffigurazioni vasarie e ciò fa pensare che essa venisse impiegata solo in particolari occasioni in cui si richiedeva un suono particolarmente robusto. 34 Lo strumento a doppia canna, sia che fosse provvisto di ancia oppure privo di essa, ed in tal caso era effettivamente un doppio flauto diritto, era ampiamente diffuso nell'area mediterranea come mostrano queste immagini che rappresentano figure simili all'aulos rispettivamente in ambito egiziano ed in ambito etrusco. 35 36 Mentre l'aulos non ha superato l'antichità classica, il flauto doppio è rimasto sia nella tradizione classica sia in quella popolare europea. Nell'affresco delle Storie di San Martino (L'investitura a cavaliere) (1317) di Simone Martini nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi, vengono rappresentati due menestrelli, uno dei quali suona il doppio flauto. 37 Fra gli strumenti popolari vivi ancora oggi vanno rammentate almeno le launeddas sarde, che sono strumenti ad ancia a tre canne, una delle quali fa da bordone. Come risulta da questo schema, il bordone è realizzato dal tubo più lungo (Tumbu) privo di fori, mentre le due canne con i fori sono di lunghezza diseguale e manovrate la più corta con la mano destra, la più lunga con la mano sinistra. 38 Da reperti archeologici si può stabilire che le launeddas risalgono ad almeno mille anni a. C. "Alcune sue caratteristiche organologiche... nonché la particolare tecnica di esecuzione mediante 'respirazione circolare' la apparentano con altri aerofoni policalami diffusi nel Sud Mediterraneo... e lo inscrivono in una famiglia di strumenti che sembra avere i suoi lontani antenati nei clarinetti bicalami egizi e sumeri. In questa famiglia le launeddas sono il solo strumento a tre canne di cui due melodiche" (Giannattasio, 1985, p. 204 - di qui è stata tratto anche lo schema di launeddas). Il doppio flauto calabrese è presente ancora oggi nella cultura popolare della Calabria. "In Calabria il flauto a becco di canna è diffuso anche in un modello bicalamo (fischiotti, frischetti) costituito da due flauti imboccati e diteggiati contemporaneamente - ciascuna mano aziona una canna. Del tutto simile per morfologia al flauto singolo, il doppio flauto presenta becchi molto sporgenti - atti a facilitare la tenuta dello strumento mediante i denti - e, a volte, grandi aperture posteriori/inferiori che servono a intonare le due canne fra loro. Si distinguono due tipi: I. a paro - canne di eguale lunghezza e diametro, tenute prevalentemente accostate; II. a mezza chiave - canne di diversa lunghezza e diverso diametro, tenute in posizione divergente" (Ricci A. e R. Tucci, Strumenti musicali popolari in Calabria. Internet). 1 Quale era il suono dell'aulos? Sui modi in cui l'aulos veniva suonato, sulla sua sonorità, e del resto sui diversi tipi di strumenti riunibili sotto questo nome, naturalmente non possiamo avere alcuna effettiva indicazione diretta. Mathiesen, che ha fatto una descrizione dettagliatissima della struttura dell'aulos osserva che l'aulos non suona come un flauto, "ma nemmeno è un oboe" come alcuni studiosi hanno cominciato a tradurre: "In realtà l'aulos è un aulos e suona in modo dissimile a qualunque moderno strumento musicale occidentale" (p. 182). A rigore nemmeno questa affermazione negativa è provabile (altrimenti sapremmo come suonava l'aulos). S. Baud-Bovy (1988, p. 218) afferma che "È stato lo studio della canzone popolare della Grecia moderna a mettere in dubbio nozioni ge- 39 neralmente accettate sulla musica dell'antichità classica" Egli fa notare analogie sul piano melodico e strutture scalari e traendone conclusioni sulla teoria dei generi. Sembra giusto pensare, come del resto è stato suggerito da più parti, che gli strumenti popolari, non solo Greci, ma di area mediterranea in genere, potrebbero aver conservato elementi arcaici. Così essi potrebbero aver mantenuto qualche ricordo della timbrica e dei modi esecutivi del passato. 2 Il plagiaulos Secondo alcuni vi era in Grecia anche un flauto traverso chiamato plagiaulos: "Vi era un antico strumento che in realtà era una una canna singola del tipo del flauto, che veniva tenuto transversalmente, come il moderno flauto traverso. Esso veniva chiamato plagios aulos oppure plagiaulos in greco, obliqua tibia in latino. Il plagiaulos era interamente confinato all'ambiente pastorale, e non appare nella letteratura e nell'arte greca fino al periodo ellenistico (a partire dal terzo secolo a.C.). 40 La traduzione 'flauto' dovrebbe perciò essere ristretta solo a questo strumento, e non usata per qualunque altro tipo di aulos; e nemmeno dovrebbe essere usata riferendosi ad un periodo anteriore" (Landels, 1999, p. 24). Secondo altri si trattava comunque di uno strumento ad ancia tenuto lateralmente (Chailley, 1979, p. 213) 3 La musica greca era monofonica? La tesi tanto spesso ripetuta secondo cui la musica greca sarebbe stata rigorosamente monofonica, senza accompagnamenti o controcanti - tesi ulteriormente appesantita dall'idea che essa fosse del tutto priva di autonomia rispetto al canto vocale, e che quindi il musicista si limitasse a ripetere nota per nota il canto del cantante oppure al più a raddoppiare il canto in ottava - ha qualche appoggio nei documenti. In un'opera attribuita ad Aristotele intitolata Problemi musicali, nell'oss. 18 si legge: "Perché solo l'accordo di ottava viene usato nell'esecuzione vocale? E difatti nell'accompagnamento si usa quest'accordo e non altro"(Aristotele, 1957, p. 43). Con ciò si esclude persino un accompagnamento per quinte o per quarte. A mio avviso questa tesi deve essere ritenuta assai dubbia, o comunque non facilmente generalizzabile. Si è anche pensato (Westphal, cit. ivi p. 98) che l'affermazione dei Problemi debba essere interpretata come una sorta di ammonimento, e quindi che essa presupponga che taluni musicisti usavano accompagnamenti più complessi. Questa è una situazione abbastanza comune che ha indotto in errore molti interpreti. Spesso i teorici sono ostili alle innovazioni ed alle nuove pratiche musicali e pertanto le loro opinioni talvolta documentano a rovescio le pratiche musicali correnti. In ogni caso, per nutrire qualche dubbio ben fondato io penso che basti guardare l'aulos: una musica strettamente monofonica avrebbe fra i suoi strumenti principali uno strumento eminentemente caratterizzato dalla capacità di realizzare due voci! In argomenti che riguardano la musica, la filologia nel senso più stretto non dovrebbe precludersi qualche riflessione di ordine semplicemente musicale. Quale musicista avendo tra le mani un aulos o un doppio flauto si metterebbe a suonarli all'unisono, come se ne avesse uno solo? Questo argomento "musicale" sarà certo accettato da pochi perché, in effetti, non è un argomento, ma al massimo una sorta di ri- 41 chiamo dell'attenzione nella direzione in cui sarebbe opportuno rivolgere la ricerca. Contro l'idea, anch'essa piuttosto dubbia sotto il profilo musicale che il musicista si limitasse a ripetere nota per nota il canto del cantante, credo che si possa far valere proprio un passo di Platone in rapporto al modo di accompagnare il canto con la lira che, letto malamente, sembra confermare la tesi monofonica: essendo un'osservazione di carattere generale essa vale per la lira come per l'aulos. Come abbiamo osservato poc'anzi, mostrando ciò che non si dovrebbe fare, Platone mostra soprattutto ciò che veniva fatto. Egli ammonisce infatti a "...usare i suoni della lira in vista della purezza delle sue note, facendo in modo che i suoni dello strumento siano all'unisono con quelli della voce: suonare in modo diverso dalla voce, far variazioni sulla lira, quando le corde danno suoni diversi da quelli voluti dal poeta che ha composto il canto, comporre la sinfonia e l'antifonia accostando suoni frequenti e suoni rari, rapidi e lenti, acuti e gravi, e similmente adattare ai suoni della lira ogni sorta di variazioni di ritmo: l'insegnamento di tutto questo non bisogna impartire ai fanciulli..." (Leggi 7, 812 - 1971, p. 247). 42 Vi è in questo passo anche una difficoltà che riguarda le parole "sinfonia" e "antifonia" che riguardano da vicino questa nostra discussione. Con "sinfonia" naturalmente si intendono suoni "concordanti" - dunque consonanze. Con "antifonia" nei Problemi pseudo-aristotelici si intende in tutta chiarezza il canto in ottava. Così alla voce Antiphonia, il dizionario Grove scrive: "Nella teoria greca e bizantina, l'ottava (o doppia ottava) e il cantare in ottave". Ma vi è anche un altro sensomusicale del termine, più tardo, in cui ci si richiama ad un contrasto, in particolare nella musica corale. Grove, sotto Antiphony: "Termine musicale in cui un insieme è diviso in due gruppi distinti, usati in opposizione, spesso spaziale, ed usando contrasti di volumi, altezze, timbri, ecc". Quasi sicuramente in Platone il senso è quello antico ed egli vuol dire che non bisogna andare oltre la "sinfonia" e l'"antifonia" - il cantare o il suonare in ottava - evitando accostamenti di altri suoni, quindi introducendo una varietà sia negli sviluppi melodici che negli accompagnamenti ritmici come si era invece soliti fare. Tenendo conto di queste considerazioni, mi sembra eccessiva la prudenza con la quale Mathiesen tratta l'argomento. Egli scrive che l'aulos veniva normalmente suonato in coppia e che "è poco chiaro se le canne suonassero all'unisono o in qualche altro modo". Poiché le mani degli auleti delle rappresentazioni vasarie sembrano avere la stessa posizione e dunque chiudere gli stessi fori di qui seguirebbe la "ragionevole assunzione" che le due canne suonassero all'unisono; o al massimo per consonanze di ottava o di quinta. Fatta questa premessa egli ammette tuttavia che gli auleti "potrebbero aver sviluppato la pratica di suonare nota contro nota oppure di suonare linee separate - una canna facendo da bordone e attribuendo all'altra un ruolo più attivo"(1999, p. 218). Ammissione realmente troppo debole! 43 L'idea della monofonicità della musica greca continua in realtà ad essere ribadita spesso in modo molto netto ed esclusivo. Ad esempio, secondo Landels (1999, p. 41) non vi possono essere dubbi che le due canne dell'aulos suonassero all'unisono, e questo in conformità all'idea generale secondo cui "non vi è alcuna prova (evidence) di polifonia (in un senso qualsiasi del termine) nella musica greca" (p. 45). A suo avviso il passo precedentemente citato di Platone mostra al massimo che lo strumentista si concedeva qualche ornamentazione. Inoltre, poiché alcune rappresentazioni propongono disposizioni non eguali delle mani cosicché risulterebbe da esse piuttosto chiaro che vengono eseguite due parti, Landels ritiene di poter affermare che esse non sono altro che rozzi tentativi da parte del pittore di mettere la figure in prospettiva. Dove c'è evidence semplicemente la si toglie. 44 Trovo comunque interessante il tentativo di Landels di rispondere alla domanda che noi ci siamo posti fin dall'inizio: se gli auloi sono due, perchè mai suonarli all'unisono? Questa la sua risposta: "La ragione è che due strumenti a fiato insieme producono un qualità sonora totalmente differente. Le due note sono molto vicine, ma non hanno esattamente la stessa altezza, e questo produce un battimento o un effetto di tremolo; un suono simile è realizzato dal registro vox humana dell'organo moderno, che ha due canne metalliche per ciascuna nota, una di intonazione leggermente diversa rispetto l'altra. Il grado della differenza di altezza, e di conseguenza la velocità e l'intensità dei battimenti potrebbero essere controllati da un abile esecutore, contribuendo indubbiamente al carattere o all'ethos della musica"(p. 43) Non possiamo dunque farcene proprio nulla della chiarissima dichiarazione dello PseudoPlutarco a proposito delle innovazioni musicali di Laso di Ermione? Egli dice testualmente: "Fu Laso di Ermione che trasferendo i ritmi alla sfera del ditirambo, e adattando ad esso, imitando la polifonia degli auloi , una scala più estesa e nello stesso tempo una scala più finemente suddivisa, produsse un cambiamento nel sistema esistente della musica" (Plutarco, De musica, 29 - Edmonds, 1924, p. 225 ) . L'espressione "polifonia degli auloi" è una traduzione a calco e credo che la possibile supposizione che essa debba essere intesa come se si alludesse ad una molteplicità di auloi in azione sia solo la conseguenza di un partito preso sulla pretesa monofonicità della musica greca.Naturalmente come esistevano diversi tipi di auloi, così potevano esservi diversissimi modi di suonarlo, dipendenti, tra l'altro dalle abilità dello strumentista oltre che dalle sue decisioni. Ora poteva suonare all'unisono, ora impiegare una canna come bordone, ora realizzare un vero e proprio controcanto, ora limitarsi a semplici varianti ornamentali, e persino ottenere varianti timbriche secondo l'ipotesi di Landels. A parte ogni "prova", così ragiona chi ragiona musicalmente: la ragione musicale può forse servire, in assenza di documentazioni impossibili, da un lato a stabilire un punto di vista dal quale gli indizi possono ricevere interpretazioni molto diverse, dall'altro ad evitare false generalizzazioni, come raccomanda molto giustamente Curt Sachs: "In una èra di quasi duemila anni e all'interno 45 di un impero immenso mutarono probabilmente gli stili esecutivi non meno di quelli architettonici e delle arti belle. Il singolo auleta frigio che accompagnava la tragedia greca e che un poeta si era augurato che tacesse a causa della sua 'loquacità', di certo oscurava l'idea melodica con cascate di passi virtuosistici e volatine o roulades alla maniera degli oboisti orientali di oggi. Il suo stile esecutivo potrebbe essere stato molto diverso dall'arte di quella fanciulla auleta che di prima mattina con Alcibiade ubriaco andò a picchiare e strepitare alla porta per partecipare al simposio platonico con Agatone. Ed entrambi questi stili di esecuzione potrebbe essere stati diversi a loro volta da quello degli auleti in gara ai giochi pitici di Delfo" (Sachs, 1980, p. 159). Di analoga opinione è West che scrive: "Le canne accoppiate sono ancora ampiamente usate nei Balcani e nei paesi islamici dall'Egitto fino all'Estremo oriente, benché esse sono quasi sempre fissate insieme a tal punto che le dita possono coprire i fori in entrambe le canne in una volta sola, qualcosa che non si è mai vista con gli auloi greci. "Non di rado una delle due canne ha meno fori che l'altra, in modo da provvedere per tutti i generi di accompagnamento dal puro e semplice bordone sino ad ingeniosi contrappunti ritmici e armonici" (A. C. Baines in A. Baines (ed.), Musical Instruments Through the Ages, 1961). Anche nell'antichità vi poteva essere la varietà. Non dovremmo prendere per garantito che una singola forma di relazione tra le canne persistette immutato attraverso i secoli nel corso dei quali l'aulos stesso conobbe una considerevole evoluzione e suonatori particolarmente abili furono sempre interessati ad impressionare il pubblico con nuove imprese virtuosistiche" (West, 1992, p. 103). 46 47 4 La polemica antipolifonica rinascimentale e la teoria della monofonicità della musica greca C'è tuttavia un altro problema a mio avviso di particolare importanza sul quale mi sembra che gli studiosi abbiano attirato poco o nulla l'attenzione. Se ci si chiede quando ed a chi è potuto venire in mente di parlare della musica greca come un'arte esclusivamente monofonica, la risposta non può essere dubbia: ciò accade nel pieno della polemica anti-polifonica in età rinascimentale, quando le istanze delle idee nuove pretendevano di trovare importante sostegno nella grecità. La musica nuova doveva trovare giustificazione nell'antica, e la musica nuova andava appunto predicando la superiorità della semplicità della monodia rispetto alla complessità della polifonia. E dunque non fu certamente la musica greca - ancora meno conosciuta di quanto lo sia oggi - ad influenzare i nuovi sviluppi musicali, ma furono questi sviluppi a influenzare la concezione della musica greca. Tutta la teoria dei moderni sostenitori dell'unisono si trova formulata con estrema chiarezza già in Zarlino: "Zarlino parte da un confronto tra la semplicità e povertà dei mezzi della musica antica e la ricchezza armonica e contrappuntistica di quella moderna citando un passo dei Florida di Apuleio per dimostrare che il più antico tipo di aulos non aveva neppure i fori 'alla simiglianza di una tromba' Benché aulos e cetra fossero in seguito perfezionati e arricchiti, gli antichi non ebbero polifonia né vocale né strumentale: 'Al suono di un solo istrumento... il Musico semplicemente accompagnava la sua voce'" (Franchi, 1988, p. 37). S. Franchi rammenta il lavoro di Girolamo Mei che studiò a fondo tutto quanto era noto all'epoca della musica greca e "le cui conclusioni furono decisive per la nascita della moderna monodia. Queste conclusioni si possono riassumere in quattro punti: i Greci non ebbero polifonia, ma solo monodia e canti corali all'unisono; l'accompagnamento strumentale era all'unisono con il canto; tragedie e commedie erano interamente cantate; la pratica polifonica moderna, unendo diverse melodie, registri, figure ritmiche e mal con 48 49 nettendo testo e musica, stravolge ogni possibile effetto picologico" (p. 38). Mei era in rapporto con Giovanni Bardi e dunque con la Camerata Fiorentina; Vincenzo Galilei se ne fece portavoce nel Dialogo della musica antica e moderna (1581), che ebbe una grande diffusione in particolare "per le posizioni estreme di critica del contrappunto e per i toni entusiastici sulle qualità della musica greca" (p. 38). Infine Francesco Patrizi, filosofo in contatto con Giovanni Bardi, scrisse un trattato che rappresenta "la prima completa trattazione della pratica musicale dell'antichità. Riferirsi a queste posizioni sulla musica antica, date ormai per certe, divenne una sorta di sigillo nelle prefazioni dei primi melodrammi, presentati volutamente come la ripresa della prassi greca" (p. 39). Stranamente quest'immagine della musica greca, chiaramente orientata da un dibattitto connesso a motivi musicali che non appartengono ad essa, ha fortemente determinato anche il punto di vista della filologia e musicologia che la ha spesso ribadita perdendo la memoria della sua origine storica. 50 1.1.2 La siringa o flauto di Pan fig. 1 fig.2 51 Abbiamo già notato che non mancava nell'antica Grecia il flauto diritto - strumento molto semplice presente in ogni cultura (fig. 1) . Inoltre era presente la siringa o il flauto di Pan, strumento che ha tutt'oggi una parte significativa nella musica popolare in Europa, in America Latina e in Africa. Nelle fig. 2 e 3 è rappresentata la siringa o flauto di Pan in una versione popolare andina. fig.3 In realtà flauto diritto e flauto di Pan si trovano presenti anche nella antica cultura Inca con il nome rispettivamente di Kena e Antara ed essi accompagnano tuttora i canti all'unisono o all'ottava in Perù (Sas, 1934, p. 1) . Notevole è anche l'impiego polifonico del flauto di Pan nelle isole Solomon documentato da Zemp (1982). La fotografia seguente è tratta da questo saggio. 52 53 Foresta amazzonica Siku boliviano 54 La rappresentazione della siringa si ritrova lungo tutta la tradizione europea. Ed è entrata nell'iconografia pittorica fino a tempi recenti. P. Picasso, Il flauto di Pan (1923) 55 La siringa greca non presentava differenze di lunghezza nelle canne, ma queste venivano otturate all'interno per variare l'intonazione (Landels, 1999, p. 70) La siringa era considerata in Grecia uno strumento povero, tipico dei pastori. L'aulos invece apparteneva alla musica colta, praticata da "professionisti" ed esercitata nelle situazioni rituali, nelle feste, nei conviti, nella danza e naturalmente nella tragedia e nella commedia. 56 In realtà la siringa viene raramente rappresentata nella vasaria greca. Qui abbiamo un magnifico esempio di arte greco-apula tratto da un vaso conservato al Museo Archeologico di Taranto. Nella parte inferiore vengono rappresentati Zeus, a destra, con lo scettro nella mano sinistra ed una corona di allora sulla testa; e Dioniso bambino che tende le braccia ad una figura femminile (i nomi delle due divinità sono scritte al di sopra di esse). Alla scena assiste, da un rialzo collinare in cima al quale è stato disegnato un alberello, un giovane in figura di satiro che reca appeso ad un bastone la tipica siringa greca di forma rettangolare. 57 1.1.3 La tromba (salpinx) La salpinx veniva suonato con una maschera del tipo della forbeia per l'aulos. Il suonatore nell'immagine a sinistra è evidentemente un soldato. In effetti Aristotele in De audibilis spiega che questo strumento non ha carattere musicale ma un impiego soprattutto in battaglia. Tuttavia vi è chi sostiene che non sia del tutto da escludere la sua presenza durante le feste. Nel Museum of Fine Arts di Boston si trova un esemplare di Salpinx, la tromba greca poi diffusa anche a Roma. Si tratta di uno strumento lungo più di un metro e mezzo. 58 59 60 n questa immagine di arte apula la salpinx viene raffigurata in una effettiva situazione bellicosa. La forma dello strumento appare un po' diversa dagli esempi precedenti. 61 1.1.4.Il corno (keras) Fra gli strumenti a fiato troviamo anche il corno fatto con corna di animali. Di esso si ha documentazione letteraria. Mathiesen osserva che "nel caso del corno, dopo aver affermato che i corni morbidi producono il suono migliore, l'aristotelico De Audibilibus (802a18802b18) aggiunge che cuocendoli viene rafforzato il loro suono perché la cottura li rende più secchi e duri" (1999, p. 233). 62 Forse la documentazione letteraria risulta più persuasiva della documentazione grafica vasaria.In essa infatti il corno cavo si presenta di norma in mano ai satiri o a Dioniso come corno potorio, cioè con la palese funzione di un boccale per bere vino. Anche Mathiesen fa notare che "vi è un certo spazio al problema se il corno sia suonato o usato per bere" (1990, p. 234, n. 169), ritenendo comunque ragionevole che lo si debba considerare uno strumento quando è associato ad altri strumenti. Così egli cita la raffigurazione di un giovane che imbocca il corno dalla parte più stretta e sembra dunque suonarlo (Fig. prec.) Ed a conferma fa notare che sul versante opposto della coppa viene rappresentato un suonatore di salpinx. Tuttavia, ad osservare bene la figura proposta, c'è un dettaglio che ci rende un poco perplessi. Il giovane con il corno cavalca... degli otri che normalmente, nelle rappresentazioni satiresche, sono da intendere come pieni di vino. Naturalmente si potrebbe pensare ad una raffigurazione ironica in cui un giovane con un boccale di corno imiti il corno musicale. Il commento dell'immagine parla di "trompette" per entrambe le figure, cosa certamente impropria, ma rileva nel secondo caso che l'efebo cavalca un otre (A. Merlin, CVA, France, vol.17). D'altra parte la presenza sulla scena di altri strumenti musicali non può essere troppo probante. Ad esempio l'auleta della figura non sembra aver nulla a che fare con il satiro che regge con la mano destra un corno cavo. E nella figura sottostante l'auleta festeggia Dioniso che si appresta ad una libagione. 63 Boccale a forma di corno in terracotta 64 65 1.2 Gli strumenti a corda 1.2.1 La lira 1.2.2 Il barbitos 1.2.3 La cetra 1.2.4 Varianti della cetra 1.2.5 L'impiego del plettro 1.2.6 L'arpa 66 1.2.1 La lira 67 68 Vi è una notevole varietà di strumenti a corda nella Grecia antica, che hanno caratteristiche differenti sebbene suonati con tecniche simili. Purtroppo in alcuni manuali, ma anche nelle scritte descrittive relative soprattutto alla pittura vasaria nei musei, il nome degli strumenti viene dato un po' a caso, prevalendo la dizione lira e cetra, peraltro a loro volta non ben distinte tra loro. Della lira si ha in genere un'immagine stilizzata e idealizzata - quella che talvolta si vede disegnata sui teatri d'opera e nelle sale da concerto di vecchio stile: uno strumento dalla forma arcuata ed elegante che si può immaginare venga suonato delicatamente con una mano che pizzica le corde tese. La lira conservata al British Museum ci mostra subito che le cose stanno ben diversamente. Anzitutto la cassa armonica della lira è formata dal guscio di una testuggine e di qui deriva anche il nome di chelys, tartaruga in greco. La presenza di una simile cassa armonica permette di dif differenziare questo strumento da altri analoghi e di documentarne l'esistenza in Grecia almeno a partire dal VII sec. a.C. (Dumoulin, 1992, p. 98). Nel guscio della tartaruga venivano inserite due corna di animale piuttosto robuste. In effetti "molto spesso gli scrittori antichi, e già dal V sec. a. C. fino al I sec. d. C. indicavano le braccia anche come "fatte di corna". Le corna di animali erano del resto particolarmente adatte come materiale per le braccia e vennero sicuramente anche utilizzate. È sicuro tuttavia che per la costruzione di questa parte dello strumento venne più spesso utilizzato il legno che peraltro può essere facilmente piegato nel modo giusto per assomigliare nella forma a corna di animali" (Dumoulin, 1992, II, p. 231). Questo è appunto il caso dell'esemplare conservato al British Museum. Tra le corna veniva posto un ponte di legno su cui venivano infisse le corde collegate nella parte piatta della testuggine e tenute sollevate da un ponticello. 69 70 L'interno della testuggine è stato ricostruito così: 71 Il gruppo "Lyraulos" diretto da Panayiotis Stefos ha realizzato questa ricostruzione moderna della lira, certamente ispirandosi al modello del British Museum. www.lyravlos.gr/en.asp 72 La forma della lira venne sempre più ingentilendosi, come mostra questa bella immagine vascolare del V sec. a. C. Secondo alcuni essa rappresenterebbe Apollo che raccoglie dal corvo informazioni sulle infedeltà di Coronis. Altri identificano nell'uccello un piccione, oppure una gracchia o una cornacchia. Di fronte a questa varietà di interpretazioni mi permetto di azzardare una mia personale ipotesi. La figura rappresentata non sarebbe quella di Apollo - intanto per il fatto che Apollo musico viene per lo più raffigurato, quando si vuol dare enfasi, con la cetra piuttosto che con la lira benché certo siano numerose anche le rappresentazioni con la lira. Il suo capo, a quanto sembra, è cinto da una corona di mirto. Taluni dicono che si tratti di alloro, delle cui foglie Apollo si cingeva il capo in ricordo della ninfa Dafne. 73 Inoltre Apollo sembra dialogare serenamente con l'uccello, e non esplodere in un'ira funesta. Apollo diede infatti ad Artemide l'ordine di uccidere Coronis, cosa che Artemide puntualmente fece. Il gesto del versare l'acqua a terra mi sembra difficile da spiegare. Va poi notato che sia il mirto che l'alloro sono segni caratteristici del poeta cantore. Sarei così indotto a pensare che l'identificazione del suonatore con Apollo potrebbe essere dubbia e che l'uccello, piuttosto che un merlo, sia una pernice. Il realismo del colore non è particolarmente importante in questo genere di rappresentazioni. Alla pernice il colore nero non si addice, ma non si addicono del resto alla pittura vasaria le fini sfumature cromatiche delle sue penne. La mia azzardata ipotesi è dunque che siamo in presenza di un'immagine del poeta Alcmane che dialoga con la pernice da essa apprendendo come si diventa poeti. Se così fosse tutta la raffigurazione diventerebbe più coerente e ci porterebbe alla musica e ai rapporti tra poesia, musica e canto degli uccelli come li si trova illustrati nel bel saggio di Emanuele Fadda, 2009. 74 75 Nata come strumento povero, la lira, come la cetra, va annoverata tra gli strumenti colti come dimostra il fatto che era oggetto di insegnamento Nella rappresentazione a sinistra il maestro suona la lira e l'allievo batte il tempo (V sec. a.C.). 76 La lira veniva suonata con entrambe le mani - ed era tenuta presso il corpo da una cinghia. Analogamente, come vedremo, nel caso dei cordofoni in genere, l'impiego della mano destra e sinistra è differente. La mano destra stringe qualcosa che ci fa pensare ad una sorta di plettro ed operava sulle corde dal lato anteriore. fig. 1 77 fig. 2 Anche nella fig. 2 si mostra una lezione di insegnamento della lira. Il suo interesse sta soprattutto nel fatto che all'allieva viene presentato e svolto un rotolo che ha sicuramente il senso di una partitura scritta. Ciò mostra quanto fosse evoluto l'insegnamento della lira: in particolare la presenza dello spartito implica l'insegnamento di elementi di teoria. E naturalmente una pratica compositiva evoluta. Il frammento in fig. 1 è ancora più esplicito e mostra come la lettura dello spartito riguarda anche uno strumento come l'aulos. 78 La lira è rimasta in forme assai simili alla lira greca anche nella musica popolare. In questa pagine vi sono tre esempi di lire africane. 79 Sudan (sec. XIX) 80 1.2.2 Il barbitos Assai simile alla lira, con la quale talora viene confuso, il barbitos o barbiton è caratterizzato dalle più ampie braccia e quindi da corde molto più lunghe. Ciò significa che rispetto alla lira, era in grado di emettere suoni molto più gravi. Inoltre le corde sono legate leggermente più in alto delle braccia, a differenza della lira. La sua forma è in ogni caso nettamente riconoscibile nella pittura vasaria. In essa il barbitos, insieme all'aulos, lo si ritrova in mano ai satiri, ed è spesso associato a situazioni di danza e ad atmosfere erotiche. È possibile che proprio per queste sue sonorità gravi esso avesse la funzione di fornire un ritmo agli auloi, insieme agli strumenti percussivi. Perciò lo troviamo spesso fra le mani dei satiri, insieme all'aulos. 81 Barbitos nella ricostruzione di H. Roberts (Dumoulin, 1992, p. 235) 82 La posizione consueta dello strumento è a metà del busto con le braccia e le corde disposte quasi orizzontalmente. Eros che suona il barbitos. (Louvre) Nella mano destra regge il plettro. 83 "Il nome 'barbitos' fu quasi certamente una parola straniera e gli antichi tentativi di dare ad esso un'etimologia greca dovrebbero essere ignorati. Secondo la tradizione esso fu 'inventato' da Terpandro, che visse a Lesbo nella metà del VII sec. a. C. , ma ciò può significare che esso fu importato da una cultura musicale in Asia Minore all'incirca in quell'epoca" (Landels, 1999, p. 66). 84 Il barbitos si associa spesso nella grafica vasaria al mondo di Dioniso ed a quello di Ermes. Eschilo in una delle sue tragedie perdute attribuisce il barbitos a Dioniso (Edonoi) (West, 1992, p. 58). Nella figura sopra un satiro consegna lo strumento a Dioniso. Sotto: aulos e barbitos sono suonati da satiri. Nel mezzo, Ermes. 85 Alceo e Saffo Il suono del barbitos, oltre che ben associarsi agli auloi, alle nacchere, e dunque alle feste danzanti non di rado a sfondo erotico, piaceva anche ai poeti. "Il barbitos è menzionato da Anacreonte, benché Saffo e Alceo facevano riferimento ad uno strumento chiamato barmos che per alcuni antichi scrittori rappresenta lo stesso strumento. Esso appare nell'arte attica ad un tratto nell'ultimo quarto del sesto secolo, e la sua presenza si indebolì nella seconda metà del quinto. È stata fatta l'attraente ipotesi che esso fosse portato ad Atene da Anacreonte quando venne ad Atene da Samo. Certamente gli viene associato dai pittori di vasi e nelle più tarde allusioni letterarie" (West,1992, p. 58) 86 Naturalmente i poeti amavano non solo il barbitos, ma in generale la lira, la cetra, la forminx, l'arpa... Essi sono musicisti cantori, e quello strumento che sta nelle loro mani è nello stesso tempo voce poetica - suono e immagine. Così Saffo (118) si rivolge alla propria lira (chelys): Orsù, lira divina, parla tu, sii tu la mia voce E Anacreonte (19.1) accompagna con i suoni dell'arpa (magadys) la fiorente giovinezza di Leucaspi: Scorre la mia mano su le venti corde dell'arpa; e tu fiorisci, o Leucaspi, di giovinezza 87 1.2.3 La cetra 88 L'inconfondibile differenza della cetra (kithara) rispetto alla lira ed al barbitos balzano subito agli occhi dallo schema costruttivo caratteristico - certamente strutturalmente del tutto simile per quanto riguarda la disposizione delle corde ed il modo di emissione del suono, e dunque anche per quanto riguarda le pratiche esecutive. La diversità sta nell'imponenza dello strumento e nell'eleganza della sua fattura. A loro volta le rappresentazioni gli conferiscono una nobiltà ed una dignità che supera, da questo punto di vista, ogni altro strumento greco. 89 Nella figura precedente, Nike, l'alata figlia di Zeus annunciatrice di vittorie, regge una grande cetra a cui è appeso, forse a titolo di ornamento, un fascia di tessuto ricamato. Il plettro è agganciato ad una corda e sembra dunque avere forma di gancio, mentre un'altra striscia di stoffa o una fascia di cordini è appesa all'anello a cui e assicurato il plettro. Le dita della mano sinistra pizzicano con evidenza le corde. La cassa armonica così come le braccia sono di legno, spesso finemente decorato da intarsi, e le sue dimensioni fanno pensare ad un suono particolarmente robusto. Per questa sua fattura e per le sue dimensioni, lo strumento tipico di Apollo non è tanto la lira, quanto la cetra. È vero tuttavia che mentre nei vasi a figure nere egli viene rappresentato con la cetra, la rappresentazione di Apollo con la lira finirà con il prevalere (Dumoulin. 1992, p. 248) (anche se mi sembra che vi sia una certa tendenza ad invertire il problema ed a vedere Apollo in qualunque giovanetto che suoni la lira ed una musa, se si tratta di una fanciulla). 90 La suonatrice sta accompagnando con la cetra il proprio canto. La mano destra regge il plettro che non è attivo come se avesse appena abbandonato le corde. Anche in questo caso la cetra ha come ornamento una fascia di tessuto ricamato, alla base dello strumento ed un'altra di cordini alla sua destra. 91 92 1.2.4 La forminx La forma più antica della cetra che ha una sua fisionomia ben distinta e distinguibile nella grafica vasaria è assai più semplice e arrotondata alla base. Si tende a considerarla come lo strumento con cui si accompagnavano i cantori dei poemi omerici. Landels osserva che essa veniva chiamata kitharis o forminx (1999, p. 48). . Anche Mathiesen per illustrare la forminx fa riferimento nelle immagini a questa forma benché noti che il termine ha un impiego molto generale per indicare gli strumenti che appartengono alla classe della lira (1999, p. 253); ed a sua volta la Bundrick pur attribuendo il nome di Forminx a questa variante della cetra, nota che "la terminologia greca per que- 93 sti strumenti è piuttosto fluida, cosicché i termini di lyra, kitharis, phorminx, chelys, kithara spesso si sovrappongono" (2005, p. 14). Ciò è certamente in parte vero - almeno per i due termini lyra e chelys, che indicano indubbiamente lo stesso strumento - mentre genera perplessità l'idea che i greci stessi non stabilissero nomi diversi per strumenti così tipicamente differenti. Credo invece che un po' di confusione sia stata introdotta da un certo disinteresse per le tipologie degli strumenti musicali da parte di filologi e archeologi. In ogni caso forse non è sbagliato convenire di chiamare questo strumento con il nome di forminx in modo da portare ordine, sia pure un po' convenzionalmente, alla terminologia. Del resto si può comprendere che, come per tutti gli strumenti, vi fossero varianti significative, nelle varie fase di sviluppo della musica greca. Così una variante della cetra può essere considerato anche uno strumento in parte simile al precedente, per quanto riguarda la cassa armonica, ma anche al barbitos, benché con le corde più corde e le braccia molto più ricurve. 94 1.2.5 L'impiego del plettro In che modo venisse usato il plettro (plectron) non è un dettaglio di secondaria importanza che risponde solo ad una curiosit���� di pura tecnica strumentale. Vi sono spiegazioni che non mi convincono pienamente. Ad esempio, Mathiesen (1999, p. 247, sgg.) dà senz'altro per ovvio che il plettro sia un vero plettro, come è in uso in numerosi strumenti a corda sia europei che extra-europei: dunque un pennino flessibile che ha il compito principale di pizzicare le corde. Più precisamente egli osserva che una parte del plettro "sembra avere un corpo in qualche modo flessibile", e naturalmente questa sarebbe destinata al pizzicare le corde, mentre la parte che è propriamente stretta nella mano del suonatore poteva essere fatta di materiale rigido e duro, come osso, avorio, corno, metallo. In conseguenza di questa interpretazione diventa realmente problematico interpretare che cosa facesse la mano sinistra. Secondo Mathiesen, essa non avrebbe la funzione di pizzicare la corda ma piuttosto quella di impedirne le vibrazioni al momento opportuno oppure - con un tocco leggero - di far risuonare dopo il pizzico realizzato attraverso il plettro gli armonici del suono da esso prodotto. Ma si tratta di pure ipotesi, e Mathiesen ammette senz'altro che "non vi sono prove per determinare con precisione che cosa facesse la mano sinistra" (p. 248). Secondo Chailley, le corde potevano essere sia pizzicate (psallein) dalla mano sinistra sia colpite (kruein) con la mano destra - e 95 "in quest'ultimo caso bisogna includere l'ipotesi che il plettro passasse sopra tutte le corde in una volta sola con un movimento violento, mentre la mano sinistra avrebbe avuto il compito di bloccare le corde che non avrebbero dovuto vibrare" (1979, p. 60). Interessato a questo problema fu il musicista Camille Saint-Saëns che fu forse il primo a formulare questa ipotesi con molta chiarezza. Egli si chiede: "essendo lo strumento fissato al corpo del musicista mediante una fascia, la mano destra è provvista di un plettro, e la sinistra che traspare dietro le corde mostra molto spesso delle dita allungate, cosa che si attribuisce alla 'ingenuità' del designatore. La mano sinistra, si dice, aziona le corde. Ma allora a che cosa serve il plettro, che è spesso di dimensioni piuttosto importanti?". Saint-Saëns sostiene di aver trovato una possibile risposta osservando dei suonatori di strumenti simili alla lira a Ismailia ed al Cairo: "Ecco ciò che ho osservato con mia grande sorpresa in entrambi i casi. Mentre il musicista teneva la sua mano sinistra distesa dietro le corde, con le dita allargate, la mano destra, con l'aiuto del plettro, attaccava vigorosamente, con un movimento vivo tutte le corde nello stesso tempo; e risuonavo soltanto quelle non toccate le dita della mano sinistra" (1919, p. 545). Peraltro in un testo precedente sullo stesso argomento egli aveva aggiunto una forte limitazione: "Questo modo di procedere sembra assai scomodo a prima vista; tuttavia i musicisti egiziani 96 sembravano esercitarlo con facilità. Benché sia vero che essi eseguivano poche note, sempre le stesse e ripetute indefinitamente" (1912, p. 338). Saint-Saëns accenna anche alla possibilità aggiuntiva che la mano sinistra sfiorasse la corda, percossa con il plettro, per ottenere il suono armonico corrispondente. A questo proposito egli fa riferimento a "strumenti di grandi dimensioni, come la lira rappresentata sulla pittura conosciuta sotto il nome di L'Educazione di Achille le cui corde sembrerebbero avere un metro di lunghezza, fornendo perciò suoni gravi". "Sul dipinto in questione, il Centauro, con la mano sinistra, sfiora una corda alla metà della sua lunghezza mentre la mano destra fa risuonare la stessa corda con l'aiuto di un plettro" (1919, p. 173). L'affresco a cui fa riferimento Saint-Saëns rappresenta Achille istruito dal centauro Chirone si trova ora al Museo Archeologico nazionale di Napoli. Si tratta peraltro di un dipinto tardo di età romana con un tipo di lira che è difficile da esemplificare sulla vasaria greca. 97 Anche Sachs nel sostenere una tesi analoga fa riferimento ad una tecnica riscontrata nella Nubia: "la mano destra passa sulle corde con un colpo deciso. e le dita della sinistra stanno distese presso alle corde per impedire i suoni non voluti" (Sachs, 1980, p. 148), ammettendo purtuttavia che "su alcuni vasi che portano dipinte scene dove appaiono sonatori di cetra o lira si vedono le dita della mano sinistra pizzicare e non smorzare le corde" (ivi). Che la funzione essenziale della mano sinistra sia quella di pizzicare le corde è ammesso senz'altro da Landels (1999, pp. 55-56), ma più incerta sembra in questo autore la decisione intorno a che cosa faccia questo strano plettro che avrebbe il compito di "percuotere" la corda più che di "pizzicarla". In effetti tutto il problema sta qui. Se osserviamo le immagini della lira che abbiamo proposto e quelle successive della cetra e degli altri strumenti affini, a noi sembra di dover mettere in rilievo due circostanze notevoli: il plettro è, rispetto all'esigenza del pizzico, di proporzioni molto grandi, in alcuni casi addirittura enorme; e più che un pennino sembra una vera e propria paletta che possiamo anche immaginare - date le dimensioni - piuttosto rigida. Non si vede come si possa motivare la presenza, in questo oggetto, tenuto saldamente nelle mani del suonatore, di una parte flessibile. Nella documentazione on line del Museo Archeologico di Taranto si osserva in rapporto al plettro che "i materiali utilizzati erano di diverso tipo, come il legno, l'osso, l'avorio, il metallo e persino, in un caso, una pietra preziosa come lo smeraldo, così come assai varia era la forma dell'oggetto stesso, a bastoncello, a linguetta, a petalo. In ogni caso, comunque, esso terminava con un uncino, che talvolta assumeva la forma di una T o di una freccia, e che serviva a percuotere le corde dello strumento da suonare, al quale il plettro era in genere unito mediante una cordicella". 98 Nulla dunque di lontanamente simile ai plettri che conosciamo. Soprattutto sorprendono non solo i materiali ma anche le forme. Pur non potendo essere generalizzata, noi stessi abbiamo potuto vedere in una raffigurazione un plettro che poteva essere agganciato ad una corda. Di queste forme che non impediscono certo di "pizzicare" le corde, ma che certo non sono primariamente adatte a questa funzione, occorre rendere ragione. L'altro dettaglio che, a mio avviso, potrebbe essere significativo e che nelle spiegazioni citate non viene preso in considerazione è che il plettro sembra quasi sempre lavorare presso il ponticello dello strumento o addirittura al di là di esso. Inoltre di rado esso viene mostrato direttamente in azione. Naturalmente anche una paletta priva di flessibilità può fare risuonare una corda o una serie di corde in successione. Ma le osservazioni precedenti ci fanno pensare che questa non fosse la sua funzione principale. Se si trattasse di una vera e propria palettina rigida, fatta di un materiale in ogni caso duro, e tanto più con una forma finale a T o anche tondeggiante come un cucchiaio o come un uncino, essa sarebbe particolarmente adatta a premere su una corda, in prossimità del punto del ponticello, piuttosto che pizzicarla. Una simile pressione avrebbe come conseguenza quella di alterarne provvisoriamente l'intonazione. Infatti si opererebbe un accorciamento della parte vibrante corda, con conseguente innalzamento dell'altezza. La pressione potrebbe essere esercitata in vari punti della corda in modo da rendere possibili differenze significative di altezza. Va da sé che l'emissione sonora non sarebbe dovuta al plettro ma al pizzico della mano sinistra. Inoltre è chiaro che se si pizzica la corda con la mano sinistra e nello stesso tempo si fa scivolare per un breve tratto il plettro sulla corda nell'una o nell'altra direzione si ottengono dei suoni glissati - anche se non vi è dubbio che il modo principale di impiegare i cordofoni in Grecia era la produzione di note nettamente definite o meglio questa era la vocazione che ad essi attribuivano i teorici. Occorre perciò, a mio avviso, attribuire alla mano sinistra il compito essenziale di pizzicare le corde e di realizzare movimenti melodici; mentre questa "paletta" - a differenza dei nostri plettri - non avrebbe tanto la funzione di mettere in vibrazione le corde, ma di realiz- 99 zare variazioni nell'accordatura di base dello strumento con effetti espressivi conseguenti sulle strutture melodiche realizzate nel gioco delle dita della mano sinistra; senza escludere naturalmente altri possibili impieghi come quello della produzione di "arpeggiati" su tutte le corde della lira, alcune delle quali eventualmente smorzate con la mano sinistra. Tutto il problema risulta fin dall'inizio mal impostato anzitutto per la soverchia importanza data alla posizione standard della mano sinistra come mano con le dita distese, ed in secondo luogo per l'idea che la funzione dell'una o dell'altra mano debba essere necessariamente una sola. Come si comprende, non si tratta di una questione tecnica indifferente ma di cercare di rendersi conto dei tipi di sonorità che il musicista greco riusciva a trarre dai propri cordofoni e del tipo di musica che egli poteva riuscire a realizzare. Uno degli aspetti che talvolta sono apparsi misteriosi è il fatto che "la mano sinistra è più spesso in azione rispetto alla mano destra con il plettro. Stessa impressione deriva anche dalle opere pittoriche. Mentre la sinistra quasi sempre tocca le corde, il plettro sembra in attività piuttosto raramente. In particolare anche quando si canta accompagnandosi con lo strumento il plettro sembra sempre essere tenuto a distanza dalle corde mentre la mano sinistra le pizzica" (Dumoulin, 1992, p. 245). In effetti si tratta di una stranezza che non può certo essere spiegata dall'assunzione che il plettro abbia appena toccata la corda e si sia poi sollevato da essa. Questo problema verrebbe meno nell'interpretazione proposta dal momento che in base ad esso il pletro interverrebbe solo in particolari circostanze. Ma l'ipotesi della "pressione" e di conseguenza l'impiego del plettro in funzione della produzione di alterazioni è della massima importanza per comprendere una circostanza che è sempre sembrata piuttosto difficile da capire. Se ci si limita ad un'azione di pizzico sulle corde, fatta con le dita o con un plettro, si avrebbe a disposi- 100 Raffigurazione di un barbiton in cui risulta evidente l'azione di pizzico della mano sinistra. zione un numero limitatissimo di note, pari al numero delle corde. Una nota, una corda. In particolare non sarebbe possibile produrre alterazioni rispetto all'accordatura di base. Per questa ragione ci si è talvolta meravigliati del basso numero di corde delle lire come delle cetre. Le corde erano normalmente sette o otto ma potevano essere anche solo quattro. In effetti solo nei periodi più tardi vi sono testimonianze di lire e cetre con un numero di corde superiore a otto. La difficoltà consisteva allora nel comprendere come si potesse arrivare a suonare su strumenti simili musiche di una certa complessità. Analogamente, come vedremo in seguito, ci si potrebbe chiedere come, sulla base di un'accordatura fissa, possa essere ottenuta quella mobilità delle note che è tipico del sistema dei generi. Il plettro rigido usato nel modo che abbiamo illustrato ci sembra una buona risposta. 101 Queste mie osservazioni hanno in realtà un supporto bibliografico di particolare importanza tanto da chiedersi perché esso sia stato tenuto in così poco conto. In effetti Dieter Metzler, in un breve quanto elegante saggio intitolato Ein Griechisches Plektron identifica in un reperto conservato nel magazzino del Badisches Landesmuseum a Karlsruhe, confuso con altri oggetti votivi provenienti da un tempio in Arcadia, proprio un bellissimo plettro bronzeo della lunghezza di ben 13,7 cm.Il plettro termina con una forma relativamente appuntita, che potrebbe far pensare ad un coltello, ma questa ipotesi è esclusa sia dalla forma stessa, che dall'ornamentazione presente su un solo lato del plettro, quello normalmente rivolto all'ascoltatore, e dall'anello sopra l'ornamento che serviva certamente a collegare con una cordicella il plettro allo strumento. La parte arrotondata sull'altro estremo aveva la funzione di stabilire una solida presa della mano. Naturalmente, nonostante la varietà di forme che i plettri potevano avere, l'autore cita a conferma sia rappresentazioni nella vasaria, sia plettri fatti di altri materiali come avorio o ossa segnalando in ogni caso che questo è l'unico plettro bronzeo a lui noto. Ma per quanto riguarda il problema per noi più importante egli scrive: "In analogia all'uso moderno si è inclini a assumere che - come nel caso del banjo o della chitarra - il plettro venga utilizzato come un mezzo per rafforzare le dita per produrre il suono pizzicando o colpendo le corde, cosicché il plettro toccherebbe la corda in un movimento di andirivieni. Le cose stanno altrimenti nell'antichità. Filostrato (III sec. d. C.) dice: la mano destra tiene tese le corde, in quanto il plettro le comprime. Il plettro viene posto tra il ponticello e la chiave delle corde. A ciò corrispondono le immagini dei 102 vasi: la sinistra del suonatore viene rappresentata con le diverse dita distribuite sulle corde, come la mano che realizza la melodia, mentre la destra tocca una corda con il plettro presso il ponticello oppure se ne distacca momentaneamente, come se abbandonasse la corda scivolando via da essa" (Metzler, 1971, p. 149). Per questa spiegazione Metzler fa riferimento a Gombosi che dedica un intero capitolo del proprio libro (1939) proprio al modo di suonare degli strumenti a corda del tipo della lira e della cetra. In effetti Gombosi esclude le opinioni allora correnti e, come abbiamo visto, tuttora per lo più confermate, che considerano la mano destra come direttamente produttiva del suono e la mano sinistra con la pura funzione di impedire il risuonare delle note non volute: "Non può essere messo in dubbio il fatto le dita della mano sinistra non si limitavano passivamente ad attutire le corde, ma le pizzicavano attivamente. Anche le testimonianze figurative mostrano molto spesso con chiarezza indiscutibile questo ruolo della mano sinistra; anzi esse mostrano che per pizzicare veniva usato persino il pollice" (p. 117). Per Gombosi il plettro ha il compito di alterare l'intonazione premendo sulle corde. L'argomento che gli sembra decisivo sono quelle immagini che mostrano il plettro tra il ponticello e il punto di aggancio delle corde facendo riferimento ad una pittura vasaria che Gombosi riproduce in disegno nel suo libro traendolo da un vaso conservato a Boston. Effettivamente con il plettro in quella posizione nessuna delle corde dello strumento può essere fatta risuonare - e quindi resta la fondatissima ipotesi di un utilizzo del tutto diverso del plettro, destinato in particolare ai fini di un aumento della tensione delle corde e quindi della loro intonazione. Io credo che questa proposta 103 interpretativa debba essere considerata definitiva. Si può solo aggiungere, come abbiamo già notato, che essa non può essere considerata esclusiva e che il plettro può in ogni caso essere usato in vari modi e naturalmente anche al di là del ponticello, come appare del resto in molte rappresentazioni vasarie, in modo da provocare ulteriori effetti di variazione dell'intonazione che possono anche implicare variazioni timbriche, o addirittura per realizzare glissati (per quanto potessero essere deplorati dai teorici) sulla stessa corda o arpeggiati implicanti più corde. E naturalmente non vi sono ragioni per escludere anche l'impiego della tecnica degli armonici. Accordatura di una lira 104 1.2.6 L'arpa L'arpa è strumento antichissimo che si ritrova in moltissime culture. È possibile che sia derivato dall'arco da caccia a cui vennero aggiunte a poco a poco altre corde. Questo strumento di tradizione popolare africana (Costa d��Avorio) che viene chiamato garg ha forma di arco e viene suonato dai cacciatori per propiziare la caccia; il suonatore "stringe la corda tra le labbra percuotendola con un bastoncino. Il volume viene modificato alterando la posizione delle labbra e della lingua ed in questo modo il musicista crea armonici differenti per produrre una melodia" (Rault, 2000, p. 150). 105 Le arpe più antiche sono prive di colonna che, congiungendo la parte superiore e la parte inferiore ha lo scopo di irrobustire l'intera struttura, ed hanno perciò una forma molto simile ad un arco. Questa relazione appare chiara in questa arpa egiziana risalente a 1500 anni a.C. (British Museum). Questa scena di caccia con arpista (miniatura persiana del II sec. d. C.) sembra voler illustrare la relazione formale tra l'arco da caccia e lo strumento, piuttosto che essere intesa secondo un'improbabile interpretazione realistica. 106 Il nome moderno è di origine medioevale, e deriva da una versione latina di Harff, parola di origine germanica con cui veniva indicata l'arpa irlandese. In Grecia lo strumento venne probabilmente dalla vicina Asia minore. Esso era caratterizzato da un numero molto elevato di corde (fino a venti) e Sachs rammenta che "Platone la condannò perché le sue numerose corde e la sua grande estensione facilitavano la modulazione, per la sua instabilità e pure per la sua hedoné, ossia per il piacere sensuale che comunicava. Essendo strumento di intimità, incline ad indurre in un oblio sognante, a rapimenti onirici, il suo uso era generalmente limitato alle donne che potevano essere etère, ma anche appartenenti alla normale società" (C. Sachs, 1980, p. 153). L'arpa greca si vede qui integrata con la forminx e la lira, in un'esecuzione comune a cui si associa il piccolo strumento percussivo che si vede sulla sinistra (V sec. a.C.). 107 Pektis è uno dei vari nomi attribuiti all'arpa, che veniva talvolta anche chiamata trigonon (anche trigonos) , psalterion o magadis. Il termine trigonon è ovviamente riferito alla forma dello strumento che in alcuni casi è nettamente triangolare. Andrew Barker (1988, p. 96) sostiene la tesi che magadis non è nome di uno strumento, ma di un modo di suonare in ottava con un altro strumento. In realtà Barker ribadisce l'idea di una pratica monofonica assolutamente prevalente della musica greca, tesi sulla qualle abbiamo già manifestato il nostro dissenso e che è tra l'altro a mio avviso confutata da numerosissime rappresentazioni, come la precedente, in cui gli strumenti suonano insieme - ed io credo che sia semplicemente insensato pensare che gli strumentisti non facessero parti distinte. Infine è interessante per motivi di ordine generale l'indicazione secondo cui "Epigono di Sicione ha lasciato nella tradizione il ricordo di una grande reputazione in citaristica pura, cioè senza parole, e soprattutto di aver inventato un'arpa a 40 corde che suonava a mani nude, senza plettro" (F. Lasserre, 1988, p. 81). Questa notizia è un indizio che contraddice l'idea molto diffusa che gli strumenti fossero sempre impiegati come accompagnamento della voce e la musica greca non conoscesse musica strumentale pura. Questo è semplicemente falso. Vi sono, tra l'altro, due parole distinte per indicare il suonatore di cetra che nello stesso tempo canta che viene chiamato citarodo e il suonatore che esegue un brano puramente strumentale che viene invece detto citarista (cfr. anche Burdrick, 2005, p. 18). 108 L'arpa è raramente rappresentata nella vasaria greca. Ci sono esempi molto belli nei rilievi caratteristici dell'arte vasaria aretina, come quelli presentati in questa pagina, ma si tratta ormai di arte romana, sia pure direttamente influenzata da motivi greci. Ed anche lo stile della rappresentazione è sensibilmente diverso. 109 L'arpa veniva suonata senza plettro, dato il gran numero di corde a disposizione, con una o due mani. Da reperti conservati al Museo Nazionale Archeologico di Taranto viene proposta, nella figura, una ricostruzione puramente indicativa. 110 Nella figura sopra sono riuniti l'aulos, la forminx, la lira e l'arpa che occupa la posizione centrale. L'arpa era considerata anche come uno strumento da suonare da solo nell'intimità. Del poeta Anacreonte, che abbiamo già avuto occasione di rammentare proprio in rapporto all'arpa dalle venti corde, ci sono stati tramandati questi versi: Ho pranzato con un pezzetto di focaccia sottile ho bevuto una brocca di vino: adesso con le dita pizzico mollemente la mia pektis amabile cantando la serenata alla ragazza che amo. 111 1.3 Strumenti percussivi 1.3.1 I crotali 1.3.2 I cimbali 1.3.3 Il krupalon 1.3.4 I sistri 1.3.5 I timpani Vi era, in Grecia, una notevole varietà di strumenti percussivi (idiofoni e membranofoni), utilizzati soprattutto in situazioni festive, of offrendo un sostegno ritmico agli altri strumenti e impiegati particolarmente in rapporto alla danza. 112 1.3.1 I crotali I crotali sono uno strumento simile alle castagnette o alle nacchere, benchè probabilmente di suono più debole: "Descrizioni letterarie, inoltre,sottolineano la somiglianza tra il battito delle mani e il battito dei crotali" (Mathiesen, 1999, p. 168). La relazione con il battito delle mani viene impressa nell'oggetto stesso in queste "nacchere" di avorio egiziane che risalgono al 1300 a.C. 113 114 Crotali, auloi e barbitos si trovano spesso associati nella danza, in situazioni che hanno una chiara connotazione erotica. 115 116 I crotali tuttavia possono diventare strumenti tanto nobili da poter accompagnare la cetra di Apollo nelle mani delle muse di fronte a Zeus ed a Ermes. Ma a parte il riferimento mitico questa rappresentazione è notevole dal punto di vista musicale per il numero rilvante dei crotali impegnati con uno strumento come la cetra in un'esecuzione che è evidentemente di musica "pura" nella quale la componente ritmica non è subordinata alla danza. 117 1.3.2 I cimbali I cimbali dei greci, come li vediamo nella figura accanto (British Museum) non sono poi molto diversi da quelli che ha fra le mani il monaco tibetano, ed il suono doveva essere assai simile. Si tratta di due coppe metalliche di solito legate fra loro da una catenella, che venivano percosse tra loro. Occorre peraltro tener presente che le forme di questi metallofoni potevano essere abbastanza diverse e di varie dimensioni ed anche la terminologia greca è abbastanza indeterminata. "Le distinzioni tra crotali, cimbali e crembali era indubbiamente flessibile" (Mathiesen, p. 170). 118 1.3.3 Il krupalon Uno strumento in qualche modo analogo ai crotali era il krupalon (ma vi sono anche altri nomi per designare questo strumento): "Aveva la forma di un grosso sandalo legato al piede destro e consisteva di un blocco di legno tagliato in due tavolette sovrapposte ed unite insieme al tallone. Ognuna delle due tavolette recava nella faccia interna una sorta di castagnetta. Battendo il piede le tavolette con le loro castagnette si urtavano tra loro con un forte schiocco" (Sachs, 1980, p. 171). Tutto ciò è molto bene illustrato dalla scultura seguente nella quale il suonatore fa agire il crupalon insieme ai cimbali che tiene nelle mani. Mathiesen fa notare che questo "sandalo" poteva anche essere indossato da un auleta, che con esso integrava ritmicamente la melodia dell' aulos (1999, p. 167) 119 1.3.4 I sistri Il sistro era strumento di origine egiziana, particolarmente presente nel culto di Iside e di Hathor, dea della musica. Si tratta di dischetti metallici infilati su bacchette che venivano fatti risuonare scuotendo lo strumento. Ve ne sono di varie fogge. Sistro di costruzione moderna 120 Nella vasaria apula e campana è presente anche uno strumento a forma di scaletta, di cui è difficile stabilire la natura e la sonorità. 121 C'è tuttavia chi nega che si tratti di un vero e proprio strumento, ma piuttosto un attrezzo per la tessitura. L'iconografia mostra talvolta atteggiamenti di impiego che potrebbero essere caratteristici di uno strumento musicale. "Il numero dei gradini sulla scaletta può variare tra sei e venti, ed in alcuni dipinti vi è un piccolo punto nel mezzo del gradino. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che possa trattarsi di una specie di sistro, altri un qualche tipo di strumento a percussione, forse addirittura qualcosa di simile ad uno xilofono...Il suo posto nella cultura musicale dei greci rimane oscuro" (Mathiesen, 1999, p. 282) 122 "Donna seduta su uno scoglio, mentre tiene nella mano sinistra uno 'xilofono' e una ghirlanda nella mano destra" (J. R. Green, CVA, Filadelfia, Fasc. 22, p. 7). A dire il vero l'idea che possa trattarsi di uno strumento simile allo xilofono non convince per la mancanza di martelletti. 123 "A destra una donna, vestita di chitone discinto è in piedi e tiene sull'indice della destra un piccione. Essa si volge verso l'altra donna a sinistra che siede tenendo in mano quel caratteristico strumento a forma di scala a pioli che si crede strumento musicale o telaio a mano" (G. Q. Giglioli, CVA, Italia, Roma, Fasc. 1, p. 10) 124 Ciò che viene chiamato timpano in Grecia è ciò che noi chiameremmo un "tamburello", ovvero un "tamburo a cornice", che tuttavia poteva essere di proporzioni piuttosto grandi. Era talora provvisto di sonagli risonanti sul cerchio a cui era legata la pelle. Veniva battuto con la mano destra e sorretto con la mano sinistra. 125 Presso il Museo Archeologico di Taranto si trova anche una notevole scultura che regge il timpano. Essa è accompagnata dalla seguente accurata descrizione: "Il suo compito era quello di ritmare i passi di danza con la cadenza del suono, ottenuto percuotendo con il palmo della mano destra la pelle di bue tesa su un cerchio di legno o di metallo, munito per lo più di quattro maniglie che ne consentivano un'agevole impugnatura, e che costituisce la forma più semplice dello strumento. Riprodotto più volte nelle raffigurazioni che ne mostrano le diverse forme e i particolari ornamentali, era generalmente piatto e leggero, ma poteva presentare anche una forma cava, a scudo, ed era talvolta corredato da campanelli metallici o sonagli, fissati sul telaio da cordicelle che percuotevano la pelle quando lo strumento, suonato quasi esclusivamente da donne, veniva agitato" (Internet). http://www.museotaranto.it/strumenti_percussione.htm Strumento tipico delle feste dedicate a Dioniso, lo possiamo trovare anche in mano ai satiri e naturalmente era normalmente impiegato nella danza. 126 Il satiro giovanetto e la menade nell'immagine pittorica (Lecce, Museo Castromediano) approfittano soprattutto dei sonagli della cornice. Si tratta di una rappresentazione di arte apula, come del resto il satiro e la precedente scultura tarentina, che pur essendo fortemente influenzata dalla vasaria greca ha alcune tipicità illustrate nel saggio di Anna Maria Di Giulio sull'iconografia degli strumenti musicali nell'arte apula (1988, p. 108 sgg.). In esso si fa notare che "il tamburo a cornice rappresentato sui vasi apuli è costituito da due pelli, generalmente dipinte con motivi ornamentali, fissate con dei chiodi ad una cornice circolare. Le raffigurazioni tuttavia ci mostrano un solo lato dello strumento. In una delle sue orazioni politiche, Demostene ci parla di pittori decoratori di tympana: il loro lavoro consisteva nel dipingere motivi ornamentali sulla membrana dello strumento... I tamburelli apuli differiscono da quelli attici per alcuni particolari. I "nostri" infatti hanno una ricchezza di ornamentazione, di nastrini, di sonagli e di maniglie non riscontrabili sugli strumenti greci. Inoltre i tamburi apuli sono generalmente più grandi di quelli attici cui si può attribuire di solito un diametro 127 di circa 30 cm. contro i 40-50 dei nostri"(p. 111). Specificamente a proposito della raffigurazione precedente si osserva che essa, risalente al IV sec. a. C., rappresenta una scena di culto dionisiaco: "Vi sono raffigurati una menade e un satiro con due tamburi a cornice simili. Lo strumento, in rapporto alla taglia dei personaggi, può avere una dimensione congetturale di circa 40-50 cm. di diametro... La decorazione della membrana è molto semplice essendo costituita da puntini disposti a circonferenza. Questo motivo decorativo è ricorrente: a volte si presenta più complesso, ma generalmente i motivi geometrici seguono schemi concentrici, partendo dal centro della pelle e assecondando la forma dello strumento. Sulla cornice si possono vedere dei punti che probabilmente indicano i chiodi che fissavano la pelle al telaio. Questi tamburi sono forniti, sulla fascia della cornice, di dischetti bianchi che rappresentano sonagli, forse di metallo" (p. 112). Interessante a questo proposito il fatto che talora venivano applicate alla cornice con una cordicella delle sferette di legno che percuotevano la pelle ruotando l'avambraccio (p. 113). Si tratta di un dettaglio ancora oggi presente in tamburelli d'uso popolare. 128 1.4. L'organo idraulico Hydraulis L'organo idraulico - hydraulis - non entra nelle nostre considerazioni per una problematica propriamente musicale, perché non sembra aver rilevanza nell'ambito della musica greca e tanto meno in quello della sua teoria. Ma vi è entra per una problematica generale di grande interesse, dal momento che è forse il primo esempio conosciuto di strumento "meccanico". Esso viene descritto dal matematico greco alessandrino Erone, vissuto tra il II e il I sec. a. C. (ma vi è chi sposta la data di vita nel I sec. d. C. e forse oltre) e dall'architetto romano Vitruvio (I sec. a. C.). Ma va fatto in primo luogo il nome di Ctesibio di Alessandria, personaggio vissuto probabilmente nel III sec. a. C., al quale sembra si debba il progetto pià antico, ma di cui non si sa praticamente nulla. Ciò che ha tenuto per lungo tempo nascoste o trascurate le testimonianze sulla presenza di questo strumento e il suo impiego è un fatto filologico. La parola organon in greco è una parola molto comune per indicare uno strumento in genere. In questo modo la usava ancora S. Agostino. Ciò poteva generare svariati equivoci. L'organo ideato da Ctesibio era uno strumento assai particolare e nuovo. Esso aveva una peculiarità: utilizzava l'acqua per regolare la pressione dell'aria, immessa, come nei moderni organi, attraverso mantici. Compare perciò il riferimento all'acqua che sconcertava gli interpreti. Così incontrando espressioni che in qualche modo alludevano ad organi idraulici, si parlava 129 genericamente di strumenti ad acqua senza naturalmente sapere di che cosa si potesse trattare. I progetti di solito attribuiti a Ctesibio vennero ripresi da Erone, famoso matematico e inventore di congegni meccanici, e di cui è rimasta l'opera intitolata Pneumatica. Erone in una traduzione tedesca della Pneumatica (1688) Qual è l'origine dell'invenzione di Ctesibio? È abbastanza naturale pensare che egli arrivò a concepire l'organo guardando le piccole canne di un flauto di Pan. 130 Ma le guardò secondo una diversa angolatura. Sembra poco, ma ciò basta a stabilire differenze straordinarie. Le grandi invenzioni spesso sorgono semplicemente così. Qualcosa che si è sempre vista, viene colta da un punto di vista nuovo. Il cambiamento di punto di vista nei confronti di un oggetto è un modo tipico di operare dell'immaginazione creativa, e lo è in particolare nell'ambito della scienza e della tecnica. Forse era possibile immettere aria nelle canne secondo un metodo meccanico. Secondo il progetto di Ctesibio nella versione di Erone il mantice spinge l'aria dentro un invaso a forma di campana che riceve acqua da fori praticati alla sua base (la campana può essere anche sollevata dal fondo) e nel ristabilire l'equilibrio l'aria insuflata viene sospinta verso le canne i cui fori a loro volta potevano variamente venire aperti o chiusi. In particolare la funzione dell'acquaera quella di mantenere costante la pressione dell'aria in modo da evitare salti di ottava nell'intonazione. 131 La versione di Vitruvio (fig. sotto) è un poco più complessa ma i principi di base sono gli stessi (una precisa e dettagliata spiegazione di entrambi i sistemi la si può trovare in Moretti, 1998, p. 21 sgg.). Per quanto riguarda la documentazione iconografica greca, essa è assai scarsa, se non inesistente. Esiste in ogni caso una notevole epigrafe a Delfi che risale al 90 a. C. nella quale si premia Antipatro di Eleuterna, suonatore di Hydraulis, come vincitore di una gara e se ne tesse l'elogio. In essa si legge che Antipatro "gareggiò due giorni e si coprì di gloria in maniera straordinaria, degna del dio Apollo e della città di Eleuterna quanto della nostra, e per questo motivo fu incoronato vincitore della gara" (Moretti, p. 39, che riporta l'epigrafe per intero). Ciò dimostra a sufficienza della diffusione dello strumento in Grecia almeno in quell'epoca. Molto presente e documentata è invece la presenza dello strumento in ambiente romano sia da documentazioni letterarie sia da reperti archeologici. 132 Una ricostruzione moderna dell'Hydraulis venne fatta da F. W. Galpin verso la fine del sec. XIX (Williams, 1916, p. 246-7). Visione laterale della ricostruzione di Galpin 133 Visione da retro. In basso, il serbatoio dell'acqua. 134 La spiegazione più naturale per il nome non è soltanto il richiamo all'acqua, ma anche all'aulos. Mathiesen tuttavia, che ha dedicato all'organo idraulico alcune pagine molto accurate, osserva che "è molto più verosimile che il termine hydraulis derivi da hudor (acqua) e aulé (camera), piuttosto che la più comunemente accettata composizione di hudor e aulos" aulos (Mathiesen, 1999, p. 226). Si ignora infine se le canne fossero munite di ancia o no. Per quanto riguarda il modo del suo impiego occorre tener presente che questo strumento era probabilmente in grado di emettere un suono più potente di ogni altro, sia per il numero delle canne sia per l'uso dei mantici il cui numero poteva essere aumentato con un corrispondente aumento della potenza. L'elogio dello strumento per la sua potenza è presente in un trattato greco sull'hydraulis andato perduto ma di cui sono rimasti frammenti della sua versione araba, su cui si riferisce in un testo di Tannery (1908): "I greci portavano con loro questo strumento nelle guerre, perché il loro paese era attorniato da nemici da ogni lato e quando avevano bisogno di avvertire i loro compagni per far venire la cavalleria e le riserve o per avvertire gli abitanti della città o di una qualunque regione, essi si servivano di questo strumento, cioè del grande organo, che era soprannominato strumento dalla voce potente e risonante, perché il suono poteva arrivare a sessanta miglia" (Tannery,1908, p.333. L'appendice da cui è tratta questa citazione è di Carra Devaux). Lo stesso autore presenta anche una diversa versione dell'organo con degli otri di pelle come sacche per il contenimento dell'aria che viene insuflata nell'acqua della campana cosicché risulta forse ancora più evidente il ricordo della "zampogna". 135 Per la potenza del suono che esso poteva sviluppare, a parte l'impiego guerresco, che, a dire il vero sembra un poco improbabile, esso era utilizzato soprattutto all'aria aperta, nelle feste e nei circhi anche se sembra che a poco a poco si sia imposto in ambiti privati. Il suo uso più frequente era in ogni caso destinato alle gare ed ai giochi. In particolare esso apriva le Naumachie e ne accompagnava lo svolgimento. Singolare inizio per uno strumento le cui sonorità erano destinate in futuro a diventare emblematiche della spiritualità religiosa! "Questo strumento dalle umili origini non solo divenne straordinariamente popolare, ma fu per secoli una fonte di ammirazione e di stupore per la gente poco istruita. Il suono potente, il misterioso borbottio dell'acqua, gli sforzi degli schiavi che erano obbligati a pompare con tutta la loro forza per fornire l'aria in quantità sufficiente, tutto giocava ad attrarre l'attenzione. Era impiegato in giochi pubblici, formando parte dell'intrattenimento 136 festivo; trovò una via verso le case private; ed in un caso almeno prendeva il posto della tromba dando il segnale per l'inizio delle brutali Naumachie o battaglie navali che erano la delizia del popolino romano. Le Naumachie si svolgevano in anfiteatri le cui arene venivano per l'occasione riempite di acqua. Le navi erano manovrate da criminali e prigionieri di guerra, che continuavano a combattere finché l'ultimo l'uomo della parte avversa non fosse stato ucciso; la carneficina era maggiore di quella che avveniva nei combattimenti dei gladiatori" (Williams, 1916, pp. 3-4). Un piccolo organo casalingo è probabilmente rappresentato dai resti in bronzo ritrovati a Pompei e rappresentati nel disegno. Dallo schema risulta il numero di canne, il fatto che i suoni gravi erano sulla destra, la lunghezza di soli 40 cm. A sinistra in basso probabilmente imboccature per l'insuflazione. 137 Nella Pneumatica di Erone vi sono anche alcuni altri progetti, che pur non riguardando direttamente strumenti musicali, propongono l'uso dei principi che stanno alla base dell'organo idraulico per produrre suoni (figure tratte da Erone, 1851). Ecco la fontana che, quando versa acqua, fa "cantare" l'uccellino sul ramo e, precisa Erone, la qualità dei suoni può variare secondo le proporzioni del tubo che viene dissimulato nel tronco dell'arboscello - e puoi dunque anche disporre diversi uccelli con zufoli differenti (cap. 14: "Un uccello che zufola quando l'acqua fluisce"). Un caso un po' più complesso del precedente: l'acqua sgorga permanentemente dal fontanile, ma con un serie di sifoni e di pesi si fa in modo che il gufo in cima alla colonnetta "si rivolga verso gli uccelli apparentemente con il loro accordo e poi nuovamente si distolga da essi; e quando il gufo guarda altrove, gli uccelli cantano, quando invece li guarda essi tacciono". 138 E in questo modo possiamo udire il suono di una tromba quando apriamo la porta del tempio (cap. 17) Il problema degli automatismi e dei meccanismi sonori rimase per molto tempo una curiosità di abili artigiani, ed ebbe i ogni caso un periodo di autentica fioritura nel secolo XVII e XVIII. Rammentiamo almeno che nello straordinario trattato di Kircher, Musurgia univer universalis, Roma 1650, Tomo II, la sezione V del libro IX è intitolata "De omnis generis Instrumentis Musicis Automatis sive Autophonis". In essa si descrivono degli straordinari Machinamenta musicali, meccanismi complessi che usano aria, acqua, fuoco, vento, ruote dentate, pesi e contrappesi ecc. per produrre suoni. In realtà Kircher, autore genialissimo e ricco di interessi, la cui opera monumentale è veramente difficile da dominare, punta in particolare all'esecuzione automatica di brani musicali, mediante cilindri dentati che egli chiama "cilindri fonotattici" secondo principi simili a quelli del carillon, ma le sue ambizioni vanno ben oltre il campo di un gioco ingenuo. Egli è interessato all'automatismo musicale in tutti i suoi aspetti, e naturalmente fra i machinamenta di cui egli si occupa vi è l'organo idraulico descritto da Vitruvio. Egli trova in ogni caso la macchina di Vitruvio "obscure descripta" e si accinge a darne una propria versione monumentale (p. 332). Come funzioni questo machinamentum mi piacerebbe che qualcun altro me lo spiegasse nel dettaglio. In ogni caso il mio lettore potrà confrontarlo con gli antichi schemi di Ctesibio e di Vitruvio e forse noterà subito elementi comuni che rimandano a principi comuni. L'omino appollaiato lassù aziona due leve, e vi sono persino i delfini che appaiono in Vitruvio, oltre che i cilindri compressori: dell' arca aerea e della vasca d'acqua conosciamo già la funzione. 139 140 Organo idraulico secondo Kircher. 141 2. Gli strumenti musicali e l'immaginazione mitica 142 2.1. Premessa 2.2 Dioniso 2.2.1 Le menadi 2.2.2 I satiri 2.2.3 La vendemmia di Dioniso 2.3. Apollo 2.3.1 Dionisiaco e apollineo in Nietzsche 2.3.2 Il canto dell'Olimpo 2.3.3 Apollo musagete 2.3.4 Nascita di Apollo 2.3.5 La cetra e l'arco 2.3. 6 Apollo e il pitone 2.3.7 I lati oscuri di Apollo 143 2.4. L'invenzione dell'aulos e della lira 2.4.1 Ermes 2.4.2 Atena 2.5 Marsia ovvero la barbarie di Apollo 2.6 Il mondo del dio Pan 2.6.1 I fauni e le ninfe 2.6.2. Il dio Pan 2.6.3 Storia di Siringa 2.6.4 Storia di re Mida 2.7 Orfeo 2.7.1 La lira di Orfeo 2.7.2 La morte di Orfeo Annotazione: la morte di Orfeo secondo Picasso 144 2.1 Premessa Nello sfogliare le prime pagine di questo nostro album forse ci si sarà chiesti se vi sia una qualche ragione di ordine generale per indugiare sugli strumenti greci, entrando anche in qualche dettaglio di ordine tecnico, in un'esposizione che ha di mira aspetti eminentemente teorici relativi alla musica greca. In effetti, pur assolvendo un indispensabile compito sommariamente informativo - nei testi specializzati si troveranno spiegazioni più dettagliate - , la nostra intenzione è stata quella di preparare il terreno ad una discussione che, partendo dagli strumenti e dalle loro peculiarità, arrivi ad integrarsi pienamente in una dialettica spirituale che riguarda la musica, ma che ha le sue radici negli orientamenti profondi della cultura greca. In particolare abbiamo parlato dell'aulos e della cetra, come rappresentanti di due classi di strumenti - strumenti a corda/strumenti a fiato: cordofoni e aerofoni: si tratta di una tipologia di strumenti che, in forme più o meno elementari, si trovano in tutte le culture musicali. Dobbiamo tuttavia subito sottolineare, proprio in vista di una discussione più ampia, che questa distinzione riferita alla musica greca non deve essere considerata come una pura distinzione di fatto, nel quadro di una problematica di classificazione descrittiva. Essa rappresenta invece un vero e proprio punto di addensamento di significati. Le differenze di qualità sonora, i differenti modi di emissione di suono, i risultati uditivi percepiti sono latentemente ricchi di senso, di inclinazioni immaginative che possono essere attualizzate e giocate in vari modi nelle diverse culture musicali. Si pensi pure al nostro flauto o all'oboe: l'uno e l'altro hanno certo in comune una sonorità sinuosa, curvilinea, insinuante, seducente che sembra voler raggiungere il nostro corpo e avvolgerci in una sorta di fluente spirale. Il suono di questi strumenti può essere posto sotto il segno dell'acqua; ed anche del vento che fa stormire le foglie, che sussurra tra di esse, oppure che fa inclinare qui e là le canne di un canneto. Cosicché esso si può associare ai sentimenti più solitari e intimi, alle struggenti malinconie. Ma anche alla danza più morbida e sensuale e addirittura alle travolgenti ritmiche degli strumenti percussivi, legandosi così ad una danza che non è 145 più solo sensualmente allusiva, ma che esibisce senza ritegni uno sfrenato erotismo. Ma non possono far tutto questo anche gli strumenti a corda? Sì, lo possono. Ma resta in ogni caso la differenza basilare nella qualità timbrica. Di fronte al suono acquoreo, fluido, capace di scivolare mollemente come l'acqua di un ruscello o di oscillare dolcemente come una canna alla brezza della sera vi è invece il suono secco, nel senso letterale e immaginativo del termine, della lira o della cetra - quel secco che si contrappone all'umido di cui parlava Eraclito come una distinzione filosoficamente importante. Lo strumento a corda parla un linguaggio univoco, la sua accordatura in via di principio è compiuta una volta per tutte, e, se suonato in un certo modo, il suono si incide nell'aria come un coltello che scava su una pietra e lascia una precisa traccia. La melodia non scivola via, ma delinea un disegno accuratamente punteggiato, che può avere l'ordine e la perfezione di una figura geometrica. Naturalmente anche lo strumento a corda, proprio per la sua incisività, potrà essere particolarmente adatto a stabilire i ritmi su cui modellare, nella danza, la gestualità corporea. Anch'esso potrà collaborare con gli strumenti percussivi e con i fiati a creare ridde danzanti. Non solo: gli strumenti a corda possono essere suonati in tutt'altro modo! Si pensi ai suoni glissati che possono essere realizzati con il qin cinese oppure con il sitar indiano. Non vi è dubbio. Ogni cultura musicale sceglie le timbriche che sono ad essa congeniali e le pratica secondo gli scopi immanenti ai suoi progetti espressivi. Parlando della musica greca e dell'atteggiamento spirituale che sta alla sua base dobbiamo mettere in evidenza fin dall'inizio la presenza di una dialettica che gioca proprio su queste distinzioni e contrapposizioni di senso, sui loro intrecci e sulle loro possibili sovrapposizioni ed ambiguità. Per illustrare tutto ciò non abbiamo bisogno di affidarci alle nostre personali fantasie intorno alle qualità timbriche degli strumenti, ma metterci in ascolto delle storie che, a partire da esse, ci racconta l'immaginazione mitica. 146 2.2 Dioniso 2.2.1 Le menadi 2.2.2 I satiri 2.2.3 La vendemmia di Dioniso Dioniso e Semele Dioniso e una menade 147 I compagni di Dioniso sono le menadi e i satiri. La musica lo segue ovunque - e lo strumento privilegiato di Dioniso è l'aulos. Anche il barbitos compare spesso associato a Dioniso come strumento legato alla festa ed alla danza. 148 Segni distintivi di Dioniso sono la coppa di vino (kantaros) e il tirso - lungo bastone a cui sono talvolta attorcigliati dei pampini e che termina con una pigna. 149 È difficile dubitare dell'importanza dell'aulos per l'atteggiamento musicale dei Greci. Eppure laddove questo strumento si prospetta nell'orizzonte del mito, esso viene subito connotato, per un verso o per l'altro, come uno strumento frigio - quindi come uno strumento la cui origine si trova forse al di là dei confini della Grecia, alle porte dell'Oriente. È la terra in cui nei poemi omerici veniva localizzata Troia. Essi contengono la memoria di un conflitto storico di grandi proporzioni, di una lunga guerra leggendaria - quei poemi raccontano che i popoli e le città della Grecia continentale si unirono contro un nemico comune. Ma chi sono i suoi abitanti? Troia era in terra frigia, in Asia minore. È possibile naturalmente che i frigi fossero una delle popolazioni originarie di queste zone che vennero poi occupate non sempre pacificamente da popolazioni di provenienza dal continente; ma non c'è dubbio anche che ci fu simbiosi tra le popolazioni e che tutta la costa dell'Asia Minore sul mar Egeo e naturalmente le isole e le popolazioni delle isole finirono con il formare un'unità culturale. E tuttavia la Frigia è una terra ad un tempo vicina e lontana - dai contorni tendenzialmente indeterminati. Come la Tracia del resto, che sta appena oltre lo stretto del Bosforo, presso la Frigia. La geografia reale della Grecia antica è accompagnata anche da una sorta di sottofondo di geografia immaginaria, i cui luoghi si situano prevalentemente nelle regioni che in qualche modo hanno carattere di confine. 150 L'aulos ha un'origine frigia? Non lo sappiamo. Ma è certo che immaginativamente esso apparteneva a quella regione: non alla Grecia "vera e propria", ma ai margini della Grecia. E donde viene il dio Dioniso - un dio che è tanto difficile situare nell'Olimpo greco quanto escluderlo da esso - il dio ebbro, il dio dell'istintualità sfrenata? Il dio danzante accompagnato da un corteo di danzatori e danzatrici? Forse egli viene dalla Tracia, regione remota, prossima alla Frigia , forse dalla Lidia - sempre in Asia Minore poco a Sud della Frigia - forse dalla Frigia stessa (cfr. Colli, 1990, p. 55). Così canta il coro all'inizio delle Baccanti di Euripide: Andate, andate, Baccanti, riconducete dai monti di Frigia alle ampie contrade dell'Ellade, Dioniso, il figlio di un dio... Il padre di Dioniso è Zeus in persona, la madre è Semele "identica, probabilmente,al-la dea frigia Zemelo, cioè la Terra... In varie città greche si celebrava il ritorno di Semele dagli Inferi; ella era dunque in parte simile ad una dea preellenica, Persefone. È inutile dire che Dioniso e Semele sono spesso associati nel culto" (Cassola, 1994, p. 7) Moreau Zeus e Semele 151 2.2.1 Le menadi Bacco non è una variante latina di Dioniso, ma un appellativo greco del dio che deriva dal verbo baccao che significa strepitare, agitarsi violentemente: danza, certo, ma anche invasamento. Intorno a Bacco si suona, si danza, e certo si fanno anche abbondanti libagioni. E si cade in trance. Satiri e menadi (baccanti) sono gli attori di principali. Come Dioniso stesso, anch'essi spesso portano il tirso, il kantaros o il corno potorio e suonano l'aulos o altri strumenti. 152 Menadi - Copia romana del II sec. d. C. di originale greco del V sec. a. C. 153 Benché nelle rappresentazioni la forma del dio sia umana, qualcosa di animalesco gli sta intorno se Euripide, nelle Baccanti, lo appella come "dio dalle corna di toro" e narra che Zeus, quando lo generò, lo inghirlandò con serti di serpenti; e con serpenti, preda selvaggia di caccia, intrecciano ora le chiome le menadi. Si comprende allora il fatto che le menadi abbiano una particolare confidenza con i serpenti e che questi si associno ad esse nella danza, oppure vengano offerti dalle menadi a Dioniso stesso. Il serpente, come sappiamo, appartiene al mondo ctonio a cui appartiene anche Semele. 154 2.2.3 I satiri Talvolta si parla indifferentemente di satiri e sileni, fauni. In realtà questi nomi diversi indicano figure mitiche che non dovrebbero essere confuse tra loro e che hanno storie e origini diverse. Il fauno deve essere ricollegato anzitutto al dio Pan; e sileno è un nome generico spesso utilizzato come sinomimo di satiro, che deriva in certo senso da una "pluralizzazione" della figura di Sileno - vecchio satiro ubriacone, legato a Dioniso in quanto suo maestro - che viene spesso rappresentato su un asinello. Il tratto comune è il fatto che essi indicano divinità silvane, con tratti animaleschi più o meno pronunciati. Tra essi il compagno primario di Dioniso è il satiro, questa straordinaria invenzione della fantasia ellenica: selvatico e talora violento, ma anche divertente e giocoso, e persino affettuoso. Il satiro ha in realtà in generale un corpo ma- 155 schile, e solo una lunga coda e le orecchie appuntite denunciano l'intreccio con l'animalità, di cui certo è vitale espressione la sua sensualità debordante. Il satiro ha conservato tutti i tratti della sensualità precristiana, tanto che il cristianesimo, con la sua accannita sessuofobia, non a caso lo ha trasformato, insieme a fauni e sileni, in immagini del demoniaco. Ed invece questi satiri inquieti, gof goffamente saltellanti, capaci di danzare talora spudoratamente talora elegantemente, spesso scherzosi, amanti di frizzi e lazzi, che rincorrono le loro menadi o si avvicinano ad esse con passi furtivi, ricevendo in cambio la mazzata del tirso, che portano sulle spalle i loro otri da impenitenti bevitori, per non dire della loro vocazione musicale, non possono non apparirci come immagini di esuberanza di tempi che sono diventati - ahimé! - troppo remoti. 156 157 158 Il baccanale è rituale e festa insieme. Satiri e menadi saltano, giocano, ballano, celebrano i riti della natura. E suonano. L'aulos soprattutto è onnipresente. Ed è l'aulos soprattutto, così sostiene Rouget commentando Platone, a mettere in moto i meccanismi della trance (Rouget, 1986, p. 291 sgg.): l'elemento melodico, dunque, piuttosto che quello ritmico. In ogni caso, nelle feste dionisiache non potevano certo mancare le percussioni, e in particolari i timpani di cui Dioniso, nelle Baccanti di Euripide, rivendica l'invenzione insieme ai Coribanti, sacerdoti di Rea (divinità della terra), anch'essi figure della danza bacchica: ...i Coribanti dagli elmi tricuspidi per me inventarono questo cerchio di legno ricoperto di pelle ben tesa; e nell'acceso baccanale ardente fusero le sue cadenze al melodioso respiro degli auloi di Frigia Ed ancora, poco oltre, nello stesso testo: Cantate Dioniso al suono profondo dei timpani, celebrate con inni di gioia il dio della gioia, tra voci e clamori di Frigia, quando l'aulos sacro diffonde sonoro sacre melodie. In uno straordinario frammento di Eschilo (fr. 71, Colli, 1990, p. 53) 159 una festa dionisiaca viene descritta in termini di sonorità che potrebbero anche essere inattese. L'uno tiene nelle mani flauti dal suono profondo, lavorati col tornio, e riempie tutta una melodia strappata con le dita, un richiamo minaccioso suscitatore di follia; un altro fa risuonare cimbali cinti di bronzo ...... alto si leva il suono della cetra: da qualche luogo segreto mugghiano in risposta terrificanti imitatori dalla voce taurina, e la parvenza sonora di un timpano, come di un tuono sotterraneo, si propaga con oppressione tremenda In realtà, questi pochi versi ci insegnano qualcosa di importante proprio sulle sonorità greche. Forse richiedono qualche precisazione aggiuntiva. Qui si parla di flauti: nell'originale compare il termine Bombyx che si ricollega al verbo bombeo che significa "risuonare cupamente" ed al nome bombos che indica un suono basso e profondo. Credo che l'origine onomatopeica di queste parole, rimasta anche nell'italiano rimbombare, sia innegabile. È assai probabile che si tratti di un bombaulos - ovvero di un aulos di canna molto grossa e di timbro scurissimo, come nei magnifici flauti bassi indiani. West osserva che in ogni caso l'aulos doveva avere un suono piuttosto penetrante perché riusciva a tenere testa ad un coro di cinquanta uomini e che Aristofane paragona il suo suono ad un ronzio di vespe. "Il ronzio (bombos, bombyx) è associato in particolare con le note gravi. Vi era in effetti un modo particolare di suonare... per produrre questo effetto"(West, p. 105). Anche Rouget sottolinea la potenza sonora dell'aulos: "Strumento popolare, legato nel contempo alla trance, al teatro, al vizio, alla guerra ed ai riti agresti, è così che appare l'aulos. Il meno che si possa dire è che il suo uso era poco esclusivo. Per quanto riguarda timbro e sonorità si può, senza timore di errare, asserire che erano, come in tutto il bacino del Mediterraneo, assordanti e penetranti. Le pitture mostrano gli auleti che soffiano nei loro strumenti, gonfiando le guance o addirittura tenendole piatte, segno che si pratica, com'è quasi d'obbligo per questo strumento, la respirazione circolare, che consente di suonare senza riprendere fiato e dunque senza interruzione. Suonati, diciamo alla mediterranea, il clarinetto 160 doppio o l'oboe hanno intonazioni veementi, un suono forte e roco, un'intensità emozionale tanto più grande in quanto lo strumento può suonare più ore senza interruzione" (1986,p. 295). Il termine cimbalo traduce kotule - e lo traduce correttamente perché il termine indica una cavità, nel senso del latino catinus. In ogni caso si tratta di un termine del tutto adatto a indicare anche i cimbali. Forse è invece un poco impropria la traduzione "cinti di bronzo", che varrebbe invece per i tamburelli, mentre per i cimbali basterebbe dire "bronzei". Insieme a questo suono metallico si unisce il suono del timpano che è invece uno strumento in pelle. La parola cetra o una sua variante non si trova nel testo. In esso vi è il termine psalmos che in ogni caso sembra potersi riferire ad uno strumento a corda, anche senza preciso riferimento ad una lira o ad una cetra. I "terrificanti imitatori dalla voce taurina" - e il toro è un altro simbolo di Dioniso - potrebbero essere trombe greche il cui suono viene definito altrove dallo stesso Eschilo "urlanti". Lo strumento corrispondente che i latini chiamavano tuba viene descritto con aggettivi come horribilis, raucus, rudis, terribilis. Il "richiamo minaccioso suscitatore di follia" allude certamente all'induzione dell'invasamento, alla trance indotta dalla danza. 161 È soprattutto dai baccanali che l'aulos ha ricevuto, presso i filosofi severi come Platone ed Aristotele, una fama non troppo buona che ha finito in parte per comunicarsi anche ad uno strumento a corda come il barbitos. Nel seguente dipinto Oreste uccide Egisto cogliendolo mentre sta suonando il barbitos - lo strumento è certamente qui in mani assassine. Ci si è interrogati sulle ragioni di questa rappresentazione dal momento non risultano fonti letterarie per giustificarla. Ma la ragione effettiva - come osserva Bundrick - sta nel fatto che "il barbitos implica lussuria, vanitosità e rilassatezza. Il corpo ben pasciuto di Egisto, la lunga barba e lo strumento musicale contrastano duramente con la figura di Oreste che brandisce la spada, che è vestito come un soldato ateniese con corsetto, elmo in stile attico e ginocchiere" (2005, p. 23). 162 2.2.4 La vendemmia di Dioniso A Dioniso, e del resto persino anche alle menadi ed ai satiri, non è associato solo l'elemento orgiastico. E nemmeno egli è solo il "dio della gioia". È il dio che associa l'umido (il vino) al secco della terra, e quindi insieme a "Demetra ossia la terra (chiamala così se vuoi)", Dioniso ha trovato "un corrispettivo, l'umido succo della vite, e lo ha introdotto tra i mortali": queste, dice Tiresia nelle Baccanti, sono le "due cose essenziali al mondo". Esse simbolizzano la possibilità del nutrimento, e quindi della vita stessa. 163 Menadi e satiri vendemmiatori: a lato una menade danza e ritma il tempo con i crotali mentre il satiro suona l'aulos. Si può notare come la stilizzazione del tralcio della vite la si ritrova spesso come una sorta di allusione simbolica, indipendentemente dalla descrizione pittorica della vendemmia. 164 Il vino feconda la terra. Le immagini che associano Dioniso e i satiri alla vendemmia sono numerosissime, e si tratta di immagini di serenità e di vita campestre. Spesso un satiro auleta si aggira tra le viti del vigneto. Le Menadi, che spesso fuggono di fronte alle bramosie vitali dei satiri oppure che li osteggiano minacciandoli con il tirso, sono loro compagne mentre raccolgono l'uva a grappoli. Le Menadi stesse, la cui ferocia è stata spesso raccontata, in realtà sono anche le pacifiche custodi della fecondità della terra. A questo aspetto dà voce, nella fantasia euripidea, lo straordinario racconto del pastore che narra, nelle Baccanti, il risveglio delle Menadi nel bosco: "Ed esse, scacciando dagli occhi il profondo torpore, si rizzarono in piedi, in uno spettacolo di compostezza incredibile, vecchie, giovani, e vergini ignare di nozze. Cominciarono a sciogliersi i capelli sulle spalle, a stringere i lacci allentati delle pelli che indossavano, a farsi cinture, per i velli screziati, con serpenti che ne lambivano le guance. Alcune, tenendo fra le braccia un cerbiatto o dei lupacchiotti selvaggi, gli offrivano il dolce latte: erano da poco madri, avevano abbandonato i figli, e le mammelle erano ancora turgide, alte si inghir inghirlandavano con corone di edera, di quercia, di smilace fiorita. Una di esse, afferrato il tirso, lo batté sulla pietra e subito erompe una fresca sorgente d'acqua, un'altra pianta il bastone e di là il dio fece sgorgare una polla di vino. Baccanti, prese dal desiderio della candida bevanda grattavano il suolo con la punta delle dita e zampillavano fiotti di latte: rivoli di miele squisito stillavano dai tirsi avvolti di edera". Menade che sorride ad un coniglietto selvatico 165 2.3 Apollo 2.3.1 Dionisiaco e apollineo in Nietzsche 2.3.2 Il canto dell'Olimpo 2.3.3 Apollo musagete 2.3.4 Nascita di Apollo 2.3.5.La cetra e l'arco 2.3. 6 Apollo e il pitone 2.3.7 I lati oscuri di Apollo 166 Se ricolleghiamo l'aulos e gli strumenti a fiato in genere a Dioniso, sullo sfondo della lira e della cetra e degli strumenti affini vi è certamente Apollo. Dio bellissimo tra gli dei, il dio "luminoso", dall'arco "raggiante", che già alla nascita viene avvolto da "nastri d'oro" (Inni omerici, III, Ad Apollo, p. 109). 2.3.1 Dionisiaco e apollineo in Nietzsche Questa relazione/opposizione è stata del resto preannunciata quando abbiamo contrapposto il suono acquoreo degli auloi alla nettezza "analitica" dello strumento a corda. Ma non bisogna subito trasformare tutto ciò in una pura ovvietà, e nemmeno correre troppo presto alla contrapposizione tra dionisiaco e apollineo nel senso in cui essa si presenta nella Nascita della tragedia dallo spirito della musica di Nietzsche. Questa contrapposizione è naturalmente presente. Dioniso appartiene al mondo ctonio, della notte e della terra, egli è portatore di una ebbrezza che sconvolge la mente. Apollo è luce, solarità, ragione. 167 168 Questo testo pose l'accento sul dualismo presente nella spiritualità greca, mettendo in crisi una visione, è il caso di dire,"classicistica" della classicità, una visione che, come si esprime lo stesso Nietzsche, "sopravvissuta per secoli intorno all'antichità greca che persistette con invincibile tenacia a vederla tinta di quella serenità di color rosa, quasi che non fosse mai esistito un sesto secolo con la sua nascita della tragedia, coi suoi misteri, col suo Pitagora e il suo Eraclito..." (Nietzsche, 1967, p. 109). Il richiamo al dionisiaco in Nietzsche è il richiamo ad un elemento difficile da ridurre entro lo schema di una spiritualità rasserenata, dominata dalla elemento luminoso e razionale. Questo tema venne poi elaborato a fondo dagli studiosi che mostrarono sempre meglio la presenza di una conflittualità profonda tra l'elemento che talvolta viene detto pre-ellenico, lo stadio che precede le invasioni achee e doriche, associato spesso ad elementi di presumibile derivazione orientale, e motivi religiosi di provenienza achea e dorica. Tuttavia vi è un problema che invita alla prudenza in rapporto ad un'adozione del punto di vista di Nietzsche: nella Nascita della tragedia agisce in modo determinante proprio in rapporto alla coppia dionisiaco/apollineo una tematica di origine schopenhaueriana che da un lato si rivela ricca di interesse in rapporto alle discussioni d'epoca intorno al teatro musicale, dall'altro fuorvia proprio in rapporto alla problematica musicale greca. In effetti l'elemento musicale è colto unicamente nella polarità dionisiaca in un'applicazione alquanto meccanica della posizione schopenhaueriana. Nella concezione di Nietzsche, Dioniso rappresenta lo spirito della musica proprio in quanto è una figura del mondo come volontà. L'elemento apollineo va invece ricollegato al tema schopenhaueriano della rappresentazione, cosicché in esso trova espressione - di fronte all'interiorità e passionalità della musica - soprattutto l'arte figurativa (Nietzsche, 1967, p. 45). La tragedia nasce dialetticamente dalla sintesi della musica con la spettacolarità. Schema assai seducente e ricco di problemi: ma Nietzsche, ricordandosi troppo di Schopenhauer e facendo di Apollo una figura dello sguardo, ha dimenticato del tutto l'Apollo citaredo. L'unico riferimento alla cetra di Apollo è fortemente svalutativo: si fa notare che la musica "apollinea" è una sorta di maschera della figuratività e le note della cetra non sono che emissioni sonore smorte prive di forza e di vigore: 169 "Se apparentemente la musica era già riconosciuta come un'arte apollinea, vuol dire che essa esattamente intesa, non era tale se non come onda ritmica, la cui forza figurativa venisse sviluppata per produrre stati d'animo apollinei. La musica di Apollo era l'architettura dorica espressa in note, ma in note appena accennate, quali sono proprie della cetra. L'elemento che in essa era evitato con cura, come non apollineo, era appunto quello che forma il carattere della musica dionisiaca e della musica in generale, vale a dire la vigoria scotente del suono, il torrente compatto della melodia e il mondo affatto impareggiabile dell'armonia" (p. 54). Altro non si dice su Apollo Citaredo. Del resto non sono gli strumenti e i loro valori simbolici espressi dall'immaginazione mitica a fare da filo conduttore della tematica di Nietzsche; ed il centro del suo discorso non è nemmeno la "nascita della tragedia greca" quanto la creazione di un'immagine di questa nascita in funzione dell'immagine della sua rinascita nell'opera wagneriana. Certo, egli ha l'intuizione importante dell'elemento dionisiaco soggiacente nella spiritualità greca: il "greco apollineo" guarda con stupore nel mondo di Dioniso "con uno stupore che era tanto più cupo, in quanto vi si mescolava l'orrore del presentimento, che pure tutto ciò in fondo non gli fosse interamente estraneo; che anzi la sua coscienza apollinea non fosse altro, in fondo, che un velo steso a celargli quel mondo dionisiaco" (p. 55). Ma anche questa intuizione, piuttosto che una riflessione sulla musica, è in realtà un riflesso degli elementi della metafisica di Schopenhauer. Non può essere che così: il mondo della rappresentazione nasconde, come il velo di Maia a cui si fa esplitico riferimento nel passo citato, il fondo dionisiaco che appartiene all'essenza del reale (la volontà). Ha ragione dunque Giorgio Colli che sottolinea, pur senza far riferimento alla musica, che "Nietzsche tiene presente solo la polarità tra Apollo e Dioniso, ne ignora l'unità: al massimo parla dello scaricarsi del dionisiaco nell'apolli- 170 neo, della conciliazione, della pacificazione tra Apollo e Dioniso..." (Colli, 1990, p. 38). 2.3.2 Il canto dell'Olimpo Dice Ateneo, un autore del tardo ellenismo: "La sapienza antica dei Greci sembra essere legata soprattutto alla musica - E per questo giudicavano che il più musicale e il più sapiente fra gli dèi fosse Apollo, e fra i semidei Orfeo" (Colli, 1990, p. 89). Abbiamo già notato che la lira è destinata sempre più ad essere associata ad Apollo, forse per via della sua diffusione e popolarità, ma in realtà lo strumento che conferisce maestà a colui che la suona è la grande cetra, impreziosita di fregi, che solo autentici professionisti dello strumento potevano dominare. Una sorta di apoteosi di Apollo Citaredo la troviamo nell'inno omerico ad Apollo. Questo inno è distinto in due parti, probabilmente dovute ad autori differenti, ed è dedicato alla fondazione di due templi di Apollo la cui storia, grandezza e decadenza è di grandissimo interesse da vari punti di vista. Si tratta del tempio di Delo, una piccola isola delle Cicladi, a cui viene dedicata la prima parte dell'inno e del tempio di Delfi nella Grecia continentale a cui è dedicata la seconda parte. Tempio di Apollo a Delfi 171 172 I versi con cui si apre la seconda parte descrivono l'ascesa di Apollo all'Olimpo dopo la fondazione del tempio. Si tratta di una descrizione che è da capo a fondo attraversata da elementi che chiamano in causa la musica e la danza (Inni omerici, 1994, pp. 124-5). Muove il figlio della gloriosa Leto, suonando la concava cetra (phorminx) verso Pito (= Delfi) rupestre; indossa vesti immortali, odorose d'incenso; e la sua cetra, sotto il plettro d'oro, dà un suono meraviglioso. Di là verso l'Olimpo, dalla terra, veloce come il pensiero muove alla dimora di Zeus, al consesso degli altri dei; e subito gli immortali hanno a cuore la cetra e il canto. Le Muse, tutte insieme rispondendo con bella voce, cantano gli eterni privilegi degli dei, e le sventure degli uomini, che essi ricevono dagli dei immortali, vivendo inconsapevoli e inermi; e non possono trovare rimedio contro la morte, e difesa contro la vecchiaia. Intanto le Grazie dalle belle trecce, e le Ore serene, e Armonia, ed Ebe, e la figlia di Zeus, Afrodite, danzano, tenendosi l'una all'altra per mano; e fra loro canta, non certo indegna, né inferiore alle altre, anzi maestosa a vedersi, e stupenda nella figura, Artemide arciera, che fu nutrita con Apollo. Fra loro Ares e l'uccisore di Argo, dall'acuto sguardo, danzano, e Febo Apollo suona la cetra procedendo agilmente, a grandi passi: intorno a lui è una luce fulgente, balenano lampi dai calzari e dalla tunica ben tessuta. Si rallegrano nel nobile cuore Leto dalle trecce d'oro e il saggio Zeus, vedendo il figlio danzare tra gli dei immortali. 173 L'elemento musicale è ovunque dominante, ed è strettamente associato alla danza. Si tratta tuttavia di una danza di dei, di esseri divini - nulla di più lontano dai satiri e dalle menadi di Dioniso. Danzano le grandi dee, Artemide ed Afrodite, le Ore serene, le Grazie; ed anche Armonia è il nome di una dea danzante.Fra i danzatori troviamo persino Ares, dio della guerra. La danza è associata al canto. Cantano le nove muse, canta la dea dell'arco, Artemide Cacciatrice, sorella gemella di Apollo. "La splendida scena di canto e danza sull'Olimpo mette insieme ciò che si può dividere in due eventi separati: la danza di giovani donne e uomini, e l'esecuzione di un canto da un coro di nove giovani donne. Tutto ciò è guidato dalla cetra di Apollo. La sua esecuzione musicale lega insieme questi eventi: e si tratta della combinazione di testo cantato, musica strumentale e gruppo danzante che i greci chiamavano mousiké...Tutto ciò indica l'alta rilevanza sociale della scena della mousiké olimpica nell'Inno ad Apollo. I danzatori olimpici sono incarnazioni divine di ciò che la società greca arcaica si aspettava che fosse la danza" (Graf, 2008, p. 29-30). Tutto il brano è poi attraversato da bagliori luminosi, dal bagliore dell'oro - che viene dal plettro di Apollo e dalle trecce d'oro di Leto, madre di Apollo; dai bagliori lampeggianti dai calzari e dalla tunica di Apollo che incede a sua volta danzando. 174 2.3.3 Apollo musagete In questo stesso passo dell'Inno omerico troviamo le Muse che rispondono in coro alla cetra di Apollo: "Da Omero a Pindaro (V sec. a. C.), la poesia descrive Apollo che suona sull'Olimpo insieme alle Muse, e l'occasione è sempre una festa. Nel primo libro dell'Iliade, il poeta-cantore descrive un banchetto di dei dove il pasto è accompagnato dalla "bella lira che teneva Apollo, e le Muse cantavano rispondendo ad essa con voce bella (Iliade,I, 1604 sgg.)"" (Graf, 2008,p. 33). Nella prima Ode pitica di Pindaro l'"aurea cetra" viene detta "possesso comune di Apollo e delle Muse dai capelli di viola"(Pindaro, 1820, p.17). Apollo, il coro delle Muse, la cetra stessa formano una sorta di unità mitico-musicale particolarmente forte. Le muse vengono spesso rappresentate con uno strumento a corda fra le mani. 175 Occorre inoltre notare che l'attribuzione a ciascuna musa di un'arte specifica è tarda, mentre nella fase più antica le muse erano divinità della musica intesa come unità tra musica strumentale, canto (poesia) e danza. Non sbaglia dunque il pittore Hendrick Van Balen (XVII sec.) a rappresentare tutte le nove muse mentre sono intente a suonare ciascuna uno strumento musicale, mentre presumibilmente una di esse si sta accingendo a cantare leggendo uno spartito. 2.3.4 Nascita di Apollo Come nel caso di Dioniso, ci posssiamo chiedere donde "proviene"Apollo. Allora la contrapposizione tra le due grandi divinità greche, tende da subito a mostrarsi in qualche modo instabile - come se i poli di questa contrapposizione vivessero l'uno dentro l'altro. Per quanto riguarda gli strumenti e la musica greca va da sé che strumenti a fiato e strumenti a corda si trovassero ovunque insieme - ma l'immaginazione mitico-musicale rende questo incontro controverso. In una storia del mito prendi un dettaglio e ti avvii in una nuova direzione narrativa, di cui puoi intanto godere "laicamente", come pura narrazione. Essa ha dei "motivi" che hanno il loro senso nelle connessioni che essi in se stessi istituiscono. Nell'Inno ome- 176 rico ad Apollo accanto a Zeus vi è Leto (Latona), con le sue belle trecce d'oro. Essa è la madre di Apollo, il cui padre è Zeus stesso. Contro Semele, madre di Dioniso, l'ira di Era si scatenò mediante il fulmine stesso di Zeus che la incenerì. Analogamente, la nota gelosia di Era contrasta le vicende del nascituro Apollo. Questo è l'aspetto novellistico del mito. Ma i motivi che scaturiscono da questa gelosia superano questo lato narrativo e mostrano ragioni particolarmente profonde. Era scaccia Leto dall'Olimpo ordinando alla Terra di negarle ospitalità. Ed è sufficiente questo riferimento alla Terra come possibile riparo capace di proteggere Leto dalle minacce che vengono dall'Olimpo per segnalare in questa maternità di Leto un latente carattere oscuro di Apollo. Il mito racconta ancora delle peregrinazioni di Leto alla ricerca di un luogo in cui partorire - una ricerca che poi diventa la storia dell'origine del tempio di Delo. Perché fu proprio l'isola di Delo ad offrire la temuta ospitalità alla fuggitiva. Ed a Delo, Leto poté partorire i gemelli Artemide e Apollo. Diana Scultori (1547-1612), Leto a Delo 177 Proprio con il racconto di queste peregrinazioni comincia l'Inno omerico ad Apollo (vv. 45-52, p. 111): "... per tanto spazio si aggirò Leto, già dolorante per il parto dell'arciere, chiedendo se una di queste terre volesse offrire una dimora a suo figlio. Ma esse tremavano e temevano molto, né alcuna osava per quanto fosse prospera, ospitare Febo, finché la veneranda Leto giunse a Delo e, interrogandola, le rivolse parole alate: "Delo, vorrai forse essere la dimora di mio figlio, Febo Apollo, e accogliere in te un pingue tempio?" La nascita di Apollo è tutta circondata dai bagliori della luce e dell'oro: "... e il dio balzò fuori alla luce: le dee, tutte insieme, levarono un grido. Allora, o Febo luminoso, le dee ti lavavano in acqua limpida, con mani sacre e pure; ti fasciavano con un candido drappo, sottile, intatto; intorno ti avvolgevano un aureo nastro... ... E Leto era piena di gioia poiché aveva generato un figlio possente, armato di arco... ... e subito Febo Apollo disse alle dee immortali: Siano miei privilegi la cetra e l'arco ricurvo; inoltre, io rivelerò agli uomini l'immutabile volere di Zeus" (vv. 119-132). 178 Leto con Apollo e Artemide 179 2.3.5.La cetra e l'arco Leto andò vagando dolorante per il parto sopravveniente dell'arciere, dice l'inno omerico - e quest'ultima espressione ci può sembrare inizialmente piuttosto misteriosa. Ma poi viene subito chiarita. I "privilegi" che Apollo rivendica per se stesso attraverso la voce del poeta sono la cetra e l'arco. E mentre la cetra è strumento che allieta, l'arco è certamente anzitutto strumento di morte. "Una contradditorietà, non universale come in Dioniso, ma invece ben individuata, emerge anche in Apollo, e si mostra nei suoi due attributi dominanti: l'arco e la lira. Qui sta la precisa doppiezza di Apollo: la faccia benigna ed esaltante accanto a quella terribile e devastante" (Colli, 1990, p. 26). "Gioiosità e terrore appartengono entrambi a questo dio, e sono intimamente connessi. Apollo è il dio della morte improvvisa non meno che dei trasporti della gioia musicale" (Graf, 2008, p. 28). Del resto proprio all'inizio dell'Iliade (1973, I, 43-53) con quell'arco Apollo, massimo dio olimpico che tuttavia protegge i troiani che vivono in terra frigia, vendica l'offesa fatta ad uno dei suoi sacerdoti, Crise, insultato da Agamennone; e la descrizione omerica mostra quanto l'immagine del dio possa subire una trasformazione quando quell'arco entra in azione: "scese giù dalle vette dell'Olimpo profondamente sdegnato, tenendo a tracolla l'arco e la faretra ben chiusa. Tintinnarono i dardi all'omero del dio in collera, al suo primo muoversi: e camminava scuro, pareva la notte. Si collocava allora distante dalle navi e scoccò una freccia: un orrendo ronzio venne dall'arco d'argento" 180 "Camminava scuro" - "pareva la notte": che ciò si dica proprio di Apollo è assai singolare. Ma noi tenderemmo anche a far notare le caratterizzazioni sonore che accompagnano la descrizione: "tintinnarono i dardi" oppure "un orrendo ronzio venne dall'arco d'argento". Il suggerimento, un poco inconsueto, che ci sembra di poter dare è che anche l'arco di Apollo possa in ogni caso avere una valenza musicale, cosa che del resto abbiamo notato per l'arco in genere in rapporto all'arpa. È il caso di ricordare a questo proposito il famoso passo dell'Odissea (1968, vv. 404-410), quando Odisseo, ancora non riconosciuto, prende fra le mani il proprio arco per partecipare alla gara che si concluderà con la strage dei Proci. In quel passo il poeta descrive l'azione di Odisseo con una bella similitudine tra l'arco e la cetra: "Odisseo, dopo che ebbe tastato e riguardato il grande arco da ogni parte - come quando un uomo esperto di cetra e di canto facilmente tende la corda intorno alla chiavetta nuova, fermando da un lato e dall'altro il budello di peco-ra ben ritorto - così appunto Odisseo tese senza fatica il grande arco. Con la mano destra prendeva la corda e la tentò. Ed essa cantò bene, pareva uno strido di rondine. I Proci allora ebbero grande dolore e sbiancarono tutti in volto. E Zeus tuonò forte, mostrando un segno di augurio" 181 In questo passo dell'Odissea, la similitudine diventa esplicita ed il simbolismo musicale dell'arco è particolarmente pregnante. Ed intorno al suo suono vi sono altri suoni che sono brividi di morte: lo strido di rondine, il tuono di Zeus. 2.3. 6 Apollo e il pitone Con l'arco Apollo uccide il mostro Pitone. Qui vi è un altro frammento della storia mitica di Leto che può insegnarci ancora qualcosa. Pitone è un serpente - e non ha ora nessuna importanza il fatto che sia ancora Era a scatenarlo contro Leto. È importante invece che il serpente, come sappiamo, è una tipica figura del mondo ctonio. Hendrik Goltzius (XVI sec.) Ora, il fatto che Apollo uccida il serpente con l'arco, non è forse ancora una manifestazione della "luminosità" del dio? 182 In questo dipinto di Moreau (1880) un Apollo fatto di luce ricaccia il serpente nell'oscurità. Ed anche nel seguente, ancora più fastoso, dipinto di Delacroix, di cui qui mostriamo solo la parte centrale, il tema dominante è la luce contro la tenebra. 183 2.3.7 I lati oscuri di Apollo Eppure, anziché istituire il massimo distacco, il fatto che Apollo uccida Pitone - e che riceva per questo questo l'attributo di Pizio stabilisce un legame piuttosto che un distacco. Qui viene in questione l'arte divinatoria così caratteristica del culto di Apollo, e che rese celebri sia il tempo di Delo che quello di Delfi. Pizia sarà dunque detta la sacerdotessa di Apollo, la pitonessa, appunto, che emette vaticini - tra i fumi che vengono da caverne sotterranee, seduta su un tripode ricoperto da una pelle di serpente. La pelle del serpente sul tripode rappresenta il tramite con l'ultramondo infero da cui soltanto si possono attingere le enigmatiche preveggenze del futuro. La Pizia enunciava i suoi oracoli in uno stato di invasamento che i greci chiamavano manìa. Nei templi apollinei si celebravano riti, dai quali è semplicemente impensabile che la musica fosse assente, ed essi dovevano culminare con una esaltazione che implicava la perdita della coscienza vigile e dunque uno stato di trance. La manìa della Pitonessa di Delfi e di Delo finisce con il coincidere con l'ebbrezza della Baccante. John Collier (1891) 184 185 2.4 L'invenzione della lira e dell'aulos 2.4.1 Ermes 2.4.2 Athena 2.4.1 Ermes Tra gli dei danzanti nell'Inno omerico dedicato ad Apollo, troviamo un dio che viene caratterizzato solo con un epiteto: l'uccisore di Argo (Inni omerici, 1994, pp. 124-5). E qui vi è una storia nella storia - come accade sempre nel mito. Argo, gigante dai cento occhi, cinquanta dei quali sempre aperti, gli altri cinquanta chiusi per il sonno - Argo "dall'acuto sguardo" - viene ucciso da Ermes, e ciò ha a che fare anch'esso in realtà con un tema musicale, con il tema del potere incantatorio della musica, perché Ermes riesce a fare addormentare i cinquanta occhi sempre desti di Argo attraverso la musica. 186 Ma Ermes per quanto riguarda l'immaginario musicale del mito greco non deve essere rammentato solo per questo artifizio che gli consentì di uccidere il gigante, ma anche per un'altra singolarità tramandata dal mito e che riguarda il nostro problema musicale, anzi che apre un problema tra i mondi che la cetra e l'aulos rappresentano. Abbiamo già attirato l'attenzione sul fatto che non bisogna fare del "dionisiaco" e dell'"apollineo" una pura e semplice contrapposizione. Non lo era naturalmente nemmeno per Nietzsche, ma non lo era per ragioni puramente filosofiche: la verità del mondo della rappresentazione doveva alla fine essere ricercata nella volontà. Noi ci muoviamo invece interamente all'interno dell'immaginazione mitico-musicale e cominciamo a scorgere dei segnali che mostrano che le valorizzazioni immaginative ora sono nettamente distinte, ora scivolano ambiguamente l'una nell'altra. Abbiamo già mostrato che a ben vedere vi sono dei tratti che portano il dio della luce in una controversa prossimità con il mondo della notte. Ed ora dobbiamo prendere atto di un singolare scambio, per quanto riguarda i mitici inventori degli strumenti che dànno la loro impronta alla musica greca. Non è una tipica divinità "solare" che "inventa" la cetra, così come non è un tipica divinità "notturna" che "inventa" l'aulos. Peraltro il mito racconta dell'invenzione della lira - non vi è una storia specifica che riguardi l'invenzione della cetra. E già questo particolare apparentemente irrilevante potrebbe essere significativo. La lira, come abbiamo già detto, è uno strumento povero e le sue origini raccontano una storia di pastori e contadini. Ora, inventore della lira è Ermes. Il mito racconta del furto di armenti ad opera di Hermes ai danni di Apollo e del perdono di Apollo a patto di ottenere in dono la lira che Ermes ha inventato. Negli Inni omerici, (1994, Inno IV, pp. 153 sgg.) la costruzione della lira viene descritta nel dettaglio e con molto spirito, dal momento in cui Ermes vede la tartaruga: Là fuori trovò una tartaruga, e ne trasse gioia infinita: in verità Ermes fu il primo che creò una tartaruga canora. Quella gli si parò di fronte presso l'uscita della corte, pascendosi, davanti alla casa, dell'erba rigogliosa e zampettando placidamente; il veloce figlio di Zeus 187 rise al vederla, e subito disse: Ecco già un segno molto fausto per me: non lo dispregio. Salve, amica della mensa, dall'amabile aspetto, che accompagni la danza; tu appari benvenuta: donde vieni, o bel giocattolo? Il "bel giocattolo" diventa quel che sappiamo; e quando Apollo, assai adirato per il furto operato ai suoi danni dal "re dei ladri", ode Ermes suonare la lira, prorompe in un elogio dello strumento che è anche un elogio della musica tutta: Meravigliosa è la nuova voce che odo, e io affermo che mai alcuno degli uomini ne è venuto a conoscenza né alcuno degli dei che abitano le dimore dell'Olimpo, se non tu, furfante, figlio di Zeus e di Maia. Che arte è questa? Che cos'è questo canto che ispira passioni irresistibili? Quale la via per ottenerlo? Con esso è veramente possibile raggiungere tutte insieme tre cose: la gioia, l'amore e il dolce sonno. Anch'io, certo, mi accompagno con le Muse dell'Olimpo cui sono care le danze, e la via luminosa del canto. e la fiorente melodia, e il clamore degli auloi, pieno di desiderio; Ma a che mondo appartiene Ermes - questo dio singolare che protegge ladri e commercianti insieme, che a sentire questa storia della lira vive in campagna, questo "esimio ciarlatano e imbroglione" - come lo chiama Apollo? In realtà egli viene spesso raffigurato con i massimi dei dell'Olimpo e in particolare con Zeus che gli impartisce i suoi ordini. Ma lo stretto rapporto con Apollo è appunto rappresentato dal dono della lira, come forse rammenta la bellissima immagine seguente in cui una musa con la lira sta al centro, Artemide sulla sinistra ed Ermes sulla destra. 188 Tuttavia Ermes è anche buon compagno di Dioniso e dei satiri, alle cui gioiose gozzoviglie egli è vivace partecipe. In un'immagine che abbiamo mostrato in precedenza egli campeggia proprio al centro di un festa dionisiaca. Ermes è riconoscibile dai calzari con le ali oppure dal "caduceo" che ha in una mano, il bastone con i due serpenti attorcigliati, che nella forma semplificata in cui normalmente compare nella vasaria sembrano due cerchi in cima ad un bastone. Ermes è un dio fecondatore - ed è tanto prossimo alle regioni dell'eros da essere rappresentato in forma di una stele fallica che si pone ai trivi: ed in taluni luoghi veniva onorato direttamente in aspetto di fallo (cfr. il commento al quarto Inno omerico di Càssola, 1975, p. 154). 189 190 Naturalmente il caduceo ci segnala che egli appartiene alla cerchia delle divinità ctonie, con la presenza dei serpenti che abbiamo già incontrato parlando delle menadi. Il racconto mitico fa di questo simbolo un simbolo di pace, perché Ermes avrebbe separato due serpenti in lotta con un bastone e questi vi si sarebbero attorcigliati intorno. Ma si tratta di una evidente razionalizzazione narrativa. Ermes inventore della lira e il dono che di essa fa ad Apollo sembra rappresentare una sorta di tramite tra i due mondi. Forse per questo possiamo ritrovarlo negli oscuri antri degli inferi, nella caverna di Erebo, mentre accompagna le anime dei morti verso la barca di Caronte. 191 2.4.2 Atena 192 Se da un lato lo strumento esemplare della chiarezza e della razionalità olimpica è inventato, secondo l'immaginazione mitica, da una divinità ctonia, dall'altro - con una singolare coerenza - l'aulos, strumento tipico del satiro dionisiaco, viene "raccolto" dalle mani di una divinità tipicamente olimpica - almeno nelle sue forme non troppo arcaiche. In efffetti nella moneta qui accanto risalente alla fine del quarto secolo a. C., Atena è rappresentata con la cetra a quattro corde così come in fig. 1 la cetra compare nel retro di un moneta campana del III sec. a. C. insieme ad Apollo. Eppure l'invenzione dell'aulos è attribuita dal mito proprio ad Atena. Del resto scavando all'indietro nella figura della dea che, come sempre accade, non è certo univoca ma molteplice, troveremo anche in Atena tratti ctoni, ad esempio il serpente Erichtonius che spesso la accompagna: ma qui non ci occupiamo di mitografia se non in quanto il dettaglio mitografico interessa il nostro ambito di problemi. Atena dunque inventa lo strumento e soffia nelle sue canne durante un convito degli dei. Il suono nell'aulos genera commozione - ma Era ed Afrodite ridono di lei e della sua invenzione. Cosicché essa si allontana dall'Olimpo e si specchia mentre suona in uno stagno. Nella dipinto seguente, è un giovane che presenta ad Atena uno specchio. Atena è circondata poi dai personaggi del dramma - in alto un dio, presumibilmente Zeus, che osserva la scena; all'estrema sinistra una Menade riconoscibile dal tirso; un sileno (vecchio satiro); e sull'estrema destra Marsia. Specchiandosi, Atena può vedere la deformazione delle sue gote ed allora getta a terra lo strumento responsabile di questo imbruttimento. Il satiro Marsia, che la spia, se ne impadronisce... E ad esso legherà per sempre e tragicamente il suo nome. Marsia nella ricostruzione viene rappresentato come un satiro. Ma non sempre viene rappresentato così. Marsia è un uomo dagli attributi divini. Apprenderà a suonare l'aulos in modo insuperabile. Egli è maestro di Olimpo che spesso viene detto padre della musica greca. È certo in ogni caso che proviene dalla terra dei Frigi. 193 194 Atena, la Minerva dei latini, è stata partorita direttamente dal cervello di Zeus, e naturalmente siamo tentati di attribuire a questo parto un significato che certamente non è quello originario considerando la dea come rappresentativa della razionalità e della saggezza (Cassola, 1994, p. 425). In ogni caso questa interpretazione con il tempo finisce con l'imporsi: ingegno e saggezza diventano attributi della dea. Non solo: nel XXVIII inno omerico dedicato ad Atena, essa prorompe cantando dalla testa di Zeus e condivide con Apollo lo "splendore": la luce promanante dall'oro della sua armatura: Pallade Atena cominciò a cantare, dea gloriosa dagli occhi scintillanti, piena di saggezza, dal cuore inflessibile; vergine augusta, protettrice della rocca, intrepida, che da solo generò, dal capo venerato, il saggio Zeus, figlia sua propria, chiusa nell'armatura guerresca tutta risplendente d'oro... In ogni caso, a parte le molteplici interpretazioni che si possono dare della dea e dei suoi attributi, non vi è dubbio che l'attribuzione dell'invenzione dell'aulos ad Atena abbia una intenzione fortemente valorizzatrice dello strumento stesso. Il punto interessante è che mentre si attribuisce l'aulos quasi a Zeus stesso e comunque ad una sua incarnazione immediata, lo sviluppo del racconto deve condurre da Atena a Marsia. In questo modo l'aulos viene consegnato al mondo di Dioniso. La storia della sua invenzione implica una svalutazione che riguarda il senso del bello e che ricade sullo strumento e sulla sua musicalità 195 L'episodio di Marsia che raccoglie l'aulos gettato a terra da Atena ha trovato una splendida rappresentazione scultorea dovuta allo scultore Mirone (V sec. a. C.) di cui ci sono rimasti vari importanti frammenti di una copia di epoca romana (Musei Lateranensi). 196 2.5 Marsia ovvero la barbarie di Apollo E infine Apollo e Marsia si sfidarono. O meglio fu Marsia a sfidare Apollo - atto di audacia verso una della massime divinità olimpiche, ma naturalmente, per noi, soprattutto un discorso che si sviluppa nel mito sulle qualità sonore e sulle loro possibili valenze immaginative. Una sfida alla presenza delle Muse - divinità apollinee come giudicatrici; la posta in gioco: che il perdente debba subire qualunque pena il vincente abbia a decidere. Anche in questo caso vi sono, molti modi di raccontare questa sfida e di interpretarla. Winternitz racconta che Apollo vinse... barando! Poiché la muse inclinavano verso Marsia, "Apollo suonò il suo strumento alla rovescia e sfidò Marsia a fare altrettanto ben sapendo che l'aulos poteva essere suonata solo da una parte. Inoltre cantò accompagnandosi con la cetra, ed anche in questo l'aulos non poteva essere alla pari. Infine... cantò le lodi dell'Olimpo e di Elicona, e le Muse non mancarano di corrispondere all'adulazione" (Winterniz, 1982, p. 123). Luciano di Samosata nel Dialogo degli dei fa fare ad Era un elogio dell'astuzia di Apollo, dal momento che sicuramente miglior musicista era stato Marsia (Winternitz, p. 138, n. 3). Mentre i trucchi di Apollo vengono raccontati da Apollodoro (Bibliotheka, I, 4 in Landels,1999, p. 156) 197 198 "Apollo e Marsia: Marsia seduto, mentre suona il flauto, Apollo in piedi di fronte a lui, e una ninfa che sta dietro Marsia: tra essi o un alberello di lauro o un ramo di lauro tenuto da Apollo; affiora la testa di una seconda ninfa, che probabilmente stava in piedi alla destra del dio" (CVA, Gran Bretagna, vol. III). 199 Questo vaso (Hermitage) è stato assunto per denominare il pittore che lo ha eseguito - che viene in effetti identificato come "Il maestro di Marsia". Marsia è rappresentato seduto sulla destra, ed il dipinto in realtà più che avere centro nella sua figura, è una rappresentazione del trionfo di Apollo vittorioso nella disputa (datazione: circa metà del sec. IV a. C.). 200 A parte le variazioni sul tema dei trucchi di Apollo, che tuttavia dimostrano quanto i greci amassero gli auleti e i loro auloi, oltre che la lira e la cetra, ciò che rappresenta l'impronta più incisiva della storia, e che si impresse nella mente dei poeti e degli artisti di tutta la tradizione successiva fu la barbara pena che Apollo inflisse a Marsia: egli ordinò infatti che fosse scorticato vivo. Nelle sue Metamorfosi (VI, 382) Ovidio descrive con crudezza l'episodio dello scorticamento: "urlava, e la pelle gli veniva strappata da tutto il corpo, e non era che una unica piaga: il sangue stilla dappertutto, i muscoli restano allo scoperto, le vene pulsanti brillano semza più un filo di epidermide; gli potresti contare le viscere che palpitano e le fibre translucide sul petto" Ma poi questa descrizione tanto cruda viene emotivamente riscattata dal grande pianto del popolo di Marsia, dalle lacrime dei pastori, delle ninfe, dei satiri, del grande musico Olimpo suo allievo, e questo immenso pianto che inzuppa la terra riaffiora come fiume Marsia. "I fauni campagnoli, divinità dei boschi, e i satiri suoi fratelli, e Olimpo, a lui caro anche in quel momento, lo piansero, assieme a chiunque su quei monti faceva pascolare mandrie e greggi lanute. Il suolo fertile si inzuppò delle lacrime che cadevano e inzuppatosi le raccolse e le assorbì fin nel profondo delle proprie vene; poi le convertì in un cor corso d'acqua, e riversò quest'acqua all'aria aperta. Così quel fiume che da lì corre tra rive in declivio verso il mare ondoso, si chiama Marsia, il più limpido fiume della Frigia". Talora è il sangue stesso di Marsia che colando dalla pelle appesa ad un albero forma il fiume che prenderà il suo nome. In certo senso, Marsia non è morto, la sua eternità è assicurata dall'acqua: 201 "Quindi Marsia continua a vivere sotto forma di ruscello e sul ruscello crescono le canne, e le canne diventano a loro volta fiati. Strabone (XII, 578) dal suo viaggio in Asia, riferisce che il popolo che abita le rive del fiume Marsia fabbricava gli auloi con le canne che proprio lì crescevano" (Winternitz, 1982, p. 134). 202 Questa tragica fine nobilita la figura di Marsia - e l'interpretazione del comportamento di Apollo diventa una sorta di enigma a cui è necessario dare una risposta. Anche il mito può essere interrogato nelle sue ragioni. E quali sono le ragioni dello scorticamento di Marsia in rapporto ad una sfida che riguardava la grande arte della musica nella quale in ogni caso eccellevano entrambi i contendenti? Questa domanda è presente nella varietà di rappresentazioni che la sfida di Marsia e di Apollo ricevette nella pittura e nella grafica europea. Oltre tutto occorre notare che rappresentazioni greche e medioevali del mito di Marsia non forniscono mai raffigurazioni dirette dello spellamento di Marsia, sostituendole con dettagli che alludono semplicemente ad esso - segno che la questione dello spellamento non era facile da accettare. Dal Perugino questo episodio conclusivo non viene nemmeno accennato, e Marsia viene rappresentato in forma di bel giovane, e non di satiro, con un Apollo che ascolta assorto avendo deposto a terra la cetra. Si tratta di una scelta molto decisa: siamo di fronte a figure e gesti tutti risolti nella bellezza della musica, in una natura accogliente ed idilliaca, con gli uccelli che volano in cielo e il lontano profilo di un castello. Tutto il resto non conta, non ha nessuna importanza. Solo quando la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, ad maiorem gloriam Dei, santifica le pratiche della tortura i pittori osano dare espressione all'atroce sofferenza di Marsia. Ribera (1591-1692) 203 Giordano, 1696 Guercino, 1618 Domenichino (1581-1641 204 Ma forse l'immagine più raccapricciante la propone Tiziano, con un Marsia con forme nettamente animalesche che viene scuoiato appeso a testa in giù ad un albero, rendendo intollerabile e ripugnante il bell'Apollo che poco oltre continua indisturbato le sue divine armonie con la sua "lira da braccio��� e lo sguardo rivolto al cielo. Alla domanda, perché tanta barbarie? la risposta più frequentemente ripetuta è che la sfida di Marsia è rivolta ad un dio, quindi un atto di hybris. Ora nel pensiero mitico greco atti come questi sono puniti con particolare spietatezza. Si pensi al caso di Prometeo. Altre risposte fanno rientrare questo episodio, nell'antitesi tra gli strumenti e gli stili strumentali, che si risolve con una durissima rivendicazione dello strumento a corda. Infine vi è il motivo in certo senso "nazionalistico". L'aulos è di derivazione straniera. Ma nessuna di queste spiegazioni riesce a mio avviso ad essere convincente. 205 Oltretutto nei nostri commenti noi stiamo mostrando con sempre maggior chiarezza che siamo in presenza di una dialettica interna alla grecità, e lo si vede anche in questo racconto in cui comunque persino la vincita di Apollo viene messa in dubbio; cosicché entrambi gli strumenti vengono via via rivendicati sulle opposte sponde dell'antitesi. I greci amano la cetra, la lira, gli strumenti a corda. Ma forse li amano soprattutto i teorici, i filosofi, i puristi della musica. E tuttavia gli strumenti a fiato, e persino il modesto flauto di Pan, sono in grado di infiammare l'intero Olimpo. Quelle spiegazioni non risultano convincenti anzitutto per il fatto che nessuna di esse riesce a rendere conto della specificità della pena e l'estrema violenza dell'azione, e di conseguenza riesce a dare coerenza al racconto mitico. Come abbiamo notato in precedenza, il comportamento di Apollo resta un enigma. Ma dobbiamo realmente cercare coerenza in un mito? Non è strettamente necessario, è vero. E può essere anche equivoco, data la "molteplicità" intrinseca del racconto mitico. Tuttavia a volte vale la pena di tentarci. Ed io credo di poter suggerire un mutamento di punto di vista che forse fornisce una chiave per un'interpretazione che a me sembra persuasiva.Comincerò a rammentare un noto passo dantesco nel primo canto del Paradiso che suona così, rivolgendosi al "buono Apollo": O buono Apollo, all'ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso come dimandi a dar l'amato alloro. Insino a qui l'un giogo di Parnaso assai mi fu, ma or con ambedue m'è uopo entrar nell'aringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsia traesti della vagina delle membra sue. 206 NOTE "... ispirami come è richiesto perché tu dia l'alloro amato da te per amore di Dafne." (Tommaseo) Il Parnaso aveva due cime (gioghi), l'una abitata dalle Muse, l'altra da Apollo. L'ispirazione delle Muse poteva bastare fin qui, ma ora Dante "chiama Apollo". In una parola Dante, sulle soglie del Paradiso, sente di non poter più soltanto fare affidamento alla protezione delle muse e invoca Apollo affinché gli faccia lo stesso servizio che fece a Marsia. Interpretazione davvero straordinaria perché fa dell'operazione dello scorticamento una sorta di liberazione dell'elemento puramente spirituale dalle scorie corporee. Un'illustrazione di Giovanni di Paolo datata intorno alla metà del sec. XV sembra illustrare alla lettera i versi danteschi. 207 "Raffigurato in primo piano non abbiamo il corpo di Marsia, ma solo la sua pelle svuotata del corpo. Nell'ottica dantesca il liberarsi dell'involucro corporeo è il presupposto irrinunciabile per portare a compimento il suo viaggio nell'Aldilà ed arrivare alla visione di "colui che tutto move", "che ridire/ né sa né può chi di là sú discende"; ed è per questo che - unico caso nell'iconografia del mito - Marsia scorticato non muore, ma vive dopo la morte" (Chiara Mataloni - Iconos). Ora, naturalmente non avrebbe senso aderire ad un'interpretazione così particolare e così strettamente relativa alle preoccupazioni del Dante poeta di fronte alle porte del Paradiso. Tuttavia vi è l'af l'affacciarsi dell'elemento metaforico, questo è l'aspetto importante che ci interessa in modo particolare. 208 Nel mito, come in ogni opera dell'immaginazione, agiscono regole implicite, e in particolare agisce una regola che traduce ciò che si propone anzitutto come semplice immagine in un evento o in una sequenza di eventi. L'immagine assume la concretezza di un'azione oppure le fattezze di un personaggio: il valore immaginativo - secondo una terminologia che ho usato altrove - si traduce in una cosa o in un evento fantastico. Quando questa concretizzazione è avvenuta può accadere che non sia subito evidente il valore immaginativo da cui quell'evento ha preso forma. Si corre allora il rischio di andare alla ricerca di chiavi interpretative realistiche e motivazioni che ci allontanano sempre più dalla componente immaginativa. Io invece intenderei l'episodio dello scorticamento proprio come un'immagine che si è fatta evento e la sua interpretazione come un ritorno dall'evento all'immagine. Dobbiamo allora rammentare ciò che abbiamo detto fin dall'inizio: il problema dell'aulos e della cetra riconduce a quello del continuo e del discreto: e musicalmente dunque a quello del diatonismo e del cromatismo. Ma intorno a questa distinzione musicale si aggirano determinate aree di senso - dal lato del continuo prevale l'elemento erotico-istintuale, dal lato del discreto quello della razionalità e della misura. Ora, che cosa è la pelle di Marsia come la pelle di noi tutti? È il veicolo essenziale dell'erotismo perché è il veicolo della tattilità. Allora la coerenza immaginativa ridiventa visibile. Non dobbiamo dunque provare troppo meraviglia di fronte alla barbarie di Apollo: lo scorticamento è una elaborazione fantastica che si concretizza nel coltello del carnefice, ma l'immagine da cui deriva non ha nulla a che fare con l'uno e con l'altro. La condanna di Marsia è la condanna dell'elemento erotico che egli rappresenta in modo eminente come tutta la stirpe di Dioniso. 209 Nota 1. Per le raffigurazioni pittoriche di Marsia puoi vedere la sezione corrispondente di Iconos (Ovidio, Cap. VI) (http://www.iconos.it/index. php?id=1) con i notevoli commenti per la parte iconografica di Chiara Mataloni. Iconos è una iniziativa della Cattedra di Iconografia e Iconologia del Dipartimento di Storia dell'arte della Facoltà di Scienze Umanistiche dell'Università di Roma "La sapienza" - una iniziativa rara, in Italia, che può essere citata come un vero e proprio modello di lavoro scientifico e culturale messo a pubblica disposizione. Ci auguriamo che esso possa essere di stimolo alla diffusione della cultura via Internet che in tutto il mondo sta fa facendo passi giganteschi mentre la situazione italiana sembra arretrare piuttosto che avanzare. Nota 2. Le numerose valenze del mito di Marsia e le sue possibili diverse interpretazioni sono sintetizzate da Didier Anzieu nel saggio "Il mito greco di Marsia" che è stato pubblicato da Lucia Corrain nella dispensa "La pelle del visibile"per il corso 2004-2005 della disciplina Semiotica delle Arti presso il Dipartimento delle arti visive dell'Università di Bologna. Lucia Corrain ha corredato a parte il saggio di Didier con una notevole raccolta di immagini relative al mito di Marsia. Puoi trovare questi materiali all'indirizzo: http://www.artivisive.unibo.it/Didattica/CORRAIN%20Lucia/materiali/ Dispensa%20semiotica%20del%20visibile%20(immagini).pdf. Il sito di Lucia Corrain - http://www.artivisive.unibo.it/Didattica/CORRAIN%20 Lucia/ va segnalato per la ricchezza dei materiali di riflessione offerti. 210 211 2.6 Il mondo del dio Pan 212 2.6.1 I fauni e le ninfe Le ninfe sono evanescenti emanazioni della natura, che si aggirano nei pressi dei fiumi e sulle rive degli stagni. E le possiamo anche incontrare nel profondo dei boschi e sui sentieri montani. A. Boecklin, 1827-1901 Nell'immaginazione mitica dei greci, le ninfe sono strettamente associate ai fauni. Benché esse possano essere l'oggetto di desiderio dei grandi dei dell'Olimpo, in realtà sono le naturali compagne dei fauni: le une e gli altri sono soprattutto figure della natura, immagini evanescenti della vita e delle forme naturali. Certo, il racconto mitico accentua spesso la loro ritrosia di fronte alle bramosie amorose del fauno che le spia nascostamente o che pretende di ghermirle: cosicché nella tradizione pittorica i fauni sono talora presentati come i loro maligni persecutori. 213 Dosso Dossi, ca 1490-1542 Ma talora la rappresentazione propone ad un tempo, insieme alla fuga, anche l'idillio, ed il rifiuto e la fuga sembrano disposte nel contesto di un rito amoroso già in corso. J. F. de Troy (1679-1752) 214 J. Jordaens, 1593-1678 N. Poussin, 1637 Ma talora la rappresentazione propone ad un tempo, insieme alla fuga, anche l'idillio, ed il rifiuto e la fuga sembrano disposte nel contesto di un rito amoroso già in corso. 2.6.2 Il dio Pan Attenendoci ai racconti, la regione da cui Pan proviene è l'Arcadia, nel Peloponneso, nel cuore dorico della Grecia continentale, molto lontano dunque dalle terre di Dioniso. Anche il culto di Pan viene localizzato soprattutto in Arcadia. In ogni caso Pan non è un satiro - ma è un dio. Un dio minore, certamente. Non è nemmeno senz'altro uno dei seguaci di Dioniso e membro del suo corteo. Che egli appartenga alla cerchia di Dioniso, in ogni caso, è subito chiaro. Lo si vede, intanto, dall'aspetto. 215 Non è propriamente un satiro - perché i satiri dionisiaci hanno in fin dei conti forma umana prevalente, ed un cenno animalesco di coda, forse le orecchie un po' più lunghe del necessario, mentre questo dio ha in tutto e per tutto forme animalesche: orribile a vedersi il volto, con due corna in fronte, corpo villoso, coda e zoccoli da capro! Contrassegni dei fauni che sono sue creature sono sempre le zampe e il pelame animalesco (a differenza dei satiri). E se un satiro (come accade talvolta nel caso di Marsia) viene rappresentato come un fauno, ciò tradisce un intento di degradazione. 216 Pavimentazione romana a mosaico che rappresenta Pan (Villa di Gennazzano) (II sec. d. C.) Pan era figlio di Ermes, di cui abbiamo già rilevato i tratti dionisiaci. Racconta il bellissimo Inno omerico dedicato a Pan che Ermes si innamorò di una "fanciulla dalle belle trecce" e con essa giacque in un "florido amplesso". Così fu generato un "figlio diletto", già appena nato "mostruoso a vedersi" cosicché la fanciulla, "come vide quel volto ferino e barbuto", fuggì tanto lontano che nessuno mai più la vide (Inni omerici, 1994, XIV, p. 369). Eppure quando Ermes,da padre amoroso,lo presentò agli dei dell'Olimpo, essi proruppero in una grande risata e "si rallegrarono nell'animo tutti gli immortali,ma più di ogni altro il baccheggiante Dioniso". Pan si aggira "per le valli folte di alberi", lo puoi scorgere sulle "cime delle impervie rupi", "sugli aspri sentieri", e lungo "i lenti ruscelli". Il viandante che si trovi a passare per questi luoghi, il pastore che accompagna solitariamente le proprie greggi, ne avverte la presenza misteriosa. Questa presenza puoi poi palesarsi - ed allora il dio Pan diventa un dio che incute terrore. L'espressione "ti- 217 mor panico" o semplicemente "panico" deriva proprio da questo ricordo. In questo dipinto di Boecklin, Pan si affaccia alla rupe mettendo in fuga il pastore. 218 Ma può realmente il dio che a fatto sorridere tutti gli dei dell'Olimpo esercitare un'effettiva minaccia? Le improvvise comparse di Pan sembrano un gioco del dio che si diverte ad impaurire approfittando del suo aspetto, senza voler recare alcun danno. Questo elemento terrifico è legato prevalentemente al misterioso - ai silenzi ed ai suoni vagamenti inquietanti della natura, che tuttavia ci spaventano senza alcun vero motivo e non comportano alcuna minaccia. Ma i luoghi in cui possiamo imbatterci nel dio e provare perciò un oscuro timore, sono anche i luoghi in cui si aggirano le ninfe - che assecondano Pan, dio "amante del clamore", con le loro danze e i loro canti. Il termine "amante del clamore" traduce il termine greco filocrotos in cui krotos può indicare specificamente il ritmato batter dei piedi nella danza. Purtroppo nella traduzione questa sfumatura di senso va inevitabilmente perduta. Le ninfe sono esseri che cantano e danzano, ed in questo anzitutto sono associate al dio Pan. Il quale talora, al ritorno dalla caccia, al tramonto, suona solitario, con il suo strumento di canne, una musica dolcissima: non riuscirebbe a superarlo nella melodia l'uccello che tra il fogliame della primavera ricca di fiori effonde il suo lamento, e intona un canto dolce come il miele. Con lui allora le ninfe montane dalla limpida voce girando con rapido batter di piedi presso la sorte dalle acque cupe cantano, e l'eco geme intorno alla vetta del monte. Il dio, muovendo da una parte e dall'altra, e talora al centro della danza, le guida con rapido batter di piedi - sul dorso ha una fulva pelle di lince -, esaltandosi nell'animo al limpido canto, sul molle prato dove il croco, e il giacinto odoroso, fioriscono mescolandosi innumerevoli all'erba: Cantano gli dei beati e il vasto Olimpo. Come nel caso del ritorno di Apollo nell'Olimpo con la sua grande cetra, anche qui gli dei si uniscono in un canto al suono del modesto flauto di canne pastorale del dio Pan ed al coro danzante delle ninfe. 219 Per quanto posso giudicare, nella pittura vasaria greca, il dio Pan è piuttosto raramente rappresentato. Nelle figure di questa pagina vi è in ogni caso un esempio di Pan danzatore con satiri. Come nel caso dei satiri, ed anzi ancor più tipicamente in quello di Pan, il culto cristiano si appropriò di questa figura e fece di essa un'immagine fedele del demonio e ciò, come abbiamo già notato, per via delle ossessioni sessuofobiche del cristianesimo. Questa demonizzazione influenza involontariamente persino l'archeologo che così descrive questa immagine: "A sinistra rameggio di edera, a destra viticcio con grappoli d'uva. In mezzo danza estatica di carattere demoniaco. A sinistra satiro nudo con capelli scarmigliati e petto peloso. In mezzo Pan, rivolto frontalmente. Corpo villoso, piedi di capro, enormi corna ritorte e orecchie di capra. Suona il doppio flauto e danza preso dal ritmo della sua stessa musica. Un secondo demonio che giunge frettolosamente da destra allunga una coppa da bere al dio." (CVA, Heidelberg, I, a cura di K. Schauenburg). Occorre ammettere tuttavia che anche l'antico autore di questo dipinto non sembra proprio simpatizzare con il dio. 220 Assai più benevolmente Pan adulto viene presentato in questo vaso in stile beotico mentre danza al suono del timpano che egli stesso percuote e il Pan giovane (o forse un fauno) seduto su una roccia mentre suona l'aulos. 221 È interessante notare come in Magna Grecia, la fisionomia del dio muti significativamente nelle rappresentazioni. Egli viene infatti raffigurato ingentilito dalla giovane età e senza accentuazione dei caratteri animaleschi. Nella ceramica campana presentata in fig. 1 e risalente al III sec. a.C. le corna sembrano quasi un ornamento, e i tratti del volto sono quelli di un giovane dai grandi occhi sognanti. In Fig. 2 si tratta invece di una ceramica apula databile nel quarto secolo a. C. Ed anche in questo caso un Pan giovane porta le sue corna da montone come un elemento di decoro. Fig. 1 Fig. 2 222 2.6.3 Storia di Siringa Possiamo ora riprendere la storia di Siringa, una storia che si trova a metà strada tra mito e favola. Racconta Ovidio (Metamorfosi, Libro I, 689-721): innamorato della ninfa e da lei respinto, Pan la rincorre ed essa fugge "per luoghi impervi, finché non giunse alle correnti tranquille del sabbioso Ladone"; e "impedendole il fiume di correre oltre" essa invocò "le sorelle dell'acqua di mutarle forma"; cosicché quando ormai Pan stava per ghermirla "strinse in luogo del suo corpo un ciuffo di canne palustri". Hendrik van Balen, 1615 223 Il vento "vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile ad un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica: 'Così continuerò a parlarti' disse, e, saldate fra loro con la cera alcune canne diseguali, mantenne allo strumento il nome della sua fanciulla" (Ovidio, Libro I). Nella più cruda versione di Longo Sofista, in Dafni e Cloe (1987, p. 101) Siringa annega fra le canne del fiume, e Pan forgia lo strumento con il quale ne piange la morte. Un piccolo dettaglio: quest'opera di Longo è offerta dall'autore nel Proemio "come dono votivo a Eros, alle Ninfe e a Pan". In greco syrinx significa niente altro che "canna" - cosicché il racconto narra del vento della sera che fa sussurrare i canneti lungo i fiumi. La parola stessa forse lo dice, se può valere un etimo da syrizo che significa proprio sussurrare, sibilare, bisbigliare. Sembra che nel suono stesso della parola si avverta un sussurro. Pan e Siringa in una illustrazione di W. Baur (Vienna 1703) delle Metamorfosi di Ovidio 224 2.6.4 Storia di re Mida Intorno a Pan vi sono anche altri personaggi - ed in particolare un personaggio che sembra far terminare in farsa la storia di un dio che è cominciata con le risa degli dei dell'Olimpo. Si tratta di re Mida la cui capacità di tramutare in oro tutto ciò che tocca è passata in proverbio. Questo personaggio, intanto, richiama una sorta di ripetizione priva di tragiche conseguenze della sfida di Marsia ad Apollo. Anche Pan osò sfidare con il suo flauto disadorno la grande cetra di Apollo - ma ne risultò così clamorosamente perdente che non ne fu punito. Una punizione la ebbe invece - qui sembra esservi la farsa - proprio re Mida, presente alla sfida, per aver dato il proprio plauso a Pan, piuttosto che ad Apollo. E ne ebbe in cambio da Apollo le orecchie d'asino. Con un'appendice, per l'appunto interamente farsesca: infatti che Mida avesse le orecchie d'asino, dettaglio che egli teneva accuratamente nascosto con un copricapo, era ben noto al servo che aveva il compito di tagliargli i capelli. Il quale, non resistendo alla tentazione di comunicare una simil cosa a qualcuno, la gridò in una buca che poi ricoprì con cura. Attenzione superflua, dal momento che proprio lì sorse un canneto e si incaricò il vento della sera passando fra le canne a far risuonare quelle parole in modo che le intese il mondo intero. Ora, non è questa una semplice degradazione novellistica del mito - peraltro splendidamente narrata da Ovidio - ma che è ormai lontana dai nostri temi? In parte ciò è vero, ma due parole vanno ancora dette, soprattutto su re Mida, e naturalmente tenendo conto non tanto della narrazione così come è, quanto dei motivi che si intravvedono nel suo interno. Anzitutto egli ci riporta in modo nettissimo sul versante dionisiaco. Mida è un re frigio, e si guadagna da Dioniso l'insano merito di trasformare in oro tutto ciò che tocca come premio per aver ritrovato Sileno, maestro del dio, perdutosi ubriaco nei boschi. Per essere guarito da quella che più che come premio si presentava come condanna si immerge, sempre su suggerimento di Dioniso, nell'acqua. In vari modi e probabilmente in vari sensi l'elemento acquoreo in queste storie è presente ovunque. Così come è presen- 225 te l'atmosfera agreste. Mida si aggira in campagna e tra i boschi, e perciò diventa adoratore di Pan che "ha la sua dimora negli antri dei monti". E diventa spettatore della sfida di Pan ad Apollo (XI,153): Qui Pan, un giorno che, vantando alle tenere ninfe i propri zufolii modulava lievemente sulle canne incerate una canzone, osò spregiare, a suo paragone, la musica di Apollo, e così giunse, avendo giudice Tmolo, ad un'impari gara. [Tmolo è una montagna divina, che poteva prendere forma umana, localizzata in Lidia o in Frigia] Nell'illustrazione cinquecentesca che segue le scene sono due, da intendere come temporalmente separate. Sulla sinistra estrema vi è Re Mida che ascolta Pan suonare un grosso flauto a canne, mentre Apollo gli sta dietro le spalle con la "lira" in mano. In realtà con "lira" qui non si deve intendere lo strumento greco, ma lo strumento a corde ed arco che allora veniva chiamato così. Sulla destra vi è il momento della prova di Apollo, con Pan e Mida seduti insieme a Tmolo, il giudice della gara. L'albero al centro fa da separatore "temporale" delle due scene. 226 Il resto lo abbiamo già raccontato. Ma non c'è proprio nulla da dire sul finale sia per ciò concerne l'azione del servo sia per le orecchie d'asino del re? Io credo che, benché tutto si possa rivolgere in farsa, i motivi che vi compaiono appartengono ancora a Siringa, ovvero al flauto di Pan. E quindi hanno dei richiami interni che la semplice narrazione non rende evidenti. Intanto il servo va evidentemente a scavare la buca presso un fiume, se in breve sorge un canneto. E queste canne sono canne "cantanti". Tuttavia la cosa, credo, più interessante è, a mio avviso, un'interpretazione diversa delle orecchie d'asino da quella solita, o da quella che comunque si sarebbe tentati di dare. Sembra infatti che Apollo voglia soltanto denunciare la sordità alla musica del re e io penso che tutti siano subito propensi a questo tipo di spiegazione. Io sono di diverso avviso. Il re Mida, che aveva avuto Orfeo tra i suoi maestri, ha fatto una scelta musicale. Ha mostrato di non appartenere al mondo di Apollo - e le sue orecchie d'asino sono il segno di un inizio di un viaggio verso il mondo di Dioniso e di Pan, i cui personaggi sono caratterizzati da tratti zoomorfi. Anche questo finale ha dunque, a mio parere, un senso musicale. Pan si esibisce di fronte ad Apollo, Ermes e tre ninfe (Acropoli) 227 2.7 Orfeo Jean Cocteau Orpheus 1960 2.7.1 La lira di Orfeo 2.7.2 La morte di Orfeo Annotazione sulla morte di Orfeo secondo Picasso 228 2.7.1 La lira di Orfeo I racconti mitici relativi ad Orfeo hanno attraversato tutta la cultura europea, sia nella pittura come nella musica, ed essi possono concludere anche questa parte del nostro album dedicato agli strumenti musicali nell'immaginazione mitica per il fatto che Orfeo rappresenta esemplarmente il duplice orizzonte di senso, l'orizzonte dello splendore della luce e del giorno e quello dell'oscurità e della notte, con l'intera area di sensi che sta dentro questi orizzonti. "Orfeo è la figura mitica inventata dai Greci per dare un volto alla grande contraddizione, al paradosso della polarità e dell'unità tra i due poli... Orfeo non è il pacificatore di Apollo e Dioniso: esprime la loro unione e perisce straziato dalla loro lotta" (Colli, 1990, pp. 38-39). Sia nella documentazione letteraria sia in quella grafico-pittorica Orfeo è sempre rappresentato come suonatore della lira. Questo lo fa associare ad Apollo che, secondo i racconti , gli donò la lira ricevuta da Ermes. Talora viene detto anche figlio del dio - e ciò ne rafforzerebbe il legame. Ma, secondo altri racconti, padre di Orfeo sarebbe invece Eagro, presunto re della Tracia (Pindaro, fr. 139, Colli, 1990, p.121 cfr). Ecco l'inizio di una sorta di contraddizione: "Orfeo proviene dalla Tracia, una regione non greca, in Egitto venne iniziato ai misteri di Dioniso che egli introdusse in Grecia. E tuttavia vale come "figlio" di Apollo che gli ha donata la sua famosa lira e che lo ha fatto educare nell'arte del canto e della lira dalle muse" (Roch, 2004) p. 141). I riferimenti alla Tracia nel caso di Orfeo sono del resto piuttosto numerosi. Così Euripide (Alcesti 962-972 cit. in Colli, 1990, p. 131) parla delle "tavolette lignee di Tracia che la voce di Orfeo riempì di scritti". Ed ancora in Euripide la stessa lira di Orfeo viene definitica "asiatica di Tracia" (Colli, 1990, p.135). Nelle immagini che seguono gli ascoltatori di Orfeo sono guerrieri traci, che venivano dipinti con caratteristici copricapi. 229 230 Quando risuona la lira di Orfeo (Colli, 1990, p. 119), uccelli innumerevoli si libravano a volo sopra il suo capo, e diritti dall'acqua turchina balzavano in alto i pesci per il canto bello. E si acquetavano nell'ascolto gli animali più feroci. Questa la caratterizzazione più nota delle straordinarie capacità di Orfeo: naturalmente essa ha soprattutto il senso di un elogio del fascino ammaliatore della musica. Nell'illustrazione quattrocentesca la "lira", come accade abbastanza spesso, è la la "lira da braccio" rinascimentale, uno strumento che poteva essere suonato sia a pizzico che con l'arco. Il nome naturalmente genera l'equivoco presente molto spesso anche in rapporto ad Apollo, come si è già notato (a questo equivoco Winternitz, 1982, dedica un'interessante appendice, pp. 263 sgg.). Anonimo, Ill. per Ovidio, X, 86-106, Venezia 1497 231 W. Baur (1703) Albert Cuyp, 1640 Briton Rivière, 1784 232 Persino gli alberi si spostano per fare ombra ad Orfeo e per ascoltarlo, secondo la narrazione di Ovidio (X, 86 sgg.). C'era un colle, e sul colle una radura pianeggiante che germogli d'erba coprivano di verde. Non c'era ombra in quel luogo, ma quando il divino poeta vi venne a sedere e trasse dalla lira un accordo, l'ombra lì si diffuse: apparve l'albero della Caonia, e con quello il bosco delle Eliadi, il rovere svettante, i tigli flessuosi, il faggio, il vergine alloro, le fragili avellane, il frassino che serve per le lance, l'abete senza nodi, il leccio appesantito dalle ghiande, il platano fastoso, l'acero di diversi colori, e insieme a loro i salici di fiume, il loto d'acqua, il bosso sempreverde, le tenere tamerici, il mirto di due colori e il timo con le sue bacche azzurre. E voi pure veniste, edere dalle radici aggrovigliate, e le viti piene di pampini, gli olmi avviluppati di viti, e ornielli, pìcee, corbezzoli carichi di frutti rosseggianti, tranquille palme che si danno in premio ai vincitori, e il pino che si erge con la sua chioma arruffata raccolta in cima... Piante, animali, natura. Questo evoca la lira di Orfeo - e questa partecipazione all'elemento naturale ci rammenta, non certo il mondo di Dioniso, ma forse quello di Pan. Non so se Giovanni Bellini nell'inserire insieme ad Orfeo un fauno con zampe di capro sia stato mosso da questo pensiero. Egli dialoga con Eco - in fin dei conti anch'essa una divinità musicale che appartiene alla natura. 233 Giovanni Bellini (attrib), Orfeo, Circe, Pan, Eco, 1510 -Washington, Nat. Gallery In atmosfera idilliaca e pastorale viene narrato anche l'incontro d'amore di Orfeo con Euridice. Ma si tratta di un idillio che è in prossimità della tragedia, di un amore e di una musica che deve incontrare la morte. Al di là dell'aspetto narrativo, ecco presentarsi le figure di questa inquietudine, che dal mondo campestre dove vivono animali, piante e fiori, fanno subito intravvedere mondi oscuri. Ecco il serpente - e la morte dell'amata Euridice. Orfeo varca allora la soglia che conduce al regno dei morti, dialoga con gli dei che lo dominano. Il punto importante che egli lo possa fare, che a lui questo dialogo sia concesso. Virgil Solis, illustrazione per le Metamorfosi di Ovidio (sec. XVI) 234 Certo, è ancora il fascino ammaliatore della musica che domina - e che rende estatici gli abitanti del mondo della notte. Ogni ostacolo è superato con la forza incantatrice della sua lira. Per quanto riguarda lo sviluppo della storia non bisogna indulgere con i possibili "lieto fine" che poeti e musicisti attribuirono ad essa. Euridice muore veramente e definitivamente, e per uno sguardo d'amore. W. Baur (1703) A. Scetta, Orfeo all'inferno (1845) Friedrich Rehberg (1810) 235 2.7.2 La morte di Orfeo Tutta la storia di questo musico che per i Greci rappresentava la musica stessa - ed il suo simbolismo è entrato profondamente nella nostra tradizione - si trova all'insegna della morte. Orfeo, tornato in Tracia, venne fatto a pezzi dalle Menadi. È ancora Ovidio a descrivere la sua morte orrenda mettendone in risalto l'atrocità. 236 Ormai la sconsiderata battaglia si fa furibonda, divampa sfrenata e su tutto regna la Erinni insensata. Il canto avrebbe potuto ammansire le armi, ma il clamore smisurato, gli auloi di Frigia uniti al corno grave, i timpani, gli strepiti e l'urlo delle Baccanti sommersero il suono della cetra. E così alla fine i sassi si arrossarono del sangue del poeta, che non si udiva più. Per prima cosa le Mènadi fecero strage di tutti gli innumerevoli uccelli, ancora incantati dal canto di Orfeo, e dei serpenti, delle fiere che erano vanto del suo trionfo. Poi con le mani grondanti di sangue, contro lui si volsero, accalcandosi come uccelli che avvistano un rapace notturno disorientato dalla luce; e il poeta pareva il cervo condannato a morire all'alba nell'arena, preda dei cani che l'assediano sul campo. Nel loro assalto gli scagliano contro i tirsi, virgulti di foglie non certo creati per questo. ...Alcune lanciano zolle, altre rami divelti dagli alberi, altre ancora pietre. E perché armi al loro furore non mancassero, alcuni buoi, col vomere affondato, aravano lì quella terra, e non lontano, preparandosi con molto sudore il raccolto, muscolosi contadini vangavano le dure zolle; alla vista di quell'orda, costoro fuggirono abbandonando i loro attrezzi: disseminati sui campi deserti rimasero così sarchielli, rastrelli pesanti e lunghe zappe. Quelle forsennate se ne impossessarono e, fatti a pezzi i buoi, che le minacciavano con le corna, si gettarono a finire il poeta che, tendendo le braccia, per la prima volta parlava al vento e nulla, nulla più ammaliava con la sua voce: come scellerate lo massacrarono, e da quella bocca, o Giove, ascoltata persino dai sassi e intesa dai sensi delle fiere, con l'ultimo respiro, l'anima si disperse nel vento. Ti piansero afflitti gli uccelli, Orfeo, ti piansero branchi di belve, le rocce immobili e le selve che un tempo seguivano il tuo canto: senza più foglie, spogli, con la chioma rasa, gli alberi espressero il loro lutto; e si dice che anche i fiumi crebbero a furia di piangere, e che Naiadi e Driadi indossarono manti velati di nero, lasciando spiovere sciolti i loro capelli. 237 La lira e le membra sparse di Orfeo finirono nel fiume Ebro ed iniziarono un viaggio lungo le acque entrando nell'Egeo ed approdando a Lesbo - mentre la testa, smembrata dal corpo e appoggiata alla lira ancora emetteva un sussurrante canto: Disperse intorno giacciono le membra: capo e lira li accogliesti tu, Ebro; è un prodigio: mentre fluttuano in mezzo alla corrente, la lira, non so come, flebile si lamenta, la lingua esanime mormora un flebile gemito e flebili rispondono le rive. Trasportati sino al mare, lasciano il fiume della loro patria per arenarsi a Metimna sulle coste di Lesbo... Odilon Redon, Morte di Orfeo, 1905-10 Chiedersi perché le Menadi si scatenarono su Orfeo, è una domanda che potrebbe suscitare perplessità, trattandosi di un mito. Ma non è è così. Nel caso del mito non ci si interroga su cause o concatenazioni causali, ma su complessi di senso. Nel mito di Orfeo confluiscono elementi differenti e soprattutto affinità con altre storie: la discesa nell'Ade, ad esempio, lo accomuna ad Eracle ed a Dioniso - in particolare a quest'ultimo: Dioniso scende nel mondo infero per sottrarre alla morte la madre Semele. Ed essa, a differenza di Euridice, ritorna sulla terra e diventa oggetto di culto come dea 238 della rigenerazione. John William Waterhouse, 1900 La morte e la lacerazione di Orfeo, d'altra parte, è un tema che riguarda anzitutto Dioniso (entrambi poi rammentano la vicenda del dio egiziano Osiride). Il mito racconta infatti che Dioniso fanciullo, sbranato dai Titani, rinasce poi a nuova vita. Su questi temi si addensano elementi che fanno parte della tradizione dei misteri orfici che proprio ad Orfeo si ricollega. Gustave Moreau,1865 239 Gustave Moreau,1865 Naturalmente non possiamo scavare tanto in profondità e del resto, per i nostri scopi, non è nemmeno necessario. Va tuttavia almeno detto che le spiegazioni offerte da Ovidio fanno parte degli adattamenti narrativi. Orfeo, tornato in Tracia, sua terra d'origine, restò tanto legato al 240 ricordo di Euridice da disprezzare le donne trace che vollero per questo vendicarsi... Ma a parte tutto, lo stesso Ovidio parla proprio di Menadi e di Baccanti, e queste non sono donne qualunque. Analogamente la punizione a cui Dioniso, sempre stando alla narrazione di Ovidio, sottopone le Baccanti, trasformandole in alberi, è una sorta di equivalente di "lieto fine", oltre ad essere a sua volta una metamorfosi, soddisfacendo l'idea guida dell'opera. Mentre la spiegazione di Ovidio risponde ad esigenze narrative, la singolare e inconsueta interpretazione che Platone nel Simposio dà della discesa di Orfeo nell'Ade e della sua morte sembra una sorta di razionalizzazione di eventi inspiegabili: "Gli dei onorano altamente la devozione e la virtù a servizio dell'amore" - dice Platone. E aggiunge: "Ma Orfeo figlio di Eagro lo rimandarono dall'Ade a mani vuote; gli mostrarono l'ombra della donna per la quale era disceso, senza dargliela, perché parve loro un debole, proprio come un citaredo, e non avesse l'animo... di morire per amore, ma che escogitasse ogni via per penetrare vivo nell'Ade. Appunto questa è la ragione per cui lo punirono e gli fecero trovare morte per mano di donne..." (Simposio, 179, d). In questa interpretazione si resta colpiti dalla critica della "debolezza" di Orfeo: proprio come un citaredo. Platone dice ciò a proposito di un suonatore dello strumento apollineo per eccellenza, gli attribuisce come suonatore della cetra quella "mollezza" che semmai andrebbe riferita ad un suonatore di barbitos o addirittura ad un auleta. Ciò rappresenta un appiglio piuttosto forte per la lettura tutta musicale che Eckard Roch dà della morte di Orfeo: egli avrebbe, nonostante tutto, portato nello stile della cetra proprio quella varietà, quelle ornamentazioni, quei "colori" che erano tipici degli auleti abbandonando la severità "dorica" che Platone riteneva invece caratteristica dello strumento e desiderabile per la musica in genere. Tra queste novità che sarebbero state introdotte da Orfeo vi sarebbe dunque la "frantumazione" dell'ordine melodico, la frammenta- 241 zione del discorso musicale. La vicenda della morte di Orfeo diventa così una metafora musicale - come musicale è, persino nella descrizione di Ovidio, il suo assassinio: egli avrebbe certamente potuto con la sua cetra ammansire non solo le belve feroci, ma anche le Menadi inferocite , ed infatti i primi colpi si infrangono contro il dolce suono dello strumento: persino un sasso, lanciato come proiettile "mentre ancora vola, rimane estasiato dai soavi concenti, della voce e della lira, e cade dinanzi ai suoi piedi, quasi a chiedere perdono di quell'ardire folle" (XI, 10-13). Ma timpani, tibie, auloi frigi, strepiti - e tutto questo "baccano" è ancora musica - vincono il suono della lira, che infine soccombe. Ed a Orfeo spetta quello smembramento che simboleggia la frantumazione a cui egli ha sottoposto la musica stessa. Le Menadi si riappropriano di Orfeo e lo riconsegnano a Dioniso - tutta la vicenda è metafora e rito: "Benché Orfeo sia sacerdote di Apollo e la sua morte venga interpretata come come punizione o vendetta di Dioniso, tuttavia egli condivide il destino di Dioniso stesso. E proprio attraverso la sua morte Orfeo non non si trova in conflitto con Dioniso, ma in unità con lui" (Roch, 2004, p. 145). Interpretazione assai suggestiva di cui ovviamente non possiamo garantire la "verità". L'elemento metaforico lo abbiamo anche ritrovato nella disputa tra Marsia e Apollo - con cui la storia della morte di Orfeo ha qualche affinità: come la lira di Orfeo che sorregge il suo capo, anche l'aulos di Marsia, gettato nel fiume che porta il suo nome, arriva infine, attraversando l'Egeo e passando da fiume a fiume, alla città di Corinto dove viene conservato in un tempio. Il mito è una fantasia sociale che ciascuno può soggettivamente interpretare e proseguire, scoprendo nuovi nessi e dunque anche nuovi sensi. Tuttavia alla base delle sue storie vi è comunque la Storia, le sue vicende concrete, gli intrecci tra le culture che si avvicendano. Nell'interpretazione or ora proposta Orfeo sembra essere anzitutto un musico apollineo, che si converte a Dioniso, anzi che si dissolve in Dioniso. Ciò significa da un lato fare del mondo religioso olimpico, qualcosa che precede piuttosto che seguire la fase ctonia 242 della cultura religiosa greca - cosa che non è; dall'altro a rinunciare a quello che è forse il tratto più caratteristico di questa figura: quello di essere portatore e mediatore di entrambi i messaggi, di mostrare la loro convivenza nella musica e nella spiritualità greca in generale. Cosicché a me sembra che il modo diverso in cui viene raccontata la storia di Orfeo in un frammento dovuto ad Eratostene (III sec. a. C.), con riferimento ad una tragedia perduta di Eschilo (Le Bassaridi), suggerisca una spiegazione più profonda di "Essendo disceso nell'Ade a causa della sua donna, e avendo visto come sono le cose di laggiù, cessò di onorare Dioniso, mentre considerò come massimo tra gli dei Elios, che egli chiamò anche Apollo. E svegliandosi di notte verso il mattino, per prima cosa sul monte detto Pangaion attendeva il sorgere del sole, per vedere Helios. Perciò Dioniso,adirato, gli mandò contro le Bassaridi [Menadi], come dice Eschilo, il poeta tragico: queste lo sbranarono e dispersero le sue membra, ogni parte del corpo separata dalle altre" (Colli, 1990, p. 199). Vi sarebbe dunque un primo e fondamentale legame Dioniso-Orfeo che in qualche modo precede quello di Orfeo-Apollo. Sprofondando nelle tenebre Orfeo, il cui nome forse significa forse l'"oscuro" (Kerényi, cfr. 2004, p. 138), aspira alla luce. L'orfismo, la corrente religioso-filosofica che si ricollega a Orfeo, accentua i tratti notturni di questa figura, erigendo a principio divino di tutte le cose la Notte stessa (Colli, 1990, p. 205). Sarei quasi tentato di dire: la Notte che attende il giorno. 243 Annotazione sulla morte di Orfeo secondo Picasso Nel 1930 Picasso si accinse ad illustrare le Metamorfosi di Ovidio. In particolare si soffermò sulla morte di Orfeo di cui realizzò due versioni. La prima, particolarmente densa e drammatica, in cui il corpo di Orfeo giace riverso mentre le menadi che lo dilaniano. Sono visibili in essa anche particolari particolarmente brutali. Di essa tuttavia egli non fu soddisfatto e realizzò una seconda versione, più "classicheggiante" sia nella disposizione dell'insieme sia nelle forme: le menadi che prima infierivano ora contemplano il corpo di Orfeo. Non può sfuggire tuttavia un aspetto comune all'una ed all'altra versione. In entrambe è presente la testa del toro - due teste nella prima, una nella seconda nella quale Orfeo giace 244 abbandonato sul toro abbattuto. Per Picasso il toro divenne sempre più immagine della vittima sacrificale. 245 3. I filosofi che cantano 3.1 Il volto di Pitagora 3.2 Vita di Pitagora 3.3 Acusmatici e matematici 3.4 Scienza e immaginazione 3.5 Chi è Pitagora? 3.6 Pitagora e Apollo 3.7 Viaggi di Pitagora 3.8 I prodigi di Pitagora 3.9 I filosofi che cantano 246 3.1. Il volto di Pitagora Dopo uno sguardo sommario ai principali strumenti impiegati nella musica greca ed alle fantasie che stanno loro intorno, ci avviciniamo ai problemi della teoria greca della musica. Ma a piccoli passi - a poco a poco. Avviandoci a parlare di Pitagora e del pitagorismo in genere, restiamo per un buon tratto se non nel mito, nella leggenda; ed anzi molto spesso abbiamo la sensazione di essere ancora interamente immersi nel mito. Questo non vuol dire che vi siano ragioni serie per dubitare della esistenza reale della figura di Pitagora. Siamo in grado ad esempio di indicare una cronologia che resta, come è ovvio, molto indeterminata per quanto riguarda le date, ma abbastanza sicura per quanto riguarda i periodi ed alcuni luoghi. 247 Vi è anche una fisionomia tramandata attraverso sculture - sulla quale naturalmente non si può mettere la mano sul fuoco - ma che possono essere considerate come copie di altre molto arcaiche. Non sembra ragionevole escludere in linea di principio la somiglianza con la persona rappresentata (ammesso che sia esistita). In seguito ovviamente questi "ritratti" diventano modelli che possono essere iterati, ed anche variati mantenendo elementi di somiglianza con il modello. Nella scultura di questa pagina conservata ai Musei Capitolini di Roma - Pitagora viene ritratto con un singolare copricapo. Attiro l'attenzione su questo punto perché è stata recentemente formulata un'interessante ipotesi dall'archeologo Daniele Castrizio, che riguarda il confronto tra la scultura precedente ed il ritratto bronzeo presente nel Museo di Reggio Calabria già caratterizzato come "ritratto di filosofo" per via di un reperto ad esso associato di un corto mantello che era in Grecia portato in particolare da letterati e filosofi. 248 Il ritratto del cosiddetto "filosofo" dal relitto di Porticello (Reggio Calabria) Daniele Castrizio ha recentemente sostenuto che che questo notevole ritratto bronzeo potrebbe essere effettivamente il ritratto di un filosofo, e precisamente di Pitagora. In questa ipotesi il copricapo assolve una notevole funzione. In breve: il copricapo è un turbante che segnala i viaggi pitagorei in particolare in Egitto e presso gli arabi. Il bronzo di Reggio provvisto di turbante ci riporta direttamente al volto considerato ai Musei Capitolini. NOTA Daniele Castrizio ha avuto la cortesia di mettere a disposizione un video in cui egli spiega a viva voce le proprie tesi documentandole ovviamente con una maggiore ricchezza di particolari rispetto alla nostra breve sintesi - cosicché è possibile su questo punto fare riferimento diretto al video : Il filosofo di Porticello. Il ritratto di Pitagora di Samo? (http://www.youtube.com/watch?v=k-c_JhvLYRc) 249 Vi sono anche dei motivi storicamente concreti a suggerire che possa trattarsi del ritratto di Pitagora poiché la città di Reggio Calabria aveva ospitato i pitagorici scacciati da Crotone intorno alla metà del secolo V. Si spiegherebbe così la presenza a Reggio di una statua di Pitagora che divenne parte (sempre secondo l'ipotesi di Castrizio) del bottino di guerra di Dionisio I di Siracusa dopo la presa di Reggio del 386 a. C. e trasportato su una nave affondata nello stretto in quel torno di tempo. Eccoci dunque faccia a faccia con Pitagora! Bisogna ammettere che è un po' singolare pretendere di presentare quasi in carne ed ossa il filosofo dopo aver premesso che la sua storia sconfina nella leggenda e nel mito. Ma in fondo trovo attraente, proprio in questo caso, l'illusione della massima realtà e vicinanza che un ritratto può offrire, quasi per sottolineare un paradosso in cui ci imbattiamo fin dall'inizio e che vogliamo accettare di buon grado come un annuncio che di qui in avanti la nostra strada potrà essere assai scivolosa. 250 3.2. Vita di Pitagora Che io sappia, nessuno ha mai messo in dubbio l'esistenza storica di Pitagora. Di lui sappiamo alcune cose che sembrano bene assodate. Pitagora nacque nel VI secolo nell'isola di Samo - in prossimità delle città ioniche di Mileto e di Efeso. Rammento che Mileto era patria di Talete (VII sec. a. C.) e di Anassimandro (VI sec.) ed Efeso era patria di Eraclito (VI sec.). C'è anche chi azzarda per Pitagora una data di nascita nel 570 a. C.; in ogni caso intorno al 530, egli era ormai a capo di una scuola fiorente ed in pieno sviluppo sviluppo in Magna Grecia, sulla costa del Mar Ionio, nel Tarentino, ed in particolare a Crotone, Metaponto e Taranto. Si narra anche di numerosi viaggi di Pitagora in Egitto e in Babilonia. Sulla realtà di questi viaggi si può ampiamente dubitare per il fatto che fa parte dell'idea stessa del sapere di queste epoche arcaiche di proporre le conoscenze acquisite come provenienti di 251 lontano - e per la Grecia in particolare dalla più antica civiltà egizia e assiro-babilonese. Da questo riconoscimento le conoscenze stesse ottenevano un lustro e una dignità più grande. Tuttavia è certo la cultura greca in genere entrò in rapporto sia con le civiltà mediterranee che con quelle orientali in misura molto ampia, e che di qui trasse conoscenze, usanze ed anche credenze religiose e pratiche di culto. I viaggi di Pitagora, reali o immaginari, sono in ogni caso una sorta di riflesso immaginativo dell'intensità di questi rapporti. Il trasferimento di Pitagora in Italia vi fu veramente, benché sia anch'esso circondato da leggende. Probabilmente questo trasferimento fu dovuto sia alla situazione politica dell'isola di Samo dopo la presa del potere del tiranno Policrate sia allo scarso successo delle dottrine pitagoriche in madrepatria. La grande diffusione del pitagorismo in Magna Grecia è attestata da moltissime fonti e documentazioni di vario genere. È noto poi che il pitagorismo assunse in Magna Grecia non solo il carattere di una setta filosofica e religiosa, ma anche di una setta che mirava al controllo politico delle città per lo più in connessione con gli strati aristocratici della popolazione. In realtà ciò non significa che i pitagorici imponessero i propri principi etico-morali alle popolazioni. La setta aveva infatti un carattere rigorosamente chiuso, e di conseguenza all'osservanza dei principi (che riguardavano molti aspetti anche della vita pratica) erano tenuti soltanto i membri effettivi della setta. A creare conflitti con la popolazione furono piuttosto i loro legami con le aristocrazie cittadine. Questa alleanza costò loro piuttosto cara quando intervennero rivolte popolari anti-oligarchiche. In ef effetti tra i dati storicamente certi vi è anche la cacciata dei pitagorici a causa di rivolte popolari da tutte le città in cui detenevano in tutto o in parte il potere. Si rammenta soprattutto la rivolta antipitagorica di Crotone, con l'episodio culminante dell'incendio del palazzo delle riunioni dei pitagorici, e che provocò una carneficina di filosofi. Questo episodio viene talora situato intorno alla metà del V secolo, ed è incerto se Pitagora morì prima dell'incendio o dopo di esso (la data di morte talora viene proposta intorno al 490 a. C.). Queste vicende posero fine all'epoca più strettamente settaria del pitagorismo. I sopravvissuti abbandonarono in gran parte, almeno temporaneamente, la Magna Grecia e ciò consentì il loro ritorno in 252 Grecia e l'intreccio con le altre dottrine, in particolare con il platonismo. Le influenze pitagoriche in Platone sono numerosissime, e l'ultima filosofia di Platone, che va sotto il nome di teoria delle idee-numero, è sicuramente elaborata sotto il fascino del pitagorismo. Questa era già l'opinione di Aristotele: Platone "in molte dottrine seguì i pitagorici, ma altre ne ebbe sue proprie e lontane dalla filosofia italica... Platone si limitò a cambiare il nome, poiché i Pitagorici dicono che le cose esistono per imitazione dei numeri, ma Platone per partecipazione alla natura dei numeri" (Metafisica, VI, 6, 987 b)". C'è peraltro chi sostiene con buon fondamento che molte teorie attribuite al pitagorismo antico siano state invece elaborate all'interno dell'ambiente platonico. È certo in ogni caso che il platonismo ha fortemente contribuito a fornire un'immagine del pitagorismo che è piuttosto lontana dal pitagorismo delle origini. Area di influenza dell'antico pitagorismo (da Riedweg, 2005) 253 3.3. Acusmatici e matematici Le storie leggendarie intorno a Pitagora ed al pitagorismo si sono sicuramente affermate già all'epoca del pitagorismo più antico, favorite peraltro dal fatto che che il pitagorismo aveva anche carattere religioso. Pitagora era a capo di una setta di cui egli era il gran sacerdote. A lui spettava una autorità di principio. La frase "lo ha detto lui" - l'ipse ipse dixit dei latini, che normalmente viene riferita ad Aristotele, fu in realtà coniata dai pitagorici con riferimento a Pitagora. In quella frase è sicuramente implicato il riconoscimento di un magisterio di sapore sacerdotale. In questo contesto settario vanno considerati gli aspetti iniziatici del pitagorismo, che implicano un "sapere" riservato agli adepti ed anche, come in ogni pratica di iniziazione, dei gradi che dovevano essere superati per addentrarsi sempre più nella dottrina. Si tramanda che Pitagora insegnasse dietro una tenda, e che al di là della tenda fossero ammessi solo gli adepti per così dire di grado superiore, che avevano già compiuto una gran parte dell'itinerario di iniziazione. I più giovani affiliati erano tenuti fuori dalla tenda, cosicché potevano sentire solo la voce di Pitagora, ma non il suo volto. Gli uni e gli altri erano comunque tenuti al segreto sulle conoscenze acquisite nell'insegnamento del maestro. Fra le pratiche per essere ammessi dietro la tenda vi era anche un "quinquennio di silenzio" (Giamblico, 1991, p. 237 e p. 205). Al problema dell'ascolto è anche connessa un'altra importante espressione - quella di acusma e di acusmatici - che non sembra avere a che fare con le pratiche di iniziazione, ma piuttosto con l'evoluzione della stessa scuola pitagorica. Il termine di acusma significa "ciò che viene ascoltato" e acusmatici possono essere detti "coloro che tendono l'orecchio per ascoltare" o più breve "coloro che ascoltano". L'ascolto fuori dalla tenda da un lato può essere inteso come un'enfatizzazione del puro ascolto delle parole dette e del loro significato. Tuttavia impedendo la visione di colui che parla, e quindi precludendo la vista della provenienza del suono 254 della parola, oggetto dell'enfasi diventa anche il suono della parola come tale, e non solo il suo significato. Cosicché non è escluso un riferimento musicale indiretto. In certo senso viene messa in opera una regola immaginativa che stabilisce connessioni ex contrario: in questo caso si tratta del legame tra musica e cecità. Il poeta Omero era cieco, non perché poeta, ma anzitutto perché cantore. In tempi abbastanza recenti, intorno agli anni sessanta del secolo scorso, il termine di acusma è stato ripreso da un teorico dell'avanguardia musicale, R. Schaeffer, all'interno di un libro il cui titolo è già indicativo del suo contenuto: Traité des objetx musicaux. In esso si tentava, si fronte alla larga sperimentazione del suono della musica novecentesca dopo gli anni cinquanta, di operare una sorta di tipologia sistematica degli "oggetti musicali". La premessa di questa tipologia è quello che Schaeffer, con terminologia fenomenologica, chiama "ascolto ridotto", cioè ascolto liberato dai suoi riferimenti a dati estranei al suono stesso, all'acusma come tale. Questa interpretazione è assai seducente, e forse non troppo infedele allo spirito del pitagorismo: l'enfasi sull'ascolto è indubbiamente uno dei suoi tratti caratteristici. Talora "i membri erano chiamati homakoi, ovvero 'coloro che vengono insieme per ascoltare' e la sala in cui si tengono le loro assemblee viene detta homakoeion, ovvero 'luogo per ascoltare insieme'" (Kahn, 1901, p. 8). Tuttavia non mi sembra si trovino passi molto netti che riferiscano il termine di "acusmatico" proprio a questa enfasi. È possibile che la parola acusmatico avesse più di un senso ovvero che ai tempi della tradizione più tarda il suo significato originario fosse diventato malsicuro. Talora questo termine serve a contraddistinguere i puri "uditori" dai "filosofi" che sono propriamente seguaci di Pitagora e disposti a vivere in comune secondo i suoi precetti (Giamblico 1991, p. 149). Ma più spesso con acusmatici si intendono al contrario proprio coloro che decidono di aderire in toto alla dottrina pitagorica e precisamente coloro che si ritenevano i seguaci più fedeli dell'insegnamento orale di Pitagora, e che dunque facevano esclusivo riferimento a quelli che venivano considerati i "detti" originari di Pitagora, gli "acusmata" - cioè le cose dette e ascoltate. Una parola talora usata come equivalente ad acusma era symbolon - termine probabilmente dovuto al fatto che il detto memorabile aveva forma 255 di allegoria che doveva essere interpretata. "La più antica forma di trasmissione degli insegnamenti di Pitagora è rappresentata dagli acusmata, che erano anche chiamati symbola, massime e detti trasmessi oralmente" (Burkert, p. 166). Il parlare per "simboli" sembra essere direttamente connesso con l'idea che i detti dovevano rimanere rigorosamente segreti e non comunicati al di fuori della setta. Agli "acusmatici" si contrapponevano i pitagorici che vengono chiamati "matematici". La distinzione più probabile tra gli uni e gli altri era di due ordini: i primi certamente davano la preferenza ai motivi morali, oltre appunto a ritenersi depositari della dottrina autentica; i secondi invece ponevano l'accento sui motivi scientifici e conoscitivi, e in particolare erano favorevoli alla divulgazione delle conoscenze pitagoriche. L'incontro di Platone con il pitagorismo avviene naturalmente in rapporto alla fase evolutiva caratterizzata dai "matematici". La figura di Pitagora si prestava fin dall'inizio alle fabulazioni e la sua storia mitico-leggendaria, anziché diventare più fievole, si andò sempre più arricchendo nella lunga vicenda dell'esperienza pitagorica che va ben oltre la grecità, attraversa il medioevo e il rinascimento fino a lambire i giorni nostri. 256 3.4 Scienza e immaginazione Questi aspetti vennero certamente accentuati e favoriti dall'impiego di figurazioni simboliche, di emblemi, di parole e segni che si rivestivano di molteplici sensi e che hanno costituito anche una parte del fascino del pitagorismo, sia ai suoi tempi sia per tutta la sua lunga storia. Il pensiero pitagorico è un pensiero immaginifico, e questo è tanto più singolare quanto più ad esso si debbono i primi arditi pensieri sulla struttura matematica della realtà, le prime audacissime ipotesi astronomiche sulla forma della terra e sulla natura dell'universo. Gli storici della filosofia e della scienza hanno spesso separato nettamente questo aspetto simbolico-immaginifico dalle ricerche che possono essere annoverate più motivatamente all'ambito dell'aritmetica e della geometria. Ciò naturalmente è del tutto giustificato; ma sarebbe erroneo ritenere che l'elemento immaginativo non abbia nulla a che fare con l'atteggiamento conoscitivo e che il compito dello storico sia unicamente quello di separare il grano dal loglio, e non invece quello di comprendere il senso di questa singolare mistura di fantasie e di conoscenza. Una riflessione sul pitagorismo ha anche il senso di richiamare l'attenzione sull'esemplarità della vicenda pitagorica proprio per il fatto che essa mostra un'interazione tra cose apparentemente tanto diverse come la ricerca astratta intorno alle forme numeriche e geometriche, l'osservazione empirica e l'immaginazione simbolica. Credo perciò che sia da considerare eccessiva e unilaterale, e determinata da un pregiudizio teorico, la tesi sostenuta da Burkert nel suo studio sul pitagorismo intitolato nella traduzione inglese Lore and Science in the Ancient Pythagorism (Burkert, 1972) e nell'edizione tedesca di una decina di anni prima Weisheit und Wissenschaft. Studien zur Pythagoras, Philolaos una Platon (Nurnberg, 1962) nel quale si fa una netta distinzione tra una direzione magico-numerologica a sfondo religioso che sarebbe propria del pitagorismo, escludendo interessi scientifici e matematici da questa corrente filosofica, e la direzione scientifico-matematica vera e propria e ponendo tra l'una e l'altra una netta cesura. Già nella prefazione del 1962 257 Burkert enuncia brevemente e con chiarezza la sua tesi affermando: "In quel periodo crepuscolare tra il vecchio e il nuovo, quando i greci, impegnati in un'impresa storicamente unica, andavano alla scoperta dell'interpretazione razionale del mondo e della scienza naturale quantitativa, Pitagora rappresenta non l'origine del nuovo, ma la sopravvivenza o la reviviscenza dell'antica tradizione prescientifica, basata su autorità sovrumane ed espressa in obblighi rituali... Ciò che fu in seguito considerato come filosofia di Pitagora ha le sue radici nella scuola di Platone". Questa prospettiva di discorso secondo cui il sapere pitagorico sarebbe essenzialmente di carattere "pre-scientifico" e tipico di una setta religiosa è a mio avviso ormai del tutto superata, anche se ha dato a suo tempo nuovo impulso agli studi del pitagorismo ed ha consentito di mostrare la difficoltà, del resto evidente, di delimitare con chiarezza il pensiero pitagorico soprattutto nel suo sviluppo temporale. Del resto molto presto anche estimatori del lavoro di Burkert come Carl Huffman (1988) sono nettamente critici su aspetti di rilievo. Nel senso di una limitazione delle tesi di Burkert si esprime più recentemente anche Kahn quando scrive che "il caso parallelo di Empedocle mostra che il ruolo duplice di profeta religioso e di filosofo matematico che la tradizione assegna a Pitagora è storicamente possibile oltre che fattualmente corretto"(2001, p. 18). Si tratta di un'osservazione quanto mai pertinente. Ma è ancora troppo poco. In realtà, a parte il problema storico, vi è, a mio avviso, anche un pregiudizio teorico che si manifesta apertamente nel titolo: si tratta della contrapposizione tra Wissenschaft/Science e Weisheit/Lore (intesa non come un sapere, ma come una "sapienza" sacerdotale e tradizionale, oralmente tramandata più legata alla tradizione religiosa che alla riflessione filosofica). La guida teorica che orienta l'impostazione del Burkert è quello del- 258 la pretesa "purezza" della ragione dominante nel pensiero scientifico rispetto agli elementi "spuri" che hanno un'origine nell'immaginazione e che vengono via via messi da parte dalla victory of rational science. È invece proprio questa opposizione che ha fatto il suo tempo: essa è una opposizione vetero-neopositivistica che era già molto invecchiata negli anni in cui Burkert scriveva la sua opera. La sua tesi del resto è ampiamente anticipata in piena èra positivistica da Zeller. L'epistemologia dei nostri giorni è invece diventata sempre più consapevole delle vie traverse che il pensiero segue nei propri complessi percorsi conoscitivi. Ciò non significa per nulla giustificare l'abuso degli aspetti immaginifici che ha colpito in particolare il pitagorismo e che gli ha nociuto non poco. Il simbolismo pitagorico è in effetti passato attraverso tutte le sette più o meno esoteriche e lo potete trovare nella sua massima degradazione persino presso maghi e fattucchieri di periferia dei giorni nostri. Questa degradazione è presente del resto anche in tentativi relativamente recenti di rinnovare lo spirito del pitagorismo riprendendone le valenze religiose e simboliche pretendendo (senza riuscirvi) di mantenere un alto profilo culturale. L'elemento simbolico-immaginativo, nettamente separato dagli interessi e dalla forma mentis che erano intrecciati alle sue origini, diventa del tutto privo di interesse. 259 3.5 Chi è Pitagora? In precedenza abbiamo in qualche modo risposto con i pochi elementi relativamente sicuri alla domanda: "Chi è Pitagora?" Ora è interessante notare che questa stessa frase, e proprio in forma interrogativa, faceva parte dei detti del repertorio del pitagorismo, era essa stessa un "simbolo" nel senso che abbiamo illustrato, intendeva cioè suggerire la presenza di un enigma, a cui era difficile dare una risposta. Siamo allora tentati di riproporre quella stessa domanda proprio come se fosse un enigma pitagorico - e le nostre risposte questa volta si rifaranno alla leggenda. Vi è uno straordinario aforisma di Stanislaw Jerzy Lec, autore fatto conoscere in Italia da Guido Davide Neri, che merita di essere riferito proprio a questo punto: "La storia non lo dice, ma la leggenda parla chiaro" (Lec, 1965). Forse, guidati da questo "pensiero proibito", non risponderemo esattamente alla domanda "Chi è Pitagora" - che del resto è forse in se stessa meno importante di quanto si potrebbe pensare. Non sappiamo chi fosse Pitagora, ma sappiamo molte cose sul modo in cui questo personaggio venne sentito, vissuto e costruito. Questa costruzione a sua volta non è solo artificio, ci potrebbe insegnare molte cose, esattamente come molte cose è in grado di insegnarci la narrazione mitica che abbiamo sviluppato in precedenza. Per questi nostri intenti attuali possiamo contare su un testo per molti versi straordinario, una sorta di romanzo filosofico che si legge tutto d'un fiato, la Vita pitagorica di Giamblico (Giamblico, 1991).Giamblico fu allievo di Porfirio, anch'egli autore di una Vita di Pitagora, e può essere considerato un felicissimo rappresentante del connubbio tra pitagorismo e neoplatonismo. Fondò una scuola filosofica ad Apamea in Siria, dove morì intorno al 330 e venne seppellito a Palmira, in un torre tombale che porta ancora il suo nome. Essendo vissuto tra il III e IV secolo dopo Cristo (ca. 245 C.E.- ca. 330), Giamblico quindi scrive dal più al meno novecento anni dopo la nascita di Pitagora. Egli, filosofo neoplatonico, si professava al tempo stesso pitagorico ed ha dedicato numerosi scritti ad esporre le dottrine filosofiche dei pitagorici. 260 In questa Vita tuttavia si concede un'esposizione della biografia immaginaria di Pitagora, e più ampiamente delle dottrine soprattutto morali di Pitagora e dei Pitagorici e dei loro costumi. Ben poco viene invece dedicato alla teoria della conoscenza, all'aritmetica dei pitagorici di cui Giamblico si era occupato a fondo in altre opere. Non si tratta tuttavia di un'opera ingenua o vuotamente apologetica. Al contrario è notevole il fatto che si avverta in Giamblico il pericolo di un pitagorismo di bassa lega, che così spesso si è accompagnato alla tradizione pitagorica. "Evitiamo di attribuire alcuna importanza - osserva Giamblico alla fine del proemio della Vita pitagorica - al fatto che questa scuola di pensiero ormai da molto tempo è nell'abbandono, è ammantata di dottrine strane e simboli arcani, su di essa gettano ombra una quantità di scritti apocrifi e infine molte altre difficoltà rendono arduo l'accedervi" (Giamblico, 1991, p. 119). Giamblico avverte in altri termini che l'attenzione pitagorica 261 all'ambito dei simboli e degli emblemi, gli aspetti sacrali ed anche vagamente magici che sono presenti nel pitagorismo, si prestano facilmente a manomissioni ed abusi. Questo è un giudizio molto acuto che riguarda l'intera tradizione pitagorica. 262 Quando Giamblico parlava di testi "apocrifi", non pensava certo alla difesa di una possibile ortodossia, mentre intendeva mettere in guardia contro l'utilizzo di idee pitagoriche all'interno di contesti ciarlataneschi. Egli è un pitagorico assai sorvegliato sia nell'esposizione delle dottrine pitagoriche che fa soprattutto in altri testi ed in cui è certamente molto difficile distinguere ciò che appartiene al pitagorismo delle origini e ciò che invece è il frutto di una elaborazione molto più tarda, sia in questa Vita pitagorica sicuramente destinata ad un pubblico più generico rispetto ai libri propriamente dottrinari, cosicché, egli non intende rinunciare al lato esplicitamente immaginario del "storie" che va raccontando. Tomba di Giamblico a Palmira © 1999 - 2001 Fausto Gabrielli - Dipartimento di Scienze Archeologiche - Pisa. Si ringrazia il prof. Fausto Gabrielli per l'autorizzazione all'impiego di questa fotografia. Essa si trova in: SIRIA 98, IMMAGINI NEL TEMPO [http://www.arch.unipi.it/Siria_98/foto_siriacentro.html] 263 Abbiamo detto: Pitagora nasce nel VI secolo, e possiamo azzardarci a indicare la data di nascita intorno al 570 a. C. Ma sappiamo anche (e da questo punto in poi questo "sappiamo" ha un senso del tutto particolare) che egli era figlio di Mnemarco e Pitaide. E che mai? Dovremmo forse ricordarci anche dei nomi dei genitori di Pitagora? Forse si. Almeno di Pitaide. Perché nel suo nome vi è una presenza misteriosa. Ci rammentiamo allora di Pitone e dell'oracolo delfico. C'è insomma chi sussurra che Pitagora non fosse affatto figlio di Mnemarco, ma di Apollo stesso, congiuntosi segretamente, come tanto spesso fanno gli dei greci, con una fanciulla. Il che è inammissibile - commenta Giamblico. Ma egli, a sua volta, traduce la storia in modo che venga saldamente mantenuto il rapporto con Apollo. Di fatto Mnemarco venne a sapere della moglie incinta, che peraltro fino a quel momento non si chiamava affatto Pitaide, durante una visita all'oracolo delfico. Ed allora in onore di Apollo volle che la moglie ricevesse quel nome Pitaide, appunto - a memoria di una tanto felice occasione. Ciò che secondo Giamblico rende inammissibile tutta la storia è il fatto che Apollo, dopo aver messo incinta la moglie di Mnemarco, faccia avvertire costui attraverso l'oracolo. Questo sarebbe proprio indegno di un dio. L'episodio viene così laicizzato, ma resta il punto essenziale. Pitagora è comunque "figlio di Apollo" - sia pure in chiave metaforica. E precisamente dell'Apollo Pizio. Ma allora anche il suo stesso nome ci colpisce: non meno che nel nome di Pitaide, anche in quello di Pitagora vi è il ricordo di Delfo e del Pitone. Ecco un bel modo di narrare della nascita, ben diverso dal dire semplicemente: 570 a. C. In realtà in questo primo passo vediamo subito in opera, in Giamblico, una tipica procedura pitagorica un'enfasi sugli etimi, anzi sui falsi etimi, che diventano ipersignificanti. Questa è una procedura frequentissima che compare anche nelle discussioni dottrinali. In questo caso essa è posta al servizio dell'istituzione di un'importante relazione. 264 Ricollegandoci ai nostri discorsi precedenti: Pitagora si trova sul versante di Apollo. Egli, se suonerà, si rivolgerà alla lira ed alla cetra; e la dottrina che svilupperà sarà tendente alla chiarezza luminosa di Apollo. È Aristide Quintiliano che ripropone, in rapporto a Pitagora, il tema dell'opposizione tra istintualità e razionalità in rapporto agli strumenti fondamentali della musica greca: "Questo era dunque il senso dell'ammonimento che si dice Pitagora abbia detto ai suoi discepoli: che se essi avessere ascoltato gli auloi avrebbero dovuti lavarsi le orecchie perché il loro alito li aveva insozzate: avrebbero dunque dovuto usare melodie di buon auspicio cantate con l'accompagnamento della lira per nettare la loro anima da impulsi irrazionali. L'aulos, egli diceva, è al servizio di ciò che padroneggia la nostra parte peggiore, menre la lira è amata e goduta da ciò che si cura della nostra natura razionale" (Libro II, cap. 19 - Barker, 1989, p. 483). 265 La connessione con Apollo è attestata anche dalla singolare storia della visita del sacerdote Abari a Pitagora, ormai famoso. Abari viene da lontano, anzi da lontanissimo - dal paese degli Iperborei - e qui potrebbe cominciare un'altra storia in rapporto alla quale dirò soltanto che, se la Tracia, a due passi a Nord della Grecia, era già favolosa, in rapporto al paese degli Iperborei l'immaginazione mitico-narrativa si scatena. La parola significa una regione che si trova al di là dei venti del nord (Borea). Si è allora pensato ad un paese che i Greci localizzavano al di sopra del Danubio; ma anche nei mari nordici presso il circolo polare - quindi ad esempio all' Islanda o alla Groenlandia. Tra le cose che si raccontavano di quella regione era anche che per ventiquattro ore non tramontava il sole, cosa che fa pensare all'aurora boreale. Non è escluso del tutto in realtà che i Greci siano in qualche modo venuti a conoscenza dei ghiacci dell'Artico. Come sempre accade, in casi come questi, è possibile che nella geografia immaginaria vi siano elementi di conoscenza derivanti da viaggi e peregrinazioni. Ciò apre naturalmente un diverso orizzonte di problemi. Per quanto riguarda invece il nostro contesto, il paese degli Iperborei con la sua favolosa città di Tule, va considerato come un assoluto altrove. In quel paese si vive una vita felice, ed in esso la musica ha una parte importante. "E le Muse non sono certo estranee ai loro costumi: ovunque le fanciulle volteggiano nella danza al forte suono della lira e e degli auloi dalla voce aspra. Alle loro gaie feste esse annodano ai loro capelli dorato alloro, malanni non vi sono tra quel popolo pio, e nemmeno la rovinosa vecchiezza, ma essi vivono senza affaticamenti o battaglie, evitando il severo giudizio di Nemesi" (Pindaro, Odi Pitiche, X, 37-49) 266 Dice ancora Pindaro: "Non Non per terra né per acqua troverai la via che porta agli iperborei iperborei" (Pindaro, Odi Pitiche, X, 29-30) In queste nordiche lontananze troviamo uno stretto rapporto proprio con Apollo. Gli Iperborei seguono il culto di Apollo, mandano doni ai suoi templi in Grecia. Abari proviene dal paese degli Iperborei ed è un sacerdote di Apollo. Proprio in quella regione Apollo viene trasportato da un volo di cigni. O forse, viaggiando sul suo tripode su una barca portata da ali di cigno e accompagnata dai salti festosi dei delfini, come compare in questo vaso che risale al principio del sec. V a. C. Apollo viene qui rappresentato con la faretra mentre suona la lira. Cigni e delfini erano animali sacri ad Apollo. 267 Abari si reca dunque da Pitagora portandogli in regalo una freccia, che è in realtà una freccia magica, che ha il potere di allontanare i mali ed a superare i pericoli. La freccia di Abari è in ogni caso un ulteriore ed evidente richiamo ad Apollo. E mentre Abari fa il suo dono, vede in Pitagora niente di meno che l'Apollo Iperboreo di cui egli è gran sacerdote. Di ciò Pitagora non si meraviglia più di tanto, ed anzi per conferma di avere in sè qualche particella divina oltre che come ringraziamento del dono della freccia, mostrò ad Abari la sua coscia d'oro. Veniamo così a sapere che Pitagora aveva una coscia d'oro. Ma dunque: Chi era Pitagora? L'oro appartiene a sua volta al simbolismo apollineo - per il suo splendore, per la sua luminosità. Ma il legame di Pitagora con Apollo avviene in ogni caso sotto il segno di quell'ambivalenza che abbiamo già appreso dall'analisi dei miti. Non parlava forse anche Pitagora per enigmi? Giamblico non esita a riferire questo stile ad un nesso con l'oracolo apollineo. "Era consuetudine di Pitagora comunicare ai suoi discepoli significati molteplici e complessi in modo simbolico, pronunciando come un oracolo detti assolutamente lapidari, nella medesima maniera di Apollo Pizio, ovvero della natura stessa. L'uno per mezzo di detti semplici e l'altra di semi di ridotte dimensioni che portano alla luce, il primo, una quantità inesauribile e inimmaginabile di pensieri, la seconda di esseri generati" (Giamblico,1991, XXIX, p. 319). Vi è anche chi ha ipotizzato che la rivelazione ad Abari della propria "coscia d'oro" fosse un equivalente cifrato, comprensibile solo per gli adepti, per indicare che Pitagora gli aveva comunicato la scoperta della sezione aurea. Magismo, mitemi, allegorie si mescolerebbero in tal caso con particolare intensità. 268 269 "Nella sua scuola era imprescindibile il metodo di insegnamento basato sui simboli. Questa forma di espressione era molto apprezzata presso tutti i Greci in quanto era la più antica, ma erano specialmente gli egiziani a farne l'uso più vario... In obbedienza alla regola di Pitagora...[i pitagorici] adottavano modi di esprimersi il cui senso per i non iniziati era insondabile e occultavano i loro discorsi e i loro scritti sotto il velo dei simboli. E se questi detti simbolici non vengono sceverati e spiegati, e intesi alla luce di una seria esegesi, quanto essi affermano potrà sembrare risibile... Qualora invece quelle parole vengano svelate in conformità con lo stile di questi simboli, e rese limpide e chiare alla gente, allora esse risulteranno analoghe a quelle di certe profezie e di certi responsi di Apollo Pizio, rivelando una stupefacente profondità di pensiero, e procureranno una divina ispirazione agli strudiosi che vi abbiano dedicato la loro riflessione" (Giamblico, 1991, XXIII, p. 251) Questa relazione con l'elemento oracolare è presente anche nelle storie delle visite di Pitagora ai santuari della Grecia, in particolare nell'isola di Delo. Per i seguaci di retti di Pitagora non vi era dubbio che vi fosse in Pitagora una scintilla divina, ma curiosamente - e nello stesso tempo, a nostro avviso significativamente, questa scintilla poteva brillare di luce diversa. Perché un conto è fare di Pitagora una reincarnazione di Apollo, come nel racconto relativo alla visita del sacerdote Abari, ed un altro è fare di lui la reincarnazione di un demone residente nella luna, come sussurravano altri 270 (Giamblico, 1991, p. 151). In questo quadro si situa quella che potremmo chiamare la teoria delle tre nature. Giamblico riferisce che secondo i pitagorici vi sono tre nature: "Degli esseri viventi dotati di ragione uno è dio, l'altro è uomo e il terzo ha la natura di Pitagora"(ivi). Un enigma dei Pitagorici suonava così: "Bipedi sono l'uomo, l'uccello, e anche un terzo essere" - che era appunto Pitagora. Pitagora, dunque, pur essendo bipede, non era né uomo né uccello. (Giamblico, 1991, p. 295). Chi è dunque Pitagora? Questa domanda diventa un enigma perché ha come risposte degli enigmi. 271 3.7. I viaggi di Pitagora Pitagora racconta i suoi viaggi Illustrazione tratta da D. Maréchal, 1799, Libro I 272 Non è solo Giamblico o Porfirio, e in ogni caso non sono solo autori molto antichi a sognare intorno alla vita di Pitagora. Nell'anno 1799 vengono pubblicati a Parigi sei volumi di un'unica opera intitolata Voyages de Pythagore di Sylvain Maréchal, che è ad un tempo un'opera erudita, un grande romanzo filosofico ed anche, per certi versi, un'opera di utopia politica. Maréchal è del resto una figura singolare e di grande rilievo all'interno dell'illuminismo. Egli fu attivo partecipe della rivoluzione francese ed ovviamente questi suoi Viaggi sono una testimonianza del suo pensiero e delle sue opinioni sulla rivoluzione e sugli sviluppi post-rivoluzionari che lo delusero profondamente. Come accade in Giamblico, i personaggi prendono direttamente la parola, ci imbattiamo in dialoghi, in racconti narrati dai protagonisti - in breve: ci trasferiamo anche noi tra gli allievi di Pitagora ad ascoltare la voce del maestro. Il quale - questo è l'inizio dell'opera: "assiso sulla sedia d'avorio, nel vestibolo del tempio delle Muse", "la testa adorna da una lunga barba bianca e con una chioma così bianca come il lino delle sue vesti"comincia a parlare così: "Miei beneamati! Questa lira d'oro che voi stessi avete appeso in questa sacra volta, a ricordo del giorno in cui sono nato, attesta il vostro attaccamento nei miei confronti e mi rende avvertito dei miei ultimi doveri verso di voi. Ho raggiunto la conta degli ottanta anni; è l'età del riposo. Vi debbo dare il mio addio, e sono qui per farlo. Questo dolce mormorio, che testimonia il vostro rincrescimento di fronte all'idea della nostra separazione, mi lusinga. Ma non potrei differire il mio ritiro: l'età, con voce imperiosa, mi dice che è necessario lasciarci al più presto... Questa notte, per via di un presentimento di cui la ragione non può rendere conto, ho passato in rassegna i miei ottanta anni... Due cose formano l'uomo e lo fanno vivere assai in pochi istanti : i viaggi e la memoria: a loro io sono debitore di ciò che sono e di tutto ciò che so. Vogliate tollerare che, con queste ultime lezioni, io dispieghi ai vostri occhi il quadro dei miei viaggi frequenti e lontani in tutti i loro dettagli, in tutte le loro sfumature"(I, p. 1-3). 273 Purtroppo noi non lo potremo seguire nel suo racconto (che si dipana per qualche migliaio di pagine), altrimenti andremo realmente troppo lontano. Diremo soltanto che a convincere il giovane Pitagora, che aveva già deciso di allontanarsi da Samo, a recarsi in Egitto fu il vecchio Talete che Pitagora era andato a visitare nella vicina Mileto per ricevere i suoi insegnamenti e la sua dottrina. Ma Talete, "adducendo la sua vecchiaia e la sua debolezza, lo invitò a recarsi in Egitto ed a incontrarsi soprattutto con i sacerdoti di Menfi e Diospoli: perché da loro egli stesso aveva appreso quanto gli valeva la sua diffusa fama di sapienza. Egli affermava di non possedere, né per natura né a seguito di esercizio, quelle doti privilegiate che scorgeva in Pitagora; sicché poteva preconizzare che se avesse frequentato quei sacerdoti, Pitagora sarebbe divenuto il più sapiente Cerimonia di Iside e divino tra tutti gli Illustrazione tratta da D. Maréchal, uomini" (Giambli1799, libro II co, 1991, p. 133). Ed ecco dunque Pitagora partire alla volta dell'Egitto. Pitagora viene descritto da Giamblico con l'occhio dei marinai che lo vedono scendere da un monte impervio, "lentamente, senza volgersi intorno, senza incontrare una rupe scoscesa o impraticabile" - e avvicinatosi alla nave i marinai "ricordavano come avesse detto sola- 274 mente "Si va in Egitto?" - e questa era in effetti la loro destinazione. Durante il viaggio il giovane siede in silenzio, e per tre giorni e tre notti resta nella stessa posizione senza né bere né mangiare. Mentre il viaggio scorre via senza il minimo intoppo, con il mare calmo e il vento in poppa come se si dovesse portare a destinazione un dio. Cosicché i marinai lo onorano come tale al suo arrivo, mentre all'inizio, a dire il vero avevano fatto un mezzo pensiero, data la bellezza del giovane, di venderlo come schiavo per moneta sonante. In realtà, almeno per qualche aspetto, questavicenda ricorda il viaggio per mare di Dioniso narrato dal Settimo Inno omerico (1994, p. 291), nel quale si racconta che i marinai tentano di rapire di Dioniso per rivenderlo, accorgendosi poi, troppo tardi, del fatale errore. In Egitto Pitagora sta ben ventidue anni - e attinge a piene mani dal sapere sacerdotale. Oltre l'Egitto, l'altra regione vissuta dalla Grecia antica come depositaria di scienza e di saperi arcani è naturalmente Babilonia. E Pitagora fu anche in Babilonia dove "venne istruito dai sacerdoti nei loro riti solenni, apprese il perfetto culto divino, raggiunse la vetta delle conoscenze aritmetiche, musicali e scientifiche" (Giamblico, 1991, p. 139). Naturalmente, una volta fatto giungere Pitagora a Babilonia, i viaggi di Pitagora crescono di numero e vanno sempre più lontano. Porfirio scrive che "quanto alle sue conoscenze,si dice che apprese le scienze matematiche dagli egiziani, caldei e fenici, poiché gli egiziani eccellevano nella geometria, i fenici nei numeri e nelle proporzioni e i caldei nell'astronomia, nei riti divini e di adorazione degli dei; altri segreti relativi al corso della vita egli ricevette e apprese dai Magi" (Porfirio, 1920, cap. 6). Ed anche l'India non è esclusa. D'altra parte, osserva Kahn (2001, p. 19), "dopo le conquiste di Ciro (che morì ca. nel 530 a. C.), l'impero persiano si estendeva dalla Ionia sino alle rive del fiume Indo. Da quel tempo in poi, se non prima, era chiaramente possibile che dottrine orientali viag- 275 giassero verso l'ovest. Come esattamente esse raggiusero Pitagora non possiamo nemmeno immaginare. Ma possiamo almeno vedere che la più tarda leggenda del viaggio di Pitagora in India alla ricerca della saggezza dell'Est può ben contenere un grano di verità allegorica" In ogni caso, dopo vent'anni di Egitto e una decina di Babilonia, Pitagora ormai nella piena maturità - Giamblico parla di 56 anni ritorna in patria nell'isola di Samo. Ma alla sua ansia di insegnare non corrisponde nei concittadini un'altrettanta ansia di apprendere. Ebbe così, nei primi tempi, un unico allievo, un giovane atleta, che, con un'inversione delle parti, Pitagora paga perché egli assista alle sue lezioni. Tuttavia quando egli piange miseria e propone di interrompere queste lezioni per lui troppo costose, è l'allievo, inffiammato dal desiderio di conoscere, a offrire l'obolo al maestro (Giamblico, 1991, 143). Un'accoglienza così miserevole degli abitanti di Samo e la condizione politica della città convinse Pitagora a rimettersi in viaggio, questa volta verso l'Italia. Il centro pitagorico di maggior rilievo diventa Crotone. 276 Figura tratta da D. Maréchal, 1799 , libro V Nella figura tratta da Maréchal, Pitagora arringa i cittadini di Crotone. Porfirio scrive "quando raggiunse l'Italia egli si fermò a Crotone. Il suo modo di presentarsi era quello di un uomo libero, di alta levatura, gradevole nel discorso e nel modo di gestire e in ogni altra cosa. ... All'arrivo di questo grande viaggiatore, dotato di tutti i vantaggi della natura e guidato dalla fortuna, egli produsse una così grande impressione che si guadagnò la stima dei maggiorenti della città attra- 277 verso i suoi molti ed eccellenti discorsi. Perciò lo invitarono ad esortare i giovani, e poi di rivolgersi ai ragazzi che si raccoglievano fuori dalla scuola per ascoltarlo; ed infine alle donne che vennero insieme di proposito" (Porfirio,1920, cap. 18). Del resto fa parte dell'insegnamento pitagorico "l'affermazione di una posizione egualitaria delle donne" che avevano dunque accesso alla setta. Vi sono prove del "ruolo inusuale delle donne come attive partecipanti della comunità pitagorica" (Kahn, p. 10). Fa parte della leggenda anche che la moglie di Pitagora di nome Teano resse per un certo periodo la setta in disfacimento dopo la rivolta dei crotonesi. Pitagora a Crotone da The Story of the Greek People di Eva March Tappar 278 3.8 I prodigi di Pitagora I tratti "sacri" di questa figura si accentuano nella fabulazione della vicenda della diffusione del pitagorismo in Magna Grecia forse più ancora che nel caso dei viaggi in Egitto e in Babilonia. Ecco che compaiono i prodigi, i miracoli di Pitagora. Si può sospettare che in tutto ciò abbia una parte il cristianesimo in espansione - rammentiamo che Giamblico è autore del III/IV sec. d. C. Vi sono certi momenti in cui questa presenza è avvertibile - vi sono abbastanza spesso in Giamblico figure o eventi che sembrano echeggiare miti sorti con il culto di Cristo, piuttosto che da quello di Dioniso o di Apollo. Ma spesso sembra anche valere l'inverso: essendo molte storie pitagoriche sicuramente molto antiche e precedenti all'era cristiana, può essere che il culto di Cristo abbia ripreso molti "miracoli" dalla tradizione pitagorica. In Italia Pitagora spesso si fa strada con dei simpatici prodigi. Ad esempio, di fronte ad una pesca, non moltiplica i pesci, ma indovina il loro numero, e questo per una sorta di scommessa destinata ad imporre ai pescatori di liberare i pesci e di rimetterli in mare. Sempre all'arrivo in Italia Pitagora attraversa un fiume e il fiume prorompe in un "salve Pitagora" "con voce forte e chiara che tutti poterono udire" (Giamblico, 1991, p. 283). Inutile dire che Pitagora, come tutti i taumaturghi che si rispettino, ha talvolta il dono dell'ubiquità: così egli riesce a parlare contemporaneamente in due luoghi molto distanti tra loro (ivi, p. 287). Ma come mostra la storia dei pesci, i prodigi di Pitagora non sono solo dimostrazione di una straordinaria abilità, ma hanno spesso carattere di insegnamento morale. Sono in certo senso parabole concretamente esercitate e può essere che esse siano state escogitate dai pitagorici proprio in questo spirito. La storia del numero dei pesci mostra un atteggiamento verso gli animali e in generale 279 verso gli esseri viventi che è tipicamente pitagorico, e nello stesso tempo che non è affatto tipicamente greco, mentre è molto vicino ad un atteggiamento di cui troviamo il massimo degli esempi nella cultura indiana. Le prese di posizioni dei pitagorici su questo punto fecero certamente scalpore per il fatto che avevano delle conseguenze su importanti aspetti religiosi e rituali. Pitagora come la maggior parte dei filosofi greci più antichi non si trova affatto in consonanza con la religione corrente. I Pitagorici fanno una critica vivacissima contro i sacrifici di animali nei riti. Notate che siamo nel VI secolo a. C. - e si può immaginare quanto sia innovativa e addirittura rivoluzionaria la frase attribuita a Pitagora secondo cui "su un altare non dovrebbe essere sacrificato nemmeno un insetto" . Egli lasciò stupefatti gli abitanti di Delo perché venerò Apollo solo presso un altare "che non era macchiato dal sangue dei sacrifici" (Giamblico, VIII, p. 157). Si tratta di un aspetto ricorrente nella tradizione pitagorica che naturalmente è strettamente collegato con il precetto vegeteriano nell'alimentazione. Questo è legato a sua volta con la credenza nella reincarnazione. Peraltro è notevole il fatto che non è solo questa credenza religiosa che motiva l'ostilità pitagorica al sacrificio degli animali e la sollecitazine ad un regime prevalentemente vegetariano. Vi è anche un motivo morale di ostilità alla guerra: "Tra le molte ragioni per cui Pitagora formulò il precetto dell'astensione dagli animali c'è anche il fatto che questa consuetudine favorisce la pace. Infatti una volta che ci si fosse assuefatti ad odiare come illecita e e contro natura la soppressione di animali, si sarebbe reputato ancora più empio uccidere un uomo e non si sarebbero più fatte guerre" (Giamblico, XXX, p. 347). Ovidio invece nel libro XV delle sue Metamorfosi riferisce il rifiuto dei sacrifici animali e il vegeterianismo esclusivo alla credenza nella reincarnazione. Il poeta fa fare a Pitagora una lunga perorazione contro i mangiatori di carne, a cui segue la formulazione della peregrinazione delle anime in corpi diversi: Tutto si evolve, nulla si distrugge. Lo spirito vaga dall'uno all'altro e viceversa, impossessandosi del corpo che capita, e dagli animali passa in corpi umani, 280 da noi negli animali, senza mai deperire nel tempo. Come la cera duttile si plasma in nuovi aspetti, non rimanendo qual era e senza conservare la stessa forma, ma sempre cera è, così, vi dico, l'anima è sempre la stessa, ma trasmigra in varie figure. Dunque, perché la pietà non sia vinta dall'ingordigia del ventre, vi ammonisco, evitate d'esiliare con strage nefanda l'anima di chi può esservi parente, e che di sangue si alimenti il sangue. Per chiudere l'argomento ecco un'immagine moderna sulla predicazione vegetariana di Pitagora. Questo dipinto di Rubens (Pitagora che promuove l'alimentazione vegetariana (1618)) è notevole per il fatto che presenta l'atteggiamento vegeteriano come una sorta di festosa ed anzi lussureggiante e lussuriosa esaltazione del cibo fatto di frutta e verdure. Del resto al centro del quadro sta il nudo biancore di una donna tipicamente rubensiana, e le figure maschili che si intravvedono tra il verde hanno una certa somiglianza con i satiri di Dioniso... 281 3.9. I filosofi che cantano Fjodor Bronnikov (1827-1902), Pitagorici che celebrano il levar del sole (1869) Si rammenterà che avevamo concluso la parte riguardante il mito di Orfeo, con l'immagine del musico che aspira al Giorno e che esce dal mondo della Notte per attendere il sorgere del sole. Il quadro di Fiodor Bronnikov intende rappresentare proprio l'attesa e la celebrazione dell'aurora da parte di Pitagora e dei pitagorici. In questo modo stabiliamo un ultimo nesso immaginativo. Come Orfeo anche Pitagora è in grado di parlare agli uccelli e di accarezzare le aquile - quindi anche in Pitagora è presente sia uno stretto rapporto con la natura così come l'idea della malia incantatrice della musica. Una parte del pitagorismo del resto confluì nel movimento orfico - orfismo e pitagorismo formano uno dei grandi capitoli delle vicende filosofico-religiose della Grecia antica. Risulta anzi difficile in molti casi distinguere tra le due correnti (Cfr. 282 Kahn, 2001, p. 20). Questo rapporto è attestato da Giamblico quando scrive che "non c'è dubbio che Pitagora prese spunto da Orfeo nello scrivere il discorso 'Sugli dei'" (Giamblico, 1991, p. 297); egli "avrebbe imitato, a quanto si dice, il modo di esprimersi e l'atteggiamento spirituale di Orfeo... e avrebbe fatto conoscere i riti purificatori e le cosiddette cerimonie iniziatiche degli orfici, in quanto ne aveva una conoscenza perfetta" (pp. 305-306). "Questi fatti ed altri del genere mostrano che Pitagora deteneva lo stesso potere sugli animali che aveva Orfeo: cioè di incantarli e soggiogarli in virtù del potere della voce che usciva dalla sua bocca" (p. 189). Pitagora viene dunque descritto come cantore. Ecco finalmente un filosofo che canta! Anzi eccoci di fronte ad una intera corrente di filosofi che cantano. È difficile trovare un manuale o una storia scolastica della filosofia che ci informi su questo aspetto canoro che viene evidentemente considerato un infimo dettaglio. Ed è invece assai verisimile che tutti i filosofi di tradizione pitagorica sapessero maneggiare la lira e cantare accompagnandosi con questo strumento. E persino danzavano: "I pitagorici usavano anche danzare, e lo strumento di cui si avvalevano a questo fine era la lira, perché il suono del flauto lo consideravano violento, adatto alle feste popolari e del tutto indegno di uomini di condizione libera" (Giamblico, 1991, p. 257). In primavera Pitagora "faceva sedere in mezzo un suonatore di lira, mentre tutt'intorno sedevano i cantori e così, al suono della lira, cavano insieme dei peani che ritenevano procurassero loro gioia, armonia e ordine interiore" (ivi). Talora viene presentato come cantore di versi di Omero, e "li cantava armoniosissimamente accompagnandosi con la lira". Giamblico arriva a citare il passo 283 dell'Iliade cantato da Pitagora (XVII, 51-60) nel quale si parla del troiano Euforbo che ferisce Patroclo, venendo poi ucciso da Menelao. Perché proprio questo episodio tra i tanti? Perché Pitagora sosteneva di essere stato in una vita anteriore proprio Eufobo, e con ciò da un lato rammentava la credenza nella reincarnazione; e nello stesso tempo questo filosofo "apollineo" rivendicava in certo senso un'ascendenza frigia. Va aggiunto anche che la credenza nella reincarnazione stabilisce un ulteriore legame tra pitagorismo ed orfismo. Cantava sicuramente Ippaso di Metaponto, che viene citato come musico da Aristosseno. Cantava Filolao, altro celebre pitagorico del V secolo. Anzi Filolao cantava persino dopo morto. Voglio riferire questo altro piccolo racconto. Molti anni dopo la morte di Filolao un contadino passò accanto la sua tomba e sentì Filolao cantare a voce dispiegata sotto la pietra. Il contadino corse pieno di spavento presso il sapiente pitagorico del luogo. Il quale avendo ascoltato ciò che gli stava dicendo il contadino, proruppe in modo inatteso nella domanda: "In quale tonalità, per gli dei?". Per nulla meravigliato del fatto in se stesso, tutta la sua curiosità va alla struttura musicale del canto (Giamblico, 1991, p. 294 e p. 303). Tra le storie pitagoriche questa mi sembra veramente la più straordinaria. Ettore e Menelao si contendono il corpo di Euforbo 284 4. Gli inizi della teoria della musica 4.1 Il principio del numero 4.2 Il fabbro armonioso 4.3 Jubal - Chi era costui? 4.4 Commenti al racconto del fabbro armonioso 4.5 L'invenzione del monocordo 4.6 Il monocordo come strumento di misura 285 4.1 Il principio del numero È ormai tempo di cominciare ad entrare in qualche dettaglio nella teoria greca della musica che, con buone ragioni, facciamo cominciare con la speculazione pitagorica. E dunque avremo anche a che fare, se non proprio con la storia della matematica, certamente con la sua preistoria - forse con una preistoria che, al tempo del primo pitagorismo, sta ormai per finire e che tuttavia della preistoria ha un tratto di pronunciata insicurezza, di lacunosità e di dubbio che ci obbliga talvolta a riempire queste lacune con i nostri ragionamenti. È poi opportuno premettere che non entreremo nel merito della discussione se tutto ciò che si attribuisce a Pitagora sia proprio farina del suo sacco, essendo per noi sufficiente assumere che ogni volta che parleremo di Pitagora potremmo non intendere proprio lui, ma il pitagorismo in genere, accontentandoci per lo più di ciò che è stato tramandato, tenendo conto nella misura del possibile di commentatori autorevoli. 286 Ci possiamo allora permettere di fingere la situazione nella quale si trova Pitagora e il pitagorismo più antico come una tabula rasa - dove tutto resta da accertare: nessuna teoria degli intervalli è stata ancora formulata e l'intero campo dei suoni è ancora tutto da indagare. Naturalmente vi erano da sempre i musicisti, vi era una pratica musicale. In particolare vi erano tecniche di accordatura degli strumenti. Queste tecniche, per quanto potessero variare, si appoggiavano indubbiamente sulle consonanze di quarta, di quinta e di ottava. E dunque ha poco senso attribuire a chichessia la scoperta dei rapporti consonantici fondamentali. La scoperta pitagorica essenziale in rapporto alle consonanze sta dunque nelle misure, e non nel fatto sonoro come tale. Va poi subito messo in evidenza che questa scoperta presuppone uno sfondo filosofico generale e contiene una presa di posizione di grandissimo rilievo nella storia della cultura e del pensiero scientifico-filosofico europeo. Essa consiste nella tesi che ogni cosa ed ogni evento di questo mondo deve essere riportato al numero. Talvolta si formula questa tesi sintetizzandola nella frase: tutto è numero ovvero Tutte le cose sono numero. Una simile formulazione risale ad Aristotele. Facendo il confronto con la posizione platonica, di cui nota affinità e differenze con il pitagorismo, egli sottolineava che Platone "distingueva i numeri dalle cose sensibili, mentre per i pitagorici i numeri erano le cose stesse..." (Metafisica, 987b28). Forse è giusto che la frase secondo cui i numeri sono le cose stesse oppure, equivalentemente, che le cose stesse consistano di numeri appaia anzitutto anche a noi, come appariva ai non iniziati del- 287 la setta, incomprensibile e stravagante, persino di poco buon senso. Forse essa aveva carattere di "simbolo" nel senso che abbiamo spiegato in precedenza - quindi di una sorta di enigma che richiede interpretazione. Secondo l'interpretazione essa potrebbe apparirci sotto differenti angolature. Probabilmente uno degli aspetti più difficili dell'interpretazione consiste nella paroletta "è" che sta al centro della piccola frase: "tutto è numero". Non è detto peraltro che proprio quella paroletta fosse presente nelle formulazioni pitagoriche: in Giamblico (1991, XXIX, 162, p. 319) che la propone proprio come un esempio di quei detti che racchiudevano "scintille della verità per coloro che fossero in grado di mutarle in fuoco", la formulazione è sensibilmente differente poiché dice "Al numero si adattano tutte le cose" e questa sembra la formulazione pitagorica vera e propria. Non bisogna sottovalutare la differenza tra queste formulazioni. La prima "tutto è numero" ha un'accentuazione sull'essere vero delle cose, come se si dicesse: l'essenza stessa delle cose non la devi cercare nelle loro apparenze visibili, ma in relazioni numeriche nascoste. Potremmo dire che la sua portata è più ontologica che epistemologica. Essa riguarda il modo in cui gli oggetti sono, e non anzitutto il modo secondo cui li conosciamo. Dire invece che tutte le cose si adattano al numero equivale indubbiamente a stabilire una relazione piuttosto forte tra numeri e cose, ma in ogni caso meno forte della precedente e più orientata verso il lato epistemologico, che verso quello ontologico. Molti secoli prima, il pitagorico Filolao (ca 470-385 a. C.), in anni dunque non troppo lontani da Pitagora stesso, formula questo principio in modo che il suo significato appare ancora più nettamente orientato in senso epistemologico. Uno dei frammenti di Filolao (fr. 4) dice espressamente: "Invero, ogni cosa che è conosciuta ha numero, in nessun modo è compresa o conosciuta senza il numero" 288 Affermare che il numero è inerente alle cose (avere numero piuttosto che esserlo) e soprattutto specificare questa affermazione (ancora abbastanza misteriosa) nell'asserzione secondo non vi è ef effettiva conoscenza della cosa se non si stabilisce una relazione tra esse e il numero sposta il problema interamente sul versante epistemologico. Carl Huffman ha attirato l'attenzione su questo punto: "Il numero gioca in Filolao un ruolo epistemologico. Egli dice che le cose non possono essere conosciute senza numero, non che esse sono numeri"(1988, p. 6). Il modo in cui Aristotele riporta la tesi pitagorica fondamentale è dunque profondamente equivoco e induce a fraintendimenti. L'affermazione generale secondo la quale tutte le cose si adattano ai numeri ovvero che nulla si può comprendere o conoscere senza il numero trova una sua clamorosa applicazione nel campo dei suoni, ed è assai verosimile che nella speculazione pitagorica proprio l'interesse in rapporto agli eventi sonori abbia accentuato questa idea di una concezione della realtà gravitante sul principio del numero. Deriva subito da una simile posizione l'idea che una teoria del numero può insegnarci direttamente qualcosa sulla musica anche al di là di riferimenti musicali specifici. E in tutto ciò è implicata una concezione della teoria della musica secondo la quale essa non deve essere af affatto elaborata a ridosso della pratica musicale, e ancora meno deve essere intesa come pura come pura riflessione su questa pratica, in certo senso come una sua emanazione, ma in modo del tutto indipendente. Questa posizione ha avuto un peso enorme nella storia della teoria del- 289 la musica - non sempre e necessariamente positivo, ma indiscutibilmente della massima rilevanza storica. Essa spiega in particolare come il pitagorismo abbia potuto incontrarsi con il platonismo - cioè con una tendenza nella teoria della conoscenza che insisteva sulla necessità di possedere canoni ideali di valutazione per un approccio corretto e realmente scientifico alla realtà empirico-sensibile. Queste idealità sono intese come anteriori all'esperienza stessa, e come normative rispetto ad essa. Il pitagorismo antico, anche se certo in forme ancora ingenue, si trova già su questo terreno. Ciò non significa che manchi nei pitagorici un atteggiamento di sperimentazione e di contatto con la realtà sensibile dei suoni. Nemmeno manca un adattamento delle teorie pitagoriche alla realtà musicale greca. Ma si tratta appunto di un adattamento. Prioritario, dal punto di vista pitagorico, è il tentativo di elaborare un sistema teorico. La commisurazione di questo sistema alla realtà musicale esistente avviene in via di principio in un secondo tempo. Le osservazioni le sperimentazioni sono poi tutte orientate dalla ricerca di una possibile matematizzazione.Questo atteggiamento, importantissimo dal punto di vista epistemologico, può dunque non incontrarsi o addirittura scontrarsi con la musica direttamente praticata. Il pitagorismo e il platonismo rappresentano peraltro soltanto un versante della teoria greca della musica. E fin d'ora possiamo far balenare il nome del più autorevole rappresentante dell'altro versante. Si tratta di Aristosseno di Taranto (ca. 354-300 a. C) e della corrente di pensiero che si è sviluppata dalla sua opera. 290 4.2 Il fabbro armonioso A Pitagora in persona si attribuisce la scoperta dei rapporti di ottava, di quinta e di quarta. Rispettivamente 1/2 2/3 3/4 Questi rapporti possono naturalmente essere proposti anche in forma inversa (ed è consuetudine prevalente): 2/1, 3/2, 4/3. In ogni caso la prima documentazione scritta di questi rapporti si trova nel fr. 6 di un'opera di Filolao intitolata De natura. È anche opportuno segnalare i termini greci corrispondenti che permasero a lungo anche nella terminologia medioevale e rinascimentale. Si tratta di diapason, diapente, diatessaron. Essendo "dia = attraverso", si può intendere la designazione dell'intervallo come "da...alla". Diapason - che significa "attraverso tutte" (le note) - dalla prima all'ultima; diapente: dalla prima alla quinta, diatessaron: dalla prima alla quarta. Notiamo ancora che in greco la consonanza ovvero la concordanza tra due suoni veniva chiama sinfonia. Ma come fece Pitagora a fare la scoperta dei rapporti aritmetici? A questa domanda cominciamo a rispondere con il raccontare un'altra storia, quasi una favola, che potremmo chiamare "la storia del fabbro armonioso", riprendendo il titolo di una composizione per cembalo di Haendel. Invece di raccontarla alla meglio io stesso, la trascriverò da uno dei testi che la narra con dovizia di particolari. Si tratta di un testo di Nicomaco, filosofo pitagorico vissuto tra tra il primo e il secondo secolo d.C. ed autore di un trattato di aritmetica - tenuta nettamente distinta dalla geometria - che conobbe molta fortuna nel Medioevo. Nicomaco scrisse anche un Manuale di Armonica nel quale egli scrive: "La tradizione dice che Pitagora ha scoperta la quantità numericamente espressa degli intervalli di quarta, di quinta e di ottava, che è la loro unione, nonché il tono disposto tra i due tetracordi, e 291 che la scoperta sia avvenuta così. Un giorno, mentre fissava il suo pensiero sulla possibilità di trovare un qualche mezzo strumentale che soccorresse l'udito, sicuro e inoppugnabile, come quelli di cui con il compasso, e il regolo o anche la diottra dispone la vista, o il tatto con la bilancia e le sue misure passò accanto ad una fucina e, per un caso del destino, udì martelli che battevano il ferro sull'incudine producendo insieme suoni pienamente consonanti tra loro, ad eccezione di due. Riconobbe tra esse le consonanze di ottava, quinta e quarta; capì che l'intervallo tra quinta e quarta, in sé dissonante, era parte integrante del maggiore dei due, cioè che il tono che è dissonante nel senso che i suoni posti agli estremi di un tono sono dissonanti, era comunque parte integrante della consonanza di quinta. Felice quasi un dio lo avesse guidato nella sua ricerca, entrò di corsa nella fucina e con esperimenti diversi scoprì che la differenza tra i suoni dipendeva non dalla forma dei martelli, né dalla forza di chi li vibrava o dalla deformazione del ferro percosso, ma dalla loro mole; rilevati accuratamente pesi e contrappesi esattamente eguali a quelli dei martelli, tornò a casa. Qui, a un'unica barra metallica conficcata attraverso l'angolo formato dalla congiunzione di due muri appese quattro corde uguali per materiale, numero dei capi, spessore e torsione (perché non ne risultasse qualche alterazione e non si potesse sospettare una differenza conseguente alla diversa natura delle corde) e poi attaccò un peso alla loro estremità inferiore. Colpì dunque le corde, predisposte di una lunghezza assolutamente identica, a due a due per volta, alternativamente, ritrovando le suddette consonanze, e cioè per ogni coppia una diversa...." (Nicomaco, 1990, pp. 153-154). Questo racconto viene in particolare narrato anche da Giamblico (1991, XXIV pp. 261-269) e ripreso e ripetuto più volte da autori successivi. 292 Ecco i fabbri al lavoro in una raffigurazione che risale a circa il 1100 (a sinistra). A dire la verità la figura non sembra troppo congruente. I martelli sull'incudine sono quattro e sono battuti simultaneamente. Il disegnatore ha pensato evidentemente più alle note che agli intervalli. Ma battendo i martelli in questo modo evidentemente risulterebbe una dissonanza risuonando simultaneamente l'intervallo di quarta e di quinta. Come incongruenza ulteriore il martello alzato sembra alludere proprio all'intervallo dissonantico tra la quarta e la quinta - come se esso non venisse eseguito. Nei cerchi in alto ci si richiama alle strutture intervallari. Nella figura a fianco queste difficoltà non si pongono. In essa Pitagora si affaccia sulla porta ed osserva i fabbri al lavoro. 293 Nella Teorica musicae di Gaffurio troviamo alcune immagini interessanti che possiamo riferire alla nostra storia. 294 Ecco dunque Pitagora "sperimentatore" - con le campane oppure con i bicchieri, in cui le differenze di intonazione vengono ottenute attraverso quantità di acqua differenti. I numeri sono, in entrambi i casi, da sinistra a destra 16, 12, 9, 8, 6, 4. Su questi numeri avremo molto di che ragionare in seguito. Si noti come Pitagora tiene due bacchette che fa ruotare sull'orlo del bichiere - la tecnica per l'emissione del suono è dunque esattamente simile a quello dello strumento che ebbe un qualche successo tra il sec. XVII e XVIII con il nome di armonica a bicchieri (Glass Harmonica). La sola differenza è che, in luogo delle bacchette, il suonatore si serviva delle dita leggermente inumidite che ruotavano delicatamente sull'orlo del bicchiere. Questo disegno dimostra un antico antenato proprio dell'armonica a bicchieri che, nella sua forma più elementare, è esattamente questa. Ragazza che suona l'armonica a bicchieri in una via di Roma in una fotografia di A Pingston (http://en.wiktionary.org/wiki/ File:Glass.harmonica.in.rome. arp.jpg) 295 Teone di Smirne attribuisce al pitagorico Laso di Ermione ed alla scuola di Metaponto la sperimentazione con l'acqua e dei vasi. I vasi tuttavia venivano percossi. Il risultato è naturalmente lo stesso, la differenza sta nel tipo di suono che nel caso della rotazione delle dita sull'orlo del bicchiere è un suono continuo, anziché un suono percussivo: "Laso di Ermione (e quelli della scuola di Ippaso di Metaponto) secondo quanto si tramanda, giudicando che la velocità e la lentezza delle vibrazioni onde nascono gli accordi fossero esprimibili secondo la serie dei rapporti numerici, otteneva questi rapporti servendosi di vasi. Prendeva infatti alcuni vasi tutti uguali, e mentre ne lascia- va uno vuoto, riempiva il secondo d'acqua fino alla metà; poi li percuoteva entrambi e otteneva il rapporto di ottava. Quindi, lasciando ancora vuoto uno di essi, riempiva l'al- 296 tro per una quarta parte, e poi ancora li percuoteva entrambi e otteneva l'accordo di quarta; l'accordo di quinta l'otteneva quando riempiva il vaso per la sua terza parte. Il rapporto tra il vuoto di un vaso e quello dell'altro era dunque di 2 a 1 nell'accordo di ottava, di 3 a 2 nell'accordo di quinta, di 4 a 3 nell'accordo di quarta"(1892, 59.4) Sempre nelle immagini proposte nell'opera di Gaffurio vediamo rappresentati, nella pagina precedente, Pitagora e Filolao che sperimentano i giusti rapporti con i flauti. La misura dei flauti effettivamente suonati sono qui l'una il doppio dell'altra (8 e 16), quindi i flauti stanno suonando in ottava. Ricompaiono anche qui la serie di numeri 16 12 9 8 6 4. In apertura della sua opera intitolata The Temple of Music (1618) il medico, ingegnere, alchimista e rosacrociano Robert Fludd (15741637), filosofo appartenente alla tradizione ermetico-cabalistica, con interessi alchimistici, aritmetici e musicali, presenta una notevole architettura in cui ogni dettaglio ha un significato musicale ed alla cui base troviamo ancora la rappresentazione di Pitagora che si affaccia alla porta dell'officina dei fabbri. 297 298 4.3 Jubal - Chi era costui? In Gaffurio vi è anche un'altra figura che presenta una vera e propria alternativa alla storia pitagorica, attribuendo la scoperta dei rapporti consonantici all'ebreo Jubal. Come si vede anche qui sui martelli sono segnati i pesi e dunque i loro rapporti. 299 Anche nei bassorilievi del Duomo di Orvieto troviamo la presenza di Jubal che sta sperimentando con martelli e campane. Come nasca la storia di Jubal merita di essere brevemente raccontata. Occorre sapere che, dal tempo dei tempi fino al giorno d'oggi, il cristianesimo ha sempre avuto ostilità per le ascendenze greco-romane della cultura europea: si doveva invece dimostrare che la cultura europea aveva radici giudaico-cristiane, e proprio nulla da spartire con il "paganesimo" dei greci e dei latini. Tertulliano ha espresso molto bene questo atteggiamento con la frase: "Che cosa ha mai a che fare Atene con Gerusalemme? Che cosa vi è in comune tra l'Accademia platonica e la chiesa, tra gli eretici e i cristiani?" Questa frase, contenuta nel cap. VII di De prescriptione hereticorum, e che non sembra aver niente a che fare con il nostro problema, è in realtà la sua chiave. Essa è citata molto opportunamente in apertura dell'articolo Jubal vel Pythagoras, quis sit inventor musicae? di McKinnon (1978, p. 1), nel quale si delinea magistralmente anche 300 la storia del problema attraverso il medioevo e il rinascimento, fino all'illuminismo. Si dà il caso che nel Genesi. 4:21 si legga di un tale di nome Iubal e che di lui si dica che "fu padre dei musici di cetra e di organo". Non basta: veniamo anche informati nello stesso passo che il fratellastro di Jubal, di nome Tubalcain, era "lavoratore al martello, artefice in ogni genere di lavoro in bronzo ed in ferro". Ecco fatto: quei teorici medioevali della musica che condividevano l'atteggiamento di Tertulliano ritennero di trovare in queste due frasi la possibilità di attribuire a Jubal, e non a Pitagora, la storia dei fabbri e la scoperta dei rapporti consonantici, facendo di Jubal non tanto l'inventore di strumenti musicali, ma della musica tout court (cosa che peraltro nelle storie relative a Pitagora non è mai stato 301 sostenuto né esplicitamente né in modo sottinteso). Si trattava di una pretesa abbastanza ridicola, ma a parlare non era forse la Bibbia, ed attraverso di essa la voce di dio in persona? Cosicché la sostituzione di Jubal con Pitagora prese piede, e la si ritrova spesso ripetuta. Tanto più che, essendo Jubal vissuto prima del diluvio, era sicuramente anteriore a Pitagora e se Jubal avesse fatto qualche scoperta, egli avrebbe avuto in ogni caso la priorità. Talora gli autori scettici in rapporto a Jubal, ma timorosi di contraddire la Bibbia, anche per le conseguenze pratiche che ne potevano derivare, in effetti tacciono eventualmente sul resto, ma ammettono almeno la priorità cronologica di Jubal rispetto a Pitagora quale "inventore della musica". La storia aveva talvolta un corollario che riportava niente meno che ad Adamo. Secondo questa variante Jubal avrebbe ricevuto da Adamo in persona i segreti della musica, che egli incise su due colonne - una di marmo ed una di mattoni - cosicché la prima potré sopravvivere al diluvio e la seconda agli incendi: Adamo aveva anche profetizzato che l'umanità sarebbe stata distrutta dall'acqua e dal fuoco. Eccoci di fronte ad una favola dentro una favola, e ciascuna ha una sua motivazione e un suo senso. Quindi anche questa può ricevere ospitalità nel nostro album. La favola di Jubal chiama in causa, inattesamente, dato il nostro argomento, i rapporti tra cristianesimo, cultura greco-romana e giudaismo. Occorre dare il giusto peso a questo genere di favole, se pensiamo che Clemente Alessandrino sosteneva che "quanto di vero avrebbe potuto esserci in Platone derivava in realtà dalla saggezza di Mosé" (McKinnon J., 1978, p. 3). 302 4.4 Commenti al racconto del fabbro armonioso È appena il caso di dire che molti aspetti del racconto di Nicomaco, certe inflessioni, certi dettagli, sono da attribuire certamente più alla personalità di Nicomaco, che a quella di Pitagora. Ma come sempre si tratta di una questione che non ha per noi particolare rilievo come quella, particolarmente remota, di eventuali priorità nella scoperta: noi non stiamo cercando verità storiche intorno alla persona di Pitagora, ma cerchiamo di tratteggiare le problematiche teoriche che si impongono nell'ambito del pitagorismo. Pitagora subito viene tratteggiato dalle prime righe come un personaggio se ne va vagabondando e meditabondo - ed il suo pensiero è già diretto alla ricerca di qualche mezzo che ci consenta di procedere nella scienza dei suoni con la stessa certezza e sicurezza che ci dànno ad esempio gli strumenti del geometra, il compasso, il righello, la squadra.... o la bilancia che attribuendo un numero alle sensazioni tattili di peso ci consente di uscire dalle indeterminatezze dell'esperienza sensibile. Queste differenze sono colte dall'udito. Ma come riportarle ad una misura? Questa meditazione viene interrotta dal Pitagora "ascoltatore". Il suo orecchio viene colpito dai suoni che escono da quell'of quell'officina: mediante quelle incudini e quei martelli si producono straordinarie armonie. Pitagora si arresta di botto, e il testo di Nicomaco descrive assai bene l'entusiasmo con il quale egli si accinge, già nell'officina, ad apprestarsi gli strumenti per riprodurre quella stessa situazione, ma con un nuovo mezzo di controllo: il peso. Come abbiamo già osservato, il filosofo pitagorico non si limita a speculare sul numero, e nemmeno a teorizzare astrattamente sui rapporti; ma osserva, e dopo aver osservato si pone degli interrogativi: e per rispondere ad essi si accinge ad una sperimentazione. I pitagorici fanno qualcosa che i musicisti non si sognavano di fare e nemmeno ne avevano bisogno. 303 Nell'officina vengono forgiati pesi equivalenti ai martelli armoniosi, e poi si descrive come, in un angolo della propria casa, Pitagora compia il proprio esperimento. Particolare attenzione viene posta per rispettare quelle condizioni di omogeneità che rappresentano una condizione per isolare il fattore determinante. È interessante notare che Pitagora, nel racconto di Nicomaco, non pensi di ripetere letteralmente la situazione dell'officina dei fabbri - altrimenti sarebbe ricorso a dei blocchi di metallo. Egli pensa invece alle corde ed alla loro tensione. E si preoccupa dell'affidabilità dell'esperimento: vi deve essere omogeneità nel materiale e nella lunghezza delle corde. Se tutte le condizioni sono eguali, allora si può sperimentare con le tensioni, misurandole con i pesi. Dall'esperimento risulterebbero i famosi rapporti: 2:1 per l'ottava; 3:2 per la quinta; 4:3 per la quarta. Ho letto da qualche parte, che un simpatico matematico americano che si è occupato marginalmente della scala pitagorica, alla domanda: "Sarà veramente andata così?" Risponde: "Chissà; è passato così tanto tempo...". In realtà anche questo bello spirito sapeva benissimo che c'è qualcosa che guasta questo racconto. Si tratta proprio del piccolo e decisivo dettaglio che viene alla fine: chi facesse un esperimento come questo non troverebbe affatto quei rapporti! Attraverso i pesi e dunque attraverso una possibile misura della tensione fatta in questo modo, si trova certamente una correlazione funzionale tra consonanze e tensioni (pesi), ma non quella. "I greci non avevano nessun mezzo affidabile per misurare la tensione, e l'unico metodo a cui fanno riferimento gli scrittori di armonica, quello di appendere alle corde pesi più grandi o più piccoli, introduce sfortunate complicazioni; l'altezza non varia direttamente con i pesi degli oggetti appesi. Una matematica relativamente complessa sarebbe stata richiesta per esprimere accuratamente le relazioni tra le altezze con riferimento alle tensioni misurate in questo modo. Nessun teorico greco sembra avere compreso pienamente la difficoltà e nessun teorico greco al di là della 304 leggenda pitagorica sembra mai aver tentato di misurare le relazioni musicali attraverso questa procedura" (Barker, 2007, p. 21). Dopo secoli che la leggenda pitagorica è stata ripetuta secondo la versione di Nicomaco, vi fu un filosofo che decise di verificarla e trovò un risultato differente. Fu infatti Mersenne (1588-1648) che stabilì sperimentalmente che se la lunghezza L di una corda resta la stessa, ma la tensione T varia, la frequenza di oscillazione F (e quindi l'altezza della nota) è proporzionale alla radice quadrata di T. Spiega esemplificativamente Mersenne: "Supponendo che si voglia sapere di quale peso si debba usare per far salire una corda alla sua ottava, occorrerà sapere anzitutto la sua tensione, cioè con quale peso essa deve essere tesa, quando produce il suono sul quale si regolano gli altri;... poniamo che il peso sia di quattro libbre, allora saranno necessarie sedici libre per far salire la stessa corda all'ottava, cosicché il rapporto di ottava, che è di due a 1, essendo duplicato produce il rapporto quadruplo:..e ciò mostra che il peso che porta la corda all'ottava bassa deve essere il sotto-quadruplo (sous-quadruple) dell'altro peso" (Harmonie Universelle, libro III, prop. XIII). A questo punto siamo più che mai curiosi di saperne di più. Perché un fatto è certo: i rapporti numerici proposti da Nicomaco sono in se stessi corretti, e la loro conoscenza appartiene al pitagorismo più antico. Ma allora la domanda deve essere rinnovata: Come fece Pitagora a determinare correttamente attraverso numeri i rapporti consonantici? 305 306 4.5 L'invenzione del monocordo Vogliamo riesaminare la questione riflettendo liberamente sul problema come se noi stessi dovessimo determinare questi rapporti. Potrebbe intanto risultare naturale considerarli come rapporti di lunghezza tra le corde, anziché come rapporti tra tensioni. Ma non appena ci sembra di poter porre il problema in questo modo, appare subito chiaro che il parlare di pura lunghezza di una corda è una frase abbastanza vuota se ci disponiamo in una situazione tanto primitiva come è quella in cui si trovavano ad operare i Pitagorici. Intanto vi è il problema di come erano fatte le corde. Nicomaco allude ad una torcitura, e quindi ad una composizione di corde di budello animale: la tecnica necessaria per realizzare delle buone corde fatte così non è affatto semplice. Possiamo comunque immaginare che corde di budello fossero prodotte comunemente nella Grecia più antica. Più difficile è immaginare che queste corde avessero spessori e conformazione materiale realmente omogenea. Ma il problema principale è un altro: una corda considerata nella sua pura lunghezza, senza essere in qualche modo tesa, semplicemente non suona! Non c'è dubbio che i Pitagorici sperimentassero con corde, ma altrettanto indubbio è che le corde con cui sperimentavano erano corde tese, perché altrimenti mancherebbe una condizione per la produzione del suono. Il racconto di Nicomaco, e l'invenzione che sta alle sue spalle, sembra derivare proprio da un ragionamento che potremmo schematizzare così: 1. le corde debbono essere tese 2. la tensione deve essere dominabile, e cioè vi deve poter essere una misura della tensione. 3. la tensione può essere ottenuta non solo tirando con delle chiavi le corde, come si faceva nell'accordatura della lira, cosa che non consentirebbe nessuna determinazione quantitativa, ma anche usando dei pesi. Attraverso i pesi possiamo ottenere delle unità di 307 misura significative per la tensione delle corde. Si tratta di un ragionamento tutt'altro che da poco, proprio da un punto di vista di teoria della conoscenza. Qualcosa di simile ad un atteggiamento scientifico muove qui i suoi primi passi. Tuttavia, per quanto riguarda il nostro problema particolare, avendo escluso che si possa pervenire ai rapporti indicati attraverso i pesi, sembra un enigma il fatto che essi siano stati alla fine correttamente individuati. L'enigma si dirada ben presto se pensiamo allo strumento musicale che la tradizione assegna a Pitagora: la lira. Chi cerca di analizzare gli intervalli, di riportarli possibilmente ad una legge generale, ovvero chi cerca semplicemente di sperimentare sugli intervalli non può farlo con uno strumento a fiato. Vi è anzitutto il problema della relativa possibile indeterminazione dell'intonazione dello strumento a fiato secondo la forza del soffio che non è ovviamente misurabile; ed anche il fatto che le prove sulle differenze di intonazione dovrebbeo avvenire realizzando nuovi fori, cosa che renderebbe evidentemente la sperimentazione molto complicata. Il pitagorico Archita accenna a questa instabilità degli auloi per determinare le cause che rendono un suono più grave o più acuto di un altro (fr. 1), ma l'argomento è ripreso soprattutto, con gande acume e con dubbi relativi anche alla sperimentazione con i pesi e con altri mezzi, da Tolomeo (II sec. d. C.) (2002, 1.8, 17 - p. 115). Così scrive infatti Tolomeo: "Si respinga dunque l'idea di dimostrare l'assunto basandosi sugli auloi e sulle siringhe oppure sui gravi appesi all'estremità delle corde, in quanto siffatte dimostrazioni non possono raggiungere il massimo grado di perfezione, ma possono solo creare ostacoli a coloro che le sperimentano. Infatti negli auloi e nelle siringhe, oltre al fatto che la correzione delle loro imperfezioni è difficile da individuare... va aggiunto che in genere nella maggior parte degli strumenti a fiato è insita una certa imprecisione dovuta all'insuflazione. D'altra parte anche riguardo ai gravi appesi alle corde, poichè le corde non si man- 308 tengono affatto senza variazioni le une rispetto alle altre, anzi è difficile trovare corde che si mantengano eguali ciascuna rispetto a se stessa, non sarà possibile collegare i rapporti tra i pesi e i suoni ottenuti per mezzo di essi, dato che, a parità di tensione, le corde più compatte e più leggere producono suoni più acuti. E ancora prima...qualora anche la lunghezza delle corde sia eguale, il peso maggiore, in virtù della maggiore tensione, aumenterà la lunghezza e renderà più compatta la corda alla quale è appeso, cosicché anche per questo motivo si verificherà una certa variazione nei suoni rispetto ai rapporti tra i pesi. Similmente accade per i suoni prodotti mediante il confronto, come quelli sui quali si fanno esperimenti, ottenuti con martelli o dischi di diverso peso e con le coppe vuote e piene, perché è veramente difficile in tutti questi corpi mantenere l'uniformità nei materiali e nelle forme" Pitagora (o chi per lui) era alla ricerca di "un qualche mezzo strumentale che soccorresse l'udito, sicuro e inoppugnabile" come quelli di cui dispone la vista. Ed era sicuramente consapevole di tutte queste difficoltà che si opponevano alla correttezza dell'esperimento: la lira invece indica con chiarezza la via per arrivare ad un simile mezzo per una sperimentazione sufficientemente precisa. È infatti questo strumento musicale che suggerisce l'invenzione del monocordo. Molto spesso in luogo di monocordo, si parla nelle fonti greche e latine, di canone. Si è affacciata l'ipotesi che la parola canone indichi in senso stretto "le istruzioni per dividere la corda ovvero il diagramma che deve essere posto sotto la corda per la facilitare l'esatta disposizione dei ponticelli", ma le due parole possono essere essere considerate come sinonime (Adkins, 1967, p. 36). La tradizione attribuisce a Pitagora l'invenzione del monocordo. Racconta Aristide Quintiliano (III-IV sec. d. C.) che le ultime parole 309 di Pitagora rivolte ai suoi allievi furono: "Esercitatevi al monocordo". Aristide aggiunge il commento: "In questo modo Pitagora mostrava che si perviene meglio alla conoscenza musicale attraverso la ragione, che attraverso l'orecchio, cioè attraverso i sensi" (III, cap. 2 - Barker, 1989, p. 497) - commento tra l'altro un po' curioso perché senza l'orecchio che coglie i rapporti consonantici esercitarsi al monocordo non serve proprio nulla. In ogni caso il senso della frase di Pitagora, ed anche del commento di Aristide, è sufficientemente chiaro: egli esorta i suoi allievi a proseguire la ricerca sui fondamenti teorici della musica. Per alcuni l'invenzione del monocordo è più tarda. In generale per contestare l'attribuzione dell'invenzione al pitagorismo antico si fa notare che "non vi è nessuna menzione precedente al tardo secolo quarto dello strumento utilizzato a questo scopo, il monocordo o canone" (Barker, 2007, p. 26). Ma vi è anche chi a sua volta non accetta come prova questa circostanza. Arpad Szabò, un autore a cui faremo riferimento anche in seguito, scrive: "In effetti è stato congetturato che non vi era alcuna possibilità di misurare gli intervalli sul canone fino a tempi posteriori ad Aristosseno, quindi non prima del 300 a. C. Il maggior elemento di prova portato a favore di questa conclusione è il fatto che il 'canone' non è menzionato nei Problemi musicali (un'opera spuria di Aristotele) e nemmeno nella Sectio canonis; e analogamente non è menzionato dagli scrittori del quarto e quinto secolo in generale. La spiegazione data per questo fatto è che assai probabilmente non esisteva a quel tempo nessuno strumento per la misurazione musicale. Io penso che questo punto di vista sia erroneo perché si può provare in modo conclusivo che il canone esisteva almeno a partire dai tempi di Platone" (Szabò,1978, p. 118). In realtà la Sectio Canonis è stata tramandata sotto il nome di Euclide, ed a parte il titolo, vi è un solo passo che menziona la parola canone (prop. 19-20) e si è ipotizzato che questo passo sia stato ag- 310 giunto da altra mano. Questa ipotesi è ritenuta malsicura da Burkert che in ogni caso considera controversa la data possibile dell'introduzione del monocordo. In ogni caso secondo Szabò, la giustificazione ultima della datazione del monocordo al pitagorismo antico si basa su una interpretazione di un passo dell'Epinomide (991a) di Platone nel quale compaiono dati numerici che sono ottenibili solo attraverso il monocordo. D'altra un fatto è sicuro: non è possibile effettuare nessuna scoperta relativa ai rapporti tra le corde se non attraverso il monocordo. Noi ci associamo all'opinione di Szabò. D'altra parte, la mia sommessa opinione è che per un pitagorico che aveva letteralmente a portata di mano la lira, l'idea guida di questa invenzione non poteva certo essere lontana due o tre secoli. L'attribuzione a Pitagora della sua invenzione è attestata, fra gli autori antichi, da Diogene Laerzio, Gaudenzio, Aristide Quintiliano, Proclo e Porfirio. 311 Tolomeo sottolinea giustamente che per una buona sperimentazione sarebbe necessario possedere corde perfettamente omogenee. Questa è una condizione per isolare il fattore determinante - ed è una condizione, per una ragione o per l'altra difficilissima da ottenere. Ma un'altra via è anche quella di "neutralizzare" le differenze. Consideriamo infatti lo schema della lira o di uno strumento a corde in genere. Esso potrebbe essere presentato come si mostra nello schema a destra dove le corde sono in questo caso vincolate nella sbarra in basso e sono innestate in chiavi nella zona in alto in modo da permettere l'accordatura. Possiamo immaginare di tendere tutte le corde in modo da portarle all'unisono. In questo modo vengono neutralizzate tutte le differenze tra le corde per quanto riguarda il materiale, la fattura, la grossezza, ecc. Per quanto riguarda il risultato sonoro, tutte le corde sono equivalenti. Naturalmente non dobbiamo nemmeno preoccuparci dello stato di tensione della corda dal momento che anch'esso è diventato indif indifferente - l'una potrà essere meno tesa di un'altra. Anche questo è indifferente poiché l'unica cosa rilevante è che si possa pervenire ad una situazione di unisono. Prendiamo allora una corda soltanto e la accordiamo su un altezza qualunque. Naturalmente sarà preferibile prendere un'altezza in un registro medio, ovvero non troppo acuto e non troppo grave. Ora l'invenzione del monocordo è consistita semplicemente nell'introduzione di un ponticello mobile tra i due sostegni rigidi che delimitano la zona vibrante della corda. Abbiamo così uno strumento che, visto lateralmente, avrebbe questo schema: ponticello fisso ponticello fisso ponticello mobile chiave chiave 312 Uno schema che si ritrova in Boezio (IV, cap. XVIII) che vale per il Medioevo come diagramma tipico per il monocordo è il seguente: Naturalmente A e C sono i punti di aggancio della corda, EB ed FD i ponticelli fissi e K il ponticello mobile. In realtà questa figura venne spesso fraintesa per quanto riguarda i semicerchi sui ponticelli, che secondo le intenzioni originarie di Tolomeo, a cui risale questo schema, intendevano certamente alludere solo ad una leggera curvatura del bordo del ponticello. Il semicercerchio venne invece interpretato invece come se il ponticello stesso dovesse essere costruito in forma semicircolare o addirittura di semisfera, cosa che non avrebbe alcuno scopo (Atkins, 1967, p. 35). 4.6 Il monocordo come strumento di misura Nell'opera di Gaffurio oltre le tre tavole che abbiamo mostrato ve ne è un'altra che merita di essere commentata perché si presta a qualche equivoco. Essa presenta ancora Pitagora che sperimenta su corde, ma occorre richiamare l'attenzione anzitutto sul fatto che la tensione è ancora ottenuta attraverso pesi e soprattutto si nota la mancanza di qualsiasi ponticello mobile. Questo è l'elemento decisivo, insieme ad una misurazione che non si avvale più di pesi. Nel caso del monocordo, il ponticello mediano può essere spostato e dunque divide la corda in due parti. Ora è come se avessi due corde che posso paragonare tra loro nel suono che emettono. Ad esempio se pizzico sulla parte a sinistra, ipotizzando che sia molto più corta della parte a destra, otterrò un suono più acuto, se pizzico dalla parte a destra, nella stessa ipotesi, otterrò un suono più grave. È chiaro anche che posso verificare con molta facilità questa prima relazione funzionale: a corde più brevi corrispondono suoni 313 più acuti, a corde più lunghe corde più gravi. In effetti è ora proprio soltanto la lunghezza della corda che viene in questione. Inoltre, poiché evidentemente non interessano le lunghezze assolute, il confronto è quantificabile in forma di rapporto. Ad esempio, supponiamo prima di togliere il ponticello e di fare risuonare la corda, e poi di inserire il ponticello esattamente alla metà. Allora avremo sia a destra che a sinistra un suono che è corrisponde all'ottava acuta della corda intera - abbiamo cioè per l'ottava il rapporto di un 1/2 o inversamente, il rapporto del doppio. 314 Naturalmente questi confronti potrebbero risultare più facili disponendo di due o anche più corde. Dovremo allora assumere come situazione di partenza l'unisono e poi manovrare con uno o più ponticelli mobili. Il buon senso, a cui non si vede perché si debba rinunciare in questo genere di questioni, ci suggerisce subito che ben difficilmente si sperimentava con una corda soltanto: in effetti sembrerebbe abbastanza strano che chiunque sia stato in grado di effettuare il pensiero del monocordo non sia stato anche in grado di semplificare lo strumento con due o più corde in modo da rendere più agevole la sperimentazione. Già con due corde soltanto le cose migliorano notevolmente perché si consentirebbe di avere un suono fisso di riferimento, ponendo il ponticello mobile sull'altra corda e comparando i suoni risultanti dal movimento del ponticello con il suono fisso - sempre nell'assunto che le due corde entrambe prive di ponticello siano accordate all'unisono. In effetti è ormai comunemente accettato che con la parola monocordo si intendeva sia uno strumento con una sola corda sia, per estensione, strumenti con più corde. Il nome in certo senso vale solo per l'idea - ma con lo stesso nome si poteva intendere uno strumento che poteva arrivare alle otto corde. Nelle rappresentazioni consuete più tarde comunque il nome faceva testo, e quindi il monocordo veniva rappresentato con una corda soltanto. "Il fatto che nella designazione di monocordo venisse menzionata una sola corda non significa che il monocordo dovesse essere obbligatoriamente costituito di una sola corda tesa. Se si vogliono suonare simultaneamente gli intervalli messi in evidenza è certamente più pratico disporre di una corda aggiuntiva, come descrive ad esempio Teone di Smirne che utilizza per questa operazione due corde accordate all'unisono... Il monocordo a otto corde che si trova già in Tolomeo viene descritto tra l'undicesimo e dodicesimo secolo da Theogerus di Metz" (Münxelhaus, 1976,p. 25). "Gli scrittori più tardi descrivono la costruzione di monocordi di una gran varietà di dimensioni e forme, molti dei quali provvisti di più di una corda. Tecnicamente questi strumenti a più 315 corde non dovrebbero essere chiamati monocordi, ma vi era consenso sul fatto che se le corde venivano accordate all'unisono la designazione poteva essere mantenuta" (Adkins, 1967, p. 36). Il passaggio ulteriore è infine quello della graduazione. Sulla base del monocordo, che supponiamo sia in legno, metteremo delle tacche ai fini di effettuare le misurazioni. Il monocordo era in ef effetti graduato. Per questo veniva anche chiamato canone, termine che in greco vuol dire "metro", "regolo". Il passo essenziale è fatto. E si capisce benissimo come Pitagora, al di là della favola del "fabbro armonioso", abbia potuto determinare i rapporti di ottava, di quinta e di quarta e lo abbia fatto correttamente, anche se, come vedremo tra breve vi è una problematica relativamente complessa proprio in rapporto alla determinazione numerica. Notiamo per il momento che, una volta scoperti i rapporti relativamente alle corde, questi stessi rapporti vengono sperimentati ad esempio sui flauti o sui bicchieri contenenti acqua in varie proporzioni - cercando di superare le difficoltà che abbiamo enunciato in precedenza; si poteva così ottenere lo stesso risultato. Ciò aveva una importante conseguenza: il rapporto numerico assumeva il carattere di una generalità astratta, indipendente dalle sue applicazioni e dalle particolarità dei materiali. Esso viene ottenuto anzitutto sperimentando sulle corde, ma non viene considerato come una proprietà particolare che spetta soltanto ad esse. Ed anche questo è un passo importante che non interessa soltanto la teoria della musica ma anche la teoria della scienza e la teoria della conoscenza in genere. Io sarei disposto ad enfatizzare un poco questo punto: il monocordo non è uno strumento musicale essendo interamente destinato alla sperimentazione, ma non si può non notare che esso è la lira stessa che è diventata uno strumento di laboratorio. Del resto talvolta il monocordo viene considerato anche come uno strumento musicale.Cosi Boezio lo paragona ad una cetra. Ed inversamente. "Si può dimostrare che nel medioevo anche strumenti mu- 316 sicali venivano impiegati per misurazioni intervallari. Ad esempio Johannes Gallicus (XV sec.) intende la viella con una sola corda come lo strumento con il quale potevano essere dimostrati i rapporti intervallari e presso i teorici arabi questioni di accordatura di ordine generale venivano spiegate con riferimento al liuto" (Münxelhaus, 1976, p. 26). Tutto ciò fa pensare che una rappresentazione di Pitagora come la seguente che risale al sec. XV sia ovviamente conforme alle raffigurazioni dell'epoca, ma che essa intenda raffigurare un Pitagora musicante, ma anche sperimentatore. In una miniatura del XIII secolo il monocordo viene chiamato senz'altro "lira" (Münxelhaus, 1976, p. 30) 317 Intorno al 1500 il monocordo subisce un cambiamento significativo non solo nella forma ma anche nella funzione. Intanto va notato che il monocordo, nel suo impiego più evoluto, interagisce sempre con i calcoli matematici, comunque eseguiti. Talvolta avviene anche una sorta di scambio delle parti: il monocordo più che servire per scoprire i rapporti rapporti matematici di intervalli dati, viene impiegato per udire suoni e intervalli predeterminati calcolisticamente. Ma vi è anche un altro suo impiego particolarmente interessante che è quello di contribuire a determinare quale lunghezza deve essere attribuita ad una corda per ottenere una determinata serie di intervalli. La forma viene allora adattata a questa diversa funzione. Il ponticello fisso dal lato opposto alla chiave viene nettamente abbassato rispetto alla cassa armonica. In questo modo diventava possibile premere direttamente i vari punti della corda esattamente come si fa per una chitarra o con un violino (Adkins, 1967, p. 35). Un monocordo del periodo rinascimentale poteva così assumere la forma seguente, che non solo è assai simile a quella di uno strumento musicale ma che mostra un uso in certo inverso che di esso era possibile fare: esso poteva servire a stabilire la posizione dei "tasti" degli strumenti a corda. 318 Questo è naturalmente un problema diverso dai precedenti. Gli strumenti a corda avevano spesso una "tastatura", come ha oggi ancora uno strumento come la chitarra, in cui il dito viene disposto tra due tacche che vengono predeterminate sullo strumento e che sono come ponticelli che diventano attivi quando avviene la pressione del dito sulla corda. Una problema che si pone è allora, ed era un problema importante in un periodo in cui la sperimentazione sulle forme scalari faceva parte degli interessi musicali, è quello di stabilire dove debbono esseredisposte le tacche, in modo da ottenere una particolare sequenza di intervalli (Adkins, 1967, p. 41). L'illustrazione precedente può dare una idea di come si poteva usare il monocordo per assolvere questo compito. Va notato comunque che questo impiego del monocordo non riguarda la grecità, che non aveva strumenti tastati. Tardo è anche il simbolismo del monocordo come spina dorsale dell'universo accordato dalla mano stessa di dio. "Nel Medioevo il monocordo non soltanto assolveva le funzioni di base ad esso assegnate dai Greci, ma serviva anche come il principale metodo per esporre dettagli della teoria musicale, cioè esso fu frequentemente impiegato nella spiegazione dei metodi matematici per la determinazione degli intervalli e delle scale, ed anche come un apparato per produrre altezze nell'insegnamento del canto. Il Rinascimento e i periodi successivi utilizzarono ampiamente lo strumento come uno dei mezzi pratici per sperimentare con le varianti scalari ed assai meno per l'accordatura degli strumenti a tastiera. In ogni caso in quest'epoca un sistema di rappresentazione acustica espressa nella forma di lunghezza di corde, di derivazione monocordista, trovò grande favore da parte di teorici, compositori e matematici. Nel rinascimento inoltre fu fatto un uso simbolico del monocordo per illustrare l'unità esistente tra l'uomo e il suo ambiente sia fisico che spirituale" (Adkins, 1967, p. 11). Giovanni Piana Opere complete Volume ventinovesimo Album per la teoria greca della musica Parte seconda 2010 4 ISBN 978-0-244-03484-9 Copyright @ Giovanni Piana (2013) Edizione a stampa Lulu.com: 2013 Creative Commons License 2.0 CC Attribuzione - Non opere derivate 2.0 Codice della Licenza: CC BY-ND 3.0 IT L'indice della Parte prima, pubblicata nel Volume XXVIII, si trova in fondo a questo. Entrambe le parti in un unico volume PDF in formato Album sono reperibili presso l'archivio Internet di Giovanni Piana http://www.filosofia.unimi.it/piana/ 5 INDICE Parte seconda 5. La matematica pitagorica - p. 13 5.1 Numeri, rapporti e proporzioni - p. 14 5.1.1 Il logos 5.1.2 L'analogia 5.2 I numeri figurati - p. 24 5.2.1 La lavagna di Pitagora nella Scuola di Atene di Raffaello 5.2.2 La Tetractys 5.2.3 Cenni sui numeri figurati 5.2.4 Sviluppi e commenti sui numeri figurati 5.2.5 I numeri quadrati 5.2.6 I numeri eteromechi 5.2.7 I numeri figurati e l'idea di matrice 5.3 Le opposizioni pitagoriche - p. 53 5.3.1 Le opposizioni pitagoriche e il loro senso 5.3.2 L'opposizione illimitato/limitato in Filolao 6 5.4 I numeri irrazionali nel pitagorismo p.62 5.5 L'armonia delle sfere - p. 67 6. Il reperimento dei rapporti fondamentali sul monocordo - p. 77 6.1 Il monocordo senza graduazione - p. 77 6.1.1 Il metodo delle sottrazioni successive 6.1.2 Osservazioni sul metodo delle sottrazioni successive 6.1.3 Il quaternario 6.2 La divisione in quattro del monocordo - p. 91 6.3 La divisione in dodici del monocordo - p. 98 6.3.1 La considerazione "lineare" dell'intervallo 6.3.2 I rapporti consonantici espressi con i numeri 6,8,9,12 7 7. Tematica delle medie - p. 107 7.1 Media aritmetica, media armonica e media geometrica - p. 108 7.1.1 L'affermarsi del problema delle medie 7.1.2 Le formule delle medie 7.2 Le medie secondo le definizioni di Archita - p. 113 7.2.1 Media aritmetica 7.2.2 Media geometrica 7.2.3 Media armonica 7.3 La media geometrica - p. 124 7.3.1 Ottava, rapporti epimori, media geometrica 7.3.2 Ripresa del problema dei numeri irrazionali 7.3.3 Duplicazione del quadrato e media geometrica 7.3.4 Media geometrica e il problema del tetragonismo 7.3.5 Conseguenze sulla teoria pitagorica della musica 8 8. Discussione sulla cosiddetta "scala pitagorica"- p. 137 8.1 Il problema della validità degli intervalli e della formazione della scala - p. 137 8.1.1 La costruzione della scala attraverso le medie 8.1.2 Costruzione della "scala pitagorica" attraverso il ciclo delle quinte 8.2 Precisazioni e commenti - p. 145 8.2.1 Tono e limma 8.2.2 L'apotome 8.2.3 Il comma 8.2.4 Il calcolo pitagorico del comma come rapporto 8.2.5 L'andamento discendente della scala 8.2.6 Costruzione della "scala pitagorica" e metodi di accordatura 9 8.3 Eccessi del matematismo pitagorico - p. 162 8.3.1 Il problema della consonanza di undicesima 8.3.2 La soluzione di Tolomeo e quella di Gaudenzio 8.3.3 I tentativi di costruire scale con rapporti epimori 9. Il tetracordo - p. 173 9.1 Il tetracordo come spazio sonoro fondamentale - p. 173 9.2 Il tetracordo diatonico di Filolao - p. 178 9.3 I nomi delle note - p. 180 10. I generi - p. 194 10.1 Prima dei generi - p. 195 10.2 I generi e le loro differenze - p. 200 10.3 L'indicatore del genere - p. 203 10 10.4 L'alterna vicenda dei generi - p. 205 10.5 Il pyknon - p. 209 10.6 La teoria dei generi e i tetracordi di Archita - p. 211 11. Aristosseno e la teoria dei generi- p. 223 11.1 Un nuovo concetto di intervallo p. 224 11.1.1 L'illimitatezza del numero delle lichanoi 11.1.2 L'esperienza dell'intervallo 11.1.3 Differenze rispetto alla posizione pitagorica, il problema del geometrismo e della matematica degli irrazionali 11.2 Il significato delle misure aristosseniche - p. 236 11.2.1 La divisione in trentesimi dell'intervallo di quarta 11.2.2 Una ipotesi sulla scelta del trentesimo di quarta 11.2.3 La presunta equalizzazione operata da Aristosseno 11 11.3 La teoria dei generi secondo Aristosseno - p. 244 11.3.1 Il punto di vista funzionale 11.3. 2 Confronto tra i generi di Archita e di Aristosseno 12. Il sistema completo - p. 253 12.1 Introduzione - p. 254 12.1.1 Sistemi, toni, armonie 12.1. 2 Le specie (eidos, schema) 12.1.3 Metabolé 12.2 Il sistema completo - p. 264 12.2.1 L'ampiezza dello spazio sonoro nella musica greca 12.2.2 Il doppio tetracordo di base come fondamento del sistema completo 12.2.3 Il sistema completo piccolo e la sua integrazione nel grande 12.2.4 Le specie di ottava 12.2.5 Il problema della trasposizione e la "modulazione della melodia" 12 12.3 Identità e mutamento nel sistema completo - p. 294 12.3.1 Tesi e dynamis 12.3.2 La prospettiva dinamica e tetica nell'intero spazio sonoro 12.3.3 L'immutabilità del sistema completo 13 5. La matematica pitagorica "La matematica ha la sua preistoria, e non delle meno importanti" H. G. Zeuthen 14 5.1 Numeri, rapporti e proporzioni 5.1.1 Il logos Vogliamo ora chiarire meglio il modo in cui i Pitagorici concepiscono il riferimento ai numeri ed ai rapporti tra i numeri. In realtà noi siamo abituati dalla scuola a considerare la "frazione" nient'altro che come un modo di indicare la divisione come operazione puramente aritmetica. Ci viene insegnato che una frazione può essere "tradotta" in un numero decimale, e che il numero decimale può essere finito o infinito periodico. Se ad esempio dividiamo 3 : 2 otteniamo 1,5 che è un numero decimale finito. Se invece dividiamo 4:3 otteniamo 1,33333.... che è un numero decimale infinito periodico. Sappiamo anche che questi numeri vengono chiamati razionali. La parola "razionale", concepita così, la abbiamo accettata una volta per tutte nell'insegnamento medio. Il fatto singolare è che forse sarebbe probabilmente difficile per ciascuno di noi rendere conto dell'impiego di questo termine - forse nessuno ci ha mai detto nulla in proposito, forse ciò che ci è stato detto lo abbiamo completamente dimenticato. Naturalmente esso ha a che vedere con la parola latina ratio e con la parola greca logos. Si tratta di termini tremendamente impegnativi per la filosofia. Ma vi è qualche relazione tra l'impiego filosofico ed un simile impiego aritmetico? La tentazione sembra essere spesso quello di dare una risposta negativa a questa domanda. Ecco alcune definizioni prese qui e là dai nostri comuni libri scolastici: Un numero razionale è un numero che è la ratio di due interi. Tutti gli altri numeri reali sono detti irrazionali. La ratio è il quoziente di due numeri. In un dizionario di matematica, anch'esso destinato alla scuola, sotto la voce "razionale" si osserva: "Si noti che il senso di ratio è rapporto, e non ragione, cosicché razionale non va inteso come ragionevole" . Su di ciò non si può che essere d'accordo: non vi sono numeri ragionevoli e numeri irragionevoli. Ma la ragione non c'entra proprio nulla con quella di rapporto? 15 È appena il caso di dire che potremmo ricorrere a definizioni assai più sofisticate, che richiederebbero contesti teorici di ampio respiro e che certamente ora non è nemmeno il caso di evocare. Tanto più che, per quanto riguarda le nostre discussioni, non solo non abbiamo bisogno di procedere verso l'alto, ma al contrario vogliamo ripensare i problemi nella loro forma iniziale, regredendo ai livelli più semplici - alla preistoria della matematica più che alla sua storia. Del resto io credo che il raggiungimento di una maggiore complessità, quando è accompagnata dall'oblio del senso primitivo da cui tutto ha inizio, non sia sempre un vantaggio dal punto di vista del comprendere. Se ad esempio la "frazione" viene intesa come una divisione che non è stata ancora compiuta o come un modo diverso di scrivere un numero decimale, il parlare di numeri razionali e correlativamente di irrazionali, assume sempre più nettamente il carattere di una pura convenzione terminologica, il cui senso tende a sfuggirci. A maggior ragione se poi si aggiunge (penso sempre all'insegnamento elementare e medio) l'idea che il problema più importante per il giovane discente che sta per essere introdotto nei grandi regni della matematica sia quello di risolvere gli "esercizi" con le frazioni, che in genere consistono nel riempire una pagina del quaderno a quadretti con un immenso grattacielo di frazioni impilate l'una sull'altra al cui termine si trova, se tutto va bene, una frazioncella come -87/17. Come avrà ben compreso il mio lettore, i grattacieli di frazioni sono stati un mio incubo scolastico infantile di cui voglio qui vendicarmi mostrando un esempio di grattacielo tratto dal mio vecchio manua- 16 le di aritmetica. La soverchia importanza data ai calcoli rischia di mettere in ombra i concetti, ed il credere che l'insegnare la matematica significhi imparare a fare calcoli corretti è una convinzione che, a mio avviso, ostacola gravemente l'afferramento della grandezza e della bellezza del pensiero matematico, oltre ad essere ormai diventata del tutto obsoleta l'utilità pratica dell'acquisizione di una simile abilità. Ritornare ai concetti spesso significa proprio ritornare ai primi inizi. Una riflessione sui problemi della matematica pitagorica può essere orientata proprio in questa direzione, che forse è proficua non solo sul piano storico, ma anche su quello teorico. Considerazioni filosofiche e considerazioni matematiche entrano qui le une nelle altre. Tra le tante cose che si attribuiscono a Pitagora, vi è anche il fatto che egli sia stato il coniatore del termine "filosofia". "Egli fu il primo che diede il nome alla filosofia, descrivendola come desiderio e amore della sapienza, che era per lui conoscenza della verità delle cose che sono" (Giamblico, 1991, XIX, p. 315). Questa circostanza merita di essere rammentata qui. Pitagora e i pitagorici sono alla ricerca di rapporti. La filosofia del numero potrebbe addirittura essere considerata conseguente a questo scopo primario, se si tiene conto del fatto che i numeri sono cercati in quanto essi possono essere messi chiaramente in rapporto e possono dunque riportare questa chiarezza sulle cose a cui "convengono". In greco rapporto si dice logos. E ci sembra suggestivo pensare che per Pitagora la parola "filosofia" che indica anzitutto l'amore per la saggezza e per la sapienza, e nello stesso tempo per la conoscenza della verità delle cose, significasse anche "filologia" - nel senso del termine suggerito da queste considerazioni. Ragionare significa stabilire relazioni, ricercare ragioni è ricercare collegamenti. Mi sembra anche di poter dire anche che quando Pitagora scoperse il logos del fenomeno consonantico, ovvero quando scoperse che la consonanza aveva un logos, per lui questa parola avesse una valen- 17 za matematica e filosofica insieme. Sull'origine della parola logos si sono spese naturalmente moltissime parole. La si fa derivare da leghein, verbo che significa normalmente dire, parlare, raccontare. Esso però significa anche raccogliere, collegare, connettere. Stabilire una connessione significa anche cominciare con il "rendere conto" del fenomeno considerato. Cosicché il significato della parola rapporto e quello di ragione possono scivolare l'uno nell'altro. Arpad Szabò sostiene addirittura che la parola logos nei suoi impieghi più arcaici non avesse "nulla a che fare con il linguaggio quotidiano o con la vita quotidiana dei Greci. Era una denominazione puramente scientifica. Vale a dire: la matematica era il campo unico nel quale il vocabolo logos aveva il senso di 'rapporto tra due numeri', rispettivamente, più tardi, anche 'rapporto tra due grandezze"(1971, p. 85). Si tratta di una tesi che raf rafforza, anziché indebolire ciò che dicevamo in precedenza. Da quel significato particolare si intravvede un significato più generale. Entrambi poi per un certo tratto cammineranno insieme, per un altro si divaricheranno nettamente e avranno una vita indipendente, al punto che sarebbe erroneo confonderli: ma tra questi significati una relazione c'è, ed è giusto da un lato rammentare le origini musicali del problema, dall'altro dare a quella parola una duplice valenza. Per comprendere questo intreccio abbiamo tuttavia bisogno di rimettere in gioco quella nozione di intero e di parte che sembra essere semplicemente cancellata dalle precedenti definizioni della "frazione", nonostante il fatto che questa nozione sia per così dire stampata in fronte alla parola. Anche l'operazione del dividere deve essere considerata non tanto nel suo aspetto di operazione aritmetica, cioè di un'operazione che ha come oggetto e come risultato dei puri numeri, realizzata per di più come una pura manipolazione di tipo calcolistico, quanto il fatto che se dico 3/2, c'è un intero a cui abbiamo aggiunto la sua metà. Dobbiamo riportare alla memoria una circostanza che abbiamo sempre saputo, ma di cui potremmo finire di non tenere affatto conto, e cioè il fatto che il segno 1 deve essere considerato non tanto come simbolo di un numero, quanto di un intero qualsivoglia. Ed allora 1/2 è appunto la metà dell'intero e 18 se scrivo 1+1/2 intendo appunto un intero a cui è stata aggiunta la sua metà, dove ciò che si ha da intendere con il segno "+" andrà deciso di volta in volta, secondo l'intero considerato. Questo è qualcosa di concettualmente diverso dal numero 1.5 inteso come risultato della divisione aritmetica tra il numero 3 e il numero 2. Analogamente 2/3 significa che un intero è stato ripartito in tre parti, di cui ne vengono considerate due. E questo è ancora qualcosa di diverso, dal punto di vista del contesto significativo, del numero 0,66666.... che è il risultato della divisione aritmetica di 2 : 3. A dire il vero, sul numero 1 vi è qualcosa d'altro da dire. Come abbiamo detto or ora, esso rappresenta l'intero stesso che verrà diviso in parti. Tuttavia l'unità può essere intesa come unità di misura per interi, di cui sarà dunque una parte. Secondo una certa unità di misura, ad esempio, un intero avrà la misura 2, secondo la stessa unità di misura, un altro intero avrà misura 3. In questo modo i due interi saranno commisurati l'uno all'altro, dove commisurare significa appunto mettere in rapporto una cosa con un'altra facendo riferimento ad un'unica unità di misura. 5.1.2 L'analogia Da questa nozione di rapporto si deve poi passare alla nozione di proporzione. In greco proporzione si dice analogia, parola nella lingua italiana viene per lo più usata nel senso di "somiglianza", in presenza di aspetti comuni tra una cosa ed un'altra. In realtà vi è qualche affinità di senso tra questi impieghi - che possono naturalmente essere usati anche per cose che non sono numeri - con l'impiego delle parolette stare a e come . Ad esempio: "Dio sta al diavolo, come il bene sta al male". Occupandosi del ruolo della somiglianza nella costruzione delle definizioni, Aristotele nei Topici (108b24) si richiama in realtà alla problematica delle proporzioni in un'accezione generale del termine. In effetti Aristotele scrive: "La considerazione della somiglianza è utile per le espressioni definitorie anche nei confronti degli oggetti assai distanti tra loro, ad esempio, quando si oserva un'identità tra la bonaccia nel 19 mare e l'assenza di vento nell'aria (in entrambi i casi si tratta infatti di una calma), ed ancora tra il punto contenuto nella linea e l'unità contenuta nel numero (ciascuno dei due è invero un principio). In questo modo, se assegneremo come genere la determinazione comune a tutti i casi, la nostra definizione non apparirà estranea all'oggetto. Del resto, si può dire che siffatte formulazioni siano date di solito da coloro stessi che definiscono: essi infatti affermano che l'unità è principio del numero e che il punto è principio della linea. È dunque chiaro che costoro riportano il genere alla determinazione comune ad entrambi questi oggetti" Ma quando entrano in campo i numeri la nozione di proporzione diventa più precisa. Ed è ancora Aristotele a cui possiamo fare riferimento anche se in una discussione che riguarda il "giusto", ma nella quale la proporzione numerica viene direttamente implicata. All'interno di questa discussione di argomento etico si parla infatti dell'analogia (termine che contiene in sé la parola logos) come "eguaglianza di rapporti" (Etica Nicomachea, 1131 a 31). "Questa osservazione di Aristotele mi ha indotto a ricostruire una locuzione arcaica della matematica che viene senza dubbio dai Pitagorici del VI e V sec. a. C, e le cui tracce si leggono ancora in Euclide. Si diceva originariamente di quattro numeri che stanno in proporzione a: b=c:d che essi sono uguali secondo il logos ... Il sostantivo analogia - un'espressione artificiale che originariamente aveva senso solo nel linguaggio matematico - viene dunque da questa locuzione pitagorica e significa 'uguaglianza dei rapporti'. Anche il nostro concetto di analogia è per questa ragione di origine matematica e pitagorica" (Szabò, 1971, p. 85). Nonostante questa sottolineatura di Szabò sull'originaria origine matematica del termine di analogia, che è ovviamente conseguente alla sua osservazione sul termine di logos, credo che sia opportuno almeno per un certo tratto rammentarsi che segni come quelli di eguaglianza o quello di divisione non hanno esattamente lo stes- 20 so senso dei segni corrispondenti usati nell'aritmetica elementare, proprio per il fatto che al di qua e al di là del segno di eguaglianza, dove vi sono i "membri della proporzione", potrebbero esservi cose che non sono numeri. Potremmo anche trovarci di fronte ad un membro della proporzione che non è numerico mentre l'altro lo è. In tal caso ci troveremmo di fronte a formulazioni che tengono un piede nell'aritmetica ed un altro fuori di essa. Proprio il tema dell'intervallo espresso in rapporti illustra questo fatto. Potremmo dire che la nota do sta al sol più acuto come 3 a 2. In un membro della proporzione troviamo dei suoni, nell'altro troviamo dei numeri. Il segno di eguaglianza "=" ha qui un significato piuttosto particolare e talora viene in effetti sostituito, anche in una proporzione i cui membri sono tutti numeri, dal segno "::". Naturalmente per stabilire una proporzione tra cose che non sono numeri e numeri quali sono il 3 e 2 abbiamo bisogno di una mediazione che ci consenta di effettuare questo passaggio. Nel nostro caso, questa mediazione è rappresentata dalla corda e dalla sua lunghezza: ciò che è adatto al numero è la corda, perché essa può essere misurata, e ciò richiede il numero. Conseguentemente due corde possono essere commisurate l'una all'altra. Nello stesso tempo la corda può essere considerata per così dire rappresentativa del suono che essa emette, e quindi viene stabilito un nesso preciso tra una determinazione numerica e un fenomeno uditivo che sembra sfuggire a qualunque determinazione numerica. Ponendo le cose in questi termini vi sono alcune cose da mettere in rilievo con molta chiarezza: anzitutto l'importanza fondamentale che riveste la consonanza come fenomeno uditivo quando sia considerata alla luce di una mediazione che consente una determinazione quantitativa. Questa mediazione è ancora fenomenologica, nel senso che le corde sono entità percepite e manipolabili, io le posso mettere in una tensione minore o maggiore, posso prendere corde più lunghe o più corte. Peraltro, come abbiamo già notato, il rapporto ad es. di 3/2 non viene vincolato alla corda come tale, ma può essere trasferito alla lunghezza in genere, e quindi lo stesso rapporto potrà essere fatto valere, ad esempio, per la lunghezza dei flauti, o per la posizione dei fori praticati in essi. In seguito, in tempi relativamente molto vicini ai nostri, verrà considerato il fenomeno sono- 21 ro come evento fisico che si può considerare in se stesso: il legame con il numero avviene attraverso la frequenza delle oscillazioni di un corpo elastico, ed i rapporti numerici restano gli stessi, benché da interpretare inversamente (a numero maggiore, suono più acuto, a numero minore suono più grave). Ma occorre anche mettere in rilievo che quando non si è ancora raggiunta chiarezza sulle cause del suono e sul suono come evento fisico, il rapporto numerico tende a distaccarsi dai suoi veicoli materiali: le mediazioni che portano al riconoscimento di quel rapporto vengono in certo modo neutralizzate, proprio perché viene operata una generalizzazione che supera la particolarità del veicolo. In assenza di una conoscenza fisica effettiva, si tenderà ad attribuire una speciale virtù, un particolare e misterioso potere proprio al rapporto numerico come tale. È inutile dire che questo rischio è stato ampiamente corso dal pitagorismo in tutte le fasi della sua lunga storia e che in certo senso è già scritto nei suoi principi che, se da un lato possono essere ascritti ad una riflessione anzitutto epistemologica, dall'altro si trovano fin dall'inizio sul piano inclinato di un'interpretazione ontologica. Da un punto di vista epistemologico, dire che la consonanza ha un logos significa affermare che essa comincia ad entrare in nostro possesso, ad essere dominabile. Ma non nel senso in cui essa è dominata dal musicista, che pratica direttamente consonanze e che sa benissimo accordare il suo strumento. La consonanza comincia ad essere dominata nel senso che possediamo qualcosa di simile ad una legge che la governa. Basta spostare di poco l'accento per passare dal piano epistemologico a quello ontologico. La conoscenza è conoscenza non di questo o di quello, non del caso empirico, ma di generalità. Questo è un tema pitagorico di grandissima importanza. Giamblico, coniugando motivi pitagorici e platonici, collega la conoscenza agli esseri incorporei e nell'Introduzione all'aritmetica di Nicomaco scrive: " Affinché la presente trattazione non sia incompleta neppure in questo, diciamo che fu Pitagora il primo che usò il nome di filosofia e disse che questa è scienza della verità degli enti. E con la parola "enti" egli intendeva dire le cose immate- 22 riali ed eterne che costituiscono la sola parte attiva dell'essere, cioè gli incorporei, e del resto le forme corporee e materiali, e generate e corruttibili, e che non sono mai realmente, sono chiamate enti per omonimia, in quanto partecipano dei veri enti. E la sapienza, egli diceva, è scienza degli enti veri e propri, non degli enti per omonimia, giacché le cose corporee non sono oggetto di scienza, né ammettono conoscenza sicura..." (Giamblico, 1995, p. 209). Come appare in questa citazione vi è un uso forte ed un uso debole della parola ente - ciò che è - e l'uso forte riguarda soltanto gli oggetti intelligibili, cioè dominabili dalla ragione, mentre l'uso debole è un uso in certo senso trasposto e riguarda gli enti sensibili, cose corporee o inerenti alle cose corporee. Di ciò non c'è scienza; o meglio - si precisa subito dopo - c'è scienza solo in quanto, una volta che si sono comprese le "ragioni" sul piano degli intelligibili, si arriva anche a riferire ad esse il piano degli enti corporei. "E infatti nella conoscenza di tali enti [intelligibili] accade, anche senza volerlo di proposito, che si accompagni anche la conoscenza degli enti per omonimia, in quanto nella scienza dell'universale è inclusa la scienza del particolare" (ivi, p. 209). Tutto questo discorso sembra resti interamente sul piano della teoria della conoscenza, ma l'accento posto sull'ente vero, su ciò che veramente è, ci sposta verso la metafisica. Una conoscenza è possibile in quanto vi sono enti immobili, che meritano realmente il nome di ente. Per il filosofo pitagorico-neoplatonico questi enti sono anzitutto i numeri, i rapporti, le proporzioni numeriche. Scoprire dunque il logos della consonanza, nello spirito di queste considerazioni, potrebbe significare anche riportare questo ente sensibile, che è il suono, alla sua essenza ideale, dall'ente soltanto per nome all'ente che veramente è. Anche questi possibili esiti e interpretazioni confermano che vi è una connessione tutt'altro che insignificante tra la ragione nel senso matematico del termine e la 23 ragione nel senso filosofico più ampio - ed il cogliere questa connessione ci aiuta a comprendere meglio la speculazione che ora si sta sviluppando. 24 5.2. I numeri figurati 5.2.1 La lavagna di Pitagora nella Scuola di Atene di Raffaello Il grande affresco di Raffaello rappresenta uno straordinario omaggio alla scienza ed alla filosofia della Grecia Antica, senza dimenticare il contributo dato dalla scienza araba alla cultura europea. Ogni figura rappresenta una grande personalità della filosofia e della scienza, da Euclide a Tolomeo, frammiste a personalità dell'epoca tra cui lo stesso Raffaello il cui volto si intravvede dietro il gruppo dei geometri sull'estrema destra. 25 Al centro sono rappresentate le grandi direzioni filosofiche indicate da Platone e da Aristotele. Naturalmente noi siamo subito attirati dal gruppo che ha Pitagora al proprio centro. 26 Mentre l'identificazione di Pitagora è resa sicura dalla lavagna che il giovane allievo porge al maestro, l'identificazione delle altre figure è dubbia. Si è pensato alla presenza di Aristosseno nel gruppo ma le interpretazioni sono oscillanti. A noi sembra probabile e significativa l'interpretazione di coloro che identificano Aristosseno nella figura che regge a sua volta un libro quasi in un gesto di contrapposizione. In tal caso sarebbe felicemente caratterizzata la differenza e anche l'opposizione tra i due grandi protagonisti della teoria musicale greca. Sembra inoltre degno di nota il fatto che i tipi umani dell'uno e dell'altro corrispondano in modo piuttosto evidente rispettivamente alla figura di Platone e di Aristotele rappresentati al centro del dipinto, segnalando un'affinità di orientamento teorico tra Pitagora e Platone, da un lato, e Aristosseno e Aristotele dall'altro. (Cfr. per questa descrizione ed altri dettagli Spazio_filosofico, http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/ imago/raffaello/index.htm e soprattutto, per un'informazione più completa sulla Scuola di Atene: Most, 2001). 27 Per quanto riguarda l'elaborazione dei nostri temi attuali, tutta la nostra attenzione deve concentrarsi ad un piccolo dettaglio, e precisamente alla lavagnetta che viene proposta ai piedi del maestro dal giovane che gli sta a fianco. La figura è sovrastata dalla scritta Epogdoon: si tratta della designazione greca per indicare il tono pitagorico di 9/8. Epi significa "sopra" ed ogdoon "ottavo": "È possibile che alla parola "epogdoon" che vale quasi come titolo della tavola, spetti anche la funzione di fornire un rimando alla tradizione, secondo la quale fu Pitagora ad avere introdotto nella scala il tono intero a 9:8, o almeno a mettere in evidenza l'importanza che questo tono ha per la scala pitagorica" (Münxelhaus, 1976, p. 190) Questa importanza è dovuta al fatto che l'ottava pitagorica deve essere concepita come formata da due quarte separate da un tono. La quarta come parte costitutiva fondamentale dell'ottava viene chiamata tetracordo, ed il tono in questione che opera la disgiunzione (diazeugsis) tra i due tetracordi viene chiamato tono disgiuntivo. Gli archi, secondo una convenzione diventata del tutto comune nella trattatistica, indicano gli intervalli e il tono disgiuntivo viene evidenziato rispetto agli altri intervalli con l'archetto superiore. In basso l'arco più ampio indica l'intera ottava 28 e gli altri archi la quarta e la quinta nelle due direzioni. Nella parte superiore della figura compaiono anche i numeri 6,8,9, 12 che abbiamo già incontrato nelle raffigurazioni medioevali e di cui è opportuno ancora rinviare la spiegazione. È il caso invece di dare qualche spiegazione sulla parte sottostante della figura aprendo nello stesso tempo una digressione piuttosto ampia. 5.2.2 La Tetractys Fino a che punto ci troviamo in bilico tra istanze di ordine diverso, all'interno di uno stesso orizzonte problematico, e come sia importante tenere insieme queste istanze, è dimostrato in realtà molto bene dalla discussione che può essere sviluppato da uno dei più famosi emblemi pitagorici. Si tratta della cosiddetta Tetractys. La figura che Raffaello ha tracciato sulla lavagna che viene mostrata a Pitagora, al di sotto dello schema della divisione dell'ottava, si chiama appunto così. Essa è intanto una rappresentazione, letta dall'alto verso il basso, dei numeri 1, 2, 3, 4 che si conviene nel loro insieme di indicare con il termine di tetrade o di quaternario, e questa rappresentazione rappresenta un modo particolare di enfatizzare la sua densità simbolica, a cominciare dal riferimento musicale all'idea dell'"armonia" ovvero dei rapporti musicalmente "sinfonici". Questi rapporti sono tutti formulati all'interno della tetrade - trattandosi, come abbiamo già detto, 2/1 per l'ottava, 3/2 per la quinta, 4/3 per la quarta. Forse in essa è contenuto anche il rapporto dissonantico di 9/8 - che peraltro è in certo senso una risultante della divisione "sinfonica" dell'ottava - poiché i numeri 9 e 8 possono essere formulati come 32 e 23. Rappresentando l'unità con una pietruzza ((psefos), un punto o un trattino, possiamo disporre ogni punto in modo da costruire una sorta di triangolo.Naturalmente la figura può essere costruita anche mettendo in evidenza caratteristiche di particolare simmetria: ad esempio facendo bene le cose, si può puntare un compasso e tracciare un cerchio la cui circonferenza passi sui vertici. 29 1 VIII 2 V 3 IV 4 I numeri romani indicano gli intervalli musicali 30 Inoltre si può ancora notare che vi è un valore simbolico che rimanda alla totalità delle dimensioni del reale: 1 = punto = zerodimensionalità 2 = linea = unidimensionalità 3 = triangolo =bidimensionalità (è la figura piana più semplice) 4 = tetraedro = tridimensionale (il primo dei solidi regolari platonici, piramide con facce triangolari) Vi sono fonti che fanno risalire queste relazioni spaziali al pitagorismo antico, e in particolare a Filolao (Test. A13), ma è possibile che esse siano state proposte in ambiente platonico (Huffman, 1993, p. 359); certa è in ogni caso l'importanza di questa figura per i pitagorici, e che questa importanza sia dovuta al valore emblematico che essa poteva riassumere sulla base dei suoi valori aritmetici, geometrici e musicali con le loro espansioni simboliche. Il numero dieci, che è del resto la base del sistema decimale, è sempre stato un'immagine di totalità e di perfezione; e così anche il cerchio. Questa idea della totalità è ancor più rafforzata dall'idea che questi primi quattro numeri, che la teoria musicale ha messo in evidenza come quintessenza dell'armonia, siano rappresentativi delle dimensioni del reale. Questa figura aveva per i pitagorici un valore quasi sacrale, e si racconta che la fase di iniziazione si concludesse proprio con un giuramento sulla tetractys. "Il più comune dei giuramenti associati alla tetraktys era: 'Io giuro a colui che ha trasmesso alle nostre anime la tetraktys / fonte che contiene la radice della natura perenne'; un'altra formula di giuramento riferito da Giamblico afferma: 'Che cosa è l'oracolo a Delfi? la tetractys; / cioè l'armonia in cui cantano le sirene'" (Barbera, 1985,p. 197). Il riferimento all'oracolo di Delfi è significativo perché mostra che figure come queste appartenevano, come i "simboli" verbali agli enigmi di cui si compiaceva il pitagorismo più antico e più recente. 31 5.2.3 I numeri figurati Sarebbe tuttavia sbagliato insistere sull'aneddotica relativa alla tetractys, e sbagliatissimo pensare che la sua portata teorica si esaurisca in essa. Al contrario questa figura, così importante sul piano emblematico, è un semplice dettaglio dentro il contesto in cui essa deve essere effettuata. Essa infatti non è che un possibile esempio della più ampia tematica dei numeri figurati, e questa assolve un ruolo che è difficile sottovalutare nella preistoia del pensiero matematico. Su di essa val la pena di soffermarsi anche un poco di più dello stretto necessario. Il primo problema che va discusso è come debba essere considerata la tematica del numeri figurati. Ci si deve chiedere in primo luogo se sia giusto ritenere che essa sia una sorta di raffigurazione geometrica del numero, come si dice così spesso nella manualistica corrente. In realtà i pitagorici parlano di numeri triangolari, poligonali, rettangolari, quadrati, ecc. e sia i nomi che le configurazioni di punti corrispondenti hanno tutta l'apparenza di forme geometriche. Si potrebbe allora sostenere che qui sarebbe in atto una rudimentale visione "geometrica" dei rapporti aritmetici. Del resto il prevalere di un punto di vista geometrico sarebbe tipico della matematica greca in genere. Io credo che questa opinione non sia condivisibile né per il caso generale né per il caso particolare della matematica pitagorica. Per quanto riguarda il caso generale non vi è dubbio che negli studi dei matematici greci il riferimento geometrico sia prevalente. Ma forse si tiene poco conto del fatto che 32 dal punto di vista teorico, per il pensiero greco è l'aritmetica, e non la geometria, la disciplina matematica per eccellenza. Nella geometria si sospetta sempre una contaminazione con la realtà, da cui invece l'aritmetica sembra immune. L'aritmetica ha una generalità di principio che manca alla geometria. Ma a parte il caso generale, non c'è dubbio che, sul versante pitagorico, risulta del tutto erronea e gravemente fuorviante, l'attribuzione di una visione geometrizzante del numero. In realtà si può dare una interpretazione del senso della figuralizzazione del numero che ha ben poco a che fare con la geometria. Proviamoci a riconsiderare la figura precedente con questo dubbio in testa: che cosa ha di propriamente geometrico la figura della tetractys? Potremmo rispondere: la disposizione dei punti è una disposizione triangolare, e ciò significa che in questa figura si può notare la configurazione tipica (=Gestalt) del triangolo. Se tracciassimo delle linee seguendo i punti più esterni e cancellassimo i punti interni avremmo un triangolo. Ma una simile operazione non è di poco conto! Se colleghiamo i punti in questo modo e cancelliamo i punti interni, ed anzi, tutti i punti (come alla fine dovremo fare), del numero figurato non avremmo proprio nulla, ma per l'appunto soltanto un triangolo. La Gestalt triangolare di questa rappresentazione (come di quella delle altre figure prodotte) distoglie l'attenzione dai problemi veramente importanti. Una prima considerazione, che non è ancora decisiva ma che comincia con insinuare qualche dubbio, è che il vedere la tetractys come un triangolo introduce necessariamente il fattore della continuità che caratterizza la geometria rispetto all'aritmetica, mentre al contrario una rappresentazione per punti sottolinea l'appartenenza del numero intero all'ambito del discreto, a cui è connessa l'aritmetica come teoria degli interi. Una considerazione geometrico-spaziale si af affaccia certamente nell'ambito della tematica del numero figurato in particolare per il fatto che il punto può essere considerato con lo spazio che necessariamente ha intorno, dando a questo spazio la forma di un piccolo quadrato. "Le unità-punto debbono essere spaziate, altrimenti esse si confonderebbero. Intorno a ciascu- 33 na di esse si estende un 'campo' (chora o choros) - e le unità assemblate compongono dei campi più vasti rappresentativi del numero. Ogni numero può dunque essere raffigurato sia come un assemblaggio di punti, sia come un assemblaggio di quadrati eguali (campi). Si può anche utilizzare ad un tempo punti e campi e rappresentare così l'unità-atomo e lo spazio che si assume che gli stia intorno" (Michel, 1950, p. 296). Questa circostanza suggerisce la trasposizione geometrica di diversi problemi, ma non è in grado di intaccare l'impianto aritmetico fondamentale. Anche l'espressione aritmo-geometria usata da Michel (Michel, 1950) per indicare i numeri figurati può generare l'equivoco che si tratti di un misto poco coerente di aritmetica e geometria. Beninteso lo stesso Michel, che ha studiato a fondo l'argomento ed al quale per lo più faremo riferimento in questa nostra esposizione, pone l'accento sul carattere essenzialmente aritmetico dei numeri figurati. Così egli aggiunge: 34 "Ricordiamoci tuttavia che noi prendiamo le mosse dal numero. È a partire dall'aritmetica che approdiamo alla geometria. Noi siamo alla presenza di numeri figurati e non di figure misurate o numerate, e se appaiono delle figure ciò accade perché delle unità-punti che hanno una posizione ed un'estensione sono stati raggruppati seguendo certe regole" (Michel, 1950, p. 296). "Questi punti non sono punti della geometria... essi rivelano un concetto di matematica che riguarda essenzialmente i numeri interi - cosa che rappresenta la più importante caratteristica della relazione tra matematica pitagorica e teoria pitagorica della musica" (Crocker, p 308) In queste affermazioni pur così decise non si arriva pienamente a formulare quello che è il vero nodo della questione. Io oso avanzare l'opinione che queste figure non solo non abbiano carattere geometrico (nonostante alcune significative implicazioni con problematiche geometriche) ma debbono essere considerate come un vero e proprio metodo notazionale. Si tratta, io credo, di un geniale e fecondo sviluppo del metodo notazionale più primitivo che ogni teoria del numero non può non presupporre e che talora viene chiamata notazione tratto: la notazione per punti o linee in successione, in cui ciascun punto vale ovviamente come unità. = = 35 In effetti quello che potremmo chiamare il primo livello dei numeri figurati sono i numeri lineari, e questi non sono altro che i segni numerici della notazione tratto, si tratta dunque di pure successioni di punti o di linee. Come si comprenderà con essi si potrà fare ben poco, e naturalmente un simile metodo di notazione è totalmente impraticabiòe per numeri appena un poco grandi. Ora, la grande invenzione pitagorica consistette nel vedere la possibilità di organizzare questo metodo di notazione a linee sovrapposte in modo tale da realizzare "figure numeriche" secondo una regola. Quest'ultimo punto è di fondamentale importanza così come è di fondamentale importanza lo scopo: che non è solo quello di facilitare i calcoli ma anzitutto quello, genuinamente conoscitivo, di rendere visibile nel segno stesso le relazioni tra i numeri. "L'aritmetica pitagorica è visiva, con una tendenza a figurare piuttosto che a definire ed a mostrare piuttosto che a dimostrare" (Michel, 1950, p. 339). Abbiamo già sottolineato che per il pitagorismo - ma credo di poter dare a questa affermazione un carattere generalissimo - conoscere significa soprattutto stabilire relazioni. Nei numeri figurati dei pitagorici vi sono più pensieri di quanto ritengono coloro che presentano l'intera questione come una pura curiosità degna soltanto di una matematica rozza e primitiva. Uno psicologo gestaltista dirà senz'altro (e con buone ragioni dal suo punto di vista) che nella fig. 1 si vede anzitutto un triangolo. Ma non è un triangolo che vuol far vedere il filosofo pitagorico. Vedere un triangolo distoglie in realtà la nostra attenzione dall'afferramento dell'aspetto processuale e costruttivo che qui è in atto. In effetti la figura deve essere vista come costruita in due passi: il primo passo è la posizione del primo punto a sinistra. Il secondo passo è la posizione dei due punti alla destra del primo punto. Poste le cose in que- fig.1 36 sto modo siamo in grado di capire che siamo di fronte ad un procedura costruttiva che può essere iterata secondo una regola. Il passo successivo consisterà nella produzione del 6 applicando la stessa regola sulla destra della figura del tre come nella nostra fig. 2. Naturalmente potrete interpretare questa figura come 3 + 3 oppure come 1+2+3. In entrambe le interpretazioni è presente in realtà una regola costruttiva. Che vi sia una regola di costruzione è dimostrato dal fatto che voi ora sapete subito quali saranno le figurazioni immediatamente successive. Incontreremo dunque anzitutto la tetraktys (fig. 3) e poi il numero figurato 15 (fig. 4) , e così via. Per fig. 2 dare evidenza alla modalità di costruzione del numero triangolare potremmo cominciare dal punto a sinistra e poi tracciare delle linee che hanno il solo scopo di rendere chiaro come dovrà essere prodotta la figura immediatamente successiva (fig. 5). fig. 3 37 fig. 4 fig. 5 38 Sarebbe dunque un gravissimo errore soffermarsi sulla tetractys come tale come una mera curiosità e tirare oltre. La tetractys in sé rimanda alla costruzione di una successione infinita seconda una regola che ha come risultato una precisa concettualizzazione. Concettualizzare vuol dire molte cose, ma vuol dire anche creare delle tipologie. In questo caso si effettua una classificazione, si forma un concetto, e precisamente il concetto di numero triangolare. Questo concetto - questo è il punto che io ritengo del massimo interesse - è costruito sulla base dell'iterazione di una regola applicata al risultato ottenuto nel passo precedente. Questo modo della costruzione nella matematica moderna si chiama costruzione ricorsiva. Ciò che risulta a mio avviso con assoluta chiarezza dalla problematica connessa ai numeri figurati è proprio l'interesse pitagorico verso formazioni concettuali che hanno al loro fondamento procedure iterative da cui risultano serie di numeri aventi particolari proprietà e che hanno il loro modello nella procedura iterativa che genera la stessa serie dei numeri naturali. Quelle esposizioni che tacciono su questo interesse dei pitagorici per la ricorsività dimostrano non solo di non aver compreso un aspetto importante della loro filosofia della matematica, ma anche di ignorare il fatto che nell'ambito del pensiero matematico antico e moderno il tema della ricorsività ha avuto elaborazioni particolarmente profonde. Questo pensiero sta al centro della matematica pitagorica, non è possibile parlare di essa senza tenerne conto. Vorrei sottlineare questa differenza: una cosa è far notare che vi è una relazione tra il quattro e il dieci per il fatto che la somma dall'1 al 4 dà 10, ritenendo che tutta l'enfasi anche immaginativa della tetraktys poggi su questa circostanza. Un'altra è integrare questo "emblema" in un problema più generale che mostra come una delle ricerche caratteristiche della matematica pitagorica sia quella di individuare relazioni interessanti tra i numeri e formare tipologie che non sono puramente descrittive o immaginifiche, ma propriamente concettuali per il fatto che vengono enunciate delle regole che stanno alla loro base. La proprietà di essere un numero triangolare non dipende dalla pura e semplice parvenza di un triangolo, ma dal fatto che esso, in forza della sua regola di costruzione, appartiene alla serie dei numeri che chiamiamo triangolari, sulla base della loro forma gestaltica. 39 5.2.4 Sviluppi e commenti sui numeri figurati Per comprendere un poco più a fondo le poche cose che abbiamo detto sui numeri figurati e per intravvedere anche soltanto i possibili sviluppi che da questi inizi possono verificarsi, conviene intrattenersi ancora un poco sull'argomento. La riflessione sul numero comincia con la riflessione sui possibili metodi notazionali. Nel caso del pitagorismo la comprensione razionale, abbiamo più volte osservato, consiste nel cogliere relazioni: la notazione ha il compito di scoprirle e, ad un tempo, di mostrarle: nel senso letterale del portarle alla vista. Naturalmente a questo livello intuitivo il pensiero aritmetico non potrà indugiare troppo a lungo, ma è significativo che la sua preistoria debba cominciare da quel livello. La comprensione razionale significa poi naturalmente anzitutto stabilire distinzioni, e dunque operare classificazioni. Tutto ciò non avviene pensando un concetto di numero in astratto, ma riflettendo sulle organizzazioni figurali possibili. Risulta intanto subito chiaro che, secondo il metodo di notazione indicato, si possono dare per così dire tre livelli di formazioni numeriche che secondo la terminologia della figura potranno essere distinti in numeri lineari, piani e solidi. In via di principio naturalmente ogni numero può essere scritto come numero lineare, ma ciò non ha particolare interesse. Se consideriamo la formazione della figura come risultato di una moltiplicazione tra numeri - come accade in Euclide (libro VII, Def. 17) - allora può interessare il fatto che possiamo ottenere una caratterizzazione dei numeri primi come numeri "essenzialmente lineari" non essendo il prodotto di più fattori. Conseguentemente il numero piano - che genera dunque una figura piana sarà essenzialmente il possibile prodotto di due fattori e il numero solido di tre fattori (Euclide, libro VII, Def. 18) per il fatto che congiungendo i 40 punti ovvero considerando i punti come spigoli si ottiene il profilo di una figura solida. Ad esempio, se consideriamo 8 = 2*2*2 e scriviamo queste coppie in modo opportuno con punti possiamo congiungerli ottenendo la figura di un cubo. Debbo subito avvertire che questo non mi sembra un buon modo di cominciare, e questo per una ragione molto precisa: naturalmente il numero 8 può essere proposto, dal punto di vista dei suoi possibili fattori, in tre modi come 8*1 (numero lineare), 2*4 (numero piano), 2*2*2 (numero solido). Ma il problema effettivo sta nel fatto, reso evidente dagli esempi delle figure proposte, che noi dovremmo predisporre i punti, quindi allinearli e incolonnarli, avendo già di mira il risultato, ovvero li dovremmo disporre in modo tale da consentire poi una coerente congiunzione dei punti in una figura cubica. Così facendo saremmo del tutto fuori dalla via che abbiamo già delineato parlando dei numeri triangolari. Il problema che abbiamo prospettato non è evidentemente quello di dare figura al numero a nostro piacimento, avendo addirittura di mira l'immagine di una figura geometrica, realizzata attraverso la congiunzione di punti! Ci interessa invece una disposizione di punti che sia conforme ad una regola e di individuare proprietà e relazioni numeriche proprio attraverso la possibilità di applicazione iterata della regola. Ritorniamo dunque sulla retta via, intanto mettendo da parte i numeri solidi e limitandoci ai numeri piani che sono sufficienti ad insegnarci molte cose proprio nella prospettiva che abbiamo delineata. 5.2.5 I numeri quadrati In primo luogo occorre notare che non è affatto necessario considerare il numero figurato come un prodotto di fattori, e quindi chiamare in causa la moltiplicazione. Naturalmente un numero come lo concepiamo normalmente potrà, se non è primo, essere considerato come prodotto di più fattori oppure come risultato di varie possibilità di addizione. La questione naturalmente si pone anche per i numeri figurati, ma per quanto riguarda la loro teoria, è determinante ai fini di valutare la composizione del numero, la figura stessa, e conseguentemente, come abbiamo già spiegato, la sua regola di costruzione. Perciò abbiamo in precedenza anzitutto 41 sottolineato che non si tratta semplicemente di disporre i punti a piacere in vista di un disegno. Non una qualsiasi disposizione di punti è dunque un numero piano, ma solo quella disposizione che sia costruita secondo una regola. Per spiegare questo punto in un modo abbastanza generale abbiamo bisogno di introdurre un nuovo concetto, e precisamente quello di gnomone. Un realtà questo termine allude intanto ad una dimensione conoscitiva, e il suo stesso etimo riporta al conoscere. Probabilmente esso si riferiva primariamente semplicemente ad un bastoncino di legno ficcato perpendicolarmente nel terreno per ottenere informazioni di carattere astronomico attraverso l'osservazione dell'ombra del sole proiettata sul terreno dal bastoncino. Quindi divenne il nome di un quadrante solare più o meno evoluto assumendo talora la caratteristica forma di una squadra da geometra o da carpentiere: Cosicché esso venne ad assumere anche un senso molto generico richiamando semplicemente il rapporto di perpendicolarità ovvero la forma della squadra: "A qualunque figura composta di due elementi in squadra potrà essere applicato il termine di gnomone". (Michel, 1950, p. 306). "Gnomone nel suo significato letterale voleva dire conoscitore, riconoscitore; in astronomia si- 42 gnificava semplicemente un'asta perpendicolare, che serviva ad indicare col decorso della sua ombra il cammino del sole; in geometria indicò da principio la perpendicolare, poi si allargò a significare la squadra, ciò che rimaneva di un quadrato se se ne toglieva un quadrato minore. Aristotele (Categorie, XI, 4) considerava come gnomone la figura che aggiunta ad altra non ne altera la forma; Euclide (II, termini, 2) estende questa definizione dal quadrato al parallelogramma. Erone dà una definizione anche più generale: tutto ciò che aggiunto ad un numero o ad una figura rende il tutto simile a quello a cui fu aggiunto... Ora tutte queste definizioni interpretavano l'impiego che del gnomone avevano fatto i pitagorici nella generazione gnomonica dei numeri" (Capparelli, 1999, II, p. 472) . Naturalmente già i primi pitagorici fecero dello gnomone un uso astratto, pur facendo riferimento ad una forma intuitiva, in stretta connessione con il loro metodo di figurazione del numero. Il numero figurato sorge infatti a partire da un inizio dato, che sarà anzitutto l'1 ma che potrà essere anche un altro numero qualsiasi, per giustapposizione iterata di gnomoni, naturalmente essi stessi concepiti come una figurazione di punti. La forma di "squadra" non può naturalmente apparire nel caso dei numeri triangolari - ed in effetti qui lo gnomone è sostituito da una linea. Ma il ricorso a questa nozione, di cui la linea del numero triangolare può essere considerato come un caso particolare, diventa subito evidente nei numeri quadrati o rettangolari, così come nei numeri piani in genere. Consideriamo esemplificativamente la formazione del più semplice dei numeri quadrati, che sarà naturalmente il numero 4. Ma come numero figurato esso non è affatto da concepire come quattro punti la cui figura ghestaltica appare come un quadrato. Esso è invece il risultato della seguente costruzione: 43 1 Ecco dunque che compare lo gnomone. Al numero 1 si giustappone il primo gnomone che consterà di tre punti. Se vogliamo, il quattro viene concepito come 1+3. Ma non è poi questo il punto decisivo. Una volta chiarita questa forma di costruzione potrete anche considerare 4=2*2 o 2+2. Il punto decisivo sta nel fatto che la costruzione gnomonica è ricorsiva e dunque ciò che importa è che vi sarà un numero successivo al quattro, che verrà ottenuto giustapponendo un nuovo gnomone al numero figurato corrispondente, e questo processo potrà essere iterato a piacere. Avremo così una vera e propria serie, infinitamente proseguibile, i cui tre primi numeri saranno i seguenti: 1 1 1 Si ha dunque la successione, liberamente proseguibile, 1, 4, 9, 16 ecc. Ma vi è anche un'altra serie "figurativamente" dentro questa. È la serie delle unità comprese nello gnomone (anch'esse fanno parte integrante di questo approccio aritmetico). Si tratta della serie 3, 5, 7 ecc. cioè la serie dei numeri dispari. Quando si comincia ad argomentare ed a operare in questi termini le diramazioni di discorso e i modi di utilizzare il metodo di scrittura si moltiplicano 44 in modo imprevedibile e con una ricchezza insospettata. Abbiamo detto or ora che possiamo anche portare la nostra attenzione sullo gnomone e trarre di qui nuove determinazioni. Così ci rendiamo conto che lo gnomone di un numero figurato può essere "visto" come se constasse di tre parti (fig. 1). Così se escludiamo il punto situato al suo spigolo otteniamo due numeri che hanno la stessa lunghezza. fig. 1 "I due lati simili della squadra, che rappresentano due numeri eguali, si chiamano tautomechi (ovvero della stessa lunghezza). Se si cancella l'unità, gli gnomoni successivi, ridotti ai loro elementi tautomechi forniscono la serie dei numeri pari" (Michel, 1950, p. 307) (cfr. fig. 2). Senza andare troppo oltre, si incomincia qui ad intravvedere come l'aritmetica pitagorica dei numeri figurati possa spingerci piuttosto lontano. Figuratività come notazione, concettualizzazione sulla sua base e tematica delle successioni confluiscono l'una nell'altra offrendo mezzi per l'avviamento e la prosecuzione della riflessione sul numero e sulle sue proprietà. 1 fig. 2 In che senso qui stiamo operando ad un tempo sulla figura (notazione) e sulla differenziazione concettuale risulta, mi sembra, piuttosto chiaro. Ciò che costituisce la determinazione concettuale è l'appartenenza alla serie - nel senso che potremo definire numero quadrato il numero appartenente alla serie dei numeri quadrati; oppure il numero dispari come appartenente alla serie degli gno- 45 moni dei numeri quadrati. Ma l'analisi concettuale potrebbe scoprire anche altre relazioni sempre considerando la regola costruttiva. Infatti ogni numero quadrato è il risultato dell'addizione successiva dei numeri dispari nell'ordine, e cioè dei numeri che appartengono alla successione aritmetica di ragione 2 che ha inizio con 1. Il 9, ad esempio, è eguale a 1+3+5 e il 16 è eguale a 1+3+5+7 ecc. Il pensiero matematico "pensa" attraverso le figure, ovvero attraverso i segni della notazione numerica. La determinazione concettuale fa corpo con la procedura di costruzione segnica. Nonostante il riferimento "figurale", di geometrico nei numeri figurati dei Pitagorici vi è dunque ben poco. Certamente, come nota Michel, se in luogo dei punti ci serviamo dei "campi", otteniamo dei quadrati nel senso geometrico del termine suddivisi in quadrati più piccoli che formano l'unità di misura della loro area. Tuttavia sono assenti i concetti caratteristici della figura geometrica, in particolare restando ai numeri quadrati, i concetti di base e di altezza e l'idea del loro prodotto. Si opera sempre con successioni numeriche, ed il numero figurato assume la forma di una tabella per queste successioni. Di esse potremmo naturalmente fornire secondo la notazione moderna la regola di formazione. Così nel caso del numero quadrato di tratterà la formula potrebbe essere scritta così: 1 + 3 +5 ... +(2*n-1) = n*n ovvero n2 ma Michel, nel momento in cui la segnala, tiene giustamente a sottolineare che "da un numero somma si passa ad un numero prodotto, ma ciò non toglie che storicamente il quadrato è stato considerato un numero-somma, la sua qualità di numero-prodotto appare soltanto come conseguenza" (Michel, 1950, p. 305). Questa osservazione, a mio avviso, va intesa come una sottolinea- 46 tura dell'interesse della successione, rispetto a quello della forma geometrica. Certamente se consideriamo anche le poche cose che abbiamo dette sulla nozione di gnomone e sui suoi possibili sensi, ci rendiamo conto che un'inclinazione geometrica è in certo senso sempre alle porte. Si considerino ad esempio le definizioni precedentemente citate di Aristotele e di Erone. Per Aritstotele gnomone è una figura che aggiunta ad un'altra non ne altera la forma. Questa definizione è perfettamente applicabile ai numeri quadrati. L'aggiunta di uno gnomone aumenta la dimensione del quadrato, ma la figura non cambia. C'è tuttavia già qui una implicazione prevalentemente geometrica, perché quella definizione non si adatta alla componente propriamente te numerica. Questo riferimento aritmetico viene ad essere massimamente indebolito dalla definizione di Erone, che generalizza la nozione di gnomone in modo tuttavia da renderlo applicabile soprattutto alle figure. Di esse potremmo naturalmente fornire secondo la notazione moderna la regola di formazione. Così nel caso del numero quadrato di tratterà la formula potrebbe essere scritta così: 1 + 3 +5 ... +(2*n-1) = n*n ovvero n2 ma Michel, nel momento in cui la segnala, tiene giustamente a sottolineare che "da un numero somma si passa ad un numero prodotto, ma ciò non toglie che storicamente il quadrato è stato considerato un numero-somma, la sua qualità di numero-prodotto appare soltanto come conseguenza" (Michel, 1950, p. 305). Questa osservazione, a mio avviso, va intesa come una sottolineatura dell'interesse della successione, rispetto a quello della forma geometrica. Certamente se consideriamo anche le poche cose che abbiamo dette sulla nozione di gnomone e sui suoi possibili sensi, ci rendiamo conto che un'inclinazione geometrica è in certo senso sempre alle porte. Si considerino ad esempio le definizioni precedente- 47 mente citate di Aristotele e di Erone. Per Aritstotele gnomone è una figura che aggiunta ad un'altra non ne altera la forma. Questa definizione è perfettamente applicabile ai numeri quadrati. L'aggiunta di uno gnomone aumenta la dimensione del quadrato, ma la figura non cambia. C'è tuttavia già qui una implicazione prevalentemente geometrica, perché quella definizione non si adatta alla componente propriamente te numerica. Questo riferimento aritmetico viene ad essere massimamente indebolito dalla definizione di Erone, che generalizza la nozione di gnomone in modo tuttavia da renderlo applicabile soprattutto alle figure. "I matematici alessandrini chiameranno gnomone qualunque figura che, aggiunta ad un'altra formi una figura simile ad essa. Per Euclide (Elementi, II. def. 2) come per Erone di Alessandria, uno gnomone non è necessariamente a forma di squadra, né un gnomone di numero dispari. Lo gnomone del triangolo, ad esempio, potrebbe essere un trapezio aggiunto alla sua sua base. Di qui l'espressione "crescita gnomonica" applicata ad una figura qualunque" (Michel, 1950, p. 306) 48 5.2.6 I numeri eteromechi Nei numeri figurati, il numero 1 assume una posizione particolare perché sarà o l'inizio o parteciperà all'inizio di tutti i numeri piani. Per questo esso potrà di volta in volta essere considerato indifferentemente come numero triangolo o quadrato o di qualche altra forma. In realtà non è nessuno di essi, ma è eminentemente l'origine delle serie. Di qui l'enfasi sull'1 come elemento da cui tutto scaturisce - quell'enfasi che tanto ha sollecitato la fantasia dei teologi. Una posizione particolare occupa del resto anche il 2, già nel pitagorismo più antico, sia a livello aritmetico che a livello simbolico. Esso rappresenta il primo inizio dal molteplice anziché dall'unità, e con il metodo degli gnomoni perveniamo ad un altra tipologia di numeri figurati: i numeri rettangolari "eteromechi". Si comprende subito infatti che la procedura può ricevere significative generalizzazioni. L'elemento iniziale dato può essere costituito da più punti, anziché da uno solo. Si avranno allora successioni di numeri rettangolari, ciascuna serie essendo tuttavia caratterizzata dal numero di punti scelti come inizio. La prima di queste serie è quella che ha come inizio i numero due. Ovviamente in tutti i numeri rettangolari i lati saranno "eteromechi", cioè di lunghezza diseguale: ciò appartiene alla definizione stessa di rettangolo. Ed in effetti il termine di eteromeche viene impiegato da Euclide per indicare semplicemente il rettangolo (Michel, 1950,p. 318). Tuttavia dobbiamo ammettere almeno due accezioni in cui il termine viene utilizzato : un'accezione lata in cui si intende in generale la proprietà della rettangolarità, ed una più ristretta, che è più conforme agli impieghi della tradizione pitagorica, secondo cui questo termine si applica per quei numeri rettangolari che hanno la "diade" come base. Questi sono i numeri eteromechi "per eccellenza". "La tradizione pitagorica non è mai cambiata su questo punto. È la tradizione che viene rispettata da Teone e da Nicomaco e che si ritrova fino alla del medioevo bizantino, così come in occidente, seguendo Boezio, sino ai matematici pitagorizzanti del XVI sec." (Michel, 1950, p. 320). 49 Come si vede l'inizio qui è il numero 2, poi si passa seguendo una logica analoga a quella dei casi precedenti ai numeri 6, 12, 20 ecc. (Si rammenti che il 2 va qui considerato come caso limite dei numeri rettangolari). Va naturalmente ribadito che secondo la logica costruttiva qui indicata non dobbiamo pensare ad un numero ottenuto per moltiplicazione del numero che spetta ai lati. Ad esempio il 6 non deve essere inteso come 2 * 3 ma come 2+4. Il terzo valore verrà considerato come derivante da questo risultato, 6, a cui viene aggiunto 6, quindi 12. Infine a questo risultato si aggiungerà il valore del terzo gnomone, ovvero 8, ottenendo il numero 20 ecc. Se consideriamo la successione degli gnomoni, includendo naturalmente l'inizio, avremo la successione dei numeri pari 2, 4, 6, 8, 10, 12 ecc. cosicché ogni membro della successione dei numeri eteromechi può essere concepito come il risultato dell'addizione successiva dei numeri pari nell'ordine, e cioè dei numeri che appartengono alla successione aritmetica di ragione 2 che ha inizio con 2. In termini di somma la formula costitutiva è, per l'n-esimo numero della serie 2 + 4 + 6+... + n (n-1) Inoltre è necessario attirare vivacemente l'attenzione sul fatto che i numeri eteromechi nell'accezione ristretta del termine hanno questa caratteristica peculiare: i loro "lati" differiscono di una sola unità. In termini moltiplicativi l'n-esimo elemento è rappresentato dalla formula: n (n+1) I numeri n ed n+1 sono appunto i due lati del numero eteromeco 50 corrispondente. Impareremo in seguito a conoscere i vari aspetti per i quali questa circostanza è importante per il pensiero pitagorico. Ma vi è un punto che può fin d'ora di essere segnalato. Per illustrarla poniamoci pure dal punto di vista della Gestalt percettiva o addirittura di rettangoli geometricamente considerati e opportunamente misurati. È chiaro che una figura rettangolare caratterizzata da base 3 e altezza 2 oppure a base 4 ed altezza 3 ci appaiono come forme rettangolari molto pronunciate. Man mano che i numeri diventano sempre più elevati tuttavia la forma si avvicina sempre più dal punto di vista percettivo ad un quadrato. 4*3 7*6 11*10 Naturalmente, dal punto di vista percettivo ad un certo punto possiamo chiudere la serie, perché l'approssimazione non può più essere colta visivamente. Ma i numeri figurati ci insegnano che quanto più si procede nella successione dei numeri eteromechi tanto più il numero eteromeche si approssima al numero quadrato, senza mai raggiungerlo. Il filosofo pitagorico, alla ricerca di relazioni, scopre una prima importante relazione tra numeri quadrati e numeri eteromechi, e, se non ad un passo soltanto, sicuramente si trova a due passi dall'evidenziazione di un concetto di fondamentale importanza matematica. È il caso di dire che siamo nel cuore di quella preistoria che non è di poco momento di cui si parla nella frase di Zeuthen che abbiamo messo in cima a questo capitolo. 51 5.2.7 I numeri figurati e l'idea di matrice In realtà vi è ancora un elemento di grande interesse e, a quanto ne so, poco sottolineato, dagli studiosi della matematica pitagorica. A parte le varie notazioni - punti, tratti, quadratini ecc. - che indicano in ogni caso l'unità, mentre lo schema figurale nel suo insieme il numero risultante, noi potremmo puntare l'attenzione sulla "tabella" che in ogni caso ne risulta. Naturalmente ci converrà allora pensare soprattutto ai quadratini, agli spazi vuoti, cioè alla modalità rappresentativa del tipo seguente: Ma questa volta vogliamo anzitutto supporre di disporre di un metodo notazionale efficiente come il nostro sistema decimale e considerare ogni quadratino come uno spazio vuoto in cui noi possiamo inserire cifre numeriche. Siamo allora di fronte a tabelle (di varie possibili forme) nelle quali possiamo inserire in un ordine definito delle successioni numeriche ottenute secondo una qualche regola. Naturalmente pensiamo qui al caso più elementare di successioni di numeri interi (naturali). Ora non abbiamo in alcun modo a che fare con numeri figurati, ma con alcune idee che sono state proposte in stretta connessione con i numeri figurati: l'idea di una disposizione ordinata di numeri, l'idea della successione secondo una regola e naturalmente anche l'idea dello gnomone, che assumerà qui una diversa funzione. Esso non avrà il compito di costruire una serie, quanto piuttosto di correlare i numeri contenuti nella tabella che saranno già stati organizzati in una serie. Penso proprio che a questo punto vi è chi avrà pensato alla "tabellina pi- 52 tagorica" che abbiamo studiato nelle scuole elementari per imparare le moltiplicazioni più semplici. In effetti io credo che quella "tabellina", che non a caso si chiama ancora "pitagorica", esca dallo stesso ordine di pensieri dei numeri figurati, secondo l'angolatura in cui ne abbiamo parlato or ora. Essa contiene determinate successioni numeriche costruite secondo una regola, e lo gnomone non è altro che la forma idealmente intesa al cui spigolo vi è il risultato dell'operazione da eseguire. Ma forse susciterà perplessità l'interpretazione che ora sto per suggerire e che vi comunico come un mio piccolo segreto. La tabellina in questione non deve affatto essere intesa come un semplice artificio per imparare ad effettuare i calcoli. Essa assolve certo ottimamente a questo scopo. Ma io mi permetto di ipotizzare che nelle idee che stanno alla sua base vi sia l'esatto contrario - e cioè l'idea di una disposizione di successioni aritmetiche date (e quindi già preventivamente calcolate) che ci consentano di risparmiarci la fatica di calcolare. Se non so quale sia il risultato di 6*7, basterà ricorrere alla tabellina ed applicare le due linee fra loro ortogonali, ovvero utilizzare lo "gnomone" opportuno. Sul suo spigolo troveremo il risultato. Quindi possiamo fare a meno di memorizzarlo. Se invece di tabella o di tabellina parliamo di matrice, usiamo un termine matematico moderno che ci fa subito comprendere in quale direzione questa nostra osservazione sia puntata. In seguito avremo modo di mostrare che attraverso successioni, disposizioni tabulari e metodi di correlare le cifre all'interno di queste disposizioni si può andare molto oltre le più semplici moltiplicazioni relative ai primi dieci numeri naturali. Si noti poi come tutti i discorsi sui numeri figurati finiscano con l'avere al loro centro l'idea di successione di numeri secondo una regola. A poco a poco ci renderemo conto che queste nozioni che riguardano gli inizi del pensiero matematico siano concresciuti strettamente insieme a problematiche musicali. Per il momento possiamo concludere con Michel: "Quali che siano i difetti e persino, se si vuole, i pericoli, è incontestabile che la rappresentazione per punti-unità e lo studio della crescita gnomo- 53 nica delle figure hanno permesso progressi notevoli nelle scienze matematiche: nella geometria, manifestando rapporti costanti tra certi gruppi di numeri e certe forme determinate; nell'aritmetica, rendendo visibili certe proprietà dei numeri e soprattutto aprendo la via alle ricerche riguardanti le sommatorie delle successioni" (Michel, 1950, p. 322). 5.3 Le opposizioni pitagoriche 5.3.1 Le opposizioni pitagoriche e il loro senso Nel capitolo quinto del primo libro della Metafisica, nel quale Aristotele illustra le dottrine pitagoriche, egli sottolinea in particolare il fatto che i pitagorici, oltre al numero, davano importanza a dieci "principi", che erano "ordinati in serie di opposti"(Metaf. I, 5, 986a). Egli li enumera in questo modo: Limitato Illimitato Dispari Pari Uno Molti Destro Sinistro Maschio Femmina Immobile In movimento Diritto Curvo Luce Buio Buono Cattivo Quadrato Eteromeche 54 Forse qualcuno potrebbe pensare che nell'elaborare una simile tavola delle opposizioni non è necessario un eccessivo sforzo filosofico, e non si vede perché si debba dare rilievo ad esse. Esse appaiono anzitutto tremendamente ovvie. È necessario forse un filosofo che ci insegni che la luce si contrappone al buio o il buono al cattivo? Questo lo sanno tutti. Il fatto è che forse nelle esposizioni correnti non si richiama a sufficienza l'attenzione sul fatto che il significato delle opposizioni non sta nell'ordine orizzontale della tabella, ma in quello verticale. Del resto lo stesso Aristotele non fa cenno a questo punto, ed anzi sembra attirare l'attenzione piuttosto sull'ordine orizzontale. Voglio dire che non è tanto interessante, ad esempio, che la luce venga contrapposta al buio - quanto piuttosto che la luce si trovi nella stessa colonna con il limitato e il buio con l'illimitato; oppure che il dispari si trovi insieme alla luce ed al quadrato, piuttosto che al buio ed al rettangolo... Naturalmente questo modo di intendere le opposizioni non ci libera da possibili interrogativi e molti incolonnamenti ci possono sembrare stravaganti o senza ragione. Si intuisce qui qualcosa di simile ad un pensiero ordinatore che stabilisce relazioni, e si sospetta che si voglia dire di più di quanto appaia dalla semplice e ovvia contrapposizione. Ma l'ordinamento verticale sembra in più di un caso privo di giustificazioni. Forse dovremmo provare a considerarlo come un caratteristico "enigma pitagorico", un "simbolo" che ha in ogni caso bisogno di un'intepretazione. Di alcuni forse non ne verremo a capo, ma di altri potremmo rendere ragione tenendo conto delle considerazioni che abbiamo fatto fin qui. Pensiamo soprattutto ai numeri figurati. Perché mai il maschio viene posto nella stessa colonna del dispari,e la femmina in quella del pari? Puro "simbolismo" campato in aria oppure vi è per questo incolonnamento qualche ragione? Ecco una possibile soluzione dell'enigma. Attraverso la notazione dei numeri figurati - pensiamo ai numeri "lineari" - tracciando una linea di separazione nel mezzo, nel caso del numero pari la linea mediana incontrerà uno spazio vuoto, nel caso del dispari un punto ovvero un spazio pieno (Michel, 1950, p. 297). 55 Vi è dunque un riferimento alla conformazione sessuale. Naturalmente si può considerare questo riferimento come una pura stravaganza priva di senso. Ma si può anche interpretare l'analogia come un modo di intendere il pari e il dispari e di rammentare la differenza riscontrabile sul piano notazionale, piuttosto che come un'improbabile attribuzione di una sessualità ai numeri! Si ha talvolta l'impressione che molte persone dotte possano facilmente cadere nei tranelli tesi dagli enigmi della rozzezza pitagorica. Un altro esempio: anche i numeri figurati entrano nella tabella delle opposizioni come numeri quadrati che stanno dalla parte del dispari e numeri eteromechi che stanno dalla parte del pari. E se non facciamo qualche riflessione in proposito certamente questa relazione può sembrare non troppo comprensibile, soprattutto se pensiamo ai corrispondenti geometrici. Perché dunque il quadrato dalla parte del dispari? A questa domanda in realtà abbiamo già risposto quando abbiamo parlato della costruzione dei numeri quadrati attraverso gnomoni di numeri dispari, e inversamente. Ancora una volta dunque l'associazione non è banale. "...se si tien conto di ciò l'opposizione parallela delle coppie quadrato/eteromeche, dispari/pari, limitato/illimitato si comprende senza difficoltà. Il quadrato è fondato sull'unità ed è generato per somma dai dispari; l'eteromeche è fondato sulla diade ed è generato dalla somma dei pari; il quadrato è sempre simile al quadrato, è sempre lo stesso; gli eteromechi successivi sono sempre differenti, sempre altri. Da un lato la fissità perfetta, dall'altro la modulazione senza fine; da un lato l'unità immutabile della perfezione; dall'altro la 56 diversità, il divenire, l'eterno perseguimento di questa perfezione e la sua approssimazione crescente senza che essa venga mai raggiunta" (Michel, 1950, 321). Nell'ultima frase di questa citazione di Michel si accenna al problema dell'incolonnamento eteromeche/illimitato e quadrato/limitato secondo le linee di una soluzione che avevamo già precedentemente indicato, di un'approssimazione infinita del rettangolo eteromeche nell'accezione ristretta del termine (quindi di forma n (n+1)) al quadrato. In nota Michel precisa: "Nella misura in cui si fa crescere il valore di n, il rapporto n/(n+1) tende all'unità,ed il rettangolo n*(n+1) si approssima al quadrato" (Michel, 1950, p. 321) Naturalmente entrambe le serie possono procedere all'infinito: nel caso dei quadrati avremo quadrati sempre più grandi, ma pur sempre stabilmente dei quadrati; ma rispetto alla serie dei rettangoli, sembra avere un qualche senso affermare che essi si muovano verso la forma quadrata che rappresenta un elemento limitante, senza mai stabilizzarsi in essa. Se aggiungiamo che l'uno apparterrà alla stessa colonna del quadrato perché da esso cominciano i numeri quadrati, mentre il molti sarà dalla parte del pari, dato che l'inizio dei numeri eteromechi è il due, ci possiamo realmente rendere conto della significatività di un simile incolonnamento. Le opposizioni dunque non debbono essere esposte l'una accanto all'altra come opposizioni qualunque, di puro buon senso, ma debbono essere considerate nella loro dimensione verticale e soprattutto debbono essere evidenziate le molte implicazioni filosofiche che esse possono avere, se si riesce a risolvere l'"enigma" di questi incolonnamenti. In particolare, sembra rivestire a questo proposito particolare importanza una stretta connessione con la problematica dei numeri figurati e con la filosofia pitagorica del numero in genere. 57 5.3.2. L'opposizione tra illimitato e limitato in Filolao e il problema dell'armonia Fra le opposizioni nominate da Aristotele, forse la prima è la più importante di tutte e in ogni caso merita un rilievo particolare. Si tratta dell'opposizione tra l'illimitato e il limitato di cui, in particolare, parla Filolao (ca. 470-385) e che rimanda ad un quadro filosofico più ampio, e precisamente ad uno dei primi tentativi di delineare l'ordine dell'universo sulla base delle conoscenze empiricamente acquisite. Filolao fu anche presumibilmente il primo filosofo pitagorico a lasciare opere scritte, superando la tradizione orale, una circostanza di importanza non secondaria perché implica un'intenzione di comunicazione del sapere che era estraneo al primo pitagorismo, molto legato ai segreti che solo i membri della setta potevano venire a conoscere. La comunicazione scritta rappresenta di per sé anche la ricerca di dare un maggiore fondamento alle proprie teorizzazioni. La relazione che la teoria pitagorica del numero ha da un lato con la musica e dall'altro con una vera e propria interpretazione dell'universo assume una dimensione particolarmente profonda proprio nella considerazione della opposizione tra illimitato e limitato. Prima di accennare brevemente ad essa conviene sottolineare che con l'espressione "limitato" dobbiamo intendere anche qualcosa che promuove una limitazione, dunque un "limitante" o un "limitatore". Ora Filolao afferma, in uno dei pochi frammenti rimasti della sua opera Sulla natura, che "È necessario che tutte le cose che sono siano limitanti o illimitate ovvero limitanti e illimitate" (fr. 2, Hufmann, 1993) Questa pura e semplice alternativa logica deve essere letta alla luce di un altro frammento che dice: "La natura nel cosmo fu connessa insieme mediante cose che sono illimitate e di cose che istituiscono dei limiti. questo vale sia per il cosmo come intero sia per ogni cosa che si trova in esso" (fr. 1). 58 Benché naturalmente tutta la concezione di Filolao sia difficile da interpretare, possiamo tuttavia renderci conto di questa distinzione in modo molto semplice: pensiamo all'acqua o alla terra (ma anche all'aria o al fuoco, i quattro elementi che si ripresentano di continuo nel pensiero presocratico come "principi" di tutte le cose). Considerate come tali esse non sono delimitate, mentre ciò che le delimita potrebbe essere, nel caso della terra, la forma attraverso la quale essa viene plasmata, e nel caso dell'acqua il recipiente che la contiene, quindi ancora una forma. Immagine tratta da G. Scalera, 1999, p 13. 59 Appare subito da questa considerazione elementare che, nello spirito del pensiero di Filolao, l'opposizione tra l'illimitanto e il limitante deve essere superata come opposizione: l'un elemento deve interagire con l'altro. Questa è una condizione per l'essere stesso delle cose che si trovano nell'universo e dell'universo stesso considerato nella sua totalità. In realtà questo è anche il nucleo di una notevole visione cosmologica che prende la mosse da una concezione dell'origine dell'universo per teorizzare poi nello stesso tempo il suo assetto. Secondo il pensiero di Filolao, "all'inizio" vi è un fuoco originario indifferenziato - una delle possibili immagini del caos e nello stesso tempo, naturalmente, dell'illimitato - e da questo fuoco ha origine, per limitazione, l'universo ordinato, il cosmo, che ha nell'insieme forma sferica e il cui centro è occupato ancora dal fuoco. L'elemento limitante, a quanto sembra di capire, è il fatto stesso che il fuoco ha una posizione precisa in questo ordine, trovandosi al centro della sfera (esso è stato in certo senso chiuso in un luogo). Ai bordi più esterni vi è il cielo delle stelle fisse, quindi i corpi celesti, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole, Luna, la Terra (secondo l'antico ordine pitagorico, ancora presente in Platone, sostituito più tardi da Saturno, Giove, Marte, Sole, Mercurio, Venere, Luna), a cui il pitagorismo aggiungeva l'Antiterra e il Fuoco centrale, entrambi non visibili dalla terra. Tutto ruota intorno al Fuoco centrale, dunque né il sole né la terra occupano il centro dell'universo. Questa visione cosmogonica e cosmologica strettamente collegata all'opposizione tra illimitato e limitante, ci interessa per un aspetto che comincia a trasparire già nei frammenti citati ed all'accenno del resto che abbiamo anticipato sulla necessità che gli opposti formino una unità. Per indicare questa necessità, nel fr. 1, Filolao usa una forma arcaica del verbo harmozo e ciò merita una riflessione. Questo verbo ha una forte valenza musicale. In realtà il suo impiego originario appartiene al linguaggio dei falegnami. Esso indica l'incastro di una cosa con l'altra. "Una prima accezione del termine ci porta all'interno di un contesto artigianale: la parola si riferisce al lavoro di un falegname, che adatta 60 pezzi di legno tra loro, nel collegare le parti di un manufatto. Con il lemma harmonia si designa proprio il collegamento, il connettersi delle parti. Siamo quindi di fronte al prodotto di un'accezione tecnica che indica un'operazione, che presiede alla messa a punto di una rapporto fra intero e parte" (Serra, 2003, p. 23). Va notato anche che questo termine rimanda normalmente, già nei suoi impieghi quotidiani e prima ancora di essere elaborato filosoficamente, ad un'opposizione che viene risolta. "Nella cultura greca, in cui la passione per la meccanica è così forte da permeare di sé la stessa concezione del mito, il movimento di una vite da cardatura, che scioglie e pettina una fibra, ruotando su se stessa lungo un asse, verticale o orizzontale, diventa un paradigma dell'armonia in grado di combinare due movimenti, fondendoli in un moto rettilineo. Anche in questo caso, i due movimenti, ossia il ruotare su se stesso e quello di traslazione rettilinea, vengono intesi come opposti, integrati dall'armonia come momenti di un intero" (Serra. 2003, p. 33). Così, nel primo frammento di Filolao, potremmo tradurre il "connettere insieme" senz'altro con "armonizzare" dicendo dunque: "La natura nel cosmo fu armonizzata mediante cose che sono illimitate e di cose che istituiscono dei limiti...". Anche se naturalmente l'armonia ha qui un senso molto lato, si comprende che la musica sarà prima o poi direttamente implicata. Come abbiamo già precedentemente accennato fu Filolao a "mettere per iscritto" i rapporti armonici fondamentali e quindi ad enunciare l'impianto di quella che sarà poi definita "scala pitagorica" e di cui dovremo parlare a lungo in seguito. Il punto interessante è che questi rapporti - enunciati nel fr. 6a - ineriscono al contesto 61 globale della tematica delle opposizioni da "armonizzare", e in particolare dell'opposizione tra l'illimitato e il limitante. Che cosa può essere illimitato nel mondo dei suoni? Esso può essere soltanto - come nel caso dell'acqua e del fuoco - il mondo dei suoni concepito come una amalgama indifferenziato, quindi come pura continuità, come un trapassare di un suono nell'altro e quindi come totale mancanza di distinzioni: un mondo di suoni "caotico" nel quale non vige nessun ordine. E come l'acqua essa viene distinta ponendola in contenitori diversi, così una distinzione analoga deve avvenire nel caso del mondo sonoro. Distinguere significa separare, ed implica un passaggio da un continuo caotico ad un cosmo discreto. Questo ordine che separa e distingue all'interno del mondo sonoro è la scala stessa che viene individuata attraverso le consonanze fondamentali e i rapporti numerici corrispondenti. L'armonia è, in questo primo abbozzo, una sorta di principio autonomo che interviene per stabilire un legame tra continuità e discretezza, e quindi istituire l'ordine necessario tra le cose della musica come tra quelle che appartengono all'universo. Si ripresenta così la tematica del numero e del rapporto numerico, innestata proprio in quella dell'opposizione tra illimitato e limitato che inizialmente sembrava prevalere su di essa. Sullo sfondo si annuncia, senza essere esplicitamente enunciata, l'idea di una relazione interna tra strutture musicali e strutture dell'universo fisico-astronomico che è importante non solo per la tradizione pitagorica più antica, ma anche per gli sviluppi medioevali e moderni. 62 5.4 I numeri irrazionali nel pitagorismo Uno degli aspetti che vengono ribaditi più frequentemente in raporto alla matematica pitagorica è che, essendo tutta giocata sui numeri interi (razionali), la scoperta di numeri irrazionali e, sul piano geometrico, di grandezze incommensurabili, determinò la sua crisi definitiva e irrevocabile. Affermazioni come queste non si trovano soltanto nella manualistica di secondo piano, ma anche in ponderose e celebrate opere di storia della matematica come in quella di Morris Kline (1991) dove non solo i numeri figurati vengono erroneamente interpretati come figurazioni geometriche e non si sospetta nemmeno l'interesse per la ricorsività che in esse è presente, ma si dichiara esplicitamente che "i pitagorici furono "fastidiosamente allarmati dalla scoperta che alcuni rapporti... non possono essere espressi da numeri interi" (Kline, 1991, p. 41). Sempre in questa autorevole storia della matematica sta scritto che il pitagorico Ippaso di Metaponto (V sec. a. C.) venne buttato in mare dai pitagorici per "aver introdotto un elemento dell'universo che negava la dottrina pitagorica secondo la quale tutti i fenomeni dell'universo possono essere ridotti a numeri interi o a loro rapporti" (ivi). Talora in effetti lo stesso Ippaso viene menzionato come scopritore di un caso di irrazionalità, e sarebbe stato punito per aver divulgato una dottrina dannosa alla setta.Verrebbe anche a noi voglia di dire: è passato così tanto tempo, e... chissà come è andata! Ma la critica più avveduta ha fatto da tempo ampiamente giustizia di opinioni come queste che, attraverso la narrazione di episodi apparentemente innocui, propongono interpretazioni che si rivelano fortemente riduttive e semplificatorie. Resta vero, naturalmente, che l'aritmetica pitagorica è prevalentemente un'aritmetica dei numeri interi, ma attraverso percorsi e problemi assai complessi. Cominciamo intanto con il dire che queste opinioni che fanno della scoperta della tematica degli irrazionali in ambito pitagorico uno "scandalo" da tener nascosto sono prive di fondamento. 63 Secondo Michel "non vi è affatto traccia di una resistenza all'irrazionale in se stesso, all'irrazionale che ci si rifiuterebbe di ammettere o che si dovrebbe coprire con un velo oppure ancora che si dovrebbe riconoscere solo a titolo di eccezione - e di eccezione scandalosa. Vi sono invece tracce di un primo tentativo di distinguere tra due domini: quello dello spazio continuo e quello del numero discreto - con l'arrière-pensée, del tutto naturale per dei precursori dell'atomismo, che il dominio del numero è anche quello delle cose"; ed ancora: "Non si potrebbe supporre che la nozione di irrazionale abbia aperto la via ad un nuovo ordine di ricerche senza che fosse abbandonato l'antico? Ecco allora che due scienze si distinguono e si sviluppano l'una accanto all'altra: l'una, propriamente aritmetica, anche sotto la sua forma aritmo-geometrica, ha per oggetto il numero; l'altra, nata dalla meditazione sull'irrazionale e che fa all'ombra della Scuola i suoi primi passi avrà per oggetto lo spazio, non più tagliato in campi eguali e aritmetizzato, ma continuo e purificato dal numero" (1950, II, p. 492-93). L'idea che "vede la scoperta dell'irrazionalità matematica ed ancora più la pubblica discussione intorno ad essa come un sacrilegio...sembra una ingenua leggenda sorta in un secondo tempo. È assai probabile che questa scoperta non suscitò nessuno scandalo tra i matematici"(Szabò, 1978, p. 88). Una dei primi numeri irrazionali scoperti fu la radice quadrata di 2, e una delle vie per la sua scoperta - non la sola - fu dovuta alla scoperta dell'incommensurabilità tra lato e diagonale di un quadrato di lato 1, implicando il teorema di Pitagora; oppure direttamente 64 dall'applicazione del teorema di Pitagora ad un triangolo rettangolo isoscele con cateti eguali ad 1. È del tutto inverosimile che la scoperta del teorema fosse per troppo tempo distinta dalla scoperta dell'irrzionalità della radice quadrata di 2. La leggenda racconta che i pitagorici celebrarono la scoperta del teorema con il sacrificio di un bue. O addirittura di cento buoi. Così Diogene Laerzio nella sua Vita di Pitagora: "Apollodoro il logico racconta di lui che sacrificò una ecatombe, quando ebbe scoperto che il quadrato dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo era eguale ai quadrati dei lati contenenti l'angolo retto. Vi è un epigramma che mette le cose in questi termini: Quando il grande saggio di Samo trovò il suo nobile problema un centinaio di buoi con il loro sangue tinsero la terra"(XI) Questa volta proprio noi che diamo un qualche affidamento alle leggende non possiamo che manifestare perplessità: questa notizia, molto interessante perché manifesta tutt'altro che imbarazzo di fronte alla scoperta del teorema è contradditoria con tutto ciò che sappiamo dell'ostilità di Pitagora per i sacrifici di animali sugli altari degli dei. Giamblico rammenta che "egli faceva sacrifici agli dei con miglio, dolci, miele e incensi. Ma non faceva sacrifici di animali, e li escludeva per i filosofi contemplativi. Comunque egli consentì agli altri suoi discepoli, gli uditori e i politici, di sacrificare animali come un gallo o un agnello altri animali giovani, ma solo raramente; ma fu loro proibito di sacrificare buoi" (cap. XXVIII). La soluzione di questo singolare problema viene da Porfirio (Vita di Pitagora, 36 cfr. Rousell, 1920): 65 "Quanto Pitagora sacrificava agli dei, egli non usava uno sperpero offensivo, ma offriva non più che pane di orzo, focacce e mirra; meno di tutto animali, a meno forse dei galli e dei maiali. Quando scoperse il teorema secondo cui il quadrato dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo era eguale ai quadrati sui lati contenenti l'angolo retto, si dice che abbia sacrificato un bue, benché i più precisi dicono che si trattava di un bue fatto di farina" L'erudito illuminista André Dacier (1651-1722), autore anch'egli di una Vita di Pitagora (1706) sottolinea che questa pratica sarebbe stata appresa da Pitagora nei suoi viaggi in Egitto e riferisce, sulla base dei resoconti dei viaggi in India di un certo Thevenot, che essa era ancora esercitata ai tempi suoi dai bramini indiani (Dacier, 1706, p. 201). Insomma la leggenda si espande nel tempo persino in questi dettagli. Ed a questo punto le nostre perplessità iniziali vengono a cadere. È inutile chiedersi, in rapporto ad una leggenda, se essa sia vera o falsa. Indipendentemente da ciò, essa ha senso, e su questo senso essa parla chiaro: la leggenda ci racconta dell'esultanza pitagorica di fronte all'apertura di un campo di indagine interamente nuovo - nella quale c'è il teorema e tutto ciò che ci sta intorno, compresi i numeri irrazionali. Di passaggio rammenterò che uno degli emblemi più famosi del pitagorismo è il pentagono stellato (talora chiamato pentacolo, pentagramma o pentalfa) e che esso richiede per la sua costruzione la conoscenza della sezione aurea di un segmento che è un numero irrazionale. Inoltre, ciò che rende ancora più emblematica quella figura è il fatto che essa abbia struttura ricorsiva, essa è, come diremmo oggi, un frattale geometrico (Piana, 1999). Particolarmente notevole mi sembra poi una prova indiretta della conoscenza della differenza tra numeri razionali e numeri irrazionali, ma anche del presumibile impiego di questa differenza nella speculazione filosofica di Filolao secondo un'ipotesi avanzata da Huffman: dopo aver osservato che "di fatto sembra esservi un largo consenso sul fatto che questa scoperta ebbe conseguenze disastrose per i pitagorici", Huffman formula un'interpretazione apparentemente azzardata, e che egli stesso definisce "speculativa" non essendoci documentazione in proposito, 66 ma che è a mio avviso particolarmente ricca di interesse. Si chiede Huffman: Come avrebbe reagito Filolao alla scoperta dell'incommensurabilità della diagonale del quadrato con il suo lato? La risposta suggerita è che questa circostanza non solo non avrebbe messo in difficoltà la posizione di Filolao, ma avrebbe potuto rappresentare un ottimo esempio di ciò che Filolao stesso intendeva con l'unione dell'elemento limitante con l'elemento illimitato (1988, p. 10). Infatti nel quadro complessivo della concezione di Filolao, la diagonale del quadrato starebbe certo dalla parte dell'illimitato - mentre il lato del quadrato, che ha una grandezza esattamente definita, si troverà sul versante del limitato o meglio dell'elemento limitante. In certo senso il lato del quadrato "chiude" l'illimitatezza latente della diagonale dando luogo ad una figura "ben connessa", anzi ad una figura che è un vero è proprio modello di "buona connessione", e dunque di "armonizzazione". Non solo vi è dunque compatibilità tra queste nozioni aritmetiche e sui loro corrispondenti geometrici, ma addirittura entrambe debbono essere richiamate al fine di ricreare un ordine che sarà ad un tempo armonico e, in quanto derivante da un'opposizione, dinamico. Huffman gioca d'azzardo, non vi sono prove, non vi è nessun frammento di Filolao che ci parli di questo problema: ma io credo che sia assai giusto che il filologo tenti , almeno qualche volta, di mettersi nella testa del pensatore di cui si occupa. Di ciò Huffman ci fornisce un magnifico esempio. 5.5 L'armonia delle sfere 67 Spesso accade, nella filosofia, che da piccole osservazioni possano sorgere grandi pensieri. Io credo che proprio così sia accaduto per il grande pensiero dell' armonia delle sfere. Esso non riguarda le cose dappoco che ci circondano, ma il cosmo intero, il mondo ordinato della terra, del sole, dei pianeti, delle stelle. Abbiamo visto che già in Filolao ci si spinge ad una concezione dell'universo; e come sarebbe possibile, a questo stadio tanto primitivo del pensiero umano, non tentare di conciliare ciò che è vicino con ciò che è remotissimo, ciò che vediamo con ciò che non vediamo se non riempiendo i vuoti con l'immaginazione? L'idea dell'armonia delle sfere, cioè l'idea che i corpi celesti, con il loro movimento producano suoni formando una straordinaria armonia per noi inudibile, risale sicuramente al pitagorismo più arcaico e forse fu formulata dallo stesso Pitagora di cui, per non allontanarci troppo dal bel mondo delle favole filosofiche, si racconta che fosse. a differenza di tutti gli altri comuni mortali, in grado di percepirla. Peraltro l'espressione di armonia delle sfere non è del tutto precisa "se la si applica ad epoche anteriori ad Eudosso, poiché si parlava di corpi, ruote, anelli, circoli nel cielo, ma non di sfere" (Burkert,1972, p. 351, n. 1). L'espressione si è tuttavia imposta e può essere riferita ai corpi celesti così come alle loro orbite o alla rotazione delle sfere in cui si pensava fossero integrati. Essa va intesa dunque come un'espressione adattabile a vari possibili sistemi dell'universo. Nei frammenti di Filolao essa non è citata; e questo basta a Burkert per escluderne la presenza dalla problematica del sistema celeste che questo filosofo propone. Inoltre egli dedica un intero capitolo per mostrare che questa teoria delle sfere non ha nulla a che fare con la matematica e la teoria della musica. Essa sarebbe invece un'idea di origine religiosa, che riguarda la destinazione delle anime dopo la morte: così egli parla molto, a proposito dell'armonia delle sfere, dell'"immortalità astrale" - cioè dell'idea che le anime salissero al cielo (anziché finire nell'Ade). Questo non ha certo a che fare con matematica. E con la musica? Forse l'unico argomento che qui vie- 68 ne portato è un'analogia che poggia sulle ultime parole di Pitagora morente. Le abbiamo già ricordate in precedenza: "Esercitatevi al monocordo!" ed abbiamo già spiegato il loro senso come invito a continuare la ricerca sulla musica e sui suoi fondamenti teorici. Burkert intende queste parole come se si trattasse di un invito fatto ai suoi allievi ad accompagnare la sua morte suonando il monocordo perché senza musica le anime non possono ascendere al cielo. Spiegazione, a dir poco, sorprendente. Pitagora morente non chiederebbe che si suoni la lira, la cetra o l'aulos, ma il monocordo! E come fare a trarre da esso una qualche melodia? Tirando su e giù i ponticelli? Oltretutto Aristide Quintiliano commenta la frase di Pitagora come un invito a rammentarsi dell'importanza di una comprensione razionale della musica. A rafforzare la sua inaccettabile interpretazione Burkert rammenta che nella religione di Zaratustra "il paradiso al quale l'anima ascende è chiamato 'casa dei canti'" (Burkert, 1972, p. 357). In effetti "casa dei canti" è anche l'universo platonico così come viene visto dalle anime dei trapassati secondo la narrazione di Platone nel mito di Er (Repubblica 616b-617) (Platone, 1981, p. 377-378). Dopo aver scontato le proprie colpe, le anime ascendono al cielo e raggiungono un luogo da cui è visibile l'universo stesso, nella forma del fuso di Ananke che deve essere concepito "come se in un gran fusaiolo cavo e da parte a parte bucato fosse racchiuso e adattato un altro ugual fusaiolo più piccolo, come i recipienti rientranti l'uno nell'altro, e così un terzo, un quarto e quattro altri ancora. Otto eran dunque in tutto i fusaioli, racchiusi gli uni negli altri, mostrando dall'alto le labbra come dei cerchi, e formando come un unico dorso di un sol fusaiolo attorno al fusto conficcato da parte a parte in mezzo all'ottavo di essi" In questa forma compare il sistema cosmologico di origine pitagorica formato da otto emisferi concentrici - e compare nello stesso tempo anche l'"armonia delle sfere": questa volta, tuttavia, è l'estro poetico di Platone che si esprime, dal momento che non è il 69 movimento che genera il suono, bensì le Sirene che cantano insieme alle Moire, figlie di Ananke: "Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananke. Su ognuno dei cerchi di esso incedeva in alto una Sirena, tratta anch'essa nel moto circolare, ed emettendo una voce di un unico tono; e da otto che erano in tutto risuonava una sola armonia. Sedevano in giro a pari distanze tre altre persone, ciascuna in trono, le Moire, figlie di Ananke, vestite di bianco e con corone sul capo, Lachesi, Cloto ed Atropo, e cantavano sull'armonia delle sirene, Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo l'avvenire" Benché la connessione con l'elemento musicale avvenga attraverso il canto delle Sirene e delle Moire, tuttavia la lettura del passo platonico mostra chiaramente come questo canto sia strettamente coordinato al movimento dei corpi celesti, anche se certamente il riferimento al fuso del destino ed alle figlie di Ananke che dominano il tempo aggiungono nuovi sensi all'intero problema. Più tardi, in era cristiana, nel tema dell'armonia delle sfere è il paradiso stesso ad essere chiamato in causa, con i suoi angeli cantanti in gloria di dio e dell'universo da lui creato. Così Dante all'inizio del Canto XXVII del Paradiso: ""Al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo cominciò gloria tutto il Paradiso. sì che m'inebriava il dolce canto. Ciò che io vedeva mi sembrava un riso dell'Universo; perché mia ebbrezza entrava per l'udire e per lo viso" Armonia delle sfere è la "circulata melodia" di cui parla ancora Dante nel Canto XXIII, vv. 103-111 del Paradiso (Richelmi, 2001); così come è il canto celeste a cui volge l'orecchio estaticamente la Santa Cecilia di Raffaello e che ormai nulla ha a che vedere con la musica suonata dagli strumenti del nostro mondo. 70 G. Doré, Illustrazione per la Divina commedia, Canto XXX XXXI, vv. 1- 12 Una copertina della Musurgia universalis di Kircher è assai indicativa per il carattere sincretico che l'armonia delle sfere finisce con l'avere oltre che per la distanza con le origini scientifico-immaginifiche che erano alle sue origini. E tuttavia anche in questa immagine, con la presenza di Pitagora ed il suo teorema sulla sinistra dell'immagine e della sfera al suo centro queste origini non vengono del tutto cancellate. L'armonia delle sfere è il risultato di attenzione scientifica e immaginazione, e non un'esclusiva manifestazione di credenze religiose, come sostiene Burkert. 71 72 Su questo punto Burkert "va veramente troppo oltre" (Huffman, 1993, p. 280). Molto ragionevolmente viene fatto notare che "l'armonia delle sfere è in realtà una ardita congettura presocratica intorno alla natura della realtà, che è basata su alcune osservazioni 'scientifiche' (la scoperta delle relazioni tra certi rapporti tra numeri interi e certe elementari osservazioni astronomiche), ma che, date le capacità scientifiche del tardo quinto secolo, rimase una ipotesi audace che non avrebbe potuto essere incorporata in un sistema articolato nel dettaglio. Come molte altre teorie presocratiche ed ippocratiche, essa promette di più di quanto possa mantenere, ma non vi è ragione per questo di supporre che essa, non meno di tante altre teorie presocratiche non abbia nulla a che fare con la matematica o la scienza empirica" (ivi). Per quanto riguarda il caso specifico di Filolao è assai improbabile che chi parla di armonia come principio dinamico che connette il limitato con l'illimitato (fr. 6), e che rammenta in un simile contesto i rapporti musicali, non trasferisca all'ordine cosmico un ordine musicale. Dobbiamo allora chiederci: come può nascere l'idea del suono celeste? Da piccole osservazioni possono sorgere grandi pensieri - abbiamo detto poco fa. I pitagorici non si posero soltanto i problemi dei possibili rapporti matematici come definitori degli intervalli, e nemmeno erano in generale dei matematici "puri". Essi cercavano risposte alle loro domande anche nell'osservazione empirica. Così si chiesero quali fossero le "cause" del suono, cosa che allora poteva significare soltanto: come un suono ha origine? Come esso viene prodotto? La risposta poteva intanto venire dall'esperienza quotidiana, ma da un'esperienza quotidiana orientata da un interesse conoscitivo. Quando una pietra cade a terra oppure quando viene battuta su un'altra pietra emette un suono. In casi come que- 73 sti vi dunque un urto. Se osserviamo una corda che viene pizzicata, vediamo che essa fa un movimento di tipo particolare - essa vibra e noi vediamo la vibrazione. Questo movimento lo avvertiamo come un movimento omogeneo e regolare che va gradualmente verso una estinzione che è ad un tempo estinzione del suono e del movimento. Non meno notevole è il sibilo della freccia dopo che essa è stata lanciata da un arco. Il movimento, oltre che l'urto, farà dunque parte del nostro problema. Inoltre osserviamo che il suono si propaga, quindi che esso si diffonde lontano e possiamo notare che un suono la cui intensità è costante in realtà diminuisce per il nostro udito quanto più la fonte è lontana, notiamo cioè l'esistenza di una relazione tra distanza e percezione del suono. Forse questo non fa parte del problema della causa del suono, ma indubbiamente della modalità della sua ricezione. Abbiamo detto che osservazioni come queste fanno parte dell'esperienza quotidiana, ma se ne distinguono nettamente quando esse cadono sotto una intenzione conoscitiva, cioè quando esse vengono effettuate avendo lo scopo di chiarire le cause del suono e le sue caratteristiche fisiche. Allora esse cambiano natura, assumono il carattere di indici di una ricerca che aspira a diventare una conoscenza autentica (Piana,1967, cap. I, § 1). Che Pitagora fosse più simile ad uno sciamano che ad uno scienziato non ha nessuna importanza. Importa invece che in ambiente pitagorico, in personalità che si ricollegavano idealmente a questa figura creandone un mito, si ponessero queste domande e le si ponessero esattamente con il carattere di indici per una conoscenza possibile. Certo, non possiamo ancora dire che in simili osservazioni si possa intravvedere la nascita dell'acustica come scienza: essa dovrà attendere più di duemila anni. Non vi erano infatti i mezzi per un'obbiettivazione sufficiente di queste semplici osservazioni, e quindi per il loro arricchimento attraverso l'apprestamento di opportune situazioni sperimentali. Ma vi era comunque il tentativo di rendere conto sul piano fisico - e non solo su quello musicale - dei caratteri e delle cause degli eventi sonori. Il modo di presentare la cause del suono non solo tra i pitagorici, ma in tutta la tradizione filosofica antica, può variare e talora 74 può essere oscuro, ma forse si può affermare che i due concetti che giocano il ruolo principale sono quello di urto e di movimento. Entrambi questi concetti intervengono nel pitagorico Archita di Taranto (prima metà del IV sec. a.C.). Egli sosteneva che non può esservi suono se non ha luogo un urto, e che un urto può sorgere solo all'interno di un movimento in cui due corpi si scontrano l'uno contro l'altro. Inoltre notava che la velocità del movimento aveva relazione con l'altezza del suono: "Se si prende una frusta e la si muove lentamente e debolmente, verrà prodotto con il colpo un suono profondo, mentre se la si muove rapidamente e fortemente un suono acuto" (fr. 1 - Huffman, 2005, p. 106; Diels, 1906, p. 258). L'esempio della frusta mostra che Archita pensava all'urto anche come una percossa rispetto all'aria stessa. Nelle spiegazioni, pur difficili da interpretare di Archita, si comincia ad affermare in ogni caso la relazione tra movimento e suono che resta alla base delle teorie greche della causa del suono. Già con le formulazioni delle domande sulla natura del suono orientate da un interesse conoscitivo, l'esperienza quotidiana - pur ancora attiva - viene nettamente superata. Ed ancor più quando avviene il balzo al grande pensiero: se dove vi è suono vi è anche necessariamente movimento, allora, forse!, inversamente dove vi è movimento dobbiamo supporre che vi sia il suono. Giusta o sbagliata che sia questa inversione, è essa in ogni caso che realizza il passaggio dal suono prodotto dall'auleta o dal citaredo al suono cosmico, all'armonia delle sfere. Alla base vi è l'osservazione empirica e un principio di ragionamento che tenta di isolare l'evento sonoro e di rendere conto di esso come evento fisico. Dall'altro vi è un altro insieme di conoscenze, quelle guadagnate guardando il cielo - il sistema astronomico che si va stabilizzando nella cultura greca - con la terra al centro e tutti gli altri corpi celesti che vi girano intorno secondo orbite (o come volete dire: cerchi, ruote, sfere...) perfettamente circolari, più o meno distanti dalla terra, e secondo velocità differenti. Con una probabile correlazione tra velocità e distanza: se si dovesse ipotizzare che gli astri compiano la loro orbita esattamente nello stesso tempo, dovremmo anche assumere che il movimento dell'astro con l'orbita più ampia sia assai più veloce di quella con l'orbita più stretta. 75 E l'altezza del suono emesso sarà dunque differente. Questo passaggio dall'osservazione empirica al moto dei corpi celesti è molto ben sintetizzata da Nicomaco di Gerasa quando scrive "Si afferma infatti che ogni corpo lanciato in una materia penetrabile e ad alta elasticità genera neessariamente rumori che dipendono, per grandezza e ambito sonoro o dalla sua mole o dalla sua particolare velocità o dalla zona in cui compie la sua corsa, zona che può essere molto elastica o, al contrario rigida. Le stesse tre distinzioni si osservano chiaramente in rapporto ai pianeti, diversi l'uno dall'altro per grandezza, velocità e luogo, sfreccianti eternamente e senza sosta nel fluido etereo" (Nicomaco di Gerasa, 1990, cap. 3, p. 147). Se sulla terra il movimento è suono, perché non dovrebbe esserlo anche il movimento degli astri? E ciò non basta ancora: se nel nostro ambiente circostante, a movimento più veloce corrisponde suono acuto, a movimento più lento suono più grave perché ciò non dovrebbe accadere anche per i suoni prodotti dalle differenti velocità di movimento che caratterizza ogni corpo celeste? Per quanto riguarda la determinazione dei corpi celesti, il loro ordine e dunque i rapporti tra le loro orbite le spiegazioni sono spesso confuse, fino alla sistemazione tolemaica. Ma il problema di una connessione tra velocità e acutezza del suono è comunque posto. I corpi celesti produrranno più suoni simultaneamente; ed è forse possibile che in un mondo dominato dall'ordine che il cerchio stesso rappresenta in modo eminente, in un mondo dove vi è un centro fisso, e la terra non se ne va vagando su un mare infinito, come ancora pensava Talete - è forse possibile che in un mondo dove tutto è sferico, regni il disordine proprio tra i suoni emessi dai corpi celesti ovvero tra i loro movimenti? Nella musica vi sono leggi interne, numericamente espresse. Vi è logos, ratio, ragione, rapporto. Tutto ciò ora passa dal monocordo all'universo. Come vedremo, sul monocordo è possibile stabilire una "scala" - fatta precisamente di sette distinte posizioni - sette, come i sette corpi celesti - cosicché potremmo arrivare addirittura ad attribuire ad ogni "sfera" una nota di quella 76 scala. Certo se esse suonano tutte insieme, ne dovrebbe risultare, piuttosto che una divina armonia, "une jolie cacophonie" - come osserva argutamente Henri Potiron (1954, p. 60): ma né Boezio né altri si impensierino per questo. Certo il balzo dall'osservazione empirica sull'origine dell'emissione del suono all'armonia delle sfere non è solo un balzo del pensiero, ma è soprattutto un balzo dell'immaginazione. Per questo esso può incontrarsi con il pensiero mitico-religioso nei punti in cui, in un modo o nell'altro, esso fa cantare il cielo. Il pensiero mitico può estrarre di qui ciò che più gli piace, piegando questo o quel dettaglio a significati diversi, o aggiungere nuovi dettagli. Se così stanno le cose possiamo persino chiamare in causa il paradiso di Zaratustra, senza naturalmente avere nemmeno il frammento di un frammento a disposizione per sostenere le spiegazioni di Burkert. Ciò che ci tolgono le interpretazioni veteropositivistiche che contrappongono la ragione all'immaginazione, la Weisheit alla Wissenschaft, è il fatto che esse nascondono la complessità e la ricchezza di questi intrecci, nell'una e nell'altra direzione - perché è poi anche vero che l'armonicità del mondo è stata un'idea-guida importante negli studi matematici (possiamo dimenticare Keplero? possiamo dimenticare Newton?) - e ci tolgono persino il gusto, di penetrare in questi intrecci per interrogarci seriamente e con coscienza di causa su ciò che che in essi ha una portata conoscitiva autentica. Vorrei aggiungere un'osservazione molto personale: per quanto riguarda la musica, essa è per me qualcosa di fatalmente terreno. Preferisco nettamente un satiro auleta ad un angelo canoro. Per quanto riguarda il mondo, vedo che in esso vi è un ordine, talvolta meraviglioso, lo vedo nelle grandi creazioni di cui la natura e l'uomo stesso sono capaci; ma vedo anche che in esso vi �� assai meno armonia di quanto possa esservi in un brano musicale. Penso addirittura che proprio un brano musicale possa talora insegnarci che il mondo, se è stato fatto, è stato fatto abbastanza male e lo si sarebbe potuto fare molto meglio; ed ho il sospetto che anche il tema dell'armonia delle sfere ci insegni esattamente la stessa cosa. 77 6. Il reperimento dei rapporti fondamentali sul monocordo 6.1 Il monocordo senza graduazione 6.1.1 Il metodo delle sottrazioni successive È tempo ormai, dopo le nostre considerazioni generali sul numero nella filosofia pitagorica, di riprendere il nostro tema particolare della determinazione dei rapporti numerici delle consonanze. Il metodo - anzi, i metodi di questa determinazione - non sono poi così ovvi, e certamente non lo erano agli albori della teoria della musica e del sapere aritmetico e geometrico. 78 Come primo passo sembra giusto pensare che una volta inventato il monocordo, si tentasse si scoprire i rapporti consonantici fondamentali senza ricorrere al problema della sua graduazione. La determinazione puramente uditiva delle posizioni del ponticello secondo le consonanze è peraltro cosa presto fatta. Supponiamo di avere a disposizione un monocordo a due corde: una corda priva di ponticello che possa servire come nota di confronto, e l'altra invece con un ponticello mobile. Muovendo il ponticello, per prove ed errori, si potrà certo arrivare a determinare le posizioni: I VIII V IV Pizzicando sulla sinistra del ponticello, e confrontando la nota così prodotta con la nota ottenuta pizzicando la corda senza ponticello, si sentirà nell'ordine l'ottava superiore, la quinta e la quarta. Ma ovviamente la questione che si volle affrontare con il monocordo era quella di una determinazione numerica di queste posizioni, tentando di stabilire un rapporto tra la corda di riferimento e la corda "accorciata" dal ponticello. Dobbiamo allora renderci conto di come questo problema possa essere posto già a questo primo stadio del problema su un monocordo non graduato. In precedenza, nella determinazione puramente uditiva, ci siamo mossi per prove ed errori, che è quasi quanto sostenere che ci siamo mossi quasi a caso. Tenteremo ora di affrontare il problema in questo stesso spirito? In realtà, date le premesse di fondo, è ben difficile che il filosofo pitagorico non abbia pensato di affrontare il problema con metodo. Tanto più che, come appare chiaro, la que- 79 stione non era in alcun modo pratica, ma tutta teorica, e sullo sfondo non vi era soltanto una questione musicale. Si affacciava invece il problema generale della misurazione e nello stesso tempo della "commisurazione" di due lunghezze. In primo luogo è certo che si deve procedere con un intervallo per volta. La prima figura che abbiamo presentata che presenta tutte e tre le consonanze è da questo punto di vista un poco ingannevole. Cominciamo esemplificativamente dall'intervallo di quinta. B A C E D quinta Abbiamo appunto messo il ponticello nella posizione E dove risuona uditivamente un intervallo di quinta con AB. Ora notiamo che il segmento ED, che rappresenta per noi la parte non risuonante della corda, può essere considerato come resto di una sottrazione il cui minuendo è AB e il cui sottraendo è CE. Naturalmente ci saremo provvisti di qualcosa di simile ad un filo o ad un bastoncino per riportare le misure. È chiaro che parlando di sottrazione, di minuendo e sottraendo non intendiamo qui le operazioni aritmetiche a noi consuete, ma azioni concrete fatte con oggetti concreti. Supponiamo allora di prendere il resto ED e di sottrarlo al segmento CE facendo coincidere E con C. E di ripetere la stessa operazione per gli eventuali resti. La situazione potrebbe allora presentarsi come 80 nella figura che segue: A B C E C F C F FE=CF D E resto = 0 Questa successione di operazioni di sottrazione ha un resto, ed essendo i segmenti FE e CF eguali fra loro, il loro resto sarà = 0 ed il procedimento ha termine. Se ora riportiamo i tratti verticali sul segmento AB, esso risulta suddiviso in tre parti eguali. Di conseguenza il segmento CE è determinato come 2/3 di AB (fig.1). A B C D E fig. 1 81 Per capire meglio come stanno le cose e quali problemi si potrebbero incontrare in questa procedura di sottrazioni successive, vogliamo applicarla con un po' di pedanteria all'intervallo di quarta. La nostra rappresentazione grafica avrà ora la forma della fig. 2. Qui le cose diventano un poco più complicate anche se la procedura è esattamente la stessa. Il punto della piccola complicazione sta nel fatto che quando sottriamo ED da CE abbiamo un resto FE che è maggiore di CF. In tal caso non posso sottrarre FE da CF. Questa è la novità rispetto al caso precedente. A questa novità rispondiamo aggiungendo una regola alla procedura delle sottrazioni successive: stabiliamo che la sottrazione andrà fatta in ogni caso dal segmento maggiore a quello minore. Dal punto di vista della rappresentazione grafica ciò ci ha imposto un cambiamento di rotta reso visibile dal cambiamento di direzione delle frecce. Ora dunque è CF=ED che viene sottratto ad FE. Per coerenza rappresentativa quindi indirizziamo la freccia sulla destra del segmento FE che d'altronde abbiamo allineato al segmento superiore. Ma a parte questi aggiustamenti nel grafico si procede esattamente nello stesso modo, e si perviene anche ora ad un resto = 0. B A E C C GE = FG E F F G F G resto = 0 D E fig. 2 82 Come in precedenza il risultato è leggibile sulle linee verticali che riportiamo con il tratteggio sul segmento AB. Questo risulta essere diviso in quattro parti eguali , e la quarta sta esattamente su 3/4 della corda di riferimento AB (fig. 3). Nel caso dell'ottava si arriva subito a conclusione per il semplice fatto che i due segmenti sono eguali: la sottrazione effettuata ha resto 0 già al primo passo. Abbiamo dunque applicato un metodo di sottrazioni successive, abbiamo cioè iterato un'unica operazione che si applicava al risultato precedentemente ottenuto. Questo è un ottimo esempio di procedura ricorsiva: esso conferma quell'interesse pitagorico per la ricorsività che abbiamo già sottolineato come uno degli interessi caratteristici della matematica pitagorica. B A E C C GE = FG E F F G F G resto = 0 fig. 3 E D 83 6.1.2 Osservazioni sul metodo delle sottrazioni successive A questo punto possiamo dare libera stura sia alle obiezioni che ai chiarimenti conseguenti sicuramente necessari. Forse si potrebbe osservare: in tutti e tre i casi siamo stati molto fortunati, per il fatto che proprio la lunghezza a destra del ponticello si rivela essere una unità di misura in tutti e tre i casi. E proprio per questo si potrebbe obiettare che abbiamo complicato inutilmente le cose perché, in casi come questi, basterebbe evidentemente una pura e semplice operazione di riporto. Se abbiamo deciso per così dire di cominciare a provare con ED tanto vale vedere subito "quante volte ED sta in CE", ed avremmo scoperto in un batter d'occhio che nel caso della quinta ci sta due volte prospettando una divisione per tre di AB e nel caso della quarta ci sta 3 volte prospettando una divisione in quattro di AB. Perché dunque cercare una soluzione tanto complicata come è quella delle sottrazioni successive? E perché poi indugiare così a lungo su una questione che sembra riguardare soltanto la suddivisione del monocordo e la determinazione dei rapporti consonantici? Supponiamo allora che io mi serva di una semplice operazione di riporto. I segmenti da commisurare siano AB e CE dove E cade in un punto qualsiasi di AB. Ora io mi servo del resto della loro differenza ED riportandolo più volte su CE. Ma supponiamo anche che le cose non vadano così liscie come sono andate nei casi 84 precedenti. Ad esempio: dopo aver riportato il resto sul segmento minore ci troviamo di fronte ad situazione di questo genere: A C B F E D In questo caso abbiamo appunto un resto CF che mostra che il segemento ED non può essere impiegato come unità di misura comune. Che cosa dovremo fare allora? In realtà dovremmo ricominciare da capo, con le mani e i piedi, insomma con il metodo del prova e riprova. La scelta di ED come unità di misura era arbitraria, e per cercare una nuova unità di misura per entrambi i segmenti dovremo andare a tentoni. Il porre il problema metodicamente, e cioè attraverso il metodo delle sottrazioni successive, ci fornisce invece una procedura che non assume fin dall'inizio un determinato segmento come unità di misura comune, ma serve invece a ricercare, dati due segmenti, la loro misura comune - che viene determinata al termine del processo se il processo ha termine, fig. 1 cioè se viene raggiunto il resto 0. Si noti che all'interno di queste 6 A α C 10 B 85 considerazioni risulta chiara la differenza tra semplice misurazione e commisurazione. Se due segmenti AB e CB hanno ad esempio lunghezze di 6 e 10 sulla base di una misura comune, la loro commisurazione richiede non solo una misura comune, ma la massima misura comune. Nella fig.1 essa è data dal segmento alfa che si ottiene attraverso il metodo delle sottrazioni successive ed il rapporto è di 3/5 o inversamente di 5/3. Naturalmente potremmo anche dire che la massima unità di misura è pari a 2 unità con cui sono stati misurati i segmenti e in particolare che 2 è il Massimo Comune Divisore tra i numeri 10 e 6. In effetti vi è una stretta relazione tra la nozione di Massimo Comune Divisore e quella della Massima Unità di Misura comune. Riscopriamo qui, ragionando in modo assai grezzo, delle connessioni elementari che avevamo probabilmente dimenticato. Con tutto ciò abbiamo anche implicitamente risposto alla seconda osservazione nella quale ci si chiedeva se vale la pena tanta cura del dettaglio per un problema che sembra riguardare un caso tanto particolare. In realtà dobbiamo sempre tener presente che il passaggio cruciale da problemi di teoria musicale a problemi matematici avviene intanto per il semplice fatto che la corda può essere considerata come il rappresentante fisico di una entità puramente geometrica - il segmento. Ed allora questi problemi di commisurabilità hanno direttamente Luca della Robbia, un carattere generale. Essi Pitagora ed Euclide aprono una questione par1437 ticolarmente impegnativa 86 sul terreno aritmetico-geometrico: noi abbiamo detto che il metodo delle sottrazioni successive è un modo che segue una regola e dunque un metodo per trovare l'unità di misura comune - ed anche che abbiamo buone ragioni di ritenere che esso si affacci nella prima determinazione dei rapporti con un monocordo non ancora graduato. Nei nostri esempi la procedura si chiudeva quando si raggiunge un resto che è pari a zero. Quando ciò accade le grandezze considerate si dicono appunto commensurabili: e ciò significa esattamente che vi è una misura comune per entrambe e che quindi possono essere messe esattamente in rapporto tra loro senza resti. Ma possiamo affermare che questo risultato venga sempre e inesorabilmente raggiunto ed eventualmente escludere che si possa dimostrare che in taluni casi questo risultato non può essere raggiunto? In realtà non possiamo fare questa affermazione e non possiamo escludere che possa verificarsi una cosa simile. I Pitagorici lo sapevano benissimo. Sapevano cioè che vi sono grandezze incommensurabili, il che vuol dire, secondo il senso della nostra discussione, grandezze in cui la procedura delle sottrazioni successive dà sempre un resto, per quanto piccolo possa essere. Per esse non è possibile trovare una massima unità di misura comune in grado di fornire la misura dell'una e dell'altra e quindi di determinarne esattamente il rapporto. In termini aritmetici si tratta naturalmente della differenza tra numeri razionali - che possono essere scritti come rapporti di numeri interi - e numeri "irrazionali" per i quali non sussiste questa possibilità. Euclide si serve del metodo delle sottrazioni successive proprio per mostrare l'esistenza di grandezze incommensurabili; quindi per la ricerca della massima misura comune e del massimo comun divisore. Così nella proposizione seconda del libro X degli Elementi si legge: "Se di due grandezze disuguali veniamo a sottrarre, sempre e vicendevolmente, la minore dalla maggiore quante volte sia possibile, e quella ogni volta restante non misura mai la grandezza ad essa precedente, le grandezze saranno incommensurabili". Nella proposizione successiva si pone il problema seguente: 87 "Date due grandezze commensurabili, trovare la loro massima misura comune" mentre nello stesso modo viene proposta la ricerca del massimo comune divisore nella seconda proposizione del libro settimo. Questa problematica tuttavia non comincia dai numeri considerati astrattamente come tali, ma dai segmenti, e oserei dire, ancor prima, dalle corde e precisamente dal problema della loro commisurazione. Quando in Euclide questa tematica riceve una sistemazione logica e argomentativa effettiva, si ricorre proprio al metodo delle sottrazioni successive, che viene talvolta chiamato "algoritmo euclideo". Noi abbiamo cercato di mostrare, seguendo il lavoro di Szabò (1978, p. 136), che i germi di questo algoritmo si trovano già negli esercizi al monocordo dei pitagorici. 88 6.1.3 Il quaternario Il passaggio dal livello uditivo a quello del rapporto numerico dipende in modo eminente dalla filosofia pitagorica del numero e inversamente la scoperta di rapporti numerici astratti per la consonanza rappresenta un rafforzamento di quella filosofia. Questo rafforzamento può arrivare ad attribuire al numero stesso la dimensione profonda di ciò che si manifesta alla superficie, ad esempio si potrebbe arrivare a sostenere - e i pitagorici erano ampiamente su questa strada, che la consonanza udita è una semplice manifestazione in ambito musicale di una realtà numerica che riguarda, ad esempio, il numero 3 e il numero 2 - e che di conseguenza vi è "armonia" ovunque ci siano questi numeri in rapporto tra loro, in un'accezione di armonia che potrebbe non riguardare solo l' ambito musicale. Non solo. I numeri che caratterizzano questi intervalli tendono a diventare in se stessi iper-significativi, proprio per la posizione che occupano nella successione numerica. In realtà se invece di usare i rapporti, usassimo la moderna misura dei cents, secondo la quale ciascun cent corrisponde ad un centesimo di semitono temperato, gli intervalli consonantici sarebbero caratterizzati, per approssimazione, dai numeri 1200 (ottava), 702 (quinta), 498 (quarta). È il caso di notare che, in certo senso, essi sono numeri qualsiasi. Espressi in termini di rapporti, le consonanze fondamentali vengono invece interamente espresse utilizzando unicamente i primi quattro numeri della serie dei numeri naturali - che proprio per la posizione che occupano nella successione dei numeri non sono numeri qualsiasi. Come già sappiamo, su questi quattro numeri 1234 cadde una particolare enfasi. Abbiamo anche già notato che il rapporto di 9/8 che rappresenta il tono di separazione tra la quarta e la quinta ed è fortemente dissonantico nella sua "manifestazione musicale", non solo viene inevitabilmente prodotto dalla suddivisione consonantica della ottava, ma esso non aggiunge, secondo il 89 modo di pensare pitagorico, nessun nuovo numero essendo 9 esprimibile come 3*3 (avvero 32) e 8 come 4*2 ovvero 2*2*2 ovvero 23. L'intera articolazione consonantica dell'ottava si trova dunque tutta racchiusa nel "quaternario". I Pitagorici furono colpiti anche da due altre circostanze: l'intervallo di ottava era caratterizzato dal fatto che il numeratore era multiplo del denominatore. In tutti gli altri casi il numero al denominatore era invece caratterizzato dal fatto di essere superato dal numero al numeratore di una sola unità; e inversamente per il rapporto inverso. L'importanza che all'interno della matematica pitagorica ricevono i numeri eteromechi ha probabilmente anche la sua origine nel significato che a questo tipo di rapporto viene attribuito in ambito musicale. Tutto ciò fu considerato come scoperta di fondamentale importanza. Si rammenti che sullo sfondo delle "frazioni" c'è la tematica dell'intero e delle parti - il denominatore indica in quante parti è stato diviso l'intero e il numeratore quante di quelle parti vengono prese in considerazione. E questo sfondo spiega la complessa terminologia, assai spesso poco maneggevole, che viene riservata ai rapporti aritmetico-musicali sia in ambito greco-latino sia in ambito medioevale fino all'età moderna. Il rapporto avente una simile struttura veniva chiamato dai greci epimorio e dai latini superparticolare o sesquiparziale. Credo che sia lecito vedere in entrambi i termini l'idea di una parte in più rispetto all'intero. Quando questa parte in più era metà dell'intero - ad esempio 3/2 - si parlava di rapporto emiolio - termine che contiene nella sua etimologia sia l'idea della metà che quella dell'intero. Gli altri numeri epimori venivano poi caratterizzati con epi- (sopra) e l'indicazione del numero al denominatore. Il fatto che nel concetto sia implicata l'idea di una parte in più rispetto all'intero consente un'estensione del concetto, che non è affatto irrilevante nei nostri futuri sviluppi. In effetti, sempre ragionando in termini di intero e di parti, se in un'accezione ristretta di numero epimorio consisteva nel fatto che essendo n al denominatore il numeratore doveva essere n+1, in un'accezione estesa era sufficiente che, essendo un intero divisibile in parti eguali ciascuna formato 90 dallo stesso numero di unità, ad esempio, il numero 8 in due parti di quattro unità, al numeratore vi fosse una parte in più, formata a sua volta dello stesso numero di unità - ad esempio 12 rispetto ad 8. Il rapporto 12/8 risulta dunque essere un rapporto epimorio in un'accezione estesa. Credo che fra i vari modi possibili di caratterizzare un rapporto epimorio, il migliore possa essere il seguente: si parla di rapporto epimorio quando la differenza tra numero maggiore e numero minore è pari ad una parte intera del numero minore. Questa definizione è particolarmente semplice ed ha tre vantaggi: 1. vale per il rapporto e per il suo inverso; 2. comprende l'accezione estesa e come caso particolare quella più ristretta in cui la differenza è pari ad uno; 3. distingue nettamente tra rapporti epimori e rapporti multipli. Infatti, ad esempio, il rapporto 2:1 è un rapporto multiplo ma non epimorio perché la differenza è 1, e dunque eguale al numero minore. Annotazione La precedente definizione di numero epimorio si può leggere in Teone di Smirne (II, 24 - Teone di Smirne, 1892, p. 125) in questa forma: "Il rapporto è chiamato epimorio quando il termine più grande contiene una volta il più piccolo e una parte del più piccolo, cioè quando il termine più grande supera il piccolo di una certa quantità che equivale ad una sua parte. Così il numero 4 è epimorio in rapporto a 3 perché lo supera di una unità che è il terzo di 3. Analogamente 6 supera 4 di due unità che sono la metà di 4". Peraltro Teone ritiene che si debba parlare di sottoepimorio quando il numero maggiore si trova al denominatore. Nel suo uso più generico, la parola epimere veniva usata per un rapporto che non fosse né multiplo né epimorio. Giamblico nella sua Introduzione all'aritmetica di Nicomaco lo definisce così: "Si ha un rapporto "epimere" quando il termine maggiore contiene il minore più alcune parti di esso, cioè più di una sola parte" (Giamblico, 1995, p. 253 - 42). 91 6.2 La divisione in quattro del monocordo Il secondo stadio del problema è naturalmente il passaggio alla misurazione e soprattutto alla graduazione. La misurazione in effetti poteva essere facilmente effettuata perché in certo senso l'unità di misura era scritta nel rapporto. Nel caso del rapporto multiplo, la corda più piccola poteva fungere da unità di misura, e così anche nel caso dei rapporti epimori, perché la differenza tra le corde era appunto di una unità. Negli altri casi non potevano che sorgere difficoltà. Commentando Tolomeo che faceva notare questo punto (Tolomeo, 2002, 11 - 1.5) Barker osserva: "i rapporti multipli ed epimori, sono 'migliori' degli epimeri [cioè dei numeri che non appartengono nè all'uno né all'altro tipo]; e in Tolomeo si offre subito una spiegazione di ciò. Ciò accade "per via della 'semplicità della comparazione' tra i termini della classe 'migliore' di rapporti. L'idea è poi brevemente sviluppata. La comparazione è semplice 'perché in essa l'eccesso (cioè la differenza tra i termini) nel caso dei numeri epimori è una parte semplice (cioè un fattore intero di ciascuno dei termini), e nei multipli il termine minore è una parte semplice del maggiore'. Supponiamo di dover paragonare la grandezza di due oggetti nettamente osservabili, ad esempio le lunghezze di due bastoncini rettilinei. Per far questo abbiamo bisogno o di esprimere una lunghezza come funzione dell'altra o di esprimere entrambe come funzioni di una certa terza lunghezza che si possa identificare ed impiegare come una 'misura'. Ora se il rapporto tra le lunghezze è multiplo, possiamo usare la prima strategia: il bastoncino più lungo lo è un numero di volte la lunghezza di quello più corto. Se il rapporto è epimorio, possiamo usare la seconda strategia: useremo come nostra "misura" la differenza tra le loro lunghezze, che è prontamente identificata, e 92 la lunghezza di ciascun bastoncino è un numero intero di volte di quella misura. Se il rapporto è epimere, invece, non vi è alcuna lunghezza immediatamente data alla percezione dell'osservatore che possa essere usata come una misura, una lunghezza tale che ciascuno dei bastoncini sia lungo un certo numero di volte di essa. Di conseguenza nel caso nei rapporti epimeri il problema di paragonare le quantità è destinato ad essere più complesso e difficile" (Barker, 1994, p. 124). Nell'invenzione del monocordo era certamente compresa l'idea di possedere un "metro" non soltanto per misurare e commisurare le consonanze, ma ogni intervallo possibile. In rapporto alle consonanze si può utilizzare con successo e metodo un monocordo privo di graduazioni. Ma se vogliamo fare di esso uno strumento efficiente e completo per la misurazione e il confronto tra gli intervalli abbiamo bisogno di aggiungere ad esso degli intagli o dei contrassegni, delle "tacche". Presumibilmente il monocordo assume il nome di "canone" quando riceve queste tacche e diventa così un autentico strumento di misura. Ora siamo in possesso dei rapporti consonantici fondamentali in modo numericamente determinato. Possiamo senz'altro prendere un coltellino e fare incisioni sulla base su cui scorre il ponticello mobile? In realtà ci rendiamo subito conto che il nostro "canone" o "metro" dovrebbe avere una tacca nel punto mediano; ma dovrebbe anche essere diviso in terzi, per potervi individuare sopra i 2/3 della quinta; e dovrebbe essere diviso in quarti, per potervi individuare sopra il 3/4 della quarta. Il fatto è che abbiamo al denominatore numeri diversi. Evidentemente non posso pensare di fare una divisione con una unità di misura differente per ogni intervallo. Le tacche debbono avere un'unica unità esattamente come nel caso del metro. Si deve perciò avviare una seconda fase nell'elaborazione del problema che ci impone in certo senso di ricomporre i rapporti già scoperti in una visione unitaria ed il più possibile semplice (come è semplice il misurare una lunghezza con un metro). Si pensò ad una 93 divisione dell'intero in quattro parti eguali che, come subito vedremo, ha una sua relativa efficienza e che forse anche poteva essere suggerita dall'enfasi posta su quel numero. In realtà resta memoria di una possibile divisione del monocordo in quattro parti in testi latini medioevali. Ad esempio, Aribo Scholasticus (XI sec.) in De musica equipara nettamente la scoperta dei rapporti consonantici con la "distribuzione quadripartita del monocordo" (Münxelhaus, 1976, p. 27). Nella trattatistica greca invece questa partizione non è documentata, probabilmente perché arcaica e presto abbandonata. Vi è però un indizio consistente di questa sperimentazione. In Platone talora l'ottava viene chiamata intervallo doppio e la quinta intervallo emiolio (Szabò, 1978). La prima dizione non ci sorprende certamente. Allude ad un monocordo diviso in due, nel quale cioè il ponticello è posto nel mezzo. Se vengono pizzicate insieme le due parti in cui esso è suddiviso abbiamo un unisono, essendo eguali le lunghezze delle corde. Se invece viene pizzicata la corda intera senza il ponticello e poi la sua metà si avrà tra le due note un intervallo di ottava. Più interessante è l'impiego del termine emiolio per indicare la quinta - un impiego che è già stato in precedenza rammentato e giustificato come "l'intero a cui si aggiunge la sua metà". Riportando il problema su quello della divisione del monocordo, la quinta verrà prospettata nel modo seguente: 94 3/2 1 1/2 di AC A B C D E La quinta cadrà nel punto D . Naturalmente si tratta di una quinta relativamente ad AC, che è l'ottava acuta rispetto ad AE. Ma il punto interessante è che se consideriamo anche la divisione in metà di AC otteniamo una divisione di AE in quattro e di conseguenza il punto D, rappresenta l'intervallo di quarta relativamente ad AE. Questo è di per sé un risultato degno di nota. Si è realizzata una procedura di suddivisione che - desidero esplicitamente far notare questo punto - ha tendenzialmente un carattere ricorsivo. Di fatto si è diviso un segmento per due, e poi si sono divisi per due i segmenti ottenuti dalla divisione precedente. Un vantaggio di questo metodo è comunque che ora diventiamo consapevoli della "complementarità" della quarta con la quinta nell'ottava. Detto in altro modo la quarta rispetto alla nota grave è quinta rispetto alla nota in ottava acuta. Questa circostanza ci appare ora in certo senso "visibile" sul segmento suddiviso: essa ci è "mostrata" dalla coincidenza del quarta e della quinta rispetto all'ottava inferiore e superiore nel disegno. In termini aritmetici la questione non è ovvia: occorre in proposito rammentare che benché i calcoli sugli intervalli nella trattatistica greca siano normalmente corretti, il modo in cui essi venivano realizzati è oggetto discussione. Si tenga in ogni caso sempre presente che la "somma" di due intervalli 95 corrisponde al loro prodotto aritmetico dei rapporti corrispondenti, la "differenza" alla loro divisione, e la divisione di un intervallo in n parti alla radice n-esima del rapporto che lo designa. Naturalmente volendo fare delle tacche, in luogo delle lettere alfabetiche di cui ci siamo serviti in precedenza, metteremo dei numeri. E quali numeri? Naturalmente 1, 2, 3, 4. Nel modo che segue. 1 2 3 4 La prima tacca sarà posta come pari a 0, come accade del resto su tutti i metri. Ora dobbiamo pensare a che cosa succede ponendo il ponticello mobile sulle tacche, naturalmente determinando la parte che decideremo di pizzicare. Questo è un punto molto importante. Si può pizzicare a destra o a sinistra del ponticello mobile. Per chiarezza anche nelle esposizioni successive parlerò di lato destro o di lato sinistro per indicare il lato a destra o rispettivamente il lato a sinistra del ponticello mobile. Si rammenti anche che la corda relativamente più lunga ha il suono più grave. Un dettaglio tutt'altro che privo di importanza sta nel fatto che attraverso le tacche possiamo indicare la posizione del ponticello con un numero soltanto. Naturalmente con ciascuno di questi numeri si indica materialmente un punto ben determinato. Ma nello stesso tempo, poiché dipendono da una partizione, essi possono essere considerati anche come frazioni con un denominatore comune, che in questo caso sarà il 4. Questo è una sorta di denominatore sottinteso. Ora sotto 4 c'è dunque 4, e 4/4 è pari ad 1. Mentre poi avremo tre parti di quattro, due di quattro o una di quattro, come potremmo anche dire; ovvero più familiarmente e scolasticamente 3/4, 2/4, 1/4. 96 1 2 3 4 4 4 4 4 Da questi numeri si vede subito che otteniamo qualche risultato in rapporto al nostro problema. Il ponticello in posizione 2 ci fornisce l'ottava pizzicando la corda su entrambi i lati. Se poi procediamo ora da sinistra a destra convenendo di pizzicare sempre sulla parte sinistra della corda, avremo il ponticello su 1 (ovvero 1/4) in una posizione che corrisponde alla metà della metà dell'intero, dunque la doppia ottava rispetto alla corda intera. Sappiamo già che su 2 avremo l'ottava, e sul tre avremo la quarta. Altre possibilità non ci sono - mettere il ponticello sul quattro significa, come abbiamo già osservato, semplicemente levare il ponticello, o come anche ci accadrà di dire, pizzicare sulla corda "vuota". Cominciando da destra e pizzicando a destra avremo esattamente gli stessi intervalli nella stessa sequenza. Le sequenze si invertono nell'ordine di successione, ma gli intervalli restano gli stessi, invertendo il lato da pizzicare. Naturalmente quarta e quinta si sovrappongono o meglio se consideriamo ad esempio unicamente il percorso da destra a sinistra, pizzicando nella parte a destra, non vi è propriamente nessuna quinta relativamente alla nota di riferimento, cioè all'intero di 4/4. In altri termini la quinta che ha dato il via alla divisione in quattro non è "visibile" autonomamente nel grafico ovvero sul monocordo diviso in quattro. Tuttavia il problema segnalato in precedenza è visibile anche ora. Proviamoci infatti a presentare la suddivisione in quattro servendoci di un monocordo a quattro corde. E stabiliamo di pizzicare solo il lato sinistro. La parti tratteggiate sono le parti delle corde non risuonanti. Il ponticello blocca infatti le vibrazioni generate dal pizzico a sinistra. I ponticelli mobili si trovano ovviamente nei punti in cui sono indicati i numeri. Si può anche supporre che le quattro tacche segnate in alto siano riportate sotto tutte le quattro corde e che siano a nostra disposizione tre ponticelli mobili. Mettiamo il primo sul 3, il secon- 97 do sul 2 il terzo sull'1. In queste condizioni pizzichiamo le corde dal basso verso l'alto e inversamente. Il punto essenziale che questa modificazione chiarisce è che comunque una quinta c'è, e c'è nel rapporto tra la corda lunga 3 e la corda lunga 2. Ma a ben guardare con il monocordo suddiviso in quattro non andiamo affatto più lontano di quanto andavamo con il monocordo privo di graduazioni. Al più, usando quattro corde possiamo far risuonare con facilità la sequenza degli intervalli, ma non possediamo ancora quello strumento generale per la misurazione degli intervalli che è lo scopo fin dall'inizio perseguito. 1 2 3 4 1 2 3 4 98 6.3 La divisione in dodici del monocordo 6.3.1 La considerazione "lineare" dell'intervallo Facendo riferimento alla suddivisione in quattro del monocordo possiamo anticipare sommariamente i termini di un problema che avrà la sua applicazione più persuasiva ed evidente nella suddivisione in dodici. Nella figura successiva i numeri sono interpretabili in due modi. 1 2 3 4 Con il numero 1 posso intendere il segmento tra 0 e 1, con il numero due il segmento tra 0 e 2, e così via. Trascurando lo 0, i semplici numeri 1, 2, 3, 4 individuano lunghezze ben determinate. Nello stesso tempo questi numeri possono indicare delle lunghezze determinate anche usati in coppie, e precisamente come estremi di un segmento. Detto in altro modo: potremmo impiegare coppie di questi numeri nello stesso modo in cui si fa di solito per le lettere alfabetiche come segni di delimitazione di un segmento. Così la coppia di numeri 2,4 potrebbe avere il senso di indicare la lunghezza del segmento ai cui estremi vi sono il 2 e il 4 . Tuttavia fra questi due ultimi casi - numeri e lettere - vi è una differenza, perché mentre le lettere sono per così dire neutre rispetto alle partizioni possibili e quindi ai rapporti di misura effettuati, i numeri non lo sono. Per questo si può intravvedere la possibilità di usare questi numeri, usati singolarmente o in coppia, anche per la rappresentazione di rapporti che verranno così in certo senso usati "linearmente". Questo problema di una considerazione lineare dell'intervallo - cioè dell'intervallo come qualcosa di analogo ad un segmento - che è peraltro da concepire come un rapporto - tormenta tutta la speculazione teorico-musicale greca, ma la riflessione su di esso ha diversi contraccolpi proprio sulla formazione della teoria dei rap- 99 porti e delle proporzioni. Nelle considerazioni sul monocordo e sulla sua possibile divisione si affaccia la possibilità di lavorare su una sorta di terreno intermedio che sta tra il segmento e il rapporto. Si cerca un metodo per addizionare i rapporti o per sottrarli - cioè per trattarli come segmenti veri e propri, e non come rapporti tra segmenti. Il segreto di questa possibilità sembra stare proprio nel fatto che posso usare numeri come indicatori della lunghezza di segmenti ed anche come indicatori di un segmento di cui ne contrassegnano gli estremi. Ad esempio nella divisione in quattro io posso considerare la coppia 3,2 come indicativa del segmento delimitato da questi due numeri e come rappresentativo di un intervallo di quinta. Considerati singolarmente come lunghezze e poi messi in relazione essi mostrano il rapporto di 3 a 2. Nella divisione a quattro questo esempio assume il carattere di caso particolare, e proprio per questo non troppo convincente. Questa situazione diventa realmente interessante non tanto nella divisione in quattro quanto nella divisione in dodici. 100 6.3.2 I rapporti consonantici espressi con i numeri 6,8,9,12 Sappiamo già che rapporto traduce il termine greco logos. Ma vi è invece stata per lungo tempo un'ambiguità significativa per ciò che stiamo sostenendo sulla parola diastema. Esso significa nei trattati musicali, intervallo, nella terminologia matematica segmento. In un testo di Porfirio si legge: "Ma anche Demetrio considera diastema con lo stesso significato di logos, e molti altri degli antichi seguono questo uso. Così come Dionisio di Alicarnasso e Archita Sulla musica e l'autore degli Elementi, Euclide nella Divisione del canone parlano di diastemata piuttosto che di logoi logoi" (Huffman, 1905, p. 163). Il segmento ha degli estremi che vengono chiamati anche oroi. Oros significa confine. La stessa parola tuttavia, nella terminologia greca più antica, ricorre anche per in connessione con logos. Si parla degli oroi di un logos, ovvero si usa una nozione che ha il suo senso primario nel segmento anche per il rapporto. Questa è una circostanza singolare, perché si comprende subito che non ha troppo senso parlare del numeratore e del denominatore della frazione come dei suoi confini. Evidentemente dobbiamo rendere esplicito un discorso sottaciuto (per tutta questa tematica faccio riferimento soprattutto a Szabò, 1978). Nei vari racconti sulla scoperta di Pitagora si giunge invariabilmente a formulare i rapporti non nei termini del quaternario puro e semplice, ma con numeri che messi in rapporto tra loro riconducevano al quaternario, ma solo attraverso una "riduzione ai minimi termini". Questi numeri erano propriamente: 6 8 9 12 Anche nella favola del fabbro armonioso, nella versione di Nicomaco a cui abbiamo fatto riferimento, alla fine questi sono i numeri che vengono proposti. Inoltre questi numeri che indicano rapporti 101 possono essere messi in proporzione, che assume la forma 6:8 = 9 : 12. In realtà tacitamente sconfessando la favola del fabbro, questa proporzione viene riferita come scoperta babilonese importata da Pitagora in Grecia. Talvolta essa riceve senz'altro il nome di "proporzione babilonese" "È documentato che questa forma del quaternario potrebbe essere anteriore all'Accademia platonica. Giamblico ci informa che lo stesso Pitagora portò in Grecia questa fondamentale proporzione 12:9 :: 8:6 dalla Babilonia " (Barbera, 1985, p. 200). In effetti Giamblico, nella sua Introduzione all'Aritmetica di Nicomaco (118-119) scrive: "Bisogna discutere ora della proporzione perfettissima che intercorre tra quattro termini, di quella cioè che viene propriamente chiamata "proporzione musicale" per il fatto che contiene in sé, in maniera assolutamente nitida, i rapporti musicali degli accordi armonici. Si dice che essa sia stata scoperta dai babilonesi e che sia giunta in Grecia per la prima volta attraverso Pitagora. Si scopre infatti che la hanno utilizzata molti Pitagorici, ad esempio Aristeo di Crotone e Timeo di Locri e Filolao e Archita, ambedue di Taranto, e molti altri, e dopo di questi anche Platone nel Timeo..."(1995, p. 349). Questi numeri apparivano anche in tutte le immagini di provenien- 102 za medioevale che ho proposto. Essi sono la forma tipica del quaternario nei trattati. Occorre capire chiaramente la ragione di questa circostanza. Naturalmente si vede subito che in questa quaterna è possibile ritrovare i precedenti rapporti. Intanto agli estremi troviamo il rapporto del doppio, ovvero il rapporto caratterizza l'ottava, tra questi estremi vi è il tono pitagorico, 9/8. E poi naturalmente in 12/8 ritroviamo il rapporto 3/2 e nel caso di 12/9 il rapporto 4/3. Abbiamo inoltre già spiegato che questi rapporti, espressi in quest'altro modo, possono ancora essere chiamati epimori in un'accezione estesa del termine. Questa quaterna rappresenta dunque niente altro che una forma modificata della forma del quaternario che chiameremo originaria. Come abbiamo notato si passa dalla seconda alla prima operando quella che oggi chiameremmo una riduzione ai minimi termini - la quale richiede, come si sa, che numero e denominatore siano divisi per il loro Massimo Comune Divisore. Il 12 a sua volta rappresenta il Minimo Comune Multiplo dei numeri del quaternario nella sua forma originaria. Con ciò ribadiamo che queste nozioni, tanto utili ai calcoli, non nacquero astrattamente da una considerazione puramente aritmetica e di regole di calcolo corrispondente, ma da problemi strettamente attinenti alla misurazione ed alla chiara individuazione dei rapporti in un contesto che ha il tema dell'intero e della parte al suo centro e la riflessione sui problemi posti dalla divisione del monocordo come stimolo. Un monocordo suddiviso in dodici avrà l'aspetto seguente: 6 8 9 12 103 Nelle considerazioni successive assumeremo sempre che la corda venga pizzicata sul lato sinistro, e che invece il lato destro sia la parte che non solo non viene pizzicata, ma viene eventualmente tenuta ferma per impedirle di vibrare se a ciò non bastasse la presenza del ponticello. Nello stesso tempo è particolarmente importante, per evitare di incorrere in equivoci, una lettura che proceda da destra a sinistra, nel senso che prima si farà risuonare l'intero, ovvero la "corda vuota" delimitata solo dai ponticelli fissi (capotasti), poi si porrà il ponticello su 9 e si avrà la quarta superiore, quindi su 8 ottenendo la quinta, infine su 6 ottenendo l'ottava.In questo modo si procede dalla corda più lunga alla corda più corta in una direzione che va dal grave all'acuto. Con questo tipo di partizione tutto diventa molto più chiaro. In particolare i rapporti vengono espressi in certo senso in modo lineare. Parlando di diastema per indicare l'intervallo si intende proprio una lunghezza, e l'impiego non è affatto metaforico. I numeri vengono infatti usati in due modi: presi singolarmente indicano una lunghezza, e precisamente la lunghezza della corda. Presi in coppia come estremi (oroi) indicano ancora una lunghezza ma questa può essere considerata come rappresentativa di un rapporto. 6 8 9 12 104 Si veda la graffa superiore. Essa indica gli oroi 12, 8 e dunque il segmento che rappresenta, in quanto segmento, l'intervallo di quinta. Questo intervallo come rapporto lo leggete con gli stessi numeri ma nella parte di sotto del monocordo, dove avete le due graffe che vi indicano le lunghezze prese in considerazione. Non si tratta più di coppie di numeri ma dei numeri singolarmenti presi, i quali tuttavia rimandano ad un sistema di partizione in 12. Secondo quanto possiamo vedere nella figura più in basso l'8 cade a due terzi rispetto l'intero rappresentato da 12 e l'intero viene suddiviso in effetti in tre parti di 4. Pizzicando sul lato sinistro con il ponticello in 8 avrete la quinta superiore; con il ponticello in 9 avrete una quarta superiore. Naturalmente una simile partizione ci consente anche di fare direttamente confronti tra intervalli. Ad esempio, se vogliamo sapere se la quarta, come rapporto e intervallo sia maggiore o minore della quinta, allora notiamo che il segmento che ha come estremi 12, 9 [quarta] è compreso nel segmento che ha come estremi 12, 8 [quinta] . La quarta è dunque un intervallo minore della quinta. Da notare che in questo caso è comunque importante la lettura da destra a sinistra ed io credo che da questo tipo di impostazione si possa trarre una buona giustificazione del fatto che nella trattatistica i rapporti sono indicati normalmente con il numeratore maggiore del denominatore mentre ovviamente negli esperimenti sulle corde sembrerebbe più naturale usare la frazione inversa. Tenendo conto di questo tipo di lettura - che viene proposta da Szabò - si viene a capo anche di altri piccoli enigmi che hanno spesso portato ad assunzioni erronee. Ad esempio, secondo Laloy, Pitagora non avrebbe saputo riconoscere il rapporto differenziale di 9/8 tra la quinta e la quarta, per il fatto che si può dedurre questo rapporto direttamente dai precedenti solo "alla condizione che si sappia che una differenza di intervalli si esprime attraverso un quoziente di rapporti; e noi vedremo che questa legge particolare, benché sia osservata da un grande matematico come Euclide, non è stata mai formulata espressamente nell'antichità e non è ancora 105 presente in certi calcoli di Filolao. Non possiamo dunque supporla conosciuta da Pitagora...". (Laloy, 1904, pp. 49-50). Invece se si è ben compresa la doppia lettura dei numeri che si può effettuare sul monocordo (in questo doppia lettura sta il segreto di tutto), ci si rende conto che il problema posto da Laloy non sussiste. Infatti se usiamo il criterio della designazione dei segmenti attraverso gli estremi ci rendiamo subito conto che il segmento caratterizzato dalla coppia (9,8) è interpretabile come risultato della sottrazione del segmento (12, 8) e (12, 9) - ciò era accessibile a partire da un uso primitivo del monocordo. Quando un teorico antico parlava del tono di 9/8 come risultante dalla differenza tra quinta e quarta sapeva quel che diceva e non confondeva una divisione con una sottrazione. Ma vi è di più: se abbiamo capito bene come funziona tutto il problema non stenteremo a vedere in questa suddivisione del canone anche la complementarità di quarta e quinta nell'ottava e naturalmente senza effettuare moltiplicazioni o divisioni tra frazioni. Verifichiamo direttamente, al più con una semplice operazione di conteggio per constatare l'eguaglianza o la diseguaglianza del numero delle parti, che il segmento determinato dalla coppia (12,6) può essere considerato come composto dal segmento formato da (12,9) - quarta - e dal segmento 9,6 - quinta; oppure dal segmento (12,8) - quinta - e dal segmento 8,6 - quarta. Tutta questa vicenda che vi ho raccontata è, a mio avviso, una storia fenomenologica che esemplifica in modo straordinariamente efficace un possibile processo di formazione di concetti astratti. Questa storia comincia con un fatto uditivo specifico che è la consonanza. Per poter essere in qualche modo posto sotto controllo questo fatto uditivo viene tradotto in un fatto visibile e maneggiabile, facendo riferimento alle corde che producono il suono. Questa visibilizzazione ci fa restare ancora in larga parte sul terreno fenomenologico. Le corde possono essere osservate, più o meno tese, manipolate in vari modi. Queste pratiche di manipolazione aprono un problema di misurazione e commisurazione. Per questa via il numero entra nell'ambito delle nostre considerazioni. Ma per un certo tratto resta legato alla lunghezza, come fatto visibile e questo legame si spinge sino al rapporto ed al 106 confronto tra i rapporti. Al di là di questo breve tratto, il numero si separa nettamente dall'ambito intuitivo e prende la sua via. Questa partizione in dodici, o meglio il modo di interpretarla, è dunque una invenzione realmente straordinaria che prepara sviluppi in realtà altrettanto straordinari. Questi sviluppi riguarderanno la teoria musicale degli intervalli, ma riguarderanno soprattutto lo sviluppo della teoria matematica dei rapporti e delle proporzioni. Di fatto come il numero tende a liberarsi dal riferimento al segmento, così il rapporto tende ad essere considerato come un rapporto tra numeri, un rapporto propriamente aritmetico e quindi tutta la tematica è destinata a divaricarsi ed autonomizzarsi interamente dalla teoria musicale. Vi è anche un aspetto di ordine generale che viene qui in evidenza sui rapporti tra musica e matematica. Si è sempre impostato il problema di questi rapporti come se si trattasse di trovare nella matematica in certo senso le leggi più profonde della musica, nei rapporti matematici le ragioni più profonde dell'espressività della musica. È indubbio che questa posizione abbia origine proprio in questa impostazione pitagorica della questione. Ma mi sembra anche indubbio che la questione possa presentarsi anche in modo inverso, o meglio secondo una angolatura piuttosto di epistemologia della matematica che di metafisica della musica. È innegabile che qui vediamo anche la musica come levatrice della matematica, la musica come luogo in cui comincia a germinare il problema matematico, ed inversamente l'elaborazione germinale di problemi matematici si sperimenta sul piano della teoria musicale essendovi così non tanto un rapporto di fondazione in un'unica direzione, ma piuttosto di interscambio fecondo per entrambe le discipline. 107 7. Tematica delle medie Archita di Taranto (IV sec. a. C.) 108 7.1 Media aritmetica, media armonica e media geometrica 7.1.1 L'affermarsi del problema delle medie Un esempio notevole dell'intreccio tra musica e matematica, e proprio nel senso di un complesso di stimoli che la riflessione sulla musica esercita sugli sviluppi della matematica, riguarda il formarsi del concetto di media, entro il contesto del discorso pitagorico sui rapporti e le proporzioni. Abbiamo già notato in precedenza che con la forma modificata del quaternario possiamo costruire la proporzione 12 : 9 = 8 : 6 e naturalmente, come sua variante possibile. 12 : 8 = 9 : 6 Questo non è naturalmente che un altro modo di riproporre lo schema fondamentale di articolazione consonantica dell'ottava. Ma in realtà formulando la questione in termini di proporzione i pitagorici si avvidero di un'altra circostanza notevole, dalla quale alla fine fecero in larga parte dipendere la "perfezione" di questa sud- 109 divisione. Riprendiamo a questo proposito il cenno fatto in precedenza sugli interessi aritmetici dei pitagorici. Tenendo conto del simbolismo così spesso attribuito ai numeri nella loro singolarità, questi interessi potrebbero sembrare rivolti a cogliere peculiarità in certo senso individuali dei numeri; ma in realtà si trattava di un orientamento che era caratterizzato soprattutto dalla ricerca di relazioni. Di fronte ad una proporzione come la precedente, che mostrava una struttura relazionale particolarmente forte a livello fenomenologico superficiale (musicale), sorse all���interno dei pitagorici la domanda se vi fosse una qualche relazione altrettanto forte tra gli estremi della proporzione e i suoi termini intermedi - una relazione appartenente dunque, dal punto di vista pitagorico, al livello profondo. La riflessione dunque passa ora ad una possibile connessione tra la coppia degli estremi 12 e 6, da un lato, e il numero 9, dall'altro e così anche tra la stessa coppia e il numero 8. È a questo punto che ci imbattiamo nel problema delle "medie". I pitagorici considerarono la ricerca di "medie" come uno dei compiti importanti della ricerca aritmetica, ed essi caratterizzarono vari tipi di medie dando ad essi dei nomi appositi. Ma in che cosa consiste propriamente il problema delle medie? 7.1.2 Le formule delle medie Forse per rispondere a questa domanda, è opportuno, prima di ricollegarsi direttamente alle fonti greche, ricercare tra le nostre infarinature scolastiche cercando di ricordarci alcune delle definizioni proposte nei manuali. Cosicché dimentichiamoci del monocordo e dei segmenti e le misurazioni che esso suggeriva e recitiamo le definizioni come ci sono state insegnate nell'insegnamento elementare e medio in termini strettamente aritmetici: 110 Media aritmetica Dati n numeri, la loro media aritmetica si ottiene sommandoli e dividendo la loro somma per n media aritmetica di a e b ab 2 Ora i pitagorici si resero conto subito che il numero 9 corrispondeva alla media aritmetica degli estremi della proporzione, 12 e 6. Media armonica (detta anche subcontraria) Dati n numeri, la loro media armonica si ottiene dividendo n per la somma dei loro inversi Media armonica tra i numeri a e b 1 a 2  1 b Dopo la prima molto semplice scoperta del 9 come media aritmetica dei numeri 12 e 6, il punto che sollecitò la fantasia matematica e speculativa dei pitagorici fu quella di trovare una qualche relazione definibile tra i due estremi della proporzione 12, 6 e il numero l'8. E fecero una scoperta singolare. Anche in questo caso era possibile formulare una stretta regola di collegamento tra questo numero e gli estremi della proporzione ed inoltre questa regola aveva una precisa relazione strutturale con la media aritmetica. Si trattava appunto del fatto che il numero 8 corrispondeva alla media armonica di 12 e 6. 111 La relazione tra media armonica e media aritmetica forse risulta più evidente se formuliamo il problema in modo leggermente diverso. Atteniamoci al caso esemplificativo elementare di n=2. Facendo la media aritmetica degli inversi dei numeri a e b si avrà 1 a  1 b 2 la media armonica: L'inverso di questo rapporto è appunto 1 a 2  1 b Si potrà così definire la media armonica tra due numeri anche come l'inverso della media aritmetica dei loro inversi. Nota che la media aritmetica divide l'ottava in una quarta+quinta, mentre la media armonica in una quinta+quarta. Nella media aritmetica la suddivisione cade su 9 e dunque sulla coppia 12:9 e 9:6, mentre nella media armonica la suddivisione cade su 8, formando la coppia 12:8 e 8:6. 112 Media geometrica (detta anche proporzionale) Dati n numeri, si ottiene la loro media geometrica realizzando la radice n-esima del loro prodotto Da questa formulazione non può certo risultare per quali motivi questa media possa essere interessante sotto il profilo matematico-musicale dei pitagorici; tuttavia dobbiamo confessare che tutte e tre le medie, benché facili da definire ed altrettanto facili da calcolare, formulate così, sembrano, almeno a me, in qualche modo opache, anche se non saprei dirne il preciso motivo. Confesso addirittura che resterei per un istante imbarazzato persino nel dare una risposta chiara a chi ci chiedesse perché le medie si chiamino medie, e addiritura i motivi o la storia dei loro nomi. Forse anche qualche mio lettore proverebbe qualche imbarazzo. Ed allora venite con me! Andiamo tutti insieme a prendere lumi da un grande maestro: Archita di Taranto. 113 7.2 Le medie secondo le definizioni di Archita 7.2.1 Media aritmetica Ci siamo ricollegati al sapere cavato sui banchi di scuola, abbiamo fatto qualche calcolo di prova ed alla fine abbiamo pur mostrato qualcosa. Abbiamo persino cominciato a capire in che modo matematica e musica qui si intrecciano. Ma nello stesso tempo siamo sempre più tentati dalle domande "filosofiche" con le quali il fanciullo di cui narra una volta Wittgenstein assilla il maestro di scuola, che alla fine si spazientisce e lo ammonisce a tacere affinché egli possa fare la sua lezione. Questa reazione del maestro è certamente fino ad un certo punto giustificata perché egli deve svolgere il programma ed arrivare alle dimensioni più evolute dei problemi e non può indugiare più di tanto sulle infime origini. Ma qualche ragione le ha pur anche quel fanciullo perché sente oscuramente che qui e là vi sono delle lacune, dei buchi che, se non sono riempiti subito, non lo saranno mai più. Nemmeno a tarda età. Per attenerci ai casi nostri: abbiamo fatto un balzo verso la problematica delle medie, ma in fin dei conti una "media" che cosa è? A che tipo di problema risponde la ricerca di essa almeno per quanto riguarda i casi elementarissimi di cui ci stiamo occupando? Ora io credo che ripensare al modo in cui questa problematica si pone nella matematica greca arcaica - con l'aiuto di filologi che hanno studiato a fondo questi problemi e senza trattenerci sulle straordinarie e ammirevoli sottigliezze a cui filolo- 114 gi e storici della scienza riescono a pervenire - ci giovi proprio perché contribuisce a chiudere qualche lacuna che è motivo di curiosità per il fanciullo che forse sta nel fondo di ogni filosofo. Conviene dunque rifare almeno in parte il percorso precedente, ma facendo tabula rasa delle nostre conoscenze scolastiche elementari e andando piuttosto alle definizioni ed alle discussioni più antiche. Intanto cominciamo a fissare questo punto. L'espressione "media" deriva da questa circostanza. Anzitutto la riflessione comincia come è ovvio dal caso più semplice, quindi relativamente a due numeri. Il problema che ci si pone è allora quello di trovare un terzo numero che sta fra l'uno e l'altro, un numero "intermedio" dunque, con caratteristiche tali da stabilire un preciso collegamento tra loro. In forza di questa relazione è possibile fornire una regola che consenta, dati gli estremi, di trovare il medio. L'attirare l'attenzione sul collegamento e la connessione è importante perché conferma che la ricerca pitagorica, a cui senza dubbio risale la posizione della tematica delle medie, era fortemente orientata verso le relazioni e le regole che le governano. È anche comprensibile che, in questo stadio, la ricerca non si muovesse totalmente all'interno dell'astrazione numerica, ma che essa prendesse le mosse da stimoli molto concreti che, come ormai stiamo sempre più verificando, hanno a che vedere da un lato con la musica, dall'altro con la figuralità geometrica che il monocordo stesso in fin dei conti proponeva. Perché porsi il problema di un "medio" tra due numeri in un'accezione forte, cioè come un numero che collega l'uno all'altro secondo una regola matematica? Le ragioni di questo interesse si comprendono subito se si assume che i numeri considerati avevano già una pregnanza di significato sul terreno musicale. È ritenuto ormai acquisito che Pitagora, se non fece un impiego sistematico delle proporzioni, sicuramente si occupò di problemi che ne implicavano il concetto e che "la teoria delle medie fu sviluppata molto presto nella sua scuola con riferimento all'aritmetica ed alla musica" (Heath, 1921, p. 85). "Una volta che gli intervalli musicali furono 115 espressi come rapporti aritmetici, si potevano combinare usando operazioni aritmetiche. Qui, in ogni caso, sembra che fu la musica che procurò il metodo dell'aritmetica - almeno in questi inizi" (Crocker, 1963, p. 194). Ed eccoci ora di fronte ad Archita: benché sia possibile, ed anzi sostanzialmente certo, che le tre medie fossero note anche ad autori precedenti, nel fr. 2 di Archita si trova la loro prima formulazione scritta. "L'origine delle tre medie descritte nel secondo frammento non è identificata, e noi non siamo in grado di sapere chi le formulò per primo, ma è plausibile che il pitagorico Ippaso fosse a conoscenza di esse nel prima metà del quinto secolo e che Archita le abbia tratte da lui"(Huffman, 2005, p. 52). "Poiché il secondo fammento di Archita è il primo testo che dà chiare definizioni delle medie aritmetica, geometrica e armonica, talvolta Archita viene considerato come il loro scopritore.... e noi abbiamo visto, in ogni caso, che la dossografia li assegna in età anteriore ad Archita, spesso allo stesso Pitagora" (ivi, p. 175). Il problema venne in seguito variamente sviluppato e si giunse a formulare una decina di tipi di medie. Va sottolineato che Tolomeo loda Archita come "impegnato nello studio della musica più di tutti i Pitagorici" (A16: 6-7 cit. in Huffman, 1905, 52). Consideriamo la definizione che egli propone per la media "aritmetica". "La media è aritmetica ogni qualvota tre termini (oroi) oroi) sono in eccesso l'uno all'altro nel modo oroi che segue: di tanto il primo eccede il secondo, di quanto il secondo eccede il terzo". Se dunque A, B,C sono rispettivamente il primo secondo e terzo termine, B è medio aritmetico se se A-B=B-C. Naturalmente è ne- 116 cessario intendersi anzitutto sull'ordine e precisamente è necessario considerare come primo il numero maggiore. Torniamo ora al nostro schema di monocordo: 6 8 9 12 È subito chiaro che non vi nessun bisogno di fare calcoli,a parte l'operazione di conteggio delle unità di base,per vedere che 9 è la media aritmetica tra 6 e 12 essendo il segmento (12,9) eguale al segmento (9,6) . La definizione che ci propone Archita è dunque qualcosa di ben diverso da ciò che in precedenza avevamo proposto. Potremmo azzardarci a dire che non c'è prima la tematica delle medie bell'e pronta, ma che nel considerare una figura come questa ci si rende conto di una peculiarità del termine 9 che "sta fra" il 6 e il 12 in modo da essere equidistante dall'uno e dall'altro ovvero, secondo la formulazione di Archita, il primo (12) eccede il secondo (9) tanto quanto il secondo eccede il terzo (6). Poiché sappiamo inoltre che il rapporto 12/9 rappresenta una quarta, possiamo dire che la quarta è media aritmetica dell'ottava. Abbiamo già notato se 12/9 (=4/3) rappresenta la quarta, 9/6 (=3/2) rappresenta una quinta cosicché la media aritmetica suddivide l'ottava in una quarta ed in una quinta in successione in ordine discendente. Naturalmente poiché non dobbiamo perdere la presa sul rapporto, tutto ciò non significa che la somma aritmetica dei rapporti corrispondenti abbia come risultato l'ottava. Questo risultato si ottiene solo attraverso la moltiplicazione dei rapporti, ovvero 12/9*9/6 = 12/6 = 2. 117 Gli intervalli intesi come rapporti vengono "composti" o "sommati" tra loro attraverso la loro moltiplicazione. E naturalmente il doppio di un intervallo sarà il rapporto che lo contraddistingue moltiplicato per se stesso - dunque il suo quadrato. Ciò mostra anche come sia importante fare una duplice lettura dei numeri in questione, ed in particolare occorre non perdere di vista che abbiamo a che fare con rapporti. L'equidistanza di cui si parla non è evidentemente eguaglianza dei rapporti! 118 7.2.2 Media geometrica La seconda definizione proposta da Archita riguarda la media geometrica. Anche in questo caso si tratta di trovare, dati due numeri, un numero che "sta fra" essi, ma secondo una qualche particolare regola, e quindi stabilendo una relazione tra gli estremi. La definizione di Archita, realmente semplice, è la seguente: "La media è geometrica, ogni qual volta i termini sono tali che il primo sta al secondo come il secondo sta al terzo". Mentre nel caso della media aritmetica si trattava di un'eccedenza di grandezza, qui invece si parla proprio di rapporti e di proporzioni. Per questo talvolta si parla della media geometrica anche come media proporzionale. Del resto, come presto vedremo, la dizione di media geometrica richiede a sua volta una spiegazione. Archita propone la media geometrica in seconda posizione probabilmente per il fatto che essa presenta, come la media aritmetica, un caso di eguaglianza, questa volta relativa ai rapporti piuttosto che alle lunghezze. L'elemento cercato B, nella media geometrica tra A e C , è tale per cui deve valere la proporzione a tre termini: A :B = B :C Simili proporzioni a tre termini si dicono solitamente proporzioni continue. Poiché in generale in una proporzione il prodotto degli estremi è eguale al prodotto dei termini medi (Euclide, VII, prop. 19), allora, essendo A*C=B2, la media geometrica B sarà: B=√[A*C]. In questa formulazione ritroviamo, per il caso particolare di due termini, la formulazione che abbiamo dato nel paragrafo precedente, nella quale si diceva che si ottiene la media geometrica tra n elementi facendo la radice n-esima del loro prodotto. Come esempio: tra gli estremi 12 e 3, il termine medio risulta essere 6 essendo 12:6=6:3. Per cominciare ad intravvedere in che modo 119 il tema della media geometrica interessa la teoria musicale, potremmo notare, sulla base di questo esempio, che abbiamo a che fare con un intervallo composto da due ottave caratterizzate dai numeri 3, 6, 12, che sono evidentemente l'uno il doppio dell'altro. Il numero 6, che rappresenta la media geometrica tra 3 e 12, rappresenta allora esattamente la metà della doppia ottava. Prendiamo ora in considerazione un intervallo di ottava - gli estremi del rapporto sono 1 e 2, e vogliamo conoscere la metà di questo intervallo che consisterà dunque nella media geometrica tra essi. Essendo 1*2 = 2, e 2 = B2 allora la media geometrica B sarà B=√2 Ci troviamo così di fronte ad uno dei primi e più famosi numeri irrazionali che siano stati scoperti. I pitagorici, e naturalmente Archita con loro, si rese conto di questa circostanza che aveva certamente importanti conseguenze della teoria pitagorica della musica ed una forza dirompente sul piano della matematica. Benché non possa essere nei nostri intenti approfondire l'argomento, alla questione si dovrà dedicare un cenno a parte. 7.2.3 Media armonica Veniamo ora alla media "subcontraria" o "armonica" che Archita propone per terza: "La media è subcontraria, che noi chiamiamo armonica, ogni volta che i termini sono tali che per quella parte di se stesso il primo termine eccede il secondo, per questa stessa parte del terzo il medio eccede il terzo". Formulazione non chiarissima, ma nemmeno troppo difficile da comprendere. Anzitutto si pone il problema, come nel caso della media aritmetica, di una eccedenza tra i termini e di un ordine che pone come primo il numero più elevato. Tuttavia l'eccedenza che 120 qui viene in questione e che deve essere eguale tra il primo e il secondo termine e tra il secondo e il terzo riguarda la parte che essa rappresenta rispetto agli interi che formano gli estremi. Ritorniamo dunque ancora al nostro monocordo. Abbiamo già visto che gli estremi 12 e 6 hanno nel 9 il loro medio aritmetico. Ci rimane da considerare il numero 8. Sempre con una semplice operazione di conteggio è facile rendersi conto che 12 eccede 8 di 4, ed 8 eccede 6 di 2. Ma 4 è 1/3 dell'intero rappresentato da 12 e 2 è 1/3 rispetto all'intero rappresentato da 6. In base alla definizione di Archita, sappiamo subito che 8 è la media armonica tra 12 e 6. E poiché sappiamo che 12/8=3/2, possiamo dire che la quinta è media armonica dell'ottava. Di conseguenza una ottava viene divisa dalla media armonica da una quinta (12/8=3/2) e da una quarta (8/6 =4/3) rispettivamente in successione in ordine ascendente. Nella definizione di Archita, la media subcontraria viene strettamente legata nella formulazione definitoria alla media aritmetica essendo entrambe considerate dal punto di vista dell'eccedenza, ed avrebbe potuto perciò occupare la seconda posizione; inoltre, a quanto sembra dal testo stesso, il nome "media subcontraria" è quello più antico, e non si trova usato in Platone e Aristotele, mentre quello di "media armonica" è in tutta probabilità un' innovazione dello stesso Archita (Huffmann 1905, p. 173). Giamblico ritiene che questa innovazione sia dovuta al fatto che tale media abbraccerebbe tutti i rapporti musicali consonantici. Nicomaco (II, 26.2) (Heath, p. 86) invece rammenta che Filolao parlava di "armonia geometrica" in rapporto al cubo per il fatto che esso possiede 12 spigoli, 8 angoli e 6 facce, ed 8 è appunto la media armonica secondo la teoria musicale. Ma si tratta di un riferimento poco persuasivo che spiega al massimo perché Filolao riferisse al cubo un'armonia geometrica, presupponendo del resto il nuovo nome a questo tipo di media. In realtà questo termine rimanda certo al fatto che la riflessione su questa media, come anche sulla media aritmetica e geometrica, era fortemente stimolata dal problema di rendere conto delle relazioni tra i punti essenziali consonantici dell'articolazione dell'ottava. Archita sembra "non tanto aver pensato che la media 121 armonica di per se stessa fosse adeguata a descrivere l'armonia musicale, ma piuttosto che la terza media presa insieme alle precedenti due medie abbracciava [secondo la formulazione di Giamblico] 'i rapporti di tutto ciò che vi è di melodico e armonico'" (ivi, p. 174) Inoltre il fatto che nel fr. 2 venga usato il termine di diastema è secondo Huffman un segno che mostra che in Archita "l'applicazione musicale delle medie era in realtà il suo primo pensiero" (ivi, p. 169). Peraltro Huffman ritiene che diastema abbia solo il senso di intervallo musicale e non quello di logos, mentre sembra del tutto possibile che questa significativa ambiguità valga ancora nel testo di Archita. Un altro elemento volto nella stessa direzione è il fatto che Archita fa seguire a ciascuna media, sia pure in una formulazione piuttosto astratta, l'asserzione della maggiore grandezza della quinta sulla quarta (e ovviamente l'inverso) oltre che naturalmente l'eguaglianza degli intervalli determinati attraverso il medio geometrico (quando questo medio "esiste"). A proposito della media armonica è forse anche il caso di fare un passo indietro verso la formulazione puramente aritmetica precedentemente proposta per mostrare come essa guadagni in trasparenza se la consideriamo alla luce delle nostre considerazioni monocordiste. Riprendiamo il nostro monocordo diviso in dodici parti e nello stesso tempo rammentiamoci della formula per il calcolo della media armonica a due termini che saranno precisamente 12 e 6: Media armonica tra i numeri 12 e 6 1 12 2  1 6 Notiamo allora subito che quelli che erano semplicemente numeri ovvero frazioni, ed eventualmente frazioni inverse, assumono il significato di lunghezze ben definite. 122 6 8 9 12 Ad esempio 1/12 è l'unità di misura per la lunghezza della nostra corda. E 1/6 chiede una divisione per sei della corda portando l'unita di misura della lunghezza a 2/12. Queste cose le diciamo naturalmente tenendo gli occhi ad un tempo sulla formula di calcolo e sulla corda. Chiarito questo punto la somma tra 1/12 e 2/12 sarà 3/12 ovvero 1+2=3 che è una lunghezza ben determinata che si può ottenere sempre per semplice conteggio sul grafico. Abbiamo così ottenuto un' "interpretazione" per il denominatore della frazione. Ciò che va ora interpretato in termini di lunghezza è il numero 2 che nella formula della media armonica sta al numeratore. Poiché l'1 rappresenta l'intero, come abbiamo sottolineato più volte, in questo genere di considerazioni il 2 sarà da considerarsi come il doppio dell'intero, e dunque 24. Il risultato finale sarà dunque 24 : 3 = 8. Qui non ci limitiamo a calcolare, ma abbiamo fatto dei ragionamenti insieme ai calcoli. Non perdiamo di vista il riferimento musicale che ci fornisce uno stimolo, una sorta di guida o forse soltanto un esempio; e nel calcolo numerico, da un lato teniamo conto della tematica fondamentale dell'intero e della parte e, dall'altro, della rappresentazione in termini di lunghezze, e quindi di una rappresentazione geometrica. Un intreccio realmente straordinario che ci accompagnerà lungo tutti i nostri sviluppi. A questo punto torniamo sulla nostra proporzione "babilonese" - in rapporto ad essa ora sappiamo alcune cose più di prima: 123 12 : 9 = 8 : 6 Essa sembra semplicemente riflettere il nostro solito schema secondo cui l'ottava viene distinta in due intervalli di quarta (tetracordi). Ma ora abbiamo mostrato che vi sono nodi che legano strettamente il 9 e l'8 agli estremi 12 e 6. Il 9 è la loro media aritmetica e l'8 la media armonica. È inutile dire che questo rappresenta un legame fortissimo tra i numeri del quaternario. La situazione si presenta ovviamente non diversa nel caso della forma originaria o della forma modificata. Naturalmente si potrà rivoltare in vari modi questa proporzione ma il suo significato resta quello che è. Il punto importante è che la rete di relazioni messe in evidenza tra i quattro numeri del quaternario è ora diventata realmente imponente. Proprio all'esistenza di questa rete di relazioni implicate dalla proporzione "babilonese" si finisce con l'attribuire la bontà degli intervalli in questione, la loro perfezione. E come ulteriore conseguenza dobbiamo richiamare l'attenzione su una sorta di inversione del cammino effettivo che abbiamo sviluppato. Comunque siano andate in concreto le cose, è certo che prima vi sono i fenomeni uditivi concreti e poi le corrispondenti analisi misurative e numeriche. Ma questo percorso tende ad essere pensato come invertito: come se ad esempio non sapessimo nulla delle consonanze di quinta e di quarta e le derivassimo applicando la media aritmetica e geometrica ai numeri che caratterizzano l'ottava. In questo modo si fa strada una fortissima relazione tra l'ottava e la modalità della sua articolazione, ormai non più a livello percettivo, ma a livello logico-matematico. Si comincia a pensare che un intervallo in generale è "buono", "giusto", "musicale" - o quale altro termine vorrai usare - non quando il musicista lo ritiene adatto alle sue esigenze espressive, ma quando risponde a certi requisiti di ordine matematico. È caratteristica a questo proposito la raccomandazione di Socrate nel VII libro della Repubblica platonica (531c): gli studenti di armonica dovrebbero indagare quali numeri siano consonanti e quali no, interrogandosi in entrambi i casi sulle ragioni. Il carattere "sinfonico" diventa una proprietà dei numeri, e tutta aritmetica deve essere la 124 ragione di questa sinfonicità. Questa inversione del cammino ha come conseguenza un'impostazione erronea di problemi sia di ordine generale, attinenti all'espressività della musica ed ai suoi mezzi espressivi, sia di ordine particolare, imponendo questa o quella valutazione su fatti specificamente musicali facendo riferimento a circostanze la cui specificità deve essere ricercata del tutto altrove. Inoltre, proprio in rapporto all'importante problema dei rapporti tra musica e matematica, ed in generale tra musica e strutture formali, vengono confusi piani differenti in cui esso può essere posto. 7.3 La media geometrica 7.3.1 Ottava, rapporti epimori, media geometrica. Il nostro lettore dopo aver letto le poche cose che abbiamo scritto sulla media geometrica, si sarà forse posto alcune domande che giungono spontanee. Intanto, come abbiamo già dimostrato, noi diamo una certa importanza ai nomi ed alla loro possibile storia. Allora ci chiederemo subito: perché la media "geometrica" si chiama così? E poi: questa media ha una reale importanza nella 125 teoria della musica greca? In realtà, la prima domanda è più dif difficile della seconda, cosiché preferiamo cominciare a rispondere a quest'ultima: la teoria delle proporzioni nasce nel quadro della teoria della musica e la teoria delle medie non è che un'elaborazione della teoria delle proporzioni. Ora vogliamo trattenerci un poco sulla media geometrica mostrandone le implicazioni anche su altri terreni che non su quello puramente musicale: in rapporto alla tematica che stiamo discutendo sembra impossibile scindere campi di indagine che concrescono l'uno nell'altro. Sarebbe un errore tentare di operare nettamente questa scissione, pur essendo coscienti che, nonostante l'unità dei primi inizi, poi le vie saranno molte e si distanzieranno sempre più l'una dell'altra (salvo a ricongiungersi in qualche punto più o meno imprevisto). La media geometrica è in realtà un nodo importante di incontro tra considerazioni musicali, aritmetiche e geometriche. Dato che non ci poniamo il problema di una ricostruzione storica, possiamo pur ipotizzare - in certo senso per ragioni di pura coerenza con lo sviluppo del nostro argomento - che quella √ 2 che mostrava un nuovo scenario nel campo della riflessione sul numero si fosse presentata come problema proprio nel corso di una ricerca che aveva di mira le articolazioni interne dell'ottava. L'identificazione di valori numerici soggiacenti alle partizioni consonantiche dell'ottava, portava con sé indubbiamente il problema di rendere conto delle sue possibili partizioni e quindi di articolazioni più ricche. Sullo sfondo intravvediamo la questione delle scale - delle harmoniai come anche dicevano i greci, in una seconda accezione, più specifica, del termine. Ma prima di tutto è logico che ci si interroghi sulle partizioni più semplici, ad esempio sulla partizione in due dell'ottava e degli altri intervalli e del resto anche dell'intervallo di tono. Accade allora che ci imbattiamo nel problema della distinzione tra numeri razionali e irrazionali. Poiché gli "estremi" del rapporto di ottava sono 1 e 2, per via direttamente aritmetica perveniamo ad un numero che in certo senso "non esiste", o meglio non esiste come intero o come rapporto tra interi. Fu ancora Archita a rendersi conto che questa difficoltà si proponeva anche per i rapporti epimori in genere (il rapporto 1:2 va considerato come un rapporto multiplo ma può essere visto come un caso particolare di 126 rapporto epimorio). In rapporto a questo problema ci è pervenuta una preziosa ed attendibile testimonianza da Boezio, De Institutione Musica, III. 11 (A19, Huffman, 2005, p. 451): "Superparticularis proportio scindi in aequa medio proportionaliter interposito numero non potest" - "Un rapporto superaparticolare (=epimorio) non può essere suddiviso in parti eguali attraverso un medio proporzionale posto tra essi". La dimostrazione è piuttosto complessa e viene ripresa quasi letteralmente nella Sectio Canonis attribuita ad Euclide, al punto che si è anche ipotizzato che sia quest'opera sia il libro VIII degli Elementi, che si occupano dello stesso problema, siano opera di Archita (cfr. Huffman, 2005, pp. 468-470, nel quale peraltro si contesta questa ipotesi). "Archita dunque elaborò una prova matematica di un teorema che si spinge direttamente, e in modo particolarmente rilevante, sino a questioni musicali: si tratta della proposizione che non vi è nessuna media proporzionale, ' né una né più di una' tra termini in rapporto epimorio.Qui 'media proporzionale' sta per media geometrica. Tra i due termini in rapporto epimorio A e B non vi è nessun elemento intermedio, X, tale che A:X=X:B; né vi è una serie di termini X, Y, Z tali che A:X=X:Y=...=Z:B. La dimostrazione si applica ovviamente ai rapporti epimori in genere ovunque si presentino, e non soltanto dunque in contesti musicali. Ma è ovviamente rilevante, e ha le 127 sue conseguenze più incisive nel campo dell'armonica ed il fatto che Archita pensasse che esso fosse abbastanza significativo da meritare una prova formale è un altro segno della posizione privilegiata che egli attribuiva ai rapporti epimori in questo campo. Il suo esito, come lo intesero i teorici greci, è che nessun intervallo il cui rapporto è epimorio può essere esattamente dimezzato, o diviso in un numero qualsiasi di sotto-intervalli eguali; ed esso fu di particolare importanza sia nello sviluppo dell'approccio matematico alla divisione degli intervalli sia nelle posteriori controversie tra gli aristossenici e i pitagorici" (Barker, 2007, p.304). Resta in ogni caso il fatto che le medie geometriche in campo musicale dicono che qualcosa non c'è - un risultato che è l'esatto opposto della scoperta della media aritmetica e armonica che attestano luoghi ben determinati nell'ottava. Questo è cosa da poco? Tutt'altro. Questo risultato qualifica, nel bene come nel male, l'intera dottrina pitagorica della musica. 128 7.3.2 Ripresa del problema dei numeri irrazionali Già dall'esempio proposto relativamente all'ambito musicale si scorgeva un nuovo scenario nel momento in cui si mostrava che non per ogni intervallo c'è una media geometrica, o meglio non per ogni intervallo c'è una media geometrica esprimibile come rapporto tra interi. Nel caso del rapporto di ottava ci troviamo subito di fronte alla radice quadrata di 2, forse il primo e certamente il più famoso numero irrazionale comparso all'orizzonte della matematica greca.Nell'intreccio così caratteristico della problematica che stiamo trattando, di problematiche di ordine musicale, aritmetico e geometrico, la via teoretico-musicale verso la tematica dell'irrazionale ha una parte importante. Ma la ha soprattutto l'idea di media geometrica e i tentativi della sua applicazione. Prima di andare oltre conviene operare alcune precisazioni terminologiche. All'irrazionale in greco ci si riferisce in vari modi. Di alogos si è già detto. Ma vi sono termini altrettanto significativi. In Cleonide (II-III sec. d. C.) (Zanoncelli, 1990), il razionale è detto retos ovvero "dicibile"; e il termine si contrappone ad alogos che per contrapposizione potrebbe indicare l'"indicibilità". La spiegazione di Cleonide è comunque molto chiara perché i numeri "dicibili" sono gli intervalli di cui è possibile definire la misura comune di grandezza, mentre i non dicibili sono "gli intervalli che si scostano da queste grandezze per una misura non commensurabile". Per l'irrazionale del resto si parla talora senz'altro di arreton , ma questo termine non va assolutamente enfatizzato: l'indicibilità indica soltanto che non c'è un segno per indicare questo numero. Inoltre occorre richiamare l'attenzione sul fatto che l'indicibilità è volta al versante propriamente aritmetico, mentre il termine incommensurabile riguarda il versante geometrico. Esso si richiama all'assenza di una misura comune tra due grandezze, ad es. due segmenti. Questi tre termini hanno dunque significati leggermente differenti che sono tuttavia in relazione tra loro. Soprattutto occorre tenere presente l'importanza del problema della misura e la sua connessione con l'idea del rapporto insieme alla possibilità della sua seriazione (cfr. Michel, 1950, 413-4). Se prendiamo una serie di numeri fra i quali vi è identità di rapporto, ad esempio il successivo è il doppio del precedente : 129 2 4 8 16 32 ... possiamo dire che il numero precedente misura il numero successivo. Così in generale di due numeri primi fra loro, messi in rapporto, come 9/8 possiamo dire che 1/8 è la misura comune, e dunque determinare 9 secondo quella misura. Oppure 8 può essere commisurato a 10 e formare un rapporto, attraverso il 2 che stabilisce le partizioni esatte degli interi corrispondenti. Se vi sono interi, vi è la possibilità del loro rapporto, e dunque anche la possibilità della commisurazione. La media "proporzionale" o "geometrica" rappresentava una sorta di cartina di tornasole per la verifica della razionalità o dell'irrazionalità. Ora dalla scoperta dei numeri irrazionali e di conseguenza, nel campo geometrico, di segmenti tra loro incommensurabili derivò, non tanto una crisi di una posizione filosofica o addirittura negli studi matematici in genere, quanto un nuovo impulso ad una ricerca in varie direzioni: si apriva infatti il problema di studiare le condizioni della commensurabilità (ciò trova una sua sintesi in Euclide, VIII, in particolare nelle prop. 11, 12, 18, 20), il trattamento degli incommensurabili (in particolare le tematiche relative ai possibili metodi di approssimazione), la tematica di reperire la media geometrica rispetto a segmenti qualsivoglia, e naturalmente anche quello di fornire dimostrazioni logiche adeguate di irrazionalità ovvero di incommensurabilità dal momento che, in presenza di procedure infinitarie, ovvia- 130 mente non avrebbe senso lasciare questa decisione all'empiria. Del resto siamo qui nel campo delle idealizzazioni sia aritmetiche che geometriche. Vi è tuttavia una ulteriore circostanza su cui va attirata particolarmente l'attenzione. Proprio i casi dell'ottava e dei rapporti epimori mostrava che vi erano operazioni il cui risultato non poteva essere espresso aritmeticamente in termini di rapporti tra interi. D'altra parte erano possibili costruzioni geometriche in cui, ad esempio, segmenti dimostrabilmente incommensurabili, avevano una loro esistenza effettiva e visibile, nel senso che erano entità geometriche come tutte le altre: l'asse della ricerca si sposta dunque verso il versante geometrico. 7.3.3 Duplicazione del quadrato e media geometrica Questo spostamento può essere spiegato in termini piuttosto semplici con il famoso problema della duplicazione del quadrato proposta da Socrate allo schiavo nel Menone di Platone. Socrate, propone allo schiavo il quesito di costruire un quadrato di area doppia a quello di lato 2 che lui stesso ha tracciato sul terreno. fig. 1 Lo schiavo ritiene che la solutazione consista nel raddoppio della lunghezza del lato, ma così facendo si ottiene un quadrato troppo grande essendo di area 16. fig. 2 131 Lo schiavo propone di ridurre di una unità il lato del quadrato originario, portandolo al valore di 3. Ma anche in questo caso il risultato non è raggiunto. fig. 3 Infatti il quadrato ottenuto consta di nove quadrati, mentre deve constare di otto. Socrate interviene infine proponendo la soluzione. Si tratta del quadrato costruito sulla diagonale del quadrato dato. Così facendo si ottiene infatti un quadrato costituito da quattro triangoli eguali, mentre il quadrato originario è fatto di due triangoli eguali ai precedenti. D C A B fig. 4 132 Con ciò si mostra anche qualche altra cosa: "In realtà, quando i Greci scopersero che la diagonale di un quadrato era il segmento necessario per costruire un secondo quadrato avente due volte l'area di un quadrato dato, essi dovettero aver compreso nello stesso tempo che essa rappresentava la media proporzionale tra un lato del quadrato ed una linea che era due volte più lunga di questo lato" (Szabò, 1978, p. 178) In effetti tenedo presente il modo in cui è stata costruita la fig. 4 e ponendo AB=a, CB=b e DB = c vale la proporzione secondo cui il lato del quadrato da raddoppiare (a) sta alla sua diagonale (b) come questa diagonale, che è lato del quadrato raddoppiato, sta alla diagonale di quest'ultimo (c), ovvero a :b = b : c Dunque b è media geometrica tra a=2 e c=4. Cosicché essendo b=√ 8 si presenta ancora la √2 nella forma √8=2√2 Si noti che qui il teorema di Pitagora non è implicato direttamente. Nemmeno potremmo dire che siano implicati particolari calcoli aritmetici, dal momento che tutto si riduce alla costruzione della figura ed al conteggio dei quadrati o dei triangoli così introdotti. Non vi è dimostrazione, ma esibizione di una figura. E certamente anche una riflessione sulla figura ed un'osservazione attenta delle sue proprietà, con l'occhio in parte attento alla figura visibile, in parte ai "ragionamenti" che essa suggerisce. In questa esibizione naturalmente il doppio di un segmento e il segmento stesso sono due indiscutibili "realtà" geometriche. Ma lo sono anche il doppio del quadrato dato, il suo lato e la sua diagonale. Il concetto di media che stiamo discutendo comincia appunto ad assumere una consistenza sul piano della figura piuttosto che su 133 quello del numero. Poiché ci siamo trattenuti a lungo sui numeri figurati vorrei aggiungere, per mostrare la densità dei problemi che vanno affiorando, che se noi prendiamo la successione dei numeri quadrati e quella dei numeri eteromechi, gli uni costruiti con gnomoni dispari e gli altri con gnomoni pari quadrati eteromechi 1 4 2 9 6 16 12 25... 20 30... ogni numero eteromeche è media geometrica tra il numero quadrato precedente e quello successivo; e inversamente due numeri eteromechi successivi hanno come media aritmetica il numero quadrato che è tra essi (Teone I, 16 - 1892. Cfr. Michel, 1950, p. 317). 7.3.4 Media geometrica e il problema del tetragonismo Sul problema della media geometrica e del reperimento di grandezze commensurabili o incommensurabili vorrei dedicare ancora un cenno al modo in cui la media geometrica interviene nel "tetragonismo". Tetragonon è il nome caratteristico del quadrato, e con tetragonismo si intende un problema specifico che potremo rendere con "quadratura del rettangolo". Si tratta infatti di trovare un quadrato che abbia la stessa area di un rettangolo dato. Szabò, che tratta a lungo di questo problema, sottolinea il fatto che la parola dynamis ha nei suoi impieghi matematici un significato affine indicando "il valore di quadrato di un rettangolo" (the value of the square of a rectangle) (p. 47) e che la nostra consuetudine di intendere l'elevare al quadrato come "elevare un numero alla seconda potenza" (dunque esclusivamente all'interno di un orientamento aritmeticamente orientato) può essere fuorviante. Che ha a che vedere questo problema con la media geometrica e con tutto ciò che stiamo discutendo qui? 134 Rammentiamo ancora una volta che la media geometrica b tra due numeri a e c espressa nella proporzione a:b=b:c può essere espressa nella forma: a * c = b2 Ci rendiamo subito conto allora che, fornendo ai numeri il senso di grandezze lineari, la media geometrica ci mette di fronte proprio al problema della quadratura del rettangolo. Infatti, essendo a e c lati di un rettangolo, il loro prodotto rappresenta la sua area che risulta eguale alla loro media geometrica b elevata al quadrato. In altri termini la media geometrica tra i lati del rettangolo, corrisponde al lato del quadrato ricercato. Ancora Szabò ci rammenta una netta risposta di Aristotele (Metafisica, 996b 18-21) che, alla domanda di che cosa sia il tetragonizzare. risponde brevemente che esso consiste nel "ritrovamento di una media proporzionale" (1978, p. 47). Naturalmente i lati del rettangolo in questione e il lato del quadrato di area corrispondente possono essere commensurabili. Ma anche non esserlo. E nulla toglie a questo proposito che riprendiamo anche qui il nostro esempio del rapporto del doppio, dove a=1 e c=2 per ritrovarci di fronte un quadrato di area pari a 2, che avrà ovviamente come lato la radice quadrata di 2. Ed anche in questo caso ribadiremo che grandezze tra loro incommensurabili possono essere costruite geometricamente. Finalmente possiamo dare un'effettiva risposta domanda sulle ragioni per cui la media geometrica si chiama così: nonostante tutto, nonostante il fatto che con l'irrazionale/incommensurabile siamo entrati ormai nel regno delle idealizzazioni geometriche, il riferimento geometrico sembra essere più adeguato di quello aritmetico. Ciò spiega perché l'irrazionale aritmetico resti "senza nome", mentre l'incommensurabile geometrico è ritenuto ammissibile come se potesse avere una sorta di esistenza che cade sotto i nostri occhi. "Pur non potendo assumere forma aritmetica la media geometrica tra 1 e 2 può essere tracciata, cioè rappresentata rigorosamente mediante una linea in una costruzione geometrica... Di qui il nome di media geometrica: essa può essere tro- 135 vata per tutti i rapporti solo all'interno della disciplina geometrica, e non aritmetica" (Crocker 1963, p. 327). "È chiaro che la media geometrica non ricevette il suo nome finché i matematici non impararono a costruirla in un modo geometrico" (Szabò, 1978, p. 175). 7.3.5 Conseguenze sulla teoria pitagorica della musica Vogliamo ora ritornare su alcune considerazioni di carattere generale che riguardano nuovamente la musica, propriamente la teoria pitagorica della musica. Resta assodato che non vi fu un semplice rifiuto del numero senza nome, ma l'apertura di nuovi problemi che spostava l'asse del problema dal terreno aritmetico a quello geometrico. Ma noi dobbiamo comprendere a fondo il senso di questa problematica sul terreno musicale al di là di questo o quel risultato particolare. In ultima analisi restano dettagli anche i problemi che si vengono a creare con l'applicazione della media geometrica all'ottava o ai rapporti epimori se non si coglie l'effettiva posta in gioco. La teoria aveva cominciato a muovere i suoi primi passi proprio di qui - dai rapporti consonantici fondamentali, ed ora, nel momento in cui ci si accinge al passo successivo che, come abbiamo già accennato dovrà essere, quello di una più fine suddivisione dell'ottava, si scopre che vi sono delle lacune tra gli uni e gli altri estremi degli intervalli: una teoria già fin dall'inizio orientata dall'idea dominante del logos, ovvero del rapporto, sarà portata ad escludere dal continuo dei suoni qualunque punto che sia "privo di logos", quindi sarà portata ad una concezione discreta della scalarità, ad accentuare il carattere di modello dei rapporti consonantici, ed in particolare di quegli intervalli che hanno come corrispondente aritmetico un rapporto epimorio. Ed è proprio a questo punto che la teoria pitagorica comincia a prendere le distanze dal fatto uditivo-musicale e quindi dalla pratica musicale in genere. Persino le pratiche mu- 136 sicali al monocordo finiscono per essere risucchiate dal prevalere di questo punto di vista aritmetizzante. In certo senso, si è ormai sul punto di dimenticare un aspetto su cui abbiamo in precedenza tanto insistito: che il monocordo essere immagine di un segmento. Deve essere chiaro infatti quel luogo che per l'aritmetica "non ha un nome", è pur tuttavia un fatto acustico uditivo e come tale non ha "realtà" minore degli elementi geometrici costruiti in modo di cui sia dimostrabile l'incommensurabilità dell'uno rispetto all'altro. Comincia qui a intravvedersi l'azione di un conflitto che attraversa tutta la filosofia greca - il conflitto tra idealizzazione da un lato e approssimazione empirica dall'altra. Ma anche dire questo forse presenta diverse possibilità di equivoci e di fraintendimenti. Anche le approssimazioni richiedono ragionamenti, calcoli, dimostrazioni, idealizzazioni. Un musicista, nelle sue pratiche esecutive concrete, non ha a che fare né con rapporti esatti né con rapporti approssimati. E sono ragioni di scelte musicali che decidono se una "posizione" dello spazio sonoro esiste o non esiste, se un intervallo è buono o cattivo. La conseguenza più grave che comincia ora chiaramente ad intravvedersi è che la teoria pitagorica formula un'idea del tutto extramusicale dell'intervallo buono o cattivo, e dell'intervallo cattivo, che pur tuttavia ha una esistenza acustica concreta, decreta l'inesistenza attraverso un calcolo. E inversamente: attraverso un calcolo decreta l'esistenza e la bontà di un intervallo. Ancora più chiaramente: le spiegazioni di Archita sui rapporti epimori sono ineccepibili. Straordinarie sono poi le vie aperte dalla media "proporzionale" nei campi dell'aritmetica e della geometria. Eppure, datemi un monocordo, ed io non stenterò a costruire un buon semitono - nel senso letterale e moderno del termine: un tono diviso in due. Ed a sottoporlo, non certo al giudizio dei vostri calcoli, ma a quello del vostro udito (Piana, 2003, p. 67-69). 137 8. Discussione sulla cosiddetta "scala pitagorica" 8.1 Il problema della validità degli intervalli e della formazione della scala 8.1.1 La costruzione della scala attraverso le medie Fino a questo punto abbiamo certo speso molte parole ma, se badiamo esclusivamente all'articolazione dell'ottava, in tutto e per tutto non abbiamo fatto altro che individuare tre intervalli significativi. Dobbiamo perciò procedere oltre interrogandoci sui modi di introdurre altri possibili intervalli. Ma ad una simile domanda non si dovrebbe rispondere andando semplicemente a vedere quali fossero gli intervalli in uso? In realtà la questione è un poco più complessa. Occorre tener presente che esiste sempre una pratica musicale che precede la teoria. Del resto abbiamo sottolineato che le consonanze di quarta e di quinta non sono certo una scoperta del filosofo pitagorico. Il suo 138 problema non era quello di una descrizione della pratica musicale, ma di una giustificazione di ordine intrinseco, che fosse anche accompagnata da una precisa determinazione quantitativa. Si tratta di una posizione del tutto coerente in un quadro filosofico nel quale la musica veniva teorizzata come come disciplina scientifica affine all'aritmetica e specificamente dedicata allo studio dei rapporti. Come è noto, il raggruppamento che poneva la musica insieme alla geometria, l'aritmetica ed all'astronomia - il Quadrivium di cui si parlava nel Medioevo - era stato teorizzato anzitutto in Grecia. Di conseguenza la ricerca non è rivolta all'intervallistica in genere, ma alla validità degli intervalli, e lo studio degli intervalli validi, in questo senso, poteva essere del tutto indipendente dagli intervalli eventualmente utilizzati nella pratica musicale. Si creò così una situazione che ha alcuni aspetti paradossali: da un lato i musicisti facevano, per dirla in breve, quello che volevano; ma anche i teorici spesso non erano da meno. Del resto, le scale proposte dai teorici greci sono numerosissime, e molto spesso, e forse per lo più, non siamo in grado di stabilire quali scale siano da considerare come effettivamente praticate e quali come escogitazioni puramente teoriche. Nello stesso tempo sarebbe falso affermare che non ci fosse interrelazione tra i due campi. La posizione di Aristosseno, che esamineremo in seguito e che propone una netta alternativa teorica rispetto al pitagorismo, era sicuramente vicino alla realtà musicale più di quanto lo fosse la posizione pitagorica. D'altra parte anche Aristosseno si pone il problema delle scale "migliori" dal punto di vista teorico; e inversamente, i pitagorici, pur nella posizione generale che abbiamo prospettata, non perdono del tutto di vista la realtà e la pratica musicale. Uno sguardo rivolto alla pratica musicale e una posizione di fondo che sostiene l'autonomia della teoria della musica rispetto ad essa - questo duplice aspetto è molto chiaramente visibile nel modello più noto di scala pitagorica spesso indicato dai manuali come "scala pitagorica" tout court. Inoltre questa scala viene proposta nella versione diatonica e nella versione cromatica, come se si trattasse 139 di una scala assai simile a quelle che ci sono familiari nel linguaggio della tonalità, con la sola differenza che essa avrebbe grandezze intervallari sue proprie e alcune peculiarità che riguardano la differenziazione tra note diesizzate e bemollizzate. Questo modo di presentare il problema è profondamente equivoco. La stessa dizione di "scala pitagorica" è erronea se riferita letteralmente alla teoria ed alla pratica musicale greca. Infatti una scala pitagorica in realtà non esiste. Ne esistono molte, sia all'interno dell'area del pitagorismo, sia all'esterno di essa. Ma il fatto di cui dobbiamo essere avvertiti fin dall'inizio è che per ogni tipo di scala dobbiamo ragionare in termini di suddivisione, non già dell'ottava, ma dell'intervallo di quarta. I greci parlavano della suddivisione del tetracordo e risultavano differenti suddivisioni dell'ottava secondo le differenti proposte di suddivisione del tetracordo. Per di più, tutta la tematica delle scale greche deve essere trattata all'interno della teoria dei generi. Nulla di tutto ciò può comparire se parliamo di "scala pitagorica" e ne andiamo elencando gli intervalli. Tuttavia quando i manuali riportano la dizione di scala pitagorica e ne parlano in quel modo, non hanno hanno tutti i torti se non altro dal punto di vista della tradizione storica. Infatti questa scala diventa preminente nella tarda grecità e viene ereditata dal Medioevo fino all'età moderna come scala pitagorica tout court. Tuttavia, una volta fatta questa premessa, credo si possa senza equivoci parlare di "scala pitagorica" - sia pure fra vigolette - traendone vantaggi di comprensibilità per i nostri sviluppi successivi. Ma dobbiamo considerare quanto segue non più che una sorta di introduzione alla problematica della scalarità che verrà in seguito tratteggiata più correttamente alla luce della teoria dei generi e della scelta del tetracordo come spazio sonoro fondamentale. Parlando delle medie, abbiamo fatto notare che nella prospettiva 140 del pitagorismo si tende ad effettuare un rovesciamento della situazione a favore del lato aritmetico-matematico. In fin dei conti la scoperta della "proporzione babilonese" autorizza a pensare che la quarta e la quinta siano deducibili dall'intervallo di ottava. E non c'è dubbio che questa circostanza stimola il pensiero pitagorico in direzione dell'escogitazione di una qualche procedura di deduzione anche per ogni altro intervallo. Quindi si pensa a dei metodi possibili, che sono nello stesso tempo anche metodi di legittimazione. Vi è subito un pensiero che in certo senso si impone da sé. Perché non adottare il metodo delle medie anche per determinare le altre posizioni "valide" all'interno dell'ottava? Avremmo così un'articolazione tutta determinata da una metodologia omogenea, puramente aritmetica e fondata sui rapporti consonantici originari. Questa possibilità è dimostrata da un esempio molto semplice. Sappiamo già che 2/3 è media armonica dell'ottava 1 e 1/2. Potrebbe essere una buona idea assumere questo valore come estremo e come altro estremo la sua metà, ovvero 1/3 - rammentando che a corda più corta corrisponde suono più acuto. La corda suddivisa per due risuona all'ottava superiore della corda non suddivisa. Se ora realizziamo la media armonica tra (2/3, 1/3) otteniamo il valore di 4/9. Dobbiamo ora stabilire se questo valore rientra nell'ottava che vogliamo suddividere. Questa ottava è compresa tra 1 e 1/2 e il rapporto ottenuto deve essere tale che il suo numeratore sia maggiore della metà del denominatore. Se è minore della metà del denominatore, è minore di 1/2, ed in tal caso il rapporto andrà moltiplicato per 2 per rientrare nell'ottava. Quest'ultimo è appunto il caso di 4/9 e dunque si ottiene il primo valore valido con 4/9 * 2 = 8/9. Suppongo che qualcuno, di fronte alla regola or ora enunciata, abbia quella singolare sensazione di imbarazzo che talora si manifesta di fronte a formulazioni simili. Donde viene? Perché mai le cose stanno così? In questi casi conviene, se è possibile, rammentarsi del significato di contesto nella quale la pura e semplice formula aritmetica è inserita. In realtà per comprendere la regola indicata 141 basterà rammentarsi di ciò che rappresentano numeratore e denominatore rispetto al problema dell'intero e delle parti - e nello stesso tempo della lunghezza delle corde che il rapporto rappresenta. La metà del denominatore rappresenta sempre la metà dell'intero, quale che sia l'unità di misura prescelta ovvero il numero di parti in cui l'intero è stato diviso. E una corda che sia inferiore a metà dell'intero risuonerà più acuta dell'estremo acuto dell'ottava di riferimento. Potremmo rappresentare l'intero problema con la seguente figura: 1 1/2 9/2 9 4/9 4/9 X 2 A questo punto non si fa altro che iterare la procedura. Poiché 4/9 è in rapporto di ottava con 8/9 si fa, come in precedenza, la media armonica tra questi due valori (9/8, 4/9) =16/27. Qui 16 è maggiore della metà di 27, e dunque rientra nell'ottava. Si otterrà l'ottava all'acuto di questo valore attraverso divisione per 2 e la media armonica sarà questa volta tra (16/27, 8/27)=32/81. Questo rapporto non rientra nell'ottava per la ragione spiegata e quindi moltiplicheremo questo valore per 2, ottenendo nello stesso tempo l'ottava di cui calcolare la media armonica che sarà fra (64/81,32/81) = 128/243. I valori ottenuti sono ora 8/9, 16/27, 64/81, 128/243 in cui vanno inseriti 1, 3/4, 2/3, 1/2 al punto giusto. 142 1 8/9 64/81 3/4 2/3 16/27 128/243 1/2 Naturalmente è possibile anche proporre i rapporti in forma inversa come è consuetudine fare. 1 9/8 81/64 4/3 3/2 27/16 243/128 2 Il punto che preme maggiormente mettere in evidenza è, ancora una volta, l'adozione di una procedura ricorsiva. Ignorare l'importanza della ricorsione per il pitagorismo significa non soltanto precludersi la comprensione della matematica pitagorica, ma anche la teoria della musica ad essa connessa. La media armonica viene iterativamente applicata al risultato dell'applicazione precedente. Inoltre ciò che doveva certo apparire seducente è che un unico tipo di operazione sta alla base di questa articolazione scalare, e si tratta di quel tipo di operazione dalla quale risultavano anche i rapporti consonantici fondamentali di quarta e di quinta. Naturalmente l'operare con le frazioni persino per noi che la sappiamo molto più lunga dei matematici pitagorici può essere particolarmente faticoso. Il risultato finale può dunque assai più chiaramente espresso in cents. La precedente struttura scalare si presenta nel modo seguente: 0, 203.914, 407.829, 498.056, 701.97, 905.885, 1109.8, 1200.03 E per arrotondamento: 0, 204, 408, 498, 702, 906, 1110, 1200 Così sembra tutto più chiaro. e naturalmente possiamo fare un confronto diretto con la nostra scala diatonica temperata. Tuttavia volendo mostrare come il problema delle medie intervenga nella determinazione della scala non potevamo certo usare questa unità di misura, ma dovevamo far ricorso necessariamente ai rapporti. 143 8.1.2 Costruzione della "scala pitagorica" attraverso il ciclo delle quinte Nella manualistica corrente, qualora si addivenga a parlare della scala pitagorica, non si seguirà certo la lunga via delle medie. Si parlerà piuttosto di una scala ottenuta attraverso il "ciclo delle quinte". L'iterazione delle medie armoniche nella forma che abbiamo illustrato equivale in effetti a costruire una concatenazione di quinte. Per restare ancora sul terreno dell'aritmetica, e con le nozioni che oggi ci sono note, questo problema può essere anche posto come costruzione di una progressione geometrica di ragione 2/3 ovvero di una progressione che sarà caratterizzata dalla funzione esponenziale x 2/3 con x che varia sui numeri naturali. Avremo così la progressione dei rapporti 2/3, 4/9, 8/27, 16/81, 32/243 .... Dal punto di vista intervallare, questo è naturalmente un ciclo di quinte, cioè una successione ascendente da quinta a quinta. Risulta poi subito, per le ragioni spiegate poco fa, che dopo il primo elemento 2/3, tutti gli altri andranno ridotti entro l'ottava attraverso una moltiplicazione per due, eventualmente iterata secondo necessità. Di conseguenza avremo una successione che sarà identica a quella ottenuta con il calcolo delle media una volta che si siano aggiunti 1, 1/2, 3/4 e si siano disposti gli intervalli in ordine progressivo (operazione naturalmente non facile da fare "a vista"). 1 8/9 64/81 3/4 2/3 16/27 128/243 1/2 Questa volta, a differenza del caso precedente, la procedura può essere mostrata impiegando i cents, e le cose si semplificano. Anzitutto si opererà per addizioni successive di 702, che �� il valore 144 espresso in cents di 2/3. Si avrà così ovviamente la successione 702, 1404, 2106, 2808, 3510... Tutti i valori che superano 1200 debbono essere ridotti all'interno di questa cifra, così dovremo operare le differenze opportune ottenendo 702, 204, 906, 408, 1110 che andranno opportunamente riordinati e integrati dal primo elemento (0), dalla quarta (498) e dall'ottava (1200) 0, 204, 408, 498, 702, 906, 1110, 1200 Per dare risalto alla ricorsività della procedura per la formazione della successione potremmo forse proporre la funzione generatrice nella forma che segue: x = 2/3 x= x * 2/3 ovvero x = 702 x = x + 702 La prima linea rappresenta il valore iniziale di x e dunque il primo elemento della serie e la seconda la struttura della ricorsione nella quale si mostra con chiarezza che l'operazione indicata agisce sul risultato dell'applicazione dell'operazione precedente. Naturalmente tra intervallo e intervallo la successione risulta essere la seguente: 204 204 90 204 204 204 90 145 8.2 Precisazioni e commenti 8.2.1 Tono e limma Naturalmente sono ora necessarie varie precisazioni, che richiedono anche l'introduzione di nuovi concetti. In analogia con la nostra scala maggiore corrente (ma come vedremo questa analogia nasconde molti equivoci), essa consta di cinque toni e due semitoni che differiscono per la loro grandezza dal sistema temperato nel quale il tono è pari a 200 cents e il semitono a 100 cents. Anche in greco vi è la parola tonos, tra l'altro con una molteplicità di sensi che è propria degli usi moderni: in particolare va almeno richiamata l'attenzione che questa parola può significare due nozioni del tutto eterogenee tra loro: una grandezza intervallare - come nel contesto attuale - oppure l'altezza di un suono. Alla voce Tonos del dizionario Grove, firmata da Mathiesen, si legge: "Termine con vari significati nella tradizione della teoria della musica della Grecia antica. Esso può riferirsi all'altezza (tasis), ad una nota (ftongos), alla grandezza di un intervallo (diastema) oppure ad un 'modo scalare' (tropos systematikos)" Anche la parola semitono esiste, in calco letterale, in greco, ma il termine più proprio nel contesto della problematica pitagorica è quello di limma (leimma), che è nettamente preferibile al precedente proprio perché non 146 implica l'idea della "metà di un tono". Il senso letterale di limma è poi significativo. Si noti anzitutto come questo intervallo non viene introdotto come una semplice suddivisione del tono: esso sorge invece da una suddivisione sistematica dell'ottava. Quando tutta questa problematica verrà riveduta e corretta assumendo il tetracordo come nozione centrale del concetto di spazio sonoro nella teoria della musica greca, diventerà invece ancora più evidente il significato letterale di limma: resto, avanzo. In effetti il limma puà essere semplicemente proposto come resto della differenza tra l'intervallo di quarta e i due toni iniziali. Il conteggio in cents rende la cosa evidente (498-408=90). I pitagorici avevano comunque calcolato questa "differenza" in termini frazionari determinando il valore del limma come 256/243. Questo rapporto non è affatto banale da determinare, e tanto meno lo è con il monocordo. Abbiamo già notato che, quanto alla precisa misurazione dei rapporti intervallari, con il monocordo non si va molto lontano, proprio perché si tratta di una misurazione empirica che non può certo essere sensibile alla differenze più fini. Fatti i primi passi il monocordo continuerà a rivestire un carattere emblematico nella tradizione teorica europea ma il suo impiego pratico dovrà, è il caso di dire, fare i conti con la determinazione dei rapporti intervallare attraverso i calcoli. Ora i calcoli con le frazioni intese come rappresentative di intervalli sono ovvie per noi. Sappiamo che pe "sommare" due intervalli occorrerà moltiplicare i rapporti corrispondenti; e occorrerà dividerli l'uno per l'altro per effettuare la loro differenza. Procedendo in questo modo si perviene in un battibaleno al valore del limma essendo 81 9 9   8 8 64 4 81 256 :  3 64 243 Ma i pitagorici non procedevano così ed avevano escogitato vari metodi per venire a capo di questo tipo di calcoli. Nel caso in questione (ma la procedura aveva carattere generale in casi analoghi) si trattava di determinare il rapporto 3/4 con due numeri interi che 147 si trovassero tra loro in quel rapporto e che fossero abbastanza grandi da contenere i numeri interi rappresentativi di due intervalli di 9/8. Il primo numero venire costruito a partire da 8*8=64. Moltiplicando per 3 questo numero si ottiene 192 e moltiplicandolo per 4 il numero 256. Perciò i numeri 256 e 192 stanno dunque tra loro nel rapporto di 4/3 e sono rappresentativi dell'intervallo di quarta. Dopo di ciò si tratta soltanto di determinare i numeri intermedi. È chiaro che il numero successivo di 192 sarà 1/8 maggiore di esso perché deve trovarsi con esso nel rapporto di 9/8, e così il seguente rispetto al precedente. Abbiamo così la successione di numeri interi 192 216 243 256 e poiché tra i primi tre numeri vale il rapporto 9/8, il resto è rappresentato da 256/243. 4/3 192 216 9/8 243 9/8 256 256/243 148 Ho voluto indugiare un poco su questi aspetti di calcolo numerico perché essi esemplificano alcuni dei tratti del modo di approccio dei pitagorici che in precedenza abbiamo già messo in evidenza. L'idea soggiacente al metodo, ad esempio, sembra essere ancora quella di tentare quella che abbiamo chiamato "linearizzazione" del rapporto, sia pure impiegato in modo peculiare, con l'intento di realizzare un calcolo frazionario che realizzi risultati complessi fondandosi in buona parte su numeri interi. Ricompare qui soprattutto l'idea degli oroi di un rapporto, ovvero dei suoi estremi che richiamano alla mente gli estremi di un segmento, così come l'impieo di numeri interi che potrebbero rappresentare misure di lunghezze. Ma vi sono altri aspetti su cui tra breve ritorneremo fornendo qualche indicazione aggiuntiva. 8.2.2 L'apotome Se noi apriamo un testo di teoria musicale che parli della cosiddetta scala "pitagorica", presumibilmente troveremo alcune considerazioni relative al ciclo delle quinte - e poi la proposta di una tabella ottenuta attraverso il ciclo che presenta in un colpo non soltanto le nostre note principali, con i nomi di tradizione europea do, re, mi ecc., ma anche tutte le diesizzazioni e bemollizzazioni corrispondenti. Talvolta ci viene proposta una tavola con l'esatta indicazione del rapporto intervallare in forma frazionaria ed eventualmente in forma decimale e in cents - facendo supporre o dichiarando esplicitamente che non vi è solo una scala diatonica pitagorica, ma anche una scala cromatica in un'accezione affine a quella che ben conosciamo. Si pongono insomma le cose come se i greci avessero i loro tasti neri e i tasti bianchi, solo con una diversa accordatura - e con la peculiarità di avere tasti neri molto più numerosi dei nostri. Anche in rapporto a questa pretesa scala "cromatica" si fa riferimento al "ciclo delle quinte" andando nella catena delle quinte al di là del quarto passo al quale noi ci siamo arrestati. In realtà non è possibile in questa sede entrare veramente nel merito delle confusioni che intervengono qui e che in realtà dipendono anche, in larga parte, da equivoci attinenti all'impiego moderno dei termini come diatonico e cromatico ma anche da posizioni poco chiare sul senso musicale generale di ciò che va sotto il nome 149 di "cromatismo" oltre che sugli equivoci generali sulla cosiddetta "scala pitagorica" su cui abbiamo già richiamato l'attenzione all'inizio (cfr. Piana, 2003 e 2004). Ciò che ora va detto è che il discorso sulla scalarità non prosegue nella direzione di un'ipotetica scala cromatica pitagorica: è necessario invece spendere qualche parola sulla nozione di trasposizione e sulla nozione pitagorica ad essa strettamente connessa di apotome. La nozione di traposizione è naturalmente una nozione musicale generale. Si ha trasposizione quando uno stessa sequenza di intervalli viene riportata in una regione più grave o più acuta senza variazione della grandezza e della direzione degli intervalli. La variazione riguarda dunque soltanto l'altezza. Ora può accadere che, al fine di mantenere l'identità della grandezza intervallare, un suono debba essere alterato, ovvero l'intervallo corrispondente debba essere incrementato o decrementato (oggi parleremmo di diesizzazione e bemollizzazione). Ad esempio, nel trasporre, può essere che in una determinata posizione in luogo di un tono compaia un semitono oppure che in luogo di un semitono compaia un tono. Di conseguenza il semitono dovrà essere "alzato" sino al tono e, nel caso inverso, il tono dovrà abbassato sino al semitono. Tenendo presente che il semitono (limma) di cui qui parliamo è pari a 90 cents e il tono è pari a 204 cents l'incremento del semitono o inversamente il decremento del tono è pari a 114 cents (204-90). Questo valore di 114 cents equivale alla differenza tra tono e semitono (limma) e viene chiamato apotome e non è da considerare come un intervallo vero e proprio, ma un puro valore incrementale o decrementale. In effetti esso non compare come intervallo nella trasposizione. Come è ovvio. 150 Tutto ciò può essere sintetizzato come segue: 204-114 90 (re) (re b) 0 (do) 204 (do#) 90 0+114 Si badi alla direzione delle frecce: si comprenderà allora che non si tratterà della divisione di un tono (204) in due parti, ed ancor meno si potrà dire, come talvolta si legge, che nella "scala cromatica" pitagorica il bemolle precede il diesis. Del resto parlare di scala cromatica nel caso della scala pitagorica facendo riferimento all'apotome non ha semplicemente senso, anche se molti parlano dell'apotome come semitono cromatico per distinguerlo dal limma come semitono diatonico. Si tratta di una dizione equivoca che ricalca il nostro modello scalare. L'apotome non è un'alterazione cromatica, ma una alterazione per scopi di trasposizione (cfr. Piana, p. 25 sgg. 2004). Una problematica di scala cromatica in senso in qualche modo prossimo all'accezione moderna non sorge sul terreno della teoria greca della musica, ma soltanto a partire dagli impieghi in epoca molto più tarda, dal medioevo in poi. 151 Anche in questo caso i pitagorici riuscirono a determinare calcolisticamente il rapporto di apotome che è pari a 2187/2048, risultato apparentemente sorprendente se non si ricorre al calcolo frazionario consueto. Facile invece da ottenere con il metodo già sommariamente illustrato per la determinazione del limma. L'intervallo di cui si debbono considerare gli estremi è ora l'intervallo di 9/8 e il dato noto è il rapporto del limma di 256/243. Per ottenere i numeri interi che ci interessano si moltiplicherà anzitutto 243 e 8 ottenendo 1944, che rappresenta l'estremo iniziale dell'intervallo; per ottenere l'estremo finale basterà aggiungere a questa cifra 1/8 di essa ovvero 1944 + 243 = 2187 o, che lo stesso, moltiplicare 243 * 9. Il valore intermedio che ci porta al risultato finale si ottiene semplicemente moltiplicando 256 * 8 = 2048, dovendo i primi due numeri essere nel rapporto 256/243. 9/8 1944 256/243 2048 2187 2187/2048 8.2.3 Il comma pitagorico Ciò che abbiamo detto or ora sull'apotome ci consente di introdurre in un battibaleno una nozione che è in realtà piuttosto complicata, o meglio: essa ha generato complicazioni su complicazioni ed è stata una vera croce della "scala pitagorica" determinandone in tempi moderni il suo declino. Si tratta del cosiddetto comma pitagorico. Come lo definiremmo in due parole? Ancora mediante una semplice differenza. Il comma è la differenza tra l'apotome e il limma: comma pitagorico = 114 -90 = 24 cents Ma qual'è l'origine di questo valore intervallare e quale il suo interesse? Perché esso assume in certo senso, come abbiamo detto or 152 ora, un significato critico rispetto alla stessa struttura scalare che stiamo discutendo? In realtà, nella nostra esposizione abbiamo tenuto ancora nascosto un problema che crea sconcerto all'interno di questa costruzione che sembra, a tutta prima, assai bene ordinata. Come abbiamo visto essa si può pensare costruita attraverso le medie o il ciclo delle quinte. Naturalmente per noi la via più facile è quella di fare riferimento al ciclo delle quinte facendo uso, come in precedenza, dei valori intervallari espressi in cents. Ora si sarà notato che ci siamo limitati a iterare i cicli fino a quando non avevamo ottenuto la sequenza di sette note nelle posizioni che abbiamo precentemente indicato, ed anzi le note effettivamente dedotte attraverso questo andamento ciclico, secondo la nostra esposizione si riducevano a cinque - dal momento che il nostro punto di arrivo era 1110 cents. A queste posizioni aggiungevamo appunto l'intervallo di quarta, in certo senso come intervallo già riconosciuto come appartenente alla divisione dell'ottava. In effetti se dovessimo procedere oltre la nuova nota ottenuta non sarebbe 498, ma 612 ovvero la nuova nota ottenuta si trova una apotome al di sopra della quarta. Ciò del resto lo si può verificare anche ripartendo da 1110 (infatti 1110+702-1200=612). E non è certo difficile verificare che il valore successivo sarà 114 (essendo 612+702-1200=114). Questi passi ulteriori mostrano che se continuiamo ad operare con il ciclo delle quinte facendo le necessarie riduzioni di ottava possiamo ottenere non solo tutte le note diatoniche ma anche tutte le alterazioni di trasposizione ascendenti e discendenti. Ma occorre prendere alcuni accorgimenti affinché questo risultato venga ottenuto: partendo dalla nota iniziale (0) si addizionera successivamente il valore di 702, ottenendo tutte le alterazioni ascendenti, ma questa procedura dovrà essere interrotta al dodicesimo ciclo e ripresa da capo a partire dalla nota iniziale (0) nella direzione inversa - cioè sottraendo successivamente il valore 702 - sempre facendo le operazioni di riconduzione del valore ottenuto entro l'ottava 0,1200. In realtà non è per noi necessario entrare nei dettagli. Il vero problema sta infatti nella ragione di questi "accorgimenti". Perché si deve fare una interruzione al dodicesimo ciclo e ricominciare da capo nella direzione inversa? La cosa appare priva di una necessità 153 intrinseca e manifestare una sorta di falla nel sistema, che in effetti c'è. Una procedura ricorsiva non la posso interrompere a piacere dove voglio. È interessante tuttavia notare un caso speciale che si può verificare in una ricorsione. Se in essa si ottengono successivamente i valori A, B, C, D e poi ancora A allora si può essere certi che la prosecuzione genererà ancora B, C, D, e poi ancora A indefinitamente. Ciò naturalmente dipende dal fatto che l'operazione generatrice della successione si applica al risultato di un'applicazione precedente. Con A si è raggiunto quello che talora viene chiamato "punto fisso" - il processo è in questo senso terminato nel senso che non è in grado di produrre nulla di nuovo. Ora il problema è che se la catena delle quinte procedendo sempre in direzione ascendente con le opportune riduzioni, raggiungesse prima o poi il valore di 1200 che con una sottrazione di 1200 ci riporterebbe a 0, non avrebbe più senso continuare il ciclo delle quinte e il numero delle note e l'intervallistica corrispondente sarebbe rigorosamente chiusa e con caratteristiche forti di necessità intrinseca. Io credo che si comprenda quanto una simile situazione renderebbe pregnante questo tipo di suddivisione. Agli intervalli ritrovati non se ne potrebbe aggiungere nemmeno uno, se non in modo del tutto arbitrario, al di fuori della regola che produce tutti gli altri intervalli - e questi riceverebbero la caratteristica della più ferrea necessità. La chiusura dell'iterazione potrebbe essere il coronamento dell'idea guida del pitgorismo che si orienta fin dall'inizio alla ricerca di un tipo di divisione dello spazio sonoro che sia intrinsecamente giustificata e corrispondente ad una sua legge essenziale interna. Ed invece ciò non accade, perché al dodicesimo ciclo ci imbattiamo, una volta effettuate le riduzioni necessarie, nel numero 1224, che supera dunque di un comma l'ottava. A questo punto continuando la procedura si aprirerebbe una spirale che produrrebbe posizioni sempre nuove nell'ottava: essa diventerebbe così sempre più densa. Debbo avvertire il lettore che qui mi servo di qualche semplificazione che non incide sull'essenza del problema poiché i valori in cents così come li stiamo usando sono arrotondati e ciò non può non avere conseguenze sulla correttezza dei calcoli. Ma a parte queste semplificazioni, la natura della questione introdot- 154 ta dal comma pitagorico è chiara. Il ciclo è una spirale in via di principio infinita e la sua prosecuzione porterebbe a cancellare la suddivisione dell'ottava legittimando qualunque posizione al suo interno. Non vi potrebbe essere fallimento più clamoroso del punto di vista pitagorico. Questo risultato è del resto dovuto ad un fatto strettamente matematico: la successione delle ottave è una successione con ragione 2, la successione delle quinte è una successione con ragione 3/2: che un membro dell'una coincida con un membro dell'altra è impossibile matematicamente. 8.2.4 Il calcolo pitagorico del comma come rapporto Vorrei ancora aggiungere, a proposito della "grandezza" del comma, un ultimo appunto che si ricollega al calcolo frazionario di cui abbiao in precedenza discorso a proposito del limma e dell'apotome. Si fa presto a dire "24 cents"! Ma i pitagorici calcolarono anche questa grandezza individuando correttamente un rapporto pari, niente di meno, che a 531.441/524.288. Questo risultato è stato ottenuto di parte pitagorica per confutare la tesi degli aristossenici, che discuteremo in seguito, i quali che sostenevano che l'ottava constando di cinque toni e due semitoni misurava esattamente sei toni. La controprova pitagorica intende allora dimostrare che, assumendo il tono come al solito a 9/8, sei toni eccedono l'ottava di quella frazione che corrisponde appunto a 24 cents. La procedura, come sappiamo consiste nell'assumere due numeri interi in rapporto di ottava e due numeri costruiti pezzo a pezzo con 6 toni, misurando l'eccedenza conseguente. Si procede allora assumendo come estremo iniziale 262.264. Subito si avrà come estremo finale nel caso dell'ottava 262.264*2= 524.288. Il problema della misurazione dei 9/8 in successione a partire da 262.264 non è difficile da risolvere, dal momento che sappiamo che il numero successivo rispetto al precedente dovrà "misurare" 1/8 in più del precedente. Abbiamo dunque la seguente successione: 262264, 294912, 331776, 373248,419904, 472392, 531.441 L'ultimo numero eccede il valore rappresentativo dell'ottava e la 155 eccede nel rapporto 531441/524288. 262144 9/8 262144 294912 331776 373248 419904 472392 9/8 9/8 9/8 9/8 531441 9/8 524288 Qualcuno probabilmente chiederà: tutti i conti tornano, ma come 2 della serie da cui poi tutto dipende? fai a stabilire il termine iniziale Non potrai certo andare a tentoni o per prove ed errori. In effetti qui diventa evidente un problema che in precedenza è rimasto un poco in ombra. A quel valore si perviene creando una successione geometrica la cui ragione è 8, in sei passi, essendo sei gli intervalli da considerare. Si ha dunque la successione 8, 64, 512, 4096, 32768, 262144. Quest'ultimo valore sarà l'estremo iniziale di una nuova successione in cui ogni valore è maggiore di 1/8 del precedente Assume qui particolare evidenza l'impronta caratteristica della matematica pitagorica - che era già tipico della problematica dei numeri figurati che qui può essere indubbiamente richiamata. Non certo per via della designazione dei numeri mediante punti, ma per l'idea di una accumulazione ricorsiva rappresentata dallo gnomone, oltre che, in coerenza con tutto ciò, dalla rappresentazione tabellare dei rapporti. Su questo esempio ci possiamo rendere conto che le nostre singolari considerazioni sulla "tabellina pitagorica" non erano fatte a caso e che una forma mentis orientata da queste idee poteva guardare abbastanza lontano. Da questo punto di vista il nostro grafico non è troppo soddisfacente, dimostra troppo poco. Crocker (1963, p. 196) ha invece proposto una disposizione tabellare che mostra, a mio avviso, quanto sia presente anche qui la forma mentis che presiede alla concezione dei numeri figurati. 156 Noi ci siamo limitati a prendere in considerazione la prima riga orizzontale e l'ultima colonna verticale, oltre che l'intervallo di ottava qui indicato in parentesi. In questa tabellina si fa molto di più. Si costruisce una "matrice" di sei righe e sei colonne (numero delle parti da considerare). Tutte le righe orizzontali sono formate da numeri ognuno dei quali risulta dal precedente moltiplicato per otto. Le prime due righe iniziano con i numeri che sono estremi del rapporto (8 e 9). In questo modo in diagonale si generano successioni di numeri ognuno dei quali risulta dal precedente moltiplicato per 9. In questo modo si generano anche la terza, quarta, quinta e sesta riga. I numeri di ogni colonna sono tali per cui si trovano nel rapporto di 9/8 con il numero sovraordinato e naturalmente di 8/9 con il numero sottordinato. Considerando questa tabellina, i valori dell'ultima colonna invece di essere calcolati come abbiamo fatto noi con l'aggiunta di 1/8 rispetto al numero precedente, risultano direttamente dalle serie orizzontali al sesto passo oppure dalle serie diagonali. Inutile dire che in questa disposizione il risultato complessivo della somma di sei toni di 9/8 ha la forma di uno gnomone. 157 8.2.5 L'andamento discendente della struttura intervallare Usando per il tono pitagorico la lettera T e per il semitono ovvero limma la lettera S, la nostra scala sarebbe rappresentata ovviamente dalla sequenza: TTSTTTS Qualcuno potrebbe commentare: ecco il nostro modo maggiore! sia pure con le piccole variazioni nella grandezza degli intervalli sulla quale non è più necessario d'ora in avanti attirare l'attenzione. Se questo fosse il nostro commento commetteremmo un errore piuttosto grossolano. Di fatto talvolta le scale greche vengono presentate come se procedessero dal grave verso l'acuto nel modo che ci è familiare, ed in tal caso certo, se così fosse, gli intervalli sarebbero proprio quella della nostra tonalità standard Do-do con gradi non alterati. Questo errore è probabilmente stato determinato dal fatto che naturalmente anche le scale greche hanno un'andata e un ritorno, e talora i teorici greci stessi indicano una scala dal grave all'acuto, sottintendendo sempre che per essi l'andamento fondamentale restava dall'acuto al grave. Questo stesso sottinteso sta anche in quei teorici moderni (come Munro, Landels o Mathiesen) che continuano a proporre strutture scalari in forma ascendente, cosa comunque sconsigliabile per gli equivoci che può indurre ed anche perché rende più faticosa la lettura della struttura. La questione è importante perché chiarisce che non si tratta affatto del nostro modo maggiore. Nei termini della nostra scrittura musicale infatti essa sarebbe rappresentata come segue: Se non vogliamo usare le alterazioni la stessa sequenza intervallare è rappresentata dal "modo di mi": 158 8.2.6 Costruzione della "scala pitagorica" e metodi di accordatura Abbiamo già accennato al fatto che, da un lato, vi è da parte pitagorica l'interesse alla costruzione di una scala integralmente fondata sul calcolo, dall'altro vi è anche uno sguardo rivolto in direzione di una problematica direttamente musicale, e precisamente in direzione delle pratiche di accordatura degli strumenti a corda. Ciò che rende realmente interessante l'intera tematica è proprio l'esistenza di queste connessioni. Ancora una volta abbiamo qui un bell'esempio di stretta relazione tra un fatto meramente tecnico-pratico che riguarda l'accordatura di uno strumento ed un insieme di considerazioni di carattere teorico e filosofico. Le pratiche di accordatura di strumenti a corda si servivano certamente in primo luogo dei rapporti consonantici - quindi dell'ottava, della quarta e della quinta. E poi si poneva lo stesso problema che abbiamo già enunciato. Volendo disporre di una maggiore articolazione della scala, riflessione teorica e pratica musicale sembrano fino ad un certo punto incontrarsi sull'impiego degli intervalli "sinfonici" al fine di ottenere intervalli validi. Eccoci dunque a maneggiare con la lira realizzando un'accordatura per rapporti consonantici, e lasciando da parte medie e cicli. Ma fino a che punto lasciamo veramente da parte tutto ciò? Effettivamente nell'accordare lo strumento non si fanno calcoli, ma le procedure messe in campo potrebbero essere considerate come una sorta di loro equivalente. E' appena il caso di dire che le pratiche di accordatura - e facciamo qui riferimento soltanto agli strumenti a corda - furono molteplici ed anche orientate secondo finalità differenti. Intanto il numero di corde della lira aumentò nel tempo - quattro, sette, otto ed ancor più; ma anche gli schemi melodici prevalenti nelle diverse occasioni poterono giocarono un ruolo nel determinare questo o quel modo di accordare lo strumento. Tuttavia se supponiamo di dover accordare una lira ad otto corde, possiamo, sulla base delle considerazioni fin qui compiute, farne oggetto di un ragionamento puramente teorico che comunque raggiunge lo scopo pratico 159 160 dell'accordatura voluta. Che è poi quella della scala pitagorica TTSTTTS nella forma discendente or ora illustrata. Per chiarezza, e dal momento che non reca alcun danno, ci serviremo dei nomi delle nostre note e del modo di mi. Risulta subito piuttosto naturale scegliere le due corde estreme, l'una destra e l'altra a sinistra, come delimitanti l'ottava: supponiamo che quella di sinistra debba essere la nota di riferimento più grave (I) (mi), la accorderemo secondo le nostre esigenze e si potrà subito accordare la nota più a destra in ottava acuta rispetto ad essa (VIII) (mi'). L'impalcatura fondamentale dell'ottava è subito ottenuta perchè potrò accordare la quinta corda dalla I in intervallo di quinta ascendente con essa (si) e la quinta corda dalla VIII in intervallo di quinta discendente (la) ottenendo così le due consonanze fondamentali di quarta e di quinta. Ora, avendo a disposizione otto corde non possiamo certo procedere per quinte successive e compiere riduzioni di ottava, ma dobbiamo stare sempre all'interno dell'ottava che abbiamo già individuato. Cosicché ci rammentiamo di un dato di un dato teorico di particolare importanza che è quella della complementarità degli intervalli di quarta e quinta nell'ottava, cosa che stabilisce una equivalenza tra quinta ascendente e quarta discendente e inversamente. La nostra intenzione è inoltre quella di costruire un modo di mi, e cioè la struttura TTSTTTS letta dall'acuto al grave. Assumiamo dunque come inizio la quinta discendente dall'ottava acuta e poi la quarta ascendente iterando quinta e quarta secondo il seguente schema. Il percorso dell'accordatura è indicato dall'andamento delle frecce. QUARTE I d b V IV c a VIII INIZIO QUINTE 161 Le lettere alfabetiche a, b, c, d indicano i passi successivi che andiamo facendo, quindi l'ordine con cui le diverse posizioni sono acquisite. La posizione a è quella acquisita per prima (re), poi la posizione b (sol), quindi la posizione c (do) e infine la posizione d (fa). Se invece consideriamo le note - assumendo l'ottava che inizia con mi (sui tasti bianchi, per intenderci) avremo appunto la scala corrispondente, beninteso con le grandezze intervallari pitagoriche. (Qualcuno potrebbe chiedere: e se avessi cominciato da V a partire da I (cioè in direzione ascendente), invertendo l'alternanza tra quarta e quinta - ovvero alternando quinta ascendente con quarta discendente? Ebbene: essendo il primo grado do, il risultato sarebbe indubbiamente la nostra scala di do maggiore). Abbiamo così indicato uno dei possibili modi di accordare la lira; ma abbiamo anche nello stesso tempo compiuto musicalmente (o almeno uditivamente) qualcosa di assai simile al percorso calcolistico che abbiamo prima accuratamente descritto. Si tratta propriamente del metodo di accordatura talvolta chiamato del "su e giù". Naturalmente nelle poche righe che precedono non stiamo letteralmente insegnando ad accordare la lira, ma stiamo in qualche modo imparando a ragionare su simili argomenti, mostrando un nuovo nodo che congiunge pratica musicale, speculazione teorica e speculazione aritmetica. Lo schema di accordatura proposto contiene tutti i problemi teorici di cui ci stiamo occupando. Ma anche - è questo è un punto importantissimo - li presuppone. Perché un punto deve essere chiaro: la scala dedotta dalle medie non è certo l'unica scala musicalmente possibile e nemmeno l'unica musicalmente interessante. Non lo era nemmeno per la musica greca e per la sua teoria. Molte sono ancora le riflessioni che dovremo fare intorno ad essa ed al di là di essa. La "validità" degli intervalli da cui abbiamo preso le mosse non è un concetto generale di validità, ma un concetto particolare e relativo all'impostazione complessiva proposta ed ai suoi presupposti filosofici. 162 8.3 Eccessi del matematismo pitagorico 8.3.1 Il problema della consonanza di undicesima Come abbiamo già rilevato una "scala cromatica pitagorica" fatta di ventuno note non è probabilmente mai esistita - mentre scale costruite sul modello pitagorico con aggiustamenti di vario genere ("temperamenti") fanno parte della tradizione medioevale e rinascimentale. Ciò che ci ha spinto a dare alcune indicazioni anche a questo proposito è soprattutto lo scopo di dare un'illustrazione dei concetti di base - questi sì, appartenenti alla tradizione del pitagorismo - ma anche, in particolare, trattando della costruzione della scala attraverso le medie ovvero attraverso il ciclo delle quinte, di fare intravvedere i punti di crisi del matematismo pitagorico. Questi punti non riguardano solo la questione del comma e le difficoltà ad esso connesse, ma anche giudizi e valutazioni proiettate sul piano musicale sulla base di considerazioni di ordine puramente matematico. Nello spirito del pitagorismo l'assenza di legittimazione matematica poteva ripercuotersi inesorabilmente sullo stesso concetto di consonanza, mettendo del tutto in sottordine qualunque "testimonianza della sensibilità". Vi è in proposito un caso famoso che risale al pitagorismo più antico e viene discusso per alcuni secoli fino a a Boezio e oltre. Noi abbiamo parlato delle consonanze riconosciute dai pitagorici facendo riferimento ad un'unica ottava. Ma in realtà nella musica greca lo spazio ritenuto musicalmente valido era di due ottave, uno spazio piuttosto ristretto se pensiamo alle nostre consuetudini musicali, ma ben calibrato per le esigenze di una musica che, come in tutte le culture musicali delle origini, aveva nel canto il proprio riferimento principale . Ciò spiega anche perché i pitagorici estesero la considerazione del rapporto consonantico a due ottave, e non ad una sola. Oltre l'udito, anche il "ragionamento" suggerirebbe che, essendo le note in ottava tanto consonanti tra loro da essere spesso confrontate con l'unisono, gli intervalli di quarta e di quinta della seconda ottava fossero senz'altro da considerarsi consonanti con la nota grave della prima ottava. Si tratta 163 degli intervalli che si usa chiamare oggi di undicesima e di dodicesima, rispettivamente ottava + quarta e ottava + quinta - come preferivano chiamarli i greci e e nel Medioevo (Barbera 1985, p. 191). Ora, i pitagorici - potremmo aggiungere: con nostra meraviglia ammisero subito il carattere consonante della dodicesima, ma non quello dell'undicesima. La meraviglia tuttavia è, almeno in parte, fuori luogo. Una ragione c'era, molto semplice e puramente aritmetica. La teoria dei rapporti consonantici fondamentali riteneva accertato che i rapporti consonantici dovessero ricadere in uno di questi due casi 1. rapporti intervallari multipli 2. rapporti intervallari epimori Ora l'intervallo di dodicesima non era altro che l'ottava acuta della quinta dell'ottava grave, cosicché essa era caratterizzata dal numero (3/2)*2 = 3. Si trattava dunque di un numero multiplo. Ora se noi facciamo l'ottava della quarta, dobbiamo moltiplicare 4/3 * 2 ed otteniamo 8/3. La frazione è irriducibile. Il rapporto non è né multiplo né epimorio. E contiene per di più l'8 che (forse) non ha niente a che vedere con la tetractys. 164 8.3.2 La soluzione di Tolomeo e quella di Gaudenzio Naturalmente siamo di fronte a posizioni pregiudiziali ed a ragionamenti falsi. Della questione si continua a dibattere dentro e fuori del pitagorismo, nell'ambito della teoria musicale greca in genere. Una simile posizione nei confronti della undicesima viene ancora confermata in Boezio (De musica, II, Barbera 193 nota 6) proprio per il fatto che il rapporto aritmetico apparteneva al caso dei rapporti superpartientes che, nella terminologia medioevale, indicava un rapporto tra numeri in cui il maggiore supera il minore più di una sua parte, a differenza del rapporto epimorio in cui il maggiore supera il minore di una sola sua parte. Questa posizione Boezio la trae presumibilmente dalla Aritmetica di Nicomaco di cui egli fece 165 una traduzione latina. Ma una simile violenza fatta a quello che era anzitutto un dato di fatto uditivo certamente non incontrava il favore di tutti i teorici pitagorici - nonostante la pronunciata tendenza all'astrazione. Essa venne considerata anche come un punto critico che minacciava l'impostazione teorica fondamentale. Si cercò dunque di vedere se quella impostazione teorica poteva essere riconsiderata da una angolatura tale da poter includere anche la cosiddetta undicesima. Due tentativi sono soprattutto degni di nota. L'argomento fu ripreso dal grande Claudio Tolomeo (II sec. d. C.), autore anch'egli di un'Armonica che rappresenta una sintesi fondamentale della teoria musicale greca, in cui la componente pitagorica è ancora fortemente presente. A difesa del carattere consonantico della undicesima, Tolomeo osserva che "In generale la consonanza dell'ottava... quando viene aggiunta ad un altro intervallo preserva inalterata la forma di quell'intervallo" (I,13 - 1.6. Tolomeo, 2002, p. 111). Ciò corrisponde alla nostra osservazione iniziale intorno al problema ed in fondo potrebbe essere considerata come una osservazione di logica della percezione - se possiamo esprimerci così. Questa osservazione viene in qualche modo rafforzata con una analogia aritmetica: così fa il dieci che sommato, ad es. a 2, mantiene il 2 nel 12. Analogia un po' stravagante, ma certamente di gusto pitagorico. La spiegazione più brillante che riesce a includere l'undicesima tra le consonanze ci viene tuttavia dall' Introduzione Armonica di Gaudenzio (III o IV sec. d. C.). Di essa possiamo venire a capo facilmente utilizzando la nostra consueta rappresentazione "lineare" estesa tuttavia su due ottave. 166 6 8 9 12 Tenendo fermo il 24 come primo termine del rapporto, esattamente come in precedenza il 12, scendendo verso i rapporti successivi si ottengono tutti i punti di consonanza, fra i quali vi è anche l'undicesima. 16 18 24 24 : 18 = quarta 4/3 24 : 16 = quinta 3/2 24 : 12 = ottava 2/1 24 : 9 = undicesima 8/3 24 : 8 = dodicesima 3 24 : 6 = doppia ottava 4 Il punto indicato da 9 era già stato acquisito come quarta all'interno dell'ottava (0,12). Ora è lo stesso punto che viene mostrato come consonanza ottava+quarta nella doppia ottava (0,24). 24 : 9 rappresenta un anello necessario nella struttura delle consonanze distribuite su due ottave. Ci si può chiedere se la soluzione di Gaudenzio, che peraltro noi presentiamo secondo l'idea della "linearizzazione" dell'intervallo e dunque nel quadro della nostra interpretazione complessiva, sia da considerare conforme al punto di vista pitagorico oppure un momento importante della sua crisi. L'opera di questo teorico - il cui profilo è del tutto sconosciuto - ha in effetti una singolare particolarità: la prima parte del suo trattato Introduzione all'armonica (1990) ha un'impostazione tutt'altro che pitagorica, ma propende nettamente nettamente verso la rivalutazione dell'elemento sensibile che è, come vedremo tra breve, una caratteristica eminente della scuola aristossenica. Cosicché "nella parte aristossenica del suo trattato (capp. 1-9), noi leggiamo che è solo attraverso l'udito che si riconosce consonanza e dissonanza, e la ragione non aiuta in simili giudizi" (Barbera, 1985, p. 206). 167 Ma poco oltre il tono dell'opera cambia completamente - assumendo un'inclinazione fortemente pitagorizzante. Il racconto del fabbro armonioso viene ripreso secondo tradizione e così anche i valori basilari della struttura consonantica pitagorica. L'imbarazzo dell'interpretazione in certo senso cresce proprio di fronte alla sistemazione del problema della diapason+diatessaron. Così mentre da un lato questa proposta viene fatta nel cuore di un'esposizione che accetta in buona sostanza i valori pitagorici, dall'altro essa sembra ad alcuni segnare una netta crisi della visione pitagorica. Secondo Barbera questo modo di ammettere l'undicesima corrisponde ad una vera e propria "abrogazione della vecchia regola pitagorica che riguarda le ragioni multiple e superparticolari... Ammettendo l'undicesima nella categoria della consonanza, Gaudenzio evidentemente riconosce il fatto empirico della consonanza di undicesima...La caratterizzazione di questa consonanza come 24/9 indica lo spostamento delle ragioni numeriche da cause a metafore nell'armonica pitagorica" (1985, pp. 206-207). Anche su questo punto, Gaudenzio farebbe dunque prevalere nettamente l'empirismo aristossenico (e aristotelico) di fronte al razionalismo pitagorico (e platonico): "Gaudenzio mira ad un'informazione esauriente piuttosto che a una sintesi; il suo scopo non è sistemare organicamente e coerentemente la materia... ma presentare ciò che è ormai acquisito in modo definitivo. In questa prospettiva si inquadra anche l'esposizione dei valori numerici concernenti i rapporti fra i suoni : essi non sono più il manifestarsi nella realtà della legge dell'armonia universale... sono semplici dati di fatto nei quali ci si può anche imbattere occupandosi di strumenti" (Zanoncelli, 1990). 168 A mio avviso, per quanto riguarda l'undicesima, si può concordare su queste valutazioni soltanto in parte, e precisamente per la parte che riguarda l'evidenza sensibile della consonanza in questione. Nelle affermazioni citate invece sembra che il punto realmente critico sia il superamento del quaternario, con la filosofia ad essa connessa. Su questo punto io credo che si possa discutere per due ordini di ragioni: come sempre, in questo genere di questioni i numeri sono più elastici di quanto si potrebbe pensare. L'infrazione al quaternario si potrebbe ridurre a ben poco se si tiene conto che il numero otto è il doppio di quattro (ovvero 23)! Cosicché le frazioni della tabella della doppia ottava di Gaudenzio possono essere ridotte ai minimi termini mostrando di contenere soltanto i numeri da 1 a 4. La filosofia dell'armonia fondata sulla tetrade viene così in certo senso appena ritoccata. Si deve in fin dei conti ricorrere soltanto ad un aggiustamento ragionevole e conforme del resto all'abito mentale del pitagorismo. La ragione più importante che ci suggerisce di manifestare qualche dubbio consistente su quelle citazioni sta nella presentazione diagrammatica della doppia ottava secondo i criteri che abbiamo in precedenza illustrato e che rimandano alle pratiche monocordiste. Si tratta di un'angolatura della cui possibilità nelle osservazioni precedenti non si tiene conto: ed in essa si mostra la stretta coerenza del modo di argomentare di Gaudenzio con il pitagorismo, nonostante la diversa conclusione a cui si perviene. Ciò non toglie che sia la rigidità della posizione antica, che anteponeva nettamente l'elemento matematico a quello uditivo, sia i tentativi più recenti che tentano di porre riparo alla violenza razionalistica sull'empiria caratterizzino questo problema, apparentemente minimo, come una difficoltà interna nell'ambito del pitagorismo, in cui comincia a mostrarsi che l'elemento "razionale" e l'elemento "sensibile" stentano a convivere l'uno con l'altro. 169 8.3.3 I tentativi di costruire scale con rapporti epimori Sotto il tema degli eccessi del matematismo della tendenza pitagorica, che bada più al versante dell'impianto teorico che alle problematiche sorgenti dalla pratica musicale, credo che debbano essere inscritti anche i vari tentativi compiuti dai pitagorici, ma forse dovremmo dire più in generale dai teorici greci, di escogitare scale sulla base del criterio del rapporto epimorio. Vi è a questo proposito una singolarità che merita di essere segnalata. La tendenza matematizzante - con le sue istanze di perfezione, di unicità e di assolutezza - in luogo di promuovere la rigidità, stimola invece ad una ricerca che è produttiva di una grande varietà di sistemi scalari. L'obiettivo è sempre quello: trovare il sistema di intervalli migliore, la scala perfetta o meglio quella che più si avvicina ad una scala che possa essere chiamata così. Dal medioevo in poi fino a tempi relativamente recenti si è ritenuto di poter trovare la scala migliore modificando un modello sostanzialmente unitario: sorge così la tematica dei temperamenti che in certe epoche sembra diventare una vera e propria ossessione. Il punto di arrivo di questa ricerca, che sembra mettere fine a questa ossessione, è il sistema equalizzato in dodici semitoni considerato appunto, dai più, come la migliore soluzione (di compromesso, come si legge nei manuali e come io non mi sentirei di ripetere). Solo in tempi recenti o recentissimi, e non senza l'impulso dell'informatica musicale e di programmi che rendono agevole la sperimentazione sui modelli scalari più diversi, si è riaperto un interesse in questa direzione. Nel caso della teoria greca, invece la nozione di temperamento non trova nessuna applicazione; beninteso si è continuata a cercare la scala migliore, ma come una ricerca che non aveva un principio o un modello fondamentale da "temperare" bensì sulla base di diversi principi e criteri informatori, dando luogo alla proposta di una quantità veramente notevole di sistemi intervallari. La rigidità degli inizi, con le consonanze fissate come pilastri inamovibili, le ipotesi matematiche e i calcoli conseguenti per legittimare i sistemi intervallari proposti hanno in certo senso sortito l'opposto effetto di squadernarci di fronte una tale varietà di sistemi da essere del tutto impensabile nel quadro del pensiero musicale europeo successivo. Spesso naturalmente si trattava di 170 sistemi scalari che non avevano alcun impiego reale e che erano pure escogitazioni teoriche. In effetti non siamo in grado di valutare se le proposte teoriche di cui abbiamo notizia avessero riscontro nella pratica musicale. Tuttavia il fatto che il teorico non esitasse ad avventurarsi in proposte dei sistemi più diversi ci fa pensare che lo stesso musicista pratico non si sentisse affatto troppo vincolato dal punto di vista della grandezza degli intervalli - seguendo il proprio estro musicale, come fa ancora oggi un musicista indiano o orientale in genere. Questa mobilità del resto fa parte della teoria dei generi che rappresenta il punto culminante della teoria e della pratica musicale greca. È bene sottolineare vivacemente che l'idea di un unico tipo di scala come scala che possa pretendere validità assoluta si fa strada solo nella tarda grecità, e proprio nel quadro della crisi della teoria dei generi e nel progressivo prevalere del genere diatonico sugli altri. Nel Medioevo "si cessò completamente di comprendere il meccanismo dei tetracordi e delle note fisse o mobili, tanto più che si era presa l'abitudine di considerare tutto secondo il genere diatonico" (Chailley, 1979, p. 44) Abbiamo già notato a suo tempo che i pitagorici furono colpiti dalla forma dei rapporti rappresentativi delle consonanze elementari. In particolare furono colpiti dal fatto che l'intervallo centrale immediatamente legittimato dalla suddivisione dell'ottava fosse a sua volta caratterizzato, come le consonanze, da un rapporto epimorio. Naturalmente due note a distanza di un tono non sono consonanti, al contrario, sono fortemente dissonanti. Ma una volta risolto il problema delle consonanze, si trattava di trovare una suddivisione dell'ottava che potesse essere consi- 171 derata musicalmente coerente e i cui elementi potessero essere connessi l'un l'altro secondo la massima coesione - potremmo dire "amonicamente", secondo l'accezione originaria del termine di armonia che abbiamo spiegato a suo tempo. Nella proposta di nuovi modelli scalari è spesso presente l'intento che la maggior parte degli intervalli e possibilmente tutti gli intervalli siano fondati su rapporti epimori.Questo risultato fu ottenuto da Tolomeo (Scienza Armonica 1.16, Tolomeo 2002) che riesce non solo a realizzare una scala interamente fatto di rapporti epimori, ma anche a inanellarli gli uni agli altri con scambi tra numeratore e denominatore. Ne risulta il seguente sistema intervallare 10/9 11/10 12/11 9/8 10/9 11/10 12/11 ovvero, in cents 183, 165, 149, 204, 183, 165, 149 Si noterà che il tono di disgiunzione resta fissato a 9/8, come è giusto che sia. In generale, nella varietà di scale proposte questo tono resta costante, perché esso garantisce la posizione dell'intervallo di quarta e di quinta. Un otttimo commento a questa particolare scala di Tolomeo, come alle altre da lui proposte, si trova nell'edizione di Tolomeo curata da Massimo Raffa (Tolomeo, 2002, p. 362). Più di uno studioso mostra le proprie perplessità di fronte a scale come queste. Chailley, ad esempio, le qualifica come vane speculazioni e scrive perentoriamente: "Tout cela présente l'apparence trop visible de jonglerie numériques sans valeur musicale réelle" (Chailley,1979, p. 35); lo stesso autore rammenta che secondo Reinach, nonostante il suo apprezzamento per questi tentativi, la scala epimoria di Tolomeo è una "mostruosità armonica". Io credo che in effetti gli intervalli in rapporti epimori possano essere citati come eccessi della tendenza matematizzante caratteristica soprattutto della direzione pitagorico-platonica, ma anche generalmente diffusa in misura maggiore o minore tra i teorici greci della musica. Detto questo, commenti come quelli di Chailley e di Reinach mi appaiono appaiono alquanto fuorvianti. L'espressione jonglerie significa "gioco" nel senso dei giochi che fa il giocoliere. Giochi di abilità, giochi di prestigio. E fondamentalmente inutili e superflui: speculazioni vane, appunto. Ora è difficile sostenere che 172 nella musica la jonglerie non abbia proprio nessun posto. Basterà notare che in fin dei conti ciò vale persino per la matematica. Il gioco in essa ha una parte importante. Un gioco serio, si intende: ma che fa parte comunque, per certi versi, della jonglerie, e dunque dell'abilità del giocoliere. Nello stesso tempo bisogna anche badare alle intenzioni più o meno nascoste di chi fa queste obiezioni. Esse infatti possono essere compiute da punti di vista diversi, e talvolta da un punto di vista che ricorda proprio il pitagorismo: l'errore che verrebbe qui rimproverato non sarebbe tanto di gingillarsi con la matematica, ma di far dimenticare che esisterebbe un ordine musicale intrinseco, e di farlo dimenticare proprio con questi gingilli. Potremmo insomma essere di fronte ad un paradossale rovesciamento della situazione. Un matematismo che ci porta alla produzione di una grande molteplicità di modelli scalari e di articolazioni intervallari rischia di minare l'idea di un fondamento assoluto e necessario che richiede al contrario, almeno idealmente, un unico sistema scalare realmente valido. Vi è perciò il timore più o meno nascosto che proprio una simile tendenza matematizzante - in certo modo contro le proprie giustificazioni primarie faccia precipitare le regole della musica nell'arbitrarietà. Credo che questo sia il caso di Chailley, il quale, tra l'altro simpatizza per Aristosseno e dunque, come vedremo, per struttura scalari molto libere. Di qui gli deriva l'ostilità per il pitagorismo e per le tendenze matematizzanti in genere. Cionostante egli è anche convinto fautore di una "storia naturale", fondata sulla successione degli armonici, della scalarità europea culminante nel linguaggio tonale. Per Chailley era sicuramente una jonglerie anche la dodecafonia schoenberghiana (e forse non lo era?). 9. Il tetracordo 173 9.1 Il tetracordo come spazio sonoro fondamentale Abbiamo fin dall'inizio reso avvertito il lettore che ciò che abbiamo chiamato "scala pitagorica" è in realtà la scala dominante nella tarda grecità e tramandata come tale nel Medioevo fino all'età moderna. Ma se andiamo alla realtà della teoria greca dobbiamo cosiderare questa scala all'interno di una visione che fa del tetracordo, e quindi nell'intervallo di quarta, l'unità musicale di base e che differenzia i tetracordi per generi. 174 Questa circostanza cambia interamente il quadro entro cui debbono essere ripensate le considerazioni precedenti. Nel caso della musica greca l'ottava non rappresenta, come per noi, l'unità compiuta dello spazio sonoro. La stessa nota apre e chiude il percorso scalare e, nel linguaggio tonale, essa avrà carattere di nota fondamentale del brano - di "tonica". Invece l'intervallo alla luce del quale deve essere intesa l'articolazione dello spazio sonoro nella teoria e nella musica greca è l'intervallo di quarta. È l'articolazione del tetracodo che sta alla base dell'articolazione dell'ottava. Di conseguenza quando per i motivi più diversi, si escogitano scale, ciò avviene unicamente sull'unità tetracordale; ed analogamente la differenza del genere è tutta giocata sulla differenza dei tetracordi. La ragione che normalmente i teorici greci richiamano per giustificare questo punto è il fatto che gli estremi dello spazio tetracordale costituiscono la consonanza minima all'interno dell'ottava, ma naturalmente questa motivazione non può fornire una vera e propria ragione oggettiva di questa scelta. A mio avviso, ci imbattiamo qui in un esempio di scelta espressiva realizzata già a livello di organizzazione elementare dello spazio sonoro. Il suo interesse sta anche nel fatto che sulla sua base si può fornire un'illustrazione notevole della diversa "intenzionalità" con cui la stessa struttura oggettiva (l'ottava) può essere soggettivamente considerata (intesa). Per spiegarci possiamo anche prescindere momentaneamente da fatti acustici e musicali e fare riferimento all'ambito visivo considerando i nostri simboli T ed S come pure strutture figurali, piuttosto che come segni indicativi di intervalli e di note conseguenti. E potremmo tentare di vedere nella sequenza di T e 175 S una T centrale, frapposta tra sequenze di egual struttura. Diamo così evidenza a quello che già a suo tempo abbiamo chiamato tono di disgiunzione ed in questa articolazione scalare ci rendiamo conto che questo tono può essere inteso come un intervallo che separa due tetracordi perfettamente eguali di struttura. L'ottava compare qui formata da due tetracordi disgiunti: essi non hanno nessuna nota in comune. In questo caso l'ottava è ancora importante e i due tetracordi si propongono come suoi elementi costitutivi. Ma si vede subito che vi è un'altra possibilità: i due tetracordi posssono essere congiunti, e cioè avere una nota in comune. In tal caso naturalmente avremo a che fare con sette note, e non con otto. Le due note limitanti lo spazio sonoro globale non saranno in rapporto di ottava. Peraltro nei Problemi musicali dello pseudo Aristotele si afferma (Problema n. 32 - Aristotele, 1957, p.55) che il musicista Terpandro tolse la terza nota aggiungendo invece l'ottava: le corde restavano così sette, ma con la chiusura dell'ottava, volendo nello stesso tempo fornire anche una spiegazione al fatto che l'ottava, invece di chiamarsi "diaocto" in analogia con diatessaron e diapente, si 176 chiamava invece diapason - richiamandosi genericamente a tutte le note che in effetti restavano sette. "Perché l'ottava è detta diapason e non diaocto in relazione al numero delle corde, nello stesso modo che si dice diatessaron la quarta e diapente la quinta? Non è forse perché originariamente le corde erano sette? Più tardi Terpandro, tolta la trite, aggiunse la nete e in base a questo si disse diapason e e non diaocto, perché l'intervallo era una diaepta" Naturalmente una simile modificazione di Terpandro non era affatto innocua per la struttura della scala e per la sua logica interna ed lecito pensare che essa rimase una peculiarità tutta sua o comunque caratteristica di particolari stili melodici. In ogni caso il tetracordo congiunto si ricollega alla fase della lira a sette corde che sembra appartenere ad una fase arcaica, mentre la lira a otto corde viene talora riferita a Pitagora stesso. Converrà infine menzionare la possibile articolazione dell'ottocordo in tetracordo+pentacordo ovvero in pentacordo + tetracordo. pentacordo tetracordo tetracordo pentacordo Sarebbe un grave errore considerare queste possibilità unicamente come partizioni formali - cosa che anche sono: dal punto di vista teorico-musicale quando giungiamo a porre problemi come questi ci troviamo in realtà già sul terreno di diversi modi di intendere strutture date, e quindi sul terreno delle potenzialità espressive e 177 delle alternative possibili che essere offrono sul piano dell'espressione musicale. In altri termini queste partizioni sono interessanti in quanto sono collegate alla struttura del melos, e quindi destinate ad essere "sentite" sul piano uditivo, a diventare strutture fenomenologiche percepibili. Nell'elaborazione successiva del problema ci renderemo meglio conto che questa articolazione tetracordale è la grande intuizione formale e musicale della musica greca. Essa verrà sviluppata nella teoria dei generi che rappresenta il cuore della sua teoria: la grande novità (rispetto alla musica futura!) della musica greca. 178 9.2 Il tetracordo diatonico di Filolao La scala che abbiamo chiamato "pitagorica" compare documentata per la prima volta nel libro di Filolao De Natura ((Fr. 6a) e, in conformità con il principio tetracordale, la sua costruzione viene proposta realizzando un unico tetracordo che verrà poi ripetuto dopo il tono di disgiunzione. In realtà nella descrizione di Filolao appare chiaro che l'ottava è costituita da una quarta ed una quinta, ma che può essere intesa sia come un'associazione di due quarte separate dal tono di disgiunzione, relativamente ad una scala di otto note, sia di due quarte congiunte relativamente ad una scala di sette note. La procedura che mette in atto per la sua derivazione non viene resa esplicita, ma si può ipotizzare che Filolao, in conformità con il principio tetracordale, si limiti a costruire un solo tetracordo semplicemente ottenendo il tono di 9/8 per "sottrazione" della quarta dalla quinta e usando questo stesso intervallo di base anche per dividere il tetracordo, ovvero mettendo due toni in successione e ottenendo, come sappiamo, un resto rispetto all'intervallo di quarta. Non si sa peraltro se il valore del limma (che Filolao chiama diesis) fosse da lui realmente calcolato, e come. Si ipotizza comunque che disponesse di mezzi e di procedure che rendevano possibile questo calcolo (cfr. Huffman, 1993, p. 164). Credo che si avverta in questo caso molto chiaramente la portata e il senso del fare del tetracordo l'unità essenziale dello spazio sonoro. La struttura di base dell'ottava che ne risulta - la suddivisione TTS del tetracordo e il suo raddoppio al di là del tono di disgiunzione - fa pensare che per l'introduzione della "scala pitagorica" il ricorso alla tematica delle medie o al ciclo delle quinte faccia parte di una fase evoluta e che invece, in una fase più antica, il problema si riducesse ad una ripetizione dell'intervallo di tono all'interno dell'intervallo di quarta. "La divisione dell'ottava ottenuta non già con il 'ciclo delle quinte', ma proiettando il tono 8/9 all'interno della quarta, è forse il metodo più an- 179 tico usato dai pitagorici e in certo modo il più caratteristico. Esso usa i principi inerenti agli inizi della serie degli interi in modo più economico di ogni altro" (Crocker, 1963, p. 197) Non solo: questa partizione della scala non va considerata come "scala pitagorica" tout court, convenzione a cui ci siamo adattati in precedenza per opportunità espositiva, ma piuttosto come una delle scale appartenenti al genere diatonico proposta nell'ambito del pitagorismo. Questo motivo si arricchirà naturalmente considerando il problema dei generi. Va infine almeno rammentato di sfuggita che questo stesso tetracordo, in forma coperta, è presente in Platone (Timeo 34 b10) a proposito dei rapporti tra le parti che il demiurgo assegna all'anima del mondo. In forma coperta, per il fatto che questi rapporti corrispondono a quelli del tetracordo di Filolao, ma l'origine musicale del problema non viene menzionata. (Una bella discussione della questione è contenuta in Huffman, 1993, p. 149 sgg.). 180 9.3 I nomi delle note Abbiamo già notato che il prestare attenzione alla terminologia greca è tutt'altro che una pedanteria, ma nella maggior parte dei casi ci apre le porte ad aspetti concettuali e relazionali a volte inattesi. Di qui in avanti dovremo tener in conto maggiore questa problematica nella quale in precedenza ci siamo del resto già imbattuti più di una volta. Le note che costituiscono i due tetracordi che formano l'ottocordo o l'eptacordo hanno naturalmente dei nomi che vogliamo cominciare con l'introdurre. Anzitutto, per intenderci, chiamiamo tetracordo superiore il tetracordo che sta all'acuto e tetracordo inferiore quello che sta nella sezione grave. La nota più acuta si chiama nete, la nota più grave hypate. Le note prossima all'una ed all'altra prendo- 181 no nome dalla loro posizione: quella successiva alla nete, paranete - ovvero nota vicina alla nete; quella che precede l'hypate, parhypate - ovvero nota vicina all'hypate. Nel caso dell'ottocordo abbiamo agli estremi dell'intervallo di disgiunzione la mese e come nota precedente la paramese - ed anche questi nomi sono palesemente nomi di posizione poiché mese significa ciò che sta al centro e paramese nota prossima alla mese. Restano da nominare la terza nota del tetracordo superiore che si chiama trite con significato ovvio del termine, e la seconda del tetracordo inferiore che viene chiama lichanos - un termine questo che ha invece bisogno di essere spiegato. Nel caso dell'eptacordo, la questione del nome delle note (e delle note corrispondenti) è di fatto un po più complessa ed anche più confusa sotto il profilo storico. Qui ci limiteremo ad osservare che, almeno in via di principio, la mese sta letteralmente al centro dell'eptacordo essendo le note in numero dispari. Ma per il momento prescindiamo dalle vicende dell'eptacordo e ci limitiamo a proporre lo schema precedente aggiungendovi i nomi delle note: nete paranete trite paramese mese lichanos parhypate hypate Come abbiamo già sottolineato la struttura in questione è da considerarsi discendente e la mese sarà rappresentata dalla nota La (440 Hz) se si assume come ottava quella che va dal mi acuto al mi grave nella regione media del nostro pianoforte. Si rammenti comunque che "le vere altezze sonore sono per forza di cose sconosciute, e la nostra abitudine a chiamare il centro la è convenzionale se non arbitraria. Questo centro sembra infatti essere piuttosto alto... ma per altro verso è pratico giacché ci permette di trascrivere le antiche melodie con il minimo di diesis e di bemolle" (Sachs, 1943, p. 203) 182 Veniamo ora al nome delle note nete, mese e hypate. Chiunque consulti un dizionario di greco non potrà non sorprendersi per via di una circostanza realmente singolare. Nete, come abbiamo osservato, rappresenta la nota più acuta dell'ottava, ma il suo senso rimanda al "sotto" ed al "basso" piuttosto che all'"acuto" ed all'"alto". L'inverso vale per l'hypate, nota più grave, ma che letteralmente rimanda all' "alto" e al "sopra" piuttosto che al "grave" ed al "basso". Inoltre nell'ottocordo non vi può essere nota letteralmente centrale. Il nome mese sarebbe realmente appropriato soltanto in rapporto ad un doppio tetracordo congiunto - e quindi ad un eptacordo. Così nei Problemi dello pseudo-Aristotele (1957, p. 49), oss. 25 e 44 si avanza l'ipotesi che il nome di mese non sia altro che un ricordo della lira a sette corde: "Perché nella scala la mese ha questo nome per quanto non sia nel mezzo delle otto note? Perché in antico la scala era costituita di sette corde: e il sette ha un mezzo". Si tratta soltanto di una sopravvivenza oppure vi è qualcosa di più profondo da capire? Ecco alcuni dei punti interrogativi che ad alcuni sembreranno inappariscenti, ma che invece aprono una discussione tutt'altro che priva di interesse da vari punti di vista. Intanto vi è questa discrepanza, che è un vero e proprio capovolgimento di senso, tra i nomi e la cosa stessa - e di ciò vi deve essere una qualche spiegazione. Diciamo subito che abbandoniamo al loro destino coloro che ritengono di potersi servire di questo strano caso come una prova eclatante che dimostrerebbe la validità di una posizione di relativismo variamente dosato con presupposti sociologizzanti, storicistici o semiologici. Secondo costoro qui non c'è nulla di strano e nulla da spiegare, perché le convenzioni arrivano dovunque - e su di esse non vi è nulla da discutere. Se i greci sentivano come gravi i suoni che noi sentiamo come acuti e inversamente, ne dobbiamo prendere atto - e nulla più. Anche la percezione soggiacerebbe ai relativismi socio-culturali. Del resto si è anche sostenuto - e mi sembra che si tratti di una variante equivalente - che i greci udivano le loro successioni sonore secondo un rapporto intervallare inverso! (Tanner, 1961, p. 41 sgg.). Che cosa accadrebbe, ad un greco antico, se si trovasse ad ascoltare la nostra musica, essendo 183 vere simile concezioni, lo si può immaginare. E va da sé che noi non saremmo assolutamente in grado di afferrare le melodie greche che ci sono rimaste perché risulterebbero del tutto snaturate dalle nostre diverse consuetudini uditive. Di opinioni come queste non terremo nessun conto e non ci attarderemo a discuterle. Ci limitiamo soltanto a segnalare, per quanto riguarda la differenza grave/ acuto, che nei Problemi, n. 8, si trova una similitudine che dice tutto quel che si deve dire: "Perché la nota grave rafforza il suono di quella acuta? Perché la grave è maggiore: difatti è simile ad un angolo ottuso mentre l'acuta è simile ad un angolo acuto" (Aristotele, 1957, p. 33). Le metafore utilizzate sono più che sufficienti per stabilire che i greci percepivano le differenze del grave e dell'acuto esattamente come noi. In realtà, più o meno consapevolmente, quelle concezioni rilevano, per di più ingenuamente, assunzioni dell'empirismo filosofico e spetta alla filosofia confutarle a quel livello (Piana, 1991, p. 225 sgg.). Sembra subito avere maggiore plausibilità l'idea che questa inversione, poiché non riguarda il fatto sonoro come tale, derivi piuttosto dalle tecniche strumentali, ed in particolare dalla disposizione delle corde di strumenti del tipo della lira, cetra e arpa. Si pensi al modo di emissione del suono di un violoncello ed alla pratica che lo strumentista mette in atto: le sue dita scorrono verso il basso quando le note vanno verso l'acuto, in certo senso allontanandosi dallo strumentista, e inversamente. Cosicché si può pensare che una tecnica di questo genere possa suggerire di chiamare "basse" le note alte, e alte le note basse. Ciò sembra suggerire una buona spiegazione anche nel nostro caso se in qualche modo si potesse dimostrare che nella lira la nota più acuta fosse "più bassa" o comunque "più lontana" dalle mani dello strumentista (nel senso che egli avrebbe dovuto per raggiungerla allungare il braccio) e la nota più grave invece "più vicina". Quest'interpretazione - sia pure in una certa varietà di modi - ha avuto molta fortuna tra filologi e musicologi perché sembrava metter capo ad una soluzione fondata e di buon senso. 184 Tuttavia nel 1984 è uscito un lavoro di Frieder Zaminer proprio sull'argomento di queste denominazioni che imposta l'intero problema su basi interamente nuove, arricchendo la discussione di elementi in precedenza non sospettati. Questo lavoro (Zaminer, 1984, pp.1-26) merita di essere riassunto, sia pure brevemente, proprio per la ricchezza dei temi che l'adozione di un diverso punto di vista e di un differente atteggiamento metodologico riesce a portare alla luce. Dopo aver sottolineato che si tratta di denominazioni molto antiche di cui si trova già traccia in Filolao almeno per quanto riguarda la nete, la trite e l'hypate, si passa ad una critica stringente dell'opinione prevalente secondo cui queste denominazioni avrebbero origine nella pratica strumentale. In realtà vi è più di una ragione particolare per questa critica, ma a mio avviso vi è anche un tema metodico di particolare importanza: la ricerca della soluzione del problema viene indirizzata senz'altro in un qualche dato di fatto che sembra ancorare la spiegazione ad elementi "positivi", mentre si trascurano tutti quei fattori che potrebbero riportarlo all'interno di un contesto più ampio di idee, di concezioni, di fantasie. In via di principio tutti questi tentativi di spiegazione soggiacciono al pregiudizio secondo cui entrambe queste espressioni tecniche derivino dalla prassi musicale, e precisamente dall'associazione comune con gli strumenti a corda come la lira, la cetra o l'arpa, "come se fosse ovvio che la teoria del contesto armonico fosse orientata alla prassi, e quindi rimandasse a relazioni empiriche con strumenti reperiti a caso e traesse di qui i suoi primi concetti"(p. 3). A partire da questo pregiudizio sembra ovvio che espressioni come nete, hypate e mese si riferiscano a corde, e questo riferimento viene rafforzato dalle designazioni delle altre note dell'ottava che indicano la prossimità all'una o all'altra corda (paranete, paramese) o la posizione (trite) o, a quanto sembra, ad una pratica d'uso della corda (lychanos). Ora Zaminer fa notare che queste circostanze non 185 sono sufficienti a dare un effettivo fondamento all'interpretazione proposta e che le domande che si potrebbero proporre ne indebolirebbero ancor più la portata. Che cosa sappiamo realmente del modo di suonare la lira? E perché un'eventuale terminologia empirica derivata da quello strumento dovrebbe avere la prevalenza su ogni altra, e in particolare su questioni che non hanno direttamente a che fare con la pratica, ma con la teoria? E poi perché proprio la lira? Se si estende la considerazione ai cordofoni greci in genere e si osservano le disposizioni dello strumento rispetto allo strumentista nella vasaria greca si hanno le disposizioni più varie: "Se ci atteniamo alle rappresentazioni figurative antiche, gli strumenti a corda sono tenuti in modo molto differenziato: la forminx va dalla posizione verticale fino a quella orizzontale, la cetra si trova in posizione eretta oppure leggermente inclinata verso l'esterno, la lira fortemente inclinata in avanti e il barbitos inclinato obliquamente fino alla posizione orizzontale. Che queste posizioni favoriscano o anche soltanto reandano possibile la formazione di un impiego verbale universalmente riconosciuto per l'hypate e la nete è veramente difficile da sostenere. Si aggiunga che molto poco si sa su come le corde fossero ordinate secondo la loro altezza, dove ad esempio si trovasse la corda più grave e quella più acuta rispetto alla vista del suonatore" (p. 5). Vi è infine, insieme ad altre considerazioni più minute, un singolare passo di Plutarco (Platonicae Quaestiones, 9.2) che afferma che l'hypate nella lira si trova nella prima posizione più elevata, mentre negli auloi essa è nella ultima posizione più bassa: affermazione, che qualunque cosa voglia dire letteralmente, indubbiamente sembra relativizzare la denominazione hypate e renderla "indipendente dai rapporti con la pratica degli strumenti musicali" (p. 6). La plausibilità delle obiezioni di Zaminer nei confronti dell'opinione più corrente mi sembra indubbia; ma tanto più cresce il nostro interesse quanto più egli si avvia a formulare le proprie ipotesi, che non solo ci portano lontano da tentativi di spiegazioni "positive" che risultano alla fine 186 fortemente riduttive, ma che riescono a fare intravvedere, attraverso queste scelte terminologiche, un orizzonte di senso assai ampio. In effetti veniamo subito sbalzati dalle questioni di tecnica strumentale ai grandi problemi della concezione dell'universo e della relazione della musica con il sistema celeste. In effetti vi è una relazione tra i nomi delle note e il sistema astronomico. Ecco un'interessante citazione tratta da Nicomaco di Gerasa (II sec. d. C): "Probabilmente i nomi delle note risalgono ai sette pianeti che percorrendo il cielo ruotano attorno alla terra... Dal moto di Crono, che è il più alto rispetto a noi, fu chiamato hypate il suono più grave dell'ottava, perché hypaton significa alto. La nete prende invece il nome dalla luna, il più basso di tutti e il più vicino alla terra, perché neton vuol dire basso. Dai pianeti che si trovano accanto a loro la parypate deriva il suo nome da Zeus, al di sotto di Crono, e la paranete da quello al di sopra della luna, cioè Afrodite. La mese dal pianeta che si trova esattamente al centro, cioè il sole, situato in quarta posizione a partire dal basso come dall'alto; la mese dell'antico eptacordo distava di un tetracordo dai due suoni estremi, così come il sole, tra i sette pianeti, è il quarto a partire da tutte e due le parti , e si trova in posizione assolutamente centrale. Ai due lati del sole, Ares che si colloca nella sfera tra Zeus ed il Sole ha dato nome alla ipermese o lichanos, ed Ermes in mezzo ad Afrodite ed al Sole, alla paramese". La mese prende invece nome dal movimento intermedio che è proprio del sole che occupa la quarta posizione dall'uno e dall'altro lato" (Nicomaco, 1990, pp. 148-149). Il commento di Barker è lapidario: "Questo è certamente sbagliato. Probabilmente le note hanno ricevuto il loro nome dalle corde o dalle dita usate per suonarle, essendo il significato di hypate "molto lontano" e il significato di nete "molto vicino"" (Barker, 1989, p. 187 252). Noi seguiremo invece, anche se in modo non letterale in questo o quel dettaglio, la tesi di Zaminer e le sue congetture, facendo peraltro riferimento a quest'unico passo di Nicomaco con qualche precisazione preliminare. Intanto non staremo a discutere sulla posizione qui proposta dei corpi celesti, dove Venere-Afrodite viene posta subito al di sopra della Luna, mentre in altri autori questa posizione è occupata da Mercurio e Venere segue ad esso. Scrive in proposito Luisa Zanoncelli: "La collocazione di Venere prima di Mercurio corrisponde alla concezione di Posidonio.... L'ordine di dei pianeti era stato variamente stabilito (v. Teone, p. 143 H) in base ai tempi della loro rivoluzione zodiacale (uguale per sole, Venere e Mercurio); la questione dei cosiddetti pianeti interni restò a lungo aperta e le soluzioni proposte per risolverlo erano molto complesse (v. Teone, p. 186 ss. H)" (Zanoncelli, 1990. p. 186). È evidente che questo non cambia nulla per quanto riguarda il senso del problema. Inoltre il rapporto tra la mese e il sole, oltrettutto così ricco di portata simbolica, crea qualche imbarazzo in Nicomaco che precisa che tale concezione vale per l'eptacordo, ma non per l'ottocordo. Se consideriamo l'ottocordo come suddiviso in quinta+quarta nella direzione ascendente e discendente è facile rendersi conto che la trite e la mese si scambiano le parti, non avendo né l'una né l'altra carattere di nota centrale. Nell'una direzione la quinta cade sulla mese, nell'altra sulla trite. "Mese e trite sarebbero in questo caso "toni medi" allo stesso titolo e la loro denominazione volendo potrebbero essere scambiate, cosicché questi termini non avrebbero alcuna specificità rispetto ai loro significati" (Zaminer, 1984, p. 14). Come subito vedremo, questo imbarazzo viene tolto di mezzo da una diversa interpretazione del problema. Occorre infine richiamare l'attenzione sul fatto che, benché nel testo di Nicomaco si parli di movimento e ci si ricolleghi all'armonia delle sfere alla fine del paragrafo ("Spiegherò anche per quali cause noi non riusciamo a 188 percepire questo cosmico simultaneo risuonare generatore - come riporta la tradizione - di un suono puro e armonioso"), la questione va affrontata interamente in termini di posizione - evitando anche confusioni con la tematica del rapporto velocità-emissione del suono. Il punto in cui ci discostiamo un poco da Zaminer sta nel fatto che il percorso che conduce alla tesi che egli propone può essere con esemplare immediatezza illustrato dalla nostra tematica della "linearizzazione" dell'intevallo, ovvero della corda considerata come rappresentativa di un segmento. Così diremo subito che il problema deve, a nostro avviso essere considerato non già dal punto di vista della posizione effettiva della corda (come traspare anche nella citazione di Nicomaco), ma dal punto di vista della posizione della mese nella sua proiezione in certo senso geometrica. Ciò che importa, in questa designazione, non è l'intervallo come rapporto aritmetico che altrove ho chiamato intervallo "intelligibile", ma l'intervallo "visibile" (Piana, 2003). Vogliamo dunque ricollegarci senz'altro alla nostra esposizione precedente. Essa contiene già sia l'impostazione che la soluzione del problema. nete trite mese hypate 6 8 9 12 In questo diagramma la Mese occupa esattamente la posizione di centro rispetto al segmento (6,12). Questa stessa posizione è in grado di rappresentare sia la quarta dall'hypate alla Mese (12,9), sia la quinta, dalla Mese alla Nete (9,6) essendo 12 : 9 = 4 : 3 e 9 : 6 = 3 : 2. Zaminer presenta esattamente lo stesso schema proponendolo in questa forma: 189 "Di qui risulta che il dimezzamento dell'intervallo di ottava hypate-nete mediante la mese consiste nel dimezzamento della lunghezza della corda corrispondente all'intervallo di ottava e che la denominazione mese - ed è questo che è sfuggito finora alla ricerca - è legittimato soltanto da questo stato di cose" (Zaminer, 1984, p. 15) Con ciò anche è risolto anche il problema della trite: benché nella direzione ascendente dall'Hypate alla Trite essa contrassegni un intervallo di quinta (12: 8 = 3 : 2) e dalla trite alla nete un intervallo di quarta (8:6= 4:3), essa non ha mai, rispetto al segmento rappresentativo dell'ottava, carattere di centro. È difficile trovare un'interpretazione più trasparente di questa. Giustamente anche in questa spiegazione Zaminer vede una conferma dell'errore di cercare spiegazioni per queste denominazioni unicamente nei dati di fatto della pratica strumentale (p. 14). In realtà in questo caso abbiamo anzitutto a che fare con nomi che rimandano ad un'elaborazione intellettuale geometrizzante dell'intervallo di ottava piuttosto che con la posizione delle corde dello strumento. Non solo: dopo questi chiarimenti possiamo ritornare alla tematica annunciata dalla citazione di Nicomaco di Gerasa - alla relazione tra nomi delle note e organizzazione dell'universo astronomico - relazione che richiede passaggi analogici che hanno carattere ad un tempo scientifico e immaginativo. Per effettuare questi passaggi lo schema precedente relativo allo spazio di un'ottava non ci porta allo scopo. Zaminer ricorre in effetti 190 ad una rappresentazione analoga che riguarda tuttavia la doppia ottava fornendo una complessa spiegazione sulla quale eviteremo di riferire dal momento che possiamo operare una notevole semplificazione non facendo altro che raddoppiare il nostro schema (come abbiamo già fatto in precedenza per altri scopi). 8 9 6 12 16 18 24 Su questa doppia ottava dobbiamo riferire anzitutto i nomi delle note nete, mese e hypate facendo un ragionamento tipicamente monocordista. La corda di riferimento sarà dunque (0,24) e dunque il nome mese andrà naturalmente al suo centro, e cioè sarà assegnato il numero dodici. Altrettanto naturale sarà l'assegnazione della nete e dell'hypate rispettivamente al numero 6 ed al numero 24, con riferimento ai segmenti (0, 6) e (0,24). Il punto 0 rappresenta il punto di aggancio (o il ponticello fisso sul lato sinistro). Nete 6 Mese 8 9 12 Hypate 16 18 24 Con queste assegnazioni saremo in grado di effettuare un coerente coordinamento con il sistema di consonanze visibile sullo schema ed il sistema planetario. L'ipotesi che attraversa tutto il pitagorismo è che l'ordine armonico dei corpi celesti corrisponda ai rapporti musicali sinfonici, quindi ottava, quarta e quinta. Il modo di concepire l'universo da parte dei greci è cambiato nel corso del tempo e talvolta differisce in autori di epoca vicina - ma ha anche ricevuto una certa stabilizzazione, naturalmente in età piuttosto tarda. Molte 191 cose erano comunque già note nelle fasi arcaiche del pensiero greco, anche a seguito delle conoscenze ereditate dalla civiltà egiziana e babilonese; ed erano in circolazione diverse concezioni sulla struttura generale dell'universo, in particolare sulla posizione dei "pianeti" e sul loro movimento. In questa nostra discussione noi non dobbiamo impegnarci più di tanto in problemi di astronomia antica perché le assunzioni che ci sono necessarie ai fini della sua impostazione sono realmente minime. Come abbiamo già sottolineato, dobbiamo presupporre la sequenza degli astri "vagabondi" ("pianeti") Luna, Venere, Mercurio, Sole, Marte, Giove, Saturno che è appunto l'ordine proposto da Nicomaco, avendo già del resto chiarito che anche uno scambio di posizioni tra Mercurio e Venere non ha particolare importanza. Importante è invece la concezione della terra come punto di aggancio del sistema. Il punto essenziale, che fa parte della proposta interpretativa di Zaminer è quello di considerare la Terra a somiglianza del punto 0 di aggancio della corda. Si tratta di una plausibile analogia: come vi è un punto fisso in cui la corda deve essere agganciata, così il sistema dei corpi celesti può essere concepito come agganciato alla terra, punto stabile della loro rotazione.Rendendo operante questa similitudine la coordinazione tra il sistema di consonanze e corpi stellari e dunque la "sinfonicità" del cosmo diventa, vorrei quasi dire, evidente. In effetti lo schema precedente ora assume la forma seguente (cfr. Zaminer, 1989, p. 24): Terra Luna Venere 6 nete 8 Mercurio 9 Marte Giove 12 16 18 mese quarta quinta ottava Sole Saturno 24 hypate quarta quinta ottava 192 Da un lato si conferma l'idea della nete come riferita al pianeta più vicino e l'hypate al pianeta più lontano, dall'altro la posizione del sole rende naturale la sua associazione alla mese, trovandosi in quarta posizione sia rispetto a Luna, Venere, Mercurio da un lato, sia rispetto a Marte Giove e Saturno dall'altro - in questo senso, per quanto riguarda la posizione, il sole è il centro stesso del sistema planetario in corrispondenza del centro del sistema armonico. Ma ciò significa, come è illustrato dal grafico, che prendendo come riferimento questo centro, le "distanze musicali", come verrebbe voglia di dire, tra i corpi stellari comprendono secondo un preciso ordine le consonanze di quarta, di quinta e di ottava. La scala è ben connessa, come lo è l'universo stesso. "In questo contesto visionario il sistema planetario e il sistema delle consonanze ricevono attraverso questa correlazione dei fissi contorni. I pianeti vengono riferiti l'uno all'altro nel senso dei suoni consonantici e i suoni consonantici ricevono a loro volta un significato planetario" (Zaminer, 1989, p. 25). Aggiungerei forse anche che qui siamo di fronte ad una singolare intuizione della centralità "musicale" del sole - il che significa della centralità del sole per l'ordine dell'universo che è in qualche modo associata alla centralità della terra come punto fisso: un'intuizione che, per i tempi, non mi sembra di poco conto nemmeno da un punto di vista astronomico. Una breve osservazione integrativa mi sembra debba essere compiuta anche per la relazione di tutto ciò con il tema dell'armonia delle sfere. È evidente che una relazione c'è, anche se noi abbiamo sottolineato in precedenza che qui non è in questione l'emissione di suoni, e dunque il movimento dei pianeti, ma la loro posizione e la loro correlazione con i nomi delle note. Se si considera questa relazione sembrerebbe esservi incongruenza tra la relazione hypate-Saturno e nete/Luna perché secondo alcune concezioni Saturno sarebbe il pianeta più veloce (e quindi capace di emettere il suono più acuto) e la Luna il pianeta più lento (e quindi capace di emettere il suono più grave); ma anziché cercare di contrapporre altre concezioni che sostenevano l'inverso, sembra a me più opportuno far notare che una ottava o 193 una quinta resta un'ottava o una quinta, qualunque siano i pianeti interessati. In altri termini l'intera impostazione non muterebbe di una virgola se l'ordine della velocità fosse crescente dalla Luna a Saturno o inversamente. Il problema dei nomi delle note non è il problema dell'armonia delle sfere, ma non è nemmeno in contrasto o in contraddizione con esso. Il suo tema essenziale è, ancora una volta, quello di un accordo interno dell'universo. Questo tema si sviluppa atttraverso associazioni che si muovono tra l'immaginario ed un livello scientifico ai suoi inizi. Ma è bene rammentare che i greci sapevano benissimo distinguere tra una nota ed un corpo celeste come sappiamo farlo noi. Alla base delle correlazioni stabilite vi è l'idea che un ordine, e precisamente un ordine numerico, il che significa nello stesso tempo - anche questo occorre non dimenticarlo - l'ordine di una legge che governa l'universo: ora è accaduto che un primo sintomo particolarmente significativo di quest'ordine sia stato scoperto nella musica, e lo sia stato non come una circostanza di ordine particolare, ma al contrario come un sintomo che poteva prescindere dall'empiria dei materiali e delle cose visibili per concernere il lato universale delle cose. Vi è dunque un pensiero profondo che suggerisce di guardare in alto, al cosmo stesso, a partire dalla musica - e questa è cosa diversa del guardare al mondo come un mondo fatto di musica. 194 10 I generi 195 10.1 Prima dei generi Abbiamo più volte richiamato l'attenzione sul fatto che è la teoria dei generi che caratterizza la teoria greca della musica in modo eminente, e conseguentemente tutte le nostre considerazioni precedenti debbono essere ripensate e ricomprese nel contesto loro proprio rappresentato da quella teoria. Il termine genere (genos) ha in realtà un'origine logica - si tratta proprio della differenza tra genere e specie nella teoria del concetto dove il genere è sovraordinato alla specie come quando diciamo che la specie "uomo" appartiene al "genere" animale. Ma da ciò converrà ora prescindere per identificare meglio il problema propriamente musicale. La problematica musicale dei generi comincia prendere forma quando il materiale musicale che possiamo supporre fortemente differenziato e disparato nelle diverse regioni della Grecia, comincia ad essere messo sotto il fuoco dell'attenzione teorica e si pone il problema, come in tutte le culture musicali evolute, della sua organizzazione. Si tratta di un processo graduale, che attraversa anche il pitagorismo, ma che ha il suo punto culminante e la sua formulazione più netta nel più grande teorico della musica greca, Aristosseno di Taranto (seconda metà del secolo IV a. C.). Dei generi parlerà poi tutta la trattatistica musicale successiva. Con Aristosseno si apre un nuovo paesaggio della teoria greca della musica, e si apre all'insegna di Aristotele di cui egli fu allievo e presumibilmente per un certo tempo anche candidato alla direzione della scuola peripatetica. Ecco dunque che mentre con il pitagorismo si crea ben presto un legame con un platonismo destinato a protrarsi nel tempo, con Aristosseno entra in scena l'altro grande versante della filosofia e della spiritualità greca: il versante aristotelico. Con tutto ciò che questo comporta: l'attenzione che si volge verso il mondo sensibile, la rivalutazione dell'apporto della percezione che nel platonismo dove necessariamente recedere di fronte alle pure idealità, quindi anche la maggiore vicinanza, per quanto 196 riguarda le vicende della musica alle pratiche effettivamente operanti. Ma che cosa vi era prima della sistemazione teorica aristossenica e dei tentativi pitagorici di tener conto della differenza dei generi? Io credo, che al di là di precise e documentate verifiche storiche si possa supporre che anche in Grecia, sia avvenuto ciò che avviene nelle culture musicali che si sviluppano da stadi primitivi fino a livelli di grande dignità teorica. In ogni cultura musicale ai suoi inizi, all'interno della pratica musicale stessa si vanno stabilizzando stilemi, elementi motivici e andamenti melodici che vengono liberamente impiegati dai musicisti, cantori o strumentisti e che cominciano a formare un patrimonio musicale comune, prima in un ristretto ambito regionale-tribale, poi in una sfera sempre più ampia. Questi elementi di organizzazione melodica, che assumono forma di schemi intervallari, e quindi di scale differenti, di variazioni tipicamenti inerenti a questo o a quello schema, possono contraddistinguersi per la loro prevalenza in regioni geografiche diverse o per il loro impiego prevalente presso questo o quel gruppo etnico, e ricevere anche dei nomi che li identificano. Potremmo parlare genericamente di "tipi melodici" (implicando anche naturalmente l'elemento ritmico) e ciascun tipo può avere caratteristiche peculiari sia sotto il profilo musicale sia sotto quello extramusicale, ad esempio occasioni particolari in cui un determinato tipo melodico viene eseguito (matrimoni, cerimonie funebri, riti religiosi, feste, spettacoli ecc). Si tratta di un materiale musicale disparato inizialmente privo di organizzazione. A poco a poco, sia per esigenza di apprendimento e di trasmissione da maestro a discepolo, sia per un'esigenza di ordine teorico, interviene un pensiero sistematizzatore. Questi concetti e questo percorso può essere esemplificato nella musica etnica in genere, ma anche nelle culture musicali evolute come quella indiana, araba o cinese. Tutto ciò vale indubbiamente anche per la musica greca arcaica. Poiché siamo liberi di usare i termini come vogliamo questi "tipi melodici" potrebbero essere chiamati modi - ma con un'importante precisazione. Il termine modo ha un impiego particolare in tutta la tradizione musicale europea dal medioevo fino all'avvento della tonalità; prima di essa la "modalità" ha rappresentato un vero e 197 proprio sistema linguistico con le proprie regole e specifiche terminologie. Esso si va affermando nel medioevo a partire dai cosiddetti "modi ecclesiastici" o "modi di chiesa", ricollegandosi spesso con notevoli fraintendimenti alla teoria greca e svisandone anche la terminologia. Questi fraintendimenti e svisamenti sono poi stati riproiettati sulla teoria della musica greca, creando, come si può ben immaginare, confusioni a catena. Ora se la parola "modo" viene presa in questo significato storico specifico, occorre guardarsi dall'impiegarlo in rapporto a questo o a quell'aspetto della teoria greca. "I Greci non hanno conosciuto alcun modo" (Gombosi, 1951, p. 20). "Nella dottrina greca vi sono cose sufficientemente certe perché non perdiamo il nostro tempo a elaborare ipotesi fragili e sterili. L'importanza del modo nella musica liturgica del medioevo e in quella del giorno d'oggi non deve farci credere che l'antichità abbia avuto preoccupazioni simili alle nostre" (Potiron, 1961, p. 176). È importante, a mio avviso, sottolineare che quando si nega la presenza di modi nella musica greca, come nelle citazioni precedenti, si presuppone sempre l'accezione storicamente determinata del modo nella tradizione musicale europea. Infatti nulla ci impedisce di usare lo stesso termine in un'accezione estesa, come "tipo melodico" nel senso or ora descritto, che da quella tradizione musicale europea è perfettamente scindibile (Piana, 1998, p. 20). Ciò può può facilitare i confronti così come attirare l'attenzione sulle differenze. Del resto è ormai invalso l'uso, che non è affatto da disapprovare, di chiamare modi ad esempio anche i raga e gli schemi intervallari orientali in genere, benché essi non siano certo da confondere con i modi ecclesiastici. Va detto che non mancano le parole greche per indicare il tipo melodico e in generale aspetti che possono cadere sotto l'accezione estesa del termine "modo" benché, anche in rapporto ad esse ci possano essere controversie interpretative. In particolare il termine di harmonia, nella varietà dei significati che gli vengono attri- 198 buiti, ha anche un significato che assomma le caratteristiche che abbiamo riunito sotto la nozione di tipo melodico, in un'accezione nettamente rivolta ad uno schema intervallare che poteva riguardare l'ottava in possibili diverse suddivisioni. Ora vi sono indizi che nella fase più antica della musica greca vi fossero "armonie" non necessariamente già incorniciate nel quadro della teoria dei generi. Uno di questi indizi è rappresentato dalle armonie di cui parla Platone nel terzo libro della Repubblica (398 c) e da Aristotele al termine della sua Politica (1340a-b). In Platone esse hanno dei nomi: egli parla di dorico, frigio, lidio, iastio, misolidio e sintonolidio. L'harmonia dorica, frigia, e misolida sono nominate invece da Aristotele. Alcune di queste armonie sono dunque caratterizzate con i nomi delle regioni di origine o di provenienza benché in quest'epoca avessero in gran parte perduto il loro carattere di musiche regionali ed avessero piuttosto il carattere di stili differenti. Questo processo di standardizzazione e di regolarizzazione continua presumibilmente con i teorici talvolta chiamati "armonisti": "Essi continuarono a riorganizzare le vecchie harmoniai che rapidamente diventarono tonoi con parti costitutive più regolarizzate e relazioni maggiormente compatibili tra loro. Fu alla fine con Aristosseno una o due generazioni più tardi che otteniamo la nostra prima teoria analitica completa, unificata e onnicomprensiva" (Solomon, 1984, p. 249). Per quanto riguarda le antiche harmoniai, Platone peraltro non dà alcuna caratterizzazione tecnica relativa alla loro struttura. Aristide Quintiliano fornisce invece di esse una vera e propria notazione. Sia sull'interpretazione della notazione, sia sulla natura delle "scale" proposte, sulla loro maggiore o minore arcaicità, sono sorte numerose controversie - ed alcuni imputano a erronee interpretazioni di queste "armonie" la tesi secondo cui cui la modalità nel senso medioeval-moderno sarebbe presente nella musica greca: "Ci viene detto che il suo trattato contiene la no- 199 tazione delle armonie dette platoniche secondo i più antichi tra gli autori antichi... cosa che ha fatto credere che noi abbiamo in questi diagrammi le forme di modi primitivi" (Potiron, 1961, p. 160). A parte i dettagli della disputa, sembra difficile dimostrare che le armonie di cui parlano Platone e Aristide Quintiliano riferendole ad una fase arcaica della musica greca siano da considerare nel quadro della teoria dei generi, così come non possiamo certo supporre, perché si tratterebe di una supposizione priva di senso, che tale teoria sia sorta tutta in un colpo nella testa di un unico grande teorico. La teoria dei generi viene dopo la sua graduale affermazione nella pratica musicale e sembra naturale ritenere che essa, nella pratica come nella teoria, abbia avuto una gestazione a partire da tipi melodici e dunque modelli intervallari caratteristicamente praticati in contesti regionali e in occasioni particolari, come è il caso della musica popolare in genere. Inoltre va detto che alcuni nomi che si possono fare risalire alle "armonie" più antiche vengono mantenuti anche negli sviluppi della teoria dei generi, rimanendo sullo sfondo dell'elaborazione musicale e teorica dei greci. 200 10.2 I generi e le loro differenze Introducendo il problema del tetracordo come spazio sonoro fondamentale per la teoria greca abbiamo proposto la scala diatonica pitagorica proponendo anche per ciascuna nota un nome sof soffermandoci anche sulle ragioni profonde dei nomi delle posizioni fondamentali nete-mese-hypate. Abbiamo anche fatto notare che le note che delimitano l'intervallo di disgiunzione sono inamovibili in quanto la modificazione dell'intervallo tra esse modificherebbe i pilastri consonantici dell'ottava, la quarta e la quinta. Ma che ne è degli intervalli che stanno all'interno del tetracordo superiore e di quello inferiore? Il principio su cui si regge la differenza tra i generi sta nel fatto che di fronte alle note stabili - nete, paramese, mese e hypate - vi sono le note mobili: la paranete e la trite nel tetracordo superiore e la lichanos e la parhypate nel tetracordo inferiore. Gli intervalli che sono interessati da queste note possono dunque variare e questa variazione va intesa come vincolata ad una tipologia delineata in linea di massima. I tipi in questione vengono chiamati generi. Una stessa struttura melodica potrà dunque essere eseguita in modi diversi secondo il genere e acquisire così una diversa inclinazione di senso. Questa idea delle note mobili e della possibilità conseguente di "interpretare" un andamento melodico attraverso variazioni della grandezza dei suoi intervalli costitutivi è caduta completamente negli sviluppi successivi, ed è da considerarsi estranea alla musica europea dal medioevo in poi, nonostante il fatto che fino al secolo XVIII la terminologia dei generi ha continuato ad affiorare all'interno della trattatistica teorica (con sensi ovviamente del tutto mutati). Il fatto che la direzione diretta degli andamenti scalari greci sia considerata quella discendente e la direzione inversa quella ascendente non è un dettaglio di secondaria importanza, non solo, ovviamente per la corretta lettura della sequenza degli intervalli, ma anche perché dal punto di vista espressivo esso segnala una tendenza del movimento melodico a "cadere", ed in realtà è questa stessa tendenza che si manifesta - per quanto poco questo aspetto venga sottolineato - nella differenza dei generi. 201 I generi greci sono tre, i loro nomi sono: 1. diatonico: 2. cromatico; 3. enarmonico. Dall'uno all'altro si ha un'accentuazione del senso della discesa, e quindi del senso della "caduta". Il tetracordo è sentito ad un tempo come un intervallo unitario che si chiude sulla quarta, ma nella sua articolazione interna la grandezza degli intervalli può essere variata in modo tale che l'andamento verso la quarta avvenga a passi relativamente uniformi oppure che venga progressivamente "accelerato" - ciò significa che i passi diventano sempre più stretti approssimandosi alla mèta. È come se ci fosse una forza di gravità, che nel genere diatonico si fa sentire relativamente poco mentre nel genere cromatico ed enarmonico si accentua sempre più. Nel primo caso essa viene in certo modo frenata, negli altri altri sempre più assecondata. Al di là delle immagini che peraltro tentano di descrivere un senso inerente alla percezione, ciò che accade oggettivamente è soltanto un coerente mutamento di grandezza di intervalli. Nel genere diatonico i primi due passi sono uniformi, e l'ultimo più stretto (cosa che già sappiamo). Nel genere cromatico, il primo passo è più ampio e gli altri due (normalmente) si restringono, mentre nel genere enarmonico il primo passo è amplissimo, e gli ultimi due sono strettissimi, e si precipitano quasi sulla nota di chiusura del tetracordo. Possiamo assumere la nostra ben nota struttura intervallare T T S come particolarmente rappresentativa del tetracordo di genere diatonico. Questo termine è dunque in realtà da considerarsi come nome di un genere. Ma va da sé che ora la mobilità delle note intermedie del tetracordo ci possono porre vari problemi per ciò che concerne espressioni come tono o semitono. Esse debbono essere ormai prese come designazioni assai generiche la cui grandezza resta di volta in volta da determinare. 1.Il genere diatonico potrebbe essere rappresentato graficamente in questo modo, usando i nomi delle note del tetracordo inferiore che è considerato significativo del genere: 202 mese lichanos parhypate hypate 2. Nel caso del genere cromatico invece la forza di attrazione della paramese o dell'hypate si fa sentire maggiormente. Infatti noi abbiamo qui la posizione dei due suoni mobili in modo tale che il primo realizza un grande passo, a cui seguono due piccoli passi. La conseguenza è che il primo intervallo deve essere maggiore di un tono. Di quanto? Per il momento e in attesa di ulteriori chiarimenti diciamo che deve essere maggiore di un tono e minore di due toni. Esso potrebbe essere rappresentato così: mese lichanos parhypate hypate 203 3. Infine abbiamo il genere enarmonico: la tendenza che già vediamo in atto nel genere cromatico viene ulteriormente accentuata. Cosicché avremo un passo iniziale larghissimo e poi due passi molto stretti. mese parhypate hypate lichanos 10.3 L'indicatore del genere Nella precedente discussione sui nomi delle note abbiamo lasciato un punto interrogativo sul termine lichanos - non potevamo in realtà trattare l'argomento prima di aver parlato della teoria dei generi. Ora una precisazione diventa possibile. Letteralmente lichanos significa "dito indice". Abbiamo già in più di un passo sollevato dubbi sulla tendenza a cercare ad ogni costo ed in modo esclusivo spiegazioni "positive" in dati di fatto relative alla tecniche strumentali, mettendo da parte elementi più densi di teoria o intrisi di immaginazione. Qui troviamo un altro ottimo esempio di questa tendenza. Che cosa vi è di più ovvio che ritenere questa denominazione come relativa al dito che toccava la corda corrispondente del tetracordo? I nomi delle note "sono connessi anzitutto con la mano in atto di suonare: ad esempio, lichanos significa dito indice..." (Henderson, 1962, p. 386). Così anche il dizionario greco Liddel-Scott (Le Monnier, 1975) che dopo aver segnalato come primo significato "dito indice", come secondo significato in- 204 dica "la corda pizzicata con l'indice e la nota relativa". Questa spiegazione ha comunque un'origine antica. È singolare che talora le spiegazioni che a tutt'a prima sembrano tener saldamente i piedi per terra si rivelino, ad un minimo di riflessione, del tutto arbitrarie e fantasiose. Questo sembra essere proprio il caso di questa spiegazione della lichanos: basti pensare alla varietà di cordofoni (che vengono qui evidentemente privilegiati) a disposizione ed alla molteplicità di diteggiature possibili per brani diversi o per lo stesso brano - una possibilità da sempre sfruttata a fondo dagli strumentisti di ogni epoca. Sembra allora rasentare il nonsenso il ritenere che un determinato dito fosse preordinato a pizzicare una corda preordinata. La parola va intesa invece nel quadro della teoria dei generi. Se guardiamo anche soltanto i nostri precedenti grafici ci rendiamo conto del "significato" della lichanos rispetto al genere: a seconda della posizione della lichanos sappiamo subito in quale genere ci muoviamo. Va naturalmente precisato che lo stesso modo di intendere l'ottava come doppio tetracordo rende possibile il fatto che i due tetracordi potessero essere sia dello stesso genere, che di genere diverso. Henderson (1962, p. 387) afferma esplicitamente che "è da scartare il concetto di scale di ottava uniformi, poiché due tetracordi accoppiati potevano essere di genere diverso". Nel caso che i generi dei due tetracordi fossero diversi, il genere era caratterizzato dal secondo tetracordo.Il dito indice della mano ha dunque a che fare con il significato della parola, perché esso è il dito che indica per eccellenza, e come tale suggerisce subito possibili impieghi metaforici. 205 10.4 L'alterna vicenda dei generi Occorre guardarsi dal considerare la mobilità delle note interne al tetracordo nel senso di "alterazioni", sia pure un po' particolari, simili a quelle in uso nella musica europea. Il sistema dei generi è una peculiarità della musica greca, anche se naturalmente le note mobili possono essere ritrovate anche in altre culture. Il restringersi o l'allargamento di un intervallo in funzione espressiva è qualcosa di diverso dalla diesizzazione o dalla bemollizzazione di una nota, anche se eventualmente per necessità notazionali tenderemo, in una eventuale trascrizione e usando i nostri nomi delle note, ad usare diesis e bemolle. Ciò si può fare soltanto se si sa bene quel che si fa. Sarebbe invece un errore ritenere, ad esempio, che il primo intervallo del genere cromatico o del genere enarmonico siano composizioni di intervalli - anche se la loro grandezza coincide con due intervalli: ad es. il primo intervallo di un genere cromatico potrebbe essere pari ad un tono+apotome oppure possiamo far equi- 206 valere il primo intervallo del genere enarmonico a due toni - ed anzi può talvolta essere utile per indicare queste grandezze, se è possibile, alla somma di grandezze standard come 204, 114 o 90. Questa utilità riguarda solo il problema eventuale di una misurazione. Un tono che si allarga o si restringe è una caratteristica circostanza dinamica (dal punto di vista uditivo) che pone un problema interamente diverso da una entità misurata in sotto-entità. Le trascrizioni nella nostra notazione con i nomi delle nostre note possono essere utili anche per fare confronti con i valori del nostro sistema temperato - ma occorre che esse siano accompagnate dalla consapevolezza che il "modo di intendere" la differenza dei generi è un fatto eminentemente espressivo. Questa osservazione è tanto più importante se si tiene conto che la possibilità di impiego di uno genere o dell'altro, o di un genere misto (due generi diversi nel tetracodo superiore e in quello inferiore) arricchisce la tavolozza espressiva in rapporto ad una stessa melodia. Qui siamo in presenza di un concetto effettivamente nuovo al quale non siamo certamente abituati. In certo senso, la stessa melodia può ricevere diverse "interpretazioni" secondo il genere in cui viene eseguita. Per illustrare le differenze del genere sarei tentato di usare un concetto visivo: quello di punto di vista. Se io guardo un colonnato frontalmente ponendomi in una posizione centrale avrò grosso modo la visione di una fila di colonne eguali: 207 È chiaro che, se dovessi fare una associazione con i generi, assocerei questa visione frontale, che è la più stabile, al genere diatonico. Se invece mi dispongo lateralmente, vi sarà una scorciatura prospettica più o meno forte. Ecco il cromatico e l'enarmonico! L'oggetto è lo visibilmente lo stesso, ma la prospettiva è mutata, e lo è secondo una regola. 208 Così la melodia, nel mutamento del genere, è perfettamente riconoscibile, ma la sua espressività muta. In certo senso, rompendo l'ordine diatonico, si ha una maggiore dinamicità, che si traduce in una sorta di drammatizzazione interna. L'oggetto sonoro resta quello che è, ma è diventato più plastico, più mobile, forse anche più ambiguo. Naturalmente non sappiamo come fossero realmente giocate le possibilità che i generi mettevano a disposizione, ma proprio per questo siamo anche tentati di comprendere, al di là degli aspetti formali, come queste differenze possano in ogni caso agire sul piano dell'espressione. Ben poco siamo informati dell'evoluzione storica del problema. È noto tuttavia che i generi ebbero fortune alterne - e che proprio il genere enarmonico, che abbiamo messo per ultimo, perché questo sembra l'ordine logico, sia stato invece il genere più antico. Questo attesta lo Pseudo-Plutarco (I sec. d. C.), nel suo De Musica, che è secondo Sachs fonte attendibile: "Dei tre generi nei quali è divisa la scala musicale, corrispondenti in numero e potenza ai loro rispettivi sistemi, suoni e tetracordi, uno solo fu coltivato dagli antichi. Nei loro trattati noi non troviamo nessuna indicazione sull'uso del genere diatonico o cromatico, ma dell'enarmonico soltanto" (Sachs, 1943, p. 208) Peraltro,questa affermazione potrebbe anche voler dire,mi sembra,che non vi era a quei tempi nessuna teoria dei generi,ma la prevalenza di un'ottava assai simile a quella che venne poi ascritta al genere enarmonico. È certo in ogni caso che verso la tarda grecità il fenomeno rilevante e decisivo sia il prevalere del genere diatonico. Questa prevalenza è stata così pronunciata da segnare una crisi irreversibile nella teoria dei generi che resta alla fine soltanto nelle esposizioni trattatistiche, ed ovviamente - non vivendo più nella pratica musicale - perdendosi in mille equivoci. Secondo lo stesso Pseudo-Plutarco i suoi contemporaneai non erano più in grado di cantare nel genere enarmonico; ed un secolo dopo Gaudenzio (II sec.) nella sua Introduzione all'armonica conferma che il diatonico era l'unico genere 209 cantato ai suoi giorni. Scrive Gaudenzio: "La trattazione sarà limitata al solo genere diatonico; dei tre generi è il solo ad essere oggi comunemente impiegato, mentre gli altri due rischiano di cadere in disuso" (Gaudenzio, 1990, cap. 6, p. 319). 10.5 Il pyknon Questa vicenda tuttavia suggerisce anche altri pensieri. Il genere cromatico è indubbiamente un genere intermedio, ma lo si può accoppiare certo meglio al genere enarmonico che al genere diatonico. Ciò dipende in particolare per il fatto che già nel genere cromatico si perde l'eguaglianza dei due toni iniziali, e si crea invece una regione di intervalli più ristretti, che diventano strettissimi nel genere enarmonico.Questa regione ha un nome nella teoria dei generi - essa si chiama pyknon. Si tratta di un termine che allude all'addensamento degli intervalli, dovuta proprio al fatto che essi si restringono come conseguenza del movimento della lichanos, intensificando l'effetto cadenzale verso l'estremo inferiore del tetracordo. Nel genere cromatico ed enarmonico lo spazio in cui sono comprese le ultime tre note (e quindi la somma dei due intervalli) è minore dell'intervallo che va dal limite superiore al prima nota discendente. Si può dunque riconoscere un tratto comune ai due generi e questo accoppiamento è del resto riconosciuto dalla teoria greca che parla talora del genere cromatico e del genere enarmonico come "generi pycnici"(Solomon, 1984, p. 246). Ciò significa che la vera opposizione tra i generi è quella tra diatonico da un lato e cromatico/enarmonico, dall'altro. Ora nell'enarmonico il pyknon è talmente stretto che ciascuno dei due intervalli di cui è costituito si aggira intorno al quarto di tono. Ora, se è vero che non dobbiamo confondere il cromatismo nel senso moderno del termine, con nozioni che presuppongono la teoria dei generi, è vero anche che se consideriamo i termini diatonico/cromatico in senso moderno come relativi alla differenza tra il grande ed il 210 piccolo intervallo, come io sarei disposto a fare, e se inoltre colleghiamo la problematica del diatonismo e del cromatismo non tanto a questo o quel linguaggio musicale particolare, ma alla differenza tra il discreto e il continuo, allora indubbiamente questa stessa differenza è richiamata dalla coppia diatonico e cromatico/enarmonico. Non si può allora non notare che l'alterna vicenda dei generi che vede il diatonico trionfare sulla coppia cromatico/enarmonico, con il conseguente tramonto dei generi e delle libertà ad essi collegate, rispecchia sul piano tecnico-musicale la vicenda mitica della vittoria di Apollo su Marsia. A ciò non sono certo estranei i teorici greci della musica e, naturalmente, i filosofi, a cominciare da Platone: le harmoniai che egli critica dal punto di vista etico-pedagogico, benché presumibilmente non organizzate nella teoria dei generi, sembrano avere un'inclinazione "cromatico/enarmonica", quelle che sono per lui ammissibili una inclinazione "diatonica". 211 10.6 La teoria dei generi e i tetracordi di Archita Dobbiamo ora riparlare di Archita. Delle sue definizioni delle medie aritmetica, armonica e geometrica abbiamo trattato abbastanza diffusamente in precedenza. Ora invece ci occupiamo di Archita in rapporto ad un'importante esposizione di Tolomeo (II sec. d. C.) (A16 - Huffman, 2005) che descrive con molta precisione tre tetracordi proposti da Archita in corrispondenza dei tre generi. In realtà Archita non nomina i generi secondo la terminologia che diventò consueta dopo Aristosseno, ma in ogni caso si tratta di un dettaglio poco importante - come osserva Barker - di fronte al fatto che i tetracordi riferiti e illustrati nel dettaglio da Tolomeo "rappresentano le più antiche analisi in nostro possesso che propongono insieme tre differenti tipi di sistemi intervallari che sono pienamente conformi ai tre generi della teoria di Aristosseno... Sulla base delle testimonianze che ci restano, possiamo spingerci a dire che l'analisi dettagliata e pienamente quantificata dei tre sistemi armonici non aveva precedenti" (2007, p. 292). La ragione per cui ci soffermiamo sui tetracordi di Archita non è tuttavia solo di ordine storico o semplicemente informativo. In rapporto ad essi si può aprire una discussione che è effettivamente di grande interesse per estendere e perfezionare la nostra esposizione. Intanto vi è la circostanza, che abbiamo già sottolineata secondo cui, anche presso i pitagorismo antico, non vi è alcuna scala assoluta - che i punti veramente fermi sono soltanto i punti della ripartizione consonantica dell'ottava. Dopo che questi punti sono stati fissati, cominciano elaborazioni che presuppongono in linea di principio la possibilità di intervenire sull'intervallistica interna del tetracordo e quindi dell'intera ottava. I tetracordi di Archita ne sono una prima consistente dimostrazione. 212 Ecco come si presenta il genere diatonico in rapporti e in cents: nete mese 9/8 8/7 28/27 204 231 63 paranete lichanos trite parhypate paramese hypate Diatonico Vi sono tre dati vistosi che saltano subito agli occhi. Il primo è la diseguaglianza dei due primi toni, cosa assai singolare per un genere diatonico; il secondo tono è più grande del primo. Il limma è assai più piccolo dei 90 cent del semitono diatonico che abbiamo imparato a conoscere. Per di più i primi due hanno una precisa relazione tra loro. Il numeratore di una frazione è anche il denominatore dell'altra - sono in qualche modo concatenati. Vi sono dunque deviazioni vistose rispetto al tetracordo di Filolao che indicano che il metodo di costruzione del tetracordo non è, in questo caso, quello che abbiamo descritto a suo tempo. Ma colpisce anche il fatto che tutti i rapporti intervallari sono rappresentati da rapporti epimori, e questo vale soprattutto per il limma che, in Filolao, presentava un 256/243 che non poteva essere giustificato se non come resto, e che quindi non aveva una giustificazione matematica abbastanza forte. Archita modificò il diatonico standard documentato da Filolao proprio per arrivare ad una suddivisione del tetracordo nei diversi generi tutta fatta di rapporti epimori? Questa ipotesi potrebbe essere confermata dal tetracordo nel ge- 213 nere enarmonico, ma essa viene piuttosto energicamente contraddetta dal tetracordo del genere cromatico. 32/27 245/224 28/27 294 141 63 trite paranete lichanos nete mese parhypate paramese hypate Cromatico nete mese 5/4 36/35 28/27 386 49 63 paranete trite paramese lichanos parhypate hypate Enarmonico 214 Nel genere enarmonico tutti i rapporti sono epimori. Si noti la lichanos assai ampia che arriva a quella che, nella terminologia europea, si chiama terza maggiore (zarliniana) mentre nel cromatico sfiora la terza minore temperata (300 cents). In realtà le espressioni terza maggiore e terza minore facendo riferimento alla musica greca non dovrebbero essere usate affatto, o esserlo con estrema cautela. Ad esempio, sui 5/4 di Archita si potrebbero sprecare molte parole a sproposito, come se egli avesse "intuito" quella che viene ritenuta la terza consonante per eccellenza, la terza che poi compare anche nella serie degli armonici. Beninteso non si tratta tanto del rispetto astrattamente inteso del contesto storico-culturale e nemmeno di escludere in via di principio l'uso di una terminologia moderna: a volte questo uso può essere fatto "con proprietà" - voglio dire che potrebbe essere utile per capire affinità e relazioni tra problemi. Ma esso diventa fortemente inopportuno quando aiuta, anziché a capire, a confondere. Si legge talvolta che la terza maggiore non era riconosciuta dai greci come consonanza - oppure che essa era "stonata" (essendo pari a 204+204=408 cents). Questi sono discorsi privi di senso. Di fronte ad essi, e quindi di fronte ad un uso che provoca solo equivoci e fraintendimenti risponderemmo che la terza maggiore nella musica greca non esiste affatto, né intonata né stonata. E il 5/4 non ha quasi nulla a che vedere con la terza zarliniana proprio per la differenza di contesto. Quel 5/4 che compare in questo tetracordo è la lychanos dell'enarmonico di Archita, e niente altro. Nel caso del genere cromatico, non sono epimori né il primo né il secondo intervallo - lo è solo l'ultimo, che peraltro è lo stesso in tutti e tre i generi. 215 Discussione 1. Eccoci dunque di fronte a vari interrogativi: qual'è l'idea guida dei tetracordi di Archita? Quali le procedure costruttive che egli ha messo in opera? Si tratta di una vuota jonglerie del matematico giocherellone, oppure vi è un rapporto con la pratica musicale della sua epoca? Ecco intanto il giudizio dello stesso Tolomeo: "Archita di Taranto, che si impegnò nello studio della musica più di ogni altri pitagorico, tentò di mantenere l'accordo con la ragione, non soltanto nelle consonanze, ma anche nella divisione del tetracordo, sulla base del fatto che avere un eccesso che sia una misura comune è proprio della natura di ciò che è melodico. Cionondimeno, nell'impiegare questo principio, in taluni casi è chiaro che egli devia completamente da esso" (Huffman, 2005, p. 404). La formulazione "l'avere un eccesso che sia una misura comune" detta in rapporto a numeri è in realtà un'ottima e sintetica formulazione del principio del numero epimorio. Ad esempio, 9/8 eccede l'intero di 1/8 che rappresenta anche l'unità di misura dell'intero. In Tolomeo è dunque presente una valutazione positiva ed una critica. La valutazione positiva sta evidentemente nel fatto che Archita cercò di razionalizzare la divisione del tetracordo, guidato in particolare del principio della "melodicità" che sarebbe legata al carattere epimorio del rapporto, mentre la critica consiste nel fatto che, tenendo conto del suo genere cromatico, egli fallisce in questo suo scopo, e fallisce dunque proprio come matematico. Un'altra critica che Tolomeo rivolge ad Archita è di aver proposto in ogni genere un intervallo di 28/27 (63 cents) che sarebbe estraneo all'orecchio musicale. Si tratta evidentemente di una valutazione che presup- 216 pone un'interpretazione da passare al vaglio della critica, mentre taluni studiosi moderni l'hanno fatta senz'altro propria, appesantendola al punto da dichiarare Archita mediocre matematico (contro tutta la tradizione antica) e per di più duro d'orecchio! Burkert ritiene, ad esempio, che Archita avrebbe ottenuto i suoi valori per prove ed errori, come dire con le mani e con i piedi (Burkert 1972, p. 389, n. 17). Secondo questo autore le novità introdotte da Archita deriverebbero dall'insoddisfazione rispetto al limma di Filolao, in quanto rapporto non epimorio. "Burkert suppone che Archita prese le mosse dall'imbarazzante diatonico di Filolao con il suo limma a 256/243 e, in luogo di mantenere i primi due intervalli nel tetracordo entrambi a 9/8, tentò di mutarne uno leggermente, portandolo a 8/7 trovandoa propria delizia che l'ultimo intervallo diventava anch'esso epimorio (28/27)" (Huffman, 2005, p. 416). 2. Ben più articolate e ricche di informazioni appaiono essere le posizioni espresse da Winington-Ingram (1932) e da Barker (1989) che vengono riprese ed ulteriormente perfezionate dal bellissimo commento che Huffman (2005) dedica alla testimonianza di Tolomeo, ed al quale ci atterremo riprendendolo per sommi capi. Questo commento ci riserva alcune sorprese. Secondo Huffman il primo elemento da cui prendere le mosse è che Archita è tutt'altro che insensibile alla pratica musicale del suo tempo, ed anzi che proprio da questa pratica egli è stimolato ad una "razionalizzazione", cioè a trovare un'articolazione dei generi in rapporti matematici che siano prossimi a quella pratica. Questa affermazione è fondata su un rilievo di Winington-Ingram (1932) che dimostra che le suddivisioni di Archita sono presenti in Aristosseno che scrive appena una generazione dopo la morte di Archita. 217 "Aristosseno non le considera tutte e tre come suddivisioni 'proprie' ma non vi è alcun dubbio che egli le trovava tutte e tre nella musica dei suoi giorni" (Huffman, p. 412). Per quanto riguarda il valore di 28/27 (63 cents) attribuito a questo intervallo vi è una sottigliezza da mettere nel dovuto rilievo. Nella pratica musicale dell'epoca era particolarmente presente un intervallo con rapporto di 7/6 (cents 267). Ora, questo intervallo non è presente direttamente nel diatonico di Archita, ma la differenza tra l'intervallo di quinta e la somma dei primi due toni del tetracordo è pari a 7/6 - essendo (3/2)/((9/8)*(8/7)) = 7/6 cosicché questo intervallo risuona tra la trite e la mese. Si rammenti che tra paramese e mese vi è il tono di disgiunzione (204+63=267); di conseguenza il rapporto 28/27 risulta dalla differenza tra 7/6 e il tono a 9/8 (267204) = 63. Tutto ciò viene sintetizzato nella figura seguente. 9/8 8/7 parane te trite 9/8 9/8 63 231 20 4 nete 2 8/27 204 param e se 8 /7 63 231 204 m es e 28/27 lich an os parhy pate hypate 7/6 Questo intervallo di 7/6, caratteristico della pratica musicale dell'epoca, è dunque presente all'interno del tetracordo diatonico di Archita e questo proprio in forza del secondo tono a 231 cents e del limma a 63 cents. Qui vi è tutto tranne che un metodo per prova ed errori. È dunque Tolomeo che ignora la pratica musicale dell'epoca di Archita e di Aristosseno (del resto egli scrive cinquecento anni dopo) e ha torto nell'affermare che il rapporto indicato da Archita "contraddice i sensi", ed è dunque in errore anche Burkert che segue Tolomeo anche su questo punto affermando che Archita propone questo intervallo "in spregio dell'orecchio e della pratica musicale"( Huffman, ivi). 218 3. Ma le sorprese non finiscono qui. Barker è ancora disposto a sostenere, in modo particolarmente raffinato, che Archita si lascia guidare dal mito della "melodicità" dei rapporti epimori anche nel cromatico, ed anzi egli sarebbe il primo a tentare questa operazione (Barker,1994, p. 129). La raffinatezza sta nel supporre che anche i valori ottenuti nel tetracordo cromatico siano risultati di operazioni realizzate su rapporti epimori. Huffmann presenta invece una tesi più radicale e apparentemente priva di sostegni. Egli nega in generale che il principio dei rapporti epimori faccia da guida alla costruzione intervallare di Archita. "Vi sono molte buone ragioni, in ogni caso, per pensare che, nostante la testimonianza di Tolomeo, Archita non segua affatto questo principio" (p. 414). Per Tolomeo il principio dei rapporti multipli ed epimori faceva parte del patrimonio di idee apparentemente ovvio del pitagorismo in genere e la circostanza sembrava ricevere conferma dal fatto che sette su nove rapporti dei generi di Archita sono epimori - e naturalmente questa stessa circostanza segnalava il fallimento dell'operazione. Ma se si mette in dubbio questo fondamento della scelta di Archita, allora tutto il problema deve essere riconsiderato ed occorre trovare una giustificazione valida ed omogenea per tutte e tre le forme del tetracordo. Ora, secondo Huffman, occorre prendere le mosse dall'ipotesi che Archita applichi in rapporto al tetracordo anzitutto il metodo delle medie, che egli stesso aveva così attentamente teorizzato in rapporto all'ottava (fr.2).Vogliamo rendere conto della procedura adottata, andando all'osso della questione. Quello che può essere considerato il primo passo consiste nel non calcolare solo la media armonica e la media aritmetica dell'ottava, che conosciamo già molto bene consistere in 3/2 e 4/3, ma anche le rispettive medie degli intervalli di quinta e di quarta. Senza indugiare su questo calcolo che, ciascuno, se vuole, potrà fare da sé, otterremo alla fine la seguente interessante 219 sequenza, includendovi l'ottava con valore 2 e il tono con valore 9/8. 2, 3/2, 4/3, 5/4, 6/5, 7/6, 8/7, 9/8 Questi risultati hanno rilevanza nell'interpretazione dei tetracordi di Archita? Facendo il confronto troviamo soltanto, oltre ovviamente 2, 4/3 e 3/2 - ovvero l'ottava. il limite inferiore del tetracordo superiore (paramese) e il limite superiore del tetracordo inferiore (mese) - i valori di 9/8, di 8/7 e di 5/4. Ma mentre il primo aveva comunque la sua giustificazione nel tono di disgiunzione, l'inserimento nella scala dei valori di 8/7 nel diatonico e di 5/4 nell'enarmonico va in ogni caso giustificato, per non dire di tutti gli altri che non compaiono in questa serie. A questo punto intervengono nuovamente le considerazioni sul rapporto con la pratica musicale. In altri termini, dopo aver prodotto questa serie, Archita avrebbe tenuto conto delle intonazioni spesso praticate dai musici della sua epoca oltre che dai metodi di accordatura, in particolare quello per quarte e quinte di cui abbiamo già parlato in precedenza a cui ci si riferisce talora con l'espressione "metodo di concordanza".o "metodo del su e giù". A questo punto avviene un ulteriore riferimento alla pratica musicale: "Archita potrebbe aver visto musicisti che usavano questo metodo di accordatura due toni sotto a partire dalla mese nel tetracordo enarmonico, ma poi aver notato che essi non essendo soddisfatti di questa intonazione tendevano leggermente la corda per produrre il suono più piacevole della terza maggiore. Cosicché questo suono avrebbe dovuto avereun rapporto leggermente inferiore a quello del ditono, che può essere precisamente calcolato a 81/64 (ovvero 9/8*9/8) a partire dal metodo di concordanza" (Huffman, 2005, p. 419). Ecco una possibile spiegazione per l'apparire del 5/4 nell'enarmonico di Archita. La pratica musicale suggerisce un mutamento di intonazione che si trova fra i valori ottenuti attraverso le medie, e quindi secondo il modo di pensare di Archita, senz'altro adottabile. Mi sembra solo di dover ribadire che l'uso da parte di Huff Huff- 220 man dell'espressione "terza maggiore" non mi sembra opportuna, tanto più che egli allude proprio alla terza maggiore zarliniana di 5/4 (386 cents), assumendo senz'altro come motivazione di questo "temperamento" la sua maggiore gradevolezza. In realtà anche per Zarlino una simile terza veniva giustificata attraverso il metodo delle medie (in questo si può vedere un tratto comune, ma il contesto di insieme è comunque del tutto diverso). Per quanto riguarda la singolare variante che Archita propone nel tetracordo diatonico assumendo il rapporto di 8/7 come secondo intervallo, a ben vedere una spiegazione è già stata proposta nelle nostre considerazioni precedenti. Questo valore rende possibile l'intervallo di 7/6 (267 cents) tra la trite e la mese che era nella pratica musicale dell'epoca. Ed entrambi i valori sono presenti nella serie delle medie ottenute da Archita. 4. Con ciò si rende conto pienamente conto del diatonico di Archita. Ma che ne è dell'enarmonico ed ancor più del cromatico che sembra il più difficile da riportare entro l'ambito delle giustificazioni matematiche? In realtà l'enarmonico non pone troppi problemi perché, avendo tratto dalla prassi musicale l'eguaglianza dell'ultimo intervallo del tetracordo in tutti e tre i generi che è stato "razionalizzato" in 28/27, ed avendo già motivato una lichanos a 5/4, l'intervallo intermedio tra lichanos e parhypate si ottiene con una normale procedura sottrattiva: dall'intero tetracordo (4/3) si sottrae la "somma"degli intervalli 5/4 e 28/27: sempre rammentando che, in rapporto agli intervalli, sottrarre= dividere e sommare = moltiplicare [(4/3)/ (5/4*28/27)=36/35] a meno che non si voglia più semplicemente operare con i cents per i quali il calcolo consisterà in 498-(386+63) = 49. Dopo tutto ciò anche il problema apparentemente più difficile del genere cromatico viene presto risolto se si tien conto che esso è genere intermedio tra gli altri due. Di conseguenza il primo intervallo sarà di grandezza intermedia tra il primo intervallo diatonico 221 (204 cents) e il primo intervallo enarmonico (386 cents). Questa misura intermedia poteva essere legittimata se poteva essere concepita come "somma" di rapporti noti ed acquisiti. Di fatto i 32/27 (cents 294) sono analizzabili come somma del tono e del limma di Filolao (ovvero 9/8*256/243; in cents: 204+90). Essendo stato fissato l'ultimo intervallo a 28/27, l'intervallo intermedio - quel singolare 243/224 - lo si giustifica a sua volta come differenza: dall'intero tetracordo si "sottrae" la somma dei valori intervallari noti [(4/3)/ (32/27*28/27) = 243/224. In cents: 498-(294+63) = 141] È interessante infine far notare che l'intervallo dalla lichanos alla hypate è pari ad un tono di Filolao (243/224*28/27 = 9/8 ovvero 141+63=204) Scopriamo così che il cromatico di Archita è interamente costruito con gli intervalli del diatonico di Filolao. 5. Per dare una sintesi dell'intera discussione: La questione per Archita è come si possano associare i rapporti che egli ha determinato usando la media armonica ed aritmetica e l'osservazione dell'uso del "metodo di concordanza" . Il suo problema non è quello costruire una catena di rapporti epimori ma quello di una scelta di tetracordi ben formati dove la buona formazione dipende essenzialmente da due circostanze: "1. Tutti gli intervalli debbono essere derivabili o direttamente dal 'metodo di concordanza' di cui il sistema di Filolao costituisce una rappresentazione oppure da deviazioni intelligibili da esso (Barker, 1989, p. 50); 2. deviazioni intelligibili sono quelle deviazioni che si ricollegano alla divisione della quinta e della quarta attraverso le medie armoniche e aritmetiche. Tutte le sue divisioni dei tetracordi possono essere spiegate in termini di questi principi. Ed in questa misura egli persegue il criterio della ragione" (Huffman 2005, p. 423). Ma nello stesso tempo Archita è attento alle pratiche musicali del suo tempo e vi sono modificazioni che dipendono strettamente dalle intonazioni che egli udiva praticare dai musicisti del suo tempo. E 222 quando fa questo egli, piuttosto che dalla parte di un razionalismo ostinato, segue ciò che gli viene suggerito dalla sensibilità (ivi). Questa conclusione di Huffman ci trova consenzienti, anche se noi saremmo assai più prudenti nell'usare espressioni come terza minore e terza maggiore. Ma si tratta di questioni di dettaglio. In realtà questa discussione risulta assai istruttiva. I chiarimenti che sono stati ottenuti nel corso della discussione mostrano quale lavorio, quali intrecci problematici vi siano sotto queste proposte numeriche che a tutta prima si vorrebbe trascurare come prive di interesse musicale e teorico insieme. Inoltre viene confermato un discorso generale che è già affiorato in rapporto ad altri problemi: benché vi sia un lato del pitagorismo fortemente "razionalistico", e questo lato sia in ultima analisi l'elemento caratterizzante del pitagorismo e poi del platonismo, vi sono anche aspetti di apertura alla concretezza dell'osservazione e della pratica musicale. In questo senso questa discussione sul tetracordo è forse la migliore introduzione alle problematiche filosofico-musicali della teoria dei generi in Aristosseno proprio perché mostra quanto profonda sia la differenza che interviene sullo stesso tema a partire da basi concettuali interamente diverse. 223 11. Aristosseno e la teoria dei generi 224 11.1 Un nuovo concetto di intervallo 11.1.1 L'illimitatezza del numero delle lichanoi Vi è un punto in cui Aristosseno, nei suoi Elementi di Armonica, alla domanda sulle posizioni possibili della nota lichanos, risponde che essa può occupare un luogo qualunque del tetracordo. Egli dice precisamente che "il numero delle lichanoi deve essere considerato illimitato... Infatti in qualunque luogo si fermi la voce, si avrà una lichanos e non vi è nessun vuoto intermedio tale da non poter accogliere una lichanos" (Meib.26.10 - 1954, p. 39). Forse proprio quest'affermazione può essere il punto di avvio per mostrare, sia pure di scorcio e con la massima sobrietà possibile, la vera e propria rivoluzione che Aristosseno introduce nella teoria greca della musica. In apparenza essa sembra dire niente altro che ciò che abbiamo già detto: la lichanos come la parhypate sono le due note mobili, che determinano la divisione in tre intervalli del tetracordo. Abbiamo già notato che secondo la posizione della lichanos si determina la differenza tra i generi. Ora, questi spostamenti che venivano eseguiti con immediatezza sotto il gioco degli 225 impulsi espressivi da parte dei musicisti, rappresentano per i teorici un problema classificatorio. Da un lato, si trattava di stabilire entro quali limiti si poteva parlare ancora di un determinato genere ed dunque anche se si potesse, tenendo in ogni caso presente la pratica musicale, distinguere più di una varietà del genere. Oltre a ciò all'interno del genere in una qualche sua varietà, si potevano ammettere ulteriori sottili varianti, che i greci chiamavano chroai, un termine che rimanda al colore e che si potrebbe tradurre con sfumature oppure colorazioni - varianti così sottili e così affidate all'immediatezza dell'esecuzione da non rendere nemmeno sensata una classificazione. In questo modo, a partire dai modelli dei tre generi, era possibile sviluppare "uno stupefacente numero di subgeneri o sfumature differentemente bilanciate" (Sachs, 1943, p. 213). Tutto ciò è già stato detto o era implicito in quanto è stato detto. Resti Liceo di Aristotele 226 Tuttavia nell'accingersi ad affrontare la problematica dei generi che Aristosseno trova nella realtà musicale del suo tempo, egli non si limita a prenderne atto e ad accettare le elaborazioni di provenienza pitagorica o platonistica. Con la sua dichiarazione secondo cui non vi è alcun limite ai luoghi che può occupare la lichanos egli implica una concezione che investe sia il modo di concepire il tetracordo in genere, sia la nozione di intervallo, facendo interamente "saltare" l'impianto pitagorico del problema. Come abbiamo visto, all'interno di questo impianto può benissimo essere assorbito il concetto di genere, ma in nessun modo vale il principio che la "voce" ovvero il "suono" possa fermarsi in un luogo qualunque del tetracordo: al contrario, una varietà anche lontana dal modello di base, come accade nel caso dei tetracordi di Archita, deve avere una sua giustificazione matematica. Nello stesso tempo vi erano "luoghi" che il calcolo segnalava come "senza rapporto" e che dunque erano per principio esclusi dal novero delle possibilità musicali. Anche nel quadro della teoria dei generi, da parte pitagorica, restava l'accento sul fondamento matematico dell'intervallo e in particolare sul privilegio della discretezza ovvero dei rapporti tra numeri interi. Quella semplice frase, che potrebbe sembrare riguardare una pura concezione tecnica del tetracordo collegata alle differenze tra i generi ed alle loro varietà e sfumature, diventa invece una frase dirompente che comincia a portare il primo piano il problema della continuità. Beninteso anche per Aristosseno la musica c'è, solo se vi sono in ogni caso delle scelte discrete - il che vuol dire: se ci sono le "note", se ci sono altezze determinate. Ma il punto di vista nuovo, formulato in breve, è che queste scelte vengono effettuate su un spazio sonoro - ed anzitutto sul tetracordo - considerato come continuo di suoni possibili. Questa modificazione di punto di vista è strettamente connessa con una drastica modificazione sul modo di concepire l'intervallo. Su questo punto Aristosseno gioca la propria carta teoreticamente più impegnativa. 227 11.1.2 L'esperienza dell'intervallo La musica è fatta di suoni, di fenomeni uditivi. Ed allora il problema dell'intervallo deve essere affrontato esclusivamente dal punto di vista dell'esperienza che noi abbiamo di esso. Se dobbiamo descrivere in che cosa consista la percezione dell'intervallo non parleremo di rapporti numerici che essa non è in grado di afferrare come tali, ma di qualcosa di simile ad una distanza tra punti - e non nella complessa forma mediata in cui ne abbiamo parlato in precedenza in connessione con la divisione del monocordo in cui si cerca di dare "visibilità" ad una "ragione" soggiacente al fenomeno, ma come una relazione appartenente al fenomeno stesso, come una "distanza" udita : esattamente come si colgono uditivamente le differenze tra il grave e l'acuto, le differenze timbriche o di durata tra suono e suono (Piana, 2003). Tutte queste relazioni stanno dentro l'esperienza del suono, appartengono alla sua fenomenologia, e per quanto riguarda l'esperienza della grandezza dell'intervallo, essa può essere analogizzata alla visione di un tratto, di un segmento. In questo modo la fondamentale componente aristotelica del pensiero greco, con l'accento posto sulla sensibilità e con la sua attenzione all'empiria, entra a gran voce negli sviluppi della teoria greca della musica introducendo punti di vista nuovi e dirompenti. Gustav Adolph Spangenberg (1828-1891) - La scuola peripatetica 228 11.1.3 Differenze rispetto alla posizione pitagorica, il problema del geometrismo e della matematica degli irrazionali Vi è un'acutissima affermazione di Szabò (1978, p. 113), che a tutta prima stentiamo a comprendere, secondo la quale fu Aristosseno e non il filosofo pitagorico ad usare l'espressione diastema in senso metaforico, e non in senso letterale. In effetti, a ben pensarci, le cose stanno proprio così: quando il pitagorico parla di diastema intende una lunghezza effettiva, rappresentata dal pezzo di corda con cui egli fa i propri esperimenti. Quindi si tratta di un segmento visibile e l'uso del termine diastema non è di tipo analogico o metaforico. Proprio per questo il segmento può essere rappresentativo di un rapporto e la parola diastema, che significa originariamente segmento, assume come senso prevalente quello di intervallo (Szabò, 1978, p. 113). Invece da un punto di vista aristossenico si dirà: se vogliamo una buona immagine, un'immagine pertinente e adeguata per l'intervallo musicale, il segmento si adatta ai nostri scopi. "Questo mutamento è di grandissima importanza. In base ad esso è possibile proporre una concezione dell'intervallo come distanza e spazio senza essere costretti ad assumere tutte le implicazioni precedenti, e mettendo nettamente da parte l'aritmetica inerente all'intervallo come logos. E potremo persino servirci, come elemento rappresentativo dell'intervallo, di una linea, di un segmento considerato nei suoi estremi. Una simile rappresentazione visiva concreta dell'intervallo, in luogo di rimandare alla corda del monocordo, non sarebbe altro che figura di quell'immagine" (Piana, 2003, p. 43). La riconduzione dell'intervallo al rapporto numerico non è dunque accettata da Aristosseno. O meglio: la sua risposta sarebbe più articolata e riguarderebbe una distinzione di piani di discorso. Anzitutto ci sono alcuni fatti che possiamo accettare come fat- 229 ti primitivi, che non hanno bisogno di essere ridotti ad altro: essi sono riconoscibili all'orecchio ed entrano come tali all'interno della musica. Fra questi fatti vi sono in primo luogo le consonanze. "Noi percepiamo una quinta come consonanza, argomenta Aristosseno: è necessaria qualche ulteriore qualificazione? Essa non diventa più consonante se la analizziamo come un rapporto tra numeri piccoli come fanno i pitagorici. Perché non accettarla come un dato di fatto? Un sistema diventa rigoroso, continuerebbe Aristosseno, non tanto riferendo i suoi elementi ad altri che si trovano fuori del sistema (come i numeri), ma piuttosto individuando gli elementi basilari del sistema, riducendoli ad un piccolo numero, e poi deducendo gli altri da esso" (Crocker, 1961, p. 101). Una simile presa di posizione diventa tanto più insistente, tanto più appuntita, quanto più mira a colpire una posizione come quella pitagorica nella quale era diventato quasi ovvio lo scivolamento consistente nel sostituire integralmente i valori numerici dei rapporti al dato di fatto squisitamente musicale-uditivo della consonanza. In realtà tali valori possono essere considerati come appartenenti ad un piano extramusicale anche se naturalmente continuano a poter essere ritenuti come fondamento del fenomeno sonoro. Molti interpreti tuttavia non hanno compreso che la distinzione dei piani non implica che l'uno escluda l'altro. Il punto che bisogna avere in chiaro è soltanto il fatto che la determinazione dei rapporti riguarda un piano che sta oltre il dato musicale diretto. Ciò spiega perché, ad esempio, da un punto di vista aristossenico, un intervallo di quarta, può essere riconosciuto come tale senza alcun appoggio esterno; e nello stesso tempo la misura di 4/3 proposta dai pitagorici può essere considerata perfettamente corretta. Se si ammettono due possibili livelli di discorso su una simile presa di posizione non vi è nulla da eccepire. Tuttavia occorre subito notare che la revisione radicale a cui Aristosseno sottopone il concetto di intervallo fa riaffiorare il problema della misurazione delle loro 230 grandezze in termini del tutto nuovi. All'interno di questo problema si ripresenta un matematismo che ha un senso interamente diverso da quello pitagorico. Infatti il "ritorno alla percezione" - espressione che può essere considerata esemplare per sintetizzare il punto di vista di Aristosseno - si estende ovviamente anche alla grandezza degli intervalli e non vi sono ragioni per escludere non solo che esista la possibilità di una valutazione direttamente uditiva, ma anche che essa sia passibile di una qualche quantificazione. Una teoria della musica, sembra pensare Aristosseno, deve poter fornire delle indicazioni quantitative, perché altrimenti un discorso teorico rimarrebbe del tutto nel vago intorno ai suoi oggetti ed alle differenze tra essi. Perciò Aristosseno comincia ad usare termini come tono e semitono, secondo una accezione nuova, assumendo un atteggiamento che in fin dei conti non è troppo diverso da ciò che fa lo strumentista nell'azione di suonare il suo strumento. Egli opera con intervalli percepiti e null'altro. Un intervallo percepito deve essere riconoscibile nella sua grandezza alla semplice percezione e di conseguenza deve aver senso, ad esempio, parlare del doppio o del triplo di una grandezza intervallare e inversamente della sua metà o di un terzo o di un quarto di essa. Appare allora subito la drastica differenza rispetto alla posizione pitagorica. Aristosseno e la scuola aristossenica in genere non è disposta a sostenere le restrizioni che i pitagorici non potevano non imporre agli intervalli ed alle operazioni sugli intervalli. Una restrizione particolarmente significativa, a cui abbiamo già accennato, era l'esclusione di quei luoghi dello spazio sonoro che erano inevitabilmente rappresentati da numeri irrazionali. Si rammenti che dividere un rapporto in due, in tre, ecc. significa fare di esso la radice quadrata, cubica ecc. Ora sappiamo già che per il filosofo pitagorico non era possibile dividere l'ottava in due, perché la radice quadrata di due è un numero irrazionale. Ma irrazionale è anche la radice quadrata di 9/8. La conseguenza di ciò era che l'espressione "semitono" non poteva essere intesa come se essa significasse letteralmente la metà di un tono. Aristosseno sosteneva anche che l'ottava poteva essere suddivisa in sei toni e i pitagorici dimostravano con i loro calcoli che la com- 231 posizione di sei toni realizzava una differenza in eccedenza rispetto all'ottava. Ci siamo già occupati di questo problema mostrando in che modo i pitagorici determinavano il valore del comma. Analogamente l'affermazione aristossenica secondo cui la grandezza della quarta era misurata da due toni e un semitono veniva confutata con una dimostrazione matematica. Naturalmente nessuno degli autori che criticarono questa affermazione di Aristosseno (Euclide, Sectio Canonis, 15, oppure Tolomeo, 1.10) prendeva in considerazione il nuovo modo di intendere l'intervallo di Aristosseno. E questa circostanza implicava un pesante svisamento di tutta la problematica aristossenica. È ovvio che con il loro tono di 9/8 i pitagorici avevano assolutamente ragione. Dovremmo concludere che Aristosseno non sapeva far di conto? E inversamente: la polemica antipitagorica condotta da Aristosseno in difesa di valutazioni puramente uditive significa forse che i pitagorici non avevano le orecchie? Si tratta di un problema più complesso e di una presa di posizione più ricca. Anzitutto va notato che Aristosseno, come qualunque teorico greco, pitagorico o meno, ammetteva il tono disgiuntivo pitagorico a 9/8, e questo per consentire una buona consonanza di quarta e di quinta. Ma il punto che interpreti antichi ed anche moderni talora non hanno compreso, è che una simile ammissione non esigeva, in realtà nemmeno da parte pitagorica, che questo "tono" assumesse il carattere di norma anche per la divisione del tetracordo (abbiamo visto in proposito il tetracordo diatonico di Archita). Ciononostante taluni teorici non si poteva ammettere che grandezze intervallari differenti potessero essere chiamate con lo stesso nome. Per il musicista greco invece il tono, ad esempio, poteva essere più stretto, più largo, molto stretto, molto largo... Vi è una fondamentale polemica di Aristosseno sui nomi delle note, che è strettamente coerente con la sua posizione e con la prassi musicale greca, la cui sintesi è: "Il ritenere che intervalli eguali debbano essere definiti con lo stesso nome ed i disuguali con nomi diversi è lottare contro l'evidenza" (Aristosseno, 1954, Meib. 49.25). 232 Dal punto di vista di Aristosseno, come si può valutare, per un segmento abbastanza piccolo, la sua metà con il semplice ausilio della vista, così si può, con il semplice ausilio dell'udito, valutare se un suono disposto tra altri due, sia più vicino al precedente o al successivo. E se si può fare questo allora si può anche valutare che esso non è più vicino né all'uno né all'altro, e di conseguenza suddivide l'intervallo in due metà (Piana, 2003, pp. 60 sgg.). Ci appare così: al centro di quell'intervallo. "Si tratta dunque di pura apparenza!" obietterà il filosofo pitagorico. Certamente. E sta bene così: fainetai ovvero "appare" e "si mostra" (Aristosseno, 1954, Meib. 8.24 e altrove). Questa espressione caratteristicamente aristossenica corrisponde al grande principio metodologico: "Anzitutto bisogna afferrare bene i fenomeni" (ivi, Meib. 43.30). Contro le obiezioni pitagoriche viene giocato scientemente un punto di vista fenomenologico e la metafora su cui esso si appoggia. Un punto di vista fenomenologico - e non, ad esempio, un punto di vista geometrico. Qui tocchiamo un altro punto interessante del dibattito intorno ad Aristosseno. Talvolta infatti la posizione di Aristosseno viene presentata come se egli ragionasse, invece che aritmeticamente, geometricamente per il semplice fatto che assimilava l'intervallo ad un segmento. Su questa tesi, che peraltro è piuttosto diffusa, credo che si possa nutrire qualche perplessità. A mio avviso è lo stesso Aristosseno che rifiuta questo riferimento, per il fatto che il geometra, anche quando si serve di modelli sensibili, ha comunque di mira l'idealità. Cosi egli scrive con grande chiarezza su questo punto: "Bisogna abituarsi a giudicare con precisione i particolari. Perché quando si parla di intervalli non si possono adoperare le frasi che si è soliti adoperare per le figure geometriche come: sia questa una linea retta. Il geometra infatti non si serve delle sue facoltà sensibili, egli non esercita 233 la sua vista a giudicare nè bene nè male la retta, il cerchio o qualche altra figura, questo essendo piuttosto compito del falegname, del tornitore o di altri artigiani. Ma per lo studioso di scienza musicale è fondamentale, invece, l'esattezza della percezione sensibile, perché non è possibile che chi ha una percezione sensibile deficiente possa spiegare convenientemente dei fenomeni che non ha in nessun modo percepito" (II, 33, 1954, p. 48). Coloro che pensano ad un modello geometrico che sarebbe prevalente in Aristosseno collegano questo problema a quello dell'aritmetica degli irrazionali. In effetti con l'assunzione di uno spazio sonoro continuo nel quale qualunque punto poteva essere oggetto di una scelta, Aristosseno non poteva avere alcuna difficoltà nell'ammettere intervalli irrazionali. In realtà dovremmo dire, più precisamente: intervalli che, trattati matematicamente, verrebbero rappresentati da numeri irrazionali. Su questa base si è anche sostenuto che Aristosseno fu certo uno degli allievi importanti di Aristotele al Liceo di Atene, ma egli non sarebbe soltanto un filosofo influenzato dall'empiria aristotelica. In fin dei conti Aristosseno proviene da Taranto, culla del pitagorismo e si tramanda che egli compì gli studi presso un filosofo pitagorico chiamato Xenofilo (Crocker, 1961, p.99). La tendenza matematizzante sarebbe dunque ancora particolarmente forte e la differenza rispetto ai pitagorici consisterebbe nel fatto che egli si faceva sostenitore sul piano della teoria musicale di una matematica nuova rispetto a quella pitagorica, ad una matematica interessata proprio al campo degli irrazionali. Ed ancora: poiché, come abbiamo già esposto, il trattamento degli irrazionali era ritenuto possibile solo sul versante geometrico, Aristosseno porterebbe questo aspetto geometrizzante anche nel campo della teoria dell'intervallo. È stato fatto notare che proprio negli anni in cui opera Aristosseno i matematici greci cercano di penetrare i problemi dei numeri irrazionali attraverso i problemi delle grandezze commensurabili e incommensurabili che del resto avevano consentito la loro scoperta. Punto culminante di questo processo è la trattazione geomerica che forniscono gli Elementi di Euclide alla fine del quarto secolo (l'opera di Aristosseno si fa risalire al 320 a. C.). Aristosseno si troverebbe sulla scia di questi problemi e la 234 sua posizione sarebbe aderente agli sviluppi più recenti della matematica greca (Crocker, 1961). Si tratta di una tesi molto suggestiva. Ma anche molto debole. È dubbio che Aristosseno fosse consapevole di quegli sviluppi, mentre è possibile che egli desse per scontato che gli intervalli potessero cadere in "posizioni" intraducibili aritmeticamente in termini di rapporti tra interi e, poiché ciò non recava alcuna offesa alle nostre orecchie, questi intervalli fossero ammissibili. Una vera e propria intenzione esplicita di far valere una "matematica degli irrazionali" mi sembra improbabile e del resto superflua - ed è inutile dire che in Aristosseno non vi è la minima traccia di una fondazione della teoria dell'intervallo in una aritmetica degli irrazionali. Proprio Crocker che cerca di fare valere questa tesi in un senso piuttosto forte scrive: "Il tono intero 9/8 può in realtà essere "diviso in due": noi esprimiamo il risultato come radice quadrata di 9/8, che è un numero irrazionale, mentre Aristosseno, usando operazioni geometriche, si limitava a rappresentare un tono con una linea, e poi a dividere questa linea in due. Nello stesso modo egli poteva dividere un intervallo in una parte qualsiasi senza interessarsi se il risultato fosse razionale o irrazionale. Lo stesso approccio che faceva la nuova geometria in modo più generale, più potente che la vecchia aritmetica era qui usato a Aristosseno per creare una nuova descrizione dei generi" (Crocker, 1961, p. 103). Il punto più rivelatore di questa frase non sta nella conclusione, ma in quel "senza interessarsi se il risultato fosse razionale e irrazionale" che in fin dei conti quella conclusione contraddice. Questo disinteresse è altra cosa che farsi promotore in sede di teoria musi- 235 cale di un'aritmetica degli irrazionali. Inoltre, come abbiamo detto poco fa, l'impiego del segmento è la rappresentazione in figura di una metafora, cosa di cui nella citazione precedente non si tiene conto. Se vogliamo parlare della matematica in Aristosseno dobbiamo andare a vedere che cosa egli fa propriamente con i numeri, visto che non rinuncia affatto alla quantificazione delle grandezze intervallari. In realtà in modo del tutto coerente con la propria posizione, la matematica degli intervalli proposta da Aristosseno è una matematica per così dire lineare, e pura aritmetica degli interi, dove si parla di somma e differenza nel modo solito. In altri termini con Aristosseno si calcola con gli intervalli all'incirca come noi calcoliamo con i nostri cents, che peraltro noi impieghiamo normalmente arrotondati. L'unica cospicua differenza sta nel fatto che la misura in cents è tale da poter essere trasformata calcolisticamente in termini decimali e infine in rapporti tra frequenze. Ma in questo contesto diventa significativo il fatto che talora possiamo usare utilmente i cents senza saper nulla di questa possibilità. Naturalmente abbiamo bisogno qui di fornire ulteriori spiegazioni. 236 11.2 Il significato delle misure aristosseniche 11.2.1 La divisione in trentesimi dell'intervallo di quarta Per fare un discorso ricco di senso nell'ambito della teoria dei generi dobbiamo poter effettuare confronti, proporre esempi di sistemi intervallari, distinguere le "sfumature". Di conseguenza non possiamo fare a meno della misura, e dunque del numero, tanto più di fronte ad un oggetto tanto impalpabile come è il suono. In Aristosseno in effetti vengono proposte delle misure che portano a numeri interi ed a rapporti tra numeri interi. Solo che l'unità che viene suddivisa e misurata è una unità data solo acusticamente, ed è considerata solo in quanto tale, indipendentemente dallo strumento che la emette. Come sappiamo tutti i discorsi pitagorici hanno bisogno invece di fare riferimento, almeno indiretto, a strumenti a corda. Il presupposto da cui si prendono le mosse è che la percezione sia in grado di stabilire una unità di conto e sulla sua base di determinare le grandezze intervallari colte dall'udito. Il concetto stesso di unità di conto per la misura degli intervalli lo incontriamo qui per la prima volta e non può che nascere sul terreno dell'impostazione aristossenica. Spieghiamoci con un esempio: Aristosseno si pone il problema della grandezza intervallare percepibile minima. Io credo peraltro che questa ricerca non sia da intendere in senso strettamente letterale ed interessi quindi il piano puramente puramente acustico, ma che egli pensi piuttosto alla minima grandezza intervallare musicalmente significativa. Supponiamo di aver deciso qualcosa in proposito. Avremo allora in ogni caso a che fare con una grandezza intervallare riconoscibi- 237 le. Questa grandezza potrà essere usata come unità di conto. Così potremmo dire di un determinato intervallo che esso è il doppio, il triplo ecc. di questa unità minima musicalmente significativa. Naturalmente potremmo anche usare come unità di conto un suo multiplo. Come è chiaro queste misure non hanno più nemmeno l'ombra di un significato pitagorico. Il quarto di tono è l'unità di conto minima, il tono può essere scelto come unità di conto sovraordinata. Il tono o il quarto di tono sono realtà percettive e nello stesso tempo possono assolvere il ruolo di unità di conto per grandezze intervallari udite: sembra quasi che l'una cosa richiami necessariamente l'altra. Ma non è così. A partire da un discorso che inizia così è possibile scivolare, non senza logica, fuori dal campo percettivo postulando unità di misura che sono solo unità di conto. Così potremmo assumere come unità di misura un sottomultiplo dell'intervallo minimo musicalmente significativo, che potrebbe essere tanto piccolo da essere insignificante sia percettivamente che musicalmente. Ecco una unità di conto pura e semplice alla quale non corrisponde alcuna grandezza percepibile. Ma a che scopo? Forse essa potrebbe avere una utilità. Un esempio tratto dalla modernità: nessuno può ragionevolmente sostenere di avere una qualche idea concreta del cent quando sente dire per la prima volta che esso rappresenta la milleduecentesima parte dell'ottava. Però abbiamo una idea chiara dell'intervallo di ottava sulla base della sua realtà percettiva. E così del resto abbiamo una idea chiara del numero 1200. Queste due cose possono essere messe insieme - ed esibire un metodo di valutazione, anche al di là della complessità ulteriore di cui il concetto di cent è portatore. Esso è in certo senso più potente di una mera unità di conto, perché, come abbiamo già notato, è possibile il passaggio calcolistico da intervalli espressi in cents a intervalli espressi in rapporti di frequenza. Ma 238 questa possibilità è appunto una potenza in più che si aggiunge alla capacità del cent di fungere da unità di conto. In realtà considerando una delle scale che abbiamo già incontrato si capisce piuttosto bene come essa è fatta quando viene trascritta in cents. Va da sé che possiamo renderci conto al volo sia se un certo intervallo è maggiore di un altro, sia fare dei raffronti in cui ci appoggiamo ad un tempo sui numeri e su realtà percepite ben e sperimentate: ad esempio sappiamo subito che un intervallo di 250 cents corrisponde ad un tono temperato aumentato di un quarto di tono - e questo è già qualcosa. Fatte queste premesse possiamo comprendere il metodo di quantificazione degli intervalli messo in opera da Aristosseno. Anch'egli, anzitutto, opera sul tetracordo, di cui accetta la misura pitagorica di 4/3, benché il punto essenziale sta nella riconoscibilità percettiva dell'intervallo. Per affrontare il problema della sua suddivisione interna, che è comunque una suddivisione essenzialmente libera, egli ha in ogni caso bisogno di un'unità di conto. Egli propose di considerare la quarta come suddivisa in trenta parti eguali. Un trentesimo di quarta, evidentemente, non è un intervallo effettivamente percepito, ma anzitutto un'unità di conto. Perché la scelta, che sembra ad un primo sguardo del tutto arbitraria, cade proprio sul trentesimo di quarta? Intanto possiamo cominciare con il rispondere che il trentesimo di quarta è un'interessante unità di conto se assumiamo nello stesso tempo che la quarta sia suddivisa a sua volta in due toni e in un semitono. Le due assunzioni sembrano richiamarsi a vicenda. Ne risulta infatti un tono di dodici parti, cioè di dodici trentesimi e un semitono di sei trentesimi di quarta (12+12+6 = 30), restando ovviamente nella forma tipica del diatonico che Aristosseno chiama "sintono". Ora mettiamo in opera i nostri cents per vedere di che intervalli propriamente si tratta. 239 Per far questo non dobbiamo fare altro che prendere la misura in cents della quarta (498) e dividerla per 30 e otteniamo un esatto 16.6. Questo è il valore in cents del trentesimo di Aristosseno. Di conseguenza il tono di Aristosseno posto in cents risulta essere pari a 16.6 * 12 = 199.2 ed il semitono 16.6*6 = 99.6.Naturalmente due toni sommati ad un semitono secondo questi valori fornirà una quarta di 498 cents che rappresenta la quarta pitagorica di 4/3. Il punto del problema, che risolve ogni pretesa contraddizione e incoerenza teorica, è il fatto che non debbono essere toccati i 9/8 ovvero i 204 cents del tono di disgiunzione. Di fatto Aristosseno non tocca il tono di disgiunzione, ottenendo una costruzione del tutto coerente. Poiché Aristosseno argomenta rigorosamente in quarte, la sua suddivisione in trentesimi non vale per l'ottava, ma per il tetracordo. E del tono di disgiunzione viene in questo modo sottolineata l'autonomia strutturale. Il fatto che il tono di disgiunzione venga da Aristosseno mantenuto a 9/8, preservando le consonanze di quinta e di quarta secondo i valori dei rapporti pitagorici, appare con assoluta chiarezza da una tabella presente nella Scienza ar armonica di Tolomeo (2.14, 2002, p. 184) presumibilmente aggiunta da un copista. Tale tabella è costruita sui numeri 60 e 120, da intendere pitagoricamente come lunghezza di corde e quindi da mettere in rapporto tra loro. Ora per tutti i teorici considerati (la tabella comprende anche le scale di Archita, Eratostene, Didimo e Tolomeo) la quarta e la quinta sono caratterizzati dai numeri 80 e 90 il cui rapporto è appunto 9/8. Ciò vale anche per Aristosseno. E questo intervallo non viene affatto riportato all'interno del tetracordo e nemmeno inversamente interpretato in termini di trentesimi di quarta. È appunto un intervallo per così dire "a sé stan- 240 te". Non posso perciò concordare con il commento di Lichtfield a questa tavola - ammesso che io lo abbia correttamente compreso - nel quale egli dice, a proposito di Aristosseno: "Nelle tavole 'tolemaiche' due tetracordi disgiunti sono presentati con un tono intero di disgiunzione (cioè un tono di 9/8). È facile supporre che questo tono di disgiunzione sia eguale a 12 parti di una quarta perfetta, esattamente come un cosiddetto tono all'interno della quarta" (1988, p. 59). A me sembra che i numeri della tabella dicano esattamente l'opposto. Non solo: è possibile dare una controprova puramente aritmetica del fatto che, rispettando i criteri e le misure di Aristosseno, egli aveva perfettamente ragione nel calcolare in sei toni la grandezza dell'ottava. Occorre soltanto tener conto del fatto che si tratta di cinque toni "aristossenici" a cui va sommato il "tono pitagorico" di disgiunzione. Allora, sulla base delle considerazioni precedenti e facendo i nostri conti in cents, si avrà: 192.2 * 5 = 996 996+204 = 1200 Non vi potrebbe essere prova più "rotonda" di questa. I pitagorici avevano dunque nettamente torto nel criticare la valutazione aristossenica della misura dell'ottava in sei toni ed è strano che io non sia riuscito trovare una simile affermazione nei commenti specializzati e che dunque sia costretto a proporla senza un adeguato sostegno bibliografico. 241 11.2.2 Una ipotesi sulla scelta del trentesimo di quarta Per quanto riguarda le ragioni della scelta dei trentesimi di quarta, sarei propenso a formulare una ulteriore ipotesi che mi sembra interessante perché mostra che essa non è del tutto arbitraria e che è coerente con il modo di pensare complessivo di Aristosseno. Come abbiamo visto esiste comunque per Aristosseno il problema di un coordinamento dell'unità di conto con il piano percettivo, anche se questo coordinamento può essere indiretto. Ora le divisioni (in parti intere) di un intero in ordine descrescente sono 1, 1/2, 1/3, 1/4... Se l'intero è il tono si potrà parlare di un terzo e di un quarto di tono - come si è già detto. Secondo il modo di pensare di Aristosseno il quarto di tono è la minima grandezza intervallari percepibile (di interesse musicale); di conseguenza sarà percepibile anche un terzo di tono che è maggiore di essa. Ora, la differenza aritmetica - ed ora si intende proprio la sottrazione nel senso consueto - tra 1/3 e 1/4 è 1/12 e questa differenza tra percepibili è a sua volta percepibile. Essa è l'unità di misura del tono in genere che è l'intero in questione. Io credo dunque che proprio questo dodici sia l'origine del trenta, ovvero riportato in una concezione della quarta come due toni ed un semitono, la quarta risulta divisa in trenta e il dodicesimo di tono ovviamente eguale ad un trentesimo di quarta. Il trentesimo di quarta tuttavia non si sa dove afferrarlo sul piano percettivo: invece il dodicesimo è tratto da due grandezze intervallari percepite ed è a sua volta percettibile nel passsaggio dal terzo al quarto di tono (o inversamente). Cosicché se una divisione in trenta sembra a tutta prima una pura stravaganza aritmetica, riveduta alla luce di un sperimentazione uditiva concreta, le cose cambiano, e di molto. L'intervallo del trentesimo di quarta non è più così estraneo alla percezione come ci era sembrato in un primo tempo. Se le cose stessero così, verrebbe certamente rafforzata l'idea di un radicamento sul piano percettivo anche delle misure apparentemente astratte di Aristosseno. 242 11.2.3 La presunta equalizzazione operata da Aristosseno Uno dei problemi molto discussi è se Aristosseno sia pervenuto a praticare o addirittura a teorizzare una scala equalizzata in dodici semitoni anticipando di secoli la nostra scala temperata. Qualche ragione evidentemente c'è per una simile ipotesi. Se guardiamo ai risultati ottenuti con i calcoli in trentesimi di quarta tradotti in cents quarta tono semitono scala aristossenica 30 = 498 cents 12 = 199,2 cents 6 = 99,6 cents scala temperata 500 cents 200 cents 100 cents non possiamo non notare quanto i valori siano vicini e le differenze stiano sostanzialmente al di sotto della percettibilità. Sembrerebbe così solo una pignoleria aritmetica non ammettere arrotondamenti che porterebbero alla nostra scala equalizzata. Anche il tono disgiuntivo naturalmente dovrebbe essere portato a 200 cents. E qui cominciano i dubbi - non tanto certo sull'arrotodamento, ma sul fatto che verrebbe completamento frainteso il senso della proposta di Aristosseno, che fa riferimento alla quarta e non all'ottava, e perviene all'ottava solo con il raddoppio del tetracordo al di là del tono di disgiunzione. Volendo si può sostenere allora un'ipotesi più debole relativa unicamente al tetracordo. Dividendo in trentesimi la quarta, essa viene costituita da cinque semitoni perfettamente eguali tra loro. Non sarebbe sbagliato parlare qui di equalizzazione, mentre l'espressione di temperamento sarebbe a mio avviso da evitare: il temperamento presuppone qualcosa da "temperare", e quindi un sistema intervallare preesistente. L'equalizzazione invece non richiede questo presupposto e semplicemente indica un intervallo suddiviso in parti eguali. Ma il dubbio principale sta in questo: la divisione in trentesimi della quarta non è orientata a produrre una scala, ma rappresenta niente altro che un metodo di misurazione da utilizzare nel contesto della teoria dei generi. La presunta equalizzazione operata da Aristos- 243 seno è dunque soltanto un problema mal posto. Il nostro temperamento equalizzato sorge invece da precise esigenze musicali. Il riconoscimento implicito compiuto da Aristosseno è che la complicazione matematica dell'intervallo considerato come rapporto non ha niente a che vedere con la chiarezza e la semplicità dell'intervallo effettivamente udito. Questa è una lezione di grande importanza che è stata per lungo tempo dimenticata. Non si tratta dunque di considerare ingenuamente Aristosseno come precursore del temperamento: il quadro concettuale e musicale entro cui si muove è assolutamente diverso da quello in cui si muoverà la tematica futura del temperamento e dell'equalizzazione. Si tratta invece ancora una volta di ribadire la necessità di una chiara distinzione di piani di discorso e l'importanza dei contesti. 244 11.3 La teoria dei generi secondo Aristosseno 11.3.1 Il punto di vista funzionale Lo scopo essenziale di Aristosseno in rapporto alla teoria dei generi è quello di fornire una tipologia di base dei generi, distinguendo per il genere diatonico e il genere cromatico alcune varietà all'interno delle quali possono giocare le varie "sfumature" - da un lato dunque offrendo un quadro di riferimento di base, dall'altro mantenendo l'apertura intervallare caratteristica del concetto stesso di genere. Scrive Aristosseno "Occorre sapere che la comprensione musicale porta ad un tempo su due oggetti, di cui l'uno è stabile e l'altro mutevole, e che ciò è vero della musica intera e, in una parola, di tutte le sue parti. Ad esempio noi prendiamo coscienza delle dif differenze di genere, quando l'intervallo totale resta invariabile, mentre gli intermedi sono modificati. Di nuovo quando, non cambiando la grandezza, la chiamiamo talora intervallo fra l'hypate e la mese, tal'altra intervallo tra la paramese e la nete, perché pur rimanendo costante la grandezza, accade che la funzione delle note cambi..." (II, 34 - 1954, p. 48). Del resto abbiamo preso le mosse proprio dalla affermazione che vi è un numero illimitato di licanoi, affermazione "ardita" (Laloy, 1904, p. 212), ma che indubbiamente va intesa, più che in senso letterale, come una presa di posizione molto forte sulla varietà e sulla libertà nelle scelte intervallari. Abbiamo già accennato alla risposta che egli fornisce all'obiezione che gli fu rivolta secondo cui se cambia l'altezza della nota, e ciò è inevitabile variando la gradezza dell'intervallo, dovrebbe variare anche il suo nome. Quest'obiezio- 245 ne è tipica di un punto di vista statico. Le note sono quelle che sono e stanno dove si trovano, e perciò ciascuna ha un determinato nome che la identifica. Nome e identità della nota fanno tutt'uno. Questa è naturalmente anche la posizione che è prevalsa in tutta la musica europea fino ad oggi. La presa di posizione di Aristosseno, che è del resto conforme allo spirito della musica greca, è dunque particolarmente significativa perché che non considera la nota come un oggetto che viene posto in un luogo a cui apparterrebbe in via di principio ed attraverso il quale esso viene identificato e nominato. Ciò che identifica la nota è la relazione che ha nel sistema cui appartiene - dunque non è la posizione, determinata con esattezza, ma piuttosto la funzione che essa assolve. La parola funzione traduce dynamis. Di fronte ad un punto di vista statico, che richiede una fondazione matematica, si fa avanti in una concezione fenomenologica dinamico-funzionale, in cui l'elemento matematico ha uno scopo relazionale-descrittivo. Dunque la sua risposta alla richiesta del mutamento dei nomi, ha una chiarezza ed è anche di un' importanza straordinaria: "In generale finché i nomi delle due note estreme rimangono gli stessi e la più acuta si chiama mese, la più grave hypate, rimarranno gli stessi anche i nomi delle due note intermedie e la più acuta di esse si chiamerà lichanos, la più grave parhypate, perché l'orecchio percepisce sempre le note tra la mese e l'hypate come lichanos e parypate" (II, 49 - 1954, p. 71) Ciò significa che lo spazio sonoro non è fatto di note e quindi non consegue da esse, ma le note sono articolazioni possibili dello spazio sonoro, e quest'ultima nozione ha dunque un'anteriorità di principio. Chiarito tutto ciò, è necessario determinare alcune posizioni della lichanos che consenta di operare una distinzione di massima tra i generi. Questo per una esigenza di ordine che fa parte degli scopi di qualunque sistemazione teorica. Le posizioni in questione rappresentano peraltro delle linee di confine che determinano quello che potremmo chiamare uno "spazio di gioco" per ogni ge- 246 nere. Nella teoria dei generi di Aristosseno si ammettono, almeno per il genere diatonico e cromatico, alcune varietà. In particolare vi sono due tipi di diatonico e tre tipi di cromatico, mentre il genere enarmonico viene proposto come unico. Naturalmente nulla impedisce che si considerino queste distinzioni come "sfumature", anche se io credo che il tentativo di Aristosseno non riguardi tanto il fissare le sfumature, quanto piuttosto di indicare dei limiti entro cui possono giocare le sfumature. Preferisco perciò parlare piuttosto di varietà, che rientrano tra le sfumature come loro limiti. Il grafico a destra della pagina presenta la sistemazione aristossenica dei generi, indicati in trentesimi di quarta e in valori in cents, che sono come al solito arrotondati. A partire da questi dati è possibile proporre le stesse misure in tono, semitoni e terzi o quarti di tono. Queste indicazioni tanto precise ci vengono fornite dal teorico aristossenico Cleonide che fornisce le seguenti spiegazioni: "Le sfumature si possono spiegare anche per via aritmetica come segue: si supponga il tono diviso in dodici minime parti, chiamate dodicesimi di tono e si dividano anche tutti gli altri intervalli sulla stessa base; cioè il semitono in sei dodicesimi, la diesis [con questo termine si indicava spesso un piccolo intervallo] di un quarto di tono in tre dodicesimi, la diesis di un terzo di tono in quattro dodicesimi; il diatessaron è formato da trenta di queste parti. Il tetracordo enarmonico risulterà quindi composto - in dodicesimi di tono - di tre, tre e ventiquattro; il cromatico molle di quattro, quattro e ventidue; il cromatico emiolio di quattro e mezzo, quattro e mezzo e ventuno; il cromatico tonico di sei, sei e diciotto, il diatonico molle di sei, nove e quindici; il diatonico acuto di sei, dodici e dodici" (Cleonide, cap. 7, 1990, p.89 ). 247 diatonico syntonon malakon 12 12 6 15 9 6 200 200 100 250 150 100 cromatico toniaion emiolion malakon 18 6 6 21 4,5 4,5 22 4 4 300 100 100 350 75 75 366 67 67 enarmonico 24 3 3 400 50 50 248 Naturalmente i dodicesimi di tono sono trentesimi rispetto alla quarta. Si noti come l'ordine in Cleonide è ascendente, mentre noi ci atteniamo nel grafico, come sempre, all'ordine discendente. Sulla base di questo schema ne possiamo proporre un altro che mostra più chiaramente l'intenzione di segnare i limiti e nello stesso tempo lo "spazio di gioco" che rappresenta il senso effettivo del progetto di Aristosseno. 0 1 2 3 4 mese 5 6 diatonico syntonon 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 hypate lichanos parhypate mo vim e nt o lla enarmonico tono tono quarto di tono te ypa cromatico malakon os rh pa lla cromatico emiolion an de limite del pycnon cromatico toniaion lich to en vim de mo diatonico malakon semitono quarto di tono tre semitoni (triemitono) Consideriamo a titolo esemplificativo il genere diatonico nei suoi due tipi syntonon e malakon. Se abbiamo strutture esattamente secondo le misure indicate, esse rappresentano le forme normali - potremmo chiamarle così - del genere. Tuttavia questi valori significano anche, secondo Aristosseno, che nel genere diatonico la lychanos può distanziarsi dalla prima nota da un minimo di 200 cents sino ad un massimo di 300 cents, valore con il quale si entra nel genere cromatico. Essa può dunque può muoversi nell'ambito di un semitono. Tutto questo spazio verrà compreso nel diatonico. D'altra parte possiamo "giocare" anche nello spazio del primo tipo di diatonico, in cui la lichanos può assumere valori compresi tra 200 e 250 e nello spazio di gioco del diatonico morbido che va da 250 a 300. In questo gioco vi sono appunto le sfumature a cui lo schema indicato fornisce un inquadramento teorico. 249 L'enarmonico è dato in un solo tipo e non ha sfumature, secondo Aristosseno, e ciò lo si può comprendere per il fatto che si tocca qui il limite del quarto di tono. Al di sotto di esso non è possibile andare, al di sopra si passerebbe al genere cromatico. Nell'insieme la lychanos rispetto alla mese può muoversi di un tono, cioè tra 200 e 400 cents. E il movimento di un semitono segna il passaggio sia dal diatonico al cromatico (da 200 a 300 cents) sia dal cromatico all'enarmonico (da 300 a 400 cents). Il tentativo di stabilire un quadro di riferimento sembra piuttosto evidente. A seconda della divisione intervallare proposta si potrà attribuire il tetracordo ad una sfumatura dell'uno o dell'altro genere. Cleonide conferma che il senso della costruzione non sta nel fissare come legittime solo alcune delle possibili varietà, ma soprattutto quello di definire lo spazio di gioco nel passaggio da un genere all'altro. "Le differenziazioni dei generi hanno luogo attraverso le note mobili: la lichanos può spostarsi entro lo spazio di un tono e la parhypate entro lo spazio di una diesis [quarto di tono], per cui la lichanos più acuta viene a trovarsi a un tono e la più grave a due toni di distanza dai due estremi del tetracordo, e analogamente la parhypate più grave viene trovarsi ad una diesis e la più acuta invece ad un semitono di distanza sempre dall'estremo inferiore del tetracordo" (Cleonide, cap. 6, 1990, p. 89). Una piccola aggiunta va fatta per i nomi: essi hanno una diversa natura. Alcuni alludono alla struttura intervallare come toniaion e emiolion: Cleonide spiega che "queste specie cromatiche prendono il nome dal loro picnon": il cromatico toniaion si chiama così per il fatto che "il tono vi è compreso come intervallo composto determinante il picnon" - in effetti il limite del picnon si trova a 12 trentesimi dall'hypate, mentre lo stesso autore spiega "emiolio" per il fatto che le diesis (piccoli intervalli) che si trovano in esso hanno valore emiolio rispetto alla diesis enarmonica. In effetti il picnon del genere cromatico emiolio ha due intervalli di 4,5 trentesimi di quarta, 250 che sono pari a 3 + 1,5 trentesimi di quarta. Emiolio, significa, come abbiamo già osservato altrove, un valore che supera l'intero della sua metà (cap. 7, p. 91). Syntonon e malakon sembra invece abbiano altra origine e rimandino piuttosto ad una componente espressiva. Syntonon ha indubbiamente a che vedere con la tensione (dal verbo teino = tendere). Malakon, spesso tradotto con molle, ha come significati fondamentali morbido, lieve, tenero. Ed è inutile dire che anche in questo caso si fa sentire la tendenza a cancellare i valori espressivi implicati talvolta nel senso dei termini per preferire riferimenti fattuali positivi. Così ad esempio malakon = molle in quanto "la corda allentata (molle) rende il suono più grave" (Zanoncelli, 1990, p. 119): quasi che la differenza tra i due diatonici, stesse nel fatto che l'uno ha le corde tese e l'altro allentate. Di fronte a posizioni di questo genere è persino da preferire un'affermazione di Laloy che pone un accento anche troppo vigoroso sull'aspetto espressivo: "Certi suoni, consonanti tra loro, sono colti nel loro rapporto e riportati all'unità del giudizio musicale; altri invece, irriducibili e indipendenti, dànno con il loro spostamento l'idea di uno sforzo o di un abbandono, di uno slancio gioioso o di una tristezza abbandonata; queste sfumature sono molto ben spresse dal linguaggio stesso, dove gli epiteti che caratterizzano queste alterazioni aggiungono un senso morale al loro senso tecnico: vi sono, proprio per via dell'esistenza dei suoni mobili, della scale tese e delle scale rilasciate e morbide" (Laloy,1904, p. 209). 251 11.3. 2 Confronto tra i generi di Archita e di Aristosseno Non credo che dopo tutto ciò sia necessario di spendere troppe parole sulla differenza che sussiste sulla proposta di razionalizzazione di Archita della teoria dei generi e la proposta di Aristosseno. Indipendentemente dalle interessanti giustificazioni che sono state proposte per motivare le scelte di Archita, risulta chiaro da tutta la nostra discussione precedente che Archita intende anzitutto stabilire un quadro stabile per i generi fissando le posizioni delle note mobili del tetracordo secondo principi coerenti con la metodologia matematica pitagorica e con intervalli definiti in termini di rapporti tra interi; si può naturalmente pensare che, anche stando al punto di vista di Archita, si possano dare anche altri sistemi intervallari purché siano fondati negli stessi criteri. In questa fondazione va da sé che vi saranno posizioni escluse e che il punto di vista di principio rimane discretistico. Ciò ha una significativa conseguenza: in questa ipotesi si potrà parlare eventualmente di possibili varietà dei generi, ma non di vere e proprie "coloriture" nel senso di Aristosseno. Infatti deve allora cambiare - tra le tante altre cose - anche il modo di concepire la fissazione della posizione delle note nel tetracordo. "Forse l'esempio più convincente e più chiaro del nuovo metodo di Aristosseno consiste nel suo trattamento dei generi o tipi di tetracordo - diatonico, cromatico, enarmonico. Questi tre generi erano stati dapprima sistematizzati da Archita, un pitagorico, intorno al 400 a. C. che usò un insieme accuratamente costruito di rapporti di interi. Un confronto diretto dei generi di Archita con quelli di Aristosseno rivela la natura della novità della sua teoria così come suggerisce qualcosa intorno ai mutamenti stilistici che potevano essere intervenuti al principio del IV secolo... Aristosseno semplicemente rese esplicito ciò che era già presente nel sistema di Archita, ma lo fece attirando l'attenzione sul movimento della lichanos piuttosto 252 che sulle sue posizioni. Egli pose le posizioni della lichanos nel diatonico e nell'enarmonico come 'limiti' al movimento della lichanos, permettendo così ad essa ciò che ora potrebbe essere definito un 'locus' piuttosto che un 'punto' corrispondente ad un rapporto" (Crocker, 1961, p. 102-103). 253 12. Il sistema completo 254 12.1 Introduzione 12.1.1 Sistemi, toni, armonie L'argomento conclusivo di questo nostro album è un tentativo di illustrare il sistema completo o perfetto. Il termine greco è sistema teleion. Non so se si possa trovare traduzione migliore: nel termine greco si allude comunque ad una forma di perfezione nel senso della compiutezza, di ciò che racchiude tutto l'essenziale. In Tolomeo questo termine riceve un significato più preciso che vedremo in seguito. Qualunque tentativo di illustrazione del sistema completo richiede che si porti la discussione sui "tonoi" e sulle "specie di ottava" - due concetti tra loro interdipendenti - molto controversi, che hanno dato luogo a interpretazioni talora fortemente divergenti, anche se le ricerche più recenti hanno portato una chiarezza un tempo insperata su un argomento che "è il più problematico di tutti i vari scomparti della 'armonica' greca, in parte per via delle lacune nella testimonianze e della confusione presenti nelle fonti che abbiamo a disposizione" (Barker, 2000, p. 158). In realtà dopo gli sforzi compiuti per impossessarci di alcuni "segreti" della teoria greca, sarebbe sbagliato non fare nemmeno un tentativo per delineare questo problema nonostante tutte le incertezze e la sua riconosciuta notevole complessità. Tuttavia affinché questo tentativo possa sperare di riuscire nel suo scopo dovremo da un lato introdurre qualche semplificazione, dall'altro cercare di cogliere il nucleo e il senso di questa costruzione, più che i dettagli della costruzione stessa. Come del resto in tutta la nostra esposizione, l'obbiettivo è quello di enucleare alcuni concetti di base capaci di indicare almeno la direzione e il senso dei problemi e il tipo di indagine da svolgere intorno ad essi. Benché sia un aspetto assai poco sottolineato dalla letteratura specialistica, nella considerazione del sistema completo vi è un profi- 255 lo filosofico che ci riporta ancora nel quadro delle grandi linee e fertili opposizioni del pensiero greco: come abbiamo visto, sullo sfondo delle questioni di pratica e di teoria musicale vi sono le posizioni del pitagorismo e dell'aristossenismo, del platonismo e dell'aristotelismo, e i grandi temi di cui esse sono portatrici. Nel sistema completo questi temi riaffiorano in una nuova forma, in un modo più nascosto, e sicuramente inaspettato. Sistema Cominceremo da qualche precisazione terminologica. Il primo termine da precisare è certo quello di sistema: questa parola ha un'accezione molto ampia che non riguarda solo l'ambito muicale. In questo ambito, con sistema si intende una sequenza di intervalli. Nella sua accezione musicale più ampia si chiede soltanto che gli intervalli siano più di uno. Ma vi sono anche accezioni più ristrette. Per Aristide Quintiliano "un sistema è costituito da più di due intervalli" (11.4 - cap. 8. Barker, 1989, p. 413). In questo modo Aristide rende il tetracordo il sistema più piccolo. Altri richiedono che si parli di sistema solo per gruppi di intervalli capaci di formare un intervallo musicalmente significativo, il che significa ridurre l'accezione di sistema agli intervalli di quarta, di quinta e di ottava. Tipica di Tolomeo è una ulteriore restrizione: "... si chiama usualmente sistema una grandezza risultante dalla composizione di intervalli melodici: il sistema è appunto, per così dire, una consonanza di consonanze" (Tolomeo, 2.4, 2002, p. 54). "Nell'uso di Tolomeo, soltanto le sequenze che sono costituite dalla composizione di due o più gruppi di intervalli, ciascuno limitato da suoni consonanti, conteranno come sistemi. Così un singolo tetracordo non è un sistema, ma un sistema verrà formato quando due di essi sono disposti in congiunzione o in disgiunzione" (Barker, 2000, p. 158). Nell'accezione di Tolomeo, che evidentemente propone questa restrizione già nell'ottica del sistema completo, saranno sistemi solo 256 l'ottava, l'ottava + quinta o + quarta, la doppia ottava (2.4). Va da sé che l'accezione più larga, che abbraccia tutte le altre, è la più maneggevole e meno impegnativa. Va richiamata l'attenzione anche sul fatto che la nozione di sistema non riguarda le altezze, ma gli intervalli e la loro disposizione reciproca. Tonos Una bella caratterizzazione dei vari sensi che può assumere la parola tonos la si può trovare in Cleonide: "Il termine tonos può avere quattro significati: esso infatti indica o un suono (fthongos), un intervallo (diastema), uno spazio sonoro (topos fonés) o una posizione (tasis). Si usa nel senso di suono quando per esempio si dice che la forminx ha sette toni, come fanno Terpandro e Ione. Il primo dice infatti: Ora noi volgendo le spalle al canto tratto da quattro corde, cantiamo nuovi inni sulla forminx dai sette toni. (...) E non pochi altri usano il termine in questa accezione. Ha il significato di intervallo invece quando si dice che c'è un tono dalla mese alla paramese. Ha il senso di ambito sonoro quando si parla di tono dorico, frigio o lidio o di qualcun altro di essi" (cap. 12 - 1990, p. 103). Le differenze di senso di tono come suono, intervallo di una grandezza relativamente determinata e posizione sono facili da spiegare perché sono entrate nell'uso in tutta la nostra tradizione musicale e il termine viene in genere impiegato in contesti che non lasciano dubbi. La posizione in cui si trova il suono è ovviamente l'altezza, e quindi il senso è qui assai prossimo al tono inteso semplicemente come "nota". La parola tasis ha comunque numerose 257 altre implicazioni (Piana, 1903, pp. 47-49). Già un poco più difficile è il senso di tonos come "ambito sonoro". Facendo gli esempi di tono dorico, frigio ecc. Cleonide si leva di impaccio rispetto ad un problema con cui avremo a che fare fra poco. Ciò comunque a cui allude è il senso, anch'esso fortemente presente nella tradizione europea successiva, di una scala caratterizzata da un determinato sistema intervallare, quindi di un insieme di luoghi, entro cui si svolge la melodia: dunque un senso affine "tonalità" nell'accezione più ampia possibile del termine. I versi di Terpandro (prima metà del VII sec. a. C.) presentano anche uno squarcio sulla problematica dell'aumento delle corde della lira da quattro a sette, vista con soddisfazione dai poeti e cantori, e con sospetto o addirittura condanna da parte dei teorici. Trattando della problematica dei generi abbiamo poi richiamato l'attenzione sul termine di "harmonia" - nel senso di tipo melodico. Per certi versi l'espressione tonos come sistema scalare è erede di quel termine. Tropos è un altro termine usato per lo più come sinonimo di tonos. 258 12.1. 2. Le specie (eidos, schema) Anche l'impegnativa parola greca eidos, oltre ad avere un significato importantissimo nella logica aristotelica indicando le specie di un genere, e in Platone addirittura valere come idea, ha un significato musicale molto determinato. Secondo Solomon (1984, p. 245), la parola "specie" (eidos, schema) viene impiegata in un'accezione tecnico-musicale piuttosto tardi tra la fine del quinto secolo e l'inizio del quarto nell'ambito dell'accademia platonica. In Aristofane significa "figura" di danza; nella scuola ippocratica schema significa posizione del corpo. Ed anche Platone usa sia eidos che schema per indicare figure, tipi, forme. Sarebbe solo in Aristosseno che questi termini assumono il significato specie di quarte, quinte e ottave nel senso che stiamo per precisare. Ed essendo Aristosseno peripatetico taluni coordinano senz'altro questo termine all'uso logico aristotelico. Così scrive Barbera (1984, p. 229): "Nella Categorie di Aristotele si afferma: "La specie è il soggetto del genere. Invero i generi sono predicati delle specie, ma le specie inversamente non sono predicabili dei generi". Un poco oltre nello stesso trattato leggiamo che il genere ha la priorità rispetto alla specie (15a), e Aristotele ci dice nei suoi Topici che la specie partecipa dei generi, ma non viceversa (120b). Cosicché la nostra ricerca intorno alla specie deve prima determinare che cosa sia il genere. Per fortuna tale determinazione nella musica è facile da ottenere, poiché gli antichi teorici sono virtualmente unanimi nella loro definizione del genere musicale. Aristide Quintiliano afferma: "Un genere è una certa divisione di un tetracordo". Gaudenzio espande questa definizione in questi termini: "Un genere è una certa divisione e disposizione di un tetracordo". La maggior parte dei teorici procede di qui per distinguere tre generi di tetracordi: enarmonico, cromatico e diatonico, secondo l'ampiezza dei tre interval- 259 li abbracciate dalle quattro note del tetracordo". Tutto ciò è naturalmente giusto, ma il richiamare l'attenzione su questa origine del termine e sulla sua relazione con la nozione musicale di "genere" può dar luogo ad equivoci. Questa parola infatti non si accoppia con i generi nell'accezione musicale del termine, che si differenziano se mai attraverso le "sfumature", ma piuttosto con i sistemi, e soprattutto, come vedremo meglio in seguito, con i tonoi. Occorre dunque mettere in guardia dalla possibile confusione tra le specie e le sfumature dei generi, cosa che ovviamente non toglie che anche queste ultime possano essere considerate "differenze specifiche". Ad esempio, in Cleonide si scrive che "la sfumatura è una distinzione specifica del genere" (Cleonide, 1990, cap. 7). È evidente tuttavia che proprio in casi come questi tradurre "sfumatura" (chroa) con specie dovrebbe essere accuratamente evitato. L'unica giustificazione per istituire questa relazione, oltre ovviamente il puro significato logico, sta nel fatto che i sistemi tetracordali erano comunque caratterizzati da un genere e i primi esempi proposti da Aristosseno di specie riguardano appunto l'intervallo di quarta, preso nel genere enarmonico. Aristosseno parla dell'argomento proprio nel punto in cui il suo trattato si interrompe. Egli dice: "Si deve poi considerare il significato e la natura della differenza di specie (eidos). Per noi è lo stesso dire eidos oppure schema perché riferiamo queste espressioni alla stessa cosa. Questa differenza si verifica quando cambia l'ordine degli intervalli non composti che costituiscono un intervallo composto, mentre il numero e l'ampiezza degli intervalli rimane la stessa" (Meib., 74 - Aristosseno, 1954, p. 99). (Marquard rende eidos con Form e schema con Figur, 1868, p. 109) La definizione di specie è in effetti di sapore aristotelico, come nota Barbera (1984, p. 230), che rammenta una similitudine musicale presente nella Politica per illustrare il variare di forma di una struttura composta: una qualunque unione o composizione è diversa, osserva Aristotele, se la specie della sua composizione è diversa, come accade nel caso delle "armonie" musicali se si muta l'ordine 260 degli intervalli. "Anche l'armonia cambia, pur rimanendo identici i suoni, se quest'armonia ora è frigia, ora è dorica" (1276b6-9). Aristosseno è particolarmente chiaro in proposito: un mutamento di specie è un mutamento di ordine degli intervalli, mentre gli intervalli rimangono identici numericamente e per grandezza. Così TTS e TST hanno lo stesso numero di intervalli e gli intervalli interessati sono della stessa grandezza essendovi in entrambi i casi due toni e un semitono, ma l'ordine è differente. L'esemplificazione aristossenica riguarda gli intervalli di quarta. "Stabilita questa definizione si deve dimostrare che tre sono le specie della quarta: prima, quella in cui il pycnon è al grave: seconda, quella in cui la diesis [quarto di tono] giace da una parte e dall'altra dal ditono; terza, quella in cui il pycnon è all'acuto del ditono. Si comprende facilmente che non vi sono e che non ci possono essere altre posizioni relative della quarta oltre queste" (Aristosseno, ivi). Questo passo è notevole per vari motivi. Intanto, poiché si parla di pyknon, evidentemente l'esempio va inteso come relativo ad un tetracordo di genere enarmonico. In esso si conferma che caratteristica della specie è il mutamento di ordine degli intervalli. Si noti che la "sfumatura" lascia invece inalterato proprio questo ordine. Si parla dunque di tre specie: il pycnon può essere sotto il ditono, oppure esso viene diviso dal ditono constando esso di due intervalli, infine esso si trova sopra il ditono. È notevole poi il fatto che la questione della distinzione tra le specie venga posta in modo piuttosto astratto: si tratta di enumerare tutte le specie nella loro struttura intervallare, dimostrando nel contempo che non ce ne possono essere altre. L'astrattezza sta nel fatto che una simile operazione può essere compiuta in modo del tutto indipendente da considerazioni di ordine musicale. In effetti non è difficile mostrare che queste e non più di queste sono le specie di quarta in 261 modo semplicemente grafico, considerando i puri simboli degli intervalli di cui sono costituiti due intervalli di quarta successivi. Indichiamo con D il ditono e con Q il quarto di tono. Facendo ruotare l'inizio "ciclicamente" si ottengono le specie DQQ, QQD, QDQ ed evidentemente non vi sono altre possibilità perché la trasformazione successiva ci riporterebbe alla prima struttura. Questo modo di esibire le specie per spostamento e dunque per rotazione (in greco = periforà) - nel variare della specie il primo elemento diventa ultimo nella specie successiva - non affatto inessenziale per stabilire in che senso si parla di numero di specie possibili. Infatti non si tratta di tutte le combinazioni possibili ma appunto solo di quelle che sono "derivabili" per rotazione da una configurazione. Si consideri, ad esempio, la sequenza di lettere ABC. Le combinazioni possibili sono sei, ma quelle ottenibili per rotazione sono soltanto tre. L'individuazione delle "specie" diventa così un problema puramente matematico-formale e di questa relativa astrattezza occorrerà tener conto anche nelle nostre considerazioni future. Inoltre si vede qui assai bene la differenza tra specie e sfumatura. La sfumatura opera allargamenti e restringimenti degli intervalli, ma non ne turba l'ordine e dunque anche la funzione. La specie invece è del tutto indifferente al genere - un genere qualunque può servire da esempio. Essa incide pesantemente sull'ordine e dunque sulla funzione. Nell'esempio lo vediamo soprattutto nella terza specie: si può forse ancora parlare di pycnon, che indica, come sappiamo, una zona di addensamento di piccoli intervalli, se il quarto di tono sta a destra ed a sinistra del ditono? Possiamo parlare di lichanos per una nota che sta ad appena un quarto di tono dalla mese? Nell'aristossenico Cleonide (II sec. d. C.) lo stesso metodo ciclico viene impiegato per individuare le specie di quinta. In rapporto al genere diatonico egli elenca quattro specie di quinta che nel seguente diagramma noi presentiamo in forma circolare. 262 T 3 S T 2 4 T 1 Prendendo le mosse dalla lettera T con 1 sottoscritto, e proseguendo nell'ordine si ottengono 1. TSTT 2. STTT 3. TTTS 4.TTST Si ottengono così tutte le specie della quinta. L'ordine di successione è evidentemente poco importante. Si ottengono in ogni caso le stesse specie partendo da una lettera qualsiasi. Proponendo lo schema circolarmente si mette in evidenza che vi è una forma di successione costante di base e che l'ordine cambia seguendo questa forma. 263 12.1.3 Metabolé Infine va rammentato il termine metabolé che è di particolare importanza per la tematica che stiamo per trattare. Questo termine significa mutamento, trasformazione. Ed ha naturalmente diverse applicazioni e interpretazioni diverse. Come abbiamo già detto, all'interno di una stessa melodia il genere può mutare - ovvero la stessa melodia può variare di genere nel corso del suo sviluppo. Questo è un caso di metabolé. Un altro caso riguarda ciò che modernamente chiameremmo trasposizione di una stessa melodia da una regione grave ad una regione più acuta. Mentre prima il termine era connesso al genere, qui è invece connesso al tonos. Ma a questo proposito vi è un'importante distinzione da fare che viene formulata con particolare chiarezza da Tolomeo. Un conto è la semplice ripetizione della melodia una volta più grave ed un'altra più acuta, tanto più se poi questa semplice ripetizione avviene in modo tale che le due esecuzioni siano separate l'una dall'altra. Questa è una nozione musicalmente poco interessante di metabolé. Altro conto è invece che, all'interno di uno stesso sviluppo melodico, vi sia passaggio da tono a tono - questa "trasposizione interna" ha un effettivo significato musicale e può essere usata come importante mezzo espressivo (presa in questa accezione vi è un'affinità con il termine moderno di "modulazione"). Non è allora tanto importante la distinzione tra il grave e l'acuto, quanto piuttosto l'effetto espressivo che questa "mutazione" interna alla melodia produce. Ma questo potrà essere meglio approfondito quando avremo trattato del sistema completo, delle specie di ottava e fornito qualche precisazione sui tonoi come toni di trasposizione. 264 12.2 Il sistema completo 12.2.1 L'ampiezza dello spazio sonoro nella musica greca Fin qui ci siamo mossi orientati dall'idea di uno spazio sonoro minimo, l'intervallo di quarta e della possibilità del suo raddoppiamento che, nella forma disgiunta, raggiunge l'ampiezza dell'ottava. È ovvio tuttavia che le melodie greche, benché fossero per lo più contenute entro un ambito molto ristretto, certamente potevano liberamente svilupparsi oltre il tetracordo superiore ed il tetracordo inferiore. Di conseguenza lo spazio sonoro effettivamente utilizzato era più ampio dell'ottava. Inoltre si poneva il problema di operare trasposizioni di melodie da un registro grave ad uno più acuto o inversamente. In questi casi diventava una necessità ovvia superare i ristretti limiti dell'ottava. Certo, non dobbiamo pensare alle grandi estensioni a cui siamo oggi abituati. Un pianoforte da concerto si estende su sette ottave e in un'orchestra sinfonica vi sono strumenti tali da poter coprire, nel loro insieme, una simile estensione. Lo spazio sonoro greco si estendeva solo su due ottave. Rammentiamo che l'ampiezza dello spazio sonoro è fortemente determinata dalla prevalenza o meno della musica vocale rispetto a quella strumentale. La voce ha dei limiti ben precisi, limiti che possono essere talvolta agevolmente superati dagli strumenti. Ma per la voce lo spazio di due ottave è indubbiamente uno spazio molto ampio. Qualunque sia la regione di riferimento (basso, baritono, tenore, contralto, soprano), la voce non supera normalmente le due ottave. Va peraltro notato, che in Grecia non vi era un riferimento assoluto, ma soltanto relativo dell'intonazione - cosicché le due ottave non erano fissate su una tastiera ideale o reale che fosse. Già questa circostanza stabilisce una prima differenza rispetto alle nostre consuetudini, per il fatto che lo spazio sonoro veniva, in certo senso, visto dall'interno, e non come una totalità oggettiva consi- 265 derata dall'esterno con i suoi limiti altrettanto oggettivi, entro cui vi sono circa sette ottave che si possono percorrere linearmente passando dall'una all'altra. Ora è interessante notare che i teorici svilupparono questo problema dell'ampliamento dello spazio sonoro, con lo scopo di raggiungere un "sistema completo", in un senso che riguarda in primo luogo la sua adeguatezza alle esigenze musicali effettive, in stretta coerenza con il principio del tetracordo come principio organizzativo fondamentale, animati, nello stesso tempo, da un forte spirito architettonico. Per questo parlare di due ottave, o dire che lo spazio sonoro greco si estende su due ottave comporta possibili equivoci. Anzitutto sembra che ci si serva dell'ottava come unità di riferimento (e sulla natura di questo errore abbiamo insistito abbastanza); in secondo luogo si dà l'impressione che si tratti semplicemente di uno spazio doppio, rispetto a quello dell'ottava, e null'altro. Ovviamente affermare che due ottave rappresentano uno spazio doppio rispetto a quello di una sola ottava è banalmente vero - chi mai potrebbe non essere d'accordo su una simile affermazione? Eppure, essa non solo non ci insegna nulla sul modo di intendere questo spazio, ma rischia anche di introdurre profondi fraintendimenti. Cominceremo intanto con il dire che il sistema completo, in ultima analisi, non è niente altro che una tabella, ed il modo migliore per tentare di venire a capo almeno delle sue idee guida è quello di costruirla di passo in passo. Si tratta di una costruzione che può essere esposta come se avvenisse in due tempi: il primo riguarda l'estensione dell'ottava a due ottave, il secondo riguarda invece l'ambito delle possibili trasposizioni. 266 12.2.2 Il doppio tetracordo di base come fondamento del sistema completo Cominciamo a metterci sotto gli occhi il doppio tetracordo disgiunto. Voi chiederete: secondo quale genere? Rispondiamo semplicemente: secondo il genere diatonico. Ma questa risposta deve essere accompagnata da qualche giustificazione. Abbiamo già notato che se l'ordine espositivo che procede dal diatonico all'enarmonico passando attraverso il cromatico può avere una sua giustificazione teorica nell'appesantimento della tendenza cadenzale ovvero nel progressivo distanziarsi della lichanos dalla mese, tuttavia questo ordine non rispetta la vicenda storica che sicuramente era assai più complessa: il prevalere nella tarda grecità della genere diatonico, e per via di questo prevalere, la decadenza della stessa teoria dei generi, non deve far pensare che i generi cromatico ed enarmonico - con tutto tutto che essi comportano, dal punto di vista musicale - fossero di importanza secondaria. È opportuno invece sottolineare vivacemente che i greci amavano molto i piccoli intervalli, le ornamentazioni, la varietà consentita dalla teoria dei generi; così essi conferivano fama ed onori a quei musicisti che introducevano modifiche ai loro strumenti per aumentarne la flessibilità espressiva, ad esempio aumentando il numero di corde della lira così da poter disporre di una tavolozza più ricca di possibilità. Lo stesso vale per l'aulos: il satiro auleta è una figura esemplare della vasaria greca in tutta la sua sensualità apertamente esibita: le proteste di teorici e moralisti suonano come una conferma di tutto ciò. Vi sono mille indizi che mostrano come i greci per lungo tempo avessero una particolare predilezione non solo per l'intervallistica mobile, ma anche per il gioco con i piccoli intervalli, e quindi per un'espressività particolarmente intensa; al punto che si può formulare l'ipotesi che la critica di questa espressività, l'elogio della semplicità, la reazione contro la varietà, ecc., come elementi "barbari", "orientali" non genuinamente ellenici, fosse soprattutto propria dei teorici - pitagorici e platonici soprattutto - e fosse tanto più netta quanto più invece la musica greca sembrava spesso muoversi su tutt'altra via. 267 I generi enarmonico e cromatico sono certamente in auge nell'età di Aristosseno. Aristosseno e gli aristossenici avviano la loro rivoluzione teorica avendo di mira il problema di una maggiore aderenza alla pratica musicale. Anche da questo punto di vista è significativo che a proposito del tema delle specie di quarta, Aristosseno sembra volere avviare la trattazione dall'enarmonico e non è escluso che le proposte aristosseniche di "sistema completo" fossero influenzate da questa propensione. Ma è certo che questa tendenza della musica reale va ben oltre l'età di Aristosseno. Quando cominciò ad esistere una scala standard di accordatura della lira? È assai difficile dirlo. E questa scala standard era la scala diatonico-pitagorica? È assai improbabile. Si chiede Monro: che ne è dell'ottava standard della lira? Quale era la successione di intervali da cui era caratterizzata? Ed egli risponde così: "Nessuna successione di intervalli aveva qualche privilegio per essere scelta. Si può sostenere che l'ottava standard era di fatto la scala di un particolare modo, che si era guadagnato una reputazione come modello, ad esempio il dorico. Ma non vi è traccia di una simile preminenza del modo dorico come se si trattasse di una necessità. I filosofi che sostenevano il carattere elevato e la sua rappresentatività rispetto alla purezza ellenica erano assai lontani dall'implicare che esso fosse in cima alle preferenze popolari. In realtà il contrario era evidentemente il caso" (Monro, 1894, p. 42). A riprova ecco una testimonianza veramente straordinaria, tratta dai Cavalieri di Aristofane. Si sta parlando di Cleone e si dice di lui: 268 Altro lato mirabile del suo trattar porcino: chi studiò da bambino con lui, dice che usò temprar la lira in dorico sempre; né percepía verun'altra armonia; e, irato, lo scacciò il maestro, da scuola. "Questo bimbo la sola accordatura dorica capisce: e l'altre no!" (trad. di E. Romagnoli, Le Commedie, Zanichelli, 1924, p. 206) Eppure ciò che finisce con il contare, dal punto di vista della costruzione teorica, è che il diatonico si trova, in fin dei conti, a partire dal "tetracordo di Filolao" all'origine della teoria musicale proprio per il fatto che esso è costruito con i rapporti tratti dalla teoria delle consonanze; ed è dominante quando la teoria raggiunge la sua sistemazione più compiuta. Dopo la scossa aristossenica ed un periodo, che si può supporre piuttosto ampio, di dominio della varietà dei generi e della ricerca musicale e teorica correlativa, il platonismo e il pitagorismo hanno il netto sopravvento. È sintomatico che il trattato di Tolomeo (II sec. d. C.), che può essere considerato una sorta di straordinaria sintesi conclusiva della teoria musicale della grecità, dedichi tutto il suo primo libro a confutare le tesi di Aristosseno e degli Aristossenici. Naturalmente si parla ancora dei generi e delle loro sfumature, si formulano ancora nuove proposte intorno ad esse (sia pure nello spirito più del pitagorismo che di quello dell'aristossenismo) - ma si tratta ormai non tanto di discorsi sulla musica, ma di discorsi sui discorsi passati di una musica passata. 269 Ma vi è un altro punto a cui va dato particolare rilievo. Nella costruzione del sistema completo, il problema della diversa grandezza degli intervalli, su cui tanto abbiamo insistito in precedenza, non è più in primo piano. Ci basta la differenza tra tono e semitono genericamente intesi. Che poi la grandezza di questi intervalli possa variare in funzione dei movimenti delle note "mobili" non rappresenta un problema, non implicando questa variazione alcuna modificazione dell'architettura complessiva della costruzione. La problematica dei generi può restare in ombra perché il nucleo della questione del sistema completo in fin dei conti non la riguarda. Riconsideriamo dunque il doppio tetracordo disgiunto, facendo riferimento alla struttura di toni e semitoni che ci è ormai ben nota dal momento che è stata da noi già ampiamente illustrata con il nome di "scala pitagorica". Vogliamo ora chiamare questa scala doppio tetracordo di base. Questo termine è tutto nostro e serve da un lato a neutralizzare gli equivoci associati al termine di "ottava" e nello stesso tempo a richiamare l'attenzione sul fatto che questa struttura intervallare ha carattere di fondamento per il sistema completo. Nella sua rappresentazione grafica ricorreremo normalmente ad un ordine orizzontale, nella sequenza nete, paranete, trite, paramese, mese, lichanos, parhypate, hypate, con la nete a sinistra e l'hypate a destra. Rammentiamo inoltre che abbiamo convenuto, per quanto riguarda i nomi delle note, di ricorrere talvolta anche ai nostri nomi usuali, iniziando con Mi, secondo una convenzione comunemente accettata così da avere la scala diatonica nella forma priva di alterazioni nella nostra consueta scrittura musicale. Anche questo artificio ci può risparmiare molte parole e rendere più accessibile la nostra discussione. Non abbiamo invece diversificato notazionalmente le differenti altezze delle stesse note, essendo queste differenze ovvie nella lettura da sinistra a destra (andamento dall'acuto al grave). Fatte queste precisazioni, possiamo ora compiere il primo passo nella costruzione della tabella del sistema completo. In questo primo passo si tratta soltanto di operare un'estensione a destra ed a sinistra del doppio tetracordo di base aggiungendo un tetracordo congiunto da entrambi i lati (come abbiamo detto, l'antico eptacordo non venne mai dimenticato dalla cultura musicale greca). 270 DOPPIO TETRACORDO DI BASE LA SOL FA MI NETE RE DO SI LA MESE SOL FA MI RE DO SI HYPATE Questa aggiunta richiede che le note siano identificate non solo con il nome consueto, ma anche con l'aggiunta determinativa del tetracordo cui appartengono. Ne deriva una terminologia un po' macchinosa ma chiaramente comprensibile. Così il tetracordo a cui appartiene la mese viene chiamato già da Aristosseno "tetracordo della mese" e questo termine viene poi reso plurale volendo intendere tutte le note appartenenti al tetracordo della mese (Chailley, 1979, p. 49). Il tetracordo sovraordinato viene caratterizzato per il suo essere un tetracordo disgiunto, il tetracordo aggiunto superiormente (alla sinistra nel nostro schema) come tetracordo delle note acute: la nota più acuta verrà ancora 271 caratterizzata come nete, le successive paranete e trite con la precisazione di appartenenza al tetracordo delle note acute; infine il tetracordo che sta al di sotto (a destra nel nostro schema) del tetracordo della mese come tetracordo delle note gravi i cui nomi saranno ancora lichanos, parhypate e hypate con la precisazione di appartenenza al tetracordo delle note gravi. Come è chiaro, la forma stessa nei nomi delle note non può aver nulla a che fare con quella delle nostre note che segue una logica completamente diversa. La forma del nome è qui determinata dalla sua integrazione nel sistema. Perciò avremo la "nete dei disgiunti (=nete del tetracordo disgiunto)", la nete degli acuti (=nete del tetracordo delle note acute), ecc. (Schema precedente tratto da Gollin, 2004). Si tratta di quattordici note, la cui idea costruttiva appare essere quella di uno spazio centrato, cioè di uno spazio di cui si possa indicare un luogo come suo centro. Affinché questa condizione si realizzi letteralmente, abbiamo bisogno di aggiungere una nota (proslambamenos), cosa che del resto si impone per "chiudere" lo spazio richiamando la nota con cui esso si è aperto. Cosicché aggiungeremo un La a destra in modo da stabilire il richiamo in doppia ottava con la prima nota. Le note diventano di conseguenza quindici, la mese occupa non solo il centro esatto dello spazio ma ne richiama anche i bordi. Potremmo tentare di rendere la situazione in questo modo: LA SOL FA MI RE DO SI LA SOL FA MI RE DO SI LA 272 Evidentemente si tratta di far nascere qualcosa di completamente diverso del raddoppio di una ottava ovvero di due ottave accostate l'una all'altra. I due aspetti particolarmente importanti che caratterizzano il modo di intendere questa struttura è l'esistenza di un centro che riguarda l'intero spazio sonoro così costituito. Parlando di centro si allude naturalmente anche all'immagine della circolarità. I due la che fanno da confine al sistema nel grafico sono associati da una doppia freccia per il fatto che in realtà la nota aggiunta deve essere pensata come una nota che idealmente si ricongiunge con la nete del tetracordo delle note acute (nete hyperbolaion). In altri termini il senso della costruzione (il suo "modo di intenderla") non è quello di un percorso lineare che può proseguire oltre i suoi confini superiori o inferiori, ma di uno spazio che, giunto al suo limite inferiore prosegue nel suo limite superiore e inversamente, ovvero non prosegue affatto, ma è circolarmente chiuso su se stesso. Questa circolarità sembra apertamente sottolineata da Tolomeo quando pone una sorta di coincidenza tra la nete del tetracordo superiore e la nota aggiunta (Tolomeo, 2002, 2.5, p. 158) cosicché, osserva il traduttore e commentatore della versione italiana Massimo Raffa, "lo schema più adatto per visualizzare la nomenclatura funzionale non dovrebbe essere pensato come orientato in senso verticale su una direttrice alto/basso ma piuttosto come una circonferenza nella quale il proslambanomenos e la nete hyperbolaion [nete del tetracordo delle note acute] individuano un unico punto (da concepirsi come punto doppio)" (Raffa, p. 379 - cfr. anche p. 295). Questa coincidenza non può essere intesa come letterale, e in particolare non significa necessariamente che qualora la melodia richiedesse il superamento nella nete hyperbolaion, si passasse direttamente alla nota corrispondente all'ottava bassa. Questa soluzione potrebbe essere musicalmente inopportuna ed anche distruttiva rispetto all'unità della melodia. Ma vi sono vari modi di ovviare a simili problemi che questa circolarità e questa chiusura 273 comportano e che del resto si possono ripresentare anche in altri linguaggi musicali e vi è sempre modo di aggirare la difficoltà con modificazioni adeguate e coerenti con il complesso dello sviluppo melodico. Ecco un modo di "pensare" lo spazio sonoro certamente difforme da quello infine prevalso nella tradizione musicale europea. Indubbiamente qui la nozione chiave è quella di Mese, cioè di una nota centrale dell'intero sistema. Osserva Sachs che "il sistema completo era più di una semplice doppia ottava", ma soprattutto un tentativo "di organizzare lo spazio musicale intorno ad un centro". Basta trascurare questo punto e dimenticarsi del modo in cui il sistema è costruito - ed in particolare l'importanza fondativa del doppio tetracordo di base - ed ecco che diventa irresistibile il parlare del sistema completo come se fosse una pura e semplice scala di la minore. Ciò rappresenta un errore in quanto esprimendosi in questo modo si cancella l'intero contesto da cui questa costruzione riceve senso. "Il lettore deve essere messo in guardia contro gli autori che chiamano la scala dorica La minore per il fatto che la sezione dalla mese in giù somiglia ad una moderna scala di La minore... Il termine, musicalmente, è improprio... Tale terminologia è inammissibile, musicalmente e logicamente parlando" (Sachs, 1943, p. 228). Il fraintendimento poi non è solo quello di attribuire alla mese il carattere di "tonica", facendo riferimento al linguaggio tonale, ma quello di presentare le cose come se si trattasse di due ottave contigue e come se la mese costituisse l'inizio di una scala tonale. Essa è invece centro dell'intero sistema completo costituito di due tetracordi disgiunti e di due tetracordi congiunti ai loro poli e la nota che essa rappresenta è nello stesso tempo la nota di confine, verso l'alto e verso il basso, del sistema stesso. 274 12.2.3 Il sistema completo piccolo e la sua integrazione nel grande Il sistema completo che abbiamo cominciato a costruire è chiamato anche sistema completo grande o maggiore. Ora occorre dire che vi è anche un sistema completo detto piccolo o minore, più antico, che venne poi integrato in esso. In realtà, benché la completezza a cui sempre si allude assommi in sé vari sensi che possono anche essere coesistenti, "la parola completo (teleion) fu indubbiamente applicata in ciascun periodo alla scala più completa che la teoria musicale avesse allora riconosciuto" (Monro, 1894, p. 37). Il sistema che venne poi chiamato piccolo era costituito di tre tetracordi congiunti, cosicché assunse anche il nome di sistema congiunto (synnemenon), rispetto al sistema grande, detto anche disgiunto (diezeugmenon), basato invece sul doppio tetracordo disgiunto. È evidente che il sistema piccolo si ricollega alla fase più antica eptacordale della musica greca. RE NETE T DO T PARANETE SIb TRITE S LA MESE T SOL LICHANOS T FA S MI PARHYPATE HYPATE Questo schema rappresenta la base del sistema completo piccolo o congiunto: ad esso viene aggregato un tetracordo congiunto nella regione grave raggiungendo così le undici note che venivano portate a dodici con la nota "aggiunta" , che entrava in rapporto di ottava con la mese. 275 T RE S T DO SIb LA S T T SOL FA T MI S T RE DO SI LA Poste le cose in questo modo, si vede subito la possibilità di fare del sistema piccolo niente altro che una possibile articolazione del sistema grande, creando un ramo che si incontrava con la mese tutte le altre note essendo coincidenti. Con la possibilità di impiego di Si b e di modulare nel tetracordo del sistema piccolo si apportava così un ulteriore arricchimento all'insieme. In effetti il passaggio dall'uno all'altro sistema può essere considerato un esempio di "metabolé". LA SOL FA RE MI DO RE DO SIb SI LA SOL FA MI RE DO SI LA "Associando le due strutture in un singolo sistema, i teorici sembrano ancora in accordo con la pratica musicale coeva, poiché vi sono prove che le melodie ai tempi di Aristosseno spesso prendevano un andamento che potrebbe essere descritto come modulante tra i tetracordi disgiunti e congiunti. Tali modulazioni erano tanto comuni che i due percorsi venivano sentiti come egualmente naturali, e di conseguenza essi vennero condensati in un unico sistema che li compendia" (Barker, 2007, p. 15). Nelle nostre considerazioni successive, come si vedrà, non è tuttavia necessario prendere in considerazione l'unione dei due sistemi, poiché i temi che intendiamo trattare possono essere svolti interamente sulla base del sistema completo "disgiunto" (maggiore). 276 12.2.4 Le specie di ottava Ora che abbiamo realizzato il primo passo nella costruzione di quella tabella che è il sistema completo, possiamo passare al secondo passo, che consiste, come abbiamo detto, in un' ulteriore estensione che implica il problema delle trasposizioni. La premessa di questo secondo passo consiste nell'introdurre le specie di ottava, in stretta analogia con le specie di quarta e di quinta di cui abbiamo già discorso. Infatti si tratterà anzitutto di individuare le ottave presenti nel sistema e le strutture intervallari corrispondenti. Per far questo useremo lo schema circolare che abbiamo già esemplificato in rapporto alle specie di quinta. T T 4 5 S T 3 6 S 7 T 1 T 2 277 Seguendo la direzione della freccia e cominciando da T con 1 sottoscritto si ottengono via via sette "sistemi" intervallari che sono appunto le specie di ottava: precisamente 1. TTSTTTS 2. TSTTTST 3. STTTSTT 4. TTTSTTS 5. TTSTTST 6. TSTTSTT 7. STTSTTT Le specie sono sette e non possono essere più di sette, se vengono proposte per rotazione degli intervalli. Notiamo che se ci atteniamo a questa sequenza eseguendo successivamente su un pianoforte gli intervalli indicati a partire da Mi e in direzione discendente otteniamo ottave senza note alterate. Tutte le specie non si distinguono nel numero e nel tipo di intervalli, ma nel loro ordine. Ma perché questo interesse alle "specie di ottava"? Aristosseno rimprovera i teorici che lo hanno preceduto di non aver considerato le specie di ottava ad eccezione di un autore (Eratocle, di cui peraltro non si sa nulla) che avrebbe fatto un tentativo in questa direzione limitatamente al genere enarmonico e servendosi del metodo della rotazione. Non ci è tuttavia pervenuta alcuna esposizione di Aristosseno stesso relativamente alla specie di ottava: l'accenno precedente può far pensare ad un tempo che egli ne trattasse in modo relativamente ampio nella parte perduta della sua opera, oppure soltanto che questo tema delle specie di ottava fosse comunque nell'aria ai tempi suoi (Solomon, 1984, p. 245). In questo rimprovero di Aristosseno riusciamo a cogliere le ragioni di questo affaccendarsi intorno alle specie, e in particolare intorno alle specie di ottava. Da parte del teorico - ma anche, presumibilmente, da parte dei musicisti - si faceva avanti da tempo l'esigenza di stabilire un qualche ordine nelle harmoniai e nei tonoi, un qualche metodo che da un lato operasse una semplificazione del nume- 278 ro, preservandone al massimo la varietà e dall'altro fornisse qualche punto fermo per cantanti ed esecutori. Aristosseno denuncia chiaramente la confusione esistente e la necessità di porvi riparo. "I tonoi d'altra parte, rappresentavano la musica reale per questi antichi teorici. Quando Aristosseno discute dell'argomento paragona la confusione sul numero dei tonoi, sulla loro costituzione e sulla possibilità di stabilire fra loro delle relazioni, alla confusione relativa all'antico calendario greco" (Solomon, 1985, p. 248). Ora proprio le specie di ottava potevano assolvere questo scopo di semplificiazione e di riordino. Anzitutto esse erano prodotte secondo un metodo ben determinato e questa circostanza soddisfaceva le istanze teoriche.Ma non meno significativo è che esse riproponevano alcuni sistemi intervallari prossimi alle principali antiche "armonie". Le culture e le tradizioni ancora molto diversificate della Grecia arcaica (VII-VI sec, a.C) fornivano sicuramente "il clima per la creazione delle differenti armonie - la dorica dalle austere tribù della Grecia meridianale, la Lidia dalla florida società orientale della costa dell'Asia Minore, la frigia dalle popolazioni sfrenate della selva e delle regioni montagnose dell'altopiano anatolico. Con armonie differenti non intendo solo tonoi, cioè scale diverse, ma sistemi etnomusicali interamente dif differenti - scale, strumenti, contenuti narrativi, danze, poesie e costumi. Naturalmente non abbiamo esempi di teorie della musica e di analisi che risalgano al VII, VI o V sec. a. C. ed è soltanto nel quarto secolo che Platone e Aristotele ci danno le loro brevi filosofie descrittive della musica e degli etos. (Plato Rep. 398 C - 399 E: Arist. Pol. 1340a38 - 1340b10)... In quell'epoca la harmoniai nazionali sembrano essere abbastanza standardizzate... Quando Platone e Aristotele ammettono o respingono certe harmoniai nello stabilire il 279 loro stati ideali, la questione che pongono non è certamente di ordine 'nazionale'. Essi non respingono la musica Lidia, ma lo stile musicale lidio. All'incirca contemporeanee di Platone e Aristotele sono comunque le teorie di Eratocle e degli armonisti che tendono ad una regolarizzazione. Essi continuano a sopprimere le vecchie armonie che ora rapidamente diventano "tonoi" con parti più regolarizzate e strutture relazionali più compatibili. Alla fine con Aristosseno, una o due generazioni più tardi, si arriva a possedere una completa teoria analitica, unificata e capace di abbracciare ogni cosa" (Solomon, 1984, p. 249). Nello stesso tempo le specie di ottava tendono a prendere alcuni dei nomi "regionali" o "etnici" con cui esse erano un tempo indicate. Naturalmente non siamo in grado di giudicare il grado di prossimità con quelle forme scalari, ma non c'è dubbio, io credo, che se questi nomi vennero ripresi ciò dipese dal fatto che erano ritenuti musicalmente abbastanza pertinenti. Forse sarebbe anche il caso di ricordarsi che un processo del tutto analogo è avvenuto per la musica indiana in cui si alternarono i tentativi dei teorici di operare un riordino della disparata molteplicità dei raga con metodi relativamente astratti che tentavano in ogni caso di operare una semplificazione che rappresentasse anche una sintesi dal punto di vista musicale. Anche in questi casi, quando si addivenne ad un numero di scale assai limitato, i nomi delle scale vennero ripresi da raga particolarmente rappresentativi di famiglie di tipi melodici. Il problema delle specie di ottava tende a complicarsi, ma anche a mostrare la sua ricchezza e concretezza. Anche in questo caso troviamo infatti un caratteristico intreccio tra considerazioni astratte guidate da uno scopo essenzialmente classificatorio senza rilevanza musicale diretta e considerazioni che si incontrano invece con problemi musicali compositivi e di ordine esecutivo. 280 12.2.5 Il problema della trasposizione e la "modulazione della melodia" Il secondo passo per la costruzione del sistema completo consiste in una moltiplicazione verso l'alto e verso il basso della doppia ottava che abbiamo realizzato con l'ampliamento del doppio tetracordo di base con i due tetracordi congiunti. Si tratta quindi ancora di una sorta di estensione dello spazio sonoro che ha questa volta come base e asse fondamentale la stessa scala diatonica. Quest'estensione avviene in stretta connessione con la tematica della trasposizione. Qualcuno ha osservato che, nonostante la relativa ovvietà di questa nozione, talvolta non si sa che cosa propriamente si traspone ed a che cosa si traspone. In realtà è opportuno chiedersi anzitutto che cosa cambia e che cosa resta identico in una trasposizione. La risposta allora risulta molto semplice. Ciò che resta identico è la struttura intervallare. Si muovono invece le altezze delle note, e di quanto si muovono dipende appunto dall'ampiezza della trasposizione. È bene notare che questa ampiezza non ha vincoli di principio. In effetti l'esigenza di trasporre melodie è sempre stata anzitutto propria del cantante interessato ad adattare il più possibile il canto al registro della propria voce. Considerata entro questi limiti la questione potrebbe non richiedere alcun mutamento importante nell'assetto teorico. Il registro più acuto o più grave viene semplicemente adottato senza che si ponga alcun problema che riguardi il sistema degli intervalli. L'eventuale strumento accompagnatore viene riaccordato corrispondentemente. È subito evidente che la grandezza della trasposizione è indifferente, e la sua misurazione o una qualche sua precisa determinazione non ha particolare interesse: un cantante può cantare una melodia un po' più acuta o un po' più grave di quanto verrebbe cantata da un altro cantante e potrà eccedere verso l'alto o verso il basso secondo i limiti stabiliti dalla qualità della sua voce. Entro questi limiti, potremmo dire che la grandezza della trasposizione è una grandezza "a piacere". Naturalmente ciò è vero in particolare per un sistema che non ha, come quello greco, un'altezza standard di riferimento come il nostro LA a 281 440 Hz. Per questa ragione alcuni ritengono che il sistema completo sia un puro arzigogolo da teorici e che non abbia alcun senso propriamente musicale nemmeno per la tematica della trasposizione. In realtà in una simile presa di posizione dimentica che la trasposizione diventa musicalmente significativa quando rientra a sua volta nei mezzi di espressione del linguaggio musicale, e non rappresenta una semplice accidentalità pratica. Non si tratta di una dimenticanza da poco. Come tutti sanno nel nostro moderno linguaggio tonale, uno dei fondamentali mezzi espressivi è la transizione da una tonalità all'altra (modulazione) - dove ciascuna tonalità, rispettivamente maggiore o minore, può essere considerata il risultato di una trasposizione. Ora per quel che sappiamo dalla teoria greca, non possiamo affatto escludere che anche in essa la trasposizione, insieme alla tematica dei generi, avesse un impiego espressivo (anche se non sappiamo quale, ma certamente attinente ad una qualche forma di "modulazione"). Oserei dire che proprio l'inclusione nel sistema completo di questo problema sia un forte indizio a favore di questa ipotesi. La forma che assume questa inclusione è quella di attribuire alle grandezze della trasposizione una logica scalare determinata e di conseguenza un numero determinato di vere e proprie "tonalità". La trasposizione cessa allora di essere una questione meramente empirica di aggiustamento del registro del canto, anzi si rende completamente autonoma rispetto a questo problema e diventa una questione che non può non interessare la teoria e la pratica musicale nella sua generalità. Vi è in ogni caso un passo di Tolomeo veramente notevole in rapporto a questo problema: "Rispetto al cosiddetto tono vi sono due tipi fondamentali di mutazione: uno è quello in base al quale trasponiamo l'intera melodia in una posizione più acuta o viceversa più grave, mantenendo assolutamente immutata la specie; l'altro è quello per cui non viene mutata di posizione tutta la melodia, ma una sua parte, con conseguente altera- 282 zione della struttura iniziale; perciò si potrebbe chiamare quest'ultima mutazione della melodia piuttosto che del tono. Infatti con il primo di tipo di mutazione la melodia non cambia, ma cambia completamente il tono; con il secondo invece la melodia si discosta dalla sua struttura originaria, mentre la sua posizione nell'ambito delle altezze non muta in sé, bensì limitatatamente a quanto concerne la melodia stessa. Perciò il primo tipo di mutazione non produce ai sensi l'impressione di una diversità di funzione - che poi è quella che che modifica il carattere della melodia -, ma solo di uno spostamento verso l'acuto o il grave. Il secondo tipo invece produce un cambiamento, per così dire, nella struttura consueta della melodia, quella che comunemente ci si aspetta. Ciò accade nel caso in cui la melodia segua per buona parte il percorso consueto, ma in qualche punto si trasformi in un'altra specie oppure rispetto al genere o all'altezza, per esempio nel caso in cui essa passi in qualche modo senza soluzione di continuità dal genere diatonico al cromatico, oppure nel caso in cui, in una melodia che solitamente si muove per intervalli di quinta, si verifichi un passaggio a intervalli di quarta come nei sistemi su esposti" (Tolomeo, II. 6 - 54.12-55.15, 2002, p.161). Non si potrebbe dare una formulazione più chiara della differenza tra metabolé del tonos e metabolé della melodia, che Tolomeo tiene a distinguere anche terminologicamente. La metabolé musicalmente significativa è quella della melodia, che può avvenire, oltre che per mutamento di genere, anche per il mutamento della specie di ottava e per trasposizione (mutamento di altezza) - e, in quest'ultimo caso, solo se questo mutamento avviene all'interno nello sviluppo della melodia e dunque colpisce non tanto per il mutamento di altezza, che potrebbe non essere nemmeno avvertito come tale, ma per il mutamento di carattere che lo sviluppo melodico riceve. Ed è chiaro dal contesto che il tipo di modulazione a cui Tolomeo è soprattutto interessato è la "modulazione della melodia" nelle sue varie forme (Barker, 2000, p. 170). 283 12.3 Identità e mutamento nel sistema completo 12.3.1 Tesi e dynamis Proseguiamo la nostra discussione sulla trasposizione proponendo un esempio di scala di trasposizione verso l'acuto che conveniamo abbia la grandezza di un tono, ovviamente a partire dalla scala diatonica in doppia ottava che rappresenta, in questa fase ulteriore della sua costruzione, la base del sistema, vorremmo ancora dire: il suo centro. Approfittiamo del nostro rigo musicale e della nostra notazione per rendere subito chiaro il nostro problema. T S nete mese hypate dinamica dinamica dinamica T T S T S T T S mese nete T T T T S T T T S T T T T S T hypate T T S Nella riga in basso sono indicati gli intervalli della scala diatonica mentre nel rigo immediatamente superiore le note che si trovano ai loro estremi. Quello che abbiamo chiamato "doppio tetracordo di base" viene evidenziato dal doppio rigo verticale. Al di sopra sono indicati gli intervalli del genere diatonico spostati di una casella verso sinistra (ovvero verso l'acuto), e poi naturalmente le note con i segni delle alterazioni rese necessarie dalla trasposizione. Ciò che abbiamo fatto è una operazione di trasposizione da un tonos ad un altro. Il nuovo tonos ottenuto da questa operazione 284 è indicato dalla graffa orizzontale superiore. Ora chiediamoci: che cosa avviene in questa semplice operazione di spostamento tenendo conto del contesto teorico che abbiamo fin qui delineato? Per rispondere adeguatamente a questa domanda conviene ricollegarci a due concetti introdotti da Tolomeo, ma presumibilmente con ricordi nella tematica aristossenica. Si tratta di nozioni che riguardano il rapporto tra la base del sistema e la costruzione che avviene su di essa. Nella base del sistema abbiamo una mese che sta al suo centro e la nete che insieme all'hypate definiscono il doppio tetracordo. Queste note vengono chiamate mese tetica, nete tetica e hypate tetica. Questa aggettivazione si richiama ad una tesi, cioè ad una posizione in un senso un poco particolare del termine: ciò che è stato posto occupa un luogo rigorosamente definito e stabile. Il verbo a cui il sostantivo tesi è collegato (tithemi) ha numerosi significati, ma quelli a cui ci si può richiamare più opportunamente in questo tipo di impiego sono quelli che alludono ad una "disposizione" nel senso del comando imperativo, dell'ordine impartito. Questo concetto di tesi si illustra poi ancor meglio nella sua contrapposizione alla dynamis, termine che può avere anch'esso vari significati, ma che in questo contesto allude ad un tempo al movimento ed alla funzione. Ora è chiaro che nel nostro esempio di trasposizione, la paramese nella scala trasposta ha cambiato funzione ed è diventata una nuova mese che merita di essere perciò chiamata mese dinamica, così come la nuova nete e la nuova hypate, e del resto tutte le note della nuova scala. Tutto si è mosso, ma qualcosa è rimasto identico: il sistema intervallare caratteristico dell'ottava che rappresenta la base del sistema. Si noti come questo modo di porre le cose è strettamente legato al fatto che, a differenza dei nomi delle nostre note, i nomi greci sono caratterizzati da nessi puramente relazionali. Ora il distinguere tra mese tetica e mese dinamica significa stabilire da un lato la possibilità di movimento, ribadendo che una nota può diventare una mese, nel senso che può assolvere la sua funzione, dall'altro confermare che vi è sempre una mese che non è diventata tale, ma che semplicemente lo è perché è stato disposto così. Ciò vale naturalmente per tutte le altre note della stessa scala. Ora,è tipico del sistema che stiamo illustrando quello di non considerare soltanto la trasposizione come tale, ma anche di ritenere signifi- 285 cativa quella che potremmo chiamare la sezione della scala trasposta corrispondente al doppio tetracordo di base, dunque lo schema intervallare che leggiamo sul primo rigo tra le doppie righe verticali. Considerando le note scritte sul rigo in questa sezione ci rendiamo subito conto che questa sequenza ha la caratteristica di contenere esattamente le note che contiene la scala trasposta, ma secondo un diverso sistema intervallare. Si tratta dunque di una specie di ottava che è caratterizzata dalla sequenza di intervalli: TSTTTST La specie di ottava così caratterizzata ha ricevuto il nome di specie di ottava frigia - e questo nome viene attribuito all'intera scala di trasposizione - tonos - del nostro esempio. Naturalmente dobbiamo qui destreggiarci con i nomi. Ogni scala di trasposizione può essere indicate come tonos, ed anche naturalmente la scala diatonica di base, che rappresenta lo scala da cui viene valutata la trasposizione. Ma una volta chiariti gli equivoci che in precedenza abbiamo indicato può essere impiegata senza problemi anche la parola "modo" utilizzando i nomi etnico-regionali delle antiche "armonie". Così noi non avremmo difficoltà nel parlare di "modo frigio" esattamente come non avremmo difficoltà nel parlare di "modo dorico" in rapporto alla scala diatonica (doppio tetracordo) di base. Notiamo che il modo frigio senza alterazioni corrisponde sul nostro pianoforte al "modo di re" così come il dorico al modo di mi. Ciò lo si vede subito anche dal nostro grafico. Se adottiamo una direzione ascendente, abbasseremo l'hypate dorica di un tono, raggiungendo il Re, ed a partire di qui, leggendo da destra a sinistra troveremo appunto, senza alterazioni, la struttura intervallare del "modo frigio". Ma questa è una considerazione marginale che potrebbe rendere equivoco l'ordine della nostra esposizione. Quali conseguenze possiamo trarre da tutto ciò? Intanto sembrerebbe che la terminologia medioevale dei modi cosiddetti "ecclesiastici" non solo possa essere utilizzata qui, ma che addirittura abbia origine di qui e di qui sia stata ereditata - anche se con una nefasta confusione tra i nomi (nella tradizione medioevale e moderna si chiama dorico il modo di re). Invece proprio questa costruzione ci insegna che ci troviamo su un terreno profondamente 286 diverso da quello "modale" - nel senso medioevale-moderno del termine. Sachs (1943, p. 339) diceva che i greci "rappresentavano i loro modi come sezioni di scale doriche". Questa è una situazione nuova e del tutto particolare. Da un lato si comprende che la terminologia dei modi possa essere riproposta, dall'altro se vogliamo proprio parlare di modi (il che non è vietato, ma nemmeno obbligatorio) non dobbiamo dimenticare che questi modi sorgono in stretta unità con le scale di trasposizione, sono in certo senso annidati nel loro interno. Tutto ciò ha ben poco a che fare con la tematica modale nel senso consueto. Infatti qui non siamo alla presenza di una struttura autonoma eventualmente collegata ad altre per rotazione degli intervalli, ma abbiamo a che fare con una una sezione di una scala diatonica trasposta. Vi è rotazione, ma subordinatamente ad un'operazione di trasposizione. Anche questo è un altro notevole esempio per illustrare come le stesse strutture possono essere intese secondo sensi differenti. Queste intenzioni dipendono dai contesti in cui a loro volta esse possono essere subordinate. La concettualità che caratterizza il sistema modale medioevale-moderno è tutt'altra dalla concettualità che caratterizza il sistema completo. Talora il termine "aspetto" viene impiegato come traduzione alternativa di eidos a specie o forma. Facendo riferimento a quando abbiamo sottolineato or ora ha indubbiamente senso affermare che il tonos nel cui interno si trova la configurazione TST T TST, deve essere considerato come un "dorico in aspetto frigio". La parola "aspetto" quindi più che una traduzione contiene già un'interpretazione, che a noi sembra del tutto corretta, nella quale si suggerisce che si resta nel dorico ma lo si guarda per così dire da una particolare angolatura. Forse anche per la tematica delle "specie o aspetti di ottava" ha una sua applicazione la metafora della prospettiva che abbiamo già impiegato nella tematica dei generi. Potrei così, ad un certo punto dello sviluppo melodico, che fino a quel punto era rigorosamente dorico, disporlo secondo una angolatura dalla quale diventa visibile l'aspetto frigio che sta nel suo interno. Eccoci dunque a richiamare ancora una volta, e forse con maggior precisione, 287 la tematica musicale della metabolé. Ma anche sul piano della pratica esecutiva possono esservi conseguenze interessanti. Una trasposizione richiede un mutamento di accordatura che sia conforme al mutamento dell'impianto tonale che interviene di conseguenza. Ciò rappresenta una difficoltà ed una complicazione se si pensa agli strumenti fondamentali della musica greca: la lira standard ad otto corde e l'aulos. Una trasposizione richiederebbe una riaccordatura di tutte le otto corde; oppure, nel caso dell'aulos, si dovrebbbe cambiare lo strumento ed avere dunque a disposizione strumenti con varie accordature. Tuttavia, come abbiamo detto, la sezione del tono di trasposizione corrispondente al doppio tetracordo di base contiene tutte le note del tono di trasposizione, pur essendo diverso il "modo" (l'ordine degli intervalli). Di conseguenza, sempre stando al nostro esempio, in una lira a otto corde accordata nel modo diatonico basterà diesizzare il fa# e il do#, cosa che, come abbiamo spiegato a suo tempo, si può realizzare con l'impiego del plettro senza necessariamente riaccordare nemmeno le corde corrispondenti a quelle note. Anche nel caso degli auloi era certamente possibile usare artifici di diteggiatura e di metodi di insuflazione per operare alterazioni sullo stesso strumento qualora l'alterazione non fosse già prevista. 288 12.3.2 La prospettiva dinamica e tetica nell'intero spazio sonoro Il singolo esempio che abbiamo proposto con le distinzioni e i problemi che subito esso propone, suggerisce l'effettuazione di quello che abbiamo chiamato secondo passo nella costruzione del sistema. Si tratta di operare una generalizzazione della questione includendo nel sistema le scale di trasposizione. Questa inclusione non è tuttavia subito ovvia. Essa richiede intanto la limitazione del numero delle trasposizioni. Solo in questo modo si esce da quella indeterminatezza del problema che lo rende teoricamente e musicalmente di scarso interesse. Abbiamo notato all'inizio che, se il trasporre fosse soltanto una questione di adattamento alle esigenze vocali del cantante, esso sarebbe da un lato privo di un effettivo interesse teorico, dall'altro esso non avrebbe in via di principi dei vincoli e potremmo avere un numero indefinibile di "livelli" di trasposizione. In realtà è un problema che Tolomeo enuncia con una certa chiarezza quando osserva: "Ora bisogna tuttavia precisare che il numero delle mutazioni che interessano interi complessi intervallari (quelle che propriamente si chiamano toni per il fatto che differiscono in base all'altezza) è illimitato in potenza, come pure il numero dei suoni (infatti il cosiddetto tono differisce dal semplice suono in quanto è composto rispetto a questo, che è semplice, proprio come la retta rispetto al punto; ma d'altra parte nessuno ci impedirà di traslare sia il punto sia l'intera retta su posizioni contigue successive), ma in atto è limitato dalla percezione esattamente come il numero dei suoni" (II, 2.7, trad. it, p. 164). Si noti ciò che si dice in parentesi: per quanto in modo un po' intricato, con il paragone con il punto e la retta, Tolomeo fa notare che i suoni rappresentano un continuo - come la retta -, e che in linea di principio nulla impedirebbe di scegliere un suono di altezza 289 qualunque all'interno del continuo (un punto all'interno della retta) per fare di esso la "nete dinamica" a partire dalla quale si istituisce un tono di trasposizione. Questa illimitatezza viene respinta da Tolomeo per il fatto che vi sarebbe un limite percettivo nel cogliere punti troppo prossimi tra loro nel continuo dei suoni, ma questo argomento in realtà è assai poco convincente perché passa al problema dell'afferramento dei piccoli intervalli, e questo è in realtà semplicemente un altro problema che non tocca la questione della trasposizione. La vera ragione per la quale si richiede una limitazione sta nel fatto che questa illimitatezza non consentirebbe l'integrazione nel sistema della tematica musicale della trasposizione. Per spiegarci: un cantante potrebbe chiedere di accordare il la del pianoforte o degli strumenti che lo accompagnano a 435 Hz piuttosto che a 440, e dunque di abbassare l'intonazione di tutte le note, ma questa variazione non ha a che fare con il sistema delle trasposizioni rappresentato dalle tonalità nel linguaggio tonale. La limitazione invece punta su un ordine che è poi rilevante per l'impiego musicale dei toni trasposti. Ma quale criterio deve seguire la riduzione del numero e la scelta delle "posizioni"? Evidentemente non può esserci un criterio obbiettivo, ma possono esservi scelte differenti, anche se certamente ogni scelta non può essere interamente arbitraria. Ciò spiega la ragione per cui i teorici greci propongano numeri differenti di scale di trasposizione - cosa che ha reso ancora più intricata la questione già di per sé piuttosto complessa. Secondo una testimonianza di Cleonide (1990, cap. 12), Aristosseno proponeva tredici tonoi. Altri teorici parlano di dodici o quindici tonoi. Naturalmente il nostro compito è solo quello di cogliere le linee-guida di ordine concettuale, e perciò ci limiteremo a prendere atto della scelta di Tolomeo, che limita a sette i toni interessanti musicalmente sulla base di un criterio abbastanza ragionevole. Tolomeo pensa infatti che in un sistema come quello qui abbozzato che dà la massima importanza all'ordine diatonico eptatonico, proprio questo ordine possa rappresentare una regola anche per l'ordine e il numero delle trasposizioni ammesse. Ciò conferma la scarsa pertinenza dell'argomento sopra addotto della difficoltà di cogliere i piccoli intervalli: infatti se valesse quell'argomento, Tolomeo avrebbe dovuto ritene- 290 re che il criterio della trasposizione dovesse essere rappresentato dall'intervallo minimo percepibile. Così non è: vi è invece una certa logica nel fatto che la struttura intervallare di base TTSTTS venga scelta anche per fornire da criterio per integrare nel sistema i toni di trasposizione e dunque per giustificare la scelta di determinare il loro numero a sette, e non più di sette. In particolare ha certamente assunto rilievo in questa scelta il fatto di porre l'accento sulla "modulazione della melodia", che spingeva probabilmente Tolomeo a considerare come caratteristico del tono più la sua specie di ottava, che la variazione di altezza: "l'identità del tonos è costituita dalla 'forma di ottava' che esso contiene" (Barker, 2000, p. 179). Si tratta dunque di predisporre i toni di trasposizione in modo tale che si ritrovi nell'ordine dei toni di trasposizione l'ordine diatonico. In effetti nella figura seguente se seguiamo dal basso la prima linea diagonale incontriamo il seguente ordine intervallare: TTST TTSTTS (si, do#,re#,mi,fa#,sol#,la) - e questo è l'ordine intervallare del diatonico eptatonico. Le tre linee diagonali indicano rispettivamente la nete, la mese e l'hypate dinamiche nelle loro varie posizioni, tenendo conto peraltro che nel modo dorico si tratta propriamente di posizioni "tetiche". Come nel caso del dorico e del frigio anche gli altri toni prendono i loro nomi dalle specie di ottava che risultano corrispondenti all'ottava dorica. Notiamo che a differenza di altri autori che, seguendo Tolomeo, hanno dato un ordine ascendente al sistema, noi abbiamo 291 preferito invece mantenere l'ordine discendente in coerenza con tutta la nostra esposizione. Benché tutto l'essenziale sia contenuto nella precedente figura, vi sono altre cose che si possono vedere meglio se lasciamo da parte la nostra notazione e ci limitiamo a considerare solo le strutture intervallari e in particolare se riusciamo a rendere evidente il modo in cui il sistema è astrattamente costruito. Per mostrare la circolarità della costruzione possiamo semplicemente ricorrere allo schema circolare già impiegato per le quinte e per le ottave, applicandolo in questo caso alla doppia ottava. T S T T 7 misolidio S6 lidio T5 T frigio T T S T 3 S ipolidio T T ipofrigio 2 1 ipodorico 4 dorico 292 Percorrendo il cerchio nella direzione della freccia dalla T con 1 sottoscritto (ipodorico) e poi proseguendo nell'ordine otterremmo la tabella dell'intero sistema dal basso verso l'alto tenendo conto soltanto delle strutture intervallari. Ma sarebbe difficile attenendoci a questo schema cogliere gli altri aspetti importanti del sistema. Conviene perciò ricorrere piuttosto ad un diagramma rettangolare mostrando la costruzione a partire dal "dorico" cominciando con il dar rilievo alla sequenza delle T e delle S all'interno delle due diagonali esterne - tra la nete e l'hypate dinamica. T T T S T T T S T T S T T T S T T S T T T S S T T S T T T S T T T S T T T S T T S T T T S T T S T T T T T S T S Qui vediamo in tutta chiarezza la ripetizione dello schema TTSTTTS in tutte le scale di trasposizione. L'aspetto della ciclicità, che rende automatica la costruzione della tabella, si ripresenta nel modo in cui si risolve il compito di riempire le caselle vuote. Infatti, per conseguire questo scopo, occorre operare una rotazione che tenda conto dello schema complessivo della doppia ottava. In altri termini, per ogni riga si proseguirà a destra con gli intervalli TTS[T] del tetracordo congiunto nella regione grave integrato dall'intervallo di tono che porta al suono "proslambamenos" e con gli intervalli TTS del tetracordo congiunto nella regione acuta, proseguendo a sinistra della stessa riga qualora questa sia stata completata a destra. In questo modo, ad esempio, la prima riga sovraordinata al "modo dorico" verrà completata a destra con TTSTT e con TS a sinistra. Si otterrà così lo schema intervallare già presente nella figura 293 con i segni delle note o nel diagramma circolare, ma credo che in questo modo risalti con particolare chiarezza, non solo la ciclicità della costruzione, ma soprattutto il tipo di intreccio tra la dimensione diagonale e quella verticale. misolidio T T S T T T S T T S T T T S S T T S T T T S T T S T T T T S T T S T T T S T T S T T T T S T T S T T T S T T S T T T T S T T S T T T S T T S S T T T S T T S T T T S T T T S T T T S T T S T T T S T ipodorico Lo spazio sonoro del sistema completo ha dunque la possibilità di un duplice "taglio": un taglio diagonale ed un taglio verticale - quest'ultimo compreso tra le doppie righe verticali. La metafora della prospettiva sembra poter essere usata anche in questo caso. Potremmo dire infatti che il sistema completo che intende fornire la struttura dello spazio sonoro può essere colto da una duplice prospettiva: la prospettiva dinamica che è quella in cui vi è spostamento della nete, mese e hypate: in contrapposizione ad essa sarei tentato di chiamare prospettiva tetica la sezione verticale per il fatto che essa è individuata in tutti i toni tra la nete e l'hypate tetica. Con questa singolare dialettica tra l'una e l'altra: nella prospettiva dinamica viene messa in evidenza l'identità della struttura intervallare diatonica; in quella tetica il mutamento inerente alle strutture intervallari delle specie di ottava. 294 12.3.3 L'immutabilità del sistema completo Sul significato complessivo del sistema completo si sono assunte varie interpretazioni che si possono sintetizzare in tre posizioni, talvolta sostenute in netta contrapposizione l'una con l'altra. Taluni vedono in esso la teorizzazione di un linguaggio modale, dove i modi sono caratterizzati secondo la concezione medioevale-moderna. Secondo questa interpretazione i modi ecclesiastici (a parte la nomenclatura) sono eredi naturali dei modi greci. Su questo punto abbiamo già preso di posizione. Non vi è nessun problema nell'utilizzare il termine "modo" per indicare i sistemi nel senso greco di schemi intervallari; è invece completamente erronea la proiezione del modello di linguaggio modale-medioevale moderno sulla sistematica musicale greca. Altri studiosi sono del tutto ostili a questa interpretazione e vedono nei tonoi e nelle specie di ottava niente altro che scale di trasposizione. Anche in questo caso spesso la tesi è sostenuta con un netto esclusivismo che nuoce alla comprensione della situazione. Sembra infatti difficile negare che qualcosa del sistema greco sia passato nella teoria e nella musica del medioevo, creando certamente una notevole confusione di lingue, di terminologia, di problemi mal posti; ma è un dato di fatto che la concettualità greca ha influenzato le teorie successive come è vero che vi possono essere profonde differenze che tuttavia rischiano a loro volta di essere fraintese se non si afferrano alcune affinità. Credo che una ragionevole posizione non esclusiva sia quella rappresentata da Sachs, autore che abbiamo tenuto particolarmente presente nella nostra esposizione. Infine vi è chi ritiene che, escluso il caso di Aristosseno, tutti i sistemi via via proposti, compreso il sistema tolemaico, non abbiano a che vedere né con i modi né con le scale di trasposizione, ma che siano elucubrazioni teoriche del tutto avulse dalla pratica musicale. Essi sarebbero opera spesso di "una classe inferiore di professori di scienza armonica", "prezzolati", di "cervelli deboli", di "personalità di modesta fantasia" e particolarmente ignoranti di cose mu- 295 sicali. Si tratti di aggettivi che sorprendono, ed il loro impiego, riferito ad autori di più di duemila anni fa, è un po' grottesco ed a dire il vero poco consono alle consuetudini dei filologi classici e degli storici della cultura in genere, ma sono letteralmente utilizzate da Isobel Henderson (1962) che può essere citata per la durezza con cui propone questa terza tesi. Questa durezza è del resto del tutto fuori luogo. Che il sistema, e prima ancora la stessa nozione di specie di ottava, siano in buona parte il risultato di una riflessione astratta, è fuori di dubbio, e sarebbe un errore non tenerne conto. Ciò vale naturalmente anche per Tolomeo. Del resto egli parla dei generi quando i generi non sono più praticati, e costruisce anche in rapporto ad essi differenze che avevano una pura valenza teorica (come la scala epimoria che abbiamo citato a suo tempo). Inoltre il richiamo a Tolomeo è interessante perché esso rappresenta il canto del cigno della musica greca e della sua teoria: in questo schema è scolpito il predominio assoluto del genere diatonico, predominio che, come si può ampiamente sospettare, appartiene più alla teoria che alla musica greca nella sua fase di massimo rigoglio. In questa fase di tramonto invece, e proprio con Tolomeo, vi è la rivalsa del pitagorismo sull'aristossenismo, una rivalsa che consegna alla cultura occidentale l'idea della scala unica, dell'obbligo di una sua giustificazione matematica, del dominio dell'ottava come spazio sonoro fondamentale e soprattutto la cancellazione della mobilità delle note interne al tetracordo. Ai tempi di Tolomeo non esiste più la sensibilità alle "sfumature", né da parte dell'ascoltatore né da parte dell'esecutore. Il teorico invece se ne ricorda, le enumera pazientemente, così come ricalcola le varietà dei generi, e conserva nei nomi dei tonoi le antiche harmoniai; si ricorda dei problemi delle tecniche compositive eventualmente non più attuali. Questi ricordi noi dobbiamo riuscire a riafferrarli attraverso i suoi schemi, le sue tabelle. Ma quel che più ci colpisce è forse il fatto che in questa meccanica distribuzione distribuzione di T e di S c'è qualcosa che va al di là di un puro gioco formale, qualcosa che va persino oltre i problemi di tecnica musicale per cogliere quello spazio più ampio di pensieri e di cultura che sta sempre intorno alle tecniche di produzione dell'arte. Questo ci appare persino sorprendente: che quei pensieri che informano uno straordinario orizzonte culturale abbiano 296 radici così profonde da affiorare nella musica e in schematismi in cui sembra persino immiserirsi la sua risonante ricchezza. Riconsideriamo dunque per l'ultima volta le nostre ultime tabelle. Lo abbiamo già notato: se noi guardiamo lo schema del sistema completo dal punto di vista dinamico, e quindi dal punto di vista del movimento, di ciò che si sposta da tono a tono, troviamo sempre esattamente lo stesso schema intervallare: dal punto di vista del movimento troviamo l'identico. Se invece ci disponiamo dal punto di vista tetico, quindi di ciò che semplicemente sta nel luogo in cui si trova, che non si muove, troviamo il mutamento delle specie di ottava. Ecco profilarsi, nella teoria musicale, i grandi poli dell'identico e del diverso, dell'essere e del divenire - come poli che stanno annidati l'uno nell'altro, quei poli che hanno attraversato la filosofia e la cultura greca dalle origini fino alla loro massima espressione in Platone ed Aristotele e nelle loro scuole. Quando Raffaello, nella Scuola di Atene, pone l'uno e l'altro filosofo affiancati al centro della scena intende mostrare un'opposizione che agisce all'interno dell'unità di una cultura. Ma è certamente giusto anche subito chiedersi se e come si manifesti concretamente nella musica l'immagine che traspare dal "sistema completo". Naturalmente nessuno è in grado di dirlo con fondatezza e qualunque pretesa interpretativa di risalire di qui alla musica o inversamente di negare che vi sia un rapporto tra la musica e il sistema è pura presunzione. Ci rammenta Jon Solomon: "L'antica musica greca includeva i canti epici ionici di Omero e dei rapsodi, le canzoni eoliche (ovvero delle isole greche) di Saffo e Alceo, le liriche doriche (Grecia del Sud) di Pindaro (il poeta degli epinici), Eschilo, Sofocle, Euripide (i poeti tragici) e Aristofane (il poeta della commedia), i peana delfici ellenistici (Grecia del nord) ad Apollo, l'iscrizione funeraria pagana di Sicilo del primo secolo, un inno cristiano dal quarto, e altri resti dell'intero corpus, quasi tutto perduto, della musica greca, composta prima senza, e poi con l'aiuto della notazione; ed un addestramento tecnico che attraverso un periodo di 297 circa 1200 anni da Omero a Boezio" (1984, p. 242). Tuttavia alcune cose possono essere intraviste. Intanto dobbiamo nuovamente attirare l'attenzione, di fronte ad uno schema così rigido, sul fatto che in esso possiamo vedere tutti i generi in azione, in tutte le loro varietà e sfumature; e dobbiamo renderci conto anche delle possibilità di variazione offerte dalla gestione delle ottave diatoniche trasposte e delle specie di ottava in esse contenute. Se teniamo conto di tutto ciò la rigidità dello schema si dissolve e ci si prospetta una caleidoscopica varietà di possibilità ai fini della struttura musicale. Come abbiamo detto, non sappiamo come il musicista greco operasse con queste possibilità - tanto meno abbiamo conoscenza - al di là di vaghi cenni - delle fasi dell' evoluzione delle pratiche compositive in un lasso di tempo tanto esteso e in presenza di lacerti di scritture musicali di controversa interpretazione. Ma proprio dalla forma teorica del sistema completo si possono cogliere, anche se molto alla lontana, i giochi compositivi possibili nel quadro della struttura musicale in esso delineata. È chiaro ad esempio che la nozione di metabolé - ovvero di transizione da una struttura ad un'altra struttura - doveva avere una grandissima importanza e poteva a sua volta essere giocata in vari modi secondo le strutture di volta in volta interessate. La metabolé poteva riguardare i generi, ma anche i toni di trasposizione; e questi a loro volta potevano entrare in una dialettica più o meno complessa con le specie di ottava che la trasposizione senz'altro metteva in essere nell'istante in cui veniva effettuata. Osserva Sachs, tenendo conto anche dei frammenti musicali greci rimasti, che "non c'è dubbio che la scala e il modo fossero semplicemente due differenti aspetti dello stesso fenomeno... ma che i due aspetti non erano necessariamente equilibrati. Alcune melodie gravitavano verso il centro dinamico piuttosto che verso il centro tetico, ed in altre avveniva il contrario. Infatti la prevalenza di una gravitazione può escludere l'altra... " (Sachs, 1943, p. 251). "Tonalità" e "modalità" dunque potevano entrare entrambe a far parte del gioco compositivo: l'una - e quindi il diatonico trasposto 298 - poteva prevalere sull'elemento modale ("specie di ottava"), per un certo tratto, per cedere poi di fronte alla specie di ottava, dando luogo a fluttuazioni della mese, a passi di una sua relativa indeterminazione, ecc. Non si vede perché mai la teoria delle specie di ottava debba obbligatoriamente rimanere solo teoria e per quali ragioni sia da escludere l'impiego musicale delle specie di ottava intrecciato con i toni di trasposizione, quando esse compaiono così strettamente e coerentemente integrate dentro il sistema. Tutte queste operazioni possono essere impiegate dall'immaginazione musicale sullo sfondo di uno spazio sonoro che è caratterizzato da un unico centro, la mese tetica, e dai centri dei toni di trasposizione, ciascuno con la sua propria mese dinamica. Ovunque dunque riusciamo a cogliere tipi differenti di mutamenti, passaggi, transizioni, variazioni. Tenendo conto di ciò appare singolare che gli studiosi non si siano, a mio avviso, soffermati abbastanza nella ricerca delle ragioni per le quali il sistema viene chiamato, oltre che completo, anche immutabile - una parola che esclude proprio la metabolé. Appoggiandosi sulla Sectio Canonis (1990, p. 55 - prop. 19) taluni riferiscono l'aggettivo "immutabile" alla differenza tra note mobili e note fisse - ma ciò non sembra aver molto senso. La spiegazione più frequente è forse quella che riferisce questa espressione soltanto alla doppia ottava centrale in quanto base del sistema completo. Tutte le altre scale sono sue mutazioni. Questo è anche il senso dell'affermazione secondo cui si dice immutabile la scala in cui i riferimenti tetici sono eguali a quelli dinamici: "Nel sistema ametabolon mese tetica e mese dinamica sono la stessa nota" (Gollin, 2004, p. 122). Questo è un altro modo di far notare la speciale posizione che occupa la scala diatonica che da un lato è base del sistema, quasi un riflesso empirico di una scala ideale, dall'altro è una scala come un'altra. In ogni caso ad essa soltanto sarebbe da riferire quell'aggettivo. Questa spiegazione, che ha certamente una parte di verità, non mi sembra esauriente. C'è dell'altro. In fin dei conti, come sistema di intervalli, questa scala è onnipresente nelle trasposizioni e quindi in tutto il sistema. Ed è proprio il sistema nella sua interezza che sembra essere caratterizzato dall'aggettivo immutabile. Se questo è vero, io oso pensare che la parte prevalente dell'area di senso di quel termine sia occupato da un altro pensiero forse più conforme alla 299 natura dello schema e certamente al tenore dei nostri commenti: il sistema è immutabile perché è il luogo di tutti i mutamenti. La completezza implica la nozione di totalità, e totalità e immutabilità si richiamano a vicenda. Credo che si tratti di un'idea che non poteva essere estranea ai teorici greci che così spesso hanno, nella musica, coinvolto l'universo stesso; tanto meno avrebbe potuto esserlo per un autore come Tolomeo la cui grande mente tanto girovagò fra gli astri e che alla relazione tra la musica e il "cielo" dedicò l'ultimo libro del suo trattato. L'immutabilità del sistema completo è quella stessa che caratterizza quel sistema che è l'universo stesso: tutto in esso si muove e muta, e proprio per questo - perché contiene ogni movimento e mutamento - l'universo stesso può essere detto immutabile. Esso non diviene, ma semplicemente è. Altrimenti vi sarebbe il caos. 300 Testi citati Adkins C., 1967 The Technique of the Monochord, in "Acta Musicologica", Vol. 39, Fasc. 1/2 (Jan. - Jun., 1967), pp. 34-43. Aristide Quintiliano, 1989 Sulla musica. trad. ingl. in Barker, 1989. Aristosseno, 1954 Elementi di armonica, trad. it. a cura di R. Da Rios, Aristoxeni Elementa Harmonica, Roma, 1954. Aristotele, 1957 Problemi musicali, trad. it. a cura di G. Marenghi, Fussi-Sansoni, Firenze, 1957 Aristotele, 1949 Metafisica, trad. it, di A. Carlini, Bari 1949 Aristotele, 1955 Topici, in Organon, trad. it. di G. Colli, Torino. 1955 Aristotele, 1957 Etica Nicomachea, trad. it. di A. Plebe, Bari, 1957 Barbera A., 1984a The consonant eleventh and the expansion of the musical Tetractys: a study of ancient Pythagoreanism, "Journal of Music Theory", vol 28, 1984 pp. 191-223. Barbera A., 1984b Octave Species, "The Journal of Musicology", Vol. 3, No. 3. (Summer, 1984), pp. 229-241. 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Forse egli ha voluto dare rilievo allo scritto di Nietzsche Saggio di un'autocritica che ha posto come premessa del volume, anziché, come sarebbe stato più giusto, in appendice. In ogni caso resta il dubbio che si tratti di uno dei tanti segnali di quanto poco in quegli anni una certa cultura italiana fosse interessata ad una problematica musicale ed ancor meno ad una problematica filosofico-musicale come è quella di Nietzsche]. Odissea, 1968 trad. it. di G. Tonna, Garzanti, Milano1968 Ovidio, 1979 Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Torino, 1979 Piana G., 1967 Elementi di una dottrina dell'esperienza, Il Saggiatore, Milano. Tutti i miei lavori sono presenti e liberamente scaricabili presso il mio archivio internet all'indirizzo http://www.filosofia.unimi.it/piana, in seguito indicato con Internet, Archivio. Piana G., 1991 Filosofia della musica, Internet, Archivio. Piana G.,1998 Annotazione sull'origine e sull'impiego dei termini "modo" e "tono", Internet, Archivio. 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Gli strumenti della musica greca p. 27 1.1 Gli strumenti a fiato - p. 28 1.1.1 L'aulos 1. Lo strumento - 2 Quale era il suono del'aulos? - 3 Il plagiaulos - 4 La musica greca era monofonica? 5 La polemica antipolifonica rinascimentale e la teoria della monofonicità della musica greca 1.1.2 La siringa (syrinx) 1.1.3 La tromba (salpinx) 1.1.4 Il corno (keras) 314 1.2. Gli strumenti a corda - p. 65 1.2.1 La lira 1.2.2 Il barbitos 1.2.3 La cetra 1.2.4 La forminx 1.2.5 L'impiego del plettro 1.2.6 L'arpa 1.3 Strumenti percussivi - p. 111 1.3.1 I crotali 1.3.2 I cimbali 1.3.3 Il krupalon 1.3.4 I sistri 1.3.5 I timpani 1.4. L'organo idraulico - p. 128 315 2. Gli strumenti musicali e l'immaginazione mitica - p. 141 2.1. Premessa - p. 144 2.2 Dioniso - p. 146 2.2.1 Le menadi 2.2.2 I satiri 2.2.3 La vendemmia di Dioniso 2.3 Apollo - p. 165 2.3.1 Dionisiaco e apollineo in Nietzsche 2.3.2 Il canto dell'Olimpo 2.3.3 Apollo musagete 2.3.4 Nascita di Apollo 2.3.5 La cetra e l'arco 2.3. 6 Apollo e il pitone 2.3.7 I lati oscuri di Apollo 316 2.4 L'invenzione della lira e dell'aulos - p. 185 2.4.1 Ermes 2.4.2 Atena 2.5 Marsia ovvero la barbarie di Apollo p. 196 2.6 Il mondo del dio Pan - p. 210 2.6.1 I fauni e le ninfe 2.6.2. Il dio Pan 2.6.3 Storia di Siringa 2.6.4 Storia di re Mida 2.7 Orfeo - p. 227 2.7.1 La lira di Orfeo 2.7.2 La morte di Orfeo Annotazione: la morte di Orfeo secondo Picasso 317 3. I filosofi che cantano - p. 245 3.1 Il volto di Pitagora 3.2 Vita di Pitagora 3.3 Acusmatici e matematici 3.4 Scienza e immaginazione 3.5 Chi è Pitagora? 3.6 Pitagora e Apollo 3.7 Viaggi di Pitagora 3.8 I prodigi di Pitagora 3.9 I filosofi che cantano 4.Gli inizi della teoria della musica - p. 284 4.1 Il principio del numero 4.2 Il fabbro armonioso 4.3 Jubal - Chi era costui? 4.4 Commenti al racconto del fabbro armonioso 4.5 L'invenzione del monocordo 4.6 Il monocordo come strumento di misura Giovanni Piana Il canto del merlo 1999-2007 2 3 Indice Avvertimento per i miei lettori 1. Antefatto 2. Considerazioni generali 3. Qualche parola sui sonogrammi e grafici di inviluppo 4. I differenti timbri del merlo 5. Motivi e clausole 6. Melodie 8. Il merlo elettronico Riconoscimenti 4 5 Avvertimento per i miei lettori Nell'ultimo corso universitario da me tenuto nel 1999, mi accadde di fare una digressione un poco atipica per un corso di Filosofia Teoretica dedicata al canto del merlo. In realtà il corso trattava problematiche filosofico-musicali, e si era venuti a parlare, tra l'altro, del volume di Mâche - Musica, mito e natura - un capitolo del quale è dedicato al canto degli uccelli. La mia lezione sul canto del merlo che viene qui ripresa era una sorta di pausa e di riposo lungo un percorso che aveva impegnato parecchio sia me stesso che i miei pazienti allievi. Nel riprenderla ho cercato di migliorare l'esposizione e gli esempi, ma ho preservato quel carattere che essa aveva avuto a suo tempo. 6 7 1. Antefatto Non mi sarei certo mai azzardato a parlare del canto del merlo se una volta un merlo in carne ed ossa non fosse divenuto - non so come dire - il mio figlioccio. In effetti questa mia decisione è legata a fil doppio ad un fatto biografico. Voglio premettere che non posso dire di essere particolarmente amante degli animali - almeno nel senso che non dedicherei ad essi quelle moine che tanto spesso vengono riservate a cani e gatti che girano per casa. Nemmeno ho mai prestato particolare attenzione a questi misteriosi esseri con le ali, né mai teso l'orecchio ai loro canti. Fino a quando… Il caso ha voluto che mi imbattessi nel giardino della nostra casa di Cernusco Lombardone in un piccolissimo merlo, caduto dal nido appena nato, ancora im- 8 plume, e non ho potuto fare a meno di raccoglierlo per sottrarlo alla sgrinfie dei gatti che già gli ronzavano intorno. Fu poi giocoforza imboccarlo ed allevarlo paternamente. Non sto a narrarvi molti dettagli bellissimi di questa vicenda, anche se sarei tentato di farlo. In effetti non avrei mai pensato che si potesse stabilire un rapporto così ricco con un animale tanto piccolo e tanto diverso - un rapporto che durò un bell'anno e forse più. Si era agli inizi della primavera e dovetti allevarlo in casa. Marina ed io gli apprestammo a dovere un angolo della cucina, con grande gabbia bianca in stile patrizio, con la porticina sempre aperta e una cassetta di terra nei pressi, che fungeva da orto: ai merli piace sgrappare nella terra. Al di sopra dell'orto non mancava nemmeno qualche rameggio su cui appollaiarsi. Il merlo crebbe, mise le piume, ed imparò un sacco di cose, ed io gli insegnani a volare portandolo in giro sul palmo della mano per la stanza incoraggiandolo a prendere il volo. Naturalmente gli insegnai anche la buona educazione, per ragione di convivenza civile, cosicché imparò a rispettare scrupolosamente la sua zona, a non arrivare sul tavoloa beccare il cibo dal mio piatto, come tentò di fare una volta soltanto, e molte altre cose di questo genere. Ben presto mi resi conto del suo temperamento giocoso. Questo generò in me la massima meraviglia, intanto per la serietà intrinseca dell'uccello. Del cane e del gatto sai come e quando giocano, dal momento che di ciò hanno manifestazioni ad ognuno assolutamente evidenti. Se invece guardi da vicino un merlo, ti sorprende l'inesorabile ed enigmatica severità del suo sguardo, che sembra quello di una divinità antica. Ma il mio merlo giocava, eccome! Se gli toccavo con un dito la zampina, ecco un piccolo balzo indietro, ma poi mi restituiva la pariglia con una beccatina sulla mano da me lasciata con noncuranza sul piano del tavolo… Ma non voglio entrare in dettagli. Non mi sembra giusto, e non sarei creduto. D'altra parte desidero ancora raccontare qualcosa. Almeno il fatto che quando non sapeva ancora volare, una volta, al mattino, al mio primo apparire, mi venne incontro con una vera e propria danza rituale, facendo uno strano verso con il becco aperto e zigzagando regolarmente prima a destra e poi a sinistra…- No! gli dissi. Su di questo terreno non posso seguirti. Finché restiamo in rapporti terra terra, tra animali senza cultura, tutto bene, 9 ma se pretendi che risponda ai tuoi simbolismi, debbo trarmi indietro! Alla fine dell'estate si era fatto grandicello ed era ormai capace di volare, cosicché Marina ed io decidemmo di congedarlo, come ci sembrava ovvio, e così lo portammo con la sua gabbia sempre aperta in mezzo al prato. Dopo qualche ora di perplessità che il merlo passò in una sorta di andirivieni tra il prato e l'interno della gabbia, guardando in su, in giù, a destra, a sinistra, finalmente prese il volo e gli dicemmo addio. Ma la storia non finisce qui. La cucina era al piano terra e si accedeva ad essa da una porta-finestra in cima a qualche gradino. Ed il giorno dopo, verso sera, rieccolo: sale a piedi i gradini e si va a riaccomodare nel suo angolo che non era ancora stato smantellato. Iniziò allora una vicenda che mai mi sarei aspettato che potesse accadere. Per tutto l'autunno e per buona parte dell'inverno il piccolo merlo se ne andava e 10 veniva dal giardino alla casa ora per mangiare o dormire, oppure per prendere un bagno nella piccola tinozza che Marina gli preparava (molti miei amici sono rimasti pieni di meraviglia trovandosi casualmente ad assistere a questa cerimonia), per andarsi poi a spennachiare tutto bagnato e più nero che mai, su uno dei suoi vecchi rami. Altrettanto spesso tornava la sera per dormire al sicuro nel suo angolino, in particolare quando il tempo minacciava vento e pioggia. Non voglio raccontare troppe meraviglie, ma è un fatto che sapeva in qualche modo farsi aprire la porta per entrare facendo uno strano volo di fronte ai vetri come un elicottero in caduta libera; e aggiungo, per i miscredenti, che spesso uscendo in giardino mi era possibile chiamarlo e, se era nelle vicinanze, svolazzava ai miei piedi, quasi io fossi il Santo Francesco. Ma quanto ai canti, che io attendevo ansioso, nulla o quasi nulla. Qualche segreto parlottio, o lunghi colloqui tra sé e sé in pianissimo, come addestrandosi ad un misterioso solfeggio girellando sotto il tavolo o in qualche sito riposto. Tuttavia un pomeriggio che era già quasi la nuova primavera volò su un grande vaso di ceramica senese e di lì cominciò a cantare in modo dispiegato - non così bene, certo, come un merlo adulto - ma comunque in modo del tutto insolito. Cosicché potemmo finalmente prendere il nostro piccolo registratore portatile e registrare questo suo canto alla bell'e meglio. Che era poi un canto di addio. Dopo di esso le sue visite cessarono completamente ed egli rientrò dentro la sua specie. 11 2. Alcune considerazioni generali Naturalmente la curiosità di risentire, ed anzi, analizzare, ciò che era stato registrato è stata molto forte e ciò che vorrei proporvi sono appunto alcune considerazioni su questi "canti". In realtà oggi vi sono dei mezzi assai potenti ed a portata di tutti per compiere questa analisi - le registrazioni possono essere digitalizzate e diventare accessibili ai programmi di gestione del materiale sonoro. Occorre tener presente in proposito che fino alla metà del secolo XX per lo più i canti degli uccelli potevano essere presi in considerazione solo uditivamente e conservati mediante registrazioni, e d'altra parte l'interesse degli ornitologi, quando era volto in questa direzione, non era certamente orientato prevalentemente verso problemi riguardanti in qualche modo il mito della musicalità del canto degli uccelli, ma piuttosto verso le differenti funzioni assolte da esso, ovviamente radicate negli istinti elementari della sopravvivenza, difesa del territorio, istinto sessuale, ecc. Intorno agli anni cinquanta del secolo scorso si cominciano a produrre strumenti di rilevazione più maneggevoli e capaci di effettuare precise misurazioni, ed in seguito è avvenuto il salto di qualità introdotto dall'impiego dei calcolatori. Tutto ciò ha determinato un notevolissimo incremento della qualità e della quantità delle ricerche in argomento, che sono in ogni caso relativamente recenti. Per avere un'idea dello stato attuale del problema si può leggere la notevole raccolta di saggi contenuta in Nature's Music. The Science of Birdsongs, a cura di P. Marler e H. Slabbekorn, Elsevier Academic Press, San Diego, 2004. Naturalmente, come si vede subito dall'indice, il sottotitolo di questo libro è più importante del titolo, come è giusto che sia. Le domande che ci si rivolgono sono quelle di sempre, si sono perfezionate le tecniche di indagine per le risposte e dunque le risposte stesse sono diventate sempre più sottili, così come si arricchita la tipologia e la documentazione sulla varietà dei canti degli uccelli. Ma è giusto ed ovvio che l'ornitologo, come scienziato della natura, sia interessato soprattutto alle funzioni che i suoni emessi dagli uccelli assolvono rispetto all'ambiente ed alla conservazione della specie, ai modi della loro emissione dal punto di vista fisiologico, dell'apparato canoro ed uditivo, ecc. Ammesso che i 12 canti degli uccelli abbiano un interesse musicale, se ne debbono occupare eventualmente i musicisti. Caso esemplare, da questo punto di vista, è naturalmente quello di Messiaen, autore di un'opera monumentale intitolata Trattato del ritmo, del colore e di ornitologia (A. Leduc, Paris 1999) il cui quinto volume è interamente dedicato al canto degli uccelli; e con lo stesso spirito, scientifico e musicale insieme, nel suo libro intitolato Musica, mito, natura (Cappelli, Bologna 1992), François-Bernhard Mâche osa avanzare l'idea di una zoomusicologia che avrebbe certo al suo centro il canto degli uccelli. Il parlare di interesse musicale nel caso del canto degli uccelli ha certo più di un senso e se facciamo appena un passo avanti in questa direzione ci troveremmo implicati ed impigliati in una discussione filosofica anche troppo complessa per gli scopi che ora ci proponiamo. Noi vorremmo soltanto tentare di fare alcune considerazioni sulla struttura del canto del merlo, sulla base del materiale raccolto tanto casualmente e per questo scopo in realtà non abbiamo bisogno di impegnarci su ipotesi molto forti sulla musicalità del canto degli uccelli. In particolare non abbiamo bisogno di impegnarci su una concezione della musica e sulle sue possibili regole come se essa affondasse in radici istintuali comuni agli uomini ed agli animali - cosa che rappresenta un postulato filosofico-ontologico evidentemente molto forte. La domanda se si dia musica presso gli uccelli diventerebbe in tal caso pressante, proprio per le implicazioni ad essa sottese: seguendo questa via ben presto si farebbe avanti l'esigenza di cercare conferme di ordine biologico-fisiologico alle strutture musicali o quanto meno di cercare giustificazioni delle forme di organizzazione della musica sul piano di archetipi formal-strutturali inconsci che ci riporterebbero ancora al problema di una giustificazione biologica più profonda. Insomma, ciò che verrebbe in questione è il problema di una fondazione "naturalistica" della musica. Io credo invece che sia sufficiente prendere atto del fatto che gli eventi sonori emessi dagli uccelli possano essere considerati come se appartenessero ad un soggetto produttore di musica. È poi di per sé ovvio che rientra nella mia libertà di musicista produttivo il considerare questi suoni come eventi musicali a tutti gli effetti da cui io posso trarre spunti e materiali per i miei progetti espressivi. La domanda se si possa parlare di musica nel caso del canto degli uc- 13 celli è probabilmente una questione meno importante di quanto possa sembrare. In realtà possiamo assumere l'atteggiamento di chi si trova di fronte a "canzoni" la cui grammatica ci è sconosciuta, e di cui si sa ben poco o quasi nulla sui cantori, sulla tribù a cui appartengono e sulle loro usanze. Ma sono poi veramente delle canzoni? Questo "veramente" chiede che ci si pronunci sulla cosa in sé. E questo non ci compete. Questo punto di vista in realtà è coerente con un naturalismo che richiama l'attenzione sulla natura così come è vista e percepita da noi stessi, come viene da noi esperita - da quella che potremmo chiamare natura-ambiente. Gli animali - dice una volta Schopenhauer - sono i nostri fratelli senza ragione. Io credo che sia possibile vederli così, forse anzi normalmente li vediamo così. A questo proposito è forse il caso di notare che la narrazione che fa da antefatto potrebbe anche essere considerata come esemplificativa di ciò che si intende dire parlando di un rapporto direttamente sperimentato. Io non so se alcune delle espressioni che io ho usato, anzi forse quasi tutte, abbiano per così dire un corrispondente ontologico, nell'essere stesso dell'animale: ho parlato di temperamento giocoso, di un addestramento al volo, di danza rituale nei miei confronti, di canto dell'addio. Tutte fantasie! Direte voi. Ed io vi darò ragione. Eppure le cose sono andate proprio così. Nessuna di queste espressioni può pretendere di cogliere una qualche obbiettività, può essere per così dire sicura di afferrare qualcosa di appartenente alla natura stessa dell'animale. E ciononostante tutte possono rivendicare di essere aderenti alla situazione vissuta, e quindi di essere, dal punto di vista relazionale, del tutto adeguate. Si tratta insomma di espressioni soggettivamente pertinenti e nello stesso tempo non garantite dal punto di vista dell'essere obbiettivo. Questa garanzia non ci può essere in via di principio e non ci sarà mai. 3. Qualche parola sui sonogrammi e grafici di inviluppo Una delle possibilità notevoli che ci mette immediatamente a disposizione il calcolatore, oltre naturalmente a quella di fornire quantificazioni esatte dei parametri degli eventi sonori e di operare la loro manipolazione, è quella della loro rappresentazione grafica. 14 Attraverso di essa possiamo far collaborare l'udito con la vista nel tentativo di realizzare un compito anche soltanto puramente analitico-descrittivo della struttura del canto di un uccello. In questo modo il suono ci viene posto in certo senso sotto gli occhi nel momento stesso in cui lo udiamo - questa realtà tanto sfuggente viene in qualche modo resa palpabile - e possiamo così avviare le nostre osservazioni confermando con la vista ciò che sentiamo con l'udito e inversamente. Il calcolatore fornisce un formidabile ausilio alla fenomenologia. Questo ausilio è tanto più importante nel caso del canto degli uccelli per almeno due ragioni: da un lato esso si svolge per lo più in una regione acuta e sovracuta, dall'altro le sue trasformazioni interne sono velocissime - ed entrambi questi motivi interagiscono a rendere difficile per le nostre orecchie l'afferramento del suo effettivo andamento. L'avere a disposizione un grafico che possiamo osservare con attenzione ci consente di rilevare rapporti interni che forse ci sfuggirebbero al semplice ascolto; a ciò si aggiunge la possibilità di rallentare il tempo e abbassare proporzionalmente l'altezza, in modo da rendere sensibili dettagli altrimenti inafferrabili ed anzi veri e propri andamenti che appaiono, nel rallentamento, particolarmente articolati rispetto a ciò che riusciamo ad afferrare nell'ascolto del suono immodificato. A qualcuno potrebbe sembrare che entrambe queste possibilità siano contrarie allo spirito di una descrizione fenomenologica: si è molto protestato contro l'impiego implicito od esplicito di modelli visivi nell'ambito musicale, come se si tradisse il principio del considerare la cosa stessa: e tanto più allora si potrebbe protestare contro una descrizione che pretenda di intervenire sul fenomeno manipolandolo e operando una sua trasformazione, come nel caso del rallentamento temporale e dell'abbassamento dell'altezza. Io credo che queste proteste siano fuori luogo, ma non insisterò più di tanto sulla questione generale rimandando alla prova degli esempi che ci accingiamo ad esaminare. Mi limiterò a sottolineare che secondo il mio modo di concepire la descrizione fenomenologica, il "metodo delle libere variazioni" non consiste affatto unicamente nel cambiare il punto di osservazione, ma anche, se ciò si rivela proficuo, nel produrre deformazioni e trasformazioni che possano essere in grado di penetrare più a fondo nell'oggetto tematico. Per i nostri intenti sono due i tipi di rappresentazione che ci 15 possono tornare utili, e precisamente il grafico dell'inviluppo detto anche grafico della forma d'onda e il sonogramma. Con "grafico dell'inviluppo" intendiamo una rappresentazione dell'ampiezza dell'onda sonora in relazione alla sua durata. Con "sonogramma" si intende invece la rappresentazione della frequenza in rapporto alla durata. Il primo grafico ci mostra dunque l'andamento del suono per ciò che riguarda l'intensità, il secondo l'andamento del suono per ciò che riguarda le altezze. Prendiamo ad esempio il seguente frammento sonoro. Nella parte superiore della figura vediamo il grafico dell'inviluppo, nella parte inferiore il sonogramma. fig. 01-01 I due grafici si corrispondono esattamente dal punto di vista temporale essendo il tempo contrassegnato in entrambi i casi sull'asse orizzontale. La forma d'onda, come abbiamo detto, viene proposta nel grafico di inviluppo - sul cui asse verticale sono rappresentate le differenze di intensità (ampiezza) espresse in decibel - mentre sull'asse verticale del sonogramma viene rappresentato l'andamento delle frequenze. Si noti che quest'ultimo fornisce una rappresentazione anche degli armonici ed è questa la ragione per cui si presentano in esso figurazioni in fasce piuttosto che figurazioni lineari. L'andamento principale comunque può essere evidenziato dal grafico perché le gradazioni chiaroscurali così come, alternativamente, le gradazioni cromatiche possono essere utilizzate per differenziare la differente intensità dei suoni in genere e dunque anche degli armonici. Così il sonogramma precedente può anche presentarsi con 16 un maggior numero di sfumature di grigi: fig. 01a dove le zone più scure rappresentano i suoni più intensi. La rappresentazione può anche essere cromatica, dove il suono più intenso sarà il bianco, passando poi per gradi decrescenti al giallo, rosso, al blu sino al nero. Nella figura seguente l'intensità maggiore, e quindi l'andamento percettivo del suono è indicato soprattutto dalle linee gialle. fig. 01b I colori possono infine essere invertiti, cosa che talvolta aumenta la perspicuità della rappresentazione. 17 fig. 01c Naturalmente secondo il programma utilizzato possiamo avere un numero maggiore o minore di informazioni; ed anche l'aspetto grafico può cambiare secondo le scelte che esso mette a nostra disposizione. In particolare le gamme delle gradazioni potrebbero essere più o meno ampie, oppure eliminate quasi interamente. fig.01-02 fig. 01-03 Il grafico precedente presenta solo due secondi di suono. Prendendo in considerazione un segmento di poco più ampio, ad esempio di circa un minuto, l'immagine perde di dettaglio, ma naturalmente sarà sempre possibile operare ingrandimenti ed isolare le sue parti. fig. 02-04 18 In ogni caso considerando suono e immagine, essi ci mostrano intanto ciò che può valere come unità sonora all'interno della sequenza. Si tratta del resto di una possibilità che si imporrebbe in ogni caso da un punto di vista generale. In assenza di una "grammatica", sembra subito una buona regola quella di individuare le cesure laddove vi sono dei silenzi sufficientemente ampi, cosicché gli eventi sonori compresi tra essi possano essere considerati come unità almeno sotto il profilo temporale. Si tratta di un criterio che non ha bisogno di alcuna particolare giustificazione teorica. La nostra "striscia sonora" appare articolata in parti ben differenziate tra loro, ovvero separate da una pausa abbastanza vistosa da poter fare da elemento di netta separazione. Questi segmenti unitari potremmo chiamarli motivi. Questi motivi sono a loro volta diversamente articolati. Prendiamo ad esempio il secondo e il terzo motivo e notiamo come essi siano internamente ripartiti in momenti diversi. fig. 05-05 Per crearci una terminologia provisoria atta ad intenderci parleremo dunque di motivi composti di momenti. 19 4. I differenti timbri del merlo In un ascolto attento del canto del merlo, ci si rende ben presto conto che la sua voce non è una sola, ma che in essa vi è una certa varietà timbrica. Naturalmente in rapporto a questo problema solo l'udito è realmente in grado di insegnarci qualcosa. Anzitutto vi è il tipico "zufolo" che tutti conosciamo, da cui restiamo soprattutto colpiti e che fa parte del fascino del suo canto. Eccone due esempi. fig. 06-06 Lo potremo apprezzare ancora meglio, io credo, rallentando il tempo ovvero aumentando la durata con variazione conseguente dell'intonazione. Usando i vecchi nastri magnetici le due operazioni dovevano essere obbligatoriamente fatte insieme, perché era necessario variare materialmente la velocità del nastro, mentre è oggi possibile realizzare una variazione dell'intonazione senza variazione della durata e inversamente. In linea generale tuttavia, poiché abbiamo osservato che le difficoltà di ricezione dipendono da entrambi i fattori, ci sembra opportuno realizzare queste operazioni insieme. Salvo poche eccezioni, quando parliamo di un rallentamento del tempo intendiamo un raddoppio della durata che comporta l'abbassamento delle altezze di una ottava. versione rallentata 20 fig. 07-07 versione rallentata Ma non tutti i timbri che il merlo emette hanno un carattere così "melodizzante". Vi sono anche timbri striduli, talvolta simili alle strida di un gabbiano che appaiono al confronto persino più morbide. fig. 08-08 fig. 10-10 fig. 09-09 fig. 11-11 Possiamo paragonare il primo di questi esempi (fig. 08-08), rallen- 21 tando il tempo in modo opportuno per facilitare il paragone (fig. 08$-11a), con il verso di un gabbiano (fig.08a-11b) ottenendo il seguente risultato: fig. 08a-11b fig. 08$-11a Forse vi chiederete in quale modo potrebbe presentarsi nel canto di un merlo un suono simile. Ecco allora un esempio di contesto da cui ho estratto il primo e il secondo di questi esempi (fig. 08-08 e 09-09) fig. 12-12 fig. 13-13 22 Tra le possibili varianti timbriche dovrebbero forse essere annoverati anche i vari tipi di effetti che il merlo riesce ad ottenere in realtà con variazioni velocissime di frequenza, quindi con quello che potremmo chiamare forzando un poco la terminologia musicale un trillo. Nell'esempio che segue la trillatura è evidente sia nella versione normale, sia nella versione rallentata. fig. 14-14 fig. 14$-14 Lo stesso si può dire per l'esempio seguente nel quale abbiamo portato il rallentamento a un decimo della sua velocità normale per fare avvertire le pulsazioni dell'intensità che sono evidenziate nel grafico di inviluppo: fig. 16-16 fig. 16$-16 Sembra davvero che il primo suono non abbia nulla in comune con il secondo. Si potrebbe sostenere che se volessimo dare una descrizione fedele della cosa stessa, dovremmo limitarci a stabilire questa netta differenza. Eppure restiamo sempre sul piano della descrizione. Non stiamo parlando di strutture per la cui rilevazione sia necessario il ricorso ad un apparato teorico. Con il rallentamento è come se usassimo un microscopio uditivo: ci sembra allora di ottenere una scena sonora interamente diversa, e di fatto lo è, ma il punto interessante è che l'una si può ricongiungere all'altra per passaggi successivi, ognuno dei quali viene afferrato percettivamente non solo in se stesso ma nella sua relazione con il precedente. Ecco dunque come si presenta una simile successione nel caso dell'e- 23 sempio precedente: (17) Questo tipo di suono può arrivare a rasentare veri e propri effetti rumoristici anche se alla base vi una sorta di trillatura. Anche in questo caso il secondo esempio deriva da un rallentamento del primo. fig. 18-17 fig. 18$-17 Due esempi analoghi: (19) (20) 5. Motivi e clausole Vogliamo ora accingerci a passare in rassegna i motivi. Queste poche premesse ci consentono già alcune osservazioni che mi sembrano interessanti. L'intento da cui siamo guidati è quello di individuare dei caratteri strutturali interni ai motivi, quindi delle ricorrenze caratteristiche, oltre affinità significative, varianti, ripetizioni ecc. L'unità del motivo non è fornita soltanto dalla pausa, e quindi da una separazione meramente temporale, ma anche da una ragione che riguarda quella che potremmo cominciare a chiamare la struttura del motivo. All'ascolto di una sequenza di motivi facciamo una nostra prima piccolissima scoperta. Abbiamo parlato di momenti distinguibili interni al motivo e ci rendiamo conto che la stragrande maggioranza dei motivi è caratterizzata da questa circostanza notevole: il timbro melodizzante rappresenta un momento - a sua volta semplice o composto - interno del motivo che viene chiuso da un piccolo insieme di formule ricorrenti. Esse sono spes- 24 so caratterizzate da una variazioni timbrica riconducibile alla tipologia rumoristica ed a trillati rapidissimi. Ma come subito vedremo vi sono anche altre possibilità di chiusura che rappresentano veri e propri stilemi ricorrenti. Chiamerò queste chiuse con il termine di clausole, nel significato retorico del termine (clausula) che indica appunto una modalità di conclusione di un discorso. Da esse distingueremo la sezione melodica del motivo. Consideriamo alcuni esempi di motivi che dànno una chiara idea di ciò che intendo dire. fig. 22-19 fig. 21-18 fig. 22a-19a versione rallentata Negli esempi che seguono abbiamo clausole molto "strette" e di carattere tendenzialmente rumoristico. 25 fig. 24-21 fig. 23-20 (25) (26) Oltre questo tipo di clausola, che è frequentissima, ve ne sono altre, in rapporto alle quali vale la pena indugiare un poco. Anzitutto richiamerei l'attenzione su casi in cui la chiusa del motivo è affidata a due brevi suoni ribattuti. In casi come questi sarei tentato quasi di parlare di clausole ritmiche, come se il suono venisse chiuso da due piccoli colpi. fig. 28-26 fig. 27-25 Una variante di questa possibilità è il raddoppio della coppia dei suoni ribattuti: fig. 29-27 fig. 30-28 Si noti come nel primo esempio la prima coppia sia più forte della seconda mentre nel secondo esempio accade l'inverso. Nel secondo esempio inoltre vi sono differenze anche per quanto riguarda le altezze della seconda coppia. Lo stesso "modello" può dunque avere diverse varianti. 26 Un altro stilema che mi sembra di poter annoverare tra i momenti del motivo che fungono da clausola è un suono piuttosto forte che sale in un baleno verso l'acuto. Come modello potremmo proporre il seguente esempio, il cui andamento effettivo si coglie meglio nella versione rallentata. Si tratta anzi di un caso particolarmente utile per mostrare come sia opportuno il raddoppio della durata per afferrare che cosa accade nell'evento sonoro. fig. 30a-28a versione rallentata Anche questo stilema può assumere talvolta un carattere rumoristico, differente in ogni caso da quello che deriva dai trillati e che derivano talvolta da glissandi velocissimi ascendenti o discendenti. Proponiamo in proposito i seguenti quattro esempi: fig. 31-29 fig. 32-30 27 Fig. 34-32 fig. 33-31 Operando un rallentamento della clausola del secondo esempio si ottiene questo risultato: fig. 32$-33 Una variante della clausola glissante verso l'acuto è una clausola glissante verso il grave (con una leggera impuntatura verso l'acuto al termine) che viene proposta nell'esempio seguente nella forma normale ed in quella rallentata: fig, 32a-33a fig. 32a$-33a Anche il lettore che segue i miei discorsi con un certa, del resto comprensibile, sospettosità, credo che mi possa concedere che a 28 questi stilemi, che non compaiono mai in apertura di un motivo, ma sempre in chiusura, hanno un netto valore di chiusa anche dal punto di vista uditivo: in altri termini, non si tratta semplicemente del fatto che dopo questo suono c'è un silenzio, e dunque il motivo finisce. Invece afferriamo questo momento del motivo come un sorta di effettivo "gesto" di chiusura, come la mano del direttore d'orchestra che imperiosamente si chiude per "togliere" il suono. Particolare interesse ha poi il fatto che questi stilemi, peraltro ricorrenti di continuo, vengano tuttavia talora usati in varie combinazioni tra loro. La chiusa diventa così più articolata e più ricca. Abbiamo già notato la possibilità che la coppia dei suoni ribattuti venga raddoppiata ed anche che ciò possa avvenire con qualche differenza nella ripetizione. Nell'esempio seguente a velocità normale si direbbe che una chiusura a doppio suono venga preceduta da un suono rumoristico. Nel rallentamento invece si ode un raddoppio di coppia, come si vede del resto nel sonogramma e nel grafico di inviluppo, solo che la prima coppia è molto più rapida della seconda: fig. 35-34 fig. 35$-34 I diversi tipi di clausole si possono associare tra loro e vengono usate in modi più o meno complessi. Così una chiusura di coppia può essere preceduta da una trillatura (che nella sua versione non rallentata ha un carattere rumoristico) come nel caso seguente di cui si riporta accanto anche la versione rallentata: fig, 36-35 fig, 36$-35 29 Nel caso seguente la sezione melodica è una variante di quella del motivo precedente (fig. 36-35) mentre i due momenti di cui è costituita la clausola sono sostanzialmente identici. fig. 37-36 fig. 37$-36 Talvolta la clausola può essere formata da un "glissato" seguita da un "trillato", il cui modello potrebbe essere il seguente: fig. 37a-36a Nel caso che segue un motivo viene lasciato senza conclusione e viene immediatamente ripetuto e chiuso con una clausola piuttosto simile a quella or ora descritta. fig. 38-38 30 La struttura del motivo seguente è affine ai due precedenti ma la ripetizione della sezione melodica viene seguita da una clausola "rumoristica", e poi dopo un breve intervallo da una ulteriore chiusura distinta in due parti (glissando e trillato): fig. 39-39 Nel caso che segue, il secondo motivo viene ripetuto più forte e chiuso con una clausola composta. fig. 40-40 Si tratta di esempi sufficienti per mostrare da un lato la presenza di un numero ridotto di clausole, che si ripresentano sempre alla chiusura del motivo, dall'altro una notevole varietà nelle forme del loro impiego. 31 5. Melodie Nel momento di accingermi a qualche ulteriore considerazione sugli aspetti "melodici" dei motivi mi piacerebbe proporre subito all'ascolto qualche esempio realmente attraente. Ma purtroppo il mio merlo era evidentemente ai suoi primi passi nell'arte del canto, e nella mia registrazione non ho trovato quegli splendidi giri melodici che talvolta accade di sentire. Persino in una città grama come Milano, dal giardino appartenente alla casa prospiciente alla mia, era un merlo con uno splendido canto ad avvertirmi che l'alba era ormai alle porte e che dunque era tempo, per me, animale notturno, di andare a dormire; mentre per i passeri quel canto era l'annuncio del giorno ed essi, ridestati a poco a poco, con i loro confusi cinguettii stabilivano un sempre più intenso fondale sonoro a quel canto inizialmente solitario. Tuttavia, come si sarà notato anche negli esempi precedenti, vi è materiale sufficiente per proseguire la nostra analisi anche su questo versante, e naturalmente presteremo attenzione a quei motivi il cui segmento melodico è composto da più momenti in rapporto ai quali ci si può porre qualche domanda intorno alla loro struttura. Come abbiamo notato in precedenza vengono considerati unitarie quelle parti della sequenza che siano separate da silenzi sufficientemente rilevanti da stabilire uno stacco netto con la parte precedente. Abbiamo anche notato la presenza nella maggior parte dei casi di clausole - quindi di una sorta di elemento formale di chiusura. Considerando ora il segmento melodico - il che significa poi semplicemente la parte del motivo che ha una timbrica "zufolante" - risulta naturale considerarlo "semplice" se lo zufolo, pur variando nelle altezze, decorre senza interruzioni, "composto" se invece intervengono silenzi che non sono così rilevanti da stabilire una netta separazione anche quando sono presenti le sonorità tipiche delle clausole che in tal caso, sarei tentato di dire, debbono essere considerate a titolo di cadenze intermedie. La sezione melodica appare così suddivisa a sua volta in più momenti. Ecco un esempio che io chiamerei semplice e che viene proposto anzitutto nella sua forma completa e poi solo nel suo momento melodico - tagliando la chiusa - ed in forma rallentata. 32 fig. 41-40 fig. 41$-41 Credo di dover far notare anche che la curvatura melodica è assecondata dal "crescendo" nella prima fase verso l'acuto e dal "decrescendo" nella fase di ritorno verso il grave. Nell'esempio seguente, proposto qui solo nella sua forma rallentata, si possono distinguere invece nella sezione melodica, prima della clausola, quattro momenti distinti. fig. 42$-42 Anche il motivo seguente è composto di vari momenti, e in particolare ha una breve clausola intermedia in C. Da notare inoltre come vi sia un segmento melodico ripetuto in B e B'. (La durata è stata un poco aumentata). 33 fig. 42a$-42a Come è chiaro, la nostra ricerca deve ora svilupparsi nel tentare di evidenziare sia relazioni interne alle sezioni melodiche dei motivi, sia relazioni tra i motivi. Intanto ci interrogheremo sulla presenza di ripetizioni. Del resto una delle caratteristiche eminenti del canto degli uccelli è, come tutti sanno, la pura e semplice ripetizione monotona di un "verso", che è ciò che ci dissuaderebbe dal chiamarlo "canto", anche se occorre sempre una certa prudenza in queste valutazioni proprio per le difficoltà a cogliere le sottili sfumature che intervengono anche in strutture fortemente ripetitive. Nel seguente frammento del canto dello scricciolo, che traggo dal volume Nature's music sopra citato, la sua monotonia si rivela solo apparente una volta che sia stata sottoposto ad un forte rallentamento. Nell'esempio viene proposta prima la versione normale, e di seguito quella rallentata e questo confronto ci riserva un'autentica sorpresa. Si noti che nella versione normale lo scricciolo canta tra 3.500 e 9.000 Hz, in una regione realmente sovracuta, mentre in quella rallentata tra circa 400 Hz e 2100 Hz. Inoltre l'intero segmento è contenuto nella versione normale in sette secondi, mentre nella rallentata in circa venti secondi. 34 fig. 42b-42b Per ciò che riguarda il merlo, dagli esempi precedenti risulta subito che un momento può essere immediatamente ripetuto all'interno dello stesso motivo così come del resto in motivi differenti anche distanti l'uno dall'altro, e può quindi essere considerato a sua volta come uno stilema melodico. Spesso un certo elemento viene ripetuto in stretta successione sia all'interno dello stesso motivo sia in motivi immediatamente successivi: fig. 43-43 Altri esempi, tutti in versione rallentata: (44$) (45$) (46$) 35 Oltre le ripetizioni in senso stretto in cui una certa struttura è ripetuta sostanzialmente identica, vi sono poi casi in rapporto ai quali si potrebbe parlare di ripetizione variata. Va da sé che, mentre nel caso della ripetizione letterale non vi è nulla da eccepire perché la si sente (e la si vede), una nozione di ripetizione variata è assai più discutibile, perché sembra affidata ad una valutazione molto soggettiva. Tuttavia è forse possibile tentare di delimitare la nozione in modo da sottrarre ad essa almeno una parte della sua genericità. Supponiamo di avere una struttura composta da due elementi A e B in successione; ed ora ci imbattiamo in una struttura A|X|B dove X è un nuovo elemento interposto tra i primi due. La relazione tra la prima e la seconda struttura sarebbe chiaramente percepibile e chiaramente isolabile anche la "variante" interposta. Si tratta comunque di una nozione assai povera di variazione che si fonda ancora su momenti semplicemente giustapposti, e più che di variante si dovrebbe parlare di un elemento di novità. Si potrebbe cominciare a prendere in considerazione casi così semplici, per i quali possederemmo un criterio sufficientemente preciso per stabilire una relazione tra le due strutture: in rapporto alla seconda potremmo parlare di una dilatazione della prima e inversamente della prima come di una contrazione della seconda. Nell'esempio seguente (che riprende il motivo relativo alla fig. 01-01) effettivamente il primo momento viene ripetuto, ma nella ripetizione, prima della clausola si inserisce un nuovo momento. fig. 47-44 36 versione rallentata Un'altra possibilità di dialatazione potrebbe avere la struttura A|AX| dove l'elemento A ripresentandosi si sviluppa in un elemento X senza soluzioni di continuità, quindi come una dilatazione di A. Un esempio potrebbe essere il seguente: fig. 48-45 versione rallentata Nel caso che segue abbiamo invece un esempio più elastico di dialatazione poiché vi è una somiglianza tra la struttura globale dei due momenti, ma il secondo momento, di durata più ampia, pur iniziando in modo simile al primo presenta poi delle differenze avvertibili sia all'udito che nei grafici. 37 fig. 49-46 Analogamente vi sono casi molto semplici di somiglianza in cui sembra sensato parlare dell'uno come variazione dell'altro (i colori del sonogramma sono invertiti per rendere più chiaro l'andamento principale che qui è nella parte più scura). fig. 50-47 Nella successione dei seguenti tre motivi il terzo si presenta simile al primo, ma più "contratto", dal momento che il primo ha una seconda clausola che manca nel secondo: fig. 51-48 38 Nel caso che segue A e A' sono molto simili tra loro ma sono giocati diversamente nei due motivi. fig. 52-49 Nell'esempio seguente non riesco a sottrarmi alla sensazione di trovarmi in presenza di due motivi collegati, e precisamente - chiedo una certa tolleranza al mio lettore - il primo con il carattere di "domanda" e il secondo di "risposta". fig. 53-50 Questa mia impressione è probabilmente dovuta sia all'andamento della curvatura dello "zufolo" sia al fatto che il secondo motivo è meno forte e si impenna verso l'alto mentre il primo inclina alla fi- 39 ne leggermente verso il basso. Nel motivo seguente vi è una sorta di effetto di eco, particolarmente sensibile e fascinosa nella versione rallentata: fig. 54-51 fig. 54$-51 Nel caso che segue, il momento iniziale del primo motivo viene ripreso nel corpo del secondo motivo che ha un un differente inizio e sviluppo. Anche in questo caso forniamo l'esempio anche nella sua forma rallentata: fig. 55-52 fig. 55$-52 Un altro caso interessante è il seguente motivo che ha una clausola intermedia. La sua costruzione è A B | A B | C | dopo la quale si ripresenta un B', simile a B, ma trasposto verso l'acuto. Segue la clausola C', simile a C, che chiude l'intero motivo. Il motivo intero viene ripetuto qui tre volte, la seconda e la terza volta con la durata rispettivamente raddoppiata. 40 fig. 56-53 Dopo tutto ciò vorrei proporre una sequenza un poco più estesa, a durata doppia. Nella figura, a colori invertiti, l'andamento principale nel sonogramma è descritto dalle linee più scure tra il blu e il nero. fig. 57$-54 Questa sequenza non ha ormai bisogno di molti commenti. I motivi sono concatenati tra loro da sottili rapporti di somiglianze e di differenze, con quelle straordinarie code di trillature finissime che si perdono in echi lontani… Il mio piccolo merlo ha dato il meglio di se stesso e chissà quali splendidi canti avrà saputo intonare da grande! 41 8. Il merlo elettronico Se ci venisse chiesto che cosa abbiamo fatto fin qui, io risponderei semplicemente che abbiamo ascoltato attentamente un merlo come forse mai ci è accaduto di fare. Certo, abbiamo anche tentato di fare una sorta di analisi della struttura sonora come tale, un'analisi, vorrei quasi dire, alla cieca, dal momento che nulla io so degli usi e dei costumi degli uccelli, dei motivi di questi canti, e nemmeno so se sia giusto chiamarli canti. Se adottassimo un punto di vista ornitologico presumibilmente saremmo interessati soprattutto ad identificare le condizioni biologiche, fisiologiche, ambientali e in senso lato sociologiche del canto, la sua integrazione nella vita e negli istinti elementari: per quanto riguarda la loro struttura ci basterebbe probabilmente raccogliere quanto basta per una tipicizzazione delle circostanze relative ad un determinato verso, delle quali esso dunque segnala la presenza. Ma anche l'ornitologo, io penso, può essere tentato di soffermarsi sulla struttura così come essa è, mettendo provvisoriamente da parte altre possibili e interessanti domande, e quando ciò accade anch'egli si trova, come ci siamo trovati noi stessi, sul piano inclinato di una fenomenologia che scivola verso il terreno della musica. In realtà, questa inclinazione è già presente proprio nell'enfasi posta sull'ascolto, nell'attenzione tutta tesa a cogliere le differenze più sottili ed a mettere in luce somiglianze che istituiscono dei rapporti. A ben pensarci, una simile tensione dell'attenzione non è affatto simile a quella dell'escoltatore normale di un brano musicale, che giustamente si dispone in un'atteggiamento di serena ricezione degli eventi sonori che stanno per avvenire. Essa è invece forse più vicina alla modalità di ascolto del compositore che tende l'orecchio ai suoni che risuonano nell'ambiente circostante o ai suoni non sempre facilmente prevedibili manipolati con un sintetizzatore cercando di cogliere in essi valenze espressive e sensi musicali possibili. Certo, una volta forse non ci saremmo espressi così, essendo prevalente una concezione del compositore come un pensatore di suoni che può benissimo fare a meno delle orecchie, assolutamente obbligatorie invece per coloro a cui la musica è destinata - gli ascoltatori, per l'appunto. 42 Invece noi, per un istante, ci sembra di aver vissuto dall'interno l'esperienza di Messiaen - grande ascoltatore, ed anche grande analizzatore del canto degli uccelli, e soprattutto musicista "ornitologo", come una volta lo definisce con intenzioni sprezzanti un nano presuntuosamente salito sulle spalle del gigante. La musica "ornitologica" di Messiaen, che appartiene ai capolavori della musica novecentesca, e che certo non può essere abbattuta con i luoghi comuni dell'antidescrittivismo e della critica dell'imitazione, tanto è ricco il mondo poetico-musicale che la sostiene, tuttavia ha la sua premessa proprio in un ascolto estremamente teso a cogliere ogni dettaglio, dimostrando un udito "microscopico" in un'epoca del tutto priva degli ausili strumentali di cui oggi possiamo disporre. Il rigogolo canta così: fig. 58-55 E Messiaen (Catalogue des oiseaux, Le Loriot) lo riprende quasi calligraficamente e nello stesso tempo lo reinventa con uno strumento come il pianoforte che sembra particolarmente inadatto per rendere il canto degli uccelli: 43 fig. 59-56 In questo brano, anche il merlo ha la sua parte: fig. 60-57 44 Nel modo in cui Messiaen trasfigura il canto del merlo, in questo brano come all'inizio del suo Merle Noir è difficile non risentire gli stilemi che abbiamo precedentemente messo in evidenza. (61) Tuttavia questo problema della tensione dell'ascolto dalla parte del compositore non è certo una questione che riguardi unicamente Messiaen o il canto degli uccelli! Si tende talora a mettere poco in evidenza, se non a trascurare del tutto, il fatto che gli interessi rivolti alla varietà timbrica, così caratteristici della musica novecentesca fino ai giorni nostri, tende ad accentuare, proprio dalla parte del comporre, quello che potremmo chiamare l'ascolto creativamente orientato piuttosto che il pensiero dei suoni con i suoi ordini logico-immaginativi interni - o meglio: pensiero e immaginazione si appoggiano ora più che mai su quella modalità di ascolto. I rapporti intervallari e la loro successione possono essere puramente pensati; e così un determinato timbro, purché sia noto, risuona con chiarezza all'orecchio della mente. Ma il suono, nella sua materialità concreta, non lo puoi "disegnare" dal nulla. Procederai invece da qualcosa che vai poi a poco a poco modificando in questa o in quell'altra direzione ascoltando che cosa accade quando introduci questa o quella modifica - finché puoi dire "questo sì!", questo era ciò che oscuramente andavo cercando. Il suono lo si disegna ridisegnandolo. L'ascolto creativamente orientato cerca negli eventi sonori nuove occasioni espressive, modi nuovi di movimentare i suoni, suggestioni per l'immaginazione musicale che subito si mette in moto: e dunque si tratta di un ascolto che contiene l'impulso ad un'appropriazione dei suoni finalizzata alla realizzazione di progetti espressivi. È difficile anche per noi sfuggire a questo impulso, e forse potrebbe essere una buona idea tentare di fare un poco nostri questi materiali, senza esitare ad impiegare qualche nuovo artificio. L'artificio c'era già in precedenza nella variazione dell'intonazione. In realtà questo artificio non ha soltanto reso più semplice la nostra esplorazione delle strutture, ma ha anche mostrato la capacità di rivelare pieghe espressive riposte: misteriosi indugi, singolari echi in- 45 terni che nessuno strumento conosciuto è in grado di realizzare, risonanze piene di fascino, stridori enigmatici. Ora noi vorremmo poter disporre di questi materiali sonori - non tanto per modificarli a piacimento come sarebbe anche possibile fare - quanto piuttosto per poter sperimentare che cosa succede in una loro libera ricomposizione. Un piccolo esperimento, un ultimo gioco con il canto del merlo. Ciascun suo elemento motivico può essere sottoposto ad una operazione di "risintesi" - vi sono programmi predisposti allo scopo. Ciò che viene chiamato "risintesi" possiamo forse azzardarci a dirlo in due parole e soprattutto a darne una pura e semplice esemplificazione. Anzitutto abbiamo le nostre registrazioni dei canti del merlo, e quindi disponiamo di "campioni" che potremmo chiamare, per brevità, originali (ciò significa soltanto che essi sono il risultato di una registrazione di un originale, che è il canto del merlo). Il campione può essere analizzato, e questa analisi estrae da esso i dati concernenti, in particolare, la struttura dello spettro così come la forma dell'inviluppo nel loro decorso temporale. Sulla base di questa analisi è possibile ottenere una sorta di controimmagine interamente sintetica del campione originale. La "risintesi" consiste appunto in questa ultima operazione, e si tratta evidentemente di una modalità di sintetizzazione del suono diversa da altre che possono essere praticate, e in particolare da quella che talvolta viene chiamata "sintesi per generazione diretta" e che consiste nella costruzione dell'evento sonoro attraverso una via puramente algoritmica. In questo caso, invece, abbiamo bisogno di un evento sonoro reale di riferimento che rappresenta la base per l'analisi. Naturalmente molteplici modificazioni possono essere introdotte sia nei dati dell'analisi sia dopo che la risintesi è stata effettuata: si tratta di quelle modifiche che sono apportabili ad un qualunque evento sonoro digitalizzato. Tuttavia noi non siamo tanto interessati al gioco della trasformazione e deformazione del suono originale - in fin dei conti ci stiamo occupando del canto del merlo e ad esso in qualche modo vogliamo tenerci stretti - quanto piuttosto al gioco delle possibilità compositivo-combinatorie a cui potrebbero prestarsi i nostri materiali, in modo da mostrare ancor meglio le seduzioni espressive che 46 possono venire di qui. La risintesi, questa volta, ci interessa proprio per il fatto che è in grado da un lato di ridarci una copia piuttosto fedele del suono originale, dall'altro di consentirci di giocare liberamente con essa. Il primo dei suoni che seguono è un breve segmento di un motivo che è stato citato in precedenza. Il secondo è il risultato della sua risintesi. originale risintetizzato fig. 62-58 fig. 62r -59 La somiglianza è realmente notevole, anche se naturalmente vi sono differenze chiaramente percepibili. Poiché il secondo suono è sintetico, esso può essere immediatamente "tastierizzato", cioè associato a tutti i tasti di una tastiera - ricevendo conseguentemente le differenze del grave e dell'acuto. In questo modo il nostro merlo diventa un autentico merlo elettronico, un nuovo strumento, anzi un numero indefinito di strumenti. Infatti di ogni suono, motivo, momento o frammento del canto possiamo realizzare uno strumento: con i nostri materiali ci possiamo costruire i nostri personali sintetizzatori. "Che brutta fine per il canto del merlo!" - sento dire ad una voce in fondo sala. Io credo al contrario che potremmo trovarci di fronte a nuove meraviglie, dove l'antico e il nuovo, il naturale e l'artificiale si fondono e compenetrano l'uno nell'altro. Mettiamo le cose in questo modo. Abbiamo trovato da qualche parte, in una caverna, in una foresta abitata da popolazioni sconosciute, presso degli scavi archelogici, uno strano aggeggio che assomiglia ad uno strumento musicale - ed ora, come un pastore del mito, ci accingiamo a preludiare con esso: Ed ecco che andando in giro scopriamo una folla di altri strani aggeggi che assomigliano a strumenti, e ne vogliamo sperimentare alcuni con improvvisazioni minime, per vedere che cosa si potrebbe trarre da essi. 47 Mentre nel caso precedente il suono era relativamente lineare, nelle tre improvvisazioni seguenti il campione originale, che forma la base dello strumento, è un vero e proprio motivo, più o meno complesso. Ciò potrebbe far pensare ad una ripetizione dello stesso motivo in varie trasposizioni. Occorre tuttavia notare che la durata di ciascuna "nota" (se vogliamo chiamarla ancora così, ma in realtà si tratta di un motivo associato ad un tasto) decide quale parte del motivo debba risuonare ed inoltre è possibile operare sovrapposizioni a canone, parziali o totali, e trasporre solo una parte del motivo. Si può così giocare con diverse possibilità, dal motivo che risuona completamente e si ripete riconoscibilmente a varie forme in cui esso viene nascosto pur essendo in qualche modo sempre presente, come una sorta di tema soggiacente. A sinistra vi è il campione originale, a destra il campione risintetizzato che forma la base dello strumento. Nel piccolo altoparlante lo strumento in azione. fig. 63-60 fig. 63r-61 fig. 64a-62 fig. 64r-63 fig. 64a-64 fig.64ar-65 48 Nel caso seguente ci serviamo di un segmento rumoristico, che nel grave e nell'acuto subisce una notevole trasformazione. fig. 65-64 fig. 65r-65 Un altro segmento rumoristico può diventare un trillato finissimo: fig. 65a-65a fig. 65ar-65ar Con le ultime tre improvvisazioni torniamo alla "melodia": fig. 66-66 fig. 66r-67 fig. 67-68 fig. 67r-69 49 fig. 68-70 fig. 68r-71 68t L'uomo che prima interloquiva dal fondo sala ora non lo sento più. Forse se ne sta laggiù, dopo l'ascolto, tacito e meditabondo. • Riconoscimenti - Alla presenza degli uccelli nella musica Carlo Serra ha dedicato numerose bellissime pagine, in particolare in rapporto a Monteverdi e soprattutto a Messiaen in La rappresentazione fra paesaggio sonoro e spazio musicale, (Cuem, Milano 2005) a cui sono dedicati i §§ 7-8, comprendenti anche un'analisi del sesto brano del Catalogue des Oiseaux (La tottavilla); mentre nel volume di prossima pubblicazione Musica, corpo, espressione vi sono pagine preziose sulla presenza degli uccelli nelle canzoni dei Pink Floyd ed in ambito etnomusicologico. - Nel rimandare a questi saggi il lettore che intenda approfondire questi temi, desidero inviare un caldo ringraziamento a Carlo Serra per il continuo dialogo e scambio intellettuale, per me straordinariamente proficuo, che dura ormai da molti e molti anni. 50 ** I grafici di forma d'onda e i sonogrammi sono stati ottenuti con il programma Raven 1.0 realizzato dal Cornell Lab of Ornithology Bioacustics Research Program che può essere scaricato gratuitamente in http://www.birds.cornell.edu/raven. Lo stesso Istituto Universitario mette a disposizione di tutti un'intera "biblioteca" di canti di uccelli. A iniziative come queste va la mia gratitudine. *** Per le operazioni di risintesi mi sono avvalso del programma informatico Vertigo v. 2, della discoDSP reperibile all'indirizzo http://www.discoDSP.com. **** Un'ampia rassegna di siti internet che contengono materiali relativi al canto degli uccelli la puoi trovare al seguente indirizzo: http://www.math.sunysb.edu/~tony/birds/links.html